La politica dell’esclusione. Deportazione e campi di concentramento 8832870959, 9788832870954

Nella storia i campi di concentramento sono serviti per demolire ciò che doveva essere, per convertire le volontà, per a

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La politica dell’esclusione. Deportazione e campi di concentramento
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Libri come pietre d’angolo

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Renzo Paternoster

LA POLITICA DELL’ESCLUSIONE

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Deportazione e campi di concentramento

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© Tralerighe libri © Andrea Giannasi editore Lucca gennaio 2020 ISBN 9788832870954 www.tralerighelibri.it

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A mio Padre e mia Madre,

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per avermi insegnato il coraggio di essere un figlio ribelle

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Questo è un mondo a parte, che non somiglia a nessun altro, […] una casa di morte vivente, una vita come non esiste in nessun altro luogo e gente che non ha pari. È questo mondo a parte che io mi accingo a descrivere

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Fëdor M. Dostoevskij, Memorie da una casa di morti

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Indice

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Prologo Spiegare per conoscere

17

Capitolo I I campi come categoria della violenza politica 1.1. Prigioni, case di correzione e campi di prigionia, 17 – 1.2. La forma campo, 24 – 1,3. La violenza come “linguaggio” dei campi, 27 – 1.4. La fame, 29.

37

Capitolo II L’umanità de–umanizzata 2.1. L’appartenenza come prescrizione politico–culturale, 37 – 2.2. Le figure della de–umanizzazione, 41 – 2.3. La de–umanizzazione nei campi nazisti, 55 – 2.4. Il Muselmann e il dochodjaga, 62.

69

Capitolo III Dall’internamento dei militari a quello dei civili 3.1. La deportazione come strumento politico, 69 – 3.2. Deportare, internare e convertire: le vergogne del Risorgimento Italiano, 73 – 3.3. Genesi del campo per civili: Cuba 1896, 84 – 3.4. Filippine 1900, 88 – 3.5. Sudafrica 1900, 94 – 3.6. Africa sudoccidentale 1904, 98 – 3.7. I campi della Prima Guerra Mondiale, 106 – 3.8. I campi del Metz Yeghérn armeno, 112 – 3.9. I campi del Portogallo salazarista, 124 – 3.10. Campi repubblicani e campi franchisti, 131 – 3.11. Francia: dalla III Repubblica a Vichy, 135 – 3.12. I campi del Duce, 140.

7

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8

155

Indice

Capitolo IV I campi nazisti e ustascia per sterminare 4.1. La morte come progetto politico, 155 – 4.2. La “catena di montaggio” della morte, 158 – 4.3. La morte anonima, 163 – 4.4. La negazione della vita e la sottrazione della morte, 169 – 4.5. L’occultamento e la scoperta dei Lager nazisti, 172 – 4.6. Lager e stermini in Serbia, 176 – 4.7. La “santa macelleria” nei campi ustascia, 182.

191

Capitolo V I campi per rieducare e punire

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5.1. Il nemico “conveniente”, 191 – 5.2. La rieducazione politica e il lavoro come strumento pedagogico, 194 – 5.3. Il “risanamento” politico sotto il nazismo, 197 – 5.4. I campi statunitensi e inglesi dopo la guerra mondiale, 202 – 5.5. I campi speciali della Germania Est, 208 ‒ 5.6. Polonia: i campi della Guerra fredda, 215 ‒ 5.7. Cecoslovacchia: campi per civili e campi per religiosi, 218 ‒ 5.8. Ungheria: la rieducazione durante la Guerra fredda, 224 ‒ 5.9. Bulgaria: campi e “Comunità di lavoro correzionale”, 227 ‒ 5.10. Albania: i campi all’ombra dell’aquila a due teste, 230 ‒5.11. La rieducazione radicale in Romania, 235 ‒ 5.12. I campi britannici del Risorgimento keniota, 251 ‒ 5.13. Vietnam e Laos, 258 – 5.14. Cambogia, 263 – 5.15. Corea del Nord, 268 – 5.16. Indonesia, 276 – 5.17. I campi di lavoro e rieducazione cinesi, 278 ‒ 5.18. La rieducazione politica in Unione Sovietica, 290‒ 5.19. La rieducazione al socialismo jugoslavo, 302 ‒ 5.20. I campi di lavoro e rieducazione politica a Cuba, 317 ‒ 5.21. I Centros clandestinos de detención in America Latina, 327 ‒ 5.22. I campi del fascismo ellenico, 334.

343

Capitolo VI

I campi e il tradimento di Ippocrate 6.1. L’ethos ippocratico, 343 – 6.2. L’eugenetica nazista senza veti morali, 346 – 6.3. Le cavie dei Lager, 353 – 6.4. Il progetto bio–batteriologico giapponese, 360 – 6.5. Le unità scientifiche e l’utilizzo dei maruta, 364 ‒ 6.6. L’opportunismo politico di USA e URSS, 373.

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Indice

377

9

Capitolo VII Internare per isolare 7.1. Immigrati in Gran Bretagna nella II Guerra Mondiale, 377 – 7.2. Gli alien enemies canadesi nella II Guerra Mondiale, 388 – 7.3. Gli alien enemies australiani nella II Guerra Mondiale, 396 – 7.4. Gli alien enemies statunitensi nella II Guerra Mondiale, 402.

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413

Capitolo VIII Nuovi campi, vecchie abitudini 8.1. I campi della guerra civile nell’ex Jugoslavia, 413 – 8.2. Il campo–prigione di Guantánamo, 419 – 8.3. Il campo–prigione 1391 d’Israele, 429 – 8.4. La Tumba del Venezuela, 431.

439

Epilogo Conoscere per capire

449

Bibliografia

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Prologo

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Spiegare per conoscere

Se vi dicono che la storia ha conosciuto fantasmi in carne e ossa voi direte che è falso. Eppure la storia non mente. Gli universi concentrazionari possono, da questo punto di vista, suggerire qualche risposta. I campi per civili (di internamento, di concentramento, di sterminio) sono un prodotto della politica che si fa totalitaria, dispotica, violenta, padrona, manifestando la volontà di dominare la storia, per accelerarla, deviarla, modificarla, indirizzarla. Sono politica oscena, che cerca il trionfo anche nella carne e nel sangue. Sono il paradigma biopolitico della modernità. Infatti, è con la modernità che la violenza politica si esprime in forme sempre più degradanti dell’essere umano in quanto tale. Attraverso la violenza si assegnano nell’ordine della politica determinati valori alla vita e alla morte, e si decide quale posto è dato alla stessa vita, alla stessa morte, ma anche al corpo umano (in particolare al corpo vivo da uccidere1, al corpo–cadavere2, al corpo violentato3, al corpo suppliziato4, al corpo impri1

Cfr. D.J. GOLDHAGEN, Worse Than War, Genocide, Eliminationism, and the Ongoing Assault On Humanity, PublicAffairs, New York 2009, trad. it. Peggio della guerra. Lo sterminio di massa nella storia dell’umanità, Mondadori, Milano 2010. 2 Cfr. G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006. 3 Cfr. M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, FrancoAngeli, Milano 2010. 4 Cfr. A. GIANELLI, M.P. P ATERNÒ (a cura di), Tortura di Stato. Le ferite della democrazia, Carocci, Roma 2004.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

gionato 5, al corpo scomparso6). La politica, così, si trasforma in biopolitica, e il corpo dell’individuo diventa la posta in gioco delle strategie politiche. La biopolitica negativa non è solo morte, ma anche un lavorio sul corpo della vittima, che va ben al di là della morte stessa. La peculiare esperienza dei campi di concentramento e affini è direttamente connessa alla volontà di dominare la storia, anche attraverso la coincidenza tra il corpo biologico dell’individuo e la sua dimensione politica. Nella storia, i campi di concentramento sono serviti per demolire ciò che doveva essere, per convertire le volontà, per annichilire l’essere umano nel corpo e nella personalità. Insomma, si è trattato «di costruire un’umanità riunificata e purificata, non antagonista»7. In questo modo, «da una logica di lotta politica si scivola presto verso una logica di esclusione, quindi verso una ideologia dell’eliminazione e […] dello sterminio di tutti gli elementi impuri»8, oppure della loro rieducazione e del loro controllo. Di fronte a questi contesti di violenza politica totale, due importanti aspetti sembrano intrecciarsi: la necessità di spiegare per conoscere, il bisogno di conoscere per capire. Naturalmente conoscere e capire non devono essere equivocati: non si tratta di giustificare (conoscere non vuol dire legittimare e, soprattutto, capire non è assolvere), ma di intenderli come comportamenti prettamente umani, contro la comune concezione che riconduce la violenza a inumanità, malvagità, follia, qualcosa che sta di là

5

Cfr. J. KOTEK, P. RIGOULOT, Le Siècle des camps detention, concentration, extermination: cent ans de mal radical, Lattès, Paris 2000, trad. it., Il secolo dei campi. Deportazione, concentramento e sterminio 1900–2000, Mondadori, Milano 2001. 6 Cfr. H. VERBITSKY, El vuelo, Planeta, Buenos Aires 1995, trad. it., Il volo. Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos, Feltrinelli, Milano 1996 (ora Fandango, Roma 2008). 7 S. COURTOIS, Perché?, in S. Courtois (a cura di), Le Livre noir du communisme. Crimes, terreur, répression, Lafont, Paris 1997, trad. it., Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 2000, p. 698. 8 Ibidem.

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Prologo

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dalla cultura e dalla civiltà9. La violenza e la crudeltà politica non sono categorie residuali della civiltà e della cultura, esse appartengono a ogni epoca e continente10: Quando l’uomo si riunì in comunità e si diede istituzioni e leggi, divenne, a detta di Aristotele, un «animale politico» e le sintesi politiche si susseguirono, buone o cattive, prosperando o degenerando, ma diffondendo anche violenza provocata da corse al potere e spietate competizioni fra nuovi aspiranti […]. La minaccia e, come estrema risorsa, l’uso della violenza, oggi come ieri, fanno parte del «bagaglio» con cui individui o gruppi cercano di determinare il cambiamento o di salvaguardare lo status quo.11

Attraverso i campi, la violenza politica si è espressa e si esprime in forme sempre più degradanti e criminali. È ragionevole creare una scala di valori al negativo sui campi? No, rispondo subito, non ci può essere una gerarchia dell’orrore, non c’è nessuna possibilità di stabilire una graduatoria del male. Ogni campo rappresenta una precisa forma di barbarie, al di là del progetto politico che può averla indotta. Che il razzismo nazista si esprimesse su base antropologica e quello comunista su fondamenti socio–economici, cambia i fatti, ma non i termini della questione, e nemmeno la sostanza delle modalità criminali. Si perdeva la dignità di esseri umani tanto ad Auschwitz quanto a Kolyma, Phnom Penh, Goli Otok, Pitesti e così via. La sola aritmetica delle perdite umane non basta a classificare un campo e un progetto politico come più criminale di un altro. Ogni campo rappresenta il trionfo del male, la celebrazione di un arbitrio che si fa norma in un determinato regime politico, rientrando nella legalità giuridica e morale di quello 9

J. ABBINK, Preface: Violation and violence as cultural phemomena, in G. AJIMER, J. ABBINK, Meanings of Violence. A Cross–Cultural Perspective, Berg, Oxford 2000, p. XIII. 10 Ovviamente la violenza politica è e deve essere un mezzo e non un fine, in caso contrario ci troviamo in presenza di invasati. 11 E. C ECCHINI, Storia della violenza politica, Mursia, Milano 1994, pp. 6-7.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

stesso regime. Perciò ogni classificazione crea confusione e disturba, facendo perdere l’uguale dignità alle vittime. Prima di procedere nel repertorio dell’arbitrio dell’uomo sull’uomo, credo sia utile fare una precisazione. In questo lavoro non mi propongo di intraprendere una ricostruzione completa della storia di tutti i campi in tutti i Paesi in cui essi sono esistiti o ancora sopravvivono. Vorrei invece esporre il senso del fenomeno concentrazionario, indagando sulla sua evoluzione, sulla non–vita al loro interno, lasciando anche spazio alle memorie dei sopravvissuti, di chi è sceso negli abissi dell’Umanità e ha avuto la fortuna di risalire. Per questo ho utilizzato il termine “campo” in senso simbolico, per rappresentare nel suo insieme una variegata e complessa realtà fatta non solo di campi, così come la storia ci ha fatto conoscere, ma anche di altri luoghi come prigioni e fortezze in cui l’intenzione appare identica come nei campi. Il saggio che il lettore ha tra le mani è frutto di lunghissimi anni di ricerca e studio. Tutto è iniziato dopo l’incontro casuale in Romania con il signor Petru, ex prigioniero del carcere di Pitesti. Non volevo credere a quello che egli mi stava raccontando, dei terribili supplizi e delle blasfeme parodie per rieducare anche l’anima del prigioniero, subite in quello che egli ha definito “la prigione di concentramento del corpo e dello spirito”. È seguita così una lunga e sofferta maturazione, perché, come ha detto Elie Wiesel “ospite” di Auschwitz col numero A7713: «Chi ascolta un testimone, diventa a sua volta un testimone»12. L’emozione provata durante una visita ad Auschwitz e Birkenau mi ha dato l’impulso definitivo. Ho pertanto iniziato una lunga ricerca dei sopravvissuti, non tanto dei Lager nazisti (esiste un’ampia memorialistica riferita ai campi nazisti), quanto di altri luoghi di internamento e concentramento.

12

E. Wiesel, Night, Bantam, New York 1982, p.32.

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Prologo

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Ho così trovato chi ha vissuto l’esperienza dell’assurdo, ma molti non hanno voluto raccontare per vergogna e per “mancanza intenzionale” di memoria. Di quelle persone che lo hanno fatto, alcuni hanno voluto restare anonimi13, pregandomi di non citarli, nemmeno con un nome di copertura, altre mi hanno autorizzato a farlo, sono: Miodrag Gajic (serbo, internato nel campo titino di Goli Otok), Stavros Touvlis (greco, deportato nel campo di Makronisos durante la guerra civile greca del 1946–1949), Djordjo Suvajlo (serbo–bosniaco, internato nel campo creato dai musulmani di Bosnia nel Silos di Tarčin durante la guerra nei Balcani del 1992-1995)14, il già citato signor Petru (pseudonimo di un ex detenuto rumeno del carcere di Pitesti nel 1951)15 e il signor Xiong (pseudonimo di un ex deportato cinese). Non vi nascondo che ho provato imbarazzo ad ascoltare l’inimmaginabile. Nei confronti di queste persone ho dunque contratto impagabili debiti umani e di riconoscenza. Allo stesso tempo mi scuso con loro, per avergli testardamente fatto rivivere i tormenti, interrogando le loro profonde ferite. In questi lunghi anni di ricerca e studio, ho anche contratto debiti affettivi e intellettuali con persone che mi hanno offerto premurosa attenzione attraverso la ricerca e il contatto con ex internati, significativi suggerimenti e spunti di riflessione, mettendomi pure a disposizione le loro conoscenze e i loro materiali. Tra questi Gaetano Paolillo, Slavica Mitić, Julio Mariangel Toledo, Bosko Gajic, Mila Mihajlovic, Zoran Kukulj e Vasso Anagnostou. A tutti esprimo la mia gratitudine. Ovviamente ringrazio gli autori dei saggi che ho preso in considerazione e che ho, con piacere e dovere, citato nelle note e nell’ampia bibliografia. 13

Di queste persone, tre sono latinoamericane, 2 asiatiche, 4 europee. Djordjo Suvajlo è nato il 6 maggio 1960, ma riporta sui social media la sua data di nascita al 27 gennaio del 1996, quando, con la sua liberazione dal campo di Tarčin, “rinasce”. 15 Il signor Petru ha scelto questo nome dopo essere stato liberato perché, dice, come l’apostolo Pietro ha rinnegato il Cristo (anche se è stato costretto a farlo sotto tortura). 14

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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La mia riconoscenza va pure a tutte quelle persone, sono davvero tante, che mi hanno aiutato a tradurre testi da lingue per me incomprensibili, beneficiando anche della loro pazienza. Un ulteriore prezioso supporto mi è stato offerto da Concetta Tortora, che ringrazio per la lettura della bozza alla ricerca di errori e imperfezioni. Ovviamente tutte le pecche rimaste nel testo, come ogni sconvenienza e omissione sono, naturalmente, mia esclusiva responsabilità. Ora prepariamoci a scendere negli abissi dell’Umanità.

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Capitolo I

I campi come categoria della violenza politica

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1.1. Prigioni, case di correzione e campi di prigionia Nell’antichità non esistevano edifici costruiti intenzionalmente per la detenzione. Anzi la detenzione non era neppure considerata una pena, ma un mezzo per tenere l’incolpato in custodia perché non si sottraesse alla giustizia, o un metodo coercitivo per ottenere il pagamento di debiti scaduti, oppure serviva per liberarsi arbitrariamente di avversari politici, oppure ancora per custodire i prigionieri in attesa di venderli come schiavi o scambiarli. Insomma la detenzione era una specie di “custodia cautelare” in attesa dell’inflizione della sanzione, che spesso era la pena capitale o la tortura. Molti dei primi luoghi di reclusione erano vecchie cisterne o sotterranei1. Questo potrebbe spiegare l’origine etimologica del termine “carcere”: coercio, rinchiudo, rinserro, e carcer, sotterro, tumulo 2. Anche la voce gergale di registro scherzoso “gattabuia”, sinonimo di carcere, rimanda al1

Il Carcere Tulliano, detto poi Mamertino, il più antico carcere di Roma che si trova nel Foro Romano, ne è un esempio. Consisteva di due piani sovrapposti di grotte scavate alle pendici meridionali del Campidoglio. Tra i personaggi illustri qui rinchiusi, Gaio Sempronio Gracco (nel 121 a.C.), Giugurta re della Numidia (nel 104. a.C.), Vercingetorige re dei Galli (nel 46 a.C.), Seiano prefetto del pretorio di Tiberio (nel 31 d.C.). Cfr. P. FORTINI, Carcer tullianum. Il carcere mamertino al Foro romano, Electa, Milano 1998. 2 I sinonimi di “carcere” sono “prigione”, dal latino prehensio, l’azione di prendere nel senso di catturare o arrestare; “galera”, termine che deriva dalla pena inflitta al prigioniero in epoca antica (sino al XVIII secolo), costretto a remare nelle galere o galee; “bagno penale”, parola che deriva dalla conversione dei bagni pubblici di Constantinopoli in prigioni.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

le ubicazioni delle prime prigioni. Il vocabolo, infatti, potrebbe essere un rifacimento del latino parlato catugiam, derivato a sua volta dal greco katagheìon, che significa sotterraneo (ghé, infatti, è la terra). Dal greco si sarebbero poi formate espressioni gergali dello stesso significato come “catoia”, “catuia” e “catugia”, ottenute incrociando “sotterraneo” con l’aggettivo buio. Nel Medioevo i luoghi di detenzione erano costituiti, oltre dai tradizionali sotterranei, anche da maschi o dongioni 3. Nel Medioevo, «non è tanto il carcere come istituzione ad essere ignorato dalla realtà feudale, quanto la pena dell’internamento come privazione della libertà» 4. Pertanto, anche nel periodo medievale si può confermare l’esistenza della detenzione preventiva e di quella per debiti, ma non si può affermare che la semplice privazione della libertà, protratta per un periodo determinato di tempo e non accompagnata da alcuna sofferenza ulteriore, fosse conosciuta e quindi prevista come pena autonoma ed ordinaria.5

Una posizione a parte è occupata dalla Chiesa medievale che, attraverso il diritto penale canonico, adottò la pena carceraria nella forma di reclusione. La Chiesa, infatti, «disponendo della giurisdizione criminale sui chierici e non potendo lecitamente comminare sentenze di morte, fu costretta a ricorrere al carcere e alle pene corporali» 6. Ecco nascere i penitenziari — dal latino paenitentía, penitenza — che servono per il “pentimento”, il ravvedimento del reo che, attraverso l’espiazione della pena nel più assoluto isolamento, doveva giungere al suo miglioramento. Inizialmente 3

Il maschio (o mastio) e il dongione sono torri costruite all’interno dei castelli medievali, caratterizzati da un’altezza superiore alle altre. 4 D. MELOSSI, M. P AVARINI, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario (XVI–XIX secolo), il Mulino, Bologna 1977, p. 21. 5 Ibidem. 6 G. R USCHE, O. KIRCHHEIMER, Punishment and Social Structure, Columbia University Press, New York 1939, trad. it., Pena e struttura sociale, il Mulino, Bologna 1978, p. 135.

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I. I campi come categoria della violenza politica

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furono i chierici a permanere nelle celle dei monasteri, degli eremi e delle prigioni vescovili, poi la segregazione cellulare fu estesa anche ai laici7. Per quanto riguarda i prigionieri di guerra, nel Medioevo raramente erano incarcerati. In generale gli unici prigionieri di guerra erano gli ufficiali o i nobili o comunque soldati di spicco, la ragione era chiaramente ottenere un riscatto in danaro. Esistevano quindi vari tipi di luoghi dove i prigionieri di guerra erano reclusi. Vi erano le vecchie fortezze, edifici convertiti appositamente in prigioni, campi provvisori con alloggiamenti già esistenti o appositamente costruiti. Tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del XVII, la forma della pena ecclesiastica ispirata alla penitenza, da espiare attraverso la prigionia in cella per un periodo determinato, si incontrò con l’idea del rinnovamento sociale stimolato dalla Riforma protestante. Così, considerando la povertà e l’ozio come fonti di disordine, si decise di rinchiudere in “Case di correzione” i mendicanti, i vagabondi, gli alcolizzati e i disoccupati. Da Londra ad Amburgo, da Ginevra ad Amsterdam sino alle colonie inglesi del Nordamerica, per estendersi poi anche nei Paesi cattolici, le “Case di correzione attraverso la disciplina e il lavoro obbligatorio” diventarono opere di punizione e di ordine pubblico, ma anche di moralità, carità e di soccorso8. La casa di correzione, tuttavia, non sostituì tutta la gamma delle punizioni vigenti (dalla multa alla pena capitale). La prima “Casa di correzione” fu creata nel 1557 a Londra, nel Royal Palace of Bridewell, l’ex residenza di re Enrico VIII, ceduta dal re Edoardo VI alla City of London. Si trattava di una istituzione fondata sul domicilio coatto e sul lavoro obbligatorio in comune, questo «allo scopo di appren-

7

Cfr. A. PARENTE, La Chiesa in carcere, Ufficio Studi Amministrazione Penitenziaria Ministero della Giustizia, Roma 2007, pp. 42–55. 8 Sul sorgere ed evolversi delle case di correzione cfr. G. R USCHE, O. KIRCHHEIMER, Pena e struttura sociale, cit., pp. 95–98.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

dere “l’abitudine all’operosità”» 9. L’istituto accolse quindi alcolizzati, prostitute, poveri, disoccupati, vagabondi, o comunque soggetti disadattati per condizione sociale 10. Con un atto successivo del 1576, istituzioni dello stesso tipo furono erette in tutto il Regno Unito. Le bridewells (così furono chiamate le case di correzione sul modello di quella creata nel palazzo di Bridewell) divennero la più comoda soluzione per arginare la mendicità diffusa e riformare i disadattati. La “Casa di correzione attraverso il lavoro” raggiunse la sua forma più alta di sviluppo nell’Olanda della prima metà del XVIII secolo. Conosciute con il termine di “Rasphuis”, letteralmente “casa del saracco” o “casa della raspa” — in quanto l’attività lavorativa fondamentale fu quella di grattugiare con una sega a più lame un particolare tipo di legno, fino a farne una polvere finissima, da cui i tintori avrebbero ricavato il pigmento per tingere i filati — questi istituti correzionali ebbero la funzione di educazione alla virtù, di redenzione sociale e di salvezza spirituale. Fu questo il senso dell’iscrizione incisa sul frontone del Rasphuis di Amsterdam: Virtutis est domare quae cuncti pavent (È cosa virtuosa domare ciò che tutti temono)11. Infatti, attraverso l’estenuante attività di rasping si concretizzò l’apprendimento da parte dei lavoratori della disciplina capitalistica di produzione, attraverso l’imposizione di un rigido sistema di divieti e obblighi si realizzò la finalità correzionale, attraverso i dormitori comuni si instaurò la funzione sociale, attraverso la pratica religiosa (preghiera e let9

M. WEISSER, Crime and Punishment in Early Modern Europe, Harvester Press, Hassocks (Sussex) 1979, trad. it., Criminalità e repressione nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna 1989, p. 142. 10 La richiesta di utilizzare il palazzo per contenere la mendicità dilagante a Londra e riformare gli internati attraverso il lavoro obbligatorio e la disciplina, fu inoltrata al re da alcuni esponenti del clero inglese. Cfr. D. MELOSSI, M. P AVARINI, Carcere e fabbrica, cit. p. 34; M. CAPPELLETTO, A. Lombroso, Carcere e società, Marsilio, Milano 1976, p. 137. 11 T. ERIKSSON, The reformers. An historical survey of pioneer experiments in the treatment of criminals, Elsevier Scientific, New York 1976, p. 15.

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I. I campi come categoria della violenza politica

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tura della Bibbia) si attuò la salvezza spirituale, attraverso la flessibilità delle pene (difatti la durata poteva essere modificata dall’amministrazione secondo la condotta del recluso) si invogliò una rapida rieducazione, attraverso il buon esempio si effettuò la funzione deterrente nei confronti dell’intera popolazione 12. Se l’edificazione della prigione “Carceri Nuove” a Roma, costruita tra il 1652 e il 1655 da papa Innocenzo X, è il primo esempio di stabilimento carcerario moderno, il contemporaneo “Spedale S. Filippo Neri” di Firenze è il primo istituto con l’isolamento cellulare a scopo correzionale. Infatti, sorto nel 1650 per accogliere vagabondi minorenni e ragazzi abbandonati o orfani, nel 1677 l’istituto si dotò di otto celle singole dove rinchiudere in isolamento continuo i ragazzini più indisciplinati e incorreggibili dello stesso riformatorio, perché, già «corrotti dalla strada e dall’ozio»13, abbandonassero la cattiva condotta, interiorizzando la colpa, e non apparissero da modello agli altri “ospiti” della struttura. In queste celle finirono anche giovani di buona famiglia, affidati dai genitori all’istituto per aver manifestato problemi di disadattamento14. Il popolino, per corruzione popolare, battezzò la struttura con il nomignolo di “Quarconia”, facendo derivare questo appellativo da “quare” (per quale motivo) e “quonam” (perché), che furono sia le due parole latine con cui iniziava il decreto granducale che riconosceva la Pia Casa del Rifugio dei poveri fanciulli di Filippo Neri sia il principio dell’interrogatorio che i ricercatori dei ragazzi “monelli” facevano quando li trovavano

12

Sulle Rasphuis olandesi cfr. T. SELLIN, Pioneering in Penology. The Amsterdam Houses of Correction in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1946; D. MELOSSI, M. PAVARINI, Carcere e fabbrica, op. cit., pp. 40–43. 13 V. NUTI, Discoli e derelitti. L’infanzia povera dopo l’unità, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 100. 14 Simbolo dell’Istituto era una lupa che leccava i propri cuccioli, accompagnata dal motto “Lambendo figurat”, ossia “Leccandoli li accudisce”, per esaltare l’opera caritatevole e rieducativa verso quei “monellini”.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

per le strade15. Molti altri istituti di correzione si ispirarono poi al modello fiorentino e furono detti Quarconia (tra cui quello di Pistoia nel 1721, di Lucca nel 1724 e di Livorno nel 1757); altri presero nomi propri, pur riferendosi al modello dello Spedale S. Filippo Neri. La cella sotterranea e la segreta continuarono a coesistere, nonostante la presenza di questi istituti correzionali. Con la Rivoluzione francese e l’affermazione degli ideali illuministi si radica l’idea di carcere come pena, come punizione, come luogo di “diritti sospesi”. Da questo punto di vista nelle prigioni di Stato, oltre alla segregazione cellulare, si intensificano le pene corporali 16. Se la prigione diventa il luogo dove rinchiudere gli individui più pericolosi per la società, giudicati tali da una sentenza emessa da un tribunale regolare, i campi di prigionia che sorgono a seguito dei grandi conflitti, diventano invece il luogo dove i prigionieri di guerra diventano detenuti extragiudiziari. L’evento bellico che inaugura le prime grandi concentrazioni di prigionieri è la lunga guerra di secessione americana (1861–1865). Durante le prime fasi della guerra civile, in mancanza di mezzi per affrontare un gran numero di soldati catturati, i governi dell’Unione e dei Confederati utilizzano il tradizionale sistema europeo dello scambio di prigionieri. Successivamente questa pratica si esaurisce e iniziano ad esAltri fanno derivare il termine da “Calconia”, il nome del magistrato che giudicava furti e piccoli reati in genere. Cfr. A. LUCARELLA, Spedali e ospedali a Firenze, Laterza, Roma–Bari 1999, p. 71; D. MELOSSI, M. PAVARINI, Carcere e fabbrica, cit. p. 102. Sull’Istituto cfr. anche F. FINESCHI, “Monellini” della Quarconia: controllo pubblico e disciplinamento dei fanciulli in un istituto fiorentino del Seicento, Ponte alle Grazie, Milano 1993. 16 Sull’evoluzione delle prigioni moderne rimando a studi specifici: M. FOUCAULT, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, trad. it., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2014; T. BURACCHI, Origini ed evoluzione del carcere moderno, in «L’altro Diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità», Firenze 2004, http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/asylum/buracchi/; F. VIANELLO, Il carcere. Sociologia del penitenziario, Carocci, Milano 2012. 15

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sere allestiti luoghi per contenere l’enorme massa di prigionieri di guerra. Inizialmente sono riaperti vecchi penitenziari, poi molte fortezze o ex fabbriche sono trasformate in prigioni. Con il proseguire della guerra e l’aumentare del numero dei prigionieri è chiara l’esigenza di creare strutture apposite in desolati appezzamenti di terreno circondati da palizzate. Nascono così i campi di prigionia unionisti, tra cui quelli di Point Lookout (Maryland), Johnson’s Island (Ohio), Camp Chase a Columbus (Ohio), Rock Island (sul Mississippi, nell’Illinois); poi ancora Camp Morton a Indianapolis (Indiana), Camp Douglas a Chicago (Illinois), Camp Butler a Springfield (Illinois), Elmira (a New York). I Confederati rinchiudono gli Unionisti a Camp Sumter ad Anderson (Georgia), Camp Lawton a Millen (Georgia), Camp Ford vicino Tyler (Texas) e in altri specifici campi. Alcuni campi sono dotati di alloggiamenti (tra cui edifici scadenti o stalle riconvertite), oltre alla solita palizzata che segna il confine (ad esempio Camp Morton o Camp Chase). In altri si utilizzano tende come ricovero per i prigionieri (ad esempio a Elmira o a Point Lookout). Infine vi sono quei campi che inizialmente sono dotati solamente di una palizzata per trattenere i prigionieri al suo interno (ad esempio ad Anderson). Il sovraffollamento, le precarie condizioni igieniche, la scarsità di cibo e acqua e la diffusione di epidemie, determinano un alto tasso di mortalità tra i prigionieri 17. Il Risorgimento italiano (XIX secolo) inaugura in Europa la deportazione e l’internamento dei combattenti e degli oppositori politici in fortezze e campi attrezzati, mentre la guer-

17

Cfr. M.B. CHESSON, Prison Camps and Prisoners of War, in S.E. WOODWORTH (ed), The American Civil War, Greenwood Press, Westport (Connecticut) 1996, pp. 466–78; C.W. Jr. SANDERS, While in the Hands of the Enemy. Military Prisons of the Civil War, Louisiana State University Press, Baton Rouge (Louisiana) 2005; B.G. CLOYD, Haunted by Atrocity. Civil War Prisons in American Memory, Louisiana State University Press, Baton Rouge (Louisiana) 2010; AA. VV., The Big Book of Civil War Sites, Morris Book, Lexington, (Kentucky) 2010, pp. 325–332.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

ra hispano–cubana (1895 –1898), dà avvio ai primi affollati campi di concentramento per civili 18. D’ora in poi, la presenza dei campi per civili non risparmierà nessuna area geografica.

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1.2. La forma campo Per capire la logica dei campi e il loro proliferare nella storia, occorre individuare le funzioni che essi hanno esercitato o che ancora svolgono. La logica dei campi di concentramento per civili risponde a sette criteri: isolare, punire, eliminare, sfruttare, correggere, terrorizzare, economizzare. In pratica: isolare, anche a titolo preventivo, per controllare una parte del corpo sociale giudicata rischiosa o sospetta; punire gli oppositori politici o comunque i cittadini corrotti da ideologie errate e pericolose; eliminare fisicamente la parte di una popolazione considerata in esubero da un progetto politico; sfruttare gli internati per trarne produzione e profitto economico e militare; correggere e riformare chiunque sia portatore di ideologie e programmi considerati nefasti; terrorizzare la popolazione per controllarla meglio; economizzare, perché il sistema dei campi come metodo di reclusione è generalmente più economico di quello carcerario, sia per la tipologia delle costruzioni (baracche, tende e altri rifugi improvvisati) sia per la “qualità” dei reclusi che giustifica ogni tipo di precarietà 19. Sulla base di queste sette funzioni si possono individuare, a grandi linee, tre fondamentali ripartizioni: campi di internamento, campi di concentramento, campi di sterminio. I campi di internamento sono luoghi di segregazione con la funzione di separare e isolare individui sospetti o pericolosi. Sono compresi in questa categoria i campi allestiti durante i 18

Entrambi saranno studiati nel capitolo III. Ovviamente ci sono eccezioni. I campi della base navale di Guantánamo assomigliano più a moderne prigioni, con celle riscaldate, letti e mensa. 19

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I. I campi come categoria della violenza politica

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conflitti bellici, allo scopo di internare i cittadini di un Paese nemico: tra questi, ad esempio, i campi allestiti in Francia durante la Prima guerra mondiale per isolare i cittadini originari degli Stati belligeranti nemici, oppure i campi allestiti per i giapponesi, i tedeschi e gli italiani negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. I campi di concentramento sono luoghi extra–nazione, dove “depositare” in riserva di legge i nemici e gli elementi “difettati” o ritenuti tali, per isolarli, correggerli, punirli e nel caso sfruttarli come forza lavoro o come elementi biologici (nel modo di cavie umane per esperimenti medici). Nello stesso tempo, i campi svolgono una funzione pedagogica nei confronti della popolazione libera, in quanto strumenti di terrore e di intimidazione per governare le masse e consolidare il potere dello Stato che li ha creati. I più conosciuti campi di concentramento sono i Gulag sovietici, i Lager nazisti e i Laogai cinesi. I campi di sterminio hanno caratteristiche proprie rispetto agli altri campi. Essi seguono l’esclusiva logica dello “smaltimento” degli elementi considerati dannosi e in esubero, attraverso l’eliminazione fisica degli internati. Famosi sono i campi di sterminio istituiti a Chełmno (Polonia), Bełżec (Polonia), Sobibór (Polonia), Treblinka (Polonia), Majdanek (Polonia), Maly Trostenets (Bielorussia), Jasenovac (Croazia). Questa ripartizione è solo funzionale, perché nella storia si sono avuti “campi misti”, ossia luoghi che comprendono più funzioni che spettano a una tipologia di campo diverso. Ad esempio, si possono avere campi che sono di internamento e concentramento, come il statunitense “Camp Delta” della base navale di Guantánamo, luogo di concentramento per i prigionieri combattenti catturati in Afghanistan e di internamento per civili ritenuti collegati ad attività terroristiche. Un altro esempio potrebbe essere il campo nazista di Auschwitz–Birkenau, contemporaneamente luogo di concentrazione e di sterminio. La struttura dei campi è determinata dalle funzioni e dalla loro evoluzione. Dai primi campi fatti di tende (o altri ripari improvvisati) e filo di ferro, si passa a quelli con baracche, torrette di guardia e filo spinato (poi anche elettrificato).

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Poiché lo scopo è quello di concentrare e internare grandi quantità di persone, i campi sono generalmente di ampie dimensioni20. La scelta di un posto per aprire un campo deve in generale soddisfare le seguenti condizioni: isolamento, segretezza, fuga impossibile, convenienza economica. Così, la lontananza dai maggiori centri abitati e la posizione isolata garantiscono la riservatezza; la particolare ubicazione in zone remote consente la sicurezza contro le fughe, assicurando al contempo anche la segretezza; la disponibilità di ricchezze del sottosuolo e del suolo, allo sfruttamento delle quali è destinato il lavoro forzato degli internati, assicura la convenienza economica. In alcuni casi è determinante anche il carattere il più possibile inospitale e insalubre della località, specie per i campi con finalità punitive. Ovviamente queste condizioni sono riferite alle finalità proprie di ogni campo. Due esempi: il campo italiano di Fossoli e quello portoghese di Tarrafal. Il campo italiano di Fossoli in Emilia Romagna, creato inizialmente come campo per prigionieri di guerra, poiché ubicato vicino alla rete ferroviaria per il Brennero (che univa a Nord tutta l’Europa), divenne nel 1944 un campo nazista di polizia e transito (Polizei–und Durchgangslager) per i Lager del Terzo Reich21. Il Portogallo di Salazar nel 1936 decise di istituire una colonia penale per prigionieri politici e sociali a Tarrafal, sull’isola di Capo Verde, perché il sito sembrava soddisfare efficacemente le condizioni di una politica di esilio (lontananza dalla Patria), di discrezionalità e fuga impossibile (essendo su 20

Ovviamente l’estensione è in rapporto alle finalità del campo. I campi di internamento e di concentramento sono di solito più grandi di quelli di sterminio, perché quest’ultimi non hanno la funzione di “ospitare”. 21 Il campo fu istituito nel 1942 dal Regio esercito italiano per i militari britannici, sudafricani, neozelandesi catturati nelle operazioni di guerra in Africa settentrionale. Dal dicembre 1943 al marzo 1944 divenne un campo di concentramento per ebrei e oppositori politici della Repubblica Sociale Italiana. In seguito fu convertito come campo nazista di polizia e transito verso i Lager del Nord Europa. Sul campo cfr. A.M. ORI, Il campo di Fossoli. Da campo di prigionia e deportazione a luogo di memoria 1942–2004, Fondazione Ex campo Fossoli, Carpi 2014.

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I. I campi come categoria della violenza politica

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un’isola l’isolamento totale era garantito), di prigionia punitiva (per il carattere inospitale a causa del clima e per le condizioni di vita)22. La differenza tra i campi non riguarda unicamente la diversità degli edifici, ma anche gli aspetti relativi alle condizioni di vita e allo status di internati. Per questo tra i vari campi le differenze sono marcate e variano nel tempo. In generale la vita quotidiana all’interno dei campi di internamento e migliore di quelli di concentramento.

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1.3. La violenza come “linguaggio” dei campi Per Michel Foucault la biopolitica è l’area d’incontro tra potere e sfera della vita e, quindi, il corpo dell’individuo diventa la posta in gioco delle strategie politiche: il diritto di vita e di morte è subordinato alle esigenze del biopotere. Il rapporto che lega la politica e la vita è così di tipo mortifero e, in tale ottica, il campo di concentramento assume tutta la sua grande rilevanza paradigmatica23. Nei campi di internamento la biopolitica isola la parte sospettosa per controllarla. Nei campi di concentramento (di lavoro coatto, di rieducazione e così via), la biopolitica raccoglie le parti “guaste” del sistema, ma ancora a essa utili e, come in un ospedale, le cura, le educa al lavoro, le rende preziose e utili per il regime. Nei campi di sterminio la biopolitica distrugge e brucia i frutti della sua dominazione. 22

Si tornerà a parlare del campo di Tarrafal nel capitolo III. Il termine “biopolitica”, nel suo senso moderno, fu coniato agli inizi del Novecento dall’antropologo e filosofo Georges Bataille. Più tardi, verso la metà degli anni Settanta, è stato il francese Michel Foucault, interpretando il biopotere come la nuova forma di esercizio della sovranità, a riempirlo della semantica precisa in cui oggi lo usiamo. La biopolitica descrive la gestione del corpo come spazio supremo di esercizio da parte del potere governamentale. Cfr. M. FOUCAULT, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, trad. it., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978. Sulla biopolitica cfr. anche R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. 23

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Se nei campi di sterminio aleggia la morte seriale, in quelli di concentramento c’è una condizione di non–vita e non–morte: nei campi di sterminio l’esistenza biologica è politica e solo momentanea; nei campi di concentramento la morte, pur contrassegnando in profondità la realtà, ne costituisce un semplice sottoprodotto, non rappresentandone una finalità. In pratica nei campi di concentramento non sei ancora morto, ma non vivi più, mentre in quelli di sterminio la tua morte è decisa prima di entrare. In entrambi ci sono vite fuori controllo dalla vita. Per questo ogni campo ha il suo distillato di violenza: una brutalità che ha la funzione di annichilire completamente l’individuo, assieme a una malvagità sadica che pretende la partecipazione degli stessi detenuti alla violenza dei campi (per mantenere la disciplina, per sbarazzarsi dei morti, per rieducare i propri compagni). L’individualità e la dignità umana sono lasciati fuori dal campo, il loro ingresso nell’universo dei dannati sulla terra non è permesso. Solo in questo modo il potere può esercitarsi pienamente e illimitatamente e far diventare i campi strumenti permanenti di dominio totale. Un dominio dell’arbitrio più assoluto che rimette in causa il concetto di civiltà attraverso il disfacimento della ragione che, rovesciandosi nel proprio contrario, dispensa disumanità tra gli internati, trasformandoli in corpi completamente atomizzati. Già la deportazione e l’internamento a causa di un lignaggio, di un pensiero, di un’intelligenza, di una professione di fede, sono elementi che nella loro oggettiva attuazione bastano da soli, senza altri fattori, a provocare quel totale smarrimento della persona. Se ha questo si aggiungono le violenze gratuite, la tortura e la disumanizzazione imposta dai carcerieri, allora la devastazione del deportato si completa. Perché, lo spettacolo continuo dell’altrui morte e la continua aspettazione della propria, la disumanizzazione, le umiliazioni con sadismo, le aggressioni verbali, la violenza fisica sistematica intesa come strumento regolativo della vita stessa, l’irrazionalità delle spersonalizzanti liturgie quotidiane (toilette comunitaria, appello, spogliazioni pubbliche, interminabili marce e così via), la conformità dei pri-

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I. I campi come categoria della violenza politica

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gionieri (divisa, teste rasate, simboli identificativi e numeri al posto dei nomi), il lavoro insensato, la promiscuità fra i detenuti, il degrado fisico e morale realizzato per gradi o il piacere in sé di uccidere poco alla volta, la fame, insomma l’inumanità vissuta fino ai suoi limiti estremi, svelano il senso totalitario dei sistemi concentrazionari.

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1.4. La fame Proprio la fame, quella indomabile, assillante, molesta, è al centro di tutte le testimonianze dei campi, accomunando tutte le esperienze concentrazionarie: Tra tante pene e miserie che abbiamo subito, la fame è stata senza dubbio la peggiore, ed è stata sempre con noi, sino alla fine, riempiendo ogni nostro pensiero e mettendo costantemente alla prova la nostra dignità umana.24

Maria Camilla Pallavicino, partigiana torinese incarcerata con la sorella dapprima nel campo di transito di Fossoli, deportata successivamente a Ravensbrück e poi internata nel sottocampo di Rechlin25, tenta una descrizione della fame che si patisce nei campi: La nostra era una fame che faceva dimenticare qualunque altra cosa, una fame che diventava un incubo a cui non era possibile fare l’abitudine. È possibile, vorrei quasi dire, può anche essere facile adattarsi alla sporcizia, ai pidocchi, alla promi-

24

Testimonianza di Vittorio D’Amico in L. FRIGERIO, Noi nei Lager. Testimonianze di militari italiani internati nei campi nazisti (1943–1945), Paoline, Milano 2008, p. 99. Il saggio è la testimonianza di alcuni italiani che dopo l’8 settembre 1943 si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e di collaborare con i nazisti e per questo internati nei campi di concentramento in Germania e Polonia. 25 La biografia della partigiana in «Non perdere la speranza». La storia di due sorelle in Lager, a cura di E. MORA, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2009.

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scuità, ma se anche lo stomaco si abitua a mangiare meno, la fame rimane. 26

L’endemica necessità di placare lo spettro della fame sembra quasi divorare l’internato, assoggettandolo al suo dominio. Ricorda Goti Bauer, rinchiusa a Fossoli e poi deportata dapprima ad Auschwitz col numero A–5372, poi a Wilischtahl e poi ancora a Theresienstadt (Terezin): «ma come si fa a spiegare cos’era quella fame? Era un morso che ti divorava» 27. «Era un desiderio inappagabile che cresceva nel tempo, che tormentava giorno e notte, che ci rubava il sonno, una bramosia capace di farci trangugiare ogni cosa masticabile»28, ricorda il generale Egisto Fanti, che ha vissuto il tormento dei Lager, «era come una serpe che avvinghiava le viscere senza tregua; era una lima sorda che, piano piano, consumava il fisico e le forze» 29. Per questo, «chi non conosce la fame, per averla provata di persona, trova assai difficile capire i conflitti interni e le lotte di volontà che agitano un affamato, logorando il suo spirito» 30. La fame mette alla prova anche lo spazio della coscienza. Racconta Djordjo Suvajlo, un serbo della Bosnia internato per 1.335 giorni nel campo creato dai bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) nel Silos di Tarčin31, della municipalità di Hadzici, pe26

In A. CHIAPPANO (a cura di), Essere donne nei Lager, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in Ravenna e provincia – Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Giuntina, Firenze 2009, p. 47. 27 Memoria di Goti Bauer in Una vita segnata, in Associazione Donne Ebree d’Italia, Voci dalla Shoah, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 38. 28 Testimonianza del generale Egisto Fanti in Anei, Dalla guerra ai lager, così cit. in L. FRIGERIO, Noi nei Lager, cit., p. 36. 29 Ibidem. 30 V. FRANKL, Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager, Kösel, München 1978, trad. it., Uno psicologo nei lager, Ares, Milano 1967, ora 2009, p. 65. La prima edizione del saggio, intitolata Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager, fu pubblicata anonima nel 1946. 31 Il campo è creato in un ex silos della ditta Žitopromet di Sarajevo, che conservava cereali e altri prodotti alimentari. Proprio 1335 Days, si intitola il suo libro di memorie pubblicato nel 2013 dall’Association of Camp Inmates of Republic Srpska, branch of New South Wales – Australia, Doonside.

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riferia della capitale Sarajevo: «Ero sdraiato nella mia cella, affamato, eppure la mia casa era a ottanta metri di distanza. Di tanto in tanto, grazie al coraggio di mia madre, che riusciva a corrompere le guardie del campo, ricevevo dei piccoli pacchi di cibo» con minime porzioni di pane, formaggio e pancetta. Djordjo è felice sia per il pacco sia perché capisce che sua madre è ancora viva. Ricevuto il piccolo pacco, Djordjo è però assalito da un dilemma: Ho pensato se dovessi condividere il mio cibo con tutti quelli che erano in cella, o solo con quelli di mia scelta, o se dovessi tenere tutto per me stesso. Profondamente consapevole della situazione e sapendo che non volevo vivere la mia vita con una coscienza sporca, decisi che avrei condiviso il mio cibo con tutti.

Non solo, Djordjo offre una porzione maggiore a un suo compagno di cella, Dejo Golub, visibilmente più deperito degli altri a causa sia della fame sia dei continui «pestaggi irragionevoli» da parte delle guardie. Tuttavia, siccome «la maggior parte delle volte, almeno fino alla fine di ottobre 1992, avevamo solo un pasto al giorno», la fame si fa sentire prepotente così «la mia precedente decisione di condividere tutto con gli altri si è un po’ indebolita» Poiché «la mia fame mi ha sopraffatto, ho voluto tenere più cibo per me stesso, dando loro metà del cibo e lasciando l’altra metà per placare la mia fame». Tuttavia, mentre si accinge a mangiare, Djordjo si accorge che i suoi compagni di cella lo guardano muti, assomigliando «a statue sedute», rassegnate. Così Djordjo decide di ritornare a dividere il cibo con gli altri. Anche se «è stato difficile per me, ma quando ho visto la loro contentezza mi sono sentito colmo da sentimenti di giustizia e calore umano»32. La fame si inizia a patire già nel terribile lungo viaggio che porta ai campi:

32

Testimonianza di Djordjo Suvajlo.

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Dopo un interminabile calvario, la sete e la fame erano diventate le nostre padrone: alcuni anziani, distesi su un pagliericcio, non davano ormai alcun segno di vita. Noi più giovani eravamo sempre all’erta, attenti a ogni scossone del treno, a ogni rumore «diverso» proveniente dall’esterno, come le bestie chiuse in un recinto che rizzano le orecchie, quando avvertono segnali di pericolo attorno a loro.33

La fame è un aspetto sempre presente nelle memorie dei testimoni, poiché è una condizione ordinaria nella quale gli internati vivono. Il cibo negato diventa sia una condanna sia una speranza al quale aggrapparsi per continuare a vivere. Resoconta Elie Wiesel, “ospite” ad Auschwitz col numero “A–7713”: Non avevo alcun genere di interesse se non quello per la mia zuppa quotidiana e per un pezzo di pane raffermo. Pane, zuppa, questa era tutta la mia vita. Io ero corpo, forse ancor meno: io ero un corpo macilento.34 Affamati, infelici ed esausti, scattavamo ogni volta che la porta della cella scricchiolava pensando che potesse essere cibo in arrivo.35

Il supplizio della mancanza di cibo è il modo più semplice per degradare completamente il deportato e distruggerlo fisicamente e psicologicamente. Scrive Sergio Borme, deportato nel terribile campo titino di Goli Otok: Uno dei ricordi più paurosi che un ex deportato a Goli Otok si porta impresso nella memoria è senz’altro quello della fame patita. Una fame terribile, che non dava tregua. E imbestialiva 33

E. SPRINGER, Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione, Marsilio, Venezia 2011, p. 63, (orig. 1997). 34 E. WIESEL, Sopravvissuto ad Auschwitz, cit. da H. LANGBEIN, Menschen in Auschwitz, Verlag, München 1995, p. 95, in italiano Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, Mursia, Milano 1994. 35 Testimonianza di Djordjo Suvajlo.

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l’individuo, facendogli perdere la coscienza di tutto il resto, dalle sevizie alle umiliazioni, dall’invasione delle cimici a quella dei pidocchi. Probabilmente era la fame lo strumento principale utilizzato nel lager per ottenere la degradazione umana dei deportati. Si preferiva mantenerli in vita, sottoponendoli al supplizio continuo della mancanza di cibo.36

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Conferma questo nel suo diario di prigionia anche Sebastiano Leonardi, un internato trentino nel campo di Kiev durante la Prima Guerra Mondiale: È da piangere il pensare in qual condizione eravamo giunti! Uomini sani e robusti, sul fior della vita, tutti onesti assidui lavoratori, fra i quali anche persone studiate che in patria non conobbero miseria e neppure povertà, correre davanti ad una porta, con il berretto in mano domandare per carità un pezzo di pane […]. La fame fa perdere all’uomo i sensi, l’educazione, la civiltà! Non conosce più né prossimo né amici né concittadini! Come bestia selvaggia, si spinge, si slancia sulla preda che gli sta davanti e la divora. Non paventa pericolo, non accetta consigli, non intende più parola. In qualunque maniera, lecita od illecita basta poter arrivare ad agguantare un pezzo di pane, per non restar vittima di essa.37

La scarsità del cibo rende a volte l’internato insensibile persino di fronte alla morte. Chol–Hwan Kang, dall’inferno di Yodok, il centro di rieducazione nordcoreano n. 15, testimonia la quasi impassibilità per chi è privato di cibo nell’assistere alle esecuzioni capitali, perché le «persone che soffrono la fame non hanno il cuore a pensare agli altri» 38. 36

In G. PANSA, Prigionieri del silenzio, Sperling & Kupfer, Milano 2004, p. 251. 37 In P. SCALFI B AITO, Memorie della guerra mondiale 1914–1918. Galizia – Russia – Siberia, Comunità delle Regole di Spinale e Manez, Ragoli (Trento) 1988, pp. 96–97. 38 C.H. KANG, P. R IGOULOT, Les aquariums de Pyongyang: dix ans au goulag nord–coréen, Robert Laffont, Paris 2000, trad. it, L’ultimo gulag:la tragedia di un sopravvissuto all’inferno della Corea del Nord, Mondadori, Milano 2001, pp.141–142.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Il tozzo di pane raffermo o la brodaglia giornaliera, distribuiti al di sotto del livello dell’inedia, diventano quindi la porzione di salvezza, che aiuta però solo a fingere di mangiare senza riuscire a nutrire. La razione quotidiana è così misera, che «lo stomaco, compreso l’inganno, riprenderà a spasimare più dolorosamente», anzi, già prima di mangiare si percepiva «la fame del dopo»39. Le porzioni sono così ridotte che negli internati sorge finanche il dilemma se mangiare la misera quota di cibo tutta in una volta, così da avere lo stomaco più o meno pieno e riuscire a dormire, o frazionarla, per poter calmare la fame a più riprese sino alla prossima razione40. Nei campi, «la fame è una prova insormontabile», assicura il dissidente russo Anatolij Martchenko, internato nei Gulag, e «l’uomo giunto all’ultimo gradino dell’abbruttimento è di solito pronto a tutto»41, poiché, conferma il polacco Gustaw Herling– Grudziński, che ha conosciuto i Gulag: La fame... la fame è una sensazione orribile, che si trasforma in un’astrazione, in incubi alimentati da una continua febbre mentale […] Gli effetti fisici della fame non hanno un limite al di là del quale la vacillante dignità umana possa ancora serbare il suo incerto ma indipendente equilibrio. 42

Così, quando lo stomaco prende prepotentemente il posto del cervello, qualsiasi cosa di commestibile, anche se lontanamente, come erba, avanzi, ratti, serpenti e non solo, diventa alimento per sopravvivere. 39

G. GUARESCHI, Diario clandestino 1943–1945, Rizzoli, Milano 1982, così cit. in L. FRIGERIO, Noi nei Lager, cit., p. 37. 40 Testimonianza di Djordjo Suvajlo. 41 A. M ARTCHENKO , Mon témoignage. Les camps en URSS après Staline, éd. Du Seuil, Paris 1970, pp. 108–109. 42 G. HERLING, Inny Świat. Zapiski sowieckie, Heinemann, London 1951, trad. it., Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 156–157. Il polacco Gustaw Herling Grudziński, internato per due anni in un Gulag della regione di Arcangelo, dedica un capitolo alla fame onnipresente nei campi, cfr. pp. 151–163.

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I. I campi come categoria della violenza politica

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Il prigioniero Niu, un distinto e istruito lavoratore di un Laojiao, il “Jiabiangou Labor Camp”, situato nel Nord–Est della Cina, è ritrovato a nutrirsi di escrementi ed emesi: Salii in cima a quella scala improvvisata e mi guardai intorno. A qualche metro di distanza, vidi qualcuno steso sulla pancia che mi dava le spalle. Anche se non riuscivo a vederlo in faccia, sapevo che era Niu. Ne fui sorpreso: era un uomo anziano e dal fisico debole, perché mai si era arrampicato fin lassù? Che cosa stava facendo? Lo trovavo alquanto singolare. Mi arrampicai silenziosamente sul tetto e mi avvicinai a lui strisciando. Mi fermai dietro di lui e sbirciai alle sue spalle. Per terra c’era un involucro quadrato di stoffa azzurra. Lo riconobbi: il vecchio avvolgeva sempre la camicia e i pantaloni in quel pezzo di stoffa azzurra con un disegno a fiori bianchi e lo usava come cuscino. Notai un sottile strato di materia appiccicosa di color marrone giallastro sparsa uniformemente sulla stoffa. Sembrava che fosse rimasta al sole per un po’ e si fosse parzialmente seccata. Riconobbi pezzi di patate bianche e giallognole, ed ebbi una stretta al cuore. Bontà divina! Niu aveva raccolto il mio vomito e i miei escrementi della notte passata, li aveva sparsi sul suo involucro di stoffa e li aveva messi ad asciugare al sole. E adesso stava accuratamente selezionando i pezzi di patate non digeriti, grossi come polpastrelli, per ficcarseli in bocca.43

L’inadeguatezza della razione quotidiana di cibo fa parte della logica di un campo. Infatti la «dieta da fame»44 si basa su binomi elementari: cibo–lavoro, cibo–buona condotta. Il buon comportamento, il rispetto delle regole permette all’internato di non perdere per punizione il già misero rancio quotidiano. Anche il lavoro è strettamente collegato alla razione quotidiana: a una quota di lavoro corrisponde infatti una razione di cibo, chi 43

X. YANG, Gaobie Jiabiangou, Shanghai Wenyi Chubanshe, Shanghai 2003, trad. it., La donna di Shanghai. Voci dai sopravvissuti a un gulag cinese, Galatea, Bologna 2011, p. 228–229. 44 D. YVEY, R. B ROOMBY, The Man Who Broke into Auschwitz. A True Story Of World War II, Da Capo Press, Boston 2011, trad. it., Auschwitz. Ero il numero 220543. Una storia vera, Newton, Roma 2011, p. 41.

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lavora di meno mangia di meno. Inoltre, un prigioniero debilitato dal digiuno ha meno possibilità di fuggire. Scrive Herta Müller, Nobel per la letteratura nel 2009, della terribile esperienza di alcuni deportati in un Lager ucraino: La fame c’è sempre. Siccome c’è, arriva quando e come vuole. Il principio di causalità è la miserabile opera dell’angelo della fame. Quando arriva, arriva potente. La chiarezza è grande; 1 colpo di pala = un grammo di pane. Io non avrei bisogno della pala a cuore. Ma la mia fame dipende da lei. Vorrei che la pala a cuore fosse il mio strumento. Invece è la mia padrona. Lo strumento sono io. Lei domina, e io mi sottometto. Eppure è la mia pala preferita. Mi sono forzato ad apprezzarla. Sono servile perché lei è con me una padrona migliore quando sono docile e non la odio. Devo ringraziarla, perché quando spalo per il pane sono distratto dalla fame. Siccome la fame non passa, lei fa in modo che lo spalare si anteponga alla fame. Spalare è al primo posto quando spali, altrimenti il corpo non attacca il lavoro.45

L’insufficiente nutrimento e la conseguente ossessione per la scarsità di cibo, sono dunque gli elementi dominanti della vita di un internato, che lo trasformano in un corpo atomizzato, perché, con la denutrizione i corpi dei prigionieri diventano sempre più smunti, riducendoli a resti di esseri umani, a raccapriccianti scheletri ricoperti di pelle, figure così macilente da assomigliare a “radiografie viventi”46.

45

H. MÜLLER, Atemschaukel, Carl Hanser Verlag, München 2009, trad. it., L’altalena del respiro, Feltrinelli, Milano 2010, p. 70. 46 Metafora citata nella sua testimoniaza da Djordjo Suvajlo.

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Capitolo II

L’Umanità de–umanizzata

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2.1. L’appartenenza come prescrizione politico–culturale Elemento di novità che caratterizza l’universo concentrazionario è l’appartenenza, un fattore assunto come discriminante poiché, attraverso l’estremizzazione dei meccanismi di inclusione/esclusione, è capace di plasmare la geografia umana. I campi, in tutte le loro varianti e variabili, si inseriscono all’interno di questa prescrizione politico–culturale. L’appartenenza, quindi, determinerà le forme di esclusione per chi è ritenuto in eccesso, rispetto alla geografia politica e sociale prospettata. Per gli Stati liberali, l’appartenenza assumerà il criterio su cui basarsi per porre fuori dalle garanzie previste dalle Costituzioni e dalle leggi chi non risponde di requisiti sempre più selettivi; per gli Stati totalitari sarà il parametro per “azzerare” un gruppo etnico, sociale o politico, eliminandolo definitivamente, oppure “rieducandolo”. In entrambi i casi, l’individuo o il gruppo sono sospesi dall’ordine politico e sociale. Il meccanismo di “inclusione dell’escluso” in un sistema concentrazionario, sancisce di fatto l’esclusione da un ordine. I campi, con la loro rigida e netta assegnazione delle parti, da un lato le vittime e dall’altro i carnefici, entrano a far parte di un disposto politico–culturale che porta a un’esclusione tangibile dalla fruizione effettiva di quei diritti in nome dei quali sono stati edificati. Gli esclusi sono di fatto inclusi in un altro ordine, poiché l’appartenenza, attraverso i campi, genera due mondi, due distinti sistemi giuridico–morali: il primo spetta unicamente 37

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

a chi “appartiene” ed è titolare di tutti i diritti, compreso quello di escludere chi non appartiene; il secondo è formato sia dagli esclusi sia da chi è incluso al primo ordine. In quest’ultimo sistema giuridico–morale gli inclusi, ossia gli esclusi del primo ordine, sono giudicati secondo gli ordinamenti politici di chi li ha eliminati: per i regimi nazi–fascisti sono oggetti a perdere, per i regimi comunisti soggetti da rimodellare, per le democrazie liberali soggetti da tenere sotto controllo 1. Questo fa emergere la differenza tra il far morire dei campi di sterminio nazisti, il far “rinascere” dei campi di concentramento comunisti, il vigilare dei campi d’internamento liberali. L’appartenenza determina un circolo vizioso che porta alla classificazione (delle persone, di un gruppo etnico, sociale, politico o religioso), poi alla stigmatizzazione di quelle persone o di quel gruppo designato come nemico sul piano politico, sociale, religioso o razziale, infine deportazione, concentramento e in alcuni casi sterminio. Estremizzando la stigmatizzazione — ossia stabilendo un confine netto fra chi appartiene a un ordine, a uno specifico spazio politico–sociale condiviso, e chi vi è escluso — si nega l’Altro de–umanizzandolo, attivando un perverso processo che determina la classificazione di un gruppo umano in categorie sociali estreme negative, delegittimate dalle norme e dai valori morali che regolano la società umana, e per questo soggette a subire comportamenti crudeli sino ad azioni genocidarie2. La de–umanizzazione, quindi, estremizzando in negativo i sentimenti, nega «l’umanità all’altro — individuo o gruppo — introducendo un’asimmetria tra chi gode delle qualità prototipi1

Si è voluto generalizzare rimarcando il carattere principale dei campi secondo i regimi, ma ovviamente in ogni sistema politico sono presenti, nel corso della storia, ora uno ora l’altro tipo di campo (di internamento, di concentramento, di lavoro forzato, di sterminio). Solo le democrazie liberali non conoscono i campi di sterminio deliberato. 2 Cfr. D. B AR–TAL, P.L. HAMMACK , Conflict, delegitimization, and violence, in L.R. Tropp (ed), The Oxford Handbook of Intergroup Conflict, Oxford University Press, New York 2012, pp. 29–52; C. VOLPATO, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, Laterza, Roma–Bari 2011.

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II. L’Umanità deumanizzata

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che dell’umano e chi ne è considerato privo o carente» 3. In altre parole, comporta la negazione dell’identità dell’Altro, che non è più riconosciuto come individuo autonomo, capace quindi di compiere scelte autonome e di avere diritti. Per questo chi è de– umanizzato è espulso dall’ordine non solo della società, ma anche della specie umana. Per lo psicologo sociale Daniel Bar–Tal, quattro sono le funzioni della de–umanizzazione4: a) Giustificazione cognitiva: de–umanizzare un gruppo può giustificare comportamenti tragicamente negativi (si pensi ai genocidi e ai campi di concentramento); b) Compito razionale: de–umanizzare un gruppo può giustificare il suo sfruttamento, poiché si considera tale gruppo inferiore, ossia appartenente a uno stadio evolutivo più basso; c) Differenziazione intergruppi: de–umanizzare contribuisce ad accentuare le differenze intergruppi, rendendo i confini di appartenenza i più definiti possibili; d) Mantenimento della propria superiorità: la de–umanizzazione fornisce la base per instaurare una superiorità legittima e stabile sull’Altro. Attraverso la de–umanizzazione si giustifica l’apertura dei campi di concentramento e di sterminio, privando completamente l’internato delle prerogative giuridiche, di ogni statuto politico, dell’umanità e della propria unicità individuale. Attraverso la de–umanizzazione si manipola anche il senso morale dei carcerieri. Infatti, la percezione dell’Altro come essere umano scatena reazioni emotive empatiche, che stimolano sentimenti positivi comuni (amicizia, rispetto, comprensione, solidarietà, fratellanza umana). Al contrario le persone disinvestite dell’umanità perdono la capacità di suscitare buone emozioni, aprendo uno spazio a comportamenti negativi carichi di irrazionalità distruttiva immuni del senso di colpa. Infatti, la 3

C. VOLPATO, Deumanizzazione, cit., p. 4. D. BAR–TAL, Delegitimization: The extreme case of stereotyping and prejudice, in D. BAR–TAL, C.F. GRAUMANN, A.W. KRUGLANSKI, W. STROEBE (eds), Stereotyping and prejudice: Changing conceptions, Springer–Verlag, New York 1989, pp. 169–182. 4

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

estromissione dalla specie umana di una persona o di un gruppo umano, attiva il processo di “esclusione morale” delle vittime da parte dei carnefici, conducendo a un “disimpegno morale” da parte di questi ultimi: relegare una persona o un gruppo umano all’interno di una categoria subumana permette a chiunque di affrancare la propria coscienza 5. Precisamente, a una persona ritenuta non più umana o a un gruppo de–umanizzato non spettano più i principi e le regole morali che normalmente fanno capo a tutti gli esseri umani (esclusione morale)6 e chi accoglie questa visione si autoscagiona per i comportamenti che adotta, condotte che in altri momenti sarebbero considerati immorali (disimpegno morale) 7. Quindi, il persecutore si autogiustifica, incolpando le vittime di quanto subito 8. Con la sua de–umanizzazione, dunque, l’internato è ridotto interamente a vita vegetativa, rappresentando l’indistinzione tra persona e non–persona: [Nei campi] gli uomini muoiono, sono già tutti morti; anche se il corpo è ancora vivo, il cuore è spento; o per lo meno, in agonia. […] Il piazzale è tutto un brulichìo di spettri, risuona di 5

Cfr. H.C. KELMAN, Violence without moral restraint. Reflection on the dehumanization of victims and victimizers, «Journal of Social Issues», vol. 29, n. 4, 1973, pp. 25–61. Accanto alla deumanizzazione, il professore di Etica sociale Herbert Kelman aggiunge altri due motivi che spingono a commettere atrocità sociali: l’autorizzazione delle autorità legittime (eseguivo gli ordini) e la routinizzazione delle procedure. 6 Cfr. S. OPOTOW, Moral exclusion and injustice. An Introduction, «Journal of Social Issues», 46, 1, 1990, pp. 1-20; E. STAUB, Moral exclusion, personal goal theory, and extreme destructiveness, «Journal of Social Issues», 46, 1, 1990, pp. 47-64. 7 Cfr. M.J. OSOFSKY, A. B ANDURA, P.G. ZIMBARDO, The role of moral disengagement in the execution process, «Law and Human Behavior», 29, 4, 2005, pp. 371-393; A. BANDURA, Moral Disengagement. How People Do Harm and Live with Themselves, Macmillan, New York 2016, trad. it. Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, Erickson, Trento 2017. 8 Cfr. il mio La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, Tralerighe, Lucca 2019, pp. 57-64.

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II. L’Umanità deumanizzata

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uno strano rumore sordastro. Ti sembra di essere in preda ad un ossessionante allucinazione. Eppure sono uomini, uomini... No, veramente erano uomini. Adesso non lo sono più, sono morti; anche se respirano ancora, uomini non sono più. E non sono nemmeno bestie, perché altrimenti sarebbero tenuti da conto. Chi potrebbe dire che cosa sono?9 Eravamo tutti dannati e tutti innocenti [perché] oltre certi limiti di sofferenza non si può continuare a essere uomini. 10

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Non funzionavo più come un essere umano: sapevo dentro di me che il mio spirito stava per morire.11 Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi.12

La de–umanizzazione, dunque, diventa sia il crudele mezzo per emarginare le vittime e giustificare le violenze sia il procedimento per alleviare la coscienza degli aguzzini.

2.2. Le figure della de–umanizzazione La de–umanizzazione dell’Altro è sempre esistita nella storia umana, dai rapporti fra le tribù primitive allo schiavismo del mondo classico, dall’odio religioso al colonialismo europeo, sino alla giustificazione della violenza dei campi di concentra9

Testimonianza del sacerdote Paolo Liggeri, internato a Mauthausen, in P. LIGGERI, Triangolo rosso. Dalle carceri di S. Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione di Foscoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen, Dachau. Marzo 1944–maggio 1945, La Casa, Milano 1953, p. 311 e p. 387. 10 Testimonianza di un dissidente sopravvissuto al carcere rumeno di Pitesti, in D. FERTILIO, Musica per lupi, Marsilio, Venezia 2010, p.161. 11 Testimonianza di Moly Ly sopravvissuto ai campi di rieducazione dei Khmer Rossi, in M. LY, Witnessssing the Horror, in D. PRAN, K. DEPAUL (eds), Children of Cambodia’s Killing Fields: Memoirs by Survivors, Yale University Press, New Haven 1997, così cit. da D.J. GOLDHAGEN, Peggio della guerra. Lo sterminio di massa nella storia dell’umanità, cit., p.64. 12 P. LEVI, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1989, p. 270.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

mento e poi di quelli di sterminio. Le figure della de–umanizzazione che legittimano la violenza sono quindi molteplici: nei secoli si sono succedute metafore animalistiche, diaboliche, biologiche, oggettuali e meccaniche. Nei campi, in qualsiasi tipologia di campo, ritroviamo tutte le figure della de–umanizzazione: «Le condizioni del lager non permettono agli uomini di restare uomini, i lager non sono stati creati per questo»13. La metafora animalistica è l’espressione figurata più frequentemente impiegata nella storia. L’animale è sempre stato un punto di riferimento importante nella definizione dell’identità umana14. Gli individui o i gruppi sociali esclusi dalla pienezza dell’umano e rappresentati con tratti zoomorfi, subiscono un trattamento che varia secondo il valore assegnato. Infatti, le metafore dell’animalità possono avere valore positivo, riferiti a forza, fierezza, potere, coraggio, bellezza (toro, aquila, leone, cigno e così via); oppure negativo, se riferiti a fiere e animali che fanno ribrezzo (topi, serpenti, scarafaggi e così via). Nella semantica dei rapporti di dominio il ricorso alla metafora negativa dell’animalità è usuale per porre gli altri in stato di subordinazione15, quindi per sottomettere, oltraggiare sino a uccidere: Schiacciando l’insetto o qualcuno come un insetto, ci si distanzia da lui, ci si distingue e ci si differenzia dalla sua morte che ha lo stesso non–senso della sua vita […]. Noi che lo uccidiamo con disprezzo non possiamo essere uguali a lui, non

13

V. SALAMOV, Kolymskie rasskazy, 1973, trad. it., Kolyma. Racconti dai lager staliniani, Savelli, Roma 1978, p. 11. Questa edizione italiana è stata condotta sul testo russo in samizdat, senza consenso dell’autore. Esistono edizioni tradotte in italiano più recenti, dal titolo: I racconti di Kolyma (tra cui quella della Einaudi, Torino 1999 e quella della Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano 2010). 14 Cfr. R. M ARCHESINI, S. TONUTTI, Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma 2007, pp. 126–142. 15 A. R IVERA, Una relazione ambigua. Umani e animali, fra ragione simbolica e ragione strumentale, in A. RIVERA (a cura di), Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il mondo animale, Dedalo, Bari 2000 p. 37.

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possiamo aver qualcosa in comune con lui. Noi non siamo lui, che peraltro non–è.16

È chiaro, dunque, che la vita di individui percepiti come insignificanti animali ha meno valore, e la loro morte assume un contenuto diverso. L’utilizzazione di metafore animali nelle parole dei sopravvissuti, fa comprendere come il processo di animalizzazione può arrivare a impregnare la stessa auto percezione degli internati, costretti così a far propri i modelli de–umanizzanti imposti dai carcerieri: «Le SS ci incolonnarono a colpi di frusta come le bestie al circo»17, ricorda nelle sue memorie Elisa Springer, ebrea viennese di origini ungheresi, sopravvissuta a Birkenau e altri lager nazisti come Berger Belsen e Therezin; «Nel campo, non vi era alcuna differenza tra l’uomo e la bestia, tranne forse che un uomo molto affamato era capace di rubare il cibo dai suoi piccoli, mentre un animale, forse, non lo era» 18, rievoca Chol–Hwan Kang, “ospite” nell’inferno del centro di rieducazione nordcoreano di Yodok; «A Bukchang la vita delle mosche ha più valore di quella degli uomini», spiega Kim Hye Sook, scappata nel 2009 al Kwan–li–so n. 18, terribile campo nordcoreano19. Janusz Bardach, ebreo polacco condannato ai lavori forzati durante la Seconda guerra mondiale nelle miniere di Kolyma, precisa: La Kolyma mi aveva insegnato che la degradazione non era semplicemente un sottoprodotto delle condizioni in cui eravamo costretti a vivere: essa faceva infatti parte del piano. L’in16

R. ESCOBAR, Il silenzio dei persecutori ovvero il coraggio di Sharazàd, il Mulino, Bologna 2001, p. 46. 17 E. SPRINGER, Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione, Marsilio, Venezia 2011, p. 68, (orig. 1997). 18 C.H. KANG, P. R IGOULOT, Les aquariums de Pyongyang: dix ans au goulag nord–coréen, Robert Laffont, Paris 2000, trad. it, L’ultimo gulag. La tragedia di un sopravvissuto all’inferno della Corea del Nord, Mondadori, Milano 2001, p. 160. 19 S. TANDON, N. Koreans tell US of lives ‘worth less than flies’, Agence France–Presse, 20 September 2011.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare tento non era solo quello di ricavare la maggior quantità di forza–lavoro, ma anche di trasformare i prigionieri in bestie.20

Il passaggio alla animalizzazione dei prigionieri inizia ancor prima dell’ingresso nei campi, durante i tragici viaggi. Ricorda ancora Elisa Springer:

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Eravamo bestie impaurite e tremavamo ad ogni rumore sospetto. Il primo atto di spersonalizzazione, la prima manifestazione del decadimento della nostra condizione di esseri umani, stava tragicamente iniziando!21

Terenzio Magliano, paracadutista della Folgore entrato nella Resistenza, ricorda il suo viaggio verso il campo di concentramento di Mauthausen–Gusen, dove è imprigionato come detenuto politico: «tutto cominciò con un viaggio terribile, ammassati come bestie, come maiali ai quali ogni tanto da un pertugio si getta qualcosa nel trogolo»22. La degradazione bestiale eseguita dai tedeschi nei loro campi è ripresa più volte da Primo Levi nelle sue memorie: il Lager è «una grande macchina per ridurci a bestie», i prigionieri sono paragonati a «bestie stanche» che, «come gli animali […] ristretti al momento presente», costituiscono «gregge muto innumerevole, assueto all’ira degli uomini» e hanno «il torpore opaco delle bestie domate con le percosse» 23. La bestializzazione dei prigionieri è colta ancora da Primo Levi, quando spiega perché i suicidi all’interno dei campi sono stati bassi:

20

J. BARDACH, K. GLEESON, Man Is Wolf to Man. Surviving the Gulag, University of California Press, Berkeley 1999, trad. it., L’uomo del Gulag, il Saggiatore, Milano, 2001, p. 246. 21 E. SPRINGER, Il silenzio dei vivi, cit., p. 63. 22 C. GREPPI, L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager, Donzelli, Roma 2012, pp. 121–122. 23 Queste sono solo alcune metafore animali usate da Primo Levi nelle sue memorie: I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991; Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1989.

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[il suicidio] è dell’uomo e non dell’animale, è cioè un atto meditato, una scelta istintiva, non naturale; ed in Lager c’erano poche occasioni di scegliere, si viveva appunto come gli animali asserviti, che a volte si lasciano morire, ma non si uccidono.24

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Il riferimento agli animali è ricorrente nei campi, non solo da parte degli internati, ma anche quando quest’ultimi riflettevano sui comportamenti dei carcerieri. Particolarmente significativa, a tal proposito, è la testimonianza della undicenne austriaca Ruth Klüger all’arrivo ad Auschwitz–Birkenau: Tutt’intorno urla ripugnanti, angoscianti, che non accennavano a finire. Gli uomini che ci avevano fatto scendere dal vagone col loro “fuori, fuori”, e che ora ci spingevano in avanti, erano come cani rabbiosi e ululanti.25

Ecco allora che alla de–umanizzazione degli internati si contrappone la disumanizzazione dei carcerieri (disumanizzazione nel senso estensivo del termine, ossia privato di sentimenti umani, senza cuore). Questi erano spesso paragonati dagli stessi internati a bestie feroci, perché insensibili all’umanità dei prigionieri: Come dobbiamo giudicare questi uomini che nella loro vita quotidiana non erano delle bestie sadiche, ma rispettavano le autorità ordinarie delle loro comunità durante il periodo del nazionalsocialismo e anche dopo?... Sembra che questi uomini non avvertissero alcun rimorso perché consideravano le loro vittime completamente al di fuori del loro universo di obblighi morali. 26

24

P. LEVI, I sommersi e i salvati, cit., p. 55. R. KLÜGER, Weiter leben. Eine Jugend, Oldenbourg, München 1996, trad. it., Vivere ancora. Storia di una giovinezza, Einaudi, Torino 1995, pp. 107– 108. 26 R.L. R UBENSTEIN, J.K. ROTH, Approaches to Auschwitz. The Holocaust And Its Legacy, John Knox Press, London 1987, p. 191. 25

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Depersonalizzati dalla propaganda e dalle convinzioni politiche e razziali, dunque, i carcerieri diventano i custodi disumani di quella massa de–umanizzata. Talmente disumani, che a volte, come testimonia Oliver Lustig, scrittore rumeno sopravvissuto ad Auschwitz–Birkenau, apportano un’inversione all’identità uomo–animale: Mensch, uomo. A Birkenau–Auschwitz questa parola non era conosciuta. Non veniva mai pronunciata. Neanche negli altri campi di concentramento. Al suo posto si usava Hund, cane. Sobibor costituiva un’eccezione. L’Häftling Freiberg, che è sopravvissuto a quel campo, ricorda di aver sentito con le proprie orecchie un ufficiale delle SS gridare spesso: Mensch! Era così che chiamava il proprio cane. E lo chiamava in continuazione: Mensch! Uomo! E lo aizzava perché sbranasse i cani — die Hunde — cioè gli Häftlinge, i prigionieri. 27

La animalizzazione del nemico non è solo prerogativa dei totalitarismi del passato, ma è una condizione mentale che resta viva ancora oggi. Gli emblemi più efficaci per rappresentarla potrebbero essere le immagini delle pratiche di estrema degradazione dell’umano del carcere di Abu Ghraib. Tra le immagini più rappresentative che sono circolate, c’è quella della soldatessa statunitense Lynndie England che, sorridente e fiera, trascina al guinzaglio un prigioniero iracheno nudo. Se togliere umanità ai propri nemici non basta a revocare gli obblighi morali, questi possono essere completamente abrogati attribuendo all’Altro qualità diaboliche. La demonizzazione dell’avversario è connaturata a una visione allucinata della storia dell’umanità. La demonizzazione comporta la visione dell’Altro come un’entità anti–umana, che incarna l’origine e le cause del male, quindi, per il suo carattere immorale e depravato, l’Altro, il nemico, l’antagonista, è considerato come instrumentum diaboli.

27

O. LUSTIG, Lágerszótár, Dacia Könyvkiadó, Kolozsvar–Napoca 1984, trad. it., Dizionario del lager, La Nuova Italia, Scandicci 1996, p. 132.

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Se nell’antichità classica il “diverso”, il nemico dissimile da noi, il barbaro, l’eretico non furono necessariamente considerati mostri, l’avvento del cristianesimo li trasformò in diavoli, demoni che hanno in loro tutta l’essenza del male. Ecco comparire i roghi purificatori, che la Chiesa di Roma accese per liberarsi di streghe, invasati ed eretici28. Nell’Unione Sovietica, tutte le esperienze socio–politiche che non coincidevano con l’ordine socialista furono demonizzate e classificate come nemiche del popolo. A sua volta, anche l’Occidente demonizzò tutte le esperienze che non coincidevano con l’ordine liberista. Il meccanismo della demonizzazione incrociata ha portato il mondo sull’orlo di una guerra nucleare. Tra tutti i popoli, quello che più è stato demonizzato è quello ebraico. Nella loro storia, gli ebrei sono stati considerati coloro che avvelenavano i pozzi, rapivano e uccidevano bambini per utilizzare il loro sangue per i rituali, controllavano le finanze, miravano a corrompere le civiltà dei popoli e dei Paesi che li ospitavano, cospiravano diabolicamente per governare il mondo29. Nel corso dei secoli i pregiudizi e gli atteggiamenti persecutori contro gli ebrei hanno assunto molteplici forme con il mutare delle epoche storiche30. Proprio il popolo ebraico ha assunto, tra l’altro, un’altra tragica forma di de–umanizzazione: la delegittimazione biologica. Con il nazismo, infatti, essi sono divenuti pestilenza, malattia, virus, intossicazione, contagio, infezione, veleno. Scrive Adolf Hitler nel Mein Kampf:

28

Cfr. I. MEREU, Storia dell’intolleranza in Europa. Sorvegliare e punire: l’Inquisizione come modello di violenza legale, Bompiani, Milano 1979, ora 2000. 29 Cfr. W. BENZ, Die Protokolle der Weisen von Zion. Die Legende von der jüdischen Weltverschwörung, Verlang C. H. Beck, München 2007, trad. it. I Protocolli dei Savi di Sion. La leggenda del complotto mondiale ebraico, Mimesis, Milano–Udine 2009. 30 Per una visione più completa dell’odio contro gli ebrei, cfr. M. GHIRETTI, Storia dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, Bruno Mondadori, Milano 2002; R. CALIMANI, Storia del pregiudizio contro gli ebrei. Antigiudaismo, antisemitismo, antisionismo, Mondadori, Milano 2007.

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La scoperta del virus ebraico è una delle più grandi rivoluzioni di questo mondo. La battaglia in cui siamo oggigiorno impegnati è uguale a quella combattuta nel secolo scorso da Pasteur e Koch […] Riacquisteremo la nostra salute solo eliminando gli ebrei.

Ecco cosa pensava il Führer degli ebrei. Ecco la giustificazione criminale del loro sterminio, un piano attuato allo scopo di un rimodellamento biologico dell’umanità. Anche i suoi “discepoli”, ovviamente, non la pensano diversamente. Così, senza mezzi termini, pure il gerarca nazista Joseph Paul Goebbels, dall’aprile del 1945 numero due del Terzo Reich, annuncia il 18 febbraio 1943 nel Palazzo dello Sport di Berlino le intenzioni del governo riguardo il “problema” ebraico: Nel giudaismo vediamo un pericolo imminente per ogni Paese. Come altri popoli se ne difendano, ci è indifferente. Ma come ce ne difendiamo noi, questo è affar nostro, nel quale non tolleriamo alcun tipo di intervenzione. Il giudaismo nasconde, rappresenta un fenomeno infettivo, che agisce da centro di contagio […] la Germania non ha intenzione di piegarsi a questa minaccia giudaica, ma anzi di fare fronte contro di essa tempestivamente, e se necessario con l’estirpazione e l’esclusione più completa e più radicale del giudaismo. 31

Theodor Malzmüller, militare nazista, racconta che nelle istruzioni impartite dal comandante del campo di Chelmno per eliminare con meticolosa efficienza gli ebrei, questi ultimi sono qualificati come “cancro dell’umanità”: Quando arrivammo là dovemmo presentarci al comandante del Lager, il capitano delle SS Bothmann. Egli ci tenne un discorso nella sua abitazione, in presenza del tenente Albert Plate, suo vice. Spiegò che eravamo stati assegnati al campo di sterminio di Kulmhof con compiti di sorveglianza e che in que-

31

Cit. in E. COLLOTTI, La soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei, Newton, Roma 1995, pp. 73–74.

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sto campo veniva annientato “il cancro dell’umanità” costituito dagli ebrei.32

Nei campi di Auschwitz–Birkenau, testimonia Filip Müller, superstite di un Sonderkommando di Auschwitz, il gas è cinicamente portato dall’esterno da un’ambulanza con il simbolo della Croce Rossa33. Oltre a essere un abuso agghiacciante della insegna di un’organizzazione umanitaria, l’atto rimarcherebbe il “procedimento medico” inteso dai nazisti per eliminare il “cancro ebraico”. In modo analogo, in un discorso che si ritiene pronunciato da Pol Pot ai Khmer Rossi nel dicembre del 1976, la metafora della contaminazione diviene la giustificazione di una “missione epidemiologica” che porterà a terribili crimini: C’è un malessere all’interno del partito […]. Non riusciamo a individuarlo con precisione. La malattia deve emergere, per essere esaminata […]. Noi cerchiamo i microbi nel partito senza riuscirci. Sono nascosti. Mentre la nostra rivoluzione socialista avanza, però, penetrando con più forza in ogni angolo del partito, dell’esercito e della gente, riusciamo a vedere orribili microbi. Essi saranno espulsi grazie alla vera natura della rivoluzione socialista.34

Anche Lenin non si sottrae alle metafore biologiche per categorizzare le minacce al socialismo reale sovietico. Per il rivoluzionario russo la giovane società sovietica deve purificarsi 32

In E. KLEE, W. DRESSEN, V. RIESS, «The Good Old Days» The Holocaust as Seen by Its Perpetrators and Bystanders, Free Press, New York 1988, trad. it., «Bei tempi». Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha seguito e da chi stava a guardare, La Giuntina, Firenze 1990, p. 170. 33 In C. LANZMANN, Shoah, Historia Film–Les Aleph, Ministère de la Culture de la Republique Française, Paris 1985 (libro: Fayard, Paris 1985), documentario sullo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, trad. it. libro Shoah, Bompiani, Milano 2007, video e libro Einaudi, Torino 2007. 34 Cit. in D.P. CHANDLER, B. KIERNAN, C. BOUA, Pol Pot Plans the Future. Confidential Leadership Documents from Democratic Kampuchea. 1976– 1977, Yale University Southeast Asia Studies, New Haven 1988, p. 183.

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dagli infestatori del socialismo, quali gli «intellettuali borghesi» e poi ancora

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i ricchi, i furfanti, i parassiti, i teppisti […] questi rifiuti della umanità, queste membra incancrenite e putrescenti della società, questo contagio, questa peste, questa piaga che il capitalismo aveva lasciato in eredità al socialismo 35.

Su questa paura dell’infestazione, Stalin costruisce il fondamento della propria politica paranoica, attraverso una “profilassi” che porta milioni di sovietici a perire o a diventare zek36 nei terribili Gulag. Nella storia dell’umanità queste definizioni simboliche, nella loro diversità formale e intrinseca, si sono dimostrate necessarie alle strutture politiche e sociali di ogni tipo di sistema politico e/o società37. Il passaggio dalla demonizzazione alla biologizzazione del nemico avviene già nell’Illuminismo, una de–umanizzazione che enfatizza la percezione di una grave minaccia ed è, dunque, la condizione di una sua futura eliminazione. Al nemico sono associate metafore che si esprimono con terminologie collegate alle malattie, all’igiene, alla purezza e che lo trasformano in virus, morbo, zecche, cancro, intossicazione, infezione, pestilenza, inquinamento. Chi è definito in questi termini, non può essere in alcun modo sanato, riformato, rieducato, civilizzato. Di 35

LENIN, Come organizzare l’emulazione, in Opere complete, vol. XXVI, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 390–394. 36 Zek è l’abbrevviazione di zakljucˇënnyj (detenuto). «La parola è stata creata partendo dall’abbreviazione ufficiale z/k, che sta per zakljucˇënnyj kanaloarmeec, cioè detenuto/soldato ‘del canale’, in pratica detenuto che lavora nei cantieri del canale mar Bianco–mar Baltico dal 1931 al 1933. È diventato un termine corrente per designare il detenuto, fino ai primi anni Sessanta». J. ROSSI, Le Manuel du Goulag. Dictionnaire historique, Le cherche midi, Paris 1997, trad. it., Manuale del Gulag. Dizionario storico, Ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, p. 314. 37 Sull’argomento cfr. M. DOUGLAS, Purity and Danger: An Analysis of Concept of Pollution and Taboo, Routledge, London 2002, trad. it. Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, il Mulino, Bologna 2003.

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conseguenza il nemico biologico, in quanto agente infettivo, richiede una speciale trattazione attraverso un’accurata e asettica disinfezione, epurazione, bonifica, estirpazione, eliminazione, procedimenti a cui si sono ispirati gli autori di tutti gli stermini di massa del secolo scorso38. Se la biologizzazione del nemico costituisce la fondamentale tappa antecedente alla nullificazione e, quindi, allo sterminio, l’oggettivazione e la meccanizzazione rappresentano la premessa al dominio di trasformazione e sfruttamento sui corpi vivi. Ecco allora che i campi si trasformano in luoghi in cui l’essere umano è reificato, una dimensione che degrada la persona da corpo a oggetto impersonale. Il corpo del deportato diventa cosa tra cose. L’oggettivazione e la meccanizzazione dell’individuo fa così perdere tutte le sue caratteristiche umane, rinviando all’uso strumentale delle sue qualità fisiche. L’idea di corpo reificato richiama l’espressione adoperata da Primo Levi di «uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento»39, di un corpo trasformato in puro involucro. Un corpo, dunque, incapace di provare e trasmettere sentimenti. E questo non vale solo per il corpo vivo, ma anche per quello morto. Nei campi nazisti, infatti, l’oggettivazione degli internati è spinta all’eccesso, poiché prolungata anche dopo la morte: capelli, protesi, dentiere e occhiali strappati ai cadaveri, uscivano dai campi alla volta di tutta una catena di imprese naziste. Le sperimentazioni mediche e bio–batteriologiche su cavie umane effettuate nei Lager nazisti e nelle unità medico–militari giapponesi costituiscono senza dubbio il grado più estremo di 38

La metafora del virus, della malattia e dell’igiene permea molta retorica eliminazionista. Cfr. le ricerche in psicologia di E. STAUB, The roots of evil. Psychological and cultural origins of genocide and other group violence, Cambridge University Press, New York 1989; le riflessioni filosofiche di J. SÉMELIN, Purifier et détruire. Usages politiques des massacres et genocide, Èditions du Seuil, Paris 2005, trad. it. Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi, Torino 2007, in particolare pp. 34–58. 39 P. LEVI, Se questo è un uomo, cit., p. 23.

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reificazione del vivente che sia stato raggiunto nel corso della storia recente40. Una realtà in cui l’internato è divenuto corpo da utilizzare, smembrare, testare, segare. Un oggetto, una cosa, un pezzo di legno, per il quale non si è avvertito alcuna responsabilità. Non a caso, nelle famigerate unità scientifiche militari giapponesi, le cavie umane sono chiamate maruta, pezzo di legno. La loro umanità sparisce agli occhi dei medici e scienziati giapponesi: Un maruta, un pezzo di legno, era quindi soltanto poco più di un numero, semplice materiale destinato agli esperimenti. Non lo si considerava un essere umano […] noi non consideravamo quei pezzi di legno, quei tronchi, come esseri umani. Erano solo carne da tirare su un’asse.41

Apparentemente meno crudele, in realtà sempre totalizzante, è la reificazione che si applica nei campi di lavoro forzato. Un mondo, questo, in cui l’internato diventa un organismo meccanico, una macchina produttiva, un pezzo intercambiabile di una catena di montaggio, un automa programmato senza sentimenti di affetto, comprensione, empatia. Una meccanizzazione integrale dell’individuo, dunque, che consente di sfruttarlo sino alla sua completa distruzione, non in nome dell’economia, ma in quello del disprezzo totale per la vita e la dignità umana del nemico, in uno spazio di irrazionalità distruttiva. Considerato che nella stragrande maggioranza dei campi di lavoro forzato il rifornimento di manodopera è continuo, non si è ritenuto necessario neppure occuparsi molto della manutenzione dell’uomo–macchina e, quindi, di garantire la vita ai detenuti, sfruttati dunque mortalmente. Nei campi di lavoro forzato, infatti, è operante il principio burocratico della sostituibilità:

40

Vedi cap. VI. J.L. MARGOLIN, L’armée de l’empereur. Violences et crimes du Japon en guerre 1937–1945, Armand Colin, Paris 2007, trad. it. L’esercito dell’Imperatore. Storia dei crimini di guerra giapponesi 1937–1945, Lindau, Torino 2009, p. 339. 41

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un prigioniero vale un altro, e se muore può essere immediatamente rimpiazzato. Evgenija Ginzburg, “ospite” per dieci anni nei Gulag sovietici, descrive cosa pensa il direttore del campo penale di Elgen, del complesso concentrazionario della Kolyma:

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Non traeva alcun piacere dai nostri tormenti. Semplicemente non si accorgeva di noi perché, molto sinceramente, non ci considerava persone umane. Interpretava la morìa tra la forza– lavoro delle detenute come il più ordinario difetto di produzione.42

L’economia basata sullo sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti, però, ha nella maggior parte dei casi dei margini di spreco eccezionalmente elevati. I motivi sono palesi: le condizioni di vita sono terribili, quelle di lavoro sono gravate dagli elevati orari di lavoro, dalla dura disciplina imposta, dalla sottoalimentazione, dal poco riposo fisico e dalla mancanza di specializzazione: Di fatto, il contributo del lavoro forzato all’economia nazista rimane irrisorio prima e durante la guerra: nell’universo concentrazionario nazista la logica del lavoro produttivo mantiene un carattere secondario e contingente, dettato da necessità esterne. […] La logica razziale dello sterminio non è la maschera di interessi economici, è il fulcro dell’intero sistema.43 Le condizioni di lavoro in moltissimi Gulag, per quanto apparentemente dettate dalla ricerca della massima produttività, in realtà sono tali da far pensare che la funzione fondamentale sia l’eliminazione dei detenuti. […] Nella realtà queste condizioni di lavoro si ritorcono contro il loro scopo: la produttività. Le pretese disciplinari per accrescere gli sforzi sul lavoro e la

42

E. GINZBURG, Le Ciel de la Kolyma, Èditions du Seuil, Paris 1967, p. 73. G. GOZZINI, Lager e gulag: quale comparazione?, in AA. VV., Lager, totalitarismo, modernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 208; nello stesso saggio cfr. sull’argomento B. MANTELLI, Il lavoro forzato nel sistema concentrazionario nazionalsocialista, pp. 128–145. 43

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sottoalimentazione per far economia del carburante destinato all’attrezzo animato […] portano al fallimento in materia di produttività, nonostante per decenni sia stato possibile rimpiazzare la manodopera mancante.44

Se il contributo del lavoro forzato all’economia rimane irrisorio nei Gulag e nei Lager, diverso peso ha in Cina, che si rivela un vantaggio economico del regime. Il lavoro dei prigionieri è infatti parte integrante dell’economia cinese, costituendo una fonte inesauribile di lavoro gratuito che ha trasformato di fatto il socialismo cinese in “comunismo–mercato”45. Nei campi di sterminio nazisti, i detenuti, oltre a essere materia prima, diventano ingranaggi finanche nella catena di smontaggio della vita46. Il nazismo, infatti, si serve anche della collaborazione di alcuni degli stessi internati, affidando loro la responsabilità di buona parte del processo di sterminio. Sono gli uomini del cosiddetto Sonderkommando (commando speciale), gruppo particolare di deportati addetti al “trattamento speciale” (Sonderbehandlung), quasi tutti di origine ebraica, posti a lavorare forzatamente nella fase terminale della catena della distruzione di massa, obbligati quindi a collaborare nel processo di sterminio di prigionieri della loro stessa etnia47. Il loro compito principale è quello della raccolta dei corpi dalle camere a gas e della successiva incinerazione nei forni crematori. 44

J. KOTEK, P. RIGOULOT, Le Siècle des camps detention, concentration, extermination: cent ans de mal radical, Lattès, Paris 2000, trad. it., Il secolo dei campi. Deportazione, concentramento e sterminio 1900–2000, Mondadori, Milano 2001, pp. 160–161. 45 Cfr. F.R. POLEGGI, Made in China=Made in prison. Il segreto della competitività cinese, Laogai Research Foundation Italia, http://www.laogai.it /wpcontent/uploads/2011/11/rapporto_artigiani_completo_28_8_2011-31.pdf. Anche: http://www.laogai.it/pubblicazioni/rapporti/. 46 Corsivo mio. 47 Sull’argomento rinvio al mio Le categorie della violenza politica del Novecento. I Sonderkommandos, i «sommersi» dei Vernichtungslager, in «Clio. Rivista trimestrale di Studi Storici», Anno XLVIII, n. 3, 2012, pp. 505–520. Si ritornerà sui Sonderkommando nel capitolo IV dedicato ai campi di sterminio.

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Come spunto di riflessione sul tema della trasformazione dei detenuti a insensibili macchine da lavoro, freddi ingranaggi di una catena di montaggio, c’è un passo delle memorie scritte da Rudolf Höss, il comandante del campo di Auschwitz, che resta allibito di fronte al comportamento di uno dei membri dei Sonderkommandos:

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Nell’estrarre i cadaveri da una camera a gas, improvvisamente uno del Sonderkommando si arrestò, rimase per un istante come fulminato, quindi riprese il lavoro con gli altri. Chiesi al kapo che cosa fosse successo: disse che l’ebreo aveva scoperto tra gli altri il cadavere della moglie. Continuai ancora a osservarlo per un certo tempo, ma non riuscii a scorgere in lui alcun atteggiamento particolare. Continuava a trascinare i suoi cadaveri, come aveva fatto fino allora. Quando, dopo un poco, ritornai al comando, lo vidi seduto a mangiare in mezzo agli altri, come se nulla fosse accaduto. Possedeva una capacità sovrumana di celare le proprie emozioni, o era diventato talmente insensibile da non saper più reagire? Che cosa dava agli ebrei del Sonderkommando la forza di assolvere giorno e notte a un compito così orrendo? Speravano forse in un evento particolare che li salvasse dalla morte all’ultimo momento? O gli orrori a cui avevano assistito avevano ucciso in loro la sensibilità, oppure, ancora, erano troppo deboli per farla finita da sé e sottrarsi così a quell’”esistenza”? Li ho osservati molto a lungo e attentamente, ma non sono in grado di dare spiegazioni sul loro comportamento.48

2.3. La de–umanizzazione nei campi nazisti Nei campi nazisti, la de–umanizzazione dell’internato, con la quale gli è attribuita la categoria di appartenenza e, quindi, il destino a cui deve andare incontro, è ulteriormente ribadita dai simboli e dall’imposizione di ritmi di vita arbitraria che ne sbriciolano definitivamente l’identità, cancellando qualsiasi filia48

R. HÖSS, Kommandant in Auschwitz, Verlag–Anstalt, Stuttgard 1958, trad. it. Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 1995, pp. 134–135.

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zione umana. Dal freddo numero al posto del nome e cognome al triangolo imposto come segno distintivo di appartenenza a una categoria, dal prendersi gioco dei detenuti alle punizioni pubbliche e degradanti, dalla nudità collettiva alla costrizione escrementizia comunitaria, tutto sembra costruito intenzionalmente per irridere l’umanità degli internati. Nei campi nazisti, la sostituzione del nome e del cognome con un numero (tatuato sul corpo ad Auschwitz e cucito sul “pigiama a strisce” negli altri Lager), fa assumere al detenuto un’identità di tipo seriale, cancellando definitivamente quello che resta della sua umanità. Così, ogni uomo rappresenta, letteralmente, solo un numero, e sulla lista, in effetti, per ogni individuo compare solamente un numero. […] Il solo segno definito con assoluta precisione […], il solo che interessava alle autorità del campo, era il numero del prigioniero. A nessuna guardia, a nessun sorvegliante sarebbe saltato in mente di chiedere il nome di un detenuto, quando voleva “portarlo a rapporto” […]. Tutti s’accontentano di dare un’occhiata al numero cucito, secondo le prescrizioni, in certi punti dei calzoni, della giacca e del cappotto del prigioniero.49

Imre Kertész, scrittore ungherese, sopravvissuto ai campi di Auschwitz e Buchenwald, Nobel per la letteratura nel 2002, lo ha chiamato “Die Himmlische Telefonnummer”50, ovvero “il numero di telefono del cielo”, con evidente rimando al triste destino della maggior parte degli internati. L’obbligo di portare “il segno” sulle divise, principalmente triangoli, serve per rendere visibile la differenziazione tra gli internati. Lo scopo pratico di questi simboli è da ricercare nella strutturata volontà dei nazisti di generare rivalità fra le diverse

49

V. FRANKL, Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager, Kösel, München 1978, trad. it., Uno psicologo nei lager, Ares, Milano 1967, ora 2009, pp. 27–28. 50 I. KERTÉSZ, Sorstalanság, Szépirodalmi Ko ́ ́nyvkiadó, Budapest 1975, trad. it. Essere senza destino, Feltrinelli, Milano 1999 (ora 2004) p. 93.

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categorie di internati, in modo tale da controllarli e scongiurare complicità e resistenze. Il triangolo, segno dell’appartenenza di chi non appartiene più all’umanità, è un contrassegno di stoffa assegnato a ciascun deportato insieme al numero al momento dell’immatricolazione51. Il suo colore individua la categoria con la quale l’amministrazione del Lager classifica i deportati: rosso per i politici, giallo per gli ebrei, verde per i criminali comuni, nero per gli asociali, rosa per gli omosessuali, viola per i Testimoni di Geova, blu per gli immigrati. All’interno del triangolo è stampata una sigla che rimanda alla nazionalità del deportato: “B” (Belgier, Belga), “F” (Franzosen, Francese), “H” (Holländer, Olandese), “I” (Italiener, Italiano), “N” (Norweger, Norvegese), “S” (Republikanische Spanier, Repubblica Spagnola), “P” (Polen, Polacco), SU (Sowiet Unioni, Unione Sovietica), “T” (Tschechen, Ceco), “U” (Ungarn, Ungherese), “Z” per gli zingari (Zigeuner)52. I sospettati di fuga sono segnalati con cerchi concentrici rossi e bianchi, simili a un bersaglio, mentre un piccolo cerchio nero circondato da un cerchio vuoto contrassegna le persone assegnate ai battaglioni penali. Una curiosità. In ebraico “segno” si dice simàn, gli italiani dicevano sciaman, di qui deriva il termine italiano “sciamannato”, che significa, insegnano i vocabolari, scomposto negli atti e nella persona, evidentemente sarebbe l’allusione alla maniera quanto mai trasandata con cui gli ebrei portavano questo “segno” sia nei ghetti sia nei campi di concentramento. Prendersi gioco degli internati è una costante di tutti i campi nazisti. Le devastanti condizioni quotidiane non bastano ai nazisti, la de–umanizzazione attraverso atti di gratuita crudeltà deve 51

Il sistema dei triangoli nella classificazione degli internati nei Lager nazisti all’url: http://www.lager.it/classificazione_internati.html. 52 Con la loro cultura nomade, gli zingari rappresentavano per i nazisti una inammissibile difformità dell’ordine sociale, minacciando anche la “purezza della razza”, per questo furono internati e sterminati. Cfr. G. LEWY, “Rückkehr nicht erwünscht”. Die Verfolgung der Zigeuner im Dritten Reich, Propyläen, München–Berlin 2001, trad. it. La persecuzione nazista degli ebrei, Einaudi, Torino 2002.

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essere totale per uccidere definitivamente lo spirito: «occorreva che il campo fosse continuamente percosso e terrificato dall’imperversare di un uragano di criminale follia […] affinché lo spirito morisse prima della carne»53. Le punizioni sono sadiche azioni che devono far male fuori e dentro. La maggior parte dei castighi sono pubblici, o resi pubblici, assumendo una funzione pedagogica per gli altri, obbligati ad assistere per cancellare ulteriormente l’umanità del colpevole. Tra queste, oltre alle classiche bastonature e frustate e al lavoro durante le ore di riposo, c’è la Pfahlstrafe (pena del palo)54: il prigioniero è appeso pubblicamente con i polsi legati dietro la schiena a un palo, detto Baum (albero), in modo da rimanere sospeso da terra. Ovviamente le conseguenze di questa punizione sono permanenti, poiché comportano la slogatura e la rottura dei tendini delle braccia, conducendo all’inabilitazione al lavoro e, quindi, all’avviamento alla camera a gas. Altre punizioni servono principalmente a umiliare gli internati più che a sanzionare. Ad esempio c’è lo “sport mattutino” (Frühsport), così sono indicati i sadici esercizi ginnici, utili unicamente a spossare gli internati per il divertimento dei carcerieri. Questa cinica attività consiste in ginnastica forzata, una serie di esercizi ginnici comandati dai nazisti, svolti in qualunque condizione meteorologica, chiamati Straf–exerzieren55: rollen, rotolarsi per terra, quindi, secondo la stagione, nella polvere, nel fango, nella neve; tanzen und drehen, letteralmente “girare e ballare”, quindi girare in cerchio con le mani alzate; hüpfen federn, saltare in posizione accovacciata come rane; kniebeugen, piegare le ginocchia, con le braccia incrociate sopra la testa; entengang, passo dell’anatra; bärengang, passo dell’orso. Questi esercizi possono anche essere praticati nelle ore notturne, come punizione per un cattivo comportamento. 53

D. TARIZZO (a cura di), Ideologia della morte. Storia e documenti dei campi di sterminio, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 212–213. 54 A. ENZI, Il lessico della violenza nella Germania nazista, Patron, Bologna 1971, p. 321. 55 Ivi, p. 390.

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C’è poi la Stehzelle56, un’avvilente cella piccolissima di circa 90 centimetri per 90 per quattro detenuti, in cui si può rimanere esclusivamente in posizione eretta, senza possibilità di movimento. Umiliante è il Hundezelle, il canile, presente a Dachau, una cella angusta in cui si può stare solo in posizione rannicchiata sul fianco e in cui è d’obbligo abbaiare per ricevere la propria razione di cibo57. In tutti i campi, spesso i detenuti sono costretti a mangiare direttamente dalle ciotole, come animali, senza l’uso di posate. A Mauthausen, lo scherno dei nazisti aggiunge orrore all’orrore. Nella cava di pietra (Steinbruch) di Gusen, sottocampo di Mauthausen, ci sono i fallschirmspringer (paracadutisti). Questi sono i detenuti che, salendo carichi per la cosiddetta “scala della morte”, centottantasei ripidi scalini di collegamento tra il campo centrale e la cava, senza parapetto e con a un lato una parete verticale di roccia chiamata, con sarcasmo macabro dagli aguzzini, “muro dei paracadutisti”, sono spinti giù nel vuoto del burrone dai carcerieri. Le vittime, per diletto dei guardiani nazisti, sono gli internati che portano una pietra, secondo loro, giudicata troppo piccola, oppure chi ormai è completamente debilitato nel fisico e, quindi, considerato inidoneo al lavoro. I “paracadutisti” dunque sono beffardamente gli sventurati di turno fatti precipitare e le pietre che hanno portato fin lassù prima di cadere nel vuoto il loro ironico “paracadute”58. Unendo alla crudeltà un umorismo sadico, ai detenuti che tentano la fuga, e condannati a morte per questo, sono obbligati a portare un cartello appeso al collo con scritte sbeffeggianti: «Hurra! Ich bin wieder da!» (Evviva! Sono di nuovo qua!) 59, oppure anche «Ich bin glücklich zurück!» (Rieccomi, per fortu-

56

Ivi, p. 387. Ivi, p. 237. 58 V. P APPALETTERA, Tu passerai per il camino. Vita e morte a Mauthausen, Mursia, Milano 1989, p. 113; M. Valletti Ghezzi, Deportato I57633 Voglia di non Morire, Boopen, Pozzuoli (Napoli) 2008, p. 19. 59 I. KERTÉSZ, Essere senza destino, cit., p. 136. 57

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na!) o ancora «Kam ein Vogel geflogen!» (l’uccellino volato via è ritornato)60. Per lo stesso maligno divertimento i “ritardati” portano un braccialetto con la scritta Blöd (scemo), oppure hanno un cartello che reca la scritta «Ich bin blöd» (sono scemo)61. Le umiliazioni gratuite, dunque, assieme alla promiscuità, alla nudità pubblica, alla rasatura totale obbligatoria, al sudiciume62, all’espletamento comunitario dei bisogni fisiologici, alla selezione giornaliera, incrementano l’umiliazione nel deportato, avendo un effetto deflagrante per l’integrità dell’Io. Gli esseri umani non stanno nudi in pubblico. Lo fanno solo gli animali. Privare pubblicamente gli internati dei loro indumenti vuol significare abolire qualsiasi filiazione umana, considerando quelle persone alla stregua di animali. La nudità è il primo atto di devastazione che il lager produce, assumendo un violento valore simbolico, perché i «deportati non sono spogliati a forza ma sono costretti a spogliarsi diventando agenti diretti della prima umiliazione ad essi rivolta» 63. E questo vale per tutti, sia per chi supera la selezione alla banchina sia per chi è destinato alle camere a gas. Per quest’ultimi la spogliazione è l’ultima azione della vita, il momento esatto in cui l’umano diventa carne da macello. Per gli altri, per chi sopravvive alla prima selezione, diventa il momento limite da cui non avrebbero più avuto accesso alla loro umanità. Questa offesa pubblica al pudore riveste un terribile significato per gli uomini, ancor più dolorosa e frustrante è per le don60

Cfr. W. SOFSKY, Die Ordnung des Terrors. Das Konzentrationslager, Fischer, Frankfurt am Main 1993, trad. it., L’ordine del terrore. Il campo di concentramento Laterza, Roma–Bari 2004, p. 326. 61 Cfr. A. ENZI, Il lessico della violenza nella Germania nazista, cit., p. 103. 62 Fa notare Vincenzo Pappalettera, storico e membro attivo della Resistenza durante l’occupazione tedesca del Nord Italia, deportato a Mauthausen: «Costringono migliaia di uomini a vivere senz’acqua, immersi nella sudicia promiscuità, la stessa camicia e le stesse mutande per mesi. Fazzoletti e carta igienica sono oggetti sconosciuti. Ciò nonostante la sadica giustizia nazi bastona chi è trovato infetto». In Tu passerai per il camino cit., p. 66. 63 R. M ANTEGAZZA, L’odore del fumo. Auschwitz e la pedagogia dell’annientamento, Città Aperta, Troina (Enna) 2001, p. 73.

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ne. Assicura Liliana Segre, deportata a tredici anni ad Auschwitz–Birkenau e poi a Malchow, terribile sottocampo di Ravensbrück: La sopraffazione, la vergogna, la brutale umiliazione che ci spogliava della nostra umanità, e con essa anche della nostra femminilità. […] Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umiliante e terribile. L’uno è vestito, magari in divisa, con le armi; l’altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude.64

La rasatura totale e l’umiliante ispezione fisica interna, poi, rendevano la nudità dei corpi ancor più nudi: Eravamo nude, depilate, rapate ridotte a non essere più delle donne, piacenti o appetibili. […] mi sentivo umiliata per non essere guardata come donna, mentre sentivo che avrei dovuto essere umiliata se mi avessero guardato come donna.65

Assieme alla nudità pubblica, la latrina collettiva è la mortificazione del pudore. 64

D. PADOAN, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Bompiani, Milano 2010, pp. 11–12, (orig. 2004). 65 Testimonianza di Giuliana Fiorentino Tedeschi, in A. CHIAPPANO (a cura di), Essere donne nei lager, Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in Ravenna e provincia, Giuntina, Firenze 2009, p. 101.

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Il bagno è luogo di massima intimità con il sé, lo spazio in cui la sacralità della riservatezza non può essere violata, il rifugio in cui l’intimità del corpo s’intreccia con l’intimità dello spirito. La latrina collettiva, invece, è il territorio crudele in cui il pudore è ulteriormente violato, diventando il palcoscenico dell’intimità, dove il pubblico, a turno, diventa attore. Per questo, anche la costrizione escrementizia pubblica contribuisce a far perdere ogni riferimento all’appartenenza umana: Non era facile né indolore abituarsi alla enorme latrina collettiva, ai tempi stretti ed obbligati alla presenza, davanti a te, dell’aspirante alla successione; in piedi, impaziente, a volte supplichevole, altre volte prepotente, insiste ogni dieci secondi «hast du gemacht?» [hai fatto?].66

Generalmente le latrine sono in successione, una a fianco delle altre e consistono in buchi sormontati da assi su cui sedersi e umiliarsi. Tutto a comando, e solo la mattina e la sera, così durante il giorno, spesso, ognuno imbratta i propri indumenti, che poi quasi sempre non riesce mai a lavare.

2.4. Il Muselmann e il dochodjaga Il Dochodjaga dei Gulag e il Muselmann dei Lager, sono i prodotti terminali della de–umanizzazione. Essi sono internati che si trovano oltre la vita e non ancora nella morte. I Muselmänner (plurale di Muselmann, musulmano) sono, nel gergo di Auschwitz, lebendige Tode, ossimoro che sta per “morti viventi”67. Con tale termine si designano gli internati ormai deboli, gli inetti, i votati alla selezione, insomma coloro

66

P. LEVI, I sommersi e i salvati, cit., p. 89. Sono state date delle spiegazioni del perché si usava tale appellativo per questi internati. Il fatalismo tipico dei popoli musulmani, oppure le fasciature sulla testa che riportavano a un turbante, o ancora il portamento ricurvo che dava l’impressione di arabi in preghiera. 67

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II. L’Umanità deumanizzata

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che sono ridotti a «stadio di consunzione preagonico»68. Negli altri Lager assumono nomi diversi: a Mauthausen Schwinner (quelli che galleggiano facendo il morto); a Dachau, Kretiner (ebeti); a Majdanek, Gamel (gamelle) o Gammel (marcio, andato a male)69; a Stutthof, Krüppel (storpi); a Buchenwald, Müde Scheichs (rammolliti); a Neuengamme, Kamel (cammelli); nel lager femminile di Ravensbrück, Schmutzstück e Schmuckstück (rispettivamente, immondizia e gioiello), termini quasi omofoni usati l’uno caricatura dell’altro70. Il Dochodjaga, invece, è «l’ultimo degli ultimi»71 prigionieri dei Gulag, anch’egli allo stadio terminale dell’inedia. Il termine deriva dal verbo dochodit’, che significa, “arrivato alla fine”, “concluso”, indicando il prigioniero che ha perso la propria individualità e autostima. Declassati dai carcerieri e dagli altri internati fino ai confini ultimi della semplice presenza biologica, il Muselmann e il Dochodjaga sono la dimostrazione vivente di un “terzo regno”72 antropologico. Un regno, tuttavia, ancora umano, seppur al limite della vita. I carnefici dei campi non sono riusciti in nessun caso a negare completamente il diritto degli internati a essere pienamente umani, poiché tutti, compreso chi è diventato Muselmann o Dochodjaga conservano l’ultima libertà appartenente all’essere umano: il potere di decidere sulla propria vita. Il suicidio implica una libertà, seppur ultima. Il filo spinato elettrificato, oppure 68

P. SECCHIA, E. NIZZA, Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. 2, Edizioni La Pietra, Milano–Roma 1968, p. 78. 69 Il politologo tedesco Wolf Oschlies riporta il termine Gammel (cfr. il suo Lagerszpracha. Zu Theorie und Empirie einer KZ–spezifischen Soziolinguistik in «Zeitgeschichte», Wien Dachs–Verlag Oktober 1985, Heft I, p. 8); il saggista italiano Frediano Sessi, invece, riporta il termine Gamel (cfr. il suo Auschwitz 1940–1945, Rizzoli, Milano 2010, p. 103). 70 Cfr. F. SESSI, ivi, pp. 103–104; P. LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991, p. 77. 71 J. ROSSI, Manuale del Gulag, cit., p. 116. 72 G. AGAMBEN, Quel che resta d’Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 43. Il filosofo italiano, in questo saggio, si riferisce ai Muselmänner.

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assumere atteggiamenti e reazioni che portano alla morte (rifiuto di obbedire, di lavorare e così via), sono le possibili soluzioni. Gli internati hanno così «la libertà di scegliere autonomamente il proprio atteggiamento verso condizioni estreme, anche quando sembrava non esserci alcuna possibilità di influire su di esse»73. Il Muselmann e il Dochodjaga scelgono una terza opzione: sottrarsi a qualsiasi reazione che quel malvagio ambiente offre, desertificando qualsiasi legame individuale e sociale e negando, ai “padroni” di quell’ambiente, qualsiasi autorità di influenzarli come soggetti. Il 27 gennaio del 1945 l’Umanità scopre Auschwitz e i suoi “prodotti”, e inizia a vergognarsi. Il medico polacco Tadeusz Chowaniec, entrato ad Auschwitz tre giorni dopo l’arrivo dell’Armata Rossa, descrive quei “prodotti” che sono riusciti a sopravvivere alla catena della morte, la maggior parte dei quali sono proprio Muselmänner che si muovevano con difficoltà. Davano l’impressione che ogni loro movimento fosse ben meditato e calcolato. I loro occhi, per lo più freddi e privi di espressione nei quali non si poteva leggere alcun barlume di gioia, destavano in noi vergogna.74

La prima reazione a caldo del dottor Chowaniec è quella della vergogna. Paradossalmente la vergogna appartiene a chi scopre l’indicibile e non ai carnefici, che non solo non si sono mai vergognati, ma non hanno mai nutrito alcun senso di colpa per i loro crimini75. La vergogna che resterà eterna, perché simbolo inimmaginabile dell’abbruttimento di una umanità degradata fi73

B. BETTELHEIM, The informed Heart. Autonomy in a Mass Age, The Free Press, Glencoe 1960, trad. it. Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Adelphi, Milano 1988, p. 183. 74 H. LANGBEIN, Menschen in Auschwitz, Verlag, München 1995, p. 474, in italiano Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, Mursia, Milano 1994. 75 Mi sono occupato della mancanza di vergogna e del senso di colpa da parte di tutti gli aguzzini e del valore che entrambi possono assumere nelle scelte politiche criminali nel mio La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, cit., pp. 255-258.

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no ai limiti ultimi della pura presenza biologica, e per questo infranta per sempre. Ecco i cittadini della città biopolitica nazista, primo fra tutti i Muselmänner, chi è arrivato al fondo della vita, senza lasciarla completamente, “esseri” spogliati ed espropriati della vita da essere divenuti null’altro che «un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia» 76, dei «punti interrogativi viventi» che «con ognuno dei loro passi rigidi, stentati, sembrano chiedere: ma vale ancora la pena di fare tutta questa fatica?» 77: Era difficile rilevare il momento del passaggio dall’uno all’altro stadio. Per alcuni avveniva in modo lento e graduale, per altri molto rapidamente. […] Se continuava a dimagrire anche l’espressione del suo viso cambiava. Lo sguardo si faceva opaco e il volto assumeva un’espressione indifferente, meccanica e triste. Gli occhi erano ricoperti da un velo, le orbite profondamente incavate. La pelle assumeva un colorito grigio– pallido, diventava sottile, dura, simile alla carta e cominciava a desquamarsi. […] La testa si allungava, gli zigomi e le orbite apparivano ben evidenti. 78

Il Muselmann ha un profilo devastato, egli è veramente la larva che la nostra memoria non riesce a seppellire, l’incongedabile col quale dobbiamo deciderci a fare i conti. In un caso, infatti, egli si presenta come il non–vivo, come l’essere la cui vita non è veramente vita; nell’altro, come colui la cui morte non può essere detta morte, ma soltanto fabbricazione di cadaveri. Cioè, come l’iscrizione nella vita di una zona morta, e, nella morte, di una zona viva. In entrambi i casi — 76

J. AMERY, Jenseits von Schuld und Sühne: Bewältigungsversuche eines Überwältigten, Szczesny, Munich 1966, trad. it., Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 39. Jean Améry, detenuto ad Auschwitz, si riferisce solo ai musulmani dei lager nazisti. 77 I. KERTÉSZ, Sorstalanság, Szépirodalmi, Budapest 1975, trad. it., Essere senza destino, cit., p. 118. 78 S. KLODZINSKI, Z. RYN, An der Grenze zwischen Leben und Tod. Eine Studie über die Erscheinung des “Muselmanns” im Konzentrationslager, in Auschwitz–Hefte, vol. 1, Beltz, Weinheim e Basel 1987, p. 94.

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poiché l’uomo vede andare in pezzi il suo legame privilegiato con ciò che lo costituisce come umano, cioè con la sacertà della morte e della vita — a essere revocata in questione è la stessa umanità dell’uomo. Il musulmano è il non–uomo che si presenta ostinatamente come uomo e l’umano che è impossibile sceverare dall’inumano.79

Attraverso la figura del Muselmann, il potere nazista contesta agli internati la loro appartenenza alla stessa specie umana. Gli altri internati trattano quelle persone ancora vive considerandole già morte, li ignorano, li scansano, evitano ogni contatto con loro, in parte perché i detenuti vi vedono ciò che sarebbero potuti diventare in un futuro a loro molto prossimo: L’indifferenza era una specie di antidoto nei confronti della propria angoscia e una corazza contro la percezione della propria impotenza. La vita senza speranza del «musulmano» era il simbolo di un destino comune, lo specchio di una condizione di miseria nella quale anche gli altri erano costretti a riconoscersi. Egli incarnava in sé la morte di tutti, perché ciò che accadeva a lui poteva accadere a ognuno. Egli anticipava il futuro. […] Vederlo morire significava avere in anticipo la visione della propria morte, una fine che era molto più temibile della morte stessa.80

L’equivalente del Muselmann nei Gulag sovietici, come riferito, è il Dochodjaga, il detenuto ridotto al lumicino, e per questo chiamato anche “lucignolo” (fitil’)81, che si trascina sul posto di lavoro a malapena, estenuato dalla fatica, dalla malattia, dal freddo e dalla fame. La fondamentale differenza con i Muselmänner e che i Dochodjaga non sono costretti a subire la temibile selezione, perché scopo dei Gulag non è lo sterminio come progetto. Come gli omologhi dei Lager, i Dochodjaga 79

G. AGAMBEN, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 76. 80 W. S OFSKY, L’ordine del terrore, cit., p. 301. 81 J. ROSSI, Manuale del Gulag, cit., p. 173.

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II. L’Umanità deumanizzata

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non sono considerati dagli altri prigionieri. Il loro aspetto trasandato e il tanfo che spesso emanano li rendono dei relitti da evitare, essi «avevano la pelle cascante e secca, e uno strano luccichio negli occhi»82, sempre alla ricerca di cibo e per questo «mangiavano tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani: uccelli, cani, spazzatura. Si muovevano con lentezza ed erano incontinenti, quindi puzzavano in modo terribile»83. Quando gli internati diventano Dochodjaga, ossia giudicati incapaci di lavorare a causa del deperimento fisico, finiscono, sulla base di un referto medico, nella baracca chiamata nel gergo del campo “mortuario”, il luogo che raccoglie le “scorie umane” prodotte dal lavoro nei Gulag: In teoria, il mortuario dava agli organismi esauriti il modo di riacquistare le forze, ma l’ozio e il riposo soltanto, senza un nutrimento migliore, non bastavano a ridar vita nemmeno ai prigionieri più giovani e più sani. Il mortuario liberava dalla tortura del lavoro quotidiano, ma non alleviava l’agonia della fame quotidiana […]. In origine, la funzione del mortuario doveva essere di mettere i prigionieri malati e sfiniti in condizione di tornare a lavoro, […]; ma in pratica, la sua natura era riassunta dal soprannome dato dai prigionieri: mortuario, ossario.84

Il Dochodjaga dei Gulag e il Muselmann dei Lager, dunque, incarnano il prodotto finale dell’abisso dei campi, oltre il quale c’è esclusivamente la morte, che diventa solo un “banale” dettaglio.

82

A. APPLEBAUM, Gulag. A History of the Soviet Camps, Doubleday, New York 2003, trad. it., Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici, Mondadori, Milano, 2004, p. 356. 83 Ibidem. 84 G. HERLING, Inny Świat. Zapiski sowieckie, Heinemann, London 1951, trad. it., Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 233–234.

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Capitolo III

Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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3.1. La deportazione come strumento politico Se i campi di concentramento e la relativa deportazione disegnano una storia a parte, questa storia non è una prerogativa comunista o nazista. Infatti la deportazione e i più recenti campi di internamento e concentramento del Novecento sono stati già utilizzati nei tempi passati, seppur in forme e modi diversi, come strumenti di controllo politico e sociale, come espediente etnico, come risorsa economica: suddito da uccidere, schiavo da deportare, nativo da chiudere in riserva, ceti della società da riterritorializzare, cittadino da terrorizzare, ebreo da rimuovere dall’umanità, oppositore politico da tenere lontano per “convertirlo”, queste sono le funzioni che nella storia hanno svolto la deportazione e i campi di internamento, di concentramento, di rieducazione e di sterminio. Etimologicamente “deportare” significa portare qualcuno lontano 1. La peculiarità della deportazione riguarda il trasferimento forzato di parti più o meno consistenti di popolazione civile che eccede l’ordine politico e sociale del territorio su cui si trovano, la restrizione in determinate aree sino alla reclusione vera e propria, con la conseguente perdita di tutti i diritti politici e civili. 1

La deportazione si differenzia dal confino e dall’esilio: il primo è solo l’obbligo per qualcuno di risiedere in una determinata località, mentre il secondo è il divieto di dimorare nel territorio nazionale.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

Il fenomeno della deportazione su larga scala di popolazioni civili era conosciuto in Egitto, presso gli Ittiti, nella Mesopotamia e nella Roma di Augusto 2, fu una caratteristica della politica imperiale assira, che ne fece uno dei suoi principali metodi di dominio sugli altri popoli. Questa pratica riduceva la possibilità di ribellioni, spegnendo le istanze di autonomia politica e culturale degli Stati conquistati 3. Nel Medioevo alla deportazione si preferì il bando, l’esilio e l’espulsione. La deportazione fu reintrodotta pienamente dopo la scoperta dell’America e la fondazione degli imperi coloniali, diventando uno strumento politico e sociale per liberarsi da delinquenti e avversari. A parte i molteplici trasferimenti forzati del popolo ebraico 4, nel corso della storia la pratica della deportazione ha riguardato anche molti altri popoli. La lista è corposa ma ci limitiamo a ricordare: gli indiani rom della media valle del Gange da parte dei turchi ghaznavidi (XI secolo); gli africani nella cosiddetta “Tratta atlantica degli schiavi neri” da parte delle grandi potenze europee e non solo (XVII, XVIII e XIX secolo) 5; gli acadia2

Il deportato era allontanato per sempre dalla sua città, perdendo definitivamente la cittadinanza romana. I luoghi deputati alla deportazione erano la Sardegna, le isole greche dell’Egeo, i deserti africani e dell’Asia. Sull’argomento cfr. A. BARBERO, Barbari: immigrati, profughi, deportati nell’Impero romano, Laterza, Roma–Bari 2006. 3 Cfr. in generale M. SORDI (a cura di), Coercizione e mobilità umana nel mondo antico, Vita e Pensiero, Milano 1995; A.I. PINI, Le grandi migrazioni umane nell’antichità e nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1969; in particolare, oltre al già citato Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, di A. BARBERO, anche L. BARBATO, L’impero assiro (900–600 a.C.). Guerra, esercito e deportazioni, in U. ECO (a cura di), La Grande Storia. L’Antichità, vol. 1, Le civiltà del Vicino Oriente. Assiri, Babilonesi, Egizi, Fenici, Ebrei, Persiani. Storia politica, economica e sociale, Corriere della Sera, Milano 2011, pp. 499–507. 4 Nella sola Europa le deportazioni e le espulsioni di ebrei furono numerose: dall’Inghilterra nel 1290, dalla Francia nel 1306 e nel 1394, dalla Spagna nel 1492, dal Portogallo nel 1496, sino al dramma messo in scena dai nazisti nel Novecento. Cfr. R. CALIMANI, Storia dell’ebreo errante. Dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme al Novecento, Mondadori, Milano 2003. 5 Cfr. O. PÉTRÉ–GRENOUILLEAU, Les traites négrières. Essai d’histoire globale, Gallimard, Paris 2004, trad. it., La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, il Mulino, Bologna 2010.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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ni, la popolazione francofona che si era installata agli inizi del Seicento nell’area dell’America settentrionale sulla costa dell’oceano Atlantico, da parte dei britannici (1755–1763)6; i moriscos, la minoranza musulmana espulsa dagli spagnoli nel 1502 e di nuovo tra il 1609 e il 16147; gli irlandesi deportati nel Nord– America e nelle Indie occidentali tra il 1641 e il 1642 dagli inglesi8; il popolo garifuna, gli afro–amerindi, da parte dei coloni inglesi in America (1796); gli oppositori politici alla Rivoluzione francese; gli indiani d’America in riserve da parte dei coloni americani (XIX)9; i nemici politici degli zar della Russia in Siberia e nell’isola di Sahalin; i soldati borbonici e molti meridionali che non vollero prestare giuramento al nuovo re d’Italia Vittorio Emanuele II, deportati dal 1861 in fortificazioni militari del settentrione italiano; i prigionieri durante la Guerra civile americana (1861–1865) relegati in campi di concentramento10; 6

Ci fu anche un tentativo di resistenza armata acadiana, con a capo Joseph Gaurhept Broussard, detto Beausoleil. Cfr. J.M. FARAGHER, A Great and Noble Scheme: The Tragic Story of the Expulsion of the French Acadians from their American Homeland, W.W. Norton, New York 2005. 7 Cfr. L.P. HARVEY , Muslims in Spain. 1500 to 1614, The University of Chicago Press, Chicago 2005; A. MOLINER PRADA (ed), La expulsión de los moriscos, Nabla Ediciones, Barcelona 2009. 8 Cfr. R. KEE, Ireland: a history, Abacus, London 1982, trad. it., Storia dell’Irlanda, Bompiani, Milano 2000, pp. 34–36. 9 Il più imponente di tali spostamenti avvenne nel 1838, quando l’esercito statunitense spostò l’intera tribù dei Cherokee dalla Georgia all’Oklahoma con una marcia forzata di più di mille chilometri, lungo quella che fu chiamata dai nativi americani Trail of Tears (Sentiero delle lacrime). Almeno quattromila nativi americani persero la vita durante lo spostamento in massa. Cfr. J. EHLE, Trail of Tears: The Rise and Fall of the Cherokee Nation, (or. 1988), Anchor Books, New York 1989; T. PERDUE, M. GREEN, The Cherokee Nation and the Trail of Tears, Viking Books, New York 2007. Sull’argomento in generale cfr. F. PRUCHA, The Great Father: The United States Government and the American Indians, Nebraska Press, Lincoln 1984; G. FOREMAN, Indian Removal: The Emigration of the Five Civilized Tribes of Indians, (or. 1932), University of Oklahoma Press, Norman (Oklahoma) 1989. 10 Durante questa guerra, nel 1864, comparve ad Andersonville, in Georgia, il primo campo di concentramento moderno per militari. Cfr. M. WEBER, The Civil War Concentration Camps, «The Journal of Historical Review», Summer 1981, p. 143.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

la popolazione cubana da parte del generale dell’esercito spagnolo Valeriano Weyler (1896 –1898); i boeri e i neri africani da parte degli inglesi (1900); gli herero da parte dei tedeschi (1904); porzioni consistenti della popolazione messicana da parte degli Stati Uniti d’America (anni Trenta del Novecento); i civili libici “ammassati” in campi allestiti lungo la costa del Golfo della Sirte dagli italiani colonizzatori (1930)11; i turco– ciprioti e i greco–ciprioti che si espulsero a vicenda dalle rispettive zone dell’isola (dal 1974)12; i curdi (dal 1988) e gli sciiti (dal 1991) dall’Iraq di Saddam Hussein, in entrambi i casi all’interno di una più ampia campagna di sterminio. La deportazione di civili durante le guerre mondiali nei Lager nazisti, nei Gulag sovietici, nel Laogai cinesi, nei Kwan–li–so nordcoreani e tutti gli altri campi di “rieducazione” completano questa lunga lista degli orrori della politica. In epoca contemporanea la deportazione ha assunto caratteristiche di massa, diventando uno strumento amministrativo permanente della politica rivolto a chi “non appartiene”. Alla deportazione, infatti, si affianca l’internamento in campi particolari, ovvero un provvedimento amministrativo che costringe gli individui comuni che ne sono oggetto, a vivere in speciali strutture situate generalmente in luoghi lontani dai centri abitati, poco accessibili e quanto più possibile isolati, pur rimanendo all’interno del Paese interessato alla costituzione di questo tipo di istituzioni detentive13.

11

Cfr. A. DEL BOCA, I crimini del colonialismo fascista, in Id. (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Laterza, Roma–Bari 1991, pp. 240–242. 12 Cfr. A. S INAGRA, La questione cipriota. La storia e il diritto, Giuffrè, Milano 1999; W. MALLINSON, Cyprus. A Modern History, I.B.Tauris, London, 2005. In breve, il mio Cipro, l’isola del Mediterraneo ostaggio della storia, in «Storia in Network», n. 120, ottobre 2006, http://win.storiain.net/arret/num 120/artic 7.asp. 13 Cfr. M. C ATTARUZZA, M. DOGO, R. P UPO (a cura di), Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000; A. FERRARA, N. PIANCIOLA, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853–1953, il Mulino, Bologna 2012.

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3.2. Deportare, internare e convertire: le vergogne del Risorgimento Italiano

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La guerra contro i briganti e la connessa deportazione e concentrazione in luoghi specifici nel settentrione italiano, rappresentano il lato più doloroso del Risorgimento italiano, pagine terribili di storia che sono state una tragedia sociale, della quale Nord e Sud d’Italia ancora risentono: La guerra contro il brigantaggio insorto contro lo stato unitario costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto su dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola.14

L’analisi storica sul Risorgimento non è univoca, poiché diverse sono le interpretazioni e le reinterpretazioni15. Particolarmente accesso è il dibattito sulla deportazione e il concentramento dei cosiddetti briganti16, ossia i soldati e i civili duosiciliani riottosi che si dichiararono palesemente fedeli a re Francesco II di Borbone, manifestando aperta resistenza ai piemontesi.

14

Indro Montanelli. Cit. in S. PREITE, Il Risorgimento, ovvero, un passato che pesa sul presente, P. Lacaita, Manduria–Bari–Roma 2009, p. 179. 15 La bibliografia sul Risorgimento è vasta. Tra le varie opere, rimando a G.B. GUERRI, Il Sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Mondadori, Milano 2010; L. VILLARI, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, Laterza, Roma–Bari 2009. Documenti alla mano, Giordano Bruno Guerri dimostra come la politica unitaria trattò il Sud come una colonia da sfruttare e da educare, mentre Lucio Villari difende il valore di “conquista civile” per tutti gli italiani, valutando il Risorgimento come il primo tentativo di “modernizzazione politica dell’Italia”. 16 Il termine è genericamente inteso come sinonimo di bandito, ossia colui che con le sue azioni si pone “fuori dalla legge”. Sono stati «i Francesi, scesi in Italia Meridionale nel 1799, ad adottare per primi questo termine per indicare coloro che ad essi si opponevano […]. E continuano ad adottare il termine usato dai Francesi nel 1799 per indicare ribelli anche i soldati di Napoleone venuti alla conquista del Regno di Napoli nel 1805». T. PEDÌO, Brigantaggio e questione meridionale, Levante, Bari 1982, pp. 120–121.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

Diversi storici considerano alcuni luoghi di deportazione dei veri e propri campi di concentramento, in cui sarebbero periti numerosi prigionieri per via delle pessime condizioni di vita 17. Altri storici tendono a ridurre decisamente il numero delle vittime e a smentire maltrattamenti nei confronti dei prigionieri 18. La deportazione inizia ufficialmente dopo il decreto del 20 gennaio 1861, che istituisce i “Depositi d’uffiziali d’ogni arma del disciolto esercito delle Due Sicilie”. I primi trasferimenti dei combattenti duosiciliani incominciano tuttavia già verso ottobre del 1860, a seguito della lotta alla resistenza dei fedelissimi di re Francesco19. In una lettera datata 21 novembre 1860, indirizzata al generale Farini, luogotenente a Napoli, Cavour riflette su questa deportazione: Carissimo amico. Io vi prego a nome pure dei miei colleghi a rifletterci ancora sopra prima di spedire qui tutte le truppe napoletane che i Francesi ci restituiscono (si tratta di 12.000 soldati fatti prigionieri a Terracina). È, a parer mio, atto impoli17

Tra questi Francesco Mario Agnoli (Dossier brigantaggio: viaggio tra i ribelli al borghesismo e alla modernità, Napoli, 2003; La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia, Il Cerchio, Rimini 2013), Fulvio Izzo (I lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali, Controcorrente, Napoli 1999), Lorenzo Del Boca (Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento, Piemme, Casale Monferrato 2003), Gigi Di Fiore (Controstoria dell’unità d’Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli, Milano 2007). 18 Tra questi Alessandro Barbero (I prigionieri dei Savoia, Laterza, Roma– Bari 2012), Juri Bossuto e Luca Costanzo (Le catene dei Savoia. Cronache di carcere, politici e soldati borbonici a Fenestrelle, forzati, oziosi e donne di malaffare, Il Punto, Torino 2012). 19 Il 15 agosto 1863 fu varata anche la legge 1409, nota come Legge Pica, che introduceva nell’ordinamento italiano il domicilio coatto per civili, misura istituita per combattere il fenomeno del brigantaggio e che fu, in seguito, utilizzata come strumento di controllo sociale (ad esempio nel 1866 contro i potenziali filoimperiali e filoaustriaci, oppure nel 1894 per arginare le agitazioni contadine e operaie isolando i promotori delle associazioni contro gli ordinamenti sociali). Il domicilio coatto era un provvedimento consistente nell’obbligo a risiedere in un luogoo specifico, generalmente in alcune isole del meridione italiano. Cfr. G. M ARABELLO , La legge Pica (1863–1865). I crimini di guerra dell’Italia Unita nel Sud, Controcorrente, Napoli 2014.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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tico sotto tutti gli aspetti. Il trattare tanta parte del popolo da prigionieri non è mezzo da conciliare al nuovo regime le popolazioni del regno. Il pensare di trasformarli in soldati dell’esercito nazionale è impossibile e inopportuno. Pochissimi consentono ad entrare volontariamente nel nostro esercito, il costringerli a farlo sarà dannoso anziché utile almeno per ciò che riflette gran parte di essi. 20

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La brutta piega presa dagli avvenimenti risorgimentali scuote anche Giuseppe Garibaldi, che nel 1868, in una lettera ad Adelaide Bono Cairoli, patriota del nuovo regno, scrive: Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.21

La maggior parte dei soldati duosiciliani sono stipati nelle navi come bestie, diretti al porto di Genova e da qui smistati in posti dove non avrebbero dato più fastidio. Molti percorrono a piedi l’intero tragitto. Così scrive un cronista de La Civiltà Cattolica nella “Cronaca contemporanea” del 14 settembre 1861: Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe con gli animali e poi si mandano in Genova. Trovandomi testè in quella città, ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in Via Assarotti, dove è un deposito di questi sventurati.22

20

La missiva in C. CAVOUR, Epistolario, Vol. XVII (1860), a cura di C. PISCHEDDA e R. ROCCIA, Olschki, Firenze 2005, pp. 2.725–2.726. 21 Cit. in S. PREITE, Il Risorgimento, ovvero, un passato che pesa sul presente, cit. p. 177. 22 «La Civiltà Cattolica», serie IV, vol. XI, 14 settembre 1861, p. 752.

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Dopo la resa di Gaeta (febbraio 1861), circa sessantamila soldati dell’eroico “Esercito Napolitano” sono deportati in campi o colonie penali del Nord, un vero sistema concentrazionario indipendente l’uno dall’altro, ma con finalità uguali: convincere i soldati e i sostenitori di re Francesco a prestare servizio e fedeltà ai Savoia e all’Italia. Tuttavia, la quasi totalità di queste persone si dimostra restio ad abbracciare una nuova bandiera, e per questo è deciso che devono essere “rieducati”, un obiettivo affidato al regime detentivo delle colonie penali del Nord. Il sistema concentrazionario sabaudo non mira alla eliminazione fisica dei prigionieri, ma alla loro “conversione”, da attuarsi attraverso l’arruolamento nell’esercito di Vittorio Emanuele II di Savoia. Francesco Proto Carafa Pallavicino, duca di Maddaloni, già deputato alla Camera Napoletana e poi dal 1861 deputato alla Camera del Regno d’Italia, nella mozione del 20 novembre del 1861, denuncia in Parlamento la disumana deportazione e il drammatico trattamento subito dai soldati di re Francesco: Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegarli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospiti terre del Piemonte... Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?23

Il sistema concentrazionario sabaudo comprende una serie di “depositi” ubicati al Centro–Nord, tra cui San Benigno in Genova, Livorno, Alessandria, Milano, Bergamo, Fenestrelle, San Maurizio Canavese, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno, Ancona. 23

Cit. in G. DE MATTEO, Brigantaggio e Risorgimento. Legittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000, pp. 187–188. La mozione presentata dal duca di Maddaloni non fu pubblicata negli Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula.

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La cortina bastionata di Fenestrelle è sicuramente il trattamento più crudele riservato ai duosiciliani più riottosi. Così descrive nel 1884 Edmondo De Amicis il complesso fortificato di Fenestrelle: Uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, che dalla cima d’un monte alto quasi duemila metri vien giù fin nella valle, […] un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offre non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un’invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero.24

Formata da una serie di roccaforti in successione, la cortina bastionata di Fenestrelle si trova nella val Chisone in Piemonte, abbarbicata a un costone roccioso del monte Orsiera a 1.750 metri di altezza. L’imponente costruzione è un insieme ininterrotto di strutture fortificate composto da tre forti, sette ridotte e una chiesetta, collegati da spalti e risalti e protetti da altissimi bastioni. L’intero complesso si sviluppa per oltre tre chilometri, collegati da una scala coperta composta da 3.996 gradini, su un dislivello di circa seicentocinquanta metri. La costruzione della fortezza è iniziata nel 1727 dopo la pace di Utrecht, quando i piemontesi si impossessarono di quel territorio precedentemente appartenuto alla Francia, e termina quasi due secoli dopo 25. La scritta quasi sull’ingresso «Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce», che riporta alla mente ad altri tristi luoghi di concentramento, avverte che ognuno vale non in funzione dei suoi diritti, ma dei suoi doveri verso la Nazione. L’asperità dei luoghi, l’inclemenza del clima e il rigore della disciplina interna, contribuiscono a rendere questo complesso fortificato un luogo sinistro, il purgatorio del nuovo Stato dove 24

E. DE AMICIS, Alle porte d’Italia, Fratelli Treves, Milano 1899, p. 77. Cfr. la breve ma utile presentazione di F. CARESIO, Il Forte di Fenestrelle, Michelangelo Carta, Torino 2003. 25

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le anime in pena devono correggersi per entrare nelle grazie del nuovo sovrano. Fenestrelle è il trattamento più crudele riservato a tutti quei militari borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell’esercito sabaudo, a tutti i soldati e i civili che si dichiararono apertamente fedeli al re Francesco II e a quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi. Nel confermare il ruolo di questa fortezza nei confronti dei duosiciliani più refrattari, La Civiltà Cattolica scrive nella “Cronaca contemporanea” del 26 gennaio 1861: Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re! 26

Secondo a Fenestrelle è il grande campo di San Maurizio Canavese27, un altro terribile luogo d’internamento per i duosiciliani. Ubicato a una ventina di chilometri da Torino, è definito dalla stampa dell’epoca «luogo di risanamento fisico oltre che morale»28. Prevedendo l’arrivo da Napoli di un gran numero di militari e di civili da rieducare, il Ministero della Guerra, con circolare n. 41 del 14 agosto 1861, impianta un campo «sulle lande di San Maurizio, vicino Torino» affidandone la responsabilità al 26

«La Civiltà Cattolica», serie IV, vol. IX, 26 gennaio 1861, p. 367. Il campo era in parte sotto il comune di San Maurizio. È ricordato così poiché il comando era insediato in questo comune. 28 F.M. AGNOLI, Apologia di uno storico dilettante, Arianna Editrice, 31 ottobre 2012, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44410. 27

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generale Decavero29: «Ci arrivarono a vagonate i soldati dell’esercito di “Franceschiello” e poi i papalini dello Stato della Chiesa che venivano catturati e ritenuti bisognosi di rieducazione morale e civile» 30. Nei momenti di emergenza dovuti al maggior afflusso, i duosiciliani arrivano anche nella Cittadella fortificata di Milano, l’attuale Castello sforzesco. Scrive La Civiltà Cattolica, nella cronaca del tempo:

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Di quei poveri fantaccini regnicoli che nella Cittadella di Milano, in questi rigori di verno, vestiti alla leggera come se fossero di state a Mergellina, vivono di due once di riso, senza poter aspirare una boccata di pipa (privazione sentitissima per un soldato!), e nondimeno stan duri a non pigliare servizio d’un Re che non è il loro. […] si narrava come certo avvocato insieme ad un uffiziale della Guardia Nazionale, iti, così per semplice curiosità a vedere i prigionieri della Cittadella, appressarono a un gruppo di essi, i quali alla folta capigliatura, ai lineamenti maschi e risentiti, ed agli occhi scintillanti e nerissimi giudicarono dover essere calabresi. Cominciato, com’era naturale, dal compassionare la loro sorte, i due visitatori non ne ebbero altra risposta che un rassegnato e quasi sprezzante monosillabo: Eh! ripetuto alla fine di tutti i periodi di quelle importune commiserazioni. Ma, quando entrando più nel soggetto, i due curiosi vollero persuadere loro che, per trarsi di quella miseria, si risolvessero d’ingaggiarsi al Servizio del Governo sardo, quelli recatisi in atteggiamento nobilmente altiero, che facea singolare contrasto coi cenci ond’erano coperti, risposero ricisamente: Uno Dio ed uno Re! Né per quanto quei valentuomini si argomentassero con varie ragioni a persuaderli, ne poterono spillare altra risposta mai, che uno Dio ed uno Re!31

Lo “stato d’assedio” delle province meridionali, proclamato dal governo nell’estate del 1862, e le severe disposizioni della Legge n. 1409 del 1863 sulla “Procedura per la repressione del 29

F. IZZO, I Lager dei Savoia, cit., p. 68. L. DEL BOCA, Indietro Savoia!, cit. p. 211. 31 «La Civiltà Cattolica», serie IV., vol. IX, 25 gennaio 1861, pp. 306–307. 30

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette”32 non sembrano dissuadere i “briganti” nella loro lotta. Entrambi i procedimenti concentrano il potere nelle mani dell’autorità militare, al fine di reprimere definitivamente qualunque fenomeno di resistenza antiunitaria, prevedendo per coloro i quali sono catturati con l’accusa di brigantaggio, o pure solo sospettati di essere ribelli, anche la pena capitale; mentre è fatta salva “la testa” a tutti i briganti che si costituiscono all’autorità33. Il regime eccezionale adottato per la repressione del brigantaggio, rese ben presto i luoghi di reclusione speciale per i deportati meridionali sovrappopolati, rendendo molto difficoltoso il mantenimento dell’ordine pubblico interno. Il generale Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio, ossessionato anche dall’idea che i detenuti più riottosi avrebbero potuto alimentare una ribellione, decide di alleggerire i bagni penali e allontanare i detenuti più pericolosi del legittimismo meridionale, deportandoli in colonie penali lontano dall’Italia, ovunque sia possibile farlo. Questo progetto diventa la politica della criminalizzazione del dissenso 34. Il governo italiano sfrutta l’alleanza dinastica tra Portogallo e Italia, realizzata nel 1862 con il matrimonio tra Luigi I di Braganza, trentaduesimo re del Portogallo, e Maria Pia Savoia, figlia del re d’Italia Vittorio Emanuele II, per chiedere al governo Conosciuta come “Legge Pica”, dal nome del suo estensore, il già menzionato provvedimento fu presentato al Parlamento del Regno d’Italia come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”. Approvato, fu promulgato da Vittorio Emanuele II il 15 agosto di quell’anno. La legge fu più volte prorogata e integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Cfr. M. SBRICCOLI, Storia del diritto penale e della giustizia: scritti editi e inediti, Giuffrè, Milano 2009, I, pp. 467–484 (La Commissione di inchiesta sul brigantaggio e la legge Pica). 33 In generale sulle leggi e il regime eccezionale adottato per repressione del brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, cfr. R. MARTUCCI, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi la repressione dei reati di brigantaggio (1861–1865), il Mulino, Bologna 1980. 34 Il capitolo risorgimentale dedicato alla creazione di una colonia penitenziaria è documentato in RIN, La Deportazione. Uno dei progetti criminali del Risorgimento piemontese contro i Duosiciliani, «Due Sicilie», Anno IX, numero 2, Speciale Scuole, 2004, pp. 40–45. 32

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portoghese la concessione di un pezzo di terra in Mozambico o in Angola35, o in alternativa su un’isola disabitata nell’Oceano Atlantico 36, dove “depositare” i prigionieri meridionali più “indomabili”. Una comunicazione telegrafica del 17 novembre 1862, inviata dall’ambasciatore piemontese a Lisbona, il conte Della Minerva, al ministro degli Esteri Giacomo Durando, mette fine alle speranze di un’accettazione da parte portoghese: «La pubblicazione d’un dispaccio telegrafico da Parigi», scriveva il diplomatico italiano, in cui si rendono pubbliche le trattative diplomatiche tra l’Italia e il Portogallo per cessione di un’isola nell’Oceano, «col fine di relegarvi briganti, ha talmente commosso l’opinione pubblica e la stampa che il ministero ha già fatto smentire tale notizia», per questo, «penso che per il momento sarebbe meglio sospendere ogni tentativo se si vuol farne più tardi con successo»37. Il progetto di una colonia di deportazione dei più ostinati duosiciliani è ripreso nel 1867. Questa volta si punta a creare una colonia penale in «una regione situata sulla costa del Mar Rosso presso il paese dei Galla in contiguità dell’Abissinia e che […] non appartiene ad alcun sovrano» 38. Il presidente Menabrea affida il compito al suo ambasciatore a Londra Emanuele D’Azeglio: egli deve sondare gli umori del governo britannico sull’argomento. Lord Stanley, il ministro degli Esteri britannico, comunica a D’Azeglio che il governo britannico, pur non sembrando «affatto troppo contrario» 39, ritiene più opportuno, 35

E. DE LEONE, L’Italia in Africa. Le prime ricerche di una colonia e la esplorazione geografica politica ed economica, vol. 2, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1955, p. 28. 36 M. INGROSSO, Storia, il Nord voleva una «Guantanamo» per la gente del Sud, «Gazzetta del Mezzogiorno», 11 ottobre 2009. 37 In «Documenti Diplomatici Italiani», 1a Serie, Vol. III, 1862, p. 172. 38 Dalla nota diplomatica del 30 novembre 1867 inviata dal presidente Menabrea all’ambasciatore italiano a Londra Emanuele D’Azeglio. In «Documenti Diplomatici Italiani», 1a Serie, Vol. IX, p. 530. Il presidente Menabrea si riferiva a una zona dell’Eritrea popolata dagli Oromo, chiamati anche Galla. 39 Telegramma dell’ambasciatore italiano a Londra D’Azeglio del 2 dicembre 1867 al presidente Menabrea. In «Documenti Diplomatici Italiani», 1a Serie, Vol. IX, 1866–1867 p. 541.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

«in ogni caso»40, differire il progetto dopo la guerra dell’Abissinia, per scongiurare pericolose insurrezioni indigene contro gli europei. Nonostante due fallimenti, il generale Menabrea non abbandona il progetto. Un anno dopo, infatti, individua una nuova zona dove impiantare una colonia penale, questa volta ai confini del mondo, «nelle regioni dell’America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni deserte della Patagonia» 41. Menabrea affida al suo funzionario diplomatico a Buenos Aires, Enrico Della Croce di Doyola, il compito di contattare le autorità della Repubblica Argentina, affinché, per conto del Governo del Re […] la S.V. […] si adoperasse a scandagliare le disposizioni del Governo della Repubblica Argentina per ciò che potrebbe riguardare l’effettuazione da parte nostra del progetto sovra indicato. Le terre che da noi si potrebbero occupare a quest’effetto sarebbero scelte tra quelle interamente disabitate e sulle quali non si estende la sovranità effettiva di alcun Stato. Limitata allo scopo poc’anzi accennato, l’occupazione territoriale non avrebbe in vista lo stabilimento di una vasta colonia destinata ad acquistare una importanza politica […]. Noi facciamo assegnamento particolare sulla sagacità della S.V. per tutto ciò che può agevolare il compimento di un disegno che, ove potesse attuarsi, riuscirebbe di molto vantaggioso al nostro paese.42

40

Ibidem. Dal dispaccio riservato del “Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, Menabrea, al Ministro a Buenos Aires, Della Croce”, Firenze 16 settembre 1868, in Ministero degli Affari Esteri. Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici, I Documenti diplomatici italiani. 1861–1870, vol. 1, 8 gennaio – 31 dicembre 1861, Poligrafico dello Stato, Roma 1988, p. 579. 42 Ibidem. 41

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Il 10 dicembre 1868, Della Croce comunica con lettera riservata43 che anche il governo argentino ha deciso di respingere la singolare richiesta italiana. Spinto a non desistere sul progetto di una colonia penale per legittimisti meridionali, quello stesso giorno il Presidente del Consiglio invia un dispaccio al Console Generale a Tunisi Luigi Pinna, chiedendogli di studiare la possibilità di stabilire in Tunisia una «colonia penitenziaria italiana» 44, individuando un territorio «capace di almeno diecimila coloni […] il quale sia separato dalla costa abitata almeno di tanta estensione di deserto, quanta è necessaria perché uno o più viandanti non possano traversarla, se non organizzati in carovana» 45. Anche il governo della Tunisia boccia la richiesta italiana. Menabrea, non demordendo, si mette all’opera per trovare soluzioni alternative. Quello stesso anno, chiede al ministro della Regia Marina, l’ammiraglio Augusto Riboty, di inviare una nave in esplorazione per il mondo alla ricerca di una “località conveniente” per una colonia penitenziaria. La risposta dell’ammiraglio Riboty è deludente per Menabrea, poiché «le condizioni del bilancio della Marina» proibiscono «in modo assoluto di destinare una nave appositamente per la spedizione di cui è caso»46, tuttavia, continua in un’altra missiva Riboty, qualora si voglia eseguire [il viaggio di esplorazione] bisognerà chiedere un fondo suppletivo per questa missione al Parlamento, ma adottando questa proposta [il Ministero della Marina] prevede le difficoltà cui si avrebbero ad affrontare se mai la de-

43

La missiva in Ministero degli Affari Esteri. Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici, I Documenti diplomatici italiani. 1861– 1870, vol. 1, cit., p. 792. 44 Dal dispaccio segreto di Menabrea a Pinna. In Ministero degli Affari Esteri. Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici, I Documenti diplomatici italiani. 1861–1870, vol. 1, cit., p. 791. 45 Ibidem. 46 Il colloquio epistolare tra i due Ministeri in R IN, La Deportazione, cit., pp. 43.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare licata quistione venisse ventilata nella Camera, che stima superfluo di enunciare a codesto Ministero.47

Menabrea, prudente, ammette «senza difficoltà che la richiesta di fondi speciali al Parlamento per l’oggetto in discorso, presenterebbe gravi inconvenienti», perciò, nell’impossibilità

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di trovare pel momento un mezzo di esecuzione di quel progetto, deve suo malgrado limitarsi a raccomandare vivamente al Ministero della Marina di tenersi presente il progetto medesimo pel caso in cui si verifichi qualche straordinaria spedizione di navi.48

Nonostante la resistenza di molti, la stragrande maggioranza degli ex soldati borbonici è arruolata a forza nell’esercito savoiardo. Da questo momento chi si rifiuta diventa disubbidiente e irrispettoso, per questo è processato e punito per insubordinazione dai tribunali militari. Fenestrelle e le altre colonie penali continuano a essere un luogo di reclusione, ma ora di soldati indocili dell’esercito dei Savoia e non più valorosi soldati duosiciliani.

3.3. Genesi del campo per civili: Cuba 1896 I campi di internamento e concentramento così come li conosciamo oggi, nascono come elementi costitutivi della spinta dispotica alla subumanizzazione di certe popolazioni da parte di certe altre. Non a caso i primi veri e propri campi nascono nelle colonie, o meglio ancora sono attivati in occasione di guerre coloniali: a Cuba per mano degli spagnoli, tra il 1896 e il 1898, nelle Filippine a partire dal 1899 da parte degli statunitensi, in Sud Africa nel 1900 a cura degli inglesi. Questi tre campi nascono ufficialmente per proteggere la popolazione civile dalla guerriglia, ma in pratica servono per ri– 47 48

Ibidem. Ibidem.

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territorializzare quella massa di persone che eccedono l’ordine politico del colonizzatore e, quindi, sono considerate una minaccia, un surplus umano pericoloso, ostile e “naturalmente” inferiore. Dato che la maggior parte degli uomini e degli adolescenti si sono uniti alla guerriglia che combatte l’occupante, questi campi sono abitati in maggioranza da giovanissimi, anziani e donne. A Cuba, nella seconda metà dell’Ottocento, il nuovo governatore spagnolo dell’isola Weyler Y Nicolau, aveva messo a punto uno speciale e preciso sistema di misure severe per reprimere l’insurrezione anticolonialista in corso. A parte la violenza smisurata contro gli insorti, Weyler decise di sottrarre ai guerriglieri l’appoggio della popolazione rurale, ricorrendo al primo “riconcentramento” in massa della popolazione civile non combattente. Il 16 febbraio 1896 stabilì: Tutti gli abitanti delle zone rurali o di aree esterne alle città fortificate saranno riconcentrati entro otto giorni all’interno delle città presidiate dalle truppe. Chiunque violerà quest’ordine o sarà trovato al di fuori delle zone autorizzate, sarà considerato un ribelle e processato come tale.49

L’idea di riconcentrare le popolazioni rurali cubane appare già in una lettera confidenziale che il predecessore di Weyler, il comandante Arsenio Martínez Campos, scrisse al capo del governo spagnolo Antonio Canovas del Castillo, all’indomani della sconfitta infertagli a Peralejo dai ribelli cubani guidati dal ge49

P. FONER, The Spanish–Cuban–American War and the Birth of American Imperialism, 1895–1902, Monthly Review Press, New York–London 1972, vol 1, p. 111, così cit. in A. BECKER, La genesi dei campi di concentramento: da Cuba alla Grande Guerra, in M. CATTARUZZA, M. FLORES, S. LEVIS SULLAM, E. TRAVERSO (a cura di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo. Volume 1. La crisi dell’Europa: le origini e il contesto, UTET, Torino 2005, p. 178; F. PÉREZ GUZMÁN, Los efectos de la reconcentración (1896–98) en la sociedad cubana. Un estudio de caso: Güira de Melena, «Revista de Indias», vol. LVIII, n. 212, 1998, p. 280.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

nerale Antonio Maceo (13 luglio 1895). Nella missiva il comandante Campos, alla ricerca di una rapida soluzione della lotta contro gli indipendentisti cubani, suggerì di reconcentrar gli abitanti civili delle zone rurali in campi. Pur consapevole che questa soluzione avrebbe portato a «miseria e carestia» 50, Campos sostenne che, attuando la concentrazione dei civili in campi controllati, avrebbe privato gli insorti di cibo, riparo e sostegno. Il generale spagnolo, tuttavia, informò il capo del governo di avere riserve sull’attuazione di questa strategia radicale, puntualizzando che solo il generale Valeriano Weyler l’avrebbe potuta attuare51. Così è stato. La cosiddetta concentrazione di Weyler fu applicata iniziando a Pinar del Río, una delle province più selvagge di Cuba, dove fu istituito il primo campo di concentramento moderno per civili della storia. Seguirono i campi a Sancti Spiritus, Camaguey e Santiago de Cuba. Entro il 21 ottobre 1896, la pratica dei campi fu applicata in maniera sistematica, con l’apertura di zone di concentramento nelle province di Matanzas, L’Avana, Santa Clara e poi ancora di altre regioni, con un saldo di circa quattrocentomila persone riconcentrate, in maggioranza bambini, anziani e donne. Per scongiurare approvvigionamenti ai mambises (come furono chiamati dagli spagnoli gli insorti), Weyler vietò la rimozione di qualsiasi alimento dai villaggi senza il permesso delle autorità militari, obbligando anche i proprietari di bestiame di condurre tutti gli animali delle loro fattorie nei villaggi controllati dai militari spagnoli52. Tutte queste drastiche misure furono adottate per arrestare l’espandersi della ribellione, per sottrarre ai rivoltosi i mezzi di sussistenza, per ridurre la propaganda rivoluzionaria, per impe50

Cfr. R.I. CANOSA, La reconcentración 1896–1897, Verde Olivo, La Habana 1998, pp. 23-24. 51 Cfr., ivi, p. 83; L. NAVARRO G ARCÍA, La última campaña del general Martínez Campos: Cuba, 1895, «Anuario de Estudios Americanos», vol. 58, n. 1, 2001, p. 195. 52 F. PÉREZ GUZMÁN, Los efectos de la reconcentración (1896–98), cit., p. 280.

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dire ai contadini e agli abitanti dei villaggi di conoscere i movimenti delle truppe spagnole, per scoraggiare gli insorti i cui familiari erano in “ostaggio” nei campi dagli spagnoli. Nelle intenzioni del governatore spagnolo non era contemplata una mattanza di civili, tanto che furono scelte zone di riconcentramento che avrebbero garantito un certo benessere alle popolazioni. Nella realtà, tuttavia, le terribili condizioni abitative, igieniche e alimentari determinarono la morte di uno su quattro dei riconcentrati. Il senatore statunitense Redfield Proctor, dopo la sua visita a Cuba, descrisse tale sistema in un intervento al Senato statunitense il 17 marzo 1898: Non si tratta né di pace, né di guerra, ma di desolazione e dolore, miseria e fame. Ogni città e villaggio è circondato da una sorta di fossato, una trocha (trincea), ma realizzata seguendo uno schema per me nuovo: i detriti vengono gettati all’interno e le recinzioni di filo spinato si trovano all’esterno della trincea. Queste trochas sono provviste a ciascun angolo e a brevi intervalli lungo ciascun lato di strutture che vengono chiamate “fortini”, ma che in realtà sono piccole torrette di guardia con 2–10 soldati ciascuno. L’obiettivo delle trochas è di far restare i reconcentrados all’interno e di impedire ai ribelli di penetrarvi. Le persone provenienti da tutte le campagne limitrofe sono state portate dentro queste cittadelle fortificate e tenute lì, costrette a sopravvivere come possono. Sono molto simili alle prigioni e il loro aspetto non differisce molto da esse, eccetto che le mura non sono tanto alte e tanto spesse, ma sono adeguate per tener prigionieri i poveri donne e bambini reconcentrados, visto che ogni punto può essere preso di mira dal fucile di un soldato. Tutte le stazioni ferroviarie si trovano all’interno di queste trochas e sono presidiate da una sentinella armata. Ogni treno è provvisto di un carro merci blindato con feritoie per i moschetti e pieno di soldati. […] Ogni uomo, donna, bambino e ogni animale domestico, ovunque si dirigano disposti in file, sono

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare sotto il tiro delle sentinelle e restano all’interno delle fortificazioni. […] Non vi è che concentramento e desolazione.53

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La politica del riconcentramento, così come fu attuata dai soldati del governatore Weyler, fu agevolata da due moderne innovazioni tecnologiche: il treno e il filo spinato. Il primo agevolò il trasporto del “materiale umano” su lunghe distanze, il secondo permise di recintare vaste aree creando di fatto una prigione a cielo aperto. Il 10 novembre 1897 la politica del raggruppamento forzato dei civili fu abbandonata, mentre il 30 maggio 1898 si decretò la fine effettiva del “riconcentramento”54.

3.4. Filippine 1900 Per la politica adottata a Cuba, gli americani chiamarono Valeriano Weyler y Nicolau “The Butcher”, il macellaio (nella variante spagnola, “el Carnicero”). Però non si lasciarono sfuggire l’idea del governatore spagnolo dei campi, applicandola nelle loro colonie filippine. Anche gli statunitensi giustificarono la creazione di campi col pretesto di proteggere la popolazione filippina dalla guerriglia. In realtà le finalità di quei campi furono ben altre. Sin dal 1565, anno del primo insediamento degli europei, le Filippine furono governate da elementi di origine spagnola come province annesse alla Nuova Spagna. Nel 1762, la dominazione spagnola fu brevemente interrotta dall’invasione degli in53

Senatore Redfield Proctor, discorso del 17 marzo 1898 al Senato americano. US Congress, Congressional Record, 55th. Cong., 2nd sess. in ivi, p. 178; anche C. BARTON, "The Red Cross". A History of this Remarkable International movement in the Interest of Humanity, American National Red Cross, Washington 1898, pp. 534–539 in B. BIANCHI, I primi campi di concentramento. Testimonianze femminili da Cuba, dalle Filippine e dal Sud Africa (1896– 1906), «DEP Deportate, esuli, profughe», Università Ca’ Foscari Venezia, nr. 1, 2004, pp. 1–21. 54 Sull’argomento cfr. anche J.L. TONE, War and genocide in Cuba. 1895– 1898, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2006, pp. 153–177.

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glesi. Il Trattato di Parigi del 1763 ripristinò il dominio spagnolo e la colonia passò sotto diretta amministrazione della Spagna. La breve occupazione britannica, tuttavia, contribuì a indebolire la ripristinata autorità spagnola sul Paese, infiammando rivolte anticoloniali e richieste di indipendenza. Nel 1896 arrivò la rivoluzione vera e propria, guidata da Emilio Aguinaldo e appoggiata dagli Stati Uniti d’America, che il 12 giugno 1898 portò alla prima indipendenza filippina 55. Il trattato di Parigi del 1898, che pose fine alla breve guerra ispano–americana, ebbe riflessi anche in Asia: la Spagna, oltre ad abbandonare l’isola di Cuba, dovette cedere anche le Filippine (assieme a Porto Rico e Guam), ottenendo in cambio venti milioni di dollari. Per gli statunitensi le Filippine avevano un grande valore commerciale e strategico, poiché dopo l’annessione delle Hawaii del 1898, lo Stato insulare completava idealmente il percorso per arrivare in Asia lungo l’oceano Pacifico. Il 21 dicembre 1898 il presidente William McKinley emise un proclama che, sotto il nome di “Benevolent Assimilation Proclamation”, dichiarava chiaramente che le forze militari statunitensi di occupazione, a seguito del trattato di Parigi, subentravano agli spagnoli nel governo delle Filippine e che quindi: Il compito preminente e più impegnativo dell’amministrazione militare deve consistere nell’ottenere la confidenza, il rispetto e la fedeltà degli abitanti delle Filippine, assicurando loro, in ogni modo possibile, quel livello di diritti e libertà individuali che costituisce il retaggio dei popoli civili, e dimostrando che la missione degli Stati Uniti consiste in una benevola assimilazione […]. Nel compimento di questa elevata missione, […] deve essere diligentemente conservata la solida arma dell’autorità, al fine di reprimere disordini e superare ogni ostacolo nell’accordare il vantaggio di un governo buono e du-

55

Sulla conquista e sulla dominazione spagnola, cfr. J.S. ARCILLA, An Introduction to Philippine History, Ateneo de Manila University Press, Manila 1994, ora 2003, pp. 38–68; K.M. NADEAU, The History of the Philippines, Greenwood Press, Westport 2008, pp. 15–48.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

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raturo sul popolo delle Filippine, sotto la libera bandiera degli Stati Uniti.56

Poiché i nuovi “padroni” non riconobbero l’indipendenza già proclamata dai filippini, nel febbraio 1899, il sogno indipendentista appena sfiorato portò a una nuova insurrezione, poi alla guerra d’indipendenza contro gli americani57. A seguito delle prime battaglie vinte dagli americani, contro la supremazia militare statunitense, i filippini rinunciarono a confrontarsi con le loro truppe schierate in campo aperto e adottarono metodi da guerriglia. Alla guerra non convenzionale dei filippini, gli americani risposero con la tattica della “terra bruciata”, distruggendo deliberatamente villaggi, case e tutti i mezzi di sostentamento (campi, raccolto e bestiame). Allo stesso tempo si concentrò la popolazione civile, per lo più donne, bambini e anziani, in campi. Mindanao, la seconda isola in ordine di grandezza delle Filippine, divenne il territorio principale dei campi di concentramento statunitensi, ma campi furono costruiti pure a Bacoor, Talisay, Naic, Imus, San Francisco de Malabon e altri luoghi meno abitabili. Come riferito, alla maniera degli spagnoli a Cuba, anche gli statunitensi motivarono l’apertura di campi per i civili col pretesto di proteggere la popolazione dalla guerriglia. In realtà i campi rientravano nella politica della “terra bruciata”, poiché 56

Congress, 57, 1, Senate, n. 331, 777, così cit. in S. NEARING, J. FREEMAN, Dollar Diplomacy. A study in American Imperialism, B.W. Huebsc, New York 1925, trad. it. Diplomazia del dollaro. Studio sull’imperialismo americano, Dedalo, Bari 1975, pp. 266–267. Cfr. anche S.C. MILLER, Benevolent Assimilation. The American Conquest of the Philippines, 1899–1903, Yale University Press, New Haven (Connecticut) 1984, (orig. 1982). 57 L’evento che diede materialmente il via alla guerra si verificò il 4 febbraio 1899, lungo il ponte di San Juan sobborgo di Manila, quando i militari americani spararono su una pattuglia di soldati filippini uccidendone tre. La battaglia di Manila che ne seguì fu la prima battaglia dell’intera guerra che si estese a tutte le Filippine e che durò sino al 1902. Al momento del subentro degli americani, gli indipendentisti filippini avevano il controllo su tutto il territorio nazionale ad eccezione di Manila. McKinley non dichiarò mai guerra alle Filippine, dato che la considerava come parte integrante dello Stato americano.

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servirono per ri–territorializzare la popolazione, tagliare gli aiuti e le vie d’informazione ai guerriglieri, tenere in ostaggio le loro famiglie. Nell’aprile del 1902, Moorfield Storey e Julian Codman — avvocati membri della New England Anti Imperialist League e consulenti legali della Philippine Investigating Committee, nata nel 1902 al fine di documentare le atrocità commesse dall’esercito americano nelle Filippine — pubblicarono un memoriale in cui, attraverso le lettere e le testimonianze di soldati statunitensi che parteciparono alla guerra nelle Filippine, assieme ai dispacci militari, denunciarono le barbarie commesse dagli statunitensi nell’arcipelago. La natura razzista e genocida della guerra è sottolineata nella maggior parte dei documenti. In una lettera, ad esempio, un ufficiale dell’esercito americano scriveva: Senza mezzi termini […] Se noi decidiamo di restare [nelle Filippine] dobbiamo seppellire ogni scrupolo e ogni senso di repulsione verso la crudeltà weyleriana, […] abbiamo sterminato gli indiani d’America e penso che molti di noi ne vadano orgogliosi, o almeno credono che il fine giustifichi i mezzi; e noi non dobbiamo avere scrupoli nello sterminare anche questa razza, se necessario, stando dalla parte della civiltà e del progresso.58

Nel materiale raccolto dai due giuristi si ritrovano anche riferimenti al regime inumano dei campi allestiti dagli statunitensi, definiti da un ufficiale statunitense «un sobborgo dell’inferno»59, per l’inedia, il sovraffollamento, il terreno fangoso, le morti quotidiane per il vaiolo, le zanzare infette che pungono giorno e notte, l’odore della morte dei cadaveri lasciati a de-

58

J. CODMAN, S. MOORFIELD, Secretary Root’s Record: "Marked Severities" in Philippine Warfare. An Analysis of the Law and Facts Bearing on the Action and Utterances of President Roosvelt and Secretary Root, G.H. Ellis, Boston 1902, p. 99, ora HardPress, Stockbridge (Massachusetts) 2012. 59 Ivi, p. 92.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

comporsi all’esterno e sui quali si avventano di notte nuvole di «pipistrelli vampiri» 60. Una delle rare testimonianze delle terribili condizioni di vita nei campi è quella di Helen Calista Wilson, della Anti Imperialist League di Boston, che nel 1903 si recò nelle Filippine. Attraverso delle lettere, scritte tra il 12 marzo e il 19 maggio 190361, Helen Calista Wilson descrive la vera immagine di una sanguinosa guerra d’occupazione, in cui le operazioni militari coinvolgono non solo gli insorti, ma anche la popolazione civile filippina. A seguito di un nuovo provvedimento del primo giugno 190362 che imponeva nuovamente il riconcentramento della popolazione rurale che viveva nei centri infestati dai ribelli, Helen Calista Wilson visitò il campo di Bacoor, presso Manila. Il rapporto della visita fu pubblicato il 21 gennaio 1906 sulle pagine del Sunday Springfield Republican63. Riferendo l’esistenza di altri campi a Talisay, Naic, Imus, San Francisco de Malabon e altri luoghi, la Wilson descrisse le cattive condizioni di quello di Bacoor, popolato da bambini, donne e anziani: Le capanne miserabili che le persone sono state in grado di costruire per se stessi erano per la maggior parte molto piccole, più o meno aperte alle intemperie […] Molte delle capanne non vantano uno spazio disponibile più grande di un normale letto matrimoniale americano, ci sono alcune capanne più grandi […]. Nessune razioni di qualsiasi tipo sono state emesse dal governo per queste persone; le autorità hanno ordinato loro di portare le proprie scorte […] ad eccezione di poche famiglie 60

Ibidem. Le lettere sono state raccolte nella pubblicazione: A Massachusetts woman in the Philippines. Notes and observations, Fiske Warren, Boston 1903. 62 La guerra filippino–americana terminò ufficialmente nel luglio del 1902, ma le ostilità continuarono fino al 1913 a causa della presenza di gruppi armati di irriducibili. 63 H.C. WILSON, Reconcentration in the Philippines. Visit to Camp of Reconcentrados Near Manila, Sunday Springfield Republican, January 21, 1906, http://tech21.us/mpiitgs/jtyson/ITGS_project_2011-12/US_Imperialism_Positi vism_files/Reconcentration%20in%20the%20Philippines%20EDIT.doc. 61

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abbastanza ben fornite, tali razioni presto si esaurirono […] La maggior parte delle reconcentrados vivevano cibandosi dei crostacei che potevano trovare lungo la riva […] e su qualsiasi altra cosa che potevano guadagnare o mendicare dagli abitanti della città. […] Le conseguenze delle settimane trascorse alle intemperie e con cibo insufficiente si vedevano ad ogni passo. Durante la nostra prima visita non c’era capanna in cui non ci fosse qualche ammalato. […]. C’erano numerosi bambini dai corpi esili e dall’addome gonfio simili alle immagini che tutti conosciamo del riconcentramento a Cuba e della carestia in India […] nonostante il gran numero di malati in campo è emerso che non vi era alcun controllo medico regolare o rilascio di farmaci […]. Nelle isole, a Cavite, Batangas, Samar, Cebu ci sono un numero considerevole di campi contenenti alcune migliaia di reconcentrados le quali, benché non siano accusati di alcun crimine, sono privati della libertà. Siamo proprio all’inizio della stagione delle piogge, quando si ara e si semina, e i loro campi giacciono incolti; i loro raccolti per l’anno prossimo ogni giorno che passa sono sempre più compromessi. Nel frattempo hanno consumato tutte le loro provviste e il numero dei loro animali trascurati sta diminuendo, mentre le settimane si susseguono in un ozio demoralizzante, e giorno dopo giorno l’esposizione alle intemperie e l’alimentazione insufficiente stanno esaurendo le loro forze distruggendo il loro morale.64

Il razzismo, la politica della terra bruciata, la distruzione deliberata dei mezzi di sostentamento alla popolazione, le durissime condizioni di vita nei campi provocarono una catastrofe demografica. Nei campi, le condizioni di vita degli internati, già segnati dalle violenze subite prima e durante la deportazione, provocarono un tasso di mortalità che arrivò al venti per cento 65. 64

Ibidem. Cfr J. ZWICK, Militarism and Repression in the Philippines, Centre for Developing–Area Studies, McGill University, Montreal 1982; J.M. GATES, War– Related Deaths in the Philippines, 1898–1902, in «Pacific Historical Review», v. 55, n. 2, University of California Press, Berkeley, May 1986, pp. 367–378; A.M. HILSDON, Madonnas and martyrs: militarism and violence in the Philippines, Ateneo de Manila Univesity Press, Manila 1995, in particolare pp. 133– 151. 65

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

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3.5. Sudafrica 1900 La politica dell’internamento adottata dagli spagnoli a Cuba fu fatta propria anche dagli inglesi, che la radicalizzarono in Sudafrica durante la guerra contro i Boeri (1899–1902)66. I Boeri, storpiatura dell’olandese boeren (contadino), sono una popolazione sudafricana che discende dai coloni olandesi che si stabilirono nella zona del Capo di Buona Speranza nel XVII secolo. Con la Bibbia e il fucile in mano, i Boeri avviarono una graduale espansione all’interno, che li portò a occupare i territori dei nativi Xhosa, entrando in guerra con loro. Nel lavoro i Boeri utilizzavano mano d’opera schiava, “importata” dall’Indonesia, dal Madagascar e dall’India. Alla fine del XVIII secolo gli inglesi strapparono la regione del Capo al controllo degli olandesi, manifestando subito la volontà di estendere il loro dominio in tutta l’area. L’anglicizzazione della colonia olandese si rivelò fatale per i Boeri. Infatti, se sino a poco prima in quel pezzo d’Africa i Boeri non avevano rivali pericolosi, con l’arrivo degli inglesi le cose cambiarono. I nuovi arrivati imposero la loro lingua, le loro usanze e, soprattutto, le loro leggi. L’instabilità politica causata dalle tribù Zulu e Bantu, popolazioni in costante stato di guerra fra loro, e ora con i nuovi arrivati, trattennero i Boeri e gli inglesi dallo scontro aperto. L’abolizione della schiavitù da parte degli inglesi (1833) e lo scontro per le direttive di anglificazione della regione da parte dell’amministrazione britannica, spinsero i Boeri più intransigenti a lasciare le loro terre per addentrarsi nell’entroterra e sottrarsi al domino britannico. Iniziò per oltre dodicimila Boeri il cosiddetto “Grande Trek”, il viaggio con il carro a buoi, la mi66

Così il parlamentare britannico Lloyd George dichiarava alla Camera dei Comuni il 25 luglio 1900: «Mi sembra che in questa guerra abbiamo gradualmente preso a modello la politica attuata dalla Spagna a Cuba». In A. BECKER, La genesi dei campi di concentramento: da Cuba alla Grande Guerra, in M. CATTARUZZA et al. (a cura di) Storia della Shoah., cit., p. 159.

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grazione dei contadini con tutte le loro masserizie e il loro bestiame67. I migranti, autodefinitisi voortrekker (pionieri, letteralmente “quelli che vanno avanti”), andarono verso Nord, prima nel Natal, fondando la Repubblica indipendente di Natalia (Natalia Republiek), e poi verso i grandi altipiani interni, dove fondarono altre due repubbliche indipendenti, lo Stato Libero dell’Orange (Oranje Vrystaat) e la Repubblica del Transvaal (Transvaal Republiek). Il loro avanzare fu contrassegnato dal conflitto con i gruppi africani che possedevano quelle terre prima di loro, ma anche dalla politica dei britannici, che tentavano in qualche modo di bloccarlo. La Repubblica indipendente di Natalia fu annessa dagli inglesi nel 1843 con il pretesto di difendere i propri coloni dagli Zulu, mentre le altre due repubbliche furono riconosciute dai britannici con due diversi trattati, nel 1854 con lo Stato Libero dell’Orange e nel 1856 con la Repubblica del Transvaal, che divenne Zuid Afrikaanse Republiek (Repubblica del Sud Africa)68. La già difficile convivenza divenne insostenibile per i Boeri quando, la scoperta di giacimenti di diamanti nelle vallate dell’Orange e del Vaal a Kymberley e quella dell’oro nei fiumi dell’Orange e nel Witwarersrand (Transvaal meridionale), spinse gli inglesi ad assicurarsi il controllo di questi giacimenti. Gli ingenti capitali finanziari inglesi elargiti per lo sviluppo dei giacimenti minerari, indussero la Gran Bretagna a impegnarsi a risolvere definitivamente la questione boera. Falliti i passi diplomatici per arrivare a una federazione tra Città del Capo e i due Stati boeri, la ferma determinazione dei Boeri ad

67

Il carro trainato da buoi che ricorda la grande migrazione dei Boeri, è divenuto un simbolo araldico, uno dei quattro che compaiono nell’attuale stemma della Repubblica Sudafricana. 68 Cfr. H. J AFFE, Sudafrica. Storia politica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 70– 145. Il libro è una nuova edizione rielaborata e aggiornata dall’autore dell’originale 300 years. A history of South Africa, Cape Town (South Africa) 1952.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

affrancarsi dalla tutela britannica fece scoppiare inevitabilmente la sanguinosa guerra del 1899–190269. All’inizio vittoriosi nonostante la palese inferiorità, i Boeri, dinanzi alla terribile controffensiva britannica, che permise l’occupazione di Johannesburg e Pretoria, reagirono con una disperata ed efficiente guerriglia 70. Gli inglesi, non riuscendo a sconfiggere definitivamente i Boeri con le tattiche convenzionali di guerra, si risolsero adottando la tattica della terra bruciata, distruggendo e bruciando case, fattorie e piantagioni, imprigionando donne, bambini e anziani in cinquantotto concentration camps fatti di tende e baracche71. Questa politica militare ebbe le stesse motivazioni che permisero la comparsa dei campi a Cuba e nelle Filippine: isolare la guerriglia e, ufficialmente, preservare la popolazione civile dalla violenza della guerra. In realtà i territori furono “ripuliti” con la forza unicamente per distruggere i luoghi e i centri della vita civile che sostenevano i guerriglieri boeri, tagliare a essi gli aiuti e le vie d’informazione, prendere in ostaggio le loro famiglie per colpirli negli affetti e demotivarli nella lotta. In questo modo la guerra dei britannici divenne una campagna militare contro i civili. 69

Già tra il 1880 e il 1881 una prima guerra contrappose la popolazione boera agli inglesi. A seguito dell’occupazione britannica del territorio del Transvaal nel 1877, i Boeri guidati dal presidente del Transeat Stephanus Johannes Paul Kruger, il 16 dicembre 1880 autoproclamarono il Transvaal come repubblica indipendente. La guerra divenne inevitabile. La sconfitta degli inglesi a Majuba Hill assicurò il riconoscimento dell’autogoverno e di una grande autonomia del Transvaal, ma non l’indipendenza. Cfr. G.R. DUXBURY, David and Goliath. The First War of Independence, 1880–1881, National Museum of Military History, Johannesburg 1981; J. LABAND, The Transvaal Rebellion. The First Boer War, 1880–1881, Pearson Longman, Harlow 2005 (ora Routledge, New York 2014). 70 Sul conflitto cfr. A. WESSELS, The Anglo–Boer War 1889–1902. White Man’s War, Black Man’s War, Traumatic War, Sun Press, Bloemfontein (South Africa) 2011. 71 Ventinove campi separati, caratterizzati da condizioni di vita ancora più difficili, furono creati anche per gli autoctoni. Cfr. S. KESSLER, Black Concentration Camps of the Anglo–Boer War 1899–1902, War Museum of the Boer Republics, Bloemfontein (South Africa) 2012.

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In questi terribili campi tra il 1900 e il 1902 furono internate 120.000–160.000 persone. Le pessime condizioni igieniche, la scarsità di cibo e vestiario, l’assenza di cure mediche e le epidemie di tifo, dissenteria, polmonite e morbillo, l’esposizione agli umori del clima, in generale la precarietà delle condizioni di esistenza, furono all’origine del decesso tra il quindici e il venti per cento della popolazione internata 72. I Boeri chiamarono quei terribili campi laagers, termine che rimanda al cerchio formato dalle carovane di carri trainati dai buoi, che proteggeva al suo interno i Boeri dagli attacchi degli indigeni africani durante il “Great Trek”. La pacifista inglese Emily Hobhouse del South African Conciliation Committee, testimone oculare, denunciò pubblicamente in un rapporto le condizioni in cui si trovavano gli internati nei campi, specialmente i bambini 73. Visitando il 26 gennaio 1901 il campo di Bloemfontein, l’attuale capitale giudiziaria del Sudafrica, così la pacifista inglese qualificò i laagers: Definisco questo sistema di campi una grande crudeltà. Mai, mai potrà essere cancellato dalla memoria degli uomini. I più duramente colpiti sono i bambini. Si consumano a causa del caldo torrido e per mancanza di cibo adatto […]. Se soltanto il popolo inglese potesse immaginare lo sconforto che regna qui! […] Mantenere in attività campi del genere non è altro che una forma di infanticidio.74

«[…] quando nel 1902 la guerra finì, in totale erano morti 28.000 internati, di cui 20.000 giovani di ambo i sessi minori di sedici anni» Cfr. H. WESSELING, Verdeel en heers. De deling van Afrika. 1880–1914, Bert Bakker, Amsterdam 1991, trad. it., La spartizione dell’Africa. 1880–1914, Corbaccio, Milano 2001, pp. 461–463. 73 Cfr. B. B RUNA, Il Rapporto di Emily Hobhouse sui campi di concentramento in Sud Africa (gennaio – ottobre 1901), in «DEP Deportate, esuli, profughe», Università Ca’ Foscari Venezia, nr. 2, 2005, pp. 1–10. 74 A.J. KAMIŃSKI, Konzentrationslager 1896 bis heute. Geschichte, Funktion, Typologie, W. Kohlhammer, Stuttgart 1982, trad. it., I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 40. 72

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

L’espediente della terra bruciata e dei campi di concentramento, sortì alla lunga gli effetti sperati per i britannici: fiaccati dal regime poliziesco instaurato prima dal generale Frederick Roberts e poi dal generale Horatio Herbert Kitchener 75, il 31 maggio 1902 i Boeri furono costretti a firmare l’accordo di resa di Vereeniging e il Transvaal e l’Orange divennero colonie britanniche. Sperimentato il metodo in Sudafrica, per assicurare il loro dominio coloniale contro altre ribellioni, i britannici usarono i campi anche altrove: nel 1948 in Malesia, per reprimere un’insurrezione comunista e nazionalista, dichiararono uno stato di emergenza che durò anni e rinchiusero in un sistema di campi fortificati chiamati New Villages trentamila persone, oltre la metà dei quali furono espulsi poi in Cina76; negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento in Kenya contro i civili kikuyu77.

3.6. Africa sudoccidentale 1904 I tedeschi non solo fanno tesoro delle lezioni spagnole e inglesi, ma perfezionano il sistema concentrazionario mutandone sia la forma sia l’intensità: la dichiarata funzione preventiva è sostituita dalla finalità punitiva e dall’assoggettamento totale dei prigionieri, all’internamento è associato il lavoro forzato. Così, se con gli spagnoli a Cuba e gli inglesi in Sudafrica i campi hanno una funzione cautelativa, con i tedeschi nell’Africa sudoccidentale (attuale Namibia) avranno un proposito punitivo e assumeranno, dapprima una finalità economica, poi sterminazionista. Questo metodo di reclusione risulta pratico ed economico sia in termini di costruzione sia di sorveglianza, pre75

Cfr. S.B. SPIES, Methods of Barbarism? Roberts and Kitchener and Civilians in the Boer Republics. January 1900 – May 1902, Human and Rousseau, Cape Town (South Africa) 1977. 76 Cfr. T.P. TAN, ‘Like a Concentration Camp, lah’: Chinese Grassroots Experience of the Emergency and New Villages in British Colonial Malaya, Chinese Southern Diaspora Studies, vol. 3, 2009, pp. 216–228. 77 Sui campi britannici in Kenya si rimanda al cap. V.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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sentando un costo incomparabilmente inferiore rispetto a quello carcerario. I campi di concentramento tedeschi nell’Africa sudoccidentale sono utilizzati al di fuori di un contesto militare ed entrano a far parte di uno scontro razziale più che coloniale, il cui scopo è la sottomissione totale dei colonizzati e poi anche la loro eliminazione. L’impero tedesco si inserisce nel colonialismo del continente nero soprattutto per motivi politici, piuttosto che economici: il cancelliere Bismarck voleva contrastare l’espansionismo francese e inglese, oltre a voler scaricare le tensioni politiche interne su territori periferici. La decisione di “allargare” l’impero tedesco fu presa anche su pressioni della Lega pangermanista, che si fece attiva propagandista della superiorità razziale dei tedeschi e del loro diritto di dominio sui popoli “inferiori”. Solo in un secondo momento l’espansione coloniale tedesca fu legata all’ambizione di grandezza e a ragioni economiche. Il ritardo con cui la Germania intraprese la sua politica coloniale non lasciò tuttavia molte possibilità: il Secondo Impero dovette accontentarsi di stabilire il dominio su quelle poche terre ancora non “occupate” dai cosiddetti popoli civili. Alla Conferenza di Berlino (15 novembre 1884–23 febbraio 1885) Gran Bretagna, Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Germania e Stati Uniti, con la presenza come osservatori di Austria–Ungheria, Svezia, Danimarca, Italia, Impero Ottomano e Russia, si spartirono le terre africane. La Germania dovette accontentarsi del Camerun, del Togo, dell’Africa Orientale Tedesca (corrispondente ai territori del Burundi, Ruanda e Tanzania, escluso l’arcipelago di Zanzibar già possedimento britannico) e dell’Africa Tedesca del Sud–Ovest (un’area coincidente con gran parte della Namibia moderna, eccetto l’enclave britannica di Walvis Bay e le isole dei Pinguini). L’Africa Tedesca del Sud–Ovest fu dichiarata dal cancelliere tedesco Bismarck colonia tedesca il 24 aprile 1884, ancor prima della Conferenza di Berlino. Il 7 agosto 1884 fu issata la bandiera tedesca sul nuovo possedimento africano, che fu chiamato Deutsch–Südwestafrika. Nell’aprile dell’anno dopo fu fondata

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

la Deutsche Kolonialgesellschaft für Südwest–Afrika. Nel maggio dello stesso anno Ernst Heinrich Göring (padre del futuro delfino di Hitler, Hermann) fu nominato Commissario e stabilì il suo governo a Otjimbingwe, al centro dei nuovi possedimenti. La colonia era popolata da due grandi gruppi etnici: i Nama e gli Herero. I Nama costituiscono un sottoinsieme del più ampio gruppo etnolinguistico sudafricano dei Khoikhoi (conosciuto anche con il nome di Ottentotti). Originariamente i Nama vivevano intorno al fiume Orange, con uno stile di vita principalmente pastorale e seminomade, praticando una politica della proprietà della terra in comune. Gli Herero, invece, costituiscono il ramo occidentale della più ampia famiglia etnolinguistica Bantu. Giungono in Namibia intorno alla metà del XVI secolo, provenendo dall’Africa centrale. Gli Herero avevano un’economia basata quasi esclusivamente sull’allevamento bovino. La necessità di assicurarsi le terre da pascolo portò questo gruppo etnico a conflitti tribali prima con gli Ovambo (a Ovest), che li scacciarono, e poi con i Nama, che li decimarono. Partendo dalla considerazione che i popoli indigeni africani erano considerati come sotto–uomini, per cui tutto si poteva nei loro confronti, il regime coloniale nell’Africa tedesca del Sud– Ovest fu vorace e violentemente razzista: espropri totali di terre e animali alla popolazione locale, continue umiliazioni agli indigeni e alle loro tradizioni, lavori forzati, violenze sulle donne78. Il comportamento che i tedeschi riservarono ai “negri africani” ricalcò l’opinione che gli occidentali avevano delle popolazioni dell’Africa. Così descriveva nel 1831 la natura dei “negri africani”, durante le sue lezioni universitarie di filosofia della storia Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il filosofo dell’idealismo tedesco: Nell’Africa vera e propria (l’Africa subsahariana) è la sensibilità il punto a cui l’uomo resta fermo: l’assoluta incapacità 78

Cfr. L. COSTALUNGA, Aspetti del colonialismo tedesco in Africa orientale, 1884–1914, Effepi, Genova 2001.

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di evolversi. Egli manifesta fisicamente una grande forza muscolare, che lo rende atto a sostenere il lavoro, e bonarietà d’animo, ma accanto ad essa anche una ferocissima insensibilità. […] L’Africa, per tutto il tempo a cui possiamo storicamente risalire, è rimasta chiusa al resto del mondo. È il paese dell’oro, che resta concentrato in sé: il paese infantile, avviluppato nel nero colore della notte al di là del giorno della storia consapevole di sé. […] Gli Europei non hanno quindi acquistato che poca conoscenza dell’interno dell’Africa; per contro, qualche volta ne sono usciti fuori popoli che si sono dimostrati così barbari e selvaggi, da escludere ogni possibilità di annodar relazioni con essi. […] In questa parte principale dell’Africa non può aver luogo storia vera e propria. Sono accidentalità, sorprese, che si susseguono. Non vi è un fine, uno stato, a cui si possa mirare: non vi è una soggettività, ma solo una serie di soggetti che si distruggono. […] Caratteristico dei negri è infatti proprio che la loro coscienza non è giunta alla contemplazione di una qualsiasi salda oggettività − come ad esempio Dio, legge − a cui possa aderire la volontà dell’uomo e in cui egli possa giungere all’intuizione della propria essenza. […] Il negro rappresenta l’uomo nella sua totale barbarie e sfrenatezza: per comprenderlo, dobbiamo abbandonare tutte le nostre intuizioni europee. Nel suo carattere non si può trovar nulla che abbia il tono dell’umano. Appunto per ciò non ci possiamo immedesimare davvero, col sentimento, nella sua natura, come non possiamo immedesimarci in quella di un cane. […] Simile assoluta svalutazione dell’uomo spiega come la schiavitù costituisca in Africa il rapporto basilare del diritto. L’unico rapporto essenziale che i negri hanno avuto, ed hanno, con gli Europei è quello della schiavitù. I negri non vedono in essa nulla che sia sconveniente. In questo senso la schiavitù ha contribuito a risvegliare un maggior senso di umanità presso i negri. […] La schiavitù è ingiustizia in sé e per sé, perché l’essenza dell’uomo è la libertà: ma per giungere a questa egli deve prima acquistare la maturità necessaria.79

79

G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, Duncker und Humblot, Berlino, 1837, trad. it., Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1963, pp. 236–244.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

Poiché la voracità e il razzismo tedesco si manifestarono in tutta la sua drammatica violenza fisica e morale, distruggendo le basi economiche, culturali, spirituali e politiche dei popoli indigeni, ai Nama e agli Herero rimaneva l’alternativa di soccombere lentamente o ribellarsi. Alcuni passarono al servizio dei nuovi proprietari delle loro terre e del loro bestiame, altri scelsero la seconda opzione. Herero e Nama misero da parte le antiche rivalità e si associarono nella lotta contro l’invasore bianco. La prima rivolta contro i coloni tedeschi ebbe luogo fra il 1893 e il 1894: a insorgere furono i Nama, guidati dal capo Hendrik Witbooi. I guerrieri ottentotti si dimostrarono molto resistenti, soprattutto perché adottarono la tattica della guerriglia su un territorio che conoscevano bene. Mentre i soldati tedeschi cercavano di domare la rivolta, nel 1903 il governatore Theodor Leutwein decise la creazione di riserve per tutti gli Herero, con l’intenzione di tenere sotto controllo la tribù, ormai priva di terre e, quindi, pronta a ribellarsi. Per domare l’insurrezione della tribù dei Bondei, nel frattempo scoppiata in prossimità del fiume Orange, e per tenere sotto controllo gli ultimi rivoltosi Nama, il governatore tedesco dovette concentrare le scarse forze militari della colonia nel Centro–Sud del possedimento. Gli Herero ne approfittarono e il 14 gennaio 1904, guidati dal capo Samuel Maherero, iniziarono un’insurrezione armata, trucidando il piccolo presidio di Waterberg. I guerriglieri Herero sterminarono centoventitré tra soldati e coloni, risparmiando donne, bambini, missionari e coloni britannici, sabotando anche la linea ferroviaria d’interesse strategico, che le autorità coloniali avevano fatto costruire tra Windhoek e il porto di Swakopmund. Poiché le comunicazioni fra la colonia e la madre patria furono provvisoriamente interrotte, per alcuni mesi Samuel Maharero assunse il controllo de facto di vaste regioni centrosettentrionali. Tra l’11 giugno e il 20 luglio arrivarono però nella colonia ventimila soldati, armati di artiglieria da campagna. Al comando delle Schutztruppe fu posto il generale di fanteria Lothar von Trotha.

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Famoso per il suo “pugno di ferro” nelle attività repressive, con von Trotha la politica militare tedesca nell’Africa tedesca del Sud–Ovest cambiò corso, diventando una guerra razziale sostenuta da una Vernichtungspolitik, una politica di annientamento. Già in un proclama pubblico del 2 ottobre 1904, von Trotha fece conoscere agli indigeni i suoi propositi: Io, generale delle truppe tedesche, indirizzo questa lettera al popolo herero. D’ora in poi gli Herero non sono più sudditi tedeschi. Hanno ucciso, rubato […] Tutti gli Herero devono lasciare il Paese. Qualsiasi Herero scoperto all’interno del territorio tedesco, armato oppure no, con oppure senza bestiame, sarà ucciso. Non sarà tollerata neppure la presenza di donne o bambini che dovranno raggiungere gli altri membri della loro tribù [ossia morire di sete nel deserto] altrimenti saranno fucilati.80

Il piano del generale von Trotha fu quello di fare terra bruciata, con la demolizione sistematica dei villaggi, l’avvelenamento dei pozzi, la distruzione dei raccolti e di ogni altra fonte di sostentamento, per accerchiare definitivamente i rivoltosi e sterminarli. Ai prigionieri fu riservata l’impiccagione, eseguita in massa. La grande battaglia ebbe luogo l’11 agosto 1904, a Waterberge, e fu lo scontro decisivo nella campagna di repressione degli Herero. Decisivo non dal punto di vista militare, perché i rivoltosi riuscirono a far fallire il piano tedesco. Infatti, pur subendo perdite pesantissime, gli Herero riuscirono ad aprirsi un varco verso il deserto dell’Omaheke. Nonostante la fuga, i tedeschi si lanciarono all’inseguimento sparando alle spalle. Molti perirono nel deserto, pochi raggiunsero il Bechuanaland britannico (l’odierno Botswana), tra cui Samuel Maharero. La campagna militare tedesca contro gli Herero provocò la morte dell’ot-

80

Così cit. da J. ZIMMERER, Colonialism and Nazy Genocide: towards an Archeology of Genocide, in A.D. MOSES (ed), Genocide and Settler Society, Berghahn Books, New York 2004, p. 65.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

tanta per cento del totale della tribù, assumendo i caratteri di un genocidio81. Nel 1905, dopo che le terribili notizie sul trattamento riservato ai rivoltosi giunsero in patria, provocando il disappunto dell’opinione pubblica e, dopo infiammati dibattiti nel Parlamento tedesco, l’ordine di annientamento fu revocato. Così, in seguito alla cessazione delle stragi imposta da Berlino, allo sterminio sistematico seguì la prigionia. Imitando gli spagnoli e i britannici, furono realizzati i konzentrationslager, campi di internamento con il supplemento dei lavori forzati. Nei campi, il razzismo e lo spirito di vendetta si manifestarono in un trattamento inumano dei prigionieri (malnutrizione, freddo, lavoro pesante, stupri e violenze fisiche), determinando un altissimo tasso di mortalità che decimò i pochi superstiti della campagna militare tedesca. All’inizio gli internati furono destinati solo al servizio personale dei militari o alla costruzione di grandi opere nella Colonia (come la linea ferroviaria Luderitz–Keetmanschoop). A partire dal 1905, anche le imprese civili ottennero la loro quota di forzati. Il più famigerato campo di concentramento delle colonie tedesche fu il Konzentrationslager auf der Haifischinsel vor Lüderitzbucht, nell’isola di Shark (in tedesco Haifischinsel), nei pressi della città di Lüderitz (Namibia). Le perfide condizioni della detenzione in questo campo (inedia, freddo con forti venti 81

Cfr. F. LAMENDOLA, Il genocidio dimenticato. La soluzione finale del problema Herero nel Sud–Ovest africano, 1904–05, Stavolta, Pordenone 1988; I. HULL, Cultura militare e «soluzioni finali» nelle colonie: l’esempio della Germania guglielmina, in R. GELLATELY, B. KIERNAN (a cura di), Il secolo del genocidio, Longanesi, Milano 2006, pp. 181–208 (orig. The Specter of Genocidie. Mass Murder in Historical Perspective, Cambridge University Press, Cambridge 2003); J. ZIMMERER, J. ZELLER, Völkermord in Deutsch Südwestafrika: Der Kolonialkrieg 1904–1908 in Namibia und seine Folgen, Christoph Links Verlag, Berlin 2003, in inglese Genocide in German South– West Africa: the Colonial War (1904–1908) in Namibia and its aftermath, Merlin Press, London 2008; J. SARKIN–HUGHES, Germany’s Genocide of the Herero: Kaiser Wilhelm II, His General, His Settlers, His Soldiers – UCT Press, Cape Town (South Africa) 2010.

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gelidi, violenze fisiche, stupri, malattie, razzismo sadico dei carcerieri) e il lavoro forzato durissimo ed eccessivo, trasformarono questo Konzentrationslager in un Todeslager, campo di morte82. Non a caso l’isola fu soprannominata dai soldati teutonici Todesinsel, isola della morte83. Nei campi gli Herero non rappresentarono solo manodopera gratuita, essi divennero “materiale” di esperimenti scientifici, medici e antropologici. Due studiosi di genetica dell’epoca, i medici Eugen Fischer e Theodor Mollisson, per corroborare le loro tesi sulla superiorità della razza tedesca, condussero nei campi degli esperimenti sui meticci e sui gemelli. A questo fine furono anche inviati in patria, alle Università di Breslavia e di Berlino, collezioni di crani o cadaveri di Herero per essere studiati84. Gli esperimenti su cavie umane condotti dall’eugenista Eugen Fischer nel campo di concentramento di Luderitzbucht, furono d’esempio per un suo allievo, Josef Mengele, che li riutilizzerà qualche decennio più tardi85. Il colonnello Ludwig Von Estorff, dopo aver visitato il campo di Lüderitzbucht e altri campi, in un telegramma inviato al suo Comando il 10 aprile 1907, ne sollecitò la chiusura. Così giustificò la sua richiesta: «Non posso incaricare i miei ufficiali 82

Cfr. P. CURSON, Border Conflicts in a German Colony. Jakob Morengo and the Untold Tragedy of Edward Presgrave, Arena Books, Bury St. Edmunds (England) 2012, pp. 79–86. 83 Cfr. W.E. C ASPER, The angel of death has descended violently among them: Concentration camps and prisoners–of–war in Namibia, 1904–08, University of Leiden African Studies Centre, Leida 2005, p. 220 ed. 2010. 84 Cfr. C.W. ERICHSEN, The angel of death has descended violently among them: Concentration camps and prisoners of war in Namibia, 1904–08, University of Leiden African Studies Centre, Leiden (Nederland) 2005. 85 Fischer, all’avvento di Hitler diverrà rettore dell’Università di Berlino. I suoi folli studi si conclusero nel 1910 con un appello mondiale per impedire la prosecuzione di una “razza mista”, e quindi il divieto del matrimonio inter– razziale. Ne risultò, nel 1913, un libro Die Rehobother Bastards und das Bastardierungsproblem beim Menschen: anthropologische und ethnographiesche Studien am Rehobother Bastardvolk in Deutsch–Südwest–Afrika (Deutsche Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Berlin 1913), in cui lo scienziato dimostrò (a modo suo!) come la razza bianca degradasse mischiandosi con razze inferiori.

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di questi servizi da carnefice, né posso assumermene la responsabilità»86. Nel 1908, dopo aver attirato gli strali delle opposizioni parlamentari tedesche, i campi furono smantellati e agli internati Herero e Nama fu revocato lo status di prigionieri di guerra. Ai pochissimi sopravvissuti non fu autorizzato a ritornare nei territori di origine. Nelle colonie tedesche africane, dunque, nasce l’archetipo di una “umanità in eccesso” da denazionalizzare e riterritorializzare: gli Herero, con la loro semplice esistenza, eccedevano i confini del Lebensraum tedesco, per questo andavano concentrati e sterminati. Questa politica, non solo proseguirà fino alla fine della storia coloniale, ma costituirà il preludio, lungo l’arco del Novecento, sia di tutte le deportazioni in campi di consistenti settori di popolazione sia degli stermini di massa.

3.7. I campi della Prima Guerra Mondiale Il primo conflitto mondiale inaugura tre novità: massificazione della guerra e relativa morte di massa, utilizzo della tecnologia più avanza a scopi bellici, uso dei campi di prigionia e internamento permanenti. L’enfasi sugli orrori della Seconda Guerra Mondiale e dei campi di sterminio, mette generalmente in ombra le anticipazioni già presenti nei campi di prigionia del primo conflitto mondiale. É durante la Grande guerra che i campi sono rodati, messi a punto, facendo diventare i civili vittime ordinarie di una guerra sempre più totale. La Grande Guerra, con la sua massificazione, offre prigionieri di guerra (militari e civili) in quantità mai viste nei conflitti dei secoli precedenti. Non solo. Anche ignari civili delle nazioni divenute avversarie, le minoranze che non “appartengono”, diventano “potenziali sospetti” e per questo, in virtù di 86

In I. HULL., Cultura militare e «soluzioni finali» nelle colonie: l’esempio della Germania guglielmina, cit., 147.

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misure di sicurezza preventiva, vanno trattati da nemici. Ovviamente pure le popolazioni “occupate” dagli eserciti nemici diventano una minaccia da tenere sotto controllo. Ecco allora che la crudele “lezione tedesca” messa in pratica in Africa, non solo continua a essere applicata nelle colonie di tutti gli Stati belligeranti87, ma raggiunge i suoi effetti anche sul Vecchio continente e fuori88. Per quanto concerne i campi della Prima Guerra Mondiale occorre tuttavia fare una distinzione: essi non sono dei crudeli campi di concentramento, seppure in molti casi le condizioni di vita sono precarie, ma campi di prigionia e di internamento. Nei primi sono destinati i belligeranti nemici catturati, nei secondi sia i civili che risied ono in uno Stato senza appartenervi sia i propri cittadini giudicati malfidi. I campi diventano così strumento di gestione del momento bellico. Attraverso l’apertura di campi d’internamento, la Grande guerra produce una limitazione dei diritti di libertà dei civili. Gli Stati, infatti, oltre a preoccuparsi degli aspetti militari che lo sforzo bellico impone, si tutelano rendendo incapaci di nuocere tutti quei soggetti ritenuti pericolosi, perché uniti da legami affettivi, linguistici o religiosi con il nemico. Per questo chi risiede in uno Stato senza “appartenervi” è internato a scopo cautelativo, per impedirgli di rientrare in Patria per arruolarsi nelle forze armate o compiere attività di spionaggio. Man mano che la guerra prosegue, ai civili del fronte nemico residenti, si aggiungono le popolazioni delle regioni conquistate. 87

Ad esempio i tedeschi in Australia e i belgi nell’Africa tedesca. Tedeschi negli USA; ucraini in Canada; austriaci, tedeschi, ebrei in Russia; americani, brasiliani, giapponesi, inglesi, portoghesi, belgi, francesi, italiani, montenegrini, rumeni, serbi in Germania; austro–tedeschi e altri stranieri in Francia, in Gran Bretagna e in tutte le nazioni che parteciparono direttamente alla guerra. Cfr. sull’argomento: B. BIANCHI, I civili: vittime innocenti o bersagli legittimi?, in B. BIANCHI (a cura di), La violenza contro la popolazione civile nella Grande guerra. Deportati, profughi, internati, Unicopli, Milano 2006, pp.56–66; A. FERRARA, Esodi, deportazioni e stermini. La “guerra– rivoluzione” europea (1912–1939), in «Contemporanea», 9, 3, Bologna 2006, pp. 449–476. 88

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

Oltre a internare i “sudditi nemici”, gli Stati si preoccupano sia di scongiurare un cedimento del fronte interno, internando anche i propri cittadini che aderiscono all’opposizione pacifista, sia di bonificare dai civili le zone delle operazioni militari, per scongiurare azioni di collusione con il nemico. A questi campi di internamento, attraverso semplici misure amministrative, ricorrono tutti i Paesi belligeranti: l’Italia, che interna uomini e donne di nazionalità austro–ungarica, ma soprattutto i socialisti e i cosiddetti neutralisti; la Francia, che relega in campi maggiormente i cittadini di origine tedesca e perfino metà degli abitanti dell’Alsazia e della Lorena, la cui fedeltà è ritenuta incerta; l’Olanda, che imprigiona anche i profughi belgi fuggiti dopo l’invasione tedesca; l’Austria, che esilia in campi soprattutto italiani (in maggior parte friulani e veneti); la Germania, che relega negli Internierungslager i civili di Stati nemici; l’Inghilterra, che interna i cittadini tedeschi e austriaci non naturalizzati, principalmente nei campi sull’isola di Mann; la Russia, che rinchiude maggiormente prussiani e italiani; il Canada, che imprigiona i civili stranieri, particolarmente quelli di origine ucraina; gli Stati Uniti d’America, che segrega molti cittadini di origine austro– ungarica in campi per “alien enemies”, obbligando gli immigrati di origine italiana, francese, greca, polacca e ucraina in “exclusion zones”89. Poiché l’internamento di civili stranieri non è stato più adottato in Europa dai tempi delle guerre napoleoniche 90, non vi è alcuna convenzione internazionale sul problema dei

Cfr. J. HORNE, Atrocità e malversazioni contro i civili, in S. AUDOIN– ROUZEAU, J.J. BECKER (eds), La prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 2007, pp. 327–338. 90 Nel 1803 Napoleone internò circa diecimila inglesi (dai diciotto ai sessant’anni) residenti in Francia, come rappresaglia all’inizio delle ostilità da parte dell’Inghilterra, che sequestrò due mercantili francesi, senza una formale dichiarazione di guerra. Cfr. P. COLEMAN , International Law and the Great War, The Lawbook Exchange, Clark (New Jersey) 2005, p. 83 (orig. 1915). 89

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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cittadini non combattenti internati durante la guerra 91. Nei campi, gli internati civili, pur non essendo garantiti da alcuna convenzione internazionale, non sono considerati prigionieri e godono, almeno in teoria, di tutti i diritti fondamentali. Le condizioni di vita di quanti sono assoggettati all’internamento, tuttavia, sono quasi sempre drammatiche, seppur decisamente meno dure rispetto ai campi coloniali: il momento bellico non permette di dirottare molto cibo verso i campi; la maggior parte degli internati sono obbligati a svolgere molti lavori per sostenere l’economia di guerra; numerosi campi diventano invivibili per il sovraffollamento e la totale inadeguatezza delle strutture. Per quanto riguarda i prigionieri di guerra la loro situazione nei campi non differisce da quelli di internamento dei civili. In teoria, i diritti di tutti prigionieri di guerra devono essere garantiti dalla Seconda Convenzione dell’Aja, un accordo sottoscritto da quarantaquattro Stati nel 1907. Nell’allegato “Regolamento concernente le leggi e gli usi della guerra per terra”, il secondo capitolo è infatti tutto dedicato ai prigionieri di guerra che «sono in potere del Governo nemico, ma non degli individui o dei corpi che li hanno catturati. Essi devono essere trattati con umanità» (Cap. II, art. 4). Tra le altre cose, fu stabilito all’Aja anche che: Il Governo, in potere del quale si trovano i prigionieri di guerra, è incaricato del loro mantenimento. In mancanza d’intesa speciale tra i belligeranti, i prigionieri di guerra saran-

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Esisteva solo una generica raccomandazione espressa dalla Convenzione dell’Aja del 1899, in cui, si legge nel Preambolo: «Attendendo che si possa istituire col tempo un codice completo delle leggi della guerra, le Alte Parti contraenti stimano opportuno di stabilire che nei casi che non hanno potuto essere previsti nelle disposizioni da esse adottate, le popolazioni e i belligeranti rimangono sotto l’egida e la signorìa dei principî del diritto delle genti, quali risultano dagli usi vigenti fra gli Stati civili, dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica». L’accordo in «Centro Studi per la Pace», http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=2004103120 1007.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

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no trattati per il nutrimento, l’alloggio e il vestiario, come le truppe del Governo che li avrà catturati.92

Nonostante queste disposizioni, i campi del 1914–18 diventano “città dei morenti”93. Questo fa capire quali sono le condizioni di vita all’interno dei campi, costituiti per lo più da baraccopoli circondate da filo spinato. La morte non è sicuramente una finalità del campo, ma un “effetto collaterale cronico”, che subentra per le terribili condizioni alimentari, igieniche e sanitarie che esistono all’interno. Generalmente suddivisi in ufficiali e soldati, i campi di prigionia della Grande guerra hanno condizioni di vita quasi sempre drammatiche, seppur gli internati possono ricevere pacchi dalle proprie famiglie, scrivere lettere, comprare cibo e oggetti all’interno del campo. Le porzioni insufficienti delle razioni alimentari, la pessima qualità del cibo, la carenza di medicinali, la scarsità dei beni che gli internati possono acquistare, sono dovute alle contingenze del momento bellico, più che a un desiderio di vendetta per quei soldati nemici. Infatti, il trattamento in conformità alla Convenzione dell’Aja è disatteso poiché, con il prolungarsi della guerra, i prigionieri aumentano e, simmetricamente, le risorse diminuiscono. La gran quantità di prigionieri pone criticità organizzative che non si sono mai presentate in maniera simile prima. La fame, il freddo, la promiscuità tra prigionieri provenienti da più fronti di guerra, la monotonia, la detenzione prolungata, diventano le caratteristiche più salienti dei campi di prigionia della Prima Guerra Mondiale. Scrive nel suo diario il tenente Carlo Salsa, prigioniero di guerra nel campo di Sigmundsherberg, in Austria:

Cap. II, art. 7. La Convenzione internazionale dell’Aja del 1907 su “leggi ed usi della guerra terrestre” si può leggere sul sito «Centro Studi per la Pace», all’url: http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20041 031202458. 93 G. PROCACCI, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 255. 92

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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La fame ci artiglia le viscere; ma non è forse la fame che ci fa più soffrire: è questa esclusione dal mondo, questa clausura indeterminata, questo enorme bisogno di vivere che si dibatte ciecamente in noi, e che ci sembra debba un giorno spalancarci nel cranio un vuoto di pazzia.94

Il dilatarsi del teatro di guerra continua a far crescere il numero dei prigionieri civili e militari, rendendo la situazione davvero drammatica. La Croce Rossa, già presente sui campi di battaglia con medici, infermieri e volontari, si adopera ininterrottamente per un’azione di controllo e stimolo sui vari governi per l’attuazione di misure umanitarie in favore degli internati, creando l’Agenzia Internazionale dei Prigionieri di Guerra (AIPG)95. L’Agenzia, cui aderiscono tutti i Paesi belligeranti, diventa il principale canale di comunicazione tra gli Stati contendenti riguardo i prigionieri di guerra e gli internati civili. Oltre ad attuare misure umanitarie, la Croce Rossa si impegna a informare i governi sui nominativi dei propri soldati catturati, a mettere in contatto gli internati con le famiglie, a creare liste di prigionieri96. Nel settembre del 1917, Gustave Ador, presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), spinto dalla gravità della situazione dei civili internati, indice a Ginevra una conferenza con i membri della Croce Rossa dei Paesi neutrali per trattare il problema dei prigionieri civili:

94

In C. SALSA, Trincee. Confidenze di un fante, Mursia, Milano 1995, p. 226. Sull’azione della Croce Rossa Internazionale durante la Grande guerra, cfr. S. AUDOIN–ROUZEAU, A. BECKER, Retrouver la guerre, Gallimard, Paris 2000, trad. it. La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002, pp. 59–68. 96 Gli archivi della Croce Rossa dedicati ai prigionieri della Prima Guerra Mondiale sono accessibili online al pubblico. Oltre alle schede e agli elenchi dei prigionieri, è possibile visionare gallerie di fotografie che illustrano la vita quotidiana nei campi, nonché rapporti di visite a queste strutture redatti all’epoca dai delegati del CICR. Cfr. «1914–1918 Prisoners of the First World War ICRC Historical Archive», http://grandeguerre.icrc.org/. 95

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare Gli internati civili sono un elemento nuovo di questa guerra che i trattati internazionali non avevano previsto. All’inizio del conflitto non è stata forse insensata la pratica di immobilizzarli per trattenere le persone sospette, poiché sembrava che sarebbero bastati alcuni mesi per separare il grano dal loglio. Sotto diversi aspetti, gli internati civili devono essere assimilati ai civili deportati nei paesi nemici e anche agli abitanti dei territori occupati dal nemico. I civili sono privati di ogni forma di libertà e la loro condizione di vita è del tutto simile a quella dei prigionieri. Dopo tre anni di guerra, noi chiediamo che queste diverse categorie di civili di guerra siano oggetto di un’attenzione particolare e auspichiamo che la loro situazione, per certi versi più crudele di quella dei prigionieri militari, sia affrontata seriamente prima che sopraggiunga il quarto inverno di guerra.97

Nonostante l’impegno del Comitato Internazionale della Croce Rossa, i civili continuano a essere gli ostaggi incolpevoli della Grande guerra. Mentre gli Stati europei continuano a combattere fra loro, nella parte orientale dell’Impero ottomano si aprono i campi per gli armeni della Sublime Porta, ultimo atto di un orribile massacro già compiuto contro questa etnia.

3.8. I campi del Metz Yeghérn armeno Metz Yeghérn (in armeno Մեծ Եղեռն) è il termine con cui gli armeni dell’Impero Ottomano ricordano il “grande crimine” del loro martirio, avvenuto nel 1915–1916. Significa appunto il “Grande Male”, un male assoluto, «fisico e anche morale», qualcosa «che addolora, tortura, uccide»98. 97

Archivi del CICR, 411/10, Introduction sommaire à la question concernant les civils, settembre 1917, p. 1, così cit. in A. BECKER, La genesi dei campi di concentramento: da Cuba alla Grande Guerra, in M. CATTARUZZA, M. FLORES, S. LEVIS SULLAM, E. TRAVERSO (a cura di), Storia della Shoah, cit., p. 165. 98 Presentazione di M. NORDIO in C. M UTAFIAN , Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni, Guerini, Milano 1995.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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Il popolo armeno è un’etnia particolare, una comunità che, nonostante la sua storia tormentata, è riuscita a sopravvivere ai suoi oppressori di ogni provenienza, conservando la sua civiltà, la sua cultura, la sua religione 99. Storicamente stanziati in Asia minore, il loro territorio a lungo conteso a causa della sua posizione ponte tra l’Oriente e l’Occidente, è frazionato nel 1639 dai turchi ottomani, che occupano la parte occidentale, e i persiani, che incorporano quella orientale. Nel 1828 i russi si annettono la parte orientale della regione abitata dagli armeni, quella che coincide con l’Armenia di oggi100. Per molto tempo all’interno dell’Impero Ottomano le minoranze etniche e religiose non subiscono particolari persecuzioni, anche se costrette a pagare esosi tributi. Nel corso dell’Ottocento, però, iniziano a emergere sentimenti nazionali tra i popoli sottomessi alla Sublime Porta. Sotto l’imperatore Abdul Hamid II, il 34° sultano dell’Impero Ottomano dal 1876 al 1909, gli armeni iniziano a chiedere riforme volte a tutelare le loro persone, i loro beni, la loro religione. Cominciano manifestazioni e rivolte da parte degli armeni, tutte subito soffocate nel sangue. Il sultano ritiene quei sudditi cristiani irriverenti nei confronti dell’autorità sovrana e, nel timore che una sollevazione generale possa ottenere l’appoggio di qualche potenza europea, scatena una dura repressione assassinando migliaia di loro e bruciandone i villaggi101. Parallelamente al declino irreversibile dell’Impero Ottomano, ridotto agli inizi del Novecento a un

99

Nel 301 adotta il Cristianesimo (monofisita), una forma di cristologia elaborata dal Patriarca di Costantinopoli Eutiche (378 – 454), secondo la quale la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina e, dunque, in lui era presente solo la natura divina. 100 Sulla storia di questo popolo, cfr. G. DÉDÉYAN (ed), Histoire des Arméniens, ed. Privat, Toulouse 1982, trad. it. Storia degli armeni, Guerini e Associati, Milano 2002. 101 Tra le atrocità subite dagli armeni sotto Abdul Hamid II, l’eccidio nel 1896 di circa tremila persone, bruciate vive nella cattedrale di Urfa, dove avevano trovato rifugio. Sugli eccidi hamidiani cfr. M.I. MACIOTI, Il genocidio armeno nella storia e nella memoria, Cultura Nuova, Roma 2011, pp. 18–30.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

fazzoletto di terra intorno a Costantinopoli102, nei primi anni del Novecento nasce e si sviluppa un acceso movimento nazionalista e costituzionalista turco, denominato “Giovani Turchi”. Ripreso il progetto politico di riforma dell’Impero che alcuni decenni prima i Giovani Ottomani avevano messo a punto, i Giovani Turchi creano un comitato tra le diverse anime del movimento chiamato Ittihad ve Terakki Cemiyeti (Comitato di Unione e Progresso). Nel 1908, grazie all’appoggio di una parte dell’esercito, il “Comitato” costringe il sultano a riesumare la Costituzione abolita nel 1876. Nel 1913, la componente più intransigente e nazionalista del movimento compie un colpo di Stato. Sotto la direzione del feroce e temuto triumvirato Tal’at– Enver–Djemal, l’idea di una Turchia forte, unita e turca inizia a realizzarsi. Uno degli ostacoli a questo programma è costituito proprio dagli armeni, popolo incompatibile con il progetto panturco, in quanto cristiani e, soprattutto, stanziati sul confine turco con la nemica Russia, al di là del quale, cioè nella Russia stessa, vivono altri armeni103. Gli armeni, dunque, sono percepiti non solo come un elemento di disomogeneità etnica che non può andare d’accordo con la geografia politica turca, ma anche come potenziali fautori del separatismo e come probabili pericolosi alleati delle potenze straniere, in primis della Russia. La Turchia si avvicina politicamente alla Germania, unica Potenza occidentale che sostiene il progetto panturco, allo scopo di far diventare quello che restava dell’Impero Ottomano una sua colonia. Il 2 agosto 1914 la Turchia sottoscrive un accordo militare segreto con i tedeschi, per avere supporto militare ai loro progetti politici104. 102

Tutto ciò che rimaneva era l’odierna Turchia, parte del Medio Oriente e l’Iraq. Cfr. G. DEL ZANNA, La fine dell’impero ottomano, il Mulino, Bologna 2013. 103 Anche greci, ebrei e, dal 1917, i curdi. Tutti rappresentavano un ostacolo alla “turchificazione” dell’Impero, per questo anch’essi furono perseguitati. 104 L’alleanza offriva due vantaggi strategici alla Germania, un esercito alleato in grado di fornire ai tedeschi truppe aggiuntive e l’accesso a vie di terra in Africa e in Asia centrale. Sull’accordo cfr. H. STRACHAN, The First World War, Penguin, New York 2003, pp. 101–109.

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L’ingresso in guerra al fianco delle grandi Potenze europee centrali105, dà l’opportunità ai Giovani Turchi di risolvere una volta per tutte la questione delle minoranze, in primis quella armena. La struttura paramilitare Teşkilât–i Mahsusa (Organizzazione Speciale), istituita il 5 agosto 1914 da Enver Pasha, dipendente direttamente dai Giovani Turchi e con stretti legami con l’Esercito, con il Ministero della Guerra e con quello degli Interni, diventa il braccio segreto dell’Ittihad, con il compito di servizi segreti, controspionaggio e lotta contro i sabotaggi 106: Dotata di propri codici, fondi, quadri, armi e munizioni, l’Organizzazione speciale (OS) funzionava come uno “Stato nello Stato” quasi autonomo. […] I suoi militanti erano perlopiù ex pregiudicati, liberati dalle prigioni dell’Impero grazie a una speciale dispensa dei ministeri dell’Interno e della Giustizia.107

All’interno dell’”Organizzazione speciale” è creata un’altra formazione paramilitare particolare, costituita clandestinamente, al di fuori quindi delle istanze governative, la Teşkilât–i Djedida, che significa “organizzazione avente una nuova esistenza”. Essa, attraverso piccole unità composte da dieci a cinquanta membri, i četé, ha il compito preciso di distruggere fisicamente 105

La Russia dichiara guerra alla Turchia il 2 novembre del 1914. La dichiarazione è una ritorsione russa in seguito all’affondamento di un cacciatorpediniere russo nel Mar Nero e al bombardamento di Odessa, Sebastopoli, Novorossiysk e Feodosia, le quattro città sulla costa settentrionale dello stesso mare, avvenuto il 29 ottobre. 106 Una organizzazione speciale fu già creata nel 1911 e fu utilizzata sia nella guerra di Libia, per sabotare le linee nemiche infiltrandosi tra la popolazione locale, sia nel corso delle guerre balcaniche con funzione di spionaggio e supporto ai turchi stanziati fuori dall’Impero. In seguito opera anche contro gli inglesi in Egitto e Sudan e contro i russi nel Caucaso. Cfr. Y. TERNON, Les Arméniens. Histoire d’un Génocide, Èditions du Seuil, Paris 1977, trad. it., Gli Armeni. 1915–1916: il genocidio dimenticato, Bur, Milano 2003, pp. 218– 220. 107 V. DADRIAN, Autopsie du genocide arménien, Complexe, Bruxelles 1995, p. 83.

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le minoranze interne all’Impero per realizzare il progetto di una Turchia islamica e monoetnica108. La sua clandestinità serve per allontanare il rischio di rendere responsabile il governo turco di crimini contro l’umanità. La guerra, dunque, fornisce l’occasione per ricorrere allo sterminio come soluzione alla “questione armena”. Infatti, a seguito dei primi risultati militari catastrofici delle truppe ottomane, sconfitte a più riprese dai russi, che riescono a penetrare in territorio turco con quattro legioni formate da armeni della Russia, il governo turco trova un capro espiatorio: gli armeni turchi sono accusati di alto tradimento. Questa giustificazione all’impotenza militare turca diviene il pretesto per far scattare il piano di sterminio già premeditato: sugli armeni si abbatte così anche l’odio della popolazione musulmana. Tra gennaio e febbraio del 1915 il governo turco disarma tutti gli armeni arruolati nel proprio esercito, destinandoli a squadre militari di lavoro sul fronte di guerra (Amelé Taburì). In pratica questi “soldati–lavoratori” armeni sono utilizzati per il lavoro pesante in condizioni assurde, tra cui il trasporto a spalla di pezzi di artiglieria pesante attraverso le montagne 109. Numerosi di questi soldati destituiti muoiono di stenti, altri saranno fucilati verso l’estate del 1915, altri ancora sono utilizzati come cavie umane per alcuni esperimenti batteriologici 110. Racconta Henry Morgenthau (1856–1946), ambasciatore statunitense a Costantinopoli tra il 1913 e il 1916: Ai primi del 1915 i soldati armeni che militavano nell’esercito turco vennero declassati. Fino ad allora avevano avuto il rango di combattenti, ma adesso, privati delle armi, vennero 108

Y. TERNON, Gli Armeni, cit., p. 219. Cfr. ivi, pp. 212–215 e 220–223. 110 I soldati–lavoratori di un intero battaglione sono anche utilizzati come cavie umane per esperimenti medici nell’ospedale della città di Erzindjan (a 180 km circa a sud di Trebisonda). Nel quadro di una ricerca di batteriologia si inocula loro sangue infetto di malati di tifo. Su questi esperimenti cfr. V. DADRIAN, The Role of Turkish Physicians in the World War I Genocide of Ottoman Armenians, Pergamon Press, New York 1986, reprinted from Holocaust and Genocide Studies, vol. 1, no. 2, 1986, pp. 169–192. 109

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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trasformati in uomini di fatica. Invece di servire il loro paese in qualità di artiglieri e soldati a cavallo, questi soldati si videro trasformati in braccianti e bestie da soma. Con le spalle gravate da carichi di ogni genere, vennero obbligati a trascinarsi esausti fra le montagne del Caucaso, barcollando sotto i pesi e spinti avanti dalle fruste e dalle baionette turche. A volte, carichi com’erano, erano costretti a farsi strada nella neve alta fino alla vita. Passavano tutto il tempo all’aperto, dormendo sulla nuda terra se i loro aguzzini, che li incitavano senza sosta, concedevano loro un attimo di riposo. Stanchi e denutriti, se si ammalavano venivano abbandonati sul posto dai loro oppressori, che si fermavano il tempo necessario per derubarli dei loro averi e perfino dei loro vestiti. Se qualche sbandato riusciva in qualche modo a raggiungere la destinazione, veniva spesso massacrato. In molti casi i soldati armeni venivano liquidati in modo ancor più sommario, perché era diventata prassi abituale ucciderli a sangue freddo. Il procedimento era quasi sempre lo stesso. Gruppi di cinquanta o cento uomini venivano presi, legati a gruppi di quattro e condotti in luoghi solitari a breve distanza dai villaggi. Improvvisamente si sentivano colpi di fucile e i soldati turchi che li avevano scortati tornavano al campo con aria cupa. Quelli che venivano mandati a seppellire i cadaveri trovavano quasi sempre dei corpi nudi, perché i turchi portavano via i loro vestiti.111

A partire dalla notte tra il venerdì 23 e il sabato 24 aprile 1915 è arrestata l’intellighenzia armena di Istanbul: politici, ecclesiastici, avvocati, scrittori, artisti, tutti armeni dell’élite culturale della capitale imperiale, sono catturati con l’accusa di nutrire sentimenti ostili alla Nazione turca e deportati verso l’interno, dove poi saranno assassinati. Nei giorni seguenti, al rastrellamento dei notabili armeni si aggiunge quello della gente comune. Il 24 maggio, su iniziativa della Russia, le potenze dell’Intesa ingiungono alla Turchia di porre fine ai massacri, pubbli111

H. MORGENTHAU, Ambassador Morgenthau’s Story, Doubleday, New York 1918, trad. it., Diario. 1913–1916. Le memorie dell’ambasciatore Americano a Costantinopoli negli anni dello sterminio degli Armeni, a cura di F. BERTI e F. CORTESE, Guerini, Milano 2011, pp. 216–217.

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cando contemporaneamente (a Parigi, Londra e Pietroburgo) la Joint Declaration of France, Great Britain and Russia, una “Dichiarazione” in cui gli avvenimenti in corso sono definiti “crimini contro l’umanità e la civiltà”: Per circa un mese i kurdi e le popolazioni turche di Armenia sono state massacrate con la connivenza e spesso l’assistenza delle autorità ottomane. […] Alla luce di questi nuovi crimini della Turchia contro l’umanità e la civiltà i governi alleati mettono pubblicamente al corrente la Sublime Porta che essi riterranno personalmente responsabili tutti i membri del governo turco e i funzionari che avranno partecipato a questi massacri.112

Fu una semplice protesta formale trasmessa per via diplomatica, così inutile da accelerare il processo di liquidazione degli armeni. Infatti, il 26 maggio 1915, il ministro dell’Interno Tal’at Pascià invia una nota a corte, per informare che è stata presa la formale decisione di trasferire l’intera popolazione armena residente in Anatolia in regioni situate in Siria e in Iraq. Si legge nella nota: Poiché alcuni armeni residenti nelle vicinanze delle zone di guerra hanno ostacolato le attività dell’esercito imperiale ottomano incaricato di difendere le frontiere dai nemici del Paese; poiché hanno fatto causa comune con il nemico; e soprattutto poiché hanno attaccato le forze armate all’interno del paese, la popolazione innocente, città e cittadine ottomane, uccidendo e saccheggiando; e poiché hanno addirittura osato rifornire la marina nemica con approvvigionamenti e rivelarle l’ubicazione delle nostre postazioni fortificate; e poiché è necessario che elementi ribelli di tal fatta siano allontanati dalla zona delle attività militari e che i villaggi che fungono da base e da riparo a questi ribelli siano sgombrati, determinate misure sono state 112

La Dichiarazione in «Armenian National Institute», http://www.armeniangenocide.org/Affirmation.160/current_category.7/affirmation_detail.html Sulle discussioni che portarono a questa nota di protesta, cfr. M. FLORES, Il genocidio degli armeni, il Mulino, Bologna 2006, pp. 119–123.

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adottate, tra cui la deportazione degli armeni dai vilayet [regioni amministrative] di Van, Bitlis, Erzurum; delle liva [contee] di Adana, Mersin, Kozan, Gebelibereket, con l’eccezione delle città di Adana, Sis e Mersin; dal sangiaccato di Maras, con l’eccezione di Maras; dai distretti di Iskenderum, Beilan, Gisr– I–Shuur, Antakya del vilayet di Aleppo, con l’eccezione delle città capoluogo amministrativo di ciascuna zona. Le autorità sono state informate che gli armeni dovevano essere trasferiti nelle località seguenti: vilayet di Mosul con l’eccezione della zona confinante a settentrione con il vilayet di Van; sangiaccato di Zor; zona meridionale [del vilayet] di Urfa con l’eccezione della città di Urfa; parte orientale e sudorientale del vilayet di Aleppo; parte orientale del vilayet di Siria.113

Il giorno dopo il governo ottomano, ossia il triumvirato di Tal’at Pasha, Enver Pasha e Djemal Pasha, approfittando della assenza del Parlamento (precedentemente annullato dal Partito), adotta una legge, resa nota il successivo 1° giugno, che legalizza e legittima il “trasferimento provvisorio”, per ragioni di sicurezza nazionale e necessità militari, di una parte della popolazione e di tutte quelle persone considerate sospette. Tali disposizione non menziona gli armeni e neppure i luoghi di raccolta. Due settimane dopo, il 10 giugno, è adottata una nuova “Legge temporanea di espropriazione e confisca” dei beni delle persone soggette al trasferimento. Ufficialmente tale disposizione avrebbe garantito la conservazione dei beni dei deportati, onde favorirne la restituzione al loro ritorno alla fine della guerra, in pratica ha permesso di registrare e di vendere all’incanto i loro beni. Dopo essere stata estesa dapprima all’Anatolia occidentale, alla Cilicia e alla Tracia turca, la grande deportazione riguarda indistintamente tutti gli armeni residenti in Turchia, eccetto quelli di Istanbul, per la presenza delle ambasciate europee, e quelli di Smirne e di Adrianopoli, per l’intervento del governa113

In G. LEWY, The Armenian Massacres in Ottoman Turkey. A Disputed Genocide, University of Utah Press, Salt Lake City 2005, trad. it., Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Einaudi, Torino 2006, p. 200.

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tore militare tedesco Liman von Sanders 114. In seguito anche queste località saranno interessate dalla deportazione. La destinazione e la sistemazione nei campi di raccolta nei deserti dell’interno della Siria e dell’Iraq attuali, dovrebbe essere per tutti i deportati l’esito finale delle marce forzate. Purtroppo non è così. Tutto il processo di deportazione è associato a violenze d’ogni tipo, dalla riduzione in schiavitù ai furti, agli stupri, agli assassinii e a una serie di brutalità di ogni genere: Lungo tutto il tragitto i profughi venivano presi a frustate e bastonati come bestie; ricevevano pochissimo cibo e acqua, anche quando ce n’era a sufficienza. La sola conclusione cui si può giungere è che le autorità non avessero il minimo interesse a garantire la sopravvivenza dei profughi. […] Il numero di morti per fame, sfinimento e malattie prese a salire vorticosamente; tuttavia le guardie non concedevano pause di riposo per recuperare le energie. Chi era troppo debole per continuare la marcia veniva semplicemente ucciso o abbandonato alla sua sorte sul ciglio della strada.115

L’assalto ai convogli dei deportati da parte degli uomini della Teşkilât–i Djedida e di predoni curdi rientra nel piano di sterminio. A tutto questo si aggiungono le condizioni climatiche e le interminabili marce, che concorsero a decimare ancor più i deportati.

114

«Noi dobbiamo la nostra salvezza unicamente al governatore militare tedesco a Smirne Liman von Sanders, che impose alle autorità turche di Smirne il ritorno immediato dei deportati armeni alle loro case». Testimonianza di Hrant Pambakian, in Il cieco che vede, in A. ARSLAN, L. PISANELLO, Hushèr la Memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni, Guerini, Milano 2001 cit., pp. 95–96. Sul comportamento del generale tedesco, cfr. T. AKÇAM, The Young Turk’ Crime against Humanity. The Armenian Genocide and Ethnic Cleansing in the Ottoman Empire, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 2012, pp. 406–413. 115 N.M. NAIMARK, Fires of Hatred. Ethnic Cleansing in Twentieth Century Europe, Harvard University Press, Cambridge (Massachussets) 2001, trad. it., La politica dell’odio. La pulizia etnica in Europa contemporanea, Laterza, Roma–Bari 2002, p. 39.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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Principale punto di raccolta è Aleppo. In questa città, quando il numero dei deportati che arrivano diventa ingestibile, è creata nell’autunno del 1915 la “Vice–direzione dei deportati”, con a capo Chükrü Kaya, dirigente generale delle deportazioni (ufficialmente detto “Direttore generale dell’installazione delle tribù e dei profughi”). Da Aleppo le carovane degli armeni sono inviate in due diverse direzioni: una parte di essi al Sud, cioè verso la Siria, un’altra a Est, verso il deserto della Mesopotamia. I campi creati per gli armeni non sono i classici campi di concentramento o internamento che poi si svilupperanno nella Germania nazista o in Unione Sovietica oppure in Cina, ma accampamenti di fortuna. La loro funzione non è quella tipica di internamento, di punizione, di rieducazione o di sfruttamento della manodopera, ma di tappa. I campi ottomani non sono pertanto destinazioni definitive, ma soste in condizioni proibitive, prima di affrontare nuove estenuanti marce verso un altro campo, finché le colonne dei deportati non si riducono a pochi superstiti116. La deportazione degli armeni è dunque verso il nulla. Sono confermati almeno venticinque campi principali, ubicati specialmente in aree desertiche117. Tra i maggiori vi sono quelli di Deir–es–Zor, Bozanti, Mamoura, Islahiyé, Akhtérim, Mounboudj, Radjo, Katma, Azaz, Bab, Lalé, Téfridjé, Meskéné, Marrâ, Dipsi, Abouharar, Sébka/Rakka. Altri grandi campi si trovano nella regione di Mossoul e lungo la linea Hama–Homs– Damasco–Gerusalemme–Amman. 116

Il dramma armeno è stato immortalato dalle duecento fotografie scattate dall’ufficiale medico tedesco Armin Wegner di stanza in Anatolia. Cfr. A A. VV., Armin T. Wegner e gli Armeni in Anatolia, 1915. Immagini e testimonianze, Guerini, Milano 1996. 117 Una breve analisi dettagliata campo per campo in R. H. KEVORKIAN, Le sort des deportes dans les camps de concentration de Syrie et de Mesopotamie, in R.H. KEVORKIAN (ed), L’extermination des déportés arméniens ottomans dans les camps de concentration de Syrie–Mésopotamie (1915–1916). La deuxième phase du génocide, in «Revue d’Histoire Arménienne Contemporaine», II, Bibliothèque Nubar de l’Ugab, Paris 1998, pp. 7–61. Dello stesso autore, cfr. The Armenian Genocide. A Complete History, B. Tauris, London– New York 2011 (trad. dal francese Le Génocide des Arméniens, Odile Jacob, Paris 2006), pp. 639–698.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

I campi sono semplici spazi aperti distanti dai centri abitati, privi delle più elementari infrastrutture, di qualsiasi organizzazione logistica per il rifornimento e la distribuzione del cibo e dei medicinali, con una ridottissima sorveglianza. L’organigramma del campo è elementare, un direttore turco (Sevkiyat–ı müdürü), un ridotto personale inviato da Aleppo, un sovrintendente e delle guardie entrambi scelti tra i deportati armeni118. Quest’ultimi sono scelti tra gli armeni più predisposti alla violenza o tra i più poveri, con la promessa di vita e salute in cambio di quel servizio. Il direttore, inoltre, recluta tra gli armeni i becchini, che ogni giorno devono passare nelle tende per raccogliere i cadaveri e seppellirli nelle fosse comuni intorno ai campi. Anche quest’ultimi hanno in cambio per il loro lavoro nel campo, viveri e la possibilità di posticipare l’ennesima deportazione. Salvo rarissime eccezioni, tutti gli internati devono provvedere al proprio sostentamento, acquistando cibo dalle popolazioni locali. L’inedia, le malattie e gli umori estremi del tempo, trasformano i campi in luoghi di morte119. La grande deportazione termina entro la fine del 1915. Nella prima metà del 1916, su ordine espresso del governo dei Giovani Turchi, sono eliminati gli armeni che si trovano nei campi di smistamento e di sosta. L’operazione di distruzione del popolo armeno nell’Impero ottomano non è andata a compimento, anche se due terzi degli armeni dell’Impero ottomano sono uccisi: Il bilancio non può che essere approssimativo, tanto più che le cifre di partenza sono contrastanti. Il censimento ufficiale condotto nel 1914 dal governo ottomano registra 1.295.000 armeni; gli archivi del patriarcato ne rilevano invece 2.100.000. Il totale dei morti oscilla tra 1.500.000, cifra indicata nelle pubblicazioni armene, e 800.000, cifra indicata nel 1919 dal 118

Cfr. R. H. KEVORKIAN, The Armenian Genocide, cit. pp. 670–671. Tutto il dramma del popolo armeno nel saggio di Pietro Kuciukian, Voci nel deserto. Giusti e testimoni per gli armeni, Guerini, Milano, 2000. L’autore, italiano di origine armena, figlio di un sopravvissuto al Metz Yeghérn, attraverso lettere, racconti e interviste ricostruisce l’orrore accaduto al popolo armeno. 119

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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ministero degli Interni turco, confermata dallo storico turco Bayur e accettata da Mustafa Kemal. Fra questi due gruppi di cifre il rapporto dei morti rimane sempre di due terzi. 120

La guerra ha permesso ai Giovani Turchi di attuare brutalità contro il popolo armeno impunemente, richiamandosi a supposti tradimenti, cospirazioni e necessità militari. La conclusione della guerra pone fine al progetto della distruzione degli armeni, ma le vessazioni contro questo popolo non cessano del tutto, anche se non hanno più proporzioni notevoli. I triumviri fuggono dalla Turchia e sono processati in contumacia da un tribunale militare turco, che li condanna alla pena capitale. Tal’at e Djemal trovano la morte per mano di attentatori armeni nell’ambito della vendicativa “Operazione Nemesi”, messa in atto dalla “Federazione Rivoluzionaria Armena” (Dashnaktsutyun) contri ex esponenti politici e militari responsabili del carnaio armeno121. Nel Trattato di Sèvres del 1920, l’accordo di pace firmato tra le Potenze alleate della Prima Guerra Mondiale e l’Impero ottomano, la Turchia accetta di far processare i responsabili dei crimini perpetrati contro gli armeni e, quindi, di consegnarli alle Potenze vincitrici122. L’accordo di Sèvres non solo non è mai ratificato, ma è sostituito da un altro trattato, firmato a Losanna il 24 luglio 1923, che spalanca le porte a un’amnistia generale, permettendo di fatto al nuovo presidente turco Mustafa Kemal Atatürk di rimuovere del tutto la questione dei crimini commes120

Y. TERNON, Gli Armeni, p. 291. L’Operazione prende il nome dalla dea greca della punizione divina, Nemesis. Tal’at è assassinato il 15 marzo 1921 a Berlino da Soghomon Tehlirian; Djemal è ucciso assieme alla sua segretaria a Tbilisi da un commando composto da Stepan Dzaghigian, Artashes Gevorgyan e Petros Ter Poghosyanl il 25 luglio 1922. Cfr. J. DEROGY, Operation Nemesis, Arthème Fayard, Paris 1986, trad. ingl. Resistance and Revenge: The Armenian Assassination of the Turkish Leaders Responsible for the 1915 Massacres and Deportations, New Brunswick, New Jersey and London 1990. 122 L’art. 226 del Trattato riconosce agli Alleati il potere di processare e punire tutti coloro che si erano macchiati di gravi crimini «malgrado ogni procedimento o azione legale intentati innanzi un Tribunale in Turchia». 121

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

si contro il popolo armeno123. A tutt’oggi la Turchia si oppone al riconoscimento del Metz Yeghérn armeno come progetto genocidario.

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3.9. I campi del Portogallo salazarista In opposizione all’antifascismo, prima, e all’anti–indipendentismo, dopo, lo “Stato nuovo” portoghese124 di António de Oliveira Salazar, crea un terribile campo di concentramento dove deportare i prigionieri politici considerati pericolosi e sovversivi, anche se chiusi nelle carceri125. Il 23 aprile 1936, infatti, il decreto–legge n. 26.539 — perfezionando le disposizioni n. 23.203 del 6 novembre 1933 e n. 24.112 del 29 giugno 1934, con il quale si prevedeva l’istituzione di una colonia penale per prigionieri politici e sociali fuori dal Portogallo — delibera la creazione «di una colonia penale per prigionieri politici e sociali a Tarrafal,

123

Nella Sezione II del Trattato, agli artt. 37–45, è comunque riconosciuto il principio della “territorialità”, che ha costretto la Turchia a riconoscere i diritti delle minoranze storicamente presenti nei territori anatolici (armeni, ebrei e greci). Le altre altre minoranze, pure esistenti, non sono tuttavia riconosciute, anche se sono garantite la libertà di utilizzare la propria lingua, la libertà di parola, di pensiero e di stampa. I due trattati, in lingua inglese, nel sito del giurista olandese e diplomatico Frans Alphons Maria Alting von Geusau, all’url: http://www.fransamaltingvongeusau.com/documents/dl1/h1/1.1.18.pdf. 124 È il fascismo portoghese, teorizzato come “Stato nuovo” (Estado Novo). Nato in seguito al colpo di stato militare del 28 maggio 1926, lo “Stato nuovo” di Salazar è di natura autoritaria e, in quanto tale, si servì della PVDE, la Polícia de Vigilância e Defesa do Estado (Polizia di Vigilanza e Sicurezza dello Stato), divenuta nel 1945 PIDE (Polícia Internacional e de Defesa do Estado – Polizia Internazionale e di Sicurezza dello Stato), per reprimere violentemente ogni forma di opposizione. Cfr. H. de la TORRE GÓMEZ, O Estado Novo de Salazar, Texto Editores, Alfragide 2010, specialmente pp. 30–34 (costruzione dello “Stato nuovo”) e pp. 35–42 (dittatura di Salazar). 125 Sulla natura violenta della repressione dell’opposizione, cfr. J. Madeira, L. Farinha, I. FLUNSER PIMENTEL, Vítimas de Salazar. Estado novo e violência política, A Esfera dos Livros, Lisboa (Portugal) 2007.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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nell’isola di Santiago, nell’arcipelago di Capo Verde» 126, destinata ai

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detenuti per reati politici che dovrebbero scontare la pena dell’esilio o che, essendo stati ammessi in un altro carcere, si sono dimostrati refrattari alla disciplina o dannosi per gli altri detenuti.127

La competenza di questa colonia penale è assegnata al Ministero dell’Interno, anziché al Ministero della Giustizia; mentre l’arresto, il trasferimento e la custodia dei colpevoli di reati politici in questo campo, diviene competenza esclusiva della Polícia de Vigilância e Defesa do Estado (PVDE), anziché della magistratura128. La legge portoghese già conosceva disposizioni sulla deportazione per motivi politici e sociali. Infatti, la normativa del 21 aprile 1892, perfezionata poi nel 1896, permetteva allo Stato di deportare i recidivi e i vagabondi nelle colonie portoghesi; il decreto del 26 dicembre 1907 istituiva in Angola una colonia penale militare; la legge n. 277 del 15 agosto 1914 contemplava la deportazione nelle colonie con un semplice atto amministrativo; il decreto n. 4.506 del 29 giugno 1918 e la legge n. 969 del 11 maggio 1920, prevedevano la pena dell’esilio e della deportazione nelle colonie per un massimo di dieci anni per reati sia politici sia di mendicità e vagabondaggio129. Nel 1931, sedata la rivolta militare di Madeira (arcipelago al largo della costa Nord–occidentale dell’Africa), guidata dal generale Sousa Dias, la dittatura istituì il primo modello di Decreto–Lei n. 26.539, articolo 1, in «Diário do Govêrno», I Série – Número 94, 23 de Abril de 1936, p. 445–447; AA. VV., Tarrafal Testemunhos, Editorial Caminho, Lisboa (Portugal) 1978, p. 272. 127 Articolo 2, ivi, p. 446 (Diário), pp.272–273 (Tarrafal Testemunhos). 128 Cfr. I. P IMENTEL, Alguns dados sobre o campo de concentração do Tarrafal, 3, in «Caminhos da Memória», maggio 2009, http://caminhosdamemoria. wordpress.com/2009/05/18/alguns-dados-sobre-o-campo-de-concentracao-dotarrafal-3/. 129 Ibidem. 126

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

colonia penale speciale nell’isola di São Nicolau 130, a Capo Verde, che funzionò sino al 1936, anno in cui fu aperto più a Sud dello stesso arcipelago il campo di concentramento di Tarrafal131. Il nuovo sito sembra soddisfare efficacemente le condizioni di una politica di esilio, ma soprattutto di prigionia punitiva per gli oppositori del regime. Infatti, se le colonie penali portoghesi precedenti sono state istituite per “rigenerare” politicamente e socialmente i condannati, per il carattere inospitale a causa del clima (caldo torrido, umidità elevatissima e presenza della terribile zanzara anofele principale vettore della malaria) e delle condizioni di vita (mancanza di acqua potabile, strutture carenti e alimentazione mediocre) non si può dire lo stesso del terribile campo di concentramento di Tarrafal. La mancanza di vegetazione, le montagne scoscese, il mare come unico paesaggio e l’isolamento totale in cui sono sottoposti i prigionieri, offrono ai reclusi una vita monotona che diventa ancor più insopportabile della cattività132. A tutto questo si deve aggiungere la rigida disciplina interna imposta dal regime e dalla direzione del campo. Non a caso la colonia penale è soprannominata dai detenuti “Campo della Morte lenta” o “Pantano della Morte”. La storia del campo di Tarrafal è suddivisa in due tappe: nella prima, dal 1936 al 1954, ha funzioni di campo di concentramento per dissidenti politici; nella seconda, dal 1961 al 1975, ricopre il ruolo di campo di lavoro forzato per prigio130

Cfr. V. BARROS, Campos de concentração em Cabo Verde. As ilhas como espaços de deportação e de prisão no Estado Novo, Imprensa da Universidade de Coimbra, Coimbra 2009, pp. 70–86. 131 Nell’Arquivo Histórico Militar di Lisbona sono conservati due registri manoscritti in cui sono annotati tutti i nomi dei prigionieri politici del campo di San Nicola e di Tarrafal. Una serie di documenti relativi all’attività del campo dal 1936 al 1974 (elenco prigionieri, registro biografico dei prigionieri, corrispondenze del PIDE, comunicazioni e così via), si trovano nell’Archivio Nacional Torre do Tombo. 132 Cfr. P. SOARES, Tarrafal: Campo da Morte Lenta, Edições Avante, Lisboa 1977, p.19.

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nieri politici oriundi delle colonie portoghesi, persone che lottano per l’indipendenza dei territori ancora sotto il dominio lusitano. Il campo si estende per circa settecento metri quadrati su un suolo aridissimo, a qualche chilometro di distanza dalla baia di Tarrafal, da una parte, e dal villaggio di Chão Bom, dall’altra. Ai suoi esordi il campo è delimitato unicamente da una recinzione di filo spinato e da un fossato esterno. All’interno dodici tende di sette metri per quattro, adibite ad alloggio per i prigionieri, e due strutture in legno, utilizzate come magazzino e cucina. Il campo è illuminato da lampade a petrolio del tipo Petromax, mentre all’interno delle tende i detenuti sono costretti al buio: La mancanza di energia elettrica ha avuto solo un vantaggio per noi. Le guardie non si avvicinavano alle tende durante la notte, e noi eravamo liberi di svolgere i nostri incontri, quando con i compagni più colti si è parlato di problemi politici e della storia delle lotte del proletariato.133

Successivamente, dal 1938, sono costruiti padiglioni in pietra e legno, tra cui sei casermoni per i prigionieri. Un alto muro di cemento con torri di guardia va a sostituire il filo spinato. Nel luglio del 1940 una costruzione in pietra è adibita a guardia medica134. Il campo è dotato anche di una struttura per le punizioni, una «malignità umana inventata al fine di eliminare la tortura»135 da parte dei carcerieri: la Frigideira (la padella)136. La Frigideira è un parallelepipedo di cemento armato, con due porte di ferro opposte sormontate da una piccola fessura grigliata. I due ingressi danno l’accesso a due stanze 133

AA. VV., Tarrafal Testemunhos, cit., p. 32. La configurazione del campo in C. de OLIVEIRA, Tarrafal o pântano da morte, Editorial República, Lisboa (Portugal) 1974, pp. 44–48. 135 V. B ARROS, Campos de concentração em Cabo Verde, cit., p. 41. 136 Cfr. AA. VV., Tarrafal Testemunhos, cit., pp. 103–109. 134

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

contigue e non comunicanti, che hanno la funzione di celle d’isolamento disciplinari. All’interno solo due secchi, uno contiene acqua da bere, l’altro è utilizzato per le deiezioni. La mancanza di areazione, di illuminazione, di letti o sedie, rende il luogo un inferno. Di giorno il sole riscalda il cemento, rendendo l’interno una fornace, a sera le zanzare, con il loro carico di plasmodi, entrano dalle fessure poste sulle porte, affliggendo i reclusi sprovvisti per regolamento di copricapo, calzature e coperte. Anche l’alimentazione (pane e acqua) a giorni alterni e l’isolamento totale contribuisce a rendere infernale il soggiorno, che può durare anche un mese e mezzo. Ovviamente, nella maggior parte dei casi, la morte sopraggiunge prima che la pena ha termine. I primi prigionieri arrivano sull’isola il 29 ottobre 1936, dopo undici giorni di viaggio a bordo della Luanda, nave della Companhia Colonial de Navegação 137. Tra di loro oltre ad anarchici, repubblicani e leader comunisti (tra cui Benito António Gonçalves, primo segretario generale del Partito Comunista Portoghese, morto nel 1942 in questo campo), anche alcuni partecipanti allo sciopero generale del 18 gennaio 1934. A questi si aggiungono pure alcuni contadini di Madeira, arrestati durante la “rivolta del latte” del 31 luglio dello stesso anno, e trentaquattro marinai, artefici della rivolta dell’8 settembre sempre del 1934138. Il campo di Tarrafal continua a inghiottire i più pericolosi attivisti anti–regime sino al 1945, quando il regime, per attenuare l’immagine opprimente della dittatura, promulga sia il decreto legge n. 35.041 del 18 ottobre, concedendo un’amnistia parziale per i cittadini arrestati per crimini contro la sicurezza interna ed esterna dello Stato, sia il decreto–legge n. 35.046 del 22 ottobre, che terminò anche la storia della terribile Polícia de Vigilância e Defesa do Estado, ispirata alla Gestapo

137

Cfr. J. MADEIRA, L. FARINHA, I. FLUNSER PIMENTEL, Vítimas de Salazar, cit., p. 229. 138 Cfr. AA. VV., Tarrafal Testemunhos, cit., p. 29.

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nazista, sostituita ora dalla Polícia Internacional e de Defesa do Estado 139. Con l’amnistia sono liberati centodieci prigionieri, mentre altri cinquantadue vi restano sino al 26 gennaio del 1954 140, data in cui il campo è provvisoriamente sgombrato 141. Nel 1961, nel quadro delle lotte anticoloniali, l’ordinanza n. 18.539 del 17 giugno 1961, firmata dall’allora ministro dei territori d’oltremare Adriano Moreira, istituisce nell’ex campo di concentramento di Tarrafal il Campo de Trabalho de Chão Bom (campo di lavoro di Chão Bom)142. È dunque la guerra coloniale portoghese o “Guerra d’oltremare” che detta la riapertura di questo campo, ma anche l’avviamento di altri, tra cui Missombo e São Nicolau, in Angola, Machava e Madalane in Mozambico, e quello dell’isola di Galinhas in Guinea143.Questa volta, però, il campo situato a Tarrafal è destinato ai nazionalisti di Capo Verde, Angola e Guinea, che si sono sollevati contro la colonizzazione portoghese. L’aumento del numero dei detenuti rispetto al periodo precedente, rende ancor più critiche le condizioni sanitarie del nuovo campo. La sottoalimentazione, le condizioni ambientali e la rigidissima disciplina interna, contribuiscono a rendere il soggiorno nel campo un inferno. Infernale è anche la cella disci139

Cfr. M. CONCEIÇÃO RIBEIRO, A polícia política no Estado Novo, 1926– 1945, Estampa, Lisboa (Portugal) 1995; I. FLUNSER PIMENTEL, A história da PIDE, Circulo de Leitores/Temas & Debates, Lisboa (Portugal) 2007 (è una tesi di dottorato tenuta dall’autrice presso l’Università Nuova di Lisbona il 2006). 140 Cfr. AA. VV., Tarrafal Testemunhos, cit., p. 330; V. Barros, Campos de concentração em Cabo Verde, cit., pp. 179–180. 141 Sul campo di Tarrafal cfr. anche J.M. SOARES T AVARES, O Campo de Concentração do Tarrafal (1936–1954). A Origem eo Quotidiano, Edições Colibri, Lisboa (Portugal) 2006; N. BRITO, Tarrafal na Memória dos Prisioneiros (1936–1954), Edições Dinossauro, Lisboa (Portugal) 2006. In inglese, L.M. SURHONE, M.T. TENNOE, S.F. HENSSONOW, Tarrafal Camp, Betascript Publishing, Saarbrücken (Deutschland) 2011. 142 Portaria n.º 18539, in «Diário da República», nº 139/61, Série I de 1961– 06–07, p.715. 143 Cfr. D.C. M ATEUS, A Pide/DGS na Guerra Colonial (1961–1974), Terramar, Lisboa (Portugal) 2004, (ora 2011), p. 416.

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plinare, la Holandinha, che sostituisce la Frigideria. Questa è una celletta di cemento di novanta centimetri per novanta, alta un metro e sessantacinque, costruita vicino alle cucine. L’insopportabile calore che si crea all’interno quando le cucine sono accese, la ancor più scarsa alimentazione rispetto alla quotidianità del campo, il profumo di odori del cibo cotto (tormento per chi è in uno stato di malnutrizione), lo spazio ridotto che non permette all’incarcerato di muoversi agevolmente, l’isolamento totale, rendono la Holandinha una pena diabolica che concorre ad aumentare sadicamente le pessime condizioni di detenzione. Lo stesso termine “Holandinha”, piccola Olanda, è coniato con disprezzo dai prigionieri, rifacendosi al fatto che moltissimi capoverdiani emigravano in Olanda, cercando una miglior qualità di vita. Così, cinicamente, la cella di punizione è appellata Holandinha per la diversa qualità di vita che offriva rispetto alla quotidianità del campo144. Fra gli “ospiti” illustri del campo di Chão Bom, ricordiamo Amilcar Cabral, José Luandino Vieira, António Jacinto. Il primo è il poeta fondatore del Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde, considerato il grande padre della indipendenza di Capo Verde e della Guinea; gli altri sono illustri poeti angolani, tutti membri del Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola. Il campo è definitivamente chiuso nel 1975. Abbandonato per anni all’incuria del tempo, il governo capoverdiano ha deciso di farlo diventare un memoriale che ricordi la resistenza dei popoli di Capo Verde, Guinea Bissau, Angola e Mozambico contro il colonialismo portoghese145.

144

Cfr. le memorie di un ex prigioniero capoverdiano: P. MARTINS, Testemunho dum combatente, Ilhéu Editora, Mindelo 1990, p. 144. Anche Tarrafal: Memória do Campo de Concentração. Fundação Mário Soares, Museu do Neo–Realismo, Câmara Municipal de Vila Franca de Xira (Portugal) 2010, p. 95 e p. 135. 145 Sul campo anticoloniale cfr. anche J.V. LOPES, Tarrafal – Chão Bom: Memórias e Verdades, Praia – Instituto de Investigação e do Património Culturais, Cape Verde 2010.

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3.10. Campi repubblicani e campi franchisti La Guerra di Spagna (1936–1939), vale a dire la spietata lotta armata civile tra i republicanos, le truppe fedeli al governo repubblicano, e i nacionales, autori del colpo di Stato, ha la specificità di essere stata una guerra di grandi ideali e di grandi massacri, costellata di crimini da entrambe le parti. Se la violenza repubblicana è prevalentemente spontanea, ma non meno crudele, quella franchista è freddamente pianificata e ben più estesa e prolungata146. L’uso strategico del terrore porta a massacri indiscriminati e all’apertura di campi di concentramento. Nell’agosto del 1933 è approvata la Ley de vagos y maleantes, una legge che istituisce luoghi di lavoro e di concentrazione per detenere ladruncoli, mendicanti, giocatori d’azzardo, ubriaconi abituali, tossicodipendenti, prostitute, tutti condannati da tribunali. Il lavoro si svolge per lo più in colonie agricole147. A fine 1936, in piena emergenza golpista, il ministro di Giustizia Juan García Oliver istituisce i campi di lavoro per internare i nemici dello Stato (disertori, prigionieri di guerra, anarchici, oppositori politici, sacerdoti, ma anche asociali, tra cui gli omosessuali), luoghi non solo per isolare, ma per “correggere” attraverso la fatica e l’impegno148. All’ingresso dei campi una scritta ricorda agli internati che il lavoro è redenzione verso se stessi e verso lo Stato: Trabaja y no pierdas la esperanza (Lavora e non perderai la speranza)149. Il valore pedagogico di questi campi è sottolineato dallo stesso Ministro in una intervista:

146

Cfr. P. PRESTON, El holocausto español. Odio y exterminio en la guerra civil y después, Debate, Barcelona 2011. 147 Cfr. Gaceta de Madrid (217), 5 de agosto de 1933, pp. 874–877, in «Agencia Estatal Boletín Oficial del Estado» http://www.boe.es/datos/pdfs/ BOE /1933/ 217/A00874-00877.pdf. 148 Cfr. C. VIDAL, “Checas de Madrid”, las cárceles republicanas al descubierto, Debolsillo, Barcelona 2004. 149 Cfr. P. R AMELLA, La retirada. L’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile (1939–1945), Lampi di Stampa, Milano 2003, p. 23.

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La costituzione dei campi di lavoro risponde all’idea che le sanzioni potrebbero estinguersi con il lavoro, non nell’isolamento di un carcere […]. Secondo le disposizioni che ho fatto promulgare, una pena di 30 anni si potrebbe scontare in 7, 6 o 5 anni.150

Il primo campo di lavoro è istituito a Totana, nella provincia di Murcia. Con l’avanzare dei ribelli e la perdita del controllo su larghe zone di territorio, gli internati sono aggregati alle truppe e utilizzati per costruire fortificazioni. La Guerra di Spagna si conclude il 18 maggio 1939, con l’entrata trionfale a Madrid delle truppe degli insorti nazionalisti. Inizia in Spagna una delle più longeve dittature europee, un ferreo controllo politico e morale che si protrarrà sino al 1975, anno della morte naturale del suo artefice, il Caudillo de España Francisco Franco y Bahamonde. Con la dittatura, ex campi repubblicani passano sotto il controllo dei franchisti. La necessità di utilizzare zone di concentramento è dovuta all’enorme numero di prigionieri. Inizialmente improvvisati, in seguito sono meglio organizzati e centralizzati, divenendo una potente arma del regime per isolare e rieducare quanti si oppongono al nuovo corso spagnolo. Già durante il conflitto i nazionalisti avevano messo in funzione carceri e luoghi improvvisati per detenere prigionieri di guerra e oppositori politici, luoghi che si riempivano con la stessa celerità con cui si svuotavano attraverso le cosiddette paseos, le passeggiate (della morte)151. Dall’11 marzo del 1937, il sovraffollamento dei luoghi di detenzione porta i nazionalisti a classificare i prigionieri per decidere del loro futuro (Orden General para la clasificación de 150

Cit. in C. GONZÁLEZ MARTÍNEZ, Guerra Civil en Murcia. Un análisis sobre el poder y los comportamientos colectivos, Universidad de Murcia, Murcia 1999, p. 258, nota 127. 151 Durante la guerra, l’espressione paseos indicava le famigerate passeggiate che conducevano alla morte. In pratica i detenuti erano prelevati “per fare una passeggiata” e trasferiti in luoghi isolati è fucilati.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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prisioneros y presentados): la lettera “A” contrassegna i casi meno pericolosi, tra cui tutti gli spagnoli costretti ad arruolarsi nell’esercito repubblicano o persone ritenute non ostili al movimento nazionalista; la lettera “B” indica coloro che si sono uniti volontariamente alla lotta repubblicana; la lettera “C” individua gli ufficiali repubblicani, i dirigenti o i membri di partiti e associazioni politiche anti–nazionaliste; la lettera “D” segnala i presunti responsabili di delitti o azioni di rappresaglia contro i nazionalisti. In generale, il gruppo delle persone contrassegnate con la lettera A è ritenuto poco pericoloso, e, quindi, assegnato alla libertà vigilata; il gruppo avente la lettera “B” va a popolare i campi di concentramento e le prigioni; il gruppo C e D è destinato alla fucilazione152. Tutti gli arrestati sono obbligati a compilare una scheda (ficha técnica) in cui sono trascritti i dati personali e familiari dell’internato, elementi attraverso i quali si può mantenere un opportuno controllo su parenti e amici ancora liberi153. A luglio dello stesso anno, la necessità di gestire un elevato numero di internati, porta alla nascita della Inspección de Campos de Concentración de Prisioneros de guerra, un organismo che si occupa di deliberare il destino di ogni detenuto. Nei primi mesi del 1939, entra in vigore il decreto della redención de penas, che di fatto trasforma l’internamento in lavori forzati154. Questo mutamento ha un duplice scopo: risolvere la necessità di mano d’opera di cui lo Stato ha bisogno, “convertire” e “rieducare” i refrattari all’accettazione del nuovo corso spagnolo. Cominciano così a operare i Batallones Disciplina152

Cfr. J. RODRIGO, Los campos de concentración franquistas. Entre la historia y la memoria, Madrid, Siete Mares, Madrid 2003, pp. 62–64: ID, Cautivos. Campos de concentración en la España franquista, 1936–1947, Crítica, Barcellona 2005, p. 31. 153 Cfr. I. LAFUENTE, Esclavos por la Patria. La explotación de los presos bajo el franquismo, Temas de Hoy, Madrid 2002, pp. 37–38. 154 Già il 7 ottobre 1938 è costituito il “Patronato Central de Redención de Penas”, su ispirazione del gesuita José Antonio Pérez del Pulgar, che prevedeva il loro recupero spirituale e politico attraverso il lavoro. Cfr. G. GÓMEZ BRAVO, La redención de penas. La formación del sistema penitenciario franquista 1936–1950, Catarata, Madrid 2007.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

rios de Trabajadores, poi diventati Destacamentos Penales155. In queste unità gli internati sono utilizzati come mano d’opera schiava alla ricostruzione di città, alla realizzazione di opere di pubblica utilità (ponti, reti ferroviarie e stradali, dighe, canali per irrigazione), alla produzione di materiale militare e, soprattutto, all’edificazione di opere faraoniche, come il canale del Guadalquivir e il mausoleo della Valle de los Caidos (che poi avrebbe ospitato la salma del caudillo). Le condizioni di vita all’interno dei campi sono disumane, con vitto insufficiente, sovraffollamento, scarsità di cure mediche, violenze gratuite. Per questo si muore in gran quantità156. L’inumano trattamento dei prigionieri è tutto racchiuso nelle parole di Isidro Castrillón López, direttore del Carcel Modelo di Barcellona: «Parlo alla popolazione reclusa: dovete ricordare che un prigioniero è la decimilionesima parte di una merda» 157. A tutto questo si aggiunge un lavoro massacrante, anche se retribuito158. Come se non bastasse, a fine turno di lavoro, che può arrivare anche fino a dodici ore giornaliere, gli internati sono costretti pure a subire lezioni di indottrinamento per la loro rieducazione politica159. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale la maggior parte dei campi di concentramento inizia a essere dismessa. Molti internati usufruiscono di libertà condizionali, anche se “fuori” il sospetto rende loro la vita non proprio facile.

155

Cfr. E. BEAUMONT ESANDI, F. MENDIOLA GONZALO, Batallones disciplinarios de soldato trabajadores: castigo político, trabajos forzados y cautividad, in «Revista de Historia Actual», vol. 2, n. 2, 2004, pp. 31–48. 156 Cfr. I. LAFUENTE, Esclavos por la Patria, cit., pp. 247–265. 157 Cit. in P. R AMELLA, La retirada, cit., p. 31 e in J. Rodrigo, Hasta la raíz. Violencia durante la Guerra Civil y la dictadura franquista, Alianza Editorial, Madrid 2008, p. 165. 158 Cfr. M. NÚÑEZ DÍAZ–B ALART, Forzados y forzosos. El trabajo de los prisioneros al servicio de la victoria franquista, in J. ARÓSTEGUI SÁNCHEZ (coord), Franco, la represión como sistema, Flor de Viento, Barcellona 2012, pp. 269–316. 159 Cfr. I. LAFUENTE, Esclavos por la Patria, cit., p. 67 e pp. 82–87.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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3.11. Francia: dalla III Repubblica a Vichy La Francia aprì i suoi campi durante la Prima Guerra Mondiale, internando civili austro–ungarici, tedeschi e ottomani, considerati stranieri nemici. Una cinquantina di campi, per lo più localizzati a Ovest e a Sud, furono utilizzati per internare potenziali spie e, quindi, per garantire la sicurezza pubblica e la difesa del Paese. Tra i campi più grandi si ricordano quelli di Garaison (a Lannemezan, Alti Pirenei), di Bergerac (Dordogna), di Libourne (Gironda), dell’isola di Yeu (Vandea, nella regione dei Paesi della Loira), di Marmande (Lot e Garonna), di Villefranche–de–Rouergue (Aveyron), di Saintes (Charente Marittima), di Pontmain (Mayenne)160. Tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio del 1939, la sconfitta dei repubblicani spagnoli determina un massiccio esodo di civili e militari dalla Spagna161, che spinge il governo francese, impreparato all’evento imprevisto e sprovvisto di piani di emergenza, a improvvisare campi sulle spiagge del Rossiglione e lungo il confine dei Pirenei orientali. Prive di dispositivi di accoglienza, le spiagge e i luoghi di prima accoglienza sono semplicemente delimitati da filo spinato e sorvegliati da guardie armate. Il governo francese li chiama ufficialmente “campi di concentramento”, non considerando questa espressione disonorante, poiché concepiti in un’ottica umanitaria. Lo stesso ministro degli Interni Albert Sarraut, in una conferenza stampa tenuta nel febbraio 1939 per l’istituzione del campo Argelès (uno dei primi campi per rifugiati spagnoli), dichiara:

160

J.–C. FARCY, Les camps de concentration francais de la Première guerre mondiale, 1914–1920, Anthropos, Paris 1995. 161 Geneviève Dreyfus–Armand ed Émile Temime, in Les camps sur la plage, un exil espagnol, (Autrement, Paris 1995, p. 19) sostengono che l’esodo interessò trecentomila persone, mentre Pietro Ramella in La retirada. L’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile (1939–1945) (Lampi di Stampa, Milano 2003) li quantifica in cinquecentomila.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

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Non si tratterà mai di un internamento di prigionieri. Gli spagnoli non saranno mai sottoposti a un regime vessatorio […] il campo di Argelès sur Mer non sarà un penitenziario, ma un campo di concentramento. Questa non è la stessa cosa.162

In seguito il governo preferirà utilizzare l’espressione ufficiale “centri d’alloggio”. Dopo l’impreparazione iniziale, si cerca di porre rimedio migliorando progressivamente le condizioni di vita, fornendo agli stessi internati materiali per la costruzione di baracche. La gestione interna dei campi è affidata ai quadri dell’esercito repubblicano, tra questi l’italiano Riccardo Formica, che aveva adottato durante la guerra il nome di Aldo Morandi, diventando tenente colonnello di una divisione delle Brigate internazionali spagnole163. I rifugiati cercano il più possibile di migliorare la loro vita nei campi, organizzando diverse attività al fine di non sprofondare nel tedio e nella depressione (corsi scolastici, eventi sportivi, giornale del campo)164. I venti di guerra che soffiano dalla Germania spingono il governo francese a internare anche cittadini stranieri, principalmente tedeschi e austriaci. Già il decreto legge del 12 novembre 1938 prevedeva, «nell’interesse dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza»165, l’internamento degli stranieri “indesiderabili” in «centri speciali» 166. Con la nuova circolare del Ministero dell’Interno del 17 settembre 1939, si ufficializza l’interCit. in M.–C. RAFANEAU–BOJ, Odyssée pour la liberté. Les camps de prisonniers espagnols 1939–1945, Denoël, Paris 1993, p. 117; J.–R. CUBERO, Les républicains espagnols, Cairn Pau 2003, ora 2013, p. 53. 163 Essendo l’ufficiale più alto in grado, fu nominato comandante del campo numero 7 di Saint Cyprien. La vita all’interno del campo nelle sue memorie: In nome della libertà. Diario della guerra di Spagna, 1936–1939, a cura di P. RAMELLA, Mursia, Milano 2002, pp. 222–239. 164 La vita nei campi in P. R AMELLA, La retirada, cit., pp. 45–51; R. GRANDO, J. QUERALT, X. FEBRÉS, Les Camps du mépris. Des chemins de l’exil à ceux de la résistance (1939–1945), Trabucaire, Perpignan 1999, pp. 75–92. 165 Décret–loi du 12 novembre 1938 relatif à la situation et à la police des étrangers, Préambule, in «Livres de Guerre», http://pages.livresdeguerre.net/ pages/sujet.php?id=docddp&su=103&np=780. 166 Titre IV, art. 25, in ibidem. 162

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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namento degli stranieri di età compresa tra diciassette e i sessantacinque anni appartenenti alle nazioni nemiche 167. Un nuovo decreto del 18 novembre dello stesso anno stabilisce che tutti gli individui «pericolosi per la difesa nazionale e la sicurezza pubblica» possono, sulla semplice decisione di una prefettura, essere inviati in centri speciali dipendenti sia dal Dipartimento della Difesa Nazionale e la Guerra sia dal Ministero dell’Interno. Con questa decisione sono trasferite d’ufficio all’autorità amministrativa il potere di arrestare e internare senza processo e senza relativa condanna. Il documento stabilisce pure che basta anche il semplice sospetto per essere internati 168. In un telegramma inviato ai prefetti il 14 dicembre dello stesso anno, il ministro Albert Sarraut spiega che per la sicurezza della Nazione occorre essere preparati «non solo contro l’atto delittuoso o criminale, ma anche contro la volontà di commettere» 169. Applicando questa legge, alla fine di novembre 1939, circa ventimila stranieri sono internati in Francia in svariati luoghi provvisori (scuole, teatri, stadi, palestre, vecchie fabbriche, fattorie, scuderie), sprovvisti di condizioni igieniche adeguate, di riscaldamento, di assistenza medica170. In seguito all’invasione tedesca (10 maggio 1940), la capitolazione di Parigi (14 giugno) e la firma dell’armistizio (22 giugno) la Francia è divisa in una zona militare di occupazione a 167

Il testo in J. GRANDJONC, T. GRUNDTNER, Zone d’ombres 1933–1944. Exil et internement d’Allemands et d’Autrichiens dans le sud–est de la France, Alinéa, Aix–en–Provence 1990, pp. 204–207. 168 Cfr. M. LUIRARD, Aspects de la législation sur les camps d’internement, in AA. VV., Répression. Camps d’internement en France pendant la seconde guerre. Aspects du phénomène concentrationnaire, Université de Saint– Étienne – Centre d’Histoire Régionale, Saint–Étienne 1983, pp. 54–56; A. GRYNBERG, 1939–1940. L’internement en temps de guerre les politiques de la France et de la Grande–Bretagne, in dossier Sur les camps de concentration du 20e siècle, «Vingtième Siècle», 54, avril–juin 1997, pp. 25–26. 169 Cit. in M. LUIRARD, Aspects de la législation sur les camps d’internement, in AA. VV., Répression. Camps d’internement en France pendant la seconde guerre, cit., p. 55. 170 Cfr. G. BADIA, L’internement des émigrés allemands et autrichiens en 1939, in AA. VV., Répression. Camps d’internement en France pendant la seconde guerre, cit., pp. 83–92.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

Nord e lungo le coste dell’Atlantico e una “zona libera” a Sud, la Repubblica di Vichy, guidata dal governo collaborazionista del generale Henry Philippe Omer Pétain. Da questo momento la storia dei campi francesi diventa ancor più tragica. Nella zona di occupazione i nazisti portano avanti una politica di internamento principalmente a sfondo razziale; mentre nella Repubblica di Vichy i campi sono popolati da “antifrancesi” (vale a dire comunisti, stranieri, oppositori in genere) e “antisociali” (zingari)171, quindi con una politica di internamento fondamentalmente su base politico–sociale. Questo almeno inizialmente. Precisamente sulle prime il regime di Vichy imprigiona solo gli ebrei stranieri, considerati quindi pericolosi per il fatto di non essere francesi; in un secondo tempo, pressati dai tedeschi, anche gli ebrei nazionali subiscono la stessa sorte. Infatti, il governo di Vichy pur abrogando la Legge Marchandeau, che proibiva qualunque discriminazione di tipo razziale, e promulgando il 3 ottobre 1940 il nuovo Statut des juifs (legge sullo Statuto degli ebrei) e il 4 ottobre la Loi sur l’internement des étrangers de race juive (Legge sull’internamento degli ebrei stranieri), cerca di non colpire gli ebrei francesi, internando solo quelli stranieri e limitandosi a bandire quelli nazionali da impieghi e incarichi pubblici. Tuttavia i nazisti pretendono il rispetto delle clausole dell’armistizio, che contemplavano la creazione di un Commissariato generale per la questione ebraica e la creazione di campi di raccolta. Il governo francese è così costretto a intensificare pian piano i provvedimenti contro gli ebrei, che poi porteranno ben presto non più alla sola esclusione dalla vita pubblica, ma alla deportazione verso i campi di sterminio172.

171

Cfr. E. FILHOL, La mémoire et l’oubli. L’internement des Tsiganes en France 1940–1946, L’Harmattan, Paris 2004. 172 Cfr. S. KLARSFELD, La shoah en France, Fayard, Paris 2001 (vol. I, Vichy– Auschwitz; vol. II, Le calendrier de la persécution des Juifs de France, juliet 1940 – aout 1942; vol. III Le calendrier de la persécution des Juifs de France, septembre 1942 – aout 1944; vol. IV, Le mémorial des enfants juifs deportés de France).

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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Così in questo periodo, accanto alle tipologie di campi già presenti, come quelli di accoglienza per profughi spagnoli (camps d’accueil), di soggiorno obbligato (camps de séjour e centres de séjour surveillés) e di internamento per oppositori, stranieri e zingari (camps d’internement), comparvero anche i campi di transito (camps de transit) verso i Lager tedeschi e polacchi173. Eccetto i campi di Natzweiler–Struthof e di Compiègne, sotto diretta gestione dell’amministrazione nazista, gli altri sono gestiti dai francesi. Ad eccezione sempre del terribile campo di Natzweiler–Struthof, non ci sono campi di sterminio in Francia, anche se la mortalità è elevata in tutti i luoghi di internamento. Particolare è proprio il campo di Natzweiler–Struthof, situato a circa cinquanta chilometri a Sud–Ovest di Strasburgo, in Alsazia174. Scopo del campo, oltre a quello di isolare, è quello di servirsi del lavoro forzato degli internati nella vicina cava di prezioso granito rosa. Ma il fine più agghiacciante di questo campo, è quello di essere il “magazzino scorte” per i ricercatori medici nazisti, che effettuano gli esperimenti su cavie umane. Il campo, quindi, è dotato, oltre che di una rudimentale camera a gas e di un forno crematorio, anche di una sala per le autopsie e gli esperimenti175. I francesi aprono campi anche nelle loro colonie nordafricane, in Algeria, Marocco e Tunisia. Qui sono internati comunisti locali, indesiderabili della metropoli, spagnoli repubblicani, prigionieri di guerra. La maggior parte di questi campi sono di lavoro forzato, ma vi sono anche terribili campi di punizione e isolamento. Concentrati a Sud, si può immaginare le condizioni di vita al loro interno: caldo eccessivo, sovraffollamento, condi173

Per tutti cfr. D. PESCHANSKI, La France des camps. L’internement 1938– 1946, Gallimard, Paris 2002. 174 Dopo la sconfitta francese del 1940, l’Alsazia divenne parte integrante del Reich. Quindi tecnicamente fu un campo tedesco. 175 Cfr. R. COURAUD, Struthof–Natzweiler, un camp de la mort en France, Éditions Hirlé, 2004; R. STEEGMANN, Struthof. Le KL–Natzweiler et ses kommandos: une nébuleuse concentrationnaire des deux côtés du Rhin 1941– 1945, La Nuée Bleue, Strasbourg 2005.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

zioni igieniche precarie, mancanza di acqua e scarsità di cibo, soprusi a sfondo razziale176. I campi di concentramento in Francia funzionano fino all’estate del 1944, quando sono abbandonati man mano che l’esercito alleato libera il territorio francese.

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3.12. I campi del Duce Durante la Prima Guerra Mondiale in Italia migliaia di civili sono stati evacuati dalle loro residenze e costretti all’internamento libero. Erano uomini e donne di nazionalità nemica che abitavano in zone occupate dall’esercito italiano, cittadini italiani “sospetti” stanziati nei territori di frontiera e, infine, persone considerate “indesiderabili” per motivi politici che risiedevano nelle zone di guerra. La linea di combattimento determinava la direzione degli sfollamenti coatti. L’internamento non consisteva nella permanenza in un campo di concentramento, ma nell’obbligo di soggiornare in determinate località lontane dalle zone di guerra, principalmente nel Centro–Sud e nelle isole. Era una misura amministrativa di competenza delle autorità militari, quindi una disposizione che prescindeva dall’accertamento di qualsiasi reato, non preceduta da nessun processo e senza l’obbligo di comunicare agli interessati i motivi del provvedimento: il presupposto per decidere l’internamento libero era quello della presunta di colpevolezza (sospetto di spionaggio, di attività sovversive, scarso senso di patriottismo). Questo permise arbitrii e abusi 177. Con l’avvento del fascismo, l’Italia si dota di nuove misure di esclusione dalla vita sociale e politica dei nemici, reali o presunti, dalla residenza sorvegliata sino ai campi di concentra176

Cfr. P. GAIDA, Les camps de Vichy en Afrique française du Nord, Lulu Press, London 2014, ora 2016. 177 Cfr. S. MILOCCO, G. M ILOCCO, “Fratelli d’Italia”. Gli internamenti degli Italiani nelle “Terre liberate” durante la Grande Guerra, Gaspari, Udine 2002; B. BIANCHI, La violenza contro la popolazione civile nella grande guerra, cit.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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mento178. L’organizzazione concentrazionaria fascista è impostata partendo dall’istituto del confino politico (residenza sorvegliata in un determinato luogo), che deriva a sua volta dal domicilio coatto di epoca liberale. Istituito con il Regio decreto del 6 novembre 1926 n. 1848 e successivo Regio decreto n. 1773 del 18 giugno 1931, il confino politico, come il domicilio coatto, serve al regime per colpire a priori una specifica categoria di persone, in primis gli oppositori politici. Fondandosi su misure di prevenzione decise dalla polizia, sottraendo quindi tale provvedimento alla legislazione e alla magistratura, il confino politico non si basa unicamente “sul fatto”, poiché a essere colpiti da tale disposizione non sono soltanto gli antifascisti dichiarati, ma anche gli oppositori potenziali su cui non gravano prove di reato. Dal 1926 al 1943, tra le 12.000 e le 18.000 persone 179 sono confinate in località remote, in cui i condannati possono essere controllati e in cui è minore il rischio di contatti con il proprio luogo d’origine. Tra queste le isole di Lampedusa, Favignana, Pantelleria, Ustica (già sedi di domicilio coatto), Lipari, Ponza, Ventotene, Asinara, Tremiti; oppure in piccoli villaggi non insulari come quello della località Bosco Salice di Pisticci, colonia di lavoro della provincia di Matera. Quest’ultima colonia confinaria diventa un esperimento a sfondo sociale per «togliere i confinati dall’ozio»180 e per «unire alla bonifica agraria la bo178

Uno sguardo generale su queste misure e sulla loro evoluzione in P. CARUCCI, Confino, soggiorno obbligato, internamento: sviluppo della normativa, in C. DI SANTE (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione, 1940–1945, FrancoAngeli, Milano 2001, pp. 15–39. 179 Cfr. L. M USCI, Il confino fascista di polizia: l’apparato statale di fronte al dissenso politico e sociale, in A. DAL PONT, S. CAROLINI, L’Italia al confino. Le ordinazioni di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, La Pietra, Milano 1983, p. 7. 180 Così si esprime il capo della polizia Arturo Bocchini in una relazione a Mussolini del 6 agosto 1938. Cit. in C.S. CAPOGRECO, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940–1943), Einaudi, Torino 2004, p. 30.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

nifica umana» 181. Gli internati di questa colonia, oltre a eseguire lavori agricoli e artigianali, edificano un’intera borgata, “Villaggio Marconi”, in onore del fisico italiano inventore del radiotelegrafo182. Successivamente il villaggio sarà recintato con filo spinato, divenendo campo di concentramento e rieducazione. Il confino politico, dunque, è per il regime fascista sostanzialmente una misura preventiva e non punitiva, per controllare e reprimere il dissenso e l’emarginazione sociale. La sua funzione è anche pedagogica, per la finalità intimidatrice nei confronti di chi medita di non allinearsi all’edificazione dello Stato fascista. In ogni caso non si tratta di deportazioni di massa, ma di isolamenti individuali. La pena, che varia da uno a cinque anni, è in sostanza indeterminata, poiché allo scadere del periodo assegnato si utilizza spesso il meccanismo del rinnovo. Il confino è prescritto con un semplice atto amministrativo e, quindi, senza contestare alcun reato al destinatario e senza un regolare processo: il soggetto ritenuto pericoloso è tolto dal suo luogo di residenza e sottoposto a vigilanza altrove, in isole o in località sperdute183. Con l’entrata in guerra dell’Italia la pratica del confino è sostituita con l’internamento, quest’ultimo già praticato efficacemente nelle colonie italiane dell’Africa Orientale Italiana184 e, 181

Ibidem. Il villaggio oggi si chiama Marconia. Cfr. G. CONIGLIO, La colonia confinaria di Pisticci. Dal ventennio fascista alla nascita di Marconia, Legatoria lucana, Metaponto (Mt) 1999. 183 Cfr. M. EBNER, Dalla repressione dell’antifascismo al controllo sociale. Il confino di polizia, 1926–1943, in «Storia e problemi contemporanei», 43, 2006, pp. 81–104; C. Poesio, Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, Laterza, Roma–Bari 2011. 184 Il professor Roman Herzog documenta 57 campi in Africa Orientale: 35 in Etiopia, 14 in Eritrea e 8 in Somalia. Cfr. R. Herzog, La ricerca su i campi fascisti in Africa, in R. HERZOG, A. GIUSEPPINI (a cura di), I campi fascisti, Atti del convegno, Roma 2013, pp. 11–12, http://www.campifascisti.it/file/Atti% 20del%20convegno%20I%20campi%20fascisti.pdf. Nel progetto web «I campi fascisti» esiste una ricca documentazione sui campi e sulle zone di confinamento del regime, con interviste, dossier e documenti: http://www. campifascisti.it/. 182

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soprattutto, in Libia185. I campi di concentramento coloniali, infatti, rappresentano per il fascismo, un notevole ambito di sperimentazione di pratiche funzionali alla repressione della ribellione e del dissenso. Il regime valuta anche l’opportunità di relegare in massa gli italiani indesiderabili in questi campi coloniali, ma difficoltà logistiche ne impediscono la concretizzazione. Tenacemente voluti da Mussolini, imposti dal governatore Badoglio, materialmente organizzati dal generale Graziani, questi campi coloniali hanno un duplice ruolo: tagliare gli aiuti ai partigiani locali, tenere in ostaggio le loro famiglie, creare uno “spazio vitale” per gli italiani186. Tali campi sono gestiti con pratiche razziste e, pur non avendo finalità di sistematica eliminazione dei prigionieri, hanno un alto tasso di mortalità per malattie e denutrizione187. L’entrata in guerra dell’Italia sancisce definitivamente la pratica dell’internamento in campi istituiti nella penisola. Sebbene il Testo Unico delle leggi di guerra e di neutralità, approvato con Regio decreto l’8 luglio 1938 n. 1415, dava piena facoltà al Ministero dell’Interno e a tutti i prefetti di «porre l’internamento dei sudditi nemici atti a portare le armi e che comunque possano svolgere attività dannosa per lo Stato» 188, l’applicazione è concretizzata solo in base a semplici ordini, note e 185

Herzog documenta la presenza in Libia di almeno 25 campi per civili, 14 per prigionieri di guerra e due località di confino. Cfr. ivi, p. 10. 186 Cfr. G. OTTOLENGHI, Gli Italiani e il colonialismo. I campi di detenzione italiani in Africa, Sugarco, Milano 1997; N. LABANCA, L’internamento coloniale italiano, in C. DI SANTE (a cura di), I campi di concentramento in Italia, cit., pp. 40–67. 187 Cfr. N. LABANCA, L’internamento coloniale italiano, in C. DI S ANTE (a cura di), I campi di concentramento in Italia, cit., pp. 40–67; A. DEL BOCA, L’Africa nella coscienza degli Italiani, Mondadori, Milano 2002; A. RANDAZZO, L’Africa del Duce. I crimini fascisti in Africa, Arterigere, Varese 2008; G. ROCHAT, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari, Udine 2009, pp. 64–136. 188 Legge italiana di guerra, R.D. 8 luglio 1938, n.1415, in «Difesa.it», http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/ISSMI/Corsi/Corso_Consigliere_Giuri dico/Documents/34843_legge_it_guerra.pdf.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

circolari189. Infatti, il 1° giugno 1940, con la circolare telegrafica n. 442/38954 emanata dal Ministero dell’Interno, si danno precise indicazioni sulle persone da imprigionare «perché non abbiano aut verificarsi inconvenienti di sorta et siavi unicità direttive circa persone da arrestare et internare in caso di emergenza»190. Mentre, con la circolare n. 442/12267 dell’8 giugno 1940, si emanano le “Prescrizioni per i campi di concentramento e le località di confino”191. I criteri generali per l’istituzione dei campi e l’individuazione delle persone che possono esservi internate, erano state già indicate dal Ministero della Guerra con la circolare dell’8 maggio 1936 n. III 64/503, “Campi di concentramento per elementi pericolosi e sospetti sotto il punto di vista militare e politico”192: spazi lontani da zone di sicurezza militare e distanti da località molto popolate, in località con bassa politicizzazione della società civile e in siti agevoli da sorvegliare. La scelta si dirige verso costruzioni già esistenti, per la maggior parte di proprietà dello Stato, come ex conventi, casali, scuole, fabbriche dismesse, ex mulini, orfanotrofi, ville, in un caso addirittura un cinema (a Isernia) e un ex mattatoio (a Manfredonia), tutte strutture già dotate di acqua, servizi igienici e corrente elettrica. Solo tre campi, quelli di Pisticci (Matera), di Ferramonti di Tarsia (Cosenza) e Le Fraschette di Alatri (Frosinone) sono concepiti e costruiti appositamente per accogliere gli internati civili, assumendo l’immagine classica dei campi di concentramento con filo spinato, torrette di guardia e baracche.

189

Cfr. G. ANTONIANI PERSICHILLI, Disposizioni normative e fonti archivistiche per lo studio dell’internamento in Italia (giugno 1940–luglio 1943), in «Rassegna degli Archivi di Stato», XXXVIII, 1978, pp. 78–96; e in «I campi fascisti», http://www.campifascisti.it/elenco_provvedimenti.php. 190 «Appena dichiarato lo stato di guerra dovranno essere arrestate e tradotte in carcere le persone pericolosissime sia italiane che straniere di qualsiasi razza, capaci di turbare ordine pubblico aut commettere sabotaggi attentati nonché le persone italiane aut straniere segnalate dai centri C. S. per l’immediato arresto […].». Cfr. ivi, p. 84. 191 Ibidem. 192 Cfr. ivi, p. 80.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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All’alba della dichiarazione di guerra del 1940 i campi divengono operativi e iniziano a popolarsi di persone segnalate dalla rete di spionaggio del regime. Con il decreto del Duce del 4 settembre 1940 (pubblicato sul n. 239 della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia dell’11 ottobre 1940), richiamandosi alla legge di guerra dell’8 luglio 1938 e al successivo decreto del 10 giugno 1940, si stabiliscono ufficialmente le norme per l’internamento dei cittadini di Paesi nemici che possono «essere raggruppati in speciali campi di concentramento»193, ma in realtà l’internamento riguarda anche i sudditi ritenuti pericolosi nelle contingenze belliche. Il provvedimento dell’internamento è di esclusiva competenza del Ministero dell’Interno su proposta delle prefetture. Tuttavia, partecipano alle decisioni riguardanti l’internamento anche altre istituzioni, tra cui l’OVRA (Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo, la polizia politica) territoriale, gli Ispettorati di P.S., la Commissione Emigrazione e Lavoro, il Ministero delle Corporazioni, il Consiglio Superiore della Demografia e Razza (Demorazza). In generale i campi del Duce si possono suddividere sostanzialmente in due tipologie: campi di internamento civile, dipendenti dal Ministero dell’Interno; campi di concentramento civile, dipendenti dal Ministero della Guerra e dal Regio Esercito194. I primi sono “dedicati” ai cittadini stranieri di nazioni nemiche e ai sudditi ritenuti pericolosi (oppositori politici, dissidenti generici, ebrei e zingari); i secondi ai civili catturati nelle zone della ex Jugoslavia occupate o annesse nel 1941. Fra gli internati nei primi campi, oltre ai cittadini stranieri di nazioni nemiche, spiccano gli antifascisti, quelli già schedati, quelli trattenuti a fine pena e quelli considerati “in atto”, ossia che manifestano intenzioni antiregime. A questi si aggiungono gli ebrei e gli zingari: i primi solo quelli considerati nocivi al 193

Il decreto in ivi, p. 84 e in «I campi fascisti», cit. http://www.campifasci sti.it/scheda_provvedimento_full.php?id_provv=2. 194 Il professor Carlo Spartaco Capogreco li chiama rispettivamente “campi dell’internamento civile regolamentare” e “campi dell’internamento civile parallelo”. C.S. CAPOGRECO, I campi del duce, cit.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

regime per motivi politici, poiché l’elemento razziale non costituisce ancora una condizione sufficiente per l’internamento (dal 30 novembre 1943, poi, sono internati tutti per motivi razziali); gli zingari trattenuti per motivi di igiene pubblica e sicurezza sociale. Ubicati nell’Italia centrale e meridionale, principalmente in Abruzzo e Molise195, le condizioni di vita degli internati sono diverse da campo a campo, tutte basate sulla rigidità con la quale i direttori applicano le disposizioni del Ministero e fanno rispettare le regole interne. La limitazione della libertà personale, il sovraffollamento, le carenze igieniche e alimentari, sono comunque gli aspetti più precari della reclusione in questi campi di internamento. Tuttavia questi campi hanno ben poco in comune con i Lager tedeschi, in quanto non sono istituiti per un fine sterminazionista o con obiettivi vessatori, ma hanno unicamente finalità di controllo politico–sociale. Benché «più umano di quello nazista, l’internamento italiano rispondeva comunque alle logiche di uno stato totalitario» 196, sottostando a rigide disposizioni interne stilate dai direttori: tre appelli giornalieri, controllo della posta (che è consentita ricevere solo dai familiari), interdizione dei rapporti sociali con la popolazione locale, proibizione di lettura di pubblicazioni non autorizzate, divieto di possesso di apparecchi radio, oscuramento serale. Ben diverso è il trattamento riservato agli internati con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, come molto differente è la “cura” destinata ai civili sloveni e croati imprigionati nei terribili campi di concentramento “paralleli”, istituiti durante la colonizzazione italiana di parte dei Balcani (1941–1943). L’avventura italiana nei Balcani inizia a seguito dell’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse (1941). L’Italia annette parte della Slovenia (provincia di Lubiana),

195

Per tutti cfr. ivi, pp. 179–247. A. OSTI G UERRAZZI, Poliziotti. I direttori dei campi di concentramento italiani, 1940–1943, Cooper, Roma 2004, p. 12. 196

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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ampie porzioni della costa dalmata della Croazia, comprese diverse isole adriatiche, le bocche di Cattaro (Montenegro). Nei territori croati il governo fascista crea due zone distinte: una amministrata dall’autorità civile e costituita dai territori annessi (Governatorato di Dalmazia, provincia di Lubiana e provincia di Fiume) e l’altra occupata e governata direttamente dall’Esercito Regio attraverso la II Armata, comandata dal gennaio 1942 dal generale Mario Roatta. Il 5 maggio 1942, il comando della II Armata cambia denominazione in “Comando Superiore delle Forze Armate in Slovenia e Dalmazia”, la cosiddetta “Supersloda”, e assume il compito principale della lotta antipartigiana e anticomunista. La colonizzazione si fa ancor più aggressiva ed efferata. In un contesto di un’occupazione contraddistinta da particolare violenza, la presenza di campi di concentramento per civili non suscita sorpresa. L’aggressiva politica di dominazione italiana nei confronti dei civili, non è solo il risultato di una crudeltà insita nella situazione bellica, che considera i civili stessi conniventi con i partigiani, ma è l’esito anche di un’auspicata sbalcanizzazione del territorio, accompagnata da intenti palesemente razzisti197. Il generale Roatta emana una circolare, la 3C198, distribuita a tutti gli ufficiali dell’esercito impegnati nei Balcani, in cui ordina di impiegare la massima durezza nella repressione dei partigiani, raccomandando «il ripudio delle qualità negative compendiate nella frase “bono italiano”»199, specificando «che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai 197

Cfr. D. CONTI, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940–1943), Odradek, Roma 2008; E. AGA ROSSI, M.T. GIUSTI, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940–1945, il Mulino, Bologna 2011. 198 Il documento è emanato in due versioni, la prima il 1° marzo 1942, la seconda, più circostanziata, il 1° dicembre dello stesso anno. La circolare integrale in G. OLIVA, «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940–1943, Mondadori, Milano 2006, pp. 173–201 (circolare 3C integrale), anche nel progetto web «Crimini di guerra», http://www.criminidiguerra.it/ CIRC3C1.shtml. 199 Circolare 3C, 1° dicembre 1942, Premessa, 1.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

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perseguiti [ma] perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostreranno timidezza e ignavia» 200. Il trattamento da riservare ai ribelli, è sintetizzato dal generale nel motto: «non dente per dente, ma testa per dente» 201. La circolare contiene anche disposizioni scritte sull’internamento civile: 15 – Quando necessario agli effetti del mantenimento dell’O.P. e delle operazioni, i Comandi di G.U. possono provvedere: a) – ad internare, a titolo protettivo, precauzionale o repressivo, famiglie, categorie di individui della città o campagna, e, se occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali; b) – a “fermare” ostaggi tratti ordinariamente dalla parte sospetta della popolazione, e — se giudicato opportuno — anche dal suo complesso, compresi i ceti più elevati; c) – a considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli abitanti di case prossime al luogo in cui essi vengono compiuti. 16 – Gli ostaggi di cui in b) possono essere chiamati a rispondere, colla loro vita, di aggressioni proditorie a militari e funzionari italiani, nella località da cui sono tratti, nel caso che non vengono identificati — entro ragionevole lasso di tempo, volta a volta fissato — i colpevoli. Gli abitanti di cui in c), qualora non siano identificati — come detto sopra — i sabotatori, possono essere internati a titolo repressivo; in questo caso il loro bestiame viene confiscato e le loro case vengono distrutte.202

L’internamento è dunque un provvedimento di primaria importanza che, “a titolo protettivo, precauzionale o repressivo”, può riguardare qualsiasi elemento ritenuto ostile alla geopolitica del regime. Difatti gli internati sono suddivisi in “protettivi” e “repressivi”: i primi, nei propositi iniziali sono gli elementi avversi al movimento partigiano e che, quindi, si presentano spontaneamente per essere “protetti” dalle loro rappresaglie; i secondi sono tutti coloro che si oppongono all’occupazione italia200

Ivi, Capitolo X, 41. Ivi, Premessa, 6. 202 Ivi, Capitolo II, 15 (lett. a–b–c) e 16. 201

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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na. In realtà i campi per i “protettivi” servono a tutelare spie e collaborazionisti. In buona sostanza, gli internamenti repressivi rientravano nel piano di snazionalizzazione e di guerra antipartigiana sul territorio sloveno occupato, gli internamenti protettivi erano invece volti a tutelare elementi funzionali alla realizzazione di tali progetti. 203

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Tuttavia questa ripartizione resta solo sulla carta, poiché la distinzione fra ‘protettivi’ e ‘repressivi’ era […] molto aleatoria, e anche il loro trattamento nel campo. […] nel settore A, quello dei “protettivi”, […] si moriva di fame e di freddo esattamente come nel campo B, dove c’erano i “repressivi”. 204

Tra le strutture dell’internamento “parallelo” in territorio occupato, tre sono le principali: Arbe–Rab205, Melada–Molat206 e Mamula e Prevlaka207. Il primo per il settore dell’Adriatico settentrionale (l’area di Fiume e la Slovenia), il secondo per il set203

D. CONTI, L’occupazione italiana dei Balcani, cit., p. 29. A. KERSEVAN, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941–1943, Nutrimenti, Udine 2008, p. 138. 205 Documenti, immagini e scheda del campo di Rab in «I campi fascisti», http://www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=35. Cfr. anche C.S. CAPOGRECO, I campi del duce, cit., pp. 268–271; T. Ferenc, Rab–Arbe– Arbissima. Confinamenti–Rastrellamenti–Internamenti nella provincia di Lubiana – 1941–1943. Documenti, Inštitut za novejšo zgodovino – Društvo piscev zgodovine NOB, Ljubljana 2000. 206 Documenti e scheda del campo di Melada in http://www.campifascisti .it/scheda_campo.php?id_campo=110. Cfr. anche C.S. CAPOGRECO, I campi del duce, cit., pp. 271–273; R. SPAZZALI, Il campo di concentramento dell’isola di Melada (Molat) 1941–1943, in «La rivista dalmatica», 3, 1996, pp. 210–223; G. SCOTTI, L’isola del miele regno della morte. Campi di concentramento Italiani nella Dalmazia insanguinata 1941–1943, Zanella Guido, Tregnago (VR) 2012. 207 Documenti e scheda sul campo di Prevlaka in «I campi fascisti», http://www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=148. Documenti e scheda del campo di Mamula in «I campi fascisti», http://www.campifascisti. it/scheda_campo.php?id_campo=149. Cfr. C.S. CAPOGRECO, I campi del duce, cit., pp. 273–275. 204

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

tore dell’Adriatico centrale (Dalmazia), l’ultimo per il settore dell’Adriatico meridionale (area Bocche di Cattaro). In seguito sono allestiti campi per slavi anche nella penisola italiana, sempre dipendenti dalla II Armata: Gonars e Visco, nella Venezia Giulia; Monigo e Chiesanuova, in Veneto; Renicci in Toscana, Fertilia in Sardegna. A questi si aggiungono ancora altri, tra cui Cairo Montenotte, in Liguria, una struttura messa a disposizione per gli slavi residenti nel Regno; Colfiorito, a Foligno in Umbria, già campo di internamento civile208. Se l’occupazione militare si caratterizza per la sua ferocia209, con esecuzioni sommarie di ostaggi, sanguinose rappresaglie, incendi di interi villaggi210, deportazioni, si può immaginare quali siano le condizioni di vita nei campi di concentramento211: carenza di cibo, inadeguate condizioni igienico–sanitarie, alloggi precari (spesso in tende situate su terra battuta), esposizione agli sbalzi di temperatura (inverno gelido e calura estiva), proibizione a ricevere aiuti dall’esterno (dalle proprie famiglie e dalla Croce Rossa). Tutto questo è reso ancor più complicato dal sovraffollamento. Il deperimento fisico degli internati è considerato dalle autorità militari un ottimo alleato per neutralizzare eventuali velleità di ribellione: «Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato =

208

Per tutti cfr. «I campi fascisti», http://www.campifascisti.it/elenco _tipo_campi.php?id_tipo=1. 209 Cfr. C. DI S ANTE (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941–1951), Ombre Corte, Verona 2005; Federativna Narodna Republika Jugoslavija, Saopćenje o talijanskim zlǒcinima protiv Jugoslavije i njehih naroda, Državna komisija za utvrđivanje zločina okupatora i njihovih pomagača, Beograd 1946, trad. ingl. Federative People’s Republic of Yugoslavia, Report on italian crimes against Yugoslavia and its people, The State commission for the investigation of war crimes, Belgrade 1946. Le informazioni raccolte da questa Commissione sui crimini di guerra furono utilizzate dai funzionari jugoslavi alla Conferenza di pace di Parigi del 1946. 210 I montenegrini appellarono gli italiani come palikuća, ossia bruciatetti. Cfr. D. CONTI, L’occupazione italiana dei Balcani, cit. 211 Cfr. A. KERSEVAN, Lager italiani, cit., pp. 162–234.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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individuo che sta tranquillo»212, così scrive il 17 dicembre 1942 in una nota il generale Gastone Gambara, nuovo comandante dell’XI Corpo d’Armata di stanza in Slovenia. Pur non trattandosi di campi di sterminio come quelli di Auschwitz e simili, poiché non ci sono strutture per la soppressione degli internati e la cremazione di cadaveri, nei campi fascisti “paralleli” le condizioni di vita determinano un altissimo tasso di mortalità. La qualità di vita nei campi “paralleli” del Duce sono condensate tutte nelle parole di un superstite di Arbe, Herman Janež: Le condizioni disumane ci hanno fatto diventare delle bestie in pelle e ossa. Eravamo scheletri ambulanti senz’acqua, pieni di zecche e di pidocchi, delle larve piene di piaghe purulente, che puzzavano di sterco proprio e di quello altrui. Queste erano le condizioni nelle quali ci facevano vivere e sulle quali non avevamo nessuna possibilità di interferenza. A soffrire era la dignità umana, che scemava di giorno in giorno. Queste scene, conosciute per i campi nazisti di Auschwitz o di Dachau, si ripetevano anche a Rab–Arbe. […] A soffrire era la dignità umana, che scemava di giorno in giorno. Forse qui mancavano la camera a gas e il camino, ma a quanto ne so, il livello di disumanità nel quale ci avevano costretto i nostri aguzzini era praticamente uguale a quello nazista.213

Con la caduta del fascismo monarchico (25 luglio 1943) inizia la seconda fase della vita dei campi italiani, quella più estrema. Nelle fasi concitate della guerra che portano alla disfatta del fascismo monarchico, i deportati sono trasferiti, nonostante i

212

Cit. in C.S. CAPOGRECO, I campi del duce, cit., p. 142; T. FERENC, Rab– Arbe–Arbissima. cit., p. 326; A. KERSEVAN, Lager italiani, cit., p. 142. 213 Cit. in M. GRILLI, I campi di concentramento fascisti e la «sbalcanizzazione del territorio»: nel caso di Arbe gli italiani non furono proprio «brava gente», «La voce del popolo», 6 maggio 2009, p. 7; anche in B.M. GOMBAČ, Nei campi di concentramento fascisti di Rab–Arbe e Gonars, «DEP Deportate, esuli, profughe», Università Ca’ Foscari Venezia, nr.7 , 2007, p. 213.

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La politica dell’esclusione. Campi. Deportare e concentrare

bombardamenti, in campi ritenuti più controllabili nell’Italia centrosettentrionale. La costituita Repubblica Sociale Italiana (settembre 1943), retta da Mussolini appena liberato dalla sua prigione di Campo Imperatore sul Gran Sasso, utilizza inizialmente molti campi già esistenti per continuare a internare dissidenti, ebrei, zingari. Una clausola dell’armistizio firmato dopo la resa incondizionata, prevede la liberazione degli internati, tuttavia il 1° novembre 1943, il Ministero dell’Interno della RSI abroga per l’Italia centrosettentrionale le misure liberatorie adottate dal Governo Badoglio. A fine novembre le strutture di internamento della RSI riprendono a pieno ritmo il loro compito: ai prigionieri italiani e stranieri si aggiungono tutti gli ebrei, ora internati per motivi razziali. Infatti, la sudditanza militare e politica della RSI alla Germania di Hitler, porta Mussolini ad appoggiare la soluzione finale del popolo ebraico decisa dai nazisti. Il 30 novembre 1943, il ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana Guido Buffarini Guidi, con un telegramma inviato ai prefetti e ai questori delle province e dei comuni della RSI, ordina «per immediata esecuzione» che tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano e comunque residenti nel territorio nazionale, debbano essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana.214

In seguito a questa ordinanza di polizia sono istituiti i campi di concentramento provinciali per ebrei 215, dando inizio alla deportazione degli ebrei sia italiani sia stranieri nei campi di ster-

214

L’ordinanza di polizia RSI n.5 del 30–11–1943, in «I campi fascisti», http://www.campifascisti.it/scheda_provvedimento_full.php?id_provv=3. 215 Una mappa dei campi per ebrei in M. S TEFANORI, I campi provinciali per ebrei nella Repubblica sociale italiana, in R. HERZOG, A. G IUSEPPINI (a cura di), I campi fascisti, cit., p. 38.

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III. Dall’internamento dei militari a quello dei civili

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minio nazisti216. Dai campi provinciali si passa a quelli di transito, dipendenti dai nazisti: Fossoli di Carpi (Modena), Bolzano Gries, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) e la Risiera di San Sabba (Trieste). Quest’ultimo è un lager polifunzionale: campo di transito, di lavoro coatto e di sterminio, poiché dotato di una rudimentale camera a gas e di un forno crematorio istituito nel cortile interno del campo217. Finita la guerra, alcuni campi sono riutilizzati: diversi diventano luoghi per rinchiudere provvisoriamente gli ex-soldati dell’Asse in attesa, da parte delle autorità italiane o alleate, di esaminare i loro crimini; altri sono trasformati in campi di raccolta per profughi218.

216

Cfr. L. PICCIOTTO FARGION, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943–1945, Ricerca della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Mursia, Milano 1991, ora 2002. 217 Cfr. A. SCALPELLI (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voll., Aned–Lint, Trieste 1996, ora 2008; T. MATTA, Il Lager di San Sabba. Dall’occupazione nazista al processo di Trieste, Beit, Trieste 2013. 218 M. S ANFILIPPO, I campi in Italia nel secondo dopoguerra, in Profughi, dossier monografico di «Meridiana», 86, 2016, pp. 41-56.

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Capitolo IV

I campi nazisti e ustascia per sterminare

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4.1. La morte come progetto politico Con il nazionalsocialismo i campi si trasformano in una micidiale macchina tanato–politica, in cui l’esistenza e la morte appaiono semplici alternative biologiche: il comunismo deporta coloro che grazia, il nazismo anche e, soprattutto, coloro che condanna a morte. Il pensare comune individua nei campi di sterminio nazisti il luogo dell’irrazionalità, dell’insensatezza, dell’incomprensibilità, del libero arbitrio. Tuttavia essi rappresentano, per quanto indicibile, l’applicazione puntigliosa del principio burocratico dell’efficienza, l’attuazione scrupolosa di una inedita legge che eccede l’ordinario logico, la convinzione di difendere la vita dei tedeschi consegnando alla morte chi non lo è, la realizzazione di una nuova morale che si esaurisce nell’adesione irriflessa a un progetto politico e nell’esecuzione ostinata dei doveri che tale adesione comporta. I campi di sterminio nazisti hanno creato un sistema industriale di messa a morte nel quale tecnologia moderna, divisione del lavoro e razionalità amministrativa si integravano efficacemente come in un’impresa. Le sue vittime non erano più, volendo essere precisi, “detenuti” ma una “materia prima” — formata da esseri viventi declassati dal genere umano — necessaria alla produzione in serie di cadaveri. 1 1

E. TRAVERSO, La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002, p. 57.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

L’affermazione della morte come progetto politico, coglie in pieno l’essenza pienamente biopolitica dei campi di sterminio. Anzi, l’apertura di questi campi è giustificata proprio dal progetto biopolitico nazista di “curare” il corpo sociale attraverso l’eliminazione fisica delle parti ritenute infette. In questo senso, nei campi di sterminio la morte seriale è inflitta non come una manifestazione improvvisa e occasionale di furore distruttivo, ma come la fredda e razionale applicazione di provvedimenti amministrativi programmati. Parafrasando Sofsky, nei campi di sterminio la morte diventa routine, quotidianità e, soprattutto, lavoro 2. I campi di sterminio nazisti rappresentano la più criminale realizzazione storica della biopolitica: L’ebreo [ma anche lo zingaro, l’omosessuale, il Testimone di Geova, l’oppositore politico, ufficiali e soldati sovietici e tutti quelli che passarono per il camino] è il referente negativo privilegiato della nuova sovranità biopolitica e, come tale, un caso flagrante di ‘homo sacer’, nel senso di vita uccidibile e in sacrificabile.3

Le vittime, quindi, sono considerate categorie alla mercé della politica. La loro «uccisione non costituisce perciò né una esecuzione capitale né un sacrificio, ma solo l’attuazione di una mera ‘uccidibilità’»4 connessa alla condizione di ebreo, di zingaro, di omosessuale e così via. Espressione del sistema nazista e sua creazione organica, dunque, i campi di sterminio nazisti non sono «una mostruosa escrescenza patologica, ma il supremo fiore d’un sistema politico»5, e il fumo che esce dal camino dei crematori è la terrifican2

Il sociologo tedesco si riferiva alla violenza dei Lager. Cfr. W. SOFSKY, Il paradiso della crudeltà. Dodici saggi sul lato oscuro dell’uomo, Einaudi, Torino 2001, p. 34. 3 G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 127. Corsivo mio. 4 Ibidem. 5 A. B IZZARRI, Mauthausen città ermetica (1946), Il Segnalibro, Torino 2003, p. 96.

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te metafora di una umanità totalmente offesa, che si nega alla ragione. Poiché la morte seriale è lo scopo principale, i campi di sterminio non sono più l’esito di un processo di segregazione e disgregazione del genere umano, ma assurgono a un punto di partenza di qualcosa di ancor più inqualificabile: l’eliminazione diretta e totale della possibilità stessa della vita umana. Lo stesso termine coniato dai nazisti per designare la natura di questi campi, Vernichtungslager, ha un significato ancor più terribile di sterminio, vuol dire “trasformare qualcosa in nulla”. Questa “trasformazione” ha inizio con l’uccisione del soggetto di diritto, attraverso l’arresto amministrativo e la deportazione; procede con l’eliminazione della personalità morale, mediante l’animalizzazione e la biologizzazione della persona; prosegue con la soppressione fisica; si conclude con la cancellazione della memoria, riducendo il corpo morto in cenere e fumo, facendo in modo che la vittima non sia mai esistita, perché di essa non ne rimane né la materia né l’identità. Nei campi di sterminio non basta il delirio mortifero dell’annientamento degli ebrei, dei rom, dei sinti, degli omosessuali, dei Testimoni di Geova e di chi è schiacciato per sempre dal fanatismo nazista, necessita anche cancellare l’estetica della morte, sfregiando la coscienza e incrostando l’anima dei sopravvissuti alle prime selezioni, di chi da un momento all’altro può “passare dal camino”. Gli stessi scampati alle selezioni quotidiane sono corpi vivi abitati dalla morte, corpi che hanno perso la coscienza del vivere civile, uomini morti che vivono «smarriti e abbruttiti; uomini portatori di fedi distrutte, di dignità smantellate, tutto, tutto un popolo nudo, interiormente nudo, spogliato di ogni cultura, di ogni civiltà» 6. I campi di sterminio nazisti sono luoghi di sottrazione totale. Sottrazione della vita, sottrazione della morte. Essi sono la memoria di un «potere assoluto [che] non produce nulla, perché il 6

W. SOFSKY, Die Ordnung des Terrors: das Konzentrationslager, Fischer, Frankfurt am Main 1993, trad. it., L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Laterza, Roma–Bari 2004, p. 296.

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suo è un agire soltanto negativo, un’opera di distruzione che non lascia tracce» 7. Il Vernichtungslager «realizza la sua libertà nell’annientamento completo degli esseri umani»8: esso è al tempo stesso catena di montaggio della morte e catena di smontaggio della vita nella sua totalità.

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4.2. La “catena di montaggio” della morte Se la quasi totalità dei campi di concentramento nazisti costituisce un network, quello dei Konzentrationslager (KL), la cui funzione è di attuare il programma di soggezione perseguito dai nazionalsocialisti, i Vernichtungslager svolgono un unico compito, specifico, lo sterminio di esseri umani. Dunque, pur intersecandosi e connettendosi con le funzioni dei KL, i Vernichtungslager si alimentano di ragioni proprie. L’arco temporale complessivo di attività dell’apparato genocida dei Vernichtungslager va dall’8 dicembre 1941, data della prima gassazione a Chełmno, al 25 novembre 1944, quando il gerarca Himmler ordina di interrompere le stragi, di distruggere le camere a gas e di smantellare i crematori 9. Una prima gassazione “sperimentale”, ordinata dal capitano Karl Fritzsch, vicecomandante del complesso di Auschwitz, è eseguita il 3 settembre 1941 nello scantinato del Blocco 11 del campo centrale. L’esperimento uccide seicento prigionieri di

7

P.P. POGGIO, Nazismo e revisionismo storico, Manifestolibri, Roma 1997, p. 211. 8 Ibidem. 9 Non è stato ritrovato nessun ordine scritto sulla cessazione dello sterminio. Esistono solo dichiarazioni testimoniali da parte dell’SS–Standartenführer Kurt Becher (Documento del Tribunale Militare Internazionale PS–3762; Volume XXXII del Tribunale Militare Internazionale, p. 68) e del leader dei sionisti ungheresi Reszo Kastner. In I. G UTMAN, M. BERENBAUM (eds), Anatomy of the Auschwitz Death Camp, United States Holocaust Memorial Museum, Indiana University Press, Bloomington–Indianapolis 1998, p. 174 e 181, nota 74.

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guerra sovietici e duecentocinquanta altri deportati ammalati di tubercolosi10. La presenza di camere a gas e di forni crematori non è sufficiente per poter attribuire a un campo nazista la qualifica di Vernichtungslager. Dal 1941 in poi, infatti, sono dotati di impianti del genere (seppur di piccole dimensioni) anche alcuni Konzentrationslager, ma nella maggior parte essi servono a eliminare deportati sofferenti di malattie che li rendono “inutilizzabili” permanentemente al lavoro. L’idea di creare dei campi specifici per la produzione della morte seriale, ha antecedenti importanti nei “reparti di eutanasia”, istituiti nell’ottobre del 1939 con il programma chiamato in codice Aktion T4 (così detto dalla Tiergartenstrasse 4, cioè dall’indirizzo berlinese dal quale era diretto e coordinato in estrema segretezza tutto il progetto biopolitico nazista) 11. In pratica si è trattato di eliminare fisicamente gli adulti portatori di disabilità fisica o psichica o con malattie croniche gravi, quelli che la terminologia nazista definiva “vite senza valore” (lebensunwerten Lebens)12. Nell’ottica della Endlösung (la cosiddetta “Soluzione finale” della questione ebraica), dell’annientamento degli altri Untermenschen (“sub–umani”, riferito a quei popoli considerati “razzialmente inferiori”, quali rom e sinti ‒ i cosiddetti Zigeuner, zingari ‒ e altre popolazioni slave) 13, della estirpazione del co-

10

Cfr. O. FRIEDRICH, The Kingdom of Auschwitz 1940–1945, HarperCollins, New York 1982, trad. it. Auschwitz. Storia del lager 1940–1945, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2000, pp. 33–34. 11 La politica demografica nazista è trattata in maniera più compiuta, seppur concisamente, nel capitolo “I campi e il tradimento di Ippocrate”. 12 Tra cui: senilità, labilità mentale, epilessia, sindrome di Huntington, oppure ospedalizzati da almeno cinque anni. 13 Furono i cosiddetti “triangoli marroni”. Il loro sterminio è appellato come Porajmos o Porrajmos, che in lingua rom vuol dire “devastazione”, “grande divoramento”. Sull’argomento cfr. G. BOURSIER, M. CONVERSO, F. IACOMINI, Zigeuner. Lo sterminio dimenticato, Sinnos, Roma 1996; L. GUENTER, The Nazi Persecution of the Gypsies, Oxford University Press, Oxford 2000, trad. it., La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino 2002.

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munismo 14 e in generale del dissenso interno, delle false religioni (in primis Testimoni di Geova e Pentecostali) 15 e degli omosessuali16, il nazismo crea campi per la produzione della morte seriale17. Questi campi sono istituiti a Maly Trostenets, nella Bielorussia, e a Chełmno, Bełżec, Sobibór, Treblinka, Majdanek in Polonia. Strutture per uccidere serialmente sono impiantate anche in alcuni campi misti (di concentramento e di lavoro) presso il complesso di Auschwitz in Polonia (che comprende anche i campi di Birkenau e di Monowitz), Lwów (L’viv, Ucraina), Mauthausen–Gusen (Austria), Varsavia (Polonia), Semlin Sajmište (Serbia). A questi campi si sarebbe dovuto aggiungere anche un altro Lager della morte, quello di Mogilëv (o Mahilyow, nella Bielorussia orientale), ma resta solo un progetto 18. Il funzionamento di tutti questi campi di sterminio «non avvenne in un vuoto atemporale, bensì in un contesto estremamente mobile caratterizzato dalla guerra mondiale e in particolare dal protrarsi del conflitto sul fronte orientale», il cui svolgimento ha avuto «un potente effetto di retroazione sui processi decisionali che, a vari livelli, determinarono il declinarsi della 14

I comunisti furono considerati pericolosi oppositori al nazionalsocialismo e per questo internati come prigionieri politici. All’interno dei campi di concentramento, essi, come tutti i prigionieri politici, portavano sul “pigiama a righe” un triangolo rosso. 15 Furono i cosiddetti “triangoli viola”. Sull’argomento cfr. M. PIERRO, Fra Martirio e Resistenza. La persecuzione nazista e fascista dei Testimoni di Geova, Actac, Como 2002; C. VERCELLI, Triangoli viola. Le persecuzioni e la deportazione dei testimoni di Geova nei lager nazisti, Carocci, Roma 2011. 16 I cosiddetti “triangoli rosa”. Sull’argomento cfr. M. CONSOLI, Homocaust. Il nazismo e la persecuzione degli omosessuali, Kaos, Milano 1991; J. LE BITOUX, Les oubliés de la mémoire, Hachette, Paris 2002, trad. it., Il triangolo rosa. La memoria rimossa delle persecuzioni omosessuali, Manni, San Cesario di Lecce 2003. 17 Per lo sterminio degli “altri” perseguitati in generale, cfr. G. GIANNINI, Vittime dimenticate. Lo sterminio dei disabili, dei rom, degli omosessuali e dei testimoni di Geova, Nuovi Equilibri, Viterbo 2012. 18 La lista completa con mappe di tutti i campi e sottocampi nazisti in M. GILBERT, Atlas of the Holocaust, William Morrow & Company, New York 1993.

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“Soluzione finale della questione ebraica” fino a farla coincidere con lo sterminio generalizzato»19. Inizialmente la morte è prodotta mediante interminabili “fucilazioni in serie” dinanzi a grandi fosse preparate per accogliere i corpi:

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Dal mio posto potevo vedere che dalle baracche gli ebrei venivano scortati nudi da altri membri del nostro battaglione […]. I tiratori dei plotoni d’esecuzione, che sedevano sul bordo delle fosse proprio di fronte a me, erano membri dell’SD [Sicherheitsdienst, Servizio di Sicurezza]. Dietro ogni tiratore stavano, a una certa distanza, diversi altri uomini dell’SD che riempivano continuamente i caricatori dei fucili mitragliatori e li porgevano a quelli che sparavano. Per ogni fossa c’era un plotone d’esecuzione. Non saprei più dire il numero esatto delle fosse. È probabile che ce ne fossero molte e che le fucilazioni avvenissero simultaneamente in diversi posti. Ricordo con precisione che gli ebrei nudi venivano costretti a scendere nelle fosse e a sdraiarsi esattamente sopra a quelli che erano stati uccisi prima di loro. I tiratori sparavano poi una scarica contro quelle vittime prone. […].20 [Gli ebrei] erano costretti a spogliarsi nelle ultime baracche e a consegnare tutti i loro averi, poi venivano spinti attraverso il nostro cordone fino alle aperture in pendenza che conducevano alle fosse. Gli uomini dell’SD che stavano sui bordi portavano gli ebrei fino al luogo dell’esecuzione, e qui altri SD armati di mitragliatrice li fucilavano sparando dall’alto. […] gli ebrei appena arrivati erano costretti a sdraiarsi sui cadaveri di quelli appena eliminati. Poi anche loro venivano uccisi con raffiche di 19

B. MANTELLI, I campi di sterminio, in M. CATTARUZZA, M. FLORES, S. LEVIS SULLAM, E. TRAVERSO (a cura di), Storia della Shoah. Lo sterminio degli Ebrei, vol. 2, UTET–L’Espresso, Torino–Roma 2005–2008, p. 539. 20 C.R. BROWNING, Ordinary Men: Reserve Police Batallion 101 and the Final Solution in Poland, New York 1992, trad. it., Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, Torino 1995 (ora 2004), p. 145. È la testimonianza di un poliziotto indicato da Browning con lo pseudonimo di Heinrich Bocholt. Le esecuzioni sono riferite al campo di Majdanek in data 3–4 novembre 1943.

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mitragliatrice. Gli uomini dell’SD si preoccupavano di sparare agli ebrei in modo che i mucchi di cadaveri fossero digradanti, così i nuovi arrivati potevano sdraiarsi su pile che raggiungevano i tre metri. L’intero procedimento era la cosa più raccapricciante che avessi visto in vita mia, perché potei spesso constatare che dopo una raffica gli ebrei erano solo feriti, e quelli ancora in vita venivano praticamente sepolti vivi sotto i cadaveri di quelli fucilati dopo, senza che ai feriti fosse dato il cosiddetto colpo di grazia.21

Il sistema delle fucilazioni di massa, tuttavia, manifesta ben presto le sue “controindicazioni”, sia per la lentezza del procedimento sia per lo stress causato ai soldati incaricati dell’esecuzioni. Rudolf Höss, il primo comandante del grande campo di concentramento di Auschwitz, così commenta il lavoro e il relativo stress dei suoi soldati: «I tribunali inviavano al campo molte persone affinché venissero fucilate. Ho sempre protestato per il fatto di dover usare innumerevoli volte di seguito gli stessi uomini per i plotoni d’esecuzione» 22, così la tensione spesso comportava «frequenti suicidi nelle file delle squadre speciali, da parte di coloro che non erano più in grado di sopportare quei bagni di sangue», aggiunge Rudolf Höss, «alcuni sono impazziti. La maggioranza dei membri di queste squadre hanno cercato di dimenticare il loro triste lavoro annegando nell’alcool»23.

21

Ibidem. È la testimonianza di un poliziotto individuato dall’autore con lo pseudonimo di Martin Detmold. Anche in questo caso, le esecuzioni sono riferite al campo di Majdanek in data 3–4 novembre 1943. 22 In L. GOLDENSOHN , The Nuremberg Interviews, An American Psychiatrist’s Conversations With The Defendants and Witnesses, Alfred A. Knopf, New York 2004, trad. it., I taccuini di Norimberga. Uno psichiatra militare incontra imputati e testimoni, a cura di R. GELLATELY, il Saggiatore, Milano 2008, p. 364. 23 R. HÖSS, Commandant in Auschwitz, Deutsche Verlang–Anstalt, Stuttgart 1958, trad. it. Comandante in Auschwitz, Einaudi, Torino 1995, p.130.

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4.3. La morte anonima

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Constatato il peso psicologico e la lentezza delle fucilazioni di massa, si passa all’adozione dei Gaswagen, camere a gas mobili montate su autocarri per il trasporto merci e con il sistema di scappamento modificato, usate per asfissiare i prigionieri con il monossido di carbonio prodotto dallo stesso mezzo: I Gaswagen erano dei grandi autocarri con un cassone lungo 4 o 5 metri, largo circa 2 metri e 20 e alto 2 metri, rivestito all’interno di lamiera. Sul pavimento c’era una grata di legno. Nel fondo del cassone c’era un’apertura che poteva venir collegata allo scappamento con un tubo metallico mobile. Quando i camion erano al completo i battenti delle porte posteriori venivano chiusi e si stabiliva il collegamento tra lo scappamento e l’interno del camion […] I membri del commando impiegati come autisti dei Gaswagen mettevano poi in moto il motore, cosicché le persone che si trovavano all’interno morivano soffocate dai gas di scarico.24

Dai mezzi mobili si passa a camere opportunamente sigillate, in cui è iniettato lo scarico di camion o di carri armati. Dal monossido di carbonio, dopo il primo esperimento eseguito il 3 settembre 1941 nello scantinato del Blocco 11 del campo centrale di Auschwitz, si passa infine allo Zyklon B, un agente fumigante a base di acido cianidrico utilizzato come pesticida 25.

24

Dalla testimonianza di Walter Burmeister, autista di Gaswagen a Chełmno. E. KLEE, W. DRESSEN, V. RIESS, «The Good Old Days» The Holocaust as Seen by Its Perpetrators and Bystanders, Free Press, New York 1988, trad. it., «Bei tempi». Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha seguito e da chi stava a guardare, La Giuntina, Firenze 1990, p. 172. 25 Cfr. J.C. PRESSAC, R.J. VAN PELT, The Machinery of Mass Murder at Auschwitz, in Y. GUTMAN, M. BERENBAUM (eds), The Anatomy of the Auschwitz Death Camp, Indiana University Press and Washington DC, The United States Holocaust Memorial Museum, Bloomington (Indiana) 1994, pp. 183– 245. Lo Zyklon B era fornito da due società che costituivano la I.G. Farben, che deteneva il brevetto. Per il suo innegabile coinvolgimento con il nazismo, si ritenne doveroso processare la I.G. Farben a Norimberga.

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Le nuove strutture deputate alla morte in massa presentano il vantaggio di svolgere le esecuzioni in maniera tecnica, burocratica, impersonale26, sequenziale e “asettica”, rispettando al contempo il vincolo della segretezza e dell’occultamento:

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In effetti, la camera a gas segna il trionfo di una forma moderna di sensibilità che si preoccupa di organizzare il crimine ricorrendo alla burocrazia e alla tecnica, risparmiando così ai mandanti un’emozione insostenibile.27

Tuttavia, anche dopo l’industrializzazione del processo omicida attraverso le camere a gas, le fucilazioni di massa non sono interrotte. Questo processo amministrativo e industriale di produzione seriale della morte necessita sia di una complessa pianificazione, sia di un articolato sistema di controllo, sia di manodopera. Per questo, oltre all’impiego di spie e delatori reclutati tra i detenuti, il nazismo utilizza anche la collaborazione, attiva e soprattutto forzata di alcuni degli stessi internati, affidando loro la responsabilità anche di buona parte del processo di sterminio. Le strutture amministrative e repressive del regime organizzano dunque una gerarchia tra i detenuti per disgregare la coesione. Questa classificazione dei reclusi privilegia i prigionieri tedeschi rispetto agli slavi e, soprattutto, agli ebrei. Nei campi i detenuti responsabili nei confronti delle autorità SS sono così suddivisi in:

26

Un primo esempio di uccisione impersonale si trova in Francia nel XVIII secolo, con l’introduzione della ghigliottina per le pene capitali. La ghigliottina eliminava di fatto la figura del carnefice, anzi, la trasformava in un semplice funzionario, addirittura eleggibile dal 1790. Il carnefice diventava un manutenzionista e la morte diveniva indiretta, senza soggetto, eliminando l’orrore della violenza visibile. Sulla terribile macchina cfr. A. CASTRONUOVO, La vedova allegra. Breve storia della ghigliottina, Stampa Alternativa, Viterbo 2009. 27 G. BENSOUSSAN, Auschwitz en héritage? D’un bon usage de la mémoire, Éditions Mille et une nuits–Fayard, Paris 1988–2003, trad. it., L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, Einaudi, Torino 2014, p. 102.

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a) Lagerlältester, anziano del campo con la mansione di mantenimento della disciplina interna; b) Blockälteste, prigioniero anziano del blocco, capo blocco con mansioni di sorveglianza, controllo e mantenimento della disciplina; c) Stubendienst, inserviente di camerata, prigioniero responsabile di camerata; d) Dolmetscher, interprete; e) Schreiber, prigioniero scrivano; f) Haftlingsarzt, detenuto impiegato come medico per gli internati. Nei gruppi di lavoro all’interno dei campi esiste un’altra suddivisione gerarchica: a) Oberkapo, superiore tra i detenuti con facoltà di comando su un gruppo di baracche, coordinatore dei Kapo; b) Kapo, acronimo di Kameraden Polizei, aveva funzioni di responsabilità di una squadra di lavoro o di sorveglianza in generale; c) Unterkapo, vice dei Kapo; d) Vorarbeiter, collaboratori28. Tra i gruppi di lavoro c’è uno con la qualifica specifica di “addetti al crematorio, i cosiddetti Sonderkommandos. Il lavoro sporco dei «corvi del crematorio», come li ha chiamati Primo Levi, è descritto in tutti i suoi particolari dai pochissimi sopravvissuti29, ma soprattutto dalle memorie che gli uomini del kommando sono riusciti a scrivere e nascondere in contenitori di metallo, sotterrati nei dintorni dei luoghi dove prestano il loro 28

R. HILBERG, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1999, pp. 1020–1022. 29 Cfr. S. GRADOWSKI, In harz fun Gehenom. A dokument fun Auschwitzer Sonder–Kommando, 1944, Haim Wolnerman, Jerusalem 1977, trad. it., Sonderkommando. Diario da un crematorio di Auschwitz, 1944, trad. it. Marsilio, Venezia 2002; C. SALETTI (a cura di), Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz–Birkenau (1945), Ombre Corte, Verona 2004; S. VENEZIA, Sonderkommando. Dans l’enfer des chambres à gaz, Albin Michel, Parigi 2007, trad. it. Sonderkommando Auschwitz. La verità sulle camere a gas. Una testimonianza unica, Rizzoli, Milano 2007.

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lavoro forzato30. Da queste testimonianze è stato possibile comprovare i meccanismi dello sterminio. La gerarchizzazione, accompagnata dai relativi privilegi, favorisce la disgregazione interna e la conflittualità tra i detenuti, mentre la suddivisione in gruppi di lavoro annulla la distinzione fra persecutore e perseguitato, fra carnefice e vittima. Questo vale specialmente per gli uomini dei Sonderkommandos. Scrive Primo Levi: Si rimane attoniti davanti a questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei […] si piegano ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi. […] Aver concepito e organizzato le squadre speciali è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo.31

La biopolitica dei campi di sterminio nazisti non è solo morte, ma anche un lavorio sul corpo della vittima, che va bel al di là della morte stessa. Le strutture preposte al meccanismo di distruzione degli ebrei nei campi di sterminio nazisti prescrivono procedure pianificate dirette a velocizzare il meccanismo, massimizzandone l’efficienza omicida, hanno disposizioni dettagliate per il comportamento e la condotta del personale, stabiliscono regole per mantenere la disciplina tra gli internati, anche con artifizi e inganni rassicuranti32.

30

Cfr. C. SALETTI (a cura di), La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz, Marsilio, Venezia 1999. 31 P. LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991, pp. 36–37. 32 Ad esempio, A Bełżec e nel campo principale di Auschwitz i deportati erano accolti da un’orchestrina composta da internati. Nel campo di Treblinka, l’edificio che ospitava le camere a gas aveva all’ingresso la Stella di David e una tenda con l’iscrizione in ebraico del Salmo 117 (19–20): «Questa è la porta che conduce al Signore, i Giusti entreranno per essa». Questo, più che a schernire le vittime, aveva lo scopo di rassicurarle. Y. ARAD, Belzec, Sobibor, Treblinka. The Operation Reinhard. Death Camps, Indiana University Press, Bloomington (Indiana) 1999, p. 218.

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All’arrivo dei deportati nei Lager33, i medici effettuano sulla banchina ferroviaria una sommaria valutazione delle condizioni fisiche e, quindi, delle capacità lavorative di tutti i deportati. Con una semplice indicazione decidevano sul destino che spettava a ognuno di loro: da una parte quelli destinati al lavoro, dall’altra alla morte immediata. I deportati destinati alla morte sono subito portati dinanzi alle camere a gas, fatti spogliare e, quindi, fatti entrare con l’inganno nelle “docce”. Il rito della vestizione, come ultima azione della vita è colto da un carnefice, Franz Stangl, il comandante delle SS del campo di Treblinka: Le baracche di svestizione. Le evitavo a ogni costo: non potevo affrontarli; non riuscivo a mentire, a quella gente, evitavo a ogni costo di parlare a coloro che stavano per morire; non riuscivo a sopportarlo.34

Il nazista Franz Stangl è evidentemente cosciente che proprio quello è il momento in cui l’umano si muta, diventando carne da macello. Abraham Bomba, ex deportato inquadrato come barbiere nel Sonderkommando di Treblinka, racconta invece il momento preciso in cui i detenuti sono gasati: I pianti, le grida, le urla... Ciò che succedeva laggiù era impossibile... I richiami, le grida vi restavano nelle orecchie e nella testa per giorni e giorni, e anche di notte. […] All’improvviso tutto si fermò, come per ordine. Tutto era diventato silenzioso, laggiù dove le persone erano scomparse, come se tutto fosse morto. Allora ci dissero di pulire tutto là dove circa due-

33

Sulle procedure della deportazione nei campi della morte, cfr. F. CEREJA, B. MANTELLI (a cura di), La deportazione nei campi di sterminio nazisti, FrancoAngeli, Milano 1987. 34 G. S ERENY, Into That Darkness: from Mercy Killing to Mass Murder, a study of Franz Stangl, the commandant of Treblinka, McGraw Hill, New York 1974, trad. it., In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975, p. 273.

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mila persone si erano spogliate all’aria aperta, e di portar via tutto, di evacuare tutto, e questo in un secondo.35

A questo punto inizia il lavoro del Sonderkommando. Tutti i cadaveri prelevati dalla camera a gas sono sottoposti a una precisa e meticolosa serie di operazioni da parte degli uomini “addetti al crematorio”. Così, alle donne i “barbieri” tagliano i capelli, che poi sono inviati alla conceria situata generalmente vicino a un campo base e infine spediti in Germania (dove sono utilizzati come fibre tessili per fabbricare tappeti, imbottiture, cappotti). Tutti i corpi sono poi ispezionati alla ricerca di denti d’oro, che sono estratti con comuni tenaglie da un’apposita squadra di “dentisti”. Infine, i cadaveri sono portati a mano dinanzi ai forni crematori (che generalmente si trovano a fianco delle camere a gas), qui un’altra squadra procede alla cremazione. Un altro gruppo, invece, è incaricato di raccogliere le ceneri in specifici contenitori. Un’altra squadra ancora ha il compito di recuperate qualsiasi oggetto di valore dagli indumenti negli spogliatoi36. Inizialmente i corpi sono sotterrati in fosse comuni. A partire dall’estate 1942 le procedure cambiano: se inizialmente i tedeschi sono fiduciosi nella vittoria, ora tale prospettiva si allontana, per questo la gerarchia nazista si preoccupa di eliminare le tracce dello sterminio in atto: l’occultamento del crimine diventa importante quanto il crimine stesso. Himmler istituisce un comando speciale incaricato di riesumare e bruciare i corpi e disperderne le ceneri. Questa operazione è denominata “Azione speciale 1005” (chiamata infor35

Dal film–documentario realizzato da Claude Lanzmann sullo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, Shoah, Historia Film–Les Aleph, Ministère de la Culture de la Republique Française, Paris 1985. Il libro è edito da Fayard, Paris 1985, trad. it. libro Shoah, Bompiani, Milano 2007. Video e libro da Einaudi, Torino, 2007. 36 Mi sono “occupato” dei “corvi del crematorio” in Le categorie della violenza politica del Novecento. I Sonderkommandos, i «sommersi» dei Vernichtungslager, in «Clio. Rivista trimestrale di Studi Storici», Anno XLVIII, n. 3, 2012, pp. 505–520.

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 169

malmente Enterdungsaktion, “Operazione disseppellimento”) ed è affidata al colonnello Paul Blobel, in precedenza comandante di un Einsatzkommando (le “unità d’azione” al seguito dell’esercito tedesco) all’Est37. Blobel inizia dal campo di Chełmno adottando, dopo aver fatto disseppellire i cadaveri, il metodo della cremazione dei corpi in grandi pire all’aperto, mentre le ossa sono macinate con una speciale macchina tritaossa (Knochenmühle)38. Dalla cremazione all’aperto si passa ai forni39.

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4.4. La negazione della vita e la sottrazione della morte Nei campi di sterminio non si esce vivi, e neppure morti. Si passa solo “durch den Kamin, “attraverso il camino”, minacciosa locuzione e atroce scherno che indicava l’unica strada per uscire dal campo. Il camino dei crematori e il suo “prodotto” sono i simboli di quello che si consuma nel cuore dell’Europa. Sono i simboli che vogliono celare all’umanità la biopolitica nazista, rivelando al tempo stesso al piccolo mondo dei Vernichtungslager che qualcuno ha lasciato per sempre quell’inferno. Perché gli internati sanno perfettamente il significato di quelle volute di fumo e di quell’odore acre che si sprigionano da quei camini. Rievoca Lidia Beccaria Rolfi, staffetta partigiana arrestata dai fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana e incarcerata a Cuneo, Saluzzo e Torino, prima di diventare “ospite” a Ravensbrück: il camino del crematorio effondeva «un odore acre di carne bruciata», sputando «una fiamma rossa e sanguigna che

37

Cfr. P. DESBOIS, F. LEVANA, Opération 1005. Des techniques et des hommes au service de l’effacement des traces de la Shoah, Les Études du Crif, Paris 2003. 38 R. HILBERG, La distruzione degli ebrei d’Europa, cit., pp. 1077–1078. 39 L. PICCIOTTO, I campi di sterminio nazisti. Un bilancio storiografico, in AA. VV., Lager, totalitarismo, modernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 116–121.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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non riscalda, una fiamma che agghiaccia, che paralizza le membra, una fiamma di morte»40. Elvira Bergamasco, diciassettenne staffetta partigiana, triangolo rosso ad Auschwitz con il numero 88653, ricorda: «La notte, in quel silenzio tombale, si sentiva solo la nebbia, il fumo dei cadaveri che si toccava con le mani»41. Per Giuliana Fiorentino in Tedeschi, deportata con la “stella gialla” dapprima a Birkenau col numero 76847 e poi a Ravensbrück, è proprio l’odore penetrante di carne bruciata che si sparge nei campi, uno dei fantasmi che accompagna l’esistenza nel campo: Si andava intanto diffondendo per tutto il campo un odore che solo noi anziane sapevamo riconoscere, quell’odore che perseguitava le nostre narici, che si attaccava alle nostre vesti, un odore che invano cercavamo di fuggire rintanandoci nell’interno dei blocchi, che ci toglieva la speranza del ritorno, di rivedere un giorno la nostra terra, i nostri figli: l’odore della carne bruciata.42

Il camino, con il suo fumo e odore di morte, diviene il simbolo dei campi di sterminio. Esso rappresenta la zona liminare del rito di passaggio che si consuma nel campo di sterminio, con il prima, il corpo morto, ucciso, gassato, ancora prigioniero nel campo, pesante, perché ancora gravato dell’inumanità degli aguzzini, e il dopo, il fumo del corpo bruciato che abbandona il campo, leggero, che diventa per sempre libero e che nessuno può più imprigionare. L’ombra del crudele e infernale camino oscura continuamente i pensieri degli internati, alzando «al cielo il dolore del 40

L. BECCARIA ROLFI, Taccuini del Lager, in B. MAIDA, Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi, Utet. Torino. 2008, p. 167. 41 E. BERGAMASCO, Il cielo di cenere, Nuova Dimensione, Portogruaro (Venezia) 2005, p. 93. Elvira Bergamasco si riferisce al fumo che si sprigionava dalle grandi pire all’aperto, quando i forni divennero insufficienti a smaltire i corpi senza vita dei deportati. 42 G. TEDESCHI, C’è un punto sulla terra... Una donna nel Lager di Birkenau, Giuntina, Firenze 1988, p. 73.

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mondo, e» spargendo «sulla terra l’odore acre della sofferenza»43. Il fumo si annida nell’anima dei prigionieri ancora vivi, annerendo la fede e la speranza. L’odore acre della carne bruciata, con il suo lezzo di morte, adombra la residua vita degli “abitanti della città della morte”, costretti a convivere con la paura che un giorno tocchi a loro diventare kaminfutter (combustibile per camino): Di fronte a un camino da cui viene fuori in continuazione una fiamma che sparge attorno un odore acre di carne bruciata, che ti invade l’animo prima che le narici, niente più ha importanza, non un’umiliazione di questo tipo, non le botte, non la sofferenza fisica. L’immagine del camino che arde rappresenta la totalità delle emozioni che si possono vivere, superata forse soltanto dalla paura che possa toccare a te.44

La morte nei campi, dunque, si vede e si annusa. Si vede attraverso il fumo, la nebbia di morte che esce dal camino. Si annusa attraverso l’odore acre di carne bruciata, alito infernale che si sparge sulla terra. Il fiato della morte aleggia imperterrito all’interno del campo, si impadronisce pian piano del corpo, della mente e dell’anima. Attraverso il camino accesso, che sputa fumo infernale, la morte entra a far parte della vita, la sua ingombrante presenza sostituisce il tempo, inesorabilmente fermatosi all’ingresso assieme ai nomi, ai ruoli, alle professioni, alle gerarchie, patrimonio della vita normale. La morte diventa così una compagna inseparabile, che blocca l’orologio della vita, sincronizzando quello del supplizio. Perché il tempo dei deportati, gli esclusi alla prima “selezione”, è solo una sospensione temporanea alla morte. Per questo è un “non–tempo”, perché quando si vive col tormento di poter essere da un momento all’altro “scelto”, allora 43

E. SPRINGER, Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione, Marsilio, Venezia 2011, p. 117, (orig. 1997). 44 Testimonianza di Goti Bauer in D. P ADOAN, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Bompiani, Milano 2010, p. 89, (orig. 2004).

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

ogni attimo, ogni respiro diventa prezioso per sperare. Un non– tempo, perché il passato è stato cancellato per sempre, mentre il futuro è immateriale, come quel fumo che esce dal camino, diventando una “sfumatura” della non–vita. Il camino è l’emblema della deprivazione estetica alla quale il campo di sterminio ha ridotto il senso della morte, «ridotta a pura sofferenza della carne» 45. Gli stessi crematori inghiottono per sempre la vita, perché anche un corpo morto è “vivo”, puoi toccarlo, accarezzarlo, piangerlo, seppellirlo. Privando l’uomo della sua stessa condizione prettamente umana e della rispettabilità del corpo ucciso, i Vernichtungslager depredano all’individuo anche «la sua morte, dimostrando che da quel momento niente più gli apparteneva ed egli non apparteneva più a nessuno», perché «la sua morte non faceva altro che suggellare il fatto che egli non era mai esistito»46.

4.5. L’occultamento e la scoperta dei Lager nazisti La disastrosa situazione bellica tedesca sui fronti di guerra a Est, provoca l’abbandono, la distruzione e l’occultamento dei campi esposti all’avanzata dell’Armata Rossa, il trasferimento forzato dei detenuti superstiti ancora in salute in Germania, l’uccisione immediata dei prigionieri malati o non in grado di affrontare il lungo viaggio in carri bestiame o a piedi47: «I Lager erano diventati pericolosi per la Germania moribonda perché contenevano il segreto dei Lager stessi, il massimo crimine nella storia dell’umanità»48. 45

S. ZAMPIERI, Il flauto d’osso. Lager e letteratura, Giuntina, Firenze 1996, p. 24. 46 H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace and World, New York 1951, trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 619. 47 Cfr. M. M AZOWER, Hitler’s Empire. Nazi rule in occupied Europe, Allen Lane, London 2008, trad. it., L’impero di Hitler. Come i nazisti governavano l’Europa occupata, Mondadori, Milano 2010, pp. 423–424. 48 P. LEVI, I sommersi e i salvati, cit., p. 5.

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Le Todesmärschen, le “marce della morte”, sono per i deportati che ancora sopravvivono alla loro grande tragedia un’ulteriore dolorosa appendice, ancora un’offesa alla vita, ancora un contributo alla morte, alla “selezione” e al genocidio. Il trasferimento forzato dei prigionieri verso i campi della Germania, infatti, ha un tasso di mortalità elevato, quasi la metà non sopravvive alla fatica, alla fame, al rigore dell’inverno, alle violenze dei nazisti49: «giorno e notte abbiamo camminato, come Pollicino seminava le briciole, noi seminavamo i cadaveri»50, i prigionieri sfiniti e quelli che rimanevano indietro loro li coricavano nella cunetta, gli sparavano un colpo alla nuca e li lasciavano lì, come dei cani, una moschettata alla nuca con un piede sulla schiena. 51

Così, pur ripiegando su se stessa, la macchina dello sterminio continua a mietere vittime. Sia l’abbandono dei Lager da parte dei nazisti sia la liberazione degli internati da parte degli Alleati 52 avvengono in tempi diversi, secondo l’avanzata del fronte di guerra. Infatti, man mano che l’offensiva sovietica procede, è dato il compito di abbandonare i campi, cercando di eliminare il più possibile le prove dello sterminio di massa53. 49

Cfr. D. GOLDHAGEN, Hitler’s Willing Executioners. Ordinary Germans and the Holocaust, Alfred A. Knopf, New York 1996, trad. it., I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1996, parte V. 50 Testimonianza di Giovanni Campi, in A. BRAVO, D. J ALLA, La vita offesa: storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, FrancoAngeli, Milano 1987, p. 297. 51 Testimonianza di Adriana Bruschi Barguino, in ibidem. 52 La liberazione dei prigionieri dei campi nazisti, comunque, avvenne per caso, perché le strutture si trovavano unicamente lungo la strada delle truppe che avanzavano. 53 Cfr. L. PICCIOTTO F ARGION, La liberazione dai campi di concentramento e il rintraccio degli ebrei dispersi, in AA. VV., Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Giuntina, Milano–Firenze 1998, pp. 12–30.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Nell’autunno 1943, arriva l’ordine di chiudere e distruggere senza lasciare traccia i Vernichtungslager di Bełżec, Treblinka e Sobibor. La rivolta di Treblinka (2 agosto)54 e quella di Sobibór (14 ottobre)55, affrettano la decisione di chiudere questi campi. Il Lager di Bełżec è raso al suolo e sul terreno sono piantati alberi di pino. A Treblinka, invece, dopo la demolizione completa del centro, è costruita una fattoria agricola, data in affidamento a una famiglia ucraina. Anche il campo di Sobibor è completamente distrutto56. Stessa sorte tocca al centro di Chełmno, dove nel gennaio del 1945 sono incendiate tutte le installazioni e definitivamente abbandonato il giorno 18 dello stesso mese 57. Majdanek (Lublino) è il primo Vernichtungslager a essere liberato. La rapidità dell’avanzata della 2ª Armata corazzata sovietica impedisce di evacuare completamente i prigionieri e distruggere completamente in tempo il campo, che quindi è liberato il 23 luglio 1944 pressoché intatto 58. In questo modo l’Armata Rossa trova le prime spaventose prove del processo di annientamento. Ironia della storia, i primi a entrare in un campo di concentramento nazista sono i soldati dell’esercito di un Paese in cui, la deportazione e la concentrazione di elementi nemici sono una delle esperienze fondanti del suo regime. Il 17 gennaio del 1945 inizia l’evacuazione del grande complesso concentrazionario di Auschwitz–Birkenau dei detenuti 54

Gli eventi della rivolta nella testimonianza di Franciszek Zabecki, capo– movimento della stazione ferroviaria di Treblinka, nonché informatore della resistenza polacca: Wspomnienia stare i nowe, Pax, Warszawa 1977, p. 94– 99. 55 Cfr. Y. ARAD, Belzec, Sobibor, Treblinka. The Operation Reinhard, cit., pp. 322–333. 56 Cfr. Ivi, pp. 370–376. 57 P. MONTAGUE, Chelmno and the Holocaust: The History of Hitler’s First Death Camp, University of North Carolina Press, Chapel Hill (Carolina del Nord) 2012, pp. 168–174. Sulla storia del campo cfr. anche S. KRAKOWSKI, Chełmno A Small Village in Europe. The first Nazi mass extermination camp, Yad Vashem, Jerusalem 2009. 58 J.ERICKSON, The road to Berlin, Cassell, London 2002, p. 244. Sul campo cfr. J. MARSZAŁEK, Majdanek, the concentration camp in Lublin, Interpress, Warsaw (Polska) 1986.

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 175

ancora presenti (31.800 nel campo principale, compreso Birkenau, e 35.100 a Monowitz), la fucilazione di numerosi detenuti, tra cui duecento donne, la distruzione delle strutture dei campi59. Il programma di rimozione di Auschwitz e dei suoi sottocampi è ancora in corso60, quando il primo pomeriggio del 27 gennaio 1945 i reparti della 60ª Armata del 1º Fronte ucraino del maresciallo Ivan Konev e le Divisioni 100ª e 107ª dei fucilieri liberano il campo61. I sovietici trovano ancora molti prigionieri, strutture, documenti ed enormi quantità di effetti personali delle vittime 62. Dai documenti dell’Armata Rossa risulta 2.819 prigionieri liberati, mentre sono ritrovati 348.820 abiti maschili e 836.255 cappotti e abiti femminili, 5.525 paia di scarpe da donna, sette tonnellate di capelli, montagne di occhiali, utensili e molti oggetti della vita quotidiana63. Nei mesi seguenti, i sovietici e gli Alleati liberano altri campi affrontando l’orrore contenuto. Con la liberazione dei Lager, l’opinione pubblica mondiale apprende la crudeltà e l’acribia con cui i nazisti hanno attuato la politica di annientamento. I documenti rinvenuti 64 e la testimonianza dei sopravvissuti fanno conoscere al mondo le assurde dimensioni di una realtà che ha attuato una biopolitica estrema, una realtà che è stata capace di travasare la vita in uno spazio di morte. 59

R.HILBERG, La distruzione degli ebrei d’Europa, cit., p. 1082. Alcune strutture del campo, tra cui il forno crematorio IV, furono distrutte pochissime ore prima dell’arrivo dei sovietici. Giorni prima i nazisti avevano distrutto i crematori I e II. 61 J.ERICKSON, The road to Berlin, cit, p. 472. 62 M. M AZOWER, L’impero di Hitler, cit., pp. 428–429. 63 C. BELLAMY, Absolute War. Soviet Russia in the Second World War, Pan Macmillan, London 2009, trad. it., Guerra assoluta. La Russia sovietica nella Seconda Guerra Mondiale, Einaudi, Torino 2010, p. 737; R. HILBERG, La distruzione degli ebrei d’Europa, cit., p. 1082. 64 Il materiale sopravvissuto fu molto più ingente del previsto: tra otto e dodici chilometri di scaffali di dossier. G. GOZZINI, La strada per Auschwitz. Documenti e interpretazioni sullo sterminio nazista, Bruno Mondadori, Milano 1996, p.19; R. HILBERG, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cit., p. 1385. 60

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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4.6. Lager e stermini in Serbia A seguito dell’invasione nazista della Jugoslavia, iniziata la mattina del 6 aprile 1941 con il bombardamento a tappeto di Belgrado, il Regno jugoslavo è del tutto smembrato: gli italiani prendono parte della Slovenia (provincia di Lubiana), della costa dalmata della Croazia e il Kosovo del Sud; i tedeschi occupano due terzi della Slovenia e larga parte della Serbia, compreso il Nord del Kossovo; la Bulgaria si impadronisce della Macedonia; l’Ungheria incorpora parte della Vojvodina e della Slavonia. Ciò che resta diventa Stato Indipendente di Croazia (in croato Nezavisna Država Hrvatska). Proclamato il 10 aprile 1941, questa nuova entità politica comprende la Croazia, senza l’Istria e la Dalmazia, tutta la Bosnia–Erzegovina e una parte della Vojvodina (Sirmie). Il controllo del nuovo Stato croato è subappaltato in favore della famigerata “Organizzazione Rivoluzionaria Croata Ustascia” (in croato Ustaša – Hrvatska revolucionarna organizacija)65, guidata da Ante Pavelić, ex deputato al Parlamento nazionale di Belgrado nel 1927, che assume il titolo di Poglavnik (condottiero, duce). Per gli ebrei, per i rom e per il popolo serbo inizia un pietoso calvario che si protrae per tutta la guerra. Tutti i regimi di occupazione dei Balcani, infatti, sono molto spietati e crudeli. La politica concentrazionaria è adottata come preciso metodo per facilitare l’eliminazione anonima dei nemici politici, religiosi e di “razza”66. In Serbia i nazisti sono particolarmente efferati. Infatti, i soldati di Hitler si “presentano” in Serbia attraverso l’“Operazione Castigo”, come la chiamò furiosamente il Führer: ventiquattro ore di bombardamenti a tappeto da parte della Luftflotte 4 della Luftwaffe sulla città di Belgrado, con un bilancio drammatico di 17mila civili uccisi. Conquistata la Serbia, i nazisti si abbandoIl termine “ustascia”, in croato ustaša, proviene dal verbo ustati o ustajati, che significa “insorgere, risvegliare”. 66 Cfr. P. MOJZES, Balkan Genocides. Holocaust and Ethnic Cleansing in the 20th Century, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham (Maryland) 2011, ora 2013. 65

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 177

narono a spietati crimini contro i civili, con saccheggi, violenze sessuali, deportazioni ed esecuzioni sommarie 67. Per tagliare il sostegno dei civili serbi alla lotta partigiana, è creato dai nazisti un “Governo di salvezza nazionale serbo” (Vlada Nacionalnog Spasa Srbije), guidato dal generale serbo Milan Nedić, ex Ministro dell’Esercito e della Flotta nel Regno di Jugoslavia. Il governo è ovviamente sotto il comando militare tedesco. Nedić collabora con i nazisti, consentendo l’apertura di campi di concentramento, la creazione di una Gestapo serba e di una legione militare serba, la Serbisches SS-Freiwilligen Korps (Corpo di Volontari Serbi delle SS). L’odio viscerale dei nazisti contro i serbi si manifesta soprattutto con grandi eccidi in massa, specialmente dopo ogni azione militare da parte della vigorosa resistenza. Precisamente nelle direttive del Capo di stato maggiore Wilhelm Keitel e del generale plenipotenziario per la Serbia Franz Böhme, sono fissate precise quantità di persone da arrestate e fucilare come rappresaglia dopo ogni azione della resistenza: cento serbi per ogni tedesco ucciso e cinquanta per ogni ferito 68. I nazisti riprendono la politica concentrazionaria adottata in Polonia, applicandola anche nei territori balcanici da loro occupati. In Serbia si aprono così numerosi campi di concentramento e di sterminio69. Tra questi, i campi di Crveni Krst (Niš), Zasa-

67

Cfr. K. BROWNING, The Final Solution in Serbia. The Semlin Judenlanger. A Case study. Yad Vashem Studies, XV, Jerusalem 1983, pp. 55-90; C. BROWNING, Fateful Months. Essays on the Emergence of the Final Solution, Holmes and Meier, New York 1985. 68 Cfr. P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, in E. COLLOTTI (a cura di), L’occupazione nazista in Europa, Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 517–552. 69 Cfr. V. GLIŠIĆ, Concentration Camps in Serbia 1941–1944, The Third Reich and Yugoslavia 1933–1945, Institute for Contemporary History, Beograd 1977; W. MANOSCHEK, The extermination of Jews in Serbia, in U. HERBERT, National Socialist Extermination Policies, Berghahn, New York– Oxford 2004, pp. 163–185 (orig. Nationalsozialistische Vernichtungspolitik. 1939–1945, Fisher, Frankfurt am Main 1998).

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

vica, Šabac, Čačak, Smederevska Palanka, Kruševac, Jajinici (Pančevo), Banjica, Sajmište (Fiera di Belgrado). Gli “ospiti” involontari dei campi nazisti nei Balcani sono principalmente donne, bambini e anziani, giacché la maggior parte degli uomini è soppressa quasi subito. Se Auschwitz è il simbolo dei crimini nazisti in Europa occidentale, il lager di Sajmište rappresenta l’emblema della catastrofe delle popolazioni slave sotto il nazismo70. Sajmište è un grande quartiere fieristico che si trova vicino alla città di Zemun (Semlin), zona separata da Belgrado dal fiume Sava. Eretta nel 1936, la zona fieristica è molto grande, con una monumentale torre centrale circondata da cinque padiglioni principali (i cosiddetti “padiglioni jugoslavi”), il più grande dei quali è il numero 3 con una superficie di 5.000 metri quadrati. Poi ci sono i “padiglioni stranieri” (italiano, ungherese, rumeno, cecoslovacco, turco, tedesco, sovietico) e una serie di strutture più piccole sponsorizzate da aziende private, tra cui il padiglione Nikola Spasić (finanziato da una fondazione costituita dal ricco imprenditore serbo Nikola Spasić) e della Philips (il produttore olandese di elettronica), che nel 1938 organizza la prima trasmissione televisiva nei Balcani dal suo stand. All’interno della fiera c’è anche una torre in acciaio per il paracadutismo alta 74 metri, la più alta in Europa all’epoca, costruita dal produttore di auto cecoslovacco Skoda. Dopo l’invasione nazista nei Balcani, il quartiere fieristico è sotto la giurisdizione del comando locale di Zemun (Semlin), anche se formalmente si trova nel territorio croato. Il governo Ho ripreso in questo paragrafo il mio saggio breve Sajmište, un campo di concentramento nazista in Serbia, in «Storia in Network», febbraio 2019, http://www.storiain.net/storia/sajmiste-un-campo-di-concentramento-nazistain-serbia/. Documenti e notizie di questo campo in «Staro sajmište», sito web ufficiale (in serbo e inglese), http://www.starosajmiste.info/en/sajmistecamp/history. Cfr. anche M. SHELACH, Sajmište. An Extermination Camp in Serbia, in M. MARRUS (ed.), The Nazi Holocaust. Historical Articles on the Destruction of European Jews, The Victims of the Holocaust, vol. 2, part. 6, Westport-London, 1989, pp. 1168-1185; S. MENACHEM, Sajmište – An Extermination Camp in Serbia, «Holocaust and Genocide Studies», n. 2, 1987, pp. 243–260. 70

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 179

ustascia di Zagabria, ovviamente, non oppone il suo diniego alla conversione della fiera in luogo di internamento gestito dai tedeschi, chiedendo solamente di evitare la presenza di guardie o miliziani serbi sul suo territorio. L’ex fiera esce relativamente incolume dai bombardamenti aerei nazisti del 6 aprile 1941. Solo danneggiamenti ai tetti, alle pareti e alle finestre, senza importanti danni strutturali agli edifici. Al quartiere fieristico bastano modesti lavori di ristrutturazione per diventare operativo. Così sono assegnati i lavori alla società di costruzioni statale tedesca Todt, che utilizza circa duecento ebrei internati nel vicino campo di concentramento di Topovske Šupe. Sono predisposti servizi igienici improvvisati e punti idrici all’aperto. Con delle semplici assi sono costruiti letti a castello su tre o quattro livelli. Le finestre rotte sono sostituite da assi di legno. Ovviamente il campo è recintato con filo spinato alto quattro metri. Tutti i lavori sono molto approssimativi. La direzione del campo è affidata al sottotenente delle SS Herbert Andorfer, suo vice è il sottoufficiale Edgar Enge. Inizialmente il campo è alle dirette dipendenze del Gruppo operativo di polizia del colonnello Wilhelm Fuchs, poi passa sotto il comando del generale delle SS August von Meyszner, tuttavia il responsabile diretto diventa Emanuel Schäfer, nuovo comandante della polizia. Il 7 dicembre 1941 tutti gli ebrei di Belgrado ricevono l’ordine di presentarsi agli uffici della Judenreferat (Polizia ebraica) in via George Washington il mattino seguente, muniti di provviste sufficienti per tre giorni. Dopo aver consegnato le chiavi delle loro case, sono deportati alla ex fiera di Belgrado, che da quel momento diventa il Judenlager Semlin (in serbo Jevrejski Logor Sajmište). I primi cinquemila ebrei, donne e bambini, sono collocati nell’edificio più grande, il padiglione jugoslavo numero 3. Via via sono riempiti anche gli altri settori: il numero 2 dai rom, il numero 5 dagli uomini che lavoravano alla manutenzione del campo, nel padiglione numero 4 è installata la cucina, il padiglione turco è destinato alle docce e in seguito a obitorio, nel

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

“Nikola Spasić” è montato l’ambulatorio ospedaliero e la farmacia. L’amministrazione del campo si insedia nella torre centrale, sulla cui cima sventola la bandiera nera delle SS. Come nei lager dell’Europa centrale, l’autorità naziste del campo affidano agli stessi ebrei il mantenimento della disciplina all’interno del campo. Il rifornimento alimentare è a carico del Comune di Belgrado, tuttavia, poiché il cibo manca anche in città, giacché gran parte della produzione agricola è regolarmente requisita da nazisti e inviata in Germania, il campo ebraico è posto in fondo alla loro lista di priorità. La vita all’interno del campo ricalca quella degli altri lager nazisti. La sveglia è alle ore 5, seguita subito dall’appello all’esterno tenuto in qualsiasi condizione climatica. I tre pasti giornalieri sono molto miseri: a colazione tè molto blando o surrogato di caffè entrambi senza zucchero, a pranzo e cena zuppa di cavolo, fagioli o patate senza grasso e senza sale, un pezzetto di pane secco di mais. La promiscuità, l’affollamento, la scarsissima alimentazione, l’inadeguatezza delle precarie strutture (infiltrazioni di pioggia, vento, neve) e l’insufficienza delle stufe per riscaldare i grandi padiglioni, ben presto causano il diffondersi di malattie, soprattutto dissenteria e tifo. Le condizioni inumane all’interno del campo, le sofferenze e le strategie per sopravvivere sono descritte dalle stesse internate in alcune lettere e biglietti inviati ai loro cari che, grazie ad alcuni lavoratori esterni e soprattutto medici e corrieri dell’ospedale ebraico che periodicamente si recavano a Sajmište, riescono a far uscire. Per questo una dozzina di internate e postini sono pubblicamente fucilati71. Nato come luogo di concentramento, il campo di Semlin diventa presto un luogo di destinato allo sterminio72. Infatti, il 71

Le missive sono ora conservate presso il Museo ebraico di Belgrado. Cfr. Š. LJUBICA, From Fairy Tale to Holocaust. Serbia. Quisling Collaboration with the Occupier During the Period of the Third Reich with Reference to Genocide Against the Jewish People, Culture and Promotion Department, Ministry of Foreign Affairs, Republic of Croatia, Zagreb 1993. 72

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 181

comando nazista locale è sotto pressione per trovare sia una soluzione al “problema ebraico” sia per svuotare il campo dagli untermensch (sotto uomini) e far posto ai numerosi appartenenti alle forze partigiane. Per uccidere nel Judenlager Semlin si fa ricorso a metodi alternativi, come quello dei Gaswagen. Infatti, il campo è dotato di un camion cassonato Saurer, opportunamente modificato per gassare i condannati a morire. La “camera a gas mobile” è guidata dal sergente Wilhelm Götz e dal primo tenente Erwin Meyer, ambedue delle SS. Entrambi portano il loro carico umano annientato durante il tragitto, ai piedi del monte Avala, presso il villaggio Jajinci, a meno di una decina di chilometri da Belgrado. Qui sette prigionieri serbi gettano i corpi in grandi fosse comuni73. Ogni giorno feriale il furgone della morte lascia il campo con il suo carico umano, per dirigersi più volte verso le grandi fosse comuni ai piedi del monte Avala. Un vero e proprio lavoro normale, che si interrompe la domenica per far riposare gli “operai della morte”. Nell’aprile del 1942, con i viaggi della morte ancora in corso, arrivano nel campo anche i primi prigionieri politici. Terminate le gasazioni degli untermensch, il campo diventa Anhaltelager, campo di fermo e di lavoro forzato. La maggioranza degli internati sono serbi, ma ci sono anche antinazisti croati, bosniaci e albanesi. A seguito dei bombardamenti alleati, l’Anhaltelager di Semlin, anch’esso colpito nell’aprile 1944, è svuotato e gli internati sono trasferiti in altri campi. Il 26 luglio 1944 l’ex fiera di Belgrado è formalmente abbandonata e consegnata alle forze di polizia ustascia dello Stato indipendente della Croazia 74. 73

Cfr. D. ALBAHARI, Gec i Majer, Stubovi Kulture, Beograd 1998, trad. it. Goetz e Meyer, Einaudi, Torino 2006. È un romanzo ricco di elementi storici, biografici e autobiografici. 74 Il campo non è oggi un memoriale. Del campo vero e proprio restano poche tracce. Una parte è divenuta un quartiere popolare residenziale, altre zone sono diventate ristoranti e luoghi di intrattenimento. Alcune targhe commemorative e un imponente monumento, creato dall’artista Miodrag Popović, ricordano tutte le vittime jugoslave della follia nazista.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Nella Serbia occupata dai nazisti la mattanza di ebrei, rom e serbi si consuma sia nei Lager sia per la strada e nelle campagne: si calcola che solo poco più del 10% della popolazione ebraica in Serbia sia sopravvissuta allo sterminio, una percentuale tra le più basse d’Europa. Tanto che Emanuel Schäfer, comandante della polizia di sicurezza e della Gestapo in Serbia, in un telegramma inviato a Berlino scrive: «Serbien ist judenfrei»75, mentre Harald Turner, il comandante dell’amministrazione militare nazista in Serbia può orgogliosamente comunicare a Alexander Löhr, comandante di tutte le forze militari tedesche schierate nei Balcani che «La Serbia è l’unico paese in cui la questione ebraica e la questione zingara sono state risolte» 76. Ancor più terribile è la tragedia che si consuma nei territori del nuovo Stato ustascia. 4.7. La “santa macelleria” nei campi ustascia La nuova Croazia di Ante Pavelić, imbevuta di fanatismo religioso (cattolico)77 e impregnata di un nazionalismo esasperato, si spande su oltre il 40% del territorio dell’ex Regno di Jugoslavia ed è abitata, oltre da croati, anche da serbi, musulmani, rom, ebrei e tedeschi, tutti considerati alieni al nuovo Stato. Tuttavia il nuovo regime concede alla comunità tedesca lo status privilegiato di minoranza, “soprassedendo” sulla presenza dei musulmani. Tutte le altre etnie devono essere in parte eliminate fisi-

75

Cfr. B.M. LITUCHY, Jasenovac and the Holocaust in Yugoslavia. Analyses and survivor testimonies, Jasenovac Research Institute, Jasenovac 2006, p. XXXIII. 76 Cfr. D. DWORK, R.J. VAN PELT, Holocaust. A history, WW Norton, New York 2003, p.184; W. MANOSCHEK, “Serbien ist judenfrei”. Militärische Besetzungspolitik un Judenvernichtung in Serbien 1941/42, Oldenbourg, München 1993. 77 La “compagnia di Gesù del nazionalismo croato”, così sono stati definiti dal giornalista Alfio Russo gli ustascia. Cfr. A. RUSSO, Rivoluzione in Jugoslavia, de Luigi, Roma 1944, p. 90.

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 183

camente (istrebljenje), in parte “convertite” al cattolicesimo, in parte espulse. Il 10 aprile 1941, il ministro del Culto e dell’Educazione Milo Budak presenta al Parlamento ustascia la soluzione finale della questione serba: «Uccideremo un terzo dei serbi, ne faremo evacuare un altro terzo e convertiremo il rimanente terzo alla religione cattolica, facendoli così divenire croati» 78. Sfortunatamente i serbi sono troppi per essere convertiti o scacciati in tempo dalla Croazia, così comincia la “santa macelleria” ustascia, “santa” perché attuata anche in nome del Dio cattolico croato che, paradossalmente, è lo stesso Dio ortodosso serbo. Il 19 aprile del 1941 è promulgata la prima legge razziale, la “Legge per la difesa della Nazione e dello Stato”, che condanna a morte chiunque si renda responsabile di azioni o progetti volti a ferire l’onore e gli interessi vitali del popolo croato e dello Stato Indipendente di Croazia. Il 30 aprile è emanato anche il “Regolamento giuridico per la protezione del sangue ariano e l’onore del popolo croato”, per creare un nuovo spazio vitale “pulito” in una Nazione genuinamente croata. Con questo decreto è stabilito che il diritto di cittadinanza nello Stato Indipendente di Croazia spetta solo a «colui che è di origine ariana […]. Ebrei e serbi non sono cittadini dello Stato Indipendente Croato, ma appartenenti allo Stato […]. Solo gli ariani godono dei diritti politici» 79. In altri decreti razziali è stabilito che a serbi, ebrei e nomadi è proibita la circolazione sui marciapiedi e la frequentazione dei luoghi pubblici, dei negozi e dei ristoranti, mentre sui mezzi di trasporto sono affissi degli avvisi con scritto: «Vietato ai serbi, ebrei, zingari e cani»80. Un decreto stabilisce la “riconoscibilità” dei non croati: così se agli ebrei tocca essere “marchiati” con la stella gialla a sei punte con al centro la lettera “Ž” (da židov, ebreo); i serbi sono obbligati a portare, in78

Cit. in V. DEDIJER, The Yugoslav Auschwitz and the Vatican, Anriman– Verlag, Freiburg 1988, p.130. 79 Cfr. M.A. R IVELLI, L’arcivescovo del genocidio. Monsignor Stepinac, il Vaticano e la dittatura ustascia in Croazia, 1941–1945, Kaos. Milano 1999, p. 42. 80 Ibidem.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

filata al braccio, una fascia identificativa di colore blu con la lettera P, come pravoslavni, cioè ortodossi81. Oltre la dignità, ai serbi è sottratta anche la loro identità: l’alfabeto cirillico è proibito con decreto, come pure è vietata la denominazione “cristiani serbo–ortodossi”, sostituita con “fede greco–orientale”. A parte il più bestiale massacro della popolazione compiuto spesso porta a porta, per molti serbi, come anche per ebrei e rom, si aprono le porte dei campi di concentramento. Sono settantuno i campi di concentramento disseminati per tutta la Croazia, la Bosnia e l’Erzegovina. Ciascuno di questi campi ha «il cartello con il “tutto esaurito”. Rappresentazione di gala della crudeltà “ustascia”»82. Tra i più grandi campi di concentramento ustascia ci sono quelli di Gospić, Dakovo, Kerestinec, Jastrebarsko, Loborgrad, Gornja Rijeka, Tenja, Sisak, Danica, Caprag, Kruščica, Lepoglava, Jasenovac. Tutti i campi croati sono strutturati in più sottocampi. Due luoghi d’internamento sono avviati già diciannove giorni dopo la creazione del nuovo Stato croato. Sono l’ex fabbrica di prodotti chimici Danica, nei pressi di Koprivnica (in Slavonia, al confine con l’Ungheria), e il castello di Kerestinec, nella regione di Zagabria. Sono luoghi per gli oppositori politici e i primi prigionieri serbi (cinquecento a Danica e trecento a Kerestinec)83. Anche il penitenziario distrettuale di Gospić, città capoluogo della regione della Lika e di Segna (in Croazia occidentale), è convertito a luogo d’internamento di oppositori politici, di serbi ed ebrei. Da maggio qui iniziano ad arrivare camion carichi di prigionieri. Poiché il numero degli arrestati inizia a crescere e la struttura è al collasso, la “Direzione per l’Ordine pubblico e la Sicurezza” (Ravnateljstvo za javni red i sigurnost), dapprima trasforma una zona della stazione e il cinematografo della città 81

Ivi, p. 41. A. RUSSO, Rivoluzione in Jugoslavia, cit., p. 120. 83 Cfr. D. ZATEZALO, Jadovno, sistem ustaških logora, vol. I, Muzej Žrtava Genocida, Beograd 2007, pp. 38–39 e 91–98. 82

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 185

in campi di raccolta84, poi istituisce altre zone di internamento: a Jadovno, a Baške Oštarije (nella località di Stupačinovo), a Slana e a Metajna, sull’isola di Pag. Questi campi dipendono tutti da Gospić. Le prime due località sono scelte per via delle numerose foibe presenti, i grandi inghiottitoi tipici della regione carsica, capaci di celare i corpi delle vittime delle eliminazioni di massa; le ultime due zone, invece, perché ubicate su un’isola e, quindi, luoghi discreti per gli stermini. A Jadovno è istituito il primo campo ustascia permanente. Situato in una vallata alle pendici delle Alpi Bebie (Monti Velèbiti), distante una ventina di chilometri da Gospić, il campo è operativo da maggio ad agosto del 1941. A Jadovno non ci sono muri di cinta, né edifici, solo due baracche, una per il comando e l’altra per gli ustascia addetti alla sorveglianza, poi soltanto terreno paludoso recintato da doppio filo spinato in forma ovale (170 metri per 90) e sorvegliato da guardie armate. All’entrata principale una foto del poglavnik Ante Pavlić 85. La maggior parte dei prigionieri sono serbi, seguono gli ebrei e gli oppositori croati del regime86. Jadovno non è un campo di sterminio ma di raccolta, nel senso che qui non si muore all’interno, ma si transita verso la morte. Infatti, gli internati di questo campo sono portati sulle alture del Velèbiti è gettati in una trentina di gole carsiche presenti nella zona. Il metodo più usato per uccidere è quello di portare un gruppo di internati legati tra di loro con filo metallico sull’orlo della foiba: i primi del gruppo sono uccisi, con arma da fuoco oppure con martelli, così cadendo nella gola tirano giù la parte restante del gruppo. Per completare l’operazione criminale, sono lanciate bombe a mano nel dirupo87.

84

Cfr. Ivi, pp. 101–115. Cfr. Ivi, pp. 112–126. 86 Cfr. R. ISRAELI, The Death Camps of Croatia. Visions and Revisions, 1941– 1945, Transaction, New Brunswick (New Jersey) 2013, pp. 65–84. 87 Cfr. P. MOJZES, Balkan Genocides, cit., p. 60; S. GOLDSTEIN, 1941. Godina koja se vraća, Novi Liber, Zagreb 2007, trad. ingl. 1941. The Year That Keeps Returning, Review Books, New York 2009, pp. XIV e 284. 85

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Ausiliario al campo di Jadovno è quello di Stupačinovo, località del villaggio Baške Oštarije. Istituito a luglio del 1941, il campo ha le stesse caratteristiche e uguali funzioni di quello di Jadovno88. Vice comandante è un sacerdote cattolico dell’Ordine francescano, Ivica Brkljacic, che poi dirigerà altri campi, compreso il famigerato campo di Jasenovac. Collegati alla direzione di Gospić sono anche i campi istituiti sull’isola di Pag, a Slana e Metajna. Il primo campo, quello di Slana, è destinato ai soli uomini e sorge in una baia pietrosa e, per la sua posizione strategica, ha un numero relativamente piccolo di guardie armate. Suddiviso in due zone, una per gli ebrei, l’altra per i serbi, ha baracche fatiscenti che tuttavia non bastano per alloggiare tutti gli internati 89. Il campo di Metajna, ubicato poco distante dalla baia di Slana, è il primo campo per donne e bambini90. La funzione di questi due campi è la stessa di quella di Jadovno: i prigionieri sono condotti sull’isola per essere brutalmente uccisi e gettati in fosse comuni oppure direttamente in mare. Il complesso concentrazionario di Gospić resta in funzione sino al 19 agosto 1941, quando gli italiani occupano la zona. In poco più di quattro mesi sono uccise da venticinquemila 91 a circa quarantamila92 persone, maggiormente serbi. Il comando ustascia apre altri campi in diverse zone del loro Stato. Tra questi il famigerato complesso concentrazionario di Jasenovac, ubicato nella parte centrale dello Stato Indipendente di Croazia, vicino alle rive del fiume Sava, a un centinaio di chilometri a Sud–Est di Zagabria, nei pressi dell’attuale confine croato–bosniaco. Di tutta la Seconda Guerra mondiale, Jasenovac è il terzo campo di concentramento per dimensioni, dopo Auschwitz e Buchenwald.

D. ZATEZALO, Jadovno, sistem ustaških logora, cit., pp. 152–155. Cfr. Ivi, pp. 140–152. 90 Cfr. Ivi, pp. 155–167. 91 M. PERŠEN, Ustaški logori, Globus, Zagreb 1990, p. 102. 92 D. ZATEZALO, Jadovno, sistem ustaških logora, cit., pp. 382–383. Per Djuro Zatezalo precisamente sono 38.010 serbi, 1.988 ebrei, 88 oppositori croati e altre persone di diverse nazionalità. 88 89

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 187

Proprio come i campi nazisti, il complesso concentrazionario di Jasenovac aveva il suo motto ben visibile all’ingresso: “Red, Rad, Stega”, ossia “Ordine, Lavoro, Disciplina”. Ma di ordine, lavoro e disciplina ci sono solo quelli sporchi che gli aguzzini compivano sugli internati. Si tratta di un grande complesso di cinque campi diversi, collegati fra loro, dove si consuma la maggior parte della storia dei serbi residenti in Croazia: Krapje (Campo I), Bročice (Campo II), Ciglana (Campo III), Kožara (Campo IV), Stara Gradiška (Campo V)93. A Jasenovac gli internati subiscono lo stesso destino dei prigionieri dei Vernichtungslager nazisti, ma in condizioni più primitive e bestiali. Infatti, per il brutale metodo delle esecuzioni capitali e per il sadismo dei carcerieri, i crimini consumati nel sistema concentrazionario di Jasenovac oltrepassano ogni immaginazione umana. A parte la morte procurata da armi da fuoco, considerata un beneficio rispetto ad altri modi di essere giustiziati, a Jasenovac si muore con metodi davvero inumani: sgozzati o fatti letteralmente a pezzi (con coltelli, asce, seghe), impiccati, affogati, arsi vivi, torturati (con martelli, spranghe e altri oggetti), lasciati morire di fame e sete. Il generale Vjekoslav Maks Luburić, comandante in capo di tutti i campi di concentramento della Croazia ustascia, è orgoglioso della grande efficienza del complesso di Jasenovac, arrivando a sostenere già nell’ottobre 1942: […] folle intere di bambini ebrei sono state bruciate vive nei forni dell’antica fornace, trasformati in forni crematori. […] abbiamo sgozzato a Jasenovac più uomini di quanti ne ha uccisi l’Impero Ottomano in cinque secoli di dominazione in Europa.94

93

Cfr. P. MOJZES, Balkan Genocides, cit., p. 56. Cfr. E. PARIS, Genocide in Satellite Croatia 1941–1945. A Record of Racial and Religious Persecutions and Massacres, The Institute for Balkan Affairs, Chicago, 1962, pp.129–133. 94

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Ado Kabiljo, ebreo bosniaco “inquilino” di questo campo, racconta le sevizie gratuite che si dispensano quotidianamente:

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Spesso, oltre a darci botte con i bastoni di ferro, facevano un gioco. Lo chiamavano “contare”. Tu stai in fila e senti, ad esempio, “sesto” oppure “ottavo”. Un ustascia conta, si avvicina a te. E tu? Quel pezzo di ferro toccherà il tuo petto, il resto lo farà la mazza. Se non sei sesto, né ottavo, né quinto, incominci a ridurti, sembri un topo. Poi, i sopravvissuti al gioco andavano al lavoro forzato.95

Particolare e gradito attrezzo di morte ustascia è lo srbosjek, in serbo–croato vuol dire “tagliaserbo”, una specie di guanto di pelle con incorporata una lama ricurva, che permetteva di sgozzare con più facilità e sveltezza. Lo srbosjek diviene lo strumento di competizioni sadiche da parte degli ustascia all’interno dei campi: colui che riesce a uccidere il maggior numero di prigionieri nel minor tempo con questo coltello riceve un premio. Durante una di queste macabre competizioni, Petar “Pero” Brzica, uno studente del Franciscan College of Široki Brijeg in Herzegovina e membro della confraternita dei crociati, ha raggiunto la quantità enorme di 1.360 prigionieri serbi uccisi in una notte96. Nel campo di Jasenovac a dispensare la morte crudele sono anche dei frati francescani: Miroslav Filipovic–Majstorovic, soprannominato “Fra Diavolo”, e Vicko Rendic, entrambi diressero per un certo periodo il campo97. Altri uomini di Chiesa partecipano ai massacri contro i serbi in tutta la Croazia ustascia98. Il

95

Testimonianza di Ado Kabiljo, ebreo bosniaco, in B. STANIŠIĆ, 1945, fuga dall’inferno, «Osservatorio Balcani e Caucaso», 27 gennaio 2014, http://www. balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/1945-fuga-dall-infer no-146770. 96 Cfr. L.M. KOSTIĆ, The Holocaust in the Independent State of Croatia. An Account Based on German, Italian and Other Sources, Liberty, Chicago 1981, p. 81; M. KUMOVIĆ, Izložba Jasenovac. Sistem ustaških logora smrti, Muzej žrtava genocida, Beograd 1994, p. 117. 97 Cfr. R. ISRAELI, The Death Camps of Croatia, cit., pp. 128–129. 98 Cfr. L. LUKAJIĆ, Fratri i ustaše kolju, Fond za istraživanje genocida, Beograd 2005.

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IV. I campi nazisti e ustascia per sterminare 189

ricercatore Mario Aurelio Rivelli ne riporta ben centotrentotto 99. Tra questi, i più famosi, oltre ai già citati Miroslav Filipovic– Majstorovic e Vicko Rendic, sono il prete Bozidar Bralo, consigliere della famigerata Crna Leggija (Legione Nera), che dopo i massacri dei serbi usa ballare la danza nazionale croata attorno ai cadaveri; oppure il gesuita Dragutin Kamber, capo della polizia di Doboj, in Bosnia, che pretende la sua partecipazione allo sterminio dei serbi ortodossi; oppure ancora i sacerdoti Ilija Tomas e Marko Hovko, che partecipano alla bestiale uccisione di 559 serbi, tra cui anche donne e bambini, a Prebilovici e a Surmanci in Herzegovina. La nefasta parabola criminale ustascia si conclude con la loro fuga e la distruzione dei campi, assieme all’uccisione dei pochi prigionieri ancora internati. Braccati dai partigiani comunisti, molti dirigenti ustascia, a iniziare dal loro duce Ante Pavelic, beneficiano nella loro fuga dell’aiuto di una parte delle gerarchie della Chiesa di Roma100. È difficile fare una stima precisa delle vittime dell’immane tragedia che si è consumata nei Balcani durante la Seconda Guerra Mondiale. Dei quasi trentamila ebrei croati è eliminato l’80%, mentre le vittime serbe oscillano tra le 500.00 e le 700.000 persone101. Riguardo al popolo serbo, nello Stato Indipendente di Croazia «è stato registrato il 69% di tutte le vittime jugoslave, anche se su quel territorio viveva circa il 40% della

99

Cfr. il suo Ho un elenco di 138 preti e frati massacratori ustascia, in «Adista», 5 luglio 2003. 100 Cfr. U. GOÑI, The Real Odessa. How Peròn Brought the Nazi War Criminals to Argentina, Granta, London 2002, tr. it. Operazione Odessa: la fuga dei gerarchi nazisti verso l’Argentina di Peròn, Garzanti, Milano 2003; A. CASAZZA, La fuga dei nazisti. Mengele, Eichmann, Priebke, Pavelic da Genova all’impunità, Il Nuovo Melangolo, Genova 2007; anche il mio saggio breve “Ratline”, il patto con il demonio, in «Storia in Network», n. 148, febbraio 2009, http://win.storiain.net/arret/num148/artic3.asp. 101 M. SVOB, Jews in Croatia. Holocaust Victims and Survivors, Jewish Community Zagreb Research and Documentation Center, Izvori, Zagreb 2004, p. 255; D.T. BATAKOVIĆ, Le genocide dans l’Etat indipendent croate (1941–1945), «Hérodote», n. 67, 1992, p.80.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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sua popolazione»102. Solamente nel complesso concentrazionario di Jasenovac le vittime accertate al 2013 sono 83.145, di cui 47.627 serbi e 13.116 ebrei103.

102

D. CVETKOVIC, Bilancio delle vittime fra la popolazione serba nei territori della Croazia e della Bosnia Erzegovina nel xx secolo – Analisi comparativa con il supporto della quantificazione, relazione tenuta a Bari il 25 gennaio 2007 alla prima presentazione in Italia della Mostra fotografica sul campo di sterminio ustascia di Jasenovac, traduzione di Concetta Ferrara, in «Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari, Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia», http://www.cnj.it/documentazione/MirkovicCvetkovic– Jasenovac.pdf. 103 Questi dati sono raccolti dal Jasenovac Memorial Site – Spomen područje Jasenovac e pubblicati sul sito ufficiale. Cfr. http://www.jusp-jasenovac.hr/ default.aspx?sid=6711.

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Capitolo V

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I campi per rieducare e punire

5.1. Il nemico “conveniente” La politica moderna fonda le sue basi sulla divisione assoluta tra amico e nemico 1. Tale distinzione, a sua volta, consolida la relazione di polarità che annoda i soggetti politici di una comunità nel rapporto Noi/Loro, determinando i processi di inclusione/esclusione. Molto genericamente, se l’amico è colui che dimostra o denota solidarietà, affetto, disponibilità, cioè è animato da amicizia, intesa come sentimento positivo frutto di una benigna manifestazione della volontà2, il nemico è colui che nutre ed esterna profonda avversione e ostilità nei confronti di qualcuno o qualcosa. Ma il nemico non è solo l’hostis, ossia colui che 1

Nel 1927 Carl Schmitt scriveva che la sostanza della politica risiede nella differenza tra Freund (amico) e Feind (nemico). Questa distinzione, per il filosofo tedesco, attribuisce un carattere politico a tutte le azioni e i fini umani. In tedesco Freund esprime originariamente il “compagno di stirpe”, mentre Feind suggerisce ‒ in relazione con l’etimo Fijan–Hassen “odiare” ‒ colui contro il quale è condotta una Fehde “faida”. Cfr. C. SCHMITT, Der Begriff des Politischen, Walther Rotschild, Berlin–Grunewald 1928, trad. it. Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, pp. 108–111; ID., Positionen und Begriffe im Kampfmit Weimar–Genf–Versailles. 1923–1939, Hanseat, Hamburg 1940, trad. it. Posizioni e concetti in lotta con Weimar–Ginevra– Versailles, 1923–1939, a cura di Caracciolo A., Giuffré, Milano 2007, p. 408. 2 Cfr. M. GHISLENI, P. REBUGHINI, Dinamiche dell’amicizia. Riconoscimento e identità, FrancoAngeli, Milano 2006.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

dall’esterno di una comunità minaccia la sua integrità territoriale, egli è anche l’inimicus, l’avversario interno della stessa polis con cui si contende e si è in discordia3. La categoria del nemico esterno, l’antagonista regolare, è utile per comprendere la guerra interstatale 4, mentre le categorie del nemico interno offrono un rilevante suggerimento per comprendere in profondità le motivazioni per le quali, nella storia della violenza politica, sono comparsi luoghi in cui si è cercato di “recuperare”, attraverso la rieducazione, l’eretico avversario politico–sociale. L’oppositore interno è il più “conveniente” nemico per gli Stati, poiché è un «fenomenale fattore di definizione e addensamento (per negazione) del gruppo, meraviglioso accumulatore di necrosimbolismo»5. Egli immobilizza la fedeltà verso un progetto politico, deviando il risentimento popolare che altrimenti travolgerebbe il potere stesso, giustificando qualsiasi misura repressiva extragiudiziaria, tra cui l’arresto amministrativo. Lo capirono già gli antichi, ma è con la Rivoluzione francese che si comprende pienamente quale valore può avere l’evocare lo spettro dell’inimicus, per accrescere il sentimento della paura e radicare la rivoluzione stessa nell’animo del popolo, favorendo la coesione interna. All’apice della Rivoluzione francese, infatti, troviamo il “Terrore” come necessità, la naturale conclusione di un movimento che, attraverso la cosiddetta “Virtù repubblicana”, impiega sistematicamente, come metodo di lotta politica, l’annichilamento dell’avversario, esercitando il potere

3

Tale distinzione esiste fin dall’antichità. Ho affrontato la figura del nemico nel mio La politica del male. Il nemico e le categorie politiche dell’esclusione, Tralerighe, Lucca 2019, pp. 17–36. Sull’argomento cfr. anche AA. VV., Amicus (Inimicus) Hostis. Le radici concettuali della conflittualità “privata” e della conflittualità “politica”, a cura di G. Miglio, Giuffrè, Milano 1992. 4 Cfr. C. GALLI, Sulla guerra e sul nemico, «Griseldaonline», IV, 2004, http://www.griseldaonline.it/temi/il-nemico/sulla-guerra-e-sul-nemico-carlogalli.html. 5 U. P AGANO, L’uomo senza ombra. Elementi di sociologia dell’inautentico, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 58.

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V. I campi per rieducare e punire

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in modo totalitario6. Così tra il regno della Virtù e quello degli ideali patriottici, c’è il regno della Storia, un elenco lungo quarantamila nomi di persone arrestate o giustiziate in nome della Rivoluzione. Allo stesso tempo nasce anche l’esigenza dell’indottrinamento per rieducare le masse, partendo dalla decisione di assumere in pieno l’educazione giovanile, iniziando dalla scuola, e proseguendo con l’adozione di un nuovo linguaggio (che comprende con l’usanza del tu al posto del voi, a designare l’assoluta uguaglianza), un nuovo tempo (il calendario rivoluzionario), nuovi riti (le cosiddette feste rivoluzionarie per celebrare i grandi sentimenti collettivi e individuali) e così via: La politica non comprendeva solo i discorsi, la scelta dei deputati, o il dibattito pubblico nei club, sui giornali, in assemblea. […] Quando un movimento rivoluzionario respinge la legittimità del governo tradizionale, deve necessariamente sfidare anche gli accessori tradizionali del dominio. Dunque deve inventare simboli politici che esprimeranno con precisione gli ideali e i princìpi del nuovo ordine. […] Affermando la rottura completa con il passato, il discorso rivoluzionario discuteva tutti i costumi, tradizioni e modi di vita. La rigenerazione nazionale richiedeva niente meno che un uomo nuovo, e nuove abitudini: il popolo doveva essere riplasmato secondo il modello repubblicano. Bisognava esaminare ogni angolo della vita quotidiana, dunque, per scovarvi la corruzione dell’Ancien régime e spazzarla via, per preparare il nuovo. L’impulso a investire tutto politicamente era l’altra faccia del rifiuto retorico della politica. Dato che la politica non aveva luogo in una sfera delimitata, allora tendeva a invadere la vita quotidiana. Questa politicizzazione del quotidiano fu tanto una conseguenza della retorica rivoluzionaria quanto un rifiuto più deliberato della politica organizzata. Politicizzando 6

Il «Terrore», riferì il rivoluzionario francese Robespierre nel suo celebre discorso “Sui principi della morale politica”, esposto alla Convenzione nazionale, «non è altro che la giustizia severa e inflessibile, ossia l’emanazione della Virtù». Cfr. M.A. CATTANEO, Libertà e virtù nel pensiero politico di Robespierre, Einaudi, Torino 1969.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

il quotidiano la Rivoluzione aumentò enormemente i luoghi di esercizio del potere, e moltiplicò le tattiche e le strategie per adoperarlo.7

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Con la Rivoluzione francese è partorita perciò la possibilità del dispotismo che, ammantato di legittimità popolare, si rinnoverà in maniera devastante nei totalitarismi del Novecento. Proprio questi totalitarismi, moltiplicando le figure del nemico, cristallizzeranno appieno le masse in funzione dei propri obiettivi politici8.

5.2. La rieducazione politica e il lavoro come strumento pedagogico La dialettica amico–nemico raggiunge il suo apice nei regimi totalitari del Novecento. Anzi, lo Stato totalitario non può sopravvivere senza nemici: nessun regime dispotico può sperare di legittimare i propri progetti politici senza un nemico da combattere. Lo Stato totalitario ha così due importanti e pericolosi nemici: uno è all’esterno, ed è considerato un avversario ideologico e nazionale, l’altro è all’interno, ed è un rivale illegittimo. Entrambi hanno la funzione positiva di rafforzare la coesione nazionale ottenendo il più vasto consenso possibile a un inedito progetto politico. Con i totalitarismi la politica valuta il proprio cittadino non più come singolo, ma come parte di un unico soggetto che deve identificarsi pienamente nello Stato. Questa ambizione quasi religiosa, spinge molti regimi a creare istituzioni esclusive di 7

L. HUNT, Culture and Class in the French Revolution, University of California Press, Berkeley (California) 1984, trad. it. La rivoluzione francese. Politica, cultura e classi sociali, il Mulino, Bologna 1989, pp. 58–61. 8 Per l’idea della Rivoluzione francese come fonte di correnti totalitarie si vedano: F. FURET, Penser la Révolution française, Gallimard, Paris 1978, trad. it. Critica della rivoluzione francese, Laterza, Roma–Bari 2004; J.L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, Secker & Warburg, London 1952, trad. it. Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna 2000.

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V. I campi per rieducare e punire

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dominio, la cui vocazione è quella della rifondazione del tessuto politico–sociale, attraverso una triplice prospettiva: pedagogica, punitiva e terroristica. Pedagogica per formare “l’uomo nuovo” in una logica politica del regime, punitiva per perseguire il dissenso, terroristica per dissuadere e intimorire. Sulle categorie del nemico interno si coagulano le inquietudini più profonde dei regimi totalitari. Assieme al terrore permanente, la strumentalizzazione ideologica del nemico rientra nelle strategie messe in atto dai regimi totalitari per l’edificazione completa del dominio totale: il nemico interno «è la grande giustificazione del terrore, lo Stato totalitario non può vivere senza nemici. Se mancano li inventa» 9. Nei totalitarismi compare una concezione della politica che dall’antagonismo arriva fino alle dinamiche della distruzione fisica del nemico interno, che nelle logiche totalitarie costituisce la pericolosa minaccia sia alla fondazione dell’identità politica del regime sia alla colonizzazione delle coscienze. Per questo, il nemico interno è presentato nella sua ubiquità, nel suo essere al tempo stesso antagonista interno e avversario esterno: interno perché vive e opera dentro la comunità, esterno perché considerato estraneo alla stessa società. I regimi totalitari perfezionano così la categoria del nemico interno. Tre sono infatti le tipologie del nemico interno: il nemico vero e proprio, ossia l’avversario attivo, l’oppositore potenziale e il nemico oggettivo. Quest’ultimo è un avversario spersonalizzato, la cui identità è determinata dall’orientamento politico del governo e non dal suo desiderio di rovesciarlo, e che quindi è tale per il fatto di esistere ed essere un portatore di tendenze, cioè appartenere a una razza/classe che l’ideologia addita come ostile.10 9

T. TODOROV, L’homme dépaysé, Éditions du Seuil, Paris 1996, trad. it. L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Donzelli, Roma 1997, p. 19. 10 Cfr. H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace and World, New York 1951, trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967, pp. 578–582.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

In definitiva, il nemico oggettivo è tale non per la sua condotta individuale, bensì per le sue caratteristiche oggettive, quindi per definizione ideologica. Il nemico interno, poiché antagonista illegittimo, sfugge alla giurisdizione dell’amministrazione della giustizia, per entrare nel vortice di una giustizia parallela, esclusivamente politica. Per questo egli se è molto pericoloso è annullato fisicamente, in caso contrario è relegato extra moenia, espulso dalla società ed esiliato per essere “riconvertito”. In definitiva: il nemico interno è considerato la parte incancrenita dello stesso corpo politico– sociale, da estirpare se inguaribile o da sanare se curabile. Per controllare, smascherare, sanare, recuperare, educare e riabilitare, lo Stato totalitario ha concepito istituzioni ad hoc, sia per la formazione di individui docili e ben ammaestrati, sia come strumento pedagogico per intimidire e passivizzare: i campi di rieducazione politica. Quasi sempre collegati al lavoro forzato 11, nei campi di rieducazione non manca la componente punitiva, determinata dalla qualità del lavoro (rischioso e molte volte insensato), dalle condizioni di vita all’interno (malnutrizione, mancanza di igiene, sovraffollamento, esposizione a temperature estreme), dalle vessazioni e dai soprusi da parte dei carcerieri. Il campo di rieducazione è una struttura oppressiva morale e fisica per il deportato, ma anche uno strumento pedagogico per il resto della popolazione (specialmente per parenti, amici e conoscenti del detenuto), uno degli esempi di ciò che può succedere agli eventuali oppositori del regime, uno strumento di pressione psicologica efficace più della morte. 11

Nei campi il confine tra lavoro forzato e schiavitù è molto sottile. Il lavoro forzato ha pretese rieducative (il lavoro è concepito come complemento della funzione rieducatrice che la pena si propone), mentre la schiavitù implica solo lo sfruttamento economico e fisico da parte di un padrone. Nella maggior parte dei campi di lavoro forzato rieducativo, la detenzione è decisa per finalità rieducative, le condizioni di vita all’interno riproducono la schiavitù. Un breve excursus storico del lavoro forzato rieducativo in V. LAMONACA, Profili storici del lavoro carcerario, in «Rassegna penitenziaria e criminologica», Vol. 15, Fasc. 3, 2012, pp. 43–78.

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V. I campi per rieducare e punire

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I campi di rieducazione politica, in definitiva, contengono i tratti di «una metafora del regime» 12 che li ha ideati, poiché essi sono sia un metodo efficace per la produzione scientifica di inermi sia «un sistema volto alla redenzione antropologica»13, nella funzione di recupero e correzione di quei cittadini avvelenati dalle idee di libertà, Dio, famiglia, patria, libertà economica e diritti umani. Così, nella prospettiva di creare il “paradiso nazionale”, bisogna però vivere l’inferno.

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5.3. Il “risanamento” politico sotto il nazismo Se nel nazismo il crimine risiede maggiormente nei geni, nei regimi socialisti la colpa dimora tutto nel pensiero: all’uomo indegno per razza, subentra l’uomo indegno per condizione sociale e politica. Dunque, caratteristica principale dei campi nazisti è il “non appartenere” all’umanità, caratteristica dei campi di rieducazione è l’essere “fuori posto”. Per questo, il totalitarismo nazista ha maggiormente demonizzato i gruppi etnici, sociali e politici attuando il loro sterminio, mentre il totalitarismo comunista ha cercato in maggior misura di de–demonizzare i popoli rieducandoli. I campi per rieducare gli oppositori, o presunti tali, non sono tuttavia una prerogativa del socialismo reale. Anche la Germania nazista ha conosciuto il sistema della rieducazione politica del nemico interno. Anzi, in un primo tempo il Konzentrationlager nasce con lo scopo preciso di confinare e “rieducare” i tedeschi antinazisti, i comunisti, i socialdemocratici, i sindacalisti, gli obiettori di coscienza, i criminali comuni, gli omossessuali e in generale tutti gli individui appartenenti a vario titolo a minoranze invise al nuovo potere. In seguito, con le radicali trasformazioni sociali, economiche e culturali del Reich nazista, i Lager sono ampliati e moltiplicati, ognuno con una finalità speci12 13

A. ROMANO, Lo stalinismo, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 77. Ibidem.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

fica. Le categorie degli internati sono estese per comprendere persone considerate elementi antisociali (prostitute, mendicanti, alcolisti, zingari, asociali e così via), criminali abituali, Testimoni di Geova ed ebrei (questi ultimi soprattutto dopo il pogrom della “Notte dei cristalli” del 9–10 novembre 1938). Tra le varie tipologie di Lager istituiti per “rieducare”, ci sono gli Arbeitserziehungslager (campi di lavoro rieducativo) e gli Staatliche Besserungs und Arbeit Lager (campi statali di lavoro correttivo). Entrambi hanno per finalità quella di rieducare i cittadini “devianti” della Volksgemeinschaft, la “comunità del popolo”: il primo, detto anche “campo di disciplina”, è un’istituzione di lavoro forzato e rieducativo per oppositori politici, comunisti e criminali comuni; il secondo “ospita” anche tedeschi refrattari al lavoro e asociali. Tra questi campi, oltre Dachau ai suoi esordi, anche i Lager di Buchenwald, Flossenbürg, Neuengamme, Innsbruck–Reichenau, Gross–Rosen, Unterlüss e Auschwitz II (quest’ultimo inizialmente non destinato a campo di sterminio). Sia gli Arbeitserziehungslager sia gli Staatliche Besserungs und Arbeit Lager si affiancano alle strutture ordinarie della giustizia penale e alla rete dei Konzentrationslager. Il Decreto per la protezione del popolo e dello stato tedesco, emanato dal presidente del Reich il 28 febbraio del 1933 come misura di “risanamento pubblico”, riconosce giuridicamente l’arresto politico e la relativa “custodia preventiva” (Schutzhaft) da parte della Polizia Segreta di Stato (Geheime Staats Polizei, abbreviato in Gestapo) contro i nemici del popolo del Terzo Reich14. Il 20 marzo dello stesso anno è annunciata dal prefetto di Monaco l’apertura a Dachau del primo campo di concentramento con finalità rieducative per militanti comunisti 15 e oppositori politici. Al tempo della costruzione del Lager, il terreno non faceva parte di Dachau, ma di Prittlbach. Il campo fu sistemato sfruttando una precedente costruzione di una ex fabbrica 14

Voluto da Hitler, il decreto fu emanato il giorno dopo l’incendio del Reichstag, sede del Parlamento tedesco. 15 Il 23 marzo del 1933, con il “Decreto dei pieni poteri”, il Partito Comunista tedesco fu dichiarato fuorilegge.

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di munizioni in disuso, la Königlichen Pulver– und Munitionsfabrik Dachau (Fabbrica reale di polveri e di munizioni di Dachau), costruita durante la Prima Guerra Mondiale. La fabbrica fu poi demolita e, grazie al lavoro dei detenuti, fu creato il Lager16. Le sprezzanti motivazioni dell’apertura del campo sono comunicate da Heinrich Himmler, allora capo della polizia di Monaco e capo della polizia politica della Baviera, attraverso un comunicato pubblicato sul Münchner Neuesten Nachrichten (Monaco Ultime Notizie, il giornale più importante della Baviera): “Mercoledì 22 marzo 1933 verrà aperto nelle vicinanze di Dachau il primo campo di concentramento. Abbiamo preso questa decisione senza badare a considerazioni meschine, ma nella certezza di agire per la tranquillità del popolo e secondo il suo desiderio”. Sul cancello d’ingresso del campo è posta una targa in ferro battuto con la scritta Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi). La frase è tratta dal titolo di un romanzo pubblicato nel 1872 dall’etnologo e linguista tedesco Lorenz Diefenbach (1806–1883)17, che a sua volta la estrapolò dalla Bibbia, modificandola18. Su ordine del generale delle SS Theodor Eicke, la locuzione è poi ripresa e affissa all’ingresso di molti Lager, tra cui Gross–Rossen, Sachsenhausen, Theresienstadt, Flossenburg, Auschwitz, riassumendo in modo beffardo le menzogne dei campi di concentramento nazisti. Nello stesso anno sono creati altri campi di rieducazione politica, tutti sotto il controllo del Sturmabteilung (battaglione d’assalto), il primo gruppo paramilitare del Partito Nazionalsocialista, conosciuto come “camicie brune”. Dalla primavera del 1934 questi campi sono messi sotto il comando diretto delle SS, con lo status di “unità amministrative 16

Cfr. P. BERBEN, Dachau 1933–45. The Official History, International Dachau Committee, London 1975; B. DISTEL, R. J AKUSCH, Concentration Camp Dachau. 1933–1945, International Dachau Committee, München (Deutschland) 1978. 17 Il romanzo è la storia di un imbroglione e truffatore che, grazie all’impegno e al lavoro, riesce a redimersi. 18 La frase da cui muovere è: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». La troviamo pronunciata da Gesù nel Vangelo di Giovanni (Gv 8,32).

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

legalmente indipendenti sottratte al codice penale e ai comuni procedimenti giudiziari”. Molti campi esclusivamente di rieducazione hanno vita breve, restano attivi per più tempo solo quelli di Lichtenburg, Sachsenburg ed Esterwegen in Sassonia, Oranienburg nel Brandeburgo, Columbia–Haus nel quartiere berlinese di Tempelhof. Con la preparazione alla guerra d’aggressione, si passa allo sfruttamento dei prigionieri come mano d’opera a costo zero per tutte le necessità belliche: l’aspetto economico–produttivo diviene così preponderante su quello della rieducazione19. Simbolo dei campi di lavoro forzato all’ombra della svastica è il Lager di Mittelbau–Dora, il più duro fra tutti, il più segreto di tutti. “Dora” è l’acronimo di Deutsche Organisation Reichs Arbeit (Organizzazione del Lavoro del Reich), nome in codice per indicare le strutture concentrazionarie di lavoro forzato degli schiavi di Hitler. Il campo di Mittelbau Dora è il più infernale, nel suo senso letterale, perché si dirama nelle viscere della terra, nel cuore della Kohnstein, la collina della Turingia, nei pressi della città di Nordhausen. Alle sue dipendenze hanno lavorano internati di altri quaranta sottocampi. Nella ragnatela di quindici chilometri di tunnel e cunicoli, Hitler e i suoi accoliti speravano di costruire l’arma segreta capace di assicurare la supremazia militare e, quindi, la vittoria del III Reich in una guerra che tuttavia era già persa. Infatti, poiché la base di Peenemünde, che ospitava la Heeresversuchsanstalt (Stazione sperimentale dell’esercito), un grosso sito di ricerca e sviluppo missilistico istituito nel 1937, era stata distrutta tra il 17 e il 18 agosto 1943 dai bombardieri della Royal Air Force britannica, il regime pensò di trasferire la fabbricazione delle Wunderwaffen tedesche, le super-armi segrete del 19

Cfr. G. LOFTI, KZ der Gestapo. Arbeitserziehungslager im Dritten Reich, DVA, Stuttgart–München (Deutschland) 2000; H. KAIENBURG, KZ–Haft und Wirtschaftsinteresse. Das Wirtschaftsverwaltungshauptamt der SS als eitungszentrale der Konzentrationslager und der SS–Wirtschaft, in H. KAIENBURG (ed), Konzentrationslager und deutsche Wirtschaft 1939–1945, Leske & Budrich, Opladen (Deutschland) 1996, pp. 29–60.

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V. I campi per rieducare e punire

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Terzo Reich (tra cui i potenti missili V220) in quest’area sotterranea segreta. È il primo scaglione di deportati, la maggior parte provenienti dal Lager di Buchenwald, a scavare i primi due tunnel lunghi circa 1.800 metri. Questi deportati sono costretti a vivere nelle caverne, dormendo in alveari costruiti direttamente nella roccia (dopo sono posizionati dei letti a castello nella parte terminale di uno dei tunnel). Successivamente sono creati numerosi budelli minori. Tre grandi antri, per consentire l’assemblaggio dei micidiali missili, completano la struttura. Manco a dirlo, le condizioni di vita all’interno della collina sono infernali: mancanza di ventilazione e illuminazione naturale, assenza di qualsiasi servizio igienico e di acqua, lavoro duro tra angherie e soprusi dei nazisti. Gli schiavi di Mittelbau–Dora sono in gran parte prigionieri politici e militari russi, polacchi e francesi, ma dopo l’8 settembre 1943 si aggiungono anche gli italiani, ormai divenuti nemici del Reich, e sono 1.500 tra civili e militari21. Tra la fine di agosto del 1943 e metà aprile dell’anno dopo a Mittelbau–Dora transitano approssimativamente 138mila deportati, dei quali circa 90mila perdono la vita22. Il Lager Mittelbau– Dora è liberato dai soldati statunitensi il 15 aprile 194523. La forma più organizzata e scientifica dei campi per la rieducazione restano però i Gulag sovietici e i Laogai cinesi: una vasta geografia concentrazionaria per reprimere il dissenso, rie20

Il missile V2, la cui sigla ufficiale era A4 (Aggregat 4), fu il precursore di tutti i missili balistici. Era un missile monostadio a propellenti liquidi, alto 14 metri e di massa 12 tonnellate, provvisto di radiocomando e guida giroscopica, con carico di quasi una tonnellata di alto esplosivo. La sua traiettoria era suborbitale, con una gittata di circa 300 km. 21 Cfr. M. D’ANGELO, Nei tunnel delle V2. Memorie di un deportato a Dora, Mursia, Milano 2008. 22 Cfr. O. BROVEDANI, Da Buchenwald a Belsen. L’inferno dei vivi. Memorie di un deportato 76360, Fondazione Osiride Brovedani, Gradisca d’Isonzo (Gorizia) 2017, p. 41. 23 Sul Lager cfr. anche J.-C. WAGNER (ed), Konzentrationslager MittelbauDora 1943-1945: Begleitband zur ständigen Ausstellung in der KZGedenkstätte Mittelbau-Dora, Wallstein, Göttingen 2007.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

ducarlo e, nello stesso tempo, sfruttare la manodopera coatta. Situazioni analoghe si sono registrate anche in Vietnam, Laos, Cambogia, Corea del Nord, Indonesia 24.

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5.4. I campi statunitensi e inglesi dopo la guerra mondiale Nell’estate del 1945 la Germania nazista non esiste più, l’ex Reich è ora occupato militarmente dall’URSS, dagli USA, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Con l’avanzata dei “liberatori”, la fine della guerra e la resa della Germania nazista, si pone con urgenza il problema della sistemazione e della gestione dei nemici. L’atteggiamento riservato ai prigionieri tedeschi non può non risentire del comportamento adottato da questi durante la guerra, diventando del tutto speculare. La scoperta dei campi di sterminio, poi, aggrava la posizione dei nazisti e la condotta degli Alleati si irrigidisce ancor più25. Così, oltre alle espulsioni di massa di circa sedici milioni e mezzo di tedeschi attuate in virtù dei nuovi confini stabiliti per il dopoguerra nella Conferenza di Potsdam (17 luglio – 2 agosto 1945)26, gli Alleati attuano una politica di occupazione molto repressiva. 24

Più avanti, sempre in questo capitolo, sono affrontate anche queste realtà concentrazionarie. 25 Tuttavia in un clima di profonda miseria morale furono offerti aiuti, maggiormente da parte statunitense, a molti criminali nazisti (specialmente a scienziati), a patto di una loro collaborazione nel settore delle ricerche scientifiche per scopi militari e nello spionaggio. Cfr. sull’argomento, C. SIMPSON, Blowback. American’s recruitment of nazist and its effects on the Cold War, Wiedenfeld & Nicholson, New York 1988; E. LICHTBLAU, The Nazis next door. How America became a safe haven for Hitler’s men, Houghton Mifflin Harcourt, New York 2014. 26 Sulle espulsioni forzate cfr. A.M. de ZAYAS, A Terrible Revenge. The Ethnic Cleansing of the East European Germans, 1944–50, St. Martin’s Press, New York 1994; J. BACQUE, Crimes and Mercies. The Fate of German Civilians Under Allied Occupation, 1944–1950, Little, Brown & C., London 1997, in particolare pp. 97–111; G. MACDONOGH, After the Reich. The Brutal History of the Allied Occupation, Basic Books, New York 2007, ora 2009.

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Dallo sbarco in Normandia, che inizia nelle prime ore del 6 giugno 1944, e durante la sua avanzata, l’esercito statunitense raduna i tedeschi catturati in campi temporanei per prigionieri di guerra (Prisoner of War Temporary Enclosures). Con la resa dei tedeschi agli anglo–americani il numero dei prigionieri aumenta vertiginosamente. Si ritiene pratico riavviare anche i vecchi campi nazisti, tra cui quello di Dachau nella zona americana e quello di Neuengamme nella parte inglese (lo stesso accadde nel settore sovietico, dove furono riaperti, tra gli altri, i campi di Buchenwald e Sachsenhausen). L’ubicazione dei campi degli Alleati occidentali interessa tre aree: il territorio propriamente francese, la zona di confine tra la Francia e la Germania adiacente la riva sinistra del fiume Reno (istituendo i Rheinwiesenlager, ossia campi di concentramento dei prati del Reno) e la zona di occupazione anglo–statunitense nei territori tedeschi dell’ex Reich (Baden–Württemberg, Baviera, parte dell’Assia per gli statunitensi; Schleswig–Holstein, Amburgo, Bassa Sassonia e Renania Settentrionale–Vestfalia, per i britannici). Riadattando ex campi nazisti, edifici già esistenti, ex caserme, fabbriche, oppure erigendone nuovi con attendamenti e baraccamenti di fortuna, gli Alleati concentrano i prigionieri appartenenti alle truppe naziste. Lo stesso fanno in Italia per i soldati della Repubblica Sociale Italiana27. Se per i soldati tedeschi imprigionati negli Stati Uniti il trattamento è rispettoso della Convenzione di Vienna sui prigionieri di guerra28, per quelli internati in Europa è punitivo. Infatti, secondo la localizzazione dei campi europei, la condizione de27

Tra questi i campi Coltano (Pisa), Miramare (Rimini), Collescipoli (Terni), S. Andrea di Taranto. Cfr. P. DOGLIANI (a cura di), Rimini Enklave 1945– 1947. Un sistema di campi alleati per prigionieri dell’esercito germanico, CLUEB, Bologna 2005; S. BASSETTI, Terni. Tre lager per Fascisti. Spie, Agenti e Forze Speciali, 1944–1947, Lampi di stampa, Milano 2009; P. LEONE, I campi dei vinti. Civili e militari nei campi di concentramento alleati in Italia (1944–46), Cantagalli, Siena 2012. 28 Cfr. A. THOMPSON, Men in German Uniform. POWs in America during World War II, The University of Tennessee Press, Knoxville 2010.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

tentiva fu diversa: nei campi situati in territorio francese e nei Rheinwiesenlager l’internamento fu molto più terribile e mortifero, rispetto a quelli in seguito stabiliti nella zona di occupazione. Per aggirare la Convenzione di Vienna del 1929, il Joint Chief of Staff, lo Stato maggiore dell’esercito statunitense, decide di riclassificare i prigionieri di guerra tedeschi dopo la capitolazione del Terzo Reich: i tedeschi catturati prima della resa godono dello status di Prisoners of War (POWs), quindi hanno diritto in teoria alle condizioni detentive imposte dalla Convenzione del 1929; tutti quelli catturati dopo la resa acquistano il nuovo status di Disarmed Enemy Forces (DEFs — forze nemiche disarmate), ossia prigionieri non soggetti alle tutele giuridiche internazionali29. Il trattamento di entrambe le categorie di prigionieri ricade nella competenza politica del War Department di Washington, il cui Secretary of War è Henry Stimson, e nella giurisdizione militare del Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force (SHAEF — Quartier generale Supremo delle Forze di Spedizione Alleate), sotto il comando del generale Dwight Eisenhower. Al di là di questa distinzione, le condizioni di tutti i prigionieri tedeschi nell’immediato dopoguerra sono davvero difficili. I Prisoner of War Temporary Enclosures in territorio francese e i Rheinwiesenlager sono, come riferito, le istituzioni concentrazionarie con condizioni di vita molto terribili. Infatti, sono semplicemente distese di prati recintati da filo spinato, ubicati generalmente ai margini di un collegamento ferroviario, senza alcuna struttura di accoglienza, dove gli internati sono lasciati soli a sé stessi, senza alcuni riparo, con pochissimo cibo e per molti giorni senz’acqua: Tutto quello che potevano fare, per dormire, era scavare una buca con le mani e calarci dentro, stringendoci l’uno 29

Cfr. Status of German Disarmed Forces Personnel, National Archives and Records Administration, College Park (Maryland), RG 498, Records of the secretary. General Staff 1944–1945, 12th Army Group Plan for Operation Eclipse, 381–383.6 n. 50, April 7, 1945.

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V. I campi per rieducare e punire

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all’altro. Eravamo ammassati in uno spazio molto ristretto. Gli uomini ammalati dovevano defecare sul terreno. Presto, molti di noi furono così deboli che non potevano neanche calarsi i pantaloni. […] In un primo tempo, non c’era acqua per niente, tranne la pioggia, poi, dopo un paio di settimane, potemmo avere un po’ d’acqua da un tubo.30 Non vedemmo mai la Croce Rossa, né venne qualcuno a ispezionarci, fino a due anni più tardi, quando ci portarono delle coperte. Quella fu la prima volta che vennero e fu nel 1947. Noi stavamo mangiando l’erba tra le baracche. I francesi non erano i soli responsabili per quanto avvenne nei campi in Francia, perché un’enorme numero di tedeschi era già malridotto dal cattivo trattamento ricevuto in Germania. 31

La denutrizione, l’esposizione alle intemperie e la mancanza di cure mediche determinano così un altissimo tasso di mortalità. Si perisce per fame, dissenteria, febbre tifoide, tetano, setticemia, polmonite, disturbi cardiaci32. Sospendendo unilateralmente la Convenzione di Vienna sul trattamento dei prigionieri di guerra, gli Alleati occidentali impediscono anche ai delegati della Croce Rossa di visitare i campi, trasferiscono circa un milione di prigionieri alle forze gaulliste della Francia libera come manodopera per le riparazioni, inviano alcuni prigionieri in URSS contro la loro volontà. 30

J. BACQUE, Other Losses. An Investigation into the Mass Deaths of German Prisoners of War at the Hands of the French and Americans After World War II, Stoddart, Toronto 1989, trad. it. Gli altri lager. I prigionieri tedeschi nei campi alleati in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, Mursia, Milano, 1993, ora 2009, p.49. Lo storico canadese James Bacque è una voce molto critica sul comportamento degli Alleati occidentali. In Other Losses, utilizzando documenti ufficiali e testimonianze, dimostra l’intenzionalità della crudeltà verso i prigionieri tedeschi. 31 In ivi, pp.122–123. 32 Sulle condizioni di vita all’interno dei campi del Reno, cfr. anche W. GÜCKELHORN, K. KLEEMANN, Die Rheinwiesenlager 1945 in Remagen und Sinzig. Fakten zu einem Massenschicksal 1945, Helios, Aachen 2013. Per i campi francesi cfr. V. SCHNEIDER, Un million de prisonniers allemands en France, Vendémiaire, Paris 2011, ora 2013; F. THEOFILAKIS, Les prisonniers de guerre allemands. France, 1944–1949, Fayard, Paris 2014.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Sempre in dispregio alle norme della Convenzione di Vienna, è pure vietato a chiunque di portare viveri agli internati nei campi statunitensi, anzi dar da mangiare ai prigionieri diviene un crimine capitale33:

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Il generale Eisenhower inviò un ‘corriere urgente’ per tutta la vasta area ai suoi ordini dichiarando che per i civili tedeschi era un reato punibile con la morte dar da mangiare ai prigionieri. Ed era un reato da pena di morte anche accumulare del cibo in qualche luogo per portarlo ai prigionieri. 34

Eliminata l’ala militare nazista, diviene necessario sradicare completamente il nazismo anche dalla società tedesca. Ecco allora molti campi aprirsi anche nella Germania occupata. Tuttavia, con l’apertura dei campi permanenti in Germania la qualità dei luoghi d’internamento, pur restando precaria, pian piano migliora, con tende, baracche o costruzioni in legno o mattone, servizi igienici e sanitari35. Questo miglioramento non è dovuto a un risveglio di una sensibilità umanitaria, ma alla crepa nella Alleanza antinazista, che pian piano avrebbe portato a uno stato di Guerra fredda. Non solo il trattamento dei prigionieri tedeschi migliora, ma si inizia anche a liberare quelli ritenuti meno compromessi con il nazismo. Anche i britannici, pure loro in violazione della Convenzione di Vienna, adottano la distinzione tra tedeschi catturati prima della resa e quelli arrestati dopo. Quest’ultimi sono definiti Surrendered Enemy Personnel (SEPs — truppe nemiche arrese). Come gli alleati statunitensi, anche i britannici creano sia in Gran Bretagna sia nella loro zona di occupazione campi per internare i tedeschi. Rispetto a quelli statunitensi, il regime di de33

In Other Losses, Bacque documenta casi di civili uccisi solo per aver tentato di lasciare cibo agli internati. Cfr. ivi, pp. 165–171. 34 Cfr. J. BACQUE, Crimes and Mercies, cit., p. 41. Alle pagine 42–43 Bacque pubblica una copia in tedesco e in inglese di una lettera datata 9 maggio 1945, in cui fu notificata tale proibizione agli ufficiali del distretto. 35 Cfr. F. SOMENZARI, I prigionieri tedeschi in mano statunitense in Germania (1945–1947), Zamorani, Torino 2011.

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V. I campi per rieducare e punire

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tenzione nei campi britannici è meno duro, con una più bassa percentuale di morti36. Il governo britannico, attraverso il Combined Services Detailed Interrogation Centre (CSDIC), una divisione del Ministero della Guerra, gestisce anche diversi centri inquisitori segreti per ex membri del Partito Nazionalsocialista Tedesco. In Inghilterra i più terribili sono la London Cage (Gabbia di Londra) e il Camp 020. Situato in Kensington Palace Gardens, una strada nella zona ovest di Londra, la London Cage è un piccolo edificio con una capienza di sessanta prigionieri e con cinque stanze, in cui uomini dei servizi segreti, coadiuvati da interpreti, estorcono informazioni con l’utilizzo della tortura37. Il Camp 020 è sistemato nella Latchmere House, quartiere londinese di Richmond upon Thames, con trenta camere trasformate in celle e dotate di microfoni nascosti, una stanza di punizione e altre per interrogare con la tortura38. Per quanto terribili sono le condizioni di internamento nella Gabbia di Londra e nella Latchmere House, il centro tedesco di Bad Nenndorf è di gran lunga peggiore. Situato nella zona di occupazione britannica a Wincklerbad, nei pressi di Bad Nenndorf, vicino Hannover, il centro funziona dal 1945 e per due anni, “ospitando” presumibilmente 372 uomini e 44 donne39. Anche in questo luogo sono utilizzate torture 36

Cfr. R. QUINN, Hitler’s Last Army. German POWs in Britain, The History Press, Stroud (Englad) 2015. 37 Cfr. I. C OBAIN, The secrets of the London Cage, «The Guardian», 12 November 2005, http://www.theguardian.com/uk/2005/nov/12/secondworldwar. world; S. JACKSON, British Interrogation Techniques in the Second World War, The History Press, Stroud (England) 2011, pp. 129–148. 38 O. HOARE, Camp 020. MI5 and the Nazi Spies. The Official History of MI5’s Wartime Interrogation Centre, Public Record Office, London 2000. 39 È stato il giornalista Ian Cobain, a denunciare per primo nel 2005, dalle pagine del “The Guardian”, l’esistenza di questo centro interrogatori. Cfr. I. COBAIN, The interrogation camp that turned prisoners into living skeletons, «The Guardian», 17 december 2005, http://www.theguardian.com/uk/2005/ dec/17/secondworldwar.topstories3. Il 3 aprile 2006, The Guardian pubblicò anche le foto di alcuni prigionieri nudi e scheletrici detenuti dagli inglesi dopo la seconda guerra mondiale. Cfr. I COBAIN, The postwar photographs that British authorities tried to keep hidden, «The Guardian», 3 April 2006, http://www.theguardian.com/politics/2006/apr/03/uk.freedomofinformation.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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fisiche e psicologiche per carpire informazioni ai detenuti, la maggior parte dei quali sono ex membri del Partito Nazionalsocialista40. Con l’avvento della cosiddetta Guerra fredda e la nascita della Repubblica Federale Tedesca, la denazificazione è abbandonata e, in alcuni casi, spudoratamente invertita per “ragion di Stato” in funzione anticomunista. Dunque, tutti i campi anglo– statunitensi si svuotano; i terribili centri inquisitori, come quello di Bad Nenndorf, sono convertiti in funzione anticomunista: i crudeli nemici di ieri diventano i buoni amici di oggi in funzione antisovietica41.

5.5. I campi speciali della Germania Est Nella zona di occupazione sovietica, sul territorio che poi è diventato Repubblica Democratica Tedesca, le cose vanno peggio. Il 18 aprile 1945, la direttiva sovietica numero 00315 dispone l’arresto di tutti gli attivisti, collaborazionisti, spie e agenti del nazismo, assieme a tutti gli elementi ostili all’Unione Sovietica, e il loro internamento in prigioni e campi speciali creati ad hoc. Quindi è istituito l’Abteilung Speziallager des NKVD der UdSSR in Deutschland (Dipartimento dei campi speciali del Commissariato del Popolo per gli Affari interni in Territorio Tedesco dell’URSS), con a capo il colonnello–generale Ivan Serov. I primi campi sovietici sono istituti ancor prima del termine del conflitto mondiale, nelle regioni via via occupate dai soldati 40

Cfr. U. ANHALT, Das Verhörzentrum Wincklerbad der britischen Besatzungsmacht in Bad Nenndorf 1945–1947, Offizin Hannover, Hannover 2010; O. HOARE, Camp 020, cit., pp. 82–102; S. Jackson, British Interrogation Techniques in the Second World War, cit., pp. 149–170; F. T AYLOR, Exorcising Hitler. The Occupation and Denazification of Germany, Bloomsbury, London 2011, pp. 305–308. 41 Cfr. N. FREI (hrsg), Karrieren im Zweilicht. Hitlers Eliten nach 1945, Campus, Frankfurt am Main 2001, trad. it. Carriere. Le élites di Hitler dopo il 1945, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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V. I campi per rieducare e punire

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dell’Armata Rossa42. Alcuni di questi campi sono smantellati pochi mesi dopo43, altri passano invece sotto l’amministrazione polacca44. Superata la fase iniziale dell’invasione, sino al 1948–1950, in quella che diventerà la Germania Est, i sovietici organizzano dieci campi per isolare e convertire gli ex nazisti e tutti i tedeschi che avevano provveduto all’economia di guerra e al sostentamento della Reich nazista, poi per rinchiudere tutti i nemici veri o presunti del socialismo. Chiamati dai tedeschi Speziallager (al plurale Speziallagern), in russo Spezlag (al plurale Spezlagerja), in italiano “Campo speciale”, a ciascuno di essi il “Dipartimento dei Campi speciali della NKVD dell’URSS in Germania” assegna un numero di identificazione45. Lo Speziallager nr. 1 è inaugurato l’8 settembre del 1945. Ubicato a circa quattro chilometri a Nord–Est della città di Mühlberg sull’Elba, è costituito reimpiegando le baracche del vecchio campo per prigionieri di guerra e cintando con filo spi42

Tra questi il campo di Weesow, presso Werneuchen, nel Brandenburgo, il primo istituito subito dopo l’ingresso delle truppe sovietiche in sei fattorie del villaggio (maggio 1945–agosto 1946). 43 Tra questi il campo di Posen, istituito dall’Armata Rossa nel sobborgo di Sankt Lazarus (aprile 1945–dicembre 1945); il campo di raccolta e di transito (Sammel– and Durchgangslager) di Landsberg, sulla Warthe, (giugno 1945 – gennaio 1946); il campo di raccolta (Sammellager) per profughi e prigionieri di guerra di Graudenz sulla Vistola, nella Prussia occidentale (novembre 1945–febbraio 1946); il già citato campo di Weesow. 44 Tra questi il campo di Oppeln, aperto nel giugno 1945 e chiuso, come tutti gli altri campi sovietici sul suolo polacco, nell’inverno dello stesso anno, per passare ufficialmente sotto la nuova Amministrazione di Varsavia. 45 Per tutti cfr. B. GREINER, Verdrängter Terror. Geschichte und Wahrnehmung sowjetischer Speziallager in Deutschland. Hamburger Edition, Hamburg 2010; G. FINN, Die Speziallager der sowjetischen Besatzungsmacht 1945 bis 1950, in Materialien der Enquete–Kommission «Aufarbeitung von Geschichte und Folgen der SED–Diktatur in Deutschland», Band IV, Deutscher Bundestag (12. Wahlperiode), Nomos–Verl. –Ges., Baden–Baden 1995, pp. 337–397, ora http://www.gulag.memorial.de/pdf/finn_speziallager.pdf; J. Morré, Speziallager des NKWD. Sowjetische Internierungslager in Brandenburg 1945–1950, Brandenburgische Landeszentrale für politische Bildung, Potsdam 1997.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

nato un tratto di brughiera incolta. “Ospita” in maggior numero criminali di guerra (ex appartenenti del Partito nazista, ufficiali della Wehrmacht, membri della Gestapo e del Servizio di Sicurezza delle SS) e in minor numero i cosiddetti “elementi ostili al socialismo”. È chiuso nel novembre 1948. L’ex campo nazista di Buchenwald, dapprima trasformato in una sorta di “museo degli orrori” dei crimini perpetuati dai nazisti, il 12 agosto 1945 è chiuso al pubblico, ristrutturato e battezzato Speziallager nr. 2. Nove giorni più tardi è riaperto, ma questa volta per ospitare nuovi internati, tutti ex nazisti, persone sospettate di aver appoggiato o simpatizzato per Hitler, nemici del socialismo. Funziona sino a febbraio del 1950, conservando il suo motto per visibile sui cancelli: “Jedem das Seine”, ossia “A ciascuno il suo”. Lo Speziallager nr. 3 è situato a Hohenschönhausen, sobborgo Nord–orientale della città di Berlino. Non è un campo nel senso classico, ma una serie di edifici che sorgono sull’area di una grande cucina della Nationalsozialistische Volkswohlfahrt (NSV), l’istituto per l’assistenza pubblica popolare del Partito nazista, e su un’ex fabbrica di macchinari. Nell’ottobre del 1946 gli internati sono trasferiti in massa nel campo di Sachsenhausen e l’area è consegnata ai servizi di sicurezza sovietica che, nel 1947, trasformarono gli edifici in carcere giudiziario con un Untersuchungshaftanstalt der sowjetischen Geheimpolizei (centro per gli interrogatori della polizia politica sovietica). Nella cantina dell’ex cucina sono predisposte delle celle prive di finestre, per questo quest’ala del carcere è soprannominata “U–Boot”, il sommergibile. Il Ministero per la Sicurezza dello Stato della DDR, la famigerata Stasi, eredita la struttura dall’amministrazione sovietica nel 1951, trasformandola in un centro per la detenzione politica e in centro di spionaggio. Il grande complesso diviene sino al 1989 un luogo ermeticamente isolato dal mondo esterno. Sulle cartine geografiche della DDR, la zona del centro di detenzione di Hohenschönhausen non è neppure segnata, trasformando l’ex Speziallager nr. 3 in un “non luogo”.

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A Bautzen, città dell’Alta Lusazia in Sassonia, è invece istituito lo Speziallager nr. 4. Inaugurato il 13 giugno 1945 sull’area di un penitenziario regionale, per il colore dei suoi mattoni e per il trattamento riservato agli internati è battezzato “das Gelbe Elend” (Miseria gialla)46. Con la nascita della Repubblica Democratica Tedesca, questo campo speciale passa nel 1950 sotto il controllo del Ministero della Giustizia, poi nel 1951 al Ministero dell’Interno e in fine dal 1956 al 1989 al Ministero della Sicurezza di Stato. Sempre in questa cittadina della Sassonia, la Stasi apre un altro luogo dove detenere i prigionieri politici e chi tenta di fuggire dalla Germania Est. Già carcere nazista, Bautzen II diviene dal 1945 al 1949 carcere giudiziario sovietico, per poi passare ai tedesco–orientali diventando il più terribile Stasi–Knast, carcere della Stasi. Qui sono rinchiusi anche alcuni italiani, accusati di spionaggio, calunnia e tratta di uomini (per aver progettato, realizzato o aiutato la fuga di tedeschi orientali in Germania Ovest))47. Bautzen I è oggi un carcere maschile, mentre Bautzen II è divenuto un Gedenkstätte, un memoriale per ricordare le vittime di entrambe le istituzioni carcerarie della cittadina della Sassonia. Lo Speziallager nr. 5 è installato alla periferia del villaggio di Ketschendorf, nei pressi della città di Fürstenwalde/Spree (Brandeburgo), in un vecchio sito per la fabbricazione di pneumatici (Deutsche Kabelwerke). Tra gli internati di questa prigione speciale, oltre a ex nazisti e dissidenti, anche milleseicento adolescenti di età compresa tra i dodici e i diciotto anni, 46

Nella lunga storia del carcere della Stasi di Bautzen soltanto un recluso, Dieter Hötger, riuscì a evadere. Dieter Hötger, fu arrestato nel 1962 dalla Stasi mentre stava scavando un tunnel da Berlino Ovest a Berlino Est per permettere alla moglie, residente nella DDR, di raggiungerlo nella Germania occidentale. Fu condannato a nove anni di reclusione. Dopo aver scavato un buco nella sua cella, il 28 novembre 1967 riuscì a evadere dal carcere. Fu catturato il 6 dicembre 1967 e condannato ad altri otto anni. Nel settembre 1972 il governo della Repubblica Federale pagò un riscatto per farlo scarcerare e lo rimpatriò. 47 Cfr. B. ZORATTO , Gestapo rossa. Italiani nelle prigioni della Germania est, SugarCo, Milano 1992.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

tutti accusati di aver fatto parte della Hitlerjugend (Gioventù hitleriana) e dell’organizzazione Werwolf (Lupi mannari)48. Il campo 5 è chiuso il 17 febbraio 1947. Giovani della Werwolf sono internati, assieme ad altri ex nazisti e dissidenti, anche nello Speziallager nr. 6. Questo campo speciale è situato nei pressi del piccolo villaggio di Jamlitz, presso Lieberose, nella parte meridionale del Brandeburgo, su un ex campo di esercitazione delle SS. Il campo ha il triste primato di essere uno dei Speziallagern con il più alto tasso di mortalità. È chiuso nell’aprile del 1947 e oggi, presso le fosse comuni dell’ex campo, si trova un memoriale. Lo Speziallager nr. 7 si trova a Sachsenhausen, presso Oranienburg, a trentacinque chilometri a nord di Berlino. Già attivo dal marzo 1936 come campo di lavoro per prigionieri politici, diviene il più grande campo di concentramento nazista sul territorio del Reich tedesco e poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, campo speciale sovietico. Ristrutturato da centocinquanta internati del campo di Weesow, tutte le strutture del vecchio campo nazista, escluso i forni crematori, sono riutilizzate dai sovietici per isolare e convertire ex nazisti e dissidenti. All’interno del campo vi sono anche un “campo ufficiali” (Offizierslager), che raccoglie i graduati della disciolta Wehrmacht, e la “sezione femminile”, con molti neonati e lattanti. Chiuso il 10 marzo 1950, gli internati sono trasferiti in penitenziari. Nel 1961 quest’area è dichiarata “Nationale Mahn–und Gedenkstätte” (“Monumento nazionale di denuncia e di memoria” dei crimini nazisti). La città di Torgau, situata nel Land della Sassonia a circa cinquanta chilometri da Lipsia, ha il triste primato di essere stato il luogo in cui, sino al 1948, sorgono due Speziallagern, il numero 8 e il numero 10, istituiti nella più grande prigione della 48

Il Werwolf era un’organizzazione istituita e gestita dalle SS durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale, per compiere atti di guerriglia e sabotaggio contro gli Alleati. Cfr. P. BIDDISCOMBE, Werwolf! The History of the National Socialist Guerrilla Movement, 1944–1946, University of Toronto Press, Toronto–Buffalo 1998; G. ZAFFIRI, Werwolf. I Guerriglieri del Terzo Reich, Nicola Calabria Editore, Patti (Messina) 2009.

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Wehrmacht nel Reich tedesco (Fort Zinna) Nella cittadina di Torgau, ironia della sorte, il 25 aprile del 1945 vi fu l’incontro amichevole tra l’esercito Alleato e l’Armata Rossa. Dal 1996 Fort Zinna è divenuto “Centro di documentazione e informazione di Torgau”, custode della memoria delle vittime della tirannia politica, anche attraverso una mostra permanente. Lo Speziallager nr. 9 si trova, invece, a Fünfeichen presso Neubrandenburg, nel Nord della Germania. Ex campo di prigionieri di guerra della Wehrmacht (Stalag II A), questo campo speciale sovietico di internamento funzionò dall’aprile del 1945 all’ottobre 1948. Tutti i campi speciali hanno un’amministrazione e un servizio di polizia tedesche, sotto un comando sovietico. L’utilizzo di spie all’interno previene le evasioni e garantisce il mantenimento dell’ordine. Per finire in questi campi speciali basta anche un debole legame con il nazismo, oppure una semplice calunnia. La procedura dall’arresto all’internamento è semplice. Dopo l’arresto, segue la cosiddetta “istruttoria”, in cui l’arrestato deve confessare le proprie colpe e denunciare i suoi complici. Tutto questo attraverso percosse e torture da parte degli ufficiali sovietici. Dopo aver firmato un verbale, redatto in russo, il detenuto è trasferito in camion in un campo speciale49. Tutti gli internati sono sottoposti a un ferreo regime di sorveglianza. Il “recupero” degli internati, a differenza dei Gulag sovietici, non è basato su lezioni di rieducazione politica, ma avviene attraverso l’inedia e le torture psicologiche (reclusione in celle buie o con luce accecante, privazione del sonno e così via), che dovevano portare alla delazione. Qualsiasi attività all’interno del campo speciale è severamente bandita. Solo gli scacchi sono raramente tollerati. Il mancato rispetto delle regole interne diviene pretesto per punizioni: isolamento totale, privazione del sonno, razioni alimentari dimezzate. Le malattie, dovute al sovraffollamento, alla mancanza di igiene e alla denutrizione, assieme alla quasi totale inesistenza 49

Cfr. J. KOTEK, P. RIGOULOT, Il secolo dei campi, cit., pp. 378–379.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

di cure mediche sono causa di morte. Anche il freddo è un’altra causa di mortalità. I luoghi di reclusione non sono abbastanza riscaldati e l’inverno in Germania è abbastanza rigido. Poiché il deportato resta con gli abiti indossati il giorno dell’arresto, quelli catturati in inverno resistono meglio, per la semplice ragione che indossano indumenti più pesanti. Dall’apertura dei campi alla fine del 1947 le condizioni di detenzione sono di gran lunga le peggiori. Un certo ammorbidimento delle condizioni di detenzione è compiuto a partire dall’ottobre 1947, grazie all’interessamento dei vescovi cattolici e dei pastori evangelici presso la direzione dell’“Amministrazione militare sovietica in Germania” (Sowjetische Militär– Administration in Deutschland). Nell’ottobre del 1948, con la deportazione in URSS di molti internati e, assieme, con la liberazione di quelli condannati a pene minori, l’apparato concentrazionario della Germania Est è rivisto e molti campi sono chiusi. Solamente tre rimangono in piena attività con una nuova numerazione (1–3), Sachsenhausen, Buchenwald e Bautzen. Entro marzo del 1950 anche questi sono chiusi e tutti gli internati sono smistati in prigioni della Stasi (Stasi–Knast), penitenziari (Zuchthäuser), carceri (Gefängnisse), istituti di prigionia preventiva (Untersuchungs–Haftanstalte), case di correzione giovanile (Jugendhäuser) e ospedali di detenzione (Haftkrankenhàuser). Nei primi mesi del 1951, a due anni dalla nascita della Repubblica Democratica Tedesca, i sovietici passano le competenze di questi campi al “Ministero per la Sicurezza di Stato della DDR” (Stasi), rimanendo tuttavia sotto tutela della “Commissione Sovietica di Controllo in Germania”. Secondo una specifica comunicazione del ministero degli Interni sovietico datata luglio 1990, dal 1945 al 1959 gli internati civili tedeschi sarebbero stati circa 122.67150. Di questi, 42.889

50

Cfr. K.W. FRICKE, Die inhumane Bilanz der zweiten deutschen Diktatur, in D. SCHIPANSKI, B. VOGEL (hrsg), Dreissig Thesen zur deutschen Einheit, Herder Verlag, Freiburg 2009, p. 147.

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sarebbero morti nei campi speciali, 45.262 liberati, 12.770 deportati in URSS, 212 sarebbero evasi51.

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5.6. Polonia: i campi della Guerra fredda In Polonia, quando ancora si combatteva la Seconda Guerra Mondiale, nel dicembre del 1944 il “Consiglio Nazionale di Stato” polacco (Krajowa Rada Narodowa), con la benedizione del NKVD, formò il “Governo Provvisorio della Repubblica di Polonia” (Rząd Tymczasowy Rzeczypospolitej Polskiej). Il 28 giugno del 1945, quest’ultimo fu trasformato nel filosovietico “Governo Provvisorio di Unità Nazionale” (Tymczasowy Rząd Jedności Narodowej)52. Nel mese di gennaio del 1947, elezioni ampiamente truccate fecero entrare definitivamente la Polonia nell’orbita sovietica. Appoggiati, protetti e guidati dal NKVD, i comunisti polacchi cominciarono a organizzare lo Stato. I principali provvedimenti del nuovo governo furono la “polonizzazione” (polonizacja) del nuovo Stato, attraverso l’imposizione di elementi della cultura polacca; la creazione di uno Stato nazionale polacco con una omogeneità etnica, attraverso una spregiudicata politica di deportazione dei tedeschi etnici (accusati di aver avuto un ruolo attivo nella germanizzazione della Polonia) e l’espulsione degli ucraini a seguito dei cambiamenti territoriali53; la creazione di una specifica economia nazionale, attraverso l’eliminazione del 51

Cfr. A. KILIAN, Die Häftlinge in den sowjetischen Speziallagern der Jahre 1945–1950, in «Materialien der Enquete–Kommission des Deutschen Bundestages», “Überwindung der Folgen der SED–Diktatur im Prozeß der deutschen Einheit”, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden–Frankfurt 1999, p. 401. 52 Sulle vicende che portarono alla formazione del “Consiglio Nazionale di Stato” e poi del “Governo Provvisorio di Unità Nazionale”, cfr. C. MADONIA, Fra l’orso russo e l’aquila prussiana. La Polonia dalla Repubblica Nobiliare alla IV Repubblica (1506–2006), Clueb, Bologna 2013, pp.216–219. 53 Cfr. T. SNYDER, Il problema ucraino: la pulizia etnica in Polonia, 1943–47, in M. BUTTINO (a cura di), In fuga. Guerre, carestie e migrazioni nel mondo contemporaneo, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2001, pp. 49–80.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

settore privato e la nazionalizzazione delle risorse naturali e minerarie del Paese, la nascita di una serie di imprese gestite dallo Stato54; la compattezza politica, attraverso l’internamento dei partigiani dell’Armia Krajowa (Esercito nazionale, il grande movimento di resistenza armata antinazista e anticomunista polacco) e di tutti gli elementi ritenuti ostili al socialismo polacco (e all’URSS)55. Questo causò l’apertura di molti luoghi di internamento e di lavoro coatto per nazisti, prigionieri di guerra, criminali economici e dissidenti politici (veri o presunti). Dal 1944 e fino al 1950 in Polonia ci sono duecentosei fra campi penali, di detenzione, di lavoro, di espulsione e rimpatrio, di prigionieri di guerra e colonie agricole56. Fra questi, alcuni sono ex Lager nazisti, come i campi di Majdanek, Skrobów e Jaworzno. Altri sono ex caserme, fabbriche in rovina, ex monasteri diroccati. In questo caso si trattata di “campi selvaggi”, approntati in fretta durante la guerra e con la caratteristica di cambiare posizione con il mutamento della situazione militare sul fronte. Molti di questi campi sono creati dall’Armata Rossa, altri dipendono dagli uffici di Pubblica Sicurezza provinciali e comunali. La maggior parte di questi campi si trovano in Slesia, regione al confine tra Germania e Repubblica Ceca. Per la mancanza di organizzazione, incompetenza e per lo spirito vendicativo e l’arbitrarietà degli internamenti (che causano un elevato numero di prigionieri), questi campi hanno un notevole tasso di mortalità.

54

L’eliminazione del settore privato è accompagnata da forti misure repressive. Già il 16 novembre 1945 è istituito, sotto la direzione ideologica di Roman Zambrowski, un comitato speciale per combattere e punire il “vandalismo economico" (frodi) e il sabotaggio dell’economia. 55 Tra gli internati anche «individui “troppo ricchi”. […] Anche in loro occorre inculcare un’immagine più “giusta” della democrazia popolare, il rispetto della legge e l’amore per il lavoro». J. KOTEK, P. RIGOULOT, Il secolo dei campi, cit., p. 395. 56 Se a questi si aggiungono i molti campi selvaggi, il numero può arrivare a cinquecento. Cfr. B. KOPKA, Obozy pracy w Polsce 1944–1950. Przewodnik encyklopedyczny, Niezależna Oficyna Wydawnicza Nowa, Ośrodek Karta, Warsaw 2002.

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V. I campi per rieducare e punire

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Molti campi della prima ora sono affidati a ex deportati ebrei, entrati a far parte dell’Ufficio per la Sicurezza dello Stato nella Polonia occupata dalle truppe sovietiche, macchiandosi di quelle stesse atrocità che i nazisti avevano perpetrato sul loro popolo57. Dopo la prima fase caotica, il Ministerstwo Bezpieczeństwa Publicznego (Ministero della Sicurezza Pubblica), istituito il 1° gennaio 1945, crea al suo interno un dipartimento delle prigioni e dei campi. Quest’ultimo istituisce quattro centrali di campi di lavoro: Krzesimów (nella provincia di Lublino), Varsavia e Jaworzno (nella Slesia), Potulice (nella Pomerania). Questa precisa suddivisione permette di governare tutti i campi di lavoro del Paese: Krzesimów controlla i campi orientali della Polonia, Varsavia quelli del centro, Potulice i campi situati a Nord– Ovest e a Sud, Jaworzno quelli situati nella parte occidentale 58. Gli internati dei vari campi di lavoro sono impiegati nelle miniere, nella ricostruzione di strade e ponti, nella realizzazione di edifici per finalità pubbliche. Il lavoro forzato è visto come un procedimento per la rieducazione politica e sociale dei polacchi, ma anche come un criterio vendicativo e di risarcimento applicato ai tedeschi, responsabili dei danni subiti dalla Polonia durante l’occupazione e la guerra d’aggressione nazista. L’architettura di questi campi è quella classica: recinzione con filo spinato, torrette di guardia, misere baracche come alloggi, latrine comuni. La ferrea disciplina, l’eccessivo numero dei detenuti, le insufficienti razioni alimentari, il duro lavoro e il comportamento sadico e vendicativo dei carcerieri determinano un alto tasso di mortalità59. 57

Cfr. J. SACK, An Eye for an Eye, BasicBooks, New York 1993, trad. it. Occhio per occhio, Baldini Castoldi Dalai, Milano 1995. 58 Cfr. T. WOLSZA, Obozy i inne miejsca odosobnienia na ziemiach polskich w latach 1944–1958, in «Klub Historyczny», http://klub-generalagrota.pl/kg/ baza-wiedzy/referaty/624,Obozy-i-inne-miejsca-odosobnienia-na-ziemiachpolskich-w-latach-19441958.html. 59 Sui campi polacchi, oltre ai testi già citati, cfr. anche S. C IESIELSKI, W. MATERSKI, A. PACZKOWSKI, Represje sowieckie wobec Polaków i obywateli polskich, Ośrodek Karta, Warszawa 2002.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

5.7. Cecoslovacchia: campi per civili e campi per religiosi

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Ancor prima delle manovre golpiste dei comunisti del febbraio 1948, la Cecoslovacchia, che doveva molto all’Armata Rossa, fu attratta dall’orbita sovietica. Già nel periodo di transizione tra la liberazione dai nazisti e l’instaurazione di una democrazia popolare, in Cecoslovacchia si aprirono campi per i prigionieri nazisti, per i civili tedeschi residenti nel Paese e per i collaborazionisti (o presunti tali). L’iniziativa è ben progettata e organizzata, dato che viene messa in atto seguendo le direttive di comitati locali (l’equivalente dei municipi), perlopiù in mano ai comunisti.60

Inizialmente la repressione ebbe carattere vendicativo, successivamente seguì un obiettivo ben preciso: creare una società bi–nazionale, ceco e slovacca, che avrebbe edificato una perfetta democrazia popolare sotto l’ala protettiva dell’Unione Sovietica. La storia della Cecoslovacchia comunista ha conosciuto tre tipi di campi: di prigionia di guerra, di concentramento e lavoro forzato, di internamento e lavoro correzionale. I tedeschi dei Sudeti (Sudetendeutsche), assieme ai nazisti e ai traditori collaborazionisti, sono i primi a popolare i primi due tipi di campi. Infatti, i Sudetendeutsche, accusati di tradimento collettivo e collaborazionismo con i nazisti, sono internati e sfruttati nel lavoro schiavo prima di essere espulsi dal Paese61. I campi di lavoro disciplinare, invece, sono popolati da cittadini cechi e slovacchi accusati di essere “capitalisti reazionari”, speculatori economici, insudiciatori della “morale del lavoro”, persone “inaffidabili per lo Stato”, oppositori politici, religiosi.

60

J. KOTEK, P. RIGOULOT, Il secolo dei campi, cit., p. 384. Cfr. D. BRANDES, Il trasferimento “è come l’uovo di Colombo”: i comunisti cecoslovacchi e l’espulsione dei tedeschi, in M. CATTARUZZA (a cura di), La nazione in rosso. Socialismo, comunismo e questione nazionale 1889–1953, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 155–195. 61

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V. I campi per rieducare e punire

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I primi campi, approntati nella più totale improvvisazione, sono quelli creati dall’Armata Rossa per prigionieri di guerra, installati in maggior misura nel distretto di Karlovy Vary, zona mineraria nella parte occidentale della Cecoslovacchia, ai confini con la Germania. Quasi subito segue, per ordine dei comitati locali nelle mani dei comunisti, l’internamento sia dei tedeschi dei Sudeti sia dei collaborazionisti locali. Lo spirito di vendetta, la più totale impreparazione, lo sfruttamento nei lavori pesanti e l’insufficienza di cibo, determinano un alto tasso di mortalità tra i prigionieri. Dall’autunno del 1945, i campi passano sotto la competenza dei comitati nazionali di distretto, questo permette di disciplinare l’internamento. A giugno dell’anno dopo inizia il trasferimento di massa dei tedeschi, che dura tutto l’inverno. Molti campi sono chiusi, a eccezione di quelli ubicati nelle regioni minerarie e industriali62. Il colpo di Stato comunista del febbraio del 1948 mette fine al governo di coalizione nazionale che regge il Paese dalla fine della guerra: la Cecoslovacchia diventa di fatto una “democrazia popolare”. Il putsch determina l’avvio alla repressione dei nemici del popolo e gli elementi dissidenti sono eliminati a tutti i livelli della società. La Legge nr. 231, emanata il 25 febbraio di quello stesso anno, legalizza gli arresti per chiunque minacci la democrazia popolare dello Stato e le sue istituzioni. L’elenco delle violazioni punite con l’internamento è vasto: dai delitti “contro la Stato” (alto tradimento, associazione antistatale, istigazione contro la Repubblica, vilipendio dello Stato)63 a quelli “contro la sicurezza interna dello Stato (attentato alla vita dei funzionari pubblici, vilipendio del Presidente della Repubblica, oltraggio a funzionari pubblici, sobillazione, abuso della funzione religiosa o simile, sabotaggio) 64, dai crimini “contro la 62

Sui campi della Cecoslovacchia non ancora ufficialmente socialista, cfr. T. STANĚK, Tábory v českých zemích 1945–1948, Tilia, Šenov u Ostravy 1996. 63 Capo I, L. 231/1948, «Poslanecká sněmovna Parlamentu České Republiky» (Camera dei Deputati del Parlamento della Repubblica Ceca), http://www.psp. cz/eknih/1948ns/tisky/t00 94_01.htm. 64 Capo III, L. 231/1948, ibidem.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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sicurezza” esterna dello Stato (spionaggio e diffusione abusiva di notizie)65 a quelli “contro i rapporti internazionali” (abbandono illegale del territorio nazionale e inosservanza dell’appello al rientro, danneggiamento degli interessi della Repubblica all’estero attraverso la diffusione all’estero di notizie false sulla situazione della sicurezza, politica, economica, sociale o legislativa, oltraggio a Stato alleato) 66. Il 25 ottobre 1948, con la Legge nr. 247, arriva la potente “medicina” per i nemici della democrazia popolare cecoslovacca: i campi di lavoro forzato, in ceco Práce Tabory Nucené (TNP). Il Parlamento, infatti, stabilisce che, affinché le persone [che si sottraggono al lavoro o minacciano l’edificazione dell’ordinamento popolare democratico o la vita economica] possano essere formate al lavoro come dovere sociale, e affinché possano essere utilizzate le loro capacità lavorative a beneficio dell’intera collettività (par. 32 della Costituzione), si istituiscono campi di lavoro coatto.67

In questi campi, dunque, «le persone colpite da provvedimento coatto ricevono una preparazione morale, professionale e culturale»68. I campi sono istituiti e amministrati inizialmente dal Ministero degli Interni che, secondo le necessità, può trasferire questa competenza ai Comitati Nazionali Distrettuali 69. Sulla destinazione al campo e sul periodo di permanenza in esso decide una commissione di tre membri nominati dai Consigli Nazionali Distrettuali. Le loro sessioni sono private e possono essere frequentate solo dai membri del Ministero degli Interni o dall’autorità di protezione dello Stato 70. Queste Commissioni 65

Capo II, L. 231/1948, ibidem. Capo IV, L. 231/1948, ibidem. 67 Par 1.1, L. 247/1948, in «Poslanecká sněmovna Parlamentu České Republiky» (Camera dei Deputati del Parlamento della Repubblica Ceca), http://www.psp.cz/eknih/1948ns/tisky/t0109_00.htm. 68 Par. 8, L. 247/1948, in ibidem. 69 Par 1.1, L. 247/1948, in ibidem. 70 Par. 3, L. 247/1948, in ibidem. 66

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V. I campi per rieducare e punire

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non solo decidono chi internare, ma stabiliscono anche il prolungamento della pena o la sua riduzione, fissano il soggiorno in un determinato distretto o in una città (o ne stabiliscono il luogo di residenza), ne decretano la confisca dei beni, decidono se togliere la competenza professionale71. Sul territorio nazionale, operano diciannove Commissioni. I campi cecoslovacchi tornano così a ripopolarsi. Molti sono costruiti in aree in cui il bisogno di manovalanza è impellente (miniere, fonderie, cantieri di costruzione, industrie statali), altri in zone agricole, qualcuno all’interno delle città (come ad esempio nello stadio di Strahov, a Praga) 72. Secondo le disposizioni di legge73, possono essere internati individui da diciotto a sessant’anni, ma questa regola non è sempre rispettata. Se nei primi campi (quelli in cui sono rinchiusi i tedeschi e i collaborazionisti nostrani) il lavoro è visto maggiormente come un metodo per punire, in questi di “seconda generazione” la fatica diviene assieme strumento per rieducare i nemici del socialismo e soluzione affinché anche i detenuti contribuiscano come i cittadini liberi alla produzione e all’economia dello Stato. Per questo all’ingresso del campo di Vojna–Lešetice, a cinque chilometri da Pribram nella Boemia centrale, domina un cartello con la scritta Prací ke svobodě, “Lavoro per la libertà”. Questi campi di “seconda generazione” sono in genere diversi dai primi. A parte quelli a regime duro, molti altri hanno una sorveglianza piuttosto blanda e le condizioni di vita all’interno sono un po’ meno crudeli. Certamente il durissimo lavoro a cui gli internati sono sottoposti, la scarsa qualità del cibo e le gravi punizioni per chi non rispetta le regole, determinano un regime carcerario irrispettoso dei diritti umani, seppur esente 71

L. 247/1948, par. 4. Per tutti cfr. F. BÁRTÍK, Tábory nucené práce se zaměřením na tábory zřízené při uranových dolech v letech 1949–1951, «Úřad dokumentace a vyšetřování zločinů komunismu PČR», Praha 2009. La localizzazione dei più importanti campi in T. BOUŠKA, K. PINEROVÁ, Czechoslovak Political Prisoners. Life Stories of 5 Male and 5 Female Victims of Stalinism, Tomáš Bouška, Praha 2009, p. 165. 73 L. 247/1948, par. 2. 72

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

dallo spirito vendicativo dei primi campi. Le condizioni di vita dei detenuti tuttavia variano secondo le motivazioni dell’internamento, i tipi di lavoro e la linea adottata dalla direzione del campo. Più terribili sono sicuramente le condizioni di vita nei campi di lavoro per l’estrazione dell’uranio74. Per il duro regime carcerario, in questi campi–miniera si inviano i “criminali” più pericolosi, ovvero gli avversari politici e i delinquenti comuni condannati a pene detentive superiori a dieci anni. I campi sono nella struttura simili a quelli classici: recinzione di filo spinato, torrette di guardia, cortile centrale e baracche fatiscenti come alloggi. Il lavoro, come si può immaginare, è molto duro, non solo per il tipo di attività, ma anche per le alte quote dei risultati richiesti. Oltre all’elevato rischio di incidenti, dovuti soprattutto all’inesperienza degli internati, occorre aggiungere anche gli infortuni creati dai pericoli naturali di questo tipo di attività, tra cui il cancro dovuto all’esposizione non protetta a fonti naturali di radioattività, all’inalazione di radon e polvere radioattiva, al contatto con acqua irradiata. Un’altra categoria di campi è quella aperta per i religiosi cattolici. Il 14 ottobre 1949 il Parlamento emana la Legge 217 che istituisce l’Ufficio Statale per gli Affari ecclesiastici (Státní úřad pro věci církevní), con il diritto di attribuirsi la trattazione di qualunque questione religiosa e, soprattutto, con il compito di provvedere affinché sia la vita religiosa sia quella ecclesiastica siano in sintonia con i princìpi del regime. L’anno dopo, accusando i religiosi di svolgere attività politica per conto di potenze straniere ostili alla Repubblica, il governo organizza l’“Azione K” (da Klaster, convento), per internare tutta la gerarchia ecclesiastica e rieducarla alla linea politica del regime. Nella notte fra il 13 e il 14 aprile 1950 avviene la grande azione repressiva contro la Chiesa: i religiosi sono ar74

Le condizioni di vita e i pericoli di questi campi nella testimonianza di František Bártík, Tábor Vojna. Ve světle vzpomínek bývalých vězňů, Vyšehrad, Praha 2008. Cfr. anche F. SEDIVY, Uranovy gulag. Jachymovske peklo, Moba, Brno 2005.

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V. I campi per rieducare e punire

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restati e raccolti in pochi monasteri utilizzati come luoghi di internamento, mentre conventi e istituti religiosi sono requisiti per essere utilizzati per altri scopi utili alla società. I principali conventi di internamento sono quelli di Benadik, Jasov, Pezinok, Bac, Podolinec, Malacky, Mocenok, Hlohovec, in Slovacchia; di Zeliv, Bohosudov, Ceska, Broumov, Kamenice, Osek e Kraliky in Boemia–Moravia. Non essendo previsto dal codice penale, tutta la vita all’interno di un convento di internamento dipende dall’arbitrio del direttore, generalmente un responsabile politico dell’Ufficio Affari religiosi75. In generale tutti i religiosi internati devono lavorare, anche all’esterno (in fattorie statali, in cantieri edili e così via); è permesso loro assistere alla messa, celebrata senza omelia da uno di loro in un salone del convento; non possono avere contatti con l’esterno; sono obbligati a partecipare alle lezioni giornaliere di indottrinamento politico; devono rispettare le rigide regole imposte dal direttore per non subire punizioni (tra cui l’insopportabile cella d’isolamento con razione di cibo dimezzata). I conventi di internamento sono chiusi solo nel 1956. Oltre all’internamento, il regime manda i più giovani in generale e i seminaristi in particolare, assieme a religiosi e sacerdoti, al servizio militare nei cosiddetti Battaglioni Tecnici Ausiliari (Pomocné Technické Prapory – PTP), unità lavorative alle dipendenze dell’esercito addette ai lavori nel settore militare e nella industria bellica. Riconoscibili per le mostrine nere sulle divise, al termine della giornata lavorativa sono costretti ad assistere a due ore di indottrinamento politico. I PTP restano attivi sino al 195476. 75

La persecuzione della Chiesa in Cecoslovacchia e le vicende dell’Azione K in V. VLČEK, Perzekuce mužských řádů a kongregací komunistickým režimem 1948–1964, Matice cyrilometodějská, Olomouc 2004. In italiano la testimonianza del cardinale slovacco Ján Chryzostom KOREC, La notte dei barbari, Piemme, Casal Monferrato 1994 (orig. Od barbarskej noci, Vydavatelske Luc, Bratislava 1992). 76 Cfr. J. BILEK, Pomocne technicke prapory. O jedné z forem zneužití armády k politické perzekuci, Úřad dokumentace a vyšetřování zločinů komunismu, Praha 2002.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Il 31 luglio 1950 sono abolite le commissioni di tre membri nominati dai Consigli Nazionali Distrettuali, responsabili della decisione sull’internamento; mentre l’anno dopo i campi passano sotto la giurisdizione del Ministero della Giustizia, a eccezione dei campi–miniera per l’estrazione dell’uranio. Nel 1951 molti campi sono chiusi e gli internati accorpati nei campi più grandi. In seguito la denominazione dei campi cambia in Campi di Lavoro Penali (Trestanecké Pracovní Tábory – TPT), Unità di Lavoro Carceraria (Pracovní útvary Vězňů – PÚV), Unità di Lavoro Punitiva (Pracovní útvary Potrestaných – PÚP), Unità di Lavoro Penale (Pracovní útvary Odsouzených – PÚO). Sostanzialmente variano solo i nomi, ma non le condizioni di internamento. Dal 1954 tutti i campi di lavoro hanno una denominazione comune: Campi di Lavoro Correttivi (Nápravně Pracovní Tábory – NPT)77. L’ultimo campo di lavoro è chiuso ufficialmente nel 1956, mentre i campi–miniera sono completamente aboliti solo nel 1961.

5.8. Ungheria: la rieducazione durante la Guerra fredda In Ungheria, già subito dopo l’entrata dell’Armata Rossa nel Paese (settembre 1944), cominciano le deportazioni in URSS e l’internamento in campi ungheresi di criminali di guerra e collaborazionisti. Dopo essersi sbarazzati dei rivali politici, in seguito alle elezioni del maggio 1949, i comunisti prendono il potere: nasce la Repubblica Popolare d’Ungheria (Magyar Népköztársaság). Il nuovo governo prende in carico i campi esistenti nel Paese e continua a riempirli di nemici del popolo. Parallelamente “invita” molti cittadini a ripopolare alcune zone della “Grande Pianura”, a centocinquanta chilometri a Est da BudaSui campi cecoslovacchi cfr. K. KAPLAN, Tábory nucené práce v Československu v letech 1948–1954, Nakladatelství R a ÚSD AV ČR, Praha 1993; M. Borák, D. Janák, Tábory nucené práce v ČSR 1948–1954, Slezský ústav Slezského zemského muzea v Opavě, Opava 1996. 77

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V. I campi per rieducare e punire

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pest. Le deportazioni servono soprattutto per allontanare le persone indesiderabili, l’internamento per liberarsi dei nemici del popolo, presunti o reali. Braccio esecutivo del regime è la famigerata Államvédelmi Hatóság (ÁVH – Autorità per la Protezione dello Stato), la polizia politica ungherese. Concepita come appendice esterna degli apparati di sicurezza dell’Unione Sovietica e alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni, nel 1949 diviene una entità a sé stante e onnipotente. Il suo quartier generale a Budapest, in un palazzo in via Andrássy 60, diventa il cuore operativo dell’oppressione comunista. Ribattezzato Terror Hàza (Casa del Terrore), oggi museo– memoriale, il palazzo fu sede del Partito delle Croci Frecciate (Nyilaskeresztes Párt), la versione magiara del Partito nazista. Già centro di tortura dei fascisti, con il nuovo regime non cambia la sua destinazione d’uso. Nel piano sotterraneo, oltre alle anguste celle ordinarie, vi sono quelle disciplinari, più piccole e basse delle altre (60 cm per 50 e alte 180), alcune delle quali con caratteristiche molto particolari: ad esempio vi è la “Vizes cella”, in cui il recluso resta per giorni con l’acqua sino alle ginocchia; oppure il cosiddetto “buco della volpe”, piccola cella priva di luci e talmente stretta da soggiornare in piedi. Inoltre vi sono anche le celle del braccio della morte, per i detenuti in attesa della sentenza capitale, che comunque è eseguita altrove. A tutti i prigionieri è riservato l’interrogatorio, condotto con l’uso della tortura78. Quasi sempre senza indagini preliminari e decisione da parte di un tribunale ordinario, a volte solamente basandosi solo su semplici sospetti, l’ÁVH deporta migliaia di cittadini ungheresi nei campi, dove sono costretti al lavoro forzato in miniere, cave, cantieri edili e stradali. Tra i luoghi d’internamento per nemici del “nuovo” popolo ungherese, i più grandi e crudeli furono quelli di Recsk, Orosz78

Su questo luogo di oppressione nazista e comunista della storia ungherese, cfr. M. SCHMIDT, Terror Háza, Andrássy út 60, Public Endowment for Research in Central and East–European History and Society, Budapest 2003.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

lany, Varpalota e Tiszalök, Kistarcsa, quest’ultimo campo di transito di durata variabile79. Tra tutti i campi ungheresi, quello di Recsk, nel Nord–Est del Paese, è quello più ricordato nella storia dell’Ungheria comunista. Ubicato vicino a una cava di pietra, a tre chilometri dalla cittadina di Recsk, è inaugurato il 19 luglio 1950. Il campo è edificato dagli stessi internati, obbligati durante la costruzione a vivere negli ovili. Dopo aver recintato con filo spinato la zona assegnata al campo, circa 1.600 metri per 600, gli internati costruiscono anche le baracche in legno di circa sette metri per venti. Tra queste la “Barrack 5”, quella destinata a ospitare gli internati in punizione, circondata da filo spinato, per isolare maggiormente i più ricalcitranti. Prima della costruzione di questa baracca, le punizioni sono scontate in una fossa scavata nel terreno. La maggior parte degli internati sono obbligati a scontare la loro pena lavorando nella cava di pietra che si trovava a seicento metri dal campo. Come gli altri campi, quello di Recski è chiuso nel 1953, in seguito alla decisione del primo ministro Imre Nagy di smantellare questi luoghi destinati ai nemici del popolo80. Questa decisione è dovuta sicuramente alla richiesta dell’Ungheria di aderire all’ONU. A partire dalla fine di luglio del 1953 i detenuti sono effettivamente rimessi in libertà a piccoli gruppi, quelli ritenuti più pericolosi sono invece trasferiti nelle prigioni dell’ÁVH. All’uscita, prima volta nella storia dei campi, un magistrato presenta le scuse agli internati per i terribili soprusi subiti: «In nome della Repubblica popolare ungherese, intendo porgerle delle scuse per le ingiustizie, i torti e le umiliazioni che ha dovuto subire» 81. Allo stesso tempo, gli internati liberati sono ob79

Per tutti cfr. I. FEHÉRVÁRY, The Long Road to Revolution. The Hungarian Gulag 1945–1956, Pro Libertate Pub, Santa Fe 1989; I. CSABA, Internálótáborok. Kistarcsától Recskig, autoproduzione, Budapest 2013. 80 Sul questo campo cfr. G. SÁGHY, Recski rabok, a kövek árnyékában, Recski Kiadó, Budapest, 2004. 81 G F ALUDY, My Happy Days in Hell, André Deutsch, London 1962, p. 331, ora Penguin, London 2010. È la testimonianza di György Faludy (1910– 2006), poeta e scrittore, internato con accuse fittizie a Recsk per tre anni.

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bligati a conservare il silenzio su quello che hanno visto e patito, per questo tutti ricevono un’ordinanza giudiziaria che li pone sotto la sorveglianza della polizia politica 82. In seguito all’insurrezione popolare del 195683, che scoppia per la profonda insoddisfazione delle masse, dovuta al fallimento della politica economica, che aveva prodotto una diffusa povertà, e per gli abusi dell’ÁVH, molti campi sono riaperti. Il piano di crisi attuato dal regime dopo l’insurrezione popolare, che porta a numerose condanne a morte e a pene detentive in campi e prigioni, rimane in vigore fino al 1989, quando il Parlamento, dal 16 ottobre al 20 ottobre, adotta una nuova legislazione istituendo elezioni multipartitiche e un seggio presidenziale a elezione diretta. La Repubblica Popolare diventa la Repubblica d’Ungheria. 5.9. Bulgaria: campi e “Comunità di lavoro correzionale” In Bulgaria, il 9 settembre del 1944, il Fronte Patriottico, spalleggiato dalle forze sovietiche dell’Armata rossa in avanzamento dal Terzo fronte ucraino, guida un golpe contro il primo ministro Konstantin Muraviev, in carica da una settimana. Il nuovo governo, retto da Kimon Georgiev, abolisce le organizzazioni e le leggi fasciste, fa arrestare i reggenti del re, i membri del precedente governo, i capi della polizia, della gendarmeria e di alcuni distaccamenti dell’esercito. Il 10 settembre sostituisce la polizia con una milizia popolare, costituita soprattutto da partigiani. Il 17 dicembre inizia una vigorosa repressione dell’opposizione, arrestando qualsiasi persona ritenuta fascista o rea-

82

Ivi, p. 370. Le vicende della rivoluzione sono state raccontate negli scatti di Erich Lessing e nei testi dello stesso fotografo e di François Fejtö, György Konrád, Nicolas Bauquet. Cfr. E. LESSING, Budapest 1956. La rivoluzione, Marietti, Genova 2006. Per la storia dell’insurrezione, cfr. E. BETTIZA, 1956, Budapest. I giorni della rivoluzione, Mondadori, Milano, 2006. 83

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

zionaria, a prescindere dal suo partito di affiliazione 84. Il referendum dell’8 settembre 1946 porta all’abolizione della monarchia e all’esilio dei reali, mentre il 15 settembre dello stesso anno è proclamata la Repubblica Popolare di Bulgaria (Narodna Republika Bălgarija). Come in altri Stati del blocco orientale, la Bulgaria comunista gestisce una rete di campi di lavoro forzato tra il 1944 e il 1989, con particolare intensità fino al 1956. Migliaia di “traditori della classe”, veri o presunti, sono inviati nei campi, quasi sempre senza processo. Tra il 1945 e il 1949, con l’accusa di essere “una minaccia per la stabilità e la sicurezza dello Stato”, molti cittadini bulgari vanno a popolare i campi di Sveti Vrach, Rositsa, Kutsiyan, Bobov Dol, Stanke Dimitrov, Koutsiyan, Bosna, Nikolaevo, Boshoulya, Nozharevo e Chernevo, per lavorare in miniere di carbone e dighe in costruzione, sui cantieri stradali, in alcune aree agricole85. Dal 1947, e per due anni, ha funzionato anche un campo speciale nei pressi di Pazardjik, denominato “Campo S”, inizialmente creato per internare persone già appartenenti alla Sicurezza dello Stato86. Il 27 aprile 1949, il Politburo bulgaro dà il suo consenso per l’organizzazione di un grande campo di lavoro correzionale a Belene, sull’isola di Persin, e per il suo utilizzo come centro di detenzione principale per i prigionieri politici. Situata sul Danubio ai confini con la Romania, l’isola fluviale di Persin offre molteplici vantaggi per la costruzione di un 84

Cfr. H. HRISTOV, The Crimes during the Communist Regime and the Attempts at Their Investigation after 10 November 1989, in V. STANILOV (ed), The international condemnation of Communism. The Bulgarian perspective. Excerpts from the reports presented at the Colloquium in Koprivshtitsa, Bulgaria, 24–26 September 2004, Vassil Stanilov Literature Workshop, Sofia 2004, p. 53. 85 Cfr. T. TODOROV , Au nom du peuple. Témoignages sur les camps communists, La Tour d’Aigues, Editions de l’Aube, Paris 1992, trad. ingl., Voices from the Gulag. Life and Death in Communist Bulgaria, Pennsylvania State University, University Park 1999, p. 39; H. Hristov, The Crimes during the Communist Regime, cit., p. 54. 86 H. HRISTOV, ibidem.

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V. I campi per rieducare e punire

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campo: è lontana da zone densamente popolate, le correnti del fiume scoraggiano eventuali fughe, si trova vicino a uno Stato comunista amico. Questo campo è attivo ufficialmente dal 1949 al 1959, con un blocco delle nuove deportazioni tra il 1954 e il 1956. In seguito alla “Rivoluzione ungherese”, il campo torna a popolarsi, restando in funzione sino al 1962, quando è trasformato in carcere ordinario per delinquenti comuni, anche se sino al 1989 ancora molti oppositori politici sono ospitati nella struttura87. La “Comunità di lavoro correzionale di Belene” non è la sola a restare impressa nella memoria dei cittadini bulgari, un altro campo, quello vicino alla città di Lovech, per la durezza del trattamento riservato agli internati, è oggi il simbolo dell’oppressione comunista in Bulgaria: rispetto «all’inferno di Lovech», infatti, i primi campi bulgari per i nemici di classe erano «giardini dell’Eden»88. Lovech è situata nell’area balcanica della Bulgaria centro– settentrionale. La vicina cava di roccia della città diviene la “Divisione 0789”89, il luogo per gli ultimi oppositori del regime. Inaugurato nell’autunno del 1959, in questo campo si muore per le bastonate e per le punizioni, qui finiscono i più incorreggibili “nemici di classe”, assieme ai delinquenti comuni 90. Non lontano da Lovech, vicino al villaggio di Skravena, è anche installato un campo destinato alle donne, maggiormente prostitute e asociali. 87

Cfr. P. BAICHEV, Memories from the Labour Camps. Portraits of Bellene Inmates, 1948–1953, Institute for Studies of the Recent Past – Ciela Publishers, Sofia 2014 (in bulgaro), con grafici e disegni realizzati da ex deportati. 88 Е. S UGAREV, Campi e memoria, prefazione al saggio Bulgararskiiat Gulag: Svideteli. Sbornik ot dokumentalni razkazi za kontslagerite v Bulgariia (Il Gulag bulgaro: Testimoni. Raccolta di testimonianze dei campi di concentramento in Bulgaria), curato da E. BONCHEVA, E. SUGAREV, S. PYTOV, J. SOLOMON, Vestnik “Demokratsiia”, Sofia 1991. 89 Cfr. K. PERSAK, Ł. KAMIŃSKI, A Handbook of the Communist Security Apparatus in East Central Europe 1944–1989, Institute of National Remembrance, Warsaw 2005, p.76. 90 Cfr. H. HRISTOV, The Crimes during the Communist Regime, cit., pp. 56– 60.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Nell’inverno del 1961–1962 due prigionieri riescono a scappare dall’inferno di Lovech, raccontando le crudeltà che avvengono all’interno del campo91. In seguito a un’inchiesta condotta da una commissione creata ad hoc, il 5 aprile 1962 il campo di Lovech è prontamente chiuso. Il regime comunista cade nel novembre 1989. Nel giugno 1990 si tengono le elezioni democratiche e nel luglio 1991 è adottata la nuova Costituzione. Già nel novembre 1989 iniziano le inchieste sulle responsabilità penali di chi aveva permesso e gestito i campi di lavoro forzato nel Paese. Tra gli arrestati eccellenti anche il vice ministro degli Interni, il colonnello generale Mincho Spassov, responsabile dei campi 92. Tuttavia, nessuno è mai stato condannato per i crimini compiuti nei campi, poiché la magistratura ha ritenuto i reati caduti in prescrizione.

5.10. Albania: i campi all’ombra dell’aquila a due teste In Albania, finita la guerra, l’11 febbraio 1945 il Fronte di liberazione nazionale proclamò la nuova Repubblica Popolare (Republika Popullore e Shqipërisë). Nel dicembre dello stesso anno confermò il suo potere alle elezioni: Enver Hoxha, già presidente del “Comitato Antifascista Nazionale di Liberazione”, capo del governo provvisorio e segretario del Partito del Lavoro d’Albania (Partia e Punes e Shqiperise), divenne il reggente del piccolo Stato albanese. Sul piano politico internazionale, il duro regime nazional– comunista di Enver Hoxha dapprima attua una politica di stretta alleanza con la Iugoslavia (1946–48), poi si schiera con l’URSS (1948–1961), poi ancora con la Cina (1961–1978), infine applica una forte politica isolazionista per difendere il comunismo ortodosso. Sul piano politico interno, il regime comunista alba91

Ivi, p. 57. General Who Oversaw Death Camp Arrested, Associated Press, 29 Marzo 1990, http://www.apnewsarchive.com/1990/General-Who-Oversaw-DeathCamp-Arrested/id-d89f5e64f07a3b3ce6550dd98d37258d. 92

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V. I campi per rieducare e punire

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nese attua regolari “purghe” (le più vaste coincidono con la rottura delle relazioni prima con Belgrado, poi con Mosca e poi ancora con Pechino), eliminando e isolando gli oppositori politici, veri o presunti, istituendo campi di lavoro per distruggere i disubbidienti e per intimidire gli ubbidienti. Strumenti di questa politica del terrore sono i terribili campi, le spaventose prigioni e l’istituzione del confino93. Braccio esecutivo è il Drejtoria e Sigurimit të Shtetit (Direzione della Sicurezza di Stato), la polizia segreta dello Stato, comunemente chiamata Sigurimi. Per la maggior parte dei campi di lavoro (Kampe pune), le finalità economiche–produttive ne determinano la loro ubicazione: ad esempio Rinas (per la costruzione dell’aeroporto militare di Tirana), Shtyllas (per la realizzazione di due canali), Sarandë, Radostimë, Elbasan (per la costruzione di cementifici), Ballsh (per il lavoro nella raffineria di petrolio), Bulqizë (per il lavoro nella miniera di cromo), Maliq (per la bonifica delle paludi), Batër, Beden, Spac (per il lavoro nelle miniere di pirite di rame). Fra tutte le istituzioni repressive albanesi, spiccano per ferocia il carcere di Burrel, il campo–prigione di Spaç e il campo di Tepelena, luoghi degni di competere con i peggiori Gulag sovietici. La prigione di Burrel (Burgu i Burrelit) è situata nell’omonima cittadina nel Nord–Est dell’Albania. Costruita dal 1937, durante il regno di re Zog, e terminata nel 1939, è destinata dal regime comunista per gli oppositori più temibili e recidivi e per i delinquenti comuni più pericolosi. Il carcere ha camerate comuni sino a trentotto internati, con tavolati di legno come letti 94. Nessuno dei detenuti è costretto ai lavori forzati e, a parte l’ora d’aria, si resta in cella per anni divorati dal tedio assoluto. Tutto è regolato dalle poche e rigide regole interne: niente libri, radio, carte da gioco. Anche i bisogni fisiologici devono sottostare agli 93

Cfr. Amnesty International, Albania Political Imprisonment and the Law, Amnesty International Publications, London 1984, pp. 33–46; J. ZEGALI, Rrëfime nga burgu i diktaturës komuniste, Koha, Tiranë 1999. 94 Cfr. Albania Political Imprisonment and the Law, ivi, p. 45.

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orari imposti dalla direzione del carcere. La prigione è dotata di celle interrate, illuminate e arieggiate da finestrelle sbarrate a livello del terreno, per i detenuti in punizione95. Il carcere è chiuso nel 1992, dopo che i comunisti perdono definitivamente il potere. È riaperto nel 1997, diventando un penitenziario di massima sicurezza per detenuti condannati alla pena dell’ergastolo e per crimine organizzato. Il campo–prigione di Spaç (Burgu i Spaçit) è ubicato nel Nord dell’Albania, in una zona montagnosa e isolata. Inaugurato nel 1968, è un campo–prigione molto duro, sia per la qualità di vita sia per la particolarità del lavoro. Infatti, i detenuti vivono in accasermamenti di cemento non riscaldati, dormendo su scomodi materassi di paglia, ricevendo cibo di scarsa qualità e sottostando a un regime punitivo severo. La loro attività prevalente è quella di lavorare nelle cinque gallerie scavate nella montagna per l’estrazione di pirite di rame. Tutti lavorano senza alcuna protezione, inalando quotidianamente le polveri della miniera. Ovviamente il campo–prigione ha anche celle punitive, molto strette, fredde e senza aperture per il ricambio dell’aria96. Oltre per la durezza del regime carcerario, Spaç è famosa anche per due rivolte attuate dagli internati nel 1973 e nel 1978. Nel 1973 i detenuti prendono il controllo del campo–prigione, issando la bandiera albanese senza il simbolo comunista. Dopo un paio di giorni la rivolta si conclude: quattro detenuti sono condannati a morte e altri cinquantasei ricevono una pena supplementare tra i dieci e i venticinque anni. La rivolta del 1978 è più breve e termina con la condanna a morte per tre detenuti e il prolugamento della prigionia per altri 97. Spaç resta attiva sino al 1988. Con la fine del regime comunista, il campo–prigione è dichiarato memoriale nazionale, ma

95

Cfr. H.B. SEGEL, The Walls Behind The Curtain. East European Prison Literature, 1945–1990, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 2012, pp. 22– 23. 96 Cfr. Amnesty International, Albania Political Imprisonment and the Law, cit., pp. 36–41. 97 Cfr. ivi, pp. 41–43.

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V. I campi per rieducare e punire

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ancora non sono stati compiuti grandi progressi per la valorizzazione del luogo e delle sue memorie. Il campo di Tepelena (Burgu i Tepelenës) si trova nel Sud dell’Albania. È un ex campo dell’esercito italiano convertito dal regime comunista in un sito di lavoro forzato per i “nemici di classe”. Qui sono internate in condizioni assurde anche intere famiglie, alloggiate in cinque piccole caserme. Il duro lavoro fisico, il cibo scarso, ricorda Eugjen Merlika, internato a soli cinque anni con la sua famiglia a Tepelene, «le terribili condizioni igieniche, la mancanza di bagni (appena dieci per duemila persone), del posto per dormire (sessanta centimetri di larghezza per ogni adulto e trenta per ogni bambino)» fanno del campo «la vera immagine della tortura quotidiana in quel maledetto posto che si chiamava campo di esilio» 98. Tutti devono lavorare, tranne i bambini nell’età della scuola dell’obbligo, che vanno a scuola nella città di Tepelena. Il lavoro consiste principalmente nel tagliare, raccogliere e trasportare legna, pietre e grosse travi «come bestie da soma […] dall’alba a sera inoltrata. Nell’afa bruciante, nel freddo glaciale, sotto la pioggia, senza cibo e senza vestiti» 99. La vita quotidiana del campo è descritta da Eugjen Merlika: La giornata nel campo cominciava alle tre del mattino. I poliziotti analfabeti cominciavano a quell’ora la lettura dei nomi degli internati e finivano alle cinque. Poi si faceva colazione con un’acqua bollente che aveva il nome di tè. La lunga fila di donne, uomini, giovani partiva verso la montagna per realizzare la norma quotidiana, che consisteva nel taglio e nel carico della legna sulla schiena, sotto la sorveglianza continua di poliziotti con i fucili sulle spalle. Dovevamo fornire di legna l’esercito, la cucina del campo e il comando per il riscaldamento, la sezione degli interni e le famiglie degli ufficiali, degli impiegati del comitato del partito e di quello esecutivo. Gli E. MERLIKA, Një jetë në diktaturë – Kujtime të një “armiku të klasës”, Phoenix, Tiranë 1996, trad. it. Una vita in dittatura. Impressioni di un “nemico di classe”, Lampi di stampa, Milano 2005, p. 12. 99 L. PERVIZI, Gjurmë të Humbura, Arbëria, Tiranë 2002, trad. it. Il grande lamento, Lampi di stampa, Milano 2006, p. 58. 98

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uomini sostituivano i muli, e gli episodi dolorosi di quel lavoro arrivano a tal punto da toccare e offendere la coscienza d’ogni essere umano.100

Rispetto agli altri Paesi comunisti europei, la morte di Stalin non segna un “alleggerimento” del sistema concentrazionario, al contrario sono avviate nuove ondate di purghe, con epurazioni politiche all’interno del gruppo dirigente e di repressione della intellettualità, facendo sprofondare un’altra volta nell’incubo politico il Paese. Lo stesso accade in seguito, quando l’Albania sospende i rapporti politico–militari con la Cina. Durante tutto il periodo comunista, il controllo dello Stato sulla vita dei propri cittadini è assoluto. Il regime si serve non solo della spietata Sigurimi, ma anche dei meccanismi collaudati della delazione e dell’internamento preventivo dei familiari del vero o presunto oppositore condannato. Il sistema della delazione è particolarmente efficace per il controllo della popolazione, sia nella vita civile sia nei campi, dove «attraverso le spie, si sentiva tutta la pressione dei servizi segreti»101. Gli albanesi, in particolare i giovani e finanche i bambini, sono “ammaestrati” e invitati a denunciare chiunque, persino i propri genitori. Tra i crimini da notificare alle autorità c’è anche la preghiera o farsi il segno della croce 102. Altri cri100

E. MERLIKA, Una vita in dittatura, cit., pp. 11–12. F. LUBONJA, Intervista sull’Albania. Dalle carceri di Enver Hoxha al liberismo selvaggio, a cura di C. Bazzocchi, Il Ponte, Bologna 2004, p. 9. 102 Il regime non si dichiarò immediatamente antireligioso. Anche se la Costituzione del 1946 garantiva la libertà di coscienza e religiosa (art. 18), fin da subito il governo decise di indebolire gradualmente le istituzioni religiose, iniziando a internare con pretesti vari i ministri di culto, in particolare quelli della Chiesa cattolica. Il decreto 4337 dell’Assemblea del Popolo, emanato il 13 novembre 1967, cancellò ufficialmente lo stato di legalità della religione, costituzionalmente sancito. Con la Costituzione del 1976 l’Albania divenne un Paese ateista, sostenendo «la propaganda ateista per inculcare il materialismo storico nelle popolazioni» (art. 37), così finanche il pregare o farsi il segno della croce divenne un reato. Cfr. D. RANCE, Albanie. Ils ont voulu tuer Dieu: la persécution contre l’église catholique (1944–1991), AED, Paris 1995, trad. it. Hanno voluto uccidere Dio. La persecuzione contro la chiesa cattolica in Albania (1944–1991), Avagliano, Roma 2007 (ora 2014). 101

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V. I campi per rieducare e punire

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mini riguardano le critiche al dittatore o il Partito, gli atteggiamenti antisocialisti o antipatriottici (ad esempio ascoltare radio straniere, imitare nell’abbigliamento i propri coetanei dell’Europa Occidentale), lamentarsi della durata del lavoro o della scarsità di cibo. I campi sono definitivamente chiusi all’inizio del 1991. In Albania, per dirla con le parole di Amik Kasoruho, traduttore e pubblicista perseguitato dal regime da quando aveva diciassette anni, “l’incubo è durato ben mezzo secolo”103.

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5.11. La rieducazione radicale in Romania Se in Unione Sovietica la rieducazione nei Gulag aspirava a rendere gli oppositori almeno delle persone politicamente fedeli, in Romania si mirò a renderli dei sostenitori. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale la Romania si dichiarò neutrale, ma nel 1940 aderì al Patto Tripartito, schierandosi così con la Germania nazista e l’Italia fascista. Dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, sfruttando tutte le circostanze favorevoli, imponendo “fusioni” ad altri partiti, eliminando (anche fisicamente) personaggi compromessi con il vecchio regime fascista e attuando “purghe” al suo interno, il ruolo politico del Partidul Comunist Roman (Partito Comunista Romeno) inizia a crescere esponenzialmente. La strategia è quella di realizzare dapprima una democrazia popolare, considerata la fase intermedia dell’importante percorso verso il socialismo di stampo sovietico e, successivamente, gestire il potere in piena autonomia104. Il successo elettorale del 19 novembre del 1946, manovrato dai sovietici, accelera nel Paese l’evoluzione politica del sistema totalitario. 103

Cfr. A. KASORUHO, Një Ankth Gjysmëshekullor, Shqipëria e Enver Hoxhës, Çabej, Tiranë 1996, trad. it. Un incubo di mezzo secolo. L’Albania di Enver Hoxha, Argo, Lecce 1994. 104 Cfr. V. TISMĂNEANU, Stalinism for All Seasons: A Political History of Romanian Communism, University of California Press, Berkeley (California) 2003, pp. 85–106.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Il 1948 è infatti un anno denso di avvenimenti decisivi per il futuro socialista della Romania. Il Trattato di amicizia, cooperazione e reciproca assistenza con l’Unione Sovietica, firmato il 4 febbraio di quell’anno, rafforza la sudditanza del Paese verso i sovietici105, mentre le nuove elezioni politiche del 28 marzo, sanciscono definitivamente il potere assoluto ai comunisti, attraverso una coalizione che raccoglie il 91% dei voti. La “Grande Assemblea Nazionale”, formatasi in seguito a queste elezioni parlamentari, adotta la nuova Costituzione, che al primo articolo definisce la Repubblica Popolare Romena uno «Stato popolare, unitario, indipendente e sovrano» 106. In quello stesso anno è avviata la pianificazione centralizzata dello sviluppo economico, sociale ed educativo del Paese 107. Sempre nel 1948 è creato il famigerato braccio repressivo del regime, mediante la trasformazione della “Direzione Generale della Sicurezza dello Stato” (Siguranta Statului) nella “Direzione Generale della Sicurezza del Popolo” (Departamentul Securitatii Statului, più comunemente conosciuta come Securitate)108. Questa nuova e potente entità è subordinata direttamente al Ministero degli Affari Interni. I suoi primi due dirigenti, i generali Gheorghe Pintilie e Alexandru Nicolschi — entrambi agenti sovietici nella Romania filonazifascista — raffigurano lo spirito del grande terrore della Repubblica Popolare Romena: 105

Sul Trattato cfr. V. BOSCO, Rivista di studi politici internazionali, vol 15, L.S. Olschki, Firenze 1948, p. 515–516; V. IONESCU, Communism in Rumania, 1944–1962, Oxford University Press, Oxford 1964, pp. 147–149. 106 Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, vol. 29, Istituto Italiano di Studi Legislativi, Roma 1956, p. 352. 107 Cfr. V. C ĂLIN, V. DUMITRANA, Values and education in Romania today. Romanian Philosophical Studies, vol. I, The Council for research in Values and Philosophy, Library of the Congress, Washington 2001, pp. 127–129. 108 Questo organismo è creato con l’aiuto dello SMERSH (il Dipartimento di controspionaggio dell’Armata Rossa) che operava in Romania e che si chiamava Brigada Mobilă (Brigata Mobile). Cfr. V. DELETANT, Ceauşescu and the Securitate. Coercion and Dissent in Romania, 1965–1989, C. Hurst & Co, London 1995, pp. 13–29; V. TRONCOTÂ, Torţionarii. Istoria instituţie Securitâţii regimului comunist din România (1948–1964), Elion, Bucareşti 2006.

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La Securitate rappresentò “il bordo della spada” per la lotta di classe (un termine molto amato dai membri dell’organizzazione), e in questo ruolo era ugualmente o persino più potente della “forza trainante” del partito comunista.109

Conquistato definitivamente il potere, il regime scatena un terrore sistematico contro gli oppositori politici, reali o immaginari. Nella decade 1948–1958 sono così arrestate circa settantamila persone, di cui sessantamila nei primi cinque anni110. Ogni attivista del regime è chiamato a concretizzare «quello che considerava il suo nobile compito: realizzare con dedizione illimitata la linea del partito, senza riguardi per i costi umani provocati»111. Preannunciata dal linciaggio mediatico dell’organo d’informazione ufficiale del Comitato Centrale del Partito Comunista Romeno, Scanteia (Scintilla), la repressione fisica degli avversari politici si svolge in più tappe, dapprima annichilendo l’opposizione politica, poi emarginando le forze non assibilabili, infine perseguitando gli elementi perniciosi per la comunistizzazione del Paese. Le due grandi categorie sociali più perseguite sono le cosiddette élite (politiche, intellettuali, religiose) e, soprattutto, la generazione–ponte tra la vecchia società e la nuova (gli studenti): i primi vanno controllati, i secondi “seguiti”, affinché siano “allevati” da parte del regime senza avere termini di paragone con i modelli passati. La generazione–ponte, a sua volta, è suddivisa in due grandi categorie: i leader studenteschi, sia le guide intellettuali sia quelle politiche, e gli studenti normali. G. BOLDUR–LĂŢESCU, Genocidul communist în România, Albatros, Bucureşti 1992, trad. ingl., The communist genocide in Romania, Nova Science Publishers, New York 2005, p. 29. 110 Dagli archivi della Securitate. Cfr. G. IONESCU, Communism in Rumania, cit., p. 201. 111 V. TISMĂNEANU (ed), Comisia Prezidențială pentru Analiza Dictaturii Comuniste din România. Raport final, Humanitas, Bucureşti 2006, p. 19. È il rapporto di una commissione voluta nel 2006 dal presidente della Romania Băsescu con il compito di analizzare in chiave storiografica l’esperienza comunista della Romania. 109

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Il terrore per convertire il popolo al comunismo è giustificato attraverso le disposizioni della nuova Carta costituzionale, che prevede, tra l’altro, il divieto assoluto di critica al governo per i singoli e per tutte le associazioni che abbiano “natura fascista o anti–democratica”, in pratica anticomunista, garantendo la libertà di stampa, di parola e di assemblea solo a “coloro autorizzati a farlo”112. Il dissenso è soffocato soprattutto usando metodi di repressione violenta: arresti e fermi abusivi, inchieste, torture, lavori forzati, imprigionamento con sottoalimentazione prolungata, pressioni morali. Una trasformazione della coscienza di un popolo al socialismo reale richiede sforzi molto grandi, per questo il regime deve disporre, oltre che di un apparato specializzato come la Securitate, anche di luoghi appropriati dove confinare quel nucleo umano di resistenza anti–comunista113. Tra questi luoghi di prigionia politica e lavori forzati, i più terribili sono i penitenziari di Sighetu Marmaţiei, Gherla, Aiud (con il suo padiglione del terrore chiamato Zarka), Targu Ocna, Galati, Craiova, Deva, Ocnele Mari, Jilava, Suceava, Brasov e Pitesti. Lavori forzati sono istituiti anche nelle miniere di alluminio, presso il Delta del Danubio, e a Văcăreşti, il campo di lavoro per l’inutile progetto di escavazione del canale Danubio– Mar Nero114. 112

Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, vol. 29, cit., p. 352. La geografia concentrazionaria comunista della Romania in I. CIUPEA, S. TODEA, Represiune, sistem şi regim penitenciar în România. 1945–1964, in R. CESEREANU (ed), Comunism şi represiune în România comunistă. Istoria tematică a unui fratricid naţional, Polirom, Iaşi (România) 2006, pp. 38–81 (specialmente pp. 42–47 e pp. 73–74). 114 Sulle terribili condizioni di vita di questi luoghi, cfr. T.M. NEAMTU, De ce, Doamne? Mărturiile unui deţinut politic, Dacia, Cluj–Napoca (România) 1995, trad. it., Perché, Signore? Testimonianza di un detenuto politico, Mimep–Docete, Pessano (Milano) 1997; C. BUDEANCĂ (ed), Experienţe carcerale in Romania comunistă, Polirom, Bucureşti–Iaşi 2007; N. POPA, Coborarea in iad, Axa, Botosani (România) 2009; M. STANESCU, Reeducarea în România comunistă (1945– 1952), Aiud, Suceava, Pitesti, Brasov, 3 voll., Polirom, Bucureşti 2010. 113

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V. I campi per rieducare e punire

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Quando sembra che la Securitate abbia perfezionato l’arte della crudeltà, sia attraverso il suo sistema di repressione sia attraverso la creazione di un grande complesso concentrazionario, il grande alleato dell’Est offre al regime romeno un “dono” che dimostra che c’è ancora qualcosa su cui lavorare per completare il cammino verso la socialistizzazione del Paese: la rieducazione politica totale115. Esasperando le teorie del pedagogista sovietico Anton Semenovyc Makarenko (1888–1939), esperto di delinquenza giovanile e sostenitore del principio del “collettivo”, quale principale strumento dell’educazione dell’individuo che deve imparare — anche con l’imposizione di una dura disciplina — a privilegiare le esigenze sociali agli interessi personali 116, e della tesi in base al quale il miglior rieducatore di un delinquente giovanile è un ex delinquente della stessa età, in Romania si inizia a lavorare alla “riprogrammazione” dei giovani, specialmente la gioventù cattolica, per allontanarli definitivamente da ogni eresia al credo comunista. Lo strumento più attivo per la rieducazione forzata della popolazione romena diventa il carcere di Pitesti117. G. BOLDUR–LĂŢESCU, The communist genocide in Romania, cit, p. 21. Secondo Makarenko lo scopo dell’educazione è quello di produrre un buon cittadino, attraverso il lavoro, l’impegno politico e il sostegno dell’ideologia socialista. Sul pedagogista sovietico rimando alle opere tradotte in italiano: Poema pedagogico (1935), L’albatros, Roma 2009 (in cui espone il suo metodo educativo nella forma della rievocazione e del racconto); La pedagogia scolastica sovietica, Amando, Roma 2007 (sono quattro lezioni che tenne nel gennaio del 1938 e alcune tesi scritte in preparazione delle lezioni). 117 La bibliografia su Pitesti è vasta, ma quasi tutta in lingua romena, con qualche traduzione in inglese e francese. Gli unici due lavori in italiano sono Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? La rieducazione nel carcere di Pitesti, di Aurel VIŞOVAN (Napoca Star, Cluj–Napoca 1999 – orig. Dumnezeul Meu, Dumnezeul Meu, pentru ce m–ai părăsit?, stesso editore e stesso anno di pubblicazione) e Musica per lupi. Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra di Dario FERTILIO (Marsilio, Venezia 2010). Di decisiva importanza e di notevoli proporzioni è l’enorme opera di Lucia HOSSU LONGIN, Memorialul durerii [Il memoriale del dolore], Humanitas, Bucuresti 2006, la più vasta raccolta di testimonianze video, con trascrizione cartacea, sul terrore comunista in Romania, il cui sottotitolo è eloquente: O istorie care nu se invata la scoala, una storia che non si impara a scuola. 115 116

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Pitesti (in romeno Piteşti) è un municipio del distretto di Argeș, nella regione storica della Muntenia (o Grande Valacchia), a Sud della Romania. In questa città non c’è un campo di concentramento, ma un carcere sito in Str. Negru Vodă. Conformemente ai princìpi leninisti e nell’interpretazione del Partito Comunista Romeno, in questa prigione, tra il 1949 e il 1952, è attuato un esperimento che riguarda dapprima il rinnegamento delle convinzioni e delle idee politico–religiose degli oppositori e dei “nemici oggettivi”, poi l’alterazione della personalità. A Pitesti il comunismo rumeno si trasforma così in abiezione demoniaca, nella sua ostinazione pedagogica di voler edificare a tutti i costi l’uomo nuovo, deformando letteralmente i corpi e corrompendo le anime. Qui, infatti, è sperimentata una terribile forma di tortura, il cosiddetto Experimentul Piteşti (esperimento di Pitesti), che neppure i Gulag sovietici hanno mai conosciuto. Attraverso l’Experimentul Piteşti la rivoluzione in Romania diventa crimine totale e, inferendo sul corpo di chi contesta il “vangelo comunista”, tenta di rieducare anche l’anima di tutti quei cittadini avvelenati dalle idee di Dio, di famiglia, di patria, di libertà economica e di diritti umani, annullando completamente la loro autonoma capacità razionale. Scopo dell’esperimento, dunque, è quello del rinnegamento delle convinzioni e delle idee politico–religiose dei detenuti attraverso la completa disumanizzazione del prigioniero, per terminare con l’alterazione della personalità: Da qui voi uscirete talmente disumanizzati che avreste la vergogna di guardarvi nello specchio! Voi che non volete ricongiungervi con noi, diventerete dei mostri per voi stessi con i nostri metodi che sono tanti, neanche sognate quanto sono numerosi i nostri metodi per disumanizzarvi. 118

118

Testimonianza a voce di Aristide Ionescu, in frammenti in italiano del documentario Genocidul sufletelor. Experimentul Piteşti – reeducarea prin tortură, di Sorin Ilieşiu, Fundaţia VideoMedia, Bucureşti, http://www.thegeno cideofthesouls.org/public/italiano/testimonianze-dei-sopravvissuti/.

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V. I campi per rieducare e punire

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Con queste parole si rivolgevano gli aguzzini del carcere ai detenuti più indomabili. La rieducazione politica ha esordito nell’estate del 1948 nella prigione di Suceava, ma nella sua prima fase è stata priva di violenza. Essa ha per lo più promosso l’acquisizione della dottrina marxista attraverso letture e dibattiti. Iniziatore è stato l’ex legionario della Guardia di Ferro Alexandru Bogdanovici, detenuto nella cella numero 15 al secondo piano del carcere. Comunista “convertito”, Bogdanovici la pratica tra agosto e dicembre di quello stesso anno con la speranza di ridurre la sua pena119. Chiamata dai detenuti “mormântul fărâ cruce” (tomba senza croce)120, la prigione di Suceava ha due piani con grandi stanzoni sufficienti per contenere molti reclusi e, quindi, per attuare la propaganda politica attraverso gremiti incontri educativi sul credo marxista. Dal febbraio 1949, la cella numero 15 del carcere ha un nuovo “ospite”: Eugen Turcanu, ex legionario della Guardia di Ferro, branca armata del movimento politico fascista romeno di Corneliu Zelea Codreanu sciolta nel 1941. Convertitosi subito al credo comunista, Turcanu, assieme a Bogdanovici, collaborano alla rieducazione forzata dei condannati per reati politici, dando vita alla Organizaţia Deţinuţilor cu Convingeri Comuniste (Organizzazione dei Detenuti di Convinzioni Comuniste). Entrambi sono convinti che in questo modo potranno ridurre la loro pena. Così, dal proselitismo si passa ben presto alla violenza, specie da parte di Turcanu, ma non ancora intesa come metodo sistematico di recupero dei giovani reclusi al socialismo reale121. La rieducazione praticata a Suceava attira l’interesse dei funzionari del Ministero degli Interni, che decidono di imple119

Cfr. A. MUREŞAN, Pitesti. Cronica unei sinucideri asistate, Institutul de Investigare a Crimelor Comunismului şi Memoria Exilului Românesc, Polirom, Bucureşti–Iaşi 2008, pp. 21–24. 120 Cit. in ivi, p. 19. 121 I dettagli della rieducazione praticata nel carcere di Suceava in D.G. BORDEIANU, Mărturisiri din mlaştina disperării. Cele văzute, trăite si suferite la Piteşti fi Gherla, Editura Mişcării Legionare, Paris 1992, pp. 58–82.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

mentare il sistema. Il ministro dell’Interno Teohari Georgescu, che già desiderava che le carceri diventassero istituti di rieducazione politica122, trasmette l’ordine al capo della polizia segreta, il generale Alexandru Nikolsky, che a sua volta incarica della esecuzione il colonnello Zeller, che l’affida al direttore della prigione di Pitesti, Alexandru Dumitrescu123. Per la particolarità del luogo, inaccessibile a testimoni esterni e lontano da qualunque grande centro abitato, e la qualità dei detenuti, quasi tutti giovani — la maggior parte dei quali studenti cristiani ed ex legionari — condannati per motivi di dissidenza politica al regime, al carcere di Pitesti è assegnato il compito di sperimentare un nuovo metodo rieducativo. Questo isolamento fisico del carcere ha prefigurato e garantito un esercizio di potere incontrollato sui prigionieri. Il direttore della prigione è informato dal colonnello Zeller di attuare il progetto, “ospitando” nel suo istituto di pena Turcanu e i suoi accoliti. Nel dicembre 1949 la congrega dei comunisti riconvertiti guidata da Turcanu si trasferisce in questo carcere. Quello stesso mese, nella cella “4 Hospital” della prigione, inizia l’esperimento della rieducazione, un progetto di recupero al credo comunista del detenuto che si svolge attraverso un programma di depersonalizzazione attraverso torture e supplizi fisici e psicologici, tanto fantasiosi quanto crudeli 124. Per tre anni il carcere di Pitesti, sotto la perversa regia di Eugen Turcanu diviene, per oltre mille detenuti politici, l’anticamera terrena dell’inferno. Per la sua particolare fredda efferatezza, lo scrittore romeno Virgili Ierunca ha raffigurato Turcanu come un nuovo Pëtr Verchovènskij, il personaggio centrale del romanzo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, The Demon, che è al di là del male, come un secondo marchese de Sade 125. Attraverso la tortura sistematica come metodo di rieducazione, il “sistema Pitesti” è servito per de–umanizzare radical122

Ivi, p. 22. D. FERTILIO, Musica per lupi, cit., p. 12–13. 124 Cfr. G. B OLDUR–LĂŢESCU, The communist genocide in Romania, cit., p. 21. 125 Cfr. V IERUNCA, Fenomenul Piteşti, Humanitas, Bucureşti 1990, p. 10. 123

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V. I campi per rieducare e punire

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mente le vittime, attraverso l’immersione della vita umana in un’esperienza del dolore fisico e psicologico, per far rinascere una nuova persona completamente plasmata al socialismo. Non si uccide a Pitesti, se non per errore, e si verificano solo due suicidi, quelli degli studenti Gheorghe Serban e Gheorghe Vatasoiu, che si lanciano nel febbraio 1959, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, nella fessura delle scale della prigione. A seguito di questi “imprevisti”, subito sono adottate opportune contromisure126, perché a Pitesti anche la morte deve adeguarsi alle decisioni dettate dal socialismo reale 127. Il “sistema Pitesti” presenta due caratteristiche caratterizzanti, che la distinguono da analoghe esperienze: a parte il terribile “menù” di atrocità compiute, i carnefici sono ex detenuti “convertiti” che dividono le celle con le nuove vittime. Il fatto che torturatori e torturati condividano lo stesso spazio, impedisce sia di potere allentare il terrore sia di poter godere della solidarietà degli altri compagni di sventura: a Pitesti si è soli con se stessi128. Si capisce che questo sistema garantisce le mani pulite ai responsabili politici, i quali ufficialmente non hanno dato alcun avvio all’esperimento, che infatti rimane segreto 129. Il processo di rieducazione comprende cinque fasi130. La prima fase è quella dell’”indebolimento della persona”: restrizioni molte severe sono attuate all’ingresso della prigione (razioni di cibo molto contenute e privazione del sonno e della parola). Queste portano al deperimento fisico e psichico. I nuovi arrivati, inoltre, sono rinchiusi in celle con persone già riedu126

Cfr. A. MUREŞAN, Cronica unei sinucideri asistate, cit, p. 61. Diceva il torturatore Turcanu alle sue vittime: «non muori quando vuoi te ma quando decidiamo noi e dopo aver detto tutto». Testimonianza di Gheorghe Gheorghiu, detenuto a Pitesti, in frammenti del documentario Genocidul sufletelor, cit. 128 Cfr. R. CESEREANU, Tortură şi oroare: fenomenul Piteşti (1949–1952), in R. CESEREANU (ed), Comunism şi represiune în România, cit. p. 157. 129 Come segreto, si anticipa, sarà il processo a Turcanu e agli altri responsabili dei crimini commessi a Pitesti. 130 Oltre alla bibliografia su Pitesti già enunciata, cfr. anche N. C ĂLINESCU, Sisteme şi procese de Brainwashing în România comunistă, Gama, Bucureşti 1998, pp. 60–62. 127

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

cate, che ovviamente non rivelano nulla. Al loro arrivo i nuovi prigionieri confidano spontaneamente ai vecchi detenuti i propri pensieri e i sentimenti più intimi, mettendosi ancor più nei guai. La seconda fase è quella dello “smascheramento interiore”: attraverso la tortura e i fantasiosi supplizi, il prigioniero denuncia le proprie convinzioni religiose e ideologiche. La terza fase è quella dello “smascheramento esteriore”: il prigioniero è costretto, sempre attraverso tortura e supplizi, a rivelare i nomi dei complici (reali o supposti) ancora in libertà, specie se si tratta di parenti o amici. I nomi, poi, sono trasmessi alla Securitate che procede all’arresto. La quarta fase è quella dello “smascheramento morale pubblico”: il detenuto deve, davanti ai suoi compagni, abiurare i suoi ideali politici e religiosi attraverso la blasfemia, anche orgiastica, e distruggere la reputazione dei propri parenti più stretti e amici più cari. Infine c’è la cosiddetta “metamorfosi”: per dimostrare di essere veramente convinto di quanto dichiarato, il prigioniero è reclutato nel gruppo dei torturatori e deve dar prova della sua riconversione torturando un suo parente, amico o compagno di cella. I prigionieri che rinnegano tutto il loro passato, tradiscono e denunciano gli affetti più cari, insudiciano ciò che ritenevano più sacro prima di entrare lì dentro e, soprattutto, mostrano particolare malvagità ai danni degli altri internati, sono considerati “redenti” e diventano membri dell’Organizzazione dei Detenuti di Convinzioni Comuniste e, quindi, scagnozzi di Turcanu. In questo modo possono anche aspirare all’uscita dal carcere, al ritorno fra la gente normale, nelle vesti di agente della Securitate, ma questa è più una eventualità promessa che praticata. Il catalogo delle torture e dei supplizi prevede tecniche sia classiche sia fantasiose: lesioni con corpi contundenti, marchiature e bruciature sul corpo, perforazione delle piante dei piedi per mezzo di aghi, privazione del sonno o costrizione a dormire in posizioni fisse (ad esempio immobili con le braccia rigidamente incrociate sul petto), mancanza della luce per lunghi periodi o esposizione prolungata a luce intensa, divieto di parlare,

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V. I campi per rieducare e punire

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sospensioni dal soffitto per ascelle con pesi sulle spalle, schiacciamento sotto il peso di altri corpi, strappo dei capelli alla radice, rottura delle dita di mani e piedi, obbligo di inghiottire sale senza poter bere, tortura con il metodo della goccia cinese (metodo di tortura che consiste nell’immobilizzare il malcapitato e fargli cadere sulla fronte, sempre nello stesso punto, una goccia d’acqua a intervalli regolari, che alla lunga porta alla follia e a serie lesioni al cranio)131, imposizione a mangiare direttamente dalle gavette cibo bollente132, obbligo di restare per lungo tempo nelle cantine della prigione colme di acqua fino alle ginocchia impedendo così al malcapitato di addormentarsi133, supplizio del gatto (si gettano dei gatti irritati sulla schiena denudata delle vittime)134, costrizione a urinare nelle bocche dei compagni, immersioni prolungate della testa in secchi colmi di urina e feci135, costretti a mettersi nudi e a carponi in cerchio per baciare il sedere di chi stava avanti, coprofagia forzata, atti omosessuali. Fermiamoci qui, anche se nelle prigioni del regime non si sono fermati: «Credo che neanche all’inferno ci sono quelle torture che ho visto. Credo che anche Satana potrebbe imparare da coloro che hanno applicato questo sistema»136, narra l’ex prigioniero Aristide Ionescu. La resistenza alla tortura varia da persona a persona, secondo la sopportazione, qualcuno ha ceduto dopo pochi schiaffi, per molti ci sono voluti diversi mesi137: Con la tortura permanente si desiderava ottenere la depersonalizzazione degli studenti e per questo essi erano obbligati a 131

Tortura citata in un colloquio dal signor Petru. Ibidem. 133 Ibidem e in A. R IVALI, Romania: la fede cresciuta nel sangue. Colloquio con l’eparca Florentin Crihalmeanu, in «Studi Cattolici», n.598, dicembre 2010, Milano, p. 848. 134 Tortura citata in un colloquio dal signor Petru. 135 Ibidem. 136 In frammenti del documentario Genocidul sufletelor, cit. Un elenco dettagliato delle torture praticate nella prigione di Pitesti, anche in D.G. BORDEIANU, Mărturisiri din mlaştina disperării, cit., pp. 83–241. 137 Ivi, p. 193. 132

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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rinnegare i propri cari e i propri valori: Dio, fratelli, genitori, amici. Sono stati costretti a bere urina e mangiare feci! In questo modo il torturato era sterminato, sperimentando disgusto per se stesso e per la propria debolezza. Non solo, ma si sentiva incapace di tornare come era prima, riavere la sua dignità. Il dolore che sentiva superava di tanto la resistenza di qualsiasi essere umano.138

A causa di queste torture sistematiche applicate ai detenuti, nel periodo di rieducazione nel carcere di Pitesti (dicembre 1949–agosto 1951), ci sono ventuno casi “accidentali” di decessi accertati. Accidentali, perché decessi assolutamente non previsti dall’esperimento139. La lunga lista degli orrori prevede anche atti sacrileghi, specie quando si avvicinano le feste della religione cristiana. Così si è obbligati a partecipare a processioni e messe blasfeme, o a parodie sessuali della vita del Cristo: alla fantasia perversa degli aguzzini non ci sono davvero limiti. Tra le parodie sacrileghe ci sono processioni con detenuti completamente nudi, «come Adamo in Paradiso» dicevano i torturatori140, con in testa un detenuto vestito con abiti sacerdotali e con in mano un fallo di sapone che rappresenta la croce, che tutti sono costretti a baciare. I partecipanti sono obbligati a cantare canti religiosi con i testi cambiati con parole offensive contro Gesù e la Madonna. Oppure si sceneggiano scenette che 138

E. MĂGIRESCU, M. DRACILOR, Amintiri din închisoarea de la Pitesti, Fronde, Alba–Iulia–Paris 1994, p.6. 139 L’elenco delle vittime in M. S TĂNESCU, Asupra numărului morţilor din reeducarea ,,de tip Piteşti” (1949–1951), in I. POPA (ed), „Experimentul Piteşti”. Conference Proceedings. Comunicări prezentate la Simpozionul „Experimentul Piteşti – Reeducarea prin tortură”, Editura Fundaţia Culturală Memoria, Piteşti 2003, pp. 369–370. 140 Cit. da mons. Tertulian Ioan Langa nel suo intervento alla conferenza stampa di presentazione del volume Fede e Martirio. Le Chiese orientali cattoliche nell’Europa del Novecento. Atti del Convegno di storia ecclesiastica contemporanea (22–24 ottobre 1998), Città del Vaticano 23 marzo 2004, (Congregazione per le chiese orientali, Libreria Editrice Vaticana, 2004), http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2004/03/23/01 43/00431.html#INTERVENTO DI MONS. TERTULIAN IOAN LANGA.

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V. I campi per rieducare e punire

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riprendono il tema del Natale: dopo aver assegnato un ruolo a ogni detenuto (Giuseppe, Maria, l’asinello e così via), si passa alla rappresentazione con «l’asino che palpava Maria Maddalena, “Giuseppe” sodomizza l’”asino” che resta con la testa poggiata nelle braccia della “puttana Maria”, che a sua volta è sodomizzata da “Gesù”»141. Oppure ancora, si obbliga un detenuto a sedersi sul water in presenza di tutti e, dopo aver defecato, tutti devono farsi il segno della croce perché, come si diceva, «era appena nato Gesù»142. Accanto alle parodie sacrileghe, ci sono anche lezioni teoriche in cui si stravolgeva la vita del Cristo, presentandolo come un impostore, un “bastardo” (perché non figlio di Giuseppe), un donnaiolo (Maria Maddalena è stata la sua amante), figlio di una donna dai facili costumi (perché tradiva suo marito Giuseppe) e così via. A proposito del Cristo, Turcanu ama ripetere durante le sedute di rieducazione: «Se mi fossi occupato di Gesù, lui non sarebbe mai diventato Cristo» 143. Spesso si ricorre anche alla simulazione del battesimo: i detenuti devono immergere la testa in una tinozza piena d’urina e di materia fecale, mentre gli altri detenuti attorno salmodiano la formula del battesimo144. Molti dei detenuti che hanno subito sistematicamente questa tortura, acquistano un automatismo che dura circa due mesi: tutte le mattine alla sola presenza degli educatori immergono spontaneamente la testa nella tinozza. Ovviamente tutto questo ha un impatto devastante sui giovani detenuti, specie per gli studenti di teologia. L’esperimento di Pitesti diviene pratica sistematica anche in altre prigioni. Con nota del 21 aprile del 1950, il Dipartimento di Controllo del Ministero degli Interni, infatti, patrocina questo procedimento di rieducazione, impegnandosi finanche a migliorarlo. Così, poiché l’esperimento procede secondo le aspettative 141

Cit. dal signor Petru. Ibidem. 143 Cit. da D. FERTILIO, Musica per lupi, cit. p.45. 144 Cit. dal signor Petru e da A. M UREŞAN , Cronica unei sinucideri asistate, cit, pp. 289–290. 142

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

del partito, sono proposte «nuove esperienze in espansione ad altre prigioni del Paese»145. Nel mese di giugno 1950, il sistema di rieducazione attuato a Pitesti è così esteso alla prigione di Gherla, finora riservata esclusivamente ai contadini e operai. Il 7 giugno, un primo grande gruppo di circa novanta studenti considerati rieducati, guidati da Alexandru Popa, vice di Eugen Turcanu a Pitesti, è trasferito a Gherla. Per avviare l’azione di rieducazione, Alexandru Popa contatta Gheorghe Sucigan, l’ispettore del penitenziario, per definire i dettagli e stabilire a chi deve essere rivolta per prima la rieducazione. Nella prima fase sono divisi i “riconverti” in molte celle per raccogliere informazioni riguardanti lo spirito dei vecchi detenuti del carcere. In seguito, dopo aver carpito le informazioni necessarie è dato inizio al terribile programma di rieducazione. Ancor prima dell’inizio ufficiale del piano di rieducazione, e quindi dell’autorizzazione, cominciano le violenze ai danni dei vecchi detenuti da parte dei nuovi arrivati. Alin Muresan racconta che nella cella 106, il nuovo gruppo appena arrivato tenta subito di prendere la supremazia tra gli inquilini della cella 146. Con l’arrivo di Turcanu a Gherla (18 agosto 1951) inizia il processo di rieducazione in quella prigione, partendo proprio dalla cella 106. Bastano appena due mesi per riconvertire i suoi ospiti: il 23 agosto 1950 la cella è ornata da due fotografie di Lenin e Stalin con vari slogan comunisti147. Anche a Gherla il “sistema Pitesti” produce morti “accidentali”: da fine agosto 1950 a dicembre dell’anno dopo i decessi sono dodici148. Con il trasferimento di Turcanu nella prigione di

Cfr. M. STĂNESCU, Organismele politice româneşti 1948–1965. Documente privind instituţiile şi practicile, Vremea, Bucureşti 2003, pp. 302–304. 146 Cfr. A. M UREŞAN, Pitesti. Cronica unei sinucideri asistate, cit., pp. 84–85. 147 Ibidem. 148 L’elenco in M. STĂNESCU, Asupra numărului morţilor din reeducarea ,,de tip Piteşti” (1949–1951), in I. POPA (ed), „Experimentul Piteşti”, cit., p. 369– 370. 145

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Jilava (19 dicembre 1951), il “sistema Pitesti” ha un altro nuovo spazio per terrorizzare149. Dopo essere stata estesa ad altri penitenziari (Tirgu Ocna, Ocnele Maru e altri ancora), la rieducazione di colpo è bloccata nell’estate del 1952: cominciano a circolare voci sulle nefandezze che si compiono in quelle prigioni. La presenza in Romania di tecnici stranieri che lavorano per aziende estere, preoccupa il regime della diffusione delle notizie in Occidente. Non è difficile per il governo scaricare le colpe per non compromettere troppo la propria immagine con gli alleati dell’Est e con l’Occidente. Ci pensa il generale Alexandru Petrescu a indirizzare verso i plotoni d’esecuzione quelli che devono essere ufficialmente i soli e unici responsabili. Turcanu e ventidue “operai” della sua equipe sono così accusati di aver fatto ricorso alla tortura dei detenuti per screditare il regime comunista e, in seguito a un processo farsa, tutti sono condannati alla pena di morte. Il teorema processuale che porta alle condanne è rivolto tutto a riabilitare il Partito Comunista Romeno e il regime: Turcanu, già legionario della Guardia di ferro, sarebbe stato ispirato dal suo leader in esilio Horia Sima, con l’appoggio americano, per screditare e svergognare lo Stato socialista che il proletariato romeno stava edificando; i suoi “esperimenti” sarebbero stati messi in scena con l’imperdonabile leggerezza nella sorveglianza delle autorità carcerarie, a loro volta elogiate poiché proprio loro avrebbero denunciato al Partito i fatti. Nessun responsabile politico e morale dell’esperimento è realmente punito: non il generale Nicolschi e neppure il colonnello Zeller, che si suicida. I mandanti ne escono illesi. È solo condannata risolutivamente la manovalanza, mentre alcuni dirigenti hanno lievi condanne poi amnistiate. Tra questi il direttore del carcere di Pitesti, Alexandru Dumitrescu, arrestato il 12 luglio 1953 con l’accusa di aver permesso l’esperimento, condannato poi con sentenza n. 101 del 16 aprile 1957 dalla Corte Militare a sette anni di lavori forzati. Il 17 giugno entra nella priCfr. A. DOBES, Aspecte privind începutul acţiunii de ,,reeducare" în penitenciarul Suceava (1948–1949), in ivi, p. 112–113. 149

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

gione di Vacaresti, poi in quella di Jilava (21 giugno), poi a Ocnele dopo altri due giorni, infine è graziato il 13 novembre dello stesso anno con decreto 534/957 del Presidium della Grande Assemblea Nazionale150. Stesso discorso vale per il colonnello Tudor Sepeanu, capo della Direzione Generale di Ispezione delle Carceri, e per Gheorghe Sucigan, ispettore del penitenziario di Gherla. Il primo è arrestato il 15 marzo 1953 con l’accusa di aver aiutato e incoraggiato Eugen Turcanu; condannato a otto anni di lavori forzati, il 13 novembre 1957 è graziato con Decreto 534/957151. Il secondo è condannato dalla sentenza n. 110 del 16 aprile 1957 a sette anni di lavoro forzato, è rilasciato il 13 novembre con Decreto 534/957 del Presidium della Grande Assemblea Nazionale152. Turcanu, assieme ai suoi accoliti, è fucilato in gran segreto nel 1954. Tutta la documentazione riguardante il carcere e l’esperimento è manipolata o parzialmente distrutta. Il penitenziario è in seguito abbandonato e poi raso completamente al suolo. Oggi un monumento sul posto ricorda all’umanità quelle barbarie. Le prime notizie sul metodo Pitesti arrivano in Occidente solo pochi anni dopo la “caduta” dell’Unione Sovietica. La causa della mancanza di informazioni precise è dovuta a una serie di circostanze: l’alterazione o la distruzione dei documenti ufficiali, compresi quelli dello stesso processo–farsa a Eugen Turcanu, il rifiuto iniziale a testimoniare da parte dei prigionieri sopravvissuti. Questo rifiuto degli scampati al sistema Pitesti è comprensibile, analizzando il tipo di trattamento al quale i detenuti sono stati sottoposti: la vergogna, il gran dolore fin dentro l’anima ha costretto al silenzio. Ha detto un sopravvissuto: «eravamo tutti dannati e tutti innocenti»; perché «oltre certi limiti di sofferenza non si può conCfr. R. MIHAIU, "Reeducarea" de la Piteşti şi Gherla (1949–1951), http://360romania.eu/360romania-55/reeducarea-pite-ti-gherla-1949-1951-a156/, p. 5, nota 29. 151 Ivi, p. 6, nota 33. 152 Ivi, p. 7, nota 39. 150

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V. I campi per rieducare e punire

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tinuare a essere uomini» 153. Questi uomini potevano essere salvati solo dalla morte, ma nel sistema Pitesti, questa, non era prevista.

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5.12. I campi britannici del Risorgimento keniota I campi di concentramento britannici in Kenya si inseriscono in quella che è stata chiama Mau Mau rebellion (1946– 1955), una ferocissima lotta armata combattuta dai nazionalisti kenioti e dai colonizzatori britannici 154. Prima dell’arrivo dei coloni europei le tribù del Kenya vivevano libere nelle rispettive zone di appartenenza, ciascuna fedele alla propria cultura, alla propria lingua, alle proprie usanze, ai propri miti155. Non esisteva un vero e proprio potere centrale. Ogni tribù appariva autonoma e regolata da antiche usanze tradizionali, della cui applicazione, interpretazione e trasmissione erano responsabili gli anziani. Per lungo tempo le comunità hanno vissuto libere le une dalle altre156. Fino al Diciannovesimo secolo nessun popolo straniero si impossessò dell’entroterra, permettendo così alla popolazione di sfuggire agli schiavisti arabi che si concentravano più a Sud. A parte un precario controllo portoghese sulle zone costiere 157, l’occupazione coloniale vera e propria del Kenya risale al 1885, 153

D. FERTILIO, Musica per lupi, cit., p. 161. Mi sono occupato dell’argomento in Kenya 1946–1957: la rivolta Mau Mau la repressione Britannica e il Risorgimento keniota («clio», n. 4, anno XLVIII, 2012, pp. 617–637), da cui ho attinto per questo paragrafo. 155 La storia del Paese in W.R. OCHIENG, A Modern History of Kenya, 1885– 1980, Evans Brothers, Nairobi and London 1990. Sui gruppi etnici, cfr. G. MWAKIKAGILE, Kenya: Identity of a Nation, New Africa Press, Pretoria 2007, pp. 95–107. 156 P.K. WANYONYI, Historicizing Negative Ethnicity in Kenya, in MBŨGUA WA MŨNGAI, G.M. GONA, (Re)membering Kenya. Identity, culture and freedom, vol. 1, Twaweza Communication, Mpesi Lane, 2010, pp. 34–36. 157 W.R. OCHIENG’, European Mercantilism and Imperialism in Kenya Before Colonial Rule, in W.R. OCHIENG’, R.M. MAXON, An Economic History of Kenya, East African Educational Publishers, Nairobi, 1992, pp. 49–56. 154

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

quando la Germania creò un protettorato sui possedimenti del sultanato di Zanzibar. Nel 1890, poiché la Germania desiderava consolidare i propri territori nell’Africa orientale, cedette i suoi possedimenti costieri in cambio dei diritti sul Tanganica (Tanzania). Nel 1895 il governo britannico formalizzò il proprio controllo sull’area costiera istituendo il protettorato dell’Africa orientale. La città di Nairobi divenne centro amministrativo e politico di tutti i possedimenti inglesi nella regione. Le zone interne del Paese, invece, acquisirono lo status di possedimento. Nel 1920, protettorato e possedimento (divenuto ormai colonia) presero il nome di Kenya. Inizialmente l’interesse degli inglesi nei confronti del Kenya è limitato alla necessità di costruire una rete ferroviaria tra Mombasa e Kampala, per poter sfruttare efficientemente le ricche risorse dell’Uganda158. A partire dall’inizio del nuovo secolo, però, il colonialismo inglese dà il via allo sfruttamento sistematico delle terre, a scapito delle popolazioni che le hanno sempre abitate159. Come negli altri possedimenti, il ruolo svolto dai coloni bianchi diviene decisivo per l’esasperazione del razzismo e la repressione di ogni dissenso, divenendo determinante anche riguardo la distruzione della cultura autoctona. Una delle prime mosse dell’autorità coloniale è quella di disgregare qualsiasi legame comunitario, imponendo capi locali che, in cambio della fedeltà all’ordine britannico, acquisiscono terre e campi da lavorare e ampi diritti sulla popolazione locale (tra questi il diritto di gestire il reclutamento per la costruzione di tutte le infrastrutture del Paese). Chiaramente questi capi sono subito considerati figure illegali dalla popolazione locale. Le prepotenti condizioni di lavoro cui la popolazione keniota è ridotta, le pressanti richieste di terra fertile da parte dei coloni bianchi, assieme alla segregazione razziale, che esclude in con158

Nel 1896 gli inglesi iniziarono effettivamente la costruzione della Uganda Railway, che terminò il 19 dicembre 1901. 159 Cfr. B. B ERMAN, Control & Crisis in Colonial Kenya. The Dialectic of Domination, (orig. 1990), Ohio University Press, Athens 2006), pp. 52–55.

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V. I campi per rieducare e punire

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creto gli africani da ogni diritto di proprietà, costringono le varie etnie keniote all’interno di riserve sempre più ridotte, trasformando la regione centrale del Paese in veri e propri White Highlands160. La situazione si fa sempre più drammatica per la popolazione indigena, sempre più angariata 161. Così, dalle proteste spontanee162, si passa all’organizzazione di raduni popolari a chiara matrice politica contro l’autorità coloniale britannica163. I gruppi etnici più numerosi presenti nel Paese si organizzano in movimenti politici164 che denunciano la politica coloniale britannica, chiedendo l’Uhuru, parola swahili che significa «libertà». Nel 1946 nasce una grande organizzazione politica unitaria che prende il nome di Kenya African Union (KAU)165. Il movimento comprende persone di quasi tutte le etnie del Paese, ma in sostanza è dominato dagli Kikuyu, il gruppo etnico più numeroso del Paese166. Proprio un Kikuyu, Jomo Kenyatta, prenderà la guida del movimento riuscendo a scrivere nuove pagine di storia per la popolazione keniota, contribuendo a far vivere al Ke160

G.H. MUNGEAM, British Rule in Kenya, 1895–1912, Clarendon Press, Oxford 1966. 161 Alla fine della Prima Guerra Mondiale l’1% della popolazione keniota era composta da bianchi europei che possedevano il 25% delle terre coltivabili, specialmente le terre ubicate nei fertili altipiani del Paese. Nel Consiglio Legislativo le tribù keniote avevano appena quattro rappresentanti, contro i nove che spettavano agli europei. Cfr. M.R. DILLEY, British Policy in Kenya Colony, Frank Cass & Co., London 1966, pp.42–54. 162 Cfr. E. SMITH, The Evolution of Nairobi, Kenya, 1888–1939. A study in Dependent Urban Development, University of Connecticut, Mansfield 1984, p. 121. 163 Cfr. M.S. MWANGOLA, Leaders of Tomorrow? The Youth and Democratisation in Kenya, in R. GODWIN MURUNGA, S.W. NASONG’O (eds), Kenya: The Struggle for Democracy, Zed Books, London–New York 2007, p. 142. 164 I Kikuyu con la Kikuyu Central Association, i Luo con la Kavirondo Central Association, i Kamba con la Ukamba Members Association e l’etnia Taita con la Taita Jills Association. Cfr. A.O. OLUKOSHI, The Politics of Opposition in Contemporary Africa, Elanders Gotab, Stockholm, 2000, pp. 39–48. 165 Sul movimento cfr. J. SPENCER, KAU. The Kenya African Union, KPI, London 1995. 166 Su gruppo etnico cfr. E.N. M UGO, Kikuyu People: A brief outline of their customs and traditions, Kenya Literature Bureau, Nairobi 1982.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

nya il suo risorgimento167. Nel frattempo iniziano su vasta scala le cerimonie di giuramento dei Mau Mau, organizzazione di tipo militare ostile agli stranieri conquistatori, determinata a combattere fisicamente l’invasore bianco 168. La lotta Mau Mau vive su due tipi di violenza, la guerriglia nelle boscaglie dell’interno e il terrorismo nelle città. Grande ed esemplare è anche il ruolo ricoperto dalle donne kikuyu nella lotta contro l’invasore bianco. Il loro contributo alla lotta di liberazione non si limita solo alle mansioni di assistenza medica, materiale e logistica ai guerriglieri, ma molte di loro contribuiscono direttamente alla resistenza, imbracciando le armi e combattendo personalmente contro gli inglesi 169. La lotta Mau Mau provoca una durissima risposta, altrettanto terroristica, da parte delle autorità britanniche. Col passare del tempo la Mau Mau rebellion diventa sempre più aggressiva, tanto da far dichiarare il 21 ottobre 1952 a sir Evelyn Baring, governatore della colonia, lo stato d’emergenza con il coprifuoco notturno. Inizia la grande e crudele risposta britannica alla lotta kikuyu per l’Uhuru: il desiderio di potenza e il forte razzismo dei britannici si radicalizza trasformandosi in una “supremazia eliminatoria”. Il terrore Mau Mau diventa direttamente proporzionale alla violenza britannica170. 167

Un breve profilo su Kenyatta in A. LATHAM, The Frozen Leopard. Hunting My Dark Heart in Africa, Prentice Hall Press, New York 1991, trad. it. Il leopardo di ghiaccio. Un viaggio in Kenya e in Ruanda, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 122–125. 168 Il movimento dei Mau Mau nasce nel 1951, presso la tribù dei Kikuyu. Cfr. L.S.B. LEAKEY, Mau Mau and The Kikuyu. Anthropology and Ethnography, (orig. 1952), Routledge Library, London 2004; C. A. ALAO, Mau–Mau Warrior, Osprey Publishing, Oxford 2006. 169 Sul ruolo delle donne cfr. Cfr. M. S ANTORU (a cura di), Politica coloniale e nazionalismo in Kenya. Le donne e il movimento Mau Mau, L’Harmattan Italia, Torino 1996; C.A. ALAO, Mau–Mau Warrior, cit., pp. 21–23. 170 Cfr. D. ANDERSON, History of the Hanged: Britain’s Dirty War in Kenya and the End of the Empire, Wiedenfeld and Nicolson, London 2005. Il saggio, basato sulle fonti giudiziarie, analizza i processi presso i tribunali speciali degli accusati di attività criminali.

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V. I campi per rieducare e punire

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Tra le successive misure che il governo coloniale prende contro il dilagare della ribellione Mau Mau, c’è l’istituzione di campi di concentramento e di villaggi protetti con tanto di filo spinato. La deportazione diviene così la prima misura britannica per salvaguardare il proprio potere. La più vasta operazione di internamento avviene il 24 aprile 1954, quando cinque battaglioni dell’esercito britannico, coadiuvato dalla Home Guard171, “ripulisce” Nairobi e i suoi sobborghi da tutti i kikuyu. Nell’operazione militare, chiamata Anvil, trentamila uomini sono arrestati e condotti in campi temporanei, mentre ventimila donne e bambini sono strappati dalle loro misere case e condotti con la forza in riserve protette 172. Tutti i campi, secondo le dichiarazioni ufficiali dell’autorità coloniale britannica, hanno la funzione dichiarata della riabilitazione, ma in realtà possiedono finalità prettamente punitive, vendicative e terrorizzanti. Infatti, torture di ogni tipo, stupri collettivi, esecuzioni capitali e incarcerazioni abusive anche di Kikuyu estranei al movimento armato, sono denunciate più tardi dalla stampa britannica173. Le condizioni di vita all’interno dei campi sono proibitive e abbondantemente umilianti. Racconta Wangari Muta Maathai, premio Nobel per la Pace nel 2004, internata a sedici anni in uno di questi campi per due giorni: Ero terrorizzata. Le condizioni di vita lì dentro erano orribili, studiate per distruggere gli animi e la fiducia in se stessi, istillando disperazione e paura sufficienti a spingere le persone ad abbandonare la lotta. L’igiene era scarsa, il cibo insufficien171

Una sorta di Guardia Nazionale reclutata principalmente dall’etnia kikuyu. J. G ANNON, Military occupations in the Age of Self–determination, ABC– CLIO, Santa Barbara 2008, pp. 62–64. 173 Sulle dure condizioni detentive e i metodi inumani degli inglesi, cfr. C. ELKINS, Imperial Reckoning. The Untold Story of Britain’s Gulag in Kenya, Henry Holt, New York 2006. Dalle testimonianze di almeno trecento sopravvissuti e dai documenti rintracciati in dipartimenti secondari (come quelli della Sanità e del Lavoro), Caroline Elkin fa emergere un quadro terrificante di impiccagioni, pestaggi, torture, stupri collettivi e violenze fatte per terrorizzare i villaggi. 172

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te e il campo era molto affollato. Le donne e i bambini (gli uomini erano pochi) erano dappertutto.174

Alla fine del 1955 i campi di concentramento e d’internamento di grandi dimensioni sono, solo intorno a Nairobi, una ventina; mentre il più grande campo riservato alle donne e alle ragazze si trova a Camiti a pochi chilometri dalla capitale. Come accadeva nei Lager nazisti e nei Gulag sovietici, il sistema d’internamento funziona grazie alla collaborazione attiva che i britannici ottengono da alcuni stessi internati. All’interno dei campi, militari britanni e africani “venduti”, praticano interrogatori agghiaccianti, torture inumane e soprattutto violenze sessuali. Gli interrogatori, i cosiddetti screening, hanno la funzione ben precisa di terrorizzare gli internati e la popolazione, di ottenere informazioni sul movimento armato dei Mau Mau e, soprattutto, di giustificare la detenzione successiva dei sospettati: certo non è facile superare lo screening e la maggior parte degli interrogati finisce per cedere confessando colpe o complicità anche inventate175. Le donne sono invece oggetto di inumane mansioni e di violenze sessuali. La loro funzione all’interno dei campi e dei villaggi protetti, infatti, diventa quella di seppellire i morti, rilevare le impronte digitali ai cadaveri in decomposizione, trasportare ogni genere di cose, pulire le latrine. Le torture e la violenza sessuale, anche con serpenti e bottiglie rotte, sono la forma specifica della loro grande disumanizzazione176. 174

W. MAATHAI, Unbowed. A Memoir, Anchor Books, New York 2006, trad. it. Solo il vento mi piegherà. La mia vita, la mia lotta, Sperling & Kupfer, Milano 2007, p. 85. 175 Cfr. C. ELKINS, Detention, Rehabilitation and the Destruction of Kikuyu Society, in E.S. ATIENO ODHIAMBO, J. LONSDALE (eds), Mau Mau & Nationhood. Arms, Authority & Narration, James Currey, Oxford 2004, pp. 194– 195; J. PARRY, Understanding Torture. Law, Violence, and Political Identity, The University of Michigan Press, Ann Arbor 2010, pp. 108–109. 176 Cfr. C.M. ELKINS, Detention and rehabilitation during the Mau Mau Emergencey. The crisis of late colonial Kenya, Harvard University, Cambridge 2001, p. 263; J. FRANKS, Scram from Kenya! From colony to republic, Pomegranate Press, Lewes 2004, p. 300.

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V. I campi per rieducare e punire

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Proprio come ad Auschwitz e affini, le strategie di sopravvivenza messe in atto dai detenuti sono le più svariate: coltivare in segreto la propria religione, intonare a bassissima voce canti nazionali patriottici o religiosi, ideare sistemi di comunicazione tra internati, corrompere le guardie per scambiare razioni di cibo e coperte con penne, carta, medicine, giornali, corrispondenza e altro materiale. La deportazione in campi di concentramento e in villaggi protetti consente all’autorità coloniale britannica di vincere sulla guerriglia Mau Mau, tanto che alla fine del 1955 non rimangono liberi sulle montagne che poche migliaia di combattenti irriducibili. Nel frattempo in Inghilterra inizia a spargersi la voce delle condizioni in cui vivono i deportati kikuyu. I primi a denunciare pubblicamente le disastrose condizioni di vita nei campi di bambini e anziani e le torture sessuali sulle donne, sono i deputati laburisti Fenner Brockway e Barbara Castle. A queste denunce seguono quelle della quacchera Eileen Fletcher, di alcuni missionari del luogo e del capitano Philip Meldon della Police Riserve del Kenya. Tuttavia, nonostante queste denunce e proteste l’autorità britanniche non hanno mai ammesso le loro colpe in Kenya. Il governo, al contrario, ha riconosciuto che questi crimini sono stati casi isolati e comunque commessi per lo più dai lealisti africani, stanchi del terrore Mau Mau. In ogni caso, sempre secondo la versione ufficiale della Gran Bretagna, gli ufficiali britannici in Kenya non hanno avuto a che fare con questi crimini177. La parabola dei Mau Mau inizia a scemare dal 1955, quando l’autorità coloniale, pur approvando un provvedimento di amni177

Nel 1963, immediatamente prima della fase d’inizio della decolonizzazione del Kenya, quasi tutta la documentazione ufficiale che testimoniava torture e violenze sessuali fu intenzionalmente distrutta o fatta sparire. Anche gli archivi del Ministero degli Affari Africani e del Ministero delle Prigioni furono tempestivamente bonificati da compromettenti documenti che riguardavano il feroce sistema di detenzione e trattamento degli internati africani. Cfr. R.B. EDGERTON, Africa’s Armies from honor to infamy. A History from 1791 to the Present, cit., pp. 89–90.

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stia per tutti i crimini commessi anteriormente a quella data, promuove la dilution technique, una nuova forma di screening fatta di aggressioni e shock psicologici praticati ai detenuti all’interno dei campi e delle prigioni che, più che un interrogatorio, è un sistematico programma di brutalità considerato «una forma di stupro»178. In seguito alla dilution technique, le confessioni si moltiplicano, facendo terra bruciata attorno ai Mau Mau. L’arresto e l’impiccagione del mitico capo Mau Mau, Dedan Kimathi destabilizza completamente e definitivamente la lotta armata contro i coloni inglesi. L’indipendenza è comunque ottenuta, ma solo il 12 dicembre 1963.

5.13. Vietnam e Laos Dopo la guerra che dal 1955 vide il Nord (filocomunista) contro il Sud (filostatunitense), il Vietnam diventa un immenso territorio con una massa da rieducare. Con la riunificazione del Paese, avvenuta nel 1975 dopo l’invasione del Sud da parte dei comunisti del Nord, in flagrante violazione degli Accordi di pace di Parigi del 1973, la pratica dell’indottrinamento al comunismo fu estesa in tutto il territorio. Nel Nord del Paese i campi di rieducazione erano riservati a cittadini accusati a vario titolo di essere contro–rivoluzionari, anticomunisti, sabotatori e spie di governi stranieri, simpatizzanti delle idee liberali. Ovviamente i cancelli dei campi furono aperti anche a tutti gli elementi di spicco della precedente amministrazione e del vecchio esercito. Con il Vietnam riunificato (Repubblica Socialista del Vietnam — Cộng hòa xã hội chủ nghĩa Việt Nam) si apre una fase di dura repressione e di una violenta azione di rieducazione per tutta la popolazione: oltre un milione di vietnamiti è internato in 178

C. ELKINS, Detention, Rehabilitation and the Destruction of Kikuyu Society, in E.S. ATIENO ODHIAMBO, J. LONSDALE (eds), Mau Mau & Nationhood, cit., pp. 213–215.

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V. I campi per rieducare e punire

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un sistema di più di centocinquanta terribili Trại học tập cải tạo, i luoghi di rieducazione ubicati specialmente nelle aree di confine, suddivisi in campi, sottocampi e prigioni179. Sia a casa sia in uno dei campi, tutti i cittadini e i prigionieri politici hanno

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dovuto subire il cai tao tuong tu, o riforma del pensiero. Nei documenti ufficiali si è sempre chiamato cai tao (“riforma del pensiero”, o “ri–educazione”) o semplicemente come hoc tap (“educazione “o “studio”), ma è stato un processo più ampio di quello che questi termini innocui suggeriscono.180

Il termine “rieducazione”, infatti, non è abbastanza idoneo per trasmettere la «quasi–mistica risonanza del cai–tao in lingua vietnamita. Cai [trasformare] e tao [creare] combinati significano letteralmente ri–creazione»181. La burocratica descrizione di cosa intende il regime per “rieducazione”, politica e sociale, è spiegata concisamente nel 1975 da uno dei massimi dirigenti comunisti, Nguyen Ngoc Giao, sull’autorevole giornale dell’esercito vietnamita Quan Dai Nhan Dan: La rieducazione è un processo accurato e di vasta portata. La direzione deve essere severa, continua, totale e specifica. Dobbiamo dirigere ogni persona. Dobbiamo dirigere i loro pensieri e le loro azioni, le loro parole e i loro gesti, la loro filosofia di vita e le loro modalità di sussistenza, le loro relazioni

179

I più grandi campi vietnamiti in H.M. TRUONG, The Dark Journey, Inside the Reeducation Camps of Viet Cong, Strategic BookGroup, Durham 2010, pp. 61–212. Cfr. anche Q.G. PHAM, Trai cai tao (The Reeducation Camp), Liviko, Houston (Texas) 1985. 180 Cfr. VĂN C ANH NGUYÊÑ, Vietnam Under Communism, 1975–1982, Hoover Press Publication–Leland Stanford Junior University, Stanford (California) 1983, p. 188. 181 HUYNH S ANH THONG (ed), To Be Made Over. Tales of Socialist Reeducation in Vietnam (New Haven-Boston 1988), così cit. in P. ZINOMAN, The Colonial Bastille: A History of Imprisonment in Vietnam, 1862–1940, University of California Press, Berkeley and Los Angeles (California) 2001, p. 302.

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sociali e i loro spostamenti. […] Dobbiamo combinare strettamente la direzione e l’educazione con gli interrogatori.182

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Le condizioni di vita nei campi variano secondo la struttura del luogo (campo o prigione), la loro dislocazione e la composizione della popolazione carceraria: Molti campi, vicini alle città, non hanno fili spinati e il regime è in essi più costrittivo che penoso. Ma i «casi difficili» sono mandati sulle montagne e gli altipiani del Nord, malsani e isolati; […] Qui l’isolamento è totale, le cure mediche minime e la sopravvivenza dipende spesso dai pacchi di viveri inviati dalle famiglie, che si rovinano per questo.183

Elemento comune per tutti i luoghi di rieducazione è l’indottrinamento politico totale, gli spietati interrogatori e il continuo trasferimento dei detenuti per prevenire l’eventuale insorgere di rapporti di amicizia tra i prigionieri e degli stessi con le guardie dei campi o delle prigioni. Le condizioni all’interno dei campi sono al limite della sopravvivenza184. Quasi tutti i campi sono accomunati dalla pratica del lavoro duro e pericoloso come metodo di “rieducazione produttiva”185. Ogni prigioniero ha la sua “quota lavoro”, che obbligatoriamente deve raggiungere, in caso contrario è punito con altro lavoro supplementare, oppure castigato con una quota di supplizi. 182

Cit. in E. DOYLE, T. MAITLAND, The aftermath, 1975–85, Boston Publishing, Boston (Massachusetts) 1985, p. 15. 183 J.–L. M ARGOLIN, Vietnam, le impasse di un comunismo di guerra, in S. COURTOIS (ed), Le Livre noir du communisme. Crimes, terreur, répression, Lafont, Paris 1997, trad. it., Il libro nero del comunismo. Crimini – Terrore – Repressione, Mondadori, Milano 2000, p. 537. 184 Cfr. G. SAGAN, S. DENNEY, Violations of human rights in Socialist Republic of Vietnam. April 30, 1975 – April 30, 1983, Aurora Foundation, Atherton (California) 1983, pp. 18–46. 185 Tra cui il disboscamento della giungla o la bonifica dei campi minati senza le opportune misure di sicurezza e senza attrezzatura specifica. Cfr. M. VO NGHIA, The Bamboo Gulag. Political Imprisonment in Communist Vietnam, McFarland, Jefferson (North Carolina) 2004, p. 87.

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V. I campi per rieducare e punire

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Le scarsissime condizioni igieniche, la denutrizione e la limitata assistenza medica, sono alla base dei numerosi decessi che ogni giorno si registrano in questi luoghi di “redenzione” 186. Identica situazione ritroviamo nel vicino Stato del Laos. La storia del Laos dopo la guerra civile (1953–1975) si intrecciò con quella vietnamita e sfociò nel coinvolgimento del Paese nella guerra del Vietnam, facendolo finire nell’orbita del Viet Cong187. Con il ritiro delle truppe americane dal Vietnam e la caduta di Saigon il 30 aprile del 1975, anche in Laos fu spianata risolutivamente la strada al socialismo reale. Il 2 dicembre 1975, re Savang Vatthana abdicò lasciando il Paese nelle mani del Pathet Lao 188 e, quello stesso giorno, nacque la Repubblica Popolare Democratica del Laos (Sathalanalat Paxathipatai Paxaxon Lao). Abrogata la Costituzione del 1947, il Paese fu amministrato dai dirigenti del partito unico comunista. Con il nuovo corso politico, inizia immediatamente sia la persecuzione dei politici, degli intellettuali e imprenditori legati al regime filo–statunitense sia delle etnie tribali che avevano fornito supporto agli interessi stranieri in Laos. Per la maggior parte della popolazione si apre, invece, il lungo processo della rieducazione189. Per questo sono istituiti i Samana, in laotiano vuol dire seminario, un eufemismo per indicare la rieducazione. Istituiti inizialmente nella metà orientale della provincia di Hua Phan, tre sono i modelli di campi per la rieducazione: il primo, meno duro, è destinato a piccoli delinquenti comuni, tossicodipendenti e prostitute190; il secondo, più rigido, agli ex fun186

VĂN CANH NGUYÊÑ, Vietnam Under Communism, 1975–1982, cit., pp.210–214. 187 Cfr. M. STUART–FOX, A History of Laos, Press Syndicate of The University of Cambridge, Cambridge (England) 1997, pp. 135–166. 188 Pathet Lao, letteralmente “Terra del Laos” è un’espressione con cui si indica sia il Paese sia il braccio armato del Fronte Patriottico Laotiano. Sul movimento comunista laotiano cfr. J.J. ZASLOFF, M. BROWN, Apprentice Revolutionaries. The Communist Movement in Lao. 1930–1985, Hoover Istitution Press, Stanford (California) 1986. 189 Cfr. M. S TUART–FOX, A History of Laos, cit., pp.172–173. 190 I campi per questa categoria sociale furono creati in due isole nel grande bacino artificiale di Ang Nam Ngum.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

zionari ed ex ufficiali del passato regime; il terzo, severo e rigoroso, per gli anticomunisti dichiarati. Il primo gruppo di prigionieri, composto da settanta ufficiali dell’Esercito Reale e governatori delle province, che va a popolare i campi di rieducazione laotiani, è deportato nel dicembre 1975 con un espediente: dopo aver ricevuto una lettera d’invito firmata dal principe Souvanna Phouma (primo ministro dal 1962 al 1975) per un meeting a Ventiane, il gruppo è trasferito nel campo numero 1 di Sop Hao nella provincia settentrionale di Houa Phan, vicino al confine con il Vietnam191. Qui gli ufficiali e governatori sono “spogliati” del loro rango e suddivisi in gruppi di lavoro. Nei mesi successivi altri funzionari e militari dell’ex governo sono invitati a “seminari” di due settimane presso i campi di Houa Phan, Attapu e Phongsali. La loro permanenza, però, si protrae per molti anni. Con questi espedienti il Pathet Lao si libera di ipotetici oppositori senza utilizzare la forza, conquistando definitivamente il Paese: la menzogna è un elemento fondamentale del regime che, insieme alla segretezza, è uno dei punti forti del governo. Gli ultimi alti ufficiali dell’Esercito Reale ed ex ministri ancora liberi sono deportati nel 1977 nel campo numero 1 di Sop Hao, tutti con l’accusa di aver pianificato un golpe. Nel 1977 anche la famiglia reale è trasferita segretamente nel campo di Sop Hao, dove muore di stenti. Ispirati al modello vietnamita, i campi di rieducazione laotiani, ognuno contrassegnato da un numero 192, hanno lo scopo di “riabilitare” tramite l’indottrinamento politico e i lavori forzati. Generalmente liberi di potersi muovere nei campi e di costruirsi le loro capanne di bambù, i prigionieri devono sottostare a regole precise: sveglia alle cinque del mattino per l’appello e per andare a lavorare (disboscare la giungla, lavorare i campi 191

Cfr. A. MATLES SAVADA, Laos: A Country Study, Federal Research Division, Library of Congress, Washington 1995, p. 69–70. 192 Oltre al campo 1 di Sop Hao, i più rigidi per condizioni di vita furono il numero 3 nel distretto Na Kai, nella provincia centrale di Khammouane, il numero 5 nel distretto di Muang Xamteu e i campi 4 e 6 nel distretto di Muang Et, tutti nella provincia nord–orientale di Houaphan.

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V. I campi per rieducare e punire

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collettivi, costruire strade), mentre la sera sono obbligati alle sedute di indottrinamento politico e di autocritica. Le famiglie dei detenuti (moglie e figli) possono scegliere di unirsi al capofamiglia. Anche se la violenza fisica non è una pratica molto presente, le condizioni insufficienti di vita, con scarsezza di cibo e assenza di cure mediche, causano migliaia di morti193. La grande ondata di rieducazione politica in Laos si esaurisce intorno al 1986, anche se le liberazioni non coinvolgono la totalità dei prigionieri.

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5.14. Cambogia In Cambogia, con i Khmer Rossi al potere inizia un periodo di terrore che dura tre anni, otto mesi e venti giorni, fino alla conquista del Paese da parte del Vietnam nel 1979. Dal 1975, dunque, e sino al 1979, i Khmer rossi di Pol Pot (pseudonimo di Saloth Sar) assoggettano il Paese, ora chiamato Kampuchea Democratica (Kampuchea prâcheathippadey), a un progetto di pulizia etnica e di rieducazione al socialismo perfetto, svuotando tutti i centri urbani e deportando la popolazione nelle campagne a lavorare. Si è trattato di rifondare con il terrore l’intera società cambogiana su base comunista e contadina. L’operazione di sradicamento della collettività è totale. Tutta la società preesistente è azzerata, compreso il calendario che è fatto ripartire dall’anno zero. Sono inoltre abolite le religioni, la scuola, le professioni, gli intellettuali, la moneta, gli affetti parentali, l’amore, l’amicizia e ogni altro sentimento individuale194. L’intero popolo inizia a essere rieducato al vangelo socia193

Le condizioni di vita nei campi laotiani nel racconto di un deportato: S. NAKHONKHAM BOUPHANOUVONG, Sixteen Years in the Land of death: Revolution and Reeducation in Laos, White Lotus, Bangkok (Thailàndia) 2003. 194 Furono criminalizzati i legami sentimentali e i matrimoni, come anche i concepimenti che dovevano avvenire esclusivamente previa approvazione del regime. Cfr. D. SIRACUSA, T.N. BOVANNRITH, Cercate l’Angkar. Il terrore dei Khmer rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano, Jaca Book, Milano 2004, p. 44.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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lista dettato dall’Angkar, l’“organizzazione” rivoluzionaria comunista cambogiana. Tra i primissimi cambiamenti vi è l’abolizione della proprietà privata e la costituzione di enormi comunità agricole, in cui anche la parentela diventa collettiva e tutti diventano fratelli e sorelle. Ogni cooperativa agricola diviene autosufficiente e completamente separata dalle altre. Nelle cooperative agricole gli “abitanti” sono divisi in tre grandi gruppi: i membri di pieno diritto, i candidati e i “deposti”; i primi, di solito i contadini delle classi più povere e medie, avevano diritto alla razione completa, a ricoprire incarichi politici nelle cooperative, a entrare nell’esercito e a chiedere l’iscrizione al Partito. I candidati venivano subito dopo per quanto riguardava le razioni e potevano ricoprire incarichi amministrativi di secondo piano. I “deposti” erano “gli ultimi dell’elenco delle distribuzioni, i primi in quello delle esecuzioni e non avevano diritti politici.195

Pur prediligendo l’estirpazione, l’indottrinamento e la rieducazione diventano parte fondamentale della politica dei Khmer rossi. Tali procedimenti sono praticati con ogni mezzo e in ogni momento della giornata: durante il lavoro, attraverso altoparlanti che diffondono discorsi, direttive e precetti dei “fratelli maggiori”; alla sera nelle “riunioni di stile di vita”. La violenza e la morte diventano una costante di questo processo di “purificazione”196: «La morte era diventata così frequente che ci eravamo abituati a considerarla preferibile a quella vita di sofferenze e privazioni. Era un periodo triste e malinconico: non avevamo alcuna prospettiva»197. 195

P. SHORT, Pol Pot: Anatomy of a Nightmare, Henry Holt, New York, 2004, trad. it., Pol Pot, anatomia di uno sterminio, RCS, Milano 2005, pp. 386– 387. 196 I modelli della violenza khmer e la sua applicazione sulla popolazione in K.D. J ACKSON, Cambodia, 1975–1978: Rendezvous with Death, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 1989 (ora 1992), pp. 179–208. 197 T.N. BOVANNRITH, Cercate l’Angkar, cit., p. 34.

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V. I campi per rieducare e punire

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Per i giovanissimi, considerati “puri”, perché non ancora occidentalizzati, ci sono speciali campi di indottrinamento e addestramento. In questi luoghi, il regime alleva i futuri khmer alla durezza della vita militare, a dispensare torture e violenza, insegnando loro

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l’obbedienza agli ordini, l’odio verso i nemici di classe, il rispetto della forza e del potere; ignari di legami familiari e sentimentali, di tradizioni o di religione erano pronti ad uccidere come fossero insetti i loro simili, anche i bambini appena nati.198

Educati politicamente e militarmente dall’Angkar, i giovanissimi sono quindi trasformati in perfette spie e discepoli del comunismo. L’Organizzazione diviene il loro vero genitore e il loro compito principale è quello di smascherare gli khmang (i nemici interni) con la delazione. Trasformato l’intero paese in un’unica «prigione senza sbarre»199, il regime si correda di luoghi in cui segregare gli oppositori ineducabili, presunti o reali, per interrogarli e ucciderli 200. Uno di questi luoghi, il più famigerato, è il centro S–21, una ex scuola superiore situata a Phnom Penh riconvertita a prigione, oggi divenuta il “Tuol Sleng Genocide Museum”. Il centro è creato «il 15 agosto 1975, quattro mesi dopo l’ingresso dei khmer rossi a Phnom Penh, ma cominciò a funzionare effettivamente solo nel mese di ottobre»201. È un vecchio liceo della città, chiamato “Tuol Svay Prey High School”, trasformato nel più grosso centro per gli interrogatori a disposizio198

M. CALLARI G ALLI, In Cambogia: pedagogia del totalitarismo, Meltemi, Roma 1997, p. 96. 199 Così fu definita la Cambogia dai profughi. P. S HORT, Pol Pot, anatomia di uno sterminio, cit., p. 385. 200 L’arcipelago carcerario della Cambogia in J.–L. M ARGOLIN, Cambogia: nel paese del crimine sconcertante, in S. COURTOIS (a cura di), Il libro nero del comunismo, cit., pp. 573–577. 201 Dall’intervista a Kang Khek Ieu “Douch”, il professore di matematica direttore dell’S–21, in V. PELLIZZARI, Il boia di Pol Pot. “Chi entrava doveva morire”, «La Stampa», 10 febbraio 2008.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

ne dell’Angkar, con annessa prigione destinata principalmente a reali e presunti oppositori al regime e ai traditori dell’esercito khmer. Oggi ricordato come Tuol Sleng (Collina dell’albero del veleno), il centro è chiamato dai Khmer rossi S–21: la lettera S sta per sala, mentre il numero 21 indica il codice della Santebal, termine che rimanda alla temutissima polizia di sicurezza dell’Angkar202. Composto da tre edifici di tre piani posti a ferro di cavallo su un cortile, più un quarto che ospita gli uffici amministrativi, il centro è circondato da filo spinato elettrificato. Alcune classi del vecchio liceo sono divise in piccole celle singole, altre diventano stanzoni per più prigionieri, qualcuna è trasformata in camera di tortura. Come nei campi nazisti, anche nell’S–21 c’è una grande scritta all’ingresso: “Fortificate lo spirito della rivoluzione! State in guardia contro la strategia e le tattiche del nemico, così da difendere il Paese, il Popolo e il Partito”203. All’interno, sulle lavagne, è scritto il decalogo che i prigionieri sono tenuti a osservare durante gli interrogatori: 1) Devi rispondere secondo le mie domande. Non cercare di aggirarle. 2) Non cercare di nascondere i fatti con pretesti. È severamente vietato contraddirmi. 3) Non fare lo stupido perché sei un controrivoluzionario. 4) Devi rispondere alle mie domande immediatamente senza perdere tempo a riflettere. 5) Non parlarmi delle tue immoralità né dell’essenza della rivoluzione. 6) Quando ti frustano e ti elettrificano non devi assolutamente gridare.

Questo termine è composto da santisuk, traducibile in “sicurezza”, e nokorbal, parola che significa “polizia”. S. TOTTEN, P.R. BARTROP, Dictionary of Genocide, vol. 2, Greenwood Press, Westport (Connecticut) 2008, p. 386; M. DEL CORONA, Cattedrali di cenere, EDT, Torino 2005, p. 14. 203 Ivi, p. 16. 202

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V. I campi per rieducare e punire

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7) Non fare niente. Stai seduto immobile e aspetta i miei ordini. Se non ci sono ordini, stai zitto. Quando ti chiedo di fare qualcosa, devi farlo immediatamente senza protestare. 8) Non accampare pretesti circa la Kampuchea Krom [il regime dei Khmer Rossi] per nascondere i tuoi segreti da traditore. 9) Se non rispetti tutte queste regole, riceverai molte frustate di filo elettrificato. 10) Se disobbedisci a qualunque punto del mio regolamento, riceverai dieci frustate o cinque scariche elettriche.204

Una volta giunti nel Tuol Sleng i prigionieri sono accuratamente schedati, fotografati, spogliati di tutti i loro vestiti e rinchiusi nelle celle: in quelle più piccole sono incatenati alle pareti, in quelle più grandi a una sbarra collettiva a cui si agganciano i ferri alle caviglie. Gli interrogatori, la vera consacrazione di tutto il lavoro della prigione, sono delle sedute di tortura tramite strumenti moderni, come l’elettroshock, ma anche con arnesi più rudimentali, come pinze, tenaglie o altri arnesi artigianali, oppure con le classiche immersioni in acqua o sospensioni del corpo205: «Quelli che interrogavano venivano in parte dall’Ufficio 13»206, erano «ex quadri dell’organizzazione. E poi c’erano quelli provenienti dalla divisione 703, militari, gente che usava violenza e brutalità» 207. La tortura non si interrompe finché non si confessa qualsiasi cosa, compresi i nomi per le liste di denunce: da ogni nominativo si ramificano altre persone, parenti, amici, vicini di casa, tutta gente innocente che poi è portata in prigione. Una volta ottenuta la confessione, i prigionieri sono divisi in due semplici categorie: quelli da conservare (pochissimi) e 204

A. LABAN HINTON, Why Did They Kill? Cambodia in the Shadow of Genocide, University of California Press, Berkeley and Los Angeles (California) 2005, pp. 232–233. 205 Il “menù” delle torture nel Tuol Sleng in D. CHANDLER, Voices from S–21: Terror and History in Pol Pot’s Secret Prison, University of California Press, Berkeley (California) 1999, p. 130. 206 Kang Khek Ieu “Douch”, in V. PELLIZZARI, Il boia di Pol Pot, cit. 207 Ibidem.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

quelli da eliminare. Questi ultimi sono portati in segreto fuori dalla prigione e uccisi con bastoni e coltelli, per poi essere gettati in fosse comuni208. Nella prigione S–21 l’Angkar “abita” anche nei corpi, oltre che nella mente: tutti i carcerieri che lavorano all’S–21, sanno «che chi entrava lì dentro doveva essere demolito psicologicamente», consumato «con un lavoro progressivo», insomma «non doveva avere scampo. Qualsiasi risposta non serviva per evitare la morte»209. Questa imponente opera di ingegneria politica e sociale non ha avuto nessun grande criminale punito: Pol Pot, ricercato per essere sottoposto al giudizio di un tribunale internazionale per crimini contro l’umanità, muore nel 1998 nel suo letto in un capanno nella giungla ai confini con la Thailandia, probabilmente per infarto; nessuno dei vertici del regime cambogiano è mai stato condannato.

5.15. Corea del Nord Nella Repubblica Democratica Popolare di Corea (Chosŏn Minjujuŭi Inmin Konghwaguk), o Corea del Nord210, i primi campi di lavoro sono creati subito dopo il secondo conflitto mondiale per “purgare” la nuova società dai potenziali nemici della rivoluzione: traditori del partito, collaborazionisti dei giapponesi, leader religiosi, cristiani, proprietari terrieri, familiari di

208

Sull’S–21cfr. anche M. DEL CORONA, Cattedrali di cenere, cit., pp. 13–29; R. PANH, C. CHAUMEAU, La machine khmère rouge: Monti Santésok S–21, Flammarion, Paris 2003, trad. it., S–21. La macchina di morte dei Khmer rossi, O barra O Edizioni, Milano 2004. 209 Kang Khek Ieu “Douch”, in V. Pellizzari, Il boia di Pol Pot, cit. 210 La Corea del Nord fu divisa definitivamente dalla Corea del Sud al 38esimo parallelo dopo una lunga guerra (1950–1953). Sulle vicende che portarono alla divisione, cfr. B. CUMINGS, The Origins of the Korean War. Liberation and the Emergence of Separate Regimes, 1945–1947, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 1981.

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V. I campi per rieducare e punire

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persone incarcerate sia durante la guerra sia subito dopo la divisione sovietico–americana del Paese in due. Per preservare lo Stato da tutte le possibili influenze che avrebbero potuto bloccare la creazione di una società socialista reale, la Corea del Nord sigillò i suoi confini dal resto del mondo, diventando un “regno eremita”, con un sistema di spionaggio interno capillare211. Furono così create tre diverse tipologie di campi per purgare alla radice la società da “elementi infetti”: le colonie politiche penali di lavoro (Kwan–li–so) per le condanne all’ergastolo e per i delitti più gravi; i centri di reclusione per sentenze a termine (Kyo–hwa–so); i centri di detenzione per fuggitivi rimpatriati dalla Cina (Jip–kyul–so). I kwan–li–so sono gestiti dal Dipartimento per la Sicurezza dello Stato (Kukgabowibu), che ha a sua disposizione anche molte strutture per il fermo di polizia (Ao–wi–bu); mentre kyo– hwa–so e jip–kyul–so sono coordinati dal Ministero per la Sicurezza del Popolo (Inminboanseong), che dispone anche di strutture per gli interrogatori (An–jeon–bu)212. Lo sterminio non è una opzione contemplata dal regime, tuttavia le durissime condizioni di vita all’interno dei campi, il pesante lavoro forzato, la denutrizione, le crudeli torture applicate agli interrogatori e le terribili punizioni, rendono la morte un “effetto collaterale permanente”. La vita all’interno dei campi è dura, per il lavoro prolungato e per le scarse razioni di cibo. Dopo una giornata di duro e lungo lavoro nelle miniere, in aziende agricole, nelle falegnamerie, 211

Il giornalista Geri Morellini considera la situazione in Corea del Nord, seppur nella sua drammaticità, un grosso esperimento sociologico, che porta la gente a credere di vivere in un paradiso terrestre, solo perché non ha la possibilità di confronti con l’estero e perché la propaganda del regime lo fa credere. G. MORELLINI, Dossier Corea. Viaggio nel regime piu’ isolato del Mondo, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003. È un resoconto giornalistico dopo essersi “infiltrato” in una delegazione italiana autorizzata a visitare il Paese. 212 Elenco e testimonianze di tutte queste tre strutture in D. HAWK, The Hidden Gulag. Second Edition. The Lives and Voices of “Those Who are Sent to the Mountains”. Exposing North Korea’s Vast System of Lawless Imprisonment, Human Rights in North Korea, Washington 2012, pp. 25–82 (per i Kwan–li–so), pp. 83–110 (per Kyo–hwa–so), pp. 120–121 (Jip–kyul–so).

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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nelle fabbriche di armamenti, i prigionieri sono obbligati a partecipare alla rieducazione attraverso lezioni di indottrinamento, memorizzazione dei discorsi di Kim Il Sung e di Kim Jong Il, sedute di critica e autocritica. In tutti i campi la disciplina è rigorosissima, tutti i prigionieri devono osservare quelli che sono i “dieci comandamenti” previsti in qualsiasi luogo di internamento: 1) 2) 3) 4) 5)

non scappare; è vietato l’assembramento di tre o più prigionieri; non rubare; ubbidisci agli ordini delle guardie; avvisa subito quando vedi un estraneo o una persona sospetta; 6) devi controllare gli altri e fare subito rapporto su comportamenti insoliti degli altri prigionieri; 7) devi svolgere interamente tutti i compiti che ti sono assegnati; 8) a meno che non sia previsto dal lavoro, i contatti tra uomini e donne non sono permessi; 9) devi pentirti sinceramente dei tuoi errori; 10) verrai immediatamente fucilato se violerai queste leggi. 213

Il fermo e la detenzione sono misure amministrative, quindi senza processo, inoltre: «Gli arresti sono sempre condotti discretamente, al di fuori di ogni procedura legale, di modo che nemmeno i parenti o i vicini ne sanno niente»214. Si finisce nei campi di rieducazione anche per reati meno gravi come, per esempio, per aver ascoltato una canzone occidentale, per essersi sintonizzati sulla radio della Corea del Sud, o per inefficienza nel lavoro statale, come successe alla nazio213

In B. HARDEN, Escape from Camp 14. One man’s remarkable odyssey from North Korea to freedom in the West, PanMacMilliam, London, 2012, pp. 193–196, trad. it., Fuga dal Campo 14, Codice Edizioni, Torino 2014. Il saggio è il racconto di Shin Dong–Yuk, nato in un campo nordcoreano e poi riuscito a scappare. 214 P. RIGOULOT, Crimini, terrore e segreto nella Corea del Nord, in S. COURTOIS (a cura di), Il libro nero del comunismo, cit., p. 523.

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nale nordcoreana di calcio nel 1966. Infatti, durante i mondiali di calcio di quell’anno, i nordcoreani sconfissero la nazionale italiana, qualificandosi ai quarti di finale. La vittoria fu festeggiata dai calciatori nei pub inglesi. La successiva partita contro il Portogallo, però, fu persa e la squadra non passò alle semifinali. Kim Il Sung attribuì a quei festeggiamenti “corrotti e segno di decadenza borghese e reazionaria” la sconfitta e fece imprigionare il team della squadra nel campo di Yodok. Da questa sorte si salvò solo Pak Doo–Ik, l’autore del gol della vittoria contro la nazionale italiana, che, essendo stato colpito da una forma di gastrite, non prese parte sia ai festeggiamenti sia alla gara contro il Portogallo215. Nelle colonie sono internate anche le famiglie dei detenuti e i loro discendenti, in base alla “colpevolezza per associazione”, ossia con l’accusa di essere soggetti non criminali contaminati dall’ideologia reazionaria di un agente criminale convivente, e per questa ragione bisognosi di rieducazione attraverso il lavoro e l’indottrinamento: Nel 1958, Kim Il Sung ha emanato una direttiva che dichiara che “i detenuti sono nemici di classe e devono essere attivamente sterminati per tre generazioni”. Ha quindi ripreso una consuetudine feudale coreana di punire tre generazioni di una famiglia in base allo slogan “Le erbacce devono essere sradicate nella loro stagione e distrutte alle radici”. 216 215

Il centrocampista Pak Seung–Zin passò non meno di dodici anni nel campo di Yodok, dove fece conoscenza con Chol–Hwan Kang, autore con Pierre Rigoulot di Les aquariums de Pyongyang: dix ans au goulag nord–coréen, (Robert Laffont, Paris 2000, trad. it, L’ultimo gulag. La tragedia di un sopravvissuto all’inferno della Corea del Nord, Mondadori, Milano 2001). La testimonianza di Chol–Hwan Kang, tuttavia, contrasta con le interviste incluse nel documentario “The game of their lives” del regista britannico Daniel Gordon, realizzato nel 2002 in Corea del Nord. Il regista, infatti, è riuscito a intervistare l’allenatore e sette giocatori di quella squadra, compreso Pak Seung–Zin, tutti pluridecorati con medaglie. Tutti hanno negato di essere stati imprigionati. Il regista, tuttavia, ha dovuto attendere quattro anni per ottenere l’autorizzazione, questo fa supporre una “preparazione” da parte del regime. 216 J. BECKER, Rogue Regime: Kim Jong Il and the Looming Threat of North Korea, Oxford University Press, Oxford (England) 2006, p. 90.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

I pochi internati “rieducati” che escono dai campi porteranno per sempre non solo il peso del “soggiorno”, ma la schedatura a vita. Infatti, poiché nella carta d’identità dei nordcoreani è indicata anche l’attività lavorativa, nel caso di un ex detenuto questa specifica che è stato un “operaio dell’esercito”, ossia un ex detenuto per motivi politici217. Oltre alle terribili condizioni di vita, alcune testimonianze hanno riferito anche che all’interno di alcuni campi sono praticati esperimenti su esseri umani218. Kwon Hyuk, il nuovo nome dell’ex capo militare dell’ambasciata nordcoreana di Pechino ed ex dirigente del Kwan–li–so 22 di Hoeryong, ha riferito nel documentario This World uncovers the “gas chambre” of North Korea, trasmesso dalla BBC il 1° febbraio 2004, di aver assistito personalmente a uno di questi esperimenti su una intera famiglia: i genitori, un figlio e una figlia sono stati rinchiusi in una stanza di vetro e gasati, mentre alcuni scienziati osservavano l’intero processo dall’alto attraverso il vetro. Nella sua testimonianza resa al Congresso statunitense e nella sua autobiografia, Soon–Ok Lee, ex manager in un ufficio governativo che distribuiva beni e materiali, arrestata ingiustamente per “disonestà nel suo lavoro”, e per questo imprigionata per sette anni nel Kwan–li–so 14 di Kaechon219, conferma gli esperimenti sui detenuti: Un ufficiale mi ordinò di scegliere cinquanta prigioniere di buona salute. Una delle guardie mi diede un cesto pieno di cavoli trattati; non per me, ma per darne a quelle cinquanta donne. Ne diedi loro e sentii urla da quelle che ne avevano mangiaK. CHOL–HWAN, P. RIGOULOT, L’ultimo gulag, cit., p. 162. Cfr. A. BARNETT, Revealed: the gas chamber horror of North Korea’s gulag. A series of shocking personal testimonies is now shedding light on Camp 22 – one of the country’s most horrific secrets, «The Guardian», Sunday 1 February 2004; T. BEAL, North Korea: the struggle against American power, Pluto Press, London 2005, pp. 136–138. 219 Rilasciata in seguito a un’amnistia, riesce a fuggire con suo figlio in Corea del Sud nel 1995, passando dalla Cina. Suo marito è scomparso per sempre durante la sua prigionia. 217 218

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to. Gridavano tutte e vomitavano sangue. Tutte quelle che avevano mangiato le foglie di cavolo cominciarono a vomitare violentemente sangue, e a gridare per il dolore. Fu un inferno. In meno di venti minuti erano pressoché tutte morte.220

Un atto ufficiale “top secret”, riuscito a sfuggire alla censura del regime, attesta questi esperimenti: il documento è una lettera di trasferimento datata febbraio 2002, in cui un certo Lin Hun– hwa, di trentanove anni è inviato al «Campo 22 allo scopo di sperimentazione umana di gas liquidi per armi chimiche» 221. Il regime semifeudale di Kim Il Sung, prima, quello di suo figlio Kim Jong Il, dopo, e l’attuale di Kim Jong–Un hanno ovviamente sempre negato sia le esecuzioni capitali per motivi politici, sia l’esistenza dei campi di rieducazione, sia ancora le sperimentazioni sugli esseri umani, nonostante la presenza di prove con immagini satellitari che attestano la presenza di campi e testimonianze dei sopravvissuti fuggiti in Occidente o in Corea del Sud che confermano la crudeltà del regime 222. Come appena riferito, alcune foto satellitari, pubblicate dalla “Far Eastern Economic Review” a partire dal 2002, confermano l’esistenza di grandi campi di concentramento 223. Attraverso queste immagini si è scoperto che la più grande colonia penale di lavoro rieducativo è il campo numero 16 220

Congressional Record.– Senate, vol. 155, Pt. 8, April 21, 2009, Documents of U.S. Government Printing Office, Washington, pp. 10113–10114. La testimonianza anche nell’autobiografia dell’ex prigioniera: L. SOON–OK, Eyes of the Tailless Animals: Prison Memoirs of a North Korean Women, Living Sacrifice Book Company, Bartlesville (Oklahoma) 1999. 221 Cfr. A. B ARNETT, Revealed: the gas chamber horror of North Korea’s gulag, cit. 222 Tra cui quella del già citato Shin Dong–Yuk, nato nel Kwan–li–so 14, a Kaechon nella South Pyongan Province, (in B. HARDEN, Escape from Camp 14, cit.), quella di Kim Yong, ex funzionario militare, internato per sei anni nel Kwan–li–so 14 e fuggito poi negli USA (K. YONG, K. SUK–YOUNG, Long Road Home. Testimony of a North Korean Camp Survivor, Columbia University Press, New York 2009) e quella di Kang Chol–hawan, internato per dieci anni con la sua famiglia nel Kwan–li–so 15 di Yodok e fuggito nel 1987 dopo il suo rilascio. Cfr. K. CHOL–HWAN, P. RIGOULOT, L’ultimo gulag, cit. 223 Le foto in D. HAWK, The Hidden Gulag, cit., pp. 197–229.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

(Hwaseong Je16ho Kwan-li-so). Situato nel Nord-Est, a Hwaseong, nella omonima contea, il campo ha un’estensione di circa 549 chilometri quadrati con una capienza di circa ventimila prigionieri. È il più duro del Paese perché la maggior parte degli internati ha ricevuto la condanna a vita. Il campo ha una recinzione elettrificata di oltre 120 chilometri, con 35 torrette di guardia armata, ed è posizionato ai piedi del monte Mant’ap, montagna di 2.205 metri di altezza appartenente alla catena montuosa Hamgyeong Sanmaek. La posizione e la massiccia sorveglianza scoraggiano qualsiasi fuga. All’interno i prigionieri sono divisi in tre grandi “agglomerati umani” in base al loro grado di pericolosità. Tutti hanno l’obbligo di lavorare (nel settore minerario, nell’ittiocoltura, nel disboscamento e nell’agricoltura) e la sera, al rientro devono assistere alle lezioni di indottrinamento politico-sociale. Appena fuori dal perimetro del campo si trova l’area Punggye-ri, il sito sotterraneo dove il regime ha attuato i quattro test nucleari. Un altro campo, il più noto in Occidente, è quello contrassegnato con numero 15: il campo di Yodok (Yodŏk Je Sibo-ho Kwan-li-so). È situato a 110 chilometri dalla capitale, precisamente nella contea di Yodŏk-gun. L’area di internamento copre circa 378 chilometri quadrati, è circondata da filo spinato ed elettrificato e ospita circa cinquantamila persone. Tutti sono obbligati a lavorare e ad assistere alle lezioni di indottrinamento. I lavori riguardano la miniera d’oro che si trova all’interno, la grande cava di gesso, i fondi agricoli, la fabbrica tessile, il taglio della legna, la distilleria del campo. Il campo è diviso in due zone: la “zona a controllo totale e la zona rivoluzionaria. Nella prima, a sua volta divisa in due colonie penali (Pyongchang-ri e Yongpyong-ri), sono reclusi cittadini ritenuti colpevoli di gravi reati contro lo Stato e per questo condannati a vita all’internamento; nella seconda sono rinchiusi i responsabili di crimini ritenuti meno gravi (tentativi di espatrio clandestino, critica contro il governo, aver ascoltato trasmissioni radiotelevisive estere) e, quindi, possono eventualmente essere scarcerati. Probabilmente quest’ultima zona è chiusa nel 2014.

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V. I campi per rieducare e punire

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La zona di Kae’chŏn, situata nella provincia del Pyongan, ha ben due zone di internamento: il campo n. 1 (Kaechŏn Je1ho Kwan-li-so) e il campo n. 14 (Kaechŏn Je14ho Kwan-li-so). Distanti circa venti chilometri tra loro, i due campi hanno struttura diversa: il primo è una prigione rieducativa di novantamila metri quadrati, il secondo è un campo di concentramento di 155 chilometri quadrati con circa quindicimila internati. In entrambi i prigionieri sono tenuti a lavorare: nel primo si producono scarpe e abbigliamento e si lavora il cuoio e la gomma; nel secondo si lavora nella vicina miniera di carbone e nei grandi fondi agricoli, oltre a produrre carta, tessuti, calzature, ceramica e cemento. Altri campi conosciuti grazie alle immagini satellitari sono il Kwan-li-so 22 di Hoeryong, nella parte nord-orientale del Paese, e il Kwan-li-so 18 di Bukchang, nella contea di Pukchang a nord di Pyongyang. Il primo, con un’estensione di circa 225 chilometri quadrati, è probabilmente chiuso nel 2012. Il secondo, presumibilmente ancora in funzione, è situato sulla riva del fiume Taedong, quasi di fronte al campo numero 14, ed ha la capienza di circa 30mila persone. A differenza degli altri campi, questo è gestito dalla Inminboanseong. Molti internati sono parenti di quelli reclusi nel campo 14. Qui i detenuti lavorano nell’estrazione del carbone, alla produzione di mattoni e cemento, in una fabbrica di vetro e in una distilleria224. Secondo Amnesty International, che nel 2011 ha stimato duecentomila prigionieri detenuti in condizioni terribili nei sei grandi campi conosciuti, il regime continua a investire in strutture per la repressione225. 224

Per tutti e altri cfr. Korea Institute for National Unification, White Paper on Human Rights in North Korea, Center for North Korean Human Rights Studies, Seoul 2017, pp. 446-458; anche Amnesty International UK, North Korea: Satellite images expose scale of prison camps, https://www.amnesty. org.uk/north-korea-satellite-images-expose-scale-prison-camps 225 Cfr. Amnesty International, Rapporto Annuale 2012 – Asia e pacifico Corea del Nord, Fandango, Roma 2012, pp. 336–338; Amnesty International, North Korea. New satellite images show continued investment in the infrastructure of repression, Amnesty International Publications, London 2013.

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5.16. Indonesia Se in Vietnam, Laos, Cambogia e Corea del Nord, il comunismo nella sua ostinazione a voler creare il “paradiso socialista” produsse un Inferno di violenza e morte, in Indonesia fu l’anticomunismo a generare l’Ade sulla terra226. Nel 1965, il pretesto di impedire un paventato tentativo di colpo di Stato comunista, offre ai militari l’occasione per prendere il potere, porre fuori legge i comunisti, riuniti nel più grande partito fuori dei confini del socialismo reale, e scatenare una sanguinosa repressione. L’11 marzo dell’anno dopo, il generale Haji Mohammad Suharto prende su di sé il controllo del potere esecutivo e costringe il presidente indonesiano Kusno Sosrodihardjo “Sukarno” a farsi da parte. Epurato il Parlamento dai comunisti e purgato l’esercito degli elementi pro–Sukarno, Suharto diventa capo dello Stato nel luglio 1966. Salito al potere, il generale Suharto stabilisce quello che egli stesso chiama Orde Baru (Nuovo Ordine), attraverso la messa fuori legge di tutti i partiti, plasmando un nuovo ordinamento parlamentare, consegnando il Paese nelle mani dei militari e, soprattutto, sterminando tutti i dissidenti, o presunti tali, in primis i comunisti227. Oppositori e comunisti sono suddivisi in tre categorie: “A”, persone implicate nell’ipotetico colpo di Stato del 1965; “B”, individui sospettati di essere comunisti; “C”, persone sospettate di avere simpatie comuniste. Se tutte le persone incluse nella categoria “A” sono subito eliminate fisicamente228, le altre delle restanti classi sono internate per essere rieducate attraverso un duro regime lavorativo. Tra i candidati alla rieducazione politiB.R. O’GORMAN ANDERSON (ed.), Violence and the State in Suharto’s Indonesia, Cornell University, Ithaca 2001. 227Anche la comunità cinese, minoranza da sempre invisa agli indonesiani, diventa il bersaglio di feroci esecuzioni. 228 Il New York Times definì l’operazione «uno dei più selvaggi assassini di massa della storia politica». Cfr. M. FRANKEL, U.S. Aides Are Cautious On Indonesia Power Shift; U.S. Aides wary on Jakarta shift, Special to New York Times, March 12, 1966, p. 1. 226

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V. I campi per rieducare e punire

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co-sociale non solo presunti comunisti, ma anche avvocati, professori, medici, scrittori, insomma l’intellighenzia indonesiana, tutte persone spedite nei “Lager tropicali” di Suharto perché percepite minacciose per il regime 229. Pur non occupando un posto centrale nell’apparato repressivo del regime, che preferisce massacrare230, nell’Indonesia di Suharto si aprono spazi concentrazionari in cui lavoro forzato e tortura diventano il “pane quotidiano” degli internati. Con l’accusa di alto tradimento, makar in indonesiano, i sopravvissuti ai massacri sono reclusi con procedimento amministrativo nei diciotto campi di concentramento dell’isola di Buru, la terza più grossa isola dell’arcipelago malese. Voluti da Suharto e dal ministro della Giustizia Sugiharto, questi campi fanno parte ufficialmente del Buru Island Humanitarian Project, un eufemismo coniato dal regime che sta però per vendetta, punizione e profilassi sociale. Il primo gruppo di 2500 persone, tutte appartenenti alla categoria B, arriva sull’isola di Buru nel 1969231. Il loro primo compito è quello di ripulire la terra, creare caserme in legno per gli alloggi per i prigionieri e per i sorveglianti, impiantare campi di riso e di verdure, innalzare la staccionata di legno alta due metri, non tanto per tenere dentro i prigionieri, quanto per tenere fuori coccodrilli, cinghiali e altri animali. Ovviamente tutto questo tra percosse e umiliazioni 232. Con l’arrivo di altri interna229

Cfr. C. MCMICHAEL HEATHCOTE, Indonesia’s Political Prisoners. A Source of Legitimacy for the Suharto Regime, University of Melbourne, Melbourne (Australia) 1980. 230 Sull’argomento cfr. E. POLITO, Indonesia: dal grande pogrom anticomunista al genocidio di Timor Est, Odradek, Roma 2000; B.R. ANDERSON O’GORMAN (ed), Violence and the State in Suharto’s Indonesia, Southeast Asia Program Publications, Ithaca (New York) 2001. 231 Cfr. E. S ANZI AMADÈ, I lager di Suharto, «l’Unità», 19 novembre 1972. 232 Sulle condizioni di vita nei campi dell’isola di Buru, cfr. M. NOERSMONO, Bertahan hidup di Pulau Buru (La vita di un prigioniero sull'isola di Buru), Ultimus, Bandung 2017. Mars Noersmono, “inquilino” di un campo di Buru dal 1971 al 1979, per accompagnare la sua testimonianza scritta, ha realizzato 75 schizzi dettagliati del campo e delle varie attività che svolgevano i deportati.

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ti si passa alla creazione di villaggi e alla costruzione di strade233. Anche le famiglie degli internati sono costrette a vivere sull’isola. Ulteriori presunti dissidenti e supposti comunisti sono reclusi in altri infiniti posti di detenzione presso penitenziari speciali, come il Cipinang Penitentiary Institution di Jakarta, prigioni a regime duro, come il Kambangan Island, campi dell’esercito e stazioni della gendarmeria234. Si calcola che il regime di Suharto in 32 anni abbia fatto quasi un milione di vittime, senza calcolare il numero delle persone internate. Altre ne fa a partire dal 1975, con l’invasione dell’ex colonia portoghese di Timor Est: in ventiquattro anni gli occupanti indonesiani massacrano quasi un terzo della popolazione timorese235.

5.17. I campi di lavoro e rieducazione cinesi In Cina sin dall’Età imperiale si fece uso del lavoro forzato, sfruttando soprattutto i criminali. Nell’etica confuciana il lavoro forzato era inteso come rieducativo, vale a dire volto a instillare un nuovo modello di comportamento e, nello stesso tempo, per ripagare l’inserimento nella società236. Lavoratori forzati furono impiegati nella costruzione della Grande Muraglia (la lunghissima serie di mura edificate a partire dal III secolo a.C. per volere dell’imperatore Qin Shi Huang) e del Gran Canale Jing–Hang (il fiume artificiale più lungo del 233

Cfr. B. GRIMES DIX, Buru inside out, in L.E. VISSER (ed), Halmahera and beyond, KITLV Press, Leiden (Netherlands) 1994, p. 59–78. 234 I maggiori luoghi di reclusione e internamento per prigionieri politici dell’Indonesia, dal periodo coloniale al regime di Suharto, in A A. VV., Prisons in Indonesia. Defunct Prisons in Indonesia, Kambangan Island, Buru, Cipinang Penitentiary Institution, Cisarua, LLC Book, Memphis 2010. 235 Cfr. J. NEVINS, A not-so-distant horror. Mass violence in East Timor, Cornell University Press, Ithaca 2005. 236 Cfr. J.H. BERTHRONG , E.N. B ERTHRONG, Confucianism. A Short Introduction, Oneworld, Oxford 2000, trad. it., Confucianesimo. Una introduzione, Fazi, Roma 2004, p. 141.

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V. I campi per rieducare e punire

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mondo che collega Pechino a Zhejiang, voluto nel 605 d.C., dall’imperatore Yang Guang)237. L’organizzazione dei campi per la rieducazione, invece, risale alla Repubblica sino–sovietica dello Jiangxi238 (attualmente una provincia meridionale della Repubblica Popolare Cinese), che introdusse il principio del lavoro forzato correzionale per i controrivoluzionari attraverso il Laodong ganhuayuan (Istituto di persuasione)239. A Yenan (o Yan’an), la base del comunismo cinese dove prese forma il comunismo di Mao Tse Tung, gli anni 1942– 1944 sono segnati dal zheng–feng, ovvero la “campagna di rettifica” o “riforma del pensiero”, un progetto per “salvare” chi aveva perso o non conosceva la strada ideologica del partito 240. Si trattò in pratica di riformare il concetto di detenzione, aggiungendo al programma punitivo un progetto educativo per creare “uomini nuovi”. La rieducazione iniziava dall’autocritica, passando dall’umiliazione pubblica per gli errori ideologici, la stesura di una dettagliata confessione e l’isolamento, sino alla promessa di cambiamento. Dopo diverse “prove” di buona fede, il prigioniero 237

Sul lavoro forzato nella Cina premoderna e in quella imperiale cfr. P.F. WILLIAMS, Y. WU, The Great Wall of Confinement. The Chinese Prison Camp Through Contemporary Fiction And Reportage, University of California Press, Berkeley and Los Angeles (California) 2004, pp. 20–29. 238 Il partito comunista cinese, fondato nel 1921 a Shanghai, creò nel 1931 una prima “Repubblica Sovietica Cinese” nel Jiangxi, approvando un testo politico programmatico sul modello della costituzione russa del 1924, dal titolo “Principi generali della Costituzione della Repubblica dei Soviet”. Tale testo, preceduto da una legge sull’organizzazione delle zone dei soviet cinesi approvata a Shanghai nel 1930, proclamò la “dittatura democratica del proletariato e dei contadini”, escludendo dalla cittadinanza i capitalisti, proprietari terrieri, monaci e altri elementi controrivoluzionari. Cfr. W.E. BUTLER, The Legal System of the Chinese Soviet Republic 1931–1934, Transnational Publisher, New York 1983. 239 Questo termine si rifà a un concetto mancese che indica una sorta di “via verso la redenzione”. Cfr. P.F. WILLIAMS, Y. WU, The Great Wall of Confinement, cit., pp. 35–45. 240 Cfr. G. F ABRE, Genese du pouvoir et de l’opposition en Chine. 1942, le printemps de Yan’an, L’Harmattan, Paris 1990.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

era dichiarato “rinato” e, come ultima prova di fedeltà, doveva ringraziare il partito per il ruolo svolto nella sua “redenzione”. Nel programma, indispensabile si rivelò l’obbligo del lavoro, inteso come strumento correttivo ed educativo, volto a instillare nel lavoratore l’etica confuciana e, soprattutto, utile a garantire che anche i detenuti contribuissero alla produzione 241. Questa visione politica e sociale della “rieducazione” si ispirava ai princìpi del Signore di Shang, della dinastia Qin, secondo il quale fatta eccezione per vecchi, bambini e malati «il resto della popolazione doveva essere obbligato a lavorare»242. Il 30 giugno del 1949, Mao, in onore della commemorazione del ventottesimo anniversario del Partito Comunista pronunciò un famoso discorso, “Guanyu renmin minzhu zhuanzheng” (Sulla dittatura popolare democratica), in cui si deduce, tra le altre cose, l’intenzione del leader cinese di dare più consistenza alla rieducazione dei controrivoluzionari rispetto ai prigionieri criminali: Lo Stato popolare protegge il popolo. Solo quando il popolo dispone di un simile Stato può, su scala nazionale e con la partecipazione di tutti, educarsi e rimodellarsi con metodi democratici, scrollarsi di dosso l’influenza dei reazionari interni ed esterni […], sbarazzarsi delle abitudini e delle idee nefaste acquisite nella vecchia società, evitare di farsi sviare dai reazionari, e continuare ad avanzare, avanzare verso la società socialista e comunista. In questo caso, il metodo che noi impieghiamo è democratico, è il metodo della persuasione, non quello della costrizione. Quando qualcuno del popolo viola la leg241

Sulle condizioni di vita nei campi della prima grande ondata della riforma attraverso il lavoro, cfr. M. CHEN, Les nuages noirs s’amoncellent, Éditions Zulma, Paris 2003, trad. it., Nubi nere s’addensano. L’autobiografia clandestina di un sopravvissuto alla persecuzione, Marsilio, Venezia 2006. Nella sua autobiografia, da lui affidata alla ricercatrice francese Camille Loivier, Chen Ming spiega le dure condizioni dei cinque Laogai della provincia di Jiangsu (distretto collocato lungo la costa Est) in cui egli fu detenuto nell’arco del periodo di detenzione (1951–1956). 242 J. SPENCE, Mao Zedong, Lipper and Viking Penguin, New York 1999, trad. it., Mao Zedong, Fazi, Roma 2004, p. 75.

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V. I campi per rieducare e punire

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ge, anche egli deve essere punito, imprigionato o persino condannato a morte; ma si tratta di qualche caso isolato, e c’è una differenza di principio dalla dittatura esercitata sui reazionari come classe. Quanto agli elementi della classe reazionaria e agli individui reazionari, se non si ribelleranno, non faranno sabotaggio non creeranno disordini dopo il rovesciamento del loro potere politico, si darà loro terra e lavoro perché possano vivere e, attraverso il lavoro, possano trasformarsi. Se non vorranno lavorare, lo Stato popolare li costringerà a farlo. Un lavoro di propaganda e di educazione sarà intrapreso anche tra di loro e sarà fatto con la stessa cura e nella medesima misura con cui l’abbiamo fatto in passato con gli ufficiali prigionieri. Anche questa, se si vuole, può essere chiamata una «politica di benevolenza», ma è imposta da noi ai membri delle classi nemiche e non può essere messa sullo stesso piano del lavoro di autoeducazione che conduciamo tra le file del popolo rivoluzionario. Tale lavoro di rieducazione degli elementi delle classi reazionarie, può essere compiuto soltanto da uno Stato di dittatura democratica popolare diretto dal Partito comunista.243

Il 15 maggio nel 1951 Mao tenne un discorso alla “Terza Conferenza nazionale sulla sicurezza pubblica”, che aveva come tema centrale quello della gestione dei prigionieri controrivoluzionari. In un passo della risoluzione si delinea compiutamente la politica che il governo avrebbe applicato all’interno dei luoghi di reclusione: Il grande numero di criminali imprigionati in attesa di giudizio costituisce un’importante forza–lavoro; per trasformarli, per risolvere le difficoltà delle prigioni e per non permettere che i controrivoluzionari imprigionati mangino senza far niente, bisogna immediatamente organizzare un sistema di trasformazione attraverso il lavoro.244 243

Mao Zedong, Sulla dittatura democratica popolare. In commemorazione del XXVIII anniversario del Partito Comunista Cinese (30 giugno 1949), in P. DORIGO (a cura di), Opere di Mao Tse–Tung, vol. 11, pp. 129–130, http://www.paolodorigo.it/MaoTseTung/11.pdf. 244 Risoluzione della Terza Conferenza Nazionale sulla Pubblica Sicurezza, 15 maggio 1951, in ivi, p. 229.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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La presa del potere dei comunisti consente di ufficializzare e perfezionare risolutivamente il sistema rieducativo, applicandolo definitivamente su scala nazionale dal 1954 con il cosiddetto “Regolamento per la riforma attraverso il lavoro” (Zhonghua renmin gongheguo laodong gaizao tiaoli), approvato dal Consiglio degli Affari di Stato il 26 agosto e promulgato il successivo 7 settembre. Tra gli articoli più rilevanti vi è il numero due, che stabilisce: Le strutture della Repubblica Popolare Cinese per la Riforma attraverso il lavoro sono uno strumento della dittatura del proletariato, e sono istituzioni volte a punire e riformare tutti i criminali contro–rivoluzionari e gli altri criminali. 245

Contestualmente a questo regolamento, che resta invariato sino al 1990, seguono altre disposizioni che perfezionano e completano il sistema rieducativo cinese246: “Metodi disciplinari provvisori per il rilascio dei criminali in scadenza di pena e per l’implementazione della destinazione professionale obbligatoria” (Laodong gaizao zuifan xingmanshifang ji anzhi jiuye zanxing chuli banfa), approvati dal Consiglio Amministrativo Governativo il 29 agosto 1954 e promulgati il 7 settembre; “Risoluzioni del Ministero sulla rieducazione attraverso il lavoro” (Guowuyuan guanyu laodong jiaoyang wenti de jueding de jueyi), approvate dalla Assemblea Nazionale Popolare e promulgate dal Consiglio degli Affari di Stato il 3 agosto 1957, con relativo emendamento del 29 novembre 1979 (“Regolamenti integrativi per la rieducazione attraverso il lavoro”). 245

Cfr. H.H. WU, Laogai Handbook, The Laogai Research Foundation, Washington 2008, p. 543 (il saggio è disponibile pubblicamente nel sito della LRF all’url: http://www.laogai.org/system/files/u1/handbook2008-all.pdf. 246 H.H. WU, Laogai. The Chinese Gulag, Westview Press, Boulder (Colorado) 1992, trad. it., Laogai. I gulag di Mao Zedong, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli–Roma 2006, p. 15; B. BRUGGER, China, Liberation and Transformation, 1942–1962, vol. 1, Barnes & Noble, Totowa (New Jersey) 1981, pp. 93–96; F.C. TEIWES, Politics and Purges in China. Rectification and the Decline of Party Norms 1950–1965, M. E. SHARPE, New York 1993, pp. 51–58.

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V. I campi per rieducare e punire

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Questi provvedimenti, che restano sostanzialmente invariati nel corso dei decenni e formalmente validi ancora oggi (nonostante le modificazioni introdotte dopo l’avvento di Deng Xiaoping), istituiscono e organizzano di fatto i campi rieducativi di lavoro cinesi per i “banditi politici” (i cosiddetti controrivoluzionari) e i “banditi comuni” (prostitute, giocatori d’azzardo, trafficanti d’oppio). In Occidente, le prime informazioni dettagliate sulla presenza di campi di rieducazione nel Paese arrivano nel 1958, quando la Commission internationale contre le régime concentrationnaire (CICRC), pubblica a Parigi un “Libro Bianco” sul lavoro forzato e le istituzioni concentrazionarie nella Repubblica popolare cinese nel biennio 1956–58, elencando 292 campi funzionanti dagli inizi degli anni Cinquanta del Novecento247. Le prime notizie dirette sul sistema concentrazionario cinese, invece, giungono all’opinione pubblica internazionale attraverso dettagliati resoconti stilati dai prigionieri stranieri liberati grazie all’azione politica e diplomatica dei loro governi (tra questi, la testimonianza del gesuita belga Dries Van Coillie, arrestato con l’accusa di essere una spia dell’Occidente)248 e i giornalisti che hanno viaggiato in Cina249. La Cina ha una varietà di tipologie e campi di riforma (Laogai shengchan) che rappresentano una vera e propria opera di 247

Cfr. Commission Internationale contre le regime concentrationaire, White book on forced labour in the People’s Republic of China, vol. I (The hearings), vol II (The record), Centre Internationale d’Edition et de Documentation, Paris 1955–1958. 248 Egli è vittima delle purghe degli anni Cinquanta contro i cristiani. Arrestato è rinchiuso in un campo per trentaquattro mesi. La sua testimonianza è pubblicata nel 1960: Der begeisterte Selbstmord. Im Gefängnis unter Mao Tse–tung, Auer, Donauwörth (in italiano Il suicida entusiasta. Nelle prigioni di Mao Tse–tung, Edizioni Mediterranee, Roma 1962). 249 Nel 1961, il giornalista statunitense Edgar Snow documenta con un amplissimo reportage, frutto di un viaggio compiuto in Cina l’anno precedente, l’esistenza di questo “buco nero” nella via cinese al socialismo. Cfr. E. SNOW, The Other Side of the River. Red China today, Random House, New York 1961, trad. it., L’altra riva del fiume. La Cina oggi, Einaudi, Torino 1966.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

ingegneria concentrazionaria250: centri di detenzione, campi o penitenziari correzionali di lavoro, prigioni (tra cui qualche istituto speciale per i dirigenti decaduti), centri di rieducazione mediante lavoro, riformatori, centri di destinazione professionale obbligatoria. In questi luoghi è rinchiuso chi ha commesso reati politici e di opinione, chi professa credi religiosi (in primis i cristiani fedeli alla Chiesa di Roma e i riformati)251, gli appartenenti a gruppi etnici che reclamano l’autonomia politica (i cosiddetti “cinesi–fantasma”, ossia chi è sfuggito alla politica del “figlio unico” e che, quindi, non ha una identità anagrafica), criminali comuni. La struttura dei campi ha fondamentalmente una configurazione militare, controllata a livello nazionale dal Ministero di pubblica sicurezza (Gong’anbu) e dal Ministero di giustizia (Sifabu), amministrata e definita a livello regionale e provinciale attraverso l’Ufficio Laogai (Laogaiju). In generale, l’organizzazione dei campi si suddivide in divisioni (shi) che raggruppano un numero variabile di reggimenti (tuan), a sua volta suddivisi in distaccamenti (zhidui), brigate (dadui), squadroni (zhongdui), gruppi (dui), distretti (qudui), squadre (fendui), team (xiaodui), trio (sanrenxing). Ogni singolo campo è generalmente controllato dal comandante (changzhang), dal commissario (zhengwei) e dal capitano (zhiduizhang). All’interno dei campi le unità sono dirette dai cosiddetti “guardiani” (duizhang), personale non detenuto, mentre a vigi-

250

Cfr. H.H. WU, Laogai Handbook, cit., pp. 15–19; J.–L. DOMENACH, Chine: l’archipel oublié, Fayard, Paris 1992, pp.139–226. Jean–Luc Domenach rivela che negli anni Novanta del Novecento i campi sono ubicati soprattutto nelle aree remote della Manciuria settentrionale, della Mongolia Interna, del Xinjiang e del Qinghai, la “provincia penitenziaria” per eccellenza. 251 Sin dal 1957, il governo cinese organizzò l’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi (Zhōngguó Tiānzhǔjiào Àiguó Huìè), una sorta di “Chiesa nazionale cattolica”, ligia alle direttive governative ed esente da influssi esterni. Lo stesso si fece anche per la Chiesa cristiana riformata. Sull’argomento rimando al mio La Cina a due anime: i cristiani di Mao e quelli del Papa, in «Storia in Network», n. 92, giugno 2004, http://www.storiain.net/arret/num92/ artic3.asp.

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V. I campi per rieducare e punire

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lare sugli squadroni e a segnalare le infrazioni sono gli internati più meritevoli (i cosiddetti xiaoduizhang, capisquadra)252. L’anticamera dell’arcipelago penitenziario è costituita dai “Centri di detenzione e custodia” (kanshou suo, juliu suo, shourong suo), luoghi in cui gli imputati subiscono l’istruttoria, che ha lo scopo di ottenere il Jiaodai zuixing, ovvero la confessione, e il Pipan rishi, ossia il riconoscimento dei propri errori253. Questi centri includono anche individui che sono stati formalmente condannati a morte in attesa di esecuzione e cinesi rimpatriati. Ottenuta la confessione e poi il riconoscimento dei propri errori, il controrivoluzionario deve accettare la sottomissione all’autorità (Fuguan fujiao) e subire la sua rieducazione attraverso il lavoro forzato e le lezioni di indottrinamento. I più terribili campi o penitenziari correzionali di lavoro sono i Laogai. Il termine è la forma abbreviata di Laodong gaizao dui che si traduce con “Lavoro Correzionale Penitenziario”. In queste strutture sono rinchiusi e costretti al lavoro forzato non retribuito e alla rieducazione, coloro che sono considerati pericolosi controrivoluzionari per la loro attività, presunta o reale, di opposizione al regime (dal 1997 definiti dal codice penale cinese “minaccia alla sicurezza dello Stato”). I Laogai sono le strutture dove le condizioni di detenzione sono più dure, rispetto alle altre forme di reclusione correzionale. Le cosiddette Prisons reform (Jianyu gailiang), svolgono la stessa funzione del Laogai per le stesse tipologie di detenuti, ma sono strutture che generalmente si trovano nelle grandi città. I “Centri di rieducazione attraverso il lavoro” (Laodong jiaoyang suo o abbreviato Laojiao) sono strutture che accolgono detenuti colpevoli di reati minori e sanzionati, anche da parte di un semplice funzionario dell’Ufficio per la Pubblica Sicurezza, con una “correzione amministrativa” fino a tre anni, quindi pu252

Cfr. J.D. SEYMOUR, R. ANDERSON, New Ghosts, Old Ghosts. Prisons and Labor Reform Camps in China, M.E. Sharpe, Armonk (New York) 1998, pp.58–65. Philip Williams e Yenna Wu descrivono la struttura dei campi creati nel 1949 nel Nordest del Paese, cfr. il loro The Great Wall of Confinement, cit., pp. 50–51. 253 I metodi dell’istruttoria in P.F. WILLIAMS, Y. WU, ivi, pp. 67–72.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

niti senza processo e senza che sia stata contestata loro alcuna accusa formale. I primi Laojiao risalgono agli inizi degli anni Cinquanta, ma sono ufficializzati solo nel 1957, con le “Risoluzioni del Ministero sul problema della rieducazione attraverso il lavoro”. In questo documento sono stabilite le categorie che devono essere sottoposte al Laojiao: coloro che non hanno un lavoro onesto; chi ha commesso reati minori; coloro che all’interno di organizzazioni si rifiutano di lavorare o infrangono la legge; coloro che rifiutano l’assegnazione dei posti di lavoro. Pur sottoposti alle procedure di “riforma del pensiero”, i detenuti soggetti al Laojiao conservano i diritti civili e ricevono un salario pari a circa il 30–40% di un normale lavoratore cinese (con il quale, però, debbono provvedere al vitto e al vestiario) e godono in generale di un trattamento migliore dei prigionieri del Laogai (minori controlli, un minimo di assistenza sanitaria, facoltà di scambiare corrispondenza e ricevere visite, possibilità di ottenere permessi premio). I “Riformatori” (Shaoguan suo) sono istituti di rieducazione attraverso il lavoro per adolescenti che si sono macchiati di reati politici e di crimini comuni. In queste strutture i reclusi sono costretti a lavorare come gli adulti, ma l’attenzione maggiore è data alla riforma del pensiero, piuttosto che ai lavori forzati. Dal 1983 il limite dei sedici anni è abbassato a quattordici, mentre nel 1993 il Dipartimento di Pubblica Sicurezza ha stabilito che, quando necessario, anche giovani minori di quattordici anni possono essere presi in custodia254. La “Destinazione professionale obbligatoria per i criminali in scadenza di pena” (Xingmanshifang qiangzhixing liuchang jiuye, o brevemente Jiuye) è un’altra forma di detenzione amministrativa. Questo modello di internamento è formalizzato il 29 agosto 1954 dal Consiglio amministrativo governativo con il documento “Metodi disciplinari per il rilascio dei criminali in scadenza di pena e per l’implementazione della destinazione professionale obbligatoria” (Laodong gaizao zuifan xingmanshifang ji anzhi jiuye zanxing chuli banfa). Il Jiuye consente 254

H.H. WU, Laogai Handbook, cit., p. 22.

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V. I campi per rieducare e punire

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agli ufficiali del campo di trattenere i detenuti oltre i termini della loro condanna, se li giudicano non pienamente ravveduti. In sostanza mira a prolungare in maniera indefinita la permanenza dei

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controrivoluzionari che non mostrano evidenti segni di pentimento, di quelli che hanno violato sistematicamente il regime di riforma, di chi ha tentato la fuga o di quelli che costantemente si oppongono al lavoro o sono poco produttivi e non si correggono nonostante le ripetute ammonizioni.255

I cinesi sottoposti a questa riforma, ricevono uno stipendio pari al 60–70% di quanto percepirebbero nella società esterna. La loro giornata lavorativa è di otto ore per sei giorni alla settimana e sono obbligati alle sedute di indottrinamento. I lavoratori coatti del Jiuye, possono usufruire di limitati permessi retribuiti per visitare la famiglia, la quale può anche scegliere di trasferirsi a vivere a proprie spese presso l’unità di produzione del congiunto. Nel 1981, all’ottavo “Congresso Nazionale sulla Riforma attraverso il Lavoro”, questa procedura amministrativa è giustificata come una misura obbligatoria pensata per fornire assistenza nella ricerca di un impiego, assolvendo al contempo la funzione di continuare il processo di riforma. Il suo scopo è di prevenire la reiterazione del reato da parte di coloro che hanno scontato la pena, nell’interesse del bene pubblico.256

In definitiva «il Laogai rappresenta l’asse portante del sistema, il Laojiao è per lo più considerato una misura supplementare, mentre il Jiuye non è che una semplice derivazione»257. “Decisione sul trattamento dei criminali fuggitivi e recidivi” adottata dalla XIX sessione del 5° Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo il 10 giugno 1981. Cit. in ivi, pp. 18. 256 H.H. WU, Laogai, cit., p. 115. Cfr., anche J.D. SEYMOUR, R. ANDERSON, New Ghosts, Old Ghosts, cit., pp. 190–198. 257 Ivi, p. 65. 255

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Il sistema del Laogaidui non concentra in sé tutto l’orrore della repressione esercitata dal regime contro gli “elementi controrivoluzionari”, esecuzioni pubbliche e nuove forme di repressione contribuiscono a far splendere il sole del socialismo in Cina. Tra quest’ultime ci sono l’ankang e le black jails. L’Ankang, la cui traduzione letterale significa “pace e salute”, è una forma di detenzione psichiatrica militare rivolta, ad esempio, a chi presenta petizioni alla pubblica amministrazione, anche locale. In questi istituti di igiene mentale, il regime “cura” con l’elettroshock i dissidenti politici socialmente pericolosi, insomma i “pazzi” che chiedono democrazia258. Le Black jails sono invece luoghi di detenzione segreta, al di fuori delle istituzioni governative, gestiti da agenti di polizia inviati nella capitale dai governi delle province per tenere sotto controllo quei cittadini che, insoddisfatti del sistema giuridico locale, intendano rivolgersi al governo centrale per avere giustizia259. Il metodo del Laogai shengchan non è considerato dal governo cinese un sistema carcerario di tipo punitivo, ma un’istituzione con il compito preciso di riabilitare i cosiddetti “controrivoluzionari” (o, come già riferito, secondo una definizione più recente, coloro che “minacciano la sicurezza dello Stato”), attraverso l’educazione al lavoro e la rieducazione al pensiero socialista. Riferisce l’ex deportato Jean Pasqualini, nome francese di Bao Ruowang, che trascorse sette anni nelle prigioni e nei campi di lavoro cinesi con l’accusa di aver svolto attività controrivoluzionarie260: 258

Cfr. Human Rights Watch and Geneva Initiative on Psychiatry, Dangerous Minds. Political Psychiatry in China Today and its Origins in the Mao Era, New York and Hilversum 2002, pp. 117–128. 259 Cfr. AA. VV., China “An alleyway in hell”. China’s abusive “black jails”, Human Rights Watch, n. 12, New York, novembre 2009. 260 L’accusa fu costruita poiché Ruowang, grazie alla sua specializzazione nel settore delle macchine utensili, aveva lavorato a contatto con gli statunitensi. Giacché aveva nazionalità francese (suo padre era originario della Corsica), fu rilasciato nel 1964, in occasione del riconoscimento diplomatico della Repubblica popolare cinese da parte del presidente De Gaulle, ed espulso dal Paese.

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V. I campi per rieducare e punire

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Lo scopo non è tanto indurre i prigionieri a confessare crimini inesistenti quanto fare ammettere loro che la vita quotidiana che conducevano era corrotta, colpevole e passibile di castigo in quanto non corrispondente alla concezione comunista.261

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Ovviamente il concetto di “controrivoluzionario” è così vago, che ogni posizione appena divergente dalla linea del Partito può comportare una condanna (ad esempio, si può essere condannati alla riforma per reati come “protesta non autorizzata”, “disturbatori dell’ordine”, “vandalismo”, “incapacità a provvedere alla propria sussistenza” e così via). L’efficacia della rieducazione deriva dalla combinazione sinergica di due potenti mezzi di pressione psicologica: una radicale infantilizzazione, per il quale il Partito e l’amministrazione divengono il padre e la madre e il detenuto impara da capo a parlare, a camminare (a testa bassa, correndo, con la voce guida della guardia che lo guida), a controllare l’appetito e igiene ecc, in rapporto di dipendenza assoluta; e la fusione nel gruppo, il quale diventa responsabile di ogni gesto, di ogni parola, famiglia di rimpiazzo nel momento in cui i contatti con la vera famiglia sono resi quasi impossibili: si spingono le mogli dei detenuti a divorziare e i figli a rinnegare il padre.262

La fame, le torture e le percosse, come il duro lavoro coatto, sono utili sussidi del regime per persuadere il “sabotatore dello Stato” alla riforma del suo pensiero. Il sistema del Laogai shengchan ha dunque il doppio obiettivo di perpetuare la macchina dell’intimidazione e del terrore e di fornire al regime un’inesauribile forza lavoro quasi a costo zero: «i cinesi hanno raggiunto un obiettivo che anche Stalin non poteva fare: trasformare il lavoro forzato in un affare.

261

J. PASQUALINI, R. CHELMINSKI, Prisonnier de Mao: sept ans dans un camp de travail en Chine, Gallimard, Paris 1974, p. 41. 262 J.–L. M ARGOLIN, Cina: Una lunga marcia nella notte, in S. Courtois (a cura di), Il libro nero del comunismo, cit., p. 475.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

La Cina è probabilmente l’unico paese al mondo a beneficiare dei suoi prigionieri»263. Infatti, mentre ai tempi di Mao la produzione realizzata attraverso il sistema del Laogai shengchan riguardava prodotti di facile esecuzione destinati soprattutto al mercato interno, oggi, vi si produce di tutto (pneumatici, materiale edile, tessuti, cemento e calcestruzzo, cosmetici, vetro, componenti elettrici ed elettronici, plastica, ceramica, acciaio, giocattoli, alimentari) e le merci così prodotte sono esportate in tutto il mondo. A partire dagli anni Ottanta del Novecento, campi di lavoro coatto cinesi sono trasformati in aziende di successo, assumendo anche nomi commerciali tranquillizzanti 264, trasformando di fatto il socialismo cinese in “comunismo–mercato”.

5.18. La rieducazione politica in Unione Sovietica Il sistema dei campi è stato anche una delle esperienze fondanti del regime sovietico, il luogo in cui l’utopia socialista dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ha potuto alimentarsi e durare a lungo, precipitando però nell’orrore assoluto. Nella storia dell’URSS, infatti, i campi, assieme alle deportazioni in massa nelle regioni sperdute, le purghe e le fucilazioni sommarie, si inseriscono all’interno del terrore di Stato praticato dal regime. Fra questi quattro strumenti di “controllo”, il Gulag fu sicuramente il più incisivo per numero di individui coinvolti, estensione, complessità, influenza sull’intera società civile. A tal punto che la realtà esterna ai campi (definiti malen’kaja zona, “piccola zona”) è stata indicata con l’espres263

J. PASQUALINI, R. CHELMINSKI, Prisonnier de Mao, cit. p. 12. Ad esempio la prigione n.1 di Pechino si presenta sul mercato internazionale come “Qinghe Magliera Fine” e produce calze di nylon e di cotone per l’estero; la prigione di Chengde è conosciuta come “Calzature in gomma Chengde” ed esporta scarpe per ogni tipo di sport. Un elenco completo dei “campi–industria” nel dossier Made in China=Made in prison. Il segreto della competitività cinese, Laogai Research Foundation Italia, pp. 36-66. 264

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V. I campi per rieducare e punire

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sione di bol’šaja zona (“grande zona”), come se il sistema concentrazionario fosse l’essenza stessa della vita dell’intero paese.265

La parola “Gulag” è l’acronimo di Glavnoe Upravlenie LAGerej, Direzione centrale dei Campi. Nel corso del tempo il termine è passato a indicare non soltanto la direzione generale dei campi di internamento e concentramento, ma anche l’intero sistema sovietico di reclusione politica e di lavoro forzato, in tutte le sue forme e varianti: insediamenti speciali per controrivoluzionari, colonie di rieducazione attraverso il lavoro, campi e carceri speciali per criminali comuni, campi per il trattamento medico forzato mediante imprigionamento psichiatrico, campi femminili, campi per bambini, campi–filtro di verifica, campi di transito, luoghi di internamento per scienziati, luoghi di esilio. La deportazione (ssylka) e l’esilio (vysylka) delle persone indesiderabili, assieme alla pratica dei lavori forzati (katorga) per i condannati, è una vecchia usanza zarista266. L’idea di utilizzare il lavoro forzato è attribuita a Pietro I, zar e imperatore di Russia dal 1682 al 1725, su proposta di Andrei Vinius, mercante russo con genitori di origini olandesi 267. L’esilio, invece, è già

265

Cfr. E. DUNDOVICH, F. GORI, E. GUERCETTI, Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli, Milano 2004, p. 11 (orig. Reflections on the Gulag. With a Documentary Appendix on the Italian Victims of Repression in the USSR, Annali. Anno Trentasettesimo, Feltrinelli, Milano, aprile 2003). 266 Sulle prigioni zariste, sui campi di lavoro e sul regime penale dell’impero russo, cfr. F.D. LIECHTENHAN, Le laboratoire du goulag 1918–1939, Desclee De Brouwer, Paris 2004, trad. it., Il laboratorio del Gulag. Le origini del sistema concentrazionario sovietico, Lindau, Torino 2009, pp. 21–24; M. JAKOBSON, Origins of the Gulag. The Soviet Prison Camp System 1917–1934, The University Press of Kentucky, Lexington (Kentucky), 1993, pp. 10–17. 267 Vilnius, che era stato inviato in missioni diplomatiche in vari Paesi, propose tale politica nel 1688 a imitazione diretta della pratica occidentale, ma l’introduzione di questa misura fu rinviata fino al 24 novembre 1699. Cit in S.G. WHEATCROFT, The Crisis of the Late Tsarist Penal System, in S.G. WHEATCROFT (ed), Challenging Traditional Views of Russian History, Palgrave, Hampshire and New York 2002 (orig. 1988), p. 29. Sul sistema carcerario zarista, sino al periodo prerivoluzionario, cfr. ivi, pp. 29–50.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

contemplato nel codice penale del 1649 per servi fuggiaschi, ribelli, ladri, dissidenti religiosi, falsari, mendicanti268. Lo zar Pietro I inaugura nel 1708 la stagione delle deportazioni politiche e la campagna di popolamento forzato della Siberia, con la relegazione in massa di tutti i cittadini delle città estoni di Tartu e Narva. Egli riserva il “privilegio” dell’esilio nelle zone sperdute e inospitali dell’Estremo Oriente e dell’Estremo Nord della Russia, specie in Siberia, a tutti gli elementi della società considerati progressisti: studenti, rivoluzionari e scrittori. Lo zar si serve anche del lavoro forzato di detenuti per costruire fortezze, strade, fabbriche, navi e per edificare la nuova San Pietroburgo 269. Nel 1722 promulga un’ordinanza più specifica, intimando l’esilio dei criminali e delle loro famiglie nei pressi delle miniere d’argento di Daurja, nella Siberia orientale. Queste misure straordinarie non sono imposte soltanto come metodo di punizione: Il governo voleva anche che gli esiliati, criminali e politici, risolvessero un problema economico irrisolto da molti secoli: nelle zone dell’estremo oriente e dell’estremo nord del territorio russo la densità della popolazione era bassissima, quindi l’impero non poteva sfruttarne le risorse naturali. 270

Se la condanna alla katorga è una soluzione applicata limitatamente271, la ssylka e la vysylka sono invece l’espediente più ri268

Cfr. W.B. LINCOLN, The Conquest of a Continent: Siberia and the Russians, (or. 1994), Cornell University Press, Ithaca (New York) 2007, p. 164. 269 La città fu concepita fin dall’inizio come grande porto commerciale e importante base navale, poiché fu fondata sul delta della Neva, dove il fiume sfocia nella baia omonima, parte del golfo di Finlandia. La città divenne anche capitale della Russia. 270 A. APPLEBAUM , Gulag: A History of the Soviet Camps, Doubleday, New York 2003, trad. it., Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici, Mondadori, Milano, 2004, p. 19. 271 Alla vigilia della rivoluzione erano soltanto 28.600 i reclusi. Cfr. M.P. ROTH, Prisons and Prison Systems. A Global Encyclopedia, Greenwood Press, Westport (Connecticut) 2006, p. 122; A. APPLEBAUM, ivi, p. 20.

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V. I campi per rieducare e punire

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levante del regime dal punto di vista politico–economico272: entrambi infatti consentono di allontanare gli “indesiderabili” e, nello stesso tempo, di popolare ai fini di sfruttamento le zone desolate e deserte della Russia: «Solo tra il 1824 e il 1889 vennero inviati in Siberia circa 720.000 condannati al confino» 273. I campi di lavoro e di esilio più famigerati sono quelli localizzati presso le lontane isole di Sakhalin274, nel Pacifico del Nord, e Solovetskij275, nell’Oceano Artico. Le dure condizioni del lavoro, le insopportabili condizioni atmosferiche e la rigida disciplina interna rendono questi campi una vera e propria «condanna a morte senza un titolo esecutivo»276. Se la ssylka, la vysylka e la katorga furono un “privilegio” riservato ai soli elementi progressisti della Russia zarista (intellettuali, studenti e rivoluzionari) e ai rivoluzionari separatisi polacchi, il potere sovietico destina ai Gulag anche intere classi sociali, kulaki in primis277, poi anche ebrei, ceceni, ucraini, baltici, moldavi, bessarabi, tatari, ingusci, tedeschi, ma anche ex

272

Entrambe sono state abrogate definitivamente solo nel 1993, con le modifiche ai Codice penale e ai codici di procedura penale e del lavoro. 273 A. APPLEBAUM , ivi, p. 20. 274 Nel 1891 Anton Cechov, lo scrittore e drammaturgo russo, ha visitato gli insediamenti forzati a Sakhalin, redigendo un reportage poi pubblicato a puntate dal 1893 sulla rivista Russkaja Mysl’ (Il pensiero russo). La cronaca del viaggio nei bagni penali zaristi è poi divenuta un libro: L’isola di Sakhalin. Il mondo della katorga è descritto anche da Fëdor Michajlovič Dostoevskij nelle Memorie dalla casa dei morti (1860–61), dopo aver scontato una condanna ai lavori forzati dal 1850 al 1854 nella fortezza di Omsk in Siberia. 275 Le isole Soloveckie, note anche con il nome di Solovki o Solovetskij, avevano un grandioso monastero che fu riconvertito come Solovkij Lager’ Osobogo Naznachenia, vale a dire “Campo per scopi speciali”. Cfr. J. BRODSKIJ, Solovki. Le isole del martirio. Da monastero a lager sovietico, La casa di Matriona, Milano 1998. 276 M.P. ROTH, Prisons and Prison Systems, cit., pp. 121–122. 277 Il termine “kulak”, pugno, in origine designava una persona che prestava denaro a usura con garanzie ipotecarie, poi passò a indicare i contadini indipendenti della Russia che possedevano grandi appezzamenti di terreno ed utilizzavano manovali o schiavi, successivamente il termine fu utilizzato spregiativamente dai bolscevichi per indicare i contadini agiati.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

nobili, funzionari dell’ex apparato governativo e tutti i presunti nemici del socialismo reale. Nel cammino verso la socialistizzazione del Paese, la definizione di “nemico” è stata ancor più ambigua, e il potere politico è divenuto de facto il depositario assoluto della vita di milioni di persone. Attraverso la biopolitica si volle costruire l’homo sovieticus: «Il terrore di massa contro oppositori reali o presunti fu un fattore determinante della rivoluzione fin dall’inizio»278. Già il 26 giugno 1918, Lev Davidovič Bronštejn (Trotsky) propone al Consiglio dei commissari del popolo di introdurre «un regime di coercizione per “elementi parassitari” e di prendere provvedimenti in modo che i lavori più ingrati fossero eseguiti dalla borghesia»279. Trotzki propone ancora il regime concentrazionario per tutti gli ex ufficiali che si rifiutano di entrare nell’Armata Rossa. Per assicurarsi la fedeltà di quegli ex ufficiali che si arruolano nell’Armata Rossa, il rivoluzionario russo sostiene anche la necessità di rinchiudere nei campi di concentramento come ostaggi le mogli e i figli. Nell’estate del 1918, il 9 agosto, «in risposta a una rivolta di contadini nel distretto di Penza»280, Lenin ordina di «mettere in atto uno spietato terrore di massa contro kulaki, popi e guardie bianche, e rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori della città»281. Il 5 settembre la VČK (Vserossijskaja Črezvyčajnaja Komissija po bor’be Kontrrevolijciej i sabotažem, ossia Commissione straordinaria panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio) promulga una risoluzione in cui si proclama la necessità di creare campi di concentramento per isolare i nemici di classe, obbligandoli ai lavori forzati282. Il giorno dopo, la rivista Krasnaja Gazeta (Giornale rosso) di Pie278

A. APPLEBAUM, Gulag, cit., pp. 3–4. A.J. KAMIŃSKI, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 77. 280 G.M. IVANOVA, Gulag v sisteme totalitarnogo gosudarstva, Moskva 1997, p. 19, così cit. da N. PETROV, Il Gulag come strumento della politica repressiva in Unione Sovietica. 1917–1939, in E. DUNDOVICH, F. GORI, E. GUERCETTI (a cura di), Gulag. Storia e memoria, cit., p. 34. 281 Ibidem. 282 Dekrety sovetskoj vlasti, vol. III, pp. 291–292, in ivi, p. 34. 279

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V. I campi per rieducare e punire

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trogrado, riferisce «che il primo campo di concentramento sarebbe stato allestito nel monastero di suore abbandonato di Nižnij Novgorod, con l’invio di cinquemila persone»283. Nel 1921 la Rivoluzione russa impianta in quarantatré province, ben ottantaquattro campi di prigionia, per la maggior parte destinati a “riabilitare” attraverso il lavoro i primi “nemici della rivoluzione”284. All’apogeo dello stalinismo 285, quando anche i comportamenti sociali sono scrupolosamente regolati dal Codice penale, ogni cittadino sovietico costituisce un potenziale ospite dell’universo concentrazionario. L’articolo 58 del Codice penale approvato il 25 febbraio 1927 dal Comitato Esecutivo Centrale, diviene di fatto la copertura giuridica che consente la deportazione giudiziaria nei campi di concentramento di enormi quantità di cittadini sovietici. Nei suoi quattordici commi, l’articolo 58 contempla i cosiddetti reati contro lo Stato: attività contro la “rivoluzione proletaria”, cospirazione, tradimento, sabotaggio, propaganda controrivoluzionaria, agitazione, aiuto alla borghesia internazionale che non riconosce gli uguali diritti di un sistema comunista, danneggiamento di proprietà pubbliche, omessa denuncia di attività controrivoluzionaria da parte di un civile286. Con l’ordine operativo n. 00486 del 15 agosto 1937, “Sull’operazione di repressione della moglie e dei figli dei traditori della patria”, è deciso anche l’arresto delle donne che si

283

A.J. KAMIŃSKI, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, cit., p. 78. A. APPLEBAUM, Gulag, cit., pp.3–4. 285 Sul terrore staliniano cfr. O. CHLEVNJUK , Gulag v sisteme totalitarnogo gosudarstva, Monf, Moskva, 1997, trad. it., Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, Einaudi, Torino 2006. Il lavoro di Chlevnjuk è interamente basato su documenti che spiegano il decennio peggiore dello stalinismo, tra il 1930 e il 1941, attraverso i documenti che quotidianamente erano protocollati e conservati dai funzionari stalinisti come un comune atto amministrativo. Dello stesso studioso anche, in traduzione italiana, Stalin e la società sovietica negli anni del grande terrore, Guerra, Perugia, 1997. 286 L’articolo 58 con i suoi quattordici commi in E. DUNDOVICH, F. GORI, E. GUERCETTI (a cura di), Gulag. Storia e memoria, cit., pp. 27–30. 284

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

trovano “giuridicamente o fattualmente legate in matrimonio con il condannato al momento dell’arresto” e i loro figli287. Così come è passato alla storia, il sistema concentrazionario e di reclusione sovietico è istituito ufficialmente a partire dal 1930 con l’acronimo ULag (Upravlenie Lagerej – Direzione dei campi di lavoro correzionale), con l’ordinanza 130/63 dell’OGPU (Ob’edinënnoe gosudarstvennoe političeskoe upravlenie, Direzione Comune Politica di Stato o anche Ufficio Politico di Stato di tutta l’Unione), ai sensi di una prescrizione, la n. 22 del 7 aprile 1930, del Sovnarkom (Consiglio dei commissari del popolo). Nel novembre dello stesso anno diviene GULag (Glavnoe Upravlenie Lagerej, Direzione centrale dei campi)288. Nel corso degli anni, i luoghi di concentramento e reclusione per i “nemici del popolo” sono subordinati a svariati organi amministrativi: all’iniziale Commissione Straordinaria Panrussa (Vserossijskaja Črezvyčajnaja Komissija), poi divenuta Direzione Politica Centrale (Glavnoe Političeskoe Upravlenie), si succedono il Commissariato del Popolo agli Affari Interni (Narkomat Vnutrennich del) e il Commissariato del Popolo alla Giustizia (Narkomat Justicii). Nel febbraio 1941 è attuata una parcellizzazione ben definita, secondo le diverse forme e funzioni dei campi e dei luoghi di reclusione. All’interno dell’NKVD, sono così affiancati alla Direzione centrale dei Lager (GULag), la Direzione centrale delle colonie di rieducazione attraverso il lavoro (Glavnoe upravlenie ispravitel’no–trudovych kolonij); la Direzione centrale degli istituti di rieducazione attraverso il lavoro (Glavnye upravlenija ispravitel’no–trudovych učreždenij); la Direzione degli istituti di rieQuesto provvedimento penale sottrasse alla condanna solo le donne “che avessero contribuito a smascherare i loro mariti, fornendo informazioni e collaborando al loro arresto”. Per quanto riguarda i figli, il loro arresto era in relazione al “grado di pericolosità sociale” del padre. L’ordinanza in ivi, pp. 27– 32; anche in E. MAGNANINI, I figli del Gulag. Lettere e memorie di ragazzi vittime delle repressioni in Unione Sovietica, in «DEP Deportate, Esuli, Profughe», Università Ca’ Foscari Venezia, nr. 4, 2006, pp. 102–108. 288 Cfr. M. J AKOBSON, Origins of the Gulag, cit., pp. 91–102. 287

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V. I campi per rieducare e punire

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ducazione attraverso il lavoro (Upravlenija ispravitel’no– trudovych učreždenij); la Direzione centrale dei luoghi di reclusione (Glavnoe upravlenie mest zaključenija); la Direzione centrale dei lavori coercitivi (Glavnoe upravlenie prinuditel’nych rabot); la Direzione centrale dei Lager per le costruzioni ferroviarie (Glavnoe upravlenie lagerej železnodorožnogo stroitel’stva); la Direzione centrale dei Lager per la costruzione di impianti idraulici (Glavnoe upravlenie lagerej gidrotechničeskogo stroitel’stva); la Direzione centrale dei Lager per le costruzioni industriali (Glavnoe upravlenie lagerej promyšlennogo stroitel’stva); la Direzione centrale per la costruzione di strade (Glavnoe upravlenie šossejno–dorožnogo stroitel’stva); la Direzione centrale dei cantieri dell’Estremo Nord (Glavnoe upravlenie stroitel’stva po Dal’nemu Severu); la Direzione centrale dei Lager per l’industria mineraria e metallurgica (Glavnoe upravlenie lagerej gorno–metallurgičeskoj promyšlennosti); la Direzione dei Lager per l’industria forestale (Upravlenie lagerej lesnoj promyšlennosti); la Direzione della industria dei combustibili (Upravlenie toplivoj promyšlennosti)289. In aggiunta ai campi di rieducazione attraverso il lavoro (Ispravitel’no–trudovye lagerja), alle colonie di lavoro correzionale (Ispravitel’no–trudovye kolonii), agli “isolatori politici” (carceri destinate agli avversari politici — Politizoljatory), ai lager speciali (per i soli colpevoli di delitti controrivoluzionari — Osobye lagerja) e agli insediamenti speciali per coloni con lavoro obbligatorio (Specposëlki), esistono altre particolari strutture in cui il regime sovietico esercita tutto il suo biopotere. Un tipo singolare di luogo di internamento sono i Centri di verifica e filtraggio (Proverocˇno–fil’tracionnye lagerja), per gli ex prigionieri di guerra sovietici, gli emigranti rimpatriati e gli abitanti dei territori occupati. Benché queste persone non sono mai state formalmente condannate, vivono sotto custodia per verificare la loro lealtà politica e sono costretti a pesanti lavori, 289

La lista delle direzioni dei campi sovietici dal 1923 al 1960 in T. KIZNY, Goulag, Balland/Acropole, Paris 2003, trad. it., Gulag, Bruno Mondadori, Milano, 2004, pp. 32–33.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

seppur in condizioni meno drammatiche rispetto ai Gulag 290. Dopo mesi di verifica o si è liberati o si è inviati nei Gulag. Questi centri sono chiusi nel 1947. Tra gli altri luoghi di internamento speciali ci sono le cosiddette Šaraški (al singolare Šaraška), denominazione gergale degli Istituti speciali di ricerca (Osoboe konstruktorskoe bjuro), laboratori di ricerca dove scienziati, ricercatori, ingegneri e studiosi in genere, tutti condannati per qualche reato contro l’edificazione del socialismo, sono obbligati a sviluppare nuove tecnologie291. Diversamente dagli altri luoghi di prigionia sovietici, i detenuti delle Šaraški godono di buone condizioni di lavoro e di reclusione. Per le condizioni di vita più “leggere” rispetto agli altri luoghi di pena, la Šaraška è stata paragonata da Aleksandr Solženicyn al primo cerchio dei gironi infernali di tutto il sistema di reclusione politica sovietica 292. Se le Šaraški appartengono al primo cerchio dei gironi infernali dell’arcipelago Gulag, i bagni penali per lavori forzati (Katoržnye lagerja, KTR) sono il cuore dell’Inferno. Nati in epoca zarista, sono soppressi nel 1917 e ripristinati durante la Seconda guerra mondiale. Riservati a quelle persone condannate per alto tradimento e sottratte alla pena capitale, i KTR sono campi d’internamento e lavoro forzato con un regime particolarmente duro e con un altissimo tasso di mortalità. Per la qualità dei detenuti, giudicati elementi molto pericolosi per il socialismo, i detenuti di questi campi sono costretti a rispettare rigide regole interne, al lavoro manuale più pesante e a una scarsissima assistenza medica. Rispetto agli altri campi, le gestanti “ospiti” dei bagni penali sono costrette ad abortire293. 290

Cfr. S.A. BARNES, Death and Redemption: The Gulag and the Shaping of Soviet Society, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 2011, pp. 156–157. 291 Cfr. J. ROSSI, Le manuel du goulag, Le Cherche midi, Paris 1997, trad. it., Manuale del gulag. Dizionario storico, L’Ancora, Napoli 2006, pp. 250–251. 292 Nella Šaraška di Marfino (località a nord di Mosca), dove aveva scontato alcuni anni di prigionia, Solženicyn ha ambientato il romanzo Il primo cerchio (V kruge pervom – 1968). 293 Cfr. J. ROSSI, Manuale del gulag, cit, p. 158.

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V. I campi per rieducare e punire

299

Al fine di esaurire psichicamente i dissidenti politici è anche attuato il trattamento medico forzato, la cosiddetta Psichuška, mediante imprigionamento psichiatrico in carceri–ospedali (Psichotjur’ma, Specpsichbol’nica)294. Inizialmente manicomi per la cura di disturbi mentali, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, questi luoghi accolgono, assieme ai veri malati mentali, anche «persone perfettamente sane ma che “pensano in modo diverso”»295. Questa pratica diviene frequente dopo lo smantellamento ufficiale del sistema dei Gulag. La vasta geografia concentrazionaria sovietica si completa con i campi per mogli di traditori della Patria (Osobye lagerja žen izmennikov rodiny), campi femminili (Ženskie lagerja), campi per invalidi (Invalidnye lagerja), zone speciali per bambini (Detskie lagerja), colonie per fanciulli a partire da dodici anni (Detkolonija), kombinat per infanti (Detgorodok, zona del campo riservata alle detenute che allattano e ai loro bambini). Queste ultime categorie sono considerate improduttive e quindi spesso soggette a molti abusi 296. Tutto l’arcipelago concentrazionario sovietico è spazio specifico di morte per inedia e non di sterminio programmato come nei campi nazisti297.

294

Cfr. sull’argomento V. BUKOVSKIJ, Une nouvelle maladie mentale en URSS: l’opposition, Seuil, Paris 1971, trad. it., Una nuova malattia mentale in URSS: l’opposizione, Etas Kompass, Milano 1972. 295 Ivi, p. 62. 296 La geografia concentrazionaria sovietica in M.B. SMIRNOV, S.P. SIGAZEV, D.V. SKAPOV, Il sistema dei luoghi di reclusione in Unione Sovietica, 1929– 1960, in M. FLORES, F. GORI (a cura di), Gulag. Il sistema dei lager in Urss, Mazzotta, Milano, 1999, pp. 57–83. 297 Avraham Shifrin, ricercatore sovietico, ha invece definito 43 luoghi di internamento sovietico come “campi di sterminio”, poiché i prigionieri furono “forzati a lavorare in condizioni pericolose e insane, responsabili di una morte certa”. Lo studioso identifica tre tipi di campi: campi dai quali nessuno uscì vivo (miniere di uranio e impianti di arricchimento); campi di lavoro ad alto rischio per l’industria bellica (impianti nucleari); campi di lavoro pericoloso, responsabili di disabilità e malattie fatali (impianti senza ventilazione). Cfr. A. SHIFRIN, The First Guidebook to Prisons and Concentration Camps of the Soviet Union, Bantam, New York 1982, pp. 30–35.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

La morte è una realtà quotidiana nei Gulag: si muore di freddo, di fame, per spossatezza, in incidenti sul lavoro. Se questo non basta, ci sono i comportamenti inumani dei comandanti dei campi o dei carcerieri: «Nei nostri lager non si aspettavano solo che tu fossi uno schiavo, ma che cantassi e sorridessi mentre lavoravi. Non volevano soltanto opprimerci, volevano che gliene fossimo grati»298. I compiti principali dell’universo concentrazionario sovietico sono stati quelli di “edificare” l’homo socialisticus, isolare il dissenso e sfruttare la mano d’opera degli internati. Non a caso nei campi «l’entrata era spesso sormontata da un arco trionfale che celebrava i benefici del lavoro […] Čerez Trud Domoj (il lavoro porta a casa)» 299. Il primo compito è stato quello di portare il terrore nel corpo sociale, ma così ha allontanato i cittadini dal socialismo; il secondo al lavoro produttivo, ma ha condotto l’URSS al disastro economico. Infatti, l’economia basata sullo sfruttamento del lavoro dei detenuti ha eccezionali margini di spreco, dovuti principalmente alle condizioni di vita e di impiego forzato degli internati: Nella realtà queste condizioni di lavoro si ritorcono contro il loro scopo: la produttività. Le pretese disciplinari per accrescere gli sforzi sul lavoro e la sottoalimentazione per far economia del carburante destinato all’attrezzo animato — per riprendere l’espressione di Aristotele — portano al fallimento in materia di produttività, nonostante per decenni sia stato possibile rimpiazzare la manodopera mancante.300

Al contempo, l’enorme numero di persone abili al lavoro assorbiti dalla gestione del sistema punitivo, assieme all’enorme spreco di “cervelli” nel lavoro forzato, colpirono in profondità

298

Cit. in A. APPLEBAUM, Gulag, cit., p. 265. N. DAVIES, Prefazione a T. KINZY, Goulag, Balland/Edition Acropole, Paris 2003, trad. it., Gulag, Paravia Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 10 (saggio fotografico con testi di N. Davies, J. Semprum, S. Kovalev). 300 J. KOTEK, P. R IGOULOT, Il secolo dei campi. cit., p. 161. 299

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V. I campi per rieducare e punire

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l’economia e la tecnica del Paese indebolendo il suo potenziale produttivo e tecnologico. In generale «l’ingresso nei campi non equivaleva a un viaggio senza ritorno, anche se, per il “dopo”, era prevista un’intera gamma di “pene accessorie”, come il domicilio coatto o l’esilio»301 e, quindi, tutti gli ex deportati erano posti sotto sorveglianza da parte del Ministero degli Affari Interni, insomma erano «più ex internati che uomini liberi»302. Sino a quando l’impero sovietico è esistito, la storia dei campi è stata in prevalenza una storia della memoria dei sopravvissuti303. Il “crollo” dell’URSS e l’apertura dei suoi archivi, ha permesso i primi studi documentati sull’universo concentrazionario sovietico”304. Ufficialmente soppressi dall’ordinanza n. 20 del gennaio 1960 da parte del Ministero degli Interni, i campi non scompaiono del tutto, divenendo la dote simbolica del repertorio dell’oppressione della politica sui cittadini, dell’arbitrio di una politica che si è fatta crudele fino al crollo sovietico. 301

N. WERTH, Uno Stato contro il suo popolo. Violenze, repressioni, terrori nell’Unione Sovietica, in S. COURTOIS (a cura di), Il libro nero del comunismo, cit., p. 192. 302 R. STETTNER, Il GULag. Profilo del sistema dei lager staliniani, in G. CORNI, G. HIRSCHFELD (a cura di), L’umanità offesa. Stermini e memoria nell’Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 192. 303 Il primo libro di testimonianze, Prisoner of Trotsky di Andrej Kalpašnikov (Doubleday & Page) fu pubblicato nel 1920. Nel 1936 ebbe una certa risonanza il libro di Ivan Solonevic Fra i deportati dell’Urss (tradotto in italiano nel 1939 per le edizioni Fratelli Bocca, Torino), tanto che i servizi segreti sovietici assassinarono sua moglie e suo figlio. Nel 1941 fu pubblicata a Berlino Die grosste Sklaverei der Weltgrdchichte di Kajetan Klug. Nel 1947, David J. Dallin e Boris I. Nicolaevsky descrissero la storia dettagliata dei campi in Forced labour in Soviet Russia, Yale University Press, New Haven. Nella seconda metà degli anni Quaranta, grande risonanza ebbe la testimonianza scritta dell’ex diplomatico e defezionista sovietico Viktor Andrijovyc Kravcenko, pubblicata in Italia nel 1948 col titolo Ho scelto la libertà, Longanesi, Milano. 304 Tra questi quello di N.G. OKHOTIN, A.B. ROGINSKII (eds), Sistema ispravitel’no–trudovych lagerej v SSSR, 1923–1960, Dokumenty. Spravočnik, Zven’ja, Moskva 1998; A.I. KOKURIN, N.V. PETROV (eds), GULag (Glavnoe Upravlenie lagerei) 1917–1960, Materik, Moskva 2000.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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5.19. La rieducazione al socialismo jugoslavo Nella logica della Guerra fredda, i piani sovietici prevedevano una totale sudditanza di tutti gli Stati fedeli a Mosca. La Jugoslavia di Josip Broz “Tito”, che non doveva niente all’URSS, poiché era riuscita a liberarsi con le proprie forze dall’occupazione straniera, non intendeva assolutamente rinunciare alla propria autonomia. Le prime avvisaglie del contrasto tra Belgrado e Mosca si ebbero nella primavera del 1945, quando Tito impostò una politica volta a realizzare il progetto di una confederazione balcanica. Nei due anni seguenti la resistenza di Tito a Stalin andò crescendo: il leader jugoslavo, pur dichiarandosi disposto ad accettare il primato sovietico nella lotta “all’imperialismo occidentale” e alla dottrina politico–economica del capitalismo, voleva riservarsi una completa autonomia d’azione sia sul piano politico sia su quello economico. Per questo egli iniziò a sviluppare un socialismo secondo indirizzi che non erano quelli sperimentati da Mosca, rendendo di fatto la Jugoslavia un Paese politicamente indipendente dall’Unione Sovietica305. Il 28 giugno 1948 arrivò inevitabilmente la “scomunica” di Mosca: il Cominform306 estromise la Jugoslavia, accusandola di nazionalismo e deviazionismo rispetto alla dottrina marxista– leninista. Scopo della “scomunica” fu quello di creare sospetti ideologici e divisioni all’interno della Lega dei Comunisti di Jugoslavia (il Partito Comunista Jugoslavo, il KPJ), per rovesciare Tito e i suoi fedelissimi e sostituirli, ovviamente, con uomini più malleabili e inclini a seguire ossequiosamente le direttive di Mosca.

305

Cfr. AA. VV., Mosca–Belgrado, I documenti della controversia 1948– 1958, Schwarz, Milano 1962; L. KARCHMAR, The Tito–Stalin Split in Soviet and Yugoslav Historiography, in S. W. VUCINICH (ed), At the Brink of War and Peace. The Tito–Stalin Split in a Historic Perspective, «Social Science Monographs», New York 1982, pp. 253–271. 306 L’Ufficio d’Informazione dei Partiti Comunisti fu creato nel settembre del 1947 fra i rappresentanti dei partiti comunisti di Unione Sovietica, Iugoslavia, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Francia e Italia.

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V. I campi per rieducare e punire

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L’espulsione della Jugoslavia, pur generando defezioni, rese tuttavia più forte il dittatore jugoslavo e i suoi fedeli collaboratori, tanto che il Congresso del KPJ del luglio dello stesso anno, si concluse con la trionfale rielezione di Tito a segretario generale. Pochi giorni dopo, il 10 agosto, nel discorso alla Prima Divisione Proletaria (la più agguerrita formazione dell’esercito di Tito), il dittatore annunciò la nascita della “via jugoslava al socialismo”, in pratica autogestione in politica interna e non–allineamento in politica estera. Il nuovo corso del comunismo jugoslavo inaugurò anche una fase di terrore, nel quale l’establishment di Belgrado mise in atto il suo controllo dittatoriale per la conservazione del potere e per il mantenimento dell’indipendenza rispetto alla sfera d’influenza sovietica Per questo si internarono i nemici del regime307, poi si attuarono purghe all’interno dell’apparato dello Stato e del partito, infine si usò il pugno di ferro contro gli stalinisti locali, veri e presunti. In pratica, chi condivideva le tesi del Cominform, confermando la fedeltà a Stalin, doveva essere “corretto”, ossia rieducato al socialismo jugoslavo. Nella contesa con lo stalinismo, dunque, Tito fece ricorso agli stessi metodi terroristici staliniani. Per il controllo e il “ravvedimento” politico dei cominformisti, ossia chi confermò la fedeltà alla “Madre Rossa” sovietica e al Cominform, il regime di Tito si servì soprattutto di luoghi di concentramento e rieducazione allestiti appositamente. Oltre ai campi di rieducazione per i comunisti, i partigiani jugoslavi già si erano dotati di strutture dove furono internati molti cittadini italiani delle terre istriane e dalmate occupate dagli jugoslavi, oltre ai militari italiani e tedeschi prigionieri di guerra (tra questi il più famigerato fu quello di Borovnica, nella Slovenia centrale)308. 307

Quindi ustascia, liberali, cetnici, anarchici, collaborazionisti dei fascisti. Cfr. F.G. GOBBATO, Borovnica e gli altri campi per prigionieri di guerra nell’ex Yugoslavia: 1945– ..., Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur”, Pordenone 2005; C. DI SANTE, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941–1952), Ombre Corte, Verona 2007. 308.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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Tra i campi creati per il “ravvedimento” politico dei cominformisti, ci sono quelli delle due isole di Goli Otok e Sveti Grgur (a breve distanza dal litorale croato), quello di Uglian (nei pressi di Zara), la fortezza di Stara Gradiska e a Nova Gradiska (sempre in Croazia), il carcere di Sremska Mitrovica (in Serbia), la prigione di Bileca (in Erzegovina): Secondo Milovan Gilas, uno dei collaboratori più stretti del Maresciallo, poi diventato un dissidente, era impossibile evitare la creazione di campi di concentramento. Impossibile, naturalmente, se si voleva mantenere inalterato il potere dispotico del Partito comunista jugoslavo e non si intendeva lasciare neppure un microscopico margine di movimento agli oppositori. Il risultato fu una sintesi orribile di potere rivoluzionario e di dottrina stalinista.309

Tra tutti i luoghi di rieducazione politica creati nella Jugoslavia titina, i campi delle isole di Sveti Grgur e di Goli Otok furono quelli più crudeli. Sveti Grgur (San Gregorio) è un’isola lunga quattro chilometri e mezzo e larga due, geograficamente si trova nella Dalmazia, appartiene all’arcipelago delle Isole Quarnerine nel mare Adriatico, ed è situata tra le isole maggiori Arbe e Veglia. Due terzi del suo territorio sono disseminati di rocce e pietre e non ha acqua potabile, per questo non ha mai avuto insediamenti umani. Qui già esisteva un campo per i prigionieri di guerra italiani310 che, con la rottura politica tra Tito e l’URSS, ritornò a essere operativo, questa volta popolato da cominformisti. I primi deportati sono costretti a ristrutturare i vecchi edifici e costruirne nuovi. Dopo i vari lavori, nasce un nuovo campo circondato da una recinzione di filo spinato alta tre metri, all’in309

G. PANSA, Prigionieri del silenzio, Sperling & Kupfer, Milano 2004, p. 199. Il saggio è la narrazione di Andrea Scano, sardo e partigiano comunista, “ospite” da rieducare nel gulag di Tito. 310 Cfr. G. SCOTTI, Goli Otok, italiani nel gulag di Tito, Lint, Trieste 1997 (orig. 1991, ora 2002), p. 108. Molto utile per l’argomento è anche il più recente dello stesso prof. Giacomo Scotti, Il Gulag in mezzo al mare. Nuove rivelazioni su Goli Otok, Lint, Trieste 2013.

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V. I campi per rieducare e punire

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terno nove baracche per gli internati, all’esterno tre casermette per gli amministratori del campo, un magazzino e un piccolo porto (situato a Nord–Ovest dell’isola)311. Nel campo di San Gregorio si sperimentano nuovi sistemi rieducativi, tra cui l’autocorrezione e la partecipazione alla “revisione politica” di tutti gli internati, metodi che poi saranno riprodotti nel più grande campo limitrofo di Goli Otok. Come negli altri “centri di rieducazione” jugoslavi, anche a Sveti Grgur l’insufficienza di cibo e acqua, sono uno degli maggiori espedienti per accelerare la rieducazione politica degli internati. Il supplizio della scarsità di cibo e acqua, che si somma al duro lavoro spesso insensato e alle violenze di ogni tipo, sono il modo più elementare per degradare completamente il deportato, rendendolo più malleabile alla rieducazione politica 312. Tra il 1950 e il 1951 i detenuti maschi dell’isola sono trasferiti nella vicina isola di Goli Otok, mentre il campo di Sveti Grgur diventa fino al 1988 sede di un campo di rieducazione e un bagno penale per prigionieri politici e delinquenti comuni di sesso femminile. Molte di queste internate sono esiliate per il solo fatto di essere mogli o madri di cominformisti e per non aver denunciato i propri congiunti313. A prova della fedeltà a Tito estorta attraverso i duri lavori e le sevizie, a Sveti Grgur resta ancora visibile una gigantesca stella a cinque punte e la scritta Tito, che le detenute sono state costrette a creare da pietre raccolte sull’isola314. La vicina isola di Goli Otok condivide tragicamente il destino di Sveti Grgur. A. SEVER, Goli otok in Sveti Grgur: koncentracijski taborišči za "informbirojevce", Univerza na Primorskem Fakulteta za humanistične študije, Koper (Slovenia), 2012, p. 40. 312 Poiché le condizioni di vita, con tutte le sue brutalità, furono identiche a quelle del campo di Goli Otok, si rimanda la loro descrizione più dettagliata, appena più avanti, quando si tratterà del campo dell’Isola Calva. 313 Cfr. G. SCOTTI, Goli Otok, cit., p. 203. 314 Tra le testimonianze sul campo, rimando al libro di memorie (in croato) di M. PAVAN, Sjecanja i zbilja. Sveti Grgur 1960–1962, Paneuropska Unija, Zagreb (Croatia) 2005. 311

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Goli Otok è per gli slavi l’Isola Nuda, per gli italiani l’Isola Calva. Sembra sia fatta apposta per un campo di concentramento. Infatti, l’Isola Nuda/Calva, per il suo aspetto roccioso e brullo, è un grande scoglio biancastro alto fino a duecentotrenta metri, vasto circa cinque chilometri quadrati, battuto dalla gelida bora in inverno e arso dal sole in estate, e per questo è arido e quasi privo di vegetazione. Pur essendo molto vicino alla costa — solo tre miglia marittime circa — lo stretto braccio di mare è attraversato da forti correnti che rendono quasi impossibile attraversarlo a nuoto. L’idea di installare un campo di concentramento su questa isola nasce per caso. Antun Augustinčić, noto scultore jugoslavo, era in cerca di un marmo simile a quello di Carrara per farne sculture. Per questo si mise alla ricerca del pregiato materiale accompagnato da Ivan Krajačić “Stevo”, ministro degli Interni croato. Insieme raggiunsero Goli Otok. Al rientro Krajačić raccontò la sua impressione sull’isola a Edvard Kardélj, uno dei più importanti dirigenti del movimento sloveno di liberazione nella seconda guerra mondiale (e per questo fu decorato come “Eroe Nazionale della Jugoslavia) e poi, dopo la rottura con Stalin, principale teorico della “via jugoslava al socialismo”. Un geologo dell’Università di Zagabria, Luka Maric, fu delegato allo studio dell’isolotto. Il professor Maric consegnò la sua perizia, attestando che sull’isola non c’era nessuna cava di pietra idonea per essere sfruttata nella scultura e nell’architettura315. La struttura dell’isola, con la sua posizione isolata e le condizioni proibitive di vita, però, aveva tutti i requisiti per installarvi un campo di concentramento punitivo per gli oppositori del regime. Vladimir Dedijer, storico, patriota jugoslavo e biografo ufficiale di Tito, riferisce: Nella discussione che ho avuto con lui [con Stevan Krajačić] il 21 marzo 1982, mi disse: “Ero in viaggio con Antun Augustincic (noto scultore jugoslavo) in tutte le cave per estrazione di marmi cercando di trovare la qualità giusta e simile a 315

Cfr. G. SCOTTI, Goli Otok, cit., pp. 112–113.

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V. I campi per rieducare e punire

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quello di Carrara. Così siamo arrivati a Goli Otok a sud di Senj. Di lui ho parlato a Kardelj [Edvard Kardelj “Sperans”, partigiano titino e principale teorico della “via jugoslava al socialismo”] e a lui balenò l’idea di piazzare un campo di concentramento proprio lì”. 316

Prima della creazione di un bagno correzionale, a Goli Otok non c’era nulla. Tutto è costruito dagli stessi deportati, inizialmente accampati sulla costa dell’isola317. Il primo edificio costruito, chiamato dai prigionieri Kamena (di sasso), è quello in cui è collocata la prima amministrazione della prigione e l’alloggio del comandante, almeno fino alla costruzione del cosiddetto “Albergo”. Quest’ultimo è un vistoso immobile costruito in blocchi di pietra scalpellati dai prigionieri, che dal 1950 diventa la direzione e l’amministrazione del bagno correzionale. Accanto si trova la barberia per i dirigenti del campo. Nel 1951 è costruito un altro edificio, poi adibito alla “accoglienza” dei deportati. Qui i nuovi arrivati ricevono il numero di matricola, la divisa del campo e il regolamento. Accanto la Bolnica, un piccolo ospedale in cui si esegue anche la prima visita medica ai nuovi arrivati. Più in là, la prigione del campo (Reparto 102) con venti celle di rigore. Vicino c’è il luogo più terribile di tutto il campo: il cosiddetto “Buco”. Ufficialmente è chiamato Radilište 101 (Reparto 101), ma i detenuti preferiscono appellarlo semplicemente come “il Buco”, oppure “il Monastero”, oppure ancora Petrova rupa (il buco di Pietro), da Petar Komnenic, uno dei primi deportati eccellenti alloggiato in questo Gulag nel Gulag318. Qui abitano i cosiddetti “banditi” e i Kuferasci, i prigionieri speciali: i primi sono ex membri del Comitato centrale, ministri, generali, dirigenti, ambasciatori, 316

V. DEDIJER, Novi prilozi za biografiju Josipa Tita, vol. 3, Rad, Beograd 1984, p. 465. 317 Oltre ai saggi citati, utili sono state le informazioni sulla vita nel campo fornite dolorosamente da Miodrag Gajic, un ex deportato originario della Serbia, ora deceduto, arrestato nel 1949 e deportato Goli Otok solo per aver frequentato un corso di teatro a Mosca. 318 Petar Komnenic era stato il presidente dell’Assemblea Nazionale della Repubblica del Montenegro.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

professori universitari e tutti quelli da sottoporre a “trattamento speciale” per il loro atteggiamento ritenuto indomabile; i secondi sono coloro che hanno soggiornato in Unione Sovietica per frequentare accademie militari, scuole politiche o fondazioni culturali. In pratica è un buco profondo otto metri e largo circa venticinque, con in fondo e al centro una baracca illuminata da potenti fari giorno e notte. Alla sommità del buco, un muro altro tre metri con due torri di guardia. Nel Radilište 101 si registra il più alto numero di decessi, dovuti all’isolamento totale, alle terribili condizioni di vita, alle torture, alle violenze gratuite, ai suicidi. Tra i sopravvissuti del “Reparto 101” l’unico italiano finito nel “Buco”: si chiama Roberto Rinaldo, già capitano dell’esercito repubblicano russo, poi emigrato in URSS e poi ancora maggiore dell’armata jugoslava. Nel 1951, a cinquantanove anni, è deportato sull’isola perché ritenuto un agente dei servizi segreti sovietici319. Nel 1950 è costruito dagli stessi internati un nuovo edificio a due piani, inizialmente destinato all’alloggio delle guardie e alle celle di rigore, ma dopo diventa residenza per gli educatori politici degli internati. Le guardie e gli educatori hanno a disposizione anche un centro ricreativo per il tempo libero, edificato nel 1951. È soprannominato “Centro bowling”, per la presenza di una pista di bowling, ma è usato anche per banchetti e rappresentazioni teatrali320. Sulla costa c’è un piccolo porto e il grande complesso con le baracche per i deportati. All’interno delle baracche due tavolati di pino grezzo a due o tre piani. Qui dormono i deportati, direttamente sul legno nudo con una coperta militare a testa. Fra tutte le baracche, la numero 9, detta kordina četa (la “Compagnia Korda”), è la più terribile. La baracca prende il nome da Ivan Korda, un cocciuto cominformista che aveva preso parte alla rivoluzione russa. Poiché mai si “ravvide”, fu asse319

Cfr. G. SCOTTI, Goli Otok, cit., p. 194. Qui, Miodrag Gajic potè svolgere corsi di recitazione per gli internati, portando in scena rappresentazioni teatrali in cui qualche detenuto svolgeva ruoli femminili, essendo il campo abitato da soli uomini. 320

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V. I campi per rieducare e punire

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gnato ai lavori più umilianti e peggiori (tra cui estrarre sabbia dal mare con un badile), come tutti i “cocciuti” che poi finiscono in questa compagnia. Così «dal simbolo di questa cocciuta resistenza alla rieducazione coatta», questa compagnia di internati del campo «aveva preso il nome come luogo identificativo e d’appartenenza di quel gruppo di detenuti che erano addetti ai compiti peggiori nel campo»321. Vicino alle baracche, la mensa, il reparto caldaie, il deposito dei viveri e il centro amministrativo dei reclusi che provvede a schedare i nuovi arrivati e a censurare la corrispondenza. Nel 1950 nella valle di Segna, nel settore meridionale dell’isola, è costruito il Radilište 5, il Reparto 5 per le donne deportate. Il complesso concentrazionario dispone di tre centri industriali: il Reparto 1 per la lavorazione della pietra (piastrelle e blocchi di beton per murature), il Reparto 2 per la lavorazione del legno (mobili), il Reparto 3 per la lavorazione dei metalli (telai per mezzi agricoli, tubi, pezzi per l’ingegneria navale). Su una sommità dell’isola, vicino al campo principale, è costruito dai detenuti un enorme serbatoio che raccoglie l’acqua piovana. Sull’isola non esiste un cimitero, per questa ragione è stata avanzata l’ipotesi che i resti mortali dei prigionieri deceduti siano stati gettati in mare o siano stati cremati. Ovviamente tutte le zone del campo sono presidiate da torrette di guardia armate con fucili mitragliatori. Inoltre, il lager, costruito dentro il lager naturale dell’Isola Calva, era recintato di filo spinato, uno spreco di lavoro e una spesa inutile perché fuggire da quello scoglio in mezzo al mare era, comunque, una impresa impossibile. 322

L’esistenza di un Gulag sull’isola è mascherata: il regime fa credere all’opinione pubblica che su Goli Otok è installato un complesso statale per l’estrazione del marmo. L. BRUNELLO, Onorato Bonić. Goli Otok e le due isole, in «Osservatorio Balcani e Caucaso», marzo 2012, p. 59, http://www.balcanicaucaso.org/ aree/Croazia/Goli-Otok-e-le-due-isole-113360. 322 G. P ANSA, Prigionieri del silenzio, cit., pp. 89–90. 321

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

L’organigramma del complesso concentrazionario di Goli Otok non è molto complesso. Al vertice il comandante, che è un ufficiale superiore dell’UDBA (Uprava državne bezbednosti, il Direttorato per la sicurezza statale, in pratica la polizia segreta della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia), seguono i cosiddetti inquisitori o inquirenti, anche loro ufficiali della polizia politica. Questi ultimi sono sette, uno per ciascuna delle Repubbliche jugoslave: Slovenia, Croazia, Bosnia–Erzegovina, Serbia, Montenegro e Macedonia, più la Vojvodina, la provincia della Serbia con autonomia amministrativa. Ogni inquirente ha una competenza esclusiva sui deportati della propria Repubblica. Ogni baracca ha un capo, il sobni, un deportato di fiducia dell’UDBA. Il sobni ha un vice, il kulturni, il prigioniero che nelle pause del lavoro ha anche il compito di leggere quotidianamente ai deportati gli articoli politici della Borba (letteralmente, “La Lotta”, la testata giornalistica ufficiale delle Lega dei Comunisti Jugoslavi). C’è infine anche un infermiere, il holnicar o lekar, con l’incarico di tenere la lista degli ammalati da trasferire al piccolo ospedale dell’isola323. Il primo scaglione di “ospiti” da risanare ideologicamente giunge sull’isola il 9 luglio 1949. Tutti gli “ospiti” di Goli Otok, sono persone mai passate per un processo regolare, quindi spediti nel campo per via amministrativa. Nel Gulag dell’Isola Calva finiscono, spesso senza prove, e per il solo sospetto di pensarla diversamente dalla linea del Partito Comunista di Jugoslavia, uomini e donne di ogni condizione sociale, quasi tutti comunisti–stalinisti che, ironia della sorte, sono schiacciati dal più spietato e feroce metodo staliniano, quello del Gulag. Nel baratro di Goli Otok finiscono non solo i cittadini jugoslavi, la maggior parte dei quali è serba e montenegrina, ma anche molti comunisti italiani, in particolare gli operai dei cantieri navali di Monfalcone (che tra il 1946 e il 1947 avevano deciso di trasferirsi in Jugoslavia per partecipare alla costruzione del

323

Testimonianza di Miodrag Gajic.

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V. I campi per rieducare e punire

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socialismo) e i cominformisti dell’Istria324. Il 44% degli internati è stato di nazionalità serba, il 21,5% di nazionalità montenegrina, mentre i detenuti croati erano il 16%. La restante parte era composta da persone che appartenevano alle altre Repubbliche jugoslave e da italiani325. Nel Gulag titino di Goli Otok, ma anche negli altri campi di concentramento del regime, oltre ai cominformisti, veri o presunti, ci finisce anche chi esprime semplici critiche alla “via jugoslava al socialismo”, al Partito, a Tito, ma anche per false delazioni. Altri sono rinchiusi solo perché hanno partecipato ad attività artistiche o culturali in Unione Sovietica. A Goli Otok sono destinati anche delinquenti comuni, anche se rappresentano la minoranza. A decidere la deportazione era l’UDBA, che arresta il dissidente. Condotto in carcere, dopo l’interrogatorio una “Commissione per le infrazioni” rende la decisione esecutiva, comunicando al condannato la sanzione del “soggiorno” nel campo di rieducazione. La storia del campo titino di Goli Otok si può suddividere in diverse fasi, ognuna segnata da un diverso tipo di trattamento degli internati326. La prima fase va dal luglio 1949 al settembre dello stesso anno, tre mesi i cui deportati subiscono la rieducazione attraverso il solo lavoro massacrante per l’edificazione completa del campo, ma non sono oggetto di enormi e particolari torture. La seconda fase va dal settembre 1949 all’estate del 1951, due anni di lavori forzati via via sempre più duri e di atroci torture e soprusi senza fine. La terza fase va dall’estate 324

A. BONELLI, Fra Stalin e Tito. Cominformisti a Fiume 1948–1956, Istituto Regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste, 1994; A. PETACCO, L’esodo. La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Mondadori, Milano 2000, pp. 171–176. 325 La rivista Novi Plamen riporta le copie degli elenchi dei reclusi compilati dall’UDBA e prelevati dagli Archivi di Stato croati. Cfr. 16.101 Golootočana, po spisku!, «Novi Plamen», December 25, 2013, http://noviplamen.net/2013/ 12/25/16000-golotocana-po-spisku/. 326 Cfr. G. SCOTTI, Goli Otok, italiani nel gulag di Tito, cit., pp. 106–108; G. Pansa, Prigionieri del silenzio, cit., pp. 233–234.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

del 1951 all’inverno del 1953, sempre con la pratica dei lavori forzati e lieve riduzione dei supplizi e dei soprusi. L’ultima fase, quella più “morbida”, va dalla fine del 1953 al novembre 1956, tre anni con lavori forzati meno pesanti, quasi assenza di torture e più umanità verso i deportati, che potevano ricevere dai propri familiari finanche la posta (lettere e cartoline)327 e un pacco di viveri di massimo sette chilogrammi al mese328. La vita nel complesso concentrazionario di Goli Otok nella sua disarmante semplicità è terribile: il giorno lavoro duro, punizioni gratuite e umilianti, cibo scarso, caldo torrido in estate e freddo rigido d’inverno; la sera lunghe lezioni di indottrinamento politico; la notte riposo in baracca sovraffollate e in compagnia di pidocchi e cimici329. La logica che governa la rieducazione politica è lineare: raggiungere il “ravvedimento” del deportato attraverso il duro lavoro, spesso anche insensato, l’indottrinamento politico e, soprattutto, la partecipazione degli stessi detenuti. Infatti, alla correzione dei detenuti devono partecipare gli stessi internati, obbligati a dimostrare di essersi ravveduti usando delazione e violenza sui “colleghi” (ciò si verifica non solo a Goli Otok, ma in tutti gli altri luoghi di correzione e pena jugo327

Poiché l’esistenza dei campi penali per cominformisti doveva restare segreta, il recapito postale era mascherato: per gli sloveni era “Ljubljana PP 64”, per i serbi “Beograd PP 45”, per i croati “Rijeka PP 39”. Cfr. B. JEZERNIK, Non cogito ergo sum. Arheologija neke šale, Borec, Ljubljana 1994, p. 40, B. HOFMAN, Noč do jutra, Slovenska matica, Ljubljana 1984, p. 207; J. JEZERŠEK–SOKOL, Arhipelag Goli: moja zadnja komandantska potovanja, Cankarjeva založba, Ljubljana 1989, p. 202; K. PERUĆICA, Kako su nas prevaspitivali, Grafički atalje Dereta, Beograd 1990, p. 149, così cit. in A. REBERNIK, Goli otok v spominih nekoč in danes: Študija izvzete preteklosti iz zgodovinskega dogajanja v času od leta 1948 do 1956, Univerza v Ljubljani Fakulteta za družbene vede, Ljubljana (Slovenia) 2009, p. 56. 328 Inizialmente il contenuto dei pacchi era distribuito tra la collettività dei reclusi, dopo il 1954 si poteva decidere se dividerlo o meno con gli altri internati. I “boicottati”, ovviamente, non avevano diritto a trattenere il pacco, che era consegnato alla collettività. Cfr. B. JEZERNIK, Non cogito ergo sum. Arheologija neke šale, Borec, Ljubljana 1994, p. 42, così cit. in ibidem. 329 Oltre ai saggi già citati, cfr. anche L. GIURICIN, La memoria di Goli Otok. Isola Calva, Edizioni Centro Ricerche Storiche di Rovigno, Rovigno 2007.

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V. I campi per rieducare e punire

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slavi destinati ai cominformisti). E questo fin dall’arrivo dei nuovi deportati. Già all’approdo sull’isola, dopo un viaggio infernale sul famigerato battello Punat, i nuovi confinati sono costretti a subire una specie di rito di iniziazione da parte degli altri deportati. Dopo aver ricevuto il numero di matricola, la divisa del campo (un’uniforme militare, con un cappotto per l’inverno, la bustina dell’esercito, e le opanke, una specie di ciabatte con la suola ricavata da logori copertoni di gomma) i nuovi arrivati devono subire il cosiddetto Kkroz stroj (letteralmente “attraverso la fila”) o Špalir (l’ala, lo schieramento)330, detto anche Topli Zec, alla lettera “lepre calda”. In pratica, le nuove matricole devono percorrere un sentiero in salita che dall’ingresso del campo porta alle baracche. Su quel sentiero li attendono due file di deportati veterani. I nuovi arrivati devono così passare in mezzo e, man mano che si procede, sono colpiti da percosse e sputi, tra urla e insulti vari. I vecchi detenuti sono sorvegliati dalle guardie del campo, che valutano quanta determinazione mettono nell’espletamento del rituale, perché chi si sottrae o non interviene con convinzione è costretto a unirsi ai nuovi arrivati. Così alcuni dei deportati si dimostrano spietati esecutori, altri invece simulano le violenze spingendo in avanti il nuovo arrivato per aiutarlo a terminare in fretta la salita. La partecipazione degli stessi deportati al processo rieducativo ha la duplice funzione di umiliare i detenuti e scongiurare qualsiasi forma di ribellione collettiva, per la diffidenza reciproca e il timore che chiunque avrebbe potuto fare la spia: a Goli Otok si è praticamente soli con se stessi: La disciplina vera e propria non era garantita dal solo ruolo di guardiani, dai sorveglianti, dagli agenti dell’UDBA e dai vari funzionari e inquisitori che rappresentavano la gerarchia politica e amministrativa del campo; la disciplina era in larghissima parte affidata all’autorepressione, ad una sorta di autodisciplina fatta di spionaggio, delazione, emulazione competitiva 330

Cfr. I. KOSIĆ, Goli otok, cit., p. 52.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

per dimostrare di essere più remissivo e docile degli altri e più prodigo nel dimostrare il proprio annullamento. I sorveglianti stavano per lo più in disparte e non si dovevano sporcare le mani, se non di rado, poiché la repressione del singolo era affidata al gruppo e ogni tentativo di ribellione, ogni insubordinazione nascosta sarebbe divenuta facilmente palese. La desistenza a pensare o solo fantasticare progetti di ribellione collettiva era determinata dalla sfiducia reciproca e dalla consapevolezza che chiunque altro avrebbe potuto essere una spia e un accusatore implacabile. Tutta l’isola-lager viveva immersa in questo clima folle di animalità in cui gli orizzonti del mare e del cielo, le rocce lontane delle isole maggiori e della costa ben visibile con le svettanti cime del Velebit apparivano come il paesaggio esterno di una gabbia le cui sbarre indistruttibili non erano solo il mare che circondava l’isola ma anche l’isolamento ormai raggiunto, con questa dimensione della follia, nei confronti della vita umana e civile del mondo esterno.331

Nei giorni seguenti all’approdo sull’isola, dopo essersi ripresi dallo stroj, i nuovi arrivati subiscono la cosiddetta “Illustrazione”. Eseguita nella baracca in cui il prigioniero è assegnato, è una specie di interrogatorio condotto dallo sobni (il deportato di fiducia della polizia segreta) alla presenza di tutti i reclusi di quella compagnia. Tra insulti e percosse, il nuovo arrivato deve ammettere le proprie colpe e, soprattutto, deve denunciare altri cominformisti ancora liberi. Se il nuovo arrivato si dimostra disponibile alla propria correzione è accolto come interno, altrimenti prende la sua razione di percosse o, peggio, subisce il boicottaggio. Per i detenuti più riottosi, i cosiddetti “passivisti”, ci sono infatti terribili punizioni che sono vere e proprie torture. Innanzitutto c’è il boicottaggio nelle sue tre forme: normale (bojkot), duro (stmgi), e quello durissimo (najstrogi)332.

331 332

L. BRUNELLO, Onorato Bonić. Goli Otok e le due isole, cit., pp. 97-98. G. PANSA, Prigionieri del silenzio, cit., p. 244.

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V. I campi per rieducare e punire

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Il boicottaggio può durare anche un anno. La vittima, obbligato a portare sui pantaloni due strisce verticali rosse, è alla mercé degli altri prigionieri, che non possono rivolgergli la parola se non per insultarlo. Al boicottato, inoltre, sono riservati i lavori più massacranti in condizioni intollerabili, come portare grossi carichi di pietre, pulire le latrine, stroj continui, assistere alle lezioni politiche in piedi, fare la guardia a turni di due ore alle kible, i recipienti che servivano da orinatoio notturno. Per far cessare il boicottaggio, il detenuto deve dar prova del suo ravvedimento, denunciando qualcuno o svelando informazioni. Terminato il boicottaggio, il prigioniero è sollevato per un certo tempo dall’obbligo del lavoro e può riposare ricevendo anche il dodatak, un supplemento alla razione giornaliera di cibo. Un’altra forma di punizione è quella della jazbina. Praticata in estate, essa consiste nel tenere il punito sotto un ammasso soffocante di coperte. Sempre d’estate, ai cominformisti più ostinati è riservata la tiganj, ossia la padella. Il deportato è legato sopra un sedile ed esposto al sole per ore, senza la possibilità di bere. Crudele è anche un’altra forma di tortura, chiamata dagli inquisitori del campo “špansko plivanje” (bagno spagnolo). In pratica è un annegamento simulato utilizzato per ottenere informazioni, estorcere confessioni o semplicemente per punire: il detenuto è fatto distendere su un tavolaccio con la testa reclinata all’indietro e si versa in bocca e nel naso acqua sporca a getto continuo fino a riempire i polmoni333. Ai cosiddetti “attivisti”, invece, ossia i deportati che con parole e fatti favoriscono la “rieducazione”, sia la loro sia quella degli altri internati, sono assegnate mansioni meno opprimenti, come lavorare nelle radionice, le officine, oppure diventare capo baracca. In generale, la pena ha la durata di due anni, ma è passibile di ripetizione in caso il detenuto non raggiunge definitivamente il suo “livello di coscienza”. Cfr. I. KOSIĆ, Goli otok, najveći Titov konclogor, Adamić, Rijeka (Croazia) 2003, p. 82. 333

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Goli Otok cessa ufficialmente di essere un campo di rieducazione politica nel 1956, ma gli ultimi deportati lasciano l’isola soltanto nel 1959334. Secondo la rivista croata “Novi Plamen”, durante la sua attività di campo di rieducazione per cominformisti, a Goli Otok sono reclusi 16.101 persone, di cui 928 sono donne335. Di questi internati, 413 avrebbero perso la vita; 14 di loro erano italiani336. Conclusa la tragica parentesi politica, il complesso concentrazionario di Goli Otok diventa luogo di detenzione di criminali comuni sino al 1988. I patimenti di chi si dichiarò cominformista, o fu ritenuto tale, non hanno riguardato solo l’internamento in luoghi di rieducazione politica. Essi sono stati di ben più ampie proporzioni anche dopo la scarcerazione, con ex internati costretti al lavoro coatto, specialmente in miniere337, con la diffidenza perpetua da parte della popolazione: «Dopo Goli Otok ripresi il mio lavoro di regista teatrale. Fu difficile per me realizzarmi a livello nazionale: per molti ero un ex cominformista, per altri ero un cominformista rinnegato»338. Inoltre, per ogni cominformista internato, hanno subito vessazioni i suoi familiari e le persone a essi legate, con emarginazione dalla società, perdita del lavoro e retrocessione a lavori umilianti, sfratti, divorzi obbligati e, nel peggiore dei casi, arre334

Dal documento pubblicato dalla rivista Novi Plamen, in cui sono registrati la maggior parte degli internati con date di arresto e di rilascio, si ricava che una parte di loro fu rimessa in libertà solo nel 1959, tre anni dopo la visita di Tito in URSS, viaggio che segnò la fine dell’ostilità tra Jugoslavia e l’Unione Sovietica. Cfr. 16.101 Golootočana, po spisku!, cit. 335 Ibidem. 336 Giacomo Scotti ne ricorda i nomi: Mario Quarantotto, Francesco Godena, Domenico Buratto, Matteo Naddi–Nadovich, Romano Malusà, Libero Sponza, Pietro Renzi, Silvio Viscovich, Bruno Nacinovich, Egidio Nardini, Aldo Ogrizovich, Eugenio Diminich, Giulio Parenzan, Antonio Stamberga. In Goli Otok, italiani nel gulag di Tito, cit., pp. 158–159. 337 Miodrag Gajic, il nostro testimone, dovette trascorre quasi trenta giorni nella miniera di carbone di Banovići (Bosnia e Herzegovina), prima di essere ritenuto non a “livello di coscienza”, non “redento” dunque, e rispedito a Goli Otok per altri venti mesi. 338 Testimonianza di Miodrag Gajic.

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V. I campi per rieducare e punire

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sto e internamento in prigioni o campi di rieducazione: «A testimonianza del grado paranoico degli arresti di quel periodo giunse l’ammissione tardiva di Aleksandar Ranković, capo dell’Ozna», il Dipartimento per la Sicurezza del Popolo, «non vi erano reali prove di cominformismo per il 47 per cento degli arrestati» 339.

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5.20. I campi di lavoro e rieducazione politica a Cuba A Cuba, nel 1959, all’indomani della rivoluzione, il Movimiento 26 de Julio di Fidel Alejandro Castro Ruz, che ha combattuto contro la dittatura di Fulgencio Batista si fa governo. Il nuovo gruppo dirigente cerca subito di alimentare la teoria rivoluzionaria, conciliando le aspirazioni nazionaliste e l’avvio di grandi trasformazioni sociali, economiche ed etiche del Paese. Al tempo stesso si impegna per garantire la sua esistenza, affrontando la minaccia di una grande invasione da parte degli Stati Uniti d’America, sopprimendo migliaia di controrivoluzionari armati nelle zone rurali dell’isola e contrastando l’opposizione interna. Il 16 aprile del 1961, in un discorso durante le onoranze funebri delle vittime causate da una serie di bombardamenti in diverse zone del Paese, Castro dichiara il carattere socialista del governo: «Questa è la rivoluzione socialista e democratica degli umili, con gli umili e per gli umili» 340. La locuzione “rivoluzione cubana” diventa così il termine usato per specificare il processo, ancora in atto, che vuole edificare una società egualitaria secondo i dogmi del marxismo. Il carattere assolutista del nuovo governo è tutto riassunto 339

S. BIANCHINI, Epurazioni e processi politici in Jugoslavia 1948–54, «Rivista di Storia contemporanea», 19 (4)/1990, p. 603. 340 Cfr. Discurso pronunciado por el Comandante en jefe Fidel Castro Ruz en las honras fúnebres de las víctimas del bombardeo a distintos puntos de la república, efectuado en 23 y 12, frente al cementerio de Colón, 16 de abril de 1961, in «Portal Cuba.cu», http://www.cuba.cu/gobierno/discursos/1961/esp/ f160461e.html.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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nelle parole del Líder Máximo, pronunciate in conclusione della “Riunione con gli Intellettuali cubani” del giugno 1961: La Rivoluzione non può rinunciare a che tutti gli uomini e donne onesti […] marcino uniti ad essa; la rivoluzione deve aspirare a convertire in rivoluzionario chiunque abbia dei dubbi […]. La Rivoluzione deve solo rinunciare a quelli che sono ostinatamente reazionari, che sono irriducibilmente controrivoluzionari. […] Questo significa che dentro la Rivoluzione, tutto; contro la Rivoluzione, niente. Contro la Rivoluzione niente, perché la Rivoluzione ha anche i suoi diritti; e il primo diritto della Rivoluzione è il diritto a esistere. E di fronte al diritto della Rivoluzione di essere e di esistere, nessuno ‒ per quanto la Rivoluzione comprende gli interessi del popolo, per quanto la Rivoluzione significa gli interessi della nazione intera ‒ nessuno può rivendicare con ragione un diritto contro di lei. Credo che questo sia ben chiaro.341

Così, per chi è considerato estraneo e ostile alla rivoluzione in corso, il governo riserva i campi di concentramento. La migrazione interna dalle campagne alle città, i grandiosi piani di industrializzazione, le trasformazioni economiche (tra cui la riforma agraria, con la soppressione del latifondo, e la nazionalizzazione di tutte le proprietà straniere sull’isola)342 e sociali (tra cui la campagna di alfabetizzazione di massa, la ridistribuzione delle ricchezze a favore dei ceti più bassi, la lotta alla discriminazione razziale, l’uguaglianza di genere, l’aumento del potere d’acquisto delle classi popolari, la liberalizzazione degli accessi ad alberghi, spiagge e locali di divertimento, la lotta al traffico di droga, la chiusura delle case da gioco, la dimi341

Dal Discurso pronunciado por el Comandante Fidel Castro Ruz, Primer Ministro del Gobierno Revolucionario y Secretario del PURSC, Como Conclusion de las Reuniones con los Intelectuales Cubanos, Efectuadas en la Biblioteca Nacional (La Habana) el 16, 23 y 30 de Junio de 1961, in «Portal Cuba.cu», http://www.cuba.cu/gobierno/discursos/1961/esp/f300661e.html. 342 Cfr. C. LANGE, Estrategia de la economia cubana, Editoria Polínica, La Habana (Cuba) 1993; A. TRENTO, Castro e Cuba dalla rivoluzione a oggi, Giunti, Milano 2003, pp. 72–78.

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V. I campi per rieducare e punire

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nuzione dei canoni di affitto, la riduzione del prezzo dei medicinali, di libri scolastici, delle tariffe elettriche e telefoniche, dei trasporti urbani)343 che pian piano si realizzano nel Paese, contribuiscono a disorientare l’agricoltura dell’isola, nuocendo maggiormente alla risorsa più redditizia dell’isola: la produzione saccarifera. La decisione di svincolarsi dalla monocoltura della canna da zucchero e di adottare una strategia di sviluppo basata sulla diversificazione agricola e sull’industrializzazione, infatti, si dimostra una scelta sbagliata. Così nel 1963 il governo rivoluzionario comprende che l’industrializzazione a tutti i costi non è per il momento una via percorribile a Cuba: la mancanza di materie prime, l’inadeguatezza delle fonti energetiche e, soprattutto, l’embargo commerciale, economico e finanziario imposto dagli Stati Uniti d’America dal 1962, portano alla decisione di ritornare alla produzione dello zucchero come unico modo per poter accumulare il capitale necessario a un nuovo piano di industrializzazione. Per fare questo la rivoluzione ha bisogno di manodopera a basso costo. Ecco allora che nascono le Unidades Militares de Ayuda a la Produccion (UMAP — Unità Militari di Aiuto alla Produzione), campi di concentramento con la doppia funzione di rieducazione e lavoro coatto. Le UMAP si inseriscono nel Servicio Militar Obligatorio (SMO), istituito con la Legge n. 1129 del 26 novembre 1963. Concepito come una prestazione per il Paese, il SMO recluta i maschi da diciassette a ventisette anni, per un periodo di tre anni e con una retribuzione mensile di sette pesos, corrispondente a un decimo del salario minimo mensile in agricoltura 344. La leva obbligatoria si divide in unità militari di combattimento e unità militari di lavoro.

343

Cfr. A. TRENTO, Castro e Cuba dalla rivoluzione a oggi, cit., pp. 32–37. Sulla politica di uguaglianza dei sessi, cfr. J.M. BUNCK, Fidel Castro and the Quest for a Revolutionary Culture in Cuba, Pennsylvania State University Press, University Park 1994, pp. 87–124. 344 Cfr. E. ROS, La UMAP. El Gulag Castrista, Ediciones Universal, Miami (Florida) 2004, p. 31.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Le UMAP sono le unità militari produttive che accolgono gli “eretici” della rivoluzione (i veri o presunti oppositori politici), i funzionari governativi accusati di corruzione e gli inaffidabili politicamente, come gli immorali (omosessuali), gli intossicati dal virus della decadenza capitalistica (capelloni, rockettari, bohémiens), le persone improduttive (accattoni) e i religiosi (cattolici, protestanti, testimoni di Geova, avventisti del settimo giorno, santeros345). A Cuba esisteva già un campo sperimentale di lavoro correzionale a Guanahacabibes, nell’allora desolata penisola omonima della provincia di Pinar del Rio. Fu creato da Ernesto “Che” Guevara come forma di punizione volontaria di quei dirigenti e lavoratori del Ministero dell’Industria (che egli presiedeva) indisciplinati, che avevano commesso errori o mancanze morali sul posto di lavoro nei confronti della rivoluzione. La punizione poteva durare massimo un anno ed era volontaria, nel senso che chi era punito poteva accettare la sanzione o meno: nel primo caso avveniva una sospensione temporanea del lavoro e il ministero si faceva carico dei bisogni della sua famiglia, nel secondo caso il lavoratore perdeva il lavoro. Nel 1962, durante una riunione presso il Ministero dell’Industria, il comandante Ernesto “Che” Guevara, rispondendo a un dirigente di un’azienda di derivati del cuoio, che sosteneva che era illegale inviare persone a Guanahacabibes senza che la sanzione fosse discussa negli organismi di base del Partito, così giustificava il campo di lavoro: Guanahacabibes non è una punizione feudale. A Guanahacabibes non viene mandata la gente che dovrebbe andare in prigione. A Guanahabibes viene mandata la gente che ha mancato nei confronti della morale rivoluzionaria, in modo più o

345

I santeros sono i fedeli della santería, un culto sincretico di origine cubana che associa elementi del cattolicesimo all’animismo praticato dagli schiavi provenienti dall’Africa. Si tratta dunque di una fusione di credenze, entità, riti, tradizioni e reminiscenze culturali.

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V. I campi per rieducare e punire

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meno grave, privandola contemporaneamente del posto di lavoro. È lavoro duro, non lavoro inumano.346

I campi UMAP sono un’altra cosa: filo spinato, torrette di guardia, violenza, cattiveria, lavoro disumano, rieducazione politica. Afferma il poeta José Mario (1940–2002), arrestato per aver pubblicato scritti ritenuti immorali per la rivoluzione:

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Era tutto basato sull’ideologia dell’uomo nuovo. Volevano colpevolizzarci, farci capire che eravamo degli scarti della società, il peggio del peggio e che coloro che ci sorvegliavano avevano il compito di riabilitarci, rinnovarci. 347

La prima testimonianza sull’esistenza di queste unità di lavoro rieducativo è data da Paul Kidd, un giornalista canadese che dal 29 agosto 1966 visitò Cuba per dodici giorni. Il reporter spingendosi all’interno della provincia di Camaguey, raggiunse e visitò una UMAP in prossimità del borgo di El Dos de Cespedes. Nelle fotografie scattate da Kidd, le prime immagini non censurate mai fatte all’interno di uno di questi campi, descrivono le dure condizioni cui erano sottoposti i centoventi internati. Dalla visita Kidd stila articoli–denuncia348. 346

P.I. T AIBO II, Ernesto Guevara también conocido como El Che, Editorial Joaquín Mortiz – Planeta, Mexico City 1996, trad. it., Senza perdere la tenerezza. Vita e morte di Ernesto Che Guevara, Il Saggiatore, Milano 2012, p. 521. 347 Cit. in J. KOTEK, P. R IGOULOT, Le Siècle des camps detention, concentration, extermination: cent ans de mal radical, Lattès, Paris 2000, trad. it., Il secolo dei campi. Deportazione, concentramento e sterminio 1900–2000, Mondadori, Milano 2002, p. 511. 348 Kidd fu espulso da Cuba l’8 settembre, per aver mostrato un atteggiamento scorretto verso la rivoluzione e per aver violato il segreto militare scattando fotografie a impianti anti–aerei dalla finestra del suo albergo. Dopo l’espulsione, il giornalista scrisse molti articoli sulla repressione nella Cuba rivoluzionaria, tra cui: Castro’s Cuba: Police Repression Is Mounting, «Deseret News», 9 novembre 1966 (http://manuelzayas.wordpress.com/castros-cubapolice-repression-is-mounting-1966/); The Price of Achievement Under Castro, «The Saturday Review», 3 maggio 1969, pp. 23–25 (http://www.unz. org/Pub/SaturdayRev-1969may03-00023.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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Anche la Commissione Interamericana dei Diritti Umani si occupò dei campi cubani. Nel rapporto del 7 aprile 1967 si legge: Nel gennaio del 1966, il governo di Cuba creò un nuovo sistema penitenziario che nella pratica costituisce un sistema di sfruttamento uguale alla schiavitù. Con il nome di “Unità Militari di Aiuto alla Produzione”, più conosciuto come UMAP, si reclutano in forma massiccia i giovani che non si integrano nelle organizzazioni del sistema, per trasportarli nelle fattorie statali che sono veri campi di concentrazione, col fine di obbligarli a lavorare gratuitamente per lo Stato. I giovani sono reclutati a forza dalla Polizia e rinchiusi in questi campi di lavoro, senza nessun tipo di processo giudiziario né diritto alla difesa. […] Questo sistema svolge due funzioni: a) facilitare manodopera gratuita allo Stato; b) castigare i giovani che si rifiutano di partecipare alle organizzazioni comuniste.349

Le Unità di lavoro correzionale sono costituite partendo dalla convinzione che per gli “inaffidabili”, gli “eretici” e i “corrotti” della rivoluzione, il senso di obbedienza e fedeltà possono essere acquisiti solo in luoghi specifici, in cui i commissari politici hanno più autorità degli ufficiali militari. La stessa scritta posta all’ingresso di molti campi, riassume il valore pedagogico di queste unità: “El trabajo os harà hombres” (Il lavoro vi renderà uomini). Costruiti principalmente in aree isolate della provincia centro–orientale di Camagüey, le UMAP sono soprattutto lavoro duro miseramente retribuito 350: dodici ore al giorno dal lunedì al sabato a coltivare e raccogliere le boniato (patate dolci), la yuca (tapioca), le banane e, soprattutto, la preziosa canna da zucchero351. Generalmente la domenica gli internati si riposano dal 349

Comisión Interamericana de Derechos Humanos, Informe sobre la situación de los derechos humanos en Cuba, OEA/Ser. L/V/II.17, Doc. 4, http://www.cidh.oas.org/countryrep/Cuba67sp/cap.1a.htm#F. 350 La paga è uguale a quelle delle reclute del Servicio Militar Obligatorio, solo sette pesos a mese, come già riferito. Cfr. E. ROS, La UMAP, cit., p. 31. 351 Cfr. E. ROS, La UMAP, cit., pp. 131–32 ; J.C. BLANCO, UMAP, cit., p. 100.

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V. I campi per rieducare e punire

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lavoro, scrivono alla famiglia, lavano i vestiti. Alcuni, per punizione o volontariamente, lavorano anche la domenica (solo per i volontari non è prevista la quota produttiva)352. Nelle UMAP si finisce in due modi: attraverso una falsa comunicazione a presentarsi per il “Servizio Militare Obbligatorio”, oppure dopo essere stati prelevati per strada, fuori dalle chiese o nei luoghi di ritrovo 353. Ammassati in camion, autobus o treno, sono poi trasferiti nei campi di lavoro in condizioni disumane354. Così racconta l’arresto Emilio Izquierdo, cattolico attivo e figlio di un controrivoluzionario detenuto nelle prigioni cubane, presidente dal 2000 al 2002 dell’Asociación de Ex– Confinados de la Umap con sede a Miami, in Florida: Ci hanno arrestato nelle vie di tutte le città del paese, ci hanno fatto salire su treni, autobus, camion, sorvegliati da militari, sotto la minaccia di fucili e delle pistole automatiche. Il riconcentramento è avvenuto in numerosi stadi delle città di Camaguey, dove ci tenevano sotto il tiro di mitragliatrici di grosso calibro, pronte a sparare. C’erano cordoni di soldati ovunque, che si comportavano come se stessero trasportando dei criminali di guerra. […] eravamo arrivati in un luogo in cui ci avrebbero trasformati in veri uomini […]. Il nostro atteggiamento da detenuti avrebbe determinato la durata della carcerazione, che all’inizio non aveva un limite preciso.355

All’arrivo nelle fattorie militari, isolate da filo spinato, i deportati ricevono un numero e una divisa, generalmente di colore verde oliva o blu scuro a maniche lunghe, diventando reclute356. 352

Cfr. J.C. BLANCO, UMAP. Una Muerte A Plazos, D’Har Services, Lexington 2008 (ora 2013), p. 100–101. 353 Cfr. J.L. LLOVIO–MENÉNDEZ, Insider. My Hidden Life as a Revolutionary in Cuba, Bantam Books, New York 1988, p. 156; E. ROS, La UMAP, cit., pp. 37 e 73. 354 Cfr. E. Ros, ivi, pp. 72–75 355 Cit. in J. KOTEK, P. R IGOULOT, Il secolo dei campi, cit., p. 511. 356 Cfr. E. ROS, La UMAP, cit., p. 95; J.C. BLANCO, UMAP, cit., p. 47; J.L. LLOVIO–MENÉNDEZ, Insider, cit., p. 147; E. NUÑEZ–PRADO, U.M.A.P. Donde nunca hubo un gesto que fuera humano, «Ideal», n. 292, 1999, p. 41.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Ripartiti per categoria in compañías (omosessuali, Testimoni di Geova, cattolici e così via)357, sul lavoro sono a loro volta suddivisi in squadre da dieci persone, gestite da un cabo (caporale), anch’esso un detenuto obbligato come gli altri a lavorare 358. I loro alloggi sono baracche arredate generalmente da letti a castello in cui sono appesi come un’amaca sacchi di juta359. Il lavoro inizia prima dell’alba e finisce al tramonto. Tutti gli internati hanno una quota produttiva da rispettare, per non vedersi sottrarre la razione di cibo giornaliera 360. Tutti i giorni un commissario politico presiede sessioni di indottrinamento, con sedute più lunghe la domenica361. Le condizioni di vita all’interno delle UMAP variano da campo a campo, secondo la tolleranza dei soldati preposti alla vigilanza e alla gestione delle unità. Ad esempio, agli internati è concesso l’accesso alle cure in caso di malattia o infortunio, come il trasferimento in ospedale militare per i casi più gravi. Tuttavia, a volte, l’arbitrio delle guardie del campo ha negato l’assistenza medica agli internati portandoli anche alla morte 362. Agli internati che dimostrano un avvicinamento alla rivoluzione, spettano anche permessi speciali da uno a dieci giorni 363. Anche la corrispondenza è permessa, previa censura, come anche le visite dei familiari che possono portare oggetti ai propri parenti internati come cibo o sigarette, ma almeno dopo tre mesi dall’inizio dell’internamento e nel giorno stabilito (quasi sempre una domenica al mese)364. A volte è permesso ad alcuni sa357

Generalmente gli omosessuali sono assegnati a campi distinti. Cfr. E. ROS, La UMAP, cit., pp. 55 e 87; J.L. LLOVIO–MENÉNDEZ, Insider, cit., p. 156. 358 E. R OS, La UMAP, cit., pp. 161–163. 359 P. KIDD, The Price of Achievement Under Castro, cit., p. 25; E. ROS, La UMAP, cit., p. 84. 360 Cfr. J.C. BLANCO, UMAP, cit., p. 57. 361 Cfr. P. KIDD, The Price of Achievement Under Castro, cit., p. 24; J.C. BLANCO, UMAP, cit., p. 53. 362 Cfr. J.C. BLANCO, ivi, pp. 70–72 , 115–22 , 179–84. 363 Specialmente in occasione di ricorrenze, come il Capodanno. Le spese per le “uscite” sono a carico dell’internato. Cfr. ivi, pp. 123–124. 364 Cfr. ivi, pp. 108–109; P. Kidd, The Price of Achievement Under Castro, cit., p. 24.

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V. I campi per rieducare e punire

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cerdoti autorizzati di visitare gli internati e amministrare anche l’Eucarestia365. Ovviamente la violenza non manca, quasi sempre determinata dall’abuso di potere dei carcerieri 366. I più vessati sono gli omosessuali e i Testimoni di Geova. Nonostante molti omosessuali avessero partecipato attivamente alla rivoluzione che cacciò Batista, la comunità gay è subito vista come una minaccia contro l’ordine sociale e militare della rivoluzione367. In un’intervista del 1965 Fidel Castro dichiara: Agli omosessuali non dovrebbe essere concesso di stare in posizioni dove potrebbero essere capaci di mal influenzare i giovani. Nelle condizioni in cui viviamo, a causa dei problemi che il nostro Paese deve affrontare, dobbiamo inculcare nei giovani lo spirito della disciplina, della lotta, del lavoro […]. Noi non arriveremo mai a credere che un omosessuale possa incarnare le condizioni e i requisiti di condotta che ci permetterebbero di considerarlo un vero Rivoluzionario, un vero Comunista aggressivo. Una deviazione di questa natura si scontra con il concetto che abbiamo di ciò che un militante comunista deve essere.368

365

Cfr. E. ROS, La UMAP, cit., p. 185. Alcune testimonianze di ex internati nel sito web dell’Asociación de Ex– Confinados de la UMAP: http://umapcuba1965.wordpress.com/verdad-oculta/ Una testimonianza della vita nelle UMAP è stata data anche da Félix Luis Viera, scrittore e poeta, che in un romanzo verità racconta non solo della sua terribile esperienza come internato in due campi UMAP, ma anche di ulteriori situazioni vissute da altre “reclute” delle unità: Un ciervo herido, Editorial Plaza Mayor, San Juan (Puerto Rico) 2002, trad. it., Il lavoro vi farà uomini. Omosessuali e dissidenti nei gulag di Fidel Castro, Cargo, Napoli 2005. 367 Il poeta Reinaldo Arenas (1943–1990), arrestato per crimini di pensiero e per la sua omosessualità, ci ha lasciato un testamento spirituale toccante, una autobiografia in cui racconta la persecuzione degli omosessuali a Cuba: Antes que anochezca (Autobiografia), Tusquets Editores, Barcelona–Ciudad de México–Buenos Aires 1992, trad. it., Prima che sia notte. Autobiografia, Guanda, Parma 2004. 368 L. LOCKWOOD, Castro’s Cuba, Cuba’s Fidel, Vintage Books, New York 1967, p. 124. 366

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Gli omosessuali, i maricones come sono chiamati, e gli afeminados, i leziosi, sono dunque considerati come “agenti malati del capitalismo”, perché sono il prodotto ultimo della società borghese decadente che permette unioni e atteggiamenti immorali. La “malattia” va dunque curata, isolando gli ammalati dalla società, per non contagiarla. L’unica terapia non può che essere un campo di concentramento, in cui lavorare e guarire. Le UMAP vanno bene, ma con l’accortezza di isolare i maricones e gli afeminados anche dagli altri internati369. Le discriminazioni e i campi di concentramento non sono una novità per gli omosessuali. Non solo i gay, ma anche gli “acusados ser afeminados” non possono esercitare l’insegnamento, arruolarsi nell’esercito, frequentare università e, soprattutto, aderire al “Partito Unitario della Rivoluzione Socialista di Cuba”. Negli anni 1961–1962, dalla limitazione dei diritti, poi, si passa all’isolamento dalla società e la deportazione in appositi campi di rieducazione, come quello di Cayo Diego Perez, installato a trentasei miglia interne da Playa Girón370. Quarantadue anni dopo la chiusura dei campi UMAP, Fidel Castro ammette in una intervista la propria responsabilità nella persecuzione contro gli omosessuali. Il Líder Máximo, pur affermando che la omofobia è stata «una reazione spontanea nelle file rivoluzionarie che seguivano le tradizioni del Paese, dove negri e gay erano discriminati» 371, Castro ammette che ebbero luogo momenti di grande ingiustizia ed è giusto prenderci le nostre responsabilità. Fuggire alla CIA, che allevava nel suo seno tanti traditori, non era una cosa semplice. Avevamo molti problemi in quel periodo e abbiamo commesso errori. […] In ogni ca-

Cfr. J.L. LLOVIO–MENÉNDEZ, Insider, cit., pp. 56–57. Cfr. I. LUMSDEN, Machos Maricones & Gays. Cuba and Homosexuality, Temple University Press, Philadelphia (Pennsylvania) 1996, ora 2010. 371 C. S AADE, Soy el responsable de la Persecución un homosexuales que hubo en Cuba: Fidel Castro, «La Jornada», 31 agosto 2010, http://www.jor nada.unam.mx/2010/08/31/index.php?article=026e1mun§ion=mundo. 369 370

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V. I campi per rieducare e punire

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so, se devo assumermi una responsabilità lo faccio, non me ne sottraggo.372

Se gli omosessuali e gli effeminati sono considerati una minaccia sociale per la rivoluzione, non è così per i riformati cristiani e i Testimoni di Geova, giudicati dal regime pericolosi controrivoluzionari e spie, dal momento che molte religioni protestanti in attività a Cuba provengono dagli Stati Uniti d’America, conservando ancora legami. I più perseguitati sono i Testimoni di Geova, sia per il loro presunto collegamento con gli USA sia per la loro non condivisione delle regole e della vita del campo. Per essersi rifiutati di rispettare le regole del campo, in primis quella di indossare la divisa degli internati, sono costretti a subire violenze di ogni genere, dalle false esecuzioni capitali alle percosse, dalla privazione di acqua e cibo al soggiorno forzato nelle latrine, dall’interramento fino al collo alla esposizione sotto il sole completamente nudi, dall’impedimento alla corrispondenza al divieto di ricevere visite di parenti373. Nel luglio 1968 le UMAP sono chiuse e trasformate in Unità militari. Tutti i documenti sono distrutti 374. Il regime di detenzione in campi non è però del tutto abbandonato375.

5.21. I Centros clandestinos de detención in America Latina In America Latina, dagli anni Venti alla fine degli anni Settanta del Novecento, le svolte autoritarie concretatisi grazie a colpi di Stato, schiacciano il sub–continente americano in una spietata politica di repressione poliziesca. Queste dittature non

372

Ibidem. J.C. BLANCO, UMAP, cit., p. 86; Ros E., La UMAP, cit., pp. 101, 112, 193– 194. 374 J.L. LLOVIO–MENÉNDEZ, Insider, cit., p. 172–173. 375 Cfr. J. KOTEK, P. RIGOULOT, Il secolo dei campi, cit., pp. 512–513. 373

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

sono semplici sistemi di transizione, ma governi relativamente stabili per lunghi periodi376. Utilizzando l’arma della repressione e facendo permeare il puro terrore in ogni angolo, le dittature latinoamericane riescono a imporre l’oblio in tutto il corpo sociale, attraverso una “guerra sucia” (guerra sporca) contro ogni forma di opposizione civile377. In un archivio segreto rinvenuto nel dicembre del 1992 nel commissariato di Lambaré, a quattro chilometri da Asunción in Paraguay378, si è scoperto non solo i modi della repressione attuata in Paraguay dal regime di Stroessner, ma soprattutto è saltata fuori la “cooperazione del terrore” fra le dittature latinoamericane e gli Stati Uniti d’America chiamata Operación Cóndor (Operazione Condor)379. L’Operación Cóndor è stata un coordinamento tra gli organi di repressione di Argentina, Paraguay, Uruguay, Brasile, Perù e Cile, con il coinvolgimento della statunitense Central Intelligence Agency (CIA) e di gruppi di esiliati cubani, per stroncare 376

Guatemala (1921–1986), Republica Dominicana (1930–1978), El Salvador (1931–1982), Nicaragua (1936–1979), Paraguay (1949–1989), Haití (1957– 1990), Ecuador (1963–1966), Honduras (1963–1971, 1972–1982), Bolivia (1964–1982), Brasile (1964–1985), Argentina (1966–1973, 1976–1983), Panama (1968–1989), Perú (1968–1980), Cile (1973–1990), Uruguay (1973– 1985). 377 Cfr. P.P.A. F UNARI, A. ZARANKIN (coord), Arqueología de la represión y la resistencia en América Latina (1960–1980), Encuentro, Córdoba, 2006; W. ANSALDI, V. G IORDANO (coord), América Latina. Tiempos de violencias, Ariel, Buenos Aires 2014. 378 La scoperta è fatta dall’avvocato Martín Almada, con l’aiuto del giudice José Agustín Fernández. Almada è incarcerato per tre anni e mezzo nelle prigioni di Stroessner per la sua attività di sindacalista. Con il ripristino della democrazia nel suo Paese, inizia a indagare sui crimini della dittatura. 379 L’Archivio comprende 700.000 documenti che coprono dal 1954 al 1989, 740 quaderni, 115 diari della polizia, 204 casse di schede e documenti, 574 documenti che raccolgono i dati su organizzazioni politiche, 8639 schede segnaletiche, 1888 passaporti e carte d’identità, 10.000 fotografie di detenuti, 1.500 libri sequestrati dalla polizia, 534 cassette audio con registrazioni di interrogatori, conferenze, riunioni e programmi radiofonici. Cfr. M. ALMADA, Paraguay: la carcel olividada. El país exiliado, Ñandutí Vive, Asuncion 1993.

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V. I campi per rieducare e punire

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l’opposizione politica e il “cancro comunista e socialista”, attraverso sequestri, torture e assassinii380. Prima della grande Operación Cóndor esistevano nel sub– continente americano già delle correlazioni tra gli apparati militari dei vari Paesi interessati, legami tutti benedetti dagli Stati Uniti d’America. Tra questi il “patto di Chapultepec”, risultato di una Conferenza Panamericana riunitasi a Città di Messico nel 1945381, la “Scuola delle Americhe”382, le “Conferenze degli Eserciti Americani (CEA)383, la “Confederazione Anticomunista dell’America Latina (CAL)384, tutti in funzione anticomunista e di repressione delle opposizioni interne 385. Tra i vari meccanismi repressivi utilizzati, i centri clandestini di detenzione, l’omicidio politico e la desaparición forzada sono quelli che accomunano tutte le feroci dittature latinoamericane della seconda metà del Novecento. La desaparición forzada, la sparizione forzata, è lo strumento di repressione che più di tutti ha logorato il corpo sociale. Ha riferito Jorge Rafael Videla Redondo, presidente–dittatore dell’Argentina dal 1976 al 1981, intervistato nella cella numero 5 380

Cfr. J.P. MCSHERRY, Predatory States. Operation Condor and Covert War in Latin America, Rowman & Littlefield, Lanham 2005, trad. spagnolo Los Estados depredadores. La Operación Cóndor y la guerra encubierta en América Latina, Ediciones de la Banda Oriental, Montevideo 2009; S. CALLONI, Operación Cóndor, pacto criminal, La Jornada, Ciudad de México 1999, trad. it. Operazione Condor. Un patto criminale, Zambon, Milano 2010. 381 Durante i lavori gli USA misero in guardia gli Stati partecipanti contro un’eventuale espansione del comunismo. In questa riunione fu stabilito che, dopo incontri bilaterali, gli USA avrebbero fornito armi e finanziamenti per la lotta al comunismo. 382 Situata a Panama, la “Scuola delle Americhe” nacque in seguito alla Conferenza di Chaputepec. Qui si dovevano formare e addestrare gli ufficiali sudamericani. 383 Queste erano riunioni biennali e poco pubblicizzate, utili per lo scambio d’informazioni tra i vari servizi segreti riguardo le attività dei partiti, associazioni, o singole persone in odore di comunismo. 384 La CAL era un’emanazione di un movimento internazionale legato ai diversi servizi segreti di governi di destra o centrodestra, la “Lega Mondiale Anticomunista” (WACL). 385 Cfr. J.P. MCS HERRY, Los Estados depredadores, cit. pp. 92–152.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

della prigione federale di Campo de Mayo: «non potevamo fucilarli e nemmeno affidarli all’autorità giudiziaria»386, così si facevano semplicemente svanire nel nulla. I desaparecidos, le persone che scompaiono durante le dittature latinoamericane, non sono né vivi né morti, per chi resta sono semplicemente sospesi in un logorante limbo. A sparire sono veri o presunti oppositori del regime, chiunque è in odore di comunismo. Tra i desaparecidos molti sono studenti delle scuole secondarie e delle università, sindacalisti e intellettuali considerati ribelli. La desaparición ha riguardato perfino i neonati, vittime dell’ormai nota pratica del robo de los niños: molte gestanti arrestate sono accudite durante la gravidanza nei centri di detenzione clandestini e dopo il parto uccise, mentre i loro piccoli sono affidati alle famiglie dei militari o a quelle benestanti che appoggiano il regime. Il “prelievo” del “candidato” alla desaparición avviene nella più totale segretezza, portato a termine spesso di notte, e sempre senza testimoni, da forze governative speciali che agiscono in borghese e con furgoni anonimi. Nessuno informa i familiari dell’avvenuto arresto, come nessuno conosce cosa avviene dopo il “prelievo”. Il desaparecido semplicemente sparisce. Condotto senza alcun procedimento giudiziario in centri di detenzione clandestini, la vittima è interrogata con l’utilizzo della tortura387, poi uccisa e fatta sparire. In Argentina il regime utilizza i cosiddetti vuelos de la muerte (voli della morte): dopo essere stati drogati, le vittime sono gettate vive nell’oceano da 386

In C. REATO, Disposición final. La confesión de Videla sobre los desaparecidos, Editorial Sudamerica, Buenos Aires 2012, p. 2. Disposición final, era il termine che designava la “soluzione finale” destinata agli oppositori del regime argentino: nell’ambito militare significa liberarsi, smantellare qualcosa di inservibile. Ivi, p. 1. 387 In Cile, è accertato, alle sedute di tortura partecipavano anche dei medici, che consigliavano anche i modi per torturare senza far perdere conoscenza al detenuto. Cfr. Sale a la luz el listado de los Médicos que torturaron durante la Dictadura de Pinochet, in «Memorial dos Direitos Humanos», 30 de julho de 2013, http://memorialdh.sites.ufsc.br/sale-a-la-luz-el-listado-de-los-medicosque-torturaron-durante-la-dictadura-de-pinochet/.

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V. I campi per rieducare e punire

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speciali aerei388. L’efficacia di questa misura repressiva ha continuato a dare i suoi frutti oltrepassando la durata delle stesse dittature. Associati alla desaparición forzada, sono i Centros clandestinos de detención (centri di detenzione clandestini), altro dispositivo repressivo molto efficace dei regimi per liberarsi degli oppositori, veri o presunti. La maggior parte non sono campi di concentramento in senso classico, ma carceri, stazioni di polizia, navi, stadi, edifici pubblici, ville e spazi privati (come dei semplici garage o abitazioni). Molti sono ubicati addirittura in città. In questi centri l’arrestato subisce la spersonalizzazione: il prigioniero cessa di essere una persona e di avere un nome, per «diventare semplicemente un corpo»389 e un numero390 da “dividere”, “manipolare” e poi cancellare, per evitare la sua pericolosa “moltiplicazione”. In pratica, attraverso la detenzione in condizioni estreme si isola il presunto oppositore, con la tortura sistematica si cerca di carpire quante più informazioni possibili, con la sua uccisione si riduce il numero dei nemici del regime. L’Argentina e il Cile sono i due Stati dittatoriali latinoamericani con il numero maggiore di centri clandestini di detenzione. In Argentina sono esistiti due modelli di centri di detenzione clandestini: il Lugar Transitorio e il Lugar de Reunión de Detenidos. Il primo è una struttura provvisoria, destinata a ospitare i Cfr. H. VERBITSKY, El vuelo. “Una forma cristiana de muerte": confesiones de un oficial de la Armada, Planeta, Buenos Aires 1995, trad. it., Il volo. Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos, Feltrinelli, Milano 1996. È la confessione raccolta dall’autore di Adolfo Scilingo, già ufficiale della Marina militare argentina, che partecipò ad almeno due voli della morte. 389 P. C ALVEIRO, Poder y desaparición. Los campos de concentración en Argentina, Colihue, Buenos Aires, 1998, p. 47, trad. it. Potere e sparizione. I campi di concentramento in Argentina, Manifestolibri, Roma 2010. Pilar Calveiro è una accademica e analista sul biopotere originaria dell’Argentina, oppositrice attiva del regime militare del suo Paese e per questo “prelevata” e internata in diversi centri clandestini di detenzione, partendo da quello di Mansión Sere, a Tuzaingó, nella provincia di Buenos Aires. 390 L’assegnazione del numero aveva lo scopo principale di occultare l’identità anagrafica del detenuto per evitare che il suo nome uscisse dai centri di detenzione. 388

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

desaparecidos immediatamente dopo il “prelievo”; il secondo comprende un sistema di detenzione più organizzato e stabile in cui gli oppositori alloggiano e subiscono gli interrogatori sistematici con l’utilizzo della tortura391. Il centro clandestino argentino più famoso e più emblematico era situato nella Escuela Superior de Mecánica de la Armada (ESMA). Ubicata nella zona Nord della città di Buenos Aires, nel quartiere Núñez, con la facciata su Avenida del Libertador, la ESMA è stata all’origine una scuola per la formazione degli ufficiali della Marina argentina. La scuola successivamente è suddivisa in settori, vi sono zone destinate a uffici, altre riservate a ospitare ufficiali e militari, altre ancora adibite all’internamento e alla tortura dei nemici del regime. Quest’ultima zona è chiamata in codice Selenio e occupa tutto il terzo piano, l’attico, la mansarda e il sottotetto 392. In Cile, già durante le fasi del golpe del settembre 1973, l’Estadio Nacional de Chile, lo stadio di Ñuñoa, un grosso quartiere di Santiago, è utilizzato come campo di concentramento, internando sino a novembre di quell’anno all’incirca quarantamila persone. Il campo da gioco e gli spalti sono utilizzati per tenere imprigionati gli uomini, mentre le donne sono relegate nella piscina della struttura. Gli spogliatoi e l’infermeria diventano infernali luoghi di tortura e di esecuzioni393. In seguito il regime istituisce altri terribili luoghi di reclusione, concentramento e tortura, tra cui Villa Grimaldi, le due strutture di transito di Tres Álamos e Cuatro Álamos, il campo di Melinka, il villaggio di Chacabuco394. 391

Per tutti cfr. «La Voz», http://www.lavoz.com.ar/files/Ma pa.pdf. Per tutti i centri clandestini di detenzione argentini cfr. P. CALVEIRO, Potere e sparizione. I campi di concentramento in Argentina, cit. 393 Cfr. la testimonianza di Jorge Montealegre, che fu rinchiuso nello stadio immediatamente dopo il colpo di Stato: Las frazadas del Estadio Nacional, LOM, Santiago, 2003. 394 Un elenco dei centri di detenzione e di tortura in «Archivo Chile. Documentación de Historia Politico Social y Movimiento Popular contemporáneo de Chile y America Latina», http://www.archivochile.com/entra da.html. Cfr., anche, J. DEL VALLE, Campos de concentración. Chile, 1973–1976, Mosquito, Santiago 1997. 392

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V. I campi per rieducare e punire

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Villa Grimaldi era un’antica casa di villeggiatura dell’era coloniale, trasformata poi in centro di detenzione e tortura dalla terribile Dirección de Inteligencia Nacionalina (DINA, la polizia politica di Pinochet); Tres e Cuatro Álamos facevano parte di una struttura di accoglienza per minori disadattati, poi trasformata in centro clandestino di detenzione e tortura; il campo di Melinka si trova vicino al villaggio di Puchuncaví, a trentasei chilometri da Valparaíso, ed era all’origine un centro balneare per famiglie a basso reddito che apparteneva alla Confederazione dei lavoratori, poi trasformato in campo di detenzione dai primi cinquantotto internati prelevati dall’Estadio Nacional, costretti a installare le recinzioni di filo spinato e a costruire le torrette di guardia; Chacabuco era all’origine un piccolo villaggio minerario del deserto di Atacama nel Nord del Cile, poi trasformato in un sito per le esercitazioni militari, poi ancora in campo di concentramento per dissidenti politici395. Un altro particolare luogo di terrore della dittatura cilena è la Colonia Dignidad, una enclave di ex nazisti fuggiti dalla Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fondata nel 1961 da Paul Schäfer, ex infermiere della Luftwaffe e predicatore di una setta battista, Colonia Dignidad è ubicata nella zona precordillerana di Parral (oggi si chiama Villa Baviera). Mascherata sotto la denominazione di Sociedad Benefactora y Educacional Dignidad, la colonia ottenne dall’allora presidente del Cile Jorge Alessandri personalità giuridica e l’esenzione dalle tasse, diventando uno staterello inaccessibile, in cui i circa duecento abitanti vivevano sottomessi alle regole dettate da Schäfer396. Quando Augusto Pinochet s’impadronisce del potere nel 1973, la colonia diventa organica alla dittatura: il piccolo villaggio non solo diviene sito di traffico d’armi e di addestramento di agenti cileni 395

Il villaggio ha oggi un solo abitante, Roberto Zaldivar, un ex detenuto sopravvissuto agli orrori del campo, che ha scelto di vivere qui per conservare la memoria di quella che fu per la dittatura la sua terribile casa. 396 Nella Colonia trovarono rifugio per breve tempo anche ex criminali nazisti, tra cui il demoniaco medico Josef Mengele. Cfr. P. LEVENDA, Unholy Alliance. A History of Nazi Involvement with the Occult, Avon, New York 1995, p. 306 (ora Continuum, New York 2002).

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

alle tecniche di interrogatorio, ma anche centro di detenzione, luogo di tortura e di desaparición del regime397. Soltanto nel 1996 il governo cileno ha tolto la personalità giuridica a Colonia Dignidad. Un anno dopo Schäfer fugge in Argentina, travolto dalle numerose denunce, tra cui quelle di pedofilia. Schäfer muore nel 2010 nell’ospedale del carcere di Santiago a ottantotto anni, dove, dopo essere stato estradato dall’Argentina, stava scontando una condanna a venti anni per violenze sessuali, violazione delle leggi cilene sulle armi e delitti fiscali, ma non per complicità nelle atrocità del regime di Pinochet. L’America Latina è ancora oggi regno dell’impunità trionfante per i delitti delle dittature e luogo d’ingiustizia per quelle madri che ancora cercano i loro figli desaparecidos.

5.22. I campi del fascismo ellenico In Grecia, sin dall’inizio del Novecento si aprono campi di esilio e concentramento in nome dell’anticomunismo. La legge 4229 del luglio 1929, il famoso “Idionymo” del governo di Eleutherios Venizelos, prevedeva che qualsiasi atto riguardante “il rovesciamento del sistema sociale esistente con la forza o il distacco di una parte del paese” è considerata una “infrazione speciale” e per questo moltissimi comunisti, veri o presunti, furono deportati in massa sulle isole di Ai Stratis (Agiostrati), Yaros e Gavdos398. Con l’instaurazione della dittatura nel 1936 da parte del generale Ioannis Metaxas, i campi greci tornarono a ripopolarsi. Il fascismo ellenico di Metaxas impose infatti un regime polizie-

397

Cfr. C. BASSO PRIETO, El último secreto de Colonia Dignidad, Mare Nostrum, Santiago 2002; F.P. HELLER, Pantalones de cuero, moños y metralletas. El trasfondo de Colonia Dignidad, ChileAmérica Cesoc, Santiago 2006. 398 P. VOGLIS, Becoming a Subject. Political Prisoners During the Greek Civil War, Berghahn Books, Oxford 2002, pp. 35–36; L. KOZARIS, Les iles de l’exil et le serpent noir, in «Gréce Hebdo», http://grecehebdo.gr/index.php/culture /lettres/1924-les-iles-de-l’exil-et-le-serpent-noir.

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V. I campi per rieducare e punire

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sco, basato sugli arresti, le torture, gli esili in campi di concentramento399. Prendendo come riferimento la nozione di Terzo Reich di Hitler, Metaxas elaborò la nozione di “Terza civiltà ellenica”. La prima era stata quella della Grecia antica, in particolare di Sparta, la seconda quella della Grecia medievale della Bisanzio cristiana, la terza sarebbe stata un amalgama delle prime due, sotto la sua guida lungimirante. Per questo Metaxas si faceva chiamare protos agrotis (primo agricoltore) oppure protos ergatis (primo operaio), per evidenziare il suo ruolo di “guida” nella costruzione di una “Terza Grecia”, cristiana–ortodossa e anticomunista400. La dittatura ellenica prescrisse così i “certificati di correttezza politica e sociale” per la costruzione di un Paese purificato da cittadini inquinati da ideologie nefaste, in primis dal comunismo. Proprio la dirigenza del Partito Comunista Greco e delle organizzazioni comuniste minori, poi anche dei loro sostenitori, furono i più colpiti da misure amministrative di custodia in carcere o all’internamento. La cattura e l’imprigionamento degli avversari avveniva quindi senza processo, anzi, una circolare del regime diretta alle autorità di polizia imponeva di non celebrare processi politici contro i dissidenti, poiché il tribunale poteva trasformarsi in una tribuna da cui esporre idee sovversive. Bisognava di conseguenza mettere direttamente in carcere gli oppositori oppure internarli nei campi di concentramento da dove non potevano comunicare con il mondo esterno e da dove, sotto tortura, avrebbero sottoscritto la “dichiarazione di pentimento”, rinnegando il loro credo politico e denunciando i propri compagni401. La “dichiarazione di pentimento” divenne requisito indispensabile per ottenere il “certificato di correttezza politica e sociale”. 399

Cfr. R. HIGHAM, T. VEREMIS (eds), The Metaxas Dictatorship. Aspects of Greece 1936–1940, ELIAMEP, Athína 1993. 400 Cfr. M. PETRAKIS, The Metaxas Myth. Dictatorship and Propaganda in Greece, Tauris Academic Studies, London–New York 2006, pp. 32–63. 401 Cfr. M.E. KENNA, The Social Organization of Exile. Greek Political Detainees in the 1930s, Routledge, London–New York 2001, ora 2013, pp. 20–30.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Dopo aver subito l’occupazione italo–tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale, la Grecia è scossa da una feroce guerra civile (1946–1949). Cacciati i tedeschi nel 1944, infatti, la Grecia si ritrova divisa politicamente: da una parte i partigiani vicini al governo monarchico, patrocinati da Gran Bretagna e poi dagli USA; dall’altra i partigiani antifascisti organizzati dal Kommunistikό Komma Elladas (KKE, il Partito Comunista di Grecia), sostenuti dai partigiani del NOF (i combattenti macedoni provenienti soprattutto dalla Jugoslavia) 402. Durante la guerra civile, Giorgio II siede sul trono e il partito monarchico governa il Paese. La vita quotidiana dei greci è sottoposta a un rigido controllo. La popolazione per poter lavorare in enti pubblici e votare è obbligata a portare con sé un documento, il “Harti Koinonikon Fronimaton” (carta del credo sociale), dove è attestato che il possessore non è comunista. Con una semplice decisione amministrativa, presa da un comitato di sicurezza pubblica, molti comunisti veri o presunti sono incarcerati in prigioni o internati nelle isole dell’Egeo, tra cui Makronisos, Iaros, Chios, Trikeri, questi ultimi due campi per donne403. I primi ad abitare in questi luoghi sono circa cinquecento soldati dell’esercito greco, considerati sospetti per le loro opinioni politiche. Dalla primavera del 1947, infatti, tre battaglioni di soldati sono di stanza nella famigerata isola di Makronisos (cosiddetto Battaglione D). Qui i monarchici allestiscono nella parte settentrionale dell’isola un campo per gli ufficiali e tre per i soldati, tutti fatti di tende e circondati da filo spinato. Ai quattro campi militari si aggiunge molto presto un campo per civili. Tutti i campi della guerra civile servono per educare i “cattivi greci” attraverso il lavoro forzato, le torture e le lezioni di indottrinamento. Alla crudele opera dei carcerieri, si aggiunge il caldo torrido e i venti sostenuti che alzano polvere accecante in 402

Cfr. G. VACCARINO, La Grecia tra Resistenza e guerra civile 1940–1949, FrancoAngeli, Milano 1988, pp. 126–302. 403 Per tutti cfr. P. VOGLIS, Becoming a Subject, cit., pp. 100–115. La mappa e le informazioni dei luoghi di reclusione in http://www.mouseiodi mokratias.gr/english/map.asp.

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V. I campi per rieducare e punire

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estate; il freddo e i venti gelidi in inverno. Le drammatiche condizioni di vita sono inasprite dalle incessanti pressioni esercitate dalle autorità del campo per spingere gli internati a sconfessare pubblicamente le loro idee politiche e fare atto di sottomissione al re attraverso una dichiarazione scritta, che poi è pubblicata sui quotidiani nazionali. Solo così si può lasciare il campo. I campi dell’isola di Makronisos sono i più terribili, per qualità della vita e per il menù delle torture. Il regime li chiama “Centri di educazione morale e nazionale”, ma in realtà sono istituzioni in cui di morale non c’è proprio nulla: supplizi, esecuzioni, lavori faticosi insensati, malnutrizione e mancanza di apporto d’acqua sono all’ordine del giorno. Nei campi di Makronisos si svolgono due lezione teoriche di educazione nazionale, il mezzogiorno e il tardo pomeriggio, dopo aver svolto la lezione pratica di patriottismo, ossia i lavori forzati. Nell’intermezzo ci sono le torture, per convincere più in fretta gli internati a sottoscrivere il loro atto di pentimento e di sottomissione al regime404. Tra le torture che fanno divertire i carcerieri, oltre alla corsa a piedi nudi sulle rocce e l’entrata in mare con i piedi feriti, le lunghe marce senza meta all’interno del campo con i pesi sulla schiena, c’è quella del sacco, raccontata da Stavros Touvlis, un soldato del Battaglione D internato a Makronisos per le sue presunte simpatie al comunismo: un prigioniero è messo in un sacco assieme a un gatto e gettato nel mare, l’animale per salvarsi lacera con le unghie sia il sacco sia l’uomo all’interno 405. La guerra civile, che costa al Paese più di mezzo milione di morti, si conclude alla fine del 1949 con la vittoria dei conservatori, ma le misure di internamento non cessano immediatamente. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta iniziano ad affievolirsi, per poi riprendere in grande stile dall’aprile del 1967. 404

La storia dei campi di Makronisos, con immagini e fotografie dell’epoca, in http://makronissos.net/. 405 Testimonianza di Stavros Touvlis. L’uomo, ora deceduto, ha rischiato di finire nuovamente nei campi durante la dittatura dei colonnelli, ma il presidente del suo villaggio ha garantito che non era “pericoloso”, salvandogli così la vita.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Il mattino del 21 aprile 1967 gli ateniesi si svegliano e scoprono che i loro telefoni sono isolati e le emittenti radiofoniche preferite sono mute, solo il canale radiofonico 10 dell’esercito funziona e trasmette marce militari. Dalle loro finestre gli ateniesi vedono per la strada molti carri armati. Alle 6.25 un comunicato dalla radio dell’esercito informa i greci che nella notte è avvenuto un colpo di Stato: «Qui stazione radio delle Forze Armate greche. A causa della drammatica situazione che si è creata, da mezzanotte l’esercito ha assunto il governo del Paese»406. Seguono altri comunicati, tra cui quello che informa sulla sospensione dei diritti civili sanciti dalla Costituzione e sulla istituzione della legge marziale407. Inizia la dittatura militare retta dal triumvirato dei colonnelli Georgios Papadopoulos, Nikolaos Makarezos e Stylianos Pattakòs. Per sette lunghi anni la patria della democrazia è divorata da una feroce tirannia. Due giorni dopo il golpe, il colonnello Papadopoulos giustifica il colpo di mano militare in nome del pericolo comunista: Il Paese era caduto in una profonda crisi. Io cercavo una soluzione perché la politica era in un vicolo cieco. I greci per la loro storia non sono vicini al comunismo, perché il comunismo non ha nessuna cosa in comune con la tradizione cristiana che è sempre stata alla base dell’educazione dei greci. In questa situazione l’esercito nazionale e le forze armate del Paese erano l’unica forza neutrale che poteva scendere in campo, mentre i greci si stavano aspramente contrapponendo gli uni agli altri. Questa forza ha creduto opportuno intervenire sentendosi in dovere di fermare la corsa del Paese verso il precipizio.408 406

Cit. da F. VLAXOU, Dimosiografikà xronia, peninda kai kati., o agonas ton “anthellinon”, (Gli anni del giornalismo, cinquanta e un po’. La lotta degli “antigreci”), Elefttheroudakis, Athina 2008, pp. 18–32, così cit. in C. VENTUROLI, Il colpo di stato in Grecia e la Giunta dei Colonnelli Nodi e interpretazioni storiografiche, «Storicamente», 8, 2012, p. 3. 407 Ibidem. 408 Tratto dal documentario di Theodosi Theodosopoulos, Η ανατομία μιας δικτατορίας 1967–1974 (L’anatomia di una dittatura 1967–1974). L’opera è presente in lingua originale su https://www.youtube.com/watch?v=yTNYoa PTjH0.

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V. I campi per rieducare e punire

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Già dall’alba del 21 aprile, le unità dell’ESA (Elliniki Stratiotiki Astynomia, la Polizia militare greca) e dell’Asphalia (la Polizia di sicurezza), seguendo liste già predisposte, arrestano migliaia di persone, ammassandoli nello stadio olimpico di Atene e nell’ippodromo del Vecchio Falero, sempre nella capitale. Tra gli arrestati la maggior parte appartiene alla politica di governo, tra cui il primo ministro Panagiotis Kanellopoulos, gli altri sono cittadini schedati dai servizi di sicurezza come comunisti409. Nel corso degli anni, a tutte queste persone si aggiungerà chiunque risulti sospettato o sospettabile in base a mere considerazioni politiche. Con l’istituzione della dittatura militare, l’internamento e la tortura diventano i principali strumenti per controllare la popolazione410. Nel sottotetto del quartier generale dell’Asphalia, che si trova in via Bouboulinas ad Atene, si svolgono gli interrogatori dei primi arrestati: per mascherare la tortura sono utilizzate tre grosse motociclette, che azionate, coprono le urla delle vittime411. Altri attivi centri di tortura sono situati nel poligono di Gaudi (Atene), a Salonicco, nel carcere militare di Baytati e di Aghia Paraskevi, nel posto di guardia di Nea Ionia. Il “menù” durante gli interrogatori prevede, giusto per citarne una parte, elettroshock, pestaggi, ustioni, sospensioni, torture sessuali, finte esecuzioni, deprivazioni del sonno, di cibo e acqua 412. La repressione della giunta militare è così violenta che già a settembre dello stesso 1967, la Danimarca, l’Olanda, la Svezia e la Norvegia denunciano la Grecia dei colonnelli alla Commissione europea dei diritti dell’uomo, chiedendo anche la sua so409

Cfr. P. MARITATI, Grecia. Dalla guerra civile ai Colonnelli, Youcanprint, Roma 2015, pp. 146–148. 410 Cfr. J. BECKET, Barbarism in Greece. A young lawyer’s inquiry into the use of torture in contemporary Greece with case histories and documenents, Walker, New York 1970, trad. it. Tortura in Grecia. Racconti, testimonianze e documenti, Feltrinelli, Milano 1970. 411 Cfr. Hellenic American Society, «Journal of the Hellenic American Society», Volume 1, 1–3, 1973, pp. 20–21. 412 Cfr. J. BECKET, Tortura in Grecia, cit. p.41.

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La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

spensione dal Consiglio d’Europa413. Il 30 dicembre 1967 Amnesty International invia una delegazione in Grecia, che riscontra palesi violazioni dei diritti umani da parte del regime 414. Tra gli ottomila e i diecimila sono gli esiliati politici, trentasette le carceri che accolgono i più pericolosi, ottantatré i luoghi di detenzione e tortura. La parte più consistente dei dissidenti è confinata nelle isole deserte del mar Egeo come Makronisos, Yaros e Youra, o isole abitate come Leros, Agios Eustratios e Trikeri415; altri piccoli gruppi di presunti oppositori sono relegati in sperduti villaggi di montagna, come Zatouna in Arcadia (Peloponneso centrale)416. Le isole sono i luoghi più difficili, specialmente quelle disabitate, la maggior parte delle quali sono solo roccia arida, senza vegetazione e tutte senza acqua potabile. Così Stathis Panagoulis, giovane studente, arrestato per aver distribuito volantini alla vigilia delle elezioni nel 1967, descrive l’isola di Yaros e il suo campo: Tutta di rocce rosse, a punta e con queste baracche di mattoni coperte da un tetto nero […] Non ti ho detto perché secondo me era una piccola Dachau. Anzitutto per come ci tenevano in quelle camerate, e poi per via dei topi e i serpenti e gli scorpioni e la mancanza d’acqua. Non c’è un albero a Yaros e non c’è acqua. Solo una volta al mese la portano dal Pireo […] I serpenti te li ritrovi sempre nel letto […] e gli scorpioni. […]. Sai quanta gente a Yaros è morta per queste cose? Dal 1967 413

La Commissione, dopo aver ascoltato sedici vittime e quarantadue testimoni, accertò la violazione dei diritti dell’uomo e l’uso della tortura da parte del regime. Cfr. «Corte Europea dei diritti dell’uomo», http://www.echr. coe.int/Documents/Denmark_Norway_Sweden_Netherlands_v_Greece_I.pdf. 414 Confronta il report della missione in «Amnesty International», in particolare l’appendice “B”: https://www.amnesty.gr/wp-content/uploads/2014/11/ EUR-25-001-1968-2.pdf. 415 La maggior parte di queste isole sono state già utilizzate come luoghi d’internamento durante e dopo la guerra civile del 1944–1949. Cfr. P. VOGLIS, Becoming a Subject. Political Prisoners During the Greek Civil War, Berghahn, New York–Oxford 2002, pp. 100–115. 416 Per tutti cfr. V. KARDASSIS, A. PSAROMILINGOS (eds), Desmotes tis Xountas, Eleftherotipia E–Istorika, Athina 2009.

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V. I campi per rieducare e punire

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almeno 60. Sono morte per mancanze di cure. Quando ti sentivi male non ti davano che un’aspirina, qualsiasi cosa avessi.417

La maggior parte degli internati è reclusa per decisione amministrativa, il loro arresto avviene non per quello che hanno fatto, ma per quello “che avrebbero potuto fare”418. A tutti gli internati non si chiede altro che rinnegare le loro convinzioni politiche in favore del regime e sottoscrivere un “contratto”, poi pubblicato sui giornali nazionali, in cui si impegnano a rinunciare a qualsiasi attività politica. Ovviamente tutto questo è attuato con l’utilizzo della tortura. Di fronte alle difficoltà economiche crescenti, all’isolamento diplomatico, all’aumento del dissenso popolare che crea frequenti sommosse specialmente tra le giovani generazioni, tra cui la famosa rivolta del 1973 del Politecnico di Atene 419, la minaccia di una guerra con la Turchia a seguito di un golpe filo–greco nell’isola di Cipro420, la giunta militare ellenica cerca consenso iniziando una transizione verso la democrazia, che arriva solo con le elezioni del novembre 1974. Con l’instaurarsi della democrazia i campi sono svuotati e abbandonati, molti responsabili della dittatura sono sottoposti a processo e condannati con pene molto pesanti. Dall’intervista a Stathis Panagoulis in “I giorni della Grecia”, «L’Europeo», anno XXX, n. 32, 8 agosto 1974, pp. 31–34. 418 Athènes–Presse Libre, Le livre noir de la dictature en Grèce, dossier curato da A. FAKINOS, C. LEPIDIS, R. SOMERITIS, Le Seuil, Paris 1969, p. 46. 419 Il malumore degli studenti sfociò nell’occupazione del Politecnico di Atene il 14 novembre. Migliaia di persone si radunarono attorno al Politecnico. La giunta militare proclamò la legge marziale e, dopo tre giorni, inviò un carro armato che aprì le porte del Politecnico, permettendo ai militari di fare irruzione. Ventiquattro persone furono uccise, tutte tra i manifestanti all’esterno della facoltà. Cfr. R. RAFTOPOULOS, Gli studenti greci durante il regime dei colonnelli. Tra diritti umani violati e tensione europeista (1967–1974), in G. LASCHI (a cura di), Memoria d’Europa. Riflessioni su dittature, autoritarismo, bonapartismo e svolte democratiche, FrancoAngeli, Milano 2012, pp. 93–110. 420 Il 15 luglio 1974 è attuato un colpo di Stato filo–greco con l’intento di “unire” l’isola alla Grecia. Sulla questione cipriota rimando al mio Cipro, l’isola del Mediterraneo ostaggio della storia, in «Storia in Network», n. 120, ottobre 2006, http://win.storiain.net/arret/num120/artic7.asp. 417

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Capitolo VI

I campi e il tradimento di Ippocrate

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6.1. L’ethos ippocratico I princìpi e i valori che, sin dall’antichità, governano la pratica professionale della medicina obbligano il medico ad agire sempre nel rispetto del valore di base della dignità umana. Il medico è, dunque, una figura di riferimento che deve curare e studiare per guarire l’essere umano. Cosa rende un medico tale, è lo scopo della vita e della dignità umana. Oltre a questi inviolabili valori, l’etica medica deve assicurare assistenza (aiutare e risanare le persone malate), non deve causare danni al paziente (scongiurare rischi eccessivi o inutili per la persona, non praticare alcun trattamento non sicuro, tenere in conto gli effetti collaterali), deve favorire l’autodeterminazione dell’ammalato (che deve essere sempre preventivamente informato per poter approvare esplicitamente le prestazioni mediche), deve assicurare la sua imparzialità e rettitudine (trattare tutti con equità e, quindi, non favorire o negare le cure in funzione dell’appartenenza a una etnia, a una religione, a un ceto sociale, a una ideologia e così via), rispettare il segreto professionale1. In questo senso il celebre “Giuramento di Ippocrate”, è uno dei simboli più importanti della professione medica. Chiamato così perché ricalca l’antico giuramento che il medico greco Ippocrate (460 a.C. ca – 377 a.C.) faceva fare ai suoi allievi, è una 1

Sull’argomento cfr. P. PREMOLI DE MARCHI, Introduzione all’etica medica, Accademia University Press, Torino 2012.

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344 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

promessa solenne che definisce gli obblighi etico–professionali del medico2:

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Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento; di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente; di attenermi nella mia attività ai princìpi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; di prestare la mia opera con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza e osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione; di affidare la mia reputazione esclusivamente alla mia capacità professionale e alle mie doti morali; di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il prestigio e la dignità della categoria; di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni; di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo ed impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica; di prestare assistenza d’urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’Autorità competente; di rispettare e facilitare in ogni caso il diritto del malato alla libera scelta del suo medico, tenuto conto che il rapporto tra 2

Cfr. G. MOTTURA, Il giuramento di Ippocrate. I doveri del medico nella storia, Editori Riuniti, Roma 1986.

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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medico e paziente è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul reciproco rispetto; di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato.

Nell’ethos ippocratico la philotechnia (l’arte e la scienza) era ed è inseparabilmente legata alla philanthropia (benevolenza, comportarsi con dignità nei confronti degli altri, amore per l’essere umano)3. Quando la scienza è applicata oltre il limite dell’etica e delle leggi umane, non è affatto scienza. Se poi la scienza si identifica con la politica e con quest’ultima stabilisce la soglia tra la vita e la morte, ossia delibera che ci sono vite che possono essere sacrificate in nome di una visione biopolitica, siamo dentro la bio–tanatopolitica. Ecco allora che gli esperimenti scientifici su cavie umane si caratterizzano per la loro normativizzazione assoluta della vita, che si sovrappone mortalmente a un’altrettanta assoluta biologizzazione della norma4. Gli esperimenti sugli esseri umani sono una costante in tutta la storia dell’uomo. Se nell’antichità furono utilizzati prigionieri di guerra e schiavi per studiare approfonditamente l’anatomia umana, le tecniche di conservazione e l’efficacia dei medicamenti, e nel Medioevo per sperimentazioni sistematiche e quantificazioni, nell’epoca moderna e contemporanea acquistano un nuovo aspetto per lo più legato all’utilizzo militare. Molti Stati, nell’assoluta segretezza, hanno effettuato esperimenti su cavie umane5, ma sono stati il nazismo e l’imperialismo nipponico, più di altri, ad attuare con assoluta meticolosità la bio–tanatopo3

Cfr. M. GENSABELLA FURNARI (a cura di), Il paziente il medico e l’arte della cura, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2005, p. 31. 4 Cfr. R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, soprattutto pp. 200–215. L’autore si riferisce al nazismo. 5 Cfr. P.M. MCNEILL, The Ethics and Politics of Human Experimentation, Cambridge University Press, Cambridge (England) 1993, pp 17–115; A. GOLISZEK, In the Name of Science: A History of Secret Programs, Medical Research, and Human Experimentation, St. Martin’s Press, New York 2003.

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346 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

litica, attraverso folli e insensati esperimenti condotti su cavie umane prelevate dai loro campi di concentramento.

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6.2. L’eugenetica nazista senza veti morali Il nazismo è stato la realizzazione storica più crudele della biologizzazione assoluta della politica. Per i nazisti, infatti, la biologia è politica e viceversa. Lo riferì pubblicamente in una adunata di massa del 1934, Rudolf Hess, vice del Führer: «il nazionalsocialismo non è altro che biologia applicata» 6. In un autorevole manuale di medicina dell’epoca scritto da Rudolf Ramm, docente alla facoltà di Medicina di Berlino, il concetto si rafforza: «il nazionalsocialismo, a differenza di qualsiasi filosofia politica o di qualsiasi altro programma di partito, è in accordo con la storia naturale e con la biologia dell’uomo»7. Lo stesso Hitler è considerato nel “Compendio di teoria della ereditarietà umana e igiene della razza”, pubblicato nel 1931 dal botanico Erwin Bauer, dal genetista Fritz Lenz e dall’antropologo Eugen Fischer, «il grande medico tedesco», capace di muovere «il passo finale nella sconfitta dello storicismo e nel riconoscimento di valori puramente biologici» 8. Nell’allucinata filosofia politica del nazionalsocialismo, tutta impastata di razzismo, eugenismo e darwinismo sociale, il medico nazista diventa soldato di Hitler e della biologia, avocando a sé il diritto di amministrare la vita e la morte: Il terzo Reich fu un’opportunità d’oro per la scienza biomedica per estendere le proprie frontiere, cercare le “verità ultime 6

Cit. in R.J. LIFTON, The nazi doctors. Medical Killing and the Psychology of Genocide, Basic Books, New York 1986, trad. it., I medici nazisti. La psicologia del genocidio, Rizzoli, Milano 2003 (ora 2012), p. 51; anche in R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 117. 7 R. R AMM, Ärztliche Rechts und Standeskunde. Der Arzt als Gesundheitserzieher, Berlin 1943, p. 178, così cit. in R.J. LIFTON, I medici nazisti, cit., pp. 50–51; anche in R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., pp. 117–118. 8 E. B AUR, E. F ISCHER, F. LENZ, Grundriss der menschlichen Erblichkeitslehre und Rassenhygiene, München 1931, pp. 417–418, così cit. da R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 117.

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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biologiche” senza veti morali, usando esseri umani come animali da esperimento. L’ideologia politica non domandava altro che quella opportunità venisse presa al volo, dato che gli animali umani coinvolti erano inutili, dannosi e sarebbero comunque stati sterminati. Perché non usarli per ricavarne benefici?9

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I medici nazisti, sia quelli a capo delle strutture sanitarie, compreso il personale loro subordinato, sia quelli impiegati negli istituti di ricerca delle facoltà scientifiche, svolsero un ruolo decisivo nella messa in atto dei programmi razziali di Hitler, i quali sfociarono poi nella Shoah: Il nazionalsocialismo aveva educato gli individui, e tra questi anche i medici, a riconoscere nel Führer la più alta personificazione dell’ideale umano e politico: tutta la vita della Germania era nelle mani di quell’individuo.10

Molti medici tedeschi, aderendo e uniformandosi ai princìpi del nazismo, divennero i “custodi della razza” e i consulenti genetici del Reich. Questo significò per loro avanzamenti di carriera all’interno del Reich. Per molti di loro con il nazismo arrivò la concreta opportunità di incrementare le proprie conoscenze scientifiche, quindi, di aumentare il proprio prestigio, anche se questo trasformò il loro lavoro di ricerca in attività di uccisione di inconsapevoli cavie umane alla mercé della politica. Questi medici motivavano la loro condotta medica richiamandosi al dovere del medico di ubbidire alle leggi dello Stato e al principio utilitaristico secondo il quale, durante una guerra, la ricerca deve privilegiare gli interessi della società a quelli del singolo11. Questi medici, infatti, avevano

R. DE FRANCO, In nome di Ippocrate. Dall’“olocausto medico” nazista all’etica sperimentazione contemporanea, FrancoAngeli, Milano 2001, p. 95. 10 A. RICCIARDI VON PLATEN, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, Le Lettere, Firenze 2000, p. 95. 11 Cfr. A. M ITSCHERLICH , F. MIELKE, P. BERNARDINI MARZOLLA, Medicina disumana. Documenti del processo dei medici di Norimberga, Feltrinelli, Milano 1967. 9

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348 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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veramente creduto di rispettare nella sostanza, se non nella forma, il giuramento di Ippocrate di non nuocere in alcun modo al malato. Solamente identificavano il malato, anziché nel singolo individuo, nel popolo tedesco nel suo complesso: era precisamente la sua cura a richiedere la morte di tutti coloro che ne minacciavano la salute con la loro stessa esistenza.12

I medici nazisti, assieme al loro personale sottoposto, presero parte alla delirante teoria razzista della superiorità della “razza” nordica, all’ipotesi della creazione di un “superuomo ariano”, alla politica demografica di selezione degli “adatti”. Il nazismo raccoglie così il pensiero eugenista già presente in Germania e in Occidente, portandolo ai suoi esiti estremi. La fisima della “purezza e qualità della razza”, infatti, è una idea che da tempo si ritrova nella storia dell’umanità. Già difesa in passato da autori classici 13, proprio per indicare l’auspicarsi di una filiazione tra gli individui migliori, nella seconda parte dell’Ottocento la “filosofia per migliorare l’umanità” diventa una scienza applicata. È l’antropologo Francis Galton, cugino del celebre Charles Darwin, che nel 1883, nell’opera Inquiries into the human faculty and its development, introduce il neologismo eugenics, derivandolo dal greco eugéneia (di buona stirpe, di buona nascita), per indicare il programma finalizzato a migliorare, attraverso procreazioni selettive, la specie umana 14: Quello che la natura fa ciecamente, lentamente e brutalmente, l’uomo può fare con lungimiranza, rapidità e delicatezza. […] Il miglioramento del nostro lignaggio mi sembra uno dei più alti scopi che ci sia dato di perseguire razionalmente.15 12

Cfr. R. ESPOSITO, cit., pp. 121–122. Dalla “Repubblica” di Platone alla “Città del Sole” di Campanella, non mancano pretese soluzioni che accompagnano una visione eugenica dello Stato e della società. 14 Dal connubio tra eugenica e genetica, l’originario “eugenica” è sostituito nel Novecento dal termine “eugenetica”. Cfr. C. FUSCHETTO, Fabbricare l’uomo. L’eugenetica tra biologia e ideologia, Armando, Roma 2004, pp. 29–52. 15 F. GALTON, Essays in Eugenics, Eugenics Education Society, London 1909, p. 42. 13

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In questa visione, la scienza diventa collaboratrice della natura per migliorare l’umanità. Le tesi di Galton sbarcano subito negli Stati Uniti d’America. Nel 1907 lo Stato dell’Indiana vara la prima legge sulla sterilizzazione delle persone considerate “socialmente inadeguate”: pazienti psichiatrici, oligofrenici, alcolizzati, talassemici, epilettici, condannati per crimini sessuali, individui “moralmente depravati”. In seguito, altri ventinove Stati della Federazione americana adottano questa norma 16. Sempre negli Stati Uniti, nel 1922 è coniato il termine “Under Man” (sub–umano) che diventerà il cavallo di battaglia della ideologia nazista della “purezza della razza”. Autore è Theodore Lothrop Stoddard, tra i padri del razzismo scientifico, che intitola un suo saggio The Revolt Against Civilization. The Menace of the Under Man17 (La rivolta contro la civilizzazione. La minaccia del sub–umano), in cui definisce sub–umani i bolscevichi russi. Il termine è in seguito adottato dai nazisti grazie alla versione tedesca del libro: Der Kulturumsturz: Die Drohung des Untermenschen18. Le teorie della purezza e qualità della razza non sono quindi una prerogativa nazista, ma trovano terreno facile negli ambienti scientifici tedeschi. Nel 1895, Alfred Jost, uno dei pionieri dell’eugenetica tedesca, pubblica Das Rech auf den Tod (Il diritto alla morte), dando il via al dibattito in Germania sull’eutanasia. Nel 1920, invece, il libro Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens19 (La liberalizzazione della soppressione della vita indegna di essere vissuta) 20, scritto dal giurista Karl 16

Cfr. E. BLACK, War Against the Weak. America’s Crusade To Create A Super Race, Four Walls Eight Windows, New York, 2003; C. FUSCHETTO, Fabbricare l’uomo, cit., pp. 105–115. 17 Sribner’s Sons, New York 1922. 18 J. F. Lehmann, München 1925. Nel 1935, il termine diventa anche il titolo di un libro pubblicato dalle SS: Der Untermensch [The Reichsführer–SS, SS Office, Berlin]. 19 Verlang von Felix Meiner, Lipsia, 1920. 20 In italiano cfr, Precursori dello sterminio. Binding e Hoche all’origine dell’“eutanasia” dei malati di mente in Germania, a cura di E. DE CRISTOFARO e C. SALETTI, Ombre Corte, Verona 2012.

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350 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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Binding e dallo psichiatra Alfred Hoche, che nazisti non lo furono mai, apre il dibattito intorno al tema della “eutanasia di Stato”. Infatti, Binding propone nel saggio una serie di tesi a supporto della legalità di somministrare una «morte pietosa» a disabili e malati incurabili, mentre Hoche approfondisce l’aspetto scientifico adducendo una serie di giustificazioni sociali alla soppressione dei pazienti disabili o gravemente ammalati. L’elemento fondamentale che dà il via definitivo alla politica demografica e razziale nazista è il concetto della “purezza della razza” diffuso da Hitler. Scrive il Führer nel suo Mein Kampf (La mia battaglia): Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino. Qui, lo Stato nazionale deve fornire un enorme lavoro educativo, che un giorno apparirà quale un’opera grandiosa, più grandiosa delle più vittoriose guerre della nostra epoca borghese. Lo Stato deve, con l’educazione, insegnare agli individui che l’essere malati e deboli non è una vergogna, ma è solo una disgrazia meritevole di compassione, e che è delitto e vergogna il disonorarsi e il dar prova d’egoismo imponendo la malattia e la debolezza a creature innocenti. […] Basterebbe impedire per sei secoli la capacità e la facoltà di generare nei degenerati di corpo e nei malati di spirito per liberare l’umanità da un’immensa sventura e per condurla ad uno stato di sanità oggi quasi inconcepibile. Quando sarà realizzata, in modo cosciente e metodico, e favorita la fecondità della parte più sana della nazione, si avrà una razza che, almeno in principio, avrà eliminati i germi dell’odierna decadenza fisica e morale.21

In questo passaggio di quello che è ritenuto il “manifesto nazista”, è espressa la struttura biopolitica fondamentale che assumerà il nazismo, ossia la possibilità di decidere se la vita sia degna o indegna di essere vissuta. Siccome nessuno ebbe il coraggio di suggerire a Hitler che il “gruppo razziale ariano” è un’errata trasposizione sul piano bio21

A. HITLER, Mein Kampf, Franz Eher, München 1925–1926, trad. it. La mia battaglia, Bompiani, Milano 1939, pp. 44–45.

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logico di una “famiglia linguistica”, i fedeli accoliti del Führer und Reichskanzler applicarono le teorie eugenetiche per garantire “l’igiene della razza”, sia nella versione negativa, sterilizzazione coatta di degenerati e poi eutanasia, sia in quella positiva, incentivi alla natalità per coppie considerate sane e procreazione mirata. In questo senso nasce nella Germania nazista il cosiddetto Progetto Lebensborn, (fonte della vita), ossia far nascere e allevare una stirpe di uomini alti, biondi, belli e forti, cioè corrispondenti ai canoni di appartenenza alla “razza ariana”, dediti al dovere e al sacrificio22. Con questo progetto si pensa di impedire lo sviluppo dei caratteri ereditari sfavorevoli (disgenici) e di favorire i caratteri ereditari favorevoli (eugenici). La sterilizzazione sistematica dei cosiddetti Erbkranke, ossia gli individui affetti da malattie degenerative, inizia a giugno 1933. Nell’ottobre del 1939, invece, inizia il programma segreto di eliminazione fisica dei malati psichici e dei disabili, in codice Aktion T423. I sei grandi centri della morte del progetto T4 sono ex ospedali o ex case di cura: Grafeneck, Brandenburg, Sonnenstein, Bernburg, Hadamar, Hartheim (in Austria). L’amministrazione dell’Aktion T4 è sotto il diretto controllo della Cancelleria del Führer. I principali dirigenti del progetto sono: Philipp Bouhler (capo della Cancelleria e generale di divisione delle SS), designato co–direttore responsabile generale dell’azione T4; Karl Brandt (medico personale di Hitler, generale di divisione delle SS, Alto commissario del Reich per la Sanità e membro del Consiglio di ricerca del Reich), designato co–direttore responsabile generale del progetto; Leonardo Conti Sull’argomento cfr. G. LILIENTHAL, Der “Lebensborn e. V”. Ein Instrument nationalsozialisticher Rassenpolitik, Fischer Taschenbuch, Frankfurt 1985; K. ERICSSON, E. SIMONSEN (eds), Children of World War II: The Hidden Enemy Legacy, Berg, New Yorg 2005, trad. it., I “figli” di Hitler. La selezione della “razza ariana”, I figli degli invasori tedeschi nei territori occupati, Boroli, Milano 2007. 23 T4, come già riferito, è l’abbreviazione di Tiergartenstrasse numero 4 a Berlino, l’indirizzo della “Gemeinnützige Stiftung für Heil und Anstaltspflege”, l’ente pubbico per la salute e l’assistenza sociale, in pratica il quartier generale del progetto eugenetico nazista. 22

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(medico e segretario di Stato alla Sanità presso il ministero dell’Interno), capo del programma di eutanasia; Werner Heyde (medico), coordinatore della messa in opera dell’azione T4; August Becker (medico e tenente colonnello delle SS), responsabile dei gassaggi; Viktor Brack (ufficiale e responsabile amministrativo presso la cancelleria del National Sozialistische Deutsche Arbeiter Partei), responsabile dei servizi del progetto T4; Werner Blankenburg (generale delle Sturmabteilung, i battaglioni d’assalto nazisti), capo e responsabile del reclutamento del personale non medico 24. Nello stesso 1939, presso le unità pediatriche del Reich (Kinderfachabteilungen), è già in corso l’eutanasia infantile, che stava portando all’eliminazione di neonati e bambini sotto i tre anni con gravi malformazioni e disabilità congenite 25. Nel programma di eutanasia sono messi a punto svariati metodi e tecniche di uccisione e di eliminazione dei cadaveri: le iniziali somministrazioni di morfina, scopolamina e barbiturici sono sostituite dalla saturazione di una camera stagna con l’utilizzo di monossido di carbonio, i corpi poi sono distrutti in forni crematori. Nell’ottica dell’Aktion T4 c’è anche la Aktion 14f13, che riguarda gli internati, la cui capacità lavorativa è compromessa definitivamente a causa di una malattia inguaribile o di un deperimento fisico. I “selezionati” sono inviati nelle cliniche di eliminazione e gasati. La sigla 14f13 nasce dal linguaggio utilizzato per registrare la morte dei detenuti dei campi di concentramento (14f): 14f1 significa morte naturale, 14f2 suicidio o morte accidentale, 14f3 giustiziato per tentativo di fuga, 14f13 per l’eutanasia dei prigionieri deperiti e inadatti al lavoro 26.

24

Cfr. H. FRIEDLANDER, Origins of Nazi Genocide. From Euthanasia to the Final Solution, University of North Carolina Press, Chapel Hill (North Carolina) 1995, pp. 194–195. Tutti i responsabili e collaboratori del progetto T4 in Aktion T4 (Person), Bücher Gruppe, General Books LLC, Memphis 2010. 25 Tra queste: idiozia, sindrome di Down, macrocefalia, idrocefalia, gravi malformazioni alla testa e alla colonna vertebrale, paralisi e forme spastiche. 26 Cfr. R.J. LIFTON, I medici nazisti, cit., p. 135.

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L’idea nazista di eugenetica è riepilogata perfettamente nelle parole di Heinrich Wilhelm Kranz, accademico dell’Università di Giessen (docente di “Igiene razziale e politica demografica”, “Eredità e cura della razza”, “Biologia genetica e Igiene razziale”) e direttore dell’Istituto per l’Eugenetica e Igiene razziale: Noi dobbiamo valutare il singolo in base al posto che occupa nella società, al modo in cui è integrato e al contributo che è in grado di apportare. Da questa valutazione si ricava un dato fondamentale e cioè che i criminali non sono l’unico pericolo economico e biologico per l’integrità dal popolo, ma esiste un numero assai più elevato di persone che, pur non essendo passibili di pena, sono da considerare veri e propri parassiti, scorie dell’umanità. Si tratta di una moltitudine di disadattati, che può raggiungere il milione, la cui predisposizione ereditaria può essere debellata solo attraverso la loro eliminazione dal processo riproduttivo.27

Nell’ottica nazista, dunque, la giustificazione «per le vittime, per gli eventuali testimoni, e soprattutto per se stessi, fu: “Tutte le nostre uccisioni sono mediche, dettate da ragioni mediche ed eseguite da medici”»28. Le persone disabili diventano quindi le prime cavie designate di tutte le tecniche di sterilizzazione, eutanasia e annientamento sviluppate poi nei campi di sterminio 29.

6.3. Le cavie dei Lager Il 9 dicembre 1946 si apre il primo dei dodici “Processi secondari” di Norimberga contro i sopravvissuti appartenenti a organizzazioni militari, politiche ed economiche della Germania nazionalsocialista. Sul banco degli imputati ventitré ex nazisti, 27

Cit. in A. RICCIARDI VON PLATEN, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, cit., p. 51. 28 Ivi, p. 191. 29 Cfr. C.R. BROWNING, The Origins of the Final Solution. The Evolution of Nazi Jewish Policy, September 1939 – March 1942. Arrow, London 2005.

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di cui venti sono medici, tutti accusati di crimini di guerra e contro l’umanità, per aver partecipato nei campi di concentramento a esperimenti pseudo–scientifici sui prigionieri senza il loro consenso30. I giudici, considerando che questi esperimenti “non furono sporadici, né isolati e neppure condotti da scienziati che lavoravano sotto la loro responsabilità, ma frutto di una politica e di una pianificazione coordinate ai massimi vertici del governo, dell’esercito, del Partito nazista, e condotti come facenti parte integrante di uno sforzo militare totale”, condannano sette dei ventitré imputati alla pena di morte, altri otto all’ergastolo, i restanti imputati a diverse pene detentive31. Le condanne confermano, dunque, che «l’olocausto scientifico coincise […] con l’olocausto politico, ostentando, sia pure usurpandolo, il fondamento dell’ethos medico»32. Nei campi nazisti è un “atto medico”, compiuto da medici, quello di selezionare, all’arrivo nei campi, coloro che sarebbero dovuti essere destinati da subito alla gassazione e chi al lavoro: «Se il potere calzava gli stivali delle SS, l’auctoritas suprema vestiva il camice bianco del medico»33. In diversi campi di concentramento si sviluppa anche una metodologia di morte basata su sperimentazioni scientifiche sugli internati, che divennero Versuchkaninchen (conigli da esperimento)34: «Sì, eravamo lì come cavie gratuite, in numero ine30

Molti altri nazisti riuscirono a fuggire dopo la disfatta in America Latina. Cfr. G.M. PACE, La via dei demoni, Sperling & Kupfer, Milano 2000; U. GOÑI, Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l’Argentina di Perón, Garzanti, Milano 2003; A. CASAZZA, La fuga dei nazisti. Mengele, Eichmann, Priebke, Pavelic da Genova all’impunità, Il Nuovo Melangolo, Genova 2007. 31 Otto furono le assoluzioni. Sul “processo ai dottori”, cfr. G.J. ANNAS, M.A. GRODIN (eds), The Nazi Doctors and the Nuremberg Code, Oxford University Press, New York 1992, pp.13–144; H.H. FREYHOFER, The Nuremberg Medical Trial. The Holocaust and the Origin of the Nuremberg Medical Code, Peter Lang Publishing, New York 2004, pp. 43–106. 32 R. DE FRANCO, In nome di Ippocrate, cit., p. 95. 33 R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 119. 34 Tali cavie–umane erano dette Hasen (lepri) o Kanichen (coniglio). A. ENZI, Il lessico della violenza nella Germania nazista cit., p. 223.

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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sauribile» 35, afferma Giuliana Fiorentino Tedeschi, n. 76847 del campo di Birkenau, trasferita ad Auschwitz I e poi internata prima a Ravensbrück e dopo nel sottocampo di Malchow. Gli esperimenti si propongono di sostenere le teorie razziste sulla superiorità della supposta razza nordica, di servire alla realizzazione della politica demografica (accrescere e migliorare la cosiddetta razza ariana ed eliminare risolutivamente le razze considerate inferiori), di risolvere in modo definitivo la causa omosessuale, di supporto ai bisogni delle varie armi delle forze armate del Reich attraverso la ricerca difensiva (vaccini, equipaggiamento dei soldati e così via) e ricerca offensiva (armi non convenzionali)36. I campi di applicazione degli esperimenti sono dunque moltissimi, in tutti i casi la perversione del personale medico non ha avuto limiti. I test medici su vittime inconsapevoli, ossia senza la volontarietà dei soggetti tenuti all’oscuro degli esperimenti, sono sicuramente un crimine contro l’umanità, ma nei campi nazisti si eccede: per la prima volta nella storia degli esperimenti sulle persone è incluso il cosiddetto “esperimento terminale”, cioè la morte programmata della cavia con connessa autopsia. Questi test riguardano principalmente la sopravvivenza in condizioni estreme (altitudine, ipotermia, ipossia), la potabilità dell’acqua marina, gli effetti di gas tossici (fosgene, iprite) e di virus letali (tifo petecchiale, epatite virale) e le malattie infettive (dissenteria, tubercolosi, malaria, febbre gialla). Altri esperimenti spesso mortali riguardano la rigenerazione di ossa, muscoli e tessuto nervoso, implicanti il loro prelievo senza anestesia da prigionie35

Cit. in D. PADOAN, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Bompiani, Milano 2004, p. 139 (ora 2010). 36 Per tutti, oltre ai saggi già citati, cfr. L. STERPELLONE , Le cavie dei lager. Gli «esperimenti» medici delle SS, Mursia, Milano 1978, ora 2009; V. SPITZ, Doctors from Hell. The Horrific Account of Nazi Experiments on Humans, Sentient, Boulder (Colorado) 2005; P. AZIZ, I medici dei lager, Milioni di cavie umane, vol. 3, Res Gestae, Milano 2013 (orig. 1975); L. CRIPPA, M. ONNIS, Il fotografo di Auschwitz. «Il mondo deve sapere», Piemme, Milano 2013. Alcuni documenti (lettere e report) riguardanti gli esperimenti nei campi, sono consultabili sul sito web della «Jewish Virtual Library» all’url: http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/Holocaust/medtoc.html.

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ri sani. Altri esperimenti disumani insensati sono rivolti a difendere la “razza ariana” e favorirne la crescita, moltiplicandola nel più breve tempo possibile, magari “producendo” gemelli. Il dottor Josef Mengele è il medico e antropologo che, più di altri, è ossessionato dalla ricerca scientifica rivolta alla trasmissione dei caratteri ariani favorendone la crescita attraverso gravidanze gemellari. Per questo Mengele si serve per i suoi terribili esperimenti maggiormente di bambini gemelli arrivati ad Auschwitz, sperando di svelare il segreto per la moltiplicazione della razza37. Gli esperimenti sulla sterilizzazione di massa sono senz’altro quelli in cui sono torturate il maggior numero di persone. Heinrich Himmler è il gerarca nazista che più di tutti cerca affannosamente una soluzione definitiva al problema della sterilizzazione di massa segreta. La sterilizzazione era stata già attuata chirurgicamente, ma ora, anche per rimediare ai forti costi e ai tempi lunghi, si cercano metodi alternativi, come l’uso di farmaci specifici o dei raggi X per sterilizzare intere popolazioni. Auschwitz–Birkenau, più di altri campi, diventa il luogo in cui realizzare tali esperimenti38. Infatti, poiché Horst Schumann39, medico già protagonista dell’operazione eutanasia negli 37

Cfr. P. AZIZ, I medici dei lager. Joseph Mengele, l’incarnazione del male, vol. 1, Res Gestae, Milano 2013 (orig. 1975); H. KUBICA, The Crimes of Josef Mengele, in Y. GUTMAN, M. BERENBAUM (eds), Anatomy of the Auschwitz Death Camp, Indiana University Press, Bloomington (Indiana) 1998 (orig 1994), pp. 317–337. 38 Cfr. R.J. WEINBERGER, Fertility Experiments in Auschwitz–Birkenau. The Perpetrators and Their Victims, Südwestdeutsche Verlag für Hochschulschriften, Saarbrücken (Deutschland) 2009. Una dissertazione in tedesco di quest’opera, Fertilitätsexperimente in Auschwitz all’url: http://www.lbihs.at/ WeinbergerFertilitaetsexperimente.pdf. 39 Sul dottor Schumann cfr. C. SCHÜDDEKOPF, Biografie dei protagonisti, in D. CZECH, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz Birkenau 1939–1945, Reinbek (Deutschland) 1989, trad. it., Kalendarium. Gli avvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz 1939–1945, disponibile nel sito dell’Associazione Nazionale Ex Deportati Politici nei campi nazisti, gennaio 2002: http://www.deportati.it/librionline/Kalendarium.html; R.J. LIFTON, A. HACKETT, Nazi Doctors, in Y. G UTMAN, M. BERENBAUM (eds), Anatomy of the Auschwitz Death Camp, cit., pp. 304–307.

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istituti di Grafeneck e Sonnenstein, aveva valutato l’impiego dei raggi X sulle ghiandole germinali al fine della sterilizzazione, Himmler gli mette a disposizione alcuni prigionieri del Lager di Auschwitz per testare le sue convinzioni. Tali esperimenti portano alla conclusione che, sottoponendo gli organi genitali alla azione ripetuta o prolungata dei raggi X, si determina una sterilizzazione senza narcosi. Il progetto, tuttavia, non è ritenuto praticabile, poiché in quel tempo non era ancora possibile schermare le altre parti del corpo che avrebbero subito ripetute radiazioni, determinando malesseri o ustioni che sicuramente avrebbero allarmato l’opinione pubblica. Nel 1941 Himmler chiede al professor Carl Clauberg, un famoso ginecologo e direttore di un’importante clinica frequentata dalle mogli dei gerarchi nazisti, fino a quel momento interessato ai sistemi di incremento della natalità, di “rovesciare” la sua ricerca dedicando i suoi studi alla messa a punto di una procedura non chirurgica per una sterilizzazione permanente, efficace e veloce. Per questo gli sono messi a disposizione cavie umane nel campo di Auschwitz. All’equipe di Clauberg, Himmler aggiunge anche il professor Hans Holfelder, importante specialista in radiologia e già membro del progetto Aktion T4. Lo scienziato, che aveva già ottenuto una sterilizzazione dei ratti usando una soluzione al 5–10% di formalina che, provocando un’infiammazione alle tube di Falloppio, le chiudeva impedendo il concepimento, porta avanti l’incarico nel famigerato Block 10 del campo di Auschwitz40. Racconta Giuliana Fiorentino Tedeschi: C’era una baracca al cui interno si trovava un reparto dove venivano eseguiti esperimenti sulle prigioniere. La chiamavano il blocco delle esperienze. Lì dentro venivano eseguiti esperimenti sulle prigioniere, soprattutto nelle parti genitali, anche se mi risulta che venissero studiate pure altre situazioni che non avevano un particolare nesso con la riproduzione. Le greche che erano già nel campo da mesi raccontavano di enormi cica40

Cfr. H.J. LANG, Die Frauen von Block 10, Hoffmann und Campe, Hamburg (Deutschland) 2011.

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358 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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trici sui ventri, di asportazioni dell’apparato genitale, di misteriose iniezioni che forse servivano a indurre la sterilità. Per fortuna non ne ho avuta esperienza diretta, anche se ho corso il rischio di finire là dentro.41

Gli esperimenti provocano sulle internate dolori lancinanti, causando nel migliore dei casi febbre alta e infiammazioni delle ovaie, nel peggiore gravissime infezioni ed emorragie delle vie genitali, fino alla morte. Molte donne periscono, altre sono uccise per eseguirne l’autopsia, altre ancora sono destinate alle camere a gas al termine degli esperimenti. In molti casi, per constatare i risultati della sperimentazione, passati alcuni mesi, alcune donne sono costrette a sottoporsi a rapporti sessuali con prigionieri del campo selezionati a questo scopo. Chi è sopravvissuto alla ricerca di Clauberg ha portato per tutta la vita i segni e i dolori di questi esperimenti 42. Tormentosi sono infatti i ricordi di chi ha subito gli esperimenti ed è riuscita a sfuggire alla morte. Ricorda Margita Neumann, un’ebrea ceca: Il dottor Clauberg ordinò che mi sedessi sulla sedia ginecologica. Io potevo osservare Sylvia Friedmann [una detenuta infermiera della Slovacchia] mentre preparava una siringa con un lungo ago. Il dottor Clauberg mi fece una puntura nel basso ventre. Ebbi la sensazione come se la mia pancia dovesse scoppiare dal dolore. Incominciai a urlare così forte che tutto il blocco poteva sentirmi. Il dottor Clauberg mi apostrofò, ordinandomi di smettere subito di urlare, altrimenti sarei ritornata immediatamente nel campo di concentramento a Birkenau. Dopo questo esperimento ebbi un’infiammazione alle ovaie.43

41

Cit. in D. PADOAN, Come una rana d’inverno, cit., p. 139. Su Carl Clauberg ad Auschwitz, cfr. R.J. LIFTON, A. HACKETT, Nazi Doctors, cit., pp. 304–307; C. SCHÜDDEKOPF, Biografie dei protagonisti, cit., http://www. deportati.it/static/pdf/libri/kalendarium/responsabili.pdf. 43 Cit. in R.J. LIFTON , I medici nazisti, cit., p. 273; anche in C. SCHÜDDEKOPF, Biografie dei protagonisti, cit., http://www.deportati.it/static/ pdf/libri/ka lendarium/responsabili.pdf. 42

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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Altre testimoni riferiscono sul lavoro sporco del medico nazista. Chopfenberg Chana, ebrea di origine polacca, internata con matricola 50344, ricorda: Il dottor Clauberg mi sottopose a quattro iniezioni, a due prove del sangue e a diversi altri esperimenti al basso ventre, soprattutto sull’utero. […] Nonostante dolori intensissimi, dopo ogni esperimento dovevo andare cantando al lavoro, col sorriso sulle labbra.44

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Benguigui Chouraqui Fortunee, di origini algerine, deportata con matricola 52301, racconta: Senza anestesia, il dottor Clauberg mi praticò ripetute iniezioni molto dolorose. Durante questa pratica, mi tenevano ferma per le mani ed i piedi, e mi tappavano la bocca. Dopo le iniezioni sopravvennero dolori terribili al basso ventre, e rimasi nel letto quasi priva di conoscenza. Per non essere punita dovevo trascinarmi agli appelli ed eseguire dei lavori.45

Goldgevit Chawa, arrestata a Parigi e internata ad Auschwitz con matricola 52313, assicura che molte sono state le vittime del dottor Clauberg: «Al blocco 10 portavano sempre nuove vittime. Quando arrivava un nuovo gruppo, un altro di relitti umani veniva spedito ai forni crematori di Birkenau»46. Nel frattempo che il dottor Carl Clauberg indovinasse il metodo, le SS gasavano nei campi. All’approssimarsi dell’Armata Rossa ad Auschwitz, i terribili esperimenti sulla sterilizzazione di massa terminano in fretta. I medici fuggono e alcuni traslocano in altri campi le loro malefiche postazioni di ricerca, come il dottor Clauberg che si trasferisce nel campo di concentramento di Ravensbrück.

44

Le testimonianze di alcune donne sottoposte a esperimento dal dottor Clauberg si possono visionare nel sito web «Olokaustos», http://www.olo kaustos.org/bionazi/leaders/clauberg.htm. 45 Ibidem. 46 Ibidem.

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360 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Nell’agosto del 2010, in una casa abbandonata vicino al campo di Auschwitz, sono state trovate le prove di questi esperimenti effettuati sulle prigioniere: oltre centocinquanta ferri chirurgici e ginecologici che, con ogni probabilità sono gli strumenti utilizzati proprio da Clauberg, nascosti dopo la fuga dal campo47.

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6.4. Il progetto bio–batteriologico giapponese Cavalcando l’onda crescente del militarismo, dal 1932 e per tredici lunghissimi anni, nel più totale disconoscimento di ogni morale scientifica e umana, le autorità militari nipponiche costruirono in numerose località della Cina occupata e negli altri Stati del Sud–Est Asiatico sotto il giogo giapponese, unità scientifiche che poi divennero vere e proprie “fabbriche della morte”. Una vasta geografia concentrazionaria che si estendeva dalla Mongolia interna a Singapore e da Bangkok a Manila, in cui furono studiati letali batteri e virus, (quali peste, antrace 48, tifo, colera, dissenteria, virus delle febbri emorragiche, tubercolosi, morva49) e inoculati poi a cavie umane, i cosiddetti maruta (pezzi di legno), come erano chiamati dagli scienziati queste involontarie vittime. Sino al 1984 non si possedevano prove documentali dirette dell’esistenza di un progetto segreto per lo studio di armi non convenzionali che l’esercito giapponese aveva attuato durante il 47

Questi arnesi sono oggi conservati nel museo del campo per ricordare le vittime della criminale medicina nazista. 48 Si tratta di un’infezione acuta causata dal batterio Bacillus anthracis, un germe produttore di spore che possono sopravvivere a lungo nell’ambiente e che si manifesta comunemente in animali erbivori selvatici e domestici. Colpisce anche gli esseri umani in forme lievi, interessando la cute, e in forme settiche più gravi legate all’inalazione delle spore, coinvolgendo in questo caso l’apparato gastro–intestinale o quello polmonare conducendo anche al decesso tra atroci sofferenze. 49 La Morva (o Farcino) è una malattia altamente contagiosa a decorso grave, rara negli esseri umani e frequente negli equini, dovuta ad infezione dello Pseudomonas mallei.

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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secondo conflitto mondiale. Ma proprio quell’anno, casualmente, la storia entrò in possesso di documenti che provavano ufficialmente l’esistenza di laboratori segreti, dove era stata approntata da alcuni scienziati irresponsabili del Sol Levante una guerra non convenzionale. Quell’anno, un giovane studente universitario giapponese, girando nel distretto di Kanda, sobborgo di Tokyo, aveva acquistato da un negozietto di libri usati un anonimo opuscolo. Il manoscritto si rivelò il drammatico diario di un ufficiale medico giapponese, membro di un laboratorio chiamato Unità 731. Già nel 1981, il giornalista John Powell pubblicò sulla rivista scientifica Bulletin of the Atomic Scientists, un articolo che conteneva accuse sensazionali contro il Giappone50. Allegata al saggio, Powell divulgò l’immagine della copertina di un articolo firmato da Sakaki Ryohei, dal titolo Bacteriological Warfare e pubblicato il 27 gennaio 1952 sul cinese Sunday Mainichi, uno schema di una bomba all’antrace, una foto di una bomba batteriologica prodotta dai nipponici, un’istantanea del generale Shiro Ishii, un documento della Military Intelligence Section del General Headquarters Supreme Commander for The Allied Powers del 27 marzo 1947. Quest’ultimo documento attesta la conoscenza di un programma biologico nipponico da parte degli USA e dell’URSS e l’interesse di entrambi nel voler interrogare gli scienziati che ne facevano parte. Infine, il giornalista pubblicò anche le prove del coinvolgimento dell’establishment politico giapponese: un telegramma top secret, datato 6 maggio 1947, destinato a Washington e inviato dal quartier generale di MacArthur a Tokyo: «[…] dichiarazioni riluttanti di Ishii Shiro indicano che egli ebbe l’autorizzazione per il suo programma dai suoi superiori (probabilmente dallo Stato Maggiore)» 51. Il manoscritto, tuttavia, è il documento più importante, poiché è una testimonianza diretta da parte di uno scienziato espli50

Cfr. J. POWELL, Japan’s Biological Weapons: 1930–1945. A Hidden Chapter in History, «Bulletin of the Atomic Scientists», vol. 37, nr. 8, october 1981, pp.43–53. 51 Ibidem.

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362 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

citamente compromesso con le ricerche e gli inumani esperimenti. Infatti, in quelle memorie l’ufficiale racconta le atrocità che ogni giorno accadevano all’interno dei laboratori militari giapponesi a partire dal 1932. Tra quei fogli ci sono rapporti medici molto dettagliati su malattie mortali provocate volontariamente, come anche di strani esperimenti fatti su cavie umane. Ad esempio, in uno di questi rapporti, è descritto un esperimento attraverso un diagramma che mostra ventuno cavie umane, ciascuna legata a un palo, disposte in cerchi concentrici. Le annotazioni spiegano che al centro era stata fatta esplodere una bomba di germi per studiare la diffusione della malattia52. Forza motrice delle ricerche bio–batteriologiche giapponesi in campo militare, fu un giovane ufficiale–medico dell’esercito imperiale: Shiro Ishii. In Giappone, sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale, esisteva già una sezione dell’Esercito che, sotto la supervisione del maggiore Terunobu Hasebe, prima, e il dottor Ito, dopo, stava compiendo specifici studi difensivi su armi non convenzionali53, ma è con Ishii che questi studi sono convertiti in offensivi. Il suo interesse per una guerra batteriologica fu stimolato dallo studio del Protocollo di Ginevra del 192554, concernente “la proibizione di usare in guerra gas asfissianti, tossici o simili e mezzi batteriologici”. Se gli Stati si preoccupavano di bandirli, pensò Ishii, allora dovevano avere un altissimo potenziale strategico e distruttivo. Per questo il giovane ufficiale si convinse che solo un’arma fi-

52

Cfr. P. WILLIAMS, D. WALLACE, Unit 731. Japan’s secret biological warfare in World War II, Free Press, New York 1989, pp. 3–4. 53 Cfr. S.H. HARRIS, The Japanese biological warfare programme: an overview. Biological in World War I, in E. GEISSLER, J.E. VAN COURTLAND MOON (eds), Biological and Toxin Weapons. Research, Development and Use from the Middle Ages to 1945, Oxford University Press, Oxford (England) 1999, pp. 35–62; Y. TANAKA, Poison gas. The story Japan would like to forget, in «Bulletin of the Atomic Scientists», vol 5, no. 8, October 1988, pp. 10–14. 54 Il Giappone non firmò questa Convenzione.

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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nale, altamente letale, avrebbe permesso al Giappone di acquistare una perfetta egemonia sugli altri Stati55. Shiro Ishii intraprese un lungo viaggio–studio per “osservare” i programmi di armamento degli altri Stati, visitando in diciotto mesi Francia, Italia, Grecia, Germania, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svizzera, Turchia, Polonia, URSS, Lituania, Estonia, Hawaii, Stati Uniti, Canada, Egitto, Singapore e Ceylon 56. Non ci sono documenti utili e attendibili per stabilire chi incontrò e ciò che egli vide, ma è sicuro che al suo ritorno in patria si dimostrò molto determinato a intraprendere una ricerca scientifica biologica in campo militare. Endo Saburo, generale del Ministero della Guerra, ricorda nei suoi diari che «il volto di Ishii era ben conosciuto […] enfatizzava sempre il ruolo della guerra batteriologica nei nostri piani tattici»57. Il dottor Ishii, infatti, era già molto noto negli ambienti militari e medici, poiché nel 1924, durante il suo dottorato in patologia umana, sierologia e batteriologia a Kyoto, diede un determinante aiuto alla missione medica e scientifica nel distretto di Kagawa, dove era scoppiata un’epidemia di Encefalite B giapponese58: Ishii ne isolò abilmente il virus, con la messa a punto di un efficace sistema di filtraggio. L’enorme preparazione scientifica e le amicizie impor55

Il Protocollo, tuttavia, proibiva il mero uso di armi chimiche e biologiche, ma non lo sviluppo, la produzione, il possesso e lo stoccaggio. Di conseguenza non prevedeva la possibilità di effettuare controlli e ispezioni, né precise sanzioni. Sull’argomento cfr. J.B. DUROSELLE, Historie diplomatique de 1919 à nos jours, Dellor, Paris 1971, trad. it. Storia diplomatica dal 1919 al 1970, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1972, pp. 68–70. Il testo originale del Protocollo, nel sito dell’International Committe of the Red Cross, http:// www.icrc.org/applic/ihl/ihl.nsf/Article.xsp?action=openDocument&document Id=58A096110540867AC12563CD005187B9; in italiano nell’archivio Pace Diritti Umani, http://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/ Protocollo-concernente-la-proibizione-di-usare-in-guerra-gas-asfissianti-tossi ci-o-simili-e-mezzi-batteriologici-1925/113. 56 Cfr. S.H. HARRIS, Factories of death. Japanese biological warfare, 1932– 45, and the american cover–up, Routledge, London 2002, p. 19, (orig. 1994). 57 Ivi, p. 18. 58 Si tratta di un’infezione virale acuta, trasmessa all’uomo da zanzare asiatiche (Culex tritaeniorhynchus).

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364 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

tanti, permisero al capitano Ishii di scalare la gerarchia militare e accademica. Così a trentasette anni, Ishii fu nominato preside del Dipartimento di Immunologia all’Istituto di Medicina dell’esercito di Tokyo e promosso al grado di Maggiore.

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6.5. Le unità scientifiche e l’utilizzo dei maruta Sostenuta dalle più alte cariche militari e scientifiche del Giappone59, nel 1931, nel dipartimento di Immunologia dell’Istituto di Medicina dell’Esercito di Tokyo, inizia l’avventura malvagia nel campo batteriologico del Giappone. Qui, assieme a un ristretto numero di scienziati affidabili, in un piccolo laboratorio del dipartimento, il maggiore Ishii inizia a lavorare alle colture di batteri letali come colera, tifo, peste bubbonica e antrace. L’anno seguente il progetto è ampliato, assegnando a Ishii e alla sua equipe una sezione di due piani all’Istituto di Medicina. I nuovi laboratori servono sia per sviluppare vaccini per i soldati sia per studiare nuove armi offensive. L’occupazione giapponese nel 1932 della Manciuria, una regione al Nord della Cina, e la creazione dello Stato fantoccio del Manchukuo 60, sono per Ishii la grande occasione per poter istituire segretamente laboratori scientifici e realizzare esperimenti sul campo. Egli chiede così di essere inviato in Manciuria, per istituire unità scientifiche per la ricerca militare 61. 59

Tra cui Torasaburo Araki, rettore dell’Università di Kyoto, divenuto poi suo suocero; Sadao Araki, influente ministro della guerra; Tetsuan Nagata, generale dell’esercito e sostenitore del processo di ammodernamento delle armi offensive dell’esercito; Chikahiko Koizumi, autorevole scienziato e pioniere della ricerca medica bellica. Cfr. P. WILLIAMS, D. WALLACE, Unit 731, cit., pp. 9–11; C. TSUZUKI, The Pursuit of Power in Modern Japan 1825–1995, Oxford University Press, Oxford 2000, pp. 467–468. 60 Cfr. P. JOWETT, Rays of the Rising Sun, Volume 1: Japan’s Asian Allies 1931–45, China and Manchukuo, Helion and Company, Solihull 2005. 61 D. B ARENBLATT, A Plague upon Humanity. The Secret Genocide of Axis Japan’s Germ Warfare Operation, Harper Collins, New York 2005, trad. it. I Medici del Sol Levante. Gli Esperimenti Segreti Giapponesi. 1932–1945, Rizzoli, Milano 2004, p. 50.

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Nel 1932 l’armata nipponica del Kwantung assegna al maggiore Ishii duecentomila yen di finanziamento e trecento uomini per creare, in una distilleria abbandonata di sakè della città di Harbin, un centro ricerche militari 62. Harbin offre una varietà di “cavie” per la ricerca di Ishii (oltre a cinesi e manciù, anche mongoli, ebrei, emigrati russi e dell’Europa occidentale), poiché la città, quale stazione di testa della ferrovia che attraversa la regione, è divenuta un vivace centro dell’emigrazione63. Tuttavia, la scelta di questa location si dimostra infelice per la segretezza delle ricerche dell’equipe di Ishii. Per questo, nell’estate dello stesso anno, i laboratori di ricerca sono trasferiti nel campo militare di Beiyinhe, un paesino ben collegato con la ferrovia situato a cento chilometri a Sud–Est di Harbin. Il nuovo centro di ricerca, battezzato Unit Togo. Epidemic Prevention Laboratory, in onore dell’ammiraglio Togo Heihachiro, che nel 1905 aveva sconfitto la flotta russa a Tsushima durante la guerra russo–giapponese (1904–1905), comprende un’area di due chilometri quadrati con circa cento edifici. Resa inaccessibile da un muro perimetrale sormontato da filo spinato elettrificato e da una zona off limits di duecentocinquanta metri quadrati al di fuori del suo perimetro, la grande unità scientifica include, oltre ai laboratori, prigioni, alloggi e mense per il personale scientifico e militare, magazzini, uffici, un forno crematorio64. I primi “ospiti” della struttura sono dei prigionieri politici, membri della guerriglia, ma anche criminali comuni, essenzialmente maschi adulti e sotto i quarant’anni, tutti destinati a divenire maruta per gli esperimenti dell’equipe di Ishii. Segregati in piccole celle, unico conforto, se ciò poteva essere una consolazione, è una dieta sostanziosa, perché le cavie devono esse62

S.H. HARRIS, Factories of death, cit., pp. 23–29; J.D. MORENO, Undue Risk: Secret State Experiments on Humans, Routledge, London–New York 2001, pp. 103–104. 63 J. C ARTER, Creating a Chinese Harbin. Nationalism in an International City, 1916 – 1932, Cornell University Press, Ithaca (New York) 2002, p. 3. 64 H. GOLD, Unit 731. Testimony, Tuttle Publishing, Boston (Massachusetts) 2003, pp. 34–36, (orig. 1996).

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re in forma perfetta per poter affrontare gli esperimenti. Nessuno di questi prigionieri è sopravvissuto più di un mese. Nei nuovi laboratori si studiano batteri e virus, quali peste, antrace, morva, tifo, colera, dissenteria, virus delle febbri emorragiche, tubercolosi, e inoculati poi nei prigionieri–cavie. I soggetti infettati da questi virus sono poi sottoposti a vivisezione, senza anestesia, per non alterare le osservazioni degli organi interni e del sangue65: la morte che sopraggiunge diventa un determinante evento da studiare attentamente e da registrare fin nei dettagli più minuti66. Altri specifici esperimenti riguardano l’uso della corrente elettrica e dei gas letali, gli effetti del congelamento. In questo modo gli scienziati nipponici studiano, con estrema precisione, gli effetti e la loro applicazione nelle operazioni di guerra non convenzionale. Per documentare le ricerche, molti esperimenti sono filmati e fotografati Molti campioni di organi umani sono anche spediti all’Istituto di Medicina dell’Esercito a Tokyo67. Nelle memorie del generale Endo Saburo, che visita il complesso nel novembre del 1933, ritroviamo in dettaglio alcuni degli esperimenti fatti su cavie umane. Tra questi l’utilizzo del fosfogene («cinque minuti di iniezione con gas all’interno di una stanza di mattoni. Il soggetto è rimasto vivo per un giorno dopo l’inalazione del gas»68); del cianuro di potassio («al soggetto ne sono stati iniettati quindici milligrammi. Perdita di conoscenza dopo approssimativamente venti minuti» 69); della corrente elettrica («Diverse scariche a ventimila volt», scrive il ge65

Le cavie dovevano essere ancora vive poiché, affermavano gli scienziati dell’unità, «non si possono ottenere dati accurati sugli effetti di un’infezione dopo il decesso di una persona, poiché a quel punto entrano in attività i batteri responsabili della putrefazione». Ivi, p. 44. 66 Cfr. T. TSUCHIYA, Why Japanese doctors performed human experiments in China 1933–1945, «Eubios Journal of Asian and International Bioethics», nr. 10, 2000, pp. 179–180. 67 D. B ARENBLATT, I Medici del Sol Levante, cit., p. 61. Molte foto sono oggi esposte al “Ping Fan Museum”. 68 In J. YIN, The Rape of Biological Warfare, Northpole Light, San Francisco (California) 2001, p. 7; S.H. Harris, Factories of death, cit., p. 34. 69 Ibidem.

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nerale, «non sono sufficienti a uccidere il soggetto. […]. Diverse scariche a cinquemila volt non sufficienti a uccidere», per questo si legge negli appunti «Occorrono diversi minuti di scariche continue a questo voltaggio per far morire carbonizzato il soggetto»70). Nel frattempo, con decreto imperiale del 1° agosto 1936 si stabilisce la creazione di una nuova unità scientifica nell’esercito, il Boeki Kyusui Bu (Ufficio per la prevenzione delle epidemie e la purificazione dell’acqua). Ishii ne diviene il dirigente–capo, offrendo così la copertura perfetta per le sue ricerche 71. Tuttavia, il velo di segretezza dell’Unità Togo è strappato in seguito alla fuga di una quarantina di prigionieri nell’agosto del 193472. I sopravvissuti alla fuga, una volta al sicuro, raccontano quello che succede all’interno dell’Unità Togo73. L’impianto scientifico di Beiyinhe è subito distrutto, i prigionieri uccisi e le sue attività trasferite in una nuova sede istituita a Pingfang, a circa ventiquattro chilometri a sud di Harbin. Dopo il trasferimento è deciso di modernizzare la nuova sede di Pingfang. I lavori durano tre anni e sono ultimati nel 1939, senza mai fermare le ricerche, gli esperimenti e i test sulle persone e sugli animali. Il risultato è un’enorme unità scientifica che copre un’area di circa sei chilometri quadrati. L’intero complesso è interdetto a chiunque non sia un ricercatore o un addetto dell’unità. Anche lo spazio aereo è chiuso. L’intera area, dichiarata “Zona Militare Speciale”, è circondata da un fossato e un muro alto cinque metri con filo spinato elettrificato ad altissimo voltaggio. Al suo interno oltre centocinquanta edifici, suddivisi tra laboratori scientifici (di microbiologia, di patologia e per la messa a coltura dei batteri letali), abitazioni, magazzini, due prigioni (una per i maschi e una per le donne), stalle, serre, tre forni crematori, una pista di decollo e 70

Ibidem. E. BEHR, Hirohito. Behind the Myth, Villard, New York 1989, p.163. 72 H. GOLD, Unit 731. Testimony, cit., pp. 36–38. 73 Il romanzo grafico Maruta 454, di P.Y. LAQUERRE, Y. S ONG YANG, PASTOR, (Xiao Pan Editions, Figeac 2011) si basa sulla testimonianza di Ziyang Wang, uno degli evasi. 71

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atterraggio, una ferrovia privata che collega il campo ad Harbin, luoghi per la ricreazione degli scienziati e del personale militare con annessa piscina, un auditorium con bar e ristorante, un bordello, scuole per i figli del personale civile e militare, un enorme edificio amministrativo, una biblioteca e un piccolo tempio shintoista74. La sicurezza interna è affidata al Kempeitai, il corpo militare speciale che dipende direttamente dal Ministero della Guerra, mentre quella all’esterno è assegnata alla gendarmeria dell’imperatore dello Stato del Manchukuo. L’equipaggiamento necessario alla nuova Unità è fornito dalla compagnia giapponese Nihon Tokoshu Kogyo Co.75. L’unità scientifica è chiamata inizialmente “Ishii”, in onore del suo fondatore, ma nel 1941, per ragioni di sicurezza, il nome diviene “Unità 731”. Ishii divide la sua Unità in otto sezioni76. La “Divisione I” comprende tutti gli impianti di ricerca e produzione degli agenti patogeni per lo sviluppo di armi offensive. La “Divisione II” si occupa degli esperimenti. La terza sezione è “l’Unità per l’approvvigionamento dell’acqua e la prevenzione epidemica” e dal 1944 è incaricata anche di produrre i contenitori per le bombe biologiche. La quarta sezione, chiamata “Divisione per la produzione e la fabbricazione”, si occupa degli impianti di produzione degli agenti patogeni, ed è responsabile anche dell’immagazzinamento e della conservazione di tutti i microrganismi pericolosi. La “Divisione per l’Educazione”, la quinta, ha il compito di formare il nuovo personale. La sesta è la “Sezione degli Affari Generali”, incaricata della tesoreria del centro. La settima, invece, è la “Divisione materiali”, che fornisce i prodotti per la messa a coltura degli agenti patogeni ed è anche addetta alla messa a punto delle bombe biologiche e batteriologiche. L’ultima sezione chiamata “Divisione Diagnosi e Trattamento”, si occupa di tutti i problemi medici del personale dell’Unità. 74

H. GOLD, Unit 731. Testimony, cit., pp. 39–40; S.H. HARRIS, Factories of death, cit., p. 47. 75 S.H. HARRIS, Factories of Death, cit., p. 60. 76 P. WILLIAMS, D. WALLACE, Unit 731, cit., p. 19.

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La filosofia di Ishii sulla natura del lavoro di questo ente scientifico, è racchiusa nel discorso inaugurale dell’Unità: La nostra missione divina di medici è di sfidare tutti i microrganismi patogeni; di bloccare loro tutte le possibili vie di accesso al corpo umano; di annientare tutta la materia estranea che vive nel nostro corpo e di individuare la terapia più efficiente possibile. Tuttavia, il lavoro di ricerca che noi intraprenderemo è all’esatto opposto di questi princìpi e potrà essere causa di tormento per le nostre coscienze di medici. […] Ciò nondimeno, io vi chiedo di condurre queste ricerche mossi da una doppia aspirazione: in primo luogo, in quanto medico, dal desiderio di fare qualsiasi sforzo per trovare la verità nelle scienze naturali, nella ricerca e nella scoperta del mondo sconosciuto; in secondo luogo, in quanto soldato, dalla volontà di costruire con successo un’arma potente contro il nemico.77

La seconda più grande struttura scientifica dopo l’Unità 731, è la “Unità amministrativa per la protezione anti–epizootica equina dell’Armata del Kwantung”, o altrimenti chiamata “Unità 100” o ancora “Unità Wakamatsu”. Creata con decreto imperiale nel 1936, è impiantata a Mokotan, un sobborgo della città di Xinjing (oggi Changchun), la capitale dello Stato fantoccio del Manchukuo. Poiché si occupa dello studio e della sperimentazione delle armi biologiche nel settore zootecnico e vegetale, l’unità scientifica copre una superficie di quasi venti chilometri quadrati (tre volte in più la dimensione dell’Unità 731). Quindi, oltre ai laboratori e alle strutture per l’ospitalità del personale, l’unità include grandi stalle ed estesi terreni coltivati. Capo di questo dipartimento scientifico è l’ufficiale–veterinario Yujiro Wakamatsu, che guida una numerosa equipe composta da veterinari, biologici e agronomi. I tecnici di questa Unità concentrano i loro esperimenti principalmente sui microrganismi trasmissibili da animale a uomo o sui microrganismi capaci di contaminare le risorse come animali, raccolti e falde acquifere. In 77

D. BARENBLATT, I Medici del Sol Levante, cit, pp. 81–82; P. WILLIAMS, D. WALLACE, Unit 731, cit., pp. 37–38.

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370 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

questa unità si sviluppano, tra l’altro, approfonditi studi ed esperimenti sul virus del mosaico 78, sulla ruggine nera del grano79, su pesticidi e defolianti chimici in modo da devastare interi raccolti, sul veleno dei serpenti. Sono coltivati in laboratorio anche agenti patogeni, per trovare il modo più rapido ed efficace per sterminare intere mandrie di bestiame. Come nell’Unità 731, microrganismi e sostanze letali sono testati, oltre che sugli animali e piante, anche su centinaia di uomini, poi dissezionati senza anestesia per seguire gli sviluppi della malattia sperimentata80. Accanto alle Unità 731 e 100, altre terribili “fabbriche della morte tossica” sono costruite nei territori occupati dai giapponesi in Estremo Oriente, molte delle quali specializzate nella coltura e nella sperimentazione di determinate malattie mortali. Tra queste, l’Unità 1644 o Unità Tama, organismo di ricerca antiepidemica e di vivesezione di prigionieri infettati con colera, tifo e peste bubbonica presso Nanjing; l’Unità 1855, centro d’internamento vicino Beijing per immigrati cinesi e coreani in Cina infettati volontariamente da colera e tifo; l’Unità 673 o Unità Songo, la struttura di ricerca sulle cause delle febbri emorragiche e della peste bubbonica presso Sunyu; l’Unità 543, centro di sviluppo e sperimentazione vicino Hailaer; l’Istituto sanitario delle ferrovie della Manciuria del Sud per la produzione di vaccini presso Dalian; i grandi distaccamenti dell’Unità 731 ad Harbin, Shenyang, Anda, campi a cielo aperto per testare bombe biologiche e batteriologiche; la Sub-Unit 516 di Qiqiharm, per lo sviluppo di armi chimiche; l’Unità 8604 o Unità Nami, 78

Esistono moltissimi virus del mosaico che, nella maggior parte dei casi, provocano crescita stentata e, infine, la morte della pianta. 79 E´ la più pericolosa delle ruggini del grano. Interessa non solo le foglie, ma tutte le parti aeree della pianta. La pianta colpita ingiallisce e col tempo dissecca. 80 Sull’Unità Wakamatsu cfr. S.H. HARRIS, Factories of death, cit., pp. 115– 124; Z.Y. DONG, Kwantung Army Number 100, in “Historical Material on Jilin History”, Peoples Press, Changchun 1987, così cit. da S. HARRIS, The Japanese biological warfare programme: an overview. Biological in World War I, in E. GEISSLER, J.E. VAN COURTLAND MOON (eds), Biological and Toxin Weapons, cit., p. 149.

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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ente presso Guangzhou per la ricerca di virus trasmessi dall’acqua come il tifo e il colera; l’Unità 9420 con sede nell’ospedale Permai di Tampoi, che comprende l’Unità Umeoka, specializzata nella peste, e l’Unità Kono, specializzata in malaria; le Unità scientifiche di Burma, di Rangoon, di Bangkoke di Manila81. Di là da ogni morale scientifica e umana, l’orribile programma di ricerca scientifica militare giapponese prevede, oltre alle grandi sperimentazioni su cavie umane, anche collaudi sul campo, attraverso bombardamenti biologici sulla popolazione civile libera82, false vaccinazioni83, distribuzione di cibo o materiale contaminato. Nella sua testimonianza, Shinohara Tsuro, militare in forza all’Unità 731, racconta di un’operazione di contagio attraverso cibo in un piccolo villaggio della Manciuria: Il metodo prevedeva che gli agenti patogeni fossero iniettati in dolciumi da avvolgere nella carta. Gli uomini dell’Unità 731 andarono in una zona dove alcuni bambini stavano giocando e cominciarono a mangiare dolci simili a quelli infetti. Due o tre giorni dopo, la squadra tornò in paese per indagare, e riferì casi di peste84.

Gli effetti di queste terribili contaminazioni sono durati per anni85. 81

Cfr. H. GOLD, Unit 731. Testimony, cit., pp. 48 e ss. Cfr. H.P. BIX, Hirohito and the Making of Modern Japan, Harper Collins, New York 2000, p. 362; A.D. Coox, Nomonhan: Japan Against Russia, 1939, 2 voll., Stanford University Press, Stanford (California) 1985, in particolare vol. 1, pp. 1020–1021 e p. 1167; J.B. NIE, N. G UO, M. SELDEN, A. KLEINMAN (eds), Japan’s Wartime Medical Atrocities. Comparative inquiries in science, history, and ethis, Routldge, London–New York 2010, pp. 26–28, H. GOLD, Unit 731 Testimony, cit., pp. 75–76. 83 S.H. HARRIS, Factories of death, cit., p. 99. 84 In D. B ARENBLATT, I Medici del Sol Levante, cit., p. 197. 85 Sui collaudi sul campo cfr. anche P. LI, Japan’s Biochemical Warfare and Experimentation in China, in P. LI (ed), Japanese War Crimes. The Search for Justice, Transaction Publishers, New Brunswick (New Jersey ) 2009, pp. 291– 299; P. WILLIAMS, D. WALLACE, Unit 731, cit., pp. 95–97; S.H. HARRIS, Factories of death, cit., pp. 78–80. 82

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372 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

La protesta formale della Cina, un rapporto della Croce Rossa Cinese e un articolo sulla rivista scientifica Rocky Mountain Medical Journal, non servono a smuovere l’attenzione delle potenze internazionali. La Cina, infatti, attraverso il suo ambasciatore a Londra Wellington Koo, presenta agli inizi del 1942 un atto ufficiale di protesta alla Commissione per la Guerra nel Pacifico di Londra86. Scrive l’ambasciatore nella nota di protesta:

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In almeno cinque occasioni durante i primi due anni le Forze Armate giapponesi hanno tentato di usare la lotta batteriologica in Cina. Hanno cercato di scatenare un’epidemia di peste lanciando materiali infetti da aeroplani. 87

L’ambasciatore descrive anche la battaglia di Yichang dell’ottobre del 1941, in cui l’esercito nipponico è accusato di aver utilizzato l’iprite contro i soldati cinesi 88. La stessa notizia è ripresa dal quotidiano cinese Dà Góng Baò il 15 ottobre89. Sempre nel 1942, ad agosto, la rivista scientifica statunitense Rocky Mountain Medical Journal, denuncia in un articolo90 l’uso di cavie umane da parte degli scienziati giapponesi nel loro programma di guerra bio–batteriologica. Nello stesso anno, un rapporto dei tecnici e degli scienziati della Croce Rossa Cinese rende pubblici, documentandoli, gli attacchi biologici giapponesi sulla popolazione civile cinese 91. Tutto questo, come riferito, non sortì alcun effetto politico. Il 9 agosto del 1945, in seguito all’invasione sovietica della Manciuria, tutte le varie Unità scientifiche e di sperimentazione 86

P. WILLIAMS, D. WALLACE, Unit 731, cit., pp. 100–102. Ivi, p. 101. Queste cinque occasioni denunciate da Koo sono: ottobre 1940, rilascio di batteri della peste su Chuhsien e Ningpo; 28 novembre 1940 rilascio di germi su Chinhua; gennaio 1941 rilascio di batteri della peste nelle provincie di Suiyuan e Ninghsia. 88 Y. T ANAKA, Poison gas, cit., p. 17. 89 Ibidem. 90 Cfr. P.Z. KING, Japanese Use the Chinese as ‘Guinea Pigs’ to Test Germ Warfare, «Rocky Mountain Medical Journal», 39 (8), august 1942, pp. 571– 572. 91 Cfr. J. POWELL, Japan’s Biological Weapons, cit., p. 49. 87

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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esistenti nel territorio, sono distrutte assieme alla documentazione relativa agli studi scientifici effettuati. Prima della loro distruzione, gli scienziati dell’Unità 731 liberano migliaia di ratti che provocarono la peste in numerose contee delle province di Heilungchiang e Kirin. Ovviamente quasi tutte le “cavie” ancora in vita sono uccise con iniezione letale o fucilate. Gli scienziati e il personale tecnico, invece, riparano in Giappone. Tuttavia, molto materiale compromettente (diari, appunti, foto e video) sopravvive all’opera di occultamento giapponese. Nonostante questo materiale, è difficile stabilire con precisione quante sono le vittime della pazzia di Ishii e dei suoi colleghi: a tutti i prigionieri era assegnato un numero da 101 a 1500. In pratica il numero di un prigioniero che moriva era assegnato a un altro detenuto. Questo sistema di identificazione numerica non ha permesso di stabilire con esattezza il numero delle vittime degli esperimenti scientifici giapponesi92.

6.6. L’opportunismo politico di USA e URSS Finita la guerra mondiale, in un clima di profonda miseria politica e morale gli Stati Uniti d’America si impegnano a sottrarre gli scienziati delle famigerate Unità scientifiche nipponiche al Tribunale di Tokyo, deputato a giudicare i crimini di guerra in Estremo Oriente, in cambio pretendono i risultati delle loro ricerche93. In questo modo moltissimi scienziati del progetto di ricerca e sperimentazione bio–batteriologica giapponese, 92

Secondo Sheldon Harris, docente di Storia presso la California State University (Northridge) e autore del testo di riferimento sull’argomento Factories of Death. Japanese Biological Warfare, 1932–1945, and the American Cover–Up, (cit.), il totale delle vittime, compreso quelle delle varie epidemie scoppiate a causa degli esperimenti, potrebbe superare quota duecentomila. 93 Sull’argomento cfr. G. BRADSHER, The Exploitation of Captured and Seized Japanese Records Relating to War Crimes, 1942–1945, in E. DREA, G. BRADSHER, R. HANYOK, J. LIDE, M. PETERSEN, D. YANG, Researching Japanese War Crimes Records, Nazi War Crimes and Japanese Imperial Government Records Interagency Working Group, Washington 2006, pp. 151–168.

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374 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

compreso Ishii, in cambio dei loro dati, si salvano dall’accusa di crimini di guerra94. Solo trenta membri delle Unità scientifiche sono portati davanti al Tribunale di Tokyo e processati per i loro crimini di guerra l’11 marzo 194895. Ventitré di loro sono ritenuti colpevoli, cinque sono condannati a morte, ma nessuna sentenza è eseguita. Entro il 1958 tutti i condannati sono liberi. Una seria inchiesta giudiziaria sugli esperimenti delle unità di ricerca e sperimentazione bio–batteriologica giapponesi avviene a Khabarovsk, nella Siberia orientale sovietica. Dal 25 al 31 dicembre del 1949 sono portati sul banco degli imputati dodici persone catturate dai sovietici nel 1945, al momento della loro avanzata in Manciuria, e tutte implicate direttamente nella ricerca e sperimentazione bio–batteriologica. I dodici uomini imputati sono: Yamada Otozoo, generale e comandante in capo dell’Armata del Kwantung; Ryuji Kajitsuka, tenente–generale dei servizi di sanità, batteriologo e capo della Direzione della Sanità dell’Armata del Kwantung; Takahashi Takaatsu, chimico e biologo, generale di divisione dei servizi veterinari, capo di divisione del servizio veterinario dell’Armata del Kwantung; Kawashima Kiyoshi, batteriologo, generale maggiore del servizio di sanità, capo del servizio di produzione dell’Unità 731; Nishi Toshihide, batteriologo, tenente–colonnello del servizio di Sanità, capo del servizio d’istruzione dell’Unità 731; Karasawa Tomio, batteriologo, maggiore del servizio di Sanità, capo della sezione di produzione dell’Unità 731; Onoue Masao, batteriologo, maggiore del servizio di Sanità, capo del Distaccamento 643 dell’Unità 731; Sato Shunji, batteriologo, generale maggiore del servizio di Sanità, capo del servizio di sanità della V Armata; Hirazakura Zensaku, veterinario, tenente del servizio veterinario in forza all’Unità 100; Mitomo Kazuo, sergente maggiore in forza all’Unità 100; Kikuchi Norimitsu, infermiere stagista al 94

Cfr., anche, S.L. ENDICOTT, E. HAGERMAN, The United States and Biological Warfare. Secrets from the Early Cold War and Korea, Indiana University Press, Bloomington (Indiana), 1998, pp. 37–62. 95 A.C. BRACKMAN, The Other Nuremberg: The Untold Story of the Tokyo War Crimes Trials, William Morrow & Co, New York 1987.

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VI. I campi e il tradimento di Ippocrate

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laboratorio del Distaccamento 643 dell’Unità 731; Kurushima Yuji, soldato e infermiere del laboratorio del Distaccamento 162 dell’Unità 731. Nei quattro anni precedenti al processo sono raccolte prove, documenti e testimonianze, che formano diciotto volumi96. Come risulta dai verbali delle udienze, tutti gli imputati confessano di aver commesso terribili crimini contro civili cinesi e di aver utilizzato negli esperimenti uomini, donne e bambini, anche sovietici e americani. Molti imputati accusano anche l’imperatore Hirohito di essere a conoscenza del malefico programma di guerra biologica e di aver dato il via libera alla costruzione dell’Unità 731 e affini. Le condanne per i dodici imputati sono lievi, malgrado la natura dei crimini e sebbene la legislazione sovietica di quel periodo prevedesse la pena capitale per reati di entità infinitamente minore: le pene vanno da un minimo di due anni a un massimo di venticinque anni di carcere. Nel 1956, anno delle liberalizzazioni seguite alla morte di Stalin, tutti sono rimpatriati. Finita la guerra, dunque, numerosi scienziati giapponesi legati al programma di guerra biologica giapponese, non solo si ritrovarono liberi, ma ottengono anche incarichi di prestigio. Ad esempio, Naito Ryoichi, Kitano Masaji e Futagi Hideo, tra i principali pianificatori degli attacchi biologici in Cina e responsabili dei molti esperimenti sugli esseri umani nell’Unità 731, fondano nel 1947 una “Banca del sangue”, la Japan Blood Plasma Company, che si assicura nel 1950 un fruttuoso contratto con gli Stati Uniti per le forniture di sangue ai soldati americani impegnati nel conflitto coreano. Altri intraprendono la carriera accademica: il dottor Ishikawa Tachiomaru, ex patologo dell’Unità 731, diviene preside dell’Istituto di medicina dell’Università Kanazawa, una delle più illustri istituzioni giapponesi; Tabei Kazu, responsabile di molti esperimenti sul tifo nell’Unità 731, diventa docente di batteriologia a Kyoto; Ogawa Toru, 96

Una limitata parte è pubblicata in Materials on the Trial of Former Servicemen of the Japanese Army Charged With Manufacturing and Employing Bacteriological Weapons, Foreign Languages Publishing House, Moscow 1950.

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376 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

ex addetto alla selezione dei ceppi più virulenti dell’Unità 1644, ha l’incarico di professore alla Facoltà di medicina di Nagoya; Yoshimura Hisato, esperto degli esperimenti sul congelamento presso l’Unità 731 è promosso presidente della Società di Meteorologia e guida numerose spedizioni in Antartide per studiare, questa volta su dei volontari, gli effetti del freddo estremo sulla fisiologia umana; Wakamatsu Yujiro, ex capo dell’Unità 100, diviene membro scientifico dell’Istituto Nazionale della Salute e lavora per vari istituti sanitari, specializzandosi nella ricerca pediatrica sulle infezioni da streptococco 97. Più “sfortunato” è Shiro Ishii, che non può ottenere alcun incarico né in istituzioni private né pubbliche. Catturato dagli americani, per sviare l’opinione pubblica è dichiarato morto, facendo assistere i giornalisti ai suoi falsi funerali. Lo scienziato, dopo aver ottenuto la più completa immunità da parte degli Stati Uniti in cambio delle sue conoscenze 98, muore da libero cittadino nel 1959, all’età di sessantasette anni, di cancro alla gola.

97

D. BARENBLATT, I Medici del Sol Levante, cit., pp. 300–301; S.H. HARRIS, Factories of death, cit., pp. 132–133; H. GOLD, Unit 731 Testimony, cit., pp. 140–141; P. WILLIAMS, D. WALLACE, Unit 731, cit., pp. 279–292. 98 E non solo di queste. Nel 1951, l’agenzia di stampa Reuters, in un dispaccio, asseriva che Ishii e altri due scienziati dell’Unità 731 sarebbero stati mandati in Corea del Sud dagli alti vertici militari degli Stati Uniti, per preziose consulenze sull’uso delle armi biologiche durante la guerra. La figlia di Ishii smentì. Cfr. D. BARENBLATT, I medici del Sol Levante, cit., p 291.

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Capitolo VII

Internare per isolare

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7.1. Immigrati in Gran Bretagna nella II Guerra Mondiale In Gran Bretagna, sin dal 1870, serpeggiava nella società un’immagine negativa e stereotipata della Germania, legata particolarmente alla paura del militarismo tedesco. Così. in seguito alla dichiarazione di guerra contro la Germania (4 agosto 1914), il governo britannico approvò il Defence of the Realm Act, una serie di provvedimenti per garantire la sicurezza pubblica e la difesa del Paese, tra cui il controllo dei cittadini o delle persone straniere residenti in Gran Bretagna ritenuti “non patrioti”1. Quasi simultaneamente fu approvato anche l’Aliens Restriction Act, che autorizzò controlli sulle persone classificate come alien enemies (stranieri nemici). Tra le disposizioni, l’obbligo di tutti gli stranieri a registrarsi, fornendo nazionalità, professione e residenza; il divieto di avvicinarsi in determinate aree di interesse strategico–militare (basi militari, stabilimenti navali, porti e così via); proibizione di possedere armi di qualsiasi tipo, attrezzature fotografiche, mappe; impedimento di adottare cognomi inglesi cambiandoli da quelli originali 2.

1

Già l’Aliens Act del 1905 aveva introdotto un rigoroso controllo sui migranti in entrata, a cui poteva essere negato l’ingresso, e su quelli già presenti nel Regno, che potevano essere espulsi dal Ministero dell’Interno se divenuti indesiderabili. Il testo in http://www.uniset.ca/naty/aliensact1905.pdf. 2 L’Aliens Restriction Act del 1914 in http://webarchive.nationalarchives.gov. uk/+/http://www.movinghere.org.uk/search/catalogue.asp?RecordID=77094& ResourceTypeID=2&sequence=7.

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378 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Se lo scoppio della Prima Guerra Mondiale amplificò il disprezzo contro i teutonici, l’affondamento del transatlantico RMS Lusitania, da parte di siluri sparati da un sommergibile della Kriegsmarine il 7 maggio 1915, dilatò questo sentimento, sfociando in disordini popolari nelle grandi città inglesi contro immigrati tedeschi3. Lo stesso re Giorgio V, appartenente al casato di origine tedesca di Sassonia–Coburgo–Gotha, fu costretto nel 1917 a mutare il nome della famiglia reale in Windsor4. Il 13 maggio, la grande ondata d’isteria antitedesca causata dall’affondamento del Lusitania, portò a misure che prevedevano l’internamento di tutti i maschi adulti appartenenti a stranieri nemici, di età compresa tra i diciassette e i cinquanta anni. Tale provvedimento restò in vigore fino al 19195. Durante le prime fasi dell’internamento, i civili nemici furono alloggiati assieme ai prigionieri militari, anche se separati

3

Il 7 maggio 1915, alle ore 14,10, il transatlantico Lusitania, della compagnia inglese Cunard, fu colpito con un siluro dal sommergibile tedesco U–20. Su 1388 passeggeri e 574 uomini d’equipaggio, perirono 1201 persone. Londra accusò i tedeschi di aver violato le convenzioni internazionali, silurando una nave per trasporto di civili. Berlino rispose che il Lusitania era “un bersaglio legittimo”, poiché celava a bordo armi e munizioni e, quindi, le responsabilità andavano addebitate a Londra che aveva esposto dei civili a un attacco militare. Nei fatti, pare, si trovassero a bordo 1248 casse di granate Shrapnel, 4927 cassette di munizioni e altro materiale bellico. AA. HOEHLING, The Last Voyage of the Lusitania, Rowman & Littlefield., Lanham (Maryland) 1956, ora 1996, p. 27. Cfr., anche, P. O’SULLIVAN, The Sinking of the Lusitania. Unravelling the Mysteries, Collins Press, Cork (Ireland) 2014. 4 Il cognome fu scelto ispirandosi al Castello di Windsor, da secoli centro della monarchia britannica. Già nel 1914, il cugino del re, il principe Luigi di Battenberg, fu costretto a ritirarsi dalla carica di “First Sea Lord” della Royal Navy (ammiraglio in capo della flotta) e, nel 1917, ad anglicizzare il proprio cognome in Mountbatten. 5 Cfr. P. P ANAYI, The Enemy in Our Midst. Germans in Britain During the First World War, Berg Publishers, Oxford 1991, ora Bloomsbury Academic, New York–London 2014, pp. 70–98; Y. CRESSWELL, Behind the Wire: the material culture of civilian internment on the Isle of Man on the First World War, in L. SPONZA, The Internment of Italians 1940–1945, in R. DOVE (ed), Totally Un–English”? Britain’s Internment of “Enemy Aliens” in Two World Wars, Rodopi, Amsterdam 2005, pp. 45–62.

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VII. Internare per isolare

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all’interno. In seguito le due categorie di prigionieri ebbero internamenti esclusivi, sebbene alcuni sono rimasti misti. La gran parte della popolazione civile straniera fu concentrata sull’isola di Man, a Douglas e Knockaloe; altri furono internati ad Alexandra Palace, Hackney Wick, Islington e Stratford (Londra), Gosport (Hampshire), Handforth (Cheshire), Lofthouse Park (Yorkshire), Pattishall (Northamptonshire), Ryde (Isola di Wight), Southend (Essex), Stobs (Scozia) 6. In questi luoghi di internamento le condizioni di vita furono relativamente buone, nessuno degli internati fu costretto al lavoro forzato e tutti furono liberi di gestire liberamente la propria vita nei campi, ovviamente rispettando le poche regole imposte dalle autorità. Nessuna donna e nessun bambino furono internati, anche se dovettero subire molte restrizioni, tra cui il divieto di uscire di casa in determinate ore. Il governo britannico istituì il Civilian Internment Camps Committee, un organo preposto a sovrintendere al rispetto dei diritti degli internati da parte di chi amministrava ogni campo7. Finita la guerra, la retorica xenofoba non cessò. Nel 1919 fu emanata una nuova legge sugli immigrati, l’Aliens Restriction (Amendment) Act, che aggiungeva nuove restrizioni a carico degli stranieri, tra cui il divieto di partecipare ad agitazioni sindacali o di essere ufficiali di navi mercantili8. Non sorprende, quindi, la scelta del governo inglese di procedere, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale, a un nuovo internamento di alien enemies residenti in Gran Bretagna. Infatti, con l’avanzata delle truppe tedesche sul continente europeo, l’isterismo antistraniero aumenta, il governo britannico è così indotto a intraprendere un’azione d’internamento indiscriminato degli alien enemies di origine tedesca, uomini e donne. Parados6

P. PANAYI, Prisoners of Britain. German Civilian and Combatant Internees during the First World War, Manchester University Press, Manchester 2012, pp. 88–89. 7 Cfr. J.C. B IRD, Control of Enemy Aliens Civilians in Great Britain, 1914–18, Garland, New York–London 1986, pp. 131–132. 8 L’atto in http://www.legislation.gov.uk/ukpga/1919/92/pdfs/ukpga_191900 92_en.pdf.

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380 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

salmente a essere internati sono anche i tedeschi fuggiti dalla Germania nazista, tra cui molti ebrei. Il 24 agosto del 1939 è emanato l’Emergency Powers (Defence) Act, che concede al governo in carica di assumere pieni poteri di emergenza per la difesa del Paese, tra cui quello di arrestare ogni singolo uomo o donna che minacci la sicurezza del Regno. Il 23 novembre dello stesso anno il Parlamento approva il regolamento attuativo, il Regulation 18B of the Defence (General) Regulations, che di fatto sospende l’Habeas corpus9, conferendo valore legale all’internamento dei cittadini britannici e di stranieri residenti, che in qualsiasi modo possono divenire una minaccia per la difesa e l’integrità politico–militare del Regno. Il regolamento stabiliva: Se il Segretario di Stato ha ragionevoli motivi di ritenere che un qualsiasi individuo appartiene a organizzazioni o è di origini ostili oppure è stato recentemente coinvolto in atti pregiudizievoli per la sicurezza pubblica o per la difesa del Regno o nella preparazione o istigazione di tali atti e che, a causa di ciò, è necessario esercitare un controllo su di lui, egli può formulare un provvedimento contro tale persona e ordinarne la detenzione.10

Inizialmente il governo opta per una politica di espulsioni11, suddividendo gli alien enemies in tre categorie: class aliens A, i più pericolosi da espellere o internare; class aliens B, da assog9

È l’istituto giuridico anglosassone di antichissima origine che sancisce il principio dell’inviolabilità personale assicurata costituzionalmente, ossia il diritto del cittadino di non essere imprigionato se il giudice competente non lo considera colpevole del reato per cui è stato fermato. 10 R. 18B (1). I testi in A.W. S IMPSON, In the Highest Degree Odious. Detention Without Trial in Wartime Britain, Oxford University Press, Oxfors 1994, pp. 424–426; J. FARBEY, R.J. SHARPE, S. ATRILL, The Law of Habeas Corpus, Oxford University Press, Oxford 2011, p. 97–105. 11 Cfr. D. C ESARANI, T. KUSHNER, Alien Internment in Britain During the Twentieth Century: An Introduction, in D. CESARANI, T. KUSHNER (eds), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, Frank Cass, London 1993, p. 3.

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VII. Internare per isolare

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gettare a controlli e restrizioni; class aliens C, tutti gli altri stranieri considerati autentici rifugiati. L’invasione da parte della Wehrmacht di Danimarca e Norvegia nell’aprile 1940, assieme a quella del Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Francia nel maggio 1940 e la conseguente minaccia di un’invasione tedesca in Inghilterra, inasprisce l’atteggiamento del governo britannico nei confronti degli aliens. Il timore della presenza di una “Quinta colonna”12 nazista, spinse il governo inglese a procedere nuovamente all’internamento di massa. Il Primo Ministro, quindi, approva e istituisce l’Home Defence (Security) Executive, composto dai rappresentanti del Ministero degli Interni, delle Forze Armate, del Servizio di Sicurezza, del Secret Intelligence Service (MI6) e con presidente Lord Swinton (da qui l’appellativo Swinton Committee)13. A questo Comitato di Difesa è conferita piena autorità di prendere in considerazione tutte le questioni relative la salvaguardia contro una “Quinta colonna” nazista, tra cui il completo potere sull’internamento degli aliens di origini tedesche residenti in Gran Bretagna14. Con la dichiarazione di guerra pronunciata da Benito Mussolini il 10 giugno 1940 contro Francia e Inghilterra, anche i cittadini di origine italiana, a prescindere dalle loro appartenenze politiche, o da quanto tempo avessero vissuto in Gran Bretagna,

L’espressione “quinta colonna” spiega un concetto: quello della presenza di un gruppo di persone che operano clandestinamente all’interno col nemico esterno. Fu probabilmente coniato dal generale franchista Emilio Mola, durante la guerra civile spagnola (1936–1939), riferendosi ai partigiani di Franco che agivano clandestinamente a Madrid e che, a tempo debito, avrebbero appoggiato le quattro colonne armate franchiste. Cfr. H. THOMAS, The Spanish Civil War, Penguin, London 1961, trad. it. Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino 1963, p. 335. 13 Esso fu un Comitato meno liberale dell’Home Office, con «pregiudizi di classe e razziali». T. KUSHNER, Clubland, Cricket Tests and Alien Internment 1939–1940, in D. CESARANI, T. KUSHNER (eds), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, cit., p. 92. 14 Cfr. L. B URLETSON, The State, Internment and Pubblic Criticism in the Second World War, in ivi, p. 112. 12

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382 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

oppure ancora dallo status di rifugiati politici, sono considerati alien enemies e internati. In sostanza, con l’ingresso della Gran Bretagna nella Seconda Guerra Mondiale contro le potenze dell’Asse, quasi tutti gli stranieri sono subito considerati potenziali spie al servizio di una ipotetica “Quinta colonna” nazi–fascista. Tutti gli stranieri residenti sono dunque internati, escluso quelli maggiori di settant’anni, dei minori di sedici anni e delle donne incluse nella class aliens C. Inizialmente queste persone sono ospitate in centri di accoglienza improvvisati in terreni liberi (recintati con filo spinato e dotati di tende), in fabbriche in disuso, in caserme, in prigioni, finanche in un ippodromo nel Sud–Est dell’isola a Lingfield (dove i detenuti sono costretti a dormire nei box per cavalli o sulle tribune) e in un vecchio quartiere di svernamento del Bertram Mills Circus ad Ascot, nella contea Sud–orientale dell’Inghilterra (dove gli internati sono alloggiati anche in spazi in precedenza utilizzati per gli animali del circo)15. In seguito sono trasferiti in campi di smistamento. Il peggiore è il Wharf Cotton Mills a Bury (Lancashire), una fabbrica di cotone in disuso in cattivo stato di conservazione, senza riscaldamento, senza elettricità e infestata da ratti. L’edificio “ospita” duemila internati, che hanno a disposizione diciotto rubinetti per lavarsi e sessanta secchi nel cortile da utilizzare come latrine 16. La scarsità del cibo, la mancanza di medicine, il disagio esistenziale, l’assenza di tavoli, sedie e letti, rende questo posto una terribile condanna 17. Dai campi di smistamento, poi, si passa a quelli permanenti, situati per lo più all’interno piccole città (tra queste Clacton on 15

Cfr. T. KUSHNER, Remembering Refugees Then and Now, Manchester University Press, Manchester 2006, pp. 76–77; F. UHLMAN, The Making of an Englishman, Victor Gollancz, London 1960, p. 226. 16 Cfr. R. POPE, War and Society in Britain 1899–1948, Routledge, New York–London 1991, p. 41. 17 Nel 1941 l’ex cotonificio cesso di essere un campo di transito per internati civili e divenne un campo di prigionia. Cfr. K.F. SHERIDAN, Warth Mill remembered, «AJR Information», vol XLV, n.6, June 1990, «The Association of Jewish Refugees», Stanmore (Middlesex), pp. 3–4.

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VII. Internare per isolare

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Sea, Seaton, Paignton, Prees Heath, Huyton) o in quartieri periferici di quelle grandi (come il campo di Sutton Coldfield, una area urbana che oggi fa parte della città di Birmingham), oppure sull’isola di Man, nel Mar d’Irlanda. Il più grande campo di internamento civile sul continente britannico è quello di Huyton, nella contea del Merseyside, nel Nord–Ovest dell’Inghilterra. È un complesso residenziale in costruzione, con case, appartamenti, strade interne. Recintato con filo spinato, il campo ospita fino a cinquemila prigionieri, oltre la sua reale capienza, tanto che molti prigionieri sono costretti a vivere in tende sistemate nei piazzali. Inizialmente concepito come luogo di transito, diventa campo di internamento stabile. Dalla cattiva gestione iniziale, le condizioni di vita diventano un po’ più dignitose in seguito, anche se gli internati non smettono di soffrire per una reclusione senza addebito di alcun reato. Tra gli “ospiti” del campo artisti e studiosi poi celebrati dalla storia. Tra questi i pittori Martin Bloch, Hugo Dachinger e Walter Nessler, il compositore Hans Gál, il ballerino e coreografo Kurt Jooss, l’antropologo Eric Wolf, il sociologo Norbert Elias18. Con una serie di campi di internamento, l’isola di Man (in mannese: Ellan Vannin o Mannin), circa a metà strada fra Irlanda, Scozia e Inghilterra, diventa il maggior luogo di concentrazione di civili di Paesi stranieri da parte della Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale. Ci sono dieci campi sull’isola, con un numero massimo di internati registrati ad agosto 1940 di 10.024 unità19. Questi si trovano a Ramsey, sulla costa settentrionale (Mooragh Camp); a Peel, sul litorale centro–occidentale (Peveril Camp); a Onchan, sulla costa centro–orientale (Onchan Camp); a Douglas, sul litorale centro–orientale (Central Camp, Palace Camp, Metropole Camp, Hutchinson Camp, Granville Camp, Sefton Camp); a Rushen, sulla costa meridionale (Port 18

Sul campo e le condizioni di vita all’interno cfr. J. TAYLOR, Civilian Internment in Britain during WW2. Huyton Camp. Eye–Witness accounts, Anglo–German Family History Society, Plymouth (Devon) 2012. 19 Cfr. C. CHAPPELL, Island of Barbed Wire, Corgi Books, London 1986, p. 53.

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384 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

St. Mary e Port Erin). Ad esclusione dei campi di Rushen, per donne e bambini, tutti gli altri sono campi maschili. I campi sull’isola non sono impiantati come classici luoghi di concentrazione (come lo sono stati i Lager o i Gulag, per intenderci), ma consistono in una fila di case, di pensioni o di alberghi ubicati nelle zone periferiche di queste città, requisiti alla popolazione locale e recintati a gruppo da filo spinato 20. Rispetto ai campi situati sul continente inglese, quelli dell’isola di Man sono più comodi, gli internati hanno più libertà di movimento e di associazione, entro i limiti imposti da ogni campo. Ancor più confortevoli i campi femminili, rispetto a quelli dei maschi: non hanno la recinsione di filo spinato, le donne sono più libere di muoversi anche fuori dallo spazio del campo, i figli che accudiscono possono usufruire di una scuola creata all’interno del campo e tenuta da insegnanti scelti tra gli stessi internati21. Dopo l’iniziale impreparazione e confusione dovuta al panico per l’entrata in guerra, il governo cerca di evitare traumatiche separazioni familiari, così nel 1941 Port St. Mary diventa un campo misto per famiglie di stranieri. In generale, i luoghi di internamento inglesi della Seconda Guerra Mondiale sono organizzati sul principio di autogoverno, dando agli internati un ampio margine di responsabilità per il mantenimento dell’ordine e della disciplina all’interno di ogni campo, assieme a una controllata libertà sulle loro attività quotidiane. Per questo sono designati dei portavoce per gruppi di internati, che riferiscono al rappresentante generale degli internati del campo, che a sua volta si relaziona con il comandante (che è sempre un militare). Anche la salute degli internati è autogestita, almeno per i casi non gravi (i casi più critici sono trat-

20

Cfr. Y.M. CRESSWELL, Living with the Wire. Civilian Internment in the Isle of Man during the two World Wars, Manx National Heritage, Douglas 1994, pp.64–72. 21 Cfr. M. KOCHAN, Women’s Experience of Internment, in D. CESARANI, T. KUSHNER (eds), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, cit., pp. 147–166; ID., Britain’s Internees in the Second World War, McMillan, London 1983, pp. 46–55.

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VII. Internare per isolare

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tati negli ospedali civili): le infermerie del campo sono infatti condotte da medici internati. Il problema più grande è l’abbondante quantità di tempo libero degli internati. Per questo, per contrastare la noia della vita del campo, gli internati sono invogliati a lavorare (con una minima retribuzione), a dedicarsi allo sport (creando squadre di calcio), ad applicarsi in attività artistiche (predisponendo laboratori attrezzati o fornendo strumenti musicali), a scrivere giornali del campo (mettendo a disposizione tipografie). Tuttavia agli internati è rifiutato il diritto di ascoltare la radio e di leggere giornali, negando quindi il diritto a essere informati su cosa stesse accadendo fuori dai campi. Anche la loro corrispondenza deve superare la stretta censura imposta dal governo. Le condizioni nei campi, comunque, oltre a differire nel tempo, variano ampiamente in funzione della posizione e della classe di rischio attribuita agli internati. Infatti, il periodo di gestione degli internati da parte del Comitato Swinton (maggio– agosto 1940) è il più duro e severo22, mentre con l’amministrazione dei campi da parte dell’Home Office si inizia ad assumere un atteggiamento meno rigido, riconoscendo che gli internati civili non possono essere trattati come prigionieri di guerra 23. Precisamente si riconosce che la quasi totalità degli internati è costituita da ebrei rifugiati, da profughi antinazisti e antifascisti, da persone che risiedono da lunghissimo tempo in Gran Bretagna con figli nella British Armed Forces. Insomma, sono persone che hanno buoni motivi per augurarsi la disfatta dei regimi di Hitler e Mussolini; uomini e donne rifugiati in Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste; individui che non hanno alcun interesse per la politica e che pensano principalmente a 22

Ad esempio, quando l’Home Office prese il controllo dei campi, furono trovate nel centro di censura istituito a Liverpool, circa centomila lettere scritte dagli internati o a loro dirette. Cfr. L. BURLETSON, The State, Internment and Pubblic Criticism in the Second World War, in D. CESARANI, T. KUSHNER (eds), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, cit., p. 103. 23 Cfr. L. GILLMAN, P. GILLMAN, “Collar the Lot!”, How Britain Interned and Expelled its Wartime Refugees, Quartet Books, London 1980, p. 231.

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386 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

lavorare, pur mantenendo un forte attaccamento emotivo con la terra di origine24. Già nell’agosto del 1940 si sollevano voci di protesta alla Camera dei Comuni, dove giungono numerose le richieste di riesame del caso da parte degli internati. Qualche membro della Camera dei Comuni lamenta il comportamento del governo verso i rifugiati. Peter Cazalet, in un intervento del 22 agosto 1940 alla Camera dei Deputati, «animato da un senso di decenza» 25, denuncia il trattamento subito da persone con l’unica colpa di essere straniere, concludendo il suo discorso con dure parole: «Francamente, non mi sento felice, sia come un inglese sia come sostenitore di questo governo, fino a quando la pagina infangata [bespattered] della nostra storia sarà pulita e riscritta»26. Nonostante questo, il War Cabinet decide nel giugno 1940 di deportare in Canada e in Australia i dangerous characters, gli stranieri nemici ritenuti più pericolosi. L’11 giugno 1940, in una riunione del Gabinetto di guerra, non solo è comunicato l’inizio dell’internamento degli stranieri nemici, ma anche la decisione di deportare in Canada e Australia quelli ritenuti più nocivi alla sicurezza nazionale: «Il Canada ha accettato di ricevere 4.000 internati e 3.000 prigionieri di guerra. I 4.000 internati assorbiranno i più pericolosi dangerous characters tra i tedeschi (2.500) e gli italiani (1.500)»27. Sebbene si tratta for24

Ad esempio, l’adesione al fascismo di qualche italiano, fu solo una espressione di un senso di appartenenza identitaria, più che un convinto consenso all’ideologia del regime di Mussolini. T. COLPI, The Impact of the Second World War on the British Italian Community, in D. CESARANI, T. KUSHNER (eds), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, cit., p. 170. 25 L’intervento completo di Victor Cazalet alla Camera dei Comuni in Internees. Part of the debate – in the House of Commons at 12:00 am on 22 nd August 1940, http://www.theyworkforyou.com/debates/?id=1940-08-22a.1532.1 Cazalet si riferiva maggiormente al trattamento subito dagli alien enemies ebrei. 26 Ibidem. Sul dibattito del problema cfr. N. S TAMMERS, Civil liberties in Britain during the 2nd World War. A political study, Croom Helm, London 1983, p. 53. 27 National Archives of the United Kingdom – Public Record Office, CAB 65/7/56, punto 6, pp. 419–420.

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VII. Internare per isolare

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malmente di una misura di sicurezza militare rivolta unicamente agli stranieri ritenuti più pericolosi (class aliens A), la maggior parte dei deportati sono rifugiati di categoria B o C28. Fra il 21 giugno e il 10 luglio del 1940 sono realizzati cinque viaggi29. La prima nave a partire per il Canada con il suo carico umano di stranieri nemici è la “SS Duchess of York”, con 2.108 tedeschi e austriaci e 523 prigionieri di guerra, il doppio della sua normale capacità di carico passeggeri 30. I cinque viaggi sono attuati tutti con un carico di passeggeri oltre la normale capacità, in mancanza di misure di sicurezza (carenza di giubbotti e scialuppe di salvataggio per tutti; presenza di filo spinato che divide le aree dell’imbarcazione, bloccando ogni via di fuga in caso di emergenza) e senza il contrassegno della Croce Rossa, che poteva rendere manifesta la presenza di civili a bordo31. Quest’ultima mancanza segna il destino del secondo viaggio, quello della nave Arandora Star, partita da Liverpool il 1° luglio. Con il suo carico umano di 1.562 internati (di cui 764 erano italiani), un migliaio di persone in più della capacità d’imbarco, il 2 luglio, a settantacinque miglia al largo della costa Nord–occidentale d’Irlanda, la nave è scambiata dall’U–boat 47 tedesco per un vettore da trasporto di truppe inglesi ed è silurata. Periscono 841 persone, di queste 446 sono italiani32. I sopravvissuti sono condotti in Scozia: le persone gravemente ferite sono portate nel Mearnskirk Hospital di Glasgow, i feriti lievi 28

Cfr. L. BURLETSON, The State, Internment and Pubblic Criticism in the Second World war, in D. CESARANI, T. KUSHNER (eds), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, cit., pp. 112–113. 29 Cfr. ivi, p. 115. 30 Tra gli internati civili anche undici giovani classificati class aliens C. Cfr. ibidem. 31 Cfr. C. PEARL, The Dunera Scandal. Deported by Mistake, Angus & Robertson, London 1983, p. 19. La SS Dunera fu l’ultima nave che il 10 luglio trasportò internati verso il Canada. Le altre navi furono la già citata Duchess of York, l’Arandora Star, la Ettrick e la Sobieski. 32 Gli italiani erano stati sistemati sotto coperta, circondati da filo spinato, e questo determinò l’elevato numero di morti. Le altre vittime furono: 243 internati tedeschi e austriaci, 42 personale di equipaggio, 97 guardie militari, 12 ufficiali, il capitano della nave Edgar Wallace Moulton.

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388 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

finiscono sull’isola di Man, gli internati ritenuti abili al viaggio, dopo soli otto giorni di sosta, sono imbarcati sulla Dunera SS che ripristina i viaggi per l’Australia33. La tragedia dell’Arandora Star spinge l’opinione pubblica a chiedere al Parlamento di rivedere la politica di internamento indiscriminato. Il 10 luglio la questione è dibattuta alla Camera dei Comuni. Il dibattito dei nemici stranieri passa all’Home Office che inizia ad assumere un atteggiamento meno isterico nei confronti degli immigrati. Sono istituite commissioni di riesame per procedere al rilascio degli alien enemies, che poi diventano loyal o friendly aliens. In autunno, dunque, inizia il rilascio graduale degli internati, cominciando dalle donne, poi dagli internati class aliens C, poi di quelli di categoria B. Gli internati ritenuti più pericolosi sono liberati solo alla fine della guerra34. Per quanto riguarda i deportati in Canada e Australia, sono liberati unicamente quelli che accettano di arruolarsi nel Royal Pioneer Corps35. Tutti gli altri restano in cattività sino alla fine della guerra.

7.2. Gli alien enemies canadesi nella II Guerra Mondiale Il governo canadese aveva decretato durante la Prima Guerra Mondale il War Measures Act, internando migliaia di civili di origine ucraina e austro–ungarica36. Questa legge speciale permise di sospendere i diritti e le libertà fondamentali della popo33

Sulla tragedia dell’Arandora Star cfr. M.S. BALESTRACCI, Arandora Star. Dall’oblio alla memoria. From oblivion to memory, Monte Università Parma, Parma 2008. Il saggio, con testo a fronte in inglese, contiene le testimonianze dei sopravvissuti e le fotografie del momento del salvataggio da parte dell’incrociatore canadese St. Laurent. 34 Fra questi ci furono 573 italiani. Cfr. L. SPONZA, The Internment of Italians 1940–1945, in R. DOVE (ed), Totally Un–English”?, cit., p. 155. 35 Le Unità pioniere hanno una vasta gamma di compiti in tutti i teatri di guerra, compreso il combattimento. 36 Cfr. B. KORDAN, Enemy Aliens, Prisoners of War. Internment in Canada during the Great War, McGill – Queens University Press, Montreal–Itaca 2002.

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VII. Internare per isolare

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lazione attraverso l’adozione di misure straordinarie e di procedure di emergenza in caso di guerra37. Appena prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale è promulgato il Defence of Canada Regulations (Regolamenti per la Difesa del Canada), con le misure d’emergenza da attuare nell’ambito del War Measures Act. Tra queste la rinuncia al diritto all’Habeas corpus e a un processo equo, quindi la possibilità di detenere senza accusa chiunque sia in grado di agire «in qualsivoglia modo pregiudizievole per la sicurezza pubblica o la sicurezza dello Stato»38; scioglimento di organizzazioni politiche ritenute sovversive, specialmente quelle comuniste; restrizioni della libertà di espressione. Con l’ingresso in guerra, il Defence of Canada Regulations consente la gestione del Paese da parte del War Committee of the Cabinet (Comitato Guerra del Consiglio dei Ministri). Il 10 settembre 1939, dichiarando guerra alla Germania di Hitler, il governo canadese attua le disposizioni contenute nel Defence of Canada Regulations, internando sia i tedeschi residenti nel Paese sia quelli naturalizzati39. Nel giugno del 1940, in seguito alla dichiarazione di guerra da parte di Mussolini a Francia, Gran Bretagna e Canada, anche gli italo–canadesi diventano alien enemies e, quindi, soggetti all’internamento 40. Lo 37

Il War Measures Act fu promulgato il 22 agosto 1914, emendato a più riprese e abrogato nel 1970. Cfr. P. PEPPIN, Emergency Legislation and Rights in Canada. The War Measures Act and Civil Liberties, in «Queen’s Law Journal», vol. 18, 1, 1993, pp. 129–190. 38 The Government House at Ottawa, Defence of Canada regulations, Part II. 21, J. O. Patenaude, Ottawa 1939, p. 29. Il documento completo all’url: https://archive.org/details/defenceofcanadar1939cana. 39 Cfr. N. KELLEY, M.J. TREBILCOCK, The Making of the Mosaic. A History of Canadian Immigration Policy, University of Toronto Press, Toronto 2010 (orig. 1998), pp. 254–315; M.F. AUGER, Prisoners of the Home Front. German POWs and “Enemy Aliens” in Southern Quebec. 1940–46, The University of British Columbia, Vancouver 2005. 40 Cfr. L. C ANTON, D. C USMANO, M. M IROLLA, J. ZUCCHERO (eds), Beyond Barbed Wire. Essays on the Internment of Italian Canadians, Guernica, Toronto 2012; P. HICKMAN, J.S. CAVALLUZZO, Italian Canadian Internment in the Second World War. (Righting Canada’s Wrongs), James Lorimer, Toronto 2012.

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390 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

stesso avviene per i nippo–canadesi dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor41. In un clima di intolleranza e di isteria di guerra, il governo canadese istituisce un efficace apparato di repressione. Molti campi di internamento per alien enemies iniziano così a popolarsi di POW (prisoner of war), gente mai formalmente accusata di aver commesso crimini, ma con l’unica colpa di appartenere per nascita o discendenza a una Nazione nemica. Quelli che evitano l’arresto e l’internamento sono comunque sottoposti a severe forme di restrizione della libertà, tra cui l’obbligo di registrarsi e presentarsi a scadenze regolari presso le sedi della polizia canadese, oppure l’imposizione del coprifuoco dal tramonto all’alba. Molti sono i campi di internamento canadesi, tra questi Slocan City, Greenwood, Kaslo, Bay Farm, Lemon Creek, Popoff, New Denver, Rosebery, Sandon, Bridge River, Monto City, McGillivray Falls, East Lillooet, Sunshine Valley, Tashme, tutti nella Columbia Britannica; Petawawa, Schreiber, St. Thomas e Toronto, nell’Ontario; Kananaskis, nella provincia di Alberta; Hull nel Quebec; Minto e Gagetown nel New Brunswick; Amherst nella Nova Scotia42. Gli arresti sono condotti dalla Royal Canadian Mounted Police (RCMP — Reale Gendarmeria del Canada) e sono effettuati in base a pure congetture o, peggio, semplicemente sulla scorta di dicerie. Basta un innocuo gesto di semplice patriottismo, o essere considerato fascista o, peggio, comunista, per finire nei campi canadesi. Malgrado questo, per essere internati devono esser acquisite informazioni credibili.

41

Cfr. P.E. ROY, The Triumph of Citizenship. The Japanese and Chinese in Canada 1941–67, The University of British Columbia, Vancouver 2007, pp. 186–230; P. HICKMAN, M. FUKAWA, Righting Canada’s Wrongs. Japanese Canadian Internment in the Second World War, James Lorimer & C., Toronto 2011, pp. 96–133. 42 Per tutti, cfr. F. IACOVETTA, R. PERIN, A. PRINCIPE (eds), Enemies Within. Italian and Other Internees in Canada and Abroad, University of Toronto Press, Toronto 2000.

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VII. Internare per isolare

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Dopo essere passati per campi di transito, gli alien enemies del Canada sono condotti nei campi di internamento. A differenza degli Stati Uniti dove il piano di evacuazione è preparato da tempo e i relocation center sono organizzati per permettere alle “famiglie nemiche” di rimanere unite anche in cattività43, l’organizzazione canadese non dispone di soluzioni simili e molti nuclei familiari sono divisi. Non solo. Sempre a differenza degli USA, dove gli internati sono generalmente suddivisi per appartenenza etnica, in Canada i campi risultano eterogenei per origini nazionali e per appartenenza politica, seppur le baracche sono organizzate secondo criteri etnici e politici: in pratica italiani, tedeschi e giapponesi, oppure fascisti e comunisti, convivono nello stesso campo, pur alloggiando in baracche distinte. Tutte le aree per alien enemies canadesi sono dei veri e propri campi di concentramento, anche se siamo lontani dall’equiparare questi campi ai più famosi Lager della Germania nazista o ai Gulag dell’Unione Sovietica. Racchiusi da una doppia cinta di filo spinato, i campi sono controllati da ronde militari armate. Gli alloggi degli internati sono baracche di legno di dimensioni variabili secondo il campo, dotate di letti a castello e una piccola stufa a legna. I servizi igienici sono in comune, come la mensa, che serve tre pasti al giorno 44. Come riferito, le baracche sono organizzate secondo criteri etnici e politici. Ogni baracca ha un suo capo–baracca, che si rapporta con il portavoce del campo del proprio gruppo etnico.

43

I campi statunitensi per stranieri nemici sono studiati pià avanti, sempre in questo capitolo. 44 Le condizioni d’internamento nel diario romanzato di Mario DULIANI: La Ville sans femmes, Éditions Pascal, Montréal 1945, trad. it. Città senza donne, Cosmo Iannone, Isernia 2006 (in inglese: The City Without Women. A Chronicle of Internment Life in Canada during the Second World War, Mosaic Press, Oakville 1994). Mario Duliani fu arrestato nel 1940 e trasferito nei campi d’internamento di Petawawa (Ontario), prima, e di Fredericton (New Brunswick), poi. Fu rilasciato dopo tre anni e mezzo.

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392 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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Tutta la vita nel campo è impostata sulla disciplina militare e sul lavoro retribuito 45. All’arrivo al campo, i prigionieri civili di guerra del Canada consegnano i propri effetti personali, ricevendo la divisa da internato: pantaloni blu con una banda rossa che corre lungo la gamba, dall’anca all’orlo, un berretto sempre con una banda rossa, che inizia dal retro per finire sull’orlo della visiera, una camicia e un giaccone, sempre di colore blu, entrambi con un grande cerchio rosso sulla schiena. Questo cerchio serve da bersaglio per i tiratori in caso di tentata fuga 46. Ricorda Nello Trasciatti, POW 471, ultimo italiano a lasciare i campi: All’arrivo al campo, agli internati fu dato più che delle semplici istruzioni: ricevettero una nuova identità. Privati di ogni cosa in loro possesso, principalmente degli abiti che indossavano al momento dell’arresto, furono rivestiti con le divise da prigioniero con distintivi rossi sul retro della camicia e della giacca nonché di una banda rossa sulla gamba destra dei pantaloni. La divisa sottolineava il loro nuovo statuto. Fu così che persero la loro identità: non erano più che prigionieri di guerra. I nomi divennero numeri. La dignità fu sostituita dalla umiliazione. 47

Gli internati possono ricevere e inviare corrispondenza. Tutto è ovviamente sottoposto a censura e a precise regole: tre let45

Quest’ultimo era retribuito con venti/venticinque centesimi per una giornata di lavoro e consisteva in manutenzione del campo, taglio della legna per la cucina e il riscaldamento, costruzione delle strade, attività di artigianato. Il denaro era usato generalmente per acquistare articoli come dentifricio e sigarette allo spaccio del campo. Cfr. I. RADFORTH, Political Prisoners. The Communist Internees, in F. IACOVETTA, R. PERIN, A. PRINCIPE (eds), Enemies Within. Italian and Other Internees in Canada and Abroad, cit., p. 204; P. HICKMAN, J.S. CAVALLUZZO, Italian Canadian Internment in the Second World War. (Righting Canada’s Wrongs), cit., p. 73. 46 Cfr. ivi, p. 69 e p. 73. 47 J. P ILLARELLA, Remembering the Internment. Italian Canadians during World War II – En se souvenant de l’internement les Italo–Canadiens pendant la Seconde Guerre Mondiale – Ricordando l’internamento gli italocanadesi durante la Seconda Guerra mondiale, CIBPA, Montreal 2012, p. 18.

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VII. Internare per isolare

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tere e quattro cartoline al mese da spedire, con una lunghezza di ventiquattro righe per le lettere e otto per le cartoline 48. Gli internati possono anche ritirare pacchi inviati dai familiari ancora liberi, ma dopo un severo controllo. Nessuno degli internati è mai formalmente accusato di aver commesso reati, ciò nonostante alcuni di loro restano imprigionati fino a cinque anni, come il già citato italo–canadese Nello Trasciatti49. Non tutti gli alien enemies sono internati. Molti, specialmente le donne e i bambini, sono registrati come stranieri nemici e obbligati a firmare regolarmente un registro presso le autorità locali. La maggior parte degli alien enemies internati sono uomini, tuttavia anche ventuno donne sono isolate dalla società civile e imprigionate. Queste sono dodici tedesco–canadesi, quattro italo–canadesi, una austro–canadese, tre originarie del Belgio e una dell’Inghilterra50. Molte di queste donne sono internate nel penitenziario femminile di Kingston, in Ontario, e tenute in una ala separata del carcere chiamata “Quartieri d’internamento”. La decisione di trasferire le donne in penitenziari è presa per due motivi: si pensa che la prigione sia più comoda di un campo, inoltre è la soluzione meno costosa, per il basso numero di internate, rispetto alla costruzione di campo per sole donne. Le internate possono ritirare lettere e pacchi dalle famiglie (ovviamente prima ispezionati dalle guardie), ascoltare la radio in una stanza comune vicina alle celle (ovviamente controllate da guardie), utilizzare la biblioteca (ovviamente sotto la supervisione di una guardia), frequentare più regolarmente il cortile del carcere (ovviamente sorvegliate dalle guardie), lavorare all’interno del penitenziario (ovviamente con la vigilanza di guardie), ricevere visite di quindici minuti da parte dei familiari (ovviamente alla presenza di una guardia e con l’ausilio di un in48

Cfr. P. HICKMAN, J.S. CAVALLUZZO, Italian Canadian Internment in the Second World War. (Righting Canada’s Wrongs), cit., p.71. 49 Cfr. J. PILLARELLA, Remembering the Internment, cit., p. 18. 50 Cfr. M. MCBRIDE, The Curious Case of Female Internees, in F. IACOVETTA, R. PERIN, A. PRINCIPE (eds), Enemies Within. Italian and Other Internees in Canada and Abroad, cit., p. 156.

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394 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

terprete a spese dell’internata, se l’incontro si svolge in lingua d’origine)51. Ai sensi dei Defence of Canada Regulations, ogni internato può «chiedere la revisione del loro caso da parte di una apposita commissione del Ministero di Giustizia», in questo modo «un giudice rianalizzava le prove raccolte dalla RCMP e si incontrava con l’internato e coi testimoni. Non c’erano legali d’ufficio e solo i più ricchi erano rappresentati legalmente» 52. Il giudice, dopo aver esaminato il caso, suggerisce al Ministro della Giustizia il rilascio dell’internato, oppure raccomanda la continuazione della detenzione. Oltre all’infamia dell’internamento, le famiglie dei prigionieri devono subire grandi sacrifici, dovuti alla mancanza del capofamiglia, spesso unico sostegno economico, e ai congelamenti di patrimoni e al sequestro dei beni da parte del Custodian of Enemy Properties (CEP — Custode delle Proprietà Nemiche). Questo comporta grandi difficoltà economiche per i nuclei familiari degli internati. Al momento della loro liberazione, i prigionieri sono obbligati a sottoscrivere un’impegnativa che li obbliga a non riferire a nessuno dell’internamento: «era chiaro che, in caso di disobbedienza, sarebbero stati nuovamente arrestati. Il filo spinato li seguì a casa. Solo che ora la loro prigionia non era più fisica ma dettata dalla paura»53. Il timore di ritornare ancora dietro il filo spinato, «fu molto efficace a tappare la bocca agli uomini e a seppellire le loro storie»54. Nel 1988 arrivano le scuse da parte del governo ai canadesi di origine giapponese; nel 1990 ai canadesi di origine italiana. Se i sopravvissuti dei 21.900 cittadini di origine giapponese (17.000 dei quali cittadini canadesi) sono indennizzati con ben

51

Sulle prigioniere civili di guerra del Canada, cfr. M. MCBRIDE, The Curious Case of Female Internees, in F. IACOVETTA, R. PERIN, A. PRINCIPE, Enemies Within., cit., pp. 148–170. 52 J. PILLARELLA, Remembering the Internment, cit., p. 22. 53 Ivi, p. 9. 54 Ivi, p. 40.

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17.325 dollari a persona55, per gli italiani solo scuse formali e neppure ufficiali. Infatti, le scuse arrivano in una riunione tenutasi a Toronto, il 4 novembre 1990, in occasione della biennale del Congresso Nazionale degli italo–canadesi, quando il primo ministro federale Brian Mulroney dice: Quello che accadde a molti canadesi italiani è profondamente offensivo alla semplice nozione di rispetto per la dignità umana e la presunzione di innocenza. L’ingiustizia brutale fu inflitta arbitrariamente, non solo sugli individui la cui unica colpa era quella di essere di origine italiana […] Nessuno dei 700 internati fu mai accusato di un reato […]. È stato spesso, in termini più semplici, un atto di pregiudizio, organizzato e realizzato sotto la legge […] Quarantacinque anni di silenzio su questi torti è una parte vergognosa della nostra storia […] A nome del Governo e del popolo canadese, presento le mie scuse senza riserve ai nostri compatrioti d’origine italiana che hanno subito torti durante la seconda guerra mondiale. 56

Non si tratta di una vera e propria ammissione di colpa, anche perché le scuse sono esternate fuori dal Parlamento canadese, ma unicamente di un riconoscimento ufficioso di alcune discriminazioni attuate nei confronti della comunità italiana in Canada in un periodo di guerra. Proprio per questo non ci sono risarcimenti individuali, ma solamente un versamento alla comunità italo–canadese, a titolo d’indennizzo puramente simbo55

Oltre all’assegnazione di un fondo di dieci milioni di dollari, per sostenere attività educative, sociali e culturali da parte della comunità nippo–canadese, e di venti milioni di dollari per finanziare la nuova Canadian Race Relations Foundation, agenzia dedicata all’eliminazione del razzismo e tutte le forme di discriminazione razziale nella società canadese. Cfr. J.F. BURNS, Ottawa Will Pay Compensation To Uprooted Japanese–Canadians, «The New York Times», September 23, 1988. 56 Cfr. J. B ELTRAME, Unfair, illegal, abusive. PM apologizes to Italians for treatment during war, «The Ottawa Citizen», November 5, 1990; S. MIGLIORE, A.E. DIPIERRO, Italian Lives, Cape Breton Memories, Cape Breton University Press, Sidney 1999, p. 121.

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lico, di 2,5 milioni di dollari da utilizzare però per manifestazioni commemorative riferite a quel periodo.

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7.3. Gli alien enemies australiani nella II Guerra Mondiale Allo scoppio del primo conflitto mondiale, quando la Gran Bretagna entrò in guerra con la Germania, anche l’Australia, vincolata alla politica difensiva britannica, si trovò a intervenire fornendo soldati e altre risorse. Il governo del Commonwealth rispose alla minaccia austro–tedesca introducendo nel 1914 il War Precautions Act, una legge ad hoc per «garantire la sicurezza pubblica e la difesa»57. Questo provvedimento non solo consentì al governo un controllo ancora maggiore sulla presenza degli stranieri in Australia, ma permise, in totale spregio della clausola 39 della Magna Charta, l’internamento in luoghi specifici di una parte di loro58. Gli stranieri più colpiti da queste restrizioni furono i tedeschi, la comunità più numerosa. Di loro ben 6.890 furono considerati pericolosi per la sicurezza e subirono l’internamento 59, tutti gli altri furono vincolati a severe restrizioni. I tedeschi non furono gli unici a essere colpiti dalla legislazione di guerra: austro–ungarici, nazionalisti irlandesi, pacifisti, socialisti e chiunque disapprovava l’adesione alla guerra furono sottoposti a rigorose limitazioni60. All’inizio le persone furono detenute in luoghi temporanei, come caserme o prigioni, in un secondo tempo il governo organizzò spazi ad hoc permanenti a Berrima, Bourke, Enoggera, Queste “precauzioni di guerra”, furono revisionate nel 1915, 1916 e 1918. Le disposizioni della legge del 1914, abrogate solo nel 1920, in «Australian Government ComLaw», https://www.comlaw.gov.au/Details/C1914 A00010. 58 Cfr. P.M. MCDERMOTT, Internment during the Great War. A Challenge to the Rule of Law, «UNSW Law Journal», vol. 28 (2), 2005, pp. 330–363. 59 Cfr. G. FISCHER, Enemy Aliens. Internment and the Homefront Experience in Australia 1914–1920, University of Queensland Press, St. Lucia 1989, p. 77. 60 Cfr. ivi, p. 75. 57

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VII. Internare per isolare

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Langwarrin, Molonglo, Rottnest Island, Torrens Island, Trial Bay, Fort Largs, Garden Island, Holsworthy. La tipologia dell’internamento dei civili durante il primo conflitto mondiale fu varia. Ad esempio a Berrima, nelle Southern Highlands del Nuovo Galles del Sud, si fece ricorso a un carcere in disuso, riaperto nel 1914 come luogo di internamento; mentre a Bourke, sempre nel New South Wales, furono utilizzati per l’internamento il carcere, l’ospedale in disuso, oppure cottage in affitto (pagati dagli stessi internati). In quest’ultimo luogo la maggior parte degli internati furono le famiglie tedesche provenienti da Singapore, Malesia, Ceylon (oggi Sri Lanka), Fiji e Hong Kong. La maggioranza dei campi era costituita da tende collocate dentro un recinto di filo spinato. Altri campi avevano baracche di legno, costruite dagli stessi internati61. Finita la guerra i campi furono chiusi 62, tuttavia, all’avvento del nuovo conflitto mondiale, l’idea dell’esclusione dalla vita civile delle persone con cittadinanza degli Stati nemici o a essi collegati (per discendenza, ad esempio) è ripresa. I campi di internamento ritornano così a popolarsi. Come durante la Prima Guerra Mondiale, in occasione del nuovo conflitto, il governo australiano vara delle leggi che gli consentono un maggiore controllo sulla vita delle persone. Con il nuovo Aliens Registration Act, del giugno 1939, si stabilisce la registrazione di tutti gli stranieri presenti in Australia 63, mentre il National Security (Aliens Control) Regulations, del 13 set61

Per tutti cfr. N. HELMI, G. FISCHER, The Enemy at Home. German internees in World War I Australia, University of New South Wales Press, Sydney 2011; World War I internment camps, in «National Archives of Australia», http://naa.gov.au/collection/snapshots/internment-amps/WWI/index.aspx; The Enemy at home. German internees in World War I Australia, in «Migration Heritage Centre», http://www.migrationheritage.nsw.gov.au/exhibition/enemy athome/map-of-enemy-at-home/index.html. 62 Già nel 1915 il governo del Commonwealth decise di centralizzare i campi di internamento nel New South Wales, trasferendo tutti nel grande campo di Holsworthy, ormai divenuto una piccola città di casotti di legno, completa di teatri, caffetterie e altre attività. Cfr. ibidem. 63 Cfr. Aliens Registration Act, n. 12, June 21, 1939, in «Australian Government ComLaw», https://www.comlaw.gov.au/Details/C1939A00012.

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tembre dello stesso anno, impone il loro controllo: tutti i migranti provenienti dagli Stati nemici, anche coloro che erano diventati sudditi britannici, non sono più considerati solamente “stranieri” (unnaturalised alien), ma “nemici stranieri” (alien enemies)64. Tra le disposizioni emanate nei confronti degli alien enemies: l’obbligo di portare il certificato di registrazione (Aliens Registration Card) e di mostrarlo alla stazione di polizia locale ogni settimana, vincolo di un permesso scritto per viaggiare al di fuori dell’area di residenza, proibizione di parlare lingue diverse dall’inglese in luoghi pubblici o al telefono, divieto di possedere armi, veicoli a motore (autovetture, barche, aerei), macchine fotografiche, radio, ricetrasmettitori, piccioni viaggiatori65. Le autorità militari e le forze di polizia di ciascun Stato della federazione sono incaricate dell’esecuzione di questi provvedimenti. Tutti gli stranieri sono arbitrariamente schedati secondo una classificazione che comprende cinque categorie: A, sospetti di spionaggio, appartenenti alle forze armate straniere o a partiti politici stranieri, associati o collegati a gruppi criminali, comunisti; B, tutte le persone collegate con il trasporto, i sistemi di comunicazione, le fabbriche per materiale bellico, i servizi pubblici o con altre attività che offrono opportunità di sabotaggio o spionaggio; C, tutti i leader e le persone con grande influenza nelle comunità straniere; D, tutti i maschi stranieri in grado di portare le armi; O, le persone considerate innocue (ordinary harmless people )66. 64

Cfr. National Security (Aliens Control) Regulations, n. 88, September 13, 1939, in «Australian Government ComLaw», https://www.comlaw.gov.au/ Details/C1939L00088. 65 Cfr. N.W. LAMIDEY, Aliens Control in Australia 1939–46, Lamidey, Sydney 1974, pp.35–42; I. MARTINUZZI O’BRIEN, Internment in Australia during World War Two. Life histories of citizenship and exclusion, in C. ELKNER, I. MARTINUZZI O’BRIEN, G. RANDO, A. CAPPELLO (eds), Enemy–Aliens. The Internment of Italian Migrants in Australia during the Second World War, Connor Court, Bacchus Marsh (Victoria), 2005, p.19. 66 Cfr. G. CRESCIANI, Fascism, Anti–Fascism and Italians in Australia 1922– 1945, Australian National University Press, Canberra 1979, p.172.

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VII. Internare per isolare

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Con l’ingresso in guerra della Gran Bretagna contro la Germania, poi contro l’Italia e il Giappone, l’Australia si ritrova a partecipare al conflitto bellico mondiale. Migliaia di civili originari dei Paesi dell’Asse sono internati come potenziali stranieri nemici e quinta colonna interna, diventando di fatto prigionieri di guerra. I primi civili a essere internati sono i marinai e i passeggeri delle navi straniere attraccate nei porti australiani, o che in quel periodo sono in navigazione nelle acque territoriali. Assieme a questi anche i pescatori, percepiti come potenziale pericolo, poiché si ritiene possano avvalersi delle proprie imbarcazioni e della conoscenza del mare per assistere le spie a entrare e uscire dal territorio nazionale67. I campi di detenzione sono sparsi in tutto il Paese68. I più grandi sono ubicati nel New South Wales a Holsworthy, Cowra, Hay, Bathurst, Long Bay e Orange; nel Western Australia a Harvey, Rottnest Island e Parkeston; nello Stato di Victoria a Tatura e Dhurringile; nel Queensland a Enoggera; nel South Australia a Loveday. Sono creati anche campi esclusivamente per internare i prigionieri di guerra: a Yanco in New South Wales, a Murchison e a Myrtleford nello Stato di Victoria, a Marrinup in Western Australia e a Brighton in Tasmania. Il più grande luogo d’internamento per civili è il campo di Loveday, dove si segrega il maggior numero di alien enemies dell’Australia durante la Seconda Guerra Mondiale. Situato vicino Barmera, sul fiume Murray, il sito è scelto sia per la sua vicinanza alla ferrovia e alla strada sia per la disponibilità delle linee elettriche e telefoniche. Il campo di Loveday è composto da quattro compound separati, collegati tra loro. Il primo, camp 9, “ospita” civili italiani residenti in Australia; il 67

Tra questi, i primi a essere internati nell’Australia occidentale furono i componenti dell’equipaggio della nave passeggeri italiana Romeo, che si trovava nel porto di Fremantle quando l’Italia entrò in guerra. Cfr. J. GENTILLI, Italian Roots in Australian Soil. Italian Migration to Western Australia. 1829– 1946, Italo–Australian Welfare Centre, Marangaroo (Perth) 1983, p. 96. 68 Cfr. M. YOUNG, C. CHANG, The forgotten history of Australia’s prisoner of war camps, «Herald Sun», April 25, 2014.

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400 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

secondo, camp 10, accoglie maggiormente prigionieri di guerra italiani e tedeschi; il terzo, camp 14, è per civili italiani, tedeschi, giapponesi e cinesi di Taiwan; il quarto è la sede del Comando generale del campo. Ciascuno dei primi tre compound può ospitare un migliaio di persone. Il campo di Loveday è chiuso nel dicembre 194669. I campi australiani sono generalmente divisi per nazionalità. Tuttavia, anche fra gli internati dello stesso gruppo etnico vi è una grande diversità di contesti (ad esempio molti antifascisti si ritrovano a condividere lo stesso quartiere del campo con i fascisti). Le condizioni di vita nei campi sono relativamente buone, se confrontate con i campi di concentramento tedeschi, e il trattamento riservato ai prigionieri è attinente alla convenzione di Ginevra, come ebbero modo di costatare diversi osservatori neutrali70. Ciò nonostante la privazione delle libertà civili, in primis la mancanza formale di un’accusa di reato, e la separazione dai familiari, rende la detenzione un atto estremamente offensivo per la dignità delle persone, quindi un’esperienza molto traumatica71. Anche i campi australiani si basano sul principio di autogoverno: gli internati eleggono dei propri portavoce, che interloquiscono con i rappresentanti militari e hanno la responsabilità per il mantenimento dell’ordine e della disciplina all’interno del campo. Gli internati non sono obbligati al lavoro, ma sono tenuti a svolgere compiti attinenti alla vita quotidiana del campo, come ad esempio la pulizia delle loro baracche, dei servizi igienici e di tutti i luoghi comuni. 69

Cfr. A. KAUKAS, Images from Loveday. Internment in South Australia, 1939–45, in «Journal of the Historical Society of South Australia», n. 9, 2001, pp. 47–57; L. MECCA, A visit to loveday, «Italian Historical Society Journal», January–June 2001 vol. 9 no. 1, pp. 22–26. 70 Cfr. G. CRESCIANI, Migrants or mates. Italian Life in Australia. Emigranti o compari. Vita italiana in Australia, Knockmore, Sydney 1988, p. 201. 71 La grande afflizione per l’internamento portò a diversi tentativi di suicidio. Cfr. Y. NAGATA, Unwanted Aliens: Japanese Internment in Australia , University of Queensland Press, St. Lucia (Queensland) 1996, pp. 159–160.

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Per alleviare la noia, molti internati scelgono di prendere parte a un lavoro retribuito, percependo uno scellino per quattro ore lavorative72. Altri si dedicano ad attività ricreative (pittura, scultura, teatro, musica), sportive (football, tennis, bocce, golf, cricket), educative (corsi di inglese e di lingua e letteratura del Paese d’origine); oppure continuano a svolgere il lavoro esercitato prima di essere incarcerati (cuochi, calzolai, falegnami, medici, dentisti), contribuendo a migliorare la vita all’interno del campo73. Gli internati possono anche inviare e ricevere lettere da familiari e amici, anche se in numero limitato e comunque soggette alla censura. Con il procedere della guerra, la diffidenza nei confronti degli alien enemies raggiunge livelli di vera e propria fobia, tanto che gli stranieri che non sono internati hanno crescenti difficoltà nell’affrontare la vita quotidiana durante il periodo bellico: ovunque sono soggetti a discriminazioni e ostilità e, nel peggior dei casi, a oltraggi. Nel 1942 molti di loro, assieme agli ex internati non ancora autorizzati a tornare a casa, sono arruolati nel Civil Alien Corps, un dipartimento creato per contribuire allo sforzo bellico, destinato al lavoro sorvegliato e retribuito, rivolto maggiormente alla costruzione di strade e ferrovie74. Nel corso del secondo conflitto mondiale sono internati in Australia 7.711 enemy aliens di tutte le nazionalità75, di cui 4.727 italiani (il 31,71% del totale della popolazione maschile italiana), 1.115 tedeschi (il 32.04% del totale della popolazione

72

Cfr. G. FISCHER, Enemy Aliens, cit., p. 180. Cfr. ivi, pp. 234–238. 74 Cfr. M. SPIZZICA, Italian Civilian Internment in South Australia Revisited, in «Journal of the Historical Society of South Australia», n. 41, 2013, pp. 65– 79. 75 A. F ITZGERALD , The Italian farming soldiers. Prisoners of war in Australia 1941–1947, Melbourne University Press, Melbourne 1981, p. 5, così cit. da G. RANDO, Tales of Internment. The Story of Andrea La Macchia, in C. ELKNER, I. MARTINUZZI O’BRIEN, G. RANDO, A. CAPPELLO (eds), Enemy–Aliens, cit., p. 36. 73

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402 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

maschile tedesca) e 587 giapponesi (il 97.83% del totale della popolazione maschile giapponese) 76. Il processo di reinserimento dei cosiddetti enemy aliens è spesso contraddistinto da diffidenze e discriminazioni da parte delle autorità politiche australiane e della collettività autoctona in generale77.

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7.4. Gli alien enemies statunitensi nella II Guerra Mondiale In assenza di una precisa convenzione internazionale o di accordi multilaterali, che riguardano il trattamento delle popolazioni civili di nazionalità nemica residenti sul territorio di uno Stato in guerra, tra il 1941 e il 1944 anche il governo degli Stati Uniti d’America interna i cittadini di origine e di nazionalità giapponese, italiana e tedesca che si trovano nel suo territorio, considerandoli la “quinta colonna” del nemico. Pur trattandosi di civili, queste categorie di persone sono equiparate alla condizione di prigionieri di guerra. Già dal 1939 il presidente Roosevelt, per prevenire azioni di spionaggio e sabotaggio da parte di agenti stranieri presenti sul territorio statunitense, incaricò l’Ufficio Federale di Investigazione (FBI) di indagare. L’esito del lavoro dell’agenzia federale si tradusse nella redazione di liste sia di individui–cittadini nati in uno dei Paesi dell’Asse sia di associazioni e organizzazioni nippo–americane, tedesco–americane e italo–americane. Con la minacciosa avanzata tedesca in Francia, l’FBI e altre agenzie di 76

Cfr. N.W. LAMIDEY, Aliens Control in Australia. 1939–1946, Sydney 1974, manuscript, p. 53, così cit. in G. CRESCIANI, A not so Brutal Friendship. Italian Responses to National Socialism in Australia, in «Altreitalie. Rivista internazionale di studi sulle migrazioni italiane nel mondo», n. 34, gennaio– giugno, 2007, p. 21. 77 Sui campi australiani, oltre ai saggi già citati cfr.: M. BEVEGE, Behind Barbed Wire. Internment in Australia during World War II, University of Queensland Press, St. Lucia 1993; K. NEUMANN, In the Interest of National Security. Civilian Internment in Australia During World War II, National Archives of Australia, Canberra 2006.

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VII. Internare per isolare

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intelligence furono autorizzate a procedere anche a intercettazioni telefoniche di persone sospettate di attività sovversive 78. Così furono stilate nuove liste di potenziali nemici stanziati sul suolo statunitense. Il 29 giugno 1940 è promulgato l’Alien Registration Act, in pratica un provvedimento che obbliga i residenti di nazionalità straniera a recarsi presso gli uffici dell’Immigration and Naturalization Service per adempiere alle pratiche di registrazione, schedatura e rilascio delle impronte digitali 79. Il governo degli USA ottiene così la biografia di quasi cinque milioni di cittadini di origine straniera. Questa lista costituisce un’importante fonte dalla quale l’FBI e altre agenzie governative possono realizzare ulteriori elenchi suddivisi in sotto–gruppi80. In quello stesso mese l’Immigration and Naturalization Service, dal Department of Labor passa a far parte del Department of Justice, smettendo così i compiti di vigilanza e assumendo una connotazione fortemente investigativa e persecutoria nei confronti degli immigrati. Il 7 dicembre 1941, il presidente Roosevelt, attraverso il Presidential proclamation No. 2525 dichiara tutti i cittadini giapponesi dai quattordici anni in su stanziati negli USA alien enemies (nemici stranieri) e posti sotto la libertà vigilata81. Con altri due proclami presidenziali, il n. 2526 e il n. 2527, anche i cittadini tedeschi e italiani dai quattordici anni in su stanziati negli USA sono considerati alien enemies e anch’essi

Cfr. R. DANIELS, L’internamento di “Alien Enemies” negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, «Àcoma – Rivista Internazionale di Studi Nordamericani», 11, 1997, pp. 42–43. 79 L’Alien Registration Act in «Rohan Academic Computing – San Diego State University»: http://www-rohan.sdsu.edu/dept/polsciwb/brianl/docs/1940 AlienRegistrationAct.pdf. 80 Cfr. T. KASHIMA, Judgment Without Trial. Japanese American Imprisonment during World War II, University of Washington Press, Seattle and London 2004, p. 22–23. 81 Il proclama presidenziale n. 2525 in «Rohan Academic Computing – San Diego State University»: http://www-rohan.sdsu.edu/dept/polsciwb /brianl/ docs/1941PRESIDENTIALPROCLAMATIONaliensjapanese.pdf. 78

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posti sotto la libertà vigilata82. Simili disposizioni sono rivolte anche a cittadini ungheresi, bulgari e rumeni, secondo le disposizioni della direttiva n. 2563 del 17 luglio 194283. Con queste direttive sono fissati i doveri e prescritte le restrizioni che i civili di nazionalità non statunitense sono tenuti a rispettare, qualora decidano di continuare a vivere negli USA: divieto assoluto di disponibilità di radio a onde corte e di qualunque altro apparecchio idoneo alla comunicazione (trasmittenti, segnalatori, ma anche piccioni viaggiatori), macchine fotografiche, codici e sistemi cifrati, libri e documenti che contengono riproduzioni di installazioni, mappe ed equipaggiamenti militari; proibizione incondizionata alla detenzione di armi da fuoco, munizioni e materiali utilizzabili per fabbricare esplosivi; coprifuoco dalle 20 alle 6 del mattino successivo; obbligo di dimora nella propria comunità e imposizione di un permesso da parte dell’US Attorney del proprio distretto federale per spostamenti motivati e richiesti almeno sette giorni prima. Inoltre è consentito ai dipartimenti di Giustizia e di Guerra, quando se ne presenti la necessità, di proibire la presenza di alien enemies nelle vicinanze di porti, canali, coste, stazioni ferroviarie, magazzini e altri luoghi dichiarati di interesse militare. Il 19 febbraio 1942 il presidente Roosevelt firma l’Executive Order No. 906684, in cui, considerando che il perseguire dello stato di guerra richiede «ogni possibile protezione contro lo spionaggio e contro il sabotaggio» per la difesa degli Stati Uniti d’America, si «autorizza il Segretario di Guerra a prescrivere aree militari dalle quali alcune o tutte le persone possono essere I due proclami in «Rohan Academic Computing – San Diego State University»: http://www-rohan.sdsu.edu/dept/polsciwb/brianl/docs/1941PRESIDEN TIALPROCLAMATIONalienregistrationgerman.pdf (Presidential proclamation No. 2526 – Alien Enemies German); http://www-rohan.sdsu.edu/dept/ posciwb/brianl/docs/1941PRESIDENTIALPROCLAMATIONalienregistratio nitalians.pdf (Presidential proclamation No. 2527 – Alien Enemies Italians). 83 Il documento in «Lawfare»: http://www.lawfareblog.com/wp-content/up loads/ 2012/12/PR–2563.pdf. 84 L’Executive Order No. 9066, in «Comcast», http://home.comcast.net/~eo 9066/EO9066.html. 82

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VII. Internare per isolare

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escluse». L’ordine non menziona nessun gruppo etnico, né specifica quali siano le aree interessate, tuttavia apre la strada alla deportazione di nippo–americani, tedesco–americani e italo– americani in relocation camps. I residenti coreani e austriaci, le cui nazionalità divengono nel corso della guerra giapponese e tedesca, non sono dichiarati alien enemies, poiché la loro appartenenza a uno Stato nemico sopraggiunge dagli esiti della guerra e, quindi, dipende da situazioni delle quali non sono responsabili. Lo stato di guerra e le relative “necessità militari” sono così ritenuti motivazioni sufficienti per calpestare i diritti costituzionali in un Paese che si proclama democratico85. Dal 2 marzo 1942 diventa operativo l’ordine del Presidente statunitense con una serie di Public Proclamation che dichiarano alcune aree degli Stati Uniti d’America zone militari (specialmente quelle costiere) e, quindi, da “bonificare” da tutti gli alien enemies, principalmente quelli di origine nipponica86. La convinzione che le azioni militari delle Potenze dell’Asse possano essere pericolosamente agevolate da agenti e fiancheggiatori residenti all’interno dei Paesi attaccati, diventa opinione sempre più comune. L’attacco giapponese di Pearl Harbor amplifica queste paure. Infatti, l’impatto psicologico dell’attacco al porto militare ubicato nell’isola hawaiana di Oahu, è terribile per tantissimi cittadini statunitensi, ancor di più lo è per i nippo–americani, che sono immediatamente identificati come il nemico in patria. Già nella notte del 7 dicembre furono presi in custodia dall’FBI millecinquecento persone appartenenti alla 85

Già nel corso della Prima Guerra Mondiale, la democrazia americana aveva riservato a molti austro–ungarici residenti in USA, i cosidetti “Huns” (Unni), l’incarcerazione senza processo, con la sola colpa di essere sudditi di un impero nemico. Cfr. H.D. GERALD, ‘Oglesdorf’. A World War I Internment Camp in America, «Yearbook of German–American Studies», 26, 1991, pp. 249–265; T.A. LAWRENCE, Eclipse of Liberty: Civil Liberties in the United States during the First World War, «Wayne Law Review» 21/1, 1974, pp. 33– 112. 86 Dalle copie delle Public Proclamation in possesso dell’autore. I documenti anche in R. DANIELS, American Concentration Camps: January 1, 1942– December, 1941, Garland, New York 1989, pp. 317–331.

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406 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

prima generazione di giapponesi emigrati, tra cui leader di associazioni che avevano il supporto del governo giapponese, insegnanti di scuole in lingua giapponese, preti buddisti87. Suddivisi in Issei, Nisei e Sansei, ossia rispettivamente la prima generazione di giapponesi emigrati, la seconda generazione (figli degli Issei) nata fuori dal Giappone e con cittadinanza del luogo di nascita e la terza (nipoti degli Issei) 88, i giapponesi sono così subito considerati “il pericolo in casa” e per questo vanno sorvegliati e, possibilmente, isolati. In un primo momento si decide di ordinare un trasferimento volontario. Tuttavia, se i giapponesi da un punto di vista militare sono ritenuti spie negli Stati del West Coast degli USA, possono continuare a esserlo in qualsiasi altra zona federale in cui decidano di vivere. A questo punto il loro trasferimento e la loro custodia in zone predisposte ad hoc diventa obbligatorio. Il 18 marzo 1942, il presidente Roosevelt, con un nuovo ordine esecutivo89, crea la War Relocation Authority (WRA), una nuova agenzia federale a cui è affidata la custodia dei giapponesi negli assembly centers e nei relocation camps. Contemporaneamente è istituito l’Office of Alien Property Custodian, un’agenzia con il compito di occuparsi della gestione dei beni e delle proprietà confiscate ai deportati. Il 24 marzo il tenente generale John Lesesne DeWitt, comandante del Western Defense Command, ordina l’evacuazione obbligatoria da Bainbridge Island (Stato di Washington) di cinquanta famiglie giapponesi. Sono dati loro solo sei giorni di tempo per prepararsi al trasferimento. Queste famiglie fanno da

87

Cfr. R. DANIELS, Asian America. Chinese and Japanese in the United States since 1850, University of Washington Press, Seattle and London, 1995, p. 202. 88 Questi termini hanno come prima radice i numeri giapponesi: ichi (uno), ni (due), san (tre). I più guardati con sospetto furono i cosiddetti Kibei, ossia Nisei educati in Giappone, quindi più influenzati all’indottrinamento imperialista giapponese e meno “americanizzati”. 89 L’Executive Order No. 9102 in «The American Presidency Project»: http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=16239.

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VII. Internare per isolare

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apripista all’internamento di oltre 100.000 persone, di cui più di 70.000 cittadini americani90. Il segretario della guerra Henry Lewis Stimson è incaricato dell’assistenza alle persone trasferite (trasporto, alloggio e vitto), mentre il colonnello Karl Bendetsen è invece delegato per amministrare la rimozione dei giapponesi dalla West Coast. Quasi tutti gli Issei e Nisei obbediscono all’esercito, presentandosi nei punti stabiliti per il raduno e l’evacuazione, senza opporre alcuna resistenza fisica 91. Questi potenziali sabotatori sono dapprima condotti verso i cosiddetti receiving points, centri di raccolta, per poi passare negli assembly centers, i primi campi temporanei, e da qui smistati verso i permanent war relocation camps, situati nelle regioni desolate dell’entroterra dell’Ovest degli USA. Lo stesso si verifica per gli italiani e i tedeschi residenti in USA. La tendenza è quella di raggruppare i detenuti in un unico campo secondo la nazionalità. La WRA amministra dieci war relocation camps per giapponesi: Topaz (Utah), Manzanar e Tule Lake (California), Poston e Gila River (Arizona), Minidoka (Idaho), Heart Mountain (Wyoming), Granada (Colorado), Rohwer e Jerome (Arkansas). Per i più facinorosi sono riservati i tre isolation camps di Moab (Utah), di Leupp (Arizona) e di Fort Stanton (New Mexico)92. I war relocation camps sono dei veri e propri campi di internamento, per funzione (concentrare in un luogo isolato degli individui), per il tipo degli internati (persone che non hanno commesso alcun reato e non sono state giudicate, ma segregate solo per l’appartenenza), per tipologia (luoghi recintati da filo spinato e controllati da ronde armate), per le condizioni di vita (limitazioni della libertà personale, sovrappopolamento, assenza di privacy, qualità igienica scarsa, condizioni climatiche sfavore90

Cfr. R. DANIELS, Asian America, cit., pp. 215–216. Nelle Hawaii, dove più di un terzo della popolazione era di origine giapponese furono selezionati solo gli individui a elevato rischio. Questo per il ruolo indispensabile svolto nell’economia delle isole da parte dei Nisei e Issei. 92 Per tutti cfr. R. DANIELS, American Concentration Camps. A documentary History of the Relocation and Incarceration of Japanese Americans, 1941– 1945, 9 voll., Garland, New York 1989. 91

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408 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

voli). Tuttavia si è lontani dall’assimilare questi campi a quelli nazisti o sovietici. Il war relocation camps di Manzanar è il primo campo a essere allestito. Situato ai piedi della Sierra Nevada, nella Owens Valley della California, soggetto quindi a frequenti tempeste di sabbia e a temperature estreme, il campo è inizialmente un assembly center, diventando il 1° giugno del 1942 il Manzanar War Relocation Center. Grande duemilacinquecento ettari, il campo di Manzanar è recintato da filo spinato e sorvegliato da otto torri di guardia. All’interno ha trentasei blocchi di poco più di sei metri per trenta93. In ogni blocco sono alloggiate più famiglie che hanno a disposizione uno spazio di circa sei metri per sette, suddiviso dagli altri da una semplice tenda 94. I bagni sono in comune, come anche la mensa, la lavanderia e la sala ricreazione. Oltre ai blocchi residenziali ci sono altri utilizzati come alloggi per il personale militare, uffici amministrativi, magazzini, ospedale, garage, scuola, luoghi di culto, ufficio postale. Con il tempo gli internati si dotano anche di un giornale del campo, piccoli negozi, sala da barba, calzolaio, una piccola fattoria per allevare maiali e polli, una fabbrica di rete mimetica per l’esercito statunitense, una piantagione di gomma naturale e altri vivai. All’interno anche un orfanotrofio, chiamato “Villaggio dei bambini”, che ospita centouno orfani nippo–americani. I bambini frequentano la scuola del campo, mentre agli adulti sono offerti posti di lavoro retribuiti (da 8 a 19 dollari al mese, secondo la specializzazione). Gli internati s’impegnano anche per rendere autosufficiente il campo, riuscendo ad abbellirlo con elaborati giardini95. Nonostante gli internati si attivano per rendere più vivibile la loro prigione, il senso di smarrimento e d’ingiustizia subita, la 93

J.F. BURTON, M.M. FARRELL, F.B. LORD, R.W. LORD, Confinement and Ethnicity. An Overview of World War II Japanese American Relocation Sites, Western Archeological and Conservation Center, Arizona 1999, ora University of Washington Press, Seattle 2002, p. 163. 94 Ivi, p. 167. 95 Sulla vita all’interno del campo, cfr. M.L. C OOPER, Remembering Manzanar. Life in a Japanese Relocation Camp, Clarion, New York 2002.

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VII. Internare per isolare

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perdita della libertà, della proprietà, delle professioni, la monotonia, portano a una percezione di sconfitta totale. Manzanar è chiuso il 21 novembre 1945. Sui campi statunitensi per giapponesi esiste una raccolta fotografica realizzata da Dorothea Lange, Ansel Adams e Toyo Miyatake. Dorothea Lange è ingaggiata nel 1942 dalla War Relocation Authority per documentare la vita dei giapponesi internati. La maggior parte delle fotografie sono scattate proprio nel campo di Manzanar. Nel 1943 anche il più famoso fotografo americano Ansel Adams è incaricato dal direttore del campo di Manzanar di documentare la vita nel relocation center, ma lo fa senza spirito critico. Toyo Miyatake è invece un internato che riesce a costruire una macchina fotografica e a scattare fotografie dapprima clandestinamente, poi, scoperto dal direttore del campo Ralph Palmer Merritt, con l’assistenza di un militare che preme l’otturatore al suo posto (per aggirare il divieto), infine da solo96. Nonostante questa discriminazione, tra i giovani Nisei è vivo lo spirito di devozione verso la nuova Patria. Per questo molti di loro si arruolano volontariamente combattendo sotto la bandiera a stella e strisce97. Nel gennaio del 1945 l’ordine esecutivo presidenziale è revocato e, gradualmente, i giapponesi sono liberi di lasciare i campi. A tutti sono assegnati venticinque dollari e un biglietto ferroviario per tornare a casa. Solo quelli ritenuti più pericolosi restano nei campi sino al 1946. 96

Cfr. J. ALINDER, Moving Images. Photography and the Japanese American Incarceration, University of Illinois Press, Champaign 2009, pp. 23–102; L. GORDON, G. OKIHIRO (eds), Impounded: Dorothea Lange and the Censored Images of Japanese American Internment, W. W. Norton, New York 2006; A. ADAMS, Born Free and Equal. The Story of Loyal Japanese Americans, Manzanar Relocation Center, Inyo County, California, U.S. Camera, New York 1944, ora Spotted Dog Press, Bishop 2002. 97 Infatti, il pericolo alla sicurezza nazionale rappresentato dai nippo– americani non impedì al governo statunitense di arruolare i giovani dai vari campi, costituendo il 100° Battaglione e il 442° reggimento di fanteria, che si distinsero in combattimento sul fronte europeo. Cfr. A. GIANNASI, I Nisei in guerra. I soldati nippoamericani in Italia 1944-1945, Tralerighe, Lucca 2016.

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410 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

Stessa sorte dei nippo–americani è riservata ai tedesco– americani. Il proclama presidenziale n. 252698, considera anche i teutonici residenti in USA, assieme a tutti i cittadini americani di origine tedesca, alien enemies e per questo sono posti sotto la libertà vigilata. I primi a essere arrestati e deportati sono i tedeschi che aderiscono ad associazioni filo–naziste. Con l’avanzata nazista in Europa, tutti i tedeschi residenti in USA e i cittadini americani di origine germanica sono internati in war relocation camps del Dipartimento di Giustizia e in caserme dell’esercito americano. Tra i più grandi relocation centers ci sono Fort Lincoln (North Dakota), il Kenedy Alien Detention Camp (Texas), Fort Sill (sottocampo punitivo di Fort Stanton in New Mexico), i campi di Seagoville e di Crystal City (Texas). Tra i campi militari di internamento ci sono: Camp Blanding (Starke, Florida), Sand Island e Camp Honouliuli (O’ahu, Hawaii), Camp Forrest (Tullahoma, Tennessee), Stringtown (Oklahoma), Camp McCoy (Sparta, Wisconsin), Fort Meade (Maryland) 99. Poiché i tedeschi sono recepiti maggiormente come alien enemies, il governo statunitense richiede a molti Stati latinoamericani l’estradizione di quelli residenti nel sotto–continente100. Diversa è la sorte degli italo–americani, dapprima considerati alien enemies e poi, a guerra ancora in corso, prosciolti da questa calunnia. I primi a essere arrestati e deportati sono gli Cfr. Presidential proclamation No. 2526 – Alien Enemies German in «Rohan Academic Computing – San Diego State University»: http://wwwrohan.sdsu.edu/dept/polsciwb/brianl/docs/1941PRESIDENTIALPROCLAMA TIONalienregistrationgerman.pdf. 99 Cfr. T.J. HOLIAN, The German Americans and WWII. An Ethnic Experience. Peter Lang Publishing, New York, 1998; A. KRAMMER, Undue Process, The Untold Story of America’s German Alien Internees, Rowman & Littlefield, New York, 1997; S. Fox, America’s Invisible Gulag. A Biography of German American Internment & Exclusion in World War II: Memory & History, Peter Lang Publishing, New York 2000. 100 Cfr. M.P. FRIEDMAN, Nazis and Good Neighbors. The US Campaign Against Germans in Latin America during World War II, Cambridge University Press, Cambridge 2003, in spagnolo Nazis y buenos vecinos. La campaña de los Estado Unidos contra los alemanes de América Latina durante la Segunda guerra Mundial, Antonio Machado Libros, Boadilla del Monte 2008. 98

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VII. Internare per isolare

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italiani che militano nei “Fasci italiani” negli Stati Uniti o quelli che fanno parte di una delle associazioni italo–americane fascistizzate, oppure ancora quelli che hanno svolto attività di propaganda per il regime di Mussolini. Gli arresti dei mesi successivi sono per lo più legati all’inosservanza dell’obbligo della registrazione, imposta dall’Alien Registration Act, e alla violazione del coprifuoco, imposto dal Presidential proclamation n. 2527. Quando le esigenze militari impongono l’evacuazione di alien enemies della West Coast, decine di migliaia di italiani residenti negli USA con le loro famiglie sono allontanate dalle loro case e per molti si aprono i cancelli di numerosi relocation center. Tra questi quello di Strigtown e McAlester (Oklahoma), Camp McCoy (Wisconsin), Fort Missoula (Montana), Camp Forrest (Tennessee) e i forti militari Sam Houston, Bliss, Seagoville e Kenedy (Texas) 101. Il 12 ottobre del 1942, a guerra ancora in corso, in occasione della festività di Columbus Day102, l’attorney general Francis Biddle annuncia l’esenzione degli italiani dalla categoria di alien enemies. I fattori che concorrono all’adozione di tale provvedimento sono molteplici: l’atteggiamento meno ostile della popolazione statunitense nei confronti degli italiani; la valutazione politica che si ha dell’Italia, considerata l’anello debole dell’Asse e, quindi, facilmente attirabile nella propria sfera d’influenza a guerra conclusa; l’enorme peso elettorale degli italiani d’America nelle scelte elettorali, che formano uno dei maggiori blocchi di voti in USA. Gli stessi italiani d’America hanno dimostrato di essere loyal aliens nei confronti della Nazione che li ospita, arruolandosi volontariamente nell’esercito statunitense, 101

Cfr. S.C. FOX, The Unknown Internment. An Oral History of the Relocation of Italian Americans during World War II, Twayne Press, Boston 1990; L. DISTASI (ed), Una Storia Segreta. The Secret History of Italian American Evacuation and Internment During World War II, Heyday Book, Berkeley 2001. 102 È tuttora una ricorrenza particolarmente cara alle comunità italiane in America, perché commemora il giorno dell’arrivo di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo (12 ottobre 1492).

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412 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

prestando servizio nella produzione bellica, donando sangue, sottoscrivendo obbligazioni di guerra103. Nonostante il riconoscimento di incondizionata lealtà, gli italo–americani sono ancora soggetti a restrizioni residenziali, mentre molti restano nei relocation center. Solo con la resa dell’Italia dell’8 settembre 1943 sono gradualmente liberati. Nel 1980 il Congresso degli Stati Uniti d’America istituisce la Presidential Commission on the Wartime Relocation and Internment of Civilians, per stabilire se l’internamento dei giapponesi nei campi, in particolare per quelli con la cittadinanza americana, era giustificata dal punto di vista legale. La Commissione stabilisce che la promulgazione dell’Ordine Esecutivo presidenziale n. 9066 non era giustificata dalle necessità militari e, soprattutto, che i provvedimenti che seguirono furono guidati da «pregiudizi razziali, isteria di guerra e fallimento della leadership»104, che determinarono una linea di condotta frettolosa e ingiusta, influenzata da un clima di risentimento nei confronti dei giapponesi. Nel 1988 il governo degli Stati Uniti si scusa ufficialmente per l’internamento, impegnandosi a erogare ventimila dollari a ogni sopravvissuto. Diversa sorte subiscono i tedeschi–americani, che non hanno mai visto riconosciuta ufficialmente la loro ingiusta detenzione, né mai hanno ottenuto risarcimenti. Per gli italiano–americani, invece, solo una solenne dichiarazione d’ammenda per averli «marchiati come “stranieri nemici”»105, ma nessun risarcimento.

103

S.J. LA GUMINA, The Humble and the Heroic. Wartime Italian Americans, Cambria Press, New York 2006, pp. 111–124. 104 Commission on Wartime Relocation and Internment of Civilians, Personal Justice Denied, US. Govt. Print Office, Washington 1982, p. 18. 105 United States Congress, Committee on the Judiciary – Subcommittee on the Constitution, Wartime Violation of Italian American Civil Liberties Act, Hearing Before the Subcommittee on the Constitution of the Committee on the Judiciary, House of Representatives, One Hundred Sixth Congress, First Session, on H.R. 2442, October 26, 1999, U.S. Government Printing Office, 2000, p. 6.

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Capitolo VIII

Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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8.1. I campi della guerra civile nell’ex Jugoslavia Tra il 1991 e il 1999, sul territorio delle repubbliche ex jugoslave hanno avuto luogo una serie di conflitti armati che possono essere inquadrati tra guerra civile e conflitti secessionisti: nel 1991, la guerra d’indipendenza slovena, tra la Slovenia e la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia; dal 1991 al 1995, la guerra in Croazia, tra le forze leali al governo croato e le forze serbe e i reparti composti dai serbi di Croazia; dal 1992 al 1995 la guerra in Bosnia ed Erzegovina, un conflitto che vide il coinvolgimento dei tre principali gruppi nazionali: serbi, croati e bosniaci musulmani (bosgnacchi)1. Una terribile e sanguinosa serie di conflitti di tutti contro tutti che ha coinvolto sia le etnie sia le fedi religiose: croati contro bosniaci, bosgnacchi (musulmani) contro serbo–bosniaci (ortodossi), serbi (ortodossi) contro croati (cattolici) e bosniaci non ortodossi, tutto con la sapiente regia della Nato. Nella lunga guerra nell’ex Jugoslavia luoghi di internamento sono allestiti da tutti i belligeranti, senza eccezioni. Si tratta per lo più di campi improvvisati e di breve durata, predisposti in stadi, scuole, vecchie fattorie, fabbriche dismesse, ex miniere, edifici abbandonati, magazzini e terreni incolti. Prima di procedere in una breve disamina dei campi della guerra civile nei Balcani, occorre fare una precisazione: durante 1

Tra il 1996 e il 1999 scoppia anche la guerra in Kossovo, un conflitto riguardante lo status di questa provincia autonoma della Serbia.

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414 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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il conflitto nell’ex Jugoslavia non ci sono né “buoni” né “cattivi”, semmai ci sono dei popoli che hanno lottato, seppur crudelmente, per tutelare i propri interessi e profittatori (la NATO e i Paesi aderenti) che hanno gestito il conflitto dall’esterno, anche demonizzando una parte dei contendenti, per garantirsi “altri” interessi: Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la riunificazione della Germania, è stato necessario rimuovere il modello originale di Jugoslavia, che aveva due caratteristiche: autonomia e neutralità […] per i centri finanziari di Washington, Londra, Bruxelles e Berlino, il presidente serbo Slobodan Milošević era un “dittatore” che si era opposto alla riforma del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca mondiale, impedendo il cosiddetto libero scambio (“libero mercato”)2.

Per questo Slobodan Milošević, presidente della Serbia, è presentato come un pericoloso despota con mire espansionistiche. Così, poiché il confine politico tra Est e Ovest si trovava proprio nei Balcani, l’intervento della NATO è servito a scongiurare la nascita di una “grande Serbia” e portare questa frontiera sulla sponda occidentale. Per fare questo si è manipolata la verità storica, demonizzando il contendente più “scomodo”, i serbi appunto, presentandoli come criminali di guerra, accusandoli di “pulizia etnica” e “stupri seriali”, sino al genocidio3. 2

F. Dal CORTIVO, A 13 anni dalla fine della guerra d’aggressione della NATO: la Serbia, i Balcani e la Russia, intervista a Yves Bataille, geopolitico franco–serbo, «Eurasia», 25 settembre 2012, http://www.eurasia-rivista.org/a13-anni-dalla-fine-della-guerra-daggressione-della-nato-la-serbia-i-balcani-ela-russia/17111/. 3 La demonizzazione dei serbi esula dalla riflessione di questo lavoro. Per cui rimando a lavori specifici, tra cui M. COLLON, Poker menteur, EPO, Bruxelles 1998; J. ELSÄSSER, Kriegsverbrechen. Die tödlichen der Bundesregierung und ihre Opfer im Kosovo–Konflikt, K.V.V. Konkret, Hamburg 2000, trad. it. Menzogne di guerra. Le bugie della NATO e le loro vittime nel conflitto per il Kosovo, La Città del Sole, Napoli 2002; D. JOHNSTONE, Fools’ Crusade. Yugoslavia, NATO and Western Delusions, Monthly Review Press, New York 2002; P. RUMIZ, Maschere per un massacro. Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia, Feltrinelli, Milano 2011, ora 2013.

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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Proprio i campi di concentramento serbi sono uno dei maggiori fattori scatenanti l’intervento della NATO, che ha portato alla sconfitta definitiva della Serbia. Una fotografia scattata a Trnopolje, in Bosnia, dai giornalisti britannici della ITN nell’agosto 1992, testimonierebbe la presenza di campi di concentramento serbi nei Balcani. Nella fotografia è ritratto in primo piano un certo Fikret Alic. L’uomo si presenta emaciato e rinchiuso dietro uno sbarramento di filo spinato. In realtà, Fikret Alic si trova in un campo di transito per rifugiati ed è malato di tubercolosi ben prima di arrivare in quel luogo (e poco dopo sarebbe partito per la Svezia). Inoltre, per proteggere il materiale dei reporter dai furti, sono proprio i giornalisti a stazionare in un’area chiusa da filo spinato. La fotografia fa il giro del mondo e diventa la prova d’accusa delle autorità della NATO della malvagità dei serbi. Tuttavia, in questo campo ci sono persone venute volontariamente per cercare protezione contro le aggressioni delle milizie locali4. La presenza di campi serbi è messa in massima evidenza dalla stampa internazionale5, paragonandoli ai Lager nazisti, ma tralasciando il fatto che anche croati e bosniaci creano luoghi di concentramento civile. Campi di prigionia e di concentrazione sono infatti creati da tutti i contendenti6. In tutti i campi della guerra in Jugoslavia, si umilia, si tortura, si spoglia gli internati della loro dignità e si muore. Croati e bosniaci creano campi a Sarajevo, Čelebić, Tarčin, Livno, Bradina, Odzak, Bihac (nel Jedinstvo Football Stadium)

4

Cfr. M. COLLON, Poker menteur, cit., pp. 34–35; D. Johnstone, Fools’ Crusade, cit., pp. 72–74; P. BROCK, Media Cleansing, Dirty Reporing. Journalism and Tragedy in Yugoslavia, GM Books, Los Angeles 2005, pp. 250–252. 5 Nel corso di una visita a Alija Izetbegović, ormai morente, Bernard Kouchner ha strappato una confidenza all’ex Capo di Stato della Bosnia. Izetbegovic gli ha confidato che l’informazione sui campi di concentramento serbi è stata volutamente distorta allo scopo di ottenere dalla NATO il bombardamento contro i serbi. Cfr. B. KOUCHNER, Guerriers de la paix, Grasset et Fasquelle, Paris 2004, pp. 372–375. 6 Cfr. P. M OJZES, Balkan Genocides. Holocaust and Ethnic Cleansing in the Twentieth Century, Rowman & Littlefield, Lanham 2011, p. 172–177.

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416 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

e in molti altri luoghi7. I serbi istituiscono campi a Keraterm, Manjača, Omarska, Vilina Vlas, Vojno e altrove8. In tutti i casi, si tratta per lo più di campi improvvisati e di breve durata, che si aprono e chiudono secondo l’andamento della guerra. Sono stadi, scuole, vecchie fattorie, fabbriche dismesse, ex miniere, edifici abbandonati, terreni incolti. Manco a dirlo il trattamento è inumano in tutti i luoghi di reclusione, dovuto al nazionalismo e ai risentimenti per i precedenti massacri subiti da parte serba (persecuzione ustascia e vessazione sotto il regime di Tito, in primis), al nazionalismo intriso di pregiudizi antiserbi da parte croata e bosniaca. Lo “sport” più praticato in questi campi è la violenza, crudele, umiliante e gratuita. Nel campo bosniaco di Čelebić, ad esempio, si usa anche la mazza da baseball per colpire a morte i detenuti9, mentre in quello serbo di Omarska si utilizza una barra di metallo10. Proprio questi due campi, raffigurano la ferocia durante la guerra in Bosnia. Il campo di Čelebići è un campo di internamento gestito da forze bosniache e croate, utilizzato da diverse unità del Ministero dell’Interno bosniaco, del Consiglio di Difesa croato e poi dalle Forze di difesa territoriale bosniache. Il campo si trova nel villaggio Čelebići, nel comune di Konjic, zona centrale bosniaca. Inizialmente caserma dell’esercito federale e centro magaz7

Per tutti cfr. J. UGLJESA, J. STARR, Concentration camps, prison and brothels, «ZBook», November 12, 2009, https://zcomm.org/zbooks/concentra tioncamps-prison-and-brothels-by-darko-trifunovic-jill-starr/. 8 Cfr. M. B IONDICH, The Balkans. Revolution, War, and Political Violence Since 1878, Oxford University Press, Oxford 2001, pp. 218–221; D. CAMPBELL, Atrocity, memory, photography: imaging the concentration camps of Bosnia – the case of ITN versus Living Marxism, part 2, «Journal of Human Rights», vol. 1, n. 2, 2002, pp. 154–157. 9 Cfr. C. SAVICH, Celebici, in «Serbianna», http://www.serbianna.com/ columns/savich/047.shtml; S.L. BURG, P.S. SHOUP, The War in Bosnia–Herzegovina. Ethnic Conflict and International Intervention, M.E. Sharpe, Armonk– London, 1999, pp. 179–180. 10 Cfr. D. C AMPBELL, Atrocity, memory, photography: imaging the concentration camps of Bosnia – the case of ITN versus Living Marxism, part 1, «Journal of Human Rights», vol. 1, n. 1, 2002, pp. 1–33; M. DANNER, The horrors of a camp called Omarska and the serb strategy, «Frontline», http://www.pbs. org/wgbh/pages/frontline/shows/karadzic/atrocities/omarska.html.

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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zini generali, nel maggio del 1992 diventa il luogo in cui sono internati prigionieri di guerra e civili serbi, quest’ultimi deportati per “ripulire” la zona dagli odiati nemici. Le condizioni degli internati rispecchiano la considerazione che i carcerieri hanno dei serbi: si dispensavano torture con attrezzi artigianali (tra cui pinze e tenaglie roventi), pestaggi con mazze o cavi elettrici, esecuzioni sommarie (anche cospargendo di benzina il prigioniero, che poi è infuocato vivo)11. Le poche donne internate in questo campo sono regolarmente stuprate 12. Per i crimini commessi a Čelebići, Zdravko Mucić (croato), Hazim Delić e Esad Landžo (entrambi bosniaci) sono condannati, seppur con lievi pene, per crimini contro di guerra, per la reclusione illegale di civili, per omicidi volontari, per torture e trattamenti disumani verso i prigionieri. 13. Nel complesso minerario di Omarska, vicino Prijedor, nel nord della Bosnia ed Erzegovina, nel maggio del 1992 i serbobosniaci creano un campo per internare civili bosgnacchi e croati–bosniaci. Ufficialmente è un centro raccolta, nella realtà un campo di internamento. Secondo il giornalista Ed Vulliamy, che ha visitato il campo nell’agosto del 1992, il campo di Omarska è gestito da civili e non dall’esercito14. Tra gli “ospiti” molti leader politici, intellettuali e molti altri “non–serbi” considerati radicali nazionalisti. All’interno del campo sono imprigionate anche 37 donne, alloggiate separatamente nell’edificio ammini11

Cfr. International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, Crimes Against Serbs in the Čelebići Camp, in «United Nations. International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia», http://www.icty.org/x/file/Outreach/ view_from_hague/jit_celebici_en.pdf, p. 5. 12 Ivi, pp. 3–6. 13 I tre sono condannati rispettivamente a nove, diciotto e quindici anni di carcere. Tutti hanno dopo pochi anni usufruito del rilascio anticipato. Cfr. International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, Case Information Sheet. "Čelebići Camp" (IT-96-21) Mucić et al. The Prosecutor v. Zdravko Mucić, Hazim Delić, Esad Landžo & Zejnil Delalić, in «United Nations. International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia», http://www.icty. org/x/cases /mucic/cis/en/cis_mucic_al_en.pdf 14 Cfr. E. VULLIAMY, Shame of camp Omarska, «The Guardian», 1992, August, https://www.theguardian.com/world/1992/aug/07/warcrimes.edvulliamy.

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418 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

strativo di due piani del campo. Queste donne, oltra a occuparsi della mensa, sono adibite a pulire le stanze delle torture dopo le sevizie. Le violenze sessuali hanno segnato per sempre la vita delle superstiti15. I due luoghi più temuti di tutto il campo sono la “casa rossa” e la “casa bianca”, entrambe chiamate così dal colore dello stabile. Il primo edificio è maggiormente adibito alle uccisioni ed è chiamato dagli internati Klaonica (macello), il secondo alle torture. Nel grande edificio amministrativo, nelle otto stanze al secondo piano, si svolgono invece gli interrogatori. Gli internati vivono nel campo in condizioni disumane (sovraffollamento, mancanza di cure sanitarie, scarsezza di condizioni igieniche, un solo pasto al giorno) e in un’atmosfera di estrema violenza. Il campo è chiuso il 21 agosto 1992, dopo la visita autorizzata di giornalisti stranieri. Gli internati sono divisi in gruppi e trasportati in autobus verso altre destinazioni. Nel 2004 vicino al campo è scoperta una fossa comune, ora chiamata la tomba Stari Kevljan, con i resti di 456 persone. Finita la guerra molti aguzzini sono arrestati, processati e riconosciuti colpevoli di crimini di guerra, per la reclusione illegale di civili, per omicidi volontari e per torture verso i prigionieri. Tra questi i responsabili del campo Željko Mejakić, Miroslav Kvočka e Dragoljub Prcač, le guardie Mlađo Radić, Milojica Kos e Zoran Žigić16. La storia della dissoluzione violenta della Jugoslavia rappresenta il fallimento della politica. Senza nessuna disponibilità a negoziare soluzioni pacifiche per dividere la Jugoslavia e creare autonome entità statali, si è proceduto con le armi a spazzare via lo jugoslavismo per creare Stati il più possibile omogenei dal punto di vista etnico, cancellando con il sangue di migliaia e 15

Cfr. la testimonianza di Nusreta Sivac, The Courage to Testify: Nusreta Sivac, in «Remembering Srebrenica», https://www.srebrenica.org.uk/survivor-stories/thecourage-to-testify-nusreta-sivac/. 16 Tutti condannati rispettivamente a ventuno, cinque, sei, venti, sette e venticinque anni. Le lunghe fasi dei processi in «United Nations. International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia», http://www.icty.org/case/ kvocka/4; in particolare Mejakić et al. (IT-02-65), in ivi, http://www.icty. org/case/mejakic/4

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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migliaia di civili il nome della Jugoslavia dalle cartine politiche. Come riferito, l’intervento militare di un terzo attore esterno, la NATO, sotto l’apparenza di un’azione internazionale, ma senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha poi anche stabilito d’ufficio chi era il vero nemico nel conflitto (i serbi), bombardandolo. Questo intervento è servito per rimuovere il modello originale di Jugoslavia, che aveva due preziose caratteristiche, autonomia e neutralità, e agganciare i “Balcani serbi” all’Occidente, allontanandoli dalla Russia. Le guerre nei Balcani, dunque, pur dipinte come scontro etnico e religioso, hanno nascosto ben altro: interessi politici ed economici17, convenienze di entità politico–economiche e religiose esterne, tutti fattori che hanno pericolosamente acceso la miccia del nazionalismo, agitando le acque della storia e scrivendo pagine dolorose per tutti i civili della regione18.

8.2. Il campo–prigione di Guantánamo A seguito degli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, negli Stati Uniti d’America si adottano misure antiterrorismo che gravano sulla sfera della libertà personale: l’USA Patriot Act e il Presidential Military Order19. 17

Si ricorda nuovamente che per i poteri finanziari di Washington, Londra e Berlino, il presidente serbo Milošević era un pericolo, in quanto si era opposto alla riforma del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca mondiale, impedendo di fatto il cosiddetto “libero mercato” nei Balcani. 18 Cfr. R CLARK, Divide and Conquer. The Destruction of the Balcan Federation by the United States and NATO, 2004, in «Italijanska Koordinacija za Jugoslaviju», http://www.cnj.it/home/it/informazione/jugo info/ 3207-3233ramsey-clark-divide-and-conquer-1.html e ss. 19 Tre giorni dopo gli attentati, il 14 settembre, il Congresso approva la Joint Resolution 23 – Authorization for the Use of Military Force (cfr. https://www. gpo.gov/fdsys/pkg/PLAW-107publ40/html/PLAW-107publ40.htm), mentre lo stesso giorno il presidente Bush, con la Declaration of National Emergency by Reason of certain terrorist Attacks (https://georgewbush-whitehouse.archi ves.gov/news/releases/2001/09/20010914-4.html), dichiara anche lo stato di emergenza.

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420 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

L’USA Patriot Act 2001, acronimo di Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001, è una legge federale approvata dal Congresso il 26 ottobre 2001. Essa prevede, al fine di combattere il terrorismo, una serie di strumenti straordinari tra i quali, la concessione di ulteriori poteri agli organi inquirenti, che acquistano così una maggiore libertà di movimento; la modifica in senso ancor più restrittivo della legislazione sull’immigrazione, al fine di prevenire l’ingresso nel Paese a terroristi stranieri; la creazione di nuove fattispecie di reato relative agli atti di terrorismo, per allargare l’ambito della punibilità; l’aumento delle pene esistenti per i reati di terrorismo e il rafforzamento dell’azione di intelligence delle agenzie federali, in primis della CIA; la facoltà dell’Attorney General di trattenere in reclusione qualunque soggetto straniero da questi classificato come sospetto terrorista; la possibilità di far giudicare i terroristi (o sospetti tali) catturati da tribunali militari, a porte chiuse e senza le garanzie usuali dei procedimenti giurisdizionali20. Il 13 novembre 2001 il Presidente George Walker Bush emette il Presidential Military Order sulla detenzione, il trattamento e il procedimento nei confronti di alcuni non–cittadini nella guerra al terrorismo21. In questo ordine militare, il Presidente dichiara che «la situazione di emergenza determinata dalla minaccia terrorista richiede che, per garantire la sicurezza nazionale, siano adottate misure straordinarie nei confronti dei 20

Un’analisi del Patriot Act in A. ETZIONI, How Patriotic is the Patriot Act? Freedom vs. Security in an Age of Terrorism, Routledge, New York, 2004. Il testo della legge federale in Usa Patriot Act – Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001 in https://www.gpo.gov/fdsys/pkg/PLAW-107publ56/ pdf/PLAW-107publ56.pdf. 21 Il Presidential Military Order in http://georgewbush-whitehouse.archi ves. gov/news/releases/2001/11/20011113-27.html. In italiano, quest’ordine e le altre disposizioni dell’Amministrazione Bush relative all’internamento di quelle persone collegate, o ritenute tali, alle organizzazioni terroristiche, si leggono in C. BONINI, Guantánamo. Usa, viaggio nella prigione del terrore, Einaudi, Torino 2004, pp. 145–226.

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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non–cittadini» ritenuti appartenenti «alla rete del terrore». Dunque è operata una netta distinzione tra cittadini e non: ai primi è riconosciuto il diritto al giusto processo, ai secondi l’apparato di garanzie processuali previste costituzionalmente è derogato in nome della sicurezza nazionale 22. Quest’ultimi, sia in USA sia all’estero, possono essere detenuti in basi particolari delle Forze armate e processati con procedure ad hoc davanti a tribunali militari speciali, senza aver diritto a un difensore di propria scelta, senza la possibilità di contestare le prove e senza l’eventualità di ricorrere in appello. In virtù di queste disposizioni, tutti i combattenti nemici catturati nella guerra in Afghanistan, iniziata il 7 ottobre 2001, e le persone che — anche presumibilmente — sono considerate collegate con organizzazioni terroristiche sono deportate in America, a Cuba, nella Guantánamo Bay Naval Base. All’interno della base di Gitmo, come è chiamata in gergo l’area militare statunitense dell’isola, si organizzano delle strutture detentive speciali per ospitare terroristi o presunti tali: Camp X–Ray, Camp Iguana e poi Camp Delta. Camp X–Ray è la struttura che inaugura la detenzione dei “soldati del terrore” (o presunti tali), inaugurata nel gennaio 2002. Si tratta di un’area con una serie di gabbie in metallo di circa due metri quadrati, una per ciascun detenuto, uno spazio così ristretto da costringere il recluso a passare il tempo sdraiato. Insomma una sorta di pollaio umano a cielo aperto, esposto alla luce solare durante il giorno e a quella artificiale durante la notte. Il 28 aprile 2002 Camp X–Ray è smantellato e i detenuti sono spostati al Camp Delta, un’altra unità della base militare già utilizzata come campo per rifugiati dopo il colpo di Stato haitiano del 1991. 22

Rappresentativo di questa distinzione è il caso di John Walker Lindh, un americano catturato in Afghanistan mentre combatteva al fianco delle forze talebane. Catturato, è mandato in un carcere militare della Virginia. Qui gli è concesso di usufruire dell’assistenza legale per potersi difendere di fronte a un tribunale federale. Cfr. The case of the Taliban American, «CNN», December 19, 2001, http://edition.cnn.com/CNN/Programs/people/shows/walker/profile. html.

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422 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

All’entrata di questa sezione detentiva di Guantánamo, un cartello con scritto “Camp Delta. Onore alla difesa della libertà” dovrebbe accogliere i prigionieri, ma nessuno dei reclusi può leggerlo perché tutti sono bendati. In questo campo le condizioni detentive sono diverse, secondo la sezione in cui si è internati. Sei sono i bracci detentivi, ognuno svolge una specifica funzione in condizioni diverse: da quella punitiva a quella via via meno restrittiva. La decisione di far soggiornare in una sezione piuttosto che in un’altra, le restrizioni e i modesti agi sono dunque dispensati in base al comportamento di ogni detenuto: per i prigionieri più pericolosi e meno collaborativi la sezione è punitiva, con l’isolamento totale in celle con bagno alla turca e una brandina in metallo; per i più collaborativi e meno pericolosi ci sono le sezioni di internamento semplice, con celle un po’ più confortevoli dotate di gabinetto, lavandino con acqua corrente, letto, armadietto. In questa sezione le celle sono anche dotate di Corano e una freccia nera verniciata a fuoco che punta verso la Mecca segnando la distanza di 12.793 chilometri (è la direzione verso cui i musulmani si genuflettono per la preghiera)23. In quest’ultime sezioni i detenuti possono leggere, giocare a carte, fare la doccia, mangiare insieme24. Le sezioni più terribili di Camp Delta sono la numero tre e la numero cinque. La prima destinata ai nuovi arrivati, la seconda, chiamata Camp Echo, per i più recidivi: celle piccolissime, bagno a pavimento, illuminazione artificiale giorno e notte. La classe di detenzione è contraddistinta anche dal colore della divisa che i prigionieri indossano e dalle manette: per i collaborativi, tuta bianca e senza manette negli spostamenti interni; per i più pericolosi, tuta arancione e “tre pezzi”, una cintura di cuoio, stretta in vita da robusti anelli cui vengono agganciati due metri di catena che tengono insieme cavi23

Cfr C. BONINI, Guantánamo, cit., p. 28. Cfr. A. GRUNBERG, Viaggiare leggeri a Guantánamo, in «Diario», 7 settembre 2007, p. 19. 24

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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glie e polsi. Che impediscono non solo la corsa, ma anche il passo rapido e qualsiasi repentino movimento o torsione del tronco.25

La base di Guantánamo ha un altro luogo di internamento, Camp Iguana, un piccolo stabilimento destinato originariamente a casa di villeggiatura per gli ufficiali di passaggio. Qui sono stati reclusi dal 2002 all’inizio del 2004 tre detenuti minorenni (il più giovane aveva tredici anni), colpevoli di essere stati arruolati con la forza dai Talebani e ritenuti in possesso di informazioni importanti. Il campo è chiuso nel 2004, quando i ragazzi sono rimpatriati. Nel 2005 è riaperto per ospitare trentotto detenuti considerati non più combattenti e in attesa di reinsediamento. Camp Iguana è dotato di stanze confortevoli con aria condizionata, bagno con una tenda per la riservatezza, un piccolo soggiorno con televisione e angolo cottura. Secondo il Governo USA, a Guantánamo i reclusi sono tutti talebani combattenti o membri di Al–Qaida. Essi sono descritti come «i più pericolosi, meglio addestrati e più malvagi assassini sulla faccia della terra»26. Ma non è così. A svelare i retroscena nascosti di Guantánamo ci ha pensato la temuta organizzazione Wikileaks, che dal 2011 ha pubblicato documenti scottanti a riguardo, compreso le schede ufficiali di ogni internato 27. Infatti, oltre alla presenza di individui catturati in contesti del tutto indipendenti dal conflitto afgano, come 25

Cfr. C. BONINI, Guantanamo, cit., pp. 30–31. Così il Segretario della Difesa Donald Rumsfeld il 27 gennaio 2002, in occasione di una sua visita alla base di Guantánamo. Cit. in L.E. FLETCHER, E. STOVER, The Guantánamo effect. Exposing the consequences of U.S. detention and interrogation practices, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 2009, p. 185. 27 Della loro diffusione, insieme a quella di altre centinaia di documenti, è accusato il militare Bradley Manning. Cfr. Gitmo files. WikiLeaks Reveals Secret Files on All Guantánamo Prisoners, in «WikiLeaks», https://wikileaks. org/gitmo/. Sul The Guardian, che ha pubblicato i documenti insieme al New York Times, una mappa interattiva dei detenuti, cfr. Guantánamo files: all 779 detainees, http://www.theguardian.com/world/interactive/2011/apr/25/ guantanamo-files-guantanamo-bay. 26

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424 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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quelli fermati in Bosnia Erzegovina, ci sono persone che nulla hanno a che fare con la guerra, con i talebani e con Al–Qaida, e la maggior parte di loro non è stata neppure catturata dalle forze statunitensi: l’86% è stato in realtà arrestato da forze pakistane o dai soldati afghani dell’Alleanza del Nord e “venduto” a caro prezzo agli americani28. Riferisce Nizar Sassi, un francese di origini marocchine non particolarmente religioso e che neppure conosce l’arabo, finito a Guantánamo per la sua passione per le armi 29: La gente pensa che tutti quelli che sono finiti là siano per forza combattenti o terroristi. Ce ne sono. È vero. Ma parecchi altri ci sono arrivati senza neanche sapere perché. Io faccio parte di quest’ultimi.30

Dunque, certamente non mancano pericolosi personaggi, come Khalid Sheikh Mohammed, considerato la mente degli attentati terroristici dell’11 settembre, o come Abu Faraj al–Libi, ritenuto il numero tre di Osama Bin Laden. Ma ci sono pure Sayed Abbasin, tassista di Kabul arrestato mentre tranquillamente lavorava trasportando con il suo taxi un pericoloso talebano31, ed Ezat Khan, un taglialegna incarcerato solo perché conosceva tutti i sentieri di montagna tra l’Afghanistan e il Pa28

Cfr. Guantánamo, i numeri dello scandalo, «Amnesty International», https://www.amnesty.ch/it/news/2008/Guantánamo-uno-scandalo-lungo-seianni/Guantánamo-i-numeri-dello-scandalo. Nell’autunno 2003 presso Camp Delta i prigionieri erano di quarantadue nazionalità e parlavano diciannove lingue diverse. Cfr. A. BONINI, Guantánamo, cit., p. 4. 29 Poiché Nizzar ha la passione delle armi, si lascia convincere da un conoscente arabo a seguire un corso di addestramento in Pakistan. Nizzar ci va nell’estate 2001 e, mentre si trova in Pakistan, New York e Washington sono colpiti dalla rete del terrore. Nizzar è venduto alla CIA e spedito a Guantánamo, dove vi resta per trenta mesi, prima che qualcuno capisse la sua totale estraneità dalla rete del terrore. 30 In N. S ASSI, G. B ENHAMOU, Prisonnier 325, camp Delta. De Vénissieux à Guantanamo, Denoël, Paris 2006, p. 7, trad. it. Prigioniero 325, Delta Camp, Einaudi, Torino 2006. 31 Gitmo files. WikiLeaks Reveals Secret Files on All Guantánamo Prisoners, cit. https://www.wikileaks.org/gitmo/pdf/af/us9af-000671dp.pdf.

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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kistan32, oppure Mohammad Nasim, confinato a Cuba perché il suo nome suonava simile a quello di un comandante talebano 33, o Mohammed Sadiq, un ottantanovenne deportato a Guantánamo, nonostante il cancro alla prostata e la demenza senile, perché nella sua casa è stato trovato un cellulare satellitare (che nemmeno sa usare) e una lista di numeri telefonici di individui sospetti34. Anche Mohamedou Ould Slahi è considerato dagli americani un terrorista e incarcerato nel 2002 a Guantánamo col numero 760, salvo scoprire dopo cinque anni che lui non c’entrava niente col terrore: unica sua colpa è di aver fatto parte della guerriglia antisovietica, lasciata poi nel 1992, e di essere ancora incluso nelle liste della CIA come mujaheddin35. Per gli internati, Guantánamo è un limbo, nessuno è accusato formalmente di un crimine, nessuno ha affrontato alcun procedimento giudiziario, nessuno ha la possibilità di farsi assistere da un avvocato, nessuno conosce la durata del suo internamento. Non sono neppure chiamati “prigionieri” dal Dipartimento della Difesa statunitense, ma detainees, persone confinate, perché dargli la qualifica di prigionieri avrebbe significato far entrare in gioco i diritti e i doveri inclusi nelle varie convenzioni di Ginevra. La qualifica di “combattenti illegali” e l’extraterritorialità della base militare, dunque, sono utilizzati come pretesto per legittimare questo trattamento che non tiene conto dei diritti costituzionali e delle convenzioni internazionali sul trattamento dei prigionieri. In generale la disciplina a Guantánamo è severissima, è persino vietato rifiutare i trattamenti medici o fare lo sciopero della fame. L’utilizzo delle maniere forti per ammansire i detenuti è una costante all’interno della prigione:

32

Ivi, http://www.wikileaks.org/gitmo/pdf/af/us9af-000314dp.pdf. Ivi, http://www.wikileaks.org/gitmo/pdf/af/US958.pdf. 34 Ivi, http://www.wikileaks.org/gitmo/pdf/af/us9af-000349dp.pdf. 35 Egli ha scritto le memorie della sua odissea a Camp Delta, le prime scritte da un detenuto di Guantánamo. Cfr. M. OULD SLAHI, L. SIEMS, Guantánamo Diary, Canongate, Edinburgh 2015, trad. it., 12 anni a Guantánamo, Piemme, Casale Monferrato 2015. 33

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426 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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Se un detenuto, per un motivo o per l’altro, rifiuta di uscire dalla gabbia, gli americani mandano dentro i cani. Altre volte, per vincere la resistenza di un prigioniero, arrivano in cinque, dei giganti in tenuta da combattimento. Con indosso casco e giubbotto antiproiettile, ginocchiere nere e scudo, cominciano cospargendo il detenuto di gas lacrimogeno attraverso la rete metallica. Poi aprono la porta, si scagliano sul tizio bloccandolo con uno scudo contro la parete. Dopodiché gli danno una gran manica di botte. Il tizio viene colpito, messo a terra, legato e trascinato all’esterno.36

Anche l’uso della tortura per estorcere informazioni è ampiamente documentato 37. C’è anche un manuale che informa come procedere agli interrogatori, dalla fase introduttiva che prevede per tutti un lungo periodo di isolamento iniziale per disorientare i prigionieri e «aumentare la dipendenza verso le persone che conducono gli interrogatori» 38, passando per il sistema di premi e punizioni e l’utilizzo dei cani per intimidire, sino ai metodi coercitivi veri e propri39. Joe Hickman, sergente statunitense che ha prestato servizio a Guantánamo, sostiene che nella terribile sezione del campo chiamata “Camp No”, almeno tre uomini sono stati torturati a morte e poi il loro decesso spacciato per suicidio40. In un documento pubblicato da WikiLeaks si scopre il “menù” delle torture praticate a Guantánamo: privazione del sonno, sovversione dei ritmi naturali di veglia, esposizione a estreme temperature, aggressione sensoriale con musica a tutto volume e 36

Cfr. N. SASSI, G. BENHAMOU, Prisonnier 325, cit., p. 173. Oltre alle testimonianze di alcuni detenuti (cfr. i già citati saggi di N. SASSI, G. BENHAMOU, Prisonnier 325 e di M. OULD SLAHI, L. SIEMS, Guantánamo Diary) e alle rivelazioni di WikiLeaks, c’è anche quella di James YEE, ex assistente spirituale musulmano del campo: For God and Country. Faith and Patriotism under Fire, Public Affairs, New York 2005. 38 Cfr Camp Delta Standard Operating Procedure, in «WikiLeaks», https://wikileaks.org/detaineepolicies/doc/US-DoD-DELTA-SOP-2002-1111.html. 39 Cfr. J. HICKMAN , Murder at Camp Delta. A Staff Sergeant’s Pursuit of the Truth About Guantanamo Bay, Simon & Schster, New York 2015. 40 Cfr. ivi, pp. 36–49 e 85–92. 37

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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possenti fasci di luce, esposizione della nudità, impiego di donne negli interrogatori dei maschi e altre misure tese tutte a disorientare il prigioniero41. In un “Memorandum sui diritti delle persone in custodia americana in Afghanistan e Guantánamo”42 inviato alla Casa Bianca, Amnesty International elenca minuziosamente tutte le violazioni dei diritti umani. La stessa organizzazione produce una serie di rapporti di denuncia sul maltrattamento dei detenuti, tra cui una su presunte uccisioni di detenuti, fatte poi passare per suicidi43. In una lettera inviata ai membri della Commissione Forze Armate del Senato degli USA, due ex prigionieri britannici, Shafiq Rasul e Asif Iqbal, liberati nel marzo 2004, raccontano come si svolgono gli interrogatori a Guantánamo: Siamo stati incatenati per ore […] e non era concesso di andare al bagno. Una pratica introdotta […] era l’ammanettamento corto (short shackling). Eravamo costretti a stare con le gambe in aria, con le mani legate tra le gambe e incatenati al suolo […]. Venivamo lasciati in questa posizione per ore prima dell’interrogatorio (che poteva durare anche 12 ore) […] Veniva alzata l’aria condizionata, così dopo pochi minuti si gelava. C’erano una lampada stroboscopica e la musica ad alto volume, che costituivano a loro volta una forma di tortura. A volte venivano portati anche dei cani per terrorizzarci. Non sempre venivamo nutriti e quando tornavamo in cella per quel giorno non ricevevamo nessun pasto […]. Soldati ci hanno detto personalmente che andavano nelle celle e davano bastonate con spranghe di metallo di cui poi non relazionavano. 41

Cfr. Guantanamo document confirms psychological torture, in «WikiLeaks», https://wikileaks.org/wiki/Guantanamo_document_confirms_psycho logical_torture. Cfr. anche M.P. DENBEAUX, J. Hafetz, The Guantánamo Lawyers. Inside a Prison Outside the Law, New York University Press, New York 2009, pp. 229–288. 42 United States of America: Memorandum to the US Government on the rights of people in US custody in Afghanistan and Guantánamo Bay, 14 April 2002, in «Amnesty International», https://www.amnesty.org/en/documents/ amr51/053/2002/en/. 43 Guantanamo suicides: Tactical Campaign against Torture, in «Amnesty International», https://www.amnesty.org/en/documents/amr51/092/2006 /en/.

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428 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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Noi stessi abbiamo assistito a brutali assalti ai prigionieri […] Desideriamo chiarire che questi e altri episodi e tutta la brutalità, l’umiliazione e la degradazione avevano chiaramente luogo come risultati di politiche e ordini ufficiali. 44

Nel 2004 gli statunitensi ritornano a sospendere i diritti umani in nome della lotta al terrore e della democrazia nella prigione di Abu Ghraib, in Iraq. Porno–interrogatori e violenze fisiche e psichiche sono state documentate dagli stessi torturatori, mentre sorridenti posavano accanto ai torturati per una “foto ricordo”. Il 28 aprile del 2004 il programma d’inchiesta 60 minutes della rete televisiva americana CBS, mostra per la prima volta le violentissime immagini di cosa avveniva nel carcere di Abu Ghraib 45: simulazione di esecuzioni, attacchi con i cani, prigionieri sodomizzati con manici di scopa, costretti a indossare vesti femminili, portati nudi a guinzaglio, oscenamente ammucchiati uno sull’altro. Un’immagine divenuta il simbolo dello scandalo degli abusi ad Abu Ghraib, è quella di un prigioniero, Shalal el Kaissi, il detenuto n° 151716, incappucciato, costretto a rimanere in piedi su una scatola, con le braccia aperte e dei fili elettrici collegati alle dita delle mani 46. Tutto quello che succede ad Abu Ghraib è anche denunciato da Amnesty International in un report del 6 marzo del 200647.

44

La lettera in M. RATNER e E. RAY, Guantánamo. What the World Should Know, Arris Books, Moreton 2004, trad. it. Prigionieri di Guantanamo. Quello che il mondo deve sapere, San Lazzaro di Savena, Nuovi Mondi Media, 2005, pp. 207–211. 45 Cfr. http://www.cbsnews.com/news/abuse-at-abu-ghraib/. 46 Cfr. P. C OPPOLA, “Io, il prigioniero con il cappuccio mai più orrori come a Abu Ghraib”, «la Repubblica», 11 settembre 2005, http://www.repubblica.it/ 2005/i/sezioni/esteri/iraq66/abudete/abudete.html. Rilasciato a gennaio 2004, qualche mese dopo Shalal el Kaissi ha fondato insieme ad altre dodici persone “The association of the victims of american occupation prisons”. 47 Cfr. Iraq: Beyond Abu Ghraib: Detention and torture in Iraq, in «Amnesty International», 6 March 2006, https://www.amnesty.org/en/documents/mde14/ 001/2006/en/.

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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8.3. Il campo–prigione 1391 d’Israele Un altro luogo simile a Guantánamo si trova in Israele, nello Stato che si autodefinisce l’unica grande democrazia del Medioriente. È una prigione speciale ubicata nella base militare dell’esercito israeliano di Fort Tegart, a meno di un’ora di auto da Tel Aviv, tra il kibbutz Barkai e il kibbutz Ma’anit, a metà strada tra la città settentrionale di Hadera e la città araba di Umm AlFahm. Non figura sulle mappe ufficiali di Israele e nemmeno ha un nome preciso, ma è identificato soltanto con un numero, il 1391. È finanche sconosciuta ai membri della Knesset, il parlamento monocamerale di Israele. Nessuna agenzia umanitaria ha mai avuto accesso. È un carcere di massima sicurezza che assomiglia a qualsiasi altra base dell’esercito, ma appartiene a una delle unità segrete del corpo di intelligence, l’Unità 504, incaricata di interrogare particolarmente persone di origine araba. Le persone recluse non sanno dove si trovano e sono condotte segretamente nella struttura bendati e incappucciati, dopo essere stati arrestati o rapiti dalle unità speciali dell’esercito. Tra gli “ospiti” più illustri, lo sceicco Abdel Karim Obeid e l’ex comandante militare sciita Mustafa Dirani, entrambi rapiti in Libano nel 1989 e nel 1994 per ottenere informazioni sulla sorte di soldati israeliani scomparsi in azione. La presenza di questo campo è scoperta dallo storico israeliano Gad Kroizer, che durante una ricerca sui posti di polizia stabiliti in Israele durante il mandato britannico, lo ha ritrovato in una mappa. A divulgare la presenza di questa unità segreta di internamento, è un altro israeliano, Aviv Lavie, sulle pagine del maggior quotidiano del suo Paese, Haaretz 48. I prigionieri vivono in celle piccolissime di 2,5 x 2,5 metri, dotate di brandina e di un buco nel pavimento come water. Due celle ancor più piccole senza fonti di luce esterna, di 1,25 × 1,25 48

Cfr. A. LAVIE, Inside Israel’s Secret Prison, «Haaretz», august 20, 2003, http://www.haaretz.com/inside-israel-s-secret-prison-1.97813.

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430 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

metri, con pareti nere e con un secchio per i servizi corporali, sono utilizzate per l’isolamento. Ci sono anche due celle relativamente grandi (2,5 x 4 metri) e più confortevoli, con una buona illuminazione e dotate di acqua corrente, riservate a chi ha confessato. Per le miglior condizioni, queste celle sono soprannominate “ville”. I detenuti ricevono lo stesso cibo che ricevono i soldati, tre volte al giorno. Il rancio è portato direttamente nelle celle dai secondini. Pima di introdurre i pasti, i detenuti sono obbligati a indossare un cappuccio nero, a voltarsi verso il muro, mettendo le mani sopra la testa. Ai detenuti che hanno già subito l’interrogatorio e che non sono in punizione, è permesso un’ora d’aria al giorno, presso un piccolo cortile sabbioso. Tutti gli altri sono costretti a restare nelle celle. I secondini interni di questa prigione non sono armati, questo per evitare che qualche prigioniero possa impossessarsi delle loro armi. Gli interrogatori sono durissimi e sono affidati ai terribili agenti dell’Unità 504, l’intelligence militare tristemente famosa per le torture49. Le autorità israeliane sostengono che Camp 1391 non è più utilizzato dal 2006 come luogo di reclusione, tuttavia sono state rigettate tutte le richieste presentate da agenzie umanitarie per esaminare l’impianto 50. L’Unità 1391, come anche Guantánamo e Abu Ghraib, rappresentano indubbiamente il collasso morale di Paesi che si proclamano democratici che, percependo come normale l’interru49

Cfr. J. COOK, Dans la prison secrète d’Israël, «Le Monde diplomatique», novembre 2003, https://www.monde-diplomatique.fr/2003/11/COOK/ 10652; C. McGreal, Facility 1391: Israel’s secret prison, «The Guardian», November 14, 2003, https://www.theguardian.com/world/2003/nov/14/israel2; R. Bàrbera, Il carcere segreto 1391, in «Peace Reporter», 26 aprile 2004, http://it. peacereporter.net/articolo/1179/Il+carcere+segreto+1391. 50 Sull’Unità di reclusione, cfr. anche B. ELFSTRÖM, A. MALMGREN, “Facility 1391” ‐ a secret prison, International Commission of Jurists, Swedish Section, Gothenburg 2005.

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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zione dei diritti umani sia in nome della sicurezza nazionale sia di una presunta lotta alla libertà, sta lasciando un’altra eredità velenosa51, dimenticando che «il rispetto dei diritti della persona sono un valore aggiunto per la stessa democrazia, oltre ad essere un dovere imposto dalla legge»52.

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8.4. La Tumba del Venezuela C’è un luogo in Venezuela che non ha tempo, non ha suoni, non ha colori. Un posto in cui non c’è mai il sole e neppure la luna. Non a caso questo luogo è chiamato “La Tumba”, la tomba, ed è lo spazio dove è “seppellita” viva l’opposizione a Nicolás Maduro Moros, presidente della República Bolivariana de Venezuela53. Della presenza di questo sito segreto dove interrogare gli oppositori del governo è data notizia nel 2015, l’8 febbraio: lo scrittore venezuelano Leonardo Padrón pubblica un rapporto nel giornale “El Nacional” intitolato Cinco sótanos contra el sol, denunciando l’utilizzo da parte del governo venezuelano di una prigione sotterranea in cui alcuni oppositori sono torturati 54. Nel suo resoconto Padrón riferisce della storia di tre ragazzi — Gerardo Carrero, Gabriel Gomez Valles e Lorent Saleh — arrestati e presi in consegna dal Servicio Bolivariano de Inteligencia Na-

51

Interessante sull’argomento è il report preparato da Amnesty International sui rischi di Guantánamo: USA: Guantánamo: A decade of damage to human rights and 10 anti–human rights messages Guantánamo still sends, 16 December 2011, http://www.amnesty.org/en/documents/AMR51/103/2011/ en/. 52 R. PATERNOSTER, Guerrocrazia. Storia e cultura della politica armata, Aracne, Roma 2014, p. 315. 53 Riprendo in questo paragrafo il mio saggio breve Venezuela: la Tumba e l’Helicoide “medicine” per gli oppositori di Maduro, in «Storia in Network», 2 ottobre 2017, http://www.storiain.net/storia/venezuela-la-tumba-e-lhelicoide -medicine-per-gli-oppositori-di-maduro/ 54 Cfr. L. P ADRÓN, Cinco sótanos contra el sol, «El Nacional», 8 de febrero de 2015, ora nel sito del giornalista http://leonardopadron.com/cinco-sotanoscontra-el-sol/.

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432 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

cional (SEBIN), la temuta agenzia di intelligence e controintelligence del Venezuela. Gerardo Carrero, uno dei leader della lotta studentesca di Destra contro la politica di Maduro, è arrestato assieme ad altri 242 ragazzi durante un accampamento di protesta di fronte alla sede dell’ONU a Caracas, sull’Avenida Francisco de Miranda. Gabriel Valles e Lorent Saleh, membri della organizzazione di estrema Destra “Operazione Libertà”, sono invece rimpatriati il 4 settembre 2014 dalla Colombia, dopo essere stati fermati dal servizio di intelligence del Paese, perché accusati di essere coinvolti in un presunto golpe contro Maduro, di pianificare attentati con cecchini e bombe e falsificazione di documenti. Per questo sono arrestati per creazione di un gruppo paramilitare, cospirazione e terrorismo. Dietro l’arresto di Carrero, Valles e Saleh, e la loro detenzione nella terribile Tumba, c’è la storia del tenente colonnello José Antonio Arocha, anche lui “ospite” di questa prigione segreta. Proprio durante la sua permanenza nella Tumba, l’ex militare rivela sotto tortura uno dei tanti piani golpisti contro il governo legittimo 55, la cosiddetta “Operación Jericó”, alla quale aderiscono ufficiali dell’aviazione, politici conservatori (tra cui il deputato Julio Borges, il sindaco del Distretto Metropolitano di Caracas Antonio Ledezma e la sua vice María Corina Machado) e moltissimi ragazzi affiliati all’estrema Destra. Il golpe avrebbe avuto dovuto consumarsi il 12 febbraio 2015: un aereo Academi mascherato da aereo dell’esercito venezuelano avrebbe dovuto bombardare il palazzo presidenziale e uccidere

55

Altri tentativi di golpe contro il governo legittimo sono stati infatti pianificati, tutti “benedetti” dagli USA, dal caracazo del 2002 alla Operación Libertad Oscura del 2019, passando per la Operación Jericó del 2015, l’Operación Freedom 2.0 del 2016 e l’Operación Constitución-Comando del 2018. Cfr. D. ARENAS, Operacion encubiertas en Venezuela: del Caracazo 2002 a la Operación Libertad Oscura 2019, in «Geopolitica» https://www.geopoliti ca.ru/es/article/operaciones-encubiertas-en-venezuela-del-caracazo-2002-la-o peracion-liber tad-oscura-2019; E. GOLINGER, The Chavez Code. Cracking U.S. Intervention in Venezuela, Pluto Press, London 2007.

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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il presidente Nicolás Maduro. I cospiratori avevano pianificato di mettere al potere l’ex parlamentare María Corina Machado 56. “La Tumba” si trova nella centralissima piazza Venezuela a Caracas, nella sede del Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional (SEBIN), la polizia politica di Stato. Ricavata dal caveau di una ex banca, è situata appena al di sotto della metropolitana della città, a cinque piani sottoterra. Non esistono fotografie di questo luogo, solo illustrazioni create in base alle descrizioni di chi è sceso in questo “inferno”. L’avvocata Tamara Suju Roa, membro del “Foro Penal Venezuelano”, ha descritto “La Tumba” in un articolo pubblicato nel settimanale La Razon: «non ci sono rumori, non ci sono finestre, non c’è luce né aria naturale. Si sente solo il rumore della metropolitana che passa sopra la testa» 57. Sette sono le celle in dotazione, tutte misurano tre metri per due e non hanno bagno. Le celle sono disposte una dietro l’altra, in modo che i detenuti non possano vedersi. Hanno pavimento e muri bianchi, cancelli grigi, con una piccola apertura per la somministrazione del cibo, letto e tavolo di cemento bianco. La luce è garantita da lampade a incandescenza bianche, sempre accese, come l’aria condizionata, tenuta a una temperatura costante di otto gradi. L’isolamento è totale, senza alcun contatto con l’esterno. Non esiste neppure il tempo, poiché i detenuti non hanno orologi, non previsti all’interno di questa prigione, in modo da far perdere la nozione di tempo agli “ospiti”. Così, per disorientarli, i pasti sono consegnati a orari alterni, che cambiano ogni giorno, e comunque diversi dal solito (in pratica la mattina posso avere la cena, mentre la notte la colazione).

56

Cfr. T. MEYSSAN, Estados Unidos, Alemania, Canadá, Israel y el Reino Unido lanzaron “Operación Jericó”. Obama falló su golpe de Estado en Venezuela, in «La Cosa Aquella. Información alternativa, geopolitica, revisionismo», https://kenzocaspi.wordpress.com/2018/12/23/obama-fallo-su-golpe-de -estado-en-venezuela-operacion-jericho-2015/ 57 T. S UJU R OA, La Tumba, «La Razón», 1° FEBRERO 2015, https://www.la razon.net/2015/02/la-tumba/.

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434 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

I detenuti passano le ventiquattro ore del giorno rinchiusi nelle proprie celle, vigilati da telecamere e microfoni. Possono uscire per andare in bagno soltanto suonando un campanello, tuttavia molte volte aspettano molto e sono quindi costretti a usare un contenitore previsto per le emergenze. Il rumore dei vagoni della metropolitana che sfrecciano sopra la prigione è intollerabile, tuttavia aiutano a far comprendere quando è notte, dal momento che non ci sono corse notturne. I prigionieri hanno solo quaranta minuti d’aria a settimana e possono incontrare pochissime volte solo i propri genitori e le proprie mogli (o mariti), le visite comunque avvengono in una stanza piena di falsi specchi che nascondono telecamere e microfoni. Accanto alla quotidiana “tortura bianca” — ossia isolamento totale, mancanza di suoni, colori, movimento, tempo — ci sono i terribili interrogatori condotti da personale specializzato della SEBIN58. Ne “La Tumba” tutto è regolato dai carcerieri. È persino vietato anche morire. Ad esempio quando Gerardo Carrero iniziò uno sciopero della fame, il disappunto dei carcerieri si trasformò in un castigo indimenticabile: il ragazzo fu appeso a un cancello del carcere (i polsi furono fasciati da carta di giornale in modo da evitare lividi) e a intervalli fu colpito alle gambe con stanghe di legno. Il supplizio andò avanti per dodici ore59. Il terribile trattamento riservato agli “ospiti” de “La Tumba” rispecchia l’accusa a loro assegnata: eversione, terrorismo, tradimento dello Stato, furto di materiale militare, tutti reati di competenza di giurisdizioni speciali. 58

La regista venezuelana María Eugenia Morón Iglesias ha realizzato un cortometraggio che, basandosi sulla testimonianza di Gerardo Carrero, Gabriel Valles e Lorent Gómez Saleh, descrive la detenzione in questo terribile luogo. Cfr. M.E. MORÓN IGLESIAS, La tumba, documentario in spagnolo con sottotitoli in inglese: https://www.youtube.com/watch?v=z-KnCcQrn_w 59 Cfr. Foro Penal Venezolano, Detenciones por motivos políticos, torturas y otros tratos crueles, inhumanos y degradantes. Asesinatos (2014-2015), Director Ejecutivo A. Romero, Altamira (Caracas) 2015, p. 13. Questo supplizio è descritto nel citato documentario di Morón Iglesias, La tumba.

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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Non c’è solo “La Tumba” in Venezuela, il governo utilizza un altro carcere speciale per internare l’opposizione politica e i presunti eversori dell’ordine democratico: el Helicoide. È un edificio costruito negli anni Cinquanta del Novecento sotto la dittatura di Marcos Pérez Jiménez. È molto popolare in America Latina per la sua forma a piramide elicoidale, sormontata da una bellissima cupola geodetica, ossia una struttura emisferica composta da una rete di travi giacenti su cerchi massimi (geodetiche). La sua destinazione d’uso doveva essere quella di un grandissimo centro commerciale, simbolo dello sviluppo economico del Paese. Infatti, progettato nel 1955 dallo studio degli architetti Jorge Romero Gutierrez, Pedro Neuberger e Dirk Bornhorst, doveva aveva ben 320 esercizi commerciali, una stazione di servizio, una palestra con piscina, un cinema a sette sale, un autosalone e un eliporto 60. Una stazione radiofonica situata all’interno dello stabile, “Radio Helicoide”, avrebbe trasmesso musica e avrebbe informato i clienti degli eventi in programma. Ai clienti doveva essere data la possibilità di arrivare alle attività commerciali e di servizio direttamente con la macchina, grazie alle rampe a doppia elica. Con la caduta di Jiménez, gli architetti persero i finanziamenti, poiché la struttura, ormai a buon punto nella costruzione, fu considerata simbolo della dittatura. I lavori furono interrotti sino al 1975, quando l’edificio divenne proprietà dello Stato. Una prima destinazione d’uso fu quella di ospitare cinquecento famiglie di senzatetto. Nel 1982 la struttura ospitava circa dodicimila squatters, trasformando l’edificio in una moderna favelas e in un centro di spaccio di droga e prostituzione, con un tasso di criminalità elevato. Le diverse amministrazioni che si sono succedute negli anni hanno proposto diversi piani commerciali e/o culturali, ventisette in tutto: dal centro automobilistico a quello per prestazioni, da museo d’arte a centro turistico, da cimitero moderno a centro di radio e televisione, da biblioteca na-

60

Cfr. D. BORNHORST, El Helicoide, Todtmann Editores. Caracas 2007, pp. 16-21.

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436 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

zionale a museo antropologico e centro ambientale61, giusto per citarne alcuni. Il governo del presidente Rafael Caldera Rodríguez tuttavia decise di utilizzare l’edificio come sede istituzionale di un’agenzia delle forze di sicurezza del Paese. Il suo successore Hugo Rafael Chávez Frías adibì l’intero edificio a sede del servizio di intelligence nazionale (SEBIN), con due Università sperimentali per la sicurezza del Paese (l’Universidad Nacional Experimentale de la Seguridad e l’Universidad Nacional Experimentale de las Fuerzas Armadas), un moderno carcere dove rinchiudere soprattutto gli oppositori politici. L’ala riservata al carcere ha 321 metri quadrati di spazio. Inizialmente furono previste tre sole celle di sicurezza, ma pian piano l’area di detenzione si estese. Nel 2012 la Corte Interamericana dei Diritti Umani ha giudicato questo centro di detenzione come luogo di violazione delle convenzioni internazionali sul trattamento penitenziario62. A tutt’oggi, l’Helicoide è un simbolo di quello che avrebbe potuto essere il Venezuela, ma non lo è diventato. A tutt’oggi il Venezuela è al tempo stesso oppresso e oppressore: per difendersi dall’oppressione degli attacchi e sabotaggi economici, finanziari e politici stranieri (in primis quelli provenienti dai vicini Stati Uniti d’America), tutte azioni che violano il diritto internazionale, non esita a opprimere la dissidenza, violando sistematicamente a sua volta i diritti umani. Da sempre Washington ha cercato di convincere il mondo che il socialismo è un “cancro”, se a questo si aggiunge che è scelto per via democratica allora diventa più pericoloso, perché 61

L’idea del museo di antropologia e del centro ambientale dello Stato nacque dopo che si scoprì che la collina dove sorge l’Helicoide (Roca Tarpeya) era stata luogo di sepoltura tribale. 62 Nella sentenza del 26 giugno 2012, la Corte ha valutato che le «condizioni di Díaz Peña non soddisfano i requisiti minimi di un trattamento decente», ritenendo il suo trattamento inumano e degradante, dunque che viola la legge. Cfr. Corte Interamericana de Derechos Humanos, Caso Díaz Peña vs. Venezuela. Resumen oficial emitido por la Corte Interamericana de la sentencia de 26 de junio de 2012 (Excepción preliminar, fondo, reparaciones y costas), «Corte Interamericana de Derechos Humanos», http://www.corteidh.or.cr/ docs/casos/ articulos/resumen_244_esp.pdf

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VIII. Nuovi “campi”, vecchie abitudini

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potrebbe “infettare” altri Stati. Per questo il Venezuela è un «insopportabile affronto nel ventre continentale, [un] segno assoluto del male»63. L’ostinata politica economica in senso socialista di Chávez e poi di Maduro, la loro sfida lanciata all’egemonia del dollaro, il fatto di galleggiare sul petrolio, ha fatto crescere l ’intensità dell’interventismo statunitense in Venezuela (si ricorda l’Ordine Esecutivo firmato da Barack Obama nel marzo del 2015 nel quale si considerava il Venezuela una minaccia “inconsueta e straordinaria” per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti) 64. Questo, tuttavia, non giustifica le violazioni dei diritti umani denunciate dalle opposizioni.

63

D. FABBRI, Stati Uniti vs Maduro, tra ragione e sentimento, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica», n. 3, 2019, pp. 161-162. 64 The White House. Office of the Press Secretary, Fact sheet: Venezuela Executive Order, in «The White House. President Barack Obama», March 09, 2015, https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2015/03/09/factsheet-venezuela-executive-order

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Epilogo

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Conoscere per capire

Trattando dei “campi” (di internamento, di concentramento e di sterminio) siamo scesi nel baratro dell’umanità, in uno spazio esclusivo inenarrabile in cui si manifesta appieno la “sacertà della vita”. Questo concetto è trattato dal filosofo italiano Giorgio Agamben in Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita1. Agamben prende le mosse dall’analisi della figura classica dell’homo sacer, definito dal grammatico romano Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.) come colui che, giudicato colpevole dal popolo per un delitto, è “separato”, posto fuori dall’ordinamento giuridico, cosicché chi lo uccide non potrà essere perseguito. L’homo sacer non appartenendo più all’ordine del diritto, non può essere perseguito e neanche tutelato dalla comunità. Per Agamben, dunque, il campo di sterminio costituisce lo spazio dove più si manifesta appieno la “sacertà” della vita. Per questo egli parla di “nuda vita”, ossia dell’uomo spogliato di ogni dignità politica e religiosa e ridotto alla pura esistenza materiale e fisica. Così ridotto, l’uomo sacer è sotto il diretto e assoluto controllo del potere sovrano. Nel corso di questa esposizione abbiamo compreso che i campi non costituiscono una prerogativa di regimi politici non democratici, manifestandosi in tempi, luoghi e contesti politici molto diversi. Abbiamo anche ben compreso che l’espressione “campi” indica un luogo che svolge un determinato ruolo nel quadro di un progetto complessivo di “sgombero”, ovvero di 1

Einaudi, Torino 1995.

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440 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

separare, allontanare, portar via, isolare, rimuovere gli ostacoli. Si tratta di un’argomentazione che opera l’esclusione e l’eliminazione di chi è considerato “Altro”, il “diverso da me”, lo “straniero” per antonomasia: escludere nel senso etimologico, ossia “chiudere fuori” da un determinato luogo 2; eliminare, invece, sempre nel senso etimologico, rimanda all’azione di “metter fuori casa”3. A rafforzare i concetti di “esclusione” e di “eliminazione”, è l’azione con cui questo “Altro” è “lasciato fuori”, ossia la deportazione: de–portare, dove il prefisso “de” assegna un senso negativo all’azione, rimandando all’idea di sottrazione e specificando solo un moto da luogo, quindi “portare da”, ossia separare qualcuno da un corpo sociale, perché considerato un pericolo dal punto di vista politico, sociale, razziale. Siffatta “separazione” è il prodotto non di una imprevista e occasionale manifestazione d’irrazionalità, bensì di una lucida volontà politica. Un’opera, questa, di ingegneria sociale che contempla il ricorso all’internamento per rimodellare e conformare sia l’ordine socio–politico sia la morfologia della geografia umana di un dato Paese o di un territorio predeterminato. Per questo il campo rappresenta un atto creatore, seppur in negativo, di significato antropologico. I sistemi concentrazionari non sono buchi neri della storia moderna, ma la realizzazione materiale del sogno assolutista, che porta ad attuare processi di dominio fisico–sociale–politico–culturale in prospettiva del futuro che ogni specifico Stato o regime decide di costruire: la grande «follia» dei campi «consiste nella logicità con cui sono costruiti» 4. Siffatta “logicità” dei campi interpreta la storia alla luce della appartenenza etnica, Dal latino exclusiōne(m), deriv. di exclūsus, part. pass. di excludĕre, da ex– clàudere, quelli cioè relegati fuori dalle cinta della città. 3 Dal latino eliminare, derivato di limen –mĭnis, “soglia”, con il prefisso e. Lìmen sta per lìc-men e designa la pietra trasversale della porta, tanto la inferiore che si calca con i piedi, tanto quella superiore. 4 H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace and World, New York 1951, trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 627. 2

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Epilogo. Conoscere per capire

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sociale e politica. E questa “appartenenza” è un valore, ma per difetto, in quanto decide del proprio destino: nei Vernichtungslager nazisti gli ebrei, gli zingari, gli omossessuali sono sterminati non in ragione delle loro opinioni, ma in quanto tali; mentre nei Gulag sovietici, nei Laogai cinesi, nelle cooperative cambogiane, nei kwan–li–so della Corea del Nord o nei centri clandestini di detenzione latinoamericani, si rinchiudono sia i presunti avversari politici, i cosiddetti “nemici del popolo, del Partito e dello Stato”, sia specifici gruppi nazionali, sociali ed etnici, perché considerati ostacoli alla creazione di una nuova società o ad essa estranea; nei campi di internamento, invece, il criterio che determina la segregazione è generalmente la discendenza, ossia si confinano in speciali spazi persone mai formalmente accusate di aver commesso crimini, ma con l’unica colpa di appartenere per nascita o generazione a una Nazione nemica. Così i campi di internamento attestano “cosa si è”, hanno come fine la separazione e servono per sorvegliare; i campi di concentramento specificano “cosa non si deve essere”, hanno come fine l’omologazione politico-sociale e servono per convertire; i campi di sterminio indicano “cosa non si è”, hanno come fine l’omologazione biogenetica e servono per rigenerare una geografia umana. I campi, dunque, sono sistemi sociopolitici di contenimento delle contraddizioni politico–sociali, il prezioso “deposito” di quelle che sono ritenute pericolose eccedenze, il luogo perfetto dove disintegrare la pluralità, la soluzione ideale che permette di ri–territorializzare persone considerate “fuori posto”, la cui vita fisica e morale diventa irrilevante e la cui presenza il campo si limita a confinare. Un cinico espediente, quindi, alle contraddizioni politiche, sociali e mentali attraverso il sequestro e l’eliminazione dalla società di coloro che ne sono depositari. La logica dei campi si basa su un’unica argomentazione: il dominio totale. Quest’ultimo è alimentato, secondo le tipologie dei campi, dalla razzizzazione (campi coloniali e nazisti), dalla ideologizzazione (campi di rieducazione e campi per prigionieri politici), dal profitto (campi di lavoro forzato), dall’appartenenza nazionale (campi per alien enemies).

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442 I La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare

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Attraverso il principio del dominio totale, l’internato è segregato ed entra a far parte di un «mondo a sé stante, regolato da norme e pratiche che ne fanno un inferno di sofferenze e distruzione separato da tutto il resto» 5. Un mondo dove, poco per volta, si perde la coscienza del vivere civile, perché i campi, come strumenti permanenti di dominio, smembrano l’individuo, e lo fanno fisicamente, giuridicamente, spiritualmente e moralmente. Insomma, sono «una sorta di oltretomba spaziale, sociale e morale»6, in cui tutto è davvero possibile: Nei campi emerge in piena luce il principio che regge il dominio totalitario e che il senso comune si rifiuta ostinatamente di ammettere, e, cioè, il principio secondo cui ‘tutto è possibile’. Solo perché i campi costituiscono […] uno spazio di eccezione, in cui la legge è integralmente sospesa, in essi tutto è veramente possibile. Se non si comprende questa particolare struttura giuridico–politica dei campi, la cui vocazione è appunto di realizzare stabilmente l’eccezione, l’incredibile che in essi è avvenuto resta del tutto inintelligibile. 7 Chi entra in un campo deve dimenticare tutto ciò che ha conosciuto. Se vuole sopravvivere, deve capire subito che i valori sui quali fondava il suo comportamento non hanno più corso, che qui circola un’altra moneta. Deve capire che qui “tutto è possibile”.8

La sovrabbondanza di termini riferiti ai campi (illogici, assurdi, diabolici, inumani, mostruosi) assegna a queste strutture la categoria dell’irrazionalità. Eppure essi hanno una loro logicità: il dominio. I campi sono strumento di dominio totale — 5

D.J. GOLDHAGEN, Worse Than War, Genocide, Eliminationism, and the Ongoing Assault On Humanity, PublicAffairs, New York 2009, trad. it. Peggio della guerra. Lo sterminio di massa nella storia dell’umanità, Mondadori, Milano 2010, p. 124. 6 Ivi, p. 118. 7 G. AGAMBEN, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 37–38. 8 O. R AZAC, Histoire politique du barbelé, La Fabrique Editions, Paris 2000, trad. it. Storia politica del filo spinato. La prateria, la trincea, il campo di concentramento, Ombre corte, Verona 2001, p. 44.

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politico, sociale e culturale — e rappresentano la capacità di esercizio di un nuovo e anomalo potere illimitato in grado di fare politica senza doversi confrontare con la società. Nuovo, perciò, e non residuo di arcaicità, poiché prodotto della modernità nella forma e nella sostanza9. Una modernità dei campi, quindi, che non riguarda solo i mezzi, bensì la stessa politica, che si fa moderna trasformandosi in biopolitica. Il campo, pertanto, è un nuovo assetto spaziale capace di rappresentare, meglio di ogni altro esempio, il “nuovo nomos biopolitico del pianeta”10, in cui «il potere non ha di fronte a sé che la pura vita biologica senza alcuna mediazione”11. Questa biopolitica, dunque, attraverso i campi invade la sfera della morale, l’assoggetta e l’incorpora, deformando la politica. I campi, quindi, rappresentano un confine assoluto nel senso etimologico del termine (ab–solutus, sciolto da ogni limite), un vero e proprio finis terrae, che separa chi appartiene e chi no a una determina realtà socio–politica. In tutte le sue varianti, il campo rappresenta lo spazio di eccezione per eccellenza: “un nuovo e stabile assetto spaziale, in cui abita quella nuda vita che in apparenza vive extra legem e che, in misura crescente, non può più essere inclusa nell’ordinamento normale”12. In questo senso i campi diventano un universo costituente, ossia portano alla dissoluzione delle regole morali e giuridiche correnti per crearne nuove. I campi non sono dunque buchi neri nella storia dell’umanità, non sono un equivoco irrazionale e non sono neppure il frutto del male radicale, ma il portato di atti consapevoli e di utilità programmata per il dominio totale sulle persone. Immanuel Kant sostiene che il male non rappresenta una delle inclinazioni negative degli uomini, ma è l’espressione della

9

Cfr. la riflessione di Zygmunt Bauman nel suo Modernity and the Holocaust, del 1989 (trad. it: Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1999). 10 Cfr. ivi, p. 41. 11 Ivi, p. 38. 12 G. AGAMBEN, Che cos’è un campo, in Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 40.

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loro (nostra) libertà di scegliere 13. Hannah Arendt asserisce che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possiede né profondità né una dimensione demoniaca14. La filosofa Hannah Arendt elaborò anche la teoria della “banalità del male”, per riferirsi all’incapacità del pensiero razionale del gerarca nazista Adolf Eichmann, sotto processo a Gerusalemme per crimini contro l’umanità, che, in un’ottica di obbedienza acritica, asserì che seguiva le leggi ed eseguiva i comandi incondizionatamente, ritenendoli giusti 15. In pratica in Eichmann (ma questo vale per tutti i nazisti, come anche per qualsiasi carnefice), c’era una valutazione morale del Bene, anziché una vera e propria legittimità del Male16. Il carnefice che uccide, tortura, violenta, deporta nei campi, non si pone il problema della giustificazione del Male che elargisce, perché nella sua folle visione del mondo questo è un bene (per la sua Nazione, per il suo partito, per la sua ideologia e così via). In questo sta la “banalità del Male”, in una valutazione morale del Bene. Allora il Male diventa banale nella misura in cui il Bene è banale 17. Bene e male non sono dunque concetti metafisici, ma risiedono nei nostri modi di pensare, che determinano le nostre azioni, perché il Male non è dentro l’uomo, ma davanti, assieme al Bene, e l’uomo ha solamente libertà di scelta. Perciò, se asse13

Cfr. Cfr. I. KANT, La religione entro i limiti della semplice ragione, (1793), trad. it. Laterza, Roma–Bari 1980, pp. 32–34. 14 Cfr. H. ARENDT, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New York 1963; tr. it. La Banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2004. 15 Cfr. H. ARENDT, Eichmann in Jerusalem, cit.. 16 Infatti, un’altra filosofa tedesca, Bettina Stangneth, consultando molto materiale, è arrivata alla conclusione che il gerarca nazista non era stato “incapace di pensare”, che non era un semplice subordinato, ma che il suo apporto allo sterminio di milioni di ebrei fu determinante perché convintamente avverso agli Ebrei. Cfr. B. STANGNETH, Eichmann vor Jerusalem. Das unbehelligte Leben eines Massenmörders, Arche, Zürich und Hamburg 2011, trad. it., La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, Luiss University Press, Roma 2017. 17 Ho sviluppato l’idea della “banalità del bene” nel mio saggio La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, Tralerighe, Lucca 2019, pp. 37-43.

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gniamo ai campi e alla violenza profusa in essi la categoria dell’irrazionalità e del male radicale, allora diventa impossibile spiegarli per comprenderli, per evitare il loro ripetersi: «Niente è più spaventoso dell’assurdo»18. Chiarire la logicità dei campi è un modo per decifrare la loro sensatezza, seppur negativa, per andare alle radici di questo male politico e impegnarsi a contrastarlo, perché appunto “niente è più spaventoso dell’assurdo”. Decifrare i campi diventa quindi una necessità per riconoscersi in valori positivi, rifiutare scelte immorali e comportamenti criminali, per elaborare un imparziale riesame politico, per resistere al Male e approdare a una sana pedagogia dell’umano. Il problema del “Male politico” impone dunque di ripensare criticamente il nostro tempo, non solo per non dimenticare, ma anche per andare alle radici di quel male e impegnarsi a contrastarlo, anche quando la ragione fa fatica a capire il peso di scelte che si vorrebbero non umane. Dice Herman Janež, un sopravvissuto ai campi fascisti di Arbe (Croazia) e di Gonars (Friuli): Ecco, alla fine posso dire soltanto che forse voi potete solo intravedere quel mondo, il mondo di noi che siamo sopravvissuti ai campi di concentramento, ma difficilmente potete capirlo. Potete solo accettarlo, spiegarlo e fare divulgazione perché l’orrore di quei campi non si ripeta mai più. 19

Ecco: “mai più”! Dopo Auschwitz si è gridato “mai più”, ma pur cambiando situazioni ed eventi la storia si è ripetuta, e nessuna considerazione etica ha impedito a qualche Stato di aprire campi o luoghi di segregazione ogni qualvolta è parso opportuno. I campi sembrano essere una malattia della politica moderna, una malattia contagiosa. 18

G. TILLION, Ravensbrück, Édition du Seuil, Paris 1972, trad. it. Fazi, Roma 1988, p. 193, ora 2012. 19 Cit. in M. GRILLI, I campi di concentramento fascisti e la «sbalcanizzazione del territorio»: nel caso di Arbe gli italiani non furono proprio «brava gente», «La voce del popolo», 6 maggio 2009, pp. 7.

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La storia e la memoria dei campi, allora, dovrebbero assumere una funzione pedagogica: «Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo». È questa la frase che si può leggere, incisa in trenta lingue, sul monumento nel campo di concentramento nazista di Dachau 20. Tuttavia un Ricordo imbevuto di sola retorica ed emotività non è un buon antidoto al ripetersi di quel che è stato: le celebrazioni rituali non servono a nulla se ripercorrono gli avvenimenti come se la storia si fosse fermata. Per questo il Ricordo deve essere attivo e attualizzato per comprendere nel presente i segni anticipatori di un passato da non riproporre, scardinando in anticipo eventuali ricadute. Perché simili situazioni possono ripetersi nuovamente. Ammonisce Primo Levi in Se questo è un uomo: Non possiamo capirlo [quello che è successo], ma possiamo e dobbiamo capire da dove nasce e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare. Le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate, anche le nostre.

Quello che serve, allora, è un Ricordo attivo che non si rassegni all’orrore. Un Ricordo attivo con più progetti didattici e meno celebrazioni di parata. Un Ricordo attivo come argine a un colpevole oblio. Un Ricordo attivo che ci faccia vergognare, perché attraverso la vergogna la coscienza si ribella, denunciando qualcosa a se stessi21. Un Ricordo attivo che non ci faccia rassegnare all’orrore. Un Ricordo attivo che diventi riscatto, per riconoscersi sempre attorno al rifiuto di compiere, aderire o giustificare scelte immorali. Un Ricordo attivo che non serva ad al20

La frase è ripresa dalla monumentale opera The Life of Reason. The Phase of Human Progress, del filosofo spagnolo George Santayana (pseudonimo di Jorge Agustín Nicolás Ruíz de Santayana y Borrás, 1863–1952): «Those who cannot remember the past are condemned to repeat it». Cfr. G. SANTAYANA, The Life of Reason. The Phase of Human Progress, vol. 1, Reason in Common Sense, Charles Scribner’s Sons, New York 1905, p. 284. 21 Ho sviluppato l’idea della vergogna come “medicina” del male politico nel mio saggio La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, cit., pp. 255-258.

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leggerire il senso di colpa, ma che equivalga ad assumersi precise responsabilità, affinché questi indicibili orrori non si ripetano più. Un Ricordo attivo che aiuti a comprendere per capire... perché un passato doloroso e malvagio torna a ripetersi se non lo si capisce… e a questo ancora una volta la storia non mente.

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