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Italian Pages 132 [143] Year 2021
n. 97 COMITATO SCIENTIFICO: Mariapia Comand (Università di Udine), Ra aele De Berti (Università degli Studi di Milano), Massimo Donà (Università Vita-Salute San Ra aele), Roy Menarini (Università degli Studi di Bologna), Pietro Montani (Università “La Sapienza” di Roma), Elena Mosconi (Università Cattolica di Milano), Pierre Sorlin (Università Paris-Sorbonne), Franco Prono (Università degli Studi di Torino), Andrea Rabbito (Università degli Studi di Enna “Kore”)
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LA CARNE E L’ANIMA Il cinema di Abdellatif Kechiche
© 2021 – M I
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(Milano – Udine)
2420-9570
Collana: Cinema, n. 97 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 E-mail: [email protected]
Alla memoria di mio padre
Molti pensano che il cinema sia un’illusione. Io sono convinto che partecipi a una nuova era possibile dell’umanità. Abdellatif Kechiche - Come si dice ti amo in arabo? - L’importante non è dirlo, ma amarsi. Mektoub, My Love: Canto Uno
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Prefazione VIVEMENT KECHICHE. QUANDO UN REGISTA LAVORA PER NOI Finalmente un libro dedicato ad Abdellatif Kechiche. Autore cruciale del cinema contemporaneo, con una lmogra a in costante evoluzione di cui la critica si accorge presto, poi confortata quando, con il trionfo a Cannes 2013, la giuria presieduta da Steven Spielberg premia La vita di Adele con la Palma d’oro, incorniciando un lm che si staglia come un manifesto esemplare. Il regista viene insignito del premio insieme alle due brave interpreti, Adele Exarchopoulos e Léa Seydoux: la loro emozione sul palco sembra il prolungamento fuori dallo schermo di un lavoro di collaborazione intima e indissolubile, capace di darsi oltre le barriere che Cannes intende mettere in risalto. D’altronde, Spielberg quell’anno si disse onorato di essere chiamato a presiedere un Festival che è prova del linguaggio universale del cinema. Il premio si rivelò la conferma più conclamata per la valorizzazione di un tipo di cinema e del suo mondo: quella tensione meticcia che il regista Abdellatif Kechiche, tunisino naturalizzato francese, espande attraverso l’attenzione per la condizione di migrante, un concetto che diviene espressione del sé di uso tra le situazioni e i personaggi chiamati a dare senso a racconti di viscerale intensità. È il riconoscimento per una lmogra a dal linguaggio scopertamente politico seppure mai declinato in toni solenni, complice un erotismo della visione come quintessenza di “carne e anima” che obbliga al coinvolgimento. Kechiche chiede tempo allo spettatore (i lm del regista prediligono le lunghe durate), porgendo in cambio la possibilità di sperimentare il coinvolgimento
sico e mentale che può o rirsi come ricognizione sulla vita nei suoi attimi disvelanti. In grado di muoversi con competenza, attenzione e sguardo elevato tra i moti della passione e le proposte culturali contenute nel mondo espressivo di Kechiche, la lettura di Emanuele Di Nicola tributa giustizia al regista di cui scompone con eleganza le complesse dinamiche, seguendo un percorso che riconosce al cineasta la precisa assunzione di una responsabilità autoriale manifesta, dove lo sguardo rivolto al presente è, insieme, danza del desiderio e percorso etico. Con lo spirito combattivo e l’adesione illuminata che avremmo potuto ritrovare in un critico dei migliori Cahiers, Emanuele Di Nicola fa suo lo sguardo di Kechiche permettendo al lettore di conoscerlo e di ripercorrerne i ri essi, forte di una scrittura meticolosa e chiarissima. Di Nicola attua un viaggio in un cinema strati cato e complesso, che diventa immersione nei luoghi frequentati, anche, dagli arabi di seconda generazione divenuti francesi, portandosi alle origini di uno sguardo cinematogra co che, dice l’autore, “lascia sgomenti, ad occhi spalancati” e richiede di essere vissuto con la trasparenza complice di un avvicinamento interno al mondo del cineasta. Avvicinamento che, s dando le convenzioni e gli schemi culturali del proprio tempo, traduce la ra gurazione di Kechiche di un modo altro, autenticamente sentito e veritiero, di esprimere l’epoca in cui si vive e ci si strugge. Un viaggio che non può non essere un’ossessione, nella vertigine artistica di un autore che si ricorda anche per i suoi esordi come attore, corpo e volto riconoscibile nei panni dell’emigrato algerino destinato a vivere di espedienti nelle periferie francesi (Le Thé à la mente, 1985), o in quello del migrante in fuga nel lm di André Téchiné Les innocents (1987), dove il lavoro con gli interpreti Sandrine Bonnaire e Jean-Claude Brialy diviene prova di attitudini e rispecchiamenti. Esperienze recitative di cui il libro o re una contestualizzazione,
negli echi disseminati in un corpus registico che si smarca molto presto dalla tradizione del cinema degli anni Ottanta - quello che vuole il personaggio nord-africano costretto in ruoli di contorno o espressione della banlieue criminale - e segna una di erenza persino rispetto ai piccoli lm indie e politicamente resistenti della lmogra a beur. Così anche Kechiche, soprattutto Kechiche, porta l’immigrato arabo lontano dagli stereotipi facendo del personaggio un protagonista veritiero e complesso del proprio tempo. La società non è più sfondo cristallizzato ma si rivela mutata, tanto che lo stesso Kechiche appare arte ce di un cinema dove l’individuo non è più (o non sempre) il solito personaggio diviso tra due mondi, refrattario all’integrazione o mal tollerato per l’irruenza criminale dei suoi comportamenti ma, come nel ruolo interpretato dallo stesso Abdellatif per il lm di Téchiné, un giovane che si sente e quindi è francese, senza altre de nizioni, nonostante la condizione di immigrato sconvolto dall’arrivo della madre. Kechiche porta nel suo cinema ambizioso e incandescente la testimonianza di cittadino senza etichette, che regala alle sue visioni le trepidazioni di un’esperienza universale. Un concetto, questo, su cui il libro di Emanuele Di Nicola di onde tutta la sua chiarezza, riconoscendo all’autore il ruolo singolare e al contempo centrale di indipendente che non si colloca in un lone popolare facile ma cerca, nel proposito di uno sguardo umanista e autoriale, di lavorare con piccoli budget su soggetti ad alto investimento esistenziale. In questo Kechiche si discosta dalle consuetudini dei colleghi cineasti di origini nord-africane, tracciando e perseguendo una via che è poi la sola da lui pienamente sentita. Percorso di identità che si ri ette nelle vicende raccontate, nel tono mai paludato e invece intenso delle sue composizioni, dove si fa strada l’idea di scrivere il presente attraverso parabole dalla costruzione via via più incisiva. In esse i livelli di lettura si moltiplicano, per lavorare attorno all’ipotesi di naturalismo cinematogra co
inteso come esito di un’elaborazione culturale oltre che propensione connaturata. Kechiche si libera infatti dello schema di regista “istintivo” e aderisce alla difesa degli stranieri come esclusi, riottosamente destinati a incontrarsi e a fare squadra unicamente in territori di mala are in cui si nisce per farsi del male. Il personale discorso dell’autore nel lm d’esordio Tutta colpa di Voltaire è infatti concentrato intorno all’idea precisa che non esistono immigrati clandestini, ma esistono uomini e donne che aspirano a una vita migliore. Assunto da cui si sviluppa una delle lmogra e più ricche e sfaccettate sul lavoro e il disagio, dove i con itti di genere, etnici e tra classi sembrano appartenere agli uomini come qualcosa che li riguarda come specie, mentre la tensione diventa attrazione e lotta per l’a ermazione della propria intimità come ne La vita di Adele; lm in cui le protagoniste sono francesi, e attraverso di loro Kechiche scava nella realtà pulsionale, nel cuore sfavillante dell’esistenza dei corpi e della seduzione, per andare alla radice dell’uguaglianza, ovverosia della di erenza e dell’individualità per cui si può dirsi tutti francesi o cittadini del mondo. Kechiche vince a Cannes, ma in realtà comincia a dividere almeno un po’ la critica: c’è infatti chi storce il naso e ritiene le sequenze erotiche furbe, il lm spregiudicato nell’inneggiare alla libertà sessuale. Ma Kechiche non perde di vista la forza del suo tema, la passione travolgente che supera le diversità sociali e poi si rifrange contro gli ambienti da cui le due protagoniste provengono. L’esplodere dell’attrazione si libera contro uno sguardo “imbarazzato”, come quello dei critici parrucconi che invocano sdegnati l’intervento delle femministe, ma anche in questo modo si manifestano le apparenze di un racconto che porta in scena la vita autenticamente quotidiana. Un aspetto già a rontato nel precedente Cous Cous, altro lm paradigma accolto come un epigono nobile del neorealismo italiano, dove al centro del discorso c’è la gura del sessantenne Slimane Benji che si trova liquidato con un pensionamento anticipato
dal lavoro portuale e sogna di dare qualcosa ai gli, per riunire la numerosa famiglia del matrimonio precedente e portarsi verso un futuro possibile. Ambientato nella comunità magrebina di Sète, nei pressi di Marsiglia, il lm raccoglie sul battello “La source” la danza del ventre delle ballerine che frequentano un luogo in cui tutti i gli di Slimane si trasformano in lavoratori, pittori, camerieri, nell’impresa economica che vuole essere nuova speranza, assumendo i toni di un’esperienza universale. Dimensione etica e sensazione di immediatezza che Abdellatif Kechiche aveva già espresso nella delicatezza del racconto d’amore adolescenziale de La schivata, preludio dei fervori a cui il cineasta ci ha abituati nel suo meticoloso lavoro sull’intimità. Il libro di Emanuele Di Nicola ha il merito di raccontare con sintesi e compiutezza il mondo espressivo di un cineasta importante, amato e premiato, con cui la critica cinematogra ca forse non ha ancora fatto bene i conti. Benvenuto allora allo scavo dell’autore, allo scandaglio che ci porta con puntiglio antropologico nel mondo di Kechiche, di cui sovverte rigidità interpretative aiutandoci a cogliere meglio taluni “presupposti inavvertiti”: perché un libro come La carne e l’anima ha ben presente che il cinema è racconto di corpi e sogni, pulsioni e atteggiamenti, assorbiti e fatti propri da Kechiche attraverso una cultura antica e precedente alla nostra, ma straordinariamente attuale, vitale, attraversata dal battito della vita. Dimensioni che Abdellatif Kechiche ci porta allo sguardo nell’apparenza di situazioni epidermiche, nell’osservazione dei “Canti” di Mektoub, My Love, dove il personaggio, in una cittadina al Sud della Francia per le vacanze estive, torna ad essere un individuo diviso, tra le preoccupazioni del futuro (vorrebbe lasciare gli studi di medicina per scrivere una sceneggiatura) e i rapporti con i parenti e le ragazze. Ma dove il distacco del personaggio induce a pensare a questo lm-ricordo (in parte autobiogra co) soprattutto come a una sarabanda di ossessioni che s lano attorno al sentimento amoroso che
difetta - mentre gli ormoni dettano la temperatura di quell’età e gli adulti osservano provando rimpianto o più semplicemente disincanto. Così, nell’eccitata contemplazione di un gruppo di ragazzi, Kechiche compone la variazione della sua danza stavolta parlatissima, in cui il composito convegno di corpi che si prendono e lasciano è sì un inno alla giovinezza come da più parti sostenuto, ma nel segno di quel realismo delle relazioni con cui l’autore sposta ancora più in alto l’asticella dell’ambizione. Verso quel “naturalismo puro” in cui c’è posto, cosa non di poco conto, per il suo Antoine Doinel.
Introduzione. DA TUNISI A CANNES 26 maggio 2013. Steven Spielberg è sul palco del Grand Théatre Lumière del Palazzo del Cinema di Cannes, dove si svolge la cerimonia di chiusura del 66° Festival internazionale. Il presidente della giuria annuncia il titolo del lm che ha vinto la Palma d’oro: è La vita di Adele di Abdellatif Kechiche. Ma non solo. Dice Spielberg: “La giuria ha compiuto una scelta eccezionale e ha preso atto dell’eccellenza di tre artisti, Abdellatif Kechiche, Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux”. Alle due attrici viene assegnata la Palma d’oro onoraria. È il trionfo di questo regista tunisino naturalizzato francese, che ha esordito alla macchina da presa appena tredici anni prima, esattamente nel 2000. Kechiche sale sul palco e riceve la Palma dalle mani di Uma Thurman: un premio che lui stesso metterà all’asta nel 2017 per nanziare il lm successivo, Mektoub, My Love: Canto Uno. Nell’arco di soli vent’anni Kechiche si è imposto come autore imprescindibile nel cinema di oggi: con sette lm da regista ha ottenuto una riconoscibilità immediata, frutto di un’evoluzione che ha trasformato il suo stile in due decenni, e probabilmente cambierà ancora. Un autore che spacca il pubblico, tra amanti e detrattori, ma la cui centralità non viene messa in discussione: riconosciuto dai festival internazionali, che gli hanno tributato molti premi culminati in quel 26 maggio, radicato nella comunità dei cine li, dove è giustamente discusso e visceralmente adorato. Si tratta di un regista che ha avuto un percorso coerente e peculiare: il suo cinema inizia con un immigrato tunisino che arriva a Parigi in Tutta colpa di Voltaire (2000), e nisce - per ora - con il movimento carnale dei corpi in Mektoub, My Love: Intermezzo (2019). Tra questi c’è un universo di cinema, che a tratti può sembrare di lettura palese ma inganna, perché a ben vedere non è sempre facile da decifrare a prima vista:
occorre una sonda attenta per guardare davvero Kechiche, regista che insegue l’oscillazione dell’intimo e lma l’epidermide degli attori. Il dentro e il fuori. La carne e l’anima. È cinema meticcio quello di Kechiche, esattamente come il regista che è un migrante e quindi si racconta: semina tracce di sé nei personaggi e dentro le situazioni. Egli interpreta la migrazione a livello letterale, la mette in scena nella seconda generazione degli arabi diventati francesi, una comunità che trova il suo simbolo in Cous Cous (2007). Allo stesso tempo estende il concetto e lo rende universale, perché migrante signi ca anche diverso, colui che non appartiene a un contesto e deve trovare un posto nel mondo, come la giovane omosessuale de La vita di Adele (2013). E nella sua declinazione più tragica la Venere ottentotta, la donna sfruttata, derisa e martirizzata protagonista di Venere nera (2010). D’altronde la condizione del migrante non è forse metonimia di tutte le diversità? È cinema attraversato da tensioni sociali, quelle del contemporaneo: sono ovunque ma si racchiudono nella banlieue de La schivata (2003), una delle rappresentazioni della periferia più lologiche che quest’arte ci abbia consegnato. È cinema dei corpi: quelli di Adele ed Emma ne La vita di Adele, il lm della svolta in cui per la prima volta la predilezione del regista per la macrosequenza si applica alla scena di sesso. È cinema naturalista: vuole imprimere la vita nel suo farsi, riprodurre fedelmente il movimento della realtà, e in tal senso l’ambizioso progetto Mektoub, My Love getta la maschera della trama per dirigersi verso un naturalismo “puro”. È cinema di immagine, quello di Kechiche: oltre alla costruzione del racconto e al dipanarsi dell’intreccio, dei suoi lm restano indelebilmente impressi i momenti a dati alla visione, che parlano solo all’occhio, insomma il gesto di mostrare, attentamente studiato dal regista nella costruzione meticolosa di ogni singola scena. Il primo incontro tra Emma e Adele, con le due ragazze che si guardano per strada, è solo un piccolo esempio. È
cinema di ricerca: dopo la Palma d’oro il regista poteva fermarsi, adagiarsi cioè sulla riconoscibilità stilistica che lo ha portato lassù, e invece proprio in quel momento si è lanciato nel progetto più di cile, Mektoub. La vendita del premio cannense diventa simbolo della tenace volontà di cambiare, evolversi senza considerare nessun approdo de nitivo. È anche cinema politico: non perché Kechiche prenda posizione o espliciti una visione politica, ma perché propone una forte politica del linguaggio. Una dote che oggi si va perdendo, nell’era della ne dell’autore, dello strapotere del cinema come intrattenimento, tra piattaforme che corteggiano il pubblico e lm visti sul cellulare: i titoli di Kechiche vanno goduti su grande schermo e spesso si aggirano intorno ai 180 minuti, tre ore che contraddicono l’ipervelocità del contemporaneo, s dano lo spirito del tempo, chiedono attenzione e danno molto in cambio. Tutto ciò, nella tragedia epocale di un virus che uccide le sale e costringe allo streaming, suona come un gesto di resistenza. Perché amare il suo cinema? A questa domanda forse è più facile rispondere, uscendo per un attimo dal discorso critico e a dandosi all’abbandono dei sensi: perché, nella sua espressione migliore, è cinema che lascia sgomenti, a occhi spalancati. La carne e l’anima abbraccia sette lungometraggi di Kechiche: tiro una riga dopo la presentazione di Mektoub, My Love: Intermezzo al Festival di Cannes 2019, senza che il lm abbia mai raggiunto le sale in nessuna parte del mondo. Ma nella convinzione che l’autore Kechiche sia ormai così luminoso da meritare un approfondimento che è, prima di tutto, un atto d’amore. Ecco di cosa tratta questo libro. Non tratta invece delle polemiche sul presunto “sguardo maschile”, che secondo alcuni avrebbe adottato nei titoli più recenti. Lo escludo per un motivo: è una questione che non ha cittadinanza critica, che avviene fuori dai lm e solo nella mente di chi la immagina. Una passeggiata culturale nel cinema di Kechiche può essere tale se respinge queste letture, attenendosi a ciò che sta sullo schermo: uno sguardo è
uno sguardo, per capirlo occorre studiare ciò che esso vuole dirci, non quello che noi ci aspettiamo da lui. Non misurarlo sulle nostre posizioni personali. È quindi un problema che non esiste. Abdellatif Kechiche nasce a Tunisi nel 1960. Con la sua famiglia arriva a Nizza all’età di sei anni. È appena adolescente quando inizia a prendere lezioni di recitazione al conservatorio di Antibes, perché prima di tutto il giovane Abdel è un attore: interpreta un testo di García Lorca nel 1978, appena diciottenne, e tre anni dopo esordisce per no alla regia teatrale, con la rappresentazione de L’architetto e l’imperatore di Assiria di Fernando Arrabal, andato in scena ad Avignone nel 1981. Nel frattempo si a accia nel mondo della recitazione cinematogra ca, entra a far parte del cinema beur e ottiene un ruolo principale: è il protagonista di Le Thé à la menthe di Abdelkrim Bahloul (1985), nella parte di un migrante algerino che vive di espedienti sul territorio francese. L’esperienza sul set lo forma profondamente e si ritrova con chiarezza nel suo primo lungometraggio da regista, Tutta colpa di Voltaire, che verrà costruito su una storia con forti assonanze con la pellicola di Bahloul e un attore protagonista (Sami Bouajila) che ricorda proprio Kechiche in quel lm. Il lavoro di attore cinematogra co continua negli anni della giovinezza, in cui Abdel si propone spesso come il personaggio dell’immigrato arabo povero ma bello, a ascinante, con una capigliatura riccia “garreliana”, che gira nel mondo arabo o si in ltra nella società transalpina con fortune alterne. Sostiene parti in titoli come Mutisme di Philippe Ayache (1987) e Bezness di Nouri Bouzid (1991), successo tunisino in cui incarna il prostituto Roufa, una sorta di arabian gigolò per la pruderie del pubblico. Nel 1987 lavora con un grande regista: André Téchiné. In Les Innocents interpreta Said, un ragazzo di origini algerine con cui il protagonista sordomuto Alain è fuggito, mentre la sorella Jeanne si mette sulle loro tracce. Kechiche ha qui l’occasione di condividere il set con attori centrali nel cinema francese di
quegli anni, come Jean-Claude Brialy e Sandrine Bonnaire, e naturalmente può assistere alla direzione di Téchiné di cui è parte in causa. I passi attoriali dell’epoca, rivisti oggi con il senno di poi, da una parte non vanno sovrainterpretati nell’analisi del percorso di Kechiche; dall’altra funzionano certamente come apprendistato, per vedere e capire cos’è un set cinematogra co, cosa signi ca girare, confrontarsi con registi e attori. In alcuni casi l’eco del periodo tornerà implicitamente nei lm da regista: nei racconti d’estate di Kechiche impossibile non pensare che egli ha recitato anche con Brialy, che è stato attore di Éric Rohmer e protagonista de Il ginocchio di Claire (1970), dove guarda caso era ossessionato da una porzione del corpo femminile. Kechiche ricopre altri ruoli di ne millennio in Un vampiro in paradiso (ancora Abdelkrim Bahloul, 1991), Marteau rouge di Béatrice Plumet (1996) e Le Secret de Polichinelle di Franck Landron (1997). Poi inizia il nuovo secolo, è maturo l’esordio alla regia.
Capitolo primo UNA PREMESSA. IL CINEMA BEUR E POST-BEUR Facciamo un passo indietro. Prima di entrare nella zona cinematogra ca di Abdellatif Kechiche appare fondamentale una premessa: la gura dell’autore Kechiche nasce come conseguenza diretta di quel modo di fare lm che è stato storicamente ribattezzato “cinema beur”. Dagli anni Settanta in poi germoglia in Francia una scuola di registi, che sono immigrati dal Nord Africa e dal Magreb in territorio transalpino e iniziano a girare lm. In realtà il cinema del Magreb ha già una storia precedente a quel decennio, con alcune caratteristiche che torneranno anche nel cinema dei migranti, in grado di riscrivere alcune peculiarità dei loro primi titoli africani e farle rivivere sul suolo francese. A percorrere in modo sintetico ma e cace le parabole degli Stati del Magreb prima delle migrazioni è René Prédal nella sua storia del cinema1: le lmogra e nazionali si sviluppano in seguito all’indipendenza ottenuta dai rispettivi Paesi. In Algeria il cinema negli anni Sessanta celebra la guerra di liberazione con titoli come Le Vent des Aurès (Mohammed LakhdarHamina, 1967) e Chronique des années de braise (sempre Lakhdar-Hamina, 1975), poi nel decennio successivo compie un’evoluzione e comincia ad applicarsi ai problemi sociali, denuncia ingiustizie e o re cenni di lotta di classe. Uno dei primi esempi, Les Spoliateurs di Lamine Merbah (1972) racconta la storia di alcuni piccoli contadini che si vedono espropriare le terre dai grandi proprietari, subendo un ricatto economico: sono costretti a cedere a prezzi molto bassi perché strangolati dai debiti. Emerge poi nel panorama algerino la gura di Merzak Allouache, che nel suo esordio Omar Gatlato (1977) imbocca un’altra strada: segue la parabola di un gruppo di giovani in un quartiere di Algeri, tra ricerca di divertimento e rapporti con le ragazze, in un meccanismo “più quotidiano e
cittadino, che mutua dalla commedia all’italiana l’umorismo gra ante e l’ispirazione popolare” (Prédal). Allouache, oltre che cineasta nazionale algerino, sarà uno dei nomi centrali del primo cinema beur. Negli stessi anni in Tunisia la rappresentazione della lotta per l’indipendenza si presenta come meno sviluppata, anche se alcuni titoli se ne occupano (Al fajir di Omar Khli , 1966). Il cinema tunisino è più politico nel senso complessivo, senza limitarsi a un singolo evento storico ma preferendo la politica sociale e del presente: Aziza di Abellatif Ben Ammar (1980) racconta la vicenda della giovane del titolo nella Tunisia in trasformazione, che presenta resistenze ataviche sul ruolo della donna nella società dovute al maschilismo intrinseco e all’estremismo religioso. Un lm importante è Les Ambassadeurs di Naceur Ktari (1974): qui una serie di migranti africani condividono un minuscolo appartamento a Parigi e cercano di sopravvivere con mezzi di fortuna, ma diventano il bersaglio dei razzisti francesi. Proprio in questa Tunisia era nato Adbellatif Kechiche nel 1960. E non sembra un caso che l’esordio kechichiano, Tutta colpa di Voltaire (2000), presenti molti punti di contatto con gli “ambasciatori” di Ktari: la di coltà della migrazione, la cattiva accoglienza del Paese ospitante, i giovani africani che vivono tutti insieme in spazi angusti. Tutto ciò non deve sorprendere: così si ritrovano spesso i migranti giunti in Francia, e il cinema tunisino che descrive la realtà non fa che prenderne atto. Semmai è interessante notare come la messinscena del migrante magrebino non subisca particolari variazioni nell’arco di trent’anni, da Ktari a Kechiche: certo, negli anni Settanta c’è più razzismo e per no più violenza, ma tutto sommato le di coltà dell’émigré non sono superate e restano molto simili, come d’altronde avviene anche oggi. L’altro grande Stato del Magreb, il Marocco, denuncia negli anni Settanta una lmogra a meno nutrita ma più
intellettuale e “d’autore”: a titolo di esempio Washma di Hamid Benani (1970) inscena la ribellione intima di un ragazzo, Messaoud, che deve a rontare da una parte l’ambiente famigliare opprimente e dall’altra la società intorno ancora molto arretrata. Les mille et une mains di Souheil Ben-Barka (1973) è la storia di un vecchio tintore e del giovane glio, che lavorano ogni giorno trasportando per la città enormi pacchi di lana. In generale, tutto il cinema magrebino risente presto della profonda instabilità politica nei rispettivi Paesi e inaugura così la stagione delle migrazioni. Il cinema beur nasce quindi negli anni Settanta, con i nordafricani e i magrebini che cominciano a girare sul territorio francese. Il termine beur deriva dalla storpiatura di arabe, che si di onde nella seconda parte del decennio, come forma positiva di autode nizione per i discendenti degli immigrati magrebini che sono nati o cresciuti sin dalla tenera età in Francia. I registi girano lm a basso budget, che si posizionano ai margini dell’industria cinematogra ca transalpina e sviluppano alcuni temi ricorrenti: a dominare è un realismo sociale ambientato nelle periferie delle grandi città, soprattutto Parigi, dove gli immigrati vivono e tentano di portare a casa la giornata, scontrandosi con varie di coltà. Essi svolgono lavori umili per pochi soldi, spesso non regolari, a volte per no ad ore, o scon nano nell’illegalità loro malgrado: tutti come obiettivo nale vogliono introdursi nel tessuto sociale francese. Un motivo ricorrente, che tornerà anche nel futuro Kechiche, è l’ipocrisia della Francia progressista e campione dei diritti: accogliente a parole, evoluta solo in teoria, nei racconti dei migranti si mostra invece come uno Stato respingente e ostile, che delude i “nuovi francesi” in cerca di integrazione. Prima del 1970 la rappresentazione dei soggetti nordafricani all’interno del cinema francese era fortemente legata all’immaginario coloniale: storie d’amore e d’avventura, ambientazioni proprio nelle
colonie, personaggi magrebini che interpretano la parte del servo, del traditore o dell’amante. Nel noir degli anni Ottanta l’arabo viene utilizzato come gura per infoltire il sottobosco criminale della banlieue, tra spaccio e piccoli reati. Quasi super uo sottolineare che quelli riservati a nordafricani e magrebini sono rigorosamente ruoli di contorno. Il cinema beur nasce quindi come esercizio politico e militante, in cui i migranti – come detto con low budget – intendono raccontare la loro condizione e denunciare il razzismo nei loro confronti. Così facendo, attraverso i loro lm piccoli ma tenaci, essi riescono a trasformare gradualmente la rappresentazione dell’immigrato lavorando sotto copertura nel cinema francese. A tracciare la mappa più esaustiva è stato Will Higbee nello studio Post-Beur Cinema. North African Émigré and Maghrebi-French Filmaking in France since 20002, che presenta in copertina – emblematicamente – un fotogramma dell’attrice Hafsia Herzi in Cous Cous proprio di Kechiche (2007). Chi sono allora i registi del beur? Tra i principali Mehdi Charef, Abdelkrim Bahloul, Rachid Bouchareb, e ancora lo stesso Merzak Allouache, Karim Dridi e Malick Chibane. A questi nomi verso la ne del secolo si aggiunge Abdellatif Kechiche. Un lm fondamentale e apripista per questo cinema è Le Thé au harem d’Archimède (Charef, 1985): racconto semiautobiogra co sui gli degli immigrati che crescono alla periferia di Parigi, imperniato sul protagonista Madjid (l’attore beur Kader Boukhanef) che ri uta l’identità magrebina e trova il suo posto nelle gang della banlieue, proponendo così una peculiare forma di integrazione all’insegna dell’illegalità. Partecipando alla continua guerra tra bande egli diventa banlieusard e quindi “francese”, ri utando dunque l’identità etnica e il destino di vittima designata in uno Stato ostile. In Le Thé à la menthe (Bahloul, 1985) si narra la vicenda di Hammou, un immigrato algerino che passa le sue giornate a Parigi tra piccoli espedienti e vede la sua routine sconvolta dall’arrivo improvviso della madre. A
interpretare Hammou c’è un giovane attore, all’epoca venticinquenne: è Abdel Kechiche. Bâton rouge segna l’esordio di Bouchareb (1985), storia di tre amici immigrati che vivono insieme nella periferia parigina, mentre nel secondo lm Cheb (1991) egli racconta di un migrante algerino che viene espulso dalla Francia per reati minori e torna nel suo Paese di origine che di fatto non conosce, trovandolo inospitale e repressivo. A prescindere dai numerosi titoli (altri ce ne sarebbero), per cui si rimanda alla ricerca di Higbee, ciò che preme sottolineare è il contesto culturale che rende possibile la nascita del regista Kechiche. Con lo sviluppo del lm beur la Francia cinematogra ca infatti si “accorge” dei migranti nordafricani e magrebini, non più come personaggi di contorno ma come protagonisti, perché sono gli stessi migranti o i loro gli che quei lm li girano. Il pubblico transalpino comincia a conoscere i titoli nel circuito indipendente, espandendosi per passaparola, e nel corso della ne degli anni Novanta e inizio del Duemila li premia anche in sala. La commedia a basso budget Le Ciel, les oiseaux et… ta mère! di Djamel Bensalah (1999) è il primo successo clamoroso che supera un milione di spettatori e apre la porta alla svolta mainstream del cinema beur, che si nutrirà poi di pellicole come Chouchou (Allouache, 2003), Indigenès (Bouchareb, 2006) e molte altre. Abdellatif Kechiche in questo a resco fa eccezione. È vero che il primo lm del regista, Tutta colpa di Voltaire, per le sue caratteristiche appartiene certamente alla tradizione del beur: è la storia di un tunisino che emigra a Parigi con tutte le di coltà del caso. Ma nei primi anni Duemila, mentre i beur si riposizionano nell’alveo del cinema popolare e commerciale, ecco che Kechiche esegue il movimento contrario: si presenta come regista indipendente di lm a medio budget, che gira reclutando attori non professionisti, con uno sguardo umanista e autoriale. I suoi primi titoli non sono pensati per il
mercato, infatti non attirano il pubblico: egli ri uta lo stereotipo del migrante marginale, così come altri stereotipi, per costruire n da subito un discorso personale e inedito. Interrogato più volte sull’opportunità di inquadramento nel cinema beur, Kechiche ha sempre risposto: “Io sono un regista francese”. Ed è vero, in barba alla carta d’identità: fermo restando la profonda eredità della cultura magrebina presente in tutti i suoi lm, tra pranzi arabi e danze del ventre, Kechiche ha sempre raccontato con itti etnici, di genere e tra classi che appartengono ad ogni organizzazione sociale, dunque all’essere umano. I suoi personaggi si muovono in un presente postcoloniale segnato dalla mescolanza etnica, dalla convivenza di cile tra arabi e francesi e dalla nuova ipotesi dell’“arabo-francese”: ma i loro contrasti sono più di classe che di etnia, ovvero ripropongono l’atavico scontro dei ricchi contro i poveri. Poi, come ulteriore passo in avanti, Kechiche arriverà ad adottare protagonisti totalmente francesi: è il caso della giovane omosessuale Adele ne La vita di Adele (2013), che ha ormai abbandonato de nitivamente i tratti del cinema beur per prendere un’altra strada. Ecco perché, come scrive Higbee, Kechiche “mostra come lo stile franco-magrebino nel 2000 abbia lasciato de nitivamente la posizione di cinema migrante per occupare il suo posto legittimo dentro il cinema nazionale”. In altre parole Kechiche segna una svolta, è un anello di congiunzione: un regista post-beur che da migrante è diventato francese.
Cinema: cent’anni di storia, edizioni Baldini & Castoldi Edizioni Edinburgh University Press
Capitolo secondo TUTTA COLPA DI VOLTAIRE. L’ODISSEA DEL MIGRANTE Il cinema di Abdellatif Kechiche inizia da un migrante. O meglio ancora, inizia da un’inquadratura: il monumento Le Triomphe de la République in Place de la Nation a Parigi, realizzato da Jules Dalou nel 1879 per il centenario della Rivoluzione francese. Kechiche ne cattura un dettaglio: la statua della Pace, una donna a ascinante con il braccio proteso che impugna una rosa. Non è certo un caso che la sua prima regia scelga di aprirsi con questa immagine: prima ancora di entrare nel racconto vediamo un “trionfo della repubblica”, esaltazione delle virtù della Francia attraverso la celebrazione della sua Storia. Un’immagine che nel corso della storia rivelerà tutta la sua portata ironica e polemica, ma stiamo anticipando. Sulla maestosa opera di Dalou si forma il titolo del lm, La Faute à Voltaire, che in italiano diventa Tutta colpa di Voltaire. In inglese per il mercato internazionale si trasformerà curiosamente in Poetical Refugee (Rifugiato Poetico), con un gioco di parole che azzera totalmente l’originale. Il titolo francese è una citazione. Kechiche riprende I Miserabili di Victor Hugo, in particolare una canzone eseguita dal personaggio di Gavroche che suona così: “Je suis tombé par terre / C’est la faute à Voltaire / Le nez dans le ruisseau / C’est la faute à Rousseau” (“Sono caduto per terra / La colpa è di Voltaire / Il naso nel ruscello / La colpa è di Rousseau”). Ai loso dell’illuminismo vengono quindi attribuite responsabilità per qualsiasi cosa, in particolare a Voltaire, il padre dei diritti umani. Ci prepariamo a vedere il percorso di un Candido migrante calato nel contemporaneo. L’inquadratura della statua svanisce e porta al protagonista: Jallel interpretato da Sami Bouajila, un giovane tunisino che è appena arrivato in Francia e si reca all’u cio immigrazione. Il lm lo introduce con un piano
sequenza: attraverso un’inquadratura uida entriamo nel centro, dove i migranti giunti nel Paese tentano di ottenere il permesso di soggiorno. Già nella premessa è evidente il dato autobiogra co che avvicina Jallel a Kechiche, anche lui tunisino immigrato sul suolo francese, che nelle dovute di erenze – Abdel era comunque un giovane attore del cinema beur – riscrive la sua esperienza dentro il personaggio, naturalmente manovrandola e modi candola. D’altronde basti guardare l’attore Sami Bouajila, nato in Francia con genitori tunisini, trentaquattrenne all’epoca delle riprese e solo sei anni più giovane di Kechiche, e confrontarlo con un’immagine del regista da giovane: i due si somigliano, a ra orzare la convinzione che sia in atto da subito un gioco di ri esso tra regista e personaggio, come sempre ltrato dalla licenza narrativa e dalle possibilità dell’invenzione. Jallel dunque non è Kechiche, non esattamente, ma per alcune sfumature lo ricorda e propone l’ipotesi di sublimare il dolore della migrazione attraverso il gesto cinematogra co di rimetterla in scena. Jallel si trova nell’u cio migranti e si confronta con altri come lui per ottenere il permesso. La sequenza è sintomatica e contiene tutto l’umore di cui il racconto è impregnato: la cinepresa di Kechiche si so erma sui volti degli stranieri e arriva poi a quello di Jallel. La prima volta che sentiamo la sua voce sta sillabando in francese un documento da compilare: “Motivo della domanda di asilo politico”. È il più giovane e il meno esperto, circondato da migranti più grandi di lui che presto lo approcciano intervenendo in suo aiuto. Alla domanda “Perché ha scelto la Francia?” Jallel vorrebbe onestamente rispondere indicando il motivo economico (“Per i soldi”), ma il suo interlocutore lo avverte: “Non devi dire questo, hanno già cinque milioni di disoccupati”. Così, nel corso del dialogo a più voci, emerge la condotta opportuna da adottare per restare in territorio transalpino: Jallel non dirà che è tunisino ma algerino. Fingendo di smarrire i documenti potrà acquistare un’altra nazionalità, tanto i funzionari
francesi davanti agli arabi non sanno riconoscere la di erenza. Perché proprio algerino? “Per loro hanno un occhio di riguardo”, risponde un personaggio, esponendo il senso di colpa post-coloniale che a igge i francesi nei confronti dell’Algeria, e facendo così la parodia di un’intera nazione. “La Francia, Paese della libertà, patria di Voltaire – dice -. Loro pensano di essere gli inventori della libertà (…). Hanno il pallino dei diritti umani”. Nella reinterpretazione del motto nazionale liberté, égalité, fraternité si tratteggia subito una rilettura scettica degli storici ideali francesi, tutti improntati a una libertà supposta che resta sulla carta. Ecco già dalla prima scena il senso del titolo: l’illuminismo con la sua utopia di fratellanza si risolve in un concentrato di ipocrisia, l’apertura e il progresso di facciata servono solo a mascherare l’assenza di solidarietà, in sintesi è questa la “colpa di Voltaire”. E i migranti come si comportano? Decidono di farsi furbi sfruttando proprio quella retorica progressista, quel liberalismo teorico, e allora meglio dichiararsi algerini perché dopo i peccati coloniali il francese medio non potrà che o rire un’accoglienza pelosa per lavarsi la coscienza. La costruzione della messinscena può sembrare a rischio didascalia, con quei dialoghi tra migranti che verbalizzano la situazione e la spiegano, seppure passando al setaccio dell’ironia: il pericolo viene però evitato grazie allo stile nascente del regista, che – come detto – sceglie un piccolo ma sinuoso piano sequenza come presagio del naturalismo a cui arriverà nel corso del tempo. Siamo trascinati dentro una situazione, l’u cio dei migranti, in cui entriamo in medias res: le cose sono in corso di svolgimento, è così che avviene ogni giorno, l’immediatezza della scena risalta in modo peculiare. Quanto agli immigrati che si scambiano consigli tra loro, cercando di “fregare” i francesi, non è forse così che immaginiamo stranieri poco istruiti, che hanno appena lasciato la loro terra, arrivati in un posto nuovo, spaesati e fuori luogo per cercare fortuna? Di cile
aspettarsi sottigliezze, ecco che un tale incipit si o re in realtà come esercizio di realismo esatto e plausibile. Jallel da algerino ottiene il permesso che non avrebbe avuto da tunisino. È autoevidente il signi cato politico: Kechiche apre il suo cinema lanciando la macchina da presa nella questione dei migranti, non a livello macro, non c’è alcuna esplicitazione, ma scandagliando i pensieri delle persone comuni, le coscienze, i rimossi di una nazione e il rapporto quasi psicanalitico tra senso di colpa e lettura della realtà. Non solo. La trovata del tunisino che si nge algerino introduce infatti un altro grande motivo del cinema kechichiano: il travestimento. Jallel per il permesso di soggiorno si nge altro da sé: una di erenza lieve all’occhio occidentale che non sa distinguere, ma decisamente più signi cativa per gli sguardi degli altri personaggi che incontrerà, soprattutto quelli arabi, da cui è sempre attento a non farsi smascherare. Jallel è la prima pedina di un gioco che si svilupperà pienamente nei titoli successivi: la di erenza tra realtà e maschera sarà al centro de La schivata e tornerà poi a vari livelli. Intanto, però, nel tunisino/algerino è presente in nuce il con itto tra essere e dover essere: una prima traccia pirandelliana, quindi letteraria, che l’autore ripone nel personaggio seppure in forma lieve, facendola emergere soprattutto nei dialoghi in arabo che intervengono nel racconto talvolta senza sottotitoli. La parlata di un tunisino è sensibilmente diversa da quella di un algerino, dunque il velo rischia di strapparsi. Dopo il simbolico inizio Tutta colpa di Voltaire segue la parabola di Jallel, giovane arabo che vuole integrarsi e iniziare una nuova vita in Francia. Vuole “diventare” francese esattamente come il regista beur Kechiche. Nel percorso incontrerà due donne che disegnano due ipotesi di amore e felicità, ma – come attesta la premessa – entrambe sono destinate al fallimento. In ultima istanza, quando sembra intravedere uno spiraglio, improvvisamente Jallel viene arrestato e rispedito in
Tunisia. A chiarire il suo pensiero sulla condizione dei migranti è lo stesso Kechiche: “Per me non esistono immigrati clandestini. Ci sono uomini e donne, degli esseri umani che vorrebbero una vita migliore e per questo sfruttano un diritto fondamentale, quello di circolare liberamente. È solo un problema di linguaggio”3. La strada di Jallel parte dal centro di accoglienza per migranti. Qui il protagonista incontra la tenace operatrice sociale Barbara (Carole Franck) e una varia umanità di stranieri, mediamente poveri e spiantati, eppure uniti e solidali tra loro. Saranno anche suoi amici, a partire da Franck (col volto stropicciato di Bruno Lochet), che interverrà più volte in veste di aiutante insieme ai suoi compari. Capaci di non demoralizzarsi per la loro condizione, vivendo di espedienti come vendere rose in metropolitana, queste gure si mantengono sempre positive, amano scherzare, fare festa e ballare: il racconto assegna loro una connotazione gra ca più empatica della burocrazia francese, hanno facce simpatiche, si sostengono, sono poveri ma provano a invertire la rotta. Nella loro caratterizzazione, in altre parole, Kechiche a erma che i migranti verranno aiutati solo dai migranti. Così Jallel insieme ai suoi amici vende oggetti in metropolitana, costretto a scappare appena arriva un controllo delle autorità francesi. C’è un particolare che rivela la profonda consapevolezza già presente nel cinema di Kechiche: Jallel nel metrò si ritrova a vendere Macadam, un presse de rue, ovvero un giornale di strada, e per chi lo compra annuncia “una riduzione del 15% sul lm La graine et le mulet”, citando il titolo del lm che lo stesso regista girerà sette anni dopo (in italiano Cous Cous), di cui naturalmente aveva già pronto il progetto. Questa auto-citazione di un titolo che ancora non esiste, oltre a portare fortuna alla sua carriera visto che nascerà davvero, permette di indovinare la logica di pensiero e lo sguardo lungo di Kechiche, n dal primo lungometraggio. Anche Jallel che cita La graine et le mulet non ha nulla di casuale: simili sono i due personaggi principali, lo Slimane
di quel lm potrebbe essere un Jallel invecchiato, e soprattutto comune è il loro obiettivo. Entrambe le gure kechichiane vogliono integrarsi compiutamente nella società francese, l’uno appena dopo la migrazione e l’altro aprendo un ristorante galleggiante che permetta di sostenere la sua vasta famiglia. Due arabi e il loro complesso sforzo di francesizzazione: si capisce allora perché Jallel evochi proprio quel “ lm fantasma” e quella gura che tanto gli assomiglia. La prima ragazza è Nassera interpretata da Aure Atika. Lei è una beur, nata in Francia da una madre tunisina e un padre francese, e lavora come cameriera in un bar. Jallel vi entra casualmente, sempre ngendosi algerino, incontrando un microcosmo di seconde generazioni e meticci, altro segno distintivo dell’autore che si svilupperà in seguito. Ed è qui che Kechiche gira la prima scena di danza del suo cinema. Sono pieni di balli i suoi lm, come tradizione nel mondo arabo, che si declinano nei più svariati modi e registri: la danza del ventre che chiude Cous Cous, il ballo tribale nel circo di Venere nera, Adele che danza ne La vita di Adele, la macrosequenza in discoteca di Mektoub, My Love: Canto Uno, le due ore e mezzo sempre in discoteca di Intermezzo. Qui siamo al punto di partenza. All’interno del bar le ragazze ascoltano musica araba e iniziano a ballare tra loro, mentre Jallel beve troppo e rivolge lo sguardo a Nassera, mostrata spesso in soggettiva e semi-soggettiva del ragazzo, che ne è chiaramente attratto, perché nel ballo la “mezzosangue” libera il suo lato più sensuale. Il protagonista nell’ebbrezza comincia a parlare in arabo, suscitando le ironie dei clienti del locale che non capiscono: è una seconda generazione che ha perso la lingua originaria e si interroga sul signi cato delle parole. Ritroviamo poi Jallel esangue in metropolitana dopo la sbronza, ma è l’inizio di un rapporto. Nassera è una ragazza madre segnata da molti problemi: single, in di coltà economica e precarietà esistenziale, non sa trattare il glio piccolo con amore ma lo considera oggetto di ingombro. Nella prima parte del
racconto Jallel intreccia con lei un’ipotesi sentimentale, che tutto sommato lascia intravedere esiti felici: la giovane mamma è disposta anche a sposarlo per uscire dalla sua condizione e regolarizzare de nitivamente il migrante. Sarà un matrimonio in municipio, con la ragazza in abito bianco e Jallel accompagnato dai suoi instabili amici. Quando le nozze stanno per avverarsi, però, Nassera accusa un ripensamento: il racconto ce la mostra nella classica inquadratura in bagno con la donna che si guarda allo specchio, e così decide di fuggire. La frustrazione di un desiderio getta Jallel nella disperazione: dopo giorni passati a piangere, incapace di scuotersi, egli denuncia ormai sintomi di depressione e viene condotto in un centro di igiene mentale. L’odissea del migrante, incapace di trovare lavoro e regolarizzarsi, lo porta addirittura a nire tra i “pazzi”. Proprio nella clinica incontra la seconda ragazza, Lucie incarnata da Élodie Bouchez, giovane attrice di talento che era stata tra gli adolescenti protagonisti di un lm centrale nel cinema francese degli anni Novanta, L’età acerba di André Téchiné (Les roseaux sauvages, 1994), per cui aveva vinto il Premio César come migliore promessa femminile. Una promessa che poi, forse, non è mai sbocciata del tutto. Jallel conosce Lucie in clinica nelle vesti di una giovane disturbata e ninfomane, che elargisce sesso a poco prezzo per gli altri pazienti: lui ri uta, inizialmente la respinge, e proprio per questo – considerandone il lato umano e non quello carnale – gradualmente si lega alla ragazza e vi intreccia una relazione. Il rapporto non è fatto di sesso, all’inizio, ma di una vicinanza a ettiva e comunanza esistenziale: sono due reietti del mondo intorno che decidono di sostenersi e prendersi per mano. Quando Lucie va a cercare Jallel dopo la sua dimissione, la relazione si concretizza malgrado i disturbi della giovane. Ecco allora un’altra ipotesi di idillio, il secondo binario sentimentale per Jallel che comunque, tra le righe, dall’inizio riconosce la ragazza come portatrice non di equilibrio ma di ulteriore confusione (“Tra noi non potrebbe mai funzionare”). In
un rapporto fatto di frenate e avvicinamenti, i due si ritrovano in una stanza di hotel e la ragazza si spoglia, rivelandosi incinta. La possibilità di una coppia si complica ulteriormente, anche per la di coltà di Lucie nel gestire i suoi disturbi, ma tra loro si instaura un rapporto tenero e complice. Quando i due in ne si uniscono, Kechiche regala un minimo indizio di quella che sarà la sua rappresentazione del corpo: gli amanti si risvegliano e Lucie ricopre Jallel di baci. Nell’inscenare un istante di estremo romanticismo il regista già pone l’accento sul lato sico e carnale: inquadra la bocca della ragazza che bacia l’amante, entrambi nudi, con la cinepresa che resta attaccata ai corpi e ne cattura i particolari, impegnata a restituire per la prima volta – in una manciata di secondi – il dettaglio epidermico della carne, l’atto sessuale come gesto tangibile e materico. Siamo agli albori della pratica che troverà ne La vita di Adele la sua quintessenza. Impossibile non ri ettere su cosa rappresentano le due donne nel percorso del protagonista, sia a livello sociale che nel campo simbolico e metaforico. Nel primo caso Nassera e Lucie sono escluse dalla società, due ultime, seppure in modo diverso tra loro: l’una è una ragazza madre che naviga a vista nella Parigi contemporanea, insoddisfatta e senza equilibrio, incapace di trovare una bussola e quindi portata a trascurare il glio piccolo; un personaggio che ricorda la madre di Poor Cow di Ken Loach (1967), Joy interpretata da Carol White che viveva a Londra negli anni Sessanta ma aveva gli stessi problemi, una perenne insoddisfazione sentimentale che la porta a sfogarsi sul bambino, per poi rivalutarlo nello struggente nale. Se il docudrama britannico di Loach recava una forte traccia di critica sociale, con una donna disoccupata e abbandonata dallo Stato indi erente, il cinema beur di Kechiche suggerisce un altro tipo di complessità: nella gura di Nassera c’è la di coltà per una mezza araba di integrarsi nella società francese, per questo risulta speculare allo stesso Jallel, suonando due variazioni sul
tema dello straniero a cui non è concesso un posto nel mondo. Quanto a Lucie, anche lei è una ragazza problematica ma a etta da disturbi di natura diversa, ossia psichiatrici: la sua fragilità la porta a una ninfomania che la rende facile vittima di abusi. Non conosciamo il pregresso: potremmo aprirci a diverse ipotesi, come l’idea che “qualcosa” nella società l’abbia fatta impazzire, ma occorre rispettare il racconto del regista che qui sceglie un’omissione, evitando spiegazioni e psicologismi, presentando semplicemente una giovane malata. I drammi delle ragazze sono di erenti, dunque, ma ugualmente incisivi e soprattutto – ecco la lettura sociosimbolica – entrambe si avvicinano proprio a Jallel: è conseguenza naturale che un migrante in di coltà incontri sulla strada una mamma disagiata e una disturbata mentale. Lo conferma ancora Kechiche: “La sorte degli stranieri in una situazione irregolare si confonde molto spesso con quella degli esclusi, siano poveri, malati o resi fragili, e questo situa il problema dell’esclusione su di un’altra scala”. Come a dire, in modo neanche troppo implicito, che sono queste le sole possibilità di uno straniero in territorio francese: incontrare i suoi simili e andare a sbattere, di meglio non può ottenere. Nella progressione narrativa il lm lascia intuire l’ipotesi di un lieto ne per il povero Jallel: la sua condizione sembra stabilizzarsi, può contare sulla congrega di amici émigré e sul rapporto con una ragazza. Insomma si disegna una curva favorevole che viene restituita attraverso una partita di bocce e una festa, in cui tutte le gure (tra cui Jallel e Lucie) ballano insieme e fanno sospettare un futuro più sereno. Proprio in quel momento però Kechiche cala il colpo: Jallel viene arrestato dalla polizia e rispedito al suo Paese. Una scena attentamente preparata dalle sequenze precedenti che, proprio perché solari, aumentano l’e etto spiazzante del nale. Questo arriva in una ripresa breve, volutamente brusca e improvvisa, girata ancora in Place de la Nation: si tratta di
un piano sequenza di Jallel che va a vendere le rose in metropolitana, ma quando scende le scale della stazione la cinepresa non lo accompagna e resta ferma in un quadro sso. Pochi secondi dopo lo osserviamo riemergere accompagnato dai poliziotti e sparire nell’auto di pattuglia. Ecco che intravediamo nuovamente il monumento di Jules Dalou, un trionfo della repubblica che ha ormai assunto un tono amaro e be ardo. Alcuni critici hanno notato il valore simbolico delle rose vendute da Jallel, esattamente lo stesso ore che impugna la statua della Pace nell’opera di Dalou: due rose diverse, in tutta evidenza, che rimarcano con stridore l’abisso che corre tra la retorica della libertà e la prassi dei rimpatri forzati. Kechiche gira il suo esordio a quaranta anni, con i direttori della fotogra a Dominique Brenguier e Marie Spencer e grazie alla ducia del produttore Jean-François Lepetit. Il lm viene presentato al 57° Festival di Venezia e vince il Premio Luigi De Laurentiis come migliore opera prima. Il riscontro critico per il nuovo autore è in grande maggioranza positivo, sia nella stampa francese che in quella internazionale. Venti anni dopo Tutta colpa di Voltaire suona come un’opera embrionale che contiene il cinema di Kechiche in ligrana, ma ciò non sia visto come diminuzione: anche se è un primo passo mantiene ancora oggi un risultato stilistico a tratti potente, uno sguardo già peculiare e un discorso che non ha perso un’oncia di attualità nel nostro contemporaneo. Intervista di Abdellatif Kechiche riportata dalla Commissione nazionale valutazione lm della Conferenza episcopale (http://www.cnvf.it/ lm/tutta-colpa-di-voltaire)
Capitolo terzo LA SCHIVATA. MARIVAUX NELLA PERIFERIA Una periferia francese. Un gruppo di ragazzi. Una recita scolastica. C’è un meccanismo apparentemente semplice alla base del secondo lungometraggio di Abdellatif Kechiche, La schivata (L’esquive, 2003), proiettato per la prima volta al Festival Entre Vues di Belfort il 25 novembre 2003, poi presentato in Italia al Torino Film Festival del 2004. Eppure, da un congegno teoricamente chiaro, deriva il lm più complesso del franco-tunisino, quello che invita lo spettatore a sbrogliarlo come una matassa e o re nuovi spunti possibili ad ogni visione. Sono passati tre anni dal debutto voltairiano, qualcosa è cambiato: prima di tutto Kechiche, che aveva scritto e diretto il lm precedente, adesso ha una sceneggiatrice, Ghalia Lacroix che è anche la sua compagna. L’evoluzione diviene subito evidente: il regista fa un parziale passo indietro in sede di scrittura, che è comunque a quattro mani, e si applica pienamente alla regia come sua collocazione naturale. Con una gura dietro che scrive, rispetto alla semplicità di Tutta colpa di Voltaire, che era una parabola tanto incisiva quanto leggibile, stavolta c’è l’opportunità di sfaccettare la storia e moltiplicare i livelli di lettura. Il regista la sfrutta attraverso una costruzione strati cata e consapevole. Interviene poi un’altra novità: per la prima volta l’ispirazione a un testo letterario entra nel suo cinema. Naturalmente la letteratura aleggiava già nel lm d’esordio, sia con il riferimento centrale a Voltaire che con la possibile interpretazione che vedeva Jallel come Candido nella Francia contemporanea. Qui però un libro entra proprio “dentro” il racconto, tanto che il titolo inglese diventerà Game of Love and Chance, facendo coincidere e lm, suggerendo così un adattamento diretto che in realtà non c’è: si tratta di un equivoco. Più in
generale, considerato spesso a torto un regista “solo” naturalista, ovvero impegnato a riprodurre fedelmente il movimento del reale, in verità Kechiche è un autore anche letterario, che parte dallo scritto per poi approdare al naturalismo come punto di arrivo. Egli i testi li manipola, vi ri ette sopra, li mette in abisso. Prende un libro, lo reinstalla nel contemporaneo e ne veri ca la tenuta sui protagonisti, scoprendo che nel presente un classico può restare attuale o assumere improvvisamente un altro signi cato. Al centro de La schivata c’è il testo teatrale Il gioco dell’amore e del caso di Pierre de Marivaux (Le jeu de l’amour et du hasard), che gli alunni della banlieue devono recitare per il saggio di ne anno. Tra i maggiori commediogra del Settecento, drammaturgo e scrittore, Marivaux è una sorta di Goldoni francese che viene insegnato ai ragazzi nelle scuole. Per Kechiche si tratta di una vera e propria ssazione: lo troviamo qui e tornerà con forza ne La vita di Adele, che già nel titolo è una citazione dell’opera La vie de Marianne. A ben vedere Marivaux ispira al regista ben due titolazioni, perché anche L’esquive si presenta come citazione indiretta, dato che riprende un episodio decisivo nell’economia drammatica della pièce. Il gioco dell’amore e del caso fu rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1730. È una commedia incentrata su uno scambio di ruoli, che oggi diremmo “pirandelliana” ma fu scritta due secoli prima di Pirandello. L’estro di Marivaux costruisce la storia su un dispositivo che prevede l’inversione degli abiti sociali: la nobile Silva decide di vestire i panni della cameriera Lisetta per veri care la fedeltà del futuro sposo prima del matrimonio. Allo stesso modo il designato Dorando indossa le vesti del servitore Arlecchino per il motivo uguale e contrario. Ognuno vuole veri care la fedeltà dell’altro prima di convolare a nozze. Il personaggio di Silvia dice in apertura: “Dorando arriva da noi oggi. Se io potessi vederlo, esaminarlo un po’ senza che lui lo sappia, Lisetta, che ha molto spirito, potrebbe prendere temporaneamente il mio posto, ed io potrei prendere il
suo”4. La premessa viene sviluppata dal drammaturgo in tre atti, fatti di dialoghi palpitanti e gesti ambigui, tra cui il tentativo di Arlecchino di baciare Lisetta, che nisce con la ragazza che all’ultimo momento lo evita: ecco quindi materializzarsi la schivata del titolo. Il testo si mantiene sempre in equilibrio sul lo tra realtà e rappresentazione e allo stesso tempo è capace – come nel miglior comico – di proporre la sua domanda semplice e popolare: chi si innamora di chi? Dopo la ronde dei quattro personaggi l’esito è paradossale: il servo si innamora della serva e il padrone si innamora della padrona, anche se tutti si presentano sotto mentite spoglie. L’acuta teoria di Marivaux risulta chiara: puoi travestirti come vuoi, ma nirai sempre con qualcuno della tua stessa classe sociale. I ricchi e i poveri si riconoscono a vicenda e – qui il colpo di genio – sono attratti sempre da se stessi, si innamorano solo tra loro rendendo di fatto impossibile qualsiasi ascensore sociale. La mobilità tra classi viene impedita dalle leggi del sentimento: non si sale né scende, ma si resta sempre ancorati alla fascia di provenienza. In altre parole: “I ricchi fanno i poveri e i poveri fanno i ricchi, ma nessuno ci riesce: questo ci dimostra che siamo prigionieri della nostra condizione sociale”. Così l’insegnante di francese spiega alla classe il signi cato della pièce, all’inizio de La schivata: siamo nella scuola nella banlieue di una città inde nita (il lm è girato a Saint-Denis), c’è una classe di liceo che sta provando a mettere in scena il testo di Marivaux per la recita. Con una particolarità: gli studenti sono tutti banlieusards, ovvero giovani nati e cresciuti nelle periferie, naturalmente segnati da quel contesto. Ognuno di loro implicitamente o meno rivela il vissuto personale: padri in prigione, di coltà economiche, famiglie disfunzionali e tentazione dell’illegalità. Storie di ordinaria periferia. Al centro del racconto c’è il giovane Krimo, ma prima di arrivare a lui ecco una delle scene più paradigmatiche del cinema di Kechiche: l’inizio di questo lm. I ragazzi si incontrano tra loro. Veniamo calati dentro la situazione,
mentre il raduno si consuma tra parolacce, volgarità ed espressioni in dialetto, pronunciate in modo così repentino, veloce e impetuoso che è per no di cile distinguere in esse la lingua francese. È lo slang della banlieue: si discute di piccole cose, roba da ragazzi, lo si fa nella parlata della periferia. Il rabbioso botta e risposta dei giovani ci cala in eri nel loro contesto, disegnando un tappeto sonoro che si o re come una sorta di musica di periferia: se fosse un genere sarebbe l’hip hop. I discorsi dei sobborghi sono il rap di questi ragazzi, infarcito di merde e putain, di giovani beur che esclamano “giuro sul Corano!”, che si sviluppa in modo sincopato con in essioni anche molto diverse fra loro (i gli dei migranti arabi hanno un altro accento rispetto agli autoctoni). Kechiche ha studiato attentamente la lingua dalla banlieue prima di pensare alla sua rappresentazione: il risultato sono questi “coatti” di periferia francese che eseguono un esercizio di mimesi impressionante, riportando sullo schermo esattamente la lingua della strada senza sconto né edulcorazione. Una simile sovrapposizione tra realtà e rappresentazione, applicata alla periferia, ricorda alcuni lavori di Pier Paolo Pasolini (soprattutto letterari: Ragazzi di vita) ma come riferimento principale si ri ette probabilmente nel cinema di Claudio Caligari, che già in Amore Tossico (1983) provava a riportare in nzione con la stessa scienti cità di Kechiche la parlata vera della banlieue romana, ovvero Ostia. Da parte sua, l’operazione de La schivata supera alcune rappresentazioni nzionali dei banlieusards nel cinema contemporaneo, come quella de L’odio di Mathieu Kassovitz (La Haine, 1995): un lm che deve il suo statuto di cult proprio alla scrittura, alla costruzione dei giovani periferici che – a prescindere dal giudizio – veniva lì palesemente artefatta dall’autore alla ricerca legittima della battuta, del momento da ricordare, della scena signi cativa. Ne La schivata avviene l’esatto contrario: la banlieue è un usso, un ume agitato che vive di strappi e frammenti, tanto che sarebbe di cile riportare una
singola battuta memorabile dei ragazzi perché non ve ne sono, essi sputano le frasi e si interrompono a vicenda, urlano, biascicano le parole, le lasciano a metà, insomma parlano “come nella vita”. Fin dall’inizio Kechiche lma gli adolescenti spesso con macchina a mano e a spalla, non per realizzare il classico “pedinamento”, ma con l’obiettivo di inserirsi nel mezzo di una situazione: sembra piuttosto un occhio che spia, catturando i personaggi mentre si riuniscono, parlano, bisticciano. Stiamo già entrando nel suo nascente naturalismo: la strategia è stare dentro una situazione, guardarla, lasciarla respirare e imprimerla, come fosse la vita quella che stiamo vedendo e non la sua ricreazione su un altro supporto. La ricerca di verità nella ragnatela di periferia è già consapevole, come a erma Kechiche in occasione della presentazione a Torino, a proposito dei suoi personaggi: “Rivendico ad alta voce il loro diritto ad avere una vita normale, fuori dai cliché o ensivi che li presentano come vittime o delinquenti. Si può considerare il lm come una richiesta del diritto a una corretta rappresentazione delle cose”5. Ricordate i personaggi arabi nel cinema francese prima dell’arrivo dei registi beur, principalmente legati a gang e violenza? Ecco, Kechiche comincia da qui a smentire questi stereotipi, rivendicando il “diritto a una corretta rappresentazione”. Così l’unione di elementi, il lavoro linguistico e le scelte di stile formano l’impressione di stare con questi ragazzi, non solo di guardarli. Dal costante “rumore” di periferia emerge il protagonista Krimo, interpretato da Osman Elkharraz, un adolescente di origine magrebina che vive con la madre e ha il padre in prigione: un membro della seconda generazione, glio di immigrati in Francia. E basti vedere il volto di Elkharraz per ritrovare il Jallel di Tutta colpa di Voltaire e il successivo Slimane di Cous Cous, quindi per ritrovare anche un po’ di Kechiche. Modulandolo avanti e indietro nel tempo, più o meno cresciuto, si a accia la suggestione che il regista stia inscenando sempre lo stesso personaggio, che varia nella forma e nello spazio ma ha le
stesse stimmate, quelle dell’arabo immigrato in Francia. Krimo è timido e taciturno: forse per condizione sociale o per carattere, ha sviluppato una personalità introversa che non si apre all’altro, è dimesso proprio gra camente, nelle dispute in slang è colui che non alza mai la voce e resta vagamente in disparte. All’inizio del racconto Krimo incontra la compagna di classe Lydia, ra gurata in Sara Forestier, che sta provando un abito settecentesco per recitare nella parte di Lisetta: il giovane se ne innamora all’istante. La genesi del colpo di fulmine viene resa dal regista in un intreccio di pulsioni contrastanti: Lydia è vestita di merletti ma tira sul prezzo, la sto a costa troppo e si lancia in un pro uvio di parolacce. Sopra il vestito indossa una giacca a jeans, realizzando una prima contaminazione visiva tra moderno e contemporaneo. L’abbraccio tra aulico e volgare è qui in fase di costruzione. Il “colpo” avviene de nitivamente quando Lydia riserva uno sguardo a Krimo per farsi accompagnare alle prove: l’inquadratura del viso della ragazza e ettua uno zoom repentino sugli occhi e sulle labbra, è una soggettiva del giovane per cui è sbocciato qualcosa. Cupido ha scoccato il suo dardo. In modo molto simile, in futuro, Kechiche ci mostrerà Adele guardare Emma nella prima sequenza del parco ne La vita di Adele. Invece nell’immagine di Lydia, vestita da dama del Settecento mentre impreca duramente sul prezzo, si introduce uno dei motivi portanti de La schivata: il contrasto di linguaggio. Gli adolescenti di periferia che dicono parolacce sono chiamati a recitare la lingua aulica di Marivaux. Passano da “me ne fotto” a “io ardo per lei”. Ecco perché il cineasta ha voluto ricostruire l’alfabeto di periferia nelle sue asperità e ruvidezze: per ra orzare l’opposizione linguistica quando li vediamo e sentiamo nei panni dei nobili antichi. Lo spiazzamento cresce perché la divisione dei ruoli non è rigida, anzi essi si mescolano continuamente: si prenda la sequenza in cui Lydia inizia a recitare come Lisetta, poi esce dalla parte e si lancia in un rap di parolacce in costume di scena. Come
sintesi de nitiva del contrasto, prima di una prova Lydia sputa per terra, quindi inizia a recitare nella lingua del Settecento. La contaminazione si fa quasi inestricabile. L’altro elemento spiazzante nella costruzione di Kechiche risiede nella natura del rapporto tra Krimo e Lydia, ossia nella sostanza di questo innamoramento. In tal senso l’autore allestisce un congegno particolarmente acuto: i due giovani sono compagni di classe di lungo corso, da anni vanno a scuola insieme ogni giorno ma sono solo amici, non c’è mai stato nulla tra loro. Finora Krimo non l’ha notata: il giovane si innamora di lei solo vedendola in abito di scena. Al variare dell’apparenza, quindi, corrisponde un mutamento di percezione nell’animo di Krimo, che nisce per innamorarsi non della persona ma del personaggio: questo sì che è davvero pirandelliano. Inoltre, attivando lo stratagemma, Kechiche opera una prima manipolazione del testo di partenza. Se in Marivaux l’abito che si indossa non cambia la composizione delle coppie, ne La schivata il concetto viene totalmente ribaltato: è proprio il vestito di scena che permette di struggersi d’amore, è questo che segna la svolta sentimentale in un rapporto fatto solo di amicizia. Oltre alla scelta narrativa del rovesciamento, il particolare può servire a veri care concretamente come Kechiche “cucina” un testo letterario insieme alla sua sceneggiatrice: per lui la pagina è un punto di partenza, un richiamo al classico che però passa sempre al vaglio, viene riscritto e rimesso in scena, rielaborato alla luce dell’oggi. Per l’occasione al regista serve inscenare la forte discrasia percettiva di Krimo nei confronti di Lydia, il divario tra la ragazza della banlieue e la dama in costume: ecco allora che l’andamento del racconto di Marivaux viene manipolato e cambia signi cato, come d’altronde inevitabile nella periferia francese, che può certamente rifarsi al retaggio dell’originale ma poi modi ca il senso, lo riscrive nella sua lingua, lo cuce sulla sua misura. Posta questa premessa, Krimo si ritrova a disposizione
un’unica possibilità per conquistare il cuore di Lydia: recitare accanto a lei interpretando il ruolo di Arlecchino. Così avrà l’opportunità concreta di starle vicino, imposta dalla recita, e sotto l’alibi delle prove dovrà ngere un corteggiamento che per lui è autentico. Il problema, semmai, si pone quando Marivaux nella pièce prevede che Arlecchino venga ri utato dall’amata attraverso una schivata. Si ripeterà nella realtà o andrà diversamente? Krimo si compra la parte, corrompendo un compagno di classe, così il dispositivo entra nel vivo. “Capisci l’importanza del linguaggio in questa commedia?” dice l’insegnante al protagonista, e implicitamente è la domanda che il regista rivolge anche a noi. “Arlecchino ardeva per lei: chissà se usate ancora la parola ardere in quel senso”: a parlare è sempre la maestra, interpretata da Carole Franck che era assistente sociale nel lm precedente, qui una sorta di alter ego dell’autore che a intervalli irregolari ci indica dove dobbiamo guardare nella storia, quali sono gli strappi minimi e quali i divari insanabili. È lei che segnala a più riprese il cortocircuito linguistico: nessuno usa più il termine “ardere” in quel senso, naturalmente, si tratta di un linguaggio fuori tempo che però fornisce un altro indizio sulla condizione intima di Krimo, che sta davvero “ardendo per lei”. Così per tutto l’arco del racconto le liti futili dei giovani si alternano sempre alle prove della recita: è la traccia narrativa alla base del lm. Il regista tira l’elastico, eccede, riprende gli screzi dialettali no a renderli estenuanti, girati in macroscene come fossero atti teatrali iscritti nella periferia, che suonano ora rabbiosi e ora grotteschi. A tal proposito, la pratica di Kechiche della macrosequenza inizia qui a svilupparsi più compiutamente: se in Tutta colpa di Voltaire l’aveva applicata alla scena di ballo nel locale, qui volutamente la “involgarisce”, nel senso che la sviluppa sulla pelle di questo “volgo” di borgata, e nelle lunghe riprese avvolge i banlieusards che parlano, litigano e imprecano. Ecco un altro esempio di utilizzo peculiare del testo letterario: Il gioco dell’amore e del caso viene
impiegato strategicamente per acutizzare lo scontro tra linguaggio alto e di periferia, un divario che diventa anche esistenziale e gradualmente costruisce una prima ipotesi di naturalismo, formando l’a resco di un gruppo di giovani sempre e comunque marchiati dal contesto di appartenenza. L’altra sbavatura nel piano del protagonista si intravede quando diventa evidente una di erenza tra Lydia e Krimo: mentre la ragazza si impegna, è portata alla recitazione e si rivela pienamente in parte, il giovane non vi è tagliato a atto e si mostra inerte, impara a memoria le battute che recita in modo automatico. La mancanza di talento e impegno si fa metafora dell’impossibilità di conquistare l’oggetto del desiderio: allora, in modo abbastanza geniale, abbiamo la contraddizione di un Arlecchino autistico, altra negazione della gura incontenibile di Marivaux, un personaggio che qui non può funzionare. Il racconto con la trovata mette in abisso l’inadeguatezza di Krimo: lo è nella vita, lo è anche nella nzione. Il suggerimento implicito è che la sua storia con Lisetta/Lydia non sarà possibile neanche sul palcoscenico. Intanto la gestazione della rappresentazione pubblica si intreccia con i rapporti privati dei ragazzi: la vicinanza tra Krimo e Lydia, seppure imposta dalle prove che proseguono fuori dall’aula, innesca nel gruppo una serie di reazioni. In queste vediamo l’abilità di Kechiche nel tratteggio delle gure anche minori che popolano i suoi racconti, tutti incarnati da attori non professionisti: c’è Magalie (Aurélie Ganito), l’attuale danzata di Krimo che si sente trascurata o per no tradita; c’è Frida (Sabina Ouazani), un’altra ragazza di origini arabe che si scontrerà duramente con Lydia, a proposito dei sentimenti e della necessità di un chiarimento; e ancora la nera Nanou (Nanou Benhamou), l’amico del protagonista Fatih (Hafet Ben-Ahmed), ennesimo beur in terra francese. Essi, ognuno con i propri tratti distintivi, sono le voci che vanno a formare un coro non solo scenico ma anche linguistico, dato che ognuno ha il suo accento, la sua in essione, la parolaccia preferita.
Ma attenzione: se è vero che queste gure a tratti si comprendono e si parteggia per loro, il ritratto che Kechiche consegna della banlieue non è esattamente riconciliato. Le liti sono violente, le situazioni degenerano, si mettono le mani addosso: d’altronde risuona l’eco di un contesto disagiato, con parenti dietro le sbarre e l’abitudine alla vita di strada, per questo siamo lontani dai soliti “poveri ma belli” ma vediamo piuttosto un an teatro di periferia pieno di durezze, in cui non è facile sopravvivere. L’interazione tra i giovani attori dalla strada, ottimamente diretti dal regista, è una parte importante che concorre al risultato nale. Mentre le prove vanno avanti, in modo sempre più improbabile, si avvicina il momento della schivata. Krimo e Lydia stanno provando, la giovane è esasperata dall’inettitudine di lui. A un certo punto, nell’istante che nel testo corrisponde alla schivata, Krimo prova a baciarla e lei lo respinge, concludendo la scena in un capitombolo quasi slapstick che manda i due giù per terra. In altre parole anche Krimo ha provato a recitare la schivata cambiando il testo di Marivaux, quindi baciando davvero la ragazza, che invece ha confermato il copione e ettuando una schivata doppia, sia nella nzione che nella realtà. Come si vede, il racconto di Kechiche si strati ca ulteriormente, con le sue messe in abisso, no a proporre una sorta di trompe-l’œil: c’è un personaggio dentro una persona, ma c’è anche una persona dentro un personaggio, e guardandoli bene i ruoli sono sempre più confusi, la sovrimpressione in certi casi avviene e in altri viene smentita, la di erenza tra la propria essenza e il ruolo che si recita si fa indecifrabile. E in questo gioco di adesioni e lontananze la sottigliezza di Kechiche è particolarmente ra nata. Fatto sta che Krimo ci ha provato nalmente con Lydia, ma è stato ri utato: quello che può sembrare un gesto de nitivo diventa in realtà l’inizio di una trattativa, con il ragazzo che la invita timidamente a uscire insieme. Lei non sa decidersi. Quando arriviamo al necessario confronto tra i giovani,
organizzato dagli amici dentro l’abitacolo di un’auto, la situazione sembra a una svolta, lui le prende per no la mano. Proprio a quel punto Kechiche introduce a sorpresa un altro elemento, nora mai emerso: l’irruzione dell’autorità poliziesca. I giovani vengono bruscamente interrotti dagli agenti che li maltrattano, rendendo impossibile la discussione sentimentale che si ferma a metà. Ancora una volta è il contesto della periferia a intervenire nella sua asprezza, sotto forma di poliziotti che senza motivo se la prendono brutalmente con gli adolescenti. Si tratta di una sequenza, a ben vedere, che fa rima con il nale di Tutta colpa di Voltaire esasperandolo ulteriormente: se lì Jallel veniva repentinamente arrestato e rimpatriato, spezzando le sue speranze di migrante con una netta cesura, qui è la possibilità di una coppia a svanire, perché rotto l’idillio Krimo e Lydia non potranno più ritrovarsi insieme. E se il fermo di Jallel era relegato fuori campo, qui i maltrattamenti sui giovani trovano spazio dentro l’inquadratura. Così abbiamo la prova che l’autorità è sempre pronta a calare il pugno, evocando le cronache del contemporaneo, le rivolte nelle banlieue e gli scontri con la polizia. Nell’ultimo segmento la recita nalmente si svolge. Krimo ha ormai rinunciato alla parte, incapace di sostenerla, e Kechiche prepara l’ultimo avvitamento tra realtà, letteratura e cinema: dopo lo spettacolo Lydia va a cercare il ragazzo, forse nalmente convinta di uscire con lui. Egli però resta in disparte dietro a una nestra: vede la giovane in abiti normali, uscita dal ruolo e tornata nel costume della periferia, a quel punto non è più la sua amata ma solo un’adolescente della banlieue. D’altronde tutto torna: Krimo si era innamorato di Lisetta, non di Lydia, ora che la recita è nita è svanita anche la grazia del ruolo teatrale e lui non può amarla nel quotidiano. La logica pirandelliana è qui stringente: Krimo non risponde, Lydia si allontana. La vita nella periferia continua a scorrere come sempre. Stridente è il contrasto tra il nale di Marivaux e quello di Kechiche: da una parte il
commediografo chiude con un gioioso matrimonio, dall’altra il regista sceglie un mesto silenzio di periferia. La conclusione o erta da Kechiche smentisce il testo ma si ricollega alla morale intrinseca in Marivaux: impossibile cambiare la propria classe sociale, i poveri saranno sempre poveri. L’esquive è stato un lm subito amato e presto storicizzato. Fin dalla presentazione ai primi festival, la critica francese ed europea lo ha adottato in breve tempo. Fu un trionfo all’edizione dei César del 2005: miglior lm francese, migliore regista e sceneggiatura, migliore promessa femminile per Sara Forestier nella parte di Lydia, giovane attrice che o re una prova memorabile con la sua capacità di sostenere il doppio linguaggio. Proprio partendo da qui Forestier farà strada no a lavorare con Alain Resnais, Jacques Doillon, Arnaud Desplechin e tornando spesso alla periferia, basti vedere il ruolo sostenuto nel magni co Roubaix, una luce nell’ombra (Roubaix, une lumière) di Desplechin in concorso al Festival di Cannes 2019. Il peso del secondo lm di Kechiche, come spesso avviene, si può misurare anche nella sua in uenza sul cinema successivo. È stato per no oggetto di un criptoremake: La mélodie di Rachid Hami (2017), regista che è attore nel lm di Kechiche e interpreta Rachid, il personaggio che vende la parte di Arlecchino a Krimo. Nel suo lm Hami mette in scena un insegnante di violino alle prese con una classe della banlieue: l’esperienza sul set de La schivata non solo è evidente, ma ne riproduce per no alcune trovate e dinamiche, come il tentativo di lavoro sul linguaggio con adolescenti di un’età simile a quelli di Kechiche. È lo stesso Rachid Hami a citare La schivata come punto di riferimento. Ma, più o meno direttamente, la presenza di questo titolo si fa sentire in molta rappresentazione della banlieue nel cinema francofono di oggi: per esempio guardando I Miserabili di Ladj Ly (Les Misérables, 2019), premio della giuria a Cannes, la grammatica della periferia parigina suggerisce un debito con la lezione kechichiana.
Ci sono tracce di schivata anche in territorio italiano: nell’incipit de La terra dell’abbastanza di Damiano e Fabio D’Innocenzo (2018) il linguaggio della periferia romana viene ricreato scienti camente, senza risparmiare imprecazioni e bestemmie. Siamo certi che non abbiano visto il lavoro del franco-tunisino? La schivata è insomma il primo grande lm di Kechiche, che segna un passo avanti nella storia del cinema sulla periferia: mai prima d’ora si era vista una tale messa in scena, in cui la ricostruzione naturalistica del dialetto dialoga con la confusione tra realtà e rappresentazione, tra ruoli nella vita e quelli sul palco. Un meccanismo che usa un autore classico come Marivaux per arrivare a una conclusione contemporanea: i poveri si innamorano dei poveri solo se sono travestiti da ricchi, se parlano bene, ma poi tutto nisce, perché nella banlieue immobile e uguale a se stessa non c’è spazio per il sentimento. In italiano in varie edizioni, tra cui Il gioco dell’amore e del caso. Le false con denze, Garzanti 2005 Dichiarazione di Abdellatif Kechiche nel catalogo del Torino Film Festival 2004
Capitolo quarto IL GRANO DI SEMOLA E IL CEFALO. IL COUS COUS DEI METICCI “Volevo raccontare una grande famiglia francese di origine araba. Volevo una rappresentazione autentica di questa comunità, senza far scattare i luoghi comuni, evitando di ricorrere a spettacolarizzazione o fatti di cronaca. Ho cercato il miracolo della vita sul set”6. Questa premessa porta Abdellatif Kechiche a girare il suo terzo lungometraggio, che lo consacra de nitivamente nella comunità cinematogra ca internazionale, in italiano noto come Cous Cous (2007). Il regista lo scrive e dirige da solo, senza il contributo alla sceneggiatura di Ghalia Lacroux che tornerà per tutti i lm successivi. Il titolo originale è La graine et le mulet, da qui occorre partire: “il grano di semola e il cefalo”. Uscendo dalle allusioni letterarie dei titoli precedenti, stavolta Kechiche sceglie due ingredienti. Il grano fatto di semola (la graine) è l’elemento centrale per comporre il cous cous, piatto magrebino per eccellenza e iscritto nella tradizione araba, il cefalo (le mulet) è il pesce che nuota nelle acque di Sète, nel Sud della Francia, dove si colloca la storia. Un ingrediente arabo ne incontra uno francese: già così viene lanciato il primo fondamentale segnale di melting pot, di ipotesi meticcia tra arabi e autoctoni, contenuta proprio nell’accostamento fra due elementi che in teoria non hanno niente in comune. Per questo il titolo non sarebbe stato modi cabile ma, ritenuto forse poco comprensibile (o meno appetibile) dalle distribuzioni, fu stravolto praticamente in tutte le versioni europee: l’italiano Cous Cous, che o re il piatto tradizionale annullando la sostanza meticcia, l’inglese The Secret of the Grain, che suggerisce un riduttivo “segreto” laddove la questione è decisamente più complessa. La graine et le mulet racconta la storia di una famiglia allargata che gravita proprio intorno a Sète, piccolo centro
della Francia meridionale nei pressi di Marsiglia basato sull’attività del porto, città prediletta di Kechiche che vi tornerà per ambientare Mektoub, My Love: Canto Uno. Alla base, come spesso accade, c’era un’idea partorita dal regista venti anni prima: voleva raccontare la storia di suo padre, immigrato di prima generazione che lavorava come operaio a Nizza per mantenere la famiglia, facendo recitare proprio il genitore nella parte del protagonista. Ma il padre è scomparso a sessant’anni, il progetto è stato abbandonato e ripreso due decenni dopo, trovando un produttore e spostando la storia da Nizza a Sète. Per mantenere una traccia del piano originario, Kechiche sceglie come attore protagonista un amico del padre, Habib Boufares, vero operaio. È lui che interpreta il capofamiglia Slimane, lavoratore portuale di sessantuno anni, divorziato che vive con la nuova compagna Latifa (Hatika Karaoui) nell’albergo gestito da lei. Insieme a loro c’è il fondamentale personaggio di Rym (Hafsia Herzi), la prima glia di Latifa che ha un forte senso della famiglia e una particolare solidarietà verso il nuovo compagno della madre. È anche la prima collaborazione tra il regista e Hafsia Herzi, che diventerà attrice prediletta e volto ricorrente del suo universo, soprattutto nel progetto Mektoub. E non solo: Herzi resta talmente segnata dal suo cinema, proprio a livello estetico, che ne ripropone alcuni segni distintivi nell’esordio alla regia Ti meriti un amore (Tu mérites un amour, 2019). L’ex moglie di Slimane è Souad (Bouraouïa Marzouk), che ama riunire il grande nucleo intorno al pranzo a base di cous cous, di cui è maestra. Intorno a loro gravita una serie di personaggi, almeno dieci gure, che compongono questo gruppo sui generis: Karima (Farida Benkhetache), glia di Slimane dal primo matrimonio, che lavora in una fabbrica di scatolette di tonno; Majid (Sami Zitouni), che ha un glio neonato, vive di piccole tru e, trascura e tradisce la moglie Julia (Alice Houri), giovane immigrata russa; gli altri gli di Slimane, Hamid (Abdelhamid Aktouche) e la glia minore Olfa (Sabrina Ouazani); insieme a loro molti
altri, uniti da legami di parentela diretti o indiretti, mogli o amanti, arabi o francesi, migranti o beur. La loro stessa composizione è già un cous cous meticcio, che unisce in sé gli ingredienti più vari e accompagna lo svolgersi della storia. Il lm racconta infatti il tentativo di Slimane di aprire un ristorante con cui possa mantenere la vasta famiglia, proponendo come piatto principale il cous cous di pesce fatto di semola e cefalo. Una specialità del Magreb che comprende un ingrediente di Sète, ovvero l’identità che sposa il dirazzamento: una prova di integrazione sul campo che, una volta riuscita, potrà certi care non solo l’attività economica di Slimane ma anche l’avvenuta mescolanza tra arabi e francesi. E torna qui il processo di “francesizzazione” che riguarda lo stesso autore come uomo e cineasta. Prima di arrivare al punto, però, in apertura si a accia il Kechiche più sociale e direttamente politico. Slimane viene convocato dal suo principale: a causa del calo di rendimento dovuto all’età si vede dimezzare l’orario di lavoro, è così che decide di licenziarsi per aprire un’attività propria. Se il racconto è ambientato prima della crisi economica del 2008 con le sue conseguenze sull’occupazione, lo scenario che descrive non è molto diverso: poco rispetto per le persone, per una gura come Slimane che ha sudato tutta la vita, un capo pronto a tagliare orario e salario per sopraggiunti limiti anagra ci. Questo incipit si ritroverà ne Le nevi del Kilimangiaro di Robert Guédiguian (Les Neiges du Kilimandjaro, 2011), girato a pochi chilometri di distanza, che racconta la crisi del porto di Marsiglia vista dal regista marsigliese per antonomasia: il racconto si apre con gli operai riuniti intorno a un’urna da cui si estrae chi va in cassa integrazione. Se la crisi portuale in Kechiche non è ancora iniziata, si tratta comunque di un ambiente pronto a sfruttare il lavoratore per poi, secondo la propria convenienza, metterlo cinicamente da parte. D’altronde lo stesso regista ha più volte sottolineato che i suoi titoli
servono anche a risarcire una parte della società per la vita di cile e l’esclusione di cui è vittima. Slimane si trova quindi senza lavoro. Gli viene un’idea: aprire un ristorante che sarà un locale galleggiante e si chiamerà La Source come la barca che lo ospita. Si tratta di un nome-simbolo che signi ca “sorgente” e indica la volontà di Slimane di tornare all’origine, appunto a una ricetta araba, partendo da qui per ipotizzare un futuro ibrido e mescolato, una “nuova razza” di arabi-francesi che abbia nalmente ottenuto integrazione e felicità. In Cous Cous il naturalismo di Kechiche compie un’evoluzione decisiva. Prima di tutto è un lm più lungo degli altri: la versione de nitiva viene montata in 151 minuti, contro i 133 di Tutta colpa di Voltaire e i 123 de La schivata. Inizia a prendere forma compiutamente, in questo cinema, il concetto di tempo. Si parte da una premessa: per cercare di ottenere un risultato naturalista, che sia il più possibile vicino alla realtà e lontano dalla sensazione di una rappresentazione, occorre prendersi tutto il tempo necessario. “Il miracolo della vita sul set”, come lo chiama il regista, non si può certo pretendere interrogando un minutaggio convenzionale: ecco che la forma del lm inizia ad espandersi, si allarga, da qui il processo di ingrandimento sarà continuo (i 162 minuti di Venere Nera, i 179 de La vita di Adele, i 180 di Metkoub, My Love: Canto Uno, i 212 di Mektoub, My Love: Intermezzo nella versione di Cannes). Al netto delle esigenze di montaggio, la progressiva crescita dei minuti nei lm di Kechiche non è un caso: egli ingrandisce la storia, aumenta la durata delle inquadrature, sviluppa la sua teoria della macrosequenza. Sa che per ottenere un esito vicino al reale non bastano novanta minuti, bisogna tirare l’elastico, allungare le scene, far parlare le situazioni con ampio respiro. Le lunghe sequenze non potrebbero essere più brevi, perché è necessario osservare con cura per entrare davvero nelle cose, per veri care il tessuto della realtà, per farsi restituire il dato di uno scenario. Il tempo
in Kechiche conduce direttamente al reale: al suo movimento, ai particolari minimi e al “nulla che accade”, perché – come già per i giovani de La schivata – qui trova spazio il non signi cativo, il super uo, l’inessenziale. Cosa succede in un grande pranzo di famiglia? Niente di particolare, tutti mangiano, parlano, trascorrono un momento di convivialità. Kechiche lo rappresenta esattamente così. Senza gesti eclatanti, ma con piccole cose da scovare dentro le inquadrature, all’insegna di un rigido realismo. Per farlo occorre tempo: in nome del risultato stilistico desiderato, l’autore ha scontato più volte la scelta della durata, soprattutto con i distributori che la considerano inadatta alla sala (basti pensare all’invisibile uscita italiana di Mektoub, My Love: Canto Uno, relegato in pochissimi cinema anche per questo “problema”). Kechiche non considera l’aspetto particolarmente rilevante: non si è mai piegato a produttori e distributori, ha sempre fatto i lm che voleva lui. Consapevole che la vasta durata è imprescindibile per il discorso avvolgente che sta alla base del suo naturalismo. Allo stesso tempo il regista è stato spesso vittima di un equivoco che talvolta si ripropone appena si parla di una qualsiasi forma di “realismo”. È l’idea per cui, trovandosi davanti agli occhi un risultato di massima autenticità, si pensa che una determinata sequenza sia stata girata in modo “semplice”. Per Kechiche è vero il contrario: “Ho avuto bisogno di provare a lungo a nché gli attori si sentissero davvero una famiglia – racconta -. Per creare la giusta atmosfera fondamentale è stata la musica (…). Non mi trovo a mio agio a parlare di improvvisazione: preferisco piuttosto de nirla libertà, quella che permette agli attori di appropriarsi del testo e dei personaggi, sentendosi parte di una grande famiglia e perdendo le inibizioni”. Kechiche respinge l’improvvisazione, che non ha mai coltivato, chiede agli attori una recitazione che può sembrare spontanea ma è frutto di ore, giorni e per no mesi di prove. La cosiddetta “spontaneità” arriva quindi alla ne di un processo lungo e complicato.
La ri essione serve anche per introdurre un momento fondamentale nel cinema dell’autore, che arriva nella prima parte di Cous Cous: la macrosequenza del pranzo di famiglia. Da una parte egli lo organizza per presentare de nitivamente i personaggi, riunire tutte le gure dell’intrico domestico e mostrare in modo implicito i rapporti tra loro; dall’altra o re una prova di naturalismo notevole, tra le maggiori del suo percorso. In una sequenza di oltre quindici minuti, infatti, arriviamo alla concezione della “macrosequenza” di Kechiche come oggi la conosciamo. A ben vedere in questo lm l’intero racconto è costruito per “macroblocchi”, lunghe riprese che formano una singola sequenza, di cui rilevano in particolare quella iniziale e nale. In Cous Cous non esistono scene brevi se non per rare eccezioni. Qui siamo a tavola in famiglia: tutti i parenti sono presenti. Si riuniscono tre generazioni: i padri, quelli di nascita magrebina che sono immigrati in territorio francese, i gli e i nipoti, ovvero i più giovani nati in Francia che costituiscono la seconda generazione. Insieme iniziano a mangiare il cous cous, gli attori mangiano davvero. Anche i bambini piccoli si cibano in un tavolo a parte vicino agli adulti, perché nessuno va escluso, tutti devono essere compresi nel rito comunitario del pasto. È uno dei momenti più signi cativi nel racconto identitario di Kechiche, che ipotizza una fusione arabi-francesi, certo, ma allo stesso tempo mantiene fermamente l’orgoglio delle proprie radici, con la famiglia seduta proprio intorno al pasto arabo per antonomasia. Le tre generazioni sono insieme, dunque, ognuna con le proprie particolarità, desideri e aspettative, a seconda dell’età raggiunta e del vissuto personale che possiamo facilmente indovinare, visto che i più maturi – come Slimane – portano in faccia il peso della loro migrazione. I commensali parlano francese con qualche parola in arabo, soprattutto da parte dei membri più anziani: anche qui, metaforicamente, si unisce il grano e il cefalo, nello sviluppo del dialogo bilingue che o re un esempio tangibile di integrazione
riuscita. La cinepresa di Kechiche passa da un volto all’altro inquadrandoli in primo piano, alternando con il campo medio della sala da pranzo che ospita il grande piatto di cous cous. Passando uidamente dall’uno all’altro egli cattura i volti per brevi momenti e li lascia andare, per poi riprenderli in seguito, e ancora e ancora, restituendo il pranzo in modo frastagliato e irregolare, per frammenti che vanno a comporre il totale nell’occhio di guarda. Il tutto si ottiene dalla somma delle parti nella mente dello spettatore. I tasselli sono parziali e non de nitivi, così come ancora incompiuta è la vita di questi migranti francesi. Dal desco si alzano rumori e voci: “Souad è la regina del cous cous”, dice qualcuno, complimentandosi con la capofamiglia che lo ha realizzato, la donna più anziana del nucleo. “È il cous cous dell’amore”, risponde lei, scherzando ma non troppo, perché l’ingrediente segreto è proprio il sentimento: l’amore lega perennemente questa famiglia che resta unita, malgrado divorzi e avversità, che ha introiettato l’idea di solidarietà e sostegno reciproco per sopravvivere da migranti. Due giovani arrivano in ritardo, a pranzo inoltrato, e vengono teneramente accolti nella tavola. I personaggi non dicono niente di importante, scherzano tra loro, prendono in giro una ragazza a dieta, ri ettono sull’essenza del cous cous che è la loro stessa radice. Come sempre nelle rappresentazioni naturalistiche kechichiane, non mancano i problemi: situazioni non riconciliate, un marito che tradisce la moglie portando il rapporto alla rottura, anche se entrambi siedono comunque al tavolo e vengono compresi nel “rito”. C’è una donna araba che ha sposato il francese Mario, interpretato dal viso inconfondibile di Bruno Lochet (caratterista amato da Kechiche e già diretto in Tutta colpa di Voltaire): la donna prova a insegnare parole arabe al marito, come “Bismillah” che viene però storpiato tra le risate dei presenti. I due scherzano sui termini che la donna sussurra all’uomo mentre fanno l’amore. Lei cerca di suggerire a lui come si dice “Ti amo” in arabo, ma anche quello viene alterato
dall’accento francese in modo esilarante. La rappresentazione dell’amabile coppia è un piccolo momento nell’economia drammaturgica complessiva, ma allo stesso tempo ottiene un risultato di adesione alla realtà disarmante: a chi non è mai successo? Chi non ha chiesto a uno straniero come si dice qualcosa nella sua lingua? La domanda “come si dice ti amo in arabo?” è anche una piccola rma di Kechiche. La donna immigrata che ama l’autoctono francese contiene proprio questo, un confronto linguistico che spesso avviene tra migranti e nativi, insomma ancora una volta abbiamo la sensazione che sia “come nella vita”. Nel frattempo i più piccoli parlano francese: “Mamma parla in arabo quando è arrabbiata”, dice uno di loro. I commensali mangiano a bocca aperta, con le mani, scompostamente, vediamo i resti di cous cous nelle loro bocche spalancate: il “pasto nudo” è una costante del naturalismo kechichiano, che inscenerà lo stesso modo di mangiare istintuale nella scena del kebab ne La vita di Adele, guarda caso con un altro cibo simbolo del mondo arabo. Nei dialoghi della macroscena si s orano anche temi importanti: la ne dell’amore e l’inizio dell’abitudine, ossia il sentimento tra due persone mature che si trasforma in una routine non per forza negativa, perché anch’essa è un’“abitudine sentimentale”. Nell’ennesimo omaggio del regista alle sue origini, la tavola famigliare è piena di amore, si intravedono asperità ma la sostanza resta luminosa e solidale. Al termine della sequenza la Rym di Hafsia Herzi è l’ultima a mangiare il cous cous a bocca aperta: accadrà ancora con Adele, come detto, e sempre con un piatto meticcio. A proposito della costruzione delle riprese, spiega ancora Kechiche: “Ho conferito a questa famiglia il diritto a una dimensione romanzesca e contemplativa, mostrando quello che più mi tocca: la vita sopra l’arti cio cinematogra co. Il cous cous è come la pizza e la pasta per gli italiani: qualcosa che i personaggi possono condividere, una dimensione identitaria di solidarietà e
unione”. Nel pranzo di Cous Cous il naturalismo di Kechiche diventa fulgido. Dopo questo intermezzo torna a svilupparsi la parabola di Slimane: per aprire il ristorante galleggiante è costretto ad a rontare la burocrazia francese. Se è di cile ottenere i permessi per un nativo, guriamoci per un migrante: l’uomo rischia di nire nel gorgo burocratico e anche la sua vita personale ne risente, perché il pubblico si ri ette sempre sull’intimo, così lo vediamo in casa preoccupato e ansioso, incapace di intrattenere un rapporto sessuale con la compagna. Slimane viene assistito da Rym, la sua gliastra, e insieme iniziano il giro degli u ci, chiedono autorizzazioni e nanziamenti necessari per provare a concretizzare il “sogno”. Importante sottolineare – come ormai piuttosto evidente – che per Kechiche una famiglia non viene stabilita dal legame di sangue, ma da un vincolo di solidarietà: “famiglia” sono le persone che incontriamo nel corso della vita e quelle con cui leghiamo, da cui riceviamo appoggio e lo diamo in cambio, creando così un vincolo di fatto. Come per Jallel di Tutta colpa di Voltaire era famiglia il gruppo di migranti che incontrava nei centri di permanenza, per poi diventare suoi aiutanti, allo stesso modo per Slimane la giovane Rym è una parte importante della famiglia, anche se non c’è legame e ettivo trattandosi della gliastra, e da lei ottiene un sostegno decisivo. La ragazza porta con sé la sua giovinezza, l’abitudine di trattare col mondo intorno, insomma l’integrazione nel contemporaneo. Qui il racconto sottolinea il divario tra i migranti e i loro gli, nella gura di questa a ascinante beur nata in Francia che sa districarsi nel Paese, ne conosce gli stratagemmi e si fa furba, al contrario dell’uomo maturo che rischia di nire stritolato nel gorgo. Kechiche sottolinea un ulteriore ostacolo nel percorso dell’immigrato, quello appunto burocratico: un sistema indi erente non aiuta e anzi si pone contro l’individuo, anche se è un capofamiglia che prova ad avviare un’attività commerciale. Si trova qui una messinscena della burocrazia-mostro occidentale che nei
nostri anni ha trovato il titolo simbolo in Io, Daniel Blake di Ken Loach (I, Daniel Blake, 2016). Mentre Slimane e Rym vanno in giro insieme sul motorino di lui, Kechiche inizia a “scoprire” la gura di Rym: inquadra il suo corpo, il volto, gli occhi e le labbra, introducendo la traccia visiva della sensualità della giovane per preparare ciò che verrà dopo. L’attrice Hafsia Herzi al debutto, nata in Francia da padre tunisino e madre algerina, si presta perfettamente allo scopo: le forme della ragazza, i lunghi capelli neri, gli occhi scuri e gli orecchini portano in giro per il racconto una sensuale “arabità”, la gura di una beur tenace che resta fortemente ancorata all’origine magrebina e insieme vuole sopravvivere nel nuovo mondo. Dopo l’ordalia per ottenere i permessi, che il lm mostra nel suo s ancante peregrinare, la situazione sembra volgere in positivo e il locale può nalmente partire. L’idea di Slimane, a quel punto, è compiere un gesto che certi chi l’avvenuta integrazione, ossia che assegni diritto di cittadinanza al ristorante meticcio: organizzare una “cena dimostrativa” per i funzionari e i notabili della zona, le persone più potenti, dai quali dipenderà la realizzazione concreta del progetto. Inutile sottolineare che gli invitati sono tutti autoctoni, perché sono loro che occupano i posti di comando: i francesi mangiano e bevono e i migranti li servono. Si tratta di un’idea di fondo che rende evidente la sua natura politica: ricchi e poveri, nativi e immigrati, clienti e camerieri si dispongono nei rispettivi ruoli che sono immutabili, come già attestava La schivata, confermando le posizioni di dominazione e subordinazione dentro il tessuto sociale. Questo avviene proprio concretamente: gli uni preparano il cibo, gli altri lo divorano. Qui però il verbo “servire” assume una sfumatura particolare, iscrivendosi in un’epoca della postlotta di classe: i poveri “servono” i ricchi, ma non c’è un’ombra di con itto sociale, al contrario sono gli uni che convocano gli altri e li mettono a tavola. Vogliono blandirli, conquistarli per avere in cambio il riconoscimento. Torna, in modo più strutturato, la forma
mentale che Jallel imparava ad esercitare in Tutta colpa di Voltaire: il tunisino che si nge algerino per giocare sul senso di colpa coloniale dei francesi, tutto sommato, non è molto diverso dalla famiglia di Slimane che invita a cena i “nobili” della zona per ottenere il suo scopo. Ancora una volta, raccontando la capacità di districarsi dei migranti magrebini, è lo straniero che prova a “farsi furbo”, ad arrangiarsi per attirare le simpatie della nazione ospitante come passo per la realizzazione personale e per la “felicità” della migrazione. In tal senso Cous Cous è il titolo che meglio rappresenta l’essenza post-beur di Kechiche, sempre seguendo la teorizzazione di Will Higbee: c’è una grande famiglia che con la proposta di un cibo meticcio vuole attirare la popolazione autoctona, se l’impresa riuscirà verrà automaticamente naturalizzata ottenendo l’agognato diritto alla felicità transalpina, in altre parole seppure mantenendo le proprie radici la famiglia “diventerà francese”. I personaggi iniziano a organizzare la cena, che vede Slimane in prima linea con l’aiuto dei suoi gli, del grande nucleo e il ruolo decisivo della prima moglie come cuoca del cous cous che sarà l’attrazione del locale. Mentre fervono i preparativi, intorno al “fatto” principale alcuni nodi della famiglia vengono al pettine: ferma restando la solidarietà sullo sfondo, le gure si confrontano e scontrano tra piccole e grandi liti, amori e tradimenti. Nei volti di contorno la principale traccia narrativa viene dedicata a Julia, la moglie russa di Majid, che a ronta i ripetuti adulteri del marito inchiodandolo alle responsabilità: Kechiche punta la cinepresa sul volto dell’attrice Alice Houri e la riprende in un lungo pianto. Imprimendola fra lacrime e muco in una ripresa prolungata, egli si lancia alla rincorsa della vita vera e la a erra, perché una donna disperata non è gradevole e anzi respingente, arrivando così a rappresentare un’ulteriore piccola prova di naturalismo. Nella progressione verso l’evento il problema principale è poi rappresentato da Latifa, attuale compagna di Slimane, che non vuole
partecipare alla cena, così si tiene in disparte scontrandosi duramente con la gliastra Rym che invece si conferma attiva e prova a comporre i contrasti. I dieci minuti nali o rono un altro grande momento nel cinema kechichiano. Gli invitati arrivano al ristorante, siedono ai tavoli, iniziano a consumare l’aperitivo aspettando il pasto. Dal loro gradimento dipenderà il destino de La Source. In un gioco di equivoci e ritardi però il cous cous non arriva, i borghesi iniziano a spazientirsi. A Slimane rubano il motorino e va alla ricerca dei ladri, in una dinamica che per ammissione dello stesso Kechiche è una citazione a Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) e omaggiandolo ammette il tentativo di frequentare un nuovo “neorealismo”, quello dei franco-magrebini. Il pasto non arriva, i ricchi protestano. Dopo aver composto tutto il lm per macrosequenze, il regista non poteva che girare l’ultima per chiudere il racconto. La macrosequenza nale è un montaggio alternato che propone due piani narrativi: l’interno del locale e il percorso di Slimane che cerca di trovare il cous cous, con un terzo piano riguardante la parabola del cibo che gradualmente scompare, lasciando spazio al montaggio alternato a due tra Slimane e la gliastra. Nel ristorante occorre guadagnare tempo, tra sbu e proteste, e allora Rym compie il suo gesto: mentre la piccola orchestra suona una musica araba la ragazza sale sul palco e inizia a eseguire la danza del ventre. Anche qui è imprescindibile ricordare come la semplicità sia l’approdo di un percorso complesso: Hafsia Herzi è ingrassata quindici chili prima delle riprese, su richiesta di Kechiche, per ottenere il ventre adatto alla danza. Per molte settimane ha ballato quaranta minuti ogni sera per prepararsi al ruolo. Se c’è qualcosa da guardare ti scordi anche la fame: è così che i borghesi iniziano a seguire il ballo della giovane, da cui vengono progressivamente ipnotizzati. Kechiche la mostra in inquadrature a gura intera, primi piani del ventre e del viso: la ragazza o re il suo corpo come distrazione ottica per i clienti che aspettano il cous cous. Ma il cibo non arriva e, mentre
seguiamo le peripezie di Slimane, la danza del ventre di Rym si fa sempre più faticosa, estrema, s ancante: deve resistere per tenere l’attenzione ma inizia a sudare, un sudore vero che il regista ottiene nell’arco di una lunga ripresa in cui l’attrice nisce per essere realmente provata. La cinepresa mostra il suo corpo s brato, cattura il progressivo disperdersi dell’energia e l’arrivo della stanchezza, l’erosione di un sico che comunque deve continuare a ballare. La sua sensualità esplode ma la situazione si incarta, dato che Slimane non trova il motorino e l’uomo gradualmente perde le forze: il senso materico della sequenza risiede anche nella fatica gemella di padre e gliastra, che gradualmente si disegna sui loro sici e diventa metafora dello sforzo immane per arrivare all’obiettivo, giungendo appunto allo s nimento. L’alternanza tra i due piani funziona come un thriller: sale il termometro ansiogeno, la suspense diviene palpabile come in un lm di genere, vogliamo sapere come va a nire. Ma non può esserci un nale chiuso: mentre Rym continua a ballare e Slimane si accascia a terra stremato arriva la dissolvenza. La grande famiglia aprirà il locale e riuscirà a realizzarsi? Non è dato sapere. La sospensione contribuisce a costruire una nuova prova di naturalismo: se il cinema di Kechiche vuole farsi ri esso della vita, allora la sua etica non può o rire una ne felice, la parabola deve restare nel dubbio. La cesura che pone un’omissione sui destini dei personaggi va a rappresentare la complessità dell’atto migratorio, l’esistenza di questi beur e post-beur che le provano tutte ma non riescono mai a integrarsi davvero, respinti ancora dalla Francia voltairiana. La macrosequenza o re una serie di ri essioni sia stilistiche che concettuali. Prima di tutto c’è una ragazza di origine araba e bassa estrazione sociale che si o re allo sguardo dei ricchi: al contrario dell’invito alla serata di Slimane, pensato per blandire i borghesi, nella più giovane si ritrova invece una traccia di lotta di classe. Come in una delle tendenze più interessanti nel cinema
contemporaneo, il dominio dei ricchi sui poveri avviene attraverso lo sguardo: basti pensare, a titolo di esempio, al Leone d’oro di Venezia 2015, Ti guardo di Lorenzo Vigas (Desde allá), lm venezuelano imperniato proprio sulla storia di un ricco che “guarda” un povero, ovvero un giovane prostituto che viene pagato solo per lasciarsi guardare. Rym è una ragazza bella e a ascinante, come già sottolineato dalle riprese di Kechiche nella prima parte del lm, e soprattutto conosce bene il potere dello sguardo. Essa realizza un vero e proprio inganno ottico nei confronti dei notabili, un disperato trucco da prestigiatore: per evitare il fallimento della serata concentra l’attenzione sul suo corpo e danza no all’estremo. È un ballo di crisi, il suo: una crisi umana, sociale e lavorativa che rischia di far svanire l’unica possibilità per la famiglia migrante. La danza s nente è la stessa di Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don’t They?, Sydney Pollack, 1969), ambientato nell’America della Grande Depressione, dove i concorrenti del gioco a premi per vincere ballano no al collasso. Tutto sommato è anche la stessa di Full Monty (The Full Monty, Peter Cattaneo, 1997), nell’Inghilterra della crisi industriale degli anni Novanta, dove i disoccupati fanno lo spogliarello per sbarcare il lunario. Figure e registri diversi nel tempo e nello spazio, naturalmente, ma nelle situazioni di crisi i poveri sono costretti a ballare come i giullari nelle corti: è ciò che fa Rym per intrattenere lo sguardo dei ricchi. La sua crisi è quella dei migranti che cercano un posto del mondo. Nella gura di Rym c’è poi un’anticipazione dell’Adele interpretata da Adèle Exarchopoulos. Per la prima volta infatti Kechiche inizia compiutamente a inquadrare il corpo femminile: se nel lm successivo il gesto scopico si applicherà alla sfera sessuale, qui si pone il primo tassello di un discorso che diventerà strutturato e complesso. Il regista mostra la lunga danza del ventre, assumendo e facendoci assumere una doppia posizione: da una parte è evidente il lato politico dell’atto, già sottolineato, ma
dall’altra anche noi spettatori stiamo guardando Rym. L’autore riprende la sicità di Hafsia Herzi, le contrazioni del ventre e il potere di seduzione, portandoci nella stessa posizione dei clienti che osservano, seduti in mezzo a loro, perché allo stesso modo anche noi restiamo ammaliati. Questa scelta, che è un’analisi super ciale può sembrare per no ambigua, a ben vedere non lo è a atto: serve per catturare la materia tangibile della giovane e suggerire perché quegli occhi ne siano ipnotizzati, trascinando così il nostro sguardo nel ruolo dominante, veri cando l’essenza del con itto ricchi-poveri sulla nostra retina attraverso una scelta di stile. La smania di guardare, gli occhi dominanti e i corpi sottomessi, contengono in potenza il lm successivo Venere nera, che sugli sguardi degli uomini verso una donna verrà totalmente costruito. Allo stesso tempo Kechiche è un regista eterosessuale: è uno sguardo etero quello che riserva alla rappresentazione della donna, esaltandola sia nell’anima che nella carne, evocando la sensualità femminile del mondo arabo per installarla nell’Occidente contemporaneo. Kechiche è un regista che crede nella bellezza. La graine et le mulet a oggi è il lm de nitivo dell’autore sui migranti. L’ambientazione nella comunità francomagrebina, forte della conoscenza diretta e della traccia più o meno autobiogra ca, domina i primi tre titoli: Tutta colpa di Voltaire è la storia frontale di un migrante, La schivata riprende i gli degli arabi nelle banlieue, Cous Cous allarga il racconto a un’intera famiglia. Dopo questo l’autore inizia a sviluppare altri temi e nodi, prosegue la sua ricerca stilistica, anche se – come vedremo – tracce di migranti emergono ovunque nella lmogra a successiva, ma non come punto del discorso, bensì attraverso indizi mimetizzati dentro percorsi di senso che portano verso altri lidi. Il lm arriva al 64° Festival di Venezia nel 2007, dove vince il Leone d’argento - Gran premio della giuria ex
aequo con Io non sono qui (I’m Not There) di Todd Haynes. Fin dalle prime proiezioni La graine et le mulet si rivela uno dei favoriti del concorso, in testa alle principali classi che della critica internazionale, lasciando sospettare un probabile Leone. In Francia salutano un nuovo autore parlando di “neorealismo magrebino”, i Cahiers du Cinéma promuovono il lm con entusiasmo. Alla ne però la giuria presieduta da Zhang Yimou preferisce Lussuria di Ang Lee (Sè, jiè, 2007), in una scelta rimasta famosa come premio di compromesso per la di coltà dei giurati nel raggiungere una decisione unanime. Altrettanto celebre resta la delusione espressa da Kechiche, che riteneva di avere la vittoria in tasca e teneva particolarmente al premio maggiore del festival che lo aveva lanciato, sette anni prima con Tutta colpa di Voltaire. Ma nel futuro interverrà Cannes a risarcire ciò che Venezia non ha accordato. Cous Cous è dedicato al padre di Kechiche, di cui doveva raccontare la storia, e a due attori scomparsi nel corso delle riprese. Intervista di Kechiche a RaiNews24, 3 gennaio 2008
Capitolo quinto GUARDARE LA DONNA SCIMMIA: VENERE NERA Dopo l’esperienza di Cous Cous, che assicura a Kechiche la fama internazionale, il regista decide di cambiare genere e trasformare la forma del suo cinema: in varie interviste e conversazioni annuncia che girerà un lm in costume ambientato nel XIX secolo. La storia che ha in mente di portare sullo schermo è una delle vicende più tragiche dell’era moderna: quella di Saartjie Baartman, soprannominata la Venere Ottentotta, una donna africana a etta da steatopigia, con natiche ampie e labbra vaginali sporgenti, che fu esposta come fenomeno da baraccone a Londra e Parigi no alla sua scomparsa nel 1815 all’età di 26 anni. Saartjie, detta Sarah, era una giovane di origine Khiosan nata nel 1789 nell’attuale Sudafrica: dopo la morte della sua famiglia fu assegnata come schiava a una famiglia di Città del Capo. Il fratello del padrone notò le sue caratteristiche siche peculiari e propose di portarla a Londra per esibirla come fenomeno, nella convinzione di un guadagno facile e sicuro. Condotta in Inghilterra appena ventenne, la ragazza iniziò ad esibirsi nel “freak show”, all’epoca molto frequentato: qui intratteneva il pubblico mostrando le forme del suo corpo, inedito per gli europei, recitava un numero in cui era legata a una catena, camminava a quattro zampe come un animale e veniva “domata” dal padrone. Dopo le proteste della stampa e di alcune associazioni, Sarah fu interrogata da una corte per cercare di fare chiarezza: la donna sostenne che si trattava di lavoro e stava solo recitando, rilasciando una testimonianza – per le cronache dell’epoca – non del tutto convincente poiché probabilmente intimidita dai principali che le procuravano gli spettacoli. Sarah Baartman fu quindi venduta a un francese, che la portò a Parigi per continuare le esibizioni, sia per il popolo che per i nobili tra cui si era di usa la sua fama. Al periodo
francese si deve l’interesse dei naturalisti, tra cui il noto studioso Georges Cuvier che su di lei scrisse una monogra a. La ragazza fu esaminata, studiata e ritratta da vari scienziati poi, nito il periodo delle esibizioni, si diede alla prostituzione e divenne alcolizzata, no a trovare la morte prematura per una malattia infettiva. Sarah fu esposta anche dopo il decesso: lo scheletro, il cervello e i genitali furono conservati al Musée de l’Homme di Parigi no al 1974. Dopo una serie di dispute legali, le spoglie vennero restituite dalla Francia al Sudafrica soltanto nel 2002 per eseguire la dovuta sepoltura. Kechiche sceglie questa vicenda drammatica nel suo unico lm tratto da una storia vera: una parabola di razzismo e oppressione, di sfruttamento prima e dopo la morte, che ancora una volta avviene nell’Occidente evoluto e imbevuto della retorica dei diritti. L’idea, racconta il regista, gli venne osservando ripetutamente le immagini della Venere: “Sarah mi ha provocato da subito un sentimento di a etto, di tenerezza. Vedere i suoi ritratti e il calco del suo corpo mi ha permesso quasi di comunicare con la sua immagine, perché sono un cineasta e mi nutro di immagini”7. Posta la premessa occorreva ingaggiare l’attrice adatta per interpretare questo personaggio complesso: nel consueto casting tra non professionisti Kechiche trova Yahima Torres, una giovane cubana immigrata in Francia che ha trent’anni all’epoca delle riprese. Sarà lei a incarnare la protagonista di Vénus noire, in italiano Venere nera: riceverà una nomination ai César 2011 come migliore promessa femminile, anche se ad oggi non ha interpretato altri ruoli rimanendo legata a quella gura simbolo. Il regista inizia a organizzare il lm in costume: rma un accordo con la casa di produzione MK2 di Marin Karmitz, ottiene un budget stimato tra i 13 e i 16 milioni di dollari, comincia a scriverlo insieme a Ghalia Lacroix. Assolda la coppia di scenogra composta da Florian Sanson e Mathieu Menut, mentre l’essenziale reparto dei costumi viene a dato all’italiano Fabio
Perrone, che contribuisce in modo decisivo a ricreare l’universo Ottocento. Si amplia anche il numero degli attori disponibili, con la partecipazione di volti noti come Andre Jacobs e Olivier Gourmet insieme a centinaia di comparse. Venere nera è il lm più politico di Kechiche. Quando si dice “politica” con l’autore non si pensi a atto alla dichiarazione esplicita di una posizione, al contrario: si tratta di politica dello sguardo. Uno sguardo che qui assume un ruolo centrale e assoluto: l’atto di guardare è infatti il “tema” del lm. D’altronde il titolo precedente si chiudeva con la danza del ventre di Rym per intrattenere i ricchi, una sequenza che proprio sul gesto scopico iniziava ad articolare un discorso più strati cato. A evidenziare la continuità di un cinema in evoluzione, quella traccia conquista qui il centro della scena. Il racconto si apre a Parigi, all’interno dell’Accademia reale di medicina nel 1817. Nella classica aula an teatro alcuni studiosi stanno osservando una forma coperta un telo bianco. Inizia l’esposizione sul caso della Venere ottentotta, poco tempo dopo la sua scomparsa: gli esperti si ritrovano a consesso sull’argomento. Il professor Georges Cuvier (François Marthouret) apre la lezione di storia naturale presentando una grande scoperta: “Per lungo tempo alcuni ne hanno negato l’esistenza – esordisce -. Ho l’onore di presentare all’accademia i genitali di questa donna”. Sarah è morta, è stata dissezionata e ora viene studiata. Dopo una lunga e approfondita analisi Cuvier trae le sue conclusioni: “Non ho mai visto una testa umana più simile a quella delle scimmie”. Kechiche opera la scelta signi cativa di iniziare dalla ne, che combacia con la chiusura circolare, anticipando così il destino della Venere nera e tratteggiando la situazione con durezza, senza sconti: la vagina della donna in formaldeide viene passata da uno studioso all’altro per esaminarla. È subito chiaro cosa stiamo guardando: la società del tempo ha già calato il suo
pugno, ha ucciso la donna, ne vediamo prima i pezzi e solo dopo parte la ricostruzione della gura intera. Il racconto si apre letteralmente per frammenti: porzioni del corpo di Sarah che dobbiamo vedere prima di entrare nella ricostruzione della parabola. Dobbiamo sapere come andrà a nire. Ecco una prima scena politica da parte del regista: mostrando i medici che dissertano, su una donna divenuta oggetto (di studio, ma pur sempre oggetto), la sostanza della situazione arriva subito davanti agli occhi. L’approdo della protagonista è noto, ora bisogna conoscere “solo” come si è arrivati a questo punto. In tal senso tutto il racconto può essere letto come un anticlimax: prima l’umiliazione estrema, lo sfruttamento post-mortem, poi i piccoli e grandi abusi che conducono qui, al punto maggiore della violenza contro Sarah. Cuvier attesta la superiorità degli europei, sviluppa la teoria lombrosiana, sostiene che l’ottentotta non può essere considerata come discendente degli egizi, ritenuti i fondatori della civiltà. Viene sancita un’inferiorità delle razze che hanno il cranio ridotto e contenuto. Si attesta una superiorità, tra gli applausi, senza appello né replica. Kechiche chiude la sequenza con un primo piano sul volto della Venere, riprodotta in calco, con gli occhi chiusi e le labbra leggermente aperte: in questo gesso sembra iscritta la so erenza, l’essenza di una tragedia. A quel punto la storia di Sarah può cominciare. Il racconto torna indietro no a Londra, giugno 1810, sette anni prima. Se in Cous Cous si sottolineava l’importanza del fattore tempo per Kechiche, questo viene subito confermato dallo stratagemma di un breve rewind: riavvolgendo la storia di pochi anni, l’arco cronologico suggerisce subito che il dramma si è consumato in un periodo di tempo molto ridotto. Come da biogra a: dall’arrivo di Baartman in Europa alla sua morte passarono cinque anni, dal 1810 al 1815. Troviamo Sarah che si esibisce come fenomeno in un circo, al servizio del padrone Hendrik Caezar (Andre Jacobs), colui che l’ha condotta in Inghilterra e che sarà il primo dominatore. Tra
orsi ammaestrati e uomini forzuti, i banditori invitano a vedere la prodigiosa Venere ottentotta “solo per uno scellino”. Nell’arco di pochi tratti la cinepresa costruisce una prima corrispondenza tra l’uditorio medico e il circo popolare presentandole come scene gemelle, perché stiamo assistendo a uno spettacolo esattamente come prima: i ceti più bassi guardano Sarah come avevano fatto i medici, la messinscena allinea le sequenze e dunque li pone sullo stesso piano. In entrambi i casi, infatti, che la donna sia viva o morta la rappresentazione viene dominata dalla smania di guardare: che siano professori e luminari oppure i ceti più bassi, nella sostanza nulla cambia. In pochi minuti Kechiche ha già esplicitato la centralità dello sguardo: c’è un pubblico che osserva e un oggetto che viene guardato. Osservare è dominare e venire guardati è essere sottomessi. Questi i rapporti di forza suggeriti nell’incipit, ma presto scopriremo che la questione è più complessa e sfaccettata di così: ognuno usa il guardare e l’essere guardato per sovrastare strategicamente l’altro, ottenere un vantaggio o lenire un dolore. Lo sguardo è uno strumento di trattativa: anche per Sarah e la sua tragedia. La donna è sul palco. Rinchiusa in una gabbia, indossa una tuta color carne. Esegue il numero: viene presentata come un animale catturato in Africa (“Sono uno dei pochi che parla la sua lingua”, dice Hendrick), e lei inizia a ringhiare. Emette versi selvatici, salta, urla, spaventa il pubblico, e ettua una danza tribale: fa quello che si aspettano da lei, comportandosi come il freak che è stato annunciato. Mentre la retorica circense impone agli animi sensibili di allontanarsi la Venere viene liberata, si fa toccare dal pubblico, è ricompensata col cibo. Anch’essa per un breve istante guarda la platea, ossia ricambia lo sguardo, osserva coloro che la osservano: lanciandosi in una piccola ma evidente replica visiva, è in quel momento che il “mostro” Sarah rivela improvvisamente la sua umanità, denunciando una pulsione, perché anche lei solo
per un attimo sta vedendo. È dunque donna e non scimmia. Ancora una volta, dopo il precedente Cous Cous (i due lm sono più legati di quanto sembri), Kechiche costruisce il racconto per macrosequenze. È ormai la direzione stilistica che sta prendendo il suo cinema: lunghe riprese, grandi blocchi che s dano l’occhio e la disposizione di chi guarda, tempo dilatato della sequenza come punto di accesso al cuore di una situazione. La strategia si applica agli spettacoli di Sarah Bartmaan, che puntualmente vedono la donna al centro della scena con un pubblico che guarda: che siano poveri o ricchi, umili o nobili, la scelta stilistica del regista non cambia e opera un livellamento al ribasso. Gli occhi sono sempre gli stessi, in tutte le classi sociali. Ma c’è di più: come nella danza del ventre di Rym, attraverso la macrosequenza Kechiche mette in discussione la nostra posizione di spettatore. Come eravamo catturati dalla sensualità di Hafsia Herzi, così ci ritroviamo a guardare lo spettacolo di sfruttamento della Venere nera: anche noi la stiamo osservando. Passando da un’a ascinante beur a una povera sfruttata, però, cambia il soggetto e varia anche il senso veicolato dagli sguardi: in questa circostanza siamo chiamati a confrontarci con gli occhi oppressori che ricadono sulla donna, i medici, il pubblico del circo e i nobili, insieme a loro ci siamo anche noi. Lo spettatore viene quindi trascinato nella posizione di sfruttatore perché anch’egli guarda, restituendo così tutta la profondità dell’abuso ottico perpetrato contro la protagonista attraverso il più umano dei processi: mettersi nei panni degli altri. Calandoci nelle vesti dei “guardanti”, assumendo il loro ruolo dall’altra parte della barricata, Kechiche ci mette a confronto con la tragedia di Sarah in modo diretto e implacabile, con una scelta di politica del linguaggio. Al discorso ottico si aggiunge poi un altro livello dello sfruttamento: quello tattile. La Venere infatti viene anche toccata, alla ne dello spettacolo circense (“Solo per i più coraggiosi”, avverte il master), così l’abuso inizia a
strati carsi attraverso l’esercizio dei cinque sensi, aggiungendo al guardare anche il toccare. La cinepresa riprende le mani che si accalcano su Sarah, pur di poterla s orare, in un’inquadratura da zombie movie, allo stesso modo in cui registrava le teste del pubblico pagante. Solo dopo venti minuti di lm viene presentata Sarah “o stage”, ovvero la donna fuori dalla recitazione e giù dal palcoscenico. Essa si toglie l’abito di scena, come faceva Lydia ne La schivata, elimina il trucco e diventa una persona comune. Apprendiamo così la sostanza della sua condizione: la situazione di degrado e la stanchezza s ancante la porta all’alcolismo, Sarah beve, prova a respingere almeno uno strato della sua schiavitù, chiedendo di non essere toccata ma solo guardata. “Devono toccare per credere”, risponde l’abietto manager. La ragazza viene blandita con le promesse di una vita normale, attraverso servitori e regali, come un ventaglio. Si tratta di una donna normale e anzi intelligente, partita da una condizione di minorità sociale e quindi esposta come fenomeno da baraccone in un’epoca di superstizione antiscienti ca, a cui lei stessa ha accordato una disponibilità per sopravvivere, costantemente corteggiata da impresari spietati nella promessa di un domani migliore. Venere nera è in tal senso un lm reiterativo: sono molte le esibizioni della donna, Kechiche “ripete” sequenze simili tra loro ma con variazioni signi cative che ne modi cano radicalmente il signi cato. D’altronde non può essere altrimenti: la tragedia di Sarah passa per le continue esposizioni che la sostanziano e riempiono di senso. Questa è anche la strategia del regista per arrivare al punto della questione: lo spettacolo è sempre lo stesso, ma suona molto diverso esibirsi davanti al popolo e o rirsi agli occhi dei nobili. Si forma così un esercizio di sfruttamento interclassista, che prescinde da formazione, ceto e cultura di cui si è impregnati: tutti guardano e toccano la Venere, in un paradossale atto di uguaglianza che non viene applicato alla solidarietà bensì all’abuso.
La prima parte del racconto si conclude nella sequenza processuale. Alla base c’è il clamore suscitato dagli spettacoli a Londra: in uno di questi Sarah disobbedisce, al posto del ballo tribale suona una dolce melodia, restando catatonica al contatto invece di attaccare il pubblico come da copione. Spacca la condizione di animale comportandosi da essere umano. La sua reazione passiva sottolinea ulteriormente lo sfruttamento e solleva l’indignazione liberale: il padrone Hendrick viene convocato in tribunale e interrogato. Particolarmente signi cativa è la macrosequenza del processo, in cui torna il Kechiche più sociale e insieme la ri essione sul mezzo cinematogra co. “Confondono la rappresentazione con la realtà”, così l’avvocato risponde agli accusatori, con gurando una linea di difesa sottilmente metalinguistica: la Venere sta solo recitando, si tratta di lavoro, bisogna distinguere tra messinscena e verità. Un problema che già a iggeva gli adolescenti nella banlieue de La schivata, nel loro gioco pirandelliano, e che informa a più livelli tutto il cinema kechichiano: in aggiunta qui la vittima conferma questa ipotesi, dichiarandosi non turbata dall’esibizione e sostenendo di non essere una schiava. “Nella vita reale non sono quello che sono sul palco: io recito”, a erma Sarah, forse intimidita o rassegnata, sicuramente consapevole che non può perdere l’unica fonte di sussistenza possibile. Le cose sono sempre come si raccontano, lo sa bene Kechiche e lo intuisce anche la sua protagonista, alla quale più avanti un giornalista chiederà: “Posso scrivere che siete una principessa? Ai nostri lettori piacerà”. Ancora una volta le gure kechichiane così sono, se vi pare. La sequenza processuale svolge una funzione puramente narrativa, perché lì Kechiche fa raccontare a Saartjie Baartman la sua storia, dalla nascita alla morte del glio neonato no alla migrazione, che viene esposta a noi esattamente come alla corte. Non è un caso che il racconto sia o erto a un organismo giudicante come un tribunale: Sarah viene continuamente giudicata. Il
processo è segnato dall’opinione pubblica, ma n da subito tradisce la sua natura ipocrita e di facciata: la contraddizione viene riposta nelle gure minori, come una donna che vede lo spettacolo e si lamenta dello sfruttamento, o un quotidiano che ne condanna la bestialità. Il tribunale alla ne emette la sentenza, sottolineando per no la liberalità degli europei che accolgono una donna africana mostrandosi amici e solidali. Come già in Tutta colpa di Voltaire, si passa dalla Francia all’Inghilterra ma non cambia la sostanza: anche qui il nto progressismo europeo accoglie i migranti col suo paternalismo, senza però condurre a un miglioramento reale, perché al massimo allontana il problema dagli occhi. L’intervento dell’opinione pubblica spezza una singola situazione, non lo sfruttamento, che si trasferisce solo in altri spazi e luoghi. La ne degli spettacoli da circo segna l’inizio delle esibizioni nei salotti nobiliari: sarà un abuso più occulto e privato, per il divertimento dei ricchi, quindi socialmente accettato. Sarah cambia padrone, viene comprata da Réaux (Olivier Gourmet) e condotta a Parigi nel cuore della Francia voltairiana. La costruzione dell’immagine cambia sensibilmente: se nella prima parte Venere nera è un lm di bettole e osterie, straccioni e senzatetto, avvolto nella fotogra a scura di Lubomir Bakchev, nella seconda si apre ai salotti buoni, alle riunioni di nobili e borghesi, a un côté visivo ricco e luccicante per installare lo sfruttamento ai piani alti. Réaux vede infatti nella Venere l’opportunità di una scalata sociale: esibendo il freak si potranno ottenere lauti guadagni nelle classi elevate. Intanto la strati cazione della schiavitù raggiunge un terzo livello, quello sessuale: l’impresario abusa della donna, per ribadire il dominio, e anticipa così la successiva curva nella tragedia che porterà Sarah alla prostituzione nei suoi ultimi anni. Nei salotti parigini tutto si ripete, gra camente diverso eppure uguale: la Venere nge natura ferina, ringhia e urla, il numero si degrada ulteriormente quando la donna immobile a terra viene
costretta a mostrare gli organi genitali ai nobili. Qui Kechiche realizza una delle perle registiche di cui è disseminato il suo cinema: aderendo e distanziandosi continuamente dalla Venere, egli la rappresenta slittando dallo sguardo oggettivo a quello dei nobili e viceversa, passando dal primo piano alle soggettive della donna e all’occhio esterno dei presenti, innestando un dialogo drammatico tra guardante e guardato. Al culmine di questa tendenza la donna ruota su se stessa in una danza primitiva: Sarah è vestita di rosso, balla e la macchina da presa gira intorno a lei accompagnandola, facendosi essa stessa sguardo, ossia metaforizzando gli occhi dei ricchi, ma allo stesso tempo accordando una vicinanza alla sua tragedia. È evidente nella soggettiva che Kechiche le dedica: la Venere ruota e guarda i volti che la guardano, ribadendo visivamente la sua condizione piegata, ricurva, umiliata dallo sguardo dell’altro. I nobili suonano ed è lei a ballare, in una complicità obbligata tra sfruttante e sfruttato in cui è per no l’elemento dominante a produrre la musica, macchiandosi di “concorso di colpa”. A ben vedere nella visione kechichiana i più abbienti sono peggiori dei poveri. Nell’ultima parte interviene l’abuso della scienza. In un’implacabile ricognizione sociale nell’universo Ottocento, il lm inscena lo sfruttamento da parte delle tre categorie più simboliche dell’epoca: i poveri, i ricchi e gli scienziati. Essi si materializzano quando la donna viene acquistata, attraverso un fondo per lo studio delle specie rare, e inizia ad essere studiata. Nelle riprese dei naturalisti che la esaminano nel dettaglio viene sancito il passaggio all’ennesima forma di schiavitù: dallo spettacolo alla scienza, da fenomeno a oggetto di studio. L’osservazione diventa clinica, si consuma in un sistema medico, nel nome di un bene superiore: per questo è addirittura più degradante. La donna subisce esperimenti e test, le misurano cranio e genitali, viene ritratta in disegni. La ricreazione della sua forma su un altro supporto è l’ennesimo preludio, stavolta al calco e
all’imbalsamazione, perché la società ha deciso che l’immagine deve restare impressa per proseguire lo sfruttamento post-mortem. Il racconto arriva all’esposizione de nitiva: la Venere viene cavalcata per l’ultima volta, sculacciata, umiliata anche sessualmente no al gesto estremo, la mostrazione della vulva che viene guardata e toccata in una molestia di gruppo. Il primo piano certi ca la comparsa delle lacrime: Sarah si lascia andare a un pianto liberatorio, esterna nalmente la propria disperazione e così si avvia alla rottura con il padrone. L’ultima tappa della vita è segnata dalla prostituzione, l’ennesima attività che prevede di essere guardata: la troviamo in un ménage à trois voyeuristico dove un uomo la osserva, proponendo l’ennesima inedita modalità di dominazione mediante lo sguardo. Il percorso che parte da un circo attraversa le classi sociali e si conclude in un bordello: si sostanzia la tragedia dell’essere guardati senza mai venire visti né considerati, restando oggetto di puro consumo visivo. A proposito dei tanti occhi che troviamo nel corso del lm, è proprio Kechiche a suggerire un’essenziale distinzione tra sguardo collettivo e sguardo individuale. Nel primo caso infatti il collettivo è sinonimo di abuso, che si concretizza visivamente nella massa di un pubblico, che sia uno spettacolo di basso rango o un salotto per bene, una squadra di medici o per no un “pubblico di uno”, come avviene per il cliente del bordello. L’occhio collettivo sfrutta sempre. L’occhio individuale invece concede inaspettate aperture di credito a Sarah riconoscendola come essere umano: al di fuori del gruppo, lontano dall’indistinto, è il personale che a tratti le accorda empatia, rivelando improvvisamente la possibilità di un’umanità seppure frustrata dal dramma. Accade almeno in due circostanze: la prima è l’incontro un giovane naturalista che, ritraendo Sarah in una sorta di colazione sull’erba, sceglie il contatto con la donna regalandole il suo disegno. L’altra tendenza di protezione,
stavolta comunitaria, si ritrova all’interno della casa chiusa: qui Jeanne, una prostituta interpretata da Elina Löwensohnm, si avvicina a Sarah spiegandole gli stratagemmi per ottenere il massimo risultato con la minima umiliazione. Restiamo sempre dentro contesti estremamente degradanti, ovvio, e le piccole aperture operate dai singoli non modi cano la tragedia generale, ma proprio in questi inferni germogliano inaspettati punti di solidarietà. E marcano una distanza tra gli sguardi, quello spietato collettivo e l’occhio individuale capace di o rire tracce di empatia. È l’unica concessione che Kechiche prevede per l’uomo nella terribile storia vera. L’ultima tappa vivente della Venere si consuma dunque nella maison close, un microcosmo di ragazze prostitute che provano a sopravvivere attraverso l’esposizione dei corpi, in un congegno di voyeurismo e desiderio a cui il cineasta francese Bertrand Bonello dedicherà un lm (L’Apollonide: Souvenirs de la maison close, 2011). Quando il medico diagnostica una grave infezione, sappiamo che la ne di Sarah è ormai sopraggiunta. Kechiche la inscena frontalmente senza risparmiare nulla: o re il dettaglio della donna che inizia gradualmente a tossire, sempre più forte, quindi si accascia stremata dalla malattia no a raggiungere una posizione immobile che rappresenta anche una paci cazione dalla so erenza in vita. Ma lo sguardo dominante, già lo sappiamo, non nisce qui. Nella sequenza successiva il corpo di Saartjie viene immerso nella calce per realizzare il calco, un’autopsia la esamina nel dettaglio: si misura la grandezza della vulva, si pesa il cervello, i medici osservano, inizia la pornogra a scienti ca. Nell’ultima osservazione i rumori ambientali tacciono e il lm si concentra sull’essenziale, sulla sola immagine, in modo silenzioso e pudico nei confronti della vittima. Vénus noire iscrive Kechiche nella vasta tradizione del lm sui freak, i “mostri” sfruttati e umiliati, quasi un sottogenere nella storia del cinema. Oltre alle opere
seminali come Freaks di Tod Browning (1932), n dalle prime proiezioni la Venere del franco-tunisino è stata accostata ai titoli più contemporanei del lone: primo fra tutti The Elephant Man di David Lynch (1980), rilevando le assonanze tra la vicenda di Sarah Baartman e quella di Joseph Merrick, l’uomo a etto dalla sindrome di Proteo che per la sua deformità veniva esposto nei freak show nell’Inghilterra dell’Ottocento, appena pochi anni dopo la Venere, prima che gli spettacoli fossero dichiarati illegali nel 1886. A parte le coincidenze concrete nelle vicende, però, a sorpresa è lo stesso Kechiche a respingere l’accostamento: “Non vedo legami con The Elephant Man, se non per l’esibizione dei corpi. È un lm che, pur riconoscendone la grandezza, mi disturba per la sua condiscendenza verso le classi popolari”8. La presa di distanza dall’opera lynchiana, a prescindere dai singoli giudizi, dice molto sul pensiero di Kechiche e sul punto a cui voleva arrivare: lui è la Venere, il regista migrante si identi ca con la donna sfruttata, posizionandosi dalla parte del popolo attraverso un lm sullo sguardo. Nelle letture critiche dopo l’uscita, al quarto lungometraggio di Kechiche viene riconosciuta una solidità del pensiero e una consapevolezza di costruzione che lo avvicina ai grandi della storia, secondo accostamenti di senso anche spiazzanti e inaspettati, come il paragone con Lola Montès di Max Ophüls (1955)9, con la parabola caleidoscopica della ballerina che è iscritta in un circo moderato da un domatore dove – guarda caso – la donna viene costantemente scrutata e interpellata. C’è però un lm che Kechiche non può avere ignorato nella costruzione di Venere nera: è La donna scimmia di Marco Ferreri (1964), con protagonisti Ugo Tognazzi e Annie Girardot. In uno dei titoli più sottovalutati di Ferreri, e uno dei più colpiti dalla censura preventiva, viene messa in immagine proprio la storia di una donna scimmia: la protagonista Maria a etta da ipertricosi, resa fenomeno da baraccone dall’impresario Antonio Focaccia, che inaugura un personale freak show napoletano per
sbarcare il lunario. La parabola di Marie/Girardot ha molto in comune con quella di Sarah Baartman che d’altronde, viene detto, ha la forma del cranio simile a una scimmia. L’essenza di Ferreri è più be arda e meno disperata di Kechiche, perché di fatto nell’ambiguità del personaggio di Tognazzi si può rintracciare un’ipotesi di amore, nelle maglie di un rapporto a due che non è solo servo-padrone e conduce per no al matrimonio. Ma il discorso del regista italiano nel nale coincide quasi esattamente con quello del franco-tunisino: la donna scimmia viene esposta in un museo come la Venere, quando il marito la sottrae è solo per allestire uno spettacolo che mostra i suoi resti imbalsamati. Fermo restando la distanze nelle poetiche di due cineasti molto diversi, i destini delle loro donne scimmie fanno rima: essere guardate anche dopo la morte. Il naturalismo di Kechiche con Venere nera muove un altro passo in avanti. La ricostruzione scienti ca della realtà nora si era applicata a racconti di nzione, al netto degli elementi autobiogra ci; qui aderisce alla storia vera, misurando su quel terreno la strategia della macrosequenza come riproduzione della “verità”. Che Kechiche si ritrovi nella Venere nera è già stato detto, d’altronde il regista nei titoli precedenti si identi cava con un migrante, alcuni banlieusards, una grande famiglia meticcia, e nel lm successivo lo farà a tratti con una giovane omosessuale. Cosa hanno in comune? Tutti costoro sono “diversi”: di erenti dalla norma, dall’imposizione sociale, dal mondo intorno che non li comprende e li esclude. Nell’arco di quattro opere la lmogra a di Kechiche comincia a con gurarsi anche come racconto dell’escluso, del debole e dell’ultimo, che in principio era l’immigrato e qui si apre allo sfruttato in senso più universale e complessivo. Va da sé che Venere nera si propone anche come risarcimento postumo verso Saartjie Baartman, donna sfruttata da uomini, vittima del razzismo dello sguardo, come attesta il nale con le immagini di repertorio dei resti che tornano a casa.
In concorso alla 67ª edizione del Festival di Venezia, il lm esce senza premi ma nella comunità cinematogra ca la stella di Kechiche ha iniziato a brillare. Intervista di Abdellatif Kechiche a Cineuropa.org, 7 ottobre 2010 Sempre dall’intervista a Cineuropa.org Giulio Sangiorgio su Gli Spietati: www.spietati.it/venere-nera
Capitolo sesto LA VITA DI ADELE, MA SOPRATTUTTO LA VITA La vita di Adele (La vie d’Adèle, 2013) non è solo il lm della Palma d’oro, la consacrazione de nitiva, ma anche quello che segna una svolta nel cinema di Kechiche: dopo le “prove generali” di Venere nera egli abbandona il macrotema dei migranti magrebini, che resta sottotraccia, e si apre all’universalità. Il quinto lungometraggio è una storia d’amore omosessuale tra due ragazze, un’adolescente e un’artista. È un banco di prova: se nora il naturalismo kechichiano si applicava al grande tema di riferimento dei migranti arabi in territorio francese, carico di elementi autobiogra ci, se Venere nera è un racconto imperniato sullo sguardo, qui la virata è netta e si passa ad “altro”. Il regista realizza un’opera che si colloca nel territorio del queer movie: nora non erano previsti personaggi omosessuali nel suo cinema, Adele fa irruzione e segna un’evoluzione anche di linguaggio, il passo deciso verso un naturalismo sempre più puro. Il progetto di Kechiche è ambizioso: l’idea di partenza è non limitarsi a un unico lm ma farne una serie, tanto che il titolo di lavorazione contiene la de nizione “capitolo 1 – capitolo 2”. Il piano è quello di seguire la parabola della vita di Adele. A chi domanda a Kechiche se nel pensiero originario la protagonista potesse essere il suo Antoine Doinel, citando il personaggio alter ego di Tru aut, il regista risponde: “Confesso che ci ho pensato”. D’altronde François Tru aut è anche il regista di Adele H. (1975), storia della glia di Victor Hugo che cerca forsennatamente il suo amato e diviene “folle d’amore”. Un lm con cui La vita di Adele dialoga sottotraccia, soprattutto dopo la rottura di Adele con Emma con la prima che va in cerca dell’altra, in uno stordimento sentimentale che rievoca quello di Isabelle Adjani. Se poi consideriamo che il nome Adele è l’unico introdotto da
Kechiche rispetto al testo originario, per omonimia con l’attrice protagonista ma non solo, ecco allora che il riferimento tru auttiano si fa evidente. Alla ne il lm è uno solo: il piano di aprire una serie fallisce, ma il regista lo riproporrà nel progetto successivo Mektoub, My Love. Per indagare la costruzione de La vita di Adele bisogna passare attraverso un altro incontro tra Abdellatif Kechiche e un libro: stavolta si tratta di letteratura per immagini, ovvero il fumetto. Il punto di origine è una graphic novel: Il blu è un colore caldo di Julie Maroh (Le bleu est une couleur chaude, 2010, edizioni Glénat, in italiano Rizzoli Lizard, Milano 2013). Da qui parte il cineasta per costruire l’intreccio, ovvero da un testo che – al solito – viene manovrato e riscritto, per arrivare a un approdo di senso molto diverso rispetto alla fonte. Esordio nel romanzo a fumetti della giovane scrittrice e illustratrice francese Julie Maroh, classe 1985, Il blu è un colore caldo racconta la storia d’amore tra due ragazze, Emma e Clementine, con l’una che legge per la prima volta il diario dell’altra dopo la sua morte, rievocando così tutta la relazione. Il racconto si apre già dopo la scomparsa della protagonista: all’inizio Clementine non c’è più, Emma apre quelle pagine intime e la storia viene illustrata dall’autrice in un lungo ashback post-mortem che solo saltuariamente torna al presente, all’ex amante dolente in sede di lettura. La premessa del racconto segna subito una divergenza importante con l’adattamento di Kechiche: nell’incipit del lm la ragazza (qui chiamata Adele) esce di casa, di nuovo sullo sfondo di una periferia, e corre per prendere il bus che la porterà a scuola. Non c’è alcun diario, non c’è il ltro della scrittura. Maroh propone un congegno letterario classico, che attraverso la ri essione diaristica espone la storia della giovane, ovvero la sua versione. Riscrivendolo con Ghalia Lacroix, al contrario Kechiche oggettivizza il racconto, depurandolo di ogni piano intermedio di nzione per raccontare la storia in ordine cronologico, esattamente nel momento in cui accade. Il suo è un gesto naturalista: nella partenza
diversa, per il cineasta, è contenuto il primo passo di allontanamento dalla letteratura verso la direzione preferita, ovviamente il naturalismo. Prima ancora è signi cativo l’accostamento tra i titoli dei testi che ne denunciano le rispettive impostazioni: nel fumetto abbiamo il riferimento ai capelli blu di Emma, che è una citazione del diario di Clementine e dunque una de nizione fornita da un’adolescente, per questo particolarmente poetica, che serve per concentrare su Emma il nocciolo della questione sentimentale. È lei l’oggetto d’amore che sprigiona il colore caldo. Nel lm troviamo un’evidente inversione di senso: il soggetto diventa Clementine ovvero Adele, e avviene un’estensione dal singolo dettaglio allo scenario complessivo. Dai capelli blu si passa alla “vita”. Se a Maroh interessa un dettaglio che indirizza in senso sentimentale la costruzione gra ca del personaggio, una ragazza dai capelli blu, Kechiche allarga il discorso e rende rilevante l’intera esistenza, in un gesto verista che intende riferirsi a tutta una vita. Analizzando la costruzione de Il blu è un colore caldo appare evidente come la graphic novel sia imperniata su una trovata tanto semplice quanto e cace: all’inizio la storia è incolore, viene modulata sui toni del grigio, solo i capelli di Emma appaiono blu. È così che Clementine vede il mondo. Lo scenario acquista colore ad ogni comparsa dell’amata, no ad ottenere una piena e compiuta colorazione nel momento della fuga d’amore delle due (pag. 132)10. In un intorno ridotto a magma indistinto solo l’amore conquista il dono dell’unicità dei sensi. Ridotto ai minimi termini Il blu è un colore caldo è un racconto di formazione che romanticamente passa per l’amore e per la morte: Clementine lontano da Emma trova la ne a causa di una grave malattia, ovvero “muore d’amore”, ma la sua scomparsa non è un disperato sprofondare, bensì una dissolvenza dopo la realizzazione. Lo scrive lei stessa nel diario rivolgendosi a Emma: “Mi hai salvata da un mondo costruito su pregiudizi e una morale assurda, mi hai aiutata a realizzarmi pienamente” (pag. 155).
All’intervento della morte perlomeno si è vissuto: per questo il nale è a colori, e l’ultima immagine mostra l’orizzonte del mare, quindi uno sguardo lontano. Nella ra gurazione del rapporto tra le ragazze, se il primo incontro sessuale suona relativamente esplicito (pag. 96-99), questo viene principalmente risolto in stacchi, omissis e dissolvenze in grigio. Non a caso all’inizio la gura di Emma risulta costantemente giocata sul piano onirico: sogno ricorrente di Clementine, essa sembra uno spirito blu, folletto psicanalitico che risveglia l’erotismo dormiente della giovane. Qui, tra libro e lm, siamo davvero agli antipodi: non c’è nulla di più lontano della carnalità che troviamo in Kechiche, in particolare nelle macrosequenze di sesso che a ronteremo. Tra libro e lm le di erenze non sono epidermiche, ma profonde e di senso. A divergere è proprio l’idea alla base che porta a due versioni dello stesso racconto: Il blu è un colore caldo si o re come storia di amore omosessuale narrata dalla prospettiva di una giovane ragazza lesbica. La vita di Adele è l’esercizio naturalista di un autore eterosessuale, che inquadra le donne dalla sua lente di uomo. In virtù di questo bivio concettuale si spiega anche la diversa ra gurazione dei personaggi: le ragazze di carta non sono esattamente “belle”, anzi in alcuni tratti si presentano estremamente stilizzate, come se volessero far passare un’idea più che un personaggio. Al contrario Kechiche, anche nella scelta delle attrici, considera le possibilità di rappresentare il corpo. Il regista per l’ennesima volta parte da un libro, lo tradisce e nisce per andare dove vuole. Non è un caso che Julie Maroh si dichiarerà insoddisfatta dell’adattamento contestando “un’esplorazione dimostrativa e fredda del cosiddetto sesso lesbico”11, in nome di un equivoco che torna spesso nel rapporto tra cinema e letteratura: la convinzione di alcuni che i lm devono rispettare i libri, mentre i lm sono a dati alla libertà dei registi che li conducono dove più ritengono opportuno.
La vita di Adele si apre con l’ennesimo inizio di periferia, ormai marchio di fabbrica: c’è una ragazza che esce di casa per prendere il pullman che la porterà a scuola. È Adele interpretata da Adèle Exarchopoulos, giovane attrice esordiente scovata da Kechiche che all’epoca delle riprese aveva diciannove anni: a suo modo una banlieusard, come i giovani de La schivata, che di nuovo si colloca in quella porzione di società venuta dal sobborgo, ai margini, anche se qui non è il centro della questione ma torna in modo laterale (come nella di erenza tra le famiglie delle ragazze). È comunque sempre più evidente come in questo cinema la periferia non sia solo un luogo geogra co, un punto sulla mappa di una città, bensì uno stato mentale: si tratta di una periferia anche intima e interiore, la stessa che permetteva a Krimo di amare Lydia solo in abito di scena, mettendo in scacco l’ipotesi di un sentimento stabile. Nella periferia di Adele c’è invece una giovane che è omosessuale e ancora non lo sa: lunga e dura sarà la strada per trovare se stessa. Vediamo per la prima volta Adele che corre trafelata per non perdere il bus, in una scena di ordinaria quotidianità: il nome dell’attrice coincide con quello del personaggio – come detto –, che cambia rispetto al romanzo a fumetti, frutto di una scelta voluta e studiata. Fin dalla concezione dell’opera c’è l’approccio naturalista: Adele non interpreta Adele ma lo è, in una sovrimpressione esatta che il regista prevede per suggerire che qui non si sta solo inscenando un personaggio, ma una coincidenza tra personaggio e attrice, ovvero la rottura della barriera tra realtà e nzione, insinuando la possibilità che quella ragazza sia Adele e non la sua messa in scena. Dopo essere giunti a scuola, nell’ennesima classe allestita dal regista, ecco un altro ritorno all’interno del suo universo: quello di Pierre Marivaux. Il maestro sta leggendo agli alunni La vita di Marianne (La vie de Marianne)12, romanzo incompiuto iniziato dal drammaturgo nel 1727. Il racconto segue la parabola di una giovane senza genitori e dall’origine ignota, che prova
a conquistare il suo posto nel mondo. Adele ha entrambi i genitori, ma slittando dal piano sociale a quello sessuale non è forse simile il percorso delle due gure femminili? Inoltre il docente espone in classe un brano che si riferisce all’innamoramento di Marianne, in cui lo scrittore descrive in poche righe la versione settecentesca del colpo di fulmine: “Uscimmo dalla chiesa e mi ricordo che ne uscii lentamente, ritardando i miei passi. Rimpiangevo il luogo che stavo lasciando e andavo via con l’idea che al cuore mancasse qualche cosa”. A seguire il professore interroga gli alunni: “Come ve lo spiegate che al cuore manca qualcosa?”. Ed ecco per la prima volta porsi il nodo dello sbocciare del sentimento: il brano anticipa ciò che accadrà nella storia di Adele. Se Marivaux resta certamente l’autore faro per Kechiche, qui l’uso che se ne fa è sensibilmente diverso rispetto a La schivata: lì tutto il racconto si poteva interpretare come adattamento contemporaneo della pièce del drammaturgo, no a sfociare nell’equivoco perché Kechiche la modi ca eccome. Qui invece la comparsa di Marivaux è lieve e sotterranea, ma allo stesso tempo più strati cata e decisiva. Il titolo del lm riscrive quello del libro: La vita di Marianne diventa La vita di Adele. E non è un caso che si legga proprio quell’incompiuto, ovvero un’opera senza nale: anche La vita di Adele nisce in sospeso. Ecco che il modo di fare cinema di Kechiche è diventato ormai sempre più sottile e implicito, denso di rime e suggerimenti interni, di rimandi che si possono cogliere o meno, insomma di una linea personale da seguire per arrivare al compimento del discorso. Per chi saprà guardare dopo appena dieci minuti di lm sappiamo cosa succederà ad Adele (un innamoramento) e come andrà a nire la sua storia (in sospeso). Chi non segue il dialogo interno nella mente dell’autore tra le gure di Marianne e Adele, quindi tra letteratura e cinema, comunque non perderà un grammo della sua messa in scena: non è cinema intellettualistico bensì sensistico, questo, una
pratica che punta all’abbandono dei sensi per gettarsi nelle braccia dell’immagine. Gli studenti leggono Marivaux. Il professore lo paragona a La principessa di Cléves di Madame La Fayette, in particolare nelle pagine dell’incontro tra la principessa e il duca di Nemours che viene causato dal destino: altri amori letterari, altri specchi tra letteratura e realtà. All’improvviso, al termine di questa scena, Kechiche disegna una dissolvenza sul volto di Adele e riapre sempre sullo stesso viso, stavolta in un dialogo tra adolescenti, mentre la ragazza che sta dicendo: “Se devo scopare scopo”. I giovani parlano di sesso e ancora una volta torna la strategia adottata ne La schivata, con il linguaggio aulico settecentesco che viene messo direttamente a confronto con la parlata di periferia suscitando l’e etto di cortocircuito. Ma qui il racconto va da un’altra parte. Lo attesta l’architettura stilistica delle sequenze, ossia dove Kechiche posiziona la cinepresa: non c’è più la macroscena di periferia, in cui la macchina andava da un giovane all’altro per costruire la coralità della banlieue, ma viene inquadrato solo il viso di Adele, è questo che ci porta da una scena alla successiva. Siamo avvertiti: è di lei che si parla, di lei sentiremo raccontare. All’inizio Adele non sa cosa signi chi essere omosessuale. Kechiche frequenta la zona del coming of age, ovvero il racconto di formazione che prevede una graduale presa di coscienza del protagonista sulla sua vera essenza: ma siamo molto lontani dal genere americano sia per scrittura che per messinscena, basti rilevare che il regista non appiana i contrasti (come il codice prevede), alla ne del percorso non c’è una piena realizzazione ma si incontrano nuove domande, altri dubbi. La protagonista fa una prima esperienza etero: è sempre di cile distanziarsi dalla norma, uscire dalla regola sociale, come lo era per i migranti del “primo” Kechiche allo stesso modo la dinamica si ripropone per l’adolescente. Il prescelto è Thomas (Jérémie Laheurte), compagno di
scuola glio di genitori arabi, con la seconda generazione kechichiana che torna a puntellare la storia seppure restando sullo sfondo. È qui, nella prima uscita tra i due, che troviamo una delle sequenze più paradigmatiche del naturalismo di Kechiche, che arriva con maggiore forza proprio perché è una “piccola scena”, impercettibile e nascosta nel tessuto: Adele che mangia un kebab. I giovani si incontrano e ri ettono su quale cibo scegliere, così Adele dichiara: “Io preferisco il kebab”. Ancora una volta, nelle mani di un personaggio francese, viene consumato un cibo di origine araba, lo street food per eccellenza dilagato nell’abitudine occidentale. Ricordate il sogno di Slimane in Cous Cous, vendere cibo arabo ai francesi? Ecco, qui è già successo. Adele adora il kebab e in questo modo, per interposto personaggio, Kechiche risarcisce anche il vecchio Slimane che si era accasciato a terra nel nale di quel lm. Nel kebab scelto da Adele i migranti magrebini si sono simbolicamente integrati: per questo è anche una scena politica. Ma c’è di più: la ragazza mangia sporcandosi le labbra e leccandosi le dita, con la sua “maleducazione” ricorda ancora la famiglia riunita per il pranzo a base di cous cous. In questa parentesi minima il naturalismo del regista si manifesta in tutta la sua evidenza: visto che le grandi prove si celano spesso nelle piccole cose, il kebab di Adele si può prendere come simbolo del cinema meticcio, dell’avvenuto melting pot, e allo stesso tempo di una ricerca stilistica che sta per toccare un nuovo approdo. Come mangia una ragazza di periferia? C’è un’unica risposta possibile: come ce la mostra Kechiche. Nel frattempo i due giovani parlano di letteratura, come se Adele fosse consapevole di essere lei stessa un personaggio letterario, e dialogano su su Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Adele espone la sua teoria che, per quanto provenga da un’adolescente, è sorprendentemente lucida: quando un’opera viene troppo esaminata allora questo “ammazza l’immaginazione”, perché tende a cancellare l’elemento irrazionale e sentimentale della lettura. Non tutto può
essere ordinato o ingabbiato in schemi de niti, occorre accettare anche l’eccezione alla regola e l’uscita dal normale, una spinta che è ulteriore anticipazione della sua storia personale con l’invito a vincere le difese razionali e consegnarsi al sentimento. Invito che vale sia per il personaggio che per lo spettatore: sul piano interno al racconto la giovane dovrà accettare la propria omosessualità, quindi la diversità rispetto al mondo intorno, mentre per chi guarda il suggerimento è quello di non giudicare troppo, non spaccare in quattro il capello della love story ma, semplicemente, starci dentro e prepararsi a goderne. Inevitabile, con queste premesse, che le due scene di sesso etero non siano pienamente compiute e restino irrisolte. Adele va con Thomas per dovere, perché “così si fa”, è normale, il rapporto si consuma in modo meccanico tanto da portare il ragazzo a chiederle: “Non ti è piaciuto?”. Un’unione automatica che serve a preparare il primo autentico rapporto sessuale, quello con Emma, che rappresenta la “vera” verginità perduta, relegando quella con Thomas a questione soltanto “tecnica”. Basti osservare il primo incontro erotico tra Adele ed Emma per registrare, in tutti i singoli elementi, una profonda dissonanza tra le due unioni: laddove c’era meccanismo qui vi sarà piacere, laddove c’era un gesto robotico qui si raggiungerà la felicità amatoria. Il primo incontro tra Adele ed Emma è un incrocio di sguardi. Dopo la falsa prima volta con il ragazzo Kechiche disegna l’inizio della vera storia, che coincide con l’ingresso in scena del personaggio incarnato da Léa Seydoux. Dimostrando ancora il magistero stilistico ormai raggiunto. Nella sequenza Adele attraversa la strada mentre un musicista suona il djembe, o rendo una colonna sonora diegetica alla costruzione della sequenza, non facendo altro che aumentare il senso di destino che aleggia sulla scena. La cinepresa prima segue Adele di spalle poi la inquadra in volto, all’improvviso passa una ragazza con i capelli blu in compagnia di un’altra: a quel punto avviene il chiasmo degli sguardi. Gli occhi delle due
si incrociano voltandosi per un secondo, in una “poetica dell’attimo” che Kechiche dissemina per tutto il lm, alla ricerca dell’istante ine abile per insinuare la sostanza di una storia d’amore, per no dell’amore stesso. Le giovani si guardano e poi proseguono ognuna per la sua strada. Kechiche rende tangibile il colpo di fulmine: dopo il contatto visivo Adele “va via con l’idea che al cuore manchi qualcosa”, come la Marianne di Marivaux, e all’improvviso comprende quell’amore che ha letto sui libri, sensazione che prova per la prima volta dopo il “tentativo” con Thomas. Il cineasta disegna qui una delle sequenze più ra nate: l’innamoramento della ragazza avviene camminando per la strada, ancora una volta “come nella vita”, ma allo stesso tempo su di lei aleggia la mano del fato, c’è una predestinazione che sembra farle incrociare. Lei si ferma e le macchine le suonano. La messinscena del vivere incontra dunque l’irrazionale, ciò che non si può prevedere ma bisogna solo accettare: l’amore ha scagliato la sua freccia. Ma attenzione: non si tratta di un sentimento solo letterario bensì, a partire dal chiasmo visivo, di un’ipotesi materica e carnale. In quello sguardo c’è già desiderio, le due ragazze si piacciono e vogliono già in mezzo alla strada, d’altronde non si conoscono e si o rono l’unico dono possibile, la propria immagine. Non c’è niente di male: il naturalismo di Kechiche da sempre è fatto anche di desiderio, dalla prima scena di sesso in Tutta colpa di Voltaire no alla danza del ventre di Hafsia Herzi che chiude Cous Cous, trascinandoci nella posizione di osservatori e facendoci desiderare. Normale quindi che due giovani si desiderino l’una con l’altra, già al primo contatto ottico. Più stupefacente invece è l’equilibrata coniugazione delle spinte che popolano l’incontro, in particolare tre: il naturalismo, il romanticismo con l’archetipo dell’innamoramento e la carnalità, in un passo a tre che crea un’atmosfera quasi sovrannaturale, una specie di magia. Da quel momento tutto cambia. Adele nel suo letto
immagina la ragazza coi capelli blu in una sessione di autoerotismo, si risveglia di colpo scoprendosi sorpresa e intimidita: il desiderio fa paura. Anche per questo, in ossequio alla regola, bacia Thomas e va a letto con lui, salvo poi confessare al migliore amico gay: “Mi sembra di fare nta”. Quello che la mente ancora non vuole registrare si a accia in sogno: il desiderio non confessabile di giorno, secondo la classica logica inconscia, si sfoga di notte sul piano onirico. Il secondo incontro tre la ragazze avviene poi in un bar gay dove Adele viene trascinata, in cui le due casualmente (fatalmente?) si ritrovano, parlano e scherzano tra loro. La cinepresa di Kechiche passa di continuo dal volto dell’una a quello dell’altra, sottolineandone la carnalità dei lineamenti che rimanda velatamente al mondo arabo, soprattutto per i tratti di Léa Seydoux. Il contesto culturale di riferimento viene ancora apertamente citato: “Adele… credo signi chi qualcosa in arabo”, dice Emma. E la risposta: “Signi ca giustizia”. La linea di dialogo traccia in modo invisibile una corrispondenza possibile tra le due giovani, all’insegna proprio dell’arabità: l’“araba” Emma incontra la ragazza dal nome arabo, Adele, e già appoggiate sul frivolo bancone sembrano avere qualcosa in comune. Nel tratteggiare la gura di una giovane omosessuale inconsapevole Kechiche porta avanti il suo discorso sulla diversità: troviamo Adele a scuola che, per essere stata vista con Emma, nisce nel mirino delle compagne al limite del bullismo, viene de nita “lesbica” e coinvolta in una lite che riporta alle parolacce de La schivata. Dopo questo momento aspro, a segnalare la complessità e il dolore che porta con sé la diversità, arriva il vero e proprio inizio della storia sentimentale: l’appuntamento tra le ragazze che escono nel parco. Non si teme di esagerare dicendo che la sequenza è un manifesto per tutto il cinema di Kechiche. Si tratta infatti di una scena che davvero riesce a legare insieme la carne e l’anima, ovvero l’a abulazione del racconto al primo grado e la struttura teorica che lo sorregge, il piacere della storia e il pensiero
del regista. La pittrice Emma compone un ritratto di Adele. In questo dipinto en plein air la ragazza disegna il viso dell’altra, spiegando la sua tecnica tesa alla paziente ricerca della verità attraverso la cattura del dettaglio: “Può essere una piega nelle labbra o un’emozione nello sguardo”, sostiene, citando Sartre evoca “la misteriosa debolezza del volto umano”. È proprio quel “mistero” che Kechiche rincorre di lm in lm, di ripresa in ripresa, e costituisce l’essenza del suo metodo: la “piega nelle labbra” e “l’emozione nello sguardo” li rende proprio materici, fermandosi con la cinepresa ad osservare i suoi personaggi, dando loro del tempo alla ricerca dell’attimo ine abile e “vero”. Emma è in questo caso l’alter ego del regista che riproduce la realtà. Un cinema pieno di riproduzioni, quello di Kechiche, di calchi e disegni, come già si era visto in Venere nera dove i naturalisti si a annavano a disegnare la gura dell’Ottentotta in tanti modi, prima di arrivare al gesso post-mortem, e come si vedrà nel successivo Mektoub, My Love: Canto Uno con il protagonista Amin che scatta di continuo fotogra e. Con la sua dichiarazione di naturalismo in fabula, Emma rovescia lo sfruttamento della Venere: al contrario di quell’abuso pseudo-scienti co qui ricreare è iniziare ad amare, portando in dono la maggiore ricchezza di una pittrice, la sua arte. Catturare il primo piano di Adele mossa dal vento leggero, i capelli che le scivolano sul volto, è il “regalo” che Emma fa alla sua futura amante ed è anche una chiave di lettura complessiva del cinema kechichiano. Più volte nel corso della storia l’una dipingerà l’altra, in varie pose, vestita o nuda: una relazione in cui riprodurre è amare, o perlomeno quell’amore gradualmente lo costruisce, come accade in Ritratto della ragazza in amme di Céline Sciamma (Portrait de la jeune lle en feu, 2019), altro lm sull’amore tra ragazze che passa attraverso la riproduzione dell’immagine. Ma la “prima scena d’amore” di Kechiche, a ben guardare, contiene un altro elemento imprescindibile che segna il rapporto tra Adele e Emma e
tutto il lm: il gap culturale. Fin dall’inizio, infatti, insieme allo sbocciare del sentimento si a accia il tema della profonda di erenza tra le due: Emma è più adulta e istruita, appassionata di arte e cultura, imbevuta nell’ambiente delle gallerie, non a caso cita Sartre, scrittori e loso . Adele è una persona semplice, più giovane e con ambizioni piane e leggibili, vuole fare la maestra e lavorare con i bambini, senza sovrastrutture intellettuali: alla citazione di Sartre risponde con Bob Marley. La tenera contrapposizione Sartre-Marley, non priva di una certa ironia che tende ad empatizzare con la mente di Adele (le cose semplici sono spesso le migliori, lo sa bene il naturalista Kechiche che ottiene la semplicità da processi complessi), rende solare il divario tra le due. Il rapporto tra le ragazze sarà sensoriale e materico, ma sempre segnato da una divergenza intellettiva. C’è di più: nella relazione Emma cercherà di trascinare Adele verso le sue posizioni, la spronerà a scrivere quando lei non vuole, senza mai davvero comprendere la semplicità dell’amante che a quel mondo non appartiene. Quante coppie sono segnate da un gap culturale? Adele e Emma sono tra quelle, Kechiche ce lo suggerisce sin dal principio mettendo la situazione davanti agli occhi. Il motivo del divario tra amanti è stato variamente frequentato dal cinema francese dei nostri anni, culminando nell’acuta commedia Sarà il mio tipo? (Pas son genre, 2014) di Lucas Belvaux, che estremizzando il meccanismo immagina l’“impossibile” storia d’amore tra un professore di loso a e una parrucchiera. Tra Emma e Adele emerge però la potente sensorialità del loro rapporto, intesa proprio come abbandono ai sensi perché spiegare è sempre sminuire, come diceva Adele a proposito dell’incanto della letteratura. Alla ne dell’incontro nel parco il regista regala un momento di sospensione: le ragazze sono in piedi, l’una davanti all’altra, in controluce rispetto al sole e si guardano in silenzio. Tutto tace per un istante mentre aspettiamo il bacio: ognuna guarda le labbra dell’altra, potrebbe accadere ma la sequenza si risolve in ne con un
bacio sulla guancia. Una sospensione quasi insopportabile, in cui il cineasta gioca con il topos dell’innamoramento ma lo “interrompe”, nega il compimento, consapevole che l’erotismo è maggiore quando viene castigato: la posticipazione del desiderio non fa altro che aumentare la sua de agrazione successiva. La prima “esplosione” arriva dopo 75 minuti di lm. Kechiche ha svolto ormai un lungo apprendistato alla scuola della macrosequenza: l’ha applicata a balli, incontri di periferia, pranzi di famiglia, danze del ventre, spettacoli da circo. Qui per la prima volta la costruisce intorno a una scena sessuale. Le attrici, quando interpellate, le ricordano puntualmente come riprese elaborate e s ancanti, fatte di numerosi ciak, provate più volte dal regista che ha sviluppato un perfezionismo attento al minimo dettaglio, dall’espressione del volto alla posizione delle mani. Ponendosi in netta antitesi con l’incontro etero più meccanico e “dovuto”, la macrosequenza vuole dirci che Adele nella sua prima volta con una ragazza raggiunge il culmine del piacere. Allo stesso tempo, stilisticamente, arriva l’abbandono naturalista ai sensi che era stato preannunciato: le ragazze si accoppiano in varie posizioni, in una lunga e densa scena d’amore che serve ad esplorare le varie tappe della scoperta del corpo, del desiderio di una donna per un’altra. Qui Adele realizza il proprio essere e trova nalmente la sua peculiarità omosessuale. Le giovani si toccano, accarezzano, baciano e danno piacere a vicenda: per rivelarsi completa la scoperta deve essere lunga, ampia e insistita. Le due si accoppiano lasciando tracce organiche, per esempio leccandosi, nché i corpi si attorcigliano tra loro e le amanti risultano “incastrate” come le due metà platoniche dell’amore, portando il godimento al parossismo. È un rapporto sessuale inquadrato in tutte le angolazioni, mostrandone ogni sfaccettatura, no al graduale crescendo che porta naturalmente all’orgasmo. Così avviene nei rapporti felici, sostiene Kechiche, e così deve accadere anche sullo
schermo. Ecco perché non regge l’accusa di gratuità e voyeurismo, mossa da alcuni n dalle prime proiezioni nella competizione cannense: è vero il contrario, perché Kechiche non sta guardando dal buco della serratura, bensì porta una pietra importante alla sua costruzione stilistica. Se egli è “voyeurista”, lo è nella misura del cinema: il gesto di guardare è contenuto nella natura stessa dell’atto cinematogra co e il regista lo declina – ancora una volta – in senso naturalista. La domanda da porsi non è quindi perché “spia” queste ragazze, ma un’altra: che di erenza c’è tra uno sguardo che osserva i giovani di periferia, penetra un pranzo di famiglia, riprende la Venere sfruttata e registra queste scene di sesso? Nessuna, perché tutte fanno parte dello stesso discorso naturalista e il tabù è solo nell’occhio di chi guarda. Se Kechiche riproduce vari aspetti della vita, della condizione sociale e per no della Storia, si capirà allora come la sua ri essione non poteva che arrivare al nostro lato più intimo: la sfera sessuale. Il lungo accoppiamento fa rima con i parenti che mangiano il cous cous con le mani nel grande pranzo di famiglia: sono due visioni dello stesso occhio. Quanto alla presunta gratuità, essa viene smentita dalla funzione precisa che la scena svolge nell’impianto narrativo: ci dice che la storia tra le ragazze è iniziata. A prova ulteriore di queste ri essioni, basti prestare attenzione alla chiusura della macrosequenza: alla ne Adele, intrecciata ad Emma, tocca la pelle dell’amante e il primo piano del suo volto tradisce una lacrima. Il corpo torna sentimento, il tangibile si fa intimo, confermando come nello sguardo onnicomprensivo del regista rilevi alla stessa misura sia la carne che l’anima. Adele dunque si “schiude”. Quello della ragazza, dopo la scoperta dell’amore, è un vero e proprio sbocciare, che Kechiche rappresenta dall’interno del racconto: le due tornano sulla stessa panchina, il luogo della prima uscita, ma stavolta si baciano, la scena si completa e il regista le risarcisce per quell’incontro rimasto in sospeso. Il gesto di
baciarsi si consuma in controluce, con un raggio di sole che penetra in mezzo a loro, a sottolineare visivamente una nuova condizione, una sorta di sole interiore. Kechiche frequenta l’archetipo di una situazione, rischia l’eccesso melò e per no la svenevolezza (due amanti si baciano tra i raggi del sole), ma grazie alla sua tessitura sabota lo stereotipo e rende lo scenario plausibile e “vero”. Il culmine della realizzazione di Adele arriva però nella scena della festa di compleanno, quando lei balla I Follow Rivers di Lykke Li e il racconto tocca il sublime: essa si libra soave e Kechiche la cattura con la macchina da presa, attraverso continui cambi di prospettiva, s orandola per frammenti. Si forma un momento ine abile, tra i più alti dell’autore, che intona un canto alla scoperta di sé e alla libertà: un invito a seguire i propri umi, scritto nell’accoppiamento tra immagine e musica che ricorda il cinema di Phillippe Garrel nei suoi sublimi momenti danzati (come This Time Tomorrow dei Kinks in Les amants réguliers, 2005). A seguire le ragazze partecipano a una manifestazione del movimento per i diritti civili, ballando amabilmente tra loro. Nella prima parte del racconto il rapporto trova una realizzazione felice: ma in ogni paradiso gradualmente si insinua il serpente, che qui ha l’aspetto della strisciante di erenza tra le due. Kechiche semina segnali: da una parte Emma porta a casa Adele, svelando un contesto in cui i genitori accettano serenamente l’omosessualità della glia e considerano Adele la sua compagna; al contrario, nella famiglia dell’altra, l’essere gay non viene nemmeno concepito ed Emma è presentata in altra veste, come un’amica che dà ripetizioni di loso a. Nel secondo caso le giovani devono nascondersi per amarsi: torna il tema dell’omosessualità occultata – o considerata tacitamente inesistente – da una parte del tessuto sociale che non riconosce diritto di cittadinanza. In tal caso è un nucleo di periferia che il regista tratteggia senza ipocrisie, esattamente come gli adolescenti all’uscita di scuola, quelli che insultano Adele urlandole “lesbica”.
La di erenza tra le due è quindi anche famigliare. L’altro morso del serpente a onda nel gap culturale che inevitabilmente comincia a chiedere conto: “Forse andando avanti con gli studi troverai qualcos’altro che ti piace”, dice Emma ad Adele, creando un equivoco dall’alto della sua condizione, e qui Kechiche bacchetta implicitamente un certo ambiente intellettuale, fatto di circoli chiusi che non capiranno mai le classi più basse. Adele non vuole continuare gli studi, è contenta così, vuole stare con Emma e preferisce il lavoro di maestra: di cile spiegarlo a un’amante che espone i suoi quadri in galleria. Detto in altri termini, Emma proietta il suo lavoro intellettuale su Adele: non sa uscire da sé, non si mette nei panni dell’altra, al contrario prova a trascinarla verso la propria condizione. Ma non tutti sono artisti, e un impiego come l’educazione dei bambini non è meno dignitoso di dipingere una tela, anzi: sono proprio gli artisti che non capiscono, e inconsapevolmente spingono Adele in un angolo. La tendenza è evidente nella sequenza del ricevimento in giardino in cui la ragazza si ritrova ad o rire tartine, come una cameriera qualsiasi, perché in quel contesto non sa interagire e il contesto non le viene incontro, incapace di abbracciare una persona semplice, non riuscendo a guardare oltre il proprio ombelico. La dinamica conduce a un’altra ri essione sul racconto: La vita di Adele è anche una storia d’amore “normale”. Se da una parte il titolo fa certamente parte del cinema queer, inserendosi con forza nei grandi lm a tematica LGBT+ del nuovo millennio, dall’altra le tappe del rapporto tra ragazze sono quelle di tutte le relazioni: innamoramento, idillio iniziale, intesa sessuale, emergere dei problemi, avanzare dell’abitudine, tradimento e in ne rottura. Quante coppie sono state distrutte da un presunto senso di superiorità dell’uno nei confronti dell’altro? È davvero importante se sono etero o gay? È chiaro che Kechiche racconta l’amore tra due ragazze, che non potrebbero mai essere sostituite da un uomo e una donna, anche e soprattutto per la sua ricerca naturalistica
sui corpi femminili, ma è altrettanto vero che le dinamiche del prendersi e lasciarsi si o rono come universali. Rappresentando la coppia gay con gli stessi problemi di tutti, senza di erenze, l’autore con intelligenza rende la storia ancora più universale, ponendoci davanti uno specchio dell’amore in cui ognuno di noi può ri ettersi e riconoscersi. La seconda macrosequenza di sesso viene costruita in modo simile alla prima: ambientata a casa di Emma questa serve per ra orzare il legame, assodare l’avvenuta felicità sessuale delle ragazze che ri ette la compiutezza del sentimento. Se la prima scena arriva all’inizio della storia, per sancirne l’avvio, questa invece ne certi ca l’acme, il punto più alto, che col senno di poi verrà rivisto con strisciante malinconia: è anche l’inizio della ne. Quando sei sulla vetta, lo sa bene Kechiche, non puoi fare altro che iniziare la discesa: così l’amore inizia a s lacciarsi per la congiuntura di elementi negativi, e proprio in quel momento Adele viene corteggiata da un collega dell’asilo, Antoine interpretato da Benjamin Siksou. La ragazza omette di vivere con una donna, è ancora intimorita dal giudizio altrui, conscia della propria diversità e “maleducata” a vivere l’omosessualità al riparo dal mondo. Il condizionamento sociale, il luogo da cui veniamo e la nostra mente sono indissolubili. Così Adele, trascurata da Emma che preferisce gli amici artisti, consuma il tradimento. Costretta a fare la comprimaria nella disputa tra Klimt e Schiele, lei che ascolta Bob Marley, sempre in disparte nelle serate di Emma (alla ne di una confesserà: “Sono talmente colti che mi sono sentita a disagio”), Adele trova riparo nell’unico spazio che glielo o re, un rapporto etero: ancora una volta non è amore, come accadeva all’inizio, ma un rifugio per la giovane gay ormai fuori luogo altrove. Per simboleggiare il progressivo sfaldarsi della coppia Kechiche si a da a un colpo di genio: Emma che cambia il colore dei capelli. Léa Seydoux, inizialmente tinta di blu, torna al biondo naturale: il segno gra co muta la sua eccezionalità,
elimina quel “colore caldo” che era nel titolo della graphic novel e nel nome di lavorazione del lm. Il cambio cromatico è il preludio alla rottura. Qui Kechiche trova un altro grande topos cinematogra co a cui applicare il suo naturalismo: la break-up, la rottura della storia d’amore. La prova generale era avvenuta in Cous Cous, nel pianto disperato dell’attrice Alice Houri davanti al tradimento del marito. Quel pianto viene “aumentato” in Adele che lo porta al parossismo. Nella seconda parte il racconto inscena una lunga lite: lo scontro si innesca perché Emma ha scoperto il tradimento di Adele con Antoine, ed ecco scoppiare un litigio forte, insistito, magari acuito dall’egocentrismo dell’artista Emma che non accetta di essere tradita. Le ragazze urlano a lungo, Adele piange e si dispera, poi viene messa alla porta proprio tangibilmente, Emma la spinge fuori e non la farà più rientrare. In questa “piccola macrosequenza”, volutamente eccessiva, il regista alza il termometro del dramma e costruisce la scena in iperbole, esagerando ogni elemento a disposizione, portando al culmine un litigio selvaggio che rientra nella pratica naturalistica: la lite è come il sesso, le ragazze si mostrano “organicamente”, con lacrime che scorrono e nasi che colano. È il negativo del loro rapporto: nell’ambizione kechichiana di scandagliare ogni angolo della vita, dopo l’innamoramento, il sesso e la vita insieme non può mancare la scena di rottura. Nell’implicito della relazione Adele è così disperata perché si rende conto che sta perdendo qualcosa di importante: malgrado l’erosione della coppia e gli errori di entrambe, lei ama davvero Emma e sa che sta per dissolversi. A questo punto si apre l’ultima porzione del racconto, tutta imperniata sulla gura di Adele, che segue un doppio binario: c’è la profonda malinconia della ragazza per la perdita dell’amore, che coverà sempre sotto le ceneri, ma c’è anche la quieta consapevolezza di aver trovato se stessa. La dolce ripresa di Adele che fa il bagno
al mare, oltre ad anticipare il motivo balneare che sarà fondante in Mektoub, My Love, non fa altro che ribadire questo trovarsi: la giovane si immerge nell’acqua lasciandosi andare alle onde, è sola ma consapevole di sé. Anche il mal d’amore viene inscenato con naturalismo: la protagonista continua la sua attività quotidiana, a scuola con i bambini, ma piange spesso, dorme male, torna sulla loro panchina preferita. “Al cuore manca qualcosa”, direbbe Marivaux. Il re-incontro tra le ragazze, tempo dopo che si sono lasciate, è allora particolarmente struggente: lo slancio sentimentale di Adele viene frenato da Emma, perché ormai la storia è consumata, non torneranno insieme, la più adulta delle due ha sancito la ne, esclude il ritorno di amma. Forse il loro è un amore di gioventù, destinato a nire e proprio per questo più devastante, che nella sua parabola ricorda il lm contemporaneo che più lo ha tematizzato, a partire dal titolo, Un amore di gioventù di Mia Hansen-Løve (Un amour de jeunesse, 2011), con gli ex amanti che si rincontrano anni dopo passata la tempesta. Adele confessa ad Emma che le manca la sua pelle: le due iniziano a toccarsi, baciarsi, è l’ipotetico innesco di una nuova scena di sesso, ma l’istante resta interrotto. A costo di ripetersi: cos’è questa nostalgia dell’epidermide altrui, se non l’ennesima a ermazione di naturalismo? La sequenza si chiude con il lungo pianto “vero” della ragazza: come due erano le scene di sesso, sono due anche quelle di pianto, costruendo una rima interna tra la felicità di trovare l’amore e la disperazione di perderlo. Il regista deve quindi costruire un nale per la storia di Adele. L’opera, come detto, inizialmente prevedeva una continuazione, ovvero una seconda parte con altri “capitoli”, ma in realtà la chiusura sospesa prevista da Kechiche si addice perfettamente al lm unico, tanto da sospettare che in sede di stesura l’autore fosse già consapevole della di coltà di proseguire. Adele va alla mostra di Emma, nella galleria d’arte in cui rivede
l’immagine di sé, ovvero i quadri in cui è stata dipinta: anche se l’amore è nito in una sorta di struggente risarcimento qualcosa è rimasto, la sua gura sarà sempre impressa sulla tela. Adele si ritrova nell’ambiente artistico in cui era più volte smarrita, tra discorsi che le sono estranei, ma vedersi dipinta attesta anche la consapevolezza dell’esperienza passata: così la storicizza, per questo la giovane sorride alla ricerca di un’ipotesi di serenità. Adele incontra Sami, il gallerista di origine araba (ancora), e conversando con il ragazzo si forma timidamente la possibilità di un secondo amore: Adele lascia la galleria, si dirige da una parte, Sami prova a seguirla ma va in direzione opposta. Nell’ultima inquadratura lei si allontana in fuga prospettica, formando un movimento uguale e contrario a quello iniziale, quando usciva dalla porta di casa per andare a scuola: lì era un’adolescente ignara, qui è diventata donna. Ma attenzione: in uno dei pochi momenti di musica extradiegetica, mentre Sami cerca lo sguardo della giovane, prima di scegliere l’altra strada, ascoltiamo lo stesso suono del djembe che accompagnava il primo incontro tra Adele e Emma. Cosa vuole dire Kechiche? Che anche qui c’è il sospetto di un amore. Adele e Sami si troveranno? Prenderanno la stessa direzione? Nel naturalismo kechichiano il racconto nisce in sospeso, proprio come l’esistenza: il movimento altalenante della vita non ha un nale stabilito e dunque non può averlo il racconto. La vita di Adele ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes 2013, che fu assegnata insieme all’autore e alle due attrici. Se la regia di Kechiche è elemento imprescindibile, il risultato non si può scindere dalla prova delle protagoniste. Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux costruiscono infatti una chimica peculiare e irripetibile, frutto di lunghe prove e di una conoscenza reciproca che dopo uno s ancante lavoro arriva a toccare il famoso “splendore del vero”: sono vive, ci crediamo, stanno insieme e poi si lasciano, riescono nel miracolo di
abbattere il muro tra attore e personaggio, più che interpretare esse sono. Nel caso di Adele la sovrimpressione attrice-personaggio è scienti ca e totale: combaciano per no nel nome. Non stupisce che Kechiche, nelle ampie sessioni di casting, abbia scelto le due protagoniste entrambe per un motivo preciso. Così per Adèle Exarchopoulos: “Siamo andati in un bar, ha ordinato una torta al limone. Per il suo modo di mangiare mi sono detto: è lei”. Per Léa Seydoux: “Trovavo in lei qualcosa che potremmo de nire una certa ‘arabità’, qualcosa dello spirito arabo (…). Ha a che fare col nomadismo, col vagabondaggio, attiene alla malinconia, a quello che noi chiamiamo mektoub”13. Quasi super uo aggiungere che nella testa del regista il progetto Mektoub, My Love è già delineato. La vita di Adele porta la gloria a Kechiche ma non viene amato da tutti, anticipando in piccolo il feroce dibattito critico che circonderà il lm successivo. D’altronde ogni grande opera spacca il pubblico, polarizza le opinioni, impone il prendere o lasciare. Tralasciando le risibili polemiche sul supposto “sguardo maschile”, basti rilevare che l’occhio artistico di Kechiche è scoperto e si presenta come tale: è un regista etero che lma un amore gay tra ragazze applicando il suo naturalismo alla bellezza della carne. Il suo è, in de nitiva, un lm semplice: una storia d’amore che nasce, si consuma e muore. È anche il risultato più compiuto per un naturalista come lui: proprio in una storia letteraria la riproduzione della realtà arriva alla vetta. Abbiamo l’impressione di vedere Adele e Emma nella loro vita mentre avviene: nel momento stesso del suo farsi, in sé e per sé, non nella sua rimessa in scena. Ecco perché la disposizione dei termini nel titolo rispecchia uno statuto intimo e indica la direzione in cui dobbiamo guardare: prima ancora che Adele, qui viene la vita. I numeri di pagina si riferiscono all’edizione italiana Rizzoli Lizard, 2013 Le bleu d’Adèle, post sul blog di Julie Maroh, 27 maggio 2013
In italiano in edizione Rizzoli Intervista di Adbellatif Kechiche a Diretta News, 19 ottobre 2013
Capitolo settimo IL PROGETTO MEKTOUB, MY LOVE. DEL NATURALISMO PURO A un certo punto del loro percorso molti cineasti iniziano ad allestire il progetto della vita. Abdellatif Kechiche ha 57 anni quando gira il primo capitolo di Mektoub, My Love e continuando a sviluppare il suo piano arriva a superare i sessanta. Il tempo giusto per costruire l’opera de nitiva, quella che il regista potrebbe lasciare alla Storia e alla memoria cinematogra ca. Prima di entrarvi occorre ricordare almeno due aspetti: Kechiche è ormai considerato un “autore”, secondo la de nizione classica attinta alla critica novecentesca ma ancora attuale, come dimostrano – tra le varie – la copertina dedicata a Kechiche dai Cahiers du Cinéma in occasione dell’uscita de La vita di Adele (n. 693, ottobre 2013). Gli stessi critici avevano inserito La graine et le mulet al sesto posto tra i dieci migliori lm degli anni Duemila (n. 652, gennaio 2010). Il regista trova ampio spazio nella rivista autorialista per antonomasia, quello che teorizzò la politique des auteurs con il noto articolo di François Tru aut nel 1955 (e lo stesso Tru aut tornerà sulla strada di Kechiche, lo vedremo): è così che il franco-tunisino ottiene de nitivamente la patente di “autore”. Aggiungiamo poi che Kechiche aveva già provato a girare una serie di lm divisi per capitoli: Cous Cous poteva essere un sequel ideale de La Schivata, o per no di Tutta colpa di Voltaire, mentre più esplicitamente La vita di Adele doveva essere il primo di una serie, tanto da portare il titolo provvisorio di “capitolo 1 e 2”. Interpellato sulla natura di quel personaggio femminile, come accennato, Kechiche a ermava apertamente che “gli sarebbe piaciuto” adottare Adele come il suo Antoine Doinel, in riferimento al protagonista e alter ego di Tru aut incarnato da JeanPierre Léaud in cinque lm, che fu portato avanti per quasi vent’anni, dal dodicenne de I 400 colpi (Les quatre
cents coups, 1959) all’uomo maturo e divorziato ne L’amore fugge (L’amour en fuite, 1978). Se Adele è rimasta circoscritta nello spazio di un unico lm, invece l’Amin protagonista di Mektoub, My Love è davvero il suo Doinel. C’è poi un terzo elemento che riguarda l’evoluzione stilistica: nel corso del tempo, di lm in lm, Kechiche ha sviluppato il suo sguardo lasciando gradualmente l’orpello della trama per muoversi in direzione di un naturalismo “puro”. Certo, ne La vita di Adele un racconto in senso tradizionale c’era eccome (una storia d’amore), e guardando bene anche in Mektoub è presente una traccia di “trama”, intesa proprio come successione cronologica degli eventi. Ma la ricerca stilistica del regista ha ormai fatto un passo decisivo, da cui sembra impossibile tornare indietro: consegnarsi al usso, navigare nel mare aperto dell’esistenza, riprodurre la vita nel momento del suo farsi. Il paradosso è che il risultato naturalistico non ha nulla di naturale, anzi: è il frutto di una lunga e complicata costruzione. In premessa, a fugare del tutto i dubbi su come Kechiche faccia un lm, dissipando l’equivoco dell’improvvisazione che non c’è mai stata, intervengono le parole del direttore della fotogra a assoldato per Mektoub, l’italiano Marco Graziaplena: “La sua maniera è tutt’altro che naturalistica. Lui prova e riprova le cose nel dettaglio: sa esattamente a che ora va girata una scena. Può aspettare delle ore perché, ad esempio, sa che alle 5.27 ci sarà quel raggio di luce messo in un certo modo (…). Realizza una realtà a partire dal nulla”14. Su questo modo di lmare Graziaplena aggiunge anche un esempio concreto: “La scena girata nel quartiere in realtà non è una location reale. Tutto è stato rifatto: le luci per strada, i lampioni, i locali. Alcuni locali erano addirittura abbandonati. Non esisteva quasi nulla di ciò che si vede”. Viene così confermata, senza possibilità di appello, la lunga preparazione che sta alla base di ogni lm di Kechiche, di ogni sua sequenza, che raggiunge l’approdo naturalista dopo un lungo processo artefatto e un lavoro certosino di messa in scena.
Anche alla base di Mektoub, My Love c’è un libro: si tratta del romanzo La ferita, quella vera di François Bégaudeau (La blessure, la vraie, 2011)15, scrittore amato dal cinema e già consacrato da La classe di Laurent Cantet (Entre les murs, 2008), tratto dal suo omonimo romanzo e da lui anche interpretato, che vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes. La ferita, quella vera racconta l’estate del quindicenne comunista François, che si dipana nel 1986 in un paesino sulla costa francese: il giovane vuole fare sesso prima della ne delle vacanze, cerca la sua prima volta mentre osserva il migliore amico Tony, consumato donnaiolo, con un misto di ammirazione e invidia. François si divide tra varie ragazze alla rincorsa del suo obiettivo, e si innamora di una giovane turista di passaggio: è questo rapporto che inciderà la “ferita” che il narratore ormai adulto racconta molti anni dopo in ashback. Scritto in prima persona assumendo la prospettiva di François, il romanzo segue la sua parabola rendendo credibile la mente e il lessico di un adolescente, tra politico e venale, pensieri alti e occhi puntati sui corpi femminili: “I jeans stretti arrivano no a metà schiena e sagomano delle natiche che durante l’anno si sono estese tanto quanto i anchi. Le ragazze maturano più in fretta perché devono essere fecondate più in fretta, visto che possono fare solo un glio all’anno mentre gli uomini ne possono fare all’in nito. Gli uomini possono scopare di più e no a quando sono vecchissimi, la cosa complicata è iniziare”. È chiaro perché un romanzo del genere a ascini Kechiche, con il suo elemento carnale, la lente sul tempo dell’adolescenza, la durata tutto sommato ridotta (250 pagine) e quindi perfetta per essere dilatata. Lo prova la scena della discoteca: una manciata di pagine nel testo che dall’autore viene ingigantita in Mektoub: Canto Uno e diventa per no “quasi tutto il lm” in Mektoub: Intermezzo. Dall’altra parte è altrettanto palese come un libro del genere rappresenti un pretesto: Kechiche cancella la questione della militanza politica di François,
che a lui non interessa, e rende il protagonista arabo, ovvero un beur che si chiama Amin, glio di migranti sul territorio francese. E soprattutto aumenta i tempi a dismisura: ciò che avviene in due pagine può conquistare un ampio minutaggio, no a mettere alla prova la durata tradizionale che siamo abituati a sostenere nel buio della sala. Sono i lm più lunghi del regista: Mektoub, My Love: Canto Uno dura 181 minuti, Mektoub, My Love: Intermezzo arriva a 212 minuti nella versione presentata a Cannes 2019 in concorso. Inoltre, rispetto al punto di origine di Bégaudeau, Kechiche divaga e inventa molti episodi, dirazza no a conservare solo una vaga ombra della fonte: insomma usa ancora un libro per tradirlo e andare dove preferisce. Ciò che resta davvero intatto, nel rapporto tra romanzo e lm, è l’ipotesi autobiogra ca: François Bégaudeau crea un protagonista che porta il suo nome, François, suggerendo la possibilità che sia un’estate dello scrittore piuttosto che del personaggio. Allo stesso modo Kechiche ripone in Amin l’ennesimo se stesso. Il ragazzo interpretato da Shaïn Boumedine di nuovo assomiglia a Kechiche da giovane (basta riguardare i suoi lm da attore), è un meticcio di seconda generazione, fa il fotografo e vuole essere regista: n troppo facile riconoscere nell’atto di scattare fotogra e e nell’ambizione alla regia lo stesso mestiere dell’autore. Ma, se la traccia è evidente, sarebbe eccessivo sovrapporre esattamente regista e protagonista. Il punto del progetto Mektoub, come vedremo, è un altro. Partiamo dal titolo. Spiegando la scelta di Léa Seydoux nel ruolo di Emma, Kechiche già citava il concetto di mektoub, a ermando che proprio questa sensazione aveva rinvenuto studiando il volto dell’attrice: “Ha a che fare col nomadismo, il vagabondaggio, attiene alla malinconia” (capitolo sesto). Anche se l’idea non è esattamente presente nella cultura occidentale, con una dose di approssimazione mektoub potrebbe essere tradotto in “destino”: non è però un fato statico né segnato in partenza, bensì un destino in movimento, in perenne
formazione ed evoluzione, che deriva appunto dall’elemento nomade intrinseco nella cultura araba. E il mektoub non arriva certo adesso, ma innerva tutto il cinema di Kechiche, che di movimenti è pieno: la migrazione di Jallel in Tutta colpa di Voltaire, il peregrinare del personaggio a Parigi che è un moto continuo e centripeto; il muoversi irrequieto dei ragazzi de La schivata con la loro lingua di periferia; il lungo movimento nale di Cous Cous, in cui Slimane perde motorino e cibo nendo metaforicamente vittima del mektoub, un vagabondare qui drammatico; i balli e gli spostamenti tra Stati della Venere nera, segnata da un mektoub tragico; il destino di Adele, struggente e irrisolto, perché mektoub per estensione può rappresentare anche un’intera vita. Niente di nuovo quindi nell’installare il termine nel titolo del racconto più ambizioso del regista. Il lm doveva chiamarsi inizialmente Mektoub is Mektoub, ma poi Kechiche ha deciso per una scelta diversa: al destino a anca l’amore. Il “mektoub, amore mio” assume da subito un doppio signi cato. Da una parte il cineasta vuole suggerire che sarà l’amore a dominare questi lm, come nel precedente era la vita, un amore inteso non come ipotesi di coppia ma come sentimento complessivo verso qualcosa, per esempio l’amore di Amin per la fotogra a. Dall’altra parte il titolo prevede anche “my love”: l’inserimento dell’aggettivo possessivo fa sospettare un’appropriazione del concetto da parte dell’autore stesso. E se il mektoub fosse un amore di Kechiche? Tutto sommato il nomadismo, il vagabondaggio, insomma il movimento è ciò che il cineasta ha sempre cercato nel suo processo naturalista di ricostruzione della realtà: siamo allora di fronte al lm de nitivo, ci sta dicendo, quello che porta la strategia a compimento. Il mektoub anche come naturalismo, dunque, come rappresentazione del gesto stesso di fare cinema secondo Kechiche: muoversi in senso naturalista. Accade spesso nelle sue opere: l’inizio di Mektoub, My Love: Canto Uno è già programmatico. Il racconto si apre
con Amin in bicicletta che si reca a casa dell’amica Ophélie (Ophélie Bau): viene ripreso in controluce, secondo un espediente che l’autore aveva usato molto ne La vita di Adele, stagliando le gure davanti al sole per ottenere un e etto peculiare, spezzare il raggio naturale con l’“ostacolo” del corpo del protagonista. Risultato che – come a erma Graziaplena – può essere dovuto a un lungo e paziente appostamento in attesa di un movimento della luce in una precisa ora del giorno. Qui interviene una doppia citazione in esergo. La prima dalla Bibbia, tratta dal Vangelo di San Giovanni, verso 9.5: “Dieu est la Lumière du monde” (Dio è la Luce del mondo). La seconda proviene direttamente dal Corano (24.35): “… Lumière sur Lumière, Dieu donne Sa Lumière à qui il veut” (Luce su Luce, Dio dà la Sua Luce a chi vuole). Il cinema meticcio di Kechiche fa un passo avanti religioso: mescola Bibbia e Corano. Un gesto che sintetizza mirabilmente parte della sua poetica, e non stupisce: d’altronde egli ha sempre mescolato la cristianità francese all’arabità migrante dentro i suoi personaggi. Lo stesso Amin di Shaïn Boumedine è l’ennesimo francese di seconda generazione. Ma c’è altro in questa citazione: in apertura ci viene suggerito che qui si parla di sacro. Come alcuni critici hanno notato, infatti, la ripresa dei corpi per Kechiche è una liturgia (non a caso si parla di Canto): lungi dal proporsi come una mera esibizione di epidermide, la sua si o re invece come “preghiera ai corpi”, in una loro esaltazione quasi trascendentale che ne ammira la bellezza e la luce restituendole, proprio attraverso inquadrature lunghe, insistite e anche s ancanti. Con questo procedimento le forme generose di Ophélie Bau che ricorrono nel lm sono anche “sacre”. Il racconto è ambientato a Sète nell’agosto 1994, spostato in avanti di otto anni rispetto al romanzo di riferimento. Torniamo nella piccola città portuale nel Sud della Francia, adagiata tra Marsiglia e la Spagna in cui Kechiche aveva girato Cous Cous; un luogo già cine lo, lo stesso in cui Agnès Varda sessant’anni prima aveva ambientato il
debutto La Pointe Courte (1955), storia di una coppia parigina che va in vacanza e mette alla prova la relazione, un altro racconto sul sentimento, oggi ritenuto titolo fondamentale per la genesi della Nouvelle Vague16. Anche in Kechiche i ragazzi si ritrovano in villeggiatura: Amin va a casa di Ophélie, sua vecchia amica, e la storia si apre con una sequenza di potente voyeurismo. La giovane sta facendo sesso, Amin inizialmente ignaro la spia dalla saracinesca e così può vedere l’intero rapporto. Riprendendo l’esperienza della macrosequenza sessuale sviluppata ne La vita di Adele, il regista apre il racconto in medias res trascinando subito lo sguardo dentro una scena erotica, alla maniera di Adele e Emma. Gli amanti che si baciano vogliosamente e “organicamente”, come già nel lm precedente, registrando in modo naturalista il graduale raggiungimento del piacere da parte di lei. In più c’è una novità: un personaggio che guarda. Fin dall’inizio Amin è quindi un osservatore. Con questo espediente, al solito non gratuito ma integrato nel tessuto narrativo, non solo si vuole presentare Ophélie e la sua condizione, ma si dice molto sulla gura centrale di Amin: è colui che guarda gli altri, che preferisce non entrare in attività e restare in posizione di osservazione, perché il suo punto di interesse sta da un’altra parte, non a caso ama scattare foto. Quanto a Ophélie, è una bellissima ragazza dalle forme giunoniche e una certa “arabità”, giovane donna con alcune potenzialità ma incostante e traditrice: poco dopo scopriamo che ha appena consumato il rapporto con un amante, mentre il danzato è lontano. Per il suo personaggio femminile Kechiche ripete la sovrimpressione già eseguita con Adele: l’attrice si chiama come il personaggio, Ophélie Bau diventa Ophélie, è un indizio della strada naturalista che si vuole ulteriormente percorrere. Il carattere di Ophélie non è simile ad Adele, per certi versi sono per no antitetici (una giovane gay innamorata contro una etero piena di amanti), ma la loro rappresentazione da subito prevede un’assonanza: anche Ophélie, come Adele, rientrerà nel discorso naturalista
dell’autore applicato al corpo femminile. L’amante è Tony, interpretato da Salim Kechiouche, cugino di Amin e donnaiolo tenace: tanto il protagonista è riservato e introverso, quanto il cugino è instancabile nell’approcciare tutte le ragazze a disposizione nel periodo estivo. Il loro rapporto ricrea quello del romanzo tra François e Tony, ma in modo più complesso e con una variazione profondamente kechichiana: i ragazzi sono di origine araba. Nel fondamentale inizio Amin si pone nella posizione di chi guarda, osserva la scena di sesso ma solo per farci scoprire che è interessato ad altro: egli è estraneo a quel mondo, si tira fuori dall’erotismo post-adolescenziale dell’estate, dalla frivolezza da bar a cui partecipa quasi per inerzia. Amin ha un debole per Ophélie, è evidente n dall’inizio, dagli sguardi del giovane sul volto e sul corpo della donna, spesso restituiti attraverso soggettive: ma è un interesse molto diverso dalle amenità di stagione, dalla girandola dei corpi che si innesca nella cittadina. Per Amin si potrebbe piuttosto dire che Ophélie è una musa: il suo sentimento appare più profondo e strati cato, tanto che le chiede di posare per lui per delle foto di nudo. Mentre Ophélie si districa tra gli amori estivi Amin la osserva, diviso tra l’incapacità di partecipare al gioco e il mancato interesse a prenderne parte: vuole fare il regista, come detto, ha già scritto una sceneggiatura inviata a dei produttori. Nella prima scena insieme, ricomposto l’imbarazzo di Ophélie, i due bevono birra e mangiano fragole: Kechiche non nasconde nulla, l’evidenza del suo racconto è sfacciata in senso virtuoso, perché pone l’intenzione tradotta in immagine davanti agli occhi senza ltri o maschere. Ecco quindi che le fragole sono simbolo di erotismo, che è esplosivo per la giovane e trattenuto per il suo timido amico. Ophélie confessa l’adulterio e chiede di non rivelare il segreto. Amin scatta foto, maneggia la macchina e insieme ricordano fotogra e del passato, rivelando un trascorso comune che resta sottinteso.
La storia introduce poi le altre due gure femminili: prima di tutto la bionda Celine (Lou Luttiau), ovvero l’altra ragazza al centro del racconto, che sicamente è un’antitesi di Ophélie. Bionda e sinuosa, magra al contrario della carnalità dell’altra, rappresenta un tipo diverso di donna che nel corso della sua traiettoria estiva incrocia più volte la prima, vi fa amicizia, addirittura si baciano come accade nella macroscena in discoteca. L’altra ragazza è Charlotte (Alexia Chardard), più timida e ingenua, che subito cade nella rete di Tony, in pochi tratti viene conquistata. Celine e Charlotte vengono approcciate proprio da Tony e Amin nella prima sequenza sulla spiaggia, che ri ette i caratteri dei ragazzi con le rispettive oscillazioni: Tony è il conquistatore esplicito, che azzarda e ferma le giovani, per poi fare il bagno con Charlotte, mentre Amin tenta di intavolare un discorso più serio con Celine senza particolare successo. A questo punto è utile sottolineare che una parte importante di Canto Uno si svolga sulla spiaggia: un’anticipazione si era avuta nella scena balneare de La vita di Adele dove, dopo una presa di consapevolezza, alla ne dell’amore la giovane si bagnava nelle acque lasciandosi galleggiare, mostrando così di trovarsi sulla strada per la conquista della propria autonomia. Di spiagge è pieno il cinema, soprattutto quello francese: in tal senso il riferimento principale di Kechiche nella costruzione del lm sembra essere Racconto d’estate di Éric Rohmer (Conte d’été, 1996). Nel “racconto morale” il personaggio di Gaspard, ra gurato in Melvil Poupaud, si districava fra tre ragazze proprio nella fatuità estiva, sulla spiaggia, a dandosi a un movimento perenne ma quasi casuale che portava in ne quell’esperienza ad avvitarsi nel nulla, rimanendo solo nella nestra di una stagione. Se Gaspard non ricorda Amin, ma è piuttosto simile a Tony (eppure meno concreto, più impalpabile e divagatorio), appare probabile che Kechiche abbia visto e amato quel lm, soprattutto in un aspetto che qui riproduce e ingrandisce: la sublime super cialità dei rapporti estivi.
La sequenza sulla spiaggia è poi per Kechiche l’ennesimo terreno su cui sviluppare il proprio naturalismo: cosa succede generalmente in quella situazione? Non si parla certo di massimi sistemi, piuttosto si chiacchiera di frivolezze, oppure di niente, si fanno discorsi vacui e si guardano i corpi delle ragazze. Come ogni estate. Ed è così che il regista mette in scena questi giovani: impegnati in un’oziosa routine in cui nulla accade ma nel frattempo scorre la vita, quella vacanziera segnata da pelle nuda e schermaglie rosa, da serate al bar e tresche di stagione. Se il rapporto tra Tony e Amin è ben presto de nito, con il cugino rubacuori che trascina il taciturno protagonista nelle sue scorribande, è proprio la costruzione dell’inquadratura a rendere la questione più complessa. Già nella prima parentesi balneare, infatti, mentre i due si parlano Amin lancia uno sguardo sulle gambe e i corpi delle ragazze – reso in soggettiva – che sono in costume al sole: anche in lui quindi, nel suo carattere introverso, in modo sotterraneo l’esposizione dell’epidermide genera un desiderio, per quanto sopito per dirigersi verso altre direzioni. Fondamentale notare, dopo l’esperienza de La vita di Adele, come Kechiche insceni le ragazze con una grammatica cinematogra ca molto simile a quella riservata alla protagonista precedente: inquadra volti e corpi delle due giovani, esegue primi piani sui visi e sulle labbra, cattura dettagli, come aveva fatto nella scena del parco tra Emma e Adele. Qui però è avvenuto uno scarto: se prima l’autore riservava la strategia alla nascita di una storia d’amore, qui invece la allarga a due ragazze appena conosciute, che non preludono ad alcun discorso sentimentale. In altre parole il suo stile di rappresentazione delle giovani donne viene esteso a tutto, anche alle ragazze incontrate per caso sulla spiaggia, in un’evoluzione che si libera della trama e dalla presunta centralità di alcuni personaggi rispetto ad altri. Il naturalismo si allarga a macchia d’olio abbracciando un’intera estate adolescenziale. La stessa sequenza serve anche per confermare le stimmate del personaggio di
Amin: rimasto solo con Celine, aspirante ballerina, egli parla di cultura e si o re di farle visitare Parigi, spiega il valore della fotogra a che è in grado di “catturare un istante”, insomma o re un segnale di marcata diversità rispetto al contesto, proprio mentre Tony e Charlotte si baciano in acqua. Anche se guarda il corpo di Celine che resta in costume, da cui è naturalmente attratto, ormai lo abbiamo capito: Amin è di erente dal resto del mondo. Come già evidenziato, il progetto più radicale di Kechiche passa per la rimozione della “storia” tradizionalmente intesa, ovvero come successione e concatenazione di eventi che compongono un inizio, svolgimento e ne. E prevede la dilatazione del tempo: non si tratta di un semplice allungamento, ma proprio di un’estensione potenzialmente in nita, in cui una singola situazione può occupare una sequenza (o una serie) di durata molto superiore alla sua apparente necessità narrativa, che viene quindi annullata. È la nuova convinzione stilistica che il regista ha raggiunto e qui sviluppa pienamente: un primo indizio sta nella macrosezione girata nel bar del paese. Un pugno di personaggi si raduna con la consueta indolenza. In primo luogo, come sempre in Kechiche, si tratta di uno spazio che mescola arabi, beur e francesi in un unico ambiente, una sorta di ritorno al locale galleggiante di Cous Cous ma in altra forma: se lì la mescolanza era la chiave per garantire alla famiglia araba un lavoro e quindi la sopravvivenza su suolo francese, qui c’è solo l’ozio estivo che passa tra battute sciocche, biliardino, birre e ragazze in un dolce far niente come da stereotipo della stagione. Kechiche abbandona Rohmer: siamo agli antipodi dei discorsi loso ci à la plage del maestro francese, seppure in ultima istanza super ciali e ricadenti puntualmente sui corpi; qui bere, ballare e provarci con le ragazze è l’unico obiettivo sin dall’inizio. L’autore ingrandisce la sequenza nel bar di Tutta colpa di Voltaire, dove Jallel conosceva la futura compagna: il regista comincia ad azzerare radicalmente i fatti e gon are i tempi, alla rincorsa del
movimento della realtà che vuole ricreare. Ecco allora che nel locale di Séte si svolge il primo ballo del lm, eseguito da Celine su una melodia araba, in cui la ragazza danza in modo sensuale e muove i anchi, mentre Tony balla con Charlotte. Da parte sua Ophélie osserva, rovesciando la posizione scopica della scena iniziale e ponendosi lei stessa nella parte di “quella che guarda”: vede soprattutto il suo amante Tony parlare e ballare con altre giovani. La cinepresa scivola uidamente da una coppia in movimento all’altra, no a passare su alcuni sconosciuti e tornare sui nostri personaggi che si scambiano partner a vicenda: insomma cattura proprio il moto e la traiettoria del reale, come un occhio che penetra in una situazione e la osserva, registrandola scienti camente, in un risultato che ancora una volta non va scambiato per “presa diretta” ma è frutto di preparazione, l’esito di prove ripetute. Il risultato della serata? Celine sembrava inizialmente destinata ad Amin ma nisce per baciare un altro ragazzo; l’introverso protagonista resta solo, ma non se ne cura in modo particolare. In questo prendersi e lasciarsi dei ragazzi, Mektoub, My Love si propone anche come teen movie sui generis, ovvero un racconto con protagonisti giovani d’estate riscritti in salsa post-beur: arabi di seconda generazione che ci provano con le ragazze francesi. È anche questo il melting pot secondo Kechiche. Nell’osservare l’estate fatua, i corteggiamenti con data di scadenza, non è lesa maestà pensare per no a certi titoli di Carlo Vanzina, soprattutto degli anni Ottanta: Mektoub è anche il Sapore di mare di Kechiche, dove all’ambizione sfacciatamente popolare e alla malinconia romantica vanziniana si sostituisce una forte visione d’autore, uno sguardo connotato e diretto in senso naturalista. Canto Uno è girato quasi interamente per macrosequenze, di durata minore o maggiore, che spesso presentano una strati cazione al loro interno, tra uomini e donne, giovani e maturi. È il caso della scena nel ristorante di famiglia, che o re un doppio livello: da una parte i giovani scherzano con le ragazze e Tony si vanta
con Charlotte; dall’altra la madre e la zia commentano la situazione tra loro e la donna rimprovera Tony per i continui ritardi. Così si alternano due piani, quello pubblico e privato, il latin lover e il glio, il donnaiolo individualista e sottilmente mitomane e il membro della grande famiglia araba trapiantata in Francia. Senza contare che amici incontrano altri amici, cugini di tutte le età si riuniscono tra loro: seppure meno dettagliata e psicologicamente approfondita rispetto a Cous Cous, anche questo è un vasto nucleo famigliare con gemmazione di volti, corpi e gure. Intanto Amin non perde occasione per connotare ulteriormente il suo personaggio: “Sei rinchiuso tutto il giorno al buio”, lo rimprovera la madre quando lo sorprende a vedere lm nella sua stanza, “dovresti stare in spiaggia a divertirti”. Eccolo, il contrasto tra l’essere e il dover essere: l’intorno non capisce Amin, ha di coltà a comprenderlo perché non va in spiaggia, non aderisce al teen movie estivo, al contrario prevede una vocazione artistica che spacchi il usso in costume. Amin preferisce sviluppare foto: lo fa nella camera oscura, in cui si materializzano le immagini di Ophélie, guarda e riguarda la ragazza, riproduce la sua gura come Emma dipingeva Adele e come gli studiosi con la Venere nera. È nelle sue mani che le immagini della giovane prendono forma, la “ricrea” in un atto d’amore che sottrae Ophélie alle sciocchezze estive e la riposiziona nel territorio della creazione artistica, facendone oggetto di ispirazione. Nella frivola realtà Ophélie racconta ad Amin dei suoi amanti, secondo il classico stereotipo dell’equivoco sentimentale; nello spazio dell’arte la musa Ophélie viene eternizzata da Amin per interposta immagine. Vale la pena sottolineare ulteriormente come le ragazze principali di Mektoub rispondano a caratteristiche precise: Ophélie e Celine, la mora e la bionda, la prima carnosa e l’altra magra e liforme. Un’opposizione allestita da Kechiche che però non è granitica, al contrario molto sfaccettata, tanto che nel successivo Intermezzo interverrà
nella partita la parigina Marie (Marie Bernard), in vacanza a Séte, con altre caratteristiche diverse. Ophélie e Celine sembrano opposte ma si rivelano a tratti speculari, si trovano e ballano insieme, per no si baciano. Ma nello sguardo di Amin – e dunque di Kechiche – è subito netta e indiscutibile la prevalenza di Ophélie: il suo corpo è un personaggio del lm. Il regista lo cerca e inquadra da ogni angolazione, intendendo il nudo iniziale come punto di partenza della sua esposizione, del canto rivolto alla sua gura, che nel secondo tassello culmina con una lunga ripresa di sesso orale. Ophélie viene seguita vestita, nuda, seminuda o in costume: è volutamente ripresa anche mentre si cambia i vestiti, per catturare un momento di nudità o la forma delle natiche. Se ripensiamo all’evoluzione del naturalismo kechichiano, incrociandola con la citazione biblica-coranica posta in esergo, ecco che siamo in grado di uscire dalla lettura della rappresentazione di Ophélie come semplice “esposizione del corpo femminile”: nell’ode che il regista le rivolge c’è lo sguardo di uomo verso la donna, c’è l’evocazione del desiderio erotico, ma c’è anche un elemento religioso, un senso del sacro. Come dimostrato da Amin che sviluppa la sua immagine fotogra ca, per Ophélie si tratta di venerazione, inquadrare il suo corpo è anche un sacramento. Per questo chi, nell’interpretazione dell’autore, si limita a sottolineare uno “sguardo maschile” è molto lontano da una possibile chiave di lettura del suo cinema che si trova da tutt’altra parte. Sempre per questo l’ipotesi di sacralità rinvenuta in Kechiche ha portato alcuni critici a paragonarlo all’ultimo cinema di Terrence Malick, alla “cattura” della natura da parte dell’autore americano, con cui Kechiche si è ritrovato nella competizione di Cannes 2019 (Mektoub, My Love: Intermezzo e il malickiano A Hidden Life). La lmogra a kechichiana è fatta anche di gure che ritornano, di volti che si ripresentano sotto un’altra veste: nel gorgo estivo vediamo apparire Camélia, la zia di Amin, interpretata da Hafsia Herzi, la stessa attrice che eseguiva
la danza del ventre di Cous Cous nella parte di Rym. La donna è ora cresciuta, ma resta un’attrice prediletta del regista che anche attraverso di lei costruisce un’ulteriore testimonianza del tempo che scorre: lo stesso corpo, ieri adolescente e oggi adulto, torna dopo aver acquistato esperienza e, seppure la sua sostanza di beur resti intatta (lo dimostra il ballo in discoteca), sottolinea dettagli e dispensa consigli. “Ti sei dimenticato di me?”, chiede la zia ad Amin, in una sorta di inside joke per kechichiani: impossibile scordarsi di lei dopo la danza sostenuta nel lm precedente. È uno “scherzo serio”, quello di Kechiche, che conferma come il suo cinema sia un universo unico, che si sviluppa di lm in lm ma compone sempre lo stesso mondo, in cui forme e gure sono le stesse o quasi, cambiano nome ed età ma si ripresentano collocandosi in un terreno autoriale che è uno spazio a sé. Di fronte al movimento dell’estate, come detto, Amin respinge l’immediato e si lancia alla ricerca della creazione artistica. Il racconto la concretizza nella trovata degli agnellini. Nella sequenza di Ophélie che li accudisce vediamo gli animali per la prima volta: proprio la nascita di un agnellino sarà il momento in cui Amin “trattiene l’attimo”, ovvero attraverso la pazienza dell’accostamento riesce a ottenere le fotogra e della venuta al mondo. Ophélie avverte Amin quando un agnello si trova in travaglio: la giovane spiega dettagliatamente come avviene un parto, proponendosi qui come “assistente” della ricerca artistica, come aiutante del fotografo. Essa resta sempre nell’alveo della super cialità ma così facendo lo risarcisce, sostiene la sua visione. L’aiuto di Ophélie ad Amin è il corrispettivo di un bacio, di una tresca estiva, è il loro contatto al di fuori della super cialità stagionale, per questo ancora più intimo e profondo. La strategia di Amin è wisemaniana, perché a lontane latitudini ricorda il metodo di Frederick Wiseman, inventore di un modo di fare documentario: posizionamento nel luogo prescelto, lunghi appostamenti, attese interminabili per interrogare il reale e ricevere in cambio il dono del momento. Così fa
Amin, che si muove nello spazio della nzione e sostituisce la fotogra a al cinema, ma nel suo fare rievoca il gesto artistico del cineasta di Boston. Il protagonista dà quindi corpo all’opposizione fondante che de nisce la sua persona e il rapporto col mondo: l’attimo contro il divenire, il usso dell’estate contro l’importanza dell’istante. L’impegno tenace di Amin per ottenere il singolo momento alla ne si concretizza: non è un caso che, dopo le foto, il giovane si presenti in discoteca e anche al bancone del bar continui a parlare dell’esito della sua ricerca, con un ribaltamento radicale rispetto ai codici previsti nel luogo di divertimento. Signi cativa è poi la sequenza che porta alla nascita: Amin aspetta di immortalarla ma nel frattempo si fa buio, la luce naturale cala e la cinepresa registra il progressivo tramonto a cui segue l’arrivo del crepuscolo, in silenzio, con l’appostamento di Amin che accarezza l’animale quasi a chiedere permesso di a errarne l’intimo. C’è qui un pudico rispetto per il momento del parto e la ricerca artistica che lo riguarda: il progressivo calare del sole introduce una sequenza silenziosa, animata solo dai belati, che si conclude con una vera nascita musicata dalle note di Mozart. Di nuovo si conferma la natura “religiosa” del progetto Mektoub e il senso del sacro che lo avvolge: una sacralità che, ovviamente per Kechiche, si trova sempre e rigorosamente all’interno della natura, come d’altronde il parto dimostra. Ma c’è un’altra possibilità di lettura: nel protagonista Amin che si apposta alla ricerca della realtà è impossibile non rintracciare il regista Kechiche, che fa esattamente la stessa cosa, e in questo appostamento attraverso il personaggio inserisce il suo metodo di lavoro. Se la semplicità kechichiana è sempre risultato di un processo complesso, ciò viene chiaramente metaforizzato nell’atto di Amin, che ottiene le sue fotogra e dopo una logorante attesa notturna: non è forse quello che fa Kechiche? Il sospetto è forte, tanto da poter leggere l’appostamento verso il parto come correlativo oggettivo di tutto il cinema del franco-tunisino.
La scena degli agnellini acquista una maggiore potenza narrativa perché viene alternata alla macroscena in discoteca. Questo momento, che nel romanzo prendeva poche pagine, si trasforma nella tipica macrosequenza del cinema di Kechiche: arriva dopo 140 minuti di lm e si apre proprio con Amin che entra in discoteca, dopo aver ottenuto il premio della fotogra a. Qui corpi, seni e natiche si muovono per circa venti minuti, spesso inquadrate in primo piano, le ragazze twerkano sul cubo, tutti ballano con tutti. Ancora una volta ci troviamo in una bolla temporale, ossia un tempo dilatato e insistito, eccessivo e ripetitivo proprio come una serata in discoteca: cosa si fa se non bere, parlare e chiacchierare continuamente per ore? Niente di più, lo sa bene Kechiche che reinstalla esattamente questo sullo schermo, con una ricostruzione scienti ca. Il risultato diventa tale proprio perché si tratta di una macrosequenza allungata e fuori misura, girata volutamente in iperbole, che contiene l’ambizione di far coincidere tempo del racconto e tempo del reale. Così è una discoteca e così Kechiche la trasporta nel suo naturalismo. Ecco perché vedere ballare questi giovani, così a lungo, è anche una dura prova rivolta all’occhio di chi guarda: lo spettatore medio, abituato a una diversa cronologia e a una scansione narrativa più tradizionale, è qui chiamato a rivedere le sue certezze e sostenere un’impostazione diversa, che per inscenare una serata tra giovani respinge la sintesi e sceglie la dilatazione. È come se dopo una prima lmogra a gradualmente naturalista il regista voglia s dare la sopportazione, tirare l’elastico, mostrare no a che punto è arrivato il suo discorso. A noi sta la scelta di accoglierlo o respingerlo, e soprattutto il privilegio di entrare nella rete di un naturalismo ormai ricco e pieno. È anche una scena di sintesi che raggruppa molti dei personaggi visti nora: Amin che tra i brani commerciali prova a raccontare la sua fotogra a; Ophélie che esalta le forme generose e si o re allo sguardo di tutti, anche dell’amico; Celine che interviene e danza provocatoria per
non perdere posizioni rispetto all’altra; Ophélie e Celine che si baciano tra loro; la zia Hafsia Herzi, che il regista riporta a ballare dopo la danza del ventre di Cous Cous, riscritta qui nella discomusic settantesca di You Make Me Feel di Sylvester. Ed è, questa, soprattutto una scena di contrasto che suona imprescindibile per a errare il senso del racconto: se prima abbiamo visto il giovane artista Amin al lavoro per comporre l’opera, ora assistiamo al suo ideale negativo, la leggerezza della discoteca in una notte d’estate. Non solo l’evidenza dell’attività che lì dentro si consuma, ma anche rumori e suoni si pongono in netto contrasto tra loro: i belati degli agnellini contro la musica disco, suggerendo così una contrapposizione esemplare tra l’estate di Amin e l’estate degli altri. Il Canto Uno si conclude con Amin che va a cercare la russa Anastasia, una giovane appena conosciuta, ma non la vede e si imbatte invece in Charlotte sulla spiaggia. Con lei nalmente si trova: dall’incontro casuale con la ragazza, ex amante delusa del cugino Tony, deriva un invito a cena. I due camminano insieme sulla sabbia, la macchina da presa resta ferma e li osserva allontanarsi in prospettiva, con un ultimo piano sequenza che porta ai titoli di coda. “Mi piacciono le cose semplici”, dice Amin, che con Charlotte semplicemente si trova. La ragazza è capace di sentimenti autentici, come ha dimostrato la precedente storia fallita: lontano dalla stagione estiva Amin si avvicina alla giovane meno frivola e forse meno bella del gruppo, certamente quella che si tira fuori dal meccanismo della leggerezza perenne, e proprio per questo nisce per colpire il protagonista. In ultima istanza Mektoub, My Love: Canto Uno è l’inizio dell’esperimento de nitivo di Kechiche, quello che riassume i temi del suo cinema, li contiene ed esalta, li porta al parossismo. Come accennato non è certo casuale la scelta del termine Canto: è un peana al naturalismo e all’adolescenza, che appunto “canta” sia la pelle esposta della giovinezza che la sua sostanza, la ricerca del proprio essere intimo e strati cato. Ancora una volta: carne e anima. Il proprio mektoub,
insomma: il destino contenuto nel titolo, ovvero la strada cercata da ognuno che è anche una forma di sentimento, l’amore del trovarsi, che qui Amin dopo 180 minuti intravede nell’inaspettato incontro nale. In un altro senso il racconto funziona anche come storia di un giovane che ri uta il frivolo e va alla ricerca dell’essenza, paradossalmente anch’esso come La vita di Adele potrebbe essere un lm “chiuso” con un nale sospeso, un lm che basta a se stesso. Al contrario dell’esperienza adeliana però il progetto Mektoub continua. Kechiche ha presentato in concorso al Festival di Cannes 2019 il secondo tassello, Mektoub, My Love: Intermezzo per la durata di 212 minuti. Il lm, pensato come capitolo a metà tra il primo e secondo canto (il titolo è di nuovo emblematico), allarga ulteriormente il discorso impostato in Canto Uno aumentandone anche il minutaggio. È incentrato su una drammaturgia scarna ed essenziale, con poche variazioni rispetto al primo. A Sète è la ne dell’estate: Amin sviluppa il suo rapporto con Charlotte, con la quale parla di letteratura e fotogra a. Al centro della scena viene proiettata Ophélie: la ragazza deve sposare il danzato Clement di ritorno dall’Iraq ma si ritrova incinta dell’amante Tony, è dunque chiamata a decidere se tenere il bambino o recarsi a Parigi per abortire. La macroscena in discoteca trova qui la sua quintessenza: Kechiche vi riporta i personaggi creando un “macrospazio” di circa due ore e mezzo, che comprende una lunga ripresa di cunnilingus sostenuta proprio da Ophélie con l’ennesimo amante. Accolto da una polarizzazione dei giudizi e dalle solite polemiche che si collocano in campo extracinematogra co, il problema di Intermezzo è stato un altro: dopo la proiezione cannense, in cui fu visto senza titoli di coda e con il carattere evidente di work in progress, il lm è scomparso dai ri ettori. Da una parte c’è una questione che riguarda la durata: Kechiche per l’ennesima volta si supera e gira il suo lm più lungo, con i 212 minuti che superano i 181 di Canto Uno, rendendo di fatto Intermezzo un’opera di
di cile vendibilità per le sale cinematogra che. Non ha aiutato poi la presa di posizione dell’attrice Ophélie Bau, che ha pubblicamente criticato Kechiche per non averle mostrato il lm prima della proiezione, con particolare riferimento alla scena di sesso orale di cui è protagonista. Così Intermezzo non è uscito neanche in Francia, quella di Cannes è rimasta la sua unica apparizione: è attualmente in piedi l’ipotesi di un nuovo rimontaggio del lm, a cui il regista potrebbe rimettere mano per consegnare una versione de nitiva che permetta la di usione, con il rischio però di operare cambiamenti che ne mutino anche il senso. Ad oggi non è dato conoscere il destino di Intermezzo. Speriamo non diventi il “ lm maledetto” del regista. A prescindere dal suo percorso accidentato, ciò che preme sottolineare è come il progetto Mektoub sia tutt’ora in pieno svolgimento: nelle intenzioni di Kechiche è previsto un Canto Due che ponga ne alla trilogia. Dopo aver visto circa sette ore e mezzo di girato, qualcosa si può dire senza timore di smentita: Mektoub, My Love è il culmine del naturalismo di Kechiche, un’opera-mondo in cui il regista porta la sua visione all’estremo, spacca il pubblico, è amato o detestato. Probabilmente sarà il gesto cinematogra co per cui verrà ricordato.
Tutta colpa di Voltaire, 2000
La schivata, 2003
Cous Cous, 2007
Venere Nera, 2010
La vita di Adele, 2013
Mektoub, My Love: Canto Uno, 2017
Mektoub, My Love: Intermezzo, 2019
Abdellatif Kechiche
Conversazione con Marco Graziaplena, Taxi Drivers (www.taxidrivers.it), 23 maggio 2020 In italiano edizioni Einaudi, 2018, pagg. 256 Tra gli altri in Cinema: cent’anni di storia di René Prédal, edizioni Baldini e Castoldi
FILMOGRAFIA TUTTA COLPA DI VOLTAIRE (2000) Titolo originale: La faute à Voltaire Produttore: Jean-François Lepetit Durata: 130’ Soggetto e sceneggiatura: Abdellatif Kechiche Interpreti: Sami Bouajila, Élodie Bouchez, Bruno Lochet, Aure Atika, Olivier Loustau, Virginie Darmon, Mustapha Adouani, Sami Zitouni, Carole Franck, Jean-Michele Fête, Manuel Le Lièvre, François Genty Fotogra a: Dominique Brenguier, Marie Spencer Montaggio: Anick Baly, Tina Baz, Amina Mazani Scenogra a: Quentin Prévost Costumi: Catherine d’Halluin Prima data d’uscita: 14 febbraio 2001 (Francia) Riconoscimenti: Premio Luigi De Laurentiis come migliore opera prima al Festival di Venezia 2000. Il giovane migrante Jallel arriva dalla Tunisia a Parigi, ngendosi algerino per ottenere il permesso di soggiorno. La permanenza sul suolo francese è segnata dalla volontà di integrazione, che si scontra con un ambiente respingente e ostile: incontrerà una banda di amici, stranieri come lui, con cui fare squadra. Avrà due relazioni sentimentali con due donne di cili. Quando il diritto alla felicità sembra a portata di mano, però, una serie di circostanze causano la sua espulsione dal Paese. LA SCHIVATA (2003) Titolo originale: L’esquive Produttore: Franck Cabot-David, Jacques Ouaniche, Charles Taris
Durata: 117’ Soggetto: Abdellatif Kechiche Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche e Ghalia Lacroix Interpreti: Osman Elkharraz, Sara Forestier, Sabrina Ouazani, Nanou Benhamou, Rachid Hami, Hafet BenAhmed, Aurélie Ganito, Carole Franck Fotogra a: Lubomir Bakchev Montaggio: Antonella Bevenja e Ghalia Lacroix Scenogra a: Michel Gionti Costumi: Maria Beloso-Hall Prima data d’uscita: 7 gennaio 2004 (Francia) Riconoscimenti: Premi César 2005 come miglior lm, miglior regista, migliore promessa femminile (Sara Forestier) e miglior sceneggiatura. Premio speciale della giuria e premio Fipresci al Festival di Istanbul 2004. Premio della giuria come miglior regista al Torino Film Festival 2004. Krimo è un adolescente di origine magrebina che vive nella periferia di una grande città. La sua classe per la recita di ne anno sta allestendo Il gioco dell’amore e del caso, una commedia settecentesca di Pierre de Marivaux. Quando Krimo vede la sua compagna Lydia in abito di scena, travestita da Lisetta, se ne innamora all’istante: farà di tutto per avere il ruolo di Arlecchino e recitare accanto all’amata, nella speranza di conquistarla. Intorno a loro scorre la vita quotidiana della banlieue. COUS COUS (2007) Titolo originale: La graine et le mulet Produttore: Claude Berri Durata: 151’ Soggetto e sceneggiatura: Abdellatif Kechiche Interpreti:
Habib
Boufares,
Hafsia
Herzi,
Farida
Benkhetache, Abdelhamid Aktouche, Bouraouïa Marzouk, Alice Houri, Leila D’Issernio, Abelkader Djeloulli, Olivier Loustau, Sabrina Ouazani, Mohamed Benabdeslem, Bruno Lochet, Cyril Favre, Sami Zitouni, Mohamed Karaoui, Henri Rodriguez, Nadia Taoul Fotogra a: Lubomir Bakchev Montaggio: Ghalia Lacroix Scenogra a: Benoît Barouh Costumi: Maria Beloso-Hall Prima data d’uscita: 12 dicembre 2007 (Francia e Belgio) Riconoscimenti: Gran premio della giuria ex aequo con Io non sono qui, premio Marcello Mastroianni per la migliore interpretazione femminile (Hafsia Herzi), premio Fipresci al Festival di Venezia 2007. Premio Louis-Delluc 2007. Premi César 2008 come miglior lm, miglior regista, migliore sceneggiatura e migliore promessa femminile (Hafsia Herzi). Premi Lumière 2008 miglior regista e migliore promessa femminile (Hafsia Herzi). Slimane è un sessantunenne magrebino che lavora come portuale nella città di Sète. Quando il suo principale gli riduce l’orario di lavoro, egli è costretto a lasciare per l’impossibilità di garantire la sussistenza alla sua grande famiglia. A quel punto, con il sostegno dei suoi cari, si lancia nella realizzazione di un sogno: aprire un ristorante galleggiante specializzato nel cous cous di pesce. Insieme alla gliastra Rym inizia un percorso nella burocrazia per ottenere i permessi necessari. SUEUR (2008) - Mediometraggio Titolo originale: Sueur Durata: 44’ Destinazione: contenuti speciali Dvd La graine et le mulet Versione estesa della danza del ventre eseguita da Rym nel
nale di La graine et le mulet. ON BOSSE ICI! ON VIT ICI! ON RESTE ICI! (2010) coregia Durata: 4’ A cura del Collectif des Cinéastes Pour les Sans-Papiers Cortometraggio per chiedere al governo francese la regolarizzazione dei lavoratori migranti, rmato da 320 registi. VENERE NERA (2010) Titolo originale: Vénus noire Produttori: Charles Gillibert, Marin Karmitz, Nathanaël Karmitz Durata: 162’ Soggetto: Abdellatif Kechiche Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche e Ghalia Lacroix Interpreti: Yahima Torres, Andre Jacobs, Olivier Gourmet, Florian Sanson, Mathieu Menut, Elina Löwensohn, François Marthouret, Michel Gionti, JeanChristophe Bouvet, Jonathan Pienaar, Rémi Martin, JeanJacques Moreau, Cyril Favre, Dominique Ratonnat, Didier Bourguignon, Ralph Amoussou, Alix Serman, Patrick Albenque, Paul Bandey, Olivier Loustau Fotogra a: Lubomir Bakchev Montaggio: Ghalia Lacroix, Albertine Lastera, Camille Toubkis Scenogra a: Florian Sanson, Mathieu Menut Costumi: Fabio Perrone Prima data d’uscita: 27 ottobre 2010 (Francia) Riconoscimenti: Premio pari opportunità al Festival di Venezia 2010 La storia vera di Saartjie Baartman, detta la Venere
ottentotta: nei primi anni dell’Ottocento la giovane di origine sudafricana viene esposta come fenomeno da baraccone in un freak show di Londra, a causa delle sue caratteristiche siche, perché a etta da steatopigia. Quando si trasferisce a Parigi, passando dalla periferia ai salotti borghesi, lo sfruttamento non cambia: continuerà ad esibirsi stavolta per i ricchi, scivolando nell’alcolismo e nella prostituzione no alla morte prematura. Il suo corpo verrà studiato post-mortem dalla comunità scienti ca. LA VITA DI ADELE (2013) Titolo originale: La vie d’Adèle Produttore: Olivier Thery Lapiney, Laurence Clerc Durata: 179’ Soggetto: Abdellatif Kechiche, tratto dalla graphic novel Il blu è un colore caldo di Julie Maroh Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche e Ghalia Lacroix Interpreti: Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche, Jérémie Laheurte, Aurélien Recoing, Catherine Salée, Benjamin Siksou, Mona Walravens, Alma Jodorowsky, Anne Loiret, Benoît Pilot, Sandor Funtek, Fanny Maurin, Maelys Cabezon, Samir Bella , Philippe Potier, Camille Rutherford Fotogra a: So an El Fani Montaggio: Camille Toubkis, Albertine Lastera, JeanMarie Lengelle, Ghalya Lacroix, Sophie Brunet Scenogra a: Julia Lemaire Costumi: Paloma Garcia Martens Prima data d’uscita: 9 ottobre 2013 (Francia, Belgio, Canada, Lussemburgo, Principato di Monaco) Riconoscimenti: Palma d’oro al Festival di Cannes 2013. Premio Fipresci al Festival di Cannes. Premin César 2014: migliore promessa femminile (Adèle Exarchopoulos), migliore attrice (Léa Seydoux), migliore sceneggiatura non
originale, miglior suono. Premi Lumiére 2014: miglior lm, miglior attrice (Léa Seydoux), miglior regista, migliore promessa femminile (Adèle Exarchopoulos). Premio Louis-Delluc 2013 come miglior lm. Indipendent Spirit Award 2014 come migliore lm internazionale. Adolescente alla periferia di una grande città, Adele si divide tra il liceo e la routine della giovinezza. Dopo la prima esperienza sessuale con un compagno di scuola, essa incontra Emma, una ragazza più grande con i capelli blu, scopre la propria omosessualità e nisce per innamorarsene perdutamente. È l’inizio di una storia fatta di sesso e tenerezza, slanci e incomprensioni, segnata in ultima istanza da un divario culturale: sconvolgerà la vita di Adele e insieme la porterà a trovare se stessa. MEKTOUB, MY LOVE: CANTO UNO (2017) Titolo originale: Mektoub, My Love: Canto Uno Produttore: Abdellatif Kechiche, Ardavan Safaee, Jérôme Seydoux Durata: 181’ Soggetto: Abdellatif Kechiche tratto dal romanzo La ferita, quella vera di François Bégaudeau Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix Interpreti: Shaïn Boumedine, Ophélie Bau, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Hafsia Herzi, Delinda Kechiche, Kamel Saadi, Hatika Karaoui, Meleinda Elasfour, Hamid Rahmi, Roméo De Lacour, Mohamed Souda, David Ribeiro, Sieme Miladi, Thomas Fessard Fotogra a: Marco Graziaplena Montaggio: Nathanaëlle Gerbeaux, Maria Giménez Cavallo Prima data d’uscita: 21 marzo 2018 (Francia) Riconoscimenti: Premi Lumiére 2019: migliore promessa femminile (Ophélie Bau).
Amin è un giovane aspirante sceneggiatore che passa l’estate a Sète, una piccola comunità di pescatori, per ritrovare la famiglia e gli amici di infanzia. Qui rivede Ophélie, la migliore amica e forse per lui qualcosa di più, insieme al cugino Tony, donnaiolo tenace che ha una relazione clandestina proprio con Ophélie, insieme a tanti altri ragazzi e ragazze. Amin a ronta l’estate tra spiagge, bevute e discoteche: ma lui è timido e introverso, non sembra interessato alla super cialità della stagione, vuole solo scattare le sue fotogra e. MEKTOUB, MY LOVE: INTERMEZZO (2019) Titolo originale: Mektoub, My Love: Intermezzo Produttore: Abdellatif Kechiche, Riccardo Marchegiani, Michel Merkt, Ardavan Safaee, Jérôme Seydoux Durata: 212’ – versione al Festival di Cannes senza crediti Soggetto: Abdellatif Kechiche tratto dal romanzo La ferita, quella vera di François Bégaudeau Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix Interpreti: Shaïn Boumedine, Ophélie Bau, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Roméo De Lacour, Marie Bernard, Hafsia Herzi, Kamel Saadi, Hatika Karaoui, Meleinda Elasfour, Dany Martial Fotogra a: Marco Graziaplena Montaggio: Nathanaëlle Gerbeaux, Luc Seugé Prima data d’uscita: Riconoscimenti: Amin sviluppa il suo rapporto con una ragazza, Charlotte, con cui ha molto in comune: i due parlano di arte e letteratura. Al centro della scena c’è però Ophélie: la giovane sembra destinata a sposare il danzato ma è incinta dell’amante, si ritrova di fronte a un bivio. Dovrà decidere se abortire o tenere il bambino. Intanto la vita dei ragazzi continua con le attività giovanili, tra cui spicca
sempre la discoteca, luogo in cui Ophélie intrattiene un lungo rapporto orale con l’ennesimo partner.
BIBLIOGRAFIA AA.VV., Cous Cous su Gli Spietati, www.spietati.it, 12 gennaio 2007 AA.VV., Mektoub, My Love: Canto Uno su Gli Spietati, www.spietati.it, 7 giugno 2018 AA.VV., L’esquive, catalogo 22° Torino Film Festival, 2004 Azzano E., Le avventure minimaliste, recensione di Cous Cous, www.quinlan.it, 9 aprile 2007 Bégaudeau F., La ferita, quella vera, Einaudi, 2018 Bégin C., La bête à deux dos, Cahiers du Cinéma n.693, ottobre 2013 Bellavita A., Cannes 2013: il concorso, Segnocinema n. 182, luglio-agosto 2013 Bianchi P., Mektoub, My www.cineforum.it, 24 maggio 2019
Love:
Intermezzo,
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amore
di
Ophélie,
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RINGRAZIAMENTI Quella con Abdellatif Kechiche è una storia d’amore iniziata nel febbraio del 2005: quando, a ventuno anni, entrai in una sala cinematogra ca per vedere La schivata. Non è stato però un amore di gioventù: a di erenza delle piccole relazioni umane questa non è nita, anzi dopo l’incontro nella post-adolescenza la amma è cresciuta. L’idea di approfondire lo studio di Kechiche mi è venuta per la prima volta nel 2017, mentre preparavo una lezione di cinema per il corso “Oltre lo schermo” che si è svolto al cineclub Kino di Roma. Ho trattato Kechiche in una serata intitolata “Ricostruire la vita” con proiezione di clip, commento e dibattito con il pubblico: è giusto ricordare quell’esperienza e tutti coloro che vi hanno partecipato. Alcuni spunti sono stati poi sviluppati nel saggio “Kechiche dalla letteratura al naturalismo. La schivata e La vita di Adele: libro e lm allo specchio”, pubblicato su Cineforum n.578 dell’ottobre 2018, grazie ad Adriano Piccardi. A loro volta tracce del testo sono state riprese, estese e approfondite per poi nire in questo libro. Di Kechiche ho scritto più volte sulla rivista “Gli Spietati”, la cui redazione è sempre stata un’ottima palestra. Nel lavoro folle e resistente di critico molte sono le persone importanti, di continuo sostegno e scambio fertile: tra queste Alessia Astorri, Matteo Berardini, Gabriella Gallozzi, Francesco Grieco, Edoardo Peretti e tanti altri che non si o enderanno. I miei amici fuori dal cinema e dentro la vita sono tutti un grande lm, non li nomino, ognuno di loro può riconoscersi in questa citazione ideale. Il libro è dedicato alla memoria di mio padre Patrizio, credo ne sarebbe contento. Il ringraziamento più grande va a Roberto Lasagna, un maestro della critica, che ha accettato di curare la generosa prefazione.
C ine m a 1. Jean-Luc Douin, Dizionario della censura nel cinema. Tutti i lm tagliati dalle forbici del censore nella storia mondiale del grande schermo 2. Massimo Donà, Abitare la soglia. Cinema e loso a 3. Angelo Moscariello, Breviario di estetica del cinema. Percorso teorico-critico dentro il linguaggio lmico da Lumière al cinema digitale 4. Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942 5. Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca (a cura di), Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media 6. Thomas E. Wartenberg, Pensare sullo schermo. Cinema come loso a 7. Roland Quilliot, La loso a di Woody Allen 8. Andrea Panzavolta, Lo spettacolo delle ombre. Un itinerario tra cinema, loso a e letteratura 9. Francesco Ceraolo, L’immagine cinematogra ca come forma della mediazione. Conversazione con Vittorio Storaro 10. Luca Taddio (a cura di), David Cronenberg. Un metodo pericoloso 11. André Bazin, Jean Renoir 12. Andrea Rabbito, Il cinema È sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità 13. Alessandra Spadino, Pasolini e il cinema ‘inconsumabile’ Una prospettiva critica della modernità 14. Ra aele De Berti, Il volo del cinema. Miti moderni nell’Italia fascista 15. Valentina Re, Cominciare dalla ne 16. Damiano Cantone, I lm pensano da soli 17. Marco Senaldi, Rapporto con denziale. Percorsi tra cinema e arti visivee 18. Marco Boscarol (a cura di), Tetsuo: The Iron Man. Il cinema di Tsukamoto Shin’ya 19. Luca Cosci, Monica Innocenti, Abcinema: abbecedario della settima arte 20. Andrea Panzavolta, Passeggiate nomadi sul grande schermo. Saggi sul cinema da Ingmar Bergman a Tim Burton 21. Francesco Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità 22. Gianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. «Cinema&Film», «Ombre rosse», due riviste intorno al ’68 23. Cosetta Saba, Archivio, Cinema, Arte
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ction si maschera da
25. Stefania Schibeci, Le Phénomène de l’extase di Salvador Dalí. Surrealismo, fotogra a, montaggio 26. Roy Menarini (a cura di), Cinema senza ne 27. Ivelise Perniola, L’era postdocumentaria 28. Leonardo Gandini, Voglio vedere il sangue 29. Giancarlo Alviani, Un’aspirina e un ca è con Bernardo Bertolucci 30. Valentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e nzioni da Matrix a 1Q84 31. Alfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata. Contiene lettere e scritti di Elio Petri. Interventi di Go redo Fo , Franco Ferrini e Oreste de Fornari 32. Christian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotogra a nell’Italia degli anni Settanta 33. Sara Martin, Streghe, Pagliacci, Mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia 34. 34° Premio Sergio Amidei. Catalogo 35. Alessandro Cadoni, Il segno della contaminazione. Il lm tra critica e letteratura in Pasolini, Prefazione di Hervé Joubert-Laurencin 36. Andrea Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks. Piccola guida pratica al mondo di David Lynch 37. Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale 38. Deborah Toschi, La ragazza del cinematografo. Mary Pickford e la costruzione della diva internazionale 39. Marco Dalla Gassa, Orient (to) express. Film di viaggio, etno-gra e, teoria d’autore 40. Paolo Bertetto, Il cinema e l’estetica dell’intensità 41. Davide Persico, Decostruire lo sguardo. Il pensiero di Jacques Derrida al cinema 42. Nicola Dusi, Contromisure. Trasposizione e intermedialità 43. Alberto Castellano (a cura di), Paul Schrader. Il cinema della trascendenza 44. Fabrizio Fogliato, Fabio Francione, Jacopetti les. Biogra a di un genere cinematogra co italiano 45. Elio Ugenti, Immagini nella rete. Ecosistemi mediali e cultura visuale 46. Ryan Calabretta-Sajder, Divergenze in celluloide. Colore, migrazione e identità nei lm gay di Ferzan Özpetek
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68. Fiorella Bonafede, Il cinema di Carlo Battisti. La favolosa vacanza di un insigne glottologo nel mondo della celluloide 69. Christopher Hauke, Ian Alister (a cura di), Jung e il cinema. Il pensiero post-junghiano incontra l’immagine lmica 70. Stefano Usardi, La realtà attraverso lo sguardo di Michelangelo Antonioni. Residui lmici 71. Nicola Pasqualicchio e Alberto Scandola (a cura di), Francesco Rosi. Il cinema e oltre 72. Roberto Lasagna, Da Chaplin a Loach. Scenari e prospettive della psicologia del lavoro attraverso il cinema 73. Manuele Bellini, Gerogli ci e cinema. Il lm come “universale fantastico” 74. Antonio Rainone, Sergio Leone. Dal cinema popolare al cinema d’autore 75. Laura Busetta, L’autoritratto, Cinema e con gurazione della soggettività 76. Pietro Montani (a cura di), I formalisti russi nel cinema 77. Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano. Ovvero la rimozione di Dioniso 78. Stefano Calzati, Phillip Lopate, una vita allo schermo. Ri essioni sul cinema da un maestro americano del personal essay 79. Rinaldo Vignati, Indro Montanelli e il cinema. Un contadino toscano candidato all’Oscar 80. Leonardo Quaresima (a cura di), Cinema tedesco: i lm 81. Giacomo Calorio, To the digital observer. Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor 82. Luca Bindi, Jean Eustache: l’istante ritrovato 83. Roberto Lasagna, Benedetta Pallavidino, Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos 84. Gillo Pontecorvo, Il sole sorge ancora. Tra politica, giornalismo e cinema, a cura di Fabio Francione 85. Jurij M. Lotman, Semiotica del cinema e lineamenti di cine-estetica, Presentazione, traduzione e cura di Luciano Ponzio 86. Alfredo Rossi, Lontano dal cinema. Critica e feticismo, ideologia, psicoanalisi 87. Fabrizio Borin, Delitti senza castigo. Dostoevskij secondo Woody Allen 88. Francesco Rabissi, L’occhio politico e visionario del cinema italiano contemporaneo 89. Slavoj Žižek, Guida perversa al cinema d’autore. Da Psyco a Joker 90. Davide Persico, Blow-up e le forme potenziali del mondo
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