Storia e politica della salute 8820467763


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Storia e politica della salute
 8820467763

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Giovanni

Berlinguer .

Storis e politica

della salute

91 Tool.

FrancoAngeli

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https://archive.org/details/storiaepoliticad0000berl

Giovanni Berlinguer

Storia e

politica della salute

FrancoAngeli

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I lettori che desiderano essere regolarmente informati sulle novità pubblicate dalla nostra Casa Editrice possono scrivere, mandando il loro indirizzo, alla ‘‘Franco Angeli, Viale Monza 106, 20127 Milano”, ordinando poi i volumi direttamente alla loro Libreria.

Indice

Presentazione Introduzione

i;

Un istituto invecchiato La medicina e la cultura 3. Due scotomi sinergici 4. Due eccezioni: Sigerist e Zinsser 5 Gli storici scoprono le malattie 6. Il Ciso e la demografia storica dl Un'emarginazione finita, un'altra aggravata 8 Lo studio di una malattia Hi Lo studio della cultura e delle professioni 1 0. Lo studio dell'organizzazione sanitaria Parte I - Lavoro e salute

Danni e vantaggi delle tecniche Storicità delle malattie Le influenze tra lavoro e salute Metodologie ed esempi Lo spossessamento del corpo L'opera e il metodo di Ramazzini Crisi e sviluppo della medicina del lavoro Gli orientamenti in Italia Il contributo del movimento operaio

Patologia del lavoro e movimento operaio Il genocidio pacifico I fattori di salubrità fra il XIX e il XX secolo

a)

Il diritto alla sopravvivenza La salute dei lavoratori nel Welfare State I rapporti col «Terzo mondo» Nuove tendenze . Maternità, infanzia e lavoro femminile nel Sud

I vantaggi del Sud L'inversione di tendenza L'influenza del lavoro femminile sulla salute DUsaL WNrw materna e infantile La Patria in pericolo Le leggi ignorate Il lavoro indesiderato Il lavoro è prevenzione, la disoccupazione è rischio FIR

Parte II - Uomini e parassiti . Angelo Celli Introduzione Gli studi sulla malaria

Malaria e feudalesimo agrario Lo studio e l'azione

L'avamposto della Cervelletta Il chinino in Parlamento La malaria decresce Conclusioni

. Malaria ed emigrazione in Sardegna Homo sardus La salute dopo l'eradicazione Demografia ed economia Il paradosso migratorio Il circolo vizioso dell'Oms Più globuli, più iniziativa Conclusioni . Le parassitosi ieri e oggi I parassiti e le guerre Malaria e anchilostomiasi Modelli preventivi: successi e delusioni Schistosomiasi e malaria oggi Conclusioni

Parte III - Politica sanitaria

. Unità e decentramento nell'esperienza italiana Politica e assistenza La medicina e il controllo sociale

L'esperienza del fascismo L'Onmi e la mortalità infantile La Resistenza e la continuità

La febbre ospedaliera Due occasioni perdute: e la terza? Quale decentramento?

L'intervento sanitario nel Sud Il modello piemontese Il quadro nosologico Nord-Sud Il fascismo e il dopoguerra Squilibri attenuati e altri aggravati Questione meridionale (e settentrionale) . Welfare State e riforme sanitarie . Superiorità del Welfare State . Difficoltà del Welfare State .Itabù della sinistra . Pubblico e privato . Che cos'è una riforma sanitaria? . Le classi e il genere

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Presentazione

Circa trent'anni fa un amico, storico di professione, Alberto Caracciolo, conoscendo la mia duplice passione per la politica e per la medicina, mi disse: «Forse hai sbagliato secolo, e ora sei fuori tempo. Nell'800 e nel primo '900, questi due interessi coincidevano frequentemente. Conosci, per esempio, il gruppo dei malariologi romani, e in particolare Angelo Celli? Perché non te ne occupi, e scrivi magari qualcosa?». Fui così stimolato a recarmi all'Istituto di Storia della medicina dell'Università di Roma (di cui parlo nell'Introduzione), e a immergermi nella lettura di opuscoli, lavori sperimentali, discorsi parlamentari di Celli. Il risultato fu un saggio biografico ingenuo e appassionato; e un impulso a valutare, ogni volta che affrontavo un

tema di ricerca sanitaria sociale, gli antecedenti del problema. Altri stimoli mi sono giunti da una singolare coincidenza familiare. Ho ereditato il nome di battesimo, come usava, dal nonno materno Giovanni Loriga (quello del nonno paterno, Enrico, era passato giustamente al primogenito), che era stato tra 1 promotori dell'igiene del lavoro in Italia. Insieme al nome non ereditai però immediatamente la passione per la sua materia. Quando mi iscrissi alla Facoltà medica, intendevo infatti fare il chirurgo. Ebbi però i suoi libri, e fra questi una rara edizione, tradotta dal latino nel 1908, del testo di Ramazzini sulle malattie dei lavoratori: il trattato che nel 1700 aveva dato origine alla nuova disciplina. La lettura mi appassionò; e quando, per effetto congiunto di impulsi culturali e di vicende accademiche, virai verso l'igiene del lavoro ricongiungendo il nome di battesimo alla professione, trovai per ogni tema riferimenti e stimoli in quel prezioso libretto e in altri testi della biblioteca familiare. Ho avuto poi la fortuna di essere incoraggiato, in questo interesse 9

amatoriale per la storia della salute e delle malattie, da altri amici, in particolare da Franco Della Peruta; e di partecipare al risveglio di ricerche che vi è stato in Italia, in questo campo, a partire dagli anni ‘70. Nell'Introduzione accenno al ruolo essenziale che ha avuto il Ciso, promosso da Corrado Corghi, e altri centri di iniziativa. Il risultato di questo lavoro sono stati saggi, relazioni, interventi valutabili (a peso lordo) in circa un migliaio di pagine, edite o inedite, dedicate principalmente al secolo postunitario in Italia, ma spesso debordanti verso altri periodi e altre esperienze. In vari casi, vi è stata una collaborazione di altri autori: Marco Biocca, Paolo Conti, Irene Figà Talamanca, Antonio Smargiasse, Ferdinando

Terranova. Quasi sempre è stata preziosa la collaborazione di Paolo e Antonio nella documentazione, nell'elaborazione e nella revisione dei testi. In qualche senso è «appropriazione privata di lavoro sociale», anche se da essi autorizzata, la pubblicazione di alcuni lavori scritti a più mani in questa raccolta. Ciò aggiunge un altro motivo di gratitudine, verso questi amici, al piacere che ho avuto nel discutere e nel lavorare con essi. Nel 1988, parallelamente alla scrittura dello stravagante Le mie pulci, che ha come uno dei suoi fili conduttori la storia di questi insetti (e dei guai da essi provocati), ho ripreso in esame i materiali prodotti nell'arco di tre decenni. Ho scartato ciò che mi appariva più caduco e superficiale (immagino che i lettori potranno rimproverarmi di non aver usato più ampiamente le forbici), ho accorpato alcuni lavori, e ho suddiviso gli scritti in tre temi: il primo, il più ampio, riguarda il rapporto fra lavoro e salute; il secondo le malattie parassitarie; il terzo la politica sanitaria. Nei riferimenti bibliografici ho mantenuto le «citazioni d'epoca», perché avrei forzato altrimenti giudizi e opinioni che avevo già pubblicato; e perché (fortunatamente) lavori sugli stessi argomenti si sono moltiplicati di anno in anno. Per evitare ripetizioni, sfrondare ulteriormente il testo e ordinare meglio le sue parti, ho avuto infine utilissimi consigli da Agostino Poletto e da Luisa Finocchi, della Franco Angeli, per quest'opera, che costituisce più la testimonianza di un percorso che l'ambizione di un sostanziale contributo. Ragione di più per ringraziare chi mi ha incoraggiato e chi ha consentito questa pubblicazione. G.B. gennaio - settembre 1990

10

Introduzione

1. Un istituto invecchiato L'Istituto di Storia della medicina dell'Università di Roma rischia di diventare, esso stesso, un cimelio storico invecchiato e inerte. Era stato fondato da Adalberto Pazzini, che l'aveva dotato di.schedari, museo, biblioteca, archivi preziosi da consultare. Non tutti i pezzi del museo sono autentici, e non tutti i metodi usati per raccogliere la documentazione sono stati esemplari. Quand'ero studente, ricordo che i colleghi in cerca di una tesi di laurea facile e rapida si rivolgevano al Pazzini, che secondo le città di provenienza proponeva questo titolo: «Libri di Medicina esistenti nella biblioteca comunale di...». Alcuni laureandi romani, esaurite tutte le biblioteche della capitale, furono mandati a peregrinare fra le tombe, anziché tra gli scaffali, con tesi come questa: «Lapidi funerarie di medici nel cimitero del Verano», che sono valse solo a

documentare probità, generosità ed esemplarità di tutti i medici vissuti e sepolti in Roma. Malgrado queste stravaganze, la passione documentaria e le grandi capacità organizzative del Pazzini permisero di accumulare e schedare materiali preziosi. Da molti anni, però, poco viene aggiornato e tutto deperisce. Questa non è purtroppo una eccezione: anche in altre facoltà mediche, gli insegnamenti analoghi vengono cancellati o emarginati. Sorge spontanea una domanda: la storia è utile alla medicina? L'autore della Storia della medicina e della sanità in Italia ha scritto! che la mancanza di riferimenti storici e umanistici rischia di creare «un medico di base senza base, culturalmente impoverito, prigioniero più che utilizzatore di una tecnica. Un medico di cui si 11

cura sempre più, meritevolmente, la preparazione tecnico-scientifica: e sempre meno, immeritevolmente, la formazione teorica ed etico-pratica di base... Il risultato è una medicalizzazione spinta, che assoggetta il medico a un acritico fideismo negli esami diagnostici e a un culto feticistico nei farmaci, facendo di lui un iperprescrittore degli uni e degli altri nel vano tentativo di compensare così la propria insicurezza». Fideismo diagnostico e feticismo farmacologico sono peraltro tendenze largamente diffuse. Vi è chi prescrive in eccesso; e per ognuno di essi, cento o mille pazienti eccedono nel consumare. Gli effettivi successi di molte cure hanno suscitato l'idea di un'onnipotenza diagnostico-terapeutica, che ha il centro propulsore proprio nelle facoltà mediche. Ma questa egemonia sul mercato non corrisponde ad altrettanta influenza culturale. Nella opinione pubblica vi è un'ondata di superstizione senza precedenti sui temi della salute; e fioriscono, insieme a «medicine alternative» che erano state ingiustamente trascurate, scuole di maghi, ciarlatani e guaritori improvvisati.

2. La medicina e la cultura Nella cultura generale, è difficile sostenere oggi che la medicina abbia fra le scienze una funzione d'avanguardia, se prendiamo come misura il suo impatto teorico sulle altre discipline, la sua capacità di indagare sull'uomo totale, il suo offrirsi come modello teorico-pratico in altri campi. Eppure, essa ebbe questa funzione in altre circostanze storiche. Mi limito a citare due esempi, lontani tra loro. La prima medicina scientifica, la scuola di Ippocrate, introdusse concetti fondamentali quali l'eziologia, la prognosi, la continuità fra salute e malattie, la funzione dell'ambiente (geografico, climatico e storico) nella genesi dei comportamenti e delle malattie; giunse «a saldare i tre momenti di episteme, praxis ed empiria, che spesso erano parsi vincolati al reciproco isolamento e dunque condannati ad una relativa sterilità; [ed apparve perciò come] un grande esempio della possibilità teorica e insieme della validità pratica della scienza»?. Sebbene avesse una strumentazione minima, e uno scarso bagaglio fornito da scienze collaterali, la medicina ippocratica sopravvisse lunghi secoli, per la validità del suo assetto metodologico e del suo disegno umano. Bisogna forse giungere al XIX secolo perché la medicina riassu12

messe tra le scienze un simile ruolo di punta, con le scoperte batteriologiche e le misure igieniche. E stato scritto su Pasteur che, con le sue prime ricerche a Lilla sulla fermentazione dello zucchero di barbabietola, e poi sulle malattie dei bachi da seta, sul carbonchio, sull'idrofobia, egli «che all'inizio si interessava alla scienza soltanto perché valeva a illuminare la filosofia, si trasformò in un devoto servitore della comunità, in un uomo che attivamente si adoperava a risolvere i problemi pratici che i suoi concittadini gli avevano sottoposto. Ciò era simbolo del nuovo ruolo della scienza del XIX secolo»3. Egli, in sostanza, finalizzò le sue ricerche soprattutto a combattere le malattie e a migliorare l'economia; e per questa via giunse a scoperte basilari sui processi vitali. La sua generazione di microbiologi, di igienisti, di chimici e di biologi contribuì a raddoppiare la durata della vita umana, a rinnovare le leggi, a trasformare l'urbanistica, a mutare le basi della conoscenza, a far regredire l'idea di fatalità; e promosse una reale fusione tra le scienze e la pratica medica. Oggi lo sfratto delle scienze storiche — ma anche della psicologia, della sociologia, della filosofia — dalle facoltà mediche esprime un'orgogliosa autosufficienza dell'orientamento biologico-clinico. Esso ha avuto negli ultimi decenni molti successi nell'approfondimento delle conoscenze sull'uomo sano e malato, e nella casistica di guarigioni effettive; ma ha palesato i maggiori limiti come modello di cultura, di vita, e persino di etica dell'attività medica.

Una riprova di tale autosufficienza può aversi proprio nel fatto che gli studi storici sulla salute, sulle malattie, sulle professioni e sull'organizzazione sanitaria, e perfino sulle stesse scienze biomediche, hanno avuto negli ultimi decenni una rigogliosa fioritura: ma altrove. Il paradosso sta in questo: che allo sfratto in corso dalle facoltà mediche ha corrisposto invece un'intensa edificazione, uno sviluppo rigoglioso di queste ricerche storiche, ma in altre sedi.

3. Due scotomi sinergici Fino a pochi lustri fa, due tendenze avevano oscurato la ricerca storica sulla sanità e la medicina. Una responsabilità è da attribuire agli storici generali, che hanno spesso ignorato il ruolo delle malattie, del progresso sanitario, della cultura medico-scientifica: fattori che pure hanno influito grandemente sulle vicende umane. Si può paragonare questo difetto a uno scotoma anulare, patologia dell'oc13

chio che consiste in una zona oscura che circonda il centro chiaro del campo visivo. Concentrando l'attenzione prima sulle guerre e sulle dinastie, poi sulla politica e sull'economia, gran parte degli storici hanno trascurato il vivere quotidiano e in particolare il ciclo salute-malattia, sempre importante e talora determinante nella realtà delle varie epoche. Anche la Storia d'Italia edita da Einaudi dal 1972 al 1976, monumentale, moderna, stimolante, ha ignorato totalmente questi fenomeni. La lacuna è stata colmata con un volume suppletivo soltanto nel 19844. L'altra tendenza può essere paragonata allo scotoma da abbagliamento: un eccesso di luce che ostacola la visione. Ne sono stati vittime quei medici che hanno studiato e descritto la storia della medicina come progresso lineare, come processo puramente interno di acquisizione di maggiori conoscenze e di migliori tecnologie, atte a vincere inevitabilmente, prima o dopo, ogni malattia. Essi hanno trascurato le coordinate storico-sociali e gli altri fattori che, insieme

all'opera dei sanitari e degli scienziati, hanno concorso a migliorare la salute; e hanno spesso ignorato le sconfitte, gli errori, gli arretramenti delle scienze e delle professioni biomediche. I due scotomi,

di origine opposta, hanno entrambi frenato una comprensione più profonda sia della storia della medicina, sia della storia in generale.

4. Due eccezioni: Sigerist e Zinsser Negli anni '30 vi furono almeno due casi di visione limpida, a tutto campo. Il più organico fu l'opera di H. Sigerist, della Johns Hopkins University di Baltimora, su Civilization and Diseases: un affresco storico di ampie dimensioni, dall'antichità al mondo contemporaneo. Il più curioso fu un libretto dal titolo Rats, lice and history6, scritto da uno studioso che aveva dedicato gran parte delle sue ricerche mediche al tifo esantematico (o petecchiale, trasmesso

appunto dai pidocchi). In età matura, lo Zinsser si avvicinò alla storia di questa malattia, e giunse a documentare in modo originale il ruolo degli insetti, dei ratti e delle malattie da essi trasmesse sulle vicende politiche e militari. Uno dei capitoli è intitolato Sull'influenza delle epidemie nella storia politica e militare, e sulla relativa non-importanza dei generali, e riferisce molti esempi a sostegno di questa tesi. Nella campagna di Russia di Napoleone, la vera strage della Grande Armée fu compiuta, più che dalle truppe nemi14

che, dai pidocchi che trasmisero, prima e dopo le battaglie vinte o perdute, il tifo esantematico ai soldati. Per una causa simile, nella stessa epoca, fallì l'occupazione francese di Haiti: le popolazioni locali avevano infatti qualche immunità nei confronti della febbre gialla, che imperversava nella zona, mentre l'esercito francese ne fu sterminato. Ebbe più peso la resistenza biologica dei soldati haitiani che la capacità strategica dei generali francesi. Anche in Italia, è giusto dire, vi furono medici che sottolinearono l'importanza delle malattie nella storia. In particolare, per la malaria, il grande igienista e politico Angelo Celli 7, e poi Arcangelo Ilvento, che tentò anche una monumentale storia delle epidemie8. Ma queste ed altre eccezioni non fecero scuola, non crearono una cultura diffusa.

5. Gli storici scoprono le malattie Questa cultura cominciò invece a formarsi a partire dagli anni '60, per influenza di varie correnti storiografiche. La principale è la scuola francese, partita dalla rivista Annales e poi diffusa in molte sedi, che diede maggior peso ai fattori economici e sociali, alla vita quotidiana, a tutto ciò che prepara e accompagna lo svolgersi dei «grandi avvenimenti», che fino ad allora erano stati l'oggetto quasi unico della ricerca storica. Una delle maggiori riviste (cito l'esempio di un volume apparso anche in italiano? tradotto da l'Histoire) ha pubblicato un ampio fascicolo monografico che spazia dalla medicina babilonese alla vittoria sul vaiolo: presentato, quasi a simbolo di un sinergismo di competenze, dal medievalista Jacques Le Goff e dal presidente della Società internazionale di storia della medicina Jean Charles Sournia. Altre correnti convergenti appartengono alla storiografia marxista, quando e in quanto è riuscita a liberarsi dalla valutazione puramente economica dei fenomeni sociali; e inoltre all'antropologia culturale, alla demografia, all'etnologia, alla filosofia della scienza. Parallelamente a questa produzione è cresciuto il mercato, cioè il desiderio di molti lettori di conoscere la storia della salute e delle malattie. Spesso, proprio dalla volontà di essere oggi protagonisti del proprio benessere hanno avuto notevole stimolo gli interrogativi sul passato. Questa sollecitazione ha avuto ulteriori sviluppi in conseguenza 16)

di due «scoperte intellettuali», che nell'ultimo ventennio hanno influito sul senso comune di molti. Una è la constatazione che, pur essendovi infermità che tormentano la specie umana da sempre, è molto variabile il quadro epidemiologico di ogni epoca, di ogni paese, di ogni società; esso si evolve infatti in rapporto stretto con le vicende globali. Questa storicità delle malattie è avvertita oggi più acutamente perché vi è stata — soprattutto nei paesi industrializzati — una fase di passaggio, estremamente rapido, dal prevalere delle malattie da cause naturali al prevalere di malattie che hanno origine più direttamente sociale, e che hanno forme prevalentemente degenerative, psico-somatiche, traumatiche. Questo mutamento odierno nell'apparente «linearità» dello sviluppo storico delle malattie fa riflettere gli esperti e la popolazione, e induce a ripensare anche la storia della salute umana. L'altra scoperta è la constatazione che vi è un rapporto molto stretto tra l'evoluzione del pensiero scientifico e dello strumentario tecnico, e l'evoluzione della società. Si è acquisito, anche questo diffusamente, il concetto che la scienza non ha soltanto uno sviluppo autonomo e armonico, ma è largamente influenzata dalla dinamica complessiva della storia, pur avendo leggi proprie, una sua fisionomia, una sua logica. Il rapporto scienza-società viene analizzato criticamente,

in modo

particolare, nei campi che hanno

più attinenza con lo sviluppo sociale, come la tecnologia e come la psichiatria; ma anche in altri campi si constata che i programmi, gli investimenti economici, ma anche gli orientamenti e le idee della scienza sono largamente influenzate da motivazioni politiche e da interessi sociali. Si può aggiungere che queste due scoperte — o riscoperte — hanno accompagnato un risveglio culturale, denso di stimoli e di contraddizioni, nel quale i temi della salute, dei diritti dei malati e dei mino-

rati, della prevenzione sociale delle malattie, hanno avuto uno spiccato rilievo. E stata una stagione culturale e politica simile a quella vissuta a cavallo tra il XIX e il XX secolo, allora per un altro quadro epidemiologico caratterizzato dal dominio delle malattie infettive e dalle conseguenze dell'industrializzazione selvaggia. La sfida delle nuove patologie e delle nuove aspirazioni (all'uguaglianza, all'integrazione, alla valorizzazione della donna, ecc.) ha prodotto negli anni ‘60 e ‘70 movimenti di idee, lotte sociali, riforme legislative, elaborazioni scientifiche che né gli eccessi di allora, né l'inversione di tendenza degli anni '80 possono indurre a svalutare. 16

Non è un caso — per tornare alle ricerche storiografiche — che gli studi più cospicui, in Italia, si siano sviluppati nei campi che sono Stati più segnati dai movimenti riformatori. Per esempio, il tema della salute mentale e della lotta contro la segregazione manicomiale. Uno dei punti di partenza sono stati i lavori di Foucault!0, il quale ha ricordato che i manicomi non sono un'istituzione sempiterna: hanno una Wata di nascita, e potranno avere un'altra data che concluda il loro ciclo. Egli ci ha mostrato che si cominciò a internare gli ammalati di mente negli istituti che erano rimasti vuoti per il declino della lebbra; e che nel '500, come fase di passaggio, si era cominciato a ricoverare negli stessi luoghi i sifilitici. Questa tendenza è riconducibile non solo al riuso degli edifizi ospedalieri, ma più ancora alla sostituzione del capro espiatorio: per dirla brutalmente, dal lebbroso al luetico al matto. Su questa scia, e con diversi orientamenti, sono stati pubblicati negli ultimi anni, in Italia, centinaia di saggi e molti libri sulla storia della psichiatria e delle malattie mentali. Cito fra i tanti i due introdotti da Ferruccio Giacanelli!!; la storia della psichiatria italiana nella seconda metà dell'800 pubblicata da Il Mulino!2; il saggio sul «caso milanese» apparso nella collana diretta da Franco della Peruta!3. In molte città, inoltre, si sono organizzate mostre storiche, come a Venezia dove promotrice è stata la Biennale!4, e dove è nata una Fondazione per la conservazione e lo studio dei preziosissimi archivi degli ospedali psichiatrici!5. Un altro esempio è la storia del rapporto fra salute e lavoro. L'Italia ha avuto in questo campo un primato culturale, perché la prima opera sull'argomento apparve nel 1700, scritta da Bernardino Ramazzini. Ma solo da qualche anno ne è stata fatta una nuova traduzione!6, Il libro era divenuto praticamente introvabile in italiano, da decenni; l'originale in latino era invece «oggetto da regalo» per gli ospiti di riguardo (figura che raramente coincide con la conoscenza della lingua di Roma e con un profondo interesse alla cultura) ai congressi patrocinati dall'Inail, che ne aveva curato una splendida edizione anastatica. Sotto lo stimolo dell'impegno per la salute nelle fabbriche, già negli anni '70 erano apparsi saggi storici sulle malattie dei lavoratori nel passaggio tra il XIX e il XX secolo!7. Le ricerche per zone e per categorie, per singole malattie e per infortuni si sono poi moltiplicate!8, fornendo occasione a incontri e ricerche specializzate e ad opere di sintesi!9. Un terzo esempio potrebbe essere la salute della donna e dell'in17

fanzia: anche qui, la pubblicistica spazia negli ultimi anni dalla riedizione commentata del primo trattato Sulle malattie delle donne, opera di una medichessa della Scuola salernitana20, a numerose ricerche locali e generali di notevole interesse. Non intendo però delineare un quadro globale dei contributi storici apparsi negli ultimi anni. Sarebbe anche, fortunatamente per la storiografia e per la cultura della salute, un elenco lungo e pesante. Nei miei scaffali, le opere su questi temi sono passate da pochi decimetri a molti metri di spazio.

6. Il Ciso e la demografia storica Con i libri si affollano i cataloghi delle mostre, come quella intitolata Venezia e la peste, che si tenne nel 1979 per raccontare come la Repubblica marinara affrontò, a più riprese, uno degli ostacoli più drammatici per la sua esistenza. I rapporti commerciali con l'Oriente facilitavano infatti l'arrivo delle pestilenze, e imponevano di fronteggiarle con misure che furono a suo tempo efficaci, anche se ancora della malattia non si conosceva né l'agente (Yersinia pestis), né il vettore (la pulce), né il serbatoio naturale (i ratti). E si

affollano le riviste, compresa una specializzata: Sanità scienza e storia, che si pubblica a Milano dal 1984 a cura del Ciso: e Kos, con molte illustrazioni, edita prima da Franco Maria Ricci e poi dall'Istituto San Raffaele di Milano. Il Ciso ha avuto una funzione rilevantissima nella promozione di questa nuova ondata storiografica. Nato come Centro italiano di storia ospedaliera nell'ospedale di Reggio Emilia, e all'inizio piuttosto tradizionalista per temi di ricerca, ha avuto l'impulso dall'opera infaticabile di Corrado Corghi, e ha aggiunto molte diramazioni regionali alla sua attività. È merito del Ciso e della sua intensa iniziativa verso le amministrazioni locali, fra l'altro, se con lo scioglimento degli enti ospedalieri è stato possibile preservare dalla dispersione molti (non tutti, purtroppo) dei preziosissimi archivi delle antiche fondazioni. Anche un'altra categoria di studiosi, i demografi, si sono «convertiti alla storia». Nel 1977 è stata fondata la Società italiana di demografia storica (Sides), che da allora ha promosso pubblicazioni e incontri su temi che spesso interessano la salute. Il primo, svoltosi a Firenze dal 25 al 28 maggio 1977, riguardò appunto Le crisi di 18

mortalità e la società italiana, cioè quelle fasi drammatiche della nostra storia in cui per epidemie, guerre, carestie o altri eventi drammatici si innalza bruscamente la curva della mortalità?!.

7. Un'emarginazione finita, un'altra aggravata x Non ripeterei oggi, di fronte a questa fioritura di ricerche e di pubblicazioni, ciò che dissi introducendo il primo Convegno sulla storia della sanità, promosso dal Ciso a Firenze nel 197722: «l'analisi storica delle malattie, della medicina e della sanità appare emarginata dal notevole rinnovamento storiografico che è in atto in Italia». Tentai allora di tracciare, insieme agli altri partecipanti all'incontro, un programma di ricerca o piuttosto un indice tematico: a. malattie prevalenti per diffusione e gravità, e loro rapporti con l'ambiente naturale e sociale (clima, lavoro, residenza, famiglia ecc.) e con l'evoluzione storica (guerre, conflitti sociali, Stato);

b. demografia, sia come stato della popolazione che come suo movimento: sociale (migrazioni) e naturale (natalità, mortalità, nuzialità, ecc.):

c. dottrinale medico e delle scienze affini (per esempio chimica, biologia), scoperte scientifiche e applicazioni tecniche sia terapeutiche che preventive, anche in rapporto con la produzione dei «materiali sanitari» (per esempio: dalla coltivazione delle erbe medicinali all'industria dei farmaci);

d. arti e professioni sanitarie; formazione degli «specialisti», loro ruolo speciale, intreccio con il potere; e. rapporti fra la salute e l'organizzazione della società: discriminazione quoad vitam e quoad valetudinem, lotte sociali per il diritto alla salute, e loro influenza sui rapporti fra le classi e sul progresso sanitario e politico; f. organizzazione e legislazione sanitaria: istituzioni, leggi, intreccio con il diritto e con lo Stato; g. edilizia e urbanistica sanitaria, sia come analisi delle tipologie degli «edifizi sanitari», sia come influenza della maturazione (o degradazione) igienica sulla costruzione delle città e sul rapporto città-campagna; h. cultura medica e ideologie: analisi sia della coscienza sanitaria popolare (e della medicina empirica), sia delle implicazioni teori19

che della cultura medica ufficiale; studio del rapporto (reciproco) fra medicina e filosofia; i. come sono state viste nell'arte e nella letteratura le malattie e i medici nelle varie epoche (eventualmente: influenza delle malattie degli autori sui prodotti artistico-letterari). Questa traccia rifletteva, pur nella sua schematicità, molte ricer-

che in corso, soprattutto di giovani studiosi che si sono poi affermati con opere di valore. L'orientamento comune, più morale che storiografico, consisteva già allora nel «porsi dalla parte dei sofferenti e dell'aspirazione popolare alla salute». Si avvertiva tuttavia che questa linea di demarcazione, rispetto a coloro che, pur con notevoli contributi, avevano scritto ponendosi nella migliore delle ipotesi dalla parte dei medici (e nella peggiore, dei fomentatori di sofferenze) non doveva significare faziosità, appiattimento, riduttivismo sociologico. Questa inclinazione era effettivamente presente in varie pubblicazioni degli anni '60, ma è stata poi sostituita da più mature riflessioni; e attualmente vediamo un rigoglioso sviluppo di correnti storiografiche italiane che è all'opposto della precedente emarginazione, e che anzi contribuisce al rinnovamento globale degli studi storici. E cresciuta invece la preoccupazione per un'altra emarginazione: quella delle conoscenze storiche dall'insegnamento e dalla pratica quotidiana della medicina. Questa si va accentuando proprio quando: a) il presentarsi contemporaneo, nei nostri giorni e nello spazio mondiale che ci pervade da ogni lato, di patologie e problemi sanitari così vari e complessi (dai tumori all'Aids) potrebbe trarre molta luce dallo studio del passato; b) l'attività sanitaria, e in

particolare il rapporto medico-paziente, appare più che mai influenzata da fattori culturali e ambientali: il comprendere analogie e differenze col passato migliorerebbe questo rapporto quotidiano; c) esiste oggi un'ampia letteratura, approfondita e spesso piacevole, che potrebbe togliere muffa e prosopopea alle vecchie «storie della medicina», e aggiungere cultura alla formazione dei medici e all'informazione dei pazienti e dei sani. Mi riferisco per esempio, fra i testi tradotti da altre lingue, ai volumi di McNeil e di Ruffié-Sournia sulla storia delle epidemie?3. Mi riferisco, fra gli autori italiani, alle opere di Carlo M. Cipolla, storico dell'economia, che dedicò alcuni saggi eruditi alla lotta contro la peste in Italia nel XVII secolo e alla professione medica nel 20

Rinascimento?4, nei quali spiegò che l'origine della sanità moderna non è l'Inghilterra del XIX secolo, ma l'Italia dei Comuni; e che scrisse poi tre volumetti dai titoli strambi e irriverenti: Cristofano e la peste, Chi ruppe i rastelli a Monte Lupo?, I pidocchi e il Granduca?5» nei quali racconta lo svolgersi delle epidemie nella Toscana medicea attraverso gli sforzi dei sanitari, i conflitti delle forze economiche), l'atteggiamento dei potenti. Un altro libro affascinante (e ponderoso, a differenza dei tre Cipolla) è stato scritto da uno dei maggiori storici della scienza, Mirko D. Grmek, jugoslavo di nascita e di formazione, francese per la cattedra ricoperta a Parigi, italiano per amicizie e frequentazioni culturali, per analizzare le epidemie e le malattie quotidiane che colpivano l'antica Grecia e l'intera area mediterranea, Italia compresa?6. L'esame viene condotto non solo sulle opere di Ippocrate e dei suoi seguaci, ma sulle fonti della letteratura, delle tradizioni popolari, della genetica (cioè del diffondersi e del mescolarsi delle popolazioni in conseguenza delle malattie), della paleopatologia (l'esame dei resti ossei, dei residui alimentari, dei tessuti umani talora ben conservati, dei microbi e parassiti che si trovano in cadaveri mummificati: un ramo delle scienze storico-biologiche da qualche tempo rigogliosissimo). Il libro di Grmek è un esempio di quella interdisciplinarietà, spesso proclamata e raramente praticata, che oggi può lumeggiare molte zone oscure della conoscenza; esso è in pratica una ricostruzione dei secoli alti delle antiche civiltà mediterranee, attraverso l'ottica delle malattie e del modo di combatterle.

8. Lo studio di una malattia Mi scuso ancora con i lettori, e più ancora con gli autori non menzionati di molte validissime ricerche, pubblicate in questi ultimi dieci-quindici anni: questa rassegna, lo ripeto, non tende alla completezza. Vuole essere più un appetizer che un pasto completo. Può essere però utile accennare, restando nella stessa metafora, al modo di preparazione dei cibi, cioè alla cucina storiografica come si è evoluta in tempi recenti. Un metodo frequente consiste nel prendere in esame una determinata malattia, o un quadro nosologico complesso. Farò l'esempio della pellagra, una malattia comparsa in Italia alla metà del XVIII secolo, mai esistita prima, e poi scomparsa nei nostri tempi. Molto 21

ideonea, perciò, a lumeggiare come e perché le malattie abbiano una propria storicità. La malattia apparve nelle zone dove più rapida era stata la trasformazione dell'agricoltura?7, e dove era stata introdotta la coltura diffusa del mais (Val Padana, Veneto, Trentino). La

causa poteva essere quindi attribuita al mais. Ma nelle zone di origine di questo cereale, l'America centrale, la pellagra non esisteva. La ricerca eziologica si orientò in due direzioni. Una fu verso l'ereditarietà: tendenze ataviche, suffragate dal fatto che la malattia prevaleva nelle famiglie contadine, smentite però dalla comparsa del tutto recente di questo insolito quadro morboso. L'altra fu verso gli agenti biologici: Lombroso e la scuola positivista accusarono una muffa, Penicillum glaucum (il nome Penicillum riemerse poi, come forza guaritrice, nella storia della medicina), che spesso infestava 1 depositi di mais. Si può ora valutare quale possa essere, talvolta, l'effetto nefasto di un errore eziologico: sulla base di questa imputazione, grandi depositi di mais vennero distrutti perché inquinati dall'innocuo Penicillum, e la fame e la pellagra si aggravarono. L'incertezza sulle cause durò ancora molti decenni. Intanto, alla

fine del secolo scorso la malattia aveva cominciato rapidamente a decrescere, anche se soltanto negli anni '30 venne scoperta la vitamina PP (pellagra preventing), la cui carenza stava alla radice del male. Questa vitamina esiste in molti alimenti, non nel mais. Nel secolo

XVIII

era

stato

rotto

l'equilibrio

nutritivo

dei contadini,

costituito da cibi di varia provenienza. La monofagia maidica, anche se forniva calorie uguali o maggiori come quantità, provocò la pellagra, affollò i manicomi, fece stragi, e cominciò a scomparire per effetto dei migliori salari, dell'alimentazione più varia, dell'istruzione più diffusa. Ma la tendenza ad attribuire le malattie a fattori puramente biologici, come l'eredità o le muffe, era allora molto radicata (e lo è tuttora: che c'è di meglio che cercare un colpevole fuori della storia?). Anche studiosi insigni vi caddero, per questa e per altre malattie. Una monografia di Giovan Battista Grassi, rimasta inedita per fortuna della sua fama, tentò per esempio di dimostrare?8 che esisteva un «microbio specifico» che provocava la necrosi fosforica del mascellare, un morbo mutilante e letale che colpiva i lavoratori delle fabbriche di fiammiferi. Si vide poi che era dovuta alla qualità del fosforo usato nella produzione. La sostituzione con altro fosforo fece scomparire la malattia, e ovviamente la ricerca del microbio. Un altro esempio può essere la malaria. La storia di questa malat520)

tia è talmente complicata che non si può comprenderla senza chiamare in causa molteplici fattori, senza perciò far appello a varie competenze ed esperienze. Intanto è probabile che in origine, nella filogenesi, fosse soltanto una malattia della zanzara, tanto è vero che questo insetto ospita i plasmodi con relativa serenità; mentre, quando essi raggiungono l'uomo, presentatosi successivamente nel loro ciclo di vita,Simanifesta un quadro clinico più o meno grave, perché l'adattamento reciproco è molto più recente. La malaria rappresenta cioè un intreccio di storia evolutiva assai interessante fra tre specie viventi: il plasmodio, la zanzara e l'uomo. Essa colpisce l'uomo in determinate zone ed epoche, in rapporto agli insediamenti e alle attività lavorative: vi è perciò una relazione diretta con le condizioni dell'economia e delle abitazioni. Anche nella storia delle scoperte umane sulla malaria abbiamo uno straordinario intreccio di varie tendenze della medicina, dato che per moltissimo tempo la lotta venne condotta, in modo assai efficace, sulla base della medicina popolare degli indi, con la corteccia di china importata dalle foreste americane, e perfezionata in Europa con l'estrazione del principio attivo, il chinino. Successivamente vi furono altre scoperte, basate sull'uso del microscopio (che consentì la descrizione degli agenti protozoari), sulla teoria degli insetti vettori (che riguardò, oltre alla malaria, la peste, la febbre gialla e molte altre malattie), e nel campo terapeutico sulla costruzione di altri far-

maci antimalarici attraverso sintesi chimiche. Inoltre, la storia della malaria si intreccia con la storia urbanistica (gli insediamenti

spo-

stati verso le colline) e con la storia militare e politica. Non a caso alcune fra le più grandi scoperte, sia per la malaria che per la febbre gialla, come per altre malattie prevalenti nelle zone tropicali, vennero fatte da medici militari delle potenze coloniali, il cui scopo era soprattutto quello di proteggere gli eserciti invasori. A queste ricerche parteciparono però altri scienziati: nelle scoperte sulla malaria, per esempio, la scuola italiana troppo spesso dimenticata, da Grassi a Marchiafava, da Celli a Bignami, ha dato un proprio rilevante contributo. Nella storia della malaria si riflette inoltre la stratificazione per censo della società, perché la malattia colpisce prevalentemente le classi povere: i malati sono essenzialmente gli oppressi, gli sfruttati. La malattia però è anche un elemento unificante della società e del genere umano, poiché la sua diffusione pandemica collega le classi tra loro, sia pure con una frequenza e con una letalità che è diversa 23

a seconda della ricchezza e della cultura. La malaria si combatte quindi con i metodi della medicina primitiva e della scienza moderna; si combatte con interventi di politica economica; si combatte con mezzi di origine chimica. Si hanno vittorie e sconfitte, con tutti questi sistemi. È da ricordare ancora, a testimonianza dell'intreccio tra fattori scientifici, politici ed economici nella storia della malaria, che i ten-

tativi fatti in altri paesi di ripetere quelle tecniche preventive (uso di massa

del ddt) che avevano

avuto

straordinaria

efficacia in certe

zone, come in Sardegna e nell'Italia meridionale, hanno provocato risultati disastrosi. Non avendo raccordato tecnica e cultura, scienza ed economia, ci sono stati paesi del Terzo mondo i cui bilanci sono stati scardinati dalle multinazionali della chimica, che hanno suggerito o imposto loro di disseminare con gli aerei quantità enormi di ddt, con l'unico effetto di rovinare l'ambiente e l'agricoltura, senza ottenere alcun risultato nella lotta contro la malattia. Altre tecniche basate sulla conoscenza biologica del vettore, sulla differenza tra specie androfile e specie zoofile delle zanzare, sui metodi di lotta associata (chimica, biologia, terapia umana, ecc.) e sulla partecipazione delle popolazioni hanno portato a risultati più vantaggiosi che non l'uso esclusivo di insetticidi chimici. Questo studio, in conclusione, non può essere fatto da alcuno che non abbia (o non sia capace di organizzare intorno a sé) una straordinaria molteplicità di conoscenze e di interessi. Basta perdere di vista uno solo di questi numerosi fattori (dalla genetica alla chimica, alla medicina, alle tradizioni popolari, all'economia, all'agricoltura, al rapporto tra le classi) per vedere la storia della malaria in un modo assolutamente unilaterale, senza chiarire i termini della unitarietà del reale.

9. Lo studio della cultura e delle professioni Un'altra ottica consiste nell'esaminare gli sviluppi scientifici, gli orientamenti professionali, la cultura sia dei medici stessi, sia della tradizione popolare. E noto per esempio che il vaiolo, che cominciò ad essere affrontato su larga scala con la vaccinazione introdotta da Jenner, era già combattuto con metodi empirici in Turchia. La 24

moglie dell'ambasciatore inglese, in una lettera divenuta poi celebre, raccontò come

le donne di Istanbul inoculassero ai bambini

la

sierosità delle pustole, raccolta in una noce; e come in essi la malattia si manifestasse poi in forma attenuata. L'informazione fu trascurata, perché pochi potevano accettare che i turchi insegnassero qualcosa alla civilissima Inghilterra. Lo stesso Jenner, del resto, intuì quella che oggi chiamiamo «immunità crociata» dal racconto di una contadina, che gli spiegò che non poteva avere il vaiolo perché «aveva già avuto quello delle mucche». Fino a tutto il secolo XIX vi furono, in altre aree della «cultura popolare» ma anche negli strati più istruiti della popolazione, forti resistenze alla vaccinazione. Fu fondata per esempio nel 1880 una «Lega internazionale degli antivaccinatori», e in nome di malintesi principi religiosi la pratica jenneriana fu spesso ritardata?9, Questo intreccio fra varie culture non si è verificato per ogni malattia. Per esempio, la vaccinazione contro la rabbia introdotta da Pasteur, e quella contro la poliomielite ad opera di Salk e poi di Sabin, non hanno alcuna radice nella tradizione: sono il prodotto esclusivo di una sperimentazione moderna. Ma, in ogni caso, gli insegnamenti del passato possono essere utili. Quando è scoppiata, insieme all'Aids, un'ondata di intolleranza e di victim blaming (biasimo delle vittime), sono andato a rileggere uno dei miei poeti preferiti, Giuseppe Gioachino Belli, che nel 1835-1836 aveva scritto — in occasione di una grave epidemia di colera — una serie di 34 sonetti su questa piridemia (epidemia). Il titolo era già significativo: Er collera moribus. Storpiando la dotta espressione cholera morbus, Belli introduceva subito il concetto di colpa e di collera divina verso i costumi corrotti30. Il testo era esplicito: E cche er Ziggnore se serve de quello E cce lo manna appunto per ddispetto, Pe vvia che Rroma è ddiventata un ghetto D'iniquità ppiù nere del cappello. Rroma ha pprevaricato: ecco er motivo Che la peste vié avanti pe le poste Pe nnun lassacce un zecolare vivo.

Non lasciava un secolare vivo, per espiazione delle colpe. Ma il colera fu vinto. La presunta collera moribus fu frenata (in altre città, prima che a Roma) dalla regressione spontanea ma anche da 29:

misure igieniche e dal risanamento urbano, e soprattutto da una rete

più moderna di fogne e di acquedotti, anche se il plebeo romanesco di Belli derideva questi tentativi: Sull'acqua ponno fa' cquanto j'aggrada, Purché non zia d'avvelenamme er vino.

10. Lo studio dell'organizzazione sanitaria L'esempio del colera ci conduce a un terzo filone storiografico: l'azione collettiva e l'intervento dello Stato. Non solo i servizi sanitaria, ma molte azioni politiche hanno avuto qualche intreccio con i temi della salute. L'intera rete fognaria di Napoli, per esempio, fu

modernamente ricostruita in seguito alle epidemie coleriche, e gran parte delle ristrutturazioni urbane avvenute in Europa fra il XIX e il XX secolo avvennero anche per impulso delle esigenze igieniche. Queste furono una delle fonti dell'urbanistica occidentale. Legislazione sanitaria e assicurativa, sviluppo delle strutture ospedaliere, intreccio fra potere politico e attività specializzate nel campo

sanitario (industria, professioni, università), lotte di idee e

di influenze: tutto questo ha formato oggetto di nuove indagini retrospettive. Si vedano, per esempio, alcuni saggi del volume curato da Della Peruta per la Storia d'Italia, Einaudi3!: le polemiche culturali a cavallo

della rivoluzione

francese

(Cosmacini),

il

rapporto medico-paziente all'inizio del secolo XIX (Betri), lo sviluppo dell'organizzazione ospedaliera dall'illuminismo al Risorgimento al fascismo (saggi di Scotti, Frascani, Preti), le politiche sanitarie dello Stato pontificio (Sorcinelli),

e ancora i nume-

rosi saggi destinati a chiarire la crescita e il declino della tubercolosi (Saporiti,

Detti, Preti). Si veda

l'ottimo

volume

Ospedale

e

società in età liberale 3°, che attraverso le luci e le ombre della storia ospedaliera descrive le trasformazioni culturali e sociali dell'Italia fra il XIX e il XX secolo. Ho accennato

a tre possibili scelte tematiche

(una malattia,

le

professioni e la cultura, l'organizzazione sanitaria). Le ricerche moderne tendono tutte, qualunque sia il punto di partenza, a superare gli orientamenti unilaterali che hanno prevalso nel passato. Un tempo, quando si parlava di storia delle epidemie si citava come causa il «genio epidemico» dei virus o dei batteri, i quali improvvi26

samente determinavano la recrudescenza o la comparsa di fenomeni morbosi di massa, prima inesistenti o latenti. Non si dava una spiegazione, e si rischiava di scrivere una storia assai vaga, quasi magica. D'altra parte si può correre il rischio opposto, cioè di interpretare la storia sanitaria in termini puramente economico-sociali, senza tener conto che esiste anche, non dico un «genio epidemico», ma una capacità dÎ\mutazione genetica dei virus e dei batteri, e una tendenza all'acquisizione, nella popolazione umana, di maggiore o minore immunità; e che le scoperte scientifiche e le tecniche mediche, anche quando non sono determinanti, hanno una notevole influenza sul decorso e sul declino delle malattie. Si può aggiungere che queste ricerche sulle malattie permettono, come pochi altri campi della storia umana, di comprendere a fondo molti fattori e il loro intreccio; e di comprenderli ponendosi dal punto di vista della salute, e quindi di uno dei primordiali bisogni umani. Ho compiuto, in questa breve rassegna, molti peccati di omissione. Spero di aver dato un assaggio di quanta e quale ricchezza di temi e di contributi — traduzioni, ma soprattutto molte opere originali — stia accrescendo in questi anni la nostra cultura; e di quali siano alcuni orientamenti storiografici recenti. Il lungo divorzio fra gli storici e la medicina si sta ricomponendo in un fecondo legame. Non è un caso che il tema Società e malattia è stato posto, per la prima volta, fra gli argomenti del maggiore evento storiografico, il Congresso internazionale di storia che si svolge ogni cinque anni: a Madrid nel 1990.

27

Note 1. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, dalla peste europea alla guerra mondiale, Laterza, Bari, 1987. La dichiarazione è tratta da un'intervista a Tempo medico, 15 nov. 1987. Cfr. anche dello stesso A. Medicina e sanità in Italia nel ventesimo secolo, Laterza, Bari, 1989. 2. M. Vegetti, // pensiero di Ippocrate, in Opere di Ippocrate, Utet, Torino, 1965, nSNE , 3. K. Walker, Storia della medicina, Martello, Milano, 1957, p. 223. 4.F. Della Peruta (a cura di), Malattie e medicina, in Storia d'Italia. Annali, 7,

Einaudi, Torino, 1984, pp. XX-1293. 5. H. Sigerist, Civilization and disease, Cornell lezioni raccolte nel libro sono del 1940.

University

Press,

6.:H. Zinsser, Rats, lice and history, Bantam Books, Toronto-New

1943. Le

York-London,

1935. Il libro era già giunto nel 1965 alla trentesima edizione, ma non mi pare che sia mai stato tradotto in Italia. C'è un editore che voglia farlo? Il successo è certo, anzi probabile. 7. A. Celli, Storia della malaria nell'Agro romano, Città di Castello, 1925 (pubblicata postuma). 8. A. Ilvento, Storia delle grandi malattie epidemiche con speciale riguardo alla malaria, pubblicata (anch'essa postuma) dalla Federazione italiana nazionale fascista per la lotta contro la tubercolosi, Roma, 1938. 9.J. Le Goff, J.C. Sournia

(a cura di), Per una

storia delle malattie,

Dedalo,

Bari, 1986. 10. M. Foucault, Storia della follia nell'età (nuova edizione accresciuta).

classica,

Rizzoli,

Milano,

1976

11. Uno è la traduzione di K. Dorner, // borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria, Laterza, Bari, 1975; l'altro La scienza infelice è dedicato al Museo di antropologia criminale di Cesare Lombroso, Boringhieri, Torino, 1975.

12. V.P. Babini, M. Cotti, F. Minuz, A. Tagliavini, Tra sapere e potere, Il Mulino, Bologna, 1982. 13. A. De Bernardi, F. De Peri, L. Panzeri, Tempo e catene, Angeli, Milano, 1980. 14. Cfr. il catalogo Nascita della fotografia psichiatrica, a cura di F. Cagnetta, Biennale e Provincia di Venezia, 1981.

15. M. Calzigna, H. Terzian (a cura di), L'archivio della follia, Marsilio, Venezia,

1980. 16. B. Ramazzini,

Le malattie dei lavoratori (De morbis artificum diatriba), a

cura di F. Carnevale, La Nuova Italia, Firenze, 1982. 17. Cfr. per esempio gli ampi capitoli sull'argomento in S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo

industriale. Il caso

italiano:

1880-1900,

La Nuova

Italia,

Firenze, 1972, e il fascicolo della rivista Classe (giu. 1975) intitolato // genocidio pacifico. 18. Cito fra tanti F. Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica 1815-1914, Angeli,

Milano, 1987; la parte storica di Gli infortuni sul lavoro dei minori, lavoro che ho condiviso con L. Cecchini e F. Terranova, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1977; e gli Atti del Convegno di Pavia (12-14 feb. 1981), ora in M.L. Betri et al., Salute e

classi lavoratrici dall'Unità al fascismo, Angeli, Milano, 1982.

28

19. Fra queste la Storia della salute dei lavoratori di F. Carnevale e G. Mariani, Libreria Cortina, Verona, 1986. 20. Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne, a cura di P. Cavallo Boggi, La Rosa, Torino, 1979. La prima stesura di questa opera risale all'XI secolo. 21.Il tema è stato poi sviluppato da L. Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), Loescher, Torino, 1980. 22. Storia della sanità in Italia. Metodo e indicazioni di ricerca, a cura del Ciso. Il Pensiero Scientifico, Roma, 1978, p. 10. 23. W. McNeill, La peste nella storia, Einaudi, Torino, 1981, e J. Ruffié, J.C. Sournia, Le epidemie nella storia, Editori Riuniti, Roma, 1985. 24. C.M. Cipolla, Fighting the Plague in Seventeenth Century Italy, The University of Wisconsin Press, 1981, e Public Health and the Medical Profession in the Renaissance, Cambridge University Press, 1976. 25. Edizioni Il Mulino, Bologna, rispettivamente 1976, 1977, 1979. 26. M.D. Grmek,

Le malattie

dell'alba

della

civiltà

occidentale,

Il Mulino,

Bologna, 1985. 27. Cfr. A. De Bernardi, /! mal della rosa. Denutrizione e pellagra nelle campagne italiane fra ‘800 e ‘900, Angeli, Milano, 1984; e prima, il saggio di R. Finzi nel citato fascicolo della rivista Classe. 28. Il testo si trova nell'Archivio Grassi, presso l'Istituto di Anatomia comparata dell'Università di Roma. Devo questa segnalazione a P. Conti e A. Smargiasse, e al loro lavoro «La fosfonecrosi in Italia. Note sull'inchiesta di Giovan Battista Grassi», Physis, n. 4, 1983, pp. 584-599. 29. Cfr. per esempio i saggi di P. Darmon nel citato volume Per una storia delle malattie. 30. G.G. Belli, / sonetti, a cura di G. Vigolo, Mondadori, Milano, 1952, vol. II, pp. 2995-3033. Su questa epidemia che colpì varie città italiane ha scritto A. Forti Messina, Società ed epidemia. Il colera a Napoli nel 1836, Angeli, Milano, 1979. 31. Vedi nota 4. 32. P. Frascani, Ospedale e società in età liberale, Il Mulino, Bologna, 1986.

29

Parte prima Lavoro e salute

I. Danni e vantaggi delle tecniche

1. Storicità delle malattie Le malattie umane non sono un fenomeno puramente biologico. Esse variano non solo tra individuo e individuo, ma secondo le epoche, le zone del mondo, le classi sociali. Esse sono probabilmente uno degli specchi più fedeli e più difficilmente eliminabili del modo come l'uomo entra in rapporto con la natura (di cui è parte), attraverso il lavoro, la tecnica e la cultura, cioè attraverso rapporti sociali determinati e acquisizioni scientifiche storicamente progredienti. Valgano due esempi. Il microbo della tubercolosi ha accompagnato probabilmente l'uomo da sempre, nella sua storia evolutiva. Ma solo nel XIX secolo questa malattia, nei paesi a più intenso sviluppo economico, è diventata la più diffusa, la malattia sociale per eccellenza. L'industria nascente ha tolto i lavoratori dalle campagne, li ha costretti ad un lavoro più massacrante, li ha posti a vivere in abitazioni affollate e buie, ha spinto a lavorare i fanciulli anche di notte, togliendo le condizioni necessarie al loro sviluppo, li ha resi più denutriti. In queste situazioni la tubercolosi è esplosa come fenomeno di massa. Ha cominciato a regredire soltanto alla fine del secolo scorso, quando si sono verificati due fenomeni contemporanei: uno è la scoperta dell'agente eziologico; l'altro è il movimento dei lavoratori tendente alla fissazione della giornata lavorativa di otto ore, all'abolizione del lavoro dei fanciulli, al raggiungimento di salari più elevati e di uno stato di nutrizione più abbondante, alla conquista di abitazioni più sane. È interessante rilevare che la riduzione della malattia come fenomeno sociale comincia già prima E;

della scoperta di Koch, e prima che si abbiano cure efficaci. L'altro esempio è la grande diffusione che hanno, nella società in cui viviamo, l'infarto miocardico e altre malattie dell'apparato cardiovascolare. Anche queste esistevano nel passato. Purtuttavia oggi la società, il complesso dei rapporti in cui viviamo (e non un solo fattore), logora più precocemente la resistenza dell'apparato cardiovascolare

attraverso

diversi

meccanismi

(ritmi di lavoro, tensioni

emotive, frustrazioni, sedentarietà, fumo, difetti ed errori della nutrizione, carenza dell'organizzazione sanitaria specifica, assenza di misure preventive, ecc.). Solo l'accresciuta coscienza e il cambia-

mento di questo complesso di situazioni ha cominciato a ridurre, in alcuni paesi, l'incidenza di tali malattie. Oggi si parla, in termini quasi esclusivi, della nocività delle trasformazioni ambientali prodotte dall'uomo. Tuttavia, è più esatto considerare l'argomento nella sua complessità, da tre angoli visuali: il primo è l'esame dell'ambiente

naturale come

fattore morbigeno,

come causa di malattia; il secondo è l'uso della tecnica come mezzo per prevenire e combattere le malattie; il terzo, il più complesso e più attuale, è l'esame delle modifiche ambientali dannose alla salute umana. Non possiamo dimenticare che per tutta la storia trascorsa dell'umanità i fattori naturali sono stati la causa principale delle malattie della nostra specie. Pensiamo ai fattori climatici, pensiamo a quei cacciatori di uomini che sono i virus, i microbi, i parassiti. Per citare una sola cifra, dal 1887 al 1964 in Italia sono morti prima di giungere al primo compleanno (cioè in età 0-1 anno) ben 2.393.524 bambini per gastroenteriti infantili, cioè per malattie microbiche associate spesso alla denutrizione ed a disfunzioni alimentari !. Ancora adesso nel Terzo mondo queste malattie da cause naturali — il caldo, il freddo, la fame, gli agenti infettivi — hanno un'influenza nefasta. Di tanto in tanto la recrudescenza di un antico flagello (il colera o la malaria) ci richiama non solo all'esistenza, ma al rischio

universale di queste malattie. Di fronte a questi fenomeni, l'uso della tecnica come mezzo preventivo e terapeutico è essenziale. Appare assurdo, di fronte ai flagelli che colpiscono l'uomo «allo stato naturale», pensare che l'intervento rivolto a modificare l'ambiente sia essenzialmente o prevalentemente dannoso: questo intervento, anzi, è il modo stesso di essere dell'uomo, la sua caratterizzazione rispetto agli altri animali. Per combattere

le gastrcenteriti

come

34

flagello dell'infanzia,

per

esempio, l'uomo ha bisogno dell'agricoltura e dell'allevamento (per

avere un'alimentazione sufficiente), dell'ingegneria (per avere acquedotti, fognature, abitazioni), della biologia (per allevare ceppi microbici e trarne sieri e vaccini), della chimica (per trasformare sostanze naturali in farmaci e vaccini). Per combattere la principale, la più diffusa fra le malattie esistenti — la fame — occorre irrigare le terre, allevare gli animali, fertilizzare i campi e lavorarli con le macchine. Per combattere le malattie infettive, la profilassi specifica è stata attuata all'inizio utilizzando sapientemente un prodotto della natura (Jenner usò il virus vaccino, l'agente della malattia bovina, per immunizzare l'uomo contro il vaiolo), ma poi è proseguita coltivando i virus (così è accaduto per la preparazione del vaccino antipoliomielitico). Oggi è giusto preoccuparsi per i guasti che tecnologie improprie producono all'ambiente, per le difficoltà di vita e perfino di sopravvivenza che si accumulano per il futuro della specie umana e della biosfera. Ma non possiamo svalutare i progressi compiuti, a partire dall'aumento della durata media della vita in tutto il mondo, con molte differenze tra le classi e tra i popoli 2, ma ovunque in consistente misura. Alcune curiose statistiche, tratte per esempio dalle lapidi funerarie dell'antica Grecia e dalle date di nascita e di morte scritte sulle mummie egiziane, o per epoche più recenti dai registri parrocchiali del Medioevo, testimoniano che nel corso di alcune migliaia di anni la durata media della vita, almeno nelle popolazioni registrate e censite (gli schiavi infatti non venivano sepolti con lapidi né mummificati,

e avevano

certamente

una durata della vita

minore) è progredita soltanto di pochi anni. Nelle mummie egiziane la durata media della vita era di 25-30 anni; alla fine del XVIII secolo era ancora sui 30-35 anni, a quanto testimoniano i registri parrocchiali. Poi, con lo sviluppo dell'industria, si ha il grande balzo in avanti e si raggiunge, nelle zone industrializzate, una durata media della vita che oscilla tra i 70 e i 75 anni e tende a superarli;

nel resto del mondo, i valori sono fra i 45 e i 60 anni. A coloro che auspicano un «ritorno alla natura», che predicano non già l'indispensabile trasformazione delle tecnologie, il rispetto e il miglioramento degli equilibri biologici, il passaggio dal saccheggio all'uso razionale e parsimonioso delle risorse, bensì il rifiuto della tecnica in nome di un'età felice dell'uomo selvatico, si può ricordare la ripartizione per età di fossili dell'alta preistoria, secondo i calcoli di Vallois 3 (tab. 1).

35

Tab. 1

Periodo

Morti

Prima dei 20 anni

Tra i 30 e i 40 anni

Trai40 e i 50 anni

Individui vissuti più di 50 anni

Neanderthal

SS

40

34 2)

54 58

5 1l 15

Lc

Mesolitico Homo sapiens

1

Si può ricordare che solo 3 primitivi fra quelli osservati superavano il traguardo del cinquantesimo anno, mentre moltissimi non raggiungevano l'età adulta. Le cause dei progressi nel XIX e il XX secolo sono essenzialmente tre, intrecciate tra di loro in un complesso di reciproche influenze non sempre semplice né facilmente districabile, per cui è difficile valutarne il peso relativo. La prima è di carattere economico. Lo sviluppo delle forze produttive, la maggiore quantità di beni di sussistenza indispensabili (alimenti, abitazioni, indumenti, ecc.) consente di ridurre soprattutto l'incidenza delle malattie carenziali e di quelle climatiche, e contri-

buisce anche a migliorare le condizioni igieniche dell'ambiente, e quindi a ridurre la diffusibilità delle malattie infettive. La seconda è il progresso delle scienze mediche e di alcune scienze collaterali (soprattutto la chimica e la biologia), che hanno consentito di scoprire per alcune malattie gli agenti eziologici, ed anche rimedi specifici

(sieri, vaccini,

chemioterapici,

antibiotici

e tutta la vasta

gamma dei prodotti terapeutici moderni). La terza causa è di natura politica, e spesso viene dimenticata, anche se non è sicuramente secondaria rispetto alle altre. Il fatto è che in questo secolo, anzi a partire dalla fine del XIX

secolo, abbiamo

assistito ad un grande

moto di emancipazione di classi e di popoli nuovi. In questo modo i progressi non sono restati patrimonio soltanto dei ceti privilegiati, ma sono stati in un certo senso socializzati, in misura maggiore 0 minore, anche se con limiti che si presentano drammaticamente nel mondo «moderno»: basta pensare che il 40% di tutti i decessi che si verificano nell'America latina riguardano (come accadeva nella preistoria!) bambini inferiori ai 5 anni di età; e che la causa princi36

pale di ciò sta nelle malattie infettive, nella denutrizione, nella mancanza di abitazioni salubri, nello sfruttamento, nell'ignoranza e nella disoccupazione.

2. Le influenze tra lavoro e salute Il lavoro umano ha sempre avuto un'influenza notevole sulla salute, sia come attività necessaria alla sopravvivenza, sia come sviluppo delle potenzialità fisiologiche e psicologiche degli individui e della specie. Questa considerazione, in forma intuitiva, è stata sempre presente nella coscienza degli uomini. Più difficile fu, invece, comprendere come bisognasse studiare scientificamente il rapporto intercorrente tra il lavoro e le sue conseguenze patologiche, per trarne indicazioni rivolte alla prevenzione delle malattie. Tranne rare eccezioni (tra cui Lucrezio e Agricola), questo salto nella coscienza dell'umanità è stato compiuto solo in epoche felativamente recenti. Ma anche tra coloro che hanno analizzato la storia delle tecnologie e dei processi produttivi, con poche eccezioni come l'opera di Kranzberg e Gies 7, gli studi che affrontano l'argomento sono più che altro trattati di economia, studi sulla produzione, oppure, se prendono in considerazione il processo lavorativo, analizzano soltanto le tecniche produttive. Nello studio della tecnologia, inoltre, si ha la tendenza a presentarla prevalentemente come applicazione delle scoperte scientifiche, mentre molto spesso viene trascurato l'apporto e il contributo alle innovazioni tecniche che i lavoratori sviluppano modificando creativamente le varie fasi della produzione. Questa impostazione, se da una parte ha il pregio di tenere presente il nesso che lega scienza-tecnica-lavoro, vede però questo rapporto in modo unilaterale, cioè come un processo che va sempre dall'astrazione scientifica all'attività lavorativa e mai in direzione opposta. Nello studio di Musson e Robinson, Scienza e tecnologia nella rivoluzione industriale 5, è stato messo in evidenza il rapporto che lega il nuovo clima culturale, creatosi nella società moderna in seguito sia alla rivoluzione scientifica, sia all'affermazione del protestantesimo e della Riforma nelle società nord-europee, alla nascita A.

della rivoluzione industriale. Viene però trascurato quanto lo sviluppo dell'industria possa aver contribuito sia all'emergere di nuovi quesiti, ai quali la scienza era chiamata a rispondere (ad esempio l'estrazione dell'acqua dalle miniere, o l'eliminazione della stagnazione dei gas e dei vapori nella fabbriche, ecc.), sia alla formazione di nuovi strumenti tecnici, in grado di risolvere i quesiti sempre più complessi che la scienza affrontava. Di questa carenza si occupa, insieme ad altri storici della scienza, H. Butterfield: «Si comincia ora a comprendere che la storia della tecnica ha, nello sviluppo del movimento scientifico, una parte più importante di quanto non si reputasse un tempo; la storia della scienza, infatti, è destinata a rimanere incompleta se la si considera in modo troppo esclusivo come la storia dei libri scientifici». Egli più avanti chiarisce: «il telescopio e il microscopio fanno la loro prima apparizione proprio all'inizio del [XVII]

secolo — forse erano

stati inventati

qualche

tempo prima — ed è difficile non considerarli come un prodotto delle industrie olandesi di raffinamento del vetro e dei metalli» ©. Tuttavia, mentre questo orientamento comincia ad emergere, seppure con difficoltà, tra gli storici della scienza, rimane trascurato dagli storici che si sono occupati del lavoro. Viene sottovalutata l'incidenza che hanno le specifiche motivazioni sociali sulle relative trasformazioni tecnologiche, e soprattutto viene trascurato il contributo che i lavoratori danno, con il loro «sapere» delle tecniche di produzione, al perfezionamento di queste. L'operaio, che passa la sua vita vicino alla macchina, ha tutto l'interesse che le tecniche siano sempre meno rischiose, e il suo lavoro sempre meno faticoso. Inoltre, la tendenza alla riduzione degli orari e all'aumento delle retribuzioni impone, indirettamente, trasformazioni della macchine; in questo senso va analizzato, storicamente, il contributo dei lavora-

tori alle innovazioni tecnologiche. Anche il rapporto fra tecnica e medicina è stato studiato in modo insufficiente, e a volte unilaterale. Eppure, esse progrediscono insieme, e la loro interazione diviene sempre più stretta ed efficace. Nel campo clinico, ad esempio, il progresso tecnico ha dato al medico nuovi mezzi di indagine per osservare l'interno dell'organismo umano; nel campo terapeutico la moderna industria chimica ha aperto un nuovo capitolo della farmacologia, quello dei medicinali di sintesi, e ha consentito di produrre su scala industriale per uso di massa rimedi più efficaci. Il progresso medico ha contribuito a sua volta ai notevole prolungamento della durata media della vita 38

umana, con ripercussioni potenzialmente favorevoli sul «mercato del lavoro» 7, e con l'aumento del numero degli anni che ogni individuo,

superato

il periodo

dell'accrescimento

in cui era stato

a

carico della popolazione attiva, dedica egli stesso a produrre e a contribuire al progresso della collettività. Vi è spesso un fruttuoso incontro fra tecnica e medicina; ma vi è a volte uno scontro, con vittime e danni. Già il Ramazzini, nella prefazione al De Morbis Artificum, si chiedeva: «Non siamo per avventura sforzati convenire che parecchie arti sono una sorgente di mali per coloro che le esercitano, e che gli infelici artefici, trovando le malattie più gravi dove speravano essi ricavare il sostegno della loro vita e di quella della loro famiglia, muoiono detestando l'ingrata loro professione?» 8,

3. Metodologie ed esempi Nello studio delle reciproche influenze tra lo sviluppo delle tecniche e la salute dei lavoratori, è possibile procedere per almeno tre vie. La prima ottica è l'analisi delle conseguenze delle innovazioni sulla salute, che può essere positiva quando la modifica dei processi lavorativi favorisce la scomparsa di malattie collegate alle tecniche precedenti; negativa quando fa riemergere vecchie malattie o ne causa di nuove. Nella patologia di origine biologica, per esempio, la diffusione del carbonchio umano è stata sempre legata all'allevamento del bestiame, poiché questa malattia (che si presenta più spesso in forma cutanea, come pustola maligna o antrace, mentre più raro è il carbonchio interno) trae la propria origine dagli animali carbonchiosi, per i quali la fonte principale di infezione è costituita dal terreno e dai pascoli infetti. Dal punto di vista sociale, questa malattia è soprattutto a carattere professionale. Colpiva principalmente, nelle campagne, i mandriani, i pastori, gli stallieri, i veterinari, i macellai e i tosatori, quei lavoratori, cioè, il cui lavoro si svolgeva a contatto diretto con gli animali. Il carbonchio poteva essere contratto anche per manipolazione dei prodotti contaminati, come lane, crini, pelli, cuoi, ossa, corna, ecc.; le categorie più colpite erano tessitori, conciatori, calzolai, e quanti erano addetti alla lavorazione di tali prodotti. Era più raro il caso in cui il carbonchio colpisse consumatori. Tuttavia, ad esempio, al tempo della guerra mondiale '14-18 si ebbe 39

una diffusione di antrace facciale nei soldati inglesi e americani, per l'introduzione su larga scala di pennelli da barba di origine giapponese e cinese, sui quali fu ripetutamente trovato il bacillo del carbonchio. Questa malattia, con la modificazione delle tecniche di allevamento e di trattamento industriale dei prodotti animali, è da

tempo in rapido declino: in Italia, nel biennio 1887-1889 si ebbe una media annua di 650 morti, nel triennio 1938-1940 la media fu 110, ora è praticamente scomparsa. Nel capitolo dei fattori chimici di malattia, che è il più vasto e complesso per la grande mutevolezza delle sostanze (naturali e sintetiche) usate nella produzione, vi è stata e vi è frequentemente la comparsa e la scomparsa di quadri patologici fra i lavoratori. L'intossicazione da piombo, per esempio, è divenuta meno frequente tra i tipografi con l'uso delle linotypes invece della composizione a mano, ed è scomparsa con il passaggio alla fotocomposizione; ma per esempio

sono emersi, in molte fabbriche

chimiche,

casi di intossicazione da composti clorurati di sintesi. Devono anche essere valutati gli effetti sociali delle nuove tecnologie. Già nel 1700, parlando appunto delle malattie degli stampatori, Ramazzini scriveva: «Gli antichi, mancanti della tipografia, facevano copiare le loro opere a mano. Quest'arte, che vide la luce il quarto secolo, fece forse più male che bene agli uomini. Allorquando dopo la sua scoperta se ne fece uso, migliaia di uomini perdettero ad un tratto il vantaggio di guadagnare il proprio vitto e quello delle loro famiglie; i monaci stessi soffersero della sua pessima influenza, e si videro togliere l'onesto guadagno che essi facevano copiando libri dopo i loro uffici» 7. Ogni autore ha il sospetto, se è dotato di spirito autocritico, che

molti, nel leggere la sua opera, possano davvero pensare che l'arte della stampa «fece più male che bene agli uomini». Considerando però i libri alla stregua di un qualsiasi prodotto industriale, il giudizio del Ramazzini va corretto sulla base dell'esperienza. Oggi, un numero di persone mille volte maggiore di quello dei monaci del XIV secolo guadagna «il proprio vitto e quello delle loro famiglie» nelle moderne tipografie. Lo squilibrio e il danno tuttavia vi furono, quando apparve la nuova tecnica; né si potevano convincere allora i monaci a rinunziare al loro onesto guadagno e a soffrire in nome dei vantaggi per i secoli futuri, così come oggi non si può fare analogo discorso ai nuovi «disoccupati tecnologici». Una seconda ottica, spesso trascurata, è l'analisi dell'influenza 40

esercitata sulle innovazioni tecnologiche dalle esigenze di salute e di sicurezza dei lavoratori (e in epoche più recenti, dei consumatori e dei cittadini). Questa esigenza si manifestò fin dalle fasi più anti-

che. Per quanto riguarda l'energia, per esempio, la rivoluzione neolitica, con l'addomesticamento del bue e del cavallo, trasse impulso anche dall'esigenza di alleviare la fatica muscolare umana, fino ad allora unica fonte eîdergetica disponibile per il lavoro. Anche per questo aspetto, molti esempi possono essere tratti dalla storia dell'industria chimica, riferendosi sia alla salute dei lavoratori sia a quella della popolazione. Derry e Williams, ad esempio, nella loro Storia della tecnologia !0 individuano questa influenza già nella prima attività chimica applicata su larga scala, la produzione della soda. Questa ebbe sviluppo industriale all'inizio dell'800, con il processo Leblanc, nel quale «si trattava il sale comune (cloruro sodico) con acido solforico, si mescolava il solfato di sodio così ottenuto con carbone e calcare, e si riscaldava al calore rosso. La soda (carbonato sodico) veniva liscivata con acqua dalla ‘cenere nera”. La soluzione veniva poi fatta essiccare mediante evaporazione in recipienti aperti; il prodotto così ottenuto veniva ulteriormente purificato per cristallizzazione, utilizzando contenitori di vetro». In seguito, questo procedimento subì delle modifiche, dovute al fatto che «la reazione dell'acido solforico col sale nel primo stadio del processo Leblanc produceva nuvole di acido cloridrico, sottoprodotto gassoso e distruttivo, che provocava le giuste rimostranze di che viveva nelle vicinanze delle fabbriche di soda, e quindi continue liti. Muspratt pensò di diminuire questo inconveniente espellendo il gas attraverso altissime ciminiere (una era alta quasi 28 metri), ma nel 1836 William Gossage, un industriale chimico del Worcestershire, inventò delle torri nelle quali il gas veniva assorbito da una corrente discendente di acqua. Così si preparò la via alla legge sugli alcali (Alkali Act) del 1863, che faceva obbligo ai fabbricanti di assorbire almeno il 95% dell'acido cloridrico» !!. Si giunse, in questo caso, alla sanzione giuridica della priorità della salute sulle opzioni tecnologiche della produzione. Un altro esempio è l'uso del fosforo nella produzione dei fiammiferi. Il fosforo rosso fu scoperto nel 1845, ma usato ovunque solo dopo il 1906, quando la convenzione di Berna ne prescrisse l'obbligo al posto del fosforo bianco, che provocava le terribili manifestazioni del fosforismo negli operai delle fabbriche di fiammiferi. Laura Conti osserva che «il problema fu più difficile quando si 41

trattò di affrontare la questione delle tinte bianche industriali» e di ottenere l'uso di un sale di zinco, scarsamente pericoloso, al posto dei sali di piombo che provocavano di frequente il saturnismo; e ricorda l'episodio pittoresco di un comizio inglese in cui un operaio «a scopo dimostrativo spalmò una tartina con bianco di zinco e la mangiò fra lo stupore di tutto il pubblico, poi spalmò un'altra tartina con bianco di piombo e sfidò gli avversari della legge da lui e dai suoi compagni propugnata, a mangiarla come lui aveva fatto con la tartina precedente» !2. La storia dell'intossicazione da piombo è peraltro istruttiva per molti aspetti. L'uso di questo metallo pesante è molto antico, così come antica è la sua patologia. Di semplice manipolazione per la sua duttilità, non richiede elaborazioni complesse per estrarlo dai minerali piombiferi, dato che fonde a bassa temperatura; è stato certamente uno dei primi scoperti e usati dall'uomo: ossidi e sali di piombo vennero impiegati come coloranti nella pittura e come com-

ponenti di base per gli smalti delle ceramiche. L'intossicazione da piombo, chiamata «saturnismo» da un termine che risale al linguaggio dell'alchimia, fu descritta per primo dal poeta e medico greco Nicandro più di duemila anni fa. La presenza del piombo ha accompagnato lo sviluppo delle civiltà euroasiatica e americana. In una lista di tributi del faraone Tutmosi

II (150 a.C. circa) si parla di

piombo come preda bellica. Gli Egiziani lo utilizzavano sia per scopi ornamentali che manufatturieri. Si conoscono testimonianze del suo uso anche presso le antiche civiltà dell'India e della Cina. Nel II millennio, presso alcune tribù delle coste del Mar Nero si mise a punto un procedimento detto di «coppellazione», che permise l'estrazione dell'argento come metallo allo stato puro da un insieme di minerali, fra cui il piombo. Questa innovazione permise lo sviluppo della produzione, aumentò l'importanza dei giacimenti minerari e con lo sfruttamento intensivo delle miniere di Laurion contribuì all'ascesa della potenza ateniese. Successivamente i romani diffusero ulteriormente l'impiego del piombo, facendone un

grande uso nelle tubature per i loro sistemi di acquedotti, dei quali conserviamo ancora testimonianze; e probabilmente, la patologia fino ad allora quasi esclusiva dei lavoratori si diffuse, con l'acqua potabile, alla popolazione. Quando ebbe inizio la manifattura e poi l'industria, questo metallo fu utilizzato in quantità enormi. Nel secolo scorso venne compilato un elenco di quaranta mestieri nei quali esso veniva 42

impiegato. L'introduzione di nuove tecnologie e di nuove lavorazioni, se ha limitato i danni causati dall'esposizione a questa sostanza tossica in alcune attività produttive, è stata anche causa della diffusione di malattie collegate al piombo tra i consumatori e in tutto l'ambiente. Questa «esportazione» di nocività avviene soprattutto da parte dei mezzi di trasporto che usano benzine con piombo tetraetile (adoperato come additivo anti-detonante). L'esposizione a questa sostanza coinvolge ora, in maniera diversa, oltre ai lavoratori delle industrie produttrici, tutti coloro che vivono in ambienti dove il piombo risulta presente (nell'aria, nelle bevande, negli alimenti, nelle stoviglie, ecc.). E stato constatato per esempio che nelle popolazioni urbane esistono tassi di assorbimento del piombo fino a cento volte superiori a quelli di popolazioni che vivono lontane da questa fonte di inquinamento. E accaduto tuttavia più volte che le esigenze di salute e di sicurezza fossero invece uno dei fattori di impulso all'innovazione. Ciò fu anche sottolineato nelle prime fasi dell'automazione, quando si affermò che ciò avveniva per tre esigenze: «1. Impossibilità di adibire il personale al trattamento di materie prime, semilavorati o prodotti. È chiara la necessità, trattandosi ad esempio di liquidi o gas nocivi, di tenere lontano il personale con i maggiori automatismi possibili. È chiaro, altresì, per le industrie basate sulla fissione degli atomi, che le industrie stesse presuppongano il più assoluto automatismo. 2. Necessità igieniche delle lavorazioni. Prescrizioni legislative impongono, per alcune lavorazioni di generi alimentari o di prodotti farmaceutici, automatismi che evitano il contatto con l'uomo ed il pericolo di inquinamento. 3. Sicurezza del personale. Sono legati a questa causa la progressiva automazione delle fabbriche di esplosivi e tutti gli automatismi dei settori nei quali, per prescrizioni legali, si richiede un automatismo (norme sulla sicurezza del lavoro)» 13.

Una terza ottica, la più complessa, è lo studio dell'interdipendenza tra fenomeni biologici (0 biosociali), come la natalità, la mor-

talità, le epidemie, le carestie, e le trasformazioni tecnico-produttive. Certamente, nelle varie epoche, la maggiore o minore natalità e mortalità, le carestie, le guerre, la diffusione di questa o quella malattia come fenomeno di massa, hanno modificato spesso bruscamente la composizione demografica di intere regioni, influendo

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necessariamente su fenomeni quali la carenza o l'eccesso di manodopera, la situazione economica e l'organizzazione del lavoro. Si possono prendere in esame periodi caratterizzati da profonde crisi e da espansioni demografiche, che si sono avute con frequenza nel corso della storia. In Europa, dopo la fase di espansione demografica del '500, ad esempio, subentrò un periodo di stagnazione, se non di regresso, che durò fino a tutta la prima metà del '700.I motivi sono molteplici e di varia natura: le conseguenze della guerra dei trent'anni, il «grande inverno» del 1709, le carestie e la diffusione di malattie infettive a carattere epidemico. Tra l'altro, per circa duecentocinquanta anni, a partire dal '500, la terra attraversò un periodo climaticamente più rigido del normale, come è provato anche dagli studi sui ghiacciai, dall'esame dei dati meteorologici, dall'andamento delle vendemmie e da alcuni rilievi effettuati sugli alberi. L'intreccio di questi fenomeni con lo sviluppo dell'organizzazione della società è stato studiato da scienziati di diverse discipline. Alcuni hanno suggerito l'ipotesi che l'incremento di popolazione verificatosi dal '500 avesse portato l'Europa sull'orlo della miseria e della crisi. Per altri, la pressione demografica sembra che abbia costituito un incentivo allo sviluppo delle culture intensive, e che lo stesso sia avvenuto in campo industriale, dove si possono osservare miglioramenti, innovazioni tecnologiche e sviluppo della metallurgia e della tessitura. La fine di questo periodo di stagnazione demografica fu ricca di implicazioni, e favorì lo sviluppo della nascente rivoluzione industriale. T.S. Ashton sofferma la sua attenzione sulla coincidenza tra i due fenomeni, mettendo a confronto due tesi contrapposte: la prima tesi è di coloro i quali affermano che «fu il progresso industriale a provocare l'incremento di popolazione»; per l'altra, invece, ci fu un «aumento della popolazione che, agendo sulla domanda dei beni, stimolò l'espansione dell'industria» !4. La stessa osservazione è fatta da A. Armengaud, quando si chiede come questi due aspetti, sviluppo economico e incremento demografico, si siano condizionati concretamente tra loro nei vari paesi, cioè se «l'Europa occidentale, in virtù del suo alto grado di sviluppo e della sua economia più avanzata, sia cresciuta più rapidamente», oppure se questo sviluppo sia dovuto al più alto tasso di natalità !5. Un esempio locale, ma con implicazioni più vaste, su come lo sviluppo delle tecniche sia stato influenzato da fattori biosociali, è

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lo stimolo alla trasformazione per le pressanti esigenze alimentari dovute alle carestie e alle epidemie succedutesi nel '700 nelle risaie del Novarese e del Vercellese, alla fine di quel secolo e nella prima metà del successivo. L'occupazione in queste culture si moltiplicò, ma tale crescita non fu soltanto quantitativa: numerosi agronomi attribuiscono ai risicultori «l'introduzione di importanti miglioramenti tecnici, quali PSI esempio le nuove rotazioni basate sul riarricchimento del terreno dopo un lungo ciclo pluriennale di coltivazione del riso» !6. E probabile, come afferma Faccini «che proprio le due aree ad est e ad ovest del Ticino siano state il centro propulsivo non solo dell'estendersi della risicoltura, ma anche del perfezionamento delle sue tecniche» !7.

4. Lo spossessamento del corpo In latino vi era una sola parola (/abor) per designare contemporaneamente il lavoro e lo sforzo, la fatica, la pena, lo strapazzo; e anche nel greco antico ponos significava lavoro ma anche fatica, pena, molestia, sofferenza, lotta, combattimento; la stessa identità di significato esiste nelle radici di altre lingue semitiche e indo-europee. Non solo nella società schiavistica e in ogni altra società divisa in sfruttatori e sfruttati, ma anche nelle comunità primitive dove non esistevano differenziazioni di classe, il lavoro si è sempre accompagnato al dolore. La natura non offre spontaneamente all'uomo i suoi doni; il prezzo della loro acquisizione oscilla dal minimo della fatica, al massimo della malattia (e delle sue estreme

conseguenze). Si può discutere se questo pagamento sia inevitabile; quali ne siano le cause: nei mezzi tecnici, nel livello delle conoscenze, nei rapporti sociali di produzione; quanto sia possibile scindere lavoro e pena, ed estendere a tutti la gioia creativa del lavoro come trasformazione. Storicamente, il prezzo pagato è cambiato notevolmente per quantità, ma anche per organi e funzioni lese. Una prima volta ciò accadde nel lungo passaggio dal processo lavorativo semplice, nel quale l'uomo «mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita» !8, alla produzione sociale, nella quale l'uomo non entra in rapporto con la natura 45

semplicemente per essere egli stesso natura, ma per mezzo di tecniche sempre più perfezionate, di strumenti estranei al suo corpo, in un quadro di rapporti sociali (proprietà e mercato) storicamente determinati. L'ambiguità di questo passaggio è espressa nella frase di Leonardo: «il coltello, accidentale armadura, caccia all'omo le sue unghie, armadura naturale» !9. L'uomo progredisce, ma la sua natura stessa gli diviene in qualche modo estranea, per l'artifizio dello strumento e per un'altra separazione: dall'esserne possessore. Nel mondo antico, questa scissione fu totale per l'esistenza della schiavitù. Le conseguenze sono note, soprattutto per il lavoro di estrazione dei minerali dalla terra. Nelle miniere d'argento di Laurion, all'epoca della democrazia ateniese, il lavoro veniva svolto soltanto dai prigionieri «la cui vita e le cui braccia erano considerate completamente disponibili fino alla morte» 20. L'utilizzazione degli schiavi fu la regola anche nell'epoca romana, «con metodi che sfruttavano la manodopera fino all'esaurimento» 2!. Non esistono molte fonti precise, ma Diodoro Siculo, ai tempi di Augusto, scriveva che nelle miniere d'argento spagnole i lavoratori più forti erano i più sfortunati, perché erano i più lenti a morire. Per le miniere dell'Egitto, dell'Etiopia e dell'Arabia, le disgrazie di coloro che vi erano costretti a lavorare vengono annotate, in tutta la loro crudezza, dallo stesso Diodoro Siculo: «e poiché a nessuno d'essi è permesso di fare quanto pur l'esigenza vorrebbesi, a modo che nemmeno hanno fascie, od altro, che copra le parti che ognuno vorrebbe nascoste, facile cosa è concepire quale acuto senso di pietà debbano fare quegli infelici a chiunque vegga l'estrema calamità, in cui sono. Né a chi tra essi sia ammalato o mutilato, si accorda venia, o remissione di sorta, e tutti vengono spinti a tirare innanzi il lavoro a furia di flagello, finché oppressi dall'enormità dei mali spirino sotto la fatica» 22. Si hanno scarse notizie sul lavoro minerario durante l'Alto Medio Evo. In uno dei centri dell'attività estrattiva in Sassonia, nell'Europa

centrale, le condizioni di lavoro nelle gallerie furono accuratamente descritte da un medico, Georg Bauer, noto con il nome di Agricola,

nei dodici libri intitolati De re metallica, nei quali egli riferisce dell'uso di ventilatori rotanti e di mantici, della ruota idraulica come normale fonte di energia, e soprattutto esamina le condizioni microclimatiche delle gallerie, nelle quali le «lampade accese vengono spente», e «i velenosi vapori vi stazionano pericolosamente» 23. Sia nell'antichità, e in forme più perfezionate all'inizio dell'era

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moderna, lo spossessamento del corpo si estese perfino alle escrezioni. Uno scritto di Plinio parla di una categoria di tintori costretti a pigiare con i piedi le stoffe, immerse in recipienti nei quali era contenuta la loro urina; ma un procedimento simile veniva ancora impiegato per il lavaggio dei tessuti nella Venezia del XVIII secolo. E Ramazzini stesso che così lo descrive: «Siffatto uso è tutt'ora in vigore al nostro tempo, poiché negli opifizi dei pennajuoli dove cardansi le lane e dove fabbricansi i panni, sonovi alcune botti nelle quali vanno ad orinare tutte gli operai, e vi si lascia putrefare l'orina per essere impiegata in tale stato. Essendo andato un giorno a visitare queste officine, fui colpito da odore penetrantissimo e molto disaggradevole; domandai donde provenisse e mi si mostrò una botte nella quale vengono forzati ad orinare a motivo di una legge

fra essi stabilita» 24. All'inizio della rivoluzione industriale l'evoluzione della tecnica consentì, a causa dell'uso di fonti energetiche alternative a quella muscolare e all'accentuazione delle caratteristiche minute della manualità, di ricorrere ad individui con scarsa energia, comé i bambini, che in precedenza non era economicamente vantaggioso impiegare nella manifattura. Nelle pagine scritte in quell'epoca vengono riportate significative testimonianze: «è doloroso spettacolo che stringe il cuore il vedere questi teneri fanciulli accovacciati e curvi sotto le macchine, con la testa piegata sul petto, con gli arti inferiori piegati e contorti sotto le natiche e immersi in un'atmosfera pulverulenta e sovente fetida» 25. Una delle fonti, sulle conseguenze dell'impiego dei minori nei centri industriali, è costituita dalle Società di mutuo soccorso; quella degli operai di Pellezzano (Salerno) racconta, ad esempio, che la distanza percorsa dai fanciulli per recarsi dalle abitazioni al luogo di lavoro, e per farvi successivamente

ritorno,

era di dieci o dodici

chilometri

al giorno.

Dopo aver percorso questa distanza, essi «stanno in piedi dodici ore seguendo il moto delle macchine per cardare e filare il cotone, respirando un'aria mefitica la quale cresce quelle creature macilente e imperfette; e a tutto questo occorre aggiungere lo scarso nutrimento per la poca retribuzione che ricevono dal loro lavoro. La prova più evidente di questa verità è la leva militare dalla quale viene scartato il 50%» 26. Le stesse condizioni vengono denunciate anche per il proletariato inglese. Illustrando le cause dell'indebolimento fisico dei lavoratori, Engels ne interpreta così le ragioni: «è raro trovare tra di essi indi47

vidui robusti, ben costruiti e sani, almeno tra gli operai industriali che lavorano per lo più in ambienti chiusi»; essi sono tutti affetti da «cattiva digestione, e per conseguenza sono tutti più o meno ipocondriaci e di umore cupo e scontroso. Il loro fisico indebolito non è perciò in grado di opporre resistenza alle malattie, e ad ogni minima occasione ne viene colpito: per questa ragione invecchiano precocemente e muoiono giovani. Le statistiche sulla mortalità recano in proposito dimostrazioni inconfutabili» 27. Anche nelle campagne, per il lungo periodo della penetrazione capitalistica, le condizioni di lavoro furono pessime. Si deve ricordare che «i proletari italiani della terra (erano) disposti, per necessità, a lavorare giornalmente dieci, undici, dodici e più ore al sole,

al vento, al freddo, nell'acqua, tra le zanzare e le sanguisughe» 28. Faccini, nel suo lavoro sulla risicultura nell'800, riporta lo scritto di un medico del tempo, nel quale si descrive lo stato di salute dei coltivatori del riso: su tutti i loro volti appare «lo squallore e la malsania di mezzo a quelle rigogliose campagne, ma che apportano ai miseri cultori febbri in buon dato, spesso recidive, ostinate, nonché

facili a passare nella forma gravissima delle perniciose». Nella enumerazione delle malattie delle zone coltivate a riso, si legge che «dominano

la clorosi, le nevralgie, l'idiotismo, le nefriti, i disturbi

gastroenterici, la dissenteria anche maligna, le piaghe alle gambe, varici e simili» 29, Le condizioni di lavoro e di salute migliorarono notevolmente — ne vedremo le cause — nell'ultima fase del XIX secolo e nel primo decennio di quello successivo. Non si può però dimenticare che condizioni analoghe a quelle descritte persistono tuttora in molti paesi del mondo; e che, anche in Europa, vi fu un periodo nel quale lo sfruttamento del lavoro giunse a un vero e proprio sterminio, peggio che nell'epoca della schiavitù. I milioni di deportati in Germania subirono il martirio per motivi razziali e politici, ma non solo. In gran parte, vennero impiegati nelle fabbriche che operavano accanto ai campi di concentramento nazisti. Non va dimenticato che, malgrado lo stato di guerra, la produzione industriale in Germania nel 1944 era da tre a quattro volte superiore a quella del 1941; dato ancora più significativo, la produttività era aumentata del 135%. Considerando retrospettivamente le stragi di massa provocate dalla fame e dalle malattie, fra gli oltre tre milioni di prigionieri di guerra russi, Himmler si rammaricò di tanti morti con que48

ste parole: «Allora non valutavamo la massa uomo così come oggi la valutiamo, quale materia prima, forza-lavoro. Cosa che in definitiva, se penso in termini di generazioni, non è un peccato, ma che oggi è deplorevole per la perdita di forza-lavoro» 30. Alla fine della guerra furono stimate intorno ai sei milioni le vittime condannate «all'annientamento mediante il lavoro». La loro sorte viene tristemente riassunta da Ùna disposizione inviata da Pohl ai responsabili dei campi di concentramento: l'uso dei prigionieri «deve essere esaustivo nel vero senso della parola. L'orario di lavoro non è vincolato ad alcun limite» 31. È opportuno ricordare che nonostante lo sfruttamento avesse raggiunto forme così estreme, si tentò, anche in questa occasione di mascherarlo con motivi umanitari; il più noto dei campi di concentramento,

quello di Auschwitz,

recava

al suo

ingresso questa scritta: «Arbeit macht frei»: il lavoro rende liberi.

5. L'opera e il metodo di Ramazzini Ho accennato in più punti a notazioni e informazioni sulla patologia del lavoro, sparsi quasi casualmente nelle opere dell'antichità e del medioevo. Da queste fonti si deve giungere alla fine del XVII secolo per vedere nascere, come scienza autonoma, la medicina e l'igiene del lavoro. È il secolo che si apre nel 1610 con il Sidereus Nuncius di Galilei e si chiude nel 1687 con i Principia di Newton. La nuova disciplina si inserisce, quindi, in quel clima di rinnovamento culturale e scientifico che ha caratterizzato la nascita della società moderna. I fattori culturali che hanno contribuito a realizzare questa trasformazione sono stati così riassunti da Geymonat 32:

«1. recupero del mondo classico e formazione di una nuova concezione dell'uomo, della natura e di Dio; 2. travaglio religioso e frattura del Corpus Christianum in Chiesa riformata e Chiesa cattolica; 3. elaborazione del metodo matematico-sperimentale e conseguente avvio della scienza moderna».

Più avanti vengono ricordati altri due temi che caratterizzarono la nuova cultura:

«1. nuovo interesse per le strutture particolari della natura, e per i 49

dispositivi tecnici diretti a dominarla e utilizzarla a vantaggio dell'uomo; 2. nuovo atteggiamento di fronte al mondo naturale (nella sua globalità)» 33.

In questo clima di generale rinnovamento, in questa continua ricerca volta ad aumentare le capacità di conoscenza e trasformazione della natura, si cominciò a colmare l'antico divorzio tra teoria e pratica, tra scienza e tecnica. Da questo risveglio culturale non poteva rimanere esclusa la scienza medica. Alcuni centri culturali di notevole tradizione, come l'università di Padova, raggiunsero nello studio dell'anatomia i risultati più prestigiosi. Studiò in questa città, tra l'altro, W. Harvey, il quale operò una rivoluzione nella conoscenza e nell'idea del corpo umano con la scoperta della circolazione del sangue. Qui ottenne nel 1700 la seconda cattedra di Medicina pratica, e nel 1709 la prima, colui che per la sua opera De Morbis Artificum Diatriba viene riconosciuto come il fondatore della medicina del lavoro: Bernardino Ramazzini. Ramazzini nacque il 4 ottobre 1633 a Carpi (Modena), dove studiò presso i gesuiti fino all'età di 19 anni, per poi recarsi a Parma dove conseguì la laurea dottorale per i suoi studi filosofici e medici. Successivamente si trasferì a Roma per un periodo di tirocinio, e svolse così la professione di medico condotto nell'Agro romano; ma dovette interromperla dopo breve tempo perché colpito da una grave forma di malaria, che lo costrinse a tornare nella sua città. Dopo essersi rimesso, nel 1671 si recò a Modena, e qui, dopo una serie di opere minori, pubblicò nel 1700 lo scritto per il quale è rimasto famoso. Benché già altri autori avessero studiato il rapporto tra le condizioni di lavoro e le malattie da esse causate, «il grande merito di Ramazzini è d'aver affrontato il problema nella sua interezza, risalendo ai suoi aspetti generali; lo studio, poi, viene svolto in modo analitico, abbracciando praticamente tutto il mondo del lavoro ai suoi tempi» 34. In questo trattato, infatti, vengono prese in considerazione 52 categorie di lavoratori, suddivisibili in cinque grandi gruppi: 1) quelli che lavorano i minerali (minatori e metallurgici); 2) i lavoratori sottoposti all'inalazione di polveri o di particelle solide (ad esempio i fornaciai, i fornai, i mugnai, gli scalpellini, i cardatori, i lavoratori del tabacco, ecc.); 3) coloro che hanno alcuni

organi del proprio corpo sottoposti ad uno sforzo intensivo (gli oro50

logiai, gli intarsiatori, i miniatori, che sforzano la vista: i cantori, che sforzano i polmoni e le corde vocali; gli atleti, i lacché, i facchini, che sforzano l'apparato muscolare, ecc.), 4) categorie che vengono colpite per le condizioni generali di vita che conducono (i marinai, i contadini, i pescatori, ecc.); e infine 5) le levatrici, le nutrici, i medici e i becchini, lavoratori, cioè, che svolgono il proprio lavoro a contaîto con persone o con materie che possono tra-

smettere agenti patogeni. Sulle motivazioni che indussero Ramazzini alle sue ricerche, può apparire oggi uno strano miscuglio di retorica e di scurrilità quella riferita da lui stesso, e precisata nella prefazione scritta dal De Fourcroy nel 1776 al saggio di Ramazzini, in cui si racconta: «Osservava Ramazzini a Modena dei votacessi che lavoravano nelle latrine della sua casa; colpito dai pericoli cui essi correvano, rifletté ai mezzi di scemarli, e di rendere meno spaventevole la loro condizione. L'umano suo cuore soffrì, e l'ardente suo genio gli suggerì l'idea di rimediare a siffatti malori. Ed appunto a tal epoca, che fa onore al suo animo, dobbiamo il Trattato che ci lasciò sopra le malattie degli artefici» 35. Oggi i sistemi meccanici hanno sostituito molto spesso la fatica dell'uomo, anche in lavori di altrettanto disagio, come quelli che avevano ispirato l'opera di Ramazzini. Il Wetzel osserva che «mestieri assai diffusi che erano al centro dell'interesse di Ramazzini, sono scomparsi: al massimo, li ritroviamo pietrificati nei cognomi» 36; parallelamente si è modificata la patologia del lavoro, che ha visto scomparire certi quadri morbosi e apparirne di nuovi. Non vi è dubbio, tuttavia, che la motivazione umanitaria, il porsi «dal punto di vista dei sofferenti» ha rappresentato sempre uno degli impulsi alla ricerca sulle malattie dei lavoratori. Sorge tuttavia la domanda: perché queste ricerche vennero avviate intorno all'anno 1700? Oltre all'influenza del rinnovamento culturale e dell'interesse per il rapporto fra l'uomo e la natura, mediato dal lavoro e dalla tecnica, possiamo trovare una risposta a tale quesito nelle mutate condizioni socio-economiche nelle quali lavorò il Ramazzini. Nella sua opera leggiamo: «infrattanto, i sommi vantaggi che ne ritraggono e i principi ed il commercio, l'uso sì moltiplicato e sì necessario dei metalli in pressoché tutte le arti, sono potenti motivi che ci spingono a studiare le loro malattie, e a proporre mezzi preservativi e curativi per la loro conservazione» 37. Il problema che si pone, quindi, è quello della conser51

vazione della forza-lavoro. Si è passati, in sostanza, da un periodo, quello dello schiavismo, in cui sul lavoratore gravava ancora il «primitivo concetto di cosa, proprietà del padrone, alla quale era negato qualsiasi attributo di personalità, e della quale non meritava conto che la società si prendesse cura»38, a un periodo in cui è indispensabile che i lavoratori sopravvivano e che possano riprodursi. Un'esigenza utilitaristica, «i sommi vantaggi che ne ritraggono e i principi e il commercio», si associa quindi alla curiosità scientifica e allo slancio umanitario. In qualche caso, quando per esempio parlò delle condizioni di salute degli agricoltori, Ramazzini arrivò a denunciare, oltre che il carattere malsano di questo lavoro, anche le radici sociali della loro situazione 39. Sulle finalità e sul metodo dello studio di Ramazzini, si possono sottolineare quattro punti. Egli afferma innanzitutto che scrive il suo trattato «per contribuire al bene della repubblica e al sollievo degli artefici» 49. Questo concetto, secondo cui la medicina debba servire

al bene dei lavoratori e insieme dello Stato, viene quasi interamente ripreso dalla nostra Costituzione nell'art. 32, nel quale si afferma che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività». Ramazzini inoltre si inserisce in una cultura che critica il riferimento esclusivo agli insegnamenti dei maestri (per la medicina Ippocrate, e più ancora Galeno); e adotta, in sintonia con la sua epoca, il metodo dell'osservazione diretta della realtà. Egli ricorda che non mancò «di visitare talvolta le botteghe e le officine più vili, per osservarvi con cura tutti i mezzi usitati nelle arti meccaniche» 4!. Anche l'esempio dei votacessi, già segnalato, è indicativo di questa tendenza: «Mentre si vuotava la mia [latrina] — egli scrive — avvisai di esaminare uno dei vuota-cessi, il quale in questo abisso infernale lavorava con precipitazione e ansietà... Gli domandai perché si affannava tanto... Allora questo infelice, levando gli occhi verso di me: “Niuno, mi disse egli, non può immaginare quanto ci costi il rimanere per più di quattro ore in tale fossa”, senza rischiare di diventare cieco» 42. Dopo avergli osservato gli occhi, ed averli notati rossi e infiammati, il Ramazzini pensò di compiere un'indagine per cercare di capire quali conseguenze questo tipo di lavoro avesse avuto sui lavoratori che già avevano svolto lo stesso mestiere; egli annota così d'aver visto «molti vecchi vuotacessi guerci o ciechi, che chiedevano la limosina nella città» 43. Oltre alla grande innovazione costituita dall'indagine sul campo, c'è un altro IZ

elemento di estrema modernità: il risalire dalle malattie del singolo lavoratore a quelle dei lavoratori d'una categoria. È il passaggio dal caso clinico all'indagine epidemiologica. La terza considerazione riguarda la sua visione delle malattie. Egli partì dall'ipotesi di Ippocrate del rapporto tra ambiente e malattia; ma, a differenza di quest'ultimo, individuò nel lavoro una delle cause determinanti. Per tale motivo egli «spinge il medico a risalire dallo studio dell'individuo malato a quello della sua professione» #4, a prendere visione dei materiali e degli strumenti adoperati. L'analisi del luogo di lavoro, oltre ad aiutare a comprendere qual è il male che affligge il lavoratore, può servire sia ad indicare le opportune modifiche tecniche, atte ad eliminare gli agenti patogeni, sia ad informare il lavoratore sui comportamenti necessari per rendere questi agenti il meno nocivi possibile. Quest'ultimo aspetto è un filo che lega tutta l'opera del Ramazzini; egli, infatti, prende in considerazione non solo il lato terapeutico (per il quale anzi ostenta in più punti una sfiducia evidente, espressa spesso nei suoi sarcasmi e nella sua ironia), ma anche il lato preventivo della medicina, «basato essenzialmente sull'igiene delle persone e sull'ambiente di lavoro. La sua opera sulle malattie professionali è fondata sul concetto igienico e profilattico; è quindi non solo una patologia del lavoro, ma anche un'igiene del lavoro» 45. È da valutare, infine, l'atteggiamento di Ramazzini nei confronti della scienza e della tecnica. Due sono i criteri che ne orientano le posizioni: l'accuratezza dell' analisi di ogni singola attività e la mancanza di schematicità nel giudizio. Leggendo il suo libro, non si può non rimanere colpiti dalla precisione con cui vengono descritte le condizioni di lavoro degli «artefici»; non vi è mai superficialità nella descrizione

dei mestieri,

tutto viene

osservato

a fondo

(il

clima, l'illuminazione, gli strumenti che si usano, ecc.). Dopo questa fase ricognitiva, Ramazzini esprime le sue valutazioni su ciò che ha visto, evitando sempre di dichiararsi pro o contro l'uso di questa o quella tecnica. Tranne che nel caso della stampa, da lui giudicata con ironia perché causa di disoccupazione per i copisti e perché avrebbe facilitato la diffusione di opere non meritorie, negli altri casi c'è sempre una valutazione molto attenta e parallela dei rischi e dei benefici derivanti dalle innovazioni tecnologiche. Esemplare in proposito è l'atteggiamento nei confronti dei chimici, a proposito dei quali afferma che, sebbene «si vantino di poter dominare tutti i

veleni minerali, non possono garantirsi essi stessi dai loro perniciosi 53

effetti... e il colore livido del loro viso smentisce la loro bocca, e scopre la loro finzione» 46. Tuttavia subito dopo, constatata la nocività di questo lavoro, aggiunge di essere «lungi però di riguardare lo studio della chimica qual lavoro nocevole; i chimici sono stimabili di cercare la natura e la composizione intima dei corpi e di arricchire così la storia naturale delle loro scoperte, sacrificando la propria sanità» 47.

6. Crisi e sviluppo della medicina del lavoro L'opera di Ramazzini ebbe immediato successo. Ma dopo, bisognerà giungere all'800 per poter vedere la ripresa su larga scala dei suoi temi. Le ragioni di questa lunga eclissi sono numerose. Fra queste, il disinteresse «dei principi e del commercio» ai quali egli si era rivolto. Ramazzini per la sua opera ottenne molti riconoscimenti, anche internazionali, gli vennero offerte cattedre universitarie in diverse città e il suo contributo fu conteso dalle accademie più prestigiose, «al punto che nessun libro ebbe nella prima metà del secolo XVIII tante traduzioni; però è anche vero che nessuno studioso ha lavorato sulle sue orme, ha completato

i suoi studi, e

nessun Principe attuerà qualche cosa di quello che deriva dai testi di Ramazzini» 48. A ciò si deve aggiungere che vi fu anche disinteresse e scherno nell'ambiente medico. Ramazzini dovette sostenere vivacissime polemiche con i medici del suo tempo, dai quali egli «avrà le ironie, i sarcasmi e anche il biasismo perché, si diceva, egli avviliva la scienza, umiliava le cattedre scendendo nei pozzi, nelle gallerie, frequentando i più umili ambienti di lavoro» 49. Bisogna anche parlare dell'immaturità dell'altro interlocutore, i lavoratori stessi. Va ricordato che il periodo in questione corrisponde alla nascita della produzione industriale; ciò significa che i lavoratori non erano ancora sufficientemente organizzati e coscienti da poter assumere la difesa della salute come obiettivo delle loro richieste. Né certo contribuì in tal senso il fatto che il Ramazzini avesse scritto la sua opera in latino (ricordiamo che il Dialogo di Galilei fu scritto in italiano), escludendo così a priori la possibilità che le sue idee si diffondessero tra i lavoratori stessi. Infine all'inizio del '700 la scienza medica, nonostante tutte le discipline scientifiche si sviluppassero, trovò in alcuni fattori di carattere culturale e sociale, ad essa specifici, elementi che tendevano ad impedirne lo 54

sviluppo. Essa, infatti aveva per oggetto, più di qualsiasi altra scienza, la vita degli uomini, ed era perciò «esposta a pressioni provenienti dall'esterno. Inoltre la professione medica era in mano a corporazioni le cui idee riflettevano le tradizioni sociali più che i progressi scientifici» 59, Intorno alla metà del XIX secolo si avviò invece uno sviluppo senza precedenti delld scienze mediche; e fra queste, della medicina del lavoro. Tra i fattori generali di questa ripresa Shryock sottolinea il riconoscimento universale della sperimentazione moderna; la visione ottimistica della scienza; il miglioramento generale delle condizioni di vita, il quale portò al rifiuto di metodi di cura particolarmente violenti o ripugnanti; l'accelerata evoluzione dell'anatomia (dovuta anche alla possibilità di compiere l'autopsia dei cadaveri) e della fisiologia; l'interesse per l'osservazione clinica, la quale aprì a sua volta prospettive favorevoli alla ricerca; e infine, il riesame critico dei «rimedi delle comari», della «medicina popolare», il quale fu tra i fattori che permisero lo sviluppo della farmacologia. Per quanto riguarda la medicina e l'igiene del lavoro, gli impulsi vennero da molte fonti:

1. Gli studi statistici sulla mortalità differenziale, compiuti particolarmente in Francia. Le indagini più interessanti sul rapporto che intercorre tra le condizioni ambientali e la mortalità furono condotte nei primi decenni dell'800 nell'ambito della «scuola di Parigi». Uno degli studi più innovativi fu quello condotto dal Villermè, il quale, elaborando i dati di una ricerca sulle condizioni di vita nella città di Parigi, rilevò come il tasso di mortalità «variava da quartiere a quartiere, in altri termini era funzione del livello di vita del gruppo sociale studiato. Il fatto in sé non presentava nessuna novità; ma, esprimendolo con una formula, Villermè mise in luce con maggiore evidenza il rapporto esistente tra l'ambiente e la salute pubblica» 5!. 2. Le indagini degli ispettori del lavoro. L'ispettore del lavoro è una nuova figura professionale che nasce per iniziativa statale e comunale dal 1802 in Inghilterra, ed è direttamente collegata allo sviluppo della grande industria. Dapprima gli ispettori vennero scelti, significativamente, tra i giudici di pace e i ministri del culto; in seguito, sotto la spinta dei lavoratori, che lamentavano come molti fenomeni sfuggissero all'ispettore non specializzato, questo incarico fu affidato anche a medici. Tali ispettori avevano il compito di reprimere le violazioni più evidenti delle leggi sulla DI

sicurezza e l'igiene del lavoro. Le relazioni delle indagini svolte da questi funzionari costituiscono un materiale prezioso per qualsiasi ricerca sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche e nelle miniere del secolo scorso. 3. L'attività legislativa per la tutela del lavoro. La nascita della grande industria provocò, con l'introduzione massiccia delle macchine nella produzione, un notevole prolungamento della giornata lavorativa. Nella determinazione di essa «tutti i limiti, di morale o di natura, di sesso e di età, di giorno e di notte, furono spezzati» 52, Le prime /eggi sociali della società che si afferma con la rivoluzione industriale non sono, come una diffusa pubblicistica ha affermato per lungo tempo, indirizzate a ridurre le ore di lavoro o ad accrescere la retribuzione, ma esattamente al fine opposto. Vi fu in Inghilterra una «legge sul massimo salariale» che vietava di offrire compensi superiori a un certo limite (fu abolita soltanto nel 1813), e una legge che fissava non la durata massima, ma la «durata minima» della giornata lavorativa. Solo più tardi, in seguito sia alle lotte degli operai, i quali rivendicavano più umane condizioni di lavoro, sia al depauperamento della forza-lavoro, che poteva pregiudicare lo stesso sviluppo del capitale, si arrivò a misure legislative atte a regolare i tempi e le modalità di lavoro nelle fabbriche. Ma le prime di queste leggi furono essenzialmente contro i lavoratori. A questo proposito Marx afferma che «nulla serve a definire lo “spirito del capitale” meglio della storia della legislazione inglese sulle fabbriche dal 1833 al 1864». La legge sulle fabbriche del 1833, che

interessava le lavorazioni del cotone, della lana, del lino e della seta prescrive, infatti, che la giornata lavorativa ordinaria di fabbrica deve cominciare alle cinque e mezza di mattina e deve finire alle otto e mezza di sera, e che entro tali limiti (quindici ore) dev'essere considerato legale far lavorare adolescenti (cioè ragazzi fra i tredici

e i diciotto anni) in qualsiasi momento della giornata, sempre presupponendo che un medesimo adolescente non lavori più di dodici ore entro una giornata, eccezion fatta per alcuni casi specialmente considerati. Essa stabiliva, inoltre, il divieto di lavorare per i fanciulli di età inferiore ai 9 anni, mentre quelli tra i 9 e i 13 non potevano lavorare per più di otto ore al giorno (ciò significa che a quel tempo v'erano bambini che lavoravano quasi a tempo indeterminato). Sempre in Inghilterra, con l'«Atto aggiuntivo sulle fabbriche», del 7 giugno 1844, la legislazione veniva estesa anche alle donne, le quali vennero così equiparate ai giovani: il loro tempo di 56

lavoro venne limitato a dodici ore, e vennero escluse dal lavoro notturno.

In Italia, la prima normativa sul lavoro si ebbe molti decenni dopo, nel 1873, a proposito dell'impiego dei fanciulli nelle attività girovaghe, e più organicamente nel 1886. Essa «proibiva l'ammissione negli stabilimenti industriali, nelle cave e nelle miniere ai fanciulli minori di nove anni, o di dieci, quando si trattava di lavori sotterranei, e ai fanciulli dai nove ai quindici anni quando la natura del lavoro non era confacente al loro stato fisico» 53. La legge limitava inoltre a otto ore la giornata lavorativa dei ragazzi inferiori ai dodici anni, e vietava i lavori pericolosi e insalubri ai minori di diciannove anni, mentre non affrontava il problema del lavoro notturno. Solo più tardi, ai primi del '900, si cominciò a precisare meglio l'intervento dello Stato su questa materia. Anche nel campo della previdenza sociale, l'Italia è stata tra le ultime nazioni industrializzate a introdurre l'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali. Fu approvata nel 1898 la prima legge per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro; tuttavia, malgrado le richieste dei lavoratori ed il parere degli scienziati, che chiedevano l'estensione della tutela dal solo infortunio anche alla malattia (Guido Baccelli disse in Parlamento, nel 1901, che occorreva fare insieme le due leggi «come è sorta la legge punitrice dell'azione violenta dell'assassino e la legge punitrice dell'azione violenta

dell'avvelenatore»),

solo

nel

1929,

in

seguito

alla

Convenzione di Ginevra del 1° aprile 1927 che impegnava in modo esplicito gli Stati aderenti, fu approvato il R.D. 13 maggio, n. 928. Esso limitava tuttavia la tutela a poche malattie (intossicazione da piombo, mercurio, fosforo, solfuro di carbonio, benzolo, e anchilostomiasi) e al solo settore dell'industria, lasciando fuori la maggioranza delle malattie professionali e tutti i lavoratori dell'agricoltura. 4. Lo sviluppo delle istituzioni per la tutela della salute pubblica. Esse erano cresciute in alcune aree dell'Europa, soprattutto in Toscana, già tra il XIV e il XVII secolo. Ma, come per l'igiene del lavoro, anche per la diffusione delle istituzioni per la sanità pubblica bisognerà attendere la metà del XIX secolo nel quale, per i suoi fenomeni di industrializzazione e di urbanizzazione, si renderà necessario affrontare questo problema. Il primo periodo dell'industrializzazione, infatti, si rivelò drammatico per la popolazione urbana. I lavoratori arrivavano nei quartieri sovraffollati senza che Syd

nessun provvedimento fosse preso per garantire loro condizioni di vita accettabili. Le case strette e poco ventilate erano prive di servizi igienici; non vi era né acqua potabile né strade pulite. La cattiva alimentazione e l'orario di lavoro rendevano ancora più precarie le condizioni di vita. Conseguenza di tutto ciò fu che in questo genere di agglomerati urbani si ebbe una facile diffusione di epidemie (tifo esantematico, febbre tifoide, tubercolosi, ecc.) con pericoli

per tutta la popolazione.

Questo favorì la nascita di un movimento per la salute pubblica, il quale si voleva per far sì che le autorità prendessero misure igieniche capaci di contrastare la diffusione delle epidemie. Esse, d'altra

parte, cominciavano a preoccupare anche la borghesia: sia per la paura di venirne contagiati, sia in quanto provocavano un depauperamento della forza-lavoro, con il rischio di compromettere l'ulteriore sviluppo economico. I primi risultati delle pressioni per il miglioramento delle condizioni igieniche si ebbero in Inghilterra durante l'epidemia di colera del 1830, la quale costrinse le autorità locali ad affrontare il problema nei suoi effetti immediati; e inoltre,

ciò che fu l'aspetto più importante, a individuarne e limitarne le concause sociali. Tuttavia, affinché il Parlamento promulgasse una legge che istituisse il General Board of Health si dovrà attendere il 1848. I poteri di questo ente, di carattere consultivo e amministrativo, erano molto

ridotti, e i suoi limiti vennero subito evidenziati dalla seconda epidemia di colera, molto più grave della prima. Non ci fu un'organizzazione atta a fermare il propagarsi del morbo. I centri locali istituiti con l'Acf del 1848 non erano ancora stati realizzati 54. Negli anni successivi, nonostante forti ritardi, furono conseguiti alcuni miglioramenti a livello locale; per esempio, a Macclesfield «la pulizia delle strade e gli impianti igienici abbassarono in dieci anni il tasso di mortalità dal 42 al 26 per mille» 55. Pochi decenni dopo gli stessi problemi si posero in tutti i paesi industrialmente avanzati (Francia, Germania, Belgio, ecc.). Al movimento per migliorare le condizioni igieniche e sanitarie nelle città e nei luoghi di lavoro fu dato un apporto rilevante, con le loro opere (saggi, indagini, ricerche), da parte di molti studiosi. Ricordiamo, ad esempio, R. Virchow, il quale, dopo aver partecipato ai moti insurrezionali del 1848 in Slesia, con la sua opera e con tutta l'autorità scientifica di cui era investito, indicò «ufficialS8

mente i compiti della medicina come scienza sociale» 56, mettendo bene a fuoco come sia preferibile prevenire le malattie piuttosto che curarle. Nella stessa direzione si era mosso C. Turner Thackrah, il quale scrisse un trattato su The effect of the Principal Arts, Trades and Professions and of Civic States and Habits of Living, on Health and Longevity (1831). Ancora in Inghilterra molto importante fu l'attività di E. Chadwìck, medico e giurista, il quale contribuì, tra l'altro, alla stesura del primo Public Healt Act del 1848. Egli si rese conto del fatto che «il centro di gravità del problema non stava tanto nel finanziamento delle “cure mediche”, quanto nel modo di prevenire le malattie» 57. Dall'altro punto di vista, quello dei lavoratori, questo stesso problema fu affrontato da F. Engels nell'opera La situazione della classe operaia in Inghilterra. Per gli Stati Uniti ricordiamo gli scritti di J. Sinclair, il quale analizzò l'aumento della mortalità a partire dal 1825 nelle più importanti città industriali; e l'attività di Slattick che, pur non essendo medico, si fece promotore della pubblica igiene compilando una eccellente relazione sulla situazione sanitaria del Massachusetts nella metà del XIX secolo 58. In Francia, a partire dal 1821, cominciò la pubblicazione del Les

Annales d'Hygiène, che facilitò la diffusione della conoscenza dei problemi sanitari nel paese. Sempre in Francia, nel 1876, G. Millot pubblicò uno studio dal titolo De l'hygiène publique... en Italie.

7. Gli orientamenti in Italia In Italia, anche a causa del lento sviluppo capitalistico, questi impulsi si manifestarono con un certo ritardo. Solo verso la fine del XIX secolo divenne attuale il problema delle condizioni igieniche e sanitarie delle fabbriche e dei centri urbani. Molti studiosi si dedicarono a questo argomento (assistiamo infatti a indagini sociali e sanitarie e a proposte di legge). Ma gran parte di questi lavori non rispondevano alle esigenze di una realtà in sviluppo come quella italiana alla fine del secolo scorso. Indicativa a proposito è l'opera del Mantegazza, secondo il quale la difesa della salute «era possibile e neppure difficile»; ma le sue indicazioni erano piuttosto sbrigative: ai minatori, per esempio, egli raccomandava «un lavoro interrotto da lunghi riposi all'aria aperta dei campi e una alimentazione attiva», mentre alle ricamatrici consigliava di lavorare «in S9

camere tappezzate di verde»; per quanto riguarda le responsabilità delle cause delle malattie dei lavoratori, Mantegazza affermava che negli operai «l'ignoranza si marita... ad uno stupido cinismo... chiudono gli occhi e spengono la ragione, per ammalarsi volontariamente» 59. La figura del lavoratore veniva disegnata come quella di un «essere libero di scegliere la professione più congeniale e di cambiarla se inadatta e nociva, di un essere in grado di difendere sul lavoro la propria salute e di determinare in generale la propria sorte» 90,

In seguito, intorno ai primi anni del '900, ci fu da parte di alcuni studiosi,

tra cui il Boeri, il Maragliano,

il Devoto,

un approccio

molto più serio a questo problema. Decisa, da parte di costoro, fu la richiesta di una legislazione sociale, e altrettanto chiara l'individuazione dell'influenza dell'ambiente di vita e di lavoro sulle malattie della popolazione. Molto spesso, tuttavia, l'orientamento dei medici che si avvicinavano al mondo del lavoro era dominato dalla convinzione, influenzata dal clima illuministico e positivista allora prevalente in campo scientifico, che la medicina fosse di per sé in grado di porre rimedio alle ingiustizie sociali. Significativo in proposito è quanto affermò il Devoto in una sua conferenza tenuta a Brescia, nel 1901, sul tema Patologia e clinica del lavoro: «i dettami delle

scienze economiche sono insufficienti a risolvere tutti i problemi del lavoro... il soccorso illuminato della fisiologia e della patologia è indispensabile... con la luce della scienza si arriverà a fare un codice, emanazione delle leggi della biologia e della fisiologia, che costituirà il patto di alleanza tra governi, industriali e lavoratori... Riverenti sfileranno davanti a questa idea benefica... e industriali e proprietari e lavoratori; salutandola pacificatrice delle genti e proclamandola arbitra dei dissidi economici tra gli uomini» 61, In questo stesso clima culturale si inserisce l'opera di alcuni medici socialisti, tra i quali il Carozzi, il Loriga e il Rossi Doria, che compresero più pienamente le interconnessioni tra i vari «agenti di salubrità». Compresero che una medicina del lavoro efficace doveva allargare il suo sguardo oltre le mura dello stabilimento e spaziare verso i fattori sociali, costituiti dalle condizioni economiche, amministrative e politiche del paese nel quale l'industria veniva esercitata. Il Loriga per esempio criticò la tendenza, lungamente coltivata, a ritenere «che le dette condizioni esulassero, o quasi, dalla competenza del medico e fossero invece di spettanza esclusiva del sociologo o dell'uomo politico» 62, e sostenne la sua afferma60

zione con questa argomentazione: «Sono infatti le condizioni economiche e quelle amministrative o politiche, derivanti dalle leggi o dalle consuetudini, o dalla ricchezza, o dal grado di istruzione, od anche dalla civiltà di un paese, quelle che determinano l'impiego più o meno largo delle macchine in sostituzione dell'uomo come produttore di lavoro meccanico (alleviando quindi o aggravando lo sforzo a lui richiesto)\cheiimpongono gli orari di lavoro più o meno lunghi, che sanciscono o trascurano di prescrivere l'obbligo e la durata dei riposi intercalari e dei riposi giornalieri, settimanali, od annuali, che costringono al lavoro notturno, che orientano l'organiz-

zazione tecnica delle lavorazioni verso forme più o meno perfette, cioè più o meno affaticanti e più o meno produttive, che fanno migliori o peggiori le condizioni igieniche dell'ambiente, in una parola che rendono più o meno penoso il lavoro». All'inizio del XX secolo sorgono in Italia nuove istituzioni per la tutela del lavoro. Una delle prime fu la Clinica del lavoro di Milano, fondata grazie all'iniziativa di alcuni influenti medici, tra i quali il Devoto e il Mangiagalli. La loro proposta, rifiutata dalle autorità governative, venne accettata dal Consiglio comunale di Milano (retto dal radicale Mussi) nel 1902. Tale Clinica, finanziata

da banche e industrie della Lombardia, manteneva assidui contatti con le Camere del lavoro e con le associazioni di categoria; inoltre essa si valse dell'apporto di numerosi medici e studiosi socialisti. Dopo il 1910, come rilevano in un loro studio Carnevale e D'Andrea, questa Clinica «raggiunse un elevato livello scientifico con ricerche sulla fatica, sull'intossicazione da piombo, sulla pellagra, sull'anchilostomiasi, ecc. Notevole fu anche l'attività di educazione popolare con numerose conferenze sulla coscienza igienica della classe lavoratrice e sull'assicurazione obbligatoria degli operai contro le malattie» 63. Successivamente, per iniziativa del Ferranini venne inaugurata a Napoli, nel 1919, una seconda Clinica del lavoro. Nello stesso periodo cominciò a svilupparsi anche in Italia il corpo degli ispettori del lavoro. In seguito alle prime leggi sulla tutela del lavoro dei fanciulli e sull'assicurazione e prevenzione degli infortuni, si rese necessario creare un organo tecnico di vigilanza. In un primo tempo, con le leggi del 1906, si realizzò un Ispettorato provvisorio del lavoro e più tardi, nel 1912, l'Ispettorato dell'industria e del lavoro, con funzioni, oltre che di controllo, di raccolta di dati e di inchieste nel campo della tutela sanitaria. 61

Questo Ispettorato, fornito di un'organizzazione centrale con sede presso il Ministero del lavoro, comprese anche un /spettorato medico che svolse le sue funzioni mediante periodici sopralluoghi e controlli presso le aziende. Gli ispettorati furono però oggetto di molte critiche, per inerzie e talvolta per complicità, da parte dei lavoratori. C'è infine da ricordare l'Ente nazionale prevenzione infortuni (Enpi), il quale con la stessa sigla, ma con diversa denominazione (Ente nazionale di propaganda per la prevenzione degli infortuni), era stato istituito nel 1932 per iniziativa della Confederazione generale dell'industria, con il compito di studiare le misure tecniche e organizzative per la prevenzione degli infortuni e l'igiene del lavoro. Aveva derivato la sua origine dalla vecchia associazione degli industriali lombardi, che sotto altre denominazioni (Api, Anpi) dal 1897 svolse attività di consulenza e di propaganda in materia di prevenzione e infortuni per conto delle aziende associate. Nel periodo 1927-1932 l'Enpi fu anche investito di una parte dei compiti di vigilanza che spettavano allora all'Ispettorato corporativo (Ispettorato del lavoro). Nel dopoguerra l'Enpi venne affidato ad una gestione commissariale che si trascinò fino a tutto il 1952, in conseguenza della mancata attuazione della riforma previdenziale e prevenzionistica.

8. Il contributo del movimento operaio Nei rapporti fra tecnica e medicina è infine da rilevare che la nascita dell'industria moderna ha creato le condizioni perché i lavoratori sì associassero, esprimessero comuni aspirazioni e operassero per trasformare la loro esistenza e la società stessa. La protezione sociale dell'artigiano medievale, quando per vecchiaia o malattia perdeva la capacità al lavoro, era data «dalla sua appartenenza al nucleo familiare (che comunque conservava la proprietà dei mezzi di produzione) e al nesso corporativo» 64. Quando si sviluppa la manifattura e poi l'industria, ed avviene quello che fu definito il processo di separazione dei produttori dai mezzi di produzione, i rapporti si modificano e «il maestro diviene padrone, mentre l'artigiano è relegato al rango di lavoratore manuale» 65, perdendo così ogni garanzia familiare-corporativa, restando privo di qualsiasi forma di assistenza o di previdenza, e dovendo faticosamente associarsi e lungamente lottare per ottenere le prime leggi sociali. 62

Il direttore generale dell'Oil, D.A. Morse, ha descritto con efficacia questo faticoso periodo di transizione 66: «La stessa Organizzazione internazionale del lavoro è nata, in un certo senso, dalla prima rivoluzione industriale. Si videro allora uomini, donne e giovanissimi che fino allora avevano lavorato nei campi o nelle modeste aziende artigiane ingolfarsi in opifici squallidi e antigienici e subire le costrizionitdi un urbanesimo estraneo alle loro abitudini. Nella grande maggioranza dei casi i datori di lavoro si preoccupavano degli utili che potevano ricavare dalle nuove invenzioni meccaniche piuttosto che delle condizioni dei lavoratori, mentre la filosofia del /aissez faire, imperante a quell'epoca, consentiva alla società di disinteressarsi dei mali e dello sfruttamento umano che accompagnava il sorgere dell'industria moderna. Ben presto, però, si udirono le prime proteste contro le condizioni inumane in cui i lavoratori, e specialmente le donne ed i giovanissimi, erano costretti a prestare la loro opera. Gli stessi lavoratori, che meglio di ogni altro potevano rendersi conto della situazione, cominciarono ad organizzarsi in sindacati intesi come mezzo di protezione. Cedendo a questa pressione ed a quella di correnti più chiaroveggenti dell'opinione pubblica, i paesi in cui sorgeva la nuova attività industriale si trovarono a dover introdurre i primi elementi di una legislazione del lavoro, e tale processo si andò sviluppando ad un ritmo costante, sebbene lento, attraverso l'800 e i primi decenni del '900. La lentezza di questa evoluzione era dovuta a cause molteplici, fra le quali l'apatia dell'opinione pubblica in generale, e l'ostruzionismo dei datori di lavoro, che nel frattempo avevano cominciato a creare organizzazioni proprie col proposito di lottare contro i sindacati ed opporsi a rivendicazioni spesso ritenute esagerate. Eppure si progrediva». La lentezza di questo progredire è comprensibile, particolarmente per l'Italia. Infatti, nonostante le condizioni in cui il lavoro si svolgeva nell'800 (periodo di passaggio dall'agricoltura alle prime forme di industrializzazione), la miseria tra le classi lavoratrici era tale che la lotta per la salute non riuscì a diventare un fattore mobilitante. Inoltre, il modo

di essere

dei lavoratori, materiale

e mentale,

era

influenzato sia da un atteggiamento fatalistico verso la vita e verso la salute (ereditato dalla cultura contadina) sia dall'immatura capacità di darsi un'organizzazione. Intorno alla fine del secolo, diversi fattori contribuirono alla inversione di questa tendenza; tra essi l'esigenza del capitale di non 63

vedere pregiudicata l'esistenza della manodopera; ma, soprattutto, la capacità della classe operaia di darsi proprie forme organizzative (Società di mutuo soccorso, Camere del lavoro, Partito dei lavora-

tori, ecc.). Attraverso queste, infatti, i lavoratori furono in grado di sostenere le proprie richieste e di lottare per il miglioramento dell'ambiente di lavoro. Questi sviluppi furono accompagnati da una vivace discussione, tra le organiZzazioni operaie, sull'atteggiamento da assumere nei confronti delle nascenti istituzioni sanitarie. Un documento di tale dibattito è costituito dal libro di T. Rossi Doria, Medicina sociale e

socialismo. In quest'opera è possibile ricostruire sia la posizione dei cosiddetti «riformisti», tra cui il Rossi Doria stesso, sia quella dei «rivoluzionari», a cui aderisce l'interlocutore dell'autore, il Petrini. Il contrasto verteva su tre questioni. Il Petrini infatti sosteneva: 1) lo sviluppo della medicina sociale «necessita del concorso attivo del proletariato socialista, poiché tutto il buon volere degli scienziati non può creare il materiale scientifico necessario; che fino a quando questa sociobiologia medica non sia sviluppata per opera degli operai medesimi... non è bene pensare a riforme»; 2) è indispensabile «l'evoluzione degli organi di controllo operaio sulle leggi vigenti»; 3) «la resistenza esercitata nel campo sanitario è poco sentita dagli operai». A tali argomentazioni il Rossi Doria rispondeva che «se è vero che gli operai possono molto aiutare gli scienziati nella soluzione delle grandi questioni di igiene sociale, ...non è in alcun modo vero che siano deficienti gli studi sulle condizioni igieniche dei lavoratori»; e che, comunque, «i documenti dei quali la scienza dispone, benché non siano socialisti e rivoluzionari... ma semplicemente scientifici, sono più che sufficienti a costituire la base della nostra politica sanitaria». Sul secondo punto Rossi Doria affermava che la richiesta e l'organizzazione di un controllo operaio sulle leggi vigenti costituiva da sempre un caposaldo della politica riformista. E, infine, ricordava come fosse sforzo costante dei riformisti quello di «educare... il proletariato nella lotta contro le malattie».

64

Note 1. S. Somogyi, La mortalità nei primi cinque anni di età in Italia 1863-1962, «Collana di studi demografici dell'Istituto di Scienze demografiche dell'Università di Palermo», 1967, pp. 13-20. 2. A. Tizzano, «Condizioni sociali e mortalità», Recenti progressi in medicina, vol. XXX, n. 1, gen. 1961, pp. 71-99. 3. M. Reinhard, A. Armèngaud, J. Dupaquier, Storia della popolazione mondiale, Laterza, Bari, 1971, p. 30. Gli autori riportano anche i dati sul neolitico (in una necropoli svizzera, il 32,8% degli scheletri era di fanciulli, in 14,1% di adolescenti, solo il 3,1% di vecchi), sull'età del ferro (nella necropoli di Saint Urnel il

48% era costituito da fanciulli con dentizione da latte), e sulle popolazioni primitive dell'età contemporanea, non molto dissimili. 4. M. Kranzberg, J. Gies, Breve storia del lavoro, tr. it. G. Canavese e U. Livini, Mondadori, Milano, 1976. S. A.E. Musson, E. Robinson, Scienza e tecnologia nella rivoluzione industriale, Il Mulino, Bologna, 1974.

6. H. Butterfield, Le origini della scienza moderna, tr. it. A. Izzo, Il Mulino, Bologna, 1962, pp. 110 e 112. 7. S. Somogyi, Fertilità umana e trasformazione economica, Ed. Istituto di Medicina sociale, Roma,

1957, p. 114.

8. B. Ramazzini, Le malattie degli artefici, tr. it. G.M. Levi, Società Editrice del «Corriere sanitario», Milano, 1908, p. 29. 9. Ivi, pp. 234-235. 10. T.K. Derry, T.I. Williams, Storia della tecnologia, vol. II, pp. 613-616, Boringhieri, Torino, 1977.

11. Ivi, vol. II, pp. 604-19. 12 L. Conti, L'assistenza e la previdenza sociale: storia e problemi, Feltrinelli, Milano, 1958, pp. 65-66. 13. R.T., «Cause dell'automazione», Automazione e automatismi, a. I, n. 2, mar.

1957, p. 49. Cfr. anche G. Berlinguer, Automazione e salute, Istituto di Medicina sociale, Roma,

1958.

14. T.S. Ashton, La rivoluzione industriale 1760-1830, Laterza, Bari, 1953, p. 9. 15. A. Armengaud, Population in Europe 1700-1914, in The Industrial Revolution, ora in M. Livi Bacci, La trasformazione demografica delle società europee, Loescher, Torino, 1977, p. 97. 16. L. Faccini, Uomini e lavoro in risaia. Il dibattito sulla risicultura nel ‘700 e nell'800, Angeli, Milano, 1976, p. 37.

MEV pod7. 18. K. Marx, // Capitale, Editori Riuniti, Roma, vol. I, tomo I, p. 195. 19. Leonardo, L'uomo e la natura, a cura di M. De Micheli, Universale Economica ed., Milano, 1952, p. 103.

20. C. Singer, E.J. Holmyard, A.R. Hall and T.I. Williams, A history of technology, Clarendon Press, Oxford, 1956, vol. II, pp. 45 ss. 21. T.K. Derry, T.I. Williams, op. cit., vol. I, pp. 148 e 283. 22. D. Siculo, tratto dalla Biblioteca storica di D. Siculo, volgarizzata dal Campegnani, tomo II, Sonzogno, Milano, li8205p323; 23. G. Bauer (Agricola), De re metallica, Libri XII, Basilea, 1556.

65

24. B. Ramazzini, op. cit., pp. 95-96. 25. Citato da S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900, La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 211.

26. Ivi, p. 230. 27. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, in Marx-Engels, Opere 1844-1845, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 337. 28. A. Schiavi,

Come nasce, vive

e muore

la povera gente, Libreria Socialista

Italiana, Roma, 1902.

29. A. Rosa, citato in L. Faccini, op. cit., p. 25. 30. Himmler,

citato

in K.H. Roth,

L'altro

movimento

operaio,

Feltrinelli,

Milano, 1976, p. 129. SUDATO 32. L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano, 1970, vol. II, p. 7. SB9Ivitps21e 34. P. di Pietro, Bernardino Ramazzini, Istituto italiano di Medicina sociale, Roma, 1964, p. 13. 35. De Fourcroy, Introduzione al saggio sopra le malattie degli artefici, Società editrice del «Corriere sanitario», Milano, 1908, pp. 12-13. 36. M. Wetzel, «Bernardino Ramazzini, prècurseur de la Mèdecine du Travail», Archives des maladies professionnelles, vol. XVI, n. 1, 1955, p. 78.

37. B. Ramazzini, op. cit., p. 35. 38. A. Pazzini, Introduzione al De Morbis Artificum Diatriba di B. Ramazzini,

edizione Inail, Tipografia Colombo, 1953, p. XVII. 39. B. Ramazzini, op. cit., p. 214. 40. Ivi, p. 32. 41. Ivi, p.31. 42. Ivi, p. 89.

43. Ibidem, p. 89. 44. G. Loriga,

«Ramazzini

e l'igiene del lavoro», Rassegna

della previdenza

sociale, a. XX, n. 10, 1933, Edizioni dell'Istituto Nazionale Fascista per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, 1933, p. 9.

45. A. Pazzini, op. cit., p. XVII. 46. B. Ramazzini, op. cit., p. 54. 47. Ivi, p. 55. 48. L. Devoto, «La protezione dei lavoratori da B. Ramazzini a R. Virchow, 1690-1848», La medicina del lavoro, n. 10, 1935, p. 359. 49. Ibidem, p. 359. 50. R.H. Shryock, Storia della medicina nella società moderna, Isedi, Milano, LO77Ap930! S1. Ivi, p. 144. 52. K. Marx, // Capitale, cit., vol. I, tomo I, p. 303.

53SAMerlitopaeirmprsdgi 54. C.F. Brockington, A short history of public health, J. and A. Churchill Ldt., London, 1966, p. 38. 55. R.H. Shyrock, op. cit., p. 150. 56. L. Devoto, op. cit., p. 367. 57. R.H. Shryock, op. cit., p. 147.

606

58. Ivi, pp. 142-150.

59. P. Mantegazza, Almanacco igienico popolare 1881. Igiene del lavoro, Ditta Gaetano Brignola, Milano, 1881, ora in L. Dodi, «I medici e la fabbrica - Prime linee di ricerca», Classe, fascicolo monografico // genocidio pacifico. Malattie di massa e capitale, a. X, n. 15, giu. 1978, pp. 34-35. 60. Ivi. 61. Citato in // nuovo medico, 12 ott. 1931, Cordani Editore, Milano, ora in F. Carnevale, F. D'Andrea, «Lxobbedienza al capitale», Sapere, feb. 1975, p. 10. 62. G. Loriga, /giene del lavoro, Vallardi, Milano, 1937, pp. 3-4. 63. F. Carnevale, F. D'Andrea, op. cit., p. 10.

64. L. Conti, op. cit., p. 3. 65. T. Rossi Doria, Medicina sociale e socialismo, L. Mongini, Roma, 1904, p. RSISSì 66. D.A. Morse, «La trasformazione tecnologica e la difesa sociale», Rassegna del lavoro, a. II, n. 11, nov. 1956, p. 1776. 67. T. Rossi Doria, op. cit.

67

_° Ù

Ù

ban) al cr e n

2. Patologia del lavoro e movimento operaio

1. Il genocidio pacifico La definizione «genocidio pacifico», coniata da Marx per definire il consumo indiscriminato di forza-lavoro e il superamento dei limiti di resistenza fisica degli operai, è stata usata con molta frequenza dagli storici. Si sono moltiplicati gli studi sulle condizioni igienico-sanitarie delle classi lavoratrici nel XIX secolo, e l'espressione «genocidio pacifico» è stata quasi assunta a simbolo di un'epoca !. Ciò ha rappresentato una legittima reazione alla storiografia tradizionale, che aveva ignorato le stragi compiute nell'epoca d'oro della libera impresa 2, o le aveva presentate come un prezzo inevitabile dovuto al progresso. Ma vi è il rischio di suscitare in tal modo un rimpianto per le condizioni del lavoro pre-industriale, o di negare i fattori di salubrità che accompagnarono il sorgere e soprattutto lo sviluppo del capitalismo. Le malattie dei lavoratori nel secolo che precedette la rivoluzione industriale, descritte da Ramazzini3, erano più o meno riconducibili come eziologia — sia pure in forme assai diverse — ai gruppi di cause che valgono tuttora nella classificazione delle ergopatie. Fra gli agenti fisici, egli ricorda il rumore, che agli operai del rame «maltratta le loro orecchie e tutta la loro testa», provocando sordità e malattie di altri apparati; e segnala l'illuminazione insufficiente nelle antiche tipografie: «La vista continua de' caratteri, sì componendoli, come disfandoli, affievolisce e snerva il tono delle membrane e delle fibre dell'occhio, e specialmente della prunella; locché rende gli stampatori soggetti alle malattie degli occhi. Dicono essi medesimi, che dopo aver lavorato tutta la giornata, 69

uscendo dalle loro officine, hanno dinanzi gli occhi l'imagine de' loro caratteri per varie ore, e talvolta anco durante tutta la notte; imagine che non si distrugge sennon mediante gli altri soggetti moltiplicati che si presentano ad essi» 4. Fra gli agenti chimici, egli segnala il piombo, i cui vapori velenosi colpiscono gli stovigliai che l'usano per verniciare i vasi: «le loro mani tremano, divengono paralitici, soggetti alle malattie della milza, sopiti, cachettici; perdono i denti, ed è raro vedere uno stovigliaio il cui viso non sia plumbeo e cadaverico» 5; e parla delle malattie dei chimici, degli operai esposti ai vapori di zolfo, delle lavandaie, dei tintori e dei tessitori. Non vi è cenno esplicito, ovviamente, agli agenti biologici, all'epoca non ancora individuati. Ma si descrivono le malattie dei rigattieri e dei cenciaiuoli che, lavorando spesso con indumenti infetti, «al pari dei becchini, ingoiano nell'opera loro molecole micidiali, e vanno soggetti nel tempo stesso ad acquistare qualche malattia polmonare» 6; si segnalano le malattie degli addetti allo svuotamento dei pozzi neri, e delle balie, che allattando un bambino sifilitico contraggono la malattia al loro seno. Vi è infine qualche accenno ai fattori che defineremmo oggi psicosociali: il capitolo sulle malattie degli agricoltori si apre con la citazione virgiliana «felice l'agricoltore!», e con la successiva precisazione che questa frase è valida «per gli antichi agricoltori che coltivavano i loro campi coi bovi loro», ma non «per quelli d'oggidì, i quali, coltivando terre non proprie, hanno a combattere e le fatiche del loro stato e la povertà che gli aggrava» 7. E difficile documentare se questa nostalgia dell'epoca virgiliana fosse giustificata, sul piano della salute; o se invece sia mal comune, di tutti gli studiosi di patologia del lavoro, richiamarsi a tempi felici del passato. Senza però rimpiangere oggi il XVII o il XVIII secolo, e senza accettare in toto la definizione di «genocidio pacifico» per il periodo successivo, è indubbio che il primo impatto della rivoluzione industriale sulla salute ha presentato due perniciose novità: l'espansione dell'obbligo lavorativo, e la restrinzione di molti fat-

tori vitali. L'espansione dell'obbligo lavorativo è conseguenza dell'uso delle macchine, che consentono di impiegare con uguale profitto una mano d'opera meno robusta. Tale espansione avviene in due dire-

zioni:

70

A. Lavoro dei fanciulli. Le loro mani piccole e delicate sono particolarmente adatte all'attività tessile, il settore trainante del primo sviluppo industriale. Essi vengono assunti fin dall'età di 8-10 anni, a volte anche prima 8. B. Lavoro delle donne. Mentre prima la loro attività era spesso sussidiaria, ora diviene pari a quella degli uomini; anzi, molte industrie nascenti occupano in maggioranza mano d'opera femminile.

Ma l'espansione avviene anche in senso temporale:

C. Prolungamento della giornata lavorativa. Essa non va più «dall'alba al tramonto». L'illuminazione artificiale consente di lavorare anche di notte, e la distanza tra abitazione e fabbrica aggiunge altre ore alla fatica. D. Soppressione delle festività. Mentre nell'Ancien Régime la Chiesa cattolica aveva aggiunto alle domeniche quasi altrettante giornate di riposo per il culto, la rivoluzione francese sperimentò (col pretesto della razionalità del sistema metrico decimale) la settimana di dieci giorni; e il protestantesimo «detronizzò i santi in cielo per poter abolire in terra le loro feste», secondo l'ironica espressione di Lafargue 9. Il lavoro si espande quindi verso età, sessi, ore e giorni che prima si sottraevano a compiti gravosi; contemporaneamente, vengono ristretti o deformati alcuni fattori vitali primari: la riproduzione, il movimento corporeo, l'assunzione del cibo, il sonno, e perfino l'aria respirata. La patologia feto-infantile di origine materna è ben nota, nel XIX secolo. Solitamente però i manuali dell'epoca ignoravano i fattori lavorativi. In un testo del 1871 si legge che tra le cause degli aborti, oltre alla sifilide, vi sono «le percosse sull'addome, le cadute sulle natiche, il soverchio cavalcare, il ballo e tutti i bruschi movimenti»;

anche «le passioni in generale, ed in ispecie l'ira, la collera, la gelosia, e tutte quelle che indispongono l'animo della donna gravida, arrecano danno alla di lei salute ed a quella del pargoletto» !0. A Milano, intanto, il 35% dei nati da donne lavoratrici moriva entro il primo anno di vita, soprattutto fra le lavoratrici tessili !!. Il libero movimento del corpo è alterato nelle fabbriche e nelle miniere, dove prevalgono gesti coatti, posizioni viziate, attività faticose. Il Children Employment Report scrive che «avviene ad ogni momento che i fanciulli, quando tornano a casa, si gettino sul pavi71

mento di pietra davanti al focolare e si addormentino immediatamente, che non siano in grado di mangiare neppure un boccone e debbano essere lavati e messi a letto dai genitori nel sonno. Talvolta, addirittura, i genitori nel cuore della notte debbono andare a ricercarli, e li trovano addormentati per strada dove si sono gettati a terra vinti dalla stanchezza» 12. Per il nutrimento «gli operai prendono ciò che la classe abbiente rifiuta» !3. La dimostrazione di Lavoisier sulla combustione come combinazione di carbonio e ossigeno, e le ricerche sul ricambio energetico dell'uomo, furono pretesto per offrire una base pseudoscientifica a un'alimentazione appena sufficiente a consentire l'attività muscolare. Si cercò perfino di imporre ai lavoratori il consumo di gelatina tratta dalle ossa, utilizzando così integralmente il bestiame macellato: la polpa alle classi agiate, l'osso agli operai, e il grasso a lubrificare le macchine. Anche l'aria e l'acqua, infine, vengono a mancare o sono alterate sia nel lavoro che nelle abitazioni. Prevalgono nelle città industriali tipologie edilizie con stretti cortili quasi sempre maleodoranti, e l'affollamento rende l'atmosfera irrespirabile. Gli inquilini dei quartieri operai «vengono privati dell'acqua, poiché le condutture vengono collocate solo dietro pagamento, ed i fiumi sono così sporchi che non possono essere più utilizzati a scopi di pulizia» !4. Le epidemie di colera, che rincrudiscono nel XIX secolo diffondendosi dalle zone più povere e inquinate a città intere (e preoccupando perciò la scienza e lo Stato), indurranno a porre mano alle opere igieniche e al risanamento urbanistico. L'espansione dell'obbligo lavorativo e la restrizione dei fattori vitali hanno avuto sulla mortalità due principali conseguenze: un alto numero di decessi nell'età infantile, e un aggravamento dell'ineguaglianza tra le classi nella durata della vita. Il primo fenomeno è documentato, in Italia, dal fatto che nel XIX secolo la percentuale dei morti nel primo anno di vita diviene più alta nelle regioni del centro-nord, dove è più rapido lo sviluppo del capitalismo, che nelle regioni meridionali. Nel periodo 1863-1866, per esempio, la mortalità infantile è pari a 255 per mille nati in Lombardia, 254 in Emilia-Romagna, 267 nel Veneto, mentre è ancora

196 in Campania,

206 in Calabria,

215 in Sicilia,

190 in

Sardegna !5. Solo nei primi decenni del XX secolo la situazione si inverte a vantaggio del centro-nord. Il secondo fenomeno è difficilmente confrontabile con il lontano

72

passato, poiché le statistiche antiche (e in Italia anche quelle recenti) raramente consentono di analizzare la mortalità nelle varie

classi sociali. Ma è probabile che, soprattutto nei periodi delle grandi epidemie, vi fossero differenze minori. Per la peste del XVII secolo, per esempio, Cipolla cita opinioni dell'epoca secondo cui la malattia era più frèquente tra i poveri, ma più letale fra i ricchi !6, aggiungendo però che non esistono prove al riguardo. Nell'epoca della rivoluzione industriale, invece, molti studiosi cominciano ad analizzare la mortalità differenziale secondo i mestieri e le classi sociali. Dalla relazione della Commissione di indagine sulle condizione dei minatori in Cornovaglia, per esempio, risultano squilibri notevoli per la mortalità generale, che diventano ancora più spiccati per i decessi causati da malattie polmonari !?. È soprattutto nelle età adulte e anziane che il solco si approfondisce (tab. 1). Un altro dato sbilanciato, fino al rapporto di 4 a 1, è la speranza di vita degli appartenenti alle varie classi sociali: una statistica del

Tab. 1 - Mortalità per mille persone (1860-1862) Età

Tutte le cause

(gruppi)

15-24 25-34 35-44 45-54 55-64 65-74

Malattie polmonari

Minatori

Altri

Minatori

Altri

9,44 DIS 15712 29,74 63,21 110,51

7,50 8,32 10,08 12,50 19,96 93:31

3,47 4,15 7,89 1975 43,29 45,04

3,30 3,83 4,24 4,34 9,19 10,48

Tab. 2 - Sopravvivenza

Nati Vivi Vivi Vivi Vivi Vivi

all’età all’età all’età all’età all’età

di di di di di

anni anni anni anni anni

l 5 20 40 60

Gentry

Trades

Operatives

1.000 908 824 763 634 451

1.000 796 618 516 575 205

1.000 682 446 315 204 112

79.

1840 nella città cotoniera di Preston, nel Lancaster, sui nobili e borghesi (gentry), sui mercanti (trades) e sui lavoratori manuali (operatives) indica su mille nati le cifre dei sopravvissuti !8 (tab. 2). In sintesi, su dieci ricchi che nascevano, quasi la metà arrivava a

compiere sessant'anni; ma questa fortuna toccava solo dieci nel ceto medio, e a uno su dieci fra gli operai. Alcune malattie che causavano queste differenze erano dei lavoratori, come per esempio la silicosi per i minatori gra per i contadini !9. Questa, pur non essendo legata a strettamente lavorativo, si diffondeva tra categorie che prima del capitalismo, un'alimentazione più varia, anche

a due su specifiche e la pellaun fattore avevano, se insuffi-

ciente; ma che, con il prevalere del mais su ogni altro cibo, comin-

ceranno a soffrire per carenza della vitamina PP. Altre malattie erano meno specifiche, ma avevano un'alta incidenza tra i lavoratori e i loro familiari. Uno specchio della loro diffusione si ha nelle visite di leva per l'esercito: le percentuali dei riformati giunge in Italia, negli anni dal 1866 al 1871, fino a oltre il 40% degli iscritti misurati e visitati 20. Le cause più frequenti dell'inabilità al servizio militare sono la gracilità, l'insufficienza e defor-

mità del torace, la bassa statura; e tra i quadri clinici la scrofola e il rachitismo. Nella ricerca delle cause, l'occhio degli analisti è rivolto però più ai pretesti razziali e morali che ai motivi sanitari e sociali. Uno studioso scrive che nella visita militare «vengono sceverati gli individui resi fiacchi e impotenti dall'abiezione, dal vizio, dalla malattia, da quella eletta parte della popolazione che, vigorosa e aitante, può obbedire alla legge e prestare i suoi servigi alla patria» 21. Il Cortese formula l'ipotesi che la razza italica sarebbe degenerata, dall'antica stirpe romana, attraverso i contatti con tipi etnici meno nobili quali i greci e gli arabi nel meridione e nelle isole, gli etruschi nelle zone centrali, i galli e i germani al nord. Ma riconosce anche che vi era frequentemente «l'abuso delle forze fisiche dei giovinetti, occupati in fatiche superiori alla resistenza propria dell'età» 22. Qualcuno, per i lavoratori agricoli, vede che «una delle istituzioni che potrebbe far scomparire certe miserie permanenti di antica data sarebbe, per dir vero, un più equo rapporto fra il colono o proletario e il padrone. Chi guarda alla triste condizione del contadino della fertile Lombardia e al proletario delle province napoletane, non deve meravigliarsi se sussistono tuttora tanti elementi di malsania nella classe da cui sogliono trarsi in maggior numero i futuri soldati» 23. 74

2.1

fattori di salubrità fra il XIX e il XX secolo Questo quadro nosologico, che comprende

malattie di origine

infettiva, carenziale o tossica, dovute a fattori lavorativi, nutritivi e

ambientali, comincia a mutare nella seconda metà del secolo XIX. I quadri clinici più diffusi, che sono la tubercolosi nelle città, la malaria e la pellagra nelle campagne, il rachitismo nell'infanzia, regrediscono ben prima che vengano scoperti i loro fattori eziologici, prima che vengano approntate misure curative e preventive specifiche. Quali sono i fattori di salubrità che agiscono, quasi contemporaneamente,

nell'arco di pochi decenni, e che assicurano

con

i loro

effetti congiunti il maggior balzo in avanti, fino ad allora registrato, nel livello di salute delle popolazioni? Non era la prima volta, in effetti, che questa o quella malattia avesse periodi di remissione o di eclisse. Ma non era mai accaduto nella storia che regredissero insieme tutti i più gravi flagelli; che la durata media della vita crescesse così rapidamente; che il livello di salute migliorasse così profondamente. Questi progressi, è vero, non furono uguali per tutti. Nei singoli paesi (come in Inghilterra, in Francia, e ancor più in Italia) presentano ritmi e incisività maggiore o minore secondo le classi sociali, le zone geografiche, le città o le campagne. Su scala mondiale essi si compiono nell'Occidente, molto spesso, a detrimento di altri popoli, anche se ciò venne allora ignorato e viene ancor oggi trascurato da molti storici. Sull'intreccio fra progressi sanitari dei paesi capitalistici e colonialismo si possono fare tre esempi: L'esportazione della fame. Dal punto di vista alimentare, fino a un secolo fa, l'Europa era soggetta a lunghe deficienze di cibo, simili a quelle che colpiscono ora le aree sottosviluppate del mondo. Southard ricorda che nell'Europa occidentale dal 1000 al 1855 vi furono 450 carestie locali o generali 24. Tizzano, citando ampie fonti 25, segnala che ancora nel XVIII secolo la Francia, il più

ricco paese del continente, subì ripetute carestie. Nella Svezia la carestia del 1772-73 fece salire il quoziente di mortalità al 52,6 per mille. In tutta l'Europa, il consumo di proteine animali fu assai scarso fino alla fine del secolo XIX: in Francia, i contadini di Morvan mangiavano carne solo una volta all'anno, quelli del Maine due volte all'anno e quelli della Bretagna ne mangiavano solo in occasione di cerimonie religiose. Fino al 1844, un terzo della popo7A)

lazione del Regno Unito si nutriva solo di patate, e un altro terzo poteva aggiungere a queste soltanto pane e rifiuti di macello per due volte alla settimana. Tizzano afferma che «le carestie in Europa furono superate con i miglioramenti dei metodi di coltivazione e con l'aumento delle importazioni alimentari dai paesi transoceanici, unitamente con lo sviluppo industriale e con i nuovi mezzi di trasporto e di conservazione che accompagnarono lo sviluppo economico dell'Europa». Insieme allo sviluppo delle proprie forze produttive, il superamento della fame cronica in Europa avvenne cioè mediante la spoliazione alimentare delle colonie e l'esportazione della fame in altri continenti. A questa si aggiunse, nel rapporto tra America ed Africa, la diretta spoliazione di risorse umane. Secondo le notizie storiche la «tratta dei negri» è costata non meno di 100 milioni di vite umane, ed ha avuto come conseguenza una crisi demografica durata in Africa oltre un secolo. L'importazione del cotone. Una delle più gravi malattie epidemiche fu per lungo tempo in Europa il tifo esantematico, trasmesso dai pidocchi. L'Inghilterra e l'Irlanda ne furono colpite nel 1816, nel 1819 e ancora nel 1846, quando oltre un milione di persone si ammalarono. Dopo

di allora la malattia

decrebbe,

tranne

che nei

periodi bellici. Newsholme scrisse che, oltre all'isolamento dei malati in ospedale, «l'accresciuto uso della biancheria e soprattutto del vestiario interno di cotone, l'eliminazione delle abitazioni insalubri, il piano regolatore delle città, le maggiori attività delle autorità sanitarie nel praticare la disinfestazione e le disinfezioni delle camere da letto infette, con la calce ed altre sostanze, e la pulizia dei letti ebbero una parte importante nella diminuzione dell'incidenza del dermotifo ... prima che si fosse accertato che il pidocchio era il vettore responsabile della sua diffusione» 26. Anche in questo caso, la riduzione dell'incidenza epidemica fu il risultato di molte-

plici fattori. I successi dell'eziologia. Il grande impulso alla conoscenza degli agenti patogeni e degli insetti vettori delle principali malattie che imperversavano

nelle

colonie

(febbre

gialla, elefantiasi,

colera,

malattia del sonno, malaria, peste, ecc.), oltre che a motivazioni umanitarie e scientifiche, fu dovuto alle necessità delle metropoli. Le quarantene non bastavano a proteggere dalle epidemie tropicali le potenze dominanti, e non valevano comunque a salvare dal contagio i militari, i funzionari, gli imprenditori inviati per occupare nuove terre, per aprire canali (Panama, Suez), per trasformare l'eco76

nomia. Fra necessario conoscere e vincere alle radici le cause delle epidemie, senza di che la penetrazione coloniale sarebbe stata frenata. I beneficiari delle scoperte dei medici militari furono innanzi tutto i militari ed i bianchi residenti, e solo in un secondo tempo, e in misura minore, i popoli coloniali. Comunque il balzo in avanti nel livello di salute, nella sicurezza, nella longevità dei paesi capitalistici vi fu, e non solo per effetto dello sfruttamento di altri popoli. Volendo analizzare in modo schematico i fattori che vi hanno influito, si può parlare dell'intreccio di quattro cause: A. Il progresso delle scienze mediche. Verso la fine del XIX secolo si riescono a individuare, contemporaneamente, i fattori eziologici di molte malattie trasmissibili (tubercolosi, peste, colera, malaria, anchilostomiasi, ecc.), di malattie tossiche (come la necrosi del mascellare, dall'uso di fosforo giallo per la fabbricazione dei fiammiferi), e di malattie tumorali (per esempio, il cancro della

vescica da coloranti anilinici). Si rende così possibile una’ prevenzione specifica. B. Lo sviluppo della produzione industriale e agricola. Oltre a introdurre nuove tecnologie, talora più salubri (per esempio, l'uso del fosforo rosso amorfo, meno tossico 27), la crescita delle forze produttive aumenta la disponibilità di risorse per la nutrizione, le abitazioni, il vestiario, l'illuminazione. C. L'azione dello Stato. Questa si sviluppa in due campi: la legislazione sociale, che protegge innanzitutto il lavoro dei minori e delle donne; e il controllo, mediante l'ispezione sanitaria nelle fabbriche. È tipico che in Inghilterra le prime ispezioni fossero affidate, all'inizio del XIX secolo, a giudici di pace e ministri del culto, come se la preoccupazione fondamentale fosse la moralità dei lavoratori; successivamente intervennero medici e specialisti in grado di

valutare la salubrità del lavoro. D. Le lotte sociali e l'organizzazione dei lavoratori. Questo fattore, sebbene trascurato nelle storie della medicina compilate fino a epoche

recenti, contribuisce

notevolmente

alla salute e alla sicu-

rezza dei lavoratori, agendo in più direzioni. In sintesi, si può dire che la sua influenza, più o meno consapevolmente, consiste: a. nel favorire la generalizzazione delle conoscenze prodotte dal fattore A, e in alcuni casi nel dare impulso a nuove scoperte; b. nel costringere a socializzare, in qualche misura, i vantaggi prodotti dal fattore B; DR

c. nello stimolare e controllare l'azione del fattore C. Le malattie regrediscono ciascuna secondo un proprio ritmo e secondo una propria dinamica, per l'azione prevalente di uno o più dei fattori elencati. Per esempio, la pellagra diminuisce con il miglioramento del regime alimentare nelle campagne (fattori B+Db), quando ancora l'eziologia e la cura sono ignote; il fosforismo con la conoscenza dell'azione patogena del fosforo giallo e con le leggi che ne vietano l'uso (fattori A+C); l'anchilostomiasi con la scoperta del ciclo del parassita, il miglioramento delle condizioni di lavoro dei minatori, le lotte sociali (fattori A+B+Da+Db); il rachitismo con la migliore tutela dell'infanzia (fattori B+C+Dc), e così

via. Sarebbe interessante verificare, in base a questi modelli preventivi, il valore che i singoli fattori, sempre in qualche misura compresenti, hanno avuto nella storia della patologia del lavoro e della prevenzione. La loro azione, comunque, non è lineare. Anzi, spesso è distorta. Il progresso delle scienze mediche, per analizzare uno solo dei fattori, è impetuoso nelle sue scoperte, lentissimo invece nel diffondersi a vantaggio dei lavoratori: esiste sempre una latenza culturale che dura talora per decenni. Vi è inoltre la tendenza a trasferire la responsabilità delle malattie, e della loro prevenzione, sul singolo lavoratore (oggi si direbbe: sul suo life style). In un volume della Encyclopédie Internationale d'Assistance, de Prévoyance et d'Hygiène sociale, anzi nel primo volume della I serie, l'autore esclama fin dall'inizio: «Quanti operai, coltivatori, artigiani, soprattutto fra i giovani, ho visto coscienziosamente occupati a rovinare la loro salute!»; e suggerisce precetti d'igiene «che un uomo intelligente può seguire, anche quando è poverissimo, soprattutto quando è poverissimo» 28. I precetti riguardano ogni aspetto della vita quotidiana, dalla toilette all'alimentazione, dal vestiario all'abitazione. Cito soltanto le regole per la cura delle mani, prescritte per gli esposti a sostanze tossiche o irritanti 29; «L'operaio non deve lavarsi le mani al mattino, né durante il giorno, perché l'acqua e il sapone sono, in questi casi, corpi irritanti. Prima di cena, egli si pulirà le mani e le unghie con olio, poi con la spazzola e il sapone, si taglierà le unghie e le pulirà con la massima cura. Prima di andare a letto, olierà le sue mani e le avvolgerà con taffetas gommato, per non sporcare le lenzuola. AI mattino, asciugare le mani con un panno asciutto, senza lavarle. Arrivando in fabbrica, prima di mettersi, al lavoro ricoprire le mani di cera o di 78

sostanze proteggenti necessarie. Prima di pranzo, togliere la cera e le polveri con un panno asciutto. Dopo pranzo, nuovo passaggio di cera. Alla fine della giornata, fare la toilette descritta». Bisogna ovviamente superare, per queste complicate e inapplicabili procedure, «l'indifferenza naturale dei francesi che li porta a trascurare perfino ciò\che è utile alla loro salute»; e costringere i padroni delle fabbriche «a mettere questi mezzi a disposizione dell'operaio»: non certo a modificare gli impianti e i procedimenti industriali. Questi precetti, naturalmente, devono essere portati a conoscenza dei lavoratori. A ciò può essere utile «il segretario del sindacato», che dovrebbe «dedicarsi a una propaganda attiva e discreta, perché non si deve mai inferocire un sindacalista né risvegliare i suoi sospetti» 39, soprattutto se appartiene a quelle organizzazioni «che chiedono riforme così radicali che non hanno alcuna possibilità di realizzarsi mai» 31. Oltre a questa separazione fra igiene individuale e prevenzione collettiva, vi sono altre due scissioni, concettuali e pratiche, che ostacolano la tutela sanitaria dei lavoratori. Una è quella fra le scienze biologiche e le scienze umane e sociali. Proprio quando il corpo umano diviene organo accessorio della macchina, quando lo spreco del capitale variabile (l'uomo) accresce il valore del capitale costante (l'impianto), la medicina si china unilaterialmente sul corpo

umano e ignora il contesto in cui esso cresce e opera. Ogni malattia viene così ricondotta a patologia organica delle cellule e dei singoli apparati, a fenomeno biologico spiegabile soltanto in base a specifici fattori morbigeni, acquisiti o ereditari. L'altra scissione, sul piano operativo, è fra igiene del lavoro e igiene pubblica. Nel commentare il System einer Vollstàindigen Medicinischen Polizei, pubblicato da J.P. Frank alla fine del XVIII secolo, lo storico della sanità pubblica C.F. Brockington esprime stupore perché questo sistema completo di polizia sanitaria includeva «tutto ciò che la scienza aveva mostrato necessario per prevenire le malattie, tranne, stranamente, i servizi di igiene industriale che egli trascurò di menzionare» 32. Lo stupore è ancora più legittimo nel registrare che in quasi tutto l'Occidente questi servizi, quando vengono creati, costituiscono un «corpo separato» rispetto all'organizzazione sanitaria pubblica. Anche la legge inglese che istituisce un secolo e mezzo dopo, nel 1948, il National! Health Service, mantiene sotto una diversa amministrazione la prevenzione nei luoghi di lavoro. 79

3. Il diritto alla sopravvivenza Se riflettiamo all'azione del fattore D, le lotte sociali e l'organizzazione dei lavoratori, vediamo che esso entra in scena piuttosto tardivamente, rispetto agli altri. All'inizio della rivoluzione industriale i lavoratori sono isolati fra loro, indifesi di fronte all'espansione dell'obbligo lavorativo e alla restrizione dei fattori vitali, privi di organizzazioni proprie, spesso anche esclusi dall'assistenza terapeutica. Solo successivamente essi presentano richieste, organizzano scioperi, fondano associazioni che hanno scopi economici, culturali, assistenziali, politici, ma che hanno anche una base comune: assicurare almeno, se si vuole usare l'espressione corrente di Marx, la riproduzione della forza-lavoro; ovvero garantire, in termini umanobiologici, il diritto alla sopravvivenza. Questo è il comune significato delle maggiori lotte sociali che si svolgono tra il XIX e il XX secolo, e soprattutto della più significativa: la riduzione della durata del lavoro ai limiti fisiologici. Si deve riconoscere, volgendo lo sguardo al passato, che la nostalgia del lavoro artigiano e agricolo, circoscritti dal ritmo solare e regolati dai riti religiosi, anche se trascura gli orrori della schiavitù, la barbarie delle corvées medievali, l'eterna fatica del contadino, coglie tuttavia l'aggravio della giornata lavorativa che si ebbe quando la produzione, orientata precedentemente sui bisogni locali immediati, fu indirizzata verso la formazione di plusvalore e verso ampi mercati. Il ricongiungimento dei ritmi di lavoro (e della produzione stessa: materiali di base, tecnologie, prodotti finiti, scorie) alla qualità della vita umana e agli equilibri della natura è oggi tema di grande attualità: ma fu allora che si constatarono gli effetti più drammatici

del sostituire al ritmo alterno del sole, che regola ogni

vita sulla terra, il ritmo diuturno delle macchine. Le relazioni degli ispettori di fabbrica inglesi nel XIX secolo e la Children's employment commission del 1863-1867 33 parlano di giornate lavorative di dodici, quattrodici, sedici ore. A Dewsbury i proprietari (quaccheri) di fabbriche tessili vennero accusati di aver

ridotto all'esaurimento ragazzi fra i 12-15 anni facendoli lavorare ininterrottamente

dalle 6 del venerdì alle 16 del sabato, con brevi

soste per mangiare e un'ora di sonno a mezzanotte. A Londra, la crestaia Mary Anne Walkley morì nel 1863 dopo aver lavorato ventisei ore

e mezzo

senza interruzione, con altre sessanta ragazze, in

una stanza soffocante: il medico, dottor Keys, dichiarò in tribunale 80

che la ragazza era «morta di lunghe ore lavorative in laboratorio sovraffollato», e la giuria corresse: «la deceduta è morta di apoplessia, ma c'è ragione di temere che la sua morte sia stata affrettata da sovraccarico di lavoro». A Nottingham, nello stesso periodo, si tenne al comune una pubblica riunione per lanciare una petizione, onde ottenere cheìl tempo di lavoro nelle fabbriche venisse limitato a 18 ore quotidiane. Le leggi sulla giornata lavorativa avevano avuto, fino al XIX secolo, uno scopo opposto. «Ci voglion secoli — scriveva Marx — perché il “libero” lavoratore si adatti volontariamente, in conseguenza del modo capitalistico di produzione — cioè sia socialmente costretto — a vendere per il prezzo dei suoi mezzi di sussistenza abituali l'intero periodo attivo di vita, anzi, la sua capacità stessa di lavoro» 34. Per vincere questra ritrosia, lo stato intervenne a fissare il minimo delle ore lavorative. Oggi l'espressione «Statuto dei lavoratori» è sinonimo di diritti, ma il primo Statute of labourers, emanato nel 1349 sotto Edoardo III, fissò soltanto i doveri, fra cui l'orario lavorativo dalle 5 del mattino alle 7-8 di sera; e le leggi successive contrassero perfino il tempo destinato ai pasti. Soltanto nel XIX secolo, per lo sdegno dell'opinione pubblica e per la maturazione della lotta di classe, si giunse a regolare per legge la durata massima della giornata lavorativa. La durata del lavoro comincia così a essere nuovamente circoscritta in base ai limiti fisici necessari per la vita dell'operaio, ma anche in base ai bisogni intellettuali e sociali che si vanno progressivamente affermando. Dalla vendita individuale della merce-lavoro si giunge alla regolazione collettiva della giornata di lavoro, la cui estensione varia secondo i mutevoli rapporti di forza fra le classi, la cui limitazione risponde a necessità fisiologiche ma tende, al contempo, ad affermare valori culturali e morali.

Quando il Congresso operaio internazionale di Ginevra (1866) dichiarò che «la limitazione della giornata lavorativa è una condizione preliminare, senza la quale non possono non fallire tutti gli altri sforzi di emancipazione», e propose «otto ore lavorative come limite legale della giornata lavorativa», cominciò davvero una nuova fase nella storia del lavoro umano. Quando si affermò il principio delle tre otto (otto ore di lavoro, e altrettante di svago o studio, e di sonno), alla fine del XIX

secolo, si ebbe uno sconvolgi-

mento economico, culturale e politico senza precedenti. La lotta per le otto ore fu una richiesta che unificò gli operai dall'Europa 81

all'America, che a Chicago diede vita al 1° maggio, e che fu esplicitamente finalizzata alla necessità di avere tempo per vivere, per riposare, e anche per sognare, come diceva un canto popolare. Lo stesso significato di garantire la vita si può attribuire a un'altra lotta, per imporre limitazioni al lavoro delle donne durante la gravidanza, che ha per scopo di consentire la salute della donna e la crescita fisiologica del figlio. Su queste lotte si innesta, alla fine del secolo XIX, l'azione per l'istruzione obbligatoria, cioè per la crescita culturale. Le lotte per i minimi salariali valgono ad ottenere una retribuzione sufficiente a nutrire, per tutti i giorni dell'anno, il

lavoratore e la sua famiglia. Le Società di mutuo soccorso si moltiplicano per garantire ai soci assistenza sanitaria, aiuto alle puerpere, indennità per gli infortuni, e spese funerarie in caso di morte. Il loro numero, in Italia, era cresciuto di anno in anno fino alla fine del XIX secolo 35 (tab. 3).

Vi sono anche episodi di lotta che riguardano direttamente, più che la salute, la sicurezza del lavoro. Vengono ricordate 36 una manifestazione a Milano (1889), e nello stesso anno a Roma, contro gli infortuni nell'edilizia: l'iniziativa degli operai di Terni per erigere (1899) un monumento ai caduti nel lavoro; le proteste degli operai del ferrarese contro gli infortuni negli zuccherifici e nelle fabbriche di sapone e di concimi; la decisione dei cavatori di marmo delle Apuane di abbandonare in massa il lavoro quando lo squillo della tromba annunciava, nelle valli, un sinistro. Ma è stato soprattutto, più che le azioni specifiche, lo sviluppo multidirezionale del fattore D a promuovere, agendo sugli altri fattori per accelerarne e orientarne gli effetti, il miglioramento sanitario dei lavoratori e delle loro famiglie. È vero che ciò è accaduto

Tab. 3 - La crescita della mutualità

Anno

N. delle Società di mutuo soccorso

1862 1873 1878 1885 1894 1904

443 1.447 2.091 4.896 6.722 0539

82

senza che cambiassero sostanzialmente le basi del potere, senza mutamenti strutturali dell'economia, talora con soluzioni tecnicoscientifiche poco costose. Ma è stato osservato che «le classi interessate a promuovere profondi e radicali mutamenti delle strutture... ricevono, dal progresso tecnico-scientifico e dalla diffusione autonoma dei fatti culMurali, la spinta a uscire da un'inerzia millenaria e ad acquisire, insieme a desideri e aspirazioni nuove, anche la coscienza di poter agire per realizzarli. Decine e centinaia di milioni di uomini sono oggi più forti di ieri non solo perché sono sfuggiti agli attacchi della malaria o alla cecità del tracoma o alle molteplici invalidità ... ma anche perché hanno finalmente compreso che tra il mondo dei desideri e il mondo della realtà c'è un passaggio accessibile, costituito dalla volontà e dall'azione consapevole» 37. Oltre ai risultati propriamente sanitari, vi sono quindi altri effetti sociali e culturali indotti. L'intreccio positivo fra salute ed emancipazione, che vi fu tra il XIX e il XX secolo nei paesi sviluppati, e che vi è stato poi nei movimenti di liberazione naziorale degli ultimi decenni, ha portato vantaggi tangibili in termini di malattie evitate, di flagelli attenuati,

di anni-vita

conquistati. Per il movi-

mento operaio, inteso come sindacati e partiti, questo intreccio ha permesso inoltre di porre radici tra i lavoratori, di collegarsi alle professioni e all'attività scientifica, di ottenere la modifica di molte tecnologie produttive, di influire sulle leggi sociali e sull'azione dello Stato, di estendere il campo d'azione dell'assistenza pubblica, di acquistare prestigio agli occhi di tutta la popolazione.

4. La salute dei lavoratori nel Welfare State I progressi di cui abbiamo parlato si sono successivamente attenuati. Oggi, quando si parla di crisi del Welfare State, ci si riferisce solitamente (per l'inguaribile tendenza al prevalere dei temi economici su quelli umano-biologici) alle difficoltà monetarie dello Stato assistenziale 38. Si trascura che il termine welfare significa innanzitutto benessere, esser bene. Proprio su questo terreno si sono realizzati i maggiori progressi, e si registrano ora le maggiori difficoltà. I progressi sono stati notevoli, nella prima metà del nostro secolo (malgrado le due guerre), e anche negli ultimi decenni. In quest'ottica vitale, anziché monetaria, è anzi opinabile che si possa parlare di crisi della scelta del Welfare State rispetto ad altre vie percorse 83

dalle nazioni moderne, senza tuttavia trascurare né le perduranti differenze sociali nei livelli di salute, né i problemi che sorgono ora nella patologia lavorativa. Abbiamo visto che, nella prima rivoluzione industriale, il quadro nosologico collegato all'attività produttiva era determinato, essenzialmente, dalla dilatazione dell'obbligo lavorativo verso età, sessi, ore e giorni che prima erano esclusi o protetti; e dalla restrinzione o alterazione di fattori necessari alla crescita corporea e al metabolismo elementare (riproduzione, riposo, cibo, aria, acqua). Alcuni di questi fattori morbigeni continuano oggi ad agire, ma per ‘vie diverse dal passato. Altri sono fortunatamente attenuati 0 scomparsi. Sono però subentrati nuovi fattori di malattia. Essi dipendono ora non solo dalle condizioni ambientali del lavoro, non solo dalla mancata o distorta riproduzione della forza-lavoro, ma da fenomeni più radicati nell'organizzazione del lavoro, nei rapporti sociali di produzione, nelle connessioni tra lavoro e consumo. Anche nella patologia del lavoro tendono a ridursi le malattie a sintomatologia più conclamata e di più evidente origine professionale, mentre crescono quelle forme morbose di diagnosi più ardua, collegate a un rapporto fra l'uomo e la macchina più complesso rispetto alle tradizionali tecnopatie. L'operaio, ma anche lo scienziato, individua meno chiaramente l'origine professionale di queste malattie: la necrosi fosforica del mascellare

denunziava

con certezza

la nocività del fosforo giallo,

mentre una cardiopatia ischemica, un tumore, una nevrosi riconoscono una moltiplicità di cause non facilmente riconducibili a una eziologia specifica. Quando si parla oggi di nuovi quadri nosologici, il riferimento più comune è alla transizione «dalla prevalenza delle malattie infettive alla prevalenza delle malattie degenerative». Si descrive così una fenomenologia, peraltro incompleta, senza però individuare i rapporti di causalità. Con altrettanto schematismo, ma con maggiore riferimento alle noxae, il quadro nosologico attuale può essere oggi caratterizzato dai fenomeni seguenti 39: a. intossicazioni multiple di massa;

b. distorsioni delle funzioni organiche; c. accidenti e violenze. Le intossicazioni sono causate da xenobiotici, cioè da sostanze estranee al normale metabolismo, per qualità o per dose; tali sostanze vengono assunte sia nel lavoro che nell'ambiente esterno, 84

sia in forma coatta che in forma di scelta più o meno consapevole (tossicodipendenze), ed hanno spesso effetti sinergici 40, Il passaggio dalla monotossicità alla pluritossicità rende in qualche modo obsolete le tabelle che limitano la concentrazione di singole sostanze nell'ambiente di lavoro; e impone una prevenzione integrata, che deve tener conto Sia delle interazioni eziologiche, sia dei fattori convergenti di salubrità. Queste

interazioni

derivano

dall'accresciuto

numero

delle

sostanze chimiche introdotte nel lavoro e nell'ambiente, e dal loro associarsi con

altri fattori (fisici, nutrizionali) e con le condizioni

dei singoli soggetti esposti al rischio (età, sesso, patrimonio genetico, stati morbosi, assunzione di alcool, tabacco, farmaci). Raramente gli effetti sono indipendenti o antagonistici, più spesso sinergici (additivi o moltiplicativi), perché le varie sostanze e condizioni influiscono congiuntamente sull'assorbimento, sulla distribuzione nell'organismo, sulle biotrasformazioni e sull'eliminazione dei tossici. Gli esempi accertati sono numerosi. L'ossido di carbonio potenzia l'epatotossicità del tetracloruro di carbonio; l'ozono accresce l'effetto degli ossidi d'azoto sul sangue; la silice associata al fumo di tabacco aggrava e accelera la pneumoconiosi; i vapori di mercurio danneggiano maggiormente gli organi dell'udito se l'ambiente è rumoroso; l'esposizione al benzolo e alla formaldeide è più grave alle alte temperature; l'alcool e il tricloroetilene interagiscono sul sistema nervoso centrale; molti tumori da cause professionali sono più frequenti quando vi è penetrazione di altre sostanze cancerogene col fumo o con l'inquinamento atmosferico. Molte nuove conoscenze si stanno così accumulando, con ricerche sperimentali e con indagini epidemiologiche. Oltre all'esigenza di approfondire e di socializzare queste informazioni, vi è quella di organizzare la prevenzione capovolgendo la procedura finora seguita (prima l'accertamento del danno sull'uomo, poi la ricerca della causa, poi le norme protettive e infine le modifiche delle tecnologie nocive). Tale procedura «spontanea» si può definire come «sperimentazione sull'uomo-lavoratore». La prevenzione deve invece accertare preliminarmente i rischi delle tecnologie e delle sostanze chimiche introdotte nell'uso comune; e può farlo, per la prima volta nella storia, grazie a modalità di sperimentazione e di

previsione già collaudate, ma raramente applicate. La prevenzione deve agire sulla fabbrica e sull'ambiente esterno, sui consumi e sui 85

comportamenti, dipende quindi dalle lotte sociali e dalle ricerche scientifiche, dalle leggi e dalle istituzioni, dall'informazione e dal potere. Il secondo

quadro

(distorsioni

delle funzioni

organiche)

non

deriva più dall'eccesso di prestazioni muscolari rispetto alle entrate caloriche, bensì da accelerazioni e alterazioni dei ritmi vitali; non da ipercinesie, ma da dis- e ipocinesie; non da denutrizione, ma da iper- e malnutrizione; non da fatica neuromuscolare, ma neurosensoriale e neuropercettiva. Si possono fare due esempi. Le statistiche dei paesi industrializzati mostrano che l'obesità, oggi, tende ad essere più frequente tra gli operai che tra i manager, all'opposto di un secolo fa. Raggiunto, con i salari e con la previdenza, il reddito sufficiente a garantire il minimo alimentare, subentrano fattori psicologici e comportamentali che spingono a nutrirsi più del necessario: effetti di imitazione tardiva verso le classi ricche, rivalsa nei confronti della fame arretrata, minore dispendio di energie in attività fisico-sportive e in vacanze dinamiche, scarsezza di cultura sanitaria e alimentare, impossibilità di pagare il «dietista di famiglia». Si potrebbe quasi dire che le abitudini nutritive delle classi oppresse siano state sempre subalterne: prima per mancanza di denaro, poi per eccesso di imitazione e per contemporanea carenza di conoscenze. In questo modo, quando i ceti più colti e più ricchi guariscono dalle loro tradizionali malattie, cominciano a subirle, meno protetti, i ceti inferiori. Analogamente alle distorsioni nutritive si presentano oggi, nella prevalenza tra le varie classi sociali, le malattie cardiovascolari e le intossicazioni

«voluttuarie»:

tabagismo,

alcoolismo,

altre

tossicodipendenze. L'altro esempio riguarda le conseguenze di incongrui orari di lavoro. Non solo, come in passato, ore in eccesso: oggi ci sono soprattutto ore sature e mal distribuite. Vi è un'ampia letteratura sul lavoro a turni alterni 41, nel quale sono impegnati ormai da un quarto a un quinto di tutti gli operai dell'industria, e molti lavoratori dei servizi. Sebbene le cifre non siano pienamente dimostrative (anche perché vi sono meccanismi di esclusione «spontanea» dal lavoro degli operatori non idonei ai turni), vi sono molte statistiche secondo cui l'alterazione continua del ritmo circadiano e delle sue costanti biologiche (temperatura, polso, escrezioni urinarie, concentrazioni ormonali nel sangue, sonno, ecc.) causa più frequentemente malattie gastroenteriche,-cardiovascolari, neurologiche e psichiatri86

che, e infortuni sul lavoro. Anche in questi casi, come per le intossicazioni, vi è un intreccio di cause lavorative ed extra-lavorative (abitazioni, trasporto, vita familiare, nutrizione, uso del tempo libero), che possono compensare o più spesso aggravare la quotidiana alterazione dei bioritmi. Ma il tema degliorari, cioè del tempo di vita, emerge in forme nuove non solo per i lavoratori turnisti, ma per tutti; e non solo per la salute, ma per altre esigenze politiche e culturali. Le leggi del secolo scorso sulla riduzione dell'orario di lavoro furono così commentate, nei Reports dell'Ispettorato delle fabbriche inglesi del 31 ottobre 1859: «Esse, rendendo gli operai padroni del proprio tempo, hanno dato loro un'energia morale che li può condurre a impossessarsi eventualmente del potere politico». Ora, malgrado limiti ed errori, si può misurare il cammino compiuto. Sul piano educativo, è noto che le leggi sull'istruzione obbligatoria e gratuita, che ruppero per la prima volta il monopolio del. sapere, furono rese possibili dalle restrizioni imposte al lavoro eccessivo dei minori. Sul piano culturale, alla conquista delle otto ore si accompagnò un vasto movimento per le scuole serali, per le università popolari, per i circoli operai. Siamo passati, in sostanza, attraverso tre fasi: prima della rivoluzione industriale, il ritmo lavoro-riposo era regolato in qualche misura dalle stagioni e dalle religioni; nel periodo del capitalismo selvaggio, vi fu un prolungamento smisurato della giornata lavorativa; subentrò poi la conquista delle otto ore di lavoro, otto di studio-svago, otto di riposo. A quale punto ci troviamo attualmente? Si ha l'impressione che la Magna Charta dei diritti operai di cui parlava Marx, cioè la giornata lavorativa limitata dalla legge allo scopo di chiarire finalmente «quando finisce il tempo venduto dall'operaio, e quando comincia il tempo che appartiene all'operaio stesso», è ingiallita e ha perduto molto del suo valore. Per valore non intendo soltanto l'applicabilità in rapporto alla condizione del mercato del lavoro, agli strumenti di controllo, agli abusi e alle violazioni. Intendo l'intrinseca validità della separazione fra tempo venduto e tempo appartenente all'operaio. Oggi, di fatto, le tre fasi della giornata (e della settimana, e dell'anno), distinte tradizionalmente in lavoro, studio e svago, riposo, sono profondamente integrate fra loro, e da questo intreccio nascono opposte possibilità: di crescita psicofisica, culturale, politica, oppure di oppressione integrale dell'uomo. A questo si collega la seconda novità: un 87

maggiore intreccio tra i fattori patogeni che agiscono nel lavoro e nell'ambiente. È stato constatato per esempio, dopo le ricerche di Begoin sulle telefoniste 42 nelle quali egli riscontrò ipersonnia diurnia (34%

dei casi), insonnia notturna

(difficoltà di addormentarsi

prima delle 1-2 del mattino, oppure risveglio dopo tre o quattro ore di sonne), sonno agitato e poco riposante (53% dei casi) con sogni e a volte incubi «professionali», che le ore di sonno vanno riducendosi di quantità e peggiorando di qualità reintegrative, per molte categorie di lavoratori e per gran parte della popolazione urbana 43, anche a causa del rumore, dell'eccesso di illuminazione e del difetto di isolamento delle abitazioni. Alla ricerca del silenzio e del riposo, nella domenica o nelle ferie estive i cittadini si spostano verso il mare, i monti, le campagne. Ma qui subentra /e bruit dans le loisir.: «E paradossale — scrivono studiosi francesi del rumore urbano — pensare che il cittadino, logorato da una vita troppo attiva, depresso da troppe preoccupazioni, traumatizzato psicologicamente dai troppi rumori che incontra nella vita, consacri il suo svago ad attività frastornanti» 4. La colpa, tuttavia, non può essere attribuita soltanto ... alla musica che impera nei luoghi di vacanza (orchestre che superano, secondo Mounier-Kuhn

e Morgon, i 95 decibel, raggiungendo anche, fra 125 e 2.000 hertz, 122 decibel). Il Detti nota giustamente che le condizioni della casa, del quartiere e della città, e la maggiore mobilità dovuta prevalentemente al mezzo privato, accrescono il senso di rifiuto per la città e quindi la naturale tendenza a usufruire del riposo settimanale, dei ponti e delle ferie fuori città. E così che nascono i grandi esodi, la congestione dei servizi di trasporto e del sistema viario e le alte perdite umane per incidenti. Gli effetti consistono anche «nella crescita greggia e abnorme dei luoghi di villeggiatura balneare e montana che ormai costituiscono dei veri e propri sistemi urbani ... In questi ambienti si stanno riproducendo gli stessi difetti di congestione che ha la città dalla quale si sfugge, e qui il prodotto ha aspetti speculativi e consumistici a scapito di quelli che dovrebbero interessare il riposo, la salute, le forme di vita e di svago per compensare i difetti della residenza stabile o del lavoro» 45. Si riproduce, quindi, nel «tempo libero» la stessa patologia professionale e urbana, la stessa carica di violenza sull'uomo che esiste nel lavoro e nella città. Si giunge quindi a una nuova fase, nella quale la lotta per la salute non può essere più condotta su fronti 88

separati, ma richiede un'azione integrata nel lavoro, nella residenza. nel trasporto, nel «tempo libero». Nel terzo quadro nosologico emergente, quello degli accidenti e violenze, si comprendono oggi, come negli altri casi descritti, gli infortuni che hanng luogo nel lavoro, ma anche nel trasporto, nelle abitazioni (infortuni domestici), cioè l'ampia casistica di lesioni col-

pose, ma spesso prevenibili; e i casi dolosi, suicidi e omicidi. Negli Usa # l'insieme di queste cause di morte era al settimo posto nella graduatoria delle noxae letali nell'anno 1900, ed è passata al quarto posto nel 1978, dopo le malattie cardiovascolari, quelle cerebrovascolari e i tumori. I suicidi sono passati dal ventiseiesimo al nono posto. Vi erano 5,4 omicidi per centomila abitanti nel 1950, e 9,9 nel 1978, con una frequenza sei volte maggiore fra i neri che fra i bianchi. Le età più colpite dagli accidenti sono quelle giovanili, e il sesso quello maschile. Nella graduatoria di tutte le cause di morte per gli Usa, queste differenze sono palesi. Ecco il posto che occupano gli accidenti alle varie età e sessi (tab. 4). Le statistiche nordamericane non distinguono, solitamente, gli infortuni sul lavoro dagli altri (in Italia, in ciascuno degli ultimi anni si sono avuti circa un milione di infortuni lavorativi, con duemila morti). Effettivamente, nella dinamica del singolo incidente è possibile identificare il luogo, le circostanze, l'agente specifico; ma nella concatenazione di cause esiste ancora una volta uno stretto rapporto tra lavoro, trasporto, abitazione, comportamenti e tendenze individuali. Sul piano produttivo, spesso si costruiscono macchine . malsicure; sul piano psicologico, insicurezza e frustrazioni lavorative ed extra-lavorative si associano nel determinare atteggiamenti poco protettivi verso sé stessi, e troppo aggressivi verso gli altri. Se riflettiamo alla storia dell'intreccio di fattori morbosi e di

Tab. 4 - Le morti violente negli Usa

Maschi Gruppi di età ON 1-14 ii n 15-34 SI 35-54 4° 54-74 (E 75 e oltre

Femmine "n iù le 4° SE va

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89

misure sanitarie collegate a questi molteplici aspetti della vita umana, possiamo dire probabilmente che nell'ultimo secolo si sono susseguite varie fasi. Nella prima ha agito una costellazione di fattori lavorativi, nutritivi e abitativi sinergicamente patogeni. Il movimento operaio e l'opinione pubblica progressista lottarono per decenni sul triplice terreno della riduzione degli orari, del risanamento delle abitazioni e della garanzia del fabbisogno alimentare. Si giunse così, tra molte resistenze e dure lotte, alla seconda fase, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, nella quale gli orari furono ridotti, molte abitazioni vennero risanate e quartieri più salubri costruiti, l'istruzione fu resa obbligatoria, e la durata media del lavoro venne notevolmente ridotta. Successivamente si è entrati in una terza fase, in una nuova costellazione sinergica di fattori patogeni: lavoro legalmente ridotto nell'orario, ma più intenso e prolungato di fatto; fabbisogno calorico soddisfatto, ma disordini orari e

qualitativi della nutrizione; casa più o meno salubre, ma in agglomerati urbani malsani; trasporto lungo e rischioso; e nuovi fattori psicosociali di malattia. In questa fase si è proposta una nuova subordinazione dell'intero ciclo della vita umana (e degli equilibri naturali) alla valorizzazione del capitale.

Sempre procedendo per schemi (con quanto di approssimativo e di forzato ciò comporta) si può forse dire che, da questi dati, emergono due principali differenze fra la patologia dominante nella prima rivoluzione industriale e quella odierna. Negli individui, dominavanò nel passato malattie della sfera vegetativa elementare (fatica, iponutrizione, disturbi dell'accrescimento corporeo, alta mortalità infantile e minorile), che si ripercuotevano poi sullo sviluppo fisico e mentale. Ora la patologia prevalente investe la sfera relazionale e le caratteristiche dell'uomo pensante, il suo

comportamento; questo fenomeno, agendo per via cortico-viscerale, produce poi alterazioni delle funzioni organiche e dell'integrità fisica. Un esempio tipico: alla fine del XIX secolo, circa un terzo dei

ricoverati in alcuni ospedali psichiatrici del Veneto e della Lombardia era costituito da pellagrosi 47, colpiti da una carenza alimentare

che, nell'ultimo

stadio, produceva

malattie

mentali. Ora è

sempre più frequente riscontrare casi di nevrosi industriale che in fase primaria alterano la psiche, e successivamente, attraverso la somatizzazione dei disturbi, provocano vari quadri morbosi, tra cui

malattie gastroenteriche e perciò difetti della nutrizione. 90

Nei rapporti fra uomo e ambiente, il rischio sta ora nel passaggio dal genocidio all'ecocidio. Nella prima fase della rivoluzione industriale i danni agli uomini furono ben più gravi e diffusi che oggi, con intere generazioni e popoli decimati, ma le alterazioni dell'ambiente naturale furono più circoscritte. Ora i lavoratori sono più protetti, ma spesso laMnocività si trasferisce all'esterno, crea degradazioni ambientali perfino irreversibili, minaccia di pregiudicare per molte generazioni la stessa possibilità di sopravvivere. Si calcola che la portata dei mutamenti biologici, indotti dalle attività umane sul pianeta negli ultimi quarant'anni, sia maggiore dei mutamenti avvenuti nei 15.000 anni precedenti, cioè dall'ultima glaciazione. Queste e altre differenze sostanziali avrebbero dovuto imporre, da tempo, un adeguamento della tutela sanitaria. Per esempio lo spostamento dell'eziologia dominante dai fattori naturali, tipici delle malattie fisiogene, ai fattori sociali e antropogeni, doveva consigliare di superare le concezioni strettamente biologiche dei fenomeni morbosi. Invece, queste hanno avuto il sopravvento, per esempio nello studio dei tumori, proprio quando si veniva dimostrando che buona parte di essi deriva dall'influenza, su organismi biologicamente più recettivi, di fattori chimici e fisici introdotti dall'uomo nell'ambiente, attraverso la produzione industriale o altri canali. Altro esempio: i meccanismi plurifattoriali della maggior parte delle sindromi

moderne

(dalle malattie

cardiovascolari

ai tumori,

alle

infermità psichiche) dovevano indirizzare verso studi e interventi polispecialistici, mentre invece è proseguita, per forza di inerzia culturale, la tendenza che si era affermata con successo nel XIX secolo: la ricerca, per ogni malattia, di una causa specifica, microbica o chimica, e quindi di una profilassi univoca.

5.I rapporti col Terzo mondo La situazione descritta riguarda essenzialmente i paesi industrializzati dell'Occidente, i cui progressi sono stati in larga misura collegati allo sfruttamento di altre nazioni. Anzi, le prime fasi del colo-

nialismo sono state caratterizzate da veri e propri stermini. Nelle

isole di Cuba e di Dominicana-Haiti, per esempio, non resta alcuna

traccia vivente delle popolazioni aborigene, massacrate dai lavori forzati nelle miniere e nei campi. A partire dalla seconda metà del 9]

XIX secolo, lo sfruttamento proseguì in condizioni di maggiore salubrità. La conoscenza eziologica e la lotta contro le malattie infettive e parassitarie «tropicali» ha consentito in molti casi un'efficace prevenzione. È da considerare che le stesse produzioni agricole e le attività industriali rischiavano — cessata l'epoca della schiavitù, che forniva mano d'opera inesauribile — di essere ostacolate dalla carenza numerica e dalla debolezza fisica della forza-lavoro. Anche in questi paesi, inoltre, le lotte sociali e i movimenti nazionali valsero a conquistare migliore assistenza. Con molte differenze tra un paese e l'altro, e con il permanere in alcune zone di condizioni di sfruttamento e di esistenza sub-umane, si verificò tuttavia un miglioramento sanitario complessivo, testimoniato fra l'altro dall'aumento della vita media. Dal rapporto fra mortalità ridotta e natalità costante (o ridotta in misura inferiore) derivò

l'esplosione demografica che, sebbene attenuata in alcuni paesi, dura tuttora. Negli ultimi decenni, tuttavia, dai paesi metropolitani verso il Terzo mondo si è avuta più esportazione di nocività che di salute. Il fenomeno più frequente è il trasferimento, dal Nord al Sud del mondo, di produzioni sporche, inquinanti per l'ambiente e nocive per i lavoratori 4. Ma anche lo stimolo commerciale verso comportamenti insalubri (per esempio, la diffusione del tabacco o dell'alcool, o il passaggio brusco dall'allattamento naturale a quello artificiale, senza garanzie igieniche), la sottrazione di risorse e materie prime con gli scambi ineguali, il trapianto di modelli medici e di tecniche preventive poco idonee 49 hanno frenato o distorto il progresso sanitario di questi paesi. Ciò ha provocato, in sostanza, uno scoppio ritardato di quegli stessi fenomeni patologici di origine lavorativa, comportamentale e ambientale, che erano già stati identificati e combattuti nei paesi metropolitani. Si può anche accennare una riflessione sul confronto tra la storia sanitaria dell'Occidente e quella del Terzo mondo. Appare evidente non solo un diverso ritmo dei mutamenti, ma anche un percorso di strade diverse, talora opposte. Alcune differenze risultano evidenti: 1. Rapporto tra mortalità e natalità. In Europa, la riduzione della mortalità che accompagnò lo sviluppo del capitalimo fu associata ad una crescita economica e culturale, che condusse anche alla riduzione della natalità. Il tasso di incremento demografico annuo nei primi 50-100 anni di decollo industriale fu in Inghilterra 0,6%, in Francia 0,4%, in Belgio 0,7%, in Germania 0,8%, in Italia 0,8%. In 92

Asia, in Africa, in America Latina si ha per la mortalità una ridu-

zione più rapida che per la natalità, e un tasso di incremento demografico che giunge al 2-3%. 2. Cause del progresso sanitario. La diminuzione di mortalità. che si verifica oggi nei paesi arretrati, dipende da un miglioramento della tutela sanitatta, specialmente dai progressi della lotta contro le malattie infettive, mentre permane all'incirca invariato il livello di vita

(condizioni

di

alimentazione,

reddito,

abitazione,

ecc.).

Nell'Europa del XIX secolo, invece, la diminuzione di mortalità fu in relazione più con il miglioramento del tenore di vita che con i progressi della scienza medica. 3. Rapporto fra economia e sanità. La sanità, la scienza e l'industria progredirono con un certo parallelismo in Occidente, mentre per gli abitanti delle aree sottosviluppate il primo contatto che essi hanno avuto con un'organizzazione scientifica di tipo moderno non è stato quello con l'attività produttiva, come avvenne nei secoli scorsi in Europa, ma quello con i controlli sanitari e con le vaccinazioni di massa, o con la distribuzione di insetticidi. La medicina avrebbe cioè mostrato di avere spesso una maggiore diffusibilità; che esiste più facile universalità dei fatti culturali rispetto ai fatti economici. O anche, che esiste una tendenza all'omogeneità dei fattori sovrastrutturali mentre è molto minore, e assai più contrastata, la tendenza all'omogeneità dello sviluppo economico e del regime di vita. Come risultato del complesso intreccio di questi fattori, si osserva che i paesi del Terzo mondo hanno un rapido sviluppo demografico, un lento decollo economico, ed un progresso sanitario che ha avuto finora ritmi più veloci rispetto ai paesi capitalistici tra il XIX e il XX secolo. Per il recente passato, questo è documentato, per esempio, dal confronto tra i tempi di accrescimento della vita media a Ceylon e in Italia: Ceylon ha impiegato 6 anni, dal 1946 al 1952, per passare da una durata media della vita di 42 anni a una durata di 56 anni, mentre l'Italia, per compiere in altra epoca lo stesso progresso, ha impiegato mezzo secolo, dal 1880 al 1930. Finora si può dire che la terapia e la profilassi specifica delle malattie

infettive, e altre misure

sanitarie che hanno

accelerato

il

progresso sanitario delle zone arretrate del mondo, hanno agito con relativa rapidità per diversi motivi: il «linguaggio universale» della medicina, come di altre scienze; il fatto che l'apporto sociale, essenzialmente di sanità e di istruzione, ha servito da giustificazione al 93

dominio coloniale, e che anche ora, quando si vuole manifestare amicizia e solidarietà sul piano statale, si ricorre alla donazione di ospedali, di dispensari, di farmaci; le necessità per l'industria chimica e farmaceutica di aprirsi nuovi ‘mercati, con il risultato primario di vendere di più e col risultato secondario di ridurre l'incidenza di alcune malattie epidemiche; il fenomeno, ben più rilevante negli ultimi decenni, dell'emancipazione dei popoli coloniali, della loro volontà di star meglio ora e subito, e la priorità accordata alla politica sanitaria da diversi governi; l'opera non priva di contraddizioni, ma complessivamente rilevante, dell'Organizzazione mondiale della sanità e di altre agenzie internazionali. L'intreccio di questi motivi è stato complesso e variabile da paese a paese, da malattia a malattia. Malgrado i progressi realizzati, è noto che la situazione sanitaria dei paesi sottosviluppati è assai grave. Può essere utile (come abbiamo fatto) prendere come punto di confronto l'Europa del XIX secolo e constatare che, ora, i miglioramenti sono stati più rapidi. Ma non si deve dimenticare: primo, che lo sviluppo iniziale del capitalismo in Occidente fu accompagnato da diffuse malattie e da immani

sofferenze per le classi lavoratrici; secondo, che per valu-

tare una situazione sanitaria e per definire gli scopi della medicina l'unico metro di giudizio deve essere il rapporto tra le possibilità della scienza ed il benessere effettivamente raggiunto. In questa ottica, la persistenza di molte malattie infettive, la diffusione della

fame, il riproporsi di condizioni di lavoro simili a quelle europee del secolo scorso sono fenomeni gravi e allarmanti, che non possono essere a lungo ignorati dai paesi più progrediti.

6. Nuove tendenze Si sono così attenuati, in molte aree del mondo, i fattori di salubrità che avevano agito in precedenza migliorando il benessere dei lavoratori e delle popolazioni. Altri fattori tardano ad affermarsi, ma già si profilano. Negli Usa,

e in altri paesi occidentali, molti stimoli sono venuti dai movimenti ambientalisti, dalle azioni per la tutela del consumatore, dai tentativi di opporre stili di vita più naturali a quelli imposti dall'industria. In Italia, e in alcuni altri paesi europei (come la Svezia), gli stimoli sono venuti maggiormente, soprattutto negli anni '70, dall'azione dei lavoratori per la salute e per la sicurezza nelle fabbriche. 94

Queste sono esperienze recenti, non ancora storia. Esiste già un'ampia letteratura 59, ed è stato fatto un bilancio delle esperienze di vari paesi europei nella partecipazione dei lavoratori alla tutela sanitaria 5. Questa partecipazione è, in effetti, la principale novità. Essa ha avuto anche, per esempio in Italia e in Svezia, un riconoscimento legislativoNcon l'affermazione del diritto a conoscere e con-

trollare le condizioni di lavoro (in Italia, la legge chiamata Statuto dei lavoratori), e del diritto a fermare, se necessario, le produzioni nocive, come è nel potere dei delegati d'impresa in Svezia 52. Ma essa ha avuto soprattutto implicazioni culturali e scientifiche, destinate a prolungarsi nel tempo. L'Italia, in effetti, ha una storia singolare nel campo della salute dei lavoratori: una storia ciclica di priorità positive e negative. In due diversi momenti ha avuto una funzione di punta, rispetto ad altri paesi. All'inizio del XVIII secolo, con l'opera di Ramazzini. All'inizio del XX secolo, in un clima di vasto interesse, a cui partecipa anche, a livello di governo, Guido Baccelli 53, autorevole clinico e ministro, viene costruita una clinica, la prima di questo tipo, a Milano, per lo studio e la cura delle malattie professionali. Non viene chiamata clinica delle malattie professionali, e neppure dei lavoratori, ma «del lavoro», per sottolineare l'attenzione per le cause. D'altra parte, la rivoluzione industriale in Italia fu tardiva e meno controllata che altrove, e le sue conseguenze sulla salute furono forse più gravi. Nell'ultimo decennio del XIX e nel primo del nostro secolo vi fu un fiorire di lotte, leggi, provvedimenti che attenuarono i fenomeni patologici. Ma poi, durante il periodo fascista e nei primi anni della Repubblica (dal 1947), lo sviluppo produttivo, l'organizzazione del lavoro e le condizioni socio-economiche si sono trasformate

senza

alcun

controllo,

con

gravi conseguenze

sulla

salute dei lavoratori italiani. Gli infortuni sul lavoro sono cresciuti notevolmente fino a raggiungere negli anni '60 valori-limite (tab. 5). Contemporaneamente si ebbe, durante il «miracolo economico», un rapido incremento degli indici produttivi, e anche qualche progresso nel reddito delle classi lavoratrici. In questa fase, le lotte sindacali e le politiche dei partiti di sinistra privilegiarono soprattutto l'estensione della copertura assicurativa e assistenziale e gli obiettivi salariali, mentre veniva accettata la delega allo Stato, e soprattutto ad enti «parastatali», del controllo sulle condizioni igieniche e di sicurezza nei luoghi di lavoro. 95

Tab. 5 - Infortuni sul lavoro nell'industria (1920-1970) esclusi i casi con assenza dal lavoro inferiore a tre giorni inn ___;y m——