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Italian Pages 760 [754] Year 2008
BIBLIOTECA DI «NUOVA STORIA CONTEMPORANEA» Collana diretta da Francesco Perfetti 29
EUGENIO DI RIENZO
LA STORIA E L’AZIONE Vita politica di Gioacchino Volpe
Le Lettere
La stampa di questo volume è stata resa possibile grazie ad un contributo finanziario erogato dal Dipartimento di Studi Politici della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma, La Sapienza.
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Agli amici, ai colleghi, agli studenti della Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza
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PREMESSA Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò, su una pietra l’intera storia incise. L’epopea di Gilgames$ Ora, invece, io che sto per narrare la vita di un uomo che non c’è più, devo chiedere quell’indulgenza, che non dovrei chiedere se intendessi pronunciare un atto di accusa. Tanto questi tempi sono crudelmente ostili agli esempi di dignitoso valore. Tacito, Vita di Agricola
Con l’epopea di Gilgames$, almeno millecinquecento anni innanzi all’Iliade di Omero, si manifesta per la prima volta quel rapporto strettissimo che, da quel momento, sarebbe stato destinato a unire storia e azione. L’eroe sumerico è infatti allo stesso tempo attore e narratore delle proprie imprese, osservatore e protagonista degli eventi del suo tempo. Così accadrà a Gioacchino Volpe durante il suo lungo impegno storiografico vissuto nell’Italia carducciana, crispina, giolittiana, nei tempi del moto interventista e del primo conflitto mondiale, dell’ascesa e del trionfo del fascismo, della catastrofe nazionale del 1943, del difficile, drammatico secondo dopoguerra. Colui che fu per antonomasia lo storico della storia d’Italia (dal Medioevo all’età contemporanea) rappresentò anche, con la sua stessa persona, i suoi desideri, le sue speranze, illusioni, traviamenti, la «storia di un italiano», simile a quella di tanti altri più oscuri suoi connazionali. Una biografia politica, che è allo stesso tempo racconto corale di un’intera generazione intellettuale (dei Croce, dei Gentile, dei Salvemini, dei Prezzolini), dove quello steccato invalicabile che dovrebbe separare, nel mestiere di storico, res gestae e historia rerum, mostra invece allo scoperto crepe, fratture mal connesse, soluzioni di continuità. Se la grandezza del Volpe storico fu infatti, come soltanto accadde nella Francia del XIX secolo a Michelet, la capacità di aver instaurato un rapporto intimo, istintivo, molto spesso non mediato da una precisa prospettiva intellettuale, con il suo popolo, quella fu anche la sua miseria, quando quel rapporto viscerale lo spinse, per volontà di comprendere a tutti i costi e di tutto voler giustificare, a considerare con davvero eccessiva indulgenza, da una prospettiva
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PREMESSA
che Croce avrebbe giudicato pericolosamente «affettuosa», le vicende della sua patria, anche quando queste si sarebbero incrociate e compromesse con i mali oscuri del Novecento. Di qui, il rifiuto della sua storiografia, a partire dal 1945, che si sarebbe basato più sui dati della sua vita che su quelli della sua opera, e la leggenda tenebrosa, eppure sicuramente non infondata, del Volpe fascista e poi neofascista, che avrebbe potentemente assecondato la degradazione morale dell’Italia di Mussolini e dei suoi epigoni, dilapidando le sue stesse formidabili qualità di analista del passato. Di qui, anche, in tempi più recenti, la nascita, per contrappasso, di un’altra leggenda, questa volta aurea, relativa ad un Volpe, vittima inconsapevole dei mali del proprio tempo e sempre capace di superare i tanti condizionamenti ambientali, grazie alle superiori doti di un’impareggiabile maestria storiografica. In ambedue i casi, una congettura di valore, molto spesso formulata a priori, ha così ridotto e mortificato la ricchezza e la contraddittorietà di un’esistenza, che è possibile comprendere, a parte intera, soltanto a condizione di narrarla, in tutte le sue luci e in tutte le sue ombre, come nelle pagine che seguono si è tentato di fare, prima ancora di giudicarla. * * * Questo volume deve la sua prima ideazione a Francesco Perfetti, mentre la sua elaborazione e la sua stesura è stata accompagnata da un’ininterrotta conversazione intellettuale con Giuseppe Galasso, che qui ringrazio affettuosamente. Grazie anche agli «amici di sempre» (Antonino De Francesco, Aurelio Musi, Guido Pescosolido, Paolo Simoncelli), che mi sono stati prodighi di consigli e suggerimenti, di consensi e di dissensi, di sostegno e di fiducia.
I.
GLI ANNI DELL’ATTESA
1. NASCITA DI UNO STORICO 1. A poche settimane di distanza dalla comparsa dell’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, Giovanni Volpe (il prediletto primogenito del grande storico), scriveva al suo autore tracciando una genealogia minima ma penetrante del suo ambiente familiare: «Eravamo noi ceti emergenti, ceti spostati, borghesia borghese o che altro? Mio padre era figlio di un addetto al comune di Paganica, mia madre (sorella di Arrigo Serpieri) aveva come padre un musicista con poca fortuna e come madre una signora della borghesia agraria bolognese (agraria nel senso dell’imprenditore agricolo, non del reddituario agricolo). Eravamo sei figli, si viveva dello stipendio paterno e di qualche aiuto che uno zio agricoltore mandava a mia madre»1. Dai quadri del piccolo, medio ceto borghese e provinciale, traeva infatti le sue origini Gioacchino Volpe, nato, insieme ad altra numerosa prole, dall’unione di Giacomo, farmacista e segretario comunale di Paganica (dove lo storico vide la luce il 16 febbraio 1876), e da Bianca Mori, maestra elementare, nativa di Siena, stabilitasi nel piccolo, antico borgo abruzzese nei pressi dell’Aquila2, situato nel cuore del ventre profondo di quella periferia italiana, la quale sovente appare provincia dormiente, terra del silenzio, che «poco sapeva d’Italia», quasi staccata dalla storia della nazione. Sorte alla quale Paganica, si sottrasse però almeno per due volte. Agli inizi dell’età contemporanea, tra vecchio e nuovo regime, quando il capoluogo abruzzese e i suoi immediati dintorni furono teatro di una violenta sollevazione antifrancese e di una durissima repressione condotta dalle truppe napoleoniche contro quel patriottismo primitivo, «conservatore (ma non senza una sua venatura socialmente rivoluzionaria) dei ceti più alti, del clero e delle masse popolari e contadine fedeli al Re, alla religione, al costume avito»3. Poi, 1 Giovanni Volpe a Renzo De Felice, Roma 24 luglio 1975, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Carte Renzo De Felice, busta 2, fasc. 1, 16. 2 G. VOLPE, Ritorno al paese (Paganica). Memorie minime, Roma, Urbinati, 1963, pp. 24-25. 3 Ivi, p. 12. Su questa interpretazione dell’«insorgenza», in Volpe, rimando al mio, Le due rivoluzioni, in Nazione e Controrivoluzione nell’Europa contemporanea, 1799-1848, a cura di E. Di Rienzo, Milano, Guerini e Associati, 2004, pp. 9 ss. Sui moti abruzzesi del pe-
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tra 1848 e 1849, quando il vento impetuoso della rivoluzione europea raggiunse anche quelle contrade, travolgendo il destino di «un altro Gioacchino Volpe, possidente e medico, mio nonno, che, avendo partecipato da liberale ai moti aquilani, attorno al 1840, aveva sofferto il carcere e di quella sofferenza era, dopo uscito di là, morto ancora giovane: donde la cospicua pensione di 25 lire annue che mio padre, rimasto orfano a dieci anni, riscuoteva come “vittima politica”, e seguitò a riscuotere, fino a che visse, nel 1929»4. Testimonianza, questa, che Volpe ricavava dalla memoria familiare ma che ha un suo esatto riscontro nella documentazione archivistica relativa ai così detti «Fatti di Paganica»: una sorta di faida civile tra fazione repubblicana e borbonica, che si concluse, senza spargimento di sangue, nel luglio del 1849, quando un distaccamento militare, chiamato a ristabilire l’ordine, traeva in arresto una quarantina di congiurati, presunti liberali e carbonari, tra cui l’avo dello storico, condannato nell’aprile 1851, dopo un tormentato processo a un lungo periodo di detenzione con l’accusa di «reità di Stato, essendosi spesso riunito, insieme agli altri inquisiti, per concerto settario, procurando di essere sempre soli, e che niun altro, il quale non fosse loro vi accedesse», di «macchinazione contro il Sovrano» e di «associazione illecita con vincolo di segreto, avente per oggetto di distruggere e cambiare l’attuale forma di governo»5. Pena severa ma tutto sommato non più del lecito e appropriata alla gravità dei fatti contestati, visto e considerato che, nel corso del dibattimento, erano emerse a carico di Gioacchino Volpe «medico, cerusico, proprietario, capo della milizia urbana, figlio del fu Saverio», imputazioni se non più gravi, almeno più circostanziate, secondo le quali, nel corso del 1848, egli avrebbe fatto parte di una riunione politica, che «sotto il titolo di Comitato della morte, aveva per proposito la distruzione della legittima autorità e di eccitare alla strage di tutti i sudditi fedeli del Re», i cui componenti, nel corso dello stesso anno, «a viva forza, avevano privato sdegnosamente, tanto delle armi che delle munizioni di guerra, il presidio della Real Gendarmeria»6. Dopo questi episodi che avevano, almeno per un momento, legato
riodo, si veda ora F. GALLO, Dai gigli alle coccarde. Il conflitto politico in Abruzzo, 1770-1815, Roma, Carocci, 2002. 4 G. VOLPE, Ritorno al paese, cit., p. 12. Sullo stesso punto, ID., Momenti della Rivoluzione napoletana (1798-1799), ora in ID., Pagine risorgimentali, Roma, Volpe, 1967, 2 voll., I, p. 198. 5 Archivio di Stato dell’Aquila, Procura Generale presso la Gran Corte Criminale di Aquila, imputati di reati politici, anni 1848-56, fascicolo 377, relativo ai «Fatti di Paganica» del 29 Luglio 1849. 6 Ibidem.
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la piccola patria di Paganica ai destini della patria italiana, che si stava costituendo in nazione, il paese abruzzese ripiombava nella sua dimensione di borgo agricolo, dove il tempo sarebbe stato di nuovo ritmato dal ciclo delle stagioni e del lavoro della terra e non più da quello segnato dalle grandi congiunture storiche. Paganica tornava a essere soltanto «Paganica delle patate», ma anche dello zafferano, delle mandorle e delle greggi, lontanissima dalla mitologia dell’Abruzzo barbarico delle Novelle della Pescara e della Figlia di Iorio di D’Annunzio, e invece «contrada gentile negli abitanti, come, anche tra le durezze della montagna, nella natura del paesaggio», che trovava la sua dimensione di compostezza «romanica», nelle sue chiese, nelle sue pievi, nei suoi monasteri ma anche nei coefficienti elementari che a Volpe parvero, insieme, «geometrici e umanissimi» del podere, del tratturo, del percorso della acque irrigue che precipitavano dalle vette appenniniche, per addomesticarsi nella pianura7. In questo ambiente di «Strapaese», scorreva l’infanzia e l’adolescenza dello storico tra l’irruenza degli antichi giochi paesani, i quali, in omaggio ai nuovi tempi, che la nazione italiana si apprestava a vivere, divenivano anche culto della strenuous life, disciplinato in attività sportiva (attrezzi, lotta, podismo, nuoto e remo) e in faticose escursioni montane8, che pare avessero sottratto tempo ed energie al Volpe scolaro «mediocrissimo», indisciplinato, nel ginnasio-liceo dell’Aquila, poco amato dai docenti «che mi avevano bocciato in non so quante materie e condannato a ripetere l’anno»9. Poi, nel 1890, alcune difficoltà economiche costringevano la famiglia Volpe a trasferirsi a Santarcangelo di Romagna. Sull’accaduto non esistono particolari precisi, ma forse è possibile ipotizzare che Giacomo Volpe fosse stato travolto da un rovescio di fortuna, almeno in parte simile a quello che avrebbe funestato l’esistenza di Giovanni Gentile, nel 1896, quando il padre del filosofo, anch’esso farmacista a Campobello, in Sicilia, venne costretto a chiudere il proprio dispensario, dopo essere stato accusato di averlo gestito, non rispettando le cautele imposte dalla nuova legge sanitaria varata dal governo Crispi. Dall’accaduto, il farmacista Gentile sarebbe uscito prostrato nel fisico e soprattutto nel
7 G. VOLPE, Poesia e storia, in «Meridiano di Roma», 26 marzo 1939, p. 4. 8 ID., Ritorno al paese, cit., p. 26. Sul ruolo dello sport e soprattutto dell’alpinismo co-
me sintomo della rinascita dell’orgoglio borghese e nazionale, in questo periodo, si veda G. VOLPE, L’Italia in cammino, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 120-121: «I giovani che disertavano il socialismo sentivano il fascino di nuovi ideali e seguivano altre bandiere che qua e là accennavano a dispiegarsi. Non è senza significato, anche il grande diffondersi dello sport, in quegli anni. […] Tutto questo non era politica: ma la politica vi era vicina, a volte implicita e latente, e dava a quei moti sportivi e culturali qualche stimolo e coloritura». 9 ID., Ritorno al paese, cit., p. 4.
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morale, anche dopo la ripresa della sua attività, che provocava nuovi e tali dissesti da ridurre la famiglia quasi sul lastrico10. Meno infausto il destino di Giacomo Volpe, che poteva continuare il suo lavoro, con qualche fortuna, impiantando la sua bottega nella piazza principale di Santarcangelo. Ma i due episodi gemelli dimostravano la precarietà economica di una borghesia minuta, almeno se si pensa alle fonti di reddito, dalla quale provenivano due dei più grandi intellettuali del Novecento, che contrastava, come proprio Volpe avrebbe sottolineato, con l’agiatezza economica del rentier Benedetto Croce11. L’arrivo nel ridente paese romagnolo, sospeso tra le colline e il mare di Rimini, ricco di memorie medievali e rinascimentali, produsse un salto di qualità nella formazione scolastica del giovane allievo abruzzese. Il liceo Terenzio Mamiani di Pesaro, che da quel momento Volpe avrebbe frequentato, superando qualche non piccola difficoltà logistica, metteva a disposizione degli alunni un’offerta pedagogica che, grazie al ridottissimo numero degli iscritti e alla superiore qualità dei docenti, si trasformava quasi in pratica seminariale. E questa esperienza di rapporto frontale diretto, che nell’immediato avrebbe innalzato il suo profitto scolastico12, e che Volpe avrebbe ritrovato potenziata sui banchi della Normale di Pisa, finirà per costituire un modello per la sua attività di «maestro» dei decenni a venire, la quale sempre si sarebbe configurata come la proposta di un momento comune di indagine, che si limitava nel più dei casi non a fornire risposte ma a suscitare domande, che lo scolaro avrebbe dovuto rilanciare in grande autonomia, per aprire nuovi territori d’analisi, nei quali discente e docente avrebbero potuto ritrovarsi, per poi riconoscersi in un organico percorso di ricerca13. Tra i suoi insegnanti, Volpe avrebbe ricordato, quello di storia, Ber-
10 G. TURI, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1995, pp. 8-9; S. ROMAGiovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del regime, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 15-16. 11 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, S. Arcangelo di Romagna, 14 settembre 1903, Archivio della Fondazione Giovanni Gentile (AFG): «Se ti ricorderai di una vecchia promessa (il libro ultimo del Croce) mi farai grande piacere. Un insegnante secondario italiano, tu lo sai, solo con grande stento può spendere 10 lire per un libro; e nel caso nostro non si tratta neanche di incoraggiare la produzione e… il produttore». Il riferimento era al volume, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Milano, Sandron, 1902. 12 Come risulta dallo scrutinio finale del 2 giugno 1895, Volpe riportava nell’esame di licenza liceale «dieci nell’italiano e nelle storia e geografia, nove nel latino, nella fisica e nella storia naturale, otto nel greco e nella filosofia, sette nella matematica». Il documento è conservato nell’Archivio di Stato di Pisa (ASPI), Università di Pisa, III versamento, busta 63, fasc. 5518. 13 Sul punto, il mio Storici e Maestro. L’eredità di Gioacchino Volpe tra continuità e innovazione (1945-1962), in «Clio», 2007, 1, pp. 39 ss. NO,
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nardino Feliciangeli (umile ma robusta figura di erudito locale che lo avrebbe familiarizzato con la ricerca d’archivio) e soprattutto: il «caro, indimenticabile Giuseppe Picciòla, irredento e irredentista, allievo entusiasta di Carducci nostro illuminato compagno, più che “professore”»14, il quale, docente di lettere italiane negli anni 1892-1895, avrebbe poi spinto l’allievo a presentarsi al concorso di ammissione alla Scuola Normale di Pisa15. Picciòla, iscrittosi nel 1877 alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, entrò l’anno successivo nella Scuola Normale, dove conseguì la laurea nel 1881. Allievo di Alessandro D’Ancona, compagno di studi di Francesco Novati, fu particolarmente legato a Guido Mazzoni e a Giuseppe Chiarini, che lo introdussero presso Carducci, con il quale iniziò una lunga e mai interrotta frequentazione, che gli valse il non inglorioso titolo di «modesto ma non oscuro astro della costellazione carducciana»16. «Irredento», essendo nato a Parenzo d’Istria, nel 1859, Picciòla era anche «irredentista» per tradizioni familiari del ramo paterno e materno e per convincimenti personali, come aveva dimostrato, nel 1878, la sua partecipazione, a Trieste, alle manifestazioni studentesche contro il governo austriaco, che lo posero in contatto con Salvatore ed Emilio Barzilai e Guglielmo Oberdan e che poi lo spinsero a unirsi a quella generosa e colta diaspora giuliana e istriana nella Penisola, insieme a Scipio Sighele, Graziadio Ascoli, Giacomo Venezian, Giuseppe Ara. La sua formazione iniziale, repubblicana e garibaldina, che si inseriva quindi pienamente nel quadro politico del Partito d’Azione, evolse, tuttavia verso posizioni progressivamente moderate e infine dichiaratamente monarchiche. La sua stessa adesione alla Dante Alighieri, nel 1889, si articolava su di un programma di ripudio di ogni forma di radicalismo17. La Società, a suo avviso doveva infatti astenersi dal promuovere o incoraggiare «dimostrazioni e agitazioni oggi inutili», e abbracciare, invece, «intendimenti pacifici», per adoperarsi, in pieno accordo con il governo, a «proteggere la nostra lingua e la nostra nazionalità, così nelle province italiane dell’Austria come in quelle della Francia». Parole, queste, che rispecchiavano molto bene il nuovo corso della politica italiana, sancito da Crispi con il rinnovamento della Triplice Al-
14 G. VOLPE, Ritorno al paese, cit., p. 6. 15 Per una sintetica biografia di Picciòla, si rimanda a C. VIOLANTE, Appunti sulla for-
mazione di Gioacchino Volpe, in «Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi storici», IX, 19851986, pp. 301 ss. 16 G. VOLPE, Italia Moderna, a cura di F. Perfetti, Firenze, Le Lettere, 2003, 3 voll., III, p. 178. 17 Sulla storia e le varie metamorfosi politiche di quel sodalizio, si veda B. PISA, Nazione e politica nella Società “Dante Alighieri”, Roma, Bonacci, 1995.
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leanza del 1887, e il conseguente avvicinamento alla Germania contro la Francia, con la quale si esasperavano intanto i contrasti sulla questione tunisina e a proposito del contenzioso commerciale18. La buona disposizione verso la Germania, l’insofferenza verso la Francia e la poca considerazione verso l’Impero asburgico, considerato ormai un gigante dai piedi di argilla, prossimo al tracollo, portavano a interrompere il programma militare e insurrezionale dell’irredentismo, caro al partito garibaldino, in cambio di una strategia diplomatica che si proponeva di ottenere dall’Austria compensi territoriali sul confine nord-orientale in cambio del sostegno italiano alla sua politica di espansione nei Balcani. Il «nuovo irredentismo» (la definizione è di Volpe)19 si trasformava anche sul piano interno, in simbiosi con il programma crispino, e si attestava su posizioni rigidamente legalitarie, parzialmente ereditate dal patrimonio ideale della Destra, ma anche tendenzialmente ostili ai mali del regime parlamentare. Agli inizi degli anni Novanta, Picciòla dichiarava di voler opporsi a una politica, che, in nome del ricongiungimento delle terre italiane ancora non liberate al corpo della nazione, intendesse «sostenere in piccole guerricciole parlamentari gli istinti ribelli e le idee non sicure» della Sinistra e di voler operare, al contrario, per «togliere l’irredentismo a’ radicali e renderlo sommesso alle genti della patria»20. Questi convincimenti rispecchiavano, a pieno, il nuovo programma dell’estremismo di centro, che Carducci aveva redatto significativamente in occasione della commemorazione di Aurelio Saffi, nell’aprile del 1890, descrivendo, con qualche evidente forzatura, la metamorfosi dell’esponente mazziniano, repubblicano, democratico in «uomo d’ordine». Primo, autorità nazionale e quindi riprovazione di un torbido comunismo derivante da socialismo settario ed egoistico; secondo, tradizione italiana e quindi rinuncia d’ogni iniziativa straniera, massime francese: non repubbliche cisalpine; terzo, integramento del territorio della patria21.
18 G. VOLPE, L’Italia in cammino, cit., pp. 47 ss. 19 ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 177 ss. 20 Utilizzando, i suoi «ricordi personali di studente liceale a Pesaro, tra 1893 e 1895»,
Volpe scriveva in Italia Moderna, cit., III, pp. 178-179: «Quando nel 1890, Salvatore Barzilai, repubblicano triestino, venne eletto deputato di Roma con i voti dei repubblicani, Picciòla, già repubblicano anche esso, che era la iniziale e più spontanea manifestazione di italianità fra gli Italiani della Venezia Giulia, fu il primo, con pubblica lettera, a proclamare che la causa irredentista dover rimanere fuori e sopra i partiti politici interni: donde scontri vivaci suoi con i repubblicani di Pesaro, perfino con giovani studenti, suoi discepoli al liceo; e, a conclusione, una fragorosa bomba posta ed esplosa, presso la sua casa». 21 G. CARDUCCI, Aurelio Saffi, in ID., Prose, Bologna, Zanichelli, 1922, p. 1220.
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Dati questi presupposti, l’influsso di Picciòla su Volpe si trasformò in un apprendistato politico integralmente basato sul magistero del Carducci «poeta civile», che «per mezzo della scuola e della quotidiana polemica, manifestò variamente quel suo carattere, esercitando per alcuni decenni opera di correttore e di educatore»22. Era quello di Picciòla, e conseguentemente di Volpe, un Carducci che aveva ormai consumato il distacco dall’ideologia «giacobina» e fervorosamente democratica della giovinezza23, avvicinandosi decisamente all’istituto monarchico e rompendo, con altrettanta decisione, ogni legame con «la piccola fazione repubblicana, che, mal d’accordo e senza più ingegno, ieri menava a rovinare e guastava, come rovinerebbe e guasterebbe volentieri oggi, aiutandosi pur dei socialisti, che la odiano e disprezzano, la unità, che fu ed è l’amore, la fede, la religione della mia vita»24. Un Carducci, dunque, che aveva condiviso pienamente e poi appoggiato con vigore gli obiettivi politici di Francesco Crispi («il solo grande uomo di Stato cresciuto dalla democrazia italiana del 1860, il quale confermandone gli ideali abbia mostrato di saperli attuare, il solo, dopo Cavour, vero ministro italiano»)25: e in particolare quello di traghettare la Sinistra su posizioni costituzionali e legalitarie di accettazione piena e indiscussa dello status quo istituzionale, soprattutto in vista del raggiungimento di una grandeur internazionale, che solo la coesione interna della nazione, garantita dalla monarchia, avrebbe potuto consentire26. Sull’adesione al principio monarchico, in quanto «fusione dell’elemento signorile col cittadino, dell’esercito col popolo, delle memorie monarchiche d’una parte con le democratiche di altre», e soprattutto inteso come momento culminante della «Storia d’Italia, questa istoria mirabilmente complessa, che ha in sé tutti i semi, tutti li svolgimenti, tut22 B. CROCE, Giosuè Carducci, in «La Critica», 1909, poi in volume, Bari, Laterza, 1937, p. 55. Definizione ripresa da R. Balzani nel saggio introduttivo a G. CARDUCCI, Discorsi parlamentari, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 13 ss., che parla del poeta come «tutore dell’ideologia italiana». Sullo stesso punto, ma con ben diverso e spesso tendenzioso giudizio di valore, A. ASOR ROSA, Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi. IX. Letteratura e sviluppo della nazione, Torino, Einaudi, 1975, pp. 940 ss.; L. MANGONI, Lo Stato unitario liberale, in Letteratura italiana. I. Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 503 ss. 23 P. ALATRI, Carducci giacobino: l’evoluzione dell’ethos politico, Palermo, Libreria Prima, 1953. 24 Giosuè Carducci ad Antonio Traversi, 15 settembre 1897, in M. VINCIGUERRA, Carducci uomo politico, Pisa, Nistri-Lischi, 1957, p. 43. 25 G. CARDUCCI, Francesco Crispi, in «Gazzetta dell’Emilia», 29 giugno 1893, in ID., Confessioni e battaglie, Seconda serie, Bologna, Zanichelli, 1939, p. 396. Sul punto, M. VINCIGUERRA, Carducci uomo politico, cit., pp. 41 ss.; A.A. MOLA, Giosuè Carducci, scrittore, politico, massone, Milano, Bompiani, 2006, pp. 299 ss. 26 C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 329 ss.
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te le fioriture e sfioriture di tutte le idee, di tutte le forme e di tutti i fenomeni politici»27, si sorreggevano le fondamenta politiche dell’egemonia culturale carducciana, nella quale venivano a essere riassunti tutti i valori e i miti della vasta area dell’opinione pubblica liberal-moderata, meglio definibile ancora come radical-moderata o radicale di destra, che si era andata raccogliendo intorno a Crispi, fino a comprendere buona parte della classe dirigente post-unitaria, con l’esclusione delle sole forze anti-sistema: «rossi» e «neri», socialisti e cattolici. Egemonia, che permetteva la possibilità di un rassemblement della componente monarchica, aristocratica e militare del Risorgimento con quella piccolo-borghese, laica e democratico-costituzionale, in chiave di riscossa nazionale: «senza e contro ogni ingerenza straniera». Egemonia, che si giustificava attraverso un’idea della storia d’Italia, come storia di un «primato» ormai integralmente laico e nazionale, da ricostruire in alternativa a quello classico e neoguelfo proposto da Gioberti. Egemonia, infine, che comprendeva anche precoci tratti di sistematico antiparlamentarismo28, e maggiormente di inquieto orgoglio patriottico, venato non raramente di sciovinismo e soprattutto ritmato in funzione antifrancese e anti-imperiale, che Carducci aveva espresso nitidamente e senza equivoci, nel 1882. L’Italia intanto è debole dentro, debolissima alle frontiere. Al nord-est, l’Impero austro-ungarico dalle Alpi centrali e orientali la stringe alla gola. Al nord-ovest, dalle Alpi occidentali la repubblica francese la minaccia alle spalle. Per le coste è in balia di tutti. Dentro, ella marcisce nel bizantinismo. Ora non bisogna marcire di più. Ora bisogna: riforme sociali, per la giustizia; riforme economiche, per la forza; armi, armi, armi, armi per la sicurezza. E armi, non per difendere, ma per offendere. L’Italia non si difende che offendendo. Altrimenti sarà invasa29.
Un carduccianesimo vastamente inteso costituiva quindi il tratto distintivo della formazione politica che Volpe ereditava da Picciòla, quale ritroveremo, a più riprese, in non interrotta continuità, anche in sede di giudizio storico, fino al secondo dopoguerra, nelle sua miscela di crispismo, nazionalismo misogallico e misoasburgico, laicismo, antiso27 G. CARDUCCI, Prefazione a Giambi ed Epodi, 1882, in ID., Confessioni e battaglie, Prima serie, Bologna, Zanichelli, 1939, pp. 148-149. 28 Carducci avrebbe stigmatizzato come «sedizione» parlamentare, priva di una reale «maggioranza» etico-politica, le manovre parlamentari che nel maggio del 1898 avevano condotto Crispi alle dimissioni e portato alla formazione del gabinetto di Rudinì. Sul punto, R. BALZANI, Per Crispi e la regina: Carducci senatore, cit, p. 37. 29 G. CARDUCCI, XX dicembre. In morte di Oberdan, 1882, in ID., Confessioni e battaglie, Seconda serie, cit., p. 308.
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cialismo e tendenzialità filomonarchica (ambedue di metodo, però, e non di viscere), insofferenza per una rappresentanza politica che soffocava e mistificava la reale volontà del paese. Ma dall’eredità carducciana Volpe traeva anche un diretto stimolo all’analisi del passato e, in questo campo, il «poeta educatore», per utilizzare ancora le definizioni di Benedetto Croce, cedeva il passo al «poeta della storia»30. Nelle «ricostruzioni storiche» di Carducci si trovavano contenuti in nuce alcuni temi fondamentali del Volpe storico dell’età comunale e già precocemente storico della nazione italiana. Così nel poema Sui campi di Marengo, dove l’alleanza delle città lombarde avverse alla calata del Barbarossa viene avvertita come prima manifestazione della reazione italiana contro il «dominio di estranee genti». Così nel Comune rustico, celebrazione dello spontaneo formarsi, in area rurale, dei nuclei civili di libertà, d’indipendenza e di resistenza alla barbarie, tanto più intensi spiritualmente quanto più piccolo materialmente è il campo in cui essi sorgono e si affermano. Così, ancora, nella Faida di Comune, dove persino l’esuberanza incomposta delle forze, che si urtano tra loro nella perenne guerra italo-italiana dell’età di mezzo, è vista come testimonianza ideale di un governo libero, ma al tempo stesso forte sul piano esterno, che si sviluppa nella comunità primitiva, di tipo paleocomunale e contadino, all’interno della quale il rapporto fra l’autorità e i cittadini è diretto, perché tra lo Stato, ridotto alle sue istituzioni elementari, e il popolo esiste un rapporto di naturale intesa più che di interazione istituzionale. Rapporto costruito sulla coincidenza assoluta fra mondo del lavoro (che in primo luogo identificava la cittadinanza come tale, al di là di ogni partizione cetuale) e società civile: in quanto il popolano è, nella stessa maniera, rappresentante nel «piccolo senato» (come amministratore e politico al servizio della comunità), proprietario collettivo del territorio della repubblica (e quindi compartecipe delle fortune economiche di essa), suo difensore all’occorrenza e artefice della sua espansione, perché elemento della «nazione in armi», secondo una definizione che, coniata negli ambienti della sinistra mazziniana e garibaldina, era entrata a far parte dell’armamentario ideologico del crispismo31. Ma più ancora che per questi temi particolari, che troveremo tutti puntualmente sviluppati nel lavoro sul Comune pisano del 190232, il legato del Carducci storico si trasmetteva a Volpe in alcune linee di ten-
30 B. CROCE, Giosuè Carducci, cit., pp. 65 e 104. 31 C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, cit., pp. 517 ss. 32 G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa. Città e contado, consoli e podestà
nei secoli XII-XIII, Pisa, Nistri, 1902. Se ne veda la più recente edizione a cura e con una ricca introduzione di C. Violante, Firenze, Sansoni, 1970, dalla quale si cita.
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denza generali. Se infatti, in Italia, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si assisteva alla proposta del mito dell’età comunale, come insuperato esempio di indipendenza e di libertà, e pietra angolare per la costruzione di un’identità nazionale comune ma, al tempo stesso, in grado di valorizzare le diversità cittadine e regionali33, se addirittura, nei programmi scolastici, il Medioevo era definito il momento in cui «aveva luogo la formazione del moderno popolo italiano» e nel quale «il soggetto della storia veramente si cangia; non è più storia del paese, ma storia della nazione»34, Carducci utilizzava tutta l’autorità del suo magistero per rafforzare e sostenere questa interpretazione. Questo accadeva fin dalle lezioni dedicate allo «svolgimento della letteratura nazionale» del 1868-1871, nelle quali, all’assenza di una letteratura nazionale, fra XI e XIII secolo, si contrapponeva l’attivo rappresentato dal fatto che l’Italia in quello stesso periodo «ha costituito a repubblica i suoi Comuni; ella ha fiaccato l’Impero e fa già paura al Papato, ha restaurato il diritto romano, e instaura i codici di commercio nell’Europa feudale, pel commercio dominatrice d’Europa copre di legni il Mediterraneo, dispensiera delle ricchezze d’oriente, spinge le sue peregrinazioni fino alla Cina e al Malabar»35. Il risultato di questa meravigliosa espansione era in tutto dovuto agli «spiriti romanamente pratici e sociali» della sua stirpe e alla presenza di un «principio popolare nazionale», che si presentava quasi come un’energia generatrice di carattere materiale e naturale, costituendo, proprio per questo, un fattore remoto, sotterraneo, ma sempre operante in tutta la sua potenza, della dinamica storica, in quanto «forza vitale che fermentò lunghi secoli occulta ne’ residui dell’antica Italia, che fu come il glutine della nuova Italia, e che per ciò può dirittamente considerarsi come l’elemento nazionale»36. Da quella forza e dal suo operare ascondito, come il seme di grano nella nera terra, la «nazione italiana» proiettava la sua capacità di nascere e di rinascere, dopo tante morti e tante cadute, allorché «all’ombra della Chiesa, un altro elemento, dalle gilde commerciali e dalle maestranze delle arti, avanzava poco a poco alla massa, alla credenza al comune, e nelle contese, 33 E. SESTAN, L’erudizione storica in Italia in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo compleanno, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, Esi, 1950, II, pp. 425 ss.; I. PORCIANI, Il Medioevo nella costruzione dell’Italia unita: la proposta di un mito, in Italia e Germania, Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, a cura di R. Elze e P. Schiera, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker & Humblot, 1988, pp. 163 ss. 34 Istruzioni e programmi per l’insegnamento nei Licei e nei Ginnasi approvati con R. Decreto del 7 ottobre 1867, Torino, R. Stamperia della Camera de’ Deputati, 1874, pp. 28 ss. 35 G. CARDUCCI, Dello svolgimento della letteratura nazionale, 1868-1871, in ID., Prose, cit., pp. 271-272. 36 Ivi, p. 284.
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tra pontefici e imperatori, sorse terzo e più vero potere, fin allora sconosciuto e oppresso; ma con lui e per lui stava il diritto e la forza dell’avvenire; e chiamavasi, con nome nella storia d’Italia eternamente memorando, il popolo». Quel popolo, concludeva Carducci, che «altrove rimasto terzo stato aiutò i monarchi a snervare il clero e la nobiltà, qui all’ardita opera procedè primo e solo»37. Il «popolo» dunque si acquartierava sovrano, unico e indiscusso, nella ricostruzione storica carducciana, come più tardi sarebbe accaduto in quella di Volpe storico dell’Italia medievale, moderna e recentissima, che, nel 1907, avrebbe esplicitamente ricordato come l’analisi del passato avrebbe sempre dovuto concentrarsi sull’elemento collettivo e cogliere in profondità «le forme della sua attività, i prodotti inconsapevoli della storia, in cui più che l’impronta netta dell’uomo di genio si ritrova il lavorio lento, secolare, incerto della turba anonima e incolore, la goccia che scava il macigno; le istituzioni economiche e giuridiche tutte, in cui si fissano e si tramandano i bisogni e le consuetudini della gran massa degli uomini»38. Né si trattava però in questo caso, né per Carducci né per Volpe, di una nozione di «popolo» interpretato alla luce del principio democratico, come era accaduto in Michelet39, ma di «una vita anonima da osservare non per individui o per fatti ben chiari e fermi e circoscritti nel tempo e nello spazio, ma per masse»40, tanto più apparentemente indecifrabile tanto più vitale, mai esattamente definibile in base a categorie di classe o di stirpe, e bisognosa, per potere mettere in azione tutte le potenzialità in essa riposte, di essere fecondata dall’azione dei «migliori», nei quali soltanto risiedeva l’effettiva «cittadinanza»41. Questo principio popolare e nazionale, postulato da Carducci, avrebbe finito per sottrarsi poi a una determinazione rigidamente etnica, anche se il professore dell’ateneo di Bologna, posto di fronte al secolare dibattito storiografico sulla «questione longobarda» (da intender37 Ivi, p. 282. 38 G. VOLPE, Rassegna di studi storici, in «Rivista d’Italia», X, 1907, 1, pp. 677 ss., in
particolare p. 678. 39 J. MICHELET, Le Peuple, Paris, Comptoirs des Imprimeurs unis, 1846, pp. 13-14. 40 G. VOLPE, Prefazione a Medio Evo italiano, Firenze, Vallecchi, 1922, p. VIII. 41 G. CARDUCCI, Sul disegno di legge; Stato di previsione della spesa del Ministero dell’Istruzione pubblica per l’esercizio finanziario, 1892-1893. Senato del Regno, tornata del 17 dicembre 1892, in ID., Discorsi parlamentari, cit., p. 51: «La nazione italiana l’hanno fatta la nobiltà e la borghesia, quella che io direi cittadinanza. Le plebi, intendo specialmente le masse rurali, non ebbero parte al nobile fatto: non potevano capirlo: parteggiarono più d’una volta co’ nostri nemici. La patria ora la conoscono appena e non benignamente come una madre. Giustissimo dunque ed utile rinnovare e rialzare con l’educazione le plebi; ma altrettanto necessario mantenere calda e viva nella cittadinanza l’idealità che fece la patria».
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si ora come flagello d’Italia, definitivamente vinto dal connubio dei Franchi con la Chiesa di Roma, ora come soluzione unitaria venuta meno, prima di aver potuto realizzare il suo compito storico di offrire un quadro politico alla nascente nazione italiana)42 pareva optare per il primo corno di questo dilemma, fornendo una rappresentazione dell’età medioevale, tutta centrata sullo scontro tra latinità e germanesimo, che si articolava sul piano istituzionale nel conflitto tra «individualismo» germanico e tendenza all’«associazione» della tradizione latina. Nel 1860, il poeta inaugurava, infatti, i suoi corsi di eloquenza italiana con una significativa sintesi storica, imperniata sul contrasto tra l’elemento germanico «ordinatosi nella feudalità» e l’elemento latino, «che fattosi largo con l’industria e il commercio ebbe a fine la libertà de’ Comuni», quando nell’età comunale, appunto, l’elemento «straniero e feudale» fu vinto da quello «indigeno e popolano», pur restando annidato nelle città come «fazione dei ghibellini e dei grandi»43. Ad un solo anno di distanza, precisamente nel 1861, Pasquale Villari rilanciava compiutamente questa interpretazione, tratteggiando uno scenario dove tutto ruotava attorno alla lotta civile cittadina, tra mercanti e artigiani, che «conservano, più che possono, le leggi, le tradizioni, gli usi e il nome romano» e la nobiltà feudale di origine germanica, predatrice e oppressiva44. La tematica, mutuata da Sismondi ma anche da Thierry, della storia dell’età comunale in quanto storia della libertà italiana ed europea45, e quella già affrontata nel 1849 dell’«unità» della storia d’Italia, come individuazione di un elemento generale di carattere de-
42 Sul punto, G. FALCO, La questione longobarda e la moderna storiografia italiana, in Atti del Primo Congresso Internazionale di Studi Longobardi, Spoleto, 1952, pp. 155 ss., poi, in ID., Pagine sparse di storia e di vita, Milano-Napoli, Esi, 1960, pp. 11 ss. Si veda anche, G. TABACCO, La città italiana fra germanesimo e latinità nella medievistica ottocentesca, in Italia e Germania, Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, cit., pp. 23 ss. 43 G. CARDUCCI, Prolusione alle lezioni nella Università di Bologna (1860) in Opere. V. Prose giovanili, Bologna, 1936, pp. 490 ss., in particolare pp. 490-493. 44 P. VILLARI, L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica. Osservazioni storiche, Firenze, Felice Le Monnier, 1861, pp. 13 ss. Sul punto, compiutamente, M. MORETTI, “L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica” (1861). Sulle origini degli studi medievistici di Pasquale Villari, in Italia e Germania, Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, cit., pp. 299 ss., ora in ID., Pasquale Villari storico e politico, Napoli, Liguori Editore, 2005, pp. 77 ss. 45 J.-C.-L. SIMONDE DE SISMONDI, Storia delle Repubbliche italiane, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 26 ss.; A. THIERRY, Essai sur l’histoire de la formation et des progrès du Tiers état, Paris, Furne, 1853, al capitolo I, pp. 1 ss. Sulla presenza di questi autori già nell’apprendistato giovanile di Villari, si veda M. MORETTI, Alla scuola di Francesco De Sanctis: la formazione napoletana di Pasquale Villari (1844-1849) in «Giornale critico della filosofia italiana», 1984, 1, pp. 27 ss., ora in ID., Pasquale Villari storico e politico, pp. 3 ss.
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mocratico e cittadino attorno a cui coordinare un ricco e apparentemente imprendibile passato46, venivano riprese ed esaurite nell’analisi del conflitto tra latinità e germanesimo. Non solo, la libertà e la civiltà italiana avevano tratto origine dalla storia dei Comuni, da intendersi come «la prima grande vittoria del sangue latino sopra il sangue germanico». Lo scontro etnico consentiva, infatti, di individuare anche «le leggi generali che guidarono il corso generale della civiltà italiana» e il ruolo, in esso determinante, del conflitto intestino (che, per tanta parte, aveva caratterizzato la storia dell’età mediana), tra nobiltà germanica, anch’essa penetrata nel Comune, e popolo latino, nel quale ardeva «la febbre della guerra civile» non mossa soltanto da «ambizioni o gelosie private» ma dalla «lotta feroce di razze nemiche» e paragonabile, quindi, a una vera e propria «guerra nazionale», attraverso la quale si doveva spegnere il «sangue tedesco»47. Presupposti, questi, che spingevano Villari a concludere, di lì a pochi anni, che, penetrato il feudalesimo nel municipio, il quale «come l’aveva dovuto combattere e distruggere nella campagna, così doveva ora combatterlo nella cerchia stessa delle mura», la guerra civile ritornava a essere inevitabile «non per odio o gelosie personali» ma ancora una volta «come guerra di razze avverse». Sebbene gli elementi che in essa contrastavano non fossero più di una stirpe geneticamente distinta, i nobili, «eredi delle tradizioni germaniche», facevano parte infatti d’una «società diversa dalla democrazia in cui sono entrati»48. La tesi «antilongobarda», se assecondava pienamente il risorgimentale patriottismo italiano e le sue immediate proiezioni storiografiche, contrastava però con l’ideologia neoghibellina di Carducci e di quanti con lui vedevano nello scontro tra Regno italico e Soglio di Pietro il primo momento del secolare conflitto tra Stato e Chiesa49. Lo sposare quella tesi configurava, allora, non soltanto un grave cedimento alla tendenza largamente presente nella vasta area culturale del guelfismo e nell’interpretazione di Manzoni in particolare50. Quella scelta infatti discordava anche con la possibilità di fornire una base di lunga e organica du46 P. VILLARI, Introduzione alla Storia d’Italia. Dal cominciamento delle repubbliche del
Medio Evo fino alla riforma del Savonarola, Firenze, Tipografia italiana, 1849, pp. 19 ss., dove Villari identificava la «storia d’Italia», al di sopra di ogni frammentazione regionale, nella «storia della civiltà italiana», nella misura in cui quella «civiltà» politica e culturale aveva costituito un elemento di raccordo dei vari Stati italiani, a partire dall’età comunale. 47 ID., L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica, cit., p. 21. 48 ID., Le prime origini e le prime istituzioni della Repubblica fiorentina, in «Il Politecnico», II, 1866, pp. 1 ss., p. 14, per la citazione. 49 G. TABACCO, La città italiana fra germanesimo e latinità nella medievistica ottocentesca, cit., pp. 25 ss. 50 A. MANZONI, Discorso su alcuni punti della storia longobarda in Italia (1822) in ID., Tutte le opere, Milano, Mondadori, 1963, IV, in particolare pp. 200 ss.
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rata alla storia italiana. Non solo per il fatto che, chi poneva l’accento sulla violenza distruttiva dei Longobardi, correva il rischio di dover negare, poi, quella continuità di tradizioni civili e istituzionali, che proprio dall’alto Medioevo aveva preso origine. Ma anche perché l’identificazione della stagione comunale, in termini di prevalente conflittualità intestina, portava a concludere, già con Villari, che se le «discordie» avevano costituito l’«alimento» della primitiva storia del nostro paese, a partire dal crollo dell’Impero romano51, queste stesse contese intestine, ritenute necessarie, fino alla sconfitta del germanesimo, dovevano apparire invece rovinose nel momento in cui, proseguendo oltre quell’obiettivo, esse avevano innescato una serie di reazioni che avrebbero condotto alla crisi del sistema comunale e alla perdita della libertà, tramutandosi da fenomeno nazionale a fenomeno antinazionale. Debellato l’elemento straniero, aveva concluso Villari, sarebbero dovute cessare anche «le cagioni della guerra civile e la necessità di restare sparsi e divisi», mentre la «famiglia latina» avrebbe dovuto sentire «il bisogno di raccogliersi e costituirsi in nazione». Ma nel momento di questo trapasso storico epocale, «l’Italia, travagliata da tante lotte, agitata da una vita troppo rapida e quasi febbrile, si trovava già logora, nel momento in cui avrebbe avuto bisogno di raddoppiate forze, per continuare il suo cammino»52. Proprio nella genesi della moderna storia italiana era racchiuso, quindi, un germe di decadenza destinato a interrompere e poi a impedire il processo di unità nazionale, in conformità a una perversa dinamica che era stata già messa in evidenza da Sismondi ma soprattutto da Guizot che aveva visto nel mancato progresso istituzionale in direzione dell’accentramento statale e nei fattori dirimenti della inimicizia civile, prima di sangue e poi di ceto, la causa principale del declino e della caduta della società comunale e la sua conseguente, congenita estraneità al processo di formazione dello Stato moderno53. L’impasse costituita da questa compatta visione del passato in chiave di conflitto etnico veniva però superata da Carducci nell’ode La chiesa di Polenta del 1897, dove il poeta cantava l’«itala gente dalle molte vite»54. La pieve dell’Appennino romagnolo diveniva il simbolo dell’op-
51 P. VILLARI, Introduzione alla Storia d’Italia, cit., p. 14. 52 Ivi, p. 34. 53 J.-C.-L. SIMONDE DE SISMONDI, Storia delle Repubbliche italiane, cit., pp. 342 ss.; F.
GUIZOT, Histoire générale de la civilisation en Europe, depuis la chute de l’Empire romain jusqu’à la Révolution française, Bruxelles, Meline, Cans et Compagnie, 1846, pp. 184 ss. Tesi alla quale Villari controbatteva, con qualche difficoltà, sostenendo che «la discordia non fu cagione della sua rovina, perché l’Italia non è stata mai senza discordie». Si veda, ID., Introduzione alla Storia d’Italia, cit., p. 14. 54 G. CARDUCCI, Poesie, Bologna, Zanichelli, 1927, pp. 1010 ss.
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pressione del popolo latino, composto da «ignoti servi che morian tra la romana plebe», mentre «fuori stridea per monti e per piani il verno della barbarie ed il furor d’Odino». Ma la piccola chiesa era anche presentata come raffigurazione della fusione fra diverse etnie, che si sarebbe poi compiutamente realizzata nell’età comunale. Nelle sue mura, infatti, agli «schiavi, percossi e dispogliati», in un non lontanissimo futuro, si sarebbero uniti «percossi e dispogliati, anch’essi, i percussori e spogliatori un giorno» e «nel cospetto a Dio vendicatore e perdonante, vincitori e vinti» avrebbero creato una nuova comunità. Al di là delle ragioni del canto e in sede di più meditato approfondimento, Carducci aveva introdotto gli elementi di questa interpretazione già nelle lezioni bolognesi della fine degli anni Sessanta, dove, certamente, la storia dei Comuni veniva considerata come trionfo del «risvegliato elemento romano», che, con «l’opera sua di civiltà essenzialmente pratica», dava luogo a «un movimento ideale di restaurazione e continuazione delle tradizioni antiche»55, ma dove pure si assisteva a un superamento del principio di contrapposizione etnica nel «principio popolare», che fu in grado di realizzare «un acconcio temperamento dell’antico e del nuovo, del cristiano e dell’etnico, del latino e del medievale, tanto ne’ reggimenti e negl’istituti, quanto nella scienza e nell’arte; certo per quella facoltà di sapiente eclettismo e di artistica assimilazione, che fu della gente nostra»56. L’energia vitale del Comune fu tale, infatti, e tanto potente proprio perché «cresciuta dal consorzio del popolo romano con gli arimanni germanici» concludeva Carducci nel 189057. Indicazione generale e persino generica, questa, che Volpe avrebbe ripreso e articolato nel dettaglio nei suoi primi saggi, dedicati a smantellare i miti ottocenteschi a base etnica che aduggiavano l’analisi del passato. In quei lavori, Volpe interpretava i «Lambardi» toscani dei secoli XI-XIII, al di là di ogni connotazione di stirpe, unicamente come una classe sociale, inserita nel contesto completamente nuovo di una nazione nascente58, né latina 55 ID., Dello svolgimento della letteratura nazionale, cit., p. 283. 56 Ivi, p. 315. 57 ID., Lo Studio di Bologna, 15 aprile 1890, in ID., Prose, cit., p. 1172. 58 G. VOLPE, Lambardi e Romani nelle campagne e nelle città. Per la storia delle classi
sociali, della nazione e del Rinascimento italiano, XI-XV, in «Studi Storici», XIII, 1904, pp. 54 ss.; 167 ss.; 21 ss.; 369 ss.; ID., Emendamenti e aggiunte, ivi, XIV, 1905, pp. 124 ss. Si veda anche ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 24 ss. e 31 ss. In questi contributi (ricompresi, i primi tre, in ID., Origine e primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda. Studi preparatori, a cura di C. Violante, Roma, Volpe Editore, 1975, pp. 3 ss.) era esplicita la polemica con il paradigma razziale della vecchia scuola positivistica, bene rappresentato nel lavoro di C. CIPOLLA, Della supposta fusione degli Italiani con i Germani nei primi secoli del Medioevo, in «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche, filologiche», IX, 1900, pp. 329 ss., 369 ss., 517 ss.
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ormai né germanica ma semplicemente «italiana», che si manifestava come tale, tagliando il cordone ombelicale che, troppo strettamente annodandola al ricordo della civiltà romana e a quello più recente della conquista straniera, rischiava di soffocarne lo slancio59. In questo modo, la storia dell’età medioevale appariva non solo preludio, ma già parte integrante di una «storia italiana», come dimostrava plasticamente la chiusa del volume pisano del 1902, dove, questa volta, persino il tema del conflitto civile, rinnovatosi e ampliatosi nel confronto tra Guelfi e Ghibellini, veniva visto come elemento di un faticoso processo verso una maggiore e più estesa unità politica, capace di oltrepassare i ristretti confini di città e regioni, per interessare l’intera Penisola60. In questo modo, sicuramente, Volpe traeva dal suo apprendistato carducciano un pregiudizio storiografico «patriottico» (a volte felice nei suoi esiti, altre sicuramente ingombrante ma comunque comune a buona parte degli storici italiani ed europei di quel periodo), che legava strettamente mito delle origini e costruzione di una storiografia a impianto nazionale61, eppure non ancora nazionalistica, provenendo, in ultima analisi, quell’impulso dal «poeta educatore» nel quale riviveva «la gentilezza, la nobiltà, e lo spirito armonico di questa vecchia razza italiana», nella cui antica consapevolezza persino «l’ideale guerresco, coltivato dagli uomini del Risorgimento, non si convertì mai in quel coraggio da avventuriere e in quella ferocia di barbaro, che si son poi chiamati imperialismo e militarismo»62. Ma che tale pregiudizio «patriottico» potesse risultare anche sviante, proprio nell’analisi dell’età
59 G. VOLPE, Pisa e i Longobardi in «Studi Storici», 1903, XII, pp. 50 ss., dove era mes-
sa in rilievo la fusione tra conquistati e conquistatori, attraverso la serrata analisi degli originali aspetti economici, sociali, istituzionali del «popolo nuovo», che ne era risultato, i quali costituiranno i tratti distintivi della civiltà comunale. 60 ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 450-451: «Papato e impero combattono infatti per scopi propri e per riflesso della lotta che agitava e divideva in due grandi campi ogni città, ogni regione, in fine tutta quanta l’Italia, con un moto in apparenza disordinato, di fatto regolare e continuo, se si guarda alle idee ed ai fini che sono come il filo rosso che attraversa teso e diritto la storia nostra di quei secoli, combattono per scopi pratici e per il trionfo di idee nuove. È il rumore di vecchi edifici che crollano e di nuovi che l’inconscia forza della storia viene faticosamente innalzando. Il concetto dell’unità d’Italia si viene appunto formando in questo progressivo, reale coordinamento delle forze e dei partiti. Concetto astratto certamente, non ancora divenuto sentimento profondo e tanto meno capace di determinare una azione politica: ma pur tuttavia miraggio lontano, fra poco, di poeti e scrittori, delineantesi confusamente in parte come riflesso della realtà storica, che risospingeva le menti a certe forme della civiltà latina, intese ora e sentite in tutta la loro umanità». 61 E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2006, al capitolo primo. 62 B. CROCE, Giosuè Carducci, cit., p. 47.
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precomunale, lo dimostrava, alla luce di un’analisi più approfondita, che solo oggi è stata formulata compiutamente, la disinvoltura con la quale Volpe, fiso nella ricerca della fisionomia di quella «gente nuova italiana, venuta su dal coacervo della società feudale», ipotizzava uno iato troppo netto tra la tradizione longobarda e i «Lambardi», che non rispondeva a quella gradualità di sviluppo storico, effettivamente verificatasi, per liquidare poi, forse troppo frettolosamente, l’ipotesi di una continuità giuridico-istituzionale, nelle città dell’Italia centro-settentrionale, che implicava l’esistenza di una tradizione di potere locale, derivante da un lungo processo d’incivilimento, al quale non era restata estranea anche la dominazione germanica63. Intessuti di attivi e passivi ma sempre larghi e non accessori i debiti contratti dal giovane storico con l’autore del Comune rustico, in ogni caso. Sicuramente, come si è già visto, sul piano dei contenuti e dell’ispirazione tematica complessiva, se si pensa che nella recensione al saggio di Karl Neumann, apparsa sulla «Critica» del 190564, la confutazione della tesi, che, in ossequio al più rigido e gretto «chauvinisme teutonico», avrebbe voluto fare del Rinascimento italiano, deprivato dall’apporto rigenerante della spiritualità germanica, soltanto la piatta e servile ripresa dell’esausta «coltura bizantina dell’età di mezzo», riecheggiava anche il senso delle invettive carducciane contro il «bizantinismo» dell’Italia post-unitaria65. In maniera egualmente consistente, tuttavia, quei debiti formativi riguardavano il piano stilistico e gli insuperabili talenti della narrazione storica di Volpe, sulla quale esiste ormai una vera e propria letteratura critica che ha parlato di «una prosa ellittica, accalorata, rotta, evocativa, spesso e volentieri deverbata, che non ha avu63 G. VOLPE, Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni Italiani. (Secoli X-XV), Pisa, Nistri, 1904, poi in ID., Medio Evo italiano, Firenze, Vallecchi, 1923, pp. 1 ss. Sul punto, ora, G. TABACCO, Fief et seigneurie dans l’Italie communale, in «Le moyen âge», 1969, 1, pp. 20 ss.; ID., Vescovi e Comuni in Italia, in I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, a cura di C. G. Mor-H. Schmidinger, Bologna, Il Mulino, 1979; O. BANTI, “Civitas” e “comune” nelle fonti italiane dei secoli XI e XII, in «Critica storica», 1972, 3, pp. 568 ss. Volpe, tuttavia, aveva largamente riconosciuto «il valore del diritto longobardo come diritto comune e l’azione da esso esercitata su tutte le consuetudini e sulla legislazione statutaria» nella recensione al lavoro di Karl Neumeyer, apparsa nel 1903 su «Studi Storici», ora in ID., Origine e primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda, cit., pp. 237 ss. 64 G. VOLPE, Bizantinismo e Rinascenza. A proposito di uno scritto di Karl Neumann, Byzantinische Kultur und Renaissancekultur («Historische Zeitschriften», 1903, pp. 215 ss.) in «La Critica», III, 1905, pp. 47 ss., poi in ID., Momenti di storia Italiana, Firenze, Vallecchi, 1925, pp. 95 ss. 65 G. CARDUCCI, Per Vincenzo Caldesi. Otto mesi dopo la sua morte, marzo 1817, in ID., Poesie, cit, p. 463: «Ancor la soma ci grava del peccato: Impronta Italia domandava Roma, Bisanzio le han dato».
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to epigoni nella storiografia italiana del Novecento, tutta additivi sinonimici, anafore concettuali, preziosismi arcaizzanti, interrogativi retorici, costrutti nominali, effetti espressionisti»66. Un prosa tutta dannunziana, verrebbe da dire, di fronte a questa definizione che riprende quelle di quanti, sulla scorta o meno di un tendenziosissimo giudizio di Delio Cantimori sull’«irrazionalismo storicistico» e addirittura sul «bruto naturalismo» di Volpe67, hanno poi insistito sulla presenza di uno stile letterario ispirato alle categorie della «vitalità» e della «provvidenza non mistico-teologica, ma tutta naturalistica, immanente alle forze stesse della vita», all’«interesse per un dinamismo pieno di fermenti, che si arricchisce via via di nuovi fiori e frutti, che si moltiplica e si diversifica nelle attività e creazioni più varie, che pulsa potente per molte vene», poco interessato a mettere in evidenza l’elemento etico e razionale dell’azione umana68. A ben vedere, invece, la presenza, in Volpe, di una ricca fioritura metaforica tratta dal mondo naturale aveva poco a che vedere con la zoologia e la biologia decadentistica di un Barrès o di un D’Annunzio, ma si collegava strettamente, invece, al ruralismo carducciano, al canto delle «opere e i giorni», nel quale la natura si accampa, sul palcoscenico della storia, solo in virtù del lavoro umano, considerato il primo e fondamentale momento di civilizzazione69, e poi il principale fattore di coesione ed espansione nazionale70. Per Carducci, infatti, il mirabile edificio politico del Comune nasceva come sintesi di genti diverse, e un tempo irriducibilmente avverse, per «memore forza e amor novo spiranti»: allo stesso modo in cui «la spumeggiante vendemmia il tino ferve, e de’ colli italici la bianca uva e la nera calpestata e franta, sé disfacendo, il forte e redolente vino matura»71. E anche per Volpe al di sotto del 66 S. LANARO, Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi, Padova, Marsilio, 2004, p. 112. Si veda anche C. VIOLANTE, Gioacchino Volpe scrittore, in Atti del Convegno di studi su Gioacchino Volpe nel centenario della nascita, Roma, Volpe Editore, 1977, pp. 91 ss. 67 D. CANTIMORI, Federico Chabod, «Belfagor», XV, 1960, pp. 688 ss., poi in ID., Storici e storia, Torino, Einaudi, 1971, pp. 259 e 274-275. Si veda anche il parere editoriale inviato da Cantimori alla casa editrice Einaudi sul volume di F. BRAUDEL, Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, in ID., Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, Torino, Einaudi, 1991, p. 795-796. Giudizi che, ripetuti e amplificati, sono alla base del lavoro di I. CERVELLI, Gioacchino Volpe, Napoli, Guida, 1977. 68 E. SESTAN, Gioacchino Volpe storico e maestro, in «Bilancio. Rassegna bimestrale delle edizioni Sansoni», VII, settembre 1958, p. 14. 69 L. DAL PANE, Economia e storia nel “Medioevo italiano” di Gioacchino Volpe, in «Giornale degli Economisti e Annali di Economia», novembre-dicembre, 1963, pp. 867 ss.; ID., Gioacchino Volpe, in «Rivista di storia dell’agricoltura», XVI, 1976, pp. 3 ss.; ID., La storia come storia del lavoro. Discorsi di concezione e di metodo, Bologna, Patron, 1971, pp. 96 ss. 70 G. VOLPE, L’Italia in cammino, cit., pp. 55 ss.; ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 143 ss. 71 G. CARDUCCI, La chiesa di Polenta, cit., pp. 1013-1014.
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conflitto determinato da forze istintive, difficilmente disciplinabili, tra sé confliggenti, che impetuose attraversano il corso delle società umane (dato questo che verrà sempre accettato in tutta la sua pienezza e durezza)72, il punto di equilibrio costante della dinamica storica veniva ravvisato nella lenta e paziente tenacia della «popolo italiano», nel suo senso di equilibrio e di moderazione, ma anche di testarda ostinazione a progredire nel futuro, dopo ogni caduta e al di là di ogni ostacolo, come le radici di una pianta ben coltivata riescono a forare il più duro terreno per impadronirsi delle essenze vitali, in un processo continuo che rifugge da salti, discontinuità, mutamenti repentini, interruzioni e deviazioni di un corso di crescita secolare snodantesi, sempre, per addizione di nuovi elementi che non cancellano gli antichi, ma li ricomprendono in una superiore unità73. Si delineava, in questo modo, un’interpretazione globale dello sviluppo storico, che in Volpe rimarrà immutata, nei suoi tratti qualificanti, nel futuro prossimo e più lontano, egualmente produttiva per interpretare le vicende della società medioevale come quelle dell’Italia contemporanea: dal moto risorgimentale all’Unità, alla «crisi di fine secolo», alla Grande Guerra, al fascismo. 2. Sotto il peso robusto ma non ingombrante di tale Bildung carducciana, Volpe inoltrava la richiesta di ammissione per un posto gratuito nella sezione di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa, il 26 luglio del 189574. La domanda era redatta su impulso di Picciòla, come si è accennato, che in quell’istituto poteva contare ancora, forse, sull’amicizia di vecchi maestri, come D’Ancona. Delle prove, necessarie a varcare il portone del Palazzo dei Cavalieri, ci resta il componimento d’italiano da svolgersi, sulla seguente traccia: «Discorra il candidato della Gerusalemme liberata del Tasso, considerandola sì dall’aspetto dei tempi e delle condizioni della coltura nazionale, come da quello delle ragio-
72 G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 291: «Da per tutto frazionamento, tendenza a costituir nuovi gruppi disciplinati e trasformar gli antichi e sostituire ai naturali e necessari quelli volontari e giurati, quindi collisioni d’interessi e conflitti di prevalenza. I gruppi cercano raccogliere nelle proprie mani sempre maggiori attribuzioni a scapito del comune, agiscono come forze centrifughe e dissolventi, minano il potere consolare nel suo carattere fondamentale di collegialità e di unità. Venendo meno il rapporto vivo fra istituzioni pubbliche ed assetto sociale, non corrispondendo più quelle ai bisogni del paese, facendo ostacolo ad una pacifica e rapida trasformazione gli interessi di quelli che si sono consolidati al potere, nascono le discordie». 73 Ivi, p. 301: «In generale, in una nuova società che sorge, le istituzioni non scompaiono mai del tutto ma si trasformano, nel modo stesso che i bisogni da cui esse si svolgono non si sostituiscono gli uni agli altri ma si assommano». 74 Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa (ASNSP), fascicolo Volpe Gioacchino.
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ni dell’arte»75. Delle due indicazioni, Volpe privilegiava sicuramente la prima, amplificando le note pagine di Francesco De Sanctis sulla decadenza delle nostre lettere, dovuta al trionfo dello spirito controriformistico e all’assenza, nella Penisola, di una «totalità politica fortificata e cementata da idee religiose, morali e nazionali», che fosse in grado di promuovere il sentimento di una «patria italiana»76. Secondo il futuro normalista, infatti, «la letteratura nazionale, passata la splendida fioritura della prima metà del secolo XVI, declinava rapidamente nella seconda metà», approssimandosi al nuovo secolo che «se ci diede il Galilei e il metodo sperimentale, e non mancò di qualche buon poeta e prosatore, ci diede pur anco una corruzione pressoché universale delle forme dell’arte, derivata certamente dall’esser, per effetto del dominio straniero e dell’intolleranza religiosa, venute meno le energie intellettuali e adagiati gli spiriti sotto il peso del doppio giogo, sancito definitivamente e irremissibilmente col trattato di Cateau Cambrésis e col Concilio di Trento»77. Di questa «età di transizione», Tasso e la sua opera costituivano lo specchio fedele e quasi la plastica testimonianza dello spauramento di quanti, in Italia, si trovarono «sorpresi dall’uragano politico senza essere preparati a sostenerne l’urto, e abbattuti senza essersi prima provvisti di coraggio per tentare una riscossa», e che piuttosto preferirono «ripiegarsi su stessi, atterriti dalle sciagure, che, non sospettate così gravi, non avevano ancora dato spazio a quel lento lavorio di ricostruzione su altre e più ferme basi, che doveva condurre all’età moderna». Era un elaborato dunque, che esasperava e semplificava i contenuti laici e patriottici di De Sanctis, in una vulgata culturale fortemente ghibellinizzante78, la quale doveva costituire il patrimonio comune di molti altri giovani, allora usciti dalle scuole secondarie del Regno, come confermava il tema di ammissione di Giovanni Gentile, composto soltanto due anni prima, che costituiva, anche in questo caso con larghi prestiti dalla Storia della letteratura italiana79, una sorta di grido di dolore per la decadenza del nostro paese culminata nella stagione dello spagnolismo letterario e dell’Arcadia, alla quale, più tardi, avrebbe po75 Ivi. 76 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1958, II, pp. 646 ss. 77 In questa e nella citazione successiva, il riferimento è alla prova di ammissione di
Volpe.
78 Si veda il severo giudizio dell’elaborato di Volpe sulle conseguenze del Concilio tri-
dentino, che «fu, se si riguarda dal lato puramente religioso una grande riforma: ma, politicamente e socialmente parlando, di quanto male non fu causa all’Italia! Ristabilita su solide basi l’inquisizione, riconosciuta la supremazia dei pontefici sui concili, sottomesso in tutto lo Stato alla Chiesa, la società laica alla ecclesiastica, resa più rigorosa la censura preventiva, umiliata insomma la coscienza, l’intelligenza, l’attività individuale e collettiva». 79 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, cit., pp. 908 ss.
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sto rimedio il robusto ingegno nazionale di Parini e di Alfieri, rompendo i ponti con una tradizione culturale che «aveva non solo dimenticato ogni idea di patria e di libertà, ma s’era anche acconciata a fare a meno di ogni grande sentimento morale e civile»80. Guadagnato, il 3 novembre, l’ingresso alla Normale con il punteggio di quaranta cinquantesimi81, e contestualmente ottenuta l’iscrizione nella Facoltà di Lettere di Pisa82, Volpe trovava tra le antiche mura dell’Alma mater, adagiata sulle rive dell’Arno, un ambiente intellettualmente vivace, a partire dai suoi stessi compagni di studio (Giovanni Gentile, naturalmente, Fortunato Pintor, Giuseppe Lombardo Radice, Ferruccio Boffi, Giuseppe Manacorda, Nino Abd-el-Kader Salza)83: molti dei quali sarebbero poi divenuti gli inseparabili «old boys» di tutta la vita. Della stagione normalistica, lo storico ci ha tramandato un racconto vivace di sincero cameratismo, riunioni conviviali, esercizi sportivi, giovanili amori84, dove mai però lo sguardo retrospettivo troppo concede alla ricostruzione celebrativa, come accadrà a Gentile85, o all’umbratile nostalgia, come capiterà a Pintor86. Pisa fu nondimeno un momento importante della sua formazione politica, prima ancora che intellettuale, se non altro perché gli anni vissuti nella città toscana coincideranno, in buona parte almeno, con uno dei periodi più tormentati della giovane vicenda italiana, sospesa tra crispismo, reazionarismo, democrati80 La traccia da sviluppare era in questo caso: «Le lettere, e specialmente la poesia nel concetto del Parini e dell’Alfieri e nelle opere loro». Traggo la citazione da D. COLI, Il caso storiografico Giovanni Gentile, in «Studi Storici», 1986, 2, pp. 500 ss., in particolare pp. 507-508. 81 Registro esami normalistici, busta 65, registro 1, 1863-1896, in ASNSP. 82 La domanda, inoltrata al Magnifico Rettore, per ottenere l’ammissione alla frequenza del 1° corso universitario della Facoltà di Lettere e Filosofia, datata 28 novembre 1895, è anch’essa conservata in ASNSP. 83 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 2 febbraio 1920, AFG. 84 G. VOLPE, Ritorno al paese, cit., pp. 10-11; ID., Ricordi di scuola, di studi, di amici in «Archivio Storico Italiano», 1968, poi in ID., Nel regno di Clio (Nuovi “Storici e Maestri”), Roma, Volpe Editore, 1977, pp. 282-283. Si vedano anche i ricordi autobiografici raccolti da G. BENVENUTI, Gioacchino Volpe e la sua Pisa, in Atti del Convegno di studi su Gioacchino Volpe nel centenario della nascita, cit., pp. 39 ss. 85 G. GENTILE, La Scuola Normale Superiore di Pisa, in ID., La nuova scuola media, a cura di H. A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 2003, in particolare pp. 224 ss., dove è contenuto un ritratto del giovane Volpe: «ben piantato, tarchiato, con quel suo sorriso a fior di labbra, fermo, che pareva rispecchiasse sempre un pensiero chiuso e fisso: selvatico, piuttosto, e uso a poche cerimonie». 86 G. GENTILE-F. PINTOR, Carteggio, 1895-1944, a cura di E. Campochiaro, Firenze, Le Lettere, 1993, p. 17, dove, nella lettera del 3 ottobre 1895, inviata durante una breve interruzione delle attività didattiche, già si parlava con struggente rimpianto di «quei banchi, sfregiati dal vandalismo studentesco, e di quelle lezioni che ci annoiano talora mortalmente, ma per lo più ci procurano ineffabili palpiti d’entusiasmo e ci accendono l’animo di amore immenso alla vita».
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smo, iniziale ma decisa affermazione della propaganda socialista, con la sua indiscussa capacità di provvedere per la prima volta a un’efficace nazionalizzazione delle masse e di creare le condizioni di una maggiore coesione sociale87, necessità improrogabile di riforme istituzionali e sociali, prime affermazioni dell’Italia nel campo diplomatico e internazionale, rapidamente travolte dalla sconfitta di Adua, che servì da catalizzatore allo scontro politico, dentro e fuori il recinto parlamentare, nelle strade, nelle piazze, in ogni centro di aggregazione, nelle aule scolastiche e universitarie, e persino, avrebbe poi ricordato Volpe, negli aulici corridoi della Normale. Tra la gioventù studentesca cozzavano correnti diverse. Chi scrive queste pagine ricorda, da attore, le baruffe e i pugilati fra i contrapposti gruppi, “crispini” e “anticrispini”, “africanisti” e “antifricanisti”, “megalomani” e fautori del “piede di casa”, simpatizzanti per la Francia e odiatori di Francia i cui giornali, pieni di velenose vignette, facevano bella e impune mostra di sé nelle nostre edicole, persino lettori e ammiratori del “Secolo” e avversi a quel giornale, organo della radicaleria e massoneria milanese e lombarda, ferocissimo contro Crispi. Alla Scuola Normale Superiore, il comune gabinetto di lettura si scisse in due. Era la prima volta che la gioventù italiana si trovava davanti a problemi gravi e, in certo senso, propri, e prendeva caldamente posizione88.
Che Volpe avesse partecipato a quei tumulti, sicuramente nelle fila del partito crispino, rafforzandosi nella sua gallofobia carducciana89, ma anche brandendo un «corto e nodoso bastone» per tenere a rispetto gli avversari90, è poco dubbio. Come è ragionevole ipotizzare che quell’ar87 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio: l’Italia che si fa, in «La Nuova Politica Liberale», 1923, 1 e 2, pp. 30 ss.; 113 ss., poi in ID., Fra storia e politica, Roma, C. De Alberti, 1924, pp. 7 ss., in particolare pp. 32-33: «Duplice e contraddittoria azione del socialismo italiano, su quella parte delle masse con cui venne a contatto. Sorto contro lo Stato nazionale italiano, viceversa contribuì a portarvi dentro elementi che ne erano fuori, ad allargarne le basi, a rafforzarlo. Marciando dietro le bandiere della lotta di classe, portò una parte dei proletari a collaborare con la borghesia, vuoi alleandosi con essa, come fu attorno al 1900, vuoi lottando con essa». Si veda anche, ID., Italia Moderna, cit., I, pp. 172 ss. 88 Ivi, II, pp. 290-291. Sullo stesso punto, G. GENTILE, La Scuola Normale Superiore di Pisa, cit., p. 236, che parlava dei «pugni» che «vennero quando il cresciuto interesse politico, allora tenuto desto negli animi nostri dai luttuosi fatti d’Africa e dagli appassionati dibattiti intorno alla moralità e al valore politico del Crispi, fece nascere nella scuola una sala di lettura», dove si leggevano anche «i giornali politici, che accendevano allora il nostro animo, ed eran causa di fieri contrasti». 89 Si veda la lettera di Volpe a Cinzio Violante del 26 febbraio 1970, dove era ricordata la «certa mia non simpatia per la Francia, sorta in me dal ricordo e mio risentimento per i molti suoi atti di ostilità contro l’Italia». La corrispondenza è riprodotta in appendice a C. VIOLANTE, Appunti sulla formazione di Gioacchino Volpe, cit., p. 317. 90 G. GENTILE, La Scuola Normale Superiore di Pisa, cit., p. 233.
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ma impropria, utilizzata in primo luogo nelle spedizioni punitive dei normalisti contro la ragazzaglia pisana, non abbia riposato neppure in occasione dei disordini del 1898, in occasione della morte di Felice Cavallotti, sviluppatisi con occupazione di aule, abbandono delle lezioni, diffusione di volantini91. In questa cornice turbata, si sviluppava il tirocinio intellettuale di Volpe, poi sempre incline a instaurare un circolo rischioso, eppure a volte virtuoso, tra biografia del passato e biografia del presente, in sede di riflessione teorica come di concreta indagine storiografica92. Tirocinio, che poco frutto, tuttavia, sembrò ricevere dall’insegnamento della più parte dei suoi docenti: «Pullé, che insegnava noiosissimamente glottologia, il latinista Tartara, freddo e distaccato, Donato Jaia, che navigava troppo, almeno per noi, nelle nuvole del suo idealismo filosofico»93. I voti di esame di questo periodo («normalisti» e universitari) si limitano a essere buoni, infatti, senza mai raggiungere l’eccellenza assoluta, comportando anche la macchia di un 24 in Filosofia teoretica nel corso del primo anno94. Unica eccezione l’alto profitto registrato nelle materie letterarie e storiche, se si eccettua un 22 in storia antica, insegnate rispettivamente da Alessandro D’Ancona, direttore della Scuola, e da Amedeo Crivellucci. Da D’Ancona, Volpe avrebbe mutuato, al di là delle ristrettezze del metodo erudito, segnalate poi da Gentile e da Croce95, due tematiche di non piccola importanza, che avrebbero fruttificato all’interno della sua produzione futura. In primo luogo, l’interesse per l’impatto liberatorio della Grande rivoluzione in Italia, ma anche il giudizio fortemente critico per un progetto di «unificazione nazionale», introdotto nel nostro paese sulla punta delle baionette degli eserciti napoleonici, invece di essere realizzato per «virtù propria»96, e poi l’argomento degli italiani fuori d’Italia (del viaggio di apprendimento e dell’emigrazione intel-
91 ASPI, Università di Pisa, III versamento, busta 16. 92 G. VOLPE, Prefazione a Medio Evo italiano, cit., p. IX: «I documenti dell’oggi ci aiu-
tavano a ritrovare e vivificare e rendere attuale, magari per via di ravvicinamenti sommari che tenevan conto degli aspetti comuni a preferenza dei caratteristici e distintivi, il nostro Medio Evo, non più romano o germanico ma contadinesco, artigiano e borghese, rivoluzionario». 93 ID., Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., pp. 284-285. Sul punto, C. VIOLANTE, Gioacchino Volpe e il periodo pisano (1895-1906), in Studi e ricerche in onore di Gioacchino Volpe nel centenario della nascita (1876-1976), L’Aquila-Roma, Deputazione di Storia Patria per gli Abruzzi, 1978, pp. 153 ss. 94 Registro esami normalistici, cit. 95 M. MORETTI, Gentile, D’Ancona e la “Scuola” pisana, in «Giornale critico della Filosofia italiana», 1999, 1-2, pp. 66 ss. 96 A. D’ANCONA, Rinaldo Ruschi (1892) in ID., Ricordi ed Affetti, Milano, Treves, 1908, pp. 251 ss.; ID., Unità e federazione (1884), ivi, pp. 359-360.
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lettuale) come testimonianza dell’egemonia europea della cultura italiana ma anche come occasione di svecchiamento e progresso del nostro paese97. Da Crivellucci, invece, Volpe riceveva un’introduzione compiuta al lavoro storiografico, per quanto riguardava acribia e scrupolo filologico, capacità di analisi archivistica98, che pareva però non corrispondere alla pienezza di una lezione magistrale. Al di là del ricordo commosso e affettuoso del professore pisano, questi non fu mai per il promettente allievo un vero maestro. Spiaceva a Volpe di Crivellucci certo scolasticismo filologico-erudito, che ne contraddistingueva l’approccio alla ricerca99, e che gli impediva di cogliere l’effetto dirompente della storia politica di Oriani100, ma soprattutto la sua pregiudiziale «illuministica», laicista, anticlericale (di taglio giannoniano, risorgimentale e anche in questo caso crispino), che si rispecchiava nella specializzazione «longobarda» dei suoi corsi «dedicati, con spirito ghibellino, ai Rotari, agli Astolfo, ai Liutprando», dove sempre echeggiava «il dolore per quella nazione vittima del Papato romano»101. Un giudizio svalutativo, questo, che il Volpe maturo avrebbe sommessamente introdotto nella 97 ID., Federico il Grande e gli italiani (1901) in ID., Memorie e documenti di storia italiana dei secolo XVIII e XIX, Firenze, Sansoni, 1914, p. 13 ss. 98 G. VOLPE, Prefazione a Toscana medievale. Massa marittima, Volterra, Sarzana, Firenze, Sansoni, 1964, pp. VIII ss. Su Crivellucci, la voce di M. Tangheroni, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1985, pp. 162 ss. Sugli studi storici, alla Normale, in questo periodo, C. VIOLANTE, Un secolo di studi storici alla Scuola Normale Superiore di Pisa (1860-1963). I. Dall’attività pionieristica di Pasquale Villari alla polemica neoidealistica contro il Positivismo, a cura di Francesco Mattesini, Milano, Vita e pensiero, 1974, pp. 415 ss. 99 G. VOLPE, Prefazione a Medio Evo italiano, cit., p. VIII: «Noi uscivamo dalla scuola del nostro maestro Amedeo Crivellucci abituati alla ricerca coscienziosa ed all’uso delle fonti, ma piuttosto poveri di idee e senza neppure molti incitamenti a cercarle. Aveva egli certa antipatia e diffidenza per il filosofare. Traducendo per i suoi scolari il Lehrbuch der historischen Methode del Bernheim, egli si era limitato alla parte euristica, cioè tecnica, del volume ed aveva lasciato da parte le questioni generali su la storia come disciplina. Le sue ricostruzioni erano, quasi sempre, mirabili di sagacia interpretativa e di finezza filologica; e vi circolava dentro, anche, calore e passione. Ma nulla più». 100 A. CRIVELLUCCI, recensione ad A. ORIANI, La lotta politica in Italia, origini della lotta attuale (476-1887), Torino-Roma, Roux e Frassati, 1892. in «Studi Storici», I, 1892, 2, p. 286: «L’autore da una cattedra più alta delle torre Eiffel abbassa il suo sguardo sul gran fiume degli eventi umani, che egli vede e non vede, o li vede così in nebbie, in lontananza; e su tutto e su tutti pronuncia giudizi generici, indeterminati, monchi, esagerati, vecchi e nuovi, con molta sicurezza; con quella facile sicurezza che nasce appunto dal non conoscere con esattezza i fatti e che permette di generalizzare, di sintetizzare, e di spropositare senza accorgersene, anche ad uomini di ingegno com’è veramente Oriani. […] Dicono che l’autore abbia mostrato della capacità nello scrivere romanzi. Se è vero, noi lo consigliamo di tornare a quel genere letterario. Non sappiamo se ci guadagnerà il romanzo; certo non ci perderà nulla la storia». 101 G. VOLPE, Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., p. 11.
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corrispondenza con Gentile102, e poi manifestato pubblicamente nell’ampio necrologio del 1916103, che riceveva la piena approvazione di Croce, il quale si complimentava con l’autore scrivendo: Grazie dello scritto sull’opera del Crivellucci, che ho letto non solo con piacere, ma con entusiastico apprezzamento. In modo assai più particolare e convincente ho ritrovato in esso il giudizio che del libro del Crivellucci su Stato e Chiesa avevo scritto qualche anno fa in un articolo ancora inedito sulla storiografia italiana. Il Crivellucci considera la materia con intelletto da illuminista, e come così bene avete detto, si riallaccia ad uno scrittore illuminista, al Giannone. Come pensiero storico il suo libro è inferiore a quello del Malfatti, che l’aveva preceduto, e che mostra ben altra forza di mente104.
Ma, in questo caso, davvero, Volpe «storico di se stesso» compiva un forte errore di sottovalutazione e pareva non considerare almeno l’importanza del Crivellucci organizzatore di cultura, che con la rivista «Studi Storici», da lui diretta, insieme a Ettore Pais, e personalmente stampata in un’artigianale tipografia privata, aveva offerto la sede privilegiata, nella quale si sarebbe combattuta buona parte del «conflitto sul metodo», che avrebbe interessato la storiografia italiana nel crinale dei due secoli105. Quel fraintendimento, che faceva definire a Volpe il periodico un «organo, insomma, quasi da seminario storico»106, esclusivamente dedicato alle prime esercitazioni degli scolari pisani, era d’altra parte giustificato dalla modestia con cui Crivellucci si esprimeva nell’Avvertenza del primo numero, datata marzo 1892, affermando che la 102 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 19 giugno 1909, AFG: «Entreresti nel comitato promotore di un’onoranza da fare al prof. Crivellucci per il suo 25 anno di insegnamento universitario? Si tratterebbe di far un volume ma collaborandovi solo noi scolari di Pisa del Crivellucci. Le ragioni le capisci da te solo per i grandissimi si può dar fiato alle trombe e chiamar tutti a rendere onore». Meno chiaroscurato, in ogni caso, il giudizio di Gentile su Crivellucci, in La Scuola Normale Superiore di Pisa, cit., pp. 230-231. 103 G. VOLPE, Amedeo Crivellucci, apparso su «Rivista d’Italia» del marzo 1916, pp. 453 ss., ora in ID., Storici e maestri, Firenze, Sansoni,19672, pp. 31 ss., dove si sosteneva che «l’anticlericalismo del nostro storico» si trasformava in «debolezza, in quanto mette a capo ad una valutazione non sufficientemente storica o scientifica di uomini, e fatti e istituzioni». 104 Benedetto Croce a Gioacchino Volpe, 1 settembre 1916. Questa lettera, assieme ad altri documenti (d’ora in poi indicati come CV), mi è stata messa a disposizione dal compianto Vittorio Volpe. Il giudizio di Croce sul volume del Crivellucci, Storia delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, edito tra 1885 e 1886, si ritrova in ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono. Seconda edizione riveduta con una Appendice sulla storiografia recente, Bari, Laterza, 19302, 2 voll., II, pp. 95-96. La prima edizione dell’opera è del 1921. 105 G. CACCIATORE, Il dibattito sul metodo della ricerca storica, in La cultura storica italiana tra Otto e Novecento, a cura di G. Di Costanzo, Napoli, Morano, 1900, pp. 161 ss. 106 G. VOLPE, Amedeo Crivellucci, cit., p. 59.
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nuova rivista «senza aver la pretensione di colmar grandi lacune e di aprir nuove vie alle ricerche storiche, ha come precipuo e modesto intento di avere a disposizione un mezzo per pubblicar lavori nostri e di qualche discepolo, e per dire liberamente la nostra opinione sulle questioni storiche, che sono oggetto dei nostri studi»107. Indirizzo ancora ribadito da Crivellucci nella lettera del gennaio 1898, dove si respingeva l’offerta di collaborazione di Salvemini, motivando quel rifiuto col fatto che «il programma del periodico non me lo permette; esso non stampa che lavori miei e di scolari miei, salvo repliche di estranei; è l’organo della nostra scuola e ci tengo a conservargli questo carattere»108. In quegli stessi anni, però, Crivellucci insisteva con Gentile perché, nonostante alcune forti resistenze del suo allievo, lo stesso potesse pubblicare proprio su «Studi Storici» un contributo di carattere squisitamente teorico sul materialismo storico109: su quella dottrina, cioè, che più tardi, sia Croce che Volpe, ritennero il più importante stimolo al dibattito sul rinnovamento degli studi storici italiani110. Aveva anticipato quella discussione lo stesso Crivellucci, in una recensione ai due saggi di Antonio Labriola, composti tra 1895 e 1896 , la quale poneva sul tappeto, seppure con qualche semplificazione, i dati essenziali della questione, accettando, sostanzialmente la lezione di Marx, per quello che riguardava la gran parte che la «produzione e la ripartizione della ricchezza» aveva avuto nel «determinare le istituzioni sociali, politiche, religiose, morali, artistiche, scientifiche, e in una parola tutte le istituzioni umane e tutta la società», ma obiettando anche che proprio Labrio-
107 A. CRIVELLUCCI-E. PAIS, Avvertenza in «Studi Storici», I, 1892, 1, p. VII. 108 Amedeo Crivellucci a Gaetano Salvemini, 22 gennaio 1898, in G. SALVEMINI, Car-
teggi, 1894-1902, a cura di S. Bucchi, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 147. 109 G. GENTILE, Una critica del materialismo storico, in «Studi Storici», VI, 1897, 3, pp. 379 ss., poi in ID., La filosofia di Marx, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 11 ss. Per le perplessità di Gentile, a veder ospitati i suoi contributi filosofici in quella sede, si veda Carteggio Gentile-D’Ancona, a cura di C. Bonomo. In appendice: Lettere di Amedeo Crivellucci a Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 275-276. 110 B. CROCE, Prefazione, settembre 1917 a ID., Materialismo storico ed economia marxistica, Bari, Laterza, 19275, p. XIII, dove si parlava della «larga e benefica efficacia esercitata dal marxismo sugli intelletti italiani tra il 1890 e il 1900» e si insisteva specialmente sul fatto che «per quella dottrina, penetrata nelle università col giovanile socialismo, gli studi storici furono, dopo lunga decadenza, ritolti alla incompetenza dei puri filologi e letterati e dettero buoni frutti di storia economica, giuridica e sociale». Il giudizio è ripreso e ampliato in ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, 123 ss. Si veda anche G. VOLPE, Italia Moderna, cit., II, p. 320, sull’avversione, prodotta dal materialismo storico, per «una storiografia che se ne stesse ancorata al documento e si esaurisse nella erudizione gabellata per “Storia”, anzi essa sola vera Storia perché “obiettiva”, oppure si perdesse nel sociologismo dimenticando la individuata e circostanziata realtà, oppure si mutilasse nella contemplazione assoluta ed esclusiva del “fattore economico”».
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la, nonostante alcune sue cautele, rischiava di esagerarne la portata, presentandola, in ultima analisi, «come precorritrice dell’avvento del comunismo e come estremo limite di autocoscienza storica»111. Qui Crivellucci, pur con ineguale e anzi opposto apprezzamento, pareva anticipare l’interpretazione di Gentile, che faceva della meditazione di Labriola il fondamento dell’interpretazione del materialismo storico, in quanto «ultima e definitiva filosofia della storia»112. In Labriola, infatti, «la previsione storica, che sta al fondo della dottrina del Manifesto e che il comunismo critico ha poi ampliata e specificata in analisi del mondo presente» non era più semplicemente utopistica, ma scientifica, perché fatta dalla stessa società che «in un momento del suo processo generale scopre la causa del suo fatale andare, e, in un punto saliente della sua curva, fa luce a se stessa per dichiarare la legge del suo movimento»113. Il marxismo permetteva così di «riconoscere, nel corso presente delle cose una necessità, la quale trascende ogni nostra simpatia e ogni nostro subiettivo assentimento», e di sostenere che l’ulteriore sviluppo della società si trovava determinata «per le leggi immanenti del suo proprio divenire»114. Era, quella di Gentile, un’interpretazione sicuramente corretta nello specifico riferimento testuale di alcuni passi, ma forzata, o quantomeno unilaterale per quello che riguardava gli assunti generali, nella quale venivano passate sotto silenzio o piuttosto ridimensionate alcune affermazioni di Labriola che andavano in senso tutto contrario, come quando nelle pagine Del materialismo storico, si invocava la più ferma vigilanza nei confronti della «fantasia degli inesperti d’ogni arte di ricerca storica e dello zelo dei fanatici» che trovano «stimolo e occasione perfino nel materialismo storico a foggiare una nuova ideologia, e a trarre da esso una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenza e a disegno». In questo modo, infatti, «anche la concezione materialistica della storia» correva il rischio di «esser convertita in forma di argomentazione a tesi, e servire a rimettere in nuove fogge pregiudizi antichi; come era quello di una storia dimostrata, dimostrativa e dedotta»115. Contro questo pericolo, Labriola insisteva, invece, nel ribadire che la dottrina del «comuni111 A. CRIVELLUCCI, recensione di A. LABRIOLA, In memoria del Manifesto dei comuni-
sti e ID., Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in «Studi Storici», V, 1896, pp. 292-294. 112 G. GENTILE, Una critica del materialismo storico, cit., pp. 32 ss. 113 A. LABRIOLA, Del Manifesto dei Comunisti, in ID., La concezione materialistica della storia. Nuova edizione con un’aggiunta di B. Croce sulla Critica del Marxismo in Italia dal 1895 al 1900, Bari, Laterza, 19422, p. 35-36. 114 Ivi, p. 10. 115 ID., Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in ID., La concezione materialistica della storia, cit., p. 159.
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smo critico» non doveva «esser volta a rappresentare tutta la storia dell’umano genere in una veduta comunque prospettiva e unitaria, la quale ripete, mutatis mutandis, la filosofia storica a disegno, come da Agostino a Hegel». Il nuovo paradigma storiografico non pretendeva, infatti, di trasformarsi nella «visione intellettuale di un gran piano o disegno» ma, proprio per conservare la sua fisionomia critica e scientifica, rivendicava la sua essenza, peculiare ed esclusiva, di «metodo di ricerca»116. Queste affermazioni sembravano potersi identificare, magari col pericolo di qualche nuova, più lieve forzatura, con una lettura semplicemente «realistica» e non più coerentemente «materialistica» delle tesi di Marx, che veniva ampiamente sviluppata in altri punti del saggio di Labriola, dove si sosteneva, appunto, la necessità di contrapporre, nella ricostruzione storiografica, ai vecchi e nuovi «convenzionalismi» («caso, fortuna, logica delle cose, che alcune volte si confonde con la nozione di progresso»), «i soggetti reali, ossia le forze realmente operanti, ossia gli uomini nelle varie e circostanziate situazioni sociali, proprie di loro». In questo traguardo consisteva «l’assunto rivoluzionario e la meta scientifica della nuova dottrina, la quale obiettivizza e direi quasi naturalizza la spiegazione dei processi storici»117. Di qui, la necessità di operare una critica preliminare delle fonti storiche, non in quanto semplice revisione filologica e più scrupoloso accertamento dei dati di fatto, ma come piuttosto critica di «quella fonte immediata, che sta più in là dei documenti propriamente detti, e che prima di esprimersi e di fissarsi in questi, consiste nell’animo e nella forma di consapevolezza, nella quale gli operatori resero conto a sé dei motivi dell’opera loro propria»118. Di qui, il superamento dell’economicismo volgare come fattore unilaterale di spiegazione storica, comportando l’analisi marxista correttamente intesa non lo sforzo di «ritradurre in categorie economiche tutte le complicate manifestazioni della storia», ma solo quello di «spiegare in ultima istanza ogni fatto storico per via della sottostante struttura economica; la qual cosa importa analisi e riduzione, e poi mediazione e composizione»119. Di qui, ancora, il progetto di «naturalizzare la spiegazione storica», senza però nulla concedere alle categorie del «darwinismo sociale», né alle ragioni di una aprioristica legalità mutuata dal paradigma delle scienze biologiche, la quale, pur intendendo giustamente procedere dai «moventi e le cause obiettive di ogni volere, che son da ritrovare nelle condizioni di ambiente, di terreno, di
116 Ivi, p. 166. 117 Ivi, p. 138. 118 Ivi, p. 141. 119 Ivi, p. 145.
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mezzi disponibili, di circostanzialità delle esperienze», fosse poi ridotta a ipotizzare la «negazione di ogni volontà, per via di una veduta teoretica, che vorrebbe sostituito al volontarismo, l’automatismo»120. Di qui, infine, sul piano delle più concrete indicazioni di metodo, la necessità di abbandonare il vecchio modello prevalente della storiografia politica, giuridica, soggettiva, per costruirne uno alternativo, in grado di operare l’«inversione dalla politica alla società» e la «risoluzione della società negli elementi del materialismo economico», per aprire quindi alla «sociologia», considerata, però, come «scienza delle funzioni e delle variazioni sociali», e non come metodo positivistico121. Da queste conclusioni di Labriola era ripartito Croce, nel saggio del maggio 1896, pubblicato negli Atti dell’Accademia Pontaniana di Napoli, dove la teoria del materialismo storico era ridotta a mero canone empirico di «interpretazione della storia»122. Per Croce, infatti, quella teoria non poteva costituire né un filosofia della storia, che presupporrebbe l’erronea ipotesi della «possibilità di una riduzione concettuale del corso della storia»123, né un metodo rigoroso di analisi del passato, fornito di capacità predittive per quello che riguardava l’evoluzione futura, ma soltanto «una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico»124. Stabilito che «nel materialismo storico non bisogna cercare una teoria da prendere in senso rigoroso», in esso tuttavia andavano valorizzate le «feconde scoperte, per intendere la vita e la storia: l’affermazione della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della genesi di esse dal sottosuolo economico, in modo che si può dire che di storie ce n’è una sola; il ritrovamento della forza reale dello Stato (quale esso si presenta in certi suoi aspetti empirici) col considerarlo istituto di difesa della classe dominante; la stabilita dipendenza delle ideologie dagli interessi di classe; la coincidenza dei grandi periodi storici dai grandi periodi economici»125. Ma il dibattito metodologico, che la rivista di Crivellucci andava ac120 Ivi, pp. 147 ss.; pp. 156-157. 121 Ivi, pp. 205-206. 122 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci. A cura di
V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2001, II, pp. 1213-1214. Sul «marxismo crociano», G. GALASSO, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 20022, pp. 127 ss. 123 B. CROCE, Sulla concezione materialistica della storia in Atti dell’Accademia Pontaniana di Napoli, XXVI, 3 maggio 1896 poi in ID., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 3. 124 Ivi, pp. 8-9: «Il Labriola ha detto benissimo che le stesse previsioni del socialismo sono semplicemente d’indole morfologica; e, invero, né il Marx né l’Engels avrebbero mai astrattamente affermato che il comunismo debba accadere per una necessità ineluttabile nel modo che essi disegnavano». 125Ivi, pp. 13-14.
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compagnando, non si era arrestato su questo solo e pure fondamentale nodo temotico, ma era già evoluto nell’analisi di una problematica più generale e cioè sulla possibilità di considerare la storia «come scienza». Questa ipotesi negata recisamente da Croce era invece ripresa da Gentile, nel contributo pubblicato nel 1897, sulle pagine di «Studi Storici»126. In quella sede, pur con molti distinguo, Gentile ridimensionava l’identificazione crociana di storia e arte contro quella di storia e scienza, «la quale è conoscenza che cerca il generale e che lavora per concetti». Lo stesso accadeva per il ripudio crociano della filosofia della storia, che si fondava sulla concezione della storiografia «come pura e semplice narrazione di fatti accaduti nella loro oggettiva concatenazione di mutua dipendenza», la quale, invece, secondo Gentile, andava integrata da una «metodica storica». A quel diniego, l’allievo di Crivellucci obiettava che se «lo storiografo ha adempiuto il suo ufficio nel rappresentare fedelmente ed efficacemente tutto ciò che dei fatti accaduti ha potuto accertare», quell’opera restava pure imperfetta e sarebbe toccato ad altri, e cioè al filosofo «accettata la narrazione incompiuta dello storiografo, compierla e integrarla, per renderla capace dell’elaborazione filosofica», senza per questo sottoporla ad «arbitri e manomissioni, per fini ad essa estranei» ma, al contrario, per riportare la narrazione dei fatti a «norme certe». Di questa metodologia rigorosa, si aggiungeva, era possibile ritrovare un modello nel «bel libro che di recente ha scritto il Lacombe, tentando di indicare le vie sicure da seguire per costituire una storia come scienza: una storia, cioè (come egli la definisce), che, occupandosi delle istituzioni e non degli avvenimenti, dell’elemento regolare e non dell’accidentale di tutti i fatti, ne ricerchi le cause scientifiche e le fissi in leggi che rendano possibile fin la previsione»127. In quel volume, infatti, lo studioso francese sosteneva senz’altro l’assimilazione della storia alla scienza, che poteva realizzarsi compiutamente grazie a un metodo comparativo in grado di isolare fatti costanti e generali, i quali soli potevano essere ricondotti alle proprie cause e, attraverso questa via, alla oggettività128. Conseguentemente a questo assunto, Lacombe intendeva la causalità della scienza storica del tutto omogenea alla causalità delle scienze fisiche e riteneva che l’obiettivo di entrambe consistesse nello stabilire rapporti costanti e verificabili. Di qui, la distinzione, tra 126 G. GENTILE, recensione a B. CROCE, Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, Roma, Loescher, 1896, in «Studi Storici», VI, 1897, pp. 137 ss. 127 Il riferimento era a P. LACOMBE, De l’Histoire considérée comme science, Paris, Hachette, 1894, p. 23 ss. 128 Sul punto, e per quel che segue, L. ALLEGRA-A. TORRE, La nascita della storia sociale in Francia, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1977, p. 120-121.
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l’accidentale (l’événementiel) e il generale (l’institutionnel), secondo la quale la storia poteva essere scientifica, e quindi trovare le cause dei fenomeni, solo a patto di non prendere in considerazione i fatti singolari o irripetibili. In base a questa ipotesi, il «cambiamento» diveniva eccezione, non rigorosamente classificabile, mentre la «continuità» costituiva la regola generale del processo storico. Della seconda era possibile dar conto scientificamente, mentre il primo, per la sua accidentalità, costituiva un mero fattore di turbamento che impediva la previsione dei fatti futuri, che costituiva, invece, l’obiettivo ultimo della «storia-scienza». A distanza di tre anni, Gentile riproponeva i termini del dibattito sullo statuto epistemologico del sapere storico, ma in maniera molto più sfumata e tale in ogni caso da escludere ormai una perfetta assimilazione di scienza e storia, alla quale si domandava soltanto di limitarsi a non essere «aneddotica e personale, ma sociale» e quindi di trasformarsi «da narrativa in critica»129. Tale correzione di tiro era soprattutto funzionale a costituire una reazione contro il largo diffondersi di un malinteso scientismo storiografico, che, nell’analisi, ad esempio, di Corrado Barbagallo, si proponeva di «combattere le restrizioni storiografiche imposte al materialismo storico dal Croce e dal Labriola» e di «additarlo, al contrario, quale complesso di canoni direttivi delle scienze sociali»130. L’adeguamento del lavoro storico a un apparato concettuale, che si apriva agli apporti della scienza sociale dell’ultima età del positivismo, non dipendeva in linea diretta ed esclusiva da una lettura, seppur superficiale e semplicistica di Marx, come accadeva appunto in Barbagallo, né costituiva un caso isolato nel mondo intellettuale italiano, dove era largamente diffusa una visione «materialistica» della storia, operante più come generica categoria mentale che come rigido quadro di analisi filosofica, tale, quindi, da non dipendere né da doversi identificare con quella del materialismo storico propriamente detto e in grado di costituire, al contrario, una inclinazione compatibile con la storiografia erudita, non orientata dal marxismo, e anzi precedente la sua diffusione131. Questa tendenza interessava in primo luogo Pasquale Villari e, per 129 G. GENTILE, Il concetto della storia, in «Studi Storici», VIII, 1899, pp. 103 ss.; 169 ss., in particolare p. 173. 130 C. BARBAGALLO, Prefazione a ID., Pel materialismo storico, Roma, Loescher, 1899, p. 1. Se ne veda l’impietosa recensione di Gentile, in «Studi Storici», VIII, 1899, pp. 135137, che ironizzava sulla poca «cultura e disciplina mentale de’ socialisti italiani». 131 I. CERVELLI, Gli storici italiani e l’incontro con il marxismo, in Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca. II. Questioni di metodo, I, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 588 ss., in particolare p. 593. Diversamente, P. FAVILLI, La formazione dell’identità marxista nel socialismo italiano: lineamenti e problemi, in «Società e Storia», 1988, 3, pp. 617 ss.; ID., Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica in Italia, 1945-1970, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 86 ss.
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suo tramite e impulso, aveva influenzato l’attività di uno dei principali centri di elaborazione culturale della Penisola, costituito dall’Istituto di studi superiori e pratici di Firenze132. In quella sede, Villari aveva orientato la sua ricerca sul Medioevo italiano e soprattutto fiorentino, sostituendo, al tema dello scontro etnico quello del conflitto sociale come primum movens della dinamica politica. Come nel primo caso, anche nel secondo, si trattava però di rintracciare una legalità dello sviluppo storico rigidamente consequenziale, definibile, in qualche modo, come «prevedibile», in sintonia con una più generale filosofia positiva di riferimento133. Già nel 1866, Villari pretendeva di poter ritrovare nel caos incomposto di fatti slegati e disordinati, che costituiva il panorama della lotta fazionale a Firenze, una «successione logica di eventi», dato il primo dei quali, era possibile «prevedere con assoluta certezza tutti gli altri che debbono inevitabilmente seguire». Anche il corso degli eventi, apparentemente più disordinato e più inesplicabile, poteva assumere infatti «una chiarezza e precisione, quasi geometrica»134. Scopo dell’analisi scientifica del passato, infatti, era quello di «ritrovare nelle leggi storiche le leggi dello spirito umano»135. Un’indicazione, questa, che veniva riassunta e potenziata nel manifesto programmatico del 1868, secondo il quale, una volta riconosciuto che «le idee, le istituzioni, i monumenti si mutano con una legge, che non ci è sempre facile spiegare, ma che è pur sempre visibile», era possibile postulare l’esistenza di una «ragione storica», capace di prevedere e disciplinare la dinamica sociale, di una scienza del passato umano, in altri termini, la cui fisionomia era comune a «molte delle scienze nate o formate nel nostro secolo, come la geologia, la filologia comparata, l’etnografia»136. Il tono trionfalistico di queste affermazioni, che altrove e successivamente sarebbe stato ribadito senza esitazioni137, si ridimensionava
132 Sulla storia di questa istituzione, E. GARIN, L’Istituto di Studi superiori di Firenze. (Cento anni dopo), in La cultura italiana tra ’800 e ’900, Bari, Laterza, 1976, pp. 29 ss. Si veda anche, G. SALVEMINI, Una pagina di storia antica, in «Il Ponte», 1950, 2, pp. 116 ss. 133 E. ARTIFONI, Medioevo delle antitesi. Da Villari alla “scuola economico-giuridica”, in «Nuova Rivista Storica», 1984, 2, pp. 367 ss., poi rifuso in ID., Salvemini e il Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1990. 134 P. VILLARI, Le prime origini e le prime istituzioni della Repubblica fiorentina, cit., p. 26. 135 ID., La filosofia positiva e il metodo storico, in ID., Teoria e filosofia della storia, a cura di G. Cacciatore e M. Martirano, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 111 ss. 136 ID., L’insegnamento della storia. Discorso inaugurale per l’anno accademico 18681869 dell’Istituto di Studi superiori e pratici di Firenze, pronunciato il 16 novembre 1868, ivi, pp. 164 e 166-167. 137 ID., I primi due secoli della storia di Firenze, Firenze, R. Istituto di studi superiori e pratici di Firenze, 1893, I, p. 13, dove si parlava della ricostruzione storica come «connes-
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parzialmente nel più famoso contributo del 1891, sintomaticamente intitolato La storia è una scienza?, dove, in ogni caso, restava immutato il nocciolo duro della petizione di principio relativo al valore di un metodo storico positivo e ai «grandi progressi che esso solo ha fatto fare alle scienze morali, sottoponendo i fenomeni sociali a indagini rigorose, dando una propria forma e un carattere scientifico a discipline, che per lo innanzi non l’avevano mai avuto, e non avevano potuto giungere a un’esistenza sicura di sé». Si riaffermava così l’obiettivo primario della ricostruzione storica: pervenire alla scoperta della «connessione logica dei fatti», al loro ordinamento secondo «leggi» che dessero conto di precisi vincoli causali, almeno per quanto riguardava un’indagine che avesse di mira contesti fortemente determinati. Su più larga scala, però, aggiungeva Villari, e soprattutto quando ci proponesse di conoscere «il disegno generale della storia e le relazioni, che pure esistono certamente tra i fatti storici e lo spirito umano, allora cominciano subito i dubbi infiniti e le divergenze»138. Quest’ultimo distinguo procurava al suo autore la decisa opposizione di quanti militavano a favore della piena identificazione, senza se e senza ma, tra storia e scienze naturali. Tra questi, Corrado Barbagallo139, ma soprattutto Achille Loria che al dubbio metodico formulato da Villari opponeva, senza esitazioni, le potenzialità di descrizione scientifica del passato e di previsione del corso delle cose future, insite nella nuova ars historica, una volta che essa avesse mutato il suo statuto, passando da «storia descrittiva, intesa come narrazione delle azioni umane a storia scientifica, la quale afferra, anziché le azioni umane, gli stadi successivi della forza evolvente, di cui esse sono il risultato». Così strutturata, infatti, l’analisi storica della società era in grado di predeterminare «il sistema delle azioni umane, che si deduce da uno stadio ulteriore della forza data, precisamente come dai primi termini di una serie si può, nella maggioranza dei casi, determinare l’ultimo termine della serie»140. Quesione matematica di cause ed effetti». Si veda anche, per la riaffermazione del carattere predittivo dell’indagine storiografica, ID., Il Congresso storico internazionale in Roma in «Nuova Antologia», 1 maggio 1903, ora in ID., Teoria e filosofia della storia, cit., 292: «La storia è l’unica base sicura della scienza sociale. Colui che ricerca le carte polverose negli archivi, raccoglie il materiale necessario per potere con sicurezza cominciare a studiare e conoscere il destino degli Stati, dei popoli, dell’uomo». 138 P. VILLARI, La storia è una scienza?, in «Nuova Antologia», CXV-CVII, 1891, pp. 209 ss., 409 ss., 609 ss. e p. 436, per l’ultima citazione. 139 C. BARBAGALLO, L’opera del prof. Villari quale filosofo e teorico della storia e quale storiografo. Studio critico, Catania, Tipografia sicula di Monaco & Mollica, 1901. 140 A. LORIA, La terra e il sistema sociale. Prolusione al corso di Economia politica nella R. Università di Padova, pronunciata il 21 novembre 1891, Verona-Padova, Drucker, 1892, pp. 36-37. Sul punto, R. FAUCCI, Revisione del marxismo e teoria economica della pro-
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sta titanica impresa, i cui obiettivi non si limitavano semplicemente a «ricostruire il passato e analizzare il presente» ma che giungevano anche a «tracciare le linee supreme della società futura», poteva essere realizzata a condizione di isolare la causa fondamentale dello sviluppo delle società umane, che andava individuata nell’intrecciarsi e nel reciproco condizionarsi di tre «fattori naturali». Il progresso della rendita fondiaria, l’incremento della popolazione, la quantità di terra disponibile per la messa a coltura costituivano i fenomeni determinanti del sistema economico, regolavano insieme salari e profitti, creando tensioni e squilibri ma anche nuove forme di composizione del tessuto sociale141. In questo modo, Loria, pur derivando le sue teorie da quelle del materialismo storico (in particolare per quello che riguardava la concezione marxista dello Stato come forma giuridica, che costituiva l’espressione degli interessi delle classi dominanti)142, ne tradiva profondamente il significato. Dove, per Marx, l’umanità, fattrice della propria storia, non era un fisso fenomeno naturale e anzi costituiva la molla del proprio cambiamento, per Loria essa era non solo sempre identica a se stessa, ma anche priva di ogni possibilità di attuare mutazioni significative del suo sviluppo storico. Obiezione, questa, che Croce aveva mosso a Loria, già nel 1896, in un’impietosa stroncatura delle sue opere, dove lo si accusava di aver semplicemente plagiato le teorie di Marx, deformandole ed estromettendone il «momento rivoluzionario». Loria, in questo modo, mentre da una parte esagerava «la forza del moto obiettivo delle cose, cangiandola quasi in una necessità esterna», dall’altra toglieva «forza al movimento stesso col privarlo dell’elemento volitivo e morale», non comprendendo che Marx non faceva della dinamica storica un processo automatico e che nella sua dottrina il nesso tra «fatto economico e l’azione rivoluzionaria» non si riduceva mai a «evoluzione naturale»143. In margine a questa confutazione impietosa, Croce ribadiva
prietà in Italia (1880-1900): Achille Loria e gli altri, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, Giuffré, 1978, pp. 587 ss.; G.L. CASANUOVI, L’Anti-Loria. Croce e Loria: due interpretazioni del materialismo storico a confronto, in «Archivio Storico Italiano», CXLIII, 1985, pp. 611 ss.; L. GALLINO, Achille Loria e la teoria dell’evoluzione delle società, in Il positivismo e la cultura italiana, a cura di Emilio R. Papa, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 259 ss. Si veda anche A. SPICCIANI, Il Medioevo negli economisti italiani dell’Ottocento, in Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, cit., in particolare pp. 385 ss. 141 A. LORIA, La legge di popolazione e il sistema sociale, Siena, Lazzeri, 1882, pp. 2930, poi in ID., La proprietà fondiaria ed il sistema sociale, Verona, Drucker, 1897, pp. 5 ss. 142 ID., Teoria economica della costituzione politica, Roma-Torino-Firenze, Bocca, 1886. 143 B. CROCE, Les théories économiques de M. Loria, «Devenir social», II, 1896, pp. 881 ss., poi in opuscolo Le teorie storiche del Prof. Loria, Napoli, Tipografia Giannini, settembre 1896, ora in ID., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., in particolare pp. 46-47.
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l’impossibilità di identificare materialismo storico a filosofia della storia o a metodo storico, definendolo, invece, semplice «concezione storica, che vivifica tutta l’opera del Marx ed è stata da lui plasmata in alcuni opuscoli narrativi, singolarmente importanti come Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e le due serie di articoli sulle Lotte di classe in Francia, e la Rivoluzione in Germania nel 1848-49»144. Né Marx né Engels, infatti, avevano mai ridotto «quella concezione a teoria rigorosa o saldamente ragionata, né potevano ridurvela, non essendovi in quel caso gli elementi costitutivi di una teoria». Ambedue gli autori si erano limitati a lasciare, sul punto, nulla altro che «aforismi generali e applicazioni particolari», quasi a voler testimoniare che «la loro concezione, per restare vera e feconda nei rispetti della storia, non deve uscire da codesti termini: dalla forma aforistica dell’enunciazione e dalla forma pratica dell’applicazione»145. Gli sforzi fatti, con diverso indirizzo, rischiavano di snaturare la funzione di un’ interpretazione che «deve servire soltanto di avvertenza e stimolo agli interpreti della storia, e deve vivere nelle opere storiche che ha ispirate e verrà ispirando». Del materialismo storico, l’analista del passato doveva sicuramente accogliere «in sé le suggestioni» ma ricordando sempre che «suggestione non vuol dire conclusione». La dinamica storica infatti, sosteneva più avanti Croce «s’interpreta e si descrive, ma non se ne cerca la legge; salvo che non si adoperi, come i positivisti, i quali raddoppiano il fatto e lo chiamano legge». Nonostante le innegabili debolezze concettuali, le teorie di Loria, avrebbe più tardi concluso Croce, suscitavano grande ammirazione nel mondo accademico italiano, che si era limitato a conoscere la dottrina marxista «alla lontana, per vie indirette, e poi in rapsodie, che le toglievano la forza peculiare» e che risultava «in ragione della stessa sua pedanteria, così ingenuo da lasciarsi abbagliare dai prestigiatori»146. Il semplicismo storiografico di Loria aveva infatti profondamente affascinato il giovane Salvemini, che ne avrebbe congiunto la lezione a quella proveniente da Villari nella ricerca delle leggi generali che disciplinavano il processo storico147. In Salvemini, l’accavallarsi di queste tendenze
144 Ivi, pp. 26-27 e 48. 145 ID., Materialismo storico e storia concreta. Prefazione a C. MARX, Rivoluzione e con-
trorivoluzione o il 1848 in Germania, Roma, Mongini, 1899, poi in ID., Pagine sparse, a cura di G. Castellano, Napoli, Ricciardi, 1919, II, pp. 308 ss., dove si definivano le teorie di Marx come semplici «prolegomeni, ma nel senso pedagogico, e non dottrinale, di preparazione allo studio della storia». 146 B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 19345, p. 154. 147 E. ARTIFONI, Salvemini e il Medioevo, cit., pp. 112 ss. e pp. 124 ss.; M. MORETTI, Il giovane Salvemini fra storiografia e “scienza sociale”, in «Rivista Storica Italiana», 1992, 1, pp. 203 ss.
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dava luogo all’immagine di un Medioevo attraversato dallo scontro sociale e dal disordine, ma pure logicamente deducibile nei suoi tratti distintivi: perché il caos apparente, articolandosi in realtà secondo precisi meccanismi e leggi di sviluppo della società, era alla fine esattamente misurabile e commensurabile, una volta che la collezione dei dati archivistici avesse consentito di riconoscerne tutti gli elementi. Il conflitto sociale (la grande contrapposizione tra «magnati e popolani» a Firenze, nel XIII secolo, investigata nella sintesi del 1899) diveniva così «una conseguenza necessaria, saremmo per dire matematica, dello sviluppo demografico ed economico della città di Firenze», essendo quel conflitto una conseguenza dell’«intima costituzione sociale dei comuni»148. In questo punto, emergeva, senza equivoci, la sintonia d’impianto metodico tra Villari e Salvemini, animata dalla scelta verso una storia non descrittiva ma fortemente esplicativa, fondata sulla convinzione che «leggi» profonde guidassero la dinamica sociale. Secondo Salvemini, infatti, Villari aveva ridotto per primo a «luminosa unità» i frammenti sparsi della storia fiorentina, collegandoli, grazie a un’«alta attitudine sintetica» in una tessitura esplicativa coerente, da dove risultavano assenti indeterminatezze e accidentalità149. E l’esempio di Villari era presente, come motivo conduttore imprescindibile, proprio nella prolusione messinese del 1901, dove però i dubbi del maestro fiorentino, relativi alla piena integrazione della storia in una scienza geometricamente dedotta ed empiricamente dimostrata, erano risolti nella candida conclusione, secondo la quale «l’applicazione dei metodi scientifici ai fatti storici è soltanto molto meno agevole e richiede maggiori cautele che l’applicazione degli stessi metodi ai fatti della natura fisica»150. In quel discorso del metodo, che sarebbe stato significativamente ospitato l’anno successivo sulla «Rivista Italiana di Sociologia», Salvemini si dimostrava fortemente critico verso l’impostazione di Croce e di Gentile, ma anche nei confronti delle teorie di Lacombe e della Kulturgeschichte di Karl Lamprecht, le quali, pur avendo avuto il merito di reagire alle vecchie tendenze storiografiche che pretendevano di «circoscrivere le ri148 G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, a cura di E. Sestan, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 40 e 51. 149 ID., Pasquale Villari, «Nuova Rivista Storica», 1918, 2, pp. 113 ss., ora in ID., Scritti vari (1900-1957), a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 57 ss., in particolare pp. 63 ss. 150 ID., La storia considerata come scienza, «Rivista Italiana di Sociologia», 1902, 6, pp. 17 ss., ora in ID., Scritti vari, cit., ivi, pp. 107 ss. Sul punto, e soprattutto per le contestazioni di Croce alle posizioni di Salvemini, si veda M. BISCIONE, Gaetano Salvemini e la polemica sulla storia come scienza, in «Rivista di storia della storiografia moderna», 1980, 1, pp. 29 ss. e G. COTRONEO, Croce e Salvemini: una polemica sulla storia, in «Rivista di studi crociani», 1980, 1, pp. 45 ss.
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cerche agli individui e alle vicende politiche degli Stati», escludevano però la possibilità di allargare la ricerca delle costanti storiche anche ai fatti individuali, non considerando che ogni individuo operava in un determinato assetto sociale, che lo condizionava e da cui veniva condizionato151. In questo modo, veniva a delinearsi, anche al di là degli orientamenti di Villari, una vera e propria dislocazione disciplinare della storia nell’ambito della scienza sociale. Tracciando una divisione fra la storia «scienza dei fatti» e la sociologia «scienza delle leggi», la prima incaricata di «investigare e rappresentare i fatti sociali passati e i loro rapporti», la seconda delegata a sceverare se negli eventi umani «esistano delle somiglianze, dalle quali risultino delle leggi sociali», Salvemini faceva ricadere nell’ambito sociologico ogni lavoro storiografico, carico di un forte valore esplicativo, in grado di cogliere la legalità intrinseca degli eventi e dei processi esaminati152. Dalla teorizzazione alla ricerca sul campo il discorso non mutava. Nella monografia dedicata al conflitto tra plebe e ottimati, si assisteva infatti all’inserimento sulla lezione di Villari, tutta proiettata a costruire la legge di una precisa deduzione dei fatti storici153, del determinismo economico-popolazionistico di Achille Loria, dal quale pareva possibile ricavare un paradigma consequenziale, esattamente controllabile e misurabile, della dinamica sociale e politica. Non dunque da Marx, e da un Marx interpretato alla luce della lettura di Labriola, si sviluppava, contrariamente a una più tarda indicazione dello stesso Salvemini154, lo scheletrato concettuale di Magnati e Popolani. Al di là dell’interpretazione in chiave di lotta sociale, mutuata da Villari, quello studio si rifaceva in tutto e per tutto, come è stato efficacemente sottolineato155, al 151 G. SALVEMINI, La storia considerata come scienza, cit., pp. 113 ss. 152 Ivi, p. 123. Dove a Salvemini appariva possibile ordinare tutte le azioni storiche, in-
dividuali o collettive, «con sicurezza, in serie secondo il principio di causalità, in modo che tutti i singoli fatti formino un insieme organico nella nostra coscienza, come a priori dobbiamo ammettere che l’abbiano formato nella realtà storica». Questa operazione era naturalmente possibile a condizione di «stringere nella categoria di causalità non solo i fatti delle singole serie, ma anche tutti i fatti successivi e concomitanti di tutte le serie» 153 P. VILLARI, Le origini del Comune di Firenze, in ID., Gli albori della vita italiana, Milano, Garzanti, 1941, p. 40: «La lotta fra Magnati e Popolani era una conseguenza necessaria, saremmo per dire, matematica, dello sviluppo demografico ed economico della città di Firenze». 154 G. SALVEMINI, Una pagina di storia antica, cit., pp. 120-121. Sul fondo positivistico della formazione di Salvemini, si veda invece, ID., I miei maestri, in Che cos’è la cultura?, Modena, Guanda, 1954, p. 57: «Conobbi la Rivista di filosofia scientica pubblicata dalla scuola positivista nel decennio precedente. In quei dieci volumi, deglutii articoli, note critiche, comunicazioni, resoconti di congressi e società scientifiche, rassegne bibliografiche, rassegne di periodici, dalla prima all’ultima parola. E capii ogni cosa». 155 E. ARTIFONI, Salvemini e il Medioevo, cit., p. 125.
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modello di Loria, secondo il quale la progressione demografica, mettendo in gioco la distribuzione delle risorse, si imponeva come meccanismo propulsore di ogni dinamica socio-politica. Intorno all’inevitabile conflitto fra produttori e consumatori, determinato dall’impeto demografico, si sviluppavano Les bases économiques de la constitution sociale di Loria156. E sull’asse della lotta tra «magnati» e «popolani», Salvemini costruiva il suo libro, confessando proprio a Loria nel 1895 che «sempre più vedevo che i fatti, che io avevo già trovato nella storia di Firenze, studiando gli Archivi, si trovano perfettamente d’accordo con quello che Ella diceva: anche qui la rendita fondiaria era in lotta col profitto industriale, anche qui il capitale e il lavoro improduttivo si comportavano appunto secondo le leggi, che Ella nel suo lavoro esponeva»157. Secondo Salvemini, dunque, i fatti dovevano sottomettersi alla teoria, che permetteva di articolare l’indagine storica in una «successione e connessione matematica di cause ed effetti»158, e non semplicemente essere interpretati da questa. Era un’affermazione che bene testimoniava la deriva scientista di una parte della storiografia italiana, a cavallo del vecchio e del nuovo secolo, la quale veniva censurata immediatamente da Gentile, in un intervento brusco e sbrigativo, anch’esso pubblicato sulla rivista di Crivellucci, dedicato a confutare le tesi della Storia considerata come scienza di Salvemini, dove si faceva osservare che: «La storia, se anche riesce ad essere la base della sociologia, non ha punto con questa la relazione che il processo sperimentale ha con la scienza della natura; perché la storia sta alla sociologia come la natura essa medesima sta alla scienza corrispondente»159. Molto più tardi, lo stesso Salvemini avrebbe riconosciuto la giustezza di questa critica, confessando che nella sua monografia di storia fiorentina troppo poco spazio era stato concesso a «tutti i necessari coefficienti di variazione» rispetto al modello interpretativo generale160. Ma, anche nell’immediato, la linea Croce (Gentile)-Labriola sembrava uscire vittoriosa da quel confronto, se persino Corrado Barbagallo, nel 1901, optava, contraddicendo apertamente la sicumera positivistica di Loria e dei suoi seguaci, per un drastico
156 A. LORIA, Les bases économiques de la constitution sociale, Paris, Felix Alcan, 18932, pp. 165 ss. 157 Gaetano Salvemini ad Achille Loria, luglio 1895, in E. ARTIFONI, Un carteggio Salvemini-Loria a proposito di “Magnati e popolani” (1895) in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», LXXXIX, 1981, pp. 234 ss., in particolare pp. 245 ss. 158 G. SALVEMINI, La storia considerata come scienza, cit., p. 133. 159 G. Gentile, recensione a G. SALVEMINI, La storia considerata come scienza, «Studi Storici», XI, 1902, pp. 339 ss. 160 G. SALVEMINI, Firenze nel secolo XIII. Lezioni fiorentine dell’aa. 1923-1924, in appendice a E. ARTIFONI, Salvemini e il Medioevo, cit., p. 233.
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ridimensionamento del materialismo storico a metodo sociologico d’interpretazione storica, non in grado, in ogni caso, di fornire leggi generali, ma soltanto «nozioni approssimative» ed «esperienze generalizzate», suscettibili di conferma, di smentita e di variazione, compendiabili, per semplice comodità di lavoro, in una serie di «aforismi, frutto di esperienze generalizzate»161. Così interpretato, il materialismo si riduceva, come qualsiasi altra dottrina sociologica «ad una serie approssimativa di nozioni generali sul funzionamento sociale». Tali nozioni erano «tutt’altro che verità assodate, inconsuete, inoppugnabili» ma «semplicemente delle ipotesi, che la sociologia presenta allo storico, perché questo possa spiegarsi il nesso dei fatti, di cui si occupa». In questo modo, la lezione di Marx costituiva soltanto una superiore forma di storia economica, come più tardi avrebbe concluso quella parte della storiografia italiana maggiormente interessata all’analisi delle strutture sociali e dei rapporti di produzione162, e poteva tutt’al più rappresentare «l’occhio interno dello storico, la sua maniera di rappresentare la società, come determinata fondamentalmente, nel suo funzionare, dai suoi concreti rapporti economici»163. Da questo complesso e serrato Methodenstreit, che si era in buona parte combattuto sulle pagine della «rivista di casa», Volpe era sembrato tenersi discosto, più interessato forse a seguire il quasi coevo dibattito sulla Kulturgeschichte, che Croce ma anche Crivellucci avevano introdotto in Italia164, e quasi, poi, volendo già da ora accreditare la sua fisionomia di «storico senza filosofia», che si sarebbe manifestata a più riprese nella corrispondenza con Gentile165. Apparentemente, poi, più
161 C. BARBAGALLO, Storiografia, sociologia e materialismo storico, in «Rivista Italiana di Sociologia», V, 1901, 1, pp. 94 ss., in particolare p. 95. 162 M. BERENGO, Profilo di Gino Luzzatto, in «Rivista Storica Italiana», 1964, 4, pp. 879 ss. Si veda anche, P. FAVILLI, Marxismo e storia, cit., pp. 99 ss. 163 C. BARBAGALLO, Storiografia, sociologia e materialismo storico, cit., p. 105. 164 B. CROCE, Intorno alla storia della cultura. Memoria letta all’Accademia Pontaniana, il 1° dicembre 1895, in ID., Conversazioni critiche. Serie Prima, Bari. Laterza, 19504, pp. 201 ss., dove della Kulturgeschichte si valorizzava soprattutto la rottura del monopolio della storia politica, la funzione di allargamento del panorama storiografico, la capacità di intendere la «mutua dipendenza dei fatti sociali e i prodotti più alti dell’uomo, accanto a quelli che hanno minore dignità e appariscenza, ma non per questo restano meno efficaci». Sul contributo di Croce, interveniva Crivellucci nella nota pubblicata in «Studi Storici», V, 1896, pp. 438-43. Sul punto, anche, G. LUZZATTO, Storia individuale e storia sociale, a proposito di alcune recenti discussioni sul metodo storico, in «La scienza sociale», 1901, poi in ID., Per una storia economica d’Italia, Bari, Laterza, 1967, pp. 57 ss. 165 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 22 aprile 1943, AFG: « Ho letto con grande piacere – potrei dire emozione – il tuo articolo su Meridiano. È forse parte del discorso fiorentino? Bisognerebbe pure – ma non sono troppo vecchio – che cominciassi a studiare sul serio la tua filosofia». Il riferimento era alla conferenza di Giovanni Gentile, La mia re-
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che alla controversia sul materialismo storico e ai rapporti tra storia e sociologia, il Volpe degli anni pisani pareva interessato alla più modesta riformulazione di quelle problematiche, che si ritrovava nella storia sociale ed economica di Giuseppe Toniolo, da lui conosciuto personalmente quando lo storico cattolico teneva alcuni corsi liberi nella città toscana e il cui volume dei Dei remoti fattori, appare fittamente annotato dal giovane studente, nella copia ancora conservata nella biblioteca della Scuola166. In realtà, invece, il dibattito sul metodo di fine secolo influenzò non poco le sue scelte, come altre dichiarazioni autobiografiche testimoniano abbondantemente. Da queste risulta, infatti, un Volpe ben consapevole della portata generale degli interventi di Gentile apparsi su «Studi Storici», ma già precocemente disposto a uniformarsi alla riduzione del marxismo a semplice «concezione realistica della storia», secondo l’interpretazione di Labriola portata avanti da Croce, che aveva contribuito ad allontanarlo, invece, da Salvemini e dal suo «grossolano materialismo»167. Nel 1907, Volpe avrebbe ricordato l’influsso fondamentale del filosofo napoletano per aver introdotto, assieme alla conoscenza degli scritti del «maestro» di Cassino, «il convincimento della imprescindibile necessità di mettere un fondo solido di coltura e di ricerche economiche a base di ogni seria trattazione di fatti sociali: e ciò, indipendentemente da qualunque concezione rigida di materialismo storico che il Labriola, a forza di revisioni e riduzioni e temperamenti, intendeva molto a suo modo», in secca alternativa «alle formule, agli schemi, da qualunque parte venissero, da filosofi, sociologi, storici»168. Venti anni dopo, tuttavia, nel contesto del durissimo scontro politico che lo oppose a Croce, Volpe avrebbe ridimensionato o negato quell’influsso, sostenendo di non aver neppure letto la memoria sul materialismo storico del 1896, «quando scrissi il mio volume su le Istituzioni comunali a Pisa, in cui c’è presso a poco tutto quello, in bene e non bene,
ligione, pronunciata a Firenze il 9 febbraio 1943, presso la sede della sezione toscana dell’Istituto di studi filosofici. I primi due paragrafi della conferenza venivano pubblicati nel settimanale «Meridiano di Roma» dell’11 aprile. 166 A. SPICCIANI, Glosse di Gioacchino Volpe in margine a libri della Biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa, in «Bollettino Storico Pisano», 1987, pp. 186 ss.; ID., Giuseppe Toniolo tra economia e storia, Napoli, Guida editori, 1990, pp. 52-53 e passim; Sul punto, si veda anche C. VIOLANTE, Il significato dell’opera storiografica di Giuseppe Toniolo nell’età di Leone XIII in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, a cura di G. Rossini, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1961, pp. 707 ss. 167 G. VOLPE, Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., p. 285; ID., Prefazione a Toscana medievale, cit., p. XIV. 168 ID., Rassegna di studi storici, cit., p. 681. Giudizio più ampiamente ripreso in ID., Antonio Labriola, in ID., Storici e maestri, cit., pp. 107 ss., dove erano rifusi due contributi del 1934 e del 1963.
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che sarei diventato»169. Ma a dimostrare che in questa testimonianza la vis polemica aveva rischiato veramente di falsificare la realtà dei fatti, ci soccorre un’altra corrispondenza inviata a Croce, nel febbraio del 1900, dove il giovane storico scriveva: Fin dall’anno scorso, quando io lessi La base economica della costituzione politica [sic] del Loria, con poca soddisfazione veramente, non ostante la mia scarsa coltura in fatto di economia politica, ho avuto grande desiderio di leggere il suo scritto col quale confutava lo strano materialismo storico del prof. Loria. A Pisa, non potei trovarlo; qui a Napoli un libraio mi ha detto di non averne più alcuna copia. Lei è così cortese, Signor Croce, che non vorrà privarmi di questa lettura. Ne ha ancora un esemplare? Io le sarò gratissimo del dono o del prestito che sia. Un’altra domanda: quale trattato di economia politica lei consiglierebbe ad un cultore di storia, il quale, pure avendo una lettura discreta e cognizione varia della materia, ha bisogno tuttavia di cominciare a dare un po’ d’ordine e un po’ di organismo a quelle membra disiecta?170
Poco o davvero nulla di questa autorevole padrinaggio intellettuale si manifestava ancora nella tesi di licenza, o meglio di abilitazione all’insegnamento secondario, incentrata sulle relazioni di Pisa con Alessandro VI e Cesare Borgia171, e in quella di laurea, discussa nel 1899, dedicata alla signoria di Pietro Gambacorta172. Due contributi, che già mettevano in evidenza le propensioni di Volpe a privilegiare il momento genetico del cambiamento istituzionale, considerato nel suo costituirsi «non di colpo, con un atto di violenza, ma per graduale generazione interna e quindi in rispondenza a un mutamento generale di istituti, di costume politico, di sentimenti»173, e valutato, in una visione realpolitisch, dove, nel trapasso dalla primitiva costituzione consolare del Comume al regime podestarile e poi da questo alla Signoria, poco conta169 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Roma, 15 agosto 1927. Le lettere di Volpe a Croce sono conservate nell’Archivio Benedetto Croce, Biblioteca Benedetto Croce, Napoli, d’ora in poi ABC. 170 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Napoli, 29 gennaio 1900, ivi. 171 G. VOLPE, Intorno ad alcune relazioni di Pisa con Alessandro VI e Cesare Borgia (1499-1504), in «Studi Storici», 1897-1898, VI-VII, pp. 495 ss. e 61 ss. 172 Poi pubblicata come ID., Pisa, Firenze, Impero al principio del 1300 e gli inizi della Signoria civile a Pisa, «Studi Storici», XI, 1902, pp. 193 ss. e 293 ss. 173 ID., Prefazione a Toscana medievale, cit., p. IX. Ma si veda anche, ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 301: «Dato tutto ciò, s’intende come sorga il podestà, che cosa esso rappresenti. Gli elementi suoi costitutivi, i fattori suoi interni ed esterni, si sono venuti un po’ per volta accumulando, per cui, mano a mano che il consolato modificava la propria natura, contemporaneamente si plasmava, dirò così, la figura giuridica del podestà, rappresentante di un diritto nuovo, indice di un assetto sociale della cittadinanza diverso dall’antico e conseguenza della piena sovranità politica conquistata dentro di sé e nell’ambito del territorio del comune».
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va, infine, il ridimensionamento o la perdita delle antiche libertà civili ampiamente risarcite dall’accrescimento di potenza e dal costituirsi di un più ampio e meglio strutturato organismo politico174. Acerbe dunque, ma già tipiche, queste aurorali prove di Volpe e comunque tali da costituire un decoroso lasciapassare per il proseguimento ulteriore degli studi. Nell’ottobre del 1899, Crivellucci scriveva a Villari per raccomandare a un posto di perfezionamento dell’Istituto di studi superiori di Firenze il promettente normalista, «il qual, come Ella vedrà dai suoi lavori sulla Repubblica pisana, è giovine d’ingegno non comune e fa davvero sperar molto di sé»175. Il desiderio di Crivellucci sarebbe stato esaudito e Volpe avrebbe lasciato la Normale, non senza prima, però, aver dato dimostrazione di quel «cattivo carattere», che tante altre volte ritroveremo nella sua biografia. Nella corrispondenza, databile ai primi mesi del 1900, indirizzata a D’Ancona, troviamo un Volpe molto «accorato», che porgeva le sue scuse, per aver scritto al direttore della Scuola pisana una lettera «un po’ recisa, un po’ rude, forse anche un po’ scortese» e che aggiungeva, a mò di riparazione: «Immagina Lei che io mi potessi rivolgere con animo men che pieno di rispetto, d’affetto anzi e di venerazione, ad un mio maestro, al professor D’Ancona, al direttore della Scuola Normale, dove io ho passato gli anni più belli, più sereni, più fecondi che ricordi; ad un uomo del quale ho sempre detto, a Pisa e fuori, che, non ostante la salute malferma, era forse il più assiduo degli insegnanti della Facoltà letteraria pisana e uno di quelli che più era d’esempio di operosità ai giovani e più cortese di consigli e d’aiuti? Io ho tutti i difetti del mondo; sono un carattere rude, troppo rigido, talvolta quasi aspro; ma mi riconosco il merito di una grande sincerità». L’intero, spiacevole episodio era frutto di un equivoco: mentre D’Ancona si adoperava ad «appagare i miei desideri e a rimuovere gli ostacoli per la stampa della mia tesi di laurea», io, concludeva Volpe, «ero preoccupato di dover aprire una sottoscrizione per vederla pubblicata»176. A quella corrispondenza ne seguiva un’altra, inoltrata l’11 luglio, dove nuovamente l’allievo esprimeva i sentimenti di piena gratitudine per «il direttore della Scuola Normale, che, per quattro anni, ci ha ospitato: quattro anni che per noi sono stati i più belli e
174 Ivi, p. 291. Ma l’argomentazione era soprattutto sviluppata in ID., Pisa, Firenze, Impero al principio del 1300 e gli inizi della Signoria civile a Pisa, cit. Da quelle conclusioni sarebbe ripartito Federico Chabod nel suo Di alcuni studi recenti sull’età comunale e signorile in Italia, in «Rivista Storica Italiana», 1925, 1, pp. 29 ss. 175 Amedeo Crivellucci a Pasquale Villari, Rigoli, 19 ottobre 1899, in Carteggio Pasquale Villari, Biblioteca Apostolica Vaticana, d’ora in poi CPV. 176 Questa e la successiva lettera a D’Ancona, che mi sono state comunicate da Mauro Moretti, sono conservate in ASNSP.
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i più fecondi, e che nell’avvenire, in mezzo a quel misto di soddisfazioni, di dolori e di disinganni di che si comporrà la nostra carriera professionale, brilleranno, ne son sicuro, come vivida fiamma lontana»177. 3. Nell’Istituto di Firenze, che lo avrebbe ospitato fino al 1901, Volpe avrebbe trovato tutte le opportunità di un centro attivissimo di ricerca storica, alla cui costruzione Villari aveva contribuito in prima persona, rendendolo in grado di corrispondere all’obiettivo propostosi dal Governo provvisorio della Toscana nel 1859, al momento della sua fondazione, e cioè di preparare, senza scollamenti, «l’intelletto all’operare scientifico e civile»178. Volpe nel 1908, avrebbe riconosciuto a Villari questa capacità di organizzazione culturale, definendolo «l’uomo che in Italia, come studioso e come maestro, ha inteso più largamente la nostra disciplina e che ha insegnato in quell’Istituto Superiore ove le deficienze che io lamento altrove quasi non sussistono»179. Ma non si sbaglierebbe ad affermare che, per Volpe, le qualità magistrali del professore fiorentino fossero altre e che si ponessero al di là di alcune poco condivisibili scelte di metodo, comunque ascrivibili solo a un «moderato neopositivismo»180, e di una visione a tratti se non «piagnona», come avrebbe sostenuto Gentile181, almeno profondamente moralistica del processo storico, che affiorava nella sua dolorosa e ingenua descrizione della decadenzee italiana alla fine della fine del XV secolo, in buona parte comprensibile a partire dalla «concezione di un’Europa dominata dalla “corruzione” politica, perché alla politica degli istinti e delle passioni è succeduta la politica del calcolo e dell’astuzia»182. Villari fu «maestro», invece, soprattutto per la sua apertura al mondo della società e della politica dei propri tempi. E, in questo senso, il suo insegnamento permise a Volpe di «allargare gli orizzonti», di porre in stretto
177 La lettera si concludeva: «Ma alla memoria della Scuola Normale e degli anni giovanili, si accoppierà quella dei maestri che di essa sono l’anima e saranno sempre tali. Questo è il mio augurio, ancora per molti anni. Anche Lei si ricorderà qualche volta dei suoi scolari, ne son sicuro, anche se non le avremo dato tutti eguale materia di soddisfazione» 178 E. GARIN, L’Istituto di Studi superiori di Firenze. (Cento anni dopo), cit., p. 31. 179 Gioacchino Volpe a Pasquale Villari, Milano, 8 maggio 1908, CPV. 180 ID., Pasquale Villari, in «Rivista Storica Italiana», 1940, poi in ID., Storici e maestri, cit, pp. 171 ss., in particolare p. 178: «Accade così che il neopositivista non solo è pieno di riserve e limitazioni e buona volontà di transigere e conciliare: non solo di fronte all’aut aut dei positivisti e comtiani che gli intimavano il “tutto o nulla”, è piuttosto pronto a dir “nulla” che non “tutto”, e sembra abbia fretta di liberarsi da quella camicia di Nesso, che per un momento lo aveva alquanto avviluppato». 181 G. GENTILE, Gino Capponi e la cultura toscana del secolo decimonono, Firenze, Sansoni, 19732, pp. 178 e 256. 182 G. VOLPE, Pasquale Villari, cit., p. 180.
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contatto la ricostruzione del passato italiano con l’analisi, la denuncia, il tentativo di soluzione delle grandi questioni irrisolte che agitavano l’Italia contemporanea: il riscatto del Mezzogiorno, la necessità di riforme che assicurassero una prima forma di giustizia sociale, senza confondersi con la palingenesi predicata dai socialisti, e quelle che riguardassero la tutela materiale e spirituale della grande diaspora italiana nel mondo, la critica dell’idea liberale, che troppo spesso rischiava di snaturarsi e di confondersi con quella democratica, la serrata denuncia dei mali del parlamentarismo, l’antigiolittismo militante, e, infine, il mantenimento in vita e il rafforzamento di un orgoglioso patriottismo, da tenere vivo anche al di là del momento eroico del Risorgimento, in grado di rivendicare l’italianità del confine orientale «da Trieste alle bocche del Cattaro» e la «necessità nazionale» dell’espansione africana183. Su molte di quelle scelte politiche di fondo, Volpe avrebbe largamente concordato nella sostanza. Ma persino Salvemini, che dal dettaglio di alcune di quelle prese di posizione invece era assai più lontano avrebbe confessato di non potere scindere, in riferimento a Villari, l’elogio dello storico da quello dello «scrittore politico»184, perché proprio quell’impegno pragmatico permetteva di liberare la storiografia accademica dalle tradizionali strettoie del metodo filologico ed erudito per orizzontarla verso la «grande sintesi», sul cui tracciato lo storico doveva essere «guidato da un vigile sentimento della funzione che hanno i suoi studi nella coltura politica e nelle preoccupazioni del suo tempo»185. Da questa tensione tra storia passata e storia attuale derivavano anche gli infelici «anacronismi» di Salvemini e i felici «anacronismi» di Volpe sull’Italia medievale. Infelici i primi, perché sempre tendenti a schiacciare il giudizio del passato su quello dell’oggi, in nome di un sia pur generoso e sincero impegno militante186. Felici i secondi, nella mi183 Ivi, pp. 183 ss. Sul Villari politico, si veda M. MORETTI, Note sui tardi scritti politici e sociali di Pasquale Villari (1882-1907) in «Schema», 1985-1986, 1-2, pp. 43 ss. e 89 ss., ora in ID., Pasquale Villari storico e politico, cit., pp. 149 ss. 184 G. SALVEMINI, Pasquale Villari, cit., in particolare pp. 67 ss. 185 ID., Una pagina di storia antica, cit., pp. 121-122. Sullo stesso punto, in un contesto più generale, senza alcun riferimento al legato di Villari, si esprimeva Croce, sottolineando come l’innovazione storiografica del periodo avesse preso avvio al di fuori delle aule universitarie, «scemando l’autorità dei professori di storia». Si veda ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit., II, p. 141. 186 ID., Magnati e popolani, cit., p. 98: «Dall’urto dei bisogni dei diversi ordini sociali nasce la vita pubblica, che è vita essenzialmente di lotte; e questo per chi preferirebbe un mondo pieno di pace e di giustizia è un male, ma è un male inevitabile; e, dal momento che c’è, il meglio che possa accadere è che ognuno prenda nella lotta il posto che gli spetta». Sulle analogie meccaniche tra ceto degli ottimati e odierna «plutocrazia», tra lavoratori esclusi dalle organizzazioni corporative e «proletari moderni», infine, tra serrata degli artigiani, in caso di contrasti con il Podestà, e «sciopero», si veda ivi, pp. 26, 30, 149.
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sura in cui il ricorso alle vicende e alle ragioni del presente costituiva un semplice stimolo a ripensare quelle del passato e viceversa, senza mai abbandonarsi al gioco sviante dell’analogia, ma lasciando aperta, nell’assenza di condizionamenti precisi di ordine ideologico e politico, la possibilità di «cogliere il segreto della gestazione oscura e del nascimento faticoso di forme, attività, rapporti nuovi della vita storica», quando «la coscienza nuova che traluce da quelli eventi, le aspirazioni torbide che affiorano risospingono con forza le menti nostre ad un’età che ce ne mette sotto i sensi i precedenti immediati, anche se lontani da secoli»187. E se quindi Salvemini aveva bollato con parole di fuoco le funeste conseguenze del diritto di espropriazione delle proprietà demaniali, agli inizi del XII secolo, che aveva condotto alla proletarizzazione e all’inurbamento delle plebi contadine188, Volpe, senza mettere innanzi giudizi di valore, avrebbe visto in quel fenomeno soltanto la perenne presenza della dialettica tra positività e negatività, che contraddistingue ogni fenomeno storico, ieri, come oggi, dato che, senza dimenticare la «degenerazione fisica e morale» degli humiliores, quella trasformazione comportava «il meraviglioso e rapido sviluppo industriale che non sarebbe avvenuto senza l’abbondanza e il buon mercato della mano d’opera entro le mura: due fatti ripetutisi quasi analogamente, su più larga scala, nel nostro secolo, che deve all’esodo dalle campagne e alla sovrabbondante popolazione della città, là dove l’officina recluta le sue braccia, la meravigliosa civiltà industriale che lo caratterizza»189. Questo impulso a intrecciare ricostruzione storica e biografia dell’oggi non esauriva il ricco bottino culturale del biennio di perfezionamento fiorentino, dal quale Volpe, dopo Crivellucci e più ancora che con Crivellucci, ricavava, in primo luogo, la possibilità di rinsaldare un 187 G. VOLPE, recensione a R. CAGGESE, Classi e Comuni rurali nel Medioevo italiano. Saggio di storia economica e giuridica, Firenze, Galileiana, 1907, I, in «La Critica», VI, 1908, pp. 263 ss.; 361 ss., poi in ID., Medio Evo italiano, cit., pp. 141 ss., in particolare p. 143. Sulla prima età medioevale come metafora delle crisi e dei progressi dell’Italia contemporanea, si veda, L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 30-31; ID., L’Italia in cammino, cit., pp. 69-70; ID., Italia Moderna, cit., II, pp. 46-47, sugli scioperi bracciantili nel Mezzogiorno all’inizio del Novecento: «Spesso le questioni per cui si muovevano gli scioperanti erano antiche. Pareva ascoltar l’eco delle medievali contese tra “domini” o “milites” e loro “homines” o “rustici” […] E la giovane storiografia italiana, volta allo studio dell’età comunale e dei suoi problemi costituzionali e sociali, non poco di ispirazione e calore trasse in quegli anni dal coevo moto contadinesco, fosse rappresentato dai socialisti, fosse anche da non socialisti». 188 G. SALVEMINI, Magnati e popolani, cit., pp. 30 ss. 189 G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 119. Conseguentemente a questo modello, nel già citato saggio sul lavoro del Caggese, la sottomissione economica del contado, e lo sfruttamento delle plebi rurali, erano considerati l’inevitabile prezzo da pagare per il raggiungimento di superiori finalità, relative alla costruzione di un saldo assetto statuale del Comune.
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rapporto privilegiato con la grande storiografia germanica, da lui ritenuta incomparabilmente superiore a quella del nostro paese, almeno per metodo, approfondimento filologico, impostazione teorica190, con la quale proprio Villari aveva da tempo instaurato un legame profondo e diretto191, ora continuato e istituzionalizzato, all’interno dell’Istituto, dal docente di istituzioni medioevali, Alberto Del Vecchio, che forniva nell’«Archivio Storico Italiano» regolari segnalazioni degli studi tedeschi in tema di storia giuridica e istituzionale, indirizzando gli allievi a misurarsi con i testi della Verfassungsgeschichte192. Molta di questa «scienza tedesca» si trasfuse con puntualità nella tesi di perfezionamento, dedicata alle origini del Comune pisano, costruita a partire dai lavori sulla storia toscana e italiana di Julius Ficker e Robert Davidsohn193, ma anche di Overmann, Darmstädter, Sieveking, dai saggi di carattere teorico sparsi sulla «Historische Zeitschrift», dalle grandi monografie di storia economica, finanziaria, istituzionale dell’età di mezzo194, nei confronti delle quali, tuttavia, Volpe avrebbe poi dimostrato un crescente fastidio, per la rigidità categoriale e lo schematismo della tesi sulla gradualità dello sviluppo economico, ritmata in fasi cronologicamente e logicamente consecutive, secondo la cosiddetta «teoria degli stadi»195. Fasti190 Sul punto, ID., Insegnamento superiore della storia e insegnamento universitario, in «La Critica», V, 20 novembre 1907, poi in ID., Storici e maestri, cit., pp. 3 ss. Ma si veda, soprattutto, ID., Rassegna di studi storici, cit., p. 683: «Noi lo riconosciamo volentieri: gli storici di Germania entrano nell’agone più agguerriti e meglio provvisti di armi. La loro coltura paleografico-diplomatica, filologica, economico-giuridica è, in generale, più alta e sicura; coltura generale e coltura speciale insieme». 191 “Un anello ideale” fra Germania e Italia. Corrispondenza di Pasquale Villari con storici tedeschi, a cura di A. M. Voci, Roma, Archivio Guido Izzi, 2006. 192 I. DEL LUNGO, Alberto del Vecchio, «Archivio Storico Italiano», LXXIX/1, 1921, pp. 225 ss. 193 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Napoli, 2 febbraio 1900, ABC: «Mi trovo in una grande città, piena di studiosi e di studenti che dir si voglia, ma senza poter molto approfittare dei mezzi di studio che essa fornisce: un po’ perché alcune di quelle ore che io potrei passare nelle biblioteche debbo impiegarle a rifarmi delle lunghe veglie notturne; un po’ perché, a volere ricorrere ai prestiti delle biblioteche stesse, non si va molto innanzi: solo con parecchio stento la Nazionale mi ha concesso due libri; altri che io chiedevo sono chiusi nelle famose stanze pericolanti. Vuol essere lei così cortese di veder se nella sua bella raccolta di libri si trovano le Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens del Ficker? Se poi avesse la raccolta completa dell’Historische Zeitschrift, potrebbe darmi per qualche giorno i volumi 14, 36 e 47? Mi riserbo poi più tardi di importunarla per la storia fiorentina del Davidsohn. Vede che non la risparmio, Signor Croce. Ma lei che è uno studioso sul serio non vorrà aversene a male». 194 Sul punto, I. CERVELLI, Gioacchino Volpe, cit., pp. 501 ss.; C. VIOLANTE, Gioacchino Volpe e il periodo pisano, cit., pp. 157 ss.; ID., Introduzione a G. VOLPE, Medio Evo italiano, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. V ss. 195 G. VOLPE, Per la storia giuridica ed economica del Medioevo, in «Studi Storici», 1905, poi in ID., Medio Evo italiano, cit., p. 217 ss.
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dio, che anticipava lo scetticismo, non disgiunto sicuramente da interesse, per l’opera di Sombart (Das Moderne Kapitalismus), che gli apparve rinchiusa in nessi causali troppo inflessibilmente consequenziali tra struttura cittadina ed espansione commerciale, tra ascesa del ceto borghese, capitalismo, sviluppo manifatturiero196. Ma quelle letture non furono solo fonti di dati e di puntuali ricostruzioni storiche, a volte accettate, altre, decisamente contestate, ma anche occasione di più penetrante approfondimento storiografico. Da Gierke, Volpe ricavava non solo la tesi dell’origine del Comune come «associazione volontaria giurata», derivante dal principio della «consociazione» (Genossenschaft), in quanto «ente di diritto che si fonda sulla libera unione delle parti contraenti»197, ma anche la più generale teoria, per altro già embrionalmente presente in Villari198, secondo la quale la polarità tra Stato e società doveva risolversi tutta a favore del secondo termine, risiedendo la dimensione giuridica pubblica assai più nel corpo sociale che nell’architettura istituzionale ed essendo la costituzione politica una semplice variabile della dinamica associativa dei gruppi privati199. Da Hintze, gli derivava invece l’indicazione a considerare lo sviluppo interno della società comunale nel quadro più ampio del movimento di espansione e di dominio fuori dai suoi confini, fino al punto da subordinare la «piccola politica» domestica alla «grande politica» internazionale, la quale, alla fine avrebbe determinato la costituzione stessa dello Stato, da intendersi in primo luogo come «garanzia di maggior vigoria all’esterno»200. Con Lamprecth, infine, si materializzava la possibilità di entrare in contatto con la «storia della cultura», arrivata ormai al punto più ampio dello sviluppo, nel tentativo riuscito di trasformare, al di là della lezione di Ranke e contro di essa, l’analisi del passato in storia di gruppi sociali, di collettività, di mentalità, di condizioni materiali, di grandi costanti psicologiche e biologiche, di cicli di lunga du-
196 ID., Il Moderno Capitalismo, in Raccolta di scritti in onore del Prof. Giacinto Romano, Pavia, Fusi, 1907, ivi, pp. 309 ss. 197 ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 42. 198 P. VILLARI, Le origini del Comune di Firenze, p. 34: «Noi non dobbiamo immaginarci che un tal governo avesse l’importanza che hanno i governi delle società moderne, perché in Firenze il governo vero restava sempre nelle mani delle associazioni». 199 G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 43 ss. Sul punto, S. MEZZADRA, Il corpo dello Stato. Aspetti giuspublicistici della Genossenschaftslehre, in «Filosofia Politica», 1993, 3, pp. 15 ss. 200 Ivi, pp. 179-180 e p. 307. Dove il rimando testuale è a O. HINTZE, Staatenbildung und Verfassungsentwicklung, in «Historische Zeitschrift», 1901, 1, pp. 1 ss. Correlate a questa tematica erano le pagine dedicate alla vocazione all’espansione mediterranea del comune pisano, in G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 335 ss.
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rata, nel cui compatto tessuto individui ed eventi, considerati nella loro singolarità, «non sono che quello che sono, al movimento profondo e ripetuto delle maree, le spume che si elevano sulla superficie del mare, che si tingono per un momento di tutti colori dell’arcobaleno e poi si rompono sulla battigia senza nulla lasciare di esse»201. Parole, queste, che bene avrebbero potuto definire anche la storiografia di Volpe, sempre naturalmente inclinata a cogliere la peculiarità delle forze in gioco, la specificità dei singoli e dei gruppi in azione, la tipicità delle istituzioni, ma soprattutto, al di sotto di tutto questo, le grandi correnti sotterranee che determinano il significato ultimo degli eventi, in un processo di ricostruzione e di narrazione che privilegiava l’historia naturans rispetto all’historia naturata, il momento delle origini, contro quello del compimento, non la struttura ma la congiuntura germinale, nella quale era possibile scorgere «la compenetrazione e la fusione delle forze varie della vita», senza distinzione di «cause prime e seconde, sostanza e apparenza»202. Questa tendenza si manifestava già compiutamente nel volume sulla genesi del comune pisano del 1902. Grande libro di storia medioevale, si è spesso detto, ma in realtà grande libro di «storia generale», nel quale l’osservazione del microcosmo toscano offriva la possibilità di isolare, non leggi generali, ma processi esemplari, il cui carattere analogico permetteva di comprendere anche le fasi di sviluppo e di regresso di differenti comunità politiche e sociali, collocate in spazi e tempi diversi. Opera, dove Volpe, senza nulla concedere al classismo volgare della vulgata marxista203, si manteneva fedele alla «storiografia delle antitesi» di Villari, definendo addirittura il tempo della pace civile pure indispensabile alla crescita di un organismo politico, una «momentanea formula di concordia» pattuita tra le classi sociali, «le quali, come le nazioni, sono per loro natura esclusive e combattono sempre per la assoluta vittoria, poco sollecite di una giustizia distributiva che in generale, nella complessa dinamica della società umana, nella quale agiscono prevalentemente quelle che sono le forze elementari della storia, è certo un elemento
201 K. LAMPRECHT, Individualität, Idee und sozialpsychische Kraft in der Geschichte, in «Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik», XIII, 1897, pp. 30 ss., in particolare p. 42. Sulla lezione di Lamprecht, si veda G. CACCIATORE, Crisi dello storicismo e «bisogno» di «Kulturgeschichte: il caso Lamprecht, in «Archivio di Storia della cultura», I, 1988, pp. 257 ss.; ID., Karl Lamprecht und die «Kulturgeschichte», in «Geschichte und Gegenwart», XL, 1992, n. 2, pp. 120 ss.; I «Principi» della Kulturgeschichte, in «Archivio di Storia della cultura», V, 1992, pp. 315 ss. 202 G. VOLPE recensione a R. CAGGESE, Classi e Comuni rurali nel Medioevo italiano, cit., p. 175 203 ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 33 ss. e 37 ss.
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estraneo»204. Opera, soprattutto, nella quale ogni interpretazione o meglio ogni semplificazione di carattere giuridico, economico, sociale o sociologico elideva l’altra e si risolveva in narrazione, non esistendo per Volpe, fattori di sviluppo sovraordinati o subordinati, secondo una precisa gerarchia di cause, ma soltanto un fluire di eventi che testimoniavano, per dirla con Croce, l’impossibilità di «una riduzione concettuale del corso della storia»205. Opera, quindi, destinata, proprio per queste sue caratteristiche, a raccogliere più dissensi e imbarazzo che autentici consensi, come testimoniavano le recensioni di Arrigo Solmi e di Nino Tammasia206, e ancora una successiva nota di Solmi che forniva un severo giudizio del saggio Lambardi e Romani del 1906, e nella quale si affermava che «già altre volte, a proposito del libro sulle istituzioni pisane, ho lamentato che l’Autore abusa di generalità non sempre convincenti, di richiami e di spiegazioni non sempre risolutive, spinto dal desiderio di abbracciare in un fascio l’infinita varietà delle cause e delle produzioni sociali», mentre meglio arriverebbe al suo scopo «se, raccolte come in un ampio contorno le fila delle sue idee generali, procedesse poi per via diretta, con più rapida e serrata dimostrazione dei fatti»207. Era un giudizio che, pur nella disapprovazione, coglieva la specificità di una sensibilità storiografica «che non si lascia mai cogliere nella sua fissità e astrattezza e razionalità formale da quasi nessun documento, ma piuttosto si delinea nella sua comprensività attraverso tutta una casistica di applicazioni»208, la quale avrebbe poi affascinato, stupito, scandalizzato anche i suoi allievi diretti. Anzilotti, che seguì, tra 1905 e 1906, le lezioni di storia moderna svolte da Volpe nell’Istituto fiorentino, confessava di essere rimasto «spaventato dalla grande diversità di spiegazione, d’interpretazione dei fatti storici, quale sentivo dal mio professore», pur confessando che «il metodo che io ora dirò del prof. Volpe rispondeva a certe esigenze della mia mente più di ogni altro, mostrandomi la genesi d’un fatto storico dalle condizioni reali della società e i legami che uniscono i vari fenomeni sociali ad un unico fondamento»209. Stupore e 204 Ivi, p. 308. 205 B. CROCE, Sulla concezione materialistica della storia, cit., p. 3. 206 Contenute in «Rivista Italiana per le Scienze giuridiche», XXXVIII, pp. 412 ss. e
«Archivio Storico Italiano», XXXI; 1903, pp. 461 ss. 207 «Archivio Storico Italiano», XXXVIII, 1906, pp. 183 ss. 208 O. CAPITANI, Gioacchino Volpe, storico del Medioevo, in ID., Medioevo passato prossimo. Appunti storiografici tra due guerre e molte crisi, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 191 ss., in particolare p. 200. 209 Antonio Anzilotti a Carlo Cipolla, 13 giugno 1906, lettera citata in M. MORETTI, Carlo Cipolla, Pasquale Villari e l’Istituto di Studi superiore di Firenze in Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento, Verona, Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, 1994, pp. 33 ss., in particolare pp. 76-78.
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tremore che non avrebbero, invece, colto Giovanni Boine, discepolo di Volpe negli anni milanesi, che avrebbe ricordato quello stesso «metodo» con parole di indubbia efficacia rievocativa. Io non so, con rammarico come si insegni la storia, che senso si dia alla storia nelle altre scuole d’Italia, ma bene so come l’insegna Gioacchino Volpe. Storia calma, storia complessa di molti fattori e di molte correnti intrecciate; storia in cui il fatto (gli uomini, l’avvenimento) scompare in una marea piena di vita (economica, religiosa, civile), che sale, converge, cresce: storia senza scatti, senza bagliori. È un pullulare, un gorgogliare vasto di cose che non son cose (astratte, prese à sé), dove niente soverchia e niente è soverchiato. La vita, la storia vogliono essere abbracciate in tutta l’ampiezza loro, nella loro complessità, nella loro estensione. Non vedi la data, non vedi l’intreccio del particolare, non vedi nemmeno il racconto. Ti si fa vivo innanzitutto il generale carattere d’un tempo, d’un paese. Pare veramente che ti cresca davanti tutto il torbido muoversi d’un epoca nella sua vastità, tutto il torbido e tuttavia diritto e sicuro tendere, convergere della vita in un’epoca data. È una storia dove hai pieno il senso del molto di confuso, del molto d’imprecisabile, che si agita nella vita, dove non si procede con nette definizioni, per tracciati geometrici. Compenetrazione, fusione di tutte le cose, amalgama vario e confuso, come davvero nella vita. La sua è una storia, che par gonfiare, crescere, dal profondo, dal mondo crepuscolare dei bisogni elementari, dalle oscurità del sentimento e delle cieche necessità210.
Sul carattere fortemente atipico e assolutamente antiscolastico di questo approccio al passato avrebbe concordato, ma con diverso segno, anche Prezzolini, paragonando Volpe a Salvemini e insistendo sul fatto che «tanto questi è preoccupato di chiarire, e perciò di semplificare, altrettanto il Volpe è preoccupato di nulla trascurare della realtà e, perciò, di complicare», al punto da «non riuscire a trarre una visione generale, restando invece maestro nelle finezze e nelle complicazioni dei motivi storici»211. Ma al di là di questa e di altre valutazioni, resta il fatto che il volume dedicato al Comune pisano rappresentava già pienamente quella «storiografia inafferrabile»212, che sempre sarebbe sfuggi210 L’intervento di Boine appariva ne «La Voce», III, 28 dicembre 1911, pp. 723-724. Si trattava della recensione al volume di LUIGI ZANONI, Gli Umiliati nei loro rapporti con l’eresia, l’industria della lana ed i comuni nei secoli XII e XIII sulla scorta di documenti inediti, Milano, Hoepli, 1911. 211 G. PREZZOLINI, La cultura italiana, Firenze, Milano, Corbaccio, 19383, pp. 326-327: «Volpe dipinge a velature che si sovrappongono, e il lettore che lo assiste e lo accompagna nel suo lavoro, prova talora un senso di delusione quando ad ogni ripresa, mentre sembra aver raggiunto l’intento, lo vede riprendere il pennello, e dire: “ma c’è ancora questo, e poi quest’altro, e la eccezione della eccezione, e la complicazione religiosa e quella culturale”». 212 Per questa definizione della storiografia di Volpe, si veda G. ROSSETTI, Premessa a ID., Società e istituzioni nel contado lombardo durante il Medioevo: Cologno Monzese, secoli, VIII-X, Milano, Giuffré, 1968, p. 7.
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ta a ogni possibilità di esauriente catalogazione, a ogni inserimento in una precisa tendenza, ivi compresa quella di «scuola economico-giuridica», che era stata formulata da Croce nel famoso saggio pubblicato nel 1920213. Sempre secondo la ricostruzione crociana, di quella corrente, che aveva recepito, rielaborato, infine dissolto e oltrepassato la lezione del materialismo storico214, Volpe sarebbe stato il leader indiscusso, per poi distaccarsene bruscamente, dopo la Grande Guerra, optando per una interpretazione del passato tutta giocata in chiave politica, concentrata sulle vicende dello Stato come espressione della volontà di potenza nazionale215. Lo stesso Volpe, nei primi anni Venti, avrebbe accettato sostanzialmente questa scansione cronologica, che in qualche modo spezzava la sua produzione in due tronconi fortemente divaricati e quasi privi di una soluzione di continuità216. Ma quella lettura era, invece, contestata da Nicola Ottokar, uno studioso a lui molto legato217, che, in 213 B. CROCE, La storiografia economico-giuridica come derivazione del materialismo sto-
rico, dove si discutevano ampiamente i lavori di Volpe e Salvemini. Croce aveva terminato di redigere, il 18 febbraio 1915, questo contributo, che apparirà molto più tardi su «La Critica», XVIII, 1920, pp. 321 ss., e che poi entrerà a far parte di ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit., pp. 143 ss. 214 Ivi, p. 153: «In molte delle loro pagine svanisce ogni ombra del materialismo storico, che in altre persiste, non come consapevole dottrina, ma certo come impronta di quella dottrina che prevaleva al tempo della loro prima formazione mentale». 215 ID., Filosofia e storia (1925), in ID., Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 3 1927 , p. 362. Il giudizio era ribadito in ID., Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia. IV. La storiografia sociale e politica, in «La Critica», luglio 1929, 4, pp. 241 ss. Il saggio, datato agosto 1928, veniva ristampato in appendice a ID., Storia della storiografia italiana del secolo decimonono, cit., pp. 231 ss. 216 G. VOLPE, Premessa a Medio Evo italiano, cit, pp. XI-XII; ID., Prefazione a Momenti di storia Italiana, cit., pp. VII-VIII. 217 Su di lui, il profilo di E. SESTAN, Nicola Ottokar, in «Rivista Storica Italiana», 1959, 1, pp. 178 ss., ora in ID., Storiografia dell’Otto e Novecento, a cura di G. Pinto, Firenze, Le Lettere, 1991. Volpe era intervenuto direttamente presso Gentile, allora ministro della Pubblica Istruzione, per accelerare il conferimento della cittadinanza italiana ad Ottokar, esule dalla Russia a seguito della rivoluzione bolscevica. Si veda Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Ministro della P. I., Roma, marzo 1924, AFG: «Prego la E. V. di voler prendere a cuore la causa del prof. Ottokar suddito russo, che aspira alla cittadinanza italiana. Conosco personalmente il prof. Ottokar che da molti anni si occupa di storia italiana con grande amore e competenza. Il prof. Ottokar parla correntemente l’italiano, ha una conoscenza grandissima anche della nostra storia dell’arte, ha familiarità con la lingua e la storia dei paesi slavi, ha finissima intelligenza, grande simpatia per l’Italia. Chi lo conosce a Firenze (fra gli altri, anche il prof. Anzilotti, il prof. Codignola ecc.) sa che non si è mai occupato di politica e non appare in nessun modo legato politicamente al regime presente di Russia. La cittadinanza italiana che egli chiederà regolarmente, quando abbia certa sicurezza morale che la sua domanda sarà accettata, potrà farlo uscire da una situazione finanziaria precaria, per la quale, recentemente, è stato costretto a vendere anche libri suoi». La richiesta veniva reiterata al nuovo ministro della Pubblica Istruzione, Alessandro Casati, il 16 agosto 1924: «Gentile aveva promesso a me e ad altri di interessarsi per la concessione della cittadinan-
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un denso articolo del 1930, confessava di «non aver mai potuto capire come il Volpe abbia potuto essere associato, come rappresentante di un indirizzo storico, agli esponenti della cosiddetta scuola giuridico-economica, tanto diversa è la sua mentalità, tanto diversa la sua impostazione dei problemi della storia comunale»218. Sicuramente anche Volpe aveva sentito e subito l’«influsso delle formule classistiche», ma nella sua analisi «questi contrasti non hanno mai esistenza propria, non sono mai fine e valore per sé, ma sono sempre concepiti come aspetti o come funzioni di un processo più ampio e complessivo; sono assorbiti e superati nella visione di un tutto, la cui vita e il cui sviluppo sono il vero e continuo oggetto dei suoi studi». A differenza di Salvemini, Volpe rappresentava, nella sua prima monografia, «il Comune primitivo non come centro borghese contrapposto al contado feudale», ma «come organismo più vasto e complesso a cui fin dall’inizio partecipa buona parte del contado e a cui fanno capo vari rapporti e interessi del mondo feudale circostante». Città e campagna, ottimati e nobiltà non erano visti come due elementi antitetici che potevano soltanto dominarsi alternativamente, ma come «vari aspetti di un unico complesso di forze che vanno sistemandosi e organizzandosi nel vasto mondo del Comune». In ogni fase della vita della città pisana, l’attenzione di Volpe era rivolta non tanto alle «antitesi e ai contrasti di classe», che per altri interpreti costituivano la ragion d’essere e il fine supremo della storia comunale, quanto al Comune come «insieme complessivo, come società, come Stato, come organismo pubblico». Anche in questo approccio, forse, poteva ritrovarsi l’eredità del materialismo storico, ma a condizione di ammettere che di quella teoria Volpe avesse recepito «la parte più profonda e più feconda, vale a dire l’idea dell’unità e dell’interdipendenza, e non l’esagerazione delle antitesi e dei contrasti che porta ad una visione isolatrice e materializzatrice». Quello che, da sempre aveva distinto Volpe dagli storici contemporanei era infatti «la visione più generale del processo storico, il senso dell’unità e dell’interdipendenza». E di conseguenza il suo passaggio za al Dott. Nicola Ottokar, suddito russo, ma da tempo dimorante in Italia, studioso di valore ecc. Date le condizioni della Russia presentemente, egli non ha uno o due dei documenti necessari. Ma un Consigliere di Stato, il commissario Giannini, dice che l’ostacolo non è insormontabile, specialmente se vi sarà una pressione del Ministro della P. I. Parlane con Federzoni, ti prego, fagli parola di Ottokar che a Firenze molti conoscono, che è socio della Deputazione di storia patria, che è intimissimo di Anzilotti e che sta per pubblicare un volume di storia fiorentina». La lettera è conservata, in ACS, Fondo Alessandro Casati, d’ora in poi FAC. 218 N. OTTOKAR, Osservazioni sulle condizioni presenti della storiografia italiana, in «Civiltà moderna», ottobre 1930, pp. 927 ss., ora in ID., Studi comunali e fiorentini, Firenze, Sansoni, 1948, pp. 92 ss.
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dalla storia comunale alla storia delle nazioni non poteva essere letto come un spostamento dalla storia sociale alla storia politica: «giacché la storia dei Comuni, così almeno come credo che sia stata concepita da Volpe, è anch’essa storia politica e non presuppone affatto nel suo cultore uno scarso senso dello Stato o un predominio del concetto di classe su quello di nazione (nazione comunale, s’intende)». Era una conclusione, questa, che Ottokar ribadiva nella lettera dell’agosto 1930, ancora una volta contro l’interpretazione di Croce ma ora anche contro alcune perplessità dello stesso Volpe. Vedo dalla Sua lettera che esiste realmente una divergenza fra noi nei riguardi della Sua opera prebellica. Ella dice infatti che opere storiche vere e proprie le ha scritte solo negli ultimi anni, mentre quelle di prima non erano storia di questo o quel periodo o paese, ma studi storici volti a lumeggiare certi momenti e certi aspetti ecc. Ho riletto recentemente alcune sue vecchie opere, e son più che mai disposto ad oppormi a simili limitazioni. Non sono momenti e aspetti, ma è sempre storia generale quella che Ella studia fin dalla sua prima opera giovanile sul Comune pisano. Se non si capisce questo, non si capirà mai la distanza che la separa da Salvemini e dagli altri coi quali l’hanno così impropriamente accomunato. Si metta un po’ nel mio ordine di idee (che consiste nel distinguere la materia degli studi, che può essere quanto mai limitata, dall’atteggiamento, dallo spirito che li informa): e dovrà ammettere che questi momenti e aspetti non la hanno mai interessati per se stessi, ma appunto come momenti e aspetti di un tutto più generale. I Magnati e Popolani di Salvemini (a parte i suoi errori e difetti, che qui non mi interessano) è una opera quanto mai “speciale”, limitata, particolare, mentre il Suo libro su Le istituzioni comunali a Pisa è una delle opere storiche più generali che esistano in Italia. Non capisco come questo fatto, che per me è di evidenza immediata e palmare, non sia stato messo in rilievo né da altri né da Lei stesso. Per questo mantengo quello che ho scritto nell’articolo intorno alla Sua prefazione al Medio Evo italiano: che Ella cioè ha “quasi denigrato” la Sua opera precedente, attribuendole i difetti ed i limiti della scuola economico-giuridica. E anche ora Ella dice nella sua lettera che opere storiche vere e proprie le ha tentate solo negli ultimi anni, mentre quelle di prima della guerra non erano storia di un periodo o di un paese, ma ne lumeggiavano solo certi momenti e aspetti. Ma nel trattare questi momenti e aspetti, Ella aveva sempre presente il tutto (e non solo in forma latente), la forma di vita storica di un periodo o di un paese, e questo, appunto, era il vero Suo obiettivo! A convincersene basterebbe leggere anche superficialmente qualsiasi dei Suoi scritti più apparentemente “particolari” di quegli anni. Questa è sintesi, è storia generale, non ostante le apparenze. Anzi direi (ma sarà forse una mia personale predilezione) che è la forma più viva, più perfetta di sintesi, se non per il gran pubblico (che non può leggere con profitto opere di questo genere), almeno per gli “iniziati”. Io mi trovo dunque in contrasto, riguardo al Suo “svolgimento spirituale”, non solo col Croce, ma anche un po’ con Lei stesso. Di Croce non accetto né la caratteristica del Volpe prebellico, né la critica del Medioevo, la quale per me non ha nessun valore, in quanto par-
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te da un determinato (e limitato) atteggiamento filosofico e non da un criterio di sensibilità storica. Con Lei il mio disaccordo è di altro genere. Accetto pienamente il Suo Medioevo, e in genere il Volpe post-bellico. Ma non lo voglio contrapporre al Volpe prebellico. Conosco un solo Volpe, e vedo il Medioevo (a parte naturalmente lo svilupparsi delle possibilità di produzione cogli anni e colle esperienze e anche coll’allargarsi delle conoscenze e dell’esperienza storica) delinearsi già nell’opera giovanile sulla costituzione pisana219.
Se dunque il volume pisano conteneva in nuce lo svolgimento ulteriore di tutta la storiografia di Volpe220, poco davvero potevano aggiungere a quella già compiuta formazione i due semestri di studio trascorsi a Berlino, dalla fine dell’ottobre 1902 all’agosto 1903. Durante quel soggiorno, Volpe riceverà, come meglio vedremo, una lezione che avrebbe interessato più la congiuntura politica attuale che la storia passata, nonostante il contatto diretto con i massimi studiosi tedeschi: Schmoller, Gierke, Brunner, Breysig, amico di Lamprecht ed esponente di punta della «storia della cultura»221, di cui gli spiacque però l’acceso nazionalismo, che emergeva con forza da un’indagine tutta concentrata sui temi della Völkerpsychologie222. Il grande o piccolo tour tedesco non distraeva comunque Volpe dalle prospettive e dalle preoccupazioni relative al suo futuro accademico, come dimostrava la lettera spedita a Fortunato Pintor nel marzo del 1903.
219 Nicola Ottokar a Gioacchino Volpe, Firenze, 25 agosto 1930, CV, dove il rimando era B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit, II, p. 238, dove si definiva il Medioevo di Volpe del 1926 un «un medioevo economico-giuridico o, se piace, meglio, economico-politico», nel quale «non si ha non propriamente una realtà, ma una visione unilaterale, e perciò astratta, della realtà; quasi il corpo della storia senza l’anima, lo spettacolo della lotta e delle sue vicende, del cadere e del risorgere, del dividersi e del riunirsi senza che si conosca il dramma intimo che è sotto questo profilo esterno di dramma». 220 Alla stessa conclusione sembrava essere pervenuto anche Volpe nella lettera a Walter Maturi del 21 luglio 1928, ora in Gioacchino Volpe e Walter Maturi. Lettere 1926-1961, a cura di P. G. Zunino, in «Annali della Fondazione Einaudi», XXXIX, 2005, pp. 245 ss., in particolare p. 288, dove si parlava dei miei «primi lavori: nei quali son già quelle che poi saranno le mie caratteristiche. Rimando al volume su le istituzioni pisane del 1902, ai miei saggi su Bizantinismo e Rinascenza, su Arias ecc., 1904-1905». 221 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Berlino, 6 novembre 1902, ABC. 222 Si veda la lettera di Gioacchino Volpe alla futura suocera, Maria Serpieri, Berlino, 3 marzo 1903, CV: «Parleremo poi a voce di questi tedeschi; ma sa che in questi quattro mesi ne ho avuto abbastanza di sentirli ripetere in tutti i toni e ad ogni proposito, i vanti della loro incontrastata grandezza, della loro potenza, della loro civiltà ecc. ecc.? Pochi giorni fa all’Università, il prof. Breysik [recte: Breysig] che fa un corso sulla civiltà germanica e civiltà dei popoli latini, in una assai discutibile analisi chimica degli elementi che costituiscono l’arte di Dante e dei maggiori pittori e architetti nostri del ’400 e del ’500, ha voluto dimostrare che quanto in essi è nuovo, è forte, è passione… (che cosa ci rimane ancora?) è germanico, l’altro è latino. Qui veniamo all’assurdo elevato all’ennesima potenza».
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Ora mi trovo a Dresda, dove mi tratterrò dodici o quindici giorni e cercherò di lavorare un po’, se pure è possibile con questo mio continuo muovermi. Sai che Dresda arieggia Firenze? A parte la grandezza (l’una è 3 volte più popolosa dell’altra); ma Dresda è pure essa la città elegante della Germania, col suo fiume in mezzo, i suoi ponti, i suoi colli, i suoi ricchi musei, la sua irregolarità. Pregio grandissimo, quest’ultimo, per noi Italiani che non amiamo troppo le città costruite sopra un foglio di carta prima che sul terreno, cioè con la riga ed il compasso. Ed io mi son trovato subito come a casa mia, dopo un giorno andavo da per tutto senza smarrirmi, mentre a Berlino per un mese mi sono smarrito come un provinciale, negli ampi e monotoni quartieri nuovi. Ma io non ti scrivo solo per chiacchierarti di Berlino e di Dresda. Ti dirò anche un’altra cosa e tu potrai darmi un consiglio. Da sei mesi, io sto sotto la persecuzione del Crivellucci che mi scrive e riscrive di chieder la libera docenza, a Pisa o a Firenze. Io nel dicembre scorso esposi ciò a Del Vecchio e ne ebbi la risposta che mi aspettavo e che più si accordava coi miei convincimenti: cioè, pur non dicendomi che questa licenza mi sarebbe negata, mi consigliava di aspettare ancora un po’ e pubblicar prima il lavoro a cui ora attendo. Il Crivellucci a cui io scrivo tale risposta non si dà per vinto e mi dice di far valere presso il Del Vecchio la ragione del prossimo concorso per Napoli a cui io dovrei, secondo lui, presentarmi per avere una eleggibilità. Ora francamente, io son grato al Crivellucci di questa sua premura per me e della stima che mi dimostra; ma questa stima è eccessiva ed egli si illude un po’ sulla mia possibilità di far presto grandi passi. Io di ciò son fermamente convinto e riconosco il consiglio del Del Vecchio che è anche quello del Villari, assai opportuno; per quanto sia anche convinto che questi due per certe loro idee e direi quasi preoccupazioni scientifiche siano propensi a quotare il mio lavoro sulle istituzioni pisane un punto meno di quel poco che la generalità degli studiosi potrà quotarlo. Ma è pur sempre vero che presentarsi ad una docenza e, anche peggio, ad un concorso di straordinario solo con il lavoretto del Valentino, con la memoria, abbastanza buona ma poca cosa, sui Longobardi, col magno lavoro sulle istituzioni e con l’altra memoria, ora pubblicata sugli «Studi Storici», su «Pisa, Firenze e l’Impero», mi pare non molto serio. Io che facevo risate e meraviglie di certi candidati che si presentavano al concorso universitario di Catania! Ora, oltre il lavoro sulle teorie politiche, ho in gestazione una memoria sui «Lambardi in Toscana nel XII secolo», che sarà uno studio sulla piccola nobiltà rurale, ed un articolo in cui cerco di porre le questioni fondamentali del sorgere del comune. Ma quando verranno alla luce? Questi due ultimi mesi ho lavorato poco e con poco profitto, ora non ho speranze di poter rimettere il perduto, e poi questo lavorare in fretta per giungere il giorno prima della chiusura di un concorso a presentare degli scritti abborracciati, a me non va ed è veramente una indegnità da cui io prego il buon Dio che mi preservi sempre perché tengo troppo a non confondermi con certi volgari ambiziosi. A te cosa pare di tutto questo? Aggiungi che ora la libera docenza si deve conquistare con un esame a cui io non so se sono preparato perché non so su che cosa verta. Lo sai tu? E sai quando scadano i termini per la presentazione delle domande? Se puoi rispondere a queste domande, mi sarà utile per prendere una decisione. Sei mai uscito in questi discorsi con Del Vecchio o Villari? Io starò qui a Dresda fin verso il 22 o 29 mar-
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zo, tu quindi hai tempo a rispondermi. Ti prego di non parlar con altri di queste cose, anche perché ci son di mezzo dei professori; e poi io non voglio per niente mettermi, agli occhi di chi mi conosce, nelle file degli aspiranti a cattedre ipotetiche, macerati dallo sdegno contro le commissioni dei concorsi!223
Nelle lettera, dove si parlava di nuovi lavori appena progettati o già in via di avanzata elaborazione, si faceva cenno anche alle perplessità dell’ambiente fiorentino, di Villari e in particolare di Del Vecchio, per una troppa rapida progressione di carriera dello scolaro pisano224, ma anche in generale sulla sua produzione scientifica. Perplessità, che lasciavano presagire quello che sarebbe stato l’infelice esito del concorso di abilitazione, che Volpe comunicava a Pintor, nell’autunno dello stesso anno, senza eccessive recriminazioni sul giudizio della commissione, ma con una punta di comprensibile amarezza. Ed il mio concorso di Firenze? È caduto, caro Pintor, è caduto, se non ignominiosamente, certo con ferite assai gravi. Il colpo è stato doloroso per me, quantunque non inaspettato del tutto: capivo più lucidamente che non il prof. Crivellucci quanto vi fosse di manchevole nei due miei lavori di laurea e di abilitazione, da cui principalmente doveva prendere norma il giudizio dei professori di Firenze. Questo è il fatto, ma io ho rimesso la rivincita ad un altro anno. Per ora penso a compiere i due lavori e perciò sono risoluto di rimanere a Pisa a tutti i costi. Mi hanno offerto un posto nel ginnasio di Pausula (Macerata), ma lo ho rifiutato. Ora ho concorso nel ginnasio di Pisa ed aspetto. Siamo una ventina di concorrenti, che io vinco tutti nei titoli scientifici; ma vi sono già dei professori che mi faranno la festa. Insomma tutto è andato maledettamente male, anche peggio di quel che io aspettassi e meritassi. Fortuna che io non sono animo da avvilirmi facilmente quantunque non sappia come farò a mantenermi un anno a Pisa. Ma è vero che una piccola particella dell’avvenire spetta a chi si sacrifica nel presente e sa attendere?225
223 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, Dresda, s. d. [ma marzo 1903], in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Fondo Fortunato Pintor, busta 9, fascicolo 401, d’ora in poi FFP. 224 Il 30 agosto 1903, Del Vecchio scriveva a Villari, esprimendo la sua contrarietà alla concessione della libera docenza a Volpe, che «è bravo ma ha troppa fretta». La lettera è conservata in CPV. 225 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, s.l., s.d., FFP
2. PASSATO E PRESENTE 1. Continuavano, dunque, per Volpe gli anni dell’attesa, sia pure di attesa vigile, operosa, che si era intrecciata e ancora si intrecciava con un impegno didattico intenso ma discontinuo. Prima, nell’insegnamento secondario: a Città S. Arcangelo, in Abruzzo e a Pisa, nella Scuola magistrale Fibonacci, tra 1900 e 1903. Poi, ottenuta la libera docenza, ancora a Pisa, in quello universitario e normalistico, nel 1904, «in sostituzione di Crivellucci»; infine nell’Istituto di Studi superiori di Firenze, nell’anno accademico 1905-1906, come docente di un corso libero di storia moderna, insieme a Nicolò Rodolico1. In questo stesso periodo si consolidava il rapporto con Croce, conosciuto nel 1900 grazie a Giustino Fortunato2, nel breve periodo di lavoro nella redazione del «Mattino» di Edoardo Scarfoglio, figlio di una sorella di Giacomo Volpe3. Quel legame con l’inquilino di Palazzo Colamarino si faceva sempre più stretto grazie alla comune amicizia con Giovanni Gentile e diveniva in breve un dialogo inter pares sulla storia e sulle sue ragioni intellettuali e politiche, poi proseguito senza interruzioni fino al 1928, attraverso uno scambio epistolare di quasi un centinaio di lettere, che ci restituiscono perfettamente i termini di quel sodalizio. Da esse traspare, infatti, che se Volpe vedeva enunciato da Croce, a livello di alta consapevolezza teorica, il modello della sua storiografia imprendibile, anch’essa fondata su di una «concezione realistica della storia, la quale segna le opposizioni a tutte le teologie e metafisiche»4, Croce, per sua parte, come poi avrebbe sottolineato Gramsci, scorgeva in Volpe la possibilità di tradurre nel campo della ricerca concreta una profonda revisione del materialismo storico, in opposizione alle implicazioni più direttamente 1 G. VOLPE, Ritorno al paese, cit., p. 15-16. Si veda anche Gioacchino Volpe a Walter Maturi, 7 gennaio 1946, in Gioacchino Volpe e Walter Maturi. Lettere 1926-1961, cit., p. 322 2 ID., La “questione meridionale” oggi, in «Pagine Libere», gennaio-maggio 1959, p. 30. 3 ID., Ritorno al paese, cit., p. 13-14: «Si aggiunge, dopo la laurea, un anno passato a Napoli, presso “ Il Mattino”, addetto io, a modesti compiti: ora dar una mano al manipolatore del notiziario politico che veniva verso la mezzanotte; ora correggere bozze; qualche volta aiutare l’impaginatore». 4 B. CROCE, Sulla concezione materialistica della storia, cit., p. 20.
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politiche di quel metodo e contro la sua deriva in chiave di sociologismo positivistico5. La polemica crociana contro la sociologia «poco storica megera» avrebbe trovato in Volpe il suo indiscusso campione, come emergeva chiaramente nella prefazione alle Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni italiani del 19056, che riprendeva ad litteram i contenuti della corrispondenza inviata da Berlino a Croce, alla fine del marzo 1903, per ringraziarlo dell’invio del primo fascicolo della «Critica», dove campeggiava una corrosiva recensione alla recente silloge di Loria dedicata alla dottrina di Marx7. Ho avuto questa mattina il 1° numero della sua rivista e voglio subito ringraziarla; ringraziarla del gentile pensiero e del piacere vivissimo che la lettura del fascicolo mi ha procurato. Non avviene tutti i giorni di leggere pagine sulle quali ogni rigo porti l’impronta di un pensiero robusto ed il pensiero sia con tanta lucidezza espresso. Non si potrà mai abbastanza lodare il proposito di risvegliare in Italia gli studi filosofici che soli danno la possibilità di rinvigorire tutta la nostra produzione scientifica, danno l’abitudine e l’attitudine di concepire largamente le cose, nel loro giusto valore, perché non staccate dall’insieme. Io, modestissimo cultore di studi storici, sento ogni giorno di più il danno che ci viene dalla mancanza di qualunque fondamento di studi filosofici. Con tanto maggiore interesse d’ora innanzi seguirò la sua Rivista in quanto già vedo che essa ingaggerà subito battaglia con certe modernissime tendenze sociologiche e pseudosociologiche che con facili generalizzazioni ed enunciazioni di leggi storiche ad ogni piè sospinto minacciano di farci tornare molto indietro, peg-
5 Si veda la lettera di Gramsci a Tania Schucht del 2 maggio 1931, in ID., Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 1965, p. 615: «Ho già accennato alla grande importanza che il Croce assegna alla sua attività teorica di revisionista e come, per sua stessa ammissione esplicita, tutto il suo lavorio di pensatore in questi ultimi venti anni sia stato guidato dal fine di completare la revisione fino a farla diventare liquidazione. Come revisionista, egli ha contribuito a suscitare la corrente della storia economico-giuridica (che, in forma attenuata, è ancora oggi rappresentata specialmente dall’accademico Gioacchino Volpe)». 6 G. VOLPE, Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni italiani, Pisa, Nistri, 1905, poi in ID., Medio Evo italiano, cit., p. 39: «Mi sono guardato dal generalizzare. Nell’esposizione sistematica non sono stato proclive a costruire serie di sviluppo, o almeno non ho dato loro valore assoluto. Nella storia non dobbiamo vedere successione di fatti, di cui ognuno dipenda da quello che, cronologicamente, lo precede, ma interdipendenza di fatti, con reciproco rapporto di causa ed effetto. In altre parole ho cercato di essere più storico che sociologo, cioè costruttore di schemi. Contro certe intemperanze di metodo, così detto sociologico, io non posso che non aderire, a quanto son venuti scrivendo, negli ultimi anni, in Italia il Croce ed in Germania il Below, armati l’uno di pensiero filosofico, l’altro – pur non essendo giurista – di solida preparazione giuridica». 7 B. CROCE, recensione a A. LORIA, Marx e la sua dottrina, Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1902, in «La Critica», I, 1903, 1, pp. 148-149, nella quale così si concludeva: «La raccolta degli scritti del Loria intorno al Marx mi riesce, dunque, assai gradita, perché costituisce come un’appendice di pièces justificatives al mio saggio su le Teorie storiche del prof. Loria».
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gio ancora, di tutte le nostre idee in fatto di metodo storico e di ricerca. Certi giudizi, poi, espressi da lei qua e, là nello studio sul Carducci e nella recensione del Lisio, mi hanno raddoppiato il desiderio di conoscere la sua Estetica8.
Da questo momento, Volpe diveniva collaboratore fisso della «Critica», dispiegando un’attività di recensore che sempre più si sarebbe configurata come formulazione di precise indicazioni relative all’impossibilità di racchiudere l’analisi del passato in una visione rigidamente sistematica, composta da leggi, regolarità, occorrenze calcolabili o addirittura prevedibili in altri contesti storici. Dalla nota relativa al saggio di Hanauer, Das Berufspodestat im 13en Jahrhundert, che immediatamente ricevette l’apprezzamento di Croce9, Volpe passava a formulare, come si è già ricordato, la sua personale e radicale resa dei conti con la tendenza völkisch della storiografia teutonica, individuata nel volume di Neumann sul Byzantinische Kultur und Renaissancekultur, che veniva seccamente definito l’ultima degenerazione di «un peregrino metodo storico-critico, cominciato al principio del secolo scorso, quando gli storici tedeschi non videro nel mondo se non la loro razza e la loro civiltà, e quasi fecero coincidere i confini etnici della Germania con i confini fisici del globo»10. L’entusiastica accoglienza con la quale Croce riceveva quella recensione, definendola «stupenda»11, incoraggiava Volpe ad
8 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Berlino, 25 marzo 1903, ABC. Nelle pagine che seguono tutta la corrispondenza, indirizzata da Volpe a Croce, s’intende riferita, senza ulteriori indicazioni, a questo insieme documentario. 9 G. VOLPE, recensione a G. HANAUER, Das Berufspodestat im 13en Jahrhundert, poi pubblicata nella «Critica», II, 1904, pp. 137 ss. Sul successo di quella prima prova, si veda Giovanni Gentile a Benedetto Croce, 21 dicembre 1903, in G. GENTILE, Epistolario II. Lettere a Benedetto Croce. Dal 1901 al 1906, a cura di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni, 1974, p. 155 e la lettera di Volpe a Croce del 3 aprile 1904: «Son contento che la recensione sia piaciuta ad altri e più ancora, che sia piaciuta a lei. Ne farò altre, ove mi si presenti l’occasione di farlo; anche lei se ha qualche libro su cui crede possa io dire qualche cosa sensata – i miei studi maggiori non scendono pur troppo oltre il XV secolo – mi farà piacere mandarmelo o indicarmelo perché io me lo procuri. Vedo con piacere i progressi della sua Critica, per la quale io non ho parole di ammirazione che bastino» 10 G. VOLPE, Bizantinismo e Rinascenza, cit., p. 107. 11 Per il giudizio di Croce su quella nota, si veda la lettera a Volpe del 4 agosto 1904, CV: «Gentile Amico, lasci che le dica che la sua recensione al Neumann mi sembra semplicemente stupenda, e lasci che la ringrazi del prezioso lavoro che ella mi ha fornito per la Critica, e che è così bene intonato all’indole di essa. Vi sono cose che da un pezzo desideravo fossero inculcate agli storici italiani e stranieri; ed Ella ha fatto come non si poteva meglio. Lo scritto è troppo lungo perché si possa inserire nel fasc. di settembre che è già in tipografia; ma lo metterò senz’altro in quello di novembre. Sabato mi propongo di partire per la mia solita villeggiatura di Meana. Una cordiale stretta di mano dall’affezionatissimo suo B. Croce». Su quel giudizio, si veda anche Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Pisa, 23 ottobre 1904, AFG: «Ti ringrazio delle belle parole che hai per me e godo che la mia piccola ricer-
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ampliare la sua collaborazione anche al piano editoriale, con la proposta, espressa nel giugno 1905, di pubblicazione, per la Biblioteca storica di Laterza, di un volume di Ricerche sull’origine e sul primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda (sec. IX-XII), del quale l’autore inviava un dettagliato sommario, da inserire, a mò di «annuncio», in uno dei prossimi numeri della «Critica». I. Fatti e condizioni precedenti e preparatorî al Comune: 1. La grande proprietà, specialmente ecclesiastica del IX e X secolo, considerata come fatto economico, sociale, politico. 2. Forma e limiti dell’ordinamento curtense in Italia. 3. Fuori della corte; le forme varie del lavoro artigiano, degli scambi, mercanti e porti attorno al 1000. 4. Laici contro chierici; disfacimento della grande proprietà ecclesiastica; formazione e sviluppo di nuove classi di proprietari e vassalli; la crisi fra i ceti servili. 5. Vecchi e nuovi centri di popolazione, le città, i castelli, i borghi, le ville; loro ordinamenti giuridici, attività, fisionomia sociale. 6. Vincoli e rapporti di vario diritto pubblico, feudale, curtense, familiare entro questi grandi e piccoli raggruppamenti di popolo; le terre comuni: diritti d’uso collettivo, possessi comuni, proprietà comuni, proprietà comuni di diritto privato e di diritto pubblico. II. Il Comune: 1. Il momento essenziale nella formazione del Comune. 2. Vincoli e rapporti esterni, indiretti, signorili e parentali, che diventano interni, volontari, personali. Quando, come e per quali impulsi. 3. Il Comune, fatto nuovo, associazione libera, giurata di carattere originariamente privato. 4. Forme varie di comuni e diversa struttura sociale loro; fondamentale divisione loro in due tipi, comune rurale e comune composto (città, castelli, borghi). 5. Origine e natura del potere consolare. 6. Vescovo, visconte, consoli. III. Questioni diverse per la storia dell’Italia comunale e della coltura italiana nel XI-XII secolo: 1. Gli albori delle teorie del diritto naturale, di sovranità popolare, di contratto sociale, nei pubblicisti dopo il 1000, e loro connessione con i fatti storici. 2. Il Comune e la sua storia sotto l’aspetto etnico. 3. Diritto romano e diritto longobardo, primi principi della Rinascenza quattrocentesca. 4. Fattori reali ed ideali della unificazione e del sentimento nazionale italiano. 5. Secoli XI-XII, secoli di origini; economia fondiaria ed economia del denaro; i principi del capitalismo moderno. 6. Associazioni mercantili e corporazioni di mestiere12.
ca abbia il tuo gradimento. Il giudizio tuo e di Croce è cosa di cui ogni scrittore deve tenersi onorato, se favorevole. Ma è ancora troppo povera cosa». Croce ritornava anche successivamente su quel giudizio, in ID., Storia della storiografia italiana del secolo decimonono, cit. II, p. 147: «Germanesimo e latinità e altrettali fantasmi, che visitavano ancora le storie del Villari e del Lanzani, e diventavano lotta dell’eroico contro l’abietto nelle pagine del Monfredini, sono nel Volpe esorcizzati e discacciati, non solo dalla storia delle origini comunali, ma anche da quella della genesi del Rinascimento, dove da taluni critici tedeschi erano stati introdotti». 12 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa, 22 giugno 1905, dove si concludeva: «Io credo di poterne cominciare la stampa ai primi mesi del 1906, contenendomi nei limiti delle 350-400 pagine da lei fissato». Il progetto del volume tornava anche nella corrisponden-
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Quel progetto non avrebbe avuto seguito13, come non si sarebbe realizzato il desiderio di Volpe di vedere commentato da Salvemini il suo lavoro sul Comune pisano, sulle pagine della rivista di Croce14. Andava a buon fine invece il proposito più volte annunciato di recensire lo studio di Gino Arias, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni15, interamente costruito a partire dalle tesi
za con Gentile del 29 febbraio 1905, AFG: «Ho inteso quel che mi dici per la stampa del lavoro nella collezione del Croce. Io conto di finirlo entro l’anno corrente e cominciar la stampa al principio del 1906. Per l’ampiezza, credo che non farò fatica a tenermi sulle 350 pagine. Saluta il Croce, e sappimi dire qualche cosa». Si veda anche la lettera dell’aprile 1905, ivi: «Ti ringrazio con tutto l’animo dell’augurio che mi fai; ed io lo accolgo come il più corrispondente alle mie aspirazioni. Così mi bastasse la forza e l’ingegno di portare a termine anche una parte sola di quel che tu mi dici! Ho inteso del Croce; forse non ha torto e poi si andrebbe troppo per le lunghe. In quanto al lavoro cui attendo, io non ho impegni con editori. Già difficilmente potrei disporre delle centinaia di lire necessarie a stampar un volume di 300 o 400 pagine. E certo sarei contentissimo se il Croce me lo accogliesse nella sua Raccolta. Te ne ha parlato? Sappimene dire». 13 Del progettato lavoro ci resta soltanto l’introduzione, che costituiva il testo della prolusione al corso libero tenuto da Volpe a Pisa nel 1904: Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni Italiani. (Secoli X-XV), Pisa, Nistri, 1904, poi in ID., Medio Evo italiano, cit., pp. 1 ss. Nella ristampa in volume, il saggio recava il sottotitolo: Disegno di un’opera… che non è stata mai scritta. Sul punto, Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 25 gennaio 1905, AFG: «Io ti prego di gradire un opuscolo che ora ti spedisco. È la prima lezione – non dirò prolusione – tenuta a Firenze per il Corso libero che ora viceversa diventa il Corso ufficiale di Pisa, dove ho avuto l’incarico di supplire il Crivellucci. Quell’opuscolo è il programma di un lavoro che ora sto preparando. Io anzi avevo pensato di chiedere a voi se poteva per la sua indole comparire nella Critica; ma poi avevo fretta di farne un dono a persona amata e lo ho subito fatto stampare per conto mio. Del resto, se ti sembrasse opportuno, saremmo sempre in tempo. L’opuscolo non è diffuso. Ne ho date 3 o 4 copie ad amici. Naturalmente, per una rivista ci sarebbe da ritoccarlo. Leggilo e poi sappimi dire qualche cosa. E ti prego di far avere al Croce uno dei due opuscoli». 14 Si veda la lettera a Croce del 3 aprile 1904: «Desidererei che persona importante vi dicesse qualche cosa del mio lavoro sulle Istituzioni ecc. Se lei pregasse qualcuno, le sarei grato». Sul punto, Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, 11 maggio 1903, in G. GENTILEF. PINTOR, Carteggio, cit. pp. 116-117: «Scrissi al Salvemini, secondo che si era convenuto. Mi ha risposto ieri che parlerà molto volentieri nella Critica del volume di Volpe: ma che bisogna gli diate tempo: dice che il volume sulla Rivoluz. Francese gli occupa tutto il resto dell’anno. Subito dopo il primo lavoro sarebbe per voi. Ma s’acconcerà il Croce a così lunga attesa? Comunicherò anche a lui la risposta del Salvemini». 15 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa 22 giugno 1905: «Io le manderò per il fascicolo dell’agosto-settembre la recensione del Mondaini e quella di un recente libro dell’Arias che si presta a molte critiche, se mai altri avesse impegnato questo libro, abbia la bontà di avvertirmene». Si veda anche la lettera del 7 luglio: «Io le scrissi parecchi giorni addietro, comunicandole il titolo del lavoro ed un sommario, nel caso lei avesse voluto darne annunzio; in più, chiedendole se potevo per la Critica recensire l’ultimo libro dell’Arias, Il sistema ecc. (lungo e roboante e misterioso titolo). Vi è altri che si è addossato l’incarico? In caso negativo, io le manderei questa e la recensione del Mondaini, per il numero del settembre-ottobre».
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di Loria, a cui Volpe dedicava uno stroncatorio resoconto che veniva infine consegnato a Croce alla fine di luglio del 1905, per apparire sulla «Critica» nel corso dell’anno successivo16. Il libro di Arias sicuramente si prestava a un giudizio severo, per la sua pretesa, che riprendeva con maggiore rozzezza e sicumera quella stessa espressa da Salvemini, di trovare, come criterio di obiettività scientifica della storia, una legge regolatrice unica di tutti i diversi e disparati fatti sociali, da rinvenire nella presunta razionale e naturale necessità di un’autotutela delle energie produttive, indipendente dall’azione umana17. In questo mondo, ogni evento storico, ogni istituto giuridico, politico, sociale, ogni creazione culturale era funzione primaria, secondaria o terziaria della «costituzione economica», secondo una chiave di lettura generale che degradava il materialismo storico a «naturalismo storico-sociale», letto in pura chiave biologica18. In conformità a questo metodo d’indagine, il lavoro dello storico perdeva la sua specificità e si riduceva a essere del tutto gregario da quello dell’economista e soprattutto del sociologo, come dimostrava, in quegli stessi anni, la vera e propria diaspora di molti giovani storici e storici del diritto dalle sedi specialistiche alla «Rivista italiana di sociologia»19. Di fronte a questa pericolosa tendenza, Volpe attuava un vigoroso contrattacco per tutelare le ragioni della pura storia e giudicava il lavoro di Arias, a cui intanto Loria aveva tributato un elogio incondizionato20, un tentativo mal riuscito, che, proprio per la sua smania di essere assieme «opera di storia e di ben intesa sociologia», conteneva «troppo apriorismo, troppo dogmatismo, troppo sistema, troppa geometria, troppo formulario», presumendo di poter restituire nell’analisi del passato una «precisa gerarchia di cause generali», senza rendersi conto 16 G. VOLPE, recensione a G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni, Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1905, in «La Critica», IV, 1906, pp. 33 ss., poi in ID., Medio Evo italiano, cit., pp. 99 ss. 17 G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni, cit., pp. 381 e 391, dove si sosteneva la necessità di «dimettere l’orgoglioso e irragionevole preconcetto che l’uomo sia il creatore capriccioso della sua storia», essendo la dinamica sociale «un fenomeno tutto naturalista e, a mio modo di vedere, indipendente da ogni influsso dell’azione consapevole». Sul punto, A. SPICCIANI, Il Medioevo negli economisti italiani dell’Ottocento in Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, cit., pp. 373 ss. 18 G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica, cit., pp. 379 ss 19 M. C. FEDERICI, Alle radici della sociologia in Italia. la “Rivista italiana di sociologia”, Milano, Franco Angeli, 1990. 20 Nel resoconto di Loria (apparso in «La riforma sociale», XII, 1905, pp. 409 ss.), si lodava l’ardimento concettuale del lavoro di Arias, che si fondava sull’indiscutibile principio che «le istituzioni sociali di un’epoca erano il prodotto necessario dell’assetto economico in esso vigente».
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che il tessuto storico poteva essere parzialmente ricomposto, invece, soltanto a partire dal «semplice coordinamento di fatti e studio di rapporti, che possono essere assai diversi nella società umana e, in special modo, in una determinata società, di un dato tempo e luogo». Procedere altrimenti, come Arias ambiva di poter fare, equivaleva, infatti, a perseguire «una riduzione e semplificazione dei fatti, fino all’assurdo, e tale da non farceli riconoscere più»21. A Volpe replicava Arias, con non minore asprezza, definendo le sue obiezioni come il risultato «del sovrano dispregio del letterato per l’economia classica e per tutti i suoi cultori, da Adamo Smith a Wilfredo Pareto», in virtù del quale «tutto il metodo dell’indagine positiva» veniva tacciato di irragionevolezza22. E ad Arias controbatteva ancora Volpe, in una nuova nota apparsa sulla «Critica», sempre nel corso del 1906, definendo la risposta di Arias «più spiritosa che esauriente», pervasa come era da «certo semplicismo e presunzione, ingenua credenza di tutto poter scoprire e tutto aver scoperto, incapacità di sentire quei tempi che vuole studiare, smania di filosofeggiare per diritto e per traverso»23. L’insofferenza di Volpe per ogni riduzionismo sociologico od economicistico, tendente a mutilare l’infinita varietà dei fattori attorno ai quali si articolava la dinamica storica, non era certo una novità, come dimostravano, tra 1903 e 1907, le non benevole recensioni ai lavori di Caggese e Rodolico24. Ma, per quello che riguardava l’attacco ad Arias, è possibile ipotizzare che dietro quella polemica si celasse anche la regia occulta di Croce, deciso a rinnovare, per interposta persona, un copione già messo in scena dieci anni prima con la riduzione ad assurdo delle teorie di Loria. Copione, la cui ripresa riguardava ora, soprattutto, la volontà di depurare l’orientamento economico-giuridico dai rimasugli dello scientismo positivista, arginandone la confluenza in atto verso la sociologia, come dimostrava la dura critica del 1908 al volume di Caggese dedicato a Classi e comuni rurali nel Medio Evo italiano (su cui 21 G. VOLPE, recensione a G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni, cit., pp. 104, 123-124 22 G. ARIAS, Di una ideale storia economica e giuridica liberata dalle leggi economiche, in «Giornale degli Economisti», II, 1906, 32, pp. 157 ss. 23 G. VOLPE, La storiografia semplicistica e il prof. Arias, poi in ID., Medioevo italiano, cit., pp. 129 ss. 24 ID., recensione a R. CAGGESE, Su l’origine della Parte Guelfa e le sue relazioni col Comune («Archivio Storico Italiano», XXII, 1903, pp. 265 ss.), in «Studi Storici», XIII, 1904, pp. 454 ss.; ID., recensione a N. Rodolico, La democrazia fiorentina nel suo tramonto (13781382), Bologna, 1905, in «Studi Storici», XIV, 1905, pp. 347 ss.; ID., recensione a R. CAGGESE, La repubblica di Siena e il suo contado nel secolo XIII («Bullettino senese di Storia Patria», XIII, 1906, pp. 3 ss.) in «Archivio Storico Italiano», XL, 1907, pp. 374 ss. I due ultimi resoconti erano ricompresi in Medio Evo italiano, cit.
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Volpe si era già espresso in termini fortemente negativi nella corrispondenza con Giustino Fortunato e Salvemini)25, la quale si concludeva con questa decisa rivendicazione della specificità irriducibile, se non addirittura del primato, della storiografia nei confronti delle altre scienze umane. Lo storico deve ad un certo punto mettere da parte le cose inanimate, la terra, il clima, il denaro, gli strumenti della produzione, anche le istituzioni giuridiche, e pigliar l’uomo così come è, così come è stato foggiato dai mille fattori già visti in precedenza. Altrimenti la storia se ne va, essa che ha il compito appunto di rappresentare la vita nella sua unità, di ristabilir la connessione fra fatti diversi; e lo storico, che deve comprendere nel suo campo d’indagine il diritto, l’economia, l’arte, la letteratura, il pensiero filosofico, ma che deve fare anche qualcosa di diverso e di più, abdica a questa sua peculiare e specifica attività e si risolve nel giurista, nell’economista, nell’indagatore delle vicende dell’arte, della filosofia, delle opere letterarie26.
La partnership, e quasi leadership storiografica, realizzata da Croce e da Volpe sulle pagine della rivista napoletana, comprendeva accanto 25 Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, Milano, 3 giugno 1908, in G. SALVEMINI, Carteggio, 1907-1909, Roma-Manduria, Lacaita, 2001, pp. 212-214: «Desidero che tu mi scriva un giudizio tuo sul libro del Caggese Classi e comuni rurali ecc. A me ha fatto l’impressione di un libro ad effetto ma che non resiste ad un’occhiata penetrante. Se vi si metton le mani dentro, cade a pezzi. Questo è successo a me nella recensione che ne ho fatto i giorni scorsi e che vedrà la luce nella “Critica”, se al Croce non sembrerà troppo lunga e minuta e più adatta ad una rivista storica che non alla sua rivista. Io comincio a sentirmi scemare la fiducia per quel giovane che pure ha invidiabili qualità d’ingegno e di laboriosità. Ma è un facilone, un frettoloso, che crede di poter prendere d’assalto tutte le posizioni, anche quelle che richiedono un assedio paziente; e, peggio ancora, ha sempre l’illusione di aver riportato brillanti vittorie sull’inimico. Con tre o quattrocento documenti dell’archivio fiorentino e pistoiese e poche decine fra documenti lombardi e pugliesi crede di poter scrivere 400 pagine sulle Classi e Comuni rurali nel M. E., per lo spazio di mezzo millennio. Ma è cosa inaudita! Ho trovato quel libro d’una superficialità desolante se si guarda non alla vernice ma al modo con cui son poste e trattate le questioni». Si veda anche la lettera a Giustino Fortunato, Desenzano sul Lago 3 ottobre 1908, CV: «Son contento anche che lei condivida il mio giudizio sul libro del Caggese e sul suo autore. Avevo qualche scrupolo; temevo di aver trattato male quel giovane che pure mi è amico. Lei mi rassicura. Il Caggese è ancora in tempo per rientrare in sé e riacquistare il senso giusto dei suoi mezzi, delle difficoltà del lavoro che noi compiamo, della necessità di far un po’ maturare i fatti e le idee nel nostro spirito. Senza fermentazione riposata e temperatura adatta l’uva anche eccellente dà cattivo vino, forse frizzante ma non resistente». 26 G. VOLPE, recensione a R. CAGGESE, Classi e comuni rurali nel Medio Evo italiano, cit, p. 175. Sul punto, Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 1 giugno 1908: «Le ho spedito oggi il mss. della recensione Caggese. Se non le sembra troppo lunga e inadatta, avrò piacere che la pubblichi. È un libro di molto effetto, e che già corre parecchio per mani di studenti e studiosi; perciò ho creduto conveniente esaminarlo un po’ addentro, anche perché per la prima volta vi è trattata ampiamente la materia delle classi e comuni rurali».
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a una tagliente pars destruens, che imponeva un’impietosa strategia di selezione di metodi e di studiosi, anche una pars construens, con la quale si cercava di favorire, invece, il rapporto tra storici e storici dell’economia, a condizione che questi non intendessero la storia dei modi di produzione come storia dei sistemi economici, con l’esito di risolvere interamente il lavoro dello storico nella scienza economica. Così accadeva con Luigi Einaudi, che, nell’aprile del 1908, faceva pervenire a Croce i suoi più recenti lavori sulla finanza sabauda nel XVIII secolo, insieme a quelli di Giuseppe Prato di analogo argomento27, accompagnandoli da una lettera nella quale si esprimeva la profonda avversione per gli studi di storia economica che la «Critica» aveva recentemente «flagellato», nei quali «la storia degli istituti economici e finanziari in Italia, ancor non nata» era trattata «ciarlatanescamente». Cogliendo esattamente la chiara, elogiativa, allusione alla stroncatura di Arias, Croce individuava proprio in Volpe il recensore ideale della recente produzione di Einaudi e di Prato, e rispondeva a stretto giro di posta: «Grazie delle importanti pubblicazioni. Ho scritto al prof. Volpe per domandargli se è disposto a studiarle e farne una recensione. Il Volpe è valentissimo, ma assai lento. Speriamo che accetti e che mi mandi la recensione». Volpe non si sottraeva all’incombenza ed entrava in diretto contatto con Einaudi, al quale scriveva il primo maggio 1908: «Ho già scorso rapidamente i tre volumi e ammirato la copia e il valore delle informazioni e dei dati raccoltivi. Son volumi che fanno onore a codesta scuola di economia politica e che fanno nascere o rinascere in me idee melanconiche sulla incompiutezza della coltura che noi storici abbiamo ricevuto da scolari e che, divenuti maestri, diamo ai giovani avviantisi per gli studi della storia. La mia scarsa competenza finanziaria, tuttavia, non mi impedirà di ricavar profitto dai lavori suoi e del dott. Prato. Mi riservo di leggere con tutta diligenza specialmente la Finanza sabauda ecc., lavoro di storico oltre che di economista, e di riferirne sulla Critica, durante le vacanze autunnali»28. Dopo lungo indugio, nel maggio del 1910, Volpe avvertiva Croce di aver completato il compito
27 L’invio riguardava: L. EINAUDI, La finanza sabauda all’aprirsi del XVIII secolo e durante la guerra di successione spagnola, Torino, Società Tipografico-editrice Nazionale, 1908, che faceva seguito a ID., Le entrate pubbliche dello Stato sabaudo durante la guerra di successione di Spagna, Torino, Società Tipografico-editrice Nazionale, 1907; G. PRATO, Il costo della guerra di successione spagnola e le spese pubbliche in Piemonte dal 1700 al 1713, Torino, Fratelli Bocca, 1907. 28 Si veda rispettivamente, L. EINAUDI-B. CROCE, Carteggio, 1902-1953, a cura di L. Firpo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1988, p. 27 e 28. Le lettere di Volpe ad Einaudi sono conservate in Archivio Einaudi, Fondazione Luigi Einaudi (ALE). Sul punto, R. FAUCCI, Luigi Einaudi, Torino, Utet, 1986, pp. 117-118.
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assegnatoli29, non senza averne preventivamente annunciato a Einaudi la prossima comparsa sulle colonne della «Critica»: Ho scritto proprio in questi giorni una piccola rassegna di quei volumi suoi e del Prato e del volume di S. Pugliese. Non sono un economista e specialmente non sono un tecnico di scienza finanziaria, non sono quindi il giudice più adatto per libri così fatti, specialmente per il Suo. Ma li ho letti con animo e occhi da storico e come storico ne ho un po’ discorso. Del resto, fra gli storici, sono di quelli che più credono alla necessità di lavorare profondamente il terreno della vita economica per raggiungere quella intelligenza piena dei fatti che solitamente interessano noi. E specialmente credo quanto fecondo campo di indagini possa essere la storia della terra e dell’agricoltura, la gran forza che per secoli ha mosso tutta la macchina sociale, l’attività che forse più complessa che vi sia nell’ordine economico, esposta al gioco di tante forze, anche morali30.
Il ricco resoconto, intitolato Studi di storia economica italiana31, non si limitava a distinguere, in perfetta sintonia con Croce, la «buona» storia economica di Einaudi (perché autonoma, non sociologica e aliena dallo spirito di sistema) dalla «cattiva» e lorianesca storia economica di Arias, ma costituiva anche un ampliamento cronologico delle tematiche di Volpe. Il giovane autore, che nel 1904 confessava a Croce di «non poter scendere pur troppo oltre il XV secolo»32, si cimentava ora con un tema squisitamente contemporaneistico, almeno per quello che riguardava le premesse economiche e sociali che avrebbero condotto al moto risorgimentale analizzate nel lavoro di Prato, contava di esprimere un giudizio circostanziato sulla Rivoluzione francese di Salvemini33, 29 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 12 maggio 1910: «La mia rassegna è già fatta, ma ero in forse se mandarla piuttosto all’Archivio storico o alla Rivista del Risorgimento, o alla Critica. È in parte esposizione del contenuto dei volumi (breve esposizione) e poi ricerca e dimostrazione di quanto libri cosiffatti contribuiscano alla intelligenza e visione complessiva della vita storica. Studiando bene la terra, i valori, le imposte, le vicende e ordinamenti contabili, viene molta luce alle caratteristiche morali, alla formazione ed azione delle classi sociali, a tutto ciò che è oggetto più comune e proprio dell’indagine storica. In tutto, ho scritto una ventina di facciate» 30 Gioacchino Volpe a Luigi Einaudi, 5 maggio 1910, ALE. 31 Il lavoro di Volpe (pubblicato nella «Critica», VIII, 1910, pp. 355 ss., con il titolo, Studi di storia economica italiana e poi ristampato in ID. Momenti di storia italiana, cit., pp. 177 ss.) comprendeva, oltre i già citati volumi di Einaudi e Prato, altri studi pubblicati nella ricorrenza del secondo centenario della liberazione di Torino dall’assedio francese: G. PRATO, La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XVIII, Torino, Fratelli Bocca, 1908; ID., L’evoluzione agricola nel secolo XVIII e le cause economiche dei moti del 1792-98 in Piemonte, Torino, Fratelli Boma, 1909; S. PUGLIESE, Due secoli di vita agricola. Produzione e valore dei terreni, contratti agrari, salari e prezzi nel Vercellese nei secoli XVIII e XIX, Torino, Fratelli Bocca, 1908. 32 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa, 3 aprile 1904. 33 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 20 aprile 1908: «Carissimo amico, una
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e meditava persino di effettuare un’incursione nel campo della storia delle idee, con uno studio (composto ma mai pubblicato) dedicato alla Vie de Jeanne d’Arc di Anatole France34. Lo slargamento di interessi non si esauriva poi in questi soli punti. Il sodalizio con Croce fruttava a Volpe la conoscenza dell’opera di Pareto, seppur limitata ai problemi di revisione del marxismo35, e tramite essa un ulteriore stimolo a una riduzione fenomenologica del materialismo storico, da considerarsi ormai come mera «idea o dottrina della vita politica e sociale come lotta»36, importante e feconda per gli studi di storia, nella misura in cui questa interpretazione configurava una teoria della lotta di classe, ormai totalmente svincolata dal concetto di plus-valore, nella quale il conflitto tra capitale e lavoro perdeva la sua specificità capitalistica e si riduceva a contrasto perenne di forze antagoniste, privo di una peculiare definizione economica, nella prospettiva di uno svolgimento storico non determinato da una sola epoca né limitato ad essa37. Inoltre, per Volpe, corecensione è quasi pronta, scritta in questi giorni di vacanze pasquali. Anche quella del Salvemini (2° edizione della Rivoluzione francese) seguirà fra breve, giacché mi son procurato e sto rileggendo l’edizione ultima». 34 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Bellaria di Rimini, 27 agosto 1908: «Le mando la recensione della Vie de Jeanne d’Arc, ma più per levarmela di torno che per altro. A me piace così così; mi par un po’ lunga e non troppo concludente. Si risente dell’averla io messa giù a spizzichi e bocconi, in questi ultimi due mesi, con intervalli di settimane, fra occupazioni varie ed altri studi che non mi hanno permesso di mettermi a tu per tu col mio autore ed afferrarlo nel vivo. Lei legga e giudichi; se non le piace me la rimandi, senza timore di recarmi offesa. La rifarò o la strapperò? Ma ora ho voluto inviarla perché troppo mi doleva rimandare e rimandar sempre l’attuazione di una promessa. Se mai, si può stampare come recensione o come varietà». Per quello che riguardava la nota sul volume di Anatole France (Vie de Jeanne d’Arc, Paris, C. Lévy, 1908, 2 voll.), si veda anche la lettera del 12 maggio 1910: « E poi vi chiedo che cosa debba io fare dell’altro mss. su Giovanna d’Arco. Forse due studi, come voi mi suggerivate nel settembre scorso, uno per esaminare i criteri dell’A., l’altro per veder qual contributo il suo libro rappresenta per la storia della Pulzella, in confronto alla letteratura precedente, non mi è possibile. Per questo secondo scopo, dovrei ingolfarmi nella letteratura di otto o dieci volumi di roba. Mi pare che il frutto non corrisponderebbe alla fatica; trattandosi, per il France, di un autore che pur avendo qualche pretesa di lavorare da storico, pure ha fatto opera che solo in un senso un po’ lato può chiamarsi storica. Io pensavo, invece, di stampar qualche pagina relativa al contenuto del libro e fermarmi ad un breve esame dei concetti storici informatori dell’A., quali specialmente risultano dalla prefazione. Ma è tardi, per stampare ora una tal cosa, a due anni da che il libro è comparso?» 35 B. CROCE, Sul principio economico. Due lettere al Prof. V. Pareto, in ID., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 225 ss. 36 G. VOLPE, Italia Moderna, II, p. 315, dove si ricordavano i «Systèmes socialistes di Vilfredo Pareto, apparsi nel 1902, assai letti anche da noi». Più diffusamente sul punto, proprio per le implicazioni politiche delle teorie di Pareto, ivi, pp. 339-340. 37 V. PARETO, I sistemi socialisti, a cura di Giovanni Busino, Torino, Utet, 1974, pp. 787-788: «La lotta di classe non è che una forma della lotta della vita, e ciò che si chiama “conflitto fra il lavoro e il capitale” non è che una forma della lotta di classe. Nel Medio Evo
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me per molti altri intellettuali italiani dell’inizio del secolo38, la teoria delle élites di Pareto offriva più ampie suggestioni che quella di «classe politica» di Gaetano Mosca, per una definizione dei meccanismi del vivere associato. Mentre Mosca, infatti, «poneva e cercava di risolvere soltanto un problema di scienza politica», quello della formazione e dell’organizzazione del potere, Pareto presentava «un problema assai più generale di dinamica sociale e cioè il problema della formazione e della trasformazione delle aristocrazie», nell’età della democrazia e dell’avvento delle masse sulla scena politica39. Ma, da Croce, Volpe ricavava anche la consapevolezza dell’importanza di Alfredo Oriani o meglio la messa in situazione dell’opera del prolifico poligrafo romagnolo, all’interno del dibattito storiografico, da cui ricavare una proposta di storia politica e nazionale, in grado di superare l’invecchiato repertorio della storiografia risorgimentale e risorgimentista, che trovava nella Lotta politica ma anche nelle considerazioni di Labriola sulla storia d’Italia un possibile modello in grado di oltrepassare le strettoie del metodo erudito e della cultura accademica40. Se Gentile avrebbe più tardi puntato sulla valorizzazione dell’Oriani politico, in quanto profeta della Nuova Italia41, che poi il fascismo avrebbe ampiamente ripreso e contraffatto, Croce, nel saggio del 1908, che fu attentamente meditato da Volpe42, rivendicava l’importanza dell’Oriani storico, contro i distruttivi e liquidatori giudizi di Pasquale Villa-
si sarebbe potuto credere che, se i conflitti religiosi fossero scomparsi, la società sarebbe stata pacificata. Quei conflitti religiosi non erano che una forma della lotta di classe; sono scomparsi, almeno in parte, e sono stati sostituiti dai conflitti socialisti. Supponete che il collettivismo sia istituito, supponete che il “capitale” non esista più, è chiaro che allora non sarebbe più in conflitto col lavoro; ma non sarà che una forma della lotta di classe che sarà scomparsa: altre la sostituiranno». 38 E. GENTILE, La Voce e l’età giolittiana, Milano, Pan, 1972, pp. 172 ss. 39 N. BOBBIO, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, Laterza, 1969, pp. 252-253 40 G. VOLPE, Impariamo la storia sapremo chi siamo, Prefazione a L’epopea degli Italiani. Dal tempo dei tempi all’era atomica, in «Candido», 2 marzo 1958, pp. 27-28: «Da una concezione della storia d’Italia, come questa, non era stato lontano Alfredo Oriani, quando scrisse e pubblicò, alla fine del 1800, La lotta politica in Italia, vera Storia d’Italia che, poco letta e poco apprezzata per un ventina di anni, Croce trasse attorno al 1910 dall’oblio. Non lontano era stato da tale concetto Antonio Labriola, filosofo e sociologo, ma ricco di senso storico, che non scrisse ma concepì che si potesse scrivere una Storia d’Italia». Il riferimento a Labriola rimanda a ID., Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi. Ricostruzione di L. Dal Pane, Bologna, Cappelli, 1925, p. 51 ss. Sul punto, G. GALASSO, Labriola e la storia generale d’Italia, in «Giornale critico della filosofia italiana», 2005, 1, pp. 49 ss. 41 G. GENTILE, La Rivolta ideale, in ID., Guerra e fede, Napoli, Ricciardi, 1919, pp. 309 ss. 42 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 22 gennaio 1916.
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ri e Crivellucci43, che bene rappresentavano l’«inerzia mentale dei nostri studiosi di storia»44. Oriani, infatti, possedeva per Croce quella «non comune attitudine a guardare i fatti dall’alto, come soleva dire il De Sanctis», che rappresentava infine la «qualità essenziale dello storico». Da quella prospettiva aerea potevano sicuramente scomparire molte differenze e generarsi alcuni errori di dettaglio, provocando l’ostilità del «piccolo erudito», che è in parte «cautela e amore dei particolari precisi», ma che è sempre soprattutto «semplice incapacità a sostenere la vista di un oceano in burrasca o lasciare scorrere lo sguardo su un’ampia distesa, senza confondersi e smarrirsi». Se, nell’età del positivismo, gli studi storici italiani erano decaduti, questo era dovuto a questa «perdita della speranza dell’altezza», alla scomparsa del «coraggio» e della «forza di salire». E se essi erano destinati a risorgere, ora, lo potevano solo a condizione di ritrovare quelle qualità che in Oriani erano largamente operanti, nella misura in cui la sua storia d’Italia era stata suscitata dal «problema del presente»: dalla convinzione che «per sapere quello che essa è e può, bisogna sapere quello che essa è stata»45. Era un giudizio, che trovava conferma nel dibattito sull’Oriani storico poi sviluppatosi sulla «Voce», soprattutto ad opera di Luigi Ambrosini46, e che Volpe avrebbe ripreso nel 1934, confessando di aver derivato da Oriani, da un lato, il «senso storico» delle cose, al di là della piena aderenza ai «documenti», e, dall’altro, l’acquisizione della ragione politica da conferire al mestiere di storico, che consisteva nel compiere delle ricognizioni sul passato, anche plurisecolare, della storia nazionale, muovendo da ideali e principi generali, validi tanto come critica di situazioni di fatto che come indicazione di obiettivi da raggiungere47. 2. Importante dunque, se non davvero fondamentale, la presenza crociana nella biografia intellettuale di Volpe, come anche nella sua vita accademica. Intendiamo parlare del famoso concorso, conclusosi al43 Sul punto, W. MATURI, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino, Einaudi, 1962, pp. 377 ss. Replicava, nel 1914, l’ostilità per Oriani, Antonio Anzilotti, Di alcune pubblicazioni sulla storia del Risorgimento, in ID., Momenti e contrasti per l’unità italiana, Milano, Giuffré, 1964, pp. 307 ss. 44 B. CROCE, Note sulla Letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX. XXVIII. Alfredo Oriani, in «La Critica», VII, 1909, pp. 1 ss., in particolare p. 19. Sul punto, M. CILIBERTO, Una “scoperta” di Croce: Alfredo Oriani in Alfredo Oriani e la cultura politica del suo tempo, a cura di E. Dirani, Ravenna, Longo Editore, 1985, pp. 85 ss. 45 B. CROCE, Alfredo Oriani, cit., pp. 11-12. 46 G. PREZZOLINI, “La Voce”, 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, Milano, Rusconi, 1974, pp. 554 ss. Sul punto, anche, G. PENTIMALLI, Alfredo Oriani, Firenze, Società Anonima Editrice “La Voce”, 1921, pp. 345 ss. 47 G. VOLPE, Alfredo Oriani storico e politico, in ID., Storici e maestri, cit., pp. 123 ss.
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la fine di novembre del 1905, che fruttò a Volpe la cattedra universitaria, del quale il carteggio con Croce ci rivela alcuni particolari inediti. Del concorso, Volpe avrebbe cominciato a parlare al già molto influente intellettuale napoletano, nella lettera del 12 agosto 1904, nella quale era contenuta un’indiretta ma inequivocabile richiesta di aiuto: «Forse lei potrebbe sapere qualche cosa, poiché è amico del prof. Novati. Come provvederanno l’anno prossimo per la cattedra di storia all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, rimasta vacante per la morte del prof. Antonio Rolando? Pensavo alla possibilità di poter esercitare là la mia libera docenza nel caso – fattomi intravedere giorni addietro – che io potessi trasferirmi in qualche scuola normale di Milano e provincia. A Napoli, vedo dal Bollettino che lo Schipa è già diventato ordinario. Che bel salto!»48. Il riferimento a Francesco Novati, ordinario di Letterature neo-latine e Preside-Rettore dell’istituto universitario milanese49, legato a Croce da un vivo e reciproco rapporto di stima e da un assiduo commercio epistolare50, ma anche quello al recente successo di Michelangelo Schipa, nel quale il direttore della «Critica» aveva probabilmente svolto un non piccolo ruolo51, confermano largamente questa ipotesi, che poi viene a essere ulteriormente ribadita dal tono delle lettere successive, dove Volpe pare soprattutto concentrato nella richiesta di affrettare la pubblicazione dei suoi contributi, per poter rimpinguare il qualificatissimo, eppure non corpulento, bottino di titoli, necessario a fronteggiare l’agguerrita e numerosa concorrenza degli altri partecipanti alla tenzone accademica52. In questo senso, le sollecitazioni di
48 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Viserba, 12 agosto 1904. Antonio Rolando era stato, dal 1878, docente di Storia moderna nell’Accademia scientifico-letteraria di Milano. 49 G. MIRA, Memorie, Vicenza, Neri Pozza, 1968, p. 68: «Preside della Facoltà era Francesco Novati, professore di letterature neolatine, azzimato e glabro, ahimé un po’ vanitoso. La sua erudizione prodigata con eleganza sia nella scuola, sia nei circoli e salotti intellettuali, non sempre era sorretta da pari vigore di pensiero». 50 Sul punto, Carteggio Croce-Novati, a cura di A. Brambilla, Bologna, Il Mulino, 1999, in particolare per l’opera di riforma culturale portata avanti dal filosofo napoletano, pp. 65, 86, 82, 85, 90. 51 Michelangelo Schipa, libero docente di Storia Moderna dal 1890, incaricato all’università di Napoli dell’insegnamento di Geografia dal 1895 e di quello di Storia moderna dal 1900, ottenne infine nel 1904 l’ordinariato in quella sede accademica. 52 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa 25 gennaio 1905, dove il riferimento era al progettato volume, Ricerche sull’origine e sul primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda: «Staremo a vedere come andrà il concorso di storia moderna a Milano. Siamo in troppi e la cattedra è una sola; difficile anche esser messo nella graduatoria dei tre eleggibili. Quest’altro anno avrei avuto maggiori probabilità, dopo stampato il lavoro a cui attendo». Dello stesso tono la lettera del 7 agosto, in relazione alla pubblicazione della recensione di Arias: «La ringrazio della lieta accoglienza che lei ha fatto al mio piccolo articolo. Solo mi duole che non si possa stampare prima del gennaio. Vede: nel settembre scade il termine per
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Volpe si facevano via via più pressanti e talora quasi indispettite, di fronte all’impossibilità o alla presunta cattiva volontà di Croce di esaudire prontamente i suoi desiderata, per culminare nella corrispondenza di tono, quasi drammatico, del settembre 1905: Mi duole assai del contrattempo nella stampa del mio articolo su Arias, tanto più che io ci contavo con sicurezza. Lei dice bene che i commissari non leggono i titoli, ma in certi casi li debbono leggere, come quando la differenza di vedute mette in contrasto i giudici. Il concorso di Milano si svolgerà appunto in queste condizioni. Candidati in pectore già ve ne sono; ma vi è anche chi potrà far valere validamente la giustizia. Nascerà discussione e questa non potrà essere se non con i titoli alla mano. Di più, si deciderà contemporaneamente anche per la cattedra di Torino: il che vuol dire che se uno riesce a piazzarsi ora, bene, se no, può rinunciarvi per altri 10 o 20 anni. Io perciò voglio presentarmi con tutte le mie armi, per non aver rimpianti poi, per quanto si tratti di una piccola cosa che vorrei aggiungere ai miei lavori. Lei sa meglio di me che quando si è favorevoli ad un candidato, la commissione prende benevolmente in esame extra ordinem anche i titoli non presentati a tempo; ma in caso contrario, la legalità viene subito accampata. Perciò, se proprio non si può fare a meno, io desidererei riavere in mano, per una diecina di giorni, l’articolo. Ne farò fare delle bozze da servire ad uso esclusivo del concorso e poi se lei vuole, glielo rimanderò. Se la tipografia della Critica volesse essa stessa, con altri caratteri, stampare il mss. in bozze, a mie spese, tanto meglio, ma sempre con la massima sollecitudine. (Il concorso scade il 25 settembre). Mi scusi del disturbo che le do; ma come fare? È un momento grave della nostra vita, questo qui, per noi che oltre alla scienza ed alle soddisfazioni personali, dobbiamo pensare al pane. Io al principio d’anno conduco donna, perciò questa preoccupazione cresce53.
Tanta insistenza era almeno in parte giustificata dalla non facile situazione economica di Volpe, in relazione al futuro matrimonio con Elisa Serpieri (sorella del giovane ma già quotatissimo docente di economia agraria, Arrigo Serpieri, conosciuta fin dall’adolescenza, a Santarcangelo)54, ma anche da una complicata situazione finanziaria familiare, che di lì a breve si sarebbe ulteriormente e drammaticamente aggra-
il concorso di Milano a cui anche io mi cimenterò, ed io desideravo assai poter presentare anche questo piccolo scritto. Non son tanto signore da poter così far getto anche di soldini! E prima del novembre, tempo in cui il concorso sarà giudicato, avrei voluto che i commissari avessero letto magari sulla rivista l’articolo, dato che non sempre leggono le pubblicazioni a quintali che si inviano dai concorrenti. Lei mi dirà che avrei dovuto mandar prima il lavoro. Ed ha mille ragioni. Ma veda se non è possibile conciliare il desiderio mio e gli interessi della rivista». 53 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Viserba 3 settembre 1905. 54 Su Serpieri, M. STAMPACCHIA, Ruralizzare l’Italia: agricoltura e bonifiche tra Mussolini e Serpieri, 1928-1943, Milano, Franco Angeli, 2000.
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vata55. La domanda di aiuto non restava comunque senza risposta. Non solo Croce autorizzava la stampa anticipata della nota di Volpe, che permetteva all’autore di effettuarne l’invio a Novati, mettendosi in diretta comunicazione con il futuro commissario56, ma sempre Croce era già intervenuto direttamente, presso Novati, con la lettera di «preghiera» del 10 settembre 1904, dove si parlava del «Dottor Volpe, che voi ben conoscete e che io stimo come una delle migliori speranze degli studi storici italiani» e si aggiungeva che questi lo aveva pregato di informarsi «su ciò che si propone di fare la Facoltà di Milano per la sostituzione del Rolando», avendo l’«intenzione di chiedere il trasferimento costà della libera docenza, che ha nell’Università di Pisa dove l’anno scorso ha sostituito il Crivellucci»57. Alla richiesta di Croce, Novati rispondeva, a distanza di qualche settimana, in modo molto incoraggiante per le speranze di Volpe. Non pensasse costui a subentrare a Rolando, con supplenze o incarichi interinali, e si orientasse invece a puntare sul concorso, che Novati era propenso a bandire, per far ricoprire la cattedra del collega scomparso a uno studioso di indiscusso valore, il quale inoltre avrebbe sbarrato la via ad altri docenti politicamente poco graditi come Salvemini, già straordinario a Messina dall’anno accademico 1901-1902. La morte del Rolando, seguita inaspettata quando già la Facoltà era sciolta, mi pone in grave imbarazzo. Finché i miei colleghi non si riuniscono, e ciò 55 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Viserba 3 settembre 1905: «Gli ultimi due mesi ho fatto poco o nulla. Anche il lavoro dei Comuni si è arrestato, mentre contavo di cominciarlo a stendere ora a fin d’anno. È che mi son capitati addosso guai e preoccupazioni che mi han tolto tempo e serenità. Crisi finanziarie di famiglia, necessità di correre al riparo, di cercar mezzi a ciò, senza trovarli sempre, ecco quel che ho avuto e ho ancora. Proprio ora che mi trovavo vicino a prender moglie. Quest’anno poi bisogna che mi ingegni a scoprire qualche altra fonte di guadagno, classi aggiunte, collaborazione di giornali ecc. per turare le falle». 56 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Santarcangelo di Romagna, 21 settembre 1905: «Le mando le bozze dell’articolo, da pubblicarsi nella Critica. Stia sicuro che nessuna divulgazione esse avranno, se, come lei già mi scrisse, entro l’ottobre potranno farsene le bozze e gli estratti, io ne sarò lieto». Si veda anche la lettera d’invio a Novati del 4 ottobre 1905, in Fondo Francesco Novati, Biblioteca Nazionale Braidense, 1256/1-16 (d’ora in poi FFN): «Mi permetto inviarle alcuni opuscoli miei, pubblicati nel 1905 o alla fine del precedente anno. A suo comodo, sarei lieto di aver un suo giudizio, specialmente su Lambardi e Romani, su cui la mia mente più si è travagliata per vincere le enormi difficoltà dell’argomento e su il sistema della costituzione economica ecc. Per quest’ultimo opuscolo vorrei pregarla di non parlarne con alcuno, fino a che non sia comparso sulla Critica del Croce, nel prossimo numero. È una stampa provvisoria che io ho fatto per mio conto, non potendomi il Croce dare gli estratti per il tempo a me utile». 57 Benedetto Croce a Francesco Novati, Napoli, 10 settembre 1904, in Carteggio Croce-Novati, cit, p. 110.
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non potrà seguire che ai primi di novembre, non è possibile a me far nulla. Notate poi che già l’anno scorso a supplire il Rolando infermo per desiderio di costui e annuente la Facoltà fu chiamato il Capasso, Preside del Liceo Manzoni e nostro libero docente di storia moderna. Ora, qualunque sia per essere la decisione che prenderà la Facoltà, è improbabile che essa non torni ad affidare l’insegnamento per incarico temporaneo al Capasso. Aggiungete che noi possediamo un altro libero docente di storia moderna nella persona di Calligaris; ottimo studioso ed insegnante valente. In questa condizione di cose, io non consiglierei mai il Volpe a chiedere il trasferimento della sua libera docenza da Pisa a Milano, giacché non saprei vedere quale utilità ne riceverebbe. Se la Facoltà deciderà di aprir il concorso – cosa che a me piacerebbe più di ogni altra, se non mi preoccupasse il pensiero che abbiano a ficcarsi avanti dei guastafeste in veste di straordinari – il Volpe potra concorrere; sarà la via più dritta, mi pare58.
La replica di Novati corrispondeva dunque a un’informale ma sostanziale promessa di appoggiare Volpe, quando il concorso fosse stato bandito e quando, come di diritto, il Preside dell’Accademia fosse entrato a far parte della commissione giudicatrice. Così, infatti, avvenne. Ai primi di novembre del 1905, Croce scriveva a Novati di sperare che tutto potesse andare «secondo i vostri desideri»59, e Novati, rispondeva, a metà mese, confermando quell’auspicio, per aggiungere però che la competizione si profilava aspra soprattutto per l’alto numero dei concorrenti (tra i quali, Pietro Fedele, Ferdinando Gabotto, Nicolò Rodolico, Agostino Rossi) e le pretese di alcuni straordinari, tra cui Salvemini, di ottenere il passaggio di ruolo sulla cattedra milanese restata vacante60. Al di là di ogni difficoltà e di ogni intralcio, Volpe, assicurava Novati, restava in ogni caso il candidato ufficiale dell’Accademia, come Croce aveva già comunicato all’incredulo interessato nell’ottobre del
58 Ivi, pp. 111-112. Il riferimento era a Giuseppe Calligaris, insegnante liceale, libero docente di Storia moderna presso l’Università di Torino e l’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano. Durante l’espletazione del concorso, nell’anno accademico 1904-1905, la cattedra di Romano venne affidata per supplenza a Giovanni Oberziner (straordinario di Storia antica, nella Facoltà milanese), mentre Capasso svolgeva lezioni e conferenze come libero docente. 59 Ivi, p. 120. 60 Ivi, pp. 120-121: «Ma pur troppo questa commissione è la desolazione delle desolazioni. Dopo una settimana di lavoro improbo (soprattutto per me che ho dovuto assumere il segretariato) siamo ancora al sicut erat, perché se abbiamo deciso di proporre come ordinari i tre Anabattisti, per levarceli dai piedi, non abbiamo potuto però escluderli dal nuovo giudizio per il concorso di Milano. Sicché ora si ripresentano con gli altri 8 producendo un imbroglio da cui io non so davvero come si uscirà. Non so se a Voi l’argomento pare interessante. A me quest’ostruzionismo degli ordinari e degli straordinari sembra destinato non solo a corrompere l’istituzione dei concorsi ma a renderla cosa vana. Converrebbe far un po’ di campagna contro questi traslochi forzosi imposti alle Facoltà».
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190561, e come traspare, senza equivoci, dalla lettera che lo stesso Volpe avrebbe inviato a Novati, terminatisi i lavori concorsuali con una sua vittoria, in parte almeno sorprendente e inaspettata e tale da suscitare qualche clamore e qualche disappunto negli ambienti accademici. Spero che questa mia trovi lei a Milano, perché possano giungerle solleciti i miei ringraziamenti più vivi. Ho trovato la sua lettera iersera tardi, tornando da Lucca, e non so dirle con quale emozione ho appreso la lieta novella. Per quanto qualche speranza avessi già concepito negli ultimi tempi, dopo quel che mi scrisse il Croce un mese fa – assai probabilmente riferendosi a discorsi uditi da lei stesso – e dopo le notizie che l’altra sera portò qui il prof. Zanichelli da Roma, intorno alle voci circolanti alla Minerva in proposito, pur tuttavia il risultato è stato troppo superiore all’aspettativa perché io non ne rimanessi commosso e quasi confuso. Le mie speranze più audaci giungevano fino alla conquista del terzo posto nella terna, dopo due dei professori già straordinari. Ed anche ora non so spiegarmi come io possa essermi lasciati indietro insegnanti già affissi da 4 o 5 anni sulla cattedra universitaria e per di più operosi lavoratori. Comunque sia, io mi sento assai lusingato della stima e della fiducia che la commissione, e lei in particolar modo, ha avuto per me; spero che né quella né questa abbiano mai a venir meno in lei e che io possa contribuire degnamente al bene di quell’Istituto che lei dirige con tanta competenza. Io non voglio giudicare l’intrinseco valore della mia produzione storica; so tuttavia che vi ho messo molta passione, molta coscienza, e non mi sono mai appagato delle facili conquiste; ho passato, dopo la laurea, cinque anni di sforzi, di dubbi, di pentimenti, immancabili compagni delle più alte soddisfazioni dello spirito. Mi auguro che la lena duri ancora un pezzo e che la cattedra universitaria segni un progresso non una sosta. In questo, ogni giovane si riterrebbe fortunato di poter seguire il suo esempio; esempio di instancabile operosità dedicata alla scuola ed agli studi. Prima che il Consiglio superiore si sia pronunciato sugli atti del concorso, io spero di vederla e di conoscerla personalmente. Intanto la ringrazio ancora, anche per la cortese sollecitudine con cui ha voluto darmi la buona nuova62.
Contrariamente a quanto finora supposto63, dunque, la vittoria di Volpe non venne determinata da Crivellucci né da Monticolo, presenti in commissione assieme a Romano e Cipolla, ma da Novati, molto
61 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa, 6 ottobre 1905: «La ringrazio della cartolina e della notizia buona che mi dà. Aspetteremo e vedremo. Io per ora nulla so, da nessuna parte, per quanto so che per noi nulla può esservi nell’attuale concorso di Milano». Nella lettera ad Elisa Serpieri del 19 gennaio 1906, CV, Volpe si sarebbe dimostrato al corrente del fatto che Novati aveva ampiamente manifestato un giudizio favorevole alla sua produzione scientifica, «parlando con Croce e con altri». 62 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Pisa, 27 novembre 1905, FFN. 63 L. AMBROSOLI, La “carriera” di Gaetano Salvemini. Dall’insegnamento ginnasiale alla cattedra universitaria, in «Il Ponte», 1964, 8-9, pp. 1051 ss.
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sensibile, come si è visto, alla segnalazione di Croce, e vicino, per inclinazione e frequentazione, al gruppo dei cattolici moderati lombardi: quindi favorevole anche al devotissimo Pietro Fedele, ma del tutto ostile invece all’altro candidato, Salvemini, in odore di socialismo e di sovversivismo, che, per di più, nel suo saggio su I partiti politici milanesi nel secolo XIX, si era schierato dalla parte di Cattaneo, contro l’aristocrazia milanese, a proposito dell’interpretazione del 184864. Una dinamica, questa, che viene a essere confermata, oltre che da un più attento esame delle carte concorsuali65, anche dalla lettera di Volpe a Pintor del 29 novembre 1906: Che cosa debbo dirti del risultato di questo concorso? È stato inatteso, ecco tutto. Fino a qualche mese addietro non avevo alcuna speranza, immaginando non favorevole a me il Cipolla, desideroso di sollevare Segre e Calligaris; poi, varie voci circolanti nell’ambiente professorale, e certi discorsi del Novati al Croce, mi fecero credere di essere quarto fra cotanto senno, con molta probabilità di riuscire ad occupare, in un secondo concorso, il posto lasciato vuoto da uno dei tre straordinari. In questi ultimi giorni, notizie portate qui da Roma mi davano come certa la mia riuscita come terzo e poi come probabile la vittoria su tutti. Così è avvenuto, con mia gioia da una parte, con un certo rammarico dall’altra. Mi crederai se ti dico che avrei preferito Salvemini al mio posto, per giustizia? Forse i nostri lavori, più o meno, si eguaglieranno. Ma egli era straordinario da quattro anni, ha più vivo e pronto ingegno, ha più coltura, più varie attitudini, più eloquenza di noi tutti. E come lo avrei voluto avanti a me, così lo avrei voluto davanti a Fedele, bravo giovane, ma a cui manca quel tal lavoro che, indipendentemente dalle minori ricerche, dà la misura piena del valore di un uomo e segna una piccola data nella produzione di dieci o venti anni. Perciò ho approvato il voto del Crivellucci; io al suo posto avrei fatto lo stesso. Dirò di più: fin da quando seppi che avevo avuto 4 voti su 5 dissi subito: quell’uno
64 Gaetano Salvemini a Benedetto Croce, 15 dicembre 1914, in GAETANO SALVEMINI, Carteggio, 1914-1920, a cura di E. Tagliacozzo, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 95: «Conosce Ella un mio volumetto pseudonimo (Rerum Scriptor) sui Partiti Politici Milanesi? È una bazzoffa buttata giù in quindici giorni nella seconda metà del 1899, sotto l’odio contro i moderati milanesi. È una porcheria storica; ma ci sono idee interessanti e – credo – nuove e giuste su la storia del risorgimento». Sul diffuso pregiudizio politico sfavorevole a Salvemini, si veda la lettera di Novati a D’Ancona del 29 novembre 1905, in Carteggio D’Ancona-Novati. IV, a cura di L. M. Gonelli, Pisa, Scuola Normale di Pisa, 1990, p. 37 e quella di Villari a Salvemini del 6 dicembre 1905, Carteggio, 1895-1911, a cura di E. Gencarelli, Milano, Feltrinelli, 1968 p. 329. 65 ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, (d’ora in poi MPI-DGIU), fascicolo G. Volpe. Il giudizio finale della Commissione riconosceva a Volpe «doti di storico e pensatore insieme», che si univano a «solida dottrina attinta quasi sempre alle fonti, nonché eccellente preparazione in materia economica e giuridica». Sul punto, M. L. CICALESE, La luce della storia. Gioacchino Volpe a Milano tra religione e politica, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 17 ss.
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è il Crivellucci! E nessuno qui voleva crederci, scambiando il Crivellucci per uno dei soliti nepotisti, mentre nessuno è nepotista meno di lui fra i tanti professori universitari. Egli tuttavia è stato assai contento del risultato. “Mi rallegro con te”, mi disse, “sebbene io ti abbia combattuto, son lieto che tu sia riuscito, e son lieto io di aver votato secondo coscienza e, forse, secondo giustizia”. Ed ora aspettiamo il responso del Consiglio Superiore. Io come ho aspettato con molta calma il primo verdetto, così aspetterò il secondo, anche se il primato dovesse andarsene. Qui mi sarà confermato l’incarico in sostituzione del Crivellucci e farò il corso a Pisa. Se poi dovrò andare a Milano, vi andrò, si capisce molto lietamente. Anche la mia donna che è stata là due anni e vi ha il fratello straordinario di economia rurale alla Scuola d’Agricoltura, ha per Milano una straordinaria simpatia. Le mie nozze saranno nel febbraio o marzo. Se vedi qualcuno del Ministero, senza che tu vada a cercarli, sollecita che mi rimandino i titoli e i libri, possibilmente tutti. Così potrò mandare anche a te qualche scrittarello dei miei ultimi, quelli che han fatto trabboccar la bilancia66.
Come si accennava, la promozione di Volpe fu destinata a suscitare sorpresa e persino qualche dubbio sulla correttezza sostanziale di quanto avvenuto, nello stesso candidato favorito dalla sorte, come si legge nella lettera a Gentile del 3 dicembre 190567, ma anche una vibrata opposizione a quel verdetto da parte di chi, come Salvemini, già straordinario a Messina dal 1900, si sentiva escluso da un giudizio, che poteva apparire più politico che scientifico. Contro quella discriminazione partivano minacce di contestazioni legali e addirittura quella di una campagna pro-Salvemini, orchestrata dalla stampa progressista68, alla
66 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, Pisa, 29 novembre 1906, FFP. Più seccamente, Volpe aveva confessato alla futura consorte, nella lettera del 24 novembre 1905, CV: «Crivellucci non sostiene i suoi scolari». 67 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Pisa 3 dicembre 1905, AFG, dove si rispondeva a un messaggio di congratulazioni per la vittoria concorsuale: «Ti ringrazio assai del biglietto tuo ultimo, che mi ti mostra sempre pronto a partecipare con l’animo a tutti i miei sforzi ed ai piccoli successi miei. Voi sapete quanto stima io abbia di voi, e quanto tenga alla vostra buona opinione di me. Ho anche ricevuto una bella lettera del Croce di cui gli sono gratissimo. E tutto dire si è ridestato all’antica amicizia anche il nostro ottimo Beppe Lombardo, di cui non avevo notizie da tanto tempo. Tuttavia io vorrei dire a questi buoni amici: piano piano, vi è uno scoglio ancora da superare e non sarà facile. Già le prime ventate della tempesta sono venute giù dal Piemonte. Avete letto della protesta della Società subalpina? Il nostro concorso viene ad acuire il dissidio tra nord e sud, chi l’avrebbe detto. In questi tempi in cui il Piemonte è così offeso nei suoi buoni vini dal famigerato modus vivendi, si aggiunge l’offesa alla sua cultura storica! Senza scherzi: io per primo riconosco ciò che di strano vi è stato in questo concorso: io stesso dico che forse il primo posto competeva ad altri, al Salvemini, che aveva al suo attivo anche quattro anni di straordinariato». 68 Gaetano Salvemini a Francesco Papafava, Messina, 26 dicembre 1905, in ID., Carteggio, 1895-1911, cit., p. 331: «Ti confesso che per quanto mi sforzi di non arrabbiarmi pel risultato del concorso di Milano, non mi riesce. Mi sento vittima di una tale prepotenza che
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quale Volpe dichiarava alla futura consorte di essere deciso a opporsi con tutti i mezzi. Ma ecco che ora cominciano a dire e a scrivere cose che mi seccano un poco: in un giornaletto scolastico di Milano ho letto stamani un annunzio del solito concorso “stranissimo” nel quale al prof. Salvemini, ordinario, autore di dotte pubblicazioni, e “un valore autentico”, sono stati preposti Fedele e Volpe, “insegnanti in una scuola normale”. Ripeto: nella sostanza hanno ragione, ma raccontano la cosa come se io sia il primo venuto, un qualunque Carneade. Quei signori conoscono il Salvemini per la politica, ma non hanno visto mai neanche la copertina dei suoi lavori, né dei miei. E così una prima ingiustizia se ne porta dietro un’altra in senso contrario, per cui degli incompetenti si mettono a fabbricare l’opinione pubblica. […] Da tanti segni vedo che si lavora assai, senza parere, da parte degli interessati e dei loro amici, per mandare a monte il concorso. L’altro giorno un articolo del Ciccotti sull’ultimo libro del Salvemini, nell’Avanti, pareva scritto apposta per ribattere alle obiezioni che la commissione gli aveva fatto. Io dico anche qui: lavorate pure se volete, ma io non debbo entrarci; non dovete ispirare la denigrazione a mio danno, perché allora mi muovo anche io per rimettere le cose a posto e dare a ciascuno il suo. Già lo prevedevo: meglio mi avessero messo terzo o primo dopo i tre. E seguito a dirlo anche ora, poiché le lettere e le parole scrittemi da Croce, da Monticolo e da Luzzatto e da altri non mi sono affatto montate al cervello69.
A vittoria proclamata non tutto dunque si era risolto, essendo pendente, infatti, il ricorso, presentato da Salvemini al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, sul cui esito Volpe, con animo comprensibilmente turbato, chiedeva lumi a Novati, il 28 dicembre. Nell’imminenza del verdetto del Consiglio superiore cresce l’ansia dell’attesa. Sa lei nulla degli umori dei giudici? Da ogni parte mi giungono notizie di lavorio intenso che altri compie per provocare l’annullamento del concorso; ed insieme esortazioni a contrapporre sforzi a sforzi per impedire che la questione esca dai suoi veri termini e che il risentimento degli interessi offesi trovi benigna corrispondenza nell’animo dei giudici. Io nulla ho fatto e nulla farò, perché non son solito brigare e mendicare voti. Ma ciò non toglie che il mio timore sia grande. So, ad esempio, che il prof. Mazzoni non è ben disposto; che anzi egli porterà al Consiglio Superiore i risentimenti della Facoltà fiorentina, offesa nel suo amor proprio per il posto non assegnato al Salvemini. I maligni po-
non mi ci so adattare. E non dubito che finirò per fare qualche grossa corbelleria. Certo che la cosa così non deve finire. E almeno un paio di schiaffi li consegnerò». Salvemini si limitò, poi, a ricorrere al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che non trovò negli atti alcun vizio di forma, e interessò Turati per avere notizie di prima mano su quella verifica. Si veda la lettera di Salvemini a Turati a del 17 gennaio 1906, ivi, p. 183. 69 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri, s. l., s. d. ma dicembre 1905, CV.
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trebbero domandare perché l’Istituto Superiore non ha mai voluto saperne di accogliere nel proprio seno il Salvemini che pure vi godeva stima e simpatia personale grandissima e che ambiva raccogliere la successione del Villari. Questa opposizione certo si concilia poco con l’attuale malcontento dei professori fiorentini, i quali non vogliono riconoscere ora per buone ad altri quelle ragioni che essi hanno tacitamente o espressamente accampato da tanto tempo per conto ed utile proprio. Ma su ciò io non voglio giudicare. Solo prego lei, se sa qualche cosa o appena abbia qualche notizia, a volermela comunicare. Io torno a Pisa, il giorno stesso in cui si adunerà il Consiglio Superiore70.
Solo a metà gennaio, come Volpe comunicava al suo futuro Preside, ogni nube sembrava dissolta, con la notizia del ripudio del ricorso presentato da Salvemini. La buona novella è venuta finalmente dopo lungo attendere! La tempesta minacciata si è così disciolta senza danni; essa si è esaurita nelle schermaglie e nelle chiacchiere preliminari. Forse le buone intenzioni di annullare non saranno mancate in qualcuno, ma si son rotte dinanzi al verdetto dei primi giudici! Io debbo ringraziare ancora una volta lei che ha contribuito a questo fecondo risultato con non minore sollecitudine che al primo. Debbo dire che cercherò di meritare la fiducia riposta in me? Sarà un obbligo per me, sotto tutti i rapporti. La prova da superare non è facile ed io mi accingo ad essa con qualche timore; ma non manca la volontà ferma di superare gli ostacoli ed adempiere non indegnamente l’ufficio cui sono chiamato. Ed ora si tratta di attendere il decreto di nomina. Io non conosco le consuetudini: si può cominciare le lezioni prima che il decreto venga? Il prof. Cian mi accennava oggi alla possibilità che esso ritardi molto e che io venga perciò sollecitato a rimanere a Pisa per quest’anno, nella supplenza del prof. Crivellucci, per non tagliare in due l’anno scolastico. Potrà ciò avvenire? Sentirò il prof. Dini che sarà in grado di illuminarmi in proposito. Io debbo regolarmi anche per lasciare a tempo opportuno la Scuola Normale dove insegno. Attendo del resto anche un suo cenno, per mia norma. Io ho bisogno di conoscere presto quale sarà il mio destino in questo anno, perché ai primi di marzo mi unirò a donna che mi attende. La mia fortuna ha voluto che io potessi farle un prezioso dono di nozze, quale difficilmente io avrei potuto desiderare più degno. La prego di salutarmi i nuovi colleghi dell’Accademia71.
Lo scontro tra Volpe e Salvemini, sulle cui braci, come si è visto, aveva soffiato impietoso il chiacchiericcio accademico del gruppo fiorentino, ostile in realtà ad ambedue i concorrenti72, era stato evitato, an70 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Santarcangelo di Romagna, 28 dicembre, 1905, FFN. 71 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Pisa, 13 gennaio 1906, ivi. 72 Si veda la lettera di Volpe a Salvemini, il 9 febbraio 1906: «Ciò che mi ha indisposto in questa malaugurata faccenda è stata la condotta dei fiorentini. I quali prima hanno dato
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che se solo di misura. Il degenerare della frattura in contesa dispiegata fu scansato anche, in virtù del comportamento cavalleresco del vincitore, che, seppur con un certo tasso di innegabile ipocrisia (a proposito delle affermazioni relative al suo essersi tenuto lontano da ogni maneggio), aveva scritto allo sconfitto, poco dopo la chiusura dei verbali, condolendosi con lui per il risultato concorsuale e tentando di coinvolgerlo in un progetto culturale di ampio respiro: Volevo scriverti fin dal primo giorno che si diffuse la notizia del risultato, poi non lo feci, anche per l’incertezza della tua sede, in quel momento. Mi crederai sulla parola, che non ha mai mentito, se ti dico che io non aspiravo a questo primato e che meno ancora lo aspettavo? Se ti dico anche che desideravo la tua vittoria sopra tutti noi? Da troppo tempo siamo abituati a considerarti il primo, in ordine di tempo e di merito, della nostra schiera, perché potessimo temere di vederti indietro a qualche altro. Ciò che ho sempre pensato e detto in questi ultimi mesi è: forse nella produzione storica io non sono troppo al disotto, sebbene egli abbia maggiore varietà di lavori; ma egli possiede altre doti che io non ho ed ha per di più 4 anni d’insegnamento universitario. Invece a Roma la hanno pensata diversamente. Non serve io ti dica – fra persone per bene non ci sarebbe il bisogno – che non ho io né mosso un dito né speso una parola per cacciarmi avanti, non ho lavorato nessuno, non ho fatto nulla. Lo stesso mio maestro, prof. Crivellucci, è stato contro di me per te, pur credendomi il migliore fra gli altri rimanenti. Così come sono andate le cose, non posso se non augurarti di prendere presto una rivincita degna di te, per quanto tu, di fronte agli studiosi italiani, sei sempre quello che sei, anche a Messina, e l’insuccesso di questi giorni non ti ha abbassato d’una linea. […] Ora stiamo pensando a qualche modificazione da apportare a Studi Storici, per rianimarli un poco; e, chi sa, non sarebbe impossibile che si mutassero in una rivista più grande, diretta da noi due ed aperta ad una più larga collaborazione di persone, perché ormai di questa scuola pisana i vecchi si sono messi a dormire; i giovani, con tanta incertezza nell’insegnamento sballottato da una mano ad un’altra negli ultimi due anni, non danno più contributo sufficiente. E una rivista che debba poggiare solo sulle spalle di due tre persone è un fastidio per esse e per i lettori73.
un calcio a te, per timore della politica e del materialismo storico; poi hanno ripetuto la stessa operazione con me, per amor tuo. Quei signori procreano figlioli e poi se li mangiano, come Saturno». La lettera è citata in E. ARTIFONI, Salvemini e il Medioevo, cit., p. 149. Sullo stesso punto, Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri, s. d., ma dicembre 1905: «Se c’era uno che potesse essere il successore di Villari a Firenze era il Salvemini: egli noto, stimato a Firenze, in piena simpatia, personalmente, di tutti i professori dell’Istituto. Ebbene essi non ne hanno mai voluto sapere e preferiscono il Cipolla che è quanto più opposto al Villari si possa immaginare. Ma viceversa, ora si sdegnano se altri, probabilmente per le stesse ragioni loro, non vogliono Salvemini». La lettera si concludeva sostenendo che ora che «la Facoltà di Firenze è fuori causa e non teme Salvemini, si riaccende di grande amore per lui, uscito dall’Istituto». 73 La lettera del 3 dicembre 1905 è pubblicata in appendice a E. ARTIFONI, Crivellucci, Salvemini, Volpe e una rivista che non si fece. Nota in margine a una ricerca su Gaetano Salve-
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Di quel progetto Volpe tornava a fornir lumi a Salvemini, nel dettaglio, in una nuova corrispondenza del 16 gennaio 1906, parlando della necessità di dar vita, in collaborazione con «Rodolico, Caggese, Solmi, Luzzatto, forse Arias, Roberti, Romano, Tamassia», a una «rivista diffusa che sia vivo organo di cultura storica anche presso i non specialisti e possa trovare accoglienza anche nella biblioteca delle persone colte e delle scuole secondarie», la quale fosse in grado di «specializzarsi specialmente negli studi della storia economica, storia giuridica, storia delle istituzioni, dei rapporti Stato-Chiesa ecc.», tagliando via «tutti i lavori in cui l’erudizione sia scopo a se stessa», per «agitare invece questioni larghe e vitali» e «lasciare tutto ciò che è caduco e transitorio nella storia e trattare invece di preferenza ciò che ne è la trama»74. Si trattava della messa in cantiere di un modello di collaborazione storiografica originale, che, mentre si sforzava di realizzare un equilibrio tra storici dell’economia e storici del diritto, ritenuti gli esponenti dei due filoni più innovativi della ricerca75, intendeva proiettare la rivista in una più ampia angolatura esterna, per oltrepassare i tradizionali steccati accademici e diffondersi nella borghesia provvista di formazione universitaria e comunque colta, sviluppando una specifica attenzione alla funzione della storiografia nel contesto della cultura nazionale, fino al punto di ipotizzare la possibilità di un circolo virtuoso tra analisi del passato e azione politica nel presente76. Ma nonostante l’interesse dimostrato da buona parte degli interpellati, il programma di svecchiamento della rivista pisana, e anzi la sua trasformazione in un nuovo organo di stu-
mini storico del Medioevo, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XIII, 1979, pp. 273 ss. Il saggio, ripreso in ID., Salvemini e il Medioevo, cit., pp. 145 ss., costituisce la migliore analisi del progetto di modernizzazione del periodico di Crivellucci e del suo fallimento. 74 La lettera è pubblicata in A. CASALI, Storici italiani fra le due guerre. La “Nuova Rivista Storica”, 1917-1943, Napoli, Guida, 1989, pp. XIII-XIV. Dello stesso tono la lettera a Elisa Serpieri del 6 dicembre 1905, CV: «La scuola pisana è decaduta; quella di Milano deve ancora nascere; avremo noi materiale sufficiente, in quantità e qualità, ad alimentare una rivista che non voglia contentarsi – come in questi ultimi anni – di stampare solo scritti miei e del Crivellucci? Perciò rinunciamo all’ambizione di avere un organo nostro proprio, che potrebbe riuscire anche un organetto; apriamo i battenti anche ad estranei, facciamo degli Studi Storici una diffusa rivista che raccolga il meglio che ora si scrive, che abbia un indirizzo non erudito ma storico nel senso ampio e moderno della parola». 75 Ivi. Dove si ipotizzava che la rivista potesse riunire «tutti i giovani più promettenti, di più lunga vista e più larga coltura, capaci di trattare le questioni storico giuridiche e storico economiche». 76 Gaetano Salvemini a Carlo Placci, Roma, 21 gennaio 1906, in ID., Carteggio, 18951911, cit., p. 337: «Stiamo trattando con altri due amici per la formazione di una Rivista storica, fatta con criteri veramente storici. Se, come sembra probabile, il nostro piano riuscirà, avrò molto da fare; e avrò trovato la via per contribuire al progresso della cultura del nostro paese».
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di, con mutato nome («Rivista critica di storia moderna»)77, si trascinò fino al 1908, per poi rimanere privo del risultato sperato e ridimensionarsi seccamente infine, portando, due anni più tardi, soltanto a un rimpasto della direzione, nella quale accanto a Crivellucci sarebbero subentrati Volpe, Salvemini, Giacinto Romano78. Né d’altronde le cose potevano avere esito diverso. L’ipotesi di riunire il gruppo dei giovani storici legati al metodo economico-giuridico, «senza intolleranza od esclusioni assolute», si scontrava, nonostante le buone intenzioni, proprio con quanto Volpe aveva compiuto, con le sue recensioni sulla «Critica», per disaggregare e disarticolare quell’indirizzo, distinguendo tra una tendenza «materialistica», da rigettare, per la sua apertura a un possibile ricongiungimento e quasi commistione tra storiografia e scienze umane, e una «realistica», destinata a fiancheggiare l’orientamento idealistico crociano, senza annullarsi in esso. Nonostante il fallimento, l’ipotesi di attuare una forma di collaborazione storiografica, estesa a studiosi di diversa formazione e indirizzo, costituiva un precedente importante nella biografia intellettuale di Volpe, che sarebbe stata poi ripresa sistematicamente nei decenni a venire, senza mai però registrare più ampio successo. Quel tentativo indicava soprattutto, però, la consapevolezza di dover arrivare, in tempi brevi, alla costruzione di un sapere storico di carattere nazionale, che non a caso coincideva con l’abbandono dell’orgoglioso ma provinciale municipio pisano, anche da un punto di vista squisitamente culturale, per la metropoli milanese. Eppure quel trasferimento fu segnato da dubbi, incertezze, rimpianti. Da una parte, i rumeurs insistenti, provenienti soprattutto da Salvemini e che poi il tempo avrebbe confermato, secondo i quali Novati avrebbe designato Volpe come proprio candidato, non per una preferenza oggettiva per il metodo e i risultati del suo lavoro, come Croce non cessava di ribadire, ma soltanto per sbarrare la strada all’autore di Magnati e popolani79. Dall’altra, ragioni più private, attinenti alla psicologia ruralistica di Volpe, a certa sua ostilità, che gli anni avrebbero solo parzialmente modificato, per la vita trafficata e dispersiva di una grande città, che lo spingevano a confessare alla fidanzata di aver infine quasi desiderato, nel recente concorso, «il secondo o il terzo posto per poter andare a Messina», in sostituzione di Salvemini. Aspirazione sicuramente ambivalente e contraddittoria, ma non retorica, dove duellavano, ad armi quasi pari, «le aspirazioni alla grande città,
77 Amedeo Crivellucci a Gaetano Salvemini, 12 novembre 1908, ivi., p. 250: «E per la nostra rivista non hai concluso nulla? La intitolerei Rivista critica di Storia moderna». 78 A. CRIVELLUCCI, Avvertenza, in «Studi Storici», XIX, 1910, p. 3. 79 Gioacchino Volpe ad Elisa Serpieri, 19 gennaio 1906, CV.
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sede di cultura, di un Istituto eccellente, ma fredda, nebbiosa, troppo popolata, senza campagna e quella alla silenziosa Messina, mite di clima, piena di frutta, di mare, di cielo sereno»80. Più tardi, dopo il disastroso sisma che avrebbe distrutto la «città dello Stretto», sconvolgendo l’esistenza di Salvemini, le ragioni che avevano tenuto in piedi quell’alternativa di desideri, quel «dualismo», sarebbero venuti definitivamente meno. Volpe che aveva accompagnato «una spedizione in Calabria, che portava soccorsi alle popolazioni colpite dal terremoto»81, scriveva infatti a Villari una lettera commossa che conteneva un’offerta d’aiuto per l’antico rivale accademico, sopravvissuto a stento, al prezzo della perdita dell’intera famiglia, a tanta sciagura82. In quei primi mesi del 1906, tuttavia, quel dilemma, ancora parzialmente irrisolto, si rifletteva ancora nella corrispondenza con Novati del 20 gennaio, nella quale Volpe tentava, in tutti i modi, di ritardare il suo cambiamento di sede, adducendo la necessità di non interrompere troppo bruscamente i suoi impegni didattici con la Normale e l’Università di Pisa e le sue ricerche negli archivi toscani. Oggi ho lasciato la Scuola Normale e le lezioni universitarie ed aspetto che il decreto di nomina per Milano mi autorizzi a cominciare il corso costà. L’altro giorno giunse qui al Rettore un telegramma da Roma con cui mi si chiedeva se ero disposto ad accettare la cattedra milanese ed a cominciare senz’altro le lezioni. Un telegramma siffatto mi pare che faccia ritener non lontano il decreto, per quanto tutti qui mi dicano che dovranno ancora passare parecchie settimane prima che esso venga fuori dalle lente fucine ministeriali. Certo io sarei lieto di poter coi primi di febbraio essere a posto. Rinuncerei anche a quei 15 o 20 giorni a cui si ha diritto dopo il decreto di nomina, pur di mettermi subito al lavoro costà; una rinuncia, tuttavia, non pienamente disinteressata, perché dovrà permettermi di chiedere a lei alcuni di quei giorni dopo le vacanze di Carnevale, quando io condurrò a nozze la mia donna. Intanto, io ho scritto a Roma sollecitando, ed impiego questi ultimi giorni di gennaio a far alcune altre ricerche per gli archivi vicini. Qui, in Facoltà, non sanno come fare per trovare un supplente al supplente, dopo la mia partenza. Il Preside crede ancora che io possa essere comandato a Pisa, per il rimanente anno scolastico ed insi80 Ivi. 81 G. VOLPE, Ritorno al Paese, cit, p. 19. 82 Gioacchino Volpe a Pasquale Villari, Milano, s d., CPV: «Leggo sui giornali che Sal-
vemini, la Dio mercè, è salvo. Piango con lui la perdita dei suoi figli e della moglie, ma lui, almeno, è scampato. E pare anche che venga a Firenze, non so se per fermarsi o come prima tappa per recarsi a trovar la madre, qui nell’alta Italia. Scrivo a lei per lui, non sapendo dove altrimenti indirizzare questa mia lettera. Gli chieda se e che cosa posso fare per lui, in questo momento. Accetterebbe qualche mese di modestissima ma fraterna ospitalità a casa mia, a Milano? Posso contribuire in qualche altra maniera ad alleviare (se pure può alleviarsi) la sua sventura? Io non so che cosa e in che modo ma vorrei pur fare».
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ste perché io mi adoperi a questo scopo. Io non ho dato un diniego assoluto, ma ho detto che solo se la Facoltà milanese consentisse a rinunciare per questo anno al suo insegnante, e si accordasse in questo senso con Pisa, io potrei rimaner qui. Ora penso che si potrà agevolare il compito alla Facoltà di Pisa, proponendole un altro supplente, che sarebbe il Rodolico, credo che egli desideri assai l’incarico. Io la ringrazio delle cortesi parole e degli auguri che ha per me nella lettera sua ultima. Certo, questi giorni sono lieti per me, sotto ogni rapporto. Spero anche che l’Insegnamento superiore aggiungerà a queste soddisfazioni delle altre ancora, non meno alte83.
Pretesto a questo indugio, che avrebbe finito per spazientire il Preside dell’Accademia, era anche la resistenza di Capasso, incaricato del corso di storia moderna a Milano, per l’anno accademico 1905-1906, ad abbandonarlo in media re, per far posto al vincitore. Una resistenza, questa, che era perfettamente funzionale al desiderio di Volpe di mantenere, almeno per un altro anno la supplenza dell’insegnamento a Pisa, come si evince chiaramente dalla nuova lettera inviata a Novati, nella prima settimana di febbraio. Iersera tornai da Siena, dopo una assenza di circa 10 giorni e trovai comunicazione del mio decreto di nomina. E feci subito disegno di partir di qui mercoledì prossimo, passare da casa mia a vedere mia madre malata ed essere costà lunedì o martedì per cominciare subito le lezioni. Ma questa mattina mi giunge una lettera del prof. Capasso, incaricato costà all’Accademia, con la quale mi dice che ha già cominciato il corso, che assai gli dorrebbe doverlo interrompere a metà, che i colleghi non avrebbero nulla da ridire se egli finisse l’opera incominciata ed io ritardassi fino ad anno nuovo la mia venuta a Milano. Io ricordo le Sue sollecitazioni di qualche mese fa; ma se il prof. Capasso mi scrive così, non ho alcuna ragione per non credergli. E realmente la scuola non ricaverebbe vantaggio da questo mutamento di insegnanti a metà d’anno. Di più, anche qui a Pisa, da tempo, insistono perché io rimanga nella supplenza del prof. Crivellucci; e se io ho messo difficoltà è stato specialmente per non piantare l’Accademia proprio quando questa aveva il suo insegnante regolare di storia moderna. Né credevo che si rinnovasse l’incarico al prof. Capasso, dato che nel novembre il concorso era già risoluto. Comunque sia, io non ho difficoltà ad accontentare il prof. Capasso, sempre che lei e la Facoltà milanese non abbiano nulla in contrario. Ma è possibile che io rimanga qui come straordinario comandato? Naturalmente non potrei accettare di stare a Pisa come incaricato, con la necessità, per ciò, di conservare l’insegnamento della scuola normale, cioè 15 ore settimanali. E se io rimango, mi vale questo anno per la carriera? E poi, a fin d’anno, chi mi confermerà, Pisa o Milano? Ecco le difficoltà d’indole legale. Se esse potranno risolversi, senza mio danno, lascerò il prof. Capasso nel suo incarico; altrimenti lei intende che sarebbe un chieder troppo da me. Ho 83 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Pisa, 20 gennaio 1906, FFN.
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scritto a Roma per sentire il Ministero ed aspetto per mercoledì la risposta. Sarei contento di aver anche il suo parere per quel giorno, prima che io lasci Pisa. Mi dica francamente se quanto il prof. Capasso mi chiede è di suo gradimento ed è fattibile, e non dannoso a me84.
A metà mese, Volpe appariva tuttavia determinato a recidere il cordone ombelicale che lo legava all’Alma mater pisana e comunicava a Novati il suo pronto arrivo nella nuova sede. Ho rotto finalmente gli indugi ed ho preso la via di Milano, dopo qualche incertezza dovuta alle varie pressioni fatte su di me perché rimanessi a Pisa, per quest’anno. Mi duole per il prof. Capasso, a cui avevo già scritto che non avrei avuto difficoltà a lasciarlo proseguire il suo corso all’Accademia. Ma vedo che le pratiche per il mio comando a Pisa sono lunghe e tutt’altro che sicure; tutti vanno avanti a forza di ‘credo possibile’, ‘credo probabile’, ecc.; io d’altra parte ho fretta di raggiungere la mia sede e di cominciare il corso: seguitando con queste schermaglie, verrebbe il marzo e l’aprile senza che io fossi professore né a Pisa né a Milano, lunedì o martedì sarò costà e mercoledì conto di fare la prima lezione. Ma la avviserò in proposito. Ora debbo fare una corsa a casa mia. Mi scusi presso il prof. Capasso che non mi vorrà male se ho preso una deliberazione che a lui sembrerà non troppo d’accordo con la mia lettera ultima. Ma io dovevo uscire da questa incertezza85.
Milano dunque non affascinava il giovane neo-ordinario. E se, secondo Prezzolini, quella metropoli si era presentata al romagnolo Mussolini come la «capitale elettrica» della modernità86, a Volpe, romagnolo anch’esso, ma anche in fondo «cafone» d’Abruzzo, che pure di quella modernità italiana, capitalistica, industriale, politica sarebbe stato attento analista e storico in presa diretta, il capoluogo lombardo sarebbe apparso piuttosto un dedalo informe di vie senza cuore e senza anima, al quale, avrebbe più tardi, quasi alla fine della sua esistenza, testi-
84 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Pisa, s. d., ivi. 85 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Firenze, s. d., ivi. Come appare dalla succes-
siva corrispondenza con Novati, Volpe, giunto a Milano alla fine di febbraio, ancora alla fine di marzo, non aveva iniziato le lezioni. Si veda la lettera al Preside dell’Accademia, datata Porto Ceresio, 23 marzo 1906, ivi: «Ieri ed oggi volevo venire a Milano per concordare il mio orario; ma ha fatto qui un tempo indiavolato e non mi sono mosso. Domani sabato sarò costà nelle ore pomeridiane e fisserò le ore delle mie due lezioni settimanali, da cominciar subito la settimana entrante». 86 G. PREZZOLINI, Quattro scoperte: Croce, Papini, Mussolini, Amendola, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1964, p. 166: «Milano è una delle poche, forse la sola delle città italiane, dove la vita moderna vibri e dove lo spirito capitalistico, nelle ridotte proporzioni che il nostro paese può avere, si faccia sentire. C’è una congenialità di spirito, di avventura, di individualismo, di dominio del più forte, di organizzazione, fra Mussolini e Milano».
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moniato ancora i sensi di una congenita disaffezione per i ritmi convulsi, per l’inclemenza del clima, per l’apparente freddezza caratteriale degli abitanti87. Ma forse, oltre il distacco emotivo («non della coscienza ma della natura»), pesava su quel giudizio anche il non eccelso livello scientifico dell’Accademia Scientifica-Letteraria, che secondo un testimone di quegli stessi anni, pur «provvista di uomini che facevano grande onore al nome d’Italia nel mondo» (Virgilio Inama, Carlo Salvioni, successore di Graziadio Ascoli, Paolo D’Ancona, figlio di Alessandro, Piero Martinetti), languiva quasi «nella metropoli delle industrie e dei traffici, la quale in fatto di istituti superiori di cultura menava vanto piuttosto del Politecnico, famoso vivaio d’ingegneri; o della giovane Università commerciale, costruita da un gran mercante per dar fuori altri mercanti e banchieri»88. 3. Dati questi presupposti, la capitale ambrosiana e la sua Accademia poco avevano per rappresentare degnamente il ruolo di centro attivo di un globale rinnovamento della storiografia italiana, al cui sviluppo Volpe pensava di poter contribuire attivamente, attraverso l’intervento pubblicato sulla «Critica», nel novembre del 1907, dedicato all’«insegnamento superiore della storia e insegnamento universitario», che faceva seguito ad alcuni interventi del 1902 dedicati ai problemi della scuola89. Il denso contributo, che la rivista di Croce ospitava, prendeva le mosse dal saggio di analogo argomento, pubblicato da Léon Barrau Dihigo, nel 1904, sulla «Revue de synthèse historique»: un periodico, che al suo primo apparire aveva attirato l’attenzione e l’apprezzamento di Croce90, e che Volpe aveva definito «una piccola rivista unica nel suo genere, utile ad ogni ordine di studiosi»91. Pur prenden-
87 G. VOLPE, Ritorno al Paese, cit, p. 19: «Io abruzzese, montanaro, “terrone”, stentai non poco ad acclimatarmi, a Milano: come stenta ad attecchire e crescere un alberello trapiantato in terreno non suo. Strapaese in Stracittà. Ci fu sempre, fra me e la grande Milano, come un tenue diaframma, fatto di nulla, ma pur fatto di qualche cosa: lo stesso diaframma che un uomo del Nord poteva avvertire scendendo al Sud». 88 G. MIRA, Memorie, cit., p. 68. 89 G. VOLPE, Per la scuola secondaria, in «Il Ponte di Pisa», 18 maggio 1902, pp. 4-5; ID., La federazioni degli insegnanti ed il Congresso di Firenze, in «Il Mattino», 6 ottobre 1902, p. 2. 90 B. CROCE, recensione a «Revue de synthèse historique», 1900-1902, 4 voll., in «La Critica», I, 1903, pp. 49 ss., dove pur opponendo forti riserve alla tesi della «sintesi di storia concreta» propugnata, da Henry Beer, la rivista era definita un «luogo d’incontro e un terreno comune», per quanti avessero voluto approfondire quella «importante sezione della logica delle scienze», che era appunto la teoria della storia. Sul programma del periodico francese, si veda L. ALLEGRA-A. TORRE, La nascita della storia sociale in Francia, cit., pp. 191 ss. 91 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, s. l., s. d., FFN.
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do le distanze dai contenuti dell’articolo di Barrau Dihigo e dal dibattito che, in Francia, ne era scaturito, Volpe riconosceva che, al di là e al di qua della Alpi, la ricerca e la didattica storica si trovavano di fronte all’urgente necessità di realizzare un medesimo obiettivo, che, in primo luogo, avrebbe dovuto consistere nello «stabilire un più intelligente coordinamento degli studi storici e di quelli economici giuridici; di creare insegnamenti misti per le due categorie di allievi; di fondere magari le due Facoltà di Legge e di Lettere o almeno di erigere Istituti dove collaborino gli storici dell’una e dell’altra»92. In caso contrario, la storiografia italiana, ancora potentemente condizionata da una forte tendenza letteraria ed erudita, non sarebbe mai riuscita dal suo stato di minorità, restando incapace di cogliere il nesso tra evento e struttura, congiuntura e lunga durata, individualità e azione delle masse, la cui integrazione costituiva il tessuto oggettivo della dinamica storica, la quale, se sicuramente non poteva essere intesa solo a partire «dal comune, dal permanente, dal tipico», risultava, d’altra parte, incomprensibile, in assenza di un’analisi che fosse in grado di operare una sintesi generale, basata «sui punti fermi, sugli elementi costanti in mezzo al flusso perenne, spesso accidentale, delle cose», al fine di ricostruire «le energie elementari e fondamentali e inconsapevoli di questa che chiamiamo “società umana” nelle sue varie unità etniche, nazionali, politiche»93. In questo, gli studi storici del nostro paese, dove sorprendentemente era del tutto assente il grande tema dell’«origine del capitalismo moderno», avevano ancora moltissimo da imparare da quelli tedeschi, che nei settori della storia dell’economia agraria, delle finanze, del commercio, della proto-industria, grazie ai lavori di Darmastäder, Hartmann, Sieviking, Schulte, Schnedider e dello stesso Sombart, avevano abbattuto «quei confini fra territori e territori del sapere che a noi la tradizione accademica presenta come inviolabili», abituandosi a considerare, grazie soprattutto alle opportunità offerte dalla più elastica struttura dei loro ordinamenti universitari, «come compito e parte essenziale dell’ufficio di storico il dar precisa espressione giuridica a fatti relativi al diritto e alle istituzioni, l’analizzare minutamente un determinato ordinamento economico»94. Questi stessi argomenti erano rilanciati, l’anno successivo, nella rivista pedagogica, fondata da Giuseppe Lombardo e Giovanni Gentile,
92 G. VOLPE, Insegnamento superiore della storia e insegnamento universitario, cit.,
pp. 5-6.
93 Ivi, pp. 9-10. 94 Ivi, p. 11. Più diffusamente sullo stesso punto, si veda ID., Rassegna di studi storici,
cit., pp. 684 ss.
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«Nuovi Doveri», che si faceva portavoce dell’esigenza di cambiamento della scuola italiana, poi realizzata con la riforma del 192495. In quella sede, appariva un questionario, redatto da Volpe, dove si chiedeva agli studiosi italiani di esprimersi su tre quesiti di carattere generale: «quali insegnamenti nuovi si ritenessero necessari nella Facoltà di Lettere, per i giovani che si danno agli studi della storia antica e moderna»; «se devesi o non conservare la obbligatorietà e la durata attuale dei corsi ora prescritti»; «se fosse utile dare ai giovani libertà dopo il primo biennio, portando nell’ordinamento e nei rapporti attuali delle Facoltà quelle modificazioni che siano nel caso, oppure organizzare piena libertà di studi modificando radicalmente il regime dei corsi»96. Volpe chiedeva personalmente, sia a Villari che a Croce, di prendere posizione su questi interrogativi97. Ma senza successo. All’inchiesta però rispondeva una folta e differenziata schiera di intellettuali, che comprendeva storici puri, storici dell’economia, del diritto, della letteratura, ma anche economisti e scienziati della politica: Luigi Einaudi, Umberto Ricci, Achille Loria, Rodolfo Renier, Giuseppe Tarozzi, Giovanni Vidari, Amedeo Crivellucci, Francesco Coletti, Guido Mazzoni, Arturo Graf, Adolfo Faggi, Guglielmo Ferrero. Molte le reazioni interlocutorie, prive di mordente e di originalità, come quelle di Tarozzi, Mazzoni, Graf, che si concentravano sulla necessità di slargare semplicemente l’insegnamento storico al di là delle strettoie curriculari, superando la struttura didattico-scientifica della Facoltà in quella dell’Istituto98, alle quali si accodava Umberto Ricci, che rilanciava genericamente la proposta di Volpe, relativa a un fecondo connubio tra storici ed economisti99. Anche
95 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 23 febbraio 1907, AFG: «Ti sarei grato se volessi farmi un regalo. Ho bisogno dei tuoi studi sulla filosofia medievale. Ne hai una copia disponibile? Se mai, ti prego di mandarmela con la massima sollecitudine. E te ne ringrazio sin d’ora. Ebbi da Lombardo notizia di una nuova rivista vostra. Auguri al nascituro». 96 G. VOLPE, Ancora dell’insegnamento superiore della storia e della riforma universitaria, in «Nuovi Doveri», II, 15 aprile 1908, pp. 93 ss 97 Gioacchino Volpe a Pasquale Villari, Milano, s d., CPV: «Le sarei molto grato se volesse dirci il suo giudizio sulla questione che io ho sollevato nella Critica (fasc. 6° del 1907) ed ora di nuovo sui Nuovi Doveri. Io credo di averle mandato l’estratto della Critica ed ora da Palermo le avranno inviato quello dei N.D. […] Quello che lei scriverà a me sarà pubblicato nei N.D. con la altre risposte che perverranno; e poi tutto insieme in un volume a parte. La ringrazio fin d’ora, con affetto di discepolo»; Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 13 maggio 1908: «Mi manderebbe anche lei una risposta ai quesiti che ho posto nei Nuovi Doveri? Terrei al suo giudizio, come giudizio di persona che coltiva gli studi con tanto onore e che, essendo fuori dall’insegnamento ufficiale, può portare vedute ed esperienze proprie e diverse. Sarebbe anche da scrivere un breve articolo sul Giornale d’Italia. Ha mezza ora da buttar via? Sono indiscreto, è vero…» 98 «Nuovi doveri», II, 31 luglio-15 agosto 1908, pp. 206 ss. 99 Ivi, p. 243.
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Loria, ancora incattivito dalle ferite infertegli dall’aspra polemica crociana, evitava il problema e affermava addirittura di considerare impraticabile ogni tentativo di riforma, sostenendo che nell’università italiana era in atto una vera e propria «persecuzione accademica contro quanti osano affermare il substrato economico della storia»100. Non così reagiva Luigi Einaudi, che prendeva di petto la questione messa sul tappeto, analizzandola in tutta la sua complessità. Nel suo intervento, pur riconoscendo con Volpe, che l’insegnamento storico-economico era praticamente nullo nei circuiti universitari, Einaudi riteneva tuttavia un rimedio, peggiore del male, il voler istituire frettolosamente cattedre specifiche di storia economica, in assenza di docenti che fossero stati in grado di ricoprirle degnamente. Bisognava, quindi, opporsi al frettoloso «irrompere del diritto e dell’economia nel campo tradizionale della storia», se questo doveva avvenire attraverso semplificazioni pericolose come l’«interpretazione naturalistica della storia» o il servile ossequio alla «scuola tedesca dell’economia». Meglio era orientare gli storici attualmente operanti verso le problematiche giuridico-economiche, sollecitando una sensibilità largamente diffusa a seguito del «gran discorrere che nell’ultimo decennio si è fatto di materialismo storico, di interpretazione materialistica della storia», attraverso l’acquisizione di competenze tecniche peculiari provenienti dalla statistica, l’economia, la scienza delle finanze. Occorreva dunque, al di là dell’istituzione di nuovi, specifici insegnamenti, rafforzare la tendenza economico-giuridica, che si andava affermando negli studi storici e che, nei suoi esponenti migliori, puntava sul superamento dei nessi generici tra «i fatti politici e le istituzioni giuridiche e il cosiddetto substrato economico», e non si accontentava più dello studio delle fonti economiche ma si era impossessata invece della ricca strumentazione concettuale proveniente dalle «scienze giuridico-economiche», presente nelle opere di Marshall, di Pareto ma anche nelle «sottili disquisizioni sulla traslazione delle imposte del Pantaleoni, dell’Edgworth, del Seligman», che costituivano un necessario antidoto alla vulgata marxiana e all’orientamento della scuola economica tedesca, in molti casi digiuna dei principi teorici basilari dell’economia e rinchiusa nella gabbia di un mero positivismo documentario101. In linea con la proposta di Volpe, Gaetano Mosca suggeriva invece, come soluzione provvisoria, che gli studenti della Facoltà di Lettere, interessati agli studi storici, avessero potuto frequentare, in quella di Giurisprudenza, gli insegnamenti giuspolitici ed economici (Istituzioni di diritto romano, Storia del diritto romano e italiano, 100 Ivi, p. 244. 101 Ivi, pp. 240 ss.
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Economia politica, Diritto costituzionale) ma anche e soprattutto Scienza della politica, negli atenei dove era stato attivato il corso libero di questa disciplina. In questo quadro, Mosca formulava una definizione delle discipline storiche perfettamente congrua con quella di Volpe, in quanto queste dovevano essere strettamente irrelate allo studio delle «istituzioni politiche, economiche e giuridiche delle varie civiltà umane», con particolare riferimento allo studio dell’organizzazione politica e statuale102. Interveniva nel merito della questione anche Amedeo Crivellucci, con un contributo che oltrepassava largamente il piano pedagogico e culturale, approvando senza riserve l’apertura della storia alle scienze giuridiche ed economiche, che avrebbe potuto essere favorita da un mutato assetto dei corsi di laurea, ma dichiarandosi del tutto scettico riguardo a ogni possibilità di riforma, che avrebbe dovuto emanare dal vigente assetto politico, corroso dai mali del parlamentarismo e della partitocrazia. Quante buone ed utili riforme potrebbe fare nel campo degli studi un uomo di governo che fosse non d’oro o d’argento, ma semplicemente di legno buono, tagliato da sana pianta d’alto fusto. Pur troppo, Montecitorio dà solo ranuncolacee e cucurbitacee. La Nazione, che val meglio del suo Governo, passando attraverso il filtro avvelenato delle elezioni, diventa, nella sua rappresentanza, tutt’altro da quello che è. Ma la Nazione farà da sé, e sintomi a bene sperare non mancano. La Nazione vincerà le resistenze parlamentari e burocratiche, eliminerà l’anarchia impotente – intellettuale, morale, politica – che regna nelle alte sfere e che a nome suo la sgoverna. Tra 50 anni, la storia ne farà giustizia e la metterà alla gogna103.
In questo punto, la discussione lanciata da Volpe rivelava scopertamente il suo retroterra politico e si saldava al più esteso dibattito sulla necessità di contestualizzare il piano di riforma della pubblica istruzione nel quadro di un più ampio programma di rinascita culturale e civile, che riuniva, senza distinzioni, il pur composito partito antigiolittiano degli intellettuali determinato a battersi con la stessa energia contro il malgoverno dell’Università e contro quello dello Stato104. Nel corso del 1908, Giovanni Gentile, insoddisfatto della sede di Palermo, aveva tentato di trasferirsi, all’Università di Napoli, nella cattedra di Storia della filosofia, che era stata di Alessandro Chiappelli. Il tentativo falliva, per la chiusura corporativa del ceto accademico partenopeo e no-
102 Ivi, II, 30 novembre-31 dicembre 1908, pp. 349-350. 103 Ivi, II, 31 ottobre 1908, pp. 310-313. 104 E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repub-
blica, al capitolo II.
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nostante l’interessamento di Croce, che, stigmatizzando quell’episodio, scriveva una lettera aperta di protesta al ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Rava, sulle pagine di «Nuovi Doveri», poi ristampata anche su «La Voce» e infine edita separatamente, da Laterza, nel 1909, con il sulfureo titolo: Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana105. La mancata chiamata di Gentile suscitava lo sdegno di gran parte del mondo della cultura106, e di Volpe in particolare, che scriveva all’amico: «Ho letto in questi giorni l’opuscolo del Croce sul tuo “caso” napoletano, che del resto già conoscevo. Io non te ne ho scritto mai; ma mi crederai se ti dico che sono stato solidale con te, in ispirito, e che ho profondamente deplorato la condotta di quei signori, per i quali l’Università è quasi patrimonio di famiglia da amministrarsi secondo i criteri del maggior tornaconto personale. Per disgrazia, gente così fatta è ancora l’arbitra della nostra vita universitaria, per la forza loro e per la debolezza della pubblica opinione italiana. Ma finirà, per Dio, anche questo!»107. L’anno successivo, Salvemini pubblicava un libello, destinato a restare famoso, che descriveva nel dettaglio la gestione «malavitosa» delle elezioni, nel collegio pugliese di Gioia del Colle, dove lo storico si era presentato, per ricevere una sonora bocciatura, in gran parte dovuta alle interferenze dei poteri prefettizi e alle minacce dei mazzieri del partito governativo108, che si erano rivelate decisive nel corso di una competizione impari, che sempre Salvemini, di lì a pochi anni, avrebbe rinnovato senza successo e che pure, commentava Volpe, aveva sortito il non piccolo risultato di «aver avuto il consenso di tutta la gente per bene, nell’aver seminato per il prossimo raccolto, nell’aver contribuito alla fine – che non potrà tardare – dell’assolutismo giolittiano»109. Pure divise e anzi contrapposte dalle vicende concorsuali del 1905, le biografie politiche dei due storici si mantenevano ancora fortemente unite,
105 Sul punto, G. TURI, Giovanni Gentile, cit., pp. 178 ss. 106 Si veda rispettivamente Giovanni Gentile a Benedetto Croce, 2 giugno 1908, in
Giovanni Gentile, Epistolario V. Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni, 1976, pp. 216-217 e Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, 22 giugno 1909, in Carteggio Gentile-Pintor, cit., p. 196. 107 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 1 maggio 1909, in AFG. 108 G. SALVEMINI, Il ministro della mala vita. Notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale. A cura di S. Bucchi con una nota di G. Arfé, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. 109 Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, s. d., s. l. [ma 1913] in G. SALVEMINI, Carteggio, 1912-1914, a cura di E. Tagliacozzo, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 128. Sulla denuncia dei brogli e delle violenze che contraddistinsero le elezioni pugliesi del 1913, a cui Salvemini aveva partecipato, si veda la campagna di stampa organizzata dal periodico diretto da Salvemini, ora raccolte in L’Unità di Gaetano Salvemini, a cura di B. Finocchiaro, Venezia, Neri Pozza Editore, 1958, pp. 263 ss.
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non in questa sola vicenda. Nel giugno del 1908, Volpe si complimentava con Salvemini per un’anticipazione del suo volume dedicato alla riforma della scuola media, composto insieme ad Alfredo Galletti, che gli appariva un’opera la quale non poteva essere stata scritta «senza spirito di disinteresse» e che costituiva lo strumento più adeguato a denunciare «la vergogna della nostra felicissima repubblica storico-letteraria che è nelle mani di tre o quattro dittatori che entran sempre da per tutto – concorsi universitari, concorsi secondari, ispezioni, inchieste»110. In quel libro, Salvemini aveva fornito un’indiretta risposta agli interrogativi formulati su «Nuovi Doveri», concordando sulla necessità di orientare lo studio della storia «alla osservazione dei fatti politici sociali» per fornire «la coscienza sicura della continuità, complessità, causalità del processo storico», che avrebbe consentito di bandire l’inutile specializzazione di carattere erudito111. La replica rimandava, per il dettaglio della questione, «ai problemi sollevati dal Volpe nella “Critica” del 20 novembre 1907», nel punto in particolare dove si ipotizzava la possibilità che la ricerca storica, rinnovata dai suoi fondamenti, fosse in grado di colmare l’abisso che nella società italiana separava l’attività scientifica da quella pratica, con reciproco nocumento di questi due fondamentali settori della vita associata. Le nostre classi dirigenti, e bisogna dire anche chi studia le questioni attuali di economia e di politica, son povere di senso e di coltura storica. Per la gran maggioranza degli uomini che siedono nel Parlamento, l’Italia comincia con la breccia di Porta Pia, anche se nell’intingolo dei loro discorsi cacciano ancora Romolo e Remo. Abbiamo sulle spalle il peso di una questione di rapporti Stato-Chiesa, e pochi la conoscono oltre la data della legge delle Guarentigie; abbiamo tante altre questioni di economia agraria – sistemazione degli usi civici, razionale ordinamento collettivo di boschi e pascoli montani ecc. – per le quali il legislatore avrebbe molto aiuto dalla conoscenza storica di quei rapporti, tanto più che – lo riconoscono i più intelligenti fra i tecnici ed economisti rurali odierni – in molti punti, riformare vorrà dire ritornare all’antico in tutto o in parte. E viceversa: noi, storici, siamo poveri di cultura moderna, in genere; vediamo rincorrersi sotto i nostri occhi le ondate piccole e grandi della vita contemporanea, e raramente le sappiamo valutare per quel che valgono. Conosciamo troppo poco gli uomini, le istituzioni e le correnti intellettuali che ci si muovono attorno, come se essi fossero, qualitativamente, tutt’altra cosa da quelli consacrati e riabilitati dalla veneranda antichità. Noi incontriamo ad ogni passo uomini dottissimi nella conoscenza dei più minuti particolari del passato, ma
110 Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, 3 giugno 1908, cit. 111 G. SALVEMINI-A. GALLETTI, La riforma della scuola media, maggio 1908, in G. SALVEMINI,
Scritti sulla scuola, a cura di L. Borghi e B. Finocchiaro, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 553 e pp. 563 ss.
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che danno invece giudizi puerili e antistorici se si accostano ai viventi. Fanno professione di obiettività ed enumerano in bell’ordine, ogni momento, le qualità del perfetto storico obiettivo, mentre son trascinati e insudiciati dal fiumiciattolo dei loro pregiudizi di classe, di gruppo, di cenacolo accademico, ogni volta che si presenta ai loro occhi qualche scena di vita sociale che rompa certe linee tradizionali. In molti, tale ignoranza e tale inintelligenza del presente assumono addirittura le forme di una fobia, che li fa guardare con disprezzo a quanto si svolge sotto i loro occhi ed assumere continuamente l’aria dei soliti “laudatores temporis acti”. Cattivo segno! Uomini siffatti sono, nove volte su dieci, chiusi anche ad una retta intelligenza del passato, sono raccoglitori non ricostruttori, eruditi non storici; non vedono in atto quella continuità della vita storica senza di che il passato è un cimitero112.
Non che la storia potesse essere magistra vitae, ma che piuttosto la vita potesse essere magistra historiae, e che, in ogni caso, l’analisi del passato dovesse porsi necessariamente, per aver valore, il «problema storiografico» del presente era, infatti, la conclusione che scaturiva dal dibattito sull’insegnamento superiore della storia, che Volpe avrebbe ancora una volta rinnovato, nel 1913, nella relazione collettiva su Insegnamenti e studi, presentata al Congresso dell’Associazione Nazionale dei docenti universitari113. Quel dibattito, ricco e articolato, aveva visto, però, largamente assenti i colleghi milanesi, quasi a evidenziare gli scarsi rapporti tra essi e l’autore dell’inchiesta del 1908. Impressione, questa, forse non del tutto esatta, dato che l’integrazione di Volpe nell’ambiente accademico, e più generalmente intellettuale, di Milano aveva registrato dei progressi significativi, già a pochi anni dal suo trasferimento. A determinare quella modificazione dei rapporti servì certamente la sua partecipazione alle maggiori associazioni culturali della città: non solo e non tanto, alla Società storica lombarda114, nella quale Volpe fu sempre assai poco attivo, quanto piuttosto al Circolo filologico, di cui lo storico sarebbe divenuto presidente nel 1921, per commemorarne poi il cinquantenario della nascita con parole di non formale elogio, che lo definivano «come efficace integratore degli istituti superiori e, in parte medi di Milano, oltre che utile a quel vasto ceto medio che non bazzi-
112 G. VOLPE, Insegnamento superiore della storia e insegnamento universitario, cit., pp. 16-18. 113 Poi pubblicata in ID., Storici e maestri, cit., pp. 21 ss. 114 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Milano, 5 gennaio [1907], , FFN: «Egregio signor Preside, volevo venire a trovarla: ma le cure della paternità si sono aggiunte in questi giorni alle altre degli studi. E così le mando per iscritto il mio ringraziamento come presidente della Società Storica. Voglio augurarmi che questa non abbia fatto un acquisto inutile col nuovo socio che qui si sottoscrive. Comunque sia, grazie a lei ed agli altri della società che mi hanno voluto a consorte».
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ca le università ma non vuol rimanere estraneo alla coltura, anzi a volte la apprezza di più perché essa ai suoi occhi non prende colorazione scolastica»115. All’interno del Filogico, un po’ circolo di lettura, un po’ centro di conferenze qualificate, aperte a un ampio pubblico borghese escluso dalla formazione universitaria, il nuovo socio stringeva un forte sodalizio con Alessadro Casati, patrizio milanese di antica schiatta, legatissimo a Croce, ed esponente di punta dell’inquieta religiosità ambrosiana116, che Volpe avrebbe definito come la piccola eresia di coloro che «richiamandosi ad una per lo più genuina e più liberale tradizione cattolica, volevano restaurare il vero spirito del cattolicesimo storico, senza per questo distaccarsi dal grande corpo della Chiesa»117, con una definizione che bene racchiudeva le aspirazioni e i limiti di questa componente del movimento modernista, sulla cui rivista, «Il Rinnovamento», diretta da Casati, insieme ad Aiace Antonio Alfieri, Alessandro e Tommaso Gallarati Scotti, veniva pubblicato, nel corso del 1907, il lungo saggio, Eretici e sette ereticali nei loro motivi e riferimenti sociali118. Con la stesura di quel contributo, si configurava, per Volpe, un incontro con il Modernismo, che non fu né fortuito né casuale, né dettato da estrinseche ragioni di moda culturale, come invece venne ipotizzato da Gaetano Salvemini119, e,
115 G. VOLPE, Una grande istituzione di coltura. Il Circolo Filogico Milanese. Discorso
per la ricorrenza cinquantennale, in «La Lettura», XIII, 1 febbraio 1923, 2, pp. 107 ss., in particolare p. 113. 116 V. E. ALFIERI, Una famiglia lombarda di patrioti: i Casati, in ID., Maestri e testimoni di libertà, Milazzo, Spes, 1985. 117 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., II, p. 322. Sul punto, si veda L. BEDESCHI, Modernismo a Milano, Milano, Pan, 1974. 118 G. VOLPE, Eretici e moti ereticali dall’XI al XVI secolo nei loro motivi e riferimenti sociali, in «Il Rinnovamento», gennaio-giugno 1907, I, pp. 633 ss.; luglio-dicembre, II, pp. 19 ss. e pp. 261 ss., poi in ID. Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (sec. XI-XIV), edito da Vallecchi nel 1922. Il volume è stato recentemente riproposto nell’edizione a cura di C. Violante, Roma, Donzelli, 1997, da cui citiamo. Su quel saggio così Volpe si esprimeva nella lettera a Gentile del 1 maggio 1909, AFG: «Sono lieto che ti sia piaciuto quel mio lavoretto sugli eretici, che mi è venuto snocciolando sotto la penna, quasi senza intenzione, mentre attendevo a preparare due conferenze per la Società Dantesca, qui a Milano. Se lo scrivessi ora, avrei molte più cose da dire su quell’argomento; ma lo scrissi quasi d’un fiato ed ha forse i pregi che a certi lavori vengono dalla rapidità della concezione e della stesura. Se tu ne avessi scritto qualcosa sulla Critica ne avrei avuto molto piacere; se non sulla Critica altrove». 119 Gaetano Salvemini a Carlo Placci, 2 ottobre 1907, in ID., Carteggii. 1895-1911, a cura di E. Giancarelli, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 370: «Gli articoli del Volpe sulle eresie sono molto solidi, molto nuovi e molto geniali. Io li ho letti con piacere e con profitto. Ma mi pare strano che il “Rinnovamento” li abbia pubblicati senza nessuna riserva: sono il frutto di un pensiero, se non ateo, certo indifferente di fronte al fatto religioso; il Machiavelli non tratta con metodo diverso la storia del Papato. Quei giovanotti del “Rinnovamento” mi
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sulla base di quel giudizio, da altri interpreti120. Se per Giovanni Gentile, infatti, pur nel contesto di un giudizio assai negativo121, quella moderna eterodossia appariva come «uno dei fatti di maggiore interesse spirituale e filosofico di questo momento storico» e «forse il più importante dal punto di vista storico generale o della Kulturgeschichte»122, se «La Voce» la poneva al centro dei suoi interessi, come essenziale fattore di modernizzazione della vita spirituale italiana123, Volpe l’avrebbe considerata, nel saggio del 1923, destinato a tracciare un profilo sintetico del progresso intellettuale dell’ultimo cinquantennio, come un esempio significativo della «fase di avviato rinnovamento della nostra coltura»124. Era un giudizio, molto diverso da quello espresso da Croce che bollava i nuovi profeti del «Cristianesimo perfettibile» di superficialità e di irrazionalità125. Un giudizio, che nasceva anche dall’assidua frequentazione, a partire dal 1906, all’informale cenacolo, che faceva capo Casati e a Giovanni Boine, allora allievo dello stesso Volpe, ambedue partecipi in quel periodo di un progetto di storia della Riforma in Ita-
sembrano ogni giorno più strani; sono anch’essi molluschi. Scrissero anche a me perché collaborassi alla rivista. Risposi che non mi sentivo di compiere questo atto di insincerità e di rendere omaggio alle idee cattoliche, che io rispetto, ma che non sono le mie, neanche nel figurino modernista». 120 R. MORGHEN, Medioevo cristiano, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 196, dove si sosteneva che l’interesse di Volpe per l’eresia «si esaurisce in astratti schemi a base di lotta di classe e di parte». Diversamente, G. CRACCO, Eretici ed eresie medievali nella storiografia contemporanea, in «Bollettino di Studi valdesi», 1994, 174, pp. 16 ss., in particolare pp. 21 ss., e ora soprattutto l’ampia introduzione di C. Violante a Movimenti religiosi e sette ereticali, cit., pp. VII ss. Sul Volpe studioso dell’eresia, si veda anche, O. CAPITANI, Introduzione a L’eresia medievale, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. 13 ss.; ID., Da Volpe a Morghen: riflessioni eresiologiche a proposito del centenario della nascita di Eugenio Dupré Theseider, in «Studi medievali», 1999, 1, pp. 305 ss. 121 G. GENTILE, Il Modernismo e l’Enciclica “Pascendi” (1908), in ID., Il Modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Firenze, Sansoni, 1962, p. 75: «Il cattolicismo, liberatosi dai modernisti, rinverdirà ancora una volta sul suo tronco secolare, mettendo nuove fronde, determinando sempre più rigidamente la coscienza della propria logica. La quale non può morire, perché Platone non muore; perché, non saranno né il Loisy né il Tyrrell a farlo morire, ma ci saranno sempre anche troppi uomini ad aspettare la voce di Dio dall’alto del Sinai». 122 Ivi, p. 41. 123 G. PREZZOLINI, “La Voce”, 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, cit., pp. 344 ss. Sul lievito del modernismo, come momento di rinnovamento della coscienza nazionale italiana, si veda, in particolare, il giudizio di Antonio Anzilotti, La crisi spirituale della democrazia italiana. Per una democrazia nazionalista, Faenza, Novelli e Castellani, 1912, pp. 62 ss. e in particolare p. 69. 124 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 42-43. 125 B. CROCE, Di un carattere recente della letteratura italiana, apparso nel 1907 sulla «Critica», poi in ID., La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, 1973, IV, p. 190.
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lia126, che non escludeva interessi in grado di transitare dall’eresia religiosa a quella politico-sociale: visto e considerato che se, nel 1908, Boine pubblicava un saggio dedicato a Serveto e Calvino sulle pagine del «Rinnovamento»127, Casati nel 1910 intraprendeva una ricerca su Filippo Buonarroti128. Ma era soprattutto all’intenso scambio di opinioni con Boine, ricordato molto più tardi da Volpe in una commossa lettera a Giuseppe Prezzolini129, che va fatta risalire la consapevolezza, già manifestatasi nel 1907, della necessità di una storia della vita religiosa, indispensabile per portare a compimento un adeguato progetto di storia generale, che non poteva limitarsi al dato giuridico, economico, sociale. Vi è una certa fioritura di studi attorno alla storia del pensiero e delle dottrine religiose o aventi attinenza al fenomeno religioso. Anche l’Italia è un po’ trascinata dalla corrente. A differenza di altri popoli nella cui vita passata il fatto religioso occupa un alto posto e profondi problemi di religione segnano l’inizio della loro storia nazionale (parlo specialmente dei Tedeschi e di tutti gli Anglo-Sassoni in genere), noi finora non ci eravamo sentiti affatto attratti da questo ordine di ricerche. Tutto il nostro interessamento per quanto si riferiva ad istituzioni religiose, finiva con lo studio dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, la cui importanza pratica non isfuggiva a nessuno. Ma ora si sentono novità per l’aria anche da noi. Ultimamente, nello spazio di poche settimane, due nuove riviste sono sorte, il Coenobium che si stampa a Lugano ed Il Rinnovamento, che è una Rivista critica di idee e di fatti, diretta da tre giovani studiosi milanesi, A. Alfieri, A. Casati e T. Gallarati Scotti, rivolta “ad una generale elevazione della vita dello spirito del Cristianesimo”, mediante il rinnovamento della coltura italiana, “troppo estranea ancora a quella preoccupazione dei fatti dello spirito stesso senza cui ogni progresso esteriore è povera cosa”. Noi, che non siamo forse all’unisono col pensiero religioso e politico dei promotori, siamo lieti tuttavia che in essi si alimentino tali aspirazioni. Dal punto di vista nostro, anzi, ci ripromettiamo da questi moti di coscienze un po’ compenetrate di misti-
126 Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 11 luglio 1908 e Alessandro Casati a Giovanni Boine, 24 luglio 1908, in G. BOINE, Carteggio III. Giovanni Boine-Amici del “Rinnovamento”, 1905-1917, a cura di M. Marchione e E. Scalia. Prefazione di G. Vigorelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, 2 voll., I, pp. 87 e 101. 127 ID., Serveto e Calvino, in «Il Rinnovamento», II, 1908, 5-6, pp. 297 ss. 128 Alessandro Casati a Giovanni Boine, 2 giugno 1910, in G. BOINE, Carteggio III, cit., I, p. 408: «Lavoro, un po’ alla stracca, intorno al Buonarroti. Questi dimorò qualche tempo, nel 1794, a Oneglia e nelle tue terre in qualità di agente politico presso l’esercito d’Italia, anzi di nominato governatore dei paesi tolti al Piemonte. Chissà se fra le tue cartacce non ve ne sieno che rechino la firma del famoso agitatore?» 129 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 7 febbraio 1964, in Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, d’ora in poi AGP, dove si ricordava il «povero Boine, che io non posso considerare e chiamare mio scolaro, perché venne all’Accademia già formato e con suo proprio modo di ordinare, chiarire, comunicare altrui; ma che io ricordo attento ascoltatore e acuto conservatore fuori della scuola».
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cismo, un impulso alle indagini di storia religiosa, delle quali vediamo vicino a noi, da vari anni, una promettente rifioritura130.
Il rapporto di Volpe con il circolo modernista di Milano non si esauriva, quindi, in quell’isolata collaborazione al «Rinnovamento», prima ricordata. Tra 1907 e 1912, si avviava e in parte si concretizzava il tentativo di promuovere una corrente di studi storico-religiosi, della quale sarebbero stati protagonisti gli allievi dell’Accademia scientificoletteraria131, tra i quali emergeva l’inquieta spiritualità di Clemente Rebora che si sarebbe dedicato all’analisi del Saggio su l’incivilimento umano di Romagnosi132. Nel 1910, Giovanni Amendola riceveva la proposta di Casati di assumere la direzione, assieme a Boine, di «una rivista trimestrale, prevalentemente storica per gli studi filosofici e religiosi, ma con intonazione teorica», che avrebbe dovuto impegnare parte dei vecchi collaboratori del «Rinnovamento», che aveva cessato le pubblicazioni, insieme a «qualche universitario come Martinetti, Volpe e Ruffini, e i migliori e più adatti che si trovino dappertutto»133. Al nuovo periodico, il cui disegno per un tratto parve potersi evolvere in quello di una rivista di storia generale, con Volpe e Salvemini134, si doveva130 G. VOLPE, Rassegna di studi storici, cit., pp. 690-691. 131 ID., Prefazione a Toscana Medievale, cit. p. XVII; ID., Ritorno al paese, cit., pp. 18-
19.
132 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 27 febbraio 1909, AFG: «Ad un mio scolaro laureando, che mi chiedeva un tema, ho consigliato di studiare il Romagnosi, il suo pensiero politico, la sua cultura storica ecc. Da quel poco che so del Romagnosi, mi son fatto l’idea che non molto si sappia di lui e molto meriterebbe si sapesse. Ti pare che l’argomento sia ben suggerito e che la ricerca possa approdare a risultati utili? Tu hai di questi uomini e di questi tempi una conoscenza assai maggiore che io non abbia e mi saprai dare qualche schiarimento, forse anche qualche indicazione bibliografica che arricchisca le mie e giovi a me ed al mio scolaro». Sui rapporti tra Volpe e Rebora, si veda la lettera a Carlo Martini del 19 febbraio 1960, AGP: «Caro e bravo Boine! Lo ho sempre presente; ho sempre negli orecchi, gli ultimi tempi, la sua dura tosse, l’accento della sua voce. La sua immagine e il suo ricordo si associano in me al ricordo e all’immagine di Clemente Rebora, coetaneo di Boine, mio allievo anche lui, spirito irrequieto e ansioso anche lui, l’uno più incline al filosofare, l’altro più al poetare». 133 Giovanni Amendola a Giovanni Papini, 3 settembre 1910, in E. KÜHN-AMENDOLA, Vita con Giovanni Amendola. Epistolario, 1903-1926, Firenze 1961, pp. 171-172. Si veda anche la lettera di Casati a Boine dell’agosto 1910, in G. BOINE, Carteggio III., cit., I, pp. 458-459: «La rivista e i corsi di storia religiosa italiana riempiranno la lacuna lasciata dal Rinnovamento. Era un obbligo morale per me il continuare un simile lavoro, in condizioni più libere e senza la responsabilità d’un programma che non potevo in tutto e per tutto accettare. La Voce e i Quaderni non ne scapiteranno affatto. Sono cose distinte. Tutto sta che Amendola si trasferisca davvero a Firenze come direttore della Biblioteca filosofica. Ma, ripeto, per ora la cosa è “segretissima”. Neppure Soragna e Jacini che dovrebbero partecipare alla cosa non ne sanno nulla». 134 Alessandro Casati a Giovanni Boine, 26 agosto 1910, in G. BOINE, Carteggio III.,
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no affiancare, sempre con la direzione di Amendola, una serie di corsi sulla «storia religiosa d’Italia», da tenersi presso la Biblioteca filosofica di Firenze. Questo progetto si sarebbe ampliato, sempre nel 1910, in un «corso di lezioni sul pensiero filosofico e religioso, e sull’origine e il valore dei movimenti democratici», grazie al contributo dei maggiori intellettuali italiani e stranieri: Angelo Crespi, Georges Dusmenil, Roberto Michels, Felice Momigliano, Giuseppe Prezzolini, Alberto Caroncini. In particolare, a Boine doveva toccare la Controriforma in Italia135, a Giovanni Papini le origini italiane della filosofia inglese, a Gaetano Salvemini la filosofia politica in Francia prima della Rivoluzione, a Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, Tommaso Gallarati-Scotti il pensiero e la vita religiosa in Italia dal X al XIII secolo: a) Rapporti tra Chiesa e Stato nell’Italia medievale; b) la filosofia scolastica; c) il misticismo»136. In quella sede, durante il 1912, Volpe pronunciava quattro conferenze dedicate a Chiesa e Stato di città nell’Italia medievale, dedicate al confronto e allo scontro tra potere civile e spirituale, nella stagione comunale, che erano definiti fecondi di «pratici insegnamenti, per chi abbia ancora di fronte, come ha il popolo italiano, una complessa questione di rapporti fra Stato e Chiesa da risolvere»137. In questo contesto, ricchissimo di stimoli intellettuali che il mondo
cit., I, p. 460: «Soragna e Jacini mi avevano appunto scritto tempo fa del loro proposito fermo di fondare una rivista di studi religiosi nel … 1914. Giustissimo prepararsi con tutta calma; ma intanto! Intanto lasceranno il campo a Minocchi o peggio a Crespi, e con che danno lo puoi immaginare. Io avevo pensato mesi fa a una rivista storica sintetica, con Volpe, Salvemini, ecc. Ma oltre le difficoltà pratiche di radunar gente diversa e quattrini (perché una rivista simile non può essere che monumentale), c’era il pericolo che gli studi religiosi fossero relegati in un cantuccio. Oggi quel che importa è di svolgere la storia religiosa che conosciamo poco o male e difendere così mediante i fatti un nostro determinato ordine d’idee, che non è il modernismo, ma nemmeno l’hegelianismo». 135 Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 20 agosto 1910 in G. BOINE, Carteggio IV. Giovanni Boine-Amici della “Voce”-Vari, 1904-1917, a cura di M. Marchione e E. Scalia. Prefazione di G. V. Amoretti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979, p.190: «Ora avrei bisogno di interpellarti su di una cosa. C’è in progetto di organizzare una serie di corsi sulla Storia religiosa d’Italia; in gran parte da farsi. La difficoltà sta nel trovare le persone capaci. Ora io vorrei sapere da te se saresti disposto a impegnarti, per la primavera del 1914 a tenere cinque o sei conferenze sulla “Controriforma in Italia”. Dovresti, in cinque sei lezioni, tratteggiare le grandi linee di una Storia, che è da fare. Quinci ci vuole un notevole lavoro preparatorio: ma avresti più di tre anni. Se tu fossi disposto ad accettare, io potrei vedere se mi sarebbe possibile preparare la Riforma, in modo da poter combinare, se non il corso completo dalle origini ai nostri giorni, per lo meno un insieme di lezioni comprendente il periodo più importante e meno conosciuto». 136 G. AMENDOLA, Biblioteca Filosofica: suoi fini, sua azione, suo sviluppo (1910) in E. KÜHN-AMENDOLA, Vita con Giovanni Amendola, cit., pp. 171-172. 137 Le tracce delle conferenze, pubblicate nel 1912 nel «Bullettino filosofico», confluivano poi in ID., Movimenti religiosi e sette ereticali, cit., pp. 197 ss.
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accademico difficilmente avrebbe potuto offrire, si fortificava in Volpe la persuasione a considerare il fenomeno dell’«eresia», largamente inteso, come momento non accessorio della formazione della coscienza nazionale italiana, sottolineandone tutte le possibili ricadute sul piano economico, politico, sociale, nella convinzione che anche la manifestazione del dissenso religioso avesse contribuito alla formazione di quel «popolo nuovo», che, nell’età comunale, si era costituito «da una materia prima che cresce, si plasma, si individua, nelle linee esteriori e nella coscienza, mentre finora stava premuta sopra i solchi e dispersa nelle campagne, in piccoli aggregati senza moto e senza coltura»138. Ancora una volta appariva, così, un disegno della storia d’Italia, che individuava soprattutto le reazioni nascoste e profonde della società, e non le sue manifestazioni di vertice e di superficie, come fattori di crescita e di aggregazione, in grado di incanalare «quelle sorgenti donde scaturiscono senza posa, e in certi momenti a grandi ondate, le forze attive della storia»139. Nel saggio del 1907, che avrebbero ricevuto un significativo elogio da parte di Ernesto Buonaiuti140, Volpe non considerava, infatti, le eterodossie dell’età di mezzo «come un capitolo della storia del dogma o delle religioni», né come un mero intermezzo filosofico141, ma piuttosto come «un capitolo della comune storia», che intendeva analizzare «in quali situazioni politiche le eresie crescono e si diffondono, quali esigenze pratiche e sentimentali esse soddisfano, quali gruppi sociali ne sono più pervasi e perché, quali riflessi esse mostrano delle lotte di che l’epoca è tutta piena tra proletari e borghesi, tra contadini e cittadini; tra basso e alto clero, tra mondo feudale e mondo urbano»142. Una valuta138 Ivi, p. 41. 139 Ivi, p. 15. 140 Ernesto Buonaiuti a Tommaso Gallarati Scotti, 8 novembre 1907: «Nel comples-
so il fascicolo è magnifico: l’articolo di Volpe è senza dubbio il migliore dei tre, e sa di cultura e di sintesi». La lettera è pubblicata nel contributo di A. ZAMBARBIERI, Nuovi documenti per la storia del modernismo. Lettere di Ernesto Buonaiuti a Tommaso Gallarati Scotti e ad Alessandro Casati, in Scritti in onore di Gabriele De Rosa, a cura di A. Cestaro, Napoli, Ferraro, 1980, pp. 431 ss., in particolare p. 460. 141 G. VOLPE, Prefazione a Toscana Medievale, cit., p. XVII: «Erano gli anni del Modernismo e del milanese “Rinnovamento”; gli anni che anche io mi occupavo di movimenti religiosi nel Medio Evo, sia pure attirato più dal loro aspetto sociale e pratico, che non da quello religioso e dottrinario. Di ciò io ho avuto biasimo da taluni, come avessi disconosciuto la vera natura dell’eresia medievale; piuttosto lode da altri, come Croce, quello stesso che sorrideva al filosofo Tocco, autore de L’eresia nel Medio Evo». 142 ID., Chiarimento e giustificazione, Prefazione a Movimenti religiosi e sette ereticali, cit., p. 4. Significativamente Giuseppe Prezzolini avrebbe definito il volume di Volpe come un «frammento di storia italiana», in ID., Come nacque il libro. Cenni bibliografici su le più importanti opere della casa editrice, Firenze, Vallecchi, 1935, p. 83.
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zione, questa, che induceva necessariamente a un rinvio tra le tensioni e le aspirazioni sociali del mondo eterodosso dell’età comunale italiana e «quei riferimenti dal fatto economico e politico al religioso, quei richiami insistenti e appassionati al diritto divino, cioè all’insieme delle prescrizioni e degli ordinamenti che si potevan dedurre dalla Bibbia, che si ebbero poi nella plebe cittadina e ancor più agricola di Germania e che sono particolarmente visibili nei famosi Articoli dei contadini tedeschi del 1525»143. Era lo stesso itinerario che Antonio Labriola aveva sviluppato, nel corso romano di Filosofia della Storia del 1896-1897, dove l’approfondimento della situazione socio-economica italiana, tra fine del secolo XIII e principio del XIV, faceva perno sull’esame delle correnti cristiane apocalittiche, delle ricadute sulla società della predicazione gioachimitica e dell’eresia comunistica dolciniana, viste anche come remota anticipazione del moto anabattista dei primi decenni del Cinquecento144. L’interesse di Labriola per la persistenza degli ideali del cristianesimo delle origini, funzionale alla ricostruzione storica dei «primitivi del comunismo», rimandava all’attenzione per lo sviluppo, pratico e teorico, della questione sociale nell’Italia del primissimo Novecento, che si manifestava nella prolusione di Volpe all’anno accademico milanese, 1907-1908, significativamente titolata, Chiesa e Democrazia medievale; Chiesa e Democrazia moderna145. In quell’intervento, erano contenuti pesanti giudizi sulla mancanza di sensibilità del Papato, persino dopo l’emanazione della Rerum novarum, verso i nuovi problemi che la moderna società industriale imponeva di affrontare e di risolvere senza il facile ricorso a scomuniche e anatemi, i quali avvilivano in primo luogo «molti illuminati cattolici ed ecclesiastici», che, come i modernisti milanesi, «liberali in politica», alcuni ben disposti verso «certe conce143 G. VOLPE, Movimenti religiosi, cit., p. 171. 144 L. DAL PANE, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Einau-
di, 1975, pp. 413-415. Nel corso universitario del 1893-1894, Labriola aveva dedicato una lezione al tema: «Firenze alla fine del secolo XIV (o la rivoluzione comunistica di Fra Dolcino)». Si veda, ID., Introduzione a A. Labriola, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV, cit., p. 15. Sulle ricerche dolciniane di Labriola, si veda anche ID., Lettere a Benedetto Croce, 1885-1904, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1975, pp. 95, 102, 195, 209. 145 Si veda la lettera, senza data, inviata da Volpe a Novati, FFN: «Ecco il titolo che mi chiede: Chiesa e democrazia medievale, Chiesa e Democrazia moderna. Ho dovuto pregarla di rimandar di qualche giorno l’inaugurazione perché questi ultimi quindici giorni, quando mi preparavo a far qualche ricerca per il discorso, dovetti mettermi a letto per una settimana; poi vennero le nozze di mia sorella, anticipate sulla data prima stabilita, cioè nel dicembre; poi necessità varie della mia famiglia che mi hanno costretto a venir qui a S. Giorgio. Ora mi son rimesso al lavoro; e sebbene vi sarà fra qualche giorno un’altra interruzione, per il ritorno nostro a Milano, pur tuttavia confido di essere pronto per il 9. Non illuminerò il mondo, ma spero di farmi ascoltare»
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zioni e certe forze più sane e manifestazioni di ordinata democrazia», avevano avuto il solo torto di apparire «avversari irriducibili, come credenti e come cittadini, del mercimonio fra cattolici politicanti e conservatori atei all’ombra delle sacrestie»146. Per congenita chiusura mentale, avrebbe poi aggiunto Volpe, Roma aveva così rifiutato di ascoltare il messaggio corroborante di coloro che «non predicando palingenesi sociali e promettendo terrene felicità, confidavano poter operare su le moltitudini, giungere attraverso la riforma delle coscienze a una riforma della coscienza italiana, contribuire a un arricchimento della coltura nostra ancora estranea a quei fatti dello spirito che soli sono indice di progresso»147. Nel consegnare, il saggio su potere spirituale e democratismo a Fortunato Pintor, perché ne facilitasse la pubblicazione sulle pagine della «Nuova Antologia», Volpe, tuttavia, esprimeva la speranza che esso non apparisse «intinto di pece rivoluzionaria e anticlericale» e aggiungeva: «Non è assolutamente così, ma un giornale, come la N.A., potrebbe dar corpo alle ombre»148. Quel post-scritto non manifestava un eccesso di guardinga e ipocrita cautela, che la probabile, insofferente reazione del cattolico ortodosso Novati ai contenuti della Prolusione milanese avrebbe potuto forse giustificare149. Né deve ingannarci, su questo punto, il blando e problematico riferimento ai possibili contenuti non ortodossi della predicazione francescana, in senso pauperistico, antimondano, antigerarchico, che Volpe riprendeva da una complessa polemica sulla quale sarebbe intervenuto anche Gentile150, quando si ponga mente che tutto questo si risolveva essenzialmente in un appello alla Chiesa di Roma, perché essa moltiplicasse e potenziasse le «associazioni parrocchiali, le cooperative di credito e di consumo, le piccole banche» e tutti i suoi mezzi di intervento nella società, alla luce delle proposte contenute nel «cristianesimo sociale» e nella «economia cristiana» di Toniolo, per poter sottrarre le «classi inferiori» alla deriva protestante e socialista, come in quel periodo andava facendo la Democrazia cristiana, che si presentava come «anelito verso una giustizia so146 G. VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali, cit., p. 251. 147 ID., Italia Moderna, cit., p. 321. 148 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, Milano, 26 febbraio 1908, FFP. 149 Ugo Guido Mondolfo a Gaetano Salvemini, 12 novembre 1907 in G. SALVEMINI,
Carteggio. 1895-1911, cit., p. 374: «Hai letto della prolusione del Volpe? Il Novati non deve essere molto contento». 150 G. VOLPE, Rassegna di studi storici, cit., p. 691-693. Per il riferimento ai successivi interventi di Gentile sulla questione francescana, si veda A. SCAZZOLA, Il manoscritto gentiliano della storia della filosofia italiana: Giovanni Gentile, l’Umanesimo e il Rinascimento, in Giovanni Gentile filosofo e pedagogista, a cura di D. Coli, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 169 ss.
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ciale maggiore e opposizione alla borghesia conservatrice, massonica, positivista»151. La simpatia per il modernismo spirituale e sociale del «Rinnovamento» e di Romolo Murri era infatti lontana dall’essersi risolta in una partecipazione intrinseca, tale da alimentare, al di là di qualche isolata citazione di maniera152, la speranza, che avrebbe affascinato Missiroli e Gobetti, di una rivoluzione luterana nel nostro paese, modernizzatrice e moralizzatrice153, ma del tutto incapace, avrebbe poi sostenuto Volpe, di cogliere quella dimensione nazional-popolare, che la Controriforma, in quanto fenomeno specificatamente autoctono, invece aveva saputo rappresentare, saldando identità cattolica e identità italiana154. Né, d’altra parte, l’interesse, dimostrato nello stesso periodo, per il socialismo e i suoi eretici processi di trasformazione interna agitati da Salvemini, volti a superarne e a negarne l’ortodossia dottrinale, non configurava alcuna adesione da parte di Volpe155. Nell’un caso e nell’altro, il professore dell’Accademia milanese sembrava piuttosto limitarsi a ricoprire un ruolo di puro osservatore, non disinteressato certo e anzi fortemente partecipe, ma comunque rigorosamente tale, nei confronti di moti di pensiero e di azione, che partecipavano, con ineguale energia e vigore,
151 Si veda rispettivamente G. VOLPE, Chiesa e Democrazia moderna, in ID., Movimenti religiosi e sette ereticali, pp. 245 ss.; ID., L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 39 ss. 152 ID., Rassegna di studi storici, cit., p. 691: «Attorno ai riformatori religiosi, ai protestanti nostri, ai ribelli contro il dogmatismo cattolico, hanno speso le loro fatiche nobili ingegni, a volte non senza un fondo di rammarico che quei germi di vita interiore nuova da essi nutriti sian poi morti per mancanza di nutrimento, nello sterile suolo dei paesi latini. Alludo ai seguaci italiani delle dottrine calviniste e luterane, a Girolamo Savonarola, ad Arnaldo da Brescia, a San Francesco d’Assisi ed a tutto l’ampio movimento ereticale che fra il XII e XIII secolo sembrò un momento potesse rinnovare la coscienza religiosa nostra e dare al mondo una rivoluzione protestante italiana». 153 P. Gobetti, recensione a M. MISSIROLI, La monarchia socialista, in «La Rivoluzione liberale», I, 1922, 13, p. 47. 154 G. VOLPE, Programma e orientamenti per una Storia d’Italia in collaborazione e per una Collana di volumi storici, 1922. Il testo è riprodotto in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit, p. 218, dove si definiva la Controriforma come «fatto universale che ha tuttavia il suo centro in Italia ed è, in certo senso, una specie di Riforma italiana». 155 Fausto Pagliari a Gaetano Salvemini, 24 novembre 1909, in G. SALVEMINI, Carteggio. 1895-1911, cit., p. 414: «La mia scuola per giovani socialisti è ancora una pura speranza, perché non ho ancora gli insegnanti. Il prof. Volpe pare che sia disposto fare un corso di lezioni e questo sarebbe già moltissimo». Si veda anche Gioacchino Volpe a Salvemini, 3 ottobre 1908, in G. SALVEMINI, Carteggio, 1907-1909, pp. 232-233: «Sono a Desenzano, commissario per esami di licenza, verso il 22 conto di esser libero e venire a Milano. Vi sarai ancora? Chi sa anche che non possa approfittare di un giorno intermedio, l’8 o 9 ottobre e venir costà. Così mi faresti conoscere Turati!». Su Volpe e i problemi del socialismo, compiutamente ora, A. RIOSA, Socialismo e classi subalterne tra esclusione ed integrazione nell’interpretazione storica di Gioacchino Volpe, in «Nuova Antologia», 138, 2003, 2228, pp. 116 ss.
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alla creazione della nuova coscienza spirituale italiana, pur risultando incapaci di fornire un momento di sintesi generale e superiore, a una nazione, che, esaurita la spinta propulsiva del Risorgimento, abbisognava di nuovi impulsi ideali156. Lo stesso sarebbe accaduto per l’altro fenomeno eterodosso del primissimo e inquieto Novecento italiano, che si costituiva attorno a Prezzolini e a «La Voce», del quale a Volpe sarebbe spiaciuto la mancanza di realismo politico, il troppo intellettualismo (lo stesso che avrebbe condizionato negativamente «L’Unità» di Salvemini), soprattutto l’eccessivo elitismo, la fastidiosa atmosfera di congrega letteraria, di circolo riservato, di coterie volutamente e sprezzantemente distante dal profanum vulgus, inconcepibile per chi era già persuaso che se la missione del dotto doveva corrispondere a un suo ruolo guida nei confronti delle masse, questa funzione poteva svilupparsi solo a condizione di non separarsi mai da esse né intellettualmente né emotivamente. Di quella diversità di orizzonte, Volpe avrebbe fornito attestazione, nel primo dopoguerra, rimproverando agli intellettuali vociani di aver creduto e di aver spinto a credere che «i problemi vitali di un paese si possano affrontare sempre nell’ordine logico, astrattamente gerarchico in cui noi li vediamo» e di aver supposto, infine, «che sia nostro arbitrio scegliere il momento opportuno per affrontarli, anziché affrontarli quando la storia li impone, sotto pena di morte a chi non ascolta»157. Una testimonianza, questa, che è utile a comprendere perché non avesse avuto esito concreto l’ipotesi di collaborazione attiva alla rivista fiorentina, che sembrava invece sul punto di attuarsi, quando Volpe, nel giugno 1909, inviava a Prezzolini questa corrispondenza. Grazie dei numeri della Voce che ha voluto mandarmi. Mi permetta che chiarisca un punto. Il dott. Casati l’altro giorno, parlando con me del suo giornale, mi chiedeva: ma Prezzolini te lo manda? No, lo compro, anzi voglio abbonarmi e solo per poltroneria ho rimandato la cosa da un giorno all’altro. È stato il dott. Casati a scriverle in proposito? Comunque, mentre la ringrazio, mi permetta di dirle che ci tengo a comprare il giornale. Perché vivere a sbafo, specialmente quando trattasi di un’impresa che vuol essere incoraggiata anche con quel piccolo obolo che è il prezzo di vendita? Sono alla fine degli esami e appena libero metterò mano a quel famoso articoletto. Intanto mi rallegro con lei del bel giornale che viene creando158.
Il promesso «articoletto», che forse avrebbe dovuto essere inserito 156 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 30 ss. 157 Ivi, pp. 63-64. 158 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, Milano, 20 giugno 1909, AGP.
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in un fascicolo monografico dedicato alla questione universitaria, che Salvemini aveva proposto159, non raggiunse mai il tavolo di lavoro di Prezzolini, né poi si arrivò ad altra forma di cooperazione, nonostante il fatto che molti tra i vociani avessero insistito sulla necessità di assicurarsi il contributo di Volpe, in modo sostanziale e continuativo. Nella circolare del direttore del periodico indirizzata a Carlo Placci, il 21 agosto 1908, dove erano indicati intellettuali e ambienti culturali che avrebbero potuto costituire il tessuto connettivo della «Voce», Volpe era considerato un potenziale collaboratore, accanto a Salvemini, che della rivista fu pilastro portante fino alla guerra libica, ad Arturo Graf, Gentile, al gruppo crociano di Napoli, al circolo modernista milanese di Casati e Boine, agli ex-aderenti del «Leonardo»160. Mentre Giovanni Amendola, in una lettera a Prezzolini dell’11 ottobre 1908, domandava, quasi con ostinazione, se si fosse tenuto nel debito conto la necessità di assicurarsi l’apporto dello storico del Comune pisano161. Queste manovre non sortirono però nessun effetto. «La Voce» non riuscì mai a pubblicare nulla di Volpe, se si eccettua una sua lettera di solidarietà, in occasione del duro contenzioso che, nel 1911, aveva opposto Prezzolini agli ambienti militari, in occasione di un articolo di critica e quasi irrisione alle abitudini di vita di alcuni ufficiali di cavalleria. A quell’articolo, era seguito un processo conclusosi con la condanna dell’autore per oltraggio, che aveva a sua volta provocato un vivace dibattito che aveva visto schierarsi a fianco di Prezzolini molti intellettuali italiani, tra cui Borgese e lo stesso Croce, che consigliava allo scrittore fiorentino di rivolgersi senza tema «ai magistrati d’appello, i quali probabilmente giudicheranno un po’ strana così l’ammessa costituzione del rappresentante dell’esercito italiano, come la qualifica di diffamazione, date alle parole che voi avete scritto e con le quali avete esercitato quel diritto di sindacato, che compete a ogni libero cittadino, timoroso delle sorti della patria»162. Assai più fredda la reazione di Volpe, che pure non faceva mancare la sua solidarietà a Prezzolini, con la corrispondenza del 28 giugno, dove però era contenuta anche qualche presa di distanza da159 Gaetano Salvemini a Giuseppe Prezzolini, 28 maggio 1909, G. SALVEMINI, Carteggio, 1907-1909, cit, p. 311: «Perché non fai un numero unico per la legge universitaria, invitando a collaborarvi alcuni dei professori universitari giovani più seri, per es. Volpe, Fedele, Gentile, Severi, Enriques, Crivellucci; e qualche non universitario come Croce?». 160 G. PREZZOLINI, Carlo Placci e «La Voce», in «Giornale di bordo», ottobre 1968, p. 5. 161 G. AMENDOLA, Carteggio 1897-1909, a cura di E. D’Auria, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 449. Sul punto, G. PREZZOLINI, Amendola e La Voce, Firenze, 1973, p. 83. 162 Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, 4 giugno 1911, poi in ID., Pagine sparse, cit., II, pp. 304-305. La lettera era pubblicata nella «Voce» dell’8 giugno, nella sezione intitolata, Dopo la sentenza. Processo contro Giuseppe Prezzolini, accusato di antimilitarismo, con lettere di Croce, Borgese, ecc.
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gli atteggiamenti barricadieri, e se non propriamente tali, sicuramente oltranzisti, che troppo spesso avevano contrassegnato il procedere della rivista. Dichiaro subito che non conosco l’articolo famoso, perché quel numero del giornale non mi è giunto (sarei, anzi, lieto di poterlo avere); mi trovo quindi un poco imbarazzato a dirle senz’altro: lei ha ragione ed hanno torto gli altri, come pure vorrei dire, per la simpatia che ho verso il giornale. Francamente, non tutti gli atteggiamenti della Voce mi sono piaciuti; non ho trovato sempre di mio gusto certa eccessiva disinvoltura di taluni collaboratori giovinetti nel trinciar giudizi a destra e a manca, e criticar tutto e tutti e dir male di quanto non andava loro a verso. Ma ciò nonostante, mi son sempre parse cose belle ed utili l’ardore combattivo, la virtù eccitatrice, la capacità di toccar corde che in molti aspettavan l’eccitamento per vibrare, l’onesto desiderio di agitar questioni moralmente e politicamente vitali pel nostro paese, dimostrati dalla Voce. Perciò voglio credere che anche l’assalto alla cavalleria fosse determinato da quello stesso bene che anima, nel complesso, tutto il giornale. Anche se lei avesse ecceduto nella forma, voglio tener conto della sostanza, voglio ricordarmi delle altre venti, trenta, quaranta volte in cui ho aderito pienamente alle sue idee. Intendo l’eccedere, caso mai, per il generalizzare; per il non tener conto di certe particolari condizioni in cui la vita degli ufficiali, specie dei più giovani, si svolge; per l’adoperare un tono ironico e irritante. Quindi firmo la scheda-protesta e mi unisco al desiderio ed all’augurio degli altri per un verdetto che suoni assoluzione e riconoscimento della rettitudine dello scrittore163.
Ma se Volpe disertava le pagine della «Voce», questa, per contro, intraprendeva una sistematica campagna di stampa per valorizzarne il ruolo di principale modernizzatore della storiografia italiana, come Prezzolini avrebbe ricordato all’interessato, rammentandogli «di quando Anzilotti e io (di riflesso) cercavamo di far capire agli Italiani il valore dei tuoi studi» e come Volpe avrebbe rammentato a Prezzolini, riconoscendogli di essere stato «il primo ad incoraggiarmi a raccogliere i miei scritti e ad uscir dal chiuso delle riviste per specialisti»164. Già nel gennaio del 1909, Anzilotti dedicava un primo articolo a questo obiettivo, nel quadro di una violenta polemica contro la tradizione filogicoerudita, che aveva nell’Istituto di Studi Superiori la sua roccaforte, alla quale si andava contrapponendo Volpe, che, pure «eletto per dispetto al Salvemini», aveva avviato, nel suo insegnamento milanese, un
163 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 28 giugno 1911, AGP. La lettera veniva pubblicata nel numero monografico della «Voce» del 2 luglio 1911, dedicato all’affare giudiziario, dove appariva anche un nuovo intervento di Croce. 164 Si veda rispettivamente la lettera di Giuseppe Prezzolini a Gioacchino Volpe, del 20 aprile 1961 (CV), e quella di Volpe a Prezzolini del 24 febbraio 1947, AGP.
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modo di fare storia capace di scuotere «uno dei più paludosi infossamenti del quietismo erudito e conservatore del nostro paese» e di battere in breccia l’ortodossia dei «professori fiorentini» (Mazzoni, Vitelli, Cipolla), dimostratisi tutt’al più capaci di offrire soltanto «la lezioncina fredda, obbligatoria, stantia, o la conferenzina da femmine eleganti»165. Seguiva, nel mese di marzo, un nuovo, più complesso, organico contributo, redatto su diretta sollecitazione di Prezzolini166, dedicato a celebrare la recentissima «rinascita intellettuale che ha reagito contro l’unilateralità del puro metodo storico, andatosi stemperando nella ricerca minuziosa, nella discussione bizantina, nell’aneddoto, nella curiosità e che si era imposto una vera rinunzia, quasi uno stato d’impotenza, tenendosi stretto gelosamente alle sole attestazioni formali delle fonti»167. Fino a quel momento, infatti, «lo storico si era troppo spesso racchiuso entro la sua nicchia di ricercatore paziente; non aveva vissuto intellettualmente in mezzo alla vita reale, era stato troppe volte asceta di ciò che è solo strumento primo e valido di una ricostruzione, la critica delle fonti; nel suo gabinetto non erano entrati mai l’aria, la luce della realtà vissuta». E fino ad allora, per necessaria conseguenza di quelle premesse, «la retorica, che spesso aveva rispecchiato il sentimento politico del nostro Risorgimento, la passione di nazionalità, l’erudizione, paurosa delle arditezze di certi voli» avevano oppresso l’analisi del passato, chiudendola in un vicolo chiuso privo di prospettive, dal quale Volpe aveva indicato la via di uscita con l’esemplare ricostruzione storica del suo Medioevo, che aveva saputo «risalire dalla conoscenza vasta e profonda dei rapporti di produzione, agli istituti di diritto, che su quelli si plasmarono, e al superiore mondo della cultura, che delle condizioni varie delle classi e degli antagonismi sociali fu il riflesso indiretto», evitando accuratamente ogni concessione
165 La nota polemica era pubblicata in «La Voce», I, 7, 28 gennaio 1909, p. 28. Su An-
zilotti, animatore del dibattito storiografico e politico della «Voce», si veda E. GENTILE, “La Voce” e l’età giolittiana, cit., pp. 170 ss.; G. SOFRI, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti, in «Rivista Storica Italiana», 1961, 4, pp. 699 ss.; ID., Due lettere di Delio Cantimori su Antonio Anzilotti, in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Bragaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma, Carocci, 2001 pp. 859 ss. Si veda anche, B. FAROLFI, Sul “ritorno” di Antonio Anzilotti, in «Studi Storici», 1965, 1, pp. 120 ss. 166 Antonio Anzilotti a Giuseppe Prezzolini, s. d. [gennaio 1909], AGP: «Egregio direttore, Ella volle suggerirmi l’argomento d’un articolo per La Voce, e cioè una corsa nel campo della storiografia realistica da Salvemini a Caggese; ed io già lo avevo pensato e volevo proporglielo. Poiché mi occorre riguardare qualche cosa ho ancora bisogno di tempo per poter lavorare con serietà». 167 A. ANZILOTTI, La storiografia realistica, «La Voce», 15, 23 marzo 1909, 25, ora in ID., Momenti e contrasti per l’unità italiana, cit., pp. 333 ss., in particolare p. 335.
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allo spirito di sistema e alla supponenza sociologica, che aveva sedotto altri cultori delle discipline storiche. Nemico delle gerarchie nello studio dei fenomeni sociali, delle formule, care ad economisti e sociologi, Volpe ha messo in guardia contro le affrettate deduzioni dei semplicisti, sostenendo che far opera di storico non è costringere i fatti del passato entro caselle teoriche, ma studiare manifestazioni dell’attività umana, tutte quante rampollanti dalla struttura economica, ma poi differenziate, intrecciate, sottraentisi spesso al freno di una valutazione obiettiva e di una sistemazione. […] Non così è avvenuto per altri: il desiderio di ridurre a sistema e di assurgere alle grandi teorie con preconcetti intellettuali ha avuto certe volte il sopravvento. Così Gino Arias, che pur si è mostrato un sagace analizzatore di fenomeni economici, è passato dal campo dell’economia a quello della storia, con tutto il bagaglio del formulario scientifico, sotto il quale spesso la complessità dei fatti sociali è soffocata. I giovanissimi sono stati, insomma, più audaci teorizzatori: fra essi Romolo Caggese, che ha felicemente allargato le nostre conoscenze della vita economica del contado e dei più piccoli Comuni, si è fatto prendere la mano un po’ dalle facili generalizzazioni sociologiche e dal bisogno irrequieto di correre presto alla sintesi168.
Questa forma di raffinatissima promozione, e quasi di réclame, continuava, nel mese di agosto, con una dettagliato resoconto del lavoro sul Comune pisano, dove forse era contenuta la migliore definizione della storiografia di Volpe, tutta giocata «sull’intuizione rapida dei moventi intimi e realistici, il vittorioso sforzo di oltrepassare le spiegazioni empiriche, meccaniche, teoriche, l’abile tendenza ad evitare lo schematismo, i freddi formulari, che incatenano e soffocano la storia e la non comune maestria nel notare feconde connessioni e nell’abbracciare l’unità della vita storica»169. Una storiografia, avrebbe più tardo concluso Anzilotti, sicuramente originalissima e tale da non essere mai perfettamente definibile, secondo genealogie o tendenze di scuola, ma che pure molto doveva alla lezione dell’idealismo crociano, che aveva sollevato il livello degli studi fuori dallo «stadio più grettamente positivista e agnostico», per dare avvio a «una storia interiore, capace di mostrarci il ritmo dello spirito nostro e della nostra civiltà nel tempo»170. Se il non vociano Volpe era parso, dunque, poter essere lo storico della «Voce», egli non aveva mai cessato, però, di essere anche e soprattutto lo storico della «Critica», come confermava il suo carteggio con il 168 Ivi, pp. 337-338. 169 ID., Uno storico dell’Italia medievale: Gioacchino Volpe, in «La Voce», I, 5 agosto
1909, 15, p. 138 ss. 170 ID., Storia e storiografia d’Italia, in «La Voce», 22, 28 novembre 1914, pp. 18 ss., poi in ID., Momenti e contrasti per l’unità italiana, cit., pp. 353 ss.
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filosofo napoletano, sempre più intellettualmente vivace, ma a tratti anche assai cordiale sul piano delle relazioni personali e tale da lasciare spazio a sentimenti amichevoli, che coinvolgevano anche le famiglie dei due intellettuali171. Su tutto domimava però il problema della storia. E, a Croce, Volpe tornava a parlare dei suoi progetti di lavoro e ancora delle sue vicende accademiche, come accadeva nella corrispondenza dell’aprile 1910. Degli altri lavori miei non posso dirvi che siano molto avanti. Passano i mesi e gli anni, se ne allarga il disegno; ma ancora non sento venuto il momento di raccogliermi e stendere l’opera. Ora sto pensando ad un volume dedicato alle giurisdizioni ecclesiastiche e rapporti Stato-Chiesa nelle città toscane. Sarebbe una raccolta di documenti preceduta da articoli dedicati a ciascuna di quelle città. Per il suo carattere, questo volume forse sarà pubblicato fra le Fonti per la storia d’Italia dell’Istituto storico italiano, o in uno dei Bullettini dell’Istituto stesso. Così utilizzerò un materiale raccolto quando ero in Toscana e che non potrebbe trovar accoglienza se non in piccola parte in un lavoro d’insieme, come mi è venuto maturando negli ultimi due anni, in seguito a ricerche estese a tutta l’alta e media Italia. Il qual lavoro dovrebbe rivolgersi ad un pubblico un po’ più largo, pur essendo risultato di ampissime indagini e rappresentando un’opera originale. Se non fossi continuamente distratto o da altri lavori o da cure estranee al lavoro, queste “giurisdizioni” sarebbero ora già compiute. Ma dentro il 1911 io spererei di esserne fuori e di potermi riposare un anno, fra altre letture. Ho fiducia che l’opera non sarà senza qualche pregio; ma non sempre questa fiducia mi sorregge e quelli non sono i miei momenti migliori. Due mesi fa ebbi la tentazione di trasferire a Pisa le mie tende. Mi sollecitavano i colleghi ed anche il bisogno mio di conquistar l’ordinariato, qui non so quando raggiungibile. Ma poi… non ne feci nulla. Pisa non vale Milano e poi non volevo mettermi di nuovo sulla strada di Salvemini172.
Nessuno dei due progetti, né quello editoriale né quello accademico sarebbero mai venuti alla luce. Il lavoro annunciato, che avrebbe molto occupato Volpe negli anni a venire, si sarebbe ridotto, dopo innumerevoli difficoltà editoriali, soltanto a due monografie dedicate a Volterra e Luni completate alla fine del 1910173, che, insieme ai saggi su 171 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Santarcangelo di Romagna, 16 luglio 1910: «Volentieri verrei a Cesena, se non fossi pressato ora qui da una folla di piccole faccende arretrate. Ma perché non manda lei ad esecuzione il disegno di una rapida corsa a S. Arcangelo? Scelga un bel pomeriggio, e anche senza avvisarmi in precedenza, venga qui, solo o, se ha costà la signora, con essa. Qui non v’è molta roba da vedere, ma varrà la gita come tale. Noi stiamo fuori paese, a 2 chilometri». 172 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, s. d. [ma aprile 1910]. 173 Si veda la testimonianza dello stesso Volpe, in Chiarimento e giustificazione, cit., pp. IX-XI, dove si parla di «una mia lunga fase di lavoro volto ad illuminare i rapporti tra Sta-
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Montieri e Massa di Maremma del 1908 e del 1913174, dovevano costituire le premesse di quella che avrebbe dovuto essere la ben più complessa indagine dedicata a Stato e Chiesa nelle città medievali, che non sarebbe mai stata realizzata175. Non si concretizzava, come comunicato a Croce, anche la possibilità di ottenere il trasferimento nella Facoltà pisana, dove Salvemini aveva ottenuto, nell’anno accademico 1909-1910, l’incarico di storia moderna, pur mantenendo la titolarità di Messina. Il rifiuto di Volpe di scendere in lizza contro il nobile sconfitto del 1905, annunciato nella corrispondenza con lo stesso Salvemini176, veniva meto e Chiesa nelle città italiane, vale a dire la società comunale tutta quanta, osservata da un particolare ma assai comprensivo punto di vista». Il passo così prosegue: «L’opera così ideata rimase nella penna: ma parte, piccola parte, dei materiali accumulati io utilizzai per una serie di studi su le minori città toscane, di cui il primo, Per la storia delle giurisdizioni ecclesiastiche, delle istituzioni comunali, dei rapporti Stato-Chiesa nelle città medioevali, dedicato a Massa di Maremma, vide la luce negli Studi Storici del compianto mio maestro Amedeo Crivellucci; ed altri due, accettati nel 1910 dalla R. Deputazione di Storia Patria per la Toscana, finiti di stampare fra il 1913 e il 1914, rimasti lì per colpa non mia anzi con molto mio cruccio a stagionare per otto anni, solo ora vedranno la luce per cura della Voce fiorentina, in due volumi dal titolo: il primo Volterra; il secondo Lunigiana medioevale (Storia di Vescovi-Signori, d’istituti Comunali, di rapporti Stato-Chiesa nelle città italiane nei secoli XIXV)». Sul disappunto di Volpe per quell’indugio, che si sarebbe interrotto solo nel 1923, con la pubblicazione dei due volumi, si veda la lettera a Prezzolini del 9 ottobre 1921, AGP: «Fra qualche mese apparirà anche il 2° volume di scritti vari, che tu, se ricordi, volevi pubblicare con la Voce. La Voce poi mi fece aspettare tre anni, e io mi rivolsi altrove. Ah quella Voce! Ah quel Baldasserani! Se fossero stati degli estranei o dei nemici non mi avrebbero trattato così male, così dispettosamente, come hanno fatto. Sai che da due anni hanno acquistato dalla R. Deputazione di Storia patria di Toscana due miei volumi di ricerche, già stampati dal 1913 e mai pubblicati per la guerra che sopraggiunse, e non hanno voluto metterli fuori? Fra Deputazione e Voce mi han fatto mangiare bile in quantità!» 174 G. VOLPE, Montieri: costituzione politica, struttura sociale e attività economica d’una terra mineraria toscana nel secolo XIII, in «Vierteljahrsschrift für Sozial-und Wirtschaftsgeschichte», 1908, pp. 108 ss.; ID., Per la storia delle giurisdizioni vescovili, della costituzione e dei rapporti tra Stato e Chiesa nelle città medievali, in «Studi Storici», XXI, 1913, pp. 240. I due saggi sarebbero entrati a far parte di Medio Evo italiano, cit. 175 Si veda la lettera a Giovanni Gentile del 30 maggio 1918, AFG: «Ho anche da riprendere in mano la mia mezza tonnellata di appunti intorno allo Stato e Chiesa nelle città medievali, cioè, intorno alla storia medievale delle città guardata da quell’angolo visuale: quindi laicato e sua coltura e sua economia e tutto quello per cui esso si mette in un certo determinato atteggiamento di fronte ai chierici e alla chiesa e trasforma vecchi istituti. In proposito, sul Bullettino della Biblioteca Filosofica di Firenze, è un riassunto delle mie conferenze, 5 o 6 anni fa. Da allora il lavoro è interrotto, per quanto abbia inteso svolgere alcuni punti particolari o, meglio, talune di quelle questioni in taluni ambienti circoscritti». 176 Sul rifiuto di Volpe di ostacolare Salvemini, si veda la lettera del 6 dicembre 1909 in G. SALVEMINI, Carteggio, 1907-1909, cit., p. 387: «Caro Salvemini, ieri mi giunse, respintami da Milano, la tua lettera. Oggi, poi, Gentile mi dice che l’8 tu verrai a Roma. Così parleremo a nostro agio. Ma fin da ora ho, dopo qualche tergiversazione, deciso: non ti attraverserò la via: se potrò, anzi, ti aiuterò». Sul punto, si veda anche Giovanni Gentile a Donato Jaja, Roma, 22 novembre 1909, in G. GENTILE-D. JAJA, Carteggio, a cura di M. Sandi-
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no più tardi, quando, Pisa decideva di procedere alla messa a concorso della cattedra177. In quella prova, Salvemini sarebbe risultato vincitore, con un giudizio che però non mortificava Volpe e che appariva quasi la riparazione per un antico torto piuttosto che esprimere una vera e propria preferenza scientifica nell’analisi comparativa del valore scientifico dei due candidati. La relazione finale, redatta da Crivellucci, Falletti, Romano, Fedele, insieme al paleografo Luigi Schiapparelli, faceva troppo scoperto riferimento, infatti, alla «terribile catastrofe che in un attimo distrusse la fiorente famiglia di Salvemini» e proseguiva, con qualche incongruenza, sostenendo che «se altri concorrenti possono gareggiare con lui in acutezza critica e profondità di cultura e taluno anche superarlo in abbondanza di produzione prettamente storica, egli è indubbiamente quello che tutti li supera per la larghezza della visione storica e per la maturità e la limpidezza del pensiero e per le doti insigni di scrittore»178. Volpe avrebbe ottenuto la nomina a ordinario, dopo un altro biennio, con non poco ritardo, rispetto alla tradizionale tabella di marcia accademica, essendo trascorsi addirittura quattro anni dalla conclusione del periodo di straordinariato. Nonostante i tentativi compiuti da Novati, nell’aprile del 1909 e poi nel giugno del 1910, per accelerare il passaggio di ruolo179, solo alla fine di marzo del 1913, l’evento si compiva. In quella data la commissione, composta da Cipolla, Fedele (in sostituzione di Crivellucci che, significativamente, aveva dichiarato la sua indisponibilità a valutare l’antico allievo), Romano, Schiapparelli, Camillo Manfroni, che figurava come relatore, esprimeva un giudizio collegiale, sicuramente lusinghiero, nel quale si riconosceva il «vasto e robusto ingegno» del candidato, si faceva riferimento alle «speciali condizioni dell’organico della R. Accademia scientifico-letteraria, che non gli permisero fin qui di chiedere la promozione», ma dove si evidenziava anche la non grande abbondanza dei titoli prodot-
rocco, Firenze, Sansoni, 1969, 2 voll., II, pp. 334-336: «Non so se a Pisa aspiri anche il nostro Volpe: ma sono certissimo che questi, sapendo che vi aspira il Salvemini, il quale, per motivi di carattere personale e politico, non sarebbe stato mai chiamato al suo posto a Milano, desisterebbe senz’altro dalla domanda». 177 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, 1 giugno 1910, ABC: « Non è difficile che io prenda parte al concorso aperto per Pisa (fino al 10 luglio), se qui, come pare, non si aprirà per me nessuna via all’ordinariato. A Pisa rifiutai nell’inverno scorso l’offerta che mi fu fatta di quella cattedra per non fare il gioco di quelli che ostacolavano colà la venuta di Salvemini. Ma col concorso è un altro paio di maniche». 178 Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, II, n. 29, 6 luglio 1911, pp. 2391-2398. 179 Sul punto, M.L. CICALESE, La luce della storia. Gioacchino Volpe a Milano tra religione e politica, pp. 70-71.
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ti180. Manchevolezza, questa, che lo stesso Volpe, riconosceva, nella relazione inviata agli esaminatori, dove, nondimeno, se si ammetteva francamente di aver presentato una «mole non grande di lavoro», si affermava pure, con uno scatto di insofferenza, di ritenere di «aver fatto il suo dovere verso gli studi e la scuola più che lo Stato non abbia fatto il suo verso di lui!!!». Nel dettaglio dei singoli resoconti, tuttavia, l’apprezzamento dei giudici accademici appariva molto più chiaroscurato. Non piacque del tutto, infatti, o addirittura dispiacque agli esaminatori, il Volpe eresiologico, sebbene quel dissenso venisse espresso diversamente e con diversissime sfumature. Carlo Cipolla, in una relazione avara e ingenerosa, che metteva soprattutto in evidenza le differenze tra il giovane storico e i vecchi maestri della storiografia erudita, sosteneva, in relazione al saggio del 1907, che «non si può certo dire che vi siano dentro molte novità scientifiche, trattandosi più che altro di un lavoro compilazione». Anche Fedele prendeva qualche distanza dall’«ampio quadro sintetico sugli Eretici e moti ereticali», riconoscendo, in ogni caso, che «tra affermazioni non sempre dimostrate e accettabili, troviamo pure pagine splendide». Su quel giudizio ambivalente, si accordavano i pareri di Romano, di Schiapparelli, di Manfroni, il quale, da ultimo, parlava di «conclusioni un po’ ardite e non sufficientemente documentate». Maggiore apprezzamento ebbero i contributi, che meglio e in maniera più tradizionale si uniformavano al metodo dell’indagine economico-giuridica: i saggi di microstoria sui piccoli Comuni toscani, presentati ancora in bozze o in manoscritto, che, in buona parte, costituivano la premessa alla più ambiziosa sintesi sulle giurisdizioni ecclesiastiche, la quale avrebbe dovuto essere ultimata nel 1914, secondo il piano di lavoro futuro che Volpe aveva comunicato alla commissione. In riferimento a quei risultati e a quei progetti il giudizio dei commissari si faceva più generoso, come specialmente testimoniava la relazione di Pietro Fedele. Nei più recenti lavori sulla Storia delle giurisdizioni vescovili, della Costituzione comunale e dei rapporti fra Stato e Chiesa nelle città medievali, si rivela l’ingegno forte ed acuto dell’autore che, giovandosi di un’eccellente preparazione economica e giuridica indaga sottilmente, e spesso con una preparazione singolare, i rapporti fra il mondo dello spirito e quello dei fatti esterni della vita, fra le istituzioni e le condizioni economiche di una parte della Toscana nell’età comunale e precomunale. Fra questi lavori merita particolarmente di essere ricordato quello su Montieri, che ci svela nel Volpe un aspetto nuovo della sua
180 Estratto dal Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 44, 23 ot-
tobre 1913, in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria (d’ora in poi; MPI-DGIU), fascicolo G. Volpe, a cui si fa riferimento, per tutte le altre citazioni, riguardanti le carte concorsuali e i relativi allegati.
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personalità di studioso. Egli ha piegato qui l’ingegno dotato di una vigorosa forza di sintesi all’analisi minuta e paziente di documenti e di fatti che dimostrano in quella piccola terra di Toscana, ricca di miniere, come le vicende ed influenze politiche siano strettamente legate con l’economia mineraria della regione. Questo lavoro di argomento non facile e ricco di risultati nuovi e di documenti preziosi, anche per la storia della nostra lingua, basterebbe da solo a riconfermare al giovane studioso quella fama, che già gli studi precedenti e soprattutto la profonda ed originale monografia sulle Istituzioni comunali a Pisa gli avevano procurato. Gli studi sui rapporti fra Chiesa e Stato nelle città medievali, dei quali ora ha presentato i due notevolissimi saggi, che riguardano principalmente i rapporti tra Vescovi e Comuni in Volterra ed in Massa Marittima, si aggirano pur sempre intorno all’argomento prediletto dal Volpe: indagare nei secoli fondamentali per la storia d’Italia (XI-XIII secolo) i vari elementi e le varie correnti della nostra vita sociale. Ma nessuno può negare ad essi la lode più alta che uno studioso possa desiderare: quella di aver segnato, sia pure in un solo campo, una via non prima seguita e di aver proposto all’indagine e alla meditazione degli studiosi nuovi problemi.
Questa analisi, per molti versi condivisibile, aveva il grosso, ma inevitabile, limite di considerare Volpe unicamente come storico dell’età medioevale, proprio nel momento in cui i suoi orientamenti di ricerca andavano spostandosi in un panorama più largo e più vicino ai tempi presenti. Tra 1912 e 1914, mentre tentava di raccogliere presso la Biblioteca di Cultura moderna di Laterza una scelta dei suoi scritti medievistici, apparsi a partire dall’inizio del secolo181, Volpe andava progettando, per la libreria della «Voce», su impulso di Prezzolini e con la collaborazione di Anzilotti, il piano editoriale di una Storia d’Italia, che si sarebbe dovuto inoltrare fino alla fine del XIX secolo182. Costituiva la ba-
181 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 9 luglio [1912]: «Ho avuto un’idea che voglio sottoporre al vostro giudizio. Dico meglio: l’idea è di Casati ed io l’ho fatta mia. Penserei di raccogliere in un volume alcuni piccoli scritti miei ora spersi in riviste, dei quali ricevo continuamente domanda, sebbene di estratti non ne abbia più da un pezzo. Di questi scritti lei ne conosce taluni, perché apparsi nella Critica: Bizantinismo e Rinascenza, le rassegne dell’Arias, Caggese, Einaudi e Prato, l’articolo su l’Insegnamento della storia ecc. Piccole cose, ma mi sembra che meritino di riapparire infine in un volume, perché vi sono là alcune idee informative di tutta la mia attività di studioso e di insegnante: modesta attività mia che mi pare tuttavia non sia stata invano per molti giovani che vengono su adesso, di 10 anni più giovani di me. Agli scritti che ho ricordato sopra ne aggiungerei altri 4 o 5 che pur non essendo rassegne e pur non indugiandosi su questioni generali, studiano talune istituzioni o taluni aspetti della società medievale». Il progetto non avrebbe avuto esito, come si evince dalla lettera del 12 novembre [1913], ivi: «Di quel volume che raccoglierebbe alcuni miei scritti apparsi su la Critica e altrove, non ne ho poi fatto più nulla. Il Laterza finì col dirmi che volumi di studi vari non vanno. Forse cercherò altrove». 182 E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, cit., pp. 15-16.
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se di questo mutato interesse, il commento ai saggi di Giovanni Prato, sulla fine dell’antico regime economico, al tramonto del XVIII secolo, apparso nel 1910, che preludeva, già decisamente, alle più estese conclusioni della nota-recensione sul lavoro di Italo Raulich del 1921 e alle lezioni milanesi di storia del Risorgimento per l’anno accademico 1919-1920183, dove, in ambedue i casi, l’età rivoluzionaria e il moto unitario venivano considerati, in alternativa alla vulgata interpretativa giacobina e risorgimentista, come eventi, che trovavano il loro autentico significato, unicamente a condizione di essere collocati nella secolare continuità della storia italiana184. L’interesse per la contemporaneità vicina e più distante era certamente comune a molti altri storici italiani di questo periodo, ma in Volpe si configurava come qualcosa di più di un semplice sfondamento cronologico, sia pure motivato, come in Salvemini, Pietro Silva, Raffaele Ciasca, lo stesso Giustino Fortunato, dalla necessità di rendere attivo il sapere storiografico nella costruzione politica e civile della nuova Italia, per quello che riguardava l’analisi delle «origini nazionali» e il contributo alla soluzione dei suoi problemi più antichi e odierni185. Per Volpe, quell’allontanamento dalla «storia lontana» e il sempre più deciso approssimarsi alla «storia recentissima» e addirittura alla «storia in divenire», che aveva già, a detta di un testimone oculare, contraddistinto il suo insegnamento, al di là della scelta tematica dei corsi, mai oltrepassanti il XIV secolo186, si presentava infatti come l’improcrastinabile necessità di realizzare una saldatura tra attività speculativa e attività pratica, tra storia e azione. La risposta a questa urgenza poteva venire da Croce, che, nella memoria del 1912, Storia, cronaca e false storie187, aveva intrapreso una dura polemica contro il «procedere senza verità e senza passione, che è proprio della storia filologica», definendo, per contro, «il concetto rigorosamente speculativo della storia attuale e contemporanea», in virtù della quale sembrava possibile annullare la differen183 Si veda. G. Volpe, recensione a ITALO RAULICH, Storia del Risorgimento politico d’Italia, Bologna, 1921, in «La Critica», 1922, in ID., Momenti di storia italiana, cit., pp. 223 ss.; ID., Lezioni milanesi di storia del Risorgimento, a cura di B. Bracco, Bologna, Cisalpino, 1998. 184 Sul punto, rispettivamente, E. DI RIENZO, Rivoluzione francese e storiografia italiana, in «Nuova Storia Contemporanea», 2007, 1, pp. 133 ss., in particolare pp. 144 ss. 185 M. SIMONETTI, Risorgimento e Mezzogiorno alle origini della storiografia contemporanea in Italia. Pietro Silva e Raffaele Ciasca fra “La Voce” e “L’Unità”, 1911-1915, in «Atti e memorie dell’Accademia toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”», XXXVIII, 1973, pp. 215 ss.; F. BARBAGALLO, Le origini della storia contemporanea in Italia fra metodo e politica, in «Studi Storici», 29, 1988, 3, pp. 567 ss. 186 G. MIRA, Memorie, cit., p. 70. 187 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 3 ss.
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za tra passato e presente, nel senso che «il pensiero che pensa la storia», e che la fa presente e attuale, risolveva in sé medesimo il passato e ne disponeva fino al punto che il dato documentario diveniva una semplice occasione esterna e quasi un mezzo per attuare «quella vitale evocazione interiore», nel cui processo i presupposti estrinseci della ricerca (la «collection des faits») finivano per essere contenuti, risolti e oltrepassati. Da questo punto di vista, allora, la «storia contemporanea» non era veramente la «storia di un tratto di tempo, che si considera come un vicinissimo passato» ma soltanto quella «che nasce immediatamente sull’atto che si viene compiendo, come coscienza dell’atto». Remota o vicinissima, nel suo contenuto temporale, ogni vera storia, distinguendosi dalla falsa storia, che era soltanto «cronaca» e quindi «storia non più pensata ma ricordata nelle astratte parole», balzava direttamente dalla vita e direttamente dalla vita sorgeva, in quanto era evidente «che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato, il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente». In Croce, comunque, questa esigenza di articolare la ricostruzione del passato intorno a un’intuizione dello spirito, che fosse in grado di rimandare costantemente alla «storia dei propri tempi», si circondava di tante e tali cautele, da riprodurre, seppur a livello di più alta consapevolezza, la tradizionale disgiunzione tra passato e presente, necessaria a evitare l’errore dell’anacronismo storico e a rivalutare, invece, in tutta la sua pienezza, il momento filologico, l’acquisizione e la verifica del documento, come fonte imprescindibile del lavoro storiografico. Se ogni vera storia, infatti, finiva per essere storia contemporanea, se essa era sempre, almeno implicitamente, «autobiografia del presente» dal quale si è mossi per ripensare il passato, pure, questa imprescindibile tensione ideale non poteva comportare l’assoluta e arbitraria plasmabilità del passato secondo una logica che derivava esclusivamente dai problemi e dalle esigenze della contemporaneità. Una «storia senza relazione con il documento», concludeva Croce, era una «storia inverificabile» e, dato che «la realtà della storia era in questa verificabilità», la narrazione storica poteva dirsi tale solo in quanto basata sull’«esposizione critica del documento (intuizione e riflessione, coscienza e autocoscienza)», senza la quale «ogni storia, priva di significato e di verità, sarebbe inesistente proprio come storia»188. Questa preoccupazione, in parte, almeno, non perfettamente congruente con i presupposti teorici più profondi, che il saggio del 1912 di188 Ivi, p. 6. Sul punto, G. GALASSO, Niente altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 45 ss.
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spiegava189, era già emersa, nel 1903, quando Croce aveva preso le distanze dalle posizioni espresse da Karl Lamprecht, nella prefazione alla Deutsche Geschichte del 1881, tradotta e pubblicata sulla «Revue de synthèse». A Lamprecht, che sosteneva che il lavoro storico non poteva pretendere l’imparzialità, perché ogni epoca modellava il suo passato e costruiva il proprio punto di vista dal quale esaminare la propria storia, il direttore della «Critica», replicava, concordando con le premesse più generali, per quello che riguardava il rifiuto dell’identificazione rankiana tra erudizione e storia e la convinzione che, in ultima analisi, si potesse raggiungere «non la verità dei fatti, ma soltanto il vero dai fatti», ma mettendo in evidenza anche le incontrollabili linee di fuga che tale assunto comportava190. Dietro le affermazioni dello storico tedesco, Croce scorgeva infatti il bagliore lontano, ma ancora persistente, di una tendenza antistoricistica, che aveva germinato vigorosamente nella cultura tardo romantica, e che aveva trovato compiuta espressione nelle considerazioni Sull’utilità e il danno della storia della vita di Friedrich Nietszche, laddove, una volta postulato l’obbligo «di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente», per consentire all’uomo di non disperdere la sua umanità nell’«eccesso di storia», si passava a sostenere che «il passato e il presente sono la stessa e identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono, come onnipresenza di tipi non transitori, una struttura immobile di valore immutato e di significato eternamente uguale»191 Ma cacciato dalla finestra, con Lamprecth e con Nietszche, il problema rientrava dalla porta con l’attualismo di Gentile e della sua scuola, che rimettevano in stretta comunicazione res gestae e historia rerum (storia agita e sua narrazione), come accadeva nell’omonimo saggio di Omodeo del 1913192. In quel contributo, si sosteneva appunto che «il
189 F. TESSITORE, Omodeo tra storicismo e storicismo, in ID., Storiografia e storia della cultura, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 171 ss., in particolare pp. 174-175. 190 B. CROCE, recensione a «Revue de synthèse historique», cit., pp. 52-53. 191 F. NIETSZCHE, Sull’utilità e il danno della storia della vita, a cura di G. Colli, Milano, Adelphi, 1974, pp. 11 e 14. 192 A. OMODEO, Res gestae e historia rerum, in «Annuario della Biblioteca filosofica» di Palermo, II, 1913, pp. 1 ss., ora riprodotto in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», VI, 1975-1976, XVIII, pp. 147 ss. Si veda naturalmente, G. GENTILE, Sistema di logica come Teoria del conoscere, Firenze, Le Lettere, 19875, II, p. 278: «Uno dei riflessi della logica astratta del logo astratto è la distinzione corrente di storia (res gestae) e storiografia (historia rerum gestarum): della quale convien qui subito disfarsi per attingere nella logica del concreto la realtà, in cui sono solidamente impiantate, e devono impiantarsi, storia e storiografia». E ancora, ivi, p. 282-283: «Una distinzione c’è, ma non tra storia e storiografia: bensì tra la forma e il contenuto della storiografia, tra soggetto ed oggetto dell’attività storiografica: una distinzione cioè puramente interna alla storiografia, la
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fare nostro è il nostro creare simultaneo della nuova storia, della gesta nuova, ed è l’historia che in quella gesta si rivaluta», rimandando con precisione a Gentile che, già nel 1899, aveva annunciato la necessità di risolvere la storiografia nella storia, dispiegandosi ambedue quelle attività nell’unità produttiva dello spirito, per poi, senz’altro, sostenere che «la storia contemporanea è la storia di quel presente, che non si distende né nell’ultimo secolo, né nell’ultimo cinquantennio, né nell’ultimo lustro, e neanche nell’ultimo anno, o mese o giorno ora: ma si ritrae e raduna e unifica, consolidandosi nell’unità attuale del presente eterno, fuori del tempo, là dove si attua il pensiero»193. Nel punto delicatissimo, dove Croce sosteneva con forza che mai la storiografia avrebbe dovuto essere «giustiziera», ma sempre «giustificatrice», se non «facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita, e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento»194, Omodeo ribatteva che un’analisi del passato, ispirata a questi principi, si sarebbe risolta nella passività e nel quietismo, non perché lo storico dovesse essere giudice o moralistico sentenziatore, ma in quanto «nella storia il giudizio non è vana parola contro vane ombre del passato, ma è la sentenza che si attua, il giudizio che incide perpetuo nella storia stessa»195. Che Volpe abbia potuto seguire questa tesissima polemica teoretica, che si andava svolgendo sotto i suoi occhi, in tutti i dettagli e in tutte le conseguenze, pare veramente impossibile. E milita in primo luogo contro questa ipotesi la sua estraneità alla filosofia di Gentile, la sua quasi ostilità alle teorie oscure del «filosofo-filosofo» totalmente incurante, a parziale differenza di Croce, dei «fatti grossi della storia» e tendente a configurare una concezione generale del divenire, necessariamente ingabbiata nel sistema di una filosofia della storia poco predisposta a cogliere, a differenza di Volpe, anche il valore dei momenti della decadenza, della caduta, del regresso, dell’involuzione, della difformità nei confronti di un decorso logicamente preordinato, della laceraquale non potrà mai autorizzare a distinguere in re la materia storica dal racconto che la rappresenta, e tanto meno dai momenti ulteriori dell’attività storiografica». 193 ID., Il concetto della storia, cit.; ID., Sistema di logica come Teoria del conoscere, cit., II, p. 284: «La storia contemporanea è la storia di quel presente, che non si distende né nell’ultimo secolo, né nell’ultimo cinquantennio, né nell’ultimo lustro, e neanche nell’ultimo anno, o mese o giorno o ora: ma si ritrae e raduna e unifica, consolidandosi nell’unità attuale del presente eterno, fuori, del tempo, là dove si attua il pensiero». Sul punto, A. NEGRI, Il concetto attualistico della storia e lo storicismo, in Giovanni Gentile: La vita e il pensiero, a cura della fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, Firenze, Sansoni, 1962, X, pp. 5 ss. 194 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 77. 195 A. OMODEO, Res gestae e historia rerum, cit., pp. 148 ss.
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zione di una precedente sintesi196. Nel rapporto tra i due compagni della Normale – testimoniato da un fitto, pluridecennale, scambio epistolare, dove mai, o molto raramente, trovava posto, però, la riflessione sull’analisi del passato e le sue ragioni – è Gentile a risultare debitore di Volpe, e mai viceversa, se non altro per l’interpretazione della «modernità» della Rinascenza, in quanto fenomeno non riducibile al solo riecheggiamento dell’«antico» ma comprensibile solo a patto d’inserirlo nella lunga durata del Medioevo comunale italiano197. Inoltre, se ci si concentra sulla congruità delle citazioni testuali, ogni volta che Volpe si troverà a riflettere sul rapporto tra passato e presente, questo avverrà sulla falsariga dei dicta crociani. E se Volpe, in un contributo di grande pregnanza politica prima che storiografica, avrebbe sostenuto che «anche la storia conchiusa si rifonde nella vita, se questa è fortemente vissuta»198, questa apparentemente spericolata affermazione trovava in realtà, un precedente in Croce che aveva concluso, appunto, che «la storia morta rivive e la storia passata si rifà presente, via via che lo svolgimento della vita così richiede»199. Più tardi, nella difficile battaglia contro la degradazione propagandista, che rischiava di investire il mestiere dello storico durante la stagione della dittatura fascista, Volpe sarebbe nuovamente tornato a Croce, non per negare in modo assoluto il rapporto tra storia e politica, ma piuttosto per ammonire che il primo termine rischiava di essere fagocitato dal secondo, «come molto spesso accade, quando al passato si vuol dare il nostro volto, che perciò diventa maschera»200. Ciò detto, tuttavia, la necessità di instaurare un rapporto, che poi sarebbe risultato, ora virtuoso ora vizioso, tra passato e presente, avreb-
196 E. DI RIENZO, Gentile, Volpe e la Storia d’Italia, in Giovanni Gentile filosofo e pedagogista, cit., pp. 183 ss. 197 G. VOLPE, Bizantinismo e Rinascenza, cit., p. 114: «Chi studia l’XI e il XII secolo vede che proprio all’inizio di quella che sarebbe la prima e legittima fase della Rinascenza, già si vedono più che in germe tutti quegli elementi di coltura, quelle forze ideali, quelle inclinazioni mentali che, poi, con maggiore rilievo, ma senza nessuna soluzione di continuità, appaiono in forma di prodotti riflessi e concreti, nella così detta seconda e malaugurata fase». L’influsso di questo saggio su Gentile, per la stesura della Storia della filosofia italiana: (fino a Lorenzo Valla) del 1915, è ampiamente analizzata, anche sulla base dell’esame del manoscritto originale dell’opera, da A. SCAZZOLA, Giovanni Gentile e il Rinascimento, Napoli, Vivarium, 2002, pp. 190 ss. 198 G. VOLPE, 21 aprile. Roma e l’Italia, in «Gerarchia», I, 25 aprile 1922, 4, pp. 173 ss. Il testo è riprodotto in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit., pp. 220 ss. 199 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 15. 200 G. VOLPE, Motivi ed aspetti della presente storiografia italiana, in «Nuova Antologia», novembre-dicembre, 1932, ora in ID., Nel regno di Clio, cit., pp. 60 ss., p. 71.
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be interessato Volpe anche al di là del lecito e del necessario, o almeno di quel lecito e necessario che la dottrina crociana aveva inteso delineare. Mai Volpe avrebbe sicuramente prodotto quella che Croce definiva «storia oratoria», «praticistica», la quale si subordina «ad un fine e cioè ad un atto pratico, e che si vale della recitazione della storia come di un mezzo»201, estraneo alla sua vera funzione, tramutandosi in «filosofia della storia» che, nella sue versioni «moderne o modernissime» rappresentavano «il corso storico come la corsa verso il regno della Libertà», come poi sarebbe accaduto proprio al filosofo napoletano202, e in alternativa «come il passaggio dall’Eden del comunismo primitivo verso il comunismo restaurato» o che «s’ispiravano ai vari nazionalismi ed etnicismi (l’italico, il germanico, lo slavo)»203. Piuttosto, Volpe avrebbe molto, troppo, concesso, a partire dal primo decennio del nuovo secolo, alla sua già ben radicata pregiudiziale patriottica, fino al punto di cadere nella colpa, a volte comunque felice, di voler sanare, per usare ancora le parole di Croce, la «frigida indifferenza della storia filologica», surrogando al «mancante interesse del pensiero, l’interesse del sentimento» e consentendo, però, a una nuova forma erronea di storia che è la «storia poetica», come accade nelle «biografia affettuose che si tessono di persone care e venerate», o ancora nella «storie che innalzano le glorie e piangono le sventure del popolo al quale si appartiene»204. Questa tendenza si faceva evidente, nel 1913, nell’ampio e sistematico resoconto dedicato ai lavori del Congresso internazionale di studi storici di Londra di quello stesso anno, la quale si sarebbe voluta pubblicare anche nella «Critica», ma che, proprio per la sua abnorme estensione, era destinata a restar confinata nelle pagine di «Archivio Storico Italiano»205. In quella rassegna, Volpe forniva un’accurata rassegna dello stato della storiografia europea, dove almeno per una volta largo spazio era concesso, accanto alla germanica, anche a quella francese e 201 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 32 202 F. CHABOD, Croce storico in ID., Lezioni di metodo storico, Bari, Laterza, 1969, pp.
250 ss., che parlava, a proposito di Croce, di «provvidenzialismo o progressismo storicistico di origine hegeliana», 203 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 58. 204 Ivi, p. 26. 205 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Torino, 12 novembre [1913], cit: «Abbia la cortesia di dirmi – e , se non sono indiscreto, con la maggiore sollecitudine – se gradirebbe e accetterebbe per la Critica nov.-gennaio una breve relanzioncella del congresso internazionale di scienze storiche tenutosi a Londra nell’aprile scorso. Essa uscirebbe contemporaneamente, sebbene un po’ mutata nell’Archivio Storico Italiano, che mi diede incarico di questa relazione». Volpe aveva partecipato al Congresso in rappresentanza della R. Deputazione di Storia Patria per la Toscana e dell’Accademia milanese.
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francofona, con particolare riferimento agli studi di Pirenne sui progressi «capitalistici» dell’economia medievale, analizzati in alternativa allo spirito di sistema che aveva negativamente contraddistinto la sintesi di Sombart. Ma quello che soprattutto aveva colpito Volpe in quell’«adunata di storici», che pure era sembrata realizzare una sorta di entente cordiale intellettuale e quasi testimoniare plasticamente l’esistenza di una «comune patria» tra le repubbliche letterarie dei vari Stati che l’imminente conflitto avrebbe tragicamente diviso206, era il fatto che le storiografie nazionali della grandi Potenze si fossero presentate perfettamente attrezzate a rappresentare e a sostenere la propria espansione coloniale, la propria politica di forza e di supremazia anche sul piano strettamente militare. Indicazione, questa, di una tendenza che anche l’Italia doveva recepire e fare propria, cominciando a riflettere, senza complessi d’inferiorità, sull’audace «passato marinaresco» dei suoi Comuni medievali e anche sulla propria tradizione guerriera, «non certo ricchissima come storia di eserciti e di ordinamenti nazionali, ma sì come storia di condottieri, di costruttori di fortezze, di armi ritrovate e perfezionate, di milizie combattenti sotto estranee bandiere». Al compito di rafforzare l’identità nazionale, sul piano interno come su quello internazionale, non dovevano, infatti, sottrarsi neppure i cultori del passato dei piccoli o medi Stati del continente, come aveva dimostrato nell’appuntamento londinese l’attività dello storico romeno, Nicolae Iorga, che aveva saputo coniugare, nella sua importante relazione dedicata alle «bases nécessaires d’une nouvelle histoire du Moyen Age», attenzione «per i bisogni scientifici e insieme per preoccupazioni di ordine pratico», essendo questo studioso in grado di «guardare anche il presente nella sua attività di storico». L’incontro di Volpe con Iorga costituiva l’inizio di un’approfondita relazione fondata su molte convergenze e quasi similarità: lo stile impressionistico della scrittura, il rapporto «affettuoso», avrebbe detto Croce, col passato della propria terra, la concezione organicista della storia, la predilezione per le formi medievali di autonomia locale, la volontà di valorizzare la secolare coesione interna delle rispettive patrie, la polemica contro i mali di democrazia e parlamentarismo, la sensibilità per i profondi fermenti ideali capaci di mettere in movimento grandi mutamenti sociali. Ma soprattutto Volpe ritrovava in Iorga la sua stessa attenzione per l’elemento popolare, al di là di ogni precisa definizio-
206 Su questa grande illusione, che l’incontro londinese parve rappresentare, si veda K.D. ERDMANN, Toward a Global Community of Historians. The International Historical Congresses and the International Committee of Historical Sciences, 1898-2000, New YorkOxford, Berghahn Book, 2005, pp. 58 ss.
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ne economicistica, sociologica, etnicistica, come fattore primario dell’evoluzione storica di una nazione, sviluppata dallo studioso romeno nella sua Storia del popolo romeno nel quadro della sue formazioni statali, composta in tedesco nel 1905, che conteneva anche un non larvato appoggio alle rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Ungheria207. A tutto questo si aggiungeva un profondissimo sentimento di simpatia per il nostro paese, bene testimoniato, da Iorga, nella sintesi dedicata alla Breve storia dei Romeni, con speciale considerazione delle relazioni con l’Italia del 1911, dove si evidenziava la secolare e mai interrotta tensione occidentale della Romania, che si era rivolta verso Venezia, fino al XVII secolo, e che ora si rivolgeva verso la «terza Roma», considerandola l’anello di congiunzione indispensabile, di un’«intesa latina» che avrebbe dovuto collegare, anche sul piano diplomatico e politico, l’Est e l’Ovest europeo, in funzione di contenimento della pressione slava e tedesca208. Questo insieme di affinità cementava una solidarietà scientifica e ideale tra i due storici, che si rinsaldava, subito dopo la fine dei lavori londinesi, quando Volpe inviava a Iorga una corrispondenza, quasi integralmente incentrata sulla più bruciante attualità politica e sulle modificazioni dello scenario internazionale, che l’aggravarsi della situazione balcanica, tra 1912 e 1913, aveva comportato per Italia e Romania: la prima, intervenuta diplomaticamente contro la Serbia, per evitare l’annessione dell’Albania, la seconda, scesa in campo militarmente contro la Bulgaria, a fianco di Grecia, Serbia, Turchia, ma ambedue ormai già scioltesi o sul punto di sciogliersi dai vincoli che le legavano agli Imperi centrali. Ho ricevuto l’opuscolo contenente le vostre due comunicazioni al Congresso, ho ricevuto i primi tre fascicoli del Bulletin e ve ne ringrazio vivamente. Io conoscevo la vostra Breve storia dei Rumeni, cara al mio cuore d’italiano. Ma non altro. Ora il Bulletin mi permette di valutare più adeguatamente l’importanza della vostra attività di storico della Rumania e la connessione in cui mettete la vita del passato e la vita presente del vostro paese, e lo sforzo che state compiendo per ricollegare quella storia e quella vita di un paese giovane con la storia europea in genere, latina in ispecie ed italiana più ancora. È una attività che a me interessa come studioso e anche come italiano, convinto come sono che i vincoli passati possano e debbano accrescersi, stringersi nell’avvenire, da fatto di natura diventar fatto dello spirito, fatto di consapevolezza e di volontà.
207 Sul punto, B. VALOTA CAVALLOTTI, Nicola Iorga, Napoli, Guida, 1977; F. GUIDA, Nicolae Iorga e il compimento dell’unità nazionale romena, in Atti del Convegno italo-romeno N. Iorga organizzato all’Istituto Romeno di Cultura di Venezia. 9-10 novembre 2000, a cura di I. Bulei e S. Marin, Bucarest, Casa Editrice Enciclopedica, 2001, pp. 111 ss. 208 R. TOMI, Nicolae Iorga e l’Italia, ivi, pp. 82 ss.
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Minacciati voi e anche noi da maree slave e germaniche, potremo saldarci ancora, pur da lontano, e far catena per essere più forti. Il contrasto degli interessi, determinato da troppa vicinanza e da comuni aspirazioni sopra vicini obietti, può render vana la affinità etnica, così tra noi e la Francia. Ma dove nessun contrasto di interessi esista, dove il campo di azione di due popoli è diverso e nessuna concorrenza può manifestarsi, allora il sangue può far valere le sue ragioni e, col sangue, l’affinità morale e culturale. Io ho seguito un po’ sui giornali nei mesi scorsi ciò che voi avete fatto per rendere più stretti i rapporti della Rumania con l’Italia. E mi son chiesto se non sia il caso di lavorare metodicamente e tenacemente a questo scopo, tanto costì quanto qui. Gli eventi balcanici e la parte da voi presa nella guerra ultima mi hanno fatto sempre più persuaso di questa opportunità. Non dissimulo che a qualcuno, da noi, il vostro intervento contro la Bulgaria non è apparso simpatico. È parso come una piccola mietitura sopra un campo da altri arato e seminato. Ci siamo tuttavia resi ragione dei moventi della vostra azione. La condotta temperata, poi, che la Rumania ha tenuto, l’energia con cui ha infranto ogni eccessiva cupidigia propria ed altrui, ci ha del tutto riconciliati a voi e ci ha mostrato un’altra affinità tra noi e voi. Anche noi, se siamo intervenuti nei Balcani, lo abbiamo fatto per infrenar cupidigie altrui, pericolose a noi e all’equilibrio dell’Europa del sud-est. Vorrei che tutti al mondo fossero profondamente persuasi che noi Italiani non abbiamo nessun desiderio di conquistare l’Albania, ma vogliamo solo che essa non diventi in mano di altri (Austria o Serbia o Grecia) un’arma contro le vicine e mal difendibili coste Italiane; vogliamo solo che essa non diventi un pretesto e occasione per l’Austria a piantarsi da padrona nella penisola dei Balcani. Noi e voi siamo intervenuti nella recente guerra non per sopraffare altri ma per impedire sopraffazioni ai danni nostri ed ai danni di altri il cui destino è un po’ legato al nostro. Sarà il nostro senso di equità; sarà la nostra innata temperanza; sarà la particolar condizione geografica e politica nostra; saranno tutte queste cause insieme che hanno determinato e che spiegano la nostra condotta e la vostra; certo il fatto, innegabile, è questo209.
Erano parole queste che rappresentavano un Volpe, dubbioso e molto esitante sulla possibilità di rompere o di modificare, senza danni per l’Italia, lo justum potentiae aequilibrium rappresentato dalle due grandi coalizioni continentali, a favore di una lega latina, che avrebbe dovuto comprendere, di necessità, anche l’odiosissima Francia. Un Volpe, consapevole della debolezza non solo militare dell’Italia e quasi fautore di una politica del «piede di casa» e delle «mani nette», che forse poco doveva gradire i sempre più stringenti interventi di Iorga che invitavano il governo di Roma ad attuare, al più presto, «il disfacimento
209 Gioacchino Volpe a Nicolae Iorga, Santarcangelo di Romagna, 10 settembre 1913, in N. IORGA, Scrisori Câtre. III. 1913-1914. Editie ingrjitâ de P. Turlea. Studiu introductivu de A. Pippidi, Bucarest, Editura Minerva, 1988, pp. 117-120.
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dalla innaturale relazione con l’Austria-Ungheria, sua rivale naturale nei Balcani, per tornare alle grandi, gloriose tradizioni medioevali» di penetrazione nel mare Adriatico e in direzione del Levante. Prima ancora che lo storico romeno formulasse questo perentorio invito, in alcune conferenze svolte presso l’Ateneo veneziano, durante il marzo 1914, dedicate a Venezia e la penisola dei Balcani e Il problema balcanico e l’Italia210, il collega italiano obiettava in questo modo alla proposta di un così radicale rovesciamento delle alleanze, che avrebbe compromesso quell’egemonia asburgica, che costituiva, in fin dei conti, la più salda garanzia per la sicurezza di molti Stati piccoli e medi, minacciati da gruppi nazionali ed etnici più potenti e più determinati nei loro progetti di espansione. Voi mi toccate, nella Vostra lettera, questioni vive e vitali per noi Italiani e per quanti popoli attorno all’Austria attendono la fine del multiforme impero per raggiungere una più perfetta unità. Ora, finita la guerra balcanica, alcuni giudizi vostri e nostri potrebbero forse essere mutati: ma io convengo su molte cose con Voi. Solo che io rimango sempre molto dubbioso ogni volta che si accenna alla possibilità, nel futuro, di un’unione di quei popoli per compiere, ai danni dell’Austria, le loro rivendicazioni nazionali. E mi chiedo, e con me si chiedono molti Italiani, forse anche dei Rumeni, dei Serbi, ecc.: sarà per noi, sarà per le piccole e mezzane unità etniche che si specchiano nel Mediterraneo centrale ed orientale o nel mar Nero, un bene che l’Austria si sfasci e metta noi direttamente di fronte ad enormi compagini tedesche e slave organizzate in politica unità? O non sarà una minaccia grave all’avvenire politico ed economico nostro? Noi italiani già sentiamo ai confini la pressione della massa germanica che ha i suoi centri non già a Vienna, ma a Monaco o Lipsia o Berlino; i balcanici e forse anche i Rumeni già sentono o cominceranno a sentire egual pressione, destinata a crescere rapidamente con l’orientarsi della politica germanica, coll’attuazione dei vasti piani tedeschi nella Turchia asiatica. L’Austria ci fa molti mali grandi e piccoli; ci irrita tutti un po’; ma l’Austria ci reca anche questo servizio: tiene lontana altra gente più forte, più unita, più prepotente; contempera bene o male gli interessi o certi interessi dei vari elementi etnici di cui è composta, e bene o male li costringe a lavorare insieme. Io non so se questo servizio sia grande per la Rumania come per l’Italia. Certo, credo che per l’Italia è grande, come è grande, per la stessa ragione, quello che ci rende la Svizzera, sebbene anche essa ci tolga poco meno che un milione di italiani e il dominio di certi valichi alpini che sono le porte di casa nostra. Ma ciò vuol dire che Italia e Rumania non hanno infiniti interessi in comune, anche di fronte all’Au-
210 Le due conferenze, segnalate sull’«Archivio Storico Italiano», venivano pubblica-
te in opuscolo col titolo, Orizzonte italiano. Tradizione nel sud-est europeo e missione latina, nel 1914, in Romania. Consultiamo questo testo nella ristampa del 1940, Bucarest, Istituto per lo studio dell’Europa sud-orientale.
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stria? No. Ed io mi auguro che la nostra e la ventura generazione lavorino nell’ambito di questi comuni interessi. Comuni interessi italo-rumeni in ispecie; e comuni interessi italo-balcanici in genere. Io son pieno di fiducia sull’avvenire dei piccoli e non grandi stati e popoli dell’Europa meridionale; ma penso non senza preoccupazioni alla crescente invadenza tedesca, alle tendenze espansioniste dello slavismo russo211.
Neppure il radicato, ma mai velleitario, irredentismo di Volpe pareva, dunque, poter costituire la spinta sufficiente ad assecondare le pulsioni che congiuravano a scardinare lo status quo continentale, e che un consapevole realismo politico doveva, invece, proporsi di sopire, neutralizzare, deviare dal loro corso. Ma questa politica di prudenza non rischiava contestualmente di eternare la situazione di inferiorità dell’Italia sullo scenario internazionale, non la privava, una volta per tutte, della possibilità storica di realizzare il compimento del suo processo unitario, di conquistare un ruolo di grande Potenza nell’area adriatica e balcanica e persino di porre su nuove basi i processi della sua riforma interna? A chi, come Volpe, avrebbe poi sostenuto, che «la scelta del domani deciderà delle nostre sorti future per decenni e decenni», Giustino Fortunato, con non poche buone ragioni, poteva replicare, nel gennaio del 1915, che, se erronea, quella scelta avrebbe costituito «il primo atto di una tragedia di trenta e più anni», delineando una prospettiva tanto terribile, nei suoi effetti immediati e nelle sue conseguenze remote, da obbligare, ora, a un passo dall’abisso, a conservare il più possibile una «vigile aspettativa, senza preconcetti né di odi né di amori per le parti combattenti», e a tenere bene a mente quanto pericoloso potesse essere gettare nell’avventura bellica «un paese infinitamente debole, venuto su a galla per sola virtù del Caso», privo della coscienza precisa della sua «realtà morale ed economica»212. A queste considerazioni, era tuttavia possibile obiettare con altrettanta forza, anche da parte di chi, come Gentile, avrebbe poi esplicitamente rigettato il verbo nazionalista213, che il rifiuto, di quelle che a molti potevano apparire solo le ingannevoli seduzioni della «grande politica» equivaleva a prostrare per sempre l’Italia sotto il peso insopportabile di un «delitto di fellonia», che costituiva la «dimostrazione della nostra necessità e urgenza, politica e morale, di metterci sotto il protettorato della Germania o dell’In-
211 Gioacchino Volpe a Nicolae Iorga, Milano, 14 gennaio 1914, in N. IORGA, Scriso-
ri Câtre. III, cit., pp. 188-189. 212 Giustino Fortunato a Gioacchino Volpe, Napoli 8 gennaio 1915, in G. FORTUNATO, Carteggio, 1912-1922, a cura di Emilio Gentile, Bari, Laterza, 1979, p. 184. 213 G. GENTILE, Nazione e nazionalismo; ID., L’ideale politico di un nazionalista, poi in ID., Guerra e fede, cit., pp. 48 ss. I due scritti erano del 1917 e 1918.
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ghilterra» e della nostra rassegnazione «a vivere uso Spagna o Grecia», che ci avrebbero privati anche della lusinga di continuare «a sperare nel risorgimento morale, nella formazione di una coscienza, e quindi di una filosofia e di tutte le altre belle cose per cui lavoriamo»214. Nell’un caso e nell’altro, quella che è stata giustamente definita la «sindrome politica italiana», dei mesi che precedettero il nostro intervento215, poco rassomigliava alla marcia trionfante e impetuosa verso la liquidazione della «banale, pedestre politica amministrativa dell’ultimo cinquantennio», che aveva dilapidato «fin l’ultimo lembo dei veli poetici e mitici del Risorgimento carducciano», come in futuro sarebbe stata descritta da Camillo Pellizzi in un libro dal forte impatto emotivo ma che non avrebbe incontrato il pieno favore di Volpe216. Quel sofferto e non rettilineo approssimarsi alla prova delle armi non rappresentava soltanto la ripresa di un «contatto morale», necessario a «muovere verso la costruzione della moltitudinaria, progressiva, monumentale realtà che è la patria», come Pellizzi avrebbe supposto, ma rispecchiava, piuttosto, l’insicurezza nell’identificare i grandi interessi geopolitici nazionali, l’incertezza conseguente nel mantenere in piedi il sistema delle alleanze o nel mutarle radicalmente, la divisione strutturale sui grandi temi internazionali ma anche su quelli di politica interna, che ora con i primi si venivano a saldare in modo indissolubile, approfondendo conflitti e divisioni, più occultati che sopiti, ma mai neutralizzati e più probabilmente esasperatesi durante il decennio giolittiano.
214 Giovanni Gentile a Guido De Ruggiero, 16 maggio 1915, in Archivio Guido De
Ruggiero, Fondazione Giovanni Spadolini, Firenze, d’ora in poi, AGDR. Nella lettera, Gentile aggiungeva come postscriptum: «Non crediate che io sia divenuto nazionalista: tutt’altro! Essi hanno buona parte di colpa della situazione presente». 215 G.E. RUSCONI, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra, Bologna, Il Mulino, 2005, in particolare pp. 177 ss. 216 C. PELLIZZI, Gli Spiriti della vigilia. Carlo Michelstaedter, Giovanni Boine, Renato Serra, Firenze, Vallecchi, 1924, in particolare pp. 200 ss. Per il giudizio di Volpe su quel saggio, si veda la lettera a Pellizzi dell’8 novembre 1924 «Grazie anche – a due o più mesi di distanza – de Gli spiriti della vigilia. Lettura non agevole per un non filosofo; per colpa dei non filosofi innanzi tutto, ma un po’ anche dell’Autore che non da per tutto è giunto a quella chiarezza e limpidezza di pensiero che i non filosofi richiedono. E qua e là mi sono anche chiesto se l’Autore non abbia visto più cose che quegli spiriti contenessero… Ma, con tutto ciò, un bel vigore ricostruttivo e molti bei lampeggiamenti e ansiosa ricerca di sé stesso pur mentre si ricercano gli altri!». La lettera è riprodotta in appendice al mio, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra. Nuovi documenti, 1924-1945, in «Nuova Storia contemporanea», 2004, 2, pp. 101 ss.
3. SPIRITI DELLA VIGILIA 1. Nel 1928, Gioacchino Volpe pubblicava la raccolta Guerra dopoguerra Fascismo. Si trattava di una scelta di articoli politici, redatti tra 1916 e 1927, dotati di sostanziale omogeneità perché ideati «in uno spazio di tempo che si presenta come ben circoscritto e con caratteri di continuità, e da un uomo che non ha dovuto superare grandi “crisi” di animo o di pensieri per aderire alla nuova realtà italiana sollecitata dalla guerra»1. Per quanto Volpe riconducesse le ragioni della propria coerenza a quel «più energico e nazionale liberalismo o, se si vuole, nazionalismo non dogmatico e perciò associabile col primo», non trovò spazio nella raccolta nessuno degli articoli da lui scritti, nel 1914, per il settimanale «L’Azione», di cui proprio Volpe aveva assunto la direzione effettiva, anche se non nominale, negli anni immediatamente successivi2. Un periodico, ricorderà Volpe, nel secondo dopoguerra, che, fino al 1920, fu anche il nome «di un piccolo partito nato dalla scissione del partito nazionalista, al quale io mi accostai, collaborando al suo giornale e al quale ancora oggi, pur con tanto mutamento di situazioni mi sento vicino: perché non intendo nascondere il carattere fortemente nazionale del mio liberalismo»3. Forse la mobilitazione interventista, per le lacerazioni interne al movimento, per le forzature operate sulla maggioranza neutralista del Paese e del Parlamento, si presentava, agli occhi di Volpe, come l’atto finale di un’Italia, avviata sì verso il proprio de1 G. VOLPE, Guerra dopoguerra Fascismo, Venezia, La Nuova Italia, 1928, p. VIII. 2 Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Roma 5 dicembre 1939. La lettera è con-
servata nell’Archivio Widar Cesarini Sforza, Biblioteca U. Balestrazzi, Parma, d’ora in poi AWCS. 3 ID., Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, in ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1944-1947, f. 1126, n. 13503/15312, ora pubblicato da I. VALENTINI, Le interferenze politiche nell’epurazione universitaria. L’“esame di coscienza” di Gioacchino Volpe e la “carriera” di Luigi Salvatorelli, in «Nuova Storia Contemporanea», 2003, 2, pp. 123 ss.. Si veda anche ID., Il popolo italiano tra la pace e la guerra: 1914-1915. Introduzione di F. Perfetti, Roma, Bonacci, 1992, p. 116: «La piccola Azione nazionale-liberale, che accoglieva articoli di Caroncini, Arcari, Borgese, Volpe, Anzilotti, Grandi, Ansaldo, Cesarini Sforza, Solmi, lavorava per una borghesia più consapevole e politicamente educata, confidando appunto nella guerra».
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stino, ma ancora incompiuta. Forse, piuttosto, benché non disconoscesse il merito della minoranza politicamente attiva che aveva voluto l’intervento, preferiva non insistere sulla frattura allora prodottasi in seno alla società italiana per scongiurare il rischio, denunciato già durante il conflitto, di accreditare l’idea di una guerra «nata per il capriccio di pochi forsennati interventisti, per interesse dei signori, per odio alla povera gente», enfatizzandone invece il carattere di «necessità e inevitabilità»4. In questa drammatica vicenda, ciò che veniva messo in luce era proprio la fase della mobilitazione interventista, che non restava sommersa in quella categoria storiografica di «vario nazionalismo», che Volpe avrebbe poi elaborato5. Anche rispetto ad altri paesi europei, precocemente attraversati da un ampio entusiasmo patriottico, i dieci mesi di neutralità italiana rappresentarono infatti un tornante cruciale nella storia nazionale, soprattutto per l’esasperazione del conflitto politico e l’attivazione di motivi ideologici che avrebbero avuto largo seguito nel dopoguerra6. Proprio gli scritti politici di Volpe del 1914-1915 testimoniano della preesistenza nella cultura politica liberale di elementi di tangenza verso il «sovversivismo» nazionalista che la guerra avrebbe fatto poi precipitare: dal mito di un’Italia «giovane», destinata a nuova grandezza se solo fosse riuscita a comporsi in armonica e disciplinata 4 ID., Ricordi storici, in «Fatti e commenti», 16 settembre 1918, poi in ID., Per la storia della VIII armata. Dalla controffensiva del giugno alla vittoria del settembre-ottobre 1918, Milano, Mondadori, 1919, pp. 136-137. Con lo stesso titolo, stessa datazione e stesso editore veniva pubblicata una raccolta di discorsi alle truppe del generale Caviglia, redatti dallo stesso Volpe, che d’ora in poi indicheremo come Per la storia della VIII armata, bis. Il tema della guerra «necessaria», a compimento del Risorgimento, e come termine della secolare contesa tra Savoia ed Asburgo, ritornava in G. Volpe nell’opuscolo «Saluto» del 1 gennaio 1919, ora in ID., Per la storia della VIII armata, cit., pp. 170 ss. 5 Per questa definizione, ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 274 ss. Sul punto, G. GAETA, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 54 ss. Poco aggiunge, B. BRACCO, Il «vario nazionalismo» di Gioacchino Volpe, in Da Oriani a Corradini. Bilancio critico del primo nazionalismo italiano, a cura di R. H. Rainero, Milano, Angeli, 2003, pp. 217 ss. 6 Per un inquadramento generale: C. MORANDI, I partiti politici nella storia d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1945, ora in ID., Scritti storici, a cura di A. Saitta, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1980, 4 voll., II, pp. 345 ss.; V. DE CAPRARIIS, Partiti politici e opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del XLI congresso di Storia del Risorgimento, Roma, Istituto di Storia del Risorgimento Italiano, 1965, pp. 172 ss.; B. VIGEZZI, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale. I. L’Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966; ID., L’Italia liberale – governo, partiti, società – e l’intervento nella prima guerra mondiale, in ID., L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Milano, Jaca Book ,1997, pp. 105 ss.; G. PROCACCI, La neutralité italienne et l’entrée en guerre, in Les entrées en guerre en 1914, «Guerres mondiales et conflits contemporains», 1995, 2, pp. 83 ss.. Si veda anche la rassegna di L. CEVA, La neutralità dell’Italia unita, in «Rivista Storica Italiana», 1999, 1, pp. 280 ss.
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unità, per valorizzare le tradizioni e gli interessi del «paese reale» contro la demagogia democratica e parlamentare7, alla subordinazione, seppure temperata, della politica interna alla politica estera, sino all’adozione del principio della forza, e quindi della guerra, quale motore della vita delle nazioni8. Sebbene Volpe, insieme ad altri intellettuali legati all’esperienza del liberalismo nazionale, avrebbe dimostrato di saper resistere, come si vedrà, allo «spirito di crociata», ai toni da «guerra santa» della civiltà contro la barbarie agitati dall’interventismo democratico9, che provocarono la disfatta culturale e politica di quel movimento10, non altrettanta moderazione ritennero di adoperare nell’adoperare con disinvoltura parole d’ordine, per altro comuni a tutte le componenti favorevoli all’ingresso dell’Italia nel conflitto: dalla virtù morale della guerra, sicura artefice di un nuovo ordine nazionale, solidale e gerarchico, alla necessità di una più energica politica di potenza11. È la storia del così detto «equivoco nazionalista» in seno al liberalismo
7 Il mito della nazione «giovane» destinata a sopraffare le «vecchie» potenze globali,
come Francia e Inghilterra, è un motivo ricorrente della dottrina politica dello storico tedesco, Heinrich von Treitschke, da Volpe ben conosciuta. Sul punto, W. BUSSMANN, Treitschke als Politiker, in «Historische Zeitschrift», 1977, 2, pp. 249 ss.; P. WINZEN, Treitschke’s Influence on the Rise of Imperialist and Anti-British Nationalism in Germany, in Nationalist and Racialist Movements in Britain and Germain before 1914, a cura di P. Kennedy e A. Nicholls, Oxford, Oxford University Press, 1981, pp. 127 ss. 8 G. ARE, La scoperta dell’imperialismo, Roma, Edizioni Lavoro, 1985; B. VIGEZZI, Politica estera e opinione pubblica in Italia dall’Unità ai nostri giorni, Milano, Jaca Book, 1991. Si veda anche, E. ULLRICH, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana, Roma, Camera dei Deputati, 1979. 9 J.-J. BECKER e S. AUDOIN-ROUZEAU, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2002, e ora il non sempre condivisibile A. VENTRONE, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003, in particolare, pp. 26 ss. 10 Un’analisi spesso apologetica dell’interventismo democratico è invece in R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo. I. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 124 ss. Sul punto, G. SABBATUCCI, La Grande Guerra come fattore di divisione: dalla frattura dell’intervento al dibattito storiografico, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di L. Di Nucci e E. Galli della Loggia, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 107 ss. Più distaccato l’approccio di B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 111 ss. Sulla crisi di idee e di valori dell’ala democratica del movimento favorevole alla guerra, soprattutto a partire dalla fine del 1917, ancora insuperate restano le pagine di R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, 1893-1920, Torino, Einaudi, 19952, pp. 362 ss. 11 Sul punto, M. ISNENGHI, Il mito della Grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 1970, pp. 179 ss., ma soprattutto E. GENTILE, Un’apocalisse nella modernità. La Grande Guerra e il Mito della Rigenerazione della politica, in «Storia contemporanea», 1995, 5, pp. 733 ss. Per l’analisi di questo fenomeno, in un contesto europeo, G.L. MOSSE, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990; R. WOHL, 1914. Storia di una generazione, Milano, Jaca Book, 1983.
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(da Giovanni Amendola a Umberto Ricci)12, del progressivo naufragio, nel dopoguerra, di tanta parte dell’intellettualità liberale verso una soluzione autoritaria degli antichi mali italiani, verso quella «rivoluzione» nella «conservazione», che a Volpe sarebbe poi apparsa parzialmente realizzata nel fascismo, soprattutto per quello che avrebbe riguardato la politica estera del regime13. Un naufragio che in Volpe non fu tuttavia mai definitivo, grazie al saldo ancoraggio a quella concezione dei rapporti internazionali, che, secondo la definizione di Hegel, aveva alla sua base la «volontà sovrana differenziata» degli «Stati indipendenti»14, e che costituiva, per Leopold von Ranke, un «sistema di diritto pubblico», sulle cui fondamenta riusciva a mantenersi l’«ordine» politico del sistema delle potenze europee, pur nella loro dinamica di confronto, di conflitto, di perenne antagonismo15. Si trattava di una lezione di antica saggezza politica che avrebbe sempre evitato a Volpe un deviamento su posizioni di carattere sciovinistico, se non addirittura francamente razzistico, dove l’avversario in armi perdeva il suo status di antagonista per assumere quello di «hostis humani generis»16. Posizioni, che sarebbero state invece fatte proprie, durante la guerra, da molti intellettuali dello schieramento democratico: dall’ex-neutralista Cesare De Lollis a Luigi Gasparotto17, ad Adolfo Omodeo. Questi, se alla fine del 1916 confessava a Vito FazioAlmayer, in una lettera impreziosita da citazioni di Kant e del Nuovo Testamento, che veramente era «affar lungo sterminare questi cani di austriaci e tedeschi», nell’ottobre del 1918, quando la prova delle armi volgeva ormai a favore dell’Italia, comunicava alla moglie che il frutto della vittoria non si sarebbe potuto esaurire solo nel riacquisto del territorio nazionale ma doveva portare all’annientamento totale dell’esercito
12 G. CAROCCI, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano 1911-1925, Milano, Feltrinelli, 1956, p. 22 ss.; G. BUSINO, Materiali per la bio-bibliografia di Umberto Ricci, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XXXV, 2001, pp. 323 ss. 13 G. VOLPE, Guerra dopoguerra Fascismo, cit., p. VIII. 14 G.G. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1954, III, 3, § 330, p. 279: «Il diritto statale esterno deriva dai rapporti degli Stati indipendenti; quindi, ciò che, nel medesimo, è in sé e per sé, serba la forma del dover essere, poiché, che esso sia reale, dipende dalla volontà sovrana differenziata». 15 L. VON RANKE, Le Grandi Potenze, Firenze, Sansoni, 1954, p. 13. Su tutto questo, si veda il mio, Il diritto delle armi. Guerra e politica nell’Europa moderna, Milano, Franco Angeli, 2005. 16 A. VENTRONE, Il nemico assoluto nella Grande Guerra, in Il governo d’emergenza. Poteri straordinari e di guerra in Europa tra XVI e XX secolo, a cura di F. Benigno e L. Scuccimarra, Roma, Viella, 2007, pp. 259 ss. 17 C. DE LOLLIS, Taccuino di guerra, Firenze, Sansoni, 1955, p. 84; L. Gasparotto, Diario di un fante, Brescia, NordPress, 2002, p. 39.
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nemico. Opera a cui la batteria da lui comandata aveva partecipato attivamente, essendo riuscita a fare strage del «fiore dell’Ungheria»18. Le prime avvisaglie di questo atteggiamento di degradazione del conflitto a puro e semplice bellum internecium erano state individuate e stigmatizzate da Benedetto Croce già nel 1915. Pur fermissimo oppositore dell’intervento e dei metodi polemici di molti esponenti del nazionalismo italiano, simili a quelli utilizzati dai «demagoghi e piazzaiuoli politici di tutti i tempi»19, il filosofo, in una fitta serie di note e postille apparse sulla «Critica», intendeva fornire il suo contributo a illuminare, quando mai questa impresa fosse stata possibile, l’«ignoranza politica» della «democrazia italiana», tanto grande e tanto radicata che «forse nemmeno la lezione oggettiva e oculare degli avvenimenti che ora si svolgono la correggerà dal richiedere alleanze e guerre in forza di dottrine e raziocini». Al vano pigolare della propaganda bellicistica radicale e massonica, Croce chiedeva al paese, impegnato nello scontro, di rinvenire altre idee-forza, che ne indirizzassero gli sforzi, e in particolare quella della «moralità della dottrina dello Stato come potenza», così come era stata consegnata alla cultura europea da Ranke e da Treitschke. Per dire la cosa in breve e in termini popolari, la storia (nonché la logica stessa della vita) mostra che gli Stati e gli altri aggruppamenti sociali sono tra loro perpetuamente in lotta vitale per la sopravvivenza e la prosperità del tipo migliore; e uno dei casi acuti di questa lotta è ciò che si chiama la Guerra. Quando la guerra scoppia (e che essa scoppi o no, è tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assestamento tellurico), i componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della patria per sottomettere l’avversario o limitarne la potenza o soccombere gloriosamente, gettando il germe di future riscosse. Solo a questo modo l’individuo è giusto, sebbene, a questo modo, sia giusto anche l’avversario; e, per questa via, giusto sarà, per un tempo più o meno lungo, l’assetto che si formerà dopo la guerra. Non credo che il sano senso popolare abbia mai
18 A. OMODEO, Lettere 1910-1926, Torino, Einaudi, 1963, p. 161 e p. 332. 19 B. CROCE, Metodi polemici del nazionalismo italiano in ID., Pagine sparse. Serie se-
conda. Pagine sulla guerra, raccolte da G. Castellano, Napoli, Ricciardi, 1919, d’ora in poi citato come Pagine sulla guerra, pp. 31 ss. Più estesamente, per la polemica di Croce contro gli intellettuali interventisti, definiti politici «improvvisatori», si veda ID., Motivazioni di voto (6 dicembre 1914), ivi, pp. 9 ss. Sul dissidio tra Croce e Gentile sulla questione dell’intervento, si veda Giovanni Gentile a Giuseppe Lombardo Radice, 6 luglio 1915, AFG: «Con questa guerra comincerà la nuova storia d’Italia (benché Benedetto ancora non se ne accorga) […]». Importante è anche la lettera di Gentile a Croce del 15 maggio 1915, in G. GENTILE, Lettere a Benedetto Croce, 1915-1924, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 27 ss. Sul neutralismo «patriottico» di Croce, H. ULLRICH, Croce e la neutralità italiana, in «Rivista di studi crociani», 1969, 1-2, pp. 11 ss. e 155 ss. Si veda anche, G. GALASSO, Croce e lo spirito del suo tempo, cit., pp. 255 ss.
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concepito in altra guisa le guerre, e solo una falsa ideologia, un sofisma di letteratucci, può tentar di surrogare a questi concetti semplici e severi la ideologia del torto e della ragione, della guerra giusta e della guerra ingiusta20.
Una Realpolitik, che evitava ogni demonizzazione del nemico e che poteva condurre a un conflitto «senza odio» con l’antagonista di oggi, che sarebbe potuto divenire l’alleato di domani21, aveva costituito il quadro di riferimento delle prime prove giornalistiche di Volpe, apparse sul «Corriere della Sera». Erano articoli, che risentivano delle esperienze accumulate nel semestre di studio in Germania dal dicembre 1902 all’agosto 1903. Periodo certo importante per la formazione culturale del giovane storico, come si è visto. Ma soprattutto fondamentale per l’apprendistato politico di Volpe, posto per la prima volta di fronte, come avrebbe ricordato nel 1922, alla «visione d’insieme di una grande nazione», che forniva «il senso di una vita mondiale dal largo respiro, il presentimento di grandi urti di popoli che si preparavano, a dispetto di tutte le morbide ideologie, i quali avrebbero investito anche noi, volenti o nolenti»22. L’ammirazione per la Germania, per la sua cultura ma anche per i suoi impetuosi processi di modernizzazione, non era disgiunta dalla preoccupata valutazione per l’incontenibile espansionismo tedesco. Quell’imperialismo giovane e più aggressivo, scriveva Volpe nel marzo del 1903, avrebbe potuto in un vicino futuro volgersi anche contro l’Italia, il giorno in cui «sfasciatasi l’Austria, questi tedeschi correranno a Trieste e noi li avremo alle porte di casa, molto più temibili e forse più intolleranti dei croati stessi»23, per congiungersi o forse per scontrarsi con la spinta propulsiva delle nazionalità slave sul limes balcanico e adriatico. Questo motivo, appena accennato in quella lettera familiare, veniva amplificato nel lungo editoriale del 23 agosto 1903, che prendeva a pre-
20 B. CROCE, Pagine sulla guerra, cit., p. 86-87. Una riflessione che, per Croce, manteneva tutto il suo valore anche nel corso del secondo conflitto. Si veda, ID., Taccuini di guerra, 1943-1945, a cura di C. Cassani, Milano, Adelphi, 2004, alla data del 4 ottobre 1943 p. 29: «Sono stato a rimuginare la guerra, il diritto internazionale e altri concetti affini, cercando sotto la stretta terribile della passione di questi giorni la parte da condannare moralmente; ma la conclusione è stata la rassodata conferma della vecchia teoria che la guerra non si giudica né moralmente né giuridicamente, e che quando c’è la guerra, non c’è altra possibilità né altro dovere che cercare di vincerla». Indebita è in ogni caso l’annessione di Croce al movimento nazionalista, per i suoi interventi del 1915, operata da Volpe, Italia Moderna, cit., III, pp. 523-524. 21 B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, Torino, Einaudi, 1980, XVI, p. 387: «Non è l’odio, infatti, ma il diritto dello Stato, quello che crea il nemico». 22 G. VOLPE, Prefazione a Medio Evo italiano, cit., p. X. 23 Gioacchino Volpe a Maria Serpieri, Berlino, 3 marzo 1903, CV.
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testo l’annuncio delle manifestazioni di protesta, promosse dai circoli radicali in occasione della prossima visita dello Czar in Italia. La notizia forniva a Volpe l’occasione più propizia per fornire una lezione di grande politica al partito socialista, allora pervaso grazie all’influsso di Bissolati da simpatie tripliciste, nelle quali egualmente contava il desiderio di stabilizzare il quadro internazionale e quello di rafforzare i rapporti di buon vicinato con i movimenti fratelli, operanti negli Imperi centrali24. Ad essere criticato, nel pezzo pubblicato sul foglio milanese, era l’atteggiamento astrattamente umanitario dell’opinione pubblica progressista: il suo sbandierato cosmopolitismo sotto cui si celava un atteggiamento di miope provincialismo, incapace di cogliere i grandi fattori della politica estera, e in particolare il pericolo imminente di un’esplosione dirompente della forza industriale e demografica tedesca fuori dai suoi confini. Questo popolo, con la sua forza, la sua coltura, la sua eccellente organizzazione è spinto irresistibilmente ad allargarsi, a cercar nuovi sbocchi al commercio, a raccogliere i grossi frammenti di popoli tedeschi che sono rimasti fuori dall’Impero; ed a tutto questo è risoluto di giungere senza scrupoli e riguardi di sorta, larvando con speciosi titoli di diritto quel diritto del più forte che credevamo morto, ma che è più vivo che mai, sempre più vivo quanto più cresce per i grandi Stati produttori dell’Europa il bisogno di un campo largo d’azione ove l’attività loro non trovi concorrenti; e quanto più desta e pugnace diventa la coscienza dell’affinità etnica di popoli che fino ad ora hanno avuto esistenza diversa e sorti diverse: come è il caso nei territori slavi e tedeschi25.
Nell’immancabile «gran cozzo fra queste due stirpi», si sarebbero infatti decise le sorti del continente. Alla valanga teutonica si opponeva non solo e non tanto l’Impero britannico e la civilisation francese quanto soprattutto il movimento nazionale slavo, che non solo corrodeva la vecchia impalcatura imperiale degli Asburgo, «in Slesia, nella Moravia, nella Boemia, fino all’Ungheria», ma che già minacciava e quasi stringeva d’assedio la Germania, proprio nei punti nevralgici della sua futura espansione nazionale. Di fronte a questi dati di fatto, toccava al governo italiano, alla società civile, alle organizzazioni politiche e sindacali tirare le conclusioni e porre all’ordine del giorno della futura agenda politica due possibili previsioni: 1° I tedeschi saranno forse i probabili nemici nostri nel Trentino e nell’I-
24 I. BONOMI, Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Roma, Sestante, 1929, pp. 110 ss. 25 G. VOLPE, Fischiatori che non riflettono, in «Il Corriere della Sera», 23 agosto, 1903, p. 1.
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stria, concorrenti sull’Adriatico; e non si è profeti dicendo che saranno un pochetto più potenti e pericolosi, se non più prepotenti, che non quel grigio impasto clerico-slavo-tedesco che ora ci fa carezze sul confine. 2° La Russia potrà essere la nostra alleata di domani.
E se certo il mantenimento dell’alleanza con la Germania sarebbe stato da preferire nei confronti di una futura e malcerta intesa con l’«enorme massa inorganica» dell’Est, questo auspicio sarebbe stato possibile solo con la rinunzia dei tedeschi a «scendere la Valle dell’Adige, a specchiarsi nelle acque del golfo di Trieste». In assenza di questa assicurazione, l’Italia non avrebbe potuto scegliere i suoi alleati, utilizzando il metro della convenienza democratica, né scartare l’ipotesi di imbracciare le armi a fianco dei massacratori degli ebrei nelle pianure polacche o dei responsabili del genocidio armeno. La futura catastrofe dell’ordine politico europeo imponeva decisioni e scelte che esulavano dalla sfera etica e risultavano incompatibili con i deliberati del Tribunale dell’Aja e della Società per la pace. Il groppo non sarà sciolto, ma tagliato con la spada. E noi non ci potremo neanche consolare imprecando alle ambizioni dei Governi, che pure hanno la loro parte di colpa nell’opera di eccitamento: sarebbe poco meno che citare all’Aja Attila e Gingiskan, per violazione della pace pubblica. Guglielmo e Niccolò non sono né Attila, né Gingiskan: qualche cosa di più e qualche cosa di meno, per quanto recenti discorsi imperiali abbiano un po’ riabilitato la memoria del “Nemico di Dio”. Ma certi movimenti e raggruppamenti di popoli si presentano ora con non minori caratteri di impellente necessità di quel che si presentassero allora le invasioni unne o mongole: ed ogni giudizio morale, che noi ci sentissimo invogliati di pronunciare, si dissolve prima ancora che noi riusciamo a formularlo.
Era una conclusione «politicamente scorretta», anche a volerla misurare con i termini di paragone di quell’inizio di secolo, che pure non degenerava né in uno scomposto bellicismo né in un asfittico nazionalismo, nonostante il fatto che alcuni contenuti dell’intervento di Volpe sarebbero stati riecheggiati ad litteram dalla propaganda di Corradini26. Lo testimoniava ampiamente un altro articolo pubblicato sul «Corriere», a un anno esatto di distanza27, dove, fornendo un resoconto dell’o26 E. CORRADINI, Le nazioni proletarie e il nazionalismo. Discorso letto a Napoli, nel gennaio 1911, in ID., Il Nazionalismo italiano, Milano, Treves, 1914, p. 39: «L’immane pangermanismo scende dal settentrione, già istiga il Tirolo contro il nostro Trentino, già è alle porte di Trieste austriaca. L’Austria stessa è fatta suo strumento di conquista». 27 G. VOLPE, Capitale americano in Europa, in «Il Corriere della Sera», 29 agosto 1904, p. 1.
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puscolo di Frank Vanderlip, The American “commercial invasion”28, Volpe considerava con favore la penetrazione «del capitale, della produzione industriale, del personale tecnico americano» in Europa, quasi a futura premessa della costituzione di un grande mercato internazionale euro-atlantico, considerato come libero canale di comunicazione di merci e tecnologie, dove l’Italia si sarebbe potuta meglio situare, liberandosi dalla stretta oppressiva delle più forti economie degli altri Stati del continente che pareva volessero bloccare l’incipiente sviluppo manufatturiero della penisola. Gli assurdi sistemi fiscali, le oscillazioni monetarie, il militarismo, l’ignoranza e la miseria cronica di molte province, ove il proletario italiano mangia in media il 25 per cento in meno del forzato inglese, non hanno potuto impedire un promettente sviluppo industriale italiano. […] Che manca dunque ancora? Manca capitale, pratica commerciale, organamento di forze singole; vi si deve render popolare la società per azioni, distruggervi la diffidenza verso lo chèque e l’impiego industriale del denaro. Questo potrà fare l’America e lo farà tanto più volentieri in quanto che dall’Italia non avrà mai da temere alcuna sorta di concorrenza, mentre se ne avvantaggerà accrescendone la capacità d’acquisto delle merci americane e mettendola in grado di fornire largamente merci che gli Stati Uniti non trovan vantaggio a produrre per proprio conto: sarà agevolata perciò la lotta contro l’Inghilterra, la Germania, la Russia nel campo dell’industria metallurgica, dei cereali, del petrolio. Gli Stati Uniti potranno davvero diventare il più grande paese del mondo. L’Italia avrebbe da capitali e metodi americani solo da guadagnare, senza tener conto di una più facile intesa nei trattati commerciali, pei quali invano noi chiediamo da anni di essere equiparati alle altre nazioni: tutto il nostro lento risorgimento economico potrebbe essere insperatamente accelerato29.
Argomenti, questi, che battevano in breccia non solo la propensione protezionista del socialismo di Turati e del riformismo giolittiano, «povero di ogni vero spirito riformatore e giovevole solo a particolari categorie di lavoratori e di determinate regioni»30. Sotto accusa era posto anche l’isolazionismo economico testardamente propugnato dal nazionalismo, fino alla riproposta della vecchia teoria dello «Stato commerciale chiuso» di Alfredo Rocco31, che metteva in evidenza l’indiffe28 L’opuscolo, apparso per la prima volta, sottoforma di articolo, nel 1903, sulle pagine dello «Scribner’s magazine», era stato stampato separatamente, in quello stesso anno, a New York. 29 G. VOLPE, Capitale americano in Europa, cit. 30 ID., Italia Moderna, cit., III, p. 252. 31 A. ROCCO, Economia liberale, economia socialista ed economia nazionalista, in «Rivista delle Società commerciali», 1914, ora in Il nazionalismo italiano, a cura di F. Perfetti, Milano, Edizioni del Borghese, 1969, pp. 143 ss.
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renza per qualsiasi tipo di riforma interna dello Stato32, malamente risarcita dall’insistenza sui motivi di un imperialismo mistico e letterario33. In questo modo, Volpe precorreva quel dissidio fra le diverse anime del nazionalismo italiano, che Prezzolini e Papini avrebbero poi compiutamente messo in luce, formulando, a partire dal 1910, l’invito ad abbandonare il vecchio nazionalismo, basato sull’«imprecisione di cognizioni sui fini e sui frutti della vita spirituale e materiale italiana», per costituire un nuovo nazionalismo in grado di considerare «i valori etici e ideali come assai più importanti per la vita degli italiani del brutale successo della forza, il miglioramento interno come più urgente di ogni ricerca di conquista esterna, il moto socialista e democratico con un senso di maggiore ed equanime storicità»34. Questo programma trovava qualche affinità in una componente minoritaria ed eterodossa del movimento nazionalista, quella del nazionalismo liberista, liberale, democratico, nelle cui fila militavano Paolo Arcari e Alberto Caroncini: due intellettuali, di diversa formazione culturale35, che, nel Congresso di Roma del 1912, convocato dall’Associazione Nazionalista Italiana (Ani), avrebbero attuato una clamorosa secessione dal resto dell’organizzazione, insieme a Emilio Bodrero a Lionello Venturi36. In stretta vicinanza alla pattuglia dei «Giovani turchi» del liberalismo, guidati da Giovanni Borelli, fin dal 1901, e riuniti attorno alla rivista «Idea liberale»37, e 32 E. CORRADINI, Principii del nazionalismo, dall’Ombra della vita, Napoli, Ricciardi, 1908, poi in ID., Il Nazionalismo italiano, cit., pp. 5 ss. 33 Sul punto, F. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 99 ss. 34 G. PREZZOLINI, Prefazione a G. PAPINI-G. PREZZOLINI, Vecchio e nuovo nazionalismo, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 19242, p. IV e VI. La prima edizione del volume, che raccoglie interventi comparsi precedentemente, è del 1914. Sul punto, E. GENTILE, “La Voce” e l’età giolittiana, cit., pp. 87 ss. e ID., Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Bari, Laterza, 20022, pp. 83 ss. 35 Su di loro, rispettivamente: G. PONTE, «Arcari Paolo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1961, III, pp. 748-749; G. PARLATO, Il pensiero politico di Paolo Arcari da “L’Osservatore cattolico” all’uscita dall’Associazione Nazionalista, in Atti della commemorazione del centenario della nascita del Prof. Paolo Arcari, Tirano, Biblioteca Civica Arcari, 1979, pp. 25 ss.; R. MICHELS, Alberto Caroncini, in «La riforma sociale», XXIV, 1917, pp. 109 ss.; S. INDRO, «Caroncini Alberto», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977, XX, pp. 533 ss. 36 G. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 141 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, Roma, Bonacci, 1984, pp. 138 ss. Sul Convegno di Roma, un’ampia sintesi è in A. ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, 1908-1923, Roma, Archivio Guido Izzi, 2001, pp. 110 ss. Sulla posizione di Caroncini, si veda la lettera ad Amendola del 26 novembre 1911, in A. CAPONE, Giovanni Amendola e la cultura italiana del Novecento, 1899-1914, Roma, Elia, 1974, p. 302: «Quanto ai nazionalisti, io credo che al prossimo convegno avverrà tra noi e loro una divisione clamorosa. […] Ad ogni modo, la mania di fare ora un partito nazionalista è tale fesseria che noi certo non aiuteremo a fare». 37 G. VOLPE, Italia Moderna, III, cit., p. 289. Su Giovanni Borelli, B. VIGEZZI, Da Gio-
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soprattutto grazie all’influsso di Caroncini, i liberal-nazionali si emancipavano compiutamente dalle posizioni del gruppo di Corradini, Coppola, Federzoni, e puntavano su di un’energica azione di riforma sul piano interno, improntata a una filosofia di riferimento neo-liberista, in grado di coinvolgere anche uomini di diverso orientamento come l’antiprotezionista radicale Antonio De Viti de Marco38. Riforma amministrativa, col fine di realizzare un decentramento delle attribuzioni pubbliche, in grado di ridimensionare i danni di un esteso «funzionarismo», di cui profittavano insieme conservatori e socialisti, apparentemente divisi da steccati invalicabili, ma in realtà egualmente interessati a favorire la metastasi e il conglobamento burocratico per estendere le proprie aree di patronage. Riforma tributaria, per limitare ogni sperequazione fiscale tra ceti diversi e diverse regioni del paese, e per impedire il logoramento degli strumenti d’imposizione e di controllo. Riforma dell’insegnamento per restituire alla scuola il suo contenuto educativo e attuarne una modernizzazione delle strutture e degli obiettivi. Riforma politica, infine, da realizzare tramite una lotta accanita contro la pratica del consociativismo giolittiano e la creazione di un bipartitismo rigoroso, che potesse dare luogo a una vigorosa pratica di governo condotta senza compromessi corporativi39. In questo quadro, le vecchie parole d’ordine di patriottismo e irredentismo, e i più nuovi slogans imperialistici, venivano riformulati, da Arcari e Caroncini, in un’ottica già precocemente «produttivistica»40, che valutava l’attivo dell’espansione internazionale in rapporto alla ricaduta sul mercato interno e sullo sviluppo economico e industriale. Con qualche concessione almeno al valore storico del movimento democratico, socialista, sindacale, per il loro indiretto ruolo di motori della nazionalizzaziolitti a Salandra, cit., pp. 32 ss.; 287 ss.; 318 ss. e ora la voce di A. RIOSA, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, XII, 1970, pp. 541 ss. Sulla rivista promossa da Borelli, M.M. RIZZO, Una proposta di liberalismo moderno. L’“Idea liberale” dal 1892 al 1906, Lecce, Milella, 1982; V. BAGNOLI, L’“Idea liberale”, 1891-1906, Roma, Carocci, 2000. 38 A. CARONCINI, Problemi di politica nazionale. Scritti scelti e presentati con una prefazione di A. Solmi, Bari, Laterza, 1922, pp. 620 ss.; A. DE VITI DE MARCO, Per un programma d’azione democratica, 2 giugno 1913, in ID., Un trentennio di lotte politiche, 1894-1922, Roma, Collezione Meridionale Editrice, 1929, pp. 317 ss. Sul «liberismo radicale», si veda L. TEDESCO, L’alternativa liberista in Italia. Crisi di fine secolo, antiprotezionismo e finanza democratica nei liberisti radicali, 1898-1904, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002. 39 A. CARONCINI, Un paese senza conservatori, recensione a S. SPAVENTA, La politica della Destra, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1909, in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 193 ss. 40 P. ARCARI, La patria nelle dottrine e nella coscienza italiana contemporanee (1909), parzialmente riprodotto in Il nazionalismo italiano, cit., pp. 61 ss.; A. CARONCINI, Il momento economico dell’irredentismo (1913), in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 89 ss.
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ne delle masse, la piccola pattuglia dei nazionali liberali intendeva realizzare compiutamente l’integrazione nazionale e consentire all’Italia lo sviluppo delle sue energie verso la penisola balcanica e l’area danubiana. Anche la questione coloniale doveva essere aggiornata alla luce di una realistica valutazione delle esigenze commerciali e industriali italiane, dislocando il flusso dell’emigrazione dalle mete tradizionali e avviandolo verso nuove zone di influenza e di egemonia nel Mediterraneo, nell’Asia Minore, nel continente africano41. Il «nuovo nazionalismo» confluiva, in questo modo, nel diversificato fronte del «riformismo laico» (da Salvemini a Prezzolini), non legato ai programmi dei partiti tradizionali42, di una «Giovane Italia» estranea od ostile all’attività dell’establishment politico, antisocialista ma soprattutto antigiolittiana, eppure ancora lontana da ogni ipotesi di soluzione autoritaria, le cui variegate componenti avrebbero potuto forse costituire un comune patto d’azione, che Giovanni Amendola proponeva, nell’agosto del 1911, a Salvemini, Caroncini e Prezzolini, per fissare alcuni punti fondamentali di «un programma politico da studiare», con particolare riferimento «all’Italia decentrata, alla morte della burocrazia, al rafforzamento dello Stato»43. Le troppo distanti premesse ideologiche di questa galassia politica rischiavano tuttavia di accumulare al suo interno equivoci e fraintendimenti che avrebbero costituito altrettanti punti critici di una futura rottura44. Questa appariva già latente nel dibattito, che «La Voce» avrebbe posto in essere dalla fine di giugno del 1910. In quella data, Prezzolini pubblicava il saggio Che fare?, dove si stendeva un quadro desolante della vita politica italiana, che il movimento nazionalista non avrebbe potuto modificare e che anzi rischiava di aggravare45. Quello schieramento di uomini e di idee, che si presentava con burbanzosa iattanza sullo scenario pubblico, non era pericoloso soltanto «per il lato materiale d’una possibile guerra contro l’Austria», ma perché «con la sua vaghezza e imprecisione magniloquente si presta soprattutto a dar materia alla nostra inclinazione retorica, e allontana il pensiero da quei problemi pratici, precisi, interni che
41 Ivi, cit., pp. 205 ss. 42 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 252 e pp. 536-537. 43 Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 30 agosto 1911, in G. BOINE, Carteggio. IV,
cit., p. 251. All’incontro dovevano essere presenti: Prezzolini, Borgese, Caroncini, Casati, Salvemini. Sulle simpatie di Amendola per il programma di Caroncini, si veda Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 15 dicembre 1910, ivi, p. 206: «Hai visto il Congr. Nazionalista? Gran miseria, mi sembra, se ne togli la tendenza Caroncini». 44 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 62 ss. 45 G. PREZZOLINI, Che fare?, «La Voce», 23 giugno 1910, in ID., La Voce, 1908-1913, cit., pp. 266 ss.
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avevano cominciato a preoccupare gli italiani, senza aver risolto i quali non saranno mai una nazione: come il problema del mezzogiorno, il problema dell’istruzione (primaria, secondaria, universitaria, normale e personale), il problema di stato e chiesa; e come base e sfondo di questi quattro la riforma del nostro carattere». L’Italia, concludeva Prezzolini, aveva certamente bisogno di una spinta propulsiva per attuare quel vasto programma riformistico, ma questa doveva servire a organizzare mentalmente dei cittadini «capaci di tecnicamente operare: non nel preparare delle teste gonfie di bugie e assurdità». Alla provocazione, replicava Caroncini in una lettera aperta al direttore della «Voce», che la rivista ospitava il 21 luglio46. In quell’intervento il leader della pattuglia nazionalista liberale sosteneva che la risposta al «Che fare?» non poteva limitarsi a «eccitare la trovata di soluzioni tecniche» ma doveva porsi l’obiettivo di «persuadere il prossimo a cercare sempre il massimo profitto generale», di «diffondere la coscienza collettiva, o nazionale», di consolidare «la fede nell’avvenire della patria» e con quella fede convincere le élite e le masse ad accettare la soluzione «autenticamente nazionale delle questioni nazionali». Una soluzione che non poteva non essere che quella del «liberalismo economico»: la sola ideologia in grado di fornire alla «coscienza collettiva la forza fatale delle necessità economiche». Le riforme all’interno tuttavia dovevano essere considerate non solo per il loro valore intrinseco, ma come preparazione a una guerra futura e necessaria contro l’Austria. Guerra specificava Caroncini non patriottica né irredentistica, ma nazionale: condotta al fine di interrompere gli sforzi dell’Impero asburgico per «rassodare la sua posizione europea e balcanica», che una volta consolidata avrebbe fatalmente compromesso i destini italiani. Prezzolini edulcorava le differenze e puntava sulle affinità nella lettera di risposta, che veniva pubblicata sullo stesso numero del periodico47, dove si ribadiva che «il nazionalismo come il protezionismo sono i sofismi di organismi troppo deboli per accettare i conflitti in modo naturale». Replica, piena di aperture, che pure non avrebbe soddisfatto il suo interlocutore, che lo avrebbe accusato di attestarsi su posizioni di sterile terzismo48. La profonda differenza tra le due posizioni – nono-
46 A. CARONCINI, Lettera a Prezzolini, 21 luglio 1910, ivi, pp. 274 ss. Sul punto, La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste. III. “La Voce”, (1908-1914), cura di A. Romano, Torino, Einaudi, 1971, pp. 206 ss. 47 G. PREZZOLINI, Ancora del Nazionalismo, in ID., La Voce, 1908-1913, cit., pp. 278 ss. 48 Alberto Caroncini a Giuseppe Prezzolini, 10 agosto 1910, AGP: «Alla questione posta da me, volevo una risposta netta: chi risponde sì è nazionalista, voglia o non voglia: chi no, non lo è. Lei doveva rispondere no e buona notte; e ogni altra discussione con me diventava inutile. Voleva rispondere sì? E allora doveva riconoscere di aver comune, sia pure con
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stante il comune denominatore della condivisa opzione liberista – era invece colto e messo in evidenza da Giovanni Boine, in una lettera a Prezzolini, che conteneva una dura requisitoria contro il nazionalismo italiano, definito una copia e anzi una copia peggiorata di quello francese, dalla quale poco si distingueva anche il movimento di Caroncini. Permettimi che un poco in ritardo, io ti confessi di non aver ben capito perché tu ci abbia dichiarato di esser così d’accordo con la lettera nazionalista di Caroncini. Infatti tu non rispondi nemmeno all’obiezione fondamentale che in essa ti è fatta (essere cioè le conoscenze tecniche di per se stesse non bastevoli ad un’opera profonda d’educazione nazionale, ecc.), mentre poi esplicitamente (e logicamente) rifiuti l’irredentismo e la guerra all’Austria che ti vengon proposti come completamento e incitamento a quest’opera. Ma se tu ne togli queste due cose, che cosa rimane dunque, fatta parte ad una cert’aria di schiettezza e d’onestà, che anche io ci sento, della lettera di Caroncini. Forse che t’è piaciuto codesto liberalismo economico e questo frequente uso della parola economia che nei nazionalisti guerrafondai e sentimentali non trovi? O t’è piaciuta la nobile ricerca del “massimo benessere economico di tutti gli Italiani”? Cosa positiva parecchio specialmente se ci sforziamo d’arrivarvi con la guerra all’Austria. […] Parliamo d’una fattoria o parliamo d’una nazione? Perché l’economia va bene e tu hai ragione di ricordarla a quelli della “Grande Italia” quando parlano d’invasione croata a Trieste ecc., ma questa del liberalismo nazionalista invade essa da sola tutta quanta l’Italia e l’accaparra a sé soffocandoci. E che nel Caroncini non sia cosa seria lo vedi del resto dalla praticità delle proposte guerresche che ti mette dinanzi. […] Ora ciò che testimonia della superficialità di codesto nazionalismo italiano, è che dell’ideologia di quello francese ha preso la cosa meno faticosa a prendersi: la guerra. Guerra alla Germania per la Lorena, guerra all’Austria per il Trentino. Ma non ha invece preso la volontà netta e tenace, e non in Barrès soltanto, di dare alla Francia coscienza di se stessa, coscienza precisa della propria tradizione. Per i nazionalisti nostrani la tradizione, come tu dici, consiste nell’aquila romana e nei leoni di S. Marco, od è per avventura una fede che quando la si sente, dice il Caroncini, etc. etc. Ma uno sforzo per chiarire questa fede, per analizzare le basi di essa e farla ragionevolmente cosciente e più forte, nessuno di loro l’ha fatto, finora. Segno chiaro dunque che non è venuto mai a codesti nazionalisti il dubbio che la fiacchezza morale e materiale d’Italia abbia ad es. per radice profonda la non consistenza di essa come nazione49.
soluzioni tecniche e con uomini detestabili, quel principio». 49 Giovanni Boine a Giuseppe Prezzolini, 10 agosto 1910, in G. BOINE-G. PREZZOLINI, Carteggio, 1908-1915, a cura di M. Marchione e E. Scalia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1982, pp. 30 ss. La lettera veniva pubblicata nella «Voce» del 25 agosto. Diversamente, sulle radici autoctone del nazionalismo italiano. G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 309-310 e L. FEDERZONI, Italia di ieri per la storia di domani, Milano, Mondadori, 1967, pp. 7 ss. Sul punto, F. PERFETTI, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, Bologna, Cappelli, 1977, pp. 26 ss.
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Erano parole che testimoniavano una discrasia profonda, che avrebbero trovato conferma nell’immediato50, e negli anni successivi. Quando Prezzolini e Papini e altri collaboratori del periodico sarebbero evoluti verso posizioni di dura critica per tutte le componenti del movimento nazionalista, che non risparmiava neppure la metamorfosi sciovinista e imperialista, antislava del vecchio irredentismo51. A cadere sotto la sferza polemica della «Voce» erano i maggiorenti dell’Ani, accusati esplicitamente di voler costituire una nuova camarilla parlamentare52, mentre si mantenevano cordiali, ma solo su questioni di dettaglio, i rapporti con uomini vicini ai liberal-nazionali come Giovanni Borelli53. Il contraddittorio toccava il suo culmine nel 1911, quando Prezzolini, già impegnato in un giro di conferenze sui limiti e le contraddizioni del nazionalismo54, si schierava in aperta contestazione all’impresa di Libia, confortato su questo punto dall’opinione di Boine e altri vociani55. In
50 Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 13 ottobre 1910, in ID., Carteggio III., cit., I, p. 512: «Prezzolini m’ha mandato un Carroccio dove Caroncini risponde alla mia lettera. Difende l’irredentismo e la guerra, ma in sostanza aderisce alla parte positiva delle mie idee e le loda. Gli pare tuttavia che l’Italia non possa aspettare di aver piena coscienza di essa per operare. Ciò che in verità io non ho mai voluto. Ma non capisco perché si debba operare facendo delle guerre quando abbiamo tante cose, in casa nostra, da fare. Ho letto questa notte le Lettere meridionali del Villari: sono del 75, ma sono d’oggi. Facciamo il mezzogiorno invece che la guerra, sciocconi!» 51 S. SLATAPER, Sentimento antiaustriaco, «La Voce», 15 dicembre 1910, in La Voce, 1908-1913, cit., pp. 777 ss. 52 G. PAPINI, Nazionalismo, «La Voce», 22 aprile 1909; G. AMENDOLA, Il Convegno nazionalista, ivi, 1 dicembre 1910, pp. 677 ss. e 685 ss. 53 G. PREZZOLINI, I fatti di Romagna. Giovanni Borelli, la retorica di Roma e il nazionalismo, «La Voce», 11 agosto 1910, pp. 9 ss. All’articolo seguiva l’apertura di un dialogo tra Borelli e Prezzolini, nel quale sarebbe intervenuto anche Amendola, che si sarebbe sviluppato nei numeri successivi. Sul punto, A. CAPONE, Giovanni Amendola, cit, pp. 270-271. 54 Giovanni Boine a Alessandro Casati, 13 marzo 1911, in ID., Carteggio III, cit., II, p. 586: «Ieri ho avuto Prezzolini tutto il giorno qui. Ottima, efficacissima conferenza […] Il nazionalismo non ha niente da fare col patriottismo del risorgimento: non si può riattaccare ad esso. In Italia risale al Regno. Proteiforme aspetto del nazionalismo al congresso di Firenze per cui è difficile criticarlo etc. Disamina dell’irredentismo, critica del protezionismo (Prezzolini è un liberista feroce) e critica della corrente contraria all’emigrazione del mezzogiorno. Questa m’è parsa la parte nuova della conferenza: è stata vivacissima e precisa. L’emigrazione è combattuta soprattutto dalla piccola borghesia che si vede mancare così braccia a buon mercato e la possibilità di esercizio dell’usura. Inoltre gli emigrati che ritornano, ritornano civili e dan dei fastidi etc. In ultimo, al programma di parole del nazionalismo, contrappose un programma che è quello un poco della Voce per questo lato – liberismo – mezzogiorno come unica questione italiana sul serio –suffragio – ed anticlericalismo economico. Cioè non guerra alla religione per se stessa ma guerra alla potenza economica della chiesa facendo rispettare e rassodando le leggi nelle congregazioni che già esistono». 55 G. PREZZOLINI, L’illusione tripolina, «La Voce», 18 maggio 1911, in La Voce, 19081913, cit., pp. 704 ss. Si veda Giuseppe Boine ad Alessandro Casati, 27 settembre 1911, in
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questo modo, «La Voce» si attestava su di una collocazione vicina a quella di Salvemini56, seppur con molti distinguo, che il tempo avrebbe aggravato fino alla rottura57, e opposta, invece, a tutti coloro che vedevano in quella prova militare il doveroso «esame di riparazione» al quale l’Italia doveva sottomettersi dopo la sconfitta del 1866 e le prime disastrose prove nell’oltremare. Tra questi Volpe, che il 29 settembre 1911, scriveva: Abbiamo la guerra e bisogna pensare all’Italia che fa ora il suo esame di riparazione. Vedremo se e quanto ha profittato in 40 anni, se può far dimenticare la bocciatura d’altre volte, se è degna del suo passato, se noi possiamo avere fiducia in essa, cioè in noi. L’importanza del momento è in questo, più che in Tripoli di per sé. Potremmo anche andare alla conquista di uno scoglio battuto dal mare, e sarebbe lo stesso: un esame, che bisogna superare ad ogni costo e che, superato, darà alla nazione italiana un po’ di quello che ora le manca: fiducia in sé, slancio per osare, possibilità maggiore di tracciare un programma di politica estera. E poi, chi sa: la Turchia si rinforzerà e noi torneremo suoi amici, per fronteggiare altra gente58.
Molto più tardi, a proposito della posizione «anti-africana» di Prezzolini, proprio Volpe avrebbe stigmatizzato il «torto o ingenuità di chi nella politica accentuava il momento culturale o morale o moralistico», pensando di poter opporre «il miglioramento interno alla propaganda ID., Carteggio III, cit., II, p. 637: «È per inerzia ch’io non riesco ad appassionarmi alla questione di Tripoli? Né pro né contro. […] Ho come l’impressione che sia un diversivo d’origine ministeriale: offra da masticare al popolo d’Italia perché non pensi ad altra roba più grave e più seria. Tripoli ci costerà un miliardo dicono: un miliardo è qualcosa per la mia nazione e m’importa parecchio che si spenda in un modo piuttosto che in un altro […] Ambrosini ha ragione, teoricamente parlando, che oltre l’economia c’è pure la politica: ma questa Tripoli è politica buona o politica cattiva? La Voce non sente affatto le ragioni extraeconomiche dell’occupazione e questo mi irrita». 56 G. SALVEMINI, Il trabocchetto tripolino, in «La Voce», 24 agosto 1911; ID., Tripoli e Triplice, ivi, 21 settembre 1911, in ID., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di A. Torre, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 90 ss. e pp. 99 ss. Continuavano la polemica salveminiana, G. LUZZATTO, Le spese della conquista, «L’Unità», 10 febbraio 1912 e A. DE VITI DE MARCO, Il parassitismo tripolino e il Mezzogiorno, ivi, 16 marzo 1912, ora in L’Unità di Gaetano Salvemini, cit., pp. 303 ss. 57 Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 7 novembre 1911, in G. BOINE, Carteggio IV, cit., p. 269: «Nella Voce ho scritto le note in corsivo per cinque o sei numeri (da quella sui socialisti) nell’intento di aiutare Prezzolini di fronte alla sorpresa della questione tripolina e di salvarlo dalla china su cui l’avrebbe trascinato Salvemini. […] Quanto a Salvemini hai ragione. Il Convegno non si farà più. All’Abetone avevo constatato qualche concordanza di idee con Salvemini, ma l’affare di Tripoli ha messo in evidenza un tale abisso di sentimenti, che è inutile pensare a collaborare nella vita pratica». 58 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 29 settembre 1911, CV. Sul valore nazionale della guerra di Libia, si veda G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 315 ss.
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per una più attiva politica internazionale e per l’espansione coloniale», illudendosi di «poter in assoluto subordinare e condizionare le faccende di fuori ad una perfetta sistemazione della vita interna, mentre le due cose hanno una loro interdipendenza e mutuamente si promuovono»59. Né il momento dell’intervento sarebbe riuscito a riannodare lo sfilacciato tessuto del dialogo tra gli uomini del «nazionalismo vocajolo»60, per dirla con Caroncini, e quelli del movimento liberal-nazionale, che nel 1914 avrebbero ulteriormente accentuato la loro presa di distanza dall’ideologia nel nazionalismo ufficiale. Nel maggio di quell’anno, il Convegno dell’Ani convocato a Milano, dominato dalle posizioni di Francesco Coppola e Filippo Carli dichiarava esaurite le ragioni del liberalismo, del liberismo e della democrazia e approvava tre ordini del giorno che insistevano sull’incompatibilità del nazionalismo con «l’individualismo economico tanto dell’economia liberale, quanto dell’economia socialista» che si basavano «su una concezione atomistica, cosmopolita e materialistica della società e dello Stato». Da quel primo assioma derivano come postulati necessari il rifiuto del libero scambio e il perseguimento di una strategia rigorosamente protezionistica nel mercato esterno. In quello interno, la costituzione di organizzazioni padronali e operaie dovevano limitare e indirizzare il libero gioco delle parti economiche in una prospettiva già precocemente corporativa61. 2. La dottrina nazionalista, di un nazionalismo che proprio in quell’occasione abbandonava la sua fisionomia di movimento per costituirsi in partito, trovava così la sua definitiva sistemazione. Questa urtava violentemente, nondimeno, con le posizioni delle componenti liberali che ripugnavano a quel «sacrificio totale dell’individuo e a quella concezione trascendente dello Stato», che negavano l’identificazione e la condanna di liberalismo e socialismo, considerando l’uno, lo strumento di bilanciamento dell’altro ed entrambi «un mezzo di elevazione del popolo, cioè di potenza della nazione», che proprio il dogma protezionista avrebbe non favorito ma anzi ostacolato62. L’inconciliabilità di
59 Ivi, p. 303. 60 Sulla partecipazione di Prezzolini alla propaganda interventista, R. DE FELICE, Prez-
zolini, la guerra e il fascismo, in ID., Intellettuali di fronte al fascismo. Saggi e note documentarie, Roma, Bonacci, 1985, pp. 62 ss. Si veda anche, Mussolini e “La Voce”, Firenze, Sansoni, a cura di E. Gentile, Firenze, Sansoni, 1976, pp. 23 ss. 61 F. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 151 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, cit., pp. 163 ss. Si veda anche, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 95 ss., dove è contenuto il testo degli interventi di Luigi Federzoni e Maurizio Maraviglia all’assise milanese, larvatamente favorevole al recupero dei liberali. 62 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 617 ss.
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questi riferimenti teorici provocava un «esodo di gregari che unendosi anche con altri liberali, di più antico stampo o di stampo borelliano, o di nessuno stampo, istituirono Gruppi nazionali liberali», e non più quindi liberali nazionali, che reclutavano, tra ottobre 1914 e gennaio 1915, a Milano, Firenze, Roma, Ferrara, Bologna e in varie altre città italiane, con l’esclusione del Mezzogiorno, numerosi esponenti della classe intellettuale: lo stesso Giovanni Borelli, Amendola, Borgese, Emilio Bodrero, Scipio Slataper, Giustino Arpesani, Alessandro Casati, Francesco Ercole, Lionello Venturi, Antonio Anzilotti, Arrigo Solmi, Widar Cesarini Sforza, Ugo Monneret de Villard, Maffio Maffi, Luigi Valli, Lionello Venturi, ai quali si aggiungeranno i più giovani Nello Quilici, Concetto Pettinato, Dino Grandi63. I nazionalisti dissidenti si aprivano a una politica di larghe intese con socialisti riformisti, radicali, repubblicani, democratici cristiani dell’attivissimo cenacolo di Cesena, sulla base di un comune credo antiprotezionista. Pochi giorni prima dell’apertura dell’incontro romano, questa associazione, che avrebbe contato nell’immediato futuro anche sull’appoggio del «Resto del Carlino», un quotidiano politicamente eclettico ma che rispecchiava, dal punto di vista economico-sociale, gli interessi degli agrari padani64, fondava un suo organo di stampa, «L’Azione». Un settimanale politico-culturale, stampato a Milano, su iniziativa di Amendola, Giulio Bergmann, Paolo Arcari, Alberto Caroncini65, che Casati definiva «l’Unità di destra», 63 Il Gruppo milanese de “L’Azione”, in «L’Azione», 8 novembre 1914, p. 2; Il Gruppo milanese de “L’Azione”costituito, ivi, 6 dicembre 1914, p. 3; Il Gruppo nazionale-liberale di Firenze, ivi, 24 gennaio 1915, p. 2; Programma nazionale-liberale esposto dal Gruppo di Roma, ivi, p. 3; Il Gruppo nazionale liberale di Ferrara per la mobilitazione civile, ivi, 10 gennaio 1915, p. 3; La grande riunione di Bologna per la guerra, ivi, 4 ottobre 1914, p. 4. 64 Giuseppe Prezzolini a Giovani Boine, 6 ottobre 1914, in G. BOINE-G. PREZZOLINI, Carteggio, 1908-1915, cit., p. 125: «Nel Carlino regna una grande confusione. […] Chi può è Caroncini, amministratore […]». Sul punto, il giudizio di G. CAROCCI, Giolitti e l’età giolittiana. Dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 1961, p. 155, dove si parla del quotidiano bolognese, che cercò di «muoversi sul terreno del liberalismo conservatore ed immettergli un nuovo vigore di energie giovani, che dovevano avere la loro piena espansione soprattutto in una politica estera più dinamica e sensibile al problema dell’irredentismo», mettendo in evidenza «gli aspetti nazionali della tradizione liberale e le sue origini autoctone». Al giornale, che si presentava come la tribuna rappresentativa della borghesia emiliana, collaboravano Borelli, Caroncini, Arcari, Amendola, insieme a De Ruggiero, ma anche nazionalisti come Francesco Coppola, Maurizio Maraviglia. Interessante anche la presenza di Virgilio Gayda, Nello Quilici, Arturo Labriola. 65 Sulla collaborazione di Volpe a questa rivista, rimando al mio Gioacchino Volpe tra la pace e la guerra, 1914-1915, in «Clio», 2005, 2, pp. 229. Più in generale su questo periodico, G. SOFRI, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti, cit., pp. 721 ss.; G. BELARDELLI, “L’Azione” e il movimento nazionale liberale, in Il partito politico nella belle époque, a cura di G. Quagliariello, Milano, Giuffré, 1990, pp. 293 ss. e, ora, compiutamente, C. PAPA, Intellettuali in guerra. “L’Azione”, 1914-1916, Milano, Franco Angeli, 2006.
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con scontato riferimento al taglio antigiolittiano del giornale di Salvemini, e Boine «una Voce fatta da Amendola»66. Tra maggio e ottobre, il periodico articolava il suo programma in una serie di editoriali a firma dei due direttori (Arcari e Caroncini) e di Antonio Anzilotti. In essi, si ribadiva la stretta fusione tra ideali nazionali e ideali liberali: di quel liberalismo «tradizionale», «italiano», già affermatosi nella stagione riformistica settecentesca, compiutamente elaborato e tradotto in azione nel corso del secolo XIX, poi soffocato e stravolto dalle esigenze della costruzione dello Stato unitario, che troppo spazio aveva concesso all’apparato burocratico, agli interessi di gruppi parassitari e monopolistici67. Al di là delle dichiarazioni programmatiche, è pero difficile considerare «fuorviante» una lettura della vicenda dell’«Azione» che finisca «col ridurre a “costola” del nazionalismo un’esperienza che ebbe a suo centro un tentativo di rinnovamento del liberalismo italiano»68. Agli occhi di un osservatore attento come Boine, lo stesso lavorio preparatorio che, tra 1913 e 1914, portava alla costituzione del periodico rivelava la difficoltà di disincagliarsi effettivamente da una prospettiva in cui gli elementi nazionalistici finivano per assorbire e snaturare quelli liberali e liberistici. Pressato da Amendola e da Casati69, Boine avrebbe fornito la sua adesione al foglio di Caroncini, ma solo nominalmente e più sulla base della stima di alcuni singoli collaboratori70, che su quella della fiducia 66 Alessandro Casati a Giovanni Boine, 20 marzo 1914; Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 1 novembre 1913, in G. BOINE, Carteggio III, cit., II, p. 827 e p. 790. 67 P.M. ARCARI, Propositi; A. CARONCINI, Individualismo e nazionalismo, in «L’Azione», 10 maggio 1914, pp. 1-4; P. ARCARI, Il nazionalismo italiano alla vigilia del Congresso, ivi, 17 maggio 1914, pp. 1-2; A. ANZILOTTI, La tradizione liberale, ivi, 24 maggio 1914, pp. 1-2; ID., La monarchia riformista, ivi, 18 ottobre, 1914, pp. 1-2 68 G. BELARDELLI, “L’Azione” e il movimento nazionale liberale, cit., p. 293. 69 Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 28 dicembre 1913, in G. BOINE, Carteggio IV, cit., p. 364; Alessandro Casati a Giovanni Boine, 20 marzo 1914, in G. BOINE, Carteggio III, cit., II, p. 827. Si veda la risposta di Boine del 13 maggio 1914, ivi, p. 838: «Arcari mi mandò la circolare dell’Azione con su il mio nome. Amen. Risposi che dove è il tuo e quello di Amendola mi sento onorato ci sia il mio. In verità collaboratore è difficile, e più che promotore io mi sento gregario in una impresa simile. Sono nazionalista liberale non per entusiasmo trascendentale, ma perché credo sia utile esserlo. Perché cioè in un paese dove idee come quelle dell’Azione trionfassero, la coltura e la contemplazione han modo di campare». 70 Giovanni Boine a Paolo Arcari, 8 maggio 1914, in ID., Carteggio IV, cit., pp. 354355: «Mi si era già accennato all’opera loro. Sebbene io non possa promettere d’esserne collaboratore assiduo, mi terrò sempre ad onore che il mio nome figuri fra i promotori, di un’impresa a cui han dato il loro Alessandro Casati e Giovanni Amendola. Nell’agire pratico le persone valgono a designare i gusti e gl’intenti sempre assai meglio che i programmi e le etichette. Ora io mi son sentito troppe volte completamente concorde con i due uomini che dico per non aderire con entusiasmo a ciò che essi siano per giudicare utile e buono.
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sulle possibilità di dar vita a un nazionalismo autenticamente liberale e non pregiudizialmente chiuso alla cultura politica democratica. Dai redattori dell’Azione mi sarebbe piaciuto sentir svolgere le loro idee in fatto di liberalismo. La corrente loro è buona ma son contento di aver scritto all’Arcari quando scrissi aderendo, che io più che ai programmi badavo qui dentro alle persone e che le persone, con cui per lunga esperienza mi sentivo fra i promotori affiatato, erano Alessandro Casati e Giovanni Amendola. Io non vedo ben chiaro nel democratismo dell’Azione, né dai numeri usciti s’intende bene la base logica di questo suo liberalismo. Anzilotti ad un certo punto parla dello spaventismo hegeliano come se in esso il liberalismo avesse raggiunto “coscienza di se stesso”; e prima aveva detto dell’individuo come spirito che si attua. Perché non espongono chiare le loro idee: liberalismo tradizionale italiano sono parole vaghe: liberalismo hegeliano non me la sento di accettarlo. Io ho delle idee mie. Ma vorrei sentire le loro. Perché non discutono Missiroli? L’articolo di Amendola era buono: ma son prolegomeni e problemi71.
Così Boine a Casati, nella lettera del 7 giugno, che esprimeva soprattutto una preoccupata attenzione per le possibili derive di quel raggruppamento, che sarebbe stata ribadita a poco meno di una settimana di distanza: Per completare il mio giudizio su l’Azione ti dirò che trovo inutili completamente le cronache di coltura fatte così come sono. Manca una direttiva, una sintesi. […] Del resto io son d’opinione che la sintesi manchi anche quanto al liberalismo. Non si può essere coerentemente liberali senza essere decentralisti. Cavour così era. Ondeggiano tra la destra hegeliana e i cavourriani stampo inglese. Io sono del parere che le direttive politiche non sono filosofie, e piuttosto empirie. Ma dev’esservi una filosofia che giustifichi questa empiria liberale; e questi dell’Azione non l’hanno. Credo che nemmeno Amendola l’abbia72.
In realtà, all’interno dell’«Azione», proprio Amendola avrebbe contribuito a tenere accesa la fiamma del dissidio con il nazionalismo corradiniano, nella sua breve collaborazione al periodico che si interrompeva a partire dal giugno 1914. Nell’articolo del 17 maggio, venivano contraddetti puntualmente i capisaldi ideologici dell’Ani: la sopravvaEd ho ferma speranza che lei ed il Caroncini, per i quali io ho sempre avute vive simpatie, possano rendere efficace, come pochi altri in Italia lo potrebbero, l’opera che annunciano». 71 Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 7 giugno 1914, ivi, p. 842. Il riferimento è al volume di M. MISSIROLI, La monarchia socialista. Si veda, Alessandro Casati a Giovanni Boine, 20 marzo 1914, cit.: «Il Missiroli della sua Monarchia Socialista ha fatto un volume per Laterza, credo con qualche aggiunzione. Il partito liberale ha così dietro sé un pensiero conservatore cattolico: il che era già un desiderio dello Spaventa». 72 Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 11 giugno 1914, Carteggio IV, cit., pp. 843-844.
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lutazione della guerra di Libia, la pregiudiziale antisocialista e antigiolittiana, il valore della guerra per la risoluzione dei problemi interni, l’omaggio feticista per il dottrinarismo di Maurras e del nazionalismo francese, le mai sopite simpatie per l’autoritarismo e l’imperialismo tedesco. A tutti coloro che parlavano dell’inevitabilità del prossimo conflitto, che avrebbe interrotto l’indifferenza dei governi dell’ultimo decennio per «l’urgente realtà del contrasto internazionale», Amendola obiettava che «alla guerra progettata e voluta, una nazione non può giungere se non quando abbia composto tutte le sue energie – ideali, morali e materiali – in un ordine organico corrispondente al massimo del suo valore», aggiungendo che «non si crea quest’ordine col volere la guerra prima che la sua necessità sia matura». Più gravi erano poi le conseguenze che il facinoroso interventismo nazionalista poteva creare all’interno del paese, proponendosi di sostituire il sistema di Giolitti con la pratica di «una competizione faziosa, sostanzialmente cooperante con coloro che pretenderebbero imporre alla politica italiana le categorie del clericalismo e dell’anticlericalismo»73. Ad essere battuta in breccia con queste parole era l’ipotesi della nascita di un nuovo blocco di potere (salandrino e filocattolico oppure sonniniano e anticlericale) che, stipulando un’alleanza con il nazionalismo, intendesse monopolizzare lo scenario politico italiano74. Era un contraddittorio ribattuto, ai primi di giugno, contro le alleanze spurie di un «grande partito liberale» ingrossato dall’apporto dei nazionalisti, di una forza politica, cioè, estranea alla «tradizione italiana» e all’«anima più autentica del Risorgimento», dalle quali il gruppo dell’«Azione doveva restare assolutamente estraneo, rivendicando la propria fisionomia di movimento di centro». Un programma d’azione nazionale liberale porta come pratica conseguenza il tentativo di una concentrazione di centro. Un programma nazionalista non può effettuarsi se non attraverso una concezione di Destra. Noi affermiamo la possibilità e la necessità di una politica nazionale che sia liberale nei mezzi d’attuazione; i nazionalisti invece vogliono una politica nazionale che rompa con la tradizione liberale, e che si attui mediante una concentrazione conservatrice. […] Non è qui il caso di svolgimenti teorici, dai quali risulti se la nostra azione possa considerarsi come funzione storica della borghesia liberale, o se quest’onore non spetti piuttosto al nazionalismo protezionista75.
Anche Anzilotti si sarebbe fatto alfiere orgoglioso dell’identità na73 G. AMENDOLA, L’ordine italiano, in «L’Azione», 17 maggio 1914, pp. 1-2. 74 B.VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, cit., pp. 72 ss. 75 G. AMENDOLA, Dissidio ideale?, in «L’Azione», 7 giugno 1914, p. 3.
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zional-liberale, in un articolo dai toni tuttavia molto ambigui, redatto in risposta all’articolo di un seguace di Salvemini, Pietro Silva, apparso sulla «Voce»76, che accusava Corradini e i redattori dell’«Idea nazionale» di essersi trasformati da triplicisti in antitriplicisti «per fiuto della piazza» e non per intima convinzione. Qui non si tratta di sostenere che Corradini è l’apostolo precursore della guerra contro l’Austria; ma di riconoscere che la sua propaganda per la preparazione morale alla guerra, a qualsiasi guerra, deve essere oggi ben altrimenti apprezzata. La democrazia non ha mai capito la guerra; ha chiuso gli occhi, credendo così di abolirla. Le è sfuggito il valore enorme di questo fenomeno, che sembra superiore alle stesse forze umane. Corradini che è apparso certe volte un retrogrado, da questo lato è stato più moderno dei democratici. Egli ha affermato il valore morale della guerra, la sua necessità immanente, la sua funzione di grande giustiziera dei popoli, di organizzatrice della società umana, di suscitatrice di virtù nazionali e individuali. La storia procede per antagonismi, dal dolore e dallo spasimo di questi nasce una nuova realtà. Chi non lotta dolorando rinuncia alla vita: l’unico pacifista resta Tolstoi. Chi combatte afferma dunque la propria esistenza di fronte agli altri; perciò una nazione vive in quanto lotta. Diamo così la mano a Corradini; siamo d’accordo con lui. E allora: perché allora non siamo nazionalisti? La risposta è semplice: perché siamo veramente liberali. E mi spiego. La preparazione alla guerra non può essere disgiunta dal lavoro riorganizzatore di tutta la vita nazionale. Noi liberali, appunto perché tali, avevamo potuto permetterci il lusso di aspettare dalla democrazia e dal socialismo una classe politica migliore della presente. La nostra speranza di gente nuova, che esprimesse valori più alti, è stata delusa. Come liberali comprendiamo perfettamente la democrazia; essa è un fatto e la storia non va a ritroso. La questione più grave è dunque questa: come organizzare la democrazia? Di fronte alla guerra attuale la domanda si fa più insistente. Essa investe tutta la concezione della vita: da politico il problema diventa filosofico. Le colpe qui non si distribuiscono più alla borghesia o al proletariato, a questo o a quel partito: è la vita morale che è sotto processo e che s’impone. Non si tratta soltan-
76 P. SILVA, Il nazionalismo corradiniano nell’ora presente, «La Voce», 28 ottobre 1914, pp. 4-5. Identiche critiche erano contenute nell’intervento di G. DE RUGGIERO, Il pensiero italiano e la guerra, pubblicato in versione francese nella «Revue de Métaphisique et de Morale», 1916, 5, pp. 749 ss., ora in ID., Scritti politici, 1912-1926, a cura di R. De Felice, Bologna, Cappelli, 1963, p. 138: «In un primo momento, il nazionalismo è stato partigiano dei tedeschi; ma più tardi, trascinato dal sentimento popolare anti-austriaco, si è pronunciato per una guerra irredentista, mettendo da parte il suo realismo politico, che gli aveva ispirato la sua precedente politica triplicista. Di modo che ha finito, in maniera, impreveduta, col dover rompere con i clericali e unirsi con i democratici, con i quali esso ha in comune il gusto di sommuovere le passioni di piazza e l’abilità di riuscirvi. Ma d’altra parte, non volendo rinunciare alle sue tendenze imperialiste, che sono in disaccordo violento con i principi democratici, esso non ha nemmeno la coerenza grossolana dei suoi alleati e si sfianca in un continuo sforzo di rappezzare la tunica multicolore delle sue idee».
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to della strombazzata mancanza di disciplina in noi italiani, del concetto cioè della necessaria subordinazione dell’individuo alla funzione collettiva che deve compiere; ma si tratta specialmente di sostituire ai vecchi simboli, nei quali più non crediamo, simboli di fede nuova. Questa è un’altra ragione per la quale noi teniamo a distinguerci dalla democrazia. Essa non ha coscienza di queste esigenze spirituali: allarga il numero dei responsabili nella vita pubblica ed è incapace poi a dare loro il senso di responsabilità. Proprio come ora: vuole la guerra e prende in giro chi ne ha affermato da tempo la necessità; vuole battere l’Austria ed ha spregiato in piazza l’esercito; fa le tirate contro la disorganizzazione della nostra classe dirigente ed è essa stessa un principio ed un elemento di disgregazione77.
La violenta tirata bellicista e antidemocratica di questo passo poteva facilmente suscitare dubbi consistenti sulla possibilità per il gruppo dell’«Azione» di effettuare un autentico rinnovamento liberale, senza restar impastoiato nel vecchio armamentario ideologico della destra protezionista, autoritaria, guerrafondaia. E se anche Rocco, già nel luglio del 1914, aveva parlato dell’impossibilità di conciliare il programma nazionalista con gli ideali del liberalismo «moderato» o «conservatore»78, questi dubbi, tuttavia, non sfioravano Volpe, che il 7 giugno aveva chiesto ad Arcari di poter aderire con una pubblica dichiarazione al programma politico della rivista. Leggo L’Azione – salvo i due ultimi numeri, usciti mentre ero lontano di qui. So che farete presto costì un convegno, come dice Il Resto del Carlino. Aderisco in ritardo e l’adesione mi è piaciuto motivare un po’ largamente. Se le pare, stampi le sei facciate che le invio, circa tre colonne di giornale. In occasioni come queste mi pare che disinteressarsi sia colpevole79.
In quello stesso periodo, «L’Azione», dopo aver rapidamente superato la pregiudiziale filo-triplicista, comune all’intero schieramento nazionalista80, entrava a militare attivamente nel movimento favorevole al-
77 A. ANZILOTTI, Nazionalisti e liberali di fronte alla guerra, in «L’Azione», 15 novembre 1914, p. 1. Si veda la ripresa di questi temi in ID., Perché non siamo nazionalisti, ivi, 21 febbraio, 1915, pp. 1-2. Sul nazionalismo di Anzilotti, E. GENTILE, La Voce e l’età giolittiana, cit., pp. 170 ss. 78 A. ROCCO, Che cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti, poi in ID., Scritti e discorsi politici, con una Prefazione di Benito Mussolini, Milano, Giuffré, 1938, 3 voll., I, pp. 67 ss. 79 Gioacchino Volpe a Paolo Arcari, s. d. La lettera, conservata nell’Archivio Epistolare Arcari (AEA) della Biblioteca Civica Paolo e Maria Arcari di Tirano, mi è stata gentilmente segnalata da Giuseppe Parlato. 80 In generale sul punto, R. MOLINELLI, I nazionalisti italiani e l’intervento a fianco degli Imperi centrali, Urbino, Argalia, 1973, pp. 65 ss. Amendola entrava in polemica contro
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l’intervento a fianco delle potenze dell’Intesa81, mobilitando, per la realizzazione di quell’obiettivo, intellettuali già affermati (da Borgese a Solmi, a Cesarini Sforza, ad Anzilotti, ad Amendola), ma anche giovani esordienti che si troveranno, nel futuro, su diversissime e contrastanti posizioni, come Dino Grandi e Ferruccio Parri82. Su quella rivista, il 4 ottobre 1914, Volpe pubblicava un articolo significativamente intitolato: Ora o mai più. Ho notizia di un convegno che, per iniziativa dell’Azione, è stato tenuto a Milano. Vi giunga, amici, sebbene tardi, la mia adesione. Io non milito nella politica; ma come studioso e come cittadino, la seguo e la sento. Ora poi è difficile, impossibile non essere presi, trascinati, sommersi nel gorgo. Ora più che mai la politica è storia e grande storia; è non ripiego, espediente, accorgimento, manovra, ma forza e sforzo, moto e creazione. Muoiono gli individui a migliaia, ma si esaltano, anche se sconfitte, le nazioni; si accentua il differenziamento fra i gruppi e la omogeneità e solidarietà fra gli uomini di uno stesso gruppo, insomma, progredisce la organizzazione della umanità. […] Dico solo e semplicemente questo: sono – per quel poco che vale la mia voce – con voi; come sono con tutti quelli che reputano fatale all’Italia isolarsi al momento presente. La politica di una nazione vive di continuità: vive di coerenza. Fu necessario e utile andare in Libia perché da tanti anni si era orientata verso quella direzione la politica estera italiana; sarà ora necessario e utile andare… Compia la frase chi vuole. A me preme solo insistere sulla necessità di un’azione: perché noi non potremmo più nulla di fronte a una coalizione vittoriosa, sia pur logora dalla guerra. Di fronte a questo pericolo io invocai magari un’azione con gli antichi alleati. Tutto, tutto, insomma, fuorché lasciar risolvere dagli altri questioni che toccano così da vicino anche noi: dagli altri, cioè per gli altri non per noi, anzi contro di noi. E la soluzione di oggi, di domani, sarà probabilmente la soluzione definitiva. La vittoria del blocco austro-ungarico, cioè del germanesimo, sarebbe la fine del Trentino italiano, sarebbe il nostro schiacciamento politico, militare, economico nell’Adriatico; la vittoria degli altri sarebbe l’annichilimento etnico dell’elemento italiano in Dalmazia, Fiume, in Istria e, per-
l’articolo intriso di umori triplicisti di M. Rosazza, (La Triplice sino ad oggi, pubblicato su «L’Azione» del 9 agosto 1914, pp. 1-2), con l’editoriale, Agli amici de “L’Azione”, ivi, 16 agosto 1914, p. 1. 81 B. VIGEZZI, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale. I., cit., pp. 257 ss.: 442 ss.. Sul «vario interventismo italiano», A. ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., pp. 574 ss.; G. BEDESCHI, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 83 ss. Un utile contributo è anche in U. SERENI, Notizie intorno alla guerra per il Liberato Mondo, in La Grande Guerra degli artisti. Propaganda e iconografia bellica in Italia negli anni della prima guerra mondiale, Catalogo della mostra di Firenze, Museo Marino Marini, 3 dicembre 2005-25 marzo 2006, a cura di N. Marchioni, Firenze, Pagliai Polistampa, 2005, pp. 95 ss. 82 P. NELLO, Dino Grandi, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 15-16; L. POLESE REMAGGI, La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italiano, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 45-46.
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ché no?, l’affacciarsi dello slavismo in casa nostra, tra quei 40 o 50.000 slavi del Friuli italiano. Quasi quasi peggio questa ultima eventualità. In ogni modo, tristi eventualità l’una e l’altra … Avremo salvato la pelle, ma nulla più. Vorrei che gli Italiani rivivessero questi giorni la semplice verità, la paurosa verità: ora o mai più. La nostra generazione – governanti e governati – si addosserà, di fronte a quelli che verranno, la responsabilità di quel mai più?83.
Era un intervento, destinato a incontrare il gradimento di Salvemini84, che ne avrebbe addirittura ribattuto qualche argomento in un articolo apparso su «L’Unità», dove si sosteneva, distaccandosi, per una volta, dalle tradizionali petizioni di principio della «guerra democratica», che la scelta dei futuri alleati dell’Italia doveva essere affidata soprattutto a ragioni di calcolo politico85. Ma era anche una presa di posizione, quella di Volpe, che, forse, nonostante le intenzioni del suo autore, conteneva maggiori punti di affinità con i temi della propaganda schiettamente popolar-imperialista, che Alfredo Rocco andava sviluppando in quegli stessi mesi, sulla falsariga di un machiavellismo politico, che, se considerava per il momento necessaria l’alleanza con le potenze occidentali, non nascondeva la necessità di continuare nel futuro la contesa internazionale per assicurare la «supremazia dell’Italia nel Mediterraneo» contro l’egemonia franco-inglese, magari a fianco di una Germania che, fattasi consapevole dei suoi reali interessi, avrebbe marciato insieme al nostro paese per realizzare «l’espropriazione delle nazioni plutocratiche, ricche di capitali, ma povere di uomini»86. Agli inizi di novembre del 1914, si costituiva, a Milano, il gruppo nazional-liberale, presieduto da Volpe87. L’associazione, che agiva senza contatti diretti con i liberal-conservatori del capoluogo lombardo88,
83 G. VOLPE, Ora o mai più, in «L’Azione», 4 ottobre 1914, pp. 1-2, da cui si cita. L’ar-
ticolo era datato Santarcangelo di Romagna, 20 settembre. 84 Gaetano Salvemini a Pietro Silva, 14 ottobre 1914, ID., Carteggio, 1914-1920, a cura di E. Tagliacozzo, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 52-53: «Io non riesco ancora a trovare un motivo per riprendere “L’Unità”. […] Ma sta il fatto che, se durante questo mese avessi dovuto continuare a pubblicare il giornale, sarei stato alla disperazione per non saper che dire: avrei potuto solo chiamare carogne i nazionalisti e scemi i socialisti. Ma ne sarebbe valsa la pena? Gli stessi giornali quotidiani non sanno che dire. Parlano solo gli spudorati e gli incoscienti. Se qualcuno, come il Volpe, che ha mandato un ottimo articolo all’“Azione” di Milano, scrive, lo fa per una volta sola: parla a scanso di scrupoli, e poi ritorna a tacere». 85 G. SALVEMINI, Per l’indipendenza d’Italia, «L’Unità», 4 dicembre 1914, in L’Unità di Gaeatano Salvemini, cit., pp. 358 ss. 86 A. ROCCO, Armiamo l’Italia per tenerla pronta agli eventi, «Il Dovere nazionale», 1 agosto 1914; ID., Noi e la Germania, ivi, 9 novembre 1914, poi in ID., Scritti e discorsi politici, cit., I, pp. 129 ss. e p. 210. 87 Il gruppo milanese dell’“Azione”, «L’Azione», 8 novembre 1914, p. 1 88 B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, cit., pp. 262 ss.
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nonostante il comune antigiolittismo e l’appoggio alla politica estera di Salandra, pubblicava nel mese successivo alcuni interventi programmatici, redatti dal suo presidente89. In essi, Volpe, mentre rivendicava la matrice integralmente liberale della compagine da lui diretta, pur diversificandola dalle forze del liberalismo tradizionale, contraddistinte da un’ottica municipalistica e dall’indifferenza per i «supremi interessi nazionali», non celava neppure le differenze con il partito nazionalista che aveva recentemente accentuato le sua ostilità per l’ipotesi di una riforma liberale propugnata da Borelli90. Il progresso sociale e la politica di potenza sullo scenario internazionale, la necessità di riforme all’interno, il rafforzamento dell’autorità dello Stato e il libero sviluppo delle organizzazioni di partito e di classe, la lotta contro il protezionismo, la messa all’ordine del giorno del problema dell’emigrazione (non senza consonanze, in questo caso, con le argomentazioni di Corradini)91, e finanche una valorizzazione in senso nazionale del socialismo, erano altrettanti nodi inscindibili del programma dei nazionali liberali milanesi, che sarebbe stato ribadito, di lì a un anno, nella dichiarazione di intenti del novembre 1915. Nel breve opuscolo, firmato tra gli altri da Paolo Arcari, Giustino Arpesani, Arrigo Solmi, Alessandro Casati e naturalmente da Volpe, si dava conto del proliferare dell’associazionismo nazionalliberale nelle principali città italiane e se ne esponevano gli obiettivi. Raccolti attorno al giornale L’Azione, questi gruppi vogliono lavorare e lavorano per un ravvivamento delle idee liberali, per una accentuazione in senso nazionale della politica interna ed esterna del Paese. Essi chiedono e vogliono un’Italia armata per la sua difesa, per la sua integrazione nazionale, per la sua espansione. Vogliono uno Stato forte di fronte a chiunque, entro i confini, attenti alla sua sovranità e libertà. Vogliono che l’Italia, superata la crisi internazionale del momento, rivolga ogni suo sforzo a risolvere il problema arduo dell’ordinamento amministrativo, ad aver cioè migliori servizi e meno ferreo accentramento. Vogliono una politica economico-sociale che, senza disperdere ricchezza, senza addormentare anche nei più umili la coscienza del valore delle prove iniziative e dei propri sforzi, assicuri alle masse la maggior somma possibile di beni materiali e morali. Vogliono infine che ogni attività e riforma utile a promuovere la vita della nazione come unità, ad equilibrare gli interessi del-
89 Il gruppo milanese dell’“Azione” costituito, in «L’Azione», 6 dicembre 1914, pp. 12; La propaganda nazionale liberale. A Milano, il discorso di G. Volpe, ivi, 20 dicembre 1914, pp. 1-2. 90 E. CORRADINI, Liberali e Nazionalisti. Discorso letto a Venezia nel dicembre 1913, ora in ID., Il Nazionalismo italiano, cit., pp. 97 ss. 91 G. VOLPE, Per i nostri emigranti, in «L’Azione», 31 gennaio 1915, p. 2. Sullo stesso punto e con argomenti non diversi, E. CORRADINI, La patria lontana, Milano, Treves, 1910; ID., Le nazioni proletarie e il nazionalismo, cit., pp. 40-41.
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le varie regioni e delle varie classi, a rinsaldare i vincoli tra la patria e chi emigra, siano oggetto, nei governanti e nei governati, di vigile culto, di pratica costante. E poiché nel momento presente i grandi problemi della Nazione italiana, cioè quello delle sue frontiere, quello della sua piena unità, quello della sua autonomia nell’Adriatico ed, eventualmente, quello della sua affermazione nel Mediterraneo orientale, soltanto con la guerra possono essere risolti, così ora essi vogliono anche la guerra e la concordia nazionale per la guerra92.
Molto significativamente, nel patrocinare l’ingresso nel conflitto, Volpe non faceva nessuna concessione alle ragioni ideologiche dell’intervento. Né sposava alcun atteggiamento costituzionalmente ostile agli Imperi centrali, dando piuttosto prova di una residuale ma ancora viva germanofilia, condivisa, per altro, da molti ambienti politici e intellettuali italiani fino alla vigilia della presa d’armi93. Sotto assoluto silenzio, passavano le dichiarazioni di fede circa il trionfo della democrazia e il superamento dell’autoritarismo militarista. Solo un’attenta e spregiudicata analisi degli interessi in gioco aveva spinto Volpe a caldeggiare la guerra a fianco dell’Intesa, dopo aver a lungo soppesato la possibilità di mantenere in vita l’antica alleanza94. Posto che l’Italia doveva iniziare il confronto bellico, al fine di tutelare i propri essenziali bisogni di consolidamento ed espansione, la sua iniziativa militare non poteva che volgersi a Oriente, verso la frontiera adriatica e balcanica. Bisogna compiere l’Italia, almeno laddove l’incompiutezza è più grande e dolorosa e pericolosa; bisogna creare nell’Adriatico una situazione tale che quel mare e le sue sponde non siano per noi un incubo e ci permettano di guardare e marciare dinanzi a noi, nel più vasto Mediterraneo e, se l’Italia sarà da tanto e ne avrà le forze, nel vastissimo oceano. Perché io non mi sento malato né di francofilia né di anglomania congenita. Mi son liberato di questi avanzi 92 CV. 93 R. ROMEO, La Germania e la vita intellettuale italiana dall’Unità alla prima guerra
mondiale, in ID., L’Italia e la prima guerra mondiale, Roma-Bari, 1978, pp. 109 ss. 94 Sull’iniziale atteggiamento triplicista, condiviso dall’intero schieramento del nazionalismo italiano, si veda ID., Ottobre 1917, dall’Isonzo al Piave, Milano-Roma, Liberia d’Italia, 1930, p. 50-51: «Giornali come L’Idea nazionale di Roma e Il Popolo d’Italia di Milano, i giornali tipici dell’interventismo (quello, fra luglio e agosto ’14, disposto anche – e giustamente – ad appoggiar una guerra della Triplice; questo, sorto proprio per spingere all’intervento antigermanico), conducevano una serrata, instancabile battaglia». Sul punto, il severo giudizio di Croce, Storia d’Italia, cit., pp. 293-294: «I nazionalisti volevano la guerra per giungere attraverso la guerra al successo e alla gloria militare, al soverchiamento del liberalismo e al regime autoritario […] Erano perciò indifferenti contro chi e come si dovesse muovere la guerra, purché guerra ci fosse, e, nelle prime settimane, essi soli, fra tutti i partiti italiani, si mostrarono propensi all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania e dell’Austria, e si disponevano a promuovere l’irredentismo di Nizza e della Corsica, di Malta e dell’italianizzante Tunisia».
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della nostra servitù secolare, dei tempi in cui il centro di gravità dell’Italia non era in Italia ma fuori. E poi all’incirca tutti sappiamo che cosa significhi la parentela in latinità e la tradizionale amicizia. Non ho soverchia simpatia per certi prodotti della francese democrazia, son ben lontano dal mettere di fronte Germania e Francia in aspre antitesi, come dispotismo e libertà, tenebre e luce, principio del male e principio del bene… Ancor meno mi commuove la tenera sollecitudine degli amici dell’ultima ora per il compimento della nostra integrità nazionale verso le Alpi del nord-est95.
Questo solo, dunque, era l’obiettivo della guerra. Il realizzarsi della «più grande Italia», di un’Italia coesa all’interno e potente all’esterno96, fino all’Asia minore, secondo una strategia di larga egemonia economica sul bacino mediterraneo, già propugnata da Caroncini97. Un progetto, che intanto poteva accomodarsi ai minori obiettivi del programma espresso da Salandra: rafforzare la posizione dell’Italia nel «concerto europeo», risolvendo il problema della sicurezza dei nostri confini nord-orientali e realizzando una salda presa sul bacino adriatico; consolidare la tenuta delle istituzioni, attraverso un processo di amalgama nazionale messo in moto dalla guerra patriottica, che avrebbe soddisfatto le antiche aspirazioni irredentistiche verso Trento e Trieste98. Che il paese avesse le forze per raggiungere questi obiettivi, attraverso il recursus ad arma, era per Volpe questione indubitabile, poiché l’Italia era una nazione «giovane» e, in quanto tale, bisognosa e desiderosa di crescere, anche a dispetto delle potenze cosiddette «democratiche». Sulla stessa linea di non demonizzazione dell’avversario, in virtù 95 G. VOLPE, Ora o mai più, cit., p. 2. 96 E. GENTILE, La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 20062; ID., Il mito dello Stato nuovo, cit., pp. 31 ss. e 171 ss. 97 A. CARONCINI, L’Asia minore e l’Italia, «Rivista delle Società commerciali», 1913; L’I-
talia e l’Asia minore. La lotta per la terra, «Il Resto del Carlino», 27 giugno 1913, ora in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 205 ss. Si veda anche, Oltre l’Adriatico, in «L’Azione», 20 settembre 1914; Marciare, ivi, 11 ottobre 1914, dove si profilava l’ipotesi, a guerra terminata, di una partecipazione italiana alla spartizione delle colonie tedesche e di una penetrazione nel Mediterraneo orientale. Ipotesi ampiamente ribadita in La propaganda nazionale liberale. A Milano. Alberto Caroncini, ivi, 20 dicembre 1914, p. 2. 98 A. SALANDRA, La neutralità italiana, 1914, Milano, Mondadori, 1928, pp. 86 ss. Il volume sarebbe stato recensito da Volpe, La neutralità italiana nella seconda metà del 1914, in «Il Corriere della Sera», 20 marzo 1928, p. 3 (poi in «Bibliografia fascista», 1928, 1, p. 4-5), in un resoconto animato dai sensi di un sentito apprezzamento per l’operato dello statista, dove si scriveva: «Libro interessante e promettente. E anche libro da ispirar fiducia. Molto studio di obiettività e sincerità […] Non tuttavia che non lo animino, insieme col proposito di dare ragione dell’azione sua di governo, anche il desiderio e l’ambizione di giustificarla, di procurarle riconoscimento e lode. Egli rivendica a sé e ai suoi più vicini collaboratori la pronta decisione della neutralità e il proposito dell’intervento con l’Intesa».
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della riconosciuta legittimità di ogni nazione a perseguire una politica espansionista, si erano già decisamente posti Guido De Ruggiero, nei suoi editoriali del «Resto del Carlino» e dell’«Idea Nazionale»99, nonostante i forti toni della sua polemica contro la Kultur germanica100, insieme ad altri collaboratori dell’«Azione», come Borgese101, e Dino Grandi che, riprendendo l’interpretazione dei processi storici, in chiave di dialettica tra «giovinezza» e «vecchiaia» dei popoli, proposta da Volpe, ne inaspriva forse indebitamente i contenuti anti-intesisti, in una polemica che poco si distaccava dai temi della «guerra proletaria e rivoluzionaria» di un Corridoni e di un Mussolini102. La democrazia latina con quella disinvoltura e con quell’antiveggenza di cui ha il monopolio, dopo gli anatemi di prammatica e le proteste verbali contro la guerra, si è decisa finalmente ad affidare a quest’ultima – proprio alla guerra – ciò che da principio doveva essere risultato esclusivo della sua facile e naturale vittoria. E adesso spera (nei primi giorni, sperava perfino il disarmo universale) da essa un assetto duraturo e quasi definitivo delle cose di questo mondo. La guerra che si combatte oggi è invece il risultato necessario, logico e fatale dell’assetto economico e storico della società moderna. Una guerra tra opposti imperialismi, e tale sarebbe nei suoi termini perfetti se ad essa non fosse purtroppo riservato l’ulteriore compito di risolvere una buona volta e per sempre il problema delle unità nazionali. Problema che non è affatto la causa e l’origine di questa guerra ma ne è piuttosto un incidente. Incidente di tale importanza tuttavia
99 Il riferimento è a G. DE RUGGIERO, Il pensiero italiano e la guerra, cit., pp. 125 ss., dove si polemizzava contro l’ideologia della «guerra democratica», che «non guarda al movimento storico delle nazioni, alla esigenza del loro sviluppo né alla forza della loro espansione». 100 ID., Da Emanuele Kant al mortaio da 420, «L’Idea Nazionale», 12 ottobre 1914, in La stampa nazionalista, a cura di F. Gaeta, Bologna, Cappelli, 1965, pp. 73 ss.; ID., Storia di oggi e storia di domani, «L’Idea Nazionale», 5 dicembre 1914, in Scritti politici, cit., pp. 73 ss. A questi interventi, seguiva la replica di Croce. Pagine sulla guerra, cit., pp. 5 ss. Più tardi Croce avrebbe ribattuto anche al saggio di De Ruggiero, Il pensiero italiano e la guerra, ne «La Critica», 20 marzo 1917, poi, ivi, pp. 153 ss. 101 G.A. BORGESE, Avversari, non odiatori della Germania, in «L’Azione», 30 agosto 1914, p. 1; ID., Alcune semplici verità, ivi, 6 settembre 1914, pp. 1-2, in particolare contro la demonizzazione della Germania, da parte dell’interventismo democratico: «Se questo fosse, come voi credete, un duello fra Francia e Germania, tra democrazia e impero, tra la “santa repubblica” e la “barbarie”, temo, ahimé, che ci sarebbe poco da dubitare sull’esito. Ma per fortuna ci sono altre idee e altre forze che collaborano a salvare i nostri popoli: v’è il rigido self-government inglese, v’è la rassegnata capacità di morire dei russi. V’è anche l’anonima e silenziosa furia giapponese». Si veda anche, ID., La responsabilità del partito liberale, ivi, 20 settembre 1914, pp. 1-2, dove si insisteva sulla possibilità che il popolo tedesco, del quale «bisogna ammirare le grandiose virtù», potesse tornare a esserci «amico». 102 B. MUSSOLINI, Il proletariato è neutrale?, «Il Popolo d’Italia», 3 aprile 1915 e ID., Guerra di popolo, ivi, 4 luglio 1915, in ID., Scritti e discorsi adriatici. I. Dalla neutralità al Piave, a cura di E. Susmel, Milano, Hoepli, 1942, pp. 89 ss.; 157 ss.
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da capovolgere per un momento il significato etico di questa conflagrazione. Nella guerra d’oggi vi è un difetto per così dire, d’impostazione. Infatti oggi soltanto un predominio s’intende: il predominio che viene dalla produzione e dal lavoro. Le guerre mondiali, le guerre di domani avverranno fatalmente fra le nazioni povere e le nazioni ricche, fra le nazioni che lavorano e che producono e le nazioni già padrone del capitale e della ricchezza. Guerra di carattere eminentemente rivoluzionario. Guerra di chi può di più contro chi ha di più. Lotta di classe fra le nazioni. Dato questo nuovo carattere della guerra mondiale, ciascun profano a prima vista può osservare che le pedine del grande scacchiere non sono al loro posto naturale. La guerra d’oggi doveva essere naturalmente combattuta fra Germania, Russia e Italia da una parte, Inghilterra e Francia dall’altra. Fra la gioventù e la vecchiezza. Fra la cassaforte e il lavoro. Per tutte queste ragioni, la pace che seguirà non potrà essere duratura. La vera guerra delle nazioni povere contro le nazioni ricche, naturale e necessaria, la guerra proletaria e rivoluzionaria, dovrà avvenire presto in questi termini precisi103.
Il tema della guerra come resa dei conti contro il predominio della plutocrazia internazionale sarebbe stata, poi, nuovamente riformulata da Volpe nei primi mesi del 1918, in un brevissimo opuscolo, di appena quattro facciate, pubblicato in forma anonima, nei fogli di propaganda del Comitato Lombardo dell’Unione Generali Insegnanti, presieduto da Arrigo Solmi e dal romanista Ugo Bonfante104. Un testo, nel quale, in ogni caso, nonostante la veemenza dei toni, si provvedeva, con accortezza, a smussare ogni pretesto socialmente eversivo, che avrebbe potuto destabilizzare lo status quo interno. Hanno parlato in tanti al popolo, da tre anni: ma non so di alcuno che gli abbia parlato nel suo linguaggio e in modo da esserne inteso. Né la sicurezza dell’Adriatico, né la ricongiunzione di Trento e Trieste alla patria, né la ragione suprema della difesa della civiltà, che non si credeva minacciata, potevano essere “scopi di guerra” veramente sentiti dal nostro popolo. Tanto più che questi scopi non raccolgono che una parte delle nostre aspirazioni. Bisogna invece dire al popolo la grande verità. Si fa la guerra per il soldato: per il contadino, per l’operaio, per l’impiegato. Si combatte per tutti coloro che pensano e
103 D. GRANDI, La guerra non risolverà nulla, in «L’Azione», 6 dicembre 1914, p. 4. L’articolo recava in calce questa nota redazionale, che si sforzava di normalizzare l’intervento di Grandi: «Combattere per la libertà, contro la libertà; pei popoli giovani, contro i popoli vecchi; per le braccia contro la ricchezza oziosa: formule seducenti, non da disprezzare perché contengono gran parte di vero, perché muovono all’azione le forze del nostro popolo mai pronto a motivi egoistici. Ma, per carità, non abusiamo. C’è una vecchia formula, non ancora esaurita, di politica nazionale, che salva il futuro e approfitta del presente: quella essenzialmente italiana e sabauda dell’equilibrio. Non è brillante, ma ha fatto sue prove non inutili. I giovani e Dino Grandi tra loro, ci consentano di ricordarla». 104 Sull’attività del Comitato milanese, G. MIRA, Memorie, cit., p. 112.
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stentano la vita nelle campagne e nelle città, in Italia e fuori d’Italia. Si fa la guerra per i proletari: questa è la guerra dei proletari. Solo pochi pericolosi imbecilli possono parlare di imperialismo. L’Italia non poteva fare e non avrebbe mai fatto una guerra imperialista: l’Italia poteva fare solo la guerra del pane quotidiano. E questa è la guerra del nostro pane quotidiano. Perché si fa la guerra per creare delle eguaglianze al posto di altrettante disuguaglianze. Per mettere a paro coloro che avevano di meno con coloro che avevano di più. Noi non vogliamo ci sia ancora domani qualcuno in Europa cui il proprio lavoro frutti di più che a noi il nostro. Combattiamo per l’Internazionale: non per quella politica, inutile, ma per quella economica, indispensabile, improrogabile. Combattiamo per trar fuori il nostro popolo dalla sua grigia fatica di eterno bracciante, di eterno servo. Vogliamo che ogni italiano valga domani quanto ogni altro europeo, e non viva peggio di un tedesco, di un inglese, di un francese, di un belga. Ecco il nostro irredentismo: redimerci. Emanciparci. Levarci in piedi. Non dobbiamo più essere nel mondo i tollerati, i cinesi, le bestie da soma, coloro che penano di più e che si pagano di meno. Non dobbiamo più essere i lustrascarpe, i barbieri, i menestrelli e i prosseneti degli altri. Non ci si deve più camminare sui piedi. Non dobbiamo più trascinare e lordare per le terze classi dell’orbe terracqueo i nostri fagotti, i nostri marmocchi e le nostre lacrime. Per questo si fa la guerra, per questo si piange, per questo si digrignano i denti, per questo si muore. Ecco quanto bisogna dire al popolo. Il popolo avrà tutto questo: poiché esiste una logica, ad onta di tutte le violenze perpetrate contro di essa, e la guerra non può non finire con quella perequazione dei valori nazionali, delle libertà e delle condizioni di vita in Europa per cui si combatte – o non finire. Ma avrà tutto questo – ecco il punto – solo dallo Stato, dall’autorità dello Stato e dalla forza che a questa autorità avrà saputo conferire. Nessuna speranza all’infuori di qui. La libertà di domani è l’obbedienza di oggi, la signoria di domani è la servitù di oggi. Lo Stato rende quel che riceve, non diversamente dal cielo, il quale torna alla terra quanta acqua ne ha bevuta. Non c’è altro da fare, non c’è altro da chiedere105.
Taluni argomenti di questa polemica, che il proseguimento delle ostilità avrebbe reso sempre più stringente e urgente, erano, d’altra parte, già attivi in Volpe fin dal 1911. Anno a cui datava, in coincidenza emblematica con la guerra di Libia, la sua iscrizione alla «Dante Alighieri»106. La scelta di associarsi al sodalizio patriottico-irredentista, durante l’impresa coloniale, non esprimeva, a dispetto delle apparenze, una contraddizione politica. L’irredentismo della «Dante Alighieri» aveva già perso da tempo, in tutto o in parte, i riferimenti ideali alle na-
105 Come si deve parlare al nostro popolo?, Unione Generali Insegnanti. Comitato Lombardo-Università Commerciale L. Bocconi – Milano, Bollettino n. 29. 106 Società «Dante Alighieri», Comitato di Milano, Atti e documenti. Luglio 1912, Milano, G. Agnelli, 1912, p. 63.
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zionalità oppresse107, operando piuttosto a favore di un’espansione italiana che avrebbe dovuto configurare una radicale trasformazione degli equilibri geopolitici dalla frontiera orientale fino al Levante. Già prima dell’approssimarsi del conflitto, il tradizionale patrimonio del vecchio patriottismo risorgimentale veniva profondamente trasformandosi108, per arrivare nell’esperienza di Giovanni Giurati a congiungersi con gli «orizzonti di gloria» del nazionalismo di Corradini109. Questa metamorfosi aveva toccato in profondità anche un personaggio di indiscussa ascendenza democratica come Scipio Sighele: uno dei più importanti interpreti del sentitissimo irredentismo delle popolazioni del Trentino110. La difesa dell’italianità di quella regione, da ottenersi attraverso una serie di riforme e la concessione di una larga autonomia amministrativa da contrattare con il governo viennese, corrispondeva alla prima fase della sua attività tra fine secolo e 1908111. Dopo quella data, in coincidenza quindi dell’annessione della Bosnia Erzegovina da parte dell’Impero austro-ungarico, le cui ripercussioni in Italia costituirono un profondo spartiacque nel modo di intendere la realtà dei rapporti internazionali112, Sighele appariva convinto della necessità di saldare l’aspirazione al ricongiungimento alla madrepatria delle regioni, ancora da essa separate, al tronco della «novissima pianta della vita politica italiana che si chiama nazionalismo»113. Di qui, ma 107 B. PISA, Nazione e politica nella Società “Dante Alighieri”, cit., pp. 279 ss. 108 Sul punto, G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 174 ss.; G. SABBATUCCI, Il pro-
blema dell’irredentismo e le origini del movimento nazionalista in Italia, in «Storia contemporanea», 1970, 3, pp. 467 ss.; 1971, 1, pp. 53 ss.; B. DI PORTO, Il nazionalismo tra continuità e rottura con il Risorgimento e S.B. GALLI, Dall’irredentismo al nazionalismo: appunti sul pensiero politico di Gualtero Castellini, in Da Oriani a Corradini, cit., rispettivamente pp. 25 ss. e pp. 161 ss. 109 G. GIURATI, La Vigilia, gennaio 1913-maggio 1914, Milano, Mondadori, 1930, pp. 253 ss. Ma sul precoce deragliamento dell’irredentismo verso l’ideologia nazionalistica, già in età crispina, si veda F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. I. Le Premesse, Bari, Laterza, 1951, pp. 72 ss. 110 M. GARBARI, Il pensiero politico di Scipio Sighele, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1974, 3-4, pp. 391 ss.; 523 ss.; ID., Introduzione a L’età giolittiana nelle lettere di Scipio Sighele, Trento, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, 1977, pp. 9 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, cit., pp. 125 ss.; N. GRIDELLI VELICOGNA, Scipio Sighele. Dalla criminologia alla sociologia del diritto e della politica, Milano, Giuffré, 1986, pp. 61 ss. 111 S. SIGHELE, Pagine nazionaliste, Milano, Treves, 1910, pp. 16 ss. 112 L. ALBERTINI, Le origini della guerra del 1914. I. Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all’attentato di Sarajevo, Milano, Bocca, 1942, pp. 199 ss.; G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 29 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, cit., pp. 47-48. 113 S. SIGHELE, Risveglio italico, agosto 1909, in ID., Pagine nazionaliste, cit., p. 214. Sui veri obiettivi della Triplice alleanza, che in quel momento appariva comportare di ne-
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anche a partire dal suo antigiolittismo, dalla spietata critica delle degenerazioni del sistema parlamentare e partitico, dalla condanna dello scarso o inesistente spirito patriottico del socialismo114, dalla valorizzazione della guerra come «necessità» e come «dovere», in occasione dell’impresa di Libia115, il suo avvicinamento a Corradini, la sua nomina alla presidenza del Congresso nazionalista di Firenze del 1910116 e la sua partecipazione al Consiglio centrale dell’Ani. Un idillio di breve durata, che si infrangeva per Sighele, come per Arcari e come per Borelli117, nell’impossibilità di tradurre il credo nazionalista ufficiale in una strategia, in grado di coniugare una politica estera né passiva né rinunciataria con la riforma interna del paese e di mantenerne in vita l’anima liberale, democratica e persino radicale senza contaminazioni con il movimento «retrogrado, clericale, antisemita, legittimista» di Maurice Barrès118. Nel 1912, Sighele usciva dagli organi dirigenti dell’Ani ed esprimeva l’inconciliabilità delle sue posizioni con un partito «del quale è sempre più palese l’attitudine reazionaria-clericale»119, aggiungendo, in una lettera al nipote Gualtiero, la sua soddisfazione per quella rottura pubblica e senza possibilità di riconciliazione. Il pubblico ha avuto la sensazione che c’era nell’Associazione Nazionalista qualche cosa di ambiguo e di gesuitico – e questa impressione non si perderà più. Io sono contentissimo e serenissimo, non solo e non tanto per me, quanto perché credo che sono stato lo strumento inconscio di un’opera di sincerità del nazionalismo. Adesso il pubblico sa veramente che cosa sia il nazionalismo: vedremo chi andrà da lui. Per fortuna si può essere buoni patriotti anche senza essere nazionalisti – e devo aggiungere francamente che il modo della polemica mi ha rivelato ciò che per tanto tempo non volevo credere e che pure mi si diceva: vale a dire che sono degli egoisti e degli arrivisti coloro che s’attaccano al nazionalismo, non per puro ideale, ma per manifestare i loro istinti di violenza e il loro orgoglio di superuomini. Noi, cioè tu ed io siamo al di fuori e al di
cessità «l’egemonia in Europa della Germania e l’abbandono dei Balkani alla monarchia austro-ungarica», una spietata diagnosi è già in A. LABRIOLA, Storia di dieci anni, 1899-1909, Milano, Il Viandante, 1910, pp. 149 ss. 114 S. SIGHELE, La patria e i socialisti, aprile 1909, ivi, pp. 173 ss. 115 ID., La dottrina nazionalista, in Il nazionalismo e i partiti politici, Milano, Treves, 1911, pp. 34 ss. 116 Sul Congresso di Firenze, P.M. ARCARI, Le elaborazioni della dottrina politica nazionale fra unità e intervento (1870-1914), Firenze, Il Marzocco, 1934-1939, 2 voll., II, pp. 606 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, cit., pp. 61 ss. 117 F. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 126-127. 118 S. SIGHELE, Nazionalismo italiano e nazionalismo francese, agosto 1909, in ID., Pagine nazionaliste, cit., pp. 217 ss. 119 Scipio Sighele al cognato Orsini, s. d., ma maggio 1912, in L’età giolittiana nelle lettere di Scipio Sighele, cit., p. 247.
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sopra: perché – volere o no – il nostro pur diverso nazionalismo è nato da un’unica fonte l’irredentismo120.
Era un distacco che arrivava però troppo tardi, quando ormai l’eredità risorgimentale dell’irredentismo si era in larghissima parte snaturata a contatto di altri valori e altre ideologie, anche in virtù delle prese di posizioni di Sighele, che nel luglio del 1910 aveva sostenuto, proprio a proposito dell’impatto rivoluzionario delle teorie di Corradini, la necessità di non concepire la vita politica interna «come scopo a se stessa», e l’esigenza di porre «il fine della nazione fuori della nazione» in un processo di espansione della patria italiana che poteva fregiarsi senza timori e senza riserve del nome di «imperialismo»121. 3. Un saggio di questa violenta torsione nazionalistica dell’irredentismo lo avrebbe fornito anche Volpe nella primavera del 1914, in occasione della pubblicazione di un opuscolo dedicato alla «Dante Alighieri» affidato alle sue cure, nel quale chiamava a raccolta sotto le insegne di quell’associazione tutti coloro che percepivano «il senso di certi bisogni sempre più urgenti della nostra vita nazionale»122. Quali fossero questi bisogni era presto detto: la custodia del patrimonio storico e culturale italiano, ovvero la rinnovata promozione «di ricchezza, di civiltà nostra, di forza politica e militare» nel quadro di un’agguerrita competizione internazionale. Dal XII secolo, da quando si era «affacciata alla storia come nazione», l’Italia aveva conosciuto un’epoca di «meravigliosa forza espansiva», nella quale «aveva agito sul mondo col fiore della sua gente». Allora l’intero bacino del Mediterraneo, con le valli alpine, aveva delimitato il perimetro della civiltà italiana. Poi era venuta la decadenza, l’Italia si era ritratta «dai mari lontani». Il Canton Ti120 Scipio Sighele al nipote Gualtiero, 12 maggio 1912, ivi, p. 249. 121 ID., Che cosa è e che cosa vuole il nazionalismo, in Pagine nazionaliste, cit., pp. 237-
238.
122 G. VOLPE, La «Dante Alighieri» e la vita italiana fuori dai confini, introduzione a Per la Dante Alighieri nel XXV anniversario della sua fondazione, numero unico a cura del Comitato di Milano, 19 aprile 1914, p. 1, da cui si cita. Il contributo di Volpe, ora ristampato in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit., costituiva l’apertura di un numero unico dedicato alla «Dante Alighieri» nel XXV anniversario della sua fondazione, al quale collaboravano: S. JACINI, Emigrazione e lingua italiana; E.G. PARODI, Dante Alighieri; C. SALVIONI, Le condizioni della cultura italiana nel Ticino; G. MIRA, Il sottocomitato studentesco di Milano della Dante Alighieri; S. BENCO, L’Università italiana a Trieste; A. TAMARO, Trieste e la Dalmazia per la coltura italiana. Sul punto, Gioacchino Volpe ad Alessando Casati, Santarcangelo di Romagna, 28 febbraio 1914, in FAC: «So che sei stato fuori d’Italia per vari giorni. Ci racconterai qualche cosa, e forse mi darai qualche buon consiglio per un numero unico che la sezione milanese della Dante Alighieri vuol pubblicare il 21 aprile».
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cino, il Trentino e l’Istria, «fatti italiani dalla natura e dalla storia, si saldavano a organismi politici ed etnici d’Oltre Alpe». Malta, la Corsica e infine Nizza passavano anch’esse in mani straniere, e così pure la Dalmazia, la Tunisia e l’Egitto, «paesi fuori dal cerchio segnato da natura attorno alla penisola», ma italiani «per antichi legami politici e culturali e demografici». In questo modo, «la nostra cultura da per tutto, poco o molto, cedeva», fino a essere messa in pericolo dal fenomeno dell’emigrazione – «poco più che forza bruta di lavoro» dispersa nel mondo – e dall’aggressività di altri nazionalismi. Alla «nuova Italia» non si poteva certo chiedere di invertire il corso della storia, «lo spostamento di centro della vita europea e mondiale» era ormai «definitivo»; e tuttavia qualcosa poteva ancora essere salvato, soprattutto ma non esclusivamente sulle sponde dell’Adriatico. Il destino dell’Italia era legato a una rinnovata e più consapevole fiducia, dentro i confini nazionali e ovunque vi fossero italiani, nel valore delle proprie tradizioni e nella forza della propria civiltà: Questa conservazione e difesa dell’italianità nel mondo, sia essa inconsapevole e latente o consapevole e spiegata come una bandiera, noi la dobbiamo volere per un senso di fraterna solidarietà con chi ci è affine di sangue, di memorie, di linguaggio. Noi la dobbiamo volere per attaccamento quasi filiale a ciò che ci fa nazione, cioè al nostro patrimonio ideale in se stesso, per coerenza quasi con noi stessi, col nostro passato, con la nostra storia che sarebbe quasi rinnegata o perduta se noi rinnegassimo o perdessimo la nostra lingua.
In questo passo, la valorizzazione degli aspetti più propriamente culturali della nazionalità – la condivisione di una lingua, di tradizioni, usi e costumi sedimentatisi nel tempo – si giustapponeva semplicemente all’appello ai vincoli secolari di parentela e di sangue. L’aspirazione a fondare su basi etniche la comunità nazionale non era un tratto distintivo peculiare della riflessione di Volpe, e neanche la spia lontana di un rigido determinismo razziale123. Volpe era infatti poco disposto a formulare una rigorosa teoria della nazione, e inoltre, in ossequio al suo pur particolare liberalismo, evitava di attribuire al dato biologico un’influenza decisiva nel divenire storico, col rischio di negare ogni valore al libero concorso degli individui. A sostanziare di pensieri e attitudini l’organismo nazionale non era la somma di alcuni tratti distintivi organici, bensì la progressiva naturalizzazione di un insieme di elementi culturali. La nazione era un’entità storico-naturale, e non biologica, co123 Sulla «banalità» del discorso razziale nella cultura europea tra ’800 e ’900, non sempre necessariamente razzista, si veda G.L. MOSSE, Il razzismo in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1980.
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me Volpe avrebbe sostenuto con vigore all’interno della sua intera produzione storiografica124. Nazione equivaleva quindi a un legame comunitario, reso attivo dal vincolo etnico, al cui interno era ancora possibile salvaguardare l’autonomia della ragione individuale, grazie alla quale il singolo poteva riconoscersi parte del destino collettivo. In questo modo, veniva esaltato il ruolo delle aristocrazie intellettuali, le sole depositarie, davvero consapevoli, «dell’intima natura e delle necessità vitali di razze e di nazioni»125. L’intero opuscolo della «Dante Alighieri» portava il segno di questi convincimenti. Se quella pubblicazione accoglieva un intervento di Attilio Tamaro sulla cultura italiana a Trieste e in Dalmazia, non privo di motivi schiettamente imperialistici126, Volpe aveva chiesto ad Arcari di poter utilizzare, in quella stessa sede, un intervento, sulla Corsica di Tencajoli, molto più moderato nei toni, già apparso sull’organo ufficiale dell’Ani, «L’Idea Nazionale». Il signor Tencajoli mi scrive che non ha tempo ora di scrivere l’articolo. Vuol dire che riassumerò io o farò riassumere da altri ciò che egli stesso scrisse nell’Idea Nazionale e ciò che può essermi fornito da altre fonti. Se lei conosce altri articoli di riviste o giornali su la Corsica e Nizza e anche Malta, mi farà piacere grandissimo ad indicarmeli. Per es. le indicai un numero dell’Idea Nazionale posteriore al 7 settembre con un articolo del Tencajoli su Nizza127.
Tra i collaboratori di quel fascicolo Volpe avrebbe voluto avere anche Boine, con il quale si era mantenuta una stretta frequentazione128, con un intervento sugli italiani a Nizza. Da questi riceveva invece un garbato, ma fermo e molto significativo rifiuto, che batteva sull’impossibilità di fare dei propri scritti un «cordiale nazionalista»129, come ve124 E. DI RIENZO, La storia d’Italia di Gioacchino Volpe, in «L’Acropoli», 2005, 4, pp. 423 ss. 125 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., II, p. 333. 126 A. TAMARO, Trieste e la Dalmazia per la cultura italiana, in Per la Dante Alighieri, cit., p. 5. 127 Gioacchino Volpe a Paolo Arcari, 9 marzo 1914, in AEA. Si veda la pronta risposta di Arcari, nel giorno successivo, ivi: «Eccole il numero che Ella desidera. Mi dispiace di non poterglielo lasciare, tenendo io la raccolta dell’Idea nazionale; me lo restituisca però con tutto suo comodo». 128 G. BOINE, Carteggio III, cit., I, pp. 330, 360, 485; II, p. 667; ID., Carteggio IV, cit., p. 105. 129 ID., Carteggio III, cit., p. 839: «Mi aveva scritto Volpe chiedendomi uno studio su gli italiani a e di Nizza per la Dante. Gli risposi che l’avrei fatto ma che non poteva essere un cordiale nazionalista. Non me ne disse più niente. Uno studio su Nizza non può essere un cordiale nazionalista perché i Nizzardi son contenti di essere francesi e gli italiani che ci vanno contenti di diventar nizzardi».
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niva ribadito nella lettera a Casati del 23 marzo. Ho paura che la mia gita a Milano sfumi. Se venivo avrei chiacchierato volentieri personalmente con i direttori dell’Azione e con vari altri. Per es. con Volpe ch’io temo di avere irritato per la faccenda su Nizza. Ti ho spiegato che avendomi egli chiesto uno studio sugli italiani di Nizza per il futuro numero unico della “Dante Alighieri” milanese io cominciai col manifestargli il mio malumore verso la Dante in genere: e gli dissi ch’io avrei fatto lo studio sebbene non credessi potesse servirci per scopi di eccitamento nazionalistico. Che i nizzardi son felicissimi di essere francesi, che gli italiani di questa parte della Liguria trovano troppo spesso nell’emigrazione in Provenza l’unico rimedio alle loro miserie per essere eccessivamente italiani, e che infine qui si sono sentite persino delle voci invocanti una annessione alla Francia. E citavo fatti d’incuria governativa che fomentano questi sentimenti e facevo confronti fra il benessere economico che la Francia ha saputo se non creare, secondare sulla riviera, oltre il confine, ed il malessere nostrano. Ciò non deve essergli andato a genio. Non m’ha più risposto. Vuoi un po’ informarti di questa cosa? E se mai assicurarlo ch’io sono un buon patriota e che il malumore per la Dante è una faccenda minima ed in gran parte locale e sentimentale130.
Una presa di distanza, questa, che non restituisce integralmente la complessità delle questioni in gioco, considerato che lo stesso Boine, aderendo pochi mesi prima al progetto dell’«Azione», aveva proposto alla rivista una riflessione sul nazionalismo incentrata su una sorta di «razzismo spiritualista», teso proprio a spiegare come il pensiero potesse incarnarsi in una razza rimanendo nondimeno pensiero131. Per indole e formazione, Volpe non tentò mai comunque di dare sistematicità alle sue idee su cosa fosse la nazione o il nazionalismo. Il paradigma etnico orientava però le sue analisi politiche, tanto da indurlo a salutare la guerra, quale opportunità per abbattere quei «corpi politici misti» (l’Impero austro-ungarico e la Russia zarista), ormai sul punto di perire di fronte all’imperioso emergere delle diverse nazionalità. Questa pur relativa etnicizzazione della comunità nazionale e le ambizioni espansionistiche, ad essa fatalmente connesse, non erano elementi tra loro in contrasto: l’ancoraggio all’italianità, a una cultura divenuta tratto naturale col susseguirsi delle generazioni, non aveva una valenza «statica». La nazione così intesa poteva, anzi doveva evolversi e quindi espandersi in ragione dello stadio raggiunto dalla propria civiltà. Tuttavia, Volpe preferiva parlare di nazionalismo e colonialismo piuttosto che di
130 Giuseppe Boine ad Alessandro Casati, 7 giugno 1914, cit. 131 ID., Carteggio IV, cit., p. 346. Sul punto, G. BENVENUTI, Boine, Gobineau e la let-
teratura, in Nel nome della razza, a cura di A. Burgio, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 115 ss.
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imperialismo, che mal si adattava alle tradizioni del liberalismo, e quindi di nazionalismo orientato semmai a tutelare l’equilibrio tra grandi potenze e a favorire la «civilizzazione» di altri popoli attraverso una politica culturale ed economica di «assorbimento» e non per mezzo di «violenze governative», esattamente come aveva sostenuto Caroncini polemizzando con Ruggero Fauro sull’«Azione»132. Una distinzione, questa, che pesava nel dialogo con i nazionalisti ufficiali, dai quali i nazionali liberali intendevano distinguersi nel rifiutare – secondo il programma esposto da Volpe nel dicembre 1914 – il semplicismo di alcune indicazioni teoriche, e la tendenza a «formulare una dottrina della nazione» che, negando le classi, finiva quasi per «dimenticare il popolo», annullando del tutto la politica interna nella politica estera. Ma nel rifiuto del verbo del nazionalismo ortodosso contavano anche le insopprimibili ragioni del realismo politico, la considerazione del calcolo preciso delle forze in gioco, che spesso la provincialistica retorica di quel movimento aveva finito per dimenticare: I nazionalisti si sono immobilizzati quasi obbligati nella politica estera e nella contemplazione di un’Italia signora delle genti, di un’Italia non solo arbitra delle sue genti, ma anche di altre genti. E concepiscono la preparazione militare un po’ semplicisticamente come accumulazione di molti soldati, di molti fucili e cannoni, senza per avventura pensar molto se è possibile e può dar frutti un tale esercito dove siano cattive finanze pubbliche, un popolo che è ancora in parte plebe, malessere e scontento. […] Da essi ci separano certe loro esagerazioni e lo sviluppo ipertrofico di taluni organi; noi non crediamo di poter formulare una dottrina della nazione e del nazionalismo; non ci sentiamo di annullare le questioni sociali nelle questioni della politica estera e dell’espansione; ci pare contrario e alle nostre tradizioni e ai nostri interessi alimentare in noi e quindi incoraggiare negli altri uno spirito di sopraffazione imperialistica, che è un po’ l’antico Faustrecht germanico rammodernato e che rappresenterà un pericolo per le nazioni meno numerose e più deboli come noi siamo e certamente rimarremo relativamente ad altre nazioni133.
Ciò nonostante, i punti di contatto tra i due movimenti rimanevano molti, essendo i nazionali liberali «cordialmente» d’accordo con i nazionalisti: nel credere alla necessità urgente che sia corroborata, tonificata la vita del-
132 A. CARONCINI, Italiani e slavi nell’Adriatico, in «L’Azione», 11 ottobre 1914, p. 3. Si veda anche, ID., La minaccia slava e il dovere italiano, ivi, 2 agosto 1914, p. 1.; ID., Il problema italiano nell’Adriatico, ivi, 8 novembre 1914, pp. 1-2. Sulle stesse posizioni, W. CESARINI SFORZA, Il problema della Dalmazia, ivi, 21 marzo 1915, pp. 1-2. 133 La propaganda nazionale liberale. A Milano, il discorso di G. Volpe, cit.
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la nazione come unità; che essa acquisti il senso della sua continuità, che cacci da sé il morbido pacifismo e dia ai giovani virile educazione; che essa compia se stessa e giunga ai confini etnici che sono anche i confini storici e naturali; che sostenga i milioni di emigranti perché non siano snaturati e dirazzati e imbastarditi; che essa non si apparti dal campo delle competizioni coloniali che sono pur sempre scuola di energia, mezzo di accrescer la ricchezza complessiva della nazione; che governanti e governati sentano e pratichino il sacrificio degli interessi individuali, locali, regionali a quelli generali e nazionali. Ma detto questo, noi diciamo anche che la libertà economica deve essere il mezzo per distruggere in Italia molti contrasti regionali e di classi e quindi rafforzare la vita della nazione; deve essere il mezzo per eliminare forze non pure, dar la vittoria all’intelligenza, alla volontà, alle abilità tecniche e di organizzazione nel campo industriale, creare delle élites134.
Secondo Volpe, tutti questi motivi erano in realtà già presenti nel pensiero liberale della Destra storica, in quei «liberali generosi che avevano fatto l’Italia» seguendo i dettami di un equilibrato ma non imbelle realismo, la cui eredità era stata purtroppo dispersa dalle classi dirigenti successive, fino a Giolitti. Di fronte a quel depotenziamento del «vero liberalismo», solo la guerra avrebbe potuto corroborare davvero l’organismo nazionale, mettendo ogni suo membro «al cospetto della rude realtà»: il primato della forza nella storia e, dunque, l’inevitabilità della solidarietà e coesione sociale per rafforzare la continuità storica della nazione. Era una continuità radicata nella tradizione dei rapporti sociali, nella «costituzione materiale» del paese, come Volpe aveva tenuto a ribadire di fronte alle spinte sovversive che parevano aver contagiato anche lo schieramento interventista moderato e «d’ordine» all’inizio della primavera del 1915, quando, ad esempio, il gruppo dei «liberali monarchici» avrebbe dato la propria disponibilità al Comitato interventista di Roma ad aderire, in caso di mancato intervento dell’Italia in guerra, ad un moto rivolto anche contro la corona135. Assurdo e incomprensibile era invece per Volpe che anche costoro si associassero alla minacce del fronte democratico e addirittura a quelle della propaganda sovversiva, anarchica e socialista136, racchiuse nella formula «o guerra o repubblica!», senza capire che con la monarchia sarebbe crollato l’intero ordine sociale sul quale era stata edificata l’Italia. Il pretesto per un nuovo fendente contro tali sgraditi compagni di strada era offerto a Volpe dal commento all’assemblea promossa, il 6 aprile a Mila-
134 Ivi. 135 ACS, A5G, PGM, b. 89, f. 198, sf. 14, Notizie di un fiduciario repubblicano, 13
marzo 1915. 136 M. ANTONIOLI, Nazionalismo sovversivo?, in Da Oriani a Corradini, cit., pp. 177 ss.
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no, dalla Lega nazionale italiana, che aveva visto l’intervento di tre deputati: De Capitani, Gasparotto e Agnelli137. Soprattutto contro questi esponenti parlamentari, Volpe utilizzava tutta la sua vis polemica per biasimare l’attendismo del primo e il vacuo democratismo e la retorica filointesista del secondo: De Capitani non ha preso una posizione chiara e precisa, essendosi limitato a dire che se il governo chiamerà egli è pronto all’appello. Egli non ha voluto compromettersi, come la grandissima maggioranza dei deputati italiani: così un domani potrà indifferentemente, senza pericolo di troppa contraddizione, esaltare la desiderata e vittoriosa guerra, maledire chi abbia condotto il paese alla sconfitta, rinfacciare ai governanti l’occasione perduta per le sacre rivendicazioni, gridare tre o più volte a mo’ di conclusione: Italia, Italia, Italia. Più espliciti, pur con qualche nota che tradiva, in essi, l’abitudine di bazzicare con le società per la pace, gli on. Agnelli e Gasparotto. Specialmente il secondo: egli è contrario alla guerra ed alle guerre, ma questa volta bisogna farla. Oggi che, bene o male, la guerra c’è, noi possiamo approfittarne per la causa dell’umanità e dell’italianità, per vendicare le offese fatte alla legge universale della solidarietà, per affrettare la pace e renderla definitiva, per risolvere i problemi nazionali… Con maggiore robustezza ragionò l’Agnelli. Piacque anche, in lui, quella sua ripugnanza a pappagalleggiare sull’ormai famoso “cultura tedesca”, come è diventato obbligo di tanta gente che perché è interventista si sente di dover essere germanofoba e, peggio, perché è germanofoba, vuole dispregiare il nemico, anche se fino a ieri l’adorava. Ieri servi, oggi liberti, mai uomini liberi.
La vera e propria ratio politica dell’intervento era però altrove. Nella fermissima replica contro l’ordine del giorno, votato dall’assemblea, il quale mentre ammoniva «che se mai alla lunga attesa seguissero delusioni quali che siano, sarebbero inevitabili profondi rivolgimenti politici», poneva automaticamente in essere l’inaccettabile alternativa «o guerra, o rivoluzione». Finora noi chiamavamo “mentalità giacobina” (e anche “repubblicana”) questo svuotar le forme di governo di ogni contenuto reale, disconoscere tutte quelle forze storiche che in un dato momento – per noi assai vicino – hanno condotto un paese a sistemarsi monarchicamente o repubblicanamente, negar ogni legame organico fra la struttura sociale, le condizioni culturali ecc. di un popolo e le sue istituzioni politiche. Ma il bacillo giacobino acquista forza diffusiva, come pare!
Questo stesso «rappel à l’ordre» era stato già formulato da Gioac-
137 G. VOLPE, I costituzionalisti milanesi per l’intervento, in «L’Azione», 18 aprile 1915, pp. 1-2. L’articolo era datato 8 aprile.
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chino Volpe nella lettera del 16 maggio 1915, indirizzata al Cavalier Gandolfi, un esponente di rilievo del Comitato interventista di Milano. In quella comunicazione, si minacciavano le dimissioni da quell’associazione, nella quale anche il gruppo nazional-liberale, presieduto da Volpe, era entrato a far parte, per collaborare, superando le passate pregiudiziali, con socialisti riformisti e radicali favorevoli all’entrata in guerra138. Si tratta di chiedere una volta per sempre se è possibile ad uomini di nostra parte di collaborare con quella che ormai, dopo una lenta infiltrazione di rappresentanti di gruppi e gruppetti, è diventata la grande maggioranza del comitato e che, mi pare, è cresciuta anche di esigenze col crescere di numero e forse non sarebbe dolente di far da sé, solo da sé. […] Come norma per l’avvenire io dichiaro: noi siamo dei monarchici, è risaputo; siamo tali non nel senso di amar la monarchia più della nazione – nessuno è autorizzato ad attribuirci questa scempiaggine – ma nel senso di credere la monarchia utile e necessaria all’Italia, ad un’Italia ancora così povera di suoi propri organici elementi coesivi e così ricca di tendenze particolaristiche e di squilibri regionali e priva di coscienza nazionale autonoma; utile e necessaria, forse, anche se per avventura alla monarchia toccasse, per cecità o deficienza del suo attuale o di un suo qualunque rappresentante, di venir meno ad un suo altissimo dovere. Anche in questo caso non sarebbero annullate le altre e più generali ragioni per le quali crediamo alla utilità e necessità della monarchia in Italia, a 50 anni dalla sua costituzione. Si vuol considerare questa fede come cieca? Sia pure: farà il paio con la fede cieca dei repubblicani nella virtù miracolosa della repubblica, che è, viceversa, una cosa da fabbricare, mentre l’altra è una forza che esiste e ha radici, sia pur non profondissime, nel paese. […] Noi eravamo disposti a scendere in piazza, magari a trascendere ad una agitazione violenta contro il pericolo di un ministero Giolitti. Siamo disposti ad insistere energicamente perché alla guerra si arrivi, perché sia, se non svalutato il parlamento, esautorata la camera attuale e magari bastonato per le vie d’Italia il suo creatore e capo. Siamo disposti a lavorare per tenere su, durante la guerra, lo spirito pubblico del paese. Noi ci arrestiamo alle soglie della rivoluzione. E non solo se si tratta di farla, ma anche se si tratti di minacciarla139.
A distanza di più di un decennio, Volpe avrebbe elogiato il fermo
138 ACS, A5G, PGM, b. 105, f. 225, sf. 11, Ordine del giorno dei Comitati interventisti milanesi. Sulla fusione delle parole d’ordine dell’interventismo nazionalista, democratico, repubblicano, socialista rivoluzionario, si veda, B. CROCE, Storia d’Italia, cit., p. 294. Sullo slittamento dell’interventismo d’ordine su posizioni eversive dello status quo istituzionale, B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, cit., pp. 175 ss.; E. PAPADIA, Nel nome della nazione. L’Associazione Nazionalista Italiana in età giolittiana, Roma, Archivio Guido Izzi, 2006, pp. 205 ss. 139 CV.
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atteggiamento del governo italiano nel 1914 contro la mobilitazione popolare dei diversi schieramenti favorevoli a un immediato intervento140. Nessuna presa di distanza stimò tuttavia di dover opporre ai bellicosi editoriali dell’«Azione» delle giornate di maggio, nei quali all’esaltazione della violenza di piazza si sommò la celebrazione della dittatura del monarca141, di una dittatura non più costituzionale142, ma egualmente legittima, in quanto suffragata dal volere di una nuova «aristocrazia» nazionale. Ancora una volta la Monarchia plebiscitaria chiama a sé quanto di più vivo e di più caldo è nel popolo italiano e ne fa la sua milizia. È una nuova élite politica e militare che si stringe intorno al trono e plasma di sé lo Stato; una aristocrazia di audaci che doveva pur un giorno sostituirsi alla oligarchia giolittiana generata nell’atto elettorale, cioè nella negazione di ogni coraggio e di ogni rigidità intellettuale e morale. La dittatura del Re, questa ha voluto il popolo italiano contro la dittatura del politicante. La guerra che noi imprendiamo sarà lunga e ostinata. Una parte del popolo ha bisogno di essere trascinata dall’esempio di coloro che la guerra sentono e vogliono intensamente. È questa l’ora della borghesia italiana143.
Nessuna presa di distanza dalla virulenza di questi accenti, che avrebbero contraddistinto l’attivissima presenza nazional-liberale nelle manifestazioni interventiste di maggio, a Roma, Bologna, Genova e in Toscana144, da parte di Volpe, si diceva, ma anzi una sua diretta partecipazione al carattere ormai antisistema dei moti di piazza antigiolittiani in favore della guerra, che era testimoniato dalla stesura di questo manifesto indirizzato alla popolazione milanese, il 23 maggio: Il governo di Antonio Salandra avviava l’Italia alla sua maggiore impresa nella storia, alla liberazione dei fratelli tutti, minacciati di sterminio, alla inte-
140 G. VOLPE, La neutralità italiana nella seconda metà del 1914, cit.: «Il Governo italiano, come non cedé a qualche pressione interventista di chi giurava sulla vittoria tedesca (Guido Fusinato) o temeva che la neutralità ci precludesse ogni politica da grande Potenza (Sonnino, 1° agosto), così non ebbe a piegarsi a correnti antitripliciste, tanto meno a pretese minacce di rivoluzione, come poi in Francia si scrisse, sotto ispirazione di Barrès». 141 A. CARONCINI, La parola al Re, «Il Resto del Carlino», 14 maggio 1915, in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 274 ss. 142 L’ultima speranza, in «L’Azione», 16 maggio 1915: «La nostra ultima speranza è nel re. Se essa fallirà, la vendetta popolare cadrà inesorabile sulle istituzioni vuotate d’ogni residuo di funzione e di decoro italiano». Si veda anche, a crisi terminata, A. CARONCINI, Viva il Re!, «Il Resto del Carlino», 17 maggio 1915, in ID., Problemi di politica nazionale, cit., p. 276: «Re e Popolo si sono intesi, al disopra di tutti gli intermediari costituzionali». 143 Intorno al Re, in «L’Azione», 23 maggio 1915, p. 1. 144 La campagna contro Giolitti dei Nazionali Liberali, ivi, 23 maggio 1915, p. 2.
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grazione del confine naturale, alla sicurezza dell’Adriatico romano e veneziano, alla partecipazione nell’opera di salvezza dei minori popoli brutalmente aggrediti. Una banda di uomini senza fede e senza onore, trescando con lo straniero, col nemico, ha tentato di attraversare il destino della nuova Italia, destino di dignità e di gloria. Contro questo delitto è scoppiato e cresce di ora in ora lo sdegno. Se l’eccesso di scrupolo in un Re costituzionale può giustificare un attimo di esitanza di fronte alle manifestazioni di una falsa maggioranza parlamentare, la volontà popolare oramai palese e unanime dice alla Maestà del Re: “Scacciate gli uomini rei del tradimento della Patria”145.
Più tardi, a guerra già iniziata, al ricorso della dittatura provvisoria, per affrontare lo stato di emergenza, si sarebbe addirittura sostituito l’ipotesi di una soluzione eversiva in grado di debellare definitivamente l’idra multiforme del «vario neutralismo italiano». Ora è tornata la fiducia che la guerra possa finir bene per noi; la battaglia non è ancora cessata, nonostante il silenzio dei comunicati; ed è possibile che da un momento all’altro giunga qualche notizia grande intorno alle azioni presso l’Hermada. Chi sa! Sarebbe il modo migliore per scompigliare l’oscena propaganda giolittiana papalina che si sta facendo contro la guerra, magari a costo di provocarla un’altra guerra, quella civile146.
Già nel luglio del 1914, Alfredo Rocco aveva parlato di una «pratica rivoluzionaria» che doveva sancire la fine irreversibile del sistema liberale e parlamentare, che troppo a lungo si era identificato con il «giolittismo»147. Allora, infatti, avrebbe più tardi ricordato Gentile, «giolittismo si disse la malattia da cui la guerra avrebbe guarito l’Italia»148. E a quasi un trentennio dal «maggio radioso» del 1915, Volpe, infine, non si nascondeva che la discesa del paese nel teatro bellico era stata da alcuni considerata l’occasione rivoluzionaria per rovesciare i risultati rovinosi di «dieci anni di politica nefasta», arrivando a dichiarare che, solo considerando questo presupposto, si sarebbe potuti arrivare a capire l’«interventismo del 1914-15 che invocò la guerra, fra l’altro, come un mezzo per liberar l’Italia da Giolitti»149. Anche Salvemini, d’altra par145 G. VOLPE, I Liberali Nazionali di Milano per la guerra, ivi. Dello stesso tono, I Nazionali Liberali milanesi e le dimostrazioni per la guerra, ivi, 16 maggio 1915, p. 1. 146 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 settembre 1917, CV. 147 A. ROCCO, In piena pratica rivoluzionaria, «Il Dovere nazionale», 11 luglio 1914, poi in ID., Scritti e discorsi politici, cit., I, pp. 117-118. 148 G. GENTILE, La crisi morale, «Politica», 15 ottobre 1919, in ID., Dopo la vittoria, Roma, La Voce, 1920, pp. 69 ss., in particolare p. 73. 149 G. VOLPE, Italia Moderna, III, cit., p. 253. Sul punto, si veda anche ID., Gabriele D’Annunzio. L’Italiano, il Politico, il Combattente, Roma, Volpe Editore, 1981, p. 57: «Molti finirono per essere interventisti perché antigiolittiani e veder nella guerra non solo e non
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te, avrebbe seriamente considerato, alla vigilia del conflitto, la possibilità di una «rivoluzione» per determinare l’ingresso del Paese nel teatro bellico150. E sempre Salvemini, con mutato giudizio di valore, avrebbe poi parlato, per definire la prova di forza del partito della guerra, dell’«anomalia di una manifestazione pseudo-rivoluzionaria, favorita e persino provocata dagli uomini che erano al potere per forzare la mano al Parlamento», che aveva costituito la prova generale «per quell’altro colpo di stato dell’ottobre 1922, che doveva essere la marcia su Roma»151. Più precocemente, un esponente liberal-nazionale, Arrigo Solmi, aveva individuato invece, già nel 1919, il carattere genuinamente rivoluzionario del progetto di sospensione della legittimità costituzionale propugnato dal blocco interventista, che, in tutte le sue diverse componenti, si arrogava la rappresentanza della minoranza attiva della nazione, la sola deputata ad agire e decidere anche contro i voti della maggioranza legale, guidata dal vecchio notabilato politico. Per il sospetto, che, sotto il pretesto di un gioco parlamentare, si volesse condurre l’Italia all’ultima abiezione, il popolo italiano insorse con ammirabile energia. Dimostrazioni popolari percorsero tutte le maggiori città italiane e anche moltissime minori; a Roma, i più noti neutralisti furono pubblicamente mostrati a dito e alcuni insultati; a Roma, a Milano, a Genova, a Napoli, tutti i partiti interventisti, da quel momento, pronunciarono apertamente la formula: “o guerra o rivoluzione”; e gli incerti, i pacifici, gli assenti, fino ad allora silenziosi, uscirono nelle piazze e nelle strade, e aggiunsero la loro voce a quella dei dimostranti. Le “giornate di maggio” furono una vera rivoluzione, poiché, risvegliando le energie sopite della grande maggioranza del popolo italiano, rivelarono che questo era ormai cosciente della sua forza e geloso della sua dignità nazionale, era ormai capace di levarsi concorde contro le speculazioni politiche tese nell’ombra152.
tanto il mezzo di avere Trento e Trieste o assicurare pace perpetua o far trionfare il Diritto e la Giustizia e la Civiltà contro la “barbarie teutonica” e il “militarismo prussiano”, ma anche e forse più per liberare l’Italia da Giolitti». Il giudizio tornava in ID., Giolitti e la Monarchia, «Il Tempo», 10 febbraio 1950, p. 2, dove si invitava a «registrare questo stato d’animo di tanti Italiani d’allora, e specialmente della gioventù, invocante un rinnovamento, cioè partiti e classi dirigenti oltre che governo; registrarlo, dico, per capire poi l’interventismo del 1914-1915 che fu, tra l’altro, rivolta antigiolittiana, e gli avvenimenti che in Italia seguirono alla prima grande guerra, cioè l’“infausto ventennio”». 150 Gaetano Salvemini a Pietro Silva, 14 ottobre 1914, cit. 151 G. SALVEMINI, “Lezioni di Harvard”. L’Italia dal 1919 al 1929, in Scritti sul fascisno, a cura di R. Vivarelli, B. Valeri, A. Merola, Milano, Feltrinelli, 1966, 2 voll., I, p. 385. 152 A. SOLMI, Il Risorgimento italiano, 1814-1918, Milano, Biblioteca della Università Popolare Milanese e della Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari, 1919, p. 173. Sul carattere eversivo del «radiosomaggismo», si veda anche la testimonianza di P. VITA-FINZI, I radiosimaggisti, in ID., Le delusioni della libertà, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 211 ss.
II.
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1. IL FILO DELLA SPADA 1. Smorzato ma non esaurito il clima di guerra civile fredda, che aveva contraddistinto i mesi del moto interventista, Volpe, a quasi due anni esatti dall’entrata in guerra, restava fermissimo nel suo atteggiamento di guardinga attenzione, se non davvero di profonda sfiducia verso i partner dell’alleanza. Questa si manifestava con toni taglienti nella lunga lettera, inviata a Corrado Barbagallo nel giugno 1916, in risposta all’invito a partecipare all’attività del Comitato internazionale franco-italiano1, che si prefiggeva di sostenere, in comunità di intenti con l’Istituto francese di Firenze diretto da Lucien Luchaire, lo sforzo bellico congiunto delle due «sorelle latine», illustrando le comuni matrici intellettuali e politiche dei due paesi e promuovendo un programma culturale unitario, in grado di respingere l’egemonia della Kultur tedesca2. All’ingenua francofilia di Barbagallo, Volpe contrapponeva un giudizio politico di fermo e scettico attendismo nei confronti delle reali intenzioni delle potenze alleate, non dimentico della sistematica avversione, dimostrata nel passato dai gabinetti di Parigi e di Londra alle naturali mire espansionistiche italiane. Ambizioni, ieri, sempre frustrate in Africa, per mantenere il controllo di quel quadrante strategico nelle mani di un condominio franco-inglese, oggi, ostacolate in Levante, per favorire la Grecia, e, nel futuro prossimo, destinate a esser forse disattese nuovamente al fine di assecondare il giovane imperialismo slavo. Io appartengo a quegli Italiani che, senza accampar di fronte alla Francia pregiudiziali di nessun genere, pure sono sempre sotto l’impressione di quello che è stata la politica francese verso l’Italia da molti anni. Fra i più vivi ricordi,
1 Per il giudizio non favorevole su quell’associazione, G. VOLPE, Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1915-1916, a cura di A. Pasquale. Prefazione di G. Belardelli, MilanoTrento, Luni, 1998, p. 138. 2 ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 412 ss.; S. MASTELLONE, La rivista “France-Italie” (1913-1914) e la corrispondenza Ferrero-Luchaire, in «Il Pensiero Politico», 1978, 1, pp. 58 ss. Sull’attività di Barbagallo, per il rafforzamento della «solidarietà latina» tra Francia e Italia, si veda, R. BRACCO, Storici italiani e politica estera. Tra Salvemini e Volpe, 1917-1925, Milano, Angeli, 1998, pp. 50 ss.
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direi fra le più dolorose ferite della mia giovinezza, vi è la lettura di certi, di molti giornali francesi al tempo della guerra d’Abissinia, venti anni fa, al tempo della disfatta di Adua. Non ho potuto dimenticare; non abbiamo, molti di noi Italiani, potuto dimenticare! E le molte parole di fratellanza latina che da allora in poi, quasi con ricorsi periodici, si sono pronunciate e tutti i principî e tentativi di ravvicinamento mi hanno trovato scettico, mi hanno fatto scuotere il capo. E l’ultimo due anni fa crollò, in modo da rinfrescare dolorosamente i ricordi. Ora stiamo combattendo una comune guerra, è vero; ora siamo alleati. Ed è già qualche cosa. Ma è ancora poco per poter alimentare una fiducia ben fondata sull’avvenire. La nostra è, per ora, più un’alleanza negativa che propositiva: abbiamo bisogno gli uni degli altri contro un egual nemico e basta. Ma i nostri rapporti, i nostri normali rapporti come si stabiliranno? Vi saranno dei fatti, per piantarli su basi diverse che nel passato, o si seguiterà a chiacchierare, a rievocar la latinità ecc. ecc.? L’accordo sarà fatto mettendo noi lo spolvero su tutto ciò che è avvenuto nell’Africa settentrionale negli ultimi 30 anni, là dove noi avevamo interessi superiori alla stessa Francia (Tunisia), relazioni politiche felicemente avviate e assai promettenti (Marocco)? La Francia ci ha compiutamente soppiantato, giovandosi di quella sua forza superiore alla nostra che adesso tutti rimproverano alla Germania, giovandosi di certe diffidenze inglesi verso di noi, delle manovre di Bismarck per legar noi alla Triplice. Rimase la Tripolitania: ma quanto non l’avete, voi e gli Inglesi, tagliuzzata da tutte le parti, pigliandovi le oasi, deviando le carovaniere! È rimasto uno scheletro e lo avete lasciato all’Italia, dicendo sì, alcune belle parole quando l’Italia vi stese su le mani, ma soffiando sopra gli Arabi contro di noi, chiudendo un occhio o tutti e due al contrabbando, agendo insomma, sostanzialmente, non molto diversamente dall’Austria e dalla Germania. Allora avemmo l’impressione che proprio dovessimo mettere gli stranieri tutti in un mucchio e non valesse la pena di far distinzioni. Venne poi l’inizio della crisi d’oriente, venne la politica ellenofila ed italianofoba o quasi della Francia e dell’Inghilterra. Come potevamo noi amare la Francia, amare l’Inghilterra? Lasciammo questo compito alla nostra radicaleria massonica ed ai vecchi spasimanti del “tradizionale amico”, gli inglesi. Adesso quindi ci chiediamo ancora: dovranno seguitare questi due paesi a stuzzicare la Grecia contro di noi, ad alimentare le sconfinate ambizioni dei greculi moderni per farsene degli amici contro di noi? E anche ora, forse, le direi una bugia se le dicessi che vedo del tutto chiari i rapporti Francia-Serbia-Italia, che trovo rassicurante per l’avvenire delle nostre relazioni l’atteggiamento di accentuata jugoslavofilia di molti scrittori e uomini politici francesi, proprio mentre voi dite che bisogna iniziare il blocco latino e anglosassone contro gli Imperi centrali. Si direbbe che volete tenervi insieme Italiani e Serbi, lusingare gli uni con una bella parolina all’orecchio e gli altri con altra parolina, anche se e dove gli interessi degli Italiani e dei Serbi possono essere in contrasto… Dunque, egregio amico, aspettiamo. Vedremo i fatti. E dai fatti ci lasceremo subito disarmare. Non chiediamo di meglio che di essere disarmati. “La Francia dovrà apparire ai nostri occhi ed essere una migliore alleata della Germania”. Ecco, semplicemente, il nocciolo del problema; il quale si presenta, del resto, sempre e a tutti così. Non è la maggiore o minore affinità etnica, di linguaggio o altro che può determinare le alleanze. Non vedete ora unite Inghilterra e Russia? E
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la Francia non è da 20 anni alleata dell’Impero moscovita fatto di Slavi e di Mongoli? Viceversa Spagna, Italia e Francia si sono piuttosto guardate in cagnesco. E ora la nostra sorella in latinità, la Romania, si muoverà … solo se noi vinceremo. Ma queste sono banalità, tanto risultano essere chiare e semplici, né serve insistervi sopra3.
Come Guido De Ruggiero, anche Volpe pensava che i legami tra i popoli non potevano avere altra ragione che una transeunte e continuamente ridefinibile comunanza di interessi, e che lo scoglio del realismo politico costituiva l’insormontabile ostacolo, contro cui avrebbe sempre naufragato malamente qualsiasi intesa basata su una presunta affinità etnica o razziale o sull’equivoco concetto di una immaginata «democrazia universale»4. Queste conclusioni erano già formulate, nell’autunno del 1914, quando lo storico non soltanto si dichiarava estraneo a qualsiasi sentimento francofilo e anglofilo, e quindi alla retorica corrente che opponeva la Germania alla Francia nei termini antitetici di «dispotismo e libertà, tenebre e luce, principio del male e principio del bene», ma andava anche oltre, prospettando la possibilità, in un domani remoto o prossimo, di una futura alleanza italo-tedesca. Potrà essere anche che sia per venire un tempo forse preveduto e invocato da qualcuno degli artefici della Triplice alleanza, in cui noi, popolo che è sul crescere, ci dobbiamo trovare con altri popoli giovani e bisognosi, ad esempio… i tedeschi, contro vecchi accaparratori e sfruttatori del mondo: vecchi e perciò mezzo esauriti e destinati fatalmente a cedere ad altri il posto. Di questo conflitto tra giovani e non più giovani, tra ricchi di beni e ricchi di uomini c’è già qualche cosa nella guerra attuale. Direi anche che esso ne formi il noc-
3 Gioacchino Volpe a Corrado Barbagallo, 16 giugno 1916, CV. La lettera si concludeva in questo modo: «Ma giusto per farle vedere che sono assai ben disposto a lavorare per il futuro aggruppamento dell’Europa antiteutonica, le ricordo ciò che lei un anno fa mi disse a proposito del futuro congresso storico da tenere a Pietroburgo. Ha trovato altri che voglia preparare una partecipazione degli studiosi italiani a quel congresso? Se no, e se la persona di un non-francofilo come sono io le pare adatta, io sono disposto ad occuparmene. Andai a Londra, quattro anni fa, e feci di quel convegno di storici un’ampia relazione per l’Archivio Storico Italiano (credo la più ampia che ne sia stata fatta): volentieri andrò a Pietroburgo e stenderò un’altra relazione, forse con tanto maggiore piacere». Il documento è conservato nel Fondo Volpe della Biblioteca comunale di Santarcangelo di Romagna, d’ora in poi FV. Sulla «gallofobia» di Volpe e il suo atteggiamento di diffidenza per «una Francia, sempre pronta ad attraversare ogni avanzamento dell’Italia» si veda, ID., Italia Moderna, cit., III, p. 10 ss., pp. 386 ss. 4 G. DE RUGGIERO, Il pensiero italiano e la guerra, cit., p. 133: «L’alleanza italo-francese rischierà di svanire tra le nubi di un vago idealismo, se, una volta cessata la minaccia del pericolo comune, non si cercherà di fondarla su basi più solide del facile apriorismo dottrinario della democrazia che tende a subordinare questa alleanza alle esigenze estranee di una pretesa democrazia internazionale».
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ciolo. E con ciò abbiamo anche un po’ la giustificazione della Germania, l’attenuazione della sua colpa di aver provocato, almeno in apparenza, la guerra: la giustificazione e l’attenuazione stessa che per avventura potremmo ricercar noi italiani fra 100, fra 1000 anni se, Dio piacendo, seguiteremo a proliferare e a trovare il mondo ostinatamente occupato da altri. Germania e Inghilterra sono un imperialismo in formazione che lotta con un imperialismo già costituito da tempo. La differenza non è poi tanto grande. E se la Germania avesse negli ultimi decenni conservato una maggiore misura, contegno, calma, apprezzamento degli altri; se non avesse sentito bisogno di teorizzare anche sopra la sua mondiale azione pratica, seccandoci con le mille proclamazioni della provvidenziale superiorità del suo sangue e con la pretesa di missioni da compiere, a spese di tutti noi, quella differenza sarebbe ancora minore! Non dunque anglofilia o francofilia; anzi, se piace, eventuale collaborazione futura Italo-germanica. […] Ma ad ogni generazione il suo lavoro. Ed ora il nostro compito è un altro; è più vicino a noi; è, se si vuole, più modesto. Ma è indispensabile compierlo prima. E sta sull’Adriatico. Il sentimento nazionale e la invincibile attrazione che spinge l’un verso l’altro quelli che, nell’incrociarsi delle favelle, parlano la stessa lingua; la difficoltà di raggiungere o conservar a lungo andare equilibrio ed uguaglianza di fatto tra nazionalità diverse e diversamente forti di uno stesso Stato; la tendenza agli ingrandimenti territoriali che è propria di tutti i popoli in un certo momento del loro sviluppo, per la spinta delle forze capitalistiche e per la difficoltà di soddisfare altrimenti tanti bisogni culturali; tutto questo porterà – come ha già portato da un secolo o due – alla risoluzione di quei corpi politici misti nei loro elementi ed alla fusione di questi con le nazioni cui appartengono. Non vedete? Anche il socialismo, moto internazionale per eccellenza, si è svolto in quei paesi nazionalmente. […] Contare sulla gratitudine di quelli a cui la nostra neutralità avesse agevolato e forse dato la vittoria, sarebbe pericoloso e vergognoso. Da ingenui e da accattoni. E poi una colonia si potrebbe comprare o barattare, non un lembo di patria. In questo sentimento il popolo italiano è ormai, si può dire, concorde. […] È vero che non ci seduce molto avere a fianco tali che ieri sputacchiavano o lasciavano sputacchiare ufficiali e soldati; tali che voglion guerra perché da essa, nel peggior dei casi, potrebbe nascere una Repubblica italiana. Ma la concordia è sempre concordia, cioè forza. È la nazione nella sua unità che ricompare quando si avvicinano i momenti decisivi. Facciano in modo i nostri governanti che noi fra un anno, fra un mese non dobbiamo chiamarli in causa per non aver capito, per non aver provveduto5.
Volpe avrebbe ulteriormente sviluppato questa tematica, per delineare il significato che doveva assumere l’esperienza bellica, alla luce di una realismo molto distante dai contenuti ideali degli scritti di Gentile sul conflitto, dove quell’evento si rivestiva ancora del vecchio involucro teologico di «guerra giusta»6. Nell’articolo I maestri e la nazione, pub-
5 G. VOLPE, Ora o mai più, cit., p. 2. 6 G. GENTILE, La filosofia della guerra, in ID., Guerra e fede, cit., p. 14. Sul punto, G.
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blicato nel maggio 1916, sempre sulle pagine del periodico nazional-liberale7, si calcolava infatti l’«attivo della guerra», in riferimento alla situazione interna ed esterna degli Stati europei e in rapporto all’invigorimento dell’identità nazionale dentro e fuori dei loro confini, che il conflitto avrebbe determinato. Se, al termine della «guerra che da due anni impegna tutte le risorse dei popoli», la vita delle nazioni come organiche entità ne uscirà rafforzata, al di là degli acquisti territoriali, «perché la loro consapevolezza si farà più profonda, perché la morale linea di demarcazione fra esse diverrà più nitida, con vantaggio di tutti», eguale acquisto ne verrà per la vita economica, sociale, intellettuale, «dato che la guerra per sé ravvicina, entro le varie unità nazionali, individui e gruppi, classi e partiti, funzioni e organi di vita pubblica, Stato e nazione, e stabilisce continuità dove erano jati, solidarietà dove erano contrasti». I frutti del conflitto non si sarebbero limitati a qualche acquisto territoriale per i membri dell’alleanza vincitrice o all’affermazione di qualche principio ideologico ma avrebbero provocato un’autentica «rivoluzione» dei rapporti interni e di quelli esterni per tutti i paesi impegnati nella prova delle armi. Il binomio di «guerra» e «rivoluzione» sarebbe tornato in Vittorio Emanuele Orlando, nel discorso Per la Vittoria!, del 20 novembre 1918: «Questa guerra è al tempo stesso la più grande rivoluzione politico-sociale che la storia ricordi, superando la stessa Rivoluzione francese». Pochi giorni più tardi, anche Antonio Salandra sosteneva che il conflitto era stato «una grande, grandissima rivoluzione», tanto grande che nessuno doveva supporre che «passata la tempesta, sia possibile un pacifico ritorno all’antico»8. Non costituiva, quindi, una voce isolata, quella di Volpe, quando affermava che il titanico scontro tra i popoli europei poteva e doveva divenire un mezzo di «perfezionamento delle nazioni e quindi dell’umanità», strumento indispensabile di «organizzazione internazionale», nel corso della quale l’avversario perdeva la fisionomia di nemico totale e acquistava invece lo statuto di «antagonista», fornito delle stesse motivazioni ad agire, provvisto della stessa legittimità dinnanzi al giudizio del supremo tribunale dei popoli. Era questo un argomento cardinale della polemica di Volpe, già apparso in un intervento
GALASSO, Il debutto politico di Gentile. Introduzione agli scritti sulla prima guerra mondiale, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1994, 2, pp. 409 ss. 7 G. VOLPE, Il congresso dei maestri, in «L’Azione», 1 maggio 1916, poi in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., col titolo I maestri e la nazione, pp. 3 ss., da cui si cita. 8 Si veda rispettivamente, V.E. ORLANDO, Per la Vittoria!, in ID., Discorsi parlamentari, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1965, IV, pp. 1430 ss.; A. SALANDRA, Il discorso della Vittoria, in ID., Discorsi parlamentari, Roma, Colombo Editore, 1969, pp. 1446 ss.
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del febbraio 19169, dove si smontava l’abusato feticcio ideologico del «militarismo prussiano», le cui tematiche erano filtrate sporadicamente nello stesso gruppo nazional-liberale10. In alternativa a questa costruzione ideologica, che aveva costituito la parola d’ordine dell’interventismo di sinistra11, e che aveva finito per conquistare anche parte del fronte neutralista12, lo storico riportava il fenomeno dell’espansionismo tedesco, la lenta, inarrestabile «conquista metodica» della nazione d’oltre Reno alle sue cause effettuali13. La «furia teutonica» trovava, così, le sue radici nelle autentiche motivazioni finanziarie, industriali, commerciali ma anche di egemonia culturale che l’avevano generata, in quegli elementi di lunga durata aggregatisi «per lento processo sedimentario e per azione statale». Non ritroviamo, oggi, questi elementi nella massa dei suoi figli che la Germania manda da cinquant’anni per il mondo a piantare industrie, a dirigere banche, a costruire ferrovie, a fondare o guadagnare giornali e opinioni pubbliche, a frugare archivi, a raccogliere informazioni, ad… agitare o terrorizzare paesi neutrali, a far insomma da ingegneri, da commessi viaggiatori, da impiegati di banca, da archeologi ed eruditi, da spie, da dinamitardi, solidali fra di loro, perfettamente affiatati con il loro governo e con chi lo rappresentava all’estero, innegabili suscitatori e coordinatori di energie locali ma per rivolgerle al proprio individuale e collettivo vantaggio, e quindi pericolosi all’autonomia morale e materiale del paese che li ospita? Nessuno mi persuaderà che non siano tagliati sullo stesso legno il “militarismo prussiano”, in ciò che è ad esso essenziale, da una parte, ed i Rathenau, i Ballin, i Krupp, tutti i grandi capitani della banca, dell’acciaieria, delle miniere di ferro, dall’altra. Non solo: ma anche i capitani e caporali del socialismo tedesco che ha foggiato a sua immagine i vari socialismi eu-
9 G. VOLPE, Il militarismo prussiano, in «L’Azione», 15 febbraio 1916, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 17 ss. 10 La solita civiltà teutonica. Lettera dell’onorevole Gallenga, in «L’Azione», 31 gennaio 1915; Alleanza e concordia, ivi, 1 aprile 1916; M. BILLIA, Le ceneri di Lovanio e la filosofia di Tamerlano, Milano, Edizione de “L’Azione”-Rassegna nazionale liberale, 1915. 11 Sulla giustificazione della guerra come lotta contro il militarismo tedesco, da parte dell’interventismo democratico, si veda, I. BONOMI, Leonida Bissolati, cit., pp. 153 ss. Sul punto, G. VOLPE, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, cit., pp. 55 ss., pp. 138 ss., 151 ss.; ID., Il popolo italiano nella Grande Guerra, cit., pp. 138 ss.; pp. 222 ss. 12 F.S. NITTI, La Guerra e la Pace. Il discorso a Muro Lucano del 25 ottobre 1916, a cura di V. Claps, Rionero in Vulture, Calice Editori, 2002, pp. 29 ss. 13 P. VALÉRY, Une conquête méthodique, in ID., Oeuvres, Paris, Gallimard, 1957, I, pp. 971 ss., in particolare p. 972: «On apprend que les victoires par lesquelles l’Allemagne s’est fondée sont peu de choses auprès des victoires économiques que déjà elle emporte; déjà bien des marchés du monde sont plus à elle que les territoires qu’elle doit à son armée. On aperçoit ensuite que l’une et l’autre conquête font partie du même système». L’articolo pubblicato per la prima volta, nel 1897, su di un periodico inglese, veniva ristampato nel «Mercure de France» del primo agosto 1915.
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ropei, li ha guidati, comandati, frustati, da quell’energico e battagliero pedagogo che è stato nei rapporti internazionali, per burlarli in ultimo, dissolvendo e annullando sé nella sua azione, identificando sé col “militarismo”, cercando di addormentare i compagni d’Europa, specialmente d’Italia!
Ma anche questa lunga tirata contro la minaccia prussiana, in parte forse mutuata da un intervento di De Ruggiero14, non escludeva l’interpretazione del conflitto attuale, come «guerra parallela», che l’Italia doveva combattere sul terreno militare, contro gli Imperi centrali, e su quello diplomatico contro le potenze occidentali, conformemente alle ipotesi espresse da Sonnino15. In questo periodo, Volpe ripicchiava con insistenza su questi argomenti16, anche in due articoli del «Corriere della Sera», apparsi tra marzo e aprile del 1916, dedicati ai problemi internazionali della Romania, sicuramente sollecitati da Iorga e redatti per favorire l’entrata in guerra di quel paese contro l’Austria17, e in una serie di editoriali dell’«Azione», che per il loro radicalismo erano incorsi prima nel sospetto e poi nelle ire della censura, come lo storico comunicava a Benedetto Croce nella corrispondenza del 26 marzo 1916. Mi scrivete del mio articolo sulla Romania. Ahimé, era composto dall’agosto scorso e solo ora trovano modo di stamparlo; e a 21 giorni di distanza debbono ancora pubblicare la seconda parte! Non è incoraggiante, per chi voglia occuparsi un po’ di questioni del giorno. Rimane la piccola Azione, e qualche volta scrivo anche lì. Avete letto il Militarismo prussiano, e Italia e Francia di due o tre numeri addietro? Ma ora cominciano a censurarci. L’ultimo numero di due mie colonne sono rimasti 20 righi ed hanno cambiato anche il titolo che era I due fronti. Dimostravo che l’Italia ora combatte due guerre, diverse sì ma due: con i nemici e gli alleati e che è appunto in questa duplicità e negli incerti rapporti con gli alleati la ragione del riserbo del governo e del mancato “fervore”, 14 G. DE RUGGIERO, Il pensiero italiano e la guerra, cit., pp. 131-132: «Il “militarismo prussiano” ecco la grande parola coniata dalla democrazia italo-francese, per esprimere una chimerica entità destinata a ricevere i fieri colpi democratici. La democrazia afferma di combattere il militarismo tedesco, e non lo spirito tedesco, l’industria, la cultura tedesca; vuol fiaccare l’uno e lasciare intatto tutto il resto. E non vede che il militarismo e lo spirito tedesco sono una sola e medesima cosa, una sola fisionomia mentale e non già due chimeriche ed isolate entità. Con la sua tendenza a livellare le menti e le coscienze, così degli uomini come dei popoli, non intende che quel che chiama militarismo prussiano non è il fatto materiale di posseder molti cannoni e molti fucili, ma il tono, lo spirito stesso della mentalità tedesca, che si esplica nell’organizzazione dell’industria, della scuola, della scienza, così come degli eserciti». 15 C. SFORZA, Costruttori e distruttori, Roma, Donatello de Luigi, 19452, pp. 299 ss. 16 G. VOLPE, Nei Balcani e oltre, in «L’Azione», 15 gennaio 1916, pp. 3-4. 17 ID., La Romania e i suoi problemi, in «Corriere della Sera», 6 marzo e 6 aprile 1916, poi in ID., Fra storia e politica, cit., pp. 117 ss. L’uscita dalla neutralità della Romania, e il suo ingresso in guerra a fianco dell’Intesa, sarebbero avvenuti il 27 agosto 1916.
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e che non si deve forzar la mano al governo e toglierli così il ruolo di regolare rapporti vitali con gli alleati, per il dopo-guerra. Del resto il sugo dell’articolo è nello stesso numero dell’Azione, nel resoconto di un nostro convegno bolognese18.
Nel numero del 15 marzo, Volpe aveva infatti steso un ampio resoconto del convegno nazionale liberale di Bologna19, svoltosi dieci giorni prima, del quale lo storico aveva assunto la presidenza, e al quale avevano partecipato Amendola, Anzilotti e altri rappresentanti dei Gruppi nazionali liberali di Roma, Firenze e Milano. Scopo della riunione era quello di discutere della guerra e della condotta del governo, dell’organizzazione dei Gruppi e delle linee della loro propaganda, in vista di un allargamento dell’impegno italiano anche contro la Germania e dei rischi di una possibile crisi politica, in modo da «fissar la linea di condotta pratica, anche nei rapporti con quegli altri membri delle varie federazioni interventiste, la cui attività sembra ora entrata in una fase nuova in seguito ai dubbi, alle discussioni, alle critiche di cui il Ministero Salandra è fatto oggetto da parte loro». Su questo specifico aspetto interveniva proprio Volpe, in un discorso che immediatamente insisteva sul quesito che i nazionali liberali dovevano rivolgersi: «se seguitar a rimanere uniti con quanti invocano una più grande guerra, una incondizionata ed esplicita unione con gli alleati» e quindi aderire all’obiettivo di «quanti lavorano per determinare una crisi ministeriale da cui debba uscire un ministero non solo ricco di maggiori competenze ma disposto in ispecie ad attuare questo più energico piano d’azione». Certo, continuava Volpe, anche i liberali, raccolti intorno all’«Azione», condividevano i dubbi sull’opera del governo: su alcuni ministri, tra cui quello della Guerra, e sul gabinetto in generale, «poco capace di orientare e guidare l’opinione pubblica nazionale, e tanto meno quella dei paesi amici e neutrali». Soprattutto preoccupava la visione del conflitto in corso, adottata dalla compagine ministeriale: «troppo circoscritta materialmente, angusta nella visione degli scopi». Un’ottica ancora municipalistica, incerta, eccessivamente guardinga e timorosa, manchevole di una strategia globale, che per molti coinvolgeva la responsabilità specifica di Sonnino e, più ancora, di Salandra, cui si faceva addebito di «civettare col giolittismo» e di volerlo disarmare adottandone idee e crite18 Gioacchino Volpe e Benedetto Croce, Milano 26 marzo 1916, ABC. Nella corrispondenza, il riferimento era a G. VOLPE, Il militarismo prussiano, cit.; ID., Francia e Italia, «L’Azione», 15 febbraio 1916; ID., Guerra e diplomazia, ivi, 15 marzo 1916, che appariva quasi totalmente censurato. 19 Il convegno nazionale liberale a Bologna. Il discorso di Volpe, in «L’Azione», 15 marzo 1916, pp. 1-2.
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ri: «donde appunto il mancato slancio della guerra, il perdurante equivoco nei rapporti con la Germania, la mancanza di fiducia piena degli alleati verso di noi, il quasi isolamento e l’oscurità nostra nella quadruplice, il pericolo di vederci negato ora e dopo la guerra il riconoscimento dei diritti nostri e la soddisfazione di esigenze vitali». Pur non dissociandosi completamente da queste critiche, i nazionali liberali conservavano la loro fiducia nella «fermezza, nella rettitudine, nella serietà di Sonnino», senza perdere la speranza di recuperare lo stesso Salandra ai propri programmi. Quanto all’utilità o meno di provocare una crisi di governo, essi rifiutavano, oggi come ieri, l’ipotesi di forzare la mano all’esecutivo, con moti di piazza o campagne di opinione, per imporgli i «criteri direttivi della guerra» e «insomma considerarlo un po’ come una specie di comitato esecutivo delle federazioni interventiste». Tanto meno credevano che si dovesse, almeno per ora, esigere una dichiarazione di guerra alla Germania, che pure appariva inevitabile nel medio o nel breve termine di uno spazio temporale, che l’Italia doveva utilizzare per rafforzare la sua posizione nei confronti di avversari e alleati. Certo ci si verrà: è fatale. Ma del momento non può esser giudice ed arbitro se non chi sa molte cose che noi non sappiamo e che forse non si devono sapere. Certo la Germania, almeno fino a che non si verifichino certe condizioni e circostanze che la spingano direttamente contro di noi, ha interesse a non avere anche noi fra i suoi nemici dichiarati. Ebbene, nulla ci vieta di sfruttare temporaneamente questo interesse anche esso temporaneo della Germania; di sfruttarlo sino a che non si sia alla nostra frontiera determinata una situazione militare tale che ci permetta di sentirci sicuri, sull’Isonzo e verso la Svizzera, da ogni tentativo di invasione; sino a che non si sia, nei rapporti con i nostri alleati, giunti a una situazione diplomatica nella quale, insieme con i nostri doveri, siano chiaramente specificati anche i nostri diritti e i nostri vantaggi, proporzionati agli sforzi che si esigono da noi e che noi siamo disposti a fare. Nessuno deve dimenticare che più di una volta, negli ultimi anni, abbiamo trovato Francia e Inghilterra contro di noi quasi quanto l’Austria (alla quale non è un segreto che esse hanno sempre guardato con occhio molto benevolo). Siamo noi sicuri che il nostro governo sia riuscito ad ottenere assicurazioni e garanzie sufficienti per quanto riguarda i nostri interessi nell’Adriatico, nei Balcani e più in là, a non voler contare metalli e carbone, noli e cambi? Ora, sarebbe malaccorto, con una intempestiva pressione della opinione pubblica, disarmare il governo di questo mezzo che ha non dico per contrattare con gli alleati ma almeno per trattare con essi20.
20 Ivi, p. 2.
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Naturalmente, Volpe pensava che le ostilità dovevano proseguire in «perfetta comunione con i nostri alleati», ma avendo chiara in mente questa semplicissima verità: che l’obiettivo primo della guerra italiana, «cioè l’Istria e il dominio strategico dell’altra sponda adriatica», doveva essere raggiunto in perfetta autonomia, «con la diretta forza delle armi», in mancanza della quale, «nessun appoggio diplomatico di alleati, frutto della nostra incondizionata solidarietà con essi, ce lo procurerà nelle future trattative di pace». Era proprio su questo punto, che replicava Amendola nel suo intervento, tutto teso a evidenziare la necessità di tenere unito il fronte interventista, per supportare il governo, che altrimenti «potrebbe essere attratto dai giolittiani». La questione della dichiarazione di guerra alla Germania era sì ininfluente, nell’immediato, ma solo «se la sua mancanza non contribuisce a paralizzare la nostra guerra, a rendere impossibile l’intima collaborazione militare coi nostri alleati». Esistevano, infatti, due modi di condurre la guerra: in autonomia, perseguendo la conquista territoriale, in modo da guadagnare unicamente «tutto il territorio che avremo potuto conquistare con le armi»; oppure in collaborazione militare con le potenze dell’Intesa, partecipando dunque alla guerra più generale. La seconda ipotesi era la sola plausibile sul piano bellico e diplomatico, nonostante la malcelata ostilità di Salandra e di tutti coloro che reputavano giusto schiacciarsi sulle sue posizioni. Interpellato da Volpe, che domandava quale poteva essere il frutto della vittoria, che gli alleati avrebbero concesso all’Italia, Amendola replicava che, attraverso un più attivo lavorio diplomatico e una rinnovata e intensificata fraternità d’armi con le potenze occidentali, il paese avrebbe guadagnato molto di più di quello che avrebbe potuto ottenere, con una semplice guerra di conquista, allargando i suoi confini fino ma non oltre Trieste. Risposta insoddisfacente per Volpe, come per molti dei partecipanti al convegno bolognese, che lasciava le due parti reciprocamente distanti, sancendo la fine definitiva di una intesa liberal-nazionale, come metteva in luce lo sbiadito ordine del giorno che poneva fine ai lavori, dove si riaffermava «la necessità che i partiti interventisti si mantengano sempre più uniti per ottenere che la guerra, condotta in pieno accordo con gli alleati, affretti il conseguimento delle rivendicazioni nazionali dell’Europa combattente contro l’egemonia germanica», e nel quale si esprimeva il voto «che il Governo sappia intendere il suo dovere di tenersi in permanente e intimo contatto con le energie morali e intellettuali della nazione». Al di là dei dubbi e dei tentennamenti della «politique politicienne», Volpe non aveva dimenticato, tuttavia, di tratteggiare i futuri effetti della guerra sulla fisionomia morale dell’intera Europa, nel già ricordato discorso dedicato agli insegnanti della scuola prima-
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ria21. In questo caso, il fuoco dell’analisi tendeva a dimostrare l’inconsistenza di qualsiasi teoria che negasse la nazione quale realtà immanente agli individui e alle classi, e, dunque, il «diritto e dovere» di tutti i cittadini, organizzati in qualunque associazione professionale, a rafforzare la «solidarietà» e «fedeltà» nazionale. Ai maestri, come a qualsiasi altro ceto sociale, non si chiedeva «un certificato di particolare fede politica, dinastica, ministeriale, religiosa», ma soltanto che non sposassero l’ideologia socialista e neppure quella clericale, perché entrambe si ponevano fuori e all’occorrenza anche contro la nazione. Dall’inizio del conflitto, l’Italia aveva infatti visto la «massa dei suoi figli, rimasti assenti dai conati del primo Risorgimento e apprezzati poi solo come bruta forza da lavoro e come strumento di politicanti», entrare «nella storia della nazione» e generosamente battersi per essa. Dopo il conflitto, quelle stesse masse popolari avrebbero saputo affermare, «con più disciplinata fermezza» rispetto all’anteguerra, i loro peculiari bisogni, misurandoli e subordinandoli a quelli dell’organismo nazionale. Si sarebbe allora compiuto, attraverso la mobilitazione bellica e ideologica guidata dalle rinnovate élite nazionali, il tanto auspicato processo di nazionalizzazione delle masse, il loro coinvolgimento, in posizione comunque subalterna, nella vita dello Stato moderno, affinché al suo interno «tutti avessero un loro posto e una loro funzione attiva». Ed era in questo inserimento dei ceti popolari nell’orbita della nazione, che Volpe vedeva attuarsi la vera «democrazia». Questa la sfida che, seppure in ritardo, l’Italia doveva al più presto raccogliere per uscire vittoriosa dal conflitto e garantirsi così un avvenire di grandezza. A tal fine l’intera comunità, nelle trincee, nelle città e in parlamento, doveva mutare mentalità, stringersi in un «maggiore affiatamento» e muoversi all’unisono verso l’obiettivo comune. Volpe accoglieva quindi con sconcerto, in quello stesso 1916, l’ennesima crisi di governo, che viva preoccupazione avrebbe destato anche a Londra e a Parigi22, aperta dallo «schiamazzo» di tanti deputati che sedevano alla Camera, in ossequio alle abituali logiche di potere, mentre sulle Alpi «si resisteva» e si moriva «dimentichi di sé». Questa agonia di ministero, questa settimana di sede-vacante e di cronaca romana non sono state molto edificanti. Noi italiani abbiamo guardato con orgoglio e con fiducia alle Alpi, ma con alquanto tedio, insofferenza ed anche sdegno a quel piccolo bivacco di 500 e tanti. Lassù si resiste, si assale, si opera, si
21 G. VOLPE, Il congresso dei maestri, cit. 22 P. DE QUIRIELLE, De Salandra à Boselli. La crise italienne, in «Le Correspondant»,
10 juillet 1916, pp. 140 ss.
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dimentica se stessi, si muore, si costruisce per l’oggi e pel domani; ma qui si chiacchiera, si briga, si intriga, si maligna, si contratta, si disanima, si demolisce: non l’Italia, ma il Parlamento, la fede nel Parlamento! Melanconie di tutte le crisi. Ma questa volta c’era il “ministero nazionale” da formare, quel tal ministero in cui debbono aver posto i rappresentanti di tutti i partiti, gruppi e sotto-gruppi e quasi-gruppi, come se ogni partito, gruppo e sottogruppo portasse avvolta nel lembo della toga una sua particolare e grande concezione della guerra europea, dei suoi fini, dei mezzi per meglio combatterla e vincerla; come se ogni partito, gruppo e sottogruppo si sentisse di lavorare per il paese, impegnato in una lotta morale, solo se e in quanto qualche uomo o più d’uno partecipa al potere. Evidentemente, la generazione guerriera degli Italiani è già nata e si sta temprando, ma la generazione politicamente intelligente e politicamente educata deve ancora venire23.
Alla nuova compagine ministeriale veniva ripetuto l’ormai abituale avvertimento: quella italiana era una guerra «su due fronti», la prima contro l’Austria e l’espansionismo germanico, la seconda, da combattere con le armi della diplomazia, contro gli «amici e alleati» per «ottenere il riconoscimento concreto della nostra esistenza e del nostro diritto di svilupparci». Era indispensabile prevalere in entrambe, pena il rischio di «perdere anche vincendo». Con questo monito, si concludeva la collaborazione di Volpe all’«Azione»24, che di lì a poco, nel mese di luglio, avrebbe interrotto definitivamente le pubblicazioni. La grande prova che l’Italia stava attraversando richiedeva, in ogni caso, un impegno più diretto, che avrebbe modificato profondamente la sua biografia intellettuale e le stesse coordinate attorno alle quali si sarebbe mosso il suo lavoro di storico. Quella tendenza era tuttavia già evidente, nella lettera indirizzata a Croce, il 22 gennaio del 1916, dove si faceva riferimento a un nuovo progetto di rivista storica, da realizzare assieme a Corrado Barbagallo25, e al
23 G. VOLPE, Da un ministero all’altro, in «L’Azione», 15 giugno 1916, poi in ID., Guerra dopoguerra Fascismo, cit., pp. 25-33, col titolo Crisi di ministero. Su quella congiuntura politica, A. FIORI, Crisi e caduta del secondo governo Salandra, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 2003, 4, pp. 537 ss. Il quotidiano «La Sera» aveva tramutato questa polemica contro le debolezze del governo italiano in un sistematico attacco al regime parlamentare. Si veda l’anonimo editoriale, L’origine dell’attuale crisi, pubblicato il 30 aprile 1917: «Senza voler negare la ragion d’essere del sistema parlamentare e i suoi parziali vantaggi in mancanza di altre forme più perfette, è indubitabile che anche in tempi normali esso induce pure debolezze nel governo e non di rado ne rende meno fattiva l’azione; ne valga da esempio la difficoltà di realizzare vere riforme organiche, anche non istituzionali, e l’abdicazione divenuta praticamente effettiva della vera attività legislativa». 24 Sempre nell’«Azione» del 15 giugno, era contenuto un altro articolo di VOLPE, Per bene ricordare, che ribadiva il programma che aveva condotto i Gruppi nazionali liberali a domandare l’intervento. 25 Dal 1915, si andava elaborando il progetto editoriale di quella che sarebbe divenu-
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saggio sulla «storiografia economico-giuridica», che il direttore della «Critica» aveva elaborato, tra 1914 e 1915, nello stesso momento in cui si era palesata la sua fermissima posizione neutralista. Ma, in quella corrispondenza, dove largo spazio era dedicato a Francesco Novati, la cui sottile erudizione non era riuscita a superare le angustie del metodo positivo, si manifestava, soprattutto, la necessità di non farsi rinchiudere in quello stesso circuito difettoso e di costruire, piuttosto, un’indagine del passato nutrita di forti idee-guida, per passare ormai dalla piccola storia dei piccoli municipi della Toscana medioevale alla storia dell’Italia nazione. Voi conoscete meglio di me le virtù e le deficienze di Novati: quelle dello studioso e quelle dell’uomo. E mi duole che egli sia morto con la persuasione che io sparlassi di lui, che io gli fossi stato ingrato ecc. ecc. Ogni volta che ho parlato di lui, ho detto che avrei voluto possedere una metà della sua coltura. Talora aggiungevo: peccato che egli non la sa o può sistemare in opere organiche. Era un giudizio, non una malevolenza, da cui io rifuggo sempre. Era forse – dentro di me – lo spunto di un’idea orgogliosa: che cioè io, forse, con quella vasta coltura mi sarei sentito capace di far qualcosa di più. Perdonatemi questa confessione che io fo a voi solo. Certo una volta avevo speranze ed ambizioni e fiducia grande, ora un po’ meno, dopo che da alcuni anni la mia attività di studioso è come impantanata, cioè si muove a rilento, con molta fatica e scarso frutto. Ma spero di riprendermi ancora, appena avrò liquidato il mio recente passato. Sto finendo ora di stampare il 3° dei lavori sulle minori città toscane (il 1° su Massa è uscito negli Studi storici, il 2° su Volterra è stampato e non pubblicato, il 3° su Luni-Sarzana si sta finendo di stampare) scritti 4 o 5 anni fa, ma tali che hanno seguitato a pesarmi sulle spalle fino ad ora. Voi conoscete forse il 1° – mi pare di avervene mandato una copia – e vi farò conoscere anche il 2° e il 3° fra qualche settimana o mese. Credo siano – dato il genere – migliori; con alcuni capitoli forse belli. Ma io non so più, veramente, come giudicarli: forse perché vi ho vissuto troppo dentro e mi ci sono stancato e tediato troppo. Sono quindi molto curioso di vedere quale sia il vostro giudizio, che mi
ta, due anni più tardi, la «Nuova Rivista Storica», il cui comitato direttivo doveva essere composto da Corrado Barbagallo e Volpe, promotori dell’iniziativa, insieme ad Arrigo Solmi, Guido Porzio, Antonio Anzilotti, Francesco Ercole. Il periodico vedrà invece figurare tra i direttori, rispetto alla rosa originale, soltanto Barbagallo, Anzilotti, Porzio, insieme ad Ettore Rota. Sul punto, A. CASALI, Storici italiani fra le due guerre, cit, pp. 1 ss. Sul venir meno di Volpe da quella iniziativa, si veda Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Santarcangelo di Romagna, 8 luglio 1916, ABC: «Il nostro progetto di rivista è andato in fumo: non mi sono accordato col Barbagallo o, meglio, mi sono convinto che non era facile collaborare con lui in una comune opera. Questione di temperamento o di altro! Ma io non ho abbandonato l’idea della rivista: mi sembra possibile raccogliere l’eredità dei vecchi Studi Storici e rinfrescarli e rinnovarli, dirigendoli io solo o con la cooperazione di qualche altro ben affiatato con me. Ma l’editore? Mattei di Pavia non fa più al caso. Qualche anno fa, feci egualmente questa ricerca e fu invano. Credete voi che Laterza sarebbe disposto?».
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dite già scritto in uno dei saggi sulla storiografia. Forse prima che sia pubblicato, lei potrebbe avere gli altri due volumi che possono o confermare o mutare qualche vostra impressione. Del resto, si tratta di lavori a cui io tengo sicut et in quantum. Riconosco che, in un certo senso, possono anche servir di modello a indagini monografiche di storia locale. È la piccola città vista nei suoi nessi con la più grande storia attorno. E in Italia, non si può dire che la piccola storiografia di questo genere sia ad un livello così alto da non potersi avvantaggiare da quei miei lavori. Tuttavia, non hanno gran valore per quello che è la coltura storica di un paese; per quel che sono idee direttive; impulsi a batter nuove vie ecc. Da quel punto di vista hanno più valore certi miei scrittarelli di alcuni anni fa. Ora si sta qui a Milano pensando ad una rivista storica che dovrebbe proporsi di penetrare non fra i circoli degli eruditi, ma fra le persone che hanno altre e più larghe aspirazioni in fatto di coltura storica. Se l’idea si concretizzerà, pensiamo che possa venire utile al paese. Il guaio è che io solo non mi sento di addossarmene la direzione, e la codirezione di più persone non dà sufficienti garanzie di omogeneità, unità, organicità ecc. Certo, il momento è buono, sotto molti rapporti; anche se è cattivo sotto altri: che cosa accadrà in primavera? Forse si richiederà uno sforzo grande di tutti gli uomini, anche dei professori; sforzo di guerra oltre che di pacifica attività. E se questo sforzo sarà necessario, noi di gran cuore lo faremo. Questa guerra bisogna vincerla. E pur di vincerla tutti i sacrifici saranno ben fatti. Sarà vittoria di fronte a nemici e di fronte ad amici. Voi so che avete o avete avuto in proposito idee un po’ diverse dalle mie: la storia ci unisce e la realtà politica ci divide un poco. Pazienza!26
2. Dal dicembre 1916, Volpe aveva ottenuto la nomina a sottotenente della milizia territoriale. Nomina, senza chiamata, in virtù delle disposizioni ministeriali, che esentavano momentaneamente dal servizio attivo i funzionari statali della sua classe27. Nel maggio 1917, finalmente richiamato, assumeva il comando di un distaccamento addetto alla sorveglianza di un complesso di impianti bellici a Castellazzo di Bollate, vicino Milano, incarico che lasciò presto, essendosi infortunato a causa di una caduta28. Nel mese di agosto, veniva assegnato all’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, creato a Roma, nell’aprile di quello stesso anno, da Giovanni Borelli, che poi ne assunse la direzione29. L’ente secon26 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano 22 gennaio [1916], cit. 27 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, 25 dicembre 1916, in FFP: «Le persone oc-
cupate in un pubblico ufficio, dal giugno in poi, non potevano essere assunte in servizio. A me per esempio è successo così: ho la nomina, ma non la chiamata, la quale verrebbe solo se chiamassero la mia classe 1876, terza categoria. E allora tu? E come te, Salvemini e altri? Io non so. So solamente di aver atteso fino ad agosto che rispondessero alla domanda presentata a fin di maggio. E poi disperavo ormai, quando, nel novembre, la nomina venne. Ma al distretto di Milano, presa visione del mio stato, mi rifiutarono, conforme ai Decreti ministeriali dell’estate scorsa, comparsi anche sul Bollettino della Pubblica Istruzione». 28 G. VOLPE, Prefazione a Toscana Medievale, cit. p. XVIII. 29 M.U. MIOZZI, La mobilitazione industriale italiana, 1915-1918, Roma, La Goliardi-
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do le ipotesi del suo ideatore avrebbe dovuto fornire «la letteratura scientifica e la storia documentale» dell’Italia impegnata nella prova bellica, «di cui l’indagine e il pensiero sorgenti dalla realtà, ricostruiranno per i testimoni e per i posteri la grande trasformazione», assicurando in questo modo «con la vittoria sul nemico, la vittoria riepilogatrice e costruttiva dentro di noi, il raggiungimento, dalla potenza all’atto, dell’unità reale e ideale nella razza e nella nazione»30. L’Ufficio era potuto sorgere grazie soprattutto alla protezione del generale Dallolio, sottosegretario al Ministero delle Armi e Munizioni31, il quale aveva avuto ragione di innumerevoli difficoltà di ordine politico e amministrativo, poste ad ostacolo all’iniziativa di Borelli32. In questa sede, la Serie o Sezione statistico-economica e tecnica, coordinate rispettivamente da Corrado Gini e Giuseppe Belluzzo, e quella sociale-politica-giuridica, diretta da Prezzolini insieme a Enrico Redenti33, impegnavano il fiore dell’intellettualità italiana, al fine di redigere una storia politica, sociale e materiale del conflitto in corso. La presa di servizio di Volpe datava alla fine di settembre, come risulta dalla lettera di Giovanni Borelli. La corrispondenza anticipava alcuni dei problemi (difficoltà di rapporti con le autorità ministeriali, con università e istituti di cultura; conflitti di competenza tra diverse Sezioni e all’interno della stessa Sezione), che avrebbero afflitto lo Storiografico per tutta la sua durata, ma prospettava anche la possibilità di compiere un’analisi di tipo assolutamente nuovo della realtà italiana, a metà tra storia in diretta e sociologia, nella quale l’elaborazione teorica si sarebbe sempre dovuta intrecciare strettamente con la ricerca sul campo.
ca, 1980; B. BRACCO, Memoria e identità dell’Italia della grande guerra. L’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, 1916-1926, Milano, Unicopli, 2002. 30 G. BORELLI, Piano generale del “Corpus” della Mobilitazione e dell’ordinamento dell’Ufficio Storiografico, Roma, marzo 1917, pp. 4-5, in ACS, Pres. Consiglio, Prima guerra mondiale, b. 19. 4. 4, fasc. 131. 31 Su di lui, si veda la voce di M. BARSALI, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIII, pp. 128 ss. Su Dallolio e lo Storiografico, dati interessanti in E. MORELLI, La prima guerra mondiale nelle carte Alfredo Dallolio, in «Rivista Storica del Risorgimento», 1976, 2, pp. 235 ss. 32 G. PREZZOLINI, Diario, 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978, p. 260, alla data del 27 aprile 1917: «Dopo varie settimane di agitazioni e minacce di dimissioni, Borelli ha vinto la partita. Il ministro lo accredita presso il Comando Supremo e Boselli, ed annunzia ufficialmente l’istituzione dello Storiografico. Lo Stato Maggiore ostile non l’ha spuntata. La Società del Risorgimento non l’ha spuntata. L’Università non l’ha spuntata». 33 Gini era docente di Statistica all’Università di Padova, Redenti, di Procedura civile nell’ateneo bolognese. Belluzzo era direttore della Scuola Motori, presso il Regio Istituto tecnico-superiore di Milano, dove insegnava Meccanica.
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Hai inteso perfettamente, caro Volpe. Occorre rielaborare, concretare, fissare la nuova terza serie, e subito. Ti ho detto nella cartolina che domenica ti attendo qui. Allo Storiografico troverai aria e modo di vivere, con l’intelligenza e la passione necessarie, la guerra. Anche muovendoti dentro di essa. I ritardi, le tristi mie disavventure quotidiane sono inezie di fronte ai possibili risultati; e la volontà avrà ragione del maltalento e del malcostume burocratico. Me ne fanno di tutti i colori. Pazienza pur di andare avanti. Vedrai che lo spirito, e una grandiosa parte del piano generale, rimarranno nella nuova elaborazione. Occorre soltanto che ve ne persuadiate voi. Comincia tu dal chiedere al Belluzzo che cosa mai gli salta in mente: mi scrive rinunziando, perché il Ministro della Guerra ha ceduto l’organo al Dallolio limitandoglielo. Ma che c’entra la serie tecnica nella limitazione non riesco a vedere: ché anzi del piano rielaborato la tecnica acquista un posto protagonistico e di rilievo luminoso. Gli scrivo: ma fagli capire che se gli ostacoli mi vengono aumentati proprio dagli uomini di cultura, niuna meraviglia che il generoso e tenace mio volere anch’esso una bella mattina pianti in asso gente e paese cui non si confanno le migliori iniziative. Trascinalo con te qui; in un giorno avremo combinato e veramente fermato tutto. Poi apriremo l’Ufficio a Milano, senza un’ora di indugio34.
Volpe arrivava tardi nella Sezione sociale-politica, anche per sue titubanze personali ad abbandonare Milano, cui si accennava nella corrispondenza. Tardi e sicuramente dopo che Prezzolini aveva pensato di collocare al suo posto Giovanni Amendola35, e di impegnare nell’organizzazione dei lavori Ardengo Soffici con la lettera del 10 maggio 1917 Ti prego di prendere in esame la proposta che ti faccio, riflettendoci su. Non posso ancora garantirti che da proposta amichevole divenga ufficiale. Ma d’altra parte non potrebbe mai diventare ufficiale se prima non fosse amichevole e il tuo consenso sicuro. Si tratta di questo. Fra le monografie che più mi danno pensiero, nella mia sezione, di cui ti accludo un piano provvisorio e schematico, ce n’è una: l’anima del soldato. E mi dà pensiero perché per essa occorre uno scrittore, dico un uomo che sappia vedere e far vedere, sentire lui e far sentire agli altri, abbia umanità profonda e senso della nostra razza. Ti domando: ti sentiresti tu di scrivere questo lavoro? Si tratta di un’opera che deve escire sotto l’egida dello Stato. È un’opera storica e quindi di verità. Ma si capisce bene che il momento in cui escirà (un paio d’anni dopo la pace) non sarà tale da permettere questa completa libertà nei particolari che sarà possibile, per esempio, fra cento anni. Capisci? Sottolineo nei particolari perché nelle linee ge-
34 Giovanni Borelli a Gioacchino Volpe, 27 settembre 1917, in ACS, Ministero Armi e Munizioni. Sottosegretariato per le Armi e Munizioni. Ufficio Storiografico per la Mobilitazione Industriale, (d’ora in poi, USMI), busta 10, fascicolo «Volpe». 35 Amendola aveva partecipato alla riunione preparatoria dei lavori dello Storiografico del 29 gennaio, come risulta dal verbale della riunione, in USMI, busta 1.
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nerali e nei suoi fatti costitutivi anche ora la storia deve essere rispettata. Occorrerà soltanto un certo tatto, qualche misura negli apprezzamenti. Ma tu queste limitazioni sei in grado di sentirle mi pare e non avresti difficoltà ad aderire, se mai, ai miei consigli. Che bel libro potresti fare! Il materiale te lo forniremo noi e penso che otterrei per te larga libertà di lavoro anche ora facendoti girare un poco il fronte. Tu dovresti leggere molte relazioni di ufficiali, impossessarti di dati magari statistici che ti preparerebbe il nostro ufficio, e su quelle, con l’intuito che hai, con la ricca tua umanità, costruire un bel libro che accompagnasse il soldato da casa sua al deposito, di lì al fronte, poi negli ospedali o in prigionia ecc. Rispondimi e non dir nulla a nessuno36.
Il tentativo non avrebbe avuto esito. Soffici, dopo aver espresso un elogio non formale del progetto di lavoro, aggiungeva un categorico rifiuto, per ogni ipotesi di collaborazione. Diniego fondato soprattutto sul timore di dover collaborare a un opera che correva il rischio di configurarsi come paludata ed encomiastica storiografia di Stato, incapace, quindi, di corrispondere al dramma della nazione in guerra. Trovai interessantissimo l’insieme del progetto e credo che potrà essere un’opera, una volta compiuta, di grandissima utilità ed importanza. È quanto dirti che anche io sarei felice di lavorarci e che presi in molta considerazione la tua proposta. Tanto più che essa coincideva con un’ombra di progetto che mi va girando in testa da un pezzo di uno scritto sull’Italia o sul popolo italiano, così mal capiti l’una e l’altro non solo dagli stranieri, ma dagli stessi nostri compatrioti – e dai migliori. Tuttavia davanti alla proposta precisa mi son domandato: è un lavoro, quello che mi si propose, che io possa fare, come sarebbe necessario fare? Sono rimasto molto nell’incertezza, fra il desiderio di accontentarti, di approfittare dell’occasione, e il sentimento di che un mio scritto non potrà mai rispondere allo scopo che vi proponete voialtri. Mi dispiace di constatarlo, ma è così. Il grande, l’insormontabile inconveniente è che la pubblicazione debba essere fatta, sotto l’egida dello stato. Lo stato è qualche cosa che contraddice alla profonda verità delle cose, che non si adatta con la sincerità, che non può, né deve, ammettere una visione originale, sebbene l’originalità di ogni modo di concepire le cose sia, in ultima analisi, ciò che costituisce la bontà del modo stesso. Insomma è certo che le ragioni per le quali io posso trovare grande e nobile il nostro popolo non sono quelle che lo stato può trovar buono di render note. Credo anzi che sia il contrario37.
36 Giuseppe Prezzolini ad Ardengo Soffici, 10 maggio 1917, in G. PREZZOLINI-A.
SOFFICI, Carteggio. I. 1907-1918, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, p. 284.-285. 37 Ardengo Soffici a Giuseppe Prezzolini, 16 maggio 1917, in A. SOFFICI, Lettere a Prezzolini, 1908-1920, a cura di A. Mannetti Piccinni, Firenze, Vallecchi, 1988, p. 117. Prezzolini tornava ad insistere nella proposta con lettera del 30 maggio, in G. PREZZOLINI-A. SOFFICI, Carteggio. I, cit., p. 286.
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Erano perplessità che la realtà avrebbe esattamente verificato. Soprattutto la Sezione sociale-politica era esposta al rischio di essere paralizzata, per quello che riguardava l’approfondimento di alcuni temi, dal veto incrociato di interdetti censori, che sempre più si infittivano dopo il primo anno di ostilità38, e dalla naturale ritrosia delle superiori autorità, dettata da un tradizionalismo e da un perbenismo, ormai veramente incompatibile con la brusca accelerazione modernizzatrice che il conflitto aveva imposto al paese, disgregando e riaggregando su basi nuove il vecchio tessuto sociale. Su questo nodo, precisamente, si divaricavano, fino al punto di rottura, gli intendimenti degli intellettuali in grigioverde e quelli degli ambienti politici e militari, come testimoniava ad abundantiam questa lettera di Prezzolini a Borelli. Il lavoro su “La donna mobilitata. Parte prima: la salariata” fu da me concepito nelle sue relazioni con la vita sociale, etica, politica del paese, perché la Sezione che ho l’onore di dirigere fu appunto così concepita e chiamasi “Sezione sociale-politica”. Non comprendo come tale lavoro possa far dubitare, in qualunque modo, della legittimità e della necessità della nostra guerra. Questo è anzi il fondamento di tutta la nostra inchiesta. Si tratta di tracciare un quadro rapido di tutto quello che la donna ha fatto per la guerra e per la vittoria. E prima di tutto, perché di più facile studio, la donna salariata, negli stabilimenti ausiliari, negli uffici, nei pubblici servizi. Il presentare alcuni inconvenienti che possono essere nati dalla mobilitazione della donna, mostrando insieme con quanta spontaneità il sano corpo sociale italiano cerchi di porvi rimedio, non è un dubitare della guerra. Ma è un collaborare ad un’opera nazionale, già iniziata, di risanamento. Quanto poi all’obiezione che non tutta la famiglia sia rappresentata da quella operaia, volentieri dedicherei a quella contadina, magari in alcune province tipo, un supplemento di inchiesta, per il quale avrei già pronto apposito questionario e scelti collaboratori, in numero non soverchio che mi riservo di indicare. Ma il lavoro limitato alla “donna mobilitata nell’industria”, senza referenze sociali ed etiche, non può rientrare nel campo della mia Sezione. Esso fa bensì parte di quello della Sezione statistico-economica ed è già oggetto di una inchiesta del prof. Dettori. Scientificamente non posso accettare limitazioni dettate da ragioni estranee alla ricerca propostami, mentre riconosco il diritto alle competenti autorità di definire i limiti, per ragioni politiche, di quello che dovrà, a suo tempo, essere reso pubblico. La cosa è ben diversa e di ciò non mi sembra tenga conto la Sua risposta. Militarmente, posso fare “La donna mobilitata nell’industria” oggetto di una relazione. In tal caso, domando ordine preciso per scritto, contenente istruzioni sui problemi ai quali debbo risponderne (e che non vedo nella Sua risposta), sul numero e sulle località
38 P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, 1915-1918, Milano, Mondadori, 19982, pp. 55 ss.
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degli stabilimenti ausiliari da visitare39.
Lo stesso Volpe non si nascondeva né il peso di questi intralci amministrativi né i rischi e le difficoltà dell’impresa, per quello che riguardava le possibilità di una fattiva collaborazione tra intellettuali di diversa matrice ideologica. Il nostro lavoro è, per ora, poco conclusivo. Lo Storiografico non ha ancora basi. Solo Dallolio lo approva senza riserve, ma non egualmente il nuovo Ministro della Guerra. E i miei colleghi, alcuni che stanno benissimo a Roma son disposti a mettersi a lavorare anche senza la certezza di andare in fondo; altri invece vogliono prima la garanzia che l’istituzione sorgerà. Tuttavia ora stiamo cercando noi di accordarci e dividerci i compiti. E speriamo che non vi sia discordia. Domani sarà giornata decisiva, perché dovremo tirar i confini io e Prezzolini; e Prezzolini dovrà rientrare nei limiti più ristretti di quelli che egli si era tracciato da sé, dovrà rinunciare a qualche tema a cui tiene molto. Io non avevo nessuna prevenzione sul conto suo; ma iersera, tornando a casa dopo cena, egli mi fece tali discorsi e mi rivelò una tale concezione della guerra che non mi par possibile di lasciare a lui la trattazione di alcuni argomenti40.
Erano discrasie e idiosincrasie reciproche, che trovavano perfetta corrispondenza nel diario di Prezzolini41, uomo, come si è visto, di ben diverso nazionalismo di quello di Volpe, e maggiormente aperto al dialogo con i gruppi dell’interventismo democratico con i quali lo storico intensificava, invece, proprio in questo momento, una già accesa polemica. I rapporti tra i due si irrigidivano al punto da provocare un intervento mediatore dello stesso Borelli, il 4 dicembre 1917, che invitava i due collaboratori a ritrovare una concordia d’intenti indispensabile al proseguimento del comune lavoro. Prendo atto, caro Prezzolini, della sua comunicazione sopra l’accordo da Lei stabilito con il prof. Volpe per la singola orbita di lavoro e di competenza. Superfluo ripeterle che è mia viva e maggiore speranza vedere fondato l’accordo tra i membri dello Storiografico meglio che sui limiti di competenza formale, sopra uno spirito comune di fervore e d’amore all’opera insigne42. 39 Giuseppe Prezzolini a Giovanni Borelli, 12 settembre 1917, USMI, busta 17, fasci-
colo 2.
40 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 settembre 1917, cit. 41 G. PREZZOLINI, Diario, cit., p. 275, alla data del 3 dicembre 1917: «Volpe trova osta-
coli a concluder qualunque cosa nella sua estrema finezza che lo fa dubitare di tutti e di tutti. Sembra aver la testa sempre qualche centimetro sopra la realtà. Gli passano inosservate cose che dovrebbero fermarlo, e vuol mettere insieme cose che fanno a pugni. È una mente storica straordinaria, ma come uomo pratico difficile da sopportare». 42 Giovanni Prezzolini a Gioacchino Volpe, 4 dicembre 1917, USMI, busta 10, fasci-
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Alla data di questo messaggio, Volpe, sicuramente appoggiato da Borelli, a cui lo legava la comune militanza nei Gruppi nazionali liberali, aveva comunque avuto partita vinta per quello che riguardava l’essenziale delle sue richieste, che erano state largamente accettate da Prezzolini con la lettera del 3 dicembre. In seguito ai nostri colloqui di questi giorni passati, resta così fissata la divisione del lavoro nella nostra Sezione. Grossamente parlando io mi occuperò degli argomenti sociali e tu di quelli politici. In particolare restano sotto la mia direzione, dell’elenco da me stabilito nella relazione del 1 maggio 1917, i seguenti temi: Le classi sociali. La mobilitazione femminile. I ragazzi e la guerra. Il folklore. L’assistenza civile. Le associazioni di turismo e di sport. La Nazione in armi con i seguenti sottotemi: Come il paese ha risposto alla mobilitazione. La propaganda fra i soldati. L’anima del soldato. Lettere di soldati. La vita sessuale. Prigionieri in Austria. Passano invece al tuo gruppo: il Papato e la sua politica. Il clero italiano. I partiti. Il parlamento. La neutralità. Il governo. Lo spionaggio. La censura. Le colonie. L’emigrazione. La politica estera. Gli irredenti. Il conflitto ideale. Rimane altresì inteso che il prof. Buonaiuti, chiamato da me, passerà alle tue dipendenze. Però egli mi coadiuverà per la Bibliografia facendo lo spoglio di riviste e quotidiani cattolici. Gli impegni presi da me con il prof. Granello (Trentini) e con il Ferrari (Partito repubblicano) saranno sciolti di comune accordo. L’inchiesta della mobilitazione militare sarà anche compiuta di comune accordo, e cioè io accetterò tutti gli elementi che tu mi potrai indicare, quali ufficiali informatori nei depositi, e introdurrò nei questionari e nelle norme quelle domande e quelle istruzioni che ti parranno necessarie per il tuo lavoro. Però il tema resterà al mio gruppo e sarà trattato da un collaboratore mio43.
Timori di perdita d’indipendenza, presenti anche in altri collaboratori, rivalità personali e più profonde dissonanze non avrebbero impedito alla fine il lavoro comune in quel «laboratorio della memoria», il cui principale traguardo era quello di valorizzare il conflitto in corso come atto fondativo della nazione, in tutte le sue componenti sociali, politiche, culturali, confessionali, sessuali, generazionali, secondo un ampio
colo «Prezzolini». 43 Giovanni Prezzolini a Gioacchino Volpe, 3 dicembre 1917, ivi, busta 17, fascicolo 1. L’originale di questa comunicazione è conservata in CV. Sul punto, si veda anche Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 24 ottobre 1917, AGP: «Siamo, presso a poco, sempre allo stesso punto. Io avevo preparato un piccolo schema di lavoro, che il nostro Borelli avrebbe dovuto presentare o notificare al Ministro, con alcuni quesiti a cui questi avrebbe dovuto rispondere. Ma ieri e oggi non mi è stato possibile veder Borelli. Forse è in giro per il questionario degli statistici, che incontra qualche difficoltà? I giorni scorsi sono un po’ andato anche io con lui e mi son convinto che questo lavoro di approccio è necessario. Spero vederlo riapparire prossimamente e concordare con lui il da fare».
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sommario, inviato da Prezzolini a Benedetto Croce, già alla fine del febbraio 1917. Si è costituito qui un Ufficio Storiografico della Mobilitazione, con lo scopo di preparare il materiale per una Storia della nostra mobilitazione in quanto questa non sarà soltanto sforzo di uomini e di industrie ma anche responsabilità di partiti, cooperazione di classi, collaborazione di organismi sociali, previdenza legislativa di governi. Di questa idea, merito di Giovanni Borelli, le avrei scritto prima se il Borelli non mi avesse promesso di venire con me da lei a parlarne; tanto più che sapeva che lei desiderava appunto ciò. Ma vedo che il Borelli tarda a tornare ed in attesa del colloquio, le scrivo per domandarle consiglio. Le accludo lo schema degli argomenti che vorrei fossero trattati nella sezione sociale-politica a me affidata, e le chiedo di indicarmi lacune che ci veda e di suggerirmi nomi di possibili collaboratori, i quali devon essere tutti soggetti al vincolo militare. Un piccolo gruppo sarà qui a organizzare; uno stuolo nelle fila dell’esercito, sul fronte, nelle fabbriche, nei depositi dovrà investigare, cercare, rispondere alle nostre inchieste44.
L’attività di quella sezione dello Storiografico, che poi avrebbe previsto la partecipazione di Achille Bertarelli, Francesco Baldasseroni, Antonio Anzilotti, Giuseppe Stefanini, Giorgio Falco, Enrico Finzi, Roberto Michels, si articolava secondo questo schema complesso e per molti aspetti assolutamente innovativo. I° Il Popolo italiano. 1. Le classi: a) I contadini. b) Gli operai. c) La gente di mare. d) La piccola borghesia. e) I grossi capitalisti (mobiliari, immobiliari). f) Burocrazia. g) Aristocrazia. 2. Le regioni. 3. Le popolazioni di confine prima e durante la guerra. 4. Gli irredenti in Italia prima e durante la guerra: a) Trentini. b) Adriatici. 5. La donna: la sua mobilitazione, la sua nuova condizione nella famiglia. 6. I ragazzi e la guerra. 7. Le organizzazioni religiose: a) Cattolica: Le direttive del Papato e il clero. L’azione dei Vescovi. L’azione delle minori autorità ecclesiastiche nelle città e nelle campagne. Il
44 Giuseppe Prezzolini a Benedetto Croce 16 febbraio 1917, in B. CROCE-G. PREZZOCarteggio. II. 1911-1945, a cura di E. Giammattei, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1990, pp. 455-456.
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Vescovo castrense e i cappellani militari. I preti soldati. b) Israelita. c) Protestante. d) Massonica. II° I Partiti. 1. Monarchici, Interventisti (compresi i Radicali), Nazionalisti. 2. Neutralisti. 3. Repubblicani. 4. Cattolici. 5. Socialisti e Anarchici. III° Preparazione ed Assistenza. 1. L’Italia dall’agosto del 1914 al Maggio del 1915: come e perché siamo arrivati alla guerra. 2. Azione del Parlamento prima e durante la guerra. 3. Assistenza morale e pratica: delle Prefetture, dei Comuni, dei Comitati, delle Associazioni, distribuzione dei sussidi e dei soccorsi, Case del soldato, Uffici pacchi, lana, corrispondenza. Ricreatori. Rifugi. Posti di ristoro nelle Stazioni. L’Opera dello “Scaldarancio”. Iniziative varie. IV° La disciplina del Paese. 1. La disciplina dei consumi e dei risparmi. 2. La disciplina del lavoro. 3. La disciplina dell’esercito. 4. Lo sport e la guerra. 5. Movimenti popolari. V° La difesa dello Stato. 1. Spionaggio. Internati. Profughi dei paesi occupati o sgomberati. Polizia. 2. Gli stranieri in Italia prima e durante la guerra. 3. I prigionieri e i disertori austriaci. 4. La censura. VI° La Nazione in armi. 1. Mobilitazione militare: a) Come il paese ha risposto alla mobilitazione (i volontari, gli intellettuali, gli emigrati, gl’imboscati, i renitenti, i disertori, i simulatori di malattie). b) Come il Governo è riuscito a mobilitare le competenze tecniche e le energie individuali. 2. La propaganda tra i soldati: Circolari del Comando Supremo, del Governo, dei Corpi d’Armata, ecc. Conferenze degli Ufficiali ecc. 3. L’anima del soldato: La recluta. Nei Depositi. In zona d’Operazioni. A riposo. In licenza. Negli Ospedali (feriti, ammalati). Il ritorno al fronte dopo la degenza negli Ospedali. Il prigioniero. 4. Raccolta di lettere dei soldati. 5. Vita sessuale del soldato: Come sopporta l’astinenza. I postriboli in zona di guerra. La prostituzione libera. Le malattie veneree. VII° Le Colonie e la guerra. 1. Le Colonie di dominio diretto. 2. I centri di emigrazione permanente.
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3. I centri di emigrazione temporanea. VIII° L’Italia e le altre Potenze. 1. L’Italia nell’opinione pubblica delle Potenze ora alleate. 2. L’Italia nell’opinione pubblica delle Potenze ora nemiche, nel periodo della neutralità. 3. L’Italia nell’opinione pubblica delle Potenze neutrali. 4. Il Papato e l’Italia. La Questione Romana, ecc. IX° La coltura. 1. La coltura e le idee del paese: a) la scuola, b) il libro, c) riviste e giornali, d) il dibattito ideale. 2. Folklore di guerra (con raccolta di materiale): a) Letteratura popolare (canzoni, leggende, gerghi, ecc.). b) Superstizioni. X° Bibliografia della Guerra. 1. Pubblicazioni ufficiali italiane. 2. Pubblicazioni ufficiali dei nostri alleati. 3. Pubblicazioni ufficiali dei nostri nemici. 4. Pubblicazioni ufficiali dei neutri. 5. Pubblicazioni di coltura superiore. 6. Pubblicazioni popolari. 7. Iconografie, cartoline satiriche, stampe, musiche, canzonette45.
Erano argomenti che Volpe avrebbe fatti propri e ripresi sistematicamente nel grande ciclo dedicato alla «storia civile, interna del popolo italiano durante la guerra»46, e nella straordinaria sintesi di storia nazionale che poi sarebbe divenuta L’Italia in cammino, la cui genesi deve essere datata al periodo bellico, precisamente a ridosso dei lavori dello Storiografico. Naturalmente L’Italia in cammino sta viceversa fermissima, quasi inchiodata in terra. E ci rimarrà chi sa quanto, non ostante la voglia di spingerla avanti! Ci terrei molto in verità. E se c’è poi un momento buono per mettere al mondo un libro così, il momento è questo. Ora che tu, come mi scrivi, non hai più ambizione per i miei lavori, ce l’ho io, guarda un po’! Essa rimane come sempre in me, quando sono nel periodo conclusivo di qualche cosa… Mi dispiace solo di non poter dedicare a te il mio volume…quando si stamperà. E ho pau-
45 Ufficio Storiografico della Mobilitazione. Sezione sociale-politica. Programma, USMI, busta 17, fascicolo 2. 46 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Roma, 3 giugno 1943, AFG. Su Volpe storico del primo conflitto, C. GHISALBERTI, Gioacchino Volpe e la Grande Guerra, in «Clio», 2000, 2, pp. 201 ss.
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ra che neanche lo dedicherò a Nanni, salvo qualche dedica sottaciuta o sottointesa. Un libro così al giorno che corre bisogna consacrarlo ai combattenti, ai vivi ed ai morti. Essi ne sono la materia ideale, da essi mi è venuta l’ispirazione al lavoro47.
Sono parole vergate nell’agosto 1918. Quando la ripresa dell’iniziativa italiana aveva allontanato ma non fatto dimenticare la rotta disastrosa di Tolmino, Plezzo, Monte Nero, che aveva provocato un punto di rottura nella continuità della storia italiana, di cui Ardengo Soffici avrebbe immediatamente individuato il significato profondo di crisi generale della nazione e soprattutto delle sue vecchie classi dirigenti48. Anche per Ojetti, la disfatta portava il segno inconfondibile degli antichi mali del paese: «L’egoismo, la discordia, l’indifferenza, la paura dei fastidi che son le piaghe della nostra vita nazionale si ripetono, anche in questa tragedia, nell’azione militare, e ammazzano l’Italia»49. Una diagnosi, condivisa anche da Mussolini50, e da Salvemini, in una più tarda analisi politica della sconfitta, egualmente impietosa nei confronti degli errori del partito neutralista e di quello interventista. Dello sfacelo di Caporetto è innegabile che tutti siamo stati, più o meno, responsabili. Le classi dirigenti, spezzatesi tra neutralisti e interventisti nel periodo della neutralità, tali rimasero anche durante la guerra. E, in una prova così terribile e lunga, la disunione delle classi dirigenti intensificò il disorientamento e la mala volontà di un popolo, per cui questa guerra era la prima guerra nazionale dopo quindici secoli di abiezione servile e di frazionamento politico. E fra gli interventisti, troppa gente s’immaginò che la guerra si potesse vincere con la retorica degli ordini del giorno e con le goffe e balorde mistificazioni dei giornali; e considerò il soldato come bestia da soma senza pensiero, che avesse l’ob-
47 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 agosto 1918, CV. «Nanni» è il diminutivo del primogenito di Gioacchino Volpe. 48 Ardengo Soffici a Giuseppe Prezzolini, 28 novembre 1917, in A. SOFFICI, Lettere a Prezzolini, cit., p. 123: «Dopo la ritirata ho avuto modo di sapere, di parlare, di veder chiaro in molte altre faccende e il mio giudizio si precisa sempre di più. Il soldato è innocente in gran parte di tutto: la colpa di ciò che è successo va divisa fra tutti coloro che sono sopra il popolo». 49 U. OJETTI, Lettere alla moglie, 1915-1919, a cura di N. Rodolico, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 423-424. 50 Benito Mussolini a Silvano Fasulo, 30 ottobre del 1917: «Il nostro torto grave ed imperdonabile è stato quello di aver consegnato la nostra guerra a gente che non la sentiva, non la voleva, non l’accettava, e l’ha subita come una corvée penosa e pesante più delle altre. Siamo stati degli ingenui. Sono d’accordo con te, non appena quest’ora tragica sia passata, bisogna fare risolutamente il processo al modo col quale abbiamo fatto la guerra e agli uomini, nessuno escluso, nemmeno gli altissimi». Lettera citata in R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 379. Sullo stesso punto, B. MUSSOLINI, Unità d’animi, «Il popolo d’Italia», 29 ottobre 1917, in Mussolini giornalista, 1912-1922, a cura di R. De Felice, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 201-203.
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bligo di farsi ammazzare sempre senza ragionare mai. Gli uomini di governo o non vollero la guerra (giolittiani, socialisti, clericali), e quanto più questa si rivelava lunga e difficile, tanto più essi si compiacevano di non averla voluta, preparando le vendette contro gl’interventisti, e così contribuivano a intensificare la fiacchezza del paese. Oppure, dopo aver voluto la guerra, riconoscendone la necessità, ne temevano le responsabilità (Orlando), e speravano di attenuarle, mostrandosi remissivi verso gli avversari della guerra; e così contribuirono anch’essi al progetto di infiacchimento dello spirito pubblico. Oppure, ancora, ebbero il coraggio di assumere le proprie responsabilità (Salandra, Sonnino), ma non sentirono la guerra che come “guerra di sacro egoismo”, parentesi nella storia della Triplice, dopo la quale, ottenuti i territori contestati, nulla avrebbe impedito all’Italia di ritornare nella Triplice, se l’Intesa non avesse pagato una sufficiente mancia coloniale51.
Volpe si risolveva, immediatamente dopo la «strana disfatta», ad abbandonare l’incarico di retrovia, per raggiungere il teatro delle operazioni. Quella decisione si presentava già come irrinunciabile nella lettera del 6 novembre 1917: un drammatico documento dello sconcerto del fronte interventista di fronte alla gravità della sconfitta militare, da cui emergeva la debolezza congenita di un popolo che, già a partire dalle sue élite, appariva, proprio nella suprema prova delle armi, incapace di identificarsi in una «mal conosciuta patria». Sono stato tentato di piantare la baracca e tornarmene a Milano, ma poi? Dovrei di nuovo dopo una settimana riprendere la via di Roma, perché certo anche se volessi sciogliermi dallo Storiografico dovrei aver spiegazioni col mio o con i miei superiori. Intanto, ho parlato con varia gente assillato dal desiderio, dal bisogno, dalla passione di vedere un po’ chiaro in questo enorme sfasciamento che è successo fuori di noi e che può accadere dentro. Certo si sta modificando sotto la pressione di quella terribile esperienza di dieci giorni un complesso di nostre idee! Ho visto fra gli altri Borgese, che venne da me allo Storiografico con sua moglie, una giovane e mi parve graziosa donna. Da Mina, l’altra sera, c’era la moglie di un giornalista reduce da Udine, ex giornalista essa stessa. Oggi ho visto gli altri. E così sono passato di angoscia in angoscia. Poiché ad ogni colloquio in cui ci si arrovella per capire, per afferrare qualcosa, si stuzzica la piaga ed è un’angoscia. Ma ho anche incontrato il mio compagno del 246°, burlone, epulone e dissipatore, il tenente Pavesi che mi ha abbordato con la solita faccia, con la solita filosofia, con il solito finale: “Che ci vuoi fare? Quel che è stato è stato?”. E forse questa è proprio la conclusione, a cui, pur contro animo, dobbiamo venire anche noi e a cui raccontano che sia venuto anche Cadorna: quel che è successo spezza il cuore ma bisogna pensare al domani e salvare il paese. Disgraziatamente io non posso salvare il paese ma ognu51 G. SALVEMINI, La rotta di Caporetto, «L’Unità», 21 agosto 1919, in ID., Scritti vari, 1900-1957, cit., pp. 536-537.
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no di noi può e deve vedere se si può uscire da questo disastro nel modo meno rovinoso possibile. Ci troviamo come dei naufraghi che cercano di salvare dalla nave sconquassata il più che si può, per riprendere il mare appena possibile! La mia posizione attuale mi dà tuttavia qualche imbarazzo. In questi giorni, trovo assurdo stare a ponzare storie mentre da un giorno all’altro potremmo tutti trovarci nella necessità di salvare l’esistenza materiale nostra e del paese. Nel tempo stesso non mi pare neanche bene piantare tutti in asso e abbandonare una attività, che si stava organizzando, che in parte già cominciava a svolgersi e che riconosciamo utile per l’avvenire, vuoi per trarre i frutti della vittoria, vuoi per aiutarci a capire la sconfitta e rimediarci un poco. Per questo io cercavo una soluzione media, ma dubito si possa trovare. E un bel momento bisognerà decidersi per l’una o per l’altra. Tieni presente che lasciando lo Storiografico, non rimane che rientrare al battaglione e chiedere di andare al fronte. […] In ogni modo, fra qualche settimana, gli avvenimenti potranno essi stessi consigliare o imporre una soluzione. Potranno metterci davanti ad un imperativo categorico davanti a cui passa in sottordine ogni privata preoccupazione. Io non sono senza fiducia ma non ne ho troppa. Chi ci può assicurare che non si ripeta quel che è successo nel medio Isonzo? Senza nostra colpa dobbiamo passare da un grande, forte, forse eccessivo ottimismo ad un grande, forse eccessivo pessimismo. Per fortuna mia adesso sono preparato a tutto con abbastanza tranquillità. Notizie anche cattive non mi turban più gran che. Perché? Perché il peggio è avvenuto. Il peggio non era la perdita di una provincia o una grande sconfitta52.
Sulla necessità di un rapido trasferimento nella zona d’operazioni, Volpe insisteva, poco più tardi, con Giovanni Borelli, in una comunicazione dove i lavori dello Storiografico erano considerati inattuali, se non addirittura superflui, almeno momentaneamente, a petto della gravità della situazione politica e militare. La questione è sempre quella che ti esposi: in questo momento, per lo Storiografico non si può se non preparare il lavoro per il poi. Ed io non mi sento di far di più. Forse è assurdo pensare di far di più. Non si hanno punti d’appoggio per lavorare idealmente. Essi si formeranno, ma non ci sono ancora. E poi io ho bisogno di qualche esperienza diretta della guerra e degli uomini che la fanno. Quindi io desidero ciò che sai. Intanto, io ho scritto a Casati se è possibile, nel caso che io non possa pel tramite dello Storiografico, che egli mi chiami. Caro Borelli, non dolerti. Ma bisogna che io provveda in qualche modo a far ciò che reputo utile e doveroso53.
52 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 6 novembre 1917, CV. 53 Gioacchino Volpe a Giovanni Borelli, 18 dicembre 1917, USMI, busta 10, fascico-
lo «Volpe». Alessandro Casati, arruolatosi come sottotenente nell’aprile del 1917, veniva promosso capitano e, il 21 maggio, maggiore, per meriti di guerra conseguiti sull’altopiano di Asiago. Ferito nella battaglia della Bainsizza, era decorato con la medaglia d’argento e otte-
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Restata momentaneamente inesaudita questa richiesta, non restava a Volpe che contentarsi di un incarico, più vicino al campo di battaglia, sempre nell’ambito dello Storiografico. Modesto risarcimento che in ogni caso lo allontanava dal lavoro delle scartoffie, e soprattutto dall’atmosfera viziata di una Roma «bizantina»: «città di parlamentari, cioè di conventicole politiche e di commedie politiche; città di aristocrazia grigionera e di prelati inclini a germanofilia; città di imboscati e perdigiorno e vociferatori e strateghi da caffé e sollecitatori di affari nei ministeri»54. Di una capitale, incapace di elevarsi all’altezza del momento e idealmente sempre più lontana dal teatro dell’azione, al quale Volpe sentiva la necessità di avvicinarsi. Dunque, caro Borelli, preparami questo foglio di via. Comincerò dalla Vª Armata, cioè Modena, mi pare. Di lì, per Bologna e Ferrara, andrò a Padova, donde mi dislocherò per tutta la linea del fronte. Quanto rimarrò nei vari luoghi, ora non saprei. Se lì troverò da fare, tanto meglio. Anzi, mia intenzione sarebbe proprio questa. Il lavoro di corrispondente col gruppo dei miei collaboratori lo potrò fare anche da lì. Ma vedi di non tardare l’invio del foglio. Temo che vi possano essere mesi di tregua o quasi tregua al fronte ed io vorrei invece trovarmi da quelle parti in una fase attiva. Quanti mesi sono che parliamo di questo viaggio? Dall’estate… Bisogna che lo Storiografico, se deve esistere, non tema di apparire in pubblico, di smascherare la sua presenza anche là dove si diffida di essa. Non può vivere a dispetto di Dio e dei santi! Anche perché se le opposizioni dovessero essere tenaci e irriducibili, è meglio che si rivelino sul principio e non a lavoro iniziato. Fatto sta che io ho trascorso quattro mesi neghittosi, badando più alle mie cose che a quelle della collettività. Per quanto sia piccola l’azione di un uomo solo, la mia è stata ancora più piccola… E il mio amor proprio, il mio senso civico ne soffre. Mi pare di non poter neppure parlare come si deve parlare in questo momento, se l’azione è tanto al di sotto non solo delle necessità ma anche delle stesse possibilità della mia modesta persona55.
Il congiungimento con la nazione impegnata in prima linea appariva, dunque, come un obbligo necessario a tutti coloro che si erano impegnati per favorire l’intervento, come lo storico aveva già sostenuto nella corrispondenza del 25 dicembre 1915, indirizzata a Fortunato Pintor. Un obbligo che diveniva impegno d’onore proprio di fronte alneva il grado di tenente colonnello, per poi partecipare attivamente alle operazioni militari immediatamente successive alla rotta di Caporetto. Sul punto, A. GATTI, Caporetto. Diario di guerra (maggio-dicembre, 1917), Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 4, 10-12, 17-18, 159-161 e passim. 54 G. VOLPE, Ottobre 1917, cit., p. 62. 55 Gioacchino Volpe a Giovanni Borelli, 28 dicembre 1917, USMI, busta 10, fascicolo «Volpe».
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la grande effusione di sangue e ai tanti lutti, che avevano colpito personalmente anche Volpe con la scomparsa del fratello minore, morto a causa di una «malattia di guerra» contratta durante la sfibrante avanzata che aveva impegnato le armate italiane. Ti sei ricordato dell’amico lontano, nel giorno della sua disgrazia ed egli ne ha provato un po’ di conforto. Sì quel giovane che portava il mio stesso nome, andato a morire a S. Arcangelo presso il padre, era mio fratello e un po’ mio figliolo perché aveva fatto con me una parte dei suoi studi, a Pisa e a Milano, e da me aveva ricevuto – buona o cattiva – qualche impronta. Ed è morto sconsolatamente. Risparmiato per tre mesi dai proiettili del Carso, ha ceduto ad un male contratto durante i terribili giorni delle intemperie e della battaglia. Forse, se fosse rimasto in un ospedale militare, dove ormai hanno la cura sempre sicura delle “malattie della guerra”, o almeno dei mezzi per vincerla, se la sarebbe cavata. Ma sentendosi meglio, volle venire a S. Arcangelo ed i medici civili hanno brancolato nel vuoto. Quando pareva che avessero scoperto la causa specifica del male, era troppo tardi. Le sue risorse organiche erano esaurite. Vedi bene che non si può morire peggio di così, lasciando più strascico di rammarichi, di pentimenti, di responsabilità. Ma tu dici bene. Bisogna sperare che queste vite stroncate non siano un sacrificio vano. Io ne sono anzi persuaso. E seguito a credere che noi non potevamo e non dovevamo sottrarci alla guerra; e seguiterò a crederlo anche se domani chiameranno me a impugnare un fucile. Sono prontissimo anche a pagar di persona, pur con cinque figli alle mia spalle! E fra parentesi, perché morire è nascere e nascere è morire, ti dirò che mi è nato, quattro mesi fa un altro bimbo, Vittorio, benissimo accetto anch’esso, non ostante che abbia impedito alla mamma di attendere ad altre faccende più consone al momento presente!56.
Il destino di diverse generazioni si sarebbe intrecciato ancora nella tragedia della guerra, quando Volpe, raggiunto il fronte, al principio del 1918, veniva aggregato nell’VIII Armata, comandata dal generale Caviglia, per essere utilizzato nel Servizio Propaganda. Quel «Servizio P», organizzato da Giuseppe Lombardo Radice, con l’ausilio di Pietro Jahier, Ardengo Soffici, Massimo Bontempelli, Piero Calamandrei, Emilio Cecchi, Giuseppe Prezzolini, che di questo organismo avrebbe fornito la più convincente descrizione. Il servizio P, per chi non lo sappia, era il servizio della propaganda nell’esercito: necessario come quello dei viveri e delle munizioni. Si combatte con i sentimenti e si uccide con le idee, più spesso, che non con i cannoni. Servizio P, ufficiali P, sezione P erano parole che facevan sorridere e ridere gli increduli e i nemici delle novità. Ma si imposero. Servizio P non fu la “propaganda” soli-
56 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, 25 dicembre 1915, cit.
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ta: fu l’espressione più aperta del dovere dei Comandi di tenersi a contatto, di curare, di dirigere, di tutelare, di educare il popolo soldato. E per dire tutta la verità, il servizio P fu la creazione degli ufficiali di complemento contro la mentalità degli ufficiali di carriera; fu la creazione degli educatori e degli uomini che eran stati prima guide di uomini. Il servizio P rese ottimi servizi soltanto perché affidato a elementi non stretti dal professionalismo militare, e perché ruppe la trafila della gerarchia militare, coll’inviare i suoi rapporti direttamente e non attraverso i comandi: così soltanto la verità poté arrivare in alto, donde fino ad allora, il rispetto ufficiale l’aveva tenuta lontana. Il servizio P fu propaganda, assistenza, vigilanza. Ma in fondo queste tre funzioni furono una sola attività, e soltanto la pratica e la burocrazia le divisero. Chi assiste fa opera di propaganda, poiché propaganda non è altro che assistenza spirituale; e chi vigila, assiste per il semplice fatto che esercita una tutela ed una sorveglianza. Sono tre nomi d’una sola cosa. […] Il servizio P è nato da Caporetto. Caporetto ci ha insegnato che bisognava badare al soldato. Il soldato era stato trascurato. Armi, munizioni, istruzioni, tutto andava; ma non andava considerar gli uomini come numeri, come schede, come materiale. Gli uomini rivelarono che le linee strategiche, che le fortificazioni artificiali, che le macchine da guerra non contano nulla, se dietro non c’è l’uomo deliberato a vincere o a morire. E rivelarono che dove gli strateghi negavano ci si potesse difendere, dove si erano fatti pochi lavori, dove scarseggiavano le macchine da guerra, bastava l’anima bene armata di volontà per resistere. Da Caporetto si venne al Grappa e al Piave57.
Nel Servizio P, Volpe avrebbe diretto, ma di fatto redatto personalmente, il bollettino «Fatti e commenti» destinato agli ufficiali subalterni58, per poi assumere direttamente, in assenza di Lombardo Radice, la direzione di quel ramo del Psychological Warfare Branch, che anche l’esercito italiano, grazie al contributo decisivo di un altro «intellettuale in guerra», come Ugo Ojetti59, aveva costituito per sostenere il morale delle truppe profondamente scosso dal recente disastro militare e per
57 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e nel paese, Firenze, Bemporad, 1921, pp. 359 ss., in particolare pp. 359-360, per la citazione; ID., Vittorio Veneto, Roma, La Voce, 1920, pp. 9 ss.; M. SIMONETTI, Il Servizio “P” al fronte (1918), in «Riforma della scuola», 1968, 3, pp. 24 ss.; G.L. GATTI, Dopo Caporetto. Gli Ufficiali P nella Grande Guerra: propaganda, assistenza, vigilanza, Gorizia, Leg, 2000. Si veda anche, A. FAVA, Assistenza e propaganda nel regine di guerra, 1915-1918, in Operai e contadini nella Grande guerra, a cura di M. Isnenghi, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 174 ss. 58 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit., p. 361: «Bisognava parlare agli ufficiali perché parlassero ai soldati; istruire l’ufficiale perché facesse valere, con il suo prestigio, gli argomenti che in bocca di altri perdevano forza; fornire all’ufficiale, che aveva fra tutte le necessità di servizio appena il tempo di scorrere le notizie del giornale (quando lo trovava), il modo di discutere le riflessioni dei soldati, di rialzarne il morale, se occorreva, di aiutare i migliori a trovare la verità». 59 U. OJETTI, Lettere alla moglie, cit., pp. 49-50; 55-56; 64-65; 84-86; 92-93; 510; 529 e passim.
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portare l’offensiva propagandistica nelle stesse linee del nemico60. Avrai avuto le mie lettere e cartoline degli ultimi giorni, anche quella di ieri da Padova dove andai per l’adunanza dei capi delle sezioni P. Discussione, comunicazioni fino a mezzodì passato e poi colazione, ospiti dell’On. Comandini che aveva presieduto l’adunanza. Sto così imparando un poco che cosa è il funzionamento di un ufficio. Chi lo avrebbe pensato! Non era neppure una mia aspirazione, in verità, ma la malattia di Lombardo mi ha costretto a fare anche questo. Avendo quarant’anni suonati e già una professione non posso neppur dire: impara l’arte e mettila da parte! Tuttavia ci provo anche un certo gusto: il gusto che dà l’agire, lo sbrigare una cosa, il vedere nello spazio di 24 ore il principio, lo svolgimento e la fine di una certa pratica o iniziativa, tutte cose di cui io non ho mai gustato bene il sapore, specie negli ultimi anni, donde un senso di insoddisfazione, di sfiducia, di impotenza quasi doloroso. Fra un paio di giorni spero di cominciare a girare per la linea. Mi muovo anche ora, ma per andare al comando: 8 chilometri da qui, e la mensa, altri tre chilometri. Ieri poi a Padova, 40 km divorati in mezzora, ma il mio desiderio è di andare fra i combattenti. Ho una macchina a mia disposizione e in un giorno è possibile recarsi ai battaglioni, visitare un bel tratto di fronte, conoscere un certo numero di ufficiali P nostri corrispondenti. […] Eppure qui vedi atmosfera di guerra se ne respira poca. Chi ne parla mai? Chi sa nulla di ciò che accade? Abbiamo qualche giornale, pochi in verità e basta. Altrove l’Ufficio P è unito con l’Ufficio informazioni e lì la guerra si vive e si segue ora per ora. Così alla Terza Armata. Ma noi siamo dieci km, distanti gli uni dagli altri. Fra noi non circolano neppure le dicerie che ruzzolano per le vie di Milano… I miei due compagni di lavoro se ne interessano poco. E lo stesso Lombardo è tanto assorbito dalla propaganda che le questioni vicine o lontane dalla guerra come fatto politico o militare gli si annebbiano davanti agli occhi61.
Proprio le ricadute politiche del conflitto, presenti e future, sulla linea del fuoco e sul fronte diplomatico, avrebbero invece costituito il contenuto essenziale della redazione di «Fatti e commenti», attraverso editoriali e più spesso «spunti di conversazione», che gli ufficiali avrebbero dovuto sviluppare nei loro dialoghi con la truppa62, dove lo storico avrebbe elaborato ampiamente la sua «filosofia della guerra», questa volta, rivolta a contrastare l’apostolato neutralista, pacifista, disfattista con argomenti più convincenti della vecchia retorica patriottica. Per tutti, popoli, società, singoli, il conflitto presente sarebbe stato «buon maestro», sosteneva Volpe, rovesciando una famoso dictum di 60 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit., pp. 382 ss.; P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, cit., pp. 460 ss.; N. ISNENGHI, Giornali di trincea: 1915-1918, Torino, Einaudi, 1977. 61 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 agosto 1918, cit. 62 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit., pp. 367 ss.
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Tucidide63. Ancora una volta pólemos sarebbe stato «padre di tutte le cose», in quanto «il conflitto accomuna e il diritto nasce dalla contesa»64. E, quindi, guerra come principio di sviluppo e di civilizzazione: «morte ma anche vita, distruzione di beni, ma anche acceleramento di attività, stimolo di forze produttive; abisso fra uomo e uomo, ma anche più saldo legame fra cittadino e cittadino»65. Guerra come rinnovamento e dislocazione del vecchio «ordine gerarchico delle nazioni», forza di rottura degli antichi equilibri diplomatici, dinastici, strategici, che «è nei rapporti internazionali, ciò che nella vita interna di un paese è rivoluzione»66. Guerra come «artefice di democrazia», in quanto momento finale del processo di nazionalizzazione delle masse, guerra come «forza rivoluzionaria» nella vita interna degli Stati, come fattore di drastico ridimensionamento delle antiche divisioni giuridiche ed economiche, anche senza il ricorso all’apparato ideologico giacobino, socialista, bolscevico. La guerra è da segnalare come grande artefice di democrazia. Essa ha fatto di cento plebi altrettanti popoli. Essa ha demolito o contribuito a demolire, dove esistevano, privilegi di caste superiori, anche di caste guerriere che pur avevano mosso la guerra e inquadrato i combattenti. Piacciono tutti questi beni e mutamenti e progressi? Ed allora bisogna abituarsi, non già invocare la guerra, che potrebbe apparire grottesco, ma vedere in essa una potente forza rivoluzionaria del mondo; che ferisce, ma ha pure virtù medicatrici delle ferite che essa procura; che esige dagli uomini sacrifici estremi, ma anche apre dinanzi ai loro passi una via più ampia e libera. Forza rivoluzionaria dico: anche senza la “Rivoluzione”, cioè ghigliottine e lanterne e giornate di ottobre, guardie rosse e anarchia. Tutti elementi accessori e non essenziali di una rivoluzione, per quanto possano piacere a chi latinamente professa il culto della dea “Rivoluzione”67.
Guerra, dunque, come volano sociale ed economico della modernizzazione della vecchia Europa, e per l’Italia soprattutto delle sue aree meno sviluppate: il Meridione e le zone alpine e appenniniche68. Guerra, come occasione di riforma politica radicale, da attuarsi immediatamente dopo la fine delle ostilità.
63 TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, VIII, 66. 64 Eraclito, frammenti 53 e 80. 65 G. VOLPE, Il congresso dei maestri, cit., p. 9. 66 ID., Vittoria, «Fatti e commenti», 5 novembre 1918, in Per la storia della VIII Arma-
ta, bis, cit., p. 33. 67 ID., Le attività della guerra. I. Guerra e democrazia, in «Saluto», 1 gennaio 1919, ora in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., p. 95. 68 ID., Nord e sud; Per gli Alpini, in «Saluto», 1 gennaio 1919, in ID., Per la storia dell’VIII Armata, cit., pp. 186 ss.
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In fondo, si tratterrà di governare il paese, domani, meglio di ieri, di mettersi tutti più seriamente di fronte ai vecchi problemi nazionali, acuiti dalla guerra, ed a quelli che la guerra ha posto; di sostituire, nel governo, uomini migliori ad uomini logori ed a politicanti di professione; di aver un’opinione pubblica illuminata che sia stimolo e controllo efficace; di dar vita e funzioni ad organismi e sindacati industriali e agricoli, fatti di capitalisti e di operai, che portino all’opera legislativa dello Stato un contributo di più alta competenza e realizzino un più largo esercizio di effettiva sovranità da parte della nazione69.
Ma, soprattutto, guerra integralmente nazionale. E dunque, necessariamente, guerra impegnata su di una duplice linea, per respingere, dopo Caporetto, le lusinghe dell’«offensiva pacifista degli Imperi centrali», e per non subordinare, con una strategia militare rinunciataria, la ripresa delle armi italiane ai successi degli alleati. In caso di vittoria acquisita con le altrui forze, o peggio di sconfitta, la perdita di prestigio sul campo militare avrebbe innescato un processo di disfacimento sociale della compagine nazionale, che avrebbe incrinato l’egemonia del ceto borghese e reso di fatto ingovernabile il paese, come lo storico ricordava ad Alessandro Casati, in una lettera dei primi mesi del 1918, dove si tornava a insistere sulla necessità di potenziare il Servizio P, soprattutto per la ricaduta politica della sua attività anche sul fronte interno. Molti borghesi, ora, in quanto vestono divisa di ufficiale, non sentono il pericolo che incombe su la loro classe se la guerra va male. La sfiducia antica delle masse crescerà, ricevendo come un nuovo sugello o conferma. E chi governerà l’Italia avrà fra le mani un compito ancora più difficile da assolvere, uno spirito di indisciplina ancora maggiore da fronteggiare, una diffidenza più accentuata da vincere. Basta, basta. La fiducia che la guerra la vinceremo è in me ancora alta; ed anche la fiducia che gli Italiani di domani possano essere migliori di quelli di ieri. Addio, caro Casati, a te e alla 7ª . Delle novità dell’ex tuo ufficio P, saprai. Le sue proporzioni materiali stanno crescendo. Speriamo che i suoi compiti e funzioni siano grandi anche essi, e bene assolti70.
Erano temi che Volpe avrebbe ribadito a più riprese, stigmatizzando il carattere anti-nazionale della polemica antiborghese, ormai propagatasi tra le stesse truppe di linea, che non soltanto dimenticava «che la borghesia ha dato all’esercito italiano la grande massa degli ufficiali, i quali hanno pagato di persona quanto e più i semplici soldati» ma che a quella stessa classe non riconosceva la capacità di aver organizzato la guerra nelle retrovie, ponendo, allo stesso tempo, le basi di un dopoguer-
69 ID., Le attività della guerra. I. Guerra e democrazia, cit., p. 79. 70 Gioacchino Volpe ad Alessando Casati, s. l., s. d. [1918], FAC.
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ra il più possibile florido per l’intera comunità nazionale71. Nell’ultimo periodo del conflitto, le preoccupazioni di Volpe si concentravano tuttavia ancora sullo scenario internazionale, nello sforzo di contrastare le lusinghe contenute nella proposta di pace dell’Austria-Ungheria72, che costituiva, come avrebbe testimoniato una postuma ricostruzione biografica, il nocciolo duro della sua attività di propaganda. Era largamente diffuso un senso come di preoccupazione che non dovesse la guerra essere decisa in ultimo senza di noi, risultandone poi nelle trattative di pace una situazione non troppo diversa per l’Italia da quella del ’59 e ’66. Di tale preoccupazione ci facemmo in parte eco, in parte suscitatori anche noi, coerentemente all’idea più volte manifestata che c’era, entro la guerra dell’Intesa, una guerra italiana e che la guerra italiana solo l’Italia, non l’Intesa, poteva vincerla73.
Ancora nel luglio del 1918, in una lettera al figlio Arrigo, rispuntavano i tenaci sospetti di Volpe nei confronti degli alleati di oggi, dei quali non si doveva dimenticare l’antica ostilità dei decenni e dei secoli passati, neanche in considerazione dell’afflusso dei magri e simbolici aiuti confluiti sul fronte italiano dopo Caporetto. Oggi abbiamo avuto la festa francese a Milano: rivista sfilata, fiori, discorsi alla Scala, fiaccolata questa sera… Molta, forse, troppa roba, in tempo di guerra. Io poi che ricordo come Italia e Francia si guardassero in cagnesco fino a pochi anni fa, proprio non mi posso commuovere, anche se molto mi piacciono quei bravi poilus che sfilavano per le vie di Milano, col loro passo marziale, al suono di quella loro fanfara, che anche tu hai sentito74.
In coerenza con questi convincimenti, lo storico tornava a ribattere sulla necessità di isolare gli obiettivi della guerra nazionale, tra tutti gli altri che si andavano profilando nella grande mischia delle nazioni. Più si susseguono su altri fronti le vittorie dell’Intesa, più questa segreta ansia che noi avvertiamo, sotto la gioiosa fiducia che ci invade, cresce. Sì, vi è 71 G. VOLPE, Idee da diffondere (La guerra, i contadini, i borghesi), in «Fatti e commenti», 27 settembre 1918, in Per la storia dell’VIII Armata, cit., pp. 121 ss.; ID., Diritti-Doveri, in «Saluto», 1 gennaio 1919, ivi, pp. 178 ss. 72 ID., La proposta austriaca di pace, 17 settembre 1918; ID., Ancora la proposta austriaca di pace, 24 settembre 1918; ID., Perché è doveroso diffidare, 11 ottobre 1918; ID., La spada e solo la spada taglierà il nodo della Grande guerra, 12 ottobre 1918; ID., Manifesti affissi nel territorio dell’VIII Armata a difesa dell’offensiva pacifista del nemico nell’ottobre 1918, in ID., Per la storia dell’VIII Armata, cit., pp. 80 ss., 147 ss., 150 ss. 73 ID., Propaganda nell’VIII Armata, in Fra storia e politica, cit., pp. 145-146. 74 Gioacchino Volpe ad Arrigo Volpe, 14 luglio 1918, CV.
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un’Intesa, ma vi è un’Italia, come vi è una Francia e Inghilterra e America; sì vi è un fronte unico, ma vi son anche singoli fronti, moralmente oltre che militarmente individuati; sì, vi sarà una vittoria del blocco occidentale ed americano, ma vi dovrà essere anche una vittoria italiana. Le sue vittorie ogni popolo se le deve conquistare da sé. E solo se conquistate da sé fruttano. Nessuno può vincere per gli altri. Sono semplici verità, queste, ma su esse non si batterà mai abbastanza, specialmente agli orecchi di chi crede che le questioni particolari stiano veramente per annegare nel nuovo mare magnum delle questioni generali, europee, mondiali, di civiltà o giustizia astrattamente intese75.
Nella redazione degli opuscoli «Collegamento morale» e del foglio «Fatti e commenti», in quell’attività di «giornalismo di guerra», dunque doppiamente militante, Volpe scorgeva la più ampia possibilità di diffusione delle sue idee, in funzione di un programma di educazione permanente della classe media76. E dell’importanza di questo strumento pedagogico di massa lo storico era ben conscio, come testimoniava la pure ironica lettera inviata alla consorte il 26 ottobre 1918. Ti mando un pacco di carte. Ci sono dei libri per te e per Nanni, vi sono delle cartoline per la tua collezione, dei giornali illustrati per divertire i ragazzi, da conservare. […] Troverai anche altri fogli di roba stampata da noi: dei “Fatti e Commenti”, il primo numero ha riscosso consensi entusiastici. Ormai facciamo testo. Ieri il Corpo d’Armata di Milano ci ha chiesto 500 di quei “Fatti e Commenti”; giorni fa, altri chiese centinaia di “Intervento americano”. Ho trovato, come vedi, un giornale che è sempre aperto. Non paga, è vero, ma non c’è bisogno di pregarlo! Alcune cose vengono riprodotte anonime sui giornali del Veneto, che più vanno ai soldati. E così il mio verbo, che sarebbe veramente rivolto agli ufficiali, scende anche al minuto pubblico. A volte viene il dubbio di no. Oggi, è stata qui una processione di ufficiali di cavalleria accantonati in paese, dal generale in giù. Ma tutti chiedevano… cartoline illustrate. A loro scusa sia detto che non conoscevano il nostro lavoro e che sono… ufficiali di cavalleria, cioè senza troppi obblighi intellettuali77.
75 ID., Fiducia, certezza, ansia in «Fatti e commenti», 18 ottobre 1918, p. 2. 76 ID., Congedo, «Collegamento morale», n. 5, 24 novembre 1918, p. 5. L’articolo, fir-
mato dal generale Caviglia, era stato in realtà redatto da Volpe. Su di esso, si veda l’elogiativo commento di G. GENTILE, Il programma del ministro Caviglia, «Il nuovo Giornale», 23 gennaio 1919, ora in ID., Pagine di diario, appendice alla nuova edizione di Dopo la vittoria, a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 180. Nell’articolo, Gentile parlava di «parole di alto patriottismo e di acuta percezione dei problemi morali e politici», che erano state indirizzate ai «giovani ufficiali dell’esercito vittorioso e prossimo a smobilitarsi», ma che erano in realtà rivolte a «tutta la giovane Italia, a tutta la nuova grande Italia rivelatasi in tutta la sua possente mirabile vigoria». Egualmente redatto da Volpe, ma firmato da Caviglia, era l’articolo, La Vittoria nel pensiero dei suoi artefici, «L’Idea Nazionale», 3 dicembre 1918, p. 1. 77 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 26 ottobre 1918, CV.
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Sulla scarsa ricaduta di questa attività propagandistica, avrebbe insistito anche Giovanni Mira, dopo un incontro con il maestro degli anni milanesi, nelle retrovie del fronte78. Ma, in ogni caso, resta importante sottolineare come, anche in questo momento di attività intensa, vissuta a ridosso delle trincee, le ragioni dell’azione immediata e quelle del lavoro di storico riuscivano a saldarsi in un circolo virtuoso. Il 30 aprile, anche Volpe, come già precedentemente Prezzolini, riepilogava a Benedetto Croce il piano di lavoro dello Storiografico e forniva notizie della sua attività nel Servizio P, in una lunga corrispondenza, che costituiva, al tempo stesso, un’agenda del proprio futuro impegno di ricerca, che aveva trovato il suo principio ispiratore dall’esperienza della nazione in armi. Da quella lettera, balzavano già ben formate in idea le opere maggiori di Volpe (dal grande compendio di storia italiana, poi ridottosi al volume di Italia in cammino, a Ottobre 1917, alla storia del popolo italiano nella Grande Guerra), ma anche i progetti per un’analisi del passato, frutto della collaborazione di studiosi diversi, di diversa competenza disciplinare e di diverso orientamento ideologico, che si svilupperanno compiutamente negli anni ’20 e negli anni ’30, in un’ottica di apertura europea tanto più autentica quanto più radicata in un contesto nazionale e quanto più lontana avrebbe saputo mantenersi, occorre dirlo, dai fremiti nazionalistici, sciovinistici, imperialistici del loro ideatore. Sapete dell’Ufficio Storiografico e di quello che si propone, se non sarà travolto da un qualche colpo di vento, ora che ha le radici ancora a fior di terra. Ricordo anzi qualche vostro dubbio e qualche parola non certo incoraggiante. Dubbi ne ho avuti e ne ho anche io, di vario genere, riguardanti l’esecuzione e l’ideazione. Ma penso che tutto, in fondo, dipenderà dal trovare un manipolo di studiosi seri, un po’ affiatati spiritualmente, persuasi dell’utilità di conoscere e far conoscere bene, studiando la guerra e i precedenti ed i connessi e annessi suoi, l’Italia moderna, la quale, appunto in questo sforzo di guerra, si rivela in ogni sua parte, mette allo scoperto ciò che era nascosto, ci presenta vivo e frammentario ciò che noi sapevamo per sentito dire o per intuizione approssimativa, ci permette di intender meglio tutta la storia d’Italia del XX secolo. Se questo manipolo di studiosi si troverà, se da ognuno di essi uscirà fuori uno studio coscienzioso sopra taluni aspetti dell’Italia contemporanea (poiché nella guerra italiana c’è tutta l’Italia), noi non diremo di aver la storia della guerra, che deve essere opera unitariamente concepita e scritta, ma avremo dei 78 G. MIRA, Memorie, cit, p. 114: «Ai comandi di corpo d’armata e di divisione e altri che erano dislocati nella zona, il Volpe sostava per visitare i rispettivi uffici di propaganda e rendersi conto di come fossero adoperati i fogli e gli opuscoli che lui e i suoi collaboratori avevano preparati e distribuiti. Dovette purtroppo constatare che per lo più non si adoperavano affatto, in alcuni casi anzi si ignoravano».
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saggi storici: e non saranno inutili per la coltura e la educazione nazionale nostra e per una miglior conoscenza dell’Italia fra gli stranieri. Non vi dirò qui tutto il piano del lavoro, come io lo concepirei. Vedo uno studio su Italia e Francia nell’ultimo cinquantennio (rapporti politici, rapporti di coltura, francofilia italiana, legami di partito, nostra accettazione di ideologie francesi, ecc., ecc.); altri di egual numero, su Germania e Italia, Inghilterra e Italia; su I problemi balcanici e adriatici dell’Italia nell’ultimo cinquantennio; su la Formazione e sviluppo della coscienza nazionale italiana nei paesi politicamente non italiani; su Il papato, la chiesa e il clero italiano di fronte alla guerra italiana; su La guerra e le maestranze operaie; su L’opinione pubblica dei paesi amici, neutrali, nemici su l’Italia durante la guerra; su Gli Italiani all’estero (gli emigranti) e la guerra nostra, ecc. ecc. E poi una ricostruzione degli avvenimenti ottobre-novembre 1917 (non come storia militare ma come crisi italiana, dell’esercito e del paese, come reazione dell’opinione italiana ecc.), una serie di profili o medaglioni degli uomini che meglio hanno rappresentato in questi tre anni l’Italia in guerra, che meglio hanno operato, che meglio incarnavano certe capacità nuove o riaffiorate ora del nostro popolo. Nessuno si illude di poter dar giudizio storicamente esatto in ogni sua parte su questi avvenimenti che ora ai nostri occhi si presentano più o meno grandi o più piccoli di quello che non sono in realtà, di quello, cioè, che non si presenteranno di qui a 10 o 20 o 50 anni, a svolgimento compiuto o avanzato. Ma intanto si raccoglieranno e si sistemeranno materiali storici (per quel tanto che le due operazioni del raccogliere e dell’elaborare sono distinte e possono farsi da distinte persone) e si darà una prima valutazione dei fatti: la quale per un verso sarà più imperfetta di quella che sarà data fra 50 anni, ma per un altro avrà certe condizioni di superiorità… A voi ora chiedo qualche consiglio su le persone. Chi vi sembra che possa essere capace (e più disposto ad accettare) di studiare ad es. Italia e Germania? Si tratta, come dicevo, di veder dentro i fatti della politica, dell’economia, della coltura; si tratta di veder chiaro e giudicar serenamente su fatti che in questi ultimi tre anni sono stati maledettamente strapazzati da gente d’ogni natura, non esclusi i professori universitari, tutti cascati dalle nuvole, tutti accortisi ad un tratto che “quella Germania che essi reputavano maestra ecc. ecc….”, tutti affrettatisi a battersi il petto davanti all’opinione pubblica anglo-latina. Egualmente Italia e Francia ecc. Penso anche fra me a chi potrebbe bene illustrare la coltura italiana durante la guerra (o il pensiero politico italiano durante la guerra, ecc.) o collaborare in medaglioni o magari raccogliere in uno i problemi del Mezzogiorno e la guerra. Io ho già assicurato qualche collaboratore; da altri aspetto risposta; man man bastano e poi spero sempre di trovarne migliori di quelli pensati da me. Per la coltura o pensiero politico, De Ruggiero? O Lombardo? O altri? Se anche ora fossero impegnati nella milizia, non sarebbe nulla. Lavorerebbero dopo. Anche io, adesso, do poco o nulla. Mi trovo in zona di guerra al comando della 5ª Armata, e passo di brigata in brigata: servo così l’Ufficio di propaganda e informazione, nel tempo stesso che raccolgo osservazioni e materiale di studio. Se lo Storiografico dovesse andar male, non dovrò rimproverarmi di aver inutilmente passato questi mesi, vuoi per la mia coltura vuoi per le necessità pratiche del
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momento. Conosco, ad esempio, abbastanza bene le divisioni che ora sono andate in Francia. Non c’è battaglione presso il quale non mi sia trattenuto un giorno, conversando con gli ufficiali, parlando ai soldati, avvicinandomi ad essi negli accantonamenti, se si faranno, come spero, onore, oso rivendicar a me 1/999 parte del merito. Domani riparto per lassù. Conto di andare alla Vª e poi ad altre armate. Ho desiderio vivo di esser vicino ai combattenti nei giorni vicini del cimento. Gli studi, naturalmente, languono ora. Tuttavia nel corso del 1917, quando comandavo il distaccamento nelle solitudini di Castellazzo, ho disteso la materia di un volumetto della Biblioteca rossa dell’Università popolare milanese. E non è riuscito male: appena pubblicato, ve lo manderò. Ed ho anche schizzato un quadro succinto dello svolgimento storico del popolo e della nazione italiana nell’ultimo millennio. Lo avevo fatto per Vallardi e doveva già essere uscito ora; ma Vallardi si è fatto morto e il ms. è sempre qui: effetto della crisi della carta? Spero che i giovani vi troveranno quella linea di sviluppo che non trovano nei libri di testo. È tutto qui. Ho riletto qualche capitolo del vostro volume sulla storiografia. Io non sono filosofo, caro amico! E qualche volta stento a rendermi conto di taluni pensieri vostri attinenti alla mia disciplina. Ma nelle vostre pagine trovo sempre tanto succo e sostanza, tante vive suggestioni, tante vive verità che non mi rammarico troppo se qualche linea dell’insieme mi sfugge. Non so quali correzioni la vostra filosofia avrà subito fra 50 anni, come sistema. Ma non dubito che la vostra attività di scrittore, complessivamente presa, sarà per un pezzo nutrimento vitale per gli Italiani di questi ultimi venti anni79.
3. Dei programmi di lavoro contenuti in questa corrispondenza, Volpe ritornerà a parlare a Croce e Gentile, a proposito di uno studio sul pensiero politico «durante la guerra»80. Nel maggio del 1918, ancora in una lettera a Gentile, lo storico esponeva il piano di quello che sarebbe stato il volume sulla nazione italiana, dall’età di mezzo ai giorni odierni, poi pubblicato in versione ridotta, solo nel 1927. Giorni fa ho avuto occasione di leggere – mi capita così di rado – il tuo articolo su la Nuova Antologia. Bellissimo! Io tanto più mi son rallegrato di averlo letto in quanto vi ho trovato più di una rispondenza con cose da me pensate e scritte in un lavoretto che è in ordine già dall’estate del ’17 ed aspetta la stampa, quando verrà: si tratta di una veduta panoramica o, meglio, di un disegno molto alla buona di quello che può considerarsi il processo di formazione del popolo italiano, della sua unità morale ecc. A lavorarci altri tre o quattro anni – io ci ho lavorato 6 mesi, in parte mentre ero al comando di un distaccamento e la notte inframmezzavo letture con ispezioni alle guardie! – potreb-
79 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, 30 aprile 1918, ABC. Il riferimento è al volume di B. CROCE, Filosofia dello spirito. IV. Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 1917. 80 Si vedano la lettera a Gentile del settembre 1921 (AFG), e quelle a Benedetto Croce del 16 ottobre 1921, 15 novembre 1921, 16 marzo 1922 (ABC).
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be mutare il suo titolo e diventare una Storia d’Italia; quella storia che, contenuta in un volume di tre o quattrocento pagine, sarebbe, credo, ottima cosa fornire al popolo italiano. Lo farò? Chi lo sa. Sarebbe nei miei desideri, se non proprio nei progetti. […] E poi e poi… avrei altri disegni di lavoro. Ma roba sospesa per aria, ora come ora. Ne riparleremo in tempo di pace, se questa sarà tale da incoraggiarci. Per adesso i tempi sono gravi ed io cerco di far altro. Ho visto ieri e rivedrò domani Casati: ormai mi sembra che non abbia fatto mai altro che il tenente colonnello81!
Da Alessandro Casati, infatti, a Giuseppe Lombardo Radice, a Fortunato Pintor, a Soffici, tutti gli intellettuali della «nuova Italia», legati da sentimenti di amicizia che l’urgenza del momento avrebbe cementato ulteriormente82, erano attivamente impegnati nello sforzo bellico. Impegno, che non contrastava con l’attività pubblicistica di Volpe, la quale continuava sul quotidiano «La Sera», che poi si sarebbe collocato, per le sue posizioni sempre più radicali, politicamente vicino al movimento dei Fasci d’azione rivoluzionaria83. Su quel giornale, il 30 ottobre 1917, nella tragica temperie dell’immediato dopo Caporetto, era comparso l’articolo, Grande onore e grande onere, dedicato all’analisi delle conseguenze politiche e militari dell’intervento tedesco sul fronte italiano. Un evento, questo, che trasformava la guerra «patriottica» contro l’Austria-Ungheria in guerra europea, in conflitto totale, nel quale l’Italia rischiava di soccombere non solo sul piano militare, in caso di vit-
81 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 30 maggio 1918, cit. L’articolo di Gentile ricordato è La profezia di Dante, in «Nuova Antologia», 279, 1 maggio 1918, pp. 3 ss. Per la genesi dell’opera a cui si fa riferimento, si veda G. VOLPE, Prefazione a Il Medio Evo, Firenze, Vallecchi, 1927, p. I: «Questo volume, iniziato nel 1917 in certe mie notti insonni, fra un giro d’ispezione e l’altro attraverso il dedalo delle sentinelle vigilanti (e spesso dormienti) sopra le officine di guerra di Castellazzo di Bollate, venne alla luce quattro o cinque anni addietro come smilzo “volumetto della Biblioteca Rossa” di Milano (rossa, giusto per intenderci, dal colore della sua copertina)». Era del 1921, infatti, l’edizione della prima stesura dell’opera, con il titolo di Il Medio Evo nel primo millennio D. C., Milano, Biblioteca di cultura popolare pubblicata dalla Biblioteca della Università Popolare Milanese e della Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari. 82 Fortunato Pintor a Gioacchino Volpe, 30 ottobre 1919, FV: «Nella dedica del caro volume, Per la storia della VIII Armata, mi scrivesti: “ricordando gli ultimi d’ottobre 1917”. Abbiamo veramente in comune grandi ricordi (ed io in particolare ne ho qualcuno, della tua dimestichezza verso di me, in certe visite che mi facesti: l’ultima a Castagnole, presso Treviso, il 25 e il 26 d’ottobre, prima del gran “varco”). Sono tanti ricordi che commuovono profondamente a richiamarli». Si veda anche, Ardengo Soffici a Gioacchino Volpe, 29 maggio 1949, ivi: «Ti ringrazio del tuo ricordo, assicurandoti che anche io nutro per te gli stessi sentimenti e conservo il ricordo non solo di Castiglione dello Stiviere, ma anche di quella notte di battaglia sul Piave dove io, ufficiale di collegamento della Quinta Armata, venuto a prendere notizie circa l’esito dell’azione, ti trovai addetto al Comando di Caviglia». 83 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 340.
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toria delle armi tedesche, ma anche su quello diplomatico, nel momento in cui il Reich guglielmino, contenuto o battuto sul versante occidentale, avrebbe potuto rivalersi di quelle sconfitte, tramite un accordo diplomatico con Francia e Inghilterra, che potevano consentirgli un’espansione meridionale e mediterranea lesiva della sopravvivenza stessa della nazione italiana. In questo modo, la piccola guerra, che proseguiva il moto ideale del Risorgimento contro il tradizionale nemico, si trasformava nel conflitto assoluto che impegnava nazioni e continenti. La piccola politica estera delle «mani nette» e delle minime avventure africane, ristrette allo scarso spazio del cortile di casa, diveniva non per nostra scelta, ma per quella di avversari e alleati, geopolitica dei grandi spazi. Tutti sanno che gli obiettivi territoriali, per cui noi combattiamo, sono uno dei punti vitali e più gelosamente guardati non solo dall’Austria che li possiede, ma anche dalla Germania che li appetisce o meglio li pone nel quadro della più grande Germania di un avvenire non lontano, li considera una delle sue grandi porte, forse la più importante, sul libero mare, la via maestra verso il Levante. Tradizioni marittime triestine, ben orientate verso i paesi della Turchia asiatica e aspirazioni imperialistiche tedesche combaciano perfettamente. Danubio, penisola balcanica con suo centro a Salonicco, Adriatico sono, per la Germania della ferrovia di Bagdad, un grande territorio che costituisce politicamente unità. Per due anni, la Germania si è contentata di osservare da lontano il duello italo-austriaco. Bastava l’Austria a fronteggiare il comune avversario. E il governo di Berlino poteva trovar opportuno non mettersi proprio allo scoperto contro il popolo italiano, in vista del giorno, chi sa!, di un paese meno irriducibilmente nemico da servir come porta d’ingresso per rientrare nel mondo. Ma si intende che la Germania sarebbe stata materialmente assente, o quasi, solo fino al momento in cui le forze dell’Austria bastassero alla difesa del Carso, cioè di Trieste e Pola, cioè l’Adriatico. Ora che l’Austria vacilla, la Germania interviene. Ed interviene non per dovere di alleata, ma per la difesa di una sua posizione, di una sua ambizione, di una necessità del suo imperialismo europeo e orientale. Noi quindi abbiamo di fronte, in questo momento, non più l’Austria, aiutata dai tedeschi, ma la Germania che costruisce a spese dei popoli mediterranei il suo avvenire. E non dubitiamo neppure che essa non sia per impegnarsi fino a fondo in questa sua impresa meridionale; che essa non vi si dedicherà con quante forze ha disponibili; che non le ritirerà da tutti i fronti pur di poter alimentare la guerra quaggiù, anche dal fronte franco-inglese se necessario. L’ultimo uomo e l’ultimo marco, che non siano necessari per difendere i centri vitalissimi dell’Impero, possiamo esser quasi sicuri che essa li impiegherà per conservare all’Austria, cioè a se stessa, Trieste e l’Adriatico. Se non potrà tener testa ai nemici da tutte le parti, arretrerà, come sta facendo, dal fronte russo; arretrerà dalla province francesi invase, sgombrerà il Belgio; abbandonerà al suo destino l’Alsazia e la Lorena o una parte di esse; ma non arretrerà, salvo quando venisse a mancar il calore della vita nel gran corpo ed esso si raccogliesse tutto nel cuore, dal fronte sud che l’Austria da sola non può più tenere. È molto verosimile – anche se le dicerie relative non circolassero da un pez-
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zo per l’Europa –; è molto verosimile che domani la Germania entrerà in trattative con l’Inghilterra per il Belgio e con la Francia per le province invase; verosimile anche che sarebbe disposta a qualche transazione per l’Alsazia-Lorena; ma non entrerà mai in trattative con noi e con l’Intesa per i territori italiani della monarchia austro-ungarica; non certamente per Trieste e l’Istria, neppure forse per Trento che è un grande punto strategico ed è anche una grande tradizione imperiale germanica non mai scomparsa del tutto e combaciante ora col più moderno imperialismo della Germania industriale e militare84.
Accanto allo spettro dell’imperialismo teutonico, affiorava precocemente in questa pagina anche il tema di una possibile «vittoria mutilata» al tavolo delle trattative di pace, che già largamente circolava negli ambienti politici e militari italiani85. Ma ritornava, più forte, la messa in guardia contro il pericolo di una «Grande Germania» non più ristretta al centro del continente, ma tale da divenire nella sua dinamica espansionistica la protagonista del «gran cozzo» di due stirpi in ascesa, tedeschi e slavi, che Volpe aveva già considerato con preoccupazione, ben prima dell’inizio della guerra, come fattori di dissoluzione della nazione italiana e della sua funzione di antemurale dell’occidente europeo. Con ciò il compito dell’Italia, la responsabilità dell’Italia, cresce e s’aggrava. La storia forse assegna a noi quello che un giorno assegnò alla Francia di Carlo Martello, che salvò l’Europa dagli arabi; quello che assegnò alla Polonia di Sobiescky che la salvò dai turchi. Grande onore, ma anche grande onere. Bisogna essere disposti a tutto. Bisogna andare incontro con l’animo risoluto a tutti i sacrifici. Affrontarli oggi potrà voler dire risparmiarli domani o, meglio, impedire che si crei in Europa e nell’Italia nord-orientale una situazione che domani neppur con i sacrifici di oggi potremo più modificare. Perché è bene persuadersi di questo: ciò che oggi si edifica nella storia d’Europa avrà la durezza e la resistenza del granito, sia conforme o contrario a quel che è o noi riteniamo giustizia, diritto ecc. ecc. La conseguenza della guerra e della vittoria avranno un’ampiezza ed una ripercussione nel tempo proporzionale all’immane sforzo sostenuto per combatterla o per vincerla. Senza contare che oggi nazioni e governi hanno ben altri mezzi che una volta per consolidare una situazione creata dalla guerra, per far scomparire le tracce delle situazioni precedenti, per render difficile così ogni restante reazione, anzi per distruggere quasi ogni titolo di diritto antico. Un grande Impero delle genti germaniche che si protendesse fino all’Adriatico, attraverso la barriera alpina, e gravitasse verso il sud, con i suoi commerci, le sue ferrovie, la sua navigazione, la sua espansione demografica, sarebbe cosa che nessuna coalizione europea potrebbe distruggere. La coalizione europea ha solo la possibilità di impedire che ora si costituisca. Che tutti
84 G. VOLPE, Grande onore e grande onere, «La Sera», 30 ottobre 1917, p. 1. 85 P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, cit., pp. 451 ss.
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compiano la loro parte nel lavoro comune. E la compiano specialmente gli italiani, il cui avvenire è in ginocchio più che non quello degli inglesi o dei francesi o dei russi. Solo i ciechi oggi possono non vedere quel che prima per molti era una affermazione di carico interventista: noi oggi combattiamo non per un pezzo di terra ma per la nostra esistenza. Si tratta per noi, come per i nostri padri, di essere o non essere come nazione autonoma: di rimanere vivi e liberi al posto che la storia ci ha assegnato, oppure di avvizzire all’ombra della grande Germania e scomparire assorbiti da essa86.
Anche nell’editoriale immediatamente successivo, Volpe insisteva sul possibile, futuro assetto internazionale, successivo alla fine del conflitto, lasciando, questa volta, trapelare nuovamente il suo scetticismo nei confronti di un’alleanza, che avrebbe potuto incrinarsi, a guerra ultimata, consentendo all’Austria di mantenere gran parte dei suoi domini meridionali, in funzione dichiaratamente anti-italiana. Di qui la necessità di uno sforzo bellico, che doveva avere per obiettivo non il ridimensionamento ma la distruzione del sistema imperiale austriaco. Di uno sforzo, che l’Italia doveva compiere in larga autonomia, senza attendere e senza nemmeno augurarsi un intervento risolutivo di alleati, incerti e molto ben disposti, ancora tra primavera ed estate del 1917, alla firma di una pace separata con l’Austria, anche a costo di sacrificare gli obiettivi italiani della guerra e forse addirittura la sua stessa integrità territoriale87. Sarà più grande il merito nostro se l’Austria sarà insieme con la Germania vinta: ma sarà più grande il nostro danno se l’Austria e la Germania vinceranno. E per quel che riguarda l’Austria, essa vincerà solo che riesca a fare partita patta. Bisogna persuaderci noi italiani che o l’Austria sarà ridotta al suo nucleo centrale tedesco-magiaro: o se no, essa, sanate come gli altri le sue ferite, si sentirà e sarà più solida di prima. Le forze che avranno resistito fino all’ultimo e salvato l’Impero dalla catastrofe: cioè la monarchia, l’esercito e i funzionari, si troveranno ad avere un rinfrescato orgoglio, una più alta coscienza di sé, tanto maggiore quanto maggiore il pericolo corso. E saranno energia, orgoglio, coscienza non fondati solo su la forza materiale. Avranno a sostegno una idea: l’idea della legittimità ed intrinseca bontà dello Stato plurinazionale. […] In questo caso, l’Austria forse potrebbe ripetere, con più audacia, che il mutamen-
86 G. VOLPE, Grande onore e grande onere, cit. 87 Sull’austrofilia di Francia e Inghilterra, disposte ad accogliere la proposta di pace che
il gabinetto di Vienna aveva inoltrato, il 5 marzo 1917, attraverso il principe Sisto di Borbone, si veda, L. ALBERTINI, Venti anni di vita politica. II. Dalla dichiarazione di guerra alla vigilia di Caporetto, maggio 1915-ottobre 1917, Bologna. Zanichelli, 1952, pp. 546 ss.; A. GATTI, Caporetto, cit., pp. 58 ss., alla data del 6 giugno 1917. Sul punto concordava anche Leonida Bissolati, in un articolo del febbraio 1920, citato in I. BONOMI, Leonida Bissolati, cit., pp. 201-202. Sulle trattative per un pace separata con l’Austria, L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 350 ss. e 451 ss.
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to della carta politica europea dal 1859 al 1866 non è definitivo e che essa allora fu vittima di una sopraffazione, dovè cedere ad una ventata di effimere ideologie della cui debolezza darebbe testimonianza la presente guerra, non provocata ma certo alimentata e colorita da esse. E chi sa: poco poco che l’Austria mettesse un piccolo fosso tra sé e la Germania potrebbe riguadagnare le vecchie simpatie dell’Europa, ora appena e non da per tutto coperte da un leggero strato di cenere calda. E chi sa ancora noi ci troveremo dinnanzi al bivio antico in presenza dell’Austria: o alleati o nemici88.
Soprattutto nella tragica congiuntura provocata dall’«autunno nero» del 1917, l’Italia doveva ancora una volta «fare da sé», come Volpe sottolineava in un nuovo articolo redatto alla vigilia del luttuoso Natale di guerra di quello stesso anno, nel quale si invitava a considerare la poderosa violenza dell’offensiva nemica come la conferma postuma e definitiva del carattere necessario e ineluttabile dell’intervento italiano nel conflitto attuale. Un così grande e vario e meditato sforzo nemico, in vista di risultati non contingenti o transitori per colpirci e demolirci, vuol dire che la guerra fra noi ed essi era implicita e sottintesa anche durante la neutralità: vuol dire che essa non è stata un’avventura da noi leggermente cercata e facilmente inevitabile, quasi perché fuori dalla natura delle cose, ma la manifestazione di un fatto organico, malamente dissimulabile entro le pieghe della vita europea. Noi non abbiamo fatto se non scegliere il momento migliore, e prendere l’iniziativa per non doverla subire. Noi non abbiamo di un amico fatto un nemico, ma prevenuto il nemico. Noi potevamo starcene fermi, ed esso ci avrebbe in qualche momento cercato. O forse no! Potevamo evitarlo: ma rinunciando a tutto, consentendo a tutto, assentandoci, dichiarandoci vinti prima di combattere e senza combattere. Facendo astrazione dai modi particolari con cui la guerra si è svolta e guardando solo al suo nocciolo, noi avremmo potuto più facilmente concepir neutrale la Francia che non l’Italia – un’Italia che voglia essere viva naturalmente! – il paese che, insieme con la Russia e l’Inghilterra, era più in mezzo ai problemi centrali della presente guerra89.
Ma la necessità vitale di uscire vincitori sul campo doveva provocare, pena la «morte della patria», uno sforzo di mobilitazione nel paese, sul fronte militare come su quello interno, e, nel governo, una funzione di guida, di stimolo, di indirizzo, che, allo stato delle cose, ancora non appariva adeguata alla gravità dell’ora. I punti oscuri della nostra situazione presente sono molti. Ma il più oscu-
88 G. VOLPE, Con l’Italia e contro l’Austria, «La Sera», 4 novembre 1917, p. 3. 89 ID., Le due offensive, ivi, 20 dicembre 1917, p. 1.
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ro è, per ormai generale consenso, lassù, dove seggono il timoniere e i vari timonieri del paese in guerra. Più i giorni volgono e si aggravano e più noi dubitiamo che del potere loro conferito facciano un uso adeguato alle necessità della guerra. Anche certi loro recenti discorsi parigini e romani, vuoti, scialbi, senza nessuna eco degli eventi gravi che il paese ha vissuto, senza segni rivelatori di una personalità, senza propositi, senza idee direttive che abituino anche la nazione ad orientarsi; certe recenti interviste, in cui l’Italia era presentata umile e contrita, nell’atto di stendere le mani supplici agli alleati, dimentica di quanto pur ieri proclamava suo diritto; questi discorsi e queste interviste hanno malamente inaugurato l’ultima e più terribile fase della guerra italiana. Bisogna che le azioni valgano più delle parole. E fra esse, questa si impone, sopra tutte, ora: incoraggiare, guidare, illuminare le forze di resistenza che nel paese ci sono; tener testa alle forze interne di dissoluzione su cui il nemico ha fatto assegnamento. Noi non vogliamo essere semplicisti. Sappiamo che talune di queste forze di dissoluzione sono impersonali, impalpabili, diffuse: si chiamano la “storia d’Italia”. Ma altre ve ne sono sufficientemente individualizzabili. E il governo le conosce, le ha vicino e le può, comunque, dominare. Deve dominarle90.
Era un nuovo atto d’accusa contro i difetti di un sistema parlamentare e di una classe politica discutidora, poco incline ad assicurare una gestione «autoritaria» dello stato di emergenza e quindi incapace di assicurare quella salda catena di comando all’interno del paese, che la nuova dimensione della guerra, come «attività totalitaria»91, rendeva indispensabile, frantumando la tradizionale separazione tra fronte civile e fronte militare92. Un atto di accusa che Volpe avrebbe riprodotto e amplificato, all’interno di Ottobre 1917, che alla sua comparsa, nel 1930, suscitava la risentita reazione del massimo responsabile del governo di guerra, Paolo Boselli. Questi inviava a Volpe, una circostanziata analisi del volume, che esprimeva il suo dissenso sulle osservazioni relative alla mancata capacità del governo di rafforzare la tempra morale del paese, già a partire dalla primavera-estate del 191793. Ma le obiezio-
90 Ibidem. 91 G. VOLPE, Ottobre 1917, cit., p. 55. 92 Sul carattere del primo conflitto mondiale, come «guerra totale», nella prospettiva
delle varie nazioni impegnate nello scontro, si vedano: R. CHICKERING, Imperial Germany and the Great War, 1914-1918, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; S. ADOUINROUZEAU-A. BECKER-L. V. SMITH, France and the Great War, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; M. HEALY, Vienna ad the Fall of the Habsburg Empire. Total War and Every Life in World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2004. 93 Paolo Boselli a Gioacchino Volpe, 1 marzo 1930, FV: «L’accusa è grave. Tocca la moralità. Chi si strinse nelle spalle? Per un fatto simile non provato con serietà di precisione, io ho ragione di dolermi». Dove il rimando è a G. VOLPE, Ottobre 1917, cit., pp. 54-55: «Ma, in un paese di scarsa compattezza morale come il nostro, tutte le cause di debolezza agivano con più vigore che altrove. Molte voci si levarono ad invocare austerità di vita. Vi furo-
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ni di Boselli si soffermavano soprattutto sul passo di Volpe, dove si criticava l’operato del suo ministero, nei giorni immediatamente successivi il disastro militare, il quale «ormai non si reggeva più, corroso dai dissidi interni, dalla sfiducia del Comando Supremo, dalla stessa sua incertezza di direttive, portato come era dal suo patriottismo a dare ragione ai gruppi interventisti reclamanti una politica di guerra, e dal suo liberalismo a dar ragione a chi gridava alto i diritti del parlamento e dei partiti»94. A quelle accuse, Boselli rispondeva dettagliatamente in un lungo paragrafo della sua lettera, dove si insisteva sul carattere ancora tutto «parlamentare» della gestione del conflitto. Qui la parola non solo eccede, ma di certo non rappresenta il pensiero. Si può dar giudizio di mancata repressione, ma che siasi data ragione a chi “alto” gridava, non fu mai detto perché troppo diversa è la verità. Ella non ebbe tempo a vedere i miei discorsi nel Parlamento e nel Paese. Di certo non fu grido che siasi passato senza energica condanna. Mai si fu indulgenti o pieghevoli verso le affermazioni, i voti, le pretensioni dei nemici della Patria. Mancò l’animo della guerra… Ma si contarono i milioni, si crearono tutti gli strumenti di guerra, in fretta, largamente. Si eccitò il Paese tanto che se ne rifece in gran parte il sentimento. Un Dittatore, non Guerriero, a che avrebbe giovato? E l’Italia nel ’17 era costituita nelle libertà. E la forza era al campo. Il “Caporetto” attribuito alla condizione interna del Paese, fu uno di quelli alibi che Cadorna avea costume di inventare nel suo orgoglio egoistico. Caporetto fu un errore militare tecnicamente e moralmente. Non si previde ciò che era prevedibile. Il morale dell’esercito, capi e soldati, fu alterato, confuso, stancato, guasto al campo. In somma, il Ministero ch’io ho presieduto evitò i conflitti interni che avvennero in altri paesi. Guardate quale fu il paese dopo Caporetto. Se avessimo inasprite le irose contese fino alla guerra civile, si sarebbe serbata quell’Italia che vinse?95
Sulle «debolezze della vita italiana», impari a misurarsi con le esigenze di un nuovo secolo ferreo, Volpe sarebbe ritornato in un articolo del gennaio 1918, dedicato a stigmatizzare «gli sforzi pacifisti della Curia, così rispondenti alle necessità degli Imperi centrali, così ben inquadrati nei loro sforzi di pace, così sfruttati se non anche sollecitati da loro»96. Debolezze, che anche il fronte democratico-interventista stigno interpellanze al governo nel luglio; misure disciplinari in taluni stabilimenti dello Stato, a carico del personale femminile; una lettera dell’Episcopato lombardo a Boselli, perché provvedesse contro la stampa immorale, gli spettacoli pubblici, ecc. Generalmente, il Governo si stringeva nelle spalle: “c’è poco da fare!”. E adduceva anche i bisogni del fisco, che non poteva rinunciare a notevoli cespiti d’entrata, anche se dati dal vizio». 94 Ivi, pp. 89-90. 95 Paolo Boselli a Gioacchino Volpe, 1 marzo 1930, cit. 96 G. VOLPE, Debolezze della vita italiana, «La Sera», 17 gennaio 1918, p. 1. La polemica contro il neutralismo cattolico sarebbe continuata in ID., Ottobre 1917, cit., pp. 44 ss.
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matizzava97, ma che a Volpe apparivano inconcepibili in una nazione che non solo doveva vincere la guerra ma prepararsi anche ad affrontare le difficili sfide del dopoguerra. La finis Austriae, che ormai appariva imminente dai tanti sintomi di dissoluzione dell’antica compagine interetnica e sopranazionale, poteva ancora essere scongiurata o rimandata in virtù degli sforzi del governo di Vienna per una pace separata, «senza indennità e senza annessioni», e grazie alle «persistenti simpatie americane ed europee per la veneranda monarchia degli Asburgo», al malinteso «ottimismo di molti circoli politici neutrali e intesisti sull’avvenire di un’Austria federale e liberale», all’azione sotterranea delle «influenze bancarie e di quelle clericali»98. Ma anche evitato questo rischio, la scomparsa di quel sistema politico millenario dalla carta geografica del continente non poteva costituire il solo guadagno della competizione bellica, assicurando la libera espansione delle nazionalità e delle dinamiche democratiche nell’Europa orientale, così come aveva auspicato, con ingenuo ottimismo, Salvemini, a nome del fronte democratico nel 191599. La realtà, insisteva Volpe, era ben diversa dal sogno di questa diplomazia democratica. Per molti è formula nuova della guerra questo delenda Austria, la accettino o no. Ma è idea vecchia per altri, vecchia quanto la guerra, implicita anzi nella guerra stessa dell’Europa e, più dell’Italia, per i noti fini di difesa anti-germanica e di rivendicazioni nazionali. E veramente riusciva difficile credere che si potesse colpire la Germania durevolmente e costruire qualcosa di non effimero nel cuore dell’Europa, senza accompagnare o trasformare ab imis l’AustriaUngheria. Difficile fare buon viso, come l’Intesa ha fatto, ai vari irredentismi austriaci, prendere in considerazione i vari problemi nazionali dell’Austria-Ungheria, in attesa di risolverli secondo principi diversi e opposti a quelli su cui l’Austria si regge, senza dare origine ad un problema nuovo e diverso, non somma, ma sintesi, se pure non enunciata: il problema dell’Austria-Ungheria e dell’assetto politico della regione danubiano-carpatica100.
Il collasso dell’Impero asburgico, che non avrebbe certamente determinato la fine delle competizioni internazionali con un’«immancabile reazione pacifista», come sempre Salvemini ipotizzava101, poteva in-
97 A. CRESPI, Le illusioni dei pacifisti, «L’Unità», 20 marzo 1918, in L’Unità di Gaetano Salvemini, cit., pp. 425 ss. 98 G. VOLPE, Il quarto d’ora dell’Austria, «La Sera», 16 febbraio 1918, p. 1. 99 G. SALVEMINI, Finis Austriae, «L’Unità», 12 marzo 1915, in ID., Opere complete. III. 1. Come siamo andati in Libia, cit., pp. 491 ss. 100 G. VOLPE, Il quarto d’ora dell’Austria, cit. 101 G. SALVEMINI, La guerra per la pace, «L’Unità», 28 agosto 1914, ivi, pp. 359 ss.; ID. Le garanzie della futura pace, «L’Unità», 28 maggio 1915, ivi, pp. 525 ss.
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vece fare dell’Italia l’attore privilegiato di un riassetto complessivo dello scenario internazionale, nel quale antichi equilibri di potenza sarebbero scomparsi solo per esserne sostituiti da nuovi, in funzione dell’avanzata di nuovi popoli che si affacciavano, per la prima volta o con rigoglioso vigore, alla ribalta della storia. Tra questi, i romeni, i cecoslovacchi, i boemi, i polacchi e soprattutto le popolazioni slave meridionali. Nei confronti di queste ultime, l’opinione pubblica italiana, della quale si faceva portavoce autorevole il «Corriere della Sera»102, si sforzava di cogliere una «concordanza di interessi» e «una facilità d’intesa», con un eccessivo e colpevole ottimismo, davvero smemorato nei confronti di quella che era stata la sfida secolare della Slavisierung sul nostro confine nord-orientale. Visione ottimistica delle cose, dunque, in taluni addirittura rosea. Un ottimismo così fatto è certamente eccessivo. Comunque esso poggia più sopra certe presunzioni, sulla fede nella mirabil virtù di taluni “immortali principi”, su effettive necessità e convenienze dell’immediato presente che non sopra esperienze già fatte o sentimenti un poco già consolidati. Tuttavia l’ottimismo è sempre buon viatico a chi si mette in cammino, se esso non è disinvoltura e facilismo, se esso ha il senso di certi suoi propri limiti. Aiuta a vincere gli ostacoli che sempre si presentano lungo la via. Quali per noi gli ostacoli? Non sono insuperabili, ma pure bisogna rendersene conto103.
Su questa esigenza di realismo verso i rischi di una possibile «minaccia slava», che aveva costituito uno dei punti qualificanti del programma liberal-nazionale104, Volpe tornava a insistere, e questa volta senza eufemismi, alla fine di febbraio del 1918, in un articolo, che intendeva porre le basi della discussione per la risoluzione dei futuri rapporti italo-slavi, rintracciando nel passato prossimo e remoto gli elementi di scontro e di incontro tra i due popoli. Maggiori i primi dei secondi, soprattutto, a partire dalla metà del XIX secolo, quando l’Austria aveva utilizzato quell’etnia in funzione dichiaratamente anti-italiana, all’interno del complesso gioco del «divide et impera» che costituiva uno dei punti di forza della politica imperiale. Lungo il margine occidentale e adriatico, gli slavi del sud si urtavano con l’Italia: essi, numero e impulso un po’ istintivo, come di genti primitive, marcianti nella direzione del sole e degli astri; noi cultura e storia. Essi, spirito ag102 L. ALBERTINI, Venti anni di vita politica. II, cit., pp. 532 ss. 103 G. VOLPE, Italiani e slavi austriaci contro l’Austria, «La Sera», 21 febbraio 1918,
p. 1.
104 La minaccia slava e il dovere italiano, in «L’Azione», 2 agosto 1914, p. 2: «Nella guerra europea il segno alle nostre armi sarebbe ad oriente, e non a occidente».
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gressivo, noi istinto e sforzo di conservazione. Da una parte, l’appoggio aperto degli organi di uno Stato per il quale contrapporre nazionalità a nazionalità è sistema e forse condizione di vita; dall’altra, quasi solamente le proprie forze, alimentate tuttavia dal senso di un diritto e di un dovere a conservar posizioni ricevute dai padri, dalla coscienza di derivare da Roma i propri istituti cittadini e di essere stati parte del gran moto municipale italiano nel Medio Evo, dal ricordo di un secolare legame strettissimo con la più gloriosa di queste repubbliche, Venezia, e pel suo tramite con l’Italia105.
Dopo la fine del conflitto, ultimato l’Italia il proprio processo di unificazione e di consolidamento nazionale, e iniziato questo stesso processo le popolazioni slave, tale strisciante conflittualità, che a tratti ricordava il bellum perenne tra barbarie e civiltà, poteva e doveva certamente cessare, con mutua soddisfazione delle due parti. Anche altri popoli, infatti, avevano diritto al loro «Risorgimento», alla piena soddisfazione di loro interessi e obiettivi di lunga data. Ma non con la rinuncia, da parte dell’Italia, a una sua naturale espansione verso Oriente, non soprattutto al costo del sacrificio delle sue esigenze di sicurezza in un continente, che la guerra avrebbe lasciato fortemente destabilizzato, in preda a vecchi e nuovi egoismi nazionali, ad antichi e recenti sentimenti di rivalsa, e forse a moti di sopraffazione reciproca e di reciproco annientamento. Noi Italiani siamo disposti a inquadrare le nostre particolari questioni entro le più vaste e generali questioni; disposti a veder accanto a problemi vitali della nazione italiana, problemi vitali di altre nazioni che si affacciano ora alla storia: ma non a subordinare le prime alle seconde. Qui ci si può parare di un diritto nostro a non metterle e non vederle messe tutte sullo stesso piano in nome di una astratta giustizia. Specificare qui è utile. Gli Italiani intendono ed intendono gli jugo-slavi. Sono disposti essi ad ammettere come legittima questa nostra esigenza? La base di ogni discussione e di ogni intesa è qui, anche se in questo momento una bell’aria di rinuncia tira per il nostro paese, e si giudicano con serena indulgenza le manifestazioni del giovane e promettente nazionalismo jugo-slavo, riserbando tutti gli strali per colpire il nazionalismo italiano, nutrito di midolla prussiana. Questi tre anni di guerra – a non parlare che di essi – non ci lasciano ricordi molto buoni. Quasi tutti i capi del movimento jugoslavo si sono profusi in una dura propaganda italofoba per le capitali dell’Intesa e dei paesi neutrali, hanno suscitato antipatie e sospetti contro di noi, si sono affiatati con quei circoli politici che erano assai meglio disposti verso l’Au-
105 G. VOLPE, Gli slavi dell’Austria contro l’Austria, «La Sera», 28 febbraio 1918. Sulla slavizzazione del litorale orientale adriatico, promossa dall’Austria, Volpe sarebbe tornato a più riprese nelle sue opere. Si veda, ID., L’Italia in cammino, cit., pp. 105 ss.; ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 114 ss. e 145 ss.
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stria che verso l’Italia. Certo qualcosa è mutato nel loro atteggiamento. Ma nei rapporti nostri finora è cambiato più il suono che la sostanza delle parole. La lettera dell’on. Trumbic!, al Secolo di giorni addietro aveva accenni fraterni. Ma davanti agli occhi dello scrittore era solamente la sua Slavia del sud. A proposito della Dalmazia, per esempio, “chi consiglia l’Italia a cercar misure di sicurezza strategica contro di noi jugoslavi, piccolo popolo non ancora costituito, fa l’interesse non dell’Italia, ma della sua grande nemica”. Non contro gli jugoslavi, on. Trumbic!, ma per l’Italia. L’avvenire è nella mani di Dio, e neppure dopo questa guerra le spade saranno convertite in aratri!106.
Ancora una volta, a guerra ormai quasi terminata, ma senza ancora una vittoria decisiva delle armi italiane, ombre minacciose si addensavano sull’antico limes dell’est, come Volpe tornava a ripetere, fino al dicembre del 1918, in altri interventi giornalistici107. Ed erano minacce provenienti da alleati malcerti, da antichi e nuovi antagonisti, come avrebbe dimostrato l’andamento del Congresso dei popoli soggetti all’Austria-Ungheria, svoltosi a Roma nella seconda settimana di aprile e conclusosi con un nulla di fatto proprio per quello che riguardava un possibile accordo tra i rappresentanti italiani e la delegazione guidata dal leader nazionalista slavo Ante Trumbic!, a proposito del futuro possesso di Istria e Dalmazia108. Erano sintomi premonitori di un «nuovo 1866»109, e peggio avvisaglie di una sconfitta diplomatica, contro la quale il fronte interno pareva incapace di reagire, come Volpe avrebbe comunicato alla moglie nella lettera della fine di agosto. Ora spero di assistere da vicino al periodo conclusivo della guerra. Il quale sembrerebbe, a lume di naso, piuttosto vicino, almeno relativamente, per esempio non più di un anno dal tempo presente. È difficile poi credere che l’estate finisca senza che vi sia nulla sul nostro fronte. Si è col cuore sospeso! Da una parte si pensa che l’ultima fase della guerra avrà una violenza estrema anche da noi, anzi io credo specialmente da noi; dall’altra, si è incalzati dal desiderio di far presto. Che cosa accadrebbe se la guerra mondiale dovesse risolversi sul fronte francese, senza che noi riuscissimo ad oltrepassare il Piave? Rifiuto anche solo di pensare che si debba ripetere il 1866, non dico la sconfitta, ma l’acquisto del Veneto per l’effetto della vittoria altrui, e di trattative diplomati-
106 ID., Gli slavi dell’Austria contro l’Austria, cit. 107 ID., Quadretti di maniera. L’Italia prepotente e l’Italia saggia, «La Sera», 14 dicem-
bre 1918, p. 1; ID., Duello mortale, ivi, 31 dicembre 1918, p. 1. 108 I. BONOMI, Leonida Bissolati, cit., pp. 206-207; L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., pp. 393 ss. 109 A. SOLMI, Il Risorgimento italiano, cit., p. 193: «La fine della guerra minacciava di trovare l’Italia sul Grappa e sul Piave; sicché anche le giuste rivendicazioni italiane pareva dovessero venire, come nel 1866, non già a titolo di dovuto premio, ma come un dono di circostanze favorevoli».
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che! Ci scommetto che questo è, oltr’Alpe, l’ideale di molti, di amici e nemici. Certo, se fossi francese, lo desidererei. Ma sarebbe un disastro mortale per noi, quasi quasi preferirei rimaner come ora e rimettere alla generazione che verrà il compito di ricominciare. Hai seguito il pasticcio jugoslavo? Mi pare che diventi o ridiventi sempre più pasticcio. Sarebbe la prima grande delusione degli idealisti ad oltranza. Ma che cosa buffa che ci sia in Italia tanta gente che si sbraccia a far dichiarazioni amorose, a stender braccia verso l’altra sponda, a confidare in un eterno idillio, e, dall’altra parte, rispondono picche, rispondono, ammiccando a Trieste, a Gorizia, e magari a Udine; parlando di parità di diritti e di equiparazione delle lingue. Dove? Di fronte a chi? Certo in Austria di fronte a tedeschi e magiari. Dunque, si vogliono accomodar cogli Asburgo! E il delenda Austria? È proprio sempre vero che di nemici dell’Austria ce n’è uno solo: l’Italia. Che Dio non voglia che gli Alleati non ritornino alla vecchia amicizia anche essi. Certo che ora in Francia han ripreso a stampare gli esuli jugoslavi la solita letteratura a base imperialistica. Si intravede una rete formidabile di intrighi di ogni genere, in mezzo a cui deve essere terribilmente difficile non rimanere impigliati. Certo Sonnino lo vede o sospetta, perché sta zitto non ostante l’abbaiare della muta italo-jugoslava110.
Stessi angosciosi interrogativi ed eguali preoccupazioni, presenti anche nella corrispondenza di Ojetti111, erano stati trasmessi in chiaro nella campagna di stampa, intrapresa da Mussolini a partire dal dicembre 1917, contro l’«aggressivo imperialismo jugoslavo che giunge sino a Cividale, sino al Friuli e un po’ più in là»112. Campagna di stampa e di opinione, che capovolgeva radicalmente le ragionevoli conclusioni sul problema dalmata, a cui il direttore del «Popolo d’Italia» era pervenuto nella primavera del 1915, per frenare le «infatuazioni imperialistiche» del nazionalismo italiano, da lui definite inconciliabili con l’«orbita delle idealità socialiste» alle quali dichiarava di voler restar le110 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 agosto 1918, cit. Sull’attività degli esuli slavi anche in funzione anti-italiana, attiva già dal 1914, poi consolidatasi con la creazione del Comitato jugoslavo, alla fine di aprile del 1915, un quadro eccessivamente simpatetico è in L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., pp. 157 ss.; 195 ss. 111 U. OJETTI, Lettere alla moglie, cit., pp. 606-607, alla data del 12 ottobre 1918: «In quel gioco tutto di uomini e di caratteri, di simpatie, di energie individuali che sarà il Congresso della Pace, noi verremo dopo la Grecia, dopo la Serbia, dopo la Boemia. La quale sta per avere i suoi ministri presso ogni capitale dell’Intesa, e siederà alla pari a quel Congresso. E così avverrà della Jugoslavia, se Sonnino non si convincerà di farla rappresentare dalla Serbia». 112 B. MUSSOLINI, Al cittadino Mouet, «Il Popolo d’Italia», 30 dicembre 1917; ID., Il motivo, ivi, 10 gennaio 1918; ID., Dopo il grande messagio di Wilson, ivi, 11 gennaio 1918; ID., I popoli contro l’Austria-Ungheria, ivi, 17 gennaio 1918; Problemi, ivi, 24 gennaio 1918; ID., Problemi dell’ora, ivi, 28 gennaio 1918; ID., In margine alla polemica, 28 agosto 1918 in ID., Scritti e discorsi adriatici. II. Dal Piave alla Vittoria, a cura di E. Susmel, Milano, Hoepli, 1943, pp. 120-121; 137-140; 141-145; 157-160; 169-172; 173-178; 325-329.
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gato113. Campagna ormai tutta sciovinista, che sarebbe culminata, il 2 settembre 1918, nel violento articolo di ripulsa alla proposta inglese, contenuta in una rassegna dello «Spectator», che invitava l’Italia a non insistere sulle sue rivendicazioni relative alle coste della Dalmazia, non essendo, in alcun modo, in gioco, con quell’acquisto territoriale da parte del nuovo Stato jugoslavo, la sicurezza della Penisola in quel quadrante dello scacchiere mediterraneo. A quel suggerimento, Mussolini reagiva senza mezzi termini invocando non soltanto l’essenziale «valore strategico» di quelle terre, che proprio l’esperienza del recente conflitto doveva aver insegnato ad apprezzare, ma anche i principi della «politica delle nazionalità», che non potevano essere chiamati a sostegno e a beneficio esclusivo di altri popoli, per conculcare la profonda e secolare italianità di Zara, Traù, Sebenico e Spalato114. Si trattava di argomenti, contraddetti già da Prezzolini115, e poi con maggior convinzione da Gaetano Salvemini nel volume La questione dell’Adriatico, pubblicato nei primi mesi del 1918, ma redatto già nell’estate del 1916116. Volume che avrebbe dato luogo a una vivace polemica giornalista ingaggiata con Mussolini e gli esponenti dell’ala nazionalista e imperialista dell’opinione pubblica117, che si rifacevano alle tesi dell’aggressiva crociata antislava, agitate da Virginio Gayda fin nel 1914. Bisogna esaminare più da vicino il movimento degli slavi del sud. Non si può astrarne parlando del problema adriatico. La sua importanza risulta da questi principi: esso è una corrente storica di popolo che precipita fatalmente verso una soluzione: nessuna forza può più arrestarla o deviarla definitivamente: qualunque sia la soluzione, ne uscirà mutato l’aspetto interno dell’Austria,
113 ID., Italia, Serbia e Dalmazia, «Il Popolo d’Italia», 6 aprile 1915, ivi, cit., pp. 95 ss. 114 ID., Opinioni inglesi, «Il Popolo d’Italia», 2 settembre 1918, ivi, pp. 331 ss. 115 G. PREZZOLINI, La Dalmazia, in «La Voce», 7 maggio 1915, pp. 7 ss.; ID., Letture
sulla Dalmazia, ivi, 7 giugno 1915, pp. 10 ss., poi raccolti in ID., La Dalmazia, Firenze, Libreria della Voce, 1915. Sulla lunga storia della «questione dalmata», si veda L. MONZALI, Italiani in Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra. Firenze, Le Lettere, 2005. 116 G. SALVEMINI, La questione dell’Adriatico, in ID., Dalla guerra mondiale alla dittatura, 1916-1925, a cura di C. Pischedda, Milano, Feltrinelli, 1964, in particolare pp. 395 ss. Ma sul «trabocchetto dalmatico» e la propaganda nazionalista, si veda il precoce pronunciamento, La Dalmazia, in «Il Secolo», 9 novembre 1914, in ID., Come siamo andati in Libia, cit., pp. 370 ss. 117 ID., Austria e Dalmazia, «L’Unità», 17 gennaio 1918, in ID., Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., pp. 147 ss. In replica, B. MUSSOLINI, Discussioni, «Il Popolo d’Italia», 22 gennaio 1918, in ID., Scritti e discorsi adriatici. II., cit., pp. 161 ss., in particolare pp. 163-164: «Insomma: se gli sloveni, i croati e i serbi hanno diritto di non essere italianizzati per forza, lo stesso diritto di non essere violentemente serbizzati o croatizzati lo hanno o non lo hanno anche gli italiani delle città e dei villaggi lungo il litorale dalmata? Perché questi italiani esistono. Diciamo: esistono. Non solo, ma rappresentano l’elemento indigeno».
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ne sarà profondamente toccato il sistema politico-nazionale della costa orientale dell’Adriatico, con una immediata ripercussione sugli italiani d’Austria e su tutta l’italianità adriatica118.
118 V. GAYDA, L’Italia d’oltre confine. Le provincie italiane d’Austria, Torino, Fratelli Bocca, 1914, p. 311.
2. DOPO LA VITTORIA 1. Tra Mussolini e Salvemini, in mezzo al guado di queste due contrastanti posizioni, che sulla questione orientale dividevano l’intero schieramento politico italiano fin dalla vigilia della guerra1, sembrava collocarsi Volpe, che, nell’intervento pubblicato sulla «Sera» del 26 marzo 1919, pur dichiarandosi non disposto a sacrificare sull’altare degli «immortali principi» la politica di potenza nazionale, si dichiarava contrario ai contenuti del memoriale del 7 febbraio, che la delegazione italiana aveva presentato al tavolo delle trattative di pace, domandando l’annessione di Fiume e l’ampliamento della parte della Dalmazia attribuita all’Italia prima dell’entrata in guerra2. Richieste che si basavano non solo e non tanto su ragioni di carattere strategico quanto sulla necessità di contenere l’irredentismo slavo sui territori giuliani, che avrebbe potuto innescare un nuovo conflitto nella regione. Anche all’infuori della sicurezza militare e della compattezza geografica indispensabili per un confine di transazione, un confine che non si appoggiasse ad elementi di terreno ben definiti, non potrebbe né risolvere completamente il conflitto nazionale che si teme dall’inclusione di minoranze slave nel nostro confine, né avrebbe alcuna solidità economica. Gli sbocchi naturali delle zone slavizzate (del resto poco densamente abitate) sono la pianura veneto-friuliana e i porti italiani della Venezia Giulia, da Trieste a Fiume. Se codeste zone abitate ora prevalentemente da slavi, appartenessero ad uno Stato diverso dal nostro, esse diventerebbero inevitabilmente centri di nazionalismo esasperato contro gli italiani, tenderebbero inevitabilmente al mare, potrebbero esercitare con grande energia, soccorsa anche dal retroterra sloveno e croato, una pressione minacciosa sulle nostre terre di confine, tenendo questo in continua agitazione e i due Stati confinanti in continua tensione3.
1 R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 159 ss. 2 G. VOLPE, Ancora Fiume e Dalmazia, in «La Sera», 26 marzo 1919, p. 1. 3 Memoriale della Delegazione italiana alla conferenza della pace, 7 febbraio 1919 (sun-
to pubblicato dall’Agenzia Stefani, il 12 febbraio), in appendice a L. FEDERZONI, Il Trattato di Rapallo, Bologna, Zanichelli, 1921, pp. 209-210. Il testo integrale delle richieste italiane è in A. GIANNINI, Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, Roma, Istituto per l’Europa Orientale, 1934, pp. 13 ss.
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Forse per un’insufficiente conoscenza dei dissidi etnici di quelle zone, Volpe sembrava sottovalutare queste minacce, e, pur tenendo fermo sull’esigenza dell’acquisto di Fiume, paragonava gli orientamenti dei delegati italiani a una manifestazione di sorpassato «irredentismo», se non addirittura di «imperialismo sentimentale». Chiedere la Dalmazia, solo perché in essa l’opinione pubblica italiana ravvisava «un bel frammento d’italianità e di romanità minacciato di brutale sterminio da quei vecchi croati di trista memoria», costituiva grave errore politico. Se accordata, infatti, la concessione di quel territorio sarebbe stata usata dagli Alleati contro l’Italia, al momento di discutere i più importanti compensi coloniali. Il problema dalmato restava, tuttavia, al centro dell’attenzione di Volpe, che il 22 marzo, da Milano, aveva informato la moglie di una sua prossima missione a Trieste e oltre Trieste. Nella lettera, si prendeva ormai coscienza del cattivo andamento delle trattative di Versailles, proprio per quello che riguardava le ambizioni adriatiche italiane. Queste rischiavano di venir travolte da un uso largamente strumentale del principio wilsoniano dell’«autodeterminazione dei popoli»4, soprattutto da parte della Francia, anche in spregio alla lettera e allo spirito del Patto di Londra del 26 aprile 19155, ai cui protocolli l’Italia aveva subordinato il suo appoggio all’Intesa, ottenendo, in virtù del quinto articolo del trattato, «la province de Dalmatie dans ses limites administratives actuelles». Debbo andare a Trieste. Ed è possibile che faccia un viaggio solo con la Dalmazia. I tempi stringono. A Parigi stanno per decidere e, pare, negativamente per noi. Tutto il patto di Londra è in questione. Gli Americani vogliono casi vergini. Per loro non esiste la storia ma le esigenze della pace e dell’umanità. Sotto l’apparente bellezza, quanta ingiustizia e violenza non c’è in questo atteggiamento: tanto più che, per far valere questo punto di vista, essi hanno lì, a portata di mano, il mezzo coercitivo: il grano, il cotone, il ferro. I tedeschi ti dicevano: cedi o ti ammazzo. Gli Americani (e soci) non dicono ma fanno capire (Oh progresso!) che ti faran morire di fame (Oh progressissimo!). Se le cose di Dalmazia non si mettono bene, neanche le colonie pare che godamo buona salute. Intanto niente più Anatolia occidentale e Smirne. Sarà della…Grecia, della piccola ma magnanima Grecia, che tanto ha fatto per il trionfo della giustizia e della civiltà…al tempo di Pericle e Socrate! Vedrai che ci assegneranno qualche magnifico osso da sgranocchiare. Noi qui cerchiamo di muovere la Ca-
4 Sulle simpatie di Wilson, per le rivendicazioni nazionali slave, L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., pp. 355 ss.; D. ROSSINI, L’America riscopre l’Italia. L’Inquiry di Wilson e le origini della Questione Adriatica, 1917-1919, Roma, Edizioni Associate, 1992. 5 P. PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica estera italiana, 1914-1943, Milano, Led, 1998, pp. 68 ss.
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mera di Commercio a manifestarsi. Ho parlato col direttore del Museo commerciale e col segretario generale della Camera. Ma sono tardi. Simili iniziative le dovevano prendere essi! Con Bergmann e Porro si ventila anche l’idea di un viaggio in Dalmazia per rendersi conto della situazione vera laggiù e regolare la nostra condotta nel caso che le cose si risolvessero negativamente per noi. Converrà considerare chiuso il ciclo delle rivendicazioni nazionali o ricominciare per preparare… l’avvenire6.
In questo periodo, l’autore della lettera non aveva quindi ancora svestito il grigioverde e lo stimolo dell’azione aveva decisamente la meglio su quello della meditazione, dello studio, della docenza, se il Preside dell’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano comunicava, con qualche irritazione, al Ministero dell’Istruzione Pubblica, alla data del 6 febbraio, che «il Prof Gioacchino Volpe, ordinario di Storia moderna e incaricato di Storia del Risorgimento per la Scuola Pedagogica e delle conferenze di Magistero, attualmente sotto le armi, non è più tornato a iniziare il suo insegnamento di quest’anno, come in seguito alle mie premurose richieste aveva lasciato sperare». Nella corrispondenza, dove si faceva istanza di poter provvedere tempestivamente alla temporanea sostituzione del docente, con un incarico di supplenza, essendo impossibile il protrarsi di quella situazione «negli interessi degli studi e della scolaresca, come anche per la dignità della Scuola», si aggiungeva che il poco scrupoloso docente «era stato chiamato, in questi stessi giorni, a prestar servizio presso il Gabinetto del nuovo Ministro della Guerra»7. Il viaggio di Volpe, che avrebbe toccato Trieste (dove lo storico avrebbe tenuto una conferenza sugli esiti politici del conflitto)8, Fiume, Zara, Spalato, Sebenico, al fine di meglio organizzare la Sezione P del governo militare della Dalmazia, avveniva ufficialmente su incarico del generale Caviglia, nel quadro dell’intensificarsi della propaganda italiana, rivolta alle truppe e alla popolazione civile all’interno e oltre il territorio giuliano, per contrastare ogni possibile «infiltrazione slava» sull’intero litorale adriatico, e per garantire, invece, grazie anche al controllo militare diretto di quelle regioni, il processo politico-istituzionale dell’«italianizzazione»9. Questa strategia d’intervento, predisposta dal
6 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 22 marzo 1919, CV. 7 MPI-DGIU, fascicolo G. Volpe. 8 G. VOLPE, Conferenza sulla guerra italiana, in «Il Lavoratore», 28 marzo 1919, pp. 2-
3. La sede de «Il Lavoratore», quotidiano socialista di Trieste, sarebbe stata devastata nel corso di un’azione squadristica nell’ottobre 1920. 9 A. VISENTIN, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare italiano nella Venezia Giulia, 1918-1919, Gorizia, Leg, 2000, in particolare pp. 139 ss.
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Governo e dal Comando Supremo e condotta sul territorio direttamente dalle armate mobilitate, pur sviluppandosi in linea di principio in ottemperanza a un quadro di riferimento politico di stampo liberale, se si rivelava capace di frenare, con largo uso degli strumenti di controllo e di coazione, le punte più aspre delle tensioni etniche e sociali di questa difficile zona di frontiera, non riusciva a governare completamente alcune dinamiche eversive che da quelle stesse tensioni si originavano, e rischiava al contrario di potenziarne gli sviluppi. Dimostravano bene questa dicotomia i contenuti di alcuni quaderni pubblicati a cura della Sezione P del governo militare dalmata, editi nella serie «Collegamento morale». L’iniziativa di questa pubblicazione era dovuta soprattutto all’impulso di un gruppo d’intellettuali, in parte già attivi nei servizi di propaganda (Arrigo Solmi, Giotto Dainelli, Adolfo Venturi, Vladiro Zabughin, Lucio Mariani, Lombardo Radice naturalmente Gioacchino Volpe) e a quella di qualche personaggio proveniente dalla militanza irredentista: Ettore Cozzani, Annibale Sprega, presidenti de «La Giovane Italia» di Milano e del Comitato «Pro Dalmazia» di Milano, Maria Rigyer segretaria del Comitato di agitazione dalmata10. Dall’agosto del 1918 al marzo dell’anno successivo, il nucleo promotore pubblicava sei fascicoli, che contenevano soprattutto schemi di conferenze che i giovani ufficiali subalterni avrebbero dovuto sviluppare nel corso delle loro conversazioni con la truppa, ma anche con i civili, al fine di realizzare «un programma di penetrazione e diffusione politica ed economica nelle regioni orientali». Questo era infatti l’obiettivo principale della pubblicazione, come si evinceva dalla lettera circolare, che il capo della Sezione Propaganda del Regio Governo della Dalmazia e delle isole dalmate e curzolane, Ettore Vanni inviava, all’inizio del 1919, a numerose personalità politiche e intellettuali, a enti e istituti di cultura, chiedendo collaborazione e sostegno, al fine di «ravvivare quel fuoco d’italianità mai spento, nelle provincie dalmate, traverso i secoli»11. Messaggio a cui faceva riscontro la pronta adesione di tutti gli interpellati, tra i quali si contavano numerosi senatori e deputati, il Vice Presidente della Camera e quello del Senato, il Ministro della Pubblica Istruzione Adolfo Orvieto, molti insegnanti medi e universitari, semplici combattenti ma anche i dirigenti delle maggiori case editrici nazionali (da Treves a Bemporad), l’Associazione Nazionale «Dante Alighie10 “Collegamento morale”. Quaderni editi dalla Sezione P del Governo della Dalmazia. “Buoni segni”. Quaderno n. 4, Zara, Stabilimento Tipografico Schönfeld, aprile-maggio, 1919, p. 6. 11 Una copia della lettera inviata al Ministro della Pubblica Istruzione, Adolfo Orvieto, priva di data, è conservata nella Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma.
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ri» che, lodando il programma fin qui sviluppato, in quanto «ispirato da un’esperienza sicura dei bisogni dell’ora», prometteva un ausilio morale e materiale, soprattutto relativo all’invio di materiale librario12. La Sezione P attiva in Dalmazia, rivolgeva tuttavia la sua attenzione anche alla situazione interna italiana, diffondendo, presso i soldati in attesa della smobilitazione, indirizzi di carattere politico, tendenti ad arginare presso di essi i frutti perniciosi di un possibile condizionamento ideologico di marca sovversiva. Nel fascicolo di «Collegamento morale» del gennaio-febbraio 1919, con grandissima verosimiglianza redatto integralmente da Volpe, appariva un intervento di commento ai recenti scioperi, dimostrazioni, disordini che avevano avuto per teatro Roma, Torino, Milano13. Ristabilitasi provvisoriamente la calma, l’articolo invitava i soldati, in attesa di congedo, a riflettere sul fatto che tanto sarebbe perdurato quello stato di agitazione, tanto più «sarà lunga e laboriosa la trasformazione delle industrie; più lento l’inizio dei lavori pubblici già ideati e preparati in ogni provincia, per opera dello Stato, degli enti locali, dei privati; più difficile il passaggio graduale dallo stato di guerra allo stato di pace». La stagione post-bellica prometteva di garantire a tutti i lavoratori, che avevano imbracciato le armi in difesa della patria, importanti e durevoli conquiste sociali ed economiche («orari ridotti di lavoro, il sabato inglese, alti salari»), ma questo non sarebbe potuto avvenire se la «nostra industria in conseguenza di agitazioni troppo prolungate, non fosse in grado di reggere alla concorrenza forestiera che d’ora innanzi sarà sempre più energica», potendo contare su «materie prime più abbondanti, mercati interni più vasti, impianti industriali enormemente ingranditi durante la guerra». Il perdurare delle agitazioni, inoltre, non solo avrebbe compromesso la ripresa economica, ma avrebbe indebolito anche la posizione politica internazionale, insidiata a Parigi, da Jugoslavia, Francia e Inghilterra: «insomma da nemici e alleati: da quanti sono lì sulla breccia per negarci il frutto della vittoria». La resistenza attiva al clima di disordine da parte degli ex-combattenti appariva poi soprattutto necessaria a scongiurare la minaccia di una sovversione sociale, che trovava i suoi più entusiasti promotori tra tutti coloro che le necessità dell’industria bellica avevano tenuto comodamente al riparo dai rischi e dalle sofferenze della vita di trincea.
12 La lista completa dei messaggi di adesione è in “Collegamento morale”. Quaderni editi dalla Sezione P del Governo della Dalmazia. “Buoni segni”. Quaderno n. 6, cit., pp. 7 ss. 13 ANONIMO, I combattenti vogliono pace, lavoro, ordine, in “Collegamento morale”. Quaderni editi dalla Sezione P del Governo della Dalmazia. “Battute di Propaganda”, gennaiofebbraio 1919, pp. 5-6.
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I disordini dei giorni scorsi, che del resto son poca cosa e limitati a poche città, son venuti da masse operaie che non hanno fatto la guerra, perché o addetti alle officine o minorenni. La maggioranza era di ragazzi sui diciassette. E la opposizione a loro è stata fatta da combattenti, ufficiali e soldati. Essi, più dei carabinieri e guardie, hanno reagito a chi gridava viva Lenin e viva l’anarchia. Vogliono, finalmente, pace, lavoro, ordine. E sono risoluti ad imporre tutto questo anche con la forza. Essi attendono un’Italia migliore; chiedono e più chiederanno, domani a pace conclusa, che lo Stato dia agli italiani più istruzione, combatta più energicamente la malaria, assicuri una amministrazione migliore, garantisca una giustizia più sbrigativa, aiuti i contadini a diventar proprietari della terra che coltivano, protegga energicamente il lavoro degli emigranti, provveda a certi vecchi mali delle province meridionali e insulari, agevoli lo sfruttamento intensivo di tutte le risorse economiche del paese. Ma sono persuasi che tutto questo non si otterrà con un grande sconquasso ad uso russo. Si otterrà solo con una energica ma ordinata pressione del paese sopra gli organi di governo; con una volonterosa e intelligente cooperazione di tutti gli italiani.
Riposte le divise, ufficiali e soldati avrebbero dovuto intraprendere una nuova guerra contro il nemico interno, dare il via a un vero e proprio «antibolscevismo combattentistico», con la violenza, se necessario, ma soprattutto cooperando con le autorità civili, stimolandole a realizzare un vasto programma di coesione nazionale, assolutamente necessario ora che, deposte le armi, la vecchia ragione di Stato risorgeva potentemente tra i membri dell’Intesa, che gareggiavano nel sottrarre all’Italia acquisti coloniali, risorse, canali commerciali, mercati, nel restringere e nel chiudere i consueti sbocchi dell’emigrazione italiana, in Francia e negli Stati Uniti, «per dar soddisfazione ai loro sindacati operai, che non vogliono concorrenza di operai forestieri». Questa aggressione economica verso il nostro Paese non era, sottolineava Volpe, il frutto della congiura mondiale della borghesia e del capitalismo, come alcuni volevano supporre, ipotizzando di poter contrastare questa minaccia attraverso la fratellanza proletaria internazionale, ma consisteva, piuttosto, nel risorgere impetuoso del «sacro egoismo» connaturato al principio di nazionalità, di cui lo stesso presidente Wilson aveva dato prova14. La solidarietà internazionale delle borghesie non esiste. La solidarietà internazionale del proletariato è, si e no, sulla carta. Rimane solamente, per ora,
14 G. VOLPE, Sacro egoismo, cit., p. 10: «Difenda dunque Wilson l’interesse, vero o presunto del suo paese; faccia comunella coi fratelli anglo-sassoni d’Europa, dia pure mano libera ai francesi di trattare i tedeschi, solo perché son tedeschi e concorrenti pericolosi, come carne da macello ma non si chiacchieri più di giustizia e di diritto, non se la prenda col così detto imperialismo italiano, chiami pane il pane e vino il vino».
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la solidarietà entro i vari elementi sociali di ciascuna nazione, la solidarietà nazionale. Essa esiste anche se noi non la vediamo e ci ostiniamo a non riconoscerla. Esiste nei rapporti col di fuori. Il bene o il male che ci viene dagli altri paesi è bene o male per tutte le classi della nazione. Se le materie prime necessarie alle industrie dovessero esserci negate o noi le dovessimo acquistare in regime di monopolio cioè a prezzi altissimi, avremmo non solo la rovina dei nostri industriali ma anche delle maestranze, anche dei contadini, che non troverebbero più nelle città industriali della Penisola un mercato favorevole ai prodotti della terra. Se ora dovessimo uscire dalla guerra umiliati dal malvolere dei nostri antichi soci, battuti nella navigazione adriatica dalle società inglesi o francesi, privati delle indennità che gli altri vorrebbero riservare tutte a se stessi, tenuti lontani da ogni possesso coloniale che ci dia un po’ di materie prime; tutti gli italiani si risentirebbero del danno, specialmente i più deboli e i più poveri. Bisogna persuadersi che questi sono i maggiormente interessati ad avere una patria forte e rispettata. La sua forza e il suo credito si risolverà in loro forza e loro credito. Per essi vale al massimo grado il vecchio proverbio che l’unione fa la forza. Ora, la Patria è appunto l’unione di tutte le energie nazionali. Nel momento presente, così come è ordinata, essa non assicura a tutti gli italiani o, almeno alla maggior parte di essi, ai volenterosi e ai laboriosi, oneste condizioni di esistenza? Ebbene, facciamo in modo che le assicuri. Riformiamola. Che essa sia veramente la patria di quaranta milioni d’italiani. Che nessuno la monopolizzi o la sfrutti per ristretti interessi personali o di classe, non i borghesi, non gli operai delle officine, non altre categorie di lavoratori o non lavoratori. Ma questa unione di forze che si chiama patria conserviamola. I conflitti di classe sono naturali, inevitabili, necessari, forse benefici. In Italia e da per tutto essi hanno, negli ultimi cento anni, promosso i processi tecnici del lavoro, l’ordine sociale, l’educazione politica delle varie classi. Hanno anche aiutato il formarsi delle varie coscienze nazionali. Masse di lavoratori si sono sentiti prima uomini e solidali con la loro classe e poi italiani o francesi o tedeschi. Ma non dimentichiamo mai, che questi conflitti debbono avere un limite: oltre il quale essi si risolverebbero nella rovina di tutti, a beneficio di altre nazioni più unite e coerenti. Il genere umano è e sarà, forse ancora per molto tempo, organizzato non per classi ma per nazioni15.
Era, questa, in sintesi, sia pure con una maggiore sottolineatura relativa all’effetto positivo della fisiologica competizione tra diversi ceti, una conclusione che arieggiava, in qualche misura, il programma economico nazionale, «produttivistico» e «collaborazionistico», che di lì a poco Mussolini avrebbe formulato, sulla scorta delle teorie elaborate da Corradini e da Rocco16. Solo a partire da questo presupposto, è possibile comprendere il significato politico dell’incarico in cui lo storico sarebbe stato impegnato nella missione dalmata. Sebbene anche Caviglia 15 ID., Solidarietà nazionale, cit., pp. 7 ss., in particolare p. 9. 16 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 465.
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intrattenesse in quel momento cordiali rapporti con i Fasci17, tanto da felicitarsi con Mussolini e Marinetti per la riuscita incursione contro la tipografia e la redazione milanese dell’«Avanti» dell’aprile 191918, i veri referenti di Volpe per la missione sul confine orientale erano, infatti, i due attivissimi leader dei circoli del combattentismo milanese, ricordati nella corrispondenza alla moglie. Giulio Bergmann, già vicino ai Giovani liberali di Borelli, fondatore nel gennaio 1911 della sezione milanese dell’Associazione Nazionalista Italiana e successivamente esponente di spicco del Gruppo nazionale liberale di Milano, era all’epoca un esponente di primo piano dell’Associazione nazionale combattenti di quella città. Eliseo Porro era invece il presidente dell’Ufficio tecnico di propaganda, personalmente impegnato, dopo Caporetto, in un’azione di energico contrasto contro il sovversivismo socialista19, che un rapporto di polizia dell’agosto 1919 indicava come uno dei maggiori finanziatori, tramite l’ente da lui diretto, dei Fasci di combattimento, delle associazioni degli Arditi, del «Popolo d’Italia»20. Pur inquadrato in questo contesto politico, il tour dalmata non riusciva però a modificare in modo sostanziale le opinioni di Volpe, che appariva convinto, nella lettera del 7 aprile, spedita da Zara, che la campagna di opinione adriatica aveva provocato un garbuglio difficilmente risolvibile, suscitando una ventata irredentistica presso le minoranze italiane della regione, alla quale sul piano dei fatti sarebbe stato difficile dar soddisfazione, ma che intanto aveva creato uno stato insopportabile di tensione e di attrito con l’etnia slava, che da ostilità latente avrebbe potuto degenerare a breve in scontro aperto. Un situazione di difficile soluzione, dunque, al cui acuirsi in grossa parte aveva contribui17 M. LEDEEN, War as Style of Life, in The War Generation: Veterans of the First World War, edited by S. R. Ward, Port Washington-London, Kennikat-Press, 1975, p. 115. 18 G. SALVEMINI, “Lezioni di Harvard”, cit., p. 440. Caviglia faceva parte della delegazione ministeriale inviata nella città lombarda per compiere un’inchiesta sugli incidenti. 19 A. VENTRONE, La seduzione totalitaria, cit., pp. 222-223 20 Nota informativa sul Fascio di combattimento di Milano e sulla associazione arditi e loro rapporti con socialisti e anarchici (18 agosto 1919), riprodotto in R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 624 ss., in particolare p. 626. Si veda anche, Rapporto dell’ispettore Generale di P.S. G. Gasti su Mussolini e i Fasci di combattimento, 4 giugno 1919, in ACS, Ministero dell’Interno. Direzione Generale di Pubblica Sicurezza. Affari generali e riservati 1922, b. 62, f. 7: «A Milano, i Fasci di combattimento sono un tessuto molecolare di un più vasto aggregato patriottico, nella cui trama non può dirsi che siano contenuti, ma dalla cui influenza non si sono, almeno fino ad ora, interamente emancipati, subendone un certo freno ed un certo temperamento di cui non si può peraltro prevedere la continuità e l’efficacia. S’intende parlare del Fascio delle associazioni patriottiche rappresentato dal comm. Somasca, in cui figurano i nomi dell’on. Candiani, Marco Praga, senatore Greppi, senatore Colombo, Visconti di Modrone, dell’Associazione antibolscevika [sic] dell’avv. Pesenti, dell’Ufficio di propaganda patriottica rappresentato dal dott. Correggiari».
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to l’azione francese, interessata a indebolire la posizione italiana sui confini orientali, anche a costo di una più generale destabilizzazione dell’area. Mi confermo sempre più nell’idea che alla Dalmazia dobbiamo annettere un’importanza non eccessiva e che abbiamo avuto torto; siamo stati non so se troppo idealisti, troppo politicamente ignoranti ad ingaggiare battaglie polemiche per la Dalmazia. Questo scrissi nel mio ultimo articolo per “La Sera” e questo oggi mi si conferma come vero adesso. Vuol dire che siamo impegnati; questa gente non vuole più essere abbandonata. Capisce che prima della guerra potevano forse andare avanti alla meno peggio ma ora, in avvenire, non avrebbero altre prospettive che o espatriare o croatizzarsi. Sono presi in mezzo fra gli agitatori jugoslavi e la massa dei contadini che vedono i nostri come tutti i contadini vedono i cittadini, con l’aggravante del fanatismo religioso e della diversità di razza. Ho una lettera di presentazione per una famiglia di qui e stasera mi presenterò. Ma più curioso sarei di conoscere gli ambienti slavi, per spiegarmi tante cose di dettaglio. Non è facile, sono chiusi, dissimulano ora, di fronte a noi che siamo i più forti; e sono anche un po’ disorientati. Odiano noi, ma neppure amano i Serbi. Ma prevale quell’odio o questo non amore? Da certi segni potrebbe apparire quello maggiore di questo, da altri viceversa. Mi sono fatto una vaga impressione che, ora come ora, se noi transigessimo, potremmo staccare i Croati dai Serbi. Ma dovremmo transigere, e poi fra venti, trent’anni, forse anche prima, Serbi e Croati finirebbero con l’intendersi ai nostri danni. Non c’è che dire, la Francia ha tenuto e tiene a battesimo questa nuova Austria ai nostri fianchi, e ha calcolato giusto, pur avendo fatto una cosa sporca. Io vedo dileguarsi sempre più nella lontananza l’amicizia italo-francese. Faremo dei contratti, questo può essere ma nulla di più. Sono irriducibili. Per fortuna si sono anche alquanto screditati. Anche la loro vecchia reputazione di cavalleria ha fatto miseramente naufragio21.
Altra mina vagante di quell’inquieto dopoguerra, era la situazione di Fiume, dove i contrasti, fino alle vie di fatto, tra militari italiani e francesi stanziati nella città22, le incontenibili aspirazioni degli abitanti al ri21 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 7 aprile 1919, CV. Sullo stesso punto, ID., Solidarietà nazionale, cit., pp. 7-8: «Noi abbiamo sanguinato quattro anni per buttare a terra l’Austria, per assicurarci da quella perpetua minaccia che ci stava sospesa sul capo. Ed ecco che gli ottimi alleati nostri lavorano sotto mano a ricostituirla, perché sperano di poter far con essa buoni affari e di metterla un’altra volta a montar la guardia ai nostri fianchi. Noi abbiamo combattuto per ricuperare terre nostre e per assicurarci da ogni nemico nell’Adriatico; siamo riusciti a farci garantire tutto questo con un trattato… Ed ora l’Intesa mette contro noi Croati e Sloveni e Serbi, vuol dare loro città italianissime come Fiume, si affretta a mandar nell’Adriatico per sorvegliarci quei soldati che durante la guerra non aveva mai mandato che con tanta parsimonia e cautela, riserba ai nostri nemici tutte le grazie, ed a noi lesina fino al centesimo i frutti della vittoria». 22 U. OJETTI, Lettere alla moglie, cit., p. 669, alla data del 23 novembre 1918: «Tra Po-
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congiungimento con l’Italia, accolte da manifestazioni di violenta xenofobia da parte slava, il mescolarsi di fremiti patriottici alle ragioni concrete di un poco trasparente affarismo, egualmente presente nelle due etnie, apparivano come altrettanti ingredienti di una miscela esplosiva che avrebbe poi puntualmente detonato nell’impresa dannunziana, in quella «festa della rivoluzione»23, che Marinetti avrebbe descritto con tanto compiacimento nei suoi diari24, ma nella quale poco veramente sarebbe restato dell’interventismo d’ordine di Volpe e dei Gruppi nazionali liberali. I fiumani non fanno che dire della grossolanità e malcreanza degli ufficiali francesi, specie nei primi tempi, e della lazzaronaggine dei loro soldati. Sono invece ammirati dalla condotta dei nostri, perché veramente siamo lì benissimo rappresentati. Il reggimento dei granatieri è fior di ragazzi ed anche bersaglieri e fanti non fanno cattiva figura. Anche fra gli slavi mi hanno detto che i francesi hanno perso e noi abbiamo guadagnato. Ora forse la modestia e la discrezione (accompagnate al bisogno da buoni pugni e da qualche rottura di teste) hanno anche esse un valore. Costruiscono più lentamente, ma più solidamente. […] E poi forse in questi giorni verranno novità da Parigi. Mi piacerebbe essere a Fiume in quel momento. Preparano dimostrazioni nostre, a cui dall’interno potrebbero fare eco parole di ira, propositi di vendetta tanto più grandi in quanto più i croati si dichiarano sicuri della loro causa. Eppure, mentre scrivo, qui nel tavolo davanti a me dei signori contan gran pacchi di corone, parlano di cambi, guadagni e perdite… Una quantità enorme di gente si ingegna a speculare sulla moneta specie a Fiume, ma anche qui. E ciò anche i più caldi patrioti. Ciò che ad altri potrebbe suggerire un sorriso ironico della gente, a me fa pensare che, nei più, affari e sentimenti d’altro genere, anche del più alto valore, vanno avanti, ognuno per conto suo senza incontrarsi e influenzarsi25.
Nella lettera, da Spalato, del 12 aprile, Volpe dava ancora una volta prova del suo realismo politico, pur dimostrandosi non dimentico dell’antica romanità della città, che ospitava «le grandi rovine del palazzo di Diocleziano», né insensibile all’insofferenza del contingente militare italiano che ormai si orientava verso una soluzione di forza. Un saluto da Spalato dove venni ieri. Ed oggi riparto. Ormai sono alla vigilia del ritorno nella vecchia Italia! E allora ti racconterò tutto. Qui ti dirò so-
la e Fiume sono avvenute gravi offese al nostro diritto e al nostro sentimento di italiani da parte di ufficiali francesi di marina, tutti pei jugoslavi bolscevichi, pronti a difenderli e aizzarli contro noi, fingendo di non vedere il loro bolscevismo». 23 C. SALARIS, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, Bologna, Il Mulino, 2003. 24 F.T. MARINETTI, Taccuini, 1915-1921, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 432 ss. 25 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 7 aprile 1919, cit.
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lo che bella città è Spalato, e che città italianissima essa è nel suo aspetto…Gli abitanti saranno italiani… se la città sarà nostra, saranno jugoslavi anche di sentimenti se sarà jugoslava: salvo la minoranza degli autentici italiani dei quali non si sa che cosa avverrà se la Jugoslavia trionfi! […] Sono tutti cortesissimi e ospitalissimi e ora ansiosissimi. Noi dell’altra sponda non ne abbiamo un’idea: bisogna risalire a 60 anni indietro. Fanno pena se si pensa che le sorti di Spalato difficilmente si risolveranno a nostro favore. Non ti dico poi degli ufficiali e dei marinai nostri che sono qui e rodono il freno. È meglio non scriverne e parlarne a voce26.
Ma questo tono commosso, eppure sempre tenuto sotto governo da un calcolo razionale, veniva bruscamente meno al suo ritorno a Milano, quando, a poco più di dieci giorni di distanza, Volpe pubblicava l’articolo Tornando dalla Dalmazia27. In quel pezzo, lo storico comunicava i risultati del suo viaggio adriatico, presentando lo spettacolo di una isola di latinità, stretta dal minaccioso assedio di genti semi-barbare ad essa estranee, per lingua, tradizione, religione, che faceva della Dalmazia il «punto di incontro non solo di Italiani e Slavi, ma di due costumi, di due mentalità, di due civiltà». Questo dato rendeva impossibile una divisione dei territori dalmati fra Italia e Jugoslavia, come pure era stato richiesto dai nostri rappresentanti a Versailles, a meno di non voler porre le condizioni di un futuro scontro tra i diversi gruppi di quella regione. Croati, serbi, morlacchi, «popolazioni arretrate e, per giunta balcaniche e mezzo orientali», divise da differenze «non di religione ma di setta» e da secolari e mai sopite rivalità, costituivano certamente la maggioranza aritmetica della regione ma non una maggioranza qualificata ad assumerne il governo, come sosteneva Volpe, riecheggiando uno dei motivi ricorrenti della propaganda nazionalista28. Gli slavi dalmati non erano infatti una nazione, ma solo un coacervo di etnie, che sempre più spesso ormai domandavano, soprattutto per quello che riguardava la componente croata, l’intervento dei militari italiani «che per essi significa ordine, sicurezza, di persone e di beni, liberazione dai soldati serbi». L’annessione della Dalmazia rappresentava così non solo il frutto necessario di una guerra vittoriosa ma anche una soluzione indispensabile al consolidamento di una delle aree più turbolente del continente, in assenza della quale il nostro paese avrebbe potuto ricredersi «dalla persuasione di aver combattuto per la “libertà e per la giustizia”».
26 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 aprile 1919, CV. 27 G. VOLPE, Tornando dalla Dalmazia, «La Sera», 21 aprile 1919, p. 1. 28 Avrebbe riepilogato criticamente queste posizioni, M.A. LEVI, La politica estera del
Nazionalismo, in «La Rivoluzione liberale», I, 20 settembre 1922, 27, p. 100. Sul punto, R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 241 ss.
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Lo storico avrebbe ribattuto questi temi, di lì a una settimana, sempre sulle colonne del quotidiano milanese29. Il 7 maggio, lo stesso giorno in cui la delegazione italiana abbandonava il tavolo della pace, «La Sera» presentava un fermo memoriale d’accusa, forse ispirato dallo stesso Volpe, contro le manovre degli alleati di ieri, che oggi erano intenzionati a ridurre la nazione italiana a «puissance de troisième degré». L’acquisto di Fiume e delle terre dalmate non doveva essere visto secondo la logica del vecchio «irredentismo» ma come un problema squisitamente strategico, decisivo per la definizione dell’architettura geopolitica europea, nel cui quadro l’Italia non poteva essere diminuita di un ruolo centrale, conquistato con grande tributo di sangue sui campi di battaglia. Eppure, proprio a questo obiettivo tendeva l’imbroglio diplomatico di Versailles, al cui diktat l’Italia non poteva sottostare, per lasciare libero il campo, senza resistenza, «ai banchieri anglo-franco-americani (e anche tedeschi), all’imperialismo e marxismo inglese, alle gelosie morbose della sorella latina, alle troppe comode idealità e ai puntigli del prof. Wilson, del moralista che sta massacrando ogni moralità, dacché pretende mietere lui dove altri ha seminato, raccogliere quattrini dove altri hanno combattuto con uno spirito idealistico e una lealtà che non sappiamo quanto esaltare o e quanto nel tempo stesso rimpiangere»30. La liquidazione delle ambizioni adriatiche non sarebbe stata poi senza conseguenze sugli equilibri politici interni, come metteva in evidenza il minaccioso appello alla fermezza, rivolto al presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, con il quale si concludeva l’editoriale. Chi regge ora l’Italia, chi ha l’onore e l’onere di tutelarne a Parigi gli interessi, onore e onere che per noi sono una cosa sola, consideri seriamente lo stato d’animo di molti Italiani che vedono in gioco ed in pericolo, ora, non qualche piccolo frutto chilometricamente computabile della vittoria, ma tutta la vittoria: i fini ultimi della guerra, imponderabili ma appunto per ciò assoluti e non suscettibili di compromessi. Questi Italiani protesterebbero con ogni energia contro chi a queste transazioni piegasse. Questi italiani che ora, almeno in parte, forse in gran parte, non elevano pregiudiziali dinnanzi all’ordine costituzionale ora vigente nel nostro paese, potrebbero domani non solo aver motivo di chiedere conto a taluni uomini di governo del vano sforzo di 40 milioni di cittadini ma anche sentir rallentarsi il legame che li tiene uniti a quell’ordine costituzionale, potrebbero essere indotti a chiedersi se, per avventura, il difetto non sia solo di persone, di talune persone… Si rendono conto i governanti e i negoziatori d’Italia di questa possibilità, che noi per primi addolora ma che noi spieghiamo? Si rendono conto del pericolo di accumulare nel nostro paese
29 G. VOLPE, Momento grave, «La Sera», 30 aprile 1919, p. 1. 30 ID., Attendendo la soluzione della vertenza italiana, ivi, 7 maggio 1919, p. 1.
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materia infiammabile a materia infiammabile, di indebolire la capacità e volontà di resistenza al fuoco di una parte grandissima degli Italiani?31
Solo pochi giorni prima un infuocato articolo del «Popolo d’Italia» consigliava la delegazione italiana di tornare al tavolo delle trattative, per minacciare a Belgrado almeno una «dichiarazione platonica di guerra» e per porre la Conferenza per la pace «davanti all’aut aut: o il riconoscimento del patto di Londra con Fiume, o il decreto di annessione»32. Di lì, a poco, respinte le richieste italiane a Versailles, quando a molti parve che fosse stato decurtato anche l’attivo della guerra pattuito prima dell’inizio delle ostilità33, Mussolini, con una mossa di spregiudicata tattica politica, ultimava la prima fase della sua marcia di avvicinamento al nazionalismo34, che gli avrebbe assicurato, più tardi, persino il consenso di una parte consistente dell’ala liberale di quel gruppo politico, che aveva precedentemente stigmatizzato, con durezza, la venatura socialista, cosmopolita, universalistica del suo interventismo35. L’alleanza si cementava definitivamente sulla base del mito della «vittoria tradita», fatto immediatamente proprio da Mussolini36, che, per quanto si sia ripetuto esser fondato unicamente su apparenze contestabili o fallaci, come aveva già proclamato «L’Unità» di Salvemini, sventolando l’ormai sbiadita bandiera della «politica delle nazionalità»37, fu
31 Ibidem. 32 B. MUSSOLINI, Annessione, «Popolo d’Italia», 4 maggio 1919, in ID., Scritti e discor-
si, a cura di V. Piccoli, redattore del «Popolo d’Italia», Milano, Stucchi, 1934-1939, 13 voll., II, pp. 15 ss. 33 Sui risultati conseguiti dall’Italia, si veda P. PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., pp. 75 ss.; E. GOLDSTEIN, Gli accordi di pace dopo la Grande guerra, 1919-1925, Bologna, Il Mulino, 2005, in particolare pp. 44 ss. 34 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 528 ss.; R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 315 ss. 35 Radicali e socialisti di fronte alla guerra. “Il Popolo d’Italia”, in «L’Azione», 22 novembre 1914, pp. 1-2: «Mussolini invoca la guerra per quel tanto che il nostro intervento può contribuire a creare in Europa un ambiente politico più adatto allo sviluppo del socialismo. Uno scopo dunque che supera la nazione, un interesse che supera anzi finisce per contrastare gli interessi della nazione». 36 B. MUSSOLINI, Dopo il voto, «Popolo d’Italia», 29 settembre 1919; ID., I diritti della Vittoria. Discorso all’inaugurazione dell’Adunata fascista di Firenze, 9 ottobre 1919, in ID., Scritti e discorsi, cit., II, pp. 27 ss. e 31 ss. Sull’utilizzazione di quel mito nella strategia fascista di conquista del consenso, A. BARAVELLI, La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentanza della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale, 1919-1924, Roma, Carocci, 2006. 37 Si vedano gli editoriali di Salvemini, polemicamente durissimi contro Orlando e Sonnino («un vecchio e un leguleio, due disgraziati a cui non intendiamo concedere alcuna solidarietà»), e acriticamente favorevoli alla diplomazia wilsoniana e all’atteggiamento francese, contrabbandato come «posizione di potenza direttrice e protettrice dei popoli sorti a libertà dallo sfacelo della Monarchia d’Asburgo»: La camicia di nesso, 3 maggio 1919, «L’U-
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l’elemento principale della difficoltà nazionale di vivere la condizione italiana (e il tanto auspicato ma poi mancato ruolo di grande potenza) ed ebbe un suo ruolo determinante nella congiuntura politica immediatamente successiva, accelerando la crisi dello Stato liberale e determinando l’avvento del regime fascista. Levato il tavolo della conferenza di Versailles, tirate le somme di quegli accordi, «molti italiani ebbero l’impressione che tutti gli sforzi compiuti durante la guerra fossero misconosciuti e cominciò a circolare una espressione molto significativa: «la vittoria mutilata»38. La propaganda nazionalista e poi fascista ebbe facile partita, quindi, a eccitare il risentimento su questo punto, a propagarlo dagli studenti e dagli ufficiali appena tornati dal fronte nei più diversi settori della società. E miglior gioco avrebbe avuto D’Annunzio a lanciare e a diffondere la sua imprecazione contro «l’Italia incaporettata che misura e riconosce la convenienza del suo Governo dalla rotondità più adatta a ricevere i calci dei nuovi padroni»39, a riprenderla poi, quasi alla vigilia del nuovo conflitto mondiale, ricordando lo smisurato e generoso tributo del sangue italiano, decisivo per piegare le sorti della guerra a favore dell’Intesa, mal ripagato dalla cattiva fede dei nostri cobelligeranti. Eppure, l’accostamento tra gli «interventisti d’ordine» del 1915 e il nazional-populismo dannunziano e poi mussoliniano non poteva essere definito come un evento determinato soltanto dalla «force des choses». Occorre, infatti, ricordare che, già nell’agosto del 1914, Alberto Caroncini aveva insistito sulla necessità di una conquista militare di Pola, Sebenico, Cattaro, Vallona al fine di bloccare l’avanzata slava verso uno sbocco marittimo, che sarebbe stata non «una vittoria sull’Austria», ma «una sconfitta nostra»40. Nell’ottobre di quello stesso anno, sempre Caroncini, ribatteva questi assunti, parlando di una «guerra di conquista, o meglio di riconquista» dell’Istria e della Dalmazia, che avrebbe dovuto dar luogo a una «colonizzazione con scopi nazionali», simile a quella perseguita dalla Prussia verso i polacchi delle province orientali, unicamente ma pienamente giustificata dalla «superiorità schiacciante dei conquistatori»41. Nel giugno del 1915, il leader dei nazionali libenità»; Cinque domande, ivi, 17 maggio 1919; I nodi al pettine, ivi, 25 maggio-1 giugno, 1919; Le cinque proteste, ivi, 25 maggio-1 giugno, 1919, ora in L’Unità di Gaetano Salvemini, cit., pp. 545 ss. 38 F. CHABOD, L’Italia contemporanea, 1918-1948, Torino, Einaudi, 1961, p. 24. 39 G. D’ANNUNZIO, Ordine del giorno ai Legionarii per la fine dell’anno 1919, 23 dicembre 1919, in ID., Italia e vita, Roma, presso la Fionda, 1920, p. 52. 40 A. CARONCINI, Guardiamo all’Adriatico, «L’Azione», 30 agosto 1914, p. 1-2. 41 ID., Italiani e Slavi nell’Adriatico, cit., p. 3. In questo punto, l’intervento di Caroncini riprendeva le tesi del volume di V. GAYDA, L’Italia d’oltre confine. Le provincie italiane d’Austria, cit.
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rali, collegava questione adriatica e questione meridionale, sostenendo che lo «sviluppo economico dei mercanti di olio e di bestiame, dei braccianti e dei falciatori» della Puglia poteva essere reso possibile a patto di liberare l’Adriatico dalla «pirateria dei nuovi Uscocchi», aggiungendo inoltre che il litorale italiano di quel mare poteva essere difeso solo «dalla sponda dalmata, dalle colonie latine e italiche che la sapienza di Roma e di Venezia vi piantò»42. Un motivo, questo, che ritornava anche in Volpe, nel gennaio del 1919, quando ipotizzava, a sollievo dei mali e dell’arretratezza del Mezzogiorno, il rinnovamento della spinta espansionistica e commerciale verso l’Adriatico e l’Oriente, per imboccare ancora, dopo un intervallo secolare, «la vecchia strada delle genti italiane», ora resa sgombra e libera da quelle che avrebbero dovuto essere le nuove acquisizioni territoriali43. 2. L’acrimonia e lo spirito di revanche per il buon esito della prova bellica, umiliato dall’avarizia degli alleati, non facevano quindi che ingigantire una sensibilità, già ben radicata prima dell’inizio del conflitto. Questi sentimenti erano, per altro, comuni a buona parte dello schieramento politico liberale44. Né erano estranei a molti esponenti del fronte intellettuale. Croce, che già nell’ottobre del 1918 prevedeva che «le teorie della giustizia, le quali abbiamo tanto gridato» avrebbero nuociuto all’Italia nelle future trattative di pace45, avrebbe poi espresso le più ampie riserve sul voler trasportare di peso «nella vita internazionale quel meccanismo ideale di eguaglianza, che non si è riuscito mai, nonché di attuare, nella vita stessa dei singoli Stati»46. Gentile, inflessibile critico del pacifismo wilsoniano e risolutamente contrario ai principi ispiratori della Società delle nazioni47, aveva sostenuto che il pos-
42 A. CARONCINI, Le prime cannonate, «Il Resto del Carlino», 25 giugno 1915, in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 280 ss. 43 G. VOLPE, Nord e sud, cit., pp. 191-192. 44 R. VIVARELLI, Luigi Luzzatti e la crisi dello Stato liberale, in Luigi Luzzatti e il suo tempo, a cura di P.L. Ballini e P. Pecorari, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1994, pp. 181 ss., in particolare pp. 192 ss. 45 Benedetto Croce a Giovanni Gentile, 7 ottobre 1918, in ID., Lettere a Giovanni Gentile, 1896-1924, a cura di A. Croce. Introduzione di G. Sasso, Milano, Mondadori, 1981, p. 567. 46 B. CROCE, La Società delle Nazioni. Intervista concessa a «Il Tempo» di Roma, 17 gennaio 1919, in ID., Pagine sulla guerra, cit., pp. 296 ss.; G. GENTILE, La Società delle Nazioni. Intervista concessa a il «Tempo» di Roma, 26 gennaio 1919, in Guerra e Fede, cit., pp. 371 ss. 47 G. GENTILE, La filosofia di Wilson, in ID., Dopo la vittoria, cit., pp. 120 ss.; ID., La Società delle Nazioni. Intervista concessa a «Il Tempo» di Roma, 26 gennaio 1919, in ID., Guerra e Fede, cit., pp. 371 ss.
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sesso delle rive orientali dell’Adriatico era ampiamente giustificato anche dalle soli ragioni «dell’utile e della difesa»48. Omodeo, infine, considerava la sconfitta diplomatica di Versailles come la catastrofe delle aspirazioni del «partito nazionale», nella quale era possibile scorgere la longa manus di Giolitti49. Lo stesso Ojetti, che pure insieme ad Amendola e a Borgese, aveva fornito i motivi ispiratori alla campagna contro le pretese italiane sulla Dalmazia intrapresa dal quotidiano di Luigi Albertini50, irrideva alle virtù taumaturgiche della diplomazia di Wilson («tiranno assoluto o dio; mistero, fra incenso e genuflessioni, di là dall’oceano, di là dal cielo»)51, la cui «correttezza politica» forniva un incoraggiamento ad alleati, sicuramente ostili, per perseguire un’opera di diminuzione dell’Italia nel concerto europeo52. Volpe, prima di ogni altro, aveva anticipato la sua polemica contro il wilsonismo, nei suoi articoli di propaganda redatti per il Servizio P, nei quali si invitava a non sottovalutare, anche dopo l’intervento statunitense, lo sforzo militare dell’Intesa che restava il coefficiente decisivo della vittoria53, e dove soprattutto si metteva nuovamente in guardia contro la «grande illusione» della «guerra democratica» madre di una futura «pace universale» europea e mondiale Dunque la guerra è stata e sarà anche pace. Guerra, pacifista, come anche guerra democratica. Ma se altri intende con maggiore assolutezza questa parentela, fra la pace di domani e la guerra d’oggi, allora è un altro paio di maniche. Si entra in materia di fede, e la fede non si discute. Certo nulla oggi lascia intravedere che siasi scoperto l’antidoto alla guerra, lo specifico che dovrà togliere vigore al virus bellico dell’umanità. Nessuna delle grandi forze che nel passato hanno provocato alla guerra pare che sia scomparsa, o stia per scomparire, tolta di circolazione dai nuovi eventi o dalla volontà degli uomini. Anche la democrazia a venire, quando avesse cessato di essere partito d’opposizione a classi e istituti oggi dominanti, non è detto che sarebbe incondizionatamente pacifista nei rapporti internazionali: dato che, per affermazione anche di socia-
48 ID., Equivoci e profezie, in «Il Resto del Carlino», 2 ottobre 1918, ivi, pp. 330 ss. 49 A. OMODEO, Lettere, cit., pp. 325, 347, 362, dove era forte la polemica contro la
«doppiezza» degli alleati. 50 G.A. BORGESE, Golia. Marcia del fascismo, Milano, Mondadori, 1946, pp. 142 ss. 51 U. OJETTI, Lettere alla moglie, cit. p. 607, alla data del 13 ottobre 1918. 52 Ivi, p. 626, alla data del 29 ottobre. 53 G. VOLPE, Wilson, Wilson, Wilson! America, America, America!, in «Saluto», 1 gennaio 1919, poi in ID., Per la storia dell’VIII Armata, cit., pp. 199 ss. Sul guardingo favore con cui Volpe aveva accolto la presa d’armi americana, si veda ID., L’intervento americano, 21 settembre 1918, ivi, pp. 93 ss., in particolare p. 97: «L’aiuto americano deve essere inteso per quello che esso può essere ed è: cioè, appunto, come un aiuto. Gli Americani collaboreranno ad un’opera il cui peso maggiore grava, per forza di cose, su le spalle nostre, cioè degli Italiani in Italia, dei Francesi in Francia, degli Inglesi nel Belgio».
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listi genuini, nazioni e Stati e patrie, particolari e distinti, ci saranno sempre, con relativi contrasti di interessi ed urti violenti. I popoli e gli individui di domani apprezzeranno forse meno i beni di questo mondo, quei beni che si acquistano con la pace, quando basta la pace a procurarli, ma certo anche con la guerra, quando la guerra è, oppure gli uomini, la credono necessaria? Rinunceranno al desiderio o bisogno di aver colonie da sfruttare, mercati da controllare, materie prime da possedere sotto mano, concorrenze da escludere? Sarà tutto il mondo di domani liberamente aperto a tutti, senza mio e senza tuo, senza differenze fra primi e ed ultimi venuti, senza privilegi economici di chi ha il dominio politico, a danno di chi non lo ha? Si rassegneranno i popoli a che quelli fra essi che ora sono in alto rimangano in alto per l’eternità, quasi per un diritto acquisito (una nuova forma di legittimismo pacifista!); oppure aspetteranno tranquillamente che i crolli avvengano da sé, che le nuove gerarchie di nazioni si sostituiscano alle vecchie col pieno loro consenso, come una nuova ad una vecchia ditta, nella gestione di un’azienda? Oh placidi tramonti, oh belle albe radiose di popoli! Una concezione francescana di rinuncia sostituita a quella che significava concorrenza e lotta! E non più politica, specialmente. Poiché nessun dubbio che la guerra sia come una continuazione della politica, sia una cosa sola con la politica. Badate: non si vuole qui nulla affermare e nulla negare a priori di ciò che sarà il domani; non urtare altrui fedi, non togliere a chicchessia il piacere di fantasticare, di attendere il suo vagheggiato mondo, di interpretarne come crede i segni precursori. Si vuole solo dire, semplicemente, che, se si hanno, oggi, fra mano, delle questioni politiche da risolvere tra nazione e nazione, è bene attenersi alle esperienze recenti, alla pratica universale. E se un amico, per caso, ti suggerisce soluzioni ultraidealistiche, di quel certo idealismo che è fantasticamento, tu digli: abbi pazienza, aspetta ancora qualche giorno o qualche anno, poi vedremo…Intanto, prendo norma dalle tue azioni54.
A distanza di qualche decennio, Carl Schmitt avrebbe anch’egli ripreso e modificato il dictum di Von Clausewitz, sostenendo che la guerra «non è scopo o meta o anche contenuto della politica, ma ne è il presupposto, sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico»55. Ma già da ora, appena deposte le armi, nonostante il sovvertimento di antichi regimi e il ridimensionamen54 ID., Guerra pacifista, in «Saluto», 1 gennaio 1919, ivi, pp. 211-212. Sulla precoce opposizione di Volpe alla diplomazia democratica di Wilson, si veda la lettera di Fortunato Pintor del 30 ottobre 1919, cit.: «Dopo il “Mezzogiorno” di Giustino Fortunato, io non conosco altre pagine, di educazione politica, più sagge e più schiette, di queste tue: che potrebbero essere lette con profitto anche dai candidati: anche dai candidati “combattenti” a cui, quasi prevedendo (come vedesti giusto per Wilson) hai parlato così liberamente e degnamente». Il riferimento era al volume di Volpe, Per la storia dell’VIII Armata, cit. 55 C. SCHMITT, Il concetto del politico, in ID., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 117. Il saggio citato è del 1932.
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to di vetuste formazioni politiche, non era difficile presupporre, aggiungeva Volpe, in un altro intervento del 1919, che il futuro avrebbe visto ancora slavi e tedeschi premere minacciosamente sui malcerti antemurali orientali, per irrompere verso Mezzogiorno («terra promessa degli uomini forniti di istinti predatori e avventurieri»), per puntare «verso l’Adriatico e l’Italia», perseguendo una tendenza espansionistica, «così antica e ininterrotta, da apparir quasi come rispondente a una ferrea necessità di natura: tale che non si lascerà influenzare da nessun effimero o sostanziale mutamento in senso democratico e repubblicano»56. Sarebbe toccato, in ogni caso, ad Arrigo Solmi, un altro esponente dei Gruppi Nazionali Liberali, che si erano ricostituiti, come meglio vedremo, nel settembre del 1919, a trarre tutte le conseguenze di questa situazione, in un opuscolo edito nell’anno successivo, significativamente intitolato L’Adriatico e il problema nazionale, sul cui retro di copertina campeggiava lo slogan, «Italiani! Difendete l’Adriatico», e i cui contenuti in poco o nulla si differenziavano dai coevi interventi parlamentari dello schieramento nazionalista57. Nel breve scritto, edito nella «Biblioteca di propaganda del Gruppo Nazionale Liberale», poi ristampato dal Comitato «Pro Adriatico» dell’Ani, Solmi tornava a considerare il problema della Dalmazia, «come il problema assillante e angoscioso dell’Italia Combattente e Vittoriosa» e alla stregua del «principale ostacolo al raggiungimento della pace e dei frutti del successo militare». Ridotta ad un semplice fattore linguistico la presunta connotazione etnica slava della maggioranza delle popolazioni della Dalmazia, che avrebbero invece tratto le loro origini da un «antico fondo illiro-dalmata che non si confonde con l’elemento slavo»58, quella terra appariva, per Solmi, «psicologicamente e storicamente italiana», a partire dal suo antico status di «provincia latina dell’Impero romano d’Occidente»59. Tutti elementi, questi, necessari a giustificare l’annessione italiana di quella marca adriatica, che inoltre la nuova configurazione politica del continente, determinata dal conflitto, rendevano urgenti e sufficienti. La questione dell’Adriatico non verte soltanto sull’assegnazione di una piccola parte di territorio, necessaria al compimento dell’unità nazionale e alla
56 G. VOLPE, Moniti. I. Non dormire, in ID., Per la storia dell’VIII Armata, cit. pp. 216 ss., in particolare p. 220. 57 L. FEDERZONI, Dopo San Germano. Discorso pronunciato nella tornata parlamentare del 9 agosto 1920, in ID., Il Trattato di Rapallo, cit., pp. 93 ss. 58 A. SOLMI, L’Adriatico e il problema nazionale, s. l., Biblioteca di propaganda del Gruppo Nazionale Liberale. Ristampa a cura dell’Associazione Nazionalista Italiana-Comitato “Pro Adriatico”, 1920, pp. 18 ss. 59 Ivi, pp. 26 ss.
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difesa strategica del paese, ma investe un alto principio morale e politico. Si tratta di decidere se, non soltanto le piccole nazioni balcaniche, favorite dai nostri Alleati, ma anche l’Italia, che pure ha contribuito sanguinosamente alla vittoria, abbia il diritto di raggiungere le sue rivendicazioni nazionali, garantite da patti solenni; oppure, se, nonostante il contributo alla vittoria comune e la determinazione dei patti, l’Italia debba cedere al desiderio più o meno illegittimo dei nostri Alleati di ingrandire oltre misura una piccola nazione, che solo parzialmente ha aiutato la guerra e che rivela ambizioni imperialiste più sfrenate e più violente. Si tratta di decidere se l’Italia abbia guadagnato il diritto di dare compimento alla sua unità nazionale e di garantire sulle Alpi e sul mare la sua difesa strategica, oppure se, per quella improvvisa indulgenza verso un imperialismo straniero e forse nemico, l’Italia debba rimandare ad altro momento il raggiungimento delle sue aspirazioni nazionali e perdere sulle Alpi e sul mare la linea delle sue barriere naturali, obbligandosi a costosi armamenti e a rinunciare ad ogni libertà nella politica adriatica. È una questione di giustizia e di fedeltà ai patti, non soltanto una questione territoriale; e dalla soluzione di questa deve risultare se l’Italia meriti il trattamento di una nazione appena sopportata, cui si vuole chiudere quanto sia possibile le strade del suo avanzamento civile o se abbia meritato il premio di una elementare giustizia e di una pace sicura60.
Altri componenti del movimento politico in cui Solmi era tornato a militare – e Borgese, tra i primi, come si è visto – erano tuttavia sintonizzati su una diversa linea d’onda, nel tentativo di evitare alla componente liberale del nazionalismo l’abbraccio mortale con il sempre più incattivito revanscismo delle altre frange nazionaliste61, ormai vicinissime a stilare, almeno per la politica estera, un comune programma d’azione con il movimento fascista, pur tra titubanze e reciproci, radicati sospetti, che continuarono fino alla marcia su Roma62. I Gruppi Nazionali Liberali, scriveva Corrado Barbagallo nel 1920, «hanno fede profonda nella realtà storica e vitale della nazione, ma non sono dei nazionalisti nel senso corrente di questa parola». Essi non lo sono, continuava, «perché in economia si dichiarano decisamente antiprotezionisti e perché in politica sono fautori delle più larghe libertà comunali e provinciali, del più largo decentramento amministrativo, che essi invocano anche per le nuove contrade che la guerra ha fatto entrare nell’orbita del nostro Stato»63. Coerentemente a questo programma, Antonio Anzilotti pareva disposto a rinunciare a quella corsa italiana verso Oriente, pu-
60 Ivi, pp. 41-42. 61 A. ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., pp. 293 ss. 62 F. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 219 ss. 63 C. BARBAGALLO, Note di vita politica. I Liberali-Nazionali, «La Sera», 8 settembre
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re da lui preconizzata dopo Vittorio Veneto64, in cambio di una estesa decentralizzazione burocratica, nelle zone di frontiera, che avrebbe dovuto dar luogo a larghe deleghe di potere concesse alle minoranze slave e tedesche65. Questi convincimenti venivano ripresi da Anzilotti nell’opuscolo, Italiani e Jugoslavi nel Risorgimento, edito nelle edizioni della «Voce» nell’anno successivo66. In quelle pagine, veniva smontata la leggenda diffusa negli ambienti nazionalisti, secondo la quale la Jugoslavia sarebbe stata poco più che «una creazione politica artificiale e improvvisata della guerra europea». Risolutamente avverso a queste tesi, Anzilotti riconosceva, invece, la consistenza etnica e culturale della nuova formazione politica e dimostrava che l’esistenza della «nazionalità slava» era stata ampiamente riconosciuta dai maggiori interpreti del nostro Risorgimento. Erano conclusioni violentemente contestate da Giovanni Gentile67, e che certo non potevano convincere Volpe ormai disposto, proprio sul filo del risentimento per la guerra «malamente vinta», ad avvicinarsi al raggruppamento dei Fasci con la lettera aperta inviata al direttore del «Popolo d’Italia» nel novembre del 1920. Lettera di «compiacimento» e di «ringraziamento» per la battaglia sostenuta da quel quotidiano in favore della «restaurazione civile del paese», per il suo appoggio all’impresa di Fiume, più tardi considerata l’alba del risveglio nazionale nello squallido panorama del dopoguerra68. Ma soprattutto testimonianza di adesione al fascismo per la sua ferma tutela delle rivendicazioni nazionali tradite alla Conferenza di Parigi, alle quali il Trattato di Rapallo, sostanzialmente approvato da Mussolini ma ferocemente criticato dal nazionalista Federzoni69, aveva fornito, ora, qualche parziale e co64 Antonio Anzilotti a Giuseppe Prezzolini, 2 novembre 1918, in AGP. 65 G. SOFRI, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti, cit., pp. 734 ss. 66 A. ANZILOTTI, Italiani e Jugoslavi nel Risorgimento, Roma, «La Voce», 1920. Il te-
sto rielaborava un precedente intervento di Anzilotti, pubblicato, insieme ai contributi di Prezzolini, Salvemini, Trumbic#, Arcangelo Ghislieri, nella raccolta Italia e Jugoslavia, Firenze, Vallecchi, 1918, pp. 29 ss. 67 G. GENTILE, Il problema adriatico. Da Tommaseo a Cavour, «Il Resto del Carlino», 27 agosto 1918, in ID., Guerra e fede, cit., pp. 323 ss. La polemica riguardava il contributo di Anzilotti, pubblicato in Italia e Jugoslavia, a cui si contrapponevano le conclusioni di A. TAMARO, La Dalmazia e il Risorgimento nazionale, in «Rassegna italiana», 1918, 8, pp. 12 ss. 68 G. VOLPE, Gabriele D’Annunzio, cit., pp. 79 ss. 69 L. FEDERZONI, Le rinunzie di Rapallo. Discorso pronunziato nella tornata parlamentare del 26 novembre 1920, in ID., Il Trattato di Rapallo, cit., pp. 133 ss., dove la polemica coinvolgeva direttamente Salvemini, «che è stato il teorizzatore e l’apostolo della politica adriatica che chiameremo nittiana…». Con quell’accordo diplomatico, l’Italia rinunciava alla Dalmazia, esclusa la città di Zara, a Fiume (che era eretta a Stato Libero), alle isole di Lagosta e Pelagosa, in cambio del pieno riconoscimento dei suoi diritti territoriali sull’Istria. Il Trattato, poi presentato come un capolavoro di abilità diplomatica, dall’allora ministro de-
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munque insufficiente soddisfazione, nonostante l’atteggiamento disfattista di alcuni organi di stampa e di una parte della pubblica opinione. Rimarrà a vanto del “Popolo” aver fedelmente, dal primo giorno all’ultimo, fiancheggiato Fiume e Gabriele d’Annunzio e i suoi legionari. Di questa fedeltà è stato premiato. Oggi, assicurata la salvezza dell’Istria e di Fiume, può esaltare il poeta-soldato con assai maggiore coerenza di chi fino a ieri lo ha vituperato e offeso. Più in generale, tutti debbono riconoscere che voi avete potentemente aiutato, con l’opera quotidiana, a che non andasse perduta nello scontento, nella delusione, l’anima di tanti combattenti. Molti debbono a voi se non si sono del tutto smarriti nel caos ideologico del dopo guerra ed hanno potuto consolidarsi quel tanto di virile coscienza che dovrebbe essere di un popolo uscito onorevolmente da una grande prova. Se ai nostri egregi alleati è stato più di una volta detto il fatto loro, questo lo dobbiamo, qui a Milano, quasi solo al “Popolo d’Italia”. Gli altri hanno calzato, per la bisogna, i loro più morbidi guanti, riservando le manopole di ferro per i veri o presunti “imperialisti” o “nazionalisti”, italiani, per chiunque non fosse disposto ad ammettere che l’Italia si dovesse dissanguarla e impoverirla per la nebulosa wilsoniana o per la “giustizia”… degli altri70.
Da questo momento, e poi nel prossimo e più lontano futuro, Volpe, che intanto aveva ricevuto un alto riconoscimento per il suo impegno sulla linea del fronte, durante l’offensiva dell’ottobre 191871, avrebbe sempre considerato il movimento fascista come il solo garante della possibilità di acquisire per l’Italia uno status se non egemonico, almeno non di semplice subordinazione, nel concerto internazionale. Questa fiducia nelle capacità di Mussolini di personificare il «master and commander» della nuova Italia, impegnata a continuare attivamente il suo confronto con vecchie potenze e nuovi Stati, costituiva il nocciolo duro di tutte le sue successive prese di posizione politiche, dove, fatto salvo il riconoscimento al fascismo di aver promosso la sacrosanta rea-
gli Esteri, Carlo Sforza, era stato duramente contestato da larghi settori del mondo politico e intellettuale italiano, di orientamento nazionalista ma anche liberale. Sul punto rispettivamente, C. SFORZA, L’Italia dal 1914 al 1944. Quale io la vidi, Roma, Mondadori, 1944, p. 89 ss.; B. BRACCO, Carlo Sforza e la questione adriatica. Politica estera e opinione pubblica nell’ultimo governo Giolitti, Milano, Unicopli, 1998, pp. 101 ss. 70 G. VOLPE, Per la nuova Italia. Lettera aperta a Benito Mussolini, «Popolo d’Italia», 21 novembre 1920, ora in ID., Fra storia e politica, cit., pp. 241-242. 71 Con Regio Decreto del 30 novembre 1919 (conservato in CV), lo storico veniva insignito della medaglia d’argento, con questa motivazione: «Dopo aver contribuito efficacemente alla preparazione dell’offensiva diffondendo fra i giovani ufficiali sane idee ed elevandone lo spirito combattivo, nelle notti del passaggio del Piave, si trattenne lungamente sotto i ponti sotto il fuoco nemico, continuando l’opera sua per infiammare con la parola l’entusiasmo dei soldati. Piave (Montello), 26-29 ottobre 1918».
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zione borghese contro la sedizione socialista, si insisteva essenzialmente sulla capacità del nuovo gruppo politico ad assicurare una ferma gestione della politica estera. Nel giugno del 1921, Volpe sosteneva che i Fasci si identificavano originalmente, tra tutte le altre formazioni politiche, per la consapevolezza della necessità «di serrare le file del popolo italiano, di raccogliere attorno all’insegna della patria gli Italiani dispersi per il mondo, di organizzare il fronte unico della nazione nei rapporti col di fuori, agli scopi di una pacifica espansione e affermazione: pacifica, ma, è ovvio, consapevole, anche, che, nel grembo di Giove, c’è, con la pace, anche la guerra»72. Su questa stessa linea, già nel 1920, il capo del fascismo aveva proclamato che, dovendo essere «il popolo italiano necessariamente espansionista», «il nostro imperialismo» non poteva che essere di necessità «romano, latino, mediterraneo»73. Sul filo di queste affermazioni, sarebbe nato, negli anni a venire, la leggenda di Mussolini, legittimo erede della «passione mediterranea» del vecchio Crispi, come più tardi Volpe e molti si affannarono a ripetere74, dando corpo storiografico e più spesso pseudostoriografico a un paragone, assai gradito al figlio del fabbro di Predappio, che, nel 1921, aveva considerato lo statista siciliano come il solo uomo politico che «seppe proiettare l’Italia nel Mediterraneo con anima e pensiero imperialistico» e che fu in grado di assicurare nuova linfa a un programma di crescita della nazione fuori dei suoi confini che, come nel passato, doveva tornare a essere non tanto e soltanto conquista di territori, quanto «imperialismo economico di espansione commerciale»75. Ma su questo mito pesava soprattutto la recentissima esperienza della guerra guerreggiata, quando il tradizionale quadro di riferimento politico interno apparve inadeguato alla nuova
72 G. VOLPE, Consensi e dissensi, «Popolo d’Italia», 7 giugno 1921, ora in ID., Fra storia e politica, cit., p. 253. 73 B. MUSSOLINI, Discorso per la seconda adunata fascista, in «Il Fascio», 29 maggio 1920, citato da A. Del Boca, L’Impero, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 419 ss. 74 G. VOLPE, Francesco Crispi, Venezia, La Nuova Italia, 1928, pp. 31 ss.; F. CHABOD, Lineamenti della concezione politica di Francesco Crispi, in «Annuario del R. Istituto tecnico di Piacenza», 1927-1928, pp. 1-4. Per un tipico esempio della retorica fascista, sullo stesso tema, G. POLICASTRO, Crispi e Mussolini, s. l., Mussoliniana-Paladino Editore, 1928. Sul punto, l’ampia rassegna di F. BONINI, Francesco Crispi e l’unità. Da un progetto di governo ad un ambiguo “mito” politico, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 181 ss. Sulla più precoce apologia di Crispi nella pubblicistica nazionalista del primo dopoguerra, R. BRACCO, Storici italiani e politica estera, cit., pp. 168 ss. 75 B. MUSSOLINI, Discorso all’Augusteo, 7 novembre 1921, in ID., Scritti e discorsi, cit., II, pp. 201-202. Più ampiamente sul tema, ID., Francesco Crispi. Discorso per l’inaugurazione della lapide a Francesco Crispi, eretta in Roma il 12 gennaio 1924, ivi, IV, pp. 13 ss.
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congiuntura, tanto da lasciar presupporre che il vecchio regime parlamentare, inabile a guidare la nazione in armi, dovesse essere sostituito da un’autorità integralmente sovrana, almeno provvisoriamente legibus soluta. Se «nell’Italia democratica e parlamentare», avrebbe scritto più tardi Volpe, «sotto l’azione anche del positivismo e materialismo storico che riconosceva solo la virtù dell’ambiente, era venuto a mancare, insieme con gli uomini che fossero vere e alte personalità, anche il senso e l’apprezzamento delle personalità», durante il conflitto, «questo senso e apprezzamento accennava a ricostituirsi, e gli Italiani, non trovando un capo, un vero capo, fra i politici, lo cercavano altrove, lo trovarono in Cadorna»76. All’ombra di Cadorna, al cui operato pure Volpe non avrebbe risparmiato anche critiche non marginali in sede di giudizio storico77, cresceva tuttavia un’altra figura, che sembrava in grado di meglio costituire «dopo Dio, il più necessario punto d’appoggio», allorché «un paese è impegnato in uno sforzo mortale», per la sua capacità di rappresentate una «più organica concezione del governo di un paese in guerra»78. Il rapporto tra Volpe e il futuro Duce del fascismo iniziava infatti nel tragico autunno del 1917, come lo storico avrebbe ricordato proprio a Mussolini nell’agosto del 1924. Uno stupido incidente mi ha impedito ieri di muovermi di qui, dalla campagna dove mi trovo a riposare e a lavorare, e di recarmi alla piccola adunanza di Predappio, dove erano idealmente invitati tutti gli amici vostri, in ispecie di Romagna. E mi ha impedito anche di telegrafare in tempo. Poco male per l’adunata; molto dispiacere per me. Ma Voi vogliatemi credere se vi dico che sono stato tutta la giornata lassù in spirito e mi è parso di vedere quei luoghi a Voi cari e cari ormai a tutti noi. Pensavo poteste esservi anche Voi. Invece no! E questo ha addolcito il mio rammarico. Ormai non accade più facilmente d’incontrarvi, fuori delle strettoie ufficiali, e parlare liberamente, come qualche volta ricordo aver fatto nella redazione del Popolo d’Italia, cominciando da un giorno memorabile, poco dopo Caporetto, quando, ignoto a voi, venni a cercarvi. E non sapevo neppure perché! Ma in quei momenti, ovunque si vedeva una speranza, lì ci volgevamo quasi per istinto!79
Lo stesso Mussolini avrebbe testimoniato come quel sentimento di fiducia nei suoi confronti si era consolidato, tra 1919 e 1920, ed esteso ai molti intellettuali (da Gentile, ad Alceste De Ambris, a Maffeo Pan76 G. VOLPE, Il popolo italiano nella Grande Guerra , cit., p. 170. 77 Ivi, p. 190. 78 Ivi, pp. 171 e 205. 79 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, S. Arcangelo di Romagna, 31 agosto 1924, in
ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, (1922-1943), fasc. W/R, «Volpe Gioacchino», sottof. I., b 97, d’ora in poi, SPD.
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taleoni), fermamente intenzionati a opporsi con ogni mezzo al «clan dei rinunciatari» (Bissolati, Borgese, Albertini, Amendola), e fortemente convinti che persino «l’Italia di Nitti, che era poi l’Italia di Giolitti, fosse legittimamente chiamata a portare i propri confini nord-orientali a livelli di politica accettabilità»80. Di lì a qualche anno soltanto, Carlo Delcroix, fervente interventista, eroe della Marmolada, rimasto gravemente mutilato nel 1917, avrebbe evocato l’immagine di Zara «santuario in Terra Santa», che domandava alla nuova Italia «libertà per tutta la Dalmazia»81, sancendo definitivamente il connubio tra reducismo, combattentismo e fascismo. Eppure, quella tra Mussolini, il «vario nazionalismo» italiano, e soprattutto le sue correnti liberali, era un’unione in gran parte non naturale. Non certamente un’organica fusione, a differenza di quanto avrebbe sostenuto Salvatorelli con un giudizio estemporaneo, che sarebbe poi divenuto infrangibile vulgata storiografica82, nel quale si tracciava questo quadro dell’evoluzione politica italiana dal 1915 al 1922. L’atteggiamento demagogico, con cui il nazionalismo si era presentato nell’agone politico, non era puro espediente pratico ed occasionale, ma rispondeva invece al suo carattere più profondo. I nazionalisti erano essenzialmente una piccola minoranza, ben decisa a divenire padrona, ad ogni costo, della vita pubblica, violentando la resistenza passiva della maggioranza. Occorreva a loro, per questo, la sospensione dei rapporti politici normali, la lotta rivoltosa, il colpo di mano a danno dei poteri costituiti. Ed ecco, la propaganda per la guerra intesista fornire loro l’occasione di tutto questo: l’occasione di scendere in piazza, di esautorare il parlamento, di dominare il governo, di stabilire insomma la loro dittatura, a favore della propria forza politica e di quegli interessi economici di cui erano aperti sostenitori. La rivoluzione reazionaria e plutocratica: ecco quello che offriva la guerra al nazionalismo italiano. Tuttavia, da solo esso non bastava all’impresa. Minoranza, cercò altre minoranze, decise come lui, a prepotere. Trovò i repubblicani, ben lieti di rispolverare, dopo cinquant’anni di oblio, il programma del “partito d’azione”: i sindacalisti-anarchici della settimana rossa; i veri transfughi del socialismo, che avevano bisogno di qualche altra cosa per far loro fortuna; quei radicali che, impazienti di non essere stati prescelti da Giovanni Giolitti, volevano gustare la torta del potere, e servire, in80 Y. DE BEGNAC, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, con una Prefazione di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 68 ss. 81 C. DELCROIX, Guerra di popolo, Firenze, Vallecchi, 1923, p. 332. 82 S. LUPO, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, pp. 125 ss.; A. D’ORSI, I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Bagdad, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 113 ss. Diversamente e nella giusta prospettiva, si veda, invece, F. Perfetti, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, cit., pp. 5 ss. Sullo stesso punto, J. DE GRAND, The Italian Nationalist Association and the Rise of Fascism in Italy, Lincoln, University of Nebraska Press, 1978.
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sieme, il Grande Oriente francese. Tutti costoro si trovarono, si squadrarono, si pesarono, conclusero che si poteva mettersi insieme per l’unica vera rivoluzione che valesse la pena di fare: la conquista del potere. E così dal nazionalismo nacque il nazional-fascismo, che nelle giornate del maggio radioso seppe persuadere il paese, piegare il parlamento. Fra un nazionalismo più vero e maggiore, che, sublimando la sua intima essenza, si spogliava di tutte le scorie. Fra la sottomissione del parlamento, la messa in disponibilità della costituzione, la dittatura militare e poliziesca, e, dietro tutto questo, “la marcia dei produttori”83.
La categoria di «nazionalfascismo», proposta per la prima volta in questo intervento del maggio 1923, pubblicato su «Rivoluzione liberale», era tuttavia, come emerse nel dibattito immediatamente successivo alla sua formulazione, troppo ampia, da un lato, e, dall’altro, troppo ristretta, inadatta in generale e inadeguata nel particolare per definire un fenomeno ben altrimenti complesso. Troppo ampia perché rischiava di includere nella definizione di «sovversismo conservatore» tutto il movimento interventista, anche nella sua corrente democratica, come a Salvatorelli rimproverava un articolo pubblicato sulla rivista di Gobetti, dove si sosteneva che «il parlare con tanto altezzoso disprezzo di tutti coloro che hanno riconosciuto la necessità della guerra è stata una delle cause che più hanno legittimato la reazione fascista post-bellica, e l’attribuire al nazionalismo una parte direttiva e di gran lunga predominante nel proclamare quella necessità giustifica il monopolio che il fascismo si è assunto del merito della guerra vittoriosa»84. Troppo ristretta, secondo il giudizio di Attilio Monti, anch’esso apparso sul periodico torinese, che poneva l’accento anche sul vasto fenomeno del «neutralismo nazionale e costituzionale» non socialista, capeggiato da Giolitti e da Croce, che poi sarebbe largamente confluito nel movimento fascista, soprattutto per quelle sue componenti che derivavano da «una nuova borghesia dedita al piccolo e medio commercio, alla piccola industria e all’agricoltura»85. Inoltre quella categoria era inadatta per definire il nazio-
83 L. SALVATORELLI, Lineamenti del Nazionalfascismo, in «La Rivoluzione liberale», II, 1923, 12, pp. 49-50. Si veda anche, ID., Politica estera e politica interna, ivi, II, 1923, 16, p. 65. 84 Un unitario [G. PERELLI], L’interventismo, ivi, 1923, 14, pp. 60-61, dove era anche contenuta la replica di Salvatorelli: «Non il fatto dell’intervento, e tanto meno la convinzione di “chi ha accettato la guerra come un tragico dovere”, ma l’incremento e la trasformazione del nazionalismo e la nascita del fascismo nell’ambiente della campagna interventista erano oggetto del mio studio […] La guerra è una cosa; le “radiose giornate” sono un’altra. E la connessione fra le “radiose giornate” e il fascismo, sino alla marcia su Roma compresa, non l’ho certo inventata io, anche se io sono stato uno dei primi a riconoscerla e proclamarla». 85 A. MONTI, Interventismo-Neutralismo e Fascismo, ivi, II, 1923, 33, pp. 135-136. A conclusioni assai simili era pervenuto G. ANSALDO, La piccola borghesia, ivi, II, 1923, 18,
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nalismo vero e proprio, che proprio in quegli stessi anni, si sforzava di mantenere la sua identità nei confronti del fascismo, con una serie di ben articolate prese di posizione, che insistevano, se non altro, sul carattere di indiscusso lealismo monarchico del primo e sulla permanenza nel secondo di «troppi residui di concetti e di idee e di presupposti democratici e liberali, da un lato, e socialisti, dall’altro»86. Questi presupposti venivano a confliggere, come avrebbe evidenziato non solo Federzoni87, ma anche Salvemini, con il carattere di forza autenticamente autoritaria e conservatrice del nazionalismo (evidente soprattutto per la sua base di reclutamento sociale), se paragonato a quello eversivo e rivoluzionario del movimento dei Fasci, che si sarebbe conservato come tale almeno fino al 1922. Il movimento fascista non fu un movimento di difesa contro i frutti rivoluzionari della guerra, ma fu esso stesso un frutto rivoluzionario; senza dubbio Mussolini combatté contro i socialisti e i comunisti, ma anche gli anarchici combatterono contro di loro, e persino i comunisti furono continuamente in conflitto con i socialisti, per quanto sino alla fine del 1920 siano stati nello stesso partito. Queste non erano lotte di conservatori e rivoluzionari, ma tra uomini che sostenevano di essere uno più rivoluzionario dell’altro. Il solo gruppo politico che in quegli anni ebbe il coraggio di dichiararsi completamente conservatore e antirivoluzionario, sostenendo apertamente la repressione, fu il partito nazionalista. Gli intellettuali delle classi abbienti e gli ufficiali dell’esercito regolare, che si occupavano di politica, non aderirono al movimento fascista ma al movimento nazionalista; allora nessuno avrebbe sospettato che un giorno Mussolini sarebbe diventato il capo di un partito le cui idee erano prese quasi tutte dal nazionalismo. Che cosa ci poteva essere in comune tra la grave e pedante dottrina autoritaria dei nazionalisti e gli sbrigativi clamori di Mussolini? A quel tempo l’abisso che si apriva tra i nazionalisti e i fascisti appariva incolmabile88.
Infine, la tipologia inaugurata da Salvatorelli appariva inadeguata a comprendere l’evoluzione della corrente liberal-nazionalista, che aveva sì perso gran parte delle sue specificità durante gli anni del conflitto, ma non fino al punto di annichilire definitivamente la sua identità originaria. A questo riguardo estremamente significativo risultava il tenore della collaborazione alla rivista «Politica», fondata nel dicembre del
p. 75. Chiudeva la polemica, L. SALVATORELLI, Risposta ai critici di Nazionalfascismo, ivi, II, 1923, 35, p. 143. 86 F. ERCOLE, Lettera aperta al Direttore dell’“Idea Nazionale”, 20 dicembre 1921, in F. PERFETTI, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, cit., pp. 267 ss. 87 L. FEDERZONI, Italia di ieri, cit, pp. 15-16. 88 G. SALVEMINI, “Lezioni di Harvard”, cit., p. 461.
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1918 da Francesco Coppola e Alfredo Rocco, da parte di uomini come Volpe, Gentile, lo stesso Croce, che definiva «utilissima» la campagna che il periodico intraprendeva «in un momento in cui gli ideologi democratici operano da veri (e quel che è peggio inconsapevoli) traditori d’Italia»89. In nessuno dei loro interventi, si trovava infatti un’organica adesione al patrimonio culturale del nazionalismo, a cui il foglio di stampa si ispirava, che poi si sarebbe in parte travasato nella dottrina fascista: dalla proposta di un’organica teoria imperialista, all’organizzazione corporativa dell’economia e della società, alla polemica intransigente contro la concezione liberale dello Stato90, che toccava punte di inaudita veemenza già nel manifesto programmatico di «Politica»91, e attraverso la quale Rocco avrebbe giustificato la convergenza assoluta tra nazionalismo e fascismo, fino a parlare di un «fascismo nazionalista», nel quale «lo stesso carattere eminentemente nazionale della sua funzione pratica» aveva eliminato «le originarie scorie pseudo-rivoluzionarie e pseudo-democratiche»92. Né alcuna affinità sistematica è possibile riscontrare tra i contenuti delle prose di guerra e di dopoguerra di questi intellettuali di estrazione liberale e il «nazionalismo proletario» (e non più soltanto populistico, come quello di Corradini), presente nei «discorsi fiumani» di D’Annunzio, che si faceva alfiere della lotta delle «nazioni povere e impoverite» contro «l’impero vorace che s’è impadronito della Persia, della Mesopotamia, della nuova Arabia, di gran parte dell’Africa», bandendo una crociata che doveva congiungere «l’indomito Sinn Fein irlandese alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, a tutte le insurrezioni dello spirito contro i divoratori di carne cruda e gli smungitori di popoli inermi»93, aggiungendo poi, come monito e presagio, che «la novità di vita non è a Odessa è a Fiume; non è sul Mar Nero è sul Carnaro»94. Su questo punto, in particolare, vanno attentamente valutate le divergenze e le convergenze politiche, attive in questo momento, anche 89 Benedetto Croce a Guido De Ruggiero, 29 novembre 1918, in B. CROCE, Epistolario I. Scelta di lettere curata dall’autore, 1914-1935, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi storici, 1967, p. 32. Sul punto, R. PERTICI, Croce e il “vario nazionalismo” post-bellico, 1918-1921, in Studi per Marcello Gigante, a cura di S. Palmieri, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 575 ss. 90 A.J. GREGOR, Mussolini’s Intellectuals. Fascist Social and Political Thought, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2005, soprattutto ai capitoli II e III dedicati ad Enrico Corradini e Alfredo Rocco. 91 Manifesto, in «Politica», I, 15 novembre 1918, 1, pp. 1 ss., ora riprodotto in Il nazionalismo italiano, a cura di F. Perfetti, cit., pp. 235 ss. 92 A. ROCCO, Il Fascismo verso il nazionalismo, «L’Idea Nazionale», 6 gennaio 1922, ora in ID., Scritti e discorsi politici, cit., II, pp. 693 ss. 93 G. D’ANNUNZIO, Italia e vita, 14 ottobre 1919, in ID., Italia e vita, cit., pp. 41-42. 94 ID., Ordine del giorno ai Legionarii, cit., p. 58.
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per quello che riguarda Volpe, che pure aveva dimostrato, e più tardi dimostrerà, qualche non solo episodica simpatia per i temi di una politica estera che avrebbe dovuto risolversi nella lotta a coltello del «sangue contro l’oro». Dato, questo, che non autorizza però a ipotizzare un organico avvicinamento dello storico alla dottrina di Rocco e Corradini, sulla base della sua estemporanea collaborazione ad alcuni organi di stampa nazionalisti, tra 1918 e 192095. E dimostrava bene questa impossibilità l’editoriale di apertura, intitolato La vittoria nel pensiero dei suoi artefici, che appariva appunto sulle pagine de «L’Idea Nazionale» il 3 dicembre del 1918. Articolo che costituiva un «commento ai suoi ufficiali», firmato dal generale Enrico Caviglia, «che sfondò a Vittorio Veneto», ma che in realtà era redatto da Volpe come rivelava un lungo inciso che riprendeva il motivo ricorrente della guerra come fattore di civilizzazione, di progresso e persino di intesa tra i popoli96. Un contributo, questo, dove si affermava che il prevalere delle nostre armi, prima che nei frutti di una possibile espansione, andava valutato per la capacità di portare a compimento il difficile processo di «nascita della nazione» italiana, che, come era accaduto a tutti gli altri popoli europei, aveva avuto bisogno del battesimo del fuoco, del sudore, delle lacrime che precedono ogni guerra vittoriosa. Una vittoria interna soprattutto «morale», e non soltanto una vittoria contro l’avversario esterno, quella era stata la «prima vittoria» dell’«Italia in cammino» nella storia d’Europa e in quella del mondo. L’animo nostro è afferrato da una commozione profonda. Questa di oggi non è soltanto la vittoria di un esercito contro un altro esercito. Non è solo la cacciata di un vecchio nemico della nostra gente. Ma è il felice esito di una grande prova del popolo italiano, della prima grande prova, del primo grande sforzo collettivo che la nazione italiana abbia mai compiuto. Vi ha impegnato tutte le sue risorse. Vi ha saggiato sull’incudine tutte le sue forze di resistenza. Ha mostrato a tutti le buone qualità di fondo, sotto quel tanto di schiuma sudicia, che più o meno è dappertutto e che molti credevano fosse l’Italia, ha costitui-
95 G. VOLPE, La vittoria nel pensiero dei suoi artefici, in «L’Idea Nazionale», 3 dicembre del 1918, p. 1; ID., Ricordare, in «Il Dovere nazionale», 22 gennaio 1920, p. 1, fortemente critico contro il «tradimento degli alleati». Molto più tardi, con una dichiarazione di carattere assai dubbio, Volpe avrebbe ricordato la sua intenzione di iscriversi, nel 1921, all’Ani. Si veda, «Bollettino d’informazioni del Centro Studi Adriatici», 18 ottobre 1971, p. 5. 96 ID., La vittoria nel pensiero dei suoi artefici, cit.: «La guerra sembra sia solo distruzione di beni, ma essa affina anche ed accelera il processo di ricostruzione dei beni stessi. […] Attraverso la guerra le genti lontane si avvicinano, cimentano le loro forze l’una in cospetto dell’altra, si conoscono, si eguagliano, iniziano o intensificano la loro collaborazione. Essa accelera quel coordinarsi delle umane attività in che consiste l’incivilirsi del mondo. Essa attua perennemente un po’ la “Società delle Nazioni”».
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to sopra solide basi, senza possibilità di cavillazioni o di equivoci, di riserve, il suo diritto all’esistenza. Da un secolo, questa prova e questo sforzo auguravano e attendevano i nostri uomini migliori, quasi come un mezzo per dare e ridare la tempra ad un popolo troppo giovane e troppo vecchio, uscito da secoli di astioso municipalismo. E questa prova e questo sforzo non esitarono ad invocare o accettare con fiducia, quattro anni addietro, quanti di noi, pur non sottoscrivendo formule irredentiste o imperialiste o umanitarie, ma mettendosi da un punto di vista altamente nazionale, credettero dovesse l’Italia affrontare i rischi e di danni della guerra. Essi hanno avuto ragione. La nostra vittoria è anche vittoria degli uomini che allora ebbero fede! Chi, d’ora in avanti ripeterà lo stornello dello “stellone” e conterà sulle dieci dita i morti delle guerre d’indipendenza e dirà che l’Italia è stata fatta a Solferino, a Sadowa, sotto le mura di Parigi? Tutto questo era, già prima, non storia ma pettegolezzo. Domani, non sarà possibile neanche il pettegolezzo! Lungi da noi ogni megalomania e ogni retorica. Ma neanche ogni viltà, ogni autodenigrazione, ogni debolezza che nasce da eccesso di sfiducia. Facciamo vivere nella nostra fantasia l’immagine di un popolo che in cammino da decenni e da secoli sopra una difficile strada, spesso cadendo e spesso rialzandosi, affrontando a poco a poco non solo gli ostacoli della malevolenza e della forza altrui, ma anche e non meno le proprie inesperienze, passioni, male abitudini mentali, tuttavia avanza; si riorganizza sempre più moralmente, cioè acquista sempre più di coscienza di sé; trova un suo proprio assetto politico; comincia a ricostituire la sua ricchezza e a rinnovare la sua coltura; si propone obiettivi sempre più alti e lontani di vita collettiva; cerca di battere il passo con altri popoli più maturi e fortunati; diventa o ridiventa parte viva ed attiva della società civile; riceve e dà contributi onorevoli al comune patrimonio morale del mondo; guarda in sé con l’onesto proposito di bene conoscersi e più rapidamente avanzare. Questo popolo è il popolo italiano negli ultimi secoli. Vicenda dolorosa e vicenda lieta: vicenda, in ogni modo, di un popolo che ha radici profonde ed è abbarbicato alla sua terra97.
La deriva di molti intellettuali italiani verso una soluzione autoritaria della vita politica italiana non si muoveva quindi tra i due poli del fascismo e del nazionalismo, già attivi e pulsanti immediatamente dopo la fine delle ostilità, ma si sviluppava innanzitutto, come meglio vedremo, all’interno del quadro di riferimento dell’ideologia liberale, pur con tutte le sue debolezze, anomalie, disfunzioni, ed era piuttosto la conseguenza diretta della ricaduta catastrofica di una crisi internazionale mal manovrata, mal risolta e malissimo vissuta all’interno del paese, come Volpe confidava a Giustino Fortunato nel marzo del 1920. Quella che era crisi di guerra ora è crisi della società italiana, nella sua totalità, con manifestazioni in parte generali, di tutto il mondo, in parte nostre di
97 Ibidem.
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noi Italiani. Certo qualche cosa sta maturando e non solo in male. Qualche cosa sta nascendo, e porta, come ogni nascimento, dolore. Ma quel che ci mozza il respiro è il pensiero di come il nostro paese potrà tollerare un’epoca di vaste agitazioni, in un momento in cui più che mai esso è legato e subordinato ad altri stati e ad altre economie; in un momento in cui gli altri occupano in ressa le ricchezze del mondo, le materie prime, i migliori mercati ecc. Quello che anche io molto temevo prima e durante la guerra che noi potessimo uscire vincitori sì, ma relativamente retrocessi nella scala delle potenze europee, e contare a guerra finita meno di prima; questo timore mi pare si stia dimostrando fondato. È probabile che oggi, domani, per un pezzo, la distanza fra noi e chi ci precedeva sia molto aumentata. Colpa di nessuno, ma un po’ anche di noi Italiani. E non tanto per aver fatto la guerra, quanto per non averla diplomaticamente ben fatta; non aver avuto gli Italiani tutti ben chiara l’idea che il fronte della nostra guerra era duplice: verso le Alpi Giulie e verso… le Alpi Marittime e Cozie e Graie, cioè verso gli Alleati. Abbiamo fatto loro un credito illimitato e senza garanzia; abbiamo sempre accettato ogni loro atto come rivolto alla tutela di una causa e quasi affatto indipendente dai consueti impulsi della politica degli Stati98.
3. All’insoddisfazione per la conclusione di una guerra, che, nonostante l’enormità dei sacrifici, aveva visto diminuita quasi, anziché incrementata, la posizione diplomatica e strategica dell’Italia, si aggiungeva poi quella relativa alla congiuntura interna, che il comportamento del governo Nitti aveva determinato, con la creazione di un clima che apparve, a Volpe e a Omodeo, di frettolosa e incauta svendita del patrimonio ideale che si era accumulato nel corso del conflitto99, e, a Gentile, come la manifestazione di un malessere profondo della società italiana, provocato da chi, sostituitosi a Giolitti nella guida della nazione, senza in nulla aver mutato la tattica politica del suo predecessore, riteneva «si dovesse governare senza fede, senza idealità, senza programma che non fosse praticabile agevolmente, indulgendo agli istinti più bassi degli individui e del popolo, senza richiedere sacrifizi ritenuti impossibili, e sen-
98 Gioacchino Volpe a Giustino Fortunato, s. d. [ma marzo 1920], in G. FORTUNATO,
Carteggio, 1912-1922, cit., pp. 321-322. 99 Adolfo Omodeo alla moglie, 24 giugno 1919, in ID., Lettere, cit., p. 365: «La crisi nittiana fa pena: continua la dilapidazione della nostra vittoria, che è poi il nostro sudore, il nostro pianto, il nostro sangue, gli anni di giovinezza marciti nelle trincee e nel fango. Ma questa è la storia d’Italia: procede sempre ad impulsi irregolari, a cui seguono pause e ristagni. Del resto, il giolittismo l’avevamo represso, non distrutto. Giolitti, è bene metterselo in testa, è più che un uomo: è un male nazionale. Del resto, il fallimento della pace significa un rovescio del partito nazionale». Più secco, ma egualmente acerbo, era il giudizio di Volpe sul governo Nitti. Si veda, ID., Gabriele D’Annunzio, cit., p. 85: «Nitti, già tiepido per la guerra, ora voleva liquidarne il più presto possibile gli avanzi, fossero finanziari e sociali, fossero anche psicologici».
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za avventurarsi a rischi, certamente mortali a chi non sia capace di affrontarli animosamente con ferma volontà di superarli»100. Se molti avevano sperato che la guerra avrebbe saputo fare giustizia definitivamente del «politicantismo faccendiero» della vecchia Italia, ora la realtà dei fatti dimostrava che quella vecchia Italia era invece sopravvissuta, anche dopo la vittoria, e aveva nuovamente determinato un’atmosfera di disarmo etico e politico, che anche Alfredo Rocco aveva denunciato con asprezza, parlando, a proposito della lunga agonia del gabinetto Orlando, di un’azione di indirizzo politico «insufficiente, imprevidente, disorganica», che rischiava di paralizzare l’«opera di ricostruzione economica, politica, sociale» e di annichilire addirittura «l’istinto della conservazione e della reintegrazione nazionale»101. Questo clima di ripiegamento si riverberava sulla stessa attività intellettuale, attraverso la definitiva liquidazione delle attività dell’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, per la cui sopravvivenza erano nate forti preoccupazioni già dopo Caporetto, quando sia Volpe che il fondatore della «Voce» si erano sforzati di porre il malcerto futuro di quell’istituzione sotto l’indiretto patronage del più illustre e influente intellettuale italiano, con le lettere del febbraio 1917 e dell’aprile 1918. Ma né la corrispondenza di Prezzolini, né tanto meno quella di Volpe ricevettero risposta adeguata da parte di Croce. Segno inequivoco, questo, di un malcelato fastidio del filosofo napoletano, che, se aveva abbandonato il suo atteggiamento neutralista a favore di un leale e convinto sostegno alla nazione impegnata nel conflitto102, restava concettualmente contrario a una «storia della guerra» e soprattutto a una storia di quell’evento che così tanto si distaccava dai suoi convincimenti in materia di ricostruzione del passato. Ad una storia, in altri termini, che Volpe e Prezzolini vedevano non più unicamente come storia dello Stato italiano, delle sue élites intellettuali e delle sue classi dirigenti, ma come storia nazionale à part entière, che doveva essere costruita a partire dall’analisi dei grandi movimenti di struttura nell’economia, nella società, nella mentalità. Era un’insuperabile diversità di concezione, che era già emersa tra Croce e Prezzolini subito dopo Caporetto, quando quest’ultimo aveva esposto al direttore della «Critica» il prospetto di «un’An-
100 G. GENTILE, La crisi morale, cit., p. 71. 101 A. ROCCO, Mentre non si fa la pace, «Politica», 10 marzo 1919, ora in ID., Scritti e
discorsi politici, cit., II, pp. 569 ss. 102 P. MELOGRANI, Le “Pagine sulla guerra” di Benedetto Croce (e una sua lettera a Vittorio Emanuele Orlando), in «Il nuovo osservatore». Luglio-agosto 1966, pp. 643 ss. Si ricordino, a questo proposito, i fermi inviti alla riscossa indirizzati da Croce al popolo italiano, dopo Caporetto: Parole di un italiano, «Giornale d’Italia», 5 novembre 1917 e Un mondo da ricostruire, «Vita italiana», dicembre 1917, in ID., Pagine sulla guerra, cit, pp. 233 ss.
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tologia, dove raccolgo le pagine che mi paiono migliori sulla guerra nostra», chiedendogli di poter «accogliervene alcune sue, fra le meno amare»103. Non solo alla sua personale partecipazione ma anche al progetto intero di quel volume, che nel 1918 avrebbe visto la luce con il titolo di Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e sul paese104, Croce opponeva un violento rifiuto. Nel quale appariva ancora traccia del suo passato atteggiamento di fermo oppositore di quell’avventura bellica, in cui un’Italia, a suo avviso malamente preparata, si era andata a cacciare sull’onda di un’emotività letteraria che neanche i tanti drammatici eventi, che avevano attraversato il conflitto, erano riusciti a cancellare. Desidererei consentire alla vostra cortese richiesta; ma non posso. Le pagine che io ho scritte sulla guerra, e a proposito della guerra, hanno una intima unità e coerenza, che forma il loro qualsiasi valore. Staccarne alcune e, come voi dite, le meno amare, sarebbe falsare il mio pensiero. Anche oggi mi vedo lodato, sui giornali francesi, come un convertito, per aver rivolto alcune parole di esortazione agli Italiani, ricordando ad essi l’onore nazionale e la dignità di uomini: – e quelle parole non sono una conversione, ma una diretta conseguenza delle mie vecchie idee politiche. Dunque, non voglio accrescere l’equivoco. Del resto, vi pare che la nostra guerra sia materia di antologie? Antologia significa raccolta di fiori; e vogliamo raccogliere fiori dalle parole che ci scambiammo intorno al letto della madre gravemente ammalata? Saremo sempre italiani, cioè letteratucci?105
A quelle parole sconfortanti, replicava Prezzolini, insistendo sulla sua richiesta e caratterizzando con maggiori particolari il disegno del lavoro. In esso non avrebbe trovato posto nessuna estrapolazione retorica, nessun dannunzianesimo deteriore, nessuna mistica del sangue e della morte, ma piuttosto gli scritti di quelle «anime religiose» (da Jahier a Soffici), che avevano rivelato il «vero volto della guerra» e insieme a esse le «lettere sgrammaticate di nostri soldati e non Benelli e altri del genere»106. Nella raccolta, dove doveva raccogliersi «il minimo possibile di letteratura», potevano ricevere la loro giusta collocazione anche le pagine «su la Storia d’Italia, che è quella moderna» recentemente redatte da Croce, senza nessun trionfalismo, ma solo «in quanto storia non antica e secolare, ma recente, non strepitosa ma modesta, non radiosa ma 103 Giuseppe Prezzolini a Benedetto Croce, 9 dicembre 1917 in Carteggio. II, cit., pp. 457-458. 104 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit. 105 Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, 10 dicembre 1917 in Carteggio. II, cit., p. 458. 106 Giuseppe Prezzolini a Benedetto Croce, 10 dicembre 1917, ivi., pp. 458-459.
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stentata»107. Si trattava, in definitiva, di una visione della vicenda nazionale, ispirata al massimo realismo, ricca forse più di ombre che di luci, nella quale Prezzolini pensava di poter distillare l’essenza delle attività dello Storiografico, ma che non incontrava l’approvazione del filosofo che tornava a esprimere la sua contrarietà nella lettera del 16 dicembre, dove si ribadiva la sua «intima riluttanza a tutto ciò che è manipolazione letteraria della guerra»108. Riluttanza che pure contrastava, avrebbe obiettato Prezzolini con una punta di veleno, con le fiere e severe prese di posizione formulate da Croce, immediatamente dopo la rotta dell’Isonzo, che «le hanno conquistato molte simpatie e han fatto del bene assai su persone che si credevano autorizzate, da quello che sembrava loro il suo pensiero, a un contegno equivoco e antitaliano»109. Era un dialogo tra sordi. Da una parte Prezzolini, che aveva colto precocemente il carattere rivoluzionario della guerra in corso110. Dall’altra, Croce nel quale si profilava già l’atteggiamento da tenere dopo la fine del conflitto: chiudere la parentesi del grande disordine e ritornare «dopo la guerra sovvertitrice», per dirla con Giustino Fortunato111, al normale e ordinato decorso del vivere civile112. Dominava nel filosofo la volontà di arrivare, il prima possibile, a un ripristino del vecchio status quo ante, che trovava un esatto riscontro politico nell’azione del governo Nitti, intenzionato a procedere a una frettolosa smobilitazione materiale e morale dell’apparato bellico, non senza larghe concessioni a una routine opportunistica, che ricalcava il vecchio modello d’intervento giolittiano113. Conseguenza immediata di questa strategia sareb-
107 Si trattava di alcune postille, apparse sulla «Critica» durante il 1916, poi raccolte
con il titolo di Sulla storia d’Italia, in ID., Pagine sulla guerra, cit., pp. 131 ss. 108 Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, 16 dicembre 1917 in Carteggio. II, cit., p. 459-460, dove si obiettava: «Ora occorrerebbe solo gente che afferrasse per gli orecchi gli Italiani e li costringesse a pensare alla serietà della nostra situazione e a fare il loro dovere». 109 Giuseppe Prezzolini a Benedetto Croce, 18 dicembre 1917 in Carteggio. II, cit., p. 460. Il riferimento è a B. CROCE, Parole di un italiano, cit. 110 G. PREZZOLINI, Diario, cit., pp. 239-240, alla data del 3 dicembre 1916: «Parlo con Guido Slataper. Gli dico che la rivoluzione sociale che è avvenuta è più importante dell’esito della guerra. Vinca l’Intesa o la Germania, né l’una né l’altra potranno modificare il collettivismo che è entrato nelle abitudini e nelle menti degli uomini. Un agricoltore, che paga 90% del suo reddito in tasse, non è che un impiegato dello Stato». 111 G. FORTUNATO, Dopo la guerra sovvertitrice, Bari, Laterza, 1921. Sul punto, M. GRIFFO, Profilo di Giustino Fortunato. La vita e il pensiero politico, Firenze, Cet, 2000, pp. 58 ss.; pp. 75-76. 112 B. CROCE, Il nostro dovere presente, in Pagine sulla guerra, cit., pp. 248 ss. Sull’evento bellico, come frattura nello sviluppo dell’Italia liberale, si veda ID., Storia d’Italia, cit., pp. 293 ss. 113 Sull’incapacità del governo Nitti di cogliere la frattura, che la guerra aveva porta-
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be stato il progressivo depotenziamento della struttura dei Servizi P, che per Prezzolini avrebbero potuto invece essere mantenuti utilmente in vita e trasformati in un servizio civile, mutando la loro fisionomia da «espediente straordinario», funzionalizzato alle esigenze del conflitto, a «normale attività educativa» indispensabile a superare l’inevitabile crisi sociale del dopoguerra114. In questa congiuntura, avveniva la liquidazione dello Storiografico, nonostante la disperata resistenza di Borelli115, che tuttavia poteva esibire come unico attivo della sua creatura un certo numero di monografie in fase di preparazione, tra le quali anche un volume di Volpe sulla «mentalità della guerra (storia delle idee e delle correnti d’opinione)»116. In questo caso, al malvolere o all’indifferenza del governo si aggiungeva l’ostilità di vasti settori della pubblica opinione per quel frutto del conflitto. Il 30 maggio 1919, l’edizione romana dell’«Avanti», nel contesto di una violentissima campagna anti-militarista, dipingeva quell’ente come un covo di «ufficiali imboscati», che ora si apprestava a divenire «una prospettiva magnifica di pappatoria per tutta una legione di giornalisti falliti, di professori bocciati e di politicanti patriottardi»117. Con toni più moderati, la «Nuova Antologia» chiedeva a sua volta lo scioglimento dell’istituzione e ne domandava il passaggio delle funzioni e delle attribuzioni a un «Istituto di scienze storiche e sociali»118, rivendicando così all’alta cultura universitaria e accademica il monopolio esclusivo della storia nazionale. Su questa stessa posizione si era già attestato Croce, fin dal gennaio 1918, che, alla richiesta di collaborazio-
to nel sistema politico italiano, si veda N. VALERI, Da Giolitti a Mussolini. Momenti di crisi del liberalismo, Firenze, Parenti, 1958, pp. 249 ss. R. DE FELICE, Mussolini, il rivoluzionario, cit., pp. 428 ss.; R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 460 ss. Sul governo Nitti, un giudizio meno liquidatorio, ma non sempre condivisibile, è in F. BARBAGALLO, Francesco Saverio Nitti, Torino, Utet, 1984; S. D’AMELIO, Francesco Saverio Nitti, Roma-Bari, Laterza, 2003. 114 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit., p. 366; ID., Vittorio Veneto, cit., p. 20: «Il servizio P continua nel paese, per opera di quelli che ne hanno ereditato lo spirito e cercano di mantenere il contatto fra la classe dirigente ed il popolo senza l’aiuto del governo. I governi non si persuadono di queste cose che sotto il peso della necessità e questa sembra cessata. Ma non è». 115 A. CARACCIOLO, L’“Ufficio Storiografico della Mobilitazione” e l’intervento di Croce per il suo scioglimento nel 1919-1920, in Studi storici in onore di Vittorio De Caprariis, Roma, Tombolini, 1970, pp. 279 ss.; B. BRACCO, Memoria e identità dell’Italia della grande guerra, cit., pp. 149 ss. 116 Giovanni Borelli alla Sezione Milanese dell’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, 3 luglio 1920, USMI, busta 13, fascicolo 2. 117 A. CARACCIOLO, L’“Ufficio storiografico della mobilitazione”, cit., p. 280. 118 Per un Istituto di scienze storiche e sociali, in «Nuova Antologia», 19 marzo 1919, pp. 118 ss.
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ne di un membro dello Storiografico, rispondeva seccamente: Io non intendo come in questi tempi si possa pensare a raccolte storiche sulla guerra che si svolge. Non bastano gli archivi dello Stato? In verità, codesto “ufficio storiografico” mi pare werth dass es zu Grunde geht, e vorrei che voi ed altri amici che siete ora costà, aiutaste a liquidarlo, perché è il meglio che si possa fare119.
Era una condanna già senza appello, che prefigurava il ruolo di liquidatore ufficiale dell’organismo di Borelli, che sarebbe stato attribuito ufficialmente a Croce, nel settembre del 1919, con la nomina di presidente della «Commissione pei provvedimenti da adottare per l’Istituto Storiografico della Mobilitazione»120. Annotando più tardi la sua risposta favorevole all’incarico propostogli da Nitti, Croce avrebbe fatto riferimento non solo a un suo precedente giudizio secondo il quale «lo Storiografico non concluse nulla e servì soltanto a spreco di danaro e a collocare in posti comodi alcuni che volevano oziare, o profittare, o illudersi di fare»; ma anche al fatto che, in vista di un possibile «stabilizzarsi» dell’ente dopo la guerra, «io richiamai su di esso l’attenzione del Presidente del Consiglio che mi diè incarico di liquidarlo»121. Delle manovre di Croce non era d’altra parte all’oscuro Borelli che avrebbe parlato del pregiudizio del filosofo, riguardo al fatto che «da noi si sia avuta la balorda idea di stampo nettamente imperiale tedesco di commettere allo Stato la scrittura della propria storia»122. Pregiudizio, o intima e motivata convinzione, che in ogni caso molto doveva contare nel giudizio finale della Commissione, che Croce inviava a Nitti il 12 gennaio, con questa lettera di accompagnamento. Eccoti la relazione della Commissione di cui mi nominasti presidente, incaricata di provvedere alla liquidazione dell’Ufficio Storiografico della Mobilitazione. Vedrai che abbiamo procurato di non ferir nessuno e di essere indulgenti e benevoli. Ma le miti ed eque proposte da noi fatte sono da adottare nell’interesse della pubblica amministrazione e della serietà delle sue opere. Se avessi scritto in nome mio soltanto, e cioè non in via ufficiale, avrei dato più vivo risalto al mio profondo scetticismo sull’opera di quell’Istituto, passata, presente e futura123.
119 Benedetto Croce a Roberto Palmarocchi, 20 gennaio 1918, in B. Croce, Epistolario I, cit., p. 22. 120 Benedetto Croce a Francesco Saverio Nitti, 22 settembre 1919, ivi, pp. 36-37. 121 Ibidem. 122 Lettera di Giovanni Borelli a Francesco Saverio Nitti, s. d., ma fine del 1919, citata in B. BRACCO, Memoria e identità dell’Italia della grande guerra, cit., p. 159. 123 Benedetto Croce a Francesco Saverio Nitti, 12 gennaio 1920, in B. Croce, Episto-
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Ferito a morte da quella sentenza, lo Storiografico sarebbe comunque riuscito a continuare stentatamente la sua esistenza fino al 1923. Ma intanto con quella relazione che ne decretava lo scioglimento, e dove erano pure contenuti opinioni difficilmente accettabili sul carattere accessorio del fattore economico per la ricostruzione del conflitto124, si era scavata una grave frattura, tra due diversi modi d’intendere l’analisi del passato. Una frattura che il tempo avrebbe ingigantito, ponendo le premesse di un dissidio incolmabile che sarebbe venuto alla luce nel decennio successivo. Lo Storiografico non era, in ogni caso, la sola vittima della congiuntura post-bellica. Nei primi anni Venti, cessavano anche i lavori relativi al programma di una Storia d’Italia degli ultimi cinquant’anni, varato, subito dopo Caporetto, dal Comitato per l’Esame Nazionale, presieduto da Romolo Murri, composto da intellettuali provenienti dalla militanza interventista di vario colore che, se aveva potuto contare sulla collaborazione di Antonio Anzilotti, Ettore Ciccotti, Pietro Silva, Sergio Panunzio, Salvemini e Prezzolini, e sull’appoggio di Gentile, Croce, Ubaldo Comandini, Leonida Bissolati, si era scontrato con le difficoltà opposte dagli ambienti governativi125. Al fallimento di questi progetti facevano seguito altre iniziative editoriali, attive già nel primo anno di pace, che recavano ancora l’impronta della nuova atmosfera morale che la guerra aveva impresso sulla cultura italiana. Alla fine del 1918, prendeva avvio l’iniziativa di Giacinto Romano di una Storia d’Italia in quattordici volumi, da affidare a diversi specialisti (tra cui, Barbagallo, Solmi, Caggese, Rota, Ferrari, Luzzatto) che, elaborata alla luce dell’esperienza del conflitto, ma anche sulla falsariga di un precedente tentativo della «Voce», doveva fornire «un possente rincalzo della nostra coscienza etnica e nazionale» e «senza voler essere, sonante di frasi o gonfia di tirate patriottiche, riuscire a un tempo scientificamente severa e altamente nazionale»126. Era Antonio Anzilotti a informare Giuseppe Prezzolini della proposta editoriale di Romano, nella corrispondenza del 2 novembre 1918, che terminava con questo passo, che molto bene testimoniava il clima politico da cui prendevano il via questi progetti di storia nazionale. lario I, cit., pp. 43-44. La relazione della Commissione è pubblicata in A. CARACCIOLO, L’“Ufficio storiografico della mobilitazione”, cit., pp. 282 ss. 124 Ivi, p. 282: «Il materiale archivistico, invece, non concerne se non alcuni aspetti della guerra italiana, e particolarmente quello industriale, escludendone il fondamentale, cioè quello politico militare» 125 Sul punto, E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, cit., pp. 34 ss. 126 G. LUZZATTO, Una Storia d’Italia…, in «Nuova Rivista Storica», III, settembre-dicembre 1919, V-VI, pp. 664-665. Sul punto anche, Gaetano Salvemini a Pietro Silva, 12 febbraio 1919, in G. SALVEMINI, Carteggio 1914-1920, cit., pp. 446-447.
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Ti avverto che a Milano hanno già preso l’iniziativa della “Storia d’Italia” con collaborazioni di Volpe, Salvemini, Rota, Fedele, etc. Mi hanno scritto perché firmi il contratto con l’editore per un volume sul ’500. L’editore è Vallardi: il piano dell’opera è come l’avevamo pensato noi. Anche il Battistelli prepara una serie di volumi sui grandi pensatori italiani (Machiavelli, Sarpi, Cattaneo, etc). Che ne dici? Ti scrivo sotto l’impressione della nostra grande vittoria. Abbiamo – se Dio vuole – vinto da soli (questo forse dispiacerà a qualcuno). Siamo non un piccolo popolo, ma un grande popolo e questa fede vale più, mio caro, di tutte le formulette massoniche, che si stanno riverniciando. Ormai ci siamo guadagnati non solo l’Adriatico, ma anche il Mediterraneo orientale. Si deve andare in Asia minore non per noi, ma per i nostri figli! W l’Italia127.
Il tentativo di Romano non sarebbe restato un esperimento isolato. In quello stesso inquieto periodo, prendeva avvio, all’interno delle iniziative della Biblioteca dell’Università Popolare Milanese128, una collana di «Nozioni di storia» di chiaro intento divulgativo (massicciamente distribuita in migliaia di copie anche tra le truppe ancora mobilitate), ma di impianto innovativo, per tematiche e scelta degli autori, il cui catalogo era stato parzialmente redatto da Volpe insieme a Ugo Guido Mondolfo già nel 1913129. In quella collezione, dove Volpe avrebbe pubblicato la prima versione del suo Medio Evo (progettando altri volumetti su Età di mezzo ed Età moderna, Comuni, regime economico feudale, Rinascimento) si annunciavano anche altre piccole monografie, ad opera di Niccolò Rodolico (Le civiltà antiche), di Ferruccio Quintavalle (La rivoluzione religiosa del secolo XVI), di Ugo Guido Mondolfo (La Rivoluzione francese e Movimenti nazionali e rivoluzioni del secolo XIX) di Leone Gaetani (L’Islamismo), di Giuseppe Ricchieri, (La Guerra Mondiale). Tra gli opuscoli della cosiddetta «Biblioteca rossa», dove compariva anche il titolo di Gaetano Salvemini, La questione del mezzogiorno, per la serie «Questioni sociali e di attualità», rappresentava un elemento di originalità, fortemente legato alla nuova congiuntura ideale e politica, la monografia di Arrigo Solmi, edita nel 1919 e dedicata al127 Antonio Anzilotti a Giuseppe Prezzolini, 2 novembre 1918, cit. Sulla Storia d’Italia, promossa da Prezzolini, si veda, E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, cit., p. 15. 128 Sull’Università Popolare di Milano, gli interventi di D. Pinardi e M. L. Cicalese in, La cultura milanese e l’Università popolare negli anni 1901-1927, a cura di U. A. Grimaldi, Milano, Franco Angeli, 1983. Sull’irradiamento delle Università popolari a livello nazionale, F.L. PULLE, Venti anni di vita delle Università popolari : (Federazione Nazionale delle Università popolari, scuole libere e associazioni pro coltura popolare. Comitato federale), Bologna, Azzoguidi, 1921; M.G. ROSADA, Le Università popolari, 1900-1918, Roma, Editori Riuniti, 1975. 129 Catalogo ragionato per una Biblioteca di cultura generale, Storia, Milano, Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari, s. d. [ma 1913].
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la Storia del Risorgimento italiano, che infrangeva completamente le tradizionali paratie cronologiche in cui era stato rinchiuso quell’evento, facendo arrivare la spinta propulsiva del moto unitario fino al 1918, con epicentro nelle «giornate di maggio» del 1915130. A questi programmi si sarebbe aggiunto, a breve, quello della «Storia d’Italia in collaborazione», da pubblicare presso Zanichelli, che Volpe, nel corso del 1921, annunciava in una serie di lettere indirizzate ad Alessandro Casati, Giovani Gentile, Fortunato Pintor, Benedetto Croce131. Una corrispondenza, dove alla concisa esposizione dei criteri della nuova collezione storica, che avrebbe dovuto dare alla luce i primi volumi tra 1923 e 1924, per concludersi nel triennio successivo, si accompagnava un urgente e a volte imperioso «call for book» rivolto ai futuri collaboratori, del quale uno dei primi destinatari era stato Guido De Ruggiero, il 18 marzo 1921. L’amico Casati mi dà il suo indirizzo napoletano ed io le scrivo nella speranza di trovare in lei un collaboratore ad un’opera che mi sta molto a cuore. Ecco di che cosa si tratta. Vorremmo pubblicare una serie di volumi in cui fossero lumeggiati i momenti o fasi più importanti della storia d’Italia: l’età barbarica e feudale, quasi vestibolo della storia d’Italia vera e propria; le città e borghesie di città; signorie principali e relativa coltura del Rinascimento; l’Italia e l’Europa, dal cozzo, alla fine del XV, al principio del XVIII secolo; il rinnovamento del XVIII, fino al 1815; l’azione e il pensiero politico dal 1815 al 1861 circa, cioè alla morte di Cavour; l’Italia di oggi. Vagheggerei volumi di storia, nel senso pieno della parola, in cui tutti gli elementi della vita storica si fondessero in una esposizione meditata, precisa, organica, chiara capace di interessare lo studioso e nel tempo stesso entrare nella biblioteca della semplice persona colta, dello studente universitario, del professionista che abbia qualche curiosità fuori della sua professione. Accanto o attorno a questo nucleo, un’altra serie di volumi in cui si riprendano motivi già toccati nei volumi precedenti, ma per dar loro maggiore svolgimento. Ad esempio: l’economia italiana e l’economia europea alla fine del Medio Evo; il Rinascimento italiano in Europa; l’Italia e l’Oriente europeo; Italia e Germania nel XIX secolo (rapporti di colturapolitica-economia); Italia e Inghilterra, nel XIX secolo; Italia e Francia dopo la Rivoluzione francese (specie durante il Risorgimento italiano); l’emigrazione italiana e le colonie italiane in America latina dalla seconda metà del XIX secolo. Ora io ho pensato anche a Lei. Lo conosco serio studioso di filosofia e, di recente, anche di problemi di storia politica. Cerco, poi, persone non troppo disformi nel modo di concepire la realtà storica, in modo che la loro sia, entro certi limiti, una “collaborazione”. Mi sono consigliato anche coll’amico Casati e lui mi ha incoraggiato a rivolgermi a lei (il Casati sarà uno del gruppo, sebbene non
130 A. SOLMI, Il Risorgimento italiano, 1814-1918, cit., p. 71 ss. 131 Sul punto, E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale, cit., ai capitoli III e IV.
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professi studi storici; ma non mi dispiace cercar fuori dei professionisti, che potranno aver pratica maggiore ma hanno anche abiti professorali!). Lei conosce l’Inghilterra. Non potrebbe addossarsi il volume su Italia e Inghilterra nel XIX secolo? Vi sono da lumeggiare i rapporti con la Sicilia e i Borboni nel primo XIX secolo, la politica inglese nei vari scacchieri del Paese (in ordine al Piemonte e all’Austria, allo Stato della Chiesa, al Regno di Napoli), le correnti dell’opinione pubblica inglese durante il Risorgimento, ciò che i nostri (cito Cavour) hanno preso o aspettato dall’Inghilterra e sua coltura e sue istituzioni politiche. La posizione delle due nazioni, l’una di fronte all’altra negli ultimi decenni ecc. Oppure la Francia e l’Italia nel XIX secolo. Rapporti, in certo senso più complicati. Gli italiani sono vissuti nell’orbita del pensiero politico francese, nel tempo stesso che avevano o acquistavano la consapevolezza di questa loro scarsa autonomia e cercavano di liberarsene, anche per giungere alla indipendenza politica (Balbo, Gioberti, lo stesso Mazzini, che tuttavia dipende molto dall’89, pur mentre considera la Francia del suo tempo come non più capace di dire la parola nuova, riservata invece all’Italia). E poi il 1859, la politica napoleonica del decennio successivo, la Francia degli ultimi tempi in rapporto a noi, certi influssi del socialismo francese sul pensiero dei nostri sulla metà del secolo (Gioberti, Pisacane, ecc.). Tutte cose che già i due scrittori dei volumi di storia toccano, ma che meritano poi una trattazione a sé. Ho in mente dei volumi su le 400 pagine, del formato della sua storia della filosofia o presso a poco, con un piccolo ma succoso corredo di erudizione bibliografica in fondo al volume o ai capitoli. L’editore fa condizioni piuttosto buone ed è Zanichelli. Ci pensi qualche giorno: ma, la prego, non troppo, perché avrei fretta di conchiudere, e poi mi risponda affermativamente. E se ha qualche nome da propormi per uno di quei due volumi e magari anche per un volume su la monarchia meridionale dall’XI al XIV secolo (fino a che, cioè, cessa di rappresentare un mondo piuttosto a sé nell’Italia cittadina e borghese e sfocia nell’Italia dei principati), che potrei desiderar di inserire nella 1° serie dei volumi, mi farà piacere132.
A questa invito, faceva seguito una risposta interlocutoria di De Ruggiero, che, se rifiutava l’offerta di redigere il titolo proposto da Volpe (sicuramente affine per la materia ai suoi precedenti lavori, ma considerato ormai lontano dai suoi attuali interessi)133, offriva un’ampia disponibilità di massima a lavorare per la collana in gestazione. Volpe ritornava immediatamente alla carica, suggerendo un nuovo argomento: il Rinascimento italiano in Europa134. A quel punto, De Ruggiero scioglieva ogni riserva. Suggeriva d’inserire tra i nomi dei collaboratori anche quello di Omodeo per uno studio sulla Controriforma e accettava di impegnarsi per un volume su Il movimento liberale in Europa nel se132 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano 18 marzo 1921, AGDR. 133 Nel 1921, De Ruggiero aveva pubblicato, presso Vallecchi, L’Impero britannico do-
po la guerra. 134 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano 14 aprile 1921, AGDR.
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colo XIX. Un tema in qualche misura non estraneo a quella sua ricerca «sul movimento storico-politico napoletano, da Vico a Cuoco»135, ampliatasi e poi edita in volume nel 1922136, che tra 1918 e 1920 aveva preso forma per la prima volta in tre puntate su «Politica». Ambedue le offerte trovavano l’immediato consenso di Volpe nella lettera del 22 maggio 1921: Mi piace il tema che lei mi propone e che in parte contiene quegli altri proposti da me: Il movimento liberale in Europa nel secolo XIX: cioè, dottrine, con le loro radici nel XVIII secolo; atteggiamento o fisionomia varia che prendono nei vari ambienti e nazioni europee, specie nei più vicini, a noi più connessi; fatti sociali di cui il liberalismo trae alimento; rapporti con i movimenti nazionali ecc. Così, siamo intesi: lei lavorerà su questo tema e non ho dubbi che debba e possa riuscire un volume di molto interesse e non solo per i cultori di studi storici, ma per quanti cercano orientamenti nel campo delle idee e della azione pratica. Questo tutti dovremmo proporcelo e ce lo proporremo: ma vi sono problemi che si presentano subito e direttamente come problemi di vita presente, anche agli studiosi di vita pratica137.
135 Guido De Ruggiero a Benedetto Croce, 23 agosto 1918, in ABC. 136 G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, La-
terza, 1922. 137 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano, 22 maggio 1921, in AGDR.
3. IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO 1. L’argomento scelto da De Ruggiero reclamava con urgenza la parte che la politica si sarebbe ritagliata all’interno del progetto della «Storia d’Italia», che Volpe aveva messo in cantiere. Nel primo dopoguerra, il problema del liberalismo, la sua definizione storica e teorica, le sue prospettive di sviluppo, i suoi progetti di riforma costituivano uno dei maggiori punti controversi per saggiare l’identità e la continuità della vita nazionale, in vista della rapida modificazione del sistema post-risorgimentale che il grande conflitto, con le sue ricadute eversive sul quadro sociale, politico, istituzionale, aveva provocato. Tutto questo già appariva con nettezza, tra febbraio e marzo del 1919, a partire dalla polemica tra Mario Missiroli e Giovanni Gentile sulla possibilità, sostenuta dal primo, di una trasformazione dell’idea liberale in semplice «molla di progresso, che era passata ormai di esclusiva competenza dei socialisti», considerato «il conservatorismo reazionario proprio del partito liberale». Ipotesi alla quale il secondo obiettava non soltanto la duplice funzione del liberalismo in quanto «concezione dello Stato come libertà e della libertà come Stato», inconciliabile quindi con la dottrina socialista, ma anche e soprattutto con i rischi insiti in un sistema di «liberalismo conciliatore, che accosta e accorda le idee rappresentative degli interessi sociali», quale quello pervertitosi nella pratica trasformista del «giolittismo» che «per un ventennio fu, o parve, l’espressione più adeguata della vita politica italiana; ma che merita nondimeno d’essere battezzato dal nome di chi fu l’esponente più cospicuo di codesta vita, e più fece per sostenerla contro tutti i tentativi di ribellione e contro l’opposizione delle minoranze più sane e pensose dell’avvenire nazionale»1. In questo contesto, la reintegrazione del «vero liberalismo» poteva richiedere anche il ricorso a una soluzione extra legem, come era già avvenuto nel maggio del 1915, quando, avrebbe ricordato Gentile, la vo-
1 I testi della polemica sono raccolti in M. MISSIROLI, Polemica liberale, Bologna, Zanichelli, 19543, pp. 3 ss. e in G. GENTILE, Dopo la vittoria, cit., pp. 162 ss. Per le citazioni, si veda rispettivamente, p. 18 e p. 186.
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lontà popolare aveva debellato il sistema di potere di Giolitti2. Ma tutto questo forse non significava fino ai primi anni Venti, e sicuramente prima di quella data, come poi spesso è stato suggerito3, che la richiesta di un nuovo liberalismo associato a un fascio di forze costituzionali e nazionali, capace di concepire e far agire la compagine statale come un complesso organico, fosse irrimediabilmente situata sul piano inclinato che portava alla completa dismissione delle garanzie statutarie e all’instaurazione di una piena dittatura4. Non era, o meglio non era ancora, quella la strada indicata, ad esempio, nel Proemio, che apriva il primo numero de «La Nuova Politica Liberale» del gennaio 1923, a firma di Carmelo Licitra, il redattore di quel nuovo periodico, promosso da Croce, Gentile, Lombardo Radice5. Né quella era la soluzione proposta da Volpe che aderiva a quell’iniziativa, affermando di condividere assolutamente «il senso di quelle necessità, che nella fase attuale della coltura italiana» avevano suscitato una salutare reazione «dopo il caos mentale di quattro anni di guerra: caos tuttavia da cui dovrebbe venir fuori un po’ di ordine e di vita, appena i pensieri ricominciano a filtrare purificati attraverso una più calma meditazione»6. Nel preambolo programmatico, elaborato da Licitra, si sosteneva la necessità di un avvicinamento al movimento di Mussolini che non doveva recidere ma anzi rafforzare i legami con la tradizione della Destra storica, «che sembrò si spezzasse nel ’76», e con «quella corrente liberale antidemocratica che 2 ID., La crisi morale, cit., p. 73. 3 G. CAROCCI, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano, 1911-1925, cit.,
p. 22 ss. 4 R. DE FELICE, Introduzione a Il fascismo e i partiti politici italiani, a cura di R. De Felice, Bologna, Cappelli, 1966, pp. 17-18 (poi Firenze, Le Lettere, 2005), dove si sosteneva che per dare valutazione storiografica dei limiti e degli errori della classe dirigente liberale, nei confronti dell’avvento del fascismo, era «necessario domandarsi, anche al di là della sostanza, quale era allora l’apparenza del fascismo, cosa cioè esso apparisse ai suoi contemporanei, che idea essi ne avessero e dove credessero sarebbe sboccato». Insisteva, sullo stesso punto, B. VIGEZZI, Introduzione a 1919-1925. Dopoguerra e fascismo. Politica e stampa in Italia, a cura di B. Vigezzi, Bari, Laterza, 1965, pp. V ss. 5 Così Adolfo Omodeo annunciava la comparsa della rivista sul «Giornale critico della Filosofia italiana», III, 1922, p. 41: «La Nuova Politica Liberale è il titolo d’una nuova rivista che inizierà a Roma le sue pubblicazioni il 1 gennaio 1923. Ne sono promotori G. Gentile, B. Croce, G. Volpe, G. Lombardo-Radice: segretario di redazione C. Licitra. Programma: riprendere la tradizione liberale del nostro Risorgimento, smarritasi nell’evoluzione democratica dell’ultimo cinquantennio, e dando pieno sviluppo ai suoi presupposti idealistici, inserirsi fattivamente nel presente problema politico d’Italia. In sostanza non una pigra affermazione di tutte le libertà sino al suicidio della libertà, ma la libertà come metodo perenne di politica». 6 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, novembre 1922, in AFG. Su «La Nuova Politica Liberale», Volpe avrebbe pubblicato, nel 1923, L’ultimo cinquantennio: l’Italia che si fa, cit.
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fa capo al nostro Gioberti»7. Queste indicazioni venivano ripetute nell’articolo del luglio di quello stesso anno, che, commentando l’iscrizione di Gentile al Pnf, motivata dal riconoscimento dello «spirito liberale che anima il governo fascista», tornava a fare il punto sul concetto storico di liberalismo italiano, sulla sua peculiarità originaria, sulle sue più autentiche matrici e sulle sue nuove incarnazioni. Oggi la parola liberalismo copre tutta una confusione di idee. Il liberalismo, in senso largo, del nostro Risorgimento oggi non può più rappresentare un particolare partito, e nella comune accezione si riduce a qualcosa di vago, nel quale tutti i partiti possono in qualche modo entrare. Ma dentro il vecchio liberalismo del Risorgimento era pure una corrente liberale con caratteri propri, sin dal principio in opposizione con altre correnti che si dicevano pure liberali e lo erano certamente per tanta parte dei problemi di allora, poco intesa perché informata al grado più elevato della cultura contemporanea, poco intesa anche perché schiettamente italiana, in un periodo in cui il pensiero nazionale incominciava appena a riaffermare la propria originalità dopo la più vasta importazione di idee e di programmi stranieri. Quel pensiero politico del Gioberti, del Cavour e del più intimo Mazzini, che dopo la formazione del regno si continuò nella dottrina e nell’opera della Destra, era certamente un liberalismo con caratteri suoi, che oggi riusciamo a vedere più chiaramente nella loro antitesi con quelli delle altre correnti liberali. La loro fu vera politica, cui seguì il lungo periodo della democrazia a caratteri sociologici più che politici, che se per un verso rappresenta una decadenza nello sviluppo della vita nazionale, per un altro verso fu la liquidazione di una residuale trascendenza e una prima ammissione alla vita politica di quella massa del popolo che fino allora ne era rimasta fuori del tutto. Oggi, pur facendo tesoro delle conquiste democratiche, si torna a un liberalismo concreto e adeguato ai nostri tempi8.
Erano l’invito, dopo il decennio della «grigia prosa» giolittiana, a far ritorno, nel solco della memoria nazionale, ai momenti alti della grande politica, che veniva esteso anche a tutti coloro che, certamente sinceri fautori dell’idea liberale ed «elementi di valore sotto ogni rispetto» ma «ancora legati alla concezione astrattistica e naturalistica della libertà», non avevano saputo e voluto cogliere, spesso in base a motivi puramente dottrinali, «lo spirito del Fascismo», così come rischiavano di non comprendere «come il Gentile possa appoggiare con l’autorità del nome e della dottrina una politica che ai loro occhi resta sempre una politica antiliberale, perché lesiva di libertà particolari, di diritti acqui-
7 C. LICITRA, Proemio, ora in ID., Dal Liberalismo al Fascismo, con prefazione di G. Gentile, Roma, De Alberti, 1925, p. 10. L’articolo era significativamente datato «Novembre 1922». 8 ID., Giovanni Gentile e lo sviluppo del Fascismo, ivi, pp. 41-42.
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siti e persino delle nostre istituzioni»9. Per questo aspetto particolare, la presa di posizione di Licitra era destinata ad avere largo seguito, proprio nei punti che costituivano quasi una parafrasi delle dichiarazioni di Gentile, apparse sempre sul primo numero de «La Nuova Politica Liberale». In quell’intervento, l’accordo tra liberalismo e fascismo si risolveva integralmente e in apparenza soltanto nella condivisione della «necessità di uno Stato forte», tante volte nel passato invocato da molti riformatori liberali, in grado di portare «un senso di misura e di determinatezza politica, cioè di concretezza sociale e storica nello sviluppo etico-religioso dell’individuo»10. Il programma di rifondazione liberale della rivista di Licitra non era distante dalle posizioni di Croce, che aveva guardato con favore al risveglio nazionale del dopoguerra, visto come proseguimento della battaglia da lui condotta negli anni del conflitto per «la difesa dell’autorità e forza dello Stato, contro le ideologie democratiche, e della politica in quanto politica»11, e che, dopo aver a lungo sostenuto che l’autentica ispirazione del liberalismo non si poteva riconoscere nel vecchio partito liberale, come in ogni altra tradizionale formazione politica12, ammetteva pure che gli ideali di quella dottrina potevano trovare un’indiretta forma di rinvigorimento dalla discesa in campo del movimento di Mussolini13. Questa posizione veniva più tardi ampiamente ribadita, in una serie d’interviste concesse tra ottobre del 1923 e luglio del 1924, dove il filosofo dichiarava che il nucleo vitale del fascismo si riconosceva in alcuni ideali non estranei a quelli del pensiero di Spaventa e della vecchia Destra: «l’amore della patria italiana», «il sentimento della sua salvezza e salvezza dello Stato», «il giusto convincimento che lo Stato senza autorità non è Stato». Ideali, ora fatti propri da una nuova forza politica, in grado di accrescere, nell’attuale congiuntura, «il numero di coloro che, scotendo il tradizionale indifferentismo italiano, sentono la passione della politica e prendono profondo interesse alle cose dello Stato»14. 9 Ivi, pp. 43-44. 10 G. GENTILE, Il mio liberalismo, ora in ID., Politica e cultura, a cura di Hervé A. Ca-
vallera, Firenze, Le Lettere, 1990, 2 voll., I, pp. 115-116. 11 B. CROCE, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 82. 12 Ipotesi poi compendiata in ID., La concezione liberale come concezione della vita, in ID., Etica e politica, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1994, pp. 331 ss. 13 Sul punto, P. VITA-FINZI, Le delusioni della libertà, cit., pp. 159 ss. e ora G. BEDESCHI, Croce e il fascismo. Un caso esemplare di rimozione storica, in «Nuova Storia Contemporanea», 2002, 2, pp. 7 ss. 14 B. CROCE, Pagine sparse, Bari, Laterza, 1943, 2 voll., II, pp. 480-481. Sull’apologia fatta da Croce in relazione a quei pronunciamenti, si vedano i «ricordi» del settembre 1944, contenuti in ID., Relazioni o non relazioni col Mussolini, in Nuove pagine sparse, Bari, Later-
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Volpe, da parte sua, sempre nel primo numero del periodico diretto da Licitra, considerava le prove sostenute contro l’autocrazia giolittiana, fino alla vigilia del conflitto, da una minoranza intellettuale consapevole e virtuosa, come un potenziamento dell’idea liberale, che avrebbe poi accompagnato il cammino dell’Italia nella contesa vittoriosa contro i suoi nemici esterni e interni15. Sincronizzato sulla stessa frequenza, era Carlo Curcio, quando nel 1924, avrebbe definito Mussolini, come il «vero capo della restaurazione liberale, che riprendeva, sulla linea della sua tradizione, la sua forma, la sua logica, la sua dirittura, pur nell’esperienza nuova che la storia dettava»: esperienza, «questa volta sì, veramente liberale»16. Mentre Gaetano Mosca, nella seconda edizione dei suoi Elementi di scienza politica, stampati a Torino soltanto l’anno precedente, non esitava a considerare come utile rimedio alla corruzione del vecchio Stato liberale «un breve periodo durante il quale un governo forte e onesto eserciti molti poteri e abbia molta autorità», al fine di preparare quelle condizioni che potevano rendere possibile «il normale funzionamento del sistema rappresentativo», così come era accaduto a Roma «nei migliori tempi della Repubblica, quando qualche volta si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura»17. Un’ipotesi che comportava l’ammissione della liceità all’utilizzazione strumentale di un regime politico d’eccezione, «provvisorio» e «conservatore» dell’ordine liberale, che molti allora condividevano e al quale anche Croce avrebbe fatto riferimento, durante la crisi politica aventiniana, ammonendo l’opinione pubblica italiana a non «lasciar disperdere i benefici del fascismo, e di non tornare alla fiacchezza e alla inconcludenza che lo avevano preceduto»18. All’incrocio di queste linee di forza divergenti e convergenti, che tra breve sarebbero entrate in violenta rotta di collisione, si situava dunque il progetto della storia del liberalismo di De Ruggiero, così fortemente voluta da Volpe. Dell’immediatezza politica di questo lavoro, il direttore della «Storia d’Italia in collaborazione» non solo era benissimo consapevole, ma sembrava ricavare un motivo di ulteriore compiacimento, visto e considerato che quell’interrogarsi sull’idea liberale in rapporto
za, 1966, 2 voll., I, pp. 61 ss., che non compensano le reticenze del Contributo alla critica di me stesso, cit., pp. 87 ss. 15 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio: l’Italia che si fa, cit., pp. 7 ss. 16 C. CURCIO, L’esperienza liberale del fascismo, Napoli, Morano, 1924, pp. 69 ss. Riprodotto in R. DE FELICE, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti, 1919-1945, Torino, Einaudi, 20043, pp. 170 ss. 17 G. MOSCA, Elementi di scienza politica, con una Prefazione di B. Croce, Bari, Laterza, 19534, 2 voll., II, p. 240. 18 B. CROCE, Pagine sparse, cit., II, p. 485.
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alle esigenze dell’oggi, era stata parte costitutiva del suo impegno militante, nel passato prossimo, quando, dopo la fine del conflitto, si sarebbe assistito alla rinascita dei Gruppi Nazionali Liberali, della quale esistono alcune precise testimonianze, a partire dalla stringatissima circolare, che Antonio Anzilotti inviava a Giovanni Gentile, alla metà di aprile del 1919. La S. V. Ill.ma è vivamente pregata d’intervenire alla riunione che si terrà sabato 26 aprile p. v. alle ore 9 pomeridiane nella sede della Trento-Trieste, gentilmente concessa (Via del Leone, 15) per costituire un gruppo di azione liberale in Roma e prendere gli opportuni accordi per riorganizzare in Italia il movimento nazionale liberale, già iniziato prima della guerra. Si prega di non mancare19.
Alla lettera d’invito firmata da un gruppo promotore, nel quale spiccavano i nomi dello stesso Anzilotti, di Giovanni Borelli e di Umberto Ricci20, era allegato un manifesto programmatico di quattro pagine dattiloscritte, intitolato Per riorganizzare le forze liberali, diviso in quattro paragrafi. L’idea liberale La borghesia dinnanzi ai formidabili problemi, che oggi premono da ogni parte lo Stato e alla minaccia dell’assurdità comunistica – idealizzata incoscientemente dai giornali dell’alta finanza internazionale – pare che voglia, con le sue incertezze e le sue gretterie conservatrici, rinunciare al suo posto di lotta e di sacrificio. Noi, che volemmo la guerra non soltanto per il completamento territoriale della Nazione, ma anche perché fosse rinvigorita e dilatata la coscienza politica di chi aspira a dirigere le sorti del Paese, noi non crediamo che ormai sia suonata l’ora del tramonto dello Stato liberale. A differenza perciò di quei partiti, che hanno creduto di modernizzarsi ed evolversi col dirsi “democratici”, noi dichiariamo innanzi tutto che non abbiamo nulla a che fare né coi conservatori né coi democratici, ma che siamo soltanto liberali. Ben sappiamo quanto sia stato screditato questo appellativo da tutti i circoli di quel partito liberale, che solo in virtù della resistenza d’interessi di classe e locali ha potuto materialmente sopravvivere – corpo inerte e pigro – alla sua morte ideale. Ma noi non possiamo rinunciare a questo appellativo, noi, che di fronte alle astrattezze democratiche e alle parzialità demagogiche, sentiamo tutta la forza innovatrice e dinamica dell’idea liberale, che diresse Cavour nella gigantesca opera
19 Il documento privo di data è conservato in AFG. 20 Gli altri firmatari erano gli avvocati G. Gobbi e A. Pasquali, il dott. P. Mengarini, il
ragionier G. Pizzabiocca.
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di ricostruzione del Regno ed ebbe per interpreti – primi fra tutti i due Spaventa – i più alti pensatori del nostro Risorgimento. Quest’idea oggi che lo Stato viene assalito dagli appetiti egoistici di tutte le categorie e deve, pur divenendo istituto di tutti, mantenere la sua saldezza e la sua tradizione; oggi – noi diciamo – quest’idea soltanto può comporre l’apparente dissidio fra libertà e disciplina, fra autorità e popolo, fra espansione all’estero ed elevamento popolare all’interno, fra l’azione conservatrice dello Stato e il moto ascensionale progressivo delle classi. Questa mentalità liberale si è andata perdendo in Italia attraverso i compromessi fra interessi particolaristici, rivolti a sfruttare lo Stato (dispensatore conteso di favori) sia sotto etichetta socialista, sia sotto la bandiera di un sedicente liberalismo. Ritornare quindi all’idea liberale significa voler proseguire una politica nazionale nel senso più schietto e più vero, in quanto lo Stato deve tendere continuamente – pena il decadimento e la sua debolezza – a rinvigorirsi con la spontanea adesione dei consociati e a organizzare entro di sé tutte le libertà. I capisaldi del programma Noi crediamo perciò doversi oggi riaffermare nel campo del pensiero e della pratica quei principi di politica liberale, che, dimenticati da gran tempo dalle nostre classi dirigenti, sono i soli capaci, dopo lo sforzo di tutti i ceti nella guerra, a salvare lo Stato nazionale dalla minaccia bolscevica. Giova qui ricordarli. Innanzi tutto vano è il parlare di “aumento della produzione” – senza il quale il benessere promesso al proletariato è ignobile menzogna – se il campo economico non è liberato dalla burocrazia incompetente, dalla minaccia dei monopoli statali e dall’arbitrario favore politico concesso a certe industrie a danno di altre, agli interessi industriali del nord contro quelli agricoli del sud. Lo Stato, in Italia, in Francia, nella Germania, si è dimostrato per l’ennesima volta pessimo produttore e incapace approvvigionatore. Lo sforzo dell’industria individuale, la responsabilità personale sono ancora – contro le ubbie della statolatria paternalistica e contro le bugiarde millanterie dell’eden comunista – le uniche forze veramente feconde nel mondo dell’economia. Oggi l’iniziativa individuale si viene integrando e corroborando mediante l’organismo del sindacato sia per gli imprenditori che per gli operai. Ebbene, noi crediamo che difetti del regime parlamentare e incompetenza dei politicanti dovranno trovare un sano antidoto nei corpi consultivi ove siano rappresentate le grandi organizzazioni degli interessi. La politica, infatti, ha bisogno ogni giorno di più di elementi tecnici, non di retori. Borghesia imprenditrice, operai, agricoltori e impiegati potranno in tal modo influire più direttamente sulla vita politica della Nazione, dare allo Stato gli elementi migliori, e, pur lottando liberamente per il proprio elevamento economico e spirituale, trovare i punti di una possibile collaborazione di classe. Ma tale libertà di azione per ogni gruppo e categoria sarebbe pericoloso per la compattezza e per l’indipendenza dello Stato, se questo non fosse forte di fronte agli interessi parziali che si contendono. Noi perciò ci dichiariamo monarchici, in quanto la monarchia popolare è tutrice per necessità e per istinto degli interessi nazionali e può conciliare l’unità e la tradi-
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zione dello Stato con i sindacati e con i mutamenti continui del mondo economico. Da una parte dunque, la forza e il prestigio dello Stato contro ogni convulsione faziosa; dall’altra, libertà sindacali, comunali, provinciali e largo decentramento, unico mezzo per sottrarre al Parlamento la materia su cui si esercita l’intrigo e la corruzione dei politicanti a scapito della sua dignità. E noi vorremmo inoltre che il Parlamento riprendesse la sua originaria funzione di controllo finanziario e che con la severità e la giustizia fiscale andasse di pari passo crescendo la coscienza civica dei contribuenti e delle classi ricche, chiamate a pagare con il proprio sacrificio pecuniario i benefici della propria posizione. È quasi superfluo dichiarare che con tali tendenze liberali noi crediamo inconciliabile la dottrina nazionalista, che arbitrariamente identifica gli interessi nazionali sociali risolvendoli in una politica esterna di conquista e ha dell’imperialismo (che anche per noi è la forma moderna e storicamente necessaria della partecipazione dei popoli ricchi alla vita internazionale) un concetto antiliberale, monopolistico e prussiano. I Gruppi Nazionali Liberali Questi per sommi capi i principi cui vogliamo ispirare il nostro movimento di propaganda e di educazione. Urge – inutile dissimularlo – prepararsi a difendere lo Stato nazionale e le libertà civili faticosamente conquistate. Urge anche reagire contro lo spirito astrattista e falsamente umanitario della democrazia, opponendole una mentalità più educata storicamente e più consapevole delle forze realistiche, che stanno oggi foggiando il nuovo assetto del mondo, per difendere gli interessi più strettamente nazionali. Vogliamo perciò fondare in Roma e nelle altre città Gruppi Nazionali Liberali che continuino l’opera già iniziata durante la nostra neutralità e che si oppongano con la propaganda scritta e orale alla minaccia bolscevica e alle manovre dei gruppi finanziari che ne favoriscano l’avvento. I gruppi non avranno nessun scopo elettorale, ma compiranno un lavoro di educazione politica. Rivolgiamo dunque questo appello a tutti i vecchi liberali, che non si contentano più d’inviare soltanto i soliti telegrammi a S.M. il Re e di partecipare ai cortei patriottici, ai giovani, che sui campi di battaglia hanno visto quanto costi la Patria; a tutti coloro che odiano la mentalità faziosa e amano portare nella politica il contributo della loro cultura; a tutti quelli che nel metodo liberale vedono l’unico mezzo per sanare l’eterna ammalata, la democrazia. A costoro rivolgiamo viva preghiera di mettersi in relazione con noi21.
Il manifesto, firmato «Gli Iniziatori», poneva in primo piano il discrimine invalicabile tra democrazia e liberalismo, invitava a una vigorosa riscossa borghese contro lo spettro rosso del bolscevismo, e sembrava ispirarsi in generale a una completa assimilazione tra ideali liberali e 21 AFG.
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liberisti, propugnata soprattutto da Umberto Ricci, attraverso una fecondissima attività pubblicistica22. Quell’ipotesi, immediatamente spendibile sul piano della polemica politica, prendeva le distanze con nettezza dal protezionismo nazionalista, ma soprattutto metteva fortemente in discussione il ruolo dello Stato in quanto «grande elemosiniere», che Nitti aveva promosso sulla scia della vecchia politica collaborazionista, tra segmenti privilegiati del capitale e del lavoro, già ampiamente perseguita da Giolitti. Su questi punti concordavano, tuttavia, proprio nell’appoggio tendenziale al gruppo politico di Mussolini, anche molti economisti di tendenza liberale e antiprotezionista23. Accanto al tradizionale gruppo dei «liberisti puri», si schieravano naturalmente Maffeo Pantaleoni e Alberto De Stefani fautori del carattere squisitamente liberista che avrebbe dovuto contraddistinguere il nuovo regime24. Né mancava il nazionale liberale, Luigi Einaudi, che almeno fino al biennio 19241925, avrebbe visto nel fascismo il potente maglio capace di abbattere il conglobato improduttivo degli antichi e dei novissimi interessi costituiti, non senza risparmiare parole di lode rivolte ai «giovani ardenti che chiamarono gli italiani alla riscossa contro il bolscevismo», i quali avevano riportato la vittoria nella contesa ingaggiatasi «tra lo spirito di libertà e lo spirito di sopraffazione»25. Era un’adesione sostanziale, che trovava riscontro nelle linee programmatiche del Pnf, che mirava a presentarsi come il portatore di un’esigenza di razionalizzazione del meccanismo amministrativo dello Stato, di immissione in esso di criteri rigorosamente produttivistici e di severa efficienza tecnica nella gestione della cosa pubblica, volta a correggere radicalmente gli sprechi, il disordine e l’incuria della burocrazia centrale e periferica26. Il massiccio afflusso dei capofila del vario e intransigente liberismo italiano sarebbe stato visto con simpatia da Massimo Rocca, che, nel 1921, alla vigilia del Congresso nazionale del Pnf, invitava il fascismo a sbarazzarsi della sua «tendenza filo-proletaria» per attuare, accanto ai seguaci di quello che ormai poteva definirsi il «nuovo conservatorismo 22 Per un profilo di questo intellettuale, G. BUSINO, Materiali per la bio-bibliografia di Umberto Ricci, cit. 23 In generale, sul punto, Liberalismo, nazionalismo, fascismo, a cura di L. Michelini, Milano, Franco Angeli, 1999. 24 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere, 1921-1925, Torino, Einaudi, 19952, pp. 241-242; 398 ss. 25 E. DECLEVA, Liberismo e fascismo nelle Cronache di Luigi Einaudi, (1919-1925), in «Il movimento di liberazione in Italia», 1965, 4, pp. 3 ss. Diversamente, R. VIVARELLI, Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 252 ss. 26 A. AQUARONE, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», Nuova Serie, aprile 1964, pp. 109 ss.; ID., L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 5 ss.
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liberale di destra», un potente rilancio neo-liberale e neo-liberista, in grado di contrastare vigorosamente «la mania collettivistica che, fra industrie di Stato, controlli burocratici, cooperative sussidiate e consorzi privilegiati, soffoca le libere energie produttive, piegandole a pagare le spese d’un vero parassitarismo»27. Una linea di tendenza che Rocca suggeriva con forza e che Mussolini pareva assecondare, con non minore energia, quando il 24 ottobre del 1922, alla vigilia della «marcia su Roma», domandava una «soluzione legalitaria» della crisi politica, accompagnata da «severi provvedimenti di indole finanziaria», in grado di «immettere nello Stato liberale tutta la forza delle nuove generazioni italiane che sono uscite dalla guerra e dalla vittoria» e di promuovere una politica liberista favorevole al capitale privato, restaurando l’ordine e la disciplina nel mondo del lavoro28. Molti, dunque, i punti di contatto, se non davvero di possibile apparentamento, tra il nazionalismo liberale e un movimento fascista, ancora segnato da grandissima fluidità dottrinale, tra i quali bisogna contare anche quell’appello alle competenze tecniche che avrebbero dovuto sostituirsi alla vecchia rappresentanza parlamentare, formulato da Umberto Ricci quasi in modo da poter evolvere in funzione antisistema, fino a costituire uno dei precedenti dell’organizzazione statuale corporativa, che il nazionalismo di Corradini e di Rocco, da tempo incubava nel suo seno29, e che Mussolini aveva declinato, fin dal marzo 1919, come secco ripudio del vigente sistema di delega politica, al quale occorreva sostituire un nuovo sistema di rappresentanza fondata sulle attività produttive e su di una più rigorosa selezione delle competenze. Inoltre il manifesto nazionale liberale poneva, al centro del dibattito politico, i problemi della necessaria e urgente espansione «imperialistica» della nazione italiana (pur senza diretto riferimento al diktat di Versailles imposto dagli antichi alleati), che però erano stati ben diversamente modulati, come si è visto, da due esponenti del piccolo gruppo politico: Antonio Anzilotti e Arrigo Solmi. Queste divisioni, di non poco peso, per quello che riguardava l’approccio alla delicatissima questione dei rapporti internazionali, presenti ieri come oggi all’interno della piccola pattuglia nazionale liberale, sembravano non intralciare l’attività del gruppo che sarebbe passato, di lì a poco, alla stesura di un programma politicamente più organico, che preludeva direttamente alla sua discesa in campo nella competizione
27 M. ROCCA, Un neo-liberalismo?, «Risorgimento», settembre 1921, ora in ID., Il primo fascismo, Roma, Volpe Editore, 1964, pp. 45 ss. 28 B. MUSSOLINI, Il discorso di Napoli, in ID., Scritti e discorsi, cit., II, pp. 339 ss. 29 A.J. GREGOR, Mussolini’s Intellectuals, cit., soprattutto ai capitoli II e III.
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elettorale. Nel novembre del 1919, Volpe era infatti tra i sottoscrittori, insieme a Luigi Einaudi, Giovanni Gentile, Widar Cesarini Sforza, Giuseppe Prato, Lionello Venturi, Ettore Lolini, ovviamente Umberto Ricci, di un nuovo manifesto dei Gruppi Nazionali Liberali Romani, i quali, uniti ad altre associazioni liberali, nazionalistiche e a gruppi di ex combattenti, organizzati politicamente, partecipavano all’Alleanza nazionale per le prossime elezioni30. Il ritorno in campo della piccola formazione dei Liberali Nazionali avveniva, anche in questo caso, sulla base di un programma ispirato ai principi del «nazionalismo modernista» e modernizzatore31, che aveva caratterizzato questo movimento alla vigilia del conflitto e poi durante il suo svolgimento. Nel documento, per la più parte redatto da Umberto Ricci, si proclamava l’insoddisfazione per la vittoria mutilata al tavolo delle trattative, e, per quello che riguardava la politica interna, si ribadiva la fiera avversione al bolscevismo, ma anche a ogni incauto riformismo istituzionale, la rivendicazione di uno «Stato forte», eppure provvisto di larghe autonomie regionali e comunali, in grado di combattere la metastasi burocratica, di fronteggiare i conflitti sociali, disciplinando le pretese del padronato e del proletariato, di farsi motore essenziale di una politica favorevole all’incremento della produzione, e soprattutto tale da porsi, all’insegna di un intransigente liberismo, dentro e fuori i confini nazionali, delineando un modello di sviluppo, disposto a realizzare un ampio progetto di riforma fiscale di carattere vigorosamente perequativo, ma radicalmente alternativo alle incaute aperture democratiche del governo Nitti sul piano economico e finanziario. Il Gruppo Nazionale Liberale Romano, entrato con altre associazioni di Liberali e con Associazioni di Nazionalisti e di Combattenti a costituire l’Alleanza Nazionale per le elezioni politiche, ne ha già sottoscritto il programma. Ma l’avvenuta pubblicazione di quella parte del programma che è comune a tutta l’Alleanza non importa attenuazione degli altri principii, ai quali è ispirata la nostra azione politica, né ci esime dall’esporre il nostro programma di Gruppo, con tutti i complementi e le specificazioni che esso richiede. E per prima cosa riaffermiamo la nostra profonda devozione alla Monarchia, oggi più che mai fondamento delle istituzioni dello Stato. La “costituente”, che molti a cuor leggero domandano, segnerebbe l’inizio dello sfacelo della nostra compagine politica e sociale. Ma quand’anche – il che non crediamo – lo sconvolgimento potesse arrestarsi al solo mutamento della forma di Governo, già troppo avremmo perduto, perché all’autorità di un Capo dello Stato su-
30 A. ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., pp. 396 ss. 31 Per questa definizione, E. GENTILE, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX
secolo, cit., pp. 95 ss.
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periore alle competizioni partigiane, avremmo sostituito una dittatura di Partito o di Classe. Dopo la Vittoria la posizione dell’Italia nel mondo è ingrandita. Noi desideriamo che, fedele alle sue tradizioni, l’Italia sia fattore di equilibrio e di pace. Appunto per questo biasimiamo che taluni Stati, dimentichi dei loro propositi, abbiano ceduto alla voce dell’interesse e dell’ambizione, seminando inquietudini e risentimenti. Noi chiediamo che all’Italia, scesa in campo per un’ideale di giustizia, sia resa giustizia. Noi siamo – è superfluo dirlo – vigorosamente contrari al bolscevismo, che ci darebbe in balia di una bieca e sfrenata tirannide; mobilitandolo contro di noi gli Eserciti dell’Intesa, costringendoci ad affrontare una nuova guerra; e ci condannerebbe irremissibilmente al disonore e alla fame. Noi vogliamo lo Stato forte, che non tolleri la sopraffazione di alcuna classe, né di borghesi né di proletari. Ma la nostra ammirazione per lo Stato politicamente forte non è consenso a una amministrazione accentratrice e soffocante: che anzi noi chiediamo autonomie regionali e comunali. I pubblici impiegati siano pochi, liberi e responsabili. Il loro lavoro, intelligente e assiduo, sia ben rinumerato e stimolato da premi. L’interesse economico supremo sta nell’aumento della produzione e a questo pongono un serio ostacolo le faziose e dissolventi lotte di classe. Intese oneste e leali fra gli imprenditori e dirette rappresentanze degli operai, contemperanti le mutue pretese, riportino nel cantiere, nella fabbrica, nell’officina il ritmo del lavoro ordinato e fecondo. Anche la produzione agricola deve essere accresciuta. I proprietari siano consapevoli dei loro doveri e favoriscano, con l’immissione dei capitali e con la stipulazione di equi patti agrari, la intensificazione delle culture, dove essa è possibile e socialmente vantaggiosa, o lascino il peso a chi meglio di loro sia in grado di aumentare le capacità produttive della terra. Ma ricordiamo che le invasioni tumultuose, compiute da persone sfornite di perizia tecnica e di capitali, non generano se non l’effetto opposto di abbassare il rendimento. Noi invochiamo il ristabilimento della libera concorrenza, che, meglio dei calmieri, dei divieti interni di esportazione, dei consorzi e simili altre antiquate istituzioni, è atto a mitigare i prezzi. Lo Stato e il Comune cessino di fare il commerciante e l’approvvigionatore e lascino il loro posto agli uomini competenti e interessati a ben fare. Noi proponiamo l’abolizione delle barriere doganali, per quanto è possibile coi fini della difesa nazionale e con lo sviluppo delle industrie giovani ma connaturate all’Italia: e ci dichiariamo in particolare contrari alla protezione siderurgica, che tende a esaurire in pochi anni le nostre riserve minerarie e a rincarare il ferro, materia prima di molte industrie. La riforma tributaria deve avere il suo corso: l’accertamento dei patrimoni e dei redditi sia affidato a magistrature tributarie ben retribuite e sottratte all’obbligo politico. E le classi abbienti non tentino di sottrarsi al loro dovere. Desiderosi di concorrere all’opera della ricostruzione, ma desiderosi altresì di riaffermare i principi ideali che spinsero l’Italia al terribile cimento dal quale uscì vincitrice, noi abbiamo scelto per compagni di lotta, durante il pe-
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riodo elettorale, uomini che con noi condividono gli ideali nazionali e alla ricostruzione si apprestano con animo di vincitori. E tutti insieme neghiamo appoggio a un Governo che, pur largheggiando in belle promesse e buoni propositi, si è palesemente dimostrato inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di coglierne e tanto meno di interpretarne i sentimenti più schietti e più nobili. Viva e ardente è la nostra fede nei destini della Patria. L’Italia, che scese in guerra nel momento del gran periglio; che non vacillò dopo Caporetto e a Vittorio Veneto segnò la Vittoria dell’Intesa, frantumando il minaccioso impero degli Asburgo, è, noi lo sentiamo, un’Italia immortale32.
Nel settembre del 1920, quando Giolitti era ormai subentrato a Nitti e le urne della nuova competizione elettorale amministrativa erano prossime ad aprirsi, Corrado Barbagallo forniva una sintetica analisi dell’identità politica di questa formazione33. In un momento in cui molti proclamavano il «tramonto del liberalismo italiano», anzi la sua morte e addirittura la sua trasfigurazione nel socialismo, i Gruppi Nazionali Liberali, sottolineava Barbagallo, osavano invece rivendicare orgogliosamente la loro identità liberale, che tuttavia nulla aveva a che fare con il vecchio liberalismo del notabilato e delle clientele. Soltanto la riscoperta di quella identità, la quale, con Cavour, fu alla base della costruzione della Nazione italiana, poteva oggi comporre, nel fermo ancoraggio all’istituto monarchico, l’apparente contraddizione tra autorità e libertà. In questo modo, i Nazionali Liberali, mentre gettavano alle ortiche le spoglie del «vecchio liberalismo» restavano fedeli allo spirito dell’autentica dottrina liberale nel punto in cui questa si saldava ai principi di un liberismo economico radicale, che, se valorizzava «l’industria individuale e la responsabilità personale della produzione», respingeva fermamente le «ubbìe della statolatria parternalistica», in materia economica. Nel dopoguerra, lo Stato si era dimostrato, ancora una volta, «pessimo produttore e incapace organizzatore», volendosi sostituire forzosamente alla dinamica del mercato, che poteva trovare invece una sua rappresentanza organica nel «sindacato», vuoi di datori di lavoro vuoi di maestranze, in quanto «forma integratrice e corroboratrice dell’iniziativa individuale». A compensare la «vacuità delle assemblee politicanti», dovevano intervenire direttamente le rappresentanze degli interessi dei produttori per quei «provvedimenti legislativi nei quali sia opportuno il concorso della loro esperienza e della loro preparazione». In tale quadro di riferimento, il liberismo integrale doveva coniugarsi con un intransigente antiprotezionismo, come proponeva Umberto 32 Programma dei Gruppi nazional-liberali, in Roma, 3 settembre 1919, in CV. 33 C. BARBAGALLO, Note di vita politica. I Liberali-Nazionali, cit.
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Ricci, in un opuscolo pubblicato nella «Biblioteca di propaganda» dei Gruppi romani, significativamente intitolato La politica economica del Ministero Nitti. Gli effetti dell’intervento economico dello Stato34, dove venivano brillantemente ribaditi tutti i concetti fondamentali di una riforma economica audacemente antiprotezionista, primo, tra tutti, la critica vigorosa del «sofisma dell’assoluta indipendenza economica delle nazioni»35. Ma, con quel testo, veniva innanzitutto battuta in breccia la miscela di clientelismo e di consociativismo, sociale ed economico, che era stato il tradizionale punto di forza della politica di Giolitti e che era stata ripresa, senza originalità, nella disastrosa esperienza governativa di Nitti. I Nazionali Liberali non potevano infatti, per ferrea conseguenza dalle loro posizioni teoriche, essere dei «protettori senza scrupoli degli interessi industriali del nord contro quelli agricoli del sud», né trasformarsi in garanti degli «interessi di certe industrie così dette nazionali (per il loro valore politico) contro le altre». Essi combattevano, invece, «per il più libero, per il meno impacciato regime di concorrenza contro tutte le protezioni doganali, contro tutti i monopoli statali, contro il favore politico concesso particolarmente a questa o a quella intrapresa, contro l’universale ingerenza della burocrazia nella vita politica del Paese». Proprio per questi aspetti, assicurava Barbagallo, il manifesto nazional-liberale costituiva un’alternativa importante al «cieco nazionalismo dei puri nazionalisti e alla degenerazione pacifista e social-riformistica delle nostre classi dominanti», e rappresentava, forse, l’«unico e veramente serio programma di governo, che fin oggi la lanterna magica degli uomini e degli eventi contemporanei ci abbia permesso di conoscere». Ma appunto per questo, così concludeva l’intervento, il gruppo romano appariva votato, immancabilmente, all’insuccesso: Non solo perché gli uomini che vi stanno a capo non posseggono alcuna delle qualità pratiche indispensabili al successo; ma perché le loro idee sono troppo fini, troppo aristocratiche, troppo aliene da quella volgare faciloneria che oggi forma la potenza dei partiti e suscita la fortuna dei programmi politici, in seno a questo regime di suffragio universale e di rappresentanza proporzionale legiferante, cui anche essi i liberali-nazionali – ed è questa una delle loro pochissime mende teoriche – hanno nel loro programma avuto la debolezza di indulgere36.
34 U. RICCI, La politica economica del Ministero Nitti. Gli effetti dell’intervento economico dello Stato, Roma, Biblioteca di propaganda dei Gruppi Nazionali Liberali – Società Editrice “La Voce”, 1920. 35 Ricci era già intervenuto su questo punto in ID., Il mito dell’indipendenza economica, in «Riforma sociale», 1918, 3-4, pp. 23 ss. 36 C. BARBAGALLO, Note di vita politica. I Liberali-Nazionali, cit.
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Queste stessa critica era stata anticipata, ma senza alcuna generosità e partendo anzi da un preconcetto fazioso e a fini di pura propaganda elettorale, da Gobetti, sulle pagine di «Energie Nove», in un intervento della fine di novembre del 1919, posto a margine del manifesto nazional-liberale di settembre, che la rivista torinese pubblicava con questo titolo irridente: Frammenti di estetismo politico. Nel proseggiare oscuro di questo intellettuale, i partecipanti al movimento romano venivano definiti un «ascoso gruppo politico peregrino» e il loro programma un «esordio e pistolotto, politicamente inspiegabili, oltreché retoricamente disusati»37. Ai Nazionali Liberali non soltanto veniva rimproverata l’alleanza elettorale con i Nazionalisti, con uomini, quindi, apparentemente «discostissimi dai loro capisaldi ideali, per il loro passato e per il loro carattere, come Alfredo Rocco, Medici del Vascello, Federzoni». Ma di loro, soprattutto, era stigmatizzata l’astrattezza illuministica delle intenzioni, prive di ogni radicamento nella realtà sociale e quindi incapaci di elaborare una strategia di consenso e di egemonia. Il gruppo nazional-liberale è il partito della razionalità (pura e astratta). Avrà contro gli impiegati perché li vuole migliori, i grandi proprietari di terre, dai quali esige l’intensificazione della cultura, i contadini poveri perché non reclama l’espropriazione, i professionisti perché è contro la siderurgia e i liberisti perché parla sibillinamente di industrie giovani da sviluppare. Sentirà l’odio delle classi abbienti alle quali con evangelica innocenza raccomanda di non sottrarsi al loro dovere! E sentirà la furia dei proletari, che non sentono parlare di decimazione di ricchezza. Resteranno al partito, ben fermi, i filosofi e i poeti in numero che non sia di troppo soverchiante: resteranno gli uomini che non possono per definizione costituire un partito, se non il partito dell’intelligenza, come ha sostenuto Jacques Rivières, sulla “Nouvelle Revue Française”, IX, 1919: Il n’y a que nous dans le monde qui sachions encore penser38.
In questo specialmente, ma non soltanto in questo, la formazione politica, in cui Volpe militava, pareva, per Gobetti, costituire l’antagonista, più ancora nel metodo che nei contenuti, del gruppo degli Unitari, dove pure erano massicciamente presenti altri uomini di studio e di accademia: Piero Calamandrei, Filippo Crispolti, Carlo Ghini, Luigi Emery, Ettore Rota. Un rassemblement elettorale, questo, di contrastata ispirazione salveminiana e di scarsissimo impatto politico39, che già
37 Il manifesto, recapitato alla redazione della rivista da Umberto Ricci, veniva pubblicato, in «Energie Nove», II, 30 novembre 1919, 10, pp. 206-206, accompagnato dalla Postilla di Gobetti, ivi, pp. 206 ss. 38 Ivi, p. 207. 39 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 441-442.
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nell’aprile del 1919 aveva formulato un suo programma di sintesi40, anche in questo caso centrato sulla polemica con le tradizionali organizzazioni politiche e fortemente intransigente contro i vizi antichi del burocratismo, dell’accentramento amministrativo, del protezionismo e dell’assistenzialismo industriale rivolto a privilegiare gruppi economici e lobbies finanziarie, che avevano già in passato goduto del favoreggiamento del sistema di potere giolittiano, con grande danno del Paese nella sua interezza ma soprattutto del suo comparto meridionale. Questa formazione politica, in vista delle elezioni, era entrata a far parte della Lega Democratica di Rinnovamento della Politica Nazionale (dove anche Gobetti si era collocato), dalla quale invece i Nazionali Liberali avevano rapidamente fatto divorzio. Ad un esame serio e approfondito il gruppo Nazionale Liberale si rivela una piccola scimmiottatura della Lega degli Unitari. Sono un gruppo di lettori e collaboratori dell’Unità, che hanno…paura di Salvemini, della sua intransigenza e della sua invadente personalità. Si sono dati a ricercare le sfumature che ci separavano da noi e hanno fatto per se stessi. Nella dichiarazione dei principi nostri hanno visto un documento logico: l’esame di cultura politica, la prova di sapienza degli scrittori dell’Unità. Hanno affrontato anch’essi l’esame. E da bravi professori l’hanno superato. Gli unitari si sono chiamati democratici, chiarendo ciò che intendono per democrazia. I nostri amici romani sono d’accordo col chiarimento, ma non se ne soddisfano. Buttiamo a mare questo decrepito nome? Facciano pure. E si sono chiamati nazional liberali. Hanno essi pure ragione. Il contenuto del nostro programma, che essi han riassunto e fatto proprio, si può astrattamente chiamare tanto democratico che nazional liberale. Anche in linea di fatto i due nomi si equivalgono, perché sono entrambi screditati, falsi, equivoci. Ma l’importante non è il nome. L’importante è che vi sia un contenuto concreto accessibile al popolo e socialmente realizzabile. I nazional liberali hanno un contenuto logico. Fanno molto conto del nome accettato e che, quando si dimentichi quarant’anni di storia, può riuscire simpatico. Ma dimenticare quarant’anni di storia vuol dire dimenticare la realtà. Il partito liberale, come partito d’ordine e di imparzialità, come partito di governo, aveva un senso col suo programma eclettico, essenzialmente, nazionale, mentre si realizzava l’unità politica. Adesso non più. Adesso possiamo continuare la tradizione liberale, ma il programma deve rivestirsi di nuove forme. Liberali adesso sono gli unitari. E per essere tali devono abbandonare il programma eclettico. L’hanno abbandonato. I nazional liberali non se ne sono accorti. Per questo la loro scimmiottatura è politicamente inintelligente41.
40 Dichiarazione di principi, in «L’Unità», 26 aprile 1919, ora in L’Unità di Gaetano Sal-
vemini, cit., pp. 588. Il manifesto era stato formulato, in occasione del primo convegno degli amici dell’«Unità», svoltosi a Firenze dal 17 al 19 aprile 1919. 41 P. GOBETTI, Postilla, cit., p. 207.
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La polemica proseguiva ironizzando con ferocia contro l’indiscusso sostegno alla monarchia, tributato dai Nazionali Liberali, visto e considerato che, per Gobetti, l’affaticarsi intorno alla questione istituzionale, e persino il gran parlare attorno al progetto di una Costituente, pareva davvero una «buffonata idiota»42, da quando la rivoluzione russa aveva completamente sconvolto il tradizionale scenario della politica europea. Di qui, dall’incosciente baloccarsi di Gobetti con questo evento, del quale, con grande leggerezza, l’intellettuale piemontese non riuscirà o meglio non vorrà comprendere il contenuto totalitario43, nasceva un altro momento di contrasto con il gruppo nazionale liberale. Da quell’incauta affermazione, scaturiva un nuovo pretesto per la critica corrosiva al movimento romano, che dell’antibolscevismo militante aveva fatto, invece, un principio qualificante del proprio programma e della propria azione. La storia non è elucubrazione. Ma gli uomini neanche se ne accorgono. Si attaccano ai vecchi schemi. È più facile giudicare. Così adesso socialisti e conservatori (per dire le parole approssimative dell’uso) si atteggiano di fronte alla rivoluzione russa. Giudicano e, naturalmente, non intendono nulla. Si buttano per questa via, con molta buona volontà, anche i nazional liberali. Temono anch’essi il bolscevismo. C’è caso che anch’essi aderiscano all’unione antibolscevica. Io non so se mai sia venuto in mente a qualcuno dei nostri politicanti di militare tra i Guelfi o tra i Ghibellini. Eppure sentono tutti il bisogno di prendere una posizione politica di fronte alla rivoluzione russa. Non vedono che quella è storia: il moralismo dei giudici di quegli avvenimenti è grottesco, è coscienza di marionetta. Non sanno organizzare il proprio spirito, non sanno creare la propria attività. E si mettono a creare la propria storia e a organizzare l’universo. Una vendetta come un’altra. Ironia di insetti innocui. La Russia vivrà. Avrà il suo regime. È sulla buona via, perché è sulla sua via. L’autodecisione non ha bisogno delle sanzioni di Coppola o dei repubblicani o della Lega antibolscevica. Nel caso dei nostri nazional liberali voglio aggiungere un chiarimento. O bolscevichi voi chiamate i socialisti nostrani e allora la vostra posizione va benissimo. Avete il diritto di combattere l’Avanti! È lotta politica. O
42 Ivi, p. 209: «I nazional liberali pongono la loro differenza rispetto a noi, nel concretismo e antidemagogismo che essi portano nell’esame della questione costituzionale. Noi saremmo di fronte a loro degli astrattisti. Poiché essi affermano risolutamente di credere alla Monarchia e di sentire la Costituente come una leggerezza. Ma siamo d’accordo anche qui. […] In realtà la Costituente va combattuta come una crisi d’ignoranza. Dal 1789 sono passati centotrent’anni. Facciamone la commemorazione, festeggiamo l’anniversario: ma guardiamo innanzi. La nostra Camera è una costituente in permanenza. 43 «La Rivoluzione liberale», I, 1922, 2, p. 15, dove si sosteneva che «il rinascimento liberale si prepara (attraverso ogni sorta di astratti miti) per opera delle autonome forze popolari che credono di negarlo». L’intervento di Gobetti era redatto in margine all’articolo di G. DE RUGGIERO, I presupposti economici del liberalismo, ivi, pp. 6 ss.
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alludete al fenomeno russo sia pure metaforicamente, e allora mi permetto di richiamarvi alla realtà. La rivoluzione russa è storia, voi dovete studiarla, senza pensare a combatterla. È un fenomeno sociale. Chiamare bolscevismo la rivoluzione russa e identificare bolscevismo con socialismo è semplicistico. Avete dinnanzi un mondo in formazione, e voi cercate lo schema in cui rinchiuderlo. Ma i mondi nuovi portano schemi nuovi. Troverete in Russia tirannia, dittatura militare, dittatura operaia, terrorismo, democrazia (nel senso volgare), ecc. Anzi tutte queste forme ci sono state, in realtà, successivamente. Ma non solo queste. E tutte queste forme hanno solo valore nel loro sviluppo storico. Il Governo in Russia non è, ma si fa44.
Fino a questo punto tracimava, dal suo corso, il processo di analisi, di decomposizione e di ricomposizione dell’idea liberale in Italia, fino al punto di tramutare quell’idea in mallevadrice della repubblica dei Soviet e di quel processo di involuzione dispotica che emergeva potentemente sotto l’imbroglio dell’esperimento di una democrazia diretta di tipo sarmatico45. Su questo punto, in particolare, e sull’insieme del petulante pezzo di Gobetti, contrastava, a nome dei Nazionali Liberali, Umberto Ricci46. Ma la replica si tramutava quasi in una risposta per causa personale, priva quindi di un effettivo mordente. Debolezza, questa, che permetteva a Gobetti di controbattere con facilità, anche se solo con un’altra stoccata, di dubbio gusto, inferta al gruppo politico romano, nella quale si misurava la distanza ormai incolmabile che lo separava da altri movimenti politici e dagli Unitari in particolare. Gli unitari fondando un’organizzazione politica a cui hanno dedicato un lavoro educativo e preparatorio, di più anni, rinunciando ai vuoti individualismi e agli atteggiamenti accademici, contano su una forza concreta capace di realizzarsi. Non hanno un programma letterario. Non dettano lezioni universitarie. Rappresentano dodici milioni di italiani, che sono state vittime sinora di privilegi di una casta egoisticamente chiusa. I contadini meridionali sono l’Italia. E un partito che si assuma di guidarli alla vita pubblica è una forza reale; la sola reale di fronte alla massa operaia del Nord. I nazionali liberali costituendo il partito dell’intelligenza portano con sé come proprio patrimonio i titoli di concorso per i quali hanno ottenuto la cattedra universitaria. E se questo è molto per il loro valore individuale non conta assolutamente nulla nella lotta poli-
44 P. GOBETTI, Postilla, cit., p. 211. 45 ID., Criteri di metodo per la storia della Rivoluzione russa, «Rivista di Milano», 20 feb-
braio 1921 poi in ID., Paradosso dello spirito russo, Torino, Einaudi, 1969, pp. 124-125: «Il popolo russo ha cominciato in questi anni a formarsi una coscienza politica. E per questo furono necessari i Soviet […] L’opera di Lenin e Trotzchi [sic] rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione del liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo». 46 U. RICCI, La Poesia giocosa, «Energie Nove», II, 12 febbraio 1920, 12, pp. 246-247.
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tica. Perciò se il gruppo nazionale liberale pretende di influire nella vita pubblica italiana, noi vediamo nella sua costituzione un’ingenua scimmiottatura e una povera illusione di intellettuali. Poiché la vita degli studi non è la politica47.
Al di là dei toni, queruli e provocatori, questi strali coglievano nel segno, anche se il pulpito da cui si intonava quella predica era sicuramente quello sbagliato: perché né i salveminiani, né, tanto più, l’entourage di Gobetti potevano rivendicare, se non a parole, lo status di movimento capace di intercettare le grandi dinamiche politiche nazionali, ma solo quello di piccola ronda intellettuale che i risultati elettorali del 1919 avrebbero ineluttabilmente travolta. Quella competizione seppelliva per sempre le pretese del «partito degli intellettuali» di stampo vociano, faceva segnare il passo ai Nazionalisti, ai gruppi di ex combattenti ma anche a Radicali, Repubblicani e minori formazioni di democrazia laica, ridimensionava fortemente la compagine liberale, nelle sue componenti giolittiane e antigiolittiane, umiliata anch’essa, dall’irrompere impetuoso dei nuovi partiti di massa cattolico e socialista, che la sbalzavano dalla posizione di forza maggioritaria, con la perdita di circa cento deputati48. Si trattava di una vera e propria rivoluzione politica, che Giovanni Amendola avrebbe sintetizzato, parlando dell’ascesa irresistibile di formazioni politiche «potentemente organizzate che rappresentano, nel campo parlamentare, i metodi strategici della Grande Guerra». In quella nuova congiuntura, nasceva il «partito-milizia», o forse, come sarebbe più giusto dire, il «movimento-milizia»49, e scompariva ogni margine di sopravvivenza «per gli individui e le pattuglie», mentre occorreva guadagnare il controllo delle moltitudini e «disporre di grandi forze»50. Una conclusione, che Gaspare Ambrosini avrebbe ripreso analiticamente, soltanto l’anno successivo, riflettendo sulla comparsa nella trincea della politica di «partiti veri e propri», provvisti ormai di «vita continuativa», destinati a «esplicare la loro azione prima e dopo le elezioni e in un campo che è molto più vasto di quello strettamente elettorale»51.
47 Ivi, p. 249. 48 C. MORANDI, I partiti politici nella storia d’Italia, cit., pp. 354 ss. Sul punto, ora, E.
GENTILE, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze, Le Monnier, 2000, pp. 21 ss. 49 ID., Storia del partito fascista. Movimento e milizia, 1919-1922, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 460 ss., che esagera, in ogni caso, la coesione interna e il livello di subordinazione gerarchica dell’organizzazione politica fascista, in questi anni. 50 G. CAROCCI, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano, cit., p. 128. 51 G. AMBROSINI, Partiti politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale, Firenze, Società Editrice “La Voce”, 1921, pp. 19 ss.
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2. Sui risultati di quel verdetto delle urne è lecito supporre che anche Volpe abbia riflettuto, traendone qualche non piccolo insegnamento, immediatamente percepibile nelle sue future scelte di campo, ormai lontanissime dalle convulsioni preagoniche del liberalismo tradizionale, che si dibatteva nella vana ricerca di una sua nuova organizzazione interna in grado di permettergli di contendere, almeno ad armi pari, con le altre formazioni politiche per la conquista del potere52. In occasione delle elezioni amministrative del 1920, Volpe, insieme a un altro nazionale liberale, Arrigo Solmi, abbandonava i compagni di strada che, dal 1914, avevano scortato il suo cammino politico, per presentarsi, come indipendente, a Milano, nel Blocco cittadino di Azione e Difesa sociale, di tendenza antisocialista e antipopolare, soprattutto anticomunista, che affrontava la prova del voto con un programma che il «Corriere della Sera» del 30 ottobre così sunteggiava: La lotta elettorale amministrativa vivrà le sue ore più intense nell’ultima settimana prima della votazione. Sono stati discussi in privato e fatti conoscere dalla stampa i programmi e gli uomini che i socialisti massimalisti intendono portare al Comune; ma non si conosceva ancora l’atteggiamento degli altri partiti politici che sembravano quasi appartarsi da una vivace competizione. Ieri sera solamente sono stati comunicati i risultati di un fecondo e ordinato lavoro di fusione condotto alacremente fra le diverse correnti politiche non socialiste né cattoliche. Lavoro che ha condotto alla costituzione di un solo e compatto organismo elettorale tendente a uno scopo unico e massimo di opposizione recisa all’azione comunista. Il Blocco cittadino di azione e difesa sociale riunisce la totalità delle associazioni economiche e politiche milanesi non legate al partito socialista né a quello popolare e ha realizzato una unità di intenti veramente confortante, superando con successo la crisi di formazione spesso deleteria a siffatti organismi, per il gioco delle ambizioni o delle esibizioni personali. Stabilite le linee sistematiche di un programma amministrativo sorretto da criteri riformatori e rinnovatori, si è svolto da un primo nucleo di associazioni il lavoro di raccolta delle adesioni che, come dicemmo, ha avuto risultati veramente lieti. Anche per la scelta dei candidati i sistemi sono stati ben diversi e ben più razionali di quelli passati: un ristretto gruppo di fiduciari ha selezionato rigidamente le liste presentate dalle diverse associazioni aderenti senza preoccuparsi di soddisfare speciali esigenze di equilibrio o di proporzione numerica, ma ricercando solamente le competenze tecniche e le tempre adatte e trovandole anche fuori delle liste proposte e al di fuori delle stesse associazioni aderenti53. 52 U. ULLRICH, Dai gruppi al Partito liberale (1919-1922), in Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), cura di F. Grassi Orsini e G. Quagliarello, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 493 ss. 53 Il blocco di difesa sociale per le elezioni, in «Il Corriere della Sera», 30 ottobre 1920. Il trafiletto appariva, tra le «Ultime di cronaca», a p. 4.
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Anche quel tentativo si rivelava, tuttavia un fallimento, ma solo sul piano personale. Alla bocciatura di Volpe e della sua lista, nella competizione, che aveva registrato, nel capoluogo lombardo, una nuova indiscussa affermazione dei socialisti, faceva riscontro l’ancora relativo ma pure assai significativo successo dei candidati fascisti, che venivano eletti a Roma e in altre grandi città all’interno dei Blocchi nazionali, nel quadro di un’alleanza politica, quindi, che contribuiva ad abbattere le residue paratie tra fascismo e liberalismo, tra «filofascismo», in quanto mero partito d’ordine, e fascismo vero e proprio, in quanto «movimento eversivo di destra»54. Il movimento dei Fasci risollevava il capo dopo l’avvilente prova delle politiche, quando, nonostante l’entrata in campo di Marinetti e di Mussolini, non era stato in grado di piazzare un solo candidato nella nuova rappresentanza nazionale. La vittoria del novembre 1920 era stata soprattutto il risultato di un decisa ridislocazione di questo partito dalla sua tradizionale posizione politica, effettuata con il passaggio dal variegato fronte della sinistra interventista al ruolo di comprimario e poi di protagonista della riscossa borghese55, che la situazione, forse non rivoluzionaria, ma certo di collasso istituzionale e di vasta e ramificata anarchia sociale, nella quale l’Italia era sprofondata durante il biennio rosso56, aveva suscitato di necessità. La contromarcia di Mussolini si faceva evidente nel cambio di toni e di contenuti delle sue esternazioni. Dall’articolo del 29 ottobre 1919, dove il fascismo rivendicava il suo splendido isolamento, e che quindi risultava critico naturalmente contro il «Partito socialista ufficiale», ma non tenero neppure con gli uomini e i programmi della «destra», dalla quale, nonostante il comune sentire sulla questione nazionale, i fascisti si sentivano divisi per «un insieme di sentimenti, d’impulsi e di ribellioni, che non si pesano con il bilancino e che tuttavia scavano fra uomini e uomini un solco profondo come un abisso»57. A quello, molto più rassicurante, del 20 settembre 1920, sistematicamente improntato ad «antidemagogia e pragmatismo», e soprattutto incentrato a smascherare l’assalto al potere del movimento bolscevico in Italia, fomentato da «una dittatura di pochi uomini intellettuali non operai, appartenenti ad una frazione del 54 Per queste definizioni, R. VIVARELLI, Il fallimento del liberalismo, cit., pp. 150 ss. 55 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 590 e 606 ss. 56 R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 436 ss.; ID., Il fallimento del
liberalismo, cit., pp. 111 ss. in particolare p. 129: «Sulla base della reiterata fedeltà alla Terza Internazionale, alla quale il Psi aveva aderito fin dalla sua fondazione, si sviluppa in tutto il paese una accesa campagna di propaganda, i cui termini corrispondono ad una vera e propria dichiarazione di guerra civile contro le istituzioni vigenti e, più in generale, contro ogni forma liberal-democratica di governo». 57 B. MUSSOLINI, In campo da soli, «Popolo d’Italia», 29 ottobre 1919, in ID., Scritti e discorsi, cit., II, pp. 39 ss.
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partito socialista, combattuta da tutte le altre frazioni»58. A quello, infine, del 13 novembre, che, con l’accettazione del Trattato di Rapallo, non solo suonava a fermo «rappel à l’ordre», contro le velleità insurrezionali ed eversive di dannunziani e marinettiani, ma costituiva anche una presa di distanza nei confronti dei nazionalisti, accusati di mostrarsi incapaci di comprendere il «bisogno di pace» dell’Italia, sul piano interno e su quello internazionale. Quanto alla Dalmazia noi dissentiamo nettamente dai nazionalisti romani. Questo equivoco tra nazionalismo e fascismo – sorto in taluni centri – deve cessare. I nazionalisti, come tutti i buoni partitanti legati a un sistema mentale rigidamente immutabile, biascicano le giaculatorie strategiche del 1914 (e i socialisti quelle economiche!), come se, da allora a oggi, niente di cambiato ci fosse al mondo. Inoltre il nazionalismo romano è imperialista, mentre noi siamo espansionisti; è pregiudizialmente monarchico, anzi, dinastico, mentre noi al disopra della monarchia e della dinastia mettiamo la nazione59.
Nonostante questo drastico, seppur provvisorio, ridimensionamento della rilevanza assegnata al problema del confine orientale e l’accenno alla questione istituzionale, tradotto ormai, tuttavia, in termini di «neutralità di fronte al regime» (e quindi smorzatissimo negli accenti, una volta confrontato con altri, anche recenti, pronunciamenti di Mussolini), nel novembre del 1920, Volpe transitava, come abbiamo visto, sia pure nelle vesti di semplice fiancheggiatore, nelle fila del movimento fascista, sulla base di un fiducioso progetto di restaurazione degli ideali nazionali ma anche in considerazione della capacità dimostrata da quel movimento di saper accortamente maneggiare la nuova «politica delle masse», alla quale era restato totalmente estraneo lo sdegnoso e miope misoneismo delle vecchie forze liberali60. L’adesione era ratificata da un intervento indirizzato a Mussolini, che, redatto il 18 di quello stesso mese, veniva dato alle stampe, sul «Popolo d’Italia», in casuale ma significativa coincidenza, la domenica della strage di palazzo d’Accursio a Bologna, dopo la quale lo squadrismo compiva un ulteriore salto di qualità politico e militare, e in ragione della quale il problema della violenza fascista si trasformava da semplice problema di ordine pubblico a problema di praticabilità del sistema co-
58 ID., Discorso di Trieste, pronunciato il 20 settembre 1920, al Politeama Rossetti, ivi, pp. 95 ss. 59 ID., Ciò che rimane e ciò che verrà, «Popolo d’Italia», 13 novembre 1920, ivi, p. 112. 60 ID., La Dottrina del Fascismo, con una Storia del movimento fascista di Gioacchino Volpe, Milano-Roma, Treves-Treccani, Tuminelli, 1932, p. 46. Si tratta della parte storica della voce «Fascismo», pubblicata in quello stesso anno nell’Enciclopedia italiana.
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stituzionale italiano61. Dato, questo, che Volpe francamente sottovalutava e in ogni caso giustificava in quanto reazione non reazionaria, ma legittima e salutare, necessaria a salvaguardare lo status quo sociale, a difendere le tradizioni del passato, ponendo tuttavia le basi dell’avvenire. Al “Popolo d’Italia” si potrà perdonare qualche intemperanza, se è riuscito a inquadrare e disciplinare, nell’ambito degli ideali nazionali, tanti giovani, ridestando in essi, e, per riverbero, nella maggioranza del popolo italiano, quella volontà e capacità di energica difesa di cui gli avversari hanno fatto recente e inaspettata esperienza. Ora questi giovani sono il nocciolo della reazione di oggi. Diciamo pure, senza timore, “reazione”. Non quella feroce reazione o terror bianco che conclamano (certo, ridendo sotto i baffi) i socialisti italiani, ai quali pare farebbe molto comodo uccidere un uomo morto; ma quella reazione che è volontà di vivere da parte di gente che sente di aver ancora capacità di vivere e ragione di vita. Reazione, perciò, che non si esaurisce in uno sterile “no”, ma suona come energico “sì”: “sì” per la patria e la nazione italiana e per il principio di nazione in genere, che è come dire il principio di organizzazione e di ordine del genere umano. “Sì”, per la libertà che è sforzo, è selezione, è giustizia, è moralità. “Sì”, per un ordinamento sociale che riconosca le ragioni e i diritti dei migliori. “Sì”, per questo e altro ancora che la rozza infantilità del massimalismo nostrano calpesta. Valori e principi che possono non rappresentare l’assoluto; ma sono ancora troppo vivi nel cuore di milioni di uomini, per credere che abbiano esaurito già oggi il loro ciclo vitale62.
Nel giugno del 1921, ancora Volpe, con una nuova lettera al direttore del «Popolo d’Italia», pur tra qualche esitazione e qualche difficoltà, esprimeva la fiducia che il fascismo avrebbe saputo rapidamente liberarsi delle sue incrostazioni antisistema (repubblicane e socialiste), la cui eco ritornava sporadicamente nelle affermazioni di Mussolini63, per divenire partito d’ordine, garante del mantenimento dell’assetto istituzionale. Questo attestato di fiducia era, in realtà, una richiesta pressante, che riecheggiava quella formulata da un fascista moderato, come Massimo Rocca, nel febbraio di quello stesso anno, il quale, anch’esso rivolgendosi direttamente al leader delle camicie nere, domandava lo smantellamento del vecchio armamentario ideologico giacobino, a partire dalla pregiudiziale antimonarchica. Se molte volte infatti,
61 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 599 ss. 62 G. VOLPE, Per la nuova Italia, cit., pp. 243-244. 63 B. MUSSOLINI, Discorso all’Augusteo, cit., p. 203: «Chi può dire che le attuali istitu-
zioni siano in grado di difendere sempre gli interessi, soprattutto ideali, del popolo italiano? Nessuno […] Sulla questione del regime, il Fascismo deve essere agnostico, ciò che significa vigilanza e controllo. Perché il regime è l’abito che deve adattarsi alla Nazione e non già la Nazione che si deve adattare al regime».
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nella storia, l’istituto reale era stato qualcosa di più autenticamente «democratico e più morale che non la dittatura esercitata da pochi gruppi di banchieri e di politici negli Stati Uniti e nella moderna Francia», il nostro passato prossimo rivelava come il sovrano avesse sempre correttamente interpretato l’autentica volontà nazionale, come quando, nel maggio del 1915, si era fatto «strumento del suo popolo contro il Parlamento», debellando la «repubblica presidenziale di Giolitti», evitando una guerra civile tra neutralisti e interventisti e mantenendo l’ordine all’interno del paese. Cosicché, concludendo, una rivoluzione repubblicana in Italia non si sa bene che cosa sarebbe, se troppo o troppo poco. Come impresa negativa è facilissima: e se i Fasci adottassero la famosa pregiudiziale dovrebbero regalarci il nuovo regime entro pochi mesi, sotto pena di apparire venditori di fumo rivoluzionario, come i socialisti. Ma nessuno ci assicura sulla durata e sulle direttive della “ricostruzione”, dopo che il Paese fosse stato messo a soqquadro: e il cambiamento dei francobolli, come giustificazione di simile rischio, sarebbe veramente troppo poco. Sarebbe troppo, invece, il rischio: perché io, conoscendo i repubblicani e i repubblicaneggianti che la “rivoluzione” incomincerebbero, e i socialisti che tenterebbero subito d’inserirvisi (tutta gente che vive d’idee astratte, senza curarsi di confrontarle) pavento molto che il preteso «rinnovamento» si tradurrebbe in una ulteriore esagerazione dei poteri del parlamento, dei politicanti e della burocrazia. E faccio in proposito gli scongiuri più disperati, per il bene del mio paese e l’onore del fascismo, se il fascismo, come il nazionalismo, significa idealmente qualche cosa64.
Nel riprendere queste tesi, Volpe non si limitava tuttavia, come Rocca, a riformulare lo slogan sonniniano «o monarchia o deriva parlamentare» e a riaffermare, sulla falsariga della tradizione del Risorgimento cavouriano e degli uomini della Destra, l’imprescindibilità dell’istituto monarchico per la tenuta stessa della compagine nazionale, la quale altrimenti avrebbe rischiato di dissolversi, in preda alle spinte centrifughe «dei mille iati e discontinuità e squilibri e particolarismi», o di presentarsi disarmata nel confronto ideale con il suo grande antagonista interno, il quale non aveva cessato di contrapporsi allo Stato italiano che «pur avendo debellato il papato politico e temporalesco ed essere entrato in Roma, vede sempre rizzarsi davanti a sé la grande ombra del Vaticano». La rivoluzione fascista, infatti, doveva portare non a un depotenziamento della corona, ridotta a divenire «un punto d’appoggio, un alleato insomma» del nuovo ordine, ma determinare, inve-
64 M. ROCCA, Repubblica o Monarchia. Lettera aperta a Benito Mussolini, in «Popolo d’Italia», 19 febbraio 1921, in ID., Il primo fascismo, cit., pp. 34-35.
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ce, una forte ripresa di iniziativa politica della dinastia, dopo i molti anni di torpore e di silenzio che avevano rischiato di comprometterne l’esistenza e che, ancora oggi, mettevano a repentaglio la sua capacità d’azione e di indirizzo. Un progetto di lungo respiro, questo, che Volpe illustrava, senza compiacenza e anzi con qualche asprezza nei confronti del recente operato del sovrano, e quindi con tono molto differente, mi pare, da quello utilizzato dai cosiddetti «fascisti monarchici»65, quando sosteneva che: In questo momento alla Monarchia di Re Vittorio Emanuele III noi facciamo molti rinfacci. Egli si è isolato per quattro anni al fronte. Un Savoia non poteva essere assente, anche materialmente, nella guerra guerreggiata: lo so. Ma vi eran cose ardue da fare e vigilare anche a Roma e nel fronte interno. E dopo la guerra, in questi ultimi tempi di passione, raramente ha detto, dall’alto, parole alte o severe o dure che il popolo attendeva o che al popolo si dovevano dire. Non ha fatto tutto quel che si poteva per evitare la tragedia di Fiume. Ha firmato amnistie ai disertori, ha tollerato che ai soldati, tornati dalla guerra, si lesinasse avaramente ogni onore, egli che doveva essere il più geloso e intransigente custode dello spirito militare. Ma vedete: noi – compresi, mi pare, i fascisti – rimproveriamo al re non tanto di esserci quanto di non esserci, di non fare veramente il Re. Colpa sua personale e nostra. La borghesia italiana ha lasciato solo il Re, si è curata poco del Re, come poco, in fondo, degli interessi veramente nazionali. Ma ora è possibile animare del nuovo spirito della nazione italiana Re e Monarchia, in modo che essi siano una realtà più veramente coordinatrice e direttrice? È possibile creare questo sentimento monarchico che sia una cosa col sentimento nazionale? Esso avrebbe poco a che fare col vecchio repubblicanesimo; ma altrettanto poco avrebbe a che fare col monarchesimo dei cosiddetti monarchici. Esso potrebbe veramente essere carattere distintivo di un movimento o partito come i Fasci, forse più che non la neutralità di fronte al regime e la tendenzialità repubblicana66.
Erano posizioni che l’ala estremista del movimento di Mussolini avrebbe considerato addirittura blasfeme, ma che sarebbe sbagliato leggere come testimonianza del fatto che, nel pensiero di Volpe, il fascismo rappresentava soltanto la «guardia bianca» della borghesia e dell’ordine monarchico. Certo i Fasci avevano evitato la «Caporetto interna, civile», se con questa dizione metaforica s’intendeva dire, facendo corrispondere un nome, denso di dolorose risonanze, a fatti inoppugnabili, «freni inibitori che non agiscono più, servizi necessari che vanno a catafascio, vincoli di disciplina e subordinazione gerarchica che sono rotti, alti coman65 Sul punto, F. PERFETTI, Fascismo monarchico. I paladini della monarchia assoluta fra integralismo e dissidenza, Roma, Bonacci, 1988. 66 G. VOLPE, Consensi e dissensi, cit., pp. 256-257.
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di irreperibili o partecipi del generale smarrimento, fede caduta a terra e incapace a sostenere lo sforzo dell’azione»67. Ma in quel movimento non albergava la sola forza della reazione. Né esso pareva poter essere considerato il depositario in esclusiva di una filosofia antiparlamentare, e insieme di un modo diverso di concepire la competizione politica accanitamente anti-socialista ma anche decisamente anti-democratico e persino anti-liberale, se per liberalismo si intendeva la degenerazione dell’idea liberale, il suo snaturarsi, durante la stagione giolittiana, attraverso il connubio con ideologie da essa tutt’affatto diverse e contrapposte. Il fascismo infatti preesisteva alla crisi profondissima del sistema politico italiano. Non ne era stato il fattore ma piuttosto il prodotto. L’importanza della nostra storia interna, specialmente nel dopoguerra, sta nell’essere venuti a maturazione due processi antitetici e pure corrispondenti. Tutti e due preesistenti: la guerra li ha accelerati. Preesisteva e si è accelerato il processo degenerativo del socialismo italiano, come azione pratica e come dottrina, corroso e svalutato dallo sfrenarsi dei suoi mille egoismi di categoria, dal suo materialismo, dalla sua incapacità di spremere dal proprio seno una aristocrazia di dirigenti che non fossero avvocati e borghesi; battuto in breccia dal suo figliolo ribelle, il sindacalismo, e dal suo contrapposto, il nazionalismo, due movimenti che avevano attirato nella propria orbita molti degli elementi migliori del socialismo e dato qualche energica scossa alla borghesia. Preesisteva il decadimento e quasi esaurimento di quei ristretti gruppi di governo che, nel vocabolario dei partiti politici, si chiamavano “liberali” e “democratici” o l’uno e l’altro insieme, ormai estraniati dall’autentico liberalismo della prima ora, col loro protezionismo ad oltranza e con lo sfruttamento dello Stato da parte dei gruppi parassitari della borghesia; ridotti a vivere di transazioni e patteggiamenti fra le Camere del lavoro e le sagrestie, senza nessuna capacità di resistenza di fronte alla tracotanza dei demagoghi rossi e dei demagoghi neri. Preesisteva, infine, il discredito del regime parlamentare a cui il suffragio universale, il sistema proporzionale, la inasprita lotta fra i partiti, il loro cresciuto egoismo e nel tempo stesso il loro quasi equilibrio, che si risolveva in impotenza di governo, hanno dato il colpo di grazia68.
Il fascismo piuttosto pareva in grado di portare a termine un grande disegno di coesione nazionale, non solo modernizzando politicamente la monarchia, ma anzitutto valorizzando, anche se certo non in egual misura, quanto di meglio aveva prodotto la tradizione liberale, nazionalista, nazional-liberale, persino socialista, che si erano variamente intrecciate, confrontate, contrastate nella nostra vita politica durante il corso dell’ultimo quarantennio. 67 ID., Giovane Italia, cit., p. 393. 68 Ivi, pp. 386-387.
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Sì, all’analisi chimica può risultare che nel Fascismo c’è qualcosa del liberalismo, del vecchio, autentico ed energico liberalismo che accettava la lotta e la concorrenza e la selezione, riconosceva ed esaltava i valori individuali, lasciava entro lo Stato una larghissima sfera d’azione ai cittadini, ma vigilava con occhi d’Argo i cancelli dello Stato stesso e giungeva sino all’“adorazione” dello Stato, come vi giungevano gli uomini alla Silvio Spaventa. E c’è qualcosa – e ancora di più – del nazionalismo: del nazionalismo come passionalità e come senso dello Stato e come volontà di vita nel mondo e disprezzo di pacifismo e umanitarismo e cosiffatti impiastri democratici. Il Fascismo richiama i gruppi nazionali-liberali, sorti dopo la scissione del partito nazionalista nel 1914, che ebbero qualche anno di vita non infeconda al principio della guerra; e un lor modo di intendere l’intervento e la guerra, che li distingueva dalla democrazia della “libertà e giustizia”, dai patrioti della “Trento e Trieste”, dal liberalismo dei liberali; e un loro giornale bolognese e poi milanese, L’Azione, con qualche uomo di buona tempra e di saldo intelletto, come Alberto Caroncini. Dirò di più: può risultare che nel Fascismo c’è anche del socialismo, intendo certe esigenze del socialismo, il senso di certi problemi posti dal socialismo e ignorati o guardati un po’ dall’alto in basso per molto tempo dai nazionalisti. Sono ora in mortale contrasto, Fascismo e socialismo: ma chi oserebbe negare che quello presuppone questo e riprende con altri modi il compito di questo? Insomma vediamo riflettersi nel Fascismo, con maggiore o minore compiutezza e consapevolezza, un po’ tutte le nostre correnti di pensiero politico degli ultimi decenni, tutti gli sforzi di minoranze e di masse. Mescolanza e giustapposizione o sintesi o superamento? Vedremo. Per ora, questi uomini pare che vogliano più operare che dissertare. La loro produzione dottrinale è scarsissima. Potrebbe essere anche segno di insufficiente autocoscienza, ma anche titolo e motivo di superiorità69.
E qui, per davvero, il Volpe storico dava la mano a quello politico. Soltanto lo studioso che, come nessun altro, aveva colto le pulsioni profonde del «sottosuolo» della storia italiana nell’età medievale70, l’agitarsi apparentemente contraddittorio di scismi e ortodossie, di spinte al cambiamento e di movimenti apparentemente retrogradi, che pure tutti avevano contribuito a formare una stagione storica straordinaria, poteva intendere il carattere composito, apparentemente caotico, dell’eresia politica del fascismo, che forse, proprio in virtù della scarsa coerenza del suo corpo di dottrina, anche da altri messa in evidenza71,
69 Ivi, pp. 401-403. 70 L’espressione era contenuta nella recensione di Vincenzo Bucci al volume di G. VOLPE,
Momenti di storia italiana, apparsa nel «Corriere della Sera» del 5 maggio 1926. 71 A. DE MARSANICH, La situazione del Partito Nazionale Fascista, in «Critica fascista», 15 dicembre 1923, p. 254: «Ecco dunque delinearsi la massima deficienza del Partito Fascista: la mancanza di un pensiero centrale organico e ben definito, intorno a cui raccogliere tutte le fila del movimento e dargli una base e un’unità, così come il marxismo costituisce
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aveva inglobato molte delle dinamiche, delle speranze, e insieme delle illusioni, delle deviazioni, dei traviamenti, che si agitavano, in modo irresistibile, nell’inquieto dopoguerra italiano, senza, probabilmente, pensare di poterle rappresentare così compiutamente, senza, sicuramente, ambire di rivendicarne un giorno la piena delega politica. Un giudizio dunque, quello di Volpe, che decretava la non estraneità, nel bene e nel male, del fascismo alla storia d’Italia: a una storia «che passava» seguendo il suo flusso impetuoso, travolgendo tutte quelle paratie ideologiche che avrebbero dovuto disciplinare il suo corso e che, invece, lungi dal moderarlo, lo rendevano soltanto più travolgente. Un giudizio che, non solo per paradosso, trovava qualche punto di tangenza con l’analisi di De Ruggiero, che pure, già dal marzo del 1921, aveva assunto, senza equivoci, una posizione fortemente polemica contro il movimento di Mussolini e i suoi sostenitori, provenienti dagli ambienti della borghesia liberale, incapaci di comprendere, che, proprio con l’entrata in campo del fascismo e con la pretesa di rintuzzare per sua mano la «tracotanza socialista», rendendo violenza per violenza, «mai la borghesia è stata tanto schiava del proletariato quanto oggi, che, per affermare la propria autonomia, ne accetta passivamente e servilmente il massimo postulato della lotta di classe» e che in nessun momento, come ora, «il filo-socialismo, sconfessato nelle formule, è stato così presente in atto»72. Anche da questo punto di vista, allora, nessun rapporto di convergenza, nemmeno parziale e temporanea, era possibile instaurare tra liberalismo e fascismo, come sosteneva Augusto Monti, in un intervento che riecheggiava largamente le posizioni di De Ruggiero, dove si sosteneva che l’avvento di Mussolini era stato «la pietra di paragone del liberalismo italiano». Da quel momento, infatti, «i liberali di razza, anche se militanti in altri partiti, subito, di istinto, si son posti contro al fascismo, e ne han sentito tanto maggior ripugnanza quanto più radicato era in loro il liberalismo»73. Ma questo generoso appello, concentrato sulla base del socialismo, e il mito della libertà e il diritto naturale e il liberismo economico costituiscono quella del liberalismo. Che non esista una dottrina politica fascista, oltre l’idea della Nazione gerarchicamente ordinata, che non è integralmente nostra, è dimostrato dalla molteplicità delle interpretazioni che gli stessi fascisti danno del fascismo, sì che ognuno crede in un suo proprio Fascismo». Sullo stesso punto si esprimeva anche Angelo Tasca, ancora nel 1938, «Vi sono più specie di fascismo, ciascuna delle quali implica tendenze molteplici e talora contraddittorie, che possono evolvere fino a mutare alcuni dei loro tratti fondamentali». Si veda ID., Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922, Bari, Laterza, 19652, p. 554. 72 G. DE RUGGIERO, Il concetto liberale, in «La nostra scuola», 16-31 marzo 1921, ora in ID., Scritti politici, cit., pp. 365 ss., in particolare p. 368. 73 A. MONTI, Due fascismi, in «La Rivoluzione liberale», I, 1922, 1, p. 57.
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la necessità di mantenere intatto il proprio patrimonio ideale, si scontrava con gli aspri fatti della storia che in breve avrebbero travolto molte distinzioni tradizionali, quando, secondo una più tarda versione di Volpe, «molti “intellettuali”, orientati in gran parte verso quel liberalismo, che era, per i più, vivere e lasciar vivere, e non impegnava troppo le coscienze, si strinsero di più al fascismo»74. Il non glorioso «crepuscolo degli dei» dell’idea liberale decretava anche la fine del vecchio regime statutario, e con esso l’umiliazione dei rappresentanti legali, anche se da molti non più ritenuti legittimi, della nazione, come sempre Volpe annotava in questa palpitante, eppure ironica, testimonianza inviata alla moglie, subito dopo la marcia su Roma, nella quale si intravedeva il suo futuro destino politico che, per un lungo ventennio, si sarebbe sviluppato all’ombra del profilo carismatico e inquietante del Duce del fascismo. Ma, in quella corrispondenza, redatta quando ancora ardevano i fuochi del bivacco dei manipoli accampati nell’Urbe, la vecchia Italia giolittiana dei compromessi, dei favori richiesti e concessi per fedeltà di famiglia e di campanile, delle estenuanti attese nelle anticamente del potere, delle lotte intestine tra camarille politiche e corporazioni intellettuali sembrava erigersi ancora potente, impermeabile a ogni cambiamento e a ogni rivoluzione. Ieri sono andato in Senato, alla biblioteca. Ho visto Ruffini, visto Croce. La sera ho fatto visita a Gentile. Quella stanzetta era piena di gente: scolari, amici, parenti venuti da Castelvetrano di Sicilia, con fiera aria fascista. Ho detto all’avvocato Gentile: “Anche lei ha fatto la marcia su Roma!”. E lui: “L’avremmo fatta, se ci fosse stato bisogno!”. Gentile non era molto scandalizzato dal trattamento fatto a quei poveri Deputati: sta prendendo anche lui il colore del tempo… Del resto, è tranquillissimo pel suo ufficio di Ministro. La povera signora deve ora combattere con tutti i postulanti che vanno lì per favori: e deve conciliare un cartello ammonitore, inchiodato sull’uscio (“Per cose d’ufficio rivolgersi al Ministero”), col suo buon cuore che vorrebbe dare ascolto a tutti. Stamattina poi sono andato alla Consulta per vedere il Duce. Non avevo appuntamento, ma ho approfittato di Casati che ho trovato lì e che entrava, per mandar il mio biglietto da visita. Uscendo, mi ha detto che sarei stato ricevuto. Ma aspetta, aspetta, non veniva mai il mio turno. Sono così rimasto lì più di due ore, finché ho visto Mussolini uscire. “Voi qui ancora?”, mi ha gridato. “Credevo foste andato via! Perché non siete entrato?”. Quindi Casati mi aveva riferito male le sue parole. E così, poiché gli ho detto che non sarò a Milano, martedì giorno del suo ritorno da Losanna, abbiamo combinato di trovarci al suo ritorno a Roma. Ha sempre più la maschera truce, angolosa, di uomo che quasi non vede il basso mondo dall’alto del suo piedistallo. Certo che se non perde la testa con tanta smaccata adulazione che gli gorgoglia intorno, è segno che quella te74 G. VOLPE, Storia del movimento fascista, Milano, Ispi, 1939, p. 125.
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sta è quadra sul serio. Ho parlato a lungo con Casati, in anticamera. Mi ha accennato al pericolo grave che io e lui entriamo nella lista nuova dei consiglieri. Per me, ha accennato a un pericolo anche peggiore: l’assessorato della Pubblica Istruzione. Mi sono messo a ridere e voi non dite a nessuno queste sciocchezze. Jacini poi, che ho pure visto, ha aggiunto: “Si parla di un sindacato Casati!”. Insomma, casa nuova su tutta la linea75.
3. L’avvicinamento di Volpe al fascismo non era senza effetti per la sua attività di studioso e influenzava anche, in misura non solo residuale, il progetto di «Storia d’Italia in collaborazione», che pure aveva raccolto l’adesione di intellettuali di vario temperamento ideologico: da De Ruggiero, a Omodeo, a Casati, a Gentile, ad Anzilotti, a Ugo Monneret de Villard, a Gino Luzzatto, a Giuseppe Prato, a Francesco Ercole, Ettore Rota, Salvemini, Raffaele Ciasca, Pietro Egidi, Paolo Negri, Nino Cortese, Leonardo Vitetti e Roberto Cantalupo e in un secondo momento, forse, anche Mario Vinciguerra76. Il disegno della collana si sarebbe ulteriormente precisato con la stesura di un opuscolo, in cui erano suggeriti alcuni indirizzi generali «per armonizzare un po’ il lavoro dei collaboratori»77, concepito alla fine del 1920, redatto già nell’ottobre del 1921, infine pubblicato nel marzo dell’anno successivo, che avrebbe dovuto servire anche come base di discussione tra tutti i partecipanti al piano editoriale. In quel Programma e orientamenti per una Storia d’Italia in collaborazione e per una Collana di volumi storici, si manifestava un disegno di storia nazionale che doveva dare il senso del nuovo clima politico, sociale e morale che si era affermato al termine della guerra, pur «senza retorica e senza enfasi, senza “boria di nazioni” e parole pronunciate ore rotundo e supervalutazione, cioè deformazione del nostro passato, a scopo di effimera propaganda». Di qui la struttura a piramide rovesciata dell’opera, che tendeva ad allargarsi con lo scorrere dei secoli, quando la storia della nazione italiana aveva dovuto confrontarsi, tra luci e più spesso tra ombre, ma sempre con formidabili ricadute sul contesto interno, con quelle delle altre formazioni politiche mediterranee e continentali. Una storia d’Italia, infatti, doveva e non poteva non essere anche una storia dell’Italia nella storia d’Europa e nella storia del mondo78. 75 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma 19 novembre 1922, CV. 76 Sul punto, il mio Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repub-
blica, cit., al capitolo III. 77 G. VOLPE, Programmi ed orientamenti per una storia d’Italia in collaborazione e per una “Collana di volumi storici”, ivi. 78 Questo indirizzo sarebbe stato poi direttamente sviluppato da Volpe nei saggi Europa e Mediterraneo nei secoli XVII e XVIII, in «Politica», 1923, poi in ID., Storia della Corsica italiana, Milano, Ispi, 1939, pp. 89 ss.; Italia e Europa, «Gerarchia», 1925, poi in ID., Mo-
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Questa internazionalizzazione della storia patria risultava soprattutto evidente nel progetto di affiancare, ai volumi di storia d’Italia propriamente detta, altri contributi che, dal Medio Evo in poi, investigassero le «vicende dell’Italia fuori d’Italia», i «problemi di rapporti fra noi e gli altri, problemi di interesse vivo ancor oggi e che stanno fra la politica e la storia, con visibili riferimenti pratici». Rapporti di cultura e di religione. L’influsso dell’Islam attraverso la Spagna e la Sicilia. L’irradiazione europea del Rinascimento. La Controriforma, individuata, quindi, come movimento della «cattolicità, ma che lascia in Italia il suo contro», che «è papato, che nel XVI secolo ha così visibili segni, direi, nazionali, che pur mentre opera nel mondo, si nutre di succhi nazionali»79. E ancora, la matrice europea del «Settecento riformatore» italiano, i rapporti di reciproco scambio ma anche di lotta e di contrasto per l’egemonia intellettuale con Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, di cui un capitolo fondamentale doveva essere costituito dalla storia del fuoriuscitismo politico a partire dal 1815. Ma soprattutto rapporti di economia, di politica, di potenza: dall’espansione commerciale italiana verso il Levante dopo l’XI secolo, al predominio del «commercio e banca italiana nell’Europa centrale e occidentale», alla «trasformazione e crisi dell’economia italiana nel ’400 e ’500, per circostanze interne ed esterne», fino al vasto moto dell’emigrazione prima artistica e intellettuale poi, a partire dal secolo XIX, prevalentemente di risorse imprenditoriali, artigianali, di mano d’opera verso l’Africa e le Americhe. Questa materia era delineata nella lettera del 24 maggio 1921, indirizzata a Fortunato Pintor80. Al quale si domandava di intercedere presso il fratello, Luigi, importante dirigente del Ministero delle Colonie, per ottenere la segnalazione di «qualche intelligente e onesto funzionario dello Stato, affiatato con i paesi di immigrazione italiana» disposto a stilare una storia della Colonizzazione italiana in America nell’ultimo cinquantennio. Nella corrispondenza emergeva con energia la necessità di distaccarsi dalla tradizionale trattazione di questo argomento. L’emigrazione italiana non doveva essere studiata dal «punto di partenza, cioè delle condizioni italiane che han provocato l’esodo», e di conseguenza esclusivamente come depotenziamento demografico e culturale della comunità nazionale, come era accaduto nei pur pregevoli studi di Francesco Coletti81, ma «nel suo punto d’arrivo» e in quanto analisi «della formazione, dello sviluppo, della vita e stato presente
menti di storia italiana, cit., pp. 301 ss. 79 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano, 22 maggio 1921, AGDR. 80 La lettera è conservata in FFP. 81 F. COLETTI, Dell’emigrazione italiana, Milano, Hoepli, 1912.
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delle colonie italiane in America dalla metà del XIX secolo in poi». Il flusso migratorio andava considerato, dunque, non soltanto come penosa «diaspora» e cartina di tornasole del sottosviluppo della Penisola e delle sue zone più arretrate, ma come fenomeno di espansione dell’Italia nel mondo, in qualche misura paragonabile alla dinamica dell’incremento nazionale assicurato dalla conquista coloniale. E non casualmente al volume sull’emigrazione doveva affiancarsene un altro, che solo la «sua posizione ufficiale e una certa tal quale sua paternità della recente politica africana del nostro paese» impediva di affidare a Luigi Pintor. Uno studio, che doveva incentrarsi sulle «vicende dell’azione e politica italiana in Africa dai viaggiatori del secolo scorso in poi», e soprattutto sull’«azione nostra allo studio del continente, gruppi di immigrazione (in Egitto, Tunisi ecc.), politica coloniale, problemi relativi, rapporti con Inghilterra, Francia, Turchia, mondo arabo in conseguenza di tale politica»82. La storia del nostro paese doveva essere, quindi, anche la storia della sua spinta propulsiva nello scenario internazionale: antica e nuova. Anzi quella storia doveva rafforzare l’impeto di quella spinta, come Volpe, a più riprese, negli anni a venire, avrebbe sostenuto con insistenza. Ma già con i due saggi progettati nel 1921 – poi precisati nel titolo come Gl’Italiani d’America e L’Italia nel continente africano – il disegno della «Storia d’Italia», conosceva una sua decisa flessione in senso nazionalista. Nel rispondere alla più che scontata domanda su quando si dovesse datare il momento storico costitutivo dell’unità italiana, il suo primo impiantarsi come «nazione», Volpe rispondeva, senza esitazioni, indicando quell’epoca nel Medio Evo. Così si sosteneva nel Programma e così si ribadiva nel saggio del gennaio 1922, apparso su «Politica», con il titolo emblematico di Albori della Nazione italiana83, dove Volpe, con un forte rimando al primo assai sintetico abbozzo di storia nazionale, apparso nel 191484, operava la scelta dei secoli XI e XIII come culla della storia italiana, ma questa volta in quanto processo di de-bizantinizzazione e de-arabizzazione della penisola, di contenimento della pressione slava sul confine nord-orientale, di opposizione alla struttura sovrastatale dell’Impero, di affacciarsi di alcune dinastie provviste di un pur del tutto embrionale progetto di dominio peninsulare, di diffuso senso dell’unità di uno «spazio politico», se non altro, come «avversione al dominio di genti estranee». Ma non era tutto. In questo contributo e in altri interventi, Volpe vedeva l’Italia farsi nazione soprattutto nella sua
82 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, Milano 17 giugno 1921, in FFP. 83 Lo si veda in G. VOLPE, Momenti di storia italiana, cit., pp. 3 ss. 84 ID., La «Dante Alighieri» e la vita italiana fuori dai confini, cit.
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spinta verso l’esterno, già nell’età medievale. Non solo grazie all’attività degli «Italiani fuori di Italia» e come semplice egemonia commerciale sul Mediterraneo85, ma come vera e propria conquista territoriale volta verso l’Istria, la Dalmazia, la Tripolitania, la Corsica, il Levante, le Baleari86, che suggellava quella che verrà poi definita l’«età dell’espansione» dell’economia italiana tra XII e XIII secolo, tanto impetuosa da ribaltare completamente il tradizionale equilibrio di potere tra mondo cattolico-latino e mondo greco-mussulmano e da assicurare al contempo una vasta e profonda penetrazione nei mercati dell’Europa centrale e settentrionale. Il problema storico degli «Italiani fuori d’Italia», che avrebbe avuto larga diffusione da Volpe in sede storiografica87, trovava in questo modo un’immediata ricaduta politica, anche in relazione ad alcuni diretti interventi del nuovo capo del Governo, che collegava il problema dell’emigrazione da «tutelare», perché «dovunque è un italiano là è la Patria, là è la difesa del Governo per questi italiani», al passato splendore dell’espansione della genti della Penisola fuori dai confini nazionali, nel XIV secolo, quando «gli altri popoli erano mal vivi o non erano ancora nati alla storia»88. Anche sotto l’influsso di queste sollecitazioni Volpe era passato con disinvoltura dalla storia passata alla «storia dei propri tempi», tanto da riecheggiare sostanzialmente, se non fedelmente, le sempre più aggressive dichiarazioni di Mussolini sulla politica estera italiana, la quale avrebbe dovuto liberarsi, al più presto, dell’«ipoteca» del Trattato di Versailles e «smascherare le utopie» della Società della Nazioni, che costituivano un «sistema» di oppressione internazionale garantito dalle «potenze conservatrici» europee89. Era una linea decisamente «revisionista», antifrancese e soprattutto antibritannica, la quale riecheggiava alcuni temi del terzomondismo populista già ampiamente sviluppati dal D’Annunzio «diciannovista», che ora si concentrava sui desolanti risultati della «Caporetto albanese» provocati dalla neghittosa politica di Nitti, ora apriva un nuovo fronte di polemica, puntando, tra giugno e ottobre del 1922, sulla situazione del vicino Oriente, dove, si affermava, il nostro paese aveva «buone carte da 85 G. VOLPE, Italiani fuori d’Italia alla fine del Medio Evo, pubblicato in due distinti articoli su «Gerarchia» nel 1922, ora in ID., Momenti di storia italiana, cit., pp. 61 ss. 86 ID., Albori della Nazione italiana, ivi, pp. 26 ss. 87 ID., L’Italia in cammino, cit., pp. 64 ss. e 151 ss. 88 B. MUSSOLINI, Il problema dell’emigrazione. Discorso pronunciato alla Scuola Normale Femminile “Carlo Tenca”, 2 aprile 1923, ID., Scritti e discorsi, cit., III, pp. 97 ss. 89 La polemica di Mussolini contro l’ordine di Versailles, sarebbe stata riepilogata, più tardi, da G. CAPRIN, Sistema e revisione di Versaglia nel pensiero e nell’azione di Mussolini, Milano, Ispi, 1940. Sul punto, G. RUMI, Alle origini della politica estera fascista, 1919-1923, Bari, Laterza, 1968, pp. 225 ss.
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giocare» se avesse saputo favorire il «nazionalismo arabo in pieno sviluppo». La diplomazia italiana doveva liberarsi della sua tradizionale anglofilia, che aveva da sempre compromesso l’autonomia della nostra politica nel Levante, e disimpegnarsi «una buona volta dalla sudditanza inglese». Bisognava, infatti, «prepararsi all’eventualità di fare una politica praticamente anti-inglese». L’Italia non aveva infatti alcun «interesse a contribuire al mantenimento dell’impero inglese», ma anzi sua convenienza consisteva nel «collaborare a demolirlo». Erano parole che avevano già avuto qualche ripercussione pratica, nel giugno del 1922, quando il gruppo parlamentare fascista votava un ordine del giorno contrario alla ratificazione dei mandati anglo-francesi su Siria, Libano, Palestina90, che era enfaticamente approvato da un editoriale di Mussolini91, il quale, in un altro articolo apparso sul «Popolo d’Italia», nel marzo del 1922, aveva puntato il dito sui difficili rapporti anglo-egiziani e sulla possibilità di un loro sviluppo favorevole agli interessi mediterranei dell’Italia92. Volpe interveniva a sua volta sulla materia, con una serie di corrispondenze dall’Egitto, pubblicate su quello stesso quotidiano, tra giugno-luglio 192293. Erano testimonianze in presa diretta, nelle quali si sosteneva che la rottura del vecchio ordine internazionale determinato dal conflitto aveva avuto diversissimi risultati nell’«Europa centrale e sudorientale» e nel vicino Oriente. In un caso, la catastrofe degli antichi Imperi aveva portato alla nascita «di nuove creature, cioè nazioni e Stati, che hanno visto la luce del sole e altre che sono in faticosa gestazione». Nell’altro, popoli che la rovina delle grandi potenze plurinazionali ha liberato dal passato servaggio, sono ora costretti a cercare la loro salvezza contro «i trionfatori dell’Intesa liberatrice», che pure a quelle genti avevano chiesto, durante la guerra, «sangue e denaro», martellando le loro orecchie di parole come «libertà», «indipendenza», «autodecisione», facendo loro acquistare «coscienza di diritti da far valere», permettendogli di concepire «speranze che è ora difficile eludere». Nessuna delle «cambiali» sottoscritte durante la guerra era però stata onorata, né nelle isole del Mediterraneo sottratte alla Turchia, né in Palestina, né in
90 J.B. DUROSELLE, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Milano, Led, 1998, pp. 48 ss. 91 B. MUSSOLINI, Italia e Oriente. La gratitudine dei siriani per l’Italia, «Il Popolo d’Italia», 14 luglio 1922, in ID., Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1951-1980, 36 voll., XVIII, p. 281. 92 ID., Italia e Mediterraneo. L’Egitto indipendente?, «Il Popolo d’Italia», 2 marzo 1922, ivi, pp. 76 ss. 93 Le corrispondenze sarebbero state rifuse in due articoli apparsi su «Politica», tra 1922 e 1923, ora in G. VOLPE, Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 116 ss.
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Irak, né in Libano né nella Siria, dove i nativi avevano contrastato armi alla mano alla Francia «il diritto di mettere nuove imposte, di introdurre la coscrizione da cui il paese era libero anche sotto i Turchi, di pigliarsi i tre quarti delle entrate doganali, di fare regolamenti e leggi, di esercitare il mandato indipendentemente dalle condizioni che solo la Società delle Nazioni potrà stabilire e che finora non ha stabilito». Se, nelle vie di Damasco, «beduini del deserto, e commercianti della città, studenti e plebe, mussulmani e cristiani» avevano organizzato contro tutto ciò «scioperi, boicottaggi, resistenza attiva e passiva», fino alla «guerra guerreggiata», il «regno d’Egitto di nuovissima formazione» aveva acquistato una sovranità, sia pure monca e parziale, «sotto la pressione del movimento nazionale» che, tra 1919 e 1921, con violenti moti al Cairo e ad Alessandria, aveva obbligato la Gran Bretagna a compiere un deciso «mutamento di rotta» della sua politica. Dall’insofferenza contro l’Occidente di quelle regioni, ormai non più semplici espressioni geografiche o meri agglomerati tribali, si levava così una sfida che era necessario raccogliere, perché nella loro resistenza contro un alieno dominio, accanto a «elementi negativi, residue xenofobie, fanatismi religiosi, misoneismi di gente chiusa in sé», esistevano anche «aspirazioni nuove, impulsi nuovi, che sono anti-europei non in quanto neghino l’Europa e quel che le è intrinseco e proprio, ma in quanto vogliono, armati di talune delle sue stesse armi, contrastare all’Europa, liberarsene e gareggiare con essa nel campo politico ed economico»94. Quella sfida non riguardava soltanto i tradizionali potentati coloniali, ma anche l’Italia, che doveva favorire l’ascesa delle giovani nazioni arabe, nel suo stesso interesse. Se l’Egitto cercava di conquistare la sua piena indipendenza, sul piano sostanziale e non solo formale, questo voleva anche dire che quello Stato avrebbe potuto, una volta raggiunto quell’obiettivo, sottrarsi al monopolio commerciale inglese e cercare altri partners nell’area mediterranea, in particolare per quello che riguardava l’esportazione del cotone, che, proprio in quel momento, soffriva della fortissima concorrenza statunitense nei mercati tradizionalmente riservati a quella merce95. Per il nostro paese si sarebbe trattato non solo di un ritorno all’origine dei nostri commerci internazionali, che avrebbe potuto rinverdire la sua antica tradizione mercantile verso Oriente, ma del rafforzamento di un ruolo che, in realtà, non era mai del tutto venuto meno, come ancora testimoniava la presenza di attivissimi gruppi artigianali, imprenditoriali, mercantili in quella nazione. Gli «Italiani d’Egitto» costituivano infatti una «rispettabile colonia», per 94 Ivi, p. 124. 95 Ivi, pp. 142 ss.
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potenziale umano se non per risorse finanziarie, e un «vitalissimo interesse economico italiano» anche se la sua presenza era stata a lungo sottovalutata dalla «cecità grande di uomini dirigenti nostri che credevano poter risolvere i problemi interni del nuovo Stato, sequestrandosi all’attività internazionale», quasi operando una «anticipazione e preparazione moderata o democratica del futuro socialismo italiano e del suo feroce “piede di casa”». Ma quegli «Italiani fuori d’Italia» rappresentavano un interesse grande anche sul piano politico e geopolitico, dato che «quei nostri nuclei nazionali sono l’anello centrale di quella sottile ma ben radicata colonizzazione nostra che da Algeri, attraverso Tunisi, Tripoli, Bengasi, Alessandria, Cairo, Rodi, Smirne, Costantinopoli, fino a Salonicco, accompagna quasi tutta la costa mediterranea attorno alla penisola, si estende nel Mar Rosso, dove si affacciano insieme Egitto ed Eritrea, nella baia di Solum in cui si toccano Libia italiana ed Egitto, per prolungarsi, poi, fino ai confini del Sudan con le nostre colonie»96. Dopo la metà del XIX secolo, la presenza italiana sulle rive del Nilo si era inoltre consolidata e allargata fino a toccare le 50.000 unità, tanto da risultare numericamente superiore «in rapporto a Francesi e Inglesi», nonostante la politica a loro ostile della Gran Bretagna, la strategia di assorbimento culturale e linguistico messa in atto da altri gruppi europei, e non solo inglesi, che era aggravata dalla mancanza di un sostegno attivo dalla madrepatria, per quanto riguardava la costituzione di scuole primarie, secondarie, specialmente professionali, del tutto trascurata dopo il breve interludio rappresentato dalla politica mediterranea di Crispi. Questo abbandono della «colonia» italiana d’Egitto faceva ostacolo alla possibilità di «legare il nostro nome a questa decisiva fase della storia degli Egiziani e degli Arabi», che si stava aprendo, per «apparire ai loro occhi un coefficiente utile del loro rinnovamento, orientarli verso di noi, moltiplicare mutui rapporti d’ogni genere». In tutto questo, la nostra inferiorità non era certo immediatamente sanabile, perché «inerente alla nostra complessiva inferiorità nel Mediterraneo e al posto che noi occupiamo nella gerarchia delle Potenze». Eppure l’Italia poteva giocare con forti speranze di successo, proprio in questo scenario, la carta dell’oggettiva convergenza del proprio interesse nazionale con quello dei paesi arabi, «poiché solo la piena indipendenza dei nuovi Stati d’Oriente potrebbe garantirci una relativa parità di trattamento con Francesi e Inglesi o altra gente; solo la piena indipendenza dell’Egitto potrà distogliere dal capo dei nostri Italiani anche solo la minaccia di diventare per forza cittadini francesi o inglesi, e di essere snazionalizzati, come si vuole fare a Tunisi e a Malta e forse si vorrà fa96 Ivi, p. 152.
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re in Siria e Palestina dai Mandatari»97. La politica dei «mandati» non costituiva infine un ostacolo unicamente alla nostra proiezione commerciale, imprenditoriale e al flusso della nostra emigrazione, in quell’area, ma minacciava anche la nostra economia interna nel suo complesso. Un tema, questo, che Volpe ribatteva con maggiore urgenza, in un articolo del «Popolo d’Italia» del 14 luglio del 1922, nel quale si deprecava la politica di boicottaggio che la Francia andava sviluppando contro l’importazione di merci provenienti da altri paesi in Siria, per favorire i propri manufatti. Da uno degli ultimi posti, nelle importazioni in Siria, la Francia è salita al secondo. E siamo ora nelle prime e incerte fasi di questo “mandato” alias dominio; e ci sono stati di mezzo frequenti boicottaggi, contro le merci francesi; e la Francia era malamente preparata a quel commercio, poiché essa non ha mai prodotto in fatto di cotoni l’articolo specializzato per il Levante, come hanno fatto sempre l’Italia e l’Inghilterra. Che cosa avverrà quando il dominio sarà assicurato; e il boicottaggio, per forza di cose, interrotto; e l’industria francese meglio addestrata nella produzione di certi articoli? L’Inghilterra e l’America potranno risentir questa piccola crisi delle loro esportazioni come una puntura, ma noi la risentiamo come una ferita. Mettiamola nel conto del nuovo assetto del Mediterraneo e del Levante, dove, al posto di una Turchia aperta a tutti, ci sono Stati europei che o controllano o sbarrano le porte d’accesso, come la Grecia, la Francia, l’Inghilterra, a Salonicco, a Costantinopoli, a Smirne, a Beyruth. Esportare uomini, esportare merci ci sarà, se questo assetto diventa definitivo, sempre più difficile. Ciò che vuol dire: alcuni dei problemi centrali della nostra esistenza, posti con sempre maggiore urgenza negli ultimi decenni, si stanno non risolvendo ma ingarbugliando. La loro soluzione la vediamo più difficile e più lontana, se noi proseguiamo su la rotta che abbiamo battuto sino ad ora dal giorno dell’armistizio in poi. La distanza fra noi e gli altri condomini del Mediterraneo è aumentata anziché diminuita. E forse aumenterà ancora nel prossimo avvenire se ciò che si preannunzia a Tunisi, in Egitto, a Rodi diventerà un fatto compiuto; se l’ordine nuovo improvvisato nei territori dell’ex-Impero turco in Asia e a Costantinopoli si consoliderà98.
L’ingiustizia del nuovo assetto internazionale, partorito a Versailles e nutrito a Ginevra, andava dunque, se non distrutta dalle fondamenta, almeno fortemente corretta, se l’Italia non voleva rassegnarsi a nuove e ulteriori penalizzazioni. Volpe rilanciava questo messaggio, anche in margine di un intervento in apparenza di carattere squisitamente culturale, censurando il presunto pacifismo, che affiorava da qualche tendenza della storiografia francese, come ipocrisia di beati possidentes 97 Ivi, p. 174. 98 ID., Gli effetti economici dei mandati, in «Il Popolo d’Italia», 14 luglio 1922, p. 1.
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che, dopo aver usurpato un vastissimo impero d’oltremare, avevano la spudorataggine di definire «ingordigia i desideri tedeschi sul Marocco e velleità dei “megalomanes d’Italie” le aspirazioni italiane su Tunisi attorno al 1880»99. Ma la polemica era già tornata, con maggiore irruenza, sul terreno della «grande politica» nel gennaio del 1923, quando si paragonava il «mollamento generale nei rapporti esterni, con Lloyd George e Clemenceau, con Albanesi e Jugoslavi e Turchi e Greci» dell’immediato dopoguerra, che aveva caratterizzato «la fase della massima impotenza internazionale dell’Italia» e la sua quasi «mania di annientamento», con le nuove prospettive, che si aprivano dopo la marcia su Roma, grazie a «un ben avviato ringiovanimento dello spirito italiano, una più salda compagine nazionale e un più energico senso della vita: il tutto, necessario viatico per un popolo, che, più forse di ogni altro d’Europa e del mondo, potrebbe tra trenta anni o cinquanta anni trovarsi dinnanzi a imperiosi doveri e tragiche necessità»100. Al tempo delle abdicazioni doveva seguire ora quello della riscossa dell’Italia sul piano internazionale, come prometteva Mussolini, inaugurando, nel febbraio di quello stesso anno, una «nuova politica estera» audacemente revisionista nei confronti degli accordi successivi alla Grande Guerra, non escluso lo stesso Trattato di Locarno, che non poteva né doveva essere «tra tutte le centinaia di Trattati, che sono stati stipulati da quando il mondo fa la sua storia, proprio l’unico Trattato irreparabile, tombale, perpetuo»101. Quasi a corollario di questa affermazione, Volpe aveva modulato l’elogio della muscolosa politica del nuovo presidente del Consiglio, palesatasi nell’incidente di Corfù102, a proposito del quale Salvemini avrebbe poi messo violentemente in discussione la fable convenue del «Mussolini diplomatico»103. Per Volpe invece la «politica delle cannoniere»
99 ID., Bella storia, la storia di Francia! (Mentre si riprende a “dissipare gli equivoci”),
in «Gerarchia», 25 marzo 1923, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 185 ss., in particolare p. 201. 100 ID., Giovane Italia, cit., pp. 391 e 401. 101 B. MUSSOLINI, La nuova politica estera. Discorso tenuto alla Camera dei deputati, nella tornata del 16 febbraio 1923, in ID., Scritti e discorsi, cit., III, pp. 59 ss., in particolare p. 64. 102 Dopo la fine del conflitto, l’Italia appoggiava l’Albania nel contenzioso insorto con la Grecia, a proposito di alcune questioni territoriali. Un ufficiale italiano, il generale Tellini, membro della commissione internazionale preposta alla delimitazione dei confini tra i due paesi, veniva ucciso dai greci. In risposta all’eccidio, il 31 agosto 1923, Mussolini faceva bombardare Corfù dalla nostra flotta e ne disponeva l’occupazione. Su pressione di Francia e Inghilterra, la Società delle Nazioni obbligava l’Italia a sgombrare l’isola, in cambio delle scuse del governo di Atene e del versamento, a titolo di indennizzo, di 50 milioni di lire. 103 G. SALVEMINI, Mussolini diplomatico, Paris, Editions contemporaines, 1932, ora in
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inaugurata dal Capo del governo doveva leggersi come un necessario, seppur parziale, regolamento di conti con gli antichi alleati, che, già durante la fase terminale del conflitto e poi negli accordi che lo conclusero, avevano dimostrato la volontà di trasformarsi in duri e risoluti antagonisti nella competizione internazionale, riducendo agli occhi del mondo il nostro contributo alla vittoria, escludendoci da «ogni beneficio coloniale pattuito e no», creandoci alle spalle un «presuntuoso jugoslavismo», stigmatizzando duramente il presunto «imperialismo italiano», rinnovando la collaudata «entente franco-britannica» in un «fronte unico verso di noi»104. Era il proseguimento di una politica di antica data, già ampiamente manifestatasi «nella non benevola neutralità accordataci durante l’impresa libica e durante la faticosa sistemazione balcanica che seguì alle guerre del 1912-13», a cui l’imbelle giolittismo aveva saputo opporsi in maniera del tutto insufficiente, ma che ora giungeva finalmente a scontrarsi, così Volpe si sarebbe più tardi espresso, con una personalità politica, del tutto estranea ai calcoli spesso meschini dei corridoi diplomatici. Una personalità d’eccezione, che si dimostrava capace di rompere l’accerchiamento internazionale nel quale era stata rinserrata l’Italia immediatamente dopo la vittoria. I piccolo Stati nuovi o ingranditi dell’Europa centrale e sud-orientale già accodati alla Francia e stretti ad essa in virtù di trattati e convenzioni militari e crediti aperti largamente… Francia e Inghilterra, piene di ripicche, gelosie e sospetti l’una di fronte all’altra, ma risolute a mantenere la loro posizione egemonica e solidali di fronte a noi. L’Italia isolata. Prima della guerra, alleati, amici o aspiranti alla nostra amicizia, sia pur per far saltare l’alleanza. E fu colpa nostra se non sapemmo valorizzare adeguatamente né l’alleanza né l’amicizia. Fra il 1922 e il 1923, non più né alleati né amici, ma, attorno, attorno, gente sprezzante e botoli ringhiosi, sicuri dell’impunità. Chiusi, poi, sempre più gli sbocchi migratorii nostri e messisi quasi tutti i paesi di immigrazione, a far politica di assorbimento degli elementi etnici forestieri… Ma pur tuttavia si è rivelato subito, al governo della nostra navicella risollevatasi dal gorgo, la presenza di un nuovo timoniere. Non era un diplomatico dalle lunghe basette, incanutito sopra una piccola e logora scacchiera. Non un ricostruzionista ad oltranza. Non un conciliatore ostinato degli altrui imperialismi, che poi avrebbero fatto fronte unico, verso di noi. Non un professore di diritto costituzionale. Ma un uomo di volontà semplice e diritta, che aveva un sentimento altissimo del suo paese e rispecchiava la passione di milioni di combattenti, i quali non si accontentavano di aver fatto la guerra per la libertà e la giustizia… degli altri e non intendevano essere messi alla porta come servitori. E così lavorando alacremen-
ID., Preludio alla seconda guerra mondiale, a cura di A. Torre, Milano, 1967, pp. 41 ss. 104 G. VOLPE, A crisi superata. Constatazioni e previsioni, «Gerarchia», ottobre 1923, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 203 ss.
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GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
te per un anno e mezzo, molto si è edificato. Nuovi rapporti si sono stretti con la Jugoslavia, con l’Albania, con la Polonia, con la Cecoslovacchia, con la Russia. Nel blocco che la sorella latina aveva sistemato ai nostri fianchi nell’Europa centrale, è entrato un cuneo. E si vigila con occhio attento e quasi geloso, sopra ogni interesse nostro fuori dei confini; senza pregiudiziali di partito, senza filie o fobie, senza più bardature ideologiche. Si vigila sul vicino Oriente, nei centri lontani della nostra emigrazione, a Tunisi, si ché, crediamo noi, di dare ai nostri vicini d’oltralpe il senso vivo che essi creerebbero l’irreparabile e provvederebbero non durevolmente al proprio interesse, tagliando con un tratto di penna la nazionalità loro a decine di migliaia di Italiani che in Tunisia hanno preceduto la Francia e hanno, prima della Francia, contribuito alla valorizzazione economica del paese105.
105 G. VOLPE, Fascismo. Governo fascista. Problemi italiani del momento. Pnf. Elezioni politiche, 1924, Milano, Società Anonima Istituto Editoriale Scientifico, s. d., pp. 17 ss.
III.
DENTRO LA DITTATURA
1. LA PARTE DELLA POLITICA 1. Più che la sostanza della politica estera di Mussolini, la quale, tutto sommato, si sforzava di preservare, al di là delle dichiarazioni di principio, un accordo di fondo con Francia e Inghilterra, pur sfruttandone di volta in volta i reciproci contrasti, per dare all’Italia un maggior prestigio nei Balcani, nel Medio Oriente e soprattutto nel continente africano1, Volpe nelle sue esternazioni pareva prendere sul serio, ingenuamente e con qualche sprovvedutezza, il carattere bluffistico della strategia internazionale del nuovo governo, senza rendersi conto del suo carattere tutto strumentale, fondamentalmente subordinato alla stabilizzazione del quadro interno2. Quella politica, fatta più di slogan che di azioni concrete, la quale avrebbe incontrato scarso favore negli ambienti nazionalisti e ultrafascisti3, assicurava però la cornice ideale per l’insistito elogio della volontà di potenza della «Nuova Italia» che Volpe andava modulando e che sembrava non scandalizzare in alcun modo i suoi vecchi compagni di strada. L’articolo Albori della Nazione italiana, con il suo trascorrere dal passato all’ora presente, dalle conquiste delle antiche «Repubbliche del mare» alle nuove ambizioni espansionistiche conculcate da un’ingiusta pace, era accolto con grande favore da Salvemini, seppure con qualche disappunto per la sua collocazione editoriale4. Ma gli umori, si dica pu-
1 R. MOSCATI, Gli esordi della politica estera fascista, in La politica estera italiana dal 1914 al 1943, Torino, Eri, 1963, pp. 39 ss. 2 R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso, 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 323 ss. 3 G. CAROCCI, La politica estera dell’Italia fascista, 1925-1928, Bari, Laterza, 1969, pp. 23 ss. 4 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, s. l., 4 dicembre 1957, CV: «Salvemini, negli ultimi mesi, si era ridotto molto male, senza speranza e anche senza volontà di vivere, che è brutto segno. Mi è dispiaciuto molto della sua dipartita, anche se scontata da tempo, perché troppo dei miei primi passi nella via degli studi e della mia formazione giovanile è legato al ricordo del suo insegnamento. E fra quei ricordi c’è anche il ricordo di un giorno del 1923 [sic], in cui, con alti elogi per Lei, mi consigliò e invogliò a leggere il Suo saggio su Gli albori della Nazione italiana uscito allora in una rivista che, per altro verso, non doveva riuscirgli molto gradita, la “Politica” di Coppola».
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re scopertamente nazionalistici di quegli interventi, non dovevano aver disturbato neanche gli altri autori della «Storia d’Italia» e sicuramente non De Ruggiero, che, il 5 febbraio del 1922, pubblicava un ampio resoconto del progetto editoriale di Zanichelli sul «Resto del Carlino», dove si parlava di «un’opera veramente grandiosa che rappresenterà uno dei frutti migliori del nuovo “storicismo” e darà all’Italia una coscienza adeguata di sé e del suo passato». Di quell’iniziativa e del suo spirito guida, così diverso da quello che aveva dominato l’«era spirituale del Risorgimento», De Ruggiero valorizzava soprattutto la ricaduta pratica e politica, la capacità di voler essere programmaticamente storia del passato che diveniva anche «storia del presente». Oggi la vita del nostro popolo trabocca dagli angusti limiti in cui settant’anni fa audaci minoranze costrinsero la storia d’Italia. C’è uno sviluppo esuberante di quistioni sociali che non trova ragione nelle stilizzate vicende dell’unità nazionale, e che ci spinge invece ad affondar lo sguardo in quella zona ancora grigia della popolazione (la quasi totalità!) che fu assente dal moto unitario ma che pur visse e lavorò per l’avvenire. Vi son valori positivi di opere, di tradizioni, di cultura in quegli statarelli d’Italia che ci son stati rappresentati come pezzi di carne da insaccare per far salcicce. E ce ne accorgiamo o confessiamo di accorgercene solo ora che abbiamo dimesso i vecchi pudori patriottici. C’è un respiro più ampio di vita internazionale, pur nelle vicende nazionali dell’Italia che non si lascia misurare con le solite filie e fobie – in istile patriottico – degli stranieri verso noi o viceversa. Investito dalla luce del presente, l’orizzonte del passato si allarga5.
In quegli anni tempestosi, il progetto della «Storia d’Italia in collaborazione» iniziava il suo cammino, anche grazie a una serie d’incontri, tra Firenze e Bologna, con i responsabili della Zanichelli, ai quali partecipavano, insieme a Volpe, anche Anzilotti e Ciasca, e nel corso dei quali si precisavano i criteri economici e scientifici della collana6. L’iniziativa procedeva, così, apparentemente al riparo dai contraccolpi terribili della congiuntura storica e anzi conosceva una sua diretta ricaduta pubblica. Nell’ottobre del 1921, Volpe impegnava De Ruggiero per una conferenza, da tenersi a Milano, presso il Circolo Filologico («un’istituzione seria di coltura, pur volgendosi al pubblico mezzanamente colto»), che doveva riprendere il soggetto del volume in preparazione. La scelta del tema era motivata con questa considerazione: «Una quan-
5 G. DE RUGGIERO, Per una Storia d’Italia, «Resto del Carlino», 5 febbraio 1922, p. 3.
Sul punto, Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano, 14 febbraio 1922, AGDR. 6 Si vedano le lettere di Volpe ad Alessandro Casati del 22 settembre, 14 ottobre, 15 novembre 1921, FAC.
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tità di frammenti di idee brulicano in molti cervelli su ciò: si tratterebbe di aiutar quei cervelli a dar loro un ordine, un organismo, sia pur sommario»7. Nella lettera d’invito si aggiungeva che: sarebbe preferibile che la conferenza avesse un carattere generale, cercasse di mostrare, nella sua genesi e nell’epoca della sua maturità, il nocciolo del pensiero liberale, osservato nei paesi ove rappresentò qualcosa di vivo e di fattivo. E accennare che cosa è stato corroso poi, e come e da chi, di quel pensiero e che cosa è rimasto. Non una conferenza politica la sua e quelle tutte del Circolo; ma che possa contribuire a chiarificare le idee politiche e determinare qualche atteggiamento pratico8.
Alla risposta positiva di De Ruggiero, che aveva addirittura proposto di raddoppiare il numero delle conferenze, Volpe così replicava, quasi delineando le linee direttive essenziali del libro futuro: In caso che si potesse farne due, certo mi piacerebbe che la prima si occupasse del liberalismo in genere, del suo sorgere e svilupparsi nei paesi che gli furono più veramente patria; la seconda, del liberalismo italiano, magari in speciale riguardo agli scrittori meridionali. Qualora ci si dovesse contentare di una sola conferenza bisognerà mettere un pizzico di liberalismo europeo, un altro di liberalismo italiano, un ultimo di meridionalismo. Servirà per invogliare a leggere qualche libro e chiarire qualche idea9.
Nell’elenco degli altri relatori, che avrebbero dovuto partecipare agli incontri milanesi, figurava Gentile con lo stesso tema (Il pensiero del Rinascimento italiano e il pensiero europeo), che doveva costituire la materia del volume della collezione alla quale si stava lavorando10. Ma anche Croce, a cui soltanto il suo ancora troppo recente atteggiamento di fermo oppositore dell’entrata in guerra dell’Italia impediva di attribuire, nonostante l’intenzione di Volpe, un tema fortemente calato nella attualità politica, come «il pensiero politico o i dibattiti di pensiero durante la guerra»11. Non era questo un caso isolato, tra quelle che poi pote7 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Santarcangelo di Romagna, 8 ottobre 1921, in AGDR. Tra gli altri argomenti proposti da Volpe: «le correnti del pensiero filosofico del XIX secolo» e anche il «pensiero politico dei giacobini italiani fra il XVIII e il XIX secolo». 8 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano, 10 novembre 1921, ivi. 9 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Santarcangelo di Romagna, 17 ottobre 1921, ivi, 10 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 15 novembre 1921, AFG 11 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, settembre 1921, ivi: «Croce sarebbe l’uomo per una tale conferenza ma credo che non accetterebbe e su lui e contro di lui corrono ancora troppe prevenzioni». Su quella opposizione a Croce, tacciato di antipatriottismo, si esprimeva P. GOBETTI, Benedetto Croce e i pagliacci della cultura, «Energie Nove», I, 15-20
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rono apparire come innaturali convergenze che il mondo della cultura manteneva in vita in quel momento, valicando i confini che la crudezza del confronto politico andava segnando. Nel settembre del 1923, era ancora Salvemini, uno degli intellettuali italiani che con maggiore precocità aveva manifestato la sua opposizione verso il nuovo ordine politico, a progettare «una serie di 5 o 6 conferenze sull’Italia negli ultimi cinquant’anni», alle quali avrebbe dovuto assistere soltanto «un pubblico assai ristretto di diplomatici e uomini politici»12. Tra i relatori di quello che sembrava poter divenire un vero e proprio laboratorio politico, venivano elencati Gino Luzzatto («Lo sviluppo economico dell’Italia dal 1870 ad oggi»), Luigi Salvatorelli («I partiti democratici»), Rodolfo Mondolfo («Il movimento socialista»), Ernesto Buonaiuti («Il movimento cattolico»). Infine, Volpe che avrebbe dovuto impegnarsi sul tema: «Il movimento nazionalista e fascista». Solo molto più tardi, sempre Salvemini avrebbe accusato «il prof. Volpe» di avere smarrito, a partire da quel momento e per sempre, il limite che divideva «la politica in quanto storia dalla storia in quanto fede politica»13. Un giudizio, questo, che occorre verificare nel dettaglio, e senza pregiudizi, prendendo in considerazione non soltanto l’attività scientifica di Volpe durante il ventennio ma anche il suo impegno militante, che, nella lettera inviata a Gentile nel febbraio 1924, per accettare la candidatura alle prossime elezioni, sembrava configurarsi nel segno di un’esperienza del tutto temporanea di intellettuale prestato alla politica e sempre pronto a ritornare alla quiete appartata degli otia accademici. Che cosa debbo dirti? Ho esitato 24 ore prima di dire si; e anche in questo momento ho forte dubbio di essermi messo su di una cattiva strada. Il mio timore precipuo è: essere distolto dagli studi e specialmente dal volume sulla guerra cui ora attendo, destinato al pubblico anglo-giapponese; e rendere poco come deputato, almeno per questo primo anno, seppure non oltre. E allora? Avrei lasciato una via buona per una cattiva: e il mio rendimento me lo vedrei diminuire. È un pericolo per me mettere troppa carne sul mio fuoco: cioè assumere incarichi superiori alla mia capacità di lavoro! Comunque ti ringrazio
novembre 1918, ora in ID., Scritti politici, cit., p. 17: «La gazzarra contro Benedetto Croce dura ormai da qualche tempo: l’hanno sollevata, sotto l’egida del patriottismo, pochi, interessati, nemici personali, più che nemici, botoli ringhiosi, invidiosi, impotenti. Gli ingenui hanno abboccato e c’è uno sciocco a Torino, pieno di pretese e di bile, che lo chiama von Kreutz». Per il progetto della conferenza al Filologico, si vedano anche le lettere indirizzate da Volpe al filosofo dell’ 8 ottobre 1921 e del 16 marzo 1922, in ABC. 12 Gaetano Salvemini a Gino Luzzatto, 14 aprile 1923 in, G. SALVEMINI, Carteggio, 1921-1926, a cura di E. Tagliacozzo, Bari, Laterza, 1985, pp. 186-187. 13 ID., Memorie di un fuoriuscito, a cura di G. Arfé, Milano, Feltrinelli, 1960 p. 41.
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per la parte che hai avuto tu in questa faccenda. La tua buona opinione di me a volte mi spaventa, ma certo mi fa molto piacere. Vedremo se sarà un bene avermi improvvisamente e inaspettatamente in medias res della politica14.
Questa, e altre più tarde testimonianze15, hanno contribuito a creare la tentazione di arrivare a una valutazione giustificazionista della sua biografia politica16, tramite il suo inserimento nella categoria, per altro assai mistificatoria, del «fascismo critico», del «fascismo defascistizzato»17 o peggio a confezionare, con incredibile superficialità, il figurino di un Volpe «maldestro nel muoversi tra i meandri politici dell’Italia fascista, un galantuomo lontano da mezzucci e lenocini ideologici, un candido, a suo modo, a proprio agio soltanto in quegli studi dove non c’era posto per faziosità ideologiche», addirittura un «liberale»18. Si tratta, in ambedue i casi, di una ricostruzione assolutamente erronea, basata soprattutto sull’errata valutazione di quello ius mormorandi, di quel diritto al mugugno, che il regime concesse più o meno largamente a molti degli intellettuali attivi nel Ventennio19, e che in Volpe toccherà livelli di spregiudicatezza sicuramente alti, addirittura eccezionali e fuori norma, ma non tali da poter configurare una vera e propria contestazione sistematica alla dittatura. Anche dopo il fallimento del tentativo di arrivare a una normalizzazione liberale del fascismo, Volpe resterà, almeno fino al 1941, un intellettuale fedele al regime, nonostante le tantissime disillusioni che il dispiegarsi di quella «rivoluzione» gli avrebbe provocato, anche se mai supinamente allineato con le direttive di Palazzo Venezia, come molti al-
14 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 20 febbraio 1924, in AFG. 15 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 settembre 1944, in ID., Lettere dall’I-
talia perduta, 1944-1945, a cura di G. Belardelli, Palermo, Sellerio, 2006, p. 57: «Mi son trovato iscritto, per iniziativa altrui, più che mia, in un partito: ma non ho mai sentito, pensato, operato da uomo di partito, che astrae da ciò a cui il partito debba veramente servire. E perciò ho finito coll’aver danno da tutti i partiti, anziché come ad altri accade, vantaggio da tutti i partiti». 16 M. DE LEONARDIS, Gioacchino Volpe e la storiografia sulla “morte della patria”, in «Annali di Storia Moderna e Contemporanea dell’Istituto di storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore», VIII, 2001, pp. 483 ss.; G. BELARDELLI, Il Ventennio degli intellettuali, Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 97 ss. Correttamente, sul punto, E. GENTILE, La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, cit., pp. 170 ss. 17 G.B. GUERRI, Giuseppe Bottai, un fascista critico, Milano, Feltrinelli, 1974, ora ristampato con diverso titolo, Milano, Mondadori, 1996. Per la critica a queste categorie, E. GENTILE, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. VII-VIII. 18 G. ALIBERTI, Da Cavour a Giolitti: l’Italia di Croce e di Giolitti, «Elite&Storia», 2006, 2, pp. 15 ss. 19 R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso, cit., pp. 106 ss.
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tri chierici di quel periodo20, se si eccettua la ristretta schiera dei veri e propri Mussolini’s intellectuals21. Durante tutto questo periodo, lo storico fu infatti integralmente «fascista», a patto naturalmente di considerare il carattere, composito, poliforme contraddittorio di questo movimento22, le sue diverse anime che se non furono forse quelle migliaia, che Volpe avrebbe enumerato nel 193123, corrispondevano sicuramente a svariate componenti, spesso divergenti e in contesa tra loro, le quali andavano dalla «sinistra estrema» a un «centro destra» tendente a trasformarsi in «un partito conservatore» sul tipo della vecchia Destra storica, critico verso le degenerazioni del parlamentarismo ma assolutamente contrario alla liquidazione del sistema parlamentare24. Come molti altri protagonisti di quella drammatica e ancora oggi controversa stagione, Volpe sarebbe entrato nel movimento dei Fasci, forte della sua passata esperienza politica, nella quale l’esigenza di arrivare a costruire una forte compagine statale si sposava a quella di non soffocare, all’interno di quella struttura, le necessarie e salutari spinte autonomistiche, che provenivano dalla periferia del Paese e soprattutto dal corpo vivo della società civile. Dimostravano molto bene quest’atteggiamento due interventi redatti tra il luglio del 1920 e il marzo 1921, ambedue pubblicati su «La Sera»25, destinati ad approfondire il senso di quel progetto di riforma federalistica dell’ordinamento statale, che aveva costituito uno dei punti qualificanti del programma dei Gruppi Nazionali Liberali tra 1914 e 1919. Entrando in diretta polemica con una nota di Napoleone Colajanni, pubblicata su quello stesso quotidiano milanese, Volpe dichiarava di non aver certo nessuna intenzione «di portare acqua al mulino repubblicano» né di prestare alcun aiuto al tentativo di resuscitare quella, che «50, 60, anni addietro, fu la disputa tra unitari e federali e anche l’altra sul problema istituzionale». La ripresa di queste problematiche era troppo rischiosa, infatti, «in un’Italia, come quella che oggi ci sta davanti agli occhi, agitata da passioni fierissime, turbata da
20 E. DI RIENZO, Intellettuali fedeli ma non allineati, in «il Giornale», 11 luglio 2005. 21 A.J. GREGOR, Mussolini’s Intellectuals. Fascist Social and Political Thought, cit. Sul
punto, il mio, Anche il Duce aveva i suoi professori, in «il Giornale», 30 marzo 2005. 22 D. CANTIMORI, Conversando di storia, Bari, Laterza, 1967, p. 134. 23 Una lettera aperta di S. E. Volpe sui “modi di sentire e vivere il Fascismo”, «Il Tevere», 27 novembre 1931, ora in G. VOLPE, Scritti sul fascismo, 1919-1938, Roma, Volpe Editore, 1976, 2 voll. I, pp. 147 ss. 24 V. FANI CIOTTI, sotto lo pseudonimo di VOLT, Le cinque anime del fascismo, in «Critica fascista», 15 febbraio 1925, pp. 8 ss. 25 G. VOLPE, Regionalismo e federalismo, in «La Sera», 12 luglio 1920 e ID., Unità e regionalismo, ivi, 10 marzo 1921, poi in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 221 ss.
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sforzi e delusioni e stolte propagande di cinque anni, con gente disposta a seguir qualunque pazza bandiera o a cercare nella bandiera pretesto a mal fare». Eppure, aggiungeva Volpe, una trasformazione istituzionale che sapesse contemperare le esigenze dell’«unità» e quelle del «regionalismo» si imponeva davvero, se si voleva seriamente intraprendere una battaglia contro la metastasi amministrativa (altro grande cavallo di battaglia di Alberto Caroncini), al fine di rendere «possibile, più agevole, più redditizio il funzionamento della macchina statale, sopraffatta di lavoro, impari ai suoi compiti enormemente cresciuti, messasi a far tutti i mestieri, invasa da una lussureggiante gramigna burocratica che succhia il bilancio dello Stato, offende gli interessi dei cittadini, annulla il senso di responsabilità degli impiegati e ogni loro virtù e iniziativa». Era un intervento che non preludeva, evidentemente, a nessuna riforma né autoritaria né tanto meno totalitaria dello Stato, ma che si poneva invece nel segno della riflessione di Minghetti e della polemica «fin de siècle» contro l’ingerenza dei partiti nella vita pubblica26. Il decentramento amministrativo avrebbe infatti «un po’ disarmato il parlamentarismo e rafforzato in cambio il Parlamento, con i suoi compiti specificatamente politici non assorbiti dalla amministrazione». Ma il «dimagrimento», se non davvero lo smantellamento, dell’«ingombro burocratico» avrebbe soprattutto dovuto far evolvere le strutture statali, in senso autenticamente liberale e persino liberista, «restituendo ai privati e alle loro libere associazioni di uomini e di capitali una quantità di compiti che Stato e Municipio, sotto la pressione delle correnti “democratiche” e social-riformiste, hanno assunto e seguitano allegramente ad assumere». Come Anzilotti e in ossequio al manifesto nazional-liberale del 1919, anche Volpe pensava, infine, che quel poco o quel tanto di «rimaneggiamento istituzionale», già realizzato in questo senso, aveva prodotto risultati positivi e agevolato «l’ingresso nella famiglia italiana delle due nuove creature, il Trentino e l’Istria con Trieste, ricche veramente di robusta vita e di sani organi regionali». Su questi argomenti Volpe sarebbe tornato più tardi, nel 1927, in un articolo dedicato a uno dei classici dell’idea federalista nel Risorgimento, Giuseppe Ferrari27, che faceva la sua comparsa quando il fascismo, tra 1925 e 1926, aveva invece già avviato e quasi portato a termine un’ulteriore, fortissima accentuazione
26 M. MINGHETTI, I partiti politici e le ingerenze loro nella giustizia e nell’amministrazione, Bologna, Zanichelli, 1881, che veniva esplicitamente citato. 27 G. VOLPE, Ritorno di Ferrari?, in «Corriere della Sera», 8 ottobre 1927, poi in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 235 ss. Si trattava del resoconto di P. SCHINETTI, Le più belle pagine di Giuseppe Ferrari, Milano, Treves, 1927.
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del carattere centralistico dello Stato italiano28. Pezzo che dispiacque a Croce, come meglio vedremo, ma che soprattutto procurò al suo autore, sul «Popolo d’Italia», una «cortese tiratina d’orecchi, come io volessi nell’Italia fascista, risuscitare il federalista, democratico, francofilo, nonché bislacco, Ferrari»29. In quest’ottica pregiudizialmente favorevole al contenimento dell’azione e delle prerogative dello Stato entro i suoi «giusti limiti», si muoveva anche il forte ritorno di interesse di Volpe per i problemi della formazione superiore e universitaria e dell’«Alta Cultura», in coincidenza con l’esperienza ministeriale di Croce nel dicastero della Pubblica Istruzione tra giugno 1920 e giugno 192130. Allora, Volpe s’impegnava, assieme a Gentile, Lombardo Radice, Ernesto Codignola, per la realizzazione di alcune importanti innovazioni normative delle istituzioni scolastiche, portata avanti dal filosofo, redigendo un nuovo programma di storia per l’esame di maturità, che riceveva il giudizio favorevole di uno dei membri del Collegio degli ispettori centrali delle Scuole medie31. I progetti di Croce si scontravano, tuttavia, con gravissime resistenze provenienti dall’interno e dall’esterno del mondo della scuola, sapientemente organizzate in una sorta di regia nella quale sembrava possibile di poter intravedere la longa manus di Nitti allora impegnato in una politica di ostilità, anche e spesso del tutto strumentale, contro il ministero Giolitti32. Questo era almeno il senso dell’articolo che Volpe inviava al «Popolo d’Italia», in forma di lettera aperta al direttore, e che il quotidiano pubblicava, con ampio rilievo, il 13 febbraio 1921, con il titolo I progetti di Croce e le manovre nittiane33, facendolo precedere da questo cappello redazionale. Il nostro amico prof. Gioacchino Volpe ci manda – a proposito delle manovre nittiane che si stanno svolgendo in questo momento a Roma, prendendo a pretesto i progetti scolastici di Croce – la seguente lettera che ci affrettia-
28 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 82 ss. 29 G. VOLPE, Nota del 1928, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., p. 243. 30 Sul punto, R. FORNACA, Benedetto Croce e la politica scolastica in Italia nel 1920-21,
Roma, Armando, 1968; G. TOGNON, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica tra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia, La Scuola, 1990. 31 Si veda rispettivamente Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile 3 ottobre 1920 (AFG) e Gaetano Cogo a Gioacchino Volpe, 16 febbraio 1921, FV. 32 Sull’ostilità di Nitti contro Croce, si veda Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, fine ottobre 1921, in Giovanni Gentile e il Senato. Carteggio, 1895-1944, a cura di E. Campochiaro, L. Pasquini, A. Millozzi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004. p. 372. Sul punto, diffusamente, G. TOGNON, Benedetto Croce alla Minerva, cit., pp. 470 ss. 33 G. VOLPE, I progetti di Croce e le manovre nittiane, in «Il Popolo d’Italia», 13 febbraio 1921, p. 1. L’articolo era datato al 12 febbraio.
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mo a pubblicare, perché ne condividiamo le idee essenziali. Noi non conosciamo i progetti e non li discutiamo. Per noi c’è una questione di massima da affrontare ed è questa: può e deve lo Stato assumersi il monopolio dell’istruzione primaria, secondaria, universitaria? Il regime di monopolio è utile alla gioventù che studia e, in generale al progresso delle idee? La scuola monopolio di Stato – come le poste, i telegrafi, i tabacchi e il lotto – è l’ultima definitiva parola in materia di progresso civile e scolastico? Lo Stato non potrebbe liberarsi di quest’altra bardatura, almeno per le scuole secondarie, salvo ad esercitare tutti i controlli possibili, in nome e negli interessi della collettività nazionale? Sono domande queste e altre se ne potrebbero aggiungere, assai gravi, alle quali è troppo stupido e ridicolo rispondere coi più vieti luoghi comuni di certo anti-clericalismo di maniera.
Nella prima pagina del «Popolo d’Italia», seguiva poi il testo di Volpe: Può essere che il corrispondente romano del “Popolo d’Italia” abbia oggi colto nel segno, quando ha indicato nell’on. Francesco Nitti il montatore della macchina parlamentare contro i progetti scolastici del ministro Croce. Certo, è difficile sottrarsi all’impressione di qualcosa di artificioso che è dietro questo movimento anticrociano. Si ha il senso di una parola d’ordine data da qualcuno e ripetuta da altri, consapevole e inconsapevole delle finalità estrinseche alla scuola che si vogliono raggiungere. La discussione svoltasi presso la Commissione parlamentare, ad esempio, è parsa a noi lettori di giornali estremamente leggera. Mai tanta faciloneria nel giudicare un complesso di idee scolastiche che pure non sono uscite dal cervello di un idiota, né da un solo cervello. Si sono visti illustri pedagogisti come l’on. Agostinoni far “cariche a fondo” contro quei disegni di legge; altri proporre il loro “completo naufragio”. Riferisco dai giornali. E se qualche commissario suggeriva di interrogare il ministro della P.I., prima di dar voti sfavorevoli, ecco la maggioranza gridar risoluta che “non aveva quesiti da sottoporre al ministro”. Come dire: non vale la pena neppure di discutere. Porcheria! Ma non è solo un giuoco parlamentare quello che ora si spiega contro Croce e i suoi progetti. Bisogna considerare quella atmosfera anticrociana che si è venuta addensando negli ultimi anni sotto il bel cielo di quell’Italia che pure, fino a non molto addietro, era quasi unanimemente crociana… In Croce molti italiani vedono ancora il “neutralista”, il “germanofilo”, l’hegeliano o seguace di quella filosofia a cui si deve la guerra e la barbarie teutonica, l’uomo della “politica realistica”, di quella “Realpolitik” che, dopo tutto, non è neppure una invenzione prussiana, ma piuttosto italiana. Questo Croce neutralista, germanofilo, hegeliano, realpolitico è sempre vivo e verde, nell’anno di grazia 1921, davanti agli occhi di chi si mette a giudicare anche il gusto artistico o l’erudizione archeologica, i criteri scolastici o, perché no?, l’eleganza personale del filosofo o studioso napoletano. Da un anno a questa parte, poi, Croce rivelava anche altre facce. Come ministro era, via! un po’ seccante con i suoi subordinati e collaboratori. Lavorava di lesina dentro il suo dicastero. Violava certe buone consuetudini di “lasciar fare e lasciar passare”. E il
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mormorio, attorno al filosofo-ministro, cresceva. Peggio ancora: “Benedetto Croce se la dice coi preti e col loro partito. Vuol distruggere la scuola di Stato. Vuole annullarne la laicità…” Gli ambienti romani e scolastici sono pieni di questi sussurri! Ora, io non voglio far qui l’elogio del ministro Croce né dei suoi progetti scolastici; e neppure contrastare alle fondate critiche di che questi sono suscettibili. Intendo solo richiamar l’attenzione di chi voglia mettersi da un punto di vista non interventista o germanofobo, non socialista o massone, ma scolastico, per giudicar progetti scolastici. Evitare i guazzabugli! In quanto nei disegni di legge in questione, vi son talune idee direttive che, se applicate, potrebbero rinnovare veramente e profondamente la nostra scuola. Non chiediamo tutti che essa sia più seria, che prepari meglio alla vita? A questo precisamente si mira nei progetti del ministro. Si vuol mutar la scuola da fabbrica di diplomi e diplomati in dispensiera di coltura. Si vuol togliere alla licenza liceale la virtù di abilitare ad impieghi, per sfollare la scuola classica dei troppi che vi son fuor di posto e poter esigere dagli altri tutto quel che l’indole di essa scuola impone. Si vuole che l’Università sia non un diritto di tutti, ma solo degli ottimi, di quanti in un esame generale di ammissione – esame di Stato – dimostrino di aver le necessarie attitudini. Si vuole che il professore medio non sia esso solo giudice dell’alunno che esce dalla scuola media per andare all’Università, ma che a formar il verdetto abbiamo parte anche quelli che debbono ricevere il giovane, cioè gli universitari. Si vuole garantire una maggiore eguaglianza di trattamento, negli esami, a quelli che provengono da scuole di Stato ed a quelli che han fatto gli studi in istituti privati. Si vogliono sopprimere ginnasi e licei ove questi non abbiano un sufficiente numero di frequentatori. Si vuol questo ed altro. Ci sarà del discutibile, ma discutere si deve, non “divagare”. E discutere mettendo da parte pregiudizi o apriorismi. Certo, oggi la scuola come è concepita in quei disegni di legge sarà cosa più ardua che ora non sia. Ma chi crede che sia venuto il momento, per grandi e piccoli, di darsi al bel tempo? Certo, vi sarà, per la scuola di Stato, i suoi discepoli, i suoi maestri, da temer la concorrenza delle scuole private, degli allievi privati, dei professori privati. Ma chi crede che alla scuola sia utile l’attuale regime di quasi monopolio, la mancanza di seri stimoli all’opera degli insegnanti? È ora che i nostri istituti, di noi “laici”, di noi “liberali” si cimentino in gara con altri. Sarà pericoloso per essi? Brutto segno. Ma forse dal pericolo potrebbe nascere la loro salvezza; dal pericolo potrebbe nascere nei “civili”, nei “liberali” uno stimolo di revisione continua dei propri valori ideali, un attaccamento più cordiale, un interessamento più vivo alle proprie scuole, ai propri istituti di coltura.
In questo scritto, Volpe difendeva a spada tratta non soltanto l’uomo Croce, da alcuni speciosi argomenti ad personam, ma soprattutto i punti più qualificanti del suo tentativo di riordino dell’assetto pedagogico: l’introduzione dell’esame di Stato, una tendenziale parificazione tra istituti pubblici e privati, e quindi la parziale dismissione del monopolio statale in questo settore, l’introduzione dell’insegnamento religioso nelle elementari, la costruzione di un sistema di educazione superiore e universitario in quanto scuola di élite e vivaio delle classi dirigenti
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della nazione, l’eliminazione della piaga delle «classi aggiunte», la lotta all’endemico malcostume che affliggeva questo ramo dell’amministrazione, recentemente mascheratosi sotto il fraseggio sindacale della difesa dei «diritti di categoria» degli insegnanti. Punti qualificanti, questi, che trovavano largo spazio in alcune prese di posizione, di segno autenticamente liberale, dello stesso Volpe tra 1921 appunto e 1923, a partire da un articolo dedicato all’attività del Gruppo d’azione per le Scuole del Popolo di Milano34, di cui lo storico aveva assunto la presidenza, dalla fondazione, avvenuta alla fine del 191935. Nel contributo, si lamentava la penosa situazione dell’educazione elementare, che soprattutto alla periferia del Paese, nelle aree depresse del Meridione, del Veneto, delle regioni alpine e appenniniche, era affidata alle «scuole rurali e di villaggi», la cui disastrata situazione materiale (dal punto di vista edilizio all’insopportabile penuria di materiale didattico) si rifletteva sulla classe insegnante, sottopagata nei confronti del personale operante nelle città e abbandonata a un «isolamento morale che avvilisce, specie i giovani, taluni giovani, non ancora sufficientemente immaterialiti». Nel tentativo di alleviare questa disagiatissima condizione, che si rifletteva drammaticamente sulla preparazione tecnica dei lavoratori e sullo stesso processo di nazionalizzazione delle masse, si era sviluppata, già negli ultimi decenni del secolo trascorso, una rete di associazioni di carattere privato, sulla quale Volpe si sarebbe soffermato poi, ampiamente, in un capitolo di Italia Moderna36. Tra queste istituzioni, nate soprattutto per iniziativa dell’operosa borghesia ambrosiana, e poi diffusesi a Torino, Firenze, Bologna e in altre città, si distingueva, per attivismo e concretezza di iniziative, l’Unione Italiana per l’Educazione Popolare, nata nel 1906 da una costola della Società Umanitaria di Milano, sviluppatasi poi con ben 2500 biblioteche aderenti in ogni parte d’Italia, assumendo le dimensioni di una «grande azienda» destinata a vendere a prezzo politico materiale librario e scolastico. Proprio per l’ingente volume d’affari sviluppato, questa istituzione era esposta al rischio di veder snaturata la sua originaria fisionomia di ente morale, disinteressato e filantropico, come Volpe avrebbe comunicato a Gentile, ormai divenuto Ministro della Pubblica Istruzione, con la lettera del 18 marzo 1923. Avrai sentito parlare dell’Ufficio acquisti, che dipende dall’Unione italiana
34 G. VOLPE, Gruppi d’azione per le Scuole del popolo, in «Risorgimento», 31 marzo
1921, pp. 9-11. 35 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 4 dicembre 1922, AFG. 36 ID., Italia Moderna, cit., II, pp. 291 ss.
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per l’educazione popolare, e compra in grande materiale scolastico e lo rivende ai patronati, ai municipi, alle scuole, a condizioni alquanto migliori che non facciano i commercianti. È un azienda che conchiude affari per milioni ed è organizzata con criteri mercantili: ad esempio, da alti stipendi e, forse, percentuali, a due o tre impiegati: dei quali, qualcuno lo merita perché il suo lavoro rende, qualche altro no, perché è contemporaneamente amministratore della Giustizia. Tu sai che l’Ufficio Acquisti ha chiesto di conservare la franchigia. La cosa sta a voi e dipenderà dai criteri che adotterete per la franchigia. Ma a noi del Gruppo preme sapere se, come tu mi accennavi, la concessione la farete precedere da una sommaria inchiesta su l’andamento dell’istituzione. Preme a noi saper questo, perché ora l’Ufficio Acquisti (per il passato non troppo benevolo con il Gruppo d’azione) ci ha chiesto di unirsi al Gruppo, il quale dovrebbe essere rappresentato al Consiglio dell’Ufficio e ricevere una parte degli utili. Evidentemente, si vogliono appoggiare ad un ente disinteressato come il nostro, per sanare qualche manchevolezza loro e rendere più facile la conservazione della franchigia. Noi non diremo no a simile offerta, ma solo se saremo sicuri che l’Ufficio acquisti non sia attaccabile da nessuna parte e non offra canonicati a nessuno. È quel che la vostra inchiesta, o meglio, l’indagine potrebbe assodare. Si dice poi che il governo sarebbe rappresentato presso l’Ufficio Acquisti da due o tre membri nel Consiglio, fra i quali sarebbe Franzoni. Dio mi guardi dal mettere troppo il naso nei vostri atti e erigermi a vostro consigliere… Ma per il desiderio che io ho vivissimo che quel che voi fate trovi il massimo consenso ed offra il massimo bene, vorrei suggerirti di non spingere troppo in alto quell’uomo, il quale gode di pochissima reputazione presso quelli che lo conoscono da vicino, cominciando dai suoi insegnanti. Cose tutt’altro che corrette e pulite circolano largamente sul conto suo37.
Come si evince proprio da questa corrispondenza, apparentemente più modesta ma non meno utile era la funzione del Gruppo d’azione, presieduto da Volpe, che, accanto a limitati compiti di sussidio materiale, si prefiggeva di attuare un vero e proprio «collegamento morale» con gli insegnanti attivi nelle «scuole più povere e abbandonate», grazie alla creazione di filiali dell’associazione operanti fino alle Puglie e alla Basilicata, impegnate a «dare a quei maestri la sensazione che qualcuno li guardi e tenga conto dei loro sforzi, gli apra qualche spiraglio sul mondo, li faccia partecipare alla vita dell’istituzione, affiati i migliori perché l’opera di ciascuno riceva stimolo da quella degli altri». Ma il sodalizio milanese, al di là dei concreti risultati ottenuti, costituiva soprattutto un esempio politico, che testimoniava la possibilità di affiancare e in qualche caso di sostituire l’iniziativa privata, proveniente da una minoranza consapevole e virtuosa, a quella pubblica, anche in questo settore delicatissimo e vitale della vita nazionale, dove la presenza 37 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 18 marzo 1923, AFG.
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esclusiva di uno Stato tutore e imprenditore doveva corrispondere necessariamente a inefficienza e degenerare in involuzione illiberale. Vi è qualcosa di religioso nell’attività del Gruppo d’azione per le Scuole del popolo, così come essa è ideata e svolta: religioso nel senso più largo e meno confessionale della parola. Ma qualcuno sorriderà di fronte a questi sforzi e dirà: “Deve intervenire lo Stato!”. “Ci vogliono milioni e diecine di milioni!”. D’accordo: lo Stato ed i milioni. Ma Stato e milioni non bastano se non fiancheggia il paese: non l’astratto “paese” in blocco, creduto e adulato migliore del suo governo, ma determinate iniziative. Non basta un’esperienza decennale a mostrare che Stato e milioni, anche quando ci sono, malamente possono risolvere problemi di tale e consimile natura? Lo Stato fa o tende a fare opera uniforme, e ci vuole invece una nazione snodata, agile, varia e capace di rapidamente rinnovarsi. Lo Stato, per la stessa sua natura o, più, per l’isolamento in cui lo lascia un popolo abituato a considerarlo come qualcosa di estraneo e di trascendente, a bestemmiarlo o, che è lo stesso, a invocar tutto da esso; lo Stato, dico, tende a burocratizzare e meccanizzare ogni sua attività: poco male quando si tratti di sali e tabacchi, ma assai male quando è in gioco la scuola (e lo stesso potremmo dire l’esercito), cioè una spiritualissima attività la quale esige contatti di uomo ad uomo. Lo Stato faccia quel che deve. Rimproveriamolo se non fa quel che deve. Ma non chiediamogli ciò che non può fare, specialmente in Italia, per le particolari condizioni storiche e di ambiente in cui esso si è costituito e funziona. Bisogna che accanto ad esso vivano altri organismi, volontari, di minor mole, nei quali il lavoro proceda più sollecito, la eliminazione degli inetti sia più rapida e facile, il rendimento complessivo più grande. Il momento non è favorevole, se si guarda ai mezzi che scarseggiano; ma favorevole esso è sotto altri rapporti: poiché cresce ogni giorno di più, dopo l’elefantiasi statale degli ultimi anni, la fiducia che molti problemi nostri potranno essere risolti da enti e istituzioni non statali ma che fiancheggino, con maggiore o minore autonomia, lo Stato, investiti, idealmente o giuridicamente, di quelle funzioni che noi possiamo magari considerare funzioni statali ma che non è affatto necessario siano assolte da organi burocratici dello Stato38.
Il finale «produttivistico» dell’articolo, di segno ancora una volta radicalmente neo-liberale e neo-liberista, anche se non certo ispirato a un «liberalismo radicale e anarcoide», sarebbe stato ribadito in un intervento, immediatamente successivo, composto in vista della vigilia delle amministrative del 192139, dove si lamentava la pressoché totale assenza della questione scolastica nel dibattito che andava precedendo la competizione elettorale e che pure era quasi contemporaneo all’infuocata polemica «pro o contra i recenti progetti crociani che per qualche 38 ID., Gruppi d’azione per le Scuole del popolo, cit., pp. 10-11. 39 ID., Un assente: la scuola, in «Risorgimento», 15 aprile 1921, poi in ID., Guerra Do-
poguerra Fascismo, cit., pp. 247 ss.
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giorno, un mese fa, monopolizzarono quasi tutto l’interesse del paese e accesero una specie di guerra civile». Un silenzio tanto più quanto colpevole, annotava Volpe, se si rifletteva a come e a quanto gli effetti della «guerra sovvertitrice» si fossero abbattuti sul sistema dell’educazione nazionale, sconvolgendone il già precario equilibrio e aprendo la strada a una licenza persino superiore a quella della stagione giolittiana, in virtù della quale si moltiplicavano «iscrizioni senza frequenza, corsi accelerati, lauree di guerra, diplomi regalati a piene mani, esami in cui è più difficile essere bocciati che essere promossi». Licenza e malcostume anche ieri tollerati ma che oggi, nel clima della «Caporetto civile» che l’Italia stava vivendo, venivano addirittura imposti forzosamente «con intimidazioni e scioperi, con movimenti di “classe” in nome di interessi o diritti di “classe”». Mali non minori ma accessori, questi, che si aggiungevano ai difetti tradizionali e strutturali del sistema educativo italiano: «burocrazia scolastica, ingombrante e invadente, centralismo che ammazza, legislazione farraginosa, che spesso annulla la virtù di qualche buona legge, fare e disfare di ogni anno e di ogni giorno». Il rimedio a tutto questo, suggeriva Volpe, non era comunque in una maggiore presenza e attività dello Stato, in un suo «far più». Invece, tutt’al contrario, consisteva in un suo «far meno», tagliando in primo luogo i rami secchi delle strutture scolastiche e impedendone la proliferazione, anche a rischio di «limitare il numero degli alunni da ammettere nelle scuole pubbliche», e poi innalzando barriere che contenessero l’accesso indisciplinato alla formazione superiore e universitaria, fatto salvo il dovere di «aiutare in cambio, con larghezza, gli studenti capaci ma poveri», col duplice risultato di agevolare «quel processo di selezione dei migliori che oggi si compie assai imperfettamente» e di svalutare «in ordine agli studi, il privilegio che attualmente la ricchezza conferisce alla ricchezza». Privilegio di censo, che aveva non infrequentemente trasformato ginnasi e atenei in una «botteguccia da rigattiere, dove con poche palanche si compra quel che si vuole». Realizzati questi presupposti basilari, si sarebbe poi potuti pervenire a una vasta liberalizzazione dell’istruzione pubblica all’interno e all’esterno delle sue strutture. «Libertà entro la scuola statale», dunque, incoraggiando una «maggiore autonomia di poteri locali e minor invadenza di ispettori», nelle classi primarie e, in quelle medie e superiori, evitando che la libertà dell’insegnante restasse schiacciata dalla tirannia dell’ordinamento didattico, favorendo, nelle Università, infine, un progressivo depotenziamento delle Facoltà, per «render possibile di scegliere e di raggruppare i corsi secondo le attitudini dei giovani e l’indirizzo dei loro studi, con vantaggio anche della loro educazione morale e dello spirito scientifico delle istituzioni». Ma anche e soprattutto: «li-
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bertà fuori della scuola di Stato», dovunque vi fossero energie nuove che potessero essere utilizzate concretamente nel mondo laico come in quello cattolico. Anche la scuola, per Volpe, doveva entrare in «regime di libera concorrenza», più semplicemente in regime di libertà, senza che questo processo potesse essere bloccato dalle paure, relative al «pericolo clericale», sempre più stancamente e pretestuosamente agitate dalla vecchia «mentalità massonica», a cui Croce aveva dedicato pagine sferzanti e sprezzanti40. Tutt’al contrario, lo Stato laico, divenuto nazione e ormai al sicuro, dopo più di cinquant’anni, dai tentativi di destabilizzazione dei «neri», doveva essere, in prima persona, l’autore di una bene intesa deregolamentazione del sistema scolastico, nella quale Volpe scorgeva anche un consistente plus-valore etico e politico, una volta che si fosse almeno incrinato il monopolio pubblico in questo settore come proprio la tradizione liberale autorizzava e anzi obbligava a fare. Oggi, poiché quella libertà è chiesta specialmente – ma non solamente – da popolari e clericali, così gli altri si mettono su le difese e si irrigidiscono nell’opposizione. Ma questa specie di monopolio clericale del concetto di libertà della scuola deriva dall’averlo i liberali abbandonato essi nell’ultimo cinquantennio. E può essere che bene facessero allora ad abbandonarlo, come è bene che ora lo ritrovino distruggendo quel monopolio. Bisognava allora difendersi da un pericolo non immaginario, come più o meno è adesso, ma reale. Bisognava crear la scuola di Stato, di fronte a ricchissimi e influentissimi ed ostilissimi ordini religiosi che tenevano il campo. Un regime di libera concorrenza avrebbe potuto forse – dico “forse” – rendere difficili e stentati i progressi non solo della Scuola di Stato, ma dello Stato nazionale e della coscienza nazionale stessi. Ora non più tutto questo, salvo che per i professionisti dell’anti-clericalismo. Vi sono situazioni superate che nessuna volontà di uomo potrebbe restaurare. Vi è un passato che è veramente passato, cioè morto, e che nessun Lazare, veni foras! può risuscitare dal sepolcro. È più probabile qualche altra cosa: che attraverso la scuola si attui un risveglio di vita religiosa che non solo non darebbe nessuna noia ai laici, ma si risolverebbe in una ulteriore svalutazione del vecchio clericalismo politico, settario, quello che in altri tempi accendeva roghi, metteva libri all’Indice, inneggiava al papa-re; che i clericali, volendo gareggiare con la scuola di Stato, finiscano di smettere certi atteggiamenti vecchio stile, si avvicinino ancor di più allo Stato e alla nazione ed alla scienza, cessino insomma di essere “clericali”, per rimanere dei credenti, in una loro particolare fede41.
Negli interventi di Volpe si rispecchiavano compiutamente, quindi, 40 B. CROCE, Contro la cultura massonica, in ID., Cultura e vita morale, Bari, Laterza, 1915, pp. 145 ss. Il saggio era comparso, per la prima volta, nel 1911. 41 G. VOLPE, Un assente: la scuola, cit., p. 255.
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le linee direttrici della «piccola» riforma di Croce, che poi avrebbero dato vita alla «grande» riforma di Gentile. Lo palesava ancora un nuovo contributo in materia: questa volta dedicato ai problemi dell’«alta cultura» o, più semplicemente, a quelli della politica universitaria, che riprendeva il dibattito aperto da Volpe nel 1907 e poi proseguito quasi fino alla vigilia del conflitto. Ai primi di dicembre del 1921, in occasione di due eventi culturali significativi per la città di Milano (l’apertura dell’anno accademico dell’Accademia Scientifico-Letteraria e l’inaugurazione dell’Università cattolica del Sacro Cuore), lo storico consegnava al «Popolo d’Italia» un articolo dedicato a tracciare le linee di una possibile riforma delle Facoltà di Lettere e Filosofia che, dopo un passato glorioso, sembravano aver perso una non piccola parte del loro antico splendore, almeno se si guardava «alla loro vita intima e al loro rendimento, e non al numero degli iscritti», cresciuto anzi oltre misura, soprattutto con l’afflusso di un pubblico femminile fortemente demotivato. Molte le cause di questo processo di decadenza, comuni per altro all’intero ordinamento universitario, che Volpe elencava con puntiglio, spietatamente, al fine di mostrare come quelle istituzioni fossero ormai incapaci di assicurare alla nazione una classe dirigente colta, informata dei problemi dell’oggi, capace di mettere in moto un circolo virtuoso tra pensiero e azione, veramente preparata ad affrontare, nel mondo degli studi, come in quello della politica estera e interna, dell’amministrazione, dell’informazione, il suo ruolo di classe dirigente. Se l’Università italiana è piuttosto scaduta che no; se ha poca spinta e se il sapere vi ristagna, risolvendosi in un certo numero di “materie” da travasare in un certo numero di teste; se i metodi di insegnamento vi si sono meccanizzati e lo spirito di routine vi domina; se la preoccupazione professionale, anzi di un diploma o laurea, comunque conseguiti, vince ogni altra preoccupazione; se le manca ogni capacità di attirare dal di fuori della penisola o, comunque, soddisfare gente che si proponga innanzi tutto lo studio e voglia studiare e prepararsi a un determinato Governo o Ministero, in vista di determinati criteri o bisogni locali; se di tutto questo soffre l’Università italiana, particolarmente ne soffrono le Facoltà di filosofia e lettere, dove certi stimoli del mondo esterno arrivano più lentamente, e la tradizione più che la vita dà la materia di studio e riflessione, e si fa scarsa la sensibilità ad avvertire i problemi nuovi o il rinnovarsi dei vecchi che chiedono di essere diversamente impostati e inquadrati. Esse non solo sono messe nell’ombra, oggi più di prima, dall’innegabile progresso della cultura libera (e di ciò non vi sarebbe da dolersi!), non solo soffrono in special misura del discredito della scuola media italiana e sono chiamate in causa, a torto o ragione, per tante mancanze della nostra cultura nazionale, vale a dire della nostra vita nazionale; ma hanno subito un particolare processo di invecchiamento e impoverimento spirituale che le ha rese più estranee che in altri tempi non fossero al mondo dei “laici”. Non che vi manchino insegnanti di alto valore. Vi abbondano. E la media vale oggi più che non valesse tren-
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ta o quaranta anni addietro. Tuttavia, la generazione che accompagnò e seguì subito dopo il Risorgimento diede all’Università italiana, insieme con molta zavorra, anche dei “maestri” che oggi non hanno trovato successori: uomini di grande fervore e calore, affiatati con la politica e l’azione, capaci di far circolare uno spirito entro la loro “materia” e procurarle certa simpatica risonanza fuori dell’aula42.
Questa analisi impietosa, continuava Volpe, riguardava in particolare l’Accademia Scientifico-Letteraria, attualmente preda di un deprimente isolamento culturale, che poteva tuttavia emanciparsi da quella situazione di stallo, che rischiava di tagliarla fuori del gran moto della vita attiva, cercando di creare rapporti di collaborazione con «Facoltà affini – intendo Legge – che la fiancheggiano, a cui chiedere e a cui fornire qualche aiuto di insegnamenti integratori e stimoli e suggestioni di varia natura». In questo modo, la Facoltà milanese avrebbe potuto rinnovare il suo attrezzamento didattico, inserendo nei suoi curricula «insegnamenti di economia politica e di demografia, di storia del diritto romano e del diritto italiano». Già solo questo adeguamento, si sosteneva, la metterebbe in grado «di promuovere il lavoro scientifico nel campo delle discipline storiche ed eserciterebbe su essa una generica ma fondamentale virtù unificatrice, darebbe qualche maggior concretezza alla preparazione universitaria, aiuterebbe i giovani a ritrovare gli elementi vivi in un mondo che, visto di per sé solo, con l’esclusivo sussidio dei documenti del remoto passato, si presenta di necessità come morto e mal vivo». Realizzando questi obiettivi, Milano non rischiava certamente di divenire un semplice «doppione» dell’ateneo di Pavia, che proprio in quello stesso anno, aveva istituito alcuni corsi superiori di studi politici. La storia, la tradizione della città ambrosiana, ma soprattutto le sue caratteristiche di metropoli moderna, politicamente e socialmente attiva, posta in uno dei più importanti crocevia della vita europea, la rendevano particolarmente adatta a ospitare questo importante esperimento didattico e scientifico, a conferirle carattere e peculiarità proprie, indispensabili a far fronte agli impegni e alle nuove sfide che l’Italia si apprestava ad affrontare nello scenario internazionale. Il tentativo di attivare questo complesso di insegnamenti e di mezzi di insegnamento storico-economico-giuridici, a vantaggio di quanti non si proponessero solo di conseguire un diploma professorale o volessero a questo dare un più sostanzioso contenuto, poche città potrebbero compierlo così bene come Milano, la quale è ricca di materiale archivistico e di documenti di vita moder-
42 G. VOLPE, Per l’Alta Cultura milanese e nazionale, in «Il Popolo d’Italia», 8 dicembre 1921, p. 3.
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na, fornisce suggestioni di ambiente socialmente ricco e vario, ha categorie di persone che possono proporsi scopi non interessati di storia, mantiene contatti con la vita europea, vanta larga conoscenza di lingua moderna, costituisce il naturale sbocco dei giovani italiani del Canton Ticino e dei tedeschi dell’Alto Adige, avrebbe titoli per diventare meta di studio di quei nostri confratelli d’America o d’altra parte del mondo che volessero tener saldi i legami con la madre patria. Innegabili, poi, certe condizioni milanesi, per cui l’attività di un tale istituto si esplicasse in senso estensivo ed altamente divulgativo, oltre che intensivo; funzionasse cioè da primo e massimo intermediario fra la gente di studio e l’élite intellettuale della città, per quanto tocca la cultura superiore di carattere umanistico o storico, letterario o artistico. Del resto si tratterebbe di riprendere e perfezionare idee e progetti già affacciatisi e delibati dall’opinione pubblica anni addietro a Milano, quando Bassano Gabba, assessore e sindaco, propose una Scuola superiore di scienze sociali e l’Associazione milanese per lo sviluppo dell’Alta cultura, discusse di un istituendo Laboratorio di storia e di diritto. Ma la Facoltà attuale potrebbe benissimo essere essa il nocciolo della più vasta ed areata costruzione. Non aboliti sarebbero i suoi compiti professionali, ma perfezionati ed allargati. Ed altri se ne aggiungerebbero: compiti di scienza ed anche, perché no? di politica, nel senso alto della parola. Tutti sanno come, ad esempio, l’angustia dei nostri studi storici, che sono ancora locali e nazionali, mentre un tempo non conobbero confini, si rifletta dannosamente su la nostra politica estera, su la nostra opinione pubblica in riguardo ai problemi internazionali, su la nostra capacità di influire sul di fuori43.
Si trattava di un progetto che conteneva in nuce, non il semplice ammodernamento di un vecchio istituto, ma piuttosto la creazione ex novo di un nuovo polo d’insegnamento e di ricerca, che Volpe prospettava a Gentile nella corrispondenza del 18 marzo 1923. Dovrai occuparti della nostra Accademia e della Facoltà pavese. I dati di fatto li conosci. La Facoltà langue anche numericamente. Noi abbiamo molti frequentatori, ma languiamo sotto altri rapporti. Una delle due Facoltà dovrebbe scomparire o, altrimenti, trasformarsi. Capacità di trasformarsi e rendere di più è, nell’Accademia, maggiore che nella Facoltà pavese. E ciò perché Milano offre assai più possibilità che non Pavia. Come trasformare l’Accademia? Farne un istituto di studi storico-politici o storico-politici-sociali utile a chi, dopo studiato in altre Facoltà, volesse approfondire questi studi; a chi volesse prepararsi per tanti uffici privati o pubblici per i quali si richiede la laurea in Legge ma che sarebbero meglio assolti da chi avesse fatto una preparazione storico-politica anziché giuridica. Ad esempio, perché solo gli studi di legge debbono ora aprir l’adito alla carriera diplomatica. Eppure per far il diplomatico sono sì necessarie certe cognizioni di diritto, ma esse hanno per lui mero carattere strumentale. Assai più gli sarà necessaria la conoscenza e l’intelligenza della vita storica.
43 Ibidem.
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A tale scopo l’Accademia milanese dovrebbe avere un suo plesso d’insegnamenti che ora sono solo delle Facoltà di legge: economia politica, diritto costituzionale e internazionale, più, due o tre cattedre di storia; più, lingue e letterature straniere e, se paresse opportuno, l’approfondimento della coltura classica, anche latino e greco. Così anche filologia, ma non per fare filologi. Milano sarebbe ottimo ambiente per una scuola siffatta che potrebbe essere anche scuola per giornalisti, per giovani agiati che volessero far carriera politica44.
A distanza ravvicinata, Volpe tornava alla carica su questo, punto con una lettera aperta al direttore del «Popolo d’Italia», che il quotidiano pubblicava in bella evidenza il 10 ottobre45. L’articolo questa volta mordeva direttamente sulla materia politica e insisteva sulla necessità di trasformare l’Accademia milanese in un’Alta Scuola che fornisse i quadri intellettuali necessari ad assicurare la spinta propulsiva dell’Italia nel mondo, diversificando il più possibile le sue competenze e finalità, al fine di distinguersi con nettezza dalle vecchie Facoltà letterarie, pedagogiche, giuridiche e di non entrare in regime di diretta competizione con altre istituzioni pubbliche e private, che tentavano di pareggiare la formazione della borghesia dirigente del nostro paese a quella delle altre potenze europee. Milano è città mediocremente adatta per una scuola superiore che voglia dar solo professori. Invece, la capitale lombarda sarebbe straordinariamente adatta ad un Istituto superiore che preparasse, oltre che per i vari curricoli scientifici, anche per la vita pubblica altamente intesa, per il giornalismo, per la diplomazia. Ora vi sono generalmente, che provvedano a ciò, le Facoltà di Legge. In misura minore, le scuole superiori di commercio. Non è il meglio che si possa desiderare. In quelle, si ha una coltura prevalentemente tecnica; in queste una tendenza alle immediate e pratiche applicazioni e utilizzazioni della coltura stessa. Un diplomatico deve certo conoscere il diritto internazionale, ma deve anche conoscere la storia dei trattati che è poi, per chi non voglia isolarla e farla cosa morta, “storia” nel pieno senso della parola; deve, più genericamente, avere cognizione e senso della vita storica, possedere la capacità di rapidamente orientarsi nei vari ambienti spirituali nei quali sia chiamato ad operare. Una preparazione storico-geografica, storico-politica, storico-letteraria (particolarmente di lingue e letterature moderne), gli avrà giovato non meno e, sotto certi rapporti, più dell’altra a base prevalentemente giuridica. Ecco che cosa dovrebbe diventare l’Accademia scientifico-letteraria di Milano, sviluppandosi e riformandosi, per divenire una Scuola superiore di scienze storico-politico-sociali e dunque la sede più adatta per la preparazione degli uomini spiritualmente se non tecnicamente dirigenti, attrezzata per certe professioni ed attrezzata per gli studi, volta a promuovere la conoscenza dei problemi politico44 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano 18 marzo 1923, cit. 45 ID., Problemi di Alta Coltura, in «Il Popolo d’Italia», 10 ottobre 1923, p. 2.
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sociali dell’oggi, e quindi anche di ieri o viceversa. Noi siamo stati sorpresi dalla guerra con una ignoranza grande delle cose del mondo. Mancava una letteratura politica. Mancava possibilità o volontà di viaggiare a scopo di studio, in vista di un interesse della Nazione. Capisco che l’incitamento a ciò viene – a parte le individuali eccezioni – non da un astratto interesse, ma da un bisogno della vita nazionale e si fa sentire via via che la nazione si sviluppa, che si affaccia fuori dei confini, che cresce la sua sensibilità internazionale, che avverte se stessa anche nei lontani paesi i suoi problemi. E tutto questo, finora, non si verificava in Italia se non in misura minima. Ma è anche vero che le deficienze di coltura ritardavano l’avvento di questa più larga e sensibile vita nazionale. Ora, in ogni modo, quelle condizioni esteriori si stanno formando. Ci sono più di ieri. In un domani non lontano, ci saranno più di oggi. Bisogna accelerare questo domani e nel tempo stesso prepararsi ad esso46.
In questo stesso periodo, Volpe dialogava con Arrigo Solmi, rettore dell’Ateneo pavese, anch’esso fortemente interessato a questo progetto, seppure più nella forma della costituzione di un grande polo di alta cultura lombardo capace di attivare una sinergia tra i due centri universitari47. Ma al di là della specifica forma prescelta per questa operazione, veniva gettato, in questo periodo, un seme fecondo di nuovi sviluppi. Lo schema di riforma dell’Accademia Scientifico-Letteraria, delineato da Volpe, sarebbe divenuto infatti quasi la matrice genetica della Scuola di Scienze politiche, creata a Roma nel marzo 1924, su iniziativa di Gentile e sulla base di ventaglio di proposte che, in un lungo arco temporale, aveva usufruito del contributo di Francesco De Sanctis, Angelo Messedaglia, Pasquale Villari, Gaetano Mosca48. Sorprendente-
46 Ibidem. 47 Arrigo Solmi tornava su questo progetto nella lettera a Volpe del 29 giugno 1924
(CV). Nella corrispondenza, redatta nel momento in cui appariva possibile la nomina di Volpe a responsabile del dicastero della Pubblica Istruzione, al posto di Gentile, Solmi, affermando di poter contare sull’«onestà» e il «patriottismo» del futuro inquilino della Minerva, si dimostrava persuaso di poter «proseguire con te, Ministro, le conversazioni sul problema Pavia-Milano, che ho avviate col Ministro Gentile. Sono convinto che il problema merita la tua attenzione anche sui dati sicuri che ti potrò offrire sulla realtà concreta delle cose, da quel punto di vista nazionale che ti accennavo l’altro giorno; e ho pure la convinzione che esso possa essere risolto con perfetta soddisfazione delle due città, quando da una parte e dall’altra si porti una equa comprensione di quel punto di vista nazionale». Sul punto, E. ROTA, Arrigo Solmi nella sua opera di storico e di politico, Pavia, Treves, 1934. Estratto da «Annali di Scienze Politiche dell’Università di Pavia», VII, 1934, fasc. 1, p. 60; E. DECLEVA, La nascita dell’Università degli Studi, in Storia di Milano. XVIII. Il Novecento, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1966, tomo II, parte III, pp. 727 ss. 48 M. D’ADDIO, Gaetano Mosca e l’istituzione della Facoltà romana di Scienze politiche, 1924-1926, in «Il Politico», 1993, 3, pp. 329 ss.; ID., Le origini della Facoltà romana di Scienze politiche, in Passato e presente delle Facoltà di Scienze politiche, a cura di F. Lanchester, Milano, Giuffré, 2003, pp. 25 ss.
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mente, tuttavia, l’inserimento di Volpe in quest’istituzione non sarebbe stato immediato e anzi si sarebbe trascinato con qualche lentezza, come si apprende dalla lettera inviata ad Alessandro Casati, da pochissimo subentrato a Gentile come ministro della Pubblica Istruzione, il 16 agosto. Poiché da circa un mese so poco o nulla delle cose del mondo, ti sarei grato se potessi informarmi su le sorti della futura Scuola di Scienze politiche e relativa cattedra di Storia della politica moderna. Mi piacerebbe poi sapere se Casati ministro è della stessa opinione dell’amico Casati che un paio di mesi fa mi consigliava di chiedere un incarico temporaneo per quella cattedra, giusto per vedere come essa si sarebbe sistemata ed avviata. Urge ormai che io decida sul mio prossimo avvenire; o, meglio, che io abbia in mano tutti gli elementi necessari e sufficienti, perché io faccia la mia scelta49.
Era una scelta non facile, anche se soprattutto per motivi di carattere privato, comportando il nuovo incarico un trasferimento a Roma dell’intero e numeroso gruppo familiare, che era ostacolato dalla difficoltà di reperire un alloggio adeguato, considerate le poco ampie, e anzi molto ristrette, possibilità finanziarie sui cui era possibile contare. Argomento, questo, che tornava con insistenza nella corrispondenza con la consorte, durante l’autunno, dove si alludeva anche al carattere meramente interinale del suo impegno politico di deputato. Che cosa debbo rispondere alla tua lettera? Ormai sono 6, 12 mesi che pensiamo, riflettiamo ecc. E in ultimo, sembrava fossimo d’accordo nell’idea che il meglio fosse rimanere a Milano. Adesso tu mi dici ancora: pensaci, riflettici, parlane ecc. Certo, fino a che non saremo di fronte ad un fatto compiuto, cioè noi a Roma o altri già venuti ad occupare questa cattedra, avremo sempre la tentazione di pensarci, rifletterci, chiederci che cosa più conviene. Perciò io affretto col desiderio il momento in cui il fatto compiuto sia successo irrevocabilmente. Ti confesso che se io avessi trovato o trovassi casa, mi deciderei per Roma; nonostante le sollecitazioni che altri potesse farmi a Milano. Una giornata di bel tempo a Roma, come è oggi, ti fa subito apparire smorta e scolorita ogni altra residenza. Ma questa casa non scappa fuori. Sto tuttavia facendo gli ultimi assaggi. Ho scritto anche per sapere se il quartiere di Mortara è sempre disponibile. Pallini consiglia di prenderlo, salvo poi provvedere a Roma con comodo e trovar di meglio. Le quarte pagine dei giornali portano grandi avvisi di case da vendere, anche a prezzi irrisori. Ma bisognerebbe per due o tre giorni mettersi a battere la campagna, far capo alle agenzie. Ed io non ho tempo. Da Gentile o Casati non viene naturalmente luce. Anche Gentile dice: “Pensaci”. Ma pensare non è la casa. Il ministro oggi mi ha ripetuto: “La nuova Scuola sarebbe bene vararla con insegnanti già quotati. Se poi ti preoccupi che possa venir
49 Gioacchino Volpe ad Alessandro Casati, Gressoney S. Jean, 16 agosto 1924, FAC.
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soppressa, credo che sia preoccupazione fuori posto. Quando anche dovesse avvenire, si troverebbe sempre per te un posto nella Facoltà di Lettere o in altra Facoltà di Roma”. Ma anche io non ho mai avuto paura per questo. Ciò che mi ha sempre tenuto indietro, tu lo sai, è l’enorme spesa del mutamento di sede e l’avvenire dei ragazzi che mi sembra meglio assicurato a Milano che non a Roma. Basta. Ho detto a Casati. Dammi ancora 10-15 giorni e poi tu agisci liberamente per le nomine dei professori. È da tener presente, anche, che è assai dubbio io possa prolungare la mia vita parlamentare oltre la legislatura in corso. Gli elettori bisogna coltivarli ed io non li coltivo: anche perché in una città come Milano è difficile, per un uomo di studi, acquistare aderenze col mondo delle industrie e degli affari che costà hanno peso decisivo. Quindi, noi verremmo a Roma e poi, fra uno o due anni, potrebbe mancar la ragione prima che ci avesse spinti a ciò. Vuol dire che, stando io a Roma, si formerebbe un’altra possibilità per me, d’ordine politico: aver un collegio abruzzese, cosa non disdicevole se ci tenessi. Ciò in cui tu hai ragione è il troppo mio assentarmi da Milano. È vero. Anche fuori della politica, per qualche anno io sempre e molto dovrò venire a Roma, per frugare archivi. Mi metto facilmente nei tuoi panni. Non vuoi far la vedova… maritata. Vuoi che ti guardi, mi prenda cura di te, ti stia vicino. Insomma, è un rompicapo. Ma ormai durerà pochi giorni ancora50.
Erano preoccupazioni che permanevano e anzi si intensificavano a poche settimane di distanza, intrecciandosi con quelle più ampie e drammatiche che il deteriorasi del quadro politico e i già non del tutto cordiali rapporti di Volpe con il Capo del Governo suscitavano. Non ho avuto a tutt’oggi nulla da te. Ti lasciai non troppo bene, specialmente di morale: ed avrei desiderato che tu fossi più vicina a me, in questi giorni ed io più vicino a te. Ci saremmo spalleggiati a vicenda, sebbene tu ne abbia bisogno più di me. Io, se non altro, godo di un bellissimo sole che tu forse non vedrai, nel cielo di Milano. Mi rammarico solo di non goderlo abbastanza e che tu non sia qui a goderlo con me o qualcuno dei ragazzi più accessibili ai fascini della natura! Tuttavia anche io, ieri, sono andato un po’ in giro: non so se per spasso o per ricerca di case. Verso i Parioli, dove sono quartieri nuovi, già formati, e quartieri in formazione, di case ce ne è. Una ne ho anche visitato: una villetta di 10 o 11 stanze, impianto calorifero, camere nuove. Ma … 18.000 lire! Pallini seguita a dire che, tuttavia, deve essere possibile trovare. Ma alla Società dei Beni Stabili, con cui ho parlato, dicono che non è sempre facile. O meglio gli hanno detto: se il prof. Volpe venisse qui con due parole di qualche pezzo grosso, e magari di Mussolini, si troverebbe tutto… Cosa complicata, come vedi! Né io voglio chieder a Mussolini cose di tal genere né egli è stato con me così incoraggiante da vincere le mie riluttanze! Siamo dunque al punto di prima. Non ho ancora visto Gentile, con qualche libertà. Sentirò la faccenda delle cooperative. Io penso che eventualmente si potrebbe rispondere: sì vengo,
50 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma, 29 ottobre 1924, CV.
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vuol dire che se non troverò casa… vi pregherò di ridarmi la libertà. (Ma di questa faccenda di Mussolini non parlare ad altri). La zona che ho visitato ieri è veramente bella. Un po’ lontana dal centro, quelle case sono, a rigore, per chi ha l’automobile. Tuttavia c’è il tram. In mezz’ora o 25 minuti si viene in piazza del Popolo. Pressappoco come da via Praga. In cambio, belle campagne vicine e ciuffi di pini qua e là e superstiti parchi e ville che rimangono in mezzo all’avanzarsi delle nuove case di cemento e stucco51.
Nel corso del 1925, Volpe avrebbe rotto gli indugi relativi al trasferimento nella nuova sede, che avrebbe provocato un grave dissesto finanziario, destinato a ripercuotersi sulle condizioni della famiglia per diversi anni52. A Roma, sarebbe stato nominato, insieme a Umberto Ricci, membro della Commissione ministeriale, presieduta da Antonio Salandra, incaricata di studiare e attuare la trasformazione della Scuola in Facoltà, che si sarebbe concretizzata nel settembre di quello stesso anno53. Nello svolgimento di quell’incarico, i commissari vedevano tuttavia snaturarsi in parte il loro progetto originale, che prevedeva un numero limitato di docenti eccellenti, non necessariamente di tendenza fascista ma di vario orientamento politico, e che escludeva in linea di principio ogni inutile e dannosa superfetazione degli insegnamenti impartiti, al fine di «costituire una scuola con una fisionomia ben distinta e nettamente separata dalla Facoltà di Giurisprudenza» e di evitare il «grave errore» di «ordinare una grande Scuola con la sovrapposizione di materie e di specializzazioni non coordinate e fuse in un tutto organico»54. Volpe si fa51 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma, 19 novembre 1924, ivi. La scelta abitativa di Volpe sarebbe, alla fine, caduta su di una palazzina di via Aldovrandi, provvista di giardino, nel nuovo quartiere residenziale di Monti Parioli, a due passi dal Giardino zoologico. 52 Il trasferimento a Roma, con la numerosa famiglia di 5 figli (Arrigo, Giovanni, Vittorio, Edoarda, Simonetta), scriveva Volpe al Rettore dell’Università di Roma, nel 1929, chiedendo un prestito di 20.000 lire, determinarono «un primo dissesto finanziario mio, aggravato dalla circostanza che in quel medesimo anno mia moglie soggiacque ad un grave intervento operatorio ed ebbe bisogno di un mese di casa di salute». Il documento è conservato in Archivio dell’Università di Roma (d’ora in poi, AUR), Fascicolo Volpe. 53 Sul punto e per quel che segue, M. CARAVALE, Per una storia della Facoltà di Scienze Politiche: il caso di Roma, in «Le carte e la storia», 1995, 2, pp. 17 ss.; E. GENTILE, La Facoltà di Scienze politiche nel periodo fascista, in Passato e presente delle Facoltà di Scienze politiche, cit., pp. 45 ss. 54 Volpe aveva gia espresso queste perplessità nel corso di un suo intervento parlamentare: «La scuola che si invoca può e deve essere una Scuola universitaria, può e deve essere una parte dell’Università. È probabile che quella già preordinata qui a Roma sia ancora un po’ troppo vicina ad una Facoltà di legge o ad una Facoltà di scienze economiche. Ma il suo differenziamento si può avere e si avrà non solo nelle materie d’insegnamento, ma anche e più nello spirito diverso, che dovrà essere non da giuristi e da economisti». Si veda, Atti parlamentari. Camera dei Deputati. Legislatura XXVII, 1° Sessione. Discussioni, Affari Esteri. Discussioni, tornata del 14 novembre 1924, I, p. 1825. D’ora in poi A.P.
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ceva portavoce di questi malumori, all’interno della Commissione istitutiva e nel dibattito pubblico, dichiarando che il fatto che la Scuola servisse ora «prevalentemente ai giovani laureati in legge, i quali con un altro annetto di frequenza o di non frequenza, possono aggiungere al primo pezzo di carta un secondo pezzo di carta sempre utile per i concorsi» contribuiva a snaturare le finalità di una istituzione che avrebbe dovuto avere la funzione di «preparazione alla vita pubblica, di intelligenza della storia e della politica». Queste critiche venivano esposte in una lettera aperta, inviata all’inizio dell’agosto del 1925, alla direzione de «L’Impero», un foglio fascista di tendenze radicali, che si era distinto per una dura polemica contro la Scuola, ritmata soprattutto, anche se non esclusivamente, su motivazioni ideologiche, accusandola di essere dominata da docenti antifascisti. A questa denuncia, Volpe ribatteva con fermezza e sosteneva che l’argomento in questione non poteva essere oggetto di una disinvolta speculazione politica, in quanto occorreva sempre tenere presente che «se può parlarsi di un pensiero fascista, di un ordine di idee fascista in fatto di dottrina di politica, è fuor di luogo parlare, senz’altro, di una scienza fascista». Tale ammonimento non disarmava però i redattori del giornale romano che domandavano che la Scuola e la futura Facoltà rispecchiassero il nuovo «ordinamento spirituale», in virtù di un’«oculata selezione degli insegnanti», che attualmente, invece, «salvo pochi docenti fascisti come Volpe, Rocco e Giorgio Del Vecchio», erano «avversari e denigratori del nuovo regime». La querelle, che sarebbe poi trapassata in altri organi di stampa, fino a essere ribattuta nelle pagine del «Popolo d’Italia», sortiva l’effetto sperato e portava all’esclusione dal novero dei docenti della nuova Facoltà tutti coloro che avevano manifestato, più o meno larvatamente, il loro dissenso nei confronti del nuovo regime: Orlando, De Viti De Marco, Gaetano Mosca, gli stessi Salandra e Ricci. Era un scontro, basato su questioni di non piccola entità, che opponeva Volpe al fascismo estremo. Uno scontro, foriero di nuovi più drammatici sviluppi, per il prossimo futuro, ma che già da ora rivelava una forte disparità di concezione sulla cruciale questione della formazione del nuovo ceto dirigente e della nuova classe politica che la «rivoluzione» del 1922 intendeva attribuirsi in esclusiva, rompendo con gli abiti mentali dell’Italia liberale. Su questo punto qualificante, per il nuovo corso politico, insisteva principalmente, e con grande intelligenza, Camillo Pellizzi, nel 1924, auspicando la creazione di una «aristocrazia» politica e intellettuale autenticamente fascista, il cui avvento doveva essere preparato da una «nuova pedagogia», idonea a forgiare la futura «personalità storica» delle élites nazionali, riassumendo «tutti i valori passati e tradizionali di un popolo» e spingendoli «sotto l’impulso
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di una ispirazione nuova e fra il contrasto di tutti i problemi dell’ora, a rivivere in un tipo nuovo e vasto di volontà»55. La presa di potere del fascismo rischiava infatti di rivelarsi una «rivoluzione incompiuta», frutto di un compromesso con le altre forze che tradizionalmente costituivano i «poteri forti» dello Stato, finché il fascismo non avesse potuto disporre di una propria «classe dirigente», la cui attuale assenza e la necessità di crearla avrebbero costituito, fra 1923 e 1926, uno dei temi più dibattuti e ricorrenti della pubblicistica fascista di tutte le tendenze e quasi avrebbe assunto il valore di metro di giudizio di tutta la politica di Mussolini e del suo movimento ormai proiettato in una strategia di effettiva fascistizzazione dello Stato56. Ancora Pelizzi, nel 1925, ribatteva sulla necessità di creare, con la massima urgenza, un «sistema di uomini scelti, di gentiluomini, che riassorbano e facciano proprie tutte le funzioni, le qualità, i meriti dei nemici disfatti»57, mentre lo stesso Presidente del Consiglio, già nel gennaio 1923, aveva ricordato come da tutti fosse ormai percepita la fine irrevocabile dell’«epoca dei Giolitti, dei Nitti, dei Bonomi, dei Salandra, degli Orlando e minori dei dell’Olimpo parlamentare». Il nuovo regime era entrato nel «suo secondo tempo». Se nel primo le forze nuove si erano sostituite alle vecchie nel «possesso della macchina statale», lasciando al loro posto i ceti dirigenti del passato, ora occorreva procedere a una «gigantesca messa in liquidazione di uomini, di metodi, di dottrine». Non era più possibile giocare con le «vecchie carte», che pure erano servite, ma che nessuno si sognerebbe in questo momento di «raccattare». L’imperativo categorico era un altro: collocare «uomini nuovi» al «volante della macchina», in tutti i settori vitali della vita pubblica58. Su questa materia Volpe sarebbe tornato, soltanto un anno più tardi, con un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera», il grande quotidiano nazionale con il quale, grazie all’appoggio di Giovanni Gentile, Francesco Salata, Alessandro Casati, aveva da pochissimo acceso una collaborazione che sarebbe stata, a lungo, continua e feconda59. Ai pri55 C. PELLIZZI, Problemi e realtà del Fascismo, Firenze, Vallecchi, 1924, pp. 137-138. 56 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., p. 438. 57 C. PELLIZZI, Premessa a Fascismo-Aristocrazia, Milano, La Grafica moderna, 1925,
p. IX.
58 B. MUSSOLINI, Tempo secondo, «Gerarchia», gennaio 1923, in ID., Scritti e discorsi, cit., III, pp. 43-44. 59 Gioacchino Volpe a Ugo Ojetti, 19 marzo 1926: «Poiché e Salata e Casati e Gentile mi parlano di questa mia collaborazione al Corriere, ti prego di dirmi se la pratica relativa, che tu stesso mi dicesti di aver avviato, è relativamente avviata. Non ti avrei chiesto nulla, dopo che vidi altra persona entrata a collaborare. Ma la tua stessa iniziativa mi scioglie da qualsiasi obbligo verso il professor Caggese. Un tempo già collaborai straordinariamente al Corriere: 1903-1905; un’ultima volta durante la guerra. Non sono un giornalista bril-
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mi di dicembre del 1926, il giornale milanese pubblicava l’ampio resoconto, firmato da Volpe, di un opuscolo di Roberto Cantalupo, appena pubblicato dall’editore Alpes di Milano60, che si apriva con la petizione di principio relativa alla necessità di «creare, ex novo o quasi, tutto o pressoché tutto quello che mancò all’Italia, sino al principio del XIX, anzi del XX secolo». Raccomandazione tanto più urgente, quanto più si poneva attenzione alla mancanza di un «popolo consapevole e volitivo» e di un ceto politico autenticamente egemone, che aveva segnato la stagione risorgimentale e che aveva accompagnato, come una tara d’origine, i decenni successivi all’unità, quando, come Cantalupo sosteneva: La classe dirigente non si formò e rimase debole la coscienza statale dei cittadini. La politica estera non ebbe iniziative che preannunciassero una volontà di potenza, salvo le due guerre d’Africa, ma anche esse con segni di squilibrio, discontinuità e superficialità. Il socialismo antistatale e antinazionale si fece innanzi e riempì la grande scena vuota. I sottili e deboli argini dello Stato ressero a gran fatica. E lo Stato si esaurì in questo sforzo. Guardò solo problemi interni; e, anche essi, attraverso il socialismo, per ammansire il socialismo, quasi padrone dello Stato.
A queste considerazioni l’articolo del «Corriere» opponeva un deciso, ancorché sfumato nei toni, diniego, pur non avaro di larghe concessioni al carattere profondamente innovatore della «rivoluzione fascista», in quanto «rivoluzione dell’equilibrio, tra destra e sinistra, collettività e individuo, produzione e potenza, borghesia e lavoratori», e alla stessa personalità del suo principale promotore che indubbiamente rappresentava l’«Italiano nuovo» e che forniva il «modello dell’individualità etica e politica a cui dobbiamo rassomigliare». Ma, continuava
lante, ma credo di farmi leggere. Se credi che di questo si possa più utilmente parlare a voce, mandami un rigo». Si veda anche la risposta di Ojetti del 22 marzo: «Prima che Salata, Casati e Gentile, di questa tua possibile collaborazione al Corriere, ti aveva parlato, se non erro, il sottoscritto. Il Corriere non ha con il professor Caggese alcun impegno di esclusività; e del resto posso in un orecchio confidarti che questo impegno è antecedente alla mia nomina, e che finora gli articoli proposti dal Caggese non sono, certo per mia colpa, di mio gusto. Se tu puoi mandarmi articoli tuoi senza assumere né tu né io un impegno fisso, mandameli e io li compenserò al prezzo di £ 700. Ti dico questo perché tu, con la tua simpatica e cordiale sincerità, mi dici di te: “non sono un giornalista brillante, ma credo di farmi leggere”». Le due lettere sono conservate nell’Archivio Storico del «Corriere della Sera», d’ora in poi ACorsera. Sul punto, S. DURANTE, Gioacchino Volpe e il “Corriere della Sera”, 19261945 in «Nuova Storia Contemporanea», 2006, 2, pp. 97 ss., che contiene la trascrizione dei carteggi di Volpe con la direzione del quotidiano milanese. 60 G. VOLPE, La classe dirigente, «Corriere della Sera», 5 dicembre 1926, (da cui citiamo), poi in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 405 ss.
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Volpe, il movimento di Mussolini non si era trovato di fronte a una tabula rasa, dalla quale partire per edificare la nuova Italia. E in questo punto l’analisi di Cantalupo doveva essere modificata in qualche linea e in qualche piano, soprattutto in ordine al socialismo, per affermare invece che: In una Italia certamente ancora mal connessa e di grama struttura sociale, povera di tradizioni statali e di senso dello Stato, non allenata all’autogoverno, ondeggiante tra la sfiducia in sé e la retorica proclamazione della gloria che fu; in un’Italia, così fatta, il socialismo fu, sì, più che altrove antistatale e antinazionale, ma fu anche uno dei tramiti per cui le masse italiane ebbero un rozzo inquadramento, accennarono ad essere parte attiva sulla scena della politica, acquistarono una rudimentale nozione dell’interesse generale almeno in quanto interesse dei più, iniziarono, lottando con altre classi, una loro collaborazione con esse; uno dei tramiti, per cui elementi della borghesia, dall’una e dall’altra sponda, giunsero ad una conoscenza più approfondita dei problemi delle plebi e tutta la borghesia dovette, in un modo e in un altro, considerare questi problemi come propri e di tutti. Il che ci rende impossibile di vedere in quel vasto movimento una pura passività.
Anche la classe dirigente anteriore al 1922, nel suo complesso, doveva essere giudicata con meno pessimismo, e apprezzata al contrario per l’apporto arrecato dalle sue svariate componenti (liberali, repubblicani, cattoliche, e appunto persino socialiste) alla crescita della vita nazionale, se non ci si voleva davvero rassegnare «a considerare inspiegabile enigma l’Italia del 1914-15, che affronta e vince un formidabile avversario» e piegare, in questo modo, l’analisi storica a una pregiudiziale di parte o di partito, che ipotizzava un «taglio netto fra il “popolo”, il “popolo nazionale” che vince la guerra delle armi, e la “democrazia” parlamentare, governativa, giornalistica, diplomatica che perdette la guerra diplomatica». Molto era stato fatto, insomma, da quella che il fascismo più radicale si ostinava a chiamare, con ingiustificato disprezzo, «Italietta», anche se molto restava da fare al nuovo governo, nel campo culturale, dove pure si erano create le condizioni più adatte alla formazione di una’élite «omogenea, continuativa e costruttiva, che sia adeguata alla fase storica ora inaugurantesi, imbevuta dello spirito dinamico del Fascismo, animata da alte ambizioni, tecnicamente preparata e colta, libera da ideologie ingombranti e che pur cammini sotto la luce di pensieri direttivi, sostenuta da una fiducia grande nelle forze dello spirito per dominare la materia, per vincere il destino». Nell’ultimo passo era contenuto un riconoscimento, appena larvato, al valore della riforma Gentile, alla quale l’intero ceto intellettuale liberale aveva fornito immediatamente un convinto appoggio morale (da Lombardo Radice, a Casati, a Omodeo), che si faceva ancora più ferven-
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te nei vecchi compagni della Normale come Fortunato Pintor61, e naturalmente in Volpe, il quale, a sostegno di quella riforma e contro i suoi avversari, che dentro e fuori il fascismo la contestavano con asprezza62, scendeva in campo con un editoriale pubblicato sulla «Tribuna», il 6 novembre del 192363, a soli pochi giorni di distanza dalla comparsa di una lettera aperta al «Popolo d’Italia», redatta da Croce con le medesime finalità64. Il filosofo napoletano, in quell’occasione, non si limitava a ricordare come le stesse manifestazioni di malcontento, rapidamente degenerate in scioperi e tumultuanti adunate di piazza, avessero colpito, prima di Gentile, anche la sua persona quando si era apprestato a tagliare il nodo gordiano costituto dal «groviglio di scuole e di ordinamenti scolastici, sorti in modo occasionale e contraddittorio, sovente sotto lo stimolo di interessi che non erano né di educazione, né di istruzione». Differente, molto differente, era infatti, continuava Croce, la resistenza contro i provvedimenti legislativi varati dal governo Mussolini, tanto da far pensare, con buona verosimiglianza, che in essi si celasse un vero e proprio «agguato politico» in cui era possibile scorgere, ancora una volta, l’ombra del partito nittiano. Che una larga riforma scolastica, come quella elaborata e messa in atto dal ministro Gentile dovesse levare, insieme con le strida e i lamenti di coloro che se ne tengano danneggiati, serie opposizioni di principii e anche censure giustificate in questo o quel particolare, è cosa naturale; ma l’opposizione, che contro essa si manifesta in più giornali, mostra tali sembianze da far dubitare che per lo meno si mescoli in questo caso al naturale, una buona dose di artificiale. Troppa violenza, troppa insistenza, troppa enfasi, troppo metodo, troppa passione; quanta in verità non ce n’è stata mai in Italia, e specialmente in certi articoli, per le sorti della scuola. Troppa grazia, dunque, e questa sovrabbondanza di grazia induce a qualche sospetto circa la sua genuinità. Sarà vero quel che tutti ripetono in questi giorni, che si tratti di un motto d’ordine partito dalle labbra di un uomo sperduto, a cui gli addetti rumorosamente fanno eco (et dixit, Josue ad omnem Israel: vociferamini!). Inclino a credervi perché vedo che in quelle polemiche si tace studiosamente proprio della questione che più 61 Si veda la lettera di congratulazioni per la nomina ministeriale, inviata, il 3 novembre 1922, da Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, in Giovanni Gentile e il Senato, cit., p. 373: «Un capo di governo che mostra di sapere mettere gli uomini al loro posto, un governo che dispone di tante sane energie, può fare del bene, se il Paese si ricomporrà nell’ordine. E se questo governo trovasse troppe difficoltà, o stesse per mancare al suo compito, anche allora il tuo nome e la tua presenza saranno una garanzia. Anche, dunque, questa confortante sicurezza tu dai agli esitanti». 62 G. TURI, Giovanni Gentile, cit., pp. 331 ss.; S. ROMANO, Giovanni Gentile, cit., pp. 254 ss. 63 G. VOLPE, La polemica universitaria, in «La Tribuna», 6 novembre 1923, pp. 3 ss. 64 Una lettera di Benedetto Croce, in «Il Popolo d’Italia», 3 novembre 1923, p. 1.
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deve scottare; l’insegnamento religioso, quasi si direbbe per non mettere sulle tracce della qualità e ordine dell’opposizione. E poi (condivideva parlando con me l’altra sera un amico, acerrimo antifascista) sarà questa, in ogni caso una prima breccia, che speriamo di aprire nel Fascismo. Operazione guerresca, senza dubbio, lecita, ma che non dovrebbe spingere a passare sopra alla scuola italiana come ad un corpo vile.
Anche Volpe, nel suo intervento, condivideva questi sospetti. Colpendo Gentile e il disposto legislativo da lui creato, si voleva sopra ogni cosa e forse unicamente colpire il fascismo. Quell’opposizione, «astiosa, frettolosa, collerica, a partito preso, a fondo più politico che tecnico o almeno con la non bene dissimulata speranza di ripercussioni politiche» non era altrimenti spiegabile, infatti, se si pensava alla «condanna senza attenuanti che da tempo ormai immemorabile investiva a pieno la scuola italiana» e ai rimedi ora finalmente posti in essere per raddrizzare questa situazione. Per essere veramente credibile quella protesta sarebbe dovuta scendere, al contrario, nel concreto della riforma, dove, accanto a molti aspetti sicuramente positivi, vi era largo spazio per una analisi sfavorevole, nel dettaglio di alcuni provvedimenti, ma soprattutto per le modalità temporali della sua attuazione, promossa d’imperio, quasi come un colpo di mano, mentre a nessuno, nei banchi del governo, dell’opposizione, nell’opinione pubblica soprattutto, «sarebbe dispiaciuto se il ministro avesse redatto nelle linee generali il suo progetto e poi lo avesse lanciato, per sei mesi, nel mare magno della libera discussione, per poi riprenderlo in mano e concretarlo in ogni suo dettaglio». Ciò detto, tuttavia, la strenua reazione a quella «rivoluzione legislativa» restava soprattutto un atto di ostilità contro il nuovo corso politico ed era perfettamente comprensibile, nei suoi significati più riposti, soltanto se si poneva attenzione al fatto che la designazione ministeriale di Gentile era stata fortemente voluta dal nuovo Presidente del Consiglio, di cui Volpe forniva questo non del tutto elogiativo ritratto, che certo poco o affatto doveva piacere a colui che ne aveva fornito il modello, il cui merito maggiore pareva essere stato quello di aver riposto la sua fiducia in un uomo della vecchia guardia liberale, intronizzandolo nella carica di riformatore della scuola italiana. Chi altro chiamare, nell’Italia del 1922, che voleva non far capo ad un avvocato buono-a-tutto o ad un qualunque politicante, ma ad un tecnico e ad uno spirito infervorato dei problemi che bisognava risolvere? Quando il presidente Mussolini, ancora in camicia nera dopo la marcia su Roma, si rivolse a lui, agì, salvo aver messo il Paese al posto della Camera, da perfetto parlamentare e liberale. Non solo egli, personalmente, per quel tanto che aveva sentore della vita scolastica italiana e per quel tanto che aveva assorbito del movimento filosofico-pedagogico più recente, si trovava, all’ingrosso, su una linea non lontana
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da quella di Gentile, fattosi un po’ giornalista negli anni della guerra e divulgatore per via indiretta della sua filosofia; ma vedeva in lui l’uomo che capeggiava l’opposizione al presente regime scolastico e da venti anni rimuginava e agitava le questioni della scuola in genere e della scuola italiana in ispecie, e giustamente passava per uno di quelli che non solo aveva più idee in proposito ma le aveva meglio sistemate.
Parole sicuramente poco accorte, della cui imprudenza forse Volpe pareva non rendersi pienamente conto, ma che gettavano un’ombra assai significativa su quelle che sarebbero state le future relazioni tra lo storico della «Nuova Italia» e il Duce del fascismo. Il tempo avrebbe allargato queste crepe, fino a questo momento quasi insignificanti, molto rapidamente, già nel luglio del 1924, quando le dimissioni di Gentile avrebbero in poco tempo esposto la sua creazione a un vero processo di «controriforma»65. Nonostante un ulteriore sforzo di Volpe per assicurare il suo sostegno all’operato del suo antico compagno della Scuola Normale66, il «partito della scuola» e il suo massimo campione sarebbero stati travolti da una delle crisi politiche e morali più profonde e dirompenti dello Stato unitario, la cui gravità era benissimo testimoniata dalla corrispondenza che, in quell’occasione, lo storico inviava all’ormai ex inquilino della Minerva. A Giovanni Gentile, cittadino, studioso, dico: mi rallegro che, dopo due anni di acerrimo lavoro, tu ti possa riposare in pace. A Giovanni Gentile, fino a ieri ministro e spiritualmente legato alla sua opera di ministro, dico: mi duole che, dopo due anni, di acerrimo lavoro, tu abbia lasciato il ministero, ad opera incompiuta, nel modo che sappiamo, nell’occasione di un fattaccio, insieme con qualche altro ministro. Certo tu fai parte per te stesso, nella crisi attuale, e le ragioni per cui tu hai lasciato il ministero non hanno a che fare con quelle per le quali può averlo lasciato il ministro Carnazza. Ma insomma era bene separare anche più nettamente il mutamento dei vari ministeri. Per la stessa ra-
65 G. TURI, Giovanni Gentile, cit., pp. 379 ss. 66 P. DONADONI, A colloquio con l’on. Prof. Volpe, in «Il Popolo di Lombardia», 6 mag-
gio 1924, p. 3: «Orbene, pur ammettendo qualche inconveniente, è doveroso dire che l’opera di Giovanni Gentile come ministro è altamente encomiabile; non per nulla si ebbe le più schiette lodi dall’on. Mussolini. Indubbiamente il tono della scuola è cambiato: si sono sconvolti schemi, fatti e abiti consuetudinari: ora circola aria entro la materia inerte, si dà più rapido moto all’attività creatrice dello spirito, si ricolloca il maestro al centro della vita scolastica; il memnonismo è abolito, la disciplina rinsaldata, l’autorità dei presidi accresciuta, il raggruppamento delle materie più razionale. Il curioso è questo: che da 20 o 30 anni si andava lacrimando sui mali della scuola italiana, si deplorava la mancanza in essa di ogni libertà vivificatrice. Ora, che il rimedio è venuto e proprio da un uomo che per giudizio generale è il meglio preparato in fatto di problemi scolastici, si va strepitando e si è ancora malcontenti».
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gione, mi dispiacerebbe che Serpieri dovesse lasciare il suo ufficio, ora… Aggiungi che non riesco a veder bene il vantaggio del mutamento per quel che riguarda te o Serpieri. Due belli gesti di Mussolini di prendere tecnici, al posto di politicanti, sono così rimangiati! Fortuna che al posto tuo c’è Casati che ha molti numeri. Io non ho nulla da eccepire. Ma non so se ti dico cosa nota che il mondo universitario – esso è quel che è – digrigna i denti per questa ascesa di un uomo che tutti conoscono per un bravo uomo, buon combattente, fine ingegno, ma estraneo alla scuola! Ripeto, a me, che egli sia estraneo alla scuola non fa né caldo né freddo: ma a molti sì… Ed ora, l’augurio che la tua riforma possa essere, su la base di questa esperienza di un anno, perfezionata. Fra 5 o 10 anni, sbollite le ire, si potrà dire che tu hai segnato una data, al ministero dell’Istruzione67.
2. Più complessi, nel passaggio dai relativamente neutrali problemi della cultura e della pubblica istruzione a quelli della politica politicante, sarebbero stati, in ogni caso, i rapporti di Volpe con il nuovo potere politico. Pur «senza tessera di partito», per decisione propria ma anche a causa dell’irriducibile ostilità del fascismo milanese68, lo storico si presentava candidato nel collegio ambrosiano, all’interno della «lista nazionale», per le elezioni politiche del 1924, in perfetta sintonia con la strategia che Mussolini aveva varato alla fine di gennaio, di fronte all’assemblea del Pnf riunita a Palazzo Venezia. In quell’occasione, dopo aver rassicurato l’opinione pubblica moderata sulla propria fedeltà al sistema costituzionale, il Capo del Governo dichiarava che, ferme restando la strenua opposizione verso le forze della sinistra e l’impossibilità di collaborare attivamente con i «vecchi Partiti di qualsiasi nome e specie, anche perché il loro atteggiamento non è stato univoco nei confronti del Partito e del Governo», la direzione del Pnf aveva deciso di includere tra i suoi candidati «uomini di tutti i Partiti e anche di nessun Partito, i quali per il loro passato, specie durante l’intervento, la guerra e il do-
67 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, luglio 1924, AFG. Il riferimento è al discusso Ministro dei Lavori pubblici, di ascendenza democratica, Gabriello Carnazza e a Arrigo Serpieri, che, nell’agosto del 1923, senza essere deputato, era stato chiamato alla carica di Sottosegretario di Stato per l’Agricoltura, in seno al Ministero dell’Economia Nazionale. Tornato al Ministero dell’Agricoltura come Sottosegretario, dal 1929 al 1935, Serpieri faceva approvare, nel 1933, il Testo Unico sulla bonifica integrale, da lui redatto. 68 G. VOLPE, Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, cit. Ma sul punto, si veda la lettera di Camillo Pellizzi a Mario Casotti, 8 febbraio 1923: «Il fascismo di oggi non deve far soltanto gli italiani; deve fare, in gran parte, gli stessi fascisti. Ed è degno di un fascista riconoscerlo. A Pisa si osteggia l’ingresso nel partito del Prof. Carlini. A Firenze si osteggia il Codignola. Sulla stessa linea e nello stesso stile si è osteggiato a Milano l’ingresso ufficiale nel partito di Gioacchino Volpe». La lettera è citata in D. BRESCHI-G. LONGO, Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 34.
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poguerra o per loro eminenti qualità di tecnici, di studiosi, siano in grado di rendere utili servigi alla Nazione»69. Questi uomini venivano chiamati a contribuire alla battaglia fascista, «al di fuori, al di sopra e contro i Partiti», per fornire «la loro attiva, disinteressata collaborazione, restando bene inteso che la maggioranza doveva essere riservata al nostro Partito». Con queste parole, avrebbe detto poco più tardi Gobetti, Mussolini realizzava un «capolavoro» di tattica politica, attirando dalla sua parte buona parte dei leader del vecchio notabilato parlamentare che «con tutti i loro discorsi di costituzionalità e di democrazia rimangano complici della pressione fascista»70. Molti liberali transitavano infatti nel «listone» governativo, a «titolo personale», abbandonando le loro precedenti formazioni, mentre personaggi del calibro di Orlando, Salandra, De Nicola, lo stesso Giolitti, insieme a numerosi popolari e radicali, entravano a fare parte di liste «parallele», che se il Pnf definiva «non amiche» ad esso erano legate con un implicito patto di collaborazione elettorale71. La più grossa novità era però l’adunata sotto il segno dei Fasci di indipendenti di prestigio, che andavano a ingrossare la già numerosa schiera degli «eresiarchi e transfughi di tutte le idee e di tutti i partiti, uomini delle più disparate formazioni mentali e delle diverse e più contrastanti categorie economiche» che erano già confluiti nel movimento di Mussolini72. Anche Volpe rispondeva positivamente alla chiamata alle armi di personalità «nazionali», ma «laiche», in parte o in tutto estranei alla routine della vita politica, con il discorso pronunciato alla Scala di Milano, il 22 marzo, che testimoniava la sua piena adesione al programma politico del Pnf, in primo luogo, come si è visto, per quello che riguardava la nuova gestione degli affari internazionali, che si era rivelata capace di far contrasto «con uno scatto di rivolta al sistematico rinunciatarismo, al nullismo della nostra politica estera, ammantato di europeismo e di umanitarismo», tanto da costituire una ferma opposizione alle «insidiose trame internazionali o rosse o bianche o verdi che dall’estero servivano così fedelmente». Di eguale energia di reazione il fascismo era stato capace, debellando il «disordine interno» e ponendo le basi di un’organica riforma dello Stato né accentratrice né dissipatrice delle diverse, disparate, persino contrastanti spinte che si levavano dall’interno del Paese, secondandole e più spesso disciplinandole, in mo69 B. MUSSOLINI, Orazione all’Assemblea Nazionale del Partito Nazionale Fascista, in ID., Scritti e Discorsi politici, cit., IV, pp. 33 ss. 70 P. GOBETTI, Dopo le elezioni, in «La Rivoluzione liberale», III, 14 aprile 1924, 16, p. 61. 71 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp. 570 ss. 72 A. DE MARSANICH, La situazione del Partito Nazionale Fascista, cit., 13, p. 254.
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do da sanare «i così detti problemi sociali, ma come problemi della nazione e non di classi a sé stanti (diversamente dai socialisti)» e di soddisfare «le esigenze regionali e locali, ma come esigenze della nazione e non della regione o del municipio di per sé stanti (diversamente dai popolari)». Questa strategia, che si era rivelata vincente per quello che riguardava l’incremento della produzione, la tutela della «vita agricola», la riforma tributaria, quella della pubblica istruzione, affidata all’«uomo per giudizio generale meglio preparato in fatto di problemi scolastici», aveva poi ottenuto anche il risultato di arrivare a un primo, importante chiarimento dei rapporti tra Stato e Chiesa, attraverso il «ripudio dell’anticlericalismo, anche per meglio vincere il clericalismo» e per porre le condizioni per arrivare, in tempi brevi, a risanare completamente quel che rimane dell’«antico contrasto tra cittadinanza e appartenenza religiosa». Proprio per tutto ciò, il movimento di Mussolini, una volta arrivato al potere, doveva evitare di trasformare la sua vittoria politica in occupazione armata e riconoscere, invece, il suo carattere di forza governativa, eliminando gli eccessi e le violenze. Al fascismo era obbligo di riconciliarsi con l’intera nazione, per costruire, dopo aver rapidamente dismesso il settarismo della prima ora («ancora nebuloso e incerto, alquanto demagogico e futurista»), una concentrazione di forze nazionali in grado di comprendere in sé e di perfezionare il legato delle tre grandi componenti della vita politica del passato. Il fascismo, ripeteva Volpe, era infatti «quasi sintesi dei moti ideali, anche se diversi e opposti, dell’età precedente». Lo era sicuramente della ventata neo-liberalista che aveva preceduto il conflitto, «satura di impulsi nazionali, risoluta contro ogni parassitarismo sia di borghesia sia di proletari, nettamente opposta al socialismo e al riformismo e a quella ambigua democrazia liberale che bazzicava a volta a volta Palazzo Giustiniani o le anticamere del conte Gentiloni». Lo era anche del nazionalismo, con il suo messaggio tonificante volto a risvegliare le energie della classe media «per elevarla e darle coscienza di sé, dei suoi diritti e doveri di fronte alla nazione», ma specialmente con la sua capacità di porre all’ordine del giorno «le esigenze di solidarietà interna, con gli occhi volti specialmente alla politica estera, con la guerra riportata dal centro alla periferia, dalle classi alla nazione, con il senso dei problemi coloniali e della necessità dell’espansione». Ma il fascismo era erede, anche e non in misura minore, del movimento socialista, di tutte le sue diverse componenti (dal riformismo al massimalismo) e in particolare dell’ala radicale sindacalista e rivoluzionaria, che aveva del tutto recuperato e anzi esaltato la propria tradizionale matrice, essenzialmente nazionale, nei mesi che avevano preceduto l’intervento e poi durante gli anni della guerra.
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Noi ritroviamo nel fascismo persino il socialismo, che aveva, come i nazionalisti e i liberali, sbeffeggiato la democrazia parolaia, astratta, massonica e francofila e portava seco, in più, i problemi, delle masse e del lavoro: quel socialismo di cui, ora, che è a terra, piace a noi riconoscere non solo che è stato anche un mito operoso per muovere gente inerte, poco sensibile, in un primo momento, ad altri richiami, e darle un rozzo provvisorio inquadramento; ma che ha dato pur esso qualche filo per l’ordito della nazione italiana. Proclamava, sì, la guerra allo Stato che per esso era sinonimo di borghesia; ma spingeva verso lo Stato interi strati sociali che lo ignoravano. Gridava la lotta di classe ma creava, mettendo gli uni nettamente di fronte agli altri, punti di contatto fra essi, determinava una specie di collaborazione la quale si attua con la guerra non meno che con la pace. Sventolava la bandiera internazionale ma intanto organizzava un partito comune ad uomini di tutta la penisola. Del socialismo noi ritroviamo, nel movimento fascista, specie la corrente estrema e il sindacalismo rivoluzionario, antiparlamentare, idealista, nel senso che credeva alla funzione autonoma dello spirito nella vita, non attendeva le sue realizzazioni da un automatico processo storico. A questa corrente estrema erano appartenuti quegli uomini che, ad un certo momento, stanchi di attesa, sfiduciati di poter fare la rivoluzione col socialismo, invocarono la guerra come forza rivoluzionaria, anzi come rivoluzione essa stessa e durante la guerra rimasero via via assorbiti dalla nazione, concepita sempre più come fuori e sopra le classi, come sintesi dell’oggi e dell’ieri, dei vivi e dei morti, ed alla nazione, affaticata dallo sforzo della guerra, infusero qualcosa del loro irrequieto spirito73.
Le parole di Volpe non erano, casualmente, prive di una forte consonanza con i più immediati obiettivi tattici di Mussolini di realizzare una vasto consenso e di concretizzarlo sul piano elettorale, attraverso una larga concentrazione, che prevedeva una possibile intesa con Popolari e persino con Socialisti riformisti, inaugurando una «politica collaborazionista» fortemente spregiudicata, al limite del vero e proprio trasformismo, in grado di dare fiducia e garanzie alle tradizionali forze nazionali e di allargare al contempo i confini di queste forze a tutti quei settori della società che si riconoscevano come «parte di una comune collettività volontaristicamente intesa e quindi priva di effettive divisioni al proprio interno»74. Gli obiettivi di questa politica, che Volpe riprendeva, fino a fornirne una versione tutt’affatto originale, scevra degli equivoci opportunistici che ad essa andava cucendo addosso il capo del fascismo, si identificavano in larghissima parte con quelli della corrente «revisionista», che, con Giuseppe Bottai, Massimo Rocca e Dino Grandi si dichiarava contraria sia a «una seconda ondata» eversiva del «fascismo-movimento» sia al perdurare degli illegali73 G. VOLPE, Fascismo, governo fascista. Problemi italiani del momento, cit., pp. 8-10. 74 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., p. 538.
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smi75. Meno vicino alla posizione di Grandi e soprattutto di Bottai che al legittimismo autoritario di Arrigo Solmi76, e soprattutto al fascismo liberale di Rocca, il quale intendeva il nuovo regime non come rottura del vecchio ordine ma come semplice ripristino e magari modernizzazione dello status quo ante scosso dal sovversivismo del dopoguerra77, Volpe sosteneva che il risveglio nazionale del periodo post-bellico non poteva essere rappresentato dal solo movimento mussoliniano, che in un futuro più o meno lontano avrebbe potuto anche esaurire il suo dinamismo e la sua funzione storica. In questo contesto, la teorizzazione del carattere provvisorio del fascismo, che anche Grandi andava sviluppando in questo stesso periodo78, se entrava in rotta di collisione con l’intransigentismo fascista, comportava l’avvicinamento a quanti nel Pnf invitavano con urgenza il movimento rivoluzionario del 1922, se non ad annullare completamente la sua specificità, almeno «ad espandersi spiritualmente fino a fondersi, ad annegarsi, a disperdersi nella nuova e diffusa e salda coscienza nazionale»79. Ancora Rocca insisteva infatti sull’esigenza non prorogabile di accelerare il «latente distacco dal “mussolinismo”, inteso come offerta di un dominatore ad un popolo e come fiducia d’un intero popolo nel suo dominatore», di emanciparsi dal «“fascismo” puramente partigiano e settario, sempre più chiuso nei suoi quadri, donde gli uomini di valore emigrano, si appartano, e dove spesso i valori non tesserati si rifiutano di entrare»80. Se si voleva davvero «evitare la separazione tra partito e paese e, a lungo andare, forzatamente, fra il partito e il Governo», se si intendeva «conquistare moralmente l’Italia», fino al punto di «continuare, consolidare, concludere la rivoluzione fascista nel senso storico e creatore del termine», occorreva, in primo luogo, svellere la mala pianta del «rassismo e delle satrapie provinciali», restituire o conferire per la prima volta «disciplina morale» ai militanti e, infine, riconciliarsi con l’«Italia di Mussolini» e per riconciliarsi veramente con essa «troncare la parodia della rivoluzione e della disciplina verbali, eternate nel troppo vantato ricordo di una violenza vittoriosa, oggi che la sua necessità
75 Ivi, pp. 445 ss. 76 A. SOLMI, La riforma costituzionale, Milano, Alpes, 1924. 77 M. ROCCA, Idee sul Fascismo, Firenze, Società Editrice “La Voce”, 1924, p. 102: «La
storia di domani si domanderà se di rivoluzione politica fascista sia esatto parlare in quanto l’opera multiforme del Governo, dalla Marcia su Roma in poi, anche attraverso le sue ardite riforme, è stata in fondo di restaurazione nazionale e costituzionale». 78 P. NELLO, Dino Grandi, cit., pp. 70-71; 80 ss. 79 M. ROCCA, Idee sul Fascismo, cit., p. 65. 80 ID., Il Fascismo e l’Italia, in «Critica Fascista», 15 settembre 1923, in ID., Il primo fascismo, cit., pp. 92-93.
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è scomparsa». Bisognava, dunque, rinunciare all’indigesto «minestrone rivoluzionario», al sorelismo d’accatto, agli azzardati esperimenti corporativi, all’«esaltazione futuristica» di «certi giovani fascisti, sia pure segretari di federazioni provinciali», che, mentre «trinciano giudizi su uomini come Orlando e Giolitti», fanno «cominciare la storia italiana dal giorno in cui rinunziarono al latte materno, e disdegnano tutto quanto fu prima di essi e ch’essi ignorano», di certi giovani che si «proclamano araldi d’una nuova Italia e irridono alla tradizione secolare di sforzi e di studio, di lavoro e di martirio, da cui pure traggono esistenza», di certi giovani, infine, che «insultano le generazioni e le classi dirigenti di ieri» senza per questo esserne migliori ma anzi aggravandone i più antichi e inveterati difetti81. Era necessario dunque, concludeva Rocca, strappare il grano dal loglio, liberare il metallo prezioso dalla ganga impura, distinguere tra quello che era veramente vivo e vitale nel fascismo da quello che era soltanto caduco, provvisorio, invecchiato e già morto. Un’opera di «revisione» anche spietata era indispensabile per contribuire alla formazione di una «nuova destra», che nelle tradizione dell’«antica Destra italiana» avrebbe dovuto continuare a tener ben salde le proprie radici e «richiamarsi ad essa, o almeno al suo spirito, per assicurare la continuazione della sua opera storica»82. In questo modo, la rivoluzione fascista avrebbe inaugurato il suo «Termidoro», che costituisce necessariamente la fase finale di ogni rivoluzione e il suo esito naturale, «quando l’antico ordine non esiste più, e il disordine terroristico non è più necessario, nemmeno per salvare i propri capi dal Terrore, mentre il nuovo ordine non è ancora nato»83. Volpe, per suo conto, non si distaccava da queste posizioni di conservazione nel cambiamento, che ritroviamo nella corrispondenza dello storico con Camillo Pellizzi, il quale, nel suo recentissimo Problemi e realtà del fascismo, andava ipotizzando una originale via di composizione tra pieno ritorno alla legalità e conservazione del carattere rivoluzionario del fascismo, che, mentre doveva mantenere la sua fisionomia di «parte aggressiva, battagliera, costruttrice, a suo modo assolutista e a suo modo liberista», aveva l’obbligo invece di rifiutare decisamente persino una sua «provvisoria sistemazione in partito contro tutti i partiti, contro il regime demo-libero-borghese, che dava ai partiti una vita naturale e necessaria»84. In risposta all’invio di quel volume e in parziale dissenso con i suoi contenuti, che mettevano for-
81 ID., Il problema morale del Fascismo, in «L’Epoca», marzo 1924, ivi, p. 120. 82 ID., Per una nuova Destra, in «Il Popolo d’Italia», 12 ottobre 1921, ivi, pp. 55 ss. 83 ID., Diciotto Brumaio, in «Critica Fascista», 24 settembre 1923, ivi, pp. 95 ss. 84 C. PELLIZZI, Problemi e realtà del fascismo, cit., p. 123.
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temente in guardia contro i pericoli di una possibile costituzionalizzazione del fascismo, che lo avrebbe ridotto a essere «niente altro che il salvatore dello Stato liberale nazionale», Volpe così scriveva a Pellizzi, il 27 marzo 1924. Non dirò che io sia sollecito: 5 mesi, avanti di scrivere una lettera di risposta. Lo metta nel conto del momento storico, in cui tutti siamo superassorbiti da tutto! E grazie della sua che mi ha permesso di avvicinarmi un momento a lei, dopo aver letto e apprezzato i suoi articoli sul Popolo. Ora conosco anche il volume sul Fascismo. C’è, me lo permetta, qualche sciabolata storico-filosofica tirata giù alla brava: difetto della invidiabile gioventù. Ma c’è ricchezza di idee e fervore di vita e nobile sforzo di capire la realtà e agire su la realtà. Bisogna operare in modo che questo movimento rappresenti sempre più il meglio e il nuovo della vita italiana e lasci dietro di sé scorie e vecchiumi camuffati di novità. Può essere che fra 10 anni esso non esista più con le forme attuali. Ma che si possa dire: è stata la bandiera che ha aiutato l’Italia a risollevarsi e camminare; è stata l’espressione provvisoria, contingente, ma energica del nuovo spirito degli Italiani che presto ha superato anche il Fascismo, non si è appagato più neppure di esso dopo che esso aveva assolto il suo compito, ed ha cercato altre bandiere, altri miti, altre scelte per salire85.
Con tutte le sue moltissime varianti e ambiguità, il programma di unità nazionale, con cui il Pnf si presentava all’appuntamento elettorale, veniva, in ogni caso, generosamente premiato dal verdetto delle urne. Alla vittoria sul fronte interno si aggiungeva, poi, per Mussolini, quella all’interno del suo schieramento, quando il Duce del fascismo, per rafforzare ulteriormente la sua egemonia, dopo aver emarginato l’ala estrema guidata da Farinacci, si sbarazzava di quella revisionista, ratificando, il 16 maggio, l’espulsione di Rocca dal partito86. Quell’atto provocava una sia pur larvata protesta di Volpe, apparsa all’interno di un’intervista concessa a «Popolo di Lombardia» nella settimana seguente, dove, tra l’altro si invitava il Pnf ad abbandonare un atteggiamento di «antisocialismo» sistematico che lo avrebbe tramutato in un movimento «reazionario», incapace di instaurare un contatto profondo con il complesso della vita nazionale. Non dobbiamo impuntarci su alcune parole, destra, sinistra e via dicendo: si può e si deve andare ad un tempo a destra e sinistra. A destra per quel che riguarda la politica pura, il concetto d’autorità, il prestigio dello Stato, a sinistra per la politica economica, lavoratrice, per il lavoro, insomma, nel senso più 85 Gioacchino Volpe a Camillo Pellizzi, 27 marzo 1924. La lettera è riprodotta in appendice al mio, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra, cit. 86 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., p. 596.
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alto della parola. Non confondiamo il partito con il movimento socialista: piuttosto inquadriamo le masse dando loro un maggior senso di responsabilità, distogliendole dalla concezione ad un tempo ventraiola e indifferente87.
Defenestrata ufficialmente dal partito, la corrente «costituzionale» del fascismo continuava così la sua battaglia presso la pubblica opinione e nel parlamento. Nella seduta inaugurale della nuova legislatura, Grandi, in qualità di capogruppo del Pnf, dichiarava di considerare «il fascismo come un fenomeno transeunte della vita italiana, come la matrice di una nuova democrazia» e aggiungeva che il suo gruppo dirigente doveva assolvere il «grande compito» di preparare «nella pubblica coscienza le condizioni per la graduale formazione delle nuove unità politiche che sorgeranno dopo esaurito il compito restauratore che il governo fascista vuole assolvere»88. Anche Volpe era intervenuto nel dibattito con un lungo articolo, pubblicato nel mese di aprile sulle pagine di «Gerarchia», dedicato a una dettagliata analisi del risultato elettorale89. Risultato certo pienamente positivo, ricco di luci ma non privo di qualche ombra, proprio per la mancata consapevolezza, all’interno del movimento dei Fasci, di aver compiuto una così radicale trasformazione della situazione politica da consentirgli l’abbandono del suo status di «partito milizia». La vigilia elettorale era stata tranquilla, priva di quel «senso di angoscia e incertezza pel domani che caratterizzò le elezioni del dopoguerra». Lo svolgimento del voto aveva registrato soltanto sporadici atti di violenza e di sopraffazione, sulle due linee del fronte, anche se «la grossa violenza – agguato e colpi mortali – specialmente o solamente da quella parte ove più numerosi fermentano gli istinti criminali e la piccola violenza, invece, specialmente da parte fascista». Le velleità di «ripresa rossa» erano restate lettera morta, schiacciate dalla «nettissima vittoria della lista nazionale». Eppure, nonostante questi dati inoppugnabili, il fascismo aveva continuato a utilizzare i vecchi gridi di battaglia, adatti per fronteggiare il bolscevismo nella guerra intestina del 1919-1920, ma ora inutili e addirittura controproducenti se si voleva dimostrare non soltanto di possedere la «forza» ma anche di saper conquistare e mantenere il «consenso». L’Italia aveva abbracciato il fascismo, concedendogli una «superiorità grande nella lista nazionale: superiorità relativa, ma anche assoluta, su la somma di tutte le altre liste». Ma ora toccava al fascismo abbracciare l’Italia, tutta l’Italia, sen-
87 P. DONADONI, A colloquio con l’on. Prof. Volpe, cit. 88 La prima seduta alla nuova Camera, in «Il Popolo d’Italia», 28 maggio 1924, p. 1. 89 G. VOLPE, Un’occhiata alla nuova Camera, in «Gerarchia», aprile 1924, in ID., Guer-
ra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 303 ss.
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za eccezioni, rappresentando «quelle esigenze e quegli interessi dei quali sinora si facevano forti i partiti e i gruppi politici soccombenti» e secondando, infine, il movimento profondo di una nazione che «va innegabilmente a sinistra (la plebe diventa popolo, le moltitudini si elevano e si individualizzano) e va anche innegabilmente a destra, cioè cerca, esprime in alto, una più energica forza coordinatrice e conduttrice». Per portare a termine questo programma, l’attuale «giovane» maggioranza doveva modificare radicalmente le sue parole d’ordine e i contenuti del suo apostolato, per trasformarli in strumenti di egemonia proprio nei confronti di quelle masse, alle quali solo ieri era stato necessario contrapporre la violenza «legittima», seppure non «legale», delle squadre d’azione. Soltanto in questo modo il nuovo Parlamento, «nato fuori dei partiti, sebbene con la viva impronta di un determinato partito “sui generis”, più movimento che partito», poteva rappresentare le aspettative concrete e le tensioni ideali di una paese che aveva superato con successo le prove terribili della guerra e del dopoguerra. Della vita italiana degli ultimi venti o trenta anni, delle sue infatuazioni e delusioni politiche successive, della crisi dei partiti, il fascismo si era fatto interprete e testimone, anche se «con maggiore e minore consapevolezza di sé e di questo suo compito». Di qui la sua fortuna ma anche il suo destino di fenomeno politico provvisorio, che forse era destinato a esser «divorato anche esso dalla realtà, sempre più ricca e comprensiva ed esigente verso gli uomini e i partiti politici». Ma intanto, il fascismo aveva molto lavoro davanti a sé per realizzare i suoi obiettivi essenziali, che sarebbero sicuramente stati raggiunti, se esso avesse saputo rinunciare alla sua fisionomia di setta politica, al suo orgoglio di casta chiusa, alle sue ricorrenti tentazioni isolazioniste, ai suoi pregiudizi massimalisti, alle sue spinte tendenzialmente eversive, all’uso della violenza ormai inutile e anzi del tutto controproducente, anche se appaltato dal gennaio del 1923 ai manipoli della Milizia per la Sicurezza Nazionale che avevano «normalizzato» il fenomeno squadrista90, al desiderio di confondere Stato e partito o, peggio, di subordinare quello a questo. È necessario che il Fascismo vigili se stesso; che non si metta contro tutti gli Italiani che fascisti non sono, anche se vicini nella sostanza; che non si inalberi fanciullescamente ad ogni critica; che non faccia il vuoto attorno a sé. Che non sia troppo, troppo angustamente, un partito, cioè che non faccia delle sue intuizioni altrettanti dogmi. Che non voglia essere troppo lo Stato. Una cosa è che esso soffi nello Stato il suo spirito, un’altra cosa che si consideri Stato. Go-
90 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 15 ss.
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verno di partito è cosa lecita, e, in certe contingenze, desiderabile e necessaria: ma esso rimanga ad una certa distanza dal partito e sopra il partito, e capace di dominarlo e tenerlo nei limiti della legge comune. La milizia nazionale operi non agli ordini del partito ma, fino a che esiste ed assolve certo suo compito, dello Stato, e per fini che non siano, sic et sempliciter, del partito. Gli sfasciamenti di cooperative non rappresentino più una iniziativa degli organi periferici: o quanto meno, ci si domandi se, anziché per l’Italia non si lavori, in molti di quei casi, per i… bottegai. Non vogliano i fascisti seguitar a fare, come partito di governo, ciò che facevano, e in certo senso era lecito fare, quando erano un semplice partito, lottante ad armi eguali con altri partiti, in un paese che non aveva quasi più Stato. Se il Fascismo sarà capace di tutto questo, esso mostrerà di aver meritato appieno le sue fortune ed avrà molta strada davanti a sé. La nuova Camera, fiancheggiando intelligentemente il capo del governo e sorreggendo le forze e tendenze migliori del partito, potrà avere un compito importante anche nei riguardi del Fascismo, oltre che nei riguardi delle istituzioni parlamentari, le quali, non è detto che, screditate oltre ogni limite sino a tutto il 1922, non comincino, solo ora, riformate o no, a riguadagnare nella considerazione degli Italiani…91.
Coerentemente all’appello di Volpe, d’ora in poi il fascismo avrebbe dovuto disciplinare, se non addirittura rinunciare alla sua caratterizzazione di forza di piazza e di battaglia e restaurare dall’interno, invece, e non già distruggere dall’esterno, l’assetto parlamentare, per inserirsi organicamente nella storia d’Italia, come elemento di rinnovamento nella continuità, senza proporsi nessuna spericolata e velleitaria rottura del tradizionale ordine politico. Come Grandi, anche Volpe, considerava ultimato il compito rivoluzionario del fascismo, una volta che, seppure in forza di una soluzione extra legem, le camicie nere avessero potuto «risanare lo Stato» e compiuto un aggiornato «ritorno allo Statuto» di più o meno sonniniana memoria92. Parte di questo programma era condiviso anche da Mussolini, sia pure con buon tasso di interessatissimo calcolo, la cui ambiguità tuttavia non emergeva completamente nell’indirizzo di risposta al discorso della Corona, pronunciato nel-
91 G. VOLPE, Un’occhiata alla nuova Camera, cit., pp. 310-311. Sullo stesso punto, anche Rocca si era espresso vigorosamente sulla necessità di por fine dell’«illegalismo di ogni genere», ora che il fascismo aveva assunto la responsabilità di governo: «La violenza illegale perpetrata all’ombra della protezione statale è ingenerosa e demoralizzante, e può condurre alla formazione d’una delinquenza di Stato o di plutocrazia, riassorbendo gli irrequieti di tutte le violenze emigranti dal bolscevismo al fascismo, e domani magari ad un bolscevismo nuovo». Si veda, ID., Una legge per gli Italiani, appunto manoscritto, 15 marzo 1924, in ID., Il primo fascismo, cit., p. 184 92 D. GRANDI, Prefazione a N. LAZZERONI, La rivoluzione delle coscienze, Imola, Baroncini, 1922, pp. 6 ss.
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l’aula della Camera, durante la tornata del 7 giugno93. In quel messaggio, il Presidente del Consiglio respingeva nettamente le accuse rivolte al fascismo di aver condizionato il verdetto delle urne con brogli, intimidazioni e violenze. Quelle accuse, che facevano parte del comportamento fisiologico dei partiti, quando il «partito vinto si scaglia sul partito vincitore e tenta di infirmare il responso delle elezioni», erano le stesse in virtù delle quali Salvemini aveva bollato il governo di Giolitti con l’epiteto di «governo della malavita» solo per «qualche piccola legnata dei famosi mazzieri» e per «qualche mescita accettata e donata ai lavoratori pugliesi, che si vendicavano poi col votare contro coloro che avevano pagato». L’illegalismo era, d’altra parte, in regresso in tutto il paese. Lo era quello «rosso», per esaurimento delle sue energie, e lo era quello «nero», perché si era provveduto a «convertire lo squadrismo fascista in una Milizia agli ordini del governo e al servizio della Nazione». Ieri come oggi, il fascismo si proponeva infatti di restaurare lo «Stato liberale», uscito malconcio dai traumi della guerra, che l’«offensiva sovversiva» aveva cercato poi di affossare con «l’occupazione delle fabbriche e il famoso sciopero legalitario proclamato dalla Alleanza del lavoro», provocando il contrassalto dei fautori dell’ordine culminato con la «Marcia su Roma». In margine al discorso del sovrano, interveniva anche Volpe con un commento, poi pubblicato su «Gerarchia», che l’andamento dei lavori in aula o altre ragioni, forse di convenienza politica, avevano impedito di pronunciare in quella sede94. Commento che si contraddistingueva per il tono decisamente inusuale e direi quasi irrituale, soprattutto nell’apertura nella quale si rimproverava il monarca di aver parlato di «avvenuta soluzione dei principali problemi della nostra guerra». Questa espressione, replicava lo storico, «passava il segno» e non corrispondeva alla realtà dei fatti, se si pensava alla inquietante presenza dei «gruppi allogeni» entro i confini nazionali, che «sono alla frontiera, anzi in uno dei punti più delicati della nostra frontiera, in contiguità territoriale con il grosso della loro gente». Ai frutti dell’ultimo conflitto mancava poi lo scioglimento di altre questioni decisive (l’allargamento del dominio coloniale e la conquista della riva orientale dell’Adriatico) che pure furono presenti «agli Italiani tutti, ai combattenti, ai negoziatori di 93 B. MUSSOLINI, Su l’indirizzo di risposta al Discorso della Corona, 7 giugno 1924, in ID., Scritti e discorsi politici, cit., IV, pp. 149 ss. 94 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma, 20 giugno 1924, CV: «A grande stento ho potuto fare, questi giorni, l’articolo per Gerarchia, su la base del discorso, anzi dei due discorsi preparati per la Camera». Si veda anche, Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, luglio 1924, cit.: «Ti mando un numero di Gerarchia dove è il mio discorso… rientrato, alla Camera».
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trattati, prima e, più, durante e subito dopo la guerra». Tutti dati questi che consigliavano il nuovo governo di raffreddare il compiacimento per i magri risultati conseguiti, e di impegnarsi, al contrario, su di una linea di vigilanza armata per quello che concerneva l’osservanza degli accordi internazionali raggiunti, mantenendo un atteggiamento di guardinga osservazione nei confronti dei malcerti alleati di ieri, per far sì che «nel nostro libro mastro rimanga scritto di buon inchiostro quella che fu la vicenda diplomatica e internazionale della nostra guerra, quello di cui avemmo a lodarci da parte loro e quello di cui non avemmo a lodarci»95. Meglio, continuava Volpe, Vittorio Emanuele III aveva colto la grande trasformazione che si stava verificando all’interno del paese, parlando di «indirizzo organico di equa tutela di tutti gli interessi convergenti all’unico fine sociale, che dia il massimo benessere a tutti i lavoratori», di «classi e categorie ricondotte nell’ambito della disciplina nazionale», di «miglioramenti economici e morali e provvidenze legislative che consentano ad esse anche una più intensa partecipazione ai doveri sociali», di possibilità per i produttori di «farsi sentire attraverso nuovi organismi che si rendessero necessari alla vita costituzionale dello Stato», al fine di rendere tutte le categorie dei cittadini «sempre più aderenti allo sviluppo e sempre più interessati alle fortune della nazione». Era indubbio, infatti, che il fascismo si fosse avviato a realizzare un «vasto programma di democrazia nazionale» e che, sotto l’insegna del littorio, si profilasse un esperimento di politica sociale assolutamente originale in confronto alle «concezioni puramente liberali o nazionaliste o socialiste dello Stato». Ma questo traguardo ambizioso, che aveva trovato la sua formulazione nelle prime enunciazioni del programma corporativo, tra 1921 e 1922, rischiava di essere mancato, se per la sua attuazione si fosse scelta la via segnata dallo «spirito giacobino» e non quella indicata dallo «spirito della libertà», che andava procedendo da quella profonda «revisione del liberalismo e dei suoi istituti», ancora attualmente in atto. A questo patrimonio ideale non era possibile opporre la «baldanzosa letteratura giornalistica e oratoria di parte fascista, sciorinata al sole in questi ultimi anni di passioni, di gesti volutamente ed esasperatamente antitetici, di disconoscimento polemico del passato». Né, sul piano pratico delle riforme necessarie alla «tutela di tutti gli interessi convergenti», l’azione governativa poteva risolversi in «intervenzionismo di marca riformistica e in paternalismo statale». Lo Stato doveva sicuramente vigilare sul «movimento di organizzazione dei lavo95 G. VOLPE, Commento al Discorso della Corona, in «Gerarchia» giugno 1924, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., p. 317.
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ratori» ma «un po’ da lontano», senza che nessuno potesse pretendere che il «suo sforzo sia solo economia e non politica». Ipotizzare il contrario avrebbe voluto dire rinnegare uno dei più positivi risultati della rivoluzione fascista che ha affrettato «lo scioglimento, un pezzo dopo l’altro, della “bardatura” di guerra, riconducendo lo Stato alle sue fondamentali e tradizionali funzioni che non sono quelle di gestire industrie, esercitar commerci, arare la terra». Il fascismo al potere doveva al contrario ribadire la sua scelta liberista, favorire il passaggio di molte attività «dal centro alla periferia, dal governo ai cittadini, e alle forze nazionali automaticamente e pur coordinatamente operose», nella consapevolezza che «lo Stato tanto meglio esercita le sue funzioni quanto più esso restringe il campo della sua attività». Al rifiuto di una politica dirigistica sull’emigrazione, di una rigida strategia doganale, della intromissione statale nei rapporti tra proprietari, braccianti, fittavoli e tra capitale e lavoro, rappresentanza nazionale e governo dovevano contrapporre un assenso convinto alle «tendenze e orientamenti liberali, con qualche volontà e capacità di resistenza alle esigenze, mai paghe, di alcune industrie». A queste condizioni il movimento di Mussolini poteva in breve, forte dei risultati conseguiti, disarmare l’opposizione «sofistica, astiosa, paradossale» dei suoi avversari, non per «fascistizzare l’Italia» ma per chiamare a raccolta tutti gli italiani sulla linea di un rinnovamento anche drastico. E questo poteva sicuramente fare il fascismo, nonostante i suoi difetti, le sue mancanze, le sue intemperanze ideologiche, il suo carattere di «movimento», non effimero certo, ma sicuramente temporaneo nella lunga durata della storia nazionale. La dottrina del Fascismo sarà incoerente e presa d’accatto, sintesi grossolana e provvisoria; ma la sua forza politica e la sua importanza storica sono innegabili. Esso potrà non rappresentare tutta l’Italia e tutto il meglio dell’Italia; e voi potrete con ragione segnare a dito certi suoi ultrapatriottici profittatori, sorridere di quella specie di divinizzazione che si fa del Fascismo e considerare pericolosa la ideale abdicazione che milioni di uomini fanno di sé ad un uomo, reagire alla spicciativa distinzione degli Italiani in nazione ed antinazione; ma esso esprime qualcosa di nuovo ed energico e fattivo che fermenta da venti anni nelle vene della nazione italiana e che ha avuto nella guerra, almeno come alcuni l’hanno concepita e voluta, la sua massima manifestazione. Domani ci sarà di meglio? Un altro movimento esprimerà con maggior pienezza quei valori morali che a noi stanno a cuore? Riecheggerà più voci, vorrà e potrà soddisfare più esigenze della vita italiana? Tanto meglio. E noi allora lo seguiremo!96
3. Le rosee previsioni di Volpe di un ulteriore radicamento del fa96 Ivi, pp. 330 ss.
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scismo nella società italiana, grazie a una sua completa normalizzazione, si annullavano di colpo con l’assassinio di Matteotti, la cui responsabilità era immediatamente attribuita a Mussolini dalle forze politiche, uscite battute dalla recente tornata elettorale, che, il 12 giugno, decidevano di astenersi dai lavori parlamentari97. L’idillio tra nuovo governo e nazione si tramutava in «incubo», come lo storico annotava in una preoccupata lettera alla consorte. Qui le solite novità, cioè annaspamenti di amici del presente ordine per trovare una via d’uscita, per conciliare le preoccupazioni morali (che vogliono luce) con quelle politiche (che temono che la luce possa essere troppa e bruciare e lasciare al buio). Non ho ancora parlato con nessuno che ne sappia un po’ più di noi comuni deputati. Vedrò stasera Arrigo [Serpieri]. Vorrei fare una visita a Federzoni. Andrò in casa Gentile98.
Una situazione, destinata ad aggravarsi ulteriormente, a distanza di soli quattro giorni, quando Volpe scriveva: Questa sera sono da Cantalupo: ecco le oasi della mia giornata che passa, in genere poco movimentata. C’è stata anche la Camera deserta finora: e solo oggi si rivede gente per l’adunanza di domani. Che cosa ne verrà fuori? L’opposizione, è chiaro, vuol arrivare alla distruzione del governo e allo scioglimento della Camera. Elemento decisivo sarà la massa del paese e ciò che essa vorra! È difficile governare molto tempo se questa forza anonima non è ben disposta e non forma, per il governo, una atmosfera favorevole…99
La reazione negativa contro il fascismo e il suo capo oltrepassava rapidamente, infatti, i banchi dell’opposizione e si estendeva a larghissimi strati dell’opinione pubblica che fino a quel momento avevano visto con favore l’attività del nuovo governo. La sollevazione antifascista negli animi fu quasi plebiscitaria e arrivò a erodere non soltanto gli ambienti fiancheggiatori, ma anche quelli filofascisti e fascisti. Il ricorso a una «controrivoluzione» antifascista era certo esclusa dalla maggioranza degli italiani, ma molti, specialmente nella piccola e media borghesia, contemplavano con favore un possibile intervento di Esercito e Corona per stabilizzare il quadro politico. Nonostante gli appelli di Mussolini a «puntare i piedi contro l’assalto degli sciacalli»100, la stessa ete-
97 Sul punto, e per quel che segue, R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp. 538 ss. 98 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma, 20 giugno 1924, CV. 99 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma, 24 giugno 1924, CV. 100 B. MUSSOLINI, Scritti e discorsi politici, cit., IV, pp. 181 ss.
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rogenea maggioranza parlamentare, composta da molti non fascisti, moderati, nazionalisti e liberali, si sbandava precipitosamente e pareva molto ben disposta verso un intervento della monarchia, in grado di ristabilire l’ordine costituzionale e di rafforzare la propria posizione. Per contro, e proprio in relazione a quest’ultima ipotesi, riprendeva vigore l’ala radicale del Pnf, guidata da Farinacci, che dalla nuova situazione aveva tratto conferma dei suoi ben radicati convincimenti e cioè che la dinamica rivoluzionaria del fascismo era stata pregiudicata dal compromesso normalizzatore, al quale si faceva risalire la responsabilità della politica moderata del governo, la sopravvivenza e l’impetuosa ripresa dell’opposizione ma anche la corruzione del gruppo dirigente insediatosi nel governo e alla testa del partito. I risvolti «affaristici» dell’eccidio del deputato socialista, eliminato fisicamente, si disse, prima di aver potuto pronunciare una durissima requisitoria contro il losco mondo speculativo che operava all’ombra del nuovo gabinetto101, rafforzavano questi convincimenti e sembravano dar corpo alla profezia, che, già nel 1922, Volpe aveva espresso in forma di monito, consigliando Mussolini di guardarsi «dai troppi amici improvvisati, dai troppi gregari d’ogni origine che ora affluiscono nelle file del Fascismo, dai troppi giornali osannanti, dai troppi probabili consensi di Montecitorio, dagli industriosi e insidiosi ragni che certo cominceranno subito a tessere i loro fili attorno al Viminale, come attorno ai Fasci!»102. Si scavava il vuoto attorno al fascismo e ai suoi sostenitori. Un vuoto nel quale anche Volpe rischiava di sprofondare. In quei mesi, il programma editoriale di Zanichelli entrava rapidamente in crisi e si avviava verso un tempestoso fallimento. La morte di alcuni collaboratori, come Paolo Negri e Anzilotti, era stata preceduta dall’abbandono dell’impresa della maggioranza degli altri autori per considerazioni politiche che esulavano dai contenuti della collezione. Desistevano dalla collaborazione Guido De Ruggiero, Omodeo, Ettore Rota, Raffaele Ciasca, Gino Luzzatto, ma anche il medievista Monneret de Villard, il cui rifiuto di continuare nell’opera intrapresa suscitava in Volpe l’ironico interrogativo relativo al fatto «se la storia economica dell’alto Medio Evo possa, nella sua interpretazione, risentir di fascismo o antifascismo»103. Con la messa a nudo del volto non più soltanto autoritario, ma ormai eversivo, per non dire terroristico, del regime, le divisioni politiche si facevano nette anche nel mondo della cultura, dove, in ogni caso, i pro-
101 M. CANALI, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino, 1997. 102 G. VOLPE, Giovane Italia, cit., pp. 409-410. 103 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Roma, 30 novembre 1924, ABC.
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dromi di quella diaspora fermentavano da tempo. Da una parte Gentile, Volpe e tutti coloro che di lì a un anno aderiranno al manifesto di sostegno al fascismo. Dall’altra, quelli che assumeranno più o meno nettamente una posizione di «oppositori» o quantomeno di «stranieri» alla dittatura104. Più tardi Benedetto Croce, nell’aprile del 1925, dichiarava di essere costretto a interrompere ogni rapporto di collaborazione intellettuale con Gentile e Volpe e rifiutava la sua collaborazione all’Enciclopedia Italiana, motivando quella scelta con l’impossibilità di partecipare ai lavori di «un’Enciclopedia diretta da chi ha pur testé, a Bologna, osato proclamare che la cultura deve essere fascista»105. Più precocemente, Lombardo Radice e Omodeo tentavano ripetutamente, ma senza risultati, di staccare Gentile dal fascismo106, mentre Giustino Fortunato, legato a Volpe da una lunga e affettuosa consuetudine epistolare, nel gennaio 1924, scriveva allo storico di riconoscere «nel presente Governo una “volontà di governo”, così come l’eguale non ricordo dall’80 ad oggi», per poi aggiungere, però, che anche la nuova direzione del paese «era al pari delle precedenti, fuori della realtà», incapace quindi di «dare alcuna fiducia del domani» e anzi responsabile di aggravare le condizioni dell’«Italia politica, fatta più che mai imperialista e sognatrice»107. Una critica, che più tardi avrebbe investito direttamente Volpe108, già a partire dalla lettera del 10 aprile, nella quale Fortunato, dopo essersi congratulato per il discorso elettorale dello storico, «favorevole al fascismo» ma che «intellettualmente mi è molto piaciuto»109, dichiarava, in ogni caso, di nutrire una ben diversa «visione della nostra realtà, che la «inimmaginabile falsità delle ultime elezioni ha di tanto, di tanto peggiorata»110. Sempre in risposta all’invio di quello scritto, il generale Caviglia, che, come abbiamo visto, non aveva negato il suo con-
104 E.R. PAPA, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, Milano, Feltrinelli, 1958. 105 Benedetto Croce a Gioacchino Volpe, 7 aprile 1925, in Epistolario. I, cit., p. 108. Il riferimento era al discorso di G. GENTILE, Il Fascismo nella cultura, in Politica e cultura, I, cit., p. 99. Intervento che aveva di poco preceduto la stesura del manifesto d’appoggio degli intellettuali al regime del marzo di quello stesso anno. 106 G. SASSO, Visitando una mostra. Considerazioni, ricordi, polemiche, in «La Cultura», XXIV, 1986, p. 20 ss.; M. MUSTÈ, Adolfo Omodeo: storiografia e pensiero politico, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 227 ss. 107 Giustino Fortunato a Gioacchino Volpe, Napoli, 3 gennaio 1924, in ID., Carteggio, 1923-1926, a cura di E. Gentile, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 100. 108 Ivi, pp. 6, 53-54, 132-133; 99; 215. Dove sono contenute critiche sempre più esplicite a proposito dell’impegno politico di Volpe. 109 G. VOLPE, Fascismo. Governo fascista. Problemi italiani del momento, cit. 110 Giustino Fortunato a Gioacchino Volpe, Napoli, 10 aprile 1924, CV.
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vinto appoggio al movimento dei Fasci, comunicava la sua profonda perplessità per l’impegno militante del suo antico subordinato, con queste eloquenti parole: Le sono grato d’avermi mandato il suo discorso politico. Nessuno poteva trattare così bene l’argomento che Ella ha scelto. Eppure la lettura del piccolo opuscolo non mi consola dal timore che la sua serenità di storico sia turbata dalla politica111.
Nei mesi successivi, Fortunato Pintor comunicava a Gentile la sua preoccupazione per la «crisi di ordine morale in cui il nostro Paese si dibatte e che si fa sempre più grave», al quale nessuna riforma costituzionale avrebbe potuto «dare pace»112. E, a Gentile, De Ruggiero avrebbe inviato, nella primavera del 1925, un commiato ultimo e definitivo. In quella lettera, dopo aver accusato il filosofo di aver prodotto una crisi irrimediabile, «rompendo l’unità di un mondo appena in formazione e creando un dissidio profondo nell’animo di coloro che, come me, pensavano che molte cose potessero e dovessero essere salvate da questo sconvolgimento», De Ruggiero affermava che «ponendoci contro di voi, noi ora ci difendiamo e forse difendiamo ancora qualcosa di voi»113. Sempre De Ruggiero entrava in un durissimo conflitto con Volpe, rifiutandosi sostanzialmente, dopo un lungo contenzioso, di pubblicare la sua Storia del liberalismo nella collana della «Storia d’Italia»114. Della rinuncia, Volpe informava Croce nella corrispondenza del 30 novembre 1924, nella quale si chiedeva ragione del sostegno fornito al cambiamento di rotta di De Ruggiero, per passare poi a una descrizione, decisamente ab irato, dei venti di guerra che avevano investito il mondo della cultura. Venti di guerra che destavano polemiche ad personam di bassa cucina giornalistica, come la campagna di stampa intrapresa dal «Becco giallo» di Alberto Giannini contro Volpe e Gentile, di cui gli interessati facevano responsabile De Ruggiero115, nonostante i dinieghi si-
111 Enrico Caviglia a Gioacchino Volpe, 8 marzo 1924, in FV. 112 Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, 3 settembre 1924, in Giovanni Gentile e il
Senato, cit., p. 387. 113 Guido De Ruggiero a Giovanni Gentile, 26 aprile 1925 in M. DI LALLA, Vita di Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1975, p. 339. 114 E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale, cit., pp. 115 ss. 115 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Roma, 30 novembre 1924, cit.: «Non sapete che un giornale umoristico di Roma ha scritto aver io, occupandomi di cose moderne, detto “un cofano di fesserie”? Se è vero, voglio che lo dica non Il becco giallo ma un giornale rispettabile!». Nella lettera il riferimento era alla recensione di G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio: l’Italia che si fa. Volpe avrebbe ricordato l’attività della rivista, parlando di «un Guido de Ruggero, che, pur beffeggiando sul “Becco Giallo” Giovanni Gentile, ministro,
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curamente sinceri di quest’ultimo116. Venti di guerra che trasformavano l’aula degli studi in un’arena gladiatoria, dove le ragioni degli uni e degli altri parevano a questo punto destinate a misurarsi solo nella prova delle armi. La cosa è tanto più urtante, in quanto credo che dietro gli scrupoli ideali o morali c’è sempre qualche altra cosa di meno alto: cioè passione partigiana e faziosa, desiderio di non compromettersi in nessun modo in pubblico ecc. Tanto è vero che feroci antifascisti attuali che ora quasi evitano di toccarmi per paura di lebbra, non molto tempo addietro ricorrevano a me per aver agevolazioni dal “governo fascista”. Perché nessuno potrà farmi persuaso che non si possa, oggi, scrivere di un argomento storico o storico-politico, senza farne cosa polemica, senza mortificarlo con le nostre presenti passioni. Chi impediva a De Ruggiero di valutare storicamente il fatto “liberalismo” nel suo sorgere e nel suo fiorire e magari desumerne la convinzione della sua grandezza e della sua vitalità? Non potrei farlo io, che non son socialista o comunista, del socialismo o del comunismo? Lui mi scrive che voi gli avete dato ragione: ma non so persuadermene. E in ogni modo, della conciliabilità del volume con la collezione dovevo e potevo essere giudice anche io, che aspetto il volume da due anni ed ho impegni editoriali ed ho lavorato per questa collezione! Ma non signore! Tutto questo è, permettetemelo, stupido. Tradisce un sentimento che, se diffuso, crea ipso facto la guerra civile, armi alla mano. Ed io che sono, mi pare, fuori dalle fazioni e delle parti, sento anche io, a volte, investirmi dallo spirito fazioso e partigiano, per legittima ritorsione!117
Si era ormai molto al di là della tradizionale contesa delle penne e dei calamai, tante volte combattuta dal mondo accademico. Ci si trovava, invece, nel pieno di un bellum intestinum autentico, secondo la pregnante definizione di Volpe, che Gobetti aveva già da tempo iniziato con un articolo ironico, amaro e corrosivo, dove, prendendo a pretesto il conferimento della laurea honoris causa a Mussolini, si affermava che «mentre i professori di Bologna eleveranno il maestro elementare a dignità di professore, Solmi e Volpe, storici, Cian erudito, Balbino Giuliano filosofo lo acclameranno signore in Parlamento e non si potrà più, dopo la solenne prova, parlare d’incompatibilità tra fascismo e inne coltivava l’amicizia e ne frequentava la casa». Si veda ID., Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, cit. 116 Guido De Ruggiero alla moglie, 12 dicembre 1924, AGDR: «Gentile mi ha fatto una recriminazione per il trattamento sadico che gli va facendo Il becco giallo: alias quel mascalzone di X… La cosa è veramente seccante perché siccome è notorio che io sono collaboratore del B. G., quelle sudicerie vengono attribuite a me e io ci faccio una pessima figura. Dovrò dire a Giannini che la smetta: dica quel che vuole di G. politico, ma lasci in pace la filosofia e la famiglia». 117 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Roma, 30 novembre 1924, cit.
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telligenza»118. Più accorato, ma ancora più energico nei toni, risultava invece essere l’intervento di Giovanni Mira, l’allievo milanese di Volpe, che nel luglio di quello stesso anno, pubblicava un articolo contro gli intellettuali fattisi organici al nuovo regime, qualificandoli come i «peggiori» tra tutti i compagni di strada dell’avventura fascista. I peggiori non sono i bastonatori e non sono i libellisti, non i servi per stipendio e non i complici per viltà, non quelli che pagano e non quelli che trafugano: i peggiori sono essi, i De Stefani, i Casati, i Gentile, i Volpe, questi uomini di cultura che da venti mesi aiutano, approvano, rincalzano l’assalto diuturno che il regime tenta contro questa indispensabile base della nostra cultura di popolo moderno che sono le nostre libertà politiche; questi uomini di pensiero che partecipano alla persecuzione del pensiero; questi uomini chiamati a una vocazione di educatori e di scienziati che vituperano la scienza e l’educazione nei loro metodi e nei loro principi, asservendosi a una azione brutale di cieco settarismo e di miracolismo brutale. Tutti gli altri hanno delle attenuanti, solo questi no. Noi possiamo rispettare le illusioni degli inesperti; possiamo compatire le aberrazioni dei fanatici. A questi non possiamo concedere né le scuse della buona fede né quelle dell’ignoranza. Perché, questi, nessuno meglio di noi ha la possibilità e il diritto di giudicarli. Noi abbiamo camminato insieme ad essi fino a ieri. Sappiamo quali sono stati i loro maestri, quale è stata la loro vita: conosciamo, fase per fase, tutto il processo di formazione e la struttura del loro spirito. Abbiamo letto gli stessi libri, abbiamo parlato la stessa lingua. Per questo essi non possono ingannarci. Noi sappiamo benissimo che essi hanno piena coscienza dei danni incalcolabili che questo regime di sedizione e di arbitrio sta arrecando all’anima della nazione; piena coscienza che questa tattica che consiste nel disarmare l’illegalismo associandovisi, e con la quale essi pretenderebbero di giustificare la loro adesione al regime, non è che un’iniqua menzogna. In realtà noi possiamo essere inesorabili contro di essi, perché siamo i soli a conoscere tutto il peso del tradimento che essi hanno commesso contro le loro origini e il loro passato. Fratelli nella stessa fede, nella stessa morale, nella stessa tradizione, questo tradimento che è stato anche contro di noi è l’unica cosa che ci abbia ferito fino in fondo, che ci abbia quasi potuto spingere in certi momenti a disperare della patria. È perciò che ad essi non potremo perdonare più119.
Fuori dei confini della repubblica letteraria, la congiuntura politica si era intanto ulteriormente aggravata, nonostante il voto di fiducia «prudente e patriottico» di Benedetto Croce e del Senato, pressoché unanime in quella scelta120, al cui effetto positivo si sommava quello sca118 P. GOBETTI, Figure del Listone: Vittorio Cian, «Il Lavoro», 28 febbraio 1924, poi in ID., Scritti politici, cit., pp. 622 ss. 119 G. MIRA, I peggiori, «il Caffè», 15 luglio 1924, p. 1. 120 B. CROCE, Pagine sparse, cit., II, p. 485. A proposito delle dichiarazioni rese da Cro-
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turito dal ritocco ministeriale, suggerito e quasi imposto, nel mese di giugno, dai ministri fascisti moderati (De Stefani, Federzoni, Gentile, Oviglio), che mettevano a disposizione il proprio portafoglio per favorire «una più vasta collaborazione pacificatrice» tra governo, fascismo e paese. Mentre l’opposizione si arroccava, da posizioni di forza, nel cosiddetto «Aventino», continuava il processo di «squagliamento» tra le fila dei simpatizzanti del nuovo regime, nella maggioranza di governo, financo all’interno del partito. Questo fenomeno interessava anche i «peggiori», e dunque la maggioranza degli intellettuali italiani che avevano offerto la loro adesione al sistema di potere di Mussolini, i quali erano ormai lontani dal costituire un fronte non dico granitico ma anche semplicemente omogeneo. Persino Volpe assumeva durante la convulsa fase politica del mese di novembre un atteggiamento di speranzosa aspettativa, che rimandava in molti punti a quello espresso, quasi negli stessi giorni, da Salandra121, per un possibile ristabilimento della legalità istituzionale, financo per un drastico ridimensionamento del potere del Capo del Governo, a favore della Corona, e se non altro per la completa liquidazione dell’illegalismo squadrista e dei suoi boss provinciali. Siamo in una fase forse risolutiva per la politica: discussione bilancio interni. Non vedo come Mussolini possa uscirne tanto forte e con tanto consenso quanto è necessario per fronteggiare i dissidenti che ormai crescono anche nella maggioranza. E d’altra parte non vedo come possa ritirarsi, ora alla vigilia o quasi del processo Matteotti. Chi lo sa, in che misura egli vi è impegnato? Certo gli avversari puntano su quel processo per liquidare fascismo e fascisti e duci. Insomma, siamo di nuovo in alto mare e con un lievito di passioni concentrate che fan quasi più paura di quelle che erano palesemente scatenate nel 1921 e 1922. Non credo tuttavia a disordini gravi. Questa lotta ha rimesso in atto Re ed esercito e forza pubblica. Gli elementi estremisti del fascismo, che potrebbero voler spingere all’estremo, sono isolati. Molti dei quali sono stufi. Anche, Farinacci, il ras di Cremona è alquanto abbacchiato. Lancia sfide a destra e a manca e nessuno le raccoglie! Ciò che è grave e che mina il fascismo come partito è non tanto la politica quanto la condotta morale. Ogni giorno c’è un processo che mette a nudo inframmettenze, quattrini, pasticci. Aggiungi il sempre ce a sostegno del gabinetto Mussolini, si veda il duro commento di Giorgio Levi Della Vida, che riporta un suo colloquio con il filosofo, prima della votazione nella Camera alta: «Col vostro voto di fiducia voi fate gettito dell’ultima carta che potrebbe giocarsi dagli organi costituzionali dello Stato, voi perdete l’ultima occasione di restaurare, non a parole ma di fatto, la giustizia e la libertà delle quali il fascismo ha fatto scempio e delle quali continuerà a far scempio in avvenire, grazie a una vostra complicità della quale sarà difficile che, domani, la storia vi assolva». Si veda G. LEVI DELLA VIDA, Fantasmi ritrovati, Vicenza, Neri Pozza, 1966, p. 198. 121 A. SALANDRA, Memorie politiche, 1916-1925, Milano, Garzanti, 1951, pp. 56 ss.
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più chiaro rivelarsi della personalità di Mussolini, il suo oscillare, il suo essere sempre in balia dell’ultimo venuto…122.
Come si è visto, già nella corrispondenza con Gentile del luglio 1924, il recente rimpasto ministeriale veniva definito un autentico pasticcio123. E in quella indirizzata a Pellizzi, sempre nel mese di novembre, Volpe avrebbe chiaramente parlato di un disfacimento strutturale del «partito fascista che non resisterà alla crisi che lo travaglia e che si manifesta poi in un contrasto fra lo stato di mobilitazione armata in cui si trova e il lavoro, la capacità costruttiva, che compie e possiede in misura sempre minore». Una constatazione da cui scaturiva legittimamente la domanda «se il fascismo non ha già assolto la sua funzione, quella effettiva, voluta e consentita dalla storia, non quella mitica che gli uomini si compiacciono di attribuire ai partiti»124. Come spiegare allora il tetragono e apparentemente cieco attaccamento di Volpe al nuovo regime, che rimase saldo anche in quell’annus horribilis della vita pubblica italiana? Alcuni per farlo hanno utilizzato la frase di Togliatti nel 1956, che insisteva sulla necessità di «stare dalla propria parte, anche quando questa parte ha torto»125, senza neppure considerare che una più forte motivazione politica di quella fedeltà poteva essere rintracciata nella paura del «salto nel buio» che aveva inibito la possibile «vendetta fiancheggiatrice» contro il fascismo, a lungo premeditata dai suoi sostenitori di estrazione conservatrice, nazionalista, liberale126. Ma, a me pare, invece, che si possano trovare motivi ancora più specifici e magari più nobili per comprendere gli atteggiamenti di Volpe e di altri intellettuali di fronte a questo cruciale passaggio storico. Ancora rivolgendosi alla consorte, il 6 gennaio del 1925, quando ormai, con il discorso di pochi giorni prima, Mussolini aveva ampiamente dimostrato la sua capacità di liquidare l’opposizione antifascista e di ristabilire la sua piena egemonia all’interno del Pnf127, Volpe esprimeva il dubbio fondato che «la progressiva fascistizzazione rappresenti un progressivo peggioramento di uomini come qualità», pur sottolineando 122 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 17 novembre 1924, CV. 123 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, luglio 1924, cit. 124 Gioacchino Volpe a Camillo Pellizzi, 8 novembre 1924. La lettera è pubblicata in
appendice al mio, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra, cit. 125 R. PERTICI, Volpe, Chabod e altri storici. A proposito di un libro recente, in «Storica», 29, 2004, pp. 111 ss. Si tratta della recensione al mio, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani fra guerra civile e Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2004. 126 Per questa espressione, G. DORSO, La rivoluzione meridionale, Roma, Einaudi, 2 1945 , pp. 100 ss. Sul punto, R. DE FELICE, Mussolini il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista, 1925-1929, Torino, Einaudi, 19962, pp. 7 ss. 127 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp. 724 ss.
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che anche l’acuirsi dello scontro politico e persino la temporanea dissoluzione delle garanzie statutarie erano da preferirsi al vecchio trasformismo giolittiano, al suo consociativismo, all’adulterino connubio di maggioranza e opposizione. Io per conto mio credo che Mussolini abbia fatto una delle due cose che doveva fare: instaurar dittatura o andarsene. Proseguire, come finora, era il peggio. Otterrà con la compressione quel che non si era ottenuto con il lasciar fare di ieri? Gli altri rispondono, con fede, si, no. Io non lo so, confesso. È un’esperienza che l’Italia non ha mai fatto. Non abbiamo mai avuto né un governo che voglia governare col pugno di ferro e sia disposto a tutto, né una opposizione così velenosa e irriducibile. Le altre opposizioni erano, al confronto, roba da ridere: opposizioni per la piazza. Dietro le quinte bevevano il bicchiere insieme! Ma ora ci sono, lì in mezzo, dei fanatici che si farebbero tagliare a pezzi. Tuttavia si parla di crisi aventiniana. Repubblicani e popolari vorrebbero tornare. Gli altri, specialmente Amendola, puntano i piedi. E così, l’Italia è sempre sull’orlo della guerra civile128.
Ma anche Salvemini, tra 1922 e 1924, vedeva nel fascismo il calamitoso remedium che avrebbe potuto spazzare via il vecchio notabilato politico, socialista e liberale, purgare il paese dal male oscuro del sistema di potere di Giolitti, distruggere ogni remora a un efficace processo di modernizzazione nazionale. Tanto da sostenere che «Se Mussolini venisse a morire, e avessimo un ministero Turati, ritorneremo pari pari all’antico. Motivo per cui bisogna augurarsi che Mussolini goda di una salute di ferro, fino a quando non muoiano tutti i Turati, e non si faccia avanti una nuova generazione liberatasi dalle superstizioni antiche»129. E con grande amarezza, sempre Salvemini, in quello stesso momento, modulava, il de profundis di una «lost generation» che, fuori e dentro il fascismo, era stata travolta dai contraccolpi della «reazione legittima contro l’azione insincera, falsaria, camorristica, prevaricatrice dei “partiti democratici”», nella quale la rivolta dei «democratici sinceri e coerenti si è confusa con la reazione antidemocratica delle oligarchie e delle plutocrazie»130. Questi sentimenti forse avevano toccato anche Volpe che, durante l’intero periodo della crisi aventiniana et ultra, avrebbe però sostanzialmente dimostrato la sua piena adesione almeno a quanto di originale e 128 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma, 6 gennaio 1925, CV. 129 G. SALVEMINI, Memorie e soliloqui. Diario 1922-1925, a cura di R. Pertici, Bologna,
Il Mulino, 2001, pp. 338-339. Sul punto, per una contestualizzazione di queste affermazioni, R. PERTICI, L’antigiolittismo di Gaetano Salvemini, in «Contemporanea», 2001, 3, pp. 549 ss., in particolare pp. 552-554. 130 G. SALVEMINI, Memorie e soliloqui, cit., pp. 197-198.
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nuovo pareva trapelare dagli orientamenti del governo Mussolini, in particolare per quello che riguardava l’annoso problema delle relazioni tra Stato e Chiesa, che il regime liberale aveva lasciato, se non completamente irrisolto, almeno largamente incompiuto. Sulla «questione romana», Volpe prendeva la parola con una conferenza su Italia e Papato, pronunciata a Venezia, il 20 settembre 1924, che poi sarebbe stata pubblicata su «Gerarchia» alla fine di quello stesso anno131. Non si trattava, comunque, di un contributo estemporaneo e legato solo alla ricorrenza dell’annessione di Roma allo Stato italiano. L’articolo costituiva, invece, uno dei vertici di una triade storiografica, sviluppata compiutamente nel corso del 1925, dedicata alle tre entità che avevano determinato positivamente e negativamente, nell’incontro e nello scontro, la nascita della nostra struttura nazionale: il Papato, dunque, Casa Savoia, l’Europa132. E se indubbio era che la dinastia sabauda aveva legato i suoi destini a quelli della Penisola, e questa a quella, almeno fin dalla metà del XVI secolo, se del tutto pacifico appariva che non era possibile darsi storia d’Italia al di fuori della storia d’Europa, altrettanto indiscutibilmente non si poteva negare che fra Italia e «Roma papale» era esistito un nesso strettissimo ma ambivalente di «quasi organica solidarietà, oppure contrasto insanabile», contrassegnato da «fatti e situazioni che nel nostro bilancio possono essere segnati fra gli attivi e i passivi». Da un lato, il contributo della seconda Roma a «salvare e svolgere elementi di coltura del mondo antico, particolarmente radicati in Italia, e quindi capaci di individuare le sue genti di fronte ai Germani e anche ad altri popoli romanizzati». Dall’altro, l’aver il Papato toccato il suo culmine, tra XII e XV secolo, nell’epoca che vide i primi «albori della nuova nazione», con reciproco influsso scambievole, perché la Chiesa «si giovò della vasta attività degli Italiani, della loro energica reazione al mondo islamico, della loro economia capitalistica, che fornì alcuni fili alla trama unitaria che Roma papale tesseva, della loro rinnovata coltura giuridica e umanistica», e l’Italia, per contro, trasse vantaggio da «una Roma diventata veramente centro del cattolicesimo, dal vasto movimento di affari che si svolse attorno al Papato, dalla lotta sua contro l’Impero che era insieme universale e germanico». In contrapposizione a questa benefica influenza «nazionale» del Soglio di Pietro, dovevano contarsi altri, sicuramente più numerosi, elementi di intralcio e di op-
131 G. VOLPE, XX Settembre-Italia e Papato, in ID., Momenti di storia italiana, cit., pp. 237 ss. 132 Si veda rispettivamente, ID., Italia e Savoia, in «Nuova Antologia», giugno 1925 e Italia ed Europa, in «Gerarchia», maggio 1925, poi in ID., Momenti di storia italiana, cit. pp. 261 ss. e pp. 303 ss.
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posizione, che si assommavano nella funzione negativa di una potenza politica e spirituale, che, «piantata nel bel mezzo della Penisola», impedì il processo unitario più di ogni altro Stato del continente, mutilò la nazione italiana di una sua parte, «tagliò fuori il Sud, contribuì a isolarlo, anemizzarlo, impoverirlo». Poi, dopo il 1870, venuta a crollare «la tarlata e sconquassata impalcatura del papato politico» in ragione di un pur inevitabile atto di forza, il Papato «proclamò l’ostruzionismo contro lo Stato italiano». Si aprì, allora, una contrapposizione dispiegata tra «libertà della Chiesa» e «libertà d’Italia» che coinvolse, a favore delle mire di restaurazione temporale, le maggiori potenze europee e che trovò fertile terreno di cultura «nella protestante Germania di Bismarck, più ancora nella Francia di Thiers e di Mac Mahon, in quella del Conte di Chambord, in quella della Repubblica che si riattaccava all’89», costringendo la nostra nazione ad aderire all’alleanza con gli Imperi centrali, che «doveva garantire Roma all’Italia, donde la politica di Leone XIII volta a spezzare la Triplice». Infine la guerra, durante la quale, se mai veramente il potere pontificio «lavorò ai danni dell’Italia», pure il suo pacifismo ebbe «ripercussioni dannose» e «giunse, come quello socialista, fino alle trincee ed ebbe la sua parte di responsabilità in Caporetto». Si trattava di offese e torti reciproci, concludeva Volpe, i quali non potevano essere del tutto dimenticati. Erano ferite poco rimarginate, ancora adesso, quando ormai «le parole “restaurazione” e “rivendicazione” erano scomparse dal vocabolario politico vaticano», che impedivano di ipotizzare una «“conciliazione” vera e propria, con carta bollata e firma di notaio, strilloni che gridano per le strade» e sogni di alleanze segrete tra antichi avversari «a scopo di politica, specialmente di politica estera»133. Eppure i tempi nuovi consigliavano, altresì, un urgente cambiamento di rotta della politica italiana, su questo problema cruciale, che doveva rifiutare il vecchio pregiudizio laicista risorgimentale, almeno in considerazione del forte sentimento di appartenenza cattolica della stragrande parte della popolazione e dell’ormai consolidato radicamento dello Stato nel tessuto del paese, fuori e dentro la comunità dei credenti. Da molti anni è chiaro che questa strada e non altra batte silenziosamente la politica italiana. Da due anni forse con più chiara visione della necessità di giungere alla meta e maggior proposito di giungervi. È il ripudio definitivo del 133 Sulle preoccupazioni, bene interpretate da Volpe in questo passo, degli ambienti liberali fiancheggiatori per una troppa frettolosa realizzazione del pieno e «grazioso connubio» tra Chiesa e Stato, che lo spregiudicato tatticismo di Mussolini autorizzava a ritenere come imminente, si veda, R. DE FELICE, Mussolini il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista, cit., pp. 27-28.
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vecchio anticlericalismo, anche per meglio vincere ciò che rimane di clericalismo. È riconoscimento inequivoco che l’Italia è paese di cattolici, anche se agli acattolici nessuno si sogna di togliere la libertà e l’eguaglianza civile con gli altri. È sforzo di sanare i resti dell’antico dissidio italiano fra coscienza del credente e coscienza del cittadino, in modo che quello possa aderire con pienezza allo Stato nazionale. È politica volta a impedire che altri speculi su le anormali relazioni fra Italia e Papato, come un po’ vi hanno speculato finora: ragione per cui il riavvicinamento, che pure matura, ha trovato e trova i suoi ostacoli non solo nel Papato ma anche in Tedeschi e Inglesi e Francesi; anzi ha trovato quel primo ostacolo perché c’è stato il secondo. È stato detto che così si cancella Porta Pia. Niente affatto. Se ne consolidano i risultati e si spoglia degli avvenimenti contingenti e passionali un grande avvenimento della storia!134
Le parole di Volpe, se contenevano una decisa ripulsa del vecchio «spirito massonico», del tutto coerente con le prese di posizione di Gentile e Croce135, erano soprattutto una mano tesa a una più piena politica di apaisement e di normalizzazione con la Santa Sede, formulata da Mussolini in netto contrasto con le posizioni del fascismo intransigente e di Farinacci in particolare136, il quale solo, in coincidenza delle legge razziali del 1938, avrebbe rivendicato il «valore nazionale e di stirpe» del credo cattolico137. Ma la sintonia tra Volpe e la strategia del nuovo governo doveva misurarsi su questioni, più complesse e insieme più stringenti, quando lo storico partecipava direttamente, pur tra qualche notevole soprassalto di indipendenza, al progetto di conquista fascista dello Stato e di trasformazione dello Stato liberale in regime, le cui basi sarebbero state poste durante i lavori parlamentari e in quelli della Commissione dei Quindici, istituita il 4 settembre 1924, la quale avrebbe iniziato la sua attività alla fine di ottobre138, per formulare un organico progetto di riordino istituzionale. La Commissione, nominata personalmente da Mussolini, su designazione del direttorio del Pnf, reclutata tra personalità di eminenti «fascisti della tessera» ma soprattutto «dello spirito» (insieme a Volpe, Rocco, Corradini, Ercole, Leicht, Santi Romano, Lanzillo, Angelo Oliviero Olivetti, Edmondo Rossoni, Fulvio Suvich)139, era presieduta da
134 G. VOLPE, XX Settembre-Italia e Papato, cit., p. 258. 135 B. CROCE, Contro la cultura massonica, cit. 136 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp. 542-542. 137 R. FARINACCI, La Chiesa e gli ebrei. Conferenza tenuta il 7 novembre, anno XVII
al teatro della Triennale di Milano per la inaugurazione dell’Istituto fascista di Cultura, Roma, anno XVII, in particolare pp. 7 ss. 138 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 29 ottobre 1924, cit.: «Ieri ci fu la prima adunanza dei 15, con il discorso di Gentile. Oggi si attacca la discussione generale». 139 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., p. 52.
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Giovanni Gentile, il quale ne iniziava i lavori con una relazione introduttiva che sottolineava il carattere di rigida fedeltà statutaria alla quale si sarebbe ispirato il gruppo di lavoro ma che era immediatamente e almeno parzialmente contestata da Mussolini140. Nel suo discorso di apertura Gentile sottolineava, al contrario, che in nulla quei deputati, quei senatori, quegli studiosi, chiamati a pronunciarsi sulle necessarie modifiche costituzionali, che la nuova congiuntura politica richiedeva, avrebbero contribuito a recidere «le libertà che i nostri padri conquistarono a prezzo di sacrifici, il cui ricordo fu e sarà sempre esaltato con spirito religioso, e che consacrarono con un moto nazionale, che è in verità il maggior titolo di nobiltà del popolo italiano». Loro compito, invece, era quello di «costruire per conservare, conservare per costruire», di risolvere «i problemi posti dalla Marcia su Roma, che fu certamente un atto insurrezionale», con un processo di «riorganizzazione essenzialmente conservatrice della vita del paese»141. Nel dettaglio, la funzione del comitato degli esperti consisteva nello studio dei seguenti problemi: rapporti fra potere legislativo ed esecutivo, fra Stato e cittadini singoli o associati e quindi fra Stato, partiti, istituti di credito, stampa, sindacati, associazioni segrete. La relazione su quest’ultimo tema veniva redatta da Francesco Ercole, per la parte tecnico-giuridica, e per quella teorico-generale, da Gioacchino Volpe. In quella di sua spettanza, Volpe si cimentava in un vero e proprio saggio storico sulla storia della massoneria in Italia dalla stagione illuministica a quella napoleonica, al moto unitario, quando la setta fu assente o quasi e «disertori della causa nazionale chiamò Mazzini i massoni», in ragione della loro ideologia «cosmopolita e umanitaria, pacifista, antireligiosa e specificatamente anticattolica», la quale contrastava con il Risorgimento che «fu invece un fatto nazionale e, qua e là, quasi nazionalista, con talune forti reazioni contro l’astratto umanitarismo, fu combattivo e guerriero e a volte esaltò la guerra e lo spirito militare in se stes140 B. MUSSOLINI, La politica interna. Discorso pronunciato alla Camera dei Deputati, il 22 novembre 1924, in ID., Scritti e discorsi, cit., IV, p. 395: «I Quindici non hanno un compito legislativo; hanno un compito di studio, sono degli esperti, sono uomini che hanno un alto senso di responsabilità nazionale e morale. […] Studiano certi determinati problemi che non potevano essere contemplati dallo Statuto del 1848, che io rispetto altamente nel suo spirito, ma che non posso riconoscere intangibile dal momento che è stato violato in quasi tutti i suoi articoli, tanto che uno studioso di diritto internazionale ne ha pubblicato tutte le violazioni dal ’48 in poi.» 141 G. GENTILE, Riforme costituzionali e fascismo, 28 ottobre 1924, in ID., Politica e cultura, cit., pp. 168 e 171. Sul ruolo di Gentile, si veda lo scialbo contributo di M.L. CICALESE, Gentile e la filosofia come coscienza critica della politica (a proposito della Commissione dei Quindici: 1924-1925), ora in ID., Nei labirinti di Giovanni Gentile. Bagliori e faville, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 93 ss.
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si, fu religioso e quasi sempre cattolico, anzi tenne al cattolicesimo come a un mezzo di conservazione della personalità morale del popolo d’Italiano»142. Nonostante questa forte discrasia con il sentimento nazionale, la massoneria si diffondeva largamente dopo l’Unità e, a partire dal 1880, si accampava come uno Stato nello Stato nella realtà italiana, influenzandola in tutti i suoi aspetti. Non solo essa «adescò l’elemento intellettuale che rispose con molta larghezza», ma intese «dominare tutti i gangli nervosi» della società: tutte le Forze Armate, la grande «famiglia burocratica, assillata dall’idea che tutto fosse protezione e favoritismo». Al suo culmine, la Fratellanza divenne una «setta unica e potentissima», che «aveva accumulato, pur senza personalità giuridica e capacità di possesso, un ricco tesoro di guerra», la quale faceva sentire largamente le sue influenze sulla vita statale e parlamentare, che «vigilava specialmente, con occhi d’Argo, la politica ecclesiastica», che produsse qualche grave «perturbatrice influenza» in occasione della guerra di Libia «assai male accetta alla massoneria italiana e internazionale, dati i suoi legami con la Giovane Turchia». A tutto questo reagirono, ma assai debolmente, governi e Parlamento e con maggior vigore la pubblica opinione, quando la stampa nazionalista scatenò, alla vigilia della Grande Guerra, una campagna di denuncia sul danno che l’azione palese o celata della setta poteva provocare, alla quale aderivano numerosissimi intellettuali italiani (da Villari a Croce, a Mosca, a Einaudi, a Borgese, ad Arcari, a Solmi), tutti egualmente concordi nel ritenere che il «Serpente verde» avrebbe minato ulteriormente il senso di responsabilità, perturbato lo spirito pubblico, condizionato le grandi scelte della politica internazionale, se contro di esso lo Stato non avesse intrapreso «un’energica azione di difesa»143. Suggerimento, questo, che restò allora inascoltato, ma che doveva essere recepito oggi, in considerazione del fatto che «se male è che la massoneria sia una associazione di mutuo soccorso, peggio ancora è il fatto che essa sia un’associazione orientata in certo determinato senso politico e che tenda ai suoi fini per vie occulte»144. Le proposte elaborate da Ercole e Volpe vennero fatte proprie dal gruppo dei Quindici, ma, come lo stesso Volpe ci ricorda in una nota del 1928, «discutendosi, in seno alla Commissione parlamentare, designata dagli Uffici, il disegno di legge sulla Massoneria, dissentii dalla 142 G. VOLPE, Lo Stato e le sette segrete. Relazione della Commissione dei Quindici sulle riforme legislative, autunno 1924 in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 335-336. 143 In questo punto, Volpe faceva riferimento all’inchiesta promossa dall’«Idea Nazionale», tra luglio e ottobre del 1913, poi raccolta nel volume, Inchiesta sulla massoneria, a cura di E. Bodrero, Milano, 1925. 144 G. VOLPE, Lo Stato e le sette segrete, cit., p. 344.
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proposta, lì avanzata e prevalsa, di sostituire al paragrafo che sanciva il divieto per i funzionari dello Stato di far parte delle associazioni segrete un paragrafo che vietasse quell’appartenenza in modo assoluto a tutti i cittadini e che scioglieva ogni associazione o ente che operasse anche parzialmente in modo segreto»145. In realtà il progetto legislativo, nella nuova formulazione datane da Emilio Bodrero, recitava all’articolo primo che «le Associazioni, Enti e Istituti costituiti od operanti nel regno e nelle Colonie sono obbligati a comunicare alla autorità di pubblica sicurezza l’atto costitutivo, lo statuto e i regolamenti interni, l’elenco nominativo delle cariche sociali e dei soci, e ogni altra notizia intorno alla loro organizzazione e attività, tutte le volte che ne vengono richiesti dalla autorità predetta per ragioni di ordine o di sicurezza pubblica». In tutti i casi di «omessa, falsa o incompiuta dichiarazione», le associazioni potevano essere sciolte con un semplice decreto prefettizio. A norma del secondo comma, si specificava che «i funzionari, impiegati ed agenti civili e militari di ogni ordine e grado dello Stato, ed i funzionari, impiegati ed agenti delle Province e dei Comuni, o di istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato, delle Province e dei Comuni, che appartengano anche in qualità di semplice socio, ad Associazioni, Enti od Istituti costituiti nel Regno, o fuori, od operanti, anche solo in parte, in modo clandestino od occulto o i cui soci sono comunque vincolati dal segreto, sono destituiti o rimossi dal grado o dall’impiego o comunque licenziati». Inoltre, ogni servitore dello Stato, civile o militare, di alto o infimo grado, doveva dichiarare la sua appartenenza alla Loggia, presente e passata. Sotto la copertura del formalismo giuridico, il disegno di legge introduceva alcuni elementi schiettamente contrari alle norme statutarie, come la retroattività e l’autodelazione, che contraddicevano lo spirito del sistema liberale dell’ultimo cinquantennio146. Oltre a tutto, la legge di per se stessa conteneva implicitamente il divieto per tutte le società operanti in modo clandestino, dato che, come avrebbe sottolineato il guardiasigilli, Alfredo Rocco, se il progetto «obbliga tutte le associazioni a fare denunzia della loro costituzione e attività, evidentemente vieta le associazioni segrete»147. Il provvedimento infine, per ammissione esplicita dei suoi promotori, se era rivolto in modo particolare contro la massoneria, per la sommarietà e l’elasticità dei suoi contenuti, poteva essere utilizzato nel futuro come strumento di soppressione degli stessi partiti politici, delle formazioni sindacali e di «tutte le forze disgre-
145 Ivi, pp. 344-345. 146 Sul punto, B. CARUSO, Preludio ad una dittatura. La legge fascista del 26 novembre
1925. Atti e documenti, Roma, Aracne, 2004, che però fraintende la posizione di Volpe. 147 A. ROCCO, Scritti e discorsi politici, cit., III, p. 797.
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gatrici che si erano annidate nel seno dello Stato e andavano giorno per giorno erodendo e distruggendo la sua sovranità»148. La modifica, proposta da Bodrero, non era quindi di piccolo conto e anzi apriva una falla di grande entità nell’armatura delle guarentigie statutarie, rifacendosi implicitamente alle disposizioni liberticide del 3 gennaio, le quali a tal punto mutilavano la libertà di espressione, di associazione, di manifestazione del dissenso, da determinare le dimissioni dal ministero di Alessandro Casati e da suscitare persino veementi proteste tra le fila del fascismo intransigente anch’esso colpito da quei provvedimenti149. Volpe tornava su questo punto delicatissimo, nella tornata della Camera del 16 maggio 1925, replicando la sua opposizione e domandando che l’approvazione del disegno di legge avvenisse in perfetta coerenza con la sua primitiva formulazione150. Nel discorso, pronunciato in aula, veniva espressa soddisfazione sui contenuti generali della normativa, per aver corrisposto alle aspettative delle forze migliori della nazione («non solo clericali e cattolici, ma gruppi di socialisti rivoluzionari, socialisti sindacalisti, socialisti autonomi, liberali, nazionalisti, nazional-liberali, gente senza partito, che preferiva affrontare, senza etichette politiche, i problemi concreti»), le quali da tempo, se non prendevano più sul serio «il contenuto dottrinario e filosofico, che pure una volta poteva essere stato a centro e base della massoneria», avevano invece piena contezza dell’«intrigo e della camorra» che fiorivano dentro e attorno le Logge e vedevano con chiarezza «le ragioni pratiche dell’attaccamento dei massoni alla propria associazione». Ma il rischio era ora quello di sostituire alla legittima difesa dello Stato un eccesso di difesa pericoloso, perché lesivo della lettera e dello spirito degli ordinamenti liberali, ma anche perché tale da incrinare «quel tanto di unanimità antimassonica che c’è nel nostro paese con misure che a molti posson apparire eccessive e pericolose», provocando reazioni negative e malessere negli ambienti internazionali e tra gli stessi cattolici, considerata l’esistenza di qualche «non insignificante punto di contatto tra mentalità cattolica e mentalità massonica». In definitiva, concludeva Volpe, se era indispensabile riconoscere allo Stato il diritto di «cautelarsi nei confronti dei suoi funzionari e contro chicchessia», in quello stesso Stato, i cittadini dovevano restare «liberi di riunirsi come vogliono: magari per evocare i morti, per consultare gli astri, per far ballare i tavolini». Immediatamente dopo, a sostegno di Volpe, prendeva la parola Massimo Rocca, che, espulso dal Pnf aveva continuato la sua battaglia 148 Ivi, p. 798. 149 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp. 722 ss.; ID., Mus-
solini il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista, cit., pp. 35 ss. 150 A.P., Tornata del 16 maggio 1925, IV, pp. 3645 ss.
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politica dai seggi della rappresentanza nazionale. Il «solitario eretico del fascismo, che non si vergogna della sua eresia», come lui stesso si definiva, rivendicava i suoi passati meriti nella battaglia antimassonica, che «ha infierito in Italia per lungo tempo, allorché la massoneria era veramente una casta dirigente, tanto che soltanto i massoni potevano riuscire nella vita pubblica, aprirsi una carriera intellettuale, trovare degli editori per stampare i loro libri e divulgare le loro idee». Ma, se molti tra i ranghi dei deputati erano stati le «vittime di ieri di quella tirannide», questo non doveva, oggi, provocare un «sentimento di vendetta», in base al quale «coloro specialmente che alla lotta antimassonica hanno cooperato cerchino ora di portare fino alle conclusioni definitive la lotta medesima». Se giustissimo era stato il principio sancito dal Gran Consiglio di porre l’incompatibilità tra fascismo e massoneria, ancora più giusto era ora stabilire la stessa incompatibilità tra «qualunque partito politico da un lato e la massoneria dall’altro», e tra questa, l’ammirazione statale, la Marina, l’Esercito. Ma il legislatore doveva arrestarsi su questa soglia e non doveva prendere a pretesto la battaglia contro lo strapotere delle Logge per realizzare una «fascistizzazione» forzosa della società, «sino a guardare negli animi di ciascuno, sino a voler sindacare le abitudini personali di ciascuno, sino a dover impiantare una macchina così grande di spionaggio che sarà più faticosa per voi fascisti che per i sorvegliati e che alla fine non avrà nessuna efficacia». Se si fosse oltrepassato quel confine, più che legittimo sarebbe stato ipotizzare che si voleva creare artatamente una giustificazione giuridica che «possa prestarsi domani addirittura a sciogliere non solo le società segrete, ma anche quelle non segrete o da impedire a qualsiasi società di esistere». Era un intervento forte, più volte interrotto dallo schiamazzo di Farinacci e di altri fascisti radicali, che si tramutava, alla fine, in una requisitoria generale contro la degenerazione e lo snaturamento del Pnf, contro il suo essersi tramutato in una semplice struttura di potere e di invasione dello Stato, insofferente di ogni critica, decisa a sbarazzarsi con la violenza, illegale o legale, di ogni opposizione, convinto di potersi tramutare, senza soccombere o far divorzio dalla patria comune, in mera forza di repressione sociale e ideale, «patrimonio di pochi ideologi e di pochi plutocrati», intenzionata a perseguire il disegno «che per me non è fascista, ma che appartiene a una ristretta minoranza, la quale vuole curvare il fascismo ai suoi interessi, di rendere definitiva la reazione stessa, per il piacere fanatico di esercitarla, di usare il pugno ove basta la carezza, di offrire a se stessi l’illusione di una forza terribile che è poi, in fondo, una desolata, inquieta, debolezza»151. 151 Ivi, p. 3652.
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Anche Gramsci, in quella stessa tornata, prendeva la parola per opporsi al disegno legislativo, sottolineando che «poiché la Massoneria in Italia ha rappresentato l’ideologia e l’organizzazione reale della classe borghese capitalistica, chi è contro la Massoneria è contro il liberalismo, è contro la tradizione politica della borghesia italiana», e aggiungendo infine che il fascismo intendeva sbarazzarsi della «sola forza organizzata efficiente che la borghesia capitalistica avesse in Italia»152. Ma, pur silenziosamente condivisa nelle grandi linee dal fronte dei fiancheggiatori moderati presenti nell’assemblea e da qualche membro dell’opposizione, la proposta di restare fedeli al progetto originale formulato dai Quindici restava lettera morta, nonostante e forse proprio in virtù dell’intervento di Rocca che aveva esasperato i termini del dibattito. Volpe non abbandonava comunque la contesa e redigeva, a pochi giorni di distanza, una lettera aperta pubblicata su «L’Epoca», indirizzata al direttore del quotidiano, Giuseppe Bottai153. Prendendo a pretesto le vivaci proteste di alcuni deputati cattolici, che avevano accolto, durante il suo intervento in aula, l’avvicinamento tra spirito massonico e spirito cattolico, Volpe ribadiva questa posizione, sostenendo che quella fede e quella ideologia si presentano «ambedue come assoluto e come trascendente, cioè come rappresentanti e interpreti di valori che esistono in sé e al di fuori operano su l’uomo e sulla storia». Inoltre, non soltanto il «simbolismo» e il «ritualismo» avvicinavano Cattolicesimo e Fratellanza, ma anche il «segreto operare di certi organi della Chiesa» e soprattutto «l’internazionalismo cattolico, naturale in una religione che tende all’universalità ed è nata rinnegando i popoli e richiamandosi agli uomini, figli di Dio e perciò fratelli tutti quanti». Il nocciolo duro di queste dichiarazioni non era comunque qui. Ma era piuttosto nella nuova protesta contro la manomissione che il disegno di legge aveva compiuto nei confronti del testo originale proposto dalla Commissione, sostituendo, nell’articolo secondo, all’espressione che faceva divieto ai funzionari «operanti in modo occulto» di permanere nelle fila dell’amministrazione statale, un più minaccioso dettato, secondo il quale: «Le associazioni segrete sono vietate e il loro scioglimento avviene per decreto del prefetto». In questo caso, sosteneva Volpe, il meglio era stato peggiore del bene e l’azione del futuro governo rischiava di essere proiettata fuori dalle sue sfere di competenza e di misurarsi con un «compito ancora più difficile, di fronte al quale non tutti sono sicuri che egli sia pari». Il legislatore infatti non si era forse re-
152 Ivi, pp. 3662 ss. 153 ID., Massoneria e cattolicesimo. Una lettera dell’onorevole Volpe, in «L’Epoca», 19
maggio 1925, p. 1, ora in ID., Scritti sul fascismo, cit., II, pp. 87 ss.
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so conto che il varo di quel provvedimento non soltanto trasformava tendenzialmente lo Stato di diritto in gendarme delle coscienze e delle opinioni, ma rischiava di provocare anche, per contrappasso, una reazione eguale e contraria, la quale avrebbe potuto «rendere ancora più segrete, almeno per una parte dei loro congegni e dei loro adepti, le associazioni segrete», fino a trasformarle in altrettanti «ricettacoli di sovversivismo». Il 22 novembre, il provvedimento legislativo era votato a larghissima maggioranza anche dal Senato, che seppelliva le rare voci di opposizione, manifestatesi nel suo seno, come quelle di Francesco Ruffini e di Gaetano Mosca, che nella sua dichiarazione di voto affermava di non poter approvare un ordinamento che, accordando al governo un «potere discrezionale di polizia» e smentendo il principio della «non retroattività» della legge, autorizzava il sospetto che «si vogliono preparare le liste di proscrizione, e ci sarebbero le persone interessate ad ottenere che le liste siano fatte», allo scopo di «subentrare al posto occupato dai funzionari massoni», per realizzare una vera e propria occupazione fascista dell’amministrazione statale154. Argomenti non diversi aveva utilizzato Benedetto Croce, quando, dopo aver ricordato la sua antica ostilità allo «spirito massonico», perché la sua ideologia era «semplicistica e antiquata» e impediva «quella soda cultura storica e politica che io augurava al mio Paese», aggiungeva di non poter votare ora quel provvedimento. Ieri, infatti, la sua polemica contro la massoneria «si svolgeva in condizioni di libertà ed era mossa da spirito liberale che sentiva incompatibili le associazioni segrete di qualsiasi sorta». Oggi, invece: quella normativa veniva presentata «quando non solo le condizioni della pubblica libertà sono assai turbate in Italia, ma si ode proclamare con feroce gioia la distruzione del sistema liberale e questo disegno di legge è considerato come parte integrante di un unico tutto di leggi antiliberali»155. Lo stesso giorno dell’entrata in vigore della legge, Volpe tornava sulla questione, smussando apparentemente alcune punte della sua polemica e lodando senz’altro l’ispirazione generale del nuovo ordinamento156. La legge sulle società segrete doveva sicuramente contarsi tra le grandi attuazioni del nuovo regime, che aveva «raccolto e fatto sue e realizzate le tradizioni del miglior socialismo, del miglior nazionalismo,
154 G. MOSCA, Discorsi parlamentari, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 355 ss. 155 L’intervento di Croce è riprodotto in B. CARUSO, Preludio ad una dittatura, cit.,
pp. 198-199. 156 G. VOLPE, A battaglia finita (La legge fascista sulle sette segrete), in «Popolo di Roma», 26 novembre 1925, ora in ID., Scritti sul fascismo, II, pp. 91 ss.
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del miglior liberalismo, della migliore democrazia cristiana di prima della guerra». Ma il fascismo sbagliava, e non di poco, pensando che gli inconvenienti più gravi, che l’esistenza della massoneria comportava, potevano essere cancellati con un tratto di penna. La setta massonica non era infatti solo « un’associazione e un fatto esteriore, piovuta dal cielo», ma invece era l’epifenomeno di un malcostume profondamente radicato nel carattere degli Italiani, che «corrispondeva ad una determinata forma mentis e ad una determinata coscienza morale». Lo spirito di consorteria, di fazione, di sopraffazione di una piccola minoranza organizzata e coesa sulla maggioranza dei cittadini, scacciato dalle Logge poteva quindi rinascere e corrodere ancora i gangli vitali della società, se i Fasci non avessero saputo veramente portare a termine, anche all’interno dei loro quadri e del loro progetto di creazione di una nuova classe dirigente, il grande processo di rigenerazione morale che la nazione aveva loro demandato e per il quale la nazione li aveva elevati al potere. Quella conclusione era espressione di un malcontento appena larvato per il nuovo corso politico, che rispecchiava una più generale insoddisfazione per il ruolo trascurabile, e di pura facciata, che il «Principe nuovo» pareva voler concedere ai suoi consiglieri. Sentimenti che si sarebbero palesati, a molti anni di distanza, in sede ormai di giudizio storico, quando Volpe avrebbe scritto che i comitati dei saggi nominati, tra 1924 e 1925, «discussero, fecero relazioni e proposte, ma il partito, per mezzo del Gran Consiglio, e poi il governo e il parlamento, pur utilizzando quel lavoro delle commissioni, procedettero con molta indipendenza dai risultati suoi» e, senza il parere e magari contro il parere di quelle, inaugurarono poi una «serie di leggi fasciste e anzi fascistissime, volte a elevare la posizione del Capo del governo, a rafforzare l’esecutivo, a dare più potere e prestigio ai rappresentanti periferici del governo stesso»157. Poco stupisce allora lo scarsissimo entusiasmo con il quale Volpe accoglieva la nomina nel nuovo comitato per il riordino costituzionale, scrivendo in questi termini al Presidente del Consiglio: Ricevo la partecipazione vostra della nomina a membro della commissione di studio per le riforme. E mi sono domandato ancora: “è quello il tuo posto? Che competenza vi porti?”. Né ho potuto dare risposta soddisfacente. Tuttavia, perché Voi non possiate dubitare della mia buona volontà di collaborare in qualche modo alla soluzione dei problemi che affaticano voi e il paese ed
157 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1932), cit., p. 115. Il giudizio ritornava anche nell’omonimo volume del 1939. Si veda ID., Storia del movimento fascista, cit., p. 135: «La Camera votò una legge che, regolando il diritto di associazione, e andando anche oltre le proposte dei Quindici e dei Diciotto, vietava le società segrete e sottoponeva a controllo statale tutte le associazioni».
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altri non possa dare al mio rifiuto un significato che io non intendo gli sia dato, così vi dirò, con sincerissima umiltà: Mi sobbarco158.
Istituita il 31 gennaio 1925, sotto la presidenza di Gentile, la Commissione dei Diciotto o dei «Soloni», come venne immediatamente soprannominata, era deputata ad analizzare «i problemi oggi presenti nella coscienza nazionale e attinenti ai rapporti fondamentali tra lo Stato e tutte le forze che esso deve contenere e garantire», in modo che, sulla base dei risultati raggiunti, potessero essere presentate al Parlamento le «necessarie riforme»159. Del gruppo furono chiamati a far parte Enrico Corradini, come vice-presidente, e la quasi totalità dei membri della Commissione dei Quindici, ai quali si aggiungevano Gino Arias, Domenico Barone, Francesco Coppola e Corrado Gini. Se quasi tutti i partecipanti si attestavano su di una posizione di sostanziale fedeltà al vecchio assetto costituzionale e di stretta continuità con lo Stato risorgimentale, benissimo espressa da Gentile al termine dei lavori160, che poco aveva a che fare con il proposito di porre le basi del nuovo regime fascista, Volpe giungeva addirittura a dichiarare pubblicamente il suo più profondo scetticismo sulla possibilità di arrivare a una «vera riforma costituzionale»161. Una tendenza, questa, che impensieriva le correnti intransigenti dei Fasci, le quali mettevano in guardia sui rischi che il moderatismo di quella Commissione comportava e ammonivano sul pericolo che «se essa concretasse delle riforme parziali e timide, rispettando l’essenza e l’ossatura fondamentale del vecchio Stato, queste riforme diverrebbero esiziali per il Fascismo, dimostrandone l’incapacità rivoluzionaria a trasformare e a rinnovare la società nazionale»162. Quei sospetti erano largamente giustificati, in quanto l’attività dei Diciotto parve subito concentrarsi sull’obiettivo di rafforzare sicuramente l’esecutivo rispetto al legislativo, ma di restringerne allo stesso
158 Gioacchino Volpe a S. E. il Presidente del Consiglio dei Ministri, Benito Mussolini, Roma 19 febbraio 1925, in ACS, Presidenza del Consiglio, 1931-33, fasc. 1/1-13, n. 6163 all. 1. 159 Sul punto, A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 53 ss.; R. DE FELICE, Mussolini il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista, cit., pp. 38 ss. 160 G. Gentile a S. E. l’On. Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei Ministri, 5 luglio 1925, in ID., Politica e cultura, cit., I, , p. 203: «La Commissione non ha pensato un solo momento che fosse perciò da sovvertire lo Stato italiano sorto dalla rivoluzione del Risorgimento. E così ha creduto di rendersi fedele interprete dello spirito del fascismo, nato a costruire, non a distruggere. Ed è essa convinta che lo Stato del Risorgimento e della gloriosa Monarchia nazionale offra una solida costruzione da rispettare e una solida base su cui edificare lo Stato della rivoluzione fascista». 161 P. DONADONI, A colloquio con l’on. Prof. Volpe, cit. 162 Per arginare una rivoluzione, «Critica fascista», 15 maggio 1925, p. 11.
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tempo l’autonomia negli schemi dello Statuto albertino, valorizzando piuttosto i poteri della Corona, così da far di questo «pouvoir neutre» un argine munitissimo in grado di contenere e di depotenziare la carica eversiva del fascismo. Da questa premessa, i «Soloni» giungevano alla conseguenza che non occorreva riformare lo Statuto, ma solamente sradicare la sua perversione «parlamentaristica», che veniva definita «la più grave pericolosa degenerazione del costume politico» e un ostacolo insuperabile «all’adempimento dei fini superiori dello Stato»163. Di qui la duplice necessità di limitare i poteri della Camera e di svincolare il gabinetto «dalla vicenda del prevalere di questo o quel partito», senza però ledere i poteri dell’istituto monarchico ma rafforzandolo al contrario, nella convinzione formalmente espressa da Gentile che il potere esecutivo era «diretta emanazione della sovranità del Re, e quindi coscienza attiva e responsabile della unitaria personalità superiore dello Stato»164. Su questo punto l’accordo dei commissari, seppur raggiunto dopo numerosi e gravi contrasti, era alla fine pressoché unanime165. La spaccatura si realizzò invece sul problema sindacale e su quello dell’ordinamento corporativo, tra maggioranza e varie posizioni di minoranza166. Da un lato, un gruppo di centro, nel quale entravano a far parte tutti i fiancheggiatori, Volpe compreso, che si pronunciava a favore del riconoscimento giuridico dei sindacati, pur negando che ad essi si potesse concedere «qualsiasi attribuzione di carattere amministrativo e politico». Dall’altro, le minoranze di destra e di sinistra. La prima, che negava assolutamente ogni soluzione corporativa, accusata di essere intrisa della vecchia «superstizione socialista» e di voler sminuire la funzione dello Stato a «una semplice federazione gerarchica di interessi». La seconda, pure divisa al suo interno, ma capeggiata nella sua frangia più intransigente da Rocco e Rossoni, decisa a risolvere la rappresentanza nazionale in rappresentanza corporativa e a fare delle corporazioni sindacali il vero perno del nuovo Stato fascista. Solo a stento il gruppo maggioritario dei «Soloni» si risolveva ad approvare una moderata soluzione corporativa che prevedeva l’istituzione di rappresentanze professionali, industriali, agricole in ogni provin-
163 Relazioni e proposte della Commissione per lo studio delle riforme costituzionali, Firenze, Le Monnier, 1932, pp. 6 ss. 164 G. Gentile a S. E. l’On. Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei Ministri, 5 luglio 1925, cit., pp. 205-206. 165 Ivi, pp. 199-200. 166 Ivi, pp. 201-202. Per le varie posizioni, emerse durante i lavori, si veda Relazioni e proposte, cit., pp. 97 ss. Sull’intera questione, F. PERFETTI, La Camera dei fasci e delle corporazioni, Roma, Bonacci, 1991, pp. 13 ss. Si veda anche E. SANTOMASSIMO, La terza via. Il mito del corporativismo, Roma, Carocci, 2006, pp. 39 ss.
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cia, dalle quali si sarebbe dovuto trarre la metà dei componenti della futura Camera dei rappresentanti. Questo era il contenuto della relazione finale dei Diciotto, formulata da Gino Arias, che, mentre includeva il riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali, era fermamente contraria tuttavia alla proposta di Rossoni che contemplava l’esistenza di un solo sindacato per categoria, come poi sarebbe stato stabilito dalla legge Rocco dell’aprile 1926. Su questo punto, si era accesa, all’interno della Commissione, la polemica tra Rossoni e Volpe, durante la seduta del 12 marzo. Al primo, il quale aveva sostenuto che lo Stato doveva «procurarsi una garanzia di fronte ai sindacati», non tollerando la presenza di organizzazioni «rivoluzionarie», ma accettando solo quelle che avessero «scopi conformi a quello dello Stato» e quindi creando i presupposti per un «sindacato unico e obbligatorio», provvisto di finalità autenticamente nazionali, Volpe ribatteva seccamente che quella proposta avrebbe creato automaticamente una «menomazione dei diritti per chi non è fascista», provocando un nuovo insopportabile vulnus alla natura del sistema liberale167. Nel corso della riunione, Rossoni insisteva ancora sulla sua ipotesi e aggiungeva che, se era ragionevole concedere «la libertà interna di un sindacato di tipo unico ed educativo», non era invece possibile accordarla ad associazioni politicamente mal fide. Contro questa tendenza si schierava Lanzillo, parlando di «sindacato burocratico» e Olivetti che sosteneva, provocatoriamente, che quella soluzione prefigurava «un sistema di coercizione legale che è quella dei sovietici». A quelle voci di dissenso, si aggiungeva quella di Volpe, che affermava non doversi avventatamente «parlare di socialismo» e dei suoi pericoli, ma solo «preoccuparsi dei sindacati che vanno contro la legge», aggiungendo che, per l’intera questione, si trattava di richiamarsi a un «criterio, giuridico e non politico»168. Anche Gentile si esprimeva nettamente contro l’ipotesi del «sindacato di Stato» e dichiarava, dopo la fine dei lavori, che se la Commissione non si era arrestata allo «Stato astratto del liberalismo individualistico» aveva pure negato il suo assenso all’ipotesi di una comunità politica ed economica basata sul «sindacalismo dei sindacati obbligatori», il cui carattere vincolante a priori presuppone un «principio d’obbligazione superiore ai sindacati, ossia uno Stato opposto ai sindacati» e ad esso sovrapposto che non riconosce «nessuna forza legittima esterna al sindacato». In questo, il lavoro dei «Soloni» si era ispirato a un princi-
167 B. UVA, La nascita dello Stato corporativo e sindacale fascista, Assisi-Roma, Carucci, 1974, p. 277. 168 Ivi, p. 278.
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pio «tutto liberale»169, anche se proprio questa tendenza aveva suscitato, fin dall’inizio, contro di esso «pavidi sospetti, strani equivoci e avversioni, e perfino contumelie e dileggi»170. Né questa reazione negativa era provenuta solo dalle fila dell’antifascismo conservatore. Contro le risoluzioni dei Diciotto, soprattutto per quello che riguardava il problema corporativo e l’attribuzione di nuovi poteri dell’esecutivo, l’insofferenza più viva era testimoniata non solo dalla sinistra fascista, ma anche dagli ambienti più vicini a Mussolini, che su questi aspetti della promessa riforma costituzionale avrebbero chiesto e preteso a breve la loro rivincita, nella convinzione che almeno «una parte delle tesi espresse dai Soloni» andavano ripudiate «perché troppo poco estremiste e troppo poco rivoluzionarie»171. Intanto, parallelamente al lavoro nelle Commissioni speciali e all’impegno nel Consiglio superiore della Pubblica Istruzione172, era continuata l’attività parlamentare di Volpe, fra dissensi e consensi con il governo in carica e la sua maggioranza. Più numerosi i primi, certamente, ma non sporadici neanche i secondi. Lo evidenziava l’intervento nel dibattito sulla previsione di spesa relativa al ministero degli Affari Esteri del 14 novembre 1924, pronunciato nel pieno della crisi aventiniana. In quell’occasione, gli argomenti espressi dal relatore avevano provocato l’auspicio di Mussolini, relativo al fatto che Volpe avrebbe potuto tra breve aspirare a ricoprire una responsabilità ministeriale173. La luna di miele tra lo storico e il Duce del fascismo pareva infatti essere al suo culmine, quando Volpe prendeva la parola soltanto il giorno precedente lo scialbo discorso del Capo del governo sulla politica estera, che si contraddistingueva per prudenza e moderazione174. Mussolini infatti esprimeva la sua soddisfazione per l’operato del gabinetto, che grazie ad accorte trattative con le Potenze europee e con gli Stati confinanti aveva debellato i principali «focolari di discordia». Il Trattato di Rapallo dimostrava chiaramente a tutti gli osservatori che «la politica estera del Governo fascista» non era una «politica di aggressione ma di pace con fermezza e dignità», che doveva svilupparsi con trattati di commercio e di cooperazione in grado, da soli, di espandere l’influenza italiana ver-
169 G. GENTILE, A lavoro compiuto. Intervista al «Popolo d’Italia», 2 luglio 1925, in ID., Politica e cultura, cit., I, pp. 192 ss. 170 G. Gentile a S. E. l’On. Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei Ministri, 5 luglio 1925, cit., p. 201. 171 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 58 ss. 172 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 20 giugno 1924, cit. 173 A.P., Affari Esteri. Discussioni, tornata del 14 novembre 1924, I, p. 466. 174 B. MUSSOLINI, La politica estera. Discorso pronunciato alla Camera dei deputati, il 15 novembre 1924, in ID., Scritti e discorsi politici, cit., IV, pp. 381 ss.
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so le «Nazioni del bacino danubiano e quelle dell’Oriente europeo». Ma se la tendenza a cui si ispirava la strategia internazionale del nostro Paese era tendenza sostanzialmente «pacifica», nondimeno non tutti i problemi erano stati risolti dai trattati di pace e anzi alcuni di quei problemi pesavano potentemente sull’avvenire e rendevano necessario che «la politica italiana sia accorta, vigilante, circospetta e preparata» e che gli «Italiani si interessino di politica estera, perché una nazione esiste in quanto fa della politica estera». Anche Volpe, nel suo intervento, si era uniformato a questa linea di cautela, sostenendo che la politica di una nazione fuori dei suo confini poteva almeno provvisoriamente fare a meno della forza delle armi e della competizione economica e commerciale175. Per l’Italia, nell’attuale congiuntura, si trattava piuttosto di esperire nuovi «strumenti» di politica estera e in particolare quelli che attenevano alla «coltura nei suoi riferimenti con la vita internazionale», privilegiando tre principali esigenze. In primo luogo, la tutela dei nostri emigrati e cioè la «difesa e la conservazione dei loro caratteri nazionali di cui primo e fondamentale è la lingua», al fine di «impedire che l’emigrazione sia sangue che fluisce da una ferita aperta e lascia impoverito anche l’organismo spirituale della nostra Nazione» e di non «rendere vano agli effetti degli interessi permanenti della Nazione stessa il fenomeno emigratorio». Se altri paesi come la Francia, ammettendo ai vantaggi del loro sistema scolastico le genti dei loro domini d’oltremare, «inquadrano negri», il governo italiano doveva cercare almeno di «non perdere i nostri stessi fratelli». Il compito per realizzare questo obiettivo era certo immane e tale «da superare le forze anche di un paese più grande e più ricco del nostro», non tanto e non solo in considerazione del fatto che «le nostre colonie ora sono più proletarie di quello che non fossero 50 anni addietro e quindi assillate da preoccupazioni di carattere economico, in cui la coltura trova un posto assai limitato». Ad una politica di nazionalizzazione o di ri-nazionalizzazione dei nostri lavoratori, costretti alla diaspora, si opponeva «la capacità di assorbimento dei paesi di immigrazione», soprattutto nell’America meridionale e negli Stati Uniti, che, con il «crescere del loro spirito nazionale e nazionalistico», rafforzavano, nei fini e nei mezzi, la volontà di «corrodere e di sciogliere i nuclei eterogenei che si trovano sparsi in mezzo ad essi». Di fronte a questa emergenza, l’Italia doveva potenziare la rete della sue «scuole colonia-
175 A.P., Affari Esteri. Discussioni, tornata del 14 novembre 1924, I, pp. 461 ss. Il discorso, in piccola parte rimaneggiato, era pubblicato su «Politica», 30-31 novembre 1924. Lo si veda anche in G. VOLPE, Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 353 ss. e poi in ID., Scritti sul fascismo, cit., II, pp. 5 ss.
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li», pareggiare le migliori, tra le private, a quelle pubbliche, con particolare riguardo a quelle delle corporazioni religiose, imporre a tutte stessi doveri e stessi diritti, ampliarne l’insegnamento dal livello elementare a quello medio e superiore, preparare in maniera specifica il loro corpo insegnante, ma soprattutto «ottenere che nelle scuole locali di vario grado, dove affluiscono per i nove decimi, anche ragazzi italiani, si faccia posto all’insegnamento dell’italiano, naturalmente con patti di reciprocità». Tale azione doveva essere strettamente correlata ad un forte impegno su «quella che volgarmente si dice propaganda culturale all’estero, insomma diffusione della nostra cultura all’estero», secondando una vocazione secolare dell’Italia e che era, al tempo stesso, «esigenza indispensabile al nostro spirituale propagarsi», ma anche necesità di «poter nel tempo stesso ricevere poi dagli altri», senza però pericolo di «essere sommersi o snaturati, come in qualche epoca vicina è accaduto». Ma, affrontate queste due esigenze, ancora molto restava da fare su di un piano ai primi strettamente correlato. Se il Governo doveva proporsi sicuramente di «coltivare gli Italiani all’estero e gli stranieri sul nostro conto», a più forte ragione non poteva dimenticare di «coltivare i cittadini italiani, i loro elementi dirigenti su quel che riguarda i problemi della vita internazionale e mondiale». L’apertura della carriera diplomatica e consolare, fuori di ogni steccato di censo, realizzata con il decreto del settembre 1923, aveva creato l’esigenza di un reclutamento, al tempo più massiccio e più qualificato, al quale si doveva corrispondere con la creazione di istituti di formazione più adeguati di quelli che non fossero le tradizionali facoltà di Legge e il vecchio e ormai inadequato Istituto di Scienze sociali di Firenze. Proprio per realizzare questo obiettivo era in via di formazione, a Roma, una «Scuola di scienze politiche che fa posto a discipline giuridiche, economiche e storico-politiche, al cui ordinamento andava provvedendo una Commissione, di cui è stata magna pars l’onorevole Salandra e alla quale sarebbe stato bene se avesse partecipato anche un rappresentante del Ministero degli Esteri». Contro le titubanze di molti ambienti, manifestatesi anche nella relazione sul Bilancio degli Esteri, pronunciata dal deputato Torre, questa istituzione doveva essere al più presto tramutata in Facoltà, per servire principalmente, anche se non esclusivamente, come vivaio, alla preparazione dei membri del corpo diplomatico. La Scuola e la futura Facoltà dovevano realizzare un più vasto e diffuso programma di acculturazione delle élite, riguardante i problemi internazionali, che era mancata alla vigilia della Grande Guerra, e che era assente ancora oggi quando «i patti, i trattati, le alleanze» che il recente conflitto aveva posto in essere non potevano essere considerati solo dei semplici «documenti di archivio» ma piuttosto andavano interpretati come elementi di
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una dinamica, in perpetuo divenire, la quale doveva adeguarsi «alla mutata realtà e alla mutata necessità». Sul rapporto tra Alta Cultura e azione nello scenario internazionale, l’Italia doveva dunque principalmente puntare, se il nostro paese intendeva perseguire una «grande politica». Grande politica ma non «megalomane», come quella inaugurata da Crispi, né «rinunciataria», come quella sviluppata da Giolitti. Ma piuttosto, nel solco dell’eredità di Cavour, «politica di buon respiro, di continuità, di concretezza, di corrispondenza e di affiatamento tra Governo e Paese, in modo che quello trovi sempre in questo il suo punto di appoggio e la ispirazione». Politica, infine, in grado di armonizzare, con grande realismo le «piccole possibilità» e le « grandi necessità» che si imponevano alla nazione italiana per affermarsi o per non soccombere nel confronto sempre aperto con le altre Potenze. La nostra tragedia, la tragedia della nostra vita presente, a guardare in fondo, è in questo contrasto tra le necessità grandi, imposte da qualche cosa che trascende la nostra volontà individuale e le mediocri possibilità. Quando noi chiediamo uno Stato forte all’interno, che abbia la necessaria libertà di movimento nei rapporti internazionali, lo chiediamo appunto per questo, per vedere, se sia possibile adeguare meglio le piccole possibilità alle grandi necessità. Quando noi chiediamo agli italiani di dare un contenuto concreto alla parola libertà; di accettare o di imporsi, quando è necessario e nei limiti che è necessario, una limitazione di questa libertà, lo chiediamo sempre per questa medesima cosa. Il largo consenso per la politica estera di Benito Mussolini in questi due anni è dovuto a questa capacità che egli ha dimostrato di saper fare la politica che si poteva e si doveva fare. Bisogna perseverare su questa strada: voi, onorevole Mussolini, con la vostra tenacia, con l’alta ambizione che certamente vi ispira, e i vostri successori, senza fretta, ma anche senza tregua.
Il battesimo del fuoco di Volpe nell’aula parlamentare si rivelava un vero successo, testimoniato da numerosi attestati di stima176, nonostante quel riferimento ai possibili «successori» del Capo del Governo, che certo spiacque al fascismo e anche ai suoi quadri meno estremisti. Sia come sia, Volpe sembrava davvero trovarsi a suo agio nel nuovo ruolo, passando da interventi di modesta entità a favore della «piccola patria» romagnola, come l’interrogazione sul ritardo dei lavori per la realizzazione della tratta ferroviaria Santarcangelo-Urbino177, a prese di posizio176 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma 17 novembre 1924, cit.: «Ho avuto lettere e cartoline per il mio discorso. E sì che i giornali hanno impiastricciato poche righe! Forse è andato meglio che io non credessi. Ecco: deve aver fatto impressione di cosa molto seria e ponderata. E sì che lo ho preparato in tre giorni di cui uno a correr giù e su per raccogliere dati». 177 A.P., Tornata del 4 dicembre 1924, II, p. 1149.
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ne sui più gravi problemi politici del momento, come il cosiddetto «caso Giunta», che, tra il 17 e il 19 dicembre, accendeva una violenta polemica parlamentare, quando i deputati venivano investiti di una richiesta di autorizzazione a procedere contro Francesco Giunta, vicepresidente della Camera ed esponente di spicco del Pnf, accusato di aver orchestrato l’aggressione, quasi mortale, contro Cesare Forni, leader dello squadrismo lombardo e capofila dell’intransigentismo dissidente. Giunta, con la motivazione di facilitare il compito dei colleghi e di voler riacquistare la sua «piena libertà d’azione», rassegnava le dimissioni, pressato da Mussolini, in quel momento impegnato in un’azione di epurazione interna e di disciplinamento anche ai vertici del partito e che si preparava a un’intesa con i gruppi liberali, ai quali intendeva offrire, come segno di buona volontà, il ritorno al sistema uninominale178. A sorpresa, con un voto in buona parte determinato dalla stessa maggioranza fascista, le dimissioni venivano respinte, nonostante il voto favorevole di molti deputati fiancheggiatori, tra i quali lo stesso Salandra. Giunta, sempre su impulso di Mussolini, insisteva nella sua richiesta, il giorno 19. Sulla questione si apriva un animato dibattito. Da una parte, Vincenzo Buronzo, che appoggiava la decisione di Giunta, dichiarando che la Camera, accettandone il congedo volontario, non intendeva abbandonarlo al linciaggio delle opposizioni, ma piuttosto testimoniare, ancora una volta, la «forza del fascismo rivoluzionario, del fascismo della prima ora, che, dopo essere consapevolmente salita al banco della Presidenza, era disposta a disciplinarsi e a fare la sua prova secondo le norme di quella disciplina che noi volontariamente imponemmo a noi stessi, quando siamo entrati in questa Camera, nei giorni ardenti della rivoluzione, e quando abbiamo chiamato arbitra assoluta della nostra azione rivoluzionaria la Monarchia»179. Sul fronte opposto, Farinacci, che si dichiarava contrario all’allontanamento di Giunta, al fine di rendere esplicito che «il fascismo è stufo e arcistufo di subire dei tentativi ricattatori da parte degli avversari» e che non avrebbe mai permesso un «processo alla rivoluzione»180. Contro le dimissioni di Giunta, interveniva anche Michele Bianchi, il cui discorso era interrotto d’autorità da Mussolini che troncava la discussione e chiedeva un voto favorevole, in base al «preciso dovere», che derivava dalla «disciplina di partito»181. Volpe aveva preso la parola, almeno in apparenza, sulla stessa linea, indicata dal Capo del Governo, ma anche in perfetta coerenza con le ra-
178 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp. 697-698. 179 A.P., Tornata del 19 dicembre 1924, II, p. 1826. 180 Ivi, p. 1829. 181 Ibidem.
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gioni dei tanti deputati indipendenti eletti nella «lista nazionale», affermando di condividere in tutto le «ragioni intuitive, svolte molto eloquentemente dall’onorevole Oronzo» e di augurarsi un largo voto favorevole all’accettazione. Se questo non fosse avvenuto, continuava, «non rimarrà a me che un rammarico: che un atto il quale avrebbe potuto e, a mio modo di vedere, anche dovuto compiersi con tutta spontaneità e libertà, si compia o possa apparire che si sia compiuto sotto l’assillo, sotto il timore, di complicazioni parlamentari o extra-parlamentari»182. Era una semplice annotazione, in margine, sufficiente però a smascherare il «teatrino della politica» inscenato da Mussolini in quella tornata e che provocava commenti sfavorevoli nell’assemblea. Un inconveniente inevitabile, questo, al quale si aggiungeva quello provocato da una difettosa trascrizione del dibattito sulle colonne del «Corriere della Sera». Dall’articolo pubblicato dal quotidiano milanese, il 20 dicembre, che si soffermava soprattutto sulle «proteste degli estremisti», si evinceva infatti che anche Volpe si fosse opposto alle dimissioni183. Un’inesattezza grave che lo costringeva a chiedere una rettifica che, pubblicata il giorno successivo, riportava integralmente e letteralmente le sue parole pronunciate in aula184, le quali erano così direttamente consegnate al giudizio della pubblica opinione. Questa larvata fronda contro la tattica politica del Presidente del Consiglio veniva meno, in ogni caso, quando, sbaragliata l’opposizione, il Parlamento si trovava ad approvare le grandi linee di quella che pareva essere la politica riformista del fascismo, con particolare riferimento ai problemi della pubblica istruzione. Per quella materia, in sede di discussione sul bilancio, il 18 marzo 1925, Volpe prendeva qualche distanza dalla riforma Gentile, accusata di essere stata poco sensibile ai gravissimi problemi degli insegnanti medi eccessivamente sfavoriti, nei confronti di quelli universitari, per quello che concerneva la retribuzione e l’inquadramento gerarchico, e ribadiva, le sue posizioni liberali e liberiste sui problemi della scuola185, secondo le quali lo Stato doveva essere affiancato nella sua opera da sodalizi di carattere volontario come la Pro cultura di Torino, il Gruppo d’azione di Milano, l’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno, che andavano fattivamente operando per «promuovere la soluzione del problema scolastico specialmente delle scuole rurali».
182 Ivi, p. 1828. 183 La maggioranza parlamentare accetta le dimissioni di Giunta. Le giustificazioni del
nuovo voto e le proteste degli estremisti, in «Corriere della Sera», 20 dicembre 1924, p. 1. 184 L’on. Volpe e il caso Giunta, ivi, 21 dicembre 1924, p. 2. 185 A.P., Tornata del 18 marzo 1925, III, pp. 2636 ss.
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4. Ma l’ora delle scelte difficili suonava ancora una volta, quando lo storico si trovava a dibattere, nel mese di giugno, il disegno di legge sulla dispensa del servizio dei funzionari dello Stato, che «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio e fuori di ufficio, non diano piena garanzia di fedele adempimento dei loro doveri o si pongano in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo». Il varo di questa normativa, insieme a quelle che regolavano la disciplina della stampa periodica, la proibizione delle sette segrete, la delega al governo per la riforma dei codici, della legge di pubblica sicurezza, della legge penale militare costituiva, come si è già parzialmente osservato, il vero e proprio preludio alle «leggi eccezionali» del 1926. Contro questi nuovi ordinamenti si organizzava una sorda ma consistente opposizione nel Senato, al fine di ritardarne l’approvazione186, e anche una minore, eppure in qualche caso pugnace, resistenza dei deputati fiancheggiatori eletti nella lista nazionale, che avevano ormai abbandonato la maggioranza. Uno di essi, Carboni, sebbene quasi travolto dalla gazzarra inscenata da Farinacci, protestava vigorosamente, nella seduta del 19 giugno, contro il provvedimento di epurazione politica dell’amministrazione, che, nonostante il suo carattere provvisorio e transeunte, doveva considerarsi «eretico» dal punto di vista giuridico. Se si comprendeva benissimo infatti, «la necessità di una burocrazia la quale non abbia altro carattere che quello di esecutrice fedele e devota delle disposizioni del Governo», occorreva dire che già le vigenti disposizioni legislative permettevano di reprimere e di punire l’attività «sovversiva e ostruzionistica» dei pubblici funzionari. Ma il nuovo progetto non tendeva a questo fine. Esso si riprometteva, piuttosto, di «richiedere ai funzionari una consonanza spirituale con l’autorità», intesa però in quanto Governo e non, come avrebbe dovuto essere, in quanto Stato. Anzi in tutta la relazione ministeriale si scorgeva «uno sforzo, e più che uno sforzo, un’arte abilissima nell’accomunare e immedesimare i due concetti di Stato e Governo, i quali sono di per sé assolutamente diversi, in quanto il Governo non è che uno degli organi dello Stato, al quale porta nel continuo rinnovarsi la continua attualità dello spirito pubblico». La «verità conclusiva», aggiungeva Carboni, era dunque che «in regime fascista il Governo tende ad assumere i caratteri e gli attributi dello Stato: caratteri di stabilità e di permanenza, di più largo e incontrollato potere». Tutto questo domani poteva divenire realtà e trasformare lo Stato, liberale e di diritto, in dittatura, facendo strame di «istituti e di garanzie che sono ancora immutati nelle nostre leggi costituzionali» e che forse po-
186 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., p. 126.
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tevano essere difese ora, per l’ultima volta, con qualche successo187. A sostegno del progetto, parlava Rocco, il quale non si azzardava neppure a negare il carattere di colpo di Stato legislativo dell’ordinamento proposto, che preludeva all’integrale fascistizzazione delle funzione pubblica, limitandosi ad affermare che la legge era il semplice risultato e l’ovvia conseguenza della rivoluzione del 28 ottobre: «grande rivolgimento, spirituale e intellettuale ancor più che politico, che ha condotto al Governo dello Stato uomini, la cui mentalità è tanto profondamente diversa dalla mentalità dei liberali e dei democratici che li hanno preceduti nel Governo, quanto la mentalità di costoro era diversa da quella degli uomini dell’antico regime». La presa di potere di Mussolini aveva portato, infatti, a una «nuova concezione della società e dello Stato, il cui aspetto, nella storia del pensiero politico e nella evoluzione delle forme politiche, rappresenta un rivolgimento di importanza non inferiore a quello che rappresentò, di fronte alle ideologie e alle forme politiche anteriormente dominanti, il movimento filosofico e politico della rivoluzione francese»188. Su questo punto, la discussione si trasformava in una disquisizione di carattere storiografico sulla funzione eversiva dell’antico ordine, che ogni transizione di regime comportava necessariamente, persino con riferimento, da parte fascista, alla bontà delle misure di bonifica attuate dalla rivoluzione sovietica contro la burocrazia di Kerenski189. Ma il dibattito registrava anche le forti perplessità del gruppo nazionale liberale, il quale domandava una riformulazione del disposto legislativo che preservasse il «carattere di certezza giuridica che lo Stato, contraente e soggetto non meno di ogni altro soggetto alla forza morale del contratto siglato con i suoi servitori non può disconoscere»190. Eguale perplessità trapelava anche dal secco pronunciamento di Volpe, che annunciava il suo voto favorevole, ma «per sola disciplina di partito», dichiarando per il resto di essere radicalmente «contrario per ragioni che derivavano dalle tradizioni del liberalismo, non solo, ma anche e più dallo spirito stesso, come io lo interpreto, del movimento a cui ho aderito». Una contrarietà tanto più forte, si precisava, quanto più appariva evidente, alla luce del semplice buon senso,
187 A.P., Tornata del 19 giugno 1925, IV, p. 4330. 188 A. ROCCO, Discorsi parlamentari, cit., p. 209 189 Il deputato fascista Riboldi avebbe infatti affermato: «Il Governo social-democra-
tico di Kerenski fu così generoso da pagare anticipatamente gli stipendi a tutto gennaio 1918, perché la burocrazia sabotasse il Governo degli operai e contadini, confidando che sarebbe durato poche settimane. Ebbene: la rivoluzione dovette difendersi contro costoro. Era naturale e fece bene, ma il Governo dei soviety ha seguito poi una linea di condotta che non è la nostra». Si veda, A.P., Tornata del 19 giugno 1925, IV, p. 4336. 190 Ivi, p. 4342.
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che «con semplici modificazioni allo stato giuridico degli impiegati sarebbe stato possibile raggiungere gli stessi risultati»191. Il voto favorevole del 19 giugno non esauriva, in ogni caso, la polemica. Nella seduta immediatamente successiva, la presidenza della Camera riceveva le dimissioni dei deputati del «listone» De Nobili e Tommaso Benassi, che motivano quella scelta con l’impossibilità di votare una legge, la quale contrastava con i loro più radicati convincimenti che nessun dovere di «fedeltà gregaria» poteva annullare o ridimensionare. Il deputato Vicini chiedeva che quelle dimissioni fossero respinte, in base alla considerazione che Benassi, candidatosi senza aver aderito al fascismo, non era stato eletto nella lista del partito e che conveniva usare «diversa severità con chi si è staccato in una questione particolare con noi, ma che è e rimane un completo amico del Governo come è stato sempre prima ancora di avere la tessera»192. Contro quella proposta insorgeva Farinacci che accusava i due dimissionari di opportunismo e di machiavellismo, avendo essi sicuramente «rassegnato le dimissioni per non votare il disegno di legge contro la burocrazia, sicuri di vedere poi ratificato il loro atteggiamento nel vedersi respinte le dimissioni da questa Camera»193. Vicini ritirava allora la sua proposta, per disciplina di partito. Ma Volpe protestava fermamente contro le accuse del ras di Cremona, che riteneva assolutamente infondate e, tra un coro di proteste dei deputati fascisti, pur senza fare formale proposta di voto contrario, si riservava di votare contro le dimissioni con questa motivazione: Io mi rendo perfettamente conto dell’atto dell’onorevole Benassi e debbo apprezzare la nobiltà che lo ha ispirato e quell’amore alla coerenza e alla fedeltà a se stesso che rivela. Specialmente io debbo apprezzarlo, che ieri mi sono trovato nello stesso doloroso e angoscioso bivio fra certi doveri e certi atti, fra l’attaccamento a certe convinzioni e l’attaccamento a certe altre convinzioni e che ho dovuto, come altri – del resto – insieme con me, penare a scegliere la mia strada. Alcuni l’hanno scelta in un modo, altri l’hanno scelta in un altro, ma non si deve affatto pensare a un secondo fine in quelli che hanno scelta una maniera diversa da me e dagli altri insieme con me. Io penso che questi nostri colleghi, che oggi hanno presentato le dimissioni, possano bene e degnamente seguitare a lavorare come noi in questa Camera. Per queste ragioni, oltre che per la consuetudine della Camera di respingere queste dimissioni, io penso che debbano essere respinte le dimissioni dei nostri due colleghi194.
Era l’ultimo sussulto di indipendenza di Volpe, l’ultima sconsolata 191 Ivi, p. 4343. 192 A.P., Tornata del 20 giugno 1925, IV, p. 4365. 193 Ibidem. 194 Ivi, p. 4366.
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e malinconica testimonianza a favore della vecchia e gloriosa eredità liberale, che ormai vedeva allontanarsi dal suo presidio anche alcuni dei suoi tradizionali sostenitori e trionfare i suoi più acerrimi nemici. Nel luglio del 1925, Gentile non si limitava più a porre una forte linea di continuità tra liberalismo e fascismo, come fino al quel momento aveva fatto195, ma risolveva integralmente il primo termine nel secondo in quanto «più coerente e più storicamente matura e perfetta concezione dello Stato come libertà»196. Di lì a due anni, Rocco avrebbe magnificato quella rivoluzione copernicana della politica, che aveva trasformato in un breve lasso di tempo lo Stato liberale in quello fascista197, e, nell’aprile del 1932 avrebbe dichiarato con soddisfazione di aver «seppellito il liberalismo definitivamente», aggiungendo che «esso è morto e non resusciterà giammai»198. Anche Volpe aveva partecipato a quel tragico interramento nel suo ultimo intervento parlamentare, per attestare, seppure con qualche esitazione e rammarico che gli fruttò una contestazione da parte di Farinacci e del suo gruppo199, un suo almeno indiretto consenso alla «legge sulla cittadinanza». In quella seduta, l’intenzione del fascismo di farla finita con la «dispersa e vile famiglia degli intellettuali», che insisteva testardamente nella sua contestazione al nuovo corso politico, veniva tradotta in realtà. Nelle seduta del 28 novembre 1925, veniva presentata alla Camera dei deputati, su impulso di Federzoni, Rocco e dello stesso Mussolini, il disegno relativo alla cosiddetta «legge sui fuoriusciti», che doveva decretare la perdita della cittadinanza per coloro che avevano imboccato il cammino dell’emigrazione in ragione di un aperto conflitto con il nuovo regime. Nella sua relazione, Rocco sottolineava che la sanzione non avrebbe avuto «carattere antiproletario», non avrebbe infierito su «operai traviati o illusi» dalla loro stessa ignoranza, ma avrebbe colpito invece l’opposizione intellettuale, «perché coloro i quali all’estero diffamano il loro Paese, o congiurano contro il loro Pae195 G. GENTILE, Il fascismo e la Sicilia, 31 marzo 1924, ora in ID., Politica e cultura, cit., I, p. 38 ss. 196 ID., Prefazione a C. Licitra, Dal Liberalismo al Fascismo, cit., p. V. Ora anche in ID., Politica e cultura, cit., I, p. 163. 197 A. ROCCO, La trasformazione dello Stato. Dallo Stato liberale alla Stato fascista, Roma, Società Editrice “La Voce”, 1927, in particolare p. 8, dove l’autore sosteneva di aver compendiato tutti i «documenti della trasformazione operata dal fascismo dopo il 3 gennaio 1925 nel campo più generale dell’organizzazione dello Stato». 198 ID., Sul disegno di legge “Stato di previsione della spesa del Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto per l’esercizio finanziario dal 1 luglio al 30 giugno 1933”, in ID., Discorsi parlamentari, a cura di E. Campochiaro, con un saggio di G. Vassalli, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 525 ss., in particolare p. 543. 199 A.P., Tornata del 28 novembre 1925, V, p. 4694.
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se, oppure organizzano contro il loro Paese la guerra civile, non sono proletari: ma gente perduta, detriti e naufraghi della borghesia italiana; pseudointellettuali e avventurieri di ogni risma». In questo modo, i dissidenti intellettuali erano inseriti nella schiera degli italiani «antinazionali» e venivano assimilati ai fautori del «brigantaggio» post-unitario, «organizzato fuori dai confini del nostro Regno, da pessimi italiani, principi spodestati e loro adepti, i quali non temettero di armare la mano dei loro fratelli contro la Patria»200. Tra le prime vittime illustri dello spirito, se non ancora della lettera, di questa normativa, poi varata l’anno successivo, che decretava l’ostracismo contro gli «italiani rinnegati non contro il Fascismo o contro il Governo soltanto, ma contro l’Italia», fu Gaetano Salvemini, accusato da Volpe, in quella stessa giornata del 28 novembre, di aver scritto, in una lettera aperta al Rettore di Firenze, poi ampiamente ripresa dalla stampa anglosassone, che il regime aveva ridotto l’«insegnamento universitario della storia» a strumento di «servile adulazione del partito dominante». In quell’occasione, Volpe, si è detto, avrebbe tentato tuttavia una difesa in extremis dell’amico e collega201. Si tratta però di una «leggenda aurea», che va ridimensionata in buona misura. Volpe, nel suo intervento alla Camera, riconosceva certamente a Salvemini «alcune sue benemerenze nella prima parte delle sua esistenza di studioso». Ne ricordava la fama internazionale «per ragioni che in parte, e precisamente per quella prima parte, gli fanno onore, e in parte maggiore non gli fanno onore». Ma questi pur cauti attestati di stima non dovevano, per nessun motivo, tramutarsi nell’assoluzione di un intellettuale, del quale la ragione politica esigeva invece una censura pubblica se non forse una vera e propria condanna, per aver oltrepassato il confine tra un’attività di ricerca che, pur ispirata alle esigenze del presente, restava disinteressata e l’impegno militante di parte. Proprio perché questo studioso non è ignoto fuori d’Italia, io credo doveroso che una voce di persona che, come lui, vive la vita delle Università italiane, si innalzi qui nel Parlamento a dire che non è vero quello che è affermato nella lettera del prof. Salvemini. Nelle Università italiane è ancora oggi lecito di
200 A. ROCCO, Sul disegno di legge “Modificazioni ed aggiunte alla legge 13 giugno 1912, n. 555 sulla cittadinanza”. Camera dei Deputati, tornata del 28 novembre 1925, in ID., Discorsi parlamentari, cit., pp. 239 ss., in particolare p. 239-240. 201 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, 4 dicembre 1957, cit: «Ricorderò ancora che, quando nel ’31 fui attaccato per essere stato scolaro di Salvemini, lei mi difese a viso aperto in un modo che suonava anche stima per Salvemini maestro; e ricordo anche di aver letto in non so quale volume degli Atti Parlamentari, mi pare del ’26 [sic], parole Sue in difesa di Salvemini».
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professare liberamente quella e qualsiasi altra disciplina, anche la storia; lo riconoscono del resto anche quelli dell’altra parte che non sono accecati dalla passione. Solo è necessario questa e qualsiasi altra disciplina non mescolarla malamente con la politica. Sappiamo che la storia è anche politica, nel senso che i fatti anche lontanissimi è difficile valutarli senza un criterio politico direttivo, ma esiste un limite che divide la politica, in quanto storia, dalla politica in quanto polemica, dalla politica avvelenata, dallo spirito fazioso! Questo limite il prof. Salvemini non lo ha sentito! È necessario che i maestri questo limite lo sentano, tanto per necessità, per esigenza immanente dello Stato e della vita civile, quanto pel rispetto agli alunni e alla scuola, alla scienza e alla stessa politica202.
Era un comportamento che ormai allontanava Volpe anche da altri esponenti del mondo politico e intellettuale che, fino a quel momento, avevano appoggiato con convinzione il fascismo. Gaetano Mosca, infatti, quando il Senato si apprestava ad approvare il disegno di legge sulle «Attribuzioni e prerogative del Capo del Governo» non solo testimoniava la sua integrale disapprovazione per il varo di quel provvedimento ma confessava anche che la sua dichiarazione di voto sfavorevole assumeva ormai il carattere di un «elogio funebre del regime parlamentare», il quale sicuramente doveva subire delle «sensibili modificazioni» ma non una «trasformazione radicale» che ne annullava insieme meriti e difetti203. All’opposizione frontale di Mosca, per la deriva dittatoriale che investiva il paese, Volpe preferiva ancora una strategia di dissenso interno, in grado di rilanciare i grandi temi della polemica revisionista nel governo e all’interno del Pnf, che era ormai nelle mani di uno dei suoi più decisi avversari, Roberto Farinacci. L’ascesa del «satrapo di Cremona» alla segreteria, avvenuta nel mese di febbraio, corrispondeva ancora una volta alla spregiudicata strategia del Capo del Governo, intenzionato a giocare, successivamente e al di fuori di ogni preciso convincimento ideologico, le varie anime del fascismo le une contro le altre, per concentrare tutto il potere nelle sue mani, persuaso del fatto, come aveva bene intuito Gobetti, senza però riuscire a trarre le dovute conseguenze da quella diagnosi, che la maggioranza degli italiani poteva dirsi non tanto «fascista» ma piuttosto «mussoliniana» per la sua «assoluta incompatibilità di carattere coi partiti moderni e coi regimi di autonomia
202 A.P.,. Legislatura XXVII, 1° Sessione. Discussioni. Tornata del 28 novembre 1925, V, pp. 4693-4694. 203 G. MOSCA, Sul disegno di legge “Attribuzioni e prerogative del Capo del Governo, primo ministro, segretario di Stato”, tornata del 19 dicembre 1925, in ID., Discorsi parlamentari, cit., pp. 359 ss.
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democratica». Motivo per il quale, «messi al bivio tra il governo attuale e una ipotesi di governo futuro nella quale i cittadini abbiano le loro responsabilità nella lotta politica», essi avrebbero continuato a scegliere la leadership del fondatore dei Fasci204. Ma se il segretariato di Farinacci ridimensionava drasticamente il peso politico della corrente revisionista e assicurava una certa disciplina all’interno del partito, all’esterno, quella direzione politica accresceva, invece di ridimensionarlo, il tasso della violenza squadristica e dell’illegalismo, provocando forte malcontento presso la Corona e negli ambienti moderati, fascisti e afascisti, del paese. In questa situazione, bisognosa di un altro, ulteriore e almeno apparente cambiamento di rotta, Mussolini indiceva il quarto (e ultimo) Congresso Nazionale Fascista, che si riuniva a Roma il 21-22 giugno del 1925, ponendo all’ordine del giorno il ruolo del partito fascista e il rapporto tra partito e governo205. Quell’adunata di partito si sarebbe rivelata un’«assemblea dei muti», assolutamente priva di dialettica interna, dalla quale usciva, come unica conclusione politicamente rilevante, la parola d’ordine, formulata da Mussolini e poi rilanciata dall’ex nazionalista Maurizio Maraviglia, che puntava sulla necessità di «dissolvere» il Pnf, di sollevarlo dalla «concezione egualitaria del regime dei partiti» per identificarlo con la «stessa nazione»206. Era una linea che bene testimoniava le preoccupazioni dei fascisti di governo e del nucleo dei fiancheggiatori di trovare una formula in grado di «mettere in mora» la fazione di Farinacci, di riaffermare il potere delle autorità legittime, di enfatizzare l’azione propulsiva ma non direttamente responsabile del partito verso lo Stato e quella normalizzatrice, disciplinatrice, armonizzatrice del governo nei confronti del partito. Ad avvalorare la concreta praticabilità di questa tendenza, era chiamato non casualmente uno dei portavoce ufficiosi della corrente revisionista. A due mesi di distanza dalla conclusione del Congresso, usciva su «Gerarchia» un ampio commento politico su quella riunione, a firma di Volpe, ispirato dall’ala destra del Pnf (Federzoni) e dal governo interessato, in questo momento, ad accreditare la tesi di una prossima, futura svolta in senso meno illiberale in grado, allo stesso tempo, di liquidare una volta per tutte l’intransigentismo. Nell’articolo, Volpe si uniformava a queste «direttive», ma con grande e sicuramente eccessiva indipendenza rispetto al «mandato» conferitogli. Il bilancio dell’adu-
204 P. GOBETTI, Amendola, «La Rivoluzione liberale», IV, 31 maggio 1925, 22, p. 89. 205 Sul punto, R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp.
127 ss.
206 Si veda rispettivamente, B. MUSSOLINI, Opera omnia, cit., XXI, pp. 357 ss.; M. MA-
RAVIGLIA,
Il valore del Congresso fascista, in «Gerarchia», luglio 1925, pp. 410-412.
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nata romana non era certo un «articolo tipicamente untuoso», che, lodando il presunto unanimismo di quell’incontro, passava sotto silenzio l’assenza di «ogni dialettica interna nella vita ufficiale del partito», come si è sostenuto207, ma piuttosto costituiva una riflessione critica dove non mancavano prese di distanza dirette e soprattutto indirette sulla politica del fascismo, sui suoi risultati e su quello che sembrava essere il suo futuro, preoccupante svolgimento. Il pezzo di Volpe non si limitava a essere un semplice epilogo congressuale. Quello scritto costituiva anche un riepilogo dell’«anno torbido», che il paese si era ormai lasciato alle spalle ma che aveva visto alternarsi, in una dinamica caotica e convulsa, lo «scatenarsi dell’offensiva del blocco aventiniano», l’«ondeggiare nell’incertezza e il disorientarsi di molta parte dell’opinione pubblica», lo «sfoltirsi, forse salutare, della schiera dei fiancheggiatori» e persino l’«arresto nel movimento, nella vita interna del partito, in talune attività del governo fascista». A tutto questo si era posto rimedio con l’«energico colpo di timone» degli inizi di gennaio. Atto d’imperio sicuramente necessario a debellare l’opposizione e a «evitare il pericolo di una violenta levata di scudi nella provincia, difficile a regolare e contenere dal centro», ma pure rimedio rischioso che aveva provocato «misure restrittive», dinnanzi alle quali era difficile non pensare che si fosse ecceduto allora e che si eccedesse ancora nel mantenerle in vita. Quelle misure eccezionali facevano seguito, poi, a una attività legislativa straordinaria dello stesso segno, quando «si vararono, l’una dopo l’altra, leggi fondamentali sulle società segrete, su la potestà legislativa, sui funzionari, sulla stampa», con troppa precipitazione, «senza modificazioni o emendazioni in sede di discussione parlamentare che fu assai spicciativa»208. Si dissero «squisitamente fasciste» queste leggi, consone allo spirito di quel movimento, e in parte lo furono, almeno per la loro fulminea approvazione, che risparmiò al paese la «tradizionale logomachia montecitoriale», anche se vi fu «in quella fretta a volte improvvisa, che da nessuna grave ragione di urgenza appariva giustificata e che si risolveva in automatismo votatorio, qualcosa che assai dispiacque a molti della maggioranza». E, in quanto al contenuto di quelle disposizioni, doveva almeno dubitarsi che esse si spingessero con successo a investire «non rapporti esterni, facilmente regolabili, ma delicati e imponderabili rapporti spirituali». Di poca o nulla opportunità pareva essere, ad esempio, quella «relativa ai funzionari dello Stato», che anzi avrebbe sicuramente contribuito a «far largo po-
207 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., p. 64. 208 G. VOLPE, Ripensando al Congresso fascista, «Gerarchia», agosto 1925, poi in ID.,
Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 384-385.
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sto all’arbitrio, a fomentare lo spirito di delazione e la bassa gara nella famiglia burocratica, a determinare l’esodo di elementi ottimi anche se non ritagliati sul modello del perfetto fascista, a riempire, invece, le stive del fascismo di opportunisti e paurosi, cioè di zavorra malferma, quella che, nei giorni di mare agitato, fa sbandare il bastimento»209. Di questo deragliamento illiberale, poco utile e piuttosto dannoso allo stesso fascismo, la riunione romana si era data veramente poco conto, anche per la sua fisionomia non di «congresso che discute e determina direttive e risolve e prepara crisi di tendenze e scismi, come i congressi di partito sogliono essere» ma di semplice «atto di presenza, rassegna di forze, monito agli avversari», di «rito o concilio di credenti», e persino di «opportunisti e di cialtroni», qualcuno avrebbe potuto pensare, se si fosse astratto dall’«animo profondamente sincero dei partecipanti». In ogni caso, fatta eccezione per la passerella di alcuni leader, al limite del mero esibizionismo, come quella di Farinacci, e l’altra, in fondo, patetica di De Vecchi, che si autoproclamava «camicia nera, sentinella, soldato, piantone della rivoluzione», il solo «nume tutelare» di quelle giornate, «quando parlò e quando tacque, presente o assente», fu il Capo del Governo, al quale Volpe non risparmiava una violenta sferzata per il montante culto della personalità che lo circondava. Da cinque anni, tutto ruota attorno a lui il movimento fascista, a lui fanno capo tutte le forze del Fascismo, da lui vengono o da lui si attendono le risoluzioni nei momenti supremi del partito. Carattere di tutti i movimenti di masse: esse si raccolgono attorno ad uomo, si danno, si abbandonano a lui. La loro religione è antropomorfica: togli l’uomo e la religione si stempera e svanisce. Per i quattro quinti dei fascisti, il fascismo è Mussolini, o un complesso di aspirazioni piuttosto vaghe che acquistano senso, consistenza, forza viva, solo in quanto si incarnano in lui. Posizione sublime e terribile la sua, che non può a lui stesso non dare un interno tremore: non per la sua persona, ma per quella gioventù sincera ed entusiasta che vede lui la guida, il maestro infallibile, il verbo che si è fatto carne; e per l’Italia che ha quasi fuor di se stessa il suo centro e, pur mentre vuole creare un ordine fermo e indistruttibile, poggia tutta sopra un uomo mortale210.
Era molto più che la semplice constatazione di uno stato di fatto, alla quale anche altri, come Federzoni, erano giunti, quando, alla fine d’aprile del 1926, rivolgendosi a Mussolini, sosteneva che «se un fatto deprecabile ti togliesse, anche solo temporaneamente dalla direzione dello Stato, sarebbe il caos», aggiungendo che «ciò costituisce la grandez-
209 Ivi, p. 386. 210 Ivi, pp. 387-388.
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za tragica e, insieme, l’unica debolezza della nostra situazione»211. Volpe infatti aggiungeva che non sulla venerazione per una personalità sicuramente eccezionale, ma ancora «umana, troppo umana» e per questo fallibile, nonché destinata a tramontare e a scomparire, si doveva contare per raggiungere le mete prefissate, né sullo sbrigativo processo alla passata storia italiana, sulla scia del quale oggi si era arrivati a presentare insistemente la mal posta questione se «il fascismo è Risorgimento più vero e maggiore, dopo una parentesi di mezzo secolo, o è Antirisorgimento, come rinfacciano ad esso i liberali… troppo liberali e come vantano certe avanguardie o ali di fascisti, troppo fascisti, per i quali l’Italia nasce attorno al 1920, o tutt’al più, nel 1914-15?»212. Ancora una volta, ma non per l’ultima volta, Volpe ammoniva il movimento dei Fasci a farsi erede dell’intera tradizione politica italiana, nei suoi aspetti migliori, a non ripudiare né il socialismo né soprattutto l’esperienza liberale. Il fascismo e almeno alcune sue frazioni non potevano infatti continuare a presentarsi come «antitesi assoluta del liberalismo», ma anzi dovevano valorizzare le «diverse esigenze» che si erano palesate nello sviluppo secolare di quella idea: da quella genuinamente e semplicemente «liberale», che «consiglia si lasci agli individui e ai gruppi il massimo di libertà», a quella «autoritaria», che «vuole lo Stato forte», a quella «egualitaria», che «considera pericolosi troppi squilibri e differenze fra classi», a quella «aristocratica», che «condanna il meccanismo di livellamento e vuole che non sia distrutta quella distinzione che è stimolo ai minori per elevarsi fino ai maggiori». Di questo complesso legato si doveva fare continuatore il fascismo, riguardo al quale Volpe invitava a «non dogmatizzare» sulla sua presunta coerenza dottrinale, abbandonando quell’«intransigenza», che per alcuni, e qui il riferimento a Farinacci diveniva lampante, rischiava di diventare la «pretesa di far degli Italiani altrettanti tesserati o, quanto meno, averli tutti consenzienti e plaudenti a tutti gli atteggiamenti del partito e a tutti gli atti del governo fascista, e da questa condizione far dipendere la loro qualità di cittadini e il riconoscimento del loro patriottismo». Soltanto una «setta ristretta o un cenacolo di credenti» potevano essere intransigenti in questo senso, non il fascismo, in ogni caso, che è «movimento e partito a larghissima base e, per sua stessa natura, ha confini non definiti e non ben definibili, tanto è vero che vi sono rivoluzionari e conservatori, infatuati del blasone e uomini nuovi, contadini e qualche anima di schiavista, liberisti e antiprotezionisti, antisemiti ed ebrei»213.
211 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., p. 74. 212 G. VOLPE, Ripensando al Congresso fascista, cit., p. 395. 213 Ivi, p. 401.
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La riflessione di Volpe, anche se fortemente eterodossa, poteva essere nondimeno ritenuta «tatticamente utile» da Mussolini e tale da costituire un «allettamento» per la fazione moderata, un «ammonimento» per quella fascistissima e, se non altro, il pretesto per aprire una nuova e più incisiva fase di normalizzazione214. Ma nello svolgere questo compito, Volpe non rispettava la «consegna» impartitagli. Nell’articolo, pubblicato su «Gerarchia», lo storico non si era limitato ad attaccare frontalmente la politica ultra del segretario del Pnf, pur riconoscendogli, con accorta diplomazia «il fervore, il disinteresse e la rettitudine personale, il non rifiutarsi ad ogni più grave responsabilità». In quelle pagine si irrideva all’obiettivo di De Vecchi di ridurre il paese a «serrata falange», sostenendo che il proporsi di tradurre quella «nobile aspirazione morale» in programma politico equivaleva a «volere non la vita ma la morte dell’Italia», poiché solo in una nazione «che cessasse di svilupparsi socialmente, cessasse di elaborare forze nuove che vogliono farsi valere, cessasse di aver nel suo seno fermenti operosi di rinnovamento, quell’ideale potrebbe considerarsi raggiunto»215. Neppure Mussolini era risparmiato, come si è visto, per la sua politica interna, per il bavaglio imposto al partito, ma persino per il suo manifesto di politica estera, esposto al Congresso, dove avventatamente si parlava della «grandezza imperiale dell’Italia», come «meta infallibile», e della «concezione dell’Impero», in quanto base della «nostra dottrina». Se era giusto infatti configurare il destino imperiale, nei limiti di una prudente Realpolitik, «ora come prevalente influenza intellettuale ed economica e politica nel Mediterraneo, ora come energico atto di presenza e manifestazione di volontà nei problemi del mondo», doveva osservarsi che «gli Imperi non si creano, né se ne affretta l’avvento proclamandoli e preannunciandoli a gran voce o riempiendo di quella parola grandi fogli cartacei»216. Con quest’ultima dichiarazione il segno di una critica vivace, ma comunque tollerata e autorizzata dalle superiori autorità, era largamente oltrepassato. E, postosi sull’altra riva del Rubicone, Volpe doveva attendersi una pronta e rapida giubilazione, che si sarebbe verificata allo scadere del mandato parlamentare, quando lo storico «veniva escluso dalla competizione politica del 1929, insieme ad Agostino Lanzillo, entrambi fascisti di provata fede ma probabilmente poco graditi per la loro indipendenza di giudizio»217. Si è supposto che con questo comportamento Volpe avesse dato prova di una disarmante ingenuità politica,
214 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., pp. 129-130. 215 G. VOLPE, Ripensando al Congresso fascista, cit., pp. 393-394 216 Ivi, p. 303. 217 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista, cit., p. 476.
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lasciandosi irretire, insieme a molti fiancheggiatori, nelle maglie della grande operazione propagandistica di manipolazione del consenso, che tendeva ad accreditare «la figura di un Mussolini moderato, il che in assoluto era vero, ma in pratica falso, dato che il suo tatticismo non gli permetteva di essere né moderato né intransigente, ma solo tattico e quindi, portato, suo malgrado, a mediare sempre e, dunque, a non avere una propria politica e alla lunga a sbilanciarsi verso i più forti»218. La mia interpretazione dei fatti è però contraria a questa ricostruzione. Fin dall’autunno del 1924, Volpe era del tutto consapevole, come la citata corrispondenza con la consorte dimostrava, delle scarsissime possibilità di continuare il suo impegno politico istituzionale, anche in quanto semplice parlamentare, per non dire come responsabile di qualche parte della macchina governativa. Nella lettera a Gentile del luglio 1924, Volpe non nascondeva poi il disappunto del mondo universitario, per la nomina di Casati alla guida del dicastero della Pubblica Istruzione, e parlava delle indiscrezioni che erano trapelate a proposito di un suo possibile incarico. È bene che tu sappia che cosa io ho fatto, a proposito delle dicerie di giornali su la mia assunzione al trono. Venerdì mattina venne da me Ranieri e mi chiese se avrei accettato ecc. Ma non mi disse che parlasse a nome di nessuno. Risposi che non avrei voluto e potuto: 1° perché non mi ritenevo preparato, ora, a fare il ministro; 2° perché intendevo attendere al volume della guerra, che per me rappresenta una necessità finanziaria urgente, e agli altri lavori che ho sul tappeto. Lo stesso dì, due o tre deputati vennero a fare i loro rallegramenti con me. Poi i giornali dissero che io ero venuto a… consultar gli amici a Milano… Ma io nulla ho avuto fuori delle parole di Ranieri e nessun’altra ragione del rifiuto ho addotto con nessuno219.
Ma quella corrispondenza non rivelava fino in fondo le ragioni del malcontento di Volpe, a ridosso della crisi politica del 1924. Queste dovevano essere individuate proprio nella sua mancata designazione a ministro, al posto di Gentile, pure ventilata con insistenza dal «Corriere della Sera», che parlava addirittura di un incarico direttamente voluto da Mussolini, ritenuta praticamente certa da uomini a Volpe molto vicini, come Arrigo Solmi220, e ampiamente giustificabile dal suo pluride-
218 ID., Mussolini il fascista. La conquista del potere, cit., p. 547. 219 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, luglio 1924, cit. Umberto Ranieri era stato
il segretario particolare di Gentile durante il suo ministero. 220 Notizie su di un possibile incarico ministeriale a Volpe apparivano sulle pagine del «Corriere della Sera» del 29 e 30 giugno 1924 ed erano ribadite nella già citata lettera di Arrigo Solmi del 29 giugno 1924.
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cennale impegno vigoroso per una modernizzazione dell’insegnamento superiore e di quello universitario. Nella lettera alla consorte del 12 ottobre 1924, Volpe, ricapitolando una nuova conversazione con Ranieri, riteneva però il nuovo ministro direttamente responsabile della mancata nomina e ne tracciava un ritratto non certo lusinghiero. Mi ha anche parlato di Casati e di quel che capitò nel luglio. Non è facile capire tutto quel che il buon Ranieri dice: ma all’ingrosso intesi che qualcuno mi aveva, allora, dato lo sgambetto. Ranieri si vanta, come te, di avere un fiuto diabolico ed è sicuro di quel che dice. Del resto egli conferma alcuni miei sospetti, alcuni dubbi sull’uomo, quali ho sempre manifestato anche a te. Gentile non pare molto soddisfatto del suo erede. Il quale non sta neanche lui sulle rose. Fra l’altro è stretto tra Gentile e Croce che ora sono piuttosto di fronte che di fianco. E volendo stare in buona con tutti e non compromettersi fatica assai… Ma ho dovuto polemizzare con Ranieri per l’opinione troppo negativa che egli ha dell’uomo. L’opinione è piuttosto diffusa, ma non risponde a verità. È un uomo ambizioso, senza volerlo mostrare. Vuole arrivare a qualche cosa, anche perché, essendo intelligente, considererebbe fallita la sua vita, non avendo fino ad ora – salvo la parentesi della guerra – conchiuso che ben poco. Può essere che una volta o l’altra entri in discorso di lui con Gentile, il quale pure credo sia sul chi vive nelle relazioni con l’amico. Ho un certo desiderio di sapere bene come le cose sono andate: semplicemente per capire gli uomini e certi aspetti della vita221.
Più tardi veniva meno anche l’ipotesi di una chiamata di Volpe alla carica di sottosegretario, alla quale fu preferito Balbino Giuliano per pressione di Gentile ma anche per precisa scelta di Casati, come Ferruccio Boffi, capo ufficio stampa del ministero, rivelava a Ernesto Codignola222. Un no categorico all’inserimento di Volpe nelle strutture esecutive del regime veniva ripetuto in occasione del rimpasto del 1925, quando al suo nome veniva anteposto quello del cattolicissimo e coscienzioso fascista Pietro Fedele, come ministro della Istruzione pubblica. Volpe commentava questo episodio, con ormai sconsolato cinismo, nella lettera alla moglie del 6 gennaio: «Non so se Gentile sia soddisfatto.
221 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 ottobre 1924, CV. 222 Ferruccio Boffi a Ernesto Codignola, 26 giugno 1924, in R. GENTILI, Riforma e con-
troriforma della scuola, in Ernesto Codignola in 50 anni di battaglie educative, numero monografico di «Scuola e città», aprile-maggio, 1967, pp. 209 ss., in particolare p. 218, nota: «Per il sottosegretariato, se va via Lupi, c’è incertezza tra Volpe-Balbino. Io ho patrocinato il 2°. Ieri sera poi ho cercato e trovato il Casati, il quale mi ha dato questa preziosa notizia: di aver subordinato l’accettazione alla facoltà di scegliersi il sottosegretariato. Ha fatto i nomi di Volpe e Balbino, ma poi, viste le mie riflessioni, mi ha dichiarato di preferire Balbino. […] Ho l’impressione che Volpe non stia con le mani in mano».
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Non credo. E sì che questi ultimi giorni mi dicono egli abbia molto lavorato per questo orientamento decisivo del governo! Egli è più manganellista dello stesso manganello! Nel complesso credo che i tre nuovi ministri rappresentino un peggioramento sopra i tre che se ne sono andati. Che la progressiva fascistizzazione rappresenti un progressivo peggioramento di uomini come qualità? Non ti dico le solite dicerie sul mio nome; e un giornale mi pupazzettò anche, come il “probabile ministro della P.I.”. Viceversa, questa volta c’è stato anche meno dell’altra volta: cioè nulla. Si è poi visto che Mussolini voleva tutti tesserati, per evitare, se possibile, di trovarsi con altri “Casi Casati”, cioè di uomini che van su per aver un po’ di feluca e poi si fanno venire gli scrupoli e arrivederci!»223. Era una ricostruzione sostanzialmente esatta come Gentile, in quella stessa data, comunicava a Codignola, notificandogli che, dopo l’ipotesi di una possibile successione Giuliano, il nome di Volpe era stato bocciato da Mussolini, per essersi «dimostrato infido e ostile al Fascismo in questi ultimi tempi»224.
223 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 6 gennaio 1925, CV. 224 Giovanni Gentile a Ernesto Codignola, 6 gennaio 1925, in R. GENTILI, Riforma e
controriforma della scuola, cit., p. 221.
2. FEDELE MA NON ALLINEATO 1. Se l’intervento del 1925 poneva Volpe fuori dalla cerchia dei partigiani autenticamente affidabili del governo personale di Mussolini, questo non comportò tuttavia, come pure si è sostenuto1, un allontanamento drastico dal suo ruolo di attivo sostenitore del fascismo. Il 9 novembre del 1926, lo storico partecipava, infatti, alla seduta parlamentare «nella quale fu presentata e approvata, alla unanimità dei presenti, la mozione Turati contro i deputati di opposizione» e dava «voto favorevole, in appello nominale, al disegno di legge, circa i provvedimenti per la difesa dello Stato». Né sarebbe poi mancato il suo contributo, impossibile dire quanto convinto, e sia pure nel ruolo di semplice pedina della maggioranza, «alla votazione, a scrutinio segreto, delle leggi relative alle seguenti materie: stampa periodica; attribuzioni e prerogative del Capo del Governo; facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche; ordinamento e attribuzioni del Gran Consiglio; delega al Governo e al Re ad emanare norme aventi forza di legge per la completa attuazione della Carta del Lavoro»2. Anche al di fuori dell’apporto diretto alla nuova produzione legislativa, che andava stravolgendo l’assetto giuridico dell’Italia liberale, restava poi immutata la sua funzione di osservatore, a volte critico e più spesso consenziente, delle evoluzioni del regime, mentre intanto andava consolidandosi la sua posizione di intellettuale notabile e di vero e proprio dominus della storiografia italiana. Da questa posizione privilegiata, Volpe portava a compimento, nell’ideazione e nelle realizzazioni, il suo programma di storia nazionale, non senza entrare in rotta di collisione con il «sabaudismo» di De Vecchi de Val Cismon, l’interpretazione democratico-liberale, e a tratti soltanto liberal-giolittiana, di Benedetto Croce, e quella del fascismo radicale. Costruiva un vivaio di talenti (Chabod, Morandi, Sestan, Maturi e moltissimi altri), che avreb-
1 G. BELARDELLI, Il mito della “Nuova Italia”. Gioacchino Volpe tra guerra e fascismo,
Roma, Edizioni Lavoro, 1988, p. 151. 2 Sentenza della Corte d’Appello di Roma, Sezione Istruttoria, riunita in Camera di Consiglio, il 22 dicembre 1947, in ACS, MPI-DGIU, Fascicolo G. Volpe.
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bero in buona parte egemonizzato il lavoro storico per la prima parte del secondo dopoguerra, ora rinnegando ora continuando l’eredità del loro maestro. Si faceva promotore e dirigeva un numero amplissimo di iniziative editoriali. Collaborava attivamente al «Corriere della Sera». Ricopriva ruoli direttivi in alcune delle più importanti istituzioni culturali del Ventennio che fortemente presidiava: dall’Accademia d’Italia, della quale sarebbe stato nominato Segretario nel 1929, per ottenere solo dopo quella data la tessera del Pnf, all’Enciclopedia Italiana, all’Istituto Nazionale Fascista di Cultura, alla Scuola di Storia Moderna e Contemporanea, all’Istituto di Studi Politici Internazionali, alla Società di storia del Risorgimento3. Ma la politica, come un vecchio vizio di cui ormai era impossibile sbarazzarsi, continuava a battere imperiosamente alla sua porta, costringendolo a interventi di carattere dichiaratamente militanti, che avevano come oggetto, in primo luogo, la politica estera dell’Italia e la sua affermazione sullo scenario internazionale, che il fascismo fino a quel momento aveva sembrato promuovere con decisione almeno verbale4. Era del gennaio del 1926, la breve nota, pubblicata su «Educazione politica», organo dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura, nella quale si invitava l’Italia a costruire una sua egemonia nei paesi dell’area danubiana, favorendo rapporti di collaborazione economica e di intesa diplomatica con l’Ungheria, il più importante brandello dell’Impero asburgico, il quale era uscito dalla guerra «addirittura maciullato» con la perdita di milioni di cittadini «ingoiati dagli Stati circostanti», in spregio al tanto decantato «principio della nazionalità», con quella di gran parte delle «sue risorse minerarie e finanziarie», con la sua economia stremata e priva degli «antichi punti di sostegno», con il suo «organismo produttivo scompaginato e squilibrato». Il dopoguerra ungherese registrava infatti l’isolamento internazionale di quella nazione, mentre l’Austria «si riscalda un poco nei contatti spirituali con la Germania», nell’attesa di un possibile Anschluss, che avrebbe riportato drammaticamente all’attualità il «problema tedesco-altoatesino» e mentre Jugoslavia e Cecoslovacchia erano attratte nella sfera della politica francese. In quel vuoto diplomatico, l’Italia poteva, e anzi doveva, operare attivamente a garanzia dei suoi stessi interessi, anche per favorire la costituzione di un asse privilegiato tra la nazione magiara e il paese
3 Su tutto questo rimando ai miei contributi, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze, le Lettere, 2004, al capitolo III e passim.; Storici e Maestro. L’eredità di Gioacchino Volpe tra continuità e innovazione (1945-1962), cit. 4 P. PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica estera italiana, cit., pp. 67 ss.
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romeno, in funzione antislava e antitedesca, alternativo alla «piccola Intesa» stipulata nel 1920 tra Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia5. L’Ungheria è l’unico paese dell’Europa orientale – eccettuata la Russia – che non sia aggiogata a nessun carro e cerchi di fare una politica indipendente. L’Ungheria che non aveva neppure prima grosse ragioni di contrasto con noi, non ne ha nessunissima oggi. Fiume essa non la poteva più tenere; ed ora che l’ha perduta, preferisce che l’abbiamo noi anziché la Jugoslavia. Vi è in Ungheria una tradizione di interessamento per l’Italia e molta buona volontà a trovar nell’Italia un punto d’appoggio, una porta dischiusa verso l’Occidente. L’Ungheria è un settore di quella diga che, come in altri tempi, ha trattenuto i Turchi, così oggi può trattenere la grande massa slava e tiene separati gli slavi del Nord e gli slavi del Sud. L’altro settore è la Romania, oggi Stato di seconda grandezza in Europa, quanto a popolazione e con larghe possibilità economiche per l’avvenire. Ungheria e Romania, certamente, non hanno facili rapporti. Ma questi non sono così tesi e minacciosi come, ad esempio, quelli fra Ungheria e la Ceco-Slovacchia. L’avvenire potrebbe riservarci una intesa romeno-magiara, più agevolmente che non una intesa cecoslovacca-magiara. Ed io penso che la diplomazia italiana potrebbe trovare qui un campo assai redditizio da coltivare: rendere possibile, affrettare questa intesa. Anche in vista di una fusione dell’Austria con la Germania: fusione che, quando venga la sua ora, credo sarebbe assai arduo impedire. Noi abbiamo qualche esperienza di quanto sia, alla lunga, difficile attraversare aspirazioni di quel genere!6
Volpe avrebbe svolto attivamente, nei decenni seguenti, il ruolo di agente diplomatico ufficioso dei sempre più stretti rapporti italo-ungheresi, sanciti con il trattato d’amicizia dell’aprile 19277, attraverso una serie di missioni culturali dai risvolti squisitamente politici8, che avrebbero provocato la non benevola critica di Croce9. Ma questo interesse «orientale» poco lo avrebbe distratto da una vigile attenzione per il quadrante mediterraneo e per i problemi «coloniali», che la po5 J.B. DUROSELLE, Storia diplomatica, cit., pp. 43-44. 6 G. VOLPE, Note di politica estera. Lo sfondo politico nello scandalo dei falsari unghe-
resi, in «Educazione Politica. Organo dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura», IV, gennaio 1926, 1, pp. 59-60. 7 G. CAROCCI, La politica estera dell’Italia fascista, cit., pp. 78 ss. e 124 ss. 8 Un discorso dell’Accademico Volpe alla presenza del Reggente Horthy, in «Il Corriere della Sera», 23 febbraio 1936, p. 2. 9 Partecipando al Congresso internazionale di metodologia letteraria di Budapest del maggio 1931, Croce annotava nei suoi Taccuini, alla data del 23 maggio: «Ai brindisi ha parlato per gli italiani il Volpe, presidente della detta delegazione; ma ha detto tali volgarità sulla terra d’Ungheria, i suoi cavalli, i suoi uomini, le sue donne, che io, il quale non avevo nessuna voglia di parlare, mi sono levato per fare un altro brindisi, un po’ meno stupido, di rievocazioni storiche e poetiche». Il passo è citato in G. SASSO, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 118.
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litica fascista prometteva di risolvere. Sotto l’influsso di queste sollecitazioni, Volpe avrebbe ricapitolato la storia del colonialismo italiano, in un sintetico saggio apparso nell’aprile del 1926 sul «Corriere della Sera»: dalla ripresa, se non altro ideale, tra ’700 e ’800, della vocazione mediterranea del nostro paese, con la dinastia sabauda e borbonica, ai primi incerti passi, attorno al 1880, di quella rinnovata espansione, «quando l’Italia cominciò a sentire lo stimolo delle sue interne esigenze e degli esempi altrui e gettò anch’essa gli occhi sui vicini continenti», al massiccio afflusso di lavoratori italiani nell’America meridionale, per il quale «nientessima era la sollecitudine» della madrepatria, ma che «cangiò la faccia del continente sud-americano e vi creò i grandi centri e diede potente impulso alla economia capitalistica, ma nulla diede alla nazione italiana», all’intensa stagione dell’esplorazione italiana in Africa, intimamente collegata alle vicende dell’apostolato del clero romano, alla costituzione dell’insediamento di Massaua, su sollecitazione dell’Inghilterra «che voleva un ausiliario dalla parte del Mar Rosso per la sua campagna di riconquista del Sudan», ostacolato da «una Francia ostile che fu subito all’opera per attraversarci la strada», alla conquista della Libia verso la quale «le forze del mondo sospingevano a tergo anche i riluttanti come Giovanni Giolitti», alla nuova situazione creatasi dopo la fine del conflitto mondiale, nella quale all’Italia si chiedeva di accontentarsi della gestione di routine del suo magro dominio d’oltremare. Ma il nostro problema coloniale si esaurisce, per noi, tutto in questa più accurata valorizzazione economica? Pongo la domanda e non le do qui risposta. Dico solo che nel 1914-1915, quando entrammo in guerra, noi chiedevamo altro: e altro abbiamo chiesto a guerra finita. Dico che anche i bisogni che allora ci premevano sono cresciuti assai: popolazione che aumenta, sbocchi migratori, che si chiudono, urgenza sempre maggiore di materie prime, i grandi Stati coloniali, tendenti a far una politica delle materie prime poco promettente per taluni paesi, universale protezionismo, ecc. Insieme a questi bisogni è cresciuta anche la nostra esperienza e capacità coloniale. Abbiamo ormai un piccolo ma temprato stato maggiore di ufficiali, di soldati, di pionieri-agricoltori, capaci di inquadrare e comandare. Ancora: è cresciuta in certa misura la nostra sicurezza continentale che suole per esperienza storica, esser principio di politica più vasta. Cresciuta la nostra compattezza interna, la nostra coscienza di essere qualcosa. Approfondita e diffusa tra i più giovani la concezione della vita come lotta. Vorrei non far retorica ma constatare una realtà: per vantaggio nostro e anche degli altri. Possiamo sperare che gli altri la comprendano? Che non gabellino per “irrequieto spirito di conquista” questo stato d’animo degli italiani? Qualche giornale o uomo politico francese o inglese o tedesco ha avuto la nota giusta negli ultimi giorni. E si è riconosciuta l’esistenza di un problema coloniale italiano, di un problema di espansione italiano “co-
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me uno dei nodi centrali della politica mondiale”. E questa è la verità10.
Se dunque la nazione doveva ampliarsi oltre i suoi confini etnici e territoriali, la nuova Italia doveva anche proporsi di ricongiungere, almeno spiritualmente, al suo corpo, dopo il Trentino, i territori giuliani e istriani, anche altri parti separate dalla patria. Anche in questo caso la messa in evidenza dell’espansionismo della nazione italiana, già nell’età medievale, forniva la giustificazione storica alle mire di un «nuovo irredentismo», attivo fin dalla vigilia della Grande Guerra, che si prefiggeva ora di rivendicare, se non la piena sovranità, almeno il primato culturale sulle principali isole mediterranee, a partire da Malta, Nizza, Savoia e alcuni territori della Svizzera11. A questo fine, nel giugno del 1923, Volpe recepiva immediatamente l’invito di Gentile a prodigarsi in una campagna pubblicistica che avrebbe dovuto mirare a dimostrare la secolare italianità delle Corsica. Il numero che esce ora di Gerarchia porta un mio articolo su la Corsica. Ho preso lo spunto dall’articolo della Tribuna, e l’ho rifatto, ampliato, arricchito. Ho parlato poi con M. Ferrari per la Nuova Antologia. A Pintor aveva detto quasi di no, spaventato dal titolo. A me ha detto quasi di sì. Ma temo che mi farà attendere un po’ di tempo, perché dice di aver in mano 300 articoli. Anche se il mio si infilerà fra le gambe di chi gli sta dinnanzi è difficile che possa mettersi sulle prime file. Un terzo ed ultimo lo collocherò o su la Rivista d’Italia o di nuovo su Gerarchia. Così in 3 articoli avrò esaminato tre momenti della vita corsa: 1° Il complicato processo politico-diplomatico per mezzo cui la Francia si impadronì dell’isola, che fu considerato un miracolo di abilità e di accortezza, il maggior successo della politica di Luigi XV; 2° Pasquale Paoli e gli anni della resistenza e il nesso fra il problema corso e l’Italia; 3° La Corsica nel XIX secolo e il suo graduale legarsi alla Francia e lo svilupparsi in ultimo dello spirito autonomista (per ora, solo autonomista, e non nazionalista) corso. Così mi pare di aver assolto alla meno peggio il mio compito. C’è voluto un po’ di tempo: ma è estremamente difficile procurarsi libri e giornali su la Corsica. Pensa che neanche alla Vittorio Emanuele di Roma c’è l’epistolario in 4 volumi di Pasquale Paoli, ed. Perelli. Se altri manterrà la parola, dovrebbe uscire anche un articolo su la lingua corsa del Goidanich, un altro su la coltura italo-corsa della metà circa del XIX secolo, veramente notevole. Mi è giunto poi un articoletto su la Corsica e i Savoia XVIII sec., che cercherò di collocare12. 10 G. VOLPE, Come è nata l’Italia coloniale, in «Corriere della Sera», 21 aprile 1926, p. 1. Sul punto di qualche utilità, E. CAPUZZO, La proiezione oltremare della nazione: Volpe e il colonialismo italiano, in «Clio», 2004, 3, pp. 447 ss. 11 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 205 ss.; ID., Il Nazionalismo fra le due guerre (Nizza, Malta, Corsica), in «Il Veltro», 1964, 3, pp. 481 ss. 12 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 23 giugno 1923, in AFG. La corrispondenza annunziava la pubblicazione di G. VOLPE, Italiani vicini e lontani. I Corsi, in «Ge-
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Tale attività pubblicistica sarebbe culminata con la pubblicazione del periodico «Corsica. Bollettino degli Amici della Corsica» nel marzo del 192413. La rivista, al suo primo apparire, suscitava una dura reazione di Giovanni Ansaldo che, dalle pagine di «La Rivoluzione liberale», ne stigmatizzava i malcelati contenuti di propaganda nazionalista. A proposito della nascita di movimenti che rivendicavano l’autonomia culturale dell’isola e all’interesse dimostrato da Volpe per la presenza in essi di fermenti autonomistici che, nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto interrompere o almeno ridimensionare l’egemonia politica e culturale della Francia, Ansaldo osservava: Naturalmente, dal campo della difesa dialettale, a un ripensamento autonomo della storia e della cultura isolane, il passo è stato breve. I côrsi, per farlo, non aspettano certo i soccorsi degli eruditi italiani, siano questi, o no, deputati fascisti. È affatto gratuito affermare che gli studi storici côrsi siano stati tutti viziati da una pregiudiziale politica filofrancese. Il prof. Gioacchino Volpe, in un programma di un certo gruppo di “Amici della Corsica” di recente formazione ambrosiana, afferma l’opportunità di contrastare la “sopravalutazione del momento francese” negli studi corsi. Chi esamini l’opera della “Société des sciences historiques et naturelles de la Corse”, di Bastia, non si avvede del grave difetto segnalato dal prof. Volpe. La Società fu fondata nel 1884, dall’abate Letteron, uno “champenoise” erudito ed attivo, andato in Corsica come professore di Liceo, ed abituato a lavorare come i preti francesi eruditi, cioè molto seriamente. Le annate dei bollettini della società radunano studi di capitale importanza, per tutta la storia della Corsica, e specie per quella feudale: le opere pubblicate dalla società non rivelano nessun proposito di apologia francese: basti dire che v’è la Storia dei Corsi e la Corsica del Gregorovius, due libri in cui il “momento francese” non è certo “sopravalutato”. Il professore Volpe, che ha inaugurato la storiografia “italianissima” della Corsica con un recente scritto pubblicato in Politica, è in errore se crede di poter nascondere la propria tendenziosità e la propria aspirazione ad accelerare un irredentismo côrso, accusando di scarsa coscienziosità scientifica uomini insigni negli studi locali côrsi, come il Letteron, il Lucciana, il De Morati. Piuttosto, è da ricordare un particolare: che la “Société des sciences de la Corse” non contò fino ad oggi, neppure un socio ordinario (e pagante) fra i dotti o patrioti italiani; e ha tre sole malinconiche “Società di Storia patria” italiane fra i soci corrispondenti. rarchia», giugno 1923, poi in ID., Corsica, Milano, Istituto Scientifico Editoriale, 1926, pp. 47 ss., infine in ID., Storia della Corsica italiana, cit., pp. 139 ss. 13 Sul punto, G. VOLPE, Su la soglia del secondo decennio, in «Archivio Storico della Corsica», 1935, 1, pp. 1 ss., dove si ricordava che il «Bollettino degli Amici della Corsica» era nato a Milano «per iniziativa di un gruppo di amici, fra i quali primissimo il prof. Luigi Venturini, raccolti nell’associazione “Tyrrhenia”. Il periodico, era diretto collegialmente da Luigi Venturini, Girolamo Bottoni, Angelo Nicola, Piero Parini. Nell’editoriale che apriva il secondo numero (Corsica, a. 1, n. 2, aprile 1924, p. 1), Volpe era definito «uno dei tre amici della prima ora», che avevano favorito l’impresa editoriale, insieme a Orazio Pedrazzi e Arrigo Solmi.
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Non so se il prof. Volpe, in tempi recentissimi, si sia associato; mi auguro che, oggi almeno, egli abbia rotto una assenza che spiega – ma insieme aggrava – l’imprudenza di certe accuse contro gli studiosi côrsi14.
La comparsa del periodico impensieriva Mussolini che ne avrebbe sospeso la pubblicazione, obiettando a Volpe che quella iniziativa poteva «danneggiare la causa stessa che vorrebbe servire» e procurare «non pochi fastidi anche al gruppo degli autonomisti corsi, che sono esposti alla vigilanza delle autorità locali»15. L’arresto imposto alla pubblicazione aveva in realtà poco a che fare con le ragioni di un semplice fair play diplomatico, che, al di là di alcune tirate scenografiche, a uso del mercato interno, sembrava costituire, in quel momento, il fondo della politica estera italiana. Quell’invito era invece strettamente funzionale a non bruciare intempestivamente la miccia dell’«azione riservata» promossa dal Capo del Governo, per rivendicare l’italianità della Corsica, in previsione di una sua futura annessione16. Grazie all’impiego di ingenti somme, il governo fascista cercava di fomentare il diffuso malcontento degli isolani, attraverso il gioco di una diplomazia occulta che faceva capo a un «Comitato per la Corsica», finanziato da fondi riservati del dicastero degli Esteri, istituito, fin dall’«avvento del Fascismo», allo scopo di sostenere un’attività che «nel quadro storico delle rivendicazioni nazionali italiane tendesse a rinsaldare i legami spirituali e materiali delle popolazioni corse con la Madre Patria originaria e favorisse a mantenere tra i regnicoli e i Corsi viva la questione dell’italianità della Corsica». Alla fine degli anni Trenta, il programma aveva dato i suoi frutti, anche grazie alla riorganizzazione della rete consolare dell’isola. Il governo di Roma, pur evitando accuratamente di compromettersi in prima persona nell’«azione irredentistica», svolta principalmente da «elementi fiduciari», aveva dato ampio mandato ai propri rappresentanti diplomatici di facilitarla in ogni modo, collaborando alla realizzazione di alcuni progetti a sfondo autonomistico, soprattutto eser14 G. ANSALDO, La Corsica, in «La Rivoluzione liberale», IV, 1925, 8, pp. 33 ss., in particolare p. 36. Ansaldo tornava a polemizzare con Volpe nell’articolo, Bibliografia della Corsica, ivi, IV, 1925, 9, p. 39: «Fra gli scrittori italiani che recentemente trattarono della Corsica: G. VOLPE, Europa e Mediterraneo nel XVII e XVIII secolo, in Politica, anno V, num. XLIX. Vuole essere la introduzione storica ad un movimento culturale corsista in Italia. Il Volpe, se avesse un po’ più di tempo, fonderebbe l’irredentismo corso; fortuna che è deputato, e molto preso anche dalla voglia di diventare ministro». 15 Benito Mussolini a Gioacchino Volpe, Roma, 25 maggio 1924. La lettera è pubblicata in appendice a E. DI RIENZO, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra, cit., in particolare p. 122. 16 Sul punto e per quel che segue, A. GIGLIOLI, Il fascismo e la questione dell’irredentismo corso, in «Nuova Antologia», ottobre-dicembre, 1999, pp. 331 ss.
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citando un ininterrotto «controllo della situazione corsa», ma anche coadiuvando l’organizzazione di moti di carattere insurrezionale, quando si fosse presentata l’occasione di passare dalla propaganda all’azione. Solo, dopo la crisi etiopica del 1938, questo tentativo eversivo sarebbe venuto in piena luce, quando in un promemoria per la riunione del Gran Consiglio del 5 febbraio, Ciano avrebbe rivelato l’esistenza di una strategia sistematica, preparata da decenni, per riscattare tutti i territori di popolazione italiana finiti sotto il dominio francese: dalla Savoia a Nizza, alla Corsica appunto. Che Volpe, e con lui Gentile, fossero al corrente di queste segrete cose e che addirittura la loro azione, sul piano culturale, fosse strettamente legata a quel progetto è ipotesi forse verosimile. Certo è comunque che la direttiva di Mussolini sortì il suo effetto e che Volpe e il gruppo degli «Amici della Corsica» (tra i quali figurava insieme ad Arrigo Solmi, anche Piero Parini, futuro segretario dei Fasci Italiani all’Estero)17, si orizzontarono immediatamente alla creazione di una nuova rivista, l’«Archivio Storico di Corsica», apparsa nel gennaio 1925, il cui obiettivo si doveva limitare ad «assorbire» e ad «assimilare» la storia dell’isola in quella dell’Italia18, controbilanciando e integrando l’attività di pubblicazioni francesi e francofile come il «Bullettin de la Société des sciences historiques et naturelles de la Corse» e la più recente «Revue de la Corse»19. Il periodico, creato, questa volta, su diretto incoraggiamento di Mussolini20, era finanziato attraverso fondi elargiti, con parsimonia a discontinuità, «dalla Direzione Generale della Pubblica Sicu-
17 Piero Parini, proveniente dalla carriera diplomatica, avrebbe assunto quest’incarico nel 1928. L’organizzazione e le finalità dei Fasci Italiani all’Estero erano illustrate da C. PELLIZZI, Problemi e realtà del Fascismo, Firenze, Vallecchi, 1924, pp. 205 ss. Sul punto, E. GENTILE, La politica estera del partito fascista. Ideologia e organizzazione dei Fasci italiani all’estero, in «Storia Contemporanea», 1995, 6, pp. 899 ss. 18 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Santarcangelo di Romagna, 30 luglio 1932, AFG: « Così io vengo svolgendo, insieme ai miei amici, il compito che ormai 10 anni fa mi fu affidato: studi miei, una rivista che ormai anche in Francia è ricercata e apprezzata, un interesse di opinione pubblica che prima non esisteva. Insomma, io credo, mi sia lecito dirlo, un modesto ma non insignificante contributo al movimento corso in Italia. Stiamo un po’ per volta facendo nostra, assorbendo, assimilando la storia di Corsica». 19 G. VOLPE, La Corsica dopo il 1796, «La Nuova Antologia», 1923, ora in ID., Storia della Corsica italiana, cit., pp. 159 ss., in particolare pp. 162-163. 20 Gioacchino Volpe a Osvaldo Sebastiani, 22 febbraio 1939, SPD. Sull’«Archivio», si veda rispettivamente G. DI GIOVANNI, Il realismo storico di Gioacchino Volpe, Roma, Semerano Editore, 1964, pp. 99 ss.; U.M. MIOZZI, La scuola storica romana (1926-1943), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1982, 2 voll., I, pp. 135 ss. e 219 ss.; L. DEL PIANO, Gioacchino Volpe e la Corsica ed altri saggi, Cagliari, Cuec, 1987, e, ora, soprattutto, S. TOMASSINI, Gli studi sulla Corsica, in Gioacchino Volpe e la storiografia del Novecento, fascicolo monografico degli «Annali della Fondazione Ugo Spirito», XII-XII, 2000-2001, pp. 75 ss.
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rezza, a seguito dell’interessamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri»21, e veniva «interdetto» in Francia nel 193322. La misura veniva interpretata dal console italiano a Bastia come una contromossa del governo francese, intenzionato a smantellare uno dei più importanti strumenti per una penetrazione culturale nell’isola. In base a queste considerazioni l’agente diplomatico comunicava a Roma: È bene che resti acquisita come documento anche l’esistenza storica di un autonomismo corso suffragato da un’abbondante serie di pubblicazioni di carattere corsista ed italofilo. Documenti più importanti e probativi potranno però essere portati da quel benemerito movimento di cultura corsa, che con ben maggiore serietà, sincerità ed autorevolezza, vanno organizzando alcuni provetti studiosi italiani sotto la direzione di Gioacchino Volpe e facenti capo a Roma alla Scuola di storia moderna e contemporanea. Qualunque aiuto dato a questi ultimi sarà, a mio sommesso parere, più durevolmente profittevole di quello che potesse venire gettato in quel pozzo senza fondo che è la venalità dei corsi23.
Era un’interpretazione che caricava l’attività dell’«Archivio» di un peso politico, forse spropositato, se si considera il contenuto della rivista, fino almeno al 1933-1935, dove, accanto ad alcuni interventi di carattere larvatamente neo-irredentista24, il più dei contributi restava di carattere archivistico, documentario, persino erudito, con uno spiccato rimando a tematiche di storia religiosa e al settore cronologico medioevale25, ma anche con ampio riferimento a tematiche relative all’ul-
21 Si veda l’appunto della Segreteria particolare del Duce, in risposta al telegramma inviato da Volpe, il 21 novembre 1930, in SPD. Nel gennaio del 1931, Volpe si rivolgeva a Mussolini, pregandolo di «concedermi l’aiuto che negli anni iniziali mi ha concesso ma che ora da due anni manca», e si accennava ad un «grave debito con l’editore». Il 2 febbraio 1932, la situazione finanziaria della rivista si era ulteriormente aggravata e Volpe, sempre in una lettera a Mussolini, annunciava di «essere pieno di debiti con gli editori attuali» e che «il curatore fallimentare della ditta De Marsico, di Milano, che fu il primo editore, mi minaccia, anzi, azione giudiziaria». Questa corrispondenza è conservata in ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, b. 291. Sul punto, si veda anche, A. GIGLIOLI, Italia e Francia, 19361939. Irredentismo e ultranazionalismo nella politica estera di Mussolini, Roma, Jouvence, 2001, p. 217. 22 La notizia della proibizione della rivista è contenuta nell’appunto di Volpe, che richiedeva, in data 3 marzo 1933, un’udienza a Mussolini, poi accordata per il 14 dello stesso mese. 23 A. GIGLIOLI, Italia e Francia, 1936-1939, cit., p. 223, 24 R. RUSSO, La ribellione di Sampiero Corso e la penetrazione francese in Corsica, in «Archivio Storico della Corsica», 1933, 1, pp. 1 ss.; D. SPADONI, Garibaldi e la Corsica, ivi, pp. 109 ss.; R. CARDARELLI, Comunanza etnica degli Elbani e dei Corsi, ivi, 1934, 4, pp. 481 ss.; C. TRASSELLI, Carlo Emanuele I di Savoia e la Corsica, ivi, 1932, 2, pp. 161 ss. 25 I. RINIERI, Vescovi della Corsica, ivi, 1933, 2, pp. 36 ss. (primo di una serie di saggi poi raccolti in volume nel 1935); R. VALENTINI, Una tentata riforma del clero in Corsica al-
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tima età moderna come accadeva nel pionieristico lavoro di Ersilio Michel dedicato al soggiorno di Buonarroti in Corsica26. A conferma di una linea di tendenza, che solo il precipitare della congiuntura internazionale avrebbe poi interrotto, Volpe, domandando a Mussolini, nel febbraio del 1932, il «consueto aiuto» di 5000 lire per render possibile la pubblicazione dell’«Archivio», parlava del successo dell’iniziativa editoriale, che anche in Francia era considerata «la migliore rassegna di storia corsa» e che veniva additata, tra «stima e sospetto», come «prova del molto che fanno gli Italiani per guadagnare la Corsica». Nella corrispondenza si insisteva comunque sulla ferma intenzione di «conservare alla rivista un carattere di studio non di propaganda politica», essendo «la politica in re»27. Una presa di posizione, questa, ampiamente ribadita nel lungo bilancio dedicato al ventennale di attività del periodico, dove significativamente si concludeva: Abbiamo inteso con questa rivista gettare le basi di un nuovo irredentismo, dopo risolto felicemente l’antico? Possiamo dire senz’altro di no. Ma con ciò non diciamo che ogni interesse politico sia stato estraneo al nostro lavoro. Come può lo storico non avere qualche interesse a mettere in chiaro i titoli di nobiltà della sua terra e della sua gente; difenderne, come nel presente così nel passato, i confini ideali? Solo Dio potrebbe far una storia di pura razionalità. Ma l’importante è vedere se questo necessario e legittimo lavoro lo abbiamo fatto tradendo il vero o no, adducendo chiacchiere oppure fatti, interpretando con spirito tendenzioso o con lume storico gli avvenimenti. Ora ci pare, a tal proposito, di avere la coscienza abbastanza tranquilla: cioè, politica o no – ed in fondo non è cosa che riguardi il lettore – noi abbiamo cercato raggiungere il massimo di verità. Oltre Alpe, qualcuno ci ha guardato con sospetto, come noi muovessimo alla conquista della Corsica. C’è stato anche, per l’Archivio, un divieto di circolare in terra di Francia e in Corsica: divieto non molto diverso da quello che noi per avventura ponessimo a libri che studiano le influenze della coltura e dei “principî” politici nell’Italia del ’700 e del Risorgimento. Ma altri hanno riconosciuto il pregio, la sostanziale obiettività del nostro lavoro, anche se venato, qua e là, da qualche sentimentale rimpianto28.
l’inizio del secolo XV, ivi, 1933, 2, pp. 243 ss.; A. MARONGIU, La Corona d’Aragona e il Regno di Corsica, ivi, 1935, 4, pp. 481 ss.; C. BORNATE, Clero corso e caccia ai benefici alla fine del Quattrocento, ivi, 1937, 3, pp. 321 ss. 26 E. MICHEL, Vicende di Filippo Buonarroti in Corsica, 1789-1794, ivi, 1933, 4, pp. 481 ss. 27 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 2 febbraio 1932, cit. Egualmente, Gioacchino Volpe a Mario Maffi, 2 giugno 1928, ACorsera: «Infine ho in mente, se lo accetta, un articolo sulla letteratura italiana sulla Corsica. Da tre o quattro anni abbiamo un discreto movimento – articoli di rivista, giornali, libri – che si volge allo studio della Corsica, storia, cultura e costume, con finalità più o meno politiche. Io naturalmente guarderei a quel movimento solo in quanto ha contenuto storico». 28 G. VOLPE, Su la soglia del secondo decennio, cit., pp. 39-40.
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L’impulso che Volpe impresse all’attività dell’«Archivio» si risolse soprattutto, infatti, nella mobilitazione di una folta schiera di studiosi, impegnati nella raccolta e nell’elaborazione di materiale relativo alla storia dell’isola, conservato nei principali archivi e biblioteche, corse, italiane, europee29. Con questa operazione, alla quale partecipava, insieme a Ersilio Michel, Raffaele Ciasca, Ruggero Moscati, anche Nello Rosselli30, la ricerca sul passato della Corsica si spostava dalla cronaca regionale al più ampio quadro della storia internazionale e configurava per la prima volta la questione dello «spazio politico mediterraneo» come problema storiografico31. Proprio su questo tema, ancora nel febbraio del 1937, la Dotation Carnegie pour la paix internationale avrebbe invitato lo storico italiano a partecipare a una serie di conferenze sui «problèmes de la Mediterranée depuis 1920»32. L’anno successivo, sem29 C. BONARTE, Manoscritti di storia corsa nell’Archivio Storico del Municipio di Genova, in «Archivio Storico della Corsica», 1933, 1, pp. 80 ss.; E. MICHEL, I manoscritti della Biblioteca Vallicelliana di Roma relativi alla storia della Corsica, ivi, 1933, 2, pp. 258 ss.; G. MICHELI, Le carte dell’Archivio di Stato di Parma relative alla storia della Corsica, ivi, 1933, 2, pp. 392 ss.; P. PECCHIAI, Le carte del Fondo “Corsica” nell’Archivio Vaticano, ivi, 1933, 4, pp. 481 ss.; R. MOSCATI, Le carte dell’Archivio di Stato di Napoli relative alla storia della Corsica, ivi, 1934, 1, pp. 82 ss.; C. TRASSELLI, Documenti del R. Archivio di Stato di Torino relativi alla Corsica (sec. XVI-XVIII), ivi, 1934, 2, pp. 373 ss.; E. MICHEL, I manoscritti dell’Archivio Nazionale di Parigi relativi alla storia di Corsica, ivi, 1935, 4, pp. 547 ss.; R. CIASCA, Manoscritti della R. Biblioteca Universitaria di Genova relativi alla storia di Corsica, ivi, 1936, 3, pp. 331 ss.; E. MICHEL, I manoscritti della Biblioteca Comunale di Bastia relativi alla storia della Corsica, ivi, 1936, 4, pp. 508 ss. 30 Nello Rosselli a Gioacchino Volpe, Londra, 9 gennaio 1931, CV: «Volentieri ricercherei e nel Record e nel British, carte inerenti a Pasquale Paoli: ma so che il Michel ha già indagato esaurientemente in proposito, ritrovando ogni sorta di documenti, lettere inedite ecc. Se ci fosse da fare qualche ricerca, speciale, sono qua a disposizione. Idem per quanto riguarda “le ripercussioni, nell’opinione pubblica inglese, degli avvenimenti corsi (176869)”. Qualora io non riceva da Lei indicazioni più precise, resta inteso che spoglierò gli atti parlamentari e qualche giornale più importante per il biennio detto: e Lei sa che farò questo lavoro con grandissimo piacere, quando possa riuscire utile a Lei». 31 Si veda il mio, Lo spazio politico mediterraneo nella storiografia italiana tra Grande Guerra e fascismo in «Clio», 2006, 3, pp. 389 ss. 32 André Tibal, professeur à la Sorbonne et à la Dotation Carnegie, a Gioacchino Volpe, 3 febbraio 1937, CV: «Comme vous vous êtes vous-même occupé de façon particulièrement éminente de cette question, nous serions particulièrement désireux et honorés de vous voir consentir à nous accorder votre précieuse collaboration sous la forme d’une conférence faite à la Dotation. Nous nous en remettons entièrement à Vous pour le choix du sujet que Vous entendriez traiter et du titre que Vous désiriez donner à votre conférence. Comme nous prévoyons des conférenciers espagnol, français, anglais, helléniques et d’autres encore peut-être et comme la position si importante que l’Italie occupe dans la Méditerranée doit être pleinement mise en lumière et ne saurait mieux l’être que par un Italien, peut-être pourriez-vous vous consacrer plus particulièremente à un exposé des intérêts italiens dans la Méditerranée». In margine a quella comunicazione, Volpe annotava una scaletta dei possibili contenuti dell’intervento: «L’Italia nel Mediterraneo dal 1920; Missione e compiti
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pre sotto gli auspici della Fondazione Carnegie, usciva a New York l’opuscolo, The Mediterranean problem. Interests and policies of England and Italy, a firma di Volpe e di Sir Stephen King-Hall33. Il carattere di questa pubblicazione testimoniava che, almeno a giudizio dell’uditorio internazionale, l’impegno storiografico di Volpe si era rivelato immune da un sistematico cedimento alle ragioni della politica34, anche se in lui non veniva certamente meno la preoccupazione per l’esistenza, il consolidamento, l’espansione economica delle minoranze italiane fuori d’Italia, e particolarmente in Corsica, come dimostrava l’appunto consegnato a Mussolini nel maggio del 1926. Quel che competenti di problemi economici sardi e sardo-corsi chiederebbero, sarebbe: Sollecitare l’istituzione di una sezione o delegazione del Commissariato d’emigrazione in Sardegna (a Sassari), per appoggiare l’emigrazione sarda in Corsica (anziché in Francia). Intervento dell’Istituto di credito per il lavoro all’estero, per rinforzare iniziative di contadini e proprietari sardi in Corsica. Vi è già ora, avviata, un’emigrazione di operai e anche di capitali, per acquisto di terre. In Corsica v’è ricerca di mano d’opera, specialmente a Bastia, ora che sono venuti a mancare i Lucchesi. Vi è in Corsica una trasformazione zootecnica da fare. Il paese è nelle condizioni in cui era la Sardegna 50 anni fa, in fatto di bestiame. Le Camere di commercio di Aiaccio e Bastia son favorevoli e sollecitano. Così pure l’on. Pietrangeli, deputato corso. Chi in Sardegna suggerisce tutto questo, crede, naturalmente, necessaria la massima riservatezza, anche con le prefetture35.
Erano però considerazioni di carattere pratico, che non intaccavano sostanzialmente l’attività di ricerca, che si sviluppava senza grossi cedimenti verso le ragioni di un gretto sciovinismo, come sostenne l’invelenita propaganda del fuoriuscitismo antifascista36, e senza fornire alcun dell’Italia nel pensiero del Risorgimento; L’Italia e l’intervento, 1914-1915; Storia di Roma e Storia d’Italia; Risorgimento e Fascismo; Risorgimento (limiti cronologici e fasi diverse): in certo senso, 1846-1848, ma anche 1815, 1796, anche XVII-XVIII secolo; “Risorgimento”: presuppone decadenza da una pristina grandezza. In che senso è da intendersi ciò?; Fatti da esaminare: Europa, Savoia, Italia» 33 The Mediterranean problem. Interests and policies of England and Italy, by Commander Stephen King-Hall, R.N. and His Excellency Gioacchino Volpe. Questions on our policy in China conflict and Secretary of State Hull’s reply, New York, Carnegie Endowment for International Peace, Division of Intercourse and Education, 1938. 34 Come è invece sostenuto da G. GALASSO, L’Italia come problema storiografico, Torino, Utet, 1979, pp. 98-99. 35 SPD. 36 F. VENTURI, Il fascismo contro Paoli. L’articolo redatto in francese era pubblicato in «Fascisme et Italie. Bimensuel français de “Giustizia e Libertà”», 9 decembre 1938. Se ne veda la traduzione italiana in ID., La lotta per la libertà. Scritti politici. Saggi introduttivi di V. Foa e A. Galante Garrone, a cura di L. Casalino, Torino, Einaudi, 1996, pp. 127 ss. Una
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elemento di convalida della presenza di un presunto «irredentismo corso», di cui Volpe avrebbe, con qualche pure rilevante eccezione, sostanzialmente negato non solo la consistenza ma anche l’esistenza37. L’«Archivio» si proponeva invece di ricostruire le vicende dell’isola, dall’alto Medioevo alla prima età contemporanea, evidenziandone i rapporti di commercio, di politica, di cultura con la Penisola: «alto dominio della Santa Sede, attorno al Mille; lunga contesa fra Pisa e Genova per la Corsica, con prevalenza di Pisa poi di Genova», che su quella regione instaurò «una lunga signoria»38. Particolare attenzione era attribuita: alle due rivolte di Pasquale Paoli, al perfezionarsi della conquista francese, alla quale non avrebbe fatto seguito fino al XIX secolo l’instaurarsi di «nessi politici e ideali tra l’isola e la Francia», alla partecipazione di sparute minoranze di Corsi ai moti risorgimentali, al «recente riapparire di una Corsica che vuol essere Corsica e che perciò non può non essere un poco Italia»39. Che questa attività, anche così ridimensionata, provocasse rapidamente, come si è visto, malumori nel mondo politico e intellettuale d’oltre Alpe era tuttavia testimoniato dalla lettera di Volpe a Prezzolini del 2 luglio 1927, dove lo storico si lamentava della troppo timida recensione del suo «volumetto» sulla Corsica del 1926, redatta dallo stesso Prezzolini per il pubblico francese: Tu mi chiedi se sono inquieto per la Corsica. No. Ma un po’ sorpreso, sì. Se di un libretto come quello tu non hai creduto di potere in Francia dire più di quelle quattro parole, piuttosto insignificanti, vuol dire che o ti hanno legato le mani o tu le mani te le sei legate da te. E allora, la tua coopération intellectuelle? Allora vuol dire che tu sei un buon funzionario francese e nulla di più, sollecito innanzi tutto di accontentare le superiori gerarchie. E sì che da giornali francesi si è largamente scritto di quel volumetto!40.
nuova traduzione è in F. VENTURI, Pagine repubblicane, a cura di M. Albertone, Torino, Einaudi, 2004, pp. 217 ss. Non diversamente, A. GAROSCI nella noticina, AntiVolpe, che compariva nel 1939 su «Fascisme et Italie. Bimensuel français de “Giustizia e Libertà”», poi in ID., Pensiero politico e storiografia moderna. Saggi di storia contemporanea. I., Pisa, Nistri-Lischi, 1954, pp. 117 ss. 37 G. VOLPE, Storia della Corsica italiana, cit., pp. 213-214. E ancora a p. 215: «Il nostro irredentismo anti-austriaco aveva a base una ferma volontà anti-austriaca degli Italiani di Trento, Trieste, Zara. Ora la volontà corsa forse non è francese, ma neanche italiana». 38 ID., Su la soglia del secondo decennio, cit. L’articolo sarebbe stato ripubblicato, con il titolo, Archivio storico di Corsica: un decennio di attività (1925-1934), in ID., Storia della Corsica italiana, cit., pp. 217 ss., con il titolo Studi italiani sulla Corsica. 39 Si veda, rispettivamente, ID., Italiani vicini e lontani: i Còrsi e la Corsica dopo il 1796, ivi, pp. 139 ss. e 159 ss. 40 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 2 luglio 1927, in AGP. Il riferimento è G. VOLPE, Corsica, cit. In quel momento Prezzolini soggiornava a Parigi, dove era responsabile delle pubbliche relazioni presso l’Ufficio cultura della Società per le Nazioni.
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Nell’inevitabile incrocio tra res gestae e historia rerum, Volpe si sarebbe poi trovato ad affrontare una polemica più violenta con alcune correnti della storiografia francese, in occasione del Congresso Storico Internazionale di Oslo dell’agosto 1928, che sarebbe stato da lui definito una «grande adunata di studiosi, non priva di significato e di fini politici»41, ma anzi da questi talmente condizionata da rischiare di divenire una copia, se possibile peggiorata, dei maneggi e degli intrighi che si svolgevano, a Ginevra, presso la Società delle Nazioni, verso i cui principi ispiratori lo storico aveva già dimostrato scetticismo e diffidenza, appena temperati da qualche considerazione di mera opportunità42. La «trama politica» ginevrina, che attraversava i lavori del Congresso, scriveva Volpe, era infatti evidente: Per lo meno, sono venute in luce anche lì quelle che sono le tendenze politiche del momento. Così si sono viste molte cortesie franco-tedesche e tedesco-cecoslovacche; si è vista una piena unità nei due gruppi tedesco e austriaco. Senza contare l’azione francese rivolta a consolidare posizioni di prestigio e d’influenza43.
In quella sede, il delegato francese Michel Lhéritier aveva proposto di demandare all’appena costituita Commissione per l’insegnamento della storia una revisione dei manuali scolastici, per purgarli dai più scoperti riferimenti di carattere nazionalistico, i quali, si pensava, avessero direttamente e indirettamente alimentato il clima morale che aveva provocato la grande strage del primo conflitto mondiale44. Volpe, anch’esso presente alla riunione, aveva fortemente osteggiato quella iniziativa45. E, al suo ritorno in patria, inviava al Presidente della Camera dei Deputati, Antonio Casertano, un articolato rapporto, che questi respingeva 41 Gioacchino Volpe ad Antonio Casertano, Presidente della Camera dei Deputati, 1 settembre 1928, in ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1929, fasc. 14/3, 3432. 42 Gioacchino Volpe a Camillo Pellizzi, 27 marzo 1924, cit.: «Credo che lei abbia ragione in quel che mi diceva su la Società delle Nazioni. Cessato, per noi, il momento della giusta diffidenza e della necessaria reazione, può essere venuto il momento dell’azione. La quale presuppone essere qualcuno e possedere la forza per contare qualche cosa. A Ginevra stanno ottimamente i potenti e piccoli disposti a servire. Noi non siamo né l’una cosa né l’altra. Ma più la potenza o almeno il credito verrà, più dovremo cercar di maneggiare anche noi qualcuna delle leve e dei timoni che la Soc. delle nazioni può offrire». 43 Gioacchino Volpe ad Antonio Casertano, Presidente della Camera dei Deputati, 1 settembre 1928, cit. Sulla base della relazione di Volpe, la Segreteria della Presidenza del Consiglio inviava a Mussolini, il 3 ottobre, un sintetico appunto sull’intera questione. 44 K.D. ERDMANN, Toward a Global Community of Historians, cit., pp. 134-135. 45 Per l’intervento di G. VOLPE, Compte rendu du VIe Congrès International des Sciences Historiques, in «Bulletin d’information du Comité International des Sciences Historiques», 1929, 2, p. 145.
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allo stesso Presidente del Consiglio46, su quanto accaduto nella capitale norvegese, nel quale si sosteneva che il programma di Lhéritier era inaccettabile, non tanto per i suoi contenuti quanto per il suo carattere dirigistico e verticistico, che avrebbe provocato una stagnazione della ricerca in un labirinto delle legittimità, fatto di veti incrociati, costellato da divieti di accesso e di sensi vietati, che rischiavano di rendere il mestiere dello storico impraticabile nella sua pienezza e peggio di porlo sotto il controllo di un’autorità internazionale, di fatto egemonizzata da alcune grandi Potenze. Giunto ad Oslo il 12 agosto, mi sono lì unito alla rappresentanza ufficiale dell’Italia, i Proff. Fedele, De Sanctis, e Ussani; ed allora ho proceduto in piena intelligenza con essi, diviso il lavoro con essi, assolto il compito a me assegnato, prese liberamente quelle iniziative che le circostanze consigliavano. Così, il giorno 13, io fui presente, invitato come esperto dai colleghi italiani che avevano diritto di intervenirvi come membri, alla prima seduta del Comitato Internazionale di Scienze Storiche, adunatosi in coincidenza col Congresso; ed insieme potemmo influire su certe deliberazioni ed ottenere la designazione di Italiani a membri di certi Commissioni per lo studio e l’esecuzione di progetti diversi. In confronto al gruppo francese – una vera falange – tedesco, polacco, ecc., noi eravamo assai pochi; pochissimi poi quelli andati lì per avere parte attiva al Congresso. Bisognava quindi trovare compenso nella vigilanza e nella onnipresenza nostra durante la settimana dei lavori. Credo di essere stato, insieme, coi miei colleghi, non troppo inferiore al compito. Nella Sezione di storia del diritto, ho diffusamente riferito sugli Atti Parlamentari Italiani anteriori all’Unità, pubblicati dalla Camera dei Deputati e dai Lincei; in una delle due sedute plenarie, occupate solo da relazioni dei rappresentanti dei maggiori paesi, io ho, prendendo il posto del Senatore Calisse, disgraziatamente assente, svolto il mio tema della Recente Storiografia sul Risorgimento (sguardo d’insieme alla letteratura storica degli ultimi venti anni ed anche ai problemi e momenti e figure più importanti del XVIII e XIX secolo italiani), che ha riscosso molti consensi. Ho infine seguito da vicino il lavoro di tre o quattro Sezioni, spesso interloquendo e anche ribattendo. Mi sono subito trovato di fronte ad una, da me prima ignorata, ma lì visibilissima, tendenza di incatenare internazionalmente, sotto nome di “collaborazione”, l’attività degli studiosi di tutto il mondo, creando una fitta rete di associazioni ed enti internazionali, sottoponendoli tutti a regole e controlli ecc.: il tutto, in vista di maggiore rendimento del lavoro e in vista della auspicata amicizia dei popoli, della pace del mondo ecc. Ta-
46 Antonio Casertano a S.E. Benito Mussolini, Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, 12 settembre 1928, ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1929, fasc. 14/3, 3432: «Dal Deputato Prof. Gioacchino Volpe, che ha testè assolto il suo compito nel Congresso Storico Internazionale di Oslo, ricevo l’acclusa relazione sull’opera da lui svolta. Mi faccio premura di inviarne copia all’E.V. affinché, nell’alta Sua competenza, Ella possa giudicare dell’opera stessa e delle proposte ivi contenute».
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le tendenza era rappresentata al Congresso specialmente dai Francesi e, in prima linea, dal Segretario Generale del Comitato Internazionale di Scienze Storiche, il prof. Lhéritier di Parigi, attivissimo e accorto. Senza dubbio, egli è il portavoce di una tesi politica. Molti congressisti intuivano ciò; ma io credo di essere stato il solo che ha preso nettamente posizione contro questa tendenza e questa tesi, tanto opponendomi a proposte di assurde collaborazioni e prospettando i limiti oltre i quali non la “Commissione Internazionale” ma il singolo studioso, lo storico con la sua capacità interpretativa può operare; quanto confutando diffusamente una relazione del Lhéritier sull’insegnamento della storia. Il Lhéritier voleva fare dell’insegnamento un propagandista di internazionalismo e di pacifismo, e giungeva sino alla proposta di nominare la solita Commissione Internazionale che avrebbe dovuto stabilire le “verità storiche accertate”, degne di trovare posto nei libri di testo e nella scuola. Non fu difficile mandare a rotoli questo ridicolo castelluccio, con pienissimo consenso di molti presenti, specialmente polacchi, ungheresi e tedeschi. Della Commissione non si parlò più; ma una Commissione per le questioni dell’insegnamento esisteva già e credo sia da porre qualche attenzione a ciò che essa farà. Non so se sia stato diplomatico, da parte mia, scendere così francamente in lizza; ma ho creduto bisognasse cominciare a reagire. Si ha l’impressione di un lavorio complesso, metodico, un po’ aperto, un po’ nascosto, che muove da punti diversi e si serve di mezzi diversi che si appoggia a Ginevra ecc. Molti segni se ne avevano ad Oslo. Un bel giorno, ci si potrebbe trovar di fronte a Commissioni Internazionali di controllo, putacaso, sui libri di testo e sull’insegnamento della storia nei varii paesi, capaci di creare qualche seccatura. Come dicevo, il Congresso Storico ha avuto una più o meno visibile trama politica. Tuttavia l’atteggiamento che i singoli prendevano in questioni generali di organizzazione, di internazionalizzazione, di insegnamento ecc., era spesso indipendente dalle manifestazioni ufficiali. I miei punti di vista hanno trovato spesso consenso in uomini come Brandi di Gottinga, Capo della Delegazione germanica, di Domanovsky e di Lucinicky, capi della Delegazione Ungherese. Se questi consimili convegni si ripeteranno e se Italiani vi assisteranno, non sarà difficile combinare preventivamente intese e linee di condotta comune. È mia opinione che a questa “Internazionale Scientifica”, che comincia ad avere i suoi centri di annodamento, organi di esecuzione, un’opinione pubblica che guarda ecc., bisogna, se vi si partecipa, parteciparvi bene, con adeguata e tempestiva preparazione. E non solo per questioni di amor proprio; ma anche per evitare il pericolo di trovarsi un giorno di fronte a fatti compiuti da altri, ma impegnativi anche per noi, sotto pena di vedere il mondo far lo scandalizzato sul conto nostro, come spesso accade!47
La mozione Lhéritier ricalcava in buona sostanza la cosiddetta «procedura Casares», dal nome dello storico spagnolo che l’aveva ela-
47 Gioacchino Volpe ad Antonio Casertano, Presidente della Camera dei Deputati, 1 settembre 1928, cit.
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borata, la quale prevedeva che Commissioni nazionali, sviluppatesi a sostegno della Commissione internazionale per la cooperazione intellettuale, operante nell’ambito della Società delle Nazioni, dovessero esaminare i manuali di storia adottati dagli Stati aderenti alla Lega ginevrina, per rettificarne ogni riferimento contrario all’intesa tra i popoli e all’educazione alla pace48. Nel 1932, i risultati del lavoro erano pubblicati a Parigi, con il titolo, Révision des manuels scolaires contenant des passages nuisibles à la compréhension mutuelle, e diffusi anche in versione inglese. Contro questa filosofia di riferimento scopertamente pacifista e i suoi esiti sul piano istituzionale, Volpe interveniva, in una serie di articoli, pubblicati sul «Corriere della Sera», a partire dal 192949 e fino al 193450, poi raccolti in un opuscolo, che si concludeva con considerazioni senz’altro equilibrate ma pure non estranee alle ragioni di una forte partecipazione politica. Il proporsi a modello un testo «a latte e miele», per attuare una «standardizzazione internazionale» dei manuali storici avrebbe potuto forse sortire anche «qualche risultato utile», solo se si fosse riusciti a modificare «oltre le parole dei libri per i ragazzi anche quelle dei libri per i grandi; oltre le parole dei maestri anche i fatti dei politici». In caso contrario, ogni tentativo di regolamentazione in questo campo avrebbe rappresentato soltanto uno stralcio d’utopia, suscettibile, per di più, di essere usato strumentalmente dal «più forte». Altra era infatti la strada da battere, chiaramente indicata dall’attività del governo italiano anche in questo settore.
48 M. VERGA, Storie d’Europa. Secoli XVIII-XX, Roma, Carocci, 2004, pp. 85 ss. 49 G. VOLPE, Bilancio di un Congresso. Gli storici e l’organizzazione della pace, in «Cor-
riere della Sera», 14 giugno 1929. Sul punto, lettera di Volpe a Mario Maffi, 8 settembre, 1928, ACorsera: «Ecco l’articolo del congresso, in forma di corrispondenza da Oslo. Parlo del congresso storico come tale. Mi riserbo di mettere in luce in altra corrispondenza già scritta e che dovrebbe esser pubblicata non troppo dopo la prima, quel che nel congresso è stato sottosuolo politico e specialmente la sentenza pacifista ginevrina, internazionalista, anche in queste adunanze di storici». Per la polemica anti-pacifista di Volpe, si veda anche la lettera di Maffi del 7 settembre 1928, ivi: «Il Laterza ha pubblicato in questi giorni un’opera di Antonello Gerbi , “La politica del 700. Storia di un’idea”. Si tratta come ho potuto giudicare da una rapida scorsa della evoluzione dell’idea della pace attraverso i vari periodi storici, dalla Enciclopedia fino a tutta la Rivoluzione francese. L’argomento si presterebbe certamente per un magnifico articolo, di pensiero tanto più importante in quanto l’idea del pacifismo internazionale potrebbe da uno storico fascista essere contraddetta con molta efficacia e con acuta dottrina. Desidera occuparsi di questo volume? Ne propongo a Lei l’argomento prima che ad altri collaboratori: mi sembra che la precedenza Le spetti di diritto». 50 G. VOLPE, Pacifismo e disinfezione della storia. Il macchinoso apparecchio d’una propaganda, ivi, 14 giugno 1932; ID., Guerra, pace e civiltà (la Révision des manuels scolaires), ivi, 12 luglio 1932; ID., L’utopia sulla soglia della scuola. La revisione pacifista dei testi, ivi, 22 luglio 1932; Le risoluzioni Casares: diplomazia e libri di scuola, ivi, 11 gennaio 1934.
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Espellere le cause di risentimento internazionale dai manuali delle scuole elementari o ginnasiali e conservarle nelle opere della politica sarà come lavorare a vuoto. Anche da questo punto di vista, noi Italiani siamo abbastanza a posto. Opere di pace, di vera pace, ne veniamo compiendo non meno e forse più di altri. Tutto il decennio di vita fascista dell’Italia, il decennio della politica estera di Mussolini, politica veramente europea, ne è dimostrazione. Pochi paesi hanno, in questo decennio, portato tanto contributo alla vita europea e ad un suo più pacifico assetto!51.
Era un elogio incondizionato alla strategia internazionale promossa da Mussolini, acrobaticamente sospesa tra moderazione e intransigenza, tra dichiarazioni revisioniste, tentazioni imperialiste, opera di stabilità e di conservazione del quadro europeo, tra affermazione del prestigio nazionale e ricerca del consenso nei principali gabinetti europei52, che aveva composto le cifre di un calcolo diplomatico capace di far coesistere e interagire tendenze apparentemente inconciliabili, per continuare, in ultima analisi, la consueta politica italiana «di oscillazioni, a noi tradizionalmente vantaggiosa»53. Questo calcolo, azzardato ma non erroneo, fino almeno al 1935, riscuoteva larghissimo consenso nell’opinione pubblica nazionale e internazionale54, e trovava numerosi ammiratori anche nella famiglia degli storici italiani da Nello Rosselli a Federico Chabod. Il primo, grazie all’appoggio di Volpe, lanciava, nel 1931, il programma di una «Rivista di storia europea», che doveva mantenere un «carattere di assoluta apoliticità e sovranazionalità»55, sintonizzandosi sull’allineamento della politica estera italiana, promosso da Dino Grandi, su posizioni conciliatrici e addirittura «disarmiste», per il ristabilimento dell’eguaglianza giuridica delle nazioni, per la revisione dei trattati di pace, nella ricerca di «una moralità internazionale» garante di un duraturo equilibrio europeo56. Il secondo terminava la pro51 ID., Pacifismo e storia. Una macchinosa propaganda. Guerra Pace e Civiltà. La revi-
sione pacifista dei testi. Le “Risoluzioni Casares”, Roma, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, 1934, pp. 41-42. Lo si veda anche in ID., Storici e maestri, cit., pp. 362 ss. L’opuscolo del 1934 appariva nella collana «Quaderni dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura», Serie quarta, II. Sui suoi contenuti, si esprimeva, in un resoconto assai positivo, Carlo Morandi, in «Scuola e cultura. Annali dell’istruzione media», 1934, 2, p. 205. Sullo stesso punto, ID., Storia diplomatica e manuali scolastici (Sul significato del trattato italo-tedesco del 1887), in «Rivista Storica Italiana», 1938, 3, pp. 100-104, ora in ID., Scritti storici, cit., I, pp. 25 ss. 52 R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso, 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 337 ss. 53 R. GUARIGLIA, Ricordi, 1922-1946, Napoli, Esi, 1949, p. 82. 54 R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso, cit., pp. 534 ss. Si veda anche N. FARREL, Mussolini, Firenze, Le Lettere, 2006, pp. 288 ss. 55 Sul punto, E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 148 ss. 56 P. NELLO, Dino Grandi, cit., pp 121 ss..
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lusione del 1935 per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Perugia, con un elogio senza condizioni del ruolo svolto da Mussolini nella stesura del «Patto delle quattro potenze» del maggio-giugno 1933 e per i risultati della Conferenza di Stresa che sarebbe seguita di lì a due anni. Con la firma di quell’accordo, si sosteneva, Mussolini «aveva dato all’Europa l’esempio di ciò che debba intendersi per politica di collaborazione, l’unica nella quale l’Europa stessa possa ritrovare il suo equilibrio, di sostanza e non di parole, l’unica che consenta il lavoro fecondo di popoli civili». Questo orientamento «ampiamente europeo e umano» costituiva il «segno sicuro della nuova, grande missione che l’Italia fascista si è assunta, sotto la guida sagace e ferma del Duce»57. Volpe, per sua parte, già nel novembre del 1933, a ridosso della sigla del «Patto a quattro», aveva fornito il più ampio riconoscimento alla diplomazia mussoliniana, per la sua capacità di instaurare un circolo virtuoso tra realismo, prudenza e fermezza. Nell’articolo che appariva sul «Corriere della Sera», con il titolo altisonante di Potenza creatrice di un uomo e di un popolo. Il contributo dell’Italia alla vita dell’Europa dopo la guerra58, si sosteneva che «gli anni che seguirono immediatamente la Grande Guerra furono anni di eclissi quasi totale dell’Italia nell’Europa». Il periodo immediatamente successivo alla fine delle ostilità aveva visto infatti «il trionfo dei potenti imperialismi che la guerra aveva rafforzato, il collasso monetario del nostro paese, lo stato di disordine del popolo italiano nelle idee e nei sentimenti, dovuto anche alla condotta degli alleati nei riguardi dell’Italia, la pochezza dei nostri uomini di governo in così grave momento». Tutto questo sembrò annullare «l’efficienza dell’Italia» nell’Europa governata essenzialmente da un «direttorio anglo-francese-americano», al quale si dovette la «soluzione molto grossolana ed egoistica, e perciò alquanto precaria, di parecchi dei grandi problemi politici, economici, coloniali». In questo modo la presa d’armi «invocata da molti italiani come manifestazione e mezzo d’indipendenza politica della nazione ormai adulta» sembrava invece aver riportato il nostro paese «nel rango di satelliti che si illuminano solo di luce altrui». Questa situazione si modificò bruscamente a partire dal 1922, quando Mussolini inaugurò una «politica autonoma», intenzionata a impe57 F. CHABOD, Il principio dell’equilibrio nella storia d’Europa, in ID., Idea di Europa e
politica dell’equilibrio, a cura di L. Azzolini, Bologna, il Mulino, 1995, p. 31. Sul punto, E. DECLEVA, Politica estera, storia, propaganda: l’ISPI di Milano e la Francia (1934-1943), in «Storia contemporanea», 1982, 3, pp. 607 ss. 58 G. VOLPE, Potenza creatrice di un uomo e di un popolo. Il contributo dell’Italia alla vita dell’Europa dopo la guerra, «Corriere della Sera», 14 novembre 1933, p. 2.
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dire la «cristallizzazione» dell’ordine europeo sancito a Versailles. Fu politica non solo «nazionale» ma anche «europea». Politica di rivendicazione e di «graduale revisione» verso gli alleati, e «politica larga, e diciamo pure generosa, con le nazioni con cui eravamo stati in guerra», tesa in buona sostanza a far cessare «la distinzione dei popoli dell’Europa in vincitori e vinti» e ad agevolare la rinascita del continente. Fu, in ogni caso, politica attiva, a volte irrituale a volte addirittura spregiudicata, che procurò all’Italia «certa libertà di movimento, in vista di più larga azione europea da svolgere, di altri contrasti da appianare, di altri e maggiori collegamenti da instaurare». Fu, ancora, «politica di pace» anche se non pacifista: almeno nella vecchia accezione che l’ideologia democratica aveva appiccicato a questa parola. E fu politica mai pregiudizialmente ostile alla Società delle Nazioni ma solo guardinga verso l’attività di quell’istituzione, per il sospetto fondato che lo spirito di Ginevra venisse utilizzato per assicurare la conservazione degli interessi costituititi di quegli Stati «grandi e piccoli» a cui la vittoria delle armi aveva dato, spesso a scapito di tutti gli altri, «tutto quello che desideravano e speravano e più ancora». Fu sempre, infine, politica essenzialmente europea, come Volpe concludeva, ricordando il convegno internazionale del novembre 1932, organizzato dall’Accademia d’Italia in collaborazione con la Fondazione Alessandro Volta, dedicato alla crisi e alla metamorfosi dell’idea di Europa, nel quale lo storico intuiva il segno di una trovata propagandistica del regime59, in vista della preparazione da parte di Mussolini del patto di Roma dell’anno successivo, che si disse ideato per dare all’antico continente «dieci anni di pace» e «in vista di una solidale attività che avrebbe dovuto manifestarsi con la revisione di Versalilles»60. Sul palcoscenico, offerto da quell’assise, il fascismo aveva sperimentato la sua dimensione internazionale, la sua capacità di generare «movimenti similari, quasi in ogni paese, che, pur tendendo naturalmente ad atteggiarsi come cosa a sé, a nazionalizzarsi, a rivendicare ognuno la propria originalità e magari priorità, finiscono poi sempre col riconoscere gli elementi comuni che essi hanno, e specialmente la comune derivazione da quello italiano, di cui riproducono concetti e parole, segni e simboli»61. Questa proiezione europea del fascismo, questa capacità di essere anche «merce d’esportazione», costitui59 E. SESTAN, Memorie di un uomo senza qualità, Firenze, Le Lettere, 1997, pp. 230231. Su quell’evento, S. GIUSTIBELLI, L’Europa nella riflessione del convegno della Fondazione Volta (16-20 novembre 1932), in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2001, 1, pp. 181 ss. 60 G. VOLPE, I Convegni Volta, «Il Tempo», 22 marzo, 1950, in ID., L’Italia che fu. Come un italiano, la vide, sentì, amò, Roma, Le Edizioni del Borghese, 1961, pp. 335 ss. 61 ID., Potenza creatrice di un uomo e di un popolo, cit.
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va l’essenza squisitamente culturale dell’imperialismo dell’Italia fascista, che essa rivendicava contro i commenti malevoli e le accuse che, per paradosso, gli giungevano proprio dalle vecchie Potenze coloniali. L’Italia modernissima dalla guerra libica in poi, e più ancora dal 1922 in poi, si è sentita più volte rinfacciare ambizioni imperialistiche. Può essere che il rinfaccio qualche fondamento abbia, sebbene esso venga di solito da curiosi pulpiti: e lo ha certamente se per imperialismo s’intende, come Mussolini stesso lo ha inteso, quella “volontà di vita”, quella “volontà di potenza”, che è degli individui ed è, per ciò, delle nazioni. Ma bisogna aggiungere che questo imperialismo italiano, pur senza fantasticare di paci perpetue e far della guerra, in assoluto, sinonimo di barbarie, si viene sempre più consapevolmente e chiaramente configurando come imperialismo non territoriale ma spirituale, come pacifica espansione di forza e di lavoro e d’influenza morale, come ambizione dell’Italia di segnare anche del proprio segno la nuova civiltà che sta nascendo. Si capisce: un segno che sia commisurato all’importanza storica di un paese che ha creato l’Impero romano, il Papato, il Rinascimento. E allora si può ammettere che nella storia dell’Italia fascista e dell’Europa, che si apre all’influenza del Fascismo, si venga realizzando, senz’altro, l’imperialismo italiano62.
Con quell’articolo Volpe sembrava comunque recepire gli aspetti propagandistici, più che quegli effettuali, della strategia mussoliniana, che guardava all’Europa, pur tra velleità revisionistiche che mai compromettevano veramente il mantenimento dello status quo, unicamente come un diversivo per assicurarsi la sicurezza nella zona danubiana e tendere all’espansione nel Mediterraneo e in Africa. Nel luglio del 1932, Leonardo Vitetti, che non casualmente Volpe aveva scelto come collaboratore del programma di «Storia d’Italia in collaborazione», aveva anticipato questi indirizzi in un ampio promemoria, che coglieva le linee essenziali della politica estera del regime. Per Vitetti, la politica italiana aveva avuto un unico e preciso obiettivo: «quello di rivedere a nostro vantaggio la distribuzione dei territori coloniali», sulla falsariga delle mancate promesse del Patto di Londra. Nel contesto europeo, la nostra pressione per attuare una «revisione dei Trattati» non intendeva infatti soddisfare «alcuna necessità nostra», ma costituiva la copertura di una strategia orientata «sempre all’Africa, al Mediterraneo orientale», alla correzione dell’«iniqua distribuzione dei mandati che fu fatta alla Conferenza di Parigi» e a quella delle «condizioni di inferiorità nella quale si trova l’Italia rispetto alla altre Grandi Potenze vittoriose». L’aver giocato la carta del «pericolo tedesco in Europa» aveva avuto come solo obiettivo di costringere la Francia a «rivedere in nostro favore
62 Ibidem.
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la situazione coloniale». Per il resto, il nostro paese non aveva alcun interesse né per i Tedeschi della Slesia né per gli Ungheresi della Transilvania, ma solo per gli Italiani, ai quali bisognava procurare «terre e lavoro, campi da coltivare e mercati da sfruttare»63. Tra maggio e luglio del 1934, l’offensiva diplomatica italiana si concentrava soprattutto, se non davvero unicamente, sull’obiettivo di ottenere dalle Potenze europee, e dalla Francia in particolare, il via libera per una penetrazione anche militare in Etiopia64. Risultato sostanzialmente raggiunto, con l’accordo italo-francese del gennaio 1935, che costituiva la premessa indispensabile alla «conquista dell’Impero»65, poi solo parzialmente messo in discussione dalle ambiguità e dai silenzi inglesi durante i colloqui che precedevano il patto di Stresa. Anche Volpe si faceva interprete di questa tendenza, nel novembre di quello stesso anno, con la recensione al volume di Lemmi, Lettere e diari d’Africa, che, nel titolo, il «Corriere della Sera» presentava come una raccolta di «documenti di italica virtù», redatti dall’«eroico manipolo» dei combattenti che parteciparono alle disastrose battaglie dell’Amba Alagi e di Adua66. Era un resoconto che presentava la storia italiana come l’«eterna collaborazione dei morti e dei vivi», che ora, ancora una volta, si rinnovava. Da una parte, «i caduti a cui non arrise né la vittoria, né allora, e per un pezzo poi, la operosa gratitudine degli Italiani», ma che furono tali che «se avessero avuto alle spalle una nazione ben formata e consapevole, avrebbero saputo donarle un Impero». Dall’altra, «quei battaglioni e centurie di soldati e di operai che, in questi giorni, avanzano in Africa, zappa e fucile in spalla, ordine guerriero e istinto d’amore, colonizzatori oltre e più che conquistatori, avanguardia di un popolo che non tanto cerca tesori naturali da accaparrare, quanto terra e terra». Nel gennaio 1936, Volpe tornava a sostenere la convenienza della nuova impresa d’oltremare nel discorso pronunciato nell’adunanza generale dell’Accademia d’Italia, incentrato sulle «ragioni» che avevano indotto l’Italia a compiere quella presa d’armi. Ragioni di carattere «morale», dato che «nell’era dell’espansione, del totale accaparramento dell’Africa, della grande industria, dello slancio vitale delle Nazioni, 63 L. VITETTI, Relazione sulla politica estera italiana, luglio 1932, in appendice a R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso, cit., pp. 848-849. 64 Ivi, pp. 509 ss. 65 C. SENISE, Quando ero capo della polizia, 1940-1943, Roma, Ruffolo, 1946, p. 37. Sul punto, J.-B. DUROSELLE, Storia diplomatica, cit., pp. 172-173. 66 G. VOLPE, Lettere e diari. Documenti di italica virtù. Eroico manipolo nelle prime campagne d’Africa, in «Il Corriere della Sera», 21 novembre 1935, p. 2. Si trattava della recensione a F. LEMMI, Lettere e diari d’Africa, 1885-1886, Roma, Edizioni Roma, 1935, poi ripresa con il titolo, Le nostre prime campagne d’Africa. Ammonimenti e vaticini d’eroi, in «Rivista di Fanteria», II, 12 dicembre 1935, pp. 1677 ss. Lo si veda ora, in ID., L’Italia che fu, cit., pp. 68 ss.
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della gara fra i vari tipi di civiltà che si dividono e si contendono il mondo, l’Italia non poteva rimanersene chiusa nel piccolo spazio, che trovasi tra Alpi e mare, senza perdere ogni vigore, anzi senza cadere in una nuova servitù», di cui il nostro paese aveva fatto già amara esperienza durante e dopo la Grande Guerra. Ma anche ragioni di carattere geopolitico, che costituivano quella «specie di fatalità africana», che emergeva ciclicamente, con forza irresistibile, dato che tutte le volte che, nella Penisola, «si costituisce o ricostruisce una forza politica, con relativo bisogno di conservazione e sviluppo, essa si orienta verso l’Africa», come verso quel continente si dovettero spingere Pisa e Genova, per rendere sicuri i loro traffici e mettere piede in Corsica e Sardegna. Ragioni, le quali, in ogni caso, non costituivano alcun attentato all’armonia internazionale, e che rendevano quindi particolarmente odiosa la risposta delle sanzioni con le quale la Società di Ginevra aveva inteso colpire il nostro sforzo, quando si fosse osservato come l’azione italiana mirava piuttosto a rinnovare e a rafforzare una «collaborazione coloniale» con gli altri Stati europei contro la «barbarie», che era anche «collaborazione europea» per scopo di pace e giustizia. Nulla di tutto questo era stato compreso nei gabinetti di Londra e di Parigi, che neppure avevano considerato come l’allontanamento coatto dell’Italia dal blocco delle potenze occidentali avrebbe potuto comportare, presto o tardi, conseguenze catastrofiche sull’intero ordine mondiale. Non di questa opinione pare, però, che siano quelli che ora ci stanno di fronte con gesto di minaccia; ed anche altri che, pur con volto amichevole, tuttavia consentono, fiancheggiano, seguono l’Inghilterra. Essi che tollerarono il Risorgimento, non sembrano disposti a tollerare l’espansione coloniale nostra: e suscitano contro noi, solo contro di noi, la Società delle Nazioni e, volenti o nolenti, gli Stati che la compongono; ci proclamano e ci fanno proclamare, con processo sommario, aggressori; sollecitano da ogni parte, sotto veste societaria, solidarietà antitaliane di ogni genere, ideologiche, religiose, capitalistiche; prendono contro di noi vaste iniziative militari; rinnegano ogni tradizione di amicizia e ogni legame di simpatia con l’Italia e vorrei dire ogni solidarietà vera con l’Europa, in quanto Europa non è geografia e meno ancora politica, ma civiltà. Si propongono, con ciò, di annientare l’Italia, come annientarono altri nel passato, se l’Italia non vuol subire la loro legge? Sarebbe un cattivo affare per l’Europa, che nell’Italia ha trovato e trova e troverà un indispensabile elemento di equilibrio e di ordine. E sarebbe, diciamolo senza iattanza ma con ferma convinzione, sarebbe, alla lunga, un duro, difficile affare anche per la potentissima Inghilterra, comunque accompagnata67.
67 G. VOLPE, L’Italia d’Africa, in Le ragioni dell’Italia, Roma, R. Accademia d’Italia, 1936, p. 3.
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Volpe ribadiva tale posizione, da Vienna, nel corso di una conferenza dedicata al tema de L’Italia di oggi: vita politica e culturale, nella quale, partendo dalla storia delle origini del movimento fascista «che ha sviluppato un nuovo pensiero e nuove forze sociali, quelle cioè della grande massa del popolo italiano, che solo ora entra nel rango della vita storica italiana», concludeva «che l’Italia sta creando una civiltà politica che non nega, ma comprende e supera le civiltà precedenti, e la sta diffondendo nel mondo». Adempiendo questa missione, il nostro paese rispondeva pacificamente «all’assedio delle sanzioni che vorrebbe la protezione della barbarie e della schiavitù». La diffusione internazionale del fascismo poteva aiutare l’Europa a uscire dal «torbido caos in cui essa si dibatte, e a restaurare su migliori fondamenti una vera Società di Nazioni, fatta di eguali e di collaboratori». Il nuovo ordine che il regime fascista era riuscito a istituire all’interno dello Stato italiano era infatti in grado di fornire un modello all’ordine da restaurare «nel consorzio degli altri Stati civili»68. In questo modo, lo storico partecipava, pur con qualche margine di autonomia, alla ben orchestrata campagna propagandistica che avrebbe accompagnato e seguito il conflitto etiopico e che avrebbe conquistato al regime il consenso, almeno nel ruolo di non oppositori, di esponenti antifascisti, dello stesso gruppo dirigente del Pci69, persino di Benedetto Croce, il quale offriva, sull’altare della patria, la sua medaglietta di senatore per dare un personale contributo alla lotta del «sangue contro l’oro»70. Un consenso che in molti intellettuali italiani si era trasformato in entusiastico sostegno, come per Chabod, il quale, nella conferenza su Carlo Emanuele II di Savoia, tenuta nel 1935, alla presenza dei sovrani71, introduceva un brano conclusivo che suonava come inequivoco plauso alla virtù delle armi sabaude nella campagna di Etiopia, che davano prova dello «stesso spirito di fierezza e di sacrificio e di fedeltà e di devozione alla Patria, che conduce, oggi, nell’Africa orientale, alla vittoriosa affermazione della nuova e più grande Italia»72. E che quell’affermazione rischiasse per l’opposizione degli antichi alleati di 68 Un discorso di Volpe a Vienna all’Istituto italiano di cultura, in «Corriere della Sera», 26 gennaio 1936, p. 2. Si veda anche, L’accademico Volpe e lo scambio culturale italo-austriaco, in «Il Giornale d’Italia», 29 gennaio 1936, p. 5. 69 R. DE FELICE, Mussolini il duce. I., cit., pp. 768 ss. 70 B. CROCE, Epistolario, cit., p. 187. 71 F. CHABOD, Carlo Emanuele II di Savoia, Celebrazioni piemontesi promosse dalla Confederazione fascista dei professionisti e degli artisti, Urbino, R. Istituto d’arte per la decorazione e la illustrazione del libro, 1935, II, pp. 263 ss. 72 Il passo veniva successivamente espunto da Chabod nel dattiloscritto preparatorio dell’intervento, conservato nel Fondo Chabod dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Palazzo Antici Mattei, Roma, d’ora in poi, AC, II. 4.
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trasformarsi in occasione di guerra europea era dato che non sfuggiva all’attenzione dei più e che Volpe ricordava, nel febbraio del 1936, durante le cerimonie per l’inaugurazione dell’Istituto italiano di cultura di Budapest, alla presenza del Reggente Horthy e del Presidente del Consiglio ungherese Gömbös, quando secondo il resoconto del «Corriere della Sera»: L’accademico d’Italia Volpe ha tenuto una dotta prolusione su “L’attuale momento dell’Italia”. L’oratore, dopo avere esposto i problemi politici e sociali che il fascismo ha affrontato e risolto dando un nuovo volto alla Nazione, ha illustrato l’atteggiamento del fascismo di fronte alla cultura, il suo scetticismo di fronte a forme non rispondenti alla vita, il suo sforzo di rinnovamento anche in questo campo. Il Volpe ha parlato poi della nuova psicologia del popolo italiano, tutto proteso verso il domani, rilevando le cure che il Regime dedica particolarmente alle giovani generazioni, le quali costituiscono il centro della poderosa costruzione fascista. L’oratore ha concluso esaminando il problema politico coloniale dell’Italia, di palpitante attualità mondiale, dimostrando il diritto storico e morale che caratterizza la vittoriosa impresa in Africa orientale. Ha accennato all’opposizione che l’Europa muove a questa impresa, in nome di leggi e paragrafi. Ma, come nei rapporti interni degli Stati, leggi e paragrafi debbono essere modificati e adeguati alle nuove forze sociali se si vogliono evitare agitazioni, così nei rapporti internazionali debbono essere modificati e adattati alle nuove forze di ciascuna Nazione se non si vuole la guerra. L’oratore si è augurato che ciò non debba accadere73.
Nel 1937, nel primo giorno anniversario della proclamazione dell’Impero, Volpe tornava su questi argomenti, con un excursus storico, dove, lasciata rapidamente alle spalle la celebrazione dell’«Africa romana» e della antiche «città marinare, primeggianti sui mari d’Africa e del Levante», nella quale tanto si era compiaciuto D’Annunzio74, si passava all’esame della questione africana nei suoi rapporti con l’«Italia moderna»: dalla guerra di Libia al primo conflitto mondiale, quando quella guerra, iniziata da noi solo come «guerra irredentistica», si andò ingrossando di «sostanza coloniale», fino al punto che «la conquista del confine alpino, il compimento dell’unità, la sicurezza dell’Adriatico erano visti sempre più non solo fine a se stessi, ma condizione di più libera e feconda attività mediterranea e coloniale». Lo status di «Potenza imperiale», che ora l’Italia fermamente possedeva, non era stata dunque una creazione estemporanea ma bensì il prodotto di «una formazio-
73 Un discorso dell’Accademico Volpe alla presenza del Reggente Horthy, cit. 74 G. D’ANNUNZIO, Teneo te Africa. Ai combattenti italiani oltremare nel segno peren-
ne di Roma, Officine del Vittoriale degli Italiani, 1936.
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ne spirituale che ha preceduto e accompagnato l’opera e che ne forma l’invisibile ma solido piedistallo». Se all’«Impero come costruzione politico-militare» si era giunti «d’un balzo», grazie alla «decisione di propositi e prontezza d’esecuzione» di Mussolini, l’idea imperiale era da tempo sentita «come un fatto costituzionale della vita italiana, capace di compenetrarla tutta spiritualmente e tutta avvivarla, tutta impegnarla»75. Esisteva, infatti, una tradizione africana e imperiale, le cui radici affondavano nell’Italia liberale, che non andava oggi dimenticata e che invece doveva essere valorizzata in tutta pienezza, ricordando i precursori delle conquiste odierne: militari, esploratori, missionari, amministratori illuminati, come Ferdinando Martini, perfino un principe della Real Casa, nella persona di Tommaso di Savoia. Tutti uomini «che nell’Africa credettero» e il cui ricordo doveva essere grato «agli Italiani della generazione che è ora al tramonto, che degli anni passati ricordava quasi solo Adua e aveva dimenticato quel che di buono e positivo allora si fece». Anche in virtù dell’opera svolta da quei predecessori, invece, si poteva oggi «dimenticare Adua, o, se mai, ricordarla per misurare a quel metro l’enorme progresso compiuto, dai tempi di Adua ad oggi»76. Certo, in questi stessi anni, Volpe non dimenticava gli altri settori di espansione della nazione italiana, come quella che si era realizzata nelle «colonie» dell’America meridionale, delle quali, alla fine del 1936, tracciava la lunga storia: dai primi insediamenti di mercanti genovesi a seguito della conquista spagnola, nel XVI secolo, al fuoriuscitismo politico «dopo il 1815, più ancora, dopo il 1821 e per tutto il Risorgimento», che alimentò «correnti di liberalismo» e formò «una tradizione garibaldina che non è ancora del tutto estinta in taluni paesi», alla «nostra emigrazione di masse», a partire dal 1870, la quale «gettò ponti e passerelle fra la vecchia Europa e la giovane America, più forse che non facessero altri, per esempio gli Inglesi in Argentina, con la loro attività fatta non di uomini ma di capitali»77. Al radicamento economico dei nostri connazionali, in quelle terre lontane, fece poi riscontro la loro capacità di reagire all’«attrazione dell’ambiente», che avrebbe potuto can-
75 G. VOLPE, Ascesa all’Impero. L’articolo era pubblicato nel numero del maggio, 1937 di «Bonifica e Colonizzazione», la rivista diretta dal figlio dello storico, Giovanni. Lo si veda ora in Saluto ad un Maestro. Scritti di Gioacchino Volpe, con una lettera di A. Soffici, Roma, Gruppo Universitario “Caravella”, 1951, pp. 133 ss. 76 ID., Prefazione a R. Truffi, I precursori dell’Impero africano, Roma, Edizioni Roma, 1937, p. 17. 77 ID., Le relazioni politiche, economiche, spirituali tra l’Italia e l’America Latina, Milano, Ispi, 1936, pp. 4-5. Si trattava della relazione generale al primo Convegno per gli Studi di Politica Estera di Milano, svoltosi a Milano, dal 15 al 17 ottobre 1936.
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cellare la loro identità nazionale. E questo avvenne con una «resistenza grande, specialmente se si teneva conto della «primitività di questa massa migrante, come coscienza nazionale e coltura, e del semi-abbandono in cui per alcuni decenni è stata lasciata dalla nazione e dai suoi governi» e del fatto, ancora più significativo, che «il primo dirozzamento e inquadramento nazionale» di questi italiani avvenne all’estero, quando «il contatto con un mondo diverso sollecitò la coscienza dell’esser loro», portandoli così «nel cerchio ideale della nazione italiana»78. Fu questa una «testimonianza del vigore della nostra stirpe», che, insieme alla statura internazionale conquistata dall’Italia durante il conflitto e all’intraprendente azione del fascismo fuori dai confini, aveva creato le condizioni attraverso le quali questa minoranza, a volte «quasi maggioranza», era divenuta forza politica attiva, ancora più necessaria a contrastare, grazie ai consolidati rapporti con la madrepatria, «la politica d’intervento nord-americano nelle cose del centro e del sud America, sempre più aperta e sbrigativa e violenta», che era conseguenza «della dottrina Monroe, la quale, mentre affermava la libertà del continente americano da ingerenze europee, portava più che in germe anche un’affermazione imperialistica nei riguardi di tutto il continente»79. Questa espansione pacifica di braccia e di lavoro, che in ogni caso restava anch’essa connessa alle aspre ragioni della politica internazionale, si affiancava, senza soluzioni di continuità, a quella guadagnata sul filo della spada, come accadeva in occasione dell’unione personale tra Albania e Italia, che Churchill definiva sprezzantemente come il «ratto della propria moglie» e che Volpe era chiamato a celebrare nel novembre del 1939, in una pubblica adunanza dell’Accademia d’Italia, svoltasi in Campidoglio, alla presenza di esponenti del governo, del partito, di una folta rappresentanza politica e naturalmente del sovrano, ora «Re e Imperatore»80. Il discorso era preceduto da un indirizzo di saluto, pronunciato dal presidente dell’Accademia, Luigi Federzoni, dove si insisteva sulla necessità di «ricostruire le ininterrotte relazioni storiche fra Italia e Albania, con l’illustrare le origini, le vicende e i costumi dei nuclei albanesi dell’Italia meridionale e della Sicilia», e nella quale affiorava il presagio della imminente guerra europea. Federzoni, infatti, ricordava che quella conquista territoriale avveniva nel «momento in 78 Ivi, p. 7. 79 Ivi, pp. 12-14. 80 ID., Formazione storica dell’Albania. Discorso pronunziato in Campidoglio il 19 no-
vembre 1939 alla presenza di S.M. il Re e Imperatore nell’adunanza inaugurale dell’Anno accademico, 1939. Il discorso, poi stampato come opuscolo dalla Reale Accademia d’Italia nel 1940, era stato pubblicato nella «Nuova Antologia», 74, dicembre 1939, 1626, pp. 313 ss., da cui si cita.
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cui su tanta parte d’Europa pesano le angosce, i patimenti e i pericoli di una prova mortale», alla quale l’Italia era pure pronta, vegliando «vigile in armi di fronte ai cimenti cui potrebbe essere chiamata»81. Il tema della prolusione era quello della «formazione storica dell’Albania», che Volpe svolgeva con un’attenzione quasi esclusiva alla natura tutta «latina» e tutta «cristiana» di quella regione, che da sempre aveva cercato di attuare il suo ricongiungimento con l’Occidente e quindi con l’Italia. Con qualche insufficiente rispetto della verità storica, veniva rimossa, dai contenuti di quella conferenza, la forte fisionomia islamica e orientale di quella terra, che dall’età del Regno illirico alla dominazione diretta di Roma, al principato angioino alla colonizzazione veneziana si sarebbe proiettata, invece, spiritualmente e materialmente verso le opposte sponde dell’Adriatico, fino all’animosa resistenza contro l’Impero turco condotta da Giorgio Castriota Scandemberg, che fu «storia dello sforzo unitario dell’Albania, della solidarietà dell’Albania dell’Europa: sforzo duplice e uno, dato che quell’unità non poteva e non voleva essere raggiunta, se non sotto l’insegna di Roma cristiana e cattolica e della civiltà europea». Poi i secoli del dominio ottomano, di «peggioramento delle condizioni economiche, di quasi rimbarbarimento in fatto di cultura e vita sociale», che portarono a una consistente emigrazione albanese nel nostro paese, e, dalla metà del XIX secolo, alla nascita di un movimento nazionale, il quale immediatamente e attivamente congiunse i suoi destini a quelli della terra d’asilo e animò il moto risorgimentale, all’interno del quale si apriva la «questione albanese» e «si parlò dell’Italia come seconda patria degli Albanesi, di sicurezza dell’Italia da conquistare con la liberazione dell’Albania, di principio di nazionalità da attuare anche per gli albanesi, di due cause, due interessi, insomma, fusi in uno». Infine, la politica di attenzione dei governi di Roma verso il problema dell’unità e della sovranità dell’Albania, sotto la protezione dello Stato italiano, ufficialmente proclamata nel 1917, realizzata, oggi, dal «Governo fascista, dal suo grande Capo, dal suo giovane e animoso ministro degli Esteri», che hanno dato, a costo di un piccolo atto di forza, nuova soluzione al «problema dell’integrità e dell’indipendenza albanese». Da quel momento, infatti, avrebbe poi scritto Volpe, nella sintetica biografia dedicata a Vittorio Emanuele III, l’Italia fascista aveva garantito al popolo albanese la pace «con la difesa delle frontiere comuni» e l’Albania, finalmente libera e una, era posta «di qua e di là dal mare, a custodia dell’Adriatico»82.
81 Annuario della Reale Accademia d’Italia, 1938-1940, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1941, XIXII, pp. 301 ss. 82 G. VOLPE, Vittorio Emanuele III, Milano, Ispi, 1939, pp. 146 ss.
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I destini dell’Italia si incontravano, tuttavia, anche con i problemi di un Est europeo, molto più lontano, ma anche incomparabilmente più minaccioso, rappresentato dal colosso sovietico, nei confronti del quale la diplomazia fascista era stata pure larga di interessate concessioni e di aperture, approvate da Volpe soltanto per il loro carattere strumentale83, ma che ora veniva rappresentato nuovamente e unicamente come una minaccia da fronteggiare con decisione, attraverso la sigla del Patto Anti-Comintern, sottoscritto da Germania, Giappone, Italia nel novembre 1937. Era un accordo contro il comunismo internazionale, che costituiva anche il primo documento di un impegno formale tra fascismo e nazionalsocialismo sul piano della politica estera e che veniva salutato da Mussolini come rottura dell’isolamento internazionale del nostro paese, che da quel momento si poneva «al centro della più formidabile combinazione politico-militare che sia mai esistita», infrangendo il pur non ferreo apartheid decretato dalle potenze democratiche dopo il 1935, ma anche preparando le condizioni di un futuro «combattimento necessario, se si vuole spezzare questa crosta che soffoca l’energia e le aspirazioni dei popoli giovani»84. Sull’ineluttabilità di quella intesa, Volpe non nutriva alcun dubbio, non avendo mai condiviso le simpatie «nazional-bolsceviche» e le pulsioni «anticapitalistiche» del fascismo intransigente, che, dopo la firma del patto Ribbentropp-Molotof, emersero con decisione in intellettuali come Delio Cantimori e Goffredo Coppola, il quale, ancora nell’aprile del 1940, avrebbe esaltato «l’umanità santa di questi popoli lavoratori e proletari che non importa quanti siano e chi siano, ma che sono popoli i quali niente altro chiedono se non di lavorare e di credere in una giustizia veramente umana»85. Da sempre, e con maggior vigore dal 1920, feroce avversario del dispotismo orientale russo che aveva posto un grande popolo, dalle immense risorse, sotto il dominio incontrastato di un comitato politico costituito da «pochi mongoli e pochi ebrei», lo storico lodava il nuovo impegno internazionale dell’Italia, nella prefazione al volume di Filippucci-Giustiniani, La diplomazia anti-europea dei Soviet, pubblicata dall’Istituto Nazionale di contenzioso diplomatico nel 1939, quando però l’intesa cordiale tra Mosca e Berlino, per la spartizione della Polonia,
83 ID., Fascismo. Governo fascista, problemi italiani del momento, cit., p. 18. 84 G. CIANO, Diario, 1937-1943, a cura di R. De Felice, Milano, Rizzoli, 1990, p. 53.
Sulle conseguenze di quell’accordo, che aveva condotto ad una sempre più accentuata dislocazione dell’Italia fuori dal concerto delle potenze occidentali, si veda P. PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., pp. 119 ss. 85 Sul punto, E. DI RIENZO, L’oblio sulle simpatie naziste del compagno Cantimori, in «il Giornale», 1 dicembre 2005; L. CANFORA, Il Papiro di Dongo, Milano, Adelphi, 2005, p. 398.
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aveva già compromesso la natura dell’alleanza tripartita, acuendo il malumore anche di alcuni ambienti del regime egualmente anti-sovietici e anti-hitleriani86. Ciò nonostante, e forse proprio per tale ragione, questo scritto dava prova di un anticomunismo radicale, che trovava però le sue ragioni non in una contrapposizione di carattere ideologico tra fascismo e sovietismo87, come era accaduto in altri intellettuali politicamente impegnati all’interno dei vari centri Anticomintern, attivi nel nostro paese, pronti soprattutto a stigmatizzare l’adulterino connubio di demo-plutocrazia e bolscevismo, verificatosi tramite l’appoggio, in un caso larvato, nell’altro manifesto, che Francia, Inghilterra e Unione Sovietica avevano concesso al fronte repubblicano spagnolo, appiccando l’incendio della «nuova guerra europea che dal focolare iberico dilagherà e divamperà su tutto il continente»88. Argomenti che Antonino Pagliaro riprendeva e rafforzava, in un opuscolo del 1938, inneggiando alla «guerra santa», che si era ormai apertamente ingaggiata tra due incompatibili sistemi di vita. L’asse Roma-Berlino e l’adesione data dall’Italia il 6 novembre 1937 all’accordo tedesco-nipponico contro l’internazionale comunista costituiscono oramai un’insormontabile barriera contro i tentativi disperati del moribondo comunismo sovietico di travolgere l’Europa nella sua caduta. Gli avvenimenti di Spagna hanno messo in luce la bieca febbre di distruzione che anima il comunismo, la disumana barbarie che lo muove, la subdola abilità con cui esso cerca di far passare sotto l’aspetto di un’untuosa solidarietà umana il suo irriducibile odio contro le forma civili della vita. La storia della guerra civile di Spagna 86 Su mandato di Italo Balbo, Nello Quilici, nelle pagine del «Corriere Padano» aveva denunciato con vigore l’alleanza tra i Soviet e la Germania hitleriana, sostenendo che con la firma di quel patto il nazionalsocialismo si poneva fuori dalla linea ideale tracciata dal fascismo. Sul punto, F. QUILICI, Tobruk 1940. Dubbi e verità sulla fine di Italo Balbo, Milano, Mondadori, 2006, pp. 139 ss. Si veda anche la testimonianza contenuta nel Diario di Ciano, cit., p. 372, alla data dell’8 dicembre 1939, dove si parlava di Mussolini «furioso contro Balbo, che continua a svolgere sul Corriere Padano una campagna di stampa troppo apertamente anticomunista per non capire che sta facendo del tiro indiretto contro la Germania». 87 A. PAGLIARO, «Fascismo. II. L’azione storica del Fascismo», in PNF. Dizionario di Politica, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1940, 5 voll., II, p. 154: «L’opposizione al bolscevismo è, si può dire, la stessa dottrina del Fascismo. Quello che il bolscevismo afferma, il Fascismo lo nega, e viceversa. […] Oggi nel mondo Fascismo e bolscevismo sono dati come termini antitetici, e il Fascismo accetta l’antitesi»; Redazione [ma A. PAGLIARO], Comunismo, ivi, I, pp. 552 ss., dove, sottolineando l’assoluta incompatibilità delle due dottrine e dei due sistemi, si insisteva sul bellum perenne tra fascismo e comunismo e si concludeva: «A questi motivi è stata ispirata l’azione decisa del Fascismo contro il comunismo, prima nella penisola, poi sul piano internazionale». 88 F. COPPOLA, Fascismo e bolscevismo, Roma, Istituto Nazionale di Cultura Fascista, 1938, p. 13.
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addita all’esecrazione dei popoli civili una dottrina che è capace di scatenare gli istinti inferiori dell’uomo contro i sentimenti e gli ideali più alti di patria, religione, di umanità. Ma la superiorità morale è sempre arra sicura di vittoria e ormai la riscossa, iniziata dal generale Franco il 19 luglio 1936 ed alla quale il volontarismo fascista ha dato potente apporto di forza e di entusiasmo, è prossima a concludersi con la restituzione della Spagna alle sue nobilissime tradizioni di nazione latina e mediterranea. L’onta della disfatta ricade, insieme sul comunismo sovietico e sulle false democrazie che alla resistenza rossa spagnola hanno dato largo incentivo fornendo senza risparmio mezzi e uomini89.
L’intervento di Volpe si concentrava, invece, ancora una volta, sui rapporti di forza internazionali, sullo «studio della politica estera sovietica, che è la politica di un enorme organismo statale posto a cavallo di due continenti e partecipe dell’una e dell’altra civiltà; orientato, per giunta, verso fini che un po’ sono antichi, quelli stessi del vecchio Impero degli Zar, un po’ nuovi, cioè di rivoluzione mondiale». Per la prima volta, nella storia, uno Stato, di dimensioni imperiali, era apparentemente asservito e metteva tutte le sue risorse a disposizione di «un ente internazionale, il Komintern, sorto col proposito di diffondere la rivoluzione mondiale e far trionfare i principi banditi da Marx e da Lenin». Ma se, nei paesi europei, lo strumento utilizzato dall’Urss per realizzare questo fine era la lotta di classe, la contrapposizione di capitale e lavoro, «indipendentemente da ogni criterio di razza o di nazionalità», in Asia e in Africa, questa azione aveva assunto connotati particolari. La «predicazione del conflitto sociale», poco fruttuosa in paesi ancora lontani o lontanissimi dallo sviluppo capitalistico, era sostituita da una catechesi sovversiva che aveva come parola d’ordine «l’odio contro l’oppressore bianco» e che metteva in evidenza il disinteresse sovietico per ogni «concessione o privilegio» di carattere coloniale. In questo modo, la propaganda russa «per sua natura internazionalista, è diventata in Asia nazionalista e ha fatto nascere e potenziato movimenti nazionalistici locali», in Cina, Turchia, Iran, India, nell’Afganistan e nella Siria, contro Francia, Inghilterra, Giappone. Battuta in Europa agli inizi degli anni Venti, l’avanzata del comunismo si spostava così a oriente e meridione, in attesa di tornare poi, con moto di pendolo, come il conflitto spagnolo dimostrava, verso occidente alla ricerca dell’anello più debole del sistema che si intendeva far tracollare. La politica bolscevica ha delle fasi, conosce accentuazioni e rallentamenti. Si volge ora più all’Europa, ora più ad altri continenti. Ha miraggi più di pro-
89 A. PAGLIARO, Il fascismo contro il comunismo, Firenze, Biblioteca Popolare di Cul-
tura Politica, Le Monnier, 1938, pp. 52-53.
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paganda ideologica o più di ingrandimenti territoriali. Dal sorgere dell’Urss alla pace di Riga, con la Polonia, e al fallimento dell’agitazione comunista nei Balcani, in Italia e nell’Europa danubiana, la politica sovietica è stata quasi esclusivamente diretta al sovvertimento dell’ordine esistente in Europa. Dopo ha mirato a colpire l’Europa – e soprattutto l’Inghilterra, considerata come quintessenza di capitalismo – sovvertendo l’ordine asiatico ed africano: e così dal 1924 al 1936. Quindi essa è ritornata a minare l’Europa, e anche l’America, attraverso il fronte popolare francese e spagnolo, attraverso le agitazioni e i moti promossi in taluni Stati del Sud-America. Cioè fallita nel nostro continente – e il Fascismo è il momento più importante di questo fallimento – la sua azione si volge in Asia; ritrovate poi favorevoli condizioni in Europa o in alcune regioni d’Europa torna a battere qui. Solo recentemente l’Urss, approfittando della guerra cino-nipponica, che ha gettato la Cina nelle sue braccia, e della guerra europea che ha lasciato in sua balia i minori Stati baltici e una parte della Polonia, si è volta all’uno e all’altro fronte insieme90
Alla fine degli anni Trenta, l’attenzione prevalente era però volta ancora al quadrante meridionale dell’Impero italiano, del quale Volpe si sforzava di sottolineare il carattere di fenomeno politico, non comportante nessuna drastica rottura dell’ordine internazionale, ma che poteva essere interpretato, piuttosto, alle luce delle tradizionali tesi di Von Ranke, relative alla fisiologica dinamica di ampliamento delle «Grandi Potenze» al di là dei loro confini naturali91. Di questa linea di tendenza dava testimonianza la lunga voce «Mediterraneo», composta da Federico Chabod per il Dizionario di Politica, pubblicato dal Partito Nazionale Fascista nel 1940, ma redatta almeno un anno prima di quella data. Nella parte finale, dedicata «ai problemi mediterranei e la politica italiana dal 1870 al 1914», il più promettente allievo di Gioacchino Volpe sosteneva che l’unificazione politica dell’Italia aveva provocato un vero e proprio terremoto in quel quadrante dello scacchiere geopolitico. Se fino a quel momento «il problema dell’equilibrio italiano» aveva costituito la «parte essenziale dell’equilibrio mediterraneo», dopo il 1861, si assisteva a un «completo capovolgimento di situazione», grazie alla quale «l’Italia unita non solo cessa di essere semplice “oggetto” di storia, ma diviene essa stessa “soggetto” attivo; da terreno di battaglia diventa contendente, protagonista delle vicende politiche europee e, in specie, mediterranee». In questo modo: «Le grandi potenze mediterranee tradizionali perdevano quello che era stato il loro principale campo di manovra per più di tre secoli, e si trovavano a fianco di un nuovo
90 G. VOLPE, Prefazione a G. FILIPPUCCI-GIUSTINIANI, La diplomazia anti-europea dei Soviet, Roma, Istituto Nazionale di Contenzioso Diplomatico, 1939, pp. 29-30. 91 Sul punto, il mio Il diritto delle armi. Guerra e politica nell’Europa moderna, cit.
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rivale»92. Il «nuovo ordine mediterraneo», promosso dall’Italia, doveva restare dunque un ordine strettamente locale93, che in nulla avrebbe dovuto alterare un sistema politico europeo, in grado di omogeneizzare al suo interno contrasti e conflitti provenienti da un settore geopolitico, sicuramente importante, ma anche, tutto sommato, decisamente periferico. La riflessione storica e politologica, in questo caso, si sposava con la prassi della politica agita, se ancora alla fine del luglio del 1937 Mussolini scriveva a Neville Chamberlain che «gli interessi dell’Italia e della Gran Bretagna non sono contrastanti né nel Mediterraneo, né altrove»94. Questa constatazione rassicurante costituiva il presupposto essenziale della riflessione di Volpe, ancora in un intervento del 1938, dedicato soprattutto a valorizzare il carattere di colonia di sfruttamento agricolo e di popolamento dei nuovi e dei meno recenti possedimenti d’oltremare, destinati a trasformarsi in altrettante «piccole Italie», dove, in ogni caso, ci si doveva sforzare di creare «una piccola proprietà contadinesca, in vista di compiti non solo economico-sociali, ma anche politici militari», ristretti a sole funzioni difensive, sul modello degli antichi insediamenti romani95. A soli due anni di distanza, tuttavia, in un contributo dall’altisonante titolo, Su la soglia del nuovo Impero mediterraneo, Volpe non si limitava più a ricordare la dura e operosa fatica dei nostri soldati-agricoltori in terra d’Africa, ma collegava l’elogio dei «fanti e camicie nere che han debellato il Negus d’Etiopia» a quello dei «Legionari che han combattuto in Spagna», aggiungendo che da quando «Mussolini ha tenuto testa agli inglesi e la Home fleet è tornata ai suoi porti donde si era mossa con la solita orgogliosa presunzione di sé e la non meno solita disistima degli italiani, era spuntato il giorno della riscossa e animi e armi sono tesi verso Corsica e Tunisi e Nizza e Malta ed Egitto»96. Questo stesso annuncio di guerra, e ormai di guerra globale, era presente, almeno come presagio, ma questa volta senza fastidiosi e incauti trionfalismi, anche nella lettera che il generale Pietro Pintor inviava allo storico alla fine di novembre del 1939.
92 F. CHABOD, «Mediterraneo. Storia», in PNF. Dizionario di Politica, cit., III, pp. 104 ss., in particolare pp. 118 ss. 93 D. RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa, 1940-1943, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 94 K. FEILING, The life of Neville Chamberlain, London, Macmillan, 1946, p. 330. 95 G. VOLPE, In Libia, con gli studenti dell’Università di Roma, discorso radiofonico, pronunciato dopo un viaggio d’istruzione in Libia con gli studenti dell’Università di Roma, nel 1938, ora in ID., Saluto ad un Maestro, cit., pp. 137 ss. 96 ID., Su la soglia del nuovo Impero mediterraneo, in «Le Arti, rassegna bimestrale dell’arte antica e moderna», II, giugno-settembre 1940, 5-6, p. 298.
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Sono rientrato dalla Libia dopo aver assistito alla trasmigrazione dei ventimila rurali: visione mirabile: organizzazione grandiosa. Davanti a quelle case, a quelle famiglie ricche solo di volontà e di speranze: davanti a quella milizia del lavoro e della pace, anche io ho desiderato, ho augurato che guerra non ci sia. Se verrà quei contadini come tutti gli Italiani faranno il loro dovere in difesa dei diritti e delle aspirazioni della Nazione97.
2. L’intesa cordiale tra Volpe e il fascismo si fondava così, ancora una volta, su di un accordo di fondo relativo ai problemi della politica estera, anche se lo storico non trascurava le grandi riforme istituzionali che il regime aveva avviato all’interno del paese, a partire dalla legge sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro, la quale mentre costituiva la prima, ancora incerta, premessa della futura organizzazione corporativa dello Stato, recepiva, secondo la testimonianza di uno dei suoi remoti ispiratori, l’obiettivo nazionalista di sviluppare «la personalità economica della Nazione» e di esautorare, al contempo, le «organizzazioni sindacali che tendono continuamente a trasportare la lotta di classe sul terreno politico»98. La nuova normativa, varata il 3 aprile 1926 e il successivo decreto del primo luglio, che ne disciplinava l’attuazione99, oltrepassavano largamente il quadro di riferimento tracciato dalla Commissione dei Diciotto per quest’ordine di problemi100, e s’impegnavano direttamente a dare sistemazione legislativa ai rapporti di lavoro e al funzionamento delle associazioni professionali, in relazione a questi punti qualificanti: riconoscimento e controllo, da parte dello Stato, di un solo sindacato per ogni impresa o categoria di lavoratori (e quindi di un solo sindacato fascista); attribuzione ai sindacati legalmente riconosciuti del potere di stipulare contratti collettivi, vincolanti per tutti i datori di lavoro e i lavoratori della categoria; istituzione di una magistratura del lavoro, investita del compito di far rispettare quegli accordi, la cui competenza era però subordinata all’adesione delle due parti con97 Pietro Pintor a Gioacchino Volpe, Roma 22 novembre 1939, FV. Sul margine della lettera, un appunto di mano di Volpe esprimeva questa desolata constatazione: «Il ’43, tutto in terra». Pietro Pintor, comandante nel 1940 della Prima Armata italiana sul fronte occidentale, divenne poi presidente della Commissione d’armistizio con la Francia. 98 F. CARLI, I compiti dello Stato e il riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali, in «Rivista di Economia e Finanza», maggio 1919, poi in ID., Dopo il Nazionalismo. Problemi nazionali e sociali, Bologna, Cappelli, 1922, pp. 172 ss. Si veda, sul punto, G. SALVEMINI, La realtà dello Stato corporativo, «Quaderno di Giustizia e Libertà», febbraio 1934, poi in ID., Scritti sul fascismo, cit., II, pp. 541 ss., e in particolare p. 545, dove si definiva la normativa sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro come una legge «dovuta a quell’anima nera ma sottile di Rocco che era in realtà tratta dal vecchio programma nazionalista clericale del 1914». 99 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 125 ss. 100 E. SANTOMASSIMO, La terza via. Il mito del corporativismo, cit., pp. 43 ss.
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traenti; proibizione assoluta della cosiddetta «autodifesa di classe» e cioè del diritto di sciopero e di serrata. Come avrebbe sottolineato Salvemini, le ricadute politiche di queste disposizioni, per quello che riguardava il progetto di una sempre più avanzata fascistizzazione dello Stato e della società, erano evidenti e colpivano allo stesso tempo i sindacati di tendenza socialista e persino quelli di eterodosso orientamento fascista, che avevano dato prova di qualche indipendenza e che ora «Mussolini bollava col ferro rosso»101. Le garanzie «di capacità, di moralità e di sicura fede nazionale», che la legge stabiliva come condizione per il riconoscimento delle organizzazioni dei lavoratori, il cui accertamento era delegato agli organi dello Stato (ministro competente o prefetto), sanciva pienamente il monopolio della rappresentanza a favore dei sindacati organizzati dal Pnf. In aggiunta a questa normativa, il numero minimo dei lavoratori sufficiente, perché un sindacato potesse essere legalmente riconosciuto, era fissato a un solo decimo di quelli appartenenti alla categoria, rendendo quindi possibile, nel caso in cui la maggior parte dei lavoratori fosse restata fedele ad associazioni non fasciste, di inventare un sindacato fascista ufficiale ma minoritario, in grado di presentare un numero di iscritti sufficiente a metterle fuori causa. Infine, la clausola secondo la quale i sindacati non riconosciuti potevano continuare a sussistere, ma, privi della possibilità di stipulare contratti di lavoro e sottoposti a un’occhiuta vigilanza poliziesca, poneva questi di fronte alla scelta di procedere alla loro dissoluzione o di restare in vita solo per funzioni di pura assistenza morale e tecnica nei confronti degli aderenti. La legge del 3 aprile era presentata da Mussolini come la «più coraggiosa, più audace, più innovatrice, e quindi più rivoluzionaria, tra tutte le leggi elaborate dal governo fascista»102. Un giudizio al quale Volpe si sarebbe accodato, con poca originalità, nella voce «Fascismo» dell’Enciclopedia Italiana, parlando della «sistemazione giuridica della vasta materia sindacale e corporativa e inserzione dei sindacati dello Stato, con funzione costituzionale» come della realizzazione «più originale e, possiamo dire, più rivoluzionaria della rivoluzione fascista» e aggiungendo che attraverso quella riforma si dava vigore di legge al concetto che: La nazione italiana è un’unità morale politica economica che si realizza nello Stato; che i cittadini sono necessariamente solidali nella nazione; che il lavoro non è un diritto ma un dovere e come tale viene tutelato dallo Stato; che la
101 G. SALVEMINI, La realtà dello Stato corporativo, cit., pp. 543 ss. 102 A.P., Senato, 1924-1926, Discussioni, IV. p. 4968.
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produzione nazionale è unitaria e unitari i suoi obiettivi, cioè lo sviluppo della potenza nazionale e collaboranti e solidali sono i produttori; che l’organizzazione sindacale, frutto della moderna vita economica e sociale e necessario correttivo dell’isolamento in cui la rivoluzione francese pose l’individuo, non va abbandonata a sé stessa, in modo che lo Stato ignori i sindacati e i sindacati lo Stato, col pericolo che quelli distruggano questo; che le forze produttive nazionali, organizzate nei sindacati, se non si vuole che, operando fuori dello Stato, siano contro lo Stato, debbono essere dentro lo Stato, parte viva dello Stato, ponendo fin ad un dualismo rovinoso, che, d’altra parte, non trova corrispondenza nella realtà economica nazionale, tutta connessa e interdipendente all’interno, tutta investita al di fuori dall’urto delle concorrenti economie nazionali e costretta ad opporre un fronte unico per resistere e vivere103.
In questo modo Volpe sembrava compiere davvero un brusco voltafaccia nei confronti della posizione da lui precedentemente espressa nel gruppo di lavoro dei Soloni, anche se, per comprendere questa contromarcia, si deve tener conto della presentazione, in chiave prettamente «produttivistica» e nazionalista, di quel dispositivo, fornita dallo stesso Capo del Governo quando parlava di esso come del passo fondamentale nel «cammino dallo Stato liberale nello Stato nazionale», «contrassegnato da leggi fondamentali per la trasformazione del vecchio Stato di matrice giolittiana», che avrebbero dovuto «riempire il vuoto di unitarietà imposto da un sessantennio di apparente unità nazionale», per «elevare a norma di unità sociale, questa nazione che tutti volevano dannare alla decomposizione storica»104. E un’ulteriore testimonianza di questa conversione sulla via di Damasco, ci proviene proprio da una dichiarazione di Mussolini che riassumeva i contenuti di un incontro avuto con Volpe nella primavera del 1926. Lo interessarono, nel corso del colloquio, taluni miei appunti, che di lì a qualche giorno avrei sviluppato in Senato a difesa della legge sulla disciplina politica dei rapporti collettivi di lavoro. Volpe grande estimatore di Rocco, mi fece notare che sarebbe stato meglio non parlare di disciplina politica, ma di rigore sociale, a proposito dei rapporti collettivi di lavoro. Volpe mi disse che il desiderio di immettere permanentemente il mondo del lavoro nel mondo di un nuovo Stato, fondato su di un contratto realisticamente sociale, e non soltanto giusnaturalista, tra individuo e collettività, era nato in Italia con Vincenzio Russo, e nell’umanissimo Sud si era sviluppato con Carlo Pisacane. Accennò agli ultimi pisacaniani che erano i suoi parenti, come Scarfoglio, ma potevano ritrovarsi nei miei capitani del Sud, Giuseppe Attilio Fanelli e Gennaro Villeli. Al professor Volpe accennai alla negazione che il fascismo esprimeva nei confron-
103 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1932), cit., pp. 117-118. 104 Y. DE BEGNAC, Taccuini mussoliniani, cit., pp. 271-272.
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ti di ogni egualitarismo, imposto dall’alto o voluto dal basso, poiché tutti gli egualitarismi si traducono in livellamento al minimo delle buone qualità che, in ogni tessuto popolare, non difettano al massimo della loro qualificazione sociale. Mi parlò, anche, Volpe, degli studi pisacaniani che la sua Scuola intendeva intraprendere, centrando la ricerca sulla sapienza e sulla già preclara esperienza di taluni giovani allievi. Di Rocco e delle sue leggi disse: “Senza di lui non avremmo avuto, nel breve trascorrere di poco più di due anni, la trasformazione totale della rivoluzione dei giovani in Stato del domani”105.
Del pieno e incondizionato assenso di Volpe alla legge del 1926 e del suo apprezzamento, senza riserve per Rocco, che invece da lui sarebbe poi stato definito, con qualche riserva, «giurista e legislatore del fascismo, acutissimo ingegno, anche se propenso a quell’ottimismo giuridico che porta a sopravalutare la funzione e il valore delle leggi»106, è però lecito dubitare alla luce di altre testimonianze. Durante la discussione del disegno legislativo, lo storico aveva ribadito le perplessità, già manifestate in seno ai Diciotto, e si era espresso «in senso contrario alla proposta soppressione della libertà di sciopero, manifestando altre riserve sostanziali sulla attuabilità e sulla efficacia delle sanzioni penali proposte». Né era mancato il suo fermo dissenso «dall’obbligatorietà di adire alla Magistratura del lavoro, imposta ai lavoratori agricoli, a differenza di quelli industriali»107. Dal foro riservato della Commissione parlamentare al dibattito pubblico, la sua posizione su questi punti non si sarebbe modificata, quando, poco prima del varo di quell’ordinamento, Volpe aveva preso la parola su «L’Epoca» di Bottai, una rivista provvista di qualche crisma di ufficialità, inaugurando una tattica di opposizione «nicodemistica» che, da questo momento, avrebbe contraddistinto tutte le sue più importanti prese di posizioni politiche. Il lungo articolo si apriva con un lode apparentemente incondizionata dell’opera legislativa del fascismo, a partire dalla legge contro la massoneria fino alla istituzione della figura del podestà, che, se «supererà lo scoglio della scelta degli uomini», potrà «comunicare impulso più energico alla miriade di piccole macchine tarde e rugginose delle
105 Ivi, pp. pp. 273-274. Dove il riferimento è ai lavori sul socialismo utopistico setteottocentesco di Nello Rosselli, Aldo Romano, Pia Omnis Rosa, svolti, su impulso di Volpe, all’interno della Scuola storica romana. Sul punto, E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 97 ss. Su Pisacane, precursore del «socialismo nazionale» realizzato dal fascismo, si veda G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1939), cit., p. 197. Su questa definizione ritornava dettagliatamente, G. PERTICONE, Studi sul regime di massa, Milano, Bocca, 1942, pp. 25 ss. 106 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1939), cit., p. 145. 107 Sentenza della Corte d’Appello di Roma, Sezione Istruttoria, riunita in Camera di Consiglio, il 22 dicembre 1947, cit.
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amministrazioni locali, rompere il chiuso campanilismo del piccolo comune, spazzare i rimasugli delle consorterie famigliari e di partito». A questo spirito di riforma e di innovazione si richiamava anche la normativa sui rapporti collettivi di lavoro, che risolveva vecchie questioni, «mai prima affrontate e comunque mai prima risolte», che avevano sempre urtato contro due ostacoli insormontabili. Da una parte, la tendenza «eslege e antistatale delle organizzazioni o, meglio, del socialismo che le ispirava dottrinalmente, le guidava praticamente e che temeva potesse il riconoscimento del sindacato arrestare o modificare la lotta di classe». Dall’altra, le preoccupazioni di conservatori e liberali, che, in quello stesso riconoscimento, vedevano «i sindacati fatti più forti, lo Stato invadente e i fallaci criteri dell’opportunismo politico insinuarsi nel delicato congegno della produzione». Spazzando via queste resistenze e questi timori, ora, invece, il legislatore prendeva di petto questa materia. L’intervento dello Stato si sostituiva così al «disinteresse antico, che era un po’ poltroneria e impotenza nei confronti del movimento operaio». La piena libertà di organizzazione veniva corretta da forme di controllo, che incanalavano la «illimitata lotta di classe» nell’alveo di una «coordinazione e cooperazione delle classi, in vista di un interesse non di classe ma superiore alle classi». Si riconosceva un solo «sindacato, non obbligatorio, ma unico per le singole professioni e mestieri». Nessuna coercizione veniva imposta ai «sindacati esistenti o nascituri» per confluire in esso, ma a quelle organizzazioni era imposto di corrispondere ad alcuni «requisiti tecnici» e di fornire «garanzie d’ordine morale e politico», mentre era vietato alle «persone sospette» di varcare le soglie del sindacato unico, anche se esse non erano «assolte dall’obbligo delle quote annuali e dalla sottoscrizione dei patti conclusi, in cambio dei benefici ricevuti»108. Fin qui la parte costruttiva di questo intervento, che, grosso modo ricalcava le posizioni di Rocco, il quale, presentando il provvedimento al Senato, l’11 marzo, aveva concluso, sostenendo che ormai doveva considerarsi tramontato «il tempo in cui lo Stato permetteva che nell’interno stesso del suo ordinamento si creassero le forze destinate a combatterlo», per aggiungere subito dopo che occorreva valutare il disegno di legge soprattutto come un momento cruciale del «passaggio dallo Stato liberale democratico allo Stato nazionale»109. Ma nell’articolo di Volpe, dopo il dolce però veniva l’amaro, dopo la lode, la perplessità se non addirittura la critica. Se nessuno poteva negare l’enorme portata di
108 G. VOLPE, Progetto di legge sui sindacati, in «L’Epoca» marzo 1926, poi in ID., Scritti sul fascismo, cit., II, pp. 123-124. 109 A. ROCCO, Discorsi parlamentari, cit., p. 309.
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questo intervento dello «Stato nazionalisticamente o fascisticamente concepito e attrezzato», sarebbe stata grande leggerezza non «presentire le difficoltà di mettere in piedi e dar movimento a un meccanismo di tal fatta, le incognite che esso presenta, la necessità di un lungo lavoro per l’applicazione e l’adattamento della legge alla realtà sociale e spirituale italiana». Il controllo dello Stato rischiava infatti di assimilare i sindacati a un qualunque ente burocratico, trascurando la differenza essenziale «fra associazioni volontarie e necessarie» e quindi di tramutare i loro dirigenti in «semplici funzionari statali», di depotenziare e forse annullare quelle forze sociali, che dovevano essere soltanto disciplinate per meglio servire ai fini della comunità politica. Le misure proposte contenevano poi il pericolo di annullare ogni possibilità di confronto all’interno delle organizzazioni e di porre gli iscritti «in balia del presidente e del segretario che ha sempre facoltà di espellere gli indegni per cattiva condotta morale e politica». Che garanzia poteva avere la società nel suo complesso e il mondo del lavoro dalla possibilità di veder sorgere «pseudosindacati messi insieme racimolando un po’ di gente dietro un organizzatore che ne diverrà il dirigente e l’amministratore»? E che cosa avverrà della massa di lavoratori, molto numerosa specie nel comparto industriale, «che non potendo entrare pieno jure nell’organizzazione riconosciuta ed essendo parte di un’organizzazione libera sottostaranno a due leggi», pur essendo, per il resto, cittadini dello stesso Stato? Con la legge, che Camera e Senato si apprestavano a votare, il fascismo, infine, rischiava di tradire quell’ispirazione liberale e liberista che, subito prima del colpo di mano del 1922, aveva promesso non solo di tutelare ma anche di rinsaldare. L’istituto dell’«arbitrato obbligatorio», se male interpretato e male utilizzato, poteva portare infatti a tali conseguenze, e costituire un tardivo omaggio del fascismo alla sua primitiva ispirazione massimalista in materia economica, che, per altri versi, s’intendeva invece liquidare. Che risultati potrà dare l’intervento del magistrato anche nella contrastata determinazione di nuove condizioni di lavoro? L’“equità” non sarà il solito colpo al cerchio e colpo alla botte, con possibili e non benefiche ripercussioni su l’economia dell’azienda, su la distribuzione delle colture, insomma su la produzione? È ben chiaro a tutti noi ciò che vorrà dire o potrà volere dire l’intervento dello Stato nell’intimo del processo produttivo. Se mal non ricordo, il Fascismo iniziale si orientava in tutt’altra direzione110.
110 G. VOLPE, Progetto di legge sui sindacati, cit., pp. 125-126.
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In altri termini, la legge sui sindacati, che era anch’essa frutto della reazione borghese, non come miope difesa dei propri interessi, ma come consapevolezza, temprata durante il periodo bellico, «di sé come classe e della comunanza di destini che la lega ad altre classi», non poteva contenere degli elementi contrari a principi, come il libero mercato del lavoro, attraverso i quali la borghesia si era affermata nel corso della sua storia. E anche il fascismo trionfante doveva badare a non disperdere quel legato, a non lasciarsi irretire nelle «stesse manchevolezze del Socialismo, nel suo materialismo e semplicismo, che erano poi anche le manchevolezze dello spirito italiano». Per quell’inadeguatezza di fondo, mentre la borghesia orientava storicamente la sua azione, il socialismo, nel nostro paese, scadde, come dottrina e come prassi, venne meno «come mito, come certezza, come organizzazione». Quel movimento, che all’inizio del secolo ebbe il grande merito di dare «inquadramento a una parte delle plebi italiane» volle invece, tra 1919 e 1922, ricostruire, utilizzando «i cattivi residuati della guerra». Fu quello il suo grande errore, che il fascismo, il quale aveva invece lavorato «con ciò che la guerra aveva sprigionato di grande e duraturo dal profondo della Nazione», non poteva ripetere a meno di non voler dilapidare la «ragione della sua vittoria»111. Si trattava di un invito rivolto con decisione al nuovo regime di bloccare ogni possibile deriva «sociale» e «antiborghese», che almeno il fascismo integralista avrebbe invece assecondato sulla falsariga della mai sopita nostalgia per l’esperienza del sindacalismo rivoluzionario112. Un invito che, con qualche maggiore cautela, Volpe avrebbe ripetuto nel contesto di una riflessione storica, ma «immediata» e semi-ufficiale, dove si analizzavano i progressi dello Stato corporativo, alternando, a dichiarazioni formali di elogio, critiche più o meno esplicite. Questo accadeva nella voce «Fascismo» del 1932, dove si ricordava, a guisa di ammonimento, il precedente storico dell’età medievale, quando accadde che «lo Stato finì col risolversi nel regime corporativo, e che questo regime, «in luogo di essere mezzo di difesa e di conciliazione degli interessi della categoria, organo di controllo della produzione, tramite per la partecipazione alla vita pubblica», disintegrò lo Stato e «le Arti, prima strumento di azione sociale e politica per il Comune, poi organi dominanti, divennero infine coalizioni di interesse privato contro l’interesse generale». Sulla base di quell’antefatto, appunto, qualcuno aveva
111 Ivi, p. 129. 112 G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino,
2000, in particolare pp. 107 ss.; P. BUGHIGNANI, La rivoluzione in camicia nera, Milano, Mondadori, 2006.
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potuto vedere un pericolo non diverso nel sindacato e nelle corporazioni fasciste: e cioè il rischio «che lo Stato sia sopraffatto dal corporativismo, rinneghi quei valori che il fascismo ha proclamato (patria, religione, proprietà privata, iniziativa individuale non sostituita ma solo integrata da quella dello Stato ecc.), smarrisca il senso degli altri fini morali e politici che il fascismo gli assegna, prenda direttive diverse da quelle del fascismo, operi secondo uno spirito non fascista»113. E quella sensazione si era rafforzata, tra 1928 e 1930, con la riforma della legge elettorale e della rappresentanza, quando «la Camera ripeté la sua origine non più dal corpo elettorale, indifferenziato, ma dalle organizzazioni sindacali», con una riforma divenuta necessaria conseguenza della «scomparsa dei partiti, salvo uno, il fascista, e della formazione dei grandi organismi corporativi»114. Ma soprattutto con l’esperimento corporativo il fascismo pareva aver tradito quanti, oppostisi al «socialismo di Stato», imposto dallo sforzo bellico in quanto «illimitati poteri conferiti all’autorità pubblica anche nei rapporti economici della produzione e degli scambi», avevano visto con sgomento quel processo di burocratizzazione perpetuarsi sotto il governo Nitti, con la malcelata approvazione del socialismo, e avevano individuato nella «restaurazione liberale» del 1922 la capacità di catalizzare e di stimolare «la varia reazione del dopoguerra contro lo Stato monopolistico, paternalista, burocratico e lo sforzo verso una nuova e diversa costruzione sua, a base di decentramento e di organi periferici, inquadrati e contenuti in uno Stato tanto semplice di struttura quanto forte di energie morali»115. Nel contributo dell’Enciclopedia Italiana si aggiungeva naturalmente, e non sarebbe stato possibile il contrario, che questi timori erano infondati, perché «lo Stato fascista è Stato corporativo solo in quanto fascista», dato che, in ossequio alla linea tracciata da Mussolini, il momento politico doveva sempre sovrastare quello economico e l’ordinamen-
113 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1932), cit., p. 121. 114 Ivi, pp. 121-122. Questo passaggio cruciale era stato più ampiamente commenta-
to in ID., Fascismo al governo: 1922-1932, in «Corriere della Sera», 23 marzo 1932, p. 1: «Si venne così alla legge sul Gran Consiglio, alla quale oltre che un compito consultivo, – liberamente o obbligatoriamente consultivo da parte del Governo, – si assegnò quello di designare il primo Ministro (compito già della Camera) e selezionare i candidati proposti dalle organizzazioni sindacali per formare la lista dei deputati designati (compito già del corpo elettorale). Si compiva così il massimo sforzo unitario del Fascismo, con questa inserzione dei Sindacati nello Stato; con questo più stretto collegamento individuo-Stato per il tramite delle associazioni sindacali, operanti nell’ambito dello Stato, ma fornite di determinati poteri e messe in grado di concorrere alla vita dello Stato, essere anzi quasi la base dello Stato». L’articolo di Volpe è ripubblicato in appendice al mio, Gioacchino Volpe, storico del fascismo: le prime prove, in «Nuova Storia Contemporanea», 2007, 4, pp. 105 ss. 115 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1932), cit., pp. 40-41.
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to corporativo rappresentare soltanto «una più stretta coordinazione delle forze nazionali», un semplice strumento «di maggiore concordia interna e maggiore potenza», totalmente asservito ai fini della comunità politica116. Ma la critica, su questo punto, si faceva più corrosiva, nella Storia del movimento fascista del 1939, nella quale, non soltanto si ripeteva che il fascismo stesso non fu «unanime, né concorde nel considerare il problema corporativo e nel disegnare le linee di questo Stato a base corporativa» e che, anzi, il Pnf si sarebbe nettamente diviso in due correnti «rappresentate l’una dagli uomini, che provenivano dal vecchio sindacalismo rivoluzionario o che magari, procedendo sul filo della logica, sboccavano a un corporativismo integrale, in cui tutto si risolveva, l’altra dagli uomini che volevano rimaner fedeli allo spirito dell’originario fascismo, eminentemente politico»117. In questo testo, si aggiungeva che, quando da alcuni si cominciò addirittura a parlare di «corporazione proprietaria», quella divisione si era trasformata in una vera e propria spaccatura tra «posizioni di destra, quasi da conservatori, e posizioni di sinistra, anzi di estrema sinistra, che agli oppositori apparivano quasi bolscevismo, come si vide e si intese durante il tempestoso congresso corporativo di Ferrara del 1932»118. Ma non era tutto. Nell’aggiornamento del saggio del 1939, pubblicato poco prima del tracollo del regime, Volpe domandava «fino a che punto la corporazione riuscirà veramente a creare la solidarietà fra le classi, la collaborazione fra capitale e lavoro, la coordinazione tra i vari fattori della produzione, fino a che punto la grossa macchina riuscirà a non degenerare in una nuova pesante burocrazia, a contemperare la necessaria tutela dall’alto con la necessaria libertà del basso». E a quell’interrogativo rispondeva: «non tutto è rassicurante in questo campo»119. Dal fronte opposto, nello stesso periodo, anche Bottai, uno dei più fermi sostenitori della «democrazia corporativa», avrebbe annotato, nel suo diario, che la legge del 1926 non fu altra cosa che la «piattaforma girevole del fascismo, da destra a sinistra, dalla politica di gabinetto alla libera e aperta “socialità”, e che Mussolini, dopo quella data, «sinistro nelle parole fu destro nei fatti e con la sua destrezza si adoperò a rendere impossibile una autentica e libera azione sindacale»120. Ancora più duro sarebbe stato il giudizio di Yvon De Begnac, il più accreditato confidente di Mussolini, che avrebbe par116 Ivi, p. 122. 117 ID., Storia del movimento fascista (1939), cit., p. 145. 118 Ivi, p. 191. Sul Convegno di studi corporativi, svoltosi a Ferrara nel maggio di quel-
l’anno, si veda E. SANTOMASSIMO, La terza via. Il mito del corporativismo, cit., pp. 141 ss. 119 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1939), p. 194. 120 G. BOTTAI, Diario, 1935-1944, a cura di G. B. Guerri, Milano, Rizzoli, 2001, p. 475, alla data del 18 ottobre 1943.
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lato del corporativismo come di «un carrozzone preso d’assalto dalle clientele dei gerarchi vecchi e nuovi», la cui ragione si era «estrinsecata in ufficio» e grazie al quale l’«unificazione della produzione» aveva prodotto solo una muraglia levata contro ogni «iniziativa buona o cattiva che fosse»121. Volpe accoglieva, invece, con reticenza, gravida però di molti significati, la più importante riforma istituzionale del fascismo, quella che, secondo alcuni, avrebbe attribuito al regime la caratteristica di sistema «totalitario»122: e cioè la «costituzionalizzazione» del Gran Consiglio del fascismo, che diveniva, con la legge del dicembre 1928, un vero e proprio organo di Stato, a cui erano demandati, a detrimento della Corona, del parlamento, dello stesso esecutivo, molte fondamentali competenze di politica estera e interna123. In particolare, questo istituto limitava la prerogativa regia per quello che riguardava la successione al trono e l’iniziativa in materia di designazione del capo del governo, provocando qualche turbamento negli ambienti politici e nell’opinione pubblica. Un fascista di matrice nazionalista e monarchica, come Federzoni, consegnava alle sue memorie il senso del più vivo disappunto per quella usurpazione, esprimendo gravi sospetti «circa le intenzioni del Partito nei confronti della Monarchia»124, e lo stesso Mussolini avrebbe scritto, dopo il 25 luglio, che la promulgazione di quella legge «determinò il primo grave urto fra monarchia e fascismo», perché ciò voleva dire «un colpo mortale allo Statuto», tanto che «lo scandalo negli ambienti dinastici fu veramente grande» e «taluni arrivarono ad insinuare che quell’articolo fosse di ispirazione repubblicana»125. Volpe, al contrario, manteneva su questo punto un atteggiamento evasivo nell’articolo, apparso sul «Corriere della Sera» del primo settembre 1927, dove si limitava ad affermare che il Gran Consiglio è «insomma, l’Alto Comando e lo Stato maggiore del Fascismo, cioè di un Partito che è una milizia, che si è impadronito del potere scavalcando con la forza Ministri e Parlamento e vuol diventare regime, cioè ordine politico generale, e investe perciò con la sua azione tutta la vita del Pae-
121 Y. DE BEGNAC, Palazzo Venezia. Storia di un regime, Roma, La Rocca, 1950, p. 522. Sulle delusioni per la politica corporativa, in area fascista, si veda E. SANTOMASSIMO, La terza via. Il mito del corporativismo, cit., pp. 220 ss. 122 E. GENTILE, Fascismo. Storia e interpretazione, cit., pp. 69-70; 106. 123 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 161 ss. 124 A. VITTORIA, I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia, in «Studi Storici», 1995, 3, pp. 729 ss. Il giudizio era ribadito anche in L. FEDERZONI, Italia di ieri, cit., pp. 225-226. 125 B. MUSSOLINI, Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota, Milano, Mondadori, 1944, p. 176.
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se». Di questo istituto non era però possibile fornire nessuna definizione giuridica: «Ed è probabile che ad una precisa definizione i fascisti non tengano. Prima operare, poi definire: “Nell’ora aspra della vigilia, gli ordinamenti furono fissati dalla necessità della battaglia… Nell’ardore della lotta, l’atto precede sempre la norma”, leggiamo nello Statuto del Partito». L’aspetto fondamentale del problema era così pilatescamente eluso, attraverso la considerazione che il fascismo non aveva bisogno di garantire la sua sopravvivenza attraverso un preciso ancoraggio istituzionale, il quale poteva essere addirittura considerato superfluo finché alla sua guida si fosse mantenuta: «una piccola assemblea di uomini che ogni volta presenta qualche nome nuovo o diverso, ma ha un nocciolo che rimane anche esso immutato e rappresenta, con il Capo, la continuità»126. Anche alla svolta del 1928, Volpe opponeva un circospetto silenzio, manifestando inoltre qualche scetticismo per la recente «legislazione fascista», di cui «il domani potrà corrodere questa o quella parte», dato che una porzione di essa «si dimostrerà più rispondente ad un ideale del legislatore che non ad effettive possibilità» e che «l’organismo nazionale non del tutto assimilerà del molto cibo, forse del troppo cibo, che ora gli si ammannisce, con una fiducia che si potrà ritenere anche eccessiva nella virtù della legge scritta»127. Insomma il fascismo, fondamentale per la sua opera di «restaurazione-rivoluzione nazionale» e per la sua natura di contro-movimento, che aveva impedito la «rivoluzione comunista e classista»128, non conteneva in sé la possibilità di provocare alcuno stravolgimento della struttura dello Stato, se non di carattere parziale, revocabile e momentaneo, corrispondente alle singole necessità del momento, e tale da poter essere riassorbito, nei tempi medi o brevi, nel tessuto istituzionale della vita politica italiana che aveva preceduto la sua nascita e la sua affermazione. Anche Gentile, pur con parole profondamente diverse, concordava con questa interpretazione, quando nel febbraio del 1928, non negava che la costituzionalizzazione del Gran Consiglio, una volta avvenuta, avrebbe provocato «una profonda riforma della Costituzione e quindi una trasformazione rivoluzionaria dello Stato» ma aggiungeva che quella modifica del tessuto istituzionale, mentre potenziava la rivoluzione con la sua inserzione nella vita del126 G. VOLPE, Il Gran Consiglio Fascista, in «Corriere della Sera», 1 settembre 1927, pp. 1-2, poi in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 411 ss. L’articolo era la recensione al volume, Il Gran Consiglio nei primi cinque anni dell’era fascista, Roma, Partito Nazionale Fascista, 1927. 127 ID., Prefazione a A. VALLINI, Legislazione fascista, Milano, Gruppo d’Azione per le Scuole del Popolo, 1928, pp. XIII. 128 Ivi, p. XII.
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lo Stato, nello stesso tempo rinvigoriva lo Stato che veniva messo in grado di appropriarsi e di dominare le forze della rivoluzione. L’innesto del Gran Consiglio nella compagine dello Stato veniva così a cancellare l’anomalia istituzionale, venutasi a creare dopo il 1922, con il dualismo tra Stato e partito e anzi faceva sì che «il Partito cessa di essere Partito ed è già virtualmente, e dev’essere sempre più di fatto, la Nazione»129. Su questo stesso problema, Volpe ritornava nei due articoli pubblicati sul «Corriere della Sera» per il decennale del regime, che, per la loro lucidità, provocarono un giudizio da parte di Antonio Gramsci non esente da qualche apprezzamento130. Se nel primo dei pezzi si analizzava il carattere prevalentemente borghese, e non certo proletario né eversivo, del movimento fascista, ma di «borghesia rurale più che di borghesia degli affari, quest’ultima, spesso civettante col socialismo internazionale», di «piccola e media borghesia, classe già disorganizzata, premuta fra plutocrazia e proletariato», di «borghesia passata attraverso la guerra, grande solvente di egoismi di classe»131, nel secondo si concludeva senz’altro, sostenendo che: La “Rivoluzione” non era stata sovvertimento, cioè non aveva portato arresto e disordine, quasi nuova crisi nella crisi, come altrove. Essa aveva avuto dei limiti segnati preventivamente dalla stessa sua natura e dalle finalità che si era proposte; dall’accettazione aperta degli istituti fondamentali, primo fra tutti la Monarchia; dal bisogno di non rendere troppo difficili i rapporti dell’Italia – paese centralissimo non isolabile, non autonomo economicamente – col resto del mondo; dal proposito di utilizzare quante maggiori competenze tecniche degli altri partiti fosse possibile, laddove povero ancora ne era il Fascismo; dal senno politico del Capo che, anche dove volle profondamente innovare, volle procedere per gradi, pietra su pietra, creando, dove non erano, le condizioni per ben costruire132.
Venendo, infine, alla presunta sostanza rivoluzionaria del Gran Consiglio, Volpe avrebbe sostenuto, nel 1932, che, anche se essa «di fatto» corrispose alla fine dello Stato democratico-liberale, ereditato dalla stagione giolittiana, pure non fu «nell’ordine costituzionale quel sovvertimento che è legato al concetto comune di rivoluzione». La «rivo129 G. GENTILE, La legge del Gran Consiglio, in «Educazione fascista», 7 febbraio 1928, pp. 513 ss., ora in ID., Politica e cultura, cit., I, pp. 426 ss. 130 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., II, p. 1001, dove si sottolineava il tentativo, sia pure non del tutto riuscito, di «scrivere non da apologeta puro, ma da critico che si pone da un punto di vista storico». 131 G. VOLPE, 23 marzo 1919-27 ottobre 1922, in «Corriere della Sera», 22 marzo 1932, p. 1 132 ID., Fascismo al governo: 1922-1932, cit.
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luzione» di Mussolini non era infatti «sedizione», non era «Russia». Se il capo del fascismo aveva creduto un tempo nella bontà di quel progetto destabilizzante, quella convinzione era stata abbandonata, ancora prima del 1922, anche a costo di suscitare il biasimo e l’irrisione di quanti dei suoi fedeli lo accusarono di «aver arrestato la rivoluzione proprio ai suoi primi passi». Egli si era infatti messo «su un terreno storico» e aveva segnato da sé i limiti della sua azione, «specialmente da quando aveva accettato la monarchia», e si era persuaso che per «innovare profondamente» occorreva «non rinunciare a utilizzare elementi vecchi, eppure vivi, vitali, utilizzabili»133. Nel 1939, nel momento in cui, secondo alcuni, il fascismo era già passato, almeno da tre anni a quella parte, dalla fase di esperimento totalitario alla fase di «accelerazione» totalitaria vera e propria134, Volpe riaffermava che la trasformazione del Gran Consiglio in organo di Stato aveva avuto per solo fine quello di rafforzare il rapporto tra potestà regia ed esecutivo, affinché questo non fosse costretto a «dipendere dalla Camera, legare la sua esistenza a un voto della Camera, essere esponente di situazioni momentanee alla Camera». Nell’istituzionalizzazione del Gran Consiglio e nella creazione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale si poteva così riscontrare una profonda affinità di carattere funzionale, in quanto ambedue risultavano essere meri espedienti necessari a risolvere un «urgente problema pratico». In un caso, «sistemare in qualche modo le squadre d’azione, dare ad esse uno sbocco perché non rigurgitassero e non rompessero gli argini». Nell’altro, «garantire la rivoluzione da ogni ritorno offensivo di partiti o di Parlamento»135. Pura innovazione di salvaguardia contro il possibile risorgere della deriva parlamentare, nella linea di «ritorno» e di tutela dello spirito, almeno, se non più della lettera dello Statuto, tale era il vero significato dell’aggiornamento costituzionale del 1928, che dava risposta al sonni133 ID., Storia del movimento fascista (1932), cit., p. 102. Sul punto, P. NELLO, Italia e Casa Savoia. Gioacchino Volpe e il ruolo della monarchia, in «Nuova Storia Contemporanea», 2002, 4, pp. 29 ss. 134 E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, Carrocci, 1995, pp. 117-118, 137 ss. e passim. In maniera epigonale, sullo stesso punto, S. LUPO, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, cit. Diversamente, invece, R. DE FELICE, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario, 1936-1940, 19962, al capitolo I e ora J.J. LINZ, Sistemi totalitari e sistemi autoritari. Un’analisi storico comparativa. Introduzione di A. Campi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 131 ss. 135 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1939), cit., p. 107. Si veda anche, ID., Fascismo al governo: 1922-1932, cit., dove la rottura istituzionale, determinata dalla legge del 1928, era colta nel fatto «che il Governo non emana più dalla Camera, non dipende più dalla Camera, non rispecchia più situazioni mutevoli della Camera».
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niano Quid agendum?, pronunziato nel drammatico passaggio da un secolo all’altro. Un’interpretazione, questa, che sarebbe stata sviluppata, più coerentemente, nella biografia del sovrano regnante, pubblicata a soli quattro mesi di distanza dall’inizio del secondo conflitto mondiale, dove l’avvento e lo sviluppo del fascismo venivano sinteticamente definiti con la formula di «rivoluzione nel quadro della Monarchia», la quale, nel segno della sua insopprimibile funzione stabilizzatrice, «resistente ed elastica si adeguava alla nuova struttura dello Stato e della società italiana, e, suggellando il nuovo moto, lo conteneva e insieme gli dava vigore»136. Da questo punto di vista, è addirittura fuorviante vedere in Volpe lo studioso che, tra i primi, avrebbe dato conto di una più o meno compiuta natura totalitaria del regime fascista nelle sue opere137, dove per altro, ancora nel volume del 1939, il termine «totalitario» veniva utilizzato una sola volta, senza conferire una precisa pregnanza semantica a questo termine138, mentre si insisteva piuttosto sulla natura del fascismo come «antipartito» e «movimento» e su quella del regime come superamento del «Governo forte» in «Stato forte»139. In questo, Volpe non scambiava semplicemente i suoi desideri con la realtà e si rendeva pienamente conto, invece, della atipicità del fascismo nei confronti della natura semplicemente «autoritaria» di altri regimi, sorti in quegli stessi anni in Europa140. Tipicità, che anche altri sottolineavano. Se Delio Cantimori, infatti, negava ogni diritto di cittadinanza al governo di Primo de Rivera141, nella «rivoluzione europea» determinata dal fascismo142, Volpe, per suo conto, nel maggio del 1930, forniva un giudizio critico di quell’esperimento politico, che doveva il suo fallimento in primo luogo alla «scarsa coesione e omogeneità» della nazione spagnola, «povera di disciplina e di senso dello Stato», che non aveva vissuto il doloroso ma proficuo travaglio della Grande Guer-
136 ID., Vittorio Emanuele III, cit., p. 140. 137 E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., pp. 26-28, dove si afferma che, con
Volpe, la storiografia «ufficiale» si adeguava alla realtà del «cesarismo totalitario» e ne produceva un’interpretazione «conforme». 138 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1939), cit., p. 190, dove si parla di «Stato totalitario», unicamente a proposito dell’esperimento corporativo, e solo per la sua capacità di «dominare dall’alto tutte le organizzazioni economiche, neutralizzare gli egoismi e particolarismi di gruppi e categorie». 139 Ivi, pp. 23 ss. e pp. 131 ss. 140 J.J. LINZ, Sistemi totalitari e sistemi autoritari, cit., pp. 233 ss. 141 Sul punto, C. ADAGIO, Chiesa e nazione in Spagna. La dittatura di Primo de Rivera (1923-1930), Milano, Unicopli, 2004. 142 D. CANTIMORI, Fascismo, rivoluzione e non reazione europea, «Vita Nova», VII, 1931, poi in ID., Politica e storia contemporanea. Scritti, 1927-1942, a cura di L. Mangoni, Torino, Einaudi, 1991, pp. 111 ss., in particolare p. 116.
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ra, ma anche ai molti «errori di tattica» del generale improvvisatosi statista e caudillo: e tra questi, quello di aver voluto dare il via a una rigida politica protezionistica e quello ancora più grave, e che poteva essere d’insegnamento anche all’Italia, di «organizzare corporativisticamente la Camera in un paese dove la coscienza sindacale era ancora allo stato di rudimento». Ma uno solo era stato l’errore di «sostanza» che aveva portato al suo spodestamento e cioè il carattere della sua dittatura «dolce, qualche volta, troppo dolce», che contraddiceva la fisionomia peculiare di questa forma politica, «che ha una sua logica, che non vuole essere offesa»143. Conclusione, questa, che tuttavia non inficiava la fiducia per un regime più vigoroso, e persino più spietato nei mezzi, ma tale da assolvere, come il fascismo dimostrava di voler fare, una funzione di dittatura provvisoria e costituzionale, indirizzata a rinvigorire, senza distruggere, lo spirito e gli istituti della vita politica tradizionale, della quale Volpe tracciava il modello nel discorso pronunciato per il centenario della nascita di Simon Bolivar, il 17 dicembre 1930. Insomma Bolivar non vuole essere re, non imperatore. Cioè pieni poteri: ma non come normale situazione di diritto; e neppure imposta con la forza. Intende che i pieni poteri gli siano conferiti regolarmente, legalmente, in rispondenza ad una volontà nazionale che egli ha la certezza di incarnare. Dittatura e, insieme, sovranità popolare: cioè dittatura riconosciutagli dal popolo, sia pure pel tramite dell’organo costituzionale che è interposto fra il capo supremo e il popolo. Insomma, da una parte i principi, che non si vuole, non si può rinnegare; dall’altra, il temperamento autoritario di Bolivar, le stesse esigenze del momento e dell’ambiente. Da una parte, la necessità della legge e di una costituzione ferma; dall’altra, il senso della insufficienza della legge e della costituzione. Cose non tutte, forse, conciliabili; certo, non facili a conciliare144.
Era sicuramente una visione troppo ottimistica, che Volpe correggerà, solo molto più tardi, nel secondo dopoguerra, in una serie di scritti d’occasione, segnati anche, se non addirittura principalmente, da un’ipoteca apologetica e dal tentativo di comporre una difesa postuma del comportamento della monarchia di fronte al fascismo. In quelle pagine, lo storico riaffermava che l’intesa tra Corona e fascismo si era posta, all’inizio, sulla stessa linea di quella stipulata da Vittorio Emanuele II con il garibaldinismo e la sinistra repubblicana durante il Risorgi-
143 G. VOLPE, La dittatura del generale Rivera, in «Nuova Antologia», 65, maggio 1930, 1395, pp. 49 ss., in particolare pp. 56-57 per le citazioni. 144 ID., Simone Bolivar, 1783-1830. Discorso per il Centenario pronunziato alla Reale Accademia d’Italia, il 17 dicembre 1930-X, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1931, pp. 16-17.
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mento145, con la differenza, però, che allora il sovrano «diede esso l’impronta definitiva all’impresa compiuta» mentre, subito dopo la presa di potere, fu Mussolini a «dare la ruota al movimento» e «cominciò presto a dare alla sua azione di governo una direttiva alquanto e sempre più divergente, anche costituzionalmente, da quella tradizionale». Molto presto sarebbe cominciata la «fascistizzazione dello Stato», e oltre quella dello Stato, anche quella dell’Italia, con la promulgazione delle «legge sui poteri del Capo del Governo e l’altra di riforma del Gran Consiglio del ’25 e del ’27, che restringevano il campo legislativo vero e proprio, assai dilatando, quello dell’esecutivo, e regolavano assai gelose materie in cui il fascismo, a detta del Re, non doveva entrare»146. In quel processo agiva da catalizzatore e da movente, il vecchio, mai del tutto debellato, «germe repubblicano» del movimento del 1922, e la stessa « potente personalità» di Mussolini che pareva considerare inevitabile «quell’elevarsi del Capo, a “Duce”, quel suo mettersi quasi al livello del Sovrano in una specie di “Diarchia”, quello scolorirsi dei simboli della Monarchia al confronto del fascismo, quel venir meno del potere legislativo con funzione di contrappeso al potere del Governo, quella esistenza di una milizia fascista non dirò contro, ma di fronte all’esercito»147. Fu questa, durante l’intero ventennio, un’azione «blandamente, inconsapevolmente o consapevolmente, logoratrice dell’istituto monarchico», che alla fine non poté non ridimensionare «le funzioni del Re, ridotto a un’ombra, data anche l’età, la stanchezza, certo scetticismo finale». Fu una «rivoluzione senza scosse, condotta con una certa metodicità», all’interno di un rapporto di collaborazione squilibrato, nel quale il fascismo si era riservato il ruolo di «socio di maggioranza» e l’«iniziativa intera», che crebbe d’intensità intorno al 1937, nel tempo in cui Mussolini cominciò ad avvertire «una crescente indifferenza per quella diarchia che gli legava il passo» e Hitler parve fornire l’«esempio di un incontrollato potere»148. Allora l’intesa si tramutò in contesa, sia 145 ID., Vittorio Emanuele e Mussolini, in ID., Scritti su Casa Savoia, Roma, Volpe Editore, 1983, p. 182. Il saggio, a lungo restato inedito, costituiva un assai critico resoconto del volume di N. D’AROMA, Venti anni insieme. Vittorio Emanuele e Mussolini, Bologna, Cappelli, 1957. 146 G. VOLPE, Vittorio Emanuele e Mussolini, cit., p. 193. 147 ID., Nebbie e nubi sulla monarchia, pubblicato nel volume collettaneo, Un secolo di regno-L’unità nazionale, Roma, Centro Editoriale Italiano, 1959, poi in ID., L’Italia che fu, cit., pp. 40-41. 148 ID., Vittorio Emanuele e Mussolini, cit., p. 195. Sul punto anche ID., Presentazione di C. DELCROIX, Quando c’era il Re, Milano, Rizzoli, 1959, p. 8, dove si stigmatizzava «l’eclisse crescente del Re, che quasi disparve agli occhi degli Italiani, sopraffatto dalla imponente, prepotente, onnipresente figura del “duce”, divenuto personaggio centralissimo nella vita della nazione, signore ormai della pace e della guerra e, in ultimo, aperto alle non be-
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pure sorda e sotterranea, che toccò il suo apice, poco prima del giugno 1940, quando la guerra fu preparata e decisa, indipendentemente e anzi contro il volere della Corona, che, tramite la Regina Elena, avrebbe invece cercato una soluzione per interrompere il conflitto, nella convinzione, espressa da Vittorio Emanuele, che la nuova presa d’armi si presentava sotto luce molto meno favorevole a quella di venticinque anni addietro, pur ammettendo egli che «risolto dall’Italia il problema delle terre irredente e voltasi ad obiettivi mediterranei e africani, erano anche mutati eventuali avversari e che, se noi volevano allargare il nostro posto al sole, dovevamo anche essere disposti, una volta o l’altra, a fronteggiarli»149. Non aveva errato, tuttavia, Volpe nell’aver considerato, ancora alla fine degli anni Trenta, che quel «governo a doppio comando», quella sorta di matrimonio d’interesse, con «letti rigorosamente separati», che lasciava irrisolti, almeno formalmente, i rapporti di potere tra Duce e Re, paralizzava la spinta propulsiva del fascismo, gli impediva di compiere un’ulteriore e più drastica trasformazione dello Stato e che la monarchia pur ridotta a «pallido fantasma» aveva in sé la capacità, con la forza della sola «resistenza passiva», non certo di costituire «un freno e un contrappeso alle spinte illiberali» del regime, come si è erroneamente sostenuto150, ma almeno di inibire ogni soluzione autenticamente totalitaria. Il problema della «diarchia» non ricevette mai una precisa definizione giuridica, pienamente favorevole al fascismo, neanche negli ambienti giuspolitici italiani, ormai simpatizzanti per il Führerprinzip nazionalsocialista151. Invano, Ugo Spirito proponeva, nel 1941, l’ipotesi di un «ducismo» integrale, nella convinzione che non si potesse concepire un «regime totalitario che ne prescinda»152. Né aveva trovato acnefiche, e, potremo dire, spiritualmente poco italiane suggestioni del nazismo germanico e del suo Führer». 149 ID., La Regina Elena, «Il Tempo», 26 novembre 1963, poi in ID., Scritti su Casa Savoia, cit., pp. 197 ss., dove si fa riferimento al progetto, intrapreso tra novembre 1939 e febbraio 1940, dalla regina di «unire la sua voce a quella delle altre sovrane, per ottenere una sospensione delle ostilità e, poi attraverso un congresso, giungere alla pace». Più sfumato e più credibile il giudizio contenuto in ID., Nebbie e nubi sulla monarchia, cit., p. 43, dove si sostiene, che, come la maggioranza degli italiani, Vittorio Emanuele III accettò la guerra senza entusiasmo e «senza opposizioni». 150 D. FISICHELLA, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Roma, Nis, 1997, p. 170 151 E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., pp. 208 ss. Ma sulla necessità di parificare il regime fascista a quelli autenticamente totalitari, esistenti in Germania e nell’Urss, si esprimevano con convinzione Carlo Curcio e Carlo Costamagna, nelle voci del Dizionario di Politica, cit.: «Aristocrazia», I, pp. 169-172; «Capo del governo», ivi, pp. 390-392. Si veda anche, D. CANTIMORI, «Nazionalsocialismo», ivi, III, pp. 250 ss. 152 U. SPIRITO, Guerra rivoluzionaria , a cura di G. Rasi, Roma, Fondazione Ugo Spirito, 1989, pp. 121 ss.
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coglienza migliore l’ipotesi avanzata da Bottai, nel 1938, che significativamente aveva pensato di tagliare il nodo gordiano dei due poteri concorrenti, concentrando l’assoluta sovranità nella figura del monarca, non più «legato alla lettera di leggi e costituzioni»153. Avrebbe tracciato il bilancio di questo fallimento del totalitarismo italiano, proprio Mussolini, che, divenuto «piccolo Duce» di Salò, parlò della Marcia su Roma come di un’occasione mancata. Essa non fu sicuramente una «semplice crisi di Governo, un normale cambiamento istituzionale». Fu «qualche cosa di più» di tutto questo. Fu sicuramente un’«insurrezione», che però non sboccò in una vera e propria «rivoluzione», che si ha solo «quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato». E questo non accade nel 1922. Quando, il 31 ottobre di quell’anno, «le camicie nere marciarono per le vie di Roma, fra il giubilo acclamante del popolo, vi fu un piccolo errore nel determinare l’itinerario: invece di passare davanti al Palazzo del Quirinale, sarebbe stato meglio penetrarvi dentro». La «piccola svista» di allora, continuava Mussolini, avrebbe determinato la controrivoluzione monarchica. Per tutta la sua durata, infatti, «il fascismo, generoso e romantico, come fu nell’ottobre del 1922, ha scontato l’errore di non essere stato totalitario sino alla vetta della piramide e di aver creduto di risolvere il problema con un sistema che nelle sue applicazioni storiche remote e vicine ha palesato la sua natura di difficile e temporaneo compromesso». In questo modo, «la Rivoluzione fascista si fermò davanti ad un trono». Quella scelta sbagliata, che parve allora «inevitabile», determinò la fine del regime, e permise a Vittorio Emanuele di premeditare e compiere la sua «vendetta», quando il «complesso fascista» si indebolì, fino al punto di collasso, con il «corso sfortunato delle operazioni militari», con «i bombardamenti terroristici sulle città e i crescenti disagi alimentari»154. Ma il fatto che, nonostante l’epilogo del 25 luglio, l’aggressiva concorrenza politica del fascismo aveva danneggiato la Corona, in modo quasi mortale, non era sfuggito a Volpe, il quale, a proposito della Conciliazione del 1929, sottolineava che anche la conclusione dell’annosa «questione romana» si era risolta con un nuovo vulnus inferto al «piccolo Re», il quale la avvertì come una «diminuzione della Monarchia», una volta che le fosse venuta meno «la funzione, riconosciuta ad essa anche da repubblicani e socialisti, di rappresentare un principio, quello
153 G. BOTTAI, Diario, cit., pp. 122-123. Ipotesi che trovava qualche affinità con quella sostenuta dai cosiddetti «monarchici assolutisti», sui quali si rimanda a F. PERFETTI, Fascismo monarchico, cit., pp. 109 ss. 154 B. MUSSOLINI, Storia di un anno, cit., pp. 167-168; 182-183.
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della libertà civile» diverso se pure non opposto all’altro che aveva oltre Tevere «la sua massima incarnazione»155. Era una constatazione che contribuisce a farci meglio comprendere il malcelato sospetto con cui Volpe aveva accolto quell’evento, che pure era stato chiamato a celebrare, quasi ufficialmente, e sicuramente per alta investitura, sulle colonne di «Gerarchia» in un articolo comparso nel febbraio 1929156, che recepiva, certo con minore asprezza, le preoccupazioni del fronte laico guidato da Giovanni Gentile per il contenuto dei patti concordatari157. Certo, poco o nulla c’era in quell’articolo della vibrata e dolente opposizione del filosofo, ma in quelle pagine si sosteneva, nondimeno, che nell’accordo tra Stato e Chiesa non mancava «materia di dubbi» per chi si metteva «dal punto di vista dello Stato e della vita laica, che non è, poi, quella cosa vile che parrebbe a sentir certi convertitissimi dell’ultima o penultima ora», anche se si aggiungeva, subito dopo, di credere che «il fine senso politico della Chiesa avverta da sé certi limiti da non oltrepassare senza rischio, di ciò che oggi può chiedere alla coscienza degli italiani» e di essere persuaso che «lo Stato italiano, con l’alto sentimento di se stesso che ha raggiunto, pur dando alla Chiesa più largo campo di muoversi, anzi, appunto per questo, vigilerà che essa non trabocchi». Al plauso politico per la firma degli accordi lateranensi, che risolvevano la lunga e dolorosa lacerazione spirituale della nazione italiana, Volpe faceva seguire tuttavia la messa in guardia contro il pericolo che il Concordato, «come ogni atto di coraggiosa innovazione», portava nelle sue pieghe: «pericolo che si rimettano in discussione beni ormai acquisiti dallo spirito moderno; pericolo che, per reazione, si determini nuovamente quel diffuso stato d’animo da cui, in altri tempi, trassero alimento anticlericalismo e massoneria, cose che vorremmo considerar pur esse passate». Se dunque gli accordi del 1929 avevano interrotto la guerra guerreggiata tra potere spirituale e potere civile, quest’ultimo non doveva abbassare la guardia per la difesa delle sue irrinunciabili prerogative nel campo della cultura e della scuola e della sua autonoma missione di educazione e di civilizzazione. Chi può pensare che lo Stato lascerà la Chiesa arbitra della capacità civile e professionale dei cittadini? Che esso consentirà a misurare tutti i valori della
155 G. VOLPE, Vittorio Emanuele e Mussolini, cit., p. 194. 156 ID., Il patto di S. Giovanni in Laterano, «Gerarchia», febbraio 1929, ora in ID., Pa-
gine risorgimentali, cit., II, pp. 269 ss. Sul punto, R. DE FELICE, Mussolini il fascista. II. La conquista del potere, cit., pp. 418-419. 157 S. ROMANO, Giovanni Gentile, cit., pp. 318 ss.; G. TURI, Giovanni Gentile, cit. pp. 393 ss. Sul punto, anche, P. SIMONCELLI, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso (19281938). Appendice, 1944-1949, Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 38 ss.
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vita col metro che il cattolicesimo, per quanto religione dello Stato, gli offre? Che esso vorrà essere la luna, che il sole, cioè la Chiesa, illumina? Che esso si ridurrà ad essere braccio, mentre deve essere anima e spirito, autorigeneratore di valori morali? Che vieterà o lascerà vietare ai filosofi, anche a quelli delle sue scuole, di filosofare in modo diverso dalla filosofia della Chiesa? Che imporrà agli storici e ai maestri di storia ed agli scrittori di testi scolastici di attenersi alla spiegazione trascendente anziché alla spiegazione umana dei fatti umani, sia pure che questa lasci aperta la via per altra spiegazione? Che porterà la confusione nelle scuole medie superiori, introducendo un insegnamento dogmatico della religione, mal conciliabile con gli altri insegnamenti? Noi non lo pensiamo. Cioè noi non pensiamo che oggi si vada a Canossa158.
Erano riserve di non piccolo conto, come avrebbe evidenziato Salvemini159, che ritroveremo ancora espresse nelle opere storiche sul fascismo del 1932 e del 1939160, alle quali faceva riscontro, nel 1933, la provocatoria iniziativa di Volpe di conferire un riconoscimento, nell’ambito dell’Accademia d’Italia, a Ernesto Buonaiuti, in quel momento bandito dalla vita intellettuale della nazione a causa della sua eresia politica e religiosa e per servile ossequio alle direttive provenienti da oltre Tevere, alle quali la recente intesa tra Stato e Chiesa avevano dato inusitato vigore161. Riserve che, anche se mai toccavano l’insieme dello status quo politico che il fascismo aveva determinato, provocavano un nuovo allontanamento dalla strada maestra della politica mussoliniana e un conseguente, definitivo, esilio di Volpe dal ruolo di portavoce uf-
158 G. VOLPE, Il patto di S. Giovanni in Laterano, cit., pp. 283-284. 159 G. SALVEMINI, Il duce e il papa. La fine di un idillio, «Outlook and Indipendent»,
9 ottobre 1929, ora in ID., Scritti sul fascismo, II, cit., p. 428, dove si metteva in risalto il turbamento di «Gioacchino Volpe, professore di storia all’Università di Roma, intimo amico di Mussolini e segretario della testè sorta Accademia d’Italia» per la strategia dei «cattolici, che mentre si avvalgono dell’art. 43 del Concordato per sottrarre la gioventù al controllo del partito fascista, invocano l’art. 36 affinché le scuole statali siano disciplinate secondo i loro desideri». 160 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1932), cit., pp. 141 ss.; ID., Storia del movimento fascista (1939), cit., pp. 151 ss. 161 Ernesto Buonaiuti a Gioacchino Volpe, Roma, 18 marzo 1933, CV: «Il carissimo Margheri mi dà notizia della proposta a mio favore ch’Ella ha sottoposto all’Accademia e ha strenuamente e vittoriosamente difeso e patrocinato nella prima convocazione delle Sezioni: la nuova mi riempie di commozione e ammirata gratitudine. Il gesto che Ella ha compiuto è di una tale elevata nobiltà e di una così squisita cavalleria culturale e scientifica che, a prescindere da quale sia per esserne l’esito definitivo, io debbo dire immediatamente a V. E. la parola della mia riconoscenza. Ne sono lusingato e incoraggiato. Ne sono soprattutto rafforzato e infervorato nel sentimento di ammirazione che ho sempre nutrito per V. E. come uomo e come scienziato». Ricordiamo che Buonaiuti era stato allontanato dall’insegnamento universitario nel 1931, per aver rifiutato il giuramento al regime ma anche per pressioni dei vertici vaticani.
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ficioso delle scelte del regime. Da questo momento la fronda dello storico avrebbe scelto come campo d’azione il terreno più specificatamente culturale, non perdendo, però, mordente ma anzi guadagnando incisività e rigore. Dalla politica l’azione di Volpe si spostava alla storia, anche se «attuale» e «immediata», nel tentativo di arginare il processo di integrale fascistizzazione della società italiana, per quello che riguardava il suo presente e la ricostruzione del suo passato prossimo e più lontano. Tentativo che era già costato a Volpe una censura da parte del «Popolo d’Italia», nel 1921, per un articolo che contestava quella «identità già allora affermata fra Fascismo e Nazione»162, e che ora accomunava la sua posizione a quella di altri esponenti nazionalisti, che, come Corradini, respingevano ogni frettolosa assimilazione tra Italia e fascismo, insistendo sul fatto che il nuovo regime doveva contenere al contrario «meno Fascismo e più Italia, meno Partito e più Nazione, meno Rivoluzione e più Costituzione»163. La tesi della lunga durata della nazione italiana non poteva non entrare in rotta di collisione con l’antistoricismo di «certe avanguardie o ali di fascisti… troppo fascisti, per i quali l’Italia nasce attorno al 1920 o, tutt’al più, nel 1914-1915»164. E dimostrava bene questa irriducibile discrasia la pubblicazione di Italia in cammino nel 1927, dedicata all’ultimo cinquantennio della nostra vicenda storica, con un radicale taglio cronologico del progetto originale che avrebbe invece dovuto estendersi dal Medioevo alla Grande Guerra165. Quell’opera avrebbe ricevuto una freddissima accoglienza da parte di Mussolini166, e suscitato, al contrario, l’entusiastico giudizio di Gentile, che si rallegrava del fatto che «che la nostra letteratura possegga ora un volume come questo, di storia nazionale, viva, moderna, commossa, nuova, che si fa leggere come un romanzo pur essendo ricchissimo di concetti e conoscenze storiche solide e organiche»167. Anche gli ambienti più attenti e meno infeudati della cultura fascista, come i collaboratori della rivista «Vita 162 G. VOLPE, Vittorio Emanuele III e Mussolini, cit,, p. 192. 163 L. FEDERZONI, Italia di ieri, cit., p. 17. 164 G. VOLPE, Ripensando al Congresso fascista, cit., p. 305. 165 Gioacchino Volpe ad Alessandro Casati, Santarcangelo di Romagna, 22 ottobre
1923, in FAC: «In questi giorni, ho finito il volume Italia che nasce (XI-XIV sec.), che è il 1° volume dell’Italia in cammino, Il resto verrà… dopo. Non si può dir un lavoro originale; ma sufficientemente organico: è il quadro che ho preferito». 166 Volpe aveva inviato il volume a Mussolini, tramite il fratello del Duce, Arnaldo, ricevendone questo stringato ringraziamento dal parte del capo della Segreteria particolare, Alessandro Chiavolini, il 5 maggio 1927: «S. E. il Capo del Governo ha molto gradito il suo interessante libro, L’Italia in cammino, fattogli pervenire a mezzo del Gr. Uff. Arnaldo Mussolini, e la ringrazia per il cortese omaggio». Il messaggio è conservato, in SPD. 167 Giovanni Gentile a Gioacchino Volpe, Roma, 28 settembre 1927, CV.
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Nova» (fondata dal ras del fascismo emiliano Leandro Arpinati e diretta dal filosofo attualista Giuseppe Saitta) lodavano quel lavoro ma preferivano leggerlo solo in termini di denuncia dell’insufficienza della vecchia classe politica liberale, che aveva prodotto una nazione unicamente «fatta come edificio esteriore», nella quale rapidamente era «svanito ogni impeto di idealismo, svanita quella saldezza di fede che aveva generato miracoli di apostolato e miracoli di realizzazioni politiche, svanito l’amore delle armi e quel vivace spirito militare che nei più umili avevano agito spesso da impulso istintivo a risorgere, e negli uomini più colti e consapevoli s’erano fusi con la riflessione che la guerra, oltre che dura necessità di raggiungere l’indipendenza, è scuola di energia e di obbedienza, attività edificatrice per eccellenza»168. Volpe, invece, presentava la sua opera, nella corrispondenza con Widar Cesarini Sforza (un altro intellettuale nazional-liberale, collaboratore dell’«Azione»), non unicamente come impietosa critica delle piaghe della «Terza Roma»169, che soltanto il fascismo sarebbe riuscito a cauterizzare con i carboni ardenti della rivoluzione170. Nella lettera, si sosteneva, al contrario, di aver soprattutto cercato di delineare «qualche linea guida dell’Italia di anteguerra e di aver lumeggiato a sufficienza i movimenti ideali attraverso i quali si mostrò allora il volto di un Italia in via di rinnovamento e del vario rimescolarsi dai quali è nato l’ordine presente»171, aggiungendo di aver mirato, sopra ogni cosa, a dimostrare la «continuità» tra l’Italia di oggi e quel «che si fece e si pensò nell’Italia di prima della guerra»172. Nessuna, o soltanto una scarsissima concessione a una precisa tendenz politica era contenuta nel saggio di
168 F. D’AMATO, L’Italia in cammino, in «Vita Nova», 1927, 3, pp. 705 ss. 169 Gli argomenti di quella polemica erano già saldamente radicati nella coscienza na-
zionale, ben prima dell’avvento del fascismo, per riacutizzarsi e farsi dirompenti dopo il 1922, come ha dimostrato, E. GENTILE, La grande Italia, cit., pp. 66 ss. e passim. Sul punto, si veda anche G. BELARDELLI, La terza Roma in Miti e storie dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1999, in particolare pp. 13 ss. 170 Si veda F. MAGGIORE, Volontà d’impero, in «Vita Nova», 1926, 2, pp. 5 ss., dove, pour cause, le critiche all’Italia post-risorgimentale si estendevano anche alla Destra storica, che si era rivelata drammaticamente sprovvista di una «visione profonda dei destini della patria» e di un «programma che mirasse ad edificare l’avvenire». 171 Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Roma 17 maggio 1927, AWCS. 172 Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Roma 1 giugno 1927, ivi. Si veda anche Gioacchino Volpe a Curzio Malaparte, 16 maggio 1927, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (d’ora in poi, BNCR), A22929: «Egregio amico, Le mando una copia della mia Italia in cammino. E ci tengo che Lei la legga e che La conquista dello Stato ne dica qualche cosa. È materia viva, suscettibile di giudizio anche da parte di chi non faccia professione di storico. Mi pare di avere, attraverso la cronaca dell’anteguerra, ritrovato qualche linea direttiva dell’oggi».
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storia italiana dal 1815 al 1915173, che, in quello stesso carteggio, Volpe paragonava, senza esitazioni, al Medio Evo, comparso in quello stesso anno, sottolineando l’affinità tra le due opere e la presenza in esse di «certa linea unitaria, un certo superamento dei quadri e ripartizioni tradizionali; una discreta elaborazione della materia storica (storia politica, nel senso integrale, pregnante della parola)»174. Ribadiva l’estraneità dello storico a una messa in tutela politica della sua attività anche la successiva polemica contro Croce, a proposito della pubblicazione della Storia d’Italia di quest’ultimo, quando la recensione di quell’opera, elaborata con grande circospezione da Volpe, faceva la sua comparsa sul «Corriere della Sera» del febbraio 1928175. Quell’intervento, che il filosofo ritenne addirittura una concessione alla persecuzione organizzata dalla «parte fascistica» nei suoi confronti176, suscitava invece la violentissima reazione del Segretario del Pnf, il quale comunicava al suo autore l’intenzione di procrastinarne, sine die, l’ammissione nei ranghi del partito per l’inaffidabilità dimostrata nuovamente in quell’occasione.
173 Soltanto nella Prefazione, datata alla Pasqua di resurrezione del 1927, si ricordava,
comunque, che il «retaggio di una Italia che il soffrire di secoli, lo sforzo di una minoranza eroica, il duro lavoro quotidiano di tutti i suoi figli, la sanguinosa guerra hanno fatto sacra» era ora affidato alla «nuova più energica temperie morale di cui il Fascismo è espressione e fattore consapevole». Si veda G. VOLPE, L’Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio, Milano, Treves, 1927, p. VIII. 174 Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Roma 1 giugno 1927, cit. Per un esame dell’immediata e vasta fortuna di Italia in cammino anche negli ambienti antifascisti, rimando al mio, Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 132 ss. 175 La recensione, non era un’iniziativa di Volpe, ma era stata richiesta dalla direzione. Si veda la lettera di Volpe al direttore del giornale, Mario Maffi, del 26 gennaio 1928, in ACorsera. Per le cautele di Volpe nell’affrontare quella materia sulle colonne del quotidiano milanese, si veda sempre la corrispondenza con Maffi, del 15 febbraio 1928, ivi: «Non mi è stato, poi, facile trovare un punto di vista adeguato per giudicare, e al bisogno criticare il volume di Croce. […] Il pezzo che mando ora sarà, io calcolo, due colonne e un quarto. Non mi è stato possibile restringerlo, a voler dare idea un po’ esatta e dare ragione delle manchevolezze del libro. Ma chissà che, dato l’interesse che esso libro ha destato, non si possa violare la legge delle due colonne». L’articolo, comparso sul «Corriere della Sera» del 7 febbraio 1928, veniva poi ampliato e posto come prefazione alla nuova edizione di Italia in cammino, Milano, Treves-Tuminelli, 1930. Sul punto, ID., Storici e maestri, cit., pp. 226; 244; 264 ss. 176 B. CROCE, Vent’anni fa. Ricordo della pubblicazione di un libro, in ID., Nuove pagine sparse, cit., I, pp. 399-400: «Uno studioso di storia, che era stato collaboratore della Critica, divenuto fascista, fu incaricato di scrivere del mio libro sul Corriere della Sera; ed il suo articolo io definii “il parallelogramma delle forze tra due paure”, cioè tra la paura del regime e la non dismessa soggezione verso di me; ma se io mi soddisfeci in questo detto scherzoso e non pensai più alla cosa, la parte fascistica dovè accentuare diversamente il suo scontento, e lo scrittore si affrettò a pagare l’ammenda con la prefazione che mise a un suo volume, nella quale la riverenza era affatto spenta».
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Ho letto e riletto oggi il suo articolo sulla Storia d’Italia di Benedetto Croce. Se dovessi giudicare la sua ammissione nel Partito da tale scritto, non le nascondo che dovrei dare parere nettamente contrario. Non bastano le ultime due righe dell’articolo per far cambiare la impressione che si riporta dalla lettura di tutta la nota critica. Il libro del Croce è la esaltazione di tutto quello che abbiamo combattuto e per fortuna trasformato: è l’affermazione di uno spirito e di una concezione antitetica alla nostra. Era doveroso combatterne decisamente la premessa e le conclusioni177.
Eppure, quel resoconto, ancora prima della sua pubblicazione, era apparso a molti come la classica pugnalata alle spalle, inferta a Croce, da chi, come Volpe, si era attenuto a un ordine superiore, di carattere strettamente politico, come sosteneva Giovanni Ansaldo, che pure di lì a poco sarebbe transitato nelle fila fasciste, quando scriveva a Giustino Fortunato: «Mi hanno detto che sia stato conferito da alto loco incarico al Volpe di stendere una specie di risposta alla Storia del Croce. Se fosse vero, dimostrerebbe che botta dritta ha tirato»178. Si trattava di una leggenda, e sicuramente di una leyenda nigra, che non teneva conto del contesto che aveva determinato l’episodio. La nota del 1928 non era infatti che l’ultimo atto di una serie di ostilità tra Volpe e Croce, prolungatasi negli anni precedenti, di cui una buona parte della responsabilità ricadeva sull’intellettuale napoletano. Come si è già osservato, aveva dato via al dissidio, che si nutriva sicuramente di forti ragioni politiche e culturali, ma anche squisitamente personali, il caso De Ruggiero, nel 1924. E quella scintilla aveva provocato un vero incendio, che Croce avrebbe alimentato senza interruzioni, dopo aver finito per poco o nulla gradire l’omaggio di Volpe che, nel luglio 1923, in occasione del conferimento della laurea onoris causa, conferita dall’Università di Oxford al filosofo, aveva definito il suo pensiero come il lievito che aveva fatto germogliare lo spirito della nuova Italia e quindi anche dell’Italia fascista179. In quelle pagine, che costarono a Volpe l’ostilità del fascismo intransigente180, si invitavano tutti, «tesserati e no», ma in particolare i «giovani fascisti» a non dimenticare la durissima, ma salutare, lezione impartita nelle Pagine sulla guerra, con «la critica tagliente alla volgare ideologia o teologia intesista, a base di “libertà” e “giustizia”, di “umanità” e di “principi”», con 177 Augusto Turati a Gioacchino Volpe, 1 marzo 1928, CV. 178 Giovanni Ansaldo a Giustino Fortunato, 14 febbraio 1928, in G. FORTUNATO, Car-
teggio, 1927-1932, a cura di E. Gentile, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 96. 179 G. VOLPE, Onore ad un italiano ed all’Italia, «Il Popolo d’Italia», 8 luglio 1923, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 293 ss. 180 ID., Postilla del 1928, ivi, pp. 298-299. Si veda anche, Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, [luglio 1923], in CV. Sul punto, R. COLAPIETRA, Benedetto Croce e la politica italiana, Bari, Santo Spirito, 1969-1970, 2 voll., II, pp. 482 ss.
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l’opposizione intransigente al «moralismo di quelli che intendevano e intendono la storia come un tribunale affaccendato a distribuire sentenze di assoluzione e di condanna e certificati di buona condotta», soprattutto con l’energica affermazione della «vita come lotta e il riconoscimento che questo concetto, trasportato da Marx dalla periferia al centro, cioè alle classi sociali, stava ritornando dal centro alla periferia, cioè ai rapporti fra gli Stati e le nazioni»181. Veramente ingenuo era pensare, che Croce conservasse, dopo la svolta del 1925, gratitudine per quelle parole. A quell’elogio, pronunciato sicuramente in buona fede, e anzi per difendere il direttore della «Critica» dai furiosi assalti dell’estremismo fascista di Malaparte182, Croce rispondeva, infatti, attaccando e attaccando con durezza negli anni successivi, come accadeva nel 1925, quando assimilava, senza sfumature, la nuova storia politica di Volpe alla più vieta e sorpassata tradizione della Staatsgeschichte, aggiungendo questo pungente commento: Di recente ho veduto che uno dei migliori nostri scrittori di cose storiche, il Volpe, si è argomentato di superare l’unilateralità della storiografia così detta “sociale” o “giuridico-economica”, che prima esso ed altri coltivavano, con la storiografia “politica”, o “dello Stato”, che dovrebbe compierla o risolverla in sé. Tentativo già fatto da storici tedeschi come il Treitschke, il Sybel e gli altri, e non riuscito a pieno, perché non poteva riuscire. Giacché i concetti stessi della politica e dello Stato debbono essere innalzati a concetti filosofici della politica e dello Stato, cioè alla filosofia nella sua totalità e unità; e solo così la storiografia si muove in ampi orizzonti e respira l’aria che le conviene. All’impe-
181 G. VOLPE, Onore ad un italiano ed all’Italia, cit. p. 298, dove l’ultimo riferimento
era a B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, e segnatamente alla Prefazione del 1917, dove, si manifestava l’ammirazione per il «vecchio pensatore rivoluzionario», che «intese come anche ciò che si chiama rivoluzione, per diventare cosa politica ed effettuale, debba fondarsi sulla storia, armandosi di forza e di potenza (mentale, culturale, etica, economica) e non già confidare nei sermoni moralistici e nelle ideologie e ciarle illuministiche». 182 A. SOFFICI, Battaglia fra due vittorie, preceduto da un Ragguaglio sullo stato degli intellettuali rispetto al Fascismo di C. Suckert, Firenze, Società Anonima Editrice “La Voce”, 1923, pp. XXII: «La nostra rivoluzione, si badi, era ed è più contro Benedetto Croce che non contro Buozzi o Modigliani. Il giorno in cui abbiamo vinto, il nostro torto è stato di non mostrare al popolo e alla borghesia come giallastro è il sangue dei filosofi e dei poeti prudentissimi, dei retori tronfi, dei laici dubbiosi, dei chierici increduli, dei sofisti pieni di cautele e di riguardi. È stato di non mostrare agli italiani, i quali delle rivoluzioni han sempre avuto un sacro orrore, che le rivoluzioni si fanno anche contro il parere e i programmi degli enciclopedisti, anzi contro, e che non vale usar la critica e la logica quando è tempo di menar le mani; sono argomenti retorici buoni in tempi buoni, non già quando la sommossa urge alle porte della città e chiede di far giustizia dei giudici, dei dottori, degli affamatori, dei traditori». Sulla battaglia «anti-intellettuale» di Malaparte, si veda G. PARDINI, Curzio Malaparte. Biografia politica, Milano-Trento, Luni Editrice, 1998, pp. 97 ss.
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rativo che la storiografia debba essere filosofica, non si sfugge per nessuna via183.
Il dissidio era, a questo punto profondo e non più componibile. Da un lato la storia «etico-politica» di Croce, che segnava la definitiva presa di distanza dalla «storia come storia peculiarmente politica»184, dall’altro un modello storiografico, come quello di Volpe, che della sfera politica rivendicava con forza l’autonomia irriducibile, anche se soltanto a condizione di vederla profondamente irrelata ai molteplici fattori che condizionavano la vicenda umana, tanto da far ipotizzare il superamento e l’integrazione della vecchia partizione tra momento politico e momento sociale, fino ad allora considerati soltanto nel loro splendido isolamento, con grave danno degli studi, perché «quella storia politica riusciva anemica, astratta, arida, e quella storia sociale era quasi priva del senso dello Stato, cioè del tutto che condiziona quella storia o a cui quella storia in vario modo fa capo»185. Due anni più tardi, nell’autunno del 1927, la polemica si rianimava a proposito dell’antologia di Pio Schinetti dedicata a Giuseppe Ferrari186. Recensendo quel volume, Volpe aveva contrastato il giudizio di Croce187, sfavorevolissimo a Ferrari, sottolineandone l’imbarazzo a valutare obiettivamente un autore che spezzava con la sua presenza la ricostruzione della storia del Risorgimento fornita dal filosofo, in quanto non poteva essere inserito a forza «né tra i neoguelfi né tra i ghibellini»188. Alla critica seguiva la risposta di Croce, dove, dicendo a suocera quello che la nuora doveva intendere, si tornava a svalutare il pensiero di Ferrari e di conseguenza ad accusare i suoi novissimi estimatori di essere privi completamente di «sistema o ordine mentale»189. Peggio erano andate, le cose nel luglio di quello stesso anno, allorché Croce, pubblicava un commento del volume, Il comune di Firenze alla fine del Dugento, opera di Nicola Ottokar. Per il filosofo, quella era infatti l’occasione di rettificare drasticamente, sotto la parvenza di confermarlo, il giudizio sostanzialmente favorevole a Volpe, apparso nel 1915, affermando:
183 B. CROCE, Filosofia e storia (1925), in ID., Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 303-304. 184 ID., Storia economico-politica e etico-politica, in ID., Etica e politica, cit., pp. 318 ss., in particolare p. 324. Il saggio era comparso nel «La Critica» del 1924. 185 G. VOLPE, Momenti di storia italiana, cit., pp. VI-VII. 186 P. SCHINETTI, Le più belle pagine di Giuseppe Ferrari, cit. 187 Il giudizio di Croce è in ID., Conversazioni storiche, Bari, Laterza, 1918, pp. 61 ss. 188 G. VOLPE, Ritorno di Ferrari?, cit. 189 La replica di Croce appariva in «La Critica», XXVI, 1928, p. 370.
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Come è noto, la penultima fase della storiografia italiana moderna, quella che era riccamente rappresentata e prevaleva fino a una diecina d’anni or sono, s’intitolava dalla “scuola economico-giuridica”; e io, nella mia Storia della storiografia italiana, mi feci a provare che si era formata sotto l’influsso del socialismo e del suo materialismo storico, e a questo rimaneva inconsapevolmente ma fondamentalmente legata, e delle angustie di questo soffriva. Ingegni non filosoficamente armati, i suoi cultori (il Salvemini, il Volpe, il Caggese e gli altri) soggiacevano alla filosofia che aveva corso nei loro anni giovanili, nel partito politico al quale avevano dapprima appartenuto o inclinato, sebbene qua e là, episodicamente, sentissero altre esigenze e risentissero l’efficacia di altri pensieri190.
Volpe prendeva atto dell’affronto subito, cocente soprattutto, mi pare, per l’accostamento del suo nome a quello di Romolo Caggese, e replicava immediatamente a Croce in una lettera privata. Mi consenta di considerare un po’ spicciativo e non equo e neppure coerente con altri giudizi suoi, l’ultimo giudizio che leggo sulla Critica del luglio, a proposito del libro di Ottokar. Non credo io di aver mai “soggiaciuto” alla filosofia che aveva corso nei miei anni giovanili, anche se molto mi interessai e non poche ispirazioni attinsi al movimento sociale italiano di quel tempo. Con mio danno e mia vergogna, ho sempre letto poco di filosofia. Quando scrissi il mio volume su le Istituzioni comunali a Pisa, in cui c’è presso a poco tutto quello, in bene e non bene, che sarei diventato poi, non avevo neppur letto il suo saggio sul Materialismo storico, che fu la prima lettura che poi feci su l’argomento. E nel 1903 già scrissi quel mio lavoretto sul Bizantinismo e Rinascenza su cui lei – e conservo ancora la cartolina – si pronunciò con parole che mi riempirono di orgoglio. Poco dopo buttai giù la critica di Arias e quella di Caggese. E tutto questo le pare che fosse “soggiacere” alla filosofia del materialismo storico? E autorizza a mettermi nello stesso mucchio con Salvemini, Caggese e gli altri, cioè con quelli che davano “rilievo esclusivo o esagerato o talora immaginario” ai conflitti economici dei gruppi e alla così detta lotta di classe; con quelli che “nella storia greca come nella fiorentina, in quella di Roma come in quella di Sicilia, ritrovavano senza intoppi grande proprietà terriera, capitalismo, grassi borghesi, piccoli borghesi ecc., e facevano giocare queste categorie come pezzi di una scacchiera e spiegavano a questo modo ogni configurazione e ogni processo storico”? Salvemini, Caggese e gli altri terranno ad essere essi e non Volpe, ma anche Volpe tiene ad essere Volpe e non Salvemini, Caggese ed altri. Un po’ di confusione o mancanza di necessaria distinzione ci fu – almeno a giudizio di altri – anche nel capitolo relativo della Storiografia italiana nel secolo XIX; ora la confusione pare eccessiva anche a me e mi fa pensare che la penna di Benedetto Croce sia andata oltre il suo stesso pensiero. Altrimenti dovrei
190 La recensione di Croce a N. OTTOKAR, Il comune di Firenze alla fine del Dugento, Firenze, Vallecchi, 1926, veniva pubblicata nella «La Critica», XXV, 1927, pp. 238 ss.
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richiamarmi dal Croce del 1927 al Croce che scriveva e parlava in altri anni, anche negli anni di quella tal mia, ormai passata, giovinezza, che erano poi gli anni in cui io, sì veramente, qualche cosa assorbii dall’ambiente del tempo, pur senza mai “soggiacere” a nessuna filosofia, né cattiva né, ahimé!, buona. A costo di proclamarmi, come è vero, il più ignorante fra gli ignoranti, tengo a rivendicare a me stesso e solo a me quel poco di buono che ho fatto. Spero lei non mi vorrà troppo male di questa mia amichevole protesta che non avrei fatto per giudizi di altri meno dotto e intelligente191.
Il cenno di cortesia con cui si concludeva la corrispondenza poco poté su Croce, che rispondeva irritato, debordando largamente sul terreno politico, nel ricordo dell’ormai imbarazzante elogio di Volpe del 1923192, e che rafforzava gli argomenti della sua critica, con sufficienza, e peggio dando l’impressione di voler fornire una lezione ex cathedra, all’antico allievo volenteroso, ora irrimediabilmente sviatosi, dopo essersi platealmente rivelato uno «storico senza filosofia». Comincio col dichiararvi francamente che sono stato sospeso se rispondere o no alla vostra lettera. Io ho da rimproverarvi qualcosa verso di me che voi non potete certo rimproverare a me verso di voi. Lascio stare la politica vostra, della quale voi assumete la responsabilità: la politica non mi vieta di serbare affettuosi rapporti con amici che seguono in buona fede un ideale assai diverso dal mio. Ma mi venne sott’occhio un vostro articolo nel quale scrivevate che io avevo “civettato col fascismo”. E voi sapete certo che questo non è vero, che io non ho mai carezzato, o adulato o in qualsiasi modo mi sono offerto al fascismo, e anzi ho lasciato sempre cadere le avances a me fatte. Ho bensì per certo tempo sperato e creduto che esso non si sarebbe sostanzialmente allontanato dalla via liberale dell’Italia, e questo, se mai, è amore (che mal si direbbe civettamento) per l’Italia della qual sono devoto figliolo. Pure, sulla mia esitanza iniziale prevalgono le memorie della lunga amicizia, il ricordo di avervi conosciuto giovanissimo e di aver seguito con vivo interesse i vostri lavori, e anche la considerazione equitativa che forse il vostro torto non fu nel sentimento ma nell’avere usato una parola sommamente impropria; e vengo dunque alla questione scientifica. La quale è risoluta da voi quando confessate di non aver mai fatto studi filosofici, perché saprete che Manzoni dimostra che alla filosofia nessuno può sottrarsi e che chi non la studia riesce soltanto ad essere (parole del Manzoni) “servitore senza livrea”, ossia un inconsapevole seguace di sistemi filoso-
191 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, 15 agosto 1927, ABC. 192 Nella Postilla del 1928, Volpe avrebbe comunque ribadito il suo giudizio sulle pre-
cedenti, innegabili, simpatie di Croce per il fascismo e soprattutto sull’importanza della sua azione per aver prodotto il movimento ideale che ne aveva secondato, almeno parzialmente la genesi, concludendo che il voler negare questi dati di fatto, equivaleva a concludere che « la sua opera è stata presso che sterile e che il bilancio della sua vita di scrittore si chiude in passività…».
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fici… Cosicché, non meditando filosofia e non criticando filosofia, voi subiste (com’era naturale, e fu allora progresso) il materialismo storico che era nell’aria, cioè in tutto l’ambiente culturale italiano. Vero è che vi sforzaste sempre, e fin dai primi passi di allargarlo, procedendo per aggregazione di nuovi elementi; e questo sforzo vostro, simile o anche maggiore di quello di Salvemini, a me piaceva e ad esso ho dato rilievo quando ho trattato di proposito del Salvemini e di voi. Ma ampliare con particolari, aggregare elementi, non è mutare e sostituire il principio, perché, per fare ciò, sarebbe stato necessario accogliere profondamente la filosofia idealistica, che critica il materialismo storico e lo sostituisce. Tanto vero che (e mi pare di aver accennato questo in uno dei due fascicoli dell’anno passato della “Critica”), siete venuto ora alla storia in fondo dei Treitschke e degli altri nazionalisti tedeschi (che erano sotto il diretto influsso dello hegelismo ortodosso e prussiano: sempre filosofia!), cioè ad un concetto altresì intrinsecamente materiale ed economico, che è l’opposto correlativamente dell’altro (come il nazionalfascismo è stato definito un bolscevismo capovolto). Il Salvemini cercò un’altra via di liberazione nell’astratto moralismo. Ma la storia, idealisticamente intesa, non è né economismo e statismo, né moralismo: è religione ed etica. È ovvio che questo non ha a che vedere col pregio che serbano i vostri lavori, i quali se in molti casi urtano nella difficoltà e nel limite (per es. il recente abbozzo di storia dell’Italia nuova), in altri non urtano perché girano al largo. Non spero di potervi subito far convinto con questi schiarimenti, che toccano punti difficili; ma spero di avervi posto innanzi quesiti su cui riflettere, e, a ogni modo, di aver mostrato che il mio giudizio si svolge con coerenza193.
Nonostante i tratti di ipocrisia, che contraddistinguevano quel messaggio, Croce aveva ormai formalmente pronunciato il dimettere amicitiam, in attesa di rincarare la dose nel giudizio su Italia in cammino, a cui in quella corrispondenza era riservato uno sprezzante riferimento, ripetuto anche in altri punti dell’epistolario194. A parziale replica, questa volta pubblica, Volpe esternava, nel febbraio del 1928, il suo giudizio sulla Storia d’Italia, puntando proprio sull’insuperabile alterità tra lo «storico filosofo» e lo «storico storico», proposta da Croce, quando ricordava come la Storia d’Italia troppo si concentrasse sulla «vicenda del pensiero» e troppo poco valutasse l’effettuale della «politica, dell’economia, del costume», creando «diseguaglianza e squilibrio» nel tentativo di delineare un affresco dell’Italia postunitaria, che più del giusto doveva alle «simpatie, alle antipatie, alle insensibilità, alle incompren193 Benedetto Croce a Gioacchino Volpe, 28 agosto 1927, CV, anche in B. CROCE, Epistolario, cit., I, pp. 140-141. La minuta della lettera, conservata in ABC, è segnata da una grafia nervosa e da molte cancellature, che testimoniano l’animo turbato dello scrivente. 194 B. CROCE, Epistolario. II. Lettere ad Alessandro Casati, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1969, p. 110, alla data del 23 maggio 1927: «Ho visto il libro del Volpe. Non c’è da trarne nulla».
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sioni» del suo autore. Di qui, in Croce, la mancata comprensione del crispismo e del nazionalismo (fenomeni troppo complessi per essere ridotti a «patologia» del vivere associato), l’elogio spesso acritico, e politicamente strumentale dell’operato di Giolitti195. Di qui, la sottovalutazione dell’evento bellico e dell’accamparsi delle moltitudini sulla scena politica nel dopoguerra. Errori ed omissioni, che si tramutavano in petizione di principio ideologica, in «battaglia per il liberalismo e per il metodo liberale e per i governi così detti liberali», in avversione «verso l’Italia d’oggi». Di qui ancora, come Volpe sosteneva nel 1930, in una diversa e ampliata versione di quella recensione196, il quadro nostalgico e idilliaco che Croce forniva della stagione della Destra e l’incomprensione per l’Italia dell’intervento, tra 1914 e 1915: «aspirazioni insoddisfatte, partiti in crisi, lo Stato in discredito, scontento diffuso verso il “liberalismo” giolittiano (misto di licenza e di dittatura!), insomma la vita di un popolo fatta di mille elementi, razionali e irrazionali, e non tutta rinsecchita nel quadro di alcuni schemi ideologici». Di qui, infine, l’incapacità di cogliere il nesso, di individuare i fattori che avevano portato dall’Italia dei notabili, posteriore al 1870, all’Italia delle «masse operaie e contadinesche» del primo dopoguerra ormai pronte a nazionalizzarsi, dopo aver abbandonato «il loro socialismo di una volta, già tutto gravitante verso l’internazionalismo e la lotta di classe». Troppo, continuava Volpe, nella Storia d’Italia si vedeva la mano del suo autore, il «suo ideale politico», il suo «temperamento di uomo». Un vizio di fondo, questo, che sotto diverso segno riappariva, in forma degradata, nella letteratura storiografica del regime, nella «“storia fascista”, invocata da taluni!», il cui obiettivo sembrava essere quello di «tradire il passato e illuminare di falsa luce anche il presente» e non certo quello di «cercar di vedere, nel passato, i segni affioranti del presente, gli interessi i sentimenti le passioni che poi sboccheranno in un nuovo ordine politico o in un nuovo modo di vivere, insomma la direzione che il corso storico accenna a prendere». Si trattava di un’opinione, molto più articolata di quella di Gentile, che sbrigativamente definiva il libro di Croce «contraddittorio», redatto «per partito preso di giustificare quella dissoluzione del liberalismo che anche in Italia è avvenuta attraverso il parlamentarismo», che 195 Benedetto Croce a Giuseppe Lombardo Radice, 27 gennaio 1928, in Epistolario. I, cit., p. 141: «Sono ben lieto che il mio libro vi sia piaciuto e vi sia parso utile. Concordo nel vostro giudizio sul Giolitti che è quello che io ho dato (cfr. anche le note). Ma ciò che, come storico, non potevo, è far colpa al Giolitti del suo limite: dire a un gran burocratico, abile e serio: “Tu dovevi essere un apostolo, un poeta, un filosofo”». 196 G. VOLPE, A proposito di storia d’Italia, seconda Prefazione a L’Italia in cammino, a cura di G. Belardelli, cit., pp. 5 ss.
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poi sarebbe stato clamorosamente tolto di scena «quando, con la dichiarazione della guerra all’Austria, l’Italia reale annullò l’Italia legale agonizzante nel Parlamento»197. Un’opinione che, invece, trovava forti assonanze in Salvemini, che, analizzando la Storia d’Italia su una rivista londinese nel marzo del 1928198, riconosceva a quel volume, che avrebbe definito in seguito «le opinioni del dottor Pangloss sulla storia d’Italia», il carattere di uno studio «preciso e ben strutturato», «pieno di senso pratico», che riduceva ad assurdo con la forza dei fatti le «menzogne della propaganda fascista». A questo tributo alla comune battaglia politica, facevano seguito tuttavia obiezioni di non piccola entità, che riguardavano proprio l’interpretazione crociana della crisi che avrebbe condotto alla genesi del regime di Mussolini: «Parlando, ad esempio, del periodo 1901-1915 Croce si sofferma sull’impressionante progresso economico che distinse quegli anni, ma trascura un altrettanto notevole regresso della vita politica e un lento ma costante aumento del discredito delle istituzioni parlamentari». Il resoconto terminava, sostenendo che «senza questo fattore il fascismo non avrebbe potuto verificarsi; e le sue origini devono essere ricercate nei dieci anni che precedettero la guerra». Per Volpe, come per Salvemini, che non lesinerà fino al 1943 parole di elogio per l’analisi dello «storico ufficiale della dittatura fascista»199, la causa dell’avvento della dittatura andava ricercato nella mancata modernizzazione culturale, civile, politica dell’Italia giolittiana, che non aveva saputo creare la cornice istituzionale adatta per normalizzare le impetuose e spesso anarchiche modificazioni della vita sociale del paese. Un giudizio, che Volpe, ripeteva immutato, ancora nei primi anni Cinquanta, in una lettera a Prezzolini, che gli chiedeva conto della dirompente polemica con Croce. Non ho mai scritto articoli su la fine di Croce, che sarebbe stata una scempiaggine. Ho solo scritto un articolo-rassegna sulla Storia d’Italia (“Corriere della Sera”), svolto poi nelle pagine di prefazione che io apposi alla 2° edizione di Italia in cammino: una critica educata, là dove mi pareva criticabile, di quella storia, critica che mi pare valida ancora oggi. Il fallimento finale di idee, aspirazioni, spunti, che prima del 1914 si facevano strada in Italia ed entravano nel tessuto della sua vita, non vuol dire che Croce, in quel quadretto di maniera, tutto giolittiano, che fa dell’Italia di prima della guerra, avesse ragione a non ac-
197 Il giudizio è in «Giornale critico della filosofia italiana», IX, 1928, 1, pp. 79-80. 198 G. SALVEMINI, L’Italia dal 1871 al 1915, «Time and Tide», 16 marzo 1928, ora in
ID., Scritti sul fascismo, cit, II, p. 358. 199 G. SALVEMINI e G. LA PIANA, Duell Sloan and Pearce, New York, 1943, poi in traduzione italiana, con il titolo di La sorte dell’Italia, Roma-Firenze-Milano, Edizioni U, 1945, pp. 76-77.
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corgersene, come non esistessero. Il rimprovero che gli facevo era di aver fatto della polemica retrospettiva, aver delineato la storia d’Italia attorno al 1910 secondo i gusti e le tendenze del posteriore Croce antifascista200.
A questa chiave di lettura, che costituiva l’essenza dell’intervento del 1928, dove solo una volta ricorreva la parola «fascismo», Croce ribatteva, l’anno seguente, con un violento attacco contro Volpe201, che questi recepiva con rassegnato disappunto nella corrispondenza con Gentile202. L’attacco di Croce toccava gli studi sul Medioevo e più profondamente L’Italia in cammino. Un’opera, che era definita il ritratto di una nazione che appunto «non pensa, non sogna, non medita, non si critica, non soffre né gioisce, ma soltanto cammina», e quindi da accantonare come un prodotto deteriore, riconducibile nella sua ispirazione a una caricaturale versione dell’«hegelismo di estrema destra, a cui si attaccarono i conservatori prussiani per isvolgerne la loro teoria dello stato etico o prussiano», del quale l’imminente progresso storiografico avrebbe fatto giustizia. Le trasformazioni morali e culturali, i problemi e le soluzioni della filosofia, le espressioni della poesia e della letteratura, le ragioni dei dibattiti circa la politica e le forme politiche, queste, e le altre cose come queste, rimangono estranee all’autore. Lo stesso concetto nazionalistico, al quale par che il Volpe voglia attenersi, non diventa il suo proprio e intimo criterio, e magari il suo fanatismo, nel qual caso, se non una storia, si sarebbe avuta una favola più o meno bella; ché egli lo prende all’incirca e con temperamenti, e non con l’assolutezza del sistema o della passione. Se il Volpe che mostrava talune attitudini di storico, sforzandosi di uscire dal materialismo storico e dalla scuola economico-giuridica, si è cacciato in una via che lo rimena sostanzialmente al materialismo storico, non crediamo che ci sia da sperare molto che da uomini educati a quel modo possa venire, per potenziamento o per crisi, la nuova storiografia; tanto più che essi ricevettero quella dottrina bell’e fatta, come un canone da applicare, e non si provarono a ripensarla filosoficamente, aprendo l’adito delle loro menti ai dubbi e alle eventuali eversioni e sostituzioni. Il nuovo pensiero storico italiano li lascia, dunque, indietro come prove di un indirizzo fallito203.
Era una sentenza di esecuzione sommaria, contro cui sarebbe insor-
200 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, Roma, 15 aprile 1952, AGP. 201 Il saggio, datato agosto 1928, veniva ristampato in appendice a ID., Storia della sto-
riografia italiana del secolo decimonono, cit., II, pp. 231 ss. 202 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Abetone, 12 dicembre 1929, AFG: «Hai letto la Critica ultima e come quel signore mi confonde le carte?» 203 B. CROCE, Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia, cit., p. 240.
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to Adriano Thilgher204, al quale Volpe inviava una lettera di ringraziamento nella quale si poteva misurare per intero la temperatura incandescente della polemica205. Una sentenza, comunque destinata, a una lunga, certo immeritata fortuna, e che non teneva conto di come Volpe, contro ogni allettamento e ogni pressione, proprio in quegli stessi anni avesse tenuto fermo sulla linearità della storia patria, dal Risorgimento alla stagione della Destra, persino alla stessa Italia giolittiana, valorizzando la logica intrinseca di un percorso che aveva conosciuto importanti momenti di accelerazione (tra 1915 e 1922), anch’essi destinati tuttavia a costituire fasi transitorie di un complesso ciclo di sviluppo, che escludeva che l’Italia potesse avere, come destinazione e come tappa finale del suo cammino, il regime personale di Mussolini secondo uno schema teleologico che faceva di ogni evento passato il remoto o prossimo precorrimento dell’oggi. Ritornava in tal modo, questa volta sul piano più strettamente storiografico, l’interpretazione del fascismo come fenomeno «transeunte», come evento privo di una sua fisionomia definita se non nel corto termine della crisi del dopoguerra, come semplice episodio d’eccezione della vita politica italiana, destinato presto o tardi a confondersi nella lunga durata della vicenda nazionale, ad essere riassorbito in essa, una volta ricomposte e superate le fratture e le modificazioni repentine determinate dall’industrializzazione, dall’inurbamento, dall’avvento politico delle masse nella vecchia struttura dello Stato liberale.
204 L’articolo di A. TILGHER, Croce contro Pais e Volpe, appariva in due puntate sul «Popolo di Roma» del 17 e 20 agosto 1929. In esso, mettendo a paragone le due Storie d’Italia, si scriveva: «Chiunque abbia letto i due libri non può onestamente non riconoscere che nell’Italia in cammino Volpe tenta di darci un quadro della vita italiana degli ultimi cinquant’anni afferrata e colta nel suo centro unitario, nel suo senso profondo ed essenziale, senza compartimenti stagni tra le varie attività dello spirito nazionale, senza distinzioni astratte e rigide; e nella Storia d’Italia, invece, Croce, per l’abito di troppo distinguere, lascia presso che da parte tutta la vita economica e sociale della Nazione e fa una storia meramente e strettamente politica di Governi, di Partiti, di ideologie politiche. Così appena qualche rigo è dedicato ad un fatto di così colossale importanza, non solo economica, ma anche morale, ideale, religiosa, come l’emigrazione. Il suo libro non ci dà mai la sensazione viva e profonda della vita italiana, colta nella sua concreta e pulsante unità: leggendolo, noi ci muoviamo in una vita tutta di superficie, irrigidita dalle distinzioni». 205 Gioacchino Volpe ad Adriano Thilger, 30 agosto 1929, BNCR, ARC 92142: «Mi è giunto il suo articolo su Croce e me. Contavo e conto di rispondere anche io a Croce e dirgli il fatto suo. Ma intanto lei ha rivelato certe incoerenze e storture del supercritico. Io non sono né Tacito, né Polibio, né Guicciardini, né Muratori, né Mommsen. Ma col suo bravo metro alla mano, Benedetto Croce potrebbe demolire tutti i Taciti, Polibi, Guicciardini, Muratori, Mommsen del mondo. E non so chi si salverebbe fra quanti, da Erodoto in poi, hanno scritto di storia: salvo lui, Croce».
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Non cerchiamo troppo lontano le origini del fascismo. Lasciamo in pace i “precursori”, si chiamino essi Giovanni dalla Bande Nere o Gian Galeazzo Visconti o Giulio Cesare. Se vogliamo proprio rifarci indietro, guardiamo tutta la storia italiana, in quanto rivela certe qualità e attitudini e tendenze del nostro popolo, masse o individui; guardiamo un po’ di più il XIX secolo, cioè il Risorgimento, con il suo sforzo di dare all’Italia coscienza piena di azione e di creare lo Stato unitario, con la sua potente aspirazione ad un presente e ad un avvenire pari al passato, con il suo giobertismo e il mito del “primato” o della “missione”, con i suoi elementi di socialismo nazionale, con il potente lievito idealistico del suo Mazzini, con il suo garibaldinismo e volontarismo. Ancora di più, guardiamo i 20 o 30 anni che precedono la guerra: cioè i partiti politici, le forme istituzionali, i gruppi sociali, i pensieri, gli ideali, che tennero il campo, eredità ormai logora del passato o formazione nuova. È di quel periodo una certa ascesa della grande massa del popolo italiano, che iniziava anche esso il suo Risorgimento, laddove ferma, diffidente, spesso ostile era stata nel primo più borghese e cittadino. Risorgimento politico del XIX secolo. I progressi dell’economia, la grande industria, il risveglio agricolo, lo sviluppo dei centri urbani, le agitazioni a fondo sociale, la stessa emigrazione, determinano o accompagnano questa ascesa, che è economica e intellettuale più che veramente politica, ma che appunto per questo comincia a determinare uno squilibrio fra l’Italia di fatto e l’Italia di diritto, fra “popolo” e Stato, popolo e governo, popolo e classe dirigente o classe politica206.
Il passo citato è del 1934, lo stesso anno nel quale Volpe aveva preso le distanze da uno degli autori cardine dell’«anti-risorgimento» del regime (Alfredo Oriani), o meglio dalla sua interpretazione in chiave di proto-fascismo autorizzata dallo stesso Mussolini207, suscitando la violenta reazione dell’intransigente rivista fiorentina «L’Universale» diretta da Berto Ricci208, che definiva «pietosa» la rievocazione fatta dallo
206 G. VOLPE, Le corporazioni fasciste, a cura di L. Lojacono, Milano-Roma, 1934, numero speciale di «L’economia italiana. Rassegna fascista mensile di politica ed economia», XIII, ora in R. DE FELICE, Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, cit., pp. 330 ss., pp. 330-331 in particolare. Il passo era ripreso ad litteram, in ID., Storia del movimento fascista (1939), cit., pp. 9-10. 207 La strumentale appropriazione di Oriani, da parte del fascismo, era stata denunciata con vigore da A. VITALE, Lettera di un quarantenne, in «La Rivoluzione liberale», IV, 1925, 2, pp. 7-8. Sul punto, M. BAIONI, Il fascismo e Alfredo Oriani. Il mito del precursore, Ravenna, Longo Editore, 1988. 208 Gioacchino Volpe ad Augusto Torre, 12 aprile 1934: «Ha letto L’Universale di Firenze che attacca il mio discorso di Ravenna? Credo abbia torto lui, ragione io», in A. TORRE-G. VOLPE, Carteggio, 1932-1961, a cura di V. Cimatti, in I Quaderni del Cardello. Annali di studi romagnoli della Fondazione “Casa Oriani”, XIX, 2004, pp. 131 ss., in particolare p. 132. L’articolo in questione era redatto da Edgardo Sulis ed era apparso il 25 marzo 1934, con il titolo, Animatore o seguace?. Sul radicalismo di quel periodico, si veda, P. BUGHIGNANI, Berto Ricci e il “fascismo rivoluzionario”, in «Nuova Storia Contemporanea»,
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storico dell’autore della Lotta politica209. Ma già precedentemente Volpe aveva mostrato il suo ampio scetticismo verso le future sorti progressive, che il regime fascista vantava di aver assicurato in esclusiva all’Italia. Nel maggio del 1930, Umberto Fracchia pubblicava un intervento che denunciava la mancanza di un pubblico medio «illuminato», simile a quello delle altre nazioni europee, che fosse consapevole del fatto che lo scrittore «compia opera d’importanza nazionale»210. Da questa denuncia nasceva una vera e propria querelle, che si allargava a considerare l’assenza di una vera e propria letteratura «popolare» italiana, che veniva ripresa da Ugo Ojetti e che avrebbe suscitato l’interesse di Gramsci211. L’articolo di Fracchia riprendeva i contenuti di un discorso di Volpe, pronunciato all’Accademia d’Italia, nel maggio dello stesso anno, dove si sosteneva che nell’ultimo decennio non si erano visti «spuntare grandi opere pittoriche, grandi opere storiche, grandi romanzi», ma soltanto si era assistito al serpeggiare di «forze latenti, aneliti all’ascesa». Tra questi, anche il futurismo che, per Volpe, non costituiva un vero e proprio fenomeno estetico ma soltanto l’incamminamento verso un futuro stato di cose nel mondo delle espressioni artistiche, che fino ad allora non aveva prodotto risultati realmente significativi. Era un giudizio, che sarebbe stato ribadito ampiamente nelle pagine di Italia Moderna212, e che non riguardava un dissidio di carattere semplicemente culturale. Quel giudizio investiva infatti anche gli aspetti politici del futurismo, che avevano prodotto il cascame ideologico più ingombrante del fascismo movimento e poi del fascismo partito, con il loro seguito di «ducismo, superomismo, miracolismo, provvidenzialismo, idolatrie, mistiche esaltazioni e messianiche attese»213. Anche Marinet-
2005, 5, pp. 117 ss. Il dissidio si rinnovava nel 1940, a proposito del commento che Volpe avrebbe dovuto redigere per una nuova edizione della Lotta politica di Oriani, ad uso delle scuole medie superiori. Sul punto, M. BAIONI, Il fascismo e Alfredo Oriani, cit., pp. 110 ss. 209 G. VOLPE, Alfredo Oriani storico e politico, conferenza tenuta il 18 febbraio 1934 al teatro Alighieri di Ravenna, cit. 210 U. FRACCHIA, Lettera aperta a S. E. Gioacchino Volpe, in «L’Italia Letteraria», II, 22 giugno 1930, 25, pp. 34 ss. 211 Si veda rispettivamente, U. OJETTI, Lettera ad Umberto Fracchia sulla critica, in «Pegaso», II, agosto 1930, 8, pp. 207 ss.; A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., IV, pp. 22502251. 212 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 295-296. 213 ID., Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, cit. Su Futurismo e fascismo, E. GENTILE, Political Futurism and the Myth of the Italian Revolution, in G. Berghuas (ed.), International Futurism in Arts and Literature, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 2000, pp. 1 ss.; F. PERFETTI, Futurismo e fascismo, una lunga storia, in Futurismo, 1900-1944 in Arte, architettura, spettacolo, grafica, letteratura, a cura di E. Crispolti, Milano, Mazzotta, 2001, pp. 215 ss.
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ti entrava nel dibattito, ma solo per denunciare il pronunciamento di Volpe, con una dura nota di protesta indirizzata all’Accademia, che provocava una risposta dell’interessato, direttamente indirizzata al creatore del movimento futurista, nel fondo tutt’altro che conciliatoria. Ho letto la Sua protesta. Ho fatto un breve esame di coscienza: mi pare di non avere colpe. Intanto, escludo in modo assoluto che io abbia voluto fare allusioni personali e polemiche a chicchessia: cioè a Lei. Sarebbe stato ultrasconveniente, nella mia qualità e in quella occasione. Quanto alla sostanza delle parole da me pronunciate, sì, c’era un giudizio, una valutazione di correnti e movimenti e atteggiamenti di gruppi letterari e artistici. Ma il Segretario generale non deve avere opinioni? Deve esser egli un ragioniere? Deve pesare, misurare parole e virgole, quando trattasi non di persone ma di cose, di cultura, di scienza, di arte ecc., per timor di urtare alte suscettibilità? Ed è proprio Marinetti, il francopolemista, il battagliatore, che prende scandalo di una leggerissima punta nella polemica e mi richiama al dovere in forma ufficiale? Come a dire che domani io dovrei protestare se Marinetti, divenuto Segretario e relatore, si lasciasse scappar di bocca una concezione della vita storica, un giudizio sopra opere o libri che io reputassi errato. Caro Marinetti, lei ha sempre parlato contro le Accademie: ebbene, m’accorgo di essere io, quasi quasi, più antiaccademico di lei. Ma io… ho detto male di Garibaldi: cioè ho diffamato la pittura, la poesia, l’architettura italiana ecc., ho fatto del disfattismo. Santi Numi! Viceversa, ho proprio polemizzato contro i disfattisti, contro le prefiche, contro i 1000 e i 100.000 che oggi lamentano la decadenza di tutta la coltura e arte italiana! Ho detto che c’è del torbido, ancora, del caotico, dell’anarchico – quasi manifestazione superstite di bolscevismo – ma anche fermenti vigorosi, promesse, realizzazioni in fatto di arte, di romanzo, scienze politiche, storiografia, architettura, ecc.; cioè un mondo ancora non bene espresso ma che batte alla porta e si fa avanti. Così io considero, caro Marinetti, lo stesso suo futurismo: non arte essa, ma sintomo di cose che maturano nel campo dell’arte. Questo ho voluto dire, egregio amico, non perché io sentissi impegnata la mia responsabilità di Segretario ma per chiarire amichevolmente la cosa. Pur non condividendo tutti i suoi ideali artistici, io ho simpatia per l’“uomo Marinetti”. Il nostro caro e ottimo Sartorio aveva pensato di investire della cosa il Consiglio Accademico. Io gli ho detto: no Presidente, queste non sono materie da Consiglio Accademico. E poi, il giorno in cui Gioacchino Volpe non fosse più libero, quando parla all’Accademia, di esprimere un giudizio nel campo degli studi, della scienza, dell’arte, egli se andrebbe via di volata! 214
Alla fine di novembre del 1931, partecipando, nella veste ufficiale
214 Gioacchino Volpe a Filippo Tommaso Marinetti, Roma, 10 giugno 1930, minuta manoscritta, CV. In margine alla lettera un’annotazione di Volpe recitava: «Parole dette da me in seduta accademica e da Marinetti intese come affronto al Futurismo. Sua protesta e mia risposta».
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di Segretario dell’Accademia d’Italia, al secondo Congresso degli Istituti fascisti di cultura, Volpe insisteva in questa polemica, parlando del «nuovo spirito che si suole chiamare fascista» solo in quanto «spirito di un’Italia che ha superato la fase, il momento socialista, nazionalista, liberale, pur non intendendo rinnegare nessuna di queste esperienze ed esigenze, e ne tenta la sintesi e il superamento». E concludeva, sostenendo che: Troppo si accentua – mi pare – l’aspetto, dirò così, miracolistico del Fascismo, mentre bisogna aver presente l’Italia di oggi e quella di ieri, senza segnare un abisso fra le due Italie. Non corrisponderebbe a verità e ingenererebbe, specialmente tra gli stranieri, l’idea della nostra presente Italia come qualcosa di artificioso, tutto legato alla vicenda mortale di uomini singoli, di un uomo. Così non deve essere215.
L’attacco esplicito al montante culto della personalità di Mussolini era respinto con asprezza da Telesio Interlandi, sulle pagine del «Tevere»216. Nella replica a Volpe, il giornalista ridimensionava fino ad annullarla l’individualità dell’Italia pre-fascista, postulando come un incontrovertibile dato di fatto che se non «c’è il minimo dubbio che è stata l’Italia a generare da sé, dalle sue migliori tradizioni e aspirazioni il Fascismo; è altrettanto certo che, dentro ciascuno di noi, la drammatica voce di Mussolini ha svegliato quanto di virtuoso vi era assopito; e quelle tradizioni e aspirazioni solo nell’atmosfera creata da Mussolini si son viste splendere come valori essenziali al risorgimento d’un popolo; non altrimenti gli astronomi spiegano il fenomeno delle stelle filanti; oscuri frantumi di corpi celesti che s’incendiano e splendono soltanto nell’attraversare l’atmosfera terrestre». Più corrosivo diveniva poi il contraddittorio sul piano politico, dove Interlandi rivendicava il carattere incontrovertibile di cesura storica rappresentato dalla Marcia su Roma, la cui negazione si configurava addirittura come crimine di lesa maestà verso il Duce del fascismo e come tradimento nei confronti del significato «rivoluzionario» delle giornate radiose del fatidico autunno romano. In quell’occasione, infatti, «la storia ideale della nazione italiana ha subito una frattura: qualche cosa non continuò più e qualche cosa principiò. Nell’ottobre del 1922, infatti, «non subentrò un partito a un partito, né un governo a un governo, né un Presidente del Consiglio a un altro: ci fu qualche cosa che si chiama Rivoluzione». 215 L’intervento di Volpe del 23 novembre 1931 è raccolto in Atti del II Congresso de-
gli Istituti fascisti di cultura, 21-23 novembre 1931-Anno X, Roma, 1932, pp. 100-102. 216 Il non identificato fascismo, «Il Tevere», 25-26 novembre 1931. L’articolo di Interlandi appariva in forma anonima.
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Volpe non si sottraeva al dibattito, replicando con una lettera aperta a Interlandi217, nella quale si rivendicava la fecondità dei diversi modi, dei «due, tre, cinque, ottocentomila» modi di vivere il fascismo, e dove si insisteva certamente sulla «necessità di marciare compatti» per costruire la nuova Italia, ma «come una milizia» e «non come frateria». Tanta eterodossia, risultava però incompatibile con la costruzione di un regime, di cui Interlandi si sentiva il più fedele custode218, tanto da provocare una nuova e più accesa controreplica sulle pagine del «Tevere», che finiva per espellere Volpe, e con lui molti altri uomini provenienti dall’esperienza del nazionalismo liberale, dall’ecclesia mussoliniana, per spingerlo addirittura nella terra sconsacrata dell’«afascismo», se non addirittura dell’antifascismo militante. Se infatti il latitudinario fascismo di Volpe si riduceva a un «generico patriottismo, ad un amore per il suolo della Patria, ad un orgoglio per la gloria italiana, ad una speranza per le fortune avvenire», in quel modo di vivere e di intendere il fascismo poteva rientrare la vecchia Italia dei Giolitti, dei Nitti, degli Sforza, degli Sturzo, con conseguenze facilmente immaginabili sulla coerenza ideologica di un regime, ormai prossimo a celebrare il suo decennale, destinata a tramutarsi in una «una broda insipida, una specie di involucro tricolore, come quello che si mette agli agrumi per l’esportazione»219. La temperatura al calor bianco raggiunta dalla polemica provocava un intervento superiore per mettere la sordina ai due contendenti, come registrava lo stesso Interlandi nella lettera a Camillo Pellizzi del 28 novembre, dove si ritornava in ogni caso a insistere sull’urgenza e la drammaticità del problema posto sul tappeto220. Ma al silenzio calato
217 Una lettera aperta di S. E. Volpe sui “modi di sentire e vivere il Fascismo”, cit. 218 Su Interlandi e il suo giornale, che spesso era utilizzato come portavoce ufficioso
del capo del governo, pagine molto efficaci sono in G. MUGHINI, A via Mercede c’era un razzista, Milano, Rizzoli, 1991. 219 T. INTERLANDI, Uno, ottocentomila e nessuno, «Il Tevere», 28-29 novembre 1931. A fianco dell’editoriale di Interlandi appariva una lettera di Vittorio Cian contraria a Volpe, indirizzata al direttore del «Tevere», che si concludeva significativamente, affermando: «L’intransigenza è imposta dalla passione e dalla fede, della quale è condizione essenziale. Un fedele che transige è già un infedele…». 220 Telesio Interlandi a Camillo Pellizzi, 28 novembre 1931, Archivio Fondazione Ugo Spirito, Fondo Camillo Pellizzi, b 30, f. 25: «Avete letto quel che dice Volpe e quel che rispondo io, sul Tevere? A me pare che sia una discussione di capitale importanza, nella quale dovrebbero metter bocca tutte le persone intelligenti e ansiose delle sorti del Fascismo e dell’Italia. Noi abbiamo bisogno di parlarci chiaro; e il momento è buono. Perché non scrivete qualche cosa sull’argomento? Io ho la sensazione che si stia giocando un brutto scherzo a Mussolini; che gli si voglia far fare il mestiere del venditore levantino di tappeti, che domanda cento per contentarsi di due. Mi scrivereste qualche cosa?».
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forzosamente sulla vicenda faceva riscontro la notizia di un prossimo e autorevolissimo richiamo all’ordine di Volpe, presumibilmente da parte dello stesso Mussolini, alla quale lo storico reagiva, giocando d’anticipo, con la lettera del primo dicembre, indirizzata a Lando Ferretti, Capo dell’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, dove si ribadivano le sue posizioni, senza mostrare ombra di resipiscenza e dimostrando, invece, la consapevolezza della sua superiorità intellettuale nei confronti degli interlocutori. Stamani, dopo scritto a te, mi hanno riferito all’Accademia che dovevo aspettare una tua comunicazione, alias ammonizione o cicchetto. E sia. Mi prenderò anche il cicchetto. Permettimi però di dirti che la mia coscienza è tranquilla. Ho riletto le mie parole dette al Congresso (anzi, te ne mando copia). Ci voleva tutta la buona volontà di giornalisti autoinvestiti della funzione di tutori dell’ortodossia, per trovar tanto da ridire su le mie parole, nelle quali era chiaramente espressa la volontà non di svalutare il fascismo ma elevarlo, accentuando il vincolo morale e storico, tra Fascismo e Italia, ed era indicato nello spirito fascista il tratto distintivo degli Istituti di cultura fascista in confronto delle università popolari. Dunque, in Italia, sarà lecito parlar di Cola di Rienzo, di Giovanni delle Bande Nere, di Sisto V, precursori del Fascismo (!!!), e non sarà lecito dire che il Fascismo è un fatto nuovo che si immette nel corso della storia d’Italia, e che nell’Italia del 1919 o 1922 vi era già qualche elemento preparatorio di ciò che poi, balzato in piena luce, è stato il Fascismo: come se anche le creazioni originali nascessero dal nulla e non guadagnassero dal ricollegarsi a qualche cosa che le precede! Ci voleva poi una buona volontà ancora più massiccia, dopo la mia risposta sul Tevere, per attaccarsi all’ultimo periodo (dunque sul resto non pare ci fosse più modo di replicare!), e prendere scandalo degli 800.000 fascismi e tirar fuori Giolitti e Nitti e i fuoriusciti, tutti suscettibili di entrar fra gli 800.000. Dove è da chiedersi se il comprendonio o la buona volontà di capire, certi fascisti se la siano giocata a briscola. Perché se anche fosse mancato ogni altro elemento per intendere quella mia frase, c’erano le parole stesse mie che seguivano, esemplificando intorno agli 800.000 fascismi: il fascismo dei 20 anni e quello dei 50, il fascismo dei cittadini e quello degli avvocati o dei professori, il fascismo degli uomini colti (magari troppo!) e quello degli incolti, pur esso, a tempo e luogo, necessario ecc. Le distinzioni potevano riempir tutta una pagina di giornale. Dunque, fascismo uno e molteplice, ma di quella molteplicità sopra indicata. E sfido il Signore Iddio a negarla o distruggerla, specialmente in Italia. Aggiungo che tale molteplicità è una forza; è un vanto, poi, per un partito saper e poter essere, pur così molteplice, uno. Ma basta, caro amico. Dunque sono pronto. Ti prego anche, insieme col cicchetto, di dirmi se, d’ora in avanti, io debbo, quando mi pare che abbia qualcosa che valga la pena di dire, dirlo oppure vietare a me stesso di scrivere e parlare di fascismo e limitarmi a far l’uomo accademico. Non senza un po’ di rammarico (non per me ma per la cosa!) che l’ultima parola in tale polemichetta sia stata l’articolo del Tevere sugli 800.000 fascismi, cioè con un saggio che non fa onore alla intelligenza, alla perfetta dirittura, allo spirito fascista (che è non so-
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fisticar parole ma guardar la sostanza delle cose!) di chi lo ha scritto221.
Quella replica rischiava di aggravare ulteriormente il già avanzato processo di isolamento politico dello storico all’interno del regime, nonostante il sostegno di Gentile che appoggiava con autorevolezza la posizione assunta da Volpe nell’intervento apparso nel dicembre del 1931 sulle pagine di «Politica Sociale», nella quale si ribadiva la lunga continuità della storia italiana e dove si affermava che smarrire il filo di quella continuità o spezzarlo non poteva essere interesse del fascismo: La cui rivoluzione è progresso in quanto è restaurazione: consolidamento delle basi per edificarvi su un solido edificio, alto, nella luce. Ogni originalità senza tradizione, come ogni spontaneità senza disciplina, è velleità sterile, non volontà virile. Capriccio, non programma. Non è lo spirito del Fascismo, ma la sua caricatura222.
Parole di peso, certamente, ma che non colmavano il vuoto scavatosi intorno a Volpe e che autorizzavano molti a pensare che lo storico ormai costituisse un facile bersaglio di polemica. A quella costituita dall’intransigenza fascista, che mai si interruppe fino e oltre il 1943, si affiancavano gli attacchi non meno violenti dei sopravvissuti ambienti liberali, come avrebbe ampiamente dimostrato la virulenta querelle successiva alla pubblicazione di Ottobre 1917. Il volume dedicato alla ricostruzione del dramma di Caporetto, sgradititissimo a Mussolini, il quale ne bloccava la pubblicazione in occasione delle celebrazioni del decennale della vittoria del 1928223, avrebbe visto la luce solo due an-
221 Gioacchino Volpe a Lando Ferretti, Capo dell’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, Roma, 1 dicembre 1931, CV. La lettera è stata pubblicata in E. DI RIENZO, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra, cit., pp. 124-125. La replica di Interlandi riguardava il brano finale della lettera aperta di Volpe, in particolare pp. 151-152: «Dopo ciò, lei teme ancora che vi possa essere un equivoco fra noi, fra gente che si dice fascista? Io direi, se mai, questo: siamo, noi fascisti, due, tre, cinque, ottocentomila, non so: di tutte le età, di tutti i temperamenti, di tutte le professioni di vita. Ebbene, è probabile che vi siano, nel fascismo uno – e questa è la sua forza – altrettanti fascismi, cioè modi di sentire e vivere il fascismo: che è una forza anche questa. Cosa inevitabile ed anche, io penso, benefica. Vi sono quelli che al fascismo portano più impeto, e quelli che vi portano più riflessione. Quelli che se lo configurano come un mito e quelli che, senza disconoscere neppure l’utilità, a tempo e modo, del mito, vogliono un po’ guardarci dentro e capirlo». 222 G. GENTILE, Risorgimento e fascismo, in Politica e cultura, cit., II, pp. 111 ss., in particolare p. 116. 223 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 23 giugno 1929, SPD: «Ma poiché non c’è dolce senza amaro, io ho avuto da lei anche l’amaro: il volumetto Dall’Isonzo al Piave. Era venuto, a mio modo di vedere, bene: me ne ero assicurato anche facendolo leggere a persone assai esperte di quegli accadimenti militari. Ne avevo avuto anche lodi di serenità e tem-
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ni dopo, per essere fatto immediatamente oggetto di una violenta polemica, che debordava largamente nell’insulto personale, dal gruppo di fuoco, costituito da Omodeo e Luigi Russo, su mandato di Benedetto Croce224, senza che quell’assalto all’arma bianca facesse registrare nessuna reazione significativa in difesa del suo autore, se si esclude quella di Gentile che, nauseato dal tono triviale di quel tentativo di linciaggio morale, si decise alla fine a intervenire, affermando che l’accaduto dimostrava la necessità «che ognuno si schieri dalla parte sua e faccia la guerra come si fa la guerra, senza terreni neutri e senza collaborazioni di nessuna specie, con tutte le conseguenze pratiche che ne possono derivare, giacché sarebbe assurdo che tutta la tolleranza e l’arrendevolezza dovesse essere dalla parte dei fascisti, che sono gli intolleranti e i violenti»225. Preso nell’infilata di un duplice tiro di sbarramento, Volpe non rinunciava comunque a rivendicare la sua autonomia di studioso, persino con un pizzico di malaccorta imprudenza, quando, nel 1932, comunicava a Gentile la proposta, indirizzata all’Accademia d’Italia e al Pnf, nella persona del Segretario nazionale Achille Starace, di celebrare il decennale del regime con un volume di Studi bibliografici, composto da una «serie di articoli critico-bibliografici per dar conto dell’attività italiana negli studi storico-politici-giuridici-economici-filosofici nel quindicennio o circa dalla guerra ad oggi»226. L’iniziativa, che era stata ufficialmente e preventivamente esibita a Mussolini227, non si rivolgeva solperanza in riguardo ai capi più responsabili… E ora, cosa ne faccio? Dire che, se non impegnavo quattro mesi a scrivere questo volumetto, a quest’ora avrei finito il maggior volume di cui sopra!». Nella corrispondenza, il riferimento è allo studio, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, poi apparso nel 1940. Il ritardo nella pubblicazione di Ottobre 1917 non sfuggiva a Piero Pieri, nella lettera a Volpe del 4 marzo 1930, FV: «È un libro degno di Gioacchino Volpe e che fa molto onore alla nostra storiografia degli avvenimenti più recenti. Mostra pure come ormai si possa cominciare a fare la storia della nostra guerra in modo obiettivo e giungere a valutazioni sicure. Ed è bene che sopra un argomento discusso e non facile come quello di Caporetto sia giunta la parola equilibrata e serena, oltre che, come al solito, acutissima, del nostro maggiore storico. Mi auguro che la nobile rivendicazione che Ella fa dell’esercito italiano, ossia del popolo e della nazione italiana, abbia la dovuta eco all’Estero. Ma mi viene il dubbio che nuovi impedimenti siano giunti al libro, pur così sereno e senza polemiche e personalismi. Mi auguro per molte ragioni che ciò non sia». 224 L’intero episodio è dettagliatamente ricostruito nel mio, Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 118 ss. 225 Giovanni Gentile a Ernesto Codignola, 30 novembre 1930, AFG. 226 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Santarcangelo di Romagna, 20 agosto 1932, AFG. Si veda anche, ID., Programma per volume di “Studi bibliografici”. Prima circolare ai collaboratori, Roma, 8 luglio 1932, CV, che è riprodotto in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit. 227 Il 3 marzo 1932, Volpe chiedeva un’udienza al Capo del Governo, al fine di «illustrare una propria iniziativa in corso, consistente in una pubblicazione di studi bibliografi-
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tanto a studiosi già da tempo affermati (come Mario Attilio Levi e Piero Pieri) ma prevedeva la collaborazione di una generazione di giovani ricercatori, in buona parte cresciuti sotto il suo magistero. Tra questi, Chabod, Maturi, Morandi, Sestan, naturalmente. Insieme a loro, Armando Momigliano, Felice Battaglia, Ugo Spirito, Arnaldo Volpicelli, Guido Calogero, Rodolfo de Mattei al quale Volpe affidava la sezione fascismo228. Nella fattura dell’opera, come per il progetto della «Storia d’Italia in collaborazione», dovevano essere coinvolti non unicamente personalità del mondo accademico ma altresì funzionari ministeriali e pubblicisti come Mario Missiroli229. L’originalità del programma, se così si può dire, era però un’altra. E non risiedeva soltanto nella scansione cronologica: il 1915 e non il 1922 come data di nascita della nuova Italia. In quello strumento di lavoro, secondo Volpe, dovevano infatti essere segnalate anche «le opere che suonano critica al nuovo ordinamento instaurato dal fascismo, nel campo delle dottrine e degli istituti politici o delle idee economiche, corporative», in quanto «fanno parte anche esse della recente attività intellettuale degli Italiani, sono anche riflesso degli eventi, possono pur esse aver concorso ad acuire l’autocritica e affinare lo sforzo costruttivo del fascismo»230. A tutti i futuri collaboratori veniva raccomandato inoltre di non fare opera di celebrazione e di acritica apologia, in quanto la ricerca loro affidata: Dovrà essere obiettiva al massimo grado, cioè non fatta da determinati punti di vista; non subordinata, nel ricordo e nella valutazione delle opere, a predilezioni personali dello scrivente. Egualmente, nessuna preoccupazione di attribuire a ciò che si è pubblicato più valore di ciò che eventualmente non abbia; di mostrare l’attività intellettuale più sensibile al soffio degli eventi. Segnalar anche i lati manchevoli di questa attività; anche qualche regresso, se e dove
ci sull’attività scientifica italiana (economia, diritto, filosofia) nel periodo 1915-1932». L’udienza veniva accordata per il 14 marzo. Ambedue i documenti sono in SPD. 228 Gioacchino Volpe a Rodolfo De Mattei, Santarcangelo di Romagna, 14 agosto 1932, CV «Ci sono due capitoli ancora scoperti: uno è fascismo; cioè dar conto della produzione più notevole relativa alla storia del fascismo, alla dottrina politica sua, ecc. (escluso ciò che si attiene all’economia), 15-20 pagine di stampa, deve servire di guida al lettore italiano e straniero. Ho riservato a lei questo capitolo». Volpe avrebbe accolto favorevolmente il lavoro di De Mattei con la lettera del 16 settembre: «Bravo, che lavoro! Benissimo, i vari argomenti. Si potrebbe aggiungere forse (o incastrarlo in qualcuno dei capitoli da lei disegnati) un capitolo sul fascismo e ideali di vita, fascismo e concetto dell’uomo». Anche questa lettera è conservata in CV. 229 L’elenco completo degli studiosi interpellati era in appendice al Programma per volume di “Studi bibliografici”. Seconda circolare ai collaboratori, Santarcangelo di Romagna, 8 agosto 1932, CV. Anche questo documento è riprodotto in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit. 230 Ivi.
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ci è stato, come realmente, qua e là, ci è stato, per effetto di infatuazioni e passioni231.
Questo sforzo di obiettività franava però disastrosamente in altre opere, pubblicate in quegli stessi anni. All’ombra del fascio littorio, Volpe aveva sviluppato, infatti, altri contributi di storia italiana, che rappresentavano, questa volta, un vero e proprio schiacciamento della sua ricerca sulle parole d’ordine del regime. Nel 1933, faceva la sua comparsa, per i tipi della casa editrice Treves, un sommario storico dedicato alla gioventù fascista: La storia degli Italiani e dell’Italia232. Volume, che Volpe inviava alla Segreteria particolare del Duce, con l’intenzione di voler «presentare a S.E. il Capo del Governo questo mio libretto che Esso anni addietro volle da me e che nel 1932 è uscito per conto della Direzione delle Scuole Italiane all’Estero e per gli alunni di quelle scuole, e che, ora, migliorato, in parte rifuso, riappare anche per altri lettori: ragazzi e giovani», esprimendo il convincimento che l’opera «fino a tanto non venga altro libro migliore, possa essere il libro in cui ragazzi e giovani e popolo acquistino il senso vivo della storia d’Italia; compia cioè l’ufficio che i libri di scuola e i soliti libri per il popolo non compiono»233. Un giudizio, questo, che era ribadito nella lettera che un allievo degli anni milanesi, Pietro Rebora, ora direttore del British Institut di Firenze, inviava a Volpe a metà novembre del 1933, nella quale si affermava che: La sua storia è per me il modello perfetto del libro d’educazione nazionale e sociale di cui abbiamo urgente bisogno ancora in Italia. I libri di testo delle nostre scuole secondarie non insegnano molto e non educano affatto. Libri sussidiari come il Suo sono preziosi; ed io lo sto consigliando a destra e a sinistra, qui e all’estero. Quando avremo altri libri essenziali, libri che restino, dello stesso tipo, sulla lingua nostra, sui grandi, sulle città maggiori ecc., potremo agire meglio nel campo della propaganda culturale234.
Quelle di Rebora erano espressioni di lode sincera, dato che anche in quel libro, non mancavano certo elementi innovativi e persino eterodossi, soprattutto per quello che riguardava la scansione cronologica del Risorgimento, che per Volpe iniziava nel 1796, in coincidenza con la spedizione di Bonaparte, e non già con l’assedio di Torino del 1706, se-
231 Ibidem. 232 Un primo abbozzo dell’opera usciva, nel 1931, con altro titolo, I fatti degli Italia-
ni e dell’Italia, presso Mondadori. 233 Gioacchino Volpe alla Segreteria particolare del Duce, 12 ottobre 1933, SPD. 234 Pietro Rebora a Gioacchino Volpe, Firenze 16 novembre, 1933, CV.
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condo l’interpretazione sabaudocentrica che De Vecchi di Val Cismon intendeva imporre235. Non era questa una differenza trascurabile, come avrebbe dimostrato non esclusivamente il violento conflitto, con forti ricadute sul piano politico, che avrebbe opposto su questo punto l’autore di Italia in cammino al Quadrunviro della marcia su Roma236, ma anche l’imbarazzo del tremebondo Maturi ad accettare quella datazione di matrice carducciana e persino democratica, che contrastava, a un tempo, con l’interpretazione di Croce, di Gentile e dello stesso Mussolini237. Né era questa cruciale precisazione cronologica il solo pregio della Storia degli Italiani, così diversa dal miserevole quadro dell’editoria scolastica e di divulgazione dell’epoca238. Magistrale era la capacità di Volpe di svolgere sotto gli occhi, sia pure di «Balilla, Avanguardisti e Piccoli Italiani», gli snodi di un processo storico che nettamente si distanziava dalla «galleria di busti» della tradizionale storia patria. Come nell’Italia in cammino, la narrazione di Volpe puntava sui grandi temi sociali ed economici della industrializzazione e della questione agraria239, sul nostro farsi nazione legato non soltanto all’epos del primo conflitto e alla più recente espansione coloniale, ma anche, in una prospettiva europea e mondiale, alla storia degli «Italiani fuori d’Italia»: dai grandi artisti e condottieri dell’antico regime agli esuli politici del Risorgimento240. Una rappresentazione fortemente originale, un affresco 235 C. DE VECCHI DI VAL CISMON, Il “senso dello Stato” nel Risorgimento, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1933, 1, pp. 221 ss.; A. ALBERTI, Risorgimento e fascismo, ivi, pp. 253-259; C. DE VECCHI DI VAL CISMON, Rivediamo la storia, ivi, 1935, 3, pp. 639 ss. Diversamente, Volpe nella relazione del Congresso sulla storia del Risorgimento di Bologna dell’autunno 1935. Si veda ID., Principi di Risorgimento nel ’700 italiano, in «Rivista Storica Italiana», 1936, 1, pp. 1 ss., ora in ID., Pagine risorgimentali, cit., I, pp. 7 ss. 236 Sul punto, si vedano il mio Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 63-65; 81-83 e passim; M. BAIONI, Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista, Roma-Torino, Carocci, 2006, pp. 179 ss. 237 Walter Maturi a Gioacchino Volpe, Roma, 4 agosto 1932, CV: «Il Duce, Gentile, Benedetto Croce, in tante cose discordi, sono concordi nel far risalire al Cuoco e ai meridionali del 1799 i primi germi della coscienza politica unitaria italiana! E quando mi sarò messo sotto la discorde concordia di quei tre Santi, credo che nessuno oserà torneare meco». 238 G. PEDULLÀ, Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di Gabriele Turi, Firenze, Giunti, 1997, pp. 341 ss.; N. TRANFAGLIA-A. VITTORIA, Storia degli editori italiani, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 249 ss. 239 G. VOLPE, La storia degli Italiani e dell’Italia, cit., pp. 241 ss.; 315 ss. 240 Ivi, pp. 98 ss.; 127 ss. Questa tematica, che si sarebbe largamente diffusa all’interno della scuola di Volpe, soprattutto con i lavori di Carlo Morandi, veniva recepita anche da Pietro Rebora, come dimostra la corrispondenza a Volpe del 23 agosto 1929, CV: «Sto avviando parecchi studenti inglesi ad un lavoro di rastrellamento sistematico delle fonti e delle tracce della cultura italiana in Inghilterra. Mi occupo io stesso del periodo elisabettiano; ed ho avviato altri ad indagare la vita e le opere di Italiani che acquistarono risonanza
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mosso, variegato, drammatico, quindi, a cui faceva riscontro, disgraziatamente ma inevitabilmente, l’ossequio all’«uomo del destino» sotto la cui guida si era finalmente riunita, nel segno della pacificazione e della concordia la «grande famiglia» italiana, dopo i tempi bui del sovversivismo e delle «settimane rosse». Mussolini e gli Italiani vollero proprio questo: che l’Italia fosse una grande famiglia, laboriosa, concorde, disciplinata. Il lavoro doveva darci la possibilità di vivere senza dipendere troppo dagli altri, la concordia e la disciplina dovevano rendere più forti e farci marciare insieme verso la stessa meta. C’erano delle discordie tra ricchi e poveri, fra lavoratori e capitalisti? Va bene. Ci sono sempre state. Ma da noi erano diventate guerra civile. Si predicava e si metteva in pratica la lotta di classe a tutto spiano. Ora, invece, si cercò che non la lotta ma la pace, la collaborazione, fosse tra le classi. E le questioni fra uomo e uomo si volle che venissero regolate di comune accordo, avendo di mira non il bene di questi o di quelli, ma il bene di tutti, il bene della nazione: anche perché, tanto, quello che è utile alla nazione, finisce poi sempre in un modo o in un altro, con l’essere utile a ognuno!241.
Peggio, se è possibile, accadeva, nella rielaborazione di questi lavori, che fruttava una corposa monografia pubblicata nel 1934, per le Scuole dei Fasci Italiani all’Estero, con il titolo Il Risorgimento dell’Italia242. Si trattava di un contributo, del quale Volpe ribadiva la committenza di Mussolini243, che costituiva una piccola ma non marginale molla della complessa macchina di organizzazione del consenso che il regime aveva edificato fuori dei nostri confini, a partire dal suo primo decennale244, nel quale il tono dell’esposizione, sottolineato dalle dodici, efficacissime incisioni a colori di Mario Sironi che illustravano il volunel periodo del Risorgimento. […] È uscito recentemente un buon volume su Antonio Panizzi; un’altra allieva lavora sull’Alfieri; altri sui Ruffini, su Aurelio Saffi, un buon lavoro è pronto sugli esuli dal 1816 al 1848 (specie i minori)». Sul punto, in ogni caso, si veda E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., passim; ID., Storici e maestro. Allievi volpiani tra continuità e innovazione, cit. 241 G. VOLPE, La storia degli Italiani e dell’Italia, cit., pp. 339-340. 242 Il Risorgimento dell’Italia, narrato da Gioacchino Volpe, con disegni a colori di Mario Sironi, Milano, 1934. 243 Volpe così presentava la prima versione dell’opera a Mussolini nella già citata lettera del 2 febbraio, 1932: «Ecco la prima copia che l’Editore mi manda di un volumetto che già da tempo era nel Suo desiderio e pel quale da tempo io mi ero impegnato. La promessa solo ora è mantenuta, almeno in parte, per la 5ª classe elementare delle scuole all’estero. Non so se risponderà pienamente ai fini scolastici; ma credo possa servire come buona lettura per molta gente senza scholam, specialmente dal capitolo 2° in poi. Ho sperimentato che parlar bene a ragazzi e indotti è più difficile che non ai grandi e a gente di studio». 244 B. GARZARELLI, “Parleremo al mondo intero”. La propaganda del fascismo all’estero, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005.
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me, si faceva davvero enfatico e celebrativo. In quelle pagine, dove grande spazio avevano ovviamente le vicende della nostra emigrazione e della colonizzazione africana245, si ridimensionavano, fino ad annullarsi, tutte le critiche che Volpe aveva riservato alla politica del regime. Nessuna di queste riserve sopravviveva all’elogio della dittatura, che nell’ultimo decennio, così nella prefazione del volume asseriva il segretario dei Fasci Italiani all’Estero, Piero Parini, aveva restituito all’Italia la sua «secolare funzione mediterranea», composto ogni dissidio con le autorità religiose, e soprattutto «inaugurato un ordine nuovo, che tutto il mondo studia e ammira, e offre, con lo Stato corporativo, creazione originale del genio di Mussolini, il tipo del nuovo Stato di domani, nel quale sono destinate a risolversi pacificamente le contraddizioni e le antitesi della coscienza politica moderna»246. Anche in quest’opera, naturalmente, Volpe dimostrava la sue qualità storiografiche, e, se non altro, il suo consueto vigore espositivo, tanto da spingere Federico Gentile, che, a partire dal 1932, era divenuto direttore editoriale della Sansoni, a impegnarlo per la stesura di un altro manuale dedicato al mercato giovanile, che sarebbe potuto divenire «il più bel testo di storia per i Licei, che oggi manca»247, e nella cui stesura, accanto al maestro, si sarebbe dovuto impegnare anche Chabod248. Nella sostanza, però, Il Risorgimento dell’Italia dimostrava una completa resa di Volpe nei confronti del regime. Anche se occorre dire che gli stessi contenuti e i medesimi accenti di quel volume si ritrovavano nel Sommario della Storia d’Italia di Luigi Salvatorelli, edito nel 1938 (e poi riproposto in versione «migliorata e accresciuta» nel 1942), che, se dava conto con molto distacco della presa di potere di Mussoli245 G. VOLPE, Il Risorgimento dell’Italia, cit., pp. 225 ss. 246 P. PARINI, Presentazione a G. VOLPE, Il Risorgimento dell’Italia, cit., pp. II-III. 247 Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 9 ottobre 1933. L’offerta si sarebbe concre-
tizzata. Si veda Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 2 febbraio 1934: «Il papà Le aveva dato qualche giorno fa la bozza del contratto. Devo confessare che gliel’ha spedita, senza eccessiva speranza che Ella ce la restituisse. Spero che non mi vorrà obbligare a venire a Roma, ancora una volta per avere una risposta, che dopo quanto Lei mi promise l’ultima volta che ci vedemmo, dovrebbe essere favorevole. […] Intendiamo venirle incontro in tutti i modi. Ma soprattutto mi risponda perché Lei sa quanto io tengo a questo contratto». Tutte le lettere citate che riguardano i rapporti di Volpe con la Sansoni sono conservate in Archivio Sansoni, AS. 248 Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 2 dicembre 1938, ivi: «Mi dice Chabod di averLe ancora parlato per quel famoso testo di Storia per i Licei e che Lei, salvo che su alcuni punti particolari del contratto, è d’accordo. Io vorrei pregarla di dare una risposta definitiva», che fa seguito alla lettera di Chabod a Federico Gentile del 10 novembre. La notizia della stesura del manuale, che avrebbe dovuto avere come data di consegna il 1941, ritornava nella lettera di Chabod a Giovanni Gentile del 18 settembre 1938, conservata in AFG.
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ni, giustificata dal pericolo bolscevico e dalla necessità di erigere una «democrazia autoritaria» in Italia, non era avaro di riconoscimenti per le ricadute sociali dell’«economia regolata» promossa dal regime, per la «grandiosa politica di lavori pubblici diretta ad aumentare la produzione e l’attrezzamento economico nazionale», per l’«intrapresa grandiosa» delle bonifiche pontine e dello sventramento della capitale, per il Welfare fascista, per la sigla dei Patti Lateranensi, per la personale abilità diplomatica del Capo del Governo che portò agli accordi italofrancesi del 1935 e, infine, per il vigoroso impegno con cui il fascsismo «ha curato la forza militare della nazione rinnovandone e sviluppandone l’equipaggiamento militare-industriale, creando una forte aviazione e sviluppando l’educazione fisica e la preparazione militare»249. Niente di più e nulla di meno, di quanto avrebbe sostenuto Raffaele Ciasca, un allievo di Salvemini e di Giustino Fortunato, nell’antologia storica per la prima classe della nuova scuola media fascista, data alle stampe nel 1941, nella quale si magnificava l’ininterrotta «azione illuminatrice di civiltà e di cultura» di Roma e dell’Italia: dal Rinascimento, al Risorgimento, all’avvento del Fascismo250. Erano questi i frutti di una comune atmosfera culturale degli studi storici, ormai diffusa a largo raggio nei primi anni Trenta, che faceva perno nell’esaltazione dell’«Uomo del destino», del «Duce di tutti gli Italiani», che Volpe avrebbe definito il «capitano della battaglia del grano e della terra», il «romano edificatore» di strade, ponti, porti e acquedotti, il «restauratore» della dignità nazionale dilapidata dopo la Grande Guerra, addirittura il «seminatore di vita, nei solchi dell’Italia»251. 3. Simili appellativi amplificavano, questa volta davvero oltre misura, altri encomi che Volpe aveva sparpagliato, seppur con qualche parsimonia, nelle sue pagine politiche dove si parlava di Mussolini come del più tipico esempio della strenuous life del nuovo secolo e dove si magnificava il miracolo italiano che aveva permesso «al figlio di un fabbro d’un qualunque villaggio della Romagna di diventar primo ministro del Re d’Italia e reggitore di un popolo di quaranta milioni di destini»252. Più tardi, dopo il 1943, Volpe avrebbe nettamente capovolto il senso di questa affermazione, confessando in una lettera familiare che il popolo italiano non aveva neanche la possibilità di scaricare sulle gracili spalle del «figlio del fabbro» la colpa di tanta sciagura, risultan249 L. SALVATORELLI, Sommario della Storia d’Italia dai tempi preistorici ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 1942, pp. 649 ss. 250 R. CIASCA, Grecia e Roma, Firenze, Sansoni, 1941, p. 5. 251 G. VOLPE, Il Risorgimento dell’Italia, cit., p.336. 252 ID., Fascismo. Governo fascista. Problemi italiani del momento, cit., pp. 26 e 6.
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do Mussolini un troppo misero capro espiatorio per addossargli la responsabilità dell’immane catastrofe italiana nonostante le sue fanfaronate sui «miracoli di un popolo-esercito e di una nazione-caserma»253. E questo giudizio così fortemente svalutativo sarebbe tornato nella pagine di Italia Moderna, quando, in sede di più meditato bilancio storico, frantumatasi la maschera del presunto grande statista, Volpe sarebbe tornato a considerare la giovinezza di quello che, per disgrazia, era potuto apparire a molti come il legittimo erede di Cavour, parlando della sua «approssimativa filosofia in rispondenza e a sostegno del suo temperamento di attivista», della sua mai sopita smania per una «rivoluzione vagheggiata alla romagnola, come una mistica entità ondeggiante tra cielo e terra, senza troppa specificazione di contenuto e scopi», della sua tempra non tanto di «uomo forte» ma di «avventuriero del ’400 italiano»254. Per tutta la durata del regime quel giudizio, forse già da qualche tempo formulato in interiore hominis, restava comunque celato sotto un tessuto di elogi, non unicamente di sola facciata, che Mussolini appariva voler ripagare di egual moneta, se almeno si fa riferimento a quel «ritratto in piedi» di Volpe, composto dalla mano dell’inquilino di Palazzo Venezia, che si può ricavare dal testo dei colloqui con Yvon De Begnac, dal 1934 al 1943. Si tratta di una testimonianza sicuramente da leggere «in controluce»255, non solo per il fatto di essere redatta dal «biografo ufficiale di Mussolini»256, e quindi di rappresentare una sorta di vulgata accreditata, come e forse più ancora delle altre «interviste» addomesticate concesse a Emil Ludwig e a Pierre Chanlaine257, ma anche per i molti travisamenti di ordine cronologico, e soprattutto perché spesso contraddistinta da giudizi estemporanei, influenzati da «fatti del giorno», da simpatie e da animosità momentanee spesso destinate a ribaltarsi nel loro esatto contrario, per cui talune affermazioni contrastano vivacemente con altre fatte precedentemente o posteriormente. Eppure, anche con tutte le cautele necessarie a maneggiare questo documento, non è possibile non tener presente il giudizio di Mussolini su
253 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, S. Marino, 12 settembre 1944, in ID., Lettere dall’Italia perduta, cit., p. 62: «Cosa bella, essere figli di fabbro; ma per guidare un popolo ci vuole forse quella quadratura di mente, equilibrio spirituale, sentimento della vita e della storia che non sono cosa individuale, sebbene vengono giù per li rami, sono patrimonio familiare o di gruppi sociali che abbiano un certo passato dietro di sé». 254 ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 504 ss. 255 R. DE FELICE, Prefazione a Y. DE BEGNAC, Taccuini mussoliniani, cit., p. X 256 F. PERFETTI, Introduzione, ivi, pp. XIX. 257 E. LUDWIG, Colloqui con Mussolini, Milano, Mondadori, 1932; P. CHANLAINE, Mussolini parle, Paris, Tallandier, 1932.
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Volpe che risultava, con molte luci e solo qualche ombra, sostanzialmente positivo, visto e considerato che di esso si elogiava in primo luogo l’affidabilità ideologica, affermando che «del filonazionalismo di Volpe conoscevo origine e sviluppi, della sua fedeltà alla rivoluzione conoscevo il valore intrinseco e la fermezza politica»258. Caratteristiche, queste, che ne facevano, insieme a Ercole, Evola, Spirito e Gentile, l’alfiere della «cultura della rivoluzione, alla quale più tengo e che, a lungo, testimonierà la nobiltà della nostra vittoria»259. Fondamentale era stata l’opera di Volpe, per la costruzione degli istituti di cultura alternativi a quelli che avevano gestito la trasmissione del sapere durante la passata stagione liberale, dato che «il professor Gentile mi esortò all’Enciclopedia e il professor Volpe all’Accademia e io debbo al contromanifesto di Croce l’aver fatto tesoro delle loro suggestioni»260. Grazie alla loro azione, l’impresa Treccani e l’Accademia d’Italia nascevano infatti sì «depoliticizzate al massimo del consentibile» ma anche con la precisa volontà di «bruciare ogni sudditanza coatta a una università liberale nello scegliere le più obbligate strade del conformismo borghese». In questo modo, se la rivoluzione fascista testimoniava di aver compreso che il «consenso» doveva «acquistare un senso umanistico più preciso» e prendeva atto dell’esistenza di una «cultura, più che nuova, ansiosa di rinnovamento», offrendole «due strumenti di ineguagliabile autorità morale», le nuove istituzioni «sbloccavano una situazione sino ad allora fondata su Benedetto Croce, capo indiscusso dell’impero italiano degli intellettuali». E, in virtù della loro azione, la cultura italiana, nel suo complesso, «non ripudiava Croce, ma dimostrava che non era necessario vivere unicamente di lui per dirsi e dimostrarsi interprete del nuovo umanesimo italiano»261. Di questa svolta culturale, Volpe era stato tra i massimi artefici, assumendo, attraverso la carica di Segretario Generale, la «guida effettuale dell’Accademia», e programmando «un’azione culturale di altissimo livello», attraverso la quale l’Italia si rivolgeva direttamente alla cultura europea «per mezzo di convegni internazionali atti a dibattere le ragioni dell’occidente, per le quali, al di là di ogni vuota difesa formale, andava riguardata la reale possibilità di opporsi alla decadenza che lo travagliava»262. Un’attività, questa, che richiedeva uno sforzo organizzativo, ma anche economico, le cui difficoltà erano state risolte da Volpe
258 Y. DE BEGNAC, Taccuini mussoliniani, cit., p. 273. 259 Ivi, p. 403. 260 Ivi, p. 292. 261 Ivi, p. 319. 262 Ivi, p. 322.
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con spigliato spirito imprenditoriale. Fu Volpe infatti a svolgere «personalmente» le trattative relative al lascito Feltrinelli a favore dell’Accademia, «il cui frutto doveva essere destinato a una serie di premi annuali da assegnarsi a opere prime, a ricercatori scientifici, a letterati, pervenuti a grande rinomanza interna e internazionale». E sempre Volpe si era adoperato personalmente per «far assegnare il premio Feltrinelli per le Lettere (da considerarsi il Nobel italiano) a uno scrittore relativamente giovane, non fascista, critico, anzi, nei confronti del fascismo», come Corrado Alvaro. Grazie, anche all’«autorevole appoggio dell’onorevole Augusto Turati», allora segretario del Pnf, Volpe era riuscito a infliggere, in questo modo, un «grave colpo per l’antifascismo in Italia e all’estero» e a rendere di pubblico dominio che l’Accademia d’Italia, «avendo aperto le porte a uomini di cultura tutt’altro che legati alla rivoluzione», era in grado di dimostrare immediatamente la propria indipendenza di pensiero sia «nelle nomine interne sia nelle decisioni prese per dimostrarsi al livello dei massimi consessi culturali del continente»263. Nelle «confidenze» a De Begnac, non mancavano sicuramente anche annotazioni a volte ironiche, a volte francamente indispettite sulla difesa ad oltranza, da vera e propria «madre dei Gracchi», che Volpe riservava ai suoi allievi della Scuola storica in odore di «afascismo» e addirittura di «antifascismo»264. Ma, queste critiche si confondevano con la più generale polemica, di Mussolini e dell’ala dura e pura del regime, contro «gli intellettuali a coscienza ridotta a pietra dall’inerzia», i quali restavano indifferenti «al destino della nazione di farsi salvatrice di quel poco che rimane dell’occidente morale e politico». Polemica che coinvolgeva anche i loro altolocati protettori come Bottai, «per il quale ogni starnuto di intellettuale toscano è la diana del risveglio battuta sotto le case degli italiani acculturati»265. A tratti, invece, Volpe pareva veramente costituire l’ideal-tipo del nuovo «operatore culturale» fascista, capace di integrare tradizione e innovazione, indipendenza di giu263 Ivi, p. 322. 264 Ivi, p. 405: «So che la Scuola Normale di Pisa è un nido di vipere. So che la Scuo-
la di storia moderna di Roma non perde in alcunché al confronto. Ma posso togliere i due giocattoli dalle mani di Gentile e di Volpe, e dalla tutela di Bottai? Morirebbero di crepacuore. Val la pena che la rivoluzione tolleri l’esistenza di quei centri di malessere ideologico, per non privarsi di Volpe, di Gentile, e magari, anche, di Bottai». Ma la diffidenza verso le creature di Volpe, era condivisa anche da Bottai, il quale avrebbe invitato Mussolini a concentrare la sua attenzione «nei corridoi dell’Enciclopedia e tra le cattedre scomponibili della Scuola storica del Professor Volpe», se avesse voluto «ascoltare e percepire pensieri che anticipino censura al tuo, al nostro operato». Si veda, ivi, p. 644. 265 Ivi, pp. 333-334, dove vengono riportati alcuni giudizi di Francesco Coppola, commentati da Mussolini.
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dizio e fedeltà sostanziale alla linea politica. Uno studioso con il quale Mussolini ricordava di aver a lungo discusso attorno a problemi molto significativi, anche sotto il profilo politico, generati direttamente dalla lettura delle opere dello storico e da Italia in cammino in particolare. Tra questi, quello relativo all’interrogativo cruciale, per un fascismo, che non voleva dismettere la sua tendenza rivoluzionaria, «di quale ordine e portata sia il conflitto tra rivoluzione e borghesia», e altri connessi al contributo della classe dei dotti per la costruzione e l’affermazione del regime, a una possibile permanenza di incrostazioni massoniche nell’Accademia d’Italia, ai conati di dissenso dei suoi membri a proposito della legislazione razziale del 1938266. Da questa familiarità sembrava risultare addirittura un sentimento di profonda stima ma anche di simpatia intellettuale, tra il capo del fascismo e Volpe, che trovava il suo punto culminante nel giudizio di Mussolini sugli insuperabili meriti, almeno stilistici, dell’articolo «Fascismo» dell’Enciclopedia italiana. Il Professor Volpe mi legge brani della sua collaborazione alla voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana. Mi dice che in Accademia il testo è stato rivisto da Panzini, che lo ha trovato storicamente interessante e stilisticamente perfetto. Il Professor Volpe mi dice che molte delle idee che è andato sviluppando nei propri appunti intorno alle vicende del movimento fascista e del partito derivano dalle osservazioni sui comportamenti delle masse cui lo aveva indotto la Napoli avventurosa e avventuriera di suo zio, Edoardo Scarfoglio. Le pagine di Volpe sono, in effetti, degne di un racconto di grande autore. Non una parola meno che necessaria, non una considerazione la quale non abbia il senso del particolare di grande affresco. Eppure, la storia del fascismo da lui raccontata è quale si svolse. Il mito non si sovrappone alla verità in quei capitoli267.
L’unica nota stonata di questo quadro apparentemente idilliaco era la tagliente testimonianza di Mussolini su di un Volpe che avrebbe talmente accentuato il suo mugugno contro il fascismo, da farsi, invece che storico dell’«Italia in cammino», velenoso cronista dell’«Italia in regresso»268. Un indizio significativo, questo, che pare mettere in più giusta luce quali fossero le relazioni effettivamente intercorse tra la guida politica e lo storico della «nuova Italia», ampiamente testimoniate dal fascicolo «Volpe Gioacchino» della Segretaria riservata del Duce. Un insieme documentario, diciamolo subito, che contrasta fortemente con il tono spesso ovattato dei Taccuini mussoliniani, a partire dal numero delle udienze particolari avaramente concesse, che riguardavano solita-
266 Ivi, pp. 331-332; 354; 358. 267 Ivi, pp. 332-333. 268 Ivi, pp. 332-333.
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mente argomenti di routine: quesiti relativi al tran-tran burocratico connesso alla gestione dell’Accademia d’Italia, presentazione di volumi redatti, promossi o curati da Volpe, questioni relative al finanziamento dell’«Archivio Storico della Corsica», deferenti ringraziamenti per gli incarichi culturali concessi a Volpe dal regime, partecipazioni per le nozze dei figli e delle figlie della numerosissima famiglia dello storico, seguite da qualche formale e distaccato messaggio gratulatorio269. Accanto a tutto questo, emerge, però, l’infittirsi, subito dopo la presa di potere di Mussolini, di screzi, incomprensioni, momenti di gelo, scontri frontali che rivelano, quanto meno, una profonda incomunicabilità umana e psicologica tra i due personaggi e anche qualche non piccola disparità di fondo su problemi politicamente e culturalmente rilevanti che la polemica pubblica aveva già messo in luce e che i carteggi personali contribuiscono a chiarire ulteriormente. Un primo momento di grave difficoltà, riferito proprio all’impegno storiografico di Volpe, si verificava immediatamente dopo la «rivoluzione» del 1922 e aveva per oggetto le ricerche preparatorie a quella che sarebbe divenuta la «storia interna» dell’Italia nella Grande Guerra. Quel programma, la cui prima ispirazione risaliva agli anni del conflitto, rischiava però di impantanarsi, se non fosse stata concessa la consultazione dei materiali raccolti e parzialmente elaborati dall’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, ora depositati presso l’Archivio Centrale dello Stato, che minacciava di sbarrare le sue porte allo studioso, come Volpe comunicava, il 24 giugno 1923, a Mussolini, domandandogli di sbloccare la situazione. Il Comitato italiano della Fondazione Carnegie per la “Storia economica e sociale della guerra” ha affidato a me il compito di un volume che sarà come una introduzione alla serie dei volumi italiani ed apparirà in veste italiana ed in veste inglese nel prossimo anno. Per questo volume – una sintetica rappresentazione della vita italiana durante la guerra, partiti politici, dibattiti di idee, condizione delle varie classi, sforzi compiuti, difficoltà superate, ecc. ecc. – molto materiale è nell’Archivio Storiografico della Mobilitazione sorto nel 1916, appunto ai fini di una storia della guerra. È intervenuta, anzi, una convenzione fra la Carnegie e lo Storiografico perché questo materiale possa essere utilizzato. Ed io ho già cominciato le mie ricerche per quel che riguarda la vita delle maestranze operaie, lo sviluppo industriale, le agitazioni di classe durante la guer269 Gioacchino Volpe alla Segreteria particolare del Duce, 12 ottobre 1933, cit.: « Mi è caro poi dare notizia al Duce, nostro comune Capo, di un mio lieto avvenimento familiare, le nozze di una mia figliola: seconda tra i sei figli di cui la mia famiglia si allieta». Si vedano i messaggi di felicitazioni di Mussolini, inviati non personalmente ma tramite la Segreteria, per le nozze del figlio Giovanni Alberto, 21 novembre 1931, e per quelle di Edoarda, il 18 ottobre 1933.
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ra ecc. Ma ora il commissario Casanova, direttore dell’Archivio di Stato di Roma, nella cui giurisdizione pare che anche l’Archivio Storiografico si trova, mi annuncia che difficilmente potrò proseguire le mie ricerche e che, in ogni modo, tutto dipenderà dalla autorizzazione che sarà o non sarà per dare il Ministero dell’Interno. Mi permetto di rivolgermi a Voi, signor Presidente, perché vogliate esaminare con benevola attenzione ciò che sarà eventualmente per esporvi il Senatore Pironti, direttore generale dell’Amministrazione civile del Regno. Confido che Voi vedrete, nell’utilizzazione di quei documenti, oltre che un interesse degli studi, un interesse politico dell’Italia a cui tanto facilmente all’estero si nega o lesina il riconoscimento della grande opera compiuta270.
Il veto opposto a Volpe era sicuramente politico e di alto livello, dato che quel programma di ricerca costituiva un elemento di forte dissonanza con il disegno apologetico delle gerarchie del Pnf e del governo che, in quello stesso momento, stavano inserendo le vicende del conflitto nel Pantheon dell’agiografia fascista, cancellando ogni ombra relativa a quell’evento271. Particolare, questo, che naturalmente non poteva sfuggire a Giovanni Gentile, il quale, a sua volta, interveniva presso Mussolini, dichiarando di ritenere che «ad uno studioso qual è il Volpe non possa negarsi di utilizzare quel materiale che è stato appunto raccolto per la storia della guerra»272. Ma anche questa qualificatissima pressione non otteneva alcun effetto, se la segreteria della Presidenza del Consiglio, nella persona di Giovanni Marinelli, replicava seccamente il suo rifiuto273. A Volpe non poteva essere concessa la visione di materiale ancora riservatissimo, visti e considerati gli interessi politicamente scorretti dello studioso, che erano stati ampiamente messi in evidenza in un dettagliato rapporto che così recitava: In ordine a quanto forma oggetto della lettera del Ministro dell’Istruzione che si restituisce a codesta On. Segreteria, si comunica che il Sopraintendente dell’Archivio di Stato di Roma, con lettera 19 giugno us., ebbe a significare quanto segue: “Il Prof. Gioacchino Volpe come delegato della Carnegie Endowment di Washington e del Prof. Giovanni Borelli, sta esaminando le cartelle dell’Archivio Storiografico della Mobilitazione Industriale, conservate nella 270 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, Milano 24 giugno 1923, SPD. Come risulta da questa lettera il lavoro di Volpe doveva essere l’introduzione ad una serie di monografie promosse dal «Comitato italiano della Fondazione Carnegie per la “Storia economica e sociale della guerra”». Sul punto, F. DEGLI ESPOSTI, Grande Guerra e storiografia. La storia economica e sociale della Fondazione Carnegie, in «Italia contemporanea», 2001, 3, pp. 413 ss. 271 Sul punto, M. ISNENGHI, La tragedia necessaria. Da Caporetto all’Otto settembre, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 15 ss. 272 Giovanni Gentile a Benito Mussolini, 1 luglio 1923, SPD. 273 Giovanni Marinelli, Segretario Particolare di S.E. il Presidente del Consiglio dei Ministri a Giovanni Gentile, Ministro della Pubblica Istruzione, 17 luglio 1923, ivi.
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Sezione storiografica dell’Archivio del Regno. Con tale esame egli assicurava di voler fare la storia dell’ultima guerra con speciale riguardo all’Italia, in base alla concessione fatta dalla Presidenza del Consiglio al predetto Prof. Borelli per 5 anni di usufruire esclusivamente del materiale di quell’archivio: come, del resto, risulta dalla Ministeriale dell’Interno 1° febbraio 1920 n. 8900/15/37155. Ma alla vigilanza esercitata sopra i di lui studi, non è sfuggita l’osservazione come egli si limitasse di preferenza e puramente allo studio delle agitazioni operaie, dei moti comunisti e rivoluzionari (cartella 5: N° 135: Propaganda contro la guerra in Liguria; cartella 10: Comunicazioni del Ministero dell’Interno; Movimenti neutralisti e rivoluzionari; cartella 11: Prospetti statistici relativi alle maestranze; Bollettini settimanali delle agitazioni operaie; cartella 13: Propaganda disfattista; Relazione sulle giornate di Torino) vale a dire dello stato d’animo operaio durante quel periodo, e, quindi, di un argomento di estrema delicatezza e di carattere squisitamente politico, che nulla ha a che fare con gli studi statistici, ai quali mirava la concessione primordiale. Le conclusioni alle quali un tale studio potrebbe condurre sono di gravità enorme, e peggio ancora, se propagate all’Estero. E poiché tale materia ed i provvedimenti relativi esorbitano dal campo statistico assegnato a quei lavori, che avrebbero dovuto essere già in corso alla data del 1920; e, quindi, dalle mie competenze, prego il Ministero di voler interrogare d’urgenza il Gabinetto sull’estensione da dare alla concessione fatta nel 1920 al prof. Borelli e pel tramite di lui, ai delegati della grande istituzione americana in modo che la decisione possa essere a questi subito intimata. Si domanda, intanto, se nell’attesa della risposta si debba far sospendere lo studio”. L’On. Gabinetto di S.E. il Sottosegretario di Stato per l’Interno, cui fu comunicata la richiesta del Sopraintendente, determinò doversi revocare la concessione fatta al Prof. Volpe; in seguito a che, furono date le necessarie istruzioni al Sopraintendente dell’Archivio del regno per la revoca anzidetta274.
Sicuramente, concentrare la propria attenzione, non sulla battaglia del Piave e sulla travolgente avanzata di Vittorio Veneto, ma sui moti annonari a carattere pacifista e disfattista dell’agosto 1917, a Torino, che avevano fruttato alla vecchia capitale sabauda l’epiteto di «porca città francese», coniato da Mussolini, e che molti avevano considerato la causa prossima della rotta di Caporetto275, era veramente troppo anche per uno storico laureato dal regime, come Volpe, che cominciava in questo modo la lunga teoria delle sue gaffes politiche di grande e piccola entità. A disperdere quella cortina di dissapori, se non di ostilità vera e propria, interveniva, nel novembre successivo, il cognato Arrigo Serpieri, Sottosegretario di Stato per l’Agricoltura nel secondo governo Mussolini, il quale riusciva a ottenere un appuntamento riservato tra il proprio 274 Ministero dell’Interno. Appunto per l’On. Segreteria di S.E. il Presidente del Consiglio, s d. [ma luglio 1923], ivi. 275 Sul punto, P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, cit., pp. 307 ss.
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congiunto e il Duce276. E, forse in virtù di quel colloquio chiarificatore, il tempo pareva tornare al sereno, se Volpe si permetteva addirittura di offrire, nell’ottobre del 1924, il proprio consiglio politico a Mussolini, in relazione all’affare Cadorna, che si andava ancora trascinando dopo l’«autunno nero» del 1917. Per colui che aveva guidato le armate italiane nei primi anni del conflitto e che molti ancora a lungo avrebbero considerato il massimo responsabile della disfatta di Plezzo, Tolmino e Monte Nero277, alla cui azione anche Volpe non avrebbe risparmiato critiche ampie e motivate in sede storiografica278, si consigliava non soltanto la remissione di ogni colpa ma perfino la piena reintegrazione nella stima pubblica, tramite la nomina a Maresciallo d’Italia, in base a considerazioni squisitamente politiche. Quanto mi permetto scriverle sarebbe più materia di colloquio che di lettera. Ma penso che Lei ha molte cose da fare e molte udienze da concedere. Assai brevemente e con la speranza che il Presidente consideri le mie parole non velleità o pretesti di dar consigli non chiesti ma solo desiderio di bene: è assai probabile, a quel che si sente, che il caso Cadorna ingrossi; è probabile che non
276 Arrigo Serpieri a Benito Mussolini, novembre 1923, SPD: «Mio cognato Prof.
Gioacchino Volpe, di Milano, che V. E. conosce, sarebbe assai grato alla Eccellenza Vostra se volesse fissargli un appuntamento. Confido che V. E. vorrà consentirvi, e mi rassegno con devoto ossequio». 277 In occasione della pubblicazione di Ottobre 1917, Novello Papafava dei Carraresi scriveva a Gioacchino Volpe, il 4 marzo 1930, lodandolo per aver riportato quella catastrofe alla sua dimensione di «fatto militare» contro «tutti i vilissimi Pilati che si sono affrettati a scaricare le loro responsabilità tecniche sulle spalle del carattere politico e morale degli Italiani». La lettera, conservata in FV, continuava: «E pensare che per molto tempo è stato considerato altamente “riprovevole” e accusato ingiustamente di viltà l’esercito italiano, per non mettere in discussione la discutibilissima infallibilità di alcuni generali». Questa interpretazione era stata ampiamente sviluppata da Papafava in Caporetto: il 27. Corpo d’Armata, in «La Rivoluzione liberale», I, 12 ottobre 1922, 29, p. 107 ss., in particolare p. 107. Sullo stesso punto, si veda la lettera del 23 aprile 1930 di Giulio Rodinò, ministro della guerra nel secondo gabinetto Nitti e nell’ultimo gabinetto Giolitti, ad Aldo Borelli, ACorsera: «Ella e l’illustre scrittore Aldo Valori ebbero già a tenere conto dei miei precedenti giudizi, riportandoli sul Corriere; provai viva soddisfazione nel leggere l’articolo “Ottobre 1917” del Valori, recensione del libro del senatore Gioacchino Volpe [sic], prospettante con molta verità, che Caporetto fu azione militare e non tradimento, né di comandanti, né di truppe. Al riguardo mi riserbo di mandare qualche appunto, perché ormai è tempo che ci si prepari di vedere tutta la verità e che Caporetto fu azione abilissima di offensiva tedesca, quasi di sorpresa, contro la quale le linee nostre dovevano di necessità retrocedere». 278 G. VOLPE, Ottobre 1917, cit., pp. 66, 69-70; 103 ss. Sul punto, G. SALVEMINI, “Lezioni di Harvard”, cit. p. 311, dove si sosteneva: «Storici e critici militari concordano nel dare la responsabilità della sconfitta ai capi militari, e nell’affermare che lo sbandamento delle truppe avvenne nelle retroguardie, dopo che gli austriaci avevano rotto il fronte ed erano penetrati in profondità nelle linee italiane, dove non era stata apprestata nessuna misura difensiva». A sostegno di questa tesi, Salvemini citava Ottobre 1917 di Volpe.
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solo le opposizioni se ne impadroniscano ma anche la maggioranza possa trovarsi divisa nel caso che in Parlamento venga sollevata la questione del riconoscimento dovuto dallo Stato al Generale che, in ultimo, si vide spezzato in mano lo strumento che egli aveva forgiato ma che è impossibile considerare come un Generale vinto. Certo, nel mondo degli uomini, vi è un verdetto che si lega strettamente e si subordina al successo. Ma vi è anche un verdetto che desume più da lontano le sue motivazioni e va oltre il successo o l’insuccesso. Anche perché, nel caso nostro, il successo poi, ad un anno di distanza, c’è stato. E nessuno vorrà credere, non ostante tutto il rispetto e la riconoscenza che si deve all’uomo, che esso sia dovuto solo a Diaz279.
Cadornismo «prudente e patriottico», quello di Volpe, molto diverso da quello di Ojetti280, simile, invece, a quello di Salvemini281, e di quanti, durante la guerra ma anche a conflitto ultimato, avevano militato nel «partito del generale» composto da un variegato schieramento, che comprendeva i gruppi del nazionalismo liberale riuniti attorno al «Mondo» di Giovanni Amendola e al «Corriere della Sera» di Albertini, nazionalisti ortodossi, elementi del fascismo estremista, ma anche esponenti dell’opposizione al regime come Nello Rosselli282. Cadornismo, infine, a cui si uniformava anche Mussolini, pure assai poco propenso a simpatie per un protagonista di quella guerra regia che il regime intendeva trasformare in guerra fascista, accogliendo il suggerimen279 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, Roma 13 ottobre 1924, SPD. A margine della lettera si legge l’appunto autografo di Mussolini: «Sì, me ne occuperò». 280 U. OJETTI, Cadorna (1921), in Cose viste, a cura di T. Jermano, Avagliano Editore, Cava dei Tirreni, 2003, pp. 149 ss. 281 G. SALVEMINI, I manutengoli del fascismo. Lettera a Piero Calamandrei, «Il Ponte», 1952, 4, ora in ID., Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di Elio Apiph, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 571-572: «Durante la guerra 1915-18, Albertini sostenne Cadorna, fino a quando la rotta di Caporetto produsse il cambio dell’alto comando militare. Lo sostenne contro la maggioranza della Camera, opponendo il “governo di Udine” alla Camera dei deputati, e dicendo che “il paese guardava a Udine”. Tutto questo è vero. Ma non bisogna dimenticare che la maggioranza giolittiana della Camera, la quale non aveva voluto la guerra pur votandola, stava in agguato per ricondurre al potere Giolitti, affinché facesse una pace separata, e il suo bersaglio preferito era proprio Cadorna. In quelle condizioni non c’era scelta: o Cadorna con tutti i difetti, o Giolitti con la pace separata. Uscito Salandra dal governo nell’estate del 1916, gli era succeduto nella presidenza del Consiglio un vecchio rammollito, Paolo Boselli, che doveva farsi iniezioni di canfora prima di parlare in pubblico o di intervenire ad una riunione internazionale. In quell’anno che va dall’estate del 1916 all’autunno del 1917, messa di fronte a quel retore decrepito e inconcludente, la maggioranza neutralista dei deputati diventò sempre più indisciplinata e intrigante. Da un lato Boselli, dall’altro Cadorna, che almeno era un uomo. Questa situazione durò fino a quando il disastro di Caporetto produsse in Italia una reviviscenza del sentimento nazionale, e la sostituzione di Cadorna rese meno acerbe le polemiche, e la maggioranza parlamentare diventò meno riottosa». 282 ID., Memorie e soliloqui, cit., pp. 375-376.
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to di Volpe con qualche calore283. Tra i due, i rapporti si mantenevano cordiali, anche nella lettera del settembre 1928, con la quale lo storico comunicava al Presidente del Consiglio di mettere a disposizione l’indennità, legata al conferimento di una decorazione al valore, per offrire un piccolo contributo al risanamento delle finanze pubbliche, intrapresa dal regime. Lettera in cui Volpe teneva a mettere in evidenza la sua qualità di intellettuale non abbiente, la cui posizione economica non aveva ricevuto alcun miglioramento sostanziale dall’avvento del regime. Non ho ricchezze e neanche risparmi (se risparmio non è allevare ed educare alquanti figlioli, invece che spendere in consumi voluttuari!). Ma per la “restauratio aerarii” voglio anche io dare il mio piccolo contributo. Metto a sua disposizione la indennità di medaglia d’argento che io riscuoto: se non sbaglio, 250 lire annue. Volevo farlo da un pezzo e sempre ho rimandato! Voglia permettermi anche di offrirle un mio recentissimo volume: raccolta di scritti 191628. C’è qualcosa di buono che, mi pare, possa aver parte nella educazione mentale dei giovani italiani. E vorrei che anche lei lo credesse!284.
Il barometro indicava il bello stabile, ancora nel giugno 1929, quando il Capo del Governo lodava, anche se con qualche supponenza, l’articolo di Volpe dedicato all’anno di neutralità italiana tra 1914 e 1915285, dove largo spazio era stato dato all’interventismo mussoliniano e alle sue caratteristiche « rivoluzionarie », che aveva permesso alla nazione di farsi avanti «direttamente», sulla scena della politica, «fuori e contro la rappresentanza legale», per indirizzarsi, sorpassando ogni intermediario istituzionale, al Governo e al Re, e per fiancheggiare Salandra che preparava la presa d’armi contro il Parlamento. Da questo soprattutto risultava il carattere numericamente minoritario ma politicamente assi rilevante assunto dai Fasci d’azione rivoluzionaria, che avevano costituito la punta di diamante dell’«interventismo popolare» e che avevano dimostrato la capacità non soltanto di infrangere la «solidarietà neutralista, classista, internazionalista» del socialismo italiano ma anche di iniettare nuovi elementi ideali nell’«interventismo dei nazionalisti, dei liberali, dei repubblicani, dei democratici». Così concepito, il contributo piaceva a Mussolini che lo considerava «molto importante», aggiungendo: 283 La risposta della Segreteria particolare alla lettera di Volpe del 16 ottobre 1924, conservata in SPD, recitava: «S. E. il Presidente del Consiglio la ringrazia molto per la gradita Sua lettera del 13 corrente e la informa che il Governo sta occupandosi del caso che Ella ha voluto segnalare». 284 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, S. Arcangelo di Romagna, 15 settembre 1928, ivi. Il riferimento era al volume Guerra Dopoguerra Fascismo, cit. 285 G. VOLPE, I Partititi politici nell’anno della neutralità in «Nuovi Studi di economia e di diritto», marzo-giugno, 1929, 3, pp. 21 ss.
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Finalmente c’è uno storico che spiega ciò che avvenne nei primi mesi della guerra mondiale. Neutralismo e interventismo furono per me due successive posizioni rivoluzionarie. La prima si esaurì nell’ottobre del 1914, col mio articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità operante (e non perdurante come è stato stampato nel suo articolo)286.
Molto compiaciuta la reazione di Volpe a quel giudizio, che veniva considerato «una specie di riprova sperimentale delle cose pensate e ricostruite ad una certa distanza dall’azione pratica» e che lo incoraggiava a proseguire le sue ricerche sulla genesi della guerra italiana per la stesura di «un più grande lavoro che vengo, a pezzi e bocconi, portando innanzi da vario tempo»287. Ma tanta soddisfazione era di molto ridimensionata, come sappiamo, dall’ordine di procrastinare la comparsa del suo volume su Caporetto, a ulteriore testimonianza del brusco e improvviso altalenare dei rapporti con Mussolini, che la moglie di Volpe cercava di stabilizzare con l’invio di questa corrispondenza, a metà febbraio del 1930. Io immaginavo che Gioacchino non avrebbe detto quello che era nostro grande desiderio. Ecco è questo: domenica sarà il giorno del suo compleanno. Noi festeggeremo la sua guarigione e insieme la laurea e il fidanzamento del maggiore dei suoi sei figlioli. Avremmo voluto che almeno il suo ritratto con una parola fosse in casa nostra quel giorno… ma Gioacchino non si è azzardato a richiederlo. Io sì mi azzardo, forse perché sono romagnola come lei. Vuole scusarmi e accontentarmi?288.
Nonostante questa affettuosa, ma in fondo molto inopportuna intromissione, che in ogni caso avrebbe fruttato allo storico, l’invio di «n. 2 foto di S. E. il Capo del Governo con postilla autografa: “All’Accademico d’Italia, Gioacchino, Volpe con viva amicizia e stima”»289, la temperatura del commercio epistolare non sarebbe risalita e anzi avrebbe toccato lo zero di lì a poco. Il 10 dicembre, Mussolini inviava a Volpe 286 Benito Mussolini a Gioacchino Volpe, 14 giugno 1929, SPD. In una più tarda ri-
costruzione, Volpe scriveva che l’articolo aveva «vellicato» il mai sopito «rivoluzionarismo» di Mussolini: «Gli capitò di leggere attorno al ’26 e ’27 [sic], su la rivista di Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, un articolo che, ricostruendo la vicenda interna nostra, fra il 1914-1915, così interpretava, cioè in senso rivoluzionario, quel suo interventismo. E subito scrisse all’autore dell’articolo molto vicino al sottoscritto, assentendo pienamente, lieto che altri avesse capito il suo vero pensiero e che ne rinfrescasse la memoria agli italiani». Si veda G. VOLPE, Vittorio Emanuele e Mussolini, cit., p. 191. 287 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 23 giugno 1929, cit., dove Volpe naturalmente faceva allusione al volume Il Popolo italiano fra la pace e la guerra. 288 Elisa Serpieri Volpe a Benito Mussolini, 15 febbraio 1930, SPD. 289 Appunto manoscritto della Segreteria, 15 febbraio 1930, ivi.
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una durissima reprimenda per aver insistito, oltre misura, al fine di favorire la concessione del passaporto a Nello Rosselli (arrestato nel 1929, per aver facilitato la fuga del fratello Carlo, e poi rilasciato per le «reiterate e insistenti premure» dello stesso Volpe) e poi alla sua consorte, che doveva permettere all’allievo della Scuola storica di proseguire le sue ricerche sui rapporti diplomatici tra Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1848, presso il Record Office di Londra290. In quella malaccorta insistenza, il Duce arrivava a scorgere una sorta di complicità che avrebbe potuto consentire a Nello di raggiungere Carlo Rosselli a Parigi, per unirsi a lui nell’attività sovversiva291. Accusa, alla quale Volpe reagiva con fermezza, replicando: La lettera 10 dicembre, a firma di V.E., mi ha non poco turbato. Io sì, ho raccomandato il prof. Rosselli per la liberazione dal confino e la concessione del passaporto; e non per relazioni personali che a lui mi legassero, ma perché non andasse perduto, per la Scuola che io dirigo, il frutto di studi avviati e denari spesi; e anche perché avevo quasi la certezza morale che il Rosselli non avesse commesso colpe, almeno colpe meritevoli di confino, né, fuori d’Italia, avrebbe poi tradito la fiducia in lui riposta. Di ciò egli mi diede la sua parola d’onore. Ora, io non dubito che la E.V. sia in possesso di elementi che diano materia a sospettare sul conto del dott. Rosselli, nella sua attuale dimora di Londra. Ma mi consenta ancora di credere e sperare che egli nulla abbia compiuto e compia che lo metta fuori delle leggi dell’onore e della patria. Più volte, in questi ultimi tempi, mi ha scritto, per darmi conto delle sue ricerche. E sempre col tono di chi attende il compimento dell’opera per tornare in Italia; e molto si ripromette per il suo avvenire, da questi suoi studi; ed è grato a chi gli ha dato modo di non troncare il suo curricolo di studioso. Che questo sia tutto un inganno teso alla mia buonafede? Nulla di impossibile sotto il cielo. Ma ripeto, non voglio ancora crederlo. Il fatto di chiedere il passaporto per la moglie, che è inglese e può desiderare di andare a passar le vacanze natalizie con lui senza che egli debba interrompere il suo lavoro, non so se sia indizio sospetto; ma mi si consenta di pensare, signor Presidente, che non sia ancora un indizio sufficiente per sospettare troppo male. Se la E.V. ha ancora qualche fiducia in me, 290 Su tutto questo, il mio Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 104 ss. 291 Benito Mussolini a Gioacchino Volpe, 10 dicembre 1930. Lettera pubblicata in Nel-
lo Rosselli. Uno storico sotto il fascismo. Lettere e scritti vari (1924-1937), a cura di Z. Ciuffoletti, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 56-57. Sul punto, ritornava Volpe nel Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione del 1946: «Il mio fascismo non mi ha impedito di accogliere fra gli allievi della Scuola storica, che io dirigevo, presso l’Istituto di Storia Moderna, Nello Rosselli, adoperarmi perché fosse due volte, come fu, liberato di confino, ottenere che gli venisse dato il passaporto per proseguire i suoi studi in Inghilterra, facendomi io garante del suo ritorno (donde una aspra lettera a me, da alto luogo, quando si credé, a torto, che Rosselli non volesse tornare!)». Sui buoni uffici di Volpe in favore di Rosselli, si veda anche Giovanni Ansaldo a Giustino Fortunato, 14 febbraio 1928, cit.: «Il Volpe pare che abbia fatto quanto era in lui per facilitare il ritorno del Rosselli».
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e il mio intervento personale presso il Rosselli non è reso vano da atti o provvedimenti che lo mettano in sospetto e lo distolgano dal ritornare, io confido ancora di poter fare onore alla garanzia292.
Ad avallare la testimonianza della sua buona fede, Volpe avrebbe potuto citare la corrispondenza dello stesso Rosselli, che certificava come il giovane studioso in nulla intendesse sfruttare l’occasione offerta dalla missione di studio, per entrare nella rete settaria del fuoriuscitismo militante. Nella lettera, datata Firenze 18 marzo 1930, precedente la partenza, Nello, quasi presagendo la piccola tempesta che la sua missione di studio avrebbe scatenato, aveva scritto infatti: È inteso, dunque. Io anticipo le spese, e la Scuola mi rimborserà quando potrà, fino a concorrenza di due mesi di soggiorno, viaggio di andata e ritorno, e – naturalmente – copie d’archivio. Se invece di due mesi, mi bisognerà passare a Londra tre o quattro, le ulteriori spese saranno tutte a mio carico. Sono pronto, prontissimo a rimetterci del mio, pur di finire questo benedetto lavoro, che tanta fatica mi è costata, che tanto mi appassiona e che perciò – così sospeso – mi mette il diavolo addosso! Le assicuro, non vedo l’ora di poterle dimostrare, con i fatti, che se molti, troppi imbarazzi Le sono venuti da me, pure il mio alunnato non è stato interamente passivo. Non vorrei però che quanto precede le desse l’impressione che io sono ansioso di recarmi all’estero: in verità io sono unicamente ansioso di finire il lavoro, e vorrei che Lei mi leggesse dentro per poter capire che, tutto compreso, sarei, oggi come oggi, più contento se i rapporti diplomatici fra Italia e Inghilterra si potessero compiutamente studiare a Roma o a Milano anziché a Londra! Le ho scritto con il cuore in mano. Ella vorrà perdonare la confidenza che mi sono preso, e attribuirla solo alla mia devozione per Lei293.
Il 9 gennaio del nuovo anno, da Londra, l’allievo della Scuola storica replicava i suoi buoni propositi, ribadiva il più sincero ringraziamento per il trattamento di favore concesso dal regime al congiunto di un fuoriuscito e attivissimo oppositore, grazie alle affettuose cure di Volpe e lo tranquillizzava sugli scopi esclusivamente scientifici della missione, relazionando con larghezza i primi risultati dello scavo archivistico e annunciando un prolungamento del suo soggiorno estero, dovuto unicamente all’interesse della ricerca. Sì, mia moglie è qui con me da alcuni giorni – e pur non avendo ricevuto risposta da lei, essa immaginava che al rilascio del passaporto Ella non doveva essere estraneo. La sua lettera ci toglie ogni dubbio, e tanto mia moglie che io 292 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 20 dicembre 1930, SPD. 293 Nello Rosselli a Gioacchino Volpe, 18 marzo 1930, CV.
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desideriamo ringraziarla vivissimamente. Ma come mai Ella pensò di scrivere a mia moglie in Montosferno? In quella località, credo bene che essa debba risultare sconosciuta, in quanto non v’ha messo piede! Mia moglie mi dice di averle scritto da Firenze e io non intendo come sia saltato fuori questo Montesferno. Desidero che Ella sappia che mia moglie, nel chiederle di facilitare il rilascio del passaporto, ha agito di sua iniziativa; io, se l’avessi saputo, l’avrei pregata di non farlo. La famiglia Rosselli ha già dato tante seccature involontarie al prof. Volpe che non vedo proprio perché gli se ne debbano infliggere anche di quelle involontarie! Comunque, cosa fatta capo ha, e non mi resta che ringraziarLa ancora. A Londra ho passato mesi piacevolissimi anche da solo, si figuri in compagnia di mia moglie che per la prima volta in vita sua ha valicato la frontiera italiana! Le cure maritali non mi distraggono però dagli studi. E se ne tolgo una diecina di giorni di vacanza che io mi sono preso per andare a incontrare l’inesperta viaggiatrice e farle i primi onori d’Inghilterra, non ho cessato di frequentare quotidianamente l’inesauribile Record Office. Finito Napoli, finito Firenze, finito Roma, sono in pieno Piemonte. I signori Ministri d’Inghilterra non risparmiavano la carta, a Torino! Le assicuro che ci vuole pazienza e costanza a spulciare i loro dispacci: a volte, da quanti ne vedo, non riesco neanche più a capire quali siano importanti, quali no. Ho l’impressione che con altre sei settimane la consultazione dell’ordinaria corrispondenza diplomatica potrà dirsi ultimata. Ci vorrà poi un po’ di tempo per controlli, revisioni, assaggi d’altro materiale. Credo di non andare errato prevedendo il mio ritorno, su per giù, per la metà del marzo prossimo. Forse se lavorassi dalle dieci della mattina alle 16,30 nel Record Office potrei terminare anche prima; ma, come già Le dissi, da qualche tempo frequento anche il British Museum, un po’ per ricerche inerenti al lavoro della Scuola, un po’ per altri lavoretti. Posto che la Scuola stessa non sopporti l’aggravio della mia permanenza a Londra, confido che Ella non avrà niente in contrario a questa libertà che mi sono preso. […] Una fortunata combinazione mi ha poi messo in contatto con gli eredi di Bentinck, che fu in Sicilia nel 1811-1813. Il Bentinck tenne in quegli anni (e nei successivi) un minuto diario degli avvenimenti, che è tuttora inedito, salvo qualche brano pubblicato qua e là. Ho avuto tra le mani questi diari, che a me sembrano di notevole interesse. Un membro della famiglia dei duchi di Portland (eredi di B.) sta preparando una voluminosa biografia del suo antenato, ma naturalmente non avrà modo di pubblicare nella loro integrità questi diari, tanto più che in Inghilterra il Bentinck interessa assai più per il suo governatorato indiano che per i suoi exploits siciliani. Forse sarebbe opportuno tastare il terreno per sentire se sarebbe consentita la pubblicazione di una traduzione italiana di questi diari? Stia tranquillo per tutto il resto. Vivo santamente e credo di non dare ombra assolutamente a nessuno. Non faccio che lavorare e guardar l’Inghilterra e studiare gli inglesi294.
294 Nello Rosselli a Gioacchino Volpe, 9 gennaio 1931, cit. La ricerca su Bentinck venne poi realizzata da J. ROSSELLI, Lord William Bentinck e l’occupazione britannica in Sicilia, 1811-1814, Palermo, Sellerio, 2002.
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L’affare, dunque, pareva poter rientrare senza conseguenza per nessuna delle parti, se, dopo il ritorno di Rosselli in Italia, Volpe, forte del suo buon diritto ed esibendo il volto della maestà offesa, non avesse di nuovo ribattuto a Mussolini, contro gli ingiusti sospetti riferiti al suo comportamento, con una nuova lettera dal tono irritante e se non altro irrituale, considerato l’indubbio distacco gerarchico dei due corrispondenti295. Il solco scavato intorno a questo episodio, poi divenuto leggenda aurea della proverbiale tolleranza del Volpe «maestro» verso i suoi discepoli, si sarebbe comunque colmato più tardi, sempre in riferimento, per paradosso, all’attività scientifica del fratello del fondatore del movimento di Giustizia e Libertà. Nello, infatti, non aveva mentito, testimoniando a Volpe il suo allontanamento dalla strada maestra dell’opposizione al fascismo. Lo indicava non solo il pronto rientro nel nostro paese, ma anche la corrispondenza degli anni successivi, a partire da quella del primo gennaio 1932, dove Nello affermava di aver letto «quasi con commozione le lusinghiere parole dedicate a me», nell’articolo del «Corriere della Sera»296, dedicato alla Scuola romana e aggiungeva di sperare che il «frutto corrisponda alle aspettazioni»297. Era una testimonianza di intesa perfetta, tra allievo e maestro, che si rinnovava, a due anni di distanza, quando Rosselli ritornava sul progetto della «Rivista di storia europea», parlando delle difficoltà opposte al suo sorgere da ambienti fascisti e forse non solo da quelli, nonostante l’autorevolissino avallo concesso da Mussolini298, e poi si ribadiva ancora nella corrispondenza dell’ottobre del 1935, dove ancora Nello replicava positivamente all’invito di collaborare a «Rivista Storica Italiana», dando prova del suo mai sopito interesse per i temi di storia diplomatica, animati dal magistero di Volpe, contrariamente a quanto tendenziosamente poi si è voluto sostenere.
295 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 19 giugno 1931. La lettera è conservata in ACS, Casellario Politico Centrale, fascicolo «Sabatino Rosselli». 296 G. VOLPE, Una scuola per la storia dell’Italia moderna, in «Corriere della Sera», 8 gennaio 1932, p. 3, dove si descrivevano i lavori di Rosario Russo e di Michel sulla Corsica, quelli di Morandi sulla politica estera degli Stati europei dalla lega di Augusta alla pace di Utrecht, quelli di Carlo Capasso sui congressi diplomatici nella prima Restaurazione e quelli di Maturi sullo scenario internazionale del moto risorgimentale. Largo spazio era dato anche alla ricerca di Rosselli dalla quale emergevano «il tradizionale egoismo inglese e la tradizionale politica materiale di interessi economici, ma anche sincere e diffuse simpatie per l’Italia nella gente colta e negli uomini di governo». L’articolo veniva poi ripubblicato in ID., Storici e maestri, cit., pp. 457 ss. 297 Nello Rosselli a Gioacchino Volpe, 10 gennaio 1932, CV. 298 Nello Rosselli a Gioacchino Volpe, 28 aprile 1934. La lettera è stata pubblicata con data erronea e con un testo difforme in vari punti dall’originale, in Nello Rosselli. Uno storico sotto il fascismo, cit., pp. 153-154.
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La ringrazio molto per l’invito a collaborare alla nuova serie della Rivista Storica Italiana da Lei diretta, invito che accetto naturalmente e che considero un onore per me. Aspetto di vedere il primo fascicolo per proporLe la pubblicazione di qualche saggio che ho in preparazione o in progetto: a meno che Ella non creda di propormi qualche lavoro speciale. Quanto al mio eterno lavoro sui rapporti politici fra l’Inghilterra e l’Italia (davvero che non avrei mai creduto che sarebbe diventato di una così palpitante attualità, come scrivono i giornalisti!), il primo volume (Inghilterra-Piemonte, 1815-1848) è stato già da tempo da me consegnato al copista; il quale non mi ha restituito sin qui che le prime 300 pagine circa (250 di testo e 50 di note). In un mese e mezzo da oggi calcolerei di riavere l’intero dattiloscritto e di aver terminato la necessaria correzione e limatura finale. Debbo dire a mio discarico che a qualche rifacimento mi hanno costretto, all’ultima ora, non soli i miei scrupoli, ma altresì talune pubblicazioni recenti, come quella di Taylor (The Italian problem in European diplomacy), che ha in parte sfruttato materiale da me già elaborato e in parte altro materiale (di Vienna, in ispecie) per me nuovo. È stato poi deciso quale ente pubblicherà il lavoro? A ragion veduta, e ove non ostino considerazioni d’altro genere, io preferirei proprio che la pubblicazione del lavoro precedesse quella dei documenti, che dovrebbe venir fatta per conto della Scuola. In attesa di Sue istruzioni, e con rinnovati ringraziamenti per il molto lusinghiero invito a collaborare, La prego, Eccellenza, di voler gradire il mio devoto ossequio299.
La collaborazione accesa con la rivista, che non sarebbe restata episodica300, era prova ulteriore di come Rosselli si fosse ormai tramutato in un «historien de valeur» ma anche in un «antifasciste des plus modérés», secondo l’attendibile testimonianza di un altro intellettuale democratico, come Elie Halévy301. La permanenza in uno dei più prestigiosi istituti culturali del regime e l’appassionato attaccamento all’atmosfera che si respirava nel mondo degli studi storici italiani non configuravano certamente un suo pieno cedimento al sistema di potere di Mussolini ma indicavano piuttosto un differente modo di combattere la 299 Nello Rosselli a Gioacchino Volpe, 27 ottobre 1935, CV. Il saggio promesso da Rosselli, La politica inglese in Italia nell’età del Risorgimento, veniva pubblicato su «Rivista Storica Italiana», 1936, 2, pp. 1 ss. La leggenda dell’interesse unicamente strumentale di Rosselli per la storia delle relazioni internazionali, dovuta al magistero di Volpe, era stata propalata da A. GALANTE GARRONE, Nello Rosselli e la storia diplomatica, in «Il Ponte», 1955, 7, pp. 1036 ss. Diversamente e correttamente, invece, S. VISCIOLA, Nello Rosselli alla Scuola di Storia moderna e contemporanea, in Politica, valori, idealità. Carlo e Nello Rosselli maestri dell’Italia civile. A cura di L. Rossi, Roma, Carocci, 2003, pp. 111 ss. 300 Nello Rosselli a Gioacchino Volpe, s. d. [ma 1936], CV: «Quanto al suo invito cortese perché io seguiti a collaborare alla Rivista Storica, lo accetto con riconoscenza; colgo intanto questa occasione per ringraziarla della retribuzione mandatami per l’articolo pubblicato. Spero ben presto di poterle mandare, in esame, qualche altro mio scrittarello». 301 E. HALÉVY, Correspondance, 1891-1937. Textes réunis et présentés par H. Guy-Loë, Paris, Edition de Fallois, 1996, p. 745, alla data del 13 giugno 1937.
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propria battaglia ideale, optando per quella resistenza nel mondo degli studi, che Croce aveva consigliato a molti giovani oppositori302, e soprattutto cercando di comprendere l’origine vera del fenomeno fascista, senza accontentarsi di troppo facili spiegazioni che lo dipingevano come un intervallo di barbarie nella vita italiana, o come il semplice braccio armato della reazione capitalistica e borghese. Guardare il fascismo, con occhi da storico, il più possibile disinteressato, questo aveva voluto proporsi Nello, recensendo il primo volume della biografia del Duce del fascismo, composta da Yvon De Begnac. Un volume, comparso nel 1936, dal titolo fortemente evocativo, All’ombra della rivoluzione antica303, nel quale si parlava diffusamente della patria romagnola, repubblicana socialista, anarchicheggiante del padre di Mussolini, Alessandro, descritta come un universo sanguigno e rivoluzionario, dove Robespierre e Babeuf, Marx e Mazzini, Bakunin e Andrea Costa sembravano potersi stringere la mano e vivere in assoluta armonia, formando il magmatico terreno di cultura da cui sarebbe emerso il futuro direttore del «Popolo d’Italia». Il resoconto di Nello, pubblicato nel 1937 su «Rivista Storica Italiana»304, sfrondava il compiacimento retorico dello studio di De Begnac, e si concentrava sull’essenziale: le radici socialiste del fascismo, la non estraneità di quel fenomeno dalla grande famiglia del movimento democratico internazionale, che proprio la politica sociale di Mussolini pareva aver nuovamente posto in luce, varando quell’esperimento di economia corporativa che si sforzava di trovare una terza via tra collettivismo e capitalismo. In questo modo, almeno sul piano oggettivo, la nota di Rosselli forniva quasi una sorta di giustificazione storica al sistema economico del fascismo, in conformità, come sappiamo, a un obiettivo proposto da Gioacchino Volpe, che aveva espresso la necessità di rintracciare i precursori del «nuovo socialismo nazionale» negli esponenti del comunismo utopistico del XVIII secolo fino ai socialisti mazziniani e a Carlo Pisacane. Il breve saggio dedicato al volume di De Begnac soddisfece Mussolini, che avrebbe espresso a più riprese il suo gradimento, sostenendo che, pur essendo Nello Rosselli «un antifascista tra i più pedanti», egli si distaccava «nettamente» dal fratello Carlo, impegnato in un sostegno attivo ai repubblicani spagnoli, che «combatte contro i nostri soldati tra le fila dei rossi e che vorrebbe uno strano socialismo di cui né socialisti 302 N. BOBBIO, Autobiografia, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 33. 303 Y. DE BEGNAC, Vita di Benito Mussolini. I. Alla scuola della rivoluzione antica, Mi-
lano, A. Mondadori, 1936. 304 N. ROSSELLI, Di una storia da scrivere e di un libro recente, in «Rivista Storica Italiana», 1937, 2, pp. 76 ss.
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né liberali sarebbero contenti»305. Anche sulla base di quel gradimento Volpe arrivò a tracciare, dopo l’incidentale assassinio di Nello306, l’ipotesi che la recensione a De Begnac «potesse essere il primo o altro passo verso una conciliazione piena» fra Rosselli e «quella presente vita politica italiana, alla quale egli era stato finora, non dirò nemico, ma estraneo»307. Ipotesi, forse infondata, ma che si basava sul fatto, fino a questo momento mai messo in evidenza, che l’articolo di Nello era stato letto preventivamente e pienamente approvato dall’allora Presidente del Consiglio, a cui Volpe lo aveva sottoposto con la lettera del 28 marzo 1937. Eccellenza, mi è giunto, come direttore della “Rivista Storica Italiana”, un piccolo studio del dott. Rosselli, autore del volume, Pisacane, Mazzini e Bakunin, sopra il 1° volume di Ivon De Begnac. Questo studio vorrebbe approfondire la figura di Alessandro Mussolini e dell’ambiente politico romagnolo in cui esso si muove. Non mi pare da rigettare, questo studio del Rosselli. Ma poiché trattasi di argomento così vicino alla E.V., ad essa in tutto e per tutto io mi rimetto sull’opportunità di pubblicarlo, così come è, o, eventualmente, con qualche modificazione308.
In margine alla lettera, Mussolini, vergava la sua risposta: «Va bene. Rendere a Volpe». E aggiungeva la raccomandazione di fare copia della lettera per il «fascicolo Alessandro Mussolini e Ivon De Begnac» del suo archivio personale. A pochi giorni di distanza la Segreteria di Palazzo Venezia, «d’ordine del Duce», restituiva a Volpe «le bozze di stampa, con il nulla osta per la pubblicazione, dello studio Di una sto305 Y. DE BEGNAC, Taccuini mussoliniani, cit., pp. 26, 56, 222, 392, dove si definiva «Nello Roselli, studioso del Risorgimento, uomo che gode della mia stima e al quale mi lega gratitudine per il bel saggio sul primo volume della vostra opera». 306 Si veda la testimonianza di Halévy del 15 giugno 1937, in ID., Correspondance, cit., p. 747: «Nous sommes bien émus par le double assassinat des frères Rosselli, pour lesquels, principalement Carlo, mais aussi Nello, nous avions beaucoup d’amitié. […] Mais je fais cependant une différence entre les victimes. Carlo, qui était allé se battre en Espagne, savait les risques qu’il courait. Mais son malheureux frère, un historien de valeur, anti-fasciste, sans doute, mais complètement en dehors de la politique, marié à une femme qui n’était rien moins qu’antifasciste, ait payé de ce prix une visite fait par accident a Carlo au jour fixé par le destin, est vraiment une atrocité». Sulle ombre del delitto Rosselli, R. DE FELICE, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario, cit., pp. 420 ss. 307 Queste parole erano contenute nel commosso ricordo di Nello Rosselli, vergato dallo stesso Volpe, pubblicato in «Rivista Storica Italiana», 1937, 3, pp. 132-133. 308 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 28 marzo 1937, SPD. Ometteva completamente le circostanze a cui si doveva la pubblicazione dell’articolo, C. MORANDI, Per una storia del socialismo in Italia, in «Belfagor», 1946, 2, pp. 162 ss., ora in ID., Scritti storici, cit., I, pp. 67 ss., dove si ricordava il resoconto di Rosselli per «le belle pagine programmatiche, ricche d’indicazioni preziose e di scorci suggestivi».
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ria da scrivere e di un libro recente, rimessogli con sua del 28 scorso»309. L’incidente del 1930, si era dunque definitivamente chiuso se Volpe era riuscito, in qualche misura, ad avvicinare un noto oppositore alla vita spirituale del fascismo, ma, per contro, tra 1932 e 1933, si era aperto con Mussolini un altro grave fronte di dissidio, nel momento in cui, grazie all’appoggio di Gentile, il Segretario dell’Accademia d’Italia aveva invano cercato di contendere a Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon la direzione della «Rassegna Storica del Risorgimento»310, nell’ambito di una radicale e capillare riorganizzazione di questo settore di studi311. La nomina di Volpe alla guida del periodico era bloccata dall’intervento personale di Mussolini, come facilmente si può dedurre dalla lettera circolare che il primo inviava ai membri del Consiglio Centrale della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, il 23 febbraio 1933312. Nella nota, si ricordava che, nel congresso romano di fine giugno dell’anno precedente, la Società aveva provveduto al rinnovo delle cariche, eleggendo il maresciallo Gaetano Giardino alla presidenza, Giovanni Gentile a responsabile del Comitato delle pubblicazioni e sostituendo, per quanto riguardava la «Rassegna Storica del Risorgimento», al direttore unico (il Segretario generale, Eugenio Casanova), un gruppo di studiosi, Luigi Rava, Francesco Salata, Alberto Maria Ghisalberti, Iginio Scalfati e Volpe, designato alla direzione. Il comitato direttivo aveva lavorato all’elaborazione del terzo numero di «Rassegna» del 1932, che «portava nel frontespizio il nome del nuovo direttore responsabile» e si apprestava a continuare la sua attività, quando «verso il 20 o 25 dicembre, ma con la data del 13 dicembre, giunse al sottoscritto e agli altri membri delle Commissioni una lettera del Maresciallo Giardino, in cui si infirmava la legalità di tutto quello che il Consiglio aveva fatto dal 10 309 Osvaldo Sebastiani a Gioacchino Volpe, Roma, 2 aprile 1937, SPD. 310 G. TALAMO, Alberto Maria Ghisalberti, in «Rassegna storica del Risorgimento»,
2000, 1, pp. 5 ss., in particolare p. 10 e ora compiutamente, M. BAIONI, Risorgimento in camicia nera, cit. pp. 110 ss. Anche successivamente, Gentile cercava di sottrarre a De Vecchi la direzione degli studi risorgimentisti, tramite la creazione di un Istituto storico fascista per gli studi del Risorgimento. Il tentativo fallì. Nel giugno 1935, la Società nazionale veniva trasformata nell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, la cui presidenza era egualmente detenuta da De Vecchi. Sul punto, A.M. GHISALBERTI, Attorno e accanto a Mazzini, Milano, Giuffré, 1972, pp. 123 ss.; E. MORELLI, Ghisalberti e l’Istituto per la storia del Risorgimento, in In Memoria di Alberto Maria Ghisalberti, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1987, p. 50 ss. 311 G. GENTILE, Dal Comitato Nazionale per la Storia del Risorgimento al Regio Istituto Storico per l’Età moderna e contemporanea. Relazione a S. E. il Ministro dell’Educazione Nazionale, Roma, 5 febbraio 1935, S. Casciano Val di Pesa, Stianti, 1937. La riforma degli studi storici propugnata da Gentile si rifletteva nei Regi Decreti del 20 luglio 1934 e del 20 giugno 1935. 312 La circolare inviata anche a Giovanni Gentile è in AFG.
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giugno, e specialmente la elezione di S. E. Gentile, e quello del Comitato per la Rassegna; e si annunciava che la direzione del periodico era stata da lui affidata a S. E. Cesare Maria De Vecchi». Era una decisione, sottolineava Volpe, «che non ha bisogno di commenti» e che configurava una gravissima anomalia nella vita societaria, anche in relazione al fatto che «una preghiera rivolta da parecchi membri, rivestiti di cariche sociali, a S. E. Giardino, perché volesse convocare il Consiglio, ebbe risposta negativa». Ma era soprattutto una decisione che richiedeva la preoccupata attenzione dei vertici della Società, non per risarcire la suscettibilità di un singolo socio, ma per ristabilire l’autonomia dell’associazione nei confronti di una direzione autoritaria e di illeciti interventi esterni. Questo è quanto ho creduto opportuno di ricordare a Lei, egregio collega. Non mi muove risentimento personale, sebbene motivi non siano mancati; non desiderio di cariche sociali, mai sollecitate e con molta ritrosia accettate per quanto onorifiche. Solo mi muove il desiderio – comune desiderio! – che la Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, che viene e opera sotto l’alto Patronato di S. M. il Re e sotto gli auspici di S. E. il Capo del Governo, sia, come deve e vuole essere, veramente degna di questo Alto Patronato e di questi nobili auspici.
La lettera-circolare non ebbe comunque alcun esito. Nella poi convocata riunione del Consiglio del 27 febbraio, la decisione di Giardino veniva avallata dalla maggioranza dei membri, ad eccezione di Monti, Ghisalberti e Volpe, che rassegnava le dimissioni. A De Vecchi veniva così confermata la direzione del periodico e la nomina di commissario della Società, della quale nell’agosto successivo diveniva presidente. La volontà dei più cedette di fronte al superiore parere politico di Mussolini, che, il 12 maggio del 1933, si felicitava con il futuro governatore dell’Egeo, con queste stentoree parole: Sono molto lieto che la “Rassegna storica del Risorgimento” sia affidata alle tue cure. Era necessario togliere da un ambito troppo strettamente professionale e talora fazioso, la storia del Risorgimento, per portarla a più diretto contatto del popolo italiano e riguardarla con occhio fascista. Nella tua qualità di ardito di guerra e di ardito della Rivoluzione fascista, nonché di acuto cultore delle discipline letterarie e storiche, tu farai una rassegna sempre migliore, sempre più intonata e rispondente alle necessità e all’avvenire della Nazione313.
313 Benito Mussolini a Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, 12 maggio 1933, in ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 4, f.47/R «De Vecchi».
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Il cambio della guardia aveva risultati immediati sui contenuti della rivista, nella quale, tramite un articolo di Annibale Alberti, si giustificava la sterzata politica con la necessità di sbarazzarsi del «settarismo» e dei «criteri individualistici» (naturalmente quelli di Volpe), che non permettevano di comprendere che il Risorgimento «aveva non soltanto dato all’Italia unità e indipendenza, ma, in pari tempo, aveva gettato in solchi profondi i germi di una futura potenza imperiale»314. Da parte sua, De Vecchi, inaugurando la nuova serie della rivista, rivendicava l’obiettivo di fare del periodico un organo di propaganda, in larga parte asservito alle direttive del regime, che si doveva proporre l’obiettivo di rinchiudere la storiografia italiana «nel metodo, nel costume, nella dottrina fascista», per evitare che questa varcasse «il seminato nel nome di una scienza che tradirebbe lo Stato»315. Era la risposta immediata che il futuro autore del volume, intitolato alla fascista «bonifica della cultura»316, riservava a chi aveva recentemente dichiarato di non scandalizzarsi certamente della «presenza della politica» nell’attività storiografica, considerandola piuttosto un fecondo stimolo che un danno o un ostacolo, ma solo a condizione di non «annegarvela, come molto spesso accade, quando ci si mette alla ricerca degli immaginari precursori; quando si condannano uomini perché ebbero gli ideali del loro tempo e non del nostro, o viceversa si condanna il presente per la sua strada e non per quella che piace a noi o che noi crediamo rappresenti la linea di sviluppo del passato, il “progresso”», dato che in questo modo, si sarebbe rischiato di avere «non l’elevazione della storia, ma la contaminazione storia-politica»317. Molto diplomaticamente, Volpe decideva, comunque, di passare la gomma su tutto l’accaduto, scrivendo, nel mese di ottobre, a De Vecchi una lettera dal tono almeno parzialmente conciliatorio: «Per la simpatia, che sempre l’opera sua di soldato e di fedele assertore della Monarchia in Italia ha destato in me, voglio dimenticare le cose spiacevoli e, 314 A. ALBERTI, Risorgimento e Fascismo, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1933, 2, pp. 235 ss. 315 C.M. DE VECCHI DI VAL CISMON, Vie nuove, ivi, 1933, 4, p. II. 316 ID., Bonifica fascista della cultura, Milano, Mondadori, 1937. 317 G. VOLPE, Motivi ed aspetti della presente storiografia italiana, cit., p. 71. Sull’argomento interveniva, più tardi, anche Rodolfo De Mattei, che denunciava il «precursorismo» come una forma di degenerazione storiografica che valutava l’importanza degli «autori antichi secondo il metro degli interessi attuali». Si veda R. DE MATTEI, Sul metodo, contenuto e scopo di una storia delle dottrine politiche, in «Archivio di studi corporativi», 1938, 2, pp. 233 ss. L’intervento di De Mattei era più particolarmente diretto a contestare l’articolo di E. LAMA, Cultura fascista e cultura dei fascisti, in «Critica fascista», XV, 1938, 2, p. 240, che postulava invece l’esigenza di un approccio storiografico capace di mettere in luce «ciò che è vivo e fascista e ciò che è morto del pensiero dei vari secoli e dei vari autori».
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credo, immeritevoli, che, in questi ultimi mesi, mi sono venute dalla Società Nazionale per la Storia del Risorgimento e acconsento ad essere parte della Consulta della Società stessa»318. Si trattava di un messaggio di pura e semplice convenienza, che non attutiva il trauma dello scacco subito, il quale sarebbe stato risarcito, solo due anni dopo, dalla nomina effettiva alla direzione di «Rivista Storia Italiana»319, di cui Volpe ringraziava Mussolini con una lettera formale e riverente, dove, nel fargli omaggio «del 1° fascicolo 1936, primo anche della nuova serie, della Rivista Storica Italiana, divenuta organo della Giunta Centrale degli Studi storici e affidata, dal Presidente di essa, alla mia direzione», lo si assicurava della sua intenzione di «poter meritare così delicato ufficio e orientar la Rivista in modo che essa sempre più e meglio serva gli interessi della verità e dell’Italia fascista»320. Il carattere sostanzialmente erudito del periodico, fondato da Pasquale Villari, Costanzo Rinaudo, Giuseppe Leva nel 1884, poi sostanzialmente mantenutosi anche durante la gestione di Pietro Egidi, fino al 1929, e quella di Francesco Cognasso, Giorgio Falco e Francesco Lemmi, nonostante il rinnovato taglio saggistico degli interventi e la presenza di nuovi, vivaci collaboratori (Arturo Carlo Jemolo, Natalino Sapegno, Luigi Salvatorelli, Gino Luzzatto, Lionello Venturi)321, mutava decisamente con la direzione Volpe, come Ernesto Sestan si affrettava a constatare322. Anche questo cambiamento era sicuramente di carattere politico, come dimostrava lo sposta-
318 Gioacchino Volpe a Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, Roma, 6 ottobre 1933. Copia della lettera conservata nell’Archivio De Vecchi (d’ora in poi ADV), mi è stata gentilmente fornita da Paolo De Vecchi di Val Cismon. 319 In realtà, Volpe era stato designato direttore del periodico, fin dal 1934. La sua direzione reale cominciò però, soltanto due anni dopo, poiché per tutto il 1935 la rivista si alimentò «in gran parte con materiali raccolti in eredità dalla vecchia direzione». Sul punto, Gioacchino Volpe a Rodolfo De Mattei, 26 ottobre 1935, CV. 320 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 22 maggio 1936, SPD. 321 A. BALDAN, Dalla storiografia di tendenza all’erudizione “etica”: la “Rivista storica italiana” di Costanzo Rinaudo (1884-1922), in «Annali dell’Istituto italo-germanico in Trento», 1976, 2, pp. 337 ss.; G. BUSINO, All’epoca di Costanzo Rinaudo, in «Rivista Storica Italiana», 1978, 4, pp. 855-858.; G. RICUPERATI, La “Rivista Storica Italiana” e la direzione di Franco Venturi: un insegnamento cosmopolitico, in Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita. Atti del Convegno internazionale di studi (Torino, 12-13-14 dicembre 1996), Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1998, pp. 243 ss., in particolare pp. 243-260. 322 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, Siena, 25 marzo 1937, CV: «Vedo e leggo la Rivista Storica Italiana […] È una bella rivista, che fa onore a chi la dirige e a chi ci lavora. Dal tempo degli Studi Storici di Crivellucci, non si era più visto un periodico di studi storici italiani di tale livello. So che qualcuno la vorrebbe più infarcita di bibliografia; per me, ce n’è già quanta basta per destar l’interesse, anche per quanto sia fuori del proprio campicello speciale, e a moderare quella curiosità pettegola, che facilmente si trasferisce dai problemi della storia, a quelli, spesso meschini, degli scrittori di storia».
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mento della sede redazionale da Torino a Roma e, iconograficamente, l’accamparsi sul frontespizio della rivista di un vistosissimo fascio littorio. Ma era anche e maggiormente culturale come testimoniava l’editoriale del nuovo direttore, che poneva a obiettivo del periodico il necessario riconnettersi «all’ideale di una storiografia che sia nutritissima di fatti, ma capace di dominarli col pensiero, e rispecchi la complessità o poliedricità del processo storico; di una storiografia non materialistica, non sociologica, non schematica o formulistica o astratta come a volte esce dalle mani, irrigidita ed esaminata, di giuristi e filosofi; di una storiografia che veda, sì, nello Stato la grande forza motrice, cioè concepisca la storia essenzialmente come storia politica, ma quello Stato essa lo senta vibrare di tutte le forze che lo hanno generato e ogni giorno lo rigenerano; di una storiografia, infine, che intenda la vita storica come sintesi di azione e di pensiero, di cultura e di politica»323. Questa eterodossia nei confronti del ristretto canone ideologico nel quale il regime intendeva ingabbiare gli studi storici, poi confermata dalla considerevole apertura nazionale e internazionale del periodico324, non aiutava sicuramente a migliorare i rapporti con De Vecchi, che rimanevano tesissimi, come più tardi Volpe avrebbe messo in evidenza, ricordando che «nel congresso della Società per la storia del Risorgimento, tenuto a Bologna nel 1935, sotto la presidenza del ministro dell’Educazione Nazionale, io avevo contrapposto alla tesi di un Risorgimento, tutto e solo unitario e nazionale, la tesi di un Risorgimento anche e innanzi tutto liberale, e alla sua affermazione che il Risorgimento traeva la sua importanza più che altro dalle sue battaglie, perché “nella storia quel che conta è menare le mani”, opposi la rivendicazione del cervello e del cuore, senza cui le mani non saprebbero che fare»325. In quella sede, Volpe, contro De Vecchi, avrebbe nuovamente insistito sulla relazione dialettica tra il Risorgimento in quanto progetto di «conquista regia», tutto giocato sul piano diplomatico e militare, e la spinta verso l’unità e l’indipendenza che era scaturita dal corpo della società italiana. A questi appunti, De Vecchi replicava, con asprezza, rivendicando di volersi attenere, anche nella ricostruzione storica, «alla dottrina e allo stile fascista, che sono dottrina e stile d’azione» e di voler privilegiare, nella considerazione del passato, unicamente la «forza dello
323 G. VOLPE, Assumendo la direzione della «Rivista Storica Italiana», «Rivista Storica Italiana», 1935, 1-2, ora in ID., Nel regno di Clio, cit., pp. 176-177. 324 E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 96-97. 325 G. VOLPE, Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, cit. Volpe aveva pronunciato, nell’incontro di Bologna, la comunicazione Principi di Risorgimento nel ’700 italiano, cit.
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Stato», come «motore della vita dei popoli»326. Erano due posizioni davvero inconciliabili. E il «Quadrumviro scomodo», ora divenuto Ministro dell’Educazione Nazionale, pur non lesinando, in quell’occasione e persino nelle sue memorie private qualche riconoscimento per le capacità «veramente geniali» dello storico327, non dismetteva, da parte sua, l’ostilità verso una personalità che restava indocile, di «difficile maneggio»328, e quindi bisognosa di un attento controllo. Almeno dal 1934, lo storico, come molte altre personalità del regime era stato posto, infatti, sotto l’occhiuta vigilanza dell’Ovra, organizzata dall’onnipotente capo della Polizia Arturo Bocchini329, con il quale Volpe entrerà in aperto contrasto, a proposito della promozione politica del nipote in un concorso per il reclutamento di funzionari di grado superiore presso il ministero degli Affari esteri. In una lettera, nel 1938, inviata al presidente della commissione, Giuseppe Bastianini, Volpe respingeva sdegnosamente al mittente il compenso per la sua partecipazione ai lavori concorsuali, esprimendo la sua «sorpresa nel leggere, ai primissimi posti della lista, che solo da pochi giorni mi è stata comunicata, qualche nome che, in base al risultato dei due esami, era classificato assai indietro (al 20° posto e ultra)». Il candidato ingiustamente promosso era appunto il nipote di Bocchini, sbalzato a primi posti della classifica con un atto di imperio, che provocava in Volpe, «non come fascista, ma come maestro ed educatore da ormai 40 anni», la profonda amarezza per «l’ingiuria che si è creduto di dover fare alla commissione giudicatrice, o ad un membro di essa» e che colpiva «non solo una persona rispettabile, ma anche un funzionario dello Stato che dallo Stato è investito proprio della funzione di insegnare, giudicare, classificare»330. Era solo un episodio molto marginale di dissenso, che in ogni caso sarebbe andato a ingrossare il dossier della Ceka fascista, che aveva intanto infiltrato, forse grazie all’intervento dello stesso De Vecchi, alcuni «fiduciari diretti» tra gli alunni della Scuola di storia moderna e con-
326 Sul punto, M. BAIONI, Il Risorgimento in camicia nera, cit., pp. 184 ss. 327 C.M. DE VECCHI DI VAL CISMON, Memorie, f. 2517, in ADV 328 Con questa espressione De Vecchi giustificava la scelta di non affidare a Volpe la
relazione al Congresso di storia del Risorgimento, che si sarebbe svolto a Torino, nella lettera ad Alberto Maria Ghisalberti del 7 agosto 1937, ivi. Al suo posto, De Vecchi incaricava Ercole, aggiungendo, tuttavia, che Volpe «sarebbe adattissimo, ma ha il difetto di non volervisi preparare». Sottovaluta parzialmente questa perdurante discrasia, M. BAIONI, Risorgimento in camicia nera, cit., p. 180 ss. 329 M. CANALI, Le spie del regime, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 39 ss., 57 ss., 85 ss. e passim. 330 Gioacchino Volpe a Giuseppe Bastianini s. d., CV.
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temporanea, diretta da Volpe. Tra questi, Aldo Romano, per il cui ingresso nelle fila dello spionaggio fu determinante l’inchiesta della questura di Napoli che, nel 1929, aveva portato alla luce le sue tiepide ma mai sopite nostalgie socialiste, una corrispondenza clandestina con Antonio Labriola, la sospetta frequentazione del circolo Croce, ma soprattutto la diffusione di un «foglio poligrafico antifascista dal titolo Più avanti!»331. Processato per questi addebiti, Romano, veniva condannato al confino nella cittadina di Sperlonga sul litorale laziale. Restituito alla libertà, il ventenne universitario napoletano, si trasferiva nella capitale, per insegnare in un istituto religioso, e forniva addirittura segni di «deciso ravvedimento, orientandosi verso le direttive del Regime, tanto da aver ottenuto l’iscrizione al Pnf»332. In base a questi fatti, la Questura di Roma e l’Alto Commissariato di Napoli esprimevano congiuntamente nell’ottobre 1935, il nulla osta a «che il Romano sia radiato dal novero dei sovversivi»333. Ancora prima e poi subito dopo questa decisione amministrativa, Romano aveva potuto godere di un trattamento decisamente favorevole che riguardava la sua attività di studioso. Nel 1934, l’assegnazione di una borsa di studio presso la Scuola storica di Roma, dove «egli ha continuato a serbare ottima condotta», attendendo con successo a non pochi delicati uffici affidatigli, sia in Italia che all’Estero, tanto da meritarsi la fiducia di Gerarchi, uomini di cultura, eminenti personalità politiche»334. Nel 1935, il posto di bibliotecario del Museo del Risorgimento della capitale, ottenutogli da De Vecchi. L’anno successivo, l’incarico di provvedere al riordino del Museo di S. Martino di Napoli, concesso sempre dal ministro dell’Educazione Nazionale, che non aveva mancato di elogiarne pubblicamente «l’attività scientifica, e il sincero di lui attaccamento al Regime, presso S. E. il Capo del Governo»335. Nel 1937, infine, la speranza, più che fondata, egualmente favorita dal Quadrumviro, di poter concorrere con successo alla cat-
331 Rapporto della Prefettura di Napoli, 18 agosto 1929, in ACS, CCP, Fascicolo «Romano Aldo», d’ora in poi FRA. Sul punto, M. CANALI, Le spie del regime, Bologna, cit., pp. 153-154; 186, 707; E. DI RIENZO, L’Ovra e il Professore. Così nasce una spia, in «il Giornale», 28 luglio 2005; G. SEDITA, L’intellettuale che spiava Benedetto Croce. L’attività informativa di Aldo Romano, in «Nuova Storia Contemporanea», 2005, 4, pp. 49 ss. 332 Nota della Questura di Roma indirizzata alla Direzione Generale della P. S., Divisione Affari generali e riservati, 14 febbraio 1935, FRA, dove si ricordava un rapporto della Questura napoletana del dicembre 1934, egualmente positivo, e si aggiungeva che la vigilanza nei suoi confronti era «stata rallentata e contenuta in forma riservata e saltuaria». L’iscrizione di Romano al Pnf avveniva nel 1933. 333 Si vedano i rapporti inviati al Ministero dell’Interno dalla Questura di Roma e dall’Alto Commissariato per la Città e Provincia di Napoli, in data 11 e 20 ottobre 1935, ivi. 334 A. ROMANO, Memorandum, 6 luglio 1937, ivi, p. 2. 335 Ibidem.
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tedra di Storia del Risorgimento, presso l’Università di Pisa336. Era questo il prezzo del tradimento per il suo ruolo di informatore, patteggiato attraverso la stipula di un «compromesso» con le autorità di polizia, che venne accettato anche da molti altri «sovversivi» provenienti dalle fila dell’antifascismo socialista, comunista, giellista337. Dal giugno 1933 al novembre 1934, Romano inviava informative importanti, tra le quali una lista completa delle personalità politiche e intellettuali che frequentavano la casa di Benedetto Croce per tessere le fila di una non violenta, eppure vitale, resistenza al regime. In quegli stessi anni, altri dettagliati rapporti incrudelivano soprattutto contro Nello Rosselli, di cui si postulava l’appartenenza al movimento di «Giustizia e Libertà». Con una tattica subdola e tendenziosa di illazioni e di ingigantimento di fatti reali, Nello Rosselli veniva presentato come un pericoloso antifascista, stravolgendone la reale fisionomia di semplice intellettuale «afascista», in nulla ormai interessato a una militanza politica attiva338. In perfetta buona fede, anche Volpe spendeva il suo residuale credito, per soccorrere, dopo Rosselli, anche Romano, quando, nel 1937, questi veniva radiato dalla Segreteria nazionale del Pnf, su segnalazione della Federazione provinciale di Napoli e sottoposto, nel novembre, a un supplemento d’indagine da parte della Prefettura del capoluogo campano e dalle autorità di Partito339, evidentemente tenute all’oscuro dei suoi strettissimi rapporti con l’Ovra. Lo stesso Romano avrebbe utilizzato, in quell’occasione, la malleveria di Volpe, in un memoriale apologetico vergato a luglio, nel quale si affermava che: In occasione di un’importante pubblicazione da lui fatta, piacque a S. E. Gioacchino Volpe, Accademico d’Italia e Direttore dell’Istituto Storico Italiano [sic], fare omaggio di una copia di tale pubblicazione a S. E. il Capo del Governo, a cui S. E. Volpe si permise di sottoporre il caso del Romano, che, per il ritiro della tessera, veniva così privato di ogni possibilità di vita. S. E. Mussolini si degnò gradire l’omaggio, disse che egli conosceva bene il Romano, che non dubitava della sincerità della fede fascista di lui, e promise che avrebbe provveduto340.
336 Ibidem. 337 M. CANALI, Le spie del regime, cit., pp. 136 ss. 338 Ivi, p. 154. 339 Si vedano le richieste di informazioni rivolte al Capo della polizia Bocchini e al Mi-
nistero dell’Interno, il 3 agosto e l’11 novembre 1937, ivi. Nella richiesta inviata a Bocchini, questi annotava di suo pugno: «Si spieghi come stanno le cose». 340 A. ROMANO, Memorandum, 6 luglio 1937, ivi, p. 2. L’omaggio recapitato al Duce era l’Epistolario di Carlo Pisacane, curato da Romano, nel 1937, per la collezione della Biblioteca storica del Risorgimento italiano.
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Ma con buona verosimiglianza, proprio a Romano, o ad altro discepolo di Volpe, si doveva l’informativa del novembre 1934, dove si sosteneva che «Nella lezione di “Storia politica moderna”, tenuta il 26 corrente alle ore 11 nell’aula “Carlo Cardini” della R. Università di Roma il prof. Gioacchino Volpe, accademico d’Italia, consigliando agli studenti un’esercitazione, affermava essere utile riferirsi ai giudizi degli stranieri per poter serenamente giudicare l’operare di noi Italiani; proseguiva, quindi, dicendo che era uno sbaglio ritenersi migliori e più grandi degli altri e che se da una parte l’entusiasmo dei giovani è una bella cosa, dall’altra può spesso riuscire dannoso»341. Questa segnalazione, che riecheggiava letteralmente altre prese di posizioni di Volpe342, veniva recapitata sul tavolo di Palazzo Venezia, dal ministro dell’Educazione Francesco Ercole, ma pur essendo annotata di pugno da Mussolini, con l’ordine di conservarla nell’archivio della Segreteria riservata, non sortiva alcun effetto palese. Diversamente accadeva, però, con quella, fatta pervenire al Capo del Governo, dal Segretario Marinelli, due anni dopo, e precisamente, il 25 maggio 1936, ben più compromettente e più ricca di elementi di dissenso politico, non estemporaneo. S.E. Gioacchino Volpe, in una lezione del suo corso di “Storia politica moderna” alla Facoltà di Scienze Politiche della Università di Roma, affermava che il Fascismo si era scagliato con eccessiva forza polemica contro il regime antecedente alla Rivoluzione Fascista; illustrando poi la vittoria etiopica definiva il trionfo della politica del Duce con questa frase: “Non v’è dubbio che oggi è il quarto d’ora di Mussolini»343.
Il contenuto del rapporto questa volta suscitava un vera bufera. Mussolini redigeva un immediato commento di tono durissimo nei confronti dello storico: «Non l’ho mai avuto in simpatia. Lo ho sofferto per i suoi sette figli. Freddo, grigio, antifascista. Mandare a De Vecchi, dicendogli la provenienza e chiedendogli quando va a riposo»344. Nella giornata stessa, il ministro, lontano dalla capitale, rispondeva, forse tra-
341 Informativa sul Prof. G. Volpe, 26 novembre 1934, SPD. 342 Volpe, durante il congresso bolognese del 1935, aveva affermato: «Non dobbiamo
mettere il nostro amore proprio in una concezione della storia come di storia assolutamente autoctona, di storia che si produce da se stessa, per una specie di partogenesi, senza fondazione dal di fuori. L’orgoglio di un paese come il nostro e come ogni altro deve essere invece quello di assorbire ciò che la vita offre di buono, di assimilarlo, di trasformarlo, di farne cosa propria e generare nuova vita, per sé e per gli altri». Si veda, Atti del XXIII Congresso di Storia del Risorgimento, italiano (Bologna, 11-14 settembre 1935), Roma, Società storica del Risorgimento, 1940, pp. XIII-XIV. 343 Informativa sul Prof. G. Volpe, 25 maggio 1936, ivi. 344 Ibidem.
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mite un messaggio telefonico, all’interpellanza, con parole almeno altrettanto dure, nelle quali pare addirittura inconcepibile voler cogliere anche il minimo accenno giustificatorio: «Essendo nato nel 1876, il Volpe ha davanti a sé ancora dieci anni di servizio prima d’essere collocato a riposo. Nei giorni della Vittoria era fuori di sé dalla esultanza. Membro del R. Istituto Storia Moderna e contemporanea, ha indirizzato a V. E., in quella occasione, un vibrante telegramma a nome dell’Istituto: di ciò si è doluto col Ministro il Presidente S. E. Ercole, al quale è stata tolta l’iniziativa dal gesto arbitrario compiuto da S. E. Volpe. Siccome è uno “scollato”, uno “squinternato” non esclude che “in lezione” abbia pronunciato le frasi addebitategli. Verificherà e riferirà»345. Se tentativo di giustificazione vi fu, come qualcuno si è sforzato di sostenere346, la toppa fu veramente peggiore del buco, visto e considerato che veniva richiesta indulgenza solo in considerazione delle compromesse facoltà mentali di Volpe. Il quale si affrettava a comporre un articolato tentativo di giustificazione nella lettera inviata a De Vecchi, nei giorni immediatamente successivi347. Nella corrispondenza, non si negava il primo capo d’accusa, che anzi si sosteneva costituire un fermo convincimento insieme storico e politico proprio nel suo contrasto con la mitologia della rivoluzione fascista. “Il fascismo si è scagliato con troppa violenza contro il regime precedente”. Riconosco a me la paternità non di queste parole, ma del pensiero che segue: nella valutazione che, in era fascista, si è fatta dell’Italia prefascista ci sono alcuni elementi polemici o “politici”. Sempre così, del resto, in ogni rivoluzione. Ogni rivoluzione, per il fatto stesso che è rivoluzione, pronuncia giudizio assoluto di condanna contro l’età precedente. Semmai, quando cerchi un punto d’appoggio storico, lo trova in una età ancora anteriore. Insomma i figli, volgendosi contro i padri, si richiamano agli avi. Così fece l’età dell’Umanesimo, condannando il Medioevo ed esaltando Roma; così i protestanti che, in odio al cattolicesimo, cioè al cristianesimo degli ultimi secoli, crearono il mito della Chiesa primitiva; così il nostro Risorgimento che, facendo il processo all’età delle dominazioni straniere dell’Assolutismo e della Controriforma, idoleggiò l’Italia dei Comuni, del Rinascimento, delle Signorie, fino al 1494. Vuol dire che, compiuta poi la rivoluzione, costruito il nuovo ordine politico o ideale,
345 Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon alla Segreteria particolare del Capo del Governo, 26 maggio 1936, ivi. 346 M. BAIONI, Risorgimento in camicia nera, cit., p. 183. 347 Sulla meccanica dell’intero accaduto, si veda il Promemoria di De Vecchi, in data 24 maggio 1936 in ADV: «Appunto passatomi da Sebastiani d’ordine del Capo, circa le lezioni di storia tenute da Volpe, all’Università di Roma (redatto da Marinelli, secondo Sebastiani). Ho chiamato Volpe e gli ho contestato quanto è contenuto. Sua reazione nella forma e nella sostanza. Volpe mi ha risposto con la lettera unita, da mostrare al Capo oggi».
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si torna di solito con occhio pacato all’età precedente, si cerca di darne una più approfondita e più storica valutazione, si getta qualche ponte o passerella fra l’oggi e il ieri, si ritrova un po’ la ideale continuità delle generazioni che, pur lottando le une con le altre, creano la storia. Così è avvenuto nel passato. Per venire al caso nostro, bisognerà pure, nel giudizio storico dell’età che va dal 1870 al 1915 o 1922, tener conto di certi attivi, come la avvenuta elevazione delle masse, per opera, tutto sommato, dello stesso socialismo; il più stretto tessuto connettivo creatosi all’interno, la più robusta economia, i progressi della cultura ecc., insomma di tutto ciò per cui, ad esempio, la guerra nostra del 1915-18, pur con tutte le sue debolezze di nazione e di governo e di ceti dirigenti, fu tutt’altra cosa da quella del 1866. Ecco il mio non peregrino pensiero, espresso nell’Italia in cammino, espresso anche in qualche articolo di Gerarchia, presentato e svolto qualche volta, con tutti i suoi riferimenti storici, a scuola348.
Ma il tono della lettera, fino a questo punto fermo, mutava radicalmente e toccava, almeno in superficie, i toni dell’adulazione e della piaggeria, nella davvero poco credibile apologia della seconda imputazione, che riguardava il beffardo commento sulla campagna africana, definita da Volpe «il quarto d’ora di Mussolini». Precisamente, “Questo è il quarto d’ora di Mussolini”, ho detto quel giorno, commentando agli allievi la vittoria, e ora ripeto. Ma nella lingua mia e degli Italiani, nella lingua degli allievi che quel giorno applaudirono la mia lezione, la frase incriminata significa: noi, il mondo, assistiamo oggi al trionfo di Mussolini; oggi Mussolini è all’ordine del giorno. È venuto il momento di Mussolini. Aggiungevo, presso a poco: “Non solo, genericamente, l’Italia si è, con questa guerra vittoriosa, accreditata; ma, specificatamente, l’Italia fascista, il fascismo, Mussolini, a cui spetta in grandissima parte il merito dell’impresa africana, come che essi abbiano dato anche nel campo internazionale e militare, dopo che in quello interno, la misura del loro valore”. E anche: “Una guerra vinta è sempre un gran collaudo per un paese, per un regime. Nacque da una guerra vinta, nel ’700, il grande credito dell’Inghilterra, delle sue istituzioni, della sua filosofia illuministica, della sua coltura; da altre guerre vinte, il credito di altri paesi e anche regimi349.
Espressioni da intellettuale cortigiano...? Solo apparentemente. Dato che quelle espressioni, se non malcelavano, forse, un pure larvatissimo dissenso, condiviso anche da Gentile350, per le ambizioni imperia348 Gioacchino Volpe a Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, s. d., CV. Si tratta della minuta della lettera, il cui originale è conservato in ADV, con data 28 maggio 1936. 349 Ivi. 350 K. LÖWITH, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Mondadori, Milano, 1988, p. 116: «Interessante fu un discorso di Gentile dopo la conquista dell’Abissinia. Egli sviluppò una filosofia dell’imperialismo italiano, mettendo nell’unica pentola fascista Ma-
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listiche di Mussolini (come nel riferimento al ben più possente Impero inglese, nato nel corso del secolo XVIII da ben altre vittorie, proprio quando la Gran Bretagna consolidava il suo debito pubblico, modernizzava la sua economia, portava a compimento i suoi istituti liberali), sicuramente manifestavano l’insopportazione per il soffocante clima di inquisizione ideologica del regime. Così infatti Volpe terminava la sua comunicazione a De Vecchi: E ora, Eccellenza, consenta che io non nasconda un sentimento di dolore, che diventa anche sentimento di sdegno. Ma come: per questi motivi, su questo fondamento, si viene tessendo attorno alla mia persona, una rete di sospetti? Ma come: io dovrò, d’ora in avanti, andare fra i miei allievi sapendo che fra essi si nascondono segreti informatori che non capiscono il mio linguaggio o, se lo capiscono, ne mutano in mala fede il senso? Ma come: non esistono cento o mille pagine mie a disposizione di qualunque alfabeta italiano che voglia o sappia leggere un libro, che consentono di giudicare il mio pensiero anche politico? O si crede che io le abbia scritte mentendo a me stesso, simulando sentimenti che non provavo? Ma come: io avrei svalutato l’impresa etiopica, avrei negato quello che tutti gli Italiani, cominciando da S. M. il Re, hanno riconosciuto e proclamato, cioè la parte preminentissima avuta da Mussolini nella vittoria? Eccellenza: non intendo assolutamente giustificarmi di fronte ad accuse o sospetti di tal genere, che fanno torto più a chi li forma che non a me. Permetta un poco di orgoglio: conservo pienissima la consapevolezza di quel poco – poco, ma assai ci tengo – che ho fatto per il mio paese, per i giovani, e anche per il fascismo, in ormai quaranta anni di vita intemerata e di lavoro indefesso. Ma pur se non intendo giustificarmi, debbo dire questo: non posso, non voglio vivere in stato di accusa, vivere come un sorvegliato. Tutto il mio essere si ribellerebbe contro una ingiustizia di tal genere. Mi si deve ridare tutta la fiducia, che credo di aver meritato e di meritare, come italiano e come fascista. Voglia, Eccellenza, intendere l’animo mio, Lei che mi è capo e, come deve sempre richiamarci all’osservanza dei nostri doveri, così deve anche tutelarci di fronte al mal volere o alla inintelligenza degli altri351.
A detta di De Vecchi, che sostenne di aver cercato di non aggravare la situazione dell’imputato durante il colloquio con Mussolini del 29
chiavelli, Mazzini e Mussolini. Il fascismo, disse ad un certo punto, non aveva avuto altro scopo fin dall’inizio che la formazione di un impero con l’Abissinia. E queste cose le diceva quello stesso senatore Gentile che sei mesi prima, quando andai a trovarlo a Forte dei Marmi, non faceva mistero della sua ferma disapprovazione della guerra abissina. Allora egli aveva sinceramente esecrato quella operazione, perché, diceva, era una pazzia farsi nemica l’Inghilterra». 351 Gioacchino Volpe a Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon 28 maggio 1936, cit. Nella chiusura delle lettera si affermava: «Sempre a disposizione dell’E. V. o del Capo del Governo e del Fascismo, per qualunque chiarimento si intendesse avere da me».
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maggio, la lettera venne accolta dal capo del fascismo con «qualche diffidenza», per altro del tutto comprensibile352. Al termine dell’udienza, sempre secondo la testimonianza di De Vecchi, Mussolini avrebbe comunque deciso che «io metta ogni cosa agli atti, considerando l’incidente chiuso, anche dopo le mie spiegazioni». L’esternazione di Volpe, che rischiava di qualificarlo se non come un oppositore almeno come uno straniero del regime, appariva, comunque, davvero paradossale, dato che proveniva da chi aveva a lungo sostenuto l’assoluta necessità dell’espansione coloniale italiana, culminata con la vittoriosa campagna che aveva schiuso a Badoglio le porte di Adis Abeba. Inoltre, l’impresa etiopica portava ai massimi vertici mai raggiunti il consenso al regime, come Volpe avrebbe ancora molto più tardi sostenuto, ricordando la fatidica adunata di Piazza Venezia del 9 maggio 1936, nella quale dalla bocca stessa del Duce si apprese che l’aura imperiale tornava ad aleggiare «sui colli fatali di Roma». A quella adunata Volpe aveva partecipato, accettando un invito rivoltogli da Federico Chabod353, insieme ad altri suoi allievi e collaboratori (Morandi, Ghisalberti, Maturi, Sestan), e di quella adunata aveva conservato la memoria della commozione corale che aveva pervaso, senza eccezione, tutti gli astanti, «perché quel regime poteva più o meno piacere, a chi più e a chi meno, a nessuno del tutto sì, a nessuno o a pochi del tutto no, per un motivo o per l’altro», ma «quella vittoriosa prova dell’Italia di fronte al Negus e, più ancora, alla falsamente virtuosa Europa delle sanzioni, quella solidarietà fraterna che allora parve riscaldare tutta la Nazione, come mai era avvenuto nel nostro paese, riempivano noi di commossa e un po’ orgogliosa gioia, non senza riflessi in taluni anche sull’atteggiamento nei riguardi del fascismo»354. Nessun dissenso quindi per la nuova avventura d’oltremare muoveva Volpe nella critica intercettata dall’Ovra, ma piuttosto la necessità di affermare che di quell’impresa il fascismo non poteva attribuirsi il merito in esclusiva, come stava accadendo negli entusiastici commenti della stampa periodica355. Il nuovo aumento di potenza non era davvero tutto merito del regime, ma procedeva nella linea dell’antica tendenza africana dell’Italia, favorita in tempi più o meno recenti da statisti, pure di diversissimo orientamento, come Crispi e Giolitti. E anche quella continuità della vita nazionale nella «grande politica», andava preservata, da ogni illecita usurpazione, come Volpe avrebbe fatto notare anco352 C.M. DE VECCHI DI VAL CISMON, Promemoria del 24 maggio 1936, cit. 353 Questo particolare mi è stato comunicato da Vittorio Volpe. 354 G. VOLPE, Nota del 1964 in ID., Storici e maestri, cit., pp. 471-472. 355 E. BRICHETTO, La verità della propaganda. Il “Corriere della Sera” e la guerra d’E-
tiopia, Milano, Unicopli, 2004.
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ra ai primi di luglio del 1943. Allora, interpellato dal «Corriere della Sera», per un «articolo fondo carattere politico su ragioni politiche ideali sociali e storiche nostra guerra»356, lo storico accettava l’invito, pur con tutta la titubanza e lo scetticismo che l’ora presente imponeva, sicuro che «l’articolo, che non soddisfarà voi, come non ha soddisfatto me»357. Il pezzo, infatti, non sarebbe stato pubblicato. Ed era lo stesso Volpe a fornire la ragione di quella censura, in una lettera inviata alla direzione del quotidiano, sostenendo che, in quelle quattro pagine dattiloscritte, si suffragava la «tesi, credo incontrovertibile», secondo la quale «la guerra italo-inglese aveva poco a che fare con il fascismo: era, è una conseguenza quasi automatica del crescere dell’Italia e del bisogno di spazio in Africa e di un minimo di potenza nel Mediterraneo. Essa già cominciava a delinearsi nella sorda opposizione inglese alla conquista libica, nell’aperta opposizione per Rodi, nell’atteggiamento circa la questione adriatica e albanese»358. Lo stesso invito, rivolto a Volpe dal foglio milanese, veniva indirizzato anche a Giovanni Gentile359, che aveva già risposto positivamente a quello di eguale tenore, emanato, questa volta, direttamente dalla Segreteria del Pnf360, pronunciando il discorso capitolino del 24 giugno, che, pur ricco di distinguo e prese di distanza con la dittatura, identificava ancora pienamente la guerra italiana con il regime di Mussolini361. Una testimonianza, questa, della lontananza politica, tra i due intellettuali, che si sarebbe riverberata a breve sulle loro scelte personali dopo la tragedia dell’8 settembre, ma che già da ora si andava evidenziando. Nei tardi anni Trenta, la rottura definitiva di Volpe con il regime era però ancora lontana, e neppure ipotizzabile, sebbene, anche recuperato, molto parzialmente, il rapporto con Mussolini, le crepe del suo dissenso si fossero andate allargandosi ancora, in occasione della promul-
356 Aldo Borelli a Gioacchino Volpe, 24 giugno 1943. Il telegramma è pubblicato nel mio, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra, cit. 357 Gioacchino Volpe ad Aldo Borelli, luglio 1943, ivi. 358 Gioacchino Volpe alla Direzione del «Corriere della Sera», 3 agosto 1943, ivi. 359 Aldo Borelli a Giovanni Gentile, 5 luglio 1943, AFG: «Vi sarei molto grato se poteste mandarmi qualche articolo di fondo di carattere politico sulle ragioni politiche, ideali, sociali e storiche della nostra guerra. Naturalmente dovreste trattare un argomento specifico per volta». 360 Il 31 maggio Carlo Scorza aveva chiesto a Gentile e altri esponenti del mondo della cultura (tra cui, lo stesso Croce) di parlare in un ciclo di conferenze sulle «ragioni storiche, morali e giuridiche della nostra guerra». Anche questa lettera è in AFG. 361 G. GENTILE, Discorso agli italiani, tenuto in Campidoglio il 24 giugno 1943, in B. GENTILE, Dal Discorso agli Italiani alla morte, 24 giugno 1943-15 aprile 1944. Ristampa anastatica dell’edizione, Firenze, Sansoni, 1954, con una Prefazione di Marcello Pera, Presidente del Senato della Repubblica, Roma, Senato della Repubblica, 2004, pp. 67 ss.
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gazione delle leggi razziali e della loro ricaduta nel mondo degli studi. A norma del Regio Decreto del 15 novembre 1938, che prevedeva l’impossibilità per «persone di razza ebraica» di far parte delle «Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti», il ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, procedeva a un’«arianizzazione» sistematica di tutti i centri di cultura362. La depurazione antisemita imperversava anche nell’Enciclopedia Italiana, sebbene ridimensionata dagli interventi di Gentile363, nelle Deputazioni di storia patria, nella Scuola di storia moderna e contemporanea, dalla quale, il 28 gennaio 1939, veniva allontanato Leo Wollemborg, un israelita di origine polacca, che otteneva la magra soddisfazione di essere congedato con parole di elogio dal presidente dell’Istituto storico italiano, Francesco Ercole364. La «discriminazione» voluta da Bottai conosceva un altro episodio, nel settembre del 1938. In quella data, iniziava una capillare «bonifica libraria», che prevedeva il censimento etnico di editori e dipendenti delle case librarie nazionali (autori e traduttori), per provvedere all’allontanamento dei non ariani, e che preludeva all’«ordine totale», poi reso esecutivo, alla metà del 1939, di togliere dalla circolazione i libri di autori ebrei stampati dopo il 1850365. Contro l’insieme di queste misure, reagiva prontamente Giovanni Gentile, a cui si doveva una sistematica strategia di protezione degli intellettuali ebrei, promossa attivamente nell’università, nell’Enciclopedia Italiana, nella Normale di Pisa366. Il filosofo, che aveva deprecato, nella sua corrispondenza privata, la «turpe marea antisemita», cercava attivamente di salvare dai flutti del naufragio l’allievo Oscar Kristeller e scriveva, nell’agosto del 1938, di essere determinato a «non mollarlo» e di «far tutto il possibile, anche presso Mussolini»367. Sul tavolo delle trattative, che Gentile pensava di intavolare col Duce, c’era il mantenimento di Kristeller nei ranghi della Scuola pisana ma anche «la possibilità di stampare il suo Ficino nelle pubblicazioni della Normale», che 362 A. CAPRISTO, L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, Torino, Zamorani,
2003.
363 La presenza considerevole di collaboratori ebrei in quella sede, si deduce da ANO-
[ma G. TRECCANI], Enciclopedia Italiana Treccani. Come e da chi è stata fatta, Milano, Bestetti, 1948, pp. 159 ss. 364 A. CAPRISTO, L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, cit., p. 185. 365 G. FABRE, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori, Torino, Zamorani, 1998. 366 P. SIMONCELLI, Gentile, Cantimori e la Normale di Pisa, Milano, Franco Angeli, 1994, passim; ID., Gentile e il Vaticano. 1943 e dintorni, Firenze, Le Lettere, 1997, pp. 28 ss.; ID., La Normale di Pisa. Tensioni e consenso, cit., 155-157: 192-193; R. FARAONE, Giovanni Gentile e la “questione ebraica”, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. 367 Giovanni Gentile a Gaetano Chiavacci, 21 agosto 1938, in GENTILE-CHIAVACCI, Carteggio, 1914-1944, a cura di P. Simoncelli, Firenze, Le Lettere, 1996, p. 329. NIMO
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lo spingeva ad affrettare un incontro con il Capo del Governo, già da tempo richiesto al segretario Sebastiani368. Incontro, poi accordato, e che avrebbe ottenuto il risultato desiderato, se Gentile poteva scrivere, alla fine del mese: «Per intanto Kristeller non si tocca. Ho parlato anche con Mussolini, col quale ho avuto un importante colloquio, di cui ti dirò»369. Anche Volpe non si sottraeva a questo genere di sollecitazioni, inviando sempre a Mussolini, il 17 ottobre 1938, una lettera così concepita: Ho letto giorni addietro il breve ed efficace cenno che il Popolo d’Italia ha dedicato al volume del Prof. Rota e alla collezione dei “Documenti di storia e pensiero politico”. Permettete che io consideri quelle parole come un premio ed un incoraggiamento anche per me che ho ideato quella collezione e la spingo innanzi non senza fatica e sacrificio di tempo ma anche non senza fiducia che possa essere utile all’insegnamento e alla cultura. Fra i volumi in preparazione ve ne è uno su la Triplice Alleanza: documenti, didascalie, introduzione. Per esso ha molto collaborato con me il Dott. Wollemborg che l’hanno scorso fu mio assistente: ed a me sarebbe piaciuto che questo volume uscisse sotto il nome del collaboratore. Ora questo non si può più; e il volume uscirà col mio nome. Ma confido mi sia consentito di dichiarare nella introduzione che il Dott. Wollemborg ha avuta molta parte nella raccolta dei documenti. Il volume era già quasi tutto composto quando sopraggiunsero le misure intorno alla razza. L’anno prossimo sarà il ventennale della fondazione del fascismo. E al fascismo vorrei dedicare uno, anzi dei volumetti della collezione: cioè per i documenti più significativi della anni 1919-21; e per quelli 1922-1939. Fra questi documenti, alcuni scritti e discorsi Vostri, pubblicati nell’edizione Hoepli. Mi autorizza V. E. e mi autorizzerà l’editore Hoepli?370.
Questa pressione, condita da una buona dose di adulazione, sortì l’effetto desiderato371, e la comparsa del volume, in realtà opera di Wollemborg, permetteva all’autore di usufruire del compenso e dei diritti d’autore, pur nella rinuncia della paternità dell’opera372. Ma Volpe non si sarebbe limitato a cercare di ridurre l’effetto della legislazione razzia-
368 Giovanni Gentile a Gaetano Chiavacci, 21 agosto 1938, ivi, pp. 332-333. 369 Giovanni Gentile a Gaetano Chiavacci, 31 agosto 1938, ivi, p. 338. 370 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, Santarcangelo di Romagna, 17 ottobre
1938, SPD. Il lavoro ricordato era E. ROTA, Il problema italiano dal 1700 al 1815 (L’idea unitaria). La collana diretta da Volpe era segnalata, molto favorevolmente, da D. Cantimori, nella recensione apparsa su «Leonardo» nel 1940, ora in ID., Politica e storia contemporanea, cit., pp. 670 ss. 371 G. VOLPE, L’Italia nella Triplice Alleanza (1882-1915), Milano, Ispi, 1939, dove, nella prefazione, veniva riconosciuta, con ampiezza, al giovane studioso la «partecipazione» alla raccolta documentaria. 372 Devo questa notizia a Vittorio Volpe.
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le, contestandola nel silenzio, come avrebbe fatto Gentile, convinto di potere dare maggiore efficacia alla sua azione «senza sollevare per ora tale questione»373. Il suo ripudio della «dottrina della razza» emergeva, a chiare lettere, nel rifiuto di prendere parte, in sostituzione di Francesco Coppola, alla Commissione dell’Accademia d’Italia, composta da Benini, Paribeni, Pettazzoni, Tucci, convocata da Federzoni per il novembre del 1938, «con l’incarico di riferire intorno all’azione dell’Ebraismo nella storia e nella vita d’Italia dal tempo di Roma antica fino ai nostri giorni», al fine di «dire la parola seria e consapevole della scienza sull’argomento del giorno, in perfetta armonia con le direttive già espresse dal Duce e all’orientamento della Nazione, ma sulla base della verità obiettivamente riconosciuta e valutata»374. Nonostante il tono pressante e quasi imperativo di quell’invito, riguardo al quale Federzoni insisteva sull’impossibilità di sottrarsi, «poiché si tratta di una questione nella quale sono impegnati il nome e il prestigio della nostra Accademia», non potendo questa restare «tagliata fuori da tutto il movimento di discussioni e, per così dire, di studio suscitato dal sorgere del problema razzista», Volpe replicava negativamente e aggiungeva di non voler prendere alcuna posizione «sul problema degli ebrei, un problema poi, permettimi di dirti, che io non sento»375. Quel rifiuto, raro, se si pensa alla diffusione a macchia d’olio delle dimostrazioni di antisemitismo negli ambienti accademici italiani dopo il 1938376, era del tutto coerente con i più intimi convincimenti di Volpe377, che, proprio sul piano storiografico, aveva sempre negato l’avallo a una posizione anche larvatamente etnicista, definendo, ancora alla fine del 1934 la parola razza una «brutta parola che si sente e si legge spesso anche in Italia, sebbene con sensi meno animaleschi che non altrove»378, e
373 Giovanni Gentile a Gaetano Chiavacci, 15 agosto 1938, cit. 374 Luigi Federzoni a Volpe, Casalecchio sul Reno, 20 settembre 1938, CV. In calce al-
la lettera, Volpe avrebbe poi annotato: «Non feci parte di quella Commissione. Non ricordo perché. Certo non approvavo quelle leggi». 375 Gioacchino Volpe a Luigi Federzoni, s. d. La lettera è stata pubblicata da A. CAPRISTIO, La Commissione per lo studio dei problemi della razza istituita presso la Reale Accademia d’Italia: note e documenti in «Rassegna Mensile di Israel», LXIII, 1997, 1, pp. 89 ss. 376 E. DI RIENZO, L’Università italiana, l’antisemitismo e l’epurazione antifascista, in «Nuova Storia Contemporanea», 2005, 3, pp. 151 ss. 377 Ricordiamo che Volpe, nel 1927, aveva affidato la voce «Antisemitismo» dell’Enciclopedia Italiana allo studioso ebreo Dante Lattes. La comunicazione di Volpe è conservata nell’Archivio dell’Enciclopedia Italiana, Roma: «Avvertire Salata che il prof. Cassuto non può trattare la voce antisemitismo. Propone il prof. Dante Lattes». Al biglietto di Volpe faceva seguito la comunicazione ufficiale della redazione a Francesco Salata in data 27 agosto 1927. 378 G. VOLPE, Stato, Nazione e storia, in «Corriere della Sera», 5 dicembre 1934. L’articolo è ora riprodotto in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit. Non di-
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condannando, in quella stessa data, il nazionalsocialismo tedesco per aver «proceduto con tanta minore cautela e gradualità e tanta maggiore irruenza», nei confronti del modello offerto dal fascismo italiano, e soprattutto per aver obbedito, a differenza di questo, «agli impulsi di un nazionalismo violento e assoluto (razzismo)». Questa sola differenza era sufficiente a rendere male, poco, o per nulla assimilabili i due movimenti, dato «il crescente richiamarsi dell’Italia fascista a Roma, tornata ad essere attuale come non mai e ad agire come operosa forza d’impulso della vita italiana», poiché «Roma vuol dire un certo concetto politico, un certo principio morale, un certo spirito animatore, non una razza»379. Questa posizione, che restava ferma anche negli anni successivi e che non mi pare, risulti incrinata dall’impossibilità, testimoniata da Volpe, di garantire con successo, per il Congresso internazionale di Scienze storiche, da svolgersi a Roma nel 1943, l’ammissione anche a «studiosi provenienti dall’Urss o a cittadini italiani di razza non ariana»380, riemergeva con forza anche nelle pagine della Storia del movimento fascista del 1939, dedicate al problema ebraico, sulle quali, disgraziatamente è a lungo gravato il giudizio di Renzo De Felice, che nel 1961 avrebbe sostenuto: Persino uno storico del valore di Gioacchino Volpe, nella sua Storia del movimento fascista – pur non nascondendo, molto più onestamente di tanti altri, il disagio e le resistenze che il razzismo fascista incontrava – non seppe resistere all’andazzo e presentò la politica della razza sullo stesso piano dell’autarchia e della “coltivazione intensiva dello spirito militare”, come una tappa verso la costruzione di un’Europa “veramente unita e solidale”, entità geografica “ma assai più entità spirituale”. Squallida testimonianza di quanto la cultura fascista fosse inconsapevole delle sue responsabilità e dei suoi veri doveri, non quel-
versa, sul punto, la posizione di B. CROCE, in Recenti controversie intorno all’unità della Storia d’Italia, pubblicato nei Proceedings of the British Academy, London, 1936, XXII, ora in ID., La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 19393, pp. 342-343, contro l’identificazione di «zoologia e storia», dove si levava la voce contro la degenerazione della cultura di quei popoli, per i quali «l’unità, l’unità fantasticata e impensabile della loro storia, è riposta francamente nella “razza”, oggetto ormai di assidue fatiche di storici, filosofi e di fisiologi, molti dei quali appartengono a coloro che sono sempre parati a rendere servigi, coi loro teorizzamenti, a chi ha afferrato la forza e tiene il potere». Ambedue gli interventi erano rivolti alla nazificazione della storiografia tedesca, sulla quale H. SCHLEIER, German historiography under National Socialism: dreams of a powerful nation-state and German Volkstum come true, in Writing National Histories. Western Europe since 1800, edited by S. Berger, M. Donovan, K. Passmore, London-New York, Routledge, 1999, pp. 176 ss. 379 G. VOLPE, Nota aggiuntiva, a ID., Storia del movimento fascista (1932), ora in ID., Scritti sul fascismo, cit., II, p. 151. 380 K.D. ERDMANN, Toward a Global Community of Historians, cit., p. 182, che rimanda alla lettera di Volpe a Lhéritier del 16 dicembre 1938.
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li verso il regime ma quelli verso se stessa381.
Il carattere poco o affatto ortodosso del volume di Volpe, proprio su quel punto, era messo in evidenza da Gino Luzzatto nella lettera a Corrado Barbagallo del 22 marzo 1939. L’intellettuale ebreo, che pure aveva registrato con preoccupazione il tentativo di Volpe di accorpare la «Nuova Rivista Storica» a «Rivista Storica Italiana», in occasione dell’epurazione antigiudaica382, riconosceva che il nuovo saggio sul fascismo conteneva «pagine abbastanza oneste» soprattutto nella parte dove si affrontava il problema della legislazione antisemita383. Non diversa, a questo riguardo, era anche l’opinione di Ernesto Sestan che, sottoponendo quel testo a una sorta di lettura obliqua, parlava di «significative riserve sul corporativismo e la politica razziale»384. Lettura obliqua, si è detto, l’unica forse capace di penetrare nelle pieghe riposte di uno scritto, aduso a tutte le arti di una vera e propria «dissimulazione onesta». Servendosi della stessa strategia retorica, utilizzata nell’articolo dedicato ai patti concordatari, Volpe non prendeva di petto frontalmente la validità dell’apparato legislativo antiebraico, al quale neppure Croce e la sparuta componente liberale del Senato avevano potuto nulla obiettare pubblicamente, e anzi ripeteva le giustificazioni propalate dal regime per la messa in vigore di quei provvedimenti di discriminazione, se non ancora di persecuzione. Ma aggiungeva subito dopo tante obiezioni e tanti distinguo, che costituivano un netto e metodico diniego della normativa razziale nel suo complesso. Così, nella Storia del movimento fascista, si parlava del pericolo che una forte lobby affaristica ebraica poteva rappresentare per la costituzione di una economia nazionale veramente autonoma e indipendente. 381 R. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1962,
pp. 382.
382 Sul punto, M. BERENGO, Gino Luzzatto, Corrado Barbagallo e la censura fascista, in Studi in onore di Paolo Alatri. II. L’Italia contemporanea, a cura di C. Carini e P. Melograni, Napoli, Esi, 1991, pp. 261 ss., p. 270, in particolare, dove si riporta questo brano della lettera di Luzzatto a Piero Pieri del 17 ottobre 1938: «Rota mi riferisce, per averlo saputo da Morandi, che Volpe vuole proporre la fusione della “Nuova Rivista Storica” con la “Rivista Storica Italiana”, trasferendo la stampa di questa ad Albrizzi. Ne sai nulla? Io naturalmente sarei contrario, perché capisco che cosa significherebbe la fusione, non essendo pensabile che Volpe o Morghen cedano il posto a Barbagallo o a… Luzzatto, e che la “Rivista Storica Italiana” perda il suo carattere ufficiale e ufficioso». Difficile dire se il progetto di Volpe non corrispondesse semplicemente al tentativo di conservare il patrimonio di competenze del periodico, che, essendo codiretto dall’ebreo Luzzatto, sembrava destinato a cessare la sua attività. La rivista avrebbe, invece, continuato le sue pubblicazioni, aggirando lo scoglio del disposto legislativo. Sul punto, A. CASALI, Storici italiani fra le due guerre, cit., pp. 187 ss. 383 M. BERENGO, Gino Luzzatto, Corrado Barbagallo e la censura fascista, cit., p. 269. 384 E. SESTAN, Memorie, cit., p. 226.
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Si sottolineava l’esistenza, nell’ambiente israelita italiano e internazionale, di un florido terreno di cultura antifascista, a cui, in ogni caso, erano rimasti estranei molti ebrei «iscritti al partito, magari della prima ora, e benemeriti del regime». Si motivavano, infine, i decreti del 1938 in vista del destino coloniale e imperiale dell’Italia, e «come un aspetto della battaglia demografica rivolta non solo ad accrescere la quantità ma anche migliorare la qualità del popolo italiano; come ulteriore sforzo di nazionalizzare la coltura italiana, sottraendola agli influssi di tendenze o correnti malamente innovatrici in letteratura o in arte, che erano rappresentate in misura notevole da ebrei, cioè da stranieri che erano una razza diversa, refrattaria ad ogni assimilazione, orgogliosa di una sua superiorità sopra ogni altra razza». A questi argomenti, dove erano pure presenti tratti di tagliente ironia sulla poca o nulla plausibilità di un autoctono «razzismo italiano» da contrapporre a quello germanico385, seguiva una più robusta e meglio costruita dissertazione, che enumerava nel dettaglio i motivi della cattiva accoglienza, che la più parte della pubblica opinione non poteva non riservare, per religione, tradizione, educazione, comune sentire patriottico, volontà di non rinunciare alla sua specificità nazionale, semplice opportunità politica interna ed estera, alla proclamazione della «dottrina della razza» fascista, la quale, insieme all’entrata in guerra dell’Italia, avrebbe smantellato rapidamente la ben costruita architettura di consenso al regime. Quasi improvvisa come essa fu, la politica della razza non trovò il terreno molto preparato. Certe solidarietà fra ebrei e cristiani, cioè fra “semiti” e “ariani”, create dagli studi e dalla colleganza accademica, dalle due guerre insieme combattute, dalla comune appartenenza al partito e anche agli affari non fu agevole spezzarle d’un colpo. Molti si chiesero se, per tenere un po’ indietro l’elemento ebraico, certo invadente e assorbente, fosse necessario metter in piedi quella grossa costruzione teoretica di incerto valore scientifico e mal rispondente a tradizionali concezioni storiche italiane. Ci si ricordò che l’antico irredentismo triestino aveva avuto fra gli ebrei molti assertori, anche col loro sangue. Si temé che l’antisemitismo potesse recar pregiudizio alla politica e agli interessi mediterranei dell’Italia. Si affacciò il dubbio se, in un momento di grave tensione internazionale come era quello, convenisse proprio moltiplicare e invelenire ancor di più i nemici dell’Italia. Un altro segreto timore era questo: che il fascismo potesse mettersi sulla scia del nazismo, in fatto di dottrina della razza, e smarrire così qualche tratto della originaria e schietta sua italianità. Que385 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1939), cit., p. 241: «È fuor di luogo che si volesse, fra l’altro, contrapporre al razzismo tedesco, che aveva una punta contro tutte le stirpi mediterranee, Italiani compresi, e contro Roma classica e cristiana che fosse; contrapporre ad esso una dottrina che individuasse fra le stirpi mediterranee gli Italiani e rivendicasse ad essi un posto nella nobile famiglia ariana».
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sti e simili dubbi, timori, obiezioni serpeggiarono quei giorni nel sottosuolo italiano, mentre aperte critiche e opposizione di principio vennero dal giornale della Città del Vaticano, l’“Osservatore Romano”, e dallo stesso Pontefice, oltre che dai prelati assai ben disposti sino allora, verso il fascismo386.
Significativamente Volpe, per quella pagina, avrebbe parlato di «spunti critici numerosi o passi da cui appare chiaro il mio dissenso», con diretto riferimento alla «parte relativa al razzismo, che io mi rifiutai di modificare, quando ne venne l’invito dal Ministro della Cultura Popolare»387. Quelle parole di critica velata ma severa certo non potevano essere gradite a Mussolini, che incontrava qualche non piccola difficoltà a far digerire anche ad alcuni compagni di strada (da Balbo a Marinetti) la sua improvvisa conversione all’antisemitismo388, la quale non albergava nel patrimonio biologico del fascismo, come tendenziosamente, invece, si è voluto sostenere389. E, stupisce allora l’ingenuità, autentica o simulata, non saprei dire, di Volpe che, con falsa oppure, forse, ancora autentica sollecitudine, domandava, il 22 febbraio 1939, alla Segreteria particolare di Palazzo Venezia di «chiedere al Duce una breve udienza per me», per poter «presentar a lui la mia storia del movimento fascista, di cui il Ministero della Cultura Popolare cura la traduzione in molte lingue»390. Una richiesta, comunque esaudita, di lì a pochi giorni, che permetteva a Volpe di farsi latore di una inopportunissima lettera della consorte. In questa, si chiedeva a un Mussolini, che allora andava riesumando lo spirito della lotta di classe dei suoi verdi anni e che di lì a poco avrebbe confessato che il suo grande errore era stato di non aver fatto una «rivoluzione così spietata che quella del camerata Lenin sarebbe stata al confronto uno scherzo innocente»391, il conferimento di «un titolo nobiliare trasmissibile ai figli» per il coniuge, non essendo «conveniente infatti, e questo appare strano soprattutto all’estero, che lo storico del fascismo non abbia un titolo e almeno una decorazione che non sia superiore quella di Grande Ufficiale»392. S’inne-
386 Ivi, pp. 241-242. 387 ID., Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, cit. 388 R. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit, pp. 392 ss. Sulla posi-
zione di Balbo e di Nello Quilici, radicalmente contraria alla campagna antisemita, alcuni dati sono in F. QUILICI, Tobruk 1940, cit. pp. 117 ss. Dati drasticamente contraddetti, per quello che riguarda Quilici, da I. PAVAN, Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 139 ss. 389 G. FABRE, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Milano, Garzanti, 2005. 390 Gioacchino Volpe a Osvaldo Sebastiani 22 febbraio 1939, cit. 391 G. CIANO, Diario, cit., p. 486, alla data del 6 dicembre 1940. 392 Elisa Serpieri Volpe a Benito Mussolini, 24 febbraio 1939, SPD.
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scava, in questo modo una grottesca vicenda, fatta di concessioni e di rifiuti393, alla quale si vorrebbe disperatamente credere Volpe sia restato almeno parzialmente estraneo. Una vicenda, che si trascinava nelle settimane successive, quando, però, proprio il volume che avrebbe dovuto elevare il suo autore ai ranghi della Paria, aveva già dimostrato di non essere opera in grado di ottenere il gradimento di un regime, ormai impegnato in una profonda e radicale trasformazione delle sue strutture e del suo stesso, primitivo spirito animatore.
393 Il 17 marzo, la Segreteria di Mussolini comunicava al Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che il Duce aveva disposto per Volpe la concessione di un’onorificenza superiore a quella di Grande Ufficiale. Di rimando, l’Ufficio della Presidenza, comunicava però, in data 31 marzo, che «A seguito dell’appunto in data 17 andante, n. 26348, relativo alla proposta di conferimento dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce all’accademico Gioacchino Volpe, si ha il pregio di comunicare che la proposta stessa non può avere per ora favorevole corso perché egli è stato insignito da meno di un anno dell’onorificenza di ufficiale mauriziano». Il carteggio relativo alla vicenda è conservato in SPD.
3. VENTI DI GUERRA E DI CATASTROFE 1. Al suo primo apparire, la Storia del movimento fascista era stata accolta da un giudizio severo del «Popolo d’Italia», in uno striminzito resoconto dove si definiva l’opera una «storia del Fascismo narrata da un punto di vista extra fascista, entro il quale se costante ed estremamente onesto si rivela sempre lo sforzo di comprendere, di giustificare e talvolta di esaltare quel gran capitolo della storia dell’umanità che ha nome Fascismo», l’autore finiva per mostrarsi «guardingo e calcolato negli apprezzamenti e abbastanza lontano da quel pathos eroico da cui una storia del Fascismo dovrebbe pur essere avvinta»1. Per buona misura, nell’articolo si definiva il volume una semplice ripresa della voce «Fascismo» del 1932, e non un contributo in molti punti originale, come effettivamente era2, e si instaurava un raffronto, non certo favorevole a Volpe, tra il suo recente lavoro e la Storia del fascismo: guerra, rivoluzione, regime, pubblicato a Firenze, da Vallecchi, nel 1929, redatta da Giorgio Pini e Federico Bresadola: due poligrafi fascisti di stretta osservanza3. A quel giudizio lo storico rispondeva ab irato in una lettera al direttore del quotidiano del Pnf, Vito Mussolini, inviata il 25 luglio:
1 L’articolo, siglato B.B, appariva l’11 febbraio 1939 sul «Popolo d’Italia». 2 Il recensore del «Popolo d’Italia» aveva sostenuto: «Conoscevamo già gran parte di
questa “storia” per averla letta quando fu pubblicata qualche anno fa sotto la voce Fascismo dell’Enciclopedia Treccani. Ora il Volpe vi ha apportato alcuni ritocchi e un notevole aggiornamento». Sul punto, Gioacchino Volpe a Federico Chabod, 18 agosto 1938: «In vero, essi (del ministero) volevano solo piccoli aggiornamenti: ma, come spesso succede, messe le mani sul lavoro, è venuto fuori molto di più: non so se a condanna o a vantaggio del lavoro stesso». La si veda ora riprodotta ora in A. FRANGIONI, Gioacchino Volpe e Federico Chabod, una lunga storia, in «Nuova Storia Contemporanea», settembre-ottobre 2002, 4, pp. 91 ss., da cui, d’ora in poi, si intende citato l’intero carteggio tra maestro e allievo. 3 Il volume veniva nuovamente edito in versione ampliata, e con la collaborazione di Giulio Giacchero, dall’Unione Editoriale d’Italia nel 1938. Pini era autore di un’encomiastica biografia del Duce, Benito Mussolini: la sua vita fino ad oggi: dalla strada al potere, Bologna, Cappelli, 1926. Bresadola aveva redatto una Cultura fascista per uso delle scuole secondarie di avviamento al lavoro, Palermo, Industrie Riunite Editoriali Siciliane, 1929 e un Ordinamento corporativo: brevi cenni ad uso delle Scuole medie per gli esami di abilitazione tecnica e magistrale e di maturità classica e scientifica, Torino, Luigi Druetto, 1930.
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A distanza di mesi, mi viene sotto gli occhi una breve recensione – sfuggitami allora – che il signor B.B. fece del mio Fascismo, sul “Popolo d’Italia” dell’11 febbraio 1939. Ringrazio Voi e il “Popolo” di aver rivolto ad esso la vostra attenzione. Ringrazio il signor B.B. di qualche correzione di dettaglio che suggerisce, assai opportuna e giusta. Meno giuste mi paiono altre osservazioni. Il mio Fascismo non è il vecchio articolo dell’Enciclopedia “pubblicato sotto forma di libro”, salvo “alcuni ritocchi e un notevole aggiornamento”. In realtà, il vecchio lavoro è per tre quarti rifatto o rimaneggiato a fondo e da 100 pagine o poco più, che era, è passato a 240. Non vedo “irriverenza” in certi miei giudizi o frasi. Non li trovò irriverenti lo stesso alto personaggio che lesse in bozze il primo saggio. Neppure mi considero in colpa di aver trattato da storico la materia, per intendere e far intendere, senza mitizzare né fatti né persone. Lasciamo ai secoli e all’inconscia umanità il compito di creare i “miti”. È “pochino” un capitolo solo dedicato alla conquista d’Abissinia? Ma io non ho scritto la storia d’Italia nell’era fascista e neanche tutto quello che ha fatto il governo fascista. La stessa mole del libro, oltre che il titolo, lo dice. Ho solo voluto vedere e far vedere come questo moto è nato e si è affermato, quali idee nuove e istituti nuovi e spirito nuovo ha portato, quali cose ha fatto che sian vere e intrinseche opere del fascismo. Raccontar per disteso l’impresa d’Africa era fuor di posto: bastava, ai miei fini, mostrare che cosa di fascista l’impresa ha avuto: quindi non tanto l’impresa in sé, che avrebbe potuto essere compiuta anche da un Crispi, se i tempi fossero stati propizi, quanto il modo come è stata dal Duce compiuta, i fini che essa si è proposta, la rispondenza sua alle nuove e fasciste condizioni della vita italiana, il nuovo “animus” degli Italiani del fascismo, lo spirito volontaristico, la coscienza coloniale dovuta al fascismo ecc. Questo e solo questo doveva trovar posto, e lo ha trovato, in una succinta Storia del movimento fascista. Mi duole di dover fare qui il maestro di scuola: ma un maestro di scuola sono e non me ne lamento. Ancora, se mi permettete, una osservazione: io ho “seguito il metodo” Pini-Bresadola. Ecco, signor direttore, io posso aspettarmi l’appunto di non aver letto Pini-Bresadola, uscito non so bene se prima o dopo il mio primo saggio (e realmente non l’ho letto, perché ho letto moltissimo di documenti e cronache locali del fascismo, ho letto Chiurco che è una miniera di fatti, ma ho letto poco di storie, cioè ricostruzioni storiche del fascismo!), ma non il rilievo, fatto non so se a lode o a biasimo, di aver seguito il metodo Pini-Bresadola. Il mio libro potrà essere, anzi è, inferiore all’altro, ma è mio, proprio mio4.
4 Gioacchino Volpe a Vito Mussolini, Direttore del «Popolo d’Italia», 25 luglio 1939, minuta dattiloscritta, CV. Nella lettera Volpe si riferiva alla monumentale Storia della rivoluzione fascista, 1919-1922 di Giorgio Alberto Chiurco, edita nel 1929 dall’editore fiorentino Vallecchi, in 5 volumi. La documentatissima opera di Chiurco, che rappresentava la versione ufficiale della nascita del movimento fascista, fino alla marcia su Roma, era stata definita da A. TASCA, Nascita e avvento del fascismo, cit. p. 5: «un vero caos di dati accumulati senza discernimento, per l’incapacità mentale a dominare la materia affidatagli, e, appunto per questo, utilissimo, benché di improba lettura».
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Volpe serberà a lungo la memoria della sfavorevole accoglienza del quotidiano di proprietà della famiglia Mussolini per il suo scritto5, che pure un intellettuale fascista di grande classe come Camillo Pellizzi definiva, nella lettera indirizzatagli, il 23 luglio, «il migliore e più autorevole lavoro sull’argomento», aggiungendo in una successiva corrispondenza del gennaio 1940, con un’esplicita punta polemica rivolta contro Gentile: «Volesse il cielo che, anche per la Dottrina, avessimo un libro di questa levatura!»6. Ma, nell’immediato, lo storico sembrava non rendersi pienamente conto del significato di quella critica aspra e del boicottaggio giornalistico, che ad essa era seguito, se, ai primi di marzo, nella lettera a Cesarini Sforza scriveva: «Hai visto il mio Fascismo? I grandi organi dell’opinione pubblica par che siano stitici a parlarne anche per dirne male. E sì che cose eretiche non ci sono: solo ho voluto guardar le cose con un certo distacco, da storico, e non annegarvi dentro»7. Evidentemente, come Volpe pure doveva sapere bene, il suo parere sprezzante sul ruolo di Mussolini nell’impresa etiopica aveva avuto qualche peso in quella sorta di stroncatura, ma anche questa considerazione non era sufficiente a spiegare l’accaduto. Sebbene ampliata tanto da costituire un contributo originale, la Storia del movimento fascista non era infatti opera diversa e antitetica, nei suoi contenuti generali dalla voce «Fascismo», che come Volpe aveva ricordato a Vito Mussolini, aveva ricevuto il gradimento dell’«alto personaggio» che l’aveva letta, ancora prima della sua pubblicazione. Come sappiamo, Mussolini aveva lodato infatti, incondizionatamente, la vigoria dello stile di quella
5 G. VOLPE, Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, cit.: «E ciò
ben videro i fascisti di stretta osservanza che considerarono il libro con certa diffidenza, accusarono esso – come anche altro mio libro Fra la pace e la guerra – di non far sufficiente posto all’azione di Mussolini, e prima vietarono i giornali di parlarne (come da una lettera di Giulio Colamarino a me), poi ne parlarono: ma il “Popolo d’Italia” ne parlò con una recensione di venti righe, che era quasi una stroncatura, come di libro “non fascista”». 6 Si veda Camillo Pelizzi a Volpe, 23 luglio 1939 e 20 gennaio 1940, FV. Scontato nella lettera del 1940 il riferimento alla voce «Fascismo. Dottrina» dell’Enciclopedia Italiana, a firma di Mussolini, ma opera in realtà di Gentile. Nella prima corrispondenza, indirizzata al «Caro Maestro», Pelizzi offriva a Volpe i suoi servigi per realizzare una traduzione inglese della Storia del movimento fascista, da lanciare sul mercato editoriale britannico. 7 Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Roma 7 marzo 1939, AWCS. Nella lettera Volpe domandava una recensione del volume, che poi sarebbe apparsa su «Resto del Carlino» e in versione ampliata sulle pagine di «Nuova Antologia». Sul punto, la lettera del 2 luglio 1939 a Cesarini Sforza, ivi: «Avevo letto l’articolo e ti ringrazio. Tu hai fatto più di quello che chiedessi. Non capita tutti i giorni che una recensione faccia rivivere la materia del suo autore e aggiunga anche essa qualche cosa di suo e dica qualche cosa che giovi anche allo scrittore del libro». E quella dell’8 novembre: «Mi hanno mandato dalla N. Antologia un estratto della tua recensione, della quale assai ti ringrazio. Qualche tuo rilievo su la storia del mov. fascista mi ha fatto particolarmente piacere».
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prova storiografica, esprimendo lo stesso giudizio di Gentile, che ricevute le bozze dell’articolo della Treccani, lo aveva definito un’autentica opera d’arte8. Eppure, dato anche questo fin qui acquisito, molti dei contenuti di quelle pagine (dalle riserve sulla manomissione costituzionale operata dal regime, a quelle sull’esperienza del corporativismo e sulla sigla degli accordi di Laterano) non avrebbero dovuto autorizzare l’entusiastica accoglienza dei vertici culturali e politici per una ricostruzione storica che, inoltre, aveva denunciato lo snaturamento e quasi il depotenziamento ideale del fascismo nel suo passaggio dalla fase cittadina e politica a quella agraria e militare, come Volpe aveva comunicato a Gentile ancor prima di pervenire alla stesura definitiva del contributo. Quel che ti mando, 1° è un abbozzo, contiene prolissità e lungaggini, ha bisogno di lima e martello, 2° è incompiuto. Giungo fino al 1920. Debbo ancora prospettare l’evoluzione del ’21-22 del movimento fascista, diventato partito; le rettifiche della rotta verso destra; il suo adeguarsi un poco ai nuovi elementi sociali che vi entrano specialmente nella campagna; il suo diventare da fatto esclusivamente cittadino, come lo vedeva da principio anche Mussolini, anche rurale anzi specialmente rurale, mentre le masse operaie e cittadine resistono a lungo; l’epilogo del 1922 e cioè la vera e propria organizzazione bellica, azione di masse, marcia su Roma. Con l’ottobre 1922, io credo di dovermi fermare, salvo un capitoletto conclusivo per un’occhiata d’insieme su quello che è l’orientamento generale del governo fascista in via di diventare regime fascista9.
E se quelle pagine critiche erano state conservate nel 1939, se anzi ne era stata addirittura amplificata l’eterodossia, aggiungendo ironia e disapprovazione per l’antisemitismo fascista, anche tutto ciò non basta8 La viva approvazione per i contenuti della voce redatta da Volpe era espresso dal filosofo in un biglietto, che accompagnava la consegna delle bozze, CV: «Queste bozze devi restituirmele lunedì. Ma bada a non buttar sossopra il tuo testo (che è già un capolavoro!). Nessuna aggiunta, che non sia compensata da un taglio. Disponi ancora di mezza colonna (righe 35) per la Bibliografia». Al biglietto, Volpe rispondeva con il messaggio del 13 giugno 1932, conservato in Archivio storico dell’Enciclopedia Italiana (AEI): «Caro Giovanni, forse qualche cosa avrò da ritoccare o aggiungere. Ma avrò bisogno di qualche giorno. Spero mi sia concesso». 9 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 29 gennaio 1932, AFG. Il tema sarebbe stato sviluppato in ID., Storia del movimento fascista (1932), cit., pp. 50 ss. e 58 ss., in particolare, p. 60: «Il movimento fascista, che, per tutto il 1919 e gran parte del 1920, non aveva fatto grandi progressi e poco era uscito dai maggiori centri urbani, dove poi si urtava in masse operaie ferme nei loro vecchi quadri e poco aperte ai suoi richiami, cominciò a trovare nelle campagne uno sbocco, un buon campo d’azione e di esperimento, un solido punto d’appoggio, la prospettiva di possibilità a venire, quali forse gli iniziatori non pensavano». Sul punto, ora, R. DE FELICE, Mussolini il fascista. II. La conquista del potere, cit., al capitolo I.
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va a spiegare la cattivissima accoglienza alla quale la nuova opera era stata sottoposta, almeno di non ipotizzare che, se il giudizio di Volpe sul fascismo era restato sostanzialmente immutato, mutato e di molto era ormai il fascismo alla fine degli anni Trenta, nel momento in cui il regime o, almeno una parte dei suoi quadri dirigenti, si apprestava a varare quella «svolta totalitaria» che avrebbe dovuto stravolgerne, in profondità, la fisionomia10. In altri termini, si è condotti a concludere che, pur con tutti suoi chiaroscuri e le sue zone d’ombra, il contributo del 1932 era apparso a Mussolini, funzionale, in primo luogo, alla strategia politica del momento, a differenza di quanto poi, nel 1939, mutata quella strategia, sarebbe accaduto. E quel primo giudizio positivo verteva sull’architettura complessiva del saggio, contraddistinta sicuramente da un forte «mussolinismo», eppure poco canonico e molto diverso da quello dimostrato non solo da fedelissimi cronachisti (come appunto, Chiurco, Pini, Bresadola) ma anche da professionisti della storia, poi saliti ai fastigi politici del regime, come Francesco Ercole e Arrigo Solmi, che avrebbero sommerso tutta la storia nazionale non tanto e non solo nella vicenda storica del fascismo quanto nella biografia del Duce11. Per Volpe, invece, la centralità della personalità di Mussolini era relativa solo alla sua vicenda politica nel fascismo, anche se, in questo caso, risultava essere davvero assoluta e tale da ricacciare nell’ombra, ogni altro protagonista, ridotto ad essere tutt’al più una semplice comparsa o, nel migliore dei casi (Balbo e Grandi), un «volenteroso secondo». Ma quello che più conta era che, nella ricostruzione di Volpe, il grande assente era proprio il Partito fascista, a cui erano dedicate solo poche, sbiadite pagine, in occasione della sua costituzione e dello sforzo militare relativo alla Marcia su Roma. La storia di Volpe era infatti storia di un «movimento», il quale «sorto inizialmente come moto di parte, si era venuto progressivamente ad identificare con la nazione», e non di una fazione, che aveva finalizzato i suoi obiettivi alla costruzione di una struttura gerarchica e organizzata, per l’acquisizione e il mantenimento del potere. Il grande merito di Mussolini era stato quello di aver voluto dare vita a un «antipartito, che sarà contro il partito socialista innanzi tutto, ma anche contro gli altri partiti: e non solo in quanto specifico contenuto dottrinale, ma anche in quanto partiti, cioè insieme di formule, di programmi ben delineati, di principi e di dogmi»12. 10 ID., Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario, cit., pp. 8 ss. 11 A. SOLMI, La genesi del Fascismo. Quaderni dell’Istituto Nazionale Fascista di Cul-
tura. Serie Terza, 9, Milano, Treves, 1933; F. ERCOLE, La Rivoluzione fascista, Palermo, Ciuni, 1936. 12 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1932), cit., pp. 45-46.
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Riportando con enfasi le dichiarazioni di Mussolini, contenute nel manifesto costitutivo del Fascio di Milano nel marzo 1919, dove si era affermato che il fascismo avrebbe cessato di essere fascismo, una volta che avesse aggiunto alle sue snelle salmerie la bardatura di pregiudiziali ideologiche, tessere, statuti, parole d’ordine esclusive ed escludenti le altre forze che, non in virtù di «stipulazioni o intese formali o protocollate», potevano essere utilizzate per uno «scopo comune» autenticamente e unicamente nazionale, Volpe aggiungeva che quel «movimento», che era un «non-partito» e che nei convincimenti del suo fondatore sempre sarebbe stato destinato a restarlo, dimostrava il suo carattere «rivoluzionario» proprio per il suo essere «antidogmatico». Il fascismo infatti, continuava Volpe, si era proclamato «pragmatista», non si era proposto «finalità remote, ma l’organizzazione temporanea di tutti coloro che accettano date soluzioni a dati problemi» e si era limitato a «tenere unite, con una forma di anti-partito o superpartito gli Italiani di tutte le fedi e di tutte le classi produttrici»13. Proprio Mussolini aveva contribuito a mantenere in piedi questa fisionomia politicamente anomala, ma proprio per questo profondamente innovatrice nei confronti della vecchia politica, anche dopo il 1921, quando «esposto alla ventata delle correnti estremiste del fascismo, affrettò un evento che già si intravedeva all’orizzonte, la trasformazione del movimento in partito»14. Anche dopo quella trasformazione, il fondatore dei Fasci non volle mai assumere nel Pnf una «speciale posizione gerarchica», la quale avrebbe finito per diminuire la sua funzione di «Duce degli Italiani», la sola che gli avrebbe consentito di far sì che «il fascismo, pur mentre si definiva e si differenziava, anche si dilatava spiritualmente, riecheggiava il più, e via via, sempre il meglio delle voci italiane, diventava sempre più l’“interesse generale”, s’identificava sempre meglio con l’Italia»15. Ritornava in questo modo l’immagine del fascismo come «movimento ereticale» della politica, che anche Missiroli aveva contribuito a delineare16, il cui solo collante risiedeva nel carisma del proprio incontrastato leader, ma anche ritornava quella di un fascismo come evento, indispensabile per il progresso della vita italiana, ma transitorio e forse di tanta breve durata da doversene iscrivere la durata futura nell’arco dell’esistenza del suo fondatore e che avrebbe potuto anche dissolver-
13 Ivi, p. 49. 14 Ivi, p. 68. 15 Ivi, p. 80. 16 M. MISSIROLI, Il partito degli eretici, in «Il Secolo d’Italia», 12 novembre 1921, p. 3,
dove si parlava del fascismo come movimento dove coesistevano, pur nell’unità dei propositi, «opposti pensieri e opposte anime», anche dopo la sua trasformazione in «partito».
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si dopo la scomparsa di uomo grande, ma mortale come ogni altro. Discordante quanto si vuole, dalla oleografica vulgata ufficiale, questa ricostruzione aveva però il merito di secondare, in profondità, proprio gli obiettivi di Mussolini, il quale sempre, e almeno dal 1926 fino al 1936, avrebbe escluso che il Pnf dovesse assumere il ruolo e la funzione che il partito aveva nel regime nazista e in quello sovietico. Conquistato il potere, il Pnf doveva perdere infatti «qualsiasi effettiva funzione politica autonoma». Mentre nella Germania hitleriana e nella Russia stalinista, il partito diveniva la «pietra angolare del regime» e lo strumento privilegiato della «conquista totalitaria» di ogni settore della vita associata, nell’Italia fascista, questa struttura restava completamente subordinata all’apparato statale e si limitava a svolgere «funzioni secondarie, burocratiche, al limite transeunti»17. La politica fascista dunque restava tutta all’«interno dello Stato» e non partecipava a quella «rivoluzione legale», che comunismo e nazismo avevano realizzato compiutamente, spazzando appunto ogni distinzione tra legalità e stato d’eccezione, tra diritto e plus-valore politico della forza, tra Stato, politica e società18. Di questa peculiarità politica del fascismo dava conto, un grande giurista tedesco come Carl Schmitt, in un saggio del 1933, rapidamente tradotto in italiano da Delio Cantimori19, quando sosteneva che esso non aveva portato a temine quell’intima fusione tra «Stato, movimento e popolo», attuata, in Germania, dal Partito Nazionalsocialista dei lavoratori, dato che «nonostante parecchie somiglianze singole dello Stato nazista con lo Stato fascista, si mostrano proprio qui grandi diversità nel rapporto tra partito e funzionari, tra partito ed esercito, tra partito e guida dello Stato». Il Pnf infatti, se era divenuto con le leggi del 1928 e del 1929 un «organo dello Stato», non si era per questo trasformato «immediatamente in un organo statale», perché tale era soltanto «un determinato organo del partito, il Gran Consiglio del Fascismo», diversamente dal movimento hitleriano, che come «portatore dell’idea statale», in esclusiva, era «legato in modo indissolubile allo Stato»20. Il fascismo restava, dunque, un «vecchio regime tradizionale, sia pure in camicia
17 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista, cit., pp. 297-298. 18 C. SCHMITT, La rivoluzione legale mondiale. Plusvalore politico come beneficio della legalità e della superlegalità giuridica, pubblicato in «Der Staat», 1978, 3, ora in versione italiana in ID., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2005, pp. 187 ss., particolarmente pp. 200 ss. 19 ID., Principi politici del Nazionalsocialismo. Scritti scelti e annotati da D. Cantimori, Firenze, Sansoni, 1935, pp. 175 ss. 20 ID., Stato, movimento e popolo, in ID., Un giurista davanti a se stesso, cit. pp. 275-276.
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nera», provvisto indubbiamente di una serie di trasformazioni in senso autoritario, ma di tipo ancora sostanzialmente «classico», dove le componenti «demagogico sociali» più moderne non erano sufficienti a costruire una sistema totalitario e, nel quale, soprattutto, l’amalgama che teneva insieme la sua debole architettura istituzionale restava il «mitoabitudine del Capo»21. Nel fotografare esattamente questa situazione e nel congiurare al suo mantenimento, la storia del fascismo di Volpe poteva incontrare il consenso di Camillo Pellizzi, che, pur nell’ambito di una riforma radicale del sistema, insisteva nel ritenere il Pnf soltanto un «organo politico», sia pure «principalissimo», la cui azione, rinserrata in «limiti e responsabilità di ordine giuridico», non doveva sovrapporsi a quella dello Stato22. Questa ipotesi doveva entrare, però, in rotta di collisione con le opinioni di quanti, dentro il movimento dei Fasci, rivendicavano la necessità di potenziare la struttura del Partito, di estenderne potere e competenze per arrivare a compiere il processo di una «piena fascistizzazione dello Stato» ma anche per ridimensionare tendenzialmente le prerogative del Duce e schiacciarle sulla funzione di «collegamento personale» tra Pnf, Stato e società. Si era fatto grossolanamente interprete di questa tendenza Roberto Farinacci nella sua Storia della Rivoluzione fascista del 1937, dove, certamente si lodava l’invenzione dell’«anti-partito» del 1919, in quanto ventata antisistema necessaria «a separare le sorti della Patria dal destino della vecchia classe politica»23, ma nella quale si rivendicava anche, con energia, il ruolo dominante e insostituibile del Pnf nell’aver preparato e portato a termine il cambiamento epocale del 1922, consolidandone poi i risultati eversivi del vecchio quadro istituzionale24. Era una tesi che, negli anni immediatamente successivi, veniva rilanciata con maggiore consapevolezza teorica da un gruppo d’intellettuali (Carlo Costamagna, Emilio Crosa, Carlo Curcio, Antonino Pagliaro, Giuseppe Tassinari), i quali poi, legati da stretti rapporti personali e istituzionali con il Terzo Reich, avrebbero formato una autentica lobby filotedesca e filonazista25, all’interno del Dizionario di Politica del Pnf, che
21 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista, cit., pp. 8 ss. 22 C. PELLIZZI, Il Partito educatore, Roma, Tipografia della Camera dei Fasci e delle
Corporazioni, 1941, pp. 43-44. 23 R. FARINACCI, Storia della Rivoluzione fascista, Cremona, Società editrice Cremona Nuova, 1937, 3 voll., I, pp. 125 ss. 24 Ivi, III, pp. 230 ss. 25 A. SOMMA, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino. Economia e politica nel diritto fascista e nazionalsocialista, Frankfurt am Main, Klostermann, 2005. Sul punto, E. DI RIENZO, Antisemitismo, la strana rimozione, in «il Giornale», 20 dicembre 2005; ID., Il papiro del
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cominciava i suoi lavori preparatori nel 193826. In quella sede, molti dei contributi di carattere giuspolitico miravano ad attuare una trasformazione del fascismo italiano sul modello totalitario nazionalsocialista, con l’obiettivo di potenziare il ruolo del Pnf e di esaltarne la centralità politica27. Nel delineare questo programma, oggetto di un vivace dibattito soprattutto da parte della giovane avanguardia intellettuale fascista28, era soprattutto attivo Carlo Costamagna29, che, nel 1938, si poneva il problema della guida politica dello «Stato Nuovo» fascista, osservando che questa non poteva ormai identificarsi e confondersi con il «problema del “Duce”, cioè del fondatore del regime». Il sistema politico fascista, sorgendo da una rivoluzione, aveva certo avuto bisogno di un intervallo «costituente», che implicava «la dittatura da parte di quell’uomo d’eccezione, in cui la storia ha connesso il compito di creare il nuovo ordine». Ma, realizzato questo ordine nuovo, e quindi «cessate le ragioni della dittatura» provvisoria, emergevano quelle della stabilizzazione del regime, del suo rafforzamento, del suo trasformarsi «in modo di essere permanente, vale a dire in “sistema di vita”», che non avrebbe potuto dispensarsi, a causa della sua struttura rigidamente gerarchica, dalla funzione di un supremo detentore della sovranità totalitaria, considerato, in ossequio al modello del Führungkörper nazista, come guida del Partito, «ancorché questo non abbia le proporzioni straordinarie di Colui che ha promosso la rivoluzione»30. Ribadiva questi concetti Antonino Pagliaro, che nel 1940 scriveva: Dal punto di vista costituzionale la qualifica di “Duce del Fascismo” con-
Duce, ivi, 6 febbraio 2006; ID., Quel Patto d’acciaio sulle leggi razziali, ivi, 29 ottobre 2006. 26 Su quest’opera, V. PIRRO, La teoria dell’“Ordine nuovo” nel Dizionario di Politica, 1940, in «Nuovi Studi Politici», 1987, 2, pp. 87 ss.; C. GHISALBERTI, Per una storia del Dizionario di Politica, 1940, in «Clio», 1990, 4, pp. 673 ss. Non esente da qualche inesattezza e semplificazione è A. PEDIO, La cultura del totalitarismo imperfetto. Il “Dizionario di Politica” del Partito Nazionale Fascista (1940), Milano, Unicopli, 2000. 27 In particolare, G. TASSINARI, «Corporativismo», in PNF. Dizionario di Politica, cit., I, pp. 628-638; C. CURCIO, «Partito. III. Il Partito unico nelle costituzioni del dopoguerra», ivi, III, pp. 379-381; E. CROSA, «Rappresentanza», ivi, IV, 18-22; C. COSTAMAGNA, «Regime», ivi, IV, pp. 31-35. 28 L. DELLA ROVERE, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù fascista, 1919-1943, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 236 ss. 29 Su di lui, L. GALANTINI, Il fascismo radicale di Carlo Costamagna, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 1999, XI, pp. 89 ss. e l’ampio profilo di M. BENVENUTI, Il pensiero giuridico di Carlo Costamagna nel dibattito su metodo, diritto e Stato durante il regime fascista, in «Nomos. Le attualità del Diritto», 2005, 1-2, pp. 17 ss. 30 C. COSTAMAGNA, Storia e dottrina del fascismo, Torino, Utet, 1938, p. 419 ss. Non diversamente, ID., «Sovranità», in PNF. Dizionario di Politica, cit., IV, pp. 315-319; ID., «Stato», ivi, IV, pp. 381 ss.
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giunta con quella di Capo del governo esprime una particolare figura, fondamentale e caratteristica del regime totalitario. Poiché la volontà dello stato ripete dal Partito, depositario ed elaboratore dei motivi della Rivoluzione fascista, il suo contenuto, si rende necessario che le nuove realtà maturate dal tempo e i nuovi fini che il Fascismo pone alla vita della nazione siano portati in contatto con l’organismo statale cui compete la funzione di organizzare e dirigere a quei fini tutte le forze. Ciò avviene attraverso il Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo del Pnf, che è convocato e presieduto dal Capo del governo e, per quel che concerne il campo dell’economia attraverso il Comitato corporativo centrale e il Consiglio Nazionale delle corporazioni, che egli pure presiede. In tale maniera tutto il popolo, che partecipa alla vita dello stato nel Pnf e nelle organizzazioni sindacali-corporative, trova nell’abbinamento delle funzioni del Duce del Fascismo e di Capo del governo la realizzazione perfetta della sua funzione politica, di anima oltre che di corpo dello Stato31.
Molto significativamente, allora, proprio il Dizionario di Politica, promosso dal Pnf, dove quest’ultimo contributo era pubblicato, espungeva, alla voce «Fascismo», l’articolo «Dottrina (Idee Fondamentali)» redatto da Gentile per la Treccani, e sostituiva la sintesi storica di Volpe con la sezione, «L’azione storica del Fascismo», compilata da Pagliaro, dove venivano esaltate, senza se e senza ma, la conciliazione tra Stato e Chiesa e le magnifiche e progressive realizzazioni del Corporativismo32, e nella quale, arrivati alla data di promulgazione delle leggi antisemite, si sosteneva l’esigenza di debellare «una razza, detentrice di caratteristiche assolutamente antitetiche a quelle caratteristiche ariane che il Fascismo vuole più mettere in risalto, la quale con la sua azione insidiosa di penetrazione in tutti gli organismi nazionali fa opera negativa riguardo ai valori nei quali il Fascismo crede e per i quali combatte»33. Di fronte a queste prese di posizione, che interessavano ormai anche i vertici delle gerarchie del regime e che si riflettevano sulla stessa modificazione strutturale del Pnf34, il contributo di Volpe del 1939 doveva apparire una sorta di pietra d’inciampo di cui occorreva al più presto spazzare il cammino, proprio perché lo storico aveva riaffermato l’impossibilità di separare «nella costruzione fascista, quel che è principio e ordine costituito e quel che è personalità di Mussolini» e quindi insistito sulla difficoltà di prevedere «quel che sopravvivrà a lui e quel che passerà con lui, perché da lui indissolubile, anche se ha avuto un’effimera obiettivazione in formule giuridiche», le quali non ave31 A. PAGLIARO, «Duce», ivi, I, p. 830 32 ID., «Fascismo. II. L’azione storica del Fascismo», ivi, pp. 130 ss. in particolare
pp. 147 ss. 33 Ivi, pp. 157-158. 34 E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., pp. 203 ss.
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vano, comunque intaccato, la primitiva fisionomia del fascismo in quanto «movimento anti-partito» e come semplice «rivoluzione restauratrice»35. Di qui, dunque, la cattiva accoglienza del volume e l’assordante silenzio stampa che non tardò a circondarlo, esattamente nel momento in cui il suo autore si trovava nuovamente a disputare con chi, come Benedetto Croce, dall’altra sponda del fiume, era ormai divenuto il suo più affezionato avversario. Motivo della contesa, era stato un breve discorso di Volpe, pronunciato nei «Giovedì della Poesia» di Sanremo, dopo la lettura di «alcune liriche, ispirate al quarto degli Elementi, e precisamente all’Acqua», poi pubblicato, sulla base di una sommaria trascrizione stenografica, alla fine di marzo sul «Meridiano di Roma». Intervento di poco o nullo rilievo, quello di Volpe, che trascorreva dai ricordi biografici (la memoria dell’infanzia trascorsa «avendo davanti agli occhi la Maiella, alle spalle il Gran Sasso, grandi madri dell’acqua»), alla più che banale considerazione dell’esistenza di un rapporto tra poesia e storia, in virtù della quale «anche lo storico come il poeta deve avere una visione od un concetto della vita, una interpretazione del mondo – per dire una parola solenne – e vedere il mondo realizzarsi, drammatizzarsi in figure viventi, il mondo come lotta, il mondo come armonia, oppure lotta e armonia combinate, armonizzate insieme come la natura che domina l’uomo, oppure come lo spirito che domina, che piega a sé la natura». Intervento, che poi si concludeva anche peggio con un malaccorto accenno relativo alla rinascenza poetica dell’Italia fascista. È questa una buona età per i poeti e la poesia? Alcuni dicono di sì, altri di no. Certo, a pensarci bene, alcune condizioni non paiono favorevoli. È un’età di troppo lavoro, di troppo dinamismo, di troppa fretta, di troppi rumori, di molta o troppa politica, e ciò non pare confacente alla poesia, come forse non è confacente alla religione che vuole anch’essa raccoglimento. Eppure il poeta si adatta a questi richiami o se ne difende. Ci possono essere i poeti anche in mezzo alle azioni. Dal Mille e duecento al Quattrocento, cioè all’epoca della rinascita dell’arte, poeti come Dante e pittori come Botticelli, mentre poetavano e dipingevano, discutevano anche di poesia o di pittura. Ed oggi siamo in un nuovo nascere o rinascere. Dopo il primo nascimento che prese il nome da Roma, il secondo che prese il nome dagli Italiani, abbiamo ora il terzo che ha preso il nome dall’Italia, che si è iniziato nel secolo XIX, svolto e perfezionato nel XX, nel secolo di Mussolini. In questo secolo veramente rinasce una poesia che ha un suo volto chiaramente distinguibile dalla poesia di vent’anni addietro, ma che esiste, ed è più raccolta, più intenta ad ascoltare le voci profonde ed essen-
35 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1939), cit, pp. 216-217.
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ziali. Una poesia fatta a volte, come si esprimono alcuni poeti, di rami secchi, schegge di sassi levigati dall’acqua, ma non per questo priva di un suo vigore36.
Poco veramente da obiettare, e forse qualcosa da compatire, in queste parole, in cui, comunque, era contenuto anche un evidente riferimento elogiativo a Ungaretti e alla stagione dell’«Ermetismo». Tanto bastava però a Croce per partire in lancia in resta, sulla «Critica», contro l’odiatissimo Volpe, macchiatosi questa volta della colpa irreparabile di non aver tenuto presente, in quelle sue estemporanee considerazioni, quanto sull’argomento era stato scritto «in alcune pagine del mio libro sulla Storia»37, e per poi tornare a domandarsi: se l’autore di questa conferenza sia il medesimo Prof. Volpe, che, in un tempo ancora lontano, ebbi a questa rivista contributore di saggi storici, allora, secondo il tempo, notevoli e pregevoli e ricchi di speranze; e, posto che sia il medesimo, come mai sia il disgregamento di cervello, e persino di eloquio, che da parecchi anni si avverte nel suo stracco lavorare e che si mostra aperto, e direi senza ritegno, nelle pagine che abbiamo esaminate? Ma è una domanda alla quale sarei impacciato a rispondere, perché mi farebbe ravvolgere in congetture. Il fatto resta quello che è, non senza tristezza del riguardante.
Ancora una volta, come per la polemica su Ottobre 1917, il dibattito, degenerava nell’insulto personale. Ancora una volta, Croce dava prova, come avrebbe osservato Gentile, di una violenza, per la quale gli avversari divenivano «fantocci che hanno perduto ogni carattere di umanità», tanto da essere esposti al ludibrio, senza neppure quella «elementare simpatia onde ogni uomo guarda sempre ad un altro uomo»38. E ancora una volta, Volpe era costretto a ribattere, con una lettera aperta indirizzata, alla fine di luglio, alla direzione del «Meridiano di Roma», con tutta l’asprezza consentita dal diritto di legittima difesa, rivolta contro chi «da cinquanta anni fa critica e macina filosofia e comincia sempre la sua giornata guardandosi attorno quaerens quem devoret», da dove era ormai scomparso ogni rincrescimento per la perdita di un rapporto forte di consuetudine intellettuale e di amicizia, ormai finito e malamente finito. 36 G. VOLPE, Poesia e storia, in «Meridiano di Roma», 26 marzo 1939, p. 4. 37 La nota di Croce appariva sulla «Critica», XXXVII, 1939, pp. 311-312, dove il ri-
ferimento era a B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, cit., in particolare al paragrafo «La poesia e la storiografia», pp. 306 ss. Nell’appendice al volume, era contenuta un’articolata critica di Volpe, a proposito del progetto di «Storia d’Italia in collaborazione», ivi, pp. 329 ss. 38 G. GENTILE, La distinzione crociana di pensiero e azione, in «Giornale critico della Filosofia italiana», XXII, 1941, 1, p. 274, in particolare p. 277.
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Potrei chiedere al critico: valeva la pena di sciupare quasi due pagine di una rivista come la Critica, che, così sottile come è, lo spazio non dovrebbe sciuparlo, per menar la ferula su le spalle di un povero untorello come sono io in fatto di poesia, filosofia, critica, estetica? È stato generoso attaccar l’avversario sopra un campo in cui egli è entrato quasi per giuoco, mentre si poteva attaccarlo – e l’occasione non mancava – in altro campo che è a lui più familiare e proprio, quello in cui veramente egli potrebbe misurarsi, difendersi e offendendo? Ma preferisco rispondere alla ingenerosità mia: sì, il testo che Croce ha avuto sotto gli occhi, meritava, qua e là, qualche interrogativo ed esclamativo (vuol dire che poi il Croce vi ha aggiunto un po’ di spirito sofistico, un po’ di buona volontà di dimostrare che nell’Italia di oggi ogni nobile attività spirituale è in decadenza, un po’ di gusto di sfottere qualcuno, per esempio me, anzi me più di altri, e ne sono venute fuori le quasi due pagine della Critica). Perciò, ecco, al posto di un testo raffazzonato, il testo vero, salve, naturalmente, le differenze fra ciò che si dice quasi a braccio e ciò che poi si mette in ordine su la carta. Non che io desideri e ancor meno speri con ciò di placare il mio cerbero e indurlo a rallentare la presa. Un critico come lui non si troverà imbarazzato a dimostrare, sì a dimostrare, che l’è pezo el tacon ch’él buso. Ma se sciocchezze hanno proprio da essere, siano sciocchezze mie, veramente dette da me e come le ho dette io. E dopo ciò, non avrei altro da aggiungere: se non ringraziar Voi dell’ospitalità, chiedere perdonanza al Re della critica e dire “non lo faccio più”. Ma prima di chiudere e ringraziarVi, voglio cercar di rispondere a due domande che Croce si fa o fa altrui, suggerite da nobile interessamento per la mia modesta persona: il prof. Volpe che scrive oggi quel che scrive è quello stesso prof. Volpe che, “in tempo lontano”, egli, Croce, ebbe collaboratore della sua rivista? E se è la stessa persona, come si spiega “il disgregamento di cervello, e persino di eloquio” che da tempo si avverte in lui, nel suo “stracco lavorare?”. Facile è la risposta alla prima domanda: sì, è proprio la stessa persona, con in più una certa coscienza di non avere, da allora, perso proprio il suo tempo. Più difficile è rispondere alla seconda. Ma qualche lume può venire da una semplice constatazione di fatto. Il mio “disgregamento” è di data recente. Il “tempo lontano” in cui ero un bravo e promettente figliolo, non è proprio tanto lontano. Ancora nel 1921 o 1922, la mia collaborazione, non che accettata, era gradita e sollecitata. Poi comincia il disgregamento. Quella data può suggerire qualcosa. Il disgregamento cresce – e ne ebbi subito la segnalazione da parte dell’ottimo Croce – dopo il 1928 o 1929, cioè dopo che io consumai quello che i suoi amici – relata refero – giudicarono il mio “tradimento” verso di lui, dopo la critica del resto assai temperata, alla sua Storia d’Italia, intendo dire agli ultimi capitoli, che a me parvero chiusi ad ogni intelligenza dell’Italia di dopo guerra e, per riflesso, di prima guerra. Ed è certo che, col tempo, questo disgregamento crescerà. E crescerà, non c’è da dubitarne, nelle proporzioni stesse in cui crescerà il disfacimento di Croce, del resto assai avanzato, nonostante i grossi tomi. Volete proprio dire che Croce 1939, fattosi dispettoso e quasi estraneo, alla sua patria, sia tanto capace di intendere la vita, di costruire sopra i dati che la vita fornisce, quanto il Croce 1900 o 1910? 39 39 In risposta a Benedetto Croce. Una lettera dell’Accademico Volpe in «Meridiano di Ro-
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2. Di lì a qualche anno, quelle parole avrebbero segnato il destino di Volpe, posteriormente al 25 luglio 1943. Ma, nei tempi brevissimi, quel battibeccare sarebbe cessato bruscamente, quando eventi incomparabilmente più gravi avrebbero cominciato a premere sul destino di popoli e di individui. Vorticosamente, dal settembre 1939, cominciavano a imperversare sull’Europa venti di guerra e presagi di catastrofe, che Volpe aveva già avvertito, fin dai primi anni Trenta, situando l’epicentro temporale del futuro sconvolgimento a più di un cinquantennio prima, quando «si cominciò a delineare il movimento che ora viviamo: emergere del Giappone, emergere degli Stati Uniti e loro marcia verso l’Ovest e verso il Sud, entrata del Pacifico nella storia, inizio delle correnti nazional-sociali, rovesciamento delle alleanze in Europa»40. L’annuncio di una nuova «grande» prova delle armi, che batteva imperiosamente anche alle porte dell’Italia, non trovava quindi Volpe impreparato. Se, nel 1934, commentando con grande favore la stipula del Patto a Quattro, si sosteneva che «raramente la parola “pace”, il proposito di pace sono stati pronunciati ed espressi con più sincera convinzione, come da Mussolini, in questi ultimi anni», tanto da configurare un vero e proprio avvicinamento, nonostante qualche differenza e reciproca incomprensione, tra l’europeismo e il pacifismo fascisti e lo «spirito di Ginevra»41, la musica cambiava radicalmente, dopo l’«aggressione sanzionista» del 1938. Nella nuova versione della Storia del movimento fascista, infatti, si assisteva alla celebrazione dell’aggressivo nazionalismo di Mussolini, intento, fin dal 1924, a condurre la sua lotta per la «revisione dei Trattati e contro gli “immortali principi” democraticomassonici», ai quali il fascismo aveva saputo opporre «l’idea mazziniana dell’“iniziativa”, capace di conferire un primato a chi aveva la virtù di assumerla, cioè ai banditori e rappresentanti di un principio nuovo di vita: un primato che non poteva non concretarsi anche in potenza materiale, tanto più legittima e salda in quanto poggiata sul fondamento dello spirito»42. In quelle pagine, si aggiungeva, inoltre, il riconoscimento per la convenienza dell’alleanza contratta con la Germania hitlema», 30 luglio 1939, p. 3. Il testo completo della conferenza, redatto questa volta da Volpe, e in qualche punto fortemente difforme dalla versione stenografata, appariva di seguito alla replica, con il titolo L’acqua e i suoi poeti. 40 Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico, 10 marzo 1933, FV. 41 ID., Nota aggiuntiva, a ID., Storia del movimento fascista (1932), cit., pp. 152-153, dove si sosteneva che l’«atteggiamento di diffidenza e critica verso la Società delle Nazioni» non era diretto tanto contro «i fini pacifici, unitari e veramente europei, che l’istituto ginevrino poteva proporsi» quanto contro «la sua impotenza, incapacità, scarsa volontà di raggiungerli» e nel tentativo di operare a «rimedio delle sue manchevolezze e dei suoi fallimenti». 42 ID., Storia del movimento fascista, cit., pp. 147-148.
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riana, fondata su nuove «ragioni ideologiche» ma soprattutto su antiche e più forti «ragioni politiche che avevano dato vita non del tutto artificiale alla trentennale alleanza della Triplice»43. Ragioni, quest’ultime che la scelta di fiancheggiare l’Intesa, nel 1915, aveva cancellato, con troppo disinvoltura e con il risultato di subire, in cambio dell’apporto decisivo in un conflitto lungo e sanguinoso, la «mala volontà» dell’alleato francese, che, nel momento del bisogno si era detto indissolubilmente legato al nostro paese da vincoli di cultura e di stirpe, ma che poi, deposte le armi, aveva dimostrato tutta la sua antica «buona volontà di tener bassa l’Italia»44. Erano gli stessi argomenti che D’Annunzio aveva rilanciato, al culmine della crisi etiopica, invitando i suoi connazionali a mai dimenticare di quanta cattiva fede, da parte di uno solo dei contraenti, avesse grondato quell’«intesa latina», stipulata nell’ultimo evento bellico, che alla fine aveva prodotto «un’alleanza intenzionata a sopraffare l’Italia con tutta la prepotenza delle forze economiche e militari riunite per il suo impoverimento e il suo isolamento», come ricompensa per l’aiuto fraterno prodigato «quando rifiutammo di aggredire la Francia, già invasa e le demmo il modo di compiere il suo miracolo della Marna»45. In questo momento, anche grazie all’impatto di questa retorica che riapriva ferite mai rimarginate, tornava con prepotenza alla ribalta quella che proprio Volpe avrebbe definito l’«inimicizia segreta, cioè l’avverso sentimento della Francia per le aspirazioni coloniali italiane, come già prima per Roma italiana e per l’Italia unita»46. Si riaffacciava alla memoria quell’ostilità secolare, ora sorda, ora manifesta, che lo storico aveva denunciato nel 1922, con un saggio dedicato alle ambiguità e alle ipocrisie della storiografia d’oltre Alpe, intenzionata a mascherare di panni pacifisti e umanitari la volontà di potenza dei gabinetti di Parigi47. Un saggio che adesso appariva ancora di stringente attualità e quasi «scritto oggi», secondo il commento del vice-cancelliere dell’Accademia d’Italia, Antonio Bruers, al quale Volpe replicava di aver narrato, allora, una vicenda «ahimé, sempre attuale» e che forse sarebbe restata «sempre tale, anche con il passare dei secoli»48. La mobilitazione psicologica, in preparazione alla nuova guerra, utilizzava allo spasimo questi argomenti, organizzando, dal febbraio 1939, una sistematica offensiva 43 Ivi, p. 195. 44 Ivi, pp. 198-199. 45 G. D’ANNUNZIO, Teneo te Africa, cit., pp. 26 ss. 46 G. VOLPE, Nota del 1964, cit., p. 472. 47 ID., Bella storia, la storia di Francia! (Mentre si riprende a “dissipare gli equivoci”), cit. 48 Antonio Bruers a Gioacchino Volpe, 25 giugno 1939 e Gioacchino Volpe ad Anto-
nio Bruers 6 luglio 1939, in Fondo Bruers, BNCR.
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giornalistica49, nella quale si segnalava, per enfasi e virulenza, Virginio Gayda, che metteva in risalto il nodo gordiano dei «problemi aperti» tra le due nazioni (Suez, i confini meridionali della Libia, la Tunisia, Gibuti, il blocco imposto alla proiezione italiana nel Mediterraneo), destinato, ora, a essere sciolto anche a costo di un colpo di forza, per ridurre a ragione «le vecchie mentalità pietrificate nelle mentalità imperiali, gli egoismi dei felici possidenti, incapaci di riconoscere alle nazioni più feconde e capaci di vita, di lavoro e di espansione, la via libera verso i territori dei vicini Continenti e soprattutto dell’Africa che deve divenire il naturale complemento demografico e politico della civiltà europea»50. Quella campagna di opinione coinvolgeva, accanto ad alcuni notabili fascisti come Farinacci51, la stessa corporazione degli storici52, e alcune riviste specializzate come l’«Archivio Storico della Corsica», che, dopo il 1936 e poi negli anni immediatamente successivi, sposava apertamente una politica rivendicazionista non più esclusivamene culturale, ma ormai apertamente territoriale, che l’indagine storiografica ed etnografica sul passato dell’isola avrebbe dovuto giustificare. Trascorrendo dalle ambigue vicende relative all’«usurpazione» francese della Corsica53, criticata nel XVIII secolo da autori come Rousseau, Antonio e Pietro Verri54, al carattere elitario delle rivolte contro Genova, che avevano riguardato solo ristretti settori della popolazione55, l’indagine del periodico si allargava all’analisi dei tentativi di riacquisto «italiano» di 49 R. DE FELICE, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario, cit., pp. 554 ss. e A. GIGLIOItalia e Francia, 1936-1939, cit., pp. 260 ss. 50 V. GAYDA, Italia e Francia. Problemi aperti, Roma, Il Giornale d’Italia Editore, 1939, p. 114. 51 R. FARINACCI, Noi e la Francia, in ID., Realtà storiche, Cremona, Cremona Nuova Editrice, 1939, pp. 55 ss., dove si irrideva alla «volgare canzonetta che Italia e Francia sono nazioni sorelle e latine». 52 A titolo d’esempio: F. CATALUCCIO, Italia in Francia in Tunisia, 1878-1939, Roma, Istituto Nazionale di Cultura Fascista, 1939; E. ROTA, Italia e Francia dinnanzi alla storia: il mito della sorella latina, Milano, Ispi, 1939; ID., La Francia contro l’Italia dal Risorgimento ad oggi, Milano, Ispi, 1939; F. SALATA, Il nodo di Gibuti. Storia diplomatica di documenti inediti, Milano, Ispi, 1939. 53 G. CECCHINI, Perché la Corsica fu conquistata dalla Francia, in «Archivio Storico della Corsica», 1937, 2, pp. 241 ss.; N. SAVELLI, La Corsica non fu venduta alla Francia, ivi, 1937, 3, pp. 351 ss.; V. VITALE, La Corsica e la “Patetica Alleanza”, ivi, 1937, 4, pp. 552 ss., che contestava violentemente «la consueta tesi franco-corsa di Genova carica di tutte le colpe verso l’isola e della sottomissione volenterosa di questa ai Francesi, anche se in veste di alleati di Genova, durante la guerra di successione austriaca». 54 L. SANDRI, Gian Giacomo Rousseau ed il suo progetto di Costituzione per la Corsica, ivi, 1936, 4, pp. 529 ss.; C. MORANDI, La conquista francese della Corsica nel pensiero di Pietro e Alessandro Verri, ivi, 1938, 3, pp. 429 ss. 55 R. RISPOLI, La seconda insurrezione corsa del XVIII secolo, 1733-1737, ivi, 2, pp. 289 ss. LI,
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quel territorio, nel 1814 e nel 187156, e poi spostava la sua attenzione al piano etnico, sostenendo che «antropologicamente la Corsica è il dipartimento meno francese della Francia e la regione più italiana dell’Italia»57. Il cambiamento di rotta era stato sicuramente approvato, se non addirittura propiziato da Volpe, che, nel febbraio del 1939, faceva recapitare alla Segreteria di Mussolini «il volume su la Storia della Corsica italiana, risultato di studi che durano da 15 anni e che iniziai allora, con l’Archivio Storico Italiano, per sua suggestione»58. Il dono, che in realtà era una silloge di contributi pubblicati a partire dal 1923, poteva sembrare veramente adatto al tempo e all’ora, almeno per quello che riguardava il titolo, anche se i suoi contenuti non sempre si amalgamavano perfettamente con l’agenda dettata dalla Farnesina e da Palazzo Venezia59, e non giustificavano il giudizio di Carlo Morandi nel considerare quella raccolta di saggi la dimostrazione di «come la storia dell’isola sia storia intimamente italiana e strettamente congiunta con le moderne lotte delle grandi Potenze nel Mediterraneo»60. Palesava, infatti, la titubanza di Volpe a farsi aperto banditore di un progetto annessionistico volto in quella direzione, quanto da esso scritto nella voce «Corsica» del Dizionario di Politica, composto prima del settembre 193961, dove, pur rivendicando l’«italianità culturale» di quella regione, si metteva in guardia contro la tendenza a confondere «la corrente di opinione pubblica simpaticamente disposta verso l’Italia fascista» con il più radicato movimento del «corsismo e autonomismo». Questo fenomeno, di cui si sottolineava il carattere non militante ma puramente «morale»62, non aveva per obiettivo un ricongiungimento del56 U. VALENTE, Un progetto per la liberazione della Corsica dall’occupazione francese (1814), ivi, 1937, 4, pp. 580 ss.; D. SPADONI, Perché la Corsica nel 1871 non tornò all’Italia, ivi, 1938, 1, pp. 1 ss., nel quale si accennava ad un piano insurrezionale tramato dai patrioti corsi d’intesa con ambienti italiani, che avrebbe dovuto culminare in uno sbarco congiunto sull’isola, ma che non venne secondato dall’«inerzia dei partiti democratici, così detti d’Azione». 57 M.C. ASCARI, L’aspetto etnico della Corsica, ivi, 1939, 1-2-4, pp. 75 ss., 161 ss., 321 ss. 58 Gioacchino Volpe a Osvaldo Sebastiani, 22 febbraio 1939, cit. 59 G. CIANO, Diario, cit., p. 237, alla data dell’8 gennaio 1939, dove venivano elencate le rivendicazioni italiane nei confronti della Francia, tra le quali primeggiava la Corsica, secondo un piano che prevedeva alternativamente, a seconda del futuro svolgersi degli eventi: «autonomia, indipendenza, annessione». 60 La recensione di Morandi al volume di Volpe veniva pubblicata in «Archivio Storico della Corsica», 1939, 2, pp. 284-285. 61 Ricordiamo che la data ultima di stesura, dei contributi del Dizionario di Politica, può essere ricavato dall’articolo di A. TOSTI, Polonia. Cenni storici, ivi, IV, p. 428, dove si parla dell’aggressione delle truppe sovietiche alla Polonia del 17 settembre 1939. 62 G. VOLPE, «Corsica. Storia e problemi politici», in PNF. Dizionario di Politica, cit., II, p. 656: «L’autonomismo o corsismo non è, oggi, tutta la Corsica; ma rappresenta un aspet-
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l’isola all’Italia, ma si alimentava dal «più veemente disdegno per la Francia del funzionarismo, del parlamentarismo, del pariginismo, del colonialismo»63. Quella tesi era ripresa anche nell’articolo Corsica e Italia, che «La Nuova Antologia» pubblicava all’inizio del giugno 1939, non senza prima, però, di averlo sottoposto a un inevitabile intervento censorio, del quale il direttore del periodico, Luigi Federzoni informava garbatamente l’autore, mettendolo al corrente di aver espunto «quell’ammissione, da parte nostra, di una possibile “unanimità antitaliana dei Corsi”», in caso di apertura di ostilità con la Francia, ritenendo che essa «non fosse, e meno che mai in questo momento, politicamente opportuna»64. In quell’articolo, dove comunque si forniva un sintetico schizzo di storia corsa, dall’XI secolo in poi, a testimonianza del secolare «orientamento» dell’isola verso l’Italia, anche dopo il taglio deciso da Federzoni, Volpe testimoniava la volontà di non spingere troppo oltre il legame, che poteva instaurarsi, tra volontà di potenza e analisi storica, affermando proprio nella chiusura: Oggi i Corsi sono francesi, francesissimi, ci dicono e ci ripetono da tutte le parti, specialmente negli ultimi tre o quattro mesi in discorsi, dimostrazioni, ordini del giorno, scritti d’occasione. E sia. Ma noi chiediamo che non si dubiti dei nostri documenti e delle nostre affermazioni, quando diciamo che, fino a sessanta o settanta anni fa, che non sono poi millenni, la Corsica era ancora un paese italiano, nell’unico modo che allora poteva esserlo, ed aveva anche un patriottismo assai più italiano che francese65.
Eppure, anche con quell’intervento, lo storico non si sottraeva certo all’offensiva revanscista in atto, ma, ancora una volta, la interpretava a modo suo, con larga autonomia, e in modo tale da far sì che il suo non perfetto allineamento ideologico rischiasse di far agio sulla sua sostanziale fedeltà alle linee guida proclamate dal regime, come altri recenti incidenti di percorso avevano già dimostrato. Nel teso interludio, che separava la nazione dalla nuova prova delle armi, molti riandavano al prologo della guerra di quasi trent’anni prima, e Volpe in particolare, quando si proponeva di sottolineare quella coincidenza fatale, attraverso la redazione di un articolo, che veniva proposto, nel mese di marzo, al direttore del «Corriere della Sera», in una corrispondenza dove to dell’intima vita della Corsica. Si potrebbe dire: è quel che rimane della Corsica, intesa non come geografia ma come entità morale». 63 Ivi. 64 Luigi Federzoni a Gioacchino Volpe, 30 maggio 1939. La lettera è pubblicata in appendice a E. DI RIENZO, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra, cit. 65 G. VOLPE, Corsica e Italia, in «La Nuova Antologia», 1939, 2, pp. 250 ss., in particolare pp. 269-270.
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si accennava anche alla protratta interruzione dei rapporti con il giornale milanese, sicuramente dettata da superiori ordini politici. Ho in gestazione un articolo che è una rievocazione di altra vigilia di guerra e speriamo che questa volta la “vigilia” ci sia ma non la “guerra”. Può avere qualche attualità in vista del prossimo 24 maggio e, appunto, per questa atmosfera bellica che ora domina in Europa e nel mondo non farò confronti, ma qualche confronto sarà implicito, naturalmente. L’articolo potrebbe avere la solita ampiezza delle due colonne; e potrebbe averne un po’ maggiore, guadagnando naturalmente in concretezza, forse anche novità ed interesse. Se voi accettate questo articolo, vogliate telegrafarmi subito: il si o il no, e se si, l’ampiezza. Fra qualche giorno partirò da Roma e dovrei sbrigarmi a dar forma a ciò che per ora è ancora un abbozzo. Chissà che non significasse una qualche ripresa della mia collaborazione – sempre da me desiderata, mai da me assunta, immerso come sono in lavori di maggior mole – al vostro giornale66.
Via Solferino accettava l’offerta, ma l’articolo già in bozze, intitolato Radiose giornate di maggio, veniva bloccato, nella stessa data anniversario del 24 maggio, dalla redazione romana, diretta da Aldo Valori, incaricata di tenere i contatti con il Ministero della Cultura Popolare67, ora più che mai attivissimo nella censura e nella confezione di «veline», in grado di ispirare un corretto indirizzo a tutti gli organi di stampa68. L’irridente commento, vergato da Raffaele Mauri, recitava: «l’articolo è bello, ma si potrà pubblicarlo tra vent’anni, ricordiamocene allora perché non sfugga»69. Mentre un’altra nota, proveniente dalla stessa fonte, aggiungeva: «Non lo farei pubblicare, in quanto troppo minuzioso delle incertezze italiane nel periodo della neutralità. Si sofferma troppo, inoltre, sui motivi di politica interna che hanno contribuito all’entrata in guerra»70. A questo messaggio era allegata la prova tipografica del pezzo di Volpe, dove, a matita viola, erano evidenziati i passi ritenuti poco ortodossi e che giustificavano la mancata pubblicazione. In quella stessa data, Borelli scriveva a Volpe, giustificando il rifiuto in ragione dell’eccessiva ampiezza del contributo, che andava ridotto e riformulato, «eliminando riducendo i pezzi che vi ho segnalato a matita» e attenendosi, per il contenuto, a «un ritaglio del Giornale d’Italia che Vi può servire come indirizzo generale del tono dell’articolo, e che mi pare l’e-
66 Gioacchino Volpe ad Aldo Borelli, 18 marzo 1939, ACorsera. 67 A. VALORI, Il fascista che non amava il regime, Roma, Editori Riuniti, 2003, pp. 280 ss. 68 Ministri e giornalisti. La guerra e il Minculpop, 1939-1943. Introduzione e cura di N.
Tranfaglia, Torino, Einaudi, 2005, d’ora in poi Meg. 69 Raffaele Mauri ad Aldo Borelli, 24 maggio 1939, ACorsera. 70 Ivi.
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spressione ufficiosa, se non ufficiale del pensiero delle Gerarchie»71. Volpe avrebbe fatto cadere questa proposta e a noi non resta che interrogarci sui motivi di quella censura, che appaiono, in realtà, di una evidenza quasi cristallina72. Se il fascismo aveva fatto della Grande Guerra un evento da leggersi in termini di mero precorrimento della rinascita nazionale, che poi si sarebbe avverata con la «rivoluzione» del 1922, Volpe continuava a vedere la partecipazione italiana al primo conflitto mondiale come il frutto della volontà di diverse correnti politiche: dai nazionalisti, al movimento democratico, «con le pattuglie dei repubblicani in primissima fila, armate di irredentismo e, non meno, di principi, contentissimi, ora di poter rinnovare il processo alla politica estera della Monarchia, e cioè alla Monarchia», ai «liberali e conservatori: non tutti genti pavide e incuranti del bene della patria o sedotti dall’oro tedesco», ma invece politici accorti e conseguenti che «non c’è dubbio, ragionavano meglio degli avversari e alle cui previsioni il dopoguerra darà ragione». In questo modo, Mussolini entrava come una semplice componente nella galassia del vario interventismo italiano, che aveva tratto la sua ispirazione dagli ideali della Destra storica e persino da alcuni umori presenti nell’«Italietta» giolittiana. Nel pezzo cestinato, Volpe faceva intendere, inoltre, che l’Italia, ora come allora, rischiava di presentarsi impreparata all’appuntamento bellico e non soltanto per il suo insufficiente potenziale economico e militare, ma anche per la sua stessa posizione geopolitica. Nel 1915, il governo italiano, si ricordava, aveva scelto di scendere in campo al fianco dell’Intesa, avendo valutato attentamente lo strapotere francese e inglese sui mari e dopo essersi domandato: «Che cosa sarebbe avvenuto delle città costiere italiane? Che della Libia, dove 50.000 uomini vivevano giorno per giorno dei rifornimenti della Madrepatria? Che dell’Eritrea, rinserrata tra Suez e Aden? E il carbone? E la lana? E il grano e il petrolio e il cotone che ci venivano dall’Inghilterra o attraverso il mare dominato dall’Inghilterra?». Quegli inquietanti interrogativi, suggeriva l’articolo, sensati ieri, lo erano a maggior ragione oggi, quando il nostro paese si apprestava a volgere le spalle ai suoi antichi alleati. Era una considerazione che avrebbe assunto un valore drammaticamente profetico, quando, nel 1940, le nostre coste si sarebbero offerte indifese al raid della flotta britannica, spintasi fino al Golfo di Genova, bombardando indisturbata città e arsenali, e quando gli approvvigionamenti destinati alle colonie si sarebbero inabissati, insieme a gran parte del nostro navi-
71 Aldo Borelli a Gioacchino Volpe, 24 maggio 1939, ivi. 72 Sul punto, il mio Quel Volpe censurato, perché troppo poco fascista, «il Giornale», 5
maggio 2006, dove è pubblicato integralmente il testo di Radiose giornate di maggio.
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glio militare e mercantile, in quel mare Mediterraneo che era stato veramente «nostrum» solo negli slogans di regime. Insomma, Volpe aveva meritato abbondantemente quel rifiuto, anche se il «Corriere» si era forse mostrato, in quell’occasione, più realista del re, visto che il testo incriminato sarebbe stato poi integralmente pubblicato, un anno dopo, con l’aggiunta di un cappellotto iniziale dove si invitavano «i vecchi camerati a tornare un momento, con il pensiero, all’altra guerra», da cui era sorta l’«Italia d’oggi»73. Eppure, i rilievi mossi dalla redazione romana del giornale diretto da Borelli non erano privi di fondamento, e sarebbero stati sollevati ancora quando Volpe, all’inizio del giugno del 1940, avrebbe finalmente pubblicato, presso le edizioni dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, il suo studio sull’anno della neutralità e dell’entusiasmo interventista, dal titolo, in quei giorni, ancora drammaticamente attuale: Il popolo italiano fra la pace e la guerra, 1914-1915. Il volume veniva però esibito a Mussolini, quando ormai «l’ora fatale segnata dal destino» era già scoccata «nei cieli, sopra la nostra patria», accompagnato da queste stringate parole: «Duce, se in questi giorni gravissimi per voi e per l’Italia avete un minuto solo da dedicarmi, desidererei offrirvi copia di un mio volume – scritto nel ’24 ma solo ora pubblicato su l’Italia fra pace e guerra. Un capitolo, apparso nel 1928, su la crisi del partito socialista nel ’14, ebbe la vostra approvazione»74. Ma all’omaggio, questa volta, non faceva seguito alcun cenno di lode e anzi Mussolini replicava con grande freddezza, comunicando alla Segreteria il seguente messaggio: «Non disturbare il pilota che fa la storia. Mandi»75. Non domo, Volpe tornava alla carica, di lì a pochi giorni, con una lettera che la polvere dei tanti decenni trascorsi può farci apparire francamente grottesca. Vogliate gradire questo piccolo libro che vuol essere una ricostruzione del dramma italiano, 1914-15. Rinnovo a Voi l’offerta dell’opera mia, per qualunque compito possa essere utile. Feci qualche cosa nell’altra guerra; sarei felice di fare qualche cosa in questa nuova, che si combatte preparata da Voi, sotto i Vostri auspici. Come me si mette ai vostri ordini il prof. Ersilio Michel, mio collaboratore per l’Archivio Storico di Corsica, colonnello degli alpini (unico ufficiale di complemento giunto a questo grado), decorato di tre medaglie d’argento, ferito. Ha già fatto due volte domanda di essere ripreso in servizio, come combattente, dovesse anche fare il paracadutista76.
73 G. VOLPE, Venticinque anni addietro, in «La Vittoria», XXIV, dicembre 1940, 2, p. 3. 74 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 11 giugno 1940, SPD. 75 Ibidem. Appunto redatto di pugno da Mussolini, in margine alla lettera di Volpe. 76 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, 17 giugno 1940, ivi.
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Eppure, Volpe, che riceveva dal Duce un formalissimo ringraziamento per la sua profferta77, non era l’unico a sfoggiare questi sentimenti di acceso patriottismo. Diversamente da quanto si è concluso, sulla base, forse, dei pochissimo affidabili Diari di Ciano78, redatti in gran parte post hoc e pour cause, la guerra non dispiacque alla maggior parte degli italiani, almeno alle sue prime battute, anche se in virtù soprattutto dell’effetto tonificante assicurato dalle vittorie tedesche79. Altissimo il numero dei volontari, superiore a quello registrato nel 1915, che si ingrossava soprattutto con le adesioni provenienti dalla scolaresca universitaria80, meglio capace d’intendere il significato del nuovo conflitto, in quanto «guerra rivoluzionaria» e «anti-borghese», che avrebbe finalmente concretizzato i progetti economici e sociali del Corporativismo radicale81. La mobilitazione degli animi non riguardava soltanto i quadri dei Guf, ma anche e più massicciamente quelli della Gioventù italiana del Littorio, la quale, senza attendere direttive dall’alto, organizzava l’oceanica «marcia della gioventù» che, nell’estate del 1940, scaturì dai Campi Dux, dove molti minorenni trascorrevano periodi di addestramento premilitare82. Subito dopo l’apertura delle ostilità, gruppi di giovani, esenti dagli obblighi di leva ma egualmente desiderosi di impugnare le armi, abbandonarono i loro bivacchi, situati in varie regioni del paese, e decisero di concentrarsi su Padova. Durante il cammino, il gruppo degli aderenti a questa manifestazione spontanea, che solo successivamente venne sponsorizzata dal Segretario del Pnf, Ettore Muti, si ingrossava fino a raggiungere il numero di quasi venticinquemila unità, al loro arrivo nella città veneta, dove Mussolini, il 10 ottobre, avrebbe poi presenziato al raduno dei volontari organizzati in 24 battaglioni di «avanguardisti», di cui una piccola parte venne poi arruolata nel Regio Esercito per concludere la loro breve esi-
77 Osvaldo Sebastiani a Gioacchino Volpe, 15 luglio 1940, ivi: «Mi rendo interprete del
gradimento del Duce pel volume offertoGli in omaggio. Egli ha anche apprezzato la vostra profferta». 78 G. CIANO, Diario, cit., p. 442, alla data del giugno 1940, «La notizia della guerra non sorprende nessuno e non desta eccessivi entusiasmi. Io sono triste, molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia». 79 R. DE FELICE, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario, cit., pp. 816 ss.; ID., Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra, 1940-1943. 2. Crisi e agonia del regime, Torino, Einaudi, 1990, pp. 683 ss.; ID., Rosso e nero, a cura di P. Chessa, Milano, Baldini & Castoldi, 1995, p. 35. 80 L. DELLA ROVERE, Storia dei Guf, cit., pp. 360 ss., che conferma i dati offerti da De Felice. 81 U. SPIRITO, Guerra rivoluzionaria, cit., p. 21. 82 Sul punto, A. PETACCO, Ammazzate quel fascista! Vita intrepida di Ettore Muti, Milano, Mondadori, 2003, pp. 133-134.
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stenza nella battaglia di Bir el Gobi sul fronte libico. Come molti osservatori, anche Volpe doveva aver contemplato con compiacimento l’agguerrita adunanza della «primavera mussoliniana», che offriva uno «spettacolo veramente nuovo» di dedizione e ardimento, da lui già precedentemente messo in risalto, nel 1931, allorché, dopo la visita al Campo Dux, svoltosi quella volta a Roma, aveva espresso la sua grande soddisfazione per l’attendamento «brulicante di 20.000 omarini grandi come un soldo di cacio, investiti del comando, alla porta, davanti ai magazzini, vicino alla bandiera», concludendo che «fra otto o dieci anni si dovrà cominciare a vedere, negli uomini, il frutto di questa educazione militaresca data alle masse di ragazzi»83. Anche quanto ora accaduto nello scenario del Prato della Valle confermava Volpe in un atteggiamento non ostile all’intervento, pienamente condiviso da altri intellettuali della vecchia guardia, come Ardengo Soffici84. Quella tendenza non costituiva un’eccezione, ma rifletteva, in quei primissimi mesi di guerra, i sentimenti della «maggioranza degli italiani», come Volpe avrebbe poi ricordato85, se anche il «non fascista» Pintor (la definizione è ancora di Volpe) scriveva a Giovanni Gentile nel giorno di Pasqua del 1940, annunciandogli la decisione di aver «presentato la domanda di iscrizione al Partito», anche a costo di doversi separare «dagli ideali di uomini a cui sono stato vicino e che hanno avuto profonda influenza sul mio spirito», i quali però «forse anch’essi, se vivessero, riconoscerebbero la nuova realtà, specialmente di fronte ad avvenimenti che possono render necessaria la concordia di tutti i cittadini»86. Eccezione era invece, almeno agli occhi del fascismo ortodosso, il modo in cui per Volpe si configurava la belligeranza, che sarebbe dovuta restare «nazionale» e non «fascista», essere principalmente non «alleanza d’amore, a lato dei tedeschi», ma «guerra d’interesse», (come avrebbe
83 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 3 settembre 1931, CV. 84 A. SOFFICI, Sull’orlo dell’abisso. Diario, 1939-1943, a cura di F. Perfetti, Milano-Tren-
to, Luni, 2000, p. 46, alla data del 14 maggio 1940: «Si stanno preparando gli animi alle azioni prossime. Il popolo risponde ottimamente». 85 G. VOLPE, Nebbie e nubi sulla monarchia, cit., p. 43. 86 La corrispondenza si concludeva: «Ora c’è da augurarsi che l’adesione di centinaje di migliaja di combattenti – di cui i più in qualche cosa evidentemente dissentivano – persuada il Duce a temperare certe asprezze e a fermare certe tendenze estreme come il razzismo che non è certo degno di una Nazione di elevata civiltà». Questo sentire era ribadito da Pintor anche nella lettera a Gentile del 5 dicembre 1943: «Ma nel ’36 anch’io sentii che l’on. Mussolini con l’impresa d’Etiopia (Adua era stato il cruccio della nostra generazione) dava giustificazione e coronamento a tutta la sua opera. E quando si rivolse ai combattenti, feci domanda d’iscrizione al Partito, anche per atto di riguardo a te con cui lavoravo, e al povero Pietro che allora comandava un’Armata». Le due lettere sono riprodotte in G. GENTILE-F. PINTOR, Carteggio, 1895-1944, cit., pp. 390-391 e 416-417.
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concluso anche Bottai)87, la cui ratio poteva essere interpretata solo in stretta adesione ai motivi della più tradizionale Realpolitik e non sul filo di parole d’ordine dottrinali, di cui si facevano latori alcuni dei suoi più fedeli discepoli, come Carlo Morandi88. Se, nel 1915, lo storico aveva rifiutato l’interventismo democratico, così, ora, Volpe rigettava il nuovo interventismo totalitario e l’esaltazione ideologica della fraternità d’armi dell’Asse che altri esponenti della cultura magnificavano invece incondizionatamente, celebrando il Patto d’acciaio tra Roma e Berlino, fondato non solo sulla «reciproca comprensione dei rispettivi bisogni, manifestatasi in forma palese nell’assistenza cordiale data dall’Italia alla Germania nella sua opera di resurrezione e nella leale solidarietà dimostrata da quest’ultima durante la vertenza etiopica», ma, principalmente sull’«affinità fra le due concezioni politiche» e dalla necessità di costruire un argine comune per fronteggiare «le forze coalizzate dell’imperialismo cosiddetto democratico e del bolscevismo, che si irrigidivano sempre più inasprite nelle loro posizioni di lotta contro il Fascismo e il Nazionalsocialismo»89. Dal seno della nazione si levavano però anche voci, certamente minoritarie, ma molto più tiepide, se non davvero fortemente critiche, sulla validità del ferreo rapporto tra l’Italia e il Reich millenario, che rimbalzavano negli ambienti tradizionalmente simpatetici con le democrazie occidentali90, come prontamente Soffici registrava, annotando nel suo Diario che, se «al tempo dell’altra guerra, l’Italia era piena di tedescofili, e anche di austrofili; durante quella spagnola, di filobolscevici», ora appariva esserlo «di antitedeschi, di antirussi, di anglofili, di francofili, e magari di polaccofili»91. Il dissenso interessava anche alcuni set87 G. BOTTAI, Diario, cit., p. 190, alla data del 19 maggio 1940. 88 Sul punto, R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra, 1940-1943. 2. Cri-
si e agonia del regime, cit., pp. 844 ss., che raddrizza il giudizio di L. MANGONI, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, De Donato, 1974, pp. 38 ss.; 360 ss. Sul punto, anche G. SANTOMASSIMO, Gli storici italiani negli anni della guerra. Il caso Morandi e “Primato”, in L’Italia in guerra, 1940-1943, «Annali della Fondazione Luigi Micheletti», a cura di B. Micheletti, Brescia 1992, III, pp. 827 ss. 89 A. PAGLIARO, «Fascismo. II. L’azione storica del Fascismo», cit., p. 154 e pp. 130 ss. 90 P. CALAMANDREI, Diario, 1939-1945, a cura di A. Agosti, Firenze, La Nuova Italia, 1997, 2 voll., I, p. 173, alla data del 24 maggio 1940: «Venticinque anni fa l’Italia dichiarava la guerra all’Austria: per la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro. C’erano con noi Mazzini, Garibaldi, Carducci… e Battisti vivo: e tutto il Risorgimento e tutta la nostra civiltà. Si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio. E ora? Si vorrebbe andar coi carnefici». Ancora sul punto, alla data del 25 agosto dello stesso anno, ivi, p. 222: «Si allarga intorno a noi il fenomeno, che coi criteri di trent’anni fa potrebbe parere orribile, di persone che considerano con terrore la eventuale vittoria della Germania e dell’Italia, e che sperano con tutto il cuore la sconfitta di questa Italia che oggi combatte». 91 A. SOFFICI, Diario, cit., p. 22, alla data del 5 settembre 1939 dove il passo si conclu-
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tori della grande industria, dell’esercito, della diplomazia, e lambiva addirittura le gerarchie del Pnf, comprendendo non soltanto il camaleontico Ciano, ma anche Balbo, Grandi, Carlo Delcroix, Giuseppe Bastianini92. L’ostilità, per quella che si sarebbe poi tramutata in una «brutal friendship»93, era particolarmente viva nei circoli gentiliani della Normale di Pisa94, tra i più stretti collaboratori di Volpe, i quali, come Chabod, «adducendo la loro conoscenza dei Tedeschi, non credevano alla possibilità di un rapporto da pari a pari»95, persino in qualche docente della pure fascistissima Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza, che, come Roberto De Mattei, avrebbe poi confessato di aver scorto l’approssimarsi della catastrofe già nel 1940, anno in cui il popolo italiano, associato «ad oltremontani secolarmente detestati» contro «popoli di gentile sentire», entrava in una guerra, il cui unico obiettivo era quello di servire «una classe politica già avulsa ed espulsa dalla viva e genuina nazione»96. Quella opposizione, ancora incerta e latente, era infatti soprattutto viva, come avrebbe registrato Ugo Spirito, negli ambienti intellettuali e borghesi, provenienti dall’antico regime liberale. A tutti coloro che vedevano nel fascismo «soprattutto il lato autoritario e violento sembrò che l’alleanza con la Germania dovesse avere unicamente lo scopo di unire due autoritarismi nella difesa dei loro interessi particolari». Allora, «la Germania apparve unicamente sotto l’aspetto del 1914 e cominciò il terrore del suo imperialismo militaristico». E molti conclusero che «la guerra accanto ai tedeschi era fondamentalmente sbagliata in quanto non poteva avere altro fine se non quello di scalzare un imperialismo per sostituirvene un altro di gran lunga più minaccioso e violento: e in questo modo conclusivo l’opposizione raccoglieva il suo odio per la Germania, per il nazionalismo e per il fascismo»97. Comprensibile, dunque, il desiderio di Volpe, che nel 1916, pur non
deva: «Mi domando se anche negli altri paesi in guerra avvenga qualcosa di simile. Non mi risulta, e non lo credo. Solo il popolo italiano soffre di questa aberrazione. Ma no; non il popolo, sì la classe media, i borghesucoli, gl’intellettualoidi». 92 G. BASTIANINI, Volevo fermare Mussolini. Memorie di un diplomatico fascista, con una Prefazione di S. Romano, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 69 ss.; R. DE FELICE, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario, cit., pp. 677 ss. 93 W.D. DEAKIN, La brutale amicizia: Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, Torino, Einaudi, 1980. 94 P. SIMONCELLI, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso, cit., pp. 145-146. 95 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 settembre 1944, CV, ora in ID., Lettere dall’Italia perduta, cit., p. 55. 96 L. RUSSI, Il passato del presente. Rodolfo De Mattei e la storia delle dottrine politiche in Italia, Pescara, Esa, 2004, p. 43. Ma sull’attendibilità di questa confessione, datata al 19441945, è lecito dubitare. 97 U. SPIRITO, Guerra rivoluzionaria, cit., p. 83.
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dichiarandosi «germanofobo» aveva denunciato e analizzato in profondità i pericoli insiti non solo e non tanto nel «militarismo prussiano» ma piuttosto nella vocazione imperialistica della Germania come popolo e come nazione, di allontanare dalla sua persona i sospetti, che la sua odierna, pochissima pronunciata germanofilia, valutabile, ripetiamolo, in termini di esclusivo realismo politico, poteva suscitare. Desiderio, che lo spingeva a pronunciare il discorso radiofonico dell’autunno 1939, in cui veniva tracciata una netta differenza tra le ragioni di ieri e quelle che, oggi, avrebbero forse condotto il paese a imbracciare le armi, in un mutato quadro politico che aveva determinato l’attuale «rovesciamento delle alleanze»98. Questa posizione era ancora specificata, nei primi giorni del novembre del 1940, quando Volpe richiedeva a Tilgher una recensione per il suo volume sulla preparazione morale, che aveva preceduto la partecipazione italiana al primo conflitto. Nella lettera, si sottolineava che «l’intonazione del libro è quale poteva essere quella di un interventista qual’ero io, ma non francofilo, non “democratico”, libero da ogni mitologia, quale allora imperversò a sinistra». Il «pubblicarlo oggi» non aveva dunque rappresentato «una stonatura», perché in quella ricostruzione si distingueva nettamente tra l’interventismo radicale massonico, francofilo, che pure aveva dato il suo contributo all’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, e quello autenticamente nazionale, che in quel momento, come nel presente, spingeva irresistibilmente, e con migliori motivazioni, verso il recursus ad arma99. Ancora più chiaro, in questo senso, era il messaggio, inviato a Paolo Arcari il 7 ottobre 1940, che tendeva a escludere la presenza di ogni possibile sentimento antigermanico da parte del vecchio collaboratore dell’«Azione». Sfumate le poche copie che l’Editore m’aveva mandato del mio libro sul Popolo italiano fra la pace e la guerra, 1914-1915, ne aspetto qualche altra. E ne offrirò una a te, sperando possa interessarti la ricostruzione di quel dramma italiano, che tu hai un po’ anche vissuto come me. Aggiungo che mi seduce l’altra speranza che tu possa, come collaboratore della Illustrazione italiana, dedicar ad esso una colonna. È facile veder in quella guerra una specie di premessa ideale della presente guerra. Non difficile già allora prevedere che, risolti i problemi nostri con l’Austria, poteva sorger poi una fase di collaborazione Italia-Germania. Per lo meno, molte voci già allora in questo senso: primissima, L’Azione, cioè la voce nostra100.
98 G. FALZONE, Una corrispondenza fra Gioacchino Volpe e Niccolò Rodolico, in Studi e ricerche in onore di Gioacchino Volpe nel centenario della nascita, a cura di G. Are, Roma, Volpe Editore, 1978, pp. 89-90. 99 Gioacchino Volpe a Adriano Tilgher, 5 novembre 1940, BNCR, ARC, 9A.2144. 100 Gioacchino Volpe a Paolo Arcari, 7 ottobre 1940, AEA.
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A quella richiesta Arcari rispondeva positivamente, facendo apparire, nel maggio del 1941 una dettagliata analisi del libro di Volpe, che si concludeva ricordando un episodio significativo della vigilia della Grande Guerra: Ai primi del dicembre 1914, Alberto Caroncini – grande speranza delle dottrine economiche italiane, eroico volontario caduto sull’Isonzo nel novembre del 1915 – che dirigeva con me “L’Azione” dove ci battevamo contro i neutralisti della “Perseveranza” e dell’“Avanti”, dove propugnavamo un intervento concepito ed attuato con grandezza per compiere il Risorgimento e per superarlo, mi portò l’articolo di un giovanissimo. Lo stampammo subito. Si intitolava Avversari non nemici della Germania e sosteneva che conquistate Trento e Trieste, ricongiunti con i fratelli che dal ’66 attendevano con fede eroica, sarebbe, dopo, un giorno, venuta l’altra guerra, “la guerra naturale e necessaria, noi e Germania e Russia insieme, cioè nazioni povere contro nazioni ricche, lavoro contro casseforti, e anche gioventù contro vecchiaia”. Il giovanissimo, che vedeva così chiaro nel domani, pure militando fra gli interventisti, pure aspettando a primavera l’adunata del Veneto, era Dino Grandi, l’ambasciatore d’Italia a Londra nel ’35, il presidente oggi della Camera101.
L’autore di questa pagina, sempre sfruttando la sua qualità di osservatore oculare e di protagonista di quelle vicende trascorse, avrebbe potuto anche ricordare che l’articolo di Grandi aveva riecheggiato proprio gli argomenti di Volpe, il quale, ancora, alla fine del 1914, considerava la possibilità di un futuro scontro, da impegnare, questa volta, a fianco della Germania, in un intervento, comparso sempre sull’«Azione», dove erano contenuto in nuce le tematiche della guerra del «sangue contro l’oro», del cozzo inevitabile tra le giovani nazioni proletarie e le vecchie plutocrazie102, poi sviluppate da Mussolini nel fatale discorso di Piazza Venezia del 10 giugno 1940, nel quale si annunciava la marcia trionfale dei «popoli poveri e forti» contro quelli che detenevano «il monopolio della ricchezza»103. L’intervento di Arcari arrivava, comunque, troppo tardi per porre rimedio alla cattiva accoglienza toccata al Popolo italiano fra la pace e la guerra, che, nonostante qualche sottolineatura del ruolo di Mussolini nel movimento interventista104, era sta-
101 P. ARCARI, L’Italia tra le due guerre, estratto della “Rassegna Nazionale”, maggio 1941, p. 13. 102 Si veda, supra, Parte I, cp. III, pp. 158 ss. 103 B. MUSSOLINI, Opera omnia, cit., XXIX, p. 403. 104 G. VOLPE, Venticinque anni addietro, cit.: «Così Mussolini passò all’interventismo presto dominandovi. Il partito non lo seguì, ma molti si. E le forze interventiste si arricchirono di uomini lontani dalla vecchia democrazia, dal nazionalismo, dal liberalismo. Mussolini cominciò subito l’opera di demolizione del vecchio socialismo, per farlo rivivere come
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to considerato dai maggiori organi di stampa poco adatto alle necessità propagandistiche dell’ora, e quindi praticamente ignorato, come Volpe avrebbe rammentato nel 1946105, e più precocemente, nel novembre 1940, esprimendo il suo disappunto al direttore del «Corriere». Ormai dispero che il Corriere voglia pubblicare la recensione, o articolo o quel che sia sul mio Popolo italiano tra la pace e la guerra. E sì che voi o chi per voi me ne fece promessa. Il libro non è stonato con il momento presente. È scritto da uno che fu interventista, ma non francofilo, non preso nelle maglie della mitologia democratica, libero da ogni prevenzione antitedesca e persuaso che, risolta quella questione, avremmo potuto intenderci. Questo spirito informa il libro. Non credo avere demeritato del Corriere, nonostante la interrotta collaborazione. Ho forse collaborato ad altri giornali? E poi, in questi ultimi anni, ho tentato più volte, ma invano. Un mio articolo – accettato da voi – sulla Storia di Milano del professor Visconti è sempre costà da voi e ormai vi rimarrà in eterno, l’altro per il 24 maggio del 1940 [sic], accettato e composto, poi fu per “ragioni di opportunità” soppresso106.
Il dispiacere per la gloriuzza letteraria, ancora una volta, offesa lasciava però rapidamente posto ad altri più gravi sentimenti di scontento e di sconforto. Scoccata l’ora del confronto bellico, contrariamente alla comune attesa, le nostre truppe avevano dato non grande prova di sé, persino nella piccola guerra alpina combattuta contro una Francia agonizzante. Volpe coglieva immediatamente il cattivo auspicio, che quell’insuccesso irrilevante sul piano strategico, ma clamoroso nella sua sostanza, recava e manifestava a Ghisalberti il suo sconcerto per la scarsa affidabilità dimostrata da un esercito, a lungo descritto come «preparatissimo», confessandogli di essere restato sconvolto da quell’«amara sorpresa» e di aver cominciato a «dubitare di tutto quello che abbiamo creduto»107. Svaniva, in questo modo, anche la fiducia nella «possibilità di affrontar con successo l’Inghilterra», che pure Volpe aveva condiviso108, e si riaffacciava concretamente, invece, il rischio socialismo nazionale, come nuova democrazia. Così l’interventismo diventava rappresentanza piena della Nazione; rappresentanza fatta non di partiti, tutti in crisi, tutti squassati e divisi, ma di elementi tolti da tutti i partiti, sintesi più che somma. Non grande omogeneità. E nel corso della guerra e dopoguerra, le venature cresceranno, anzi fratture. Ma idealmente, l’interventismo del 1914-15 è in nuce il fascismo o filofascismo del 1919». 105 ID., Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, cit. 106 Gioacchino Volpe ad Aldo Borelli, 4 novembre 1940, ACorsera. 107 C. GHISALBERTI, Un Diario inedito del primo periodo della seconda guerra mondiale di Alberto M. Ghisalberti, in In Memoria di Alberto Maria Ghisalberti, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento, 1987, p. 111. 108 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 28 luglio [1945] in ID., Lettere dall’Italia perduta, cit., p. 86.
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di un «nuovo 1866», quanto un’Italia, allora vinta e ora malamente vittoriosa, aveva ricevuto il suo bottino, non conquistandolo sul campo dell’onore, ma ricevendolo, per gentile concessione di un più potente alleato. Era la dolente conclusione, espressa da Volpe ad un proprio congiunto109, dove si constatava che quella preda non corrispondeva, per di più, alle attese, mancando, in essa, ogni significativo acquisto di quei territori d’oltremare, lungamente ambiti, sui quali continuava a sventolare, per volontà di Berlino, il tricolore di Vichy. Se Mussolini aveva iniziato il conflitto con l’intenzione di trasformarlo in una «guerra di corsa», che avrebbe dovuto addirittura fruttare la conquista di Cipro e il dominio indiretto su Egitto, Siria, Palestina, Iraq, la realtà si rivelava molto differente da quel sogno a occhi aperti110. Come anche Ciano aveva annotato nel suo giornale di bordo111, l’Italia non registrava nessun consistente guadagno neanche per ciò che riguardava i suoi più tradizionali obiettivi. Nizza e Savoia restavano, per ora, alla Francia. Né la Corsica, né Tunisi, né Gibuti, né il Ciad francese, erano passati a ingrossare l’Impero littorio, che di lì a poco si sarebbe sgretolato, pezzo su pezzo, dal Mar Rosso al Mediterraneo, sotto i colpi dell’offensiva inglese. L’armata britannica, inferiore di numero, anche se assai meglio organizzata, conquistava, come in una passeggiata militare, Tobruk, Derna, Bengasi, razziando decine e decine di migliaia di prigionieri italiani e azzerando i risultati dell’impresa libica del 1911. Il disastro si consumava, sotto lo sguardo esterrefatto di Volpe, che, nel febbraio del 1941, scriveva alla moglie: L’Africa crolla tutta, come un castello di carta. Se i nostri fatti fossero stati solo una decima parte delle nostre parole, vanterie, spavalderie, donchisciotterie, quanto accade non sarebbe mai accaduto112.
Erano considerazioni desolate, analoghe a quelle che riempivano le pagine dei diari privati di buona parte della nomenklatura dell’epoca113, che, proprio come Volpe, dimenticavano comunque di sottolineare il loro ruolo determinante nell’aver alimentato la speranza, folle e inconsistente, di una vittoria indolore, in una «guerra breve». Ed erano criti-
109 Frammento di lettera, s. d., CV. 110 G. BOTTAI, Diario, cit., p. 215, alla data del 16 luglio 1940. 111 G. CIANO, Diario, cit., p. 450, alla data del 5 luglio 1940, dove si riportavano le
preoccupazioni di Mussolini per un possibile scivolamento della Francia nel campo antibritannico e il conseguente timore per la possibilità di essere «defraudati del nostro bottino». 112 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 7 febbraio 1941, CV. 113 G. BOTTAI, Diario, cit., pp. 230 ss.; 238-239 e pp. 259-260; A. PIRELLI, Taccuini, 19221943, a cura di D. Barbone. Prefazione di E. Ortona, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 295 ss.
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che che lo storico ripeteva e radicalizzava dopo la catastrofica campagna di Grecia, rapidamente trasformatasi nella «ritirata d’Albania»114, che solo il massiccio soccorso dell’alleato tedesco aveva evitato di trasformarsi in una nuova Caporetto. In questo periodo, sono da datarsi alcune lettere familiari, dove si ironizzava sugli scarsissimi risultati della pedagogia fascista del «libro e del moschetto» e si concludeva affermando che le «guerre si vincono con le avanzate e non con i proclami»115. Si trattava di semplici sfoghi privati, il cui contenuto tornava, seppure mitigato nei toni ma non nella sostanza, nella lettera inoltrata a Gentile il 14 aprile 1941, dove affioravano anche i risvolti familiari della tragedia della guerra. Sono passato l’altro giorno per casa vostra e seppi che eravate a Firenze. Volevo, dopo tanto tempo che non ti vedevo, augurarvi la buona Pasqua. Lo fo per iscritto, a Firenze, a te e alla signora Erminia, e ai figlioli e nipoti che sono costì. So che siete stati poco bene ambedue: ma oggi Cantimori mi dice di averti rivisto in ottima salute. La primavera ha fugato i mali, ha fugato un po’ la malinconia nera di questi ultimi mesi, che sono stati, anche per chi non è solito vivere nel regno dei miti, tutto un terremoto e un crollo. Speriamo nella odierna ripresa, pur con l’augurio che le esperienze fatte non siano dimenticate e perdute. Hai ragazzi sotto le armi? Io uno e, fra pochi giorni, due. Ai primi di maggio, parte Arrigo. Ci vedremo, spero, al vostro ritorno. Siamo vicini di casa e invece…116
A quei sentimenti di sconforto, Volpe dava però, nella tarda primavera di quello stesso anno, una veste pubblica o semi-pubblica, ripetendo i suoi biasimi sulla nostra condotta militare nel teatro greco-albanese «in un locale della Camera dei Fasci e Corporazioni, presenti taluni Consiglieri Nazionali»117. Questo, almeno, il contenuto di una dettagliata informativa, forse stilata dall’Ovra, che provocava una richiesta di perentorie spiegazioni da parte del nuovo Segretario del Pnf, Adelchi Serena, da poco insediato in quell’incarico, proprio per rinsaldare i rapporti, già molto compromessi tra fascismo e nazione all’interno di un progetto «rivoluzionario» e «totalitario»118, e per far fronte alla profonda crisi di sfiducia che la disfatta greca aveva provocato in tutto il paese, nelle stesse gerarchie fasciste, soprattutto negli ambienti in-
114 Secondo la caustica definizione di un testimone di quegli eventi, G.C. FUSCO, Guerra d’Albania, Palermo, Sellerio, 2001. 115 CV. 116 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 14 aprile 1941, AFG. 117 Gioacchino Volpe a S. E. Adelchi Serena, Ministro e Segretario del Partito, s. d., CV, dove è conservata la minuta della lettera, mutila della parte finale. 118 Per un profilo di Serena, E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., pp. 225 ss.
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tellettuali119. Nell’intemerata rivolta allo storico giocava un ruolo, sicuramente, anche la diffidenza per il mondo dell’alta cultura tradizionale, di cui Serena non faceva mistero120, ma, da parte sua, Volpe aveva veramente, in questo caso, passato la misura, premendo il dito sulla piaga di un insuccesso che palesava, in modo lampante, quanta e quale fosse l’impreparazione materiale e morale che paralizzava il nostro impegno bellico, nonostante gli sforzi indefessi delle veline di regime per gettare una spessa cortina fumogena sull’accaduto e per isolare «i vociferatori e i disfattisti» che si moltiplicavano «specialmente in certe città e in certi ceti, in numero abbastanza notevole»121. Il richiamo del massimo vertice del Partito non poteva essere, quindi, che durissimo, ma ad esso Volpe controbatteva, senza farsi intimidire, accettando le imputazioni e replicando con vigore. Nella risposta a Serena per «gli addebiti fattimi a nome vostro da S. E. Caetani», Volpe considerava, senz’altro, come smentita clamorosamente dai fatti l’ipotesi della «guerra parallela», cara a Mussolini122, e insisteva con energia sulla necessità che l’Italia non assumesse nel conflitto un ruolo meramente gregario nei confronti della Germania. Ruolo che, a ostilità terminate, avrebbe ineluttabilmente degradato il suo status di Potenza in quello di paese satellite, annullando conseguentemente la specificità nazionale del movimento fascista, il quale sarebbe stato assorbito nell’internazionale nazionalsocialista alla stregua di una semplice componente provinciale. Le cose da me pensate e dette quel giorno sono le seguenti: i frutti della guerra saranno per noi in rapporto del contributo che noi avremo dato alla vittoria comune. La realtà vera e permanente è rappresentata non dal così detto Asse, ma dalla Germania da una parte e dall’Italia dall’altra. Ora, se il nostro contributo sarà piccolo e non grande, se la guerra noi la vinceremo, in tutti i settori, più che altro in virtù dell’alleato germanico, i frutti di questa vittoria saranno piccoli e nessuna comunanza ideologica fra noi e gli alleati farà che essi siano grandi. Perciò tanto più desiderabile, anche per l’avvenire dei nostri rapporti con la Germania, sarebbe stato che noi ci fossimo bene affermati in questa guerra. Disgraziatamente, a tutt’oggi, non è stato così. Speriamo meglio, nella nuova fase della guerra che ora si inizia. Avevamo diritto dopo vent’anni di clima fascista, dopo tante cure rivolte alle forze armate, dopo tante proclamazioni della nostra forza, e tanti miliardi spesi, di aspettarci di più, specialmente in una guerra contro un piccolo paese, dichiarata da noi, nel momento da noi scel-
119 R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra. 1. Dalla guerra “breve” alla guerra lunga, 1940-1943, Torino, Einaudi, 1990, pp. 308 ss. 120 E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., p. 25°. 121 A. PAVOLINI, Rapporto ai giornalisti, 21 dicembre 1940, Meg, p. 105. 122 R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra. 1. Dalla guerra “breve” alla guerra lunga, 1940-1943, cit., al capitolo I.
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to. Obiezione di un presente: “Ma noi abbiamo logorato il nemico e i Tedeschi sono i primi a riconoscerlo”. Risposta mia: nessuno nega l’importanza di questo logoramento, ma quel che dà nome ai popoli, quel che conta nella storia sono le avanzate, sono le vittorie, (e avrei potuto aggiungere: anche perché logorare il nemico vuol dire quasi sempre logorarsi per primi). Ecco le cose da me pensate e, presso a poco, dette, comunque il relatore le abbia alterate e volgarizzate. Nessuna punta antitedesca o anti-Asse nel mio discorso. Ho molta simpatia per il mondo germanico; sono in ottime relazioni personali con molti Tedeschi123.
Le parole di Volpe non capovolgevano soltanto il senso delle raccomandazioni rivolte dal ministro della Cultura Popolare, Alessandro Pavolini, ai rappresentanti della stampa, nelle quali si invitava a non discutere «il fatto ormai storicamente acquisito che l’azione italiana sul fronte greco aveva logorato l’Esercito greco» e a insistere, invece, sull’argomento che le forze elleniche erano state poderosamente aiutate «da un’aviazione inglese e da un eccellente armamento fornito dall’Inghilterra che aveva trasformato la Grecia in una piattaforma contro di noi»124. Quelle parole contrastavano, infatti, anche con la volontà, egualmente espressa da Pavolini, di non sopravvalutare il peso dell’aiuto prestato in quell’occasione dalla Germania, al fine di evitare di considerare l’intero andamento del conflitto dal solo «angolo visuale» proposto dai «nostri camerati tedeschi», con il risultato di dare l’impressione che il nostro paese non svolgesse più alcun ruolo decisivo nella «politica europea e mondiale»125. L’intera controdeduzione di Volpe costituiva in definitiva, quindi, una requisitoria grave e lucidissima contro l’Italia fascista, che, a differenza dell’Italia del 1915, si dimostrava impari alla prova suprema delle armi, come altri intellettuali di regime avevano finito per riconoscere, anche con maggiore prontezza, seppure soltanto nel foro della loro coscienza126. In ragione di ciò, l’8 luglio 1941, Volpe rifiutava l’invito del consigliere nazionale del Pnf, Giacomo Di Giacomo, di partecipare all’opera Panorama di realizzazioni del Fascismo, con una lettera, priva di cautele ed eufemismi, dove si stigmatizzava l’inganno in cui la leadership politica aveva precipitato tutti gli italiani, e in particolare quelli che più avevano riposto la loro fiducia nel regime. 123 Gioacchino Volpe a S. E Adelchi Serena, cit. 124 A. PAVOLINI, Rapporto ai giornalisti, 7 maggio 1941, Meg, pp. 133. 125 ID., Rapporto ai giornalisti, 17 maggio 1941, ivi, p. 136. 126 A. SOFFICI, Sull’orlo dell’abisso, cit., p. 47, alla data del 23 giugno 1940: «Io stesso
sono testimone, dacché siamo in guerra, di assurde manchevolezze e di cialtronerie inaudite. Siamo meno a posto che nel ’15. La preparazione morale è disastrosa. […] Diciotto anni di cura rigeneratrice si sono rivelati inefficaci. Non si è educato gli italiani: si sono demoralizzati e corrotti in gran parte».
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Voi tornate a tentarmi, io torno a pensare a quella collaborazione che voi mi chiedete per l’opera su “Le realizzazioni fasciste”, e torno a pregarvi di volermi esonerare dal compito. Anche su Re Vittorio ho scritto e parlato: che cosa potrei ora fare, se non ripetermi, con tedio mio e dei lettori? Mi permetto anche un’altra riflessione. Nessuno più di me è disposto a riconoscere le benemerenze del fascismo; e lo ho fatto in libri e discorsi, in Italia e fuori. Ma ogni giornata deve avere il suo proprio lavoro; e il lavoro di oggi mi pare che non sia fare nuovi panegirici, nuovi elogi della nostra grandezza, sapienza, bravura ecc., quanto un buono, un onesto e severo esame di coscienza. Tutti vediamo che molte cose non vanno bene, deludendo le nostre speranze; che abbiamo commesso degli errori di impreparazione e di condotta, che seguiamo in talune cose false direzioni. Vogliamo proprio chiudere gli occhi alla realtà e mentire a noi stessi? Vogliamo fingere di credere che l’Italia ha affrontato bene la grande prova della guerra, che ha riportato brillanti e utili successi sul fronte francese, che ha tratto grande onore dal fronte greco (dico onore di organizzatori, non di soldati che fu grandissimo!); che ha trovato la gioventù studentesca – cioè la classe dirigente di domani – allevata nel “clima del fascismo”, disciplinata e animata da belli ideali dopo tanta predicazione di libro e moschetto, dopo tanti Guf e milizia universitaria e littoriali della coltura ecc., che ha ingrandito o almeno conservato l’Impero, già nostro orgoglio e nostra speranza, unica speranza dell’avvenire? No, non possiamo, non dobbiamo. Quindi, in alto i cuori, questo sì; proposito nostro di far ognuno quanto può perché la nazione esca bene dal cimento; concordia interna per la vittoria, gratitudine ai combattenti. Ma anche esame di coscienza e possibilmente revisione di ciò che non va bene, ricordando che ormai, con la guerra, abbiamo il vero collaudo del fascismo come di tutti i regimi autoritari e totalitari; e che, se il collaudo fallisse, tutti noi saremo falliti, fascismo e fascisti. Scrivendo, così come scrivo, credo di rispecchiare l’animo della grandissima maggioranza degli Italiani e fascisti pensanti, i quali non hanno perso ancora la fiducia nel fascismo; ma chiedono che questa fiducia sia illuminata dalla luce di una libera riflessione127.
Nonostante il tono di quella replica, Volpe non denunciava ancora, con queste espressioni, il tragico errore della guerra, in sé per sé, come avrebbe poi fatto buona parte dell’opinione pubblica, almeno a partire dal dicembre 1942128, ma soltanto la cattiva preparazione che l’aveva preceduta e la sua attuale deficitaria gestione. Né Volpe abbandonava il suo posto di combattimento nel fronte interno, dove anzi
127 Gioacchino Volpe a Giacomo Di Giacomo, Consigliere nazionale del Partito Na-
zionale Fascista, 8 luglio 1941, CV. La lettera è stata pubblicata in appendice al mio, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra, cit. 128 R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra, 1940-1943. 2. Crisi e agonia del regime, cit., pp. 767 ss. Si veda anche, A. LEPRE, Le illusioni la paura la rabbia: il fronte interno italiano 1940-1943, Napoli, Esi, 1989 e P. CAVALLO, Italiani in guerra: sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, Bologna, Il Mulino, 1997.
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continuava una, sia pure sporadica, attività propagandistica, a differenza di altri, come Gentile, che si erano rinchiusi dal giugno del 1940 in un significativo silenzio129. Ai suoi occhi quella guerra, né giusta né sbagliata, sul piano etico, appariva unicamente «necessaria», anche nel momento che da scontro di nazioni si trasformava in titanica collisione di continenti. E Volpe, fedele al detto anglosassone right or wrong is my country, tornava così a scrivere alla direzione del «Corriere» per sostenere, con la sola arma della penna, le ragioni dell’impegno bellico del suo paese. Nella corrispondenza con Borelli del 30 gennaio 1941, annunciava di star «rimuginando un articolo sull’America latina di fronte al conflitto», il cui spunto era stato suggerito dalla «lettera di un conoscente argentino, cittadino argentino, giuntami un mese fa»130. L’articolo, dopo lunga gestazione, qualche ritocco e qualche drastico taglio, imposto da ragioni di spazio131, era questa volta pubblicato, senza problemi, a metà aprile, forse per il suo collimare, almeno questa volta, con le direttive del Minculpop, che aveva imposto, in quelle stesse settimane, di minimizzare i rischi della discesa in campo degli Stati Uniti, evidenziando, piuttosto, il consolidarsi, oltre Oceano, delle «reazioni effettive contro l’intervento» e il diverso atteggiarsi dell’opinione pubblica americana «sia nei riguardi di Roosvelt che dell’Inghilterra e di Churchill»132. In ossequio a quel copione, o piuttosto per intima convinzione, anche il contenuto dell’articolo di Volpe, infine comparso il 17 aprile133, si sforzava di essere rassicurante, nonostante i toni di grande preoccupazione, presenti, appunto, nella corrispondenza dell’«amico italo-argentino, che occupa anche un posto onorevole nella cultura di quel Paese», pubblicata in apertura dell’editoriale. In quella lettera, inviata nel mese di febbraio, si parlava infatti di una guerra ormai «non più europea, ma mondiale», che, a breve, avrebbe visto anche l’ingresso di Washington, il quale rischiava di coinvolgere, volenti e nolenti, le Repubbliche sud-americane, attualmente pressate da «propagande straniere,
129 Sul punto, G. TURI, Giovanni Gentile, cit, pp. 482 ss.; S. SIMONCELLI, Gentile e il Vaticano, cit., pp. 46 ss. Sull’ostilità di Gentile alla guerra, qualche pettegolezzo aneddotico è in P. CALAMANDREI, Diario, cit., I, pp. 82, 172. 130 Gioacchino Volpe ad Aldo Borelli, 30 gennaio 1941, ACorsera. 131 Aldo Borelli a Gioacchino Volpe, 25 marzo 1941, ivi: «Vi mando questo articolo dal quale andrebbe tagliato quel tanto contenuto nelle terze bozze per ridurlo a due colonne. Siamo in lotta continua con lo spazio e con gli articoli superiori a due colonne, che rendono difficile l’impaginazione. Fatemi questa cortesia, rimandatemi presto le bozze». 132 A. PAVOLINI, Rapporto ai giornalisti, 29 aprile 1941, Meg, pp. 127-128. 133 G. VOLPE, America Anglosassone, America latina, Europa in «Il Corriere della Sera», 17 aprile 1941, p. 3.
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latenti o palesi», i cui governi avrebbero faticato a resistere al ricatto degli Stati Uniti «che non vorranno rimanere soli, come non vollero l’altra volta, a rappresentare l’America in guerra e insistettero per la famosa “sicurezza collettiva”». Non tutto era perduto, però. Il messaggio, proveniente dal Nuovo Mondo, prometteva infatti una «resistenza» vittoriosa da parte dei paesi latini che, «messi in mezzo fra Europa e Nord-America», desideravano fermamente attestarsi su di una posizione di neutralità e di equidistanza, «per salvaguardare, insieme con le buone relazioni col Nord, le relazioni che credo assai più importanti con l’Europa: fra le quali, occupano per noi un grande posto quelle con l’Italia». E proprio su questo ultimo inciso puntava Volpe per invitare le nazioni dell’America centrale e meridionale a far fronte comune, nonostante tutte le attuali difficoltà, per bloccare, l’impetuosa marcia dell’aggressivo progetto egemonico statunitense, che aveva saputo profittare anche dell’indebolirsi dell’influenza e del prestigio europeo in quella parte del mondo, dopo il 1918. Marcia antica, che cominciò virtualmente con la nascita stessa di quella Repubblica, animata già allora da latenti e pur visibili impulsi imperialistici. Si attuò poi, fino ai nostri giorni, attraverso notissime e significantissime manifestazioni verbali e di fatto. A un certo momento fece la sua apparizione anche il panamericanismo, complesso di interessi nordamericani tenuto insieme da ideologie e miti e pseudo-principi, contrapposti a tutti i propositi di unione delle Repubbliche latine, quali si era tentato più volte di attuare nel corso del secolo. E si ebbe nel 1889, per iniziativa nordamericana, la prima conferenza di Washington, presenti le rappresentanze di quasi tutte le Repubbliche, e la nascita dell’Unione panamericana, con sede in quella città e sotto la presidenza del segretario di Stato di quella Repubblica. Intanto, crescente penetrazione economica del Nord in gran parte del continente, agevolata dalla apertura del Canale e poi dalla grande guerra. Accanto all’azione pacifica, atti di forza. Pressione sul Brasile perché intervenisse nella guerra europea: e volle dire una incrinatura profonda in quel patto di amicizia Argentina-Brasile-Cile, che poi finirà con l’andare in pezzi nel ’23, tradendo le speranze di chi vedeva in quel raggruppamento un possibile centro di attrazione per tutte le Repubbliche latine. Dopo la guerra, nuove Conferenze, Santiago, Avana, ecc.: e, insieme, istituti panamericani o interamericani, commissioni e convegni interamericani, celebrazioni interamericane, propaganda interamericana che aveva nel Nord, naturalmente, le sue centrali. Procedeva tutto questo di pari passo con lo sviluppo capitalistico del Nord, coi progressi delle autarchie europee, con la decadenza di Ginevra a cui tutte le Repubbliche latine aderivano ma non gli Stati Uniti, con il diffondersi dei regimi totalitari o autoritari in Europa, col bisogno del Nord-America di coltivar altre e più vicine solidarietà in vista di possibili complicazioni europee ed asiatiche ecc. Lo stesso travaglio interno dell’Europa sollecitava e favoriva. Impegnatissimo nelle sue interne questioni, il vecchio continente non aveva più su la scena del mondo il posto di una volta. Facile quindi, alla pro-
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paganda nordamericana, battere e ribattere sul motivo di un’Europa senza pace, di una Europa in disordine, di un’Europa dominata da concezioni politiche antiquate, di un’Europa in decadenza ecc. di fronte a cui l’America doveva fare ideologicamente commercialmente militarmente fronte unico. America, salvezza del mondo!
Quell’avanzata si era ulteriormente accelerata, con l’approssimarsi della recente crisi europea. Il progetto di Roosevelt e del Segretario di Stato Cordell Hull, esposto nella Conferenza panamericana di Lima, nel 1938, di «tirarsi dietro l’America tutta e riunirla attorno a sé, con un patto fra alleanza militare e sociale delle nazioni americane, animata di spirito non amichevole verso l’Europa o una certa parte dell’Europa» veniva sì battuto grazie soprattutto alla resistenza dell’Argentina, che era «il Paese dell’America latina, il più lontano dagli Stati Uniti, uno dei più europei, razzialmente e spiritualmente, e fra i più legati all’Europa». Ma, soltanto l’anno dopo, Washington riusciva nel suo intento attraverso la sigla della Dichiarazione di Panama: «vero accordo politico e navale: unità di condotta degli Stati americani verso gli Stati belligeranti; consultazioni collettive per mantenere questa unità: servizi di vigilanza nelle acque territoriali da parte dei singoli Stati e anche collettivamente, cioè, in pratica, di navi nordamericane». Quel protocollo diplomatico, sottolineava Volpe, aveva saputo benissimo sfruttare il peso del potenziale economico americano, nei confronti di nazioni da esso dipendenti da un punto di vista finanziario e per quello che riguardava il mercato delle materie prime, ma si era anche avvantaggiato dall’incendio del conflitto europeo. La guerra ingaggiata dal Reich e poi dall’Italia contro le democrazie occidentali aveva cementato, al di là dell’Atlantico, «la comune avversione a regimi autoritari o totalitari» e concorso «ad avvicinare le due Americhe, sebbene poi l’America latina sia terra classica di dittature, e vene filofasciste o filonaziste non manchino di circolarvi qua e là, anche a difesa delle troppe ingerenze nordamericane e inglesi». E in quell’avvicinamento aveva molto contato anche il «modo stesso come l’Asse ha impiantato la sua guerra, cioè guerra di ideologie e di regimi, guerra di popoli senza spazio contro popoli che ne hanno troppo, guerra dell’Europa, della vera Europa, contro elementi estranei ad essa», che aveva dato a tutto il continente americano «il sentimento di una sua unità di fronte all’altra unità che si accampa oltre Oceano». A frenare il prossimo venturo impatto tra i due continenti, concludeva Volpe, poteva però essere ancora sufficiente l’orgoglio nazionale di Argentina, Brasile, Cile, Perù, Uruguay e la loro consapevolezza che una più stretta intesa con l’America settentrionale rischiava di porli sul lato opposto dello scacchiere geopolitico nel quale avrebbero dovuto collocarsi, in una guerra glo-
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bale che ormai era guerra delle nazioni ricche contro quelle povere o impoverite, dei popoli sfruttati contro i loro sfruttatori. Non è da dimenticare che questo crescente sviluppo di relazioni e anche collegamento fra gli Stati americani procede di pari passo con la formazione di vere proprie Nazioni americane, anzi di gelosi e orgogliosi nazionalismi. Cresciute in fretta e furia nel corso del secolo XIX, a forza d’ondate migratorie d’ogni genere, quelle Repubbliche debbono ancora ben plasmare in perfetta unità gli elementi di cui sono composte, assurgere a sintesi ideali, essere in tutto se stesse. La fine delle grandi immigrazioni, l’atmosfera tempestosa del mondo, le nuove esigenze economiche create dalle autarchie europee e, di riflesso, americane, l’ascesa anche laggiù di masse mal disposte verso capitalismi e internazionalismi di marca capitalistica certo accelerano ora il processo del divenire di queste nuove Nazioni. E vi contribuisce, vi contribuirà sempre più, la stessa politica nordamericana che pur vi coltiva non senza frutto il suo panamericanismo. Ma l’attiva presenza del Nord nella vita dell’America latina esercita in essa una azione veramente eccitatrice, vi promuove forze eguali e contrarie. E ciò tanto più avverrà quanto più gli Stati Uniti vorranno forzare la situazione presente e farla servire ai fini della loro democrazia nel continente americano, considerato quasi come il loro grande spazio vitale. Potrebbe accadere che fra cinquanta o cento anni la guerra che ora si combatte apparisse un momento essenziale nella storia dello sviluppo delle Nazioni sudamericane: per effetto non tanto degli immaginari pericoli europei quanto dell’effettivo pericolo nordamericano. E questo sviluppo di nazioni sudamericane potrebbe, chi sa, andar congiunto anche ad una ripresa di unionismo sudamericano, assai vivo sin oltre la metà del passato secolo dopo la spinta datagli dal grande Bolivar, avanti che al Nord venisse il Panamericanismo ad attraversargli la strada.
Questa profezia coglieva giusto nel lungo periodo, ma non in quello breve e brevissimo, dato che la discesa in campo degli Usa avrebbe trascinato, tra 1942 e 1945, nell’alleanza contro Roma, Tokio e Berlino, tutti i Paesi di quella vastissima regione, che avrebbero contato tra i propri eserciti anche molti nostri connazionali, in spregio a quella presunta, infrangibile unione tra le «colonie» italiane dell’America meridionale e la madrepatria decantata, ancora nel 1936, da Volpe. Eppure, il lungo e articolato intervento pubblicato dal «Corriere», rivelava una conoscenza dei rapporti internazionali davvero inusuale nel provinciale mondo intellettuale del nostro paese, certo superiore a quella dimostrata da Gentile, che, pure, usciva dal suo riserbo, immediatamente dopo il 7 dicembre 1941, per cantare le lodi del «Giappone guerriero» e per dichiarare che la presente conflagrazione bellica «non è più, come poté parere al principio, conflitto tra gli interessi europei dell’Asse e l’Inghilterra» ma principio maieutico per la creazione di un «nuovo mondo, che già si viene delineando in atto», il quale avrebbe condotto popoli e razze diverse «al livello della civiltà dominatrice, che non è la civiltà capi-
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talistica dell’oro e delle macchine, ma la civiltà dello spirito»134. Questi argomenti riecheggiavano, con grande o forse soltanto modesta convinzione, ma certo non con supina acquiescenza, se si pone attenzione al mancato accoglimento del principio della discriminazione etnica, il mito dell’Ordine Nuovo europeo e mondiale, che il trionfo del sistema totalitario nazifascista doveva assicurare, al termine del conflitto. Mito che era transitato in Italia un po’ come merce d’esportazione, grazie alla diffusione di alcuni testi di Carl Schmitt e di altri giuristi tedeschi135, e un po’ meno come elaborazione autenticamente originale, ma che pure diveniva elemento forte del dibattito culturale, tingendosi di aspri accenti antisemiti, soprattutto all’interno della sinistra di regime, delle avanguardie giovanili, e di quella corrente nazionalsocialista della nostra cultura (Costamagna, Cantimori, Curcio), a cui si è prima accennato136. Mito, infine, che riceveva una sua traduzione, in termini accademici e storiografici, da Ernesto Sestan, con la composizione della voce «Europa», per il Dizionario del Pnf137, e principalmente da Carlo Morandi che, in più di un contributo apparso sulla rivista di Bottai, «Primato», ne forniva una versione del tutto coerente con i principi dottrinali, elaborati nella Germania hitleriana, indicando la necessità di concepire i nuovi rapporti internazionali in una dimensione geopolitica più ampia, fondata non più sul principio di nazionalità ma sulla gerarchia dei popoli articolata nelle nuove «aggregazioni imperiali», attorno a cui dovevano gravitare, in una traiettoria subordinata, le nazioni minori, integrate secondo un criterio di rigida affinità razziale138. 134 G. GENTILE, Giappone guerriero, in «Civiltà», III, 21 gennaio 1942, 8, ora in ID., Politica e cultura, cit. II, pp. 182 ss. 135 Nel 1941, sarebbe stato pubblicato anche in versione italiana il saggio di Carl Schmitt, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale. Ordinamento dei grandi spazi con esclusione delle potenze estranee, a cura e con prefazione di L. Vannutelli Rey e con appendice di F. Pierandrei, Roma, Istituto Nazionale di Cultura Fascista, 1941. 136 R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra, 1940-1943. 2. Crisi e agonia del regime, cit., pp. 857 ss.; E. GENTILE, La Grande Italia, cit., pp. 201 ss.; L. DELLA ROVERE, Storia dei Guf, cit., pp. 339 ss. 137 E. SESTAN, «Europa: l’evoluzione storica», in PNF. Dizionario di Politica, cit., II, pp. 116 ss. Sulla successiva, poco convincente, presa di distanza di Sestan, da quel contributo si veda ID., Memorie, cit., p. 246, dove lo si definiva: «una voce che fu apprezzata anche da qualche fascista, ma che a me dava poca soddisfazione». 138 C. MORANDI, Lezioni della guerra attuale, in «Primato», 1940, 10, ora in ID., Scritti di storia, cit., III, pp. 311 ss., in particolare p. 312: «Il principio ottocentesco di nazionalità, condotto alle estreme conseguenze, si è palesato estremamente fragile e pericoloso. Dalla sua crisi attuale, scaturisce l’esigenza di un diverso ordine, di una maggiore e più rispettata gerarchia fra i grandi Stati, veramente liberi e responsabili, perché realmente capaci di vivere e d’agire in piena autonomia morale, politica ed economica». Si veda ancora, ID., L’u-
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Anche Volpe, per sua stessa confessione, aveva bruciato qualche grano d’incenso a questa stessa teoria, facendosi sostenitore, almeno fino al 1943, di «un’Europa organizzata unitariamente sotto una palese o larvata insegna germanica»139. E sempre Volpe, avrebbe ancora manifestato, anche a guerra terminata, la sua non spenta simpatia per un’estensione sopranazionale del Leviatano nazifascista140. Sulla base di queste due testimonianze, da me portate per la prima volta alla luce141, si è costruita, con scarso discernimento e tantissima approssimazione, la favola oscura di un Volpe che, affascinato dalle alcinesche seduzioni di Carlo Morandi, si sarebbe passivamente e completamente abbandonato ai «molli sogni della propaganda» ordino-nuovista142, a partire dall’organizzazione del Convegno Volta del 1932, nei confronti del quale, invece, come si è visto, lo storico aveva nutrito qualche perplessità, soprattutto per quello che riguardava i contenuti più accesamente «paneuropeisti» emersi in quell’assise, anche a prescindere dalla loro diversa coloritura politica143. Questa leggenda nera si riduce, tuttavia, a chiacchiera priva di contenuto, una volta saggiata sulla pietra di paragone offerta dal maggior contributo dedicato da Volpe a questa tematica: il testo della conferenza, tenuta a Losanna il 13 marzo 1941144, pubblicato nel Bollettino «Informandus», diretto da Vittorio Ambrosini, e poi ripreso dal perio-
nità dell’Europa, «Primato», III, 15 settembre 1942, XX, ivi, pp. 334-335; ID., L’idea dell’unità europea, III, 15 novembre 1942, ivi, pp. 328-389; ID., Guerra per l’Europa, Roma, Istituto nazionale di cultura fascista, 1943. 139 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 settembre 1944, cit. 140 Come è possibile dedurre dalla lettera di Carlo Morandi a Volpe del 22 maggio 1945, FV: «In molte cose che Lei dice (per es. sulla volgare libellistica antisabauda) sono consenziente, in altre meno. Così sul problema della guerra: una nostra vittoria avrebbe ribadito il “sistema” fascista, ed anche ammessa (ma non provata) la capacità italiana di liberarsi d’una dittatura, la Germania di Hitler, anzi l’Europa ormai tutta hitleriana ci avrebbe impedito un ritorno a forme politiche più consone al nostro spirito. E poi, quali potevano essere nell’ordine internazionale i risultati d’una vittoria? Una pax germanica, proprio come quella che Visconti Venosta indicava fin dal 1875 come la maggiore calamità per l’Italia». 141 E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 178-179. 142 G. GIARRIZZO, Volpe tra storiografia e politica: un bilancio, in «L’Acropoli», 2006, 4, pp. 411 ss. Ma tutto il contributo è irricevibile, da un punto di vista scientifico. 143 G. VOLPE, I Convegni Volta, cit., p. 337: «Si spiegava la propaganda paneuropea di Kalergi; circolavano riviste dedicate a “Paneuropa” o “Europe” o “Nouvelle Europe”; si discuteva di rapporti tra Europa e America, Europa e mondo di colore; si invocava nei pubblici discorsi un’Europa che sanasse i suoi squilibri e la sua frammentarietà, adeguasse l’ordine politico alla geografia ed anche alla cultura che facevano di essa un’unità, acquistasse coscienza di sé; si facevano innanzi progetti di federazione e il Piano Briand. Ebbene, questa fu la materia del convegno». 144 Come risulta dal telegramma del Ministro dell’Educazione Nazionale Bottai, alla data del 12 marzo, che autorizzava il congedo di Volpe, in ACS, MPI-DGIU, Fasc. G. Volpe.
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dico «La Vittoria», nell’agosto di quello stesso anno, con il titolo L’Italia e la Nuova Europa145, dove larga parte dello spazio veniva concesso a una dolorosa analisi del cattivo andamento del conflitto, che aveva strappato all’Italia buona parte dell’Impero africano. La prima fase della guerra si era infatti risolta in una serie ininterrotta di sconfitte, dove, se, da parte italiana, non mancò il valore, fu assente la fortuna e soprattutto, forse, un adeguata preparazione necessaria a contendere con un nemico che aveva schierato al suo fianco l’intero Commonwealth. Anni e decenni di colonizzazione italiana e di lavoro italiano in Etiopia e Somalia (strade, ponti, acquedotti, bonifiche, manifatture, infrastrutture ferroviarie e portuali) erano così passate rapidamente in altra mano (anche se Volpe si sforzava di convincere e di convincersi del carattere effimero di quell’usurpazione), di fronte allo strapotere delle forze avversarie ma anche al non del tutto propizio clima morale con cui il nostro popolo aveva affrontato quel durissimo cimento. Come il popolo italiano abbia accettato questa nuova prova è difficile dire. Chi aspettava il fervore di 25 anni addietro è rimasto disilluso. Ma altra guerra è questa, né sempre i popoli, neanche gli italiani possono avere un 1848. In cambio, fermezza, risolutezza, volontà di andare in fondo, coscienza di compiere un dovere duro ma necessario. Che così stiano le cose lo dimostra la condotta dei combattenti nella durissima guerra di Grecia, della quale non si fa una idea esatta chi si limita a mettere su la bilancia la popolazione dei due paesi; il magnifico comportamento dell’arma aerea e della marina, trovatesi a competere – e per molti mesi da sole! – con la potentissima Inghilterra, ricca delle risorse di mezzo mondo, la mirabile resistenza dei soldati dell’Impero e dei civili mutatisi in combattenti, sotto la guida di un intrepido principe sabaudo. E ora, mentre l’Impero, circondato da tutte le parti e allo stremo non del coraggio, ma dei mezzi di guerra, crolla, nessuno di noi italiani dubita che lì ritorneremo. Ritorneremo fra un anno o dieci o cinquant’anni ma ritorneremo. Siamo un popolo, contrariamente a certe apparenze e al giudizio comune, paziente e tenace. Pur con tanta storia alle spalle, guardiamo sempre all’avvenire, confidiamo nell’avvenire146.
Ma se l’avvenire d’Italia era ancora nella coraggiosa prosecuzione del conflitto, questo risiedeva anche nella costruzione di un diverso sistema di organizzazione mondiale, dove la Penisola doveva ritrovare la sua millenaria funzione di ponte fra Asia e Africa, per creare un «solidale ordine politico che le coordini alla vita dell’Europa, accanto agli Stati dell’America latina che saranno allora incoraggiati a resistere all’in145 G. VOLPE, L’Italia e la Nuova Europa, in «La Vittoria», XXV, agosto 1941, 10,
pp. 5-6.
146 Ivi.
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vadenza del pesante capitalismo nord-americano». Una trasformazione, questa, che si annunciava imminente e che avrebbe dovuto portare, ineluttabilmente, anche a «una semplificazione nella carta politica d’Europa», dove «qualche Stato mal composto, senza omogeneità etnica né capacità di convivenza pacifica negli elementi diversi, si sfascerà» e, nella quale, si verificherà «qualche spostamento nel vecchio ordine gerarchico delle nazioni e degli Stati, in rispondenza a mutate realtà»147. Era una prospezione sul futuro, che, fin nel 1935, aveva cominciato a filtrare nello stesso percorso storiografico di Volpe148, e che si riaffacciava nella Storia del movimento fascista del 1939, dove si auspicava che il fine della politica estera italiana dovesse volgersi alla realizzazione del «gran sogno di una Europa fatta veramente unita e solidale, veramente “Società di Nazioni”», per aggiornare il «principio nazionale», al fine di integrare la volontà di potenza dei singoli Stati «in un superiore interesse e in una superiore autorità», alternativa al modello «bolscevico», ma che «difficilmente potrà essere, quella ormai in declino, oggi rappresentata dalle “grandi democrazie”, tutte più o meno in evidente e consapevole crisi»149. Questa ipotesi poco, comunque, aveva a che spartire anche con le teorizzazioni della «Nuova Civiltà Europea», in quanto necessità di instaurare un nuovo ordine «rivoluzionario», depurato di «borghesie nazionali» e di «contaminazioni etniche allogene», che si sarebbero poi moltiplicate durante il periodo bellico sul nostro suolo150. I contenuti dell’articolo del 1941, che in nulla si distaccavano dalla tradizionale formulazione corradiniana dell’«Impero», largamente rilanciata dal fascismo, non si riallacciavano in alcun modo, invece, al concetto del «Grossraum», come era stato formulato dalla letteratura giuspolitica del Terzo Reich. Dove, il nazismo teorizzava l’esistenza del «Grande Spazio» come dominazione intercontinentale che avrebbe dovuto realizzare il principio della «omogeneità» razziale151, Volpe restava fermo ancora alla dottrina dello «Spazio vitale», la quale avrebbe dovuto dar luogo sì a un nuovo dominio politico, la cui egemonia si sarebbe estesa sulle re-
147 Ivi. 148 Sul punto, il mio Storia d’Italia e identità nazionale, cit., pp. 164-165. 149 G. VOLPE, Storia del movimento fascista (1939), cit., pp. 243 ss. 150 Si veda l’opuscolo, Nuova civiltà per la Nuova Europa, Roma, Unione Editoriale d’I-
talia, 1942, pp. XI ss. 151 P.P. PORTINARO, La crisi dello “jus publicum europaeum”. Saggio su Carl Schmitt, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, pp. 188 ss.; J.W. BENDERSKY, Carl Schmitt teorico del Reich, Bologna, Il Mulino, 1989, al capitolo XII. Si veda anche, P. FONZI, Nazionalsocialismo e Nuovo Ordine europeo: la discussione sulla “Grossraumwirtschaft”, in «Studi Storici», 2004, 2, pp. 313 ss.
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gioni limitrofe, senza però ridurne drasticamente le differenze culturali e razziali, ma che soltanto avrebbe dovuto costituire il giusto risarcimento di una nazione povera contro lo strapotere degli Stati più ricchi e di più consolidata tradizione coloniale152. Un concetto che Volpe riprendeva con forza, proprio nell’articolo comparso su «La Vittoria», rilanciando il leitmotiv della «guerra necessaria», del conflitto in corso, come «fatto della natura prima che della volontà», impegnato dall’Italia per tutelare la propria sopravvivenza, essendo gli italiani «45 milioni di uomini in un piccolo paese e povero d’insanabile povertà» e quindi affamato di «spazio» per poter continuare «a vivere e a crescere»153. Nessuna concessione quindi, ripetiamolo, per la nuova aggressiva Geopolitica nazista, che era significativamente assente, contrariamente a quanto è stato supposto154, anche nella rivista «Popoli» diretta da Morandi e Chabod (ma di cui di Volpe conserverà una qualche funzione di indirizzo generale)155, se si eccettua qualche becero articolo di propaganda colonialistica e razzistica, composto da Carlo Zaghi156, e altri contributi che delineavano la situazione economica e strategica di alcune regioni investite dal moto espansionistico dell’Asse: dai Balcani al Medio Oriente, al Pacifico157. Sul primo numero del nuovo «Quindicinale di storia e geografia» del 15 aprile 1941, Volpe faceva apparire, invece, un saggio su Marsilio da Padova, che, se costituiva un ritorno allo studio dell’eresia dell’Età di mezzo, poteva leggersi anche come la rivendicazione della superiorità della cultura italiana, soprattutto in campo politico, in un mondo allora formalmente dominato dal primo Reich germanico158. Era una spia, tra le altre, del fatto che, se per Vol152 A. JAMES GREGOR, Mussolini’s Intellectuals, cit., pp. 178 ss. 153 G. VOLPE, L’Italia e la Nuova Europa, cit. 154 A. MONTENEGRO, “Popoli”: un’esperienza di divulgazione storico-geografica negli an-
ni della guerra fascista, in «Italia contemporanea», 1981, 1, pp. 3 ss. 155 Gioacchino Volpe a Giulio Natali, 23 settembre 1941, in BNCR, ARC, 7XFVI42. 156 C. ZAGHI, Il cardinal Massaia e l’eccidio di Dogali, in «Popoli. Quindicinale di storia e geografia», I, 15 maggio 1941, 3, pp. 101 ss.; ID., Ferdinando Martini in Eritrea, ivi, I, 15 luglio-15 agosto 1941, 7-8-9, pp. 234 ss.; 272 ss.; 316 ss.; ID., La rottura del Trattato di Ucciali e il fallimento della politica scioana nel diario inedito del Ministro italiano ad Adis Abeba, ivi, I, 15 settembre 1941, 10, pp. 335 ss. 157 G. CARACI, Com’era la Jugoslavia, ivi, I, 15 maggio 1941, 3, pp. 106 ss.; G. PULLÈ, L’Ucraina. L’aspetto fisico del paese, ivi, I, 1 ottobre 1941, 12, pp. 412 ss.; ID., L’Ucraina. L’aspetto politico-economico del paese, ivi, I, 15 ottobre, 13, pp. 442 ss.; G. RAINIERI BISCIA, Basi navali e potenza politica. Esame strategico dell’Oceano Pacifico, ivi, II, 15 gennaio 1942, 2, pp. 29 ss.; E. MIGLIORINI, L’Iran. Il paese e le genti, ivi, II, 1 marzo 1942, 5, pp. 117 ss.; ID., L’Iran. Petrolio e vie di comunicazione, ivi, II, 15 marzo 1942, 6, pp. 137 ss.; A. TORRE, La lotta per l’Afghanistan, ibidem, pp. 145 ss. 158 G. VOLPE, Scrittori politici all’inizio dell’età moderna: Marsilio da Padova, ivi, I, 15 aprile 1941, I, pp. 2 ss.
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pe, indubbiamente, esisteva la necessità di por mano a una nuova architettura europea, questa avrebbe dovuto trovare le sue fondamenta negli ideali comunitari del Medio Evo cristiano159, piuttosto che nel «neopaganesimo» nazista, il cui potenziale di barbarie aveva trovato anche in Italia attenti analisti già dalla seconda metà degli anni Trenta160. Nel futuro edificio politico europeo, l’elemento latino, con la sua tradizionale moderazione, avrebbe dovuto almeno controbilanciare l’irruente furor teutonicus, come, tra 1939 e 1942, si esprimevano anche Papini e Soffici, auspicando, per il Vecchio Continente, la nascita di un condominio paritetico delle potenze legate direttamente o indirettamente dall’Asse, nel quale la preminenza morale e culturale dell’Italia e un suo oggettivo rapporto privilegiato con le altre nazioni cattoliche (Spagna, Portogallo, Francia) avrebbe potuto contenere la supremazia militare della Germania161. Si trattava di un progetto che sarebbe trapassato dalla semplice speculazione alla politica agita, se ancora tra giugno e marzo 1945, sotto la Repubblica Sociale Italiana, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, del cui comitato direttivo aveva fatto parte anche Volpe162, continuava a promuovere una serie di studi relativi al «dato “cultura” e “civiltà” europea» e il progetto di pubblicazione di un ampio apparato di fonti relativo al «concetto di storia europea e sua unitaria civiltà» che avrebbe dovuto integrare la «documentazione relativa ai progetti veri e propri di un’unificazione europea, ai problemi specifici di economia, di organizzazione»163. Quel piano di lavoro era stato fortemente connesso a una finalità pratica; il pur velleitario tentati-
159 ID., L’Italia e la nuova Europa, cit.: «Ora nella nuova Europa che si va preparando, intravista da noi più che vista, ondeggiante ancora fra utopia, ognuno vede quale funzione ideale e pratica è chiamata ad esercitare l’Italia, forte della sua tradizione romana e cristiana, forte anche del suo nuovo pensiero e della sua opera di rinnovamento politico». 160 M. BENDISCIOLI, Neopaganesimo razzista, Brescia, Morcelliana, 1937. 161 A. SOFFICI, Sull’orlo dell’abisso, cit., pp. 46, 48, 52; G. PAPINI, Scritti postumi. II. Pagine di diario e appunti, Milano, Mondadori, 1966, p. 73. 162 L’Ispi, fondato nel 1934 da Pierfranco Gaslini, un allievo dello storico nazionalista Arrigo Solmi, veniva presieduto dal 1935 dall’industriale Alberto Pirelli e godeva da quel momento di un forte sostegno finanziario, che ne rilanciava l’attività di ricerca e quella editoriale. Nel settembre del 1935 veniva costituito un comitato direttivo composto da Pirelli, Salata, Bevione, Volpe, mentre Gaslini conservava la direzione responsabile dell’Istituto. Sul punto, A. PIRELLI, Taccuini, cit., pp. 21-22; A. MONTENEGRO, Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto per gli studi di politica internazionale, 1933-1943, in «Studi Storici», 1978, 4, pp. 802 ss.; E. DECLEVA, Politica estera, storia, propaganda, cit.; V. GALIMI, Culture fasciste et droit à la guerre. L’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale dans les années Trente, in «Mil neuf cent», 2005, 1, pp. 167 ss. 163 Gerolamo Bassani ad Alberto Pirelli, Milano, 26 marzo 1945. Tutta la documentazione relativa a questo progetto dell’Ispi è conservato in ACS, Carte Renzo De Felice, busta 16.
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vo di lanciare, nell’aprile del 1943, una carta delle «Nazioni Unite» europee, a base italocentrica, che doveva essere alternativa ai progetti del nuovo sistema internazionale, che, con la stesura della Carta Atlantica, gli Alleati intendevano mettere in opera, come al programma dell’«Ordine Nuovo» nazionalsocialista164. Quel programma costituisce una prova troppo debole per poter prendere sul serio una più tarda rivelazione di Volpe, di sapore fortemente apologetico, secondo la quale: «il nostro giugno 1940 poté rappresentare più che altro un infelice tentativo di parare le conseguenze di una schiacciante ed esclusiva vittoria di quello che allora appariva il vincitore» e di salvaguardare, nella misura del possibile, Italia ed Europa dallo «slancio vitale di popoli o stirpi lottanti per primeggiare»165. Appare lecito, invece, supporre che, almeno a partire dal secondo anno del conflitto, Volpe si fosse orientato a favorire la crescita di un’intesa latina, in grado, sicuramente non di soppiantare, ma di affiancare il Patto tripartito. Quell’auspicio attraversava sicuramente il saggio su Antonio de Oliveira Salazar del marzo del 1941: uno studio, dedicato al dittatore portoghese, al terzo e più «piccolo Cesare» tra i duci del «fascismo latino»166, a cui era stata riservata una certa attenzione anche in Italia167. In quel contributo, Volpe proponeva l’esempio di una dittatura autoritaria e non totalitaria, sicuramente disposta, dopo la necessaria parentesi di un governo di salute pubblica, a ritornare nell’alveo del regime liberale e soprattutto aliena da provvedimenti discriminatori e persecutori contro le minoranze religiose168. In questo modo, il saggio puntava sulla rivendicazione dell’«originalità della rivoluzione portoghese», che ha «non solo negato i partiti ma anche il partito unico, il partito di Stato, quasi a costringere ogni cittadino a guardare “sub specie nationis” ogni problema o interesse particolare», e ne elogiava la volontà di non creare una fazione-Stato, come in Italia e come in Germania, astenendosi dall’istituire una «Milizia nazionale», in concorrenza e 164 G. BASTIANINI, Volevo fermare Mussolini, cit., pp. 96 ss. e 382 ss. 165 G. VOLPE, Per la pacificazione degli Italiani, in «Pagine libere», 20 luglio 1946, poi
in ID., L’Italia che fu, cit., p. 359. 166 P.H. LEWIS, Latin fascist elites. The Mussolini, Franco and Salazar regimes, Praeger, Westport (CT.), 2003. 167 Il Portogallo oggi negli scritti e discorsi di Oliveira Salazar. Prefazione di D. Alfieri, Firenze, Le Monnier, 1939. 168 G. VOLPE, Salazar e lo “Stato nuovo” portoghese, in «Storia e politica internazionale», 31 marzo 1941, 1, pp. 3 ss. Il saggio era anche pubblicato come prefazione del volume di A. BIZZARRI, Origine e caratteri dello Stato Nuovo portoghese, Milano, Ispi, 1941. Volpe aveva, senza successo, tentato di pubblicare un intervento dedicato a Salazar, anche sul «Corriere della Sera». Si veda Gioacchino Volpe ad Aldo Borelli, 7 aprile 1941, e la risposta negativa di quest’ultimo, il 9 aprile, in ACorsera.
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in contrapposizione con l’esercito regolare. Del regime lusitano, Volpe lodava poi soprattutto quella saggezza politica, che rendeva Salazar consapevole del carattere solo provvisorio di un regime d’eccezione che avrebbe dovuto, in tempi brevi o medi, consentire al ripristino dell’«idea antica di armonizzare i poteri, conservando prestigio e competenza al potere legislativo, mantenendo alle Camere l’attributo esclusivo di fare le leggi, se pur entro confini più ristretti che nel passato», ma sempre in ossequio al principio che «il Governo non deve soltanto difendersi dai suoi nemici ma anche da sé medesimo»169. All’evidenziazione della peculiarità del salazarismo nel quadro politico interno, specialmente per il riconoscimento del «carattere temporaneo e meramente strumentale della sua dittatura», seguiva poi quella del suo operare nello scenario internazionale, che segnava un punto di distinzione fondamentale con gli altri regimi europei. In questo contesto, il dittatore portoghese si presentava come l’esponente di «un “sano”, un “temperato” nazionalismo, capace di tener conto, si tratti di politica, si tratti di economia, anche del nazionalismo, egualmente legittimo, degli altri», di un nazionalismo, quindi, che escludeva in linea di principio il confronto militare per risolvere «il profondo disaccordo economico che inceppa il progresso d’Europa» e che ancora appariva legato alla «necessità di una attiva, leale, collaborazione internazionale, basata sul rispetto reciproco e sul riconoscimento delle reciproche esigenze»170. Erano, né più né meno, gli stessi argomenti svolti nella conferenza di Losanna, che pure furono ritenuti elementi validi per decretare, nel 1944, l’espulsione dello storico dalla ricostituita Accademia dei Lincei, sulla base di un rapporto consegnato, il 7 novembre, alla commissione di epurazione, presieduta da Benedetto Croce, dal quale risultava appunto «che il prof. Gioacchino Volpe ha pubblicato su “La Vittoria” dell’agosto 1941, un articolo dal titolo: L’Italia e la nuova Europa e che il 27 novembre 1941, all’Accademia d’Ungheria, in Roma, ha tenuto una conferenza esaltando i legami delle due Nazioni e la comune lotta per la giustizia e la libertà, mentre il 7 dicembre, a Milano, all’Istituto di Alta Cultura, ha parlato sugli aspetti e problemi dell’ultimo cinquantennio, concludendo che il movimento mussoliniano nella nostra era occupa un posto eminentemente centrale». Nel documento si aggiungeva, come possibile attenuante, la quale però non fu neanche presa in considerazione, che: Il Volpe fu accusato di “insensibilità patriottica” da F. T. Marinetti in un
169 ID., Salazar e lo “Stato nuovo” portoghese, cit., pp. 5-6. 170 Ivi, p. 7.
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articolo pubblicato nel periodico “Mediterraneo futurista”, in seguito a una dichiarazione fatta dal Volpe alla giornalista, signora Amelia Dodi, e da questa riferita al Marinetti che l’interpretò come dubitativa dell’esito della guerra e a tendenza disfattistica171.
Questo documento ci introduce a un episodio, quasi tragicomico, ma in ogni caso assai significativo della biografia di Volpe in quegli anni ferrei, che prendeva l’avvio dall’intervista rilasciata alla redattrice del «Regime fascista», il primo gennaio del 1942. Colloquiando con il giornalista, Volpe riaffermava certamente i sentimenti dell’«oraniana certezza di una nostra necessità dell’azione africana», e testimoniava la sua «fiducia che l’Italia sappia uscire vittoriosa da una prova così ardua» grazie al «valore dei nostri soldati», alla «coraggiosa resistenza del suo popolo», alla «funzione forse insopprimibile che essa ha nell’Europa e nel mondo», alla «necessità che essa viva ed operi, perché viva ed operi il tutto di cui è parte». Ma il tono mutava nella parte finale dell’intervista, dove Volpe, dopo aver sostenuto di riporre ormai molte delle sue speranze unicamente nello «Stellone d’Italia» che sempre aveva assistito la nostra patria, dava notizia dell’avanzata composizione del primo volume di Italia Moderna, con parole che malcelavano la profonda crisi morale di quegli anni: Si tratta non di una nuova edizione dell’Italia in cammino, ma di un rifacimento ab imis di quell’opera, che scritta di getto, in un momento di grazia, riuscì un libro vivo e caldo come sono sempre i libri scritti con l’anima. Tutti gli Italiani, 10 o 15 anni prima di adesso, avevano vissuto un momento di grazia. Oggi io ho 15 anni di più! Quell’euforia è passata. Quei punti fermi, che allora mi pareva di avere sotto i piedi e che sono il necessario fondamento e presupposto di ogni lavoro storico (specialmente dedicato alla storia modernissima) ora non mi paiono più tanto fermi. Certo questo lavoro mi è costato grande fatica, come chi marci sopra un terreno irregolare e stenti a trovar strade o piste o tantomeno rotaie. E invidio qualche mio collega in storiografia che queste rotaie le ha trovate belle, lucide, diritte. E il suo convoglio vi corre sopra senza una scossa che è una meraviglia172.
Queste semplici parole, o meglio una loro tendenziosa interpretazione, costarono allo storico l’accusa di «sabotaggio della guerra» sollevata sulle pagine di «Mediterraneo Futurista. Motore dei Gruppi Fu171 Il rapporto stilato dal commissario della R. Accademia d’Italia, Vincenzo Rivera, su richiesta della Commissione di ricostituzione dell’Accademia dei Lincei, è conservato nell’Archivio dell’Accademia Nazionale dei Lincei (AANL). 172 A. DODI, Visita agli Accademici d’Italia. Intervista allo storico Gioacchino Volpe, in «Il Regime fascista», 18 gennaio 1942, p. 3.
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turisti Italiani», fondato e diretto, dal 1938, da Gaetano Patarozzi173, insieme all’«Animatore e Primo collaboratore» del periodico: Filippo Tommaso Marinetti, «Sansepolcrista e Accademico d’Italia». A partire dal giugno 1940, la rivista e il suo direttore s’impegnavano in una strategia di energica mobilitazione a sostegno dello sforzo bellico nazionale, animata dalla granitica e incrollabile fiducia nella vittoria finale dell’Asse174, con l’obiettivo di animare il fronte interno e di denunciare al tribunale della pubblica opinione tutte le forme del «nuovo disfattismo». Nell’articolo Marcia di Vittoria!, comparso il 28 ottobre 1942, a firma del «Sansepolcrista», Mario Dessy, la polemica, infatti, si ampliava dal tradizionale obiettivo, costituito dai «catastrofisti di professione» e dagli «esterofili ad oltranza», fino ad abbracciare un nuovo, più diffuso e più insidioso genere di «negatori della vittoria delle armi italiane», annidati in sedi di responsabilità politica e soprattutto negli ambienti intellettuali, i quali apparivano «ancora più pericolosi», proprio perché «coperti dallo scudetto fascista, dal prestigio di discutibili benemerenze e dalla autorità di alte cariche»175. Ma se l’articolo di Dessy apriva ufficialmente la caccia alle streghe contro la quinta colonna delle forze plutodemocratiche e giudaico-bolsceviche, «Mediterraneo Futurista» aveva già precedentemente iniziato la sua opera di smascheramento degli elementi antinazionali. Nel numero del 14 agosto, interamente dedicato alla glorificazione della partenza volontaria di Marinet-
173 Qualche notizia su questo personaggio è in M. MARITANO, Futurismo in Sardegna. L’episodio sardo alla fine degli anni Trenta, Oristano, S’Alvure, 1993. Patarozzi aveva pubblicato nel 1936, Canzoni d’Africa, in omaggio all’impresa etiopica e nel 1939, il più famoso, Aeropoema futurista della Sardegna, che appariva nelle Edizioni futuriste di poesia. 174 Si veda G. PATAROZZI, Inghilterra fogna di passatismo. Presentazione del poeta F. T. Marinetti, Roma, Unione Editoriale d’Italia, 1941; ID., Civiltà colonizzatrice tedesca, Roma, Clet, 1942. Ancora il 19 luglio 1943, Marinetti, Patarozzi e Prampolini inviavano a Mussolini questo telegramma: «Gruppi futuristi adoratori Patria, Madre Boccioni, Mediterraneo Futurista mentre nostri eroici soldati contendono nostra terra adorata a nemico che può vantare soltanto peso oro et quantità riaffermano originale indistruttibile superiorità militare Alleati Germania Giappone. Tutti futuristi rivista Mediterraneo futurista ci pregano insistentemente riaffermare loro metallica fede in Benito Mussolini incarnazione della Patria immortale». Il documento è conservato in ACS, Fondo SPDCO, fascicolo n. 509. 446. 175 M. DESSY, Marcia di Vittoria!, «Mediterraneo Futurista. Motore dei Gruppi Futuristi Italiani», anno V, 28 ottobre 1942, 16, p. 2. Nello stesso numero, la rivista ospitava un articolo violentemente antisemita, Roma ha distrutto il Tempio di Sion. Chi lo riedificherà?, a firma di Bruno Archeri, accompagnato da ampi estratti dei Protocolli degli Anziani di Sion. Nel fascicolo del 13 giugno 1942, era apparso l’intervento Tutti gli ebrei al servizio del lavoro, siglato M. F, e cioè Marinetti, che modificava sostanzialmente l’atteggiamento di opposizione del letterato alle leggi del 1938. Sul punto, il mio, Quando sotto il fascio brillava la stella di Davide, in «il Giornale», 17 luglio 2006.
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ti per il fronte russo176, trovava posto infatti un ben evidenziato trafiletto, firmato dallo stesso Marinetti, che recitava: Occorre a tutti i costi ribadire questa verità: l’opera critica di Silvio D’Amico è antipatriottica, antitaliana, antifascista. La giuria chiamata a risolvere la vertenza ha trascurato la questione base su cui convergevano gli attacchi di Anton Giulio Bragaglia noto direttore del “Teatro delle Arti”, le cui benemerenze nel rinnovamento futurista del Teatro italiano sono indiscutibili. Si trattava di dichiarare se l’attività del critico Silvio d’Amico è patriottica o antipatriottica. Purtroppo questa questione base è stata trascurata perché uno dei membri della giuria lo storico Eccellenza Volpe (celebre negli ambienti giornalistici per aver dichiarato a un’intervistatrice del “Regime fascista”: Ma è proprio necessario vincere questa guerra?) non poteva logicamente preoccuparsi del valore patriottico177.
Volpe reagiva all’infamante accusa ricorrendo alle vie legali e comunicava al Ministro dell’Educazione Nazionale «che in seguito a menzognere e calunniose sciocchezze stampate dall’Accademico Marinetti a mio riguardo sul “Mediterraneo futurista” di agosto, gli ho dato querela»178. Per superiori decisioni, alla giustizia ordinaria si sostituiva, per dirimere la paradossale vicenda, un giurì d’onore, composto da alcuni membri dell’Accademia d’Italia, presieduto dal Vice Segretario del Pnf, Alessandro Tarabini, il quale, «dopo l’esame dei fatti e dei testimoni», stabiliva che «la frase in questione era stata fraintesa dalla Dodi e che comunque era stata poi chiarita dall’intervista successivamente stampata e che l’erronea interpretazione della Dodi e più ancora quella del Marinetti erano, secondo il Giurì, in contrasto con tutta l’attività di studioso, di scrittore e di oratore svolta dal Volpe avanti e durante l’attuale conflitto». La vertenza veniva quindi risolta con « l’invito al Volpe e al Marinetti di riconciliarsi» e la pace, anche se imposta d’autorità, tornava tra il letterato e lo storico, il quale avrebbe comunque dato, nel prossimo futuro, più ampia testimonianza della sua opposizione alla guerra fascista e al fascismo. Sicuramente non si sarebbe trattato di una contromarcia improvvisa. Ancora nel 1942, poco dopo la polverizzazione delle forze dell’Asse, tra Libia ed Egitto, da parte delle divisioni corazzate guidate da Montgomery, Volpe formulava un disperato appello alla resistenza rivolto alle plebi meridionali, che avrebbero dovuto ritrovare l’audacia e il
176 Si veda l’editoriale di apertura, Saluto a Marinetti, «Mediterraneo Futurista. Motore dei Gruppi Futuristi italiani», anno V, 14 agosto 1942, 14, p. 1. 177 F.T. MARINETTI, Il caso D’Amico, ivi, p. 3. 178 Gioacchino Volpe a S. E. il Ministro dell’Educazione Nazionale, Santarcangelo di Romagna, 20 settembre 1942, in ACS, MPI-DGIU, fascicolo G. Volpe.
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vigore, dimostrate durante le insorgenze del 1799, per respingere l’invasore che ormai azzardava approssimarsi alle nostre coste179. E, all’inizio del 1943, lo storico prendeva atto con qualche soddisfazione dell’occupazione della Corsica180, scrivendo che, nell’isola, «già dalla fine dell’800, l’italianità cominciava indirettamente a germogliare sul vecchio ceppo, in forma di corsismo», per arrivare a dare tutti i frutti sperati, ora, che «l’Italia è impegnata in così grande cimento»181. Ma, al di là di queste proclamazioni e nella realtà dei fatti, il suo rapporto con il regime si era già, ormai, fortemente deteriorato. Né aiutava a ricomporlo la soffocante vigilanza poliziesca a cui lo storico era sottoposto, e che si era spinta addirittura, nell’estate di quello stesso anno, al fermo intimidatorio di Volpe e della consorte, ambedue condotti nella Questura di Rimini e lì trattenuti, in assenza di un credibile pretesto, per alcune ore182. La sua condizione di sorvegliato speciale si faceva di nuovo evidente, nel giugno del 1943, quando Volpe, ottenuto il nulla osta del ministro dell’Educazione Nazionale, Carlo Alberto Biggini, si recava a Zagabria «per tenere una conferenza presso quell’Istituto di cultura, per la chiusura dell’anno accademico»183, raggiungendo una regione i cui destini erano ormai strettamente legati a quelli del nostro paese. Il piccolo Stato balcanico era infatti entrato a far parte, di fatto e di diritto, dell’Impero italiano, in virtù del vincolo dinastico che lo legava alla dinastia dei Savoia nella persona del duca di Spoleto, Aimone di Savoia-Aosta (fratello dello sfortunato difensore dell’Etiopia, Amedeo), che era divenuto Re nominale di Croazia nel maggio 1941, con il nome di Tomislavo II, quando il crollo della Jugoslavia dei Karageorgevic#, a seguito della invasione italo-tedesca, ebbe come conseguenza la nascita dello Stato indipendente croato, guidato da Ante Pavelic#, il leader na-
179 G. VOLPE, Momenti della Rivoluzione napoletana (1798-1799), cit., p. 198: «Su animo, Abruzzesi e Campani, gente di Puglia e di Sicilia, contadini, migratori, pescatori, piantatori di viti e di olivi, fanti di tutte le guerre, quando il Re vi chiama, abbrunati dal sole mediterraneo ma buoni a vivere sotto tutti i climi». Il contributo era apparso in una pubblicazione collettanea promossa dalla Federazione dei Fasci di combattimento di Napoli. 180 Anche nel secondo dopoguerra, Volpe non avrebbe dissimulato il suo compiacimento di allora, per l’acquisto dell’isola. Si veda, ID., Ersilio Michel, in ID., Storici e maestri, cit., p. 207. 181 ID., Presentazione a C. STARACE, Bibliografia della Corsica, Bologna, Arnaldo Forni Editore, 1943, pp. VII ss. 182 Gioacchino Volpe a Luigi Federzoni, s. d., frammento di lettera, dove si sosteneva che a nulla era servita l’esibizione della tessera di Accademico d’Italia per sottrarsi a quella temporanea restrizione della libertà. 183 Fonogramma del Ministero dell’Educazione Nazionale al Ministero degli Affari Esteri e per conoscenza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Rettore della R. Università di Roma, 25 maggio, 1943, in ACS, MPI-DGIU, fascicolo G. Volpe.
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zionalista, che Mussolini aveva finanziato e ospitato in Italia nel primo dopoguerra. Le motivazioni dell’offerta del trono di Croazia a un principe di Casa Savoia non sono chiare. Forse, Pavelic# voleva mostrare gratitudine al suo protettore Mussolini, o forse voleva, in tal modo, prendere le distanze dalla Germania nazista che cercava di impadronirsi materialmente del nuovo Stato. Quello che appariva evidente era invece la volontà di Mussolini e Ciano di servirsi di quella, che quasi avrebbe potuto configurarsi come un’«unione personale» tra le due corone, per concretare l’influenza politica in quella regione che ci era stata riconosciuta dall’alleato tedesco solo a denti stretti184. L’offerta di Pavelic# veniva così accettata da Vittorio Emanuele III che nel concedere il suo placet all’operazione avrebbe dichiarato di vedere con «lieta speranza per il nuovo ordine che si va affermando in Europa, la rinascita della Nazione croata, la cui storia per tanti nessi è collegata alla nostra e che per secoli ha orientato la sua vita morale e intellettuale verso la civiltà di Roma». Lo scenario già sperimentato in Albania si ripeteva in una congiuntura ben altrimenti degradata e drammatica, quando Aimone, intronizzato come «Luogotenente con Corona, nell’Impero fascista», secondo l’immaginifica formula escogitata dal responsabile della Farnesina185, attrezzava, fra molte titubanze, prima a Firenze e poi a Roma, un piccolo ufficio studi per conoscere meglio il paese su cui avrebbe dovuto regnare. Le informazioni giuntegli, che parlavano di una feroce guerra civile a sfondo etnico tra le minoranze serbe, mussulmane, ortodosse e le milizie cattolico-croate (Ustascia) di Pavelic#, lo convinsero a rimandare sine die il momento del suo insediamento anche in ragione dell’attività del comando della Wehrmacht che in ogni modo cercava di indebolire la presenza italiana in quella regione. La Croazia rimase quindi senza re e «Tomislavo senza regno», secondo la sarcastica espressione di Giancarlo Fusco, che ci ha lasciato un impietoso resoconto di questa ennesima cattiva prova della velleitaria diplomazia fascista186. La missione di Volpe, che si sarebbe prolungata dal 9 al 12 giugno 1943, si svolgeva in questo tormentato contesto e non era priva dunque di significato politico, come avrebbe dimostrato la fitta rete di incontri ufficiali che avrebbe contrassegnato, in quei giorni, la sua agenda. Un dettagliato rapporto, inoltrato dalla direzione dell’Istituto di Cultura
184 G. CIANO, Diario, cit., p. 508, alla data del 4 maggio 1941. 185 Ivi, p. 512, alla data del 14 maggio. 186 G.C. FUSCO, Tomislavo senza regno, in ID., Le rose del ventennio, Palermo, Selle-
rio, 2000, pp. 51 ss. Sul punto, ora, G. VIGNOLI, Il sovrano sconosciuto. Tomislavo II re di Croazia, Milano, Mursia, 2006.
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Italiana per la Croazia al ministro Biggini, riportava infatti che il Segretario dell’Accademia d’Italia era stato fatto segno, «delle più deferenti attenzioni delle autorità croate ed italiane», per poi essere ricevuto, in forma ufficiale, «dal Ministro dell’Educazione Nazionale Starcevic# e dal Ministro degli Esteri Budak, che lo trattenne a cordiali e interessanti colloqui», e infine dallo stesso Poglavnik, Ante Pavelic#187. Molto significativa era stata poi l’affluenza, alla conferenza dello storico, di un pubblico politicamente qualificato tanto imponente da far preferire come sede dell’evento «il Teatro dell’Opera di Stato che, capace di 1000 posti, poteva accogliere in una fastosa cornice larghe rappresentanze del Governo croato, del Corpo diplomatico qui accreditato, di alti ufficiali dell’Esercito Italiano, tedesco e croato, del mondo culturale e accademico», dove Volpe aveva svolto una lezione dedicata alla storia di Casa Savoia, in onore certo al lignaggio dell’amletico Tomislavo, ma anche per riaffermare i suoi convincimenti storiografici e politici, di cui ci resta «un largo riassunto», fatto stampare dagli organizzatori, nella brochure d’invito, che riproduceva «lo Scudo sabaudo intrecciato alla Corona di ferro croata». In quel testo, come in altri precedenti interventi188, nessuna concessione all’oleografico sabaudismo di De Vecchi, ma invece la riaffermazione della presenza costante della dinastia nello «sviluppo continuativo di vita italiana», almeno a partire dalla prima metà del XVII secolo, insieme alla sottolineatura del ruolo politico dei Savoia che, se da soli non avevano certo potuto cementare l’edificio unitario, con i solo strumenti dell’azione diplomatica e della «conquista regia», erano stati irresistibilmente attratti da quel moto centripeto che cercava di dare sostanza politica alla nazione e in esso avevano saputo affiancare e sviluppare gli elementi migliori e le forze più vive, abbandonando, alla metà dell’800, il chiuso assolutismo dei secoli passati, per abbracciare i «nuovi valori liberali e nazionali», predominanti nella società italiana, al fine di «allearsi e immedesimarsi» con essa. «Robusta pianta i Savoia», concludeva Volpe, la cui grandezza era più che nell’audacia delle armi e nella finezza del calcolo politico estemporaneo, nella «lenta, metodica, capacità costruttiva», nella «straordinaria fedeltà al popolo in tutti i momenti più gravi della dinastia»189. Il contenuto politico di questo messaggio era scoperto e corrispondeva a quanto Volpe avrebbe dichiarato nella prefazione a Italia Moderna, datata primo giugno 1943, ma forse redatta dopo il 25 luglio, poi de-
187 Relazione sulla Conferenza dell’Accademico Volpe a chiusura dell’anno accademico 1942-1943, 23 giugno 1943, in ACS, MPI-DGIU, Fascicolo G. Volpe. 188 G. VOLPE, Principi di Risorgimento nel ’700 italiano, cit. 189 Relazione sulla Conferenza dell’Accademico Volpe, cit.
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finita dal suo stesso autore, nella lettera a Gentile «un piccolo atto di coraggio»190. Nel prologo dell’opera, si auspicava «come in altri momenti gravi, quella calda unione di Re e di popolo, in che veramente l’Italia si attua, l’Italia nella sua continuità e assolutezza, la elementare e concreta Italia degli Italiani, quella che tutti ci concilia al di sopra di ciò che ci può dividere, quella a cui sola noi commisuriamo dottrine, ideologie, regime»191. L’invito a ritrovare i sensi della concordia nazionale sotto l’egida dell’antica Casa reale, armandosi del «paziente coraggio dei Savoia: quello di cui tutti gli Italiani debbono ora armarsi, se vogliono essere degni del loro passato e conservare intatte le speranze del loro avvenire», provocava il sequestro dell’opera da parte delle autorità di Salò. Ma anche la conferenza di Zagabria sarebbe dispiaciuta all’ormai morente regime. Poco dopo il suo ritorno nella capitale, Volpe riceveva infatti un lettera di biasimo dal Segretario del Pnf, Carlo Scorza, che lo rimproverava per non aver dato giusto risalto alla figura del «Duca d’Aosta, l’eroe d’Africa»192, e per essersi sottratto all’obbligo di indossare l’orbace, in quella solenne occasione. Alla nota, Volpe controbatteva, punto per punto, dichiarandosi ormai stanco, fuor di ogni misura, per l’inquisizione a cui ogni suo atto pubblico era sottoposto e aggiungendo la sua contrarietà per l’avventuristica politica del regime, che aveva gettato, senza cautele, un membro della famiglia regnante nella sanguinosa e grottesca faida balcanica. Mi sbaglierò, ma ho sempre pensato che, quando si è, essenzialmente persone di studio, come sono io, e si è mandati fuori per compiti che sono essenzialmente di studio, giova, anche ai fini della politica, non sciorinare insegne politiche. La nostra parola, non presentandosi come propaganda ma come espressione di maturato e organico pensiero, acquista maggiore forza persuasiva. Perciò, raramente io, fuori d’Italia, ho portato divisa. E nessuno me ne ha mai
190 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 16 agosto 1943, AFG. 191 G. VOLPE, Prefazione a Italia Moderna, Firenze, Ispi, 1943, p. IV. Il testo ha qual-
che variante con quello della Prefazione del dicembre 1945, ora in ID., Storici e maestri, cit., p. 283: «Erano parole, queste, che ben presto suonarono poco ortodosse alle orecchie dei fascisti di stretta osservanza che si erano voltati contro il Re fellone e proclamarono poi la Repubblica di Salò. Perciò del volume fu impedita la diffusione, poco dopo la sua comparsa, anzi fu sequestrato presso i librai […]». Si veda anche Gioacchino Volpe a Vittorio Emanuele Orlando, 21 marzo 1945, CV: «Il volume, che non poté giungere a Roma se non in poche diecine di copie, fu sequestrato a Milano e nelle librerie dal governo repubblicano […]». La lettera è riprodotta in F. PERFETTI, Introduzione a G. Volpe, Italia Moderna, cit., I, p. XXXII. 192 In realtà, almeno secondo la Relazione sulla Conferenza dell’Accademico Volpe, lo storico aveva accennato «al coraggio e allo spirito di sacrificio di un giovane eroe, Amedeo D’Aosta, combattente d’Africa, prigioniero coi suoi soldati, morto in prigionia», che aveva fornito nuovo alimento alla «poesia di Casa Savoia».
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fatto addebito. Per Zagabria, poi, mi era stato detto, qui a Roma, che io dovevo semplicemente fare la lezione di chiusura dell’Istituto Italiano. Il tuo informatore ti ha informato male. Ho chiuso la mia conferenza con un inno all’Eroe d’Africa. E già prima avevo, con discrezione, perché questi nostri Savoia non bisogna buttarli troppo allo sbaraglio in situazioni politiche incerte come la presente, accennato al Re designato di Croazia e al nuovo legame che, in virtù sua, si era stretto e più ancora si sarebbe stretto per l’avvenire, fra quel paese e il nostro. Potrei trascriverti dai miei appunti il brano relativo a Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi, esploratore e colonizzatore di Africa, morto e sepolto in Africa, e ad Amedeo d’Aosta. Ti trascrivo solo le ultime frasi: “Ma l’opera di Amedeo d’Aosta, opera di soldato, di bonificatore, di colonizzatore, di pacificatore, interrotta dalla guerra e dalla morte, sarà ripresa quando torneremo laggiù. E vi torneremo. È scritto nei libri della natura e della storia. Ci aiuterà a tornarvi la paziente tenacia, il paziente coraggio dei Savoia. E allora, Amedeo d’Aosta, sarà di nuovo vivo e presente. E noi amiamo figurarcelo, sul più alto cocuzzolo dell’Amba Alagi, vigilare e animare di lassù il nostro lavoro”. Caro Scorza, abbi pazienza: il Prof. Volpe non è tanto rimbecillito da non capire che, parlando dei Savoia, in un paese dove un Savoia-Aosta è re designato, in giorni in cui tutti viviamo e soffriamo di Africa, bisognava pur parlare dell’altro SavoiaAosta, fratello del re designato, che è morto in Africa! E ora permettetemi una subordinata osservazione. È sempre un po’ fastidioso, per ogni uomo, sapere che ogni sua parola o atto sono registrati, soppesati, guardati contro luce: specialmente fastidioso ad un uomo, come me, che ha 65 anni, occupa una certa posizione nella coltura del suo paese, gode, grazie a Dio, reputazione di grande rettitudine. Un uomo come me – sono troppo superbo? – se si vuole utilizzarlo, bisogna prenderlo per quel che è, in blocco, con le sue buone qualità e anche coi suoi difetti; bisogna dargli mandato di fiducia e non trattarlo come una recluta o un balilla a cui si infligge la consegna o si tira l’orecchio se ha messo malamente la cravatta o non saluta in modo regolamentare. Che se proprio deve essere sorvegliato, soppesato, guardato contro luce, almeno gli strumenti registratori funzionino bene, come deve essere in un ufficio di così alta autorità e responsabilità com’è il tuo. Non è la prima volta che io mi trovo alle prese “con informatori”, chiamiamoli così, che di me hanno riferito, o per poca intelligenza o per troppa malignità, cose false. Un’altra volta fu nel 1936, nei giorni della proclamazione dell’Impero. E mi toccò di scrivere, non per giustificarmi ma per protestare, una dura lettera che, sebbene presentata per me dal Ministro dell’Educazione Nazionale al Capo del Fascismo, potrebbe anche trovarsi nell’Archivio del Partito. Dolente che il mio caso abbia fatto perdere a te e anche a me un tempo tanto più prezioso quanto più, in giorni come questi, “majora premunt”, ti saluto con l’antica amicizia, stima e affetto193.
La misura era ormai colma e, il 20 luglio, la richiesta rivolta dal «Corriere» allo storico di redigere un articolo sulle ragioni che aveva193 Gioacchino Volpe a Carlo Scorza, Segretario Nazionale del Pnf, 2 luglio 1943, CV.
Minuta dattiloscritta con correzioni autografe.
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no spinto il paese nel conflitto veniva sì accettata, ma, come si è visto, in modo assolutamente difforme dal canone imposto dalla propaganda, la quale blaterava, anche dopo lo sbarco in Sicilia, di una munitissima «fortezza Italia» contro la quale si sarebbero schiantata l’aggressione anglo-americana. All’invio del pezzo, faceva comunque riscontro una durissima lettera di accompagnamento ad Aldo Borelli, che costituiva una vero atto di accusa contro la stampa italiana nel suo complesso, la quale non poteva ormai sottrarsi alla responsabilità di aver orchestrato una sistematica campagna di disinformazione, per coprire le responsabilità del regime, ancora in atto quando le armate straniere avevano ormai raggiunto il territorio metropolitano. Parturient mortes… Ma ho avuto assai più esami che non credessi. E poi lauree, quindi le ore buone, quelle in cui si lavora, impegnate. In ultimo, una corsa in Romagna dove ho la famiglia. L’animo, poi, in cui lottano sentimenti e passioni di ogni natura, era mal disposto a scrivere. Anche perché: a che giovano parole, parole di giornale (mi sia lecito dire al direttore di un grande giornale, che il credito della stampa italiana, specialmente negli ultimi due o tre anni, non è, no, aumentato. Quante sciocchezze ci ha raccontato! Di quante illusioni ci ha nutrito! A quanta supervalutazione e sottovalutazione delle forze nostre ed altrui ci ha abituato!), quando abbiamo i nemici in casa e ci vorrebbero quei cannoni che non abbiamo, quegli aeroplani che non abbiamo, quei generali che hanno fatto tanto difetto, quei capi nei quali non abbiamo più gran fede, quell’Italia morale senza la quale non si costruisce grandezza o solo effimera! Sì la fede non vuol morire: ma fatta di imponderabili, di elementi irrazionali194.
A quelle e ad altre parole, Volpe aveva fatto precedere l’azione, o meglio un tentativo d’azione, quando, a metà luglio, aveva cercato di imporre alla Giunta centrale di studi storici una sua mozione, nella quale la proposta di far assumere nuovamente al sovrano la pienezza delle sue «funzioni costituzionali», in vista degli «avvenimenti politici e militari 194 Gioacchino Volpe ad Aldo Borelli, 20 luglio 1943, cit. Sul punto, si veda anche la testimonianza di Bruno Pagani, vicedirettore dell’Ispi dall’aprile 1935 al settembre 1943, in Federico Chabod e la “nuova storiografia” italiana dal primo al secondo dopoguerra (19191950), a cura di B. Vigezzi, Milano, Jaca Book, 1984, p. 680: «È pallido nel mio ricordo il riferimento ad alcuni discorsi che Volpe fece nell’ultimissimo periodo, nell’inverno 1942-’43. Egli si concesse allora alcuni accenni di fronda nei confronti della guerra; però non ricordo né la quantità né la qualità di questa fronda; ricordo comunque che questi suoi atteggiamenti suscitarono un certo clamore. Però ricordo anche in modo nettissimo che nell’agosto del 1943 Volpe passò per Milano e venne a parlarmi. Fu un colloquio molto duro, in quanto Volpe mi prospettò una diagnosi del genere. Disse che quel buonuomo di Mussolini aveva commesso il tragico errore del 10 giugno e che quello era stato il momento della sua aberrazione, e l’inizio della perdita delle sue fortune».
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che precipitavano»195, sembrava compendiare e anticipare il contenuto dell’ordine del giorno Grandi che sarebbe stato approvato dal Gran Consiglio di lì a pochissimo. Ernesto Sestan, testimone oculare dell’episodio, sottolineando l’ingenuità di quell’iniziativa che pensava di affidare a «un ente non politico e di peso quasi insignificante» la prima mossa per attuare un cambio di regime, ci informa che quell’azione era stata concepita da Volpe a titolo tutto individuale, sull’onda del suo lealismo di «fermissimo monarchico», «senza nessun rapporto» con la congiura di palazzo dei gerarchi fascisti196. È pure evidente, tuttavia come quella presa di posizione, abortita nei suoi possibili sviluppi dal veto imposto da De Vecchi e da Francesco Ercole all’approvazione dell’ordine del giorno, si uniformava, a suo modo, agli obiettivi della fitta e diversificata trama golpista contro la dittatura, che in quei mesi prendeva corpo negli ambienti militari, finanziari, nella corte, nell’aristocrazia senatoria, nel vecchio notabilato intellettuale, nelle nuove forze antifasciste197, ma anche in quei settori del regime che intendevano propiziare il riacquisto dell’iniziativa politica, da parte di Vittorio Emanuele III, in vista della liquidazione di Mussolini198. 3. L’ora dei «parlamenti pericolosi», per dirla con Montaigne, era infine scoccata. Ma, negli stessi giorni, in cui Volpe andava consumando definitivamente il lungo addio alla dittatura, anche la sua vita accademica conosceva un momento di grave difficoltà, che rendeva evidente, in primo luogo, quanto la sua indipendenza intellettuale male si fosse amalgamata al clima fascistissimo che regnava sovrano nella Facoltà di Scienze Politiche di Roma. Del lungo soggiorno in quella sede, dove Volpe aveva ottenuto, nell’agosto del 1936, il trasferimento dalla cattedra di Storia della politica moderna a quella di Storia moderna199, la documentazione disponibile ci restituisce l’immagine di un professore non eccessivamente presente nella vita universitaria (se si eccettuano gli obblighi di docenza e il sicuramente poco gradito incarico interinale di 195 E. SESTAN, Memorie, cit., p. 267, dove si afferma: «Volpe mi portò l’abbozzo scritto di suo pugno perché lo battessi a macchina» e si aggiunge di aver conservato l’abbozzo. 196 Dato che mi è stato confermato da Vittorio Volpe. 197 I. BONOMI, Diario di un anno, cit., pp. 3 ss.; A. PIRELLI, Taccuini, cit., pp. 451 ss. Sul punto, R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra, 1940-1943. 2. Crisi e agonia del regime, cit., pp. 1089 ss.; ID., Introduzione a D. Grandi, 25 luglio 1943, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 29 ss. 198 Ivi, pp. 85 ss. 199 Si veda il testo del provvedimento del Ministero dell’Educazione Nazionale, datato 26 agosto 1936, in ACS, MPI-DGIU, Fascicolo G. Volpe. Alcuni dati sull’attività di Volpe nella Facoltà romana sono in P. SIMONCELLI, Gli Storici, in Passato e presente della Facoltà di Scienze Politiche, cit., pp. 87 ss.
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Preside nel 1937), frequentemente distratto dai numerosi impegni, che la sua posizione di intellettuale-notabile comportava. Sul tavolo della Direzione generale dell’Istruzione universitaria si accumulavano, soprattutto a partire dalla fine degli anni venti, frequentissime istanze di congedo, tutte tempestivamente approvate, per poter permettere a Volpe di meglio soprintendere alle attività dell’Accademia, di presenziare a manifestazioni in Italia e fuori d’Italia (a Vienna, Budapest, Varsavia, Bratislava, Lisbona ma anche a Tunisi e persino nell’Africa occidentale portoghese per commemorare la trasvolata atlantica di Balbo)200, e di partecipare, a Parigi, ai lavori dell’International Committee of Historical Sciences, nel cui Bureau centrale lo storico rappresentava il nostro paese201. A tutto questo si aggiungevano le richieste di più estese interruzioni del servizio, per il biennio accademico 1930-1931 e 19371938202, giustificate da motivi di studio, che forse dovettero provocare malumori e qualche resistenza, presso la Presidenza della Facoltà, se Volpe si vide costretto, per ben due volte, a chiedere un appoggio politico al fine di vederle esaudite. Nel novembre del 1929, scriveva infatti a Lando Ferretti di ricordare al «Capo», e cioè a Mussolini, il loro recente colloquio, dove era stata avanzata una richiesta di esonero dall’insegnamento, senza perdita di stipendio, e «in cui io gli dissi che il lavoro d’impianto e avviamento dell’Accademia richiedeva tempo e pratica; che avevo fra le mani lavori da compiere, fra cui una storia del popolo italiano durante la guerra, e che, d’altra parte, in poco meno di 30 anni d’insegnamento, mai avevo sollecitato una concessione di tal genere»203. Nell’autunno del 1937, lo storico rinnovava questa richiesta in una lunga e amichevole lettera a Giuseppe Bottai, recapitata direttamente al domicilio privato del Ministro, che forniva un quadro detta-
200 Ricordiamo che Volpe era divenuto membro ordinario dell’Accademia delle Scienze ungherese, polacca e di quella di Lisbona. Sul punto, Annuario della Reale Accademia d’Italia, 1940-1941, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1942, p. 62. 201 Gioacchino Volpe al Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Roma, 17 maggio 1937 in ACS, MPI-DGIU, Fascicolo G. Volpe: «Il Ministero degli Affari Esteri mi ha dato incarico di recarmi a Tunisi per una o due conferenze; il Comitato nazionale per le scienze storiche, cioè la Giunta centrale, che ne assolve i compiti, mi invia poi a Parigi, perché io lo rappresenti alla riunione del Comitato internazionale e del Comitato organizzativo del prossimo congresso di Zurigo. Per questo duplice incarico, sono costretto ad assentarmi da Roma e dall’Università, sino alla fine del mese. Ne do comunicazione alla S. V. perché voglia autorizzarmi a ciò e provvedere anche alle cose della Facoltà della cui presidenza sono stato investito, nell’assenza di S. E. il prof. Rossi». Sull’attività di Volpe, in seno al CHSS, si veda K.D. ERDMANN, Toward a Global Community of Historians, cit., passim. 202 Gli estratti dei verbali dei Consigli di Facoltà e le delibere ministeriali per la concessione dei nulla-osta sono egualmente conservati in ACS, MPI-DGIU, Fascicolo G. Volpe. 203 Gioacchino Volpe a Lando Ferretti, s. d. [ma novembre 1929], ivi.
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gliato dei suoi lavori in corso, e in cui molto significativamente, come vedremo, affiorava il nome di Federico Chabod. Sarebbe stato, questo di cui ti scrivo, argomento da parlarne con te. Ma per non toglierti tempo con una nuova udienza, consenti che ti scriva. Se il mio desiderio è attuabile, ne avrò grande piacere, se no, pazienza. Il mio desiderio è questo: avere dal Ministero un anno di licenza dall’insegnamento, a scopo di studio. Mi trascino dietro da gran tempo certi grossi lavori senza possibilità di condurli a termine: una storia dell’Italia durante la guerra (nei rapporti interni; non militari), di cui è scritta oltre metà; una storia dell’Italia medievale e moderna, fatta per due terzi; certi studi di storia sabauda, di cui anche S. M. il Re è informato ed ogni tanto me ne chiede notizia. Un po’ la scuola, un po’ tante piccole brighe mi tolgono ogni possibilità di isolarmi per qualche mese e lavorare. Le vacanze di quest’anno sono andate per due terzi annullate: il luglio da una lunga commissione di concorso al Ministero della Cultura Popolare; il settembre e ottobre dal Congresso del Risorgimento, dal convegno storico abruzzese, da quella stessa minuscola cerimonia di Penne, tre o quattro volte fissata e rimandata. Aggiungi che avrei bisogno di passare due o tre mesi a Torino, per ricerche in quell’Archivio. Di questo mio piano feci tempo fa amichevole discorso col Rettore: ed egli non fece, per quel che lo riguarda, nessunissima difficoltà. Quanto alla mia supplenza qui, avrei pensato al prof. Chabod, straordinario di storia a Perugia, che è il migliore della nuova generazione di storici, giovane di grande laboriosità e coscienza. Ma poiché egli non potrebbe fare due corsi, qui e a Perugia, dovrebbe, per il 1937-38, essere comandato a Roma. E si avrebbe anche quest’altro vantaggio: rendere possibile al prof. Chabod, che è uno dei quattro incaricati, per iniziativa dell’Ispi di Milano, largamente sostenuta dal Duce, di scrivere la storia della politica estera italiana dopo il 1860, di accelerare il proprio lavoro, che si svolge essenzialmente sul materiale dell’Archivio degli Affari Esteri di Roma. Indipendentemente dalla questione, io venivo pensando alla possibilità o meno di chiedere per Chabod un comando o incarico qui a Roma per un anno (io sono della Commissione direttiva di questa storia e seguo da vicino i lavori dei 4 studiosi, tre dei quali escono dalla mia Scuola storica). Ora abbino le due cose e chiedo a te: 1° esenzione, per me, di un anno (senza falcidia di stipendio!); 2° supplenza, nella mia cattedra, del prof. Chabod, che in questo modo potrebbe dare una buona spinta al suo volume, il più importante e faticoso dei quattro. A Perugia, credo, non sarà difficile incaricare per un anno, al suo posto, o il Maranini o il Curcio o altri. Se la cosa, come spero, ti pare fattibile (a volte ho visto che questi esoneri o comandi sono stati dati anche a giovanissimi dell’insegnamento universitario: per es. Spirito, non si negherà a me, che ho la piccola ambizione di porre il finis, prima di invecchiare troppo, a lavori che già mi hanno costato tanta fatica!), dai le necessarie istruzioni al tuo Direttore generale: ed io mi intenderò con lui per i dettagli204. 204 Gioacchino Volpe a Giuseppe Bottai, 31 ottobre 1937, ivi. Gli altri autori incaricati dell’iniziativa della Storia politica estera italiana erano Morandi, Maturi, Augusto Torre. Su quel progetto, si veda il mio, Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 328 ss.
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Difficile non scorgere, considerato il tono pressante di questa corrispondenza, nella richiesta di anno sabbatico e in quella di veder conferita a Chabod la supplenza della propria cattedra, che poi furono entrambe soddisfatte205, il desiderio, appena malcelato, di Volpe di tirare i remi in barca, di distanziarsi dalla vita universitaria, anche se solo a condizione di assicurarsi una successione adeguata206. Lo stesso, ci ricorda Sestan, accadeva, proprio in quegli anni, per la sua attività nell’Accademia d’Italia, dalla quale Volpe moltiplicava le sue assenze per godere del buen retiro nella residenza di campagna di Santarcangelo di Romagna207, tanto da farci presupporre che in quella latitanza dagli impegni ufficiali si potessero anche scorgere tracce di un radicato malcontento per l’atmosfera intellettuale del tempo. Quell’insofferenza si acuiva e si rendeva palese, nel secondo anno di guerra, in occasione del Convegno interuniversitario, svoltosi a Firenze, il 16 e il 17 aprile 1942, che aveva per oggetto la «Funzione e struttura delle Facoltà di Scienze politiche». Il convegno si trasformava in una dura requisitoria, soprattutto ad opera di Camillo Pellizzi, presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, contro quei centri universitari, che il fascismo aveva fortissimamente voluto, ma che ora avevano dimostrato la loro incapacità a creare la nuova classe dirigente del regime. All’appuntamento fiorentino era presente anche Volpe che, dopo aver ricordato il suo contributo personale, alla creazione della Facoltà romana, che avrebbe do205 Si veda la delibera ministeriale, conservata in ACS, MPI-DGIU, Fascicolo G. Volpe: «Il Ministro Segretario di Stato dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, visto il D. M., in data 15.11. 1937-XVI, col quale S. E. il Prof. Gioacchino Volpe, ordinario di Storia moderna presso la R. Università di Roma, ai sensi dell’art. 57 del R. D. 8 maggio 1924-II, n. 834, fu incaricato di attendere a speciali studi di carattere storico, per l’anno accademico 1937-38-XVI; ritenuta la necessità di provvedere nello interesse degli studi, in ordine alla supplenza del professore medesimo, in data 1 marzo 1938, decreta: “A decorrere dal 13 dicembre 1937-XVI, e per la restante parte dell’anno accademico 1937-38-XVI, il Prof. Federico Chabod, Straordinario di Storia moderna presso la R. Università di Perugia, è incaricato di supplire S.E. il prof. Gioacchino Volpe nell’insegnamento della stessa disciplina presso l’Università di Roma, con l’annua retribuzione di £. 4.400, ridotte a £. 3.407,36 ai sensi dei RR.DD. LL. 20.11.1930-IX, n. 1491 e 14.4.1934-XII, n. 561». 206 Sulla disaffezione di Volpe per la vita universitaria, si veda anche la lettera a Cantimori del 24 novembre 1939, ASNSP: «Caro Cantimori, il tuo librone e la notizia del tuo successo al concorso mi giunsero che ero tutto sommerso nelle cose albanesi e quasi non trovo il fiato. Ma ora, a cose fatte, posso ringraziarti del libro che, a giudicar da qualche pagina letta qua e là, è veramente cosa degna e rallegrarmi della buona riuscita del concorso, cioè della via, che ora si è dischiusa, all’Università. Non che l’Università ora sia tal cosa da procurar grandi soddisfazioni (io per conto mio le soddisfazioni migliori le ho trovate alla scuola media, con una scolaresca effettiva e non immaginaria, fatta da uomini!); ma è la libertà del proprio lavoro e la possibilità, e questa non se ne coglie molto alla scuola, di raccogliere molto davanti al pubblico dei lettori». 207 E. SESTAN, Memorie, cit., pp. 224 ss.
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vuto costituire un centro di Alta cultura e d’insegnamento specializzato, si diffondeva in un’articolata critica sul fallimento di quella esperienza rispetto al primitivo progetto. In quell’intervento, che sarebbe stato riassunto negli atti del convegno fiorentino apparsi nel 1943, lo storico stigmatizzava la decadenza di quell’istituzione, avvenuta a pochi anni di distanza dal promettente avvio, quando ai «pochi e non molti discepoli, in gran parte di sesso maschile e piuttosto scelti, quasi una aristocrazia, come scelte erano le attività a cui erano chiamati» si era sostituita un’affluenza studentesca di massa, poco qualificata sul piano intellettuale e sociale, al quale aveva corrisposto uno pletorico aumento degli insegnamenti e del corpo docente208. Queste parole suscitavano l’immediata reazione di Pellizzi, che accusava Volpe di essere restato nostalgicamente legato a un inattuale modello di formazione delle élites politiche e intellettuali del tutto incompatibile con la creazione della nuova «aristocrazia fascista»209, e scatenavano poi, nel Consiglio della Facoltà di Scienze politiche di Roma del 24 aprile, addirittura «una specie di processo sotto l’imputazione di non avere, nel recente Convegno fiorentino, levata la voce contro chi ne proponeva l’abolizione e di avere diffamato la facoltà di Roma». Così Volpe si esprimeva nella lettera inviata al preside, Alberto De Stefani210, dove ribadiva «il diritto di ogni profes208 Funzione e struttura delle Facoltà di Scienze politiche. Atti del convegno interuniversitario, 16-17 aprile 1942-IX, Prefazione di A. Serpieri, Firenze, R. Università degli Studi di Firenze, 1943, pp. 37-38: «Crebbe anche il numero delle discipline, spesso discipline insussistenti, e relativi professori anch’essi di varia provenienza, se pur, generalmente, ricchi d’intelligenza e di cultura; e anche questo aumento numerico egli [Volpe] personalmente non lo crede un bene; perché quanto più sono le discipline ed i professori tanto minori saranno la adesione dei giovani alla vita della scuola, i legami fra i giovani e i maestri, la disciplina unitaria che dall’alto può darsi alla Facoltà. Insomma piuttosto decadenza che progresso: la quale investiva tanto le branche di studi più propriamente tecnici quanto e forse più quelle che rappresentavano l’avviamento alla coltura politica, e quindi la ragion d’essere delle nuove Facoltà». 209 Ivi, p. 39: «L’Eccellenza Volpe ci ha detto cose illuminanti circa il concetto in base al quale fu costituita la Facoltà di Scienze politiche di Roma. Si pensava di fare una Facoltà per quegli abbienti i quali, per natura di cose, erano predestinati alla politica: benestanti, latifondisti o comunque possidenti terrieri, figli di ricchi industriali, figli di ministri o di altri personaggi che avevano già una posizione nella vita pubblica; insomma era destinata ad una casta che, sebbene non fosse rigidamente definita, tuttavia esisteva. Io sono abbastanza vecchio per ricordare l’esistenza di quella casta, che fu la casta dirigente italiana fino all’altra guerra ed alla Rivoluzione Fascista. In realtà il potere di quella casta si è spezzato, ne siamo completamente fuori; e questa è una delle profonde ragioni della non vitalità delle Facoltà di Scienze politiche come sono costruite tuttora». 210 Gioacchino Volpe ad Alberto De Stefani, Preside della Facoltà di Scienze Politiche di Roma, s. d., ma fine aprile 1942. Sullo svolgimento di quel Consiglio di Facoltà, oggetto della lettera, si veda, E. GENTILE, La Facoltà di Scienze politiche nel periodo fascista, cit., pp. 78-79.
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sore di pensare e dire su questioni tecniche della Università e in sede tecnica quello che egli crede». Quel conflitto con i colleghi di Facoltà, dove si scaricavano antichi rancori verso la sua persona, doveva lasciare il segno su Volpe e affrettare la risoluzione di allontanarsi dalla sede dove aveva a lungo operato, e di domandare il passaggio nell’insegnamento di Storia medievale della Facoltà di Lettere della Sapienza, rimasto disponibile dopo la morte di Pietro Fedele. Era una decisione, dettata sicuramente da forti motivi d’incompatibilità ambientale, a cui non era però estranea l’idea di far subentrare nella cattedra, che Volpe aveva deciso di abbandonare, Chabod, coerentemente al programma precedentemente esposto a Bottai. Una decisione, infine, che, almeno sulla carta, appariva priva di ostacoli, considerato, in primo luogo, la sua qualità di indiscusso maestro degli studi medievistici, ma anche il fatto che, nella nuova destinazione, Volpe poteva contare sulla presenza di amici e colleghi pronti a favorire il suo arrivo e in particolare su quella di Giovanni Gentile, che una leggenda, sicuramente ingigantita ad hoc, raffigurava come l’assoluto dominus della vita universitaria nazionale («una potenza accademica, un distributore o inibitore di cattedre», secondo la definizione di Croce)211, e in particolare della Facoltà di Lettere di Roma, «nelle cui sedute di consiglio, dove prendeva posto alla sinistra del preside, la sua parola sonava oracolare, le sue proposte erano sempre accolte all’unanimità»212. La realtà, come è stato dimostrato, era invece molto diversa da questa leggenda accademica213, dato che proprio dentro le mura della Sapienza, Gentile doveva far fronte alla resistenza di un agguerrito fronte di oppositori (fascisti intransigenti, clericali, indipendenti di diverso orientamento, alcuni provenienti da una remota e assai tiepida opposizione al regime), che gli avevano impedito di portare a termine la «chiamata» di Luigi Russo a Lettere, nel 1937, a cui era stato preferito Natalino Sapegno214, e che avevano ostacolato, nel 211 Benedetto Croce a Guido Calogero, 6 maggio 1935, in Carteggio Croce-Calogero, a cura di C. Farnetti, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 49. 212 G. LEVI DELLA VIDA, Il collega Gentile, in ID., Fantasmi ritrovati, Venezia, Neri Pozza Editore, 1966, pp. 211 ss., in particolare pp. 217-218. 213 Sul punto, C. CESA, I nemici di Giovanni Gentile, 1929-1941 in I Mercoledì delle Accademie Napoletane nell’Anno accademico 2002-2003, a cura di M. Coppola, A. Garzya, F. Tessitore, Napoli, Giannini Editore, 2004, pp. 141 ss. Si veda anche, F. MERCADANTE, Del Vecchio contro Gentile, dopo Sant’Ivo (marzo 1926), appendice a I filosofi del diritto, in Passato e presente delle Facoltà di Scienze politiche, cit., pp. 184 ss. Sul relativo isolamento di Gentile, all’interno delle istituzioni culturali del regime, V.G. LONGO, L’Istituto Nazionale Fascista di Cultura. Da Giovanni Gentile a Camillo Pellizzi (1925-1943). Gli intellettuali tra partito e regime. Presentazione di F. Perfetti, Roma, Pellicani, 2000. 214 L. RUSSO, Una lettera per la morte di Giuseppe Bottai, in «Belfagor», 1959, 3, p. 360:
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1942, quella di Cantimori, a Magistero215. Anche il caso Volpe si sarebbe dimostrato difficile, persino al di là delle più infauste aspettative, a testimonianza del fatto, come avrebbe poi compreso anche il capo del fascismo, che a partire da El Alamein, si era inabissato verticalmente il consenso di cui godeva il regime, in tutti i settori della vita non escluso quello accademico e intellettuale216. Il trasferimento di Volpe trovava ostacolo nella candidatura del più giovane Raffaello Morghen: un seguace di Ernesto Buonaiuti, divenuto discepolo di Pietro Fedele, che aveva ormai realizzato, quindi, una progressiva marcia di avvicinamento dall’eresia all’ortodossia vaticana217, e che, per di più, aveva ingaggiato una tesa polemica scientifica proprio con Volpe218, il quale, da parte sua, nel 1929, aveva avanzato qualche forte perplessità, in seno alla commissione giudicatrice chiamata a varare l’idoneità del suo oppositore a ricoprire il posto di professore ordinario bandito dal R. Istituto Superiore di Magistero, annesso all’Università di Firenze. Nel suo giudizio di allora Volpe, pur associandosi a quello positivo degli altri membri giudicanti, nel «riconoscere i meriti del Morghen per la sicurezza del metodo, la precisione e la bontà dei suoi lavori», sottolineava che la produzione del candidato restava «pur sempre scarsa per uno studioso che non è stato distratto dalle fatiche
« Nel ’37 io ero stato chiamato quasi all’unanimità alla cattedra di Vittorio Rossi, per la quale poi, invece, fu prescelto Sapegno, uomo assai più mite che io non fossi. Io ero sostenuto dal Gentile, dal Giuliano e da altri, ma alcuni fanatici andarono da Mussolini per agitare al solito il mio antifascismo e il mio antivaticanismo». Si veda, sul punto la lettera di Guido Calogero a Gentile, 9 marzo 1937, AFG: «Ieri mi telefonò Russo da Firenze allarmato dalle notizie che aveva di qui; e io credetti di poterlo tranquillizzare poiché ero rimasto a quel che me ne aveva detto il ministro in un colloquio di quindici giorni fa. E allora nulla era compromesso, quantunque il ministro avesse incontrato già ostacoli gravi. E si era rimasti d’intesa che convenisse attendere nella speranza che gli ostacoli cadessero. Ma era appena terminata la mia telefonata con Russo, quando venne il Bosco ad informarmi che l’Università aveva già ricevuta comunicazione dell’avvenuta nomina del Sapegno. I commenti sono superflui». 215 Delio Cantimori a Giovanni Gentile, Pisa, 7 dicembre 1942, ivi, dove si sosteneva che nella Facoltà era stata sollevata contro di lui «l’opposizione di un mio filoprotestantesimo con conseguente anticlericalismo». 216 B. MUSSOLINI, Storia di un anno, cit., pp. 8-9. 217 Pio Paschini a Giuseppe Vale, 17 gennaio 1943: «Ieri sono andato alla commemorazione di Fedele, fatta da un suo discepolo [Raffaello Morghen], non il più simpatico a dire il vero, e nemmeno il più cattolico (come era lui); diede però risalto alla cattolicità di lui. C’erano tutti i pezzi grossi della cultura a cominciare dal ministro Biggini». La lettera è riportata in P. SIMONCELLI, Gentile e il Vaticano, cit., p. 23. 218 Si veda, R. MORGHEN, La crisi degli studi medioevali e l’opera dello Stato, in «Accademie e Biblioteche d’Italia», I, 1927, 2, pp. 15 ss., dove si deplorava la tendenza, stimolata da Volpe, che «spinge specialmente i giovani ad abbandonare la storia del Medioevo per dedicarsi di preferenza alla storia moderna o del Risorgimento».
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dell’insegnamento, e si è trovato nelle migliori condizioni per imparare e lavorare». Era un parere poco positivo, che Volpe specificava nel dettaglio, affermando che gli indirizzi del candidato «non appaiono contraddistinti da idee nuove, e inoltre sono anche un po’ limitati, aggirandosi, molti di essi, attorno a un monastero, sia pure importante», e aggiungendo, inoltre, come stoccata finale, che «se si tolgono le esercitazioni di cui fu incaricato dal prof. Fedele, lo si deve considerare come estraneo all’insegnamento»219. Ma ora, a distanza di più di un decennio, Morghen, rafforzata la sua posizione accademica, era addirittura riuscito a strappare, in articulo mortis, a Fedele, il diritto presuntivo di succedergli nella cattedra romana e in base a quella investitura aveva ottenuto che la Facoltà ponesse all’ordine del giorno il suo trasferimento alla Sapienza. La manovra, secondo la testimonianza di Morghen, era stata bloccata d’imperio da Gentile che «scrisse al Preside Cardinali per far rinviare la discussione, sulla domanda del sottoscritto, già posta all’ordine del giorno della seduta di Facoltà del marzo 1943, con lo specioso pretesto che egli non avrebbe potuto essere presente»220. Era un resoconto inesatto e tendenzioso, dato, che, in quel mese, la Facoltà di Lettere si era limitata a esprimersi favorevolmente, ma solo informalmente, riguardo alla sua candidatura, intorno alla quale si era comunque aggregato un numeroso gruppo di docenti, costituito dai tradizionali nemici di Gentile, tra i quali aveva militato anche Pietro Fedele221. Gruppo ora, capeggiato da Antonino Pagliaro, con cui il filosofo era entrato in violentissimo e insanabile contrasto nell’Enciclopedia Italiana e nella Facoltà, per motivi personali222, gabellati, dopo il 25 luglio, dallo stesso Pagliaro per ragio219 Nelle sedute successive, Volpe manteneva la sua opposizione nei confronti della designazione di Morghen, che in ogni caso risultava, nella votazione definitiva, terzo idoneo nella terna costituita da Ottokar e Barbadoro. Sul punto, ACS, Ministero Pubblica Istruzione. Direzione Generale Istruzione superiore. Divisione I, Concorsi a cattedra nelle università (1924-1954), b. 29, f. 231. 220 Memoriale di Raffaello Morghen a Sua Eccellenza il Ministro dell’Istruzione Pubblica, 19 dicembre 1944, in MPI-DGIU, fascicolo R. Morghen. Nell’esposto si parlava anche delle «notorie pressioni esercitate da Gentile, specialmente sui membri della Facoltà, accademici d’Italia, in nome di una solidarietà accademica, che anche in quell’occasione mostrava il suo carattere corruttore». 221 G. LEVI DELLA VIDA, Il collega Gentile, cit., p. 231, dove si accennava allo «storico Pietro Fedele, nostro collega di Facoltà, che Gentile non poteva soffrire sia, credo, perché stava smantellandogli pian piano la sua riforma e sia perché lo considerava una di quelle nature smidollate, facili all’adattamento e al compromesso, prive di quella rigidità della colonna vertebrale che tanto apprezzava». 222 E. SESTAN, Memorie, cit., pp. 201-202 e 203-204; F. GABRIELI, Uomini del mio tempo, Roma, Palombi Editore, 1987, pp. 89 ss. I dissensi, all’interno della Facoltà romana, sono testimoniati dalla lettera di Pagliaro a Gentile del 16 giugno 1931, dove Pagliaro si scu-
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ni di dissidenza politica223. Gruppo poi che si sarebbe ulteriormente ingrossato con l’afflusso di studiosi molto legati, fino a quel momento, a Gentile e a Volpe, tra i quali Alberto Maria Ghisalberti. Delle manovre per bloccare la sua venuta a Lettere, lo storico aveva avuto immediato sentore, come risulta dalla durissima corrispondenza inviata proprio a Ghisalberti, il 23 maggio. Nella lettera si dimostrava di aver compreso che l’ostilità nei suoi confronti era soprattutto ostilità verso Gentile e in subordine avversione anche per il passaggio di Chabod nella sede romana, allora avversato, addirittura con l’arma della delazione poliziesca, dove si configurava l’accusa di attività antifascista, dal Preside di Scienze politiche, De Stefani224, favorevole invece all’arrivo di Raffaele Ciasca. Mi giunge all’orecchio un ronzio di battaglia nella vostra Facoltà: Volpe o Morghen, Morghen o Volpe. Consapevole di molte mie manchevolezze, sono lieto che l’Italia abbia finalmente un grande medievalista e dolente che io mi gli debba mettere fra i piedi. Volevo dirti questo. Tu e i tuoi amici voterete come vi pare e piace. Mi siete testimoni se io ho detto mezza parola a chicchessia o per influire comunque il vostro voto. È una discrezione che gli uomini della vecchia guardia come me considerano doverosa, anche se quelli della giovane guardia si dimenano per corridoi e anticamere e vantano tutti diritti di eredità. Dunque, liberi, liberissimi voi. Ma non liberi di divulgare racconti, assolutamente immaginari, di retroscena: cioè amici da favorire, accaparramenti di cattedre, vasto movimento di professori architettato in seguito al mio passaggio da Facoltà a Facoltà. Se questo si racconta, come si racconta, caro Ghisalberti, dì
sava di aver «peccato di eccesso di difesa» durante una discussione insorta nel Consiglio dei docenti. La corrispondenza è conservata in AFG. 223 A. PAGLIARO, Alla Commissione per l’epurazione del personale universitario, Roma 15 settembre 1944: «Fui condotto, fra il 1933 e il 1940, a contrastare in tutti i modi l’influenza dell’idealismo assoluto, inadeguato, secondo me, per la sua negatività sul piano morale, a promuovere la creazione di una coscienza politica moderna. A ciò si aggiungeva che l’ostilità personale, tenace e notoriamente pericolosa, di Giovanni Gentile contro di me, veniva a dare un riflesso umano, seppur non lodevole, alla mia azione. Così, al tempo stesso che affermavo queste mie idee, miravo a togliere le coscienze dei giovani ai facili miraggi dell’idealismo attuale, ritenuto la filosofia ufficiale del regime». Si veda anche ID., Alla Commissione centrale per l’epurazione del personale dello Stato, 25 marzo 1945: «La mia attività di insegnante e di scrittore di cose politiche – assolutamente secondaria e accessoria nei confronti della mia opera di professore di Glottologia e di Filologia iranica nella R. Università di Roma – fu mossa dal bisogno di diffondere idee mie, a fine educativo e perciò largamente critico, e dal desiderio di sottrarre le coscienze dei giovani all’azione eticamente negativa dell’idealismo assoluto. È mancato in tale attività ogni fine utilitario, né essa ha raggiunto alcun vantaggio materiale o morale. Al contrario, ha provocato l’inimicizia tenace e piuttosto pericolosa, per un isolato com’io ero, di Giovanni Gentile». Entrambi i documenti sono conservati in ACS. Ministero Pubblica istruzione. Divisione prima, Direzione Istruzione Superiore. Professori Universitari epurati (1944-1946), busta 25, fascicolo «Pagliaro Antonino». 224 Sul punto, il mio Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 193 ss.
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pure che son fole inventate da chi aveva interesse d’inventarle o sente bisogno di giustificare così (e perché, poi? non c’è bisogno di nessuna giustificazione) la opposizione a me. Certo, se io lascio Scienze Politiche, fa piacere a me che il mio posto sia preso da un uomo che è un vero uomo, come Chabod: ma io non la lascio per far posto a Chabod e Chabod ad altri ed altri ad altri, ecc. Quel che io fo, tu lo sai, io lo fo sempre in prima persona. Fola, egualmente, che dietro di me ci sia Gentile e io sia quasi marionetta che Gentile fa muovere. Chi mi conosce sa quanto, in 60 anni di vita, io sia stato marionetta. Sì, da principio non pensavo alla possibilità di un passaggio. Una volta apertasi questa prospettiva, dissi che se la Facoltà mi chiamava, accettavo. Ecco la semplice e naturale istoria225.
Ma la situazione doveva essersi ulteriormente deteriorata, di lì a poco, se Volpe, posto di fronte a nuove difficoltà manifestate da Ghisalberti, inaspriva i toni della sua replica, scrivendo: Grazie delle belle parole, che son come gli orli del vaso. Dentro poi… Dici che io sono troppo in alto ecc. Già, appunto perché sono “in alto” si potrà impunemente tirarmi un calcio. Tanto, si dice, il calcio non arriva a lui, non lo colpisce, non lo ferisce. Ho piacere che tu concordi con me sul giudizio di Chabod. È, come io ti avevo detto, un uomo: un uomo, non un omuncolo. Peccato che gli omuncoli abbondino in questa valle di lagrime226.
Né minore irritazione dimostrava la lettera a Gentile del 3 giugno, inviata alla vigilia della sua partenza per Zagabria: Ti ho cercato invano. E siccome stasera parto, così ti lascio questo biglietto raccomandandoti, se pure è necessario, la mia faccenda. Al punto in cui son arrivate le cose, mi dorrebbe, a sessantasei anni, decano dell’Accademia d’Italia, con una certa reputazione tra gli storici e gli Italiani, essere bocciato: e poi da un omuncolo senza spina dorsale, che razzola impieghi e stipendi e ha una cattedra… per non fare scuola. Se, in Facoltà, qualcuno dovesse dire che ormai il prof. Volpe è un limone spremuto ecc., puoi rispondere che nel ’39 ho pubblicato una storia del Fascismo che è il miglior libro del genere, tradottissimo. Quattro quinti di quelli che fuori d’Italia sanno di fascismo conoscono questa mia storia. Nel 1940, ho pubblicato il 1° volume di una storia civile, interna del popolo italiano durante la guerra (Il popolo italiano fra la pace e la guerra). È già in composizione il 2° volume (Il pop. ital nella Grande Guerra, 1914-1918). Fra 15 dì uscirà il 1° volume di Italia Moderna, 1815-1915, a cui seguirà un secondo, pure di 500 pag. Il mio… competitore, fuori di un po’ di Medioevo, non ha che una cultura manualistica. Ieri, ricevuto dal Ministro, il discorso cadde su questo argomento. Egli si meravigliò, si sdegnò ecc. Non ebbe dubbio su l’esi-
225 Gioacchino Volpe ad Alberto Maria Ghisalberti, Santarcangelo di Romagna, 23 maggio 1943, FV. 226 Gioacchino Volpe ad Alberto Maria Ghisalberti, Roma, 4 giugno 1943, ivi.
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to della votazione. Disse che, in caso avverso, sarebbe intervenuto lui… Al che io obiettai che non vedevo come, dopo un voto di Facoltà, anche un Ministro potesse intervenire; né io poi accetterei un atto d’imperio del Ministro, dopo che ci fosse stata una maggioranza avversa in Facoltà. Ma di questa manifestazione del Ministro ti prego di non far uso pubblico. Rimanga inter nos227.
In questo clima infuocato si svolgeva il Consiglio della Facoltà del 7 giugno, dove Francesco Ercole sosteneva la necessità che l’adunanza dei docenti non respingesse «il desiderio manifestato da Volpe», almeno di non voler dare un «assurdo giudizio negativo sulle sue qualità di scienziato e di maestro»228. Morghen, però, non accettava l’esplicito consiglio di abbandonare la tenzone. Riaffermava, piuttosto, «che l’obbligo di mettere innanzi la propria candidatura gli è imposto, come un inderogabile dovere, della designazione esplicita del Fedele, che fu il suo maestro» ed esibiva, a riprova di ciò, una lettera scrittagli appunto da Fedele dove testualmente si affermava «non vi può esser dubbio che tu debba esser il mio successore». A favore di Morghen, prendeva la parola Ghisalberti, il quale sosteneva l’obbligo morale di onorare le ultime volontà del collega scomparso e ricordava «come il Volpe stesso, in un colloquio ch’ebbero insieme il giorno dei funerali del povero Fedele, ebbe a dichiarare al Ghisalberti che non aveva nessuna intenzione di presentare la sua candidatura», per aggiungere, infine, un alto riconoscimento dei meriti di Morghen che veniva definito «giovane di grande merito», provvisto di un’«attività copiosa e intelligente», in grado quindi di succedere a Fedele in quell’insegnamento con profitto della scolaresca e della comunità scientifica. La successiva discussione spaccava esattamente la Facoltà in due fronti contrapposti, tra favorevoli a Volpe e favorevoli a Morghen. L’accaduto convinceva il Preside, Giuseppe Cardinali, a non mettere ai voti questo punto dell’ordine del giorno e ad aggiornare la decisione, per potere predisporre una ragionevolissima soluzione conciliatoria secondo la quale, effettuata la chiamata del vecchio maestro, «il Morghen, assai più giovane del Volpe, avrebbe ben potuto essere soddisfatto di succedergli fra tre anni allorché questi sarebbe stato collocato a riposo»229. Tutto era comunque rimandato ad altra data, come Sestan, per conto di Francesco Ercole, comunicava a Volpe, informandolo che Ercole riteneva l’esito della battaglia fortemen-
227 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Roma, 3 giugno 1943, AFG. 228 Sul punto e per quel che segue, R. Università degli Studi di Roma. Facoltà di Lette-
re e Filosofia. Adunanza del 7 giugno 1943, AUR, Verbali 1937-1943. 229 Appunto sulla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma indirizzato al Ministro della Pubblica Istruzione, Vincenzo Arangio-Ruiz – Cattedra di Storia Medioevale, Roma 11 gennaio 1945, in MPI-DGIU, Fascicolo R. Morghen.
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te compromesso, visto anche il comportamento tentennante di Cardinali, che sembrava essersi sbarazzato del suo tradizionale atteggiamento di sottomissione nei confronti di Gentile230. L’ultima parola non era stata pronunciata, però, ed Ercole invitava Volpe a non mostrare alcun segno di cedimento e di resipiscenza. Le scrivo per incarico di Sua Eccellenza Ercole, impegnatissimo negli esami, in questi giorni, se no, le avrebbe scritto lui. La ragione la sa, perché avrà ricevuto il telegramma: si tratta di quell’assurda battaglia impegnata da sei mesi nella Facoltà di Lettere. La Facoltà si riunì ieri: il senatore Gentile era assente, perché febbricitante, per influenza, pare. Aprì la battaglia verbale l’Eccellenza Ercole, richiamando la Facoltà a un maggior senso di responsabilità e a ponderare bene se servirsi o no della libertà concessale dal Ministro, rifiutando di accogliere Volpe tra i suoi titolari e contrapponendogli chi non ha, negli studi storici, una fisionomia nemmeno alla lontana paragonabile a quella di Volpe. Si fecero fuori paladini per l’altra parte un Oliverio e un Cecchelli, Carneades ambo. Ma parlarono un po’ tutti: e l’assurdo fu che, nel gruppo avversario, tranne due o tre, tutti prestarono la più grande stima e ammirazione per Volpe, come studioso, come maestro, come uomo; ma avrebbero votato contro in odio a Gentile, perché credevano di scorgere la mano del grande assente in questa candidatura. Parlò anche Ghisalberti, con molta sobrietà e con molto pathos, dichiarandosi idealmente, scolaro di Volpe; ma non poteva votare per lui; si era già impegnato per Morghen e non credeva di poter venir meno all’impegno. Eppure altri dissero, prima e dopo di lui, che anch’essi si erano impegnati per Morghen; ma che dopo la candidatura Volpe avevano creduto di dover rivedere le loro posizioni. L’Eccellenza Ercole ha avuto l’impressione che, con un po’ di energia da parte di Cardinali, le cose si sarebbero potute concludere favorevolmente ieri: la stessa assenza di Gentile infervorava meno gli oppositori. Ma il preside Cardinali è stato tentennante: dice in privato che stava per Volpe, ma non l’ha detto pubblicamente nella riunione, e molti pensano, e sono autorizzati a pensare che voterà alla pari con gli altri. Non ha tirato i fili, non ha portato altre ragioni: e così la questione è rimandata a giorni, senza alcunché di stabilito. Il gruppo Volpe conta con certezza su 15-16 voti; l’altro si equivale (e quali sorprese di alcuni! Guidi, Trompeo, forse Perrotta: persone di intelligenza, di gusto, di dottrina; ma già il carattere è un’altra cosa). Rimangono poi ancora 5 o 4 incerti. Insomma, situazione ancora molto incerta, ogni prognostico dubbio. Pensa l’Eccellenza Ercoli che l’opposizione possa sperare di farle paura e di ridurla ad astenersi dall’agire. Ma al punto in cui sono le cose, cedere sarebbe il peggior consiglio: se proprio dovesse andare male (ciò che non è affatto detto), allora ricadrebbe sugli oppositori l’assurdo e l’odiosità di aver 230 G. LEVI DELLA VIDA, Il collega Gentile, cit., p. 231, dove così si parlava «del Preside della Facoltà, lo storico antico Giuseppe Cardinali, del quale era costume, ogni volta che prendesse la parola Gentile, voltarsi a sinistra con un leggero chinar della testa e un abbozzo di sorriso quasi a chiedere l’autorizzazione del “senatore” (questi ebbe a dirgli una volta seccato: “ma mi chiami professore!”)».
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preferito un Morghen a un Volpe. Mi dispiace, Eccellenza, di essermi messo in mezzo a questa faccenda; non mi sarei permesso di parlargliene o scrivergliene, se non mi avesse pregato Sua Eccellenza Ercole; tanto più che immagino quanto debbano nausearle tutte queste vicende di omiciattoli231.
Il 12 giugno, il confronto continuava in una nuova assemblea di Facoltà, dove interveniva immediatamente Gentile (che invece si era politicamente astenuto dal partecipare al precedente Consiglio), con parole insieme appassionate e accorate che così ci sono riportate nel verbale della seduta. Il Prof. Gentile chiede scusa ai colleghi di dover portare la questione su un terreno personale. Sono corse voci secondo cui egli avrebbe promosso di sua iniziativa la candidatura del Volpe, allo scopo di far posto ad altra persona nella cattedra che si sarebbe così resa vacante, alla Facoltà di Scienze politiche. Il Volpe invece ebbe modo di esprimere spontaneamente e senza essere invitato da nessuno il suo desiderio, giustificato dalla speranza di trovare nella Facoltà di Lettere una scolaresca più viva e più ricca di interessi scientifici a paragone di quella della Facoltà di Scienze Politiche. È falso comunque che egli, Gentile, dia il suo appoggio alla candidatura del Volpe per favorire qualcuno o danneggiare qualcun altro. Comprende l’imbarazzo in cui è stata messa la Facoltà, ma egli non ne ha colpa. Il nome di Volpe è, ad ogni modo, superiore a siffatte beghe personali: egli è colui che ha più profondamente dissodato, in Italia, il campo della storia medievale. Anche il Morghen è studioso di molto merito; ma non è giusto dire che egli continui veramente l’indirizzo di Fedele. È doveroso non negare al Volpe, proprio ora che egli è sul punto di concludere la sua attività di maestro, questa piccola soddisfazione alla quale aspira, né il Morghen ne riceverebbe altro danno all’infuori di quello di dover attendere qualche anno ancora. I colleghi giovani non si mostrino spietati verso gli anziani. Se Fedele potesse essere presente a questa seduta, egli stesso inviterebbe la Facoltà a pronunciarsi in favore di Volpe. Il Prof. Gentile propone che la votazione si faccia pubblicamente, per appello nominale, così che ognuno assuma apertamente la responsabilità del proprio voto232.
Pronta e acerba era la replica di Pagliaro, che chiamava direttamente in causa il presunto «camorrismo» accademico di Gentile e del suo gruppo di riferimento, che persino Giovanni Papini avrebbero ricordato anche dopo l’assassinio del filosofo233, come sfondo dell’intera vicen231 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, 8 giugno 1943, CV. 232 Sul punto e per quel che segue, R. Università degli Studi di Roma. Facoltà di Lette-
re e Filosofia. Adunanza del 12 giugno 1943, AUR. 233 G. PAPINI, Scritti postumi. II. Pagine di diario e appunti, cit., p. 189, alla data del 16 aprile 1944, dove il giudizio era comunque sfumato dal riconoscimento della generosità di fondo dimostrata, in molte occasioni, da Gentile.
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da. Sempre secondo il verbale di Facoltà, Pagliaro esprimeva infatti un interessato rincrescimento per il fatto che: il sen. Gentile abbia voluto portare la questione su un terreno personale e abbia sentito la necessità di giustificarsi da voci e pettegolezzi, cui non è il caso di attribuire importanza. Poiché è stata invocata la solidarietà dei giovani rispetto agli anziani, si potrebbe con altrettanta ragione impostare la questione di una maggiore solidarietà degli anziani verso i giovani. D’altra parte il problema può assumere in un altro senso, e ben più importante, un significato personale. Noi abbiamo conosciuto Fedele, i suoi intendimenti, il suo metodo, le sue aspirazioni: ora egli ha espresso, quasi in punto di morte, un desiderio chiaro ed esplicito, che deve essere rispettato: esiste un dato certo; non è quindi il caso di ricorrere ad ipotesi. Esiste senza dubbio una differenza di personalità fra Fedele e Morghen, ma per ciò che riguarda l’interesse e il culto del documento, la disciplina filologica, la passione intesa a promuovere l’attività degli studenti, Morghen dà affidamento di continuare perfettamente l’indirizzo del suo maestro. Nessuno ha intenzione di chiudere la porta in faccia a Gioacchino Volpe: un maestro come Volpe non batte a nessuna porta. Ma noi siamo di fronte a un altro maestro e al suo espresso desiderio. Non si tratta tanto qui di scegliere fra Volpe e Morghen, quanto piuttosto fra le aspirazioni di Volpe e la designazione fatta esplicitamente da Fedele. Votando per Morghen, non si vien meno pertanto al rispetto che tutti sentiamo di dover ai nostri maestri; anzi s’intende restar fedeli e devoti alla volontà e all’insegnamento di un maestro, di cui veneriamo la memoria. Quanto alla proposta di abbandonare la procedura, sempre adottata fin qui, della votazione segreta, Pagliaro è d’opinione che essa, fatta in questo momento, abbia un carattere lievemente offensivo per la Facoltà: è certo che ogni collega, qualunque sia la procedura che si voglia adottare, voterà con piena coscienza. Ad ogni modo, per una ragione di principio, sarebbe inopportuno modificare, soltanto in questa occasione, il sistema seguito fino ad oggi.
Ai due interventi seguiva un’articolata discussione, che vedeva la Facoltà respingere unanimemente «la nuova procedura di voto proposta da Gentile», in quanto irrituale e tale da creare un precedente che poi avrebbe dovuto essere ripetuto anche per il futuro. Anche Cardinali si dichiarava contrario «alla proposta di adottare una procedura pubblica, la quale, iniziata oggi, avrebbe indubbiamente in sé qualcosa di spiacevole» e invitava, piuttosto, i colleghi «a riflettere sulla delicatezza della situazione e li esortava a trovare una via d’uscita, che possa soddisfare la dignità di tutti», aggiungendo che questa poteva essere individuata nella «proposta avanzata nella seduta precedente da Carabellese, da Guidi, da Giuliano di votare all’unanimità entrambi i nomi». L’offerta veniva recepita da Gaspare Oliverio ma alla sola condizione che «si chiami il Morghen a succedere al Fedele nella cattedra di storia medioevale e che contemporaneamente si istituisca un’altra cattedra di
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alti studi storici, o come altrimenti la si voglia designare, per Volpe». La soluzione di collocare il vecchio maestro su di un insegnamento sussidiario, nei confronti di quello che Morghen avrebbe esercitato, veniva seccamente respinta da Ercole che la definiva «inaccettabile», non essendo altra cosa che un semplice «espediente per non affrontare in modo aperto il problema morale che ora s’impone alla Facoltà». Ma quella soluzione veniva invece rilanciata dalla Presidenza, a patto che «la Facoltà esprimesse il voto di istituire due cattedre di Storia medioevale, delle quali una sarebbe quella fattasi vacante per la morte del sen. Fedele, e l’altra risulterebbe dalla prossima vacanza della cattedra di Storia e Geografia dell’Asia orientale, in seguito al collocamento a riposo del Prof. Vacca». L’offerta sollevava una levata di scudi generale da parte di tutti gli orientalisti della Facoltà (Guidi, Tucci, Vacca, Gentile, nella sua qualità di presidente dell’Ismeo), ma incontrava anche il netto rifiuto di Ercole e Pettazzoni, che parlavano ancora una volta di «espediente per girare la difficoltà di una dichiarazione netta», e infine da Gentile che aveva buon gioco a dichiarare che «mancando l’unanimità delle adesioni, non si può in tal caso accettare la proposta avanzata dal Preside». A questo punto, Cardinali dichiarava che «la discussione essendo ormai matura ed essendo stata respinta ogni possibilità di soluzione conciliativa, non rimane che procedere alla votazione». Il verdetto dell’urna respingeva, a maggioranza, la richiesta di Gentile di votare a scrutinio pubblico e, per quello che riguardava la successione della cattedra di Fedele, forniva un risultato che, anche se di risicatissima misura, privilegiava Morghen, con 18 voti, contro i 17 attribuiti a Volpe. A questi si aggiungeva anche un voto per Chabod. Con il che, al danno subito da Volpe e Gentile, si aggiungeva anche la beffa, dato che quel voto, uscito sicuramente dal partito favorevole a Morghen, denunciava platealmente le manovre per assicurare a Chabod il trasferimento nella Sapienza. Si trattava, senz’altro, di un risultato clamoroso che dimostrava a quanta piccola cosa si fosse ridotta l’egemonia dei due più grandi intellettuali del regime nella vita universitaria del nostro paese. Tanto clamoroso da spingere Cardinali a non sancirlo formalmente e ad adottare la pilatesca formula del lavacro delle mani, in virtù della quale la Facoltà si limitava a proporre «per la successione alla cattedra ora vacante di Storia medievale i seguenti nomi (in ordine alfabetico) – Morghen Raffaello, Volpe Gioacchino – e a trasmettere la sua proposta al Magnifico Rettore». Ma il tortuoso iter della successione a Fedele non si arrestava qui. Assenti dalla seduta del 12 giugno, tre docenti, Biagio Pace, Alfredo Schiaffini, e Giuliano, chiedevano, nella nuova adunanza del 22, in sede di approvazione del verbale, di poter esprimere la propria preferenza, pubblicamente. La richiesta, smaccatamente extra legem, veni-
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va pure accolta. Giuliano e Schiaffini si schieravano a favore di Volpe, mentre Pace, Presidente del Centro Anticomintern, di cui era attivissimo membro Pagliaro, orientava la sua scelta sul più giovane candidato. In questo modo, la votazione precedente si modificava fino a raggiungere un risultato di parità assoluta, avendo ottenuto ambedue i competitori 19 preferenze ciascuno234. Se quell’equilibrio era per Morghen quasi una vittoria, essendo per di più le preferenze aggiuntesi difficilmente computabili da un punto di vista legale235, per Volpe rappresentava una sonora sconfitta. Alla fine e nonostante tutto, era dunque soltanto Pagliaro a guadagnare la partita. Sotto il pretesto di attuare una difesa dei giovani docenti contro lo strapotere degli anziani, l’insigne glottologo, strettamente coadiuvato da Ghilsaberti, era riuscito a far passare come manifestazione di un conflitto generazionale quello che in realtà era l’espressione di un cambiamento di fronte politico di molti membri della Facoltà, che opponendosi a Volpe e a Gentile, pensavano, non errando, di assicurarsi, a buon mercato, titoli di antifascismo in vista della prossima futura caduta del regime. Del mutato, e non in meglio mutato, clima morale che regnava ormai nel mondo degli studi, Volpe forniva una sconfortata e indispettita testimonianza, il 23 giugno, nella lettera a Rodolico, in risposta all’invito, formulato da questi, di trasferirsi a Firenze, abbandonando l’ammorbato clima della capitale. Grazie, grazie assai del tuo spirito fraterno. Il piacere che mi avete procurato voi amici fiorentini è cento, mille volte più grande del, non dirò dispiacere, ma fastidio, per la cosa in sé più che per l’offesa fatta a me, datami dai 18 valentuomini della Facoltà di Roma. I quali erano liberissimi di votare come volevano e di preferire chi preferivano. Ma brutti i raggiri, l’intrigo, l’ipocrisia, le motivazioni, i pretesti con cui hanno, molti di essi, accompagnato o giustificato il loro voto e le loro preferenze. Al loro posto io avrei francamente detto: Volpe è vecchio, Morghen è giovane; Volpe quel che poteva fare lo ha fatto, Morghen lo farà ecc. ecc. Invece, discorsi rigirati e contraddittori. Una lettera che prima della seduta mi scrisse Ghisalberti è un vero monumento. Caro, quel “vecchio imbroglione”! Del resto, tu lo conosci….Quanto alla vostra offerta, per ora rispondo a te come a Morandi: ho bisogno prima di vedere come si risolve il mio caso qui a Roma. Ho in Facoltà degli amici che si battono per me e farei troppo dispiacere a loro se li piantassi in asso ora. Poi vedremo: ma ti as-
234 R. Università degli Studi di Roma. Facoltà di Lettere e Filosofia. Adunanza del 22 giugno 1943, AUR. 235 Appunto sulla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma indirizzato al Ministro della Pubblica Istruzione, Vincenzo Arangio-Ruiz – Cattedra di Storia Medioevale, cit., dove correttamente si ipotizzava che «i voti dichiarati nella seduta successiva della Facoltà, estranea alla deliberazione, non siano giuridicamente computabili».
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sicuro che non scarto affatto l’idea di venir a chiudere a Firenze il mio curriculum di professore universitario. Passare ad altra Università, e poi un’Università come Firenze, sarebbe come ricominciare, cioè ringiovanire. Ieri sono stato in Romagna a trovare Elisa ed essa si è dimostrata arcicontenta. Naturalmente, anche essa, come me, vi è infinitamente grata. Ancor più lo sarà, quando avrà letto le lettere tua e di Morandi e di Maturi e di Valsecchi236.
L’extrema ratio dell’abbandono della sede romana, dove Raffaele Ciasca aveva iniziato i sui maneggi per sostituirsi a Volpe nella Facoltà di Scienze Politiche, non era ipotesi priva di consistenza e tornava anche nelle lettera a Walter Maturi del primo luglio237. Eppure, il tempo dello spregiudicato trasformismo, di cui questa vicenda offriva un clamoroso anticipo, non si era ancora del tutto consumato, all’interno della cittadella della Sapienza. A favore dell’amico di sempre, interveniva Gentile che consegnava a Mussolini, solo quattro giorni dopo aver pronunciato il fatale discorso del Campidoglio, un promemoria riassuntivo dell’intera vicenda. Il Prof. Gioacchino Volpe che insegna dalla prima istituzione della Facoltà di Scienze Politiche in questa Università di Roma, dopo la morte di Pietro Fedele ha chiesto di succedergli nell’insegnamento di Storia medievale nella Facoltà di Lettere. Di che i membri più autorevoli di questa Facoltà si rallegrarono per l’alto prestigio che alla Cattedra avrebbe conferito il nome del Volpe, che del Medio Evo è da quaranta anni lo studioso più insigne per originalità, profondità di ricerche, nonché per importanza di idee fondamentali sulla struttura economica e politica della società medievale. Ma una parte della Facoltà cedette alle sollecitazioni di un candidato, Prof. Raffaello Morghen, meno anziano, e scientificamente per giudizio de’ suoi stessi fautori, imparagonabile al Volpe, e solo fornito di un titolo di preferenza, che è in verità giuridicamente e moralmente privo di ogni serio fondamento: la designazione dello stesso compianto Fedele in lettera privata a lui stesso diretta in un momento di abbandono sentimentale e quando il Fedele non sospettava la possibilità che a lui po236 Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico 23 giugno 1943, FV. Inutile aggiungere, che il passaggio di Volpe era propiziato anche dal cognato Arrigo Serpieri, allora Rettore di quell’ateneo. 237 Gioacchino Volpe a Walter Maturi, Roma, 1° luglio 1943: «Grazie dal cuore della tua letterina. Piace molto a noi anziani, vedere che non tutti i giovani sono dall’altro lato della barricata, come parrebbe a sentir la giustificazione che taluni giovani o quasi giovani colleghi di Lettere hanno dato della loro linea di condotta. Ma forse i giovani che così parlano e operano sono quei tali giovani che, non avendo molte carte nel loro gioco, puntano su quella della gioventù. Non so ancora quale sarà la mia sorte: e ciò mi richiama a quando avevo 20 o 25 anni. Può essere anche che dica addio a Roma. Ma dipenderà da circostanze varie. Qui c’è già l’ottimo Ciasca che raccoglierebbe volentieri il mio retaggio». La lettera è pubblicata, priva di ogni riferimento tale da contestualizzarne il significato, in Gioacchino Volpe e Walter Maturi. Lettere 1926-1961, cit., p. 311 in particolare.
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tesse succedere il Volpe, che egli sinceramente stimava come maestro di tutti i viventi storici italiani. La Facoltà, che libera da ogni pressione estrinseca di carattere personale sarebbe stata unanime pel Volpe, si è divisa; e metà dei voti (contando anche quelli che furono manifestati con esplicite dichiarazioni alla lettura del verbale da parte di tre professori assenti nella precedente seduta) fu pel Volpe e metà pel Morghen. Ma tutti furono concordi nel rammarico che la Facoltà potesse chiudere la porta in faccia a un maestro del valore del Volpe; e i votanti pel Morghen pregavano perciò che la Facoltà si risolvesse a chiedere al governo due cattedre perché se ne potesse destinare una al Volpe. Che sarebbe stato troppo evidentemente partito ispirato a interessi personali anziché a quelli che debbono prevalere negli studi e nell’Università238.
Come risulta dalla carte della Segreteria particolare del Duce, la pressione di Gentile non ebbe l’effetto sperato. Nell’udienza del 6 luglio, accordata a Biggini, il ministro si limitava a informare Mussolini della proposta di superare l’impasse con la creazione di due cattedre di Storia medioevale, aggiungendo il suo personale dissenso per quella soluzione, e faceva riferimento a una sopraggiunta «lettera della figlia dell’Eccellenza Fedele in favore del Prof. Morghen»239. In quella stessa data, prendeva posizione sulla vicenda, il Senato accademico, che «esprimeva parere favorevole circa la chiamata di uno dei due docenti proposti dalla Facoltà, dichiarando, peraltro che il Prof. Volpe avrebbe dovuto essere preferito al Prof. Morghen». Analogo avviso manifestava il Rettore Piero De Francisci, che, nel trasmettere quel responso al Ministero, in data 7 luglio, aggiungeva, in calce, il suo «parere personale» secondo il quale «data la personalità del collega Volpe, egli debba indubbiamente essere anteposto all’altro aspirante»240. Neanche questa presa di posizione riusciva, però, a sbrogliare il groviglio, dato che Biggini prendeva tempo e «si riservava di adottare una decisione dopo matura riflessione», meditando, come parrebbe, la strampalata deliberazione di trasferire Volpe nella cattedra di Fedele e di risarcire Morghen inviandolo a coprire l’insegnamento di Storia moderna, a Scienze Politiche241. Si arrivava così alla notte del 25 luglio, che drammaticamente Pintor commentava a Volpe, assente dalla capitale, in un messaggio commosso, nel quale si parlava ancora degli irrisolti proble238 Appunto sulla chiamata di Gioacchino Volpe nella cattedra di Storia moderna della
Facoltà di Lettere e Filosofia della R. Università degli Studi di Roma. Consegnato al Duce dal sen. Gentile, ricevuto in udienza il 28 giugno 1943, in SPD. 239 Ivi. 240 R. Università degli Studi di Roma. Senato Accademico. Adunanza del 6 luglio 1943, AUR. 241 Appunto sulla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma indirizzato al Ministro della Pubblica Istruzione, Vincenzo Arangio-Ruiz – Cattedra di Storia Medioevale, cit.
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mi di residenza universitaria del destinatario della corrispondenza, forse complicati dai recentissimi mutamenti ministeriali. La tua lettera, giunta ieri, è del 25. Forse non ti erano ancora arrivate le notizie di Roma; ma già nel tuo intimo sentivi l’avvicinarsi dell’uragano. Il tempio è crollato, in un momento; e nessuno è sorto a difenderlo. Le sedi dei fasci devastate; gli emblemi scalpellati in tutti gli edifici pubblici; il nome di Mussolini vilipeso. Anche chi era rimasto sull’altra sponda resta attonito e amareggiato, vedendo l’ingratitudine umana e pensando che anche il bene, di questi vent’anni, possa andare travolto. Intanto “la guerra continua”; e i nemici da un momento all’altro possono diventare due. È di oggi l’invito dell’ambasciata a tutte le famiglie tedesche di lasciare l’Italia. In giorni come questi non ho neppure tentato di avvicinare il Ministro. Gli ho scritto, però, informandolo dell’incresciosa vicenda; come di mia iniziativa e a difesa dell’azione di Gentile, che è assente da Roma. Io credo che Severi non possa che nominar te. Ad ogni modo bisognerebbe che la Facoltà di Firenze avesse un po’ di pazienza. A mio giudizio, quella non è la soluzione migliore. Si voleva che tu tornassi alla Facoltà di Lettere. E poi: perché allontanarsi da Roma dove ormai la tua famiglia ha la sua “sede naturale”?242.
Subito dopo il cambio di regime, Gentile decideva di appartarsi ulteriormente dalla scena politica, accettando «con disciplina e fiducia» il nuovo ordine di cose243. Prima di quel congedo dalla «vita attiva», il filosofo scriveva però a Leonardo Severi, nominato Ministro dell’Educazione Nazionale del governo Badoglio, pregandolo di porre mano ad alcuni problemi ancora irrisolti. Nelle lettere del 29 e del 30 luglio, si postulava la riapertura dei termini di alcuni concorsi universitari, vista la situazione di caos che gli eventi bellici avevano determinato, e si chiedeva di affrettare la «nomina del prof. Delio Cantimori, attuale ordinario di Storia della Scuola Normale a Vicedirettore», da attuarsi con procedura d’urgenza «senza aspettare la proposta della Facoltà», motivata dalle «condizioni di salute del prof. Vladimiro Arangio Ruiz, incapace più di reggere alle fatiche della vicedirezione»244. Nella corrispondenza del 31 luglio, si tornava a parlare di questo caso e si aggiungeva anche la raccomandazione di facilitare il passaggio di Volpe ad altra Facoltà, in ottemperanza a quanto stabilito dal Senato Accademico. In merito a quest’ultimo punto si aggiungeva: Saprete certamente la questione sorta per la successione di Pietro Fedele. 242 Fortunato Pintor a Gioacchino Volpe, 30 luglio 1943, FV. 243 B. GENTILE, Giovanni Gentile. Dal Discorso agli Italiani alla morte, cit., p. 19. 244 L. CANFORA, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio,
1985, pp. 54-55.
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La Facoltà purtroppo si è divisa tra i nomi di Gioacchino Volpe e Raffaello Morghen. Ma il Senato Accademico e il Rettore si sono pronunciati pel Volpe. Biggini voleva salvare capra e cavoli trasferendo alla Storia Medioevale nella Facoltà di Lettere il Volpe, e mandando al suo posto il Morghen, che la Facoltà invece non vuole, preferendo, e, credo, a ragione, il prof. Raffaele Ciasca di Genova. Vedete di chiudere presto questa questione. Vi accludo copia di una lettera scritta al Biggini dal De Stefani preside della Facoltà di Scienze politiche245.
Con rara scorrettezza, Severi, sicuramente per sbarazzarsi dell’ingombrante presenza di Gentile, di cui era stato Capo gabinetto nel ministero della Pubblica istruzione, divulgava sulla stampa la sua rovente riposta al filosofo246, che si concludeva affermando che «i giovani, la scienza, la verità sono stati traditi a tal punto da lei che un ministro dell’Educazione Nazionale d’un governo che ripristina le libertà non può più averla fra i suoi consiglieri»247. Si scatenava così un canagliesco attacco giornalistico contro Gentile, coordinato da Bergamini, che il 6 agosto si diffondeva sulle colonne del «Giornale d’Italia», in una durissima requisitoria che riguardava non soltanto il crimine di essere stato autore di comportamenti indegni che «davano apparenza fallace di libertà alla servitù, di dignità nazionale alla faziosità partigiana, di alta pedagogia all’uso brutale del manganello», ma che contemplava anche i suoi maneggi nella vita universitaria248. Il linciaggio doveva piacere a non pochi, come a Gentile rivelava Umberto Bosco, annotando che, a fronte dell’«indignazione della “strada”» per quell’assalto maramaldesco, «molti gongolano e più le sono stati vicini e più gongolano». Il recente terremoto politico aveva dato via a un repentino ribaltamento del fronte intellettuale, amaramente valutabile in termini di coerenza e di moralità, dal momento che «Luigi Russo, facendo la storia della Casa Laterza, trova modo di nominare tutti, anche Salvemini, ma non Gentile; e Gabrieli, tracciando la biografia di Calogero, ricorda i maestri di questo, Rossi e De Lollis, ma Gentile, no». Non era dunque morta, ma anzi viveva di robusta vita e prendeva nuovo vigore, «quella prudente dissimulazione, che mantiene, dopo il 25 luglio, uno dei caratteri più tristi della cultura del tempo fascista e contro la quale sappiamo bene
245 Ivi, p. 55. 246 Questo almeno risultava dalla lettera di Omodeo a Luigi Russo del 15 agosto 1943,
in A. OMODEO, Lettere, cit., p. 707, dove si riportava l’avviso di Severi, secondo il quale la pubblicazione della lettera era stata inevitabile. In caso contrario: «Gentile lo avrebbe fatto passare per un suo fantoccio e gli avrebbe reso impossibile governare». 247 La lettera datata 4 agosto 1943 è riprodotta in B. GENTILE, Giovanni Gentile. Dal Discorso agli Italiani alla morte, cit., p. 21. 248 Ivi, pp. 22-23.
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quanto lei abbia combattuto!»249. Ma all’aggressione contro Gentile facevano eco anche numerose manifestazioni di solidarietà che andavano da Pintor, a Chiavacci, a Vladimiro Arangio Ruiz, a Bottai, che parlava di «sconcia lettera» di Severi, al pure timido ed esitante Cantimori250, allo studioso ebreo Ugo Guido Mondolfo, non dimentico della protezione che il filosofo aveva riservato a lui e a molti altri, dopo il 1938. Questi, il 9 agosto, scriveva di essere stato «sempre anch’io tra coloro cui è vivamente spiaciuto che tu ponessi la tua cultura e la tua dottrina filosofica a sorreggere una prassi di governo che per tanti anni ha avvilito l’Italia». Per aggiungere però che, ora, «mentre alla parola del Severi fanno eco forse anche taluni che fino a ieri stettero quieti sotto la ferula della dittatura, io non posso e non voglio dimenticare che dall’autorità, che dal tuo atteggiamento ti venne, in seno al partito dominante, tu hai cercato di valerti anche per risparmiare o attenuare il danno che esso cercò sempre di infliggere ai non consenzienti»251. Anche Volpe scriveva al compagno degli anni giovanili una lunga lettera dal forte significato politico in cui si irrideva alle facili conversioni al credo democratico, al ritorno dei revenants del liberalismo e alla loro nuova inquisizione, e dove si esprimeva tutto il suo disprezzo per la trasformazione del regime, appena caduto, nel regime personale di un uomo che aveva profondamente deluso le aspettative di quanti in lui avevano creduto. In quella lettera, tuttavia, nessuna distanza era sostanzialmente presa dal fascismo in quanto tale, di cui lo storico auspicava almeno la salvaguardia dei valori più autenticamente nazionali, nel rispetto dei precedenti impegni internazionali, una volta che questo fosse stato in grado di liberarsi dalle mende che ne avevano snaturato la primitiva fisionomia. Ho letto solo ora – prima me ne avevano da più parti parlato – la lettera famosa. È un documento ignobile, per quel che riguarda te. Quanto poi al fiero sdegno contro la tirannia, avrebbe avuto il diritto di scrivere così solo chi avesse sofferto dieci anni di carcere o di confino, non chi ha seguitato tranquillamente a mangiar pane e vestir panni, cioè esercitare e, certo, sollecitare uffici, tirare stipendi, accettare onorificenze, ecc. Non aver paura: assisteremo al249 Umberto Bosco a Giovanni Gentile, 8 agosto, 1943, AFG. 250 Si veda rispettivamente: Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, 10 agosto 1943, in
Giovanni Gentile e il Senato, cit., pp. 520-521; Giuseppe Bottai a Giovanni Gentile, 10 agosto 1943, AFG; Gaetano Chiavacci a Giovanni Gentile, 8 agosto 1943 in Gentile-Chiavacci, Carteggio, cit. pp. 380-381; Vladimiro Arangio Ruiz a Giovanni Gentile, 9 agosto 1943, AFG; Delio Cantimori a Giovanni Gentile, Roma, 12 agosto 1943, ivi. Sul punto, P. SIMONCELLI, Cantimori, Gentile, e la Normale di Pisa, cit., pp. 152 ss.; F. PERFETTI, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 25 ss. 251 Ugo Guido Mondolfo a Giovanni Gentile, 9 agosto 1943, AFG.
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la vigliaccheria liberale dopo aver assistito a quella fascista, alla falsa unanimità liberale dopo che a quella fascista. Dopo le vecchie parole nuove parole. Accidempoli, che esami sta facendo il popolo italiano, in questi giorni! Materie militari e materie politiche e morali. E che monumentali bocciature sta prendendo! La responsabilità è di tutti, ma purtroppo è vero: in testa a tutti vengono quel complesso di uomini, di modi di governo, di abiti mentali che chiamiamo fascismo, il fascismo degenerato e corrotto degli ultimi anni, che non era niente o era solo un uomo, un avariatissimo uomo. Perciò da gran tempo io auspicavo che quest’uomo si togliesse di mezzo: avremmo avuto un principio di riparamento della situazione italiana, della malattia dell’Italia. E quando lessi del 26 luglio, fui contento. Mi aspettavo una evoluzione, sia pure rapida, una “normalizzazione”, che permettesse innovare e, infine, raccogliere nel nuovo il meglio delle eredità del fascismo e mantenere così la continuità della vita italiana. Avrebbe contentato (meglio dei fascisti) e disarmato le più ragionevoli opposizioni. Invece… Ma forse quel passaggio graduale era, nelle presenti condizioni, impossibile. Le vicende della guerra avevano esasperato gli Italiani. Lo sbarco di Sicilia, la inesplicabile caduta di Augusta avevano riempito la misura fino all’orlo. Ora, sarà ingiusto (in parte!) ma anche umano che un regime si misuri da una guerra vinta o perduta. Specialmente un regime come il nostro. Sommo onore ma anche somma responsabilità. Apoteosi e crucifige. Ora che il bubbone Mussolini (dico questo con senso di pietà, ma ormai era diventata l’unica parola da usare) è tagliato, speriamo un po’ meglio all’interno: almeno per quel tanto che basta per liquidare nel modo meno disastroso la guerra. Aspettiamo i miracoli della libertà. Vediamo all’opera quella nuova e gagliarda generazione che si chiama Bergamini, Giovannini, De Ruggiero ecc. Gli uomini fanno un po’ ridere: rimane tuttavia indiscutibile, nell’animo di tutti, l’esigenza liberale. Ci si lasci un po’ respirare! Ci si levi di torno quel nugolo di spioni che ammorbava l’aria! Ci si lasci con la nostra testa senza darci sempre l’imbeccata! Si faccia saltare con la dinamite quell’imbonitore scellerato e stupido di crani che è stato finora il Ministero della Coltura popolare. Si rimetta la nazione italiana nella possibilità di rifarsi un’anima buona o cattiva. Abbasso la “massa” nuova divinità; viva l’Italia! Sto qui al mare con Elisa e Benvenuto: e ogni tanto qualche altro figliolo. Per una settimana, è stato qui Vittorio, convalescente di febbre malarica presa a Ferrara. Stamane è partito Nanni, per il servizio militare. Arrigo forse tornerà, per far domanda in sede, da Lione. Io lavoro per terminare il 2° volume di una Italia Moderna, 1815-1915. Il 1° volume, licenziato per la stampa fin dal maggio, con una prefazione che, allora, poteva apparire un piccolo atto di coraggio, è ancora alla rilegatoria, ritardato da tutti gli eventi ultimi. E molto io mi cruccio di questo ritardo! Spero bene te e tutti voi, di corpo e di animo. Toccherà forse a noi aiutar gli Italiani nuovissimi a separare “quel che è vivo e quel che è morto” del fascismo252.
252 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Viserba (Rimini), 16 agosto 1943, AFG. La lettera è parzialmente riprodotta in G. SASSO, Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe dinnanzi al crollo del fascismo, in ID., Filosofia e idealismo. IV. Paralipomeni, Napoli, Bibliopolis, 2000, pp. 531 ss., in particolare pp. 555-556
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A breve, molto a breve, Volpe si sarebbe però liberato anche da questa ultima, pericolosa illusione. Ma, intatto, il brevissimo interludio di libertà, che il gabinetto Badoglio aveva assicurato alla capitale, lo aveva messo in grado di compire un ultimo atto di generosità. Il 5 agosto, il capo della Polizia, Carmine Senise scriveva infatti a Volpe, che «in relazione alle Sue gradite premure, Le comunico che il Prof. Mario Delle Piane, e l’Avv. Vittorio Ambrosini, sono stati rimessi in libertà: il primo il 31 luglio u. s. e il secondo il 5 corrente»253. Solo più tardi, la questione del cambiamento di residenza accademica dello storico avrebbe trovato soluzione, grazie all’intervento di Biggini (ormai ministro della Repubblica Sociale, costituitasi, il 23 settembre), finalmente convintosi a decretare, il 16 ottobre, che, a partire dalla fine di quel mese, «il Prof. Volpe Gioacchino, Ordinario di Storia Moderna nella Facoltà di Scienze Politiche della R. Università di Roma è trasferito nella cattedra di Storia Medioevale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della R. Università medesima»254. A quell’annuncio faceva seguito una lettera di ringraziamento di Volpe, nella quale si comunicava la sua soddisfazione per poter riprendere «il nuovo insegnamento che è poi vecchio insegnamento per me» e dove si aggiungeva: «Sarà come rinascere»255. La corrispondenza recava la data del 15 novembre 1943, ma non era stata spedita da Roma. Da qualche settimana, infatti, Volpe aveva abbandonato la capitale per rifugiarsi, insieme a parte della famiglia, nel suo eremo romagnolo, dove avrebbe soggiornato fino all’inverno del 1945. Il lunghissimo viaggio nel ventre della balena della dittatura fascista si era concluso. Ma, al termine di quell’itinerario, Volpe, contrariamente al Giona della favola biblica, non avrebbe trovato un approdo sicuro in grado di garantirgli sicurezza e incolumità.
253 Carmine Senise a Gioacchino Volpe, 6 agosto 1943, CV. L’intervento di Volpe aveva riguardato, appunto, il liberalsocialista Mario Delle Piane, che faceva parte del gruppo di opposizione al regime organizzato da Guido Calogero, e Vittorio Ambrosini, ambigua figura di fascista pentito, legato agli ambienti comunisti della capitale durante l’ultima parte del conflitto. 254 ACS, MPI-DGIU, Fascicolo G. Volpe. 255 Gioacchino Volpe a Carlo Alberto Biggini, 15 novembre 1943, ivi.
IV.
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1. VINCITORI E VINTI 1. Giunto nella piccola tenuta (poco più di un podere) di Spinalbeto, presso Santarcangelo di Romagna, poco poté però godere Volpe dell’appagamento per il risultato acquisito. Quel compiacimento, venato a ogni buon conto di molta amarezza, era immediatamente annullato dal drammatico spettacolo di un’«Italia tagliata in due», che sprofondava rapidamente nel baratro della «guerra civile»1. Di fronte alla spaccatura del paese in due fronti, l’un contro l’altro armati, Volpe rifiutava di prender partito, collocandosi in una posizione che pure non si identificava pienamente neanche con quella della cosiddetta «zona grigia», caratterizzata da disimpegno, neutralità, attendismo, che era comune a molti altri intellettuali e al mondo universitario in particolare2. Forse anche per evitare immediate rappresaglie, non del tutto netto era il suo rifiuto di aderire all’avventura di Salò, testimoniato dalla lettera del 25 febbraio 1944, nella quale si respingeva la proposta di partecipare ai lavori della ricostituita Accademia d’Italia (abolita da un decreto reale e ora riesumata e trasferita in riva d’Arno), con il motivo che la Repubblica Sociale «sorta all’improvviso nelle condizioni, che tutti conoscono, non ha ancora avuto il suffragio del popolo italiano, come lo ebbe la Monarchia nazionale e unitaria nel suo costituirsi, nel 1860, e quindi vive di vita di fatto e non di diritto»3. Non totalmente consumato neanche il suo distacco dal cognato Arrigo Serpieri, che invece aderì alla Rsi, e con il quale Volpe condivideva la necessità di continuare lo sta1 P. CALAMANDREI, Diario, cit., II, p. 408, alla data 17 aprile 1944: «Leggevo ieri sulla
bella Letteratura del Marchesi, le vicende della vita di Cicerone; è quello che viviamo oggi: la guerra civile, gli esili, le fughe, gli assassini politici, le liste di proscrizione. Risiamo al periodo tra Silla e Augusto». L’espressione era stata anticipata nella lettera di Fortunato Pintor a Gentile del 5 dicembre 1943, in G. GENTILE-F. PINTOR, Carteggio, cit., p. 431: «Ed ora siamo alla guerra civile». 2 R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. II. La guerra civile, 1943-1945 , Torino, Einaudi, 1997, pp. 109 ss., che tuttavia parla erroneamente di un’adesione di Volpe alla Rsi. 3 Minuta di lettera, in CV, dove era per altro cancellato l’inciso sull’incerta legittimità giuridica della Repubblica di Mussolini. In quella stessa corrispondenza, si aggiungeva anche il suggerimento di «sospendere il pagamento degli assegni accademici fino a che la questione del regime non sia risolta e non mettiamo in pace la coscienza».
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to di belligeranza all’interno dell’Asse4, e da Giovanni Gentile, biasimato non tanto per la scelta politica, che lo aveva portato nuovamente a fianco di Mussolini, ma per il suo protagonismo, che sembrava rendergli impossibile di sopravvivere, in assenza di qualche carica istituzionale, come la presidenza dell’Accademia d’Italia fascista, assunta, a dire il vero, dal filosofo, a titolo puramente interinale, con l’intenzione di deporla a guerra conclusa, «che speriamo non finisca senza la risurrezione della nostra povera patria; per la quale ho accettato quell’alto posto a cui non avrei pensato in altri tempi»5. Con scarsa generosità, Volpe scriveva a Chabod, il 15 aprile: Saprai le vicende dell’Accademia, soppressa dal governo del Re, mantenuta nella nuova repubblica italiana e trasportata a Firenze, console Gentile, il quale si è buttato a pesce, come dicono a Roma, al nuovo ordine politico. Ha subito dato di frego, sulla carta intestata dell’Accademia alla parola regia. Raccomanda, nelle sue encicliche, di non far particolari questioni di principio, di unirsi tutti nel nome dell’Italia: ma quelle questioni lui per conto suo le risolve o le dà per risolte e fa trovare gli accademici di fronte al fatto compiuto. Benedetto uomo: non può vivere senza aver in mano il bastone di comando e altre cose ancora, si offra lui o lo sollecitino gli altri. Ci scommetto, che, anche nelle fortune dell’Accademia d’Italia giocano le ormai fastidiose beghe CroceGentile, Gentile-Croce6.
Più tardi, Volpe avrebbe meglio articolato il suo giudizio su quella decisione, che fu fatale al filosofo, e che ormai lo separava ineluttabilmente dal compagno della Normale, affermando: «Gentile si accostò a Salò ed alla sua Repubblica; ebbe da essa uffici vari fra cui quello di Presidente dell’Accademia d’Italia, pur dopo che il Governo del Re l’aveva soppressa; si trasferì, in ottobre, insieme con l’Accademia, a Firenze. Debbono essere stati mesi alquanto angosciosi per lui, quelli dell’estate e autunno ’43, preso come era da richiami diversi, cioè da sentimenti e incertezze. Ma vinse in ultimo il Fascismo e, quindi, la sua Repubblica. Ed in questo io non lo seguii»7. Ma soltanto nel dopoguerra,
4 G. VOLPE, Serpieri giornalista, in «Il Tempo» 30 luglio 1971, dove si riportava la lettera di Serpieri del luglio 1944, nella quale si affermava che «con i tedeschi vincitori, le forze plutocratiche e la decadenza di più alti valori, come la Patria e la famiglia, sarebbero state frenate». Sulla posizione di Serpieri, si veda anche P. CALAMANDREI, Diario, cit., II, p. 543, alla data del 2 ottobre 1944. 5 Giovanni Gentile a Francesco Montalto, 2 dicembre 1943, AFG. Sul punto, B. GENTILE, Giovanni Gentile. Dal Discorso agli italiani alla morte, cit., pp. 39 ss. e F. PERFETTI, Assassinio di un filosofo, cit., pp. 41 ss. 6 Gioacchino Volpe a Federico Chabod, 15 aprile 1944. 7 G. VOLPE, Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., p. 289.
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Volpe avrebbe definito l’«ultimo Fascismo» come un «momento sciagurato per tutti nella vita della nazione»8, per poi riconoscere, questa volta senza esitazioni, la correttezza della presa di posizione della maggioranza degli italiani che «scelsero il regno d’Italia, vuoi che approvassero, nella sostanza se non nei modi, la linea della condotta di Vittorio Emanuele, gli scopi che si proponeva, cioè salvare il salvabile dall’estrema rovina; vuoi ritenessero che, nella crisi d’autorità, non Mussolini ma il Re “ha sempre ragione”»9. Lacerato il corpo della patria, infatti, «l’unità non poteva ricostituirsi se non attorno al Monarca», rendendo impossibile ogni altra soluzione. Ma il regime di Salò doveva risultare inviso a Volpe non per questa sola causa, pure determinante. Lo era invece, sicuramente, anche per i suoi rigurgiti di socialismo corporativo, di violenza squadristica, di ormai apertamente dispiegata tendenzialità repubblicana, per il ritorno, in altre parole, agli eccessi e all’anarchia del fascismo movimento, che il fascismo, fattosi Stato, non era mai riuscito o mai aveva voluto del tutto disciplinare e che ora tornavano a prendere inusitato vigore nella fittizia «repubblica mussoliniana», la quale così rivelava il suo carattere profondamente anti-nazionale10. Si trattava di un’ostilità contro l’intransigentismo fascista, nutrita durante l’intero Ventennio, che ora l’aveva vinta sulla pure oggettiva difficoltà di orientarsi nel «labirinto delle legittimità» che contrassegnava quel tempus horribile. Quell’ostilità gli avrebbe impedito di offrire il minimo contributo all’opera di riconciliazione, che, con generosità e scarsissimo realismo, Gentile intendeva compiere, in quegli stessi mesi, segnati dalla violenza della lotta fratricida. Nell’assumere la direzione della «Nuova Antologia» nel novembre 1943, il filosofo informava Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura popolare della Rsi, che il periodico «dovrebbe avere funzione altamente nazionale, pacificatrice, riorganizzatrice della cultura italiana; e quindi mettere da parte le discussioni politiche che purtroppo oggi dividono gli italiani e li disgregano, inferocendo gli animi». Nella lettera si chiedeva che venisse concessa «l’autorizzazione a me a servirmi anche 8 ID., Lettera aperta a Vito Panunzio in «Pagine libere», 1 febbraio 1956, in ID., L’Italia che fu, cit., p. 401. Un giudizio meno distruttivo sulla Rsi veniva espresso nel 1964, quando Volpe sembrò condividere l’opinione di Piero Operti, secondo la quale anche quel regime si era sforzato di arrecare un «qualche beneficio» alla causa nazionale: «contenere un po’ la reazione dei tedeschi, dopo il nostro improvviso rovesciamento di fronte; difendere la Venezia Giulia dagli Slavi di Tito, con cui invece i nostri partigiani solidarizzarono; insomma concorrere dal Nord alla difesa dell’Italia non diversamente dall’Esercito Regio del Sud». Si veda, ID., Un eretico dell’antifascismo, in «Il Tempo», 14 luglio 1964, p. 3. 9 ID., Presentazione di C. Delcroix, Quando c’era il Re, cit., p. 9. 10 ID., Un lettore ai lettori, Prefazione a A. SARDI, Ma non si imprigiona la storia, cit., pp. 13-14.
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di collaboratori non fascisti purché sinceramente e lealmente italiani»11. Ottenuto il consenso del ministro12, Gentile stilava la circolare del 20 gennaio 1944, nella quale invitava i maggiori intellettuali italiani, senza distinzioni di credo politico, a collaborare al periodico, che aveva trasferito la sua sede «provvisoriamente a Firenze donde cominciò la prima e la seconda volta la sua missione nazionale». In questo momento di raccoglimento e di riscossa delle nostre energie morali, confido che intorno a questa rivista, la più antica e la più italiana di quante ne siano in Italia, vorrà raccogliersi il maggior numero de’ suoi scrittori, artisti, scienziati o pensatori, a ravvivare la fiducia degli Italiani in se stessi; poiché nulla più che la vita potente dello spirito può assicurarci della immortalità della Patria. Fo appello perciò a tutti gl’Italiani che per il loro genio e i loro studi hanno qualche cosa da dire per provare che anche in questa ora di angoscia l’Italia è viva. Vecchi e nuovi amici della “Nuova Antologia” io spero che risponderanno subito al mio appello inviando quanto avessero pronto, o potessero in breve tempo preparare di novelle, versi, studi letterari o di scienza o d’arte, in forma di articoli o di recensioni di opere di vasto interesse, adatti a una rivista di cultura generale e destinata a lettori non specialisti, o inediti, memorie e lettere di illustri Italiani, che possano farci riudire care voci indimenticabili della grande famiglia che oggi più che mai è presente nei nostri cuori13.
In margine alla copia della circolare spedita a Volpe, Gentile scriveva di suo pugno: «Spero vorrai scrivere presto un articolo per la Nuova Antologia. Te ne sarei molto grato»14. Era un appello destinato a rimanere inascoltato, come senza esiti fu il colloquio con Gentile della primavera del 1944, che Volpe avrebbe ricordato come «più che amichevole, se pure non lieto», durante il quale lo storico ribadiva il suo diniego a calzare la feluca accademica, listata dal fascio littorio, ma priva ormai della croce sabauda15. La ripulsa provocava naturalmente adeguate reazioni, da parte del regime che, in assenza di titolo legale, dominava di fatto sull’Italia centro-settentrionale. Il primo volume di Italia Moderna, distribuito all’inizio del 1944, era stato infatti sequestrato, come si è detto, in tutto il territorio della Rsi, su ordine del Ministero della Cultura Popolare, per la prefazione dove era contenuto l’invito a
11 B. GENTILE, Giovanni Gentile, cit., p. 45. 12 Fernando Mezzasoma a Giovanni Gentile, 7 dicembre 1943, AFG: «Nulla ho da
obiettare all’indirizzo che intendete imprimere a questa così importante rassegna». 13 FV. 14 Ivi. 15 G. VOLPE, Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., p. 290: «Il Governo del Re aveva soppresso l’Accademia d’Italia. Ed io chiesi che, data la soppressione, Gentile non mi considerasse più».
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trovare nella monarchia l’unico presidio di quella unità nazionale, ora sul punto di venire meno. La decisione, che aveva interessato direttamente Mussolini16, era stata naturalmente accompagnata da una sistematica congiura del silenzio portata avanti da tutti gli organi di stampa controllati dal governo repubblicano. Quasi inconsapevole che l’embargo giornalistico era la naturale conseguenza del provvedimento di confisca, Volpe reagiva, il 25 febbraio, con un’ infuocata lettera indirizzata al nuovo direttore del «Corriere della Sera», Ermanno Amicucci, dove si stigmatizzava il «boicottaggio, che il tuo, e forse, gli altri giornali fanno alla mia Italia Moderna colpevole, in un’Italia ancora monarchica, di esortare gli italiani a stringersi attorno al Re». Quella censura, continuava Volpe, non avrebbe comunque sortito l’effetto sperato, dato che «in casi del genere ci guadagna, di solito, il libraio, e... l’autore, cioè la loro cassetta». Non il censurato ma invece il censore avrebbe ricevuto danno da quella vicenda. Il pubblico avrebbe compreso, infatti, che «l’esperienza non ci ha insegnato nulla» e che «il nuovo fascismo sta seguendo la peste del vecchio», seminando semi, gravidi di frutti, che era difficile ipotizzare «migliori» di quelli raccolti nel recente passato. Ironica e tagliente sarebbe stata la risposta di Amicucci, nella quale si dava conto delle ragioni politiche di un mutismo che colpiva a ragion veduta un’opera che accampava sfacciatamente sul frontespizio la dicitura: «Finito di stampare nel mese di luglio 1943». Un mutismo, si aggiungeva, che sarebbe cessato solo quando il suo autore avesse pubblicamente dimostrato il suo consenso nei confronti della Repubblica fascista. Se il vostro libro fosse uscito durante i 45 giorni di Badoglio con una prefazione esortante gli italiani a stringersi intorno a Mussolini voi non avreste chiesto al direttore del “Corriere della Sera” di farne una recensione. Essendo uscito cinque mesi dopo la proclamazione della Repubblica Sociale Italiana con una esortazione agli italiani di stringersi intorno al Re, avete chiesto a me di recensirlo sul “Corriere della Sera”, ed io vi ho risposto che sarebbe bastato aveste riletto gli ultimi periodi della prefazione per convincervi che la cosa non era possibile. Ora voi vi dolete della mia risposta e affermate che l’esperienza non ci ha insegnato nulla e il nuovo fascismo sta seguendo la peste del vecchio. L’esperienza ci ha insegnato qualche cosa ed è appunto che il vecchio fascismo, anche per aver tollerato manifestazioni di questo genere, ha avuto delusioni che non avrebbe avuto se avesse agito diversamente. Se aveste voluto sottolineare 16 ID., Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, cit. Sul punto, si veda anche, E. AMICUCCI, I 600 giorni di Mussolini, Roma, Editrice Faro, 19482, p. 201: «Questa prefazione, uscita proprio all’indomani della proclamazione della Repubblica Sociale, fece gridare allo scandalo i fascisti repubblicani e, naturalmente, fece andare su tutte le furie Mussolini. Mezzasoma si affrettò a far ritirare dalla circolazione il libro, con grave disappunto, amarezza e stizza del Volpe».
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che la prefazione si riferiva a tempi passati, avreste potuto farlo agevolmente o eliminandone gli ultimi periodi, o parlando degli avvenimenti successivi. Comunque, se non aveste potuto farlo nel libro, avreste potuto farlo con una manifestazione successiva, che io ignoro o che se fosse avvenuta sarei lieto di conoscere. Così come il libro è uscito ed è stato messo in circolazione in questi giorni, dà l’impressione di una manifestazione precisa in contrasto con gli avvenimenti. Per questo ho ritenuto che il “Corriere della Sera” non se ne potesse occupare. Sono disposto tuttavia a pubblicare la recensione insieme con una vostra dichiarazione – se voi credete di farla – che chiarisca il vostro atteggiamento attuale17.
Si trattava di un avvertimento ancora «amichevole», se paragonato all’editoriale durissimo di Ezio Maria Gray, pubblicato nella «Gazzetta del Popolo» del 4 aprile, che, dopo il fiasco dell’adunanza accademica di Firenze convocata da Gentile, aveva stigmatizzato la diserzione di Volpe, affermando che «sarebbe stato più strano l’intervento che non lo sia stata l’assenza»18, o a quello di Goffredo Coppola, in quel momento Rettore dell’Ateneo di Bologna e ultimo Presidente dell’Istituto di Cultura Fascista, il quale, nei suoi roventi radiomessaggi, avrebbe accusato lo storico e i suoi allievi di aver ingrossato, con il loro tradimento, le fila del «partito badogliano»19. A quella data, l’eremita di Santarcangelo di Romagna si era comunque rinchiuso, da tempo, in un atteggiamento di irremovibile ritiro nel privato20. Secondo la testimonianza del figlio Vittorio, Volpe «visse quei mesi del ’43-’45, in Romagna, isolato ed estraneo, a qualsiasi manifestazione che potesse dirsi ufficiale e non fu avvicinato da nessun personaggio qualificato, per saggiare eventuali possibilità di adesione alla Rsi e tanto meno da persone di opposte posizioni»21. Quel distacco dal mondo, che fu «apparente e voluto quasi
17 Le due lettere, ambedue conservate in ACorsera, sono pubblicate da M. FORNO, Intellettuali e Repubblica Sociale: l’osservatorio del “Corriere della Sera”, in «Contemporanea», 2002, 2, pp. 321-322. 18 L’articolo è riprodotto in L. CANFORA, La sentenza, cit., pp. 338-340. 19 Carlo Morandi a Gioacchino Volpe, 26 marzo 1945, FV: «Ho subito attacchi violenti (stampati e radiofonici) dal rettore bolognese, il grecista Coppola; tra l’altro perché sono “allievo di Gioacchino Volpe”! Ecco la confusione dei linguaggi; va da sé che … l’accusa mi ha fatto piacere». Sulle delazioni di Coppola, L. CANFORA, Il papiro di Dongo, cit., si veda pp. 742-743. 20 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Santarcangelo di Romagna, 27 giugno 1944: «Mai come quest’anno, io mi sono estraniato dal mondo, e concentrato tutto in me e nel cerchio di queste quattro mura. Mai tanta tranquillità e serenità in mezzo alla tempesta». La lettera è riprodotta, in G. VOLPE, Lettere dall’Italia perduta, cit., p. 30. Salvo altra indicazione, il carteggio familiare e le note diaristiche degli anni 1944-1945 rimandano a questa edizione. 21 V. VOLPE, Manoscritto, CV.
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come difesa contro eventuali possibilità di compromissioni, quasi come tutela della sua integrità e libertà», avrebbe conosciuto, come sola eccezione, la partecipazione, ma a mero titolo personale, ai funerali del filosofo assassinato, disertati in massa dagli intellettuali del regime, come Volpe dichiarava non senza amarezza nella lettera a Sestan del 23 aprile 1944: «Sono stato a Firenze per i funerali di Gentile. Speravo di vedere anche Morandi, Rodolico, qualche professore, per vedere a che punto è il mondo professorale. Ma latitanza piena. Tre accademici e basta. Ma io ero lì più come vecchio amico di Gentile (50 anni, ormai, fra vita comune, amicizia, collaborazione) che non come accademico, che mi pare ormai cosa morta. Credo che il dramma dovrà arrivare fino in fondo, prima che si possa cominciare a rivivere e ricostruire»22. Lo sconsolato giudizio veniva ripetuto da Volpe nella lettera a Pintor del 13 maggio, dove ancora si parlava delle esequie del filosofo: «Molto sfruttamento di quella morte, ma pochi visibili segni di rimpianto nel nostro mondo professorale, anche fiorentino. Solo due o tre persone lo rappresentavano»23. Eppure, continuava Volpe in quello stesso messaggio, raramente come in questo caso tragedia personale e tragedia nazionale si erano confuse a tal punto nella scomparsa di alcuni uomini. E raramente così poco spazio il lutto pubblico aveva concesso al lutto privato. Così per la morte di Gentile, così per quella di Giaime Pintor. Oziose mi paiono le parole di conforto. Se un’affermazione di dolore può esserci, essa viene solo dalla grandezza e terribilità della nostra tragedia nazionale, quale neanche i più pessimisti avrebbero potuto immaginare. Siamo un mondo di rottami, del quale non si sa bene, quando le macerie saranno rimosse, cosa rimarrà in piedi. Riusciranno almeno i migliori ad intendersi in un programma d’azione comune? Bisogna sperare di sì. E perciò tanto più doloroso che a questo appello non possano più rispondere giovani di alto animo e matura intelligenza come era il nostro Giaime24.
In questa lettera, si saldava in un circolo drammatico morte dei singoli e «morte della patria», in quanto dissoluzione della «nazione come vincolo di appartenenza ad una realtà etico-politica consapevole della propria ragione storica»25. La svolta del luglio 1943, che per Volpe, come per Grandi, aveva messo in luce finalmente il carattere «transeunte», tante volte sottolineato, del fascismo, non aveva sortito gli effetti sperati. Per Volpe, come per Grandi, il colpo di mano costituiva piut22 Gioacchino Volpe ad Ernesto Sestan, 25 aprile 1944, ASNSP. 23 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, 13 maggio 1944, FV. 24 Ivi. 25 R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. II. La guerra civile, 1943-1945, cit., p. 87.
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tosto un’occasione sprecata, sul piano militare e diplomatico, e soprattutto su quello della politica interna, dove le debolezze del governo di Brindisi, l’atteggiamento degli Alleati, principalmente di Washington, avevano concesso eccessivo spazio alle forze vecchie e nuove dell’opposizione al regime e precipitato l’Italia negli orrori del bellum intestinum, ai quale si aggiungeva l’onta di una doppia occupazione straniera e quella di una «dittatura antifascista» che aveva iniziato a incrudelire illiberalmente contro i suoi avversari26. Il rifiuto di sostenere in Salò gli avanzi decomposti di un sistema politico, lentamente ma irrimediabilmente screditatosi ai suoi occhi, e la caduta di ogni residua illusione sulla genialità del «Mussolini diplomatico» (se paragonata all’accortezza sabauda ed europea di Cavour e persino di Giolitti)27, si accompagnava così a un feroce giudizio sulla fellonia del governo Badoglio, «piegatosi vergognosamente alla resa senza condizioni, col risultato di agevolare la marcia degli Anglo-Americani verso Roma e il Nord»28. Tra i due eserciti stranieri, che si contendevano la terra italiana, Volpe non faceva nessuna distinzione, augurandosi piuttosto l’intervento del gladio vendicatore di «un Dio d’Israele che li sommerga sotto le onde del mare, tutti quanti sono»29. Il repentino ribaltamento delle alleanze, avrebbe poi concluso, non poteva infatti mutare un dato di realtà che gravava sul destino di tutti, con la pesantezza di un macigno, e cioè che «la guerra l’abbiamo persa, persa, persa e che cattivo affare è stato lavorare per la sconfitta». Se in altri tempi, si era potuto «anche disapprovare, deprecare una guerra, come fece Croce nel 1915, ma una volta dichiarata, tacere, collaborare, affrettare col desiderio e con le opere la vittoria e sentirsi un’anima sola con i combattenti». Ora, al contrario, anche «don Benedetto ha augurato e desiderato il contrario» e, assieme a lui, «migliaia di altri manigoldi hanno, anche prima del luglio 1943 (dopo le cose cominciarono a mutare) lavorato per la sconfitta»30. Il ri-
26 D. GRANDI, 25 luglio 1943, cit., pp. 273-274; 307 ss.; 320 ss.; 389 ss. Ricordiamo che il titolo originario dello scritto di Grandi, composto nel primo semestre del 1944, era: Il Gran Consiglio e gli affossatori. Sul punto, P. NELLO, Dino Grandi, cit., pp. 231 ss. 27 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 24 settembre 1945, dove era contenuto un più meditato giudizio sull’assenza in Mussolini di «una prudenza, un senso del mondo, che è a lui mancato, un realismo e una libertà da miti rivoluzionari, da ambizioni ideologiche quali forse un Piemontese – Cavour o… Giolitti – aveva o poteva avere, non un romagnolo». 28 G. VOLPE, Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., p. 298. 29 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 settembre 1944. 30 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 24 settembre 1945. Si veda anche Gioacchino Volpe a Walter Maturi, maggio 1945: «Non che non apprezzi la caduta di un regime dal quale, come esso era venuto degenerando, io mi ero via via distaccato e col quale avevo rotto del tutto dopo il luglio ’43; ma io, don Benedetto me lo permetterà, non son di quelli che, pur di sbarazzarsi del regime, han invocato la sconfitta. Ho ferma fiducia che dal regime, da
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sultato di quel cedimento morale, se non di quel vero e proprio tradimento, comunque vasto, generalizzato, di cui molti sicuramente non avevano avuto neppure chiara consapevolezza, aveva comportato una nuova finis Italiae, simile a quella che si era verificata, quando la Penisola, si era dissolta come entità politica, investita dall’urto delle Grandi Potenze continentali e «Pisa, Genova, Venezia, insieme a tutti i piccoli Stati nostri, non poterono più vivere»31. In quel tempo di passione, sembrava avverarsi, così, la profezia che Gentile aveva annunciato, nel giugno del 1943, insistendo sul fatto che «un’Italia destinata a morire per effetto d’una disfatta militare», non sarebbe stata neppure degna di vivere se non come «un’accozzaglia di uomini, senza disciplina di sorta»32. Era la stessa catastrofe, che Croce aveva visto profilarsi, proprio nel momento in cui il golpe istituzionale del 25 luglio liberava per sempre l’Italia dalla dittatura «che aveva venduto la nazione e il suo avvenire, cooperando alla servitù di tutti in Europa»33. Il conflitto in corso non era infatti una «guerra per la libertà», ma come tutte le altre, una guerra «per l’indipendenza, per il dominio, e per il vantaggio economico e politico»34. La sconfitta in quella contesa, avrebbe più tardi sostenuto il filosofo, nel momento in cui le clausole del Trattato di Parigi del 1947 mutilavano parti integranti del corpo della nazione, era stata la sconfitta di tutti. Fascisti e antifascisti portavano egualmente il peso della disfatta in quella prova delle armi, male incominciata e malamente persa: «anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli, come erano tutti, che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte»35. E non diversamente aveva con-
quel certo modo di governare, ci saremmo liberati lo stesso. La vittoria ne avrebbe non prolungata ma abbreviata la vita. Mentre la sconfitta è irrimediabile e assoluto male. E anche nei rapporti coi liberatori, vedrai che poco ci varranno i titoli dell’antifascismo». 31 ID., Appunto di Diario, Roma 29 marzo 1945. Eguali considerazioni nella lettera a Maturi del 7 gennaio 1946: «Ormai si sono formate nel mondo le “grandi monarchie”, come già nel ’400 in Europa. E di fronte ad esse che cosa possono la repubblica fiorentina, il ducato di Milano o di Savoia, il regno di Napoli? L’Italia di domani, anzi già di oggi, è pressappoco nella stessa condizione di allora». 32 G. GENTILE, Discorso agli italiani, tenuto in Campidoglio il 24 giugno 1943, in B. GENTILE, Giovanni Gentile. Dal Discorso agli Italiani alla morte, cit., p. 69. 33 B. CROCE, Taccuini di guerra, 1943-1945, cit., p. 14. 34 Ivi, pp. 55-56. 35 ID., Contro l’approvazione del dettato di pace. Discorso alla Costituente del 24 luglio 1947, in Scritti e discorsi politici (1943-1947), Bari, Laterza, 1963, 2 voll., II, p. 404.
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cluso Salvemini, già nel luglio del 1946, quando sosteneva la necessità di «rifiutare la firma al trattato di pace, perché l’ingiustizia si subisce, ma non si accetta» e che il farlo sarebbe equivalso ad accettare l’idea che l’Italia si riducesse ad essere una sorta di protettorato anglo-americano, di cui Croce, Sforza, Pacciardi e Togliatti sarebbero stati i nuovi «Quisling»36. Simili sconsolate considerazioni anche Volpe andava meditando, in anticipo con la futura resa dei conti internazionale, quando, tra autunno del 1944 e inverno del 1945, ancora ardevano violente le fiamme del conflitto. Dal suo retiro, nella casa di Santarcangelo di Romagna, dove sempre più prossimi arrivavano i rumori della battaglia, trovandosi quella dimora nell’esatto punto di collisione tra la Quinta Armata, attestatasi provvisoriamente, nella sua avanzata, sulla linea Rimini-Marecchia e la Wehrmacht, che aveva posto i suoi estremi baluardi, ad appena quindici chilometri di distanza, nei pressi del Rubicone37, Volpe pure continuava la stesura del secondo volume d’Italia Moderna, mentre erano «fallite alla vera prova di una Nazione e di uno Stato, le generazioni che hanno tra i 30 e i 70 anni» e, nel momento in cui, persi per sempre i domini africani, era con loro scomparsa anche la speranza di trasformare «un popolo di impiegati e imbrattacarte in un popolo di colonizzatori». Lavoro matto e disperatissimo era dunque quello di narrare la cronaca di un’Italia non più «in cammino» ma «ferma, anzi a terra, con qualche dubbio che non possa rialzarsi più per molto tempo»38. Lavoro, che pareva non trovare più nessuna ragione ideale a sostenerlo, quando, per drammatico paradosso o per fatale contrappasso, la narrazione delle vicende della patria italiana, che aveva realizzato la sua crescita interna e posto le premesse della sua affermazione internazionale nel primo ventennio del secolo, si incrociava e si sovrapponeva a quella di una apocalittica attualità, in cui la nazione, battuta nella prova delle armi e ora sconvolta da un conflitto interno, regrediva al suo stato premoderno, «con i suoi rancori, le sue vendette, il suo spirito fazioso 36 E. ROSSI-G. SALVEMINI, Dall’esilio alla Repubblica. Lettere, 1944-1957, a cura di M.
Franzinelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 159 e 170. 37 G. VOLPE, Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., p. 298-290 e Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 settembre 1944. Ma già precedentemente a questa data la zona era stata interessata dai bombardamenti alleati sulla Linea gotica. Si veda la lettera a Sestan del 23 aprile 1944, cit.: «Un saluto dall’eremo, animato solo dal pigolio e dal canto di non so quanti pulcini e galletti di primissimo canto, unica distrazione mia, quando non lavoro al 2o volume di Italia Moderna; e anche dallo strepito, dai sibili, dai bum, dai crac dei proiettili lanciati dagli aerei nelle vicinanze e dalla contraerea piazzata lungo la costa che spara nella nostra direzione sugli aerei che sorvolano fra queste colline. Ieri e oggi, una vera e propria pioggia di schegge e fumo fin su la porta di casa, venute giù da bombe esplose su la nostra testa». 38 Gioacchino Volpe a Walter Maturi, Milano 8 febbraio 1944.
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da vecchia Italia dei Comuni, le sue più negazioni che affermazioni»39. Il «tristo presente» preludeva infatti a «un più tristo domani», almeno per chi, come Volpe e la sua generazione, aveva a lungo coltivato la certezza di vedere «un’Italia diversa da quella che abbiamo vissuto gli ultimi 30 o 40 anni: un’Italia in ascesa, un’Italia uscita dalla miseria nera e dall’avvilimento della mia prima gioventù, un’Italia avviata ad essere libera, una libera nazione». Grandi illusioni, crollate nel nulla, come una trasmissione di Radio Londra aveva recentemente certificato, annunciando, come magra consolazione, la quale sempre, di buon grado, si concede agli sconfitti, che il nostro paese avrebbe alla fine conservato «il suo bel sole, i mille richiami dei forestieri, le braccia instancabili dei nostri lavoratori»40. L’Italia della grande, vagheggiata espansione mediterranea era così destinata a retrocedere all’avvilente status di popolo di «emigranti e di albergatori», mentre si annichiliva ogni speranza che il nostro paese potesse «elevarsi e rinnovarsi anche moralmente, generare da sé una nuova e migliore specie di Italiani, quella che il fascismo degli idealisti sognava»41. In quegli stessi mesi, Salvemini avrebbe parlato della nostra nazione come di un’entità geografica, priva di politica estera, ridotta ad essere «una sfera d’influenza inglese, una colonia inglese, una seconda Irlanda»42. E, di lì a poco, Volpe, in un doloroso controcanto, concludeva, che «per un pezzo e forse per sempre saremo ridotti ad uno statarello, una specie di pianeta spento come la luna, un grosso Portogallo, una grossa Grecia»43. A rigor di logica, dopo la conclusione del conflitto, il nostro paese doveva ritrovarsi «come dopo Adua o dopo Custoza o anche peggio». Riemergeva forte «il senso come di una fatalità che ci sbarra la strada in modo categorico, una specie di non plus ultra, oltre cioè la condizione di piccolo paese che invano arranca per farsi la strada nel mondo e sempre più dovrà gravitare nell’orbita dei grandi astri, e, quel che è peggio, sempre meno potrà fare una politica indipendente, anche se pacifica». E si riaffacciava persino un giudizio indulgente e giustificatorio per la politica di potenza del Ventennio, non esente da gravissimi errori, ma in fondo poco responsabile dell’attuale catastrofe, dato che «viste le cose in grande, noi siamo stati travolti nel cozzo dei 39 ID., Prefazione (1943-1945) a Italia Moderna, ivi, p. XI. 40 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 1 settembre 1944. 41 G. VOLPE, Appunto di diario, Roma 29 marzo 1945. La prima versione porta «il mi-
glior fascismo». 42 E. ROSSI-G. SALVEMINI, Dall’esilio alla Repubblica. Lettere, 1944-1957, cit., p. 37. Si veda anche la lettera del 13 aprile 1945, ivi, p. 91: «Per un’intera generazione la voce dell’Italia avrà nel campo internazionale minore autorità che la voce del Portogallo». 43 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 24 settembre 1945.
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più grandi di noi e Germania e Inghilterra si son contesa l’Italia e l’hanno avuta»44. Di quell’amarezza il diario epistolare e il carteggio con Chabod di questo stesso periodo offrono ripetute testimonianze45, che sarebbero culminate in un più tardo appunto dell’aprile 1945, drammatico ed eloquente nel tono e negli argomenti, dove la fine dell’Italia-Nazione coincideva con l’impossibilità di scriverne la storia trascorsa e soprattutto quella del suo passato recente. Il lavoro cammina, va; ogni giorno, nuove cartelle. Ma come fiacco! Manca la spinta interna e questa manca, perché manca l’oggetto del lavoro, manca l’Italia. Perché quel lavoro, e forse ogni lavoro storico, specialmente volto ad epoche recenti, presuppone non solo un certo paese, un popolo che ha avuto un certo passato, ma anche e più un paese, un popolo che abbia un certo avvenire. E come lo storico concepisce quell’avvenire, così il passato gli si configura in un modo o in un altro: quasi quasi direi che il passato gli si configura vivo o morto secondo che ha o no questo sbocco nell’avvenire. Ora, qual è l’avvenire dell’Italia? Non riesco a vederlo. Per lo meno, non riesco a vederlo come vita internazionale in vista di sviluppo esterno, come crescente partecipazione alla vita del mondo, alle attività coloniali, alla generazione di nuovi organismi. E allora anche il passato perde senso e scopo anche per lo storico. È chi come cammina sopra una strada e la strada, ad un certo momento, si interrompe, si perde in una grande frana o in viottoli. Il passeggero si ferma; non capisce più la direzione, lo scopo, la ragion d’essere di quella strada, che per lui esisteva solo in quanto conduceva ad una certa meta. Io mi sento quel passeggero. Non so più che senso, che scopo, che ragion d’essere ha quella vecchia storia che io ho raccontato e voglio illustrare46.
2. Prima che questa confessione venisse formulata, il lutto pubblico, patito da Volpe, sembrava poter essere se non lenito, almeno rimosso, dalle preoccupazioni private e dalla necessità di assicurare il soddisfacimento dei primari bisogni (ricovero sicuro e alimentazione) a una famiglia che era stata dispersa, come tantissime altre famiglie italiane, dalla guerra. La moglie Elisa, assieme alla figlia Benvenuta, avevano rag-
44 Gioacchino Volpe a Federico Chabod, 20 luglio 1944. 45 Gioacchino Volpe a Federico Chabod, 15 aprile 1944: «Il secondo volume di Italia
Moderna mi riesce più difficile del primo. Pensa il mio animo. E quando l’animo muta, tutto muta, per quanta razionalità tu voglia mettere al tuo lavoro. Ma ringrazio Iddio che il gusto del lavorare non se ne è andato, non ostante il senso di fallimento dell’opera mia (le generazioni ora fra i trenta e i settanta debbono considerarsi un po’ fallite, dopo questo crollo che non è solo militare), non ostante la quasi assenza di quegli obiettivi civili che sono sempre al fondo del nostro lavoro e che presuppongono l’esistenza di una patria, di una società nazionale, di uno Stato, tutte cose ora scomparse o appena evanescenti, viventi nel ricordo del passato e nella speranza dell’avvenire, più che nel concreto presente». 46 G. VOLPE, Appunto di Diario, 10 aprile 1945.
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giunto, a giugno, Castiglione Dora, presso Châtillon, in Val d’Aosta, dove i figli Giovanni e Vittorio, ambedue ingegneri, stavano dirigendo la costruzione di una centrale idroelettrica. Il terzogenito, Arrigo, già viceconsole a Lione, internato per due mesi dalle autorità naziste in Francia, a Vittel47, dopo essere stato radiato dall’incarico, per aver rifiutato il giuramento di fedeltà alla Rsi, sarebbe tornato a prestare servizio presso la Farnesina, sotto il governo Bonomi, ma ora, al di là della linea del fronte, era impossibilitato a fornire notizie sulle sue condizioni. Assente anche la figlia Simonetta, che aveva seguito il marito a Salò. L’altra figlia Edoarda, con il marito Luigi, la sorella Giovanna, insieme a Elza De Smaele, moglie di Giovanni, e ai cinque piccoli nipoti, erano restati a Spinalbeto, accanto al «nonno Gioacchino», che aveva assunto il ruolo di patriarca e di guida materiale e morale, di quel piccolo gruppo di donne e bambini esposti ai rischi e alle offese dello scontro in corso. Alle razzie e all’occupazione di parte, e poi di gran parte della loro abitazione, operata dai militari tedeschi, i quali pure si astennero sempre da «violenze o prepotenze» e con i quali si riuscì a instaurare rapporti di «reciproca tolleranza»48, si aggiungevano i bombardamenti massicci, che dopo Forlì, Rimini, Riccione, avevano raggiunto anche Santarcangelo, dove, intanto Volpe si improvvisava agricoltore e allevatore del piccolo possedimento di Spinalbeto, per rimpinguare il magro approvvigionamento alimentare, che proveniva dal mercato49, e da dove progettava un trasferimento in zona più sicura: Bologna, poi S. Marino, che la famiglia alla fine raggiunse nel settembre del 1944 e nelle cui malsicure mura si poté ricoverare una piccola parte dell’archivio dello storico, assieme al manoscritto del secondo volume di Italia Moderna. In questa drammatica congiuntura, a metà agosto, Volpe riceveva la cattiva novella della sua sospensione dall’insegnamento universitario, decretata dal Ministro De Ruggiero in data 31 luglio50, la quale veniva tem-
47 Gioacchino Volpe a Federico Chabod, Santarcangelo di Romagna, 15 aprile 1944. 48 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Santarcangelo di Romagna, 27 giugno
1944, dove è contenuto l’aneddoto del fortunoso salvataggio della bicicletta di Volpe dalle brame di un soldato tedesco: «Ho resistito; e siccome era, certo, un suo arbitrio, così ho riportato vittoria». Più pesante sarebbe stata la successiva occupazione delle truppe neozelandesi, i cui soprusi Volpe avrebbe tentato di contrastare capeggiando i contadini della zona irritati dai danni e dalle ruberie. Si veda, V. VOLPE, Manoscritto, cit. 49 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Santarcangelo di Romagna, luglio 1944: «Abbiamo, con bastoni e meccanismi elementari, battuto un paio di sacchi di grano, per noi e i contadini, in attesa che cominci la trebbiatura vera e propria». E ancora lo stesso alla stessa, nella lettera del primo settembre 1944: «Speriamo salvar la casa, salvar il grano, salvare le provviste, le bestie da lavoro, il porco, insomma quello che ci permetterà di vivere l’inverno». 50 Il provvedimento era comunicato alle autorità accademiche della Sapienza con la circolare inviata da Guido De Ruggiero al Pro-Rettore della R. Università di Roma, datata 4
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pestivamente comunicata alla consorte. Ho saputo da Luigi, che la ha appresa dalla radio – e forse la saprete anche voi – la notizia che mi riguarda: sono stato non so bene se destituito o dispensato dal mio insegnamento. Faccio parte di un gruppetto di 6 o 7 fra cui c’è Severi e Volpicelli Arnaldo. Non capisco perché questi nomi. Quanto a me avranno voluto colpire lo storico del fascismo. Oppure, semplicemente, far posto a Morghen. Mi è subito venuto in mente che ci possa essere lo sporco zampino di quel gesuitello e di qualcuno dei suoi settatori di Facoltà. Non è detta ancora l’ultima parola. Ma comunque finisca la cosa, io mi dolgo per il mio paese di questa avanzante cieca reazione che seminerà altri odi in aggiunta a quelli che ci sono e preparerà altra rivalsa o tentativi di rivalsa. Mi dolgo anche di questa offesa che si fa ai miei più 40 anni di insegnamento, e più che 40 anni di lavoro senza tregua. Ma la coscienza di questa mia opera, che nessuno mi può togliere, anche se mi tolgono la cattedra, è a me di sufficiente conforto. Seguiterò a lavorare da libero cittadino. Cercherò di farli vergognare di quel che han fatto. Ieri venne Edoarda, in camera mia: e la povera Tata aveva le lagrime agli occhi. Penso anche ad Arrigo, a Roma, che lo avrà saputo subito. Ma davanti a te e alla mia famiglia rimarrò quello che ero51.
L’allontanamento di Volpe dalla docenza, che era stato già annunciato con qualche clamore nei maggiori quotidiani del nord e del centro della Penisola52, non venne immediatamente compreso dall’interessato in tutte le sue implicazioni, sicuramente anche in forza dalla lontananza della capitale che gli rendeva impossibile la lettura della sentenza e la possibilità di opporre ad essa una controdeduzione. Ancora nella lettera del primo settembre, sempre inviata alla moglie Elisa, lo storico si domandava, infatti, se quella misura fosse dovuta a «indegnità
agosto 1944, in ACS, MPI-DGIU, fascicolo G. Volpe: «Comunico che, in accoglimento delle proposte formulate dalla Commissione di risanamento di codesta Università, con provvedimento in corso, i professori di cui appresso sono sottoposti a procedimento di epurazione, ai sensi del Decreto Legislativo Luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159. Ai sensi dell’art. 22 del T. U. medesimo, i professori stessi sono sospesi dall’ufficio, a far tempo dal primo agosto 1944: Proff. Renato Balzarini, Gian Alberto Blanc, Carlo Cecchelli, Giuseppe Chiarelli, Francesco Della Penna, Salvatore Di Marzo, Dino Grandi, Carlo Marino Zuco, Biagio Pace, Antonino Pagliaro, Sergio Panunzio, Antonio Renzi, Rodolfo Franco Savorgnan, Alfredo Schiaffini, Antonio Scialoja, Francesco Severi, Ugo Spirito, Giuseppe Tucci, Giuseppe Ungaretti, Giuseppe Vidau, Gioacchino Volpe, Arnaldo Volpicelli, Luigi Volpicelli, Edoardo Zavattari». 51 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Santarcangelo di Romagna, 14 agosto 1944. Il riferimento era al giurista Arnaldo Volpicelli e al matematico Francesco Severi, accademico d’Italia. 52 Una cinquantina di professori e docenti universitari revocati dall’impiego. Panunzio, Scialoja, Spirito, Ungaretti, Volpe fra gli epurati, in «Il Giornale d’Italia», 5 agosto 1944; Volpe e Ungaretti revocati dall’insegnamento, in «Corriere della Sera», 6 agosto 1944.
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politica», o piuttosto alla rivalsa della Francia per il suo sostegno all’irredentismo corso, o se ancora avesse avuto un pretesto nella sua «assenza a Roma durante l’anno scolastico», sulla quale avrebbero giocato le manovre di Morghen e del suo partito53. La verità era invece più semplice, se si guardava all’operato della Commissione di risanamento dell’Università di Roma, composta, da Luigi Salvatorelli, in qualità di «membro laico» designato dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, da Andrea Lorusso Caputi, Presidente della Corte suprema di Cassazione, da Vittorio Marchese, Ispettore Superiore del Ministero, e dal segretario Mario Domizio54. Il giudizio riguardava due capi di accusa («attiva partecipazione alla vita politica del fascismo» e «ripetute manifestazioni di apologia del fascismo»)55, riguardo ai quali difficilmente l’imputato avrebbe potuto dimostrare la sua estraneità. In base a questi due addebiti, Volpe veniva colpito non soltanto per essere stato lo «storico ufficiale» della dittatura (per dirla con Salvemini), ma anche per il suo diretto impegno politico che lo aveva visto approvare, «pur avendo addimostrato in varie occasioni una certa indipendenza di giudizio», le ormai famigerate «leggi fascistissime», in Parlamento e nella Commissione dei Quindici e dei Diciotto. A Volpe sfuggiva in ogni caso il contesto generale in cui si era sviluppata quella procedura, che era quello della bonifica, questa volta «antifascista»56, della cultura, per la cui organizzazione ci si rifiutò pregiudizialmente di adottare la ragionevolissima proposta, avanzata da Luigi Russo nell’agosto del 194357, di procedere a un esame non rivol53 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Santarcangelo di Romagna, primo settembre 1944. 54 Nella prima settimana dell’agosto 1943, Leonardo Severi decideva la costituzione di una commissione per il riordinamento e l’epurazione degli atenei italiani. Più tardi la procedura di revoca dall’insegnamento sarebbe stata disciplinata dall’articolo 159 del Decreto Legislativo Luogotenenziale 27 luglio 1944. Sul punto, H. WOLLER, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia, 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 38. 55 L’incartamento relativo al procedimento contro Volpe è in ACS, MPI-DGIU, Fascicolo G. Volpe. Altri dati sono nel fascicolo, Opposizione al collocamento a riposo del prof. Volpe, ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1944-1947, f. 1126, n. 13530/15312. Ogni riferimento, nelle pagine seguenti, è a questa documentazione. 56 Rinnova ampiamente questa tematica il numero monografico di «Ventunesimo Secolo», 2003, 2, dedicato a La pubblica amministrazione dal fascismo alla democrazia, a cura di G. Quagliariello, E. Aga Rossi, V. Zaslavasky, con particolare riferimento ai saggi di G. Melis e M. Giannetto. 57 L. RUSSO, I sedici punti per il rinnovamento della scuola italiana, «Gazzetta di Parma», 28 agosto 1943, ora in ID., De vera religione. Noterelle e schermaglie, 1943-1948, Torino, Einaudi, 1949, pp. 25 ss. Si veda anche, Luigi Russo a Guido De Ruggiero, 8 agosto 1943, in AGDR: «Il criterio delle categorie e non delle persone isolate è il criterio più obiettivo e liberale: bisogna evitare che la persecuzione sia ad homines; vedrai che nelle categorie sono compresi molti malviventi e somari che hanno infestato in questi anni le Uni-
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to alle «persone» ma a piuttosto alle «categorie» di tutti coloro che avevano approfittato della protezione del fascismo per entrare nell’amministrazione dello Stato e per procacciarsi illeciti avanzamenti di carriera. In questo modo, si sarebbe realizzata una «eliminazione organica e obiettiva» e non «soltanto sporadica e arbitraria, ad homines», come poi di fatto avvenne, secondo un’autorevole testimonianza, secondo la quale «l’epurazione, all’inizio almeno, fece saltare tanti piccoli ingenui: i furbi, dagli alti papaveri in giù, avevano trovato il modo di iscriversi ai tre grandi partiti dell’epoca, che ora li difendevano»58. La necessità di evitare una soluzione frettolosa e abborracciata, dal punto di vista del diritto formale e della giustizia sostanziale, era stata già esposta, immediatamente dopo l’8 settembre, da Vladimiro Arangio Ruiz, in un articolo del «Corriere della Sera», nel quale dopo aver invitato a non dimenticare « l’amore per Mussolini di mezza Italia» e il credito goduto dal fascismo presso «fiori di galantuomini e persino (pare impossibile) uomini d’intelletto e di cultura», si ammoniva sulla opportunità di difendere la «recuperata libertà» dal miraggio della «scorciatoia di altre dittature». Se una dittatura, infatti, era caduta, «altre nelle difficoltà attuali se ne sogneranno, o se ne sentirà la nostalgia; se una soluzione fallita era illiberale, altre se ne escogiteranno e altri livellamenti parranno rendersi necessari»59. Né il criterio suggerito da Russo né l’invito alla prudenza di Arangio Ruiz furono però presi in considerazione. Si preferì invece fare riferimento a un opuscolo pubblicato da Croce, a Napoli, il 12 dicembre 194460, nel quale, a parere di Salvemini, «si veniva a circondare l’epurazione di tanti se, ma, però, sebbene, quantunque, da ridurla una commedia»61. Sulla scorta di quel documento programmatico, il filosofo versità e gli istituti di cultura». Dello stesso parere era Gaetano De Sanctis che proponeva di limitare l’espulsione dall’Accademia d’Italia a «coloro che fossero stati introdotti nell’Accademia per ragioni politiche, e non per meriti scientifici, o a coloro che avessero mancato, con cercare vantaggi personali o in altro modo, alla dignità accademica». Si veda, ID., Ricordi della mia vita, a cura di S. Accame, Firenze, Le Monnier, 1970, p. 159. 58 M.S. GIANNINI, Apparati amministrativi, in La Nascita della Repubblica. Atti del Convegno di studi storici, Roma, 4-5 giugno 1987, in «Quaderni di vita italiana», 1987, 3, pp. 245 ss., in particolare pp. 248-249. 59 V. ARANGIO RUIZ, La Scorciatoia, in «Corriere della Sera» 9 settembre 1943, p. 3. Si veda anche Vladimiro Arangio Ruiz a Giovanni Gentile, 12 novembre 1943, AFG: «Il mio articolo era severo contro l’idea della scorciatoia e di chi l’ha rappresentata ieri in Italia, nel nostro povero paese, nella maniera più disastrosa, ma voleva essere anche un monito contro tanti nostri amici che dal miraggio di altre scorciatoie e di altri livellamenti si lasciano affascinare». 60 B. CROCE, Intorno ai criteri dell’“epurazione”, in ID., Scritti e discorsi politici, 19431947, cit., I, pp. 44 ss. 61 Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi, primo febbraio 1949, in E. ROSSI-G. SALVEMI-
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consigliava di astenersi dall’infierire «per segni esterni, secondo l’appartenenza, per esempio, allo “squadrismo”, al “gerarchismo”, ai “consoli”, alla “sciarpa littoria”, perché coi meri segni esterni non si può costruire una scala di maggiore o minore responsabilità e pericolosità». Il metodo, in questo modo individuato, doveva necessariamente degenerare, forse già nelle intenzioni del suo autore, nella trasformazione della giustizia in giurisdizione politica, aprendo vasti spazi a un’amnistia indiscriminata62, e spazi altrettanto larghi a un’individuazione ad personam del colpevole, che sarebbe stato riconoscibile, non per delitti oggettivi, bensì tramite un «esame individuale, da condurre con larghezza di mente, con umanità di cuore e con severità di giudice». In questo modo, si sarebbe poi osservato, «scartato il criterio della tessera, la giustizia epurativa non si è posta nessun altro criterio oggettivo, per colpire o non colpire, a suo arbitrio e a fini di parte»63. Sulla base di questi viziosi presupposti, la manovra di risanamento fu di conseguenza non soltanto un’operazione fuorviata nei suoi principi giuridici da «spropositi a bizzeffe, a cappellata, a montagne, sine fine dicentes» e poi eseguita in maniera lamentevole, disastrosa, a causa dei vecchi vizi nazionali dell’improvvisazione e del lassismo64, né unicamente una occasione storica mancata per un rigoroso piazza pulita di stile giacobino, come si è anche troppo spesso ripetuto65, né ancora un procedimento in cui, fin dall’origine, ebbero largo spazio sentimenti di rivalsa personale e di vendetta privata, come pensava Calamandrei66. Si trattò piuttosto di un lungo interregno di «giustizia politica», così la definiva Croce67, difforme e spesso antitetica dalla giustizia ordinaria, e insieme di un ben calibrato dosaggio delle tecniche coercitive e suasorie del bastone e della carota, volto a realizzare una metodica strategia di conquista del consenNI,
Dall’esilio alla Repubblica, cit., p. 431. 62 H. QUARTITSCH, Giustizia politica, a cura di P.P. Portinaro, Milano, Giuffré, 1995, dove l’accento è soprattutto posto sull’uso politico dell’amnistia. 63 HUMANUS, Fascismo rosso, Roma, Edizioni Faretra, 1946, p. 67. 64 Gaetano Salvemini a Emilio Lussu, 7 agosto 1946 in G. SALVEMINI, Lettere dall’America, 1944-1946, Bari, Laterza, 1967, p. 285. 65 A. GALANTE GARRONE, Il fallimento dell’epurazione. Perché?, Introduzione a R.P. DOMENICO, Processo ai fascisti, Milano, Rizzoli, 1996, pp. V ss.; ID., Il mite giacobino. Conversazione su libertà e democrazia, Roma, Donzelli, 2004, pp. 16 ss. Sul punto, anche, G.P. ROMAGNANI, Alessandro e Carlo Galante Garrone tra storiografia, politica e impegno civile in I Galante Garrone. Una famiglia vercellese del Novecento, a cura di E. Tortarolo, Comune di Vercelli, 2004, pp. 11 ss. 66 P. CALAMANDREI, Diario, cit., II, p. 170-171. 67 B. CROCE, Taccuini di guerra, cit. p. 135, alla data del 3 maggio 1944, dove, contro il parere di «disegni di giuristi napoletani, che si richiamano al principio di non retroattività delle leggi», si sosteneva che la questione dell’epurazione non era «questione giuridica, ma politica». Si veda anche, ivi, p. 136, alla data del 4 maggio.
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so, rivolta al personale politico e intellettuale del Ventennio, come ancora il filosofo napoletano avrebbe finito per concludere68, in base alla quale se era legittimo «perdonare subjectis» (qualunque fossero state le loro responsabilità passate), egualmente giusto risultava «debellare superbos». Era questa la ratio contenuta nello stesso adagio latino, al quale Gentile aveva ispirato la sua tattica di «transigenza» tra fascismo e intellettuali dissidenti o «afascisti» nel dicembre 192569, mentre ai «superbi», appunto, agli irriducibili oppositori si sarebbe minacciato, più tardi, di utilizzare le stesse rigide misure di proscrizione messe in atto dall’Italia liberale per portare a termine il suo cammino unitario, quando, dopo la caduta del Regno borbonico, per decisione del Ministro dell’Istruzione, Francesco De Sanctis, «furono esonerati, d’un tratto, trentaquattro professori di una sola università, quella di Napoli» e messi alla porta «in un sol giorno, tutti i membri di quell’Accademia Reale, per far posto a filosofi, giuristi, archeologi, letterati e scienziati del nuovo regime»70. Un esempio del passato, questo, che, veniva utilizzato anche da Benedetto Croce, insieme a una più vasta casistica storica71, in una nota dei suoi Taccuini del primo giugno 1945. A quella data, il filosofo, che si era posto a capo della commissione di «ricostituzione dell’Accademia dei Lincei» (da effettuarsi previa destituzione dei membri «fascisti» di quella d’Italia)72, rispondeva alle critiche di Vittorio Emanuele Orlan68 Ivi, p. 317, alla data del 17 giugno 1945, dove si parlava dell’epurazione, come di «un lavoro in corso che è stato male impiantato e messo in mano a commissari comunisti, azionisti e democristiani e alle loro clientele e strumenti politici». Sullo stesso punto, insisteva anche F. LUCIFERO, L’ultimo Re. I diari del ministro della Reale Casa, 1944-1946, a cura di A. Lucifero e F. Perfetti, Milano, Mondadori, 2002, pp. 114, 221-222 e passim. 69 G. GENTILE, Discorso inaugurale dell’Istituto Nazionale Fascista di cultura in ID., Politica e cultura, cit., I, p. 268. 70 ID., La formazione politica della coscienza nazionale. Discorso inaugurale all’Istituto Fascista di Cultura, 5 dicembre 1930, ivi, II, pp. 243 ss., in particolare p. 248. 71 B. CROCE, Taccuini di guerra, cit., p. 360, alla data dell’11 novembre 1945: «Mi sono risoluto a fare ristampare in un opuscoletto la mia prefazione alle lettere del Ruffo e in un altro opuscoletto due articoli storici del Petraglione, che potranno riuscire utili per la ripresa delle dispute intorno all’epurazione, riaccese dai recenti decreti del governo Parri». Il rimando è, rispettivamente, a ID., Il “Ripurgo” ossia l’epurazione attuata dalla regina Carolina di Napoli nel 1799, Bari, Laterza, 1945; G. PETRAGLIONE, Epurazioni storiche, Bari, Laterza, 1945. 72 L’8 luglio 1944, un mese dopo la liberazione di Roma, il governatore militare alleato Charles Poletti ordina il commissariamento dell’Accademia d’Italia, e designa Vincenzo Rivera come Commissario. Con successivi decreti del 18 agosto 1944, le autorità italiane formalizzano la nomina sollecitata dagli alleati, riformulando il compito del Commissario (che dovrà ora liquidare l’Accademia d’Italia e promuovere la ricostituzione dei Lincei), e nominando una commissione incaricata di «procedere allo studio e a fare proposte per la costituzione organica dell’Accademia Nazionale dei Lincei». Rivera è chiamato a farne parte, in-
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do, che aveva protestato «contro le radiazioni che abbiamo proposto di un certo numero di socî politicamente compromessi e screditati senza aver contestato ad essi le accuse e senza un procedimento correttamente legale». E la replica era così formulata: «Gli ho ricordato quel che accade a Napoli nel 1860-61 per l’Accademia Reale. Allora si adottò addirittura la formola: destituiti in omaggio alla pubblica opinione!»73. Contro Volpe, e soprattutto contro il suo essere stato simbolo, insieme a Gentile, del tradimento della gran parte dei nostri chierici, sussistevano inoltre altri motivi per colpire e per colpire duramente un singolo al fine di educarne tanti altri. Nella sua condanna si poteva leggere anche il peso delle inimicizie personali accumulate, anno dopo anno, con Croce, De Ruggiero, Omodeo, e il desiderio di arrivare a una «vendetta plebea» e spettacolare, per la quale premevano non solo Togliatti e molti intellettuali comunisti come Concetto Marchesi74, ma anche la totalità di quanti si muovevano nel torbido e velleitario mondo dell’azionismo e del cosiddetto «liberalsocialismo». Nel novembre del 1945, Carlo Levi sosteneva che l’uccisione di Gentile doveva essere considerata come la premessa per un drastico repulisti degli ambienti intellettuali contaminati dal fascismo, affermando che: «Il mondo dell’alta cultura non può essere sottratto a questo processo di rinnovamento. L’assassinio di Gentile fu, dicevamo ieri, il più chiaro omaggio alla cultura da parte del popolo; la mancata epurazione è, al contrario, una offesa alla cultura»75. Non diversa posizione assumeva Calamandrei, quando replicando alle obiezioni di Arturo Carlo Jemolo sul carattere
sieme a Guido Castelnuovo, Gaetano De Sanctis, Guido Emanuele Rizzo, Vittorio Emanuele Orlando, Giuseppe Armellini, Carlo Calisse. La commissione, presieduta da Croce, presenta il 12 novembre 1944 una proposta per l’espulsione di 4 Soci, la conferma di 33 e la sospensione del giudizio sull’ammissione di altri 30. Ma il Ministero della Pubblica Istruzione (dove nel frattempo il ministro Guido De Ruggiero è stato sostituito da Vincenzo Arangio Ruiz) prepara un nuovo decreto legislativo (12 aprile 1945) che detta nuove «Disposizioni relative all’Accademia dei Lincei», tra cui la nomina di un Comitato di sette membri per epurare «con giudizio insindacabile» i soci senza titoli adeguati o compromessi «per il loro contegno nel periodo fascista, tenendo in particolare conto della loro partecipazione ad Accademie create dal regime fascista o ad esse ispirate». Sul punto, G. BOLINO, Vincenzo Rivera e la rinascita dei Lincei, «Rivista Abruzzese di Studi storici dal fascismo alla resistenza», 1981, 2, pp. 74 ss. 73 B. CROCE, Taccuini di guerra, cit., p. 298. 74 Si veda rispettivamente P. TOGLIATTI, Epurazione e cretinismo giuridico, «l’Unità» di Napoli, 7 maggio 1944, in ID., Per la salvezza del nostro paese, Roma, Einaudi, 1946, pp. 143-144 e C. MARCHESI, Fascismo e Università, in «La Rinascita», I, Gennaio 1945, 1, pp. 17-18. 75 C. LEVI, L’uccello trentacinque, in «L’Italia libera», 4 novembre 1945, ora in ID., La strana idea di battersi per la libertà. Dai giornali della Liberazione (1944-1946), a cura di F. Benfante, Santa Maria Capua a Vetere, Edizioni Spartaco, 2005, p. 224.
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retroattivo della legislazione antifascista76, faceva rilevare che nel momento in cui «la tensione politica è tale che senza l’intervento dello Stato le vendette individuali dilagherebbero nella guerra civile, si può pensare che anche il dogma della irretroattività della legge penale debba per forza passare in seconda linea»77. Non, dunque, allontanamento dei responsabili, dopo ampia e meditata indagine, ma liste di proscrizione, tribunali politici, Camere ardenti, giustizia sommaria. Il ricorso al caso d’eccezione e la rivendicazione dell’obbligo di muoversi in una dimensione dichiaratamente extra legale, era infine rivendicato da Mario Vinciguerra, in un intervento dove si chiedeva non giustizia ma rappresaglia contro i crimini, anche di opinione e parola, commessi durante il Ventennio. Per quello che riguardava le cosiddette «Sanzioni contro il fascismo», l’articolo di Vinciguerra, pubblicato sulla rivista «La Nuova Europa», nel gennaio 1945, diretta dal giudice di Volpe, Salvatorelli, osservava infatti che: Non si tratta più di epurazione o di punizione per infrazione ad una legge; ma di depurazione; vale a dire che, ad un certo momento, in considerazione di circostanze eccezionali in cui versa un paese, il potere in funzione – governo o comitato rivoluzionario o dittatore – elimina dalla vita pubblica o dalla vita civile o dalla vita addirittura un settore della popolazione, perché lo giudica responsabile di aver promosso o sostenuto un regime politico accusato, giustamente o ingiustamente, di aver dato luogo a delitti, a scandali e infine di aver provocato la disgrazia del Paese. Ci sono esempi storici famosi: le proscrizioni sillane e quelle più ipocrite e tenebrose di Augusto, che contrattò con Antonio la testa di Cicerone, quella dei puritani al tempo della restaurazione di Casa Stuart in Gran Bretagna; in Francia, il Terrore giacobino e, qualche anno dopo, il Terrore bianco78.
Da questo clima avvelenato, che rapidamente andava vieppiù montando, Volpe era geograficamente e moralmente lontano, tanto da spe76 A.C. JEMOLO, Le sanzioni contro il fascismo e la legalità, in «Il Ponte», 1945, 4, pp. 278 ss., dove l’autore parlava di norme «mal congegnate e peggio attuate», che entravano in conflitto insanabile con «il criterio indiscusso, inderogabile, posto a base del potere di punire dello Stato», per il quale «non può essere punito con sanzione penale se non il fatto che la legge del tempo in cui venne commesso considerava come reato, e colpiva con quella sanzione». Eguale parere esprimeva S. LENER, Diritto e politica nelle sanzioni contro il fascismo e nell’epurazione dell’amministrazione, in «La Civiltà Cattolica», settembre-giugno 1945, pp. 8 ss. e 15 ss. Sul punto, R. SANI, “La Civiltà Cattolica” e la politica italiana nel secondo dopoguerra, 1845-1948, Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 16 ss. 77 A.C. JEMOLO, Le sanzioni contro il fascismo e la legalità, cit., p. 285. 78 M. VINCIGUERRA, Epurazione, depurazione in «La Nuova Europa», II, 7 gennaio 1945, 1, ora in La Nuova Europa, 1944-1946. Antologia di una rivista della “terza forza”, a cura di C. Ceccutti, Firenze, Polistampa, 2005, pp. 61 ss.
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rare, ancora nel settembre del 1944, che «il passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace, dal regime tedesco a quello inglese, da quello fascista a quello, diciamo così, liberale sia senza troppe amarezze e danni»79. Era lo stesso auspicio rivolto a Vittorio Emanuele Orlando, nella lettera del 21 marzo 1945, dove si auspicava che il recente «appello alla concordia», fatto da «chi resse il governo italiano al tempo di Vittorio Veneto», potesse essere ascoltato «tanto da molti di quelli che oggi si accampano vincitori sul corpo semivivo dell’Italia, col proposito di esperimentare in essa loro miracolistiche ricette, quanto di quelli che, avendo sospesa sul capo la spada di Damocle di destituzione, confische, ecc., ed essendo pressoché al bando dalla convivenza italiana, possono trovare non solo difficile la collaborazione ma anche un po’ strano che la si invochi»80. In quella corrispondenza, si accennava, non casualmente, alla «mia sospensione dall’insegnamento, in attesa che la commissione centrale di epurazione accolga o rigetti la proposta di esonero fatta dalla prima commissione, consule Salvatorelli». Forte di quello che si sarebbe rivelato un incauto ottimismo, Volpe aveva manovrato, da tempo, per ottenere una revoca del provvedimento di esonero, con qualche non esile speranza di successo, come gli era stato comunicato da Sestan, il 6 novembre 1944, che lo informava dei passi in suo favore fatti da Fortunato Pintor e dalla buona disposizione di Gaetano De Sanctis nei suoi confronti. Non ho visto Pintor, ma mi ha telefonato ieri l’altro. Ha avuto la sua lettera, le fa molti saluti e le risponderà a lungo appena potrà avere informazioni precise, sufficientemente chiare. Intanto, mi dice di farle sapere che sulla sua persona non c’è nulla, oltre il procedimento di sospensione. C’è un’unica commissione, composta da un magistrato, dal Commissario Sangiorgi, reggente la Direzione generale per l’Istruzione superiore e da Luigi Salvatorelli, la quale deve esaminare la posizione delle diecine e diecine di professori universitari colpiti dal provvedimento di sospensione. Finora, a quasi nessuno sono stati mostrati gli addebiti, dopo l’esposizione dei quali ci sono dieci giorni di tempo per le contro-deduzioni. È da prevedere che le cose tireranno molto per il lungo. È stato, in questi giorni, nominato un Commissario ministeriale per la Giunta Centrale e per i quattro Istituti storici, nella persona di Gaetano De Sanctis. So-
79 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Santarcangelo di Romagna, 12 settembre
1944.
80 Gioacchino Volpe a Vittorio Emanuele Orlando, 21 marzo 1945, cit. Il riferimento era al discorso napoletano di Orlando del 18 marzo 1945. Sul punto, F. LUCIFERO, L’ultimo Re, cit., p. 316, alla data del 20 marzo: «Il luogotenente mi riceve alle 12.30: gli propongo un telegramma a Orlando per il discorso tenuto a Napoli domenica, in cui invita gli italiani a unirsi per salvare la patria. I giornali hanno riportato l’ultima parte dell’orazione che leggo al Luogotenente. Nel pomeriggio invio il testo, che il Luogotenente approva».
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no stato da lui, stamane, a fargli le consegne e a riferirgli sull’Istituto e sulla Scuola. Mi ha chiesto e mi ha parlato di Lei con molta simpatia, e, se non fosse stato che il tempo stringeva, mi avrebbe dato una lettera per Lei. Credo lo farà un’altra volta. Con tutti i suoi 74 anni è mirabile per vivacità d’intelligenza e operosità81.
Ma errava Sestan nell’alimentare quelle speranze ed errava Volpe nel raccoglierle, senza aver valutato la degradazione del contesto politico che l’aprile radioso del 1945 avrebbe poi platealmente rivelato. Se ancora un mese prima di quella data lo storico aveva osservato con preoccupazione che l’Italia aveva nuovamente preso gusto «agli odi di fazione e allo spirito di violenza, a cui ora turpemente si dà il nome augusto di “giustizia”»82, quel sospetto diveniva realtà nel mese di maggio, quando cominciavano ad affluire le prime notizie della feroce «caccia ai fascisti», immediatamente seguita alla liberazione, che avrebbe abbondantemente irrorato le piazze e le campagne d’Italia del «sangue dei vinti»83. Anche Santarcangelo, che fino a quel momento era stata risparmiata dagli eccessi della contesa fraterna, in virtù di un patto di non aggressione, stipulato tra i repubblichini e il Cnl di Rimini84, era minacciata dalla calata di quegli «italiani incendiari che l’altro giorno sono piovuti dal nord come in terra di conquista, ostentando le loro casacche, i loro distintivi, le loro armi da “volontari della libertà”, cupidi di mettere a subbuglio anche questa più equilibrata terra del centro e del sud»85. Nei suoi Taccuini, Croce avrebbe descritto l’escalation di questo nuovo bellum internecium, manifestando il giustificato allarme che la guerra partigiana fosse sul punto di trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia ad un altro totalitarismo, come la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle milizie comuniste locali, andava dimostrando con abbacinante chiarezza. La rivelazione della strage di Katin, avvenuta da parte dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in lui questo timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La
81 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, 6 novembre 1944, cit. 82 Appunto di Diario, 3 marzo 1945. 83 G. PANSA, Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile, Milano,
Sperling & Kupfer, 2003 84 C. PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 20003, p. 233. 85 G. VOLPE, Appunto di Diario, 10 maggio 1945.
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minaccia di una sovietizzazione imposta con la forza, scriveva Croce, si avvicinava anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari comunistici» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo», perpetrata «contro le garanzie statutarie, contro le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito». Tutto questo avveniva, in ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro i fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto del 1945, la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si annotava con raccapriccio: «In quella città, gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra questi trecentocinquanta non identificati»86. Con eguale orrore, Volpe avrebbe redatto uno sparso appunto di diario in cui, posto di fronte alla nuova tragedia italiana, si dichiarava ormai straniero alla propria patria. Che notizie orrende che seguitano a giungere dal nord: fucili e “mitra” lavorano senza tregua, a fare “giustizia”, la giustizia degli uomini fissati nell’idea di giustizia, che è perciò cosa orrenda, figlia della presunzione e dell’odio, frettolosa di trovare “responsabili” di comuni colpe, di scaricare su gli altri anche la parte sua, di assolvere sé condannando altri. Non ritrovo più i miei Italiani, gli Italiani miei concittadini, figli dell’Italia che noi conosciamo e amiamo. Se mai rinascono dalle tombe gli Italiani delle fazioni, dei guelfi e dei ghibellini, impotenti e indifferenti di fronte agli stranieri, ma ferocissimi a scannarsi e depredarsi gli uni e gli altri, frenetici a cacciarsi l’un l’altro di seggio per prendere il posto che l’altro occupava. Io mi vengo ogni giorno staccando da questi Italiani, divengo indifferente alla sorte loro e dell’Italia. Si sente in questi momenti che cosa è la patria: la patria sono gli uomini che la abitano; e se questi ti diventano estranei o nemici, anche la patria se ne va, svanisce ai tuoi occhi, si confonde con quegli uomini. Forse è male che sia così: e io a volte mi domando se non ho torto io: ma tant’è. È, ora, il mio sentimento87.
3. Questa pagina era datata: Roma, 10 maggio 1945. Dalla fine di febbraio, lo storico aveva fatto ritorno nella capitale, dove il verdetto 86 Sul punto, il mio Quando l’antifascismo processò la resistenza, in «il Giornale», 22 aprile 2006. 87 G. VOLPE, Appunto di Diario, Roma, 10 maggio 1945.
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della Commissione Salvatorelli era ratificato da quella ministeriale per l’epurazione del personale universitario che, con il decreto del 19 dicembre 1944, lo aveva ormai dichiarato «indegno di servire lo Stato». Restava però la possibilità di presentare ricorso alla sentenza, presso la Commissione Centrale per l’Epurazione (Cce), che costituiva un vero e proprio tribunale del riesame, presso il quale potevano interporre appello i funzionari della pubblica amministrazione espulsi dal servizio. Composta prevalentemente di membri togati (per lo più magistrati di alto rango, che avevano compiuto la loro carriera durante il ventennio), questo organismo tendeva a considerare il problema dell’epurazione sotto un profilo squisitamente giuridico e non politico, cassando in appello molte sentenze di primo grado88. A metà di febbraio, anche Volpe consegnava alla Cce una domanda di appello. Nella lettera inviata al presidente della prima sezione della Commissione, Stefano Jacini, un vecchio conoscente degli anni milanesi del «Rinnovamento» e dell’«eresia modernista» (poi membro del Cnl lombardo, ministro della Guerra nel gabinetto Parri, passato a militare nella Democrazia Cristiana), lo storico esponeva la sua strategia, confessando, che, profondamente convinto della propria innocenza, aveva deciso non di difendersi o di giustificarsi, ma invece di contrattaccare, delegittimando gli uomini del nuovo regime, che lo ponevano sotto accusa (Omodeo, De Ruggiero, Salvatorelli), e denunciando le loro passate collusioni con la dittatura. Mi permetta di inviare a Lei, direttamente, copia del Memoriale che ho inviato alla Commissione contro la proposta di esonero mio dal servizio per reato di “attiva partecipazione alla vita politica del fascismo” e di “apologia del fascismo”. Un mese e mezzo dopo che fu redatto avrei potuto arricchirlo di altre considerazioni e argomentazioni. Aggiungere, per esempio di quanto dico, dei larghi consensi dati al fascismo fino alla vigilia della guerra e cioè ad un tempo in cui io mi ero distaccato da esso, quel che ora è di pubblica ragione ma io già conoscevo, cioè la domanda e concessione di tessera da parte di un campione di antifascismo, Adolfo Omodeo, professore universitario come me; aggiungere anche il curioso rilievo da me fatto in questi giorni di adesione al fascismo (e se non è sincera anche peggio!) da parte di altri professori, anche universitari, quale risulta da loro libri di testo per scuole medie superiori, assai diffusi, i quali ricalcano la mia Storia del movimento fascista con in più quel frasario di rito che io mi sono sempre guardato dall’adoperare; professori che si trovano in questo momento nelle file dell’antifascismo e potrebbero benissimo sedersi fra i giudici ed esecutori! Ma io ho preferito non entrare in dettagli del genere, che potrebbero sembrare pettegolezzi; pur essendo assai significativi e non inutili per un giudizio e del ventennio e dell’opera mia, che è stata di adesione, libe-
88 H. WOLLER, I conti con il fascismo, cit., pp. 323-325.
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rissimamente e disinteressatissimamente praticata, all’ordine di cose instauratosi nel paese. Neanche ho seguito il consiglio datomi da qualche amico giurista, per esempio, S. E. Massimo Pilotti, di dare al Memoriale carattere giuridico a base di interpretazioni di leggi o decreti e regolamenti. Mi ripugna ricorrere ad avvocati o far di me un avvocato e difendermi avvocatescamente. Più che una difesa faccio una esposizione; più che procedere su terreno legale procedo su quello morale. E avvenga di me quel che vuole accadere! Quel poco che io sono lo debbo al mio lavoro di 50 anni, alla mia opera di maestro e di storico, nella quale qualche segno ho pur lasciato, non al fascismo o antifascismo, come non alla “corrotta e corruttrice Accademia d’Italia”. E ora, se i fascisti mi sequestrano i libri, come è accaduto del 1° volume della mia Italia Moderna, e gli antifascisti, cioè, in ultima analisi, il prof. Salvatorelli, che da parecchi anni mi ha gratificato della sua antipatia e attaccato villanissimamente e, per riconoscimento universale, ingiustamente, mi vogliono togliere la cattedra guadagnata per concorso e mantenuta con fedeltà e onore, tutto questo poco mi tange nella sostanza mia, anche se mi addolora per il mio paese che, mettendosi sulla strada dei risentimenti e delle vendette, potrebbe domani dal vento che semina raccogliere, Dio non voglia, tempesta89.
Non erano accuse del tutto infondate, quelle di Volpe, dato che, sia Omodeo che De Ruggiero, erano stati costretti ad aderire al Pnf, quando, a partire dal dicembre del 1939, le iscrizioni (sino allora limitate alle leve giovanili) furono riaperte a favore degli ex combattenti, con una disposizione che metteva in gravi difficoltà «afascisti» e oppositori, che non avessero voluto approfittare di quell’occasione90. Né invenzione era, come sappiamo, la composizione (senza nessuna costrizione in questo caso), da parte di Salvatorelli, nel 1938, di un fortunato manuale di storia assai elogiativo nei confronti del regime e delle sue realizzazioni
89 Gioacchino Volpe a Stefano Jacini, Presidente della Commissione Centrale di Epurazione, 3 marzo 1945, CV. Il documento è stato pubblicato nel mio, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra, cit. 90 Una testimonianza, che corrobora la tesi di Volpe, è in P. CALAMANDREI, Diario, cit., I, p. 128, alla data del 27 gennaio 1940: «Ieri è venuto a cercarmi a Roma il prof. De Ruggiero, per chiedermi consiglio sulla iscrizione al partito. M’ha detto che egli è il solo professore a Roma in quelle condizioni: che il rettore De Francisci gli ha scritto chiedendogli che cosa intende di fare e spiegazioni sui motivi della sua decisione… Omodeo, pare, ha già saltato il fosso». L’iscrizione di Omodeo al Pnf sarebbe divenuta di pubblica ragione grazie ad un articolo che Alberto Consiglio, con il nom de plume di Babeuf, pubblicò su «Italia Nuova» di Roma il 21 marzo 1945, con il titolo ’O prufessore..., che riecheggiava volontariamente l’omonimo ’O prufessore...dramma napoletano in un atto di Libero Bovio. Al Consiglio replicò Benedetto Croce, senza però negare l’addebito, con l’articolo In difesa di un amico calunniato, pubblicato nel «Risorgimento liberale» del 28 marzo 1945 (ripreso poi da altri giornali), ora in Nuove pagine sparse, cit., I, pp. 422 ss. Sul punto, maggiori particolari nel mio, Un dopoguerra storiografico… Due o tre cose che so di lui, in «Nuova Storia Contemporanea», 2005, 5, pp. 131 ss.
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economiche e militari. Ma erano certamente accuse tali da determinare la rovina di chi, proferendole, si poneva in rotta di collisione con il nuovo establishment politico e culturale. Jacini, infatti, avrebbe accolto quello stralunato apologeticum con parole di fuoco, consigliando a Volpe di contentarsi di «aver salvato la pelle»91. Al di là dell’ostilità di Jacini, l’iter del riesame era stato in ogni caso preventivamente bloccato da un motu proprio di Ivanoe Bonomi, emanato il 25 gennaio92, che disponeva il collocamento a riposo di Volpe e che obbligava la Cce a deliberare l’estinzione del procedimento, mentre era ancora pendente il giudizio di secondo grado. Apprendendo la notizia Rodolico commentava amaramente: «Si comincia male questo nuovo Risorgimento!»93. Era, infatti, un modo di agire sicuramente inusuale e irrituale, anche per una giurisprudenza d’eccezione, che avrebbe, nel 1946, suscitato qualche perplessità nel nuovo Ministro della Pubblica Istruzione, Guido Gonella, il quale osservava che «l’iniziativa di proporre al Consiglio dei Ministri il collocamento a riposo del Prof. Volpe fu presa dal Presidente del Consiglio senza alcuna preventiva intesa con questo Ministero». Fatto che lasciava intendere che il precedente responsabile di quel ramo dell’amministrazione statale (il Ministro, Enrico Molé) fosse stato convinto ad avallare quella decisione da pressioni, provenienti non solo dalla Primo Ministro ma anche dall’«Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo»94. Contro questo trattamento anomalo, da cui si levava un denso fumus persecutionis, si muoveva la solidarietà attiva dei colleghi e dei discepoli, che si concretizzava in una lettera aperta a favore di Volpe, firmata, tra gli altri, da Gaetano De Sanctis, Gino Luzzatto, Sestan, Chabod, Morandi, che così Maturi annunciava al maestro, alla fine di marzo. Ho saputo da Sestan quanto Le è stato fatto. Ricordo tutte le noie che Ella ha avuto per la sua libertà di giudizio nelle lezioni, nelle conferenze, nelle conversazioni. Ricordo la scelta dei suoi collaboratori, dettata sempre da rigorosi criteri scientifici e non da altri. Ricordo i concorsi alle cattedre universitarie e alla Scuola Storica e alla libera docenza, diretti sempre da Lei con puro spirito scientifico. Ricordo che se anche credeva ad idee, per le quali io ho avuto sempre una antipatia istintiva, vi ha sempre creduto per motivi non volgari e le ha sempre seguite con onestà e cavalleria politica, virtù assai rare ai giorni nostri. Ma, ahimé, si potrebbe ancora oggi ripetere l’amaro motto dell’abate Sieyès: “Citoyens, vous voulez être libres, mais vous ne savez pas être
91 Gioacchino Volpe a Federico Chabod 24 dicembre 1950. 92 Il provvedimento era promulgato a norma del del D.L.L. 9 novembre 1945, n. 716. 93 Niccolò Rodolico a Gioacchino Volpe, 26 aprile 1945, CV. 94 Opposizione al collocamento a riposo del prof. Volpe, cit.
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justes”. Avrei perciò sottoscritto assai volentieri l’indirizzo che Luzzatto, Fabro e De Sanctis hanno fatto per Lei, e, sebbene apprezzi la delicatezza di Sestan, non posso non rimproverargli di non avermi posto di sua iniziativa, non avendo il tempo e l’agio d’interpellarmi per iscritto, nella sottoscrizione dell’indirizzo. Egli sa che quando si tratta di Lei io son pronto a fare tutto quello che posso!95.
In realtà, il timoroso Maturi, arruolatosi nelle fila del PdA96, difficilmente avrebbe potuto firmare quel documento, che non sortiva, comunque, nessun risultato. Alla fine di maggio, Volpe apprendeva, anzi, la notizia del suo allontanamento dalla riedificata Accademia dei Lincei97. Il provvedimento ribadiva la decisione formulata da Croce nel novembre 1944, che, in quell’occasione, aveva imperversato con inusitata rudezza, provocando le proteste e il dissenso degli altri componenti della commissione di «ricostituzione» (dove figurava anche Morghen), e in particolare di De Sanctis, che accuserà il filosofo di rigida intolleranza, dovuta solo in parte alla passata battaglia «per la causa della libertà», ma per il resto ascrivibile «al suo rigido e astratto dottrinarismo liberale»98. Almeno da questo momento, come poi avrebbe confessato a Prezzolini, Volpe cominciava a scorgere la mano nascosta del filosofo napoletano99, che sembrava aver tracciato il doloroso itinerario della via
95 Walter Maturi a Gioacchino Volpe, Pisa, 26 marzo 1945, CV. Alla lettera di Maturi, così replicava Volpe, nel corso del mese di maggio: «Non ho mai chiesto a nessuno che tessera aveva in tasca, ho misurato sempre gli uomini come uomini e basta, incoraggiato essi sempre a parlare senza infingimenti. Purtroppo non ho sempre trovato corrispondenza. Accanto a chi non mi ha mai nascosto il suo pensiero, come il carissimo Nello Rosselli, altri che si nascondeva». 96 Con grande ironia, Volpe avrebbe poi commentato la conversione politica del «mite, epicureo Maturi», nella lettera a Chabod del 24 dicembre 1950. 97 Il decreto del 31 maggio 1945, conservato, in Archivio dell’Accademia Nazionale dei Lincei (AANL), recitava «Proposto dalla detta Commissione per la dispensa (addebito: apologia del fascismo, attiva partecipazione alla vita politica del fascismo) avverso tali conclusioni venne prodotto ricorso dall’interessato. Il procedimento di epurazione è per altro interrotto, ai sensi del DLL, 11 ottobre 1944, n. 257, essendo stato il Prof. Volpe con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri collocato a riposo». 98 G. DE SANCTIS, Ricordi della mia vita, cit., p. 159. Sull’argomento, in attesa di un’analisi sistematica, alcuni dati interessanti sono in P. SIMONCELLI, Il dramma di uno scienziato ebreo. Il suicidio di Tullio Terni e l’epurazione ai Lincei, in «Nuova Storia Contemporanea», 2003, 1, pp. 101 ss. Si veda anche G. BOLINO, Vincenzo Rivera e la rinascita dei Lincei, cit., dove è riportata la lettera di Rivera a Giulio Andreotti, nella quale si accenna ai maneggi di Croce per porre l’istituto sotto la sua tutela: «Ci si vuole impadronire dell’Accademia e disporne a piacimento di un gruppetto e magari di un partito. Sembra che dietro le quinte manovri Benedetto Croce». 99 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 15 aprile 1952, cit. Sulla definizione di Croce, in quanto «filosofo epuratore, che non voleva, nel suo liberalismo, che lo Stato for-
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Crucis che gli sarebbe toccato percorrere per lunghi anni. Le asperità di quella strada verso il Calvario si profilavano immediatamente, quando, il 19 agosto, sulle pagine del quotidiano di via Solferino (ora ribattezzato «Corriere d’Informazione» e controllato dal PdA)100, Aurelio Navarria (in altri tempi, assiduo collaboratore del «Tevere» di Interlandi, e ora convertitosi al credo azionista), sosteneva, in relazione alla produzione di Balbino Giuliano, Arrigo Solmi, Francesco Ercole e di Volpe, che «gli scritti fascisti di questi scrittori e di altri, che è inutile citare, dettati con animo servile ed ottuso e non con persuasione libera e spontanea, non hanno valore e però sono condannati per vizio di nascita all’eloquenza impersuasiva o allo sterile sofisma»101. All’attacco, che riguardava in particolare la controversa citazione di un passo di Mazzini102, Volpe rispondeva con una diffida inviata a Navarria, comunicata per conoscenza al commissario Mario Borsa, subentrato alla direzione del giornale, dopo il 25 aprile103, al quale si chiedeva di pubblicare una replica a «riparazione» del torto subito104. Secca
masse animi e coscienze, ma, solo, distribuisse nozioni, e che, convertitosi ad un feroce antinazionalismo, perseguì di eguale odio anche le parole che derivan da nazione», si veda ID., Dieci anni, in «Monarchia», ottobre 1956, in L’Italia che fu, cit., pp. 406 ss.; pp. 410-411, in particolare. 100 Il «Corriere della Sera» che, il 26 aprile 1945, aveva continuato la pubblicazione, con il titolo di «Nuovo Corriere», sotto la direzione di Mario Borsa, aveva preso, a partire dal 22 maggio 1945, l’intestazione di «Corriere d’Informazione», per poi successivamente tornare all’antico nome. 101 A. NAVARRIA, Libri guasti, in «Corriere d’Informazione», 19 agosto 1945. L’articolo, che appariva in prima pagina, sosteneva comunque la necessità di non operare contro queste opere con interdetti censori, degni del regime fascista. 102 Gioacchino Volpe a Cesare Spellanzon, 8 luglio 1949: «Nel 1945, un certo prof. Navarria (?) scrisse di me in un articolo del giornale cose sconce e per giunta asinesche; mi diede del “mentitore sapendo di mentire”, perché avevo in un libro per ragazzi detto di Mazzini, vecchio a Pisa, pressappoco: “Non era contento. Quell’Italia non gli piaceva, voleva più libertà, più popolo, più grandezza…”. Ecco questa parola grandezza in quel momento che noi eravamo in fase di autodeliquescenza, diede il prurigine agli occhi di quel poveraccio: “Ecco, il prof. Volpe mente sapendo di mentire. Mazzini non ha mai adoperato questa parola nel senso da lui…”». Il riferimento è a G. VOLPE, La storia degli italiani e dell’Italia, cit., p. 237. La lettera, gentilmente segnalatami da Antonino De Francesco, è conservata nella Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, Fondo Spellanzon. 103 Sulla direzione di Borsa, eterodiretta dal PdA, si veda l’apologetico e quindi difficilmente utilizzabile, P. MURIALDI, Storia della stampa italiana del dopoguerra, Roma-Bari, Laterza, 1978, I, pp. 57-58; 132-135. Durante la breve direzione di Borsa, venivano sottoposte a procedimento di epurazione molte firme famose: Orio Vergani, Dino Buzzatti, Indro Montanelli. Sul punto, A. BRAVI, L’epurazione dei giornalisti, in «Nuova Storia Contemporanea», 2004, 4, pp. 53 ss. Si veda anche, P. GRANZOTTO, Montanelli, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 98 ss. e S. GERBI-R. LIUCCI, Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, Torino, Einaudi, 2006, pp. 246 ss. 104 Gioacchino Volpe a Mario Borsa, 27 novembre 1945, CV.
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e infastidita era la reazione del responsabile della testata, che invitava Volpe a non parlare di «riparazioni», dato che «ben altre riparazioni, mio caro signore, l’Italia dovrebbe chiedere ai nazionalisti – e lei era del numero – i quali sono i veri responsabili dell’immane disastro in cui siamo piombati e di cui soffriremo per più di venti o trent’anni. Faccia, del resto, quel che crede: io mi limito ad ammirare la sua coraggiosa disinvoltura»105. La risposta di Borsa, colpiva Volpe nel punto più delicato: la sua antica, seppure non lineare, militanza nel nazionalismo, da lui mai rinnegata. E del tutto coerentemente con quella vecchia fedeltà, Volpe si diffondeva in una apologia del suo lavoro di storico, impegnato a valorizzare la «corrente democratica, rivoluzionaria, fortemente nazionale ed unitaria» che aveva avuto il suo esponente di punta proprio in Mazzini. Dato e non concesso che io sia stato il “fervente nazionalista”, che lei dice, non so come si possa logicamente dedursene che quella aspirazione di “grandezza”, che io ho attribuita a Mazzini, debba essere interpretata come aspirazione nazionalista, nel senso deteriore che lei dà a questa parola, e non semplicemente come aspirazione nazionale mazziniana, di quel nazionalismo mazziniano, che nessuno può negare se non altro come spunto suscettibile più tardi, per opera di altri, di altro e diverso sviluppo. Legga, se troppo non le pesa, le tre o quattro pagine che io in quel libretto ho a Mazzini dedicato. E se io per questo debbo “riparazioni” all’Italia, se debbo anch’io essere fucilato e impiccato, questo è da vedere in altra e più propria sede (che non può essere quella del “Corriere d’Informazione”); ma ciò non toglie che altri, per lo meno sino a che anche io non abbia subito quella sorte, debba anche a me riparazioni se, puta caso, mi ruba il portafoglio e lede il mio onore con asserzioni false e calunniose per la mia persona. Insomma, la logica non è il forte della sua risposta. Altro che la mia “coraggiosa disinvoltura”! E a me non rimane se non pregarla ancora perché la riparazione mi sia data. La quale non potrà essere se non la pubblicazione di una breve lettera in cui pacatamente ed educatamente – vogliamo essere anche educati con il signor tal dei tali, che con me è stato più che maleducato – si rileva l’errore e il carattere ingiurioso delle asserzioni del signor Navarria. Se il “Corriere d’Informazione” è, come voglio ancora credere, un giornale rispettabile e lei, come io non dubito, conosce i limiti della critica che ogni giornale ha il diritto e il dovere di rispettare, spero che non mi sarà negato quel che chiedo106.
Per quell’aggressione giornalistica, Volpe non avrebbe ricevuto la sperata solidarietà di Chabod, che riconosceva i torti che il maestro aveva dovuto subire dall’intolleranza del PdA («che di difetti ne ha, e di er105 Mario Borsa a Gioacchino Volpe, 1 novembre 1945, ivi. 106 Gioacchino Volpe a Mario Borsa, 2 dicembre 1945, ivi.
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rori ne ha commessi: e tra questi c’è appunto un certo giacobinismo, che io sono lungi dal condividere»), ma che gli faceva osservare come l’Italia dell’immediato dopoguerra si fosse macchiata di ben altre colpe, lasciando impuniti nazisti e repubblichini che nell’anno finale del conflitto avevano perpetrato eccidi di popolazione civile inerme107. A quella delusione se ne aggiungevano altre più cocenti, provenienti ancora dai suoi discepoli. Il 29 dicembre 1945, Volpe veniva espulso anche dal Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere di Milano, per «ordine del Quartier Generale del governo Militare Alleato». Così notificava all’interessato la disposizione uno scarno biglietto a firma del commissario dell’Istituto, Antonio Banfi (prima firmatario del Manifesto di Croce e poi insegnante presso la Scuola di mistica fascista), in procinto di divenire alto dirigente nazionale del Pci e deputato della Costituente108. In margine a questa comunicazione, Volpe annotava: «Mia epurazione, per ordine del Governo Militare Alleato di Lombardia! Non è da escludere che l’iniziativa sia partita dal “Commissario” Banfi, presidente dell’Istituto Lombardo e già mio allievo all’Accademia Scientifico Letteraria di quella città, dopo il 1905. Ma stento a pensare questo!»109. Già il 6 ottobre del 1945, Volpe aveva tentato di contestare questa misura, in cui veramente poco doveva entrare il volere dei comandi anglo-americani, con una lettera inviata alla presidenza dell’Istituto. Io credevo che, essendo stato sospeso il processo di “epurazione” imbastito a mio carico presso la Commissione Centrale in seguito al mio collocamento a riposo, lo stesso dovesse avvenire di altri e consimili processi. Perciò, oltre che per certo mio fastidio ad occuparmi di cose siffatte, io credetti di non rispondere alla prima lettera di codesto Istituto e non riempire il modulo relativo ai miei precedenti politici. Vedo ora che il processo, finito a Roma, seguita a Milano. E anche Milano mi ricanta la storia della mia “intensa attività politica” e della mia “apologia del fascismo”. Ebbene, Signor Presidente, mi consenta una franca parola. Se mi si fosse chiesto conto della mia attività scientifica e della mia condotta morale o del modo come ho assolto i miei doveri di cittadino negli ultimi venti anni, o meglio da quando io fui eletto membro dell’Istituto, avrei anche potuto ritenere legittima la richiesta ed io sentirmi in obbligo di rispondere. Ed avrei risposto che da allora in poi io ho pubblicato dieci o dodici volumi non indegni; che ho conservato nettissima la mia fedina penale; che ho preso parte volontariamente a trentasei-nove anni alla prima Grande Guerra, guadagnando una medaglia d’argento al valore. Ma ad una richiesta, anzi ad-
107 Federico Chabod a Gioacchino Volpe, 29 novembre 1945. 108 Antonio Banfi, Commissario del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, a
Gioacchino Volpe, 17 gennaio 1946, CV. 109 Ibidem.
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debito, come quelli che mi sono fatti da un Istituto Scientifico, come è il Vostro, io non mi sento in dovere di rispondere e non rispondo. Lascio che la parte in commedia la facciano solo gli “epuratori”. Ai quali mi limito a dire che ho sempre servito non questo o quel regime ma il mio Paese, qualunque regime esso, per volontà della maggioranza dei cittadini e col consenso e l’investitura del Re, si sia dato; che io non ho fatto apologia di nulla e di nessuno, ma ho cercato compiere l’opera di storico, opera volta a fatti contemporanei e perciò da rivedere, da rettificare, da integrare alla luce dell’esperienza più che non debba essere riveduta o integrata ogni opera di storico, ma sempre opera di storico, ispirata a desiderio di verità. L’Istituto si regolerà come crede nei miei riguardi. Se vorrà mantenermi Suo membro ne sarò lieto ed onorato; se mi defenestrerà, non me ne rattristerò troppo e non mi sentirò disonorato. Quando mi accada di fare il bilancio della mia vita non conterò il numero delle Accademie di cui io sia stato parte. Se la S. V. vorrà leggere in seduta di classe o plenaria questa mia, sarò lieto. È bene che epuratori ed epurati assumano a pieno la loro responsabilità110.
La decisione di Banfi avrebbe dato il via ad altri provvedimenti consimili che, proprio nel momento in cui il primo volume di Italia Moderna veniva sequestrato dal Cnl, avrebbero allontanato Volpe da numerose istituzioni culturali, di cui lo storico deteneva da molti lustri la qualifica di socio effettivo111. Erano decisioni, senza appello, contro cui sarebbe stata vana ogni forma di opposizione, che non lo scoraggiavano però dall’effettuare un nuovo ricorso contro la sua messa a riposo, che, decretata a pochi anni dalla data amministrativa di pensionamento, lo privava della soddisfazione morale di poter rientrare, prima del definitivo congedo, nelle aule della Sapienza. A questo fine, il 15 luglio del 1946, Volpe presentava un lungo e articolato memoriale nella mani del ministro Gonella, che rivelava la volontà di non arrendersi e di attestarsi su di un’ultima linea di difesa. Nessuna luciferina abilità dialettica nelle giustificazioni dell’accusato, come avveniva nel defensorium di Carl Schmitt, durante il processo di Norimberga, che si concludeva con l’assunzione della sola responsabilità di aver reso pubbliche «opinioni intellettuali, che hanno portato a molte fruttuose discussioni»112, ma una chiara, positiva esposizione del suo appoggio al regime durante il ven-
110 Gioacchino Volpe ad Antonio Banfi, Commissario del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 6 ottobre 1945, ivi. 111 Annuario della Reale Accademia d’Italia, 1940-1941, cit., p. 62, dove Volpe risultava essere membro delle Deputazioni di storia patria, per gli Abruzzi, la Lombardia, l’Emilia e Romagna, Pistoia e socio dell’Istituto Storico Lombardo, dell’Accademia Virgiliana di Mantova, di quella dei Sepolti di Volterra e della Società Colombaria di Firenze. 112 W. BENDERSKY, Carl Schmitt teorico del Reich, cit., p. 316. Sul punto, ora, C. SCHMITT, Risposte a Norimberga, a cura di H. Quaritsch, Roma-Bari, Laterza, 2006.
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tennio, contrassegnato però da prese di distanza tanto forti da porlo in rotta di collisione con le gerarchie del Pnf e con lo stesso Mussolini, e quindi tale dal configurare certamente il suo «essere stato fascista», ma «fascista a modo mio, indipendente e a volte di opposizione; fascista, se l’accoppiamento è lecito, liberale e meglio si potrebbe dire nazionaleliberale»113. Poteva essere, quella, la strategia adeguata per ottenere una remissione delle colpe, che tanti altri intellettuali, non meno rei di Volpe e anzi gravemente coinvolti persino con la degenerazione antisemita del regime, avrebbero ottenuto a buon mercato, riconquistando tutte le posizioni perdute dopo l’estate del 1943 e finendo addirittura per presentarsi come occulti ma implacabili oppositori della dittatura. Poco sarebbe costato anche a Volpe concentrarsi su questa linea di difesa, invece di abbandonarla bruscamente, contrattaccando con violenza, per trasformare la battaglia legale, che lo riguardava, in una battaglia politica di più ampie dimensioni, come nell’intervento, redatto in quello stesso mese di luglio 1946, dove rifiutava il senso dell’amnistia varata da Togliatti, per il fatto che un pure necessario provvedimento legislativo, indispensabile a restaurare la concordia nazionale, avrebbe dovuto costituire non un atto «di grazia e di perdono ma di giustizia, vera giustizia», inteso a restituire onore e cittadinanza morale a tutti coloro che «il loro dovere hanno creduto compiere, servendo onoratamente quel regime, o meglio, il paese durante quel regime, dai loro uffici alti e bassi e dai loro posti di comando»114. Anche nel suo esposto esibito al Ministro della Pubblica Istruzione, Volpe, respingendo nuovamente le raccomandazioni dei suoi consiglieri legali, preferiva mettere in piedi un contro-castello inquisitorio, che si rifaceva al copione, già ampiamente diffuso, in quello stesso periodo, dalla propaganda del Fronte Liberale e Democratico dell’Uomo Qualunque, guidato da Gugliemo Giannini, che puntava sulla equiparazione morale di fascisti e antifascisti, di epurati ed epuratori e dove si faceva osservare che l’estensione numerica del fascismo rendeva impossibile la sua repressione legale, per l’oggettiva mancanza di giudici che non fossero stati coinvolti con le vicende politiche del Ventennio. In assenza di «antifascisti puri», sosteneva un ben documentato volume, redatto da un ex sindacalista fascista, Mario Pepe, con lo pseudonimo di Humanus e significativamente intitolato Fascismo rosso, la nuova classe politica italiana era arrivata alla
113 G. VOLPE, Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, cit. 114 ID., Per la pacificazione degli Italiani, cit., pp. 354-355. Sulle varie reazioni del mon-
do politico e culturale al decreto di amnistia, si veda M. FRANZINELLI, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006, pp. 95 ss.
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«vigliaccheria estrema» di chiamare «ex fascisti “pentiti” a far da giudici nei “reati di fascismo”, ovviamente confidando che costoro, gli ex fascisti, a prova della sincerità del loro “pentimento” o della loro “conversione”, avrebbero “giudicato” con la massima severità»115. Nell’apologia del luglio 1946, Volpe sposava pienamente le tesi di Pepe (autore, che aveva già precedentemente attirato la sua attenzione)116, e, accantonato l’armamentario giuridico, chiedeva conto, da storico, dell’ampio consenso che il mondo intellettuale italiano aveva tributato al regime, almeno nei suoi primi passi. Un consenso, che lo aveva naturalmente interessato in primissima persona, ma da cui non erano stati esenti molti, che, ora, sedevano sul banco dell’accusa. Ai nomi di Omodeo, De Ruggiero, Salvatorelli, Volpe associava, ora, quello di Luigi Albertini, persuaso come tanti altri liberali della necessità di «uscire a tutti i costi dalla situazione caotica del biennio 1921-1922», di Casati («fatto senatore da Mussolini che, tra 1924 e 1925, accettava un portafoglio»), e di Croce, ricordando il tempo in cui il filosofo che «con le sue critiche e i suoi sarcasmi aveva non poco screditato Democrazia, Massoneria, Immortali Principi, Socialismo ecc., e disposto le menti ad accogliere nazionalismo e fascismo, guardava ancora con benevolenza e fiducia il fascismo e il suo avvento al potere, da lui giudicato un “ringiovanimento dell’Italia”, e in Senato dava ancora voti favorevoli al Ministero, ritenuto per conseguenza legittimo, come legittimo l’atto del Re che aveva incaricato Mussolini di costituirlo»117. Il lungo elenco riguardava anche Calamandrei, del quale si ricordava la collaborazione «alla redazione dei codici così detti “fascisti”», nel 1942118, della quale l’illu-
115 HUMANUS, Fascismo rosso, cit., p. 76. Sull’opposizione del neo-fascismo al processo di epurazione, un quadro dettagliato è in S. SETTA, La Destra nell’Italia del dopoguerra, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 117 ss. 116 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 24 settembre 1945: «Arrigo ti ha cercato il libro che chiedevi. Cercasi italiano [sic]. Ne ho copia anche io. Me lo diede un giovane che era prima all’Istituto di coltura fascista, che ora sta scrivendo una serie di articoli che mostrano in Croce un maestro o ispiratore del fascismo. Bisognerà andare cauti in questi avvicinamenti; ma c’è qualcosa di vero». Il riferimento è a HUMANUS, Cercasi italiani, Roma, Novissima, 1945. 117 G. VOLPE, Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, cit. 118 L’affondo ritornava in ID., Per la pacificazione degli Italiani, cit., pp. 354-355: «Sia ben chiaro e chiaramente riconosciuto che non hanno commesso reato, ma esercitato un loro diritto i tanti che accettarono il caduto regime, sorto, quando sorse, con il consenso, con la fiducia, col plauso della grande maggioranza degli Italiani e sostenuto fin quasi al suo crollo, con opere e scritti, anche da odierni vituperatori: un Calamandrei che collaborò ai codici così detti fascisti, un Salvatorelli che elogiò il “Duce” e il suo governo, altri che chiesero e ottennero la tessera in un momento che tanti fascisti non l’avrebbero più chiesta né accettata. Dobbiamo forse credere che questi e consimili valent’uomini abbiano fatto e scritto quel che hanno fatto e scritto senza sincerità, per far quattrini o per captare onori? Vorrei, per il bene loro, non crederlo».
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stre giurista avrebbe poi fornito un’ambigua giustificazione119, basata soprattutto sulla testimonianza dell’allora Guardiasigilli Dino Grandi120, ma che pure gli era stata aspramente rimproverata da Leone Ginzburg, che appunto a Calamandrei aveva obiettato che contrabbandare quella cooperazione con il regime con l’esercizio neutrale di una «pura tecnica giuridica, al di là dei valori etico-politici» equivaleva a «negare la maggiore importanza e il maggior raggio d’azione delle personalità più eminenti e il vario significato che la loro opera può assumere»121. Obiettive o soltanto tendenziose, le accuse di Volpe risultavano del tutto inefficaci sul piano della difesa personale e anzi del tutto controproducenti, dato che la sua opposizione avverso il provvedimento di collocamento a riposo sarebbe stata respinta con il decreto del Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, del 18 dicembre 1947, emanato quando ormai il ricorrente, compiuti i 71 anni, aveva raggiunto l’età del pensionamento. In quello stesso anno, lo storico otteneva, invece, ampio risarcimento, per le stesse imputazioni che lo avevano allontanato dall’insegnamento, dal foro della giustizia ordinaria, davanti alla quale era stato chiamato a rispondere dell’accusa di aver «partecipato attivamente alla vita politica del fascismo quale deputato della 27° Legislatura, accademico d’Italia e professore di storia moderna nella R. Università». Anche in virtù delle misure stabilite dal Decreto di amnistia e indulto per i reati politici e militari del 22 giugno 1946, utilizzate con grande spregiudicatezza e attraverso una spiccata tendenza innocentista dal foro della capitale122, il procedimento, dibattuto dinnanzi alla Corte d’Assise, era infatti archiviato, per non luogo a procedere, il 23 agosto 1947. Il 30 luglio, la Sezione istruttoria della Corte d’Appello 119 Si veda la lettera di Calamandrei al deputato Antonio Maxia, agosto 1949, in P. CALAMANDREI,
Lettere, 1915-1956, a cura di G. Agosti e di A. Galante Garrone, Firenze, La Nuova Italia, 1968, 2 voll., II, pp. 213-214: «Inesatta e tendenziosa è la solita allusione, detta con intenzione offensiva, alla mia “collaborazione ai codici fascisti” […] essa, invece di un atto di acquiescenza al regime, fu una riaffermazione non priva di qualche coraggio della mia indipendenza di studioso e insieme della mia ostilità al fascismo […] fu opera indipendente di scienziato volta a rendere migliore (o meno peggiore) un codice che doveva servire non ai fascisti ma agli italiani, non collaborazione a un transeunte regime politico (non credo che durante il fascismo si potesse imputare di collaborazione un clinico che si interessasse di costruire nel modo migliore un sanatorio o un ingegnere che perfezionasse i congegni delle locomotive in uso nelle Ferrovie dello Stato!)». Le giustificazioni di Calamandrei sarebbero poi state supinamente riprese dalla successiva letteratura storiografica, come accade in S. RODOTÀ, «Calamandrei, Piero», in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1973, XVI, pp. 406 ss., p. 409 in particolare. 120 D. GRANDI, 25 luglio 1943, cit., p. 179. 121 Leone Ginzburg a Piero Calamandrei, 1 gennaio 1942, in L. GINZBURG, Lettere dal confino, 1940-1943, a cura di L. Mangoni, Torino, Einaudi, 2004, pp. 110-111. 122 M. FRANZINELLI, L’amnistia Togliatti, cit., pp. 187 ss.
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aveva scagionato Volpe da ogni imputazione, con una dettagliatissima sentenza, pienamente assolutoria sul piano penale, come su quello scientifico, politico e morale. Il verdetto concordava pienamente con il giudizio emesso dalla Polizia giudiziaria, relativo al fatto che l’accusato «nel campo della cultura e particolarmente nella storia moderna, ha avuto un posto di primo piano, dovuto alla sua preparazione e al di fuori di influenze fasciste», e concludeva che: L’attività del Prof. Volpe, sia come deputato sia come accademico d’Italia, fu diretta allo sviluppo della cultura e delle scienze, e non ebbe se non pallidi riflessi politici nel campo intellettuale, dove soltanto poté far sentire la sua influenza. Quando si trattò di discutere di problemi politici, che interessavano il regime, egli non concordò nelle linee basilari dei provvedimenti escogitati dal regime stesso, come risulta dagli atti parlamentari. L’eventuale voto favorevole, da lui dato per imposizione della cosiddetta disciplina di partito, pur manifestando dissensi specifici durante la discussione, e la pubblicazione di scritti d’indole storica favorevole alle idee del fascismo non fazioso non possono costituire atti rilevanti nel senso inteso dall’art. 3 del DDL 27 luglio 1944, n. 159, presupponendo questi atti l’esplicazione di una concreta attività politica, che abbia avuto profonde ripercussioni nella vita del regime fascista, in modo da contribuire effettivamente a mantenere in vigore il regime stesso123.
Quel dispositivo giudiziario, forse fin troppo indulgente, ripetiamolo, forniva qualche speranza per modificare la posizione accademica di Volpe, e per consentirgli almeno di usufruire, dopo la sua messa a riposo, del triennio di fuori ruolo. Il tempo sembrava propizio per ottenere questa parzialissima riparazione, nel momento in cui le maglie dei provvedimenti epurativi si erano a tal punto allentate da consentire, come denunciava Calamandrei, il rientro indiscriminato nelle loro cattedre a tutti quei docenti assurti ai fastigi del mondo universitario grazie all’espediente politico della «chiara fama», di cui avevano usato e abusato i ministri dell’Educazione Nazionale, De Vecchi e Bottai124. Ma non solo per chi era riuscito a contrabbandare merito politico per dottrina suonava l’ora di una piena, indolore reintegrazione. L’intero meccanismo della rimozione dei funzionari pubblici attivamente collusi col regime risultava fuorviato da un vizio politico di fondo, che un giovanissimo protagonista di quegli eventi, come Giulio Andreotti, analizzava
123 Sentenza della Corte d’Appello di Roma, Sezione Istruttoria, riunita in Camera di Consiglio, il 22 dicembre 1947, cit. 124 P. CALAMANDREI, Il Consiglio superiore e le nomine per chiara fama (La vertenza tra gli studiosi italiani e il Ministro dell’Istruzione Gonella). Discorso pronunciato alla Costituente, il 15 luglio 1947, in «Belfagor», 1947, 6, pp. 736 ss.
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nel dettaglio, sostenendo che, a partire dal 1944, avendo il comunista Mauro Scoccimarro, responsabile dell’Alto Commissariato per l’epurazione amministrativa, inteso introdurre, in quell’azione, «una finalità di partito, diretta a distruggere integralmente la pubblica amministrazione, perseguendo così una delle mete prerivoluzionarie», si decise, da parte delle forze moderate presenti nel Cnl, di «frenare con un’opera negativa le eventuali intemperanze dell’Alto Commissariato», orientando la punizione dei crimini fascisti «verso l’esame dei tempi lontanissimi dell’antemarcia». In questo modo, il «rispurgo» perse di vigore e ad esso venne meno anche il consenso della pubblica opinione, che aveva «come punto di partenza del suo odio contro il regime l’inizio della guerra ed in modo speciale tutto il periodo dell’occupazione tedesca»125. Testimoniava questa difficoltà, Adolfo Omodeo, che chiamato, nelle vesti di rettore dell’Ateneo napoletano, a ripulire quell’università dagli elementi fascisti, avrebbe confessato pubblicamente di essere riuscito a licenziare solo «qualche bidello»126. Ma più drammatica ancora era una sua testimonianza riservata, contenuta nella lettera inviata al Presidente del Consiglio Parri, il 3 agosto 1945, dove si parlava di alcuni professori universitari «spie notorie e propagandisti del fascismo», anche dopo il luglio del 1943, per i quali neanche l’accertata imputazione di aver attivamente collaborato con nazisti e repubblichini era stato motivo sufficiente per decretare il loro allontanamento dalla cattedra. Alla nota di Omodeo, faceva seguito un preoccupato promemoria del Commissario per l’epurazione, Riccardo Peretti Griva, nel quale si sottolineava la necessità di «rivedere la posizione di parecchie persone altolocate, nei riguardi delle quali il giudizio di epurazione ha dato risultati del tutto indesiderabili», al fine di «dare la dovuta soddisfazione alla pubblica opinione che ha avuto ed ha l’impressione che troppo poco siasi fatto in confronto degli alti gradi e che siasi, invece, soverchiamente incrudelito nei gradi più modesti»127. Il gran perdono riguardava infatti soprattutto gli epurati eccellenti, se il Preside della Facoltà di Lettere di Roma, Cardinali, proponeva, nell’ottobre del 1948, di reintegrare nel ruolo Balbino Giuliano, mini-
125 G. ANDREOTTI, Concerto a sei voci. Storia segreta di una crisi, Roma, Edizioni della Bussola, 1945. Cito dalla recente riedizione, con una postafazione di F. Perfetti, Milano, Boroli Editore, 2007, pp. 18-19. 126 A. OMODEO, L’epurazione universitaria: chiarimenti del Rettore, «Il Risorgimento», 29 settembre 1944, in ID., Scritti storici, politici e civili. Una diuturna polemica, a cura di M. Rascaglia, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 461. Si veda anche, ID., Intervento del Rettore Magnifico Adolfo Omodeo, ivi, pp. 486-495. 127 I due documenti sono conservati in ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1944-47, fasc. 10561.
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stro dell’Educazione Nazionale in quel fatidico 1931, quando il fascismo aveva imposto l’adesione al suo credo all’intero ceto accademico. Di fronte a quella proposta, Chabod, da poco trasferito alla Facoltà di Lettere della Sapienza, dopo un appassionato periodo di politica militante, proponeva di estendere questa misura ad altre personalità del mondo degli studi e di richiamare «alle proprie cattedre tutti i colleghi che ne rimangono lontani, associando al nome del Giuliano quelli di maestri come Biagio Pace e Gioacchino Volpe»128. La mozione veniva accolta, con l’eccezione di una sola astensione, dal Consiglio di Facoltà, che inoltrava una petizione al Ministro della Pubblica Istruzione, dove si sottolineava particolarmente la necessità che l’autore di Italia in cammino venisse «reintegrato e collocato nella posizione che gli compete». Per il richiamo accademico di Volpe si esprimeva anche un appello al Ministro della Pubblica Istruzione, che recava in calce i nomi di Chabod, Maturi, Morandi, Valsecchi, di Giorgio Falco e di numerosi altri storici, datato Roma, primo ottobre 1948, dove si insisteva sull’urgenza di realizzare «un atto di superiore giustizia», ancora più doveroso nel momento in cui «da un anno a questa parte, parecchi professori universitari, di varie discipline, allontanati per motivi politici o collocati a riposo anticipatamente per le stesse ragioni, sono ritornati o stanno per ritornare all’insegnamento in virtù dell’accoglimento dei loro ricorsi o d’altre misure generali»129. A distanza di un solo mese, il 29 novembre, si esprimeva per il reintegro «fuori ruolo» di Volpe anche la Facoltà di Scienze Politiche di Roma, con un deliberato unanime del corpo docente, che così si esprimeva: La Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma, considerato che il collocamento a riposo del Prof. Gioacchino Volpe fu deliberato senza motivazione, in un periodo di poteri eccezionali e di accese passioni politiche; che il Prof. Gioacchino Volpe aveva conseguito la cattedra nel 1905 per pubblico concorso con una brillante relazione, per effetto della quale giovanissimo era stato posto in una posizione di primo piano nel campo degli studi storici; che nella successiva attività di professore universitario, di scrittore e di uomo politico egli ha sempre ispirato la sua condotta ad un superiore senso di equilibrio e di dirittura morale, come ne fanno fede fra l’altro le opere pubblicate durante il periodo fascista (il Medioevo, l’Italia in cammino, Guerra dopoguerra fascismo, 128 R. DE FELICE, Cultura e politica in una pagina ignota dell’epurazione dall’Università di Roma. Per la restituzione della cattedra a Gioacchino Volpe, in «Nuova Antologia», gennaio-marzo 1995, 1, pp. 71 ss. 129 Archivio Chabod (d’ora in poi, AC), III. 1. Dell’appello sono conservate nell’Archivio Chabod due stesure provvisorie (la prima manoscritta, ma non di mano di Chabod, con correzioni e cancellature, l’altra dattiloscritta, con la data del primo agosto), e quella definitiva, da cui si cita, che sarebbe stata consegnata solo nel maggio 1949.
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Medioevo italiano, Momenti di Storia italiana, Italia moderna, etc.); che alcune sue ricerche originali, quali quelle sul Comune italiano e sulle Sette ereticali, costituiscono perenne acquisto della cultura italiana; che nel quarantennio di insegnamento universitario – a Pisa, a Milano, a Roma – tenne sempre altissima la dignità della cattedra, intorno a cui si affollavano folte schiere di giovani, che oggi si onorano di professarsi suoi discepoli, dei quali non pochi hanno acquistato un posto onorevole nel campo degli studi storici ed alcuni sono assunti alla dignità della Cattedra universitaria; esprime il voto che, revocato il provvedimento di collocamento a riposo, il Prof. Gioacchino Volpe sia restituito alla Cattedra, che per tanti anni ha onorato cogli scritti e colle opere; considerato, dunque, che sono state riaperte le iscrizioni al primo anno di corso; che i professori Gioacchino Volpe ed Emilio Bodrero, attualmente a riposo, furono assunti nei ruoli universitari in seguito a pubblico concorso, rispettivamente negli anni 1906 e 1912; che i predetti professori nel lungo periodo del loro insegnamento hanno sempre tenuta alta la dignità della Cattedra ed hanno dato agli studi contributi universalmente apprezzati; che ambedue hanno superato l’età di 70 anni, ma non quella di 75; esprime il voto che i predetti Professori siano richiamati in servizio fuori ruolo, onde la Facoltà possa ancora valersi delle loro opere, a norma e ai sensi delle vigenti disposizioni di legge130.
Il 24 dicembre, Morandi scriveva al maestro, dimostrandosi ottimista sul fatto che «dopo tante iniziative e voti concordi di Facoltà e di Colleghi, Lei venga presto richiamato a quella cattedra da cui mai avrebbe dovuto essere allontanato se non si fosse oscurato il senso della più elementare giustizia»131. Tutt’al contrario, Gonella, lasciava cadere nel vuoto le richieste delle due Facoltà romane e l’appello degli storici. Il ministro democristiano, che aveva attivamente ostacolato, insieme a Croce e a Togliatti, il ritorno di Salvemini132, dava il via libera invece al reintegro, tra 1949-1951, di molti altri docenti, non solo fortemente compromessi con la dittatura ma anche nel sostegno attivo alla piccola Shoa italiana. Mentre il nuovo governo democratico sanciva il definitivo allontanamento di Ernesto Buonaiuti133, e mentre molti studiosi
130 CV. 131 FV. 132 Si veda la lettera a Enesto Rossi del 28 ottobre 1948 in E. ROSSI-G. SALVEMINI, Dal-
l’esilio alla Repubblica, cit., p. 401. Salvemini sarebbe stato reintegrato nell’Università di Firenze il 30 di quello stesso mese, alla fine di un vessatorio percorso amministrativo pendente dal 1945. 133 Buonaiuti veniva riammesso all’insegnamento nell’aprile del 1945, ma in virtù di pesanti pressioni provenienti dalla Curia, esplicitamente ammesse dall’«Osservatore Romano», in quella stessa data, un decreto ministeriale disponeva che il docente dovesse svolgere le sue attività di ricerca fuori dell’università. Sul punto, G. LEVI DELLA VIDA, Un ebreo tra i modernisti, in ID., Fantasmi ritrovati, cit., pp. 141 ss. e F. PARENTE, «Buonaiuti Ernesto», Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1972, XV, pp. 112 ss.
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ebrei recuperavano con grande difficoltà la loro posizione accademica134, Balbino Giuliano, Biagio Pace, Francesco Ercole, Sergio Panunzio, Alfredo Schiaffini, Antonio Scialoja, Giuseppe Tucci, Armaldo Volpicelli, Alberto De Stefani (per concentrarci solo sulle Facoltà romane di Lettere e Scienze Politiche, dove Ciasca subentrava infine a Volpe) venivano tutti riammessi all’insegnamento, tra 1946 e 1950, con rare eccezioni, come quella costituita dal caso di Carlo Costamagna135. Insieme a loro, anche Ugo Spirito, che avrebbe a lungo propalato la favola ficta ac simulata di un suo tendenziale antifascismo, già divulgata durante i vari gradi del procedimento di epurazione che lo avevano riguardato136. Accanto a Spirito, Giuseppe Maranini, professore di Storia del diritto nella fascistissima Facoltà di Scienze Politiche di Perugia, autore nel 1935 del volume Classe e Stato nella Rivoluzione francese, dedicato a Benito Mussolini, che il 12 aprile del 1946 una sbalorditiva sentenza del Consiglio di Stato liberava da ogni addebito relativo alla sua «attiva partecipazione alla vita politica del fascismo», sostenendo che le sue pubblicazioni erano «sostanzialmente intese a rivendicare la libertà contro la sopraffazione dittatoriale»137. Anche Aldo Romano era graziato, in virtù dell’intervento del comunista Eugenio Reale138. Grazia che
134 Si veda, rispettivamente, R. FINZI, Da perseguitati a “usurpatori”: per una storia della reintegrazione dei docenti ebrei nelle università italiane, in Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, a cura di M. Sarfatti, Firenze, Giuntina, 1998, pp. 108 ss.; F. LEVI, Il ritorno degli ebrei alla vita nelle università italiane, in Il difficile rientro. Il ritorno dei docenti ebrei nell’università del dopoguerra, Milano, Clueb, 2004, pp. 53 ss. 135 Sul punto, V. ROGHI-A. VITTORIA, Un “santuario della scienza”: tradizione e rottura nella Facoltà di Lettere e Filosofia dalla Liberazione al 1966, in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia de “La Sapienza”, a cura di L. Capo e M. R. Di Simone. Prefazione di E. Paratore, Roma, Viella, 2000, pp. 567 ss., in particolare pp. 569 ss. Sulla Facoltà di Scienze Politiche, sparsi accenni sono nei saggi contenuti in Passato e presente nella Facoltà di Scienze Politiche, passim. 136 In data 9 maggio 1945, la Commissione centrale per l’epurazione accoglieva il ricorso del filosofo contro la sentenza che lo allontanava dall’insegnamento universitario, con la motivazione che “l’attività dello Spirito quando essa è sembrata pericolosa al regime, e cioè quando il regime si è accorto che i postulati economici ai quali lo Spirito giungeva contrastavano con le esigenze della propria ragione di essere, lo Spirito è stato allontanato, accantonato, dimenticato”. Sul punto, U. SPIRITO, Memorie di un incosciente, Milano, Rusconi, 1977, p. 111. 137 F. LANCHESTER, Pensare lo Stato. I giuspubblicisti nell’Italia unitaria, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 115 ss. 138 G. AMENDOLA, Un’isola, Milano, Rizzoli, 1980, pp. 203-204, dove si aggiunge che la decisione aveva trovato la piena approvazione di Togliatti. Sulla disinvoltura del capo del Pci nel reclutamento di quadri politici e intellettuali compromessi con il regime, si veda I. DE FEO, Diario politico, 1943-1948, Milano, Rusconi, 1973, pp. 133-134, alla data del 15 luglio 1944: «A Togliatti fa capo oramai l’intera organizzazione del partito, che egli cura nei
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gli avrebbe permesso di divenire rapidamente un implacabile inquisitore delle reali o presunte colpe fasciste di altri, compreso lo stesso Croce139. Delio Cantimori, apologeta nel 1940 della legislazione antisemita di Norimberga140, ma ora in quota al Pci, non veniva neppure sfiorato dalla macchina epurativa141. Lo stesso accadeva a Carlo Morandi, dopo la sua accorta adesione al Partito del Lavoro di Meuccio Ruini142. Se la cavava molto a buon mercato persino il «nazionalsocialista» Pagliaro, al quale, alla fine di un complesso procedimento giudiziario, veniva rimessa sostanzialmente ogni pena, anche, e forse soprattutto, in virtù di numerose testimonianze a discolpa, che recavano la firma non solo di Ghisalberti e altri colleghi di Facoltà, come Natalino Sapegno, ma anche di antifascisti illustri come Carlo Antoni, Guido Calogero, i quali tutti avevano sottolineato come la sua contestazione al regime si era già chiaramente manifestata nella difesa ad oltranza delle giuste aspettative di Raffaello Morghen contro le macchinazioni ordite da Gentile, in favore del «fascista Volpe»143. Nell’estate del 1947, anche Morghen, infine, riusciva a ottenere il suo tanto agognato trasferimento, non prima però di aver dovuto affrontare un complesso iter amministrativo, contrassegnato da qualche intralcio e qualche non piccola delusione, sui quali lo stesso interessato preferì stendere un velo di silenzio144. In seguito al procedimento di
minimi particolari. Di ogni dirigente di rilievo, che non conosce, vuole la scheda personale. Non fa molto caso alle compromissioni con il fascismo, se ci sono state, “tanto tutti lo erano”, e a voler fare i puristi ci sarebbe da mettere più della metà degli italiani in campo di concentramento (al Pnf erano iscritti molti milioni). Ma ferma l’attenzione sulle qualità personali e sui servizi che si possono rendere al partito». 139 B. CROCE, Taccuini di guerra, cit., p. 258, alla data del 18 dicembre 1944: «Alda, tornata da Napoli, mi ha portato da parte di Nicolini l’informazione precisa e sicura che colui che scrisse o suggerì al Togliatti le calunnie contro di me per il mio immaginario atteggiamento contro i comunisti durante il periodo del fascismo, è stato il giovinastro Aldo Romano». 140 Il riferimento è a D. CANTIMORI, «Onore», P.N.F. Dizionario di Politica, III, pp. 309310, in particolare p. 309, dove si tesseva appunto l’apologia dell’«Onore» germanico, sentimento che era all’origine dell’apparato legislativo del 1935, il quale costituiva il precedente giuridico della Shoa. 141 E. DI RIENZO, Delio Cantimori uno e bino, in «Elite & Storia», 2005, 1-2, p. 57. 142 Delio Cantimori a Franco Venturi, 21 dicembre 1945, in G. IMBRUGLIA, Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana, Napoli, Bibliopolis, 2003, p. 363. 143 Si veda, il mio, L’università italiana, l’antisemitismo e l’epurazione antifascista, cit., in particolare, pp. 155-156. Il fondamentale intervento di Antoni, a favore di Pagliaro, veniva del tutto emesso nel commosso ricordo di A. PAGLIARO, Commemorazione di Carlo Antoni, in «Atti dell’Accademia dei Lincei-Rendiconti», CCCLIX, 1962, 5-6, pp. 344 ss., ora in ID., Ricordo di Carlo Antoni, in C. ANTONI, Storicismo e antistoricismo, Napoli, Morano, 1954, pp. 3 ss. 144 Sul punto, il riserbo di Morghen fu ferreo. Un riferimento all’intera vicenda è però nella lettera di Alberto Pincherle allo stesso Morghen del 15 maggio 1946. Si veda Lettere a
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epurazione contro Volpe, Morghen aveva richiesto infatti, già nel 1944, di veder rispettato il suo diritto offeso, insistendo sul fatto che la «candidatura del prof. Volpe era stata presentata e sostenuta specialmente dal defunto prof. Giovanni Gentile», con un’azione d’imperio «non tanto ispirata a motivi di convenienza scientifica o didattica, quanto a motivi personali e a motivi di prestigio politico», come risultava «dagli interventi ripetuti, e accertati da sicure testimonianze, presso il Ministro d’allora, al quale Gentile denunziò perfino come antifascisti i sostenitori della candidatura del sottoscritto»145. «La nota onnipotenza del sostenitore di Volpe e le palesi pratiche da questi svolte», sosteneva Morghen, dovevano quindi giustificare «la mancanza di una maggioranza qualificata» relativa alla propria chiamata, e rendere ora possibile il suo passaggio alla Sapienza. Ragioni speciose, le quali non convinsero affatto il Ministro della Pubblica Istruzione, Vincenzo Arangio Ruiz, che nel gennaio del 1945, annullò sì la chiamata di Volpe, ma si guardò bene dall’accettare l’istanza di Morghen, obiettandogli che «la votazione a lei favorevole, essendo avvenuta nello stesso regime fascista che poi ha portato al trasferimento di Volpe: l’una e l’altra sono quindi da ritenersi illegittime». Ma già precedentemente a questo diniego formale, il Ministro aveva accolto con fastidio e disprezzo il tentativo di occupare, via epurazione, la cattedra contesa. In margine al Memoriale che Morghen presentava, nel 1944, il Ministro, a proposito, dell’enfasi che il ricorrente poneva sulle «grandi forze» che avrebbero favorito il trasferimento di Volpe nell’autunno del 1943, obiettava che esse ormai «non erano più grandi forze». E, in relazione al punto, dove Morghen ripicchiava sul fatto che l’azione in favore di Volpe era stata ispirata a criteri di clientelismo politico, Vincenzo Arangio Ruiz replicava con insofferenza: «Ma chi può negare al prof. Volpe una ragguardevolissima produzione scientifica?»146. Produzione scientifica, il cui indubbio valore, in nulla poteva però per mutare il destino dell’autore di Italia in cammino, come evidenziava, tra tante altre testimonianze, la corrispondenza, che nel 1947, da Cambridge, Salvemini inviava a Ernesto Sestan,
Raffaello Morghen, a cura di G. Braga, A. Forni, P. Vian, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1994, p. 46. Anche altre testimonianze si limiteranno poi a ricordare che lo storico “da Palermo passò a Perugia, presso la Facoltà di Scienze Politiche, sperando di succedere a Pietro Fedele, quando, avendo dovuto lasciare la sua cattedra per limiti d’età [sic], questa si rese disponibile. Ma proprio allora una serie di vicende si interposero a ritardare questa successione, non ultima la guerra”. Si veda, R. MANSELLI, Raffaello Morghen, in Atti dell’Accademia dei Lincei. Resoconti, VIII, vol. XXXIX, 1984, 1-2, p. 41. 145 Memoriale di Raffaello Morghen a Sua Eccellenza il Ministro dell’Istruzione Pubblica, 19 dicembre 1944, cit. 146 Ibidem.
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nella quale si stigmatizzava «la pretesa che hanno gli esuli di ricevere privilegi per essere stati in esilio, e di elevarsi a Minosse di coloro che rimasero in Italia». Il primo, almeno in ordine di tempo, tra i fuoriusciti del mondo intellettuale italiano, sosteneva, infatti, che chi aveva scelto la strada dell’emigrazione ebbe «doveri da compiere» diversi, è vero, ma non superiori, da quelli che onorarono molti di coloro che, rimasti in Italia, continuarono la loro normale vita accademica. Conclusione apparentemente generosa, ma che autorizzava un’ampia e indiscriminata legge del perdono, dalla quale però dovevano restare esclusi quelli «che senza necessità, per desiderio di lucro, come Gentile o Volpe, si buttarono avanti a fare manifestazioni che nessuno li obbligava a fare»147. Iniziava, in questo modo, la «grande bugia» del lungo dopoguerra intellettuale italiano.
147 Gaetano Salvemini ad Ernesto Sestan, Cambridge, 23 giugno 1947, in ASNSP.
2. IL PASSATO CHE NON PASSA 1. Dai marosi dell’epurazione antifascista, o meglio dalla piccola tempesta in un bicchiere d’acqua che quei provvedimenti riuscirono a provocare1, moltissimi furono i «salvati» dunque, in virtù di una loro frettolosa marcia di avvicinamento verso un diverso conformismo politico, che Croce avrebbe stigmatizzato, parlando di un nuovo «ruere in servitutem», analogo però, nelle forme e nei modi, a quello che aveva assicurato il massiccio consenso del mondo intellettuale alla dittatura, come dimostrava plasticamente la «folla d’intellettuali o semiintellettuali, che s’iscrive, specie in Roma, al comunismo, e che ricorda tristemente la ressa che consimili arrivisti fecero per iscriversi al fascismo»2. Pochissimi, invece, erano stati i «sommersi», tra cui proprio Volpe, a cui Papini dedicava questo rattristato appunto del suo diario: Rodolico mi racconta che Gioacchino Volpe – il migliore tra gli storici viventi italiani – è ridotto alla miseria, costretto a dar lezioni private. Gli hanno tolto la cattedra (per “indegnità”!); editori e direttori di riviste son riluttanti a pubblicare i suoi libri e i suoi articoli3.
L’annotazione di Papini, datata 25 luglio 1947, era sostanzialmente esatta anche nei particolari. Vero il drammatico impoverimento di Volpe, causato sicuramente dall’inadeguatezza del trattamento di quiescenza, dalla sospensione degli emolumenti di accademico, e soprattutto dalla inarrestabile spirale inflattiva che colpiva tutto il paese e in esso soprattutto coloro che, precisamente come Volpe, privi di beni for-
1 G. PARLATO, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo italiano, 1943-1948,
Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 193 ss., che giustamente parla di «impossibile epurazione» proprio per la quantità degli Italiani direttamente o indirettamente coinvolti con un regime, che aveva posto le sue radici nella massa della popolazione. 2 B. CROCE, Taccuini di guerra, cit. p. 266, alla data del 16 gennaio 1945. Sul punto, E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., passim; M. SERRI, I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte, 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005, pp. 107 ss.; P. BATTISTA, Cancellare le tracce. Il caso Grass e il silenzio degli intellettuali dopo il fascismo, Milamo, Rizzoli, 2007. 3 G. PAPINI, Scritti postumi. II. Pagine di diario e appunti, cit., p. 541.
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tuna e certo non arricchitisi con i cosiddetti «profitti di regime»4, potevano contare soltanto sul reddito dei loro proventi salariali5. Vera, di conseguenza, la notizia della vendita della sua biblioteca, che, ceduta per la parte più pregiata a Federico Gentile6, veniva portata a termine con grande dolore nei primi mesi del 19457. E vera anche la decisione, oltrepassati già i settant’anni, di riprendere l’insegnamento, in «qualche cattedra di qualche istituto superiore indipendente dal Governo socialcomunista», per poter provvedere alle necessità di una famiglia, che, accanto alcuni figli già avviati nel mondo del lavoro e ad alcune figlie maritate, contava anche alcuni membri del tutto dipendenti dal padre8. Vera soprattutto, la chiusura che il mondo intellettuale opponeva, ora, a quello che era stato uno dei suoi più influenti protagonisti, che conduceva la direzione della «Nuova Antologia» a rifiutare i suoi contributi, in virtù della minacciosa pressione di Salvatorelli9, mentre l’Ispi (provvisoriamente ribattezzata Isi, in ossequio ai nuovi dogmi del «politicamente corretto»)10, alla quale Volpe aveva ceduto una parte consi4 Gioacchino Volpe a Federico Gentile, 14 ottobre 1949. La lettera è conservata in Archivio Sansoni (Archivio di Stato di Firenze), d’ora in poi AS. L’intero carteggio tra i due corrispondenti e, salvo diversa indicazione, quello di Volpe con Marino Parenti, s’intende riferito a questo insieme documentario. 5 Si veda Carlo Morandi a Gioacchino Volpe, [senza data, ma gennaio 1947], FV: «L’esiguità dello stipendio (£ 9.300!!), mi pone per la prima volta dinanzi a problemi urgenti di bilancio che non conoscevo a 22 anni, quand’ero professore di prima nomina al liceo con 900 lire (discrete, se non auree) di stipendio». 6 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 18 aprile 1945: «E più di un libro me lo palleggio cinque minuti da una mano all’altra, prima di decidere il suo destino, oppure lo metto in una catasta di “casi dubbi” per un esame più approfondito». 7 Gioacchino Volpe a Federico Gentile, 13 settembre 1948, in AS, dove si ricordava al destinatario di aver ricevuto «30.000 lire al principio del ’45, che erano il corrispettivo di mezza tonnellata di libri, che ti vendei in casa mia». 8 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 28 luglio 1945. 9 Giovanni Papini a Gioacchino Volpe, 23 luglio 1947, CV: «Mi duole assai che tu non possa continuare i tuoi articoli nella “Nuova Antologia”». L’interdetto contro Volpe era stato dettato da Salvatorelli, come si evince dalla lettera di Volpe a Maturi del 7 gennaio 1946. Nonostante quell’atto persecutorio, Volpe aveva potuto pubblicare, in quella sede, alcune anticipazioni del secondo volume di Italia Moderna. Si veda, G. VOLPE, Fra l’uno e l’altro secolo, in «Nuova Antologia», gennaio 1946, 1, pp. 46 ss.; ID., Principio di un Regno, ivi, gennaio 1947, 1, pp. 32 ss.; ID., Partiti politici e contrasti sociali in Italia all’inizio del nuovo secolo, ivi, dicembre 1947, 3, pp. 327 ss. 10 Sul punto, la testimonianza di Volpe in I documenti della politica estera italiana dal 1861 al 1915, in «Il Tempo», 12 gennaio 1956, ora in ID., Nel regno di Clio, cit., p. 184: «L’Ispi, alla fine della guerra, venuto nelle mani del milanese Comitato di liberazione e gettate alle fiamme purificatrici o al macero non poche delle sue pubblicazioni, si chiamò per qualche tempo ISI, senza P, cioè senza Politica, poiché, si sa bene, che, dopo quei felici eventi, le Nazioni non avrebbero più fatto politica, col suo tessuto di volgari interessi e di male azioni, ma solo opere fraterne».
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stente della propria produzione nei primi anni Quaranta11, poneva un vessatorio intralcio alla diffusione e ripubblicazione dei suoi libri. Lo stesso Istituto, che, nel 1942, aveva insistito per avere il privilegio di «poter pubblicare tutti indistintamente i Suoi volumi», ottenuta questa concessione, comunicava ora a Volpe che, pur rivendicandone pienamente la proprietà, non intendeva provvedere al loro smercio12. Il problema riguardava, oltre il Medio Evo, la Storia del movimento fascista, l’insieme delle pubblicazioni di Vallecchi (tra cui Momenti di storia italiana) e anche il primo volume di Italia Moderna, che rischiava di rimanere sequestrato sine die, perpetuando il decreto provvisorio di censura emanato dal Cnl milanese dopo il 25 aprile del 194513. Nell’agosto, Gerolamo Bassani, a nome dell’Ispi, comunicava a Volpe, che le copie del libro, che erano state salvate dalla «requisizione repubblicana», non potevano essere distribuite a causa del loro contenuto. «L’atmosfera odierna dell’Italia settentrionale», sosteneva Bassani, impediva, «pur tenendo conto della data apposta in calce», la diffusione di «un volume con una prefazione che ha delle espressioni molto precise a favore della continuazione della guerra»14. Contro questa misura, dichiaratamente abusiva e che violava smaccatamente la vigente normativa sulla proprietà intellettuale, nei suoi aspetti morali e materiali, ricorreva Volpe nella lettera del 20 novembre 1945, indirizzata al nuovo direttore dell’Ispi, Ugo Campagnolo. Quando un libro è accettato da un editore e stampato, la pubblicazione de-
11 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 6 giugno 1939, AFG, dove si esprimeva il progetto di cedere la gran parte della sua produzione all’Ispi. Su questa cessione, che prevedeva anche l’acquisto da parte dell’Istituto dei titoli della Vallecchi, si veda la lettera di Pierfranco Gaslini a Volpe, 17 giugno 1942, FV: «Quanto ai libri pubblicati già da Vallecchi Le confesso sinceramente che terrei molto a che fossero convogliati tutti presso l’Ispi, “Medio Evo” compreso». Il contratto di stampa con l’Ispi, relativo a quest’opera, sottoscritto da Volpe e da Gaslini, veniva firmato il 30 giugno 1942. 12 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 28 luglio 1945: «Leggo quel che dici dell’Ispi. Dal quale, a tutt’oggi, non mi è venuto segno di vita. Nessuna resa dei conti, nessuna assicurazione su quel minuscolo mio patrimonio rappresentato da 5 o 6 volumi editi da quella Casa. È stata gran sorpresa sentire che il Medio Evo, io l’ho ceduto a forfait». 13 Gioacchino Volpe a Carlo Zaghi 23 aprile 1946, Archivio Carlo Zaghi, Biblioteca Comunale di Argenta (d’ora in poi ACZ): «Sono stato sollecito a farti inviare dalla Sansoni i miei due libri ultimi: Italia Moderna e L’Impresa di Tripoli. Questo esce proprio ora. L’altro uscì, o meglio, si affacciò nell’estate del ’43. Dispiacque ai repubblichini di Salò che lo sequestrarono, per accenni al Re che erano nella Prefazione; dispiacque ai liberatori repubblichini, per la stessa ragione, i quali lo tennero sotto chiave». 14 Gerolamo Bassani a Gioacchino Volpe, 29 agosto 1949, FV. La lettera proseguiva: «Se Ella autorizzasse a togliere la prefazione io penso che assai probabilmente l’Ispi non avrebbe più nessun motivo per attendere la distribuzione».
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ve subito seguire alla stampa, a meno che editore ed autore non concordino di differirla. Nel caso nostro, il libro era già stato pubblicato. Dopo venne il sequestro repubblicano. Caduta la repubblica, non c’era da far altro che ridare via libera al libro. Solo un altro sequestro o divieto dell’autorità costituita poteva giustificare una condotta diversa. Ma sequestro o divieto di autorità costituita non c’è stato. C’è stato solo l’arbitrio dell’editore, che si è fatto giudice politico dell’opera mia. Dopo di che non mi resta se non pregare l’editore di fare il suo lavoro di editore, perché io non debba cercar di far valere i miei diritti e chiamar esso responsabile dei danni materiali e morali che il suo arbitrio mi procura15.
Nei mesi successivi l’Ispi procedeva «arbitrariamente» alla messa al macero (forma moderna della tradizionale messa al rogo) di buona parte della produzione di Volpe, a partire da 2000 copie della Storia del movimento fascista. Aggiungendo la beffa al danno, Campagnolo chiedeva a Volpe di rinunciare ai suoi diritti d’autore per le copie distrutte, ricevendo da questi una sdegnata risposta che molto bene testimoniava l’isolamento dello studioso e dell’uomo: Nessun editore può di sua esclusiva iniziativa procedere a delle soppressioni così radicali di un libro. Anche quando esso ne sia autorizzato da clausole contrattuali, rimane sempre il più stretto obbligo di avvertirne l’Autore che ha pure la sua parola da dire sulla tempestività di un atto del genere e il diritto di rilevare tutte o parte delle copie. Nel caso nostro, nessuna clausola del genere era nel contratto. Debbo perciò insistere su la mia domanda della percentuale sulle 2000 copie. Le mie condizioni non mi permettono di rinunziare a nessuna delle magre risorse a cui posso attingere. La mia coscienza di lavoratore si ribella all’idea che il frutto del lavoro debba andare così malamente disperso. Lei fa appello al mio senso di equità, per rinunciare alla mia parte di guadagno. Ma nel momento stesso che io sono iniquamente privato della mia cattedra universitaria conquistata e mantenuta onorevolmente e fedelmente, e sono quasi messo al bando dalla vita del mio paese; in un momento come questo, mi pare ironia un appello di tal natura. Se io sono, come credo di essere, e come altri crede che io sia, dalla parte della ragione, questa ragione io intendo farla valere16.
Nell’estate del 1945, in soccorso di Volpe, si era mosso Federico
15 Gioacchino Volpe a Ugo Campagnolo, 20 novembre 1945, CV. In margine alla lettera, si legge questa annotazione di pugno di Volpe: «Questione col Comitato di liberazione di Milano, che si prese il controllo dell’Ispi». 16 Gioacchino Volpe a Ugo Campagnolo, 1 febbraio 1946, ivi. Più tardi, Campagnolo proponeva a Volpe una soluzione conciliatoria almeno dal punto di vista finanziario nelle lettere del 23 febbraio e del 27 marzo 1946, FV. Nella corrispondenza, si sosteneva che l’interdizione che aveva colpito l’opera di Volpe era dovuta a ragioni «di carattere commerciale e amministrativo», che esulavano da «ogni considerazione di natura storica o politica, e meno ancora, personale».
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Gentile, postosi, dopo la morte del padre, alla guida della Sansoni, che accettava di accollarsi un vasto programma editoriale, preparato dallo storico insieme al figlio Giovanni17, che prevedeva non soltanto la stampa di Italia Moderna, ma anche la riedizione di numerose sue opere, a partire dal Medio Evo, entrate a far parte del catalogo dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale18, e la pubblicazione di una Storia d’Italia «di cui il 1° volume è pronto e che vorrei intitolare Introduzione alla storia d’Italia, perché arriva sino al principio del ’700 e si studia non tanto di raccontar una storia d’Italia che non esiste, quanto ritrovarne, raccogliere, intrecciare le sue fila che pur si trovano nella storia dei mille statarelli in cui essa si frange»19. Di questo gran programma, poco veramente si realizzò allora, a testimonianza di un mercato culturale che andava mutando i suoi orientamenti e le sue tendenze, almeno per quello che riguardava anche indirettamente l’attualità politica. L’edizione dell’Impresa di Tripoli, finanziata dall’editrice di Firenze, ma pubblicata a Roma, presso Leonardo nel 1946, grazie ai buoni uffici di Ugo Spirito20, veniva accolta da un plumbeo silenzio di pubblico e di critica, forse non del tutto spiegabile con i toni di acceso revanscismo colonialista di un volume, che Volpe aveva inteso pubblicare proprio in quel momento, per intervenire nel dibattito sul futuro dei possedimenti d’oltremare italiani sulla cui sorte si dovevano pronunciare le potenze alleate21. Il Volpe, che si dichiarava anche a guerra finita acceso «africanista»22, non era infatti un’eccezione nel panorama politico italiano, dove era presente un nutrito «partito coloniale», composto anche da Ferruccio Parri, Pietro Nenni, Alcide De Gasperi, Ruggero Grieco e
17 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 24 settembre 1945: «Mi imbastisci un programma di lavoro per il quale dovrei avere 40 anni anziché…. Comunque finirò il 2° volume di Italia Moderna, spero di poter fare a suo tempo una nuova edizione della Storia del Movimento Fascista, sto curando una nuova edizione arricchita di Momenti di storia Italiana. In questi giorni, anche un’altra idea: rimaneggiare migliorandolo, il Medio Evo […] E, poi, ripubblicar la Storia degli Italiani e dell’Italia, un po’ ampliata con la parte romana che è pronta». 18 Sugli oneri del passaggio dei diritti dall’Ispi alla Sansoni, si veda Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 17 novembre 1949: «Lei ricorderà in che condizioni erano l’Istituto ed i Suoi libri, che l’Istituto voleva mandare al macero, ed io rilevai per una cifra che allora, nel ’45, era formidabile». 19 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 24 settembre 1945. Il progetto ritornava nella lettera a Prezzolini del 24 febbraio 1947 (AGP), dove si parlava di «una Storia d’Italia dal V secolo al 1870, un volume di 500 pagine, che è per tre quarti fatto e dentro il ’47 finito». 20 Federico Gentile a Volpe, 5 febbraio 1946. Nell’exergo del volume, appariva, con la data del primo dicembre 1945, la dedica «ai combattenti e lavoratori d’ogni lavoro, vivi e morti, che dal 1885 al 1943 hanno acquistato, dissodato, difeso, con sangue e con sudore, le nostre terre africane». 21 N. KOGAN, L’Italia e gli Alleati, Milano, Lerici, 1963, p. 192. 22 G. VOLPE, Appunto di Diario, 19 marzo 1945.
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Palmiro Togliatti, che ancora nel marzo del 1948 si domandava con artefatto candore: «Se il governo inglese vuole proprio dimostrarci la sua amicizia perché invece che cominciare da Trieste non comincia col dichiarare di esser d’accordo che rimangano all’Italia le sue vecchie colonie?»23. Al fiasco di quella pubblicazione faceva riscontro l’impossibilità finanziaria della Sansoni ad acquisire la collezione «Documenti di storia e di pensiero politico» diretta da Volpe per l’Ispi24. Numerose difficoltà insorgevano per quello che riguardava l’acquisto dei diritti sul Medio Evo, che l’Istituto continuava a smerciare al dettaglio presso i bouquinistes di Milano nella vecchia edizione25, e che la Sansoni riusciva a pubblicare solo nel 195826. Non andava in porto la ristampa del volume Il popolo italiano fra la pace e la guerra, anch’esso di proprietà dell’Ispi e poi rilevato dalla Sansoni27. Fallivano pure le trattative con la Vallecchi per la cessione di Momenti di storia italiana28. Si arenavano i progetti di procedere all’edizione di nuovi titoli29. Né più fortunate si rivelavano le vicende relative all’edizione di Italia Moderna, il cui ultimo e terzo volume sarebbe comparso soltanto nel 195230. Il ritardo nella stampa alimentava un continuo, e a volte violento, contenzioso tra il suo autore, Federico Gentile e il direttore editoriale della Sansoni, Marino Parenti, notevole figura di operatore culturale, intellettuale e bibliofilo, mol23 La dichiarazione di Togliatti era riportata su «l’Unità» del 26 marzo 1948. Sul punto, il mio Togliatti e «gli italiani da buttare a mare», in «il Giornale», 31 gennaio 2005. 24 Federico Gentile a Volpe, 10 settembre 1946: «Quanto a Bassani anche questi ha insistito varie volte con me per la collezione, ed io ho sempre subito risposto rifiutando di acquistarla, perché per quanto le condizioni potrebbero essere buone, per noi era impossibile impegnare altri soldi in libri che vanno piuttosto lentamente». 25 Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 23 maggio 1946: «Con Bassani ho avuto uno scambio di lettere piuttosto vivaci con lui per la faccenda delle bancarelle di Milano, Bassani mi ha detto di aver fatto un’inchiesta ed ha negato che si siano vendute copie dell’Italia Moderna alle bancarelle: quello che è certo che il Medio Evo è stato venduto». 26 La Sansoni pubblicava solo nel 1962, Movimenti religiosi e sette ereticali e, nel 1964, Toscana medioevale. 27 Gioacchino Volpe a Federico Gentile 16 giugno 1949. 28 Gioacchino Volpe a Marino Parenti 14 marzo 1948: «Quanto ai Momenti, le sarò grato se vorrà farmi avere il materiale che è nelle vostre mani. Fallito il tentativo di unificare in un solo editore, il meglio delle cose mie, fallito e per colpa dei tempi e dell’editore, non so, non rimane a me se non sistemare nel modo migliore le cose mie». La lettera è conservata nell’Archivio Marino Parenti della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte «G. Grosso», d’ora in poi AMP. 29 Gioacchino Volpe a Federico Gentile, 20 luglio 1947. 30 Si veda, F. PERFETTI, Introduzione a G. VOLPE, Italia Moderna, cit., I, pp. XXVI ss. e E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 266 ss., dove viene fornito un quadro analitico delle tormentate vicende editoriali che precedettero e accompagnarono la comparsa dell’opera.
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to legato a Giovanni Gentile31. A Parenti, Volpe riservava la parte più violenta dei propri sfoghi che culminavano nella lettera del 10 aprile 1949. Due anni per comporre e stampare e licenziare un volume! Aggiungi che il 2° volume è di formato diverso dal primo, è illustrato, mentre il primo non lo era, sarà rilegato in modo diverso dal primo, e mi sappia dire se io possa essere soddisfatto del mio amico-editore e della ventura che è toccata ai miei libri. Sono arcistufo di sgobbare per quando sarò morto, sgobbare senza prendere un soldo, rifiutare offerte di lavoro lucrativo per attendere ad un lavoro che finora mi ha dato solo amarezze. Dico, senz’altro, che se Federico mi avesse da principio detto che avrebbe pubblicato Italia Moderna, così come ha fatto, lo avrei ringraziato del suo interessamento ed avrei cercato o accettato altrove. E, ora, sorrido al ricordo di quegli anni ’45-’46, quando lui insisteva per accaparrarsi tutti i miei libri scritti e da scrivere…32.
Queste continue, e a volte davvero difficilmente sopportabili, sfuriate riguardavano solo in parte gli aspetti finanziari della vicenda editoriale33, e si concentravano piuttosto sulla mancata capacità di valorizzare i volumi di Italia Moderna. Quell’opera, che solo oggi si è arrivati finalmente a definire il capolavoro di Volpe e sicuramente uno dei più importanti contributi della storiografia italiana del XX secolo34, nasceva infatti sotto «cattiva stella»35. Una volta pubblicata, veniva accolta 31 A. D’ORSI, Il militante e il funzionario. Gentile, Parenti e la cultura fascista, in Un uomo di lettere: Marino Parenti e il suo epistolario, a cura di A. D’Orsi, Torino, Quaderni della Biblioteca di storia e cultura del Piemonte, 2001, pp. 289 ss. 32 Gioacchino Volpe a Marino Parenti, 10 aprile 1949, AMP. 33 Gioacchino Volpe a Federico Gentile 16 giugno 1949: «Io non posso purtroppo dare tutto il mio tempo ad occupazioni che non mi rendono un soldo o solo lustro. Debbo pur vivere, cioè arrotondare le mie grame entrate ordinarie! Sai quanto ho ricavato dai miei diritti d’autore dopo che la Sansoni rilevò i miei libri dall’Ispi? 30 Am. lire da Italia Moderna, un paio di migliaia di lire da l’Impresa di Tripoli: cioè sì e no 700 o 800 l. di prima della guerra. Meglio raccogliere le cicche per le strade!». 34 G. GALASSO, Volpe: genesi e senso di Italia moderna, in «L’Acropoli», 2006, 6, pp. 463 ss. Questo contributo capovolge il giudizio espresso in ID., Croce e lo spirito del suo tempo, cit. dove a p. 342, a proposito dello scontro tra Croce e Volpe, si affermava: «Ma la critica maggiore al Volpe di questo periodo l’avrebbe svolta il Volpe stesso. Basti confrontare il primo volume di Italia Moderna, espressione compiuta del Volpe di questa fase, col secondo e col terzo volume, scritti e pubblicati dopo la catastrofe bellica e fascistica, in cui il ritorno del primo Volpe è addirittura impressionante». 35 Gioacchino Volpe a Rosario Romeo, il 17 gennaio 1960: «Quel libro, quei tre volumi sono nati sotto cattiva stella. Salvo qualche rivista o qualche giornale, nessuno, volutamente, ne parlò o anche solo nominò nell’elenco dei “libri ricevuti”: cominciando dal magno Corriere della Sera, dalla Stampa, dal Giornale d’Italia..». La lettera è riprodotta in appendice a G. PESCOSOLIDO, Volpe e Romeo: il maestro e l’allievo, in «Nuova Storia Contemporanea», 4, 2000, pp. 97 ss. D’ora in poi, tutte le citazioni del carteggio tra Volpe e Romeo
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persino da qualche non piccola difficoltà di distribuzione nel nord della Penisola, di ordine squisitamente politico36, e da un assordante silenzio sulla stampa quotidiana e specializzata, contro la quale veramente poco servivano i rimedi dell’ordinaria e della straordinaria réclame libraria proposti dall’autore37, e neppure il sostegno dell’armatore napoletano Achille Lauro e la sua «ingerenza in giornali meridionali»38. Alle ripetute accuse di disinteresse della Sansoni39, replicava puntualmente Marino Parenti, sostenendo «che non è affatto nelle intenzioni della Sansoni di tenere i libri ad ammuffire nei magazzini, specialmente quando, come in questo caso, si tratta di libri capaci di larga risonanza»40. Le precisazioni non riuscivano a mitigare l’irritazione di Volpe, che nella corrispondenza del 16 giugno 1949 parlava della improrogabile necessità di «combattere l’ostruzionismo e peggio che alcuni manigoldi fanno della mia opera»41. Era un vocabolo, quest’ultimo, che fotografava esattamente la situazione di fatto, e che ritornava nella lettera di Marino Parenti del 23 settembre 1949: Che vi sia dell’ostruzionismo è cosa evidentissima e ne ho avute le prove nei contatti diretti e indiretti ed epistolari, con alcuni dei recensori proposti. Generalmente accampano l’inopportunità di recensire un volume isolato; qualche altro, come lo Spellanzon, dichiara che trattandosi di un’opera politica (storica, ma politica) non crede di impegnarsi in una recensione non sapendo dove l’autore possa andare a finire col terzo volume. Qui a Firenze, con una
sono da riferirsi a questa pubblicazione. 36 Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 12 aprile 1946: «Italia Moderna, che in un primo momento aveva fatto penare, per qualche polemica sorta a Firenze, è già ormai in distribuzione dappertutto e sono contento di averla rimessa sul mercato». 37 Gioacchino Volpe a Federico Gentile, 20 agosto 1947: «Bisogna sostituire alla pubblicità dei giornali che è stata scarsissima, altri modi di pubblicità. Non ti converrebbe anche dar incarico a scrittori di tua fiducia di far l’articolo bibliografico per giornali importanti? Un editore come la Sansoni non dispone di questo necessario strumento? Non si tratta di soffiettare libri, ma discuterli; se necessario criticarli, demolirli; ma parlarne». 38 Gioacchino Volpe a Marino Parenti, 10 luglio 1947, AMP. Recensioni di Italia Moderna apparvero infatti, tra 1947 e 1948, su due giornali controllati dall’armatore napoletano («Il Paese» e «Il Risorgimento»), a firma dei loro rispettivi direttori: Arturo Labriola e Alberto Consiglio. 39 Gioacchino Volpe a Federico Gentile, 6 febbraio 1947: «Credo che di Italia Moderna e Tripoli si sia venduto poco: a causa del silenzio che volutamente si è voluto serbare su giornali e riviste. Ma m’inganno o di questo silenzio un po’ di responsabilità spetta alla Sansoni? Che cosa essa ha fatto perché i giornali ne parlassero? Ad un editore non mancano i mezzi a ciò. Un editore ha sempre i suoi scrittori fidati». 40 Marino Parenti a Gioacchino Volpe, 21 luglio 1949. 41 Gioacchino Volpe a Marino Parenti 16 giugno 1949. Si veda anche Gioacchino Volpe ad Augusto Torre, aprile 1952, in A. TORRE-G. VOLPE, Carteggio, cit., in particolare p. 139, dove si parlava di «sporca, silenziosa congiura del silenzio».
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scusa e con l’altra, nessuno ha voluto prendersi la responsabilità di recensirlo. Ritenterò ancora, ma non posso dirle quale esito potranno avere le mie insistenze42.
Molto amaro doveva essere soprattutto il rifiuto di Spellanzon, un antico collaboratore dell’Ispi, a cui Volpe aveva richiesto, quasi con umiltà, una recensione nella lettera dell’8 luglio 194943. La stessa umiltà di cui l’autore d’Italia Moderna dava prova nel domandare a Giuseppe De Luca un resoconto dell’opera sulle colonne dell’«Osservatore romano», dopo che era venuta meno anche la disponibilità di alcuni esponenti della destra cattolica: Monsignor Pucci e Egilberto Martire, entrambi fortemente coinvolti nell’ascesa del fascismo44. Anche questa preghiera, insieme alle moltissime altre, non riusciva a forare la spessa cortina di silenzio stesa dai molti «che hanno avuto e magari chiesto il libro ma non hanno avuto il coraggio di parlarne, cioè di parlar di me, uomo vitandus, oggetto di particolare antipatia – ben ricambiata – dagli uomini del glorioso Partito d’azione»45. Alla scarna e non sempre entusiasta adunata dei recensori dei volumi di Italia Moderna46, si sottraeva non soltanto Cesare Spellanzon sul «Corriere della Sera» al quale cercava inutilmente di subentrare Gaetano Baldacci, che però vedeva il suo resoconto bloccato dalla direzione47. All’appello mancava, nonostante l’esplicita richiesta
42 Marino Parenti a Gioacchino Volpe, 23 settembre 1949. 43 Gioacchino Volpe a Cesare Spellanzon, 8 luglio 1949, cit.: «Si prenderebbe lei la bri-
ga di dedicare una colonna del “Corriere”, o meno o più a suo piacere, al mio volume, ora uscito Italia Moderna? È il secondo volume; e potrebbe dare occasione di riprendere in mano il primo che uscì in un momento infelice, ed ebbe scarse e distratte segnalazioni. E il “Corriere della Sera” consentirebbe? Non sono in odore di santità, anzi vivo sempre in stato di scomunica che non dico contribuisca in tutto alla mia felicità come a quella dei tiranni di Romagna del ’300 (“ e io bevo e mangio e mi fa pro…”), ma certo non mi impedisce di lavorare […] Perciò mi rivolgo a Lei che so galantuomo e non fazioso oltre che preparatissimo a parlar di un libro del genere, parlarne, s’intende, in piena libertà». 44 Gioacchino Volpe a Giuseppe De Luca, 10 novembre 1949, Archivo De Luca (ADL). 45 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 24 febbraio 1947, cit. 46 Tra gli altri: R. Ciasca, «La Nuova Antologia», 1946, 2, pp. 407-411; U. D’Andrea, «Il Tempo», 30 giugno 1949; N. Rodolico, «La Nuova Antologia», 1950, 1, pp. 96-99; L. Bulferetti, «Rassegna Storica del Risorgimento», 1952, 3, pp. 972 ss.; F. Curato, «Risorgimento», 1952, pp. 127-129. Particolarmente coraggiosa era la recensione dell’azionista Giorgio Vaccarino, apparsa in «Nuova Rivista Storica», 1950, 3-4, pp. 374 ss., dove si anteponeva l’opera di Volpe alla Storia d’Italia di Croce. 47 Gioacchino Volpe a Federico Gentile, 19 febbraio 1952: «Ho ricevuto il volume e ti ringrazio che la gran fatica, vostra oltre che mia, sia venuta a compimento. È un bel volume, almeno editorialmente. Del resto, non giudicherò io. Ti mando un elenco di giornali e persone per la spedizione. Alcuni, dal vostro elenco, li ho depennati. Vi era un Albertini, “Corriere della Sera”? Ma tre anni fa rifiutò quel direttore di far pubblicare una recensione preparata da Baldacci!».
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di Volpe48, anche l’allievo Carlo Morandi, vicedirettore e collaboratore storico del «Corriere di Firenze» e animatore di un periodico di attualità politica e culturale. Ma l’assenza di Morandi era giustificata. Questi infatti comunicava a Volpe, il 24 dicembre 1946: «La mia recensione all’Italia Moderna, scritta per il “Mondo” di Firenze, non vide la luce per la morte del quindicinale. Ora sto modificando per adattarla ad una rivista trimestrale»49. Si trattava, forse, solo di una pietosa bugia, se nel gennaio del 1947, lo stesso Morandi che aveva promesso di recensire L’Impresa di Tripoli, avvertiva in ogni caso Volpe che il suo resoconto avrebbe potuto «incorrere nei fulmini della… nuova censura»50. Una fortissima e insuperabile ostilità a fornire pubblicità a Italia Moderna era stata dimostrata infine dal nuovo direttore de «La Nazione», Giulio Caprin, «uomo non simpatico, filoinglese, tuttora antifascista»51, che pure nel 1940 aveva pubblicato, presso la collana dell’Ispi, diretta da Volpe, un volume scrupolosamente allineato con le direttive di politica estera del regime, dove si affermava che «La Società delle Nazioni è una specie di Santa Alleanza delle nazioni plutocratiche del gruppo franco-anglosassone per garantirsi lo sfruttamento della massima parte del mondo»52. Né Volpe poteva ormai contare sul sostegno di personalità a lui vicine, durante il Ventennio, come Missiroli, che, se nel 1942 si era messo letteralmente a disposizione per effettuare un lancio dei volumi redatti e promossi dallo storico53, nel 1946, divenuto direttore de «Il Messaggero», respingeva sostanzialmente, seppur con molta ambiguità, una sua possibile collaborazione al giornale romano. Circa la tua eventuale collaborazione è ancora un po’ presto per poterti dare un’assicurazione. Ho trovato un’infinità di impegni già assunti dal mio predecessore ed io dovrò fare un gran lavoro di selezione, senza dire che dovrò essere cauto anche per altre ragioni. Dammi perciò tempo e abbi pazienza: mi rivolgerò a te quando qualche avvenimento dovesse richiedere l’intervento di un competente al di fuori di ogni questione politica. Vorrei che l’inizio avvenisse con un argomento molto importante, e tale da giustificare ogni cosa54.
48 La recensione di Morandi era stata sollecitata dallo stesso Volpe nella lettera a Federico Gentile del 16 giugno 1949. 49 Carlo Morandi a Gioacchino Volpe, 24 dicembre 1946, CV. 50 Carlo Morandi a Gioacchino Volpe [senza data, ma gennaio 1945], ivi. 51 Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 17 novembre 1949. 52 G. CAPRIN, Sistema e revisione di Versaglia nel pensiero e nell’azione di Mussolini, cit., p. 13. Il volume riceveva la favorevole accoglienza di Carlo Morandi nell’Introduzione al volume miscellaneo, La critica a Versailles, Milano-Messina, Principato, 1940, pp. V ss., ora in ID., Scritti storici, cit., III, pp. 122 ss. 53 Mario Missiroli a Gioacchino Volpe, 14 febbraio 1942, CV. 54 Mario Missiroli a Gioacchino Volpe, 16 ottobre 1946, ivi. Sulla proverbiale pruden-
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Per ottenere una recensione sul quotidiano romano, aggirando la poca o nulla disponibilità del direttore, Volpe si rivolgeva così, nel 1949, a Widar Cesarini Sforza, ricordandogli l’antica intesa intellettuale: Ricordo che quando uscì la mia Italia in cammino, nel 1927 – una specie di nostro Medio Evo – tu gli dedicasti un bell’articolo che fu stampato addirittura come articolo di fondo, se ben ricordo, sul “Carlino” di Bologna. Ora ti faccio queste due domande: 1° saresti disposto a fare altrettanto o meno in qualunque pagina del giornale, per il 2° vol. di Italia Moderna, uscita l’estate scorsa (abbracciando con una sola occhiata il 1° ed il 2° vol.): e farlo sul “Messaggero”, dove vedo che tu scrivi? E il “Messaggero” lo consentirebbe? Potrebbe anche essere che no, chi conosca il signor “Prudentino”. Io a lui non gli scrivo e non gli chiedo nulla, dopo la accoglienza freddissima che mi fece al mio ritorno a Roma, nel 1945, dopo una molto calorosissima che me ne aveva fatto prima che lo scenario cambiasse. Ma l’iniziativa dovresti prenderla tu… Consentimi di dire che è un’opera seria; che vi è un’ampia visuale su l’Italia del 1° decennio del XX secolo; che alcuni capitoli potrebbero anche essere definiti “belli”, se la paternità non mi inganna. Pensaci mezzo minuto e poi fammi sapere qualche cosa. Se mi dirai di sì ne sarò lieto; se no, amici e lunga vita lo stesso!55.
Anche quella richiesta fu vana, almeno parzialmente, dato che Cesarini Sforza si limitò a redigere una striminzita segnalazione bibliografica dei volumi, non senza provocare una replica di Volpe in una lettera più amara, questa volta, che veramente irritata: Mi sono portato qui in campagna molte lettere rimaste “inevase”. E ve ne trovo, ahimé!, anche una tua, nientedimeno del 24 maggio. Una lettera irata, in risposta ad una mia telefonata conchiusa “in modo disgraziato”, come tu dici. Perché disgraziata? Posso avere un po’ sorriso, dopo tante esperienze fatte, cominciando col tuo direttore, di un amico che parla di un mio libro sopra un giornale e non me ne manda neppure una copia; posso aver pensato che quella recensione fosse relegata tra gli annunci economici e mortuari, dato che io, scorrendo il giornale, non l’avevo scorta. Tutto qui. E posso avere ricordato, per contrasto, lo zelo con cui il tuo direttore, una volta, dedicava le tre o quattro colonne alla mia Storia del movimento fascista e al mio Vittorio Emanuele e a non so quale altro libro, con uno zelo da apologeta, e le quattro fredde parole con cui, nel ’46, al mio ritorno a Roma, rifiutò una eventuale collaborazione al giorza e il trasformismo di Missiroli, che gli consentirono di attraversare indenne l’incendio di due cambi di regime (nel 1924 e nel 1943), si veda il ritratto di I. MONTANELLI, Pantheon minore (Incontri), Milano, Longanesi, 1950, pp. 201 ss. 55 Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Roma 14 dicembre 1949, AWCS. Il giudizio su Missiroli si faceva più aspro nella lettera ad Augusto Torre dell’aprile 1952: «I maggiori giornali si ostinano nel boicottaggio, “Corriere”, “Stampa”, “Messaggero” sì, anche Missiroli pare non ne voglia sapere, egli che, una volta, bastava che io pisciassi in una cantonata, perché lui mi dedicasse un paio di colonne».
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nale. La realtà, poi, quando lessi il tuo annunzio o segnalazione bibliografica, in parte smentì in parte confermò quel che avevo pensato. Ma io non ho l’abitudine di essere troppo esigente con gli amici, specialmente quando “de me ipso agitur”. Quindi ti ringrazio lo stesso di quel che scrivesti. È stato sempre molto di più di quello che hanno stampato o, meglio, non ha voluto stampare un giornale come il “Corriere”, che rifiutò un articolo di un suo proprio collaboratore dedicato a Italia Moderna. Et de hoc satis56.
La stessa ostilità accompagnava sostanzialmente le altre vicende editoriali dell’opera, nonostante che lo stesso Federico Gentile si fosse adoperato con successo per espungere dal terzo volume una prefazione dai toni violentemente polemici, che Volpe avrebbe invece voluto pubblicare come atto di sfida rivolto ai suoi attuali nemici e detrattori57. Questa però appariva separatamente sulle pagine del settimanale «Idea» di Roma dell’8 giugno del 1952 e conteneva una nuova rabbiosa recriminatoria contro il decorso storico che aveva fatto seguito all’aprile del 1945. Peggio fu quel che seguì, negli anni tristissimi seguiti al 1945. Non mi riferisco, è necessario dirlo?, alle mie personali disavventure, di cui nulla mi cale o solo mi cale in quanto, capitate a migliaia di buoni italiani, di fedeli e disinteressati servitori della nazione, sono anch’esse dimostrazione del crollo politico e morale dell’Italia, della sempre viva e ricorrente faziosità degli italiani, della scarsa capacità loro, pur con tanti osanna alla ricuperata libertà, di vivere veramente in libertà. Mi riferisco invece alla rovina della mia patria, che ha visto annullato o ridotto in brandelli il sudato frutto di quasi cento anni di lavoro; sovvertite le leggi interne e la nozione stessa di diritto e certi concetti tradizionali dei popoli civili sul lecito e sull’illecito in fatto di politica; messo sugli altari transfughi ed eroi della facile strage; mutilato il territorio nelle sue frontiere, già raggiunte col sangue di 600.000 morti; rapinate dai soliti insaziabili accaparratori e monopolizzatori le colonie, dove già la vita del popolo italiano cominciava ad espandersi e fiorire, con i benefici che il tempo avrebbe dimostrato inestimabili sotto tutti i rapporti, anche d’ordine morale, per noi e per gli altri; impoverita e umiliata la nazione tutta e aggiogata al carro dei vincitori; cac56 Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Santarcangelo di Romagna 12 ottobre 1950, AWCS. 57 Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 15 novembre 1951: «Ed ora, mi permetta, caro Professore, un’osservazione? Ho letto solo ieri la sua Prefazione, che da un certo punto di vista mi ha commosso. Ho capito la sua amarezza infinita dinnanzi alle rovine di tutto un mondo nel quale Lei ha creduto; e ho pensato anche a quello che ne avrebbe sofferto mio Padre, oggi, se avesse potuto assistere a questo sconquasso. Tuttavia temo che quella prefazione non giovi al libro: non per ragioni politiche, delle quali non mi sono mai curato, ma perché temo che il Suo libro abbia una vita sua, indipendente da quello stato d’animo polemico espresso in quelle prime pagine che invece possono ancora fuorviare il giudizio dei soliti critici. Ma forse è solo una mia impressione».
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ciato al bando il Re e la Dinastia che tanta parte erano stati della nuova Italia e assolvevano pur sempre una funzione forse insostituibile nella vita della nazione, e cancellati con stupido sadismo tutti i segni e simboli che li ricordavano agli Italiani; ridotta tutta la penisola a “zona di influenza”, a “base di operazioni” o “chiave del Mediterraneo”, per uso più altrui che nostro. Così abbiamo riacquistato, in cambio, libertà e democrazia58.
Consapevolmente o inconsapevolmente, Volpe scavava un fossato invalicabile tra la sua persona, le sue opere, i pochi amici di ieri sopravvissuti e i fin troppo numerosi avversari di oggi. Solo nel gennaio del 1950, dopo la comparsa di alcuni resoconti positivi59, Federico Gentile poteva registrare un parziale cambiamento di clima, che bene faceva sperare per il futuro. Mi mandi dunque i primi capitoli del III volume di Italia Moderna, che passerò subito in tipografia. Credo convenga farlo uscire al più presto possibile, visto che finalmente si sono fatte delle recensioni ai primi volumi e si va rompendo quel cerchio di silenzio ridicolo, cattivo e purtroppo dannoso che si era fatto intorno al suo nome. Lo stesso va succedendo per i libri di mio Padre, quanto ne sia contento, Lei lo crederà. Ma io non ho mai disperato che dovesse prima o poi avvenire. Le dirò, anzi, che comincio a credere che questo stia avvenendo molto prima di quanto fosse possibile prevedere qualche anno fa. Spero che questo la incoraggi a mandare avanti i suoi lavori60.
2. Era una previsione davvero troppo ottimistica, come poi avrebbe concluso lo stesso Volpe, nel 1952, con un amaro sfogo rivolto a Prezzolini: Avrai forse visto il 2° volume di Italia Moderna; fra un paio di mesi uscirà il terzo. Ma ahimé! Massiccio e forse indigesto volume, e conterrà i suoi spropositi; ma non dovrebbe essere ignorato dagli organi della pubblica informazione, a meno di non mutarli in organetti personali in cui dare sfogo alla propria faziosità. Ma ormai siamo a questo in Italia, caro Prezzolini. Anche giornaloni come Corriere, come Stampa si sono rifiutati di pubblicare cenni bibliografici che loro collaboratori ordinari avevano scritto di quel libro. Io, per me personalmente, me ne… Ma ti assicuro che assai mi dolgo per il mio paese, per questa miseria di animi, per questi stracci che ad ogni vento mutano posizione, per questo vivere così superficialmente ogni convinzione. Se domani vengono i
58 G. VOLPE, Storici e maestri, cit., pp. 298-299. 59 Gioacchino Volpe a Federico Gentile, 9 gennaio 1950: «Il 2° volume ha avuto
qualche recensione: Giusso su “Idea”; Operti su la “Gazzetta del Popolo” di Torino; Valsecchi sul “Tempo” di Milano; Cavalari su “L’Arena” di Verona; De Mattei su “Giorni” di Roma». 60 Federico Gentile a Gioacchino Volpe, 26 gennaio 1950.
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Russi o rinasce il fascismo giuro che vedremo ancora la stessa cosa…61
La volontà di operare un deliberato accantonamento dello storico dalla vita culturale del nostro paese, che aveva provocato, nel 1949, anche l’allontanamento di Volpe dal Bureau del Comitato Internazionale di Scienze Storiche62, era infatti lontana dall’interrompersi. Inoltre, come per un perverso meccanismo, le reazioni dell’autore di Italia Moderna risultavano perfettamente funzionali ad accelerare il corso non solo della sua emarginazione ma anche della sua criminalizzazione politica. In questo periodo, e fino agli inoltrati anni ’50, Volpe diveniva, infatti, la «grande firma» del giornalismo della destra revanscista, che promuoveva un’aggressiva campagna di opinione su quotidiani e periodici di ineguale valore e spesso di diversissimo orientamento63. La lunga lista di questa nebulosa giornalistica comprendeva il «Meridiano d’Italia» guidato da Franco Servello, dopo l’assassinio del primo direttore Franco d’Agazio, il settimanale «Rivolta Ideale» di Giovanni Tonelli (primo organo di stampa a dimensione nazionale del neofascismo, che sponsorizzerà la nascita del Msi, e sulle cui pagine sarà attivo Volpe), il «Nazionale» di Enzo Maria Gray, «Asso di bastoni» di Pietro Caporilli, «Fracassa», «l’Elefante», «Barbarossa», il «Carroccio», «Europa Nazione», «Lotta politica», «Imperium», «Governo», «Rataplan», «Rosso e nero», «Vita del lavoro», l’«Idea» di monsignor Pietro Barbieri, «Nazionalismo sociale», codiretto da Edmondo Cione e Francesco Palamenghi Crispi, «Il Pensiero nazionale» (la rivista «antiborghese» e anticlericale di Stanis Ruinas, a cui collaborava attivamente Concetto Pettinato, reduce dall’esperienza di direttore della «Stampa» durante la Repubblica Sociale)64. Su quelle testate, Volpe moltiplicava i suoi interven61 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 15 aprile 1952, cit. 62 La richiesta di esclusione proveniva dal Comitato nazionale italiano, che, tramite Gae-
tano De Sanctis, rendeva noto al presidente dell’organizzazione, lo svizzero, Hans Nabholz, di non essere disposto ad accettare di essere rappresentato da Volpe a causa del suo impegno politico, prima del 1943. Al posto di Volpe, subentrava nell’incarico Luigi Salvatorelli. Sul punto, si veda K.D. ERDMANN, Toward a Global Community of Historians, cit., p. 191. 63 Sul punto, U. DI MEGLIO, Il ruolo della stampa nella nascita del Msi, in «Rivista di Studi Corporativi», 1981, 5-6, pp. 219 ss.; G. DE’ MEDICI, Le origini del Msi. Dal clandestinismo al primo congresso, 1943-1948, Roma, Istituto di Studi Corporativi, 1986; P. IGNAZI, Il polo escluso. Profilo storico del Movimento Sociale Italiano, Bologna, Il Mulino, 19982, pp. 24 ss.; G. PARLATO, Fascisti senza Mussolini, cit., pp. 171 ss.; G. TASSANI, Le destre e il fascismo risorgente: i tempi della legge Scelba (1947-1952), in Mario Scelba. Contributi per una biografia, a cura di P. L. Ballini, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 199 ss. Qualche dato è anche in G. DE TURRIS, I non conformisti degli anni Settanta. La cultura di destra di fronte alla contestazione, Milano, Ares, 2003, passim. 64 E. ARCIDIACONO, Concetto Pettinato direttore della “Stampa” durante la Rsi, in «Studi Storici», 2002, 2, pp. 573 ss.
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ti sulla crisi materiale ma soprattutto morale del dopoguerra65, e contro la mitologia della guerra di liberazione. In sintonia con le posizioni di Carlo Silvestri e Piero Operti ma soprattutto con quelle di Giovanni Tonelli66, quel conflitto veniva considerato soltanto e unicamente una spietata resa dei conti fratricida, ad opera prima della vendetta illegale e poi di quella legale dei vincitori, quando «restaurato il Governo, entrarono in attività le leggi eccezionali, la punizione dei “delitti fascisti”, la “epurazione”, le leggi con valore retroattivo, mantenute anche quando la nuova Costituzione le condannò»67. Anticipando la materia di questa polemica, il 20 luglio 1946, nella Lettera aperta al direttore di “Pagine libere”, Volpe aveva sostenuto che il nuovo regime che governava l’Italia doveva attivamente impegnarsi nel riconoscimento delle ragioni dei «perdenti», in assenza del quale pareva vano pensare di «voler ricostruire il tempio distrutto con le formulette e i formuloni dell’antifascismo ad oltranza, con i soli uomini dell’antifascismo, magari passati dal fascismo all’antifascismo, rimasti nel ventennio a guardare o andatisene per il mondo a sommuovere le opinioni pubbliche contro l’Italia, a sollecitare la guerra contro l’Italia e in ultimo, con stupida credulità o con orrendo calcolo, ad aiutare anche la vittoria contro l’Italia». In caso contrario, concludeva Volpe, l’attuale moto di opinione per la riconciliazione nazionale «troppo ricorderebbe quell’“offensiva di pace” che nell’autunno del 1918 si scatenò sul nostro fronte contro i combattenti e che i combattenti, pure assetati di pace, respinsero»68. A questa esternazione non esente da velate minacce, seguiva la replica egualmente minacciosa de «L’Italia libera» che, il 13 settembre, ospitava uno sdegnato articolo titolato Un apologeta del fascismo. 65 G. VOLPE, Frugando tra i rottami, in «Terza Strada», 13 luglio 1947, pp. 1-2; ID., Ieri oggi e domani (colloqui sul Rubicone), in «Lotta Politica», 19 ottobre, 1949, p. 5; ID., Italia, Italia, Italia, in «La Sonda», 3 dicembre 1949, p. 3. 66 C. SILVESTRI, Contro la vendetta, Milano, Longanesi, 1948; ID., Mussolini, Graziani e l’antifascismo, Milano, Longanesi, 1949; P. OPERTI, Lettera aperta a Benedetto Croce. Con la risposta di Croce, Torino, Lattes, 1946, pp. 16 e 33. Si veda anche, G. TONELLI, Costi quel che costi, in «La Rivolta ideale», 11 aprile 1946, p. 1: «Le violenze da due anni non hanno sosta: esecuzioni più o meno sommarie, folle innumerevoli, cacciate tumultuosamente nelle carceri e nei campi di concentramento e al confino con leggi che sono un insulto al diritto; vendette private cruente o morali che si moltiplicano con ritmo forsennato». 67 G. VOLPE, Dopo il fascismo, «Idea», giugno 1949, ora in ID., L’Italia che fu, cit., pp. 215. ss. 68 ID., Lettera aperta al direttore di “Pagine libere”, in «Pagine libere», 20 luglio 1946, ivi, pp. 360-361. La rivista «Pagine Libere», diretta a Vito Pannunzio, figlio del giurista Sergio, riprendeva il titolo della famosa testata diretta dal padre e da Angelo Oliverio Olivetti, che aveva caratterizzato il dibattito sul sindacalismo rivoluzionario al principio del secolo. Il periodico, fondato nel novembre del 1946, costituiva la prima rivista di carattere culturale dell’area neofascista.
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Esce a Roma una rivista creata da alcuni giovani fascisti che abbandonarono Mussolini il 25 luglio e si camuffarono da liberali, ma che ora – col favore dell’amnistia e della mancata confisca dei profitti di regime – riabbracciano il credo totalitario. L’ultimo numero di questa rivista pubblica una lettera aperta di Gioacchino Volpe. Si mette a dettare costui, quasi fosse ancora gerarca, le condizioni per la pacificazione degli italiani. Per italiani intende naturalmente gli ex-fascisti, i semi-fascisti e fascisti; gli altri sono “rinnegati”. Come primo atto della pacificazione il Volpe contesta la legalità “di quelle leggi, di quei decreti, di quei tribunali, di quei giudici in virtù e per opera dei quali ieri si irrorarono centinaia di condanne a 20 e 30 anni di galera e oggi si spalancano le porte ai condannati”. Com’è noto, il solo tribunale legittimo era, agli occhi dello storico Volpe, il Tribunale speciale che i 20 o 30 anni di carcere li infliggeva agli antifascisti come noi e alle cui sentenze non facevano seguito generose amnistie ma tutt’al più, dopo molti anni di carcere sofferto, qualche incerto condono, consistente il più delle volte nel trasferimento a Ponza e a Ventotene. Dopo di che il Volpe è perfettamente a suo agio nel tessere una nuova apologia del fascismo, nuova solo per la sua brevità, che per il resto non fa che riassumere il contenuto delle sue opere anteriori, note per i falsi che contenevano e per i molti quattrini che a spese dello Stato italiano procurarono al loro autore. Come conclusione della sua rassegna storica del fascismo, il Volpe dovrebbe parlare anche della guerra. Se la sbriga affermando che “il nostro giugno 1940 poté rappresentare più che altro un infelice tentativo di parare le conseguenze di una schiacciante ed esclusiva vittoria di quello che allora pareva il vincitore”. Il che lascia aperta la porta a due ipotesi: la prima delle quali consiste nel supporre che Mussolini abbia fatto il doppio gioco e sia entrato nel conflitto per far perdere la guerra ad Hitler, e la seconda nell’ammettere che il leonino Duce badasse a una sola cosa, a trarsi sempre dalla parte del più violento e del più forte, dalla parte che consente meglio agli sciacalli di soddisfare le loro brame. Per disgrazia dei leoni, degli sciacalli e delle volpi, nel nostro caso, il più violento non fu alla fine il più forte, e il Volpe si vendica di tale ingiustizia della storia rivolgendo agli antifascisti l’accusa che “per ammazzare un partito hanno ammazzato l’Italia”. Perché come sanno tutti gli storici furono gli antifascisti a mandare il nostro esercito a dissanguarsi nei Balcani, in Russia, in Etiopia, in Egitto e in Tunisia. Senza le vivaci e bellicose insistenze di Benedetto Croce nessun soldato italiano avrebbe mai lasciato il suolo della patria. Non manca, infine, nello scritto di Volpe, l’invito a ricostituire il fascismo, un fascismo meno truce di quello di Starace e Farinacci, ma più ipocrita, degno di Bottai e di Dino Grandi. Orbene per gli insetti del tipo di Volpe non si può avere che del disprezzo. Ma si sappia fin d’ora che se qualcuno prendesse sul serio le loro sollecitazioni, rischierebbe di cadere, come già avvenne ad altri, sotto l’implacabile collera del popolo italiano. E senza aspettare, questa volta, 22 anni69.
Nel ricordo dell’assassinio di Gentile, davvero esplicito era l’«avver-
69 Un apologeta del fascismo, in «Italia libera», 19 settembre 1946, p. 2.
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timento» a Volpe, proferito dal quotidiano azionista di Roma, a cui seguiva il 10 dicembre del 1949 un attacco del «Mondo», che denunciava lo storico come «neo-fascista» e al quale Volpe replicava accettando e anzi rivendicando a suo onore questa definizione70. Nel luglio di quello stesso anno, il foglio diretto da Mario Pannunzio aveva parlato (con esplicita citazione di Volpe), degli intellettuali che si erano fatti organici al «delinquenziale» regime di Mussolini con queste parole: Di quella banda di canaglie si fecero dottrinari, illustratori, storici, moralisti, rapsodi uomini che prostituirono il loro passato o per ambizione o per imbecillità. Tra questi, e non tra i minori responsabili, lo storico Gioacchino Volpe (il quale, fra parentesi, nel ventennio mai chiese l’abrogazione delle leggi eccezionali fasciste). Nel caso specifico, c’è da domandarsi se egli si prostituì per l’una o per l’altra ragione. Il fatto che il settantatreenne storico scriva oggi quello che scrive, come se nulla fosse successo, ci fa propendere per la seconda ragione71.
A questa nuova scorreria giornalistica, tanto più pericolosa in quanto collegava sistematicamente in un continuo senza fratture il fascismo di ieri e il fascismo di oggi dello storico, Volpe aveva pensato, il 12 ottobre 1949, di opporre una querela indirizzata al Procuratore della Repubblica di Roma72, poi mai presentata su consiglio di un noto penalista romano, che riteneva vana ogni azione legale atta a contrastare la ben articolata campagna diffamatoria73. Sempre nel luglio del 1949 compariva un corrucciato corsivo de «La Voce Repubblicana»74, redatto per stigmatizzare l’ospitalità e il consenso che il «Giornale della Sera», nella persona del suo direttore Tullio Benedetti («monarchico e conservatore, ma al tempo stesso galantuomo, gentiluomo e antifascista») aveva concesso a un nuovo intervento sulla «pacificazione nazionale» stilato da Volpe, e cioè a un «ex storico mediocre e poi, per lungo tempo, fabbricatore di miti pseudo storici ad uso della dittatura». C’è da restare di stucco nel veder definito dal direttore del Giornale della Sera il Volpe come “insigne storico”: c’è da restar di stucco a veder avallata la “pacificazione” propugnata dal Volpe, che è tanto poco pacificazione, cioè rasserenamento nei valori della libertà e della democrazia, che si unisce alle peg-
70 G. VOLPE Lettera aperta al direttore dell’«Idea», 15 dicembre 1949. Ora in ID., Saluto ad un maestro, cit., pp. 179 ss. 71 L’articolo compariva nella rubrica Taccuino, «Il Mondo», 16 luglio 1949, p. 3. 72 Il testo della querela, stesa nello studio dell’avvocato romano, Amedeo Fiore è in CV. 73 Di questo parere legale parla una nota aggiunta da Volpe in margine alla querela: «La querela, poi, non fu presentata per consiglio di Ungaro». 74 Uno storico insigne, in «La Voce Repubblicana», 6 luglio 1949, p. 1.
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giori menzogne e alle più nauseanti ingiurie verso gli uomini e le forze politiche che hanno ricondotto il Paese a libera dignità; c’è da restar di stucco a vedere approvato come utile o addirittura risolutivo per l’equilibrio e il progresso della vita pubblica il rafforzamento del M.I.S. e a vedere accettata la patente di vera italianità che il Volpe largisce ai neofascisti, coerente esso, con quella esaltazione dei fattori patologici e della istintività più cruda che caratterizza tutti questi “chierici traditori”, moralmente ben più colpevoli e politicamente tuttora più nocivi che non i piccoli avventurieri già delle squadre d’azione o gli ex ras del defunto regime. È, dunque, proprio impossibile che i gruppi e le forze conservatrici in Italia evitino la collusione con la reazione peggiore e con la peggiore cialtroneria pseudoculturale?
La polemica contro Volpe si spostava più tardi dal piano politico a quello intellettuale e personale, per culminare nell’affondo di Carlo Salinari, una delle più ortodosse incarnazioni del nuovo intellettuale organico del Pci, che in un violentissimo articolo del settembre 1952, pubblicato con risalto da «l’Unità»75, definiva lo storico un «uomo finito, un relitto del passato». L’attacco era in questo caso motivato dall’assegnazione a Volpe del premio Valdagno, generosamente finanziato dall’industriale tessile Marzotto, per il terzo volume di Italia Moderna. Il riconoscimento veniva attribuito da una giuria, presieduta dallo storico della letteratura Toffanin e composta dai giornalisti Ansaldo e Missiroli, anche a Papini e a Borgese che, commentava Salinari, «non ha partecipato alla festa e alla premiazione per il senso di ribrezzo che doveva procurargli il trovarsi alla stessa tavola» con gli altri due premiati che si erano ingiustamente attribuiti la ricompensa al posto di Chabod e di Vasco Pratolini. L’assenza di Borgese, che molto comunque aveva perso intanto del suo prestigio presso la cultura di sinistra, era infatti funzionale alla volontà di non coprire con la sua presenza un’operazione che deliberatamente si proponeva di «respingere indietro la cultura italiana, cancellare le conquiste dell’idealismo crociano, del realismo narrativo, di uno storicismo sempre più duttile e aderente al reale; cancellare la polemica contro il pensiero cattolico, la lotta contro il provincialismo, l’assimilazione delle correnti di avanguardia della cultura europea; cancellare ogni fenomeno di cultura che abbia resistito al fascismo sia direttamente sia indirettamente». Quel premio infatti altro non poteva apparire che una «congiura contro l’intelligenza» e a favore «dell’oscurantismo e della corruzione», come bene si attagliava all’ideologia del suo fondatore, esponente di spicco del vecchio capitalismo monopolistico e parassitario. Una congiura, in ogni caso destinata al fallimento, visto che quella competizione così munificamente dotata, rispetto a 75 C. SALINARI, I premi dell’oscurantismo, in «l’Unità», 27 settembre 1952, p. 3.
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manifestazioni più povere ma più prestigiose (lo Strega, il Viareggio) nulla o pochissima eco, se non negativa, aveva avuto nel pubblico degli specialisti. E il disprezzo e l’indifferenza degli intellettuali italiani è l’aspetto più consolante e positivo di tutta la faccenda, perché è segno che non è tanto facile comprare la nostra cultura. E conferma quell’antico proverbio che ammoniva che la farina del diavolo finisce in crusca. La farina del conte Marzotto, accumulata sul lavoro e lo stento di migliaia di uomini, non poteva che finire nella crusca di Papini, di Volpe e di Borgese.
Era, questo, un auspicio, che si era già perfettamente realizzato, se i direttori dei maggiori quotidiani nazionali si rifiutavano, anche in quell’occasione, di parlare di Italia Moderna, «sebbene loro collaboratori o redattori li sollecitassero a farlo», come Volpe scriveva a Parenti, aggiungendo che «anche ora che al “Corriere” è Missiroli, che pure fece parte del premio, non è da credere che le cose muteranno: egli rappresenta, pur sempre, il mondo ufficiale, governativo, parlamentare, anche a Milano, anzi lì più che a Roma, e questa è la sua “missione”, sempre»76. In questo quadro, il fendente di Salinari appariva davvero come il colpo di grazia assestato al «lion morente», se si considerava la situazione di Volpe, in questo momento esposto al fuoco di fila di un’altra e più aggressiva polemica da parte di Salvemini, all’interno di un’indagine giornalistica intenzionata a portare luce definitiva sull’uccisione dei fratelli Rosselli77. Anche in questo caso, Volpe aveva per primo offerto il fianco all’attacco, pubblicando nel giugno 1947, sul settimanale di Torino «Terza strada» (un foglio di chiara tendenza neo-fascista, diretto dal figlio, Giovanni), un Ricordo di Nello Rosselli, poi prontamente inviato alla madre del defunto78. Nell’articolo, si assicurava che Nello Rosselli, pur opponendosi al regime, non era certo «un assoluto e incondizionato antifascista, nel senso fazioso e astioso che poi a quella parola è stato dato. Era e si sentiva liberale, ma ben vedeva e giudicava molte iniziative di quel governo»79. Con questa affermazione Volpe non intendeva che ribadire un suo personale convincimento già espresso immediatamente dopo l’assassi76 Gioacchino Volpe a Marino Parenti del 10 luglio 1952, AMP. 77 E. ROSSI, I Rosselli, «Il Mondo», 21 aprile 1951, 16, p. 8; G. SALVEMINI, Carlo e Nel-
lo Rosselli, «Il Ponte», 1951, 5, pp. 449 ss. 78 Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico, 21 luglio 1947, in G. FALZONE, Una corrispondenza fra Gioacchino Volpe e Niccolò Rodolico, cit., p. 99: «Tu dovresti fare il piacere di recapitare il numero che contiene un mio Ricordo di Nello Rosselli alla famiglia, possibilmente alla madre Amelia, se è ancora viva». 79 G. VOLPE, Ricordo di Nello Rosselli, in «Terza strada» 22 giugno 1947, pp. 3-4.
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nio di Carlo e Nello, nella lettera di condoglianze alla madre Amelia, divenuta ora di pubblico dominio80, e che, come si sa, riappariva anche nel necrologio pubblicato nel 1937 su «Rivista Storica Italiana». Ma quelle testimonianze, pubbliche e private, si erano incrociate tuttavia, direi inconsapevolmente, con la strategia pubblicistica del regime che prima su alcuni fogli della destra estrema francese, poi sui maggiori quotidiani italiani, infine sulle più autorevoli fonti di stampa internazionale aveva cercato di accreditare la tesi secondo la quale il delitto Bagnoles-sur-l’Orne aveva trovato il suo terreno di cultura nei contrasti interni dell’emigrazione antifascista81. Nel 1951, Salvemini faceva di quel collegamento casuale un collegamento oggettivo e, sulle colonne del «Mondo» del 16 giugno, attaccava con virulenza Volpe, definito «il migliore storico della sua generazione» ma anche un «antico familiare di Mussolini», che in relazione alla morte dei Rosselli aveva scelto l’arma dell’«insinuazione dolciastra», piuttosto che della «diffamazione brutale», per suggerire «l’idea che dopo tutto la diffamazione potrebbe ben contenere qualche granello di verità»82. A quelle parole roventi, Volpe replicava nella lettera al direttore de «Il Tempo» di Roma del 6 luglio, definendo Salvemini un «antropofago della democrazia», che, divenuto ottuso alla comprensione della storia italiana nei lunghi anni di esilio, «vuole tutti gli italiani di allora fatti a sua immagine, li vuole tutti frenetici di odio antifascista, tutti fuoriusciti, in atto o in desiderio, tutti complottanti, tutti invocanti o aspettanti, fin dal primo giorno, liberazione o liberatori»83. La polemica tra i due storici si trascinava così sul terreno della rissa personale, che solo la morte dello studioso pugliese avrebbe parzialmente mitigato84, ma non perdeva di vista il nodo del contendere. Toc80 A. LEVI, Ricordi dei fratelli Rosselli, Firenze, La Nuova Italia, 1947, p. 53. 81 Sulle ombre del delitto Rosselli, R. DE FELICE, Mussolini il duce. II. Lo Stato totali-
tario, cit. pp. 420 ss. La segnalazione di una pista comunista, per l’omicidio dei Rosselli, sarebbe stata rilanciata, da un fuoriuscito antifascista, vicino al movimento di Giustizia e Libertà. Si veda, C. PUGLIONISI, Sciacalli. Storia dei fuoriusciti, Milano, La Biblioteca di Libero, 2003, pp. 79 ss. Sul punto, compiutamente, F. BANDINI, Il cono d’ombra. Chi armò la mano degli assassini dei fratelli Rosselli, Milano, SugarcoEdizioni, 1990. 82 G. SALVEMINI, L’affare Rosselli. I: La congiura dei bugiardi, ivi, 16 giugno 1951, 24, pp. 9-10. L’articolo recava come sottotitolo «La calunnia dopo l’assassinio». Sulla genesi e la prosecuzione della campagna di stampa contro Volpe, si veda E. ROSSI-G. SALVEMINI, Dall’esilio alla Repubblica, cit., pp. 524 ss. 83 Ora in G. VOLPE, L’Italia che fu, cit., pp. 234 ss. 84 Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico, 16 novembre 1966, CV: «Sempre eccessivo in tutto il nostro scomparso amico! Eccessivo anche quando definiva me: “il miglior storico della nostra generazione” o quando mi ingiuriava sul «Mondo», insinuando persino che io potessi avere qualche complicità nell’assassinio di Nello Rosselli!!! […] Con ciò non disconosco sue buone qualità intellettuali e morali». Della stessa stima intellettuale per l’av-
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cava infatti a Salvemini ribattere con maggiore durezza, in un nuovo pezzo del «Mondo», pubblicato il 4 agosto85, che faceva seguito ad altri due interventi sulla stessa materia86. Nell’articolo, Volpe, Anfuso e c., il campione della storiografia emigrata legava tendenziosamente il nome di Volpe a quello di Filippo Anfuso, sottosegretario di Mussolini, ambasciatore a Berlino del governo di Salò e attualmente autorevole senatore del Msi, che nel 1948 era stato processato (e poi prosciolto) in relazione all’assassinio dei fratelli Rosselli, con l’accusa di essere stato la longa manus del mandante dell’esecuzione, Costanzo Ciano87. A questa chiamata a correo di Volpe, Salvemini aggiungeva la pubblicazione di alcuni documenti importanti tratti dalla corrispondenza di Amelia Rosselli. Tra questi la lettera dell’11 settembre 1937, con la quale la madre di Nello contestava la qualifica di «afascista» attribuita al figliolo dal suo maestro88, e quella del 30 dove si negava a Volpe il permesso di pubblicare presso l’Ispi il volume Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847, frutto dell’alunnato nella Scuola di Roma, che poi avrebbe visto la luce solo nel 195489. Nell’articolo Salvemini non riproduceva solo la corrispondenza del 1937, ma anche una nuova lettera di Amalia, che il 12 novembre 1947 accusava Volpe di aver operato nel passato e ora di continuare a operare «torbidi travisamenti della verità», che andavano respinti con fermezza «in nome del rispetto per la memoria di chi, non essendo più su questa terra, non può difendersi da sé». Era quanto bastava per attribuire a Volpe la colpa infamante di aver sistematicamente e volontariamente tentato di infangare l’immagine di uno dei martiri dell’antifascismo.
versario aveva dato prova Salvemini, proprio negli anni della maggiore persecuzione contro Volpe. Si veda la testimonianza di A.M. GHISALBERTI, Maestri e compagni di strada, Città di Castello, Tiferno Grafica, 1972, p. 111. 85 G. SALVEMINI, Volpe, Anfuso e c., «Il Mondo», 4 agosto, 31, pp. 9-10; ivi, 13 ottobre, 41, p. 8. 86 ID., L’affare Rosselli. II: La Cabala di Palazzo Chigi, «Il Mondo», 23 giugno, 1951, 25, pp. 9-10; L’affare Rosselli. III: La giustizia indolente, ivi, 20 giugno, 1951, 26, pp. 9-10. 87 F. ANFUSO, Roma, Berlino, Salò, 1936-1945, Milano, Garzanti, 1949. 88 Amelia Rosselli a Gioacchino Volpe, 11 settembre 1937, in G. SALVEMINI, Volpe, Anfuso e c., p. 9: «Mi permetta di dirle per quel rispetto che io debbo alla figura morale del mio figliolo, che i suoi sentimenti non si erano mai e non si sono mutati da quanto, in tempi lontani, egli sostenne fermamente e serenamente, e proprio per questi sentimenti subì le più dure prove». L’originale della lettera è conservata in CV. 89 G. SALVEMINI, Volpe, Anfuso e c., p. 9. A questa corrispondenza seguiva l’invio di due altre lettere, concordate con la moglie di Nello, Marion Rosselli, alla data del 20 novembre 1937 e del 29 marzo 1938. Nell’ultima si leggeva: «Noi quindi le chiediamo in cortesia di consentire al ritiro del manoscritto, già da lei consegnato al suddetto editore. La mia nuora verrà personalmente a ritirare il manoscritto, ed Ella vorrà dirci se essa dovrà recarsi a Roma o a Milano, munita di una sua riga di autorizzazione».
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Un’accusa questa che Salvemini, dopo aver sostenuto che la protezione fornita da Volpe a Rosselli equivaleva soltanto alla preparazione di un «alibi antifascista»90, a sua volta riprendeva nel finale, solo apparentemente conciliante, dell’articolo. In connessione con l’affare Rosselli, si discute non sul prof. Volpe storico, ma sul prof. Volpe galantuomo. Il prof. Volpe lo ha capito benissimo. Ha capito anche che io, ricordando in lui “il primo storico della sua (e mia) generazione”, gli ho imposto “doveri maggiori che ad altri”, cioè ho aggravato la sua colpa non per le bugie e calunnie, che egli non ha mai dette, ma per le insinuazioni equivoche, di cui si è reso responsabile, e alle quali sono preferibili le menzogne brutali91.
L’eco dell’«affare Rosselli» proietterà nel futuro prossimo un’ombra inquietante che andrà a offuscare l’onorabilità di Volpe uomo, «storico e maestro», nonostante la comparsa di una nuova lettera apologetica indirizzata al direttore del «Tempo», Renato Angiolillo, dove si denunciava «il moralismo denigratorio» delle imputazioni92, e l’intervento a difesa di Volpe di Edmondo Cione che nell’ottobre di quell’anno parlava diffusamente di un avvicinamento di Nello Rosselli al regime durante gli ultimi anni della sua esistenza, che erano stati contrassegnati da forti dissapori politici e storiografici con Salvemini93. Quell’accusa di «sciacallaggio» avrebbe fatto strada e sarebbe tornata ancora nell’anonimo corsivo che «Il Mondo» pubblicava il 28 dicembre 195494. La polemica questa volta nasceva da una lettera aperta che Volpe aveva fatto inserire su «Il Secolo d’Italia», definito dall’anonimo articolista «l’organo quotidiano dei nazisti sopravvissuti nel nostro paese». Nell’intervento, Volpe contestava la condanna inflitta a Giovanni Guareschi, già reduce da un procedimento per oltraggio al Capo dello Stato, Luigi Einaudi, nel 1950, e ora riconosciuto reo di aver pubblicato sul «Candido» due lettere «apocrife» di Alcide De Gasperi, nelle
90 Per quest’accusa, Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico, 15 giugno 1956 in G. FALZONE, Una corrispondenza fra Gioacchino Volpe e N. Rodolico, cit., p. 99: «Ho avuto un muc-
chio di altre cose da fare: ed anche altro articolo, più urgente perché promesso da lungo tempo per il libro di Rosselli su l’Inghilterra e i Savoia: un libro scritto al tempo, dirà Salvemini, che io mi procuravo alibi antifascisti per il giorno della catastrofe. Sciagurato monatto che sporca così la sua vecchiaia». 91 G. SALVEMINI, Volpe, Anfuso e c., p. 10. 92 La Lettera al Direttore compariva nelle pagine de «Il Tempo» del 12 settembre 1951. La si veda ora in L’Italia che fu, cit., pp. 238 ss. 93 E. CIONE, Rosselli e il fascismo, «Lotta Politica», 13 ottobre 1951. L’articolo è riprodotto in G. VOLPE, L’Italia che fu, cit., pp. 246-247. 94 Una piccola Volpe, in «Il Mondo», 28 dicembre 1954, p. 2.
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quali l’uomo politico avrebbe chiesto al comando delle forze alleate di bombardare la periferia di Roma per spingere la popolazione a insorgere contro i nazisti95. Riconosciuto colpevole di intenzionale mendacio, al fine di «squalificare la classe politica italiana, la Resistenza e la Chiesa, di cui il leader democristiano era strenuo difensore», Guareschi veniva condannato a due anni di carcere, poi in parte commutati nella pena della libertà vigilata. Contro quella sentenza, contro la quale anche Montanelli avrebbe levato la sua voce96, Volpe protestava energicamente, definendo il processo una farsa (avendo la magistratura rifiutato di ammettere come prova una perizia che certificasse l’autenticità delle lettere), e concludeva con un giudizio che delegittimava l’intera giustizia italiana e buona parte dei processi politici del secondo dopoguerra, parlando di «condanne inflitte da tribunali stranieri, cioè da vincitori su vinti» e di «perdurante nostra dipendenza dalle sentenze dei vincitori»97. A questa esternazione, «Il Mondo» replicava seccamente e definiva Volpe «fascista». Volpe oggi è fascista, non perché in altri tempi che preferiamo non ricordare od almeno non rievocare sia stato tale. Ma si dimostra oggi fascista, attestando al quotidiano dei nazisti del nostro paese la propria solidarietà con alcuni fascisti condannati per reati comuni, i quali possono essere bene oggetto di una grazia, ma a condizione che il provvedimento sia ispirato soltanto ad un concetto di clemenza: purché ciò non serva ad esaltazione dei terroristi, dei passionali, dei falsari. Questi essendo i valori che Gioacchino Volpe invece raccomanda all’amministrazione degli italiani, siamo nell’obbligo di segnalarlo, una volta di più, come un cattivo maestro, irrimediabilmente guastato dal fascismo, da condannare e soprattutto da evitare nell’interesse delle nuove generazioni98.
La vigilanza antifascista del «Mondo» nei confronti di Volpe aveva conosciuto un altro episodio in quello stesso anno, quando sulle sue pagine, sempre Salvemini elaborava una durissima critica della nuova edizione della Storia degli italiani e dell’Italia, ripubblicata, presso Garzanti, nel 1948, e che, almeno nella capitale, era stata fortemente consigliata da alcuni comitati scolastici e quindi massicciamente adottata come sussidiario storico per le scuole medie inferiori99. Nell’ottobre del 1953, in netto ritardo, con la sua comparsa, Ernesto Rossi avvertiva Salvemi95 A. GNOCCHI, Giovannino Guareschi una storia italiana, Milano, Rizzoli, 1988, pp. 225 ss. 96 S. GERBI-R. LIUCCI, Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, cit., pp. 274 ss. 97 La lettera di Volpe era apparsa sul «Secolo d’Italia» del 10 ottobre 1954. 98 Una piccola Volpe, cit. 99 Ernesto Rossi a Gaetano Salvemini, 20 ottobre 1953, in E. ROSSI-G. SALVEMINI, Dall’esilio alla Repubblica, cit., pp. 704-705.
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ni della circolazione del volume, invitandolo a correre prontamente ai ripari per impedirne la diffusione. Ieri l’avv. Carbone, segretario generale alla presidenza della Repubblica, mi ha fatto vedere il libro di storia acquistato dalla sua bambina per il corso della III media. È La storia degli italiani e dell’Italia di Gioacchino Volpe (4ª edizione, Garzanti, Milano). Ti prego di acquistarlo (costa 600 lire) o di fartelo prestare, e di leggere l’ultima parte sulla storia del periodo fascista e della repubblica. Non ho mai visto un libro più schifosamente fascista, nazionalista, monarchico. Esaltazione delle “opere del regime”, della Guerra di Abissinia, degli uomini del ventennio (c’è anche una fotografia di Graziani). Insulti ai fuoriusciti, traditori della patria. Denigrazione della Resistenza. Incitamento all’odio contro gli inglesi e gli americani. Derisione delle libertà democratiche ecc. ecc. Se non ti scoppia un accesso epilettico, leggendo questa roba, vuol dire che i tuoi centri nervosi si sono atrofizzati. Io ci conto, perché Pannunzio vorrebbe pubblicare subito una stroncatura sul “Mondo” e contemporaneamente far presentare un’interrogazione al ministro della P.I. I professori oggi sono liberi di scegliere il testo che meglio credono. Mi hanno detto che il ministero non suggerisce neppure una lista di libri consigliabili. Ma mi pare assurdo che nelle scuole repubblicane si faccia l’apologia del fascismo. Forse si potrebbe chiedere al ministro di fare una inchiesta sul caso particolare e di pubblicare l’elenco dei libri di storia adottati in tutte le scuole secondarie, col numero delle classi in cui viene adottato il libro. Purtroppo questo è solo un sintomo della situazione generale. Soltanto per l’intervento americano noi siamo liberi in Italia: scuola, magistratura, diplomazia, esercito, burocrazie ministeriali sono fasciste. Soltanto una rivoluzione alla russa avrebbe potuto far repulisti. Ma se fosse stata diretta da agenti russi. Altrimenti sarebbero rimasti sempre a galla le stesse persone. Rispondimi subito se te la senti o no di scrivere la stroncatura100.
Il volume, su cui Rossi, con tetragono piglio giustizialista, attirava l’attenzione di Salvemini, era una versione riveduta e aggiornata del testo del 1933, che ora iniziava dalla fondazione di Roma e si estendeva cronologicamente fino al 1945, ma che sicuramente non rappresentava nessun miglioramento nei confronti dell’originale, almeno dal punto di vista della correttezza democratica, e dove anzi Volpe, coltello tra i denti, continuava la sua polemica incendiaria contro la nuova Italia repubblicana e i suoi precursori, senza rinunciare a qualche apologia del recente passato. Nel rimaneggiamento di un’opera, che più di ogni altra, come sappiamo, si era uniformata alla propaganda del Ventennio, si ripeteva il giudizio positivo sull’avvento del fascismo e sul suo consolidamento in regime101, pur non risparmiando qualche critica alla ditta-
100 Ernesto Rossi a Gaetano Salvemini, 17 ottobre 1953, ivi, pp. 702-703. 101 G. VOLPE, La storia degli italiani e dell’Italia, Milano, Garzanti, 19484, p. 370 ss.
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tura. Mussolini aveva errato, infatti, nell’aver tentato di esautorare le prerogative della Corona e soprattutto per aver impedito ogni forma di critica al suo operato, necessaria «per controllare e correggere il governo quando sbaglia»102. E più grave errore era stato quello di entrare in un conflitto non proporzionato alle effettive risorse della nazione, invasato, come era, «dalla frenesia delle cose grandi, sempre più grandi, senza fare bene i calcoli con le forze nostre che erano ancora piccole»103. Di qui la catastrofe militare, in una guerra, dove pure il nostro intervento aveva fatto «tremare gli inglesi per il loro Impero», che si era risolta in una rovinosa sconfitta, grazie anche al contributo dei fuoriusciti che «una volta al sicuro, si diedero a dare addosso a Mussolini e al Fascismo, addosso agli Italiani che si lasciavano governare da Mussolini, e a tessere manovre per aizzare Francesi e Inglesi e Americani contro di essi, anzi contro l’Italia»104. Ma gli sbagli di Mussolini, aggiungeva Volpe, non potevano equivalere a una condanna storica del fascismo, nella sua interezza. Quei passi falsi, infatti, avevano trovato tutti il consenso della maggioranza degli italiani e tali erano apparsi, ai più, solo dopo la catastrofe del 1942-1943, quando «il Re, allora, per non vedere l’Italia tutta rasa al suolo, chiese tregua, depose le armi, diede il governo a Badoglio, si unì agli Inglesi e Americani, fino allora nemici, contro i Tedeschi, fino allora amici», nella speranza di ottenere «patti migliori»105. Speranza fallace, questa, perché «quei patti furono duri lo stesso, anzi durissimi, quasi vergognosi», tanto che «non tutti gli Italiani vollero accettarli» e molti anzi preferirono continuare a battersi a fianco della Germania, scatenando una guerra civile che avrebbe visto i nostri compatrioti accanirsi, gli uni contro gli altri, come ausiliari degli eserciti invasori106. Ce ne era a sufficienza, dunque, per scatenare la reazione di Salvemini, irritato soprattutto per il riferimento al «tradimento» dell’emigrazione antifascista107 (che Volpe anche altrove aveva denunciato, paragonando la politica di egemonia dell’Inghilterra, in Italia, dopo il 1814 a
102 Ivi, p. 388. 103 Ivi, p. 393. 104 Ivi. p. 389. 105 Ivi, p. 386. 106 Ivi, p. 396. 107 Una diretta accusa a Salvemini era contenuta nella lettera di Volpe a Niccolò Ro-
dolico, 30 novembre 1951, in G. FALZONE, Una corrispondenza fra Gioacchino Volpe e N. Rodolico, cit., p. 99: «Sempre più squinternato quel pover uomo di Salvemini. Chiamiamolo solamente così, per indulgenza. Che egli è stato uno dei più grossi imbonitori di crani anglosassoni contro l’Italia…fascista. Del resto, non ha detto male di tutte le Italie? Ma una volta lo faceva inter nos, ora è andato a farlo fuori urbi et orbi».
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quella portata avanti dalla potenza insulare subito dopo, ma anche prima, il settembre del 1943, grazie all’aiuto dei fuoriusciti)108, il quale, impugnata la penna, confezionava un articolo violentissimo, che Rossi, con la sua nota raffinatezza, pensava di intitolare addirittura Polpette volpicide109, dove si stigmatizzava il «rammollimento senile» del «vecchio» (e cioè di Volpe), evidente, se non altro per le sue assurde pretese di obiettare al diktat imposto dagli Alleati all’Italia. Ogni discussione è inutile. Il vecchio è stato sempre nazionalista (e il nazionalismo lo portò al fascismo). Se la guerra l’avesse vinta Mussolini, il nazionalista-fascista avrebbe trovato naturale che Mussolini occupasse la Savoia, la Francia meridionale, la Corsica, la Tunisia, l’Algeria, il Marocco, l’Egitto, il Sudan e chi più ne ha più ne metta. Avendo Mussolini perduto la guerra, il nazionalista-fascista pretende che i vincitori rispettassero [sic] il corpo mistico dell’Italia e tutti i suoi annessi e connessi fino al dito mignolo del piede sinistro. Ma egli non considera che se i patti della pace riuscirono meno spietati di quanto Churchill aveva progettato – quel Churchill che, dopo aver elevato al settimo cielo Mussolini, dava nel 1944 al popolo italiano la colpa di non aver impedito al Duce di dichiarare la guerra all’Inghilterra – se i patti della pace riuscirono ben altri che quelli imposti alla Germania, almeno un poco di merito (per imitare il linguaggio del vecchio raccontatore) bisogna ben darlo ai fuoriusciti (mentre la massima parte va ai partigiani, e non ai repubblichini di Salò, amici del vecchio raccontatore)110.
All’attacco durissimo di Salvemini avrebbe replicato, con forte ritardo ma con pari asprezza, un anonimo editoriale del «Tempo» (ispirato da Volpe o forse da Volpe personalmente redatto), dove il capofila dell’emigrazione antifascista veniva accusato, senz’altro, di «canniba-
108 G. VOLPE, Come gli stranieri hanno sempre liberato l’Italia. Allora (1814) ed ora (1943), in «Rivolta Ideale», 8 maggio 1947, pp. 1-2, ora ripubblicato, per mia cura, in «il Giornale», 11 dicembre 2006. Su quest’articolo, si veda Gioacchino Volpe a Carlo Zaghi dell’11 settembre 1946, ACZ: «Vedrò di mandarti qualche cosa, nei prossimi giorni, per “Il Giornale” di Napoli, che tu dirigi: ma, intanto, non potresti ripescare e pubblicare quelle paginette di rievocazione storica degli Inglesi e loro propaganda in Italia nel 1814, che ti mandai a Ferrara e che tu trattenesti promettendomi di pubblicarlo dopo rimesso bene in piedi il giornale». Zaghi, allievo di Volpe alla Scuola storica di Roma, già direttore del «Corriere Padano» dopo il 25 aprile, aveva fondato il quotidiano «Democrazia Ferrarese». Nell’agosto del 1946, sarebbe passato a dirigere «Il Giornale» di Napoli, al quale Volpe pensava di poter destinare il suo intervento. 109 Ernesto Rossi a Gaetano Salvemini, 17 gennaio 1954, in E. ROSSI-G. SALVEMINI, Dall’esilio alla Repubblica, cit., p. 711. 110 G. SALVEMINI, Da Romolo a Mussolini, «Il Mondo», 16 febbraio 1954, in ID., Italia scombinata, a cura di B. Finocchiaro, Torino, Einaudi, 1959, pp. 283 ss., in particolare pp. 294-295.
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lismo politico»111. In questo clima infuocato, un importante comitato promotore (Chabod, Luigi Dal Pane, Eugenio Dupré Theseider, Alberto Maria Ghisalberti, Walter Maturi, Ruggero Moscati, Ernesto Sestan, Franco Valsecchi, Gaetano De Sanctis) metteva in cantiere un volume di scritti in onore di Volpe, «Maestro di un’intera generazione», in occasione della prossima ricorrenza del suo ottantesimo anniversario112. La notizia filtrava anche negli ambienti della cultura azionista e suscitava, ancora una volta, la furibonda reazione di Ernesto Rossi. Questi, nel settembre del 1954, inviava a Chabod un durissimo comunicato, intimandogli di sconfessare l’iniziativa, e minacciando, in caso contrario, il boicottaggio dell’opera. Mi assicurano da varie parti che è stato costituito un comitato, di cui faresti parte anche te [sic], per onorare Gioacchino Volpe. Io voglio sperare che questa notizia non sia vera, perché l’iniziativa sarebbe estremamente offensiva per tutti coloro che hanno sofferto per la difesa della libertà durante il fatidico ventennio o sono stati assassinati dai protettori di Volpe per il loro antifascismo. Il Volpe è stato molto più che un “compagno di viaggio” di Mussolini, di cui continua ad esaltare la memoria per avvelenare la nostra gioventù, con la sua schifosa ed ipocrita propaganda ammantata di storicismo. Nessuno può sinceramente pensare ad un riconoscimento dell’attività scientifica del Volpe, prescindendo dalla sua attività come uomo politico. Un tale atteggiamento, che non sarebbe ammissibile neppure in confronto ad un astronomo o a un chimico, è un assurdo per un cultore di scienze morali. Volpe è l’individuo forse più rappresentativo dei nostri “chierici” che hanno tradito. La sua intelligenza e la sua cultura aggravano la sua colpa: né si può ammettere che una manifestazione del genere sia presa da antifascisti che vogliono dimostrare la loro riconoscenza per essere stati da lui difesi contro la intolleranza bestiale di altri gerarchi fascisti. Non dobbiamo contribuire ad aumentare ancor di più la confusione. Ti sarei molto grato se tu mi scrivessi due righe per spiegarmi come stanno precisamente le cose, perché, se tu mi confermassi la notizia credo che ci converrebbe fare un baccano del diavolo, per metter in guardia contro una iniziativa tanto inopportuna per tutti gli amici che possono essersi lasciati ingannare dai nomi dei membri del comitato promotore. In questo caso non si tratta di onorare la cultura ma di onorare chi ha prostituito la cultura alla tirannide fascista113.
Di quella ingerenza aveva notizia anche Leo Valiani che, se definiva inopportuno ed esagerato l’atteggiamento di Rossi, pur condividen-
111 Cannibalismo politico alle prese con Volpe e Dainelli, in «Il Tempo», 24 novembre 1954, p. 3. 112 L’elogiativa definizione è nella lettera di Carlo Zaghi a Gioacchino Volpe, Napoli, 17 febbraio 1957, ACZ. 113 AC, III. 1.
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done le ragioni di fondo, si dichiarava convinto della pochissima probabilità di ricondurre a ragione un uomo come Chabod, noto per la sua proverbiale «testardaggine»114. Secca e inflessibile era infatti la replica di Chabod, che, confermando la notizia dell’iniziativa, si limitava a ricordare «l’apporto che il Volpe ha dato agli studi storici italiani e che nessuno potrebbe negare senza offesa alla verità: quella verità nella scienza che è anch’essa valore di libertà che dobbiamo – almeno noi – salvaguardare»115. Vano risultava però questo tentativo di preservare l’autonomia della cultura, nel momento in cui le obiezioni di Ernesto Rossi assumevano contorni scandalistici sulle colonne de «Il Mondo»: un giornale che, al di là delle sue lacerazioni interne e del suo scarsissimo successo di pubblico, non perdeva nessuna occasione per ingrossare la voce e ritrovava, ancora una volta contro Volpe, l’unità di intenti della sua polimorfa composizione, crociana, salveminiana, azionista, einaudiana116. Su quel foglio appariva, il 12 ottobre, un violento articolo di fondo anonimo (ma probabilmente stilato da Rossi, forse coadiuvato da Salvemini), dove, come ormai da copione, si proseguiva il linciaggio di Volpe, «storico aulico» dell’Italia mussoliniana, che nulla aveva fatto per meritare «la gratitudine degli studiosi seri dal giorno in cui per esaltare il fascismo cominciò a falsificare i fatti, che aveva egli stesso vissuto», e che aveva perpetrato metodicamente il crimine di corruzione dell’intelligenza insieme a un altro «gerarca accademico», Giovanni Gentile. Come in Giovanni Gentile i partigiani che lo fecero fuori non potevano vedere il filosofo, ma solo il fascista, così noi non possiamo vedere in Gioacchino Volpe lo storico; vediamo solo il fascista: il Volpe che scrisse la Storia del movimento fascista e gli altri libri apologetici di Mussolini e del regime; il Volpe, amico intimo e consigliere del Duce [sic!], dal quale venne nominato deputato nel 1924 e accademico d’Italia nel 1929; il Volpe che ha compilato, per l’Enciclopedia Treccani, la voce sul fascismo in cui spiega il carattere “meramente contingente” della dittatura mussoliniana, concludendo che la rivoluzione “si è veramente incarnata sul Tevere e di lì agisce sul mondo”; il Volpe ancora no-
114 Leo Valiani a Franco Venturi, 10 settembre 1954, in L. VALIANI-F. VENTURI, Lettere, 1943-1979, a cura di E. Tortarolo. Introduzione di G. Vaccarino, La Nuova Italia, 1979, p. 160: «Mi ha scritto Ernesto Rossi, mandandomi copia di una sua violenta lettera di protesta a Chabod. Ha saputo dell’adesione di costui al Comitato pro onoranze Volpe ed è fuori dai gangheri. Veramente, a me la questione non sembra tanto importante, ma capisco che per Ernesto la cosa stia in termini più drammatici; ora vuole denunciare la cosa sul «Mondo» se Chabod non recede (e sinceramente non vedo come farà a far recedere un valdostano testardo)». 115 Federico Chabod a Ernesto Rossi, 30 settembre 1954, AC, III. 1. 116 A. CARDINI, Tempi di ferro. “Il Mondo” e l’Italia del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1992.
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stalgico dell’ordine, della disciplina, della grandezza dell’Italia mussoliniana, che oggi deride i nostri sforzi per risollevarla dall’abisso in cui ci ha precipitati il suo Demiurgo117.
Ma più che sui traviamenti del Volpe del passato, l’editoriale insisteva sulle colpe del Volpe di oggi, il cui «libro ausiliare per le scuole medie, Storia degli italiani e dell’Italia» era ancora largamente adottato da «quegli insegnanti fascisti che continuano ad avvelenare i nostri giovani». Colpe, che rendevano inaccettabile la messa in cantiere di un volume di studi per onorare il suo ottantesimo anniversario da parte di «vecchi antifascisti». Né può essere una ragione sufficiente per giustificarli il ricordo che alcuni di loro sono stati generosamente protetti dal gerarca Gioacchino Volpe contro le persecuzioni che colpivano altri intellettuali antifascisti. Lo stesso merito poteva essere riconosciuto a Giovanni Gentile. Crediamo non ci sia stato nessun gerarca che non abbia provveduto a precostituirsi, al momento opportuno, una benemerenza del genere. Anche coloro che hanno fatto massacrare gli ebrei per impossessarsi dei loro beni, in generale hanno protetto qualcuno, pensando che gli ebrei salvati avrebbero potuto essere utili testimoniando in loro favore, se ne avessero avuto bisogno, mentre i morti non avrebbero certamente testimoniato contro. Le onoranze che oggi si vorrebbero promuovere non costituirebbero un omaggio alla cultura. Significherebbero, invece, rendere omaggio a chi si è prosternato davanti alla tirannide; misconoscere i sacrifici di chi ha preferito la galera o l’esilio alla servitù; offendere la memoria di tutti coloro che furono assassinati dai camerati, ai quali sono andate le simpatie dell’ex segretario generale dell’Accademia d’Italia118.
Perfettamente in linea con il terrorismo verbale di tanta altra retorica antifascista, l’intervento di Rossi era immediatamente ribattuto dalla stampa comunista, per tramutarsi in polemica personale contro Chabod, in una delegittimazione del suo passato antifascista, nell’accusa di «doppiogiochismo» politico e culturale. Questo il tono dell’articolo che Carlo Salinari dedicava il 30 ottobre alla vicenda sulle colonne del «Contemporaneo», (il periodico culturale del Pci, dove nelle settimane precedenti era apparsa una inchiesta di Paolo Alatri sull’Accademia d’Italia, ricca di riferimenti non certo elogiativi a Volpe)119, e che qui conviene riportare per intero. 117 La cortesia d’esser villani, in «Il Mondo», 12 ottobre 1954, p. 2. 118 Ivi. 119 P. ALATRI, La storia dell’Accademia d’Italia (La nascita degli “Immortali”), in «Il Con-
temporaneo», 2 ottobre 1954, pp. 3-4; La stella a cinque punte, 9 ottobre 1954, pp. 6-7; I Lincei traditi, 16 ottobre 1954, p. 7; Feluche in naftalina, 23 ottobre 1954, p. 7.
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Gioacchino Volpe compie 80 anni e la cultura italiana si appresta ad onorarlo. Diciamo la cultura italiana, perché nel comitato promotore si trovano i nomi migliori della nostra storiografia, dal vecchio Gaetano De Sanctis, allontanato dalla cattedra universitaria perché non volle giurare fedeltà al regime fascista, a Federico Chabod, partigiano e antifascista, che ha preso il posto di Benedetto Croce nella direzione dell’Istituto storico di Napoli. Che cosa costoro si apprestino ad onorare è difficile immaginarlo. Perché non crediamo che De Sanctis e Chabod vogliano onorare il deputato fascista e il segretario generale dell’Accademia d’Italia, l’apologeta di Mussolini e del regime, lo storico venduto alla tirannide, falsificatore della nostra storia più recente, il teorico a cui ancora oggi si richiamano, come a ispiratore e guida, i giovani fascisti delle nostre università. Conosciamo già la risposta: prima di avvilirsi a servo della dittatura fascista, Gioacchino Volpe fu uno studioso insigne, maestro di quegli stessi storici che oggi lo ricordano. Essi onorano lo studioso e non il fascista, l’uomo di cultura e non il militante politico. Vecchia e gesuitica distinzione! È proprio questo il tarlo che da secoli corrode alla base la cultura italiana; credere che si possa servire come uomini e rimanere liberi come artisti o come studiosi, che vi sia una doppia verità della pratica e della teoria, della vita e della cultura. E il merito più grande che l’antifascismo e la Resistenza possono vantare è forse proprio quello di aver spezzato questa tradizione, di aver finalmente saputo formare uomini capaci di fare quello che pensavano, di resistere alle lusinghe e alle intimidazioni, di preferire il carcere al rinnegamento delle proprie idee, di concepire l’uomo in modo unitario. Sembrava così morto con il fascismo il letterato e l’uomo di cultura della tradizione controriformista che smentiva nella pratica tutto ciò che aveva affermato nella teoria. Sembrava che fossimo riusciti ad uccidere per sempre in noi stessi l’uomo del Guicciardini. E invece esso risorge: proprio gli antifascisti invitano tutti gli italiani a rendere omaggio a Gioacchino Volpe, campione del doppio gioco e della doppia verità. È lecito allora chiedere a De Sanctis perché non volle mai giurare se oggi è disposto ad onorare Volpe che giurò e fece giurare e a quel giuramento di servitù e di abiezione fu particolarmente fedele; è lecito chiedere a Chabod perché fu dalla parte di coloro che resistevano al fascismo ed erano perseguitati e assassinati, di coloro che avevano il coraggio – proprio in nome della unità della cultura e della vita – di giustiziare Giovanni Gentile, se oggi è disposto ad onorare le opere dello storico ufficiale del regime. È lecito dire loro: con il vostro gesto voi disperdete l’eredità più preziosa dell’anti-fascismo e della tradizione democratica della nostra cultura. Fate dubitare i giovani della giustezza delle idee per cui hanno combattuto. Confondete le coscienze, indicando ad esempio la viltà, il servilismo, l’abiezione. È lecito dire loro: siete studiosi illustri, ma nel momento in cui aderite a quel comitato non rappresentate più la cultura italiana, perché non rappresentate nemmeno voi stessi, il vostro passato, le vostre idee, gli ideali che hanno ispirato le vostre opere. All’ingresso del Politecnico di Zurigo vi è scolpita una frase di Francesco De Sanctis: “Prima di essere ingegneri, ricordatevi che siete uomini”. Da quella convinzione sono stati ispirati i mille e mille intellettuali italiani che hanno creduto giusto schierarsi contro il fascismo e ritrovare nella coraggiosa affermazione di un mondo morale le ragioni stesse della loro cultura e delle loro ricerche. Gli antifascisti del comitato per
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le onoranze a Gioacchino Volpe lo hanno dimenticato. Se non vogliono rinnegare se stessi, a loro non rimane che una strada: uscire dal comitato e lasciare che il Volpe sia onorato dai suoi amici di ieri e di oggi. Cioè dai fascisti120.
Prima ancora dello scatenarsi di quell’attacco, Chabod aveva ricevuto la tentennante solidarietà di Walter Maturi, il 10 ottobre121. Maturi proponeva, ma senza convinzione, di inviare con preghiera di pubblicazione la «nobile e dignitosa» replica di Chabod al periodico, come una sorta di manifesto dell’intero comitato promotore, ma finiva, poi, per caldeggiare l’ipotesi di abbandonare ogni tono polemico da cui «potrebbe scaturire quella larga pubblicità che potrebbe essere sfruttata politicamente da tutti i nemici che la mentalità azionista si è creati e con i quali a te, a me e a Sestan non conviene confonderci». Sulla «rappresaglia Rossi» era intervenuto anche, e con maggior vigore, proprio Ernesto Sestan, che solo l’anno precedente aveva testimoniato la sua profonda avversione per i progressi di una «politica intellettualistica di inconfondibile stampo “azionista”, cioè di condanna moralistica di tutta quanta la storia italiana post-risorgimentale»122. Grazie di avermi informato della minacciata “faida” Rossi. Io ne informerò a mia volta Maturi e Del Pane e, per completezza, anche Valsecchi e Dupré, per quanto li ritenga, questi ultimi due, meno suscettibili alla taccia di tradimento dell’antifascismo. Comprendo Ernesto Rossi in virtù dei suoi diciassette anni di galera e di intemerato antifascismo; comprendo meno questa sua specializzazione, sua e dei suoi amici de “Il Ponte” ecc. contro Volpe. Ad ogni modo, facciano pure il baccano del diavolo, che minacciano. Sarà un baccano in famiglia, fra quattro gatti, dei quali pochissimi, forse le dita di una mano, come Rossi, hanno il titolo per fare baccano; gli altri urlano e imprecano per il dispetto di avere commesso anch’essi le piccole viltà che sono state universali sotto il fascismo. Per conto mio, voglio ben sperare che gli amici (cioè le uniche persone al cui giudizio tengo) vorranno credere che se partecipo alle onoranze a Volpe non è per onorare in lui il politico e l’uomo di parte, né del passato né di ora; e che le ragioni che mi inducono ad associarmi alle onoranze a lui preparate sono meglio fondate e, oserei dire, anche un po’ più degne di quelle che malauguratamente mi avessero indotto a rifiutare la mia adesione123.
120 C.S. [CARLO SALINARI], La doppia verità, in «il Contemporaneo», X, 30 ottobre 1954, 16, p. 1. 121 AC, III. 1. 122 Ernesto Sestan a Tristano Bolelli, 20 agosto 1953. La lettera è citata in G. TURI, Uno storico nelle istituzioni culturali del fascismo, in Ernesto Sestan, 1898-1998. Atti delle giornate di studio nel centenario della nascita (Firenze, 13-14 novembre 1998), a cura di E. Cristiani e G. Pinto, Firenze, Olschki, 2000, pp. 115 ss., p. 119. Sull’ostilità di Sestan per la sinistra azionista e comunista, ID., Memorie, cit., pp. 284-285. 123 Ernesto Sestan a Federico Chabod, 7 settembre 1954, A.C, III. 1. «Il Ponte», fonda-
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In quella corrispondenza, si esprimeva, infine, sbigottimento per la presa di posizione di Rossi, soprattutto se rivolta contro chi, come Chabod, non era stato «certo uno dei promotori, anzi!, dell’iniziativa». Come risultava dal carteggio tra Chabod e Sestan, l’impulso alla formazione del comitato pro onoranze non era partito da Chabod, che nel progetto era entrato davvero di controvoglia, sottolineandone l’inopportunità politica124, ma da Luigi Dal Pane, un altro studioso molto legato a Volpe125, che in Sestan aveva trovato pieno sostegno. Di questa proposta, Chabod, nel momento più duro della polemica, si era tuttavia «assunto piena ed esplicita responsabilità», a riprova «ancora una volta, della serietà del suo carattere e di quanto egli fosse consapevole del peso esterno che il suo nome esercitava»126. D’altra parte, la stessa dedica che avrebbe preceduto i due densi volumi degli Studi per Volpe (completati solo nel 1958), a firma dei membri del Comitato, esternava certamente affetto e gratitudine «nel ricordo di una dimestichezza di molti anni», ma segnava anche un punto di distacco e di differenza, sottolineando, rispetto all’opera del maestro, «quanto diversi potevano essere i temi di studio, diverso l’orientamento, diversi gli interessi» di molti di coloro che si ritrovavano ora a onorarlo127. Ed è interessante notare che questa scarna nota aveva preso il posto del più ampio e più intenso ricordo di Volpe, stilato da Sestan, che avrebbe dovuto aprire gli scritti in onore con un’attestazione della liberalità e della tolleranza del caposcuola nei confronti dei suoi allievi. Egli non ha mai chiesto loro una determinata fede religiosa o politica, nemmeno il suo modo di vedere i fatti storici, ma solo quello che di serietà e intelligenza ognuno poteva dare. Così, in un mezzo secolo e più di vita scientifica, Volpe ha visto attorno a sé, per fare un tratto di strada insieme, una miriade di studiosi dalle attitudini, formazioni, idee più diverse, ma nessuno che, per quel tratto più o meno lungo di strada fatto insieme, non si sia sentito arricchito dal suo insegnamento128. to nel 1945 da uno degli uomini più rappresentativi del Partito d’Azione, Piero Calamandrei, costituiva allora una delle principali riviste di tendenza della cultura azionista. Sulla dura e lunga esperienza carceraria di Rossi, ID., Nove anni sono molti: lettere dal carcere 1930-39, a cura di M. Franzinelli e con una testimonianza di V. Foa, Torino, Bollati Boringhieri, 2001. 124 Federico Chabod a Ernesto Sestan, 20 febbraio, 29 giugno, 10 luglio 1954, ASNSP. 125 G. VOLPE, Storici e maestri, cit., p. 114. 126 R. VIVARELLI, Ernesto Sestan tra Salvemini e Volpe, in ID., Storia e storiografia. Approssimazioni per lo studio dell’età contemporanea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, p. 129. 127 Studi storici in onore di Gioacchino Volpe per il suo ottantesimo compleanno, Firenze, Sansoni, 1958, 2 voll., I, pagina iniziale non numerata. 128 E. SESTAN, Gioacchino Volpe, in ID., Storiografia dell’Otto e Novecento, cit., pp. 355 ss., in particolare p. 360.
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Di vera e propria rottura e non di semplice presa di distanza occorre parlare, infatti, già a partire dalla fine del 1950, per quello che riguarda i rapporti di Volpe con Chabod, come quest’ultimo comunicava al presidente dell’Ispi, Alberto Pirelli, il 15 ottobre di quello stesso anno129. La lacerazione si era determinata a proposito della comparsa della silloge di studi storiografici in onore di Benedetto Croce. Quei Festschriften, nati per impulso di Carlo Antoni, avrebbero sancito in modo plateale la secca rottura con la tradizione storiografica del Ventennio, inquadrati, come erano, da un robusto contributo metodologico dello stesso Antoni, dove Volpe era relegato, insieme a Ettore Ciccotti, Barbagallo, Salvemini, tra i seguaci dell’insegnamento di Antonio Labriola, che avevano realizzato tutt’al più «un’attenuazione dello schematismo materialistico, dovuto anche all’abito filologico, alla disciplina delle ricerche documentarie» ma non escogitato la «soluzione del problema»130. Anche gli altri lavori, con l’eccezione di quello di Sestan e di Chabod131, sottolineavano, tutti, la volontà di gettare alle ortiche l’eredità della storiografia di Volpe, seppur in diverso modo: alcuni con la semplice rimozione, altri con un vero e proprio linciaggio. E a Maturi, di conseguenza, era riservata un’inevitabile difesa d’ufficio del maestro, sebbene molto prudente, esitante, circospetta. Certo, ampi riconoscimenti erano tributati al Volpe risorgimentista e studioso del Settecento, e persino allo storico della storia recentissima, che aveva felicemente tentato, proprio nell’Italia in cammino, «una riabilitazione dell’Italietta, così come veniva satireggiata dalla pubblicistica fascista spicciola»132. Ma, per Maturi, il senso profondo di quella lezione andava ricercato soprattutto nel suo superamento (dato che l’«opposizione al Volpe poi è venuta dalla scuola stessa del Volpe, e ciò attesta la sua apertura mentale»)133, che era visibile nell’opera di Nello Rosselli, di Chabod e di tutti coloro, che si erano dissetati alla più vivificante fonte delle ultime opere storiografiche crociane, dove l’etica si univa alla politica e anzi prevaleva su quella134. Sotto il segno della gratitudine per l’insegnamento crociano si apriva anche il contributo di Gabriele Pepe dedicato agli studi di Storia medioevale, nel quale necessariamente largo posto doveva essere riserva129 Minuta della lettera, in AC, III. 1 130 C. ANTONI, Gli studi di storia e la storia della Storiografia, in Cinquant’anni di vita
intellettuale italiana, cit., I, pp. 63 ss., in particolare p. 65. 131 E. SESTAN, L’erudizione storica in Italia, ivi, pp. 477 ss.; F. CHABOD, Gli studi di storia del Rinascimento, ivi, pp. 127 ss. 132 W. MATURI, Gli studi di storia Moderna e Contemporanea, ivi, p. 277. 133 Ivi, p. 253. 134 Ivi, p. 266.
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to a Volpe. E Pepe, certo, riconosceva i pregi del Medio Evo e di Movimenti religiosi e sette ereticali, ma proseguiva, affermando che quei meriti andavano ridimensionati nella valutazione di quell’«indifferenza alla vita dello spirito, che resterà sempre il grande limite dell’operosità di Volpe», nell’assenza di una «dottrina» e soprattutto nella «mancanza di passioni umane» che lo contraddistingueva. Anche nelle sue opere migliori, quello storico si rivelava «il triste uomo del fascismo colto: cervello senz’anima», «l’Anticroce a cottimo del regime fascista», che da Croce aveva appreso l’esistenza di «una filosofia dialettica che spiega la storia dissolvendo il male in positività», ma che quel metodo aveva trasformato nell’«indifferenziazione di giudizio che a temperamenti profondamente immorali, come i pensatori del passato regime, piaceva molto»135. In questo modo, Pepe saldava i suoi conti con Volpe, soprattutto colpevole, ai suoi occhi, di essersi opposto, nel 1941, alla premiazione del suo discusso volume, Il Medioevo barbarico in Italia, in un concorso bandito dal Ministero dell’Educazione Nazionale136. Posto di fronte a questo nuovo attacco, lanciato da una sede così prestigiosa, Volpe chiedeva a Chabod, a Maturi, a Sestan di dissociarsi pubblicamente dalle contumelie di Pepe, con una esplicita protesta, almeno che anche in loro non albergasse ormai la volontà di rinnegare il proprio maestro e il proprio passato. Nel novembre del 1950, Chabod rispondeva all’implicita accusa di «tradimento», anche a nome dei colleghi, ricordando la loro autonomia intellettuale durante il ventennio, «quando fascismo o non fascismo, abbiamo continuato a ricordare e a citare l’opera di Croce, di Salvatorelli e di altri studiosi, pure ufficialmente al bando» e sottolineando la loro impermeabilità a ogni parola d’ordine ideologica volta a determinare non solo la criminalizzazione di Volpe ma anche «di qualsiasi altro studioso, quali che siano le sue opinioni politiche, che a noi non interessano in sede scientifica». Il 24 dicembre, Volpe rincarava la dose, su quello che ai suoi occhi si configurava come un vero e proprio delitto di «parricidio», rinfacciando a Chabod la sua attuale collaborazione con gli ambienti intellettuali e le istituzioni più vicine al crocianesimo137. Della crisi era insieme testimo-
135 G. PEPE, Gli studi di storia medioevale, ivi, pp. 119-120. 136 Su questo episodio, si veda il mio Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 321 ss. 137 Si veda, in aggiunta, la durissima lettera di Volpe a Giuseppe Prezzolini, 15 aprile
1952, cit., dove, ricordando la polemica del 1928 con Croce, si affermava: «Ma quel caro vecchio e i suoi tirapiedi non mi hanno mai perdonato quella critica, anzi, come essi dissero, quel “tradimento”, come se io fossi uomo da mafie e da camorre o setta, che giura fedeltà ad oltranza! Da allora Croce prese a bersagliarmi di sarcasmi; esso che fino allora aveva sempre sollecitato la mia collaborazione. E tutta la sua consorteria dietro. E anche oggi, anche Chabod, con cui per 15 anni ho vissuto in comunione fraterna e filiale, anche lui, en-
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ne e parte interessata, Ernesto Sestan, che esprimeva a Volpe il suo vivo disappunto per l’accaduto. Non ho ancora visto i due volumi dedicati a Croce: l’editore non si è curato di farmene avere una copia, né io ho fatto nulla né per averla né per acquistarla: sinceramente non so cosa abbiano scritto gli altri collaboratori e, un poco, nemmeno che cosa abbia scritto io, perché lo scritto risale al 1946 (l’opera doveva uscire per gli 80 anni di Croce) e io ho rivisto le ultime bozze un anno fa. Ora, dopo quello che Lei me ne dice, voglio vedere l’opera; ma fin da ora deploro istintivamente che uno dei collaboratori, passando oltre il segno della discussione delle idee, sempre lecita, anche se non persuasiva, sia trascorso ad espressioni che Lei dice “lazzaronesche”, e che quindi offendono l’uomo. Lei dice bene: bisogna non conoscere Lei per giungere a questa falsificazione della Sua figura d’uomo e del suo carattere. Lasci, dunque, a chi, come me, crede di conoscerLa un poco di rinnovare tutta la sua stima reverente e la sua riconoscenza138.
Sempre Sestan, il 21 novembre 1950, scriveva in questi termini a Chabod, a proposito dello «sciagurato insulto di Pepe»: È chiaro quello che Volpe padre e figlio vorrebbero: una smentita pubblica e clamorosa, possibilmente, dello sciagurato insulto di Pepe, da parte di coloro che, occasionalmente, si sono trovati insieme, in un’opera a stampa: ma insieme, è chiaro per onorare Croce, non per disonorare Volpe. Nessuno mi persuaderà mai che onorare Croce significhi implicitamente disonorare Volpe: questo può pensarlo solo chi per forza vuol metterci la tara politica, come appunto Pepe, che parlando di Volpe storico del Medioevo, ha creduto opportuno parlar di Volpe storico del Fascismo (per attaccare il primo nel secondo). E se altri (caso più probabile), giustificando un’opinione tutta personale di Pepe, credesse di farsene portatore, credo che sarebbe onesto porre le nostre firme sotto una protesta per un’accusa che sappiamo falsa: quell’a cottimo significa, in altre parole, venduto, e noi sappiamo che Gioacchino Volpe non fu venduto, ma – purtroppo – aderente, sincero, con alcune riserve, purtroppo poche, dell’uomo e dello storico, al fascismo, nel quale credette vedere la realizzazione del suo nazionalismo139.
trato nel cerchio crociano (dirige l’Istituto di Croce a Napoli) non ha il coraggio di dedicar 10 righe alla mia Italia Moderna che pure è, se non erro, il primo tentativo di storia dell’Italia contemporanea e, se non mi inganno, non proprio cosa volgare». In un commosso necrologio di Gioacchino Volpe, il figlio Giovanni ometterà di menzionare il nome di Federico Chabod, ricordando invece la consorte Jeanne, tra coloro (Luigi Dal Pane, Luigi Volpicelli, Romeo, Moscati, Ghisalberti), che «manifestarono solidarietà» al genitore nei bui anni del secondo dopoguerra. Si veda, È morto un italiano, in «La Torre», II, ottobre 1971, 18, pp. 1 ss. 138 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, 9 gennaio 1951, CV. 139 Ernesto Sestan a Federico Chabod, 12 gennaio 1951, AC, III. 1
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Ancora Sestan dichiarava, tuttavia, che le ire di Volpe erano dovute anche alla mancata segnalazione del secondo volume di Italia Moderna su «Rivista Storica Italiana»: affidata in un primo momento a Ernesto Ragionieri e venuta meno per il colpevole ritardo o meglio la rinuncia di questi, forse spiegabile con una pressione di Delio Cantimori su quell’allievo di Carlo Morandi. La cosa è assai più semplice e addirittura banale: il ritardo di una recensione. Se io avessi mai potuto immaginare che la cosa gli stava tanto a cuore, e che dentro di sé rimuginasse sospetti e risentimenti contro di noi, non avrei incominciato a parlargliene a Pisa quando lo vidi: ma la cosa non mi passò nemmeno per la mente, e nemmeno gli dissi quello che semplicemente gli avrei potuto dire, che era la pura verità: che non sapevo nulla, che ormai non sono più a Roma, e che la recensione non poteva passare per le mie mani; che sapevo che era incaricato Ragionieri e che non sapevo altro. Ragionieri, certo, è a Firenze, ma passano dei mesi senza che io l’incontri. Allora, poi, ero appena tornato dalla Svizzera e non ne sapevo nulla: ma se avessi mai supposto che Volpe ci tenesse tanto, mi sarei dato da fare per sapere qualche cosa. Certo, una settimana prima che io lo vedessi a Pisa, Volpe mi aveva scritto una lettera svagata, di dubbio gusto letterario. Fra l’altro accennava, di sfuggita, anche alla recensione140.
Ma che di causa occasionale si trattasse e che la rottura investisse motivi squisitamente politici e cioè la profonda diversità di posizioni di Volpe e dei suoi allievi più diretti nel secondo dopoguerra, la corrispondenza di Sestan dava conto con ricchezza di particolari e con un’analisi sostenuta da un lucido e a volte spietato rigore morale, che costituiva un nobile esame di coscienza di quella generazione di storici formatasi durante il fascismo. Capisco lo stato d’animo di Volpe, ma non riesco a trovarlo molto ragionevole. Vuole essere un uomo tutto d’un pezzo, che non rinnega una delle sue idee, che non deflette (ma oscillante fu, e assai!, nel 43-45, prima che soggiacesse all’influsso delle influenze familiari): e sta bene. Questo potrà fare onore al suo carattere, ma non alla sua intelligenza. Mi duole dirlo ma dovrebbe sapere che i peccati passati si pagano: non si può pretendere d’alzare la voce e pretendere insieme che quelli, contro i quali si alza, stiano zitti. È il ritornello di Tecoppa: come faccio a colpirti, se ti continui a muovere? Certo, il suo caso d’epurato non rientrato, è piuttosto singolare, se si tengono presenti certi casi di 140 Ernesto Sestan a Federico Chabod, 21 novembre 1950, ivi. Sulla recensione di Ragionieri e sulla sua mancata pubblicazione, si veda la lettera di Volpe a Chabod del 18 marzo 1951: «Il caso mi ha fatto venir fra mano iersera una lettera del nostro Morandi che dice “il mio assistente ha quasi ultimato un’ampia recensione dei due volumi de l’Italia Moderna […]». Il resoconto dei due primi volumi di Italia Moderna, alla fine, redatto da Rosario Romeo, sarebbe apparso in «Rivista Storica Italiana», 1951, 1, pp. 120 ss.
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rientri a dir poco sbalorditivi. Ma sarebbe anche più sbalorditivo il caso del suo rientro come l’intende lui: col diritto assicurato – che egli si procaccia in anticipo – di far parte del postfascismo, di questa repubblica e dei suoi nemici, di far dell’ironia su questa nostra anemica democrazia – che avrà tutti i difetti che vuoi – ma che non si può pensare di guarire con le ironie, che sono poi impliciti rimpianti per un passato, per un’esperienza già scrutata e dimostratasi funesta a luce meridiana. Tu dici bene: quello che spiace in Volpe e anche irrita un po’, è quel suo presentarsi come l’unico che abbia rigore e dirittura di carattere: il che detto o lasciato intendere a noi, sarebbe come un rimprovero sottinteso, come se dicesse: Mi siete stati attorno quando ero in alto, mi abbandonate ora che sono in basso; eravate fascisti o vi spacciavate per tali; avete mutato bandiera ora che è mutato anche il vento. Tu sai benissimo quanto tutto questo non corrisponda al vero. Tu sai benissimo che abbiamo voluto bene a Volpe – come ne abbiamo voluto a Gentile – perché vedevamo in lui un alto ingegno, un maestro degli studi storici, che – nei limiti allora consentiti – sapeva mantenere indipendenza di spirito e serenità di valutazione di fronte agli eventi passati e presenti, nel piatto, bolso, ipocrita e capricciosamente inutile culturame fascista. Abbiamo sempre saputo distinguere fra lui e i De Vecchi, Bruers e gli altri, che assai spesso furono più potenti di lui; ma appunto perciò siamo stati con lui. La nostra stessa tardiva adesione formale al fascismo doveva fargli capire – ed egli era troppo intelligente per non capirlo – che era avvenuta non senza perplessità ed intima lotta, e che quella perplessità, quel bisogno di salvare la nostra individualità e la nostra dignità continuavano anche poi: e glielo dicevano le critiche, le riserve e perfino i silenzi, con cui, nei nostri incontri, noi, e anche lui, del resto, commentavamo i fatti del giorno. Ma io dico questo: fossimo stati anche fascisti della più stretta, supina e stupida osservanza – ciò che non siamo stati – non riusciremmo a seguirlo nel suo attuale atteggiamento, che è un ossequio a una coerenza tutta sua personale ed estrinseca: non voler riconoscere di aver sbagliato, sia pur in buona fede, non voler aprir gli occhi all’evidenza stessa, non voler accettare la lezione di un’esperienza drammaticamente persuasiva. Il peccato di Volpe è un peccato di superbia intellettuale, un grosso peccato. Ma non può pretendere solidarietà nello stesso peccato. Dico queste cose con molta amarezza, perché gli ho voluto e gli voglio bene, e non dimentico il bene che mi ha fatto, specialmente chiamandomi prima alla Treccani, poi alla Rivista storica; ma a te lo posso dire perché anche tu lo senti con lo stesso animus141.
3. Non era la prima volta, che Sestan si soffermava ad analizzare, con amarezza ma anche con sbalordimento, la scelta di campo del vecchio maestro, che lo portava ora a militare nel «piccolo fascismo» del dopoguerra, che, almeno apparentemente, sembrava voler risuscitare il peggio del «grande Fascismo» degli anni di regime e proprio quegli aspetti della dittatura, che Volpe aveva più vivacemente criticato dal 1924 al 1943. Nella lettera a Chabod dell’ottobre 1947, Sestan poneva 141 Ivi.
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questa ricaduta sotto il segno di un drammatico ripiegamento umano, di una vera e propria regressione intellettuale: «Hai ricevuto i giornali di Volpe? Io gli ho scritto come e perché non mi pareva di poter condividere le sue idee. Spero di non avere ferito la sua suscettibilità, che in questi tempi mi pare irritabilissima. Ma voler rifiutare la lezione delle cose, mi pare rasenti l’ostinazione. A Firenze, al piazzale Michelangelo, in onore del Poggi che lo architettò, c’è l’epigrafe: “Guardatevi attorno; ecco il suo monumento”. Mi pare che una stessa epigrafe si potrebbe mettere, in memoria del fascismo, nel bel mezzo d’Italia»142. Ripiegamento, che sempre Sestan spiegava con ben individuabili influssi familiari provenienti dai figli, anch’essi sopraffatti dal trauma del 1943143, che aveva egualmente infierito sul padre e sullo zio materno, Arrigo Serpieri, defenestrato dalla sua carica di Rettore dell’Università di Firenze144. Era soprattutto all’influenza di Giovanni, secondo Sestan, che doveva ricondursi la novissima conversione politica di Volpe, che aveva finito per isolarlo dai suoi stessi allievi «per le ridicole ragioni missine che dice suo figlio, fascista fazioso. E missine e fasciste. Fascista è la massima: Chi non è con me è contro di me»145. Era un giudizio, forse tendenzioso, che cercava di giustificare il maestro per quella scelta, ma che pure conteneva almeno un elemento di verità: considerata la militanza di Giovanni Volpe nel Msi, di cui diveniva segretario amministrativo nel giugno 1948, i suoi rapporti personali con Romualdi e poi con Almirante, la sua instancabile attività di organizzatore culturale della nuova destra146, con il finanziamento e la direzione di periodici come «Terza Strada», che, secondo Papini, univa la sua voce «a quelle che sempre più fitte si levano, per fortuna in Italia, a rivendicare ciò che fu vero e vivo nel recente passato»147. L’ipotesi dell’impulso esterno non è da sottovalutare: considerato il rapporto di affetto e di stima particolarissimi che legavano Volpe al primogenito, nel quale il padre vedeva plasticamente rappresentato l’infausto destino di una generazione, maturatasi durante il regime e travolta senza colpa nel suo crollo148, e del quale lodava, senza riserve, il disin142 Ernesto Sestan a Federico Chabod, 1 ottobre 1947, AC, Fondi aggregati, IV. 143 Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico, gennaio 1949, CV. 144 Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico, 30 gennaio 1960, ivi, p. 100: «Avrai sapu-
to della morte di Serpieri. Quando penso che nel 1945 o ’46 fu epurato anche lui dal Senato, mi sento venire i furori alla testa». 145 Ernesto Sestan a Federico Chabod, 21 novembre 1950, AC, III. 1. 146 Un ritratto di Giovanni Volpe è in G. DE TURRIS, I non conformisti degli anni Settanta, cit., pp. 31 ss. 147 Giovanni Papini a Gioacchino Volpe, 23 luglio 1947, FV. 148 G. VOLPE, Appunto di Diario, 3 marzo 1945: «Temo per Nanni; che, in nome di quella turpe cosa a cui ora turpemente si dà il nome augusto di “giustizia”, non gli venga-
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teresse, la generosità, la naturale disposizione a «schierarsi con i vinti»149. Ma questa interpretazione non è da sola sufficiente a spiegare la nuova discesa in campo dello storico. Il Volpe dell’immediatissimo dopoguerra è infatti un uomo che si ritiene ormai al di fuori della politica, come i moltissimi altri componenti di quella lunga linea grigia (la maggioranza degli italiani), che accettò il fascismo, nel 1922, cominciò a distaccarsi da esso dopo la svolta totalitaria e l’inizio della guerra, nulla fece per opporsi al crollo del 25 luglio né per prendere parte attiva alla guerra civile, e, infine, rifiutò l’adesione alla Rsi, non in virtù di sentimenti antifascisti, improvvisamente rivelatisi, ma solo in forza della lealtà alla monarchia e più spesso in nome del rifiuto di ogni nuova forma di guerra e soprattutto di un conflitto destinato a divenire immancabilmente scontro fratricida150. Per Salvemini, per Rossi, per i profeti dell’azionismo (ma non forse per Croce e per Togliatti), questa linea grigia era l’«Italia scombinata» del compromesso e della «servitù volontaria»151. Per Volpe, invece quella massa apparentemente opaca rappresentava l’espressione più autentica dell’«Italia che non muore»: il solo punto fermo, all’interno della discontinuità di una storia che passava, travolgendo leadership, ideologie, dottrine, e l’unico soggetto attivo in grado sempre di risollevarsi dopo ogni caduta: ieri, come la narrazione di Italia Moderna dimostrava, e ancora oggi. Quell’Italia, quel «popolo italiano», che aveva saputo contrastare, tra VII e VIII secolo, persino l’effetto delle invasioni barbariche, come Volpe aveva scritto nel 1908, preservando l’essenziale della sua struttura economica e giuridica, «come un monte granitico su cui vada ad abbattersi fragorosamente un torrentello limaccioso e violento, ma povero di acque e poco profondo»152, poteva ripetere ancora il miracolo della sua sopravvivenza, connesso a quello della sua secolare durata. E a un possibile risorgimento di quell’Italia silenziosa ma non inerte, Volpe, pensava già nell’estate del 1945, quando pure confessava di trovarsi, a causa della morte civile decreta-
no offese e danni». E la lettera indirizzata al figlio, il 28 luglio 1945: «Vivi forse il più brutto periodo della tua vita […]». Sul trauma psicologico di quella generazione fascista, almeno per ragioni anagrafiche, nei primi anni del dopoguerra, si veda G. PARLATO, Fascisti senza Mussolini, cit., pp. 147 ss. 149 Si veda la lettera a Rodolico del gennaio 1949, in G. FALZONE, Una corrispondenza fra Gioacchino Volpe e Niccolò Rodolico, cit., p. 94. 150 A. DEGLI ESPINOSA, Il Regno del sud, 8 settembre 1943-giugno 1944, Roma, Migliaresi, 1946, pp. 14 ss. e 112 ss.; R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. II. La guerra civile, cit., al capitolo III. 151 E. ROSSI-G. SALVEMINI, Dall’esilio alla Repubblica, cit., pp. 115 e 228. 152 G. VOLPE, Medio Evo italiano, cit., p. 148, dove il passo continuava: «Le case addossate al monte rovineranno, ma il granito rimarrà in piedi; seguiterà anzi la sua ascensione, se le misteriose forze endogene della terra lo spingeranno su».
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ta dai provvedimenti di epurazione, «impotente di fronte alla realtà, perché sono ridotto a cittadino “minoris juris”, con meno diritti ma anche con meno doveri degli altri»153. Dal soggiorno in quella «sfera di calma», impostogli forzosamente, si faceva luce la visione di una nazione, che avrebbe dovuto rettificare drasticamente ma non abbandonare il cammino percorso negli ultimi quarant’anni, chiudendo il triste interludio dei conflitti intestini, e arroccandosi nel rifiuto «del fascismo o antifascismo, di Parri o Togliatti, di Inghilterra o Russia, di “patriotti” o partigiani e lor benemerenze o malemerenze». Da quella posizione, l’Italia avrebbe potuto avviare la sua ricostruzione morale e materiale, all’interno, e sullo scenario internazionale, operando una decisa scelta occidentale, che gli avrebbe, forse, persino permesso di conservare parte del suo patrimonio coloniale. Noi credevamo, io credevo, di essere giunti a certe conclusioni: e su di esse poggiavamo l’edificio del nostro domani. Ora questa base ha ceduto, bisogna rifarla, rifarla con altri materiali, su altro disegno. E potrebbe anche essere, anzi sarà, che la nuova Italia riprenderà i problemi stessi del ventennio, si orienterà verso le stesse soluzioni (“accorciare le distanze”), dare al popolo italiano una rappresentanza politica che lo rappresenti veramente, non sacrificare ai diritti del Parlamento i diritti del Governo e la stessa possibilità di governare, mantenere sana e forte la famiglia, sfruttare fino al limite del possibile le risorse naturali e produttive del paese, limitar e regolar più che si può l’emigrazione, in modo che l’Italia non si trasformi in un vivaio che fa crescere figli e poi li cede ad altri, riacquistare le posizioni africane, la nostra porta aperta oltre il mare, il nostro libero campo di lavoro oltre i confini, la nostra scuola di energia e di addestramento. Metodi diversi dunque: e non meno una diversa politica estera che è stato il tallone di Achille nostro dal ’38 o ’39 in poi. Qui bisogna ritornare alla tradizione del trentennio 1882-1915. Con la Germania si può essere anche alleati, ma per concorrere con l’equilibrio delle forze e l’azione diplomatica a conservare la pace, non per fare insieme la guerra. Con l’Inghilterra, cioè, ora, col mondo anglosassone, noi possiamo anche battibbeccarci, ma non fare la guerra. Se a questa noi diamo la sicurezza che non le ci volgeremo contro, sarà possibile anche riguadagnar quota in Africa, come fu possibile nel 1885 andar a Massaua, nel 1893 far un trattato che creava una nostra posizione di diritto su gran parte dell’Europa, conquistare nel 1911 la Libia e Rodi, avere nel 1923, il Giuba. Ma allora governavano l’Italia uomini che consideravano dogma non poter essa entrare in nessuna combinazione di forze che la mettesse contro la Gran Bretagna. Se il mondo anglosassone non si sfascia, se l’Europa non diventa un’appendice di una Russia euro-asiatica, questo canone dovrà sempre valere anche più di ieri: poiché se ieri eravamo un mezzano pae-
153 Gioacchino Volpe a Giovanni Volpe, 28 luglio 1945, da dove si cita per quel che segue, salvo diversa indicazione.
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se, oggi siamo un piccolo paese al confronto delle nuove formazioni.
La speranza di poter continuare a perseguire il cammino percorso, per tanti lustri, esigeva soprattutto la necessità di mantenere in vita, seppur su nuove basi, la tradizionale avversione alla politica, in quanto sistema di partiti e degenerazione parlamentare, che aveva conosciuto la sua stagione dorata nell’opposizione al giolittismo, e che aveva portato alla vittoria del fascismo, prima che anche questo movimento sprofondasse nelle secche del patriottismo di parte e nella palude dell’elefantiasi burocratica e di un malinteso dirigismo154. Nell’ora gravissima, che faceva seguito alla fine del conflitto, dovevano scomparire, quindi, «le piccole divergenze sui dettagli di fronte al comune sentimento dell’oggi, non consolato dalla riacquistata “libertà”», che rapidamente si andava trasformando in «licenza e onnipotenza dei partiti», causando nuovamente l’«impotenza del Governo, l’aggravamento dei mali» e la prossima apertura di «una bella Costituente vociferante e deliberante, magari con una magnifica Repubblica, ma sempre senza strade senza pane senza pace interna senza libertà se non quella che piace agli assertori della medesima, cioè la “loro libertà”, non “la libertà”»155. E per riaffermare quel rifiuto della nuova deriva parlamentare, Volpe pareva, allora, disposto a recepire anche il messaggio di Ferruccio Parri, che nel discorso radiofonico del 23 giugno 1945, annunciava la nascita di una vasta coalizione «quasi di salvezza pubblica» e di «un governo di popolo senza distinzioni di partiti e soprattutto oltre i partiti»156, a rischio di confondere il significato di quell’esternazione con i proclami del Fronte dell’Uomo Qualunque (Fuq)157, al quale andavano però le sue maggiori simpatie e il quale, al di là delle sgradevoli intemperanze verbali, sembrava «finora aver rispecchiato bene il sentimento di quella grande massa che ha poca voce ma pure esiste e bisogna tenerne conto: la vo-
154 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Santarcangelo di Romagna, 12 settembre 1944, CV: «Gli Italiani bisogna governarli con redini elastiche. Del resto, questo io lo ho pensato sempre fin dal primo giorno del fascismo, ed ho visto con rammarico, a volte con sdegno crescente, il regime mettersi sulla via opposta». 155 Eguale scetticismo sui lavori della Costituente avrebbe espresso Carlo Morandi nella lettera a Volpe del 24 dicembre 1946, FV: «Confesso che il mio iniziale ottimismo, sulla possibilità di una rinascita morale dell’Italia, ha subito duri colpi ed ogni giorno è messo alla prova. Speravo che il nuovo ceto dirigente si mostrasse meno avido, meno fazioso, più laborioso e consapevole della responsabilità, che si è assunto. Invece, si ripetono vecchi e nuovi errori. E gli articoli della Costituzione, elaborati fiaccamente tra continue vacanze, non Le sembrano un’offesa al senso giuridico e alla sincerità politica?». 156 Sul punto, L. POLESE REMAGGI, La nazione perduta, cit., p. 281. 157 Sulla formazione politica di Giannini, S. SATTA, L’Uomo Qualunque, 1944-1948, Bari, Laterza, 1975.
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ce di quelli che vogliono ridurre alla debite proporzioni la politica, intesa come partiti, principi, bandiere, gente che ci vive sopra e se ne serve per giustificare il suo assalto al potere». In quel movimento, era infatti possibile scorgere la valorizzazione del cittadino della strada «che guarda le cose, almeno nel momento presente, non con occhiali di partito», ma che si limitava a reclamare «un programma di strade, di ferrovie, di trasporti, di grano, di ordine pubblico, di giustizia, che incoraggi i produttori, tenga in vita il cittadino-contribuente, che diffonda in tutti la certezza che non saranno spogliati della loro terra o della loro casa o abbandonati alla mercè del contadino o dell’inquilino, che liberi diecine di migliaia d’Italiani dall’incubo della cosiddetta epurazione, dalla ridicola pretesa di far il processo, oltre che a Tizio, Caio, Sempronio, a tutta una fase storica della vita italiana, a tutto un popolo che in un modo o in un altro la ha alimentata di sé». Parole, queste, che interpretavano bene quel «vento del Sud», che da Roma in giù animava la Penisola, e che contrastava con forza con quello del Nord, che ancora imperversava nelle regioni italiane che avevano conosciuto il dramma e gli orrori della lotta di liberazione e della guerra italo-italiana158. La scelta «qualunquista» di Volpe, che si sarebbe riflessa anche nelle sue simpatie per un personaggio come il «comandante» Lauro, che univa fede monarchica agli argomenti della polemica antipolitica159, avrebbe dovuto comunque comportare una equidistanza assoluta tra antifascismo e fascismo. Posizione, che l’anti-partito di Guglielmo Giannini rappresentava ora con l’insofferenza verso il mito della resistenza e la denuncia degli eccessi dell’epurazione, ora con le invettive contro il «buffone di Predappio» e con il suo non pretestuoso volersi costituire in «forza di centro» moderato, che gli frutteranno la decisa ostilità dei gruppi neofascisti, allora ancora in cerca di un’allocazione istituzionale nel nuovo quadro politico160. Da queste posizioni, il Volpe del 1945 avrebbe dovuto, o quantomeno potuto, evolvere verso una militanza nella vasta area di opinione, nazional-liberale, conservatrice (persino sul piano culturale e su quello del costume), laica (ma pronta a fiancheggiare per necessità la Dc), liberista e antimarxista, non esente da simpatie
158 A.M. IMBRIANI, Vento del Sud. Moderati, reazionari, qualunquisti (1943-1948), Bo-
logna, Il Mulino, 1996 e A. RICCARDI, Il “Partito Romano” nel secondo dopoguerra (19451954), Brescia, Morcelliana, 1983. 159 Gioacchino Volpe a Marino Parenti, 4 e 15 agosto 1949, AMP. Su Lauro e il «laurismo», P. TOTARO, Il potere di Lauro. Politica e amministrazione a Napoli, 1952-1958, Salerno, Laveglia, 1990. 160 Rispettivamente, S. SATTA, L’Uomo Qualunque, cit., pp. 160 ss. e P. IGNAZI, Il polo escluso, cit., pp. 31 ss., che mettono in evidenza, tuttavia, il fenomeno dell’«entrismo» di frange neofasciste nel Fuq. Si veda anche, A.M. IMBRIANI, Vento del Sud, cit., pp. 76 ss.
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monarchiche, fieramente avversa all’estremismo parolaio del PdA e dei suoi epigoni, che si stava sviluppando, al di fuori del sistema dei partiti, e che avrebbe preso forza in occasione della disfida elettorale del 1948, soprattutto grazie all’attività di un nucleo di giornalisti e intellettuali, che bene rispecchiavano, interpretavano e mobilitavano i sentimenti della «maggioranza silenziosa», poi uscita vittoriosa dal risultato delle urne161. Era il mondo di Ettore Janni, Leo Longanesi, Giovannino Guareschi, Mario Missiroli, Gaetano Baldacci, Filippo Burzio, Guglielmo Emanuel, Indro Montanelli (con il quale Volpe condivideva il senso dell’impossibilità di epurare la storia italiana dal passato dell’ultimo Ventennio)162, che rappresentarono il tentativo di dare dignità al «ventre molle» italiano, rivalutandone l’adesione al fascismo e l’afascismo successivo, al fine di riproporre il modello di una «destra ideale», esente da troppo vistosi compromessi con il passato ma al tempo stesso «immune da ogni venatura antifascista»163. Da quegli uomini, e dai loro giornali e dalle loro riviste, si levava un orgoglioso appello alla reazione borghese contro la «grande bugia» della mitologia resistenziale: sull’appiattimento, cioè, di quella che fu episodio minoritario della storia italiana, e insieme guerra di liberazione, guerra civile e guerra di annientamento contro il nemico di classe, sul figurino azionista e social-comunista della guerra partigiana in quanto guerra di popolo164. E da essi proveniva, di conseguenza, una vigorosa messa in guardia verso una possibile deriva ciennelistica del quadro politico, che molto spesso sconfinava nella denuncia del «fascismo dell’antifascismo», soprattutto per quello che riguardava la componente comunista, 161 Sul punto, tra i molti contributi: R. LIUCCI, L’Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni ’50, Venezia, Marsilio, 2002; A. UNGARI, Un conservatore scomodo. Leo Longanesi dal fascismo alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2007; A. GNOCCHI, Giovannino Guareschi: una storia italiana, cit.; P. GRANZOTTO, Montanelli, cit., pp. 109 ss.; S. GERBI-R. LIUCCI, Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, cit., pp. 268 ss. Sulla predominante ideologia anti-comunista che identificava tutti i componenti di questo schieramento, R. PERTICI, Il vario anticomunismo italiano (1936-1960): lineamenti di una storia, in Due nazioni, cit., pp. 187 ss., in particolare pp. 292 ss. 162 I. MONTANELLI, Seconda serie, settembre 1954, in ID., Lettere a Longanesi e ad altri nemici, Milano, Longanesi, 1955, p. 255: «Non sono rimasti che alcuni sparuti liberali di sinistra a voler perpetuare l’uso d’un calendario che pretende contare i giorni della nostra vita dal 25 aprile, cioè ab democratia condita o meglio recondita, relegando nel dimenticatoio i venticinque anni che l’hanno preceduta e i loro protagonisti». 163 S. LANARO, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia, Marsilio, 1992, p. 122. 164 R. GUARINI, Guareschi, la destra e l’antimito della Resistenza, in «Nuova Storia Contemporanea», 2000, 2, pp. 27 ss. Niente affatto casuale è il riferimento al volume, di G. PANSA, La grande bugia. Le sinistre italiane e il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2006.
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alla quale forniva il suo contributo anche Luigi Salvatorelli, quando dichiarava il suo scetticismo sull’accettazione del metodo democratico da parte del Pci, ritenendolo del tutto «temporaneo» e frutto di «rinunce provvisorie»165. Non era questo comunque il «fascismo dopo il fascismo», come pure si è preteso sostenere, con un’interpretazione largamente mistificatoria166, né ancora neo-fascista era la posizione di Volpe, quando nel 1946, sulle colonne di «Pagine libere», dichiarava di non ritenere possibile una restaurazione del regime inabissatosi nel luglio 1943, né di concepire come plausibile l’idea di un nuovo fascismo, ma solo di domandare che fosse riconosciuto anche l’attivo di quel ventennio e perlomeno il tributo di energie e di generosità di quanti in esso avevano operato ponendosi, allora, al servizio della patria e non di un partito e di un’ideologia. Un argomento che apparteneva ancora al repertorio utilizzato dalla propaganda di Giannini del suo gruppo (che un rapporto riservato inviato a Parri definiva come «vero e proprio organizzato movimento antifascista»167), dove si insisteva sui «milioni di aderenti onesti e in buona fede al Pnf», poi ingannati e gettati nella «fornace della guerra»168, che Volpe così riformulava: Si vuole con ciò risuscitare il Fascismo? I morti non risuscitano. E il Fascismo è morto, almeno in certo suo modo di governare, nel suo ipertrofico accentramento e mal inteso e mal praticato autoritarismo, nelle sue impalcature gerarchiche (ma quali nuove e migliori gerarchie ne hanno preso il posto?), nella sua scarsa sensibilità morale elevata a sistema (ma la moralità pubblica è ora proprio maggiore della antica?). Creare un nuovo Fascismo? Ogni parola, come ogni cosa, ha il suo tempo, oltre il quale essa è anacronistica. Ma si vuole che cessi la condanna totale e la iniqua diffamazione delle cose e delle persone e la degradazione di tanti Italiani a cittadini minoris juris o sine juribus e col solo obbligo di pagare le tasse; che si cominci a riconoscere, e per molti si tratta solo di sincerità e di coraggio, che questi venti anni sono stati una cosa seria per noi e per gli altri; che non si lascino cadere certi concetti e intuizioni e interpreta165 L. SALVATORELLI, Comunismo e laburismo, in «Il Messaggero», 5 settembre 1947,
p. 2.
166 G. ZUNINO, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 508 ss e 577 ss. 714 ss.; S. LUPO, Partito e antipartito. Una storia della prima repubblica, 19461978, Roma, Donzelli, 2004, in particolare, pp. 88 ss. Nei due contributi l’«anticomunismo» di buona parte della stampa borghese degli anni Cinquanta viene disinvoltamente rubricato come «fascismo». 167 A. UNGARI, In nome del Re. I monarchici italiani dal 1943 al 1948, Firenze, Le Lettere, 2004, p. 166. 168 G. GIANNINI, La sola via per gli italiani, in «L’Uomo Qualunque», 13 marzo 1946, p. 1.
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zioni della realtà politica e nazionale e internazionale che ogni giorno più ricevono il collaudo della realtà169.
A quella scelta, che sembrava escludere, in linea di principio, ogni nostalgia e ogni revanscismo nei confronti del Ventennio, doveva, in più spingerlo, il suo atteggiamento di rigorosa fedeltà verso la Casa reale, che aveva nutrito e rinnovato l’ostilità di Volpe contro Omodeo e persino contro Croce170. Un atteggiamento, questo, davvero antitetico a quello dei reduci repubblicani di Salò, che dichiaravano apertamente la loro ostilità alla Corona, ma che, in realtà, si rinchiudevano in un atteggiamento di assoluta equidistanza, alla vigilia del referendum istituzionale del 1946, patteggiando la concessione dell’amnistia con monarchici e repubblicani in cambio della loro neutralità in vista della nuova guerra civile che avrebbe potuto scatenarsi dopo la chiusura delle urne171. Prima, e con immutata decisione, anche successivamente al risultato di quell’appello al popolo, che estrometteva per sempre i Savoia dalla storia d’Italia, Volpe militava attivamente nel fronte dei sostenitori della dinastia, denunciava, ancora nei tardi anni Cinquanta e più oltre, il broglio del risultato referendario172, ed esaltava, senza se né ma, il plus-valore dell’istituto monarchico negli ultimi quarant’anni di storia italiana173, incassando il netto dissenso dell’allievo Sestan, che gli domandava in che modo fosse ancora possibile «attribuire alla monarchia una funzione di toccasana e di superiore equilibratrice, che questa non ha saputo esercitare, ac169 G. VOLPE, Lettera aperta al direttore di “Pagine libere”, in «Pagine libere», 20 luglio 1946, cit., pp. 360-361. Non diversi erano gli argomenti espressi in ID., Ad ogni caduta segue un rialzarsi, in «Il Tempo», 4 agosto 1946, p. 3. 170 Gioacchino Volpe a Walter Maturi, Milano 8 febbraio 1944: «Che mi dici delle sparate antivittorioemanueliane di Omodeo? Quei filosofi che sperano – lo sperano, lo desiderano poi veramente? – salvare la Monarchia, cambiando il Re, mi pare che vivano nel mondo della luna o che vogliano, corpulenti come sono, camminare sopra un filo d’acciaio. Ahimé qualunque cosa dicano e facciano, è sempre il rancore che li ispira». 171 G. PARLATO, Fascisti senza Mussolini, cit., pp. 177 ss., dove si sottolinea come l’imparzialità neofascista sulla scelta tra monarchia e repubblica venne acquistata dai partiti democratici con la promulgazione dell’amnistia Togliatti. 172 G. VOLPE, Discorso ai giovani monarchici, in «Il Conciliatore», aprile 1960, poi in ID., Scritti su Casa Savoia, cit., p. 220 ss.: «Si è potuto parlare di truffa istituzionale, con la complicità o acquiescenza anche di uomini della Democrazia cristiana, poi elevati sugli altari. Il tutto, a maggior gloria della democrazia, cioè della sincera, libera, legale manifestazione della volontà popolare. Poco fa, ho escluso il “principio di legittimità” dai motivi che ci fanno monarchici; non posso escludere la “legalità” dai motivi che ci fanno avversi a questa repubblica e favorevoli ad una nuova, più riposata e vigilata, consultazione, dopo la prima, che, pure svoltasi nel momento e nei modi già detti, diede alla repubblica solo una tenue maggioranza di voti». 173 ID., «Legittimismo» italiano? Lettera aperta al direttore del “Tempo”, in «Il Tempo», 16 aprile 1949, in ID., L’Italia che fu, cit, pp. 14 ss.
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cettando la tesi e la pratica di un partito unico, di un partito-Stato»174. Proprio questo, al contrario, si sforzava di fare Volpe, con la sua attività di animatore del piccolo circolo di cultura politica Rex («Rem Regat Rex»), attivo nella capitale dal 1947175, e soprattutto con quella di collaboratore dell’organo ufficiale del Partito nazionale monarchico («Italia Monarchica») e di altri periodici fedeli alla dinastia176, con una serie d’interventi, dove si tornava a mettere sotto accusa la degenerazione repubblicana e antiborghese del sistema mussoliniano177, che anche altri «fascisti monarchici», da Federzoni a De Vecchi di Val Cismon, denunciavano, in quel secondo dopoguerra, datando il crepuscolo degli dei del fascismo, al momento in cui il suo capo, in oltraggio al comune sentire della maggioranza della nazione, volle esautorare le prerogative politiche del trono, senza rendersi conto di aver creato con questo i presupposti della sua stessa rovina178. In questo quadro di riferimento, Volpe tratteggiava una impietosa microstoria del regime di Salò, dei suoi difficili rapporti con la Germania («intessuti di opposizione e di condiscendenza»), dei suoi conflitti intestini, in parte, lotte di potere personali, in altra, scontro su di una precisa questione ideologica, che si catalizzava soprattutto attorno all’emergere di una «corrente decisamente repubblicana, con Mussolini, alla testa, ed un’altra che avrebbe preferito lasciare impregiudicata la questione istituzionale, per non accrescere i motivi di contrasto fra gli Italiani». In quella contesa, prevalse, infine, la prima tendenza e con essa prese corpo istituzionale la «Repubblica di Mussolini», alternativa al modello rivoluzionario francese, come a quello russo, e invece «repubblica sociale, in cui tutti dovevano essere socializzati, anzi, “socialistizzati”» , forse derivata da «qualche idea del socialista, nazionale e liberale, Pisacane, una figura riemersa fra noi col socialismo patriottico e in-
174 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, 24 maggio 1957, CV. Il riferimento era G. VOLPE, Per gli Italiani Monarchia vuol dire Savoia, apparso su «Monarchia», ottobre 1956, ora in ID., L’Italia che fu, cit., pp. 441 ss. 175 G. ARTIERI, L’eredità di Volpe, in «Il Tempo», 5 novembre 1971, p. 3. 176 A. UNGARI, In nome del Re, cit., p. 291. Tra gli altri interventi di Volpe: Polemica sul tema “Monarchia”, in «Fronte Est», 20 novembre 1948; Monarchia e Savoia in Italia, ivi, 20 e 27 novembre 1949, pp. 1-2 e p. 3; Gli inizi di un Regno. Vittorio Emanuele II, in «Italia Monarchica», 7 aprile 1954, p. 3 ss.; Salito al trono Vittorio Emanuele. La prima battaglia, ivi, 5 maggio 1954, p. 1 ss.; Piccoli colloqui con il Re: nasce Vittorio Emanuele III, ivi, 10 novembre 1954, p. 3, poi in ID., Scritti su Casa Savoia, cit., p. 272 ss. 177 ID., Vittorio Emanuele e Mussolini, cit., p. 195; ID., Presentazione di C. Delcroix, Quando c’era il Re, cit., pp. 8-9. 178 C.M. DE VECCHI DI VAL CISMON, Difendo mio padre, in ADV, al capitolo III (si tratta del memoriale biografico redatto in terza persona, nel 1946); L. FEDERZONI, Italia di ieri per la storia di domani, cit., ai capitoli XV-XVII.
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terventista della prima guerra mondiale». Quell’epilogo, tuttavia, non faceva che dare nuovo vigore a una dialettica che si era trascinata surrettiziamente per l’intera durata del fascismo e che rimandava all’«incontro-scontro tra Mussolini e Arpinati, quello sempre fisso nell’idea di “andare verso il popolo”, questo, persuaso che, per evitare degenerazioni demagogiche, si dovesse andare invece verso la borghesia, la media borghesia, quella che aveva fatto il Risorgimento, quella che aveva appoggiato il movimento fascista, quella che, poi, delusa si era staccata dal fascismo». Da tutto ciò Volpe ricavava un’«interpretazione sociale del ventennio», dalle origini fino alla perdita del consenso, quando, già a partire dal 1938: «invalse tra i fascisti, specialmente gli ultimi anni, gli anni del nuovo idolo, la “massa”, un frasario da socialisti del buon tempo andato». Fu quello, quasi, un ritorno alle origini da parte di Mussolini: «Antico socialista, com’era, egli certo stentava ad ammettere che la borghesia è, nell’età moderna, non una classe, ma il punto d’incontro del meglio delle altre classi»179. Sul filo di questa polemica, l’intenzione di voler dividere, sul piano storico, le responsabilità politiche dei Savoia, tutori dell’ordine borghese, da quelle del Mussolini «rivoluzionario», in alcuni volumi destinati a proseguire la narrazione di Italia Moderna, era a più riprese dimostrata da Volpe e gli fruttava, nell’ottobre del 1946, il commosso ringraziamento del Sovrano, il quale lo definiva «uomo di valore, sempre molto buono con me e con la monarchia». Alla richiesta di Volpe di fornirgli informazioni di prima mano «sugli avvenimenti degli ultimi anni», Vittorio Emanuele rispondeva però negativamente, dichiarando di non possedere «carte e appunti che mi avrebbero permesso di dargli notizie di qualche interesse»180. Una risposta negativa, che però non disarmava lo storico. Tra 1947 e 1948, Volpe si dichiarava disponibile a redigere, per conto e a nome del monarca, il memoriale apologetico, mai divulgato ma forse effettivamente composto, che questi intendeva dedicare ai discussi rapporti tra Quirinale e Palazzo Venezia181, e, nel 1957, entrava a far parte di un «Comitato di divulgazione storica, che 179 G. VOLPE, Un lettore ai lettori, Premessa a A. SARDI, Ma non si imprigiona la storia, cit., pp. 14-15. Molto più precocemente, nella lettera a Chabod del 15 aprile 1944, Volpe metteva sullo stesso piano il programma di espropriazione della Rsi e quello del comunismo: «Fra qualche anno non avrò più l’insegnamento, non l’Accademia. I miei modestissimi risparmi andranno, anzi stanno già andando in fumo, nella presente volatizzazione della carta moneta. Può essere che io debba cercare rifugio qui e campare del grano di questo poderetto… se il comunismo o la repubblica sociale italiana ce lo lasceranno». 180 Vittorio Emanuele di Savoia a Paolo Puntoni, 22 ottobre 1946, in P. PUNTONI, Parla Vittorio Emanuele III, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 352. 181 F. PERFETTI, Parola di Re. Il diario segreto di Vittorio Emanuele, Firenze, Le Lettere, 2006, pp. 34 e 89.
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dovrebbe promuovere e coordinare la difesa contro tutte le deformazioni faziose degli avvenimenti concernenti la Monarchia di Savoia», sorto, per impulso di Federzoni, sotto gli auspici dell’Unione Monarchica Nazionale, dove si ritrovavano anche Niccolò Rodolico, Franco Valsecchi, Giovanni Giurati, Francesco Cognasso, Balbino Giuliano182. Tutti episodi, questi, che testimoniavano un’ulteriore, rigorosa presa di distanza da quanti, tra gli «orfani del Duce», rivendicavano con orgoglio l’eredità di un fascismo che si compendiava nel trinomio «Italia, Repubblica, Socializzazione»183, e che, nel gennaio del 1946, cercavano addirittura di costruire, secondo una testimonianza di Alberto Giovannini, direttore del settimanale «Rosso e Nero», una «corrente di opinione, la quale interpretando le aspirazioni di una parte degli ex-fascisti (e allora quella parte era indubbiamente maggioranza) sfociasse in una formazione politica che affiancasse dapprima il Partito Socialista, nella battaglia per la repubblica, preoccupandosi soprattutto di ottenere un’amnistia per i condannati politici, e che poi in un secondo tempo, dopo aver chiarito le rispettive posizioni politiche, si unisse al partito di Nenni»184. Né questa era una posizione isolata all’interno del variopinto e frastagliato mondo del neo-fascismo, né costituiva la scelta dei soli gruppi ultras di quello schieramento, dato che anche il più diffuso periodico diretto da Giovanni Tonelli dichiarava di rifiutare un preconcetto antagonismo nei confronti del fronte social-comunista e annunziava, al contrario, di voler cercare, separato da quello schieramento ma non in sua contrapposizione, «una idea di rinnovamento sociale, economico e politico», solo programma possibile di una «sana sinistra nazionale»185. In apparenza, dunque, nulla di più lontano da Volpe (che ancora nel 1956 avrebbe accusato i reduci del fascismo di aver tentato di fare di Vittorio Emanuele III il capro espiatorio dei loro errori, proprio nel delicatissimo momento della scelta istituzionale di dieci anni prima)186, di questo e di altri progetti che intendevano riesumare lo spirito della Carta di Verona, in una strategia di «ponte» con le forze socialiste e comuniste187, 182 Su quel progetto, si veda la lettera di Federzoni a Umberto di Savoia del 21 gen-
naio 1957, ivi, p. 61. 183 U. DI MEGLIO, Il ruolo della stampa nella nascita del Msi, cit., p. 224. 184 Ivi, p. 225. 185 G. PARLATO, La sinistra fascista, cit., p. 343. 186 G. VOLPE, Dieci anni, in «Monarchia», cit., p. 443. 187 G. PARLATO, La sinistra fascista, cit., pp. 332 ss. Sulla sistematica strategia di reclutamento del Pci tra i reduci del fascismo, e soprattutto tra i quadri sindacali fascisti, che portò al massiccio afflusso di questi nella Ggl, si veda P. NEGLIE, Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla Cgl, 1928-1948, Bologna, Il Mulino, 1996 e P. BUGHIGNANI, Fascisti rossi. Da Salò al Pci. La storia sconosciuta di una migrazione politica, 1943-1945, Milano, Mondadori, 1998.
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la quale avrebbe riscosso il consenso e ottenuto la partecipazione attiva di uomini come Concetto Pettinato, Edmondo Cione, Luigi Volpicelli, disposti a fiancheggiare la propaganda di «Pensiero italiano» di Ugo Manunta, che incarnava il legato della sinistra fascista, saldato alla memoria della Repubblica sociale. Sorprendentemente, tuttavia, il nome di Volpe, insieme a quello di Bodrero e Pellizzi, emergeva sia pure episodicamente dalle pagine di quella rivista188. E, ancora più sorprendentemente, il suo nome appariva inserito tra i futuri componenti della Commissione Cultura del costituendo Movimento Sociale Italiano (accanto a quello di Biagio Pace, Soffici, Pagliaro, Bodrero, Papini, Barna Occhini), come testimoniava l’organigramma della nuova formazione politica, stilato, a metà dicembre 1946, da Giorgio Pini, il quale, in ogni caso, avrebbe poi sostenuto, nella sue memorie, trattarsi di una semplice indicazione di massima di nomi da contattare che non presupponeva l’assenso preventivo dei designati189. Il Msi, sorto ufficialmente, il 26 dicembre di quello stesso anno, non inseriva però Volpe nella sua nomenklatura, e ribadiva invece una pregiudiziale fermamente contraria a una possibile evoluzione moderata, sottolineando la sua fedeltà a un «programma rivoluzionario», antiborghese, anticapitalista, che era condivisa, pur tra notevoli diversità di impostazione, sia dall’ala dei «socializzatori», provenienti dalla Rsi, sia, con qualche forte malessere, dalla componente «corporativistica», espressione dei notabili del fascismo-regime, estranei all’esperienza di Salò190. A queste dichiarazioni di principio seguivano, tuttavia, fatti molto diversi. La nuova formazione, soprattutto per influsso di Pino Romualdi, puntava principalmente a un suo inserimento in un’area politica, legalitaria, filo-occidentale, cattolica, che la diversificava fortemente dal fascismo delle origini e da quello del 1943191. Il neofascismo nasceva infatti borghese e anticomunista, essendo il suo obiettivo principale non quello di proporre un nuovo rapporto tra potere e masse, come era accaduto dopo la crisi dello Stato liberale e la catastrofe del fascismo-regime, ma piuttosto quello di difendere lo Stato borghese – che la dittatura era riuscito a rafforzare, pur snaturandone la fisionomia istituzionale – dall’attacco collettivistico e marxista. La sconfitta monarchica 188 G. PARLATO, La sinistra fascista, cit., pp. 336-337. Ricordiamo che Volpe aveva pubblicato su «Rivolta ideale» (13 marzo 1947, pp. 1-2), un lungo medaglione dedicato a Mazzini, in quanto teorico di una «terza via» tra liberismo e comunismo: «Mazzini vedeva le varie classi non l’una contro l’altra armate nella nazione da costituire, ma solidali e accomunate da una eguale coscienza di nazione e fondeva problema sociale e problema nazionale». 189 G. PARLATO, Fascisti senza Mussolini, cit., p. 401. 190 P. IGNAZI, Il polo escluso, cit., pp. 40 ss. 191 G. PARLATO, Fascisti senza Mussolini, cit., al capitolo V, per tutto quel che segue.
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nella prova referendaria fungeva da acceleratore di questa trasformazione. Dopo il luglio 1946, il fronte monarchico, che era stato fortemente antifascista fino al 2 giugno, abbandonava questa tendenza e si rendeva disponibile a un’alleanza tattica con i fascisti, già anticipata, sul piano militare, dal patto d’azione in funzione anticomunista di gruppi Stay behind composti da monarchici e veterani della Rsi, operante nella seconda metà del 1946. Da parte loro, gli eredi del sistema mussoliniano, anche nelle loro componenti dichiaratamente rivoluzionarie, decidevano di operare una spaccatura del fronte antifascista, che si era costituito durante la guerra civile, inglobandone nelle loro fila la componente moderata di destra e presentando il loro movimento come quello cha sarebbe stato «il più dinamico dei movimenti anticomunisti», quando la lotta politica, oltrepassato il piano parlamentare, sarebbe trascesa in «disordini di piazza, in violenze e in una tensione generale». Come il comunismo aveva monopolizzato, a partire dal 1944, l’intero fronte della resistenza alla Rsi, così il fascismo, risorto dalle sue ceneri, doveva fungere da «massa d’urto dell’anticomunismo», raccogliendo l’adesione della maggioranza degli italiani, la quale anche se non fascista, l’avrebbe appoggiato in odio al comunismo. Sul piano più squisitamente politico, e al di là delle residue velleità eversive (molto di facciata e pochissimo di sostanza), questo aggiustamento strategico si configurava come il tentativo di guadagnare il consenso non soltanto di coloro che avevano partecipato all’avventura dell’ultimo fascismo ma anche di quanti non si sentivano rappresentati dal governo dei partiti democratici. Di qui, la decisione di Romualdi di creare un movimento, in grado di radunare tutti gli scontenti del quadro politico uscito dall’esperienza ciennelistica (a partire dal Fuq), che doveva presentarsi come una forza tendente a collocarsi all’interno dell’area nazionale e moderata (soprattutto centro-meridionale), in diretta concorrenza alla Dc, la quale si apprestava a consumare una radicale svolta anticomunista. In questo quadro, i richiami a Salò, che non potevano scomparire, dovevano stemperarsi, tuttavia, in un’ottica occidentale, che avesse presenti i problemi dell’Italia, sul punto di entrare nella lunga congiuntura della Guerra Fredda. Il Msi doveva rappresentare infatti, per utilizzare testualmente le parole di Romualdi, una compagine pienamente inserita nella cornice istituzionale, fornita di rapporti organici con i tradizionali «poteri forti» (Vaticano e grande industria): un «partito aperto a tutti», che «contrariamente a quello che molti, tra di noi, si ostinavano a non capire, sia pure per nobili ragioni, non poteva essere né il partito dei reduci della Repubblica Sociale soltanto, né il partito dei non cooperatori e neppure un partito in grado e con l’intento di inserirsi in mezzo al mondo operaio». Significativamente, così, un antifascista liberale e monarchico, come Piero Operti, ormai sul punto
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di transitare, seppur come fiancheggiatore, nelle file del Msi, sosteneva, nell’ottobre del 1946, la necessità di superare la divisione tra fascismo e antifascismo in vista di una più ampia alleanza contro le forze di sinistra. E ancora più significativamente, proprio per l’economia del nostro discorso, Giovanni Volpe, uno dei fondatori del Msi torinese, fino ad allora fortemente sbilanciato sulle posizioni della sinistra corporativa, presentava su impulso di Franco De Agazio, nel febbraio del 1947, al cardinale della città piemontese, Maurilio Fossati, il movimento neofascista come lo strumento più adatto per contrastare l’avanzata neobolscevica in Piemonte, persino attraverso la formazione di «squadre di resistenza». Anche se, nell’ottobre del 1947, la segreteria missina, guidata da Giorgio Almirante, avrebbe deciso di liquidare provvisoriamente l’ipotesi della grande destra di Romualdi, riaffermando una chiusa pregiudiziale antimonarchica e antiliberista, per intercettare e dare rappresentanza, invece, al più palpitante vissuto degli «orfani di Mussolini», composto dai rancori della guerra civile, dal ricordo delle epurazioni e dei massacri successivi al 25 aprile, soprattutto dall’orgoglio di considerarsi «diversi» e «proscritti»192, il neofascismo aveva ormai operato, a quella data, una scelta di campo tendenzialmente conservatrice, che, malgrado le ricorrenti tentazioni antisistema di alcune sue frange, non avrebbe più sostanzialmente messo in discussione. Subito dopo il fortunato battesimo elettorale, nelle amministrative del 1946 e nelle politiche del 1948, le parole d’ordine vertenti sul «socialismo nazionale» e sulla «democrazia qualificata dei produttori», pur continuando a costituire uno sbiadito riferimento ideologico di fondo, tendevano a diluirsi ulteriormente, mentre le argomentazioni più spiccatamente «socialiste» scomparivano progressivamente dalle pagine della stampa fiancheggiatrice. La scomparsa del Fuq e la crisi del Partito liberale affrettava questa ridislocazione politica verso la destra borghese, che costituiva l’obiettivo dell’ala moderata (nazionalista, non pregiudizialmente anti-atlantica, disposta soprattutto a battersi per la reintegrazione di Trieste e del territorio giuliano e la conservazione del patrimonio coloniale), destinata a prevalere, nel gennaio del 1950, contro quella «sociale». In questo modo, il partito, guidato da De Marsanich, tornava a definirsi, in primo luogo, come forza disposta a innalzare la bandiera dell’unione delle forze patriottiche contro il pericolo di una possibile sovietizzazione e ad accogliere anche i vituperati «badogliani» e i «traditori monarchici» come preziosi alleati nella «lotta antibolscevica»193. 192 Ivi, pp. 288 ss. 193 P. IGNAZI, Il polo escluso, cit.,, pp. 47 ss.
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Quella trasformazione, funzionale al reinserimento del Msi nel gioco politico, se non parlamentare, della prima Repubblica, era anche tale da facilitare l’afflusso, almeno nel ruolo di simpatizzanti, di intellettuali borghesi come Volpe (legato personalmente a De Marsanich)194, che sarebbe stato confortato in quella scelta anche dalla diffusa atmosfera di rimpianto per il passato, che albergava in altri laudatores dell’«Italia che fu». Non solo Prezzolini, e maggiormente Papini e Soffici (animatore, quest’ultimo, del Msi fiorentino assieme a Occhini, l’editore Vallecchi, Giovanni Spadolini)195, tutti assai vicini a Volpe nella congiuntura del secondo dopoguerra196. Ma anche lo stesso Missiroli, il quale, già nel 1947, aveva riconosciuto la virtù del «fascismo dei migliori»197, arrestandosi sul limite che separava quel riconoscimento da una completa apologia del sistema politico di Mussolini. Limite che Volpe oltrepassava invece, non solo pronunciando un’allocuzione nel corso della presentazione dei candidati missini al Senato nell’aprile del 1948198, ma anche tessendo, in un intervento ospitato sulla rivista «Idea» di monsignor Barbieri nel giugno 1949, l’elogio del passato regime e di quanti (moltissimi) lo accettarono e lo sostennero, a lungo, av-
194 Significativa era la collaborazione di Volpe al settimanale «Lotta Politica», diretta dal dirigente missino, con l’articolo l’Italia degli emigranti, novembre 1949, ora in ID., Saluto ad un maestro, cit., pp. 185 ss. 195 Si veda rispettivamente, G. ZUNINO, La Repubblica e il suo passato, cit., pp. 601 ss.; G. PARLATO, Fascisti senza Mussolini, cit., p. 306. 196 Ardengo Soffici a Gioacchino Volpe, 29 maggio 1949, FV: «Altri ricordi e vincoli di un tempo grande, felice, onorato e indimenticabile mi stringono a te, collaboratore alla grandezza e custode dell’Italia, che la canaglia e la delinquenza stavano avvilendo e disonorando. Quello che ho poi saputo e visto di te hanno raddoppiato la mia stima e la mia simpatia per il vecchio commilitone e collega. Ho letto ultimamente nel Tempo parole tue di grande saggezza, nobiltà ed efficacia. Sappi che siamo perfettamente d’accordo. Anche forse in certe speranze e fedi». Dello stesso segno era la lettera di Papini dell’8 ottobre 1946: «Un amico mi fa leggere – con molto ritardo – il tuo scritto “Venti anni perduti”. Mi ha fatto grandissimo piacere. L’approvo dalla prima all’ultima parola, perché rispecchia l’onesta verità dei fatti espressa dalla coscienza di uno storico obiettivo e di un uomo libero. Spero che il tuo coraggioso scritto sia letto e meditato dagli italiani che non hanno ancora perduto il senso della giustizia e della realtà». Ambedue le corrispondenze sono conservate in FV. 197 M. MISSIROLI, L’unica difesa, in «Il Messaggero», 20 novembre 1947, dove si affermava che la dittatura era stata l’unico rimedio contro la «dissoluzione del complesso sociale». 198 G. VOLPE, Presentazione dei candidati del Msi al Senato, in «Ordine Sociale», 15 aprile 1948, poi in Saluto a un maestro, cit., p. 163, dove Volpe si augurava di vedere, prima della sua scomparsa, additati alla pubblica riprovazione «quanti cosiddetti Italiani hanno consapevolmente e volutamente lavorato per la sconfitta e la distruzione dell’Italia in odio a cose in fondo passeggere, come potevano essere certi uomini e certo modo di governare; quanti, al comodo riparo e con la complicità dei vincitori, hanno scatenato non dirò la guerra ma la strage civile».
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vertendolo non come trionfo di un partito o di un’ideologia ma come capacità di governo e azione collettiva dell’Italia. Piacque a questi Italiani che, dopo il caotico dopoguerra, si riportasse un po’ d’ordine nella vita pubblica, nel lavoro, nella difesa dei diritti di ognuno; che più fermo fosse il potere del Governo di fronte allo straripare del Legislativo e ai partiti; che si desse un po’ di nerbo alla nostra politica estera; che i dualismi e antagonismi delle classi si cercasse di comporli sulla base di un più umano e nazionale concetto del lavoro e della proprietà, e si tentasse di dare più vero carattere rappresentativo alla rappresentanza politica della nazione; che fossero avvalorate tutte le risorse naturali del nostro paese in vista di una maggiore autonomia economica, data l’esperienza della guerra, la politica delle materie prime che molti paesi fornitori facevano, la sempre maggiore difficoltà di emigrare; che l’Italia ponesse fine al vecchio dissidio col Vaticano, e Stato e Chiesa togliessero quel tanto che si poteva togliere di contrasto nei loro rapporti; che le Colonie fossero accresciute e aprissero più larghe possibilità di lavoro agli Italiani; che la Nazione, nella sua unità, crescesse di statura e di credito al cospetto delle altre Nazioni199.
Quel fascismo (in nulla dissimile, in questa descrizione, dal programma di una qualsiasi destra laica ma non anticlericale, modernizzatrice, nazionalista, popolare) poteva e anzi doveva risorgere dalle sue ceneri e tramutarsi in «neofascismo», al quale Volpe rivendicava l’appartenenza, almeno ideale, pochi mesi più tardi, anche a rischio di «vedere la vindice mano di Scelba e la severa parola del Procuratore della Repubblica abbattersi su di me»200. Dichiarazione, questa, che preludeva ad un suo più diretto impegno politico, che si verificava nel maggio del 1950, quando lo storico, accanto a Soffici, Giuliano, Giuseppe Belluzzo, Guido Manacorda, Giotto Dainelli, Alberto Asquini, partecipava all’atto fondativo del Fronte Universitario di Azione Nazionale (Fuan), che impegnava i suoi aderenti «alla lotta per la difesa dei valori nazionali, contro lo spirito della capitolazione, morale prima che militare, del Paese; manifestando questa sua volontà di riscossa con il pensiero e con l’azione, nelle aule e nelle piazze, certo che la rinnovata affermazione dei valori tradizionali della Nazione, contro ogni tentativo di asservimento, è la condizione prima perché la futura giovane classe dirigente possa af-
199 ID., Dopo il Fascismo, cit., pp. 177-178. 200 ID., Lettera aperta all’“Idea”, gennaio 1950, in ID., L’Italia che fu, cit., 179 ss., do-
ve, in modo esplicito si affermava: «Ribadisco cento, mille volte il mio “neofascismo”; e complimenti a chi, condannando il neofascismo, questo neofascismo, esalta i faziosi, i criminali, i rivoluzionari di quella e così fatta rivoluzione; auguri, che la storia e gli Italiani non chiedano troppo conto, come stanno già chiedendo, di questa loro connivenza coi facinorosi e criminali».
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fermare sé stessa al potere e con sé stessa l’Italia»201. Nel dicembre di quell’anno, in una lettera aperta al direttore della rivista «Governo», Volpe prendeva poi, nuovamente, netta posizione contro la ventilata minaccia di scioglimento del Msi da parte del ministro dell’Interno Scelba, ed esprimeva una vicinanza, sostanzialmente senza riserve, per quella forza politica, che si era rifiutata di abiurare il passato, di «fare pentimento», ma che andava invece procedendo a un serio esame di coscienza dei propri trascorsi e forse anche a una «revisione» delle antiche idee, la quale era ostacolata soltanto dalla preconcetta ostilità nei suoi confronti. Io non sono del Msi. Non sono nelle grazie di molti di loro. Ma ti posso dire, caro Direttore, che molto spesso mi sento dieci volte, cento volte più vicino ad esso che non a certa folla di falsi liberali e falsi democratici e falsi Italiani che ora riempiono strabocchevolmente piazze ed aule. Ti posso dire, e del resto lo sai anche tu, quanta generosa gioventù, e anche non gioventù, è in mezzo ad essi. E fra essi non pochi ve ne sono che puntano i piedi contro la miseria e resistono agli allettamenti dei grossi e ben provvisti partiti e allo stesso giusto risentimento. E non sono neppure degli scervellati o sordi. Non hanno fatto “pentimento”, come troppi presuntuosi denigratori pretendevano e pretendono, poiché non c’è luogo a pentimento dove non è colpa morale; ma sì hanno fatto i più e i migliori il loro esame di coscienza e la loro revisione di idee, han cercato di separare il grano dal loglio, le cose vive dalle cose morte. Lo hanno fatto, questo esame di coscienza, questa revisione di idee, molto più che non lo abbiano fatto tanti altri che si sono fermati al 1922 o al 1914, tanti altri che si son fatti un animo da fuoriusciti e da fuoriusciti sono tornati, avendo perduto ogni contatto e consentimento con la loro Patria ed ora si accampano da padroni in Italia con i loro rancori non estinti, con le loro vendette da prendere, con la loro ridicola illusione di cancellare venti, trenta, quaranta anni di storia italiana ed europea. Che cosa ha impedito che questo esame, questa revisione dei cosiddetti «neofascisti» arrivasse fino in fondo e portasse tutti i suoi frutti, in vista della auspicata distensione e pacificazione? Lo abbiamo detto. Con ciò è additata la via che governo e partiti, se vogliono veramente la pacificazione, debbono battere. Non nascerà, né io me lo auguro, l’idillio, ma una tollerabile convivenza che consentirà, a chi ha più filo, di tessere meglio la sua tela. Ogni altra via condurrebbe ad inasprimento di mali. E non basteranno le leggi di Scelba, non le truculente minacce dell’avvocato Pacciardi a risanarli202.
Il Rubicone della politica era stato, così, ancora una volta, varcato dallo storico, e i frutti di quell’allineamento non si facevano attendere.
201 F. PETRONIO, Contributo allo studio del Fuan, Roma, Fuan, 1963, pp. 3-4. 202 G. VOLPE, L’Italia agli Italiani, «Governo», 23 dicembre 1950, in Saluto a un mae-
stro, cit., p. 212.
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Se ancora, durante il convegno costitutivo del Fuan, l’intervento di Volpe, che conteneva alcuni riferimenti a Casa Savoia e a Vittorio Emanuele III, era stato interrotto da numerosi fischi203, soltanto l’anno dopo, Concetto Pettinato, sulle colonne di «Asso di Bastoni», disegnava, in modo del tutto provocatorio, un governo alternativo a quello di De Gasperi, guidato da Gronchi, con Graziani a capo dello Stato e ministri di orientamento «nazionale» come Renato Ricci, Serpieri, Soffici, Juno Valerio Borghese, De Marsanich e Volpe204. Sempre nel 1951, il Gruppo universitario romano «Caravella», costituitosi nell’ambito del Fuan, pubblicava una raccolta di suoi scritti, dal titolo significativo: Saluto ad un maestro, che ripercorreva sinteticamente l’intero iter politico e culturale dello storico, dal primo al secondo dopoguerra. Nell’introduzione della silloge, affidata ad Ardengo Soffici, si modulava il ritratto politico di Volpe, che «tra altri molti Italiani non degeneri, è uno degli uomini che nella recente bufera devastatrice hanno tenuto fede alla santa idea della Patria, hanno resistito con coraggio indomito alla furia della persecuzione, non hanno vilmente inchinato al nemico avanzante con le sue catene dissimulate tra le lusinghe». Ritratto che si concludeva in una rovente requisitoria contro il disfattismo e il tradimento che avevano portato alla sconfitta della Seconda guerra mondiale e trasformato la nazione italiana in una «fetida palude», che aveva imboccato il cammino «della rassegnata penuria, della vergogna e della più o meno palese sostanziale servitù»205. Nella presentazione del volume, i tre dirigenti del gruppo universitario, Giulio Caradonna, Luigi Mosillo, Luciano Bassi, dichiaravano di voler astrarre «da particolari atteggiamenti e convinzioni di Gioacchino Volpe che potrebbero non coincidere con quelli di molti di noi», preferendo sottolineare le vessazioni subite da Volpe nell’Italia repubblicana che gli costarono «la cattedra, e il posto che egli occupava nei sodalizi scientifici del nostro Paese o il boicottaggio, per un paio d’anni, di giornali e riviste»206. L’intervento si concludeva, citando le parole con cui lo storico aveva accettato di veder ripubblicare «questa scelta di suoi piccoli scritti»: Vorrei che questo volumetto fosse dedicato a tutti gli Italiani che, dopo aver servito l’Italia con fedeltà ed onore, nel ventennio “et ultra”, hanno poi incontrato morte, carcere, menomazione civile, miseria207.
203 G. CIAMMARUCONI, I movimenti giovanili nazionali, in «Il Veltro», 1964, 1-2, p. 145. 204 C. PETTINATO, Governo di salute pubblica!, in «Asso di Bastoni»,, 21 gennaio 1951,
3, pp. 1-2. 205 A. SOFFICI, Agli Universitari della “Caravella”, in Saluto ad un maestro, cit., p. 3. 206 Ivi, p. 5. 207 Ivi, p. 7.
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Nutrito di nostalgia per la passata grandeur dell’Italia ma soprattutto da un forte sentimento di rivalsa per i torti personalmente subiti, l’avvicinamento di Volpe alla destra neofascista non provocò risultati di grande rilievo. Scarsa infatti la sua presenza sul «Secolo d’Italia», organo del Msi, e copiosa invece, già a partire dal 1946, quella nelle pagine del «Tempo», diretto da Renato Angiolillo (comunque legato personalmente a Giorgio Almirante, notoriamente vicino agli ambienti conservatori e non ostile a quelli neofascisti), che era riuscito ad assicurarsi altri collaboratori di prestigio come Silvio d’Amico, Gianluigi Rondi, Giorgio Prosperi, Enrico Falqui, Carlo Belli, Virgilio Guzzi. Dalle pagine del quotidiano romano, che ospitava anche interventi di Concetto Pettinato, del generale Giovanni Messe (capo di Stato maggiore del ricostituito Esercito italiano dal 1944 al 1945, senatore nella Dc nel 1948, infine presidente dell’Unione Combattenti Italiani), di un ironside del fascismo, come Carlo Delcroix, e su altri organi della stampa periodica, si moltiplicavano, negli anni Cinquanta, le prese di posizione di Volpe, in relazione all’abissale calo di prestigio dell’Italia e dell’Europa sullo scenario internazionale208, al rimpianto per la perdita dei confini naturali e dei territori d’Oltremare209, a viva approvazione per il riacquisto di Trieste strappata al giogo del «comunismo slavo»210, in opposizione alla riforma dei patti agrari (per il superamento della mezzadria e della colonia), considerata, in sintonia, questa volta, con le posizioni espresse da Croce, lesiva della proprietà privata e dello spirito d’iniziativa211, in dissenso per la frammentazione dell’unità nazionale, a seguito dell’attuazione del nuovo ordinamento regionale212, contro il risorgere del
208 G. VOLPE, Europa ed America; Nuova età; America ed Europa, in «Il Tempo» 14 settembre 1948; 9 maggio 1951; 23 giugno 1951 in ID., L’Italia che fu, cit., pp. 213 ss., pp. 603 ss.; 625 ss.; 632 ss. 209 ID., Un mucchio di macerie, «Governo», 6 maggio 1950, ivi, p. 362: «Dopo sessanta o settanta anni di politica estera, di sforzi per trovare una strada e camminarvi sopra, di obiettivi via via posti e raggiunti, dopo tutto questo, l’Italia ha visto annullato quel lavoro e profuso invano quel sudore e quel sangue; è stata ricondotta o meglio ricacciata al punto di partenza, come Sisifo dalla vetta su cui aveva faticosamente messo il piede, rotolando il suo sasso». Dedicato al problema della perdita delle colonie, era anche Posizione internazionale e politica estera dell’Italia, che appariva su «Pagine Libere» del marzo 1949, ivi, pp. 430 ss. 210 ID., Benvenuta Trieste nella tua casa!, «Il Tempo», 9 ottobre 1954, ivi, pp. 389 ss.; ID., Trieste e il suo Risorgimento. A proposito del volume di R. Alessi, Trieste viva, in «Il Piccolo», 27 febbraio 1955, in ID., Pagine risorgimentali, cit., II, pp. 255 ss.; Presentazione a G. ESPOSITO, Trieste e la sua Odissea. Contributo alla storia di Triste e del litorale Adriatico dal 25 luglio 1943 al maggio 1945, Roma, Comitato Italiano pro Bacino Adriatico, 1952. 211 ID., Il podere sommerso, in «La Patria», 4 novembre 1952, p. 3. 212 ID., Per l’unità d’Italia contro l’Ente Regione. Petizione al Parlamento, «Il Tempo», 12 dicembre 1948, in Saluto ad un maestro, cit., pp. 166 ss. In accordo con la posizione del Pli, Volpe presentava, in quell’occasione, una petizione al Parlamento, «affinché il titolo V della
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«clericalismo politico», che ora poteva contare sull’appoggio di un forte partito di massa come la Democrazia cristiana213, e in aperta polemica con le celebrazioni del 25 aprile214. Né all’interno di queste esternazioni, mancava il riconoscimento per i meriti storici del fascismo e per quello che di quel regime doveva restare come eredità da conservare, al di là degli errori e dei traviamenti collezionati da Mussolini e dai suoi gregari durante il ventennio. Nel febbraio del 1954, il laico Volpe tornava a riflettere sull’importanza dei Patti lateranensi, i quali avevano sanato «quel che rimaneva del vecchio dissidio per cui i credenti dovevano dosare il loro attaccamento alla Patria ed i cittadini la loro adesione alla religione degli avi», riprendendo parzialmente i contenuti del suo articolo apparso su «Gerarchia» nel 1929, ivi compreso l’elogio del movimento che si era posto a capo della nazione, tra 1922 e 1923, e delle doti politiche del suo capo, che ancora una volta veniva definito «un vero “uomo nuovo”, che non si sentiva legato, per obblighi di coerenza, a troppi precedenti suoi o altrui, che non aveva nessuna intenzione di immobilizzarsi davanti alle “questioni” reputate insolubili o quasi, neanche davanti a una “questione romana” dalle fantastiche proporzioni»215. Ma l’ostinata volontà di non dimenticare l’attivo di quel passato doveva servire, per Volpe, anche da stimolo immediato per l’azione nel presente, nel momento in cui il Msi, guidato da Arturo Michelini, dopo uno sfibrante confronto con l’ala sinistra di Almirante, approvava, nel luglio del 1955, il varo di una alleanza di «opposizione nazionale» con il Partito Nazionale Monarchico di Alfredo Covelli216. Alla doman-
Costituzione, che spezzetta l’Italia, venga sostituito da altre norme più meditate, volte ad assicurare un vasto decentramento burocratico ed istituzionale, particolarmente accentuato per le Isole». Su «La Rivolta Ideale» del 10 febbraio 1949, veniva poi pubblicato il manifesto del Comitato per la difesa dell’Unità d’Italia, presieduto da Volpe, a cui aderivano: Carlo Costamagna, Giovanni Papini, Piero Operti, Nicolò Rodolico, Arrigo Serpieri, ma anche Carlo Antoni e Gaetano De Sanctis. Si veda, anche, la più tarda presa di posizione, Regionalismo e Statalismo, in Dieci anni, «Monarchia», ottobre 1956, poi in ID., L’Italia che fu, cit., pp. 420 ss. 213 ID., Il voto dei Cattolici. Scandalo in Chiesa, in «Roma», 24 maggio 1952, ivi, pp. 143 ss.; ID., Noterelle post-elettorali, in «Roma», 21 giugno 1952, ivi, pp. 149 ss.; ID., Chiesa, cattolici e Democrazia Cristiana, in Dieci anni, «Monarchia», ottobre 1956, ivi, pp. 429: «È inutile qui dire quanto sia conturbante per la coscienza dei cattolici, pericoloso per la Chiesa e la religione questa mescolanza, anzi contaminazione e confusione di sacro e profano; conturbante e pericoloso specialmente per un paese come l’Italia, che ha ricordi non lontani del danno che da tale contaminazione venne all’una e all’altra parte». 214 ID., Le stragi fratricide devono essere condannate. Appello agli Italiani. (Contro le celebrazioni del 25 aprile), in «Il Secolo d’Italia», 12 marzo 1955, p. 1. 215 ID., 11 febbraio 1929. La Conciliazione pacificò gli Italiani, restituì l’Italia a Dio e Dio all’Italia. Valore perenne di un patto, in «Il Secolo d’Italia», 11 febbraio 1954, p. 3. 216 P. IGNAZI, Il polo escluso, cit., pp. 83 ss.
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da di commentare quel patto politico ed elettorale, che avrebbe dovuto avere il suo battesimo del fuoco nelle amministrative del maggio 1956, lo storico rispondeva di approvare, senza esitazioni, la nascita di una federazione destinata ad annullare i vecchi rancori tra «monarchici» e «repubblichini» e articolava, in questo modo, il suo giudizio positivo riguardo a un evento forse destinato a rivoluzionare in profondità il quadro politico italiano, se fosse stato in grado di costituire «un vasto ed efficiente movimento di opinione pubblica», capace di rimuovere il peso del passato fascista e «legittimista» e di proiettarsi verso l’avvenire sulla base di una sobria, eppure non generica, agenda politica di riferimento articolata in alcuni motivi essenziali. 1. Opposizione al comunismo, e in se stesso e in quanto vassallaggio di un partito ad altri, non solo partiti, ma governi stranieri. 2. Difesa, salvaguardia della maggior possibile libertà di iniziativa economica dei cittadini, che è poi condizione di ogni libertà e anche di democrazia, se si intende questa come porta aperta a tutti i migliori, libero movimento di uomini, spontanea formazione di élites. 3. Coscienza fermissima in chi governa il paese che unirsi e associarsi in organismi europei, atlantici, mondiali, interstatali, presuppone, se non si vuole essere assorbiti da più potenti fauci, essere e rimanere se stessi, conservar vigile il senso della propria indipendenza, condizione essenziale anche perché il tutto, uno e molteplice, vigoreggi. 4. Apertura per quanto si può, tanto che tutti parlano di aperture, non politica, ma morale, ma sociale a sinistra, perché gli egoismi di classe o categoria siano infrenati, perché la ripartizione dei frutti del capitale e del lavoro, sia più equa, perché nella gestione delle aziende abbia una qualche parte anche chi fornisce il lavoro, perché si creino a vantaggio dei migliori, per quanto è possibile, condizioni favorevoli ad ascendere. 5. Fedeltà a quel patto che nel 1929 si chiamò Conciliazione, e Stato e Chiesa operanti nel riconoscimento di eguali valori morali e religiosi. Ma che lo Stato sia Stato e la Chiesa sia Chiesa; che nessun partito, in un paese di cristiani e di cattolici come il nostro, inalberi, come partito politico, la bandiera del cristianesimo, facendosene un’arma contro altri cristiani e instaurando su questa base una sua dittatura217.
Alla prova delle urne, il nuovo sodalizio politico non si dimostrava però in grado di realizzare un così ambizioso obiettivo, ma soltanto di fungere da punto di coagulo delle frange della borghesia più conservatrice, senza riuscire a contrastare, nell’immediato futuro, la concorrenza del Pli di Malagodi, che era in grado di far naufragare, alla fine del 1957, la proposta di una «grande destra», lanciata da Michelini, insie217 G. VOLPE, Oltre l’Alleanza, in «Corriere della Nazione», 3 febbraio 1956, p. 1. Poi ripubblicata come ID., Lettera aperta a Vito Panunzio in «Pagine libere», 1 febbraio 1956, cit.
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me al Generale Messe, la quale avrebbe dovuto aggregare missini, monarchici di ogni tendenza e liberali. Falliva anche l’inserimento della forza neofascista, come alleata à part entière della Dc, in coincidenza della crisi del governo Tambroni, verificatasi sull’onda dei tumulti di Genova del 1960, scatenati ad arte dalle sinistre, che facevano dell’antifascismo militante e trionfante l’arco di volta della prima Repubblica e, di conseguenza, risospingevano, apparentemente sine die, il Msi verso le secche del più vieto reducismo e di un atteggiamento di sterile nostalgia per il passato socializzatore di Salò218. A questa ondata di riflusso Volpe aveva cercato di sottrarsi, già nel 1959, inviando il suo messaggio di saluto al primo convegno dell’Istituto di Studi Nazionali per la Programmazione Economica, fondato in quell’anno dal deputato missino Nino Tripodi, insieme ad alcuni intellettuali attivi nel corso del ventennio, come Giorgio Del Vecchio, Alberto Asquini, Emilio Betti, Cipriano Efisio Oppo. Messaggio, nel quale si tracciava uno schematico abbozzo storico della «questione meridionale» e di quanti, da Giustino Fortunato ai liberisti radicali del principio del secolo, a riformatori fascisti, come Arrigo Serpieri, avevano tentato di risolverla in modo diverso ma contrassegnato da una sostanziale continuità e omogeneità di vedute e di obiettivi, che non del tutto coincidevano con gli interventi speciali varati nel secondo dopoguerra, grazie a un ingente prelievo fiscale proveniente dalle aree più sviluppate del paese, poi gestito da uno Stato che proiettava la sua presenza nel Mezzogiorno soprattutto in virtù del ruolo di grande elemosiniere. Mi piace fare qui il nome di un meridionale esemplare, e di mandare un saluto alla sua memoria, Giustino Fortunato, che dal 1900, cioè da quando lo conobbi a Napoli, mi onorò della sua amicizia: grande studioso dei problemi del Mezzogiorno, passato e presente, mentre suo fratello Ernesto li affrontava, in sede pratica, dirigendo una grande azienda agraria e cimentandosi ogni giorno con le difficoltà spesso create dalla malaria, dalle frane, dalla mancanza disperante dell’acqua. Giustino Fortunato rappresentò, in fatto di questione meridionale, la fase in cui essa era, essenzialmente, questione di agricoltura e di contadini; e la fase in cui, dopo aver perso la fiducia iniziale in una specie di dispotismo illuminato e progressivo, cioè di energico intervento dall’alto, si ripiegava da molti, fra cui il Fortunato, ad una concezione liberale. “Statizzare”, “socializzare”, egli scriveva, sono sinonimi di “burocratizzare”. E respingeva leggi speciali, “generose elemosine”, grandi lavori pubblici, ecc., con relativa usura di capitali, senza corrispettivi vantaggi. E deplorava, lui come di Rudinì, come l’economista De Viti de Marco, la “fatale politica dei lavori pubblici”. E invocava “grandi sgravi e liberi commerci”, che avrebbero reso possibile la for-
218 P. IGNAZI, Il polo escluso, cit., pp. 92 ss.
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mazione di nuovi capitali, attiratine altri dal Nord, ravvivato la stanca terra del Mezzogiorno. E si richiamava a Bernardo Tanucci, il toscano Ministro di Carlo di Borbone, che in quarantanni “nullum vectigal imposuit”. Oggi la questione meridionale si pone anche e forse più ancora, come industrializzazione del Mezzogiorno e come azione essenzialmente statale. Quale dunque la via migliore? Quelli tra di voi che esamineranno i risultati delle presenti leggi speciali e dell’azione della Cassa del Mezzogiorno potranno dare una risposta a questa domanda. E chi sa che non ne venga anche ora il riconoscimento, l’apprezzamento pieno dell’illuminato equilibrio che presiedé, nel ventennio, alle leggi Serpieri per la bonifica integrale. Del quale ventennio, pur senza volerne fare l’apologia, a noi piace ricordare l’alto significato che assumeva questa attività di bonifica, volta specialmente al Mezzogiorno, questo sforzo di avvalorare ogni zolla, di trasformare braccianti e giornalieri in liberi proprietari: essa guardava al tutto, alla Nazione come unità spirituale, per elevarla tutta quanta nelle sue varie articolazioni. Valori sociali e nazionali si identificavano. Il che non so se, e quanto, oggi si verifichi219.
Sarebbe stata questa l’ultima esternazione politica di Volpe, prima di un lungo, quasi decennale, silenzio, se si eccettuano le sue prese di posizioni, nel 1963, a favore dell’Associazione Nazionale «Italia irredenta», coordinata dal generale Ezio Garibaldi, nata per tutelare quanto dell’italianità sopravviveva nelle regioni del confine orientale, dopo la catastrofe della sconfitta militare del 1945, quando venne «decimato, impoverito, disperso il nobile patrimonio umano di quelle terre, attraverso la guerra guerreggiata, le stragi titine, i campi di concentramento, per non dire sterminio, l’esodo di massa verso l’Italia e, poi, più lontano ancora, il tutto, sotto gli occhi indifferenti o consenzienti o incoraggianti delle grandi Potenze liberatrici e loro generali e ufficiali, con la solidarietà e il concorso di Italiani stessi, illusi da nobili ma ingannevoli miraggi o spinti da morboso odio al vecchio “regime” o consigliati da opportunistico calcolo». Quella diaspora e quel genocidio etnico, ma soprattutto culturale, sosteneva Volpe, avevano posto infatti, di necessità, le condizioni per la nascita di «nuovo irredentismo», che «non farà del nazionalismo, sfidando gli anatemi del nuovo cosmopolitismo, ma, sì, starà a difesa delle frontiere, oggi più di ieri, (1915), minacciate; aiuterà nella resistenza, coi mezzi e nei modi che potrà, quelli che ne sono rimasti fuori; sarà presente, più che l’Italia d’oggi non sia, in Adriatico; guarderà, certo, alle terre perdute, ma guarderà e vorrei dire che guarderà ancora di più, a che non se ne perdano altre che abbiamo recuperato nel 1915-18 e magari altre ancora al di qua, nostre ab anti-
219 G. VOLPE, La “questione meridionale” oggi, in «Pagine Libere», gennaio-maggio 1959, p. 30.
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quo»220. Presa di posizione, questa, che rimandava a una più ampio saggio sullo stesso argomento, intitolato Storia del tramonto del nuovo irredentismo dopo la seconda guerra mondiale, composto sempre negli anni Sessanta, del quale è sopravvissuto soltanto questo frammento manoscritto. Con la nuova guerra, che ebbe nel Mediterraneo e paesi attorno il suo centro e investì tutte quelle nostre terre “irredente”; con essa e con la sua, per noi infelice e non del tutto onorevole conclusione; con la perdita di ogni nostro prestigio internazionale e di nostra forza di attrazione assai viva nel ventennio precedente; col nuovo clima politico e morale che regna da noi; con tutto questo la scena muta. Il nuovo irredentismo o quasi irredentismo rimane pressoché interrotto. “Al di sopra della patria, si viene formando una nuova religione politica di tono e indirizzo europeo e di interesse sociale”, scriveva lo scrittore e professore Luigi Russo, nella prefazione alla sua rivista “Belfagor” nel 1943 [recte: 1946]. Ma questo avveniva più in certi paesi che in altri. Né poi arrestava la lenta espansione di certe stirpi più giovani o più vigorose – nel caso nostro, Tedeschi e Slavi al Nord-Est – verso aree più o meno italiane di qua dalle Alpi, dove nostro interesse e aspirazione era, se non proprio rivendicar territori, al di là della linea politica, difendere, conservare quel tanto di italianità che pur vi era in fatto di lingua, coltura, sentimento. Ebbene, dopo l’ultima guerra, si è affievolita l’azione difensiva nostra, in ogni terra italiana, fuori dei confini politici, è diminuita la forza di attrazione dell’Italia su quegli Italiani, in confronto di quel che era stata durante il ventennio; è cresciuta invece la influenza e forza e volontà degli altri di penetrare nelle aree italiane221.
Soltanto alla fine del 1968, lo storico tornava a prendere la parola, in una congiuntura politica, sociale, culturale profondamente e bruscamente modificatasi. All’impetuosa, seppur caotica e anarchica, spinta verso sinistra, che si registrava in quasi tutte le democrazie occidentali, alle nascenti ipotesi, in Italia, di intese politiche ancora più avanzate di quelle realizzate dall’avvicinamento tra cattolici e socialisti, la destra missina e quel che restava del fronte monarchico contrapponeva la visuale di un’altra Europa, dove alcuni regimi autoritari (Spagna, Portogallo), sorti per 220 ID., Italia Irredenta, in «Il Tempo», 17 dicembre 1963, p. 3. All’irredentismo, precedente il 1915 e al suo ulteriore sviluppo fino al 1943, in relazione all’italianità di Corsica, Malta e regioni del litorale adriatico, Volpe avrebbe dedicato nel 1964, il lungo saggio, già ricordato, Il Nazionalismo fra le due guerre. 221 Il manoscritto conservato in FV, che proseguiva con alcune annotazioni relative all’arretramento del nostro idioma nelle aree italiane e ladine della Svizzera, era destinato a comparire nel numero monografico, dedicato al settimo centenario della nascita di Dante, della rivista «Il Cantonetto», pubblicata a Lugano, nel dicembre 1965. Per il riferimento all’articolo, si veda, L. RUSSO, I giovani nel venticinquennio fascista, 1919-1944, in «Belfagor», 1946, 1, pp. 7 ss., in particolare pp. 15-16.
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fronteggiare la crisi del primo dopoguerra, superata indenni la seconda tempesta bellica, avevano saputo contenere le minacce di disgregazione sociale, senza del tutto intaccare l’edificio delle libertà civili. Era naturalmente un quadro di maniera, almeno in buona parte, al quale Volpe forniva il suo contributo, riprendendo, in due articoli apparsi sul «Tempo», nel novembre del 1968, i contenuti del suo studio dedicato nel 1941 a Salazar222, ma, per paradosso, concentrandosi, questa volta, sulle affinità, piuttosto che sulle differenze tra Estado Novo lusitano e regime fascista. Innegabili certi rapporti o somiglianze col fascismo italiano: eguale rigetto della «democrazia», di certa democrazia, e del liberalismo e individualismo del XIX secolo; eguale sforzo di innestare la rivoluzione sulla tradizione; eguale modo di concepire e definire la nazione; eguale proposito, più o meno bene attuato, di mantenere l’equilibrio fra interventismo statale e libera attività privata; eguale riconoscimento della proprietà, del capitale del lavoro ma in funzione sociale e quindi con determinati obblighi; eguale aspirazione di giungere, attraverso la corporazione, ad una economia non diretta dai governanti, come semplice reazione agli eccessi del liberalismo, ma capace di autodisciplina; eguale studio di proteggere ed elevare il lavoratore, di creare istituzioni volte alla educazione morale e al benessere del popolo e alla sanità della famiglia, di immettere un maggior contenuto educativo nella scuola (donde il mutamento, anche lì, del Ministero Istruzione Pubblica nel Ministero Educazione Nazionale) e improntare in modo nuovo lo spirito della gioventù tutta quanta, eccetera. Non c’è dubbio che, fra i vari regimi di nuova formazione, Salazar, sia stato suo proposito, sia stata affinità di stirpe e di tradizioni culturali, ha avuto sotto gli occhi specialmente quello italiano e fascista, in esso più che in ogni altro egli ha visto realizzare certe sue vedute o certi suoi ideali223.
Questo accostamento tra salazarismo e fascismo e soprattutto la larvata apologia del sistema politico mussoliniamo, che da quel confronto risultava, era tale, da provocare qualche infastidita reazione persino tra i moderatissimi lettori del quotidiano romano, ai quali Volpe replicava, puntualizzando meglio il suo pensiero e meglio articolando la fisionomia politica, istituzionale, sociale della «rivoluzione», promossa, nei primi anni Trenta, dal professore di Scienza delle Finanze dell’Università di Coimbra, affine sicuramente a quella che fu attuata in Italia dopo il 1922, ma da essa profondamente diversa soprattutto per aver sempre rifiutato di omologarsi ad un modello compiutamente totalitario, come quello nazionalsocialista, o anche imperfettamente tale, come quello italiano, sperimentato durante il Ventennio. 222 G. VOLPE, Nobiltà di Salazar, «Il Tempo», 2 novembre 1968, p. 3; ID., Le idee di Salazar, ivi, 5 novembre, 1968, p. 3. 223 Ibidem.
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Salazar non dissimulò certa preoccupazione di salvare dalle troppo strette maglie dello Stato certi istituti naturali e certe attività spirituali, la famiglia, il mondo delle idee e degli affetti, volendo evitare, come disse il dittatore stesso, che, a forza di disciplina “si ritorni a quella medesima schiavitù da cui ci si vuole liberare”. Attribuendo un valore a sé alla Nazione, rifiutando di confonderla o di identificarla, vuoi con un Partito, vuoi con lo Stato, sostituì al fascista “tutto per lo Stato” o “tutto nello Stato”, “niente contro o fuori lo Stato”, il suo “Nada contra a Naçao, todo para a Naçao”. Fra il disfacimento dello Stato e la sua divinizzazione, Salazar stette in mezzo: lo Stato sì, ma contenuto dalla morale, dal diritto delle genti, dalla libertà individuale. Potrei proseguire nel rilievo di queste peculiarità portoghesi e salazariane: differenze piuttosto grandi, come grandi erano, a tacer il resto, quelle personali tra Salazar e Mussolini. Dittatore anche Salazar, né esso nascondeva o dissimulava questa sua posizione: ma nessuna qualifica speciale egli si attribuì (“Duce”, “Führer”, “Caudillo”, “Conducator”), conservando quella tradizionale di Presidente del Consiglio, e spesso facendo cadere l’accento sul carattere temporaneo e meramente strumentale della sua dittatura. Ma Salazar non aveva mai capeggiato partiti; mai guidato movimenti rivoluzionari e neppure creduto molto alle virtù della violenza, pur senza essere affatto un pacifista; mai soggiaciuto a potenti passioni o ambizioni politiche, a istinti di comando, a suggestioni nietzschiane o soreliane. Veniva invece da un tranquillo settore cattolico o cristiano-sociale: ciò che spiega molte cose di lui e del suo pensiero, anche specialmente quei limiti di sapore giusnaturalistico che egli poneva allo Stato, quelle sollecitudini di ordine morale che sono vivissime in lui e quel frequente suo richiamarsi alla morale: morale individuale o privata, e morale pubblica o di Governo; morale nazionale e morale internazionale. Conclusione. Anche Salazar e la sua rivoluzione prendono posto nella serie di quei movimenti e di quei personaggi, affini e pur diversi, in cui si espresse, dopo la prima guerra, il bisogno di nuovo ordine in tante Nazioni d’Europa. Essi ebbero poca fortuna in certi Paesi, buona in altri, cioè in Portogallo e, tutto sommato, anche in Spagna. Si è visto, ogni giorno più si vede in tanti aspetti della loro vita, in tante loro attività, in tanti loro progressi. E comincia a riconoscerlo anche l’Europa liberale e democratica che, per gran tempo, ha quasi messo al bando o tenuto a distanza i due Paesi o regimi. Ora questa Europa sta ravvicinandosi ad essi: questa Europa che, di fronte a pericoli comuni ogni giorno più gravi e sentiti, par che voglia sul serio serrare le fila, cioè unificare le forze. Diamo ad essi il benvenuto!224.
Ma più che all’esperienza storica di franchismo e salazarismo, in questa pagina, Volpe veramente pareva voler rimandare alla necessaria presenza, anche in una società industriale avanzata, di una forte destra nazionale e conservatrice, analoga a quella di altri paesi europei, che, ad esempio, in Francia, con il gollismo, aveva saputo fronteggiare gli agitati marosi della contestazione sociale di quegli anni, pur uscendo feri224 ID., Il fascismo e Salazar. Risposta ai lettori, ivi, 7 gennaio 1969, p. 3.
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ta a morte da quella prova. Quella destra però risultava ancora una volta assente dallo scenario politico italiano, se si escludeva il ruolo del tutto marginale ricoperto dal Pli e soprattutto dal Msi, che si era limitato a offrire «manovalanza a buon mercato a giochi di potere rimasti in parte nell’ombra», senza intaccare il monopolio della resistenza anticomunista della Dc225. Proprio all’interno di questo partito, tuttavia, a partire dall’estate del 1969, Almirante, tetragono custode, fino a questo momento, dell’eredità mussoliniana, apriva una fase di deciso cambiamento, necessario, in primo luogo, a rompere l’isolamento nella società prima ancora che nel recinto politico-parlamentare. Liquidata o meglio messa provvisoriamente tra parentesi la carica antisistema del partito, la nuova segreteria metteva in opera una progressiva opera di defascistizzazione del proprio patrimonio ideale, precisando che il Msi doveva intendersi, a partire da questo momento, come gruppo politico «non totalitario, ma che ritiene lo Stato diverso e superiore, non nostalgico ma moderno, non nazionalista ma europeista, non conservatore-reazionario ma socialmente avanzato»226. Venivano fissati, in questo modo, i punti cardine, attraverso i quali, il Msi avrebbe tentato di elaborare il ciclo della propria metamorfosi (troppo breve e incompiuto) in «Destra Nazionale», che doveva portarlo anche a una resa dei conti con un tempo storico che era impossibile rinnegare, ma che risultava ormai ineluttabilmente privo di prospettive, per spingerlo «oltre gli angusti limiti e schemi dei reducismi e dell’ideologia, per prendere atto che si è chiusa una fase storica, per presentarci alla pubblica opinione come un movimento moderno, attuale»227. Questa svolta, sancita dal Congresso di Roma del 21-23 novembre 1970, durante il quale veniva sottolineata la necessità di aprirsi, senza pregiudiziali, al dialogo con tutte le forze interessate a coagulare un articolato fronte anticomunista228, riceveva il caloroso appoggio di Volpe, con la lettera aperta indirizzata ad Almirante, nel gennaio successivo, dove nonostante l’invito a evitare il ghetto di una nostalgica recriminazione, la più parte degli argomenti messi in campo sembravano guardare in direzione di un passato destinato a mai del tutto passare e di un futuro ancora molto lontano dall’aver consolidato i necessari presupposti del suo sviluppo.
225 A. LEPRE, Storia della prima Repubblica, 1943-2003, Bologna, Il Mulino, 20042, pp. 242-243. 226 G. ALMIRANTE, Relazione al Comitato Centrale, in «Il Secolo d’Italia», 29 settembre 1969, p. 1. 227 ID., I nostri anni Settanta, ivi, 3 gennaio 1970, p. 1. 228 P. IGNAZI, Il polo escluso, cit., pp. 143 ss.
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Dopo un venticinquennio fascista e un venticinquennio antifascista è tempo di un discorso vecchio e nuovo agli italiani. Nuovo perché l’accelerazione della storia men che meno consente oggi resurrezioni integrali di ciò che fu fatto o tentato, ma piuttosto richiede un intelligente innesto di nuove soluzioni. Vecchio perché solo i dementi possono considerare come non avvenuto quello che per un quarto di secolo costituì la vita di cinquanta milioni non di boscimani ma di italiani, e perché vi sono in ogni società civile che non voglia perire dei valori fuori dal tempo e fuori dalla storia, che non si discutono, pena il dissolvimento della società stessa in una fase di regressione progredente. Si tratta quindi di approfondire questo concetto dell’alternativa al sistema, del nuovo Stato, del nuovo ordine, dopo il venticinquennale disastroso tentativo di rimettere in piedi il vecchio Stato che già nel 1922 era crollato. Compito immane per un Movimento cui la pseudo democrazia imperante, detentrice pressoché assoluta dei mezzi di comunicazione di massa, non consente un diretto, quotidiano contatto e colloquio con le folle! Ma non bisogna aver paura di aver coraggio…, specie quando le circostanze sembrano creare possibilità nuove. I tempi stringono e ben presto gli Italiani dovranno scegliere – se sarà loro consentito di esprimersi – tra due tipi di Stato sostanzialmente autoritari, l’uno all’italiana, l’altro alla russa. Si ripropone cioè con le varianti, imposte dai nuovi tempi, il vecchio dilemma Roma o Mosca? È probabile. Come non abbiamo dubbi noi, così dobbiamo lavorare perché si allarghi la schiera degli Italiani che faranno la nostra stessa scelta. Debbono questi Italiani esser aiutati a ritrovare, dopo il ventennale sbandamento, il senso della Nazione che, espresso o inespresso, era pur sempre presente nei vostri discorsi, quasi motivo dominante di tutto il Congresso Nazione nel senso più lato. Nazione che unisce in una “comunità di destino” tutte le classi, tutte le forze, tutte le debolezze. Nazione che è anche affermazione dei valori sociali, perché forza di Nazione è forza di Popolo, forza partecipante e collaborante delle masse, inserite nello Stato, fiancheggianti e sollecitanti le élites cui spettano le responsabilità più alte. Duplice ed apparentemente contraddittoria esigenza: accelerare la formazione delle nuove aristocrazie, combattendo tutto ciò che livella, spersonalizza l’uomo ed elevare le masse, farvi nuovamente irradicare il senso della Patria e dello Stato, affrancarle dai professionisti rossi, rosa, giallini del lavoro altrui e dell’internazionalismo, arma palese del nazionalismo di altri. E bisognerà, fra i molti e gravi problemi, chiarificare nuovamente i rapporti dello Stato italiano con la Chiesa. Stato nel nostro Stato con troppe, mal mascherate influenze, spesso determinanti. Perché come sempre abbiamo ripudiato il vecchio anticlericalismo, così intendiamo combattere il clericalismo laico o religioso, che esso sia. Questa è la via nuova e non nuova, che si tratta di battere, e non mi turba il fatto che un discorso analogo, mezzo secolo fa (novembre 1922), rivolgessi all’allora Direttore del “Popolo d’Italia”229.
229 G. VOLPE, Lettera a Giorgio Almirante dello storico Gioacchino Volpe, in «Il Seco-
lo d’Italia», 6 gennaio 1971, p. 4.
3. UN’OPEROSA VECCHIAIA 1. Se dunque il passato politico di Volpe pareva destinato a non consumarsi, per assicurare una nuova rinascita, lo stesso sembrava potersi dire per la sua opera di analista del passato, visti e considerati non solo gli affanni dell’età ma soprattutto il suo divorzio dalle linee portanti della nuova storiografia repubblicana1. Questa valutazione contrastava però con quella di Rosario Romeo, il quale avrebbe parlato di «operosa vecchiezza», ma anche di «contenuto ardore», di «disinteresse», di «dirittura morale», quando recensiva, nel 1967, la nuova edizione accresciuta del volume Storici e Maestri2, esprimendo un giudizio che molto sarebbe spiaciuto a Leo Valiani e Franco Venturi, che avrebbero addirittura parlato, per stigmatizzarlo, di «chiusura provinciale italica» e di «atteggiamento diplomatico liberal-fascista»3. Se ovviamente, per Volpe, era tramontata la stagione delle sintesi di grande respiro, l’assidua attività sulla stampa quotidiana (sul «Tempo» di Roma, in particolare) gli offriva la possibilità di tornare ad articolare il suo giudizio storico sulla stagione risorgimentale, non solo sottolineando la giustezza della scelta cavouriana, monarchica, moderata ma evidenziando anche le tendenze di «socialismo nazionale» presenti in quel moto4, grazie a una serie di contributi non privi di qualche elemento di novità interpretativa, poi parzialmente raccolti, insieme a più robusti interventi dell’avantguerre, nei due tomi del 19675, dai quali restava escluso l’ampio saggio sul processo di unificazione nazionale e il contesto politico europeo, compreso nel volume Nuove questioni del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, edito da Marzorati nel 19616. 1 E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., al capitolo V. 2 L’intervento di Romeo è ricompreso in R. ROSARIO, Italia moderna. Fra storia e sto-
riografia, Firenze, Le Monnier, 1977, pp.186 ss. 3 L. VALIANI-F. VENTURI, Lettere, 1943-1979, cit., pp. 344 ss. 4 G. VOLPE, Pisacane oggi, in «Il Tempo», 10 agosto 1957; ID., Socialismo risorgimentale, ivi, 28 dicembre 1957; ID., Pisacane e l’estrema sinistra risorgimentale, ivi, 14 marzo 1958; ID., Rivoluzione e guerra nel Risorgimento, ivi, 15 aprile 1958; ID., L’ambizione di Pisacane, ivi, 17 aprile 1958; Articoli poi raccolti, in ID., L’Italia che fu, cit., pp. 477 ss. 5 ID., Pagine risorgimentali, cit. 6 ID., L’Italia del Risorgimento e l’Europa, in Nuove questioni del Risorgimento e dell’U-
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Altre prove giornalistiche e comunque di carattere estemporaneo e occasionale confluivano, nel 1983, in una postuma miscellanea dedicata alla monarchia sabauda7, che certo surrogava in modo assai incompleto la monografia su Italia e Casa Savoia, alla quale Volpe aveva attivamente lavorato a partire dai primi anni Trenta e di cui restano larghi materiali preparatori tra le carte dello storico8. Ritornava poi il progetto di redigere una sintesi di storia italiana, dalla caduta dell’Impero romano all’unità nazionale, che parzialmente si realizzava nella monografia edita tra 1968 e 19709, la quale riprendeva, per quello che riguardava Medioevo e primo Rinascimento, l’omonima voce dell’Enciclopedia Italiana apparsa nel 193210. E rispuntava anche l’ipotesi di coordinare una nuova «Storia d’Italia in collaborazione», da pubblicare sulle pagine di «Candido», di cui Volpe tratteggiava le linee direttive in un articolo del marzo 1958, apparso appunto sul periodico, ormai dichiaratamente neofascista, diretto da Mario Tedeschi. In esse, il quadro cronologico dell’iniziativa appariva molto modificato, rispetto al progetto del 1921, mentre rimaneva immutata l’antica ispirazione di fondo nazionale e popolare. Candido batterà un’altra strada nei confronti delle mie personali vedute storiografiche: risalirà più indietro del Medio Evo, dei Romani, degli Italici, degli Etruschi, fino a i primi principi dell’Italia, in quanto sede dei primi uomini, ancora impastati di terra, non ancora allevatori e agricoltori, fino, addirittura, alla genesi dell’Italia fisica, che emerse fiammeggiante dalle onde e prese la forma del “bel paese, che Appennin parte e il mar circonda e l’Alpe”. Non è propriamente storia, questa, essendo la storia fattura d’uomini e di spirito. E Candido non chiamerà la lunga e varia vicenda dell’Italia, Storia d’Italia, frase troppo impegnativa. Non pubblicherà, a puntate, una Storia d’Italia. Ma seguirà questa terra, questi uomini, queste genti, questa nazione nel loro lungo curriculum, nel loro impasto, nella loro individuazione collettiva, nella loro coscienza di nazione, nella loro faticosa ascesa, nel complicato processo che li porta ad una unità statale. Disegnerà quadri panoramici dell’Italia politica o culturale in questo o quel momento storico; esaminerà problemi storici relativi all’Italia; presenterà figure rappresentative dell’Italia morale; guarderà l’Italia nei suoi fatti interni e nelle relazioni col mondo esterno, poiché i popoli, come gli individui, si formano incontrandosi, convivendo, lottando, e ognuno di essi è se stesso ed è gli altri. Una scelta schiera di studiosi collabora a questa impresa. Alberto Carlo Blanc scriverà dell’Italia fisica nel suo nascimento e dei primissimi nità d’Italia, Milano, Marzorati, 1961, I, pp. 131 ss. 7 ID., Scritti su Casa Savoia, cit. 8 Reperti archivistici e appunti sono conservati in FV. 9 ID., Storia d’Italia. I. Dalla caduta di Roma agli albori del Rinascimento. II. Dal Rinascimento al Risorgimento, Roma, Volpe Editore, 1968-1970. 10 ID., «Italia. Storia», Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1932, XIX, pp. 800 ss.
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uomini e delle loro civiltà. Massimo Pallottino narrerà delle prime stirpi, Etruschi, Greci, Liguri, giunte in questa nuova patria da luoghi diversi, per mare e per terra. Ettore Paratore presenterà l’Italia nel suo primo crescere intorno a sé, nel suo espandersi nella Penisola, da greca, etrusca, gallica, che era, divenuta romana. Carlo Cecchelli farà conoscere l’Italia cristiana e la posizione singolare che la nuova Roma e, un po’ di riverbero, l’Italia assumono nella cristianità. Bertolini colorirà il quadro dei regni romano-germanici, dei contrasti etnici, politici, religiosi tra Pavia, Roma, Bisanzio. Altri, altro: la conquista araba in Sicilia, il nuovo Impero romano e germanico; l’Italia feudale; la creazione di un Regno fortemente accentrato nel sud e, viceversa, la riscossa delle città e dell’autonomismo cittadino nel centro e nel nord, il vigore espansivo – territoriale ed economico – dei Comuni maggiori, fino alle Alpi, oltre le Alpi e i mari. Gli articoli avranno ognuno una sua compiutezza, ma presenteranno pur sempre una materia in sviluppo, cioè un popolo che si fa, in se stesso, negli elementi che sogliono dargli una qualche unità, e nella coscienza di sé. Il popolo, dunque, diventato soggetto di storia, cioè personaggio attivo di storia e quindi oggetto di storia: il popolo visto come unità11.
Più importante di questo tentativo, arrestatosi all’età tardo-imperiale12, il quale aveva registrato il secco rifiuto politico di Sestan a concedere il proprio contributo13, era il ritorno di Volpe alla storia del primo conflitto mondiale, in coincidenza con l’anniversario della presa d’armi del 1915, che, insieme a numerosi pezzi rievocativi e di mera celebrazione14, produceva un impegno storiografico più consistente. Mentre il secondo elemento del trittico dedicata alla «storia civile» degli italiani nella Grande Guerra, ultimato nel 1943, rimaneva inedito, per emergere alla luce 11 ID., Impariamo la storia sapremo chi siamo, cit., p. 28. 12 L’ultimo contributo pubblicato era quello di E. PARATORE, La fine dell’Impero d’Oc-
cidente, in «Candido», 25 maggio 1958, pp. 27-38. 13 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, 4 dicembre 1957, cit.: «Circa la collaborazione con qualche articolo di storia, al rinnovato “Candido”, La ringrazio per l’invito; ma mi son detto di non volere collaborare a giornali, periodici che non siano professionali, di storici e per storici; e dal lontano tempo di “Popoli” non sono più venuto meno a questo proposito, nemmeno di fronte ad inviti di periodici di colori più allettanti di quelli che “Candido” ha ostentato finora, francamente punto simpatici». 14 G. VOLPE, Fu enorme lo sforzo della Nazione per entrare nella Grande Guerra, in «Il Tempo», 24 maggio 1965; ID., L’Italia nella prima guerra mondiale. Una grande impresa ma senza buona propaganda, ivi, 25 maggio 1965; ID., Mese per mese la storia della Grande Guerra. Un alpino primo caduto la mattina del 24 maggio, ivi, 28 giugno 1965; ID., Mese per mese la storia della Grande Guerra. Il conflitto fu affrontato con impeto garibaldino, ivi, 5 luglio 1965; ID., Enrico Caviglia, ivi, 6 novembre 1965; ID., Il mio generale, ivi, 9 novembre 1965; ID., Un piccolo esercito, ivi, 6 luglio 1966; ID., Garibaldini e socialisti, ivi, 9 luglio 1966; L’irredentismo, ivi, 22 dicembre 1966; ID., La resistenza degli irredenti, ivi, 4 luglio 1967; ID., Gli irredenti e la guerra, ivi, 30 marzo 1967. Si veda anche, La guerra, 1915-1918. Commemorazione cinquantenaria di U. D’Andrea, V. Tur, E. Avallone, R. Lucifero, con una Prolusione di G. Volpe, Roma, Volpe Editore, 1965, pp. 15 ss.
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solo nel 199815, all’inizio degli anni Sessanta, lo storico riprendeva nelle mani, per emendare ma soprattutto completare, il volume dedicato alla catastrofe di Caporetto, che avrebbe in ogni caso avuto, con mutato titolo, una ristampa ne varietur nel 196616. Il lavoro di rielaborazione, pur non portato a compimento, si accumulava in una serie di annotazioni, di considerevole ampiezza, dedicate in primo luogo alla situazione italiana, nel contesto internazionale, investigata a partire non solo dal mutamento dei rapporti di forza, tra 1917 e 1918, ma anche alle conseguenze che quel mutamento portava sullo status quo interno delle nazioni impegnate nella lotta e soprattutto alla parallela guerra diplomatica e di propaganda che cominciava a incrinare il blocco delle potenze dell’Intesa17. Chiosando un articolo apparso sul «Corriere della Sera» nell’aprile 1921, dedicato all’attenzione riservata dall’opinione pubblica statunitense al nostro impegno militare18, Volpe annotava: «A proposito di propaganda di guerra all’estero, trascurata l’America, e l’America si disinteressa. Ciò spiega e l’ascolto dato a croati e serbi e l’assenza di Americani sul fronte italiano e l’accaparramento dei Francesi e Inglesi. Intanto, la Francia trama con l’Austria; Francia e Inghilterra ci rifiutano i cannoni. Poco affiatamento»19. Mentre, in relazione al crollo del sistema zarista e all’intervento di Washington, come fattori di brusca accelerazione della dinamica democratica in Europa, nei suoi risvolti interni e internazionali, si concludeva: «Rivoluzione russa ed intervento americano: sempre egualmente la democrazia che entra in guerra… La rivoluzione russa agevola l’intervento americano. L’America non poteva fiancheggiare lo Zar. Viceversa la Russia rivoluzionaria si propose di raggiungere una pace democratica come Wilson»20. Un argomento, questo, più ampiamente analizzato in un’altra nota, dove si lumeggiavano gli effetti della crisi generale del 1917, sul futuro assetto europeo e sulla posizione dell’Italia nel nuovo scenario diplomatico, sicuramente fattasi meno forte, ora che erano venute meno molte delle precondizioni geopolitiche, che avevano condotto alla firma del Patto di Londra.
15 ID., Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1914-1918, cit. 16 ID., Caporetto, Roma, Casini, 1966. 17 Il materiale è conservato in FV, con il titolo complessivo, Materiali per gli anni di
guerra, 1915-1918. Sul punto, D. MANCINI, Il fondo Gioacchino Volpe. Rileggendo “Ottobre 1917”. Dall’Isonzo al Piave, in «Memoria e Ricerca», 1995, 5, pp. 201 ss. 18 O. RIZZINI, La nostra guerra nel libro di un americano, in «Corriere della Sera», 8 aprile 1921, p. 3. 19 G. VOLPE, Materiali per gli anni di guerra, 1915-1918. I. Propaganda palese ed approcci per la pace nella primavera del 1917, FV. 20 Ibidem.
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Crollo russo. Noi cerchiamo trarre a noi gli Slavi. Maggiori pretese nostre. Invece viene l’America, essa sottentra alla Russia ed essa ignora il Patto di Londra. Crollo russo. Importanti ripercussioni in genere e per noi. Accresce onore e rischio per noi. Scompare il protettore e tutore degli Slavi. L’Italia si trova più direttamente di fronte ad essi. Ne vengono stimolate per un verso le nostre esigenze nazionalistiche che avevano avuto nella Russia un’oppositrice; per un altro verso, l’idea di fare dell’Italia la tutrice delle nazioni oppresse dall’Austria, il centro del movimento loro. Estate 1917, il governo e il Comando superiore promuovono la nostra campagna slavofila. Luglio, patto di Corfù e pochi dì dopo inizia il Corriere la campagna per l’accordo. Maggiore sforzo italiano, idea nostra di maggiori diritti, che ne vengono, e necessità di mutare il Patto di Londra, aggiungendo Fiume. Viceversa, poiché dal crollo russo segue l’intervento americano, si ha sostituzione di uno che ha firmato quel patto con uno che non lo ha firmato e che è avverso a tale patto. Quindi svalutamento di quell’accordo. Di qui, la campagna revisionista che voleva, se non demolire, riformare il patto. Vari articoli di Salvemini e in Unità21.
Era un’analisi, che si allargava poi anche alla situazione del fronte interno, dove Volpe utilizzava le sue ricerche condotte nell’Archivio Storiografico della Mobilitazione, bruscamente interrottesi nel 1923, per un veto politico dovuto alla volontà dello storico di investigare, senza pregiudizi, le agitazioni proletarie, i moti socialisti, la propaganda neutralista e disfattista e anche le condizioni di lavoro della manodopera impegnata nello sforzo bellico, per le quali Volpe parlava di violento «sfruttamento», a causa del quale l’operaio veniva a ridursi a «semplice arnese di lavoro, privo di ogni cura», aggiungendo che il «senso dello sfruttamento era acuito dai grandi guadagni padronali, assai superiori ai cresciuti guadagni operai». Quell’incremento straordinario dei profitti industriali non era stata la sola causa del generalizzato sbandamento sociale, che precedette e fece seguito al disastro militare dell’ottobre 1917. Il passaggio dalla Caporetto militare a quella civile, che era stato provocato anche dalla crescente retorica sul «fante contadino», fu indirettamente funzionale all’«espansione di quello spirito un po’ bolscevico che cominciò a diffondersi nel ’17», poi saldatosi alla propaganda socialista, che aveva prodotto le agitazioni salariali e contro la guerra, a Torino, delle quali l’«avanguardia» fu costituita dalle maestranze femminili e minorili, dove albergavano «minore senso di responsabilità e maggiore speranza di impunità, più debole resistenza alle suggestioni altrui; più grave turbamento prodotto dalle nuove condizioni di vita in cui la fabbrica e, in moltissimi casi, l’ambiente cittadino, li ha messi»22.
21 Ibidem. 22 G. VOLPE, Materiali per gli anni di guerra, 1915-1918. II. Militari e civili, ivi.
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Altri spunti al perfezionamento del volume del 1930, venivano a Volpe dalla sua esperienza vissuta presso il Servizio P e riguardavano la situazione psicologica delle truppe sulla linea del fuoco, all’indomani della rotta di Plezzo, Tolmino, Monte Nero, anche per quello che riguardava la crisi di rapporti, la mancanza di comunicazione diretta, tra soldati e ufficiali subalterni e tra questi e i rispettivi comandi. Giro Brigata Vicenza. Impressione di scarso contatto dei comandi di brigata con gli ufficiali dei reggimenti e battaglioni; idem dei comandi di reggimento con gli ufficiali dei battaglioni. In un reggimento di Bersaglieri (16°) ci eran ufficiali di un campo mitraglieri che dopo 3 mesi non conoscevano gli ufficiali del comando di reggimento che stava ad un chilometro di distanza. Non accade che una volta alla settimana, o due volte al mese, il colonnello raduni tutti gli ufficiali attorno a sé. I vari battaglioni comunicano più per mezzo di carta scritta che di contatti di uomini. Impressioni su gli uomini. Son in gran parte giovani del ’99. Quindi per l’età e la non esperienza della guerra, in genere, sono di buon umore e allegri. Meno sereni gli anziani. Confessano che sono stanchi. Non trovano sufficiente il rancio. A proposito di Caporetto, parlano di traditori (essi erano in Carnia). Altrimenti quelle posizioni non si prendevano… Ma poi riconoscono implicitamente che i “traditori” sono molti. Vorrebbero individuarli per fare giustizia. Ma realmente sanno che la colpa è assai diffusa. È frase comune, anche qui, che durante la ritirata caotica non un ufficiale era coi soldati. Se qualcuno ve ne era non era più in qualità di ufficiale, ma uno dei tanti fuggitivi. Alcuni, fra cui qualche ufficiale superiore, un generale, pare abbia indossato divisa da soldato semplice. Abbassamento del livello dei soldati dal principio della guerra ad ora. Tutti riconoscono e deplorano lo sperpero di magnifici soldati fatto nei primi tempi, in imprese banali, in sfondamenti inutili, in impossibili passaggi di reticolati o scalate di montagne. Si ha l’impressione che i comandi dessero ordini senza preoccuparsi molto della attuabilità. Poco conoscevano uomini e posizioni. Parlavano e comunicavano da lontano. Lavoravano i telefoni. Anche il livello degli ufficiali si è abbassato. Il capitano medico del 278° reggimento mi dice che spesso prova umiliazione e sdegno di fronte ad ufficiali, che chiedono visita e vogliono essere malati per forza e si rannuvolano se lui li trova sani. Del resto si capisce: un paese come l’Italia non ha tale ricchezza di classe colte e tale riserva di energie morali per alimentare per 3 anni un corpo scelto di ufficiali… Confermato che l’imboscamento è grande causa di malcontento. Ne parlano sempre gli ufficiali, riferendosi ai soldati. Ma il parlarne con tanta insistenza mostra che gli ufficiali se ne risentono almeno quanto i soldati….23.
2. Si trattava di un ritratto impietoso, senza sconti per nessuno, e niente affatto apologetico, che stigmatizzava le colpe della casta militare, ma anche le tradizionali debolezze morali della società italiana, che dalla vita civile si travasavano nell’impegno bellico, senza soluzioni di 23 Ibidem.
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continuità. Un ritratto, tuttavia, che non portava Volpe ad allinearsi sulle posizioni della storiografia disfattista, che nel secondo dopoguerra pareva deliberatamente voler minare i principi costitutivi dell’identità e della coesione nazionale, svalutando il significato e la portata dei due eventi simbolo della nostra memoria storica costituiti appunto dal Risorgimento e dalla Grande Guerra24. Commentava amaramente questa tendenza un storico della giovane generazione, come Rosario Romeo, legatissimo a Volpe25, che avrebbe denunciato le implicazioni politiche di questo deprimente anticlimax, ponendolo «alla radice di deficienze morali e debolezze innegabili della presente vita italiana», nella quale «le nuove forze uscite dalla lotta di liberazione, che avevano dato le forze più vaste dell’antifascismo, e nelle quali oggi si esprimono le esigenze e gli ideali della gran parte del popolo italiano, sono infatti quasi del tutto indipendenti dalla tradizione risorgimentale e rappresentano se mai quell’altra Italia, dei “rossi” e dei “neri”, che all’Italia liberale era rimasta in gran parte estranea»26. A più riprese Romeo sarebbe tornato su questo tema, da ultimo osservando come la catastrofe del 1943 non aveva solo condotto alla «rinuncia all’obiettivo di portare l’Italia al livello dei grandi paesi d’Occidente che aveva ispirato tanta parte del Risorgimento». Alla presa di coscienza del fallimento delle nostre ambizioni imperialistiche, in sé salutare e foriera di «un indubbio progresso politico e civile», in quanto capace di spingere il «paese a porsi e a risolvere problemi veri e assai gravi» sul piano interno, si era aggiunto perversamente lo svolgersi di un impetuoso sentimento di «antipatria». Questo sentire era non unicamente forte nel nostro paese, dove ormai appariva consolidata «una vena di più profonda e segreta sfiducia nella generale capacità dell’Italia di poter raggiungere il livello dei paesi più avanzati», ma era largamente diffuso anche presso l’opinione pubblica europea, a partire dalla Storia d’Italia di Denis Mack Smith: «un libro, cioè, che praticamente nega agli Italiani, come popolo, ogni attitudine a una vita politica modernamente organizzata»27. Il giudizio di Romeo sullo storico inglese era anticipato nella lettera a Volpe del 19 gennaio 1960: «Che cosa voglia 24 Sul punto, i miei, Il secondo Antirisorgimento, 1943-1961, in «L’Acropoli», 2003, 3, pp. 341 ss.; Storia d’Italia e identità nazionale, cit., al capitolo V. 25 G. PESCOSOLIDO, Rosario Romeo, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 22 ss. e passim. 26 R. ROMEO, La celebrazione del primo Centenario dell’Unità d’Italia, Torino, Comitato Italia ’61, 1961, pp. 191 ss., ora in ID., Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Bari, Laterza, 1974, pp. 319-320. 27 ID., Nazione e nazionalismi dopo la seconda guerra mondiale, in ID., Italia mille anni. Dall’età feudale all’età moderna ed europea, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 169 ss., in particolare, pp. 198-199. Il riferimento era a naturalmente D. MACK SMITH, Storia d’Italia: dal 1861 al 1958, Bari, Laterza, 1959.
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non solo il pubblico ma anche buona parte della “giovane storiografia”, si scorge chiaramente attraverso il successo di lettori e di recensioni che proprio in queste settimane sta riportando lo sciocco libello di Denis Mack Smith che Laterza ha recentemente pubblicato, e che viene gabellato in sedi autorevoli come la prima “vera” storia, che sia stata scritta dall’Italia dopo il 1860. Davanti a fatti come questi c’è davvero da temere che si annidino mali profondi nella coscienza del paese». Dello stesso tono era la corrispondenza di Luigi Federzoni, inviata a Volpe, solo pochi giorni prima: Alcune persone, serie e consapevoli della gravissima crisi politica e morale che tormenta oggi il nostro povero Paese, mi hanno pregato di segnalarti l’opera indicata nell’accluso appunto, per la vivissima speranza di un tuo autorevole ed efficace intervento contro il carattere profondamente italofobo dell’opera stessa. Io non l’ho letta, perché non posso permettermi il lusso di spendere 6000 lire per leggere bricconate sulla mia Patria; ma la qualità di coloro che me ne hanno parlato garantisce la giustezza del loro severo apprezzamento. D’altronde, il bollettino pubblicitario della Casa Laterza riferisce recensioni inglesi e italiane, nelle quali è condensata l’essenza dell’acidità del sinistrismo. Prevale nel volumone del Mack Smith la tesi politica, che si riassume così: l’ultimo secolo della storia d’Italia si riduce ad una serie di dittature, dove non fu presente mai la comprensione di ogni vera libertà. Mi assicurano che quel sedicente storico britannico sia un militante del partito liberale della sua terra. Se vi sono là molti liberali scemi come lui, mi spiego la progressiva rapida liquefazione del detto partito. In breve: vedi di appagare l’onesto desiderio di tuoi ardentissimi ammiratori, fra i quali mi metto io pure, e riprendi in mano, meglio che la penna, la frusta, che sai, quando occorra, maneggiare anche magistralmente. Oggi il caos delle idee è giunto al massimo della vertigine. La tua grandissima autorità di storico e di scrittore basterà a fronteggiare l’entusiasmo e l’ignoranza funesta degli snobs sinistroidi, che hanno fatto vendere in così breve tempo la prima edizione di quel libraccio. Scusa questo appello forse indiscreto al tuo mirabile sentimento patriottico28.
Volpe non si sottraeva all’invito e replicava allo storico anglosassone con due articoli pubblicati sul «Tempo» di Roma, tra fine marzo e inizio aprile del 196029, che preludevano alla più articolata stroncatura, pubbli28 Luigi Federzoni a Gioacchino Volpe, Roma, 2 gennaio 1960, FV. 29 G. VOLPE, L’Italia giudicata da un inglese, «Il Tempo», 29 marzo 1960; ID., Veleno po-
lemico, ivi, 4 aprile 1960. Dopo la comparsa dell’ultimo scritto, Federzoni scriveva a Volpe, il 4 aprile: «Finalmente!! Ho letto e riletto con grande piacere il secondo articolo. È, come il primo, un modello di schiettezza e di misura. Ti confesso che io, troppo giornalista, non avrei saputo resistere a qualche impeto di collera; ma riconosco che la tua signorile moderazione, dimostrando allo sciagurato Mack Smith e suoi ammiratori inglesi e italiani che sei alieno da preconcetti e da impulsi passionali, accredita e rafforza ancor più la tua censura».
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cata, grazie all’intervento di Romeo, sulle pagine della «Nuova Antologia», dove l’opera di Mack Smith veniva fatta risalire, nella sua ispirazione e nel suo svolgimento, alla vecchia tradizione orianesca del «processo al Risorgimento», aggiornata, per quello che riguardava i decenni successivi, con la più recente «storiografia della disfatta»30, che si era sviluppata dopo la disastrosa conclusione del secondo conflitto mondiale. Questa storia d’Italia, nelle mani dello Smith, è per due terzi una cronaca della malavita italiana o, quantomeno, dello scomposto ribellismo degli Italiani, sia pure ammantato di ideali politici. Il quadro d’insieme è nerissimo e, tutto sommato, falso. Falso il colore, falsi non pochi fatti e circostanze addotti per caratterizzare uomini e situazioni: la stessa cosa che era avvenuta per la storia del Risorgimento, avviene per l’età successiva. Noi non siamo affatto adulatori degli Italiani. Lasciamo ai vari pulpiti le apologie. Lungo le faticose vie di quella gente e di quel paese, tu incontri quanti rifiuti vuoi. Ma la storia di quella gente e di quel paese non si fa razzolando tra i rifiuti. E poi per intendere le cose – fascismo o non fascismo – è necessario mettersi al lavoro senza tesi preconcette, senza pregiudiziali dottrinarie e senza patteggiamenti. Invece lo Smith è sceso tra i contendenti e si è buttato a parteggiare, facendo sue le ragioni e non ragioni di una delle parti. Ha gareggiato con certi storici dell’800, italiani e stranieri, di ispirazione papalina o democratica, nel pensare e dir male di quegli eventi e di quegli uomini rappresentativi; si è affiancato a storici marxisteggianti nel togliere al Risorgimento quasi ogni valore per non aver fatto la “Rivoluzione sociale”, accanto e dopo quella politica; ha gareggiato, spesso superandoli, con antifascisti fuoriusciti e antifascisti nostrani della prima e dell’ultima ora, nel condannare senza remissioni l’Italia del ventennio, vedendo in essa soltanto violenza e corruzione. Nello Smith, noi ritroviamo, non tanto la critica, più che lecita, dell’Italia “fascista”, quanto il riecheggiamento dei più tristi motivi della vecchia e della nuova polemica italiana31.
Parzialmente dedicata alla polemica con Mack Smith era anche la lettera aperta, indirizzata, nel dicembre del 1961, al direttore del «Tempo», Renato Angiolillo, dove si contestavano le sciatte e distratte celebrazioni per il centenario dell’unità italiana, egemonizzate dal disegno politico di un esecutivo a maggioranza democristiana, ormai proiettato in una irresistibile marcia di avvicinamento all’esperienza del centro-sinistra32. L’inedita intesa tra cattolici e socialisti non si limitava a condizionare i nuovi equilibri politici ma vincolava fortemente la ricostruzio30 L’espressione era stata utilizzata da C. MORANDI, Recensione a L. TOMEUCCI, Il mito del Risorgimento, Messina, Ferara, 1947, in «Rivista Storica Italiana», 1950, 1, pp. 133 ss. 31 G. VOLPE, Un secolo di storia italiana sotto il torchio, in «Nuova Antologia», 481, gennaio 1961, 1, p. 37 ss., ora in ID., Nel regno di Clio, cit., pp. 204 ss. 32 ID., Dopo le celebrazioni centenarie. Un assente, «Il Tempo», 4 dicembre 1961, ora in G. VOLPE, Pagine risorgimentali, cit. II, pp. 155 ss.
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ne del passato, che ora soprattutto puntava a enfatizzare il tema del «Risorgimento tradito»: a gettare un anacronistico ponte tra il disinganno patito dai democratici di cento anni prima e la realizzazione dei loro ideali, che aveva dovuto attendere la stagione della lotta contro nazismo e fascismo, gli anni della Costituente e della fondazione della Repubblica33. Era un canovaccio già visto34, ma che ora veniva riproposto con maggiore vigore, e con molta spregiudicatezza, nel tentativo di instaurare un parallelismo tra il «primo» e il cosiddetto «secondo» Risorgimento, tra le spinte eversive del mazzinianesimo radicale e del rivoluzionarismo garibaldino e i conati di modificazione globale dello status quo sociale, pure presenti nella guerra civile del 1943-194535, grazie alla quale i grandi partiti della sinistra avevano legittimato la loro presenza nello Stato, nonostante la permanenza nella loro politica e nella loro dottrina di tendenze francamente antinazionali e antidemocratiche36. La grande macchina mediatica messa in piedi dal comitato promotore di quei festeggiamenti, era criticata da Volpe, anche in una corrispondenza privata, con un violento attacco all’Esposizione storica sul Risorgimento del 1961 di Torino, in quanto megafono reclamistico di un’interpretazione esclusivamente sociale del moto unitario, che, nella sua semplicistica tendenziosità, poteva «dar occasione ai nemici o tiepidi dell’Italia risorgimentale – comunisti, democristiani, clericali – di dire o ripetere che il Risorgimento fu una sopraffazione dei borghesi sui proprietari, e quindi sentirsi incoraggiati a disfare oggi quel che i nostri padri fecero ieri»37. Nella lettera, verosimilmente indirizzata al generale Giovanni Messe, Volpe rifiutava il suo concorso a una «associazione mutualistica», chiamata a contestare la nuova vulgata storiografica, ma, pur ammettendo senz’altro il carattere elitario del Risorgimento, deprecava ogni sottolineatura politico-propagandistica di quell’evento, che lo riducesse a semplice presa di potere della borghesia attraverso lo strumento della «conquista regia». 33 M. MEROLLA, Italia 61. I media celebrano il Centenario della nazione, Milano, Franco Angeli, 2004. 34 A. GAROSCI, Gli ideali di libertà dal Risorgimento alla crisi fascista, in Il secondo Risorgimento. Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia, 1945-1955. Scritti di A. Garosci, L. Salvatorelli, C. Primieri, R. Cadorna, M. Bendiscioli, C. Mortati, P. Gentile, M. Ferrara, F. Montanari, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1955, pp. 3 ss. 35 C. PAVONE, Le idee della Resistenza: antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento, in «Passato e Presente», 1959, 7, pp. 859 ss., ora, in ID., Alle origini della repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 3 ss. 36 Sul punto, il mio Revisionismo e consegna del silenzio in «Nuova Storia Contemporanea», 2005, 1, pp. 139 ss. 37 La lettera, senza indicazione di destinatario né di data, è conservata in FV.
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Quanto alla partecipazione alla Mostra torinese avrei qualche dubbio. Certo, il Risorgimento è per i tre quarti o quattro quinti opera di ceti medi, con qualche elemento della nobiltà, ed anche con qualche partecipazione di popolo, cioè di massa, ma solo nel quadro della città, durante le insurrezioni, non si sa quanto mosso da aspirazioni o ideali. Questo è cosa nota. La massa aveva suoi bisogni e sue aspirazioni che qualche volta la mettevano contro quella élite ed a fianco dei vecchi principi e dell’Austria stessa. Ma la Mostra torinese mira a mettere il Risorgimento d’Italia in luce come complesso di forze, senza troppo distinguere le une dalle altre, le forze dalle debolezze, anche perché le stesse debolezze servirono di incitamento ai patriotti per fare quel che fecero. Volevano, i migliori, redimere tutta l’Italia, anche quella degli indifferenti o avversi. In sede di studio può essere sempre di un certo interesse tener presente la condizione sociale degli uomini che operarono positivamente. Ma in altra sede, in sede politica, dubito che ciò convenga. Inoltre, occorrerebbe aggiungere che se Garibaldi fece la spedizione dei Mille, questa presupponeva Solferino e San Martino, il consenso e, sottomano, l’aiuto della Monarchia (grande assente delle odierne celebrazioni centenarie), che non poteva far essa, allo scoperto, quel che lasciò fare a Garibaldi. Se Garibaldi riuscì a fare la marcia da Marsala a Napoli, lo dové al fatto di presentarsi, in nome di Vittorio Emanuele. E allora, il prof. Volpe, non saprebbe star zitto, e diverrebbe causa di scandalo38.
Non sarebbe stata certo l’ultima volta che Volpe avrebbe contestato una interpretazione della storia italiana che passava per l’epurazione o per la denigrazione dell’istituto monarchico e dei suoi rappresentanti. Nel novembre del 1969, il vecchio storico scendeva in campo contro Indro Montanelli, colpevole di aver fornito un corrosivo ritratto della personalità politica di Vittorio Emanuele III, considerato sempre al di sotto del suo compito istituzionale, alla vigilia del primo conflitto, durante il periodo di belligeranza, all’avvento del fascismo, poi nel suo crollo e nel corso della guerra civile del 1943-45. Ritratto impietoso e in qualche parte non obiettivo, dovuto forse anche alla tendenziosità «repubblichina» del giornalista, mai del tutto dimentico della sua giovanile militanza nel fascismo estremista di Berto Ricci39, al quale Volpe controbatteva con una lunga lettera aperta al «Corriere della Sera», dove lo
38 Ibidem. Medesime conclusioni Volpe esprimeva nella lettera a Rodolico del 29 novembre 1969, ivi: «È un bel tema vedere come dai sanfedisti del 1799 si passa alla sia pur moderata adesione sentimentale delle masse agli eventi del ’59-’60. Dico moderata e potrei anche aggiungere superficiale, solo se si ricordi quel che avviene nel Mezzogiorno dopo il ’60. Ma tant’è: il Risorgimento è moto di borghesia e di nobiltà, poiché puntava su scopi che per le masse non avevano grande importanza. Forse anche nessuna… Ogni età ha i suoi problemi: ed è assurdo rimproverare a quella età di “non aver sempre sentito la questione sociale”, come spesso si legge in giovani storiografi di sinistra». 39 I. MONTANELLI, Proibito ai minori di quarant’anni, febbraio 1953, in ID., Lettere a Longanesi, cit., pp. 11 ss.
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si rimproverava di «aver buttato all’aria le tante qualità dell’ultimo Savoia, che gli storici, pur non cortigiani, gli hanno riconosciuto e lodato»40. Quella replica era però moderata e persino conciliante sul piano strettamente personale e professionale, nel punto in cui la «grande firma» di via Solferino veniva definito non semplice pubblicista, ma scrittore «che si era cimentato con la storia vera e propria, quella degli storici di mestiere», con un giudizio che Volpe aveva già formulato, nel marzo 1966, quando Mario Missiroli gli aveva recapitato il volume L’Italia dei secoli bui, appena pubblicato dallo «stregone» della carta stampata e da Roberto Gervaso per l’editore Rizzoli. Al dono seguiva la risposta di Volpe, nella quale, pur con qualche piccolo distinguo, si riconosceva a Montanelli la qualifica di storico a parte intera. Un paio di mesi fa, ebbi in dono da un amico L’Italia dei secoli bui. E siccome l’amico era ancor più amico suo, così io pensai che lei potesse aver qualche parte nel dono. Presunzione? Montanelli, così io ragionai fra me e me, si è ricordato che ci siamo incontrati e conosciuti, alcuni anni addietro, presso il conte Cini; Montanelli si sarà ricordato che anche io mi sono affacciato sui “secoli bui”, nel tempo che mi dilettavo di storie. Di qui, forse, il suo desiderio di farmi avere quel libro… Comunque, il libro è giunto ed io lo ho letto, lo ho gustato quasi tutto, ho imparato anche tante cose che non sapevo: poiché i miei “secoli bui” sono quelli in cui il cielo comincia a schiarire e si schiarisce fino alla luminosità del ’400. Prima di allora, le mie conoscenze non vanno molto più in là: laddove lei ed il suo aiutante di battaglia avete una larga conoscenza di scrittori e di lì attingete notizie, che solamente di lì si possono attingere. Qualche volta anche troppe! Di tanti personaggi voi sapete dire e reputate utile dire di che male muoiono: chi di infarto, chi di strapazzi di alcova, chi di indigestione di fichi secchi. Non dico che anche notizie di tal genere non abbiano una loro utilità, dal punto di vista della storia del costume o della medicina, ma lo storico deve pure mettere un limite a queste esumazioni di cronaca quotidiana. Comunque, questa sovrabbondanza di particolari non toglie che voi vedete e giudicate bene i grandi fatti. La lenta, graduale compenetrazione del mondo romano e del mondo barbarico, per esempio, avanti che abbiano inizio le invasioni vere e proprie, è resa ottimamente. E potrei portare altri esempi. Il cronista che 24 ore dopo la comparsa di un certo personaggio africano o asiatico ti sa dire di lui vita, morte e miracoli, come è Montanelli, si è elevato a storico dei secoli addietro, portandovi le stesse curiosità e capacità di avvicinare a noi cose diverse e lontane. Lo storico aulico o professionale potrà a volte storcere la bocca. Ma anche esso pecca: pecca in senso contrario. Aggiungo che la società Montanelli-Gervaso ha funzionato assai bene. Due uomini e un uomo solo, senza visibili sconcordanze o soluzioni di continuità. In altri tempi, quando avevo
40 G. VOLPE, La polemica su Re Vittorio, in «Corriere della Sera», 27 novembre 1969,
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la penna un po’ sciolta, anche se mai e poi mai come Montanelli, mi sarebbe piaciuto riferire qualcosa del libro ai lettori del giornale romano in cui da tanti anni sono ospite (olim, fu il “Corriere”): ma ormai si sta facendo, anzi già si è fatta torpida. La testa può ancora avere qualche capacità: ma non sempre quando essa fa appello alla penna e alla carta41.
Era un’investitura, più importante di una laurea honoris causa, alla quale il giornalista replicava, con molto understatement, definendosi non «concorrente» dello storico professionista ma piuttosto semplice «piazzista» dei prodotti del primo. Montanelli aggiungeva però di considerare indispensabile la sua opera di «divulgatore», visto e considerato che «la Storia degli storici professionisti apre a tutto, fuorché al lettore e che la cultura di cui questa Storia fa parte è una specie di baronia», che ieri poteva forse giustificarsi ma che oggi non era più ammissibile di fronte alla richiesta di informazione storica che proveniva da strati sempre più larghi dell’opinione pubblica, per saziare la quale occorreva che «Montanelli e Gervaso si rimbocchino le maniche e provvedano a saldare la frattura, succhiando il nettare di Volpe e trasformandolo in miele per tutti»42. Nei giorni successivi, seguiva un’altra corrispondenza, questa volta di Missiroli a Volpe, dove si esprimeva gratitudine per la «bella lettera» indirizzata a Montanelli e si concludeva: Ho ripreso, in questi giorni, i tuoi libri e ne sono sempre più ammirato! Mi accorgo, da vari segni, che si ritorna a te, ai tuoi studi storici, animati da quel patriottismo senza del quale nulla di buono e di durevole si può fare. Non esagero: ti si prepara una nuova giovinezza!43.
Era una previsione, forse troppo ottimistica, che pure almeno parzialmente coglieva nel segno. Certo il divorzio tra Volpe e la nuova storiografia italiana restava sostanzialmente incolmabile, basato, come era, su di un fortissimo pregiudizio politico, ma conosceva qualche eccezione significativa per la produzione medievistica, che veniva ad essere quasi integralmente ristampata da Sansoni, per entrare poi nel circuito della formazione universitaria, a differenza di quella contemporaneistica, che, edita nuovamente nella piccola ma vivace impresa tipografica del figlio Giovanni, restava, per il largo pubblico, e soprattutto per quello dei colti, sepolta nel cimitero sconsacrato dell’apologia di regime. Gli anni Sessanta, comunque, segnavano non dico una riappacificazione con l’Italia repubblicana e antifascista, ma almeno un venire me41 Gioacchino Volpe a Indro Montanelli, Roma, 15 marzo 1966, CV. 42 Indro Montanelli a Gioacchino Volpe, Cortina d’Ampezzo, 18 marzo 1966, ivi. 43 Mario Missiroli a Gioacchino Volpe, Milano, 21 marzo 1966, ivi.
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no dell’estraneità che aveva contraddistinto i primi decenni del dopoguerra. L’accomodamento di Volpe con i nuovi tempi aveva però soprattutto carattere di una riconciliazione privata, che trovava il suo centro nel numeroso nucleo familiare, frequentemente riunito nella casa patriarcale adagiata sulle colline romagnole, come testimoniavano le lettere a Rodolico e a Prezzolini di questo periodo. Ho passato con Elisa un mese sui monti di Carpegna e ora, da fine agosto, siamo qui nella nuova-vecchia casa di S. Arcangelo. Nuova perché è stata rifatta dalle fondamenta e più solida; vecchia perché è eguale, identica a prima. Così ha voluto Elisa che in quella casa è nata e cresciuta, lì intrecciò col sottoscritto le prime ghirlande, qui celebrò le nozze. E il mio primogenito che di tutto ha fatto le spese, resistendo alla tentazione di innovare e migliorare, si è piegato a questa volontà. Peccato che non possiate venire a passar qui qualche giorno! È una assai bella casa: in cima al colle, circondata da alberi, in vista del mare, del monte, delle due valli laterali. E nulla più di quel sentore di vecchio e di stantio che aveva prima! Freschezza di lindore in ogni angolo. Spazio da respirare, dentro e fuori, quanto se ne vuole. E poi, abitatori a ondate. Ci sono settimane o giorni in cui gli abitatori – bisnonni, nonni, padri o madri, nipoti di ambo i sessi – la riempiono tutta. Si va dagli 86 anni agli 8 mesi, ché tanti ne ha Serena, figlia di Benvenuta. E non conto i dieci canarini che folleggiano nella mia gabbia fra il mio tavolo da lavoro e la finestra44.
Anche in altri brani della corrispondenza sempre presente era Elisa, la «compagna di tutta la vita»45, alla cui scomparsa Volpe sarebbe sopravvissuto solo di pochi mesi. Il primo ottobre del 1971, lo storico spirava a Santarcangelo di Romagna, tra il silenzio quasi generale del mondo della cultura, appena interrotto dagli scheletrici e distratti annunci giornalistici e dal telegramma di condoglianze inviato dal Presidente della Repubblica ai familiari «per la morte dell’insigne medievalista»46. Al trasparente invito del messaggio di Saragat di onorare in Volpe unicamente il cultore degli studi sull’età di mezzo, i soli da ritenere quindi politicamente corretti, non si uniformavano tutti i «coccodrilli» apparsi sulla stampa nazionale47. Un breve corsivo anonimo, pubblicato su 44 Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico, Roma, 22 settembre 1962, CV. Si veda anche Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, Santarcangelo di Romagna, 16 settembre 1967, AGP: «Oggi, adunata di miei figlioli a Monteleone da Nanni. E ci si siamo goduti la bellissima giornata, dall’alto di quel colle a cui il mio multiforme primogenito dedica da alcuni anni tante cure: e non certo con la speranza di grandi lucri, in tempi in cui i contadini disertano le campagne, specialmente nelle zone collinari». 45 Gioacchino Volpe a Niccolò Rodolico, Roma, 11 febbraio 1969, CV. 46 E. SESTAN, Memorie, cit., p. 303. 47 La morte di Gioacchino Volpe, in «Corriere della Sera», 2 ottobre 1971, p. 6; Fu storico del fascismo, «Il Giorno», 2 ottobre 1971, p. 4; G. DE SANCTIS, Lo storico degli “anni dif-
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«La Stampa» sosteneva infatti: «Ma se Salvemini poté definirlo a ragione “lo storico ufficiale del regime”, Volpe aveva qualità di studioso troppo solide per asservire la scienza alla propaganda. I suoi volumi sono opere notevoli al di là di ogni controversia ideologica»48. Il migliore necrologio dello studioso scomparso, era però nelle parole dello stesso Volpe contenute in una lettera a Prezzolini del gennaio 1960, dove si ricordavano, ormai, quasi con distacco, i passati successi e le passate persecuzioni. In questi giorni, riguardando, cestinando, mettendo da parte vecchi giornali (oh, che dispiacere staccarmi da essi! Penso alla gioia di un qualche mio nipote, o pronipote storico, di possedere giornali di 50 o 100 anni indietro!), mi è capitato fra le mani un ritaglio del “Carlino”, 2 novembre 1922, che porta un tuo articolo su Uno storico. Gioacchino Volpe. Sono contento di avere ritrovato quel tuo ritaglio, assai lusinghiero per me e non contaminato da criteri politici o partigiani in fatto di valutazione di uomini e di libri. Allora usava ancora così. Poi non più: né nel ventennio, né poi. Ed io ricordo il mio fastidio a leggere sui giornali esaltazioni dei miei libri, magari per meriti fascisti, o critiche e stroncature per demeriti di egual nome; o leggere giudizi contraddittori sul conto mio delle stesse persone, come potrebbe essere un Croce che prima assai mi lodava e assai sollecitava la mia collaborazione alla “Critica” e poi, pentito di avere riposto qualche fiducia in me (sono parole sue), mi buttava al macero, arrampicandosi su filosofici specchi per giustificare il suo giudizio negativo. E così i crociani di stretta osservanza, un Omodeo, il più velenoso, un Russo ecc. Ho certa coscienza, valga io poco o molto come storico, di essere stato sempre me stesso, cresciuto su mie proprie radici, poco sensibile al variar dei venti, se ne togli spostamenti di miei interessi da un’epoca ad un’altra, e dopo aver assaporato il Medio Evo, ad una più larga visione della vita storica, dato che l’Italia del XIX secolo, l’Italia dello stato nazionale era così diversa dal mondo rurale e cittadino del X-XI secolo e voleva essere guardata in cose che in questi secoli e per gli scopi che io mi ero prefisso avevano poca importanza49.
3. Scomparso l’autore restava però la sua opera, il complesso, importante, e per alcuni ingombrante, legato della sua storiografia. E se solo l’ultimo scorcio del secolo appena trascorso avrebbe portato a una indiscutibile «Volpe’s Renaissance», i germi di quella rinascenza circolavano robusti, seppure in maniera carsica, già nei decenni precedenti e non solo nell’ampia sfera degli allievi legittimi e putativi. E qui è forse inutile e persino incongruo continuare a discettare sulla purezza di alcune precise linee genealogiche, proseguendo a interrogarci su quanto ficili”, «Il Messaggero», 2 ottobre 1971, p. 2; È morto Gioacchino Volpe, maestro di storia e di vita, «Il Tempo», 2 ottobre 1971, p. 3. 48 Morto a 95 anni lo storico Volpe, «La Stampa», 2 ottobre 1971, p. 9. 49 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, Roma, 14 gennaio 1960, AGP.
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l’influenza di Salvemini in Sestan, quella di Giustino Fortunato in Maturi, quella di Croce su Chabod, e anche quella di una più raffinata consapevolezza politica, prima fascista e poi bruscamente antifascista, in Morandi abbiano potuto, e fino a quale punto, coniugarsi con l’insegnamento del maestro50. Incongruità che mi pare sottolineata dallo stesso atteggiamento di Volpe di fronte al presunto «tradimento» dei suoi allievi dopo il 1945, che veniva ad essere stigmatizzato anche con durezza e spesso con qualche punta di ingenerosità, se questo riguardava questioni di «fedeltà» personale legate al rapido e non sempre limpido evolversi delle appartenenze politiche e ideologiche, ma sostanzialmente accettato, seppure con una punta di comprensibile amarezza, per quello che riguardava il mutamento, molto spesso assai relativo nella sostanza, delle tendenze storiografiche. Se in una lettera a Prezzolini del 1952, Volpe accusava, senza mezzi termini, Chabod di «fellonia» per essere passato armi e bagagli in quel «partito crociano» responsabile delle sue tante disavventure postbelliche51, nella recensione dedicata alle Premesse per una Storia della politica estera italiana, comparse nel 195152, il tono mutava radicalmente, nel tentativo di trovare, nonostante tutte le possibili differenze, un punto di connessione tra il suo insegnamento e quello dell’autore della Storia d’Italia, che si era manifestato nella realizzazione di un’opera, come quella di Chabod, rispetto alla quale non mi pare comunque adeguato insistere, oltre il dovuto, su di un prematuro influsso crociano, né ipotizzare, un definitivo allontanamento dalla storia delle relazioni internazionali in quanto «grande storia»53. Se Chabod avrebbe rifiutato, in quel suo scritto, il malinteso primato della politica estera su quella interna (ipotesi storiografica che così rozzamente concepita è assente anche in Volpe e soprattutto in Volpe), questo non avveniva, infatti, come invece avrebbe fatto molta storiografia posteriore alla caduta del fascismo, rovesciando i termini del problema e assumendo il primato della politica interna su quella internazionale54. 50 E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit., al capitolo V. Si vedano anche M.L. SALVADORI, Profilo di Walter Maturi: uno storico tra «Ethos» e «Kratos»; N. TRANFAGLIA, Walter Maturi tra storia del Risorgimento e storia contemporanea, in «Studi Storici», 2003, 2, pp. 301 e 323 ss.; G. GALASSO, Walter Maturi, l’ambiente culturale napoletano e gli studi sull’età della Restaurazione, in «Rivista Storica Italiana», 2003, 1, pp. 171 ss. Sull’itinerario politico di Morandi, nel dopoguerra, M. SERRI, I Redenti, cit., pp. 118 ss. e passim. 51 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 15 aprile 1952, cit. 52 ID., Una storia della politica estera italiana, in «Il Tempo» 3 febbraio 1956, ora in ID., Nel regno di Clio, cit., p. 191. 53 E. DI RIENZO, Un dopoguerra storiografico, cit, pp. 392 ss. 54 F. CHABOD alla Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. I. Le premesse, Bari, Laterza, 1951, p. X: «Sarebbe opportuno – sia lecito auspicarlo – che coloro i quali attendono a ricerche specifiche sui problemi della cosiddetta politica interna, non dimentichi-
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Più utile allora mi pare mettere in evidenza, invece, come l’eredità di Volpe si sia disposta trasversalmente, nei più vari schieramenti culturali del secondo dopoguerra, non escluso quello che è stato definito, con azzeccata definizione terminologica, come «sinistra storiografica». Una eredità che non interessava soltanto il mantenimento in vita e in qualche caso il potenziamento e la modernizzazione del modello di una «storia generale», sviluppatasi nell’intervallo tra le due guerre, (fondamentalmente politica ma attenta alle vicende dell’economia e della società come a quelle della cultura, della storia istituzionale, delle relazioni internazionali), ma che riguardava anche temi più particolari come la storia del movimento operaio e socialista dell’Italia contemporanea. Anche dopo il 1945, infatti, nel campo degli studi storici, nonostante la rituale evocazione di una «storiografia antifascista», che per alcuni sarebbe sorta perfettamente armata dalle tenebre della lunga notte del regime, come Minerva dal cervello di Giove55, i quadri della ricerca restarono sostanzialmente costituiti dai discepoli di Volpe, che poi si sarebbero disposti in una variegatissima galassia politica: da Aldo Romano a Franco Valsecchi; da Luigi Dal Pane a Ruggero Moscati, a Luigi Volpicelli, e, per l’area medievistica, sicuramente da Cinzio Violante a Marco Tangheroni, senza escludere un indiretto ma non trascurabile influsso presso molti altri studiosi di questo settore56. Questa continuità andava al di là dei vincoli di una stretta discendenza accademica o di una irresistibile affinità culturale, come avvenne per Rosario Romeo, e travalicava ampiamente le barriere degli schieramenti ideologici. Pensiamo al caso di Giorgio Candeloro, autore di una storia d’Italia d’impianto volutamente e dichiaratamente gramsciano, nel quale tuttavia l’autore pagava generosamente il suo debito nei confronti di Volpe, ancorandosi a un approdo che consentiva di non smarrire una rappresentazione unitaria della storia della Penisola, almeno in una chiave di lettura «nazional-popolare», se non più davvero «na-
no che essi sono, a loro volta, strettamente allacciati con quelli esterni e ne subiscono variamente l’influsso; siccome capita invece di osservare anche troppo di frequente, quando si leggono ricostruzioni storiche in cui l’Italia appare un po’ come una nuova Luna, mondo a sé, perfettamente isolato, capace di regolare da sé solo la sua vita; e perciò anche s’ascoltano ammonimenti sul come si sarebbero dovute svolgere le cose, poniamo nel Risorgimento (e naturalmente, non si sono svolte così), senza che mai sembri affiorare il dubbio se nell’Europa, costituita com’era allora, sarebbero state possibili, anche solo per l’Italia, certe soluzioni; senza che mai il ricordo del ’48-’49 e del fallimento generale della rivoluzione europea serva a mettere in guardia, almeno, sulla necessità di tener ben presente, anche nel giudizio sulla sola storia d’Italia, quel che, allora, fosse possibile in Europa». 55 Per la critica di questo assunto, il mio Un dopoguerra storiografico… due o tre cose che so di lui, cit. 56 O. CAPITANI, Gioacchino Volpe, storico del medioevo, cit.
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zionale». Nella prefazione dell’opera, datata aprile 1956, Candeloro osservava che, se il pensiero di Gramsci offriva un contributo insostituibile, per una lettura alternativa all’analisi prevalentemente «politico-culturale dei fatti storici», quel sussidio non doveva essere considerato come uno schema da applicare passivamente, in modo unilaterale, pena la degenerazione della ricerca in «un superficiale economicismo e sociologismo»57. Erano né più né meno, le parole con le quali Volpe aveva invitato a uscire dalle strettoie della scuola economico-giuridica, negli stessi anni in cui prendeva avvio il suo progetto di storia italiana58. Non casualmente allora, la Storia d’Italia di Candeloro, specie nei primi volumi, rimandava alla storia secolare della nazione italiana con particolare accento sul «progresso, durato all’incirca dal secolo XI al XIV», datava le origini del Risorgimento al Settecento, valorizzava Cuoco, la successiva cultura moderata, lo stesso fenomeno del «giobertismo», concedeva ampio spazio al secolare lavorio diplomatico dei Savoia e all’iniziativa di Cavour, emancipandosi in questo modo, come si è giustamente osservato, dall’«atteggiamento di persistente polemica e di parziale rifiuto della storia nazionale, che hanno caratterizzato una larga parte della cultura, storica e non, e più in generale della vita politica e morale della seconda metà del Novecento»59. Con maggiore scrupolo, Candeloro aveva saldato i suoi conti con Volpe, sul piano strettamente metodologico, già nel 1950, in una lunga rassegna problematica sui alcuni volumi recenti e meno recenti, dedicati a un cruciale problema di storia italiana, ricco di forti implicazioni politiche, quale continuava a essere nel secondo dopoguerra il giudizio su Giolitti e la stagione giolittiana. L’analisi spaziava dal famoso pamphlet di Salvemini alla Storia d’Italia di Croce, alle monografie di Gaetano Natale, Giovanni Ansaldo, William Salomone, al secondo volume di Italia Moderna, che aveva visto la luce nel 1949, e che appariva, secondo Candeloro, di gran lunga preferibile alla restante letteratura sul tema. Questo volume del Volpe è per molti aspetti indubbiamente superiore alle opere prima esaminate: esso non tratta soltanto delle lotte politiche, ma si estende anche largamente alla vita economica, allo sviluppo sociale e a quello
57 G. CANDELORO, Prefazione a Storia dell’Italia moderna. I. Le origini del Risorgimento, 1700-1815, Milano, Feltrinelli, 19757, pp. 6-7. 58 G. VOLPE, Prefazione a Momenti di storia italiana, cit., pp. VI-VII. 59 R. ROMEO, L’interpretazione del Risorgimento nella nuova storiografia, ora in ID., L’Italia unita e la prima guerra mondiale, cit., pp. 5 ss. Più problematico era il giudizio di Romeo sulla Storia d’Italia di Candeloro, nel saggio La storiografia italiana sul Risorgimento e l’Italia unitaria nel secondo dopoguerra, in ID., Il giudizio storico sul Risorgimento, Catania, Bonanno, 19672, pp. 139 ss. I due saggi sono rispettivamente del 1970 e del 1964.
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culturale. Ne risulta un quadro abbastanza completo e, in genere, ampiamente documentato della vita italiana nel primo decennio del secolo, nel quale i nessi tra lo sviluppo della struttura sociale e lo sviluppo della cultura, delle ideologie, dei movimenti politici e dell’attività di governo sono talora messi in luce in modo assai chiaro. Nuoce tuttavia a questo libro il carattere troppo analitico della trattazione e soprattutto il tono spesso incerto e dubitativo con cui l’Autore presenta le sue interpretazioni. Vi si nota inoltre un frequente ondeggiare tra giudizi di tipo quasi marxista, dati su certi problemi, e giudizi astrattamente ideologici, dati su molti altri. Questa incertezza metodologica, comune a gran parte della produzione del Volpe, si può spiegare solo tenendo presente lo sviluppo ideologico del Volpe stesso, il quale, partito dalla scuola economico-giuridica, che era già alquanto eclettica, passò poi, dopo la prima guerra mondiale, ad una specie di pragmatismo storico, non privo di influssi idealistici, accentrato sull’idea di nazione. Ma questo passaggio, che fece del Volpe uno dei maggiori rappresentanti della storiografia fascista, o comunque accodata al fascismo, ha lasciato sussistere nel suo pensiero forti residui della metodologia economico-giuridica, che riaffiorano inevitabilmente, ogni volta che egli affronta i problemi di storia economico-sociale60.
Ma quella di Candeloro sembrava restare, almeno all’apparenza, una voce isolata. L’area storiografica di tendenza comunista pareva insistere piuttosto, a forte maggioranza, nel voler mantenere un fermo ostracismo contro un intellettuale così fortemente compromesso con la stagione fascista. Restano a testimonianza di questo atteggiamento di chiusura, dettato prevalentemente da una tetragona e settaria ragion di partito, alcuni frammenti dell’epistolario di Ernesto Ragionieri61. La lettera di Armando Saitta del 20 agosto 1955, dove si invitava Ragionieri, allora al lavoro per un volume degli «Scrittori d’Italia» dedicato alle «discussioni sul regionalismo e l’accentramento statale», a non voler stravolgere i criteri della collana, riducendola «al tipo di volumi (raccolta di documenti), che Volpe stampava presso l’Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi)». Quella di Ragionieri a Giampiero Carocci del 25 marzo 1955, dove, a proposito della polemica di Omodeo e di Russo su Ottobre 1917, si ricordava, senza indulgenza, un troppo acritico «giudizio di Volpe su Vittorio Emanuele III». Quella ancora inviata a Carocci, il 19 settembre di quello stesso anno, dove Ragionieri stigmatizzava il permanere negli studi di Carlo Zaghi di «una forte impronta di Vol-
60 G. CANDELORO, Giolitti e l’età giolittiana, in «Società», 1950, 4, pp. 128 ss., in particolare pp. 140-141. 61 Tutte le lettere di e a Ragionieri, d’ora in poi citate, sono conservate nell’Archivio Ragionieri dell’omonima Biblioteca comunale di Sesto Fiorentino. Su questo insieme archivistico, si veda L’epistolario di Ernesto Ragionieri. Inventario, a cura di F. Capetta, Firenze, Olschki, 2004.
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pe, o alla Ispi»62. Infine, la corrispondenza che Cantimori aveva respinto a Ragionieri, nel 1950, subito dopo la morte di Carlo Morandi, dove si incrudeliva contro la linea di continuità con il magistero di Volpe, che Chabod aveva voluto mantenere, durante i primi anni della sua direzione di «Rivista Storica Italiana»63. Sono contento che tu ti sia rimesso al lavoro. Non credo che si tratti di egoismo, neppure soltanto difensivo; si tratta di serietà e salute morale, a mio parere. Credo che ci accorgeremo sempre più, via via, della perdita che abbiamo avuto, e della sua gravità. Vedrai che a poco a poco anche l’unità del gruppo dei redattori della Rivista storica italiana si verrà disfacendo. Io per conto mio non potrò avere molti riguardi per Chabod dopo il modo come si è comportato con te, proprio mentre in nome della memoria di Morandi faceva rientrare Volpe nella Rivista. Ma anche senza questo fatto nuovo, che per me è gravissimo, vedo ora sempre meglio che, senza parere e senza farsi sentire, era Morandi che ci teneva insieme, ed equilibrava le varie tendenze, anche a parte delle questioni pratiche e dei temperamenti personali.
Proprio Cantimori avrebbe costituto, infatti, il nocciolo duro della reazione contro Volpe, al quale pure era stato legato nel passato da uno stretto e deferente legame accademico e intellettuale, e che ora veniva definito invece «lo studioso che aveva tradito la scienza storica per la politica, che aveva scambiato la contemporaneità di ogni storiografia e di ogni storia con quella non storia ma cronaca che sembrava essere la storia contemporanea, che aveva insomma abbandonato la storiografia per il giornalismo: e per giunta al servizio del partito dominante, considerato partito dell’ignoranza, della barbarie, dell’incultura»64. Per poter formulare, con qualche brandello di credibilità, questa sentenza di condanna sommaria, che si presumeva poter essere definitiva e senza appello, Cantimori era però costretto a cancellare il suo passato di intellettuale fortemente impegnato con l’ala estremista e filonazista del movimento fascista65. In questo modo, l’antico allievo di Giovanni Gentile e Giuseppe Saitta costruiva una memoria del tutto alternativa alla sua reale biografia politica. Memoria che sarebbe stata ripresa ad litte-
62 A proposito della forte, e mai rinnegata, dipendenza della storiografia di Zaghi dall’insegnamento di Volpe, si veda il mio, Rivoluzione francese e storiografia italiana, cit., pp. 147 ss. 63 Sui forti contrasti che questa decisione di Chabod aveva provocato tra gli altri condirettori del periodico, si veda ID., Un dopoguerra storiografico, cit., pp. 334 ss. 64 D. CANTIMORI, Federico Chabod, cit., pp. 296. 65 Sul punto, ora, Delio Cantimori e la cultura politica del Novecento, a cura di E. Di Rienzo e F. Perfetti, Firenze, Le Lettere, in corso di stampa. Si veda anche, N. D’ELIA, Delio Cantimori e la cultura politica tedesca (1927-1940), Roma, Viella, 2007, in particolare pp. 61 ss.
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ram dai suoi allievi più vicini, e infine ridotta a canone nello studio di Giovanni Miccoli del 197066, del quale Ragionieri, impegnato nella ricostruzione della stagione fascista di un altro storico militante, come Carlo Morandi, forniva questo negativo giudizio: La bibliografia ci riserba sempre nuove sorprese: nutrita collaborazione letteraria a “Il Pensiero” di Bergamo, a “La Fiera Letteraria” ecc., per gli anni giovanili, intensa collaborazione con l’Ispi alla fine degli anni ’30, molti articoli di giornale dopo il 1945; nel preparare la lezione (tre ore ho parlato a quei poveri studenti che seguono il seminario sulla politica culturale del fascismo, e mi sono praticamente fermato al 1940!), mi pare di avere individuato parecchi problemi di storia della storiografia italiana tra fascismo e post-fascismo e credo sia opportuno trattarli pubblicamente, dopo che il libro di Miccoli ha mostrato (con la ripartizione in capitoli tenuta nel volume in modo ancora più palese che nei saggi della “Nuova Rivista Storica”), come ci si possa passare accanto senza neppure sfiorarli67.
In alternativa a questa sistematica rimozione del passato, denunciata nella lettera, altri esponenti della giovane scuola gramsciana concordavano invece, già nei primi anni Cinquanta, sul giudizio di Candeloro che, anche tra critiche non di poco conto, restava sostanzialmente positivo, con la sua volontà di discriminare ciò che era morto e ciò che restava vivo nelle pagine di Italia Moderna, anche a rischio di ipotizzare un Volpe almeno parzialmente assimilabile alla lezione ortodossa del materialismo storico. Non molto diversa, da quella di Candeloro, era la posizione di Renato Zangheri, che, nel 1951, si soffermava sull’interpretazione di Volpe, relativa al movimento socialista italiano dopo il 1900, con diretto riferimento ad alcune pagine di Italia Moderna, nelle quali, si aggiungeva, era possibile ritrovare, non solo rapsodicamente, indicazioni utili e del tutto condivisibili. Neppure il Volpe aveva negato che al “cammino” d’Italia avesse concorso per la sua parte il nascente socialismo; ma quanto poco, e con quali demeriti: il socialismo “lusingò molti mali istinti popolari, sfruttò la assenza di spirito nazionale in basso e le tradizioni cosmopolitiche del popolo italiano, irrise la patria, minò la vecchia disciplina”. Giudizio che offusca una retta visione della storia; ma nei due volumi sull’Italia moderna lo troverete ammorbidito nella asprezza e spesso corretto. Nel primo volume, il Volpe avverte quanto di nuo-
66 G. MICCOLI, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, Torino, Einaudi, 1970. 67 Ernesto Ragionieri a Corrado Vivanti, 7 novembre 1970. L’interesse, per la biografia politica di Morandi, avrebbe prodotto il saggio di Ragionieri, Carlo Morandi, in «Belfagor», 1975, 3, pp. 669 ss.
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vo portasse seco il primo moto socialista rispetto al moto nazionale, e quale vantaggio si promettesse all’Italia dall’ascensione di “tanti per i quali la patria era ancora astrazione”, e quanto vi si trovasse “di germinale forza unitaria, di forza integratrice e perfezionatrice del Risorgimento”. Sfuggì ciò a Crispi nel ’94 e a di Rudinì nel ’98; non però alla monarchia, che al principio del secolo volle fosse inaugurato un nuovo corso della politica italiana. Ci troviamo di fronte ad una trasposizione mitica operata dal Volpe, il quale ama attribuire alla monarchia tutto il bene che si fece in quegli anni e fare carico ai governi di tutto il male. E tuttavia, fatte a queste debolezze la debita parte, resta nel Volpe il movimento operaio che ha messo in moto la situazione italiana e l’ha portata a chiarimento, restano le leggi fatte, le associazioni costituite, l’attività culturale popolare dei socialisti, l’influenza stessa benefica sulla giovane storiografia italiana del coevo moto contadino. C’è nel Volpe una singolare disparità di applicazione scientifica. Le sue simpatie vanno anch’esse a quell’ala del socialismo italiano che più si avvicinò, corrompendosi, alle istituzioni dello Stato e alla monarchia, in primo luogo; ma al suo sguardo non si sottrae l’importanza, quale essa sia, del movimento popolare: “i moti operai susseguitisi dal 1901 in poi e tornati ad inasprirsi intorno al 1906, lo sciopero generale del 1904, la agitazione dei ferrovieri impostasi al governo furono eventi variamente suggestivi, ispiratori di atteggiamenti nuovi, nella vita politica italiana”68.
Pochi anni più tardi, tuttavia, l’apparato intellettuale e politico del Pci prendeva netta posizione contro una possibile utilizzazione degli apporti del «fascista» Volpe nella storiografia democratico-progressista della prima Repubblica. Nel dicembre del 1954, uno studioso di indubbia ortodossia comunista, come Gastone Manacorda, veniva sottoposto, a un vero e proprio processo politico, prima in una riunione della Fondazione Gramsci, poi sulle pagine di «Rinascita» e del «Contemporaneo», per aver ripreso, nel suo volume Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi, un giudizio di Volpe sulla funzione «nazionale» del socialismo italiano prima della Grande Guerra69. Ma non era, quella di Volpe, una damnatio memoriae definitiva, se, nel 1964, anche Ernesto Ragionieri, lo studioso che, in ogni caso, meglio aveva saputo interpretare le nuove tendenze della storiografia marxista e gramsciana
68 R. ZANGHERI, Gli studi storici sul movimento operaio italiano dal 1944 al 1950, in «Società», VII, 1951, pp. 308 ss., in particolare pp. 312-313, che rimanda a G. VOLPE, Italia Moderna, cit., I, pp. 510 e 496; II, pp. 459 ss. Il primo riferimento nella citazione di Zangheri è a G. VOLPE, Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio, Milano, Treves, 1927, p. 74. 69 «Una cosa non diventa falsa solo perché l’abbia detta Gioacchino [Volpe]», scriveva, durante l’infuriare della polemica, Gastone Manacorda a Delio Cantimori. La lettera del 9 aprile 1954 è citata in A. VITTORIA, Il Pci, le riviste e l’amicizia. La corrispondenza fra Gastone Manacorda e Delio Cantimori, in «Studi Storici», 2003, 3-4, pp. 745 ss., in particolare p. 774. Sull’intera vicenda, si veda C. NATOLI, Il socialismo nella storia d’Italia, ivi, in particolare pp. 671 ss.
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in rapporto al disegno complessivo di una nuova storia d’Italia70, forniva implicito ma ampio riconoscimento a un metodo, come quello che da Volpe, trapassato in Candeloro, era capace di assimilare «i risultati più notevoli delle ricerche della storiografia positivistica, o economico-giuridica, in una prospettiva non più dominata dalla ricerca del “fattore economico” grezzamente inteso». In quello stesso contributo veniva anche ripreso con favore il parere di Giorgio Spini sul «danno che la chiusura idealistica verso precedenti esperienze storiografiche ha comportato per lo sviluppo degli studi storici italiani», dal quale si poteva legittimamente dedurre che «forse avrebbe giovato assai alla nuova storiografia che si affacciò in Italia dopo la Resistenza, piena di rinnovato fervore per l’analisi critica dei fenomeni sociali, non avere alle spalle una così forte cesura rispetto alla storiografia positivista o economico-giuridica»71. Sul medesimo giudizio concordava parzialmente anche Valiani72, a testimonianza di un’attenzione equanime e consistente, anche se necessariamente intessuta di forti prese di distanza, per l’autore di Italia in cammino, che si differenziava da altri giudizi della storiografia di sinistra, destinati poi a costituire l’ossatura ideologica dell’infelice sintesi di Innocenzo Cervelli del 1977, che, pur affrontando per la prima volta il «problema Volpe» nel suo complesso, restava sostanzialmente non opera di storia della storiografia «ma inquisizione ideologica e politica: da agente della polizia politica o meglio da burocrate di un rinato e vagheggiato Minculpop, esperto nella individuazione dei precursori e nella diffamazione degli avversari, con un metodo di cui solo il segno è cambiato»73. Ma, sempre per rintracciare la fortuna del magistero di Volpe, in partibus infidelium, pensiamo ancora alle grandi capacità di mediazione culturale di un non pentito allievo dell’autore di Italia Moderna, come Luigi Dal Pane74, che si fece tramite con il passato per una nuova le-
70 G. GALASSO, L’itinerario storiografico di Ernesto Ragionieri, in ID., Croce, Gramsci e altri storici, Milano, Il Saggiatore, 1978, pp. 511 ss. 71 E. RAGIONIERI, Storie del Risorgimento e storia d’Italia, «Studi Storici», 1964, 4, ora in ID., Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1967, pp. 57-58. Si trattava di una nota relativa all’ultimo volume della Storia dell’Italia moderna. IV. Dalla rivoluzione nazionale all’unità di Giorgio Candeloro, pubblicato da Feltrinelli nel 1964. 72 L. VALIANI, La storiografia italiana sul periodo 1870-1915, «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», I, 1967, pp. 35 ss. Ora, in ID., Questioni di storia del socialismo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 280 ss. 73 R. ROMEO, Per Volpe, «il Giornale», 2 aprile 1978, in ID., Scritti Storici, 1951-1987. Introduzione di G. Spadolini, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 322-323. 74 A. CASALI, Profilo di Luigi Dal Pane, in «Studi Storici», 1980, 4, pp. 877 ss. Sul punto anche, M. MIRRI, Dalla storia dei “lumi” e delle “riforme” alla storia degli “antichi stati italiani”, in Pompeo Neri. Atti del colloquio di studi di Castelfiorentino (6-7 maggio 1998), a
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STRANIERO IN PATRIA
va di storici come Renato Zangheri, Mario Mirri e lo stesso Marino Berengo, individuando nella grande considerazione sempre accordata da Volpe allo studio delle «forze realmente operanti» il nodo che stringeva idealmente questo studioso agli «epigoni di un beninteso materialismo storico»75. E ricordiamo infine la testimonianza di Rosario Villari, uno dei fondatori della rivista di storia dell’Istituto Gramsci, «Studi Storici», che ha recentemente confessato che «alcuni o molti di quei giovani studiosi che, a metà degli anni ’50, erano interessati a studiare la storia sociale del nostro paese e andavano cercando dei precedenti a cui fare riferimento, non potevano fare a meno di riprendere in mano i testi della cosiddetta scuola “economico-giuridica”, dalla quale, e direttamente dal Crivellucci, era venuto fuori anche Gioacchino Volpe»76. Un interesse che torna vivo, anche oggi, in un’osservazione di Alceo Riosa nella quale si mette in evidenza che nell’eredità di Volpe sono contenute «chiavi interpretative che, se attentamente meditate, sono ancora in grado di offrire, un contributo essenziale alla storiografia del socialismo e del movimento operaio ed alla crisi di prospettive che attualmente la frena»77. In questo senso, anche una sommaria ricostruzione della lunga durata della lezione di Volpe porta, di necessità, a una ricostruzione del nostro dopoguerra storiografico alternativa a quella tradizionale, attraverso la quale non si vuole certamente fare di questo intellettuale il deus absconditus della cultura storica nazionale, né passare sotto silenzio le novità che nel campo degli studi investirono, anche impetuosamente, il nostro paese a partire dal 194578, ma che è utile forse a mostrare quale e quanta fosse la mistura del vecchio vino che allora si andava travasando in nuovi recipienti, per ovviare, magari, alla mancanza di una storiografia compiutamente marxista che nel nostro paese fu più che altro un’entità virtuale e immaginaria79, come Volpe e Croce avevano intuito fin dal principio del secolo XX.
cura di A. Fratoianni e M. Verga, Castelfiorentino, Società Storica della Valdelsa, 1992, pp. 401 ss. 75 L. DAL PANE, Pagine di storiografia di Gioacchino Volpe, in «Bollettino del Museo del Risorgimento di Bologna», 1967-1968, pp. 63 ss., in particolare p. 66. 76 R. VILLARI, Gioacchino Volpe e noi, in «Elite e Storia», 2004, 1, pp. 15-16. 77 A. RIOSA, Socialismo e classi subalterne tra esclusione ed integrazione nell’interpretazione storica di Gioacchino Volpe, cit., p. 129. 78 Come mi è stato garbatamente obiettato, in un appassionato e dettagliato resoconto del mio Un dopoguerra storiografico, da G. SASSO, Guerra civile e storiografia, in «La Cultura», 2005, 1, pp. 5 ss., in particolare pp. 34-35. 79 A. MOMIGLIANO, «Storia della storiografia (1946-1959)», in Enciclopedia Italiana. Terza Appendice, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1961, p. 849: «Una specifica storiografia marxista nettamente separabile da quella di origine crociana non sembra per ora essersi individuata».
INDICE NOMI
Accame, Silvio, 616n. Adagio, Carmelo, 447n. Aga Rossi, Elena, 615n. Agosti, Giorgio, 46n., 544n., 634n. Agostino d’Ippona, 38 Agostinoni, Emidio, 323 Agricola, Giulio, 7 Aimone di Savoia-Aosta, 569, 570, 571 Alatri, Paolo, 17n., 671n. Alberti, Annibale, 477n., 501 e n. Albertini, Luigi, 166n., 221n., 226n., 248, 256, 489 e n., 633 Albertone, Manuela, 413n. Alessandro VI (Rodrigo de Borgia), 51 e n. Alfieri, Aiace Antonio, 103, 105 Alfieri, Dino, 564n. Alfieri, Vittorio Enzo, 116n. Alfieri, Vittorio, 31 e n. Aliberti, Giovanni, 319n. Allegra, Luciano, 40n., 95n. Almirante, Giorgio, 680, 693, 698, 699, 706 e n. Alpes (Editore), 340 Alvaro, Corrado, 483 Ambrosini, Gaspare, 291n. Ambrosini, Vittorio, 559, 597 e n. Ambrosoli, Luigi, 84n. Amedeo, di Savoia-Aosta, 569, 572n., 573 Amendola, Giovanni, 94n., 106 e n., 107 e n., 113 e n., 138 e n., 144 e n., 146 e n., 149n., 150n., 152 e n., 153 e n., 154, 155 e n., 157n., 158, 188, 190, 196 e n., 248, 256, 274n., 291 e n., 366, 489, 639n. Amicucci, Ermanno, 605 e n. Amoretti, Giovanni Vittorio, 107n. Andreotti, Giulio, 627n., 635, 636n. Anfuso, Filippo, 663 e n. Angiolillo, Renato, 664, 698, 717
Ansaldo, Giovanni, 135n., 257n., 406, 407n., 457 e n., 492n., 660, 726 Antoni, Carlo, 640 e n., 675 e n., 699n. Antonioli, Maurizio, 173n. Anzilotti, Antonio, 59 e n., 61n., 79n., 104n., 115n., 116n., 121n., 135n., 152 e n., 153n., 157n., 158, 193n., 201, 252n., 268, 278, 302, 359 Aquarone, Alberto, 281n., 322n., 353n., 369n., 378n., 381n., 394n., 434n., 443n. Ara, Giuseppe, 15 Arangio Ruiz, Vladimiro, 593, 595 e n., 616 e n., 619n., 641 Arcari, Paolo, 135n., 144 e n., 145 e n., 152 e n., 153 e n., 154, 157 e n., 160, 167 e n., 170 e n., 371, 546 e n., 547 e n. Arcidiacono, Eugenio, 656n. Are, Giuseppe, 546n. Arfé, Gaetano, 100n., 318n. Arias, Gino, 64n., 71 e n., 72 e n., 73 e n., 75-76, 80n., 81, 90, 116, 121n., 378, 380, 460 Armellini, Giuseppe, 619n. Arnaldo da Brescia, 111n. Arpesani, Giustino, 152, 160 Arpinati, Leandro, 455, 689 Artieri, Giovanni, 688n. Artifoni, Enrico, 42n., 45n., 47n., 48n., 89n. Ascari, Mario Celso, 537n. Ascoli, Graziadio, 15, 95 Asor Rosa, Alberto, 17n. Asquini, Alberto, 695, 70 Astolfo, 34 Audoin-Rouzeau, Stephane, 137n., 223n. Azzolini, Luisa, 419n. Babeuf, François-Noël, 497, 625n.
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INDICE DEI NOMI
Badoglio, Pietro, 511 Bagnoli, Vincenzo, 145n. Baioni, Massimo, 467n., 468n., 477n., 499n., 504n., 508n. Bakunin, Michail Alexandrovic!, 497 Balbo, Cesare, 271 Balbo, Italo, 430n., 519 e n., 525, 545, 576 Baldacci, Gaetano, 651 e n., 685 Baldan, Attilio, 502n. Baldasseroni, Francesco, 118n., 201 Ballini, Pier Luigi, 247n., 656n. Balzani, Roberto, 18n. Balzarini, Renato, 614n. Bandini, Franco, 662n. Banfi, Antonio, 630 e n., 631 e n. Banti, Ottavio, 27n. Baravelli, Andrea, 245n. Barbagallo, Corrado, 41 e n., 43 e n., 48, 49n., 181 e n., 183n., 192, 193n., 251 e n., 268, 285 e n., 286 e n., 517 e n., 675 Barbagallo, Francesco, 122n., 266n. Barbieri, Pietro, 656, 694 Barbone, Donato, 549n. Barone, Domenico, 378 Barrès, Maurice, 28, 148, 167 Barsali, Mario, 195n. Barzilai, Emilio, 15 Barzilai, Salvatore, 16n. Bassani, Gerolamo, 563, 645 e n., 648n. Bassi, Luciano, 697 Bastianini, Giuseppe, 504 e n., 545 e n., 564n. Battaglia, Felice, 475 Battista, Pierluigi, 643n. Battisti, Cesare, 544n. Becker, Annette, 137n., 223n. Bedeschi, Giuseppe, 158n., 276n. Bedeschi, Lorenzo, 103n. Beer, Henry, 95n. Belardelli, Giovanni, 152n., 153n., 181n., 319n., 401n., 455n., 463n. Belli, Carlo, 698 Belluzzo, Giuseppe, 195 e n., 196, 695 Below, Otto, 68n. Bemporad (editore), 236 Benassi, Tommaso, 389 Benco, Silvio, 168n.
Bendersky, Joseph W., 561n., 631n. Bendiscioli, Mario, 563n., 718n. Benedetti, Tullio, 659 Benelli, Sem, 264 Benfante, Filippo, 619n. Benigno, Francesco, 138n. Benini, Rodolfo, 515 Bentinck, William, 494 e n. Benvenuti, Marco, 529n. Berengo, Marino, 49n., 517n., 732 Bergamini, Alberto, 594, 596 Berger, S., 516n. Berghuas, Gunther, 468n. Bergmann, Giulio, 152, 235, 240 Bernheim, Ernst, 34n. Bertarelli, Achille, 201 Bertolini, Francesco, 711 Betti, Emilio, 701 Bevione, Giuseppe, 563n. Bianchi, Michele, 385 Biggini, Carlo Alberto, 569, 571, 581n., 592, 594, 597 e n. Billia, Michelangelo, 186n. Biscione, Michele, 46n. Bismarck, Otto von, 182, 368 Bissolati, Leonida, 186n., 221n., 228n., 256, 268 Bizzarri, Aldo, 564n. Blanc, Carlo, 710 Blanc, Gian-Alberto, 614n. Bobbio, Norberto, 78n., 497n. Bocchini, Arturo, 504, 506n. Boccioni, Umberto, 567 Bodrero, Emilio, 144, 152, 371-373 e n., 638, 691 Boffi, Ferruccio, 31, 399 e n. Boine, Giovanni, 60 e n., 104, 105 e n., 106 e n., 107 e n., 113, 133n., 146n., 148 e n., 149 e n., 150n., 152n., 153 e n., 154 e n., 170-171 e n. Bolelli, Tristano, 673n. Bolino, Giuseppe, 619n., 627n. Bolivar, Simon, 448, 55 Bonaparte, Luigi, 45 Bonaparte, Napoleone, 476 Bonfante, Ugo, 164 Bonini, Francesco, 254n. Bonomi, governo, 613 Bonomi, Ivanoe, 141n., 186n., 221n., 228n., 339, 575n., 626
INDICE DEI NOMI
Bonomo, Carlo, 36 Bontempelli, Massimo, 208 Borelli, Aldo, 488n., 512n., 539-541 e n., 548 n., 554 e n., 564n., 574 e n. Borelli, Giovanni, 144 e n., 145n., 149 e n., 152 e n., 160, 167, 194-195 e n., 196n., 198-200 e n., 201, 206 e n., 207 e n., 240, 266-267 e n., 278, 486, 487 Borgese, Giuseppe Antonio, 113 e n., 135n., 146n., 152, 158, 163 e n., 205, 248 e n., 251, 256, 371, 660, 661 Borghese, Juno Valerio, 697 Borgia, Cesare, 51 e n. Bornate, Carlo, 410n., 411n. Borsa, Mario, 628 e n., 629 e n. Bosco, Umberto, 581n., 594, 595n. Boselli, Paolo, 191n., 195n., 223-224 e n., 489n. Bottai, Giuseppe, 319n., 348-349, 375, 437, 442 e n., 451 e n., 483 e n., 513, 544 e n., 549n., 558, 559n., 576-578 e n., 580, 595 e n., 635, 658 Botticelli, Sandro, 531 Bottoni, Girolamo, 406 Bovio, Libero, 625n. Bracco, Barbara, 122n., 136n., 181n., 195n., 253-254n., 266-267n. Braga, Gabriella, 641n. Bragaglia, Anton Giulio, 568 Bragaglia, Manlio, 115n. Brambilla, Alberto, 80n. Braudel, Fernand, 28n. Bravi, Alessandra, 628n. Bresadola, Federico, 521 e n., 522, 525 Breschi, Danilo, 345n. Breysig, Kurt, 64 e n. Bricchetto, Enrica, 511n. Bruers, Antonio, 535 e n., 679 Brunner, Otto, 64 Bucci, Vincenzo, 299n. Budak, Mile, 571 Buchignani, Paolo, 440n., 467n., 690n. Bulei, Ion, 129n. Bulferetti, Luigi, 651n. Buonaiuti, Ernesto, 108 e n., 200, 318, 453 e n., 581, 638 e n. Buonarroti, Filippo, 105 e n., 410
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Burgio, Alberto, 171n. Buronzo, Vincenzo, 385 Burzio, Filippo, 685 Busino, Giovanni, 77n., 138n., 281n., 502n. Bussmann, Walter, 137n. Buzzatti, Dino, 628n. Cacciatore, Giuseppe, 35n., 42n., 58n. Cadorna, Luigi, 205, 224, 255, 488, 489n. Cadorna, Raffaele, 718n. Caggese, Romolo, 55n., 58n., 73 e n., 74n., 90, 115n., 116, 121n., 268, 340n., 460 Calamandrei, Piero, 208, 287, 544n., 554n., 601n., 602n., 617 e n., 619, 625n., 633-635 e n., 674n. Caldesi, Vincenzo, 27n. Calisse, Carlo, 415, 619n. Calligaris, Giuseppe, 83 e n., 85 Calogero, Guido, 475, 580n., 581n., 594, 597n., 640 Campagnolo, Ugo, 645, 646 e n. Campi, Alessandro, 446n. Campochiaro, Emilia, 31n., 322n., 390n. Canali, Mauro, 359n., 504-506n. Candeloro, Giorgio, 725-727 e n., 729, 731 e n. Canfora, Luciano, 429n., 593n., 606n. Cantalupo, Roberto, 302, 340-341, 358 Cantimori, Delio, 28 e n., 115n., 320n., 429, 447 e n., 450n., 514n., 527, 550, 558, 578n., 581 e n., 593, 595 e n., 640 e n., 678, 728 e n., 730n. Capaccioli, Massimo, 580n. Capasso, Carlo, 83 e n., 93-94, 495n. Capetta, Francesca, 727n. Capitani, Ovidio, 59n., 104n., 725n. Capo, Lidia, 639n. Capone, Alfredo, 144n., 149n. Caporilli, Pietro, 656 Capponi, Gino, 53n. Caprin, Giulio, 305n., 652 e n. Capristo, Annalisa, 513n., 515n. Capuzzo, Ester, 405n. Caracciolo, Alberto, 266n., 268n. Caraci, Giuseppe, 562n. Caradonna, Giulio, 697
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INDICE DEI NOMI
Caravale, Mario, 337n. Cardarelli, Romualdo, 409n. Cardinali, Giuseppe, 582, 585, 586 e n., 588, 589, 636 Cardini, Antonio, 679n. Carducci, Giosuè, 15-21 e n., 22n., 2324 e n., 25, 26n., 27n., 28 e n., 69, 544n. Carini, Carlo, 517n. Carli, Filippo, 434n. Carlini, Armando, 345n. Carlo di Borbone, 702 Carlo Emanuele I di Savoia, 409n. Carlo Emanuele II di Savoia, 424 e n. Carlo Martello, 220 Carnazza, Gabriello, 344, 345n. Carocci, Giampiero, 138n., 152n., 274n., 291n., 315n., 403n., 727 Caroncini, Alberto, 107, 135n., 144147 e n., 148, 149n., 151, 152 e n., 153 e n., 154n., 162 e n., 172 e n., 176n., 246 e n., 247n., 299, 321, 547 Caruso, Barbara, 372n., 376n. Casali, Antonio, 90n., 193n., 517n., 731n. Casalino, Leonardo, 412n. Casanova, Eugenio, 486, 499 Casati, Alessandro, 61-62n., 103-106 e n., 108n., 112-113, 121n., 146n., 149n., 152-154 e n., 160, 168n., 171 e n., 206 e n., 212 e n., 218, 270, 301-302, 316n., 335 e n., 336, 339 e n., 340-341, 345, 363, 373, 398, 399 e n., 454n., 633 Casertano, Antonio, 414-416 e n. Casotti, Mario, 345n. Cassani, Cinzia, 140n. Castellano, Giovanni, 45n., 139n. Castellini, Gualtero, 166n. Castelnuovo, Guido, 619n. Castriota Scandemberg, Giorgio, 428 Cataluccio, Francesco, 536n. Cattaneo, Carlo, 85, 269 Cavallera, Hervé A., 31n., 214n., 276n. Cavallo, Pietro, 553n. Cavallotti, Felice, 33 Caviglia, Enrico, 136n., 208n., 214n., 218n., 235, 239, 240n., 260, 360, 361n.
Cavour, Camillo Benso di, 17, 154, 252n., 270-271, 275, 278, 285, 319n., 384, 481, 608 e n., 726 Cecchelli, Carlo, 586, 614n., 711 Cecchi, Emilio, 208 Cecchini, Giovanni, 536n. Ceccuti, Cosimo, 620n. Cervelli, Innocenzo, 28n., 41n., 56n., 731 Cesa, Claudio, 580n. Cesarini Sforza, Widar, 135n., 152, 158, 172n., 283, 455 e n., 456n., 523 e n., 653 e n., 654n. Cestaro, Antonio, 108n. Ceva, Lucio, 136n. Chabod, Federico, 28n., 52n., 127n., 166n., 246n., 254n., 365n., 401, 418, 419n., 424 e n., 432, 433n., 474, 479 e n., 511, 521n., 545, 562, 577, 578 e n., 580, 583, 584, 589, 602 e n., 612 e n., 613n., 626 e n., 629, 630n., 637 e n., 660, 669-680 e n., 689n., 724 e n., 728 e n. Chamberlain, Neville, 433 Chanlaine, Pierre, 481 e n. Chessa, Pasquale, 542n. Chiappelli, Alessandro, 99 Chiarelli, Giuseppe, 614n. Chiarini, Giuseppe, 15 Chiavacci, Gaetano, 513-515n., 595 Chiavolini, Alessandro, 454n. Chickering, Roger, 223n. Chiurlo, Giorgio Alberto, 522 e n., 525 Churchill, Winston, 427, 554, 668 Ciammaruconi, G., 697n. Cian, Vittorio, 88, 362, 363n., 471n. Ciano, Costanzo, 663 Ciano, Giangaleazzo, 408, 429n., 430n., 519n., 537n., 542 e n., 545, 549 e n., 570 e n. Ciasca, Raffaele, 122 e n., 302, 316, 359, 411 e n., 480 e n., 583, 591 e n., 594, 639, 651n. Cicalese, Maria Luisa, 85n., 119n., 269n., 370n. Ciccotti, Ettore, 87, 268, 675 Cicerone, 601n., 620 Ciliberto, Michele, 79n. Cimatti, Vincenzo, 467n. Cini, Vittorio, 720
INDICE DEI NOMI
Cione, Edmondo, 656, 664 e n., 691 Cipolla, Carlo Maria, 25n., 59n., 8485, 89n., 115, 119-120 Ciuffoletti, Zeffiro, 492n. Claps, Vito, 186n. Clausewitz, Carl Phillip Gottlieb von, 249 Calvino, Giovanni, 105 e n. Clemenceau, Georges, 310 Codignola, Ernesto, 61n., 322, 345n., 399 e n., 400 e n., 474n. Cognasso, Francesco, 502, 690 Cogo, Gaetano, 322n. Colajanni, Napoleone, 320 Colamarino, Giulio, 523n. Colapietra, Raffaele, 457n. Coletti, Francesco, 97, 303 e n. Coli, Daniela, 31n., 110n. Colli, Giorgio, 124n. Comandini, Ubaldo, 210, 268 Consiglio, Alberto, 650n. Coppola, Francesco, 145, 151, 152n., 259, 289, 315n., 378, 430n., 483n., 515 Coppola, Goffredo, 429, 606 e n. Corradini, Enrico, 136n., 142 e n., 144n., 145, 156, 160 e n., 166 e n., 167-168, 173n., 239, 259 e n., 260, 282, 369, 378, 454 Correggiari, Gianni, 240n. Cortese, Nino, 302 Costa, Andrea, 497 Costamagna, Carlo, 450n., 528, 529 e n., 558, 639, 699n. Cotroneo, Girolamo, 46n. Covelli, Alfredo, 699 Cozzani, Ettore, 236 Cracco, Giorgio, 104n. Crespi, Angelo, 107 e n., 225n. Crispi, Francesco, 13, 15, 17-19 e n., 32 e n., 254 e n., 308, 384, 511, 522, 656, 730 Crispolti, Enrico, 468n. Crispolti, Filippo, 287 Cristiani, Emilio, 673n. Crivellucci, Amedeo, 33-37 e n., 39-40, 48, 49 e n., 52 e n., 55, 65-67, 71n., 79, 82, 84-85, 86 e n., 88, 89 e n., 90n., 91 e n., 93, 97, 99, 113n., 118n., 119, 502n., 732
737
Croce, Alda, 247n. Croce, Benedetto, 7-8, 14 e n., 17n., 19 e n., 20n., 24n., 33, 35-37 e n., 3940 e n., 41, 44-46 e n., 48, 49 e n., 50, 51 e n., 54n., 56n., 59 e n., 61 e n., 63 e n., 64n., 67-69 e n., 70n., 71 e n., 72-73, 74-87 e n., 91, 94n., 95 e n., 97 e n., 100 e n., 103, 104 e n., 108-109n., 113 e n., 114n., 117 e n., 118, 119n., 121n., 122 e n., 123, 124-127 e n., 128, 139 e n., 140n., 145n., 161n., 163n., 175n., 187, 188n., 192, 193-194n., 201 e n., 215, 217 e n., 247 e n., 257, 259 e n., 263-266-267 e n., 268, 270, 272n., 274 e n., 276-277 e n., 301, 317 e n., 318-319n., 322 e n., 323324, 329 e n., 330, 342 e n., 359n., 360-361, 362n., e n., 363 e n., 369 e n., 371, 376 e n., 399, 401, 403 e n., 424 e n., 456-466 e n., 474, 477 e n., 482, 497, 505, 506, 512n., 516n., 517, 531-533 e n., 565, 580 e n., 602, 608-610 e n., 616-619 e n., 622, 623, 625n., 627 e n., 630, 633 e n., 638, 640 e n., 643 e n., 649n., 651n., 658n., 672, 675-677 e n., 681, 687, 698, 723, 724, 726, 732 Crosa, Emilio, 528, 529n. Cuoco, Vincenzo, 477n., 726 Curato, Federico, 651n. Curcio, Carlo, 277 e n., 450n., 528, 529n., 558, 577 D’Addio, Mario, 334n. D’Amato, Francesco, 455n. D’Amelio, Saverio, 266n. D’Amico, Silvio, 568 D’Ancona, Alessandro, 15, 29, 33 e n., 36n., 52 e n., 85n., 95 D’Ancona, Paolo, 95 D’Andrea, Ugo, 651n., 711n. D’Annunzio, Gabriele, 13, 28, 177n., 242n., 246 e n., 252n., 253, 259 e n., 262n., 305, 425 e n., 535 e n. D’Aroma, Nino, 449n. D’Auria, Elio, 113n. D’Elia, Nicola, 728n. D’Orsi, Angelo, 649n.
738
INDICE DEI NOMI
Dainelli, Giotto, 236, 695 Dal Pane, Luigi, 28n., 78n., 109n., 669, 673, 674, 677n., 731, 732n. Dallolio, Alfredo, 195 e n., 196, 199 Dante, Alighieri, 64, 218, 531, 703 Davidsohn, Robert, 56 e n. De Agazio, Franco, 693 De Ambris, Alceste, 255n., De Begnac, Yvon, 256n., 436n., 442, 443n., 481-483 e n., 497 e n., 498 e n. De Capitani d’Arzago, Giuseppe, 174 De Caprariis, Vittorio, 136n., 266n. De Felice, Renzo, 11 e n., 137n., 151n., 156n., 204n., 218n., 239n., 245n., 256n., 266n., 274n., 277n., 281n., 287n., 293n., 295n., 315n., 319n., 339n., 346n., 348n., 351n., 358n., 365n., 368n., 369n., 373n., 378n., 385n., 387n., 393n., 396n., 397n., 418n., 422n., 424n., 249n., 446n., 452n., 467n., 481n., 498n., 516, 517n., 519n., 524n., 527n., 528n., 536n., 542n., 544n., 545n., 551n., 553n., 558n., 563n., 575n., 601n., 607n., 637n., 662n., 681n. De Francesco, Antonino, 8, 628n. De Francisci, Piero, 592, 625n. De Gasperi, Alcide, 634, 647, 664, 697 De Grand, Alexander J., 256n. De Leonardis, Massimo, 319n. De Lollis, Cesare, 138 e n., 594 De Luca, Giuseppe, 651 e n. De Marsanich, Augusto, 346n., 693, 694 De Mattei, Rodolfo, 475n., 501n., 502n., 545, 655 De Nicola, Enrico, 346 De Rosa, Gabriele, 108n. De Ruggiero, Guido, 133n., 152n., 156n., 163 e n., 183 e n., 187 e n., 216, 259n., 270-271 e n., 272n., 273, 277, 289n., 300 e n., 302, 303n., 316 e n., 317 e n., 359, 361362 e n., 457, 596, 619n., 625, 633 De Sanctis, Francesco, 22n., 30 e n., 77, 334, 618, 672 De Sanctis, Gaetano, 616n., 619n., 621, 626, 627 e n., 656n., 669, 672, 699n., 722n.
De Smaele, Elza, 613 De Stefani, Alberto, 281, 363-364, 579 e n., 583, 594, 639 De Turris, Gianfranco, 656n., 680n. De Vecchi, di Val Cismon, Cesare Maria, 395, 397, 401, 477 e n., 499 e n., 500 e n., 501-504 e n., 507-511 e n., 571, 575, 635, 679, 688 e n. De Viti de Marco, Antonio, 145 e n., 150n., 338, 701 De’ Medici, Giuliana, 656n. Deakin, Frederick W., 545n. Decleva, Enrico, 281n., 334n., 419n., 563 Degli Espinosa, Agostino, 681n. Degli Esposti, Fabio, 486n. Del Boca, Angelo, 254n. Del Lungo, Isidoro, 56n. Del Piano, Lorenzo, 408n. Del Vecchio, Alberto, 56 e n., 65-66 e n. Del Vecchio, Giorgio, 338, 671 Delcroix, Carlo, 256 e n., 449n., 545, 603n., 688n., 698 Della Penna, Francesco, 614n. Delle Piane, Mario, 597 e n. Dessy, Mario, 567 e n., 568 Di Costanzo, Giuseppe, 35n. Di Giacomo, Giacomo, 552 Di Giovanni, Giorgio, 408n. Di Lalla, Manlio, 361n. Di Marzo, Salvatore, 614n. Di Meglio, Umberto, 656n., 690n. Di Nucci, Loreto, 137n. Di Porto, Bruno, 166n. Di Rienzo, Eugenio, 11n., 26n., 99n., 121-122n., 126n., 170n., 268270n., 320n., 361n., 407n., 418n., 429n., 437n., 473n., 478n., 503n., 505n., 515n., 528n., 538n., 559n., 640n., 643n., 648n., 709n., 724n. Di Rudinì, Antonio, 18n., 701, 730 Di Simone, Maria Rosa, 639n. Diaz, Armando, 489 Dihigo Barrau, Léon, 95-96 Diocleziano, 242 Dirani, Ennio, 79n. Dodi, Amelia, 566 e n. Dolcino di Novara, 109n. Domenico, Roy Palmer, 617n.
INDICE DEI NOMI
Domizio, Mario, 615 Donovan, Mark, 516n. Dorso, Guido, 365n. Druetto, Luigi, 521n. Duggan, Christopher J., 17n., 19n. Dupré Theseider, Eugenio, 669, 673 Duranti, Simona, 340n. Duroselle, Jean-Baptiste, 306n.403n., 422n. Dusmenil, Georges, 107 Edgworth, Francis Ysidro, 98 Egidi, Pietro, 302, 502 Einaudi, Luigi, 75-76 e n., 97-98, 121, 281 e n., 283, 371, 664 Elena di Savoia, 450 Elze, Reinhard, 20n. Emanuel, Guglielmo, 685 Emery, Luigi, 287 Engels, Friedrich, 39n., 45 Enrico V di Borbone (conte di Chambord), 368 Enriques, Federigo, 113n. Ercole, Francesco, 152, 193n., 258n., 302, 369, 370, 371, 482, 504n., 507, 508, 513, 525 e n., 575, 585587, 589, 628, 639 Erdmann, Karl Dietrich, 128n., 414n., 516n., 576n., 656n. Erodoto, 466n. Esposito, Giovanni, 698n. Evola, Julius (Giulio Cesare Andrea), 482 Fabre, Giorgio, 513n., 519n. Faggi, Adolfo, 97 Falco, Giorgio, 22n., 201, 502, 637 Falqui, Enrico, 698 Falzone, Gaetano, 546n., 661n., 664n., 667n., 681n. Fanelli, Giuseppe Attilio, 436 Fani Ciotti, Vincenzo (Volt), 320n. Faraone, Rosa, 513n. Farinacci, Roberto, 351, 359, 364, 369 e n., 374, 385, 387, 389, 390, 392, 393, 395, 396, 528 e n., 536 e n., 658 Farnetti, Cristina, 580n. Farolfi, Bernardino, 115n. Farrel, Nicholas, 417n.
739
Fasulo, Silvano, 204n. Faucci, Riccardo, 43n., 75n. Fauro, Ruggero, 172 Fava, Andrea, 209n. Favilli, Paolo, 41n., 49n. Fazio-Almayer, Vito, 138 Fedele, Pietro, 83, 85, 87, 113n., 119, 120, 269, 399, 415, 580-582 e n., 585, 587-589, 591-593, 641n. Federici, Maria Caterina, 72n. Federzoni, Luigi, 62n., 145, 146n., 151n., 233n., 250n., 252 e n., 258 e n., 287, 358, 364, 443 e n., 454n., 515 e n., 538 e n., 569n., 688n., 690 e n., 716 e n. Feiling, Keith, 433n. Feliciangeli, Bernardino, 15 Ferrara, Mario, 718n. Ferrari, Giuseppe, 200, 268, 321 e n., 322, 459 Ferrero, Guglielmo, 97 Ferretti, Lando, 472, 473n., 576 e n. Ficker, Julius, 56 e n. Filippo II, 28n. Filippucci-Giustiniani, Giovanni, 429, 432n. Finocchiaro, Beniamino, 668n. Finzi, Roberto, 639n. Fiore, Amedeo, 659n. Firpo, Luigi, 75n. Fisichella, Domenico, 450n. Foa, Vittorio, 412n., 674n. Fonzi, Paolo, 561n. Fornaca, Remo, 322n. Forni, Alberto, 641n. Forni, Cesare, 385 Forno, M., 606n. Fortunato, Giustino, 67, 74 e n., 122, 132 e n., 249n., 261-262, 265 e n., 360 e n., 457 e n., 480, 492n., 701, 724 Fossati, Maurilio, 693 Fracchia, Umberto, 468 e n. France, Anatole, 77n. Francesco d’Assisi, 111n. Franco, Francisco, 431 Frangioni, Andrea, 521n. Franzinelli, Mimmo, 610n., 632n., 634n., 674n. Fratoianni, Aldo, 732n.
740
INDICE DEI NOMI
Fusco, Giancarlo, 550n., 570 e n. Fusinato, Guido, 176n. Gabba, Bassano, 332 Gabotto, Ferdinando, 83 Gabrieli, Francesco, 582n., 594 Gaeta, Franco, 136n., 144n., 151n., 163n., 167n., 251n. Gaetani, Leone, 269n. Galante Garrone, Alessandro, 46n., 412n., 496n., 617n., 634n. Galasso, Giuseppe, 8, 39n., 78n., 123n., 139n., 185n., 276n., 412n., 649n., 724n., 731n. Galilei, Galileo, 30 Galimi, Valeria, 563n. Gallarati Scotti, Alessandro, 103 Gallarati Scotti, Tommaso, 103, 105, 107, 108n. Galletti, Alfredo, 101 e n. Galli della Loggia, Ernesto, 137n. Galli, Stefano B., 166n. Gallino, Luciano, 44n. Gallo Francesca Fausta, 12n. Gambacorta, Pietro, 51 Garbari, Maria, 166n. Garibaldi, Ezio, 702 Garibaldi, Giuseppe, 469, 544, 719 Garin, Eugenio, 42n., 53n. Garosci, Aldo, 413n., 718n. Garzarelli, Benedetta, 478n. Garzya, Antonio, 580n. Gaslini, Pierfranco, 563n., 645n. Gasparotto, Luigi, 138 e n., 174 Gatti, Angelo, 207n., 221n. Gatti, Gian Luigi, 209n. Gayda, Virginio, 152n., 230, 231n., 246n., 536 e n. Gencarelli, Elvira, 85n. Gentile, Benedetto, 512n., 593n., 594n. Gentile, Emilio, 78n., 115n., 132n., 137n., 144n., 151n., 157n., 162n., 283n., 291n., 319n., 337n., 360n., 446n., 447n., 450n., 455n., 457n., 468n., 530n., 550n., 551n., 558n., 579n. Gentile, Federico, 479 e n., 644 e n., 647-652 e n., 654 e n., 655 e n. Gentile, Giovanni, 7, 13, 14n., 30-31 e
n., 32n., 33 e n., 35-37 e n., 40-41 e n., 46, 48-49 e n., 50, 53 e n., 61n., 67, 69n., 71n., 78 e n., 86 e n., 96, 97n., 99, 100 e n., 103n., 104 e n., 106n., 107, 110 e n., 113 e n., 118n., 124-126 e n., 132 e n., 133n., 139n., 177 e n., 184 e n., 185n., 203n., 214n., 217 e n., 218n., 247 e n., 252 e n., 255, 259, 262, 263n., 268, 270, 273-276 e n., 278, 283, 301-302, 317 e n., 318, 319n., 322 e n., 325-326n., 330, 332, 333n., 334 e n., 335-336, 339 e n., 340n., 341-342 e n., 343-344 e n., 345n., 358, 360-361 e n., 362n., 363-365 e n., 369 e n., 370 e n., 378-381 e n., 386, 390 e n., 398-400 e n., 405 e n., 408 e n., 443- 446n., 452, 454 e n., 463 e n., 465 e n., 473 e n., 474 e n., 477 e n., 479n., 482, 483n., 486 e n., 488n., 489n., 499 e n., 500, 509515 e n., 523 e n., 524 e n., 530, 532 e n., 543 e n., 550 e n., 554 e n., 557, 558n., 572 e n., 580-596 e n., 601-604 e n., 606, 607, 609 e n., 616n., 618 e n., 619, 640-642, 645, 649, 658, 670-672, 679, 728 Gentiloni, Vincenzo Ottorino, 347 Gerbi, Antonello, 417n. Gerbi, Sandro, 628n., 665n., 685n. Gerratana, Valentino, 39n. Gervaso, Roberto, 720, 721 Ghini, Carlo, 287 Ghisalberti, Alberto Maria, 499 e n., 500, 504n., 511, 529n., 548 e n., 583-586 e n., 590, 640, 663n., 669, 677n. Ghisalberti, Carlo, 203n. Ghislieri, Arcangelo, 252n. Giacchero, Giulio, 521n. Giammattei, Emma, 201n. Giannantoni, Simona, 69n., 100n. Giannini, Alberto, 233n., 361, 362n. Giannini, Gugliemo, 632, 683n., 684, 686 e n. Giannini, Massimo Saverio, 616n. Giardino, Gaetano, 499, 500 Giarrizzo, Giuseppe, 559n. Gierke, Otto, 57, 64
INDICE DEI NOMI
Giglioli, Alessandra, 407n., 409n., 536n. Gilgames$, 7 Gini, Corrado, 195 e n., 378 Ginzburg, Leone, 634 Gioberti, Vincenzo, 18, 271, 275 Giolitti, Giovanni, 366, 384, 404, 471, 472, 608 e n., 726 Giovannini, Alberto, 596, 690 Giuliano, Balbino, 362, 399 e n.,, 400, 581n., 588-590, 690, 628, 636, 637, 639, 695 Giulio Cesare, 467 Giunta, Francesco, 385 Giurati, Giovanni, 166 e n., 690 Giustibelli, Simona, 420n. Gnocchi, Alessandro, 665n. Gobetti, Piero, 111 e n., 257, 287-290 e n., 291, 317n., 346 e n., 362, 363n., 392, 393n. Gobineau, Joseph Arthur, 171n. Goidanich, Piergabriele, 405 Goldstein, Erik, 245n. Gömbös, Gyula, 425 Gonella, Guido, 626, 631, 638 Gonelli, Lida Maria, 85n. Graf, Arturo, 97, 113 Gramsci, Antonio, 39n., 67, 68n., 375, 445 e n., 468 e n., 726, 730 Grandi, Dino, 135n., 158 e n., 163, 164n., 348, 349 e n., 352, 354, 418, 545, 547, 575 e n., 607, 608n., 614n., 634 e n., 658 Granzotto, Paolo, 628n., 685n. Grassi Orsini, Fabio, 292n. Gray, Ezio Maria, 606, 656 Graziani, Rodolfo, 666, 697 Gregor, A.James, 259n., 282n., 320n. Gregorovius, Ferdinand, 406 Greppi, Emanuele, 240n. Gridelli Velicogna, Nella, 166n. Grieco, Ruggero, 647 Griffo, Maurizio, 265n. Gronchi, Giovanni, 697 Guareschi, Giovanni, 664, 665, 685 Guariglia, Raffaele, 418n. Guerri, Giordano Bruno, 319n., 442n. Guicciardini, Francesco, 466 n., 672 Guida, Francesco, 129n. Guidi, Ignazio, 586, 588, 589
741
Guizot, François, 24 e n. Guzzi, Virgilio, 698 Halévy, Elie, 496 e n., 498n. Hanauer, Gustaf, 69 e n. Healy, Maureen, 223n. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 38, 138 e n. Hintze, Otto, 57 e n. Hitler, Adolf, 449, 559n., 658 Horthy, Michele, 425 Humanus, pseudonimo di Mario Pepe, 617n., 632, 633n. Ignazi, Piero, 656n., 684n., 691n., 693n., 699n., 701n., 706n. Imbriani, Angelo M., 684n. Imbruglia, Girolamo, 640n. Inama, Virgilio, 95 Interlandi, Telesio, 470 e n., 471 e n., 473n., 628 Iorga, Nicolae, 128-130 e n., 132n., 187 Isnenghi, Mario, 137n., 209-210n., 254n., 486n. Jacini, Stefano, 106-107n., 168n., 302, 624, 625, 626 Jahier, Pietro, 208, 264 Jaia, Donato, 33 Janni, Ettore, 685 Jemolo, Arturo Carlo, 502, 619, 620n. Jermano, Tony, 489n. Kalergi, Richard Nikolaus, 559n. Kant, Immanuel, 138, 163n. Kennedy, Paul, 137n. Kerenski, Alexandr, 388 e n. King-Hall, Stephen, 412 e n. Kogan, Norman, 647n. Kristeller, Oscar, 513, 514 Krupp, 186 Kühn, Eva, 106n. Labriola, Antonio, 36-37 e n., 38-39 e n., 41, 47, 48, 50 e n., 78 e n., 109 e n., 505, 675 Labriola, Arturo, 152n., 167n., 650n. Lacombe, Pierre, 40 e n., 46 Lama, Ernesto, 501n.
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INDICE DEI NOMI
Lamprecht, Karl, 46, 58n., 64, 124 Lanaro, Silvio, 28n., 685n. Lanchester, Fulco, 334n., 639n. Lanzani, Francesco, 70n. Lanzillo, Agostino, 369, 380, 397 La Rovere, Luca, 529n., 542n., 558n. Laterza, 70, 100, 121 e n., 193n., 417n. Lattes, Dante, 515n. Lauro, Achille, 650, 684 e n. Lazzeroni, Nello, 354n. Ledeen, Michael, 240n. Leicht, Pier Silverio, 369 Lemmi, Francesco, 422 e n., 502 Lener, Salvatore, 620n. Lenin, Nikolaj (Vladimir Il’iec Ul’janov), 238, 290n., 431, 519 Lepre, Aurelio, 553n., 706n. Letteron, Lucien-Auguste, 406 Leva, Giuseppe, 502 Levi Della Vida, Giorgio, 364n., 580n., 582n., 586n., 638n. Levi, Alessandro, 662n. Levi, Carlo, 619 Levi, Fabio, 639n. Levi, Mario Attilio, 243n., 475 Lewis, Paul H., 564n. Lhéritier, Michel, 414, 415, 416, 516 n. Licitra, Carmelo, 390n., 274 e n., 275n., 276-277 Linz, Juan J., 446n., 447n. Liucci, Raffaele, 628n., 665n., 685n. Lloyd George, David, 310 Loisy, Alfred Firmin, 104n. Lojacono, Luigi, 467n. Lolini, Ettore, 283 Lombardo Radice, Giuseppe, 31, 139n., 208-209, 218, 236, 274n., 322, 341, 360, 463n. Longanesi, Leo, 685 Longo, Gisella, 346n., 580n. Loria, Achille, 43-44 e n., 45, 47-48 e n., 51, 68 e n., 72 e n., 73, 98 Lorusso Caputi, Andrea, 615 Löwith, Karl, 509n. Lucciana, Pietro, 406 Luchaire, Lucien, 181 e n. Lucifero, Alfredo, 518n. Lucifero, Falcone, 621n. Ludwig, Emil, 481 e n. Luigi XV, 405
Luigi di Savoia (Duca degli Abruzzi), 573 Lupi, Dario, 399n. Lupo, Salvatore, 256n., 446n., 686n. Lussu, Emilio, 517n. Luzzatti, Luigi, 247n. Luzzatto, Gino, 49n., 87, 90, 150n., 268 e n., 302, 318 e n., 359, 502, 517 e n., 626, 627 Mac Mahon, Patrice Maurice, 368 Machiavelli, Nicolò, 103n., 269, 509n. Mack Smith, Denis, 715 e n., 716 e n., 717 Maffi, Maffio, 152 Maffi, Mario, 410n., 417n., 456n. Malagodi, Giovanni Francesco, 700 Malaparte, Curzio, 455n., 458 e n. Manacorda, Gastone, 730 e n. Manacorda, Giuseppe, 31 Manacorda, Guido, 695 Mancini, Donata, 712n. Manfroni, Camillo, 119-120 Mangoni, Luisa, 17n., 447n., 544n., 634n. Mannetti Piccinni, Annamaria, 197n. Manselli, Raoul, 641n. Manunta, Ugo, 691 Manzoni, Alessandro, 23 e n., 461 Maranini, Giuseppe, 639 Maraviglia, Maurizio, 151n., 152n., 393 e n. Marchese, Vittorio, 615 Marchesi, Concetto, 601n., 619 e n. Marchione, Margherita, 105n., 107n., 148n. Mariani, Lucio, 236 Marin, Serban, 129n. Marinelli, Giovanni, 486 e n., 507, 508n. Marinetti, Filippo Tommaso, 240, 242 e n., 293, 468, 469 e n., 565-568 e n. Maritano, Mario, 567n. Marongiu, Antonio, 410n. Marsilio da Padova, 562 Martinetti, Piero, 95, 106, 519 Martini, Carlo, 106n. Martini, Ferdinando, 426 Martirano, Maurizio, 42n. Martire, Egilberto, 651
INDICE DEI NOMI
Marx, Karl, 36 e n., 38, 39n., 41, 44-45 e n., 47, 49, 68n., 431, 458, 497 Marzotto, Gaetano, 660, 661 Mastellone, Salvo, 181n. Matteotti, Giacomo, 358, 359n., 364 Mattesini, Francesco, 34n. Mattioli, Raffaele, 20n. Maturi, Walter, 64n., 67n., 79n., 475, 477 e n., 495n., 511, 577n., 591 e n., 608-610 e n., 626, 627 e n., 637, 644n., 669, 673, 675 e n., 676, 687n., 724 Mauri, Raffaele, 539 e n. Maurras, Charles, 155 Maxia, Antonio, 634n. Mazzini, Giuseppe, 271, 275, 370, 467, 497, 510n., 544n., 628 e n., 629, 691n. Mazzoni, Guido, 15, 87, 97, 115 Medici del Vascello, Giacomo, 287 Melis, Guido, 615n. Melograni, Piero, 198n., 210n., 220n., 263n., 487n., 517n. Mercadante, Francesco, 580n. Merola, Alberto, 178n. Merolla, Marilisa, 718n. Messe, Giovanni, generale, 698, 701, 718 Messedaglia, Angelo, 334 Mezzadra, Sandro, 57n. Mezzasoma, Fernando, 603, 604n., 605n. Miccoli, Giovanni, 729 e n. Michel, Ersilio, 410 e n., 411 e n., 541 Michelet, Jules, 7, 21n. Micheli, Giuseppe, 411n. Michelini, Arturo, 699, 700 Michelini, Luca, 281n. Michels, Roberto, 107, 144n., 201 Michelsaedter, Carlo, 133n. Miglio, Gianfranco, 249n. Migliorini, Elio, 562n. Millozzi, Alessandra, 322n. Minghetti, Marco, 321e n. Minocchi, Salvatore, 107n. Miozzi, Umberto Massimo, 194n., 408n. Mira, Giovanni, 80n., 95n., 122n., 164n., 168n., 215 e n., 363 e n. Mirri, Mario, 731n., 732
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Missiroli, Mario, 111 e n., 154 e n., 273 e n., 475, 526 e n., 652 e n., 653n., 660, 661, 685, 694 e n., 720, 721 e n. Mola, Aldo Alessandro, 17n. Molé, Enrico, 616n. Molinelli, Raffaele, 157n. Momigliano, Armando, 475, 732n. Momigliano, Felice, 107 Mommsen, Christian Matthias Theodor, 466n. Mondaini, Gennaro, 71n. Mondolfo, Rodolfo, 318 Mondolfo, Ugo Guido, 110n., 269, 595 e n. Monneret de Villard, Ugo, 152, 302, 359 Montaigne, Michel Eyquem de, 575 Montalto, Francesco, 602n. Montanari, Fausto, 718n. Montanelli, Indro, 628n., 653n., 665, 685 e n., 719-721 e n. Montenegro, Angelo, 562n., 563n. Montgomery, Bernard Law, 568 Monti, Attilio, 257 e n. Monti, Augusto, 300 e n., 500 Monticolo, Giovanni, 84, 87 Monzali, Luciano, 230n. Mor, Carlo Guido, 27n. Morandi, Carlo, 136n., 291n., 401, 418-421 e n., 477n., 495n., 511, 517n., 536n., 537 e n., 544, 558 e n., 559 e n., 562, 577n., 590, 591, 606n., 607, 626, 637, 638, 640, 644n., 652 e n., 678 e n., 683, 717n., 724 e n., 728, 729 e n. Morelli, Emilia, 499n. Moretti, Mauro, 22n., 33n., 45n., 52n., 54n., 59n. Morghen, Raffaello, 104n., 517n., 581583 e n., 585-592 e n., 614, 615, 627, 640 e n., 641 Mori, Bianca, 11 Mortati, Costantino, 718n. Mosca, Gaetano, 78, 98-99, 277 e n., 334n., 338, 376 e n., 392 e n., 594 Moscati, Ruggero, 315n., 411 e n., 669, 677n., 725 Mosillo, Luigi, 697 Mosse, George L., 137n., 169n.
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INDICE DEI NOMI
Mughini, Giampiero, 471n. Muratori, Ludovico Antonio, 466n. Murialdi, Paolo, 628n. Murri, Romolo, 111, 268 Musi, Aurelio, 8 Mussolini, Alessandro, 498 e n., 499 Mussolini, Arnaldo, 454n. Mussolini, Benito, 8, 81n., 94 e n., 137n., 151n., 157n., 163n., 204n., 218n., 229-230 e n., 233, 239-240 e n., 245 e n., 252-255 e n., 256, 258, 266n., 274, 276n., 277, 281282 e n., 287n., 293 e n., 294, 295296n., 297, 300-301, 305 e n., 306n., 310 e n., 315 e n., 319n., 336-337, 339 e n., 341-343, 344n., 345, 346 e n., 347, 348 e n., 349, 351 e n., 354, 355n., 357, 358-359 e n., 362, 364-365 e n., 366-370 e n., 378n., 379n., 381 e n., 384-386, 388, 390, 393 e n., 395, 397, 398, 400, 401, 407-410 e n., 412, 414n., 415n., 418, 426, 429, 430n., 433, 435, 436, 441-443 e n., 446, 449, 451 e n., 453, 454 e n., 464, 466, 467, 470-474 e n., 477-481 e n., 483-493 e n., 495-498 e n., 500 e n., 502 e n., 506, 507, 509-514 e n., 519 e n., 520n., 523-527 e n., 530, 531, 534, 537, 540-543n., 547 e n., 549 e n., 551, 567n., 570, 574-577 e n., 581n., 591-593, 596, 601-603 e n., 605 e n., 608 e n., 615, 632, 633, 639, 658, 659, 662, 663, 667670, 672, 688, 689, 693, 694, 699, 705 Mussolini, Vito, 521-523 e n. Mustè, Marcello, 360n. Muti, Ettore, 542 Nabholz, Hans, 656n. Natale, Gaetano, 726 Natali, Giulio, 562n. Natoli, Claudio, 730n. Navarria, Aurelio, 628 e n., 629 Neglie, Pietro, 690n. Negri, Antimo, 125n. Negri, Paolo, 302, 359 Nello, Paolo, 158n., 349n., 418n., 446n., 608n.
Nenni, Pietro, 647 Neumann, Karl, 27 e n., 69 e n. Neumeyer, Karl, 27n. Nicholls, Anthony, 137n. Nicola, Angelo, 406n. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 124 e n. Nitti, Francesco Saverio, 441, 471, 471, 488n. Novati, Francesco, 15, 80 e n., 82 e n., 83, 84-85 e n., 87, 88n., 91-94 e n., 95n., 102n., 109n., 110 e n., 119, 193 Oberdan, Guglielmo, 15, 18n. Oberziner, Giovanni, 83n. Occhini, Barna, 691, 694 Ojetti, Ugo, 204 e n., 209n., 229n., 241n., 248 e n., 339-340n., 468 e n., 489n. Oliverio, Gaspare, 586, 588 Olivetti, Angelo Oliviero, 369, 380, 657n. Omero, 7 Omnis Rosa, Pia, 437n. Omodeo, Adolfo, 124-125 e n., 138, 139n., 248 e n., 262 e n., 271, 274n., 302, 341, 359-360 e n., 474, 594n., 619, 624, 625, 633, 636 e n., 687 e n., 723, 727 Operti, Piero, 603n., 655n., 657 e n., 692, 699n. Oppo, Cipriano Efisio, 701 Oriani, Alfredo, 34n., 78-79 e n., 136n., 166n., 173n., 467 e n. Orlando, Vittorio Emanuele, 185 e n., 205, 244, 245n., 263 e n., 338-339, 346, 350, 572n., 618, 619n., 621 e n. Ortona, Egidio, 549n. Orvieto, Adolfo, 236 e n. Ottokar, Nicola, 61 e n., 62n., 63, 64n., 459, 460 e n., 582n. Oviglio, Aldo Giuseppe, 364 Pacciardi, Randolfo, 610, 696 Pace, Biagio, 589, 590, 614n., 637, 639, 691 Pagani, Bruno, 574n. Pagliari, Fausto, 111n. Pagliaro, Antonino, 430 e n., 431n.,
INDICE DEI NOMI
528-530 e n., 544n., 582 e n., 583n., 587, 588, 590, 614n., 640 e n., 691 Pais, Ettore, 35, 36n. Palamenghi Crispi, Francesco, 656 Pallottino, Massimo, 711 Palmarocchi, Roberto, 267n. Palmieri, Stefano, 259n. Panizzi, Antonio, 478n. Pannunzio Mario, 659, 666 Pansa, Giampaolo, 622n., 685n. Pantaleoni, Maffeo, 98, 281 Panunzio, Sergio, 268, 614n., 639, 657n. Panunzio, Vito, 603n., 657n., 700n. Panzini, Alfredo, 484 Paoli, Pasquale, 405, 411n., 413 Papa, Catia, 152n. Papa, Emilio R., 44n., 360n. Papadia, Elena, 175n. Papafava, Francesco, 86n. Papafava, Novello, 488n. Papini, Giovanni, 94n., 106n., 107, 144 e n., 149 e n., 563 e n., 587 e n., 643 e n., 644n., 660, 661, 680 e n., 691, 694 e n., 699n. Paratore, Emanuele, 639n. Paratore, Ettore, 711 e n. Pardini, Giuseppe, 458n. Parente, Fausto, 638n. Parenti, Marino, 644n., 648-651 e n., 661 e n., 684n. Pareto, Wilfredo, 73, 77 e n., 78, 98 Paribeni, Roberto, 515 Parini, Giuseppe, 31 e n. Parini, Piero, 406n., 408 e n., 479n. Parlato, Giuseppe, 144n., 157n., 440n., 643n., 656n., 681n., 687n., 690n., 691n., 694n. Parodi, Ernesto Giacomo, 168n. Parri, Ferruccio, 158n., 683 Parri, Pietro, 618n., 624, 636, 647, 682, 686 Paschini, Pio, 581n. Pasquale, Anna, 181n. Pasquini, Lucia, 322n. Pastorelli, Pietro, 234n., 245n., 402n., 429n. Patarozzi, Gaetano, 567 e n. Pavan, Ilaria, 519n.
745
Pavelic, Ante, 569, 570, 571 Pavolini, Alessandro, 551n., 552 e n., 554n. Pavone, Claudio, 622n., 718n. Pecchiai, Pio, 411n. Pecorari, Paolo, 247n. Pedio, Alessia, 529n. Pedrazzi, Orazio, 406n. Pedullà, Gianfranco, 477n. Pellizzi, Camillo, 133 e n., 338, 339n., 345n., 350-351 e n., 365 e n., 408n., 414n., 471 e n., 523 e n., 528 e n., 578, 579, 691 Pentimalli, Giuseppe, 79 Pepe, Gabriele, 675, 676 e n., 677 Pepe, Mario, 632, 633 Peretti Griva, Riccardo, 636 Perfetti, Francesco, 8, 15n., 135n., 143n., 144n., 148n., 151n., 166n., 167n., 256n., 258-259n., 297n., 379n., 451n., 468n., 481n., 543n., 572n., 580n., 595n., 602n., 618n., 636n., 648n., 689n., 728n. Pericle, 234 Pertici, Roberto, 259n., 365n., 366n., 685n. Perticone, Giacomo, 437n. Pescosolido, Guido, 8, 649n., 715n. Petacco, Arrigo, 542n. Petraglione, Giuseppe, 618n. Petronio, Franco, 696n. Pettazzoni, Raffaele, 515, 589 Pettinato, Concetto, 152, 656, 691, 697 e n., 698 Picciòla, Giuseppe, 15 -16e n., 17-18, 29 Pierandrei, Franco, 558n. Pieri, Piero, 474n., 475, 479n., 517n. Pietrangeli (onorevole), 412 Pilotti, Massimo, 625 Pinardi, Davide, 269n. Pincherle, Alberto, 640n. Pini, Giorgio, 521 e n., 522, 525, 691 Pinto, Giuliano, 61n., 673n. Pintor, Fortunato, 31 e n., 64, 66 e n., 71n., 85, 86n., 100n., 110 e n., 194n., 207, 208n., 218 e n., 249n., 270, 304n., 322n., 342n., 361 e n., 593n., 595n., 601n., 607 e n., 621 Pintor, Giaime, 607
746
INDICE DEI NOMI
Pintor, Luigi, 304 Pintor, Pietro, 405, 433n., 434n., 543 e n., 592, 595, Pisacane, Carlo, 436, 437n., 497, 506n. Pippidi, Andrei, 130n. Pirelli, Alberto, 549n., 563n., 575n., 675 Pirenne, Henri, 128 Pirro, Vincenzo, 529n. Pisa, Beatrice, 15n. Pisacane, Carlo, 271, 436, 437n., 497, 498, 506n., 688, 709n. Pischedda, Carlo, 230n. Pizzabiocca, Giuseppe, 278n. Placci, Carlo, 90n., 103n., 113 e n. Platone, 104 Poggi, Giuseppe, 680 Polese Remaggi, Luca, 158n., 683n. Poletti, Charles, 618n. Polibio, 466n. Policastro, Guglielmo, 254n. Porciani, Ilaria, 20n. Porro, Eliseo, 235, 240 Portinaro, Pier Paolo, 561n., 617n. Porzio, Guido, 193n. Praga, Marco, 240n. Prampolini, Enrico, 567n. Prato, Giovanni, 122 Prato, Giuseppe, 75-76 e n., 121n., 283, 302 Pratolini, Vasco, 660 Prezzolini, Giuseppe, 7, 60 e n., 79n., 94 e n., 104-105n., 107, 108n., 112-115 e n., 118n., 121, 144 e n., 146-150 e n., 151-152n., 195 e n., 196, 197n., 198, 199-201 e n., 204 e n., 208, 209-210n., 215, 230n., 252n., 263, 264-266 e n., 268, 269n., 413 e n., 464, 465n., 627 e n., 647n., 651n., 655, 656n., 676n., 694, 722-724 e n. Primieri, Clemente, 718n. Primo de Rivera, Miguel, 447n. Procacci, Giuliano, 136n. Prosperi, Giorgio, 698 Pucci, Enrico (monsignore), 651 Pugliese, Salvatore, 76 e n. Puglionisi, Carmelo, 662n. Pullé, Francesco Lorenzo, 33, 269n. Pullè, Giorgio, 562n.
Puntoni, Paolo, 689n. Quagliariello, Gaetano, 152n., 615n. Quaritsch, Helmut, 617n., 631n. Quilici, Folco, 519n. Quilici, Nello, 152 e n., 430n., 519n. Quintavalle, Ferruccio, 269 Quirielle, Pierre de, 191n. Ragionieri, Ernesto, 678 e n., 727-731 e n. Rainero, Romain H., 136n. Rainieri Biscia, Giuseppe, 562n. Ranieri, Umberto, 398 e n., 399 Ranke, Leopold, 57, 138 e n., 139, 432 Rasi, Gaetano, 450n. Raulich, Italo, 122n. Rava, Luigi, 100, 499 Reale, Eugenio, 639 Rebora, Clemente, 106 e n. Rebora, Pietro, 476 e n., 477n. Redenti, Enrico, 195n. Renier, Rodolfo, 97 Renzi, Antonio, 614n. Riccardi, Andrea, 684n. Ricchieri, Giuseppe, 269 Ricci, Berto, 467, 719n. Ricci, Renato, 697 Ricci, Umberto, 97, 138 e n., 281 e n., 282, 283, 286 e n., 287n., 290n., 337-338 Richter, Mario, 197n. Ricuperati, Giuseppe, 502n. Rigyer, Maria, 236 Rinaudo, Costanzo, 502 Rinieri, Ilario, 409n. Riosa, Alceo, 111n., 145n., 732 e n. Rispoli, Rosalia, 536n. Rivera, Vincenzo, 618n., 627n. Rivières, Jacques, 287 Rizzini, Ottone, 712n. Rizzo, Guido Emanuele, 619n. Rizzo, Maria Marcella, 145n. Robespierre Maximilien, 497 Rocca, Massimo, 281-282 e n., 295, 296 e n., 348, 349 e n., 350-351, 354, 373, 375 Rocco, Alfredo, 143n., 157 e n., 159 e n., 177 e n., 259 e n., 260, 263 e n., 282, 287, 338, 369, 372 e n., 379,
INDICE DEI NOMI
380, 388 e n., 390 e n., 391n., 434n., 436-438 e n. Roccucci, Adriano, 144n., 158n., 251n., 283n. Rodinò, Giulio, 488n. Rodogno, Davide, 433n. Rodolico, Niccolò, 73n., 83, 90, 93, 204n., 269, 534n., 590, 591n., 607, 626 e n., 643, 651n., 661n., 662n., 664n., 667n., 680n., 681n., 690, 699n., 719n., 722 e n. Rodotà, Stefano, 634n. Roghi, Vanessa, 639n. Rolando, Antonio, 80 e n., 82-83 Romagnani, Gian Paolo, 617n. Romagnosi, Gian Domenico, 106n. Romano, Aldo, 437n., 505-507 e n., 639, 640n., 725 Romano, Angelo, 147n. Romano, Giacinto, 57n., 83n., 84, 90, 119-120, 268-269 Romano, Santi, 369 Romano, Sergio, 14n., 342n., 452n., 545n. Romeo, Rosario, 161n., 649n., 677n., 678n., 709 e n., 715 e n., 717, 725, 726n., 731n. Romualdi, Pino, 680, 681, 692, 693 Rondi, Gianluigi, 698 Roosvelt, Franklin Delano, 554, 556 Rosada, Maria Grazia, 269n. Rosazza, Mario, 158n. Rosselli, Amelia, 663 e n. Rosselli, Carlo, 492, 661-664 e n. Rosselli, John, 494n. Rosselli, Marion, 663 e n. Rosselli, Nello, 411 e n., 418, 437n., 489, 492-498 e n., 506, 627n., 661664 e n., 675 Rosselli, Sabatino, 495n. Rossetti, Gabriella, 60n. Rossi, Agostino, 83 Rossi, Ernesto, 610n., 611n., 616n., 638n., 661n., 662n., 665 e n., 666 e n., 668-671 e n., 673, 674 e n., 681 e n. Rossi, L., 496n., 545n., 576n., 594 Rossi, Vittorio, 581n. Rossini, Daniela, 234n. Rossini, Giuseppe, 50n.
747
Rossoni, Edmondo, 369, 379, 380 Rota, Ettore, 193n., 268-269, 287, 302, 334n., 359, 514 e n., 517n., 536n. Rotari, 34 Rousseau, Jean-Jacques, 536 Ruffini, Francesco, 106, 301, 376, 478n. Ruffo, Fabrizio, 618 Ruinas, Stanis, 656 Ruini, Meuccio, 640 Rumi, Giorgio, 305n. Ruschi, Rinaldo, 33n. Rusconi, Gian Enrico, 133n. Russo, Luigi, 474, 580, 594 e n., 615n., 616, 703 e n., 723, 727 Russo, Rosario, 409n., 495n. Russo, Vincenzio, 436 Sabbatucci, Giovanni, 137n., 166n. Saffi, Aurelio, 16 e n., 478n. Saitta, Armando, 136n. Saitta, Giuseppe, 455, 727, 728 Salandra, Antonio, 137n., 145n., 155n., 159n., 160, 162 e n., 175n., 176, 185 e n., 188-190, 192n., 205, 337339, 346, 364n., 383, 385, 489n., 490 Salaris, Claudia, 242n. Salata, Francesco, 339 e n., 340n., 499, 515n., 536n., 563n. Salazar de Oliveira, Antonio, 564, 704, 705 Salinari, Carlo, 660 e n., 661, 671, 673n. Salomone, William, 726 Salvadori, Massimo L., 724n. Salvatorelli, Luigi, 135n., 256-258 e n., 318, 479, 480n., 502, 615, 620, 621, 624, 625, 633 e n., 644 e n., 656n., 676, 686 e n., 718n. Salvemini, Gaetano, 7, 36 e n., 42n., 45-48 e n., 54-55 e n., 60-63, 71 e n., 72, 74 e n., 77n., 82-83, 84-92 e n., 100-101 e n., 103n., 107 e n., 110n., 111 e n., 112-114 e n., 115n., 118-119 e n., 122, 146 e n., 150n., 153, 156, 159n., 177-178 e n., 181n., 194n., 204, 205n., 225 e n., 230 e n., 233, 240n., 245 e n., 246n., 252n., 258 e n., 268 e n., 269, 288 e n., 302, 310 e n., 315 e
748
INDICE DEI NOMI
n., 318 e n., 355, 366 e n., 391 e n., 392, 434n., 435 e n., 453 e n., 460, 462, 464 e n., 480, 488n., 489 e n., 594, 610 e n., 611 e n., 615-617 e n., 638 e n., 641, 642n., 661-668 e n., 670, 675, 681 e n., 713, 723, 724, 726 Salvioni, Carlo, 95, 168n. Salza Abd-el-Kader, Nino, 31 Sandirocco, Maria, 118n. Sani, Roberto, 620n. Santomassimo, Gianpasquale, 379n., 434n., 442n., 443n., 544n. Sapegno, Natalino, 502, 580, 581n., 640 Saragat, Giuseppe, 722 Sardi, Alessandro, 603n., 689n. Sarfatti, Michele, 639n. Sarpi, Paolo, 269 Sartorio, Giulio Aristide, 469 Sasso, Gennaro, 247n., 360n., 403n., 596n., 732n. Savelli, Ninetta, 536n. Savonarola, Girolamo, 23n., 111n. Savorgnan, Rodolfo Franco, 614n. Scalfati, Iginio, 499 Scalia, Eugene, 105n., 107n., 148n. Scarfoglio, Edoardo, 67, 436, 484 Scazzola, Andrea, 110n., 126n. Scelba, Mario, 695, 696 Schiaffini, Alfredo, 589, 590, 614n., 639 Schiapparelli, Luigi, 119-120 Schiera, Pierangelo, 20n., 249n. Schinetti, Pio, 321n., 459 e n. Schipa, Michelangelo, 80 e n. Schleier, Hans, 516n. Schmidinger, Heinrich, 27n. Schmitt, Carl, 249 e n., 527 e n., 558 e n., 631 e n Schmoller, Gustav, 64 Schucht, Tania, 68n. Scialoja, Antonio, 614n., 639 Scoccimarro, Mauro, 636 Scorza, Carlo, 512n., 572, 573 e n. Scuccimarra, Luca, 138n. Sebastiani, Osvaldo, 408n., 499n., 508n., 514, 519n., 537n., 542n. Sedita, Giovanni, 505n. Segre, Corrado, 85
Seligman, Edwin Robert Anderson, 98 Senise, Carmine, 422n., 597 e n. Serena, Adelchi, 550-552 e n. Serpieri Volpe, Elisa, 81, 84n., 87n., 89-91n., 140n., 150n., 177n., 199n., 204n., 206n., 210n., 214n., 229n., 235n., 241-243n., 302n., 319n., 336-337n., 355n., 358n., 365n., 366n., 369n., 381n., 384n., 399n., 400n., 457n., 481n., 491n., 519n., 543n., 545n., 549n., 559n., 579n., 591, 601, 602n., 606n., 608n., 610n., 611n., 613-615n., 621n., 683n. Serpieri, Arrigo, 11, 81 e n., 345 e n., 358, 487, 488n., 680 e n., 697, 699n., 701, 702 Serpieri, Maria, 64 Serra, Renato, 133n. Serri, Mirella, 643n., 724n. Servello, Franco, 656 Serveto, Michele, 105 e n. Sestan, Ernesto, 20n., 28n., 46n., 61n., 315n., 391n., 401, 420n., 475, 502 e n., 511, 517 e n., 558 e n., 575 e n., 578 e n., 582n., 585, 587n., 607 e n., 610n., 621, 622 e n., 626, 627, 641, 642n., 669, 673-680 e n., 687, 688n., 711 e n., 722n., 724 Setta, Sandro, 633n., 683n., 684n. Severi, Francesco, 113n., 614n. Severi, Leonardo, 593-595 e n., 614, 615n. Sforza, Carlo, 187n., 253n., 471, 610 Sieyès, Emmanuel-Joseph, 626 Sighele, Gualtiero, 168n. Sighele, Scipio, 15, 166-168 e n. Silva, Pietro, 122 e n., 156 e n., 159n., 178n., 268 e n. Silvestri, Carlo, 657 e n. Simoncelli, Paolo, 8, 452n., 513n., 545n., 554n., 575n., 581n., 595n., 627n. Simonetti, Mario, 122n., 209n. Sironi, Mario, 478 e n. Sismondi, Jean Charles Léonard Simonde de, 22 e n., 24 e n. Sisto V, 472 Sisto di Borbone, 221n Slataper, Guido, 265n.
INDICE DEI NOMI
Slataper, Scipio, 149n., 152 Smith, Adam, 73 Smith, Leonard V., 223n. Sobiescky, Giovanni III, 220 Socrate, 234 Soffici, Ardengo, 196-197 e n., 204 e n., 208, 218 e n., 264, 427n., 458n., 543 e n., 544 e n., 552n., 563 e n., 691, 694 e n., 695, 697 e n. Sofri, Gianni, 115n., 152n., 252n. Solmi, Arrigo, 59, 90, 135n., 145n., 152, 158, 160, 164, 178 e n., 193n., 228n., 236, 250 e n., 251, 268-269, 270n., 282, 292, 334 e n., 349n., 362, 371, 398 e n., 406n., 408, 525 e n., 563n., 628 Sombart, Werner, 57, 96, 128 Somma, Alessandro, 528n. Sonnino, Sidney, 176n., 188-189, 205, 229 e n., 245n. Spadolini, Giovanni, 694, 731n. Spadoni, Domenico, 409n., 537n. Spaventa, Silvio, 145n., 154n., 276, 279, 299 Spellanzon, Cesare, 628n., 650, 651 e n. Spicciani, Amleto, 44n., 50n., 72n. Spini, Giorgio, 731 Spinoza, Baruch, 140n. Spirito, Ugo, 450 e n., 471n., 475, 482, 491n., 542n., 545 e n., 577, 614n., 639 e n., 647 Sprega, Annibale, 236 Stampacchia, Mauro, 81n. Starace, Achille, 474, 569n., 658 Stefanini, Giuseppe, 201 Sturzo, Luigi, 471 Suckert, Curzio (Malaparte), 458n. Sulis, Edgardo, 467n. Susmel, Duilio, 306n. Susmel, Edoardo, 163n., 229n., 306n. Suvich, Fulvio, 369 Sybel, Heinrich, 458 Tabacco, Giovanni, 22-23n., 27n. Tacito, 7, 466n. Tagliacozzo, Enzo, 85n., 100n., 159n., 318n. Talamo, Giuseppe, 499n. Tamaro, Attilio, 168n., 170 e n., 252n.
749
Tambroni, Fernando, 701 Tammasia, Nino, 59 Tangheroni, Marco, 34n., 725 Tanucci, Bernardo,702 Tarabini, Alessandro, 568 Tarozzi, Giuseppe, 97 Tartara, Alessandro, 33 Tasca, Angelo, 300n., 522n. Tassani, Giovanni, 656n. Tassinari, Giuseppe, 528, 529n. Tasso, Torquato, 29-30 Taylor, Alan John Percivale, 496 Tedesco, Luca, 145n. Tencajoli, Oreste Ferdinando, 170 Tessitore, Fulvio, 580n. Thierry, Augustin, 22 e n. Thiers, Adolphe, 368 Thilgher, Adriano, 466 e n. Theseider Dupré, Eugenio, 104n. Tibal, André, 411n. Tilgher, Adriano, 546 e n. Tito (Josip Broz), 603n., 623 Tocco, Felice, 108n. Toffanin, Giuseppe, 660 Togliatti, Palmiro, 365, 610, 619 e n., 632, 638-640 e n., 648 e n., 681, 682, 687n. Tognon, Giuseppe, 322n. Tolstoj, Lev Nikolaevic, 156 Tomassini, Stefano, 408n. Tomeucci, Luigi, 717n. Tomi, Raluca, 129n. Tonelli, Giovanni, 656. 657 e n., 690 Toniolo, Giuseppe, 50 e n., 110 Torre, Angelo, 40n., 95n., 150n., 311n. Torre, Augusto (deputato), 383, 467n., 562n., 577n., 650n., 653n. Tortarolo, Edoardo, 617n., 670n. Totaro, Pierluigi, 684 Tranfaglia, Nicola, 477n., 439n., 724n. Trasselli, Carmelo, 409n., 411n. Traversi, Antonio, 17n. Treccani, Giovanni, 513n. Treitschke, Heinrich, 137n., 139, 458, 462 Treves (editore), 236 Tripodi, Nino,701 Trompeo, Pietro Paolo, 586 Trotsky, Lev, 290n. Truffi, Riccardo, 426n.
750
INDICE DEI NOMI
Trumbic!, Ante, 228, 252n. Tucci, Giuseppe, 515, 589, 614n., 639 Tucidide, 211 e n. Tur, Vittorio, 711n. Turati, Augusto, 366, 401, 457n., 483 Turati, Filippo, 87n., 111n., 143 Turi, Gabriele, 14n., 100n., 342n., 344n., 452n., 477n., 554n. Turlea, Petre, 130n. Tyrrell, George, 104n. Ullrich, Hartmut, 137n., 139n., 292n. Umberto di Savoia, 690n. Ungaretti, Giuseppe, 532, 614n. Ussani, Vincenzo, 415 Uva, Bruno, 380n. Vacca, Giovanni, 589 Vaccarino, Giorgio, 651n., 670n. Vale, Giuseppe, 581n. Valentini, Isabella, 135n. Valeri, Nino, 178n., 266n. Valery, Paul, 186n. Valiani, Leo, 221n., 228-229n., 234n., 669, 670n., 709 e n., 731 e n. Valla, Lorenzo, 126n. Vallardi (editore), 217, 269 Vallini, Alberto, 444n. Valori, Aldo, 488n. Valota Cavallotti, Bianca, 129n. Valsecchi, Franco, 637, 669, 673, 690, 694, 725 Vanderlip, Frank, 143 Vanni, Ettore, 236 Vannutelli Rey, L., 558n. Vassalli, Giuliano, 390n. Venezian, Giacomo, 15 Ventrone, Angelo, 137-138n., 240n. Venturi, Adolfo, 236 Venturi, Franco, 412n., 413n., 640n., 670n., 709 e n. Venturi, Lionello, 152, 283, 502 Venturini, Luigi, 406n. Verga, Marcello, 417n., 732n. Vergani, Orio, 628n. Verri, Pietro, 536 Vian, Paolo, 642n. Vidari, Giovanni, 97 Vidau, Giuseppe, 614n. Vigezzi, Brunello, 136-137n., 144n.,
155n., 158-159n., 175n., 274n., 574n. Vignoli, Giulio, 570n. Vigorelli, Giancarlo, 105n. Villari, Pasquale, 22-24 e n., 34n., 4143 e n., 45-47 e n., 52-54 e n., 56 e n., 57n., 58, 59n., 65-66 e n., 70n., 85n., 88, 89n., 92 e n., 97 e n., 149n., 334, 371, 502 Villari, Rosario, 732 e n. Villeli, Gennaro, 436 Vinciguerra, Mario, 17n., 620 e n. Violante, Cinzio, 15n., 19n., 25n., 28n., 32-34n., 50n., 56n., 103-104n., 725 Visciola, Simone, 497n. Visconti di Modrone, Guido Carlo, 240n. Visconti Venosta, Emilio, 548, 559n. Visconti, Gian Galeazzo, 467 Visentin, Aneglo, 235n. Vitelli, Girolamo, 115 Vitetti, Leonardo, 302, 421, 422n. Vittoria, Albertina, 443n., 477n., 730n. Vittorio Emanuele III, 297, 356, 428, 448, 450 e n., 451, 553, 570, 575, 603, 689 e n., 690, 697, 719, 727 Vivanti, Corrado, 729n. Vivarelli, R.oberto, 137n., 178n., 233n., 240n., 243n., 245n., 247n., 266n., 281n., 293n., 674n. Voci, Anna Maria, 56n. Volpe, Arrigo, 213 e n., 337n. Volpe, Edoarda, 337n. Volpe, Giacomo, 11, 13-14 Volpe, Giovanni, 11 e n., 337n., 345n., 355n., 608n., 613 Volpe, Saverio, 12 Volpe, Simonetta, 337n. Volpe, Vittorio, 35n., 337n., 511n., 514n., 575n., 596, 606, 613 e n. Volpicelli, Arnaldo, 475, 491n., 614 e n., 639 Volpicelli, Luigi, 614n., 677n., 691, 725 Ward, Stephan R., 240n. Wilson, Thomas Woodrow, 229n., 234n., 238 e n., 244, 247n., 248 e n., 249n. Winzen, Peter, 137n.
INDICE DEI NOMI
Wohl, Robert, 137n. Zabughin, Vladiro, 236 Zaghi, Carlo, 562 e n., 645n., 668n., 669n., 727, 728n. Zambarbieri, Annibale, 108n. Zangheri, Renato, 729, 730n., 732
751
Zanichelli (editore), 270-271, 316, 359 Zanoni, Luigi, 60n. Zaslavasky, Victor, 615n. Zavattari, Edoardo, 614n. Zuco, Carlo Marino, 614n. Zunino, Pier Giorgio, 64n., 686n., 694n.
INDICE Premessa ................................................................................... p.
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I. GLI ANNI DELL’ATTESA 1. Nascita di uno storico ...................................................... » 11 2. Passato e presente ............................................................ » 67 3. Spiriti della vigilia ............................................................ » 135 II. GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO 1. Il filo della spada .............................................................. » 181 2. Dopo la vittoria ................................................................ » 233 3. Il vario liberalismo italiano .............................................. » 273 III. DENTRO LA DITTATURA 1. La parte della politica ...................................................... » 315 2. Fedele ma non allineato ................................................... » 401 3. Venti di guerra e di catastrofe ......................................... » 521 IV. STRANIERO IN PATRIA 1. Vincitori e vinti ................................................................ » 601 2. Il passato che non passa ................................................... » 643 3. Un’operosa vecchiaia ....................................................... » 709 Indice dei nomi ......................................................................... » 733