La natura non indifferente 8831750569, 9788831750561

Il volume è il punto di arrivo - quasi compiuto e quasi sistematico - di una riflessione estetica che accompagna costant

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La natura non indifferente
 8831750569, 9788831750561

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Sergej M. Ejzenstejn

La natura non indifferente

biblioteca M arsilio

a cura di Pietro Montani

Il contrassegno fondamentale della composizione patetica è un’incessante «estasi», un’incessante «uscire fuori di sé»: un salto continuo da una qualità all’altra, che interessa ciascun singolo elemento e livello dell’opera Sergej M. Ejzenètejn

La Natura non indifferente (1945-1947) è il punto d'arrivo - quasi compiuto e quasi sistematico - di un originale e ricchissima riflessione estetica che accompagna costantemente» a partite dai primi anni trent; l’assai più nota attività di Ejzenitejn regista __ e teorico del cinema. L’operazione artistica configura nelle forme sensibili dell’oggetto estetico la memoria di un originario accordo tra la progettualità dell’uomo e la non indifferenza della materia: è questo il nucleo «filosofico» del libro che EjzenStejn articola secondo tre grandi linee: il tema della struttura dell’opera d’arte; il tema dei connotati generali della emozione estetica; il tema dello sviluppo delle forme o, meglio, delle procedure costruttive del «fare artistico» intese, in un senso che anticipa molte posizioni moderne, come il livello più profondo di un percorso generativo che si conclude nell’opera d’arte. Ejzenhejn mette alla prova la coerenza e l’esplicatività della sua teoria perlustrando i più diversi campi dell’arte: dalla pittura (E1 Greco) alla grafica (Piranesi), dal romanzo (Zola) alla poesia (Pu&kin e Whitman), dalla recitazione (Frédérick Lemaitre) al disegno (Steinberg) e, naturalmente, al cinema. Ne deriva una grande sintesi estetica resa straordinariamente vivace dalla magistrale competenza «formalistica» con cui Ejzenhejn conduce le singole indagini. Nella sua Introduzione Pietro Montani ricostruisce le tappe fondamentali del processo di elaborazione teorica che porta Ejzenhejn ai risultati della Natura non indifferente mettendone in rilievo una costante - l’idea della rappresentabilità del pensiero - e un importate risvolto - il desiderio di spingere la rappresentazione, al di là del rappresentabile, nella dimensione quasi musicale di una infinita fluidità delle forme.

In copertina: fotogrammi da // vecchio e il nuovo («La centrifuga»)

BIBLIOTECA

Sergej M. Ejzenstejn

La natura non indifferente a cura di Pietro Montani

Marsilio

Titoli originali: Izbrannye proizvedenija v sesti tomach (Opere scelte in sei volumi). Mosca. Iskusstvo, 1963-1970 Neravnoduinaja priroda (La natura non indifferente). Mosca. Iskusstvo, 1964, voi. in Traduzioni dal russo di Giorgio Kraiski, Laura Pantelich, Antonella Summa

Ultima revisione redazionale del testo a cura di Luca Venzi

Fotografìe di Cesare Teresi

© 1981 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia

Prima edizione: novembre 1981

Quarta edizione riveduta e corretta: maggio 2003 ISBN 88-317-5056-9 www.marsilioeditori.it Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione, anche parziale o a uso intemo didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia

INDICE

ix

Introduzione di Pietro Montani LA NATURA NON INDIFFERENTE

3

Povero Salieri (Quasi una dedica)

5

Sulla struttura degli oggetti 13 Organicità e pathos

45

II pathos 45 La centrifuga e il calice del Graal 66 Venti colonne di sostegno 106 11 vecchio leone 126 E1 Greco 139 Piranesi o la fluidità delle forme 177 II gotico 185 Sovraoggettività 199 Sul problema della sovrastoricità 205 I canguri

229

Ancora una volta sulla struttura degli oggetti

249

La natura non indifferente 249 La musica del paesaggio e il futuro del contrappunto di montaggio nella nuova fase 425 Conclusione 431 Postscriptum

445

Indice dei nomi

INTRODUZIONE

di Pietro Montani

1. Tra le grandi opere teoriche di Ejzenstejn1 La natura non in­ differente (Neravnodusnaja priroda, d’ora in poi NNI) è l’unica che risulta se non proprio compiuta, almeno largamente elaborata nelle quattro parti previste dal progetto originario2. Il libro, tuttavia, non ha una struttura sistematica - come del resto accade con assoluta re­ golarità nel lavoro teorico di Ejzenstejn - anche se la materia presen-

1 Le grandi opere teoriche progettate da Ejzenstejn sono rimaste, quasi di regola, incom­ piute: il trattato sistematico sulla Regia, iniziato nd 1954, fu completato (ma non integralmentei solo ndla prima parte, Reiissura. Iskusstvo mizansceny, ora in S.M. Epenitejn, Izbrannye proizvedenija v lesti tomacb (IzP) (Opere scelte in sei volumi), Moskva, Iskusstvo, 1963-1970, voi. tv, pp. 13-535; tr. it. La Regia L'arte della messa in scena (R), Venezia, Marsilio. 1992* (ma cfr. anche S.M. EjzcnStcjn, Stili di Regia. Narrazione e messa in scena: Leskov, Dumas, Zola, Dostoevskij, Gogol' (SRL Venezia, Marsilio, 2003*, che raccoglie studi sulla regia, di carattere teorico e applicativo, destinati a confluire, secondo le intenzioni dell’autore, nd grande tratta­ to mai portato a compimento). Il materiale di Montai (Montaggio), 1937 (in IzP, voi. u, pp. 329-484; tr. it. S.M. Ejzenitejn, Teoria generale del montaggio (TGM), Venezia, Marsuio, 1992*) senz’altro la più completa e ricca ricognizione sul concetto di montaggio (nd cinema e nell'arte in generale), non fu mai rivisto c sistematizzato dall’autore. L'altra grande opera in­ compiuta, Metod (Il metodo), nota anche come Grundproblem (Il problema /ondamentale), ini­ ziata nd primi anni trenta e portata avanti per tutta la vita, non è entrata in IzP, e dunque se ne può solo congetturare l'importanza dalle dtazkmi riportate dagli studiosi sovietici che hanno avuto la possibilità di prenderne conoscenza (cfr. in part. Ivanov, 1977,1980). L’impostazione teorica generale di Grundproblem, tuttavia, si può ricostruire in base alla relazione tenuta nd 1935 da Ejzenitejn alla Conferenza creativa dei lavoratori dd cinema sovietico, successiva­ mente pubblicata in Film Form, New York, Harcourt, Brace 6c Co., 1949 e tradotta in italiano col titolo La forma cinematografica: problemi nuovi, in S.M. Ejzenitejn, La forma cinematografi­ ca (FO, Torino, Einaudi, 1986, pp. 130-157 (ma vedi ora l'importante contributo di N. Klejman, Grundproblem e le peripezie del Metodo, in Montani ed. 1991, pp. 277-290). * Il progetto originario di Neravnodusnaja priroda (La natura non indifferente, NNI) risa­ le al 1945. La stesura del libro fu effettuata negli anni 1945-1947 ed è rimasta parzialmente in­ compiuta.

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ta una distribuzione particolarmente accurata che all’esistenza di un disegno sistematico sicuramente rimanda. Nella prima parte (Sulla struttura degli oggetti) Ejzenstejn definisce il concetto di «organici­ tà» dell’opera d’arte, cui fa corrispondere, sul piano delle compo­ nenti emozionali, una teoria del «pathos»; nella seconda (Il pathos) l’adeguatezza di questa teoria viene verificata nell’ambito di diverse forme artistiche (letteratura, teatro, pittura, grafica, architettura) nella terza (Ancora una volta sulla struttura degli oggetti) Ejzenstejn si preoccupa di precisare che la teoria del pathos mira solo a mettere in luce la costanza di uno schema strutturale nella varietà non calco­ labile delle sue manifestazioni storiche e concrete (questa parte di NNI, di gran lunga la più breve, è poco più di un’appendice della prima); nella quarta (La natura non indifferente) il problema dell’or­ ganicità si sposta sul piano diacronico, e il discorso si ingegna ad ar­ ticolare - spesso con grande finezza - un modello di sviluppo o evo­ luzione delle forme artistiche - o, meglio, di talune procedure co­ struttive dell’operare artistico che stanno alle forme come una strut­ tura profonda sta alle strutture di superficie. L’impianto sistematico di NNZ sembra dunque del tutto coeren­ te: 1) enunciazione di un modello teorico; 2) verifica della sua capa­ cità esplicativa indipendentemente da considerazioni di ordine stori­ co e interpretativo; 3) precisazione circa la variabilità delle manife­ stazioni concrete sussumibili sotto quel modello; 4) tentativo di uti­ lizzare il modello per individuare determinate regolarità anche sul piano diacronico. È verosimile che questa partizione renda conto con una certa fe­

deltà del progetto di Ejzenstejn: certo è, tuttavia, che essa non rende conto dei materiali (ripetiamolo: parzialmente incompiuti) con cui abbiamo effettivamente a che fare. In particolare è del tutto evidente che la determinazione del concetto di organicità dell’opera non si colloca in un paradigma teorico vero e proprio, e anzi presenta nu­ merose oscillazioni e continui sconfinamenti su un terreno più pro­ priamente progettuale (soprattutto, com’è naturale, là dove si parla di cinema), per cui sembra piuttosto preferibile assumere questo * La prima idea di un trattato teorico sui concetto di «pathos» risale al 1928, e coincide con l’inizio dell'attività didattica di Ejzenstejn al G/K (Istituto statale di cinematografìa), dove il regista aveva coordinato, tra l’altro, una ricerca dal titolo Kak delaclsja pafot (Come nasce il pathos). Va inoltre detto che Ejzenstejn si proponeva di integrare la trattazione del problema dd pathos con un capitolo specificamente dedicato al comico, intitolalo Sue e Leskov. Di que­ sto capitolo non scritto esiste un abbozzo che però non è entrato in IzP (sulla attività didattica di Ejzenstejn cfr. R e SR).

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INTRODUZIONE

concetto come un'opzione molto generale sul cui sfondo prendono forma parecchie ipotesi, ora teoriche in senso pieno, ora fondamen­ talmente operative. Una certa disomogeneità del testo, peraltro, è sottolineata anche dalla sua cronologia interna: la prima e la terza parte, infatti, sono la rielaborazione di due saggi apparsi nella rivista Iskusstvo Kino ri­ spettivamente nel 1939 e nel 1940; la seconda e la quarta, invece, fu­ rono scritte rispettivamente nel 1946-47 e nel 1945 e sono rimaste inedite fino al 1964. Gli scarti cronologici, naturalmente, non vanno sopravalutati in quanto tali: in realtà è perfettamente lecito parlare di una problematica ejzenstejniana “della maturità” che prende forma intorno alla prima metà degli anni trenta e si sviluppa con sostanzia­ le coerenza fino alla morte del regista (avvenuta nel 1948)' *. Questa problematica è incentrata sul concetto di «organicità» dell'opera d’arte e non c'è dubbio che la prima e la terza parte di NN/ ne rap­ presentino un punto d’arrivo da considerare definitivo. Resta il fatto che questa problematica, come si è già accennato, non è rigorosa: non solo in quanto presenta una sovrapposizione spesso irriducibile tra le istanze di un’estetica generale e quelle di un’estetica ad hoc, ma anche in quanto fa riferimento a un oggetto teorico che sembra concepito dapprima nei termini classici della rappresentazione (e in­ fatti la prima e la terza parte di NN/ affrontano soprattutto problemi di composizione), e successivamente in una prospettiva che guarda al di là della rappresentazione4 5 (e infatti la seconda e la quarta parte di NN/ affrontano rispettivamente il problema del sentimento estetico e quello delle procedure costruttive profonde dell’operare artistico). Ora, che tra queste due prospettive vi sia quel rapporto di naturale filiazione che la distribuzione incrociata delle quattro parti di NN/ tende a legittimare non sembra del tutto pacifico, per cui, in definiti­ va, il disegno sistematico del libro sarà innanzitutto da interpretare come il segno di un’esigenza di unità. D’altronde in questa volontà di ricomposizione si fa presente un altro tratto assolutamente carat­ teristico del pensiero teorico di Ejzenstejn e della sua attività di auto­ re: la ricerca (talora ossessiva) di sistemi e procedure di integrazione, il bisogno di dar vita a “organismi” sentiti come tanto più unitari quanto più grande e evidente è l'eterogeneità delle loro parti costitu­ tive, l'ansia di unificare e di totalizzare. 4 Sull'estetica dell’ultimo Ejzenstejn mi permetto di rinviare a Montani, 1995, pp. 9-44. ’ A una problematica che si disloca ‘al di là della rapp reset nazione* fa riferimento, con pertinenti osservazioni, P. Belletto a proposito di Ivan il terribile (cfr. Belletto, 1981).

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PIETRO MONTANI

2, Si è detto che la problematica eizenSteiniana della maturità è incentrata sull’idea di organicità dell’opera d’arte e che NN/ ne rap­ presenta» almeno in parte, il punto d’approdo più rilevante. Ejzen­ stejn sviluppa la tesi secondo cui tra l’opera d’arte e i fenomeni orga­ nici esiste un’omologia strutturale, nel senso che entrambi si confor­ mano a un supposto principio universale del movimento della mate­ ria: l’evoluzione «per salti», il passaggio dalla quantità alla qualità. L’efficacia dell’opera d’arte deriva innanzitutto da questa omologia. Non ci soffermiamo sulle (ovvie) perplessità che questa tesi non può non suscitare: d’altronde non avrebbe senso dissociare il lavoro teorico di Ejzenstejn dal clima culturale che gli fa da sfondo e se mai andrebbe sottolineata la sua straordinaria e talvolta funambolica ca­ pacità di manipolare le grandi e inconcludenti schematizzazioni del materialismo dialettico per cavarne modelli interpretativi spesso effi­ cacissimi6. Osserviamo invece l’implicita progettualità di questa tesi: l’omo­ logia di struttura vale per l’opera d’arte in generale, ma sarà tanto più grande l’efficacia di quelle opere che sapranno non solo confor­ marsi a) principio organico ma sfruttarlo con tutti i mezzi possibili o addirittura esibirlo, “metterlo in forma” come alcunché di sensibil­ mente esperibile. Questa classe di opere che in modo più o meno consapevole mirano a una riproduzione delle leggi di struttura pro­ prie dei fenomeni organici Ejzenstejn le definisce «patetiche», utiliz­ zando questa espressione in un’accezione teorica che preciseremo tra breve. È evidente che l’idea di un’omologia strutturale tra i fenomeni

organici e le opere d’arte richiede intanto un chiarimento circa il ter­ mine «struttura». Su questo punto il discorso di NN/ è molto preci­ so: per «struttura» è da intendere innanzitutto il particolare sistema di solidarietà che le parti di un oggetto stabiliscono rispetto al tutto (Ejzenstejn usa il termine vesc che denota sia gli oggetti naturali - le “cose” - sia gli oggetti artificiali - le “opere”). In tal senso «struttu­ ra» è grosso modo un equivalente del classico concetto di «composi­ zione»: si tratta cioè di un modello essenzialmente statico e spaziale che Ejzenstejn in genere denomina stroj, e che potremmo rendere con «ordinamento strutturale»7. Secondo Ejzenstejn un’opera d’arte * Stilb funzione “di sfondo” del “materialismo dialettico* nella teoria eizcnitcjniana si veda l'equilibrata analisi di J. Aurnont nel suo eccellente studio su Ejzenitejn (Aurnont, 1979, in pan. pp. 82-90). 7 A questo problema è dedicato in particolare il par. Sulla bruttura degli oggetti (cfr. te-

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INTRODUZIONE

può dirsi pienamente organica quando il suo ordinamento struttura * le è tale da predisporre al suo interno un sistema motivato di salti qualitativi, ovvero un sistema di passaggi o di commutazioni da un registro espressivo a un altro (per esempio dall’immagine alla musi­ ca, dalla musica al colore, dal colore allo spazio, dallo spazio alla fi­ gura, dalla figura alla narrazione e così via di seguito). Ma questi pas­ saggi, resi possibili dalla coerenza compositiva dell’opera, dipendo­ no a loro volta da un modello che non è più statico e spaziale ma di­ namico e temporale: Ejzenstejn definisce questo modello col termine di estasi, inteso, letteralmente, come ex-stasis, «uscita fuori di sé»\ Dunque, l’ordinamento strutturale dell’opera determina i luoghi in cui deve avvenire la performance del modello dinamico, l’«estasi» del registro espressivo. I luoghi, insomma, in cui un sistema di rappre­ sentazione «esce fuori di sé» e dà libero corso a un altro sistema. Il che vuol dire che la struttura complessiva dell’opera (o, meglio, il suo strutturarsi, il suo essere, come dice Ejzenstejn, stroenie, «co­ struzione») è duplice, risultante com e dalla cooperazione di un mo­ dello statico e di uno dinamico. L’omologia con i fenomeni organici appare così senz’altro più chiara: l’opera d’arte mette in evidenza una particolare dialettica di permanenza e trasformazioni, di conti­ nuità e mutamento. Ma è decisivo che questa particolarità riposi pre­ cisamente sul gioco di commutazioni dei registri espressivi o dei si­ stemi di rappresentazione. È decisivo perché proprio su questo gio­ co l’opera fonda la sua speciale efficacia emozionale: l’«estasi» dei registri espressivi, infatti, impone anche al fruitore un determinato «sentimento» (oscuscenie) della trasformazione che si risolve in un’analoga operazione «estatica» (per esempio un passaggio da una dominante acustica a una visiva o da una visiva a una puramente cro­ matica ecc.). Ora, argomenta Ejzenstejn, questo uscire da una certa condizione sensoriale per portarsi in un’altra, definisce un’esperien­ za emozionale che possiamo ben denominare «pathos». Ed ecco, al-

sto pp. 5 13) e parte del par. Organicità e pathos (pp. 13-32). dove Ejzenstejn individua nelle proporzioni definite dalla sezione aurea un criterio universale di equilibrio compositivo. Di particolare rilievo è l'analisi di un noto quadro di V.I. Surikov (pp. 28-32). in cui Ejzenstejn cerca di mostrare come il punto per cui passa la sezione aurea coincida col punto in cui si pro­ duce una commutazione del sistema espressivo. Sul rapporto cinema-pittura in Ejzenstejn si veda tutta la prima sezione di TGM e Montani, 1993. pp. 45-59. L'utilità metodologica delle analisi dedicate da Ejzenstejn alle ani figurative è sottolineata da O. Calabrese, L’estasi semiotifa di Ejzenìtejn-, G. Careri, Ejzenftejn e Bernini. Montaggio e composto-, G. Gvacharija. «L’apertura del cerchio» in Ejzenstejn e nell’arte georgiana, in Montani ed. 1991, pp. 244-274. * Cfr. testo, pp. 32-43.

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lora, che l’organicità dell’opera» intesa come concatenazione e con­ correnza dinamica di molti registri espressivi all’interno di un or­ dinamento strutturale stabile, fonda anche il carattere patetico del­ la sua ricezione. Estasi e pathos, in definitiva, sono due facce dello stesso processo: l’opera d’arte patetica è un modello del compor­ tamento «estatico» dell’uomo non meno di quanto quest’ultimo sia un modello del comportamento «estatico» dell’opera. La triade uomo-opera-natura si trova così saldata in un armonico sistema di rimandi circolari che ha tutto il sapore di una Grande Riconcilia­ zione. L’organicità dell’opera evidenzia in tal modo la sua ultima determinazione: il suo carattere profondamente antropomorfico’, la sua celovecnost’, come dice Ejzenstejn, il suo - come tradurre? ’‘esser cosa dell’uomo”. L’assoluta centralità del concetto di estasi nel complesso “orga­ nismo” teorico-filosofico che abbiamo qui riassunto è del tutto evi­ dente: in particolare questo concetto ha il merito di consentire un ef­ ficace innesto della problematica più propriamente tecnico-formale sul corpo delle definizioni. L’estasi, abbiamo detto, descrive la strut­ turazione dinamica dell’opera come una commutazione dei registri espressivi. Ora è necessario precisare che, in via di principio, questa operazione non va intesa in senso materiale, e proprio per questo è riscontrabile in tutte le forme artistiche, indipendentemente dai limi­ ti che ciascuna di queste può trovare nella materia espressiva con cui opera. È questo un tema teorico non nuovo in Ejzenstejn, e anzi, co­

me vedremo tra poco, è probabilmente il più “antico”. Vero è, tutta­ via, che questo tema (il cui orizzonte è evidentemente un’estetica ge­ nerale) è strettamente connesso con l’idea di una gerarchia delle for­ me artistiche (peraltro mobile, soggetta a continui rimescolamenti) che porta Ejzenstejn ad accordare al cinema un privilegio fondato proprio sulla eterogeneità della materia espressiva con cui opera. Da questo punto di vista il cinema si presenta come un dispositivo parti­ colarmente adatto a sfruttare tutte le potenzialità del processo estati9 II problema dell'antropomorfismo della forma artistica è ripreso anche nella quarta pane di NN/, con osservazioni più sottili e pertinenti. Cfr. per cs. testo, p. 292. dove si argo­ menta la tesi secondo cui «la proiezione dell'uomo ncITartc si verifica notevolmente prima del­ l’apparizione della sua immagine» (tesi poi ripresa a proposito di EJ Greco, cfr. pp. 401 ss.). È. appena il caso di sottolineare l’abissale distanza di questa concezione dalla poetica * realistica * deil'«uomo vivo». È vero invece che qui EjzenJtejn anticipa posizioni che la riflessione marxi­

sta sull’arte e l'estetica avrebbe raggiunto solo molti anni dopo, per es. nel lavoro deH'ultimo I.ukàcs (cfr. Lukàcs, 1970, in pan. pp. J J5-566). Su questo tema si veda, in genere, TGM. che è largamente dedicata ai problemi ai un'estetica antropologica.

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INTRODUZIONE

co, e anzi è concepito come il modello esemplare dell’organicità: la più patetica di tutte le arti1". La nozione di organicità dell’opera d’arte, in conclusione, porta chiari i segni di un progetto sincretico messo a punto da Ejzenstejn nel corso di almeno quindici anni di lavoro teorico e produttivo sul cinema: l’immagine che se ne potrebbe trarre dalla rapida sintesi che abbiamo dato qui di questa nozione è quella di una grande “macchi * na da emozioni”, di un grande ordigno sinestetico che richiede allo spettatore una partecipazione totale e incondizionata. Questa imma­ gine - in sé corretta - rende tuttavia ragione solo parzialmente della complessità dei problemi che essa presuppone, e suggerisce l’idea di una predominanza assoluta degli elementi sensuali o emozionali del­ l’esperienza estetica che è solo parzialmente imputabile agli esiti più tardi del lavoro di Ejzenstejn e, in ogni caso, a patto di numerose e importanti precisazioni. In particolare ci si dovrà chiedere come tro­ vino posto in questa concezione dell’organicità quelle componenti intellettuali e conoscitive che Ejzenstejn, com’è ben noto, aveva sem­ pre considerato non meno fondamentali per l’esperienza estetica delle componenti sensuali ed emozionali. Ma per rispondere a que­ sta domanda è necessario ripercorrere nelle fasi essenziali la storia di questo rapporto. 3. Ejzenstejn invita spesso a guardare allo sviluppo della sua ope­ ra come a un movimento a forma di spirale, che supera conservando, svolta per ritornare1*: non ci si stupirà quindi che la sua prima elabo­ razione teorica in senso pieno - Il montaggio delle attrazioni (MdA), manifesto per un teatro «di agitazione)» scritto nel 192310 12 - presenti 11 numerose e indiscutibili analogie con l’immagine di quella “macchi­ na da emozioni” che sembra prender forma sullo sfondo della teoria dell’organicità dell’opera d’arte. In particolare anche in MdA il rap­ porto tra carattere emozionate-sensibile e carattere intellettuale-co10 A questo proposito cfr. in particolare l'analisi della «sequenza della centrifuga» de II vecchio e il nuovo < testo, pp. 45-66 e soprattutto pp. 60-61 ). in cui EjzenStejn si sofferma sulla ricchezza dei modelli espressivi che il cinema può mettere in gioco per mezzo del procedimen­ to estatico. Per un'analisi di questo film cfr. Montani, 1993, pp. 61 -79. 11 NNI provvede numerose interpretazioni “dialettiche’ di questo movimento (cfr. per cs. testo, pp. 333-335, 388 ss. c, a proposito della validità della teoria «sinestetica» presentata nel Montaggio delle attrazioni, pp. 339 ss.). 11 Mort/a? attrakeionov, in Lcf, 1923, n. 3 (ora in IzP, voi. ti, pp. 269-273); tr. it. in S.M. Ejzenstejn, // montaggio (M), Venezia, Marsilio, I9922, pp. 219-225 (da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono). Sul carattere pienamente teorico di MdH cfr. Montani, 1971; Bordwell, 1974,1993; Aurnont, 1979.

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noscitivo dell'opera sembra tutto sbilanciato dalla parte del primo» e anzi a una lettura superficiale si direbbe che il secondo non venga neppure preso in considerazione. Ejzenstejn infatti dichiara senza mezzi termini che «come materiale base del teatro viene posto lo spettatore» e che il compito di ogni «teatro utilitario» è quello di «indirizzare lo spettatore in una direzione (stato d’animo) desidera­ ta». «Lo strumento di questa elaborazione - prosegue Ejzenstejn - è dato da tutte le parti costitutive dell’apparato teatrale [...] ricondotte in tutta la loro varietà ad un’unica unità che legittima la loro presta­ zione: la loro qualità di attrazione». L’attrazione» subito dopo» viene definita come «ogni momento aggressivo del teatro, cioè ogni suo elemento che sottoponga lo spettatore a un’azione sensoria e psico­ logica» sperimentalmente verificata e matematicamente calcolata per ottenere determinate scosse emotive del percipiente, scosse che a lo­ ro volta costituiscono, tutt’insieme, la soia condizione della possibili­ tà di percepire il momento ideale dello spettacolo, la finale conclu­ sione ideologica». Poco più sotto, infine, si dice che «l’attrazione [è] l’elemento autonomo e primario della costruzione dello spettacolo, l’unità molecolare (cioè costitutiva) dell’efficienza del teatro e del teatro in generale» e si aggiunge - postilla ormai perfettamente pre­ vedibile - che essa è arbitraria e indipendente, «anche fuori della composizione data e dell’aggancio narrativo», esterna a ogni «figura­ tività» {izobraziterno$t>) o «rappresentatività» ipredstavljaemost’Y'. Tutto il discorso, come si vede, ruota qui sul concetto di efficien­ za (dejstvennost’) - che, come sappiamo, si ritroverà più tardi al cen­ tro della concezione organico-patetica dell’opera. Questa efficienza è di tipo emozionale (è lo spettatore» materia prima del teatro, che deve essere elaborato, modellato a immagine e somiglianza dell’ope­ ra), ma ambisce a commisurarsi con una «finale conclusione ideolo­ gica», funziona, cioè, solo in quanto si suppone che possa produrre nello spettatore un effetto di conoscenza. Naturalmente questo mira­ coloso effetto è poco meno di una credenza mitologica (e il mito qui è del tutto esplicito: la scienza e l’arte al servizio dell'ideologia prole­ taria: Pavlov coniugato con Bogdanov14). Poco meno, tuttavia, per° Cfr. IzP, voi. il, p. 271. ” Bogdanov (A.A. Malinovskij) fu il fondatore de! Proletkul't, per la cui sezione teatrale Ejzenstejn lavorava al tempo del Montaggio delle attrazioni. Marxista eterodosso, che si richia­ mava aH’cmpiriocriticismo di Mach da cui aveva mediato, radicalizzandola, l'idea di conoscen­ za come "organizzazione doM'esperienza”, Bogdanov esercitò un'influenza rilevante sulla pri ma avanguardia sovietica (in particolare sulle varie diramazioni del costruttivismo, sul cinema

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INTRODUZIONE

che nell’idea di un effetto di conoscenza legato alle attrazioni esisto­ no almeno due istanze pienamente accettabili. La prima è quella che la conoscenza non è un fatto puramente intellettuale, ma un processo che chiama in causa «il gioco vivo delle passioni»15: l’attrazione, in tal modo, perde qualcosa del suo carattere più pesantemente mani­ polarono, visto che si tratta anche di far prendere atto allo spettatore che, per così dire, senza sentimento non si conosce alcunché. La se­ conda istanza riguarda la configurazione stessa dell’attrazione in quanto «unità molecolare» autonoma e indipendente, in quanto, cioè, elemento formale e non materiale della rappresentazione. Solo a queste condizioni, infatti, le attrazioni saranno concatenabili in un «montaggio»; solo a queste condizioni, inoltre, il montaggio stesso sarà realizzabile con il concorso di qualunque veicolo materiale. Suo­ no, luce, colore, movimento, parola, espressione facciale o corpora­ le, rumore, tutto può diventare attrazione. Anche il materiale narra­ tivo e drammaturgico (il “soggetto”, il “tema”, Inazione”) è conce­ pito negli stessi termini. Ciò significa che il montaggio delle attrazio­ ni, pur escludendo ogni «figuratività» e «rappresentatività» in senso materiale e diretto - meglio, proprio in quanto la esclude - non può prescindere comunque dall’esercizio di una più ampia prestazione simbolica: quella per cui, come dice Ejzenstejn, «tutte insieme» le componenti dello spettacolo possono ambire a presentarsi come un veicolo e un equivalente della «finale conclusione ideologica». Se provassimo a immaginarci uno spettacolo allestito secondo la formula di MdA dovremmo figurarci una sorta di staffetta (o di pas­ serella) in cui la «scossa emotiva» si traduce ininterrottamente da un sistema di rappresentazione a un altro. In tal senso in MdA è già pre­ sente la meccanica del procedimento «estatico» di cui abbiamo par­ lato. La meccanica, ma non la fisiologia, perche Ejzenstejn non si preoccupa di definire le condizioni del passaggio da un sistema al­ l’altro, e soprattutto non si preoccupa di determinare l’elemento strutturale-compositivo capace di tenere insieme o almeno di rego­ lare il flusso «estatico» della rappresentazione. Questo elemento di Dziga Vcnov c di EjzcnJtejn prima del 1925). Per un rapido profilo critico della figura teo­ rica di Bogdanov cfr. Giorello, 1974, per i rapporti con l'avanguardia cfr. Montani, 1975; Fer­ rano, 1977. L’idea di una «cultura proletaria» e criticata da Ejzcnltejn a p. 234 del testo, con particolare riferimento a Sciopero (1924); si tratta tuttavia di una critica svolta in chiave sottil­ mente formalistica. Per la sopravvivenza di una concezione bogdanoviana nel “cinema intellet­ tuale", cfr. nota 27. 15 «Il cammino della conoscenza “attraverso il gioco vivo delle passioni” è specifico del teatro» (M, p. 220).

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avrebbe potuto ben essere individuato nel “soggetto” dello spettaco­ lo, ma Ejzenstejn, coerente con le parole d’ordine dell’avanguardia teatrale dei primi anni venti, respinge decisamente questa ipotesi: il soggetto è un materiale come un altro. In realtà è verosimile che la teoria di MdA sia più legata di quanto non mostri allo spazio scenico - insieme fìsico e simbolico - che essa semplicemente presuppone: l’autentico contenitore del libero e arbitrario montaggio delle attra­ zioni, infatti, è propriamente lo spazio teatrale, o, meglio, lo spazio del circo" *, luogo conchiuso e circolare in cui si snoda la sequenza Zfneare del montaggio. E evidente che con il passaggio dal teatro al cinema questo spa­ zio andava completamente ricostruito: ma ci vorranno esattamente dieci anni di lavoro prima che Eizenstejn, come vedremo17, riesca a teorizzare in modo soddisfacente tale ricostruzione con il concetto di obraznost’ («immaginila»)1’. In questi dieci anni Ejzenstejn sembra fondamentalmente occu­ pato a perfezionare il concetto (e lo strumento) del montaggio: il ca­ rattere formale dell’attrazione viene raccolto - c specificato in senso “fi­ siologico” - dall’inquadratura, che non è concepita come una «mo­ lecola» bensì come una «cellula» del montaggio; il rapporto tra in­ quadrature contigue, inoltre, viene specificato nel ben noto concetto di «conflitto». Ma il problema di un tessuto connettivo globale, di un operatore sintetico capace di totalizzare la frammentazione anali­ tica del montaggio resta sullo sfondo: e non bastano alcuni tentativi di soluzione alquanto verbalistici1’ perché questo problema non torLa passione di Ejzenstejn per il arco è del resto ben nota (cfr. Sklovskij, 1970). Iva­ nov. 1977 (p. 101) ne sottolinea opportunamente i valori teorici, rinviando a Bachtin. 1965. 11 Cfr. il par. 7 dd presente testo. ,R Per la traduzione di Obrnnost' con un brutto neologismo come “immaginità" cfr. Montani, 1971, p. 74 cSR, pp. 307-508, nota (1). D'altronde anche Aurnont, 1979, adotta una soluzione analoga proponendo «imaginicité». 19 Penso in particolare a un articolo come K voprosu o materialisticeskom podchode k for­ me (Sul problema di un atteggiamento materialistico verso la forma), in Kinoiurnal ark. 1925 (tr. it. in Berretto ed., 1975, pp. B6-142; nuova tr. in 05), in cui Ejzenstejn avanza l’ipotesi (del tutto vcrbalistica. appunto) secondo cui. per essere efficace, il principio di organizzazione del materiale artistico deve esser tratto da una «serie» non artistica. Nel caso di Sciopero, per esempio, questa «serie» sarebbe «l’industria pesante». È abbastanza chiaro in questa rase di la­ voro teorico il tentativo di innestare sull’ideologia del Proletkul't i risultati tecnicistici del for­ malismo (e infatti «serie», rjad, è un termine canonizzato dai formalisti). A partire dalla secon­ da metà degli anni venti, comunque, la problematica di Ejzenitcjn si pone nettamente al di fuori dellorizzonte prolctkul’tiano c anche, dal punto di vista della teoria estetica, di quello formalistico. 11 lavoro più propriamente analitico sull'opera d’arte, tuttavia, continuerà ad ac­ comunare stabilmente la ricerca di Ejzenstejn a quella di studiosi come Ejchcnbaum, Tynjanov c Bachtin (la quarta parte di NNI è, sotto questo profilo, esemplare).

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ni prepotentemente in primo piano proprio in concomitanza con le realizzazioni più avventurose del cinema di montaggio (Ottobre e so * prattutto II vecchio e il nuovo), i progetti più ambiziosi suggeriti dal­ le potenzialità espressive che quel cinema sembrava garantire (la tra­ sposizione cinematografica del Capitale di Marx) e, infine, con il te­ sto teorico che più esplicitamente lo sistematizza (Prospettive, 1929).

4. Il progetto di una traduzione cinematografica del Capitale fu concepito tra il 1926 e il 1928. L’elaborazione di questa idea non an­ dò al di là di una primissima raccolta di materiali, ipotesi di concate­ nazione degli argomenti, spunti per la trasposizione visiva dei con­ cetti20. Frammenti di una riflessione teorica che si rivelano preziosi perché estremamente attenti all’adeguatezza applicativa di quanto via via si organizza nel disegno che va prendendo forma. L’ipotesi che sostiene l’intero progetto è tanto semplice quanto geniale e am­ biziosa: il cinema può rappresentare il metodo del pensiero', non solo il processo, propriamente il metodo. Ma procediamo per ordine per arrivare a chiarire che cosa si debba intendere con questa ipotesi e da quali esigenze essa derivi. Osserviamo innanzitutto che il criterio dell’arbitrarietà dei mate­ riali - decisivo in MdA - viene opportunamente modulato in una concezione molto più equilibrata: La cosa più importante [...] adesso è trarre le conclusioni dalla parte formale di Ottobre. È molto curioso che «gli dei» e «l’ascesa di Kerenskij» siano struttural­ mente la stessa cosa: quest’ultima è caratterizzata dall’equivalenza dei pezzi e da un crescendo significativo delle didascalie, mentre la prima da un’equiva­ lenza delle didascalie - «dio, dio, dio» - e da un diminuendo significativo del materiale. Si tratta di serie semantiche. Indubbiamente qui troviamo i primi indici di un metodo. È interessante che queste cose non possano esistere al di fuori del senso e della tematica. (Come ad esempio il «ponte» che può lavo­ rare iiberhaupt). Un esperimento astratto formale è qui impossibile. (...) Non può esistere un esperimento al di fuori di una tesi.

11 discorso è molto chiaro: senza rinunciare agli straordinari van­ taggi che derivano da una considerazione formale dei materiali (è sox' (ìli appunti scritti da Ejzcnìtcjn tra il 12 ottobre 1927 e il 22 aprile 1928 sono compar­ si. senza titolo, in Ideusstvo Kino, 197). n. I. Tr. it. col titolo Come portare sullo schermo * llca ­ pitale» di Marx, in Cinema Nuovo, 197), n. 226 (da cui sono tratte tutte le citazioni che seguo­ no!; nuova tr. in Q5.

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lo a queste condizioni che si può parlare di un’equivalenza, è solo a queste condizioni che si può costruire un montaggio ecc.), Ejzen­ stejn ne sottolinea anche l’assoluta insufficienza, mettendo in luce la differenza che esiste tra l’equivalenza strutturale e la «serie» seman­ tica. In quest’ultimo caso non è per nulla indifferente che Kerenskij salga per una scalinata, non è per nulla indifferente che alia stessa parola - «dio» - corrispondano immagini del tutto difformi. Dun­ que la forma e il senso si possono dissociare ma si devono anche ne­ cessariamente reintegrare: è questo il «metodo» di cui Ottobre forni­ sce «i primi indici». Il metodo per la traduzione cinematografica del Capitale sara dunque, innanzitutto, un procedimento per «serie se­ mantiche», ovvero un «pensare per immagini» (come dice Ejzen­ stejn) anticipando l’idea (che vedremo sviluppata in Prospettive) di una precedenza del senso rispetto a cui la forma (le immagini e la loro organizzazione) non può che essere solo parzialmente indifferente. Lo scarto rispetto a MdA non è di poco conto: da una «finale con­ clusione ideologica» siamo passati, per così dire, a un “iniziale pre­ supposto semantico”. Certo, dal punto di vista di una chiara formulazione teorica, Ej­ zenstejn appare ancora largamente oscillante su questo punto. Per esempio egli sembra talora convinto che si possa innestare l’intero si­ stema concettuale del Capitale «su una banalità sufficiente per la “spina dorsale” del soggetto», insiste caparbiamente sull’assoluta necessità di «deaneddotizzare» i materiali narrativi di cui il film do­ vrà necessariamente servirsi, pensa lo svolgimento del discorso alla maniera di Joyce («La parte formale sarà dedicata a Joyce»)21 come una catena conseguente di associazioni (per esempio: «Pepe. Caienna. L’Isola del diavolo. Dreyfus. Lo sciovinismo francese. Il Figaro nelle mani di Krupp. La guerra. Le navi affondate nel porto»), sup­ pone che per innescare questa catena sia sufficiente «prendere lo 21 L’incidenza di Joyce sugli sviluppi del pensiero di Ejzenstejn è ancora da studiare (ma, per un primo tentativo, cfr. Montani, 1999). Un capitolo dell'inedito Metodi dedicato a Joyce: Ivanov, 1977, ne riporta questa significativa affermazione: «L'anatomia della letteratura è nota da tempo. Joyce ha messo in pratica in un’opera geniale i principi della fisiologia dd metodo letterario)». Si può qui ricordare che di una distinzione tra anatomia e finotogia del metodo let­ terario si parla ripetutamente in Vygotskij, 1925 (il rapporto delle teorie di Vygotskij con quel­ le di EjzenJtcjn è affrontato qui di seguito nel par. 6). Oltreché in TGM (cfr. in panie, pp. 252257) ed in alcune pagine delle Memorie (solo in parte tradotte in S.M. Ejzcnitejn, Vine, letti­ lo, amo, Roma, Editori Riuniti, 1990, pp. 50 ss.), Ejzenstejn chiama in causa Joyce anche in un

passo di NN/ (cfr. testo, pp. 286-287) in cui sostiene che solo il cinema è in grado di garantire un efficace superamento dell'opposizione tra «articolazione» e «continuità» (che è il tema di tutta la quarta pane del libro).

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svolgimento banale di un avvenimento assolutamente privo di riferi­ menti: diciamo» “la giornata di un uomo”, o forse qualcosa di ancor più fade», e così via. Ma è significativo che nella raccolta di materiali «buoni per il Capitale» questo criterio di assoluta arbitrarietà ceda decisamente il posto - come del resto è naturale - a una selezione che si orienta sulla loro effettiva appropriatezza semantica23. Non è diffìcile riconoscere in queste catene di associazioni (so­ prattutto là dove è più forte l’incertezza sul loro carattere più o me­ no arbitrario) una traccia del montaggio delle attrazioni. Sotto il pro­ filo della meccanica del procedimento l’unica differenza sta in que­ sto: che il film sul Capitale sembra concepito, per così dire, come una passerella di concetti. Ma qui non è solo in gioco un problema di meccanica (detto altrimenti: non è solo in gioco un montaggio), ma anche un problema di fisiologia: in altri termini, non basta che le serie associative si dimostrino singolarmente capaci di produrre un concetto o, come dice Ejzenstejn, di «mettere in forma un pensiero», è anche necessario che il film nel suo complesso fornisca (metta in forma) il criterio che guida il passaggio da un’immagine all’altra, da una catena all’altra. Insomma, non basta passare dal pepe ai cannoni

di Krupp, bisogna anche mostrare il senso di questo passaggio. Sullo sfondo di questa ambizione totalizzante (produrre il senso e far vede­ re come si produce) - che è anche, tuttavia, una necessità inderogabi­ le del cosiddetto “cinema intellettuale” - si profila il vero tema del film: «Dal Capitale può essere ripresa una serie infinita di temi: il plusvalore, il prezzo, la rendita. Noi abbiamo deciso di filmare il te­ ma: “il metodo di Marx”». E ancora - sottolineando una certa inevi­ tale vocazione didattica del cinema intellettuale2’ -: «L’impostazione del Capitale si sviluppa come un insegnamento visivo del metodo dialettico». Anche su questo punto fondamentale, però, emergono perplessi­ tà non secondarie. Ejzenstejn sembra dubitare che «il metodo dialet­ tico» possa emergere direttamente dall’arrangiamento delle immagi­ ni e delle sequenze senza l’intervento di un metadiscorso che in qualche modo lo espliciti: «L’ultimo capitolo deve essere il codice a Analogamente osserva Aumont: «On peut d’ailleurs souligncr que cesi manifestement sur un pur critèric “cmotionncl" (cclui de sa reaction affective personnclle) qu'Eisenstein fonde sa selection des anecdotes innombrables qui émaillcnt son journal de travail: aneciodes à la fois extrémement parlantcs, et toutes touchante (scandaJcuscs, dróolcs, cpouvantablcs...) ». Cfr. Aumont. 1979, pp. 168-169. Questa “vocazione" apparenta il cinema intellettuale agli esperimenti di Dziga Vertov assai più di quanto Ejzenstejn fosse disposto ad ammettere. Cfr. la nota seguente.

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dialettico di questa storia che non si riferisce al tema presente», an * nota a proposito di uno degli “episodi” del film. E la stessa preoccu * pazione si fa sentire a proposito della più o meno grande affidabilità della presa emozionale collegata alla sensualità delle immagini» per cui, forse, sarebbe opportuno «esplicitare la meccanica della provo­ cazione. Portare cioè lo spettatore a un determinato effetto emozio­ nale e quindi dare la scritta: “Ebbene, adesso siete arrivati allo sta­ to...”». E subito dopo aggiunge: «Per ogni capitolo i propri metodi di cinematografìzzazione»24. Come si vede, gli appunti per la realizzazione del Capitale ci si presentano come la mappa di una ricerca tormentata e piena di ripensamenti: Ejzenstejn sembra girare attorno a un’intuizione geniale - quella secondo cui il “lavoro del cinema” somiglia al “lavoro del pensiero” - senza tuttavia riuscire a sistematizzarla e a controllarla operativamente in modo adeguato. Non c’è dubbio che la difficoltà più grande coincida qui con quella che, come si è detto, è al tempo stesso l’ambizione e la necessità del cinema intellettuale: sostituire il “soggetto” con il “pensiero”. Ma è chiaro che questa ambizione-ne­ cessità appare ancora estremamente indeterminata. Che cos’è, infat­ ti, questo “pensiero”: un’astratta geometria di relazioni (magari “dialettiche”) o qualcosa di più implicato con gli oggetti? Una colle­ zione di forme o un dispositivo semantico globale? Un processo se­ quenziale (simile a un montaggio) o un continente (simile a una “scena”)? O non sarà piuttosto tutt’e due le cose insieme, secondo una divisione dei compiti ancora da individuare? Su queste domande si innesta tutta la sottile argomentazione svolta da Ejzenstejn nel manifesto Prospettive (P) del 1929 che, ben­ ché si presenti come la proposta di una nuova cinematografia, è in realtà assai meno un progetto che un momento di riflessione e di ri­ pensamento. 5. La tesi centrale di Pè ben nota: non c’è ragione di affannarsi come accadeva nel dibattito estetico sovietico di quegli anni - nella 24 Nel progetto, solo parzialmente realizzato, di un ciclo di film intitolato Kinoglaz (1924). Vertov aveva pensato a una sistematica ed esplicita utilizzazione di procedimenti, per così dire, "mctadiscorsivi": ciascuno dei sci film del ciclo doveva rappresentare al tempo stesso un’esplicitazione dei ‘metodi di cinematografizzazione’ del precedente c una nuova elabora­ zione originale di materiali, suscettibile a sua volta di ulteriori analisi e così via. È del tutto evi­ dente, per altri versi, l'affinità di queste ipotesi (sia di EjzenJtcjn che di Vertov) con l’idea for­ malistica di una ‘messa a nudo del procedimento", cara soprattutto a Sklovskij. Cfr. Vertov, 1975; Montani, 1975,1999; Sklovskij, 1923, 1925.

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disputa intorno alla contrapposizione di un’arte intesa come "cono­ scenza” e un’arte intesa come “costruzione”2’: conoscenza e costru­ zione sono due aspetti dello stesso processo, due momenti che si im­ plicano vicendevolmente in via di principio e il compito dell’arte consiste nel manifestare questa implicazione, nel mostrarla, per così dire, "all’opera”. Questa tesi è di tutto rilievo - e diciamo fin d’ora che al suo per­ fezionamento sarà dedicata in larga parte la ricerca più propriamen­ te estetica di Ejzenstejn negli anni trenta e quaranta, fino a NNI che ne costituisce la trattazione di più ampio respiro -, tuttavia in P que­ sta tesi viene articolata in una proposta unilateralmente enfatizzata («Abbattere la muraglia cinese che esprime la prima antitesi tra il "linguaggio della logica” e il “linguaggio delle immagini”», «Resti­ tuire all’impotenza della formula speculativa tutta la turgidezza e la ricchezza della forma animalmente sentita»26 ecc.) che radicalizza gli aspetti più discutibili del cinema intellettuale (e in qualche modo fi­ nisce perfino per contraddire le corrette assunzioni iniziali)27. Le istanze programmatiche di P, comunque, qui ci interessano assai me­ no di alcuni importanti chiarimenti teorici che questo testo mette a punto soprattutto nella lucida ridefinizione dei concetti di "forma” e “contenuto”, che Ejzenstejn considera, non diversamente dai con­ cetti di conoscenza e costruzione, come una coppia di termini com­ plementari. Il contenuto infatti - argomenta Ejzenstejn -, va inteso dinami­ camente come una forza o un principio di coesione: è Vatto del con­ tenere, del «trattenere fra loro» (so-derzanija kak sderzivanija mezdu *. sobofp Si tratta dunque di un principio sintetico. La forma, al con­ trario, è la risultante dell’atto - analitico - per cui qualcosa viene se­ parato, ritagliato nella molteplicità dei fenomeni reali (non indiffe­ renziata, certo, ma suscettibile dei più diversi ritagli), e istituito in immagine {obraz). La lingua russa consente a Ejzenstejn di motivare questa idea 21 Per una definizione delle lìnee di tale dibattito cfr. Ambrogio, 1968; Kraiski ed., 1968; Ferrano, 1977 (in pan. pp. 257-268). M Penpektivy (Prospettive), in Iskusstvo, 1929. n. 1-2 (ora in IzP, voi. il, pp. 35-44). Tr. it. in Rassegna sovietica, 1967, n. I (da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono). 27 A meno di non riattivare ipotesi di tipo bogdanoviano, per cui. per esempio, ciò che (’“organizzazione dell'esperienza" borghese ha oscurato, la scienza e Fané proletaria possono riportare alla luce. P, soprattutto nelle conclusioni, non si discosta troppo da una posizione di questo tipo, del tutto inconciliabile con le sue premesse. u Cfr. IzP, voi. il. p. 38.

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con un’ipotesi etimologica (probabilmente fantasiosa, ma questo nulla toglie alla sua chiarezza teorica):

Forma - egli scrive - in russo vuol dire immagine (obraz). Ora, l’imma­ gine si trova all’incrocio tra i due concetti di obrez (taglio) e obnaruzenie (palesamento, manifestazione, svelamento). Due termini che caratterizzano brillantemente la forma sotto i suoi due profili: quello statico individuale (an undfùr sich) in quanto obrez (taglio), separazione del fenomeno dato ri­ spetto a tutti gli altri compresenti [...] e sotto il profilo sociale attivo della manifestazione, cioè mostrando i legami che esistono tra il fenomeno e quanto lo circonda. Dunque la forma-immagine è innanzitutto istanza analitica della segmentazione, del “discreto *, dello scomponibile, e in quanto tale applicabile a tutti gli ordini di fenomeni, indipendentemente dalla loro configurazione materiale e alla sola condizione che essa indivi­ dui qualcosa di delimitato. Innanzitutto, ma non esclusivamente, per­ ché la forma-immagine è anche obnaruienie, palesamento, disvela­ mento, nesso rispetto al compresente. Qui il discorso di Ejzenstejn è meno limpido. Cerchiamo di spiegarlo così: «in sé e per sé» l’immagine-forma è un ritaglio, una segmentazione, ma al tempo stesso essa è anche un ritaglio di qualcosa, e in quanto tale è la manifestazione non arbitraria di un “formare *, il disvelamento di una volontà for­ matrice, in una parola, un fatto semantico che presuppone altre for­ me e altre ancora ne anticipa. In questa interna duplicità della nozio­ ne di forma-immagine sono contenuti entrambi i caratteri dell’unità di base di qualunque costruzione significativa (e non solo quelli di una semplice combinatoria per la quale è sufficiente la forma come obrez, taglio): l’identità (negativa, differenziale) e la disponibilità po­ sitiva (nella semantica moderna si direbbe, in modo forse ancor più fedele alle intenzioni di Ejzenstejn: l’“istruzione”) nei confronti di un contesto. È del tutto evidente che la definizione di inquadratura come

«cellula di montaggio»” è interamente motivata da questa riformu­ lazione dei concetti di forma e contenuto e ne rappresenta una sem­ plice specificazione cinematografica. Ma è anche evidente che una lettura attenta di questa riformulazione ci mostra come il discorso di Ejzenstejn qui si collochi già tendenzialmente oltre i limiti del cine29 Cfr. per c$. Za kadrom, in N. Kaufman, Japonskoe kino, Moskva, 1929 (ora in IzP, voi. il, pp. 283-296); tr. it. in M, pp. 3-18.

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ma intellettuale che, nell’essenza, restava una combinatoria (come abbiamo visto negli appunti per II capitale) incapace di produrre dall’interno una ricomposizione globale di quanto il montaggio ave­ va Frammentato e cioè, nella terminologia di Ejzenstejn, un sistema del contenuto. Seguiremo tra poco il coerente sviluppo di questa tendenza che porterà Ejzenstejn a lavorare con porzioni testuali sem­ pre più ampie e con procedure di organizzazione sempre più fini e capillari’0; per il momento torniamo a Pe alle conclusioni del discor­ so teorico su forma e contenuto: Il contenuto - atto del tenere insieme (akt sdcrzivanija) - è un principio di organizzazione. [...] Il principio di organizzazione del pensiero (prindp organizadi myslenija) rappresenta per l’appunto il * contenuto” effettivo dell’opera, mentre la forma è un mezzo per manifestarlo.

In conclusione, con P il paradigma teorico con cui lavora Ejzen­ stejn si è notevolmente arricchito e precisato rispetto alle ipotesi di MdA e alle incertezze che tormentano gli appunti per II capitale (e il cinema intellettuale nel suo complesso). Innanzitutto si aprono due vie di approfondimento della forma: l’una volta all’elaborazio­ ne della specifica produttività “semiotica” connessa col carattere arbitrario e non materiale di ciò che Ejzenstejn definisce obrez (ta­ glio), l’altra volta all’elaborazione della specifica produttività “se­ mantica” connessa col carattere sensibile di ciò che Ejzenstejn de­ finisce obnaruzenie (manifestazione, disvelamento). In secondo luogo comincia a precisarsi il problema fondamentale dell’unifica­ zione e della connessione globale delle forme, il problema del prin­ cipio di organizzazione che presiede a tutte le operazioni locali di produzione di signifcati e di sensi. Questo principio, dice Ejzenstejn, non può che coincidere con l’organizzazione del pensiero per mez­ zo delle forme che lo manifestano, e quindi non è qualcosa che preesiste all’opera, ma qualcosa che letteralmente “è in opera”. Re­ sta da capire in che modo questa definizione, in sé corretta e con­ vincente ma molto generale, si specifichi in senso più propriamen­ te estetico, o, in altri termini, in che modo nell’opera d’arte l’ele­ mento intellettuale-conoscitivo (ossia il contenuto-pensiero) entri ’° Cfr. tutta la quarta pane di NN/ (in particolare pp. 303 ss.) in cui Ejzcn&ejn tenta di fondare teoricamente la tendenza dell'arte verso una tessitura sempre più fine dei materiali c una dissimulazione dei procedimenti che «nelle fasi giovanili» tendono invece a essere eviden­ ziati c resi «percettibili» (come nel caso, esemplare, dd montaggio. Cfr. testo, pp. 388-395).

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in rapporto con l’elemento sensibile-costruttivo (ossia con la formamanifestazione).

6. Non è un caso che l’opera teorica più importante a cui Ejzen­ stejn comincia a dedicarsi all’inizio degli anni trenta porti il titolo di Grundproblem (GP)5' che segnala un movimento inverso rispetto a quello di P: un momentaneo abbandono del progetto cinematografi­ co (che si trasferisce dalla pratica produttiva a quella didattica)» e un ritorno sul “problema fondamentale” dell’arte (non privo di dubbi e di ripensamenti)52. Che questo movimento si orienti verso “il pro­ fondo” è testimoniato - oltre che dal titolo di quest’opera - dal tipo di integrazione cui Ejzenstejn sottopone il suo paradigma teorico: nell’idea di un pensiero sensoriale e prelogico (mediata dalla ricerca etnologica e in particolare da Levy-Bruhl) egli cerca una legittima­ zione scientifica di quella forma di «pensiero per immagini» o, come abbiamo detto, “implicato con gli oggetti", che gli sembrava centrale per la definizione dell’arte; nell’idea di monologo interiore o, me­ glio, di discorso interno (mediata dalla geniale indagine psicolingui­ stica di Vygotskij, di cui fu amico strettissimo), egli cerca una legitti­ mazione della persistenza di tali forme “arcaiche” di pensiero anche nelle strutture di coscienza più evolute (l’uomo moderno rispetto al “primitivo”, l’adulto rispetto al bambino). Tra questi due settori di integrazione teorica, tuttavia, esiste una differenza di fondo: mentre infatti l’idea (peraltro abbastanza dub­ bia) di «pensiero sensoriale» non poteva che risolversi in un’istanza speculativa che, nella sostanza, altro non è che una riformulazione generalizzata di ciò che P presentava come un programma («L’ope­ ra d’arte - scrive Ejzenstejn in GP nel 1935 - colpisce perché in essa si svolge un processo dualistico: un’impetuosa ascesa lungo le linee dei più elevati livelli espliciti della coscienza e la penetrazione si­ multanea per mezzo della forma negli strati più profondi del pen-

M Cfr. noia I. Ivanov avalla l'ipotesi di una vera e propria crisi c nc riporta significative testimonian­ ze da Metod: «Il contatto con l'arte porta lo spettatore a un regresso culturale. Infatti il ‘mec­ * canismo' deU'arte si definisce come mezzo per distogliere la gente dalla logica razionale, per “immergerla" nel pensiero sensuoso, c per provocare in questo modo reazioni emotive». Ma particolarmente importante per l'argomento che svolgiamo in questo paragrafo è la seguente annotazione, tratta dagli appunti per la prefazione di Mctod; «Fu Vygotskij a dissuadermi dal proposito, se non proprio di distruggere, almeno di abbandonare questa vergognosa attività [cioè l’arte)» (cfr. Ivanov. 1977. pp. 468-469).

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siero sensoriale»)”, il concetto vygotskijano di discorso interno si presentava invece come uno strumento effettivamente esplicativo (dei tipo di “pensiero” che Parte “mette in opera”) e al tempo stes­ so effettivamente programmatico-, insomma, un’istanza teorica e an­ che operativa. Ejzenstejn, d’altra parte, ne era ben consapevole:

La teoria del monologo interiore diede un certo calore all’astrazione ascetica dd fluire dei concetti, trasferendo il problema alla rappresentazio ­ ne dei sentimenti dell’eroe, e cioè su un piano più narrativo [sjuzetnyj). Nel­ le discussioni sul monologo interiore si fece tuttavia una piccola riserva, nel senso che lo si poteva usare per costruire qualcosa e non solo per rappresen­ tare un monologo interiore in quanto tale. Ecco l’argomento che voglio trattare, e cioè la sintassi del discorso interno (vnutrennjaja recY *, opposta a quella del linguaggio verbale. Il discorso interno, il fluire e il susseguirsi dei pensieri non formulati nelle costruzioni logiche in cui si esprimono i pensieri espressi e formulati, ha una propria struttura particolare. Questa struttura si fonda su una serie ben distinta di leggi. Quel che vi è di notevo­ le - ed è questa la ragione per cui ne discuto - è che le leggi di costruzione del discorso interno sono precisamente quelle leggi che si trovano alla base di tutta la varietà di leggi governanti la costruzione della forma e della compo­ sizione delle opere d'arte. In questo passo Ejzenstejn risponde compiutamente a tutte le domande che negli scritti di cui ci siamo occupati fin qui erano rima­ ste senza risposta o avevano avuto una risposta insoddisfacente. In particolare il rapporto tra pensiero e opera d’arte viene chiarito in modo definitivo: la forma e la composizione dell’opera d’arte non manifestano i processi del “pensiero in generale” ma quelli che han­ no luogo in una particolare regione del pensiero che si organizza in «discorso interno». Tra questi due universi, infatti, esiste una comu­ nanza di struttura che, con termine assai felice, Ejzenstejn definisce come una «sintassi» specifica, caratterizzata da «una serie ben diu La forma anemalograftca problemi nuovi, in FC. pp. 130-157 (da cui sono traile tutte le citazioni che seguono). Come è stato gii detto (cfr. nota 1) questo testo del 1935 è l’unica consistente testimonianza di GP resa pubblica da EjzcnJtejn. u Cfr. IzP. voi. ti, p. 108. La traduzione italiana porta la dizione discutibile di «linguag­ gio interiore». In realtà ret in russo è usato prevalentemente nel senso di «discorso» (cioè “lin­ guaggio in atto” o, saussurianamentc, “parole”). La distinzione non è priva di importanza: è infatti verosimile supporre che qui sia in gioco l'aspetto dcU’crm/z/owc’ (del “discorso”, ap­ punto) e non quello della competenza. Tant e vero che la «legge» fondamentale del «discorso interno» individuata, come vedremo tra breve, da Vygotskij è propriamente una procedura di­ scorsiva (la «predicazione assoluta»).

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stinta di leggi»: è più che verosimile che nel fare questa affermazione Ejzenstejn intendesse riferirsi alle procedure costruttive dei discorso interno scoperte da Vygotskij, che a questo fenomeno aveva dedica­ to lunghe ricerche sperimentali confluite poi in un capitolo della sua importante opera Pensiero e linguaggio, pubblicata nel 1934n. Le tesi di Vygotskij a proposito del discorso interno si possono così sintetizzare: 1) il rapporto tra la parola e il pensiero non va inteso come «qualco­ sa di statico ma come un processo» in cui si verificano dei cambia­ menti che possono essere considerati come le diverse fasi di un mo­ vimento di sviluppo; 2) il più importante di questi cambiamenti avviene al termine di una fase evolutiva che va dai tre anni ai sette anni: questo cambiamento coincide con la totale introiezione di una speciale forma di «linguag­ gio per se stessi», il cosiddetto «linguaggio egocentrico», che il bam­ bino fino a quel momento utilizzava come una sorta di correlato o in­ tegratone verbale del suo comportamento operativo (giochi, disegni, manipolazione costruttiva di oggetti e così via); 3) il linguaggio egocentrico, pur essendo manifesto e potenzialmente rivolto a un interlocutore, è in realta strutturalmente non comunica­ tivo: è un monologo incomprensibile agli altri in cui il bambino dice a se stesso qualcosa di ciò che va via via facendo. Utilizzando una ter­ minologia moderna (che Vygotskij anticipa limpidamente)16, po­ tremmo dire che il linguaggio egocentrico si presenta come un com­ mento verbale il cui tema è essenzialmente un operare; 4) ciò rende conto della caratteristica sintattica fondamentale del lin­ guaggio egocentrico, che Vygotskij definisce «predicatività». In que­ sta forma di linguaggio, cioè, si verifica una regolare implicitazione del tema. La ragione è semplice: non solo il bambino non ha alcun bisogno di esplicitare il tema del discorso (perché sa già benissimo di che cosa si tratta), ma anche volendolo non potrebbe farlo fino in fondo, perche quel tema, come si è detto, è essenzialmente un fare, non appartiene, cioè, all’ordine del linguaggio; 5) questa è la caratteristica strutturale decisiva del linguaggio ego" Cfr. Vygotskij, 19)4 (soprattutto pp. 323 396, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono). 16 Cfr. Vygotskij, 1934, p. 338, dove è illustrata la differenziazione tra «ciò di cui si par­ la» (il tema) e «quello che si dice» (il commento). Nell'uso che facciamo qui di questa coppia di termini teniamo conto del quadro semiotico ed epistemologico in cui la colloca Garroni, 1977 (soprattutto pp. 54-65).

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centrico, la sua sintassi (diciamo così) “sincretica”, in parte verbale e in parte operativa. A questa caratteristica se ne aggiungono altre di ti­ po più superficiale: il linguaggio egocentrico abbrevia, condensa, «agglutina» dice Vygotskij, e in sostanza lavora piuttosto col «senso» che non con i «significati»; 6) queste caratteristiche strutturali del linguaggio egocentrico rag­ giungono un massimo di specializzazione (e quindi di incomprensi­ bilità per gli altri) intorno ai sette anni: a questo punto avviene la tra­ sformazione di cui si è detto al punto 2): il linguaggio egocentrico perde il carattere della manifestazione e viene introiettato, diventa, cioè, discorso interno, depositando nel pensiero la sua sintassi sincretica e la sua semantica «agglutinante», o, come dice bene Vygotskij, la capacità di «operare con le immagini delle parole». Indiscutibilmente la dettagliata e lucidissima teoria di Vygotskij dava un effettivo fondamento scientifico all’idea di un «pensiero sensoriale», liberandola totalmente da ogni possibile fraintendimen­ to in senso rozzamente regressivo (fraintendimento che la sua for­ mulazione etnologica e positivistica rendeva invece possibile e che, a quanto pare’7, disturbò non poco, nei primi anni trenta, il lavoro di Ejzenstejn al GP). In tutta la trattazione di Vygotskij, infatti, viene messa in luce proprio l’insostituibile funzione formativa del linguag­ gio egocentrico e, successivamente, del discorso interno che conti­ nua a svolgere nella coscienza dell’adulto una preziosa funzione di integrazione. Ma, soprattutto, nel discorso interno Ejzenstejn poteva trovare il terreno per una fondazione del tutto convincente del rap­ porto tra pensiero e opera d’arte, e la possibilità di una specificazio­ ne cinematografica particolarmente fruttuosa di questo rapporto. Osserviamo intanto la cosa dal punto di vista di una teoria gene­ rale dell’opera d’arte. In GP, come si è visto, Ejzenstejn sostiene che il discorso interno si può «usare per costruire qualcosa» e precisa che «le leggi di costruzione del discorso interno sono precisamente quelle leggi che si trovano alla base di tutta la varietà di leggi gover­ nanti la costruzione della forma e della composizione delle opere d’arte». Ora comprendiamo meglio il significato di questa tesi: non si tratta più di richiedere all’opera d’arte il compito improbabile di esporre le leggi del pensiero, ma solo di evidenziare come l’opera d’arte sia in grado di ri produrre sul piano della rappresentazione esattamente ciò che nel discorso interno appare ormai completa * ” Cfr. now 32.

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mente assorbito in un orizzonte simbolico: l’originario sincretismo di comportamento verbale e comportamento operativo. Si precisa così anche il movimento «dualistico» che compare nella definizione dell’arte che abbiamo riportato all’inizio del paragrafo («ascesa lun­ go le linee dei più elevati livelli espliciti della coscienza e penetrazio­ ne simultanea per mezzo della forma negli strati più profondi del pensiero sensoriale»): il movimento regressivo dell’arte è quello che va verso un originario formare oggetti e relazioni tra oggetti (movi­ mento “costruttivo”, il cui supporto è la sensibilità della forma); il movimento progressivo è quello che valorizza gli aspetti intellettuali e conoscitivi indissolubilmente legati a quel formare originario, e cioè, per tornare al parallelo col discorso interno, gli aspetti più pro­ priamente comunicabili di quell’esperienza formativa, il suo essere anche un’esperienza verbale. È questo il “campo conflittuale” del­ l’arte: luogo in cui, come aveva ben visto Ejzenstejn nei passi più lu­ cidi di P, non si dà conoscenza senza costruzione e viceversa. Se l’ar­ te «colpisce» è perché i due movimenti (conoscitivo e costruttivo) vengono dati insieme in un oggetto o in una rappresentazione. Questo approdo estetico della riflessione ejzenstejniana è da considerarsi pressoché definitivo: la partita adesso si giocherà sul concetto di rappresentazione e su quello di organicità (che, come ve­ dremo tra poco, gli è intimamente correlato). Ma prima di esaminare questi sviluppi è opportuno chiarire un altro aspetto importante col­ legato alla nozione di discorso interno dal punto di vista di una sua immediata applicazione al cinema, e, più precisamente, alla ricezio­ ne o interpretazione del film. Da questo punto di vista, infatti, il di­ scorso interno si presenta come un efficace strumento di riorganiz­ zazione dell’eterogeneità del film in una duplice prospettiva: sia come proiezione di un simulacro di articolazione verbale sulla “densità” dell’immagine (e allora il suo oggetto sarà la fluidità del “piano se­ quenza” o la “profondità del campo”), sia come ricostituzione di un senso globale a partire dalla frammentazione dei pezzi (e allora il suo oggetto sara essenzialmente il montaggio). Riprendendo la differen­ ziazione vygotskijana tra «ciò di cui si parla» (tema) e «quello che si dice» (commento)” è facile vedere come il film costituirà via via l’universo del primo termine e il discorso interno l’universo del se­ condo”. ” Cfr. nota 56. w Questa tesi è sviluppata in Ejchenbaiun. 1927 (cfr. anche Garroni. 1975; Vannucchi, 1975; Montani, 1975a>.

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Tuttavia questa è solo una parte del problema fondamentale di Ejzenstejn che, come si è visto, suppone che le leggi del discorso in­ terno siano utilizzate non solo per interpretare ma anche «per co­ struire qualcosa». Si tratta dunque di capire in che modo queste leg­ gi siano in opera nell’oggetto artistico in generale, e, innanzitutto, in che modo l’opera d’arte le rappresenti. Questa problematica si svi­ luppa in parallelo col lavoro didattico di Ejzenstejn al GIK (Istituto statale di cinematografia) nei primi anni trenta e viene provvisoria­ mente sistematizzata in un saggio del 1934, Organicità e “immagini* {Organicnost’ iobraznost’, Obr)™ in cui tutto il discorso verte sul­ là la rappresentazione o, meglio, sulla rappresentabilità dei procedimen­ ti costruttivi che stanno alla base del discorso interno e della composi­ zione artistica. 7. Nel 1934, dunque, Ejzenstejn introduce un nuovo concetto “immaginità”, obraznost’ - utilizzando un termine forse non del tut­ to felice (e lo conferma la difficoltà di tradurlo appropriatamente) su cui converrà fare qualche precisazione. Diciamo innanzitutto - ma la cosa dovrebbe essere già chiara - che il concetto, di “immaginità” (che deriva da obraz, immagine ma anche, come si ricorderà, forma) non è da intendere in senso materiale: si potrà infatti parlare di ‘‘im­ maginità” per una poesia o per una composizione musicale, indipen­ dentemente dal fatto, cioè, che si abbia a che fare con l’arrangiamen­ to di elementi figurativi (a proposito del quale Ejzenstejn usa di re­ gola il termine izobrazitel’*nost ). L’“immaginità” è quindi un model­ lo formale applicabile ai più diversi materiali, e anzi di fatto applica­ to proprio a configurazioni espressive che risultano dalla concorren­ za di materiali eterogenei: la sua funzione consiste infatti nel ricomporre l’eterogeneità dei materiali nell’unità di un tratto co­ struttivo che li accomuna. In tal senso l’“immaginità” individua una sorta di criterio di coerenza il cui campo di applicabilità coincide con porzioni testuali compiute, o col testo (con l’opera) nel suo complessso41. Il concetto di “immaginità”, dunque, designa innanzitutto la •5 Organicnost' i obraznost', 1934, in IzP, voi. iv, pp. 652-672, tr. it. in SR, pp. 285-308. Il titolo dd saggio è redazionale. Si tratta tuttavia di una scelta dd tutto convincente. Sulla cen­ tralità ilei concetto di obraznost' nella riflessione cjzcrótcjniana degli anni trenta c quaranta si sofferma anche Aurnont, 1979 (pp. 178-199). ■” Ivanov, 1977 parla a questo proposito di una convergenza tra Ejzenstejn c Bachtin. Sulla compiutezza delle “porzioni testuali" nd cinema di EjzenStejn cfr. Barthes. 1973.

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semplice possibilità di accordare sotto un certo profilo un fascio di componenti espressive diverse (e in ciò il discorso non differisce da quello che Ejzenstejn aveva sempre fatto a proposito del montaggio che, nella sua accezione più generale, individua, come 1’“ immagini­ la”, un astratto modello della connessione). Ma perché questo ac­ cordo sia effettivo, il “profilo” o il “tratto costruttivo" rispetto al quale la porzione testuale o il testo si costituiscono come unitari de­ ve poter essere formalizzato in un operatore o, come forse sarebbe preferibile dire per sottolinearne l’esigenza rappresentativa, in una *figura” della costruttività del testo. Tutta Panatisi effettuata da Ej­ zenstejn in Obr è dedicata a una di queste figure (come si vedrà in NNI, infatti, ce ne sono molte): la «linea serpentinata». Ejzenstejn ne ricorda la canonizzazione manieristica e gli sviluppi nell’estetica di Hogarth42*, ne illustra in modo convincente le capacità costruttive ri­ spetto all’organizzazione spaziale dei materiali espressivi più diversi (figurativi, narrativi, musicati, gestuali), ne sottolinea l’«organicità», mostrando come questa figura rappresenti una buona traduzione spaziale di certi processi naturali41, suggerisce infine che proprio in questa «organicità» si trova la sua forza di attrazione, la sua capacità di emozionare e avvincere. Potrebbe sembrare arbitrario ricondurre la problematica dell’“immaginità" a quella delle «leggi di costruzione» del discorso in­ terno: se tuttavia pensiamo a queir originario sincretismo di “fare" e “dire" che Vygotskij pone alla base del discorso interno, o al concet­ to di «pensiero sensoriale» come lo intendeva Ejzenstejn, si vedrà fa­ cilmente che l’ordine dei problemi in gioco è proprio lo stesso, e che l^immaginità” definisce esattamente il tentativo di fondare la rappre­ sentazione su quelle «leggi». Certo, una “figura della costruttività" come la linea serpentinata non è una «legge»; inoltre, com’è ovvio, non ha nulla a che fare con la verbalità: essa tuttavia evidenzia una certa regolarità costruttiva (una linea serpentinata non si può “stira­ re” o “incurvare” più di tanto altrimenti diventerà una retta o un cerchio) e quindi, anche, la presenza di un certo regime conoscitivo che è parte integrante della sua costruttività (e piattaforma necessa­ ria per ogni possibile innesto propriamente linguistico)44. 42 Su questo punto Ejzenstejn ritorna anche in NN/ con osservazioni chiarissime (cfr. te­ sto. p. 307). *’ Cfr. la ripresa di questa problematica nella prima parte di W/ (pp. 19-23). 44 11 problema di una anticipazione estetica intesa come condizione di possibilità sia del comportamento ostativo che del comportamento linguistico (nel quale tuttavia questa strut-

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È abbastanza chiaro, dunque, che per usare le strutture del di­

scorso interno in vista di una «costruzione» che, come diceva Ejzen­ stejn, non fosse la semplice trasposizione materiale «di un monologo interiore in quanto tale», è proprio a questa “sintassi sincretica” costruttiva e insieme conoscitiva - che ci si doveva rivolgere. Inoltre la problematica deH’“irnmaginità” intesa come una coerente applica­ zione delle figure del discorso interno sul piano della rappresenta­ zione poteva fornire alla teoria di Ejzenstejn un fondamento mate­ rialistico di tutto rispetto, aprendo coerentemente il suo paradigma a un tema destinato ad ampi sviluppi, quello della non indifferenza del­ la natura (di cui il concetto di «organicità» è una riformulazione). In un passo del suo trattato dedicato al «metodo delTarte» (l’ine­ dito Metodi Ejzenstejn annota: «La prima opera d’arte è l’impronta fisica reale del palmo di una mano nell’argilla molle che determinò la prima forma concava»: ecco come si origina, secondo Ejzenstejn, ciò che abbiamo definito una “figura della cost rutti vita”. La «forma concava» sarà suscettibile di infinite esecuzioni (da una ciotola di terracotta a uno stadio di cemento armato), con essa, inoltre, si po­ tranno unificare numerosi materiali espressivi, ma in ogni operare con la “concavità” sarà rappresentata, secondo Ejzenstejn, la memo­ ria di quell’atto originario, operativo e conoscitivo insieme, in cui si è costituito il senso dell’esser-concavo. Questo senso è, inscindibil­ mente, una funzione della progettualità della mano (del gesto) e del­ la disponibilità della materia (l’esser-concavo non può costituirsi allo stesso modo in un blocco di granito); nell’esser-concavo, cioè, per­ mane la memoria di un accordo che è stato reso possibile da una coo­ perazione tra il gesto dell’uomo e la duttilità della materia. Se l’esserconcavo (al pari della linea serpentinata) è una figura della costruttivita, ovvero una forma di “immaginità”, allora si deve dire che alla costituzione di quest’ultima la materia non è mai indifferente^ perché anzi proprio sulla disponibilità della materia ad accogliere e oggetti­ vare il progetto deH’uomo si fonda quel conoscere-costruire origina­ rio di cui l’arte è la perenne ri-produzione. In definitiva I’“immaginità” definisce il risultato dell’appropriatezza delle procedure costruttive attraverso le quali la materia viene organizzata, in base a un progetto, sul fondamento della sua non in­

funi si specifica e si proietta) c sviluppato nella teoria proposta da Garruli. 1977. a cui le os­ servazioni contenute in questo paragrafo fanno costantemente riferimento. ■° Citato in Ivanov, 1977 (p. 466).

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differenza. Se assumiamo il termine “materia” in un’accezione larga» anche nel senso di materia narrativa, tematica o drammaturgica, ci rendiamo conto fino a che punto l’”immaginità” sia radicata nel l’universo del contenuto. L’organicità dell’opera d’arte in tal senso riposa sulla maggiore o minore adeguatezza delle soluzioni adottate e cioè, da un punto di vista produttivo, sulla maggiore o minore competenza nel manipolare o inventare le figure della costruttività di cui si è detto. Infatti potranno ben darsi procedure poco appro­ priate (relativamente ottuse nei confronti della materia) e allora si ot­ terranno soluzioni “disorganiche”, fatalmente orientate, come sug­ gerisce Ejzenstejn in un passo di Obr, verso il simbolico o verso il co­ mico. Ma potranno anche darsi, al contrario, soluzioni particolar­ mente appropriate (cioè capaci di elaborare la materia secondo tutta la ricchezza delle figure della costruttività cui essa di volta in volta si rende disponibile), e allora - e qui avviene l’inesorabile saldatura tra teoria generale dell’opera d’arte e teoria del cinema - si otterranno soluzioni “organiche” orientate verso quella «polifonia»4*’ di percor­ si costruttivi che solo il cinema può effettivamente garantire, o, in al­ tri termini, verso quella “macchina da emozioni” che abbiamo de­ scritto più sopra e di cui ora possiamo vedere senza sforzo le intime componenti conoscitive, il carattere “motivato” o, come diceva Ej­ zenstejn, «adeguato al tema». Con queste riflessioni che risalgono alla prima metà degli anni trenta l’estetica di Ejzenstejn ha trovato una configurazione teorica che resterà fondamentalmente stabile: il problema della rappresenta­ zione del pensiero da cui questa ricerca aveva preso le mosse con l’idea bizzarra che una «finale conclusione ideologica» fosse rappre­ sentabile per mezzo di una passerella di numeri da circo è rifluita nel modello di una complessa tessitura di materiali espressivi eterogenei in cui il pensiero si fa presente nelle figure che rimandano al suo più originario e sensuale accordo con la non indifferenza degli oggetti. NN/, che dell’estetica di Ejzenstejn rappresenta senz’altro la più am­ pia formulazione, può essere letta come una progressiva modulazio­ ne di questo accordo, le cui “figure” vengono sottoposte a un tratta­ mento del tutto particolare, non privo - come si è accennato all’ini­ zio - di aperture che segnalano un tendenziale superamento della problematica della rappresentazione (come del resto è già evidente nella definizione del procedimento dinamico che Ejzenstejn chiama * Questo tema è sviluppato soprattutto nella quarta pane ili NNL

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estasi, la cui funzione consiste proprio in un ininterrotto «uscire fuo­ ri di sé» della rappresentazione). 8. Nelle due parti incompiute di NNI (Il pathos e La natura non indifferente), in particolare, Ejzenstejn articola il discorso teorico manovrando un assortimento di “figure della costruttività” che sem­ brano distribuirsi lungo due direttrici: figure della fluidità e del­ l’espansione (il cui modello è Testasi e il cui prototipo antropologico viene individuato nelle strategie della caccia), e figure della connes­ sione e della tessitura (il cui modello è l’ordinamento strutturale del­ la composizione, e il cui prototipo antropologico è l’abilita nell’intrecciare canestri)47. Queste due serie vengono utilizzate a più livelli e variamente combinate tra loro: da un punto di vista «oggettuale» (predmetnyf) in quanto direttamente osservabili in un oggetto o in un singolo genere artistico; da un punto di vista formale, in quanto, appunto, figure della costruttività; da un punto di vista diacronico, in quanto possibili criteri esplicativi dello sviluppo o evoluzione del­ le forme e dei generi dell’arte. Nella prima serie troviamo figure come il rotolo, il telescopio48, la spirale, l’esplosione; nella seconda, figure come il nodo, la treccia, il riquadro, l’«opera in muratura». L’aspetto «oggettuale» del rotolo, per esempio, coincide con la forma effettivamente arrotolabile delle antiche pitture di paesaggio cinesi eseguite su un nastro. Ma al tem­ po stesso questa forma si può assumere dinamicamente come una manifestazione della figura dello «srotolare», che è il procedimento costruttivo di tutte le narrazioni che sviluppano uno «svolgimento» conseguente degli avvenimenti. Dal punto di vista diacronico, infine, sarà possibile mostrare nell’evoluzione (e perfino nell’invenzione) delle forme artistiche un periodico e più o meno regolare orienta­ mento verso questa figura “fluida”, a cui farà senz’altro seguito, se­ condo Ejzenstejn, un’inversione di tendenza verso il compatto e l’in­ trecciato - che darà la prevalenza ad altre figure come il nodo o il ri­ quadro - e poi ancora un ritorno a nuove forme di fluidità (come quella del cinema) e così via di seguito. Analogamente, la figura delVesplosione funziona come procedimento narrativo «oggettuale» nell’opera di Zola, come modello formale riscontrabile nello svilup-

47 Cfr. testo, p. 303. M Con 'telescopio" naturalmente qui è da intendere Li configurazione retrattile dell'og­ getto c non la sua funzione ottica (cfr. testo, pp. 171 • 177 e 205-225).

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po e nella riorganizzazione compositiva della pittura di E1 Greco e della grafica di Piranesi, e infine come criterio generale dell’evolu­ zione del trattamento del colore - secondo una bizzarra linea di con­ tinuità sulla cui direttrice Ejzenstejn colloca le vetrate duecentesche della cattedrale di Chartres, l’arte della pirotecnia, l’impressionismo, il cinema a colori e l’ideale di un’astratta «sinfonia» cromatica49. L’attendibilità di queste ricostruzioni - talora convincenti, talora stravaganti e forse troppo legate alla “spontanea” prolificità del me­ todo - sarà valutata dal lettore (o dallo specialista): qui ci interessa piuttosto mettere in evidenza come la stessa struttura delle due parti incompiute di NNI sia stata palesemente concepita da Ejzenstejn al modo di una contrapposizione-integrazione di uno stile «estatico» e di uno stile «intrecciato» del discorso (e del pensiero) teorico. //pa­ thos, infatti, è costruito in modo che ciascun capitolo «esca fuori di sé», «generando» la materia e la problematica del capitolo successi­ vo (e l’ultimo, I canguri, è una sorta di codice del procedimento, in cui Ejzenstejn prima analizza la figura dell’«uscita da sé» allo stato puro, con l’aiuto di un disegno di Steinberg, e poi ne mette in rilievo, o ne svela, la radice più profonda - l’idea di «generazione» o di «crea­ zione» - con l’aiuto di un celebre quadro di Leonardo)90; La natura non indifferente, invece, è costruita come un intreccio o polifonia di molte linee di discorso, interrotte e riprese ad arte, al modo di un “racconto teorico” di cui Ejzenstejn dipana pazientemente i nodi “alla maniera” di Dupin (cui esplicitamente si paragona per il gusto di una tecnica indiziaria alla rovescia, che ritrova - e talvolta perfino costruisce - le tracce a partire da un’iniziale intuizione globale)91. Nell’opposizione-integrazione di queste due grandi classi di fi­ gure della costruttività è dunque possibile cogliere anche l’immagine di due diversi tipi di comportamento “creativo”: quello estatico, che richiama l’attività “spontanea” del genio e quello analitico che ri** Cfr. testo, pp. 120-126 c 126-177. Sull'analisi dedicata a Piranesi cfr. Tafuri, 1972. w Si tratta di Sant'Anna, la Verrine e tl Bambino, che EjzenJtqn analizza alle pp. 220-221 del testo, concludendo: «Così il quadro di Leonardo sembra nascondere un'immagine straor­ dinariamente dinamica della riproduzione: Sant’Anna che, come in un accrescimento sfrenato, si continua nella Vergine e, ancora oltre, in un’altra generazione». Naturalmente non si tratta qui di scoprire il “vero significato" della teoria dell’estasi nelle profondità della psiche di Ejzcnstcjn, anche se la coincidenza di questo “svelamento" con un implicito (ma palese) riferi­ mento a Freud (cfr. le note (62). (63], (64] di p. 227> non è cerio casuale. Come si vedrà subi­ to. d’altronde, NN! si può leggere anche come una lunga riflessione sul problema della "crea­ tività” artistica. Per il rapporto EjzcnJtcjn-Freud cfr. (con qualche cautela, tuttavia) Fernan­ dez, 1975, tr. it. Palermo, Sellcrio. 1980, Aumont, 1971, e, soprattutto, Strada, 1970. ** Cfr. testo, pp. 379 ss.

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chiama fattività controllata dell’investigatore. Se le cose stanno così - e non ce ragione di dubitarne, visto che Ejzenstejn ce lo dice fin dalla dedica del libro: a Salieri, il ricercatore, e a Mozart, il genio -, allora il disegno a cui le due parti incompiute di NNI fanno riferi­ mento è meno un perfezionamento della teoria dell’organicità che una riflessione sulle difficoltà, sulla pazienza e sul rischio dell’incom­ piutezza (della mancata integrazione) connessi col lavoro creativo. Di più, si direbbe che in alcuni passi (sostanziali, peraltro) di NNI l’idea di una grande riconciliazione di uomo-opera-natura - che alla teoria dell’organicità è indissolubilmente connessa - sia guardata ora con allarme ora con ironia, come se questa concezione riflettesse uno stadio ancora fondamentalmente primitivo della teoria dell’ar­ te: una sorta di condanna alla rappresentazione cui la figura “esplo­ siva” dell’estasi vorrebbe sottrarsi per dar vita a nuove e più fluide concatenazioni di forme. In questi passi, come si è accennato, è in atto un movimento di svalutazione deirimmagine con cui sembra coordinarsi la proposta di diverse procedure di unificazione dei ma­ teriali dell’opera che tendono a porsi fuori del modello organicisti­ co, spaziale e rappresentativo dell’"immaginità”, o a riarticolarlo su un altro piano.

9. Al concetto di “immaginità”, in effetti, NNI non accorda una trattazione specifica. Ejzenstejn, certo, lo utilizza molto spesso, ma evita di definirlo compiutamente sul piano teorico, al contrario di quanto accade per i concetti di pathos e di estasi. Questa circostanza non è casuale: l’“immaginità”, nonostante il suo carattere formale, definisce infatti una concezione essenzialmente spaziale dell’opera, che tende a privilegiare la struttura compositiva. Nelle due parti incompiute di NNI, al contrario, Ejzenstejn sem­ bra dubitare che la struttura compositiva debba continuare a funge­ re da sistema di connessione del processo estatico, e anzi sembra concepire gli aspetti spaziali della composizione come un vero e pro­ prio impedimento opposto al libero fluire delle forme (i due capitoli del Pathos dedicati a E1 Greco e a Piranesi sono in tal senso esempla­ ri). Questo rovesciamento del rapporto tra ordinamento strutturale e estasi è illustrato magistralmente, nelle sue implicazioni tecniche, nel corso dell’analisi che Ejzenstejn dedica alla forma «musicale» della composizione di Ivan il terribile”, ma non manca di un tentatiw Cfr. testo, pp. 334-372 c 388 ss.

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vo di fondazione teorica più generale che» data l’epoca in cui fu scrit * io (1946-1947) si può probabilmente considerare come l’esito estre­ mo dell’estetica ejzenstejniana. Il discorso prende forma in due capitoli del Pathos (Sovraoggettività e Sul problema della sovrastoricità) nei quali è in gioco, innanzi­

tutto, una legittimazione della tesi (quasi improponibile nel clima culturale dell’epoca) che Ejzenstejn svolge lungo i capitoli preceden­ ti: la tesi consiste nell’applicabilità dei concetti di pathos e di estasi a opere d’arte di genere diverso (donde la «sovraoggettività», ossia l’indipendenza del modello dalla costituzione materiale dell’opera) e di diversa epoca (donde la «sovrastoricità» del modello stesso). Ma per legittimare questa tesi, Ejzenstejn sembra costringersi a una sor­ ta di riformulazione generale dell’intera problematica dell’organicità che si risolve di fatto in un suo sostanziale rimaneggiamento. Che Ejzenstejn fosse consapevole della relativa novità di questa riformulazione appare chiaro dal singolare imbarazzo con cui pro­ cede il suo discorso, tutto teso com’è nello sforzo di ricondurre in un quadro epistemico “materialistico” una concezione che non so­ lo si opponeva all’ingenuo relativismo storicistico della sociologia “marxista” dell’epoca, ma doveva anche sembrargli interpretabile in chiave irrazionalistica o addirittura mistica. Tant’è che, con l’ironia di un procedimento argomentativo tipico del suo genio retorico, Ej­ zenstejn scopre subito le carte e chiama in causa un “teste a discari­ co” della stazza di sant’Ignazio di Loyola: salvo mostrare subito che la concezione estatica del grande mistico era non solo una vera e propria tecnologia del sentimento (un’“ingegneria delle anime” dun­ que!), ma implicava anche e soprattutto un’inconsapevole (o forse addirittura consapevole) impostazione materialistica. Muovendo dall’autorevole testimonianza di sant’Ignazio, Ejzenstejn si preoccu­ pa di argomentare essenzialmente due tesi. La prima la conosciamo già: la stabilità e il movimento della materia (dove per movimento è da intendere: crescita, evoluzione e differenziazione) sono regolati da «leggi uniche e invariabili»’1. La seconda tesi è invece nuova, e può essere così riassunta: l’uomo, in quanto essere materiale («gru” Cfr. testo, p. 189. Ejzenstejn non si dilunga mai troppo nella descrizione di queste «leggi», richiamandosi in genere ai testi sacri del materialismo dialettico dell’epoca: la Dialetti­ ca della natura di Engels e i Quaderni filosofia di Lenin. In realtà tale richiamo (non più di quello ai principi contrapposti Yang e Yin) nulla spiega, lasciando del tutto indeterminato il problema di capire in che modo le «leggi» della dialettica si specifichino (nell’arte o altrove!. Il discorso sulla “dialettica" acquista consistenza quando si precisa nella doppia lista di ciò che abbiamo definito “figure della costruttività".

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mo di materia» dice Ejzenstejn) partecipa di questa universale legali­ tà. Ma vi partecipa in modo differenziato, su vari livelli: innanzitutto egli è capace di riflettere sulla materia e sulle sue leggi, e allora avrà un atteggiamento scientifico, “oggettivante”; in secondo luogo egli è capace di riflettere su se stesso in quanto parte della materia e delle sue forme più organizzate (cioè la società), e allora svilupperà, per quanto è possibile, una conoscenza soggettiva (psicologica) e inter­ soggettiva5455 ; egli infine - e questo è il punto più importante - è capa­ ce di provare un “puro” sentimento (oscuscenie) di partecipazione a (o di «comunione» con) le leggi universali della materia. Un senti­ mento non solo, com’è ovvio, privo di concetto {ponjatié}, ma perfi­ no privo di immagine (obraz) e senza oggetto (predinetì. Questo sen­ timento può essere definito - secondo un modello topografico caro a Ejzenstejn - come il punto limite di una regressione dai livelli più alti dell’organizzazione della materia (il pensiero scientifico) fino ai più “bassi” (il «puro» sentimento, la più originaria scaturigine dell’autoidentificazione dell’uomo in quanto essere senziente, appena al di qua della soglia dell’indifferenziato)”. È questo il fondamento an­ tropologico dell’estasi. È questa, inoltre, la condizione che l’opera

d’arte patetica continuamente riproduce in sé, rappresentandola, certo, ma solo in quanto la rappresentazione stessa è continuamente negata, continuamente differita. È evidente che, presa alla lettera, questa teoria del «sentimento» corrisponde a un’estetica deW irrappresentabile (un termine, questo, che ricorre spesso in NN/)%, ma è anche chiaro che, in quanto teoria dell’opera d’arte, essa continua ancora a funzionare come una “spe­ ciale” teoria della rappresentazione”: il modello estatico dell’opera, infatti, non lavora per la rappresentazione (la sua efficacia si misura 54 Su questo punto non mancano osservazioni di rilievo. Cfr. per es. a p. 197; «Il caratte­ re comune delle leggi fondamentali cui si conformano ugualmente sia il mio esser *mc" che Tesser "loro" degli altri, offre la possibilità di conoscere "toro” attraverso "sé", ma proprio in quanto... è attraverso “loro" che. al tempo stesso, si conosce “sé*». 55 «I momenti limite dell’estasi si presentano esattamente in questo modo: come uscita dal concetto, uscita dalla rappresentazione, uscita dall'immagine, uscita dalle sfere anche più rudimentali della coscienza c permanenza nella sfera "puramente" emozionale del sentimento, della sensazione del puro “stato"» (testo, p. 2001. * Cfr. testo, pp. 31,250-251, 396. ” Nel paragrafo del Pafhot intitolato / canguri EjzenJtejn mostra come un’applicazione «letterale» del principio dell'estasi conduca inevitabilmente a esiti di tipo comico. D'altronde, la pura e semplice proiezione della condizione estatica su una rappresentazione che non abbia alcun rapporto con la dinamica dell'estasi è tipica del simbolismo religioso (cfr. testo, pp. 192193). Si ricompone dunque di nuovo, su un altro piano, la triade simbolico-artistico-comico con cui Ejzenstejn aveva sistematizzato l'"immaginità".

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PIETRO MONTANI

esclusivamente sul «sentimento»), ma lavora pur sempre con la rap­ presentazione, e anzi la sua forza sta proprio in questo: che rende in qualche modo esperibile il costitutivo “ rimandare a qualcosa d’al­ tro” della rappresentazione stessa”.

Riferimenti bibliografici Ambrogio Ignazio, 1968, formalismo e avanguardia in Russia, Roma, Editori Riuniti Aumont Jacques, 1971, Eisenstein avec Freud, in Cabiers du Cinema, n. 226 *227 Aumont Jacques, 1979, Montage Eisenstein, Paris, Albatros Bachtin Michail M., 1965, Tvorcestvo, Fransua Rable i narodnaja kul'tura Srednevekov’ja i Renessansa, Moskva: tr. it. Torino, Einaudi, 1979 Barthes Roland, 1973, Diderot, Brecht, Eisenstein, in Revue d’Esthétique, n. 2 4, *3 pp. 185-191; tn it. in L'ovvio e l'ottuso, Torino, Einaudi, 1985, pp. 89-97 Berretto Paolo (ed.), 1975, Ejzenitein, FEKS, Vertov. Teoria del cinema rivoluziona­ rio. Gli anni Venti in U.R.S.S., Milano, Feltrinelli Berretto Paolo, 1981, Su "Ivan il Terribile": l'ambiguità, l’altra scena, il potere, in S.M. Ejzenstejn, Ivan il terribile, Milano, Feltrinelli, pp. 227 *246 Bordwell David, 1974, Eisenstein's Epistemological Shift, in Screen, n. 4, pp. 32-46 Bordwell David, 1993, The cinema of Eisenstein, Cambridge, Mass., Harvard Uni­ versity Press Ejchcnbaum Boris, 1927, Problemy kino-stilistiki; tr. it. in G. Kraiski (ed.), I forma­ listi russi nel cinema, Milano, Garzanti, 1971, pp. 13-52 Fernandez Dominique, 1975, Eisenstein, Paris, Grassct: tr. it. Palermo, Scllerio, 1980 Fcrrario Edoardo, 1977, Teorie della letteratura in Russia 1900-1934, Roma, Editori Riuniti Garroni Emilio, 1973, Language verbal et éldments non-verbaux dans le message filmico-télévisuel, in Revue d'Esthétique, n. 2-3-4, pp. 111-127 Garroni Emilio, 1977, Ricognizione della semiotica, Roma, Officina Giorello Giulio, 1974, Introduzione a A.A. Bogdanov, La scienza e la classe operaia, Milano, Bompiani Ivanov VjaceSlav V., 1977, Significato delle idee di M.M. Bachtin sul segno, l’atto di parola e il dialogo per la semantica contemporanea, in aa.w., Michail Bachtin, Bari, Dedalo, pp. 67-104 Ivanov Vjaccslav V., 1980, Doctor Faustus. "Il problema fondamentale" nella teoria w E, al limite, al "nulla * ma sempre attraverso la rappresentazione: «Un'innumerevole serie di paesaggi cinesi del X, XI, e XII secolo (...] ci mostrano uno scorcio di montagne roccio­ se, un albero spezzato, certi altri particolari e, in mezzo, girato di tre quarti rispetto a noi, lo sguardo volto verso la profondità del quadro, la figura del saggio, in piedi, seduta o in posizio­ ne di riposo, con la testa appoggiata sul braccio piegato. Se si segue mentalmente lo sguardo del saggio ci si accorge che, dopo aver percorso i contorni sfumati della vegetazione, delle valli e dei monti, questo è immancabilmente teso verso il "nulla" - verso lo sfondo bianco del qua­ dro -, libero da qualsiasi allusione ad oggetti o a rappresentazioni!» (cfr. testo, p. 396). È at­ traverso la rappresentazione dello sguardo del saggio, dunque, che l’irrapprcsentabile «nulla» prende forma.

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INTRODUZIONE

dell’arte di S.M. Ejzenitejn, in Strumenti critici, n. 42-43, pp. 447-486 Kraiski Giorgio, 1968, Le poetiche russe del novecento^ Bari, Laterza Lukacs Gyorgy, 1970, Àsthetic I. Die Eigenart des Àsthetischen, Bcrlin-Spandau, Hermann Lucnterhand, 1963; tr. it. Torino, Einaudi Montani Pietro, 1971, L’ideologia che nasce dalla forma. Il Montaggio delle Attrazio­ ni, in Bianco e Nero, n. 7-8 Montani Pietro, 1973, Dziga Vertov, Firenze, La Nuova Italia Montani Pietro, 1975a, La forma del film e la funzione del linguaggio interno, in G. Rapisarda (ed.), Gnema e avanguardia in Unione Sovietica, Roma, Officina, pp. 149 *

167 Montani Pietro (ed.), 1991, Sergej Ejzenitejn: oltre il cinema, Pordenone, La Biblio * teca dcllìmmagine Montani Pietro, 1993, Fuori campo. Studi sul cinema e l’estetica, Urbino, Quattroventi Montani Pietro, 1999, L'immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i con­ fini dello spazio letterario, Milano, Guerini e Assodati Sklovskij Viktor, 1923, Literature ikinematograf, Berlin; tr. it. in G. Kraiski (cd.), I formalisti russi nel cinema, Milano, Garzanti, 1971, pp. 101 *144 Skkmkij Viktor, 1925,0 teorii proxy, Moskva; tr. it. Torino, Einaudi, 1976 Sklovskij Viktor, 1970, Kniga pro Ejzenstejna, in Iskusstvo Kino, n. 1-12; tr. it. Bari,

De Donato, 1974 Strada Vittorio, 1970, Prefazione a S.M. Ejzenstejn, Ivan il terribile, Milano, Feltri­ nelli, 1981 Tafuri Manfredo, 1972, Piranesi, Ejzenitejn e la dialettica dell'avanguardia, in Rasse­ gna Sovietica, n. 1-2, pp. 175-184 Vannucchi Massimo, 1975, Ideogramma, monologo e linguaggio interiore, in aa.w., Il cinema di S.M. Ejzenstejn, Rimini-Firenze, Guaraldi, pp. 189-237 Vertov Dziga, 1975, L'occhio della rivoluzione, Milano, Mazzotta Vygotskij Lev S., 1925, Psichologjja iskusstva, Moskva; tr. it. Roma, Editori Riuniti, 1972 Vygotskij Lev S., 1934, Myslenie i rec, Moskva; tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1990

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

NOTA EDITORIALE Questo volume è il primo dell’edizione italiana delle Opere scelte in sei volumi di S.M. EjzenStejn (Izbrannye proizvedenija v, Sesti tomach, IzP, Moskva, Iskusstvo, *1970). 1965 Il testo che presentiamo è la traduzione integrale dal russo del libro Neravnodusnaja priroda (La natura non indifferente) tratto dal t. in delle /zP, pp. 35-432. Il libro è un’ampia e pressoché conclusiva ricognizione di Ejzenstejn sul­ l’estetica generale, la teoria delle arti e la teoria del cinema. La traduzione si attiene rigorosamente al testo stabilito dagli editori delle IzP. Le note a piè di pagina sono di S.M. Ejzenstejn, quelle con esponente in parentesi qua­ dre (raggruppate alla fine di ciascuno dei quattro capitoli) sono state redatte dal cu­ ratore con la collaborazione dei traduttori. Alcuni termini russi di particolare rile­ vanza teorica, quelli in cui la traduzione opera una scelta significativa tra le varie al­ ternative possibili e quelli per cui si e ritenuto comunque opportuno un confronto con l’originale, sono riportati tra parentesi tonde. Le espressioni inglesi, tedesche e francesi che Ejzenstejn abbastanza frequentemente usa (ora in lingua originale, ora translitterando in cirillico) non sono state, di regola, tradotte. La scelta delle sequenze fotografiche dai film rispetta l’esigenza di una puntuale do­ cumentazione del discorso svolto da Ejzenstejn in alcuni passaggi del libro c va quindi considerata come una parte integrante dell’opera. La loro realizzazione è sta­ ta possibile grazie alla collaborazione di Alfredo Baldi della Cineteca nazionale e di Gastone Prodieri dell’Associazione Italia-Urss e, per la parte tecnica, di Cesare Teresi, ai quali tutti va il mio ringraziamento. Nella stesura delle note sono state usate le seguenti sigle: C = S.M. EjzenStejn, Il colore, Venezia, Marsilio, 19892. FC = S.M. Ejzenstejn, La forma cinematografica, Torino, Einaudi, 1986. IzP - S.M. Ejzenstejn, Izhrannye proizvedenija v sesti tomach (Opere scelte in sei volumi), Moskva, Iskusstvo, 1963-1970. M = S.M. Ejzenitejn, Il montaggio, Venezia, Marsilio, 19992. ME = S.M. Ejzenstejn, // movimento espressivo, Venezia, Marsilio, 1998. NNI = S.M. Ejzenstejn, La natura non indifferente, Venezia, Marsilio, 2005' *. OS = S.M. Ejzenstejn, Opere scelte, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio. R = S.M. Ejzenstejn, La regia, Venezia, Marsilio, 19922. SR = S.M. Ejzenstejn, Stili di regia, Venezia, Marsilio, 2003 *. TGM = S.M. Ejzenstejn, Teoria generale del montaggio, Venezia, Marsilio, 1992’. P.M.

POVERO SALIERI (Quasi una dedica)

Mettendo a morte i suoni, ho sezionato, quasi fosse un cadavere, la musica. AU’algebra ho affidato l’armonia. puSkin, Mozart e Salteri

Mi sono chiesto a lungo a chi dedicare questo libro. Le donne amate lo troverebbero troppo impegnativo. Gli allievi dovranno studiarlo in ogni caso. Gli amici mi difenderanno comun­ que. I nemici attaccheranno lo stesso. Alla classe operaia è già dedicato tutto quello che produco. Le generazioni passate possono fame a meno. Quelle che verran­ no si spingeranno ben oltre... Non resta che un uomo alla cui memoria vorrei dedicare questo lavoro: Salieri. Il povero, puskiniano Salieri. Che sezionò la musica come un cadavere... Cosa terribile. Come un cadavere. Inerte, spenta, senza moto e senza vita. E questo perché non cera ancora... il cinema, perché non esiste­ va ancora quest’arte unica che consente l’apprendimento e lo studio della propria algebra e della propria geometria senza, per questo, ri­ nunciare alla vita, mortificarne le risonanze, fare dcll’arte un cadave­ re immobile; il cinema che, senza smarrire il dinamismo e la mozar­ tiana gioia di vivere, consente lo studio del calcolo integrale e diffe­ renziale di cui l’arte non può più fare a meno, una volta raggiunto lo stadio della cinematografìa. Ecco, in primo luogo, una buona ragione per dedicare il mio li­ bro alla memoria di Salieri. In secondo luogo - e a dispetto di ogni caustico veleno [1] - io stesso, quando sono alle prese con la creazione, mando tranquilla­ 3

LA NATURA NON INDIFFERENTE

mente al diavolo le «stampelle» (come le definiva Lessing) di ogni conformità alle leggi, mi ricordo le parole di Goethe: «grau ist die Theorie», e mi tuffo, a testa in giù, nella spontaneità creativa. Ma, al tempo stesso, non dimentico nemmeno per un attimo che, al di là degli istanti dell’ebbrezza creatrice, noi tutti, ed io per primo, abbiamo bisogno di dati precisi, sempre più precisi, su quel che ci proponiamo di realizzare. In caso contrario non ci sarebbe sviluppo per la nostra arte, né formazione per i nostri giovani. Ma, lo ripeto, in nessun caso mi sono lasciato catturare da un’al­ gebra preconcetta. E sempre, invece, questa si è sviluppata a partire dall’esperienza di un’opera compiuta. Ecco perché, dedicata alla tragica memoria di Salieri, il ricerca­ tore, questa raccolta di saggi è dedicata al tempo stesso alla memoria della vitale spontaneità di Mozart.

[I] L'autore allude al presunto avvelenamento di Mozart da parte del compositore Anto­ nio Salieri, episodio che fornì a Pidkin lo spunto per l'opera (Mozart e Salteri') da cui sono trat­ ti i versi posti in epigrafe.

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I.

SULLA STRUTTURA DEGLI OGGETTI [1]

Poniamo di dover rappresentare sullo schermo la tristezza. La tristezza «in generale» non esiste. Essa è concreta» narrativizzata {sjuietnaja). Inoltre ha un veicolo quando è il personaggio ad es­ sere triste» e un destinatario quando è rappresentata in modo da ren­ dere triste anche lo spettatore. Quest’ultima condizione non è obbligatoria per una rappresen­ tazione della tristezza; la tristezza del nemico sconfitto suscita la gioia dello spettatore» solidale col vincitore. Queste considerazioni sono di un'evidenza palmare» eppure con­ tengono i più complessi problemi della costruzione di un'opera d’ar­ te perché toccano l’aspetto più scottante del nostro lavoro: il proble­ ma della rappresentazione e dell’atteggiamento nei confronti del rap­ presentato. La composizione è uno dei mezzi più efficaci per esprimere que­ sto atteggiamento, benché non sia l’unico. D’altra parte, l’atteggia­ mento nei confronti del rappresentato non è l’unico oggetto della composizione. In questo saggio affronterò un problema particolare: come otte­ nere la manifestazione di questo atteggiamento mediante la sola composizione. L’atteggiamento nei confronti del rappresentato deve manifestarsi attraverso il modo in cui viene mostrato ciò che si rap­ presenta. Si pone così il problema dei metodi e dei mezzi che do­ vranno servire per elaborare la rappresentazione in modo tale che» insieme al suo che cosa, essa manifesti anche il suo come-, come la considera l’autore e come questi intende che gli spettatori percepi­ scano, accolgano e comprendano ciò che essa rappresenta. 5

LA NATURA NON INDIFFERENTE

Esaminiamo questo fenomeno dal punto di vista della composi­ zione; analizziamo, cioè, il caso in cui proprio la composizione - in­ tesa come principio costruttivo de) rappresentato - svolge il compito di incarnare Patteggiamento dell’autore. Si tratta di un problema de­ cisivo per noi perché si è scritto pochissimo sul ruolo della composi­ zione nel cinema; e lo stesso vale per gli aspetti della composizione letteraria che ho in mente. Il tema (predmet) della rappresentazione e il principio costrutti­ vo che ne regola la manifestazione espressiva possono coincidere. Si tratta del caso più semplice e di più agevole soluzione per quanto ri­ guarda il problema della composizione. Ne risultano costruzioni as­ sai semplicistiche, del tipo: «triste tristezza», «gaia gaiezza», «marcia marciarne» ecc. In altri termini: l’eroe è triste e, all’unisono con lui, sono tristi la natura e la luce, talvolta la composizione dell’inquadra­ tura, più raramente il ritmo del montaggio, quasi sempre la musica d’accompagnamento. Lo stesso vale per la «gaia gaiezza» e così via. In questi esempi del tutto elementari è possibile individuare con assoluta chiarezza il fondamento della composizione e capire da do­ ve essa tragga la sua prassi e i suoi materiali: la composizione prende gli elementi strutturali del fenomeno rappresentato e con essi determi' na la legge della costruzione dell’oggetto (vescì. K queste condizioni, in realtà, essa trae innanzitutto tali elementi dal comportamento emozionale dell’uomo, il quale comportamento, da parte sua, è legato al vivo sentimento del contenuto dei fenomeni di volta in volta rappresentati. Per questo motivo, infine, una composizione autentica sarà sem­ pre profondamente umana', si tratti del ritmo «saltellante» della strut­ tura di episodi allegri, del «rallentamento monotono» del montaggio in una scena triste, o della risoluzione dell’inquadratura in una luce «scintillante di gioia». Diderot [2] fa derivare i principi di composizione della musica vocale e, in seguito, strumentale, dalle vive intonazioni emozionali della voce umana (e al tempo stesso dai fenomeni sonori della natura circostante percepiti dall’uomo). E Bach - maestro dei più sofisticati procedimenti compositivi sostiene il medesimo punto di vista umano a proposito dei fonda­ menti della composizione e delle sue più efficaci premesse pedagogi­ che.

Stando a ciò che ci riferiscono i suoi allievi, Bach insegnava a conside­

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SULLA STRUTTURA DEGLI OGGETTI

rare i suoni degli strumenti quasi fossero le voci di altrettante persone e la partitura strumentale polifonica come una conversazione tra queste perso * ne. Egli voleva che ogni voce parlasse bene e a tempo debito, e, nel caso in cui non avesse nulla da dire, che tacesse e aspettasse il suo momento (E.K. Rozenov, JS. Bach e la sua tradizione, Mosca 1911, p. 72). Esattamente nello stesso modo, la cinematografia si fonda sul gioco reciproco delle emozioni e dei sentimenti umani per costruire i suoi procedimenti strutturali e le configurazioni compositive più complicate. Prendiamo come esempio una delle scene più felici di Aleksandr Nevskij: l’episodio dell’offensiva del «cuneo» tedesco contro l’eser­ cito russo all’inizio della battaglia sul ghiaccio. Questo episodio si lascia «ascoltare» fin nelle più piccole sfuma­ ture di un progressivo sentimento di terrore: via via che il pericolo si fa più incombente, il cuore si stringe e il respiro si contrae. La struttura dell’«offensiva del cuneo» in Aleksandr Nevskij è come «modellata» sulle variazioni che si producono all’interno di questo sentimento. Da queste variazioni dipende il ritmo complessi­ vo dell’azione: la crescita della tensione, le pause, l’accelerazione e il rallentamento. Il battito tumultuoso del cuore in ansia si traduce nel ritmo del galoppo dei cavalli: figurativamente - come il balzo dei cavalieri al galoppo, compositivamente - come il battito di un cuore sul punto di scop­ piare. Nell’opera compiuta, entrambi - figurazione e ordine (strofi compositivo - concorrono qui a fondare l’unità indissociabile di un’immagine terribile: l’inizio di un combattimento per la vita o per la morte. E l’avvenimento che si svolge sullo schermo «secondo il grafico» dello sviluppo di una determinata passione, retroagisce, a partire dallo schermo e secondo lo stesso «grafico», sulle emozioni dello spettatore, disponendole all’interno di quel medesimo nodo di pas­ sioni sul quale era stato precedentemente modellato lo schema com­ positivo dell’opera. Ecco il segreto dell’efficacia propriamente emozionale di un’au­ tentica composizione. Proprio in quanto assume come punto di par­ tenza l’ordine strutturale (stroj) dell’emozione umana, essa fa appello immancabilmente all’emozione, richiama immancabilmente l’intero complesso di sentimenti da cui deriva.

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

In tutte le forme d’arte - e in particolare nell’arte cinematografica - è proprio questo il procedimento che porta all’effetto di cui parlava Lev Tolstoj a proposito della musica: «Essa, la musica, mi trasporta di­ rettamente, immediatamente nello stato d’animo in cui si trovava co­ lui che l’ha composta» (L.N. Tolstoj, La sonata a Kreutzer, xxm). Questo - dal caso più elementare a quello più complesso - è uno dei tipi possibili di costruzione dell’oggetto (postroenie vesce/). Ma esistono altri casi nei quali, invece di una soluzione del tipo «gaia gaiezza», l’autore si trova a dover risolvere, poniamo, il tema di una «morte che afferma la vita». Come comportarsi? È evidente che in un caso come questo la legge di costruzione dell’oggetto non può più fondarsi esclusivamente su elementi che de­ rivano direttamente da emozioni e sentimenti umani abitualmente connessi col fenomeno dato. E tuttavia, anche in questo caso, la legge di composizione sarà la stessa. Con la differenza che la costruzione compositiva trarrà il suo schema di partenza, non più dall’emozione che accompagna ciò che viene rappresentato, ma, in primo luogo, dall’emozione che accom­ pagna [’atteggiamento nei confronti del rappresentato. Si tratta comunque di un caso piuttosto raro e per nulla obbliga­ torio. In queste circostanze prende generalmente forma un quadro assai curioso e spesso inatteso: come se il fenomeno fosse trasmesso attraverso una struttura che ci appare del tutto insolita se la riferia­ mo a circostanze «normali». La letteratura abbonda di simili esempi, nelle sfumature più diverse. Vi troviamo infatti un tale metodo nella concatenazione degli elementi primari della composizione, quelli che partecipano dell’or­ dine compositivo immaginato, per così dire, come un sistema di comparazioni. Nella letteratura troviamo esempi di strutture compositive del tutto inattese che rappresentano fenomeni «di per sé» assolutamente comuni. Tali strutture, peraltro, non sono affatto determinate, ali­ mentate o prodotte da deviazioni formalistiche e ricerche di effetti stravaganti. Gli esempi a cui penso, infatti, si riferiscono ai classici della letteratura realistica: e si tratta di classici proprio perché, utiliz­ zando tali procedimenti, manifestano con grande chiarezza un giudi­ zio estremamente netto sui fatti, un atteggiamento estremamente net­ to nei confronti del fenomeno.

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SULLA STRUTTURA DEGLI OGGETTI

Quante volte in letteratura incontriamo la descrizione dell’«adulterio»! Per diverse che siano le situazioni, gli atteggiamenti e le comparazioni utilizzate per rappresentarlo, è difficile trovare un quadro più impressionante di quello in cui «i criminosi abbracci de­ gli amanti» sono comparati con le immagini di... un delitto.

Ella si sentiva talmente criminosa e colpevole, che non le rimaneva se non umiliarsi e domandar perdono; e nella vita adesso, all’infuori di lui, ella non aveva nessuno, così che rivolgeva appunto a lui la sua preghiera (Tesser perdonata. Ella, guardandolo, sentiva fisicamente la propria umiliazione e non poteva più dir nulla. Egli invece sentiva quel che deve sentire un assas­ sino quando vede il corpo privato della vita da lui. Questo corpo privato della vita da lui era il loro amore, il primo periodo del loro amore. C’era qualcosa di orribile c di ripugnante nei ricordi di quello per cui era stato pagato questo terribile prezzo di vergogna. La vergogna dinanzi alla pro­ pria nudità spirituale la soffocava e si comunicava a lui. Ma, malgrado tutto l’orrore dell’assassino dinanzi al corpo dell’assassinato, bisogna tagliare a pezzi, nascondere questo corpo, bisogna approfittare di quel che l’assassino ha acquistato con l’assassinio. E l’assassino si getta su questo corpo con rabbia, si direbbe con passio­ ne e lo trascina e lo taglia; così anche lui copriva di baci il volto e le spalle di lei. Ella gli teneva una mano e non si muoveva. Sì, questi baci son quello che s’è comprato con questa vergogna. Sì, e questa mano, che sarà sempre mia, è la mano del mio complice £3]. In questo frammento di Anna Karenina (parte il, cap. xi), la con­ figurazione compositiva, ottenuta attraverso comparazioni, deriva tutta la sua magnifica crudeltà dal profondo dell’atteggiamento del­ l’autore nei confronti del fatto e non dai sentimenti e dalle emozioni dei protagonisti (come accade, invece, nelle infinite varianti con cui Zola, nel ciclo dei Rougpn-Macquart, risolve questo stesso tema). Tolstoj pose questa epigrafe al romanzo: «La vendetta è mia, io ripagherò». In una lettera inviata a Veresaev [4] il 23 maggio 1907, M. Suchotin [5] ricorda le parole usate da Tolstoj per commentare questa epigrafe che sconcertava Veresaev: «Ripeto che ho scelto questa epi­ grafe per esprimere l’idea che tutto il male che l’uomo commette produce le amare conseguenze che Anna Karenina dovette subire, e che non provengono dall’uomo, ma da Dio» (V. Veresaev, Ricordi). Nella seconda parte del romanzo, in cui si trova il frammento ci­ tato, il problema di Tolstoj era appunto quello di mostrare «il male che l’uomo commette».

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

Il suo temperamento di scrittore lo indusse a figurarsi lo stadio supremo del male nella forma del delitto. Il suo temperamento di moralista lo indusse a comparare questo male con il peggior delitto contro la persona: l’omicidio. Il suo temperamento di artista, infine, lo indusse a manifestare il proprio atteggiamento nei confronti delle azioni dei personaggi con tutti i mezzi espressivi di cui disponeva. Il delitto - l’assassinio -, assunto come espressione fondamentale dell'atteggiamento dell'autore nei confronti del fatto, diviene al tem­ po stesso il principio di determinazione di tutti gli elementi fonda’ mentali che concorrono alla composizione della scena. Di qui derivano le immagini e le comparazioni: «quel che deve sentire un assassino quando vede il corpo privato della vita: da lui. Questo corpo privato della vita da lui era il loro amore» ecc. Di qui, ancora, deriva la raffigurazione delle azioni dei personag­ gi, il loro atteggiarsi, nei gesti dell’amore, in una forma che è propria del delitto: «E l’assassino si getta su questo corpo con rabbia, si di­ rebbe con passione, e lo trascina, e lo taglia; così anche lui copriva di baci il volto e le spalle di lei» ecc. Si tratta di «remarques» estremamente precise nel definire una certa sfumatura di comportamento, scelta tra mille altre possibili proprio in quanto corrisponde perfettamente all’atteggiamento del­ l’autore nei confronti del fatto. L’idea del male espressa compositivamente attraverso l’immagi­ ne del delitto-assassinio si ritrova in Tolstoj anche in altre scene oltre a quella citata. Si tratta di un’immagine che gli è congeniale. La ritroviamo infatti nella Sonata a Kreutzer. Due brani del rac­ conto di Pozdnysev ce ne forniscono una dimostrazione convincen­ te. Il secondo (che riguarda i bambini) estende il quadro dell’esem­ pio servendosi di strutture esterne ancor più inattese che, nondime­ no, dipendono interamente dall’atteggiamento interno assunto nei confronti del tema. Mi chiedevo con meraviglia donde venisse il nostro reciproco astio; mentre la cosa era chiarissima: questo astio non era nient’altro che la prote­ sta della natura umana contro l’animalesco che la soffocava. Io restavo sbalordito del nostro odio reciproco. Eppure, non poteva avvenire diversamente. Quell’odio non era nient’altro che l’odio che anima uno contro l’altro i complici di un delitto, sia per l’istigazione, sia per la partecipazione al delitto. E come non definirlo un delitto, una volta che lei, poverina, era rimasta incinta fin dal primo mese, mentre la nostra maialesca relazione si prolungava! Voi pensate che io stia divagando dall’argomento 10

SULLA STRUTTURA DEGÙ OGGETTI

del mio racconto? Non divago affatto! Vi sto raccontando, precisamente, in che modo ho ucciso mia moglie. Al processo son venuti a chiedermi per * ché, in che modo ho ucciso mia moglie. Che ottusità! Credevano che l’avessi uccisa allora, col coltello, quel cinque d’ottobre. Ma non è stato allora che l’ho uccisa, è stato molto prima (L.N. Tolstoj, La sonata a Kreutzer, xm). In questo modo la presenza dei figliuoli non solo non migliorava la no * sera vita, ma anzi l’awelenava. E, a parte questo, i figliuoli venivano a costi­ tuire per noi un’occasione di più per attaccar lite. Dal momento che avem­ mo dei figliuoli, e sempre più spesso via via che si facevano grandi, furono proprio loro a diventare strumento e oggetto di lite. Già, non soltanto og­ getto di lite: erano, i figliuoli, un’arma della nostra lotta: si potrebbe dire che ci battevamo l’uno contro l’altro servendoci dei figliuoli. Ciascuno di noi due aveva il suo bambino preferito, come arma per il combattimento. Io mi battevo servendomi piuttosto di Vasja, il maggiore; lei, di Liza... Essi ne soffrivano tremendamente, poverini; ma noi, nella nostra guerra senza tregua, avevamo ben altro da fare che pensare a loro (L.N. Tolstoj, La sona­ la a Kreutzer, xvi) [6].

Come si vede, quale che sia l’esempio scelto, il metodo di com­ posizione resta lo stesso. La sua determinazione fondamentale resta in ogni caso e innanzitutto Vatteggiamento dell'autore. In ogni caso è Vazione umana e la struttura delle azioni umane a individuare il pro­ totipo della composizione. Gli elementi determinanti dell’organizzazione strutturale della composizione sono tratti dall’autore dai fondamenti del proprio at­ teggiamento nei confronti degli avvenimenti. Questo atteggiamento suggerisce la struttura e i tratti caratteristici secondo i quali si dispie­ ga la rappresentazione. Senza sacrificare nulla della propria realtà, la rappresentazione ne emerge incomparabilmente arricchita sia nei suoi elementi intellettuali che nei suoi elementi emozionali. Possiamo fare ancora un esempio, il cui interesse consiste nel fat­ to che non solo i due protagonisti si sottraggono a una rappresentazio­ ne abituale o stereotipata, ma danno forma, attraverso i mezzi della composizione, a un consapevole, reciproco... scambio di strutture! I due personaggi sono: un ufficiale tedesco e una prostituta fran­ cese. L'ordine strutturale dell'immagine (stroj obraza) del «nobile uffi­ ciale» è proiettato sulla prostituta. Quanto all’ordine strutturale dell’immagine della prostituta, nel suo aspetto peggiore, esso viene usato come modello per schizzare il ritratto dell’ufficiale tedesco. 11

LA NATURA NON INDIFFERENTE

Questo singolare «chassé-croisé» è stato realizzato da Maupas­ sant in una novella ben nota: Mademoiselle Fifi. L’ordine strutturale dell’immagine della francese è tessuto di tut­ ti quegli elementi di nobiltà che una concezione borghese accorda alla figura dell’ufficiale. Attraverso lo stesso procedimento, l’ufficiale tedesco manifesta la sua vera essenza: la sua natura di prostituta. Di questa «natura» Maupassant sottolinea un singolo tratto: la carica distruttiva nei confronti dei «principi morali» della società borghese. La cosa è tanto più interessante in quanto Maupassant opera sulla falsariga di uno schema assai simile, ben noto e fresco nella sua memoria: il suo ufficiale tedesco, infatti, è tagliato su una fi­ gura costruita da Zola. L’ufficiale soprannominato «Mademoiselle Fifi», naturalmente, è Nana. Non certo Nana tutta intera, ma quella Nana che compare nella parte del romanzo in cui Zola innalza il personaggio fino a fame l’incarnazione di un potere distruttivo rivolto contro le fa­ miglie benpensanti, e nello stesso tempo ne descrive la furia ca­ pricciosa, quando Nana fa a pezzi le porcellane di famiglia che le hanno regalato i suoi adoratori. La rappresentazione generica della cortigiana, forza distruttrice della famiglia e della società, viene «materializzata» nell’episodio della bomboniera di porcel­ lana sassone e di tutti gli altri preziosi regali beffardamente fran­ tumati dal capriccio di Nana come altrettanti simboli dell’«alta società». La struttura del comportamento dell’ufficiale è assolutamente identica alla struttura del comportamento di Nana in questa scena. Il nome «Nana» e il soprannome «Fifi» evidenziano un tale rapporto. Né contraddice, e anzi piuttosto conferma la nostra supposizione, il fatto che i diminutivi dei nomi propri francesi siano spesso ottenuti mediante un raddoppiamento della sillaba caratteristica: Ernest «Nénésse», Joséphine - «Fifìne», Robert - «Bébert»1. La novella di Maupassant ci offre un magnifico esempio di co­ me, attraverso la composizione, un semplice quadro di costume pos­ 1 Vale la pena di osservare che Maupassant, quasi a distrarre l'attenzione da questa as­ sociazione di idee, fornisce una «motivazione» al soprannome «Fifi»: il marchese Wilhelm von Eirich (l’ufficiale) era solito esprimere il proprio disprezzo per tutto ciò che io circondava con l’esclamazione «Fi done!». È ovvio che la cosa non modifica la nostra osservazione, e semmai la convalida.

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SULLA STRUTTURA DEGLI OGGETTI

sa essere ripensato e orientato nella direzione voluta secondo la de­ terminazione di un’adeguata ossatura strutturale. Abbiamo esaminato fin qui alcuni esempi piuttosto descrittivi, evidenti e facilmente interpretabili. Ma gli stessi principi sono rin­ tracciabili negli elementi più fondamentali delle strutture compositi­ ve, negli strati profondi accessibili solo allo scalpello dell’analisi più minuziosa e approfondita. E dappertutto e in ogni caso ritroviamo come fondamento lo stesso carattere umano, la psicologia umana che alimenta i più com­ plessi elementi compositivi della forma proprio come alimenta e defini­ sce il contenuto dell'opera. Vorrei ora illustrare questi principi con due esempi piuttosto complessi e, a prima vista, del tutto astratti, che riguardano la com­ posizione del Potèmkin. Essi serviranno a illustrare e a confermare quanto abbiamo appe­ na detto a proposito del tema della struttura degli oggetti; e, dal punto di vista del Potèmkin, potranno fornire lo spunto per nuove investigazioni su questo film.

Quando si parla del Potèmkin se ne sottolineano, di solito, due tratti salienti: l’organico ordinamento strutturale (organiceskaja strojnost’) della composizione nel suo complesso, e il pathos del film.

ORGANICITÀ E PATHOS

Esaminiamo questi due tratti salienti cercando di vedere attraver­ so quali mezzi essi sono stati ottenuti, in primo luogo sul piano del­ la composizione. Osserveremo il primo tratto dal punto di vista della composizione complessiva del film. Il secondo lo esamineremo nel­ l’episodio della «scalinata di Odessa», in cui il pathos raggiunge la più alta tensione drammatica. In un secondo tempo questa analisi sarà ge­ neralizzata e proiettata sull’insieme del film. La nostra analisi si soffermerà sul modo in cui l’organicità e il pa­ thos del film sono stati risolti con mezzi propriamente compositivi. Ma avremmo potuto, con pari esattezza, analizzare questi elementi sotto il profilo della loro risoluzione su altri terreni particolari, co­ me, per esempio: la recitazione degli attori, il trattamento del sogget­ to, l’illuminazione e le gradazioni cromatiche delle riprese, il lavoro sul paesaggio e sulle scene di massa ecc. 13

LA NATURA NON INDIFFERENTE

In altre parole, ci occuperemo soltanto dell’aspetto limitato e parziale dell'ordinamento strutturale dell'oggetto, senza mirare a un’analisi esaustiva di tutti gli aspetti del film. In un’opera d’arte organica, tuttavia, gli elementi che costitui­ scono l’insieme partecipano anche di ogni suo singolo componente. Una stessa legge percorre non solo il tutto e ciascuna delle sue parti, ma anche i diversi piani rispetto ai quali il tutto si costituisce. Quali che siano tali piani, gii stessi principi vi si manifesteranno di volta in volta in modo specifico. Solo in questo caso si potrà parlare dell’or­ ganicità di un’opera, posto che si assuma il concetto di «organismo» nel senso in cui lo definisce Engels nella Dialettica della natura: «l’organismo è, certamente, l'unità superiore». Queste considerazioni ci conducono subito al cuore del primo tema della nostra analisi: il problema della struttura «organica» del Potèmkin. Tentiamo di affrontare il problema partendo dalle premesse enunciate all’inizio. L’organicità dell’opera e il sentimento [7] di or­ ganicità prodotto dall’opera insorgono quando la legge di costruzio­ ne dell’opera corrisponde alle leggi di strutturazione dei fenomeni della natura. In tutta evidenza qui è in gioco il sentimento della composizione organica d’insieme. Sentimento cui non possono sottrarsi neppure quegli spettatori che, per la loro appartenenza a una data classe, si trovino in netta opposizione nei confronti del soggetto e del tema dell’opera: quegli spettatori, insomma, per i quali né il tema né il soggetto del film possono essere in alcun modo «organici». Ciò acca­ deva al Potèmkin quando veniva proposto a un pubblico borghese. Ma torniamo alla nozione di struttura organica dell’opera nel senso in cui la intendiamo qui. Direi che esistono due generi di organicità. Il primo è caratteristico di ogni opera dotata di unità e legalità interna. In questo caso l’organicità risulta dal fatto che l’opera nel suo in­ sieme è regolata da una determinata legge strutturale, alla quale ob­ bedisce altresì ogni singola parte dell’opera presa separatamente. Raccogliendo la definizione proposta dagli estetologi tedeschi chia­ merò questo genere di organicità: organicità di ordine generale. Già in questo caso, com’è evidente, abbiamo a che fare con un principio che si modella sul principio secondo cui si ordinano i fenomeni della natura, a proposito del quale Lenin scriveva: «Il particolare non esi­

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SULLA STRUTTURA DEGÙ OGGETTI

ste se non in relazione al generale. Il generale esiste soltanto nel par­ ticolare, attraverso il particolare» (Opere, voi. xin, pp. 302-303). Ma la legge stessa che regola tali fenomeni naturali non coincide obbligatoriamente, in questo primo caso, con le leggi secondo le quali viene costruita questa o quell’opera d’arte. Il secondo genere di organicità si manifesta quando ci si trova di fronte non solo al principio di organicità, ma anche alla legalità inter­ na che regola i fenomeni naturali. Potremmo definirla organicità di ordine particolare o eccezionale. Ed è quella che principalmente ci interessa. Ci troviamo di fronte, in questo caso, a un’opera d’arte - un'ope­ ra artificiale - costruita a partire dalle stesse leggi che strutturano i fenomeni non-artificiali - i fenomeni «organici» della natura. In questo caso non solo il soggetto è conforme alla realtà, ma le forme stesse della composizione, nelle quali il soggetto si materializ­ za, interpretano altrettanto realisticamente e pienamente la legalità propria del reale. Un’opera di questo genere esercita sul destinatario un’effica­ cia propriamente individuale, non solo perché è elevata al livello dei fenomeni naturali, ma anche perché la sua legge strutturale è al tem­ po stesso la legge che regola la costituzione del fruitore in quan­ to parte della natura organica. Il fruitore si sente organicamente uni­ to e fuso con un’opera di questo genere, proprio come si sente unito e fuso col proprio ambiente naturale. Questo sentimento, in grado maggiore o minore, è inevitabile per ciascuno di noi, e il suo segreto sta nel fatto che sia noi che l'ope­ ra siamo sottoposti a una sola e stessa legalità. Esamineremo ora la natura di questa legalità servendoci di due esempi che sembrano ri­ ferirsi a due problemi distinti, ma che, alla fine, arriveranno a ricon­ giungersi. Il primo esempio è dedicato all’analisi di questa legalità da un punto di vista statico, il secondo la esaminerà nella sua dinamica. Il primo, quindi, affronterà il problema della partizione e delle proporzioni della struttura (strofi dell’oggetto; il secondo, il proble­ ma del movimento della costruzione (stroenie) dell’oggetto [8].

Per risolvere il primo problema relativo alla struttura organica del Potemkin bisogna dunque cominciare col determinare se questa struttura corrisponde all’organicità di primo tipo, quella di ordine generale.

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

Il Potèmkin si presenta come una cronaca di eventi, ma agisce come un dramma. Il segreto di tale effetto sta in questo: che il procedere degli even­ ti si modella sulla precisa regolarità della composizione tragica. Di più: della composizione tragica nella sua forma più canonica: la tra­ gedia in cinque atti. Gli avvenimenti, considerati quasi come nudi fatti, sono ripartiti nei cinque atti della tragedia; inoltre i fatti sono scelti e messi in se­ quenza in modo da soddisfare, di volta in volta, le esigenze che la tragedia classica pone nel terzo atto piuttosto che nel secondo, nel quinto piuttosto che nel primo e così via. Naturalmente, i vantaggi e l’appropriatezza della scelta della tra­ gedia in cinque atti non derivano dal caso ma da una lunga selezione naturale: ma non è questo il punto sul quale dobbiamo soffermarci. Qui basti dire che una tale struttura, ben collaudata nel corso dei se­ coli, fu presa come base originaria per la partizione del nostro dram­ ma. Come, del resto, è sottolineato dal fatto che ogni «atto» possiede un proprio titolo. Ricordiamo rapidamente questi cinque atti. Prima parte: Uomini e vermi. Esposizione dell’azione. Le condizioni di vita sulla corazzata. Seconda parte: Il dramma di Tendra [9], «Tutti sul ponte!». Rifiuto dei marinai di mangiare la minestra coi vermi. Scena del telone. «Fratelli!». Rifiuto di sparare. Ammuti­ namento. Giustizia sommaria per gli ufficiali. Terza parte: L'appello del morto. Nebbia. Il corpo di Vakulinéuk nel porto di Odessa. Quarta parte: La scalinata di Odessa. Fraternizzazione tra la costa e la corazzata. Le barchette portano provviste. Sparatoria sulla scalinata di Odessa. Cannonata della co­ razzata sul «quartier generale». Quinta parte: L'incontro con la squadra. Notte di veglia. Incontro con la squadra. Le macchine. «Fratel­ li!». La squadra si rifiuta di sparare. La corazzata passa vittoriosa­ mente nel mezzo della squadra. Gli episodi di ciascuna parte del dramma sono del tutto diversi dal punto di vista dell’azione, ma essi sono, per così dire, cementati da una doppia ripetizione, che li trapassa da parte a parte. Nel Dramma di Tendra un manipolo di marinai ammutinati piccolissima parte della corazzata - grida «Fratelli!» di fronte ai fu16

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citi del plotone d’esecuzione. E i fucili si abbassano. L’intero organi * smo della corazzata passa con gli ammutinati. NeH’/wowf/ro con la squadra la corazzata ammutinata - piccolis­ sima parte della flotta - lancia lo stesso grido: «Fratelli!» di fronte ai cannoni puntati della squadra. E i cannoni si abbassano: l’intero or­ ganismo della flotta è passato con la corazzata in rivolta. Da una cellula dell’organismo della corazzata alla corazzata inte­ ra; da una cellula della flotta - la corazzata - all’organismo della flot­ ta intera: così si sviluppa attraverso il film il sentimento della fratel­ lanza rivoluzionaria. E gli fa eco la struttura stessa dell’oggetto che ha come tema: la fratellanza e la rivoluzione. Passando sopra le teste dei comandanti della corazzata, degli ammiragli della flotta e perfino sopra le teste dei censori dei paesi borghesi, il film lancia il suo fraterno «Urrà!», proprio come, nel contesto del film, il sentimento di fratellanza, sorvolando il mare, congiunge la corazzata in rivolta con la terraferma. L’organicità del film, nata all’interno di una sua cellula, non solo attraversa il film per tutta la sua interezza, estendendosi via via, ma su­ pera largamente i limiti stessi del film, legandosi al destino dell'opera. Basterebbe già questo per parlare di organicità tematica ed emo­ zionale: ma noi vogliamo essere rigorosi anche sotto il profilo forma­ le. Consideriamo quindi attentamente la struttura dell’oggetto. I cinque atti del film, pur legati nella linea generale della fratel­ lanza rivoluzionaria, sono, per il resto, esteriormente ben poco simi­ li. Ma sotto un determinato profilo essi sono assolutamente identici'. ogni parte si divide nettamente in due metà quasi uguali. Lo si può vedere con particolare chiarezza a partire dal secondo atto. Scena del telone - ammutinamento. Lutto per Vakulincuk - adunata di protesta. Fraternizzazione lirica - sparatoria. Angosciosa attesa della squadra - trionfo. Ma non è tutto. Nel punto di «rottura» di ciascuna parte si può osservare una pausa: una sorta di «cesura». Nella terza parte: alcuni piani di pugni chiusi, che permettono al tema del lutto di trapassare in quello della collera. Oppure (quarta parte), la didascalia «improvvisamente» si in­ carica di rompere la scena della fraternizzazione per farla trapassare nella scena della sparatoria. Le canne immobili dei fucili (seconda parte) e le bocche aperte dei cannoni (quinta parte): in entrambi i casi è il grido «Fratelli!» a

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

trasformare il tempo morto dell'attesa nell’esplosione di un senti­ mento fraterno. Si osserverà inoltre che la rottura all’interno di ciascuna parte non si risolve in un mero passaggio a uno stato d’animo diverso, o ad un rit­ mo diverso, o a un avvenimento diverso: si tratta invece, in ogni caso, di una trasformazione nel proprio perfetto contrario. Non un sempli­ ce contrasto, ma propriamente un contrario, poiché, ogni volta, Ìim­ magine (obraz) dello stesso tema viene presentata sotto un profilo oppo­ sto, che tuttavia è prodotto necessariamente da quel tema stesso. L’esplosione della rivolta dopo il punto limite della prostrazione sotto la minaccia dei fucili puntati (seconda parte). O la collera che insorge organicamente dal tema della folla in lutto per l’ucciso (terza parte). O, ancora, la sparatoria sulla scalinata come «conseguenza» organica di rappresaglia nei confronti degli abbracci fraterni tra gli ammutinati del Potèmkin e il popolo di Odessa (quarta parte) ecc. Il carattere unitario di una tale legalità, che si ripete in ogni atto del dramma, è di per sé abbastanza significativo. Ma se noi prendia­ mo in considerazione l’intero oggetto, vedremo che tutto ['ordina­ mento strutturale del Potèmkin vi si conforma. In realtà, grosso modo alla metà, ilfilm è spezzato dal tempo mor­ to di una cesura: l’azione tumultuosa dell’inizio si interrompe del tut­ to, per riprendere nuovo slancio nella seconda metà del film. Il ruolo di una tale cesura, interna all’organismo complessivo del film, è svol­ to dall’episodio della morte di Vakulincuk e delle nebbie di Odessa. Rispetto al film come un tutto, questo episodio assolve la stessa funzione di pausa preliminare alla trasformazione che i piani isolati di cui abbiamo parlato assolvono in rapporto alle singole parti del film. Infatti, proprio a partire da questo momento, e come rompen­ do lo spazio isolato della corazzata in rivolta, il tema fa irruzione al­ l’interno dello spazio dell’intera città: spazio opposto a quello della nave da un punto di vista topografico, e tuttavia unitario dal punto di vista dei sentimenti. Così, gli stivali dei soldati che percorrono la scalinata intervengono a spezzare questa unità, nel momento in cui il tema ritorna di nuovo al dramma in mare. Vediamo così fino a che punto sia organico lo sviluppo progres­ sivo del tema, e, nello stesso tempo, come ['ordinamento strutturale del Potèmkin, che deriva interamente da questo sviluppo tematico, sia lo stesso per l’oggetto nel suo insieme esattamente come per le sue partizioni essenziali. Ciò significa che la legge dell’organicità di ordi­ ne generale vi è integralmente rispettata. Ma spingiamoci più a fon­ 18

SULLA STRUTTURA DEGLI OGGETTI

do, e vediamo se nell'ordinamento strutturale del Potèmkin la legge dell'organicità, oltre a manifestarsi come un principio generale, non mostri anche una precisa conformità rispetto alla formula stessa se­ condo la quale esistono i fenomeni della natura organica. Dobbiamo perciò approfondire la natura di tali leggi, e, successi­ vamente, verificare se la struttura compositiva del Potèmkin corri­ sponde non soltanto ai principi ma anche alle «formule» secondo le quali si realizzano i processi dei fenomeni naturali. L'aver posto il problema in questi termini ci spinge ad affrontare anzitutto la questione delle proporzioni compositive del Potèmkin * ea controllare fino a che punto il ritmo deirordinamento strutturale dique­ ste proporzioni coincida con la ritmica regolarità deifenomeni naturali. Cominciamo dunque col ricordare e definire le «formule» e le forme geometriche che traducono le caratteristiche dei fenomeni or­ ganici della natura, la loro integrità organica e i tratti distintivi del­ l’unità del tutto e delle parti. Per individuare e definire questi tratti distintivi dobbiamo parti­ re dalla condizione fondamentale che distingue la natura organica vivente da tutti gli altri fenomeni. Questa condizione è la crescita. Sa­ rà quindi intorno alla formula della crescita, in quanto tratto distinti­ vo fondamentale dei fenomeni organici, che dovremo concentrare le nostre ricerche. Parliamo intenzionalmente di crescita (rost) e non di evoluzione (razvitie) * perché pensiamo piuttosto all'aspetto evolutivo originario del fenomeno che non alle leggi di sviluppo, la cui curva progressiva è diversa e più complicata. Affronteremo più avanti que­ sto aspetto dell’evoluzione, distinto dalla crescita: lo osserveremo, quale seconda fase dello sviluppo organico, non solo nell’ambito dei fenomeni naturali ma anche nell'ambito di quelli sociali. Qual è dunque la «formula» della crescita, in quanto tratto di­ stintivo primario e tipico della natura organica? Nel campo delle proporzioni ormai accertate che riproducono staticamente la dinamica di questo fenomeno, una tale formula si ca­ ratterizza, secondo la definizione delle scienze estetiche, come «se­ zione aurea». Fermiamoci per un attimo su questa definizione: vedremo, nel corso di una breve digressione, come nella sezione aurea si incrocino la curva effettiva della crescita dei fenomeni naturali e l’immagine matematica che rappresenta l’idea della crescita. Gli studiosi che si sono occupati della ricerca di «formule» o modelli generali di una curva capace di rappresentare l’idea della 19

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crescita organica si sono mossi in due direzioni diverse. Da un lato c’è chi ha seguito la via più semplice: le misure relati­ ve della crescita effettiva degli oggetti della natura organica. Dall’altro c’è chi si è servito di matematiche «pure» al fine di co­ struire una formula capace di rappresentare in un’immagine mate­ matica l’idea del secondo contrassegno fondamentale dell’organici­ tà: il principio dell'unità e dell'indissolubilità del tutto e delle parti componenti. Nel primo caso gli oggetti da misurare erano costituiti dai lembi delle foglie, dalle corolle dei fiori, dalle pigne e dalle teste dei giraso­ le. Questi ultimi, in particolare, si sono rivelati un ottimo terreno d’osservazione: su una testa di girasole, infatti, la traiettoria delle curve di crescita è visibile come su un grafico. Generalizzando i casi particolari, dalla misura e dall’espansione di una curva si può trarre la seguente conclusione: il processo di cre­ scita si svolge secondo un dispiegamento spiraliforme; questa spira­ le, inoltre, ha una rappresentazione logaritmica. Le spirali logaritmiche sono diverse, ma tutte hanno in comune una caratteristica: i vettori disposti in successione nel disegno come OA, OB, OC, OD ecc. formano una progressione geometrica. Il che vuol dire che in una spirale logaritmica avremo sempre la serie:

o/i

ob _ oc

OB " OC " OD " " m quale che sia il valore di m (cfr. Fig. 1). È evidente che ogni spirale logaritmica porta con sé l’immagine

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SULLA STRUTTURA DEGLI OGGETTI

dell’idea di un’evoluzione continua2. Ma è altrettanto evidente che tra tutte le curve possibili, una sola, l’effettiva curva di crescita, sarà quella che collega tra loro i vettori in modo da stabilire (come vuole la seconda condizione dell’organicità) un rapporto ulteriore tra i vet­ tori successivi: propriamente il rapporto che caratterizza l’unità del tutto e delle parti. Su questo punto le due vie della ricerca - la via delle misurazioni concrete e la via della ricerca di un’espressione matematica capace di dar forma all’idea dell’unità del tutto e delle parti - coincidono. Fin dall’antichità ci si era preoccupati dell’espressione matemati­ ca di questa idea. Platone ne aveva dato un modello approssimativo nel rispondere alla domanda: come possono due parti formare un tutto?

Ma non è possibile che due cose sole si compongano bene senza una terza: bisogna che in mezzo vi sia un legame che le congiunga entrambe. E il più bello dei legami è quello che faccia, per quanto è possibile, una cosa sola di se e delle cose legate: ora, la proporzione compie questo in modo bellissimo. Perché quando di tre numeri o masse o potenze quali si voglia­ no, il medio sta all’ultimo come il primo al medio, e d’altra parte ancora il medio sta al primo come l’ultimo al medio, allora il medio divenendo primo e ultimo, e l’ultimo e il primo divenendo medi ambedue, così di necessità accadrà che tutti siano gli stessi, e divenuti gli stessi tra loro saranno tutti una cosa sola (Platone, Timeo, vii).

Se inoltre conveniamo che il numero maggiore coincide altresì col tutto, cioè con la somma del medio e del minore, otteniamo una formula in cui è espressa compiutamente l’idea del legame tra il tut­ to e le parti, le quali saranno rappresentate da due frazioni la cui somma compone il tutto. Ma a ben guardare una tale condizione non definisce nient’altro che quella «parte media del segmento proporzionale tra l’intero seg­ mento e la parte rimanente del segmento stesso» che abbiamo impa­ rato a conoscere sui banchi di scuola; o, in altri termini, ciò che chia­ miamo sezione aurea. «Sectio aurea»: così Leonardo da Vinci denominò questa parti­ zione. A lui, che ne definì le proprietà, va il posto d’onore all’interno della folta tradizione di ricercatori e di curiosi che dall’antichità ai 1 F'iinno eccezione i casi in cui la spirale si convene in un cerchio, in un punto o in una li­ nea retta, con. rispettivamente: OB = OA; OB = 0; OB =

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

nostri giorni si sono dedicati ai problemi affascinanti della sezione

aurea. La sua proprietà è proprio quella che stiamo cercando anche noi.

Il professor Grimm (La proporzione in architettura, Mosca 1935, p. 33) scrive nel «Bilancio delle proprietà eccezionali della sezione

aurea»:

2 . Tra le partizioni possibili di un tutto, la sezione aurea è la sola a *sta bilire un rapporto costante tra il tutto e le parti; soltanto per essa i due membri precedenti’ sono completamente dipendenti dal valore *fondamen tale definito dal tutto. Inoltre, il loro rapporto reciproco e con il tutto non è fluttuante ma costante, pari a 0,618... quale che sia il valore del tutto.

Raggiungiamo cosi, senza dubbio, il punto di massima approssi­ mazione di uno schema matematico rispetto alla condizione dell’uni­ tà organica del tutto e delle parti. Quella stessa condizione che He­ gel definisce in alcune pagine della sua Enciclopedia utilizzate poi da Engels nella Dialettica della natura-. Si dice, in verità che l’animale è composto di ossa, muscoli, nervi ccc. È evidente, tuttavia, che ciò non è detto nello stesso senso in cui si dice che un pezzo di granito è composto di sostanze summenzionate. Tali sostanze sono perfettamente indifferenti alla loro unione e possono altrettanto bene consistere al di fuori di questa; le membra e le diverse parti di un corpo or­ ganico, al contrario, non sussistono che nella loro unione, e, .separate le une dalle altre, cessano di esistere come tali (Hegel, Opere, voi. u, Socekgiz, Mosca 1930, p. 215).

Membra e organi di un corpo non sono da considerare come semplici parti, perché essi sono quel che sono soltanto nella loro unione e non sono assolutamente indifferenti rispetto a questa. Membra e organi diventano mere parti solo sotto la mano dell’anatomista, ma costui non ha più a che fare con corpi viventi ma con cadaveri (ibid., p. 227). A questo punto vien fatto di porsi il seguente problema: che rap­ porto c’è tra la sezione aurea, in quanto perfetta rappresentazione (obraz) matematica dell’unità del tutto e delle parti, e la spirale loga­ ritmica, in quanto perfetta rappresentazione lineare del principio del­ l’evoluzione regolare in generale? 5 Cioè le due parti componenti il tutto.

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Si tratta di un rapporto di strettissima affinità: la spirale logarit­ mica, che tra tutte le possibili spirali è Tunica che non solo produce un’immagine del principio generale dell’evoluzione, ma traduce an­ che in immagine il processo di crescita effettiva dei fenomeni naturali, è anche quella i cui rapporti OA OB OB * OC

OC OD

ecc. sono pari a 0,618...,

il che significa che per ogni AC, BD ecc. gli OB, OC ecc. corrisponden­ ti rappresentano il maggiore dei due segmenti tagliati dalla sezione au­ rea. Vediamo così che la nostra curva, presente di fatto in tutti i feno­ meni di crescita e parimenti valida per la sezione di un tronco d’al­ bero come per la voluta del guscio di una conchiglia, per la struttura di un corno animale come per la sezione di un osso umano, questa curva, dunque, fa tutt’uno con la straordinaria immagine plastica dell’idea della crescita, e ciascuno dei suoi vettori, quali O/l, OB, OC, si trova nel rapporto proporzionale che più si approssima al­ l’immagine matematica dell’unità del tutto e delle parti. Dunque, nei tracciati e nelle proporzioni dell’universo matema­ tico si manifesta l’idea dell’organicità, la quale coincide altresì, nei suoi contrassegni specifici, con i processi effettivi della natura orga­ nica. In conclusione: nel dominio delle proporzioni, Inorganico» si identifica con le proporzioni della sezione aurea. Questa digressione è senza dubbio affascinante. Si tratta tuttavia di un argomento troppo specialistico perché ci sia consentito soffer­ marci più dettagliatamente sui problemi che pone. D’altronde, per il nostro tema ci interessano soprattutto le conclusioni: diciamo allora che la ricerca di una condizione organica delle proporzioni di due segmenti di una linea - sia nel rapporto dell’uno con l’altro, sia nel rapporto di entrambi con l’intera linea - richiede che la divisione di tale linea passi per il punto definito dalla sezione aurea. La sezione aurea consiste nella divisione dell’intera linea in due componenti, dei quali il minore stabilisce col maggiore lo stesso rapporto che il maggio­ re stabilisce con l'intero. Espressa numericamente, la proporzione delle distanze del punto

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

definito dalla sezione aurea rispetto alle due estremità della linea si concretizza in approssimazioni successive secondo la serie: 2/3, 3/5, 5/8,8/13, 13/21 ecc., oppure nel numero irrazionale 0,618... riferito al segmento maggiore, in rapporto all'intero assunto come unità. L'ordinamento strutturale degli oggetti composti secondo le proporzioni della sezione aurea esercita nell'arte un’efficacia ecce­ zionale perché suscita il sentimento di una compiuta organicità. I più bei monumenti della Grecia e del Rinascimento si confor­ mano a un tale procedimento costruttivo. La stessa cosa si può dire per le più interessanti opere d’arte figurativa. Nel campo delle arti plastiche in generale la sezione aurea e il suo impiego nella composi­ zione godono di un larghissimo consenso. È perfettamente chiaro che a fondamento di un potere così spe­

cifico ed eccezionale non c’è nulla di «mistico». Ci siamo sforzati di mostrare in modo sufficientemente circostanziato le ragioni sostan­ ziali dell’effetto di organicità che si produce in noi, con una profon­ da risonanza, di fronte a una simile regolarità: il fatto è che, se non proprio nello spirito, almeno in tutte le fibre del nostro organismo, noi stessi coincidiamo, sotto il profilo della più semplice delle leggi di movimento - la crescita -, con ciò che l’opera ci mostra. Un tempo il «vincolo di sangue» tra l’uomo e l’edificio da innal­ zare si stabiliva fisicamente, attraverso le spoglie cruente di una vitti­ ma umana che veniva sotterrata nel luogo in cui sarebbe sorto il tem­ pio o il muro di cinta. Ma a partire dai greci il vincolo di sangue si spostò dal piano della fisicità - ossa e carne umana - al piano della regolarità delle leggi unitarie e comuni cui si conformano, non meno del corpo vivente dell’uomo, gli stessi capolavori insuperati dell’ar­ chitettura greca, le cui proporzioni furono stabilite sul fondamento della sezione aurea. Si è già detto che i problemi della sezione aurea sono stati studia­ ti e precisati soprattutto nell’ambito delle arti plasitiche. Nelle ani temporali, invece, hanno avuto uno sviluppo nettamente inferiore, benché vi si possano rintracciare, con ogni probabilità, campi di ap­ plicazione infinitamente più vasti. Qualcosa è stato fatto, comunque, nel campo della poesia. L’analisi di questo problema, che implica anche un rapporto con la struttura delle opere musicali, mi è nota soprattutto attraverso i lavo­ ri incompiuti o inediti di E.K. Rozenov [10], che rintraccia nella mu­ sica un’altissima percentuale di cesure che «cadono giusto» sulla se­ zione aurea.

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SULLA STRUTTURA DEGLI OGGETTI

In poesìa gli esempi sono innumerevoli. Nell’opera di Puskin, in particolare, ne troviamo a profusione. Ne propongo qui due, presi a caso tra quelli che preferisco: si tratta dei più espliciti, dato che il luogo «giusto» della sezione aurea è marcato dal segno di un arresto completo: un punto. L’unico punto interno al verso si trova nel luo­ go in cui passa la sezione aurea. Il primo esempio è tratto dal secondo canto di Ruslan e Ljudmila:

A

Tal dalla mia capanna vidi talor, correndo i giorni estivi, mentre una pavida gallina, sultano altero del pollaio, il mio galletto seguitava giù per la corte, e già abbracciava l’amica d’ali voluttuose, su loro con accorte ruote, ben noto ladro di pulcini, nel suo ferale intendimento un grigio nibbio volteggiare t e come il lampo indi piombare. S’è alzato, va. // Nei crudi artigli ai suoi sicuri cretti bui ’ tregge la misere il ribaldo. È vano ormai che desolato c colto di fredda paura chiami il galletto mio l’amata... soltanto vede errante piuma da vento errante esser portata [11].

La sezione aurea passa per il tredicesimo verso (su venti) e di­ vide il pezzo in due masse di materiali verbali, la maggiore delle quali è pari esattamente allo 0,62 del volume totale (sezione aurea: 0,618...). Il contenuto dimostra che in questo stesso punto passa la linea della divisione tematica della massa verbale in due parti. Ciò di­ mostra, tra l’altro, che la sezione aurea non è un astratto «gioco in­ tellettuale», ma è profondamente legata al contenuto. Il suo modo, nettissimo, di emergere si nota in questo: che in tutto il passo citato si tratta dell’unico verso interrotto dal segno di un «arresto comple­

to»: un punto. Secondo esempio:

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LA. NATURA NON INDIFFERENTE

A

B

A cavallo, nella solitudine delle nude steppe il re e l’etmano corrono ambedue. Fuggono. //La sorte li ha congiunti. L’imminente pericolo e la rabbia A2 danno forza al re. La sua grave ferita egli ha scordato. // A capo chino 1 Bi galoppa, dai russi incalzato, J e i fedeli servitori in turba ì g appena possono seguirlo [ 12]. ) 2

Ai

La sezione aurea fondamentale cade dopo le parole «egli ha scordato». A : B = 6:4; più esattamente, 6,25 : 5,75. Con lo stesso grado di approssimazione le masse A e B sono divi­ se internamente in base alla sezione aurea. La partizione di tutta la massa e quella interna alla massa A è segnalata da due arresti com­ pleti: i punti. Anche qui si tratta del solo caso in cui il punto compa­ re all"interno del verso. Dopo la parola «servitori», che divide secondo la sezione aurea la massa B, non troviamo un punto ma un’accentuazione puramente intonazionale che sorge obbligatoriamente durante la lettura e deter­ mina un’interruzione corrispondente (una sorta di «punto virtuale») davanti alla parola successiva. Ho scelto due esempi distanti nel tempo (1817-1820 c 1829) per dimostrare che l’opera di Puskin è caratterizzata dalla presenza di tali elementi «organici» anche in tempi diversi. Nelle opere d’arte cinematografica una «verifica» secondo la se­ zione aurea non sembra esser stata mai fatta. La cosa appare tanto più sorprendente quando si pensi che il Potèmkin, empiricamente ben noto per {’«organicità» della sua struttura, è stato interamente costruito secondo la legge della sezio­ ne aurea. Non è a caso, infatti, che più sopra abbiamo detto che la divisio­ ne in due del film e di ciascuna delle sue parti si collocava grosso mo­ do al centro. In realtà la divisione si avvicina alla proporzione 2:3, che rappresenta la riformulazione più schematica della sezione au­ rea. Proprio sullo spartiacque definito dal rapporto 2 : 3, tra la fine della seconda parte di questo film in cinque atti e l’inizio della ter­ za, troviamo la cesura fondamentale: il punto zero dell’arresto della azione.

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Ma si può essere ancora più precisi, perché il tema della morte di Vakulincuk non interviene all’inizio della terza parte, ma alla fine del­ la seconda, aggiungendo così quello 0,18 che manca ai sei punti della re­ stante parte del film e raggiungendo il risultato di 0,618, che è, come sappiamo, l’esatta proporzione corrispondente alla sezione aurea. Nel­ lo stesso modo, secondo una proporzione analoga, sono collocati gli al­ tri punti di cesura, ovvero il segmento OB nelle diverse parti del film. Ma la cosa più interessante, in tutto questo, è, probabilmente il fatto che la legge della sezione aurea appare osservata dal Potèmkin non solo per il punto zero del movimento, ma anche per il punto cul­ minante, che corrisponde all’inquadratura della bandiera rossa issata sull’albero della corazzata. Ebbene, questa bandiera rossa è issata proprio... sul punto della sezione aurea! Solo che questa volta la se­ zione aurea è calcolata a partire dall'altro capo del film: nel punto 3:2 (vale a dire sullo spartiacque tra le tre prime parti del film e le al­ tre due, alla fine della terza parte. Si determina anche, in tal modo, un passaggio alla quarta, perché la bandiera compare ancora all’ini­ zio della quarta parte). Così, non solo ciascuna parte del Potèmkin, ma il film intero, os­ serva rigorosamente nei suoi due momenti culminanti - punto di to­ tale immobilità, punto di massimo slancio - la legge della sezione au­ rea, la legge strutturale dei fenomeni organici della natura4. Ecco il segreto della sua organicità compositiva, e, insieme, la conferma dei principi generali di composizione che abbiamo enun­ ciato all’inizio. Ma per trasformare definitivamente queste ipotesi sulla compo­ sizione in vere e proprie «norme di composizione», dobbiamo anco­ ra effettuare l’analisi del secondo carattere fondamentale della Co­ razzata Potèmkin’. il problema del pathos e dei mezzi compositivi che consentono di trasformare il pathos del tema nel pathos della rap­ presentazione visiva.

Prima di affrontare il problema del pathos, tuttavia, osserviamo che il Potèmkin non è il solo a presentare momenti di apogeo e di «controapogeo» che coincidono con il punto della sezione aurea, calcolato una volta a partire dall’inizio, l’altra a partire dalla fine. "* È probabile che a questa stessa condizione vada riportata la caratteristica dell) tragedia che, come abbiamo ricordato più sopra, tende alla divisione in cinque atti: in questo caso spet­ ta agli interi atti il compito di manifestare, nelle proporzioni più organiche (2 : 3 e J : 2>. la par­ tizione dell'intero materiale.

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Sotto questo profilo il Potèmkin non è qualcosa di unico, perché nell'ambito di un qualsiasi dominio artistico contiguo è possibile tro­ vare numerosi esempi di due punti nodali della composizione che coincidono entrambi con i punti della sezione aurea. Anche in questi casi tali punti sono calcolati nello stesso modo, procedendo cioè dal­ le due estremità della massa fondamentale che ne risulta divisa. Prendiamo dalla pittura un esempio di tale «duplice sezione au­ rea». Un esempio tanto più interessante in quanto appartiene al­ l’opera di un difensore eminente e indiscusso dell’orientamento rea­ listico in pittura. D semplice fatto che il nostro esempio sia tratto proprio dal­ l’opera di questo pittore potrà smentire i pregiudizi secondo cui al realismo basterebbe adeguarsi alla verità delle cose, respingendo ogni rigore compositivo nell’esecuzione come qualcosa di inessen­ ziale o addirittura dannoso! L’analisi delle opere dei veri maestri del realismo ci dice tutt’al­ tro.

Essi erano impegnati nei problemi della composizione non meno instancabilmente che nei problemi della verità della vita, perché la verità, quando è sentita fino in fondo ed espressa secondo questo sentimento, si manifesta solo attraverso il dispiegamento di tutti i mezzi di cui l’autore dispone. Ma di questo abbiamo già parlato a lungo e dettagliatamente. Passiamo all’esempio. Si tratta del quadro Bojarynja Morozova. Autore: V.I. Surikov [13]. Un pittore e un quadro di cui Stasov [14] (nel 1887) elogiava la veridicità: «Surikov ha dipinto un quadro che rappresenta, io credo, il primo esempio di una pittura che ha per soggetto la storia russa. Il senso di verità, il senso di storicità che il quadro di Surikov ci tra­ smette sono stupefacenti». D’altronde - ma in stretto rapporto con tutto ciò - lo stesso Su­ rikov descriveva la sua permanenza nell’Accademia con queste paro­ le: «Mi occupavo principalmente di composizione. Tanto che mi avevano soprannominato “il compositore”: passavo il tempo a stu­ diare la naturalezza e la bellezza della composizione. A casa mi pone­ vo dei problemi e li risolvevo». Per tutta la vita Surikov è rimasto quel «compositore». Ogni suo quadro ne è una conferma vivente. E la più lampante è proprio Bojarynja Morozova. Un quadro in

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cui l’armonia compositiva di «naturalezza e bellezza» si impone, cre­ do, con magnifica evidenza. Ma che altro è questa «unione di naturalezza e bellezza» se non l’«organicità» nel senso che abbiamo dato più sopra a questo concet­ to? Ma, se si tratta davvero di organicità, allora bisogna... cercare la sezione aurea nelle proporzioni! Lo stesso Stasov parla della bojarynja Morozova come di una «solista» nel mezzo di un «coro». La «partitura» centrale spetta alla bojarynja. Il suo ruolo si fa sentire nella parte centrale del quadro. Chiusa com’è tra il punto della massima ascesa e il punto di caduta più basso del soggetto del quadro. Il primo è lo slancio della mano della Morozova che traccia il segno della croce con due dita. L’altro è il gesto di una mano impotente, tesa verso la bojarynja: la mano di una vecchia mendicante che si lascia sfuggire, con l’ultima speranza di salvezza, l’estremità della slitta. Si tratta dei due punti drammaturgici centrali del «ruolo» della bojarynja Morozova: il punto «zero» e il punto di massimo slancio. L’unità del dramma è in qualche modo perimetrata a partire da questi due punti che si saldano sulla diagonale centrale la quale, a sua volta, determina la struttura fondamentale del quadro. Certo, es­ si non coincidono esattamente con la diagonale: ma proprio qui sta la differenza tra la vitalità del quadro e l’arido schema geometrico. Lo slancio nei confronti della diagonale e le connessioni che i due punti vi stabiliscono sono tuttavia evidenti. Tentiamo ora di definire spazialmente quali altre sezioni decisive passano in prossimità di questi due punti del dramma. Un piccolo lavoro di schematizzazione geometrica (cfr. Fig. 2) ci mostrerà che i due punti del dramma delimitano due sezioni vertica­ li che passano a 0,618... rispetto ai margini della tela rettangolare. Il «punto più basso» coincide perfettamente con la sezione AB, distante 0,618... dal margine di sinistra. E che cosa succede per il «punto culminante»? A prima vista sembra che ci troviamo di fronte a una contraddizione: la sezione A(B|, distante 0,618... dal margine destro del quadro, non passa per la mano della bojarynja, e nemmeno per la sua testa o per il suo oc­ chio, ma si trova appena un po’ più avanti rispetto alla sua bocca! Dunque si potrebbe dire che questa sezione decisiva, questo luogo di massimo richiamo dell’attenzione, passa nell’aria, nel vuoto, da­ vanti alla bocca. 29

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1IG. 2.

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Davanti alla bocca, d'accordo. Nell’aria, d’accordo. Ma tutt’altro che d’accordo sul fatto che passi «nel vuoto». Tutt’al contrario! In realtà la sezione aurea coincide col luogo veramente più im­ portante. E l’inatteso, qui, sta in questo: che la cosa più importante è inesprimibile con mezzi plastici. La sezione aurea A,B|, passa per le parole appena sorte dalle lab­ bra della bojarynja. L’essenziale, dunque, non sta nelle mani, negli occhi ardenti o nella bocca: sta nelle parole infuocate da un convincimento fanatico. In queste e in queste soltanto si trova la vera forza della Morozova. È ancora una volta Stasov a scrivere di lei che «Awakum, il capo

dei fanatici di quei tempi, la definiva “un leone in mezzo alle pecore”». Tuttavia, una mano può essere raffigurata; un occhio può essere raffigurato; un volto può essere raffigurato. Ma non la voce. Che fa, allora, Surikov? Nel luogo in cui deve sorgere questa vo­ ce «plasticamente irrappresentabile» non dipinge alcun particolare capace di attirare l’attenzione dell’osservatore, e tuttavia costringe questa attenzione ad indugiare con la massima intensità ed emotività proprio in quel luogo. Là, infatti, si trova il punto di intersezione plasticamente non rappresentato - delle due frazioni di spazio che determinano la composizione e guidano e orientano l’occhio sulla superfìcie del quadro: la linea della diagonale fondamentale della composizione e la linea che passa per la sezione aurea. Così, serven­ dosi di una partizione compositiva, Surikov lavora oltre i limiti della narrazione plastica strettamente figurativa, facendoci sentire qualco­ sa che i mezzi della raffigurazione plastica sarebbero incapaci di mo­ strare! L’attenzione si concentra non solo sulla bojarynja Morozova, non solo sul suo volto, ma anche, in qualche modo, sulle stesse paro­ le dell’esortazione appassionata che sorgono dalle sue labbra. Come ben si vede, il punto culminante e il punto più basso proprio come nel Potèmkin - sono entrambi collocati sugli assi della sezione aurea. Ma l’analogia può essere portata ancora più a fondo. Abbiamo appena scoperto che nel «punto di massimo slancio» Surikov ottiene un passaggio da una dimensione a un’altra. In questo punto infatti troviamo un irrappresentabile elemento sonoro. Qualcosa di strettamente analogo si produce nel «punto di mas­

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simo slancio» del Potèmkin: in quel punto infatti fa la sua comparsa la bandiera rossa, in quel punto la gamma nero-grigio-bianco della fotografìa compie improvvisamente un balzo in un’altra dimensione» raggiunge la colorazione, il colore. L’immagine in bianco e nero di­ venta a colori. Ricordiamoci di questo fatto sul quale torneremo, e volgiamoci, per il momento, al problema dell’analisi dei principi del pathos, ac­ cordando tutta la nostra attenzione a questo genere di fenomeni.

Non ci proponiamo qui di approfondire la natura del pathos «in quanto tale». Ci limiteremo a esaminare l’opera patetica dal punto di vista della percezione dello spettatore, o, più esattamente, dell’azio­ ne che essa esercita sullo spettatore. Considerando le caratteristiche di questa azione, dovremo anche definire i tratti specifici che inter­ vengono nella costruzione di una composizione patetica. Studiere­ mo poi questi tratti nell’esempio che ci interessa e non ci neghere­ mo, infine, il piacere di concludere con qualche osservazione di or­ dine generale. Riassumiamo innanzitutto l’azione esercitata dal pathos, utiliz­ zando intenzionalmente la descrizione più semplice e banale. Potre­ mo così coglierne i tratti distintivi salienti. Cominciamo con la semplice descrizione dei segni superficiali del comportamento esteriore di uno spettatore dominato dal pathos. Si tratta in realtà di segni talmente sintomatici, che ci troveremo già nel cuore del problema. In base a tali segni, il pathos si definisce come qualcosa che costringe lo spettatore a balzare in piedi dalla sua sedia. Qualcosa che lo spinge a spostarsi, a gridare, ad applaudire. Qualcosa che gli fa brillare gli occhi di gioia prima di spargere lacri­ me di entusiasmo. In una parola: tutto ciò che costringe lo spettatore a «uscire da se stesso». Volendo usare una parola più bella, potremmo dire che l’azione patetica di un’opera consiste nel portare lo spettatore in uno stato di estasi. Ma con una tale formula non avremmo aggiunto nulla a quan­ to appena detto, perché ex-stasis equivale letteralmente al nostro «essere fuori di sé» o «uscire dallo stato abituale». Tutti i segni descritti più sopra corrispondono perfettamente a questa formula. Chi era seduto s’è alzato. Chi stava in piedi ha sob­

balzato. Chi era fermo s’è mosso. Chi taceva ha gridato. Lo smorto è diventato lucente. Il secco è diventato umido. In tutti i casi si è pro­ dotta un’«uscita dallo stato abituale», un’«uscita da sé».

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Ma c’è dell’altro: «uscire da sé» non è «uscire nel nulla». Uscire da se stessi implica necessariamente il passaggio a qualcosa d’altro, a qualcosa di qualitativamente diverso o contrario rispetto a quel che precedeva (l’immobile si muove, il muto parla ecc.). Così, anche la descrizione più superficiale dell’effetto estatico prodotto da una costruzione patetica ne mette chiaramente in evi­ denza il contrassegno essenziale. In una tale costruzione tutti i segni caratteristici debbono conformarsi alla condizione dell’«uscita da sé» e del trapasso continuo in una qualità diversa. Uscire fuori da se stessi, rompere l’equilibrio della condizione abituale, raggiungere un nuovo stato: tutto ciò, in definitiva, appar­ tiene ai mezzi con cui l’arte esercita l’azione di commuovere e avvin­

cere. Sarebbe possibile classificare le opere d’arte a seconda del grado di intensità con cui raggiungono questo effetto. Avremmo così una scala sulla quale le costruzioni patetiche dovrebbero occupare il gra­ dino più alto. D’altra parte, tutti gli altri modi di composizione di opere d’arte potrebbero essere considerati come derivati secondo una scala de­ crescente rispetto al caso limite del massimo di «uscita da sé», rap­ presentato dalle costruzioni di tipo patetico. Non ci si allarmi per il fatto che, parlando del pathos, non ho neppure sfiorato, fin qui, il problema del tema e del contenuto. In realtà qui non si tratta del contenuto patetico in generale, ma dei procedimenti che permettono di ottenere il pathos nella composizio­ ne. Uno stesso fatto può essere presentato in un’opera d’arte nelle forme più diverse: dal freddo resoconto protocollare del contenuto fino al più acceso inno patetico. Ciò che qui ci interessa è il partico­ lare trattamento artistico capace di innalzare la «risonanza» del fatto fino al livello del pathos. Certo, il dato fondamentale sarà pur sempre rappresentato dal­ l’atteggiamento dell’autore nei confronti del contenuto. Ma la com­ posizione, nel senso in cui ne stiamo trattando, è precisamente il pri­ mo procedimento costruttivo per mezzo del quale comincia a porsi in opera Ìatteggiamento dell’autore nei confronti del contenuto. Quello stesso atteggiamento che sarà poi assunto anche dallo spettatore. Ecco il motivo per cui, in questa sede, non ci interessiamo al pro­ blema della «natura» patetica, sempre socialmente condizionata, di questo o quel fenomeno. E neanche ci soffermiamo sulla natura del­ l’atteggiamento patetico dell’autore nei confronti di un determinato 33

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fenomeno perché, com'è del tutto evidente, anche questa è social' mente condizionata. Ci interessa invece (pur tenendo presente quan­ to appena detto) il problema particolare dei procedimenti strettamente compositivi capaci di porre in opera un tale «atteggiamento» nei confronti della «natura dei fenomeni» nel contesto di una costru­ zione patetica. Così, rispettando le premesse che abbiamo già giustificato trat­ tando del problema dell’organicità, diremo che per ottenere dallo spettatore un massimo di «uscita da sé» gli si dovrà presentare nel­ l’opera un «modello» corrispondente, seguendo il quale egli possa pervenire alla condizione voluta. Il «prototipo» più semplice di una tale condotta imitativa sarà naturalmente quello di presentare sullo schermo qualcuno che si comporta in modo estatico: un personaggio dominato dal pathos che, in un modo o nell’altro, «esce da se stesso». In questo caso la struttura coincide con la rappresentazione. E l’oggetto della rappresentazione - il comportamento del personaggio - si accorda da solo alle condizioni della struttura «estatica». Pren­ diamo per esempio le caratteristiche del discorso: nella sua forma abituale esso è disorganizzato, ma, sottoposto a un processo di patetizzazione, acquista subito il carattere di un ritmo percettibile; pur essendo non solo prosaico ma anche prosastico nelle sue forme, esso comincia a caricarsi delle particolarità e dei procedimenti propri del­ la poesia (metafore inattese, rilievo espressivo dell’immagine ecc.). Qualunque sia il contrassegno su cui ci soffermiamo - riguardi cioè il discorso o altre manifestazioni del comportamento dell’uomo -, vi troveremo comunque questo passaggio di una qualità in una qualità nuova. Ma si tratta, come abbiamo detto, del primo gradino della scala di possibilità offerte alla composizione. Più complesso ed efficace è il caso in cui, «uscendo dai limiti» dell’uomo, si voglia costruire una fondamentale condizione estatica lavorando sull’ambiente che cir­ conda il personaggio, rappresentandolo in un’analoga condizione «di frenesia». Shakespeare ce ne offre un esempio classico: la «frene­ sia» di Lear, che oltrepassa i limiti del personaggio per farsi frenesia della natura: la tempesta... L’«uscire da sé», il passare in una dimensione nuova per suscita­ re un effetto di pathos è una caratteristica del tutto generale del­ l’opera di Shakespeare. Basterebbe solo ricordare quel tipico esempio di «patetizzazio34

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ne» che si trova nelle parole di Claudio che «beve alla salute» levan­ do la coppa in onore di Amleto nella scena del duello con Laerte: Il re berrà alla lena di Amleto, che non gli manchi; e getterà nella coppa la perla più ricca tra quelle che quattro re hanno portato successivamente sulla corona di Danimarca. Datemi le coppe; e fate che il tamburo dica alla tromba, e la tromba agli artiglieri là di fuori, e i cannoni ai cieli, e il cielo ri­ lanci alla terra (’annuncio: «Ora il re beve alla salute di Amleto». A voi! (Amleto, atto v, scena n).

Il «metodo» del pathos viene qui messo a nudo fin quasi al «pro­ cedimento» (priém). E la cosa appare pienamente giustificata se si pensa che il re leva la coppa alla salute di qualcuno che è già condan­ nato a morire per la più piccola scalfittura che potrà riportare, du­ rante il duello, dalla spada avvelenata! La tirata patetica del re, quindi, è tutt’altro che uno slancio di sentimenti sinceri: è un’enunciazione costruita con intenzionale tec­ nicismo in base alla «ricetta» del discorso patetico! Qui, il procedimento messo a nudo e la scelta interessata dei mezzi esprimono piuttosto ciò che gli inglesi definiscono «bathos», per differenziarlo, nella sua eccessiva ampollosità, dal pathos. Tanto meglio per noi: in una forma così pesante e, per così dire, «doppiamente sottolineata», ci viene presentato il metodo con cui lo stesso Shakespeare costruiva il pathos5. Non dimentichiamo che anche nei momenti di massima tensio­ ne delle sue tragedie, Shakespeare rimane sempre fedele a questo metodo. Così, egli passa dalla lingua inglese a quella latina nell’esclama­ zione: «Anche tu, Bruto!» («Et tu, Brute!») posta sulle labbra di Giulio Cesare morente sotto le pugnalate dei congiurati ai piedi del­ la statua di Pompeo. È possibile trovare esempi altrettanto convincenti, e risolti su materiali del tutto abituali, nei naturalisti della scuola di Zola, e, in­ nanzitutto, nello stesso Zola. In Zola gli ambienti descritti, i partico­ lari che li compongono e le diverse fasi degli avvenimenti in ciascuna scena isolata sono regolarmente scelti e rappresentati in modo da trovarsi fisicamente e costitutivamente in una condizione che implica * Troveremo più avanti, nella seconda parte di questo lavoro, un esempio analogo a que­ sto nella descrizione della maniera un po' enfatica della recitazione patetica del grande Frederick Lemaitre.

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una struttura patetica. Questo è vero in generale per le sue strutture compositive, ma diventa particolarmente evidente quando Zola rag­ giunge il pathos o innalza al livello del pathos avvenimenti che, in sé, non hanno nulla di patetico. In questi casi la legalità strutturale indispensabile alla scena non compare negli elementi puramente compositivi - nel ritmo della pro­ sa, o nel sistema delle immagini e delle metafore o nell’ordinamento strutturale complessivo della scena - ma direttamente negli avveni­ menti e nei personaggi, come se, guidati dalla bacchetta dell’autore, questi conformassero il proprio comportamento a quella formula strutturale. La cosa caratterizza a tal punto la maniera di Zola che potremmo considerarla come un procedimento specifico del metodo della scuola naturalistica. In questo caso particolare, dunque, un valore prioritario è accor­ dato aIla scelta di fenomeni che, di per sé, fluiscono estaticamente, ov­ vero, di fenomeni che si trovano nella condizione deU’«esser fuori di sé» perché la descrizione li coglie proprio in questi momenti. A questo metodo se ne accompagna un altro che è già un proce­ dimento rudimentale di composizione: i fenomeni così rappresentati vengono disposti tra loro in modo che ciascuno in rapporto all’altro manifesti una sorta di passaggio da un’intensità a un’altra, da una «di­ mensione» a un’altra. Solo in terzo e ultimo luogo la scuola naturalistica traduce talvol­ ta queste condizioni in elementi puramente compositivi: troviamo così un’analoga progressione nell’ambito dei mutamenti ritmici della prosa, nella natura del linguaggio, nella struttura generale di un epi­ sodio o di una concatenazione di episodi. Storicamente, questo tipo di lavoro riguarda piuttosto le scuole che si sono succedute a quella «naturalistica»: appassionate da que­ sto aspetto del problema, esse lo hanno sviluppato, sacrificando a volte quella solida corposità «alla Rubens» così caratteristica di Zola. Ma ora possiamo di nuovo rivolgerci all’oggetto centrale del no­ stro, studio: «la scalinata di Odessa». Vediamo secondo quale ordinamento strutturale vi sono rappre­ sentati e concatenati gli avvenimenti. Diamo innanzitutto per scontato lo stato di agitazione frenetica dei personaggi e delle masse, e cerchiamo di rintracciare quel che ci serve a partire dai segni della struttura e della composizione. Soffer­ miamoci, in particolare, sulla linea del movimento. 36

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Prima ce un caotico affollarsi di figure in primo piano. Poi, figu­ re che corrono, caoticamente, in campo lungo. Quindi il caos del movimento si trasforma nella cadenza martel­ lante dei piedi dei soldati che scendono ritmicamente lungo la scala. La cadenza si fa più rapida. Il ritmo cresce. Ed ecco che la crescita del movimento verso il basso si rovescia di colpo in un movimento contrario: verso l’alto. Il vertiginoso movi­ mento della massa verso il basso della scalinata si trasforma nel movi­ mento lento e solenne della figura solitaria, della madre che sale con il figlio ucciso tra le braccia. La massa. Vertiginosamente. Verso il basso. E improvvisamente: Una figura solitaria. Lenta e solenne. Verso Paltò. Ma è solo un attimo. E, di nuovo, il rovesciamento del movimen­ to discendente. Il ritmo cresce. La cadenza si fa più rapida. A un tratto, il tempo delia corsa della folla passa in un ordine di ve­ locità più avanzato: la carrozzella che precipita lungo la scalinata. L’idea del «rotolare in giù» viene portata così in un’altra dimensione: si pas­ sa dal «rotolare» inteso «figuratamente» a qualche cosa che rotola difat­ to e fisicamente. Non si tratta solo di una differenza di grado nella ca­ denza, ma di un vero e proprio salto, dal figurato al fìsico, nel metodo di rappresentazione di ciò che è contenuto nell’idea di «rotolare in giù». I primi piani trapassano in un campo lungo. 11 movimento caotico (della massa) nel movimento ritmico (dei soldati). Un aspetto della velocità del movimento (la massa che «rotola» verso il basso) trapassa nella dimensione successiva dello stesso tema della velocità (la carrozzella che rotola lungo la scalinata). Il movimento verso il basso, nel movimento verso l’alto. I molti spari di molti fucili, nell’wff/a? colpo di uno solo dei can­ noni della corazzata. Un passo dopo l’altro, un salto da una dimensione a un’altra, da una qualità a un’altra. Il discorso non vale soltanto per un episodio isolato (la carrozzella), ma per tutto il metodo di esposizione degli av­ venimenti che, nel suo complesso, compie un analogo salto abban­ donando il modello narrativo (povestvovatel'nyi) e assumendo un modello strettamente figurativo (obraznyf) nella sequenza dei leoni ruggenti (che si ergono). La prosa ritmica visiva si trasforma in di­ scorso poetico visivo. 57

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Come si vede, ai gradini della scalinata lungo i quali l’azione pre­ cipita rapidamente verso il basso, corrisponde rigorosamente il pas­ saggio per gradi da una qualità a un’altra lungo una scala ascendente per ampiezza e per intensità6. Così il tema del pathos, che si svolge di fatto nell’avvenimento della sparatoria sulla scalinata, attraversa altresì da parte a parte la struttura fondamentale che ordina plastica­ mente e ritmicamente l’avvenimento7. L’episodio della scalinata è qualcosa di unico nel suo genere? Si discosta dal modello generale della costruzione? Niente affatto. Solo che i tratti caratteristici del metodo vi raggiungono un massimo di intensità; come d’altronde l’episodio stesso, che rappresenta l’apice tragico dell’intero film. Ma non basta: il nostro modello compositivo si presta ad un’ap­ plicazione ulteriore e del tutto imprevista per un film muto. Ho scritto una volta che nella pratica e nei problemi del cine­ ma sonoro io ho fatto un po’ la figura dell’ultimo arrivato: sono sta­ to il più giovane tra i registi del sonoro e vi sono arrivato dopo tutti gli altri. Ma a guardare le cose più da vicino questa ammissione non ap­ pare più tanto esatta. Il mio primo lavoro sul film sonoro risale al... 1926. E ancora una volta riguarda il Potèmkin. Com’è noto, nei suoi giri all’estero, il Potèmkin fu uno dei po­ chissimi film accompagnati da una musica appositamente preparata. All’epoca del cinema muto, dunque, il Potèmkin si avvicinava, per quanto era possibile, alle capacità del cinema sonoro. La cosa più importante, comunque, non è da vedere nel fatto che Edmund Meisel avesse composto una musica speciale per il Potèmkin. Questo è accaduto anche per altri film, prima e dopo il Potèmkin. Ci sono stati perfino dei film girati in funzione di una cer­ ta musica (è soprattutto il caso dell’operetta, e, per esempio, di Ein Waltzertraum, di Ludwig Berger, che, a quanto pare, fu girato pro­ prio per la musica di Strauss). * Toma qui a proposito un'osservazione: la composizione strutturale della «scalinata di Odessa» è identica al comportamento dell'uomo dominato dal pathos così come l'abbiamo descrìtto più sopra. Il ritmo subentra al caos, l'uso poetico de) discorso alla prosa ccc. ’ Per mancanza di spazio ci limitiamo qui all’analisi delle «grandi arterie» della composi­ zione. Ma la trama compositiva del Potemkin sosterrebbe altrettanto bene un'analisi «micro­ scopica» (cfr. l'analisi dei 14 pezzi di montaggio relativi all'incontro delle barchette con la co­ razzata, effettuata nell'articolo «Eh!» La purezza dei linguaggio cinematografico} [ed. orig. in Sovetskoe Kino, 19)4, n. 5; tr. it. in M, pp. 75-87].

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L'importante è il modo in cui fu scritta la musica per il Potèmkin. Fu scritta» infatti, proprio comesi lavora, oggi, a una colonna sonora. O, meglio, come si dovrebbe sempre lavorare a una colonna sonora: in una stretta e continua collaborazione creativa tra compositore e regista. In realtà, anche oggi che il film sonoro è ormai un fatto, la musi­ ca resta quasi sempre «accanto al film» e, nell’essenziale, si discosta ben poco dalla vecchia «illustrazione musicale». Con il Potèmkin, invece, le cose andavano già in tutt’altro modo. Non dappertutto, a dire il vero, e non come si sarebbe voluto: il mio soggiorno a Berlino (nel 1926) per collaborare alla musica del film fu infatti troppo breve. Ma non tanto breve da impedirmi di realizzare con Meisel un’intesa a proposito di un «effetto» basilare della parti­ tura musicale del Potèmkin. Mi riferisco alla «musica delle macchi­ ne» nella scena dell’incontro con la squadra. In questa sequenza non solo avevo categoricamente richiesto al compositore di rinunciare alla solita melodia a vantaggio di un essen­ ziale e ritmico martellare di colpi, ma avevo anche, in qualche modo, costretto la musica di questa scena fondamentale a «trapassare» in «una qualità nuova»: una costruzione rumoristica. Qui la struttura stilistica del Potèmkin si allontanava decisamen­ te dal «film muto con illustrazioni musicali» per passare in un nuovo territorio: quello del film sonoro, il cui vero modello consiste nel­ l’unità delle immagini musicali e di quelle visive *, ovvero nell'imma­ gine (obraz) unitaria dell'opera audiovisiva. Proprio grazie a questi elementi che anticipavano nella loro es­ senza le possibilità compositive del film sonoro, la scena dell’incontro con la squadra suscitò all’estero, un effetto «di commozione» pari solo a quello della «scalinata di Odessa», e tale da farla entrare in tutte le antologie del cinema. Ma ciò che in questa sede mi interessa sottolineare è il fatto che, all’interno di un territorio - il trattamento musicale - che individua di per sé un salto in una nuova qualità effettuato nella più generale struttura del film, la condizione della costruzione patetica viene pie­ namente rispettata. Il che conferma, ancora una volta, la tesi secon­ do cui, nel Potèmkin, la condizione del salto qualitativo è indissocia­ bile dall’organicità del tema. * Dunque, la Dichiarazione con cui due anni più tardi (nel 1928) avremmo posto il pro­ blema ddl'immagine audiovisiva era sostenuta da un'esperienza già in qualche modo verificata in pratica (cfr. //futuro del fonom. Dichiaratone, ed. orig. in Zrzn 'iskusstva, 1928. n. 32, firma­ ta da Ejzenstejn, Vs.l. Pudovkin e G.V. Aleksandrov; tr. it. in FC, pp. 269-270].

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Da questo punto di vista il film muto Potèmkin ha qualcosa da insegnare al film sonoro, dimostrando una volta di più il postulato secondo cui un’unica legge di costruzione determina l’organicità dell’oggetto in tutti i suoi «livelli» senza eccezione: per non restare «ai margini» del film e per diventarne parte organica, la musica, non meno degli altri livelli, deve conformarsi non solo alle stesse immagi­ ni e agli stessi temi, ma anche e fondamentalmente alle stesse leggi e agli stessi principi costruttivi che regolano l’oggetto nel suo insieme1*. Può essere divertente ricordare qui che perfino la prima del Potèmkin avrebbe dovuto concludersi con una particolare «uscita fuori di sé», alla fine della proiezione al teatro Bol’soj nel dicembre 1925, ventesimo anniversario della rivoluzione del 1905 che era, ap­ punto, celebrata dal film. Il progetto di regia prevedeva che l’ultima inquadratura del film - la prora della corazzata che viene in avanti - dovesse lacerare... la superficie dello schermo: lo schermo doveva dividersi in due, apren­ dosi su una reale e solenne seduta commemorativa, alla presenza dei veri protagonisti degli avvenimenti del 1905. Così il Potèmkin avrebbe coronato tutta una tradizione di analo­ ghe trovate spettacolari. Come ebbe a raccontarmi più tardi Kazimir Malevic, il sipario fu strappato durante il primo spettacolo dei «Budetljane» - i futuristi russi - al teatro della via Orficerskaja. In quel caso, tuttavia, non si trattava della conclusione dello spettacolo e del suo naturale coronamento: non tanto l’espressione di un pathos in­ terno, quanto un ennesimo «schiaffo al gusto corrente»... [15]. Nel corso di uno slancio patetico di tutt’altra forza, invece, il me­ morabile 14 luglio del 1789 fu lacerato il sipario di garza che divide­ va gli spettatori dagli attori del piccolo teatro parigino «Des Délassements Comiques». Nella sua battaglia permanente contro i teatri po­ polari (del popolo), la Comédie Frangaise aveva ottenuto dal gover­ no che in quel teatrino, diretto da Plancher-Valcour, fossero attivate tutte le limitazioni che la Comédie aveva il diritto di imporre ai teatri minori: la proibizione agli attori di parlare, la proibizione di tenere in scena più di tre attori alla volta. A queste proibizioni si aggiunge­ va un obbligo assurdo e bizzarro: tener costantemente separati attori e pubblico per mezzo di un leggero sipario di garza.

9 Tutto ciò è stato realizzato, almeno in larga parte, nel nostro primo film sonoro. Alek * unir Ncvfii/. La collaborazione di un artista capace e brillante come S.S. Prokof ev fu essen­ ziale per la riuscita delle soluzioni più audaci del film.

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SULLA STRUTTURA DEGÙ OGGETTI

Il 14 luglio la notizia della presa della Bastiglia arriva a PlancherValcour che, in un autentico slancio di pathos, afferra con le mani il sipario di garza, lo lacera in due e grida: «Viva la libertà!». Il 13 gen­ naio 1791 il governo decreta la libertà dei teatri (cfr. L.M. Bernar­ din, La Comédie Italienne en France et le Theatre de la Foire et du Boulevard, Paris 1902)’°. Tutto questo si può infine ricollegare al più illustre esempio let­ terario di un’esplosione di pathos che si risolve nella lacerazione di un sipario: la tenda del tempio che si squarcia nell’attimo in cui si compie la tragedia del Golgota. Antenati di tutto rispetto, quelli del Potèmkinì Non saprei dire in base a quali associazioni e reminiscenze prese forma il mio progetto: resta il fatto che, di per sé, esso coincide con lo stato di esaltazione e di pathos da cui ero dominato nel periodo del concepimento, della realizzazione e del montaggio di questo film". Toma opportuno, a questo punto, ricordare quanto si è detto più sopra a proposito del carattere specifico delle due parti che divi­ dono ciascuno dei cinque atti della tragedia del Potèmkin secondo le proporzioni della sezione aurea. Si è detto che, in forza della cesura, l’azione compie immancabil­ mente «un salto», effettua «una commutazione». Questi termini non sono usati a casaccio, ma tengono conto del fatto che il passaggio della prima metà di ciascun atto in una qualità nuova era effettuato ogni volta secondo il massimo di intensità: si trattava, ogni volta, del passaggio nel proprio contrario (cfr. sopra). Appare chiaro, in tal modo, che la formula estatica fondamentale governa regolarmente tutti i passaggi decisivi della composizione: «l’uscire da sé» si trasforma, immancabilmente, nel passaggio in una qualità nuova, e nella maggior parte dei casi raggiunge l’intensità di un salto in una qualità contraria. Ora, se nel caso della sezione aurea si trattava delle proporzioni, qui il segreto dell’organicità riguarda il movimento stesso dell’opera: :n Curiosamente, e a dispetto di uuesto decreto, l’assurda disposizione del sipario di gar­ za fu ripristinata all’inizio del xix secolo. Su richiesta dei teatri maggiori l'ordinanza fu impo­ sta al teatro Eronconi, a quello della sala Mont-Thabor e a numerose altre compagnie teatrali. 11 Per «ragioni tecniche» quest'ultimo tocco (l'apertura dell'intero sipario di scena del Bol'soji non potè essere realizzato. Resta al Pofemktn la gloria di essere stato il primo film del­ la storia ii «sfondare le porte» deU'imprendibiJe cittadella del Grande teatro accademico so­ vietico.

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

il passaggio da una qualità a un'altra per salti successivi, infatti, non è più soltanto la formula della crescita, ma è già la formula dell’evolu­ zione. Rispetto a quest’ultima e alla sua legalità, noi stessi non siamo più delle semplici unità «vegetative» isolate, sottoposte alle leggi evo­ lutive della natura, ma siamo già unità collettive e sodali, che parteapano consapevolmente al processo evolutivo. Anche sotto il profilo dei fenomeni sociali, allora, il salto di cui stiamo parlando si presenta esattamente nello stesso modo, vale a dire nella forma del processo rivoluzionario che apre la via all’evoluzione sociale e al movimento della collettività. L’organicità del Potèmkin ci appare, così, sotto un terzo aspetto: infatti, il salto che caratterizza la struttura di ciascun anello compositi­ vo, introduce nella struttura generale della composizione proprio il più importante tra gli elementi di contenuto del tema: l’esplosione rivolu­ zionaria in quanto salto indispensabile per la continuità stessa dello sviluppo sodale progressivo e cosdente. Ma: il salto. Il passaggio dalla quantità alla qualità. Il passaggio nel proprio contrario. Sono tutti elementi del movimento dialettico dell’evoluzione, quale ce lo presenta la concezione della dialettica materialistica. Questo ci autorizza a dire che la struttura del pathos - sia per quanto riguarda le opere in generale, sia per quanto riguarda le co­ struzioni propriamente patetiche - è quella che ci conduce, nel se­ guire il suo sviluppo, a esperire i momenti della realizzazione e della formazione delle leggi dello sviluppo dialettico. Con momento della realizzazione definiamo quella soglia attra­ verso cui passa l’acqua nell’attimo in cui diventa vapore, o il ghiaccio che diventa acqua, o la ghisa che si fa acciaio. In tutti i casi abbiamo la stessa «uscita da sé», l’uscita dalla propria condizione, il passaggio di una qualità in un’altra: l’estasi. E se l’acqua, il ghiaccio, il vapore, l’acciaio potessero registrare psicologicamente il sentimento di quei momenti critici, nei quali avviene il salto, ci direbbero che essi parla­ no con pathos, che sono in estasi. Ma noi siamo in grado di esperire forme ben più alte di pathos e d’estasi. Noi, e solo noi, tra tutti gli abitanti del globo terrestre, pos­ siamo raggiungere il grado più alto: esperire realmente, passo dopo passo, le tappe del gigantesco processo dell’evoluzione sociale del mondo. Di più: noi possiamo partecipare collettivamente ai momenti

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SULLA STRUTTURA DEGLI OGGETTI

cruciali e alle grandi svolte della storia dell’Uomo, e fame esperien­ za. E proprio questa esperienza della storia, questo sentimento della nostra indissociabilità dal suo procedere, costituisce il punto più alto del pathos. La sensazione di muoversi con la storia. Di prendervi parte collettivamente. Questo è il pathos della vita, quale pure si riproduce nella meto­ dologia dell’arte patetica. La struttura della composizione, che nasce dal pathos del tema, riproduce infatti quella stessa legalità unitaria e fondamentale che regola il movimento dei processi organici e di tutti gli altri processi formativi, compreso quello sociale. Proprio in quan­ to partecipa di tale legalità (di cui la nostra coscienza è un riflesso e tutta la nostra esistenza il campo di applicazione), questa struttura non può che suscitare in noi l’emozione più forte di cui siamo capa­ ci: il pathos. Ma c’è ancora una domanda: come potrà un artista realizzare praticamente queste formule compositive? Con una ricetta da manuale? Sulla base di un campione? Di un modello calligrafico? Con un grimaldello o una chiave? In un’opera patetica compiuta si manifesterà inevitabilmente la presenza di formule compositive. Ma non sarà mai possibile produr­ ne una mediante un calcolo compositivo a priori. La conoscenza, il controllo e il possesso di formule compositive non bastano. Certo, si tratta di elementi indispensabili per la realiz­ zazione di un’opera organica capace di raggiungere la forma più alta dell’organicità, il pathos. Ma non bastano. L’opera sarà organica e patetica - nel senso che abbiamo fin qui svolto - solo quando l’idea, il tema e il contenuto saranno organicamente indissociabili dai pensieri, dai sentimenti e dallo stesso modo d’essere dell’autore. Solo in tal caso l’organicità potrà trasferirsi nel­ le forme più propriamente strutturali dell’opera: e sarà compito del­ l’esperienza e della consapevolezza tecnica dell’autore portarla alla perfezione formale. Allora c solo allora sarà stato ottenuto il carattere autenticamen­ te organico dell’opera, la quale potrà inserirsi, con pieni diritti e co­ me oggetto del tutto indipendente, nell’ambito dei fenomeni natura­ li e sociali.

(1] lui prima redazione di questo saggio risaie ai 1939 c porta il (itolo Organicità c pathos nella Corazzata Potèmkin. Una versione abbreviata (mancante delia parte dedicata all'esposi-

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LA NATURA NON INDIFFERENTE zionc teorica del rapporto che intercorre tra la sezione aurea e il concetto di «organicità») è comparsa, in traduzione inglese, nell'antologia Film Form (New York, 1949), da cui è stata successivamente tradotta in italiano col titolo La struttura dii film in FC, pp. 158 *186. Nella sua versione definitiva, il saggio porta il titolo O stroenii veìlej, che qui si è tradotto Sulla strut­ tura degli oggetti. Il termine russo «vefò» copre un’area semantica che include sia il senso di «cosa» (oggetto naturale) che quello di «opera» (oggetto artificiale): non c’è dubbio che, nel titolo, Ejzenitejn abbia inteso mettere a frutto questa ambiguità, che andrebbe perduta nd tra * durre «velò» con «cosa» oppure con «opera». Va osservato, d'altra parte, che nel testo tutte le volte che Ejzenitejn intende parlare di «opera» in senso pieno usa il termine «proizvedenie», mentre alle «cose naturali» è in genere riservato il termine «javlenie» («fenomeno»). Tradurre quindi «velò» con «oggetto» consente non solo di riprodurre, almeno in parte, l’ambiguità dd titolo, ma anche di non perdere l’opportunità di conservare lo stesso termine tutte le volte che, nel corso dell'esposizione, Ejzenitejn lo utilizza per designare le opere su cui si sofferma l’ana­ lisi. In questi casi si dovrà intendere che l'opera non è osservata sotto il profilo della sua com­ piutezza ma sotto il profilo dei suoi procedimenti costruttivi: in quanto, appunto, oggetto di studio e di ricerca. [2] D. Diderot, Le neveu de Rameau (1762), tr. it. di L. Binni, Milano, Garzanti, 1974. (3] L.N. Tolstoj, Anna Karenina, tr. it. di L Ginzburg. Torino. Einaudi. 1962, pp. *166 167. [4] Vikentij V. Veresaev (Smidoviè) (1867-1945), scrittore e autore di una biografia di Tolstoj. [5] Michail S. Suchotin (1850-1914), genero di Tolstoj. [6] L.N. Tolstoj, La sonata a Kreutzer, tr. it. di A. Villa, in Racconti, Torino, Einaudi. 1962. voi. il. pp. 462 e 472-473. [7] Si traduce il termine russo «oiiuiéente» con «sentimento» per sottolineare il valore fon­ damentalmente estetico che Ejzcnitejn accorda a questa nozione. Si è ritenuto che questo ter­ mine - forse un po’ desueto nell’accezione in cui è qui utilizzato - fosse comunque preferibile al più generico «sensazione» e al più tecnico «percezione». [8] In questo passo viene molto bene in luce il sistema di differenziazioni inteme con cui Ejzenstejn si serve di un pacchetto di voci lessicali («strofi», «struttura», «siroenie», «postroenie» ecc.) rispetto al quale la lingua italiana non appare altrettanto analitica. Mentre i termini «stroj» e «struttura» assumono T'oggetto-opera da un punto di vista statico, i termini «stroe-

nie» c «postroenie» indicano che l’ancnzione si sposta sull’aspetto dinamico. Nella traduzione la prima coppia di termini è resa in genere con «struttura» o «ordinamento strutturale», la se­ conda con «costruzione». 19] Al momento dello scoppio della rivolta - il 14 giugno 1905 - la corazzata «Principe Potèmkin-Tavriècskij» si trovava alla fonda nella baia di Tcndra, presso Ocakov. [10] Emilij K. Rozcnov (1861-1935), critico musicale, pianista e compositore, si occupò di psicologia c di estetica musicale lasciando numerosi manoscritti inediti tra i quali un’opera in­ titolata Fondamenti di un’estetica musicale razionale. [II] A.S. Puikin, Ruslan e L/udmila, tr. it. di T. Landolfi, in Poemi e liriche, Torino, Einau­ di, 1982. [12] A.S. Puikin, Poltava, ibid. [13] V.I. Surikov *(1848 1916), pittore realista, autore di quadri storici molto popolari. [14] V.V. Stasov ( 1824-1906), critico d'arte di tendenza progressista. [15] Schiaffo al gusto corrente (1912), come noto, è il titolo del primo manifesto dei cubofuturisti russi (Budetl/ane), firmato da V.V. Kamenskij. David e Nikolai Burijuk, V. Chlebnikov, V. Majakovskij, A.E. Kruccnych.

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2.

IL PATHOS [1]

LA CENTRIFUGA E IL CALICE DEL GRAAL

Ncll’analizzare la composizione del Potemkin abbiamo messo in lu­ ce una determinata legge di concatenazione delle costruzioni patetiche. Abbiamo scoperto che il contrassegno fondamentale della composizione patetica è un’incessante «estasi» {isstuplenie}, un incessan­ te «uscire fuori di sé»: un salto continuo da una qualità all’altra, che interessa ciascun singolo elemento e livello dell’opera a misura che il contenuto emozionale della sequenza, dell’episodio, della scena, del­ l’opera stessa aumenta progressivamente fino a raggiungere un mas­ simo di intensità. Siamo riusciti a mostrare che la composizione del Potèmkin si sviluppa - nel suo complesso e in ciascuna delle sue parti - esatta­ mente secondo questo schema. Ora, si deve osservare che, pur se fu risolta in conformità con questa formula, la composizione di fatto era nata in modo del tutto intuitivo e naturale, come la forma che più organicamente discende­ va dall’esperienza di pathos legata al tema. E in realtà, una volta finito il film, io non avrei mai saputo svela­ re, distinguere e riformulare un tale metodo di composizione, nem­ meno per semplici indizi. Era indispensabile realizzare un’altra opera dello stesso tipo, la­ vorare ancora sul pathos: solo allora, comparando i risultati di queste due soluzioni, sarebbe stato possibile stabilire una legge comune a entrambe, e spingersi fino ad assumerla come un metodo accertato per la costruzione di opere patetiche in generale.

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D’altronde, per strano che possa sembrare, la chiarificazione del metodo di costruzione patetica del Potèmkin fu ostacolata proprio... dal pathos della materia, del soggetto, del tema e delle situazioni del Potèmkin stesso. Il riconoscimento dei metodi di patetizzazione compositiva della materia, insomma, sprofondava, qui, nel pathos del tema. Era dunque necessario confrontare l’ordine strutturale di questa composizione con qualcos’altro, con un altro esempio tratto dal campo della scrittura patetica. D’altra parte, quale esempio più auspicabile della patetizzazione arbitraria di una materia qualsiasi, che, di per sé, non avesse nulla di patetico? Ebbene, poco dopo aver concluso il Potèmkin, noi ci siamo im­ battuti proprio in un caso simile, che ci ha permesso di gettar luce sui metodi di costruzione delle opere patetiche in generale. Nasceva praticamente in quegli anni il sistema kolchosiano, con i potenti sovcnoz di Stato che avrebbero poi giocato un ruolo tanto importante nel nostro paese e nella costruzione del socialismo. Que­ ste grandiose prospettive sociali non potevano non stimolare l’im­ maginazione creatrice. Il tema dell’industrializzazione dell’agricoltura, d’altra parte, ri­ sultava appassionante di per sé. Non si deve dimenticare che in que­ gli anni (’«industria» era una tra le figure più popolari per tutti gli artisti della nostra generazione. È probabile che nel nostro nuovo film la prima parte di questo

problema non fosse stata affrontata con sufficiente esattezza e pro­ fondità. Forse perché un’importanza prioritaria era stata accordata al «pathos della macchina», e ne aveva fatto le spese la comprensio­ ne sociale dei profondi processi interni di cui la campagna pullulava durante il suo passaggio alle forme dell’economia collettiva. Ma se è vero che il film non dominava l’intera estensione del te­ ma, è anche vero che dimostrò di essere esattamente ciò di cui avevo bisogno per riuscire a mettere a fuoco su un piano metodologico il problema del pathos, che occupava la mia attenzione. Si trattava del nostro film II vecchio e il nuovo (intitolato La linea generale nella sua copia di lavorazione, 1926-29), divenuto poi cele­ bre per aver proclamato «il pathos della centrifuga». Si scrisse molto, a quel tempo e anche più tardi, sulla curiosa idea di «patrizzare un macchinario agricolo»: la centrifuga che, nel film, si accendeva di una «luce interiore», quasi a sfidare il calice del

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IL PATHOS

santo Graal (io stesso scrissi allora: «Non avremo mica bisogno an­ che noi di un simile vaso spagnolo?») [2], Da questo punto di vista il film riuscì a produrre un buon effetto patetico. Possiamo allegare alcune testimonianze «oculari» che con­ fermano questo aspetto dell’impressione generale suscitata dal film. Per cominciare, qualche riga dalla Histoire du cinema di Bardèche (Paris, 1935):

Non ci si stupirà che, a un certo punto della sua evoluzione, il cinema sovietico, che considera gli uomini al pari dei membri di un coro1, sia arri­ vato a innalzare la natura a personaggio principale dei suoi film. Non c’è dubbio che la natura e il lavoro agricolo facciano parte di una tematica ab­ bastanza nobile che l’arte ha trascurato negli ultimi duemila anni. I romanzi contadini, infatti, non sono certo i continuatori della tradizione di Esiodo e di Virgilio, perché non arrivano a quella fusione di rigore documentario e di poesia che costituisce la vera georgica. L’autentico Virgilio è Ejzenstejn, è Dovzenko2. Le belle fotografie che ci hanno mostrato non bastano: occorre che il cineasta abbia resuscitato in sé gli antichi poeti, che si sia fatto cantore della lotta con la terra, Esiodo contemporaneo.

Il brano che segue l’ho estratto, a ragion veduta, da una rivista... cattolica belga, particolarmente competente - non ce dubbio - in fatto di esaltazione, estasi e pathos {La Nouvelle Equipey n. 1, 1930). Ecco cosa dice a proposito dell’effetto patetico suscitato dal film: Un lirismo epico spinge questa Linea generale nell’esaltazione degli ele­ menti della terra - i campi, il latte, il pane - e nell’entusiasmo della macchi­ na (non diverso dall’entusiasmo che un’altra macchina - quella da presa suscita nei nostri occhi); I’esaltazione nasce dal ritmo possente dei cambia­ menti delle stagioni, dalla fertilità, dai raccolti, da tutta un’atmosfera di vita rappresentata con straordinaria ricchezza. Una goccia di panna, una spiga di grano, lo scintillio del metallo che fonde: il lirismo dionisiaco di Ejzen­ stejn si scatena nella rivelazione di questo dinamismo interno che si cela nella natura dei fenomeni all’apparenza più quotidiani e insignificanti. Queste semplici immagini del quotidiano si rivelano piene di pathos, si tra­ 1 Allusione ai film «ili massa» come il Potèmkin e Ottobre, caratteristici della prima fase dell'evoluzione della cinematografia sovietica. «la cinematografìa della rivoluzione militante», come la definisce Bardèchc per differenziarla da quella successiva, che chiama «cinematogra­ fìa della costruzione pacifica». 1 Si tratta de La ferra di Dovzenko, che iu realizzato poco dopo l'uscita de // vecchio e d nuovo. Mi c particolarmente caro ricordare qui questa citazione del suo lavoro.

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sfigurano e si innalzano fino a presentarsi come grandiose Forze della natu­ ra che, colte dallo schermo, si dispiegano di fronte ai nostri occhi. La recensione della rivista Le Moti (Paris, 1931) si spinge ancora oltre. La «semplice» scena intorno alla centrifuga viene descritta co­ me una specie d’orgia estatica!

Ed ecco che il latte condensato si trasforma in panna! Gli occhi brilla­ no, i denti scintillano nei sorrisi sbalorditi. La contadina Marfa si fa sotto con le mani per accogliere il getto di panna che scorre verso il basso; ne vie­ ne aspersa; il suo volto è cosparso di panna, e lei ride, ride! È una gioia sen­ suale, quasi animalesca: si direbbe cne da un momento all'altro debba to­ gliersi i vestiti e, rotolarsi nuda, in estasi, nel torrente di benessere che le sgorga accanto in getti di panna. Toma qui in mente un episodio della Terra di Dovzenko che nel­ la Histoire du cinema di Bardèche viene menzionata subito dopo II vecchio e il nuovo. Mentre infatti nella scena intorno alla centrifuga il procedimento della composizione permise di raggiungere un grado di frenesia esta­ tica talmente intenso che l’eroina del film sembrava costantemente sul punto di scatenarsi in una danza orgiastica, nella prima versione del film di Dovzenko, al contrario, in una situazione analoga si pote­ va vedere effettivamente una contadina nuda che, strappatisi di dos­ so i vestiti, si dimenava freneticamente nella sua stanza. Questa «Zwba svestita», come la chiamarono i critici, fu naturalmente accolta «con una levata di scudi». Non a torto, d’altronde, perché una simile immagine e la rappresentazione di un tale comportamento nell’at­ mosfera di realismo quotidiano di un villaggio ucraino passato alla collettivizzazione davano proprio l’impressione di un «corpo estra­ neo». La cosa sarebbe stata accettabile se il soggetto del film avesse previsto un baccanale oppure una scena di penitenza di «flagellanti» (chlysty). Così la «baba svestita» fu tolta dal film’. Non dimentichiamocelo quando, più avanti, cercheremo di chia­ rire le ragioni per cui, nella scena della centrifuga, la patetizzazione si fonda innanzitutto sulla forza espressiva della composizione e non sulla recitazione degli interpreti.

‘ Ho già avuto modo in un'altra occasione, c nel contesto di problemi un po’ diversi, di parlare dettagliatamente di questa infelice «AaAtf svestita», nel mio saggio su Griffith [cfr. Diekent, Griffith e noi, ed. orig. nella raccolta Griffith. Moskva. 1944; tr. it. in FC, pp. 204-266).

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Come si è visto nelle «testimonianze» raccolte, l’effetto finale, ot­ tenuto unicamente con i procedimenti della composizione, non è af­ fatto inferiore a quello che si sarebbe ottenuto lavorando «sulla reci­ tazione», e suscita nella «sensibilità» dello spettatore proprio quel­ l’immagine di frenesia che è «richiesta» dalla situazione, ma che, se fosse stata rappresentata in quell’ambiente, sarebbe risultata del tut­ to fuori luogo! Credo che queste «testimonianze» siano più che sufficienti per confermare l’effetto fondamentalmente «estatico» delle diverse fasi del film c, in particolare, della scena intorno alla centrifuga! Si potrebbe forse ancora ricordare la recensione di KrasnyKrauss nella rivista Filmtecbnik (1930), dove i tratti caratteristici del­ la rappresentazione del film vengono individuati nel fatto che tutto vi compare «o esageratamente ingrandito o (nei campi lunghi) esage­ ratamente rimpicciolito». Questa osservazione coglie proprio il con­ trassegno fondamentale deÙ’estasi dal punto di vista delle dimensio­ ni che eccedono le norme dell'equilibrio', un campo lungo sarà un campo «ultralungo», un piano ravvicinato sarà «ultraravvicinato». Ma è passato un tempo abbastanza lungo da rendere forse op­ portuno un breve riassunto del film4 [...]. La scena decisiva, quella più riuscita e, come sempre, la più indi­ cativa dei procedimenti adottati, è senz’altro la scena intorno alla centrifuga: non a caso, fin dall’inizio, questa macchina è diventata un po’ il catch-word che descriveva «programmaticamente» le pecu­ liarità cinematografiche del film. Ho avuto modo di parlare più volte dell’aspetto tematico del film, ma in questa sede, per la prima volta, intendo affrontare dal punto di vista della ricerca pura il significato di questa scena decisiva in cui, attorno alla centrifuga, si rappresenta un vero e proprio dramma dei dubbi e delle speranze - «il latte non si condenserà; il latte si condenserà» - e in cui, alla fine, nell’esplosione di gioia che accompagna i getti di panna che cominciano a sgorgare, l’adesione alla cooperativa agricola si fa entusiastica e plebiscitaria. Qui il tema del pathos prende forma nella totale assenza di ele­ menti patetici esteriori: tutta la scena ha come unico oggetto la mani­ polazione di un certo macchinario, capace, per la legge delle forze

4 Nd testo originale compare qui un'annotazione di EjzcnJtcjn: «Uno spazio per un bre­ ve sunto del contenuto de II vecchio e il nuovo». Questo riassunto, però, non fu mai preparato dall'autore.

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centrifughe e centripete, di separare il latte dalla panna e la panna dal latte. «Patrizzare» il materiale, in questo caso, significava ottenere, con i soli mezzi dell'espressività e della composizione, che il fatto della comparsa della prima goccia di panna diventasse appassionan­ te e avvincente quanto l’episodio dell’incontro con la squadra nel Potèmkin^ significava elaborare l’attesa di questa prima goccia con lo stesso grado di tensione che accompagna l’attesa di fronte ai cannoni della squadra, quando non si sa se faranno fuoco o no; significava, infine, trovare procedimenti plastici adeguati per esprimere lo scop­ pio di gioia che saluta l’esito positivo della «prova della centrifuga», il trionfo della tecnica. Non avevamo, infatti, le grandi masse di comparse che si preci­ pitano per la scalinata sotto i colpi di fucile, né la squadra che avanza, in formazione di combattimento, con i cannoni puntati sulla corazzata solitaria, non avevamo il martellare delle macchine che sottolinea il mo­ mento della massima tensione, né il lancio di centinaia di berretti di marinaio quando, senza sparare un solo colpo, la squadra incrocia la corazzata. Avevamo solo l’izba quasi vuota della cooperativa del latte. Un manipolo di mugicchi e contadine diffidenti. Un terzetto di entusiasti: l’attivista Marfa Lapkina, il biondo komsomolec, l’agronomo del distretto. E il debole scintillio della «macchina da latte». E tuttavia c’era una profonda «comunanza» tematica con tutte le parti del film dedicato alla corazzata in rivolta. La comunanza di un medesimo sentimento legato alla consape­ volezza nascente della solidarietà di classe e del collettivismo che, in un determinato momento storico, aveva unito il Potèmkin e la squa­ dra, e ora, nella realtà quotidiana di uno qualunque tra i milioni di villaggi del nostro paese, ripeteva lo stesso miracolo nell’unire i sin­ goli proprietari in una collettività economica. Le due scene non sono soltanto attraversate da un identico pa­ thos. Malgrado la differenza delle epoche, del tempo e della situazio­ ne e malgrado la diversa ampiezza degli avvenimenti, le due scene hanno un tema in comune: l’unità collettiva. Una simile comunanza tematica non poteva non implicare anche una comunanza di procedimenti rappresentativi. Così, seguendo il Potèmkin^ la scena della centrifuga non poteva

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non essere determinata, nella sua struttura compositiva fondamen­ tale, secondo la stessa formula dell’esplosione che, dopo l’inconteni­ bile crescita della tensione, si manifesta in un sistema di esplosioni successive che sembrano originarsi l’una dall’altra, esattamente co­ me in un razzo o nella reazione a catena dell’uranio in una bomba atomica. Tutto ciò determinò la scelta di una situazione (attesa della pri­ ma goccia di latte condensato) del tutto equivalente alla scena cul­ minante del Potèmkin (attesa del colpo di cannone). E infatti, Io schema di una «reazione a catena» - accumulo di tensione, esplo­ sione, salto di esplosione in esplosione - descrive con esattezza la condizione strutturale del salto da uno stato all’altro: la condizio­ ne che caratterizza una serie di estasi parziali che si sommano nel pathos del tutto. Avevamo tuttavia a che fare con un materiale assolutamente di­ verso, sia per il soggetto che per la situazione, sia per l’ambiente che per i dettagli e gli elementi della scena. Pur essendo stata risolta in modo del tutto immediato, «sponta­ neo» c non predeterminato, questa scena, una volta paragonata alle scene del Potèmkin, non poteva non mettere in luce l’essenza della formula metodica di base secondo cui era stato costruito il carattere patetico di entrambi i film. Lo ripeto: una formulazione rigorosa è stata possibile solo più tardi, al momento della comparazione dei due film conclusi. Ma vale comunque la pena di osservare fino a che punto, per i realizzatori del film, questa sensazione di stretta parentela tra le due scene fosse già evidente fin dal momento della sceneggiatura de 11 vecchio e il nuovo. Se, infatti, la soluzione di montaggio del «pathos» della scena con la centrifuga fu sostanzialmente definita tutta al tavolo di mon­ taggio e nel quadro delle indispensabili riprese supplementari (le fontane, le didascalie delle cifre di dimensioni via via crescenti ecc.), il nesso della dinamica interna della costruzione di questa scena con le corrispondenti costruzioni del Potèmkin risulta già dal semplice fatto che nella sceneggiatura de II vecchio e il nuovo esiste, proprio in questo punto, un riferimento diretto al... Potèmkin'. In questa scena in cui si attende che la centrifuga produca una goccia di latte più denso, è scritto letteralmente: «Così il Potèmkin attendeva l’incontro con la squadra». Ma c’è di più! In una delle va­ rianti di montaggio iniziali del film già pronto fu perfino incollato ( ! ) in questa scena, a titolo di associazione plastica, il corrispondente 51

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controtipo di un frammento della scena del Potèmkin che attende l’incontro con la squadra! Il frammento fu quasi subito tolto» tagliato dagli stessi realizzato * ri» dato il carattere estremamente bizzarro e inorganico del risultato. Tale è, di solito, la sorte immancabile di tutte le associazioni interiori troppo sottolineate con mezzi esteriori *. Perché questi mezzi e le stes­ se associazioni restino vivaci e coerenti è necessario che non si sof­ fermino più di un istante nella coscienza. Così, per esempio, al con­ trario dei frammenti del Potèmkin prima incollati e poi tolti, appaio­ no del tutto coerenti, in questa stessa scena, i cannelli di scolo della centrifuga inquadrati in modo da fare plasticamente eco alle minac­ ciose bocche dei cannoni che, nel Potèmkin, sembrano puntare il pubblico dallo schermo’. (Questo metodo di ripresa era in tutto e per tutto conforme allo stile complessivo del film. Non bisogna dimenticare» infatti, che al­ trove lo stesso procedimento veniva intenzionalmente usato in modo marcato e ironico. Così, nel contesto di una denuncia satirica di un’altra «macchina» - la «macchina burocratica» - il gigantesco car­ rello di una macchina da scrivere, inquadrato a pieno schermo men­ tre si sposta in avanti, doveva confondersi, fino alla «rivelazione» fi­ nale, con il ponte mobile di una qualche grandiosa realizzazione in­ dustriale). Questo trucco plastico, da parte sua, si colloca all’interno del si­ stema dei procedimenti plastici ed espressivi di cui il film abbonda dappertutto. Proprio in questo film, per la prima volta, furono siste­ maticamente sfruttate e studiate fin nei dettagli le risorse espressive legate alle capacità di deformazione plastica dell’obiettivo «28». La particolarità di questo obiettivo - profilare con la stessa pre­ cisione focale il più grosso dettaglio di primo piano come l’intera profondità del campo - è largamente nota e viene utilizzata il più delle volte col semplice intento di «far vedere». A questa caratteristi­ ca, però, se ne aggiunge un’altra che» qualche tempo fa, non veniva tenuta in alcun conto e che, comunque, alla fine degli anni venti era accuratamente evitata. Mi riferisco alla sua capacità di deformare la prospettiva. 5 Voglio ricordare die. subito dopo l'uscita del film, questa trovata del cannone puntato sulla platea fu ripresa in due spettacoli teatrali della stagione successiva: il primo a Mosca, l'al­ tro a Berlino (per un lavoro di Bernard Shaw). Nel primo caso si trattava di un’intera prua che avanzava verso la platea, i cannoni puntati. Nd secondo della bocca di un solo cannone che avanzava verso il pubblico.

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Si tratta di questo: quando si usa questo obiettivo, il rimpicciolimento degli oggetti secondo la prospettiva della profondità del cam­ po è di gran lunga superiore rispetto alle norme cui si conforma il nostro sguardo. La cosa salta chiaramente agli occhi quando gli oggetti ripresi in primo piano si trovano molto vicini all’obiettivo o, ancora di più, quando si tratta di un unico oggetto una parte de) quale si trova vici­ nissima alla macchina da presa. È il caso dell’incongruente giganti­ smo con cui incombe sullo spettatore la pianta dei piedi di un uomo sdraiato con i piedi rivolti alla macchina da presa che lo inquadra. Oppure dell’enorme ventre prominente di un personaggio piazzato proprio dinanzi alla macchina, con la testa e le gambe che si perdono «in lontananza» in alto e in basso ecc. Era del tutto naturale che, con un grado di «ostentazione» più o meno forte, tutte queste possibilità dell’obiettivo «28» dovessero en­ trare a far parte del sistema dei mezzi espressivi di un film in cui l’«uscita fuori di sé» - il passaggio da uno stato a un altro - si riscon­ trava nel tema stesso del contadino che diventa kolchosiano, deter­ minando, in tal modo, l’intera metodologia dei procedimenti espres­ sivi su tutti i livelli di realizzazione, secondo la formula estatica del­ l’uscita da sé. L’utilizzazione delle capacità deformanti dell’obiettivo «28» fu quindi effettuata in tutte le sfumature possibili. In taluni casi si trattò di una quasi impercettibile modificazione delle forme naturali al solo scopo di aumentarne la massa. È il caso delle groppe dei cavalli che Marfa chiede inutilmente al kulak per l’aratura, prima di decidersi ad attaccare la sua vacca a un antidiluviano aratro di legno. Vicino a queste groppe, la povera Marfa appare ancor più fragile e indifesa. In altri casi la capacità deformante dell’obiettivo fu usata in mo­ do più marcato: ora con l’intenzione di costruire qualche iperbole «gogoliana» (come l’enorme kulak addormentato, sorta di gigante­ sco animale in letargo, filmato dai piedi alla testa, «alla maniera del Mantegna»), ora con l’intenzione di produrre qualche immagine monumentale: come i particolari del toro e il toro tutt’intero filmato dalla parte delle zampe posteriori, con le corna che si perdono «in lontananza», nella scena delle «nozze del toro». Una ripresa che da­ va alla mole del toro una dignità quasi mitologica, ricordando la ben nota immagine del ratto di Europa da parte di Giove trasformato in toro! Infine, l’obiettivo fu usato ironicamente, per «mettere a nudo il

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procedimento» dopo averlo usato con successo per «mistificare»: è il caso, già ricordato, del carreUo della macchina da scrivere. In tutti questi casi, ora in modo più evidente e marcato, ora in modo più sottile, l’obiettivo «28» permetteva che le cose... «uscisse­ ro fuori di sé», fuori dai loro volumi abituali, dalle loro forme natu­ rali. E anche questa, di nuovo, non era che una forma di risonanza «plastica» del tema centrale del film: il tema dell’uomo che, con l’aiuto dell’industria e delle nuove condizioni sociali, impegna la propria volontà creatrice per «far uscire fuori di sé» le norme e le forme consolidate nei secoli dell’«idiozia della vita rurale» (Marx), costringendole ad assumere le nuove forme, le nuove qualità del­ l’agricoltura socialista. Considerando tutto il film sotto questo profilo, noi possiamo ve­ dere che, dal punto di vista della «linea interna», la scena della cen­ trifuga evidenziava proprio l’aspetto ideologico-tematico del pathos. E infatti non fu per caso che questa scena, il cui contenuto, ricordia­ molo, è la «mutazione» di una goccia di latte in una goccia di panna, fu scelta come episodio centrale del film. In questa goccia di latte che compie un balzo nella nuova qualità di goccia di panna si riflet­ teva, come in... una goccia d’acqua, la scelta di un gruppo di conta­ dini, piccoli proprietari che vivevano isolati, separati, c che, impres­ sionati dalla centrifuga (simbolo delle possibilità di un’economia agricola meccanizzata), effettuano di colpo il gigantesco salto di qua­ lità che li porta a una forma di sviluppo sociale del tutto nuova, al passaggio dall’economia individualista a quella collettiva, dal muzik al kolchosiano. Vero e, d’altra parte, che per la sua natura e i suoi contrassegni esteriori, il solo fatto di porre il problema del «pathos della centrifu­ ga» dopo aver rappresentato il pathos di una nave da guerra ammu­ tinata, non poteva andare esente da una qualche paradossalità. Que­ sto aspetto alquanto paradossale della posizione stessa del proble­ ma, da parte sua, non poteva non comportare anche una certa dose di paradosso nella scelta dei procedimenti chiamati a dar forma al progetto. Come ho appena detto, questo lato paradossale riguardava gli aspetti esteriori del problema e non la sua sostanza di fondo: era na­ turale perciò che, sul piano della forma, la paradossalità dovesse ri­ guardare proprio gli elementi più esteriori della composizione. Ne derivava, per la composizione stessa, un ordinamento strutturale particolarmente esplicito, in quanto i mezzi paradossali utilizzati 54

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«mettevano a nudo», involontariamente, la natura stessa del metodo e dei procedimenti grazie ai quali «si edificava» il pathos. È evidente che, dal punto di vista della ricerca, questa situazione

dava alla Linea generale un notevole vantaggio rispetto al Potèmkin, in cui i mezzi di espressione erano così organicamente integrati al tessuto narrativo dell’opera che, a meno di un confronto con altri ca­ si o esempi, sarebbero rimasti completamente indiscernibili. Se gettiamo oggi uno sguardo retrospettivo su questi due film posti l’uno accanto all’altro, potremmo essere indotti a pensare che tutto il chiasso intorno al «pathos della centrifuga» non avesse avuto altro scopo che quello di realizzare una pura ricerca sperimentale sulla natura e il funzionamento della composizione patetica. È ovvio che, in realtà, le cose andarono in tutt’altro modo. I problemi formali e i procedimenti erano proprio quello che ci interessava di meno durante la lavorazione del film; tutto il... pathos della creazione era diretto verso un solo scopo: patrizzare con tutti i mezzi possibili e anche con quelli impossibili, un tema agricolo al­ l’apparenza ordinario e banale, ma che portava con sé, al fondo, l’idea entusiasmante della realizzazione del regime kolchosiano. La centrifuga splendente di luce interiore era l’immagine centra­ le in cui si condensavano sia il tema nel suo complesso sia l’atteggia­ mento nei confronti del tema. La pratica doveva dimostrare che, nella realizzazione di questo compito «con tutti i mezzi possibili e anche con quelli impossi­ bili», la parte del leone sarebbe toccata ai mezzi... «impossibili», pa­ radossali. Con i soli mezzi derivanti dalla materia e dall’ambiente, il tenta­ tivo di «sollevare» al livello del rapimento estatico la scena della cen­ trifuga sarebbe indubbiamente fallito. Era necessario... un salto fuo­ ri dal campo dei mezzi espressivi e delle possibilità derivanti dal­ l’ambiente stesso. Nel finale della «scalinata di Odessa» abbiamo già analizzato una soluzione perfettamente uguale quando, dopo l’utilizzazione di tutti i mezzi espressivi legati al fatto della sparatoria, il principio stes­ so di tali mezzi espressivi «saltava» in un’altra dimensione: passava dalla serie drammatico-situazionale alla serie metaforica o più pro­ priamente figurativa (cfr. più sopra). Qui, naturalmente, doveva porsi il problema: perché non risol­ vere la scena del rapimento estatico intorno alla centrifuga utilizzan­ do solo il «comportamento», cioè la recitazione degli attori?

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Intanto perché il trionfo è tutto interno all’ordinamento temati­ co della scena, e non un baccanale dionisiaco che si impossessa di un gruppo di persone al cospetto di un prodigio. Questa considerazione era già pienamente sufficiente a convin­ cerci che la scena non poteva essere risolta con i mezzi di un sempli­ ce comportamento esteriore: bisognava spostarsi su un altro piano qualunque, che fosse diverso dal piano dei normali comportamenti quotidiani. E poi, è evidente che, nel contesto di un comportamento quoti­ diano, esiste una certa misura tollerabile nella manifestazione di una gioia «estatica», misura che è per forza di cose relativamente mode­ sta e assai poco dinamica. Una danza sfrenata intorno alla centrifuga, alla maniera di Una notte sul Monte Calvo, sarebbe stata inopportuna e grottesca sia ri­ spetto aU’atmosfera di una cooperativa agricola, sia rispetto al carat­ tere riflessivo e riservato dei nostri contadini - almeno quando non sono in preda a passioni ben più forti e scatenanti di quanto non sia ammissibile per la gamma di sentimenti suscitati dal primo incontro con una centrifuga nella vita di tutti i giorni. Se si fosse trattato della scena di Mose che, con un colpo di ba­ stone, fa sgorgare l’acqua da una roccia desertica e delle migliaia di assetati che si precipitano sull’acqua; o della danza frenetica degli apostati attorno al biblico «vitello d oro»; della festa di Shashsei-Vashei [3], con le centinaia di fanatici che si tagliuzzano a colpi di sciabola; o di una scena di penitenza di flagellanti, allora sì che ci sarebbe stato modo di fare un grande affresco di masse dominate da un pathos che si riconosce nel carattere estatico del loro comportamento! Ma c’è dell’altro! Al momento della scena intorno alla centrifu­ ga, le possibilità di un comportamento estatico sono già esaurite nel­ l’economia interna del film. Questa scena infatti è preceduta dalla processione e dalle preghiere per la pioggia che si svolgono nei cam­ pi inariditi dalla siccità. Qui si scatenava, in piena libertà, la frenesia religiosa e il fanatismo estatico di quanti, trascinandosi sulle ginoc­ chia, curvi sotto il peso delle icone, arrancando nella polvere di una terra inaridita, levavano al cielo inutili preghiere, implorando l’arri­ vo miracoloso della pioggia. Bisognava confrontare e opporre questi due diversi mondi del

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pathos e dell'estasi: il mondo del «vecchio» e il mondo del «nuovo», che spazza via il vecchio; il mondo della soggezione impotente e ser­ vile alle forze sconosciute della natura e il mondo che a quelle forze cieche si oppone con una resistenza organizzata e tecnicizzata6. Naturalmente, opporre due diverse essenze dell'estasi e del pa­ thos, significava opporre anche due diversi sistemi e procedimenti di realizzazione. I mezzi espressivi usati per dar corpo a queste due sce­ ne contigue dovevano «differenziarsi» in conformità col carattere opposto dei due contesti e anche in rapporto alla diversa natura del­ l'azione che dovevano esercitare sul pubblico. Così, la processione e la «preghiera per la pioggia» furono essen­ zialmente risolte sul piano di una recitazione - potremmo quasi defi­ nirla «teatrale» - volta ad agire sullo spettatore attraverso il compor­ tamento dei personaggi (senza trascurare, beninteso, tutto l’arsenale di risorse e procedimenti propriamente cinematografici ammissibili in questa situazione). Quanto alla scena della centrifuga, essa fu costruita fondamen­ talmente con mezzi e procedimenti puramente cinematografici, inac­ cessibili, nella stessa forma e nella stessa misura, a qualsiasi altra arte (senza trascurare, beninteso, gli indispensabili elementi di compor­ tamento e recitazione degli attori, ma utilizzandoli con la massima cautela e parsimonia). Una tale «linea di demarcazione» dei mezzi espressivi aveva an­ che una giustificazione profonda dal punto di vista della composi­ zione patetica (che ormai ben conosciamo), perché la loro progres­ sione marcava ancora una volta un passaggio (un «salto») da una di­ mensione all’altra: dalla dimensione del «cinema recitato» (cinema «teatrale») al dominio del «puro» cinema, caratterizzato da mezzi specifici e possibilità del tutto indipendenti e non comparabili. «Grosso modo al centro» di questa parte del film (proprio come nel Potèmkin) l’intero sistema dei mezzi espressivi si commutava, «si trasferiva» in una dimensione nuova e contraria. Qual era dunque il movimento della costruzione che abbiamo fatto precedere da tutte queste osservazioni tanto precise e particola­ reggiate? Fino al momento in cui compare la prima goccia di latte «più

6 Al di là di ogni altra considerazione, un ampio sviluppo dell’allevamento del bestiame c della produzione del latte garantisce un’autodifesa dell’economia agricola contro le calamità naturali.

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spesso»7 stillando fin dentro la secchia posta sotto la centrifuga, il gioco delle tensioni si struttura secondo l’intero dispiegamento di tutti i mezzi e i procedimenti di montaggio. Gioco di speranze e di dubbi, di certezze e di diffidenza, di mera curiosità e di sincera emozione, che si svolge in una serie di primi piani via via più grandi: piani di gruppo, piani con due o tre perso­ naggi, piani individuali. Alla serie dei volti sono interpolate le inquadrature dell’eroina, Marfa Lapkina, dell’agronomo e del komsomolec Vasja, che ruotano la manovella della centrifuga con un ritmo via via più rapido. Quasi impercettibilmente e come per caso la tonalità delle ripre­ se fa eco al «gioco dei dubbi». Come per caso e quasi impercettibilmente le inquadrature della crescente speranza si fanno via via più luminose, mentre quelle della diffidenza che aumenta si fanno più scure. In parallelo con l’accelerazione della cadenza, i pezzi di montag­ gio si fanno più brevi: l’alternanza delle inquadrature chiare e di quelle scure si fa più scattante. I dischi ruotano sempre più veloci e, sulla loro scia, gli stacchi luminosi dei pezzi di montaggio subiscono un mutamento, trasformandosi in un «lampeggiare» che attraversa i primi piani (ottenuto col procedimento della rotazione di uno spec­ chio sferico sfaccettato). Nei momenti giusti, questo sistema di pezzi di montaggio c inter­ rotto dall’immagine del cannello della centrifuga. Per un certo pe­ riodo di tempo esso e vuoto. Poi una goccia comincia a gonfiarsi sul suo bordo inferiore, per tutto il tempo necessario. (A tutta forza, alternandosi, sfilano i primi piani dei volti). Per tutto il tempo necessario la goccia rigonfia trema. (I dischi della centrifuga girano a tutta velocità). La goccia è sul punto di cadere. (Sfilata vorticosa di primi piani, alternati alla corsa dei dischi). La goccia si stacca. Cade! E si scinde in una corona di minuscole goccioline, toccando il fondo vuoto della secchia. Ed ecco che, spinto irrefrenabilmente fuori dal corpo della cen-

' A proposito: non dimentichiamo di osservare che lo stesso piano fattuale di questa sce­ na porta con se un soggetto «patetico»: il «comune» latte trapassa in una nuova qualità, la panna, che dal punto di vista dell'industria del latte gli c superiore!

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trifuga da una pressione violenta, un robusto fiotto di bianca panna va già a depositarsi sul fondo. Il getto e gli schizzi sono ormai confusi, attraverso il montaggio, nel torrente dei primi piani esultanti, e sembrano cascate di latte bianco come neve, fonti di argentei e impetuosi flotti, fuochi d’artifì­ cio di spruzzi inarrestabili. E, come in risposta a questa similitudine involontaria, ecco che, dopo l’esplosione del primo fiotto di latte, il montaggio alterna sul­ lo schermo la colata del latte con le immagini di una materia estra­ nea: le colonne scintillanti di... getti d’acqua che zampillano dalle fontane. Ancora una volta, come nel Potèmkin, la metafora irrompe nel­ l’azione: qui è la metafora delle «fontane» di latte che zampillano dalla centrifuga e che fanno eco all’immagine folklorica del «fiu­ me di latte» che scorre «tra rive candite», simbolo della prosperità materiale. E ancora una volta, come nel Potèmkin, in parallelo con la cre­ scita del movimento che trapassa in un altro ordine di grandezze (l’acqua che sprizza con più forza è più vivida e luminosa degli zam­ pilli di latte!), si produce un identico salto da una dimensione all’al­ tra per quanto riguarda il metodo di rappresentazione della materia narrativa: da un’esposizione secondo l’oggetto a un’esposizione di ti­ po metaforico («fontane di latte»). Ma il montaggio non si ferma a questo. E compie subito un nuo­ vo passaggio, un nuovo salto in un’altra dimensione: l’immagine del­ lo «scoppio dei fuochi d’artificio». Lo scintillio dei getti d’acqua, che supera in intensità quello dei fiotti di latte, è ripreso dal montaggio e sollevato a un livello ancora più alto - e nuovo - di intensità: lo scintillio dei fuochi che non solo esplodono di luce, ma si illuminano di mille colori, risplendono di una nuova qualità: il colore. Il procedimento tecnico che permise la realizzazione di questa idea era un po’ il pronipote del procedimento di colorazione manua­ le della bandiera rossa nel Potèmkin. Dell’immagine del fuoco d’arti­ ficio avevamo preso solo l’elemento della continua modificazione dei colori e, pertanto, il procedimento tecnico consistette semplicemente nel disporre una colorazione uniforme sulle diverse inquadra­ ture dei getti d’acqua, per mezzo di viraggi variamente colorati. Co­ sì, le sequenze dello scintillio monocromo degli zampilli d’acqua passavano in una dimensione nuova - lo scintillio multicolore - pro­ 59

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prio come le fontane delle piazze si illuminano, di notte, colpite dal raggio di riflettori colorati8. Ma il montaggio «frenetico» di questa scena non si fermava a questo. Dopo aver scintillato per un po’ sullo schermo, queste se­ quenze colorate tornavano di nuovo... nell’incolore. E infatti, per una sequenza colorata passare nell’zwco/or^ è, ancora una volta, un salto di qualità! Tanto più che, questa volta, non si trattava di un ri * tomo al grigio della fotografia monocroma. Le sequenze colorate trapassavano in un nuovo sistema che, pur essendo privo di colori, era costruito in modo da scindere in due componenti l’uniforme tonalità grigia della fotografia monocroma: un campo completamente nero più un abbagliante contorno bianco tratteggiato su questo sfondo nero. Se volessimo fare anche qui un parallelo col Potemkin potremmo ricordare la risoluzione non figurativa, «suprematista», con cui lo stesso sdoppiamento della tonalità grigia si manifesta, materialmen * te, nei riflessi bianchi delle luci notturne sulla superfìcie nera dell’ac­ qua, nella scena della veglia che precede l’incontro con la squadra. Il vecchio e il nuovo, però, si spingeva oltre: in queste sequenze graficamente astratte, lo zigzag bianco su fondo nero cresceva pezzo dopo pezzo, si ingrandiva per balzi successivi, si complicava. Da un punto di vista plastico si trattava di un nuovo aspetto del­ la soluzione a colori: dopo la colorazione della fotografìa monocro­ ma, non si tornava indietro all’uniformità del grigio, ma ci si spinge­ va in avanti nel grafismo puro di nero e bianco. Ma così facendo, anche lo stesso sistema plastico passava dal ter­ reno figurativo al terreno, opposto, del non figurativo', la pura grafica degli zigzag bianchi in campo nero. Infine: questi zigzag bianchi sempre più grandi, plasticamente non figurativi, manifestavano una proprietà nuova: l’idea della cre­ scita espressa non attraverso la quantità degli oggetti rappresentati, ma attraverso il significato concettuale (smysfì del segno. La loro crescita infatti non riguardava solo la dimensione ma anche, e in pri­ mo luogo, il valore delle quantità designate dalla serie dei numeri arabi’. 5-10-17-20-35, in cui all’aumento della quantità numerica cor­ rispondeva un parallelo ingrandimento delle dimensioni plastiche 8 Nello stesso film abbiamo una seconda serie di inquadrature simili a queste nel breve montaggio di esplosioni colorate durante l'episodio delle «nozze del toro», proprio nel mo­ mento estatico del parossismo. Anche in questo caso una scena banale e dd tutto «quotidia­ na» del parco di monta, veniva elevata di grado.

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del contorno delle singole cifre, accompagnato da un trionfante rul­ lo di tamburi che annunciava il numero via via crescente degli ade­ renti alla cooperativa del latte. Il «rullo» era realizzato alternando le fluide sequenze dinamiche dei getti sfavillanti con delle «raffiche» di frammenti statici di cifre immobili che si succedevano l’un l’altra a secchi colpi di montaggio. Ancora una volta un passaggio e un salto nel proprio contrario! E piuttosto singolare, a ben guardare, perché il punto più alto del di­ namismo corrispondeva qui alla «raffica» di frammenti di montaggio «tagliati a pezzettini» e, di per sé, immobili - cioè statici\ Quanto al finale della scena, in cui il dinamico succedersi degli zigzag bianchi in una dimensione via via crescente presenta lo stesso contenuto - l’idea di una crescita quantitativa - sia nel tracciato del­ le cifre che nella significazione dei segni, vi troviamo esplicitati i fon­ damenti stessi della natura del pathos: l’unificazione, in uno slancio comune, delle sfere della sensibilità (cuvstvo) e della conoscenza (soznanie) realizzata nell’uomo dalla condizione estatica. La nozione finale astratta del numero - degli aderenti alla coope­ rativa - tornava a sprofondare, in questa scena, nello scatenamento della rappresentazione sensibile, per cui si può dire che, seguendo lo sviluppo di tutta la scena, questa nozione passasse per le seguenti fa­ si: dal fatto all’immagine, dall’immagine alla nozione. In altri termini, essa portava lo spettatore dalla sfera sensibile a quella concettuale, per riunifìcare, alla fine, entrambe le sfere in un’unica condizione patetica. Così, proprio in quanto riproduceva in un breve passaggio del film il processo reale nel corso del quale il sentimento viene «forma­ to» in concetto, questo finale della scena non poteva non incidere profondamente e irresistibilmente sulla sensibilità e sulla coscienza dello spettatore. Dopo quanto e stato appena detto, viene qui del tutto spontaneo aprire una breve parentesi, e provare a chiedersi, a titolo di ipotesi, che cosa accadrebbe qualora ci trovassimo di fronte al caso opposto. Cioè a un caso in cui, invece di una fusione completa della forma del tracciato e del suo contenuto, avessimo esattamente l’inverso: una completa «rottura» tra il segno e la sua essenza, uno «sdoppiamen­ to», accompagnato dal trauma della loro unificazione forzata e inna­ turale. Dovrebbero esserci tutte le ragioni per credere che una costru­ zione il cui principio è l’opposto di quello patetico debba necessaria­ 61

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mente produrre un effetto opposto a quello patetico, e cioè un effet­ to comico, divertente. Sappiamo in quali momenti, in quali condizioni percettive, tra tutte quelle possibili nel comportamento dell’uomo, si produca que­ sta dissociazione del segno e del significato. Si tratta dei momenti di choc violento. Mi è già capitato di citarne altrove [4] un esempio magnifico. È

chiaro che un’osservazione psicologica di tale profondità non poteva che appartenere alla penna di quel sottile analista che fu Lev Nikolaevic Tolstoj. In effetti la descrizione che cerchiamo si trova nelle pagine di Anna Karenina. È il famoso brano in cui Vronskij, che è appena venuto a conoscenza della gravidanza di Anna, fìssa sciocca­ mente il quadrante dell’orologio senza riuscire a collegare la posizio­ ne delle lancette con la nozione dell’ora. Quando un uomo si trova in tali condizioni diciamo di lui che «non è più se stesso». Ora, questa condizione in cui «non si e più se stessi», rappresen­ ta in qualche modo la faccia passiva, alterata - inversa! - della dina­ mica e patetica «uscita fuori di sé», che ci «innalza al di sopra di noi stessi». Lo choc funziona come uno specchio deformante del salto quali­ tativo, nei momenti in cui «l’ordine delle cose» si «scardina» e si ribal­ tano le situazioni stabilite, ritenute fino a quel momento immutabili. Si può ragionevolmente presumere che una tale condizione, proiettata sui principi della composizione, produrrà un effetto che ci piacerebbe definire «antipatetico», intendendo con ciò non un «umorismo moderato» o un «sorriso bonario», ma un fenomeno che, comico all’apparenza, nasconde in realtà un significato profon­ do (e forse perfino tragico). Abbiamo la fortuna, a questo punto, di poter concretizzare la nostra definizione con un esempio felicissimo di situazione comica (nel senso appena precisato), costruita proprio su una simile disso­ ciazione di segno e significato. Questa situazione è tratta da una delle più celebri opere comiche degli ultimi tempi: Il grande dittatore di Chaplin; e la scena è tra le più virulente, per la sua significazione profonda. E la scena in cui Charlie, nel ruolo del piccolo barbiere, si dà da fare per cancellare accuratamente certi segnacci incomprensibili che una mano sconosciuta ha scarabocchiato sulla vetrina della sua bottega. 62

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Ma questi sgorbi, in realtà, più che assurdi sono sinistri: si tratta infatti delle lettere J, E, W, che formano la parola Jew - ebreo -, che, tracciata sulla vetrina della bottega, sta a segnalare l’immagine e il simbolo dell’oppressione razziale fascista. Ma al tempo stesso, e nella loro significazione interna più pro­ fonda, quei segnacci sono esattamente ciò che in loro ha visto il pic­ colo barbiere: assurdità deliranti e sgorbi di fango (un fango che sa­ rebbe diventato ben presto sangue). Così, lo «sdoppiamento esterno» del segno e del contenuto viene di nuovo composto nella significazione profonda, e, sotto l’apparen­ te comicità della situazione esterna, si fa sentire il pathos della situa­ zione reale e sociale che fa da sfondo alla scena. Ma torniamo pure alla nostra centrifuga. Dobbiamo ancora os­ servare che la scena finale della «cavalcata» delle cifre che diventano sempre più grandi scavalca, in effetti, una «barriera» supplementare, compie ancora un salto nell’ambito dei metodi e degli strumenti di esposizione del soggetto. Il primo salto era quello che passava dalla rappresentazione og­ gettuale (predmetnyf) all’esposizione per immagini (obraznyj). Ma la «cavalcata delle cifre» andava oltre, realizzando, nella sua corsa, un secondo salto, dalla regione del figurativo a quella del non figurativo, e poi ancora un terzo e decisivo salto dalla regione dell’esposizione per immagini a quella dell’esposizione intellettuale o per concetti. L’idea della quantità, infatti, non veniva più espressa, alla fine, dalla rappresentazione oggettuale della «massa delle comparse», né àdA'immagine metaforica dei «torrenti umani» «confluenti» nel kol­ choz9, bensì da un puro concetto, il tracciato grafico di una cifra. E a questa faceva eco la catena delle inquadrature figurative, che diventa­ va una sequenza di didascalie in bianco e nero. Non bisogna dimenticare infine che il parallelo tra le dimensioni crescenti delle cifre rappresentate e i valori da esse designati integra­ va la nozione astratta delle quantità con l’apporto dinamico di un aspetto puramente sensibile, istituendo quasi un anello di collega­ mento tra la sensibilità delle immagini precedenti e l’intellettualità di quelle successive.

* Un esempio di una simile soluzione potrebbe trovarsi in qualcosa come un montaggio parallelo di iega il fascino esercitato dalla ricerca dell'uscita nei giardini-labirinto e nei corridoi con gli spec­ chi, come pure spiega l’antico mito dd minotauro c del labirinto di Creta. Non possiamo purtroppo, in questa sede, sottoporre tali proposte ad una critica dettagliata. Le menziono solo per conoscenza.

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Essi (come del resto anche i fondamenti dell’estetica del montag­ gio multilaterale) si sforzano di realizzare nell’opera d’arte quel prin­ cìpio dell *unità nella diversità che in natura non solo regola i fenome­ ni di un unico e medesimo ordine, ma collega fra loro i fenomeni più svariati. Quanto alla sottigliezza con cui questo principio attraversa il campo dell’estetica, bisogna dire che le sue applicazioni sono tal­ mente capillari che a volte è difficile accorgersi a prima vista che si ha a che fare sempre con lo stesso principio di base. Alla luce delle nostre considerazioni sulla crescente raffinatezza con cui si sviluppa la trama del tessuto polifonico, appare di grande interesse, ad esempio, la seguente tesi, già fatta propria da Guyau (Guyau, Problèmes estbétiquesY «Ogni stile espressivo appartiene, in sostanza, allo stile ritmato, giacché l’immagine verbale è, per sua na­ tura, ripetizione di un’idea primitiva in un’altra forma e ogni volta con un nuovo materiale. Ora, ogni ripetizione è attraente perché rea­ lizza l’unità nella diversità». A tutta prima potrebbe non venire in mente di estendere le ca­ ratteristiche della ripetizione, così tipiche per il ritmo, anche alla sfe­ ra dell’immagine verbale. Eppure, ciò che dice Guyau è profonda­ mente corretto. Non solo, ma la percezione di un tale principio unitario in diffe­ renti sfere - nel caso in questione nelle sfere del ritmo e àeWimmagi­ ne - possiede di per sé un suo fascino, poiché questa stessa condizio­ ne non è che un caso particolare dell’applicazione del principio dell’unità nella diversità *. Un altro esempio dello stesso ordine lo potremmo individuare nel vivo del lavoro di produzione di Ivan il terribile. Si tratta dell’unità dello zar pur nell’evolvere del suo aspetto nel corso di tutto il film. Ci sono qui due distinti livelli di lavoro: quello materiale, che ri­ guarda la preparazione prescenica dell’aspetto dello zar, splendida opera del truccatore V.V. Gorjunov; e quello delle luci, ossia l’inter­ pretazione ormai pienamente cinematografica di questo sembiante, di inquadratura in inquadratura, affidata alle magiche mani dell’ope­ ratore A.N. Moskvin. Per quanto riguarda il primo, una volta stabilito il tipo, il volto e la figura plastica dello zar Ivan si trattava di mantenere tale aspetto nella sua fondamentale unitarietà attraverso la grande varietà delle sfumature dei mutamenti dovuti all’età: dal bambino che siede sul

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LA NATURA NON INDIFFERENTE

trono di principe, al giovinetto incoronato zar nella cattedrale Uspenskij; dal virile guerriero sotto le mura di Kazan1, all’uomo che, spinto da un’ardente febbre, ricostituisce l’unità della terra russa; dal vedovo con le prime ciocche bianche, chino sul corpo della mo­ glie avvelenata, ai tratti duri del terribile zar ormai incanutito duran­ te lo scontro con il metropolita Filippo; dal vecchio profondamente combattuto e lacerato dal fatale massacro di Novgorod, al vincitore della Lituania che, con infuocato sguardo aquilino, doma i flutti del mar Baltico finalmente raggiunto. La ricerca di questa serie di trucchi fu lunga e complicata. Nella coscienza popolare vive una certa immagine del Terribile in vecchiaia: esiste già una specie di tradizione consolidata da chi ha visto le sembianze di Saljapin in Pskovitjanka, chi ricorda i quadri di

Repin e di Vasnecov, chi ha osservato il Terribile seduto di Antokol’skij [17]. Basta non allontanarsi troppo da queste rappresenta­ zioni. Ma nessuno sa come fosse il Terribile da uomo, giovinetto o bambino; né ci possono aiutare i ritratti originali, che semplicemente non esistono, o l’immaginazione di pittori e scultori delle epoche successive. Con un originale processo di «riavvolgimento inverso», bisogna­ va risalire ai tratti di un volto infantile, adolescenziale e maturo dai quali potesse prendere forma quella figura di vecchio che immedia­ tamente ci appare al solo pronunciare il nome del Terribile (anche se giunse appena all’età di cinquantaquattro anni). L’instancabilità, il talento e l’impegno impareggiabile di V.V. Gorjunov - il nostro truccatore - aiutarono non poco a superare fe­ licemente queste difficoltà. Un giorno o l’altro si riuscirà, forse, a capire come e da quali as­ sociazioni sia nato questo sembiante che è riuscito a far risuonare la propria voce all’interno di una tradizione. Un giorno o l’altro capiremo quale antica icona sacra ispirò la forma degli occhi e il disegno dei capelli; attraverso quali peripezie fu trovata una curvatura delle sopracciglia che non somigliasse trop­ po a quella di Mefìstofele o dello zarevic Aleksej; quali percorsi furo­ no compiuti per evitare la somiglianza con il Cristo, con Uriel Aco­ sta o Giuda nei contorni delle narici, nel profilo spezzato del naso, nella forma del cranio. A tutto ciò fanno eco le lunghe e meticolose ricerche sugli scorci della testa e del volto in cui il Terribile fosse davvero il Terribile: un

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centimetro più in basso - ed ecco violata la proporzione tra la fronte e il resto del volto; mezzo centimetro di lato - ed ecco che scompare dietro la sinuosità del naso il punto penetrante dell’altro occhio ecc. Ci fissammo mentalmente una sorta di «scheda» degli scorci am­ missibili di Ivan, di modo che la ripresa dovesse rigorosamente pas­ sare per queste posizioni, scivolando velocemente, senza fermarsi, su quelle «zone pericolose» dove l’immagine deviava dal canone plasti­ co del film stabilito una volta per tutte17. Prima, abbiamo riportato le parole di Saint-Saèns sulla musica e su come essa finisca di raccontare tonalmente ciò che è inesprimibile a parole. Allo stesso modo, si finiva di raccontare tonalmente, con il film, il mutevole aspetto di Ivan grazie agli scorci della recitazione dell'at­ tore, al taglio del fotogramma e soprattutto alla miracolosa fotogra­ fia tonale dell’operatore Moskvin. Qui si ripete la stessa cosa ad un livello più alto. Cerchiamo a lungo per il viso una penetrante formula di luce'. una certa ombra persistente nell’orbita dell’occhio, che fa brillare la pupilla evidenziata dalla luce, la linea in un qualche modo pronun­ ciata degli zigomi, la simmetria degli occhi, a volte ben delineata a volte sfumata, l’angolo sporgente della fronte illuminato in pieno e il biancore del collo attenuato da un retino. Ma questo non è tutto: la cosa più importante resta ancora da fare. Poiché, su questa gamma base di luce - qualcosa come un «mo­ dellare con la luce» - intervengono, di scena in scena, non solo le «rettifiche delle luci» in relazione al mutamento d’aspetto del perso­ naggio stesso, ma, in primo luogo e soprattutto, tutte quelle sfuma­ ture luminose che, da un episodio all’altro, devono far eco sia all’at­

mosfera emotiva della scena che allo stato emotivo dello zar protago­ nista. Qui ormai si ha bisogno non più di una stabile plastica luminosa scultorea dell’immagine, non solo della sua variabile interpretazione pittorica in base al mutare dell’atmosfera e dell’ambiente circostante (notte, giorno, penombra, sfondo piatto o profondità), ma di una più sottile sfumatura tonale, che definirei intonazione luminosa e che Andrej Moskvin destreggia alla perfezione. 17 Ncll7tw» gli scorci ammessi comprendono il 75% delle fattezze naturali di Cerkasov. NcIMZrfoaadr NeviJet; avevamo a disposizione solo un 25%, c precisamente quel 25% che non andava bene per il Terribile zar!

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Ce qui, nel ritratto, la stessa finissima musicalità luminosa del delicato paesaggio lirico realizzato da Eduard Tissé nelle nebbie del Potemkin, nella città di Pietroburgo di notte {Ottobre), o nel bianco­ re delle distese ghiacciate del Nevskij, sotto la tetra volta delle nubi minacciose. Abbiamo già riferito l’opinione di Hogart sulla fondamentale istintività del fascino esercitato dalla fuga e dallo stile polifonico. Tuttavia tale istintività non è sufficiente a giustificare la potenza dei mezzi espressivi propri del contrappunto e della fuga. Perché lo spettatore sia pienamente conquistato dall’azione di questi mezzi è inoltre necessario che essi riflettano tratti caratteristi­ ci dell’ordine sociale. Queste strutture registrano infatti i cambia­ menti più significativi, le più importanti svolte sociali. Si tratta pro­ prio di quelle regolarità e di quei fenomeni presenti sia nei primi sta­ di di una società nascente sia nel momento del suo massimo sviluppo. Questo perché tali regolarità sono proprie di ogni forma di evolu­ zione. Mi sembra che il nostro principio, come ogni sua interna esecu­ zione stilistica, puntualmente richiami, momento per momento, e rifletta interamente, soprattutto per le tappe storiche fondamenta­ li, la correlazione tra società ed individuo, tra collettività e singola personalità, ora incorporando e dissolvendo un’entità isolata nel tutto, ora dando la possibilità al particolare di trionfare sul generale. [...] , L’estetica di ogni ordine artistico, di ogni sua interna varietà e di ogni fase di tali varietà, percorre le medesime tappe evolutive, riflet­ tendo inevitabilmente in sé lo sviluppo delle strutture sociali. Ne è un esempio la mancata differenziazione dell’arte in singole forme indipendenti nella fase infantile del suo sviluppo; o, al contra­ rio, la troppo netta differenziazione delle varie specie artistiche e la negazione di ogni loro commensurabilità. O, ancor più, l’insorgere dei singoli «ismi», che ipostatizzano un singolo particolare, e rag­ giungono la massima individualizzazione dell’arte. O, infine, la ri­ corrente aspirazione a una sintesi delle arti in una nuova unità. (Ciascuno a suo modo, in differenti momenti, e con esiti più o meno buoni; i greci, la teoria di Diderot, Wagner, l’estetica sovietica dell’anteguerra, il cinema audiovisivo ecc.). In uno studio sulla storia del primo piano «cinematografico» attra­ verso il passato storico delle arti, mi sono interessato del processo sto­ rico del passaggio dall’«individualizzazione» alT«individualismo».

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Qui, al contrario, sono attratto dal fenomeno opposto: Fattuale fase dell’unità e dell’armonia dei mezzi espressivi. Non so nelle altre arti, ma nell’estetica del montaggio noi oggi ci troviamo probabilmente alla soglia della terza fase del suo sviluppo. La prima fase è stato lo stadio indifferenziato ed amorfo del montaggio «pre-storico»: il cinema a ripresa fissa (ripeteva questa fa­ se, con più sfarzo, e spesso la ripete ancor oggi, il primo stadio del cinema sonoro!). Seguì la fase che vide la crescente tendenza alla separazione dei sin­ goli elementi * contrapposti poi frontalmente nel montaggio. (Quasi sot­ to l’egida di Anatole France: «Mettete in contrasto frontale gli epiteti»). Si trova traccia di ciò, durante le prime fasi di sviluppo del cine­ ma sonoro, anche nella nostra Dichiarazione del 1928, dove esortava­ mo - nella direzione del futuro contrappunto - al netto distacco e al­ la contrapposizione di suono e immagine. Nella fase del cinema muto che precede di poco l’avvento del so­ noro, l’applicazione puntuale di questo principio portò ad eccessi stilistici di montaggio come la comparazione di pezzi indipendenti che, nella loro unione, davano l’illusione di un’unica azione o movi­ mento. Molti esempi sono contenuti in Ottobre (1927), ma la prima esperienza in questo senso è ancora una volta nel Potèmkin' nei leoni ruggenti sulla scalinata del palazzo del conte Voroncov (1925). Qui tre differenti figure di leoni di marmo, che rappresentavano tre diverse fasi di movimento, furono messe insieme per creare Fillusione dell’ergersi di un unico leone. [...] Nella stessa epoca, qualche anno prima, sognavo di reimpagina­ re i 101 fogli delle 101 pose delle avventure di Robert Macaire, se­ guendo le fasi successive della mimica dell’immortale attore francese Frédérick Lemaitre. Egli impersonò Macaire sulla scena nella famo­ sa commedia L’auberge des Adrets, e le irripetibili caratteristiche del­ la sua recitazione rimasero impresse nelle 101 litografìe di Honoré Daumier: Les cent et un Robert Macaire (1835).

Questo è il passato più recente del montaggio, delle aspirazioni e delle ricerche sulle sue forme. Ora, mi sembra che la nuova fase audiovisiva prenda avvio sotto il segno della sempre crescente fusione ed armonia della polifonia del montaggio19. ” Si realizza forse qui quello stesso spostamento evolutivo che ebbe luogo nella storia

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Questo tipo di nuovo contrappunto «armonico» - fuor di ogni paradosso ed eccesso - sembra riflettere in modo più compiuto il quadro dell’attività del singolo individuo nella collettività: quando di un unico compito sociale si fanno carico le molte, sin­ gole unità componenti la società, quando ciascuna unità sociale è consapevole del suo personale e specifico cammino per la risoluzione del compito comune, quando questi percorsi si incrociano, si uniscono e si intreccia­ no - e unitariamente tutto procede verso la realizzazione del fine previsto. Da dove mi sono giunte le vive e tangibili impressioni di un simi­ le quadro? Dove c quando mi è capitato di vederlo in azione? Quando e dove è nata in me questa prima esaltazione che ha se­ gnato la mia vita con la mania del contrappunto e l’entusiasmo per Bach? Non certo dal football: questo gioco è così avvincente forse pro­ prio perché in esso, con particolare intensità e destrezza, prende for­ ma il simbolo della lotta collettiva e della collaborazione che obbliga continuamente a rilanciare da un partecipante all’altro, insieme al pallone, l’iniziativa personale. Per lo stesso motivo, probabilmente, e così ripugnante lo spetta­ colo di un tipo di lotta come il «catch-as-catch-can»' * nella quale sono consentiti tutti i colpi e tutte le mosse: quel suo caso particolare in cui sul ring lottano contemporaneamente quattro uomini da tutti e quattro gli angoli. In questo caso i contendenti non sono due contro due - come nel domino e in altri giochi - ma ciascuno combatte contro tutti gli al­ tri per rimanere unico vincitore. Ed ecco, all’improvviso, non in due, ma addirittura in tre si lanciano su di uno e, fattolo cadere, iniziano a lottare l’un contro l’altro; dei tre, due danno il colpo di grazia al ter­ zo che barcolla, mentre il quarto, che si è intanto ripreso, atterra gli altri due salvando il terzo, ma quest’ultimo, preso da una furia cieca, già si scaglia contro chi lo ha appena aiutato! Lo spettacolo di questa lotta di ognuno contro tutti e di tutti contro tutti - non solo senza «guanti bianchi», ma perfino senza guantoni di pelle per ammortizzare i colpi dei pugni ossuti -, è pre­

della musica quando, in sostituzione dei principi dello stile polifonico, emerse lo stile armoni­ co? 19 La denominazione letteralmente significa: «Afferra come puoi afferrare».

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Labilmente così ripugnante perché offende nel più profondo ciò che si potrebbe definire istinto sociale. Tuttavia la mia passione per il contrappunto non è nata dalle vi­ ve impressioni del football. Lo testimonia il fatto che nei miei film non c’è quasi mai il mo­ dello di due forze in lotta che si affrontano ad armi pari. Ma, piutto­ sto, si tratta di un’unità che prende via via più forza sotto i colpi del­ l’attacco esterno: i passi dei soldati dello zar lungo la scalinata di Odessa, l’offensiva del «cuneo» dei Cavalieri tedeschi o le file serrate dei boiardi che si lanciano nel combattimento contro la causa di Ivan. Questa non è tanto una lotta tra due forze, quanto un vero e pro­ prio conflitto di contraddizioni all’interno di un unico tema. Per questo Bach, e non Beethoven. Risulta comunque chiaro che la mia passione originaria non ha avuto come oggetto l’immagine dello scontro di due collettività ar­ moniche, che si affrontano aggressivamente, ma, piuttosto, la coesio­ ne di un’unica collettività nella realizzazione di un qualche comune compito creativo. Così è stato. E ricordo questa impressione come se fosse ora. La stazione di Izor... Il fiume Neva... L’anno 1917... La scuola degli aspiranti ingegneri dell’esercito. L’accampamento. Le lezioni. Il ponte di barconi! Come ora ricordo il caldo. L’aria limpida. La sabbiosa riva del fiume. Un formicaio di giovani appena reclutati! Essi si muovono con ritmo cadenzato. Con movimenti studiati ed azioni armoniche costruiscono inin­ terrottamente il ponte in continuo sviluppo che attraversa avida­ mente il fiume. Da qualche parte, in mezzo al formicaio, mi muovo io stesso. Sulle spalle - dei quadrati cuscini di pelle. Sui cuscini quadrati poggeranno le estremità dell’impiantito del

ponte.

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E in questa macchina in moto - figure baluginanti di pontoni che si avvicinano, di pesanti travi gettate da un pontone all’altro, o di leggeri parapetti, innalzati da funi leggermente e allegramente essere portato come da un «moto perpetuo» dalla riva, ferma, fino all’estremità del ponte che si allontana

sempre più! Il tempo rigidamente fissato per il montaggio del ponte si scompone nei secondi delle singole operazioni, lente e veloci, che si intrecciano e si sciolgono, e sulle linee dei percorsi tracciati, quasi l’impronta, nello spazio, della loro corsa ritmica nel tempo. Queste singole operazioni confluiscono in un lavoro comune e tutte insieme danno vita alla sorprendente impressione orchestrale­ contrappuntistica del processo di una creazione collettiva. E il ponte cresce sempre più. Comprime avidamente sotto di sé il fiume. Si allunga fino alla sponda opposta. Vanno e vengono le persone. Vanno e vengono i pontoni. Giunge l’eco delle squadre. Corre la lancetta dei secondi. Caspita, che bello! Non sul modello delle rappresentazioni classiche, né assistendo a spettacoli di eccezionale valore, o ad elaborate partiture orchestrali o alle complesse evoluzioni di un corpo di ballo o di una squadra di calcio, in nulla di tutto ciò ho percepito per la prima volta l’ebbrezza dell’affascinante muoversi dei corpi, che a ritmi diversi disegnano e articolano lo spazio; il gioco dei loro percorsi incrociati che genera * no una mutevole forma dinamica, col loro confluire in istantanei, bizzarri ricami per poi ridisperdersi in ordini lontani e irriducibili. Il ponte di barconi che si innalza dalle rive sabbiose sull’immen­ sa ampiezza della Neva mi ha rivelato per la prima volta tutto il fasci­ no di questa passione che ormai non mi lascerà più! Dalle forme di questa subitanea attrazione nacque poi la mia passione per la messinscena. La messinscena è stata ed è tuttora il mezzo espressivo che prefe­ risco nel teatro. Ma è anche il primo esempio evidente e percettibile del contrappunto spazio-temporale! Dalla sua originaria combina *

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zione di spazio, tempo e suono si sviluppano, articolandosi, tutti i principi del montaggio audiovisivo. Il gesto diviene fotogramma, l’intonazione della parola, suono e musica. Generalmente il fascino dello stile contrappuntistico risiede anche nel fatto che esso, per la sua forma compositiva, riflette e fa ri­ vivere quella mirabile fase della storia del pensiero che segue lo sta­ dio originario della coscienza indifferenziata e in cui già si apre lo stadio successivo, quello della definitiva separazione e della capacità di isolare ogni singolo fenomeno del mondo. (Queste fasi, che variano e si complicano all’infinito, si ripetono nuovamente anche ai più alti gradi dell’evoluzione: così, alla prima corrisponde l’agnosticismo, in quanto rifiuto della conoscenza diffe­ renziata, indipendentemente dalle epoche e dalle forme in cui si ma­ nifesta; al secondo corrisponde, ad esempio, la metafisica di Kant, che ripete a modo suo analoghe e più antiche posizioni teoriche). Il contrappunto di montaggio, in quanto forma, sembra invece richiamare quello stadio affascinante della formazione della coscien­ za in cui, superate entrambe le fasi precedenti, l’universo scomposto dall’analisi è nuovamente costruito in un’entità unitaria e si rianima dei nessi e dell’interazione di singoli particolari mostrando alla fervi­ da percezione la pienezza di un mondo conosciuto sinteticamente. Così come, con particolare calore, entusiasmo e commozione, ri­ mangono vive nell’uomo adulto le prime «rivelazioni» che punteg­ giano il suo percorso biografico - il primo impadronirsi di un testo stampato (posso leggere!), il primo risveglio dei sensi (posso ama­ re!), il primo pensare filosofico, che aiuta a comprendere il sistema dei mondi (posso conoscere!) -, allo stesso modo si è inevitabilmen­ te turbati, nell’arte, dalla presenza di costruzioni che richiamano puntualmente i tratti caratteristici delle diverse fasi della coscienza umana. Comunque sia, nel sistema del tangibile principio contrappunti­ stico si è conservata la viva impressione in cui la coscienza - non im­ porta se quella di popoli ad un determinato livello di sviluppo, o quella di un bambino, che ripete nel suo sviluppo i medesimi stadi ha stabilito per la prima volta una diretta correlazione tra i singoli fe­ nomeni della realtà e la percezione di quest’ultima come di una grande entità unitaria. In ciò risiede, sicuramente, la forza dell’incanto della polifonia e del contrappunto e la ragione dell’inevitabile intensificarsi dei loro tratti caratteristici nella fase della giovinezza.

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Di qualsiasi giovinezza. La giovinezza della struttura sociale o di classe - e allora polifonia e contrappunto diventano lo stile fondamentale di un’epoca de * terminata. La giovinezza di una varietà d’arte, che sotto il loro segno deli­ nca i fondamenti della sua metodologia futura. La giovinezza di un autore - momento in cui polifonia e contrap­ punto emergono inevitabilmente nel suo modo di scrivere e nel suo stile, dominando la sua creazione. Nel Potèmkin confluirono tutte e tre queste giovinezze: Il giovane potere sovietico (8 anni). La giovane arte cinematografica (30 anni), alla febbrile ricerca dei principi della sua autodeterminazione. Il giovane autore (27 anni) che dopo una breve rincorsa durata 5 anni si impegnava per la prima volta su un grosso tema. Questo insieme non potè quindi non determinare la composizio­ ne del Potèmkin come una composizione innanzitutto contrappunti­ stica. E dal momento che nel cinema (c specialmente in quello muto) è il montaggio che realizza la polifonia e il contrappunto, il Potèmkin non potè non diventare, nella cinematografia artistica, il portaban­ diera dei principi del montaggio e del contrappunto.

Il pulsare della forma del montaggio nell’arte è indicativo del­ l’energia vitale di questa sfera dell’attività umana. Ho affrontato questo argomento nella prefazione all’edizione inglese del mio libro The Film sense, uscito nel 1943 in Inghilterra, un anno dopo la sua comparsa in America. La prefazione non fu pubblicata a causa del blocco, né giunse mai in Inghilterra: è per questo che ne riporto qui un passo, necessario a esplicitare il nostro discorso.

Prefazione all'edizione inglese

Esattamente un anno fa, a metà ottobre, ricevemmo, intorno alla mez­ zanotte, l’ingiunzione di fare i bagagli. Quella notte, per un incomprensibi­ le motivo, i tedeschi non avevano bombardato Mosca. Ciascuno di noi potè tranquillamente fare le sue valigie. Al mattino eravamo alla stazione. Per 12 giorni il nostro vagone - nuova arca di Noè - corse attraverso la tempesta della guerra che infuriava. Eravamo il principale gruppo di cineasti evacuato da Mosca al momen­ 329

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to dell'offensiva tedesca sulla capitale dello Stato Sovietico, nel tardo au­ tunno del 1941. I tedeschi sono stati respinti. Ci hanno lasciato a lavorare proprio nel cuore dell’Asia Centrale. Tracciate una linea, con un dito, dall’india in su. Troverete l'intersezione di questa linea con il confine sud asiatico dell’Unione Sovietica. Fermate il dito sul punto che ha il fantasioso nome di Alma-Ata. È qui che noi ci troviamo adesso. Sarebbe stato impensabile vivere. Sarebbe stato impossibile esistere. Sarebbe stato vergognoso ed offensivo creare e lavorare in questa lon­ tana retrovia - se non avessimo saputo che ci erano stati affidati due compi­ ti: in primo luogo, far uscire, a ripetizione, un proiettile dopo l'altro, un film dopo l'altro, e con questi, quasi fossero carri armati o aerei, incalzare con estrema violenza distruttiva i tedeschi; in secondo luogo, preservare la cultura cinematografica acquisita da quel vortice di distruzione che attra­ versava con i fascisti invasori tutta la nostra Patria. A Pskov e Novgorod sono andati distrutti insostituibili affreschi del xiii e xiv secolo. Nei dintorni di Leningrado - palazzi e fontane del xvui secolo. In quelli di Mosca - cattedrali e musei del xix secolo. Sul Dnepr - una meraviglia del xx secolo: Dneproges. Tutta la parte europea della Russia è coperta di rovine e segnata dagli incendi... Ma la cinematografìa come produzione, come affresco umano, come grande tradizione dell’arte russa, come custode delle acquisizioni del­ la cultura e del pensiero scientifico sovietici, non è andata perduta.

Dinanzi ai nostri occhi gigantesche montagne si stagliano sull’azzurro del ciclo. Dietro queste, altre catene - già lungo il confine con la Cina. Le montagne dispongono alla contemplazione. Per secoli, dall'aftro versante, i saggi cinesi hanno rivolto lo sguardo al­ le nostre catene montuose. Le montagne dispongono alla meditazione. E senza volere, osservando le nevi eterne, ci si innalza dall'odierno caos della follia e del massacro verso ciò che sarà domani, dopo la folle guerra di questi anni. Si pensa al domani della cultura e delle arti. La terribile scossa della prima guerra mondiale ha sconvolto il mondo: dal caos è nato un fenomeno senza precedenti: l’Unione Sovietica. Cosa porterà il cataclisma cento volte peggiore in cui oggi, con uno schianto, è piombato il mondo? Non è dato indovinare o prevedere i percorsi dell’arte sui quali si muo­ vere l’umanità quando, illuminata dall'eroismo dei suoi figli migliori, com330

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battenti contro le tenebre fasciste, rinascerà dal fango c dalla mone di que­ sti anni. La fine della prima guerra mondiale ha portato, con la nuova era socia­ le, un nuovo straordinario slancio e una nuova fioritura della cultura. E ha portato la cultura dell’arte più avanzata: il cinema. Nella storia mondiale dell’arte il periodo tra le due guerre è senza dub­ bio l’era del trionfo del cinema. Le altre arti, in questo lasso di tempo, si muovono febbrilmente verso la disgregazione e la disintegrazione. Espressionismo. Suprematismo. Dadaismo. Surrealismo. La disgregazione della forma, dell’immagine, del pensiero. Una spontanea corsa indietro verso il primitivo. Sembra che le ultime conquiste si chiudano ad anello con i primi passi della cultura e dell’ane. È il noto caso del serpente che si morde la coda. Si immobilizza. Nessun momento della storia delle arti come quello degli inizi delle due guerre ha mai conosciuto un simile vicolo cieco. Giunta ai più alti gradi della sua evoluzione, l’arte improvvisamente crolla. Solo il cinema, nei suoi esempi migliori, non ha ceduto dinanzi al vorti­ ce della disgregazione. Anche perché è il più giovane e prende avvio là dove sono giunte nel loro declino tutte le altre.

L’arte è un sismografo molto sensibile. Il tragico vicolo cieco in cui essa è venuta a trovarsi negli ultimi anni ha rappresentato solo un grado della tensione in cui è precipitato il mondo con le sue strazianti contraddizioni. Le contraddizioni sono scoppiate in un massacro mondiale senza pre­ cedenti. Nessuno ha avuto coscienza né della paradossalità degli eventi in corso, né delle proporzioni di quanto accaduto, né di ciò che ancora il mondo do­ vrà sopportare. Sappiamo con certezza che nel futuro ci aspetta una vittoria sulle te­ nebre. Nel futuro ci sarà la luce. Ma non ci siamo ancora abituati ai raggi del sole, non riusciamo a scor­ gere la nuova vita attraverso questi nuovi raggi, non riusciamo ancora a per­ correre i nuovi sentieri da essi illuminati. Prevediamo e presentiamo, percepiamo la luce. Ma questa luce si è appena generata dalla pura follia apocalittica che arde l’Universo. Ad essa, a questa nuova luce misteriosa del futuro, tende l’umanità. Incontrando sulla loro strada verso la luce le forze delle tenebre fasci­ ste, molti croi hanno immolato la propria vita, spianando la strada alle ge­ nerazioni future. Non ci son parole per descrivere il loro sacrifìcio. Non banalizzeremo l’immagine di questo futuro con congetture troppo 331

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affrettate, non sminuiremo la sua grandezza, nata dal sangue di milioni di vite umane, non mimeremo maldestramente i tratti del suo volto futuro. Vogliamo solo ricordare una cosa: l’inno della nuova, straordinaria arte, l’arte del secondo dopoguerra, sarà espressione di questo nuovo, straordi­ nario volto dell’Umanità che, vittoriosa sul mostro fascista, risorge solenne­ mente alla vita. E come inaccessibile alle nostre congetture è il volto del futuro, così la forma dell’arte rinnovata sfugge per ora inevitabilmente ad ogni nostra pos­ sibile supposizione. Non ci resta che aspettare, sollecitare, esser pronti. Aspettare la nuova era. Sollecitare il suo avvento, offrendo tutte le forze, la propria vita, per af­ frettare i tempi. Ed esser pronti, armati di tutta l’esperienza del passato, ad accettare e portare avanti quanto ci recherà questo straordinario futuro. C’è qualcosa di inebriante in questa attesa della futura rigenerazione dell’arte e di una nuova pagina della nostra vita. Nella consapevolezza delle difficoltà che ci bloccheranno fino al mo­ mento del suo arrivo. Così le giovani spose attendono immobili il momento in cui si daranno allo sconosciuto sposo, così, intorpidita, si distende la ter­ ra, nella trepida attesa dello spuntare dei germogli primaverili. Ce un non so che di esaltante non solo nella consapevolezza della li­ bertà spirituale, ma anche nel sentimento di un limite storico ormai stabili­ to, di uno stadio superato di vita, prima ancora di riceverne lo slancio per dare avvio ad una nuova fase di sviluppo dell’arte. In tali momenti si percepisce il vivo processo della storia mondiale. Che nelle nostre mani in attesa della luce ci siano lampade pronte per il momento in cui la nostra arte dovrà esprimere la nuova vita. Per questa causa, accanto al lavoro da svolgere al fronte, c’è l’inflessibi­ le dovere nei confronti della cultura del nostro tempo. Tirare le somme della strada fatta in vista di ciò che sta per sopraggiun­ gere, è uno dei doveri sul fronte teorico del nostro cinema. «Noli tangere circulos meos!» - dobbiamo gridare con Archimede di fronte al barbaro nemico che offende i frutti della riflessione e del lavoro di un’intera armata di uomini impegnati nel settore cinematografico. Per questo non mi mette a disagio, nel bel mezzo della guerra, la pub­ blicazione di questa raccolta di articoli che fanno il punto della situazione e guardano in avanti, in quello specifico settore della cultura cinematografica che è il montaggio, vera e propria spina dorsale della stilistica cinematogra­ fica sovietica. Negli ultimi anni questa tendenza si è affievolita e non si riscontra più così frequentemente nei nostri film. 332

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Dal punto di vista storico non è un fatto casuale. Negli articoli della raccolta ho provato a sostenere l’idea che il montag­ gio è una proprietà organica di qualsiasi arte. Osservando i progressi e i regressi del metodo del montaggio nel corso della storia delle arti, ci si convince che in ogni epoca di stabilizzazione so­ ciale - quando il compito prioritario dell’arte diventa quello di riflettere la realtà - la potenza espressiva del metodo e dello stile del montaggio inevita­ bilmente si affievolisce. Al contrario, in periodi di attiva ricostruzione, di attivo intervento nella ristrutturazione della realtà, il montaggio come metodo artistico si sviluppa sempre con crescente intensità. [...] Ciò veniva scritto nella lontana Alma-Ata, nell’ottobre del 1942. Oggi, mentre lo riporto, sotto i raggi della definitiva vittoria esul­ ta per le strade il grande Maggio del 1945. Ciò che era previsione di nuove forme e di nuovi principi del montaggio si fa ormai concreta realtà. E vediamo sorgere e avvici­ narsi la nuova fase del montaggio audiovisivo organico. Ascoltiamo il ritmo del suo battito. Ne tocchiamo con mano gli esempi nati du­ rante gli anni della guerra. Percepiamo in essa i tratti nuovi. Non siamo più nel vicolo cieco prebellico di una negazione della forma del montaggio. Non si tratta più del palliativo di invecchiate tradizioni, proprie del montaggio «messo a nudo» e «manifesto» del cinema muto, inserite artificialmente in quello sonoro. I due o tre tentativi di una simile restaurazione fatti durante la guerra sanno terribilmente di muffa. Sentiamo definitivamente che lo stadio del montaggio «manife­ sto» appartiene ormai alla storia. Ma ciò non significa rifiuto del metodo, abbandono e ritorno al primitivismo lapidario del cinema che ha preceduto l’era del mon­ taggio. Ora il paese dei Soviet è forte, come mai lo è stato, di potenza militare, di prestigio mondiale, della gloria e dei successi della sua travolgente Armata Rossa. L’arte è un sismografo molto sensibile. In tali condizioni, i progressi stilistici sono immancabili. Per quanto riguarda il nostro paese non si tratta precisamente di un «progresso» che in linea di principio presuppone un cambia­ mento qualitativo - quale fu il «progresso» sociale all’epoca della guerra civile. La potenza attuale del paese dei Soviet è solo una na­ turale saldatura e un consolidarsi di forze sociali che sono state

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formate e educate per anni dal potere sovietico. Ora, dopo esser pas­ sato attraverso il fuoco della guerra, il paese dei Soviet ha raggiun­ to quel grado di fusione monolitica perseguito nel corso di tutta la

sua esistenza. Ciò avviene solo al prezzo dell’oppressione di una parte del pae­ se sull’altra? Solo a scapito della singola individualità nel nome degli interessi comuni? Si perde in questa fusione ciò che è pienamente originale? Si riduce il diverso all’anonimo e all’impersonale? No, assolutamente no. L’aspetto più sorprendente delle strutture del potere sovietico per quanto concerne il problema della personalità - è la mirabile ar­ monia di particolare e generale, di collettivo e individuale, di origi­ nalmente nazionale e socialista. Penso che sia assolutamente naturale che simili caratteristiche deb­ bano tradursi nella stilistica cinematografica degli anni della guerra. E se si guarda al tratto stilistico più caratteristico del cinema, alla sua spina dorsale - il montaggio - allora, nel contrappunto di mon­ taggio di almeno un film da noi realizzato al tempo della guerra, è possibile rinvenire chiaramente questa tendenza a saldarsi in una trama più fitta. Ripeto: solo ad un osservatore molto miope può sembrare che in ciò vi sia un rifiuto del «montaggio evidente» e del «contrappunto tangibile» ormai acquisiti, o che questo metodo sia un ritorno nel grembo di un cinema pre-montaggio. Si tratta in realtà di un passo in avanti lungo la linea di sviluppo dell’estetica del montaggio, e se qualcuno non sa distinguere un vol­ gare regresso da un evidente «quasi ritorno» - nelle cui forme si pre­ senta di regola lo sviluppo dei fenomeni che attraversano nuove fasi evolutive - beh! allora la colpa è degli «osservatori» e non certo del film! Il film che ho in mente è Ivan il terribile. Un film che, per la me­ todologia del suo stile basato sul contrappunto di montaggio, pur continuando la tradizione iniziata dal Potèmkin, non solo se ne diffe­ renzia, ma rappresenta, per la sua natura audiovisiva, un passo in avanti anche rispetto di Aleksandr Nevskij (il cui montaggio audio­ visivo è dettagliatamente analizzato nei miei articoli sul montaggio verticale pubblicati nella rivista Iskusstvo Kino) [18], Perché mai, però, l’analisi dell’uso del montaggio ncU’/ptfw il ter­ ribile e collocata in una raccolta dedicata al Potèmkin [19] e non in un articolo od opuscolo dedicato al film stesso?

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Ma perché è naturale supporre che in questa triade di film ci sia un’affinità stilistica e metodologica tra il primo e il terzo, giacché, nel loro sviluppo, anche le forme di montaggio seguono un percorso di negazione della negazione. E se lo scalpitio dell’attacco della cavalleria nel Nevskji si sviluppa direttamente dal rullio dei passi dei soldati lungo la scalinata di Odessa, molto di quanto è stato realizzato con il metodo «audiovisi­ vo» nell’Ztwr continua non tanto ciò che è stato fatto nel Nevskij, quanto ciò che a suo tempo era stato abbozzato nella Corazzata, por­ tandolo, grazie al suono, a un compimento ideale. Si tratta per l’appunto di quella parte del Potèmkin che, prima dell’avvento del suono nel cinema, realizzava un «suono nascosto», quella musica del paesaggio che abbiamo analizzato finora in questa sezione del libro. Nella scena delle nebbie troviamo l’esempio di una struttura non evidenziata, ma integrata, di procedimenti contrappuntistici, molto diversa da altre scene «d’urto» del film in cui il montaggio è «messo a nudo». La struttura del montaggio di tali scene «d’urto» - evidente e sottolineata - ha creato la moda di ciò che ancor oggi si chiama «russian cutting» o «russischer Schnitt». E se diamo credito a quanto scrivono E.V. c M.M. Robson in The Film answers back (London, 1939), cioè che «nessun film nel corso della storia ha avuto un influsso così potente sulla cinemato­ grafia come la Corazzata Potèmkin», allora questo influsso si manife­ sta proprio nel montaggio delle scene «d’urto» (ad esempio quella della scalinata d’Odessa). E ciò è anche comprensibile: la natura del montaggio dei passi dei soldati, infatti, apportò numerosi elementi fecondanti ai metodi di montaggio del cinema muto. Mentre i principi delle scene del lut­ to per Vakulincuk e delle nebbie di Odessa dovevano determinare meno la metodologia del montaggio muto, che uno sviluppo nel montaggio audiovisivo. Per questo è naturale completare l’analisi del problema del pae­ saggio musicale e del contrappunto plastico con una breve descrizio­ ne di come, venti anni dopo, gli stessi principi, arricchiti delle possi­ bilità del suono e della musica, continuino la tradizione del montag­ gio polifonico della Corazzata Potèmkin, nelle forme nuove delrivan. Sotto questo riguardo la composizione a montaggio dell7tw» pre-

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senta una curiosa affinità con quanto accadeva per la descrizione psicologica dei personaggi nelle commedie di... Cechov. L'elaborazione di una sottile e profondamente musicale sfumatu­ ra dell’atmosfera dell’azione nei lavori di Cechov creava l’impressio­ ne di una dissoluzione del principio teatrale in ciò che accadeva sulla scena. I tratti delle sfumature si intrecciavano in un tessuto così fìtto che dietro di essi sembrava sparisse la tangibilità dell’effetto teatrale. Al teatro di Cechov si contrappone naturalmente, come pro­

testa, un teatro caratterizzato da una teatralità particolarmente marcata. Il ritorno alla tecnica e alla tradizione della commedia deU’arte fu quasi un balzo indietro verso un contrappunto palpabile e «mani­ festo», tangibile nel «rozzo» gioco reciproco delle linee drammatur­ giche e dei fili delle azioni dei singoli personaggi, in contrapposizio­ ne con la ben fusa polifonia delle sfumature degli eroi cechoviani. Per quanto riguarda la storia dei teatro in generale è interessante notare che il processo per cui le «basi» e i «fondamenti» manifesti della materia vengono riassorbiti nell’intricato disegno della superfi­ cie del tessuto, segue anche qui lo stesso identico percorso che ab­ biamo già osservato nello sviluppo della pittura cinese. Nel primitivo schema polifonico si inseriscono sempre più voci e sfumature, e alle relazioni tra superfìci piane si sostituiscono quelle chiaroscurali. La commedia dell’arte rivive nel teatro di Molière, di Marivaux, di Beaumarchais e di... Griboedov. Infatti basta «raschiare» un po’ personaggi come Skalozub, Famuzov o Liza per ritrovare, sotto tutta la ricchezza delle caratteristiche sociali e di costume dell’epoca, i contorni di figure teatrali quali Capitan Fracassa, Pantalone e Sme­ raldina! La commedia dell’arte italiana è in questo senso particolarmente chiara: si capisce come una «ricaduta» nella teatralità dovesse richia­ marsi proprio ad essa. Qui, infatti, i fili del comportamento e le linee dei caratteri sono dati interamente in anticipo e tutto il fascino del­ l’azione poggia solo su combinazioni contrappuntistiche sempre nuo­ ve, su situazioni sceniche e lazzi tra maschere fissate una volta per tutte. Questa limitazione degli elementi compositivi non può non ricor­ darci la Cina e le sue limitazioni quantitative dei motivi - si tratti de­ gli elementi figurativi in pittura o dei centosei gruppi di rime am­ messe in poesia!

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Il «secolare» assortimento delle maschere teatrali tradizionali («secolari» perché in esse si sono fissate con la più chiara completez­ za le immagini della realtà più ricche di possibilità sceniche) è perce­ pibile persino negli eroi di quell’interprete dei costumi della vita quotidiana che è Ostrovskij! Glumov - Arlecchino, Mamaev e Krutickij - tipici Pantaloni, Gorodulin - un nuovo Capitano (si parla in­ fatti di «capitani d'industria»!) ecc. ecc.20.

Tuttavia, le caratteristiche di tangibilità diventano sempre più impercettibili e la sfumatura dei caratteri e delle atmosfere cechoviane rifluisce in altri stadi di sviluppo del contrappunto scenico nei quali è ormai più difficile rilevare l’ossatura della comune tradizione teatrale. Ora, è curioso osservare come qualcosa di analogo sia accaduto nell’inattesa stilistica del montaggio di Ivan il terribile. Qui il montaggio, dopo la fase «a salti» della forma manifesta, passa nella forma di una polifonia omogenea dei mezzi espressivi. Ed è sorprendente che, come a suo tempo qualcuno blaterava che il teatro di Cechov «non è teatro», c’è oggi chi sostiene rumoro­ samente che il montaggio dell’/tw non è affatto montaggio (!) e che il film stesso non è... cinema. Sappiamo bene che alla fine il teatro cechoviano «si rivelò» e re­ stò comunque teatro. E con egual certezza possiamo affermare che il montaggio dell’fiw è pur sempre montaggio - certo, in una nuova fase di sviluppo. Questa circostanza rende necessaria l’analisi del film alla luce di quanto fu realizzato a suo tempo nella Corazzata. Devo dire che è particolarmente divertente per me, che proven­ go per l’appunto dall’ultrateatrale teatro «di sinistra» (per l’esattezza dalla sua ala circense) ascoltare ora, in relazione al montaggio delVlvan, le stesse accuse di assenza di «teatralità» che venivano mosse al teatro di Cechov! Mi è perfino toccato sentir sostenere l’opinione

che il montaggio dell’/tw cancella tutto quello che ho realizzato per l’affermazione dei metodi del montaggio (!), mentre, al contrario, l’intero Ivan nasce e si sviluppa dal Potemkin. Comunque sia, è chiaro che occorrono delle spiegazioni! Che daremo subito.

w «In tutti i paesi europei, in particolare in Inghilterra, si è ormai creata in una certa mi­ sura una classe di comandanti e di capitani che rappresenta come l'embrione di una nuova ari­ stocrazia, reale e non immaginaria: i capitani d'industria * (Carlyle, 1841).

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Ricordiamo innanzitutto - in modo puramente accademico - su cosa poggia, o meglio, su quale fenomeno psicologico si basa la pos­ sibilità di una combinazione paritaria degli elementi audiovisivi (de­ gli elementi della polifonia audiovisiva). Si basa, certamente, sulla sinestesia, cioè sulla capacità di ricon­ durre ad unità tutte le diverse sensazioni apportate dalle diverse sfere dei vari organi sensoriali. Con la descrizione di questo fenomeno ho già annoiato abbastanza i miei lettori negli articoli sul montaggio verticale e nelle analisi degli elementi del «risonante» paesaggio ci­ nese. Se non avessi avuto sottomano ancora un altro esempio, parti­ colarmente divertente e affascinante, mi sarei certamente limitato al­ la soia indicazione del fenomeno e a qualche citazione, e non avrei certo ricominciato con esempi e descrizioni. Ma per mia disgrazia mi è capitato tra le mani il secondo tomo de La ntouebe causeuse di Eugène Sue (continuazione della sua Cuca­ racha, in due tomi), del 1834, dove, nel racconto Physiologic d’un appartement, vengono riportati stralci di un libro immaginario intitola­ to Sur la musique applique? à la gastronomie:

Se mi saltasse in testa di approfondire il forte acutizzarsi dell effetto ine­ briante o, più precisamente, della poesia del vino di Porto, poesia pensosa, se­ ria e melanconica, comincerei col pranzare da solo e non mangerei altro che carne nera e semplice - filetto di maiale o di cervo di media età - raggiungen­ do in tal modo l'armonia dei succhi degli alimenti solidi con lo spirito dei vi­ ni, poiché, se le pietanze sono il corpo dell’ebbrezza, i vini ne sono invece l’ani­ ma, e occorre osservare la più perfetta correlazione tra questi due principi.

(Non vengono qui forse in mente i cinesi dell'viii secolo, a mille anni di distanza?!). E dovrebbe illuminarmi una luce pallida e (douteuse) malfer­ ma; e la musica (io non ammetto l’idea di mangiare senza musica, senza otti­ ma musica) dovrebbe avere un carattere cupo e maestoso: alcune pagine dal Don Giovanni - il potente c severo poema di Mozart - o dai grandiosi canti lirici del Mosè. E allora, attraverso il corpo, il cuore c io spirito rapiti da tre ebbrezze le pietanze, i vini e la musica - raggiungerei le più alte sfere del piacere in­ tellettuale e materiale. E se mi venisse l'idea di abbandonarmi alla spensie­ ratezza e alla pazza poesia di un freddo champagne, succhierei gli atomi di un qualche leggero e splendido uccello arrosto, ad esempio l'aletta di un fa­ giano dorato dalle zampine purpuree. E allora - luccichio di mille candele, fiori, argenti, donne e grida d’amore, allegria. E per coronare la mia estasi, risuonino pure le spumeggianti tarantelle della Muta o la divina musica del Barbiere, musica inebriante, che ride scintilla e scorre quasi fosse un tremu­ lo gas sotto un velo lucente come l’argento! 338

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Se compariamo questa sana e sensuale polifonia sinestetica del­ l’inizio del secolo con l’esempio di una sua degenerazione decadente della fine del secolo, allora, accanto all’allegra organicità delle pagi­ ne di Sue troviamo i famosi, stilizzati «pranzi neri» - neri per i cibi che li compongono (caviale, tartufi ecc.), e neri per il «quadro gene­ rale», fino alle candele di cera nera e alla cameriera negra - di Des Esseintes, eroe del romanzo di J.K. Huysmans, a ragione ritenuti un tipico esempio di... «formalismo», perché ideati artificialmente e con combinazioni assolutamente inorganiche, giustificate solo da un principio esteriore puramente formale! Comunque sia, la polifonia audiovisiva di uno stile sempre più omogeneo è possibile solo nella più rigorosa «sinestesia» delle singo­ le sfere dell’espressività sonora e visiva. La paradossale concezione del «montaggio delle attrazioni» che venti e passa anni fa risultava niente più che una trovata eccentrica una boutade teatrale - ci appare oggi non solo come un procedimen­ to tutt’altro che «strabiliante» ma, date le illimitate possibilità della polifonia audiovisiva, come una base obbligatoria e una premessa in­ dispensabile per la costruzione di una qualsiasi scena che sia studiata seriamente dal punto di vista compositivo. Mi riferisco alla parte introduttiva del mio manifesto del 1923 // montaggio delie attrazioni (Lef, n. 3, 1923) [20]. Come tentativo di riportare ad un unico comun denominatore tutte le varie sfere del teatro partendo da un loro principio basilare - l’azione esercitata sullo spettatore - quest’affermazione del principio sinestetico con­ serva tutto il suo significato ancor oggi.

Come materiale base del teatro viene posto lo spettatore: orientare lo spettatore nella direzione (nella disposizione d’animo) desiderata è compi­ to di ogni teatro utilitario (di propaganda, di pubblicità, di istruzione sani­ taria ecc.). Strumenti d’azione sono tutte le parti componenti l’apparato teatrale (il «recitativo» di Ostuzcv, non meno del colore del costume della prima donna, un colpo di timpano quanto il monologo di Romeo, un grillo sulla stufa non meno di una salve di spari sulle teste degli spettatori), ripor­ tate. in tutta la loro eterogeneità, ad una sola unità. Fu questa unità sinestetica - considerata solo dal punto di vista della sua possibilità, indipendentemente dal campo d’azione - ad es­ ser chiamata «attrazione». Non vi era e non vi è alcun serio argomento per contestare que­ sto principio. Eppure, il mio montaggio delle attrazioni fu fatto og­

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getto a suo tempo di pesanti critiche: in base a questo principio io sostenni che sono possibili composizioni capaci di agire sullo spetta­ tore anche in mancanza di un soggetto compatto, e ritenni che il sog­ getto stesso fosse solo una tra le diverse unità d’azione, per nulla ob­ bligatorio in tutti i casi. Questa affermazione era di per sé orientativa, cioè transitoria, puramente personale e senza alcuna velleità di legge. Per quanto riguarda il principio della sinestesia, come fondamen­ to della costruzione dell’oggetto, ci troviamo dinanzi ad una questio­ ne di metodologia generale che certamente serba ancor oggi il suo sostanziale significato. Ci si accosta e ci si allontana dal principio della sinestesia in mo­ do diverso nelle varie epoche di sviluppo artistico, e ciò dipende dal­ lo specifico carattere sociale dell’epoca, il quale detta lo stile e le for­ me del suo tempo. Inoltre è diverso, nelle differenti epoche, il carattere della com­ prensione e dell’applicazione pratica di questo principio. Così, il principio della sinestesia viene ugualmente messo in rilie­ vo nell’epoca del romanticismo e nel periodo della supremazia del­ l’impressionismo. Ma è del tutto evidente la profonda differenza nel­ la comprensione e nell’applicazione del principio in queste due dif­ ferenti epoche storiche. Diversa è ancora l’utilizzazione che ne fa il cinema, in relazione alle sue possibilità e al suo orientamento realistico-, una ragione di più per analizzare quanto è stato fatto in questa direzione nell’Itw il ter­ ribile, ma anche per avviare un esame retrospettivo di come il pro­ cesso abbia preso le mosse, per quanto riguarda il metodo, dal Potèmkin. Questo tipo di esame porta naturalmente a scegliere le scene in­ ternamente simili dei due film. In entrambi c’è una scena su un cadavere. In entrambi si piange una vittima, caduta nella lotta per un ideale. In entrambi c’è un lutto. In entrambi il lutto esplode nello sdegno. E così via... quasi secondo il principio Yin e Yang. Là c’è un uomo assassinato: il marinaio. Qui c’è una donna avvelenata: la zarina.

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Là c’è il collettivo che piange il combattente caduto per la causa

comune. Qui, un individuo che si dispera sul corpo di colei che l’aveva so­ stenuto nella lotta. Nel primo caso il tema del lutto si frantuma nelle mille diverse azioni dei singoli componenti la folla, la massa. Alla polifonia del dolore comune partecipano mendicanti ciechi che cantano e donne piangenti, gruppi di due, tre, quattro o cinque personaggi tristi, irati o indifferenti (affinché ciascuno sottolinei le sfumature di dolore degli altri) - volti di giovani e di vecchi, di ope­ rai e di intellettuali, di donne e di uomini, di bambini e di adulti. Nel secondo caso - nell’/tw - il tema del lutto si concentra in un solo uomo (ma quest’uomo impersona la potenza di un enorme paese) ! La polifonia del tormento e del dolore anche qui risuona «a mol­ te voci»: ora il gemito dello zar, ora un suo sussurro, ora il tonfo della croce che cade con lui ai piedi del candeliere; ora la macchia bianca del suo volto, divorato per metà dall’ombra; ora il suo capo che si rovescia all’indietro e si innalza; ora il suo viso che si leva dalla bara intarsiata, gli occhi impazziti e un sussurro appena percepibile: «Ho ragione?». In questo caso tutta la varietà di «voci» è data sempre dalla mede­ sima figura del personaggio-protagonista: ora genuflesso, ora pro­ sternato, ora mentre scivola attorno al catafalco, ora mentre, in un accesso di collera, rovescia i pesanti candelieri, rompendo il silenzio della cattedrale con un grido furioso: «Menti! Non è ancora finito lo zar moscovita!». È caratteristico che le varie posture dello zar nei vari punti e po­

sizioni intorno al catafalco siano rese senza i passaggi da una postura all’altra", come si rappresenterebbe una serie di personaggi singoli e indipendenti, scelti dalla macchina da presa non in base a una com­ presenza fìsica e spaziale, ma secondo il grado dello sviluppo unitario di un’emozione crescente. Se la crescita del dolore per la morte di Vakulincuk fu risolta con l’alternanza dei primi piani di più persone sul cadavere, i piani del solo Ivan si susseguono pervasi dal pathos via via crescente delle po­ se e dell’inquadratura. La figura di Ivan attraversa qui un rigoroso disegno di successio­ ne di posture: iniziando dalla posizione genuflessa ai piedi del cata­ falco (quando, nelle prime sequenze dell’episodio, egli appare alla fi­ ne della panoramica iniziale dall’alto in basso) - attraverso la com-

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pietà prostrazione dopo le parole: «È punizione di Dio?», fino alla posizione eretta, con il capo rovesciato al massimo all’indietro (dopo aver saputo del tradimento di Kurbskij, e alle parole di Pimen: «L’ingiuria ha afflitto il mio cuore, ed io sono spossato»). Qui la polifonia si costruisce sull’alternarsi e l’intrecciarsi delle diverse pose di una stessa figura. Ma non solo su questo: in essa si in­ treccia anche il diverso gioco dei singoli elementi della stessa figura; elementi quasi indipendenti che confluiscono per proprio arbitrio, attraverso azioni successive, in una nuova e superiore unità emotiva, differente dalla condizione amorfa cui appartengono dal punto di vi­ sta puramente fisico. Questa percezione della figura nel suo insieme come un’originale orchestrazione delle parti che indipendentemente la costituiscono non è affatto estranea, ad esempio, alle nostre comuni rappresentazioni figurate; e se in una dimensione plastica e drammaturgica essa può risultare inattesa, nella sfera della figuratività verbale noi siamo inve­ ce abituati ad espressioni come «la mano destra non vede ciò che fa la sinistra» o «le gambe dell’ubriaco vanno per proprio conto» o «l’uomo correva così veloce che a stento la sua ombra gli teneva die­ tro» (come dicono in Oriente). Tuttavia, la possibilità di una simile costruzione drammaturgica e plastica esige che un unico principio compositivo attraversi la co­ struzione di ogni singolo elemento della complessa polifonia. Affinché le movenze plastiche {postupok) del personaggio e l’in­ quadratura che le coglie «cantino» all’unisono, è necessario che la composizione spaziale dell’azione contenga quegli elementi in base ai quali si costruirà poi lo «smembramento» (vyrez) di tale compor­ tamento nelle singole inquadrature; affinché ci sia consonanza tra l’azione e le parole pronunciate, occorre che gli elementi della mes­ sinscena rechino gli stessi tratti di qualcosa come un «verso libero» di carattere spaziale; affinché all’unisono risuonino la musica (o i co­ ri) e l’ambiente, è necessario che il quadro tonale del gioco di luci e ombre faccia eco al timbro, alla melodia e al ritmo dell’elemento so­ noro che attraversa lo spazio dello schermo. Ma la cosa più importante è che tutto, dalla recitazione dell’atto­ re al gioco delle pieghe dei suoi abiti, sia in egual misura integrato nel risuonare dell’unità determinante dell’emozione che è posta alla base della polifonia di una composizione a più livelli. Anche qui ci troviamo nuovamente di fronte alla tradizione dell’Oriente cinese.

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Più di una volta studiosi e conoscitori di questo argomento han­ no notato che la sorprendente armonicità del paesaggio cinese è ot­ tenuta anche grazie al fatto che una volta elaborali e formati i princi­ pi canonici della sua costruzione, si sono poi trasposti in pittura dei paesaggi che, pur essendo reali, erano stati tuttavia costruiti artificial­ mente secondo canoni non meno rigidi, cioè proprio secondo quegli stessi canoni che in seguito avrebbero presieduto ai principi della pittura! I primi soggetti pittorici furono infatti quei parchi e quei dintor­ ni di palazzi e templi che le abili mani dei maestri avevano composto artificialmente a somiglianza del paesaggio libero; sapendo cogliere con lo sguardo contorni sfuggenti e profili di lontane catene mon­ tuose, costoro sapevano anche dove lanciare, con destrezza, un am­ masso di pietre rozze, dove sbarrare un fiume e far che questo preci­ pitasse in cascata, dove lasciare un curvo tronco di pino, liberandolo dalla confusa e naturale macchia circostante e dove conservare la studiata densità del giuncheto. Così, negli stessi elementi della natura reale, con la medesima coerenza, si compongono, alternandosi, tutti gli opposti: il fluente e il duro, il materiale e l’aereo, il ulano e il dispiegantesi in lontananza. Qui, da una parte, troviamo una certa analogia con i principi ro­ mantici del parco inglese, la cui estetica dell’inatteso capovolge la ri­ goristica tradizione di Versailles e dei parchi di Le Notte; ma, d’altra parte, sotto questa apparente libertà, pulsa sempre la stessa regolari­ tà organizzante dei noti principi Yin e Yang. Ma chi insegnò a questi maestri del passato l’eleganza degli arti­ ficiali paesaggi dei giardini e dei parchi? Chi è mai il sempre presente, immutabile grande maestro anche dei più complicati c perfino stilizzati svolgimenti compositivi? Certamente, sempre e soprattutto - la natura. Mi pare che una volta Delacroix, nei suoi Diari, paragoni la natu­ ra all’abbecedario da cui il pittore prende le parole per esprimere i suoi concetti. L’osservazione di Delacroix ha in un certo modo offuscato il fat­ to che non solo le parole, ma in qualche misura anche l’ordine inter­ no delle frasi pittoriche, le perifrasi plastiche, i procedimenti stilizza­ ti e le regolarità compositive hanno, immancabilmente, la medesima origine. In Olanda fui colpito per la prima volta dal «naturalismo fatto­

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grafico» di ciò che noi spesso ritenevamo una stilizzazione molto ri­ cercata. I ponticelli giallo canarino che dal velo verde-acido dei prati si protendono verso Inazzurro chiaro del cielo mi erano sempre appar­ si, nelle loro sfumature, come il risultato della furia cromatica di Van Gogh. Avendoli conosciuti solo attraverso le sue tele, mi sembrava­ no frutto della sua immaginazione, di una fantastica distillazione di colori che di per sé in natura dovevano essere probabilmente pro­ prio gli stessi normali e discreti colori dei nostri ponticelli, ruscelli e prati. L'acutezza cromatica dei paesaggi di Van Gogh mi aveva sempre dato l’impressione di una sorta di alcool che, nel passare attraverso il cervello, gli occhi e i sensi, intensifica la percezione emotiva e spinge ad oltrepassare i limiti della realtà naturale. Improvvisamente, vagando per le strade dei Paesi Bassi, terre be­ nedette da Dio sotto l’egida delle regine Guglielmine, ti imbatti, una dopo l’altra, in una catena di fedeli citazioni: ecco proprio quel pon­ ticello giallo, ecco il campo, ecco le pareti delle casette dipinte nei toni più puri - azzurro, arancione, giallo, verde, ciliegia - quasi fos­ sero cubetti d’acquarello in quelle scatolette smaltate che ti regalava­ no quando eri bambino, e senza volere cerchi, lungo la soglia di que­ ste casette... una serie di pennelli. Le casette dipinte nei toni più puri risplendono come topazi, smeraldi o rubini. Risplendono come la tavolozza di Van Gogh, ri­ splendono come i raggi del sole frantumati dalle pareti di un prisma di vetro. E ad un tratto, contemporaneamente all’ammirazione per la figuratività della natura vergine, cominci ad ammirare ancor di più il grande pittore, la cui grandezza è nell’umiltà: non nel superamento della natura ma nella sua venerazione; nell’innocenza infantile delle labbra capaci di cantare con tale purezza d’animo e di cuore l’auten­ tica pienezza del colorito intatto della natura. Ma, forse, tale fu soltanto il «demente» Van Gogh? Diamo uno sguardo ad un altro esempio passando dall’Occidente all’Oriente. Ci può essere qualcosa di più lontano dalla fotografìa della sem­ plice, fragile eleganza della miniatura orientale, finemente stilizzata? Figurine collocate in modo strano - a piani - ignare della fuga prospettica. Tondi profili geometrici di alberi color inchiostro. Il ri­ petuto, regolare ornato delle pelli delle capre. I caproni, divisi in due dal colore: neri davanti, bianchi dietro.

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Non occorre arrivare in India o in Iran. Basta fermarsi a Samar­ canda o a Andizan per rendersi subito conto che ovunque, intorno a noi, sono presenti gli elementi che costituiscono il fascino delle mi­ niature. Le macchie d’inchiostro degli alberi emergono dal buio come impronte in un paesaggio smorto e impolverato: sembrano gigante­ sche prugne secche color indaco scuro. Le figure di tre bianchi uzbeki, che occupano i tre livelli delle piattaforme coperte dai tappeti rossi della sala da thè, guardati obli­ quamente dall’alto non si intersecano, sul piano compositivo, esatta­ mente come accade nelle miniature classiche. Le chiome potate dei gelsi che corrono lungo i canali con i loro tronchi deformi sotto la corona rigidamente geometrica del foglia­ me, sembrano discendere dalle decorazioni ornamentali dei mano­ scritti arabi. E le decine di cavallini pelosi che nel giorno dei bazar vanno lungo tutte le vie che portano a Bukara, sembrano ornamenti geometrici creati col bianco e il nero; e dalla mandria che attraversa la calura, ogni tanto salta fuori un grosso caprone dal lungo pelo diviso esattamente in due dal colore, bianco e nero... Andreij Belyj (nel Vento del Caucaso) notò un’affinità tra i cre­ pacci montani e la peculiare pennellata frantumata, marrone-viola, con cui sono dipinti i Demoni di Vrubel’. Il viandante dei dintorni di Alma-Ata è immancabilmente sor­ preso, nelle ore del mattino, dal quadro degli esili alberelli che si de­ lineano sullo sfondo azzurro latteo del cielo terso. E le montagne che erano qui ieri sera? Non si fa in tempo a formulare questa domanda che già lo sguardo ha colto d’un tratto, in alto, in alto nel cielo - ad un’incredibile altezza sopra gli alberi - una catena di monti sospesa nell’azzurro, con le stesse pendici «pennellate» che abbiamo visto centinaia di volte nelle stampe e nei quadri cinesi, dove questo puris­ simo «fenomeno» della natura ci affascina come un procedimento pittorico particolarmente raffinato. Le catene e le propaggini mon­ tuose intorno ad Alma-Ata ci riportano nuovamente alla Cina. [...] Buona parte della visione «stilizzata» del paesaggio cinese altro non è che la stupefacente realtà del panorama cinese moltiplicata per la non meno sorprendente capacità dello sguardo cinese di vede­ re ed inebriarsi di ciò che gli offre la viva natura. Questa è senz’altro l’origine dei ripetuti motivi, disposti «a pia­ ni», delle catene montuose che impallidiscono a misura del loro fug­ gire in lontananza; qui nasce la solitaria vetta montana che si direbbe

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risolta per un'arbitraria stilizzazione come una colonna di granito; qui» nella corsa interrotta e irregolare del profilo delle alture» è sicu­ ramente la chiave del sistema dei tratti canonizzati sui quali si è con­ solidata una norma per dipingere i pendìi montani a differenza delle cascate» il delinearsi del burrone a differenza dei profili dei vecchi tronchi. La grafica cinese conosce alcuni tipi di tratti, legati nel modo più rigoroso agli elementi del paesaggio che permettono la loro applica­ zione solo in casi designati in modo assolutamente preciso. L'indubitabile influsso di questo frammento di autentica natura sui canoni pittorici generali della Cina si è conservato nella leggenda di un certo pittore che» centinaia di anni fa, salì su quelle montagne per riprodurne gli stupendi paesaggi. Questi paesaggi riscossero un successo tanto grande che si finì per assumerli come norma per dise­ gnare anche paesaggi che, per il loro carattere» nulla avevano a che fare con quelle sorprendenti sinfonie montane. È così che un'impressione reale stabilisce la base di un intero si­ stema di elaborati canoni estetici. Un autentico paesaggio insegna a creare un paesaggio artificia­ le - il giardino e il parco. E il giardino e il parco a loro volta influiscono sul canone pittori­ co con cui si lavora sulla seta e la carta di riso. Comunque sia, è interessante notare l’affinità tra i metodi con cui si organizzano e compongono dinanzi ai nostri occhi un fatto o un'azione, un oggetto e uno spazio, un evento e un paesaggio, ripor­ tati sulla carta di riso dal pennello di un artista cinese, e quelli di cui si serve il regista nel complesso sistema delle apparecchiature audio­ visive! Si possono trovare alcuni divertenti esempi di questa «corri­ spondenza» nella sfera della composizione del soggetto letterario. V. Sklovskij lo ha già notato nei riguardi di Chesterton. Nei Diari

(1939, p. 141) egli scrive: «Nei suoi romanzi e novelle» esistono certi speciali uffici delegati alla produzione di soggetti per il divertimento dei clienti». Questa trovata non è che una materializzazione di ciò che fa qualsiasi scrit­ tore quando si immagina un «corso obiettivo degli eventi» per poi tradurlo in una pagina descrittiva. E guai a quello scrittore che, non avendo creato un simile mondo realmente esistente, si adatta a scri­ vere senza vedere né ascoltare la realtà di ciò che espone sulla carta. Quante pagine, righe e interi articoli sdegnati di Tolstoj e di Gor’kij 346

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dovrebbero dissuaderlo da ciò. Il caso di Chesterton è certo un caso strano, in cui anche la parte di finzione e di laboratorio creativo che spetta allo scrittore è inclusa nell’esposizione del soggetto. Un esempio ancor più complesso e paradossale lo troviamo in Huxley, nelle pagine del romanzo - così vicino a noi per il titolo: Point counter point - in cui l’autore intreccia il processo della crea­ zione con il processo di svolgimento degli eventi. In questo caso il procedimento lascia un’impronta anche sullo specifico stile del rac­

conto. Non posso astenermi dal ricordare, accanto a questi esempi (che si riferiscono alla meccanica interna, spesso microscopica, della co­ struzione e della composizione delle opere) un esempio dello stesso ordine, ma di proporzioni gigantesche: un caso in cui furono coin­ volte intere armate e navi da guerra e che provocò scontri sanguino­ si. Tutto ciò al solo scopo di produrre materiale per future descrizio­ ni: materiale sensazionale per i giornali, per aumentarne la tiratura! Un’avventura che si attaglia perfettamente alla tempra del famige­ rato W. Randolph Hearst. Mi riferisco a un noto episodio del pri­ mo periodo della sua carriera giornalistica; carriera che avrebbe poi toccato il fondo di ogni abiezione: ricatti, falsi, crimini. [...] E si pensi che tutto ciò avveniva all’insegna della «guerra per l’indipen­ denza e la liberazione dei cubani dal giogo spagnolo». In realtà si trattava di suscitare eventi grandiosi al solo scopo di «aver qualcosa su cui scrivere». Questa storia, che ben figurerebbe come appendice a The club of queer trades di Chesterton, inizia con due celebri telegrammi. Un reporter di Hearst - Remington - è inviato a Cuba insieme ad altri farabutti del gruppo. Scopo della loro missione: scovare no­ tizie sensazionali su eventuali scandali politici e conflitti intemazio­ nali. Remington si annoia. Vorrebbe tornarsene a casa e telegrafa al «boss»: «Tutto tranquillo. Niente disordini. Nessuna guerra in vista. Vorrei tornare. Remington». Il boss risponde succintamente, con tono perentorio: «Per Remington. Avana. Restare. Provvedete alle illustrazioni, io prowederò alla guerra. W.R. Hearst». I sostenitori di Hearst hanno tentato con ogni mezzo di dimo­ strare che questi telegrammi erano apocrifi. Eppure essi espongono in modo così preciso e in sole due righe la sostanza dei suoi sforzi e

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delle sue mire che, come altri apocrifi passati alla storia, restano do­ cumenti «umani» più veritieri di qualsiasi altro documento. A tutto ciò fece seguito l'incredibile, fantasmagorico ruolo di Hearst nella guerra cubana e la grandiosa crescita del regno editoria­ le di questo re senza corona21. Ricordando tutto ciò che è stato già detto sulla polifonia e il con­ trappunto, dobbiamo ora chiarire i principi del canovaccio composi­ tivo della scena sul catafalco della zarina Anastasija avvelenata nel film Ivan il terribile. Il tema principale è la disperazione di Ivan. Per quanto progressista e lungimirante Ivan resta un uomo del xvi secolo, legato al suo tempo, alle credenze, ai pregiudizi e alle su­ perstizioni che accompagnavano il fanatismo religioso dell'epoca, a concezioni tipiche del medioevo russo che sta per sfociare nel Rina­ scimento russo. È per questo che la disperazione di Ivan genera il dubbio - il te­

ma della disperazione si sviluppa nel tema del dubbio'. «Sono nel giu­ sto? Agisco bene? È forse castigo divino?». In questo tema principale si intrecciano: la lettura dei salmi del re David da parte del metropolita Pimen e la lettura dei rapporti di Maljuta sui boiardi che, abusando del «diritto di partenza», scappa­ no oltre i confini dello stato moscovita e passano con i nemici stra­ nieri. Queste due letture costituiscono un originale canto antifonico a due voci. Per tono e ritmo le letture sono simili. Per il testo è come se l’una completasse l’altra. Come se le parole dei rapporti rivelassero il senso concreto delle parole dei salmi e le parole dei salmi commentassero emotivamente il senso dei rapporti. Inizialmente Ivan è sordo ad entrambe. (Ivan, lo sguardo fìsso, Non ascolta né preghiere, né rapporti). Non so perché mi sia venuto in mente di adoperare qui questa lettura a due voci. Penso tuttavia che mi sia stata suggerita da una vi­ va impressione assolutamente reale - da quella prima volta che mi capitò di udire nella lontananza una simile lettura antifonica a due voci.

21 I rumorosi titoli a caratteri cubitali furono usati per la prima volta nella pratica giorna­ listica proprio in occasione del pandemonio intorno alla guerra cubana. Mi sono servito della traduzione francese del libro William Randolph Hrant di John Winkler, Paris, nrf.

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Si trattava di una lettura in latino. Il tema era lo stesso per le due voci e risuonava sotto volte goti­ che che si perdevano nell’oscurità di altezze irraggiungibili, come sa­ rebbe accaduto più tardi nel mio film. A Cambridge. Nel 1930. Al Trinity College. In un immenso refettorio stile Tudor. Nonostante fossi seduto (o meglio in piedi) vicino ad una colon­ na del materialismo scientifico, P.L. Kapica [21], che a quel tempo lavorava in Gran Bretagna, il rito non perdeva il suo fascino: una preghiera in latino, recitata prima del pasto. La recitò perfino un lu­ minare delle scienze fisiche esatte, il premio Nobel J.J. Thomson, rettore dell’università. In quella memorabile sera, in risposta alla voce del rettore faceva eco la voce del vice-rettore. Candele. Volte. Due voci senili, risuonanti nell’immensità del­ l’oscura sala. Lo strano testo della preghiera. Le teste canute dei due vecchi. Le nere toghe universitarie. Tutt’intorno, la notte. Non ho pensato minimamente a tutto ciò quando stendevo, per la sceneggiatura dellTtw/, la scena dello zar accanto alla bara di Anastasija. Ma ora sono convinto che questo episodio del film sia in­ dissolubilmente legato con la viva impressione di quella lontana se­ rata nell’Inghilterra prebellica. Tuttavia nella nostra scena, nonostante la somiglianza esteriore di tono e tempo, di elocuzione e di ritmo, l’orientamento drammati­ co delle due letture è diametralmente opposto. Non a caso una di esse è pronunciata dall’acerrimo nemico di Ivan, mentre l’altra dal suo devotissimo amico e «cane fedele». La lotta interna tra le due letture è come una lotta interna «la cui posta è un’anima». Come nelle stampe popolari e nelle miniature medioevali, qui si affrontano due principi - uno positivo, l’altro ne­ gativo - per la conquista di un’anima umana. Ma, contrariamente alla tradizione, qui essi lottano non per l’ani­ ma della morta, ma per l’anima di colui che la piange - per l’anima del vivo, dello zar. Un principio, una lettura, trascina l’animo dello zar nella dispe­ razione, nelle tenebre, verso la perdizione.

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L’altro principio lo esorta all’attività e alla vita. Una lettura è volta a piegare definitivamente la sua volontà» ad annientarlo, a fare di lui uno strumento debole e docile nelle mani dei boiardi. È la lettura delle pagine dei salmi, piene di disperazione:

Sono spossato dai lamenti. La mia gola è secca. I miei occhi sono stanchi. L’altra lettura sprona Ivan all’attività, a rompere la catena del dubbio e il giogo della disperazione, lo costringe a mettersi all’opera con tutta la sua energia, a continuare la lotta con forza raddoppiata. La tensione delle letture aumenta. L’angoscia suscitata dai rapporti aumenta. Aumenta la disperazione del pianto, che freme con le pagine dei salmi... Ed ecco l’annientamento definitivo della volontà, l’ultimo colpo, vibrato da colui che avrebbe dovuto recare notizie capaci di risve­ gliare le forze. Maljuta comunica il tradimento di Kurbskij. Risponde Ivan con il lamento di un uomo distrutto. La testa riversa sul catafalco. Tra le volte risuona, straziante, la parte conclusiva del prokimen [22] che segue al canto Riposa coi santi. Fine. Punto conclusivo. Punto culminante. Ma come è logico che avvenga (e spesso accade) nel punto cul­ minante - in questo momento estatico della costruzione drammatica - ha luogo un brusco cambiamento in senso contrario2’. E se la comunicazione di Maljuta annienta lo zar, la voce di colui che aveva concentrato ogni suo sforzo proprio per distruggerlo, con spinta contraria lo restituisce alla lotta. Alzando la voce, con tono d’accusa Pimen scaglia le parole:

L’ingiuria ha afflitto il mio cuore. Ed io sono spossato. Aspettavo pietà. Ma invano. 22 A questo proposito rimando, per maggiori particolari, al capitolo Sulla struttura degli oggetti.

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Ho cercato chi mi consolasse. E non l’ho trovato. È questa la goccia che Fa traboccare il vaso della tolleranza e del­

la rassegnazione. Come bestia Ferita» in risposta, Ivan emette l’urlo: «Menti!» ecc. Ho voluto solo ricordare in breve lo svolgimento emozionale del­ la scena. Resta da aggiungere che il bianco volto di Anastasija nella bara, si inserisce ritmicamente nelle pause di questo svolgimento, che il coro, in lontananza, canta Memoria eterna e sfuma nel Riposa coi santi, e che la scena inizia con una lunga panoramica dall’alto sulla bara, con il volto della zarina morta, Fino al piedistallo dei pesanti candelabri ai quali, prostrato, si aggrappa nella disperazione lo zar Ivan. Per avere un quadro completo bisogna ancora tener presente che le singole linee interne al tema generale sono sorrette e completate da tutta una serie di volti che partecipano all’insieme della scena. La linea della morte e deWimpedimento della volontà compare con il volto immobile della morta Anastasija, passa ai piani rigidi, immobili di Ivan, si sviluppa nel tema della lettura di Pimen («5'o/ro spossato dai lamenti», «la mia gola è secca», «gli occhi sono stanchi») e culmina con i piani della portatrice del tema della morte, la reale colpevole, l’awelenatrice Starickaija. La linea di esaltazione della vita - la linea di Maljuta - è prose­ guita dai Basmanov (padre e Figlio); l’ardore del discorso del vecchio passa nel Focoso «Due Rome sono cadute, ma non la terza» dello zar e termina con l’irruzione dei servitori con le fiaccole ardenti. A questo punto il tema della morte «viene eliminato»; il suo pas­ saggio estremo avrebbe dovuto essere il sorriso di assenso che Ivan crede di leggere sul volto della zarina morta, «quasi tornata in vita» nella bara («e come se il volto di Anastasija Fosse illuminato dall’ap­ provazione») nel momento in cui, superato il dubbio, Ivan si mette nuovamente sulla strada della lotta e della vita. Purtroppo un errore di calcolo ritmico relativo ad alcune Frazioni d’immagine (elemento temporale) e l’eccessiva materialità della ri­ presa del sorriso (elemento plastico), privarono questo particolare del suo efFetto emozionale. (In seguito, quando il film era già sugli schermi, Io eliminai).

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L’errore consisteva nel fatto che il sorriso, concepito come «ap­ parinone fugace», fu in realtà percepito con grande chiarezza e quin­ di suscitò riso o irritazione (a seconda del temperamento dello spet­ tatore). In occasione di una proiezione del Potemkin sperimentai di per­ sona quanto può essere determinante, in questi casi, una frazione di secondo. Accadde a Londra. Nel 1929 il nostro compositore Edmund Meisel - oggi defunto - dirigeva l’orchestra nell’esecuzione della musica da lui composta per il film. Fu così che, sotto la sua respon­ sabilità - per amore della musica - si mise d’accordo con il proiezio­ nista per rallentare appena appena il ritmo della proiezione. Ciò ri­ sultò fatale per un solo passo del film: per i leoni di marmo che si drizzano. Di solito questa «metafora scultorea» sfrecciava così all’improv­ viso da sfuggire alle capacità analitiche dello spettatore: il movimen­ to dei leoni veniva percepito come una perifrasi - «hanno ruggito anche le pietre». Trattenendo appena un po’ di più su di essi l’atten­ zione, l’immediatezza del «colpo» sulla percezione passava alla presa di coscienza del procedimento - allo «smascheramento dell’artifìcio» - e l’uditorio rispondeva immediatamente con una risata generale (reazione inevitabile in tutti i casi di «trucco non riuscito»). Nel mio ricordo, questo è l’unico caso in cui la sequenza suscitò ilarità; e ciò a causa della violazione di quelle frazioni di secondo che decidono se la costruzione sarà una metafora, oppure un aneddoto, raccontato a parole1 . La sequenza deUTttf# di cui stiamo parlando, anche se meditata con precisione e correttamente sceneggiata, «fece fiasco» a causa del summenzionato lapsus compositivo nell’utilizzazione dei mezzi tec­ nici del film! Ci siamo permessi il lusso di descrivere emozionalmente la scena di Ivan sulla bara. Ora cercheremo di scomporre la struttura polifonica di questa scena nei mezzi d’azione con i quali opera - come se fossero voci o strumenti. Ci faremo un’idea dei principali «strumenti d’azione» che, alter­ nandosi, riunendosi, di nuovo separandosi e di nuovo unendosi, tra­ ducono il tema nelle reali emozioni dell’uditorio. Causa della disperazione (oggetto della disperazione) è Anastasija morta nella bara.

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Portatore della disperazione (soggetto della disperazione) è lo zar Ivan. Mezzi d'azione: A. La recitazione di Ivan. Essa si realizza su tre piani: 1. È Ivan stesso a recitare (sentimenti, comportamento e azioni di Ivan). 2. Recitano per lui (il taglio dell’inquadratura, la luce, i partner). 3. Recitano in sua funzione (le componenti della scena nel suo complesso). B. L’immagine filmica di Ivan. 1. Visiva Statica (di scorcio) Movimento pantomimico La figura nei particolari (il gesto, la mimica). 2. Sonora Voce fuori campo Voce in sincrono con l’immagine. C. Musica. Il canto corale come soluzione musicale del tema della dispera­ zione e del lutto di Ivan, come filo conduttore del tema della dispe­

razione nel suono. Esso attraversa senza posa l’intero episodio (sino all’appello di Ivan ai Basmanov e a Maljuta: «Siete troppo pochi!»). Il coro: ora si fa avanti, ora cede il posto alla lettura antifonica o alla voce di Ivan. La funzione del coro è duplice: 1. Fuori del testo (come composizione musicale). 2. Come testo (come senso del contenuto del testo). D. Irradiazione del tema sulle componenti di sostegno. 1. La lettura del salmo e, ad essa contrapposta: 2. La lettura dei rapporti. La lettura del salmo: Come contenuto del testo (prevale il principio semantico). Come musica (prevale il principio melodico-intonazionale). I due principi si fondono. Viene letto da una voce fuori campo. L’immagine di Pimen. Insieme, voce e immagine. La lettura dei rapporti:

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Maljuta: il testo. Maljuta come immagine. La voce e il testo di Maljuta fuori campo. E. Elementi puramente figurativi. 1. L’interno della cattedrale (le persone, la bara, le candele inte­ si esclusivamente come attributi della cattedrale che nel suo in­ sieme «canta» la «parte» principale). 2. I personaggi, come complesso: In unione con la cattedrale («con l’accompagnamento» della cat­ tedrale). In singoli gruppi, separati dalla percezione della cattedrale. 3. I personaggi raggruppati tra loro («accordi»). Pimen, Ivan, la bara con Anastasija, Maljuta. Pimen, Ivan e Maljuta. Pimen e Ivan. Ivan e Maljuta. Anastasija e Ivan. Ivan e Anastasija. L ordine dei nomi corrisponde alla correlazione dei personaggi a seconda della profondità dell’inquadratura: chi occupa il primo po­ sto domina nella scena sia dal punto di vista plastico che da quello drammatico, attira cioè su di sé l’attenzione con mezzi plastici o in­ terpretativi (scenici). Un esempio di dominio plastico può essere l’immagine ingrandi­ ta di un personaggio, spinta fortemente in avanti - in «primo piano» - (ad esempio, il primo piano di Pimen e la figura a terra di Ivan sul­ lo sfondo). Un esempio di dominio drammatico è il comportamento di Ivan che, nonostante sia collocato sullo stesso piano e dimensione di Maljuta, attira fortemente su di sé l’attenzione. 4. I primi piani dei singoli personaggi separatamente. (Fuori dell’«accompagnamento plastico» dello sfondo - della cattedrale - e senza essere combinati in «accordi spaziali» con gli altri personaggi). Ivan Maljuta Anastasija Basmanov Pimen Starickaja I casi in cui abbiamo di fronte «il volto pallido di Anastasija sullo sfondo della cattedrale» o «il gruppo Ivan-Maljuta in profondità, con Pimen che risalta in primo piano», corrispondono esattamente, 354

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dal punto di vista plastico e spaziale, a quanto abbiamo già notato nell'analisi delle nebbie del Potèmkin. Anche lì balzavano di colpo in primo piano una boa o l’albero di una nave, e le nebbie si ritiravano in profondità; oppure tutto lo spazio dell’inquadratura veniva divo­ rato da un «primo piano» dell’acqua, mentre i particolari del porto si limitavano a incorniciare questa vasta distesa d’acqua ecc. Abbiamo notato che l’incessante canto del coro (Memoria eterna e Riposa coi santi) attraversa tutta la scena. Ora viene in primo pia­ no, ora cede il posto alle parole di Ivan o ai due lettori, ora, infine, crescendo in un urlo, si fonde con la voce di Ivan: «Tu menti!». Un ruolo analogo a quello plastico del coro è assunto nella com­ posizione figurativa dalla cattedrale stessa. Le sue volte sembrano trasformarsi in risonanza di canti liturgici, materializzata da cupole di pietra. Un sottofondo di musica plastica risuona ininterrotto grazie ai tagli delle inquadrature e soprattutto grazie alla metodicità tonale del­ la luce o, più esattamente, dell’ombra. In alcuni momenti è questo stesso complesso plastico a dominare la scena nel suo insieme (tali sono le inquadrature iniziali e quelle finali, quando nella cattedrale si riversano i servitori con le fiaccole). Grazie alle abili mani di Andrej Moskvin, il filo conduttore costi­ tuito dalla «densità del buio» accompagna la cattedrale attraverso tutta una catena di variazioni tonali e di sfumature luminose, le quali coinvolgono la stessa risonanza dei cori funebri che si diffondono sotto le sue volte. Questa linea di un graduale «ravvivamento» tonale-luminoso della cattedrale - cioè di un movimento della cattedrale «sullo stesso tono» dello sviluppo della scena: dall’oscurità della morte alla lumi­ nosa esaltazione della vita - passa attraverso una serie di fasi di illu­ minazione distintamente delineate, precise quanto le designazioni verbali che possono caratterizzare, di episodio in episodio, le succes­ sive «condizioni» di luce della cattedrale. 1. L'oscurità della cattedrale. 2. L'oscura cattedrale. 3. La gente nell'oscura cattedrale. 4. La cattedrale, ravvivata dai fuochi. Queste designazioni verbali quasi simili celano in realtà enormi differenze di luce. Ciò mi sembra così evidente e chiaro che non so quanto sia qui necessario spiegare e commentare la palese e sostanziale differen­

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za che esiste tra il dire «l’oscura cattedrale» e «l’oscurità della catte­ drale». In un caso deve prima di tutto «risuonare» l’oscurità della catte­ drale, mentre nell’altro «risuona» innanzitutto la cattedrale stessa distinguendosi in questo caso, per la sua oscurità, dall’immagine che assume in altre «condizioni»: dalla cattedrale luminosa, dalla catte­ drale immersa nella penombra o dalla cattedrale inondata dai raggi di sole. Se non si colgono le sfumature tra simili designazioni verbali, se non si comprende perché, ad esempio, Sel’vinskij in un verso scrive, a proposito di un fiume, che esso «brilla, riluce e risplende» [23], avendo in mente ógni volta «sfumature» del tutto indipendenti di lu­ centezza, e se, in primo luogo, non si ha la capacità, di rappresentarsi sensibilmente, in forme sensibili, i fenomeni reali corrispondenti a queste sfumature verbali, allora... non è affatto il caso di tentare un’analisi dell’assimilazione dei fenomeni e delle costruzioni audio­ visive! È senz’altro meglio, pari per ignoranza a Monsieur Lepic del romanzo di Jules Renard Poil de Carotte, permanere in uno stato di incertezza ed abbandonare la «vana cura» dei fenomeni audiovisivi. Ecco cosa scrive Monsieur Lepic al protagonista del romanzo, suo figlio Pel di Carota:

Mio caro Pel di Carota, la tua lettera di oggi mi ha sorpreso. Invano l’ho riletta: non è affatto il tuo stile e tu parli di cose strane che, mi sembra, né io né te possiamo giudicare. Di solito ci racconti le tue piccole cose, i voti che hai preso, le qualità c i difetti che noti in ogni insegnante; ci comunichi il nome dei tuoi nuovi compagni, in che stato si trova la tua biancheria, se mangi e dormi bene. In effetti queste sono le cose che mi interessano. Ma oggi rinuncio del tutto a capirti. Spiegami per piacere a che cosa devo attribuire questo spro­ loquio sulla primavera quando adesso è inverno? Cosa vuoi dire con ciò? Non ti serve mica una sciarpa? Nella tua lettera non c’è la data e, in sostan­ za, non si capisce a chi sia indirizzata, se a me o al cane. Perfino la tua calli­ grafìa mi sembra mutata, e la disposizione delle righe e la quantità delle let­ tere maiuscole finiscono di confondermi. Per farla breve, è come se ti pren­ dessi gioco di qualcuno. Siccome penso che sia di te stesso, ritengo necessa­ rio, pur senza fartene una colpa, fartelo osservare. Pel di Carota risponde:

Mio caro papà! 356

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Duc parole in fretta per spiegarti la mia ultima lettera. Non ti sei accorto che era scritta in versi. Mi sono permesso di fare questa digressione anche perché, pur­ troppo, non pochi di quelli che hanno visto VIvan il terribile si sono rivelati dei perfetti Messieurs Lepic i quali, notando la mancanza di molte cose cui erano abituati, si sono completamente lasciati sfuggi­ re il fatto che il film è costruito secondo tutt’altri principi. E molte delle loro considerazioni suonavano alle mie orecchie pro­ prio come lo sconcerto del papà di Pel di Carota: «la disposizione del­ le righe e la quantità delle maiuscole finiscono di confondermi». Non si sono neppure accorti che il film è stato girato e montato... in versi! Difatti, in molte sue parti, il film non deve solo essere guardato e ascoltato, ma lo si deve scrutare e ascoltare con grande attenzione. È curioso notare che il maggior numero di Messieurs Lepic si trovò proprio fra quelli che avrebbero dovuto più di ogni altro scru­ tare e ascoltare attentamente il film neH’interesse dello sviluppo del­ la metodologia compositiva della nostra cinematografìa! Cercheremo, comunque, di mettere insieme, in una tabella con­ venzionale delle interazioni, tutte le componenti che formano la ge­ nerale polifonia della scena. Riportiamo qui soltanto le partizioni principali - soltanto le indi­ cazioni dei gruppi di strumenti e dei mezzi che si portano in primo piano e «recitano» questo o quel passaggio progressivo nel movi­ mento complessivo della scena. Da questo punto di vista ci sarebbe ancora l’esigenza di aggiungere, per ogni riga orizzontale, una tabel­ la supplementare che illustrasse come ogni singolo «complesso» espressivo («lo zar», «Pimen», «Maljuta») intervenga di volta in vol­ ta differentemente a seconda dei mezzi d’azione di cui dispone. Ciò significherebbe chiarire, ad esempio, quali elementi operino in primo luogo nell’enunciazione di una certa frase: il senso del te­ sto, il suo ritmo, il ritmo dell’enunciazione, il timbro della voce, la vi­ brazione emotiva, il principio melodico, l’unione del testo con la mi­ mica del volto ecc. Ma ciò ci porterebbe chiaramente troppo lontano. Non pretendiamo neppure che questa tabella sia un calco preci­ so di come, una battuta dopo l’altra, tutte queste combinazioni si snodano realmente lungo la scena nel suo complesso. Ciò porterebbe ad un ampliamento eccessivo. Ci limiteremo a

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natura non indifferente

Partizioni temporali Orchestrazione

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2

3

Musica: Coro Memoria eterna

4

B

B

7

e

3

IO

* '////

Coro Riposa coi santi

Z