Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín 8868225328, 9788868225322

Da “Fuga” (2006) a “II club” (2015), da “Neruda” (2016) a “Jackie” (2017), passando per Tony Manero (2008), Post mortem

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Italian Pages 283 [286] Year 2017

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Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín
 8868225328, 9788868225322

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Collana diretta da Roberto De Gaetano

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MASSIMILIANO COVIELLO FRANCESCO ZUCCONI

Sensibilità e potere Il cinema di Pablo Larraín

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Frontiere. Oltre il cinema Collana diretta da Roberto De Gaetano Comitato scientifico Gianni Canova, Francesco Casetti, Ruggero Eugeni, Pietro Montani, Dork Zabunyan

Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di maggio 2017 per conto di Pellegrini Editore Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

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INDICE

Premessa Introduzione

pag. 7 » 11

I. NOTTURNO CILENO Disciplina e controllo Essere Tony Manero Post Mortem. Autopsia della Nazione Davanti alla dittatura, dentro la dittatura Logica della desaparición

» » » » » »

37 37 46 58 69 81

II. QUANDO IL PUBBLICITARIO È IL PROTAGONISTA Cercare l’uscita. Eterotopie della dittatura La costruzione dell’arcobaleno Marketing democracy Montaggi della Post-memoria Coda

» 89 » 89 » 93 » 103 » 122 » 130

III. CRITICA DELLA MORALE VITTIMARIA La casa dalle mura gialle Il ritorno di Sandokan Confessioni Sacrifici Il club, o della sospensione dei peccati

» » » » » »

139 139 145 153 164 173

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IV. IO (NON) SONO PABLO NERUDA Questo non è un biopic Il piacere dell’inseguimento Il desiderio della fuga Quiero castigo Per una teoria del racconto

pag. » » » » »

179 179 190 195 199 202

V. JACKIE, O DELLA “VISEITÀ” Campo e controcampo L’invenzione della Casa Bianca Zapruder’s Il funerale di Lincoln Camelot

» » » » » »

215 215 224 237 249 258

Filmografia

» 269

Indice dei nomi e dei film

» 277

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Premessa

PREMESSA

Allo sguardo non è necessario aspettare che un disegno sia veramente compiuto per poterne accompagnare la traiettoria. Questo libro non ricostruisce un fenomeno chiuso né racconta un processo concluso. Ha piuttosto la pretesa di restituire la dinamica del senso che caratterizza un’esperienza aperta. Si tratta di seguire un pensiero per immagini, in divenire: il cinema di Pablo Larraín, che si sviluppa attraversando i temi della storia e della memoria, la violenza di Stato, le forme contraddittorie e complesse della democrazia. Una filmografia che conta un numero limitato di opere e della quale già si intuiscono alcuni possibili sviluppi. Un lavoro, quello del regista cileno, che è una porta d’ingresso verso una storia traumatica, ma anche occasione per riaprire il confronto con la straordinaria tradizione letteraria, cinematografica e musicale del suo Paese. Un cinema del resto capace di spingersi ben oltre i confini del Cile e della sua storia. Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín si concentra sull’intera filmografia dell’artista cileno dal 2006 al 2016. Ogni capitolo è focalizzato su una o più opere, ma non a tutti i film e a tutte le produzioni intraprese dal regista, sceneggiatore e produttore viene riservata la stessa attenzione. Anziché preten7

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SENSIBILITà E POTERE

dere di esaurire un campo, si vorrebbe costruire un percorso attorno ad alcuni nodi concettuali che, da un film all’altro, tendono ad affermarsi. Pur affrontando temi e problemi metodologici che caratterizzano la storia e la teoria del cinema, questo lavoro nasce infatti dalla volontà di lavorare sulle singole opere per sviluppare un dialogo con quelle discipline che hanno condotto un’ampia riflessione sui temi della memoria storica e culturale del Novecento, sui traumi individuali e collettivi, su quanto di politico elude la definizione stessa del “trauma”. Scriverlo a quattro mani, un libro così, è amplificarne il carattere ibrido e l’apertura per restituire il piacere della condivisione e della discussione, il desiderio di andare a fondo, facendo incontrare l’analisi e la teoria, oltre la proiezione. Il libro si compone di un testo introduttivo e di cinque capitoli. Massimiliano Coviello ha scritto il primo paragrafo dell’introduzione, i primi quattro paragrafi del capitolo I, il capitolo III e il capitolo IV. Francesco Zucconi ha invece scritto gli ultimi due paragrafi dell’introduzione, l’ultimo paragrafo del capitolo I, il capitolo II e il capitolo V. Sul filo dell’imprimatur, desideriamo ringraziare il direttore della collana Roberto De Gaetano e Gianni Canova, Francesco Casetti, Ruggero Eugeni, Pietro Montani e Dork Zabunyan, membri del comitato scientifico, per aver generosamente accolto la proposta di questo libro. Nel corso degli ultimi anni abbiamo avuto occasione di condividere alcune parti di questo lavoro all’interno di convegni nazionali e internazionali. 8

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Premessa

Ci teniamo a ringraziare tutti gli organizzatori e, in modo particolare, Oscar Gómez, Rayco González, Tarcisio Lancioni, Jorge Lozano, Ágnes Pethő, Marcello Serra e Santos Zunzunegui. Molti amici hanno accompagnato e involontariamente partecipato al nostro lavoro di scrittura attraverso intense discussioni intraprese uscendo dal cinema o comunque attorno ai temi del libro: Luca Acquarelli, Maria Cristina Addis, Mario Coviello, Gabriela Lorena Gonzalez, Gianni Marenco, Daniele Salerno, Elsa Soro e Anna Tuli. Ringraziamo inoltre Barbara Bucci, Giovanni Careri, Alan Quaglieri, Vanessa Roghi, Andrea Speranzoni e Maria Rosaria Stabili per l’interesse che hanno manifestato nei confronti del nostro lavoro e per il generoso supporto. Grazie infine ad Alessandro Canadè, Giulia Romanin Jacur, Giacomo Tagliani e Luca Venzi per l’attenta lettura e i preziosi consigli. Siena-Parigi, maggio 2017

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SENSIBILITà E POTERE

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Introduzione

INTRODUZIONE

Cineteca Nacional La storia e la memoria del Novecento hanno segnato in profondità la produzione artistica del Cile. Un Paese capace di esprimere una straordinaria forza creativa in tutte le discipline artistiche, contribuendo all’elaborazione di un immaginario internazionale riguardante i valori della libertà e della giustizia sociale, il senso della resistenza e della lotta, l’emancipazione da ogni forma di schiavitù o sudditanza, la solidarietà, la passione per la vita. I cinefili e tutti quelli che coltivano una cultura cinematografica conservano un ricordo o hanno contezza della fase aurorale della cinematografia cilena: quegli anni sessanta in cui la fondazione della “Cineteca Nacional” e l’investimento da parte dei governi di Eduardo Frei e di Salvador Allende favorirono l’affermazione degli sguardi di registi come Aldo Francia, Patricio Guzmán, Miguel Littín, Raúl Ruiz, Helvio Soto e – per quanto da subito proiettato verso l’estero, assumendo la dimensione internazionale del surrealismo – di Alejandro Jodorowsky1. Per tutti

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Una rassegna delle voci, degli stili e delle tematiche che hanno

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SENSIBILITà E POTERE

loro, con il golpe del 1973, si aprirà la via dell’esilio e dunque il bisogno di ritornare, in forme diverse e più o meno esplicite, sul punto di rottura, sulle violenze subite, sulle vicende traumatiche del loro Paese. Come dimenticare i tre episodi che compongono La battaglia del Cile (1975-1979) attraverso i quali Guzmán – co-prodotto da Chris Marker – cercò di restituire le concause che portarono all’instaurazione del governo dittatoriale? E come non citare tra i capisaldi del cinema politico e, più in generale, di un “cinema della memoria” titoli molto diversi tra loro come Llueve sobre Santiago (1975) di Soto, Acta general de Chile (1985) di Littín – che con la sua impresa ispirò la penna di Gabriel García Márquez2 –, o ancora i più recenti Cofralandes. Rapsodia cilena (2002) di Ruiz e Salvador Allende (2004) dello stesso Guzmán? Oltre il cinema, e secondo una prospettiva storica di lungo periodo, il Cile è molto spesso identificato con la sua tradizione letteraria, il cui successo è planetario. Da Pablo Neruda a Luis Sepúlveda, da Antonio Skármeta a Isabel Allende, da Marcela Serrano a Roberto Bolaño, le ferite del Novecento cileno ritornano continuamente, come un dolore puntuale,

caratterizzato il cinema cileno tra gli anni sessanta e l’inizio della dittatura è contenuta in 10a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Materiali sul cinema cileno, “Quaderno informativo”, n. 61 (1974). Per una storia del cinema cileno, dal muto sino al nuovo millennio, cfr. Enfoques al cine chileno en dos siglos, a cura di M. Villarroel, LOM, Santiago 2013. 2

G. García Márquez, Le avventure di Miguel Littín clandestino in Cile, tr. it., Mondadori, Milano 1986.

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Introduzione

ben localizzato e universale al contempo. Il “notturno cileno” – al di là della straordinaria formula che dà il titolo al romanzo omonimo di Bolaño – diventa un tòpos letterario e culturale, un luogo notevole del pensiero nel quale è possibile tenere insieme la memoria traumatica, la meditazione lirica e la lotta politica. La produzione di Pablo Larraín, nato a Santiago nel 1976, si sviluppa a partire dal tema storico e politico che ha caratterizzato il suo Paese nel corso degli ultimi cinquant’anni. Dopo l’esperienza di Fuga (2006) – un film d’esordio dedicato a una partitura musicale maledetta –, la “trilogia della dittatura” si apre nel 2008 con Tony Manero, dove il protagonista vive un rapporto di identificazione ossessiva con il protagonista di La febbre del sabato sera (1977) di John Badham, mentre per le strade della capitale cilena imperversa la violenza e il terrore. A distanza di due anni esce Post Mortem (2010), che costituisce un ritorno all’11 settembre del 1973, il giorno del colpo di Stato compiuto dal generale Augusto Pinochet contro il governo socialista di Salvador Allende. Nel 2012 esce No - I giorni dell’arcobaleno, dedicato al Plebiscito del 1988 imposto dalla comunità internazionale per invitare i cittadini a confermare o destituire Pinochet: quella manciata di giorni in cui un gruppo di pubblicitari sfidò e sconfisse il regime con una campagna ottimista e semplificatrice, mettendo in secondo piano la denuncia delle atrocità dei decenni precedenti. L’esperienza della trilogia sta per concludersi quando Larraín firma alcuni episodi della serie tv Prófugos (2011-2013), prodotta da Fabula – da 13

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SENSIBILITà E POTERE

lui stesso fondata insieme ai suoi fratelli – e dalla divisione latinoamericana del colosso statunitense HBO. Una serie ambientata nel presente che narra la fuga, dal deserto di Atacama sino alla Patagonia, di un gruppo di narcotrafficanti: il mondo politico è macchiato dalla corruzione e il passato dittatoriale incombe sulle biografie dei personaggi. Con Il club (2015) – ambientato lungo la costa cilena dove un gruppo di parroci macchiatisi di pedofilia convive con i propri peccati – la produzione di Larraín subisce una parziale trasformazione e un’accelerazione. È soprattutto con questo film, che gli vale l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 2015, che il suo sguardo si proietta definitivamente oltre i confini temporali e spaziali della dittatura di Pinochet. È dunque nell’anno successivo che escono altri due film capaci di entusiasmare e spiazzare la critica e il pubblico. Il primo è Neruda (2016), dedicato al poeta e ai giorni più drammatici della sua vita, quando fu messo al bando dal presidente Gabriel González Videla e costretto alla fuga attraverso l’Argentina. Il secondo è Jackie (2016), ispirato agli eventi immediatamente successivi all’omicidio del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy e interamente concentrato sulla figura della first lady Jacqueline. Guardando con occhio esterno e superficiale la sua filmografia, si potrebbe dire che le opere di Larraín raccontano delle “vecchie storie”. Storie che si trovano scritte nei libri di scuola e che chiunque ha almeno una volta incontrato. Chi non ricorda l’immagine di un palazzo che brucia? Il palazzo presidenziale de La Moneda, bombardato 14

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Introduzione

dall’aeronautica militare cilena il giorno stesso del colpo di Stato. Un’immagine che ritorna, nei grandi documentari dedicati all’evento storico, come nei sussidiari scolastici. Un’immagine efficace, che funziona da mnemotecnica dell’evento e che a tratti sembra pretendere di esaurirne la complessità. Chi non ha mai sentito parlare del poeta Neruda, se non altro grazie a Il postino (1994) di Michael Radford e Massimo Troisi. E chi non ha mai visto il volto di Jacqueline Kennedy, i suoi abiti color pastello, il suo stile indimenticabile? Nelle pagine che seguono si cercherà di mettere in evidenza l’originalità del cinema di Larraín. Ciò che fa sì che delle “vecchie storie” possano recuperare un certo interesse, tornando a porre problemi e fare discutere. Ma, per quanto geniale, nessun regista sviluppa il suo sguardo a partire dal nulla e prima di concentrarsi sul suo cinema vale forse la pena spendere alcune parole sullo scenario cinematografico cileno degli anni duemila. Se solo qualche decennio fa bruciava sotto i bombardamenti, oggi La Moneda accoglie la “Cineteca Nacional de Chile”. L’eredità architettonica del colonialismo – l’architetto Joaquín Toesca iniziò negli anni ottanta del Settecento i lavori di costruzione del palazzo che fu la sede del conio coloniale e poi, sino agli anni venti del Novecento, di quello cileno –, la memoria politica del Novecento e la storia del cinema coabitano all’interno di un medesimo luogo. Grazie a una nuova legge – la cosiddetta “Ley de Cine” del 2004 – e grazie al lancio di numerosi festival, un nutrito gruppo di registi nati dopo il golpe ha iniziato a realizzare film. La critica li ha raggruppati 15

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SENSIBILITà E POTERE

sotto l’appellativo di “Novísimo cine chileno”3. Al di là dell’età anagrafica, che cosa accomuna cineasti come José Luis Sepúlveda (El Pejesapo, 2007), Elisa Eliash (Mami te amo, 2008), Sebastián Lelio (Navidad, 2009), Alejandro Fernández (Huacho, 2009), Alicia Scherson (Turistas, 2009) e Sebastián Silva (Affetti e dispetti, 2009)? Un primo elemento di continuità sembra essere costituito dal fatto che si tratta di produzioni realizzate con piccoli budget, in tempi brevi e mediante l’utilizzo di tecnologie digitali. Ma, al di là degli aspetti tecnici e produttivi, quanto emerge da una visione d’insieme è la “vocazione autoriale” di tali registi, interessati all’esplorazione del linguaggio cinematografico e a un suo utilizzo critico. In diversi casi, il passato della dittatura e la sua rievocazione costituiscono il perno narrativo. È questo il caso dei primi film di Larraín, ma anche di Machuca (2004) – ambientato nei giorni precedenti il golpe e diretto da Andrés Wood – e delle opere di found footage realizzate da Tiziana Panizza come Remitente: una carta visual (2008). Molto più spesso, le trame dei film sono collocate nel XXI secolo e affrontano le conseguenze e le persistenze della dittatura attraverso

3

Sulle vicende produttive connesse a questa ondata cinematografica, cfr. J. Saitta, Il cinema di Pablo Larraín, Il Foglio, Piombino 2015, pp. 9-10. Per una panoramica sugli autori e i film del “Nuovissimo cinema cileno”, cfr. El novísimo cine chileno, a cura di A. Cavallo, G. Maza, Uqbar, Santiago 2010; 49 Mostra Internazionale del Nuovo Cinema: Pesaro 24-30 giugno 2013, a cura di P. Armocida, Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus, Roma 2013.

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Introduzione

i sintomi ancora presenti negli spazi pubblici e in quelli privati4. In un’intervista del 1980, Ruiz definiva la memoria collettiva come ciò «che si racconta nella città e quello che la nazione racconta a se stessa» e segnalava, a tal proposito, l’attivazione di veri e propri «meccanismi di amnesia» anche da parte dei cineasti e di quanti lavorano all’interno dei mezzi di comunicazione di massa5. Laddove volge al termine la grande stagione dei registi cileni scappati in Europa o nel resto del mondo a causa del golpe del 1973, una nuova generazione tenta di riattivare il discorso pubblico. È forse questo il “Nuovissimo cinema cileno”. Larraín è l’autore della sua generazione che, con maggiore forza, ha saputo imporsi su scala internazionale. Se tutto inizia in Cile, il Cile resta un riferimento importante, ma non obbligato, non un vincolo per uno sguardo capace di indagare con la stessa efficacia tanto un quartiere di Santiago quanto la rivoluzione mediatica del Plebiscito del 1988, tanto l’universo chiuso nel quale vivono i protagonisti di Il club quanto gli spazi cosmici nei quali prende corpo la fuga di Neruda. Se la Cineteca Nacional è un luogo centrale, si vedrà bene come la produzione di Larraín arrivi a

4

Sul portato politico e memoriale del “Nuovissimo cinema cileno”, si veda C. Urrutia, Un cine centrífugo: ficciones chilenas 2005-2010, Cuarto Propio, Santiago 2013.

R. Ruiz, Non fare più un film come se fosse l’ultimo, in AA. VV., America Latina: lo schermo conteso, Marsilio, Venezia 1981, p. 214.

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SENSIBILITà E POTERE

mettere in discussione l’idea stessa di “nazione”, indagando i rapporti complessi che intercorrono tra locale e globale. Analizzare il suo cinema significa dunque identificare i punti di riferimento e le sferzate che definiscono una rotta a tratti imprevedibile. Provvisorio punto di arrivo: gli Stati Uniti d’America e, più precisamente, Dallas, 22 novembre 1963.

Le forme della storia e il corpus teorico Impressi nella memoria dello spettatore restano i fotogrammi in bianco e nero dell’attacco al palazzo presidenziale de La Moneda. È questa l’immagine sulla quale si tende a fare ritorno, l’immagine del Cile e del golpe militare che ha cambiato il corso della storia, sopprimendo l’esperimento politico e sociale di Allende. Se un documentarista come Guzmán e un artista come Alfredo Jaar – con il suo 11 de Septiembre 2013 (2013) – hanno fatto ricorso a tale sequenza, e se pure Ken Loach ha inserito tale footage all’interno del suo cortometraggio in 11 settembre 2001 (AA. VV., 2002), un’immagine sola non può di certo bastare a narrare la storia di un passato traumatico e a rendere proficuo il racconto. Allo stesso modo, nella memoria dello spettatore che entra in sala per vedere un film sulla first lady più celebre e discussa della storia degli Stati Uniti, sono le immagini a colori dell’attentato a John Fitzgerld Kennedy: lo “Zapruder film”, i ventisei secondi di cinema amatoriale più famosi del XX secolo; la testimonianza filmica dell’assassinio, realizzata per caso da un sarto americano con una cinepresa 8mm. 18

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Introduzione

Pur manifestando un forte interesse nei confronti della dimensione evenemenziale della storia occidentale e pur riconoscendo a più riprese un grande debito nei confronti del maestro del documentario cileno, Larraín tende ad affrancarsi dai modelli narrativi e iconografici che hanno caratterizzato il cinema di Guzmán6. Le diverse opere che compongono la sua filmografia sembrano rifiutare un approccio diretto alla storia e ai documenti del passato. Cerca prospettive inedite, punti di vista stranianti. È attratto dal potenziale trasfigurante della “fiction” piuttosto che da una concezione illustrativa del “documentario”. Sembra orientato al superamento di questa stessa opposizione, con l’obiettivo di esporre allo spettatore i vari livelli di finzionalità che hanno reso e rendono socialmente praticabile il reale. Come si avrà modo di vedere in dettaglio, i suoi film offrono uno sguardo inedito sul Cile, si spingono fino a Parigi – una città di simulazioni e dissimulazioni intellettuali – e poi al cuore degli Stati Uniti d’America, in un momento di portata storica e dal forte impatto simbolico. Suscitano l’entusiasmo della critica, ma non si risparmiano per questo critiche e attacchi. Il suo atteggiamento è a tratti spregiudicato. Gioca a confondere la linearità storica, dà grande risalto alla “macchina spettacolo” a discapito del “contesto”, gioca a intrecciare il documento d’epoca e la messa in scena finzionale. Per quanto trattino

Sul rapporto tra Larraín e Guzmán, cfr. R. Solis, “Aujourd’hui, les images de Pinochet font rire les jeunes”, in Libération, 6 marzo 2013, p. 6. 6

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SENSIBILITà E POTERE

di epoche e luoghi diversi, in alcuni momenti si ha come l’impressione che i diversi film che compongono l’opera del regista non siano altro che un unico grande work in progress. Non tanto una saga o una serie, quanto piuttosto un palinsesto, una struttura stratificata, dove i diversi film, le singole sequenze o i singoli piani sono in contatto tra loro, in una serie di rimandi interni. La scrittura della storia ha le sue regole, le sue forme, per quanto dibattute e molteplici. Alcune di queste mal sopportano l’anacronismo, il sincretismo, l’allegoria. Che si tratti dei diversi episodi della trilogia o del presunto biopic dedicato a Neruda e a Jacqueline Kennedy, chi si aspetta di trovare una rappresentazione illustrativa dei fatti oppure un’inchiesta sulle cause storiche resta deluso. Per riprendere le parole dedicate dal critico José M. Santa Cruz Grau alla prima fase della produzione del regista: Per Larraín l’aspetto fondamentale è rappresentato dai suoi personaggi. La vita marginale di Mario Cornejo e di Raúl Peralta non riescono a spiegare i processi storici del Paese. Si tratta di testimoni che riflettono ciò che succede intorno. Anche se Larraín riempie lo schermo di morti o desaparecidos, anche se vediamo militari che presidiano ogni angolo delle città e nonostante le intimidazioni di cui sono vittima i personaggi di No, si tratta solamente di uno sfondo dell’esistenza solitaria e apatica dei suoi personaggi7.

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J.M. Santa Cruz Grau, Naturalización de la dictadura. For-

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Introduzione

Una constatazione, fondata sui film che compongono la trilogia, che sembra costituire una versione edulcorata del forte biasimo manifestato da Goffredo Fofi nei confronti dei film successivi, all’interno di un articolo che non si risparmia di rimproverare al regista le sue origini familiari: Pablo Larraín è figlio di Hernán Larraín e Magdalena Matte, esponenti politici di primo piano del partito di destra “Unión Demócrata Independiente” fondato negli anni della dittatura. Il regista, scrive Fofi, Attua provocazioni molto astute, cioè intelligenti, che possano incuriosire un pubblico internazionale e far discutere non tanto i critici cinematografici (se ancora ce ne sono) quanto gli intellettuali di minor forza e spavalderia della sua, che sono una legione. Gioca con la storia, non solo cilena visto che il suo ultimo film mette in scena Jackie Kennedy e il sistema americano del potere, economico e mediatico, ché sono poi, da qualche decennio, la stessa cosa. […] Larraín non ha nessuna voglia di spiegare la storia, di analizzare le contraddizioni di chi la vive volendone essere protagonista e di chi la vive nell’ombra come frustrazione e rivalsa8.

mas de la historia en la trilogía de Pablo Larraín, in Actas del Colloquio “La Historia en el Cine Chileno de Ficción”, “Revista Comunicación y Medios. Colección Documentos”, n. 3 (2014), p. 79. G. Fofi, “Neruda è un’altra astuta provocazione di un autore spregiudicato”, in Internazionale http://www.internazionale.

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SENSIBILITà E POTERE

Fin dai suoi primi film, la costruzione dei personaggi conta moltissimo, ma questi non sono tipi rappresentativi della società. Nei film ambientati nel Paese sudamericano, si tratta di trasfigurazioni per eccesso, risultato della pressione dittatoriale sul corpo sociale. Figure instabili, erranti, aberranti, bloccate in uno spazio pubblico annichilito, incapaci di incidere in modo pragmatico sulla realtà9. In relazione alla produzione di registi cileni del nuovo millennio è stato proposto un efficace accostamento con la figura di derivazione neorealista e specificatamente “moderna” del veggente, caratterizzata – riprendendo la formulazione originaria di Deleuze – dalla «debolezza dei concatenamenti motori»10 ma proprio per questo capace di una grande forza immaginativa, di una capacità di penetrazione dei diversi strati che costituiscono lo spazio del reale11. Se il regista rinuncia a un approccio frontale nei confronti della storia del suo Paese, preferendo adottare prospettive oblique, è forse perché restituire il carattere capillare e molteplice di un evento è ben

it/opinione/goffredo-fofi/2016/10/21/neruda-film-recensione (ultima consultazione: aprile 2017). 9

Su questo punto, cfr. M. Sesti, Per un cinema “irresponsabile” (dunque politico). Conversazione con Pablo Larraín, in “MicroMega”, n. 9 (2016), pp. 158-159.

10

G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, p. 31.

11

Cfr. C. Urrutia, Hacia una política en tránsito. Ficción en el cine chileno (2008-2010), in “Aisthesis”, Instituto de EstéticaPontificia Universidad Católica de Chile, n. 47 (2010), pp. 41-43.

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Introduzione

più complesso di ogni ricostruzione realistica. La storia, considerata al di là della sintesi e del prospetto illustrativo, presa nella complessità che elude ogni definizione, è un campo tensivo di forze, è fonte inesauribile d’inchiesta, è oggetto costante di analisi, riflessione e rigenerazione metodologica per le scienze umane. Può costituire la materia prima del discorso artistico e cinematografico, laddove non si cerchino scorciatoie o vie d’accesso semplificate verso quanto di generico si dice passato. Certo, lo sguardo analitico di Larraín tende in molti casi al cinismo: esalta la dimensione “notturna”, amplifica le contraddizioni che caratterizzano le diverse personalità che incontra e racconta, tende a dimenticare di valorizzare gli scarti, i gesti di resistenza che persistono anche nei momenti più cupi della storia. Ma al di là di tale tendenza, della quale si cercherà di tenere conto nel corso del libro, fare di personaggi erranti e instabili i protagonisti del proprio cinema non significa rinunciare a comprendere il processo storico. L’ipotesi a partire dalla quale si sviluppano le prossime pagine è che il cinema di Larraín, sebbene per la maggior parte ispirato a fatti storici riconoscibili, debba essere concepito innanzitutto come un “corpus teorico”. Al di là delle teorie storiografiche, sociologiche o filosofiche propriamente dette, l’idea è quella di considerare il film come luogo di articolazione di un sapere pratico. Ognuna delle opere che compongono la sua filmografia non illustra i “fatti realmente accaduti”, ma sviluppa e concepisce in sé – attraverso i mezzi espressivi del cinema – un’immagine della dittatura, della democrazia, della morale cattolica, della creatività poetica, della comunica23

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SENSIBILITà E POTERE

zione mediatica: ambisce a indagarne e svelarne le meccaniche di funzionamento. L’idea che un film o un’opera d’arte possano essere considerati come oggetti di pensiero non è certo nuova. Se la teoria dell’immagine di scuola francese ha fondato il proprio rigore scientifico nell’elaborazione del costrutto metodologico dell’“oggetto teorico”, ovvero nell’ipotesi che siano le opere d’arte stesse a stimolare l’interprete a produrre teoria12, la convinzione che il film possa essere considerato in quanto luogo di elaborazione concettuale può essere fatta risalire quantomeno a Deleuze13, per essere poi ripresa e articolata in modo originale da parte di Jacques Rancière14 e Alain Badiou15. Parallelamente, nel campo della teoria del cinema, le ricerche di diversi studiosi sembrano trovare un punto d’incontro proprio nell’identificazione delle capacità speculative e critiche immanenti all’opera filmica16.

12 Attorno all’idea di “oggetto teorico” si incontrano le prospettive di ricerca di studiosi come Louis Marin, Daniel Arasse, Hubert Damisch, Jean-Claude Bonne e Giovanni Careri. Per una formulazione sintetica del concetto, cfr. H. Damisch, Y.-A. Bois, D. Hollier, R. Krauss, A Conversation with Hubert Damisch, in “October”, n. 85 (1998), pp. 3-17. 13

G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., soprattutto p. 308.

Cfr. J. Rancière, La favola cinematografica, a cura di B. Besana, ETS, Pisa 2006; Id., Il destino delle immagini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2007; Id., Scarti. Il cinema tra politica e letteratura, a cura di A. Inzerillo, Pellegrini, Cosenza 2013. 14

15 Cfr. A. Badiou, Del capello e del fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2009. 16

Cfr. almeno J. Aumont, A cosa pensano i film, tr. it., ETS,

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Introduzione

Considerati secondo tale prospettiva, i film del regista sudamericano articolano una riflessione su alcuni plessi fondamentali del dibattito teorico e politico contemporaneo. Manifestano la capacità del cinema di spingersi oltre se stesso – pensare criticamente il mondo – proprio mentre riflette su se stesso, proprio laddove lo spettatore riconosce la messa in atto di una dinamica autoriflessiva. È nel fuoricampo, nello spazio liminare tra un’immagine e l’altra, tra un medium e l’altro, così come nello scarto tra i documenti d’archivio incorporati nel tessuto filmico e la messa in scena finzionale, che si potrà riconoscere la portata teorica del suo cinema. Nel montaggio “intermediale” si riconoscerà la capacità dell’audiovisivo di accogliere, rielaborare ed esporre, in modo analitico e diagnostico al contempo, i discorsi sociali e le forme di vita che hanno caratterizzato determinati passaggi storici17.

Pisa 2007, e R. De Gaetano, Il visibile cinematografico, Bulzoni, Roma 2002. Sulla componente teorica implicata nel cinema moderno, cfr. G. De Vincenti, Lo stile moderno. Alla radice del contemporaneo: cinema, video, rete, Bulzoni, Roma 2013, e S. Zunzunegui, Lo sguardo plurale, a cura di M.C. Addis, tr. it., Bulzoni, Roma 2016. In particolare si deve a Francesco Casetti la concezione dell’“opera teorica” come possibile convergenza tra le teorie del cinema e le teorie dell’arte sopra citate, cfr. F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005, soprattutto p. 269. Il concetto di “intermedialità” ha assunto una centralità nel dibattito teorico su scala internazionale ed è stato elaborato in forme diverse. Ai fini di questo studio, che si riferisce a tale concetto per valorizzare le implicazioni critiche ed elaborative del montaggio di immagini e forme mediali eterogenee, cfr. P. 17

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SENSIBILITà E POTERE

Sensibilità e potere Il titolo di questo libro cerca di identificare i campi semantici che maggiormente esprimono il carattere teorico del cinema di Larraín. Parlare di “potere” significa scomodare una parola enorme, abusata, scivolosa. Potere, molto semplicemente coincidente con figure come Pinochet e Kennedy. Con la dittatura e la democrazia. Ma al di là di una lettura semplicemente tematica che rischia di esaurire la complessità di tale concetto attribuendolo a un singolo individuo come se tutti gli altri ne fossero definitivamente sprovvisti, il regista cileno sembra concepire il potere come qualcosa di mai definitivamente localizzato: una struttura reticolare e dinamica che costituisce e attraversa la società tutta producendo effetti contraddittori e aberranti. Secondo tale prospettiva, il cinema di Larraín sembra concepibile in relazione al paradigma di un’“analitica del potere” elaborato da Michel Foucault nelle sue analisi delle forme di sovranità e delle forme di governamentalità che caratterizzano le società contemporanee e che basano la loro efficacia sull’organizzazione degli spazi sociali non meno che sulla costruzione dei corpi individuali18.

Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo sensibile, Laterza, Roma-Bari 2010. 18

Sul rapporto complesso tra “sovranità” e “governamentalità” che fa da sottotesto a tale schematizzazione, si rimanda a M. Foucault, Bisogna difendere la società, tr. it., Feltrinelli, Milano 1997, e ai suoi lavori filosofici successivi, espressamente focalizzati sul concetto di “biopolitica”.

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Introduzione

D’altro canto, ricorrere al concetto di “sensibilità” significa scomodare la storia del pensiero occidentale, sentendosi obbligati a inseguire i mille rivoli in cui tale concetto si è sviluppato nel corso dei secoli. Più semplicemente, si intende qui riferirsi alla radice etimologica di “estetica”, intesa come aisthesis, riflessione critica sulle forme di articolazione della sensibilità individuale e collettiva19. Se il cinema di Larraín è un cinema profondamente riflessivo è anche perché pone e ripropone continuamente, opera dopo opera, la questione dell’immagine: la sua funzione testimoniale, l’efficacia politica, la strumentalità propagandistica. Un rapporto, quello tra immagine e potere, che costituisce del resto uno dei temi di maggiore interesse per i registi e gli artisti di tutto il mondo, così come è uno dei plessi teorici fondamentali per i visual culture e la teoria dell’immagine20. Nel corso dei diversi capitoli del libro si vedrà dunque come il cinema di Larraín metta in scena di-

19

In relazione all’allargamento del dominio dell’estetica oltre i confini del sistema delle arti, cfr. E. Garroni, Estetica ed epistemologia, Bulzoni, Roma 1976. Espressamente sull’idea di aisthesis e sui suoi rapporti con la sfera della tecnica e della politica, cfr. anche P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007, soprattutto pp. 39-61 e 91-95.

20 Come riferimenti fondamentali si vedano almeno W.J.T. Mitchell, What Do Pictures Want? The Lives and Loves of Images, Chicago University Press, Chicago 2006; D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, tr. it., Einaudi, Torino 2009; H. Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2015.

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SENSIBILITà E POTERE

verse modalità di conquista, gestione e mantenimento del potere politico. In primo luogo, come emerge soprattutto da Tony Manero e Post Mortem, mediante l’esercizio della violenza e la deportazione di massa. In secondo luogo si vedrà come, tanto all’interno della dittatura quanto in democrazia, l’immagine stessa – il regime dell’“estetica”, secondo l’accezione sopra indicata – tenda ad assumere funzioni di governance nei confronti degli individui e della popolazione. È in questo secondo caso che la sfera della “sensibilità” non si oppone e non si limita semplicisticamente a subire il potere ma si intreccia e si compromette con questo, non senza scarti. Come nella riflessione del filosofo e teorico dell’immagine Louis Marin – che più di ogni altro ha sviluppato un’“analitica del potere della rappresentazione” –, l’immagine esprime tale funzione proprio perché costituisce una messa in riserva della forza e della violenza: «Sostituisce alla manifestazione esterna, dove una forza appare solo per annichilire un’altra forza in una lotta mortale, dei segni di una forza […] che hanno semplicemente bisogno di essere visti, constatati, mostrati, poi raccontati e recitati perché la forza di cui sono gli effetti sia creduta»21. Attraversando i film del regista cileno, si assisterà 21 L. Marin, L’essere dell’immagine e la sua efficacia, in Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 277. Per una ripresa del pensiero di Marin in relazione alla capacità del cinema di elaborare un’indagine dello “spettacolo del potere”, cfr. G. Canova, Potere, in Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita. Volume II, a cura di R. De Gaetano, Mimesis, Milano 2015, soprattutto pp. 433-435.

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Introduzione

dunque a scene in cui la violenza tende ad acuire la sensibilità individuale e collettiva nel momento stesso in cui ne narcotizza il potenziale politico, ma anche a spettacoli teatrali e cinematografici, a rituali di Stato e messe in scena commerciali. Si assisterà al loro effetto, alla capacità di influenzare le condotte e le posture dei diversi personaggi. Riprendendo ancora Marin, in una frase capace di illuminare lo spessore teorico di molte sequenze dei film di Larraín, «L’unico modo di conoscere la forza dell’immagine […] sarà allora di riconoscerne gli effetti leggendoli nei segni del loro esercizio sui corpi che guardano»22. Potere, violenza, sensibilità: si tratta di tre concetti di grande portata capaci di interagire e intrecciarsi problematicamente fino a produrre accelerazioni di ritmo, salti di intensità, effetti di attrito. Eventi che necessariamente coincidono con dei passaggi traumatici. Attraversare lo spessore teorico della filmografia di Larraín implica dunque l’analisi delle opere cinematografiche e la conseguente messa in rilievo delle modalità specifiche di composizione mediante le quali l’audiovisivo articola in sé una riflessione, beninteso autonoma, ma tangente alle ricerche filosofiche, antropologiche, sociologiche e semiotiche che hanno sviluppato in molteplici rivoli il concetto di “trauma”, con l’obiettivo di indagare i disturbi individuali e collettivi provocati nel corso del Novecento dall’esercizio su larga scala della violenza23.

22

Ivi, p. 278.

23

Come riferimenti sul concetto di trauma e sulla sua elaborazione, cfr. almeno C. Caruth, Unclaimed Experience. Trauma,

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SENSIBILITà E POTERE

Se alcuni importanti studi hanno cercato di analizzare le forme rituali, i processi di monumentalizzazione e gli interventi artistici mediante i quali le diverse comunità caratterizzate da un passato di violenza politica hanno rielaborato la propria memoria ponendo le condizioni per la costruzione di un discorso etico e politico di democrazia, si vedrà bene come l’originalità dei film qui analizzati consista in una messa in discussione del concetto stesso di “trauma”. Come è stato sostenuto in alcune ricerche d’impostazione foucauldiana condotte da Didier Fassin e Richard Rechtman, il trauma non è del resto un oggetto inerte e neppure una semplice evidenza psicologica, ma è anche un costrutto culturale che definisce le modalità specifiche con le quali le società contemporanee tendono a concepire le loro responsabilità morali e a dare forma ai disastri della storia. Identificare le tracce del trauma significa restituire la parola a chi ne è stato privato a causa dello shock e della violenza subita, oppure a chi ha rischiato di perderla e di non riconquistarla mai. Ma identificare un soggetto in quanto “vittima traumatizzata” costituisce anche una forma di inquadramento e contenimento della sua esperienza psicologica e politica. Come scrivono i due studiosi, «I sopravvissuti di disastri, oppressioni e persecuzioni adottano la sola immagine pubblica che gli consente

Narrative, and History, John Hopkins University Press, Baltimore 1996; D. LaCapra, Writing History, Writing Trauma, John Hopkins University Press, Baltimore 2001; E.A. Kaplan, Trauma Culture. The Politics of Terror and Loss in Media and Literature, Rutgers University Press, New Brunswick 2005.

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di essere ascoltati: la vittima. Ma in questo modo, essi raccontano meno di se stessi di quanto non facciano delle economie morali del nostro tempo»24. Fuga, Tony Manero, Post Mortem, No, Il club, Neruda e Jackie raccontano la vita di soggetti traumatizzati, mostrano il loro stress, le patologie nervose, l’orrore nel quale ricadono. La figura del testimone che cerca di sopravvivere o il sopravvissuto – in un certo senso il protagonista dei trauma studies e della cultura a essi correlata – è ben presente nel cinema di Larraín. Si vedrà bene, però, come tanto la posizione della vittima quanto quella di testimone tendano a essere problematizzate. Pur mantenendo ben distinguibili i ruoli, l’esercizio della violenza e il terrore politico basano la loro efficacia nella creazione di una paradossale compromissione tra i perpetratori e le vittime, dove queste ultime, sopravvivendo, rischiano di rendersi conniventi, fino ad attuare a loro volta soprusi e violenze. Non che non ci sia più differenza tra vittime e carnefici, ma non vi è semplice contrapposizione. È così che all’interno di uno spazio sociale annichilito, la visione stessa si fa incerta, lacunosa. La testimonianza vacilla e, proprio per questo, si impone come un dovere25. D. Fassin, R. Rechtman, L’empire du traumatisme. Enquete sur la condition de la victime, Flammarion, Paris 2011, p. 409. Per un approfondimento sui rapporti tra memoria traumatica e spazio sociale si rimanda a P. Violi, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Bompiani, Milano 2014. 24

Per una ripresa delle riflessioni sulle forme di detenzione, tortura e testimonianza nel contesto cileno, cfr. M. GómezBarris, When Memory Dwells. Culture and State Violence in 25

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SENSIBILITà E POTERE

In particolare, i capitoli dedicati all’esordio cinematografico di Larraín e – più dettagliatamente – alla “trilogia della dittatura” cercheranno di evidenziare tali aspetti, analizzando le dinamiche che spingono i comportamenti e i gesti dei cittadini “qualunque”, investiti dalla violenza, fino al grottesco e all’orrore. Si analizzeranno le strategie di composizione filmica mediante le quali Larraín concepisce l’instaurazione di un potere dittatoriale che resta perlopiù fuoricampo. Allo stesso modo, si vedrà come il racconto delle vicende traumatiche non lasci spazio alle scorciatoie della riconciliazione, in un Paese, come il Cile, dove Pinochet ha potuto garantirsi il comando delle forze armate fino al 1998 e l’impunità fino alla morte, nel 2006. Dai capitoli dedicati a Post Mortem e No, fino a Jackie – e dunque dalla dittatura alla democrazia – si evidenzierà la capacità di Larraín di mettere in scena un avvicendamento tra paradigmi di governo e tecnologie del potere ben più complesse e problematiche del generico “entusiasmo per la democrazia”. Cercando di mostrare le modalità cinematografiche di articolazione di una riflessione teorica sulle forme politiche contemporanee, si ricorrerà alla riflessione di Carl Schmitt ripresa da Giorgio Agamben sullo “stato d’eccezione”26, e soprattutto ai concetti foucaultiani e deleuziani di

Chile, University of California Press, Berkeley 2009, pp. 45-46. 26

G. Agamben, Stato di eccezione, Homo sacer, II, 1, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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“società disciplinare” e di “società del controllo”27. Considerando le specificità storiche del “caso cileno” – assunte consapevolmente dal regista –, l’analisi della trilogia offrirà dunque l’occasione per trattare da una prospettiva del tutto particolare e non generica l’avvento del modello economico e politico “neoliberista”: il Cile come laboratorio sperimentale delle teorie degli economisti dell’Università di Chicago – basate sulla liberalizzazione e privatizzazione del patrimonio pubblico – lanciate già nella metà degli anni settanta e proseguite senza interruzioni in epoca democratica28. A tal proposito, i capitoli dedicati a Neruda e No cercheranno di restituire lo sguardo contraddittorio – euforico e disforico al contempo – di Larraín nei confronti della pratica creativa, in quanto forma di resistenza all’autoritarismo dittatoriale e forma di compromissione con la macchina globale del capitalismo: dall’internazionalismo comunista di Neruda all’immaginario commerciale del pubblicitario nella campagna plebiscitaria del 1988. Se la capacità di co-

27

Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, tr. it., Einaudi, Torino 2014; G. Deleuze, Poscritto sulla società del controllo, in Id., Pourparler. 1972-1990, tr. it., Quodlibet, Macerata 2000, pp. 234-241. 28 Sulla specificità dell’esperimento cileno e sulle sue trasformazioni, dal 1975 agli anni duemila, cfr. M. Taylor, From Pinochet to the “Third Way”: Neoliberalism and Social Transformation in Chile, Pluto Press, London 2004. Per una riflessione sul “miracolo economico cileno”, cfr. anche Victims of the Chilean Miracle: Workers and Neoliberalism in the Pinochet Era, 19732002, a cura di P. Winn, Duke University Press, Durham 2004.

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struire e decostruire mondi del poeta sembra esprimere tanto le potenzialità emancipative del gesto creativo quanto i rischi di elitarismo, sarà soprattutto la potenza di deterritorializzazione del capitalismo neoliberista degli anni ottanta a destituire la territorializzazione nazionalista di Pinochet e a costringere il Paese a trasformarsi repentinamente29. Ma è soprattutto con Jackie che sarà possibile tornare a riflettere in modo approfondito sulle diverse articolazioni del rapporto tra immagine e potere: gli Stati Uniti come nazione e apparato cerimoniale nei giorni immediatamente successivi alla morte del Presidente; gli Stati Uniti come potenza mediatica e commerciale che trova espressione e rilancio nel “volto” di Jacqueline Kennedy. A margine di tali spunti introduttivi e nonostante i continui tentativi di convocarli, di chiamarli in causa anticipatamente nella costruzione di un discorso che almeno in parte li trascende, restano i film. Per quanto “teorici” siano, non si tratta di saggi filosofici, antropologici o sociologici propriamente detti. È necessario dunque soffermarsi, prendere tempo per guardarli da vicino – senza dimenticare, beninteso, la serie di suggestioni storiche e teoriche finora accennate –, cercando in questo modo di dare senso al lavoro di analisi del film che, contro le aspettative, proprio come il cinema, non muore.

29 Sui concetti di territorializzazione e deterritorializzazione, considerati nelle loro implicazioni politiche, cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Guareschi, tr. it., Castelvecchi, Roma 2006, soprattutto pp. 34-66.

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Introduzione

Aveva sempre cercato di fuggire la violenza anche a rischio di essere considerato un vigliacco, ma la violenza, non si può sfuggire, o almeno non possiamo farlo noi, nati in America Latina negli anni cinquanta, noi che avevamo una ventina d’anni quando morì Salvador Allende. Roberto Bolaño, L’Ojo Silva

Il vero miracolo cileno è che una giunta militare sia stata disposta ad andare contro i suoi princìpi e supportare il regime di libero mercato. […] In Cile, la via per la libertà politica si è creata grazie alla libertà economica e al risultante successo economico e, alla fine, ha portato a un referendum che ha introdotto la democrazia. Adesso, finalmente, il Cile ha ottenuto le tre cose: la libertà politica, la libertà umana e la libertà economica. Milton Friedman, Economic Freedom, Human Freedom, Political Freedom

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SENSIBILITà E POTERE

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I. Notturno cileno

I. NOTTURNO CILENO

Disciplina e controllo Tutto inizia in un ospedale psichiatrico. La ricerca di una partitura incompiuta e il piano di evasione dal manicomio si intrecciano ai traumi del passato per poi dissolversi e capitolare tra le acque dell’Oceano Pacifico che bagnano le spiagge della città di Valparaíso, dove un annegamento porrà fine alla ricerca. Due musicisti: il primo cerca di sfuggire ai suoi ricordi dolorosi – la morte della sorella, violentata su un pianoforte – e per farlo è disposto a tutto, anche a bruciare le sue opere, anche a cambiare la propria identità; il secondo è invece mosso dall’ossessione di ritrovare lo spartito che il primo ha lasciato incompiuto, per terminarlo e attribuirsi la paternità della creazione. L’autore della composizione è costretto a rivivere gli shock del passato che si ripropongono sotto forma di continui flashback. L’altro musicista sfrutta invece ogni occasione per far riemergere quelle stesse tracce che il primo cerca di obliare. La distruzione del passato non può mai dirsi definitiva, la sua rimozione implica un’alterazione e dunque la possibilità di una prosecuzione, almeno parziale. Sono questi gli elementi narrativi di base che compongono l’intreccio e l’equilibrio precario di Fuga, la 37

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prima prova di Pablo Larraín dietro la macchina da presa. Un film realizzato nel 2006 che non lascia intuire le potenzialità del regista e la carriera fulminante della quale si renderà protagonista. Un film difficile da mettere in serie con i successivi, tante sono le differenze nell’elaborazione narrativa e compositiva, ma nel quale è tuttavia possibile scorgere alcuni elementi tematici e concettuali che ritorneranno a più riprese nella filmografia successiva. L’ambientazione storica di Fuga risulta sconnessa dal passato dittatoriale, eppure l’esperienza di un’“istituzione totale” – come quella vissuta all’interno del manicomio dal compositore ossessionato dalla volontà di cancellare il passato e la sua arte – permette di rilevare, già a partire da questo primo film, l’interesse di Larraín verso le aberrazioni prodotte dalla violenza e dai dispositivi di controllo. L’onda lunga della memoria scuote il presente tanto da condizionare la sensibilità psicologica e i comportamenti dei personaggi. Sensibilità e potere come grandi nuclei tematici attorno ai quali si articola quella “partitura” teorica che è la filmografia del regista cileno. Dal golpe del 1973 al Plebiscito del 1988: è dunque questo l’arco temporale affrontato dalla “trilogia della dittatura” che impone definitivamente Larraín come uno dei più interessanti giovani registi su scala internazionale. Gli eventi emblematici di questo periodo della storia cilena, come la morte di Salvador Allende e la campagna referendaria che porterà alla lenta capitolazione della dittatura, costituiscono il punto di partenza per l’elaborazione drammaturgica di Post Mortem e di No. Le privazioni quotidiane e le rappresaglie contro i dissidenti del regime di Pinochet 38

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I. Notturno cileno

sono costantemente richiamate e messe in scena già a partire da Tony Manero, il primo film della trilogia. La paura pervade i diversi film, caratterizzati da un’ambientazione spesso cupa e scarna. Eppure i personaggi costruiti da Larraín restano a loro modo indifferenti alla dinamica degli eventi che segnerà indelebilmente la storia e la memoria del Cile. Non sono dei “dissidenti politici” e nemmeno dei sostenitori del regime. Il filo rosso che si sviluppa a partire dall’esordio cinematografico di Larraín e attraversa i diversi momenti della trilogia, assegnandole il carattere di un “corpus teorico” sui meccanismi della dittatura, è dunque l’articolazione scenica di due grandi dispositivi sociali e politici che tendono a ibridarsi: la disciplina e il controllo. La disciplina è descritta da Foucault come una “tecnologia del potere” affermatasi in età moderna e finalizzata a sorvegliare, punire e, appunto, disciplinare i soggetti attraverso forme di contenimento – in spazi chiusi o comunque circoscritti – e senza prescindere dall’esercizio, anche estremo e spettacolare, della violenza sul corpo individuale e collettivo. L’esercizio della disciplina presuppone un dispositivo che costringe facendo giocare il controllo; un apparato in cui le tecniche che permettono di vedere inducono effetti di potere, e dove, in cambio, i mezzi di coercizione rendono chiaramente visibili coloro sui quali si applicano1.

1

Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 187.

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La disciplina penetra e attraversa il corpo per mezzo di strategie multiformi e diffuse, in cui gli effetti di dominazione sono attribuiti a «disposizioni, manovre, tattiche, tecniche, funzionamenti, […] una rete di relazioni sempre tese, sempre in attività»2. Indagando le tecnologie disciplinari che rendono il potere una struttura reticolare, Foucault affida grande importanza all’organizzazione degli spazi e in particolare all’architettura, definita come un «operatore nella trasformazione degli individui: agire su coloro ch’essa ospita, fornire una presa sulla loro condotta, ricondurre fino a loro gli effetti del potere, offrirli ad una conoscenza, modificarli»3. Il paradigma del controllo è invece concepito da Deleuze in relazione alle forme sociali ed economiche del tardo capitalismo, in un rapporto di continuità e trasformazioni rispetto alle società disciplinari che, secondo il filosofo, raggiungono il loro apogeo nella prima metà del Novecento. Quella del controllo costituisce una tecnologia del potere di “nuova generazione”, capace di esercitarsi su larga scala e con un minore dispendio di forza e violenza. Se il paradigma disciplinare è perlopiù legato a dispositivi architettonici, meccanici e militari, Deleuze sottolinea che «le società del controllo operano per macchine di terzo tipo, macchine informatiche e computer, il cui pericolo passivo è l’annebbiamento e quello attivo

2

Ivi, p. 30. Sui rapporti tra visibilità e potere politico, si veda anche anche G. Deleuze, Foucault, tr. it., Feltrinelli, Milano 1987, p. 32 sgg. 3

M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 188.

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il pirataggio e l’introduzione di virus»4. Va da sé che tali tecnologie del potere si sovrappongono in diversi punti e che non vi è netta opposizione, tanto che lo stesso Foucault si è limitato ad attribuire al solo paradigma disciplinare i caratteri di invisibilità e capillarità che Deleuze rielaborerà in quanto caratteristiche del controllo: Il potere disciplinare si esercita rendendosi invisibile; e, al contrario, impone a coloro che sottomette un principio di visibilità obbligatoria. Nella disciplina sono i soggetti a dover essere visti. L’illuminazione assicura la presa del potere che si esercita su di loro. È il fatto di essere visto incessantemente, di poter sempre essere visto, che mantiene in soggezione l’individuo disciplinare5.

Tra le immagini della trilogia e la dittatura – in quanto paradigma politico ed evento storico al quale queste immagini rimandano o alludono – si instaura un rapporto fatto di tensioni e rinvii costanti. Ogni inquadratura rielabora – risente – a livello compositivo e drammaturgico la compenetrazione di tali tecnologie del potere, distinguibili soltanto al livello euristico. L’apparato dittatoriale è una presenza minacciosa e fantasmatica che influenza il campo

4

G. Deleuze, Poscritto sulle società del controllo, cit., p. 238. Per un approfondimento sul rapporto tra tecnologie del controllo e territorio, cfr. P. Virilio, Velocità e politica. Saggio di dromologia, tr. it., Multipla, Milano 1982. 5

M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 205.

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e trapela al suo interno determinando la “qualità atmosferica” delle inquadrature e rendendo i soggetti conformi al regime, in un’alterazione delle loro facoltà percettive ed emotive, in un indebolimento dei legami intersoggettivi. Per riprendere ancora una terminologia deleuziana, la dittatura si configura come un fuori campo «che “insiste” o “sussiste”» sulle immagini del quotidiano6. È del resto a partire dalle idee di fuori campo assoluto e di contrazione dei legami senso-motori che la studiosa cilena Carolina Urrutia Neno ha analizzato la rappresentazione della dittatura da parte di Larraín e definito le proprietà “centrifughe” del suo cinema: Nel caso di Tony Manero e di Post Mortem, Pablo Larraín realizza una rivisitazione post-dittatoriale della dittatura stessa. La dittatura come qualcosa che sfugge e allo stesso tempo come un momento della storia del Cile che è osservato con un obiettivo dotato di un filtro di vent’anni di democrazia. […] Se c’è una dimensione centrifuga nelle fiction del cinema cileno contemporaneo (a prescindere dai riferimenti alla dittatura nella narrazione), questa si potrebbe indentificare con la presenza latente di un’impronta del passato politico e del passaggio successivo alla democrazia7.

6

G. Deleuze, L’immagine-movimento, tr. it., Ubulibri, Milano 2006, p. 31. 7

C. Urrutia, Post Mortem y Tony Manero. Memoria centrífuga de un pasado político, in “Cinémas d’Amérique latine”, n. 19 (2011), pp. 65-70.

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La trilogia innesta su un’intelaiatura legata al tempo storico i suoi universi narrativi di natura finzionale. L’avvento della dittatura è disposto ai margini della rappresentazione, ma i suoi effetti vengono avvertiti e subiti tanto dai personaggi – a livello diegetico, nell’articolazione degli spazi e dei corpi –, così come dagli spettatori dei film. Sia nel primo che nel secondo film della trilogia, il dispositivo disciplinare si manifesta non tanto e non solo attraverso le irruzioni dei militari che sequestrano, deportano, annichiliscono e propagano il terrore, ma soprattutto attraverso l’incorporazione e la riproduzione della violenza da parte dei singoli cittadini. A ciò si aggiungono le forme indirette di controllo sociale: dal sospetto reciproco al senso di rivalità e vendetta che si instaura tra i soggetti, fino alla potenza devastante del sistema mass mediatico su una società alla deriva. Le immagini di Tony Manero assumono una grana sporca che sembra sintetizzare, a livello plastico, l’immagine delle periferie deserte e gli ambienti scarni e malinconici nei quali è girato il film. A livello sonoro, i dialoghi sono ridotti, la musica d’accompagnamento è del tutto assente mentre predominano i suoni ambientali. Una patina temporale investe i suoni e le immagini e genera un’“impressione di realtà”: sembra che il film sia stato girato nella stessa epoca in cui sono ambientate le vicende narrate e che gli spettatori, collocati nel presente della visione cinematografica, stiano assistendo a una re-visione del passato. In buona parte delle sequenze che compongono il primo film, Larraín utilizza la camera a mano, spesso collocata in prossimità del corpo e del volto del protagonista. La scelta di seguire principalmente 43

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uno dei soggetti in campo e di restituirne il punto di vista amplifica i processi d’identificazione spettatoriale. Seguendo in questo modo Raúl, lo spettatore non si limita a osservare un racconto sulla dittatura di Pinochet, ma fa un’esperienza: rivede e risente le forme di disciplinamento e controllo ai quali è sottoposto il soggetto. In Post Mortem la camera è perlopiù fissa. Predominano i tempi morti e i campi lunghi, ai quali seguono spesso dei primi piani. Le capacità esplorative concesse dal punto di vista panoramico sono controbilanciate da effetti di distorsione del piano, causati dall’utilizzo di lenti anamorfiche e di luci artificiali monodirezionali che generano l’immagine di un’ambiente freddo e asfittico, capace di inglobare e assorbire i personaggi e le loro azioni. Tutti gli spazi – dalle strade agli interni violati e messi a soqquadro dalle milizie del golpe – assomigliano all’obitorio nel quale si accatastano i cadaveri e, a livello cromatico, ne assorbono il pallore. Girato a distanza di oltre trent’anni dal golpe e dopo vent’anni di democrazia, Post Mortem pone al centro della storia un personaggio incapace di articolare una riflessione consapevole su quanto sta succedendo attorno a lui. Progressivamente, nel corso del film, Mario si indebolisce e si trasforma: diventa un involucro, privo di qualsiasi volontà che esuli dal rispetto degli ordini e dei compiti impartiti, fino alla riproduzione della violenza e all’osservazione impassibile delle sue conseguenze. Cosa può, del resto, un corpo catturato nel dispositivo dittatoriale? Dopo essere stati attraversati a più riprese dalle tecnologie disciplinari e dalle forme 44

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di controllo, Raúl e Mario non sono più capaci di articolare una mediazione tra “assoggettamento” e “soggettivazione”8. Non sono, per riprendere le parole di Giorgio Agamben, «corpi docili, ma liberi, che assumono la loro identità e la loro “libertà” di soggetti nel processo stesso del loro assoggettamento», bensì, corpi de-soggettivati che «non danno luogo alla ricomposizione di un nuovo soggetto, se non in forma larvata e, per così dire, spettrale»9. Una spettralità diffusa che contagia anche gli spazi, facendosi largo in una città assediata e imponendosi sulle forme di vita che in essa sopravvivono. E No, l’ultimo film della trilogia che racconta l’alba della democrazia cilena, costituisce ancora un’articolazione scenica dei due dispostivi – disciplina e controllo – caratterizzanti del regime, oppure segna una liberazione, un’emancipazione? Come si vedrà nel secondo capitolo del libro, anche in No la realtà storica e politica della dittatura emerge in forme indirette, affiora sullo schermo attraverso i rapporti tra campo e fuoricampo, in uno spazio che diventa pienamente intermediale. Per il protagonista del film, il giovane pubblicitario René Saavedra, le immagini del bombardamento de La Moneda, al pari di tutte le immagini che mostrano ingiustizie e soprusi, sono

8

L’assoggettamento e il processo speculare di soggettivazione sono affrontati e specificati a più riprese da Foucault. Si veda almeno M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, tr. it., Feltrinelli, Milano 1991, pp. 30-37. 9

G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006, pp. 29 e 31.

45

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strategicamente inefficaci per incidere sull’opinione pubblica e garantire al comitato per il No qualche chance di vittoria nel Plebiscito. Se nel film del 2008 si assiste all’affermazione dell’immaginario hollywoodiano in quanto strumento di disciplina e controllo sociale, con il film del 2012, dedicato al Plebiscito, Larraín mostra in che modo anche l’opposizione al capitalismo dittatoriale di Pinochet dovrà adeguarsi ai nuovi modelli dell’immaginario globale, rendendosi capace di attingere a quell’universo simbolico e valoriale che trova nel mercato il suo principio regolatore. Essere Tony Manero Mantenendo l’incipit filmografico di Fuga sullo sfondo, le prime due opere che compongono la trilogia sembrano l’uno l’altra faccia dell’altro, oppure, se si preferisce, due variazioni sullo stesso tema. Sono ambientati in anni diversi, ma presentano spazi e personaggi omologabili. La presenza di Alfredo Castro – l’attore feticcio di Larraín –, in quanto protagonista di entrambi, rafforza l’effetto di continuità e contiguità, scompiglia la memoria dello spettatore – questa sequenza è in Tony Manero o in Post Mortem? – e facilita l’esercizio analitico e comparativo. Sia il film del 2008 che quello del 2010 mostrano due uomini che si recano a degli spettacoli. Niente e nessuno, se non il loro stesso desiderio, li spinge a farlo. Assistono a performance cinematografiche e teatrali. Si identificano, si esaltano, ognuno a suo modo. Intanto, fuori, sta succedendo qualcosa di portata storica. Qualcosa di violento che non li rispar46

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mierà e che a loro volta perpetreranno. A una prima impressione, la macchina dello spettacolo e la macchina dittatoriale sembrano opporsi: la prima come espressione di libertà e svago, occasione di evasione dalla seconda. Eppure, a guardare bene le sequenze che compongono i due film, si può comprendere come la fruizione spettatoriale partecipi decisivamente della deriva politica e sociale che pervade i soggetti a partire dal colpo di Stato. I dispositivi disciplinari e le forme di controllo si protendono fin dentro il cinema e il teatro, trovano un rilancio negli spazi di veicolazione dell’immaginario. Poche ore prima che il terrore dilaghi nelle strade di Santiago, il protagonista di Post Mortem va a vedere uno spettacolo di cabaret, consapevole che tra le ballerine c’è Nancy Puelma, la sua vicina di casa. La donna, madre di un bambino e amante di un attivista comunista, è l’oggetto del desiderio di Mario. La sequenza è ambientata nel famoso teatro di varietà Bim Bam Bum – situato nel centro della capitale, inaugurato negli anni cinquanta e chiuso poco dopo il golpe – e, attraverso il montaggio, articola la relazione tra lo spettacolo e lo sguardo di Mario [fig. 1]. Mario è uno spettatore ordinario: è interessato allo show e, soprattutto, ai suoi interpreti. A tratti, si lascia distrarre dagli applausi e dai comportamenti del pubblico. Ma mentre il numero di “Can can” volge al termine, all’improvviso scavalca i limiti della platea e si sposta verso la ribalta. Con l’avvicinamento al palcoscenico si assiste a un indebolimento delle sue capacità percettive, restituito dal film attraverso un’immagine con la prospettiva schiacciata e fuori fuoco [fig. 2]. Le ballerine sfilano dietro i tendaggi 47

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Fig. 1

Fig. 2

rossi e Mario le segue, penetra fino ai camerini con lo scopo di incontrare di persona Nancy. Questo tentativo di superare il confine dello spazio spettatoriale pone Mario in una condizione inusuale rispetto al suo comportamento quotidiano, fatto di sguardi a distanza, e lo espone a un’interazione. Dietro le quinte, si rivelano ai suoi occhi e a quelli dello spettatore i limiti dell’artificio che tiene insieme la pomposa coreografia tanto applaudita. Il corpo di Nancy, magro, privato del trucco e degli orpelli della scena, messo a confronto con la formosità delle ballerine più giovani, mostra i segni del decadimento. Nancy è sul punto di essere licenziata, sotto gli 48

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occhi del suo più grande ammiratore. Per ristabilire l’illusione, Mario si rende disponibile a barattare la sua auto con il proprietario del Bim Bam Bum e ottenere così la promessa della reintegrazione di Nancy nello show. Tutto ciò verrà comunque impedito dall’azione distruttiva dei militari che, di lì a poche ore, incendieranno il teatro. Lo spettacolo potrà proseguire soltanto nell’ossessione del protagonista – che si protrae fino all’ultima sequenza del film – di essere il compagno di Nancy Puelma, contro ogni evidenza. Allo stesso modo, in Tony Manero, la macchina da presa segue un uomo di spalle. Raúl solleva la tenda che lo separa dall’ingresso della sala cinematografica. Il film che sta per vedere deve essere già iniziato, tanto che un brano della colonna sonora si percepisce flebilmente fuoricampo. Prima di accomodarsi su una delle poltrone, accenna un passo di danza della coreografia che accompagna You Should Be Dancing dei Bee Gees, datato 1976, un classico della disco music. Con lo sguardo rapito dallo schermo cinematografico sul quale sono proiettate le immagini de La febbre del sabato sera, Raúl ripete gesti, movenze e battute di Tony Manero nell’interpretazione di John Travolta che si esibisce sulla pista, circondata dal pubblico, del 2001 Odyssey. Una serie di campi e controcampi alterna lo schermo, attraversato dai colori intermittenti delle luci stroboscopiche, al primo piano, avvolto nel buio della sala, di Raúl, come ipnotizzato [figg. 3-4]10.

10

Sembrano qui ripetersi le condizioni di quel rapimento dello

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Fig. 3

Fig. 4

Durante la sequenza, l’inquadratura di Tony Manero non coincide con le immagini del film di Badham: quando Raúl prende posto in sala, la cornice spettatore da parte dell’immagine che costringe il primo a “incollarsi” alla rappresentazione filmica, già descritte in R. Barthes, Uscendo dal cinema, in Id., Sul cinema, a cura di S. Toffetti, tr. it., Il nuovo melangolo, Genova 1997, pp. 145-150.

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del grande schermo è presa in un totale che àncora La febbre del sabato sera al contesto della sala di proiezione. Piuttosto che sul cult movie degli anni settanta in se stesso, la messa in scena finzionale di Larraín si focalizza sulle forme dell’esperienza spettatoriale e sulla loro progressiva deriva nel comportamento del protagonista11. Le scene al cinema – sempre nella stessa sala e per assistere alla medesima pellicola – si susseguono durante il film e ogni visione è accompagnata da una trasformazione delle modalità di fruizione. In occasione del secondo ingresso, il volto di Raúl diviene la superficie di iscrizione delle emozioni prodotte dal film12. All’espressione completamente rapita dalle immagini segue la commozione quando, sullo schermo, Frank spiega a suo fratello Tony le ragioni che lo hanno portato ad abbandonare il sacerdozio. Il comportamento di Raúl sembra coincidere con un’esperienza spettatoriale “classica”, con tanto di reazione emotiva, evidenziata dagli occhi lucidi per la commozione. Ma una volta uscito dalla sala, Raúl esaspererà l’idea di protrarre l’esperienza cinematografica oltre se stessa – nella messa in scena, con Come studi di riferimento sull’identificazione spettatoriale si vedano almeno E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2016, e C. Metz, Cinema e psicoanalisi, tr. it., Marsilio, Venezia 2006. 11

Sulle modalità empatiche e le forme di “rispecchiamento” tra le immagini cinematografiche e lo spettatore, cfr. V. Gallese, M. Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano 2015, pp. 23-35. 12

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la sua compagnia, del balletto di John Travolta – e piomberà nell’ossessione performativa di essere Tony Manero. Raccontando l’esperienza di personaggi come Mario in Post Mortem e soprattutto di Raúl in Tony Manero, Larraín sembra dunque mettere in scena una gradualità delle forme di relazione con il dispositivo spettacolare e cinematografico, fino a evidenziare la loro deriva e il loro intreccio con la macchina del terrore dittatoriale. Come si è visto poco sopra, Mario va a teatro e supera la soglia della platea per lasciar esprimere il proprio desiderio di incontrare Nancy e fa di tutto per mantenere in vita tale illusione. Raúl osserva incantato battute, movenze e passi di danza. Dapprima la visione del film stimola le sue capacità cognitive, emotive e motorie. Ma Raúl non si accontenta di un’esperienza temporanea. Piuttosto, vuole diventare egli stesso un ingranaggio del meccanocinema, fino ad azzerare la distanza con lo schermo e stabilire una piena coincidenza tra la propria immagine e quella di Tony. È così che la reiterazione della visione nel contesto del terrore dittatoriale ingenera una dinamica ossessiva che lo spinge alla riproduzione aberrante del film al di fuori della sala. Raúl cerca un’identificazione totale che, oltre la sala cinematografica, lo porterà a entrare in contatto con altri sistemi mediatici e, in particolare, con quello televisivo, grazie al programma “El festival de la una” in cui si esibiscono i sosia dei divi hollywoodiani. Il “rassomigliare” è un procedimento che richiede impegno e costanza e che può concretizzarsi soltanto attraverso la “disciplina” quotidiana della sala e del set televisivo. È dunque nel passaggio dall’identifi52

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cazione all’anestetizzazione del personaggio che si determina la contaminazione tra due regimi di senso: quello spettacolare, che si serve dell’immagine di John Travolta e dei singoli da hit-parade dei Bee Gees, e quello dittatoriale dal quale Raúl, proprio grazie al film di Badham, futilmente tenta di evadere13. Nel mostrare il transito dagli spazi mediatici a quelli urbani, Tony Manero mette in luce qualcosa di ben più complesso del semplice riconoscimento del successo del film anche nel Sudamerica degli anni settanta. Al contrario, il film di Larraín si riferisce in modo esplicito a un modello del cinema statunitense per mostrarne le ricadute all’interno di un orizzonte culturale e politico profondamente differente rispetto a quello di partenza. L’obiettivo è costruire una comparazione tra i regimi discorsivi, le pratiche simboliche e sociali presenti nelle due opere. Si istituisce così un dialogo intermediale tra la messa in scena finzionale e le immagini dell’archivio cinematografico, in cui alla “cattura” di Raúl nella realtà di celluloide corrisponde una proiezione aberrante dell’immaginario cinematografico e televisivo all’interno del contesto storico ricostruito dal film. In altri termini, attraverso questo “montaggio di fiction”, Larraín invita lo spettatore a riflettere sul rapporto complesso instauratosi tra le forme di

13

Sul concetto di anestetizzazione in quanto esaurimento di una attitudine relazionale e critica con le immagini, nonché per una indagine delle sue implicazioni etiche e politiche, cfr. P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, cit., pp. 91-95.

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violenza politica e le forme di libertà mediatica coincidenti con l’immaginario statunitense, di fatto mai pienamente osteggiato all’interno della dittatura neoliberista di Pinochet. Tra le corse frenetiche lungo le strade di Santiago e le fughe al cinema, Raúl prova ad azionare un meccanismo di uscita dalla quotidianità per penetrare nello spettacolo e ricalcare i modelli visti sullo schermo. Il risultato è invece il ritorno in una periferia nella quale le forme dello spettacolo assumono contorni grotteschi e orrorifici. In questo circolo vizioso, che garantisce allo spettacolo di imporsi sulla quotidianità e alla quotidianità di ridursi a una versione mal riuscita dello spettacolo, agisce l’efficacia del cinema americano in quanto strumento di assimilazione culturale. Un cinema – come scrive De Gaetano – capace di Operare una nuova partizione del sensibile la cui dimensione estetica si è integrata a quella economica […] e con quella pubblica […]. Per cui il governo e il controllo dell’immaginario spettatoriale diventa la modalità determinante per controllare i desideri della popolazione come uno dei grandi obiettivi – secondo Foucault – della biopolitica14.

È così che, nel “notturno cileno” messo in scena da Larraín, disciplina e controllo si intrecciano problematicamente e convergono nell’articolazione di un’eco-

14

R. De Gaetano, La potenza delle immagini. Il cinema, la forma e le forze, ETS, Pisa 2012, p. 98.

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nomia dell’immaginario funzionale alla “distrazione” e al depotenziamento della sensibilità individuale e collettiva. Pur non costituendo ovviamente in sé delle forme di aberrazione, l’esportazione del divismo hollywoodiano, la diffusione della disco music e del reality show, sono alcuni degli elementi utilizzati per rappresentare la compenetrazione tra il regime dittatoriale e il modello economico e politico neoliberista all’interno della cultura e della società cilena15. Raúl uccide brutalmente una signora per impossessarsi di un televisore a colori e uccide i gestori del cinema per rubare la pellicola del suo film preferito, ormai uscito dalla programmazione e sostituito dal musical Grease (1978) di Randal Kleiser, nel quale si riconferma il successo di Travolta. Alla scia di omicidi si alterna la rifunzionalizzazione di oggetti d’uso comune per riallestire, a livello scenografico, la pista da ballo del 2001 Odyssey in uno scantinato di Santiago. Raúl si appropria di alcuni mattoni in vetro necessari a ricreare, sul vecchio palco del bar, il pavimento della pista da ballo; incollando su un pallone di cuoio i pezzi di uno specchio, realizza una disco ball che servirà a irradiare gli effetti stroboscopici durante lo spettacolo; utilizza l’intermittenza delle luci al neon per riprodurre, nello spazio chiuso della sua camera, l’esperienza della disco music. Tutti questi tentativi di trasposizione dei regimi di visibilità e di

15

Per uno studio sugli effetti del capitalismo e dell’immaginario consumistico sulla cultura cilena, dalla dittatura sino alla fine degli anni novanta, cfr. T. Moulian, Chile Actual: anatomía de un mito, LOM, Santiago 1997.

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performatività propri degli apparati spettacolari nel grigiore della vita di periferia risultano posticci e, al contempo, rivelano – per mezzo dell’esasperazione delle qualità plastiche e figurative degli oggetti e degli spazi – il divario tra l’immaginario veicolato dal regime e la scarsità delle risorse economiche, nonché l’impoverimento culturale e sociale. Il corpo di Raúl, plasmato dalle forme di controllo dell’immaginario e disciplinato dalla violenza, sessualmente impotente e desensibilizzato, assorbe la gestualità e il linguaggio di Tony ma li restituisce deformati e depotenziati: le coreografie, per quanto fedeli, risultano scomposte. Le battute in inglese, pronunciate di fronte al microfono, sul palco del bar, perdono l’ancoraggio al soggetto che le enuncia e risultano incomprensibili, stranianti per gli astanti e per lo spettatore. Ancora una volta, trasposizione e immedesimazione devono fare i conti con un contesto che, nonostante le molte forzature e gli adattamenti, non è in grado di farsene carico. «Raccontare la storia di un serial killer che sogna di diventare un ballerino e spera di riuscirci vincendo un TV contest»16 diventa dunque per Larraín una scelta politica nella misura in cui la storia di una “scheggia impazzita” è anche quella di una comunità costretta a rimuovere e a ricostruire su nuove basi un immaginario di riferimento. Come ha specificato il regista stesso,

A. Galbiati, “Intervista a Pablo Larraín”, in Rapporto confidenziale, http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=31393 (ultima consultazione: aprile 2017). 16

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Abbiamo realizzato che il film [Tony Manero] uscì in Cile nel 1978, nel mezzo della dittatura, nei suoi giorni più feroci. A quel punto abbiamo capito che ci trovavamo tra le mani un film politico, perché tutti i riferimenti culturali in esso contenuti, tutti i miti del protagonista e del Cile di quegli anni, arrivavano dagli Stati Uniti. […] La nostra storia divenne allora un racconto inserito all’interno di una prospettiva politica su quelle vite17.

Se essere il compagno di Nancy Puelma è l’unico scopo perseguito dal protagonista del secondo film della trilogia, essere Tony Manero è l’ossessione di Raúl Peralta. In entrambi i casi, si assiste a un processo di regressione cognitiva ed emotiva dei soggetti. Un processo che prende avvio nel momento in cui i protagonisti subiscono la fascinazione degli apparati spettacolari, per poi tentare un’identificazione totale e un annichilimento in essi. Presi all’interno di tale macchina politica-spettacolare, di fronte all’accadere degli eventi, non resta che farsi spettatori passivi e ossessivi. E quando questo non è più possibile, passare all’azione. Beninteso violenta. È questa la tappa finale del processo di desoggettivazione descritto a partire da Tony Manero. Ma, come si osservava all’inizio del paragrafo, i primi due film si sviluppano in contiguità spaziale, se non cronologico-temporale, e per comprendere a pieno tale dinamica è necessario riavvolgere la trilogia fino alla messa di in scena della morte di Salvador Allende.

17

Ibidem.

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Post Mortem. Autopsia della Nazione Mario Cornejo – si è già imparato a conoscerlo – è un funzionario pubblico. Più precisamente, la sua mansione è quella di trascrivere i referti delle perizie autoptiche pronunciate ad alta voce dal medico che le esegue. Ma le sue competenze nella dattiloscrittura sono scarse e, per sopperire a questa mancanza, quando rientra a casa è solito ricopiare a macchina i referti in precedenza scritti a mano su di un registro. Poi qualcosa accade. Il colpo di Stato. Dopo aver constatato la scomparsa della vicina – la cui casa è stata violata e perquisita alla ricerca degli attivisti politici, ormai trattati in quanto pericolosi dissidenti –, Mario si aggira in una Santiago vuota. Raggiunge il centro e si ferma di fronte al teatro di varietà, ma attorno a lui non resta che un paesaggio desolato, la strada piena di detriti e le automobili distrutte. Con uno stacco di montaggio si accede all’obitorio, dove i corpi senza vita dei manifestanti e degli oppositori al regime sono ammassati nelle sale e nei corridoi, in attesa di essere occultati. «Signor Cornejo, congratulazioni. È al servizio dell’esercito cileno». È sufficiente questa frase, pronunciata da un capitano dell’esercito per sancire l’arruolamento del funzionario tra le fila della milizia: d’ora in poi, anch’egli agirà per conto e in nome della Giunta militare. Il dottor Castillo, la sua assistente Sandra Carreño e Mario vengono scortati su un autocarro dell’esercito. Con loro c’è una macchina da scrivere e una cassetta di metallo con gli strumenti medici. L’autocarro termina la sua corsa di fronte a un ospedale. I tre vengono condotti all’interno 58

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I. Notturno cileno

dell’edificio. Ancora non lo sanno, ma di lì a poco dovranno assistere il medico durante l’autopsia sul cadavere di Allende. Nella sequenza dell’esame autoptico si alternano inquadrature che riprendono l’investigazione medica sul corpo tumefatto e sulla testa lacerata, piani medi e primi piani su Mario seduto alla scrivania e piani americani che includono nell’inquadratura la cerchia dei funzionari militari che attornia la sala [figg. 5-6]. A livello sonoro, la voce del medico è disturbata dal rumore prodotto dalla pressione dei tasti sulla macchina da scrivere, da qualche colpo di tosse e da un costante rumore metallico di sottofondo. L’autopsia ricostruita da Larraín riprende in modo fedele diverse parti del referto originale ma con una differenza sostanziale: nel film manca – e a breve se ne scoprirà la ragione – l’analisi interna del corpo18. Il dottor Castillo inizia con l’esame esterno della salma: «Foro d’ingresso del proiettile a forma di stella irregolare. Diametro di due centimetri. Presenta cinque lesioni diramate. La più larga misura due virgola cinque centimetri. Il contorno, come anche i bordi dell’orifizio, presenta un’abbondante impregnazione con sostanza scura e granulosa. Il proiettile attraversa i tegumenti e perfora il fondo della bocca, provocando l’esplosione della lingua insieme all’amputazione dell’estremità, e una frattura conge-

18

Il referto numero 2449, contenente l’autopsia del presidente Allende, può essere letto alla pagina web http://archivoschile.org/ wp-content/uploads/2012/01/730911-Informe-Autopsia-Allende. pdf (ultima consultazione: aprile 2017).

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Fig. 5

Fig. 6

nita della parte anteriore dietro al bordo inferiore del mascellare». A questo punto, l’esame si interrompe: il medico si accorge che Mario non è stato in grado di eseguire correttamente la trascrizione e lo costringe a rivelare la sua incompetenza, la sua incapacità nell’utilizzo della macchina da scrivere. La tensione sale. Dal gruppo dei militari si leva la voce di un colonnello che costringe il dattilografo incompetente a cedere il posto a un militare più abile di lui. Ora il medico può proseguire il suo esame: descrive minuziosamente la traiettoria del proiettile e ne rinviene le tracce lasciate sul corpo. Ma un secondo ostacolo si frappone alla conclusione dell’autopsia: 60

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Sandra si volge verso il suo superiore e, scusandosi, si dichiara incapace di dissezionare il cadavere. Nauseata, attraversa la sala, sfilando tra i militari, e si dispone al fianco di Mario che nel frattempo ha abbandonato la scrivania. Il dottor Castillo è ormai solo: impugna il coltello ma, prima di incidere il torace del Presidente, esita, si gira rapidamente verso il suo pubblico composto dai gerarchi che osservano ogni sua azione, rivolge loro uno sguardo al contempo disgustato e sommesso e infine ripone lo strumento. Nemmeno lui è in grado di violare – ancora una volta – quel corpo. Lo ricopre con un telo e, senza effettuare l’esame interno, passa alle conclusioni [fig. 7]: «Cadavere di sesso maschile identificato come Salvador Allende Goossens. Causa del decesso: recente ferita cervici-bocco-cranio encefalica, con uscita del proiettile. Questo tipo di sparo è detto nel gergo medico-legale “a breve distanza”. Questo sparo può essere emesso dalla persona stessa». Il battere dei tasti è diventato fluido e incessante come se si trattasse di un’arma da fuoco. Le conclusioni del referto lasciano adito a ben pochi dubbi: la morte del presidente Allende è stata provocata da un colpo di pistola, sparato da una distanza talmente ravvicinata da poter essere interpretato come un atto di suicidio. La sequenza si chiude con il primo piano di Mario: per qualche istante, un ghigno altera i tratti di compostezza e la freddezza espressiva che lo caratterizzano. La messa in scena dell’autopsia di Allende restituisce due gesti di resistenza che si susseguono. Dapprima quello di Sandra e poi quello del dottor Castillo. Dissimulando il senso politico del loro 61

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Fig. 7

rifiuto nel sentimento di nausea, decidono di non infierire chirurgicamente sul corpo del Presidente. Per quanto sia trattenuto e non plateale, si tratta di un gesto importante: come si avrà modo di vedere ancora, è questo uno dei pochi gesti di resistenza o sottrazione alla pressione del regime presenti nella trilogia di Larraín. Uno dei pochi momenti capaci di esprimere la volontà da parte dei soggetti di salvaguardare un’indipendenza residuale. E, tuttavia, anche se il bisturi non solca la traccia della violenza subita, la parola è costretta a sancire la “verità” di ciò che è stato e prendere parte all’instaurazione di un nuovo regime discorsivo e politico. Gli atti di enunciazione compiuti attraverso l’utilizzo del vocabolario medico-legale, l’osservazione ravvicinata volta a rinvenire le cause della morte e l’utilizzo delle tecnologie per misurare, rilevare e registrare, avvengono all’interno di un confine invalicabile, restituito figurativamente dalla fila dei gerarchi militari che sorveglia la sala e ne occlude la visibilità dall’esterno. Con la sequenza dell’autopsia, il film di Larraín mostra la cattura e la funzionalizzazione dell’appa62

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rato medico-legale da parte di quello militare, nella costruzione di un discorso scientifico e ufficiale che si impone sul cadavere e sanziona il decesso. Da questo momento in poi, nella storia del Cile, il potere militare e così tutte le forme di conoscenza rese ormai “organiche” si eserciteranno sul corpo sociale del Paese in quanto forme di disciplina e controllo: sono queste le coordinate dello “stato di eccezione” in cui soprusi e torture potranno essere compiuti senza ostacoli o garanzie costituzionali. Dalla sua posizione, Mario è in grado di osservare la scena e i suoi attori – il medico, l’assistente e i gerarchi – ma è incapace di produrre il documento ufficiale che impone sul cadavere la lingua e il discorso del potere. Mario si trova così a fare scarto rispetto alla sintassi disposta dal regime dittatoriale. Ma a differenza dei due colleghi, tutto ciò non è determinato da un rifiuto personale o da una strenua opposizione: banalmente, come lo spettatore sa fin dall’inizio del film, il protagonista manca della competenza di dattilografo. Se l’apparto medico non riesce ad esercitare un pieno rifiuto alle esigenze dei militari, Mario non fa altro che esprimere sinteticamente, con la sua presenza e con i suoi sguardi, l’inesorabile processo di disfacimento fisico e morale dello Stato e della società. L’incompetenza professionale di Mario – che solo apparentemente lo esime da un rapporto di connivenza con i responsabili del golpe – finisce per condizionare la sua capacità testimoniale, ossia la possibilità di adottare un punto di vista a partire dal quale sottrarsi alla volontà del regime e, per riprendere i termini di Paul Ricœur, «alla manipolazione concertata della memoria e dell’oblio da parte di 63

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coloro che detengono il potere»19. All’espressione “preferirei di no”, pronunciata dallo scrivano nel racconto di Herman Melville, il protagonista di Post Mortem sostituisce un più triviale “non ne sono capace”. Ancora di più, il dattilografo immaginato da Larraín non è solo incapace di registrare l’evento ma, con l’impassibilità e indifferenza che lo caratterizzano durante l’intero corso del film, tende a negare anche le possibili tattiche di resistenza all’interno del regime dittatoriale. Tra i tentativi di confronto compiuti dal cinema con la storia di questa morte, Salvador Allende, il documentario realizzato da Guzmán nel 2004, costituisce una pietra di paragone imprescindibile. Alternando le interviste ai filmati di repertorio, il film ricostruisce il progetto politico del “rivoluzionario democratico” e le fasi della sua terribile capitolazione: dalle immagini del 29 giugno 1973 – catturate dal cameraman argentino Leonardo Henrichsen che, nel tentativo di documentare i momenti più concitati del fallito colpo di Stato passato alla storia con l’appellativo di “El Tanquetazo”, filmò la sua stessa morte – al bombardamento del palazzo de La Moneda, fino

19

P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, tr. it. a cura di D. Iannotta, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 116. Sulle caratteristiche e i limiti della rappresentazione testimoniale, in una ripresa di Ricœur, cfr. M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008, soprattutto pp. 245-300. Per un approfondimento sul racconto testimoniale, cfr. anche A. Cati, Immagini della memoria: Teorie e pratiche del ricordo tra testimonianze, genealogia, documentari, Mimesis, Milano 2013, pp. 126-135.

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alle testimonianze dei compagni di lotta sugli ultimi istanti della sua vita. Attraverso il commento fuoricampo, è lo stesso Guzmán a prendere posizione su quella tragica morte e a rifiutare un’interpretazione del suicidio come un atto disperato o drammatico. Per Guzmán si è trattato della scelta, libera e realista, dell’ultimo combattente de La Moneda. Al di là delle incertezze storiche sulle cause della morte del Presidente e del dibattito pubblico che ne è seguito, da un film come Salvador Allende emerge un importante lavoro di rimemorazione20. Un lavoro compiuto attraverso il montaggio che, alternando presente e passato, esprime il tentativo di costruire una grande biografia nazionale nella quale sono iscritti tanto i tentativi di oblio, più o meno forzato, quanto l’intensa ricerca delle tracce che chiedono ancora di essere interrogate21. Raccontare una storia che, faticosamente, si rende memoria condivisa: è questo il progetto estetico e politico di Guzmán, iniziato con la trilogia de La Battaglia del Cile e

20

Per un’indagine critica delle principali versioni sugli ultimi momenti della vita di Allende, cfr. H. Benítez, Las muertes de Salvador Allende, RIL, Santiago 2006. 21

Sulle capacità memoriali del cinema documentario, in relazione alla rappresentazione e ri-presentazione degli eventi traumatici, cfr. C. Demaria, Il trauma, l’archivio e il testimone. La semiotica, il documentario e la rappresentazione del “reale”, Bononia University Press, Bologna 2012, p. 61 sgg. Sul documentario contemporaneo in quanto forma precipua del “cinema di testimonianza”, si veda D. Cecchi, Immagini mancanti. L’estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità, Pellegrini, Cosenza 2016.

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proseguito con perseveranza nel tempo, attraverso documentari come La memoria ostinata (1997), Il caso Pinochet (2001) e ancora oltre. Mentre volge al termine, Salvador Allende mostra le immagini, statiche e in movimento, del cadavere, dei soldati che lo trasportano su una barella fuori dal palazzo e infine dell’ambulanza che lo condurrà all’Instituto Médico Legal di Santiago. I ricordi e i documenti, al pari del ritorno sui luoghi del trauma, sono gli strumenti necessari per intraprendere il lavoro della e sulla memoria di una fase traumatica della storia cilena. Guzmán inaugura così uno spazio discorsivo nel quale possono prendere forma le traiettorie che definiscono la dimensione etica del discorso testimoniale: tra il debito assunto nei confronti delle vittime, per le quali si custodisce il ricordo e si racconta, e il dovere nei confronti delle generazioni future, alle quali bisogna consegnare la memoria di un passato che, afferma la voce fuori campo del regista, «si ostina a non passare». Ecco allora che, al di là di una sterile opposizione tra “documentario” e “fiction”, Larraín sembra proseguire – dal punto di vista narrativo e teorico – e rilanciare in modo originale il lavoro condotto dal maestro del cinema cileno. Post Mortem inizia nel punto in cui il film di Guzmán volge al termine, per permettere allo spettatore non solo di assistere alla produzione del referto con il quale la dittatura instaurerà il suo regime di verità, ma, soprattutto, di ritornare a esplorare senza sconti il “luogo del trauma”: i meccanismi che, a partire dal 1973, hanno prodotto l’oblio dell’avventura socialista e l’acquiescenza nei confronti della dittatura. Se 66

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l’intera produzione di Guzmán esprime la volontà di elaborare, su base condivisa, un’autobiografia del Cile, Larraín afferma l’importanza di indagare senza sconti il dispositivo dittatoriale. È così che la rielaborazione scenica dell’autopsia del presidente Allende costituisce il momento centrale di una più vasta e complessa autopsia della Nazione trasversale alla trilogia. Uno spunto analitico e critico che trova del resto un riscontro nelle parole di Larraín e nel meccanismo di serendipity che sarebbe alla base dell’ideazione del film del 2010: Quando stavo finendo di montare Tony Manero mi è capitato di leggere su internet il rapporto dell’autopsia sul corpo di Salvador Allende e ho subito avuto l’intuizione che quel che avevo appena letto altro non era che l’autopsia di un Paese, l’autopsia del Cile. Ho trovato quell’intuizione estremamente interessante e, appena conclusa la lettura, ho preso la decisione di fare un film su questo rapporto (Post Mortem, 2010)22.

E ancora, prosegue notando come il lasso di tempo compreso tra il 1970 e il 1973 sia stato quello In cui il nostro Paese provò a imboccare la strada democratica per il socialismo, ma il cammino fu reso impossibile per l’intervento della CIA e degli Stati Uniti che appoggiarono i militari e distrussero il sogno di una via democratica al socialismo. Il corpo

22

A. Galbiati, Intervista a Pablo Larraín, cit.

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di Salvador Allende è una metafora di tutto. Quello che è successo al suo corpo è come se fosse stato un viaggio morale. Ogni aspetto morale ha iniziato a decomporsi lentamente. E tutte le persone sono state coinvolte in questa decomposizione senza rendersene conto. Il personaggio principale diventa un assassino a causa della sua prossimità ai corpi senza vita23.

Nella messa in scena dei fatti del settembre 1973, Larraín sceglie di sostituire l’invisibilità pubblica dei desaparecidos con l’ingombrante presenza di cumuli di cadaveri. Come è noto, durante e dopo il colpo di Stato, la maggior parte dei cadaveri e dei detenuti non passarono attraverso strutture ospedaliere, ma furono segretamente deportati in luoghi di detenzione e tortura sparsi per tutto il Paese e soprattutto nella capitale; le salme furono occultate in fosse comuni o gettate in mare con i “voli della morte”. L’obiettivo del cineasta non è tanto quello di restituire le strategie adottate dal potere dittatoriale per occultare i cadaveri, quanto di mettere in evidenza l’incapacità di una parte della società civile di assumere consapevolezza del processo di instaurazione dittatoriale in atto. Il carattere di passività che caratterizza i protagonisti di Tony Manero e di Post Mortem esemplifica il processo di decomposizione del tessuto sociale dell’intero Paese24. Come si avrà modo di chiarire,

23

Ibidem.

Per un’analisi storica della crisi sociale e politica che ha contribuito a condurre il Cile verso la deriva dittatoriale, si rimanda a M.R. Stabili, Cile 1970-1973. Allende, la Unidad Popular, 24

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dall’anestetizzazione all’azione organica al regime – nelle forme della propagazione della violenza e del terrore – il passo è più breve di quanto possa sembrare.

Davanti alla dittatura, dentro la dittatura Nei primi due film della trilogia, lo spettatore vede insieme ai protagonisti, penetra con loro nel campo visivo. Attorno e di fronte ai soggetti in campo, davanti e dentro la dittatura, si dispone anche la macchina da presa: mobile in Tony Manero, fissa in Post Mortem. Larraín sceglie di restituire la percezione della dittatura da parte dei suoi protagonisti e il loro progressivo assorbimento in essa attraverso la costruzione di “soggettive libere indirette” che Deleuze, sulla scorta delle riflessioni di Pier Paolo Pasolini, definisce alla stregua di concatenamenti enunciativi in cui i punti di vista compresenti si sdoppiano e si differenziano: da un lato si mostra il personaggio e ciò che esso vede, dall’altro la macchina da presa prosegue e rilancia la visione di quest’ultimo, finendo per imporsi su di lui. Un personaggio agisce sullo schermo ed è supposto vedere in un certo modo. Ma nello stesso tempo la cinepresa lo vede, e vede il suo mondo da un altro punto di vista, mentre pensa, riflette e trasforma il

il Golpe, in “RiMe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea”, n. 14 (2015), pp. 141-165.

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punto di vista del personaggio. […] La cinepresa non dà semplicemente la visione del personaggio e del suo mondo, essa impone un’altra visione in cui la prima si trasforma e si riflette25.

La soggettiva libera indiretta è – prosegue Deleuze rilanciando ancora una volta le analisi pasoliniane sul cinema – «come una riflessione dell’immagine in una coscienza di sé-cinepresa»26. Dunque, non si tratta soltanto di individuare, come già accade nella semisoggettiva, l’oscillazione e la coabitazione di soggetto e oggetto dello sguardo bensì di inscrivere nella costruzione delle inquadrature una dimensione riflessiva che, nel caso della trilogia, consente al regista cileno di esporre visivamente le sue posizioni teoriche e politiche a proposito dei dispositivi dittatoriali. Tale riflessività emerge proprio grazie alla scelta di “far sentire la macchina da presa” che, come scriveva Pasolini, si sovrappone ai fatti, «violentandoli attraverso le folli deformazioni semantiche che si devono alla sua presenza come continua coscienza tecnico-stilistica»27. La scelta di utilizzare personaggi psicotici e vili come filtro percettivo produce una prima deformazione del punto di vista sugli eventi e gli esistenti. A ciò si affiancano le modalità di composizione delle immagini. In Tony Manero si tratta del movimento

25

G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 94.

26

Ivi, p. 96.

27

P.P. Pasolini, Il «cinema di poesia», in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1991, p. 193.

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rapsodico della camera a mano e di scelte fotografiche che limitano la profondità di campo, alterando il rapporto tra il soggetto che vede o l’oggetto della visione. Post Mortem è invece caratterizzato dalla fissità e dall’inclusione pressoché costante del protagonista, spesso inquadrato di spalle. Come si è già visto nelle pagine precedenti, i protagonisti dei due film si muovono all’interno di uno spazio sociale afflitto dalla dittatura, ne sono circuiti, vorrebbero restarne estranei, sfruttano i momenti di svago concessi da un film, da uno spettacolo televisivo o teatrale, ma a poco a poco vengono assorbiti in essa. Che si agitino in modo caricaturale e grottesco o che si dispongano ai margini dell’inquadratura, incapaci di compiere anche le azioni che li qualificano professionalmente, poco importa: la loro cattura nella città del terrore, come nell’inquadratura asfittica, intrisa di cadaveri, è senza via d’uscita. Da un lato, la macchina da presa segue dunque i personaggi ed entra in un rapporto mimetico con il loro sguardo errante. Sguardi che hanno perduto la capacità di agire e interagire in modo organico con il mondo e che vorrebbero solo disinteressarsi del circostante, identificandosi completamente nel passo di danza di un musical americano, oppure appigliandosi a una passione amorosa. Dall’altro, la “soggettiva libera indiretta” rilancia su larga scala la visionarietà individuale di Mario e Raúl, espandendola nell’aberrazione collettiva della dittatura. Non è possibile porsi davanti alla dittatura e neppure attraversarla con lo sguardo. L’erranza del singolo, la sua “anarchia” o il suo delirio vengono catturati all’interno di una macchina più ampia che 71

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li trasfigura in terrore. Il personaggio è comunque già dentro la dittatura: tende ad agire in conformità alle logiche del suo dispositivo. Ciò che si mostra come un’unica forza di coesione, capace di tenere assieme movimenti, azioni e spazi, è l’avanzata del progetto dittatoriale accompagnata dall’immaginario statunitense, inteso come un altrove sfavillante che si riproduce, in modo allucinatorio e aberrante, nel grigiore del qui. Come si vedrà nelle pagine successive, occorrerà aspettare il Plebiscito del 1988 per assistere a una nuova articolazione del rapporto tra forme di governo politico e forme dell’immaginario, in quanto condizione di possibilità della democrazia. Cercando di indagare a fondo le forme dell’erranza che caratterizzano i due personaggi, ecco che d’improvviso balena un riferimento implicito del primo film della trilogia. Le corse a piedi di Raúl con il vestito bianco di Tony Manero nella borsa, il suo spiare gli assalti violenti per poi riprodurli, non rimandano tanto alle “forme nobili” del pedinamento e della passeggiata neorealista. Assomigliano piuttosto al vagabondaggio di Travis in Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese dove, dallo specchietto retrovisore del taxi giallo, lo spettatore può vedere il protagonista e quello che accade nel cuore della notte, lungo i marciapiedi affollati di New York. Come scrive lo stesso Deleuze, nella sua riflessione di lunga gittata sulle forme dell’erranza nella storia del cinema, la macchina da presa di Scorsese non si limita a restituire allo spettatore «un catalogo di tutti i cliché psichici che si agitano nella testa dell’autista», ma offre anche e nello stesso tempo «i cliché ottici e sonori della 72

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città-neon che vede sfilare lungo le strade»28. In modo speculare, il discorso libero indiretto delle immagini di Tony Manero e di Post Mortem costruisce gradualmente un’indiscernibilità tra i deliri individuali e il delirio collettivo di una nazione assediata dalla paura e presa dall’entertainment cinematografico e televisivo. Interiorità ed esteriorità si confondono, sottolineando ancora una volta il legame tra l’indebolimento delle soggettività di Raúl e Mario e il consolidamento del regime. Il finale di Tony Manero costituisce a tal proposito la prima occasione di messa in scena, all’interno della trilogia, di una piena identificazione tra il personaggio e il progetto tanatopolitico della dittatura. La febbre del sabato sera è uscito dalla programmazione delle sale cinematografiche. Lo spettacolo di ballo, basato sulla coreografia di You Should Be Dancing, si è concluso tra gli applausi del pubblico che ha riempito il locale. Il corpo di Raúl ha ormai assorbito la postura dell’attore-ballerino impressa nella locandina del film: i piedi appoggiati sul pavimento di vetro, le gambe leggermente divaricate, l’indice della mano destra puntato verso l’alto, le braccia e il busto in posa, tesi e al contempo in perfetto equilibrio. Un allenamento fatto di visioni e prove, accompagnato da un maquillage di certo non professionale, gli hanno permesso di aderire, in forma grottesca, alla maschera di John Travolta [fig. 8]. Se quest’ultimo, nelle pose che lo ritraggono all’interno dei manifesti pubblicitari, può toccare con il suo dito le luci della discoteca e

28

G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 238.

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Fig. 8

rifletterne il bagliore, Raúl resta rinchiuso tra le pareti scalcinate della sua stanza, lambito dalla luce del sole che passa attraverso le tende della finestra. A Raúl non resta adesso che ripresentarsi al programma televisivo che elegge i sosia cileni del cinema americano. Magra consolazione per un soggetto che ambisce a essere e non soltanto a sembrare, ma si tratta di un passaggio necessario per completare la metamorfosi. Ancora una volta, è necessario uscire dalla periferia del reale e tornare a immergersi negli apparati mediatici. Mentre scende le scale, la camera a mano si dispone alle sue spalle. Se le inquadrature precedenti mostravano con chiarezza i dettagli posturali e somatici che accompagnano la trasformazione del personaggio – dalla pettinatura alla vestizione, sino al corpo che si mette in posa –, adesso l’immagine è completamente deformata e instabile. Si intravede la figura di Goyo, il secondo ballerino della compagnia, che si muove in direzione opposta rispetto a Raúl. È diretto verso la sua camera, intenzionato a 74

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indossare il suo costume da Tony Manero – scoprirà subito dopo che Raúl lo ha imbrattato di feci –, per concorrere anche lui allo show dei sosia. Terminata la discesa della prima rampa, il movimento viene interrotto dai rumori provenienti dal piano terra dove è situato il locale. Due militari in borghese sono appena entrati per arrestare Goyo e la giovane Pauli, entrambi accusati di far parte della resistenza al regime. Raúl evita di entrare nel salone dove ha luogo l’interrogatorio e si nasconde in un ripostiglio. La posizione del protagonista si costruisce come spazio di osservazione all’interno del quale si colloca anche la macchina da presa. Nell’inquadratura, il soggetto della visione e il dramma dell’azione coabitano. Ma mentre il primo piano – occupato dall’osservatore – è perfettamente a fuoco, lo sfondo – lo spazio in cui avviene l’interrogatorio – è fuori fuoco. Come in altre sequenze del film, il protagonista si limita a osservare, da una posizione di invisibilità, gli eventi tragici connessi alle rappresaglie per poi darsi alla fuga e raggiungere lo show [fig. 9]. Una volta all’interno dello studio televisivo, l’inquadratura in cui soggetto e oggetto dello sguardo coabitano si ripete: nascosto dietro le quinte, il protagonista spia l’esibizione degli altri candidati e, al pari dei monitor e delle telecamere in campo, ne restituisce le immagini [fig. 10]. Le strategie compositive e la struttura circolare del film – in cui nel finale si ritorna nell’ambiente televisivo che compariva già all’inizio –, trattengono Raúl lungo il baratro che lambisce spettacolo e dittatura. Che si tratti di andare al cinema, di apparire in televisione, di assistere alla violenza o di perpetrarla, 75

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SENSIBILITà E POTERE

Fig. 9

Fig. 10

Raúl non fa altro che reificare il suo sguardo e il suo punto di vista di spettatore. Se lo studio televisivo di Tony Manero costituisce lo spazio simbolico in cui il delirio del singolo si salda all’aberrazione politica e sociale, il racconto libero indiretto di Post Mortem restituisce il processo di svuotamento cognitivo del protagonista e il suo passaggio all’azione. Anche qui, mentre la macchina di morte procede 76

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I. Notturno cileno

pressoché indisturbata, lo spazio comunitario si frantuma e annichilisce progressivamente. Salvo pochissime ed estemporanee eccezioni che mostrano il permanere di alcuni tratti residui di umanità, Mario non reagisce. La sua attività scopica si riduce progressivamente, nell’attesa che la distruzione dello spazio sociale si compia. Neppure le sollecitazioni di Sandra, collega e assistente del medico legale, riescono a sottrarlo da quel processo di anestetizzazione che livella, contrae e canalizza la sua sensibilità. La donna, immersa nella carneficina, costretta a contare i fori dei proiettili, ad annotare sesso ed età, ad apporre un numero identificativo ai cadaveri, esplode in un pianto che manifesta rabbia e disperazione. Urlando, chiede agli astanti che cosa stia succedendo: perché i suoi colleghi, gli amici, i concittadini che soltanto poche ore prima erano vivi, adesso giacciono ai suoi piedi. Mario è incluso in campo, immobile, impassibile, inquadrato di spalle. È dunque il capitano dell’esercito, che ha preso il comando dell’obitorio, a porre brutalmente fine alla scena d’isteria, ammutolendo l’infermiera con una scarica di colpi di pistola sui corpi senza vita [fig. 11]. Attraverso un controcampo si percepisce l’unico movimento del protagonista che, scosso dal rumore degli spari, muove la testa di scatto e, per la prima volta, abbassa lo sguardo. Quasi una presa di coscienza che quanto si sta svolgendo di fronte a lui è un evento reale, un evento di portata storica, e non una semplice allucinazione. Ma si tratta di un breve istante; subito dopo il volto si ricompone e riacquista la sua inespressività. In tutte le sequenze ambientate nell’obitorio di Santiago, Mario non è in grado di offrire una risposta 77

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Fig. 11

alle domande e alla richiesta di aiuto della collega. La morte è visibile ed esposta al suo sguardo ma quest’ultimo è incapace di offrire un’elaborazione narrativa, seppur parziale e provvisoria, degli eventi. Eppure, dopo tanta inedia, è con la sequenza finale del film che Larraín mostra l’esito pragmatico e violento della deriva cognitiva ed emotiva del soggetto preso dentro la macchina dittatoriale. Dall’anestetizzazione alla perpetrazione, il regista mette in scena un meccanismo psicologico e politico che aggredisce il soggetto, operandone una sorta di arruolamento. Se il finale di Tony Manero mostrava la saldatura immaginaria e pragmatica tra il desiderio di evasione del singolo e la disciplina dittatoriale, con l’ultima sequenza di Post Mortem si assiste al passaggio all’azione violenta di Mario. L’amata Nancy, ricercata dalla polizia militare per il suo rapporto con i dissidenti comunisti, ha trovato riparo tra le macerie della sua stessa casa. Mario, dalla posizione di funzionario integrato tra le fila del regime, le offre il suo aiuto e le chiede di sposarlo. Durante i loro brevi incontri al buio si consuma una sessualità ridotta a gesti meccanici, 78

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I. Notturno cileno

volta al soddisfacimento delle pulsioni del primo, piuttosto che una passione condivisa. Nella sua deriva di fronte all’orrore dell’obitorio, Mario si aggrappa ossessivamente all’idea di essere il fidanzato della ballerina del Bim Bam Bum e accetta le sue condizioni. Anche in questo residuo di affettività, anestetizzazione e ossessione si rilanciano l’una con l’altra. Pur senza entusiasmo, Mario sembra disposto a tutto per Nancy, ma una volta scoperto che nel rifugio si nasconde anche il suo amante ricercato dall’esercito di Pinochet, decide di vendicarsi e di punire questo gesto di infedeltà ostruendo il passaggio del nascondiglio e impedendo l’uscita. Li nasconde, li mura vivi. La scena viene restituita attraverso un lungo piano sequenza di circa dieci minuti, durante i quali la macchina da presa, immobile, registra l’azione di Mario che inesorabilmente raccoglie una serie di oggetti per bloccare l’ingresso del rifugio. Se fin dall’inizio del film e della dittatura Mario aveva rinunciato al ruolo di testimone civile, tutto si conclude con il gesto estremo di un personaggio ormai incapace non solo di osservare criticamente l’orizzonte degli eventi ma anche di controllare se stesso. A sua volta, l’occhio meccanico della cinepresa, ormai svincolato dal rapporto libero indiretto con lo sguardo del personaggio – dalla necessità di articolare mimeticamente i suoi residui emotivi, i suoi ritmi, i suoi desideri – può agire indisturbato nella fredda registrazione di una lenta agonia. Senza tagli o ellissi, un omicidio si compie in piano sequenza [fig. 12]. Come a conferma del rapporto tra l’anestetizza79

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SENSIBILITà E POTERE

Fig. 12

zione del dattilografo, del “testimone di Stato”, e la riproduzione della violenza, Larraín lavora ancora ad alterare la cronologia degli eventi. Nancy muore nell’ultima sequenza ma, a ben vedere, ritornando all’inizio del film, già in una delle autopsie svolte presso l’ospedale prima del golpe, il medico identificava un cadavere con il nome di Nancy Puelma Oliveras e stabiliva, come cause della morte, la malnutrizione e la disidratazione. Se Nancy “muore due volte”, Mario è, allo stesso tempo, colui che in apertura ne registra senza alcun pathos il decesso e colui che nel finale ne opera la violenta uccisione. Nuovamente, l’indifferenza sociale e politica e la violenza organica al regime sono messe in rapporto dal racconto di Larraín29. È dunque nel finale del film che la deriva del soggetto si compie. È qui che la norma baziniana del “montaggio proibito” trova una piena applicazione: Sull’accanimento verso le vittime da parte di coloro che subiscono la deriva corruttiva del potere, cfr. E. Canetti, Massa e potere, tr. it., Adelphi, Milano 1981, pp. 425-426.

29

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I. Notturno cileno

le vittime, rinchiuse e mute, e il carnefice, risoluto e spietato, occupano la medesima inquadratura, nel rispetto dell’unità di tempo e di spazio30. I corpi di Nancy e dell’amante, lentamente, scompaiono dall’inquadratura, dapprima protetti, poi nascosti e infine soffocati da Mario. L’inquadratura fissa in piano sequenza svincola Mario dalla dimensione osservativa, e manifesta l’assimilazione completa nel giogo della prassi dittatoriale. La sua azione si conclude. Non c’è più alcun soggetto in campo. Il film non ha più nulla da mostrare e può chiudersi sullo sfondo nero accompagnato dai titoli di testa. Anche Nancy e il suo amante sono desaparecidos. Logica della desaparición Quella della dittatura di Pinochet è una storia di violenza e terrore. È una storia piena di buchi e lacune. È la storia di circa quarantamila vittime, delle quali oltre tremila desaparecidos31.

30

Cfr. A. Bazin, Che cosa è il cinema?, tr. it., Garzanti, Milano 1999, pp. 72-74. 31

Nel 1991, in piena transizione democratica, il governo cileno ha istituito una delle prime commissioni per la verità e la riconciliazione, la “Comisión Nacional de Verdad y Reconciliación” (“Comisión Rettig”). Successivamente, fu nominata la “Comisión Nacional sobre Prisión Política y Tortura” (“Comisión Valech”). Questa seconda commissione ha rilasciato un dossier nel 2004 – poi rivisto nel 2005 – nel quale, oltre alle morti, sono state indagate anche le violazioni dei diritti umani e le torture compiute dal regime di Pinochet. Per un approfondimento, cfr. A.

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SENSIBILITà E POTERE

Nell’introduzione si ricordavano i grandi film di autori come Guzmán, Littín e Ruiz che hanno cercato di indagare il sistema di cause e le conseguenze di tale processo storico. Si faceva riferimento al tentativo costante nella produzione di Guzmán di colmare tali vuoti e di elaborare narrativamente la memoria traumatica della morte di Salvador Allende e di ciò che seguì. Partendo dalla costruzione di uno spazio narrativo chiuso che caratterizzava l’esperimento di Fuga e attraversando i primi due film della trilogia, si è cercato di evidenziare le modalità specifiche della riflessione di Larraín sulla storia del Cile. La riflessione di un regista che non ha conosciuto la stagione politica del socialismo cileno e che è cresciuto negli anni successivi alla dittatura di Pinochet. Invece che indagare le cause storiche dell’11 settembre 1973, Larraín va alla ricerca delle modalità di funzionamento della macchina dittatoriale. Le analizza a partire da singoli soggetti – più o meno patologici – e dalla loro incapacità di tutelare uno spazio, individuale e collettivo, di resistenza cognitiva, passionale, politica. Questa indagine cinematografica deve tenere conto dei piccoli come dei grandi gesti che prendono corpo in un regime autoritario, violento e al contempo capace di erogare forme di evasione. Come è stato possibile che un governo democraticamente eletto sia stato rovesciato senza suscitare piena resistenza

Ferrera, Assessing the Long-Term Impact of Truth Commissions. The Chilean Truth and Reconciliation Commission in Historical Perspective, Routledge, New York 2015.

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popolare? Com’è che migliaia di giovani donne e uomini sono scomparsi nel cuore della capitale, in un’epoca di ampia visibilità mediatica? E com’è possibile che tutto questo sia andato avanti per quindici anni, nel silenzio della comunità internazionale? Si è visto in che modo, di fronte all’affermazione della dittatura, il protagonista di Post Mortem abbia progressivamente rinunciato alle proprie facoltà cognitive e alle proprie emozioni. Il suo sguardo di fronte all’affermazione del regime coincide con il mero vedere, il suo stile di vita si riduce a una serie di gesti meccanici. L’incapacità di ricoprire il ruolo di testimone lo porta inevitabilmente ad assumere una funzione operativa all’interno della dittatura. E il protagonista di Tony Manero? Spettatore ossessionato da un mito di celluloide, ballerino fallito, di fronte ai tentativi di opposizione al regime compiuti dai suoi compagni sceglie l’identificazione totale con la macchina hollywoodiana e l’azione omicida. Se l’occultamento delle tracce costituisce l’obiettivo dei progetti di sterminio perpetrati nella modernità, i primi due film della trilogia mettono in scena e cercano di fare i conti con uno scacco testimoniale. Le scelte compositive e la costruzione dei punti di vista all’interno delle sequenze manifestano il processo di svuotamento delle capacità testimoniali dei protagonisti. È proprio concentrandosi sulle difficoltà, da parte di quanti sono stati coinvolti e travolti dall’evento, di mantenere una condotta etica e politica e dunque di costituirsi come testimoni che Larraín prova a relazionarsi con il passato. La dittatura, come qualcosa di non rappresentabile in sé: un “fuoricampo assoluto” che mira a travolgere 83

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ogni spazio e corpo, principio di ordine e disordine di ogni inquadratura. Resta perlopiù cupa, in un certo senso nichilista se non addirittura cinica la visione di Larraín sulle possibilità di esercitare una qualche forma di resistenza nel cuore del terrore. Non un gesto, non un’“immagine malgrado tutto” che i suoi protagonisti siano veramente capaci di strappare alla macchina dittatoriale per rivendicarla a se stessi, alla propria dignità di esseri umani. Si potrebbe senz’altro dire che tutto ciò costituisce un limite della sua riflessione e manifesta una sorta di cecità nei confronti dell’ostinata persistenza di forme del pathos, sfide intellettuali e valori etici anche nei buchi più neri di orrore del Novecento. Ciò che di più profondo e profondamente critico resta di tali aberrazioni è proprio ciò che ha saputo sottrarvisi32. Eppure, nella loro durezza, i film della trilogia restano coerenti al principio di indagare le piccole miserie che definiscono il campo dittatoriale in quanto basato su connivenze relative. Larraín non nega la sopravvivenza di gesti eticamente e politicamente carichi.

Il riferimento è alla riflessione condotta da Georges DidiHubermann sulle quattro fotografie scattate da alcuni membri del Sonderkommando ad Auschwitz. Se l’autore ritorna a più riprese sull’espressione “malgrado tutto” è perché essa è l’emblema di una resistenza testimoniale: «Ogni frammento esistente – di immagini, parole, di scritti – è strappato a un fondo di impossibilità. Testimoniare significa raccontare malgrado tutto ciò che è impossibile da raccontare in alcun modo». Cfr. G. DidiHuberman, Immagini malgrado tutto, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 135. 32

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Più semplicemente: non focalizza su questi la sua attenzione, li attribuisce a figure minori del racconto, li lascia sullo sfondo. La logica della desaparición condotta con la trilogia è in questo senso un’analisi delle forme violente, meschine o quantomeno antieroiche di vivere, sopravvivere e – come si vedrà nelle prossime pagine – di rovesciare la dittatura.

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I. Notturno cileno

Sufre más el que espera siempre que aquel que nunca esperó a nadie? Dónde termina el arco iris, en tu alma o en el horizonte? Tal vez una estrella invisible será el cielo de los suicidas? Dónde están las viñas de hierro de donde cae el meteoro?1 Pablo Neruda, El Libro de las Preguntas

Credo che per il XX secolo la bellezza del cinema sia stata quella di essere una gigantesca macchina asociale che, paradossalmente, ha insegnato a milioni di persone a vivere con gli altri, dunque in società, ma senza mai dimenticare che al mondo non c’è solo la società. Invece quando non resta altro che l’orizzonte sociale, quando il mondo è scomparso, ci si ritrova imprigionati nella mediocrità del villaggio globale, e anche se questo villaggio è ultracomunicante resta sempre un villaggio. E un villaggio non ha bisogno di critica, ha bisogno di imbonitori, di ultras, di guardie campestri, insomma di televisione. Serge Daney, Il cinema e oltre. Diari 1988-1991

Soffre di più chi aspetta sempre / di chi mai ha atteso nessuno? / Dove finisce l’arcobaleno, / nella tua anima o nell’orizzonte? / Forse una stella invisibile / sarà il cielo dei suicidi? / Dove sono le vigne di ferro / da cui cade la meteora? 1

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

II. QUANDO IL PUBBLICITARIO È IL PROTAGONISTA

Cercare l’uscita. Eterotopie della dittatura Protagonista della trilogia della dittatura è un uomo perlopiù solo. Mario Cornejo ha un buon lavoro statale e una vita sociale fatta di pochi gesti, poche parole; tenta di evadere andando a teatro e cercando un’insolita occasione di contatto con una ballerina. Raúl Peralta è il performer di una compagnia di danza che si esercita in una bettola di Santiago del Cile; entra ed esce continuamente dalle sale cinematografiche della città, dove si identifica con il protagonista di La febbre del sabato sera. René Saavedra e Lucho Guzmán sono due creativi che collaborano nello sviluppo di campagne pubblicitarie, ma che improvvisamente si trovano a lavorare in studi di produzione diversi e a occupare posizioni rivali nella propaganda per il Plebiscito dell’ottobre 1988. Vivono in appartamenti borghesi, proletari o sottoproletari, in ogni caso ridotti ai minimi termini. Escono in strada guardinghi e appena possono imboccano la porta di una sala spettacoli. Cercano una via d’uscita, un varco capace di aprire ad un altrove, a uno spazio e a un tempo fuori dal quotidiano. Prendono parte alle dinamiche di continua simulazione 89

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e dissimulazione sociale che caratterizzano la dittatura e che rendono la città di Santiago una “ciudad oculta”. Ricordano i romanzi dello scrittore argentino Manuel Puig – Il tradimento di Rita Hayworth (1968), Il bacio della donna ragno (1976) – dove l’immaginario statunitense pervade il Sudamerica e i miti di celluloide calamitano personaggi caratterizzati da un presente instabile per poi abbandonarli a se stessi. Se il film interpretato da John Travolta non dura più di due ore – attivando il circuito della reiterazione della visione –, anche uno spettacolo di cabaret e così ogni altra forma d’intrattenimento è pur destinata a finire. Il cinema storico e politico di Larraín sembra identificare i diversi tentativi, sempre mancati, di sottrarsi all’esperienza della dittatura nell’accesso a spazi della fruizione spettatoriale in quanto eterotopici: «spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano»1. Palcoscenici, platee, studi televisivi ai quali è possibile accedere varcando una soglia, pagando un biglietto o effettuando un’iscrizione, ben consapevoli che l’accesso prevede un’uscita e dunque un ritorno agli spazi e ai tempi della vita sociale2. È così che, in Post Mortem, l’evasione nello spet-

1

M. Foucault, Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, tr. it., Feltrinelli, Milano 1998, p. 310. 2

Sul carattere eterotopico del cinema e del teatro, cfr. Ivi, p. 313.

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

tacolo teatrale sembra innescare una parentesi felice nella vita di Mario – l’incontro con la vicina –, ma le manifestazioni di piazza e la violenza del colpo di Stato dell’11 settembre 1973, osservata e subita dal protagonista, finiscono per prevalere sul resto e riprodursi in un’azione omicida come semplice vendetta, bisogno di occultamento e brama di oblio. In Tony Manero, il tentativo di Raúl di protrarre l’esperienza cinematografica oltre i limiti spaziali e temporali della sala si trasforma in un’ossessione da realizzarsi a discapito di ogni altro valore, attraverso azioni efferate che prendono corpo nel tessuto sociale di un Paese traumatizzato dalla violenza di Stato. Per quanto si imbocchi la porta dell’eterotopia non è dunque possibile uscire da quel dispositivo del terrore che ha caratterizzato, per più di vent’anni, la storia cilena, poiché lo spazio eterotopico è «connesso a tutti gli spazi della città, della società o del villaggio»3. La geografia fantasmatica della sala di proiezione, intesa come tentativo di deterritorializzazione dalle coordinate spazio-temporali di un quotidiano di violenza, si riterritorializza sotto forme grottesche nello stato d’eccezione in quanto paradigma politico della dittatura. Se nei film del 2008 e del 2010 si manifesta l’impossibilità di estendere il dominio dell’immaginario oltre gli spazi adibiti alla fruizione spettatoriale se non in forme rovesciate, distopiche, quello del 2012 sembra concentrarsi sulla differenza che intercorre tra il semplice e provvisorio tentativo di evasione dalla

3

Ivi, p. 312.

91

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dittatura nell’eterotopia e la svolta duratura garantita da un’utopia. Come ha scritto Michel Foucault nelle pagine d’apertura di uno dei suoi più celebri scritti: Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa “tenere insieme”… le parole e le cose4.

Al contrario, Le utopie consolano; se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico5.

Post Mortem e Tony Manero si concentrano sull’impossibilità di articolare armonicamente il passaggio tra spazio topico – l’essere qui, nella storia – e spazio eterotopico – il prendere posto, provvisoriamente, in un altrove a portata di mano –, e così facendo mostrano i tic verbali e posturali, le patologie che attaccano i soggetti. No - I giorni dell’arcobaleno assume come specifico oggetto di racconto non più

4

M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it., Rizzoli, Milano 1998, pp. 7-8.

5

Ibidem.

92

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

l’accesso a una sala teatrale o cinematografica da parte di un uomo solo in cerca di evasione, ma segue due uomini – considerati nella solitudine della loro consapevolezza creativa e politica – nel processo di edificazione di un immaginario utopico fruibile su scala nazionale: un Cile meraviglioso, capace di accogliere tutti e nessuno. È seguendo René e Lucho – non più degli spettatori per disperazione ma dei creatori d’immagini efficaci per professione – che No riflette e invita a riflettere sulle condizioni sociali, nonché sulle implicazioni culturali e politiche dell’uscita dalla dittatura. È restando sulle orme dei due pubblicitari che diventa possibile concepire la battaglia d’immagini come laboratorio sociale di progettazione e contesa del politico.

La costruzione dell’arcobaleno – Bene. Innanzitutto volevo dirvi… che quanto state per vedere è sicuramente in linea con l’attuale contesto sociale. – (Annuendo) Mh, mh! – Noi crediamo che il Paese ormai sia pronto per questo tipo di comunicazione. – Assolutamente. – Non bisogna dimenticare che i cittadini sono sempre più esigenti rispetto alla verità, a ciò che piace loro. Siamo onesti: oggi il Cile pensa al suo futuro! – Bene. – Vado? – Vai! 93

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SENSIBILITà E POTERE

Il giovane pubblicitario René Saavedra è inquadrato in primo piano mentre si rivolge a degli interlocutori posti fuori campo. Accanto a lui, un collega più anziano, il suo superiore: Lucho Guzmán – interpretato da Alfredo Castro, già protagonista dei precedenti episodi della trilogia – annuisce, in una sorta di controcanto alle affermazioni di René. In continuità di campo, la macchina da presa si abbassa e inquadra un lettore Betacam, poi un monitor Sony e un video che inizia con un countdown timer: 4, 3, 2… Un montaggio rapido lega il dettaglio di una bibita ghiacciata al totale di un concerto rock, un altoparlante che trasmette una voce euforica e squillante, ancora il concerto, le bibite che si stappano, le piroette del cantante e si conclude con lo slogan «Ahora tu, ahora Free!». Finito il video l’inquadratura si allontana dallo schermo, segue il gesto di arresto della proiezione e poi ritorna sugli sguardi dei due pubblicitari rivolti al loro pubblico. Finalmente, un raccordo in asse mostra le coordinate spaziali della proiezione: stanno mostrando le diverse versioni della pubblicità di una bevanda analcolica agli altri membri dell’agenzia di comunicazione, almeno in parte perplessi [fig. 1]. René – un braccio appoggiato al monitor – difende la sua campagna: «Questo è molto, molto, ma molto originale. In America forse c’è qualcosa di simile […]. Abbiamo un prodotto diverso dalla concorrenza, abbiamo un prodotto che invita ad essere giovani, che invita ad essere coraggiosi. Se sei coraggioso sei Free, credo». Mentre stappa una bottiglia, Lucho offre a supporto la sua versione, cerca di attenuare l’impeto presente nelle parole di René: «Questo è ciò di cui i nostri 94

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

Fig. 1

giovani hanno bisogno: musica, ribellione, amore. Ma mantenendo l’ordine e il rispetto!». Improvvisamente entra una segretaria nella stanza: c’è José Tomas Urrutia, il leader comunista, che dice di avere un appuntamento. René è imbarazzato, gli altri membri dell’agenzia increduli. Entro poche ore il personaggio di René, liberamente ispirato alla figura del pubblicitario cileno Eugenio García, entrerà nell’orbita del comitato a sostegno del No in occasione del Plebiscito del 5 ottobre 1988 – indetto per determinare il conferimento ad Augusto Pinochet di un ulteriore mandato di otto anni come Presidente della Repubblica – e finirà per assumere la guida della campagna di comunicazione. Il vecchio Lucho sarà invece assoldato dal regime per la gestione degli spot televisivi a sostegno del Generale. No prende le mosse dalla pièce teatrale El plebiscito dello scrittore e drammaturgo cileno Antonio 95

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SENSIBILITà E POTERE

Skármeta, membro del “Movimiento de Acción Popular y Unitaria” ed esule dopo il golpe del 1973, prima in Argentina, insieme a Raúl Ruiz, e poi in Germania6. Larraín e lo sceneggiatore Pedro Peirano lavorano al film a partire dal 2010, nello stesso periodo in cui lo scrittore sta lavorando all’adattamento in forma di romanzo della sua stessa pièce teatrale. Fin dall’inizio della lavorazione, il regista assume la decisione di girarlo interamente con telecamere UMatic degli anni Ottanta in formato 4:3, con l’obiettivo di intrecciare le componenti plastiche delle scene finzionali con i cromatismi e i modi d’impressione della luce sulla pellicola e restituire così la “grana” dei numerosi filmati d’archivio televisivo incorporati. «Sono cresciuto negli anni ottanta, durante la dittatura», dichiarerà il regista subito dopo l’uscita del film, Quello che vedevamo in televisione era di bassa definizione, era un immaginario sporco che non si poteva riprodurre in maniera pulita. La memoria collettiva è piena di quei ricordi di oscurità, di impurezza. […] Filmare in pellicola o con le camere digitali di alta definizione attuale avrebbe generato una distanza con l’immaginario dell’epoca. Questa fusione era importante e rivedendola adesso non so bene quale sia il materiale nostro e quale sia quello della televisione7.

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A. Skármeta, I giorni dell’arcobaleno, tr. it., Einaudi, Torino 2013. “Película chilena sobre el plebiscito de 1988 es aclamada en Cannes”, in La Tercera, 15 maggio 2012, http://www.latercera.

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

Le dichiarazioni di Larraín sull’orizzonte visivo cileno della prima metà degli anni ottanta trova del resto conferma nell’indagine condotta da Littín per le strade di Santiago nel suo Acta general de Chile. Strade tendenzialmente prive di poster o graffiti, prive di immagini commerciali e politiche che potessero in qualche modo allargare o intaccare la ristretta gamma discorsiva, cromatica ed emotiva prospettata dal regime. Un immaginario sporco – caratterizzato dalla “bassa definizione” che contraddistingue la televisione in quanto “medium freddo”, secondo la nota concettualizzazione di Marshall McLuhan8 – come sporche sono le immagini alle quali assiste René quando viene chiamato a esprimere una valutazione strategica sull’efficacia del primo video elaborato dagli attivisti per occupare lo spazio di quindici minuti giornalieri concessi dal regime nei giorni precedenti al Plebiscito. Lo spazio attraverso il quale l’opposizione sarebbe tornata sulla scena del dibattito pubblico, dopo decenni di violenta esautorazione. L’attività di consulente strategico alla comunicazione inizia di fronte alle immagini a tutto schermo dell’11 settembre 1973. Poi militari, violenza, distruzione, deportazione, morte. “34.690 torturati, NO”. “200.000 esiliati. NO”. “2.110 uccisioni. NO”.

com/noticia/cultura/2012/05/1453-461597-9-pelicula-chilenasobre-el-plebiscito-de-1988-es-aclamada-en-cannes.shtml (ultima consultazione: aprile 2017). Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it, Il Saggiatore, Milano 1967, soprattutto pp. 30-33. 8

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“1.248 desaparecidos. NO”. Suoni di arma da fuoco ai quali si contrappone il canto orgoglioso di Vuelvo degli Inti Illimani: «Con cenizas, con desgarros, / con nuestra altiva impaciencia, / con una honesta conciencia, / con cenizas, con desgarros, / con nuestra altiva impaciencia, / con una honesta conciencia, / con enfado, con sospecha, / con activa certidumbre / pongo el pie en mi país, / y en lugar de sollozar, / de moler mi pena al viento, / abro el ojo y su mirar / y contengo el descontento»9. Sull’ennesimo gesto di violenza di un militare ai danni di un manifestante, interviene un raccordo di montaggio ad articolare il passaggio dal documento alla fiction, dalla “verità della dittatura” alle contingenze polemiche della sua articolazione retorica a fini propagandistici, dall’immagine d’archivio a tutto schermo al televisore che la sta riproducendo all’interno della stanza [figg. 2-3]. Il primo video propagandistico – in realtà l’unico ricostruito a posteriori da Larraín sulla base delle testimonianze di alcuni protagonisti dell’epoca10 – fonda la propria efficacia retorica sulla verità auto-evidente delle violenze perpetrate dal regime di Pinochet, ricorrendo all’impatto del numero, valoriz-

Umilmente ma sfacciato, / con altezzosa impazienza, / con un’onesta coscienza, / con la collera e il sospetto / e con attiva certezza, / metto piede nel mio Paese, / e invece di singhiozzare, / di macinar la pena al vento / apro gli occhi e il loro sguardo / e contengo lo scontento. 9

Cfr. quanto dichiarato dal regista stesso in R. Solis, “Aujourd’hui les images de Pinochet font rire les jeunes”, cit., p. 6.

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

Fig. 2

Fig. 3

zando negativamente il rigore geometrico della parata militare e positivamente l’aggregazione spontanea, il sentimento di unione che suscita il canto. «Tutto qui?», chiede René, posto al centro della 99

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stanza. La sua domanda è ingenua, cinica, provocatoria. Il pubblicitario chiede “qualcosa di più leggero”, “un po’ più simpatico”. La macchina da presa segue con movimenti panoramici il confronto politico che si svolge all’interno della sede. Il “compagno pubblicitario” prova a spiegarsi meglio e, con l’aiuto di un’attivista di opinioni opposte ma dalla visione altrettanto lucida, fa emergere un dilemma decisivo: l’obiettivo della comunicazione è vincere il referendum oppure approfittare dell’occasione per testimoniare, creare consapevolezza, sensibilizzare l’opinione pubblica nel suo complesso sulle violenze della dittatura? È a partire da tale domanda che – stando a quanto raccontato dal film – l’attitudine al compromesso del pubblicitario e comunicatore politico di nuova generazione prende corpo tra i rappresentanti della “Concertación de Partidos por la Democracia”, l’unione della maggioranza dei partiti di opposizione. L’opportunità e l’esigenza di ottimizzare la comunicazione in relazione a un target ben definito – gli indecisi, da rassicurare e portare dalla propria parte – a scapito del bisogno di verità, del desiderio di proporre per la prima volta, sullo schermo televisivo, l’altra versione dei fatti in quanto fondamento di ogni possibile democrazia. Incaricato di proporre un’alternativa, René mette a lavoro uno staff creativo con esperienza internazionale. Mentre José Tomas – il personaggio di finzione ispirato in modo molto libero al segretario esecutivo del comitato per il No Genaro Arriagada11 –, invitato

Sul rapporto tra i personaggi di finzione del film di Larraín e i protagonisti della campagna per il No del 1988, cfr. T. Del11

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

all’incontro creativo, continua a ripetere la necessità per le opposizioni di elaborare all’interno della campagna i temi dei diritti umani, l’esilio, l’ingiustizia, gli arresti arbitrari, le torture e i desaparecidos, il brainstorming dei pubblicitari focalizza un campo semantico di tutt’altro tipo. Se Pinochet stesso – nella campagna coordinata da Lucho – sta cercando di impadronirsi del concetto di democrazia, allora quest’ultimo deve essere recuperato dall’opposizione e concepito in modo originale, alla stregua di un “prodotto” commerciale. Piuttosto che guardando al passato traumatico e riattivando il pathos politico degli anni di Allende, il futuro democratico del Cile deve esprimersi su larga scala attraverso traduzioni visive dell’idea di allegria, della primavera, della festa, della calma dopo la tempesta: i colori dell’arcobaleno; il jingle “Chile, la alegría ya viene”; lo slogan “NO+ PINOCHET (No más Pinochet)” – in realtà ispirato ad alcuni graffiti comparsi improvvisamente sui muri di Santiago a partire dalla prima metà degli anni ottanta12 – capace di suggerire plasticamente l’idea di fare un segno a favore del No sulla scheda elettorale. Il fatto è che l’incontro con l’immaginario – un immaginario che sempre più si definisce su scala globale – non è ormai circoscrivibile nell’esperienza eterotopica di una sala cinematografica in cui si proietta La febbre del sabato sera, mentre fuori ci

gado, No+ Pinochet. Documentación, publicidad y ficción en torno al plebiscito chileno de 1988, Jakob Kirchheim Verlag, Berlino 2013. 12

Ivi, p. 10.

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sono solo immagini sporche che vengono accolte e riprodotte nel terrore. Il tempo passa. Sono gli anni ottanta e anche il Cile è chiamato ad assumere consapevolezza della “condizione postmoderna”13. Il dominio dell’estetica massmediatica innerva più che mai le forme di vita, su larga scala. Il modello neoliberista di Milton Friedman e dei “Chicago boys” che, a partire dal 1975, aveva fatto del Cile di Pinochet un modello economico di ricchezza e ingiustizia sociale ha bisogno di un rilancio14. I tempi sono maturi per la “democrazia”, da intendersi come trasfigurazione utopica – “consolatoria, meravigliosa, liscia”, per riprendere le parole di Foucault – della realtà. Una realtà della quale il popolo possa dirsi partecipe, una realtà verso la quale la vita sociale possa protendersi. Dopo la politica e l’estetica socialista degli anni di Allende, basata sulla pubblica istruzione e sul progetto contro l’analfabetismo, e dopo l’affermazione del governo dittatoriale filostatunitense di Pinochet, durante

Per quanto non identificabile con i molteplici esiti del postmodernismo, come testo di riferimento sulle trasformazioni culturali e sociali del secondo Novecento si rimanda al classico di J.F. Lyotard, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, tr. it., Feltrinelli, Milano 1981. Più esplicitamente sul “postmodernismo”, cfr. F. Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it., Fazi, Roma 2007.

13

Sul rapporto tra il regime di Pinochet e i cosiddetti Chicago Boys, finalizzato a ottenere legittimazione politica mediante il successo economico, cfr. C. Huneeus, The Pinochet Regime, Lynne Rienner, London 2007, soprattutto pp. 271-306. Sui diversi stadi del neoliberismo cileno, cfr. ancora M. Taylor, From Pinochet to the “Third Way”, cit. 14

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

il meeting creativo tra René, il suo mentore Alberto Arancibia e José Tomas si decide, implicitamente, di articolare anche in Cile un nuovo stadio nel rapporto tra forme dell’immaginario e forme di governo. Una nuova declinazione dell’idea benjaminiana – in continua trasformazione all’interno delle pratiche e dei discorsi pubblici – di “spettacolarizzazione della politica”15. L’idea di popolo deve tradursi nei termini di people e di pop. È il laboratorio di una nuova estetica sociale.

Marketing democracy – Prima di tutto vorrei dirvi… che quello che vedrete adesso, è in linea con l’attuale contesto sociale. Dopotutto, oggi, il Cile pensa al suo futuro. Andiamo! Che venda un prodotto commerciale insieme a Lucho – come nella prima e ancora nell’ultima sequenza del film – o che si tratti di elaborare una proposta comunicativa per uscire dalla dittatura, René ricorre al medesimo canovaccio, alle stesse figure retoriche: sottolinea l’importanza di sintonizzarsi con l’“attuale contesto sociale” – come se quest’ultimo avesse uno statuto di univocità – e appoggia il braccio sul monitor, incornicia il televisore in quanto fondamentale agente di trasformazione sociale e politica del suo tempo [fig. 4].

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [prima stesura], in Id., Opere complete VI. Scritti 1934-1937, a cura di E. Ganni, H. Riediger, tr. it., Einaudi, Torino 2004, p. 303.

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SENSIBILITà E POTERE

Fig. 4

Dopo le parole di René, entra in campo il regista televisivo Fernando Costa che ha lavorato alla realizzazione del video e si abbassa ad accendere il lettore. Parte il filmato come un jingle: un gruppo di persone in festa, un bambino con un aquilone, poi il movimento spiraliforme di una ballerina di danza classica a tutto schermo, il look “jeans” di una rocker [fig. 5], alcune star internazionali che si uniscono in un canto a scopi benefici, poi abbracci di gente comune, picnic, cavalli in corsa, un grande arcobaleno dipinto e la scritta “NO” in caratteri grandi. Finita la proiezione del video, un controcampo rivela l’uditorio perplesso, le braccia conserte. Il video ha suscitato reazioni forti in alcuni membri della “Concertación” e la figura di montaggio del campo e controcampo mostra il riaccendersi dell’opposizione radicale tra chi si sente in debito verso un passato traumatico e chi è pronto ad affidarsi al futuro come 104

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

Fig. 5

a un valore in se stesso positivo. Quello montato all’interno della sequenza finzionale del film di Larraín e attribuito alla creatività di René costituisce effettivamente un documento d’archivio mediatico prodotto nel 1988 all’interno della campagna per il No. Lo spettatore cinematografico riconosce senza difficoltà alcune immagini desunte dal filmato d’archivio della campagna pubblicitaria della bevanda analcolica con la quale si apre il film o comunque assimilabili a essa. Allo stesso modo, i membri dell’opposizione non hanno difficoltà a collegare la proposta di propaganda politica di René agli altri discorsi sociali che, lentamente, stanno penetrando la società capitalista e al contempo austera del Cile e si rivolgono polemicamente al pubblicitario: «A me sembra una pubblicità della Coca-Cola! Anzi, molto peggio!», dichiara un uomo anziano rivolgendosi al pubblicitario. Il compagno Ricardo preferisce invece indirizzarsi a José Tomas che cerca 105

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di assumere un ruolo di mediazione tra le parti: «Io capisco perfettamente che esiste una semiologia propria della pubblicità, questa è una campagna. Capisco che dobbiamo avere un atteggiamento pragmatico. […] Ma capisco anche che ci sono dei limiti etici. […] Noi abbiamo vissuto sulla nostra pelle la violenza della dittatura: io ho un fratello desaparecido, hanno sgozzato i miei migliori amici, e questa è una campagna del silenzio!». Il film di Larraín non specifica presso quale équipe internazionale di semiologi si sia formato René Saavedra, figlio di genitori esiliati e solo in quanto tale accettato come responsabile della comunicazione. Di sicuro, il suo teaser della campagna per il No consiste in un sostanziale superamento della dialettica disforica nei confronti dell’iconografia del regime che sostanziava il montaggio delle immagini di repertorio nel primo draft. Inanellando una serie di immagini pop capaci di trasfigurare utopicamente la storica urgenza di terra e libertà, verità e giustizia del Cile e del Sudamerica tutto, la retorica del No si trasforma in un’euforica attitudine al Sì. A chi pensava di aver trovato nei quindici minuti quotidiani di visibilità offerti dal pretesto del Plebiscito l’occasione per “rivelare” all’opinione pubblica cilena e mondiale la verità dei documenti del terrore, mediaticamente occultata per lungo tempo, René oppone la narcotizzazione del passato traumatico attraverso immagini di generico ottimismo e lieto vivere che coincidono pienamente con l’immaginario della società dei consumi occidentale degli anni ottanta. Dopo la presentazione dell’idea grafica e della bozza audiovisiva dell’intera campagna, malgrado le critiche, la produzione va avanti coinvolgendo 106

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

progressivamente un numero sempre maggiore di artisti e cittadini, impegnati nella messa in scena di coreografie e situazioni narrative capaci di suscitare l’interesse degli spettatori. Sono queste le sequenze più corali del film, dove si mostra la capacità dell’opposizione a Pinochet di riattivare le competenze creative rimaste represse per quindici anni e di valorizzare le differenze, pur all’interno di un frame di comunicazione ben definito. L’estetica “neobarocca” o neobarroca – per riferirsi al termine di lingua spagnola che ne ha decretato il successo mondiale – che caratterizza la comunicazione della campagna per il No è ludica, frammentaria, composita e si sviluppa al di là di una concezione statica dei generi e dei formati della cultura, così come di quella tra “cultura alta” e “cultura bassa”16. La forma del pastiche neobarocco che struttura i quindici minuti a disposizione per ogni puntata rende possibile accogliere alcune delle istanze politiche palesate da José Tomas e continuamente ribadite da Fernando Costa, il regista, pur mantenendo la linea strategica disimpegnata di René. Da un lato, come nella sequenza girata in esterno dove la troupe sta realizzando una scena bucolica di picnic, René riesce a far passare l’idea di porre alcune baguette all’interno della cesta delle vivande, nonostante la tradizione alimentare cilena sia del tutto estranea a tale tipologia di pane. «È bello, è carino, è giusto», risponde il pubblicitario a quanti

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Cfr. O. Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari 1987.

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provano a contestare in termini storici ed etici tale scelta. Dall’altro lato, Fernando, insieme ad alcuni membri politicizzati dello staff, riesce a girare e a far inserire all’interno dei quindici minuti a disposizione alcuni video che alludono al passato traumatico del Cile: quello dedicato alle madri dei desaparecidos e lo spot dedicato alla vita quotidiana di Doña Yolita che focalizza la crisi economica e l’ingiustizia sociale del Paese. Un passato rimosso dal discorso mediatico e pubblico durante la dittatura, sebbene mantenuto clandestinamente in vita soprattutto dalle donne cilene, affiliate a organizzazioni per i diritti umani, legate alla Chiesa cattolica cilena oppure alle organizzazioni internazionali. René etichetterà questi video “bruttini” e allo stesso tempo “buoni, diversi”, ribadendo la capacità del pastiche di ottimizzare le differenze in relazione al progetto comunicativo e al target di riferimento della campagna17. Come tutti i personaggi della trilogia, anche René conduce una vita privata antieroica: scalda i suoi pasti nel microonde, gioca con il trenino insieme al figlio, si immalinconisce e lascia affiorare le lacrime a ogni

17

Per un’analisi della campagna per il No, considerata nelle molteplici sfaccettature che ne garantirono l’efficacia, nonché per valutare comparativamente le libere scelte di Larraín nella costruzione dei personaggi e della narrazione del film di finzione, cfr. J.L. Piñuel Raigada, La cultura política del ciudadano y la comunicación política en TV, en la transición política del plebiscito chileno, Cedeal, Madrid 1992, e M.E. Hirmas, The Chilean Case: Television in the 1988 Plebiscite, in Television, Politics, and the Transition to Democracy in Latin America, a cura di E.T. Skidmore, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1993, pp. 83-96.

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occasione d’incontro con la ex compagna, militante radicale contro il regime di Pinochet, ormai legata sentimentalmente a un altro uomo. Allo stesso tempo, però, assume il compito di esprimere il desiderio di liberazione dal regime dittatoriale ed è motivato a far valere le proprie competenze per vincere la partita. Alla pesantezza nazionalista dello slogan “Un país ganador” e all’immagine goffa del Pinochet “democratico” elaborata da Lucho al tavolo di comando della campagna per il Sì, il giovane pubblicitario oppone l’efficacia di un brand euforico e rassicurante, capace di esprimere la piena sintonizzazione mediatica del Cile con il resto del mondo. Se la costruzione di un immaginario perlopiù utopico della nazione cilena contribuirà decisivamente al processo di destituzione di Pinochet e all’attivazione del lento processo di transizione, il montaggio intermediale del film di Larraín – la sua capacità di articolare il rapporto tra documento d’archivio e messa in scena, così come quello tra passato e presente – getta diverse ombre sull’immagine euforica che caratterizza il processo di creazione partecipativa della campagna per il No e invita a riflettere sugli esiti di lungo periodo di tale immaginario, sulle promesse mancate. Mostra l’impossibile realizzazione di un’utopia se non come utopia degenerata, come trasfigurazione iperbolica delle ideologie che strutturano una società in un determinato momento storico e, in quanto tale, inevitabilmente soggetta all’usura del tempo18.

18

Sul rapporto tra utopia e rappresentazione, come per il concetto di “utopia degenerata”, cfr. L. Marin, Disneyland. Degenerazione

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In particolare, in una delle sequenze che riguardano il processo di creazione della nuova estetica televisiva, Larraín alterna immagini d’archivio in cui le giovani cantanti Tita Parra, Cecilia Echenique e Tati Penna interpretano la canzone No lo quiero No, No di Isabel Parra [fig. 6] a inquadrature che mostrano René che coordina lo stesso gruppo di canto ma composto da donne più adulte [fig. 7]. La piena continuità della colonna audio e l’idea di girare No - I giorni dell’arcobaleno in cassette U-Matic attenua la distinguibilità tra le immagini d’epoca e quelle ricostruite in scena da Larraín e, tuttavia, di fronte a questa sequenza lo spettatore avverte un lieve salto cromatico, un salto temporale che si accentua quando riconosce nelle cantanti poste di fronte a René – e dunque all’interno del regime finzionale – le stesse Tita Parra, Cecilia Echenique e Tati Penna, invecchiate di ventiquattro anni rispetto al filmato originale. La stessa soluzione si ripete in relazione ad altri personaggi pubblici che presero parte alla campagna del 1988 e che hanno accettato di reinterpretare se stessi, ventiquattro anni dopo, per un film di finzione: da Patricio Bañados, il conduttore televisivo che si oppose alla dittatura, a Juan Forch, uno dei pubblicitari protagonisti della comunicazione contro Pinochet, fino a José Manuel Salcedo, l’ideatore della canzone Chile, la alegría ya viene che si presta a ricoprire il ruolo del censore di regime19.

utopica, in Etnosemiotica. Questioni di metodo, a cura di M. Del Ninno, tr. it., Meltemi, Roma 2007, pp. 139-156. 19

Sul rapporto tra attori e personaggi, come sulla temporalità

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Fig. 6

Fig. 7

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La registrazione del discorso di Patricio Aylwin è in tal senso emblematica: un anziano signore – l’uomo politico di orientamento democratico-cristiano che governerà il lento processo di transizione in quanto Presidente del Cile tra il 1990 e il 1994 – entra nello studio di produzione e si avvicina a René, lo saluta, poi prende posto su una sedia. Un controcampo rivela la troupe pronta a girare, poi la macchina da presa, posta alle spalle dell’operatore televisivo, ritorna su di lui [fig. 8] e, infine, quando inizia il celebre discorso «Los demócratas trabajamos a la luz del día…», si abbassa verso un monitor spia [fig. 9]. L’immagine qui riprodotta è solo indirettamente compatibile con quanto inquadrato dalla telecamera: si tratta della registrazione originale di quello stesso discorso di Aylwin, pronunciato in quanto portavoce della “Concertación” nel 1988. Per quale motivo il film di Larraín articola dunque, in continuità di campo, un passaggio dalla figura dell’ex Presidente che interpreta se stesso al documento originale di ventiquattro anni prima? Tale passaggio dalla messa in scena finzionale all’archivio mediatico, nonché dall’attore al personaggio pubblico, costituisce una forma di celebrazione cinematografica di quanti tra politici, giornalisti e creativi si impegnarono nella campagna del 1988,

complessa che caratterizza alcune sequenze del film, cfr. W. Bongers, “No” y las enunciabilidades del cine postdictatorial chileno, in Travesías por el cine chileno y latinoamericano, a cura di M. Villarroel, Cineteca Nacional de Chile / Lom, Santiago 2014, pp. 197-206.

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

Fig. 8

Fig. 9

oppure c’è qualcosa d’altro? L’impressione è che mettendo sistematicamente in atto un raffronto tra i “prelievi” mediatici e gli “innesti” finzionali – tra le immagini d’archivio d’epoca e la loro riproduzione 113

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e messa in scena al livello cinematografico20 –, Larraín intenda tematizzare l’anacronismo costitutivo di qualsiasi racconto storico21. Ma, ancora di più, la messa in scena e il montaggio sembrano mirare alla produzione di articolazioni dialettiche tra immagini e temporalità eterogenee, così da aprire – oltre i limiti stessi del film in questione – uno spazio pubblico di riflessione per immagini sulla storia cilena22. È a partire dal presente che si guarda al passato ed è a partire dalle coordinate del proprio tempo che diventa possibile porre domande inedite alla storia e alla storia delle immagini, così come scorgervi i “sintomi” di dinamiche sociali, culturali e politiche di lungo periodo23. Elaborare una storia traumatica non significa tanto riconoscersi e pacificarsi – una volta per tutte – con il proprio passato e con le sue contraddizioni, inne-

20

Per lo sviluppo di una tipologia delle forme di rimediazione di immagini d’archivio all’interno del film, in quanto inserti, prelievi o innesti, cfr. M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., pp. 176-192. Cfr. M. Bloch, Apologia della storia o il mestiere di storico, tr. it., Einaudi, Torino 1998.

21

Sul’idea della storia come produzione di immagini dialettiche, trasversale al pensiero del filosofo tedesco, cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Opere complete. VII. Scritti 1938-1940, a cura di E. Ganni, H. Riediger, tr. it., Einaudi, Torino 2006, pp. 483-517.

22

Per una riflessione sul concetto di anacronismo e sulla sua euristica si rimanda al classico di G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007. 23

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scando forzatamente la retorica della riconciliazione. Al contrario, si tratta di mantenere attivo il processo etico e politico dell’immaginazione: mostrare la continuità nella differenza del processo storico come normalità aberrante. Certo, il cammeo del Presidente è espressione di una certa disponibilità a giocare con la propria immagine ed esprime l’intenzione di Larraín di coinvolgere direttamente, nella realizzazione del suo film, gli interpreti di una stagione decisiva per il Cile. Ma analizzando la sequenza e prendendo sul serio il montaggio intermediale non è possibile non riconoscere le tracce di una critica. La figura bifronte di Patricio Aylwin – documento mediatico e attore al contempo – è quella del portavoce di un grande fronte politico di liberazione che si identifica nel simbolo dell’arcobaleno, ma è anche il primo Presidente del Cile dopo la dittatura. Incarna il processo di destituzione di Pinochet e, allo stesso tempo, esprime le delusioni della transizione democratica: gli scarsi esiti della “Comisión Nacional de Verdad y Reconciliación”, il rilancio del modello economico neoliberista e la persistenza di una fortissima disparità economica. Il corpo intermediale di Aylwin diventa dunque manifestazione di una continuità attraverso i decenni e i regimi discorsivi e politici della storia cilena: dal rapporto di ostilità tra Aylwin e Allende alla connivenza del futuro primo Presidente democratico nei confronti del colpo di Stato del 1973, dal Plebiscito del 1988 alla guida del Paese. L’anacronismo – la possibilità di un confronto audace tra immagini e temporalità diverse – prodotto attraverso il montaggio intermediale costituisce dunque una forma di de115

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costruzione di quell’idea di “progresso democratico” che le immagini di René si prefiggevano di costruire come un prodotto commerciale. Del resto, negli stessi anni in cui Larraín dirige i film della trilogia e progetta il film dedicato alla vita clandestina di Neruda durante la presidenza di Videla, lo stesso Guzmán articola anacronisticamente i frammenti che restano di un passato doloroso. Si pensa a Nostalgia della luce (2010) e, soprattutto, a La memoria dell’acqua (2014), dove l’intero spazio cosmico si rende funzionale a mettere in costellazione eventi distinti e distanti, fino a creare una sorta di genealogia della desaparición in Sudamerica: dalla colonizzazione allo sterminio dei popoli indigeni, dai governi autoritari alla dittatura, fino all’assimilazione culturale incrementata negli ultimi decenni attraverso le comunicazioni di massa. Attraverso un montaggio dei diversi materiali d’archivio dell’epoca, il film di Larraín racconta dunque una battaglia comunicativa e tiene conto del suo esito – la vittoria del No con il 55,99% dei voti – come delle conseguenze di medio periodo. Non si limita a esaltare l’impresa eroica di quanti hanno rovesciato un regime feroce facendo valere il potere della creatività, ma invita a riflettere criticamente sul passaggio da un neoliberismo dittatoriale a un neoliberismo democratico che trova pieno rilancio su scala internazionale attraverso le comunicazioni di massa24. All’evasione eterotopica nella sala cine-

Su questo punto, cfr. le riflessioni sul film di B.A. Caetlin, An Illusion Appropriate to the Conditions: “No” (Pablo Larraín,

24

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matografica e teatrale che caratterizzava il quotidiano dei personaggi di Tony Manero e Post Mortem durante la dittatura, si sostituisce un’esaltazione utopica della vita sociale, un’estasi, un’uscita di sé della Nazione nel “villaggio globale”. Con la svolta del 1988, il Cile potrà intraprendere un faticoso percorso verso la democrazia. Fin da subito potrà invece connettersi, ventiquattro ore su ventiquattro, con l’immaginario occidentale e con i suoi modelli di riferimento. Come a voler sottolineare tale evoluzione nel rapporto tra la macchina spettacolare e la vita sociale, Larraín riprende e inserisce all’interno del film del 2012 i materiali d’archivio contenenti gli endorsement per il No degli attori statunitensi Jane Fonda, Richard Dreyfuss e Christopher Reeve, in arte Superman. Mentre la dittatura – basata sulla convergenza tra la destra cilena e l’esercito – era il modello politico correlato agli interessi di egemonia degli Stati Uniti sul Sudamerica, con la fine degli anni ottanta si compie pienamente il passaggio a modelli di soft power25. Un paradigma di governance capace di intercettare il regime dell’immaginario, capitalizzando le possibilità di circolazione dei discorsi sociali, favorendo la veicolazione di una determinata cultura visuale in quanto forma di indirizzo e controllo. Trattando di un regista come Larraín – che con Il club si spinge fino a riflettere sui rapporti tra religio-

2012), in “Film Quarterly”, n. 66 (2013), p. 61. 25

Per una esplicita elaborazione di tale concetto, cfr. J.S. Nye, Soft power. Un nuovo futuro per l’America, tr. it., Einaudi, Torino 2005.

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ne, morale e diritto – sarebbe forse possibile riprendere e riarticolare l’antico concetto di “iconocrazia”, elaborato da Marie-José Mondzain nella sua ricerca sulle radici bizantine dell’immaginario contemporaneo26. Oppure – più semplicemente – si può fare riferimento all’idea di “videocrazia” per definire le evidenti problematicità implicate nel paradigma comunicativo e politico sdoganato dallo staff di René e dal suo corrispettivo storico nell’autunno 1988: il rischio concreto che la macchina strategica della comunicazione, una volta mobilitata su larga scala in contingenze plebiscitarie, diventi impossibile da arrestare all’interno di un assetto statale privo di una solida struttura e di un bilanciamento democratico delle istituzioni27. O ancora, come nelle ricerche d’ispirazione gramsciana e foucaultiana condotte da Julia Paley sulla società cilena, si può parlare di marketing democracy riferendosi a un duplice processo, politico ed economico al contempo, che a partire dagli anni ottanta, in Cile e non solo, ha investito l’immaginario sociale28.

26

M.-J. Mondzain, Immagine, icona, economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo, tr. it., Jaca Book, Milano 2006.

27

Sulla “democrazia mediatica”, cfr. R. Debray, Lo stato seduttore. Le rivoluzioni mediologiche del potere, tr. it., Editori riuniti, Roma 2003. Come riferimento classico sul rapporto tra comunicazione televisiva e mondo globalizzato, cfr. B. Stiegler, J. Derrida, Ecografie della televisione, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2000. 28

J. Paley, Marketing Democracy. Power and Social Movement in Post-Dictatorship Chile, University of California Press, Ber-

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Certo, l’aspetto più discutibile – e, si vedrà tra poco, più discusso – del film di Larraín consiste proprio nel peso eccessivo assegnato alla comunicazione rispetto alle altre forme di maturazione del consenso, nonché nella personalizzazione – René Vs Lucho – di una sfida politica di portata nazionale e internazionale. Il pop di René non è commisurabile con il popolo di Allende e i videoclip ideati per la campagna possono lasciare impalliditi se confrontati alla tradizione dei murales, alla poesia e alla canzone di protesta dell’America Latina. Ma come mostra bene Skármeta nelle pagine finali del suo romanzo dedicato ai Giorni dell’arcobaleno, la strategia leggera e disimpegnata del pubblicitario – in questo caso chiamato Adrián Bettini, di origini italiane – è altresì capace di infondere coraggio a una società ammutolita da quindici anni di terrore e di lasciare che quest’ultima tenti di riprendere la parola. Che si tratti di René o di Adrián, il creativo pubblicitario si troverà dunque ad assumere un ruolo di primo piano all’interno di un nuovo modello politico ed economico dove le spinte deterritorializzanti incontrano l’esigenza del capitale di superare la geografia dello Stato in favore del mercato globale. Un modello di mondo nel quale, come recita lo slogan di una campagna pubblicitaria per favorire gli investimenti stranieri, «il Cile non è soltanto una nazione. È una nuova opportunità mondiale»29. Più in generale, la trilogia costituisce senz’altro

keley, Los Angeles, London 2001, p. 117. 29

Ivi, p. 112.

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una riflessione sul mantenimento del potere e dell’ordine sociale attraverso l’esercizio deliberato della violenza da parte di Pinochet, ma anche e soprattutto sul rinsaldarsi di modelli di governamentalità legati al controllo e alla canalizzazione dell’immaginario. È possibile riferirsi a tal proposito all’idea di “bioestetica”, intesa nella sua accezione negativa come tecnica mediatica e strategia discorsiva mirata alla contrazione dell’aisthesis, della sensibilità: un’ottimizzazione dei desideri e un’organizzazione del gusto capace di affermarsi attraverso un’“anestetizzazione” dello spettatore, in una «regressione del sentire in sensazione – e nel – prosciugamento dei processi – emotivi e cognitivi – che differenziano la percezione dalla sensazione»30. Un concetto, quello di bioestetica, al quale è possibile riferirsi soltanto a condizione di considerare la controparte affermativa ed emancipativa che si prospetta nell’incontro tra estetica, politica e vita, laddove la sfera della sensibilità sia riconosciuta e praticata in quanto spazio primario di articolazione del politico31. Rispetto ai protagonisti dei film precedenti, con René si pongono le condizioni per un re-incontro tra politica, estetica e vita sociale. La società cilena riprende flebilmente la parola, ma per farlo è costretta a rinunciare alla propria memoria, al riconoscimento delle responsabilità politiche, alla giustizia. All’inter-

30

P. Montani, Bioestetica, cit., pp. 94-95.

31

Ibidem. In un rapporto di relativa compatibilità con tale paradigma, cfr. anche J. Rancière, Estetica e politica, tr. it., Derive Approdi, Roma 2016.

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no della campagna pubblicitaria, l’attenuazione del peso assunto dal passato traumatico si fa programmatica. Del resto, come è stato notato da studiosi come Nelly Richard32 e Macarena Gómez-Barris33, che hanno indagato le criticità politiche e sociali del Cile tra gli anni ottanta e novanta, la cosiddetta transizione democratica è stata possibile al caro prezzo di un congelamento delle rivendicazioni legate alla memoria traumatica della dittatura. Prima di uscire di scena, nel mentre della transizione democratica, Pinochet avrebbe avuto la possibilità di garantire a se stesso e ai suoi fedelissimi il mantenimento di posizioni di potere e la sostanziale impunità. I governi di Aylwin e Eduardo Frei Ruiz-Tagle, alla presidenza negli anni successivi al Plebiscito, avrebbero dovuto perlopiù evitare tensioni con le Forze Armate. Solo con la malattia e la morte del dittatore – casualmente avvenuta il 10 dicembre 2006, nella Giornata internazionale per i Diritti umani – e almeno fino al governo della socialista Michelle Bachelet – instauratosi nel marzo dello stesso anno – i documenti della memoria traumatica manterranno uno statuto residuale all’interno delle politiche pubbliche e la loro custodia e riattivazione è stata perlopiù delegata all’iniziativa individuale34. Di certo, la memoria del laboratorio politico cile-

Cfr. N. Richard, Residuos y metáforas: Ensayos de critica cultural sobre el Chile de la transiciòn, Cuarto Proprio, Santiago 1998.

32

33

M. Gòmez-Barris, When Memory Dwells, cit.

34

Su questo punto, cfr. l’analisi condotta in P. Violi, Paesaggi della memoria, cit., pp. 239-279.

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no interrotta dal golpe del 1973 e passibile di riattivarsi col Plebiscito del 1988, non trova grande spazio nella campagna del No. Su questa lacuna, il film di Larraín invita a riflettere. Il socialismo democratico di Salvador Allende come uno dei tanti sentieri interrotti della storia sudamericana del Novecento.

Montaggi della Post-memoria L’ultimo film della trilogia fa ampio ricorso ai materiali d’archivio. Ancora di più, ricorrendo alle tecniche di ripresa video degli anni ottanta, No - I giorni dell’arcobaleno è un film che cerca di “camuffarsi” da documento storico. Non è passata indenne da attacchi tale operazione, tanto in Cile quanto all’estero. L’idea di elaborare una riflessione critica concentrandosi sul movimento per il No – sulla parte buona della storia, sulla “meglio gioventù” – ha dato l’occasione ad alcuni detrattori per tornare a rimproverare al regista le sue origini familiari, alle quali si è fatto riferimento nell’introduzione. Alcuni critici si sono concentrati sulla scelta di girare il film su nastri U-Matic e sul conseguente rischio di rendere indistinguibile, soprattutto per le nuove generazioni, che non hanno avuto esperienza diretta dell’evento storico in questione, i materiali documentari e la fiction, la “verità dei fatti” – della quale i primi sarebbero fedeli custodi – e la “manipolazione storiografica”, nella quale inevitabilmente cadrebbe la seconda. «Fino a che punto un regista può condensare selettivamente e semplificare eventi 122

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reali complessi, affermando di aver svolto un lavoro fedele a ciò che è realmente accaduto?», si è domandato Larry Rohter sulle colonne del “New York Times”, in un articolo che riprende e rilancia le critiche di diversa natura mosse al film di Larraín35. La domanda del giornalista americano – noto corrispondente dal Sudamerica – fa riecheggiare quel mito della “fedeltà” storica e della trasparenza rappresentativa, quell’ideologia del rispecchiamento che un intero secolo di teoria del cinema ha cercato di decostruire. D’altro canto, una figura come il responsabile esecutivo per la campagna del No Genaro Arriagada, alter ego storico del personaggio di finzione José Tomas Urrutia, ha opportunamente relativizzato l’importanza assegnata da Larraín alla comunicazione in quanto operatore di trasformazione politica e sociale e contestato «l’idea che ci fosse un gruppo di politici ideologizzati e passati di moda e che improvvisamente fosse apparso un pubblicitario dicendo: “Questo è quello che si deve fare”»36. Come ha ammesso il regista stesso in un’intervista, sulla scorta delle critiche ricevute,

35 L. Rother, “One Prism on the Undoing of Pinochet”, in The New York Times, 8 febbraio 2013, http://www.nytimes. com/2013/02/10/movies/oscar-nominated-no-stirring-debate-inchile.html?src=dayp (ultima consultazione: aprile 2017). 36

S. Rivas, “El No de Arriagada”, in Qué pasa, 2 agosto 2012, http://www.quepasa.cl/articulo/politica/2012/08/19-9152-9-elno-de-arriagada.shtml (ultima consultazione: aprile 2017).

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La verità è che la ragione per cui Pinochet perse è molto vasta e ci sono differenti attori che vi presero parte: fattori sociali, come il popolo cileno che uscì in strada a manifestare; fattori politici con molte persone che presero parte al progetto. Quello che il film mostra è semplicemente un frammento di tutto questo. Il film si propone di raccontare non soltanto un pezzo di storia, ma cerca di condurre una riflessione sulla democrazia e sul modo in cui ne facciamo parte37.

Se le intenzioni e le dichiarazioni di un regista non sono mai sufficienti a descrivere le qualità degli oggetti che ha prodotto, l’analisi condotta nelle precedenti pagine a partire da alcune sequenze del film del 2012 ha forse messo in evidenza le implicazioni storiche, politiche e testimoniali di un montaggio intermediale dei documenti relativi al passato traumatico degli anni della dittatura come di quelli della transizione democratica. Non si tratta di un ripiegamento autoriflessivo della settima arte – il meta-cinema come condizione postmoderna e come crisi della narrazione storica – ma di un’assunzione di consapevolezza del rapporto problematico tra sensibilità e potere che definisce nuove forme di governo su scala globale. Il film di Larraín nega la rigida opposizione tra la verità

37 G. Orozco, “Los verdaderos motivos de No”, in Vivelo Hoy, 3 giugno 2013, http://www.vivelohoy.com/entretenimiento/8332321/pablo-larrain-los-verdaderos-motivos-de%E2%80%98no%E2%80%99 (ultima consultazione: aprile 2017).

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dell’archivio e la messa in scena della finzione, eppure non smette mai, in nessuna sequenza, di riflettere in profondità sul ruolo assunto dalle immagini in quanto oggetti culturali, causa ed effetto delle dinamiche sociali. Lo fa in relazione all’immediatezza dell’esito plebiscitario come in riferimento a una storia più lunga, quella del proprio tempo, dove il filo del racconto provvisoriamente si annoda, aspettando un inevitabile rilancio. «Il documento è monumento», scriveva Jacques Le Goff. «È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di se stesse». E continuava, osservando che non esiste documento verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico il non fare l’ingenuo. […] Bisogna anzitutto smontare, demolire quel montaggio, destrutturare quella costruzione e analizzare le condizioni in cui sono stati prodotti quei documenti-monumenti38.

Quando la “bassa definizione” della fiction televisiva esorbita sistematicamente i confini della messa in scena televisiva per innescare nuove forme di vita sociale, e quando il carattere traumatico della storia sembra assegnare il quotidiano alla “bassa definizione” ideologica del documentario39, allora è necessario

38 J. Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia Einaudi, vol. 5, Einaudi, Torino 1978, p. 46. 39

Al di là dell’impiego specifico di tali termini in relazione al

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elaborare risposte sperimentali per comprendere e raccontare il proprio tempo. Quando la storia non si accontenta più dell’opposizione tra il “vero” e il “falso” e quando il “processo al documento” supera definitivamente la categoria dell’autentico, occorre dunque montare e smontare. È lo stesso Le Goff a ricorrere a una metafora cinematografica e non c’è da stupirsi se, qualche decennio dopo, il cinema stesso sembra imporsi nel sistema delle arti e dei discorsi sociali come efficace operatore delle intuizioni epistemologiche degli storici più rivoluzionari del Novecento. Al di là della categoria di autenticità e della “fedeltà a ciò che è realmente accaduto”, il film di Larraín attiva un processo di “autenticazione”40 dei documenti mediatici di un passato che rischia altrimenti di cadere in oblio o di rendersi “ridicolo” e illeggibile per le nuove generazioni – l’apparato dittatoriale di Pinochet –, o ancora di rigenerarsi inavvertitamente sotto altre forme. E lo fa ricorren-

cinema di Larraín, per un ripensamento dei concetti mcluhaniani di “alta definizione” e “bassa definizione” in relazione alle forme dell’esperienza e alle forme dell’espressione cinematografica e mediatica del nuovo millennio, cfr. F. Casetti, La Galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015, pp. 178-190, e A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Einaudi, Torino 2016, pp. 193-220. 40 Utilizzando il concetto di autenticazione per riferirsi alla rielaborazione delle immagini d’archivio del passato mediante il montaggio intermediale, si fa ancora riferimento a P. Montani, L’immaginazione intermediale, cit., pp. 7-9.

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do al montaggio di filmati documentali e messa in scena finzionale, invitando lo spettatore a prendere sul serio le immagini, valutando la loro efficacia, la loro capacità proiettiva e trasformativa. Offre l’occasione per riflettere sulle forme attraverso le quali i discorsi sociali articolano e orientano le forme di credenza e le forme di vita, l’immagine del “reale” esperita e condivisa. Come si è visto, No si camuffa da documento, fa corpo con i documenti del passato, oscilla tra l’estetica “sporca” degli anni della dittatura e quella patinata dell’avvenire. Eppure, dopo aver assunto per l’intera durata del film il ruolo del regista intradiegetico, responsabile della linea strategica dei video del No, alla fine, quando i membri della “Concertación de Partidos por la Democracia” condividono la gioia della vittoria, René è distaccato. È uno spettatore di secondo grado, osserva la realtà e la vede come se fosse un’immagine. La macchina da presa lo inquadra di spalle come una sagoma che si staglia in controluce sulle immagini della vittoria. Poi lo segue, mentre passa dietro i riflettori, dietro i vari operatori televisivi impegnati sul posto [fig. 10]. Nella sequenza della celebrazione, il personaggio di René si trova, in modo del tutto inaspettato, in una condizione simile ai protagonisti di Post Mortem e Tony Manero. Muovendosi in modo isolato tra la folla esultante e le immagini gloriose dei politici che si accalcano nella sede dei sostenitori del No, René si fa errante. Proprio nel momento di massima affermazione di quell’utopia che ha contribuito a creare, René sembra fare esperienza di uno spazio eterotopico: avverte e fa avvertire le soglie, lo scarto “tra le 127

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Fig. 10

parole e le cose”. Ma a differenza di Mario e di Raúl, che cedevano alla dittatura quanto più rinunciavano alla loro capacità di osservare consapevolmente la realtà del quotidiano, René rigenera le potenzialità testimoniali dell’esperienza eterotopica: muovendosi tra gli interstizi che separano i diversi spazi sociali, i discorsi politici, i generi discorsivi e mediali, finisce per colmare la posizione scopica che i protagonisti dei film precedenti lasciavano sguarnita. Dopo aver raccontato da prospettive inedite la parabola della dittatura, la trilogia di Larraín sta dunque tematizzando se stessa? Le immagini finzionali di No si stanno scorporando dal repertorio archiviale con il quale hanno fatto corpo finora? Detto altrimenti: il film, realizzato più di venti anni dopo il Plebiscito del 1988, sta portando a coincidenza il punto di vista storicamente situato di René e quello postumo di Larraín? È lo sguardo critico delle nuove generazioni 128

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

– Simon, il figlio biondo e impaurito che il pubblicitario porta in braccio in mezzo alla folla festante – a rileggere retrospettivamente il giro di boa del 1988? Oppure è René stesso che si allontana, cerca uno scarto da ciò che ha prodotto? Forse è il punto di vista della “post-memoria”41, lo sguardo di chi – come il regista stesso, nato nel 1976 e formatosi durante la fase di transizione democratica – non ha vissuto lo shock dell’11 settembre 1973. O forse il pubblicitario-politico sa riconoscere le pendenze rischiose e i rischi di deriva delle sue stesse strategie di comunicazione, delle immagini che gli hanno garantito la vittoria della battaglia. Il grande comunicatore decostruisce l’utopia nel momento stesso in cui disegna le sue pieghe sinuose. Senza bisogno di aspettare il tempo e la storia, documento e monumento sono per lui due modi diversi di guardare il medesimo oggetto. Gli occhi lucidi e un sorriso velato si scorgono sul volto del comunicatore degli anni ottanta: la consapevolezza che l’elaborazione di un’estetica sociale è un lavoro rischioso, fatto di continue negoziazioni, tra il bisogno di giustizia e la pace sociale, le ragioni della memoria e il desiderio d’oblio. La consapevolezza che il futuro è una costruzione e una proiezione, una facile leva del discorso di propaganda, ma anche il luogo di sanzione storica per quei gesti e quelle scelte politiche che inevitabilmente prendono forma al presente.

Cfr. M. Hirsch, The Generation of Postmemory. Visual Culture After the Holocaust, Columbia University Press, New York 2012.

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Con questa sequenza il film di Larraín sembra invitare lo spettatore a riconsiderare con sguardo critico ma non moralistico, le speranze e le profezie che hanno caratterizzato gli anni ottanta, in Sudamerica come in Europa: la fiducia nello sviluppo di una nuova sensibilità aperta alla differenza, capace di opporsi alle semplificazioni dialettiche che avevano caratterizzato i decenni precedenti; il rischio concreto di prestare il fianco a strumentalizzazioni commerciali, a derive sociali e politiche42. Coda La scelta del popolo cileno, che il 5 ottobre del 1988 si decise a votare No a Pinochet, costituisce il presupposto storico e politico della stessa trilogia della dittatura e del cinema cileno degli anni Duemila. È il presupposto della libertà di espressione correlata alla transizione democratica. Senza il No del 1988 non c’è spazio per le riflessioni critiche sulla campagna pubblicitaria stessa e sull’affermazione di una “marketing democracy”. Rendendo omaggio alla stagione plebiscitaria e ai suoi interpreti, No - I giorni dell’arcobaleno coglie tuttavia l’occasione per porre in evidenza le implicazioni politiche del modello di spettatorialità – e

Per una riflessione sull’estetica sociale degli anni ottanta, cfr. S. Jacoviello, Appunti per domani, in O. Calabrese, Il Neobarocco. Forma e dinamiche della cultura contemporanea, La Casa Usher, Firenze 2012, pp. 411-434. 42

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di cittadinanza – correlato all’affermazione di una nuova estetica sociale. Assumere la prospettiva di una post-memoria non significa rielaborare le tracce di un passato traumatico in sé storicamente concluso, sperando di porsi al riparo dalla sua lunga gittata. Elaborare un montaggio a partire dai frammenti di un passato buio e doloroso non costringe per forza il narratore a escogitare soluzioni conciliatorie, a far tendere gli elementi in questione verso un happy end che coincide con “la fine della storia”. Articolare una memoria postuma significa analizzare i tratti rimasti in ombra o in eccesso di luce. Impone di articolare un’analisi del passato e al contempo, quandanche indirettamente, una diagnosi del presente. L’idea di assegnare tanta importanza a un pubblicitario, a un creativo, e di utilizzare tale figura come chiave di lettura della storia sembra del resto trovare piena giustificazione all’interno dell’orizzonte mediatico e politico del nuovo millennio, dove le identità nazionali e i suoi simboli si sovrappongono e si intrecciano con il branding delle grandi corporation e dove la creatività stessa costituisce il principale fattore di articolazione del capitale su scala globale: dall’informatica alla finanza, fino all’estensione del terziario. Quel presente in cui l’esperimento neoliberista, inaugurato in Cile negli anni della dittatura e sopravvissuto all’affermazione della democrazia, si espande e si afferma oltre ogni soglia statale e continentale tanto da rendere difficile ogni tentativo di perimetrazione. Come nelle parole di Roberto Esposito mirate a concepire le forme del capitalismo contemporaneo secondo una prospettiva teoretica e storica di lungo periodo, «nella dialettica 131

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sempre in atto fra territorializzazione e deterritorializzazione, il capitale si situa a favore di questa, spingendola all’estremo attraverso la creazione del mercato mondiale». E ancora, prosegue il filosofo, «Contro la politica territoriale degli Stati, esso libera correnti finanziarie e tecnologiche che attraversano i loro confini, sfidando le sovranità nazionali»43. Si tratta di un modello imprenditoriale e politico capace di assolvere funzioni di governance trans-nazionali capillarizzandosi nella forma dell’individuo-impresa. Sono le inquadrature finali del film – immediatamente precedenti al ricongiungimento con Lucho, dopo la campagna plebiscitaria – quelle in cui René corre su uno skateboard per le vie di Santiago [fig. 11]. Il Valse Sentimentale Op. 51 No. 6 di Tchaikovsky assegna a queste immagini una temporalità sospesa44. Come un poeta, come uno degli “uomini della folla” della letteratura sudamericana del Novecento, si aggira per la città collezionando immagini e stimoli visivi senza un obiettivo apparentemente ben definito. Ma trattando dell’invadenza dell’immaginario statunitense sul resto del continente, una passeggiata sullo skateboard non può non richiamare alla memoria le traiettorie di Marty McFly in

43

R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013, p. 211. Per uno studio della componente musicale del film con particolare riferimento a questa sequenza, cfr. M. Bloch-Robin, L’ambivalence de la musique dans NO de Pablo Larraín : entre empathie libératrice et mise à distance, in Regards sur NO, a cura di D. Casimiro, A. Duprat, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2017, pp. 72-73. 44

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

Fig. 11

Ritorno al futuro, il film cult di Robert Zemeckis datato 1985. La luce del sole illumina le strade della città, ma René resta cupo in volto. Il suo incedere è scattoso, il suo orientamento è libero ma indeterminato. Forse non riesce a dimenticare l’ex compagna Verónica, e tutti i suoi gesti, la ricerca di un’affermazione professionale e pubblica, sono un modo per colmare l’assenza di una vita privata. O forse c’è qualcosa d’altro: per chi fa il suo mestiere va affermandosi una forma di vita economica che tende a negare la distinzione tra lavoro e tempo libero, tra retribuzione monetaria ed extramonetaria, sollecitando una piena identificazione nella propria capacità di elaborare soluzioni creative ai problemi che di volta in volta inceppano un dispositivo del quale sembra impossibile identificare la regola generale di funzionamento. Il funambolismo sociale del precario qualunque. Il 133

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cinismo nostalgico dell’imprenditore creativo che inconsapevolmente ha cambiato il mondo: Mark Zuckerberg che clicca sul pulsante refresh di Facebook dopo aver chiesto l’amicizia alla ex fidanzata, nella sequenza finale di The Social Network (2010) di David Fincher. Con le sue immagini commerciali, audaci e deterritorializzanti rispetto ai simboli nazionalisti, Raúl ha contribuito a sconfiggere Pinochet, ma ciò che si è ingenerato – beninteso, non soltanto per sua responsabilità – è un sistema transnazionale che prescinde dall’eliminazione delle disuguaglianze ma che ha l’alibi della democrazia. Se Larraín tornerà a riflettere sul rapporto tra creatività e potere nei suoi film successivi, le immagini finali di No sembrano decostruire un’idea della creatività intesa come puro atto di resistenza. Se la strategia ben temperata del pubblicitario degli ottanta costituiva già una forma di ottimizzazione della pratica creativa, nei decenni successivi l’immaginazione e la creatività definiranno il quadro operativo di riferimento di un nuovo capitalismo, dove rivoluzione tende a fare rima con innovazione. Come al solito, tutto sembra perduto. Non è dunque il caso di essere apocalittici. Seguendo i protagonisti della trilogia cilena, si sono riconosciute le soglie di trasformazione e le strumentalizzazioni del lavoro creativo, della spettatorialità, della cittadinanza. Si è osservata la battaglia di immagini tra il “vecchio” e il “nuovo”, tra Lucho e René, e così il passaggio dall’esperienza eterotopica a quella utopica, mettendo in evidenza i processi di anestetizzazione spettatoriale così come le potenzialità emancipative che di volta in volta, singolarmente, 134

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

non smettono di esprimersi. Si è assistito alle tappe di affermazione dell’immaginario statunitense in Sudamerica e all’edificazione multimediale di un’utopia multinazionale, ma si è anche vista la capacità di uno sguardo intermediale, uno sguardo critico, di sopravvivere e rigenerarsi continuamente dal suo stesso contrario. Mario, Raúl e René – in quanto soggetti individuali – sono destinati in qualche modo ad assoggettarsi ai modelli immaginativi verso i quali si protendono, ma l’affermazione di echi e risonanze tra i diversi film della trilogia dà vita a identificazioni multiple, crea figure stratificate. Se il personaggio di Raúl prefigura René e se quest’ultimo recupera l’andatura assorta di Mario offrendo al contempo una possibile identificazione del lavoro cinematografico di Larraín stesso, allora è possibile vedere il tempo dentro l’immagine. Nonostante sia forte la tentazione di intraprendere la scappatoia della purezza rivendicata e del porto sicuro, non esiste nessun altrove – eterotopico o utopico che sia – che garantisca un rifugio dalle coordinate politiche del qui – che sia locale o globale, dittatoriale o democratico – e nessuna traiettoria errante o sperimentale porta in sé garanzie. Come scrivevano chiaramente Deleuze e Guattari già negli anni settanta e ottanta, il potenziale decostruttivo e costruttivo dei processi di deterritorializzazione è qualcosa di prezioso e, proprio per questo, conteso45. Spetta forse al cinema

45

G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., pp. 34-66.

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di affermare, ancora, la possibilità di un uso critico di tale processo o quantomeno di raccontare, rendere lampanti in una o più immagini, le trasformazioni che investono la pratica creativa. Eccolo lì il protagonista della trilogia cilena di Larraín: un po’ un flâneur, un po’ Marty McFly, un po’ Mark Zuckerberg, un po’ un alter ego di Larraín stesso e del suo “cinismo”. L’immagine di René sullo skateboard che esce fuori campo è una concrezione di tempi storici. Una figura stratificata che non si limita a disegnare traiettorie sulla superficie d’asfalto ma convoca lo spessore del tempo, riarticolando il rapporto tra lo ieri, l’altro ieri e l’oggi, considerato nelle sue urgenze, nelle sue cogenze.

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II. Quando il pubblicitario è il protagonista

Il sacro è l’agitazione prodiga della vita che, per durare, l’ordine delle cose incatena, e che l’incatenamento tramuta in scatenamento, in altri termini in violenza. Georges Bataille, Théorie de la religion

Amare Dio è l’unico metodo per disfarsi, senza dolore, di se stessi: più la carne si sacrifica, più si apre alla luce. Ma i nervi, il tremito, la differenza di potenziale, la scossa? Nessuna reazione di chimica celebrale m’ha convinto e trasformato. Ho sete del mio male Signore: ti sei donato a me ma non ti sento. Walter Siti, Bruciare tutto

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III. Critica della morale vittimaria

III. CRITICA DELLA MORALE VITTIMARIA

La casa dalle mura gialle Il club è il quinto film di Larraín, girato a nove anni di distanza dal primo lungometraggio Fuga e tre anni dopo l’ultimo capitolo della trilogia. Gli spettatori del film del 2015 incontrano dei personaggi dall’oscuro passato, immersi nei colori tenui e nella nebbia che avvolge La Boca, una piccola e isolata località balneare sulla costa nord dello Stato, nel comune di Navidad. Qui, in una casa dalle mura gialle posta su un’altura, la Chiesa cattolica cilena ha confinato quattro preti, colpevoli di gravi crimini: pedofilia, connivenza con il regime di Pinochet, sequestro di neonati, adozioni illegali. Il potere religioso li ha ripudiati e adesso li protegge dalle conseguenze legali dei loro stessi gesti, erigendo attorno a essi una coltre di omertà e silenzio. I cromatismi e gli effetti luministici opacizzanti adottati per restituire la quotidianità di queste vite richiamano quelli già utilizzati per raffigurare le strade della capitale nelle quali vagano i protagonisti di Post Mortem e Tony Manero. Con Il club Larraín torna, ancora una volta, a creare storie e immagini capaci di problematizzare 139

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Fig. 1

i lasciti del passato dittatoriale. Se la trilogia si è conclusa tra i colori dell’arcobaleno e i jingle degli spot referendari a favore del No, in Il club il passato dittatoriale – proprio come la nebbia che avvolge l’esterno della casa dalle mura gialle [fig. 1] – si insinua, riaffiora nelle coscienze dei quattro preti, pervade le loro azioni, riemerge attraverso le confessioni che ciascuno di loro è costretto a fare. Un passato che non può dirsi concluso e che assume sempre più consistenza figurativa fino a manifestare pienamente il suo portato traumatico con l’arrivo a La Boca di alcuni stranieri che distruggeranno i meccanismi con i quali i membri del club erano riusciti a proteggersi dall’esterno e a salvaguardare la propria coesione. Il club presenta quindi diversi elementi tematici, stilistici e compositivi che richiamano i capitoli della trilogia ma al contempo se ne discostano. Non si concentra solo sulle forme di violenza e sulle strategie di disciplina e controllo, ma mette in scena gli effetti tardivi della dittatura sui carnefici e sulle vittime. Se, come si è messo in evidenza, la dittatura è un fuori campo che preme su ogni sequenza, generando specifici effetti plastici, influenzando i comporta140

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III. Critica della morale vittimaria

menti dei soggetti e depotenziando le possibilità di agire e reagire, nel film è piuttosto il passato stesso a esercitare una pressione, a “insistere e sussistere” sulle inquadrature: anche se il racconto filmico è collocato durante il periodo democratico, i postumi della dittatura e gli intrecci con la Chiesa non possono dirsi conclusi; al contrario si assiste a un loro ritorno, complesso e frammentario. Il 2015 non è solo l’anno di uscita di Il club, ma anche de Il caso Spotlight di Tom McCarthy, vincitore di due premi Oscar. Un film costruito secondo il modello dell’inchiesta e incentrato sull’indagine svolta da un gruppo di giornalisti del “Boston Globe” che ha portato alla denuncia per pedofilia e abusi sessuali di settanta preti appartenenti all’arcidiocesi di Boston. Nello stesso anno, El bosque de Karadima è un successo di pubblico in Cile, tanto da diventare anche una miniserie in tre episodi per la televisione nazionale. La pellicola e la serie, entrambe girate da Matías Lira, raccontano il lungo calvario di abusi fisici e psicologici inflitti da Fernando Karadima, noto e potente parroco cileno, ai danni di James Hamilton – nella finzione il personaggio si chiama Thomas Leyton – tra gli anni ottanta e il 20001. Sempre nel 2015 esce Colonia di Florian Gallenberger, un thriller a sfondo I casi di pedofilia nella Chiesa cattolica sono uno degli argomenti più controversi e dibattuti nell’opinione pubblica e hanno segnato sia il pontificato di Papa Benedetto XVI sia quello di Papa Francesco. Quest’ultimo ha scritto la prefazione a La perdono, padre di Daniel Pittet. Il libro, tradotto e pubblicato in Italia da Piemme nel 2017, è una denuncia e un’assoluzione nei confronti del prete pedofilo che ha abusato dello scrittore.

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storico che racconta la fuga di una coppia di europei dalla Colonia Dignidad, la missione guidata da Paul Schäfer, un predicatore tedesco implicato nel traffico di armi illegali e connivente con le torture compiute dai militari di Pinochet ai danni dei dissidenti. Rispetto a tali film, Il club affronta il tema delle violenze commesse dai sacerdoti non solo per denunciare la connivenza tra la Chiesa cilena e la classe dirigente dittatoriale ma anche e soprattutto per indagare le forme di edificazione di una “condotta” che garantisca ai soggetti di convivere con le proprie colpe e che permetta di giustificare a se stessi e agli altri le proprie malefatte. Condotta intesa da Foucault come uno dei dispositivi che permettono il passaggio dal governo delle anime a quello degli uomini, dalla sfera del privato e quella pubblica, dalla dimensione religiosa a quella politica: introdotto dal pastorato cristiano nella società occidentale a partire dal sedicesimo secolo, fondato sulla coercizione del corpo e dello spirito, il concetto di condotta ha permesso di innestare la soggettivazione all’interno delle dinamiche disciplinari2. Nel corso di un’intervista, Larraín ha del resto dichiarato di essersi ispirato tanto per l’ambientazione del suo film – l’interno di una casa, il club dei preti scomparsi – quanto per la stesura della sceneggiatura – scritta assieme a Guillermo Calderón e Daniel Villalobos – alla vicenda di Francisco José Cox, vescovo

2

Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, tr. it., Milano, Feltrinelli 2005, pp. 167-168.

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cileno e membro dell’Istituto dei padri di Schönstatt in Germania, accusato di pedofilia e per questo rifugiatosi in Europa3. Anche Larraín parte dunque da fatti di cronaca, ma a differenza degli altri film citati si smarca nettamente dalle scelte di genere e dalle strategie narrative che li caratterizzano: l’investigazione condotta nel film di McCarthy, i rimandi diretti al passato attraverso l’utilizzo di flashback che in El bosque de Karadima riportano il protagonista Hamilton agli episodi che hanno segnato la sua gioventù, il ritmo incalzante con cui Gallenberger racconta la fuga rocambolesca del fotografo e dell’amata dagli orrori di Colonia Dignidad e dal golpe. Come si avrà modo di vedere in dettaglio, Il club non propone un racconto edificante di salvezza, redenzione o denuncia, ma ricostruisce la relazione macabra e morbosa tra vittime e carnefici, l’assuefazione alla violenza che ciascuno dei due ruoli comporta; non inscena un processo ai danni dei sacerdoti ma sfrutta il dispositivo della confessione e quello del sacrificio per riattivare i traumi del passato ma senza garantire il loro superamento. Ancora una volta, non si tratta soltanto di documentare e rielaborare gli eventi attraverso il racconto finzionale, né di denunciare le colpe e il sistema di connivenze con il

L’intervista di Carlos Aguilar, “Why The Club Director Pablo Larraín Knows the Catholic Church Won’t Respond to His Controversial Film”, si può leggere su Indie Wire all’indirizzo web http://www.indiewire.com/2016/02/why-the-club-directorpablo-larrain-knows-the-catholic-church-wont-respond-to-hiscontroversial-film-26245/ (ultima consultazione: aprile 2017).

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regime; si tratta piuttosto di ritornare sulla dittatura per mostrarne un ulteriore risvolto nell’analisi delle dinamiche che disciplinano i soggetti nei loro rapporti con le istituzioni – in questo caso politiche e religiose – e ne condizionano la sensibilità. Come ricordare, cosa dimenticare? C’è una forma di perdono per le atrocità e i peccati commessi? Non è certamente possibile trovare delle risposte univoche a questi interrogativi. Per abbandonare i toni perentori su cui spesso si fonda la retorica del dovere di memoria o quella del diritto all’oblio e per superare il dogmatismo religioso, il regista sceglie come set principale quello della casa: uno spazio chiuso e protetto che si rende trasparente all’obiettivo della macchina da presa e intellegibile grazie al montaggio. Un ambiente nel quale l’abiezione e la grazia convivono e dove le contraddizioni non trovano una sintesi ma coabitano. Confinati nel “club”, i quattro preti, con passione e cura maniacale, allenano un cane di nome Rayo per le gare di coursing – una competizione in cui i levrieri inseguono a coppie una lepre finta –, coltivano un piccolo orto, cantano, bevono alcolici e pregano insieme, al mattino, a mezzogiorno e alla sera, prima di coricarsi. A sorvegliarli e accudirli c’è un’ex suora dalla voce monocorde e i modi gentili: la compostezza e l’espressione di benevolenza si sono cristallizzati sul suo volto in modo da mascherare opinioni e sentimenti. Le colpe e i peccati coabitano, come sospesi, con gli obblighi e le mansioni giornaliere. Osservata dall’esterno, la casa custodisce i segreti dei sacerdoti che la Chiesa cattolica ha sconsacrato senza per questo averli denunciati pubblicamente: 144

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essa è pertanto una sorta di limbo, uno spazio di interdizione ma anche di protezione. Osservata dall’interno la casa è uno spazio di immunizzazione che include all’interno dei suoi confini il male da contrastare e attraverso la presenza di quest’ultimo garantisce la profilassi dei suoi abitanti. Nel club vigono delle regole di esclusione mediante inclusione – coloro che abitano la casa sono banditi dalla Chiesa ma possono continuare a vivere agiatamente dentro un perimetro ben definito – e di inclusione escludente, che presuppone la presenza della colpa in quanto monito ed elemento che protegge e allo stesso pregiudica la vita4. Lo stato di sospensione delle pene e di connivenza con i crimini commessi garantisce non soltanto la stabilità del gruppo nell’ambiente domestico ma anche la condotta dei singoli. Si tratta di una forma di disciplina in cui i peccati non sono negati ma interiorizzati dal soggetto con il fine di regolare l’impulso a commetterne altri: una filosofia secondo la quale solo accogliendo il male si diventa consapevoli e capaci di contenerlo.

Il ritorno di Sandokan È ancora mattino quando padre Lazcano giunge a La Boca. Gli abitanti della casa sono seduti attorno al tavolo del soggiorno per la colazione. Il giorno

4

Sul dispositivo biopolitico dell’inclusione escludente, si veda R. Esposito, Immunitas: Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2012, pp. 9-13.

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prima il loro levriero ha vinto l’ennesima corsa. Stanno progettando di farlo gareggiare al campionato di Santiago ma prima dovrà aggiudicarsi la competizione regionale e loro dovranno trovare un modo per portarlo nella capitale, nonostante il divieto di lasciare il paesino e di comunicare con gli estranei. La sorella Mónica accoglie Lazcano assieme agli altri preti, lo istruisce sulle regole a cui attenersi – le attività e le faccende domestiche che scandiscono la giornata, i pasti, i turni per le confessioni e le messe – e i divieti – uscire al di fuori degli orari prestabiliti, parlare con gli sconosciuti, masturbarsi, flagellarsi, usare il cellulare, maneggiare il denaro – da non infrangere. Lei parla a bassa voce, quasi bisbiglia; l’altro ascolta con sguardo attonito, a volte annuisce. Sono disposti l’uno a fianco dell’altra. Con uno stacco di montaggio si passa dall’esterno della casa al salotto mentre il dialogo tra i due non si interrompe. Spostandosi dall’esterno all’interno, il movimento della macchina da presa si inverte: il lento carrello all’indietro, che mantiene i due personaggi al centro dell’inquadratura, viene sostituito da un carrello in avanti grazie al quale il campo visivo si separa da quello sonoro e si focalizza – fatta eccezione per un altro breve stacco, utile a mantenere la coerenza tra la colonna sonora e le immagini, nel quale i due soggetti di parola sono inquadrati di spalle – sullo spazio attorno alla tavola dove sono seduti gli altri preti. Una volta entranti nella casa, le istruzioni della sorella Mónica al nuovo arrivato vengono pronunciate fuoricampo mentre la macchina da presa perlustra la casa e le espressioni dei suoi abitanti. Ma è soprattutto il volto di padre Lazcano a non essere inquadrato, pro146

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prio nel momento in cui quest’ultimo afferma di non essere come gli altri – peccatori, criminali, pervertiti – e quindi di non comprendere la necessità di dover sottostare al regolamento enunciatogli. I movimenti di macchina fluidi della sequenza appena descritta ritornano a più riprese e contribuiscono a costruire le cifra stilistica e le peculiarità visive del film. La scelta di utilizzare la macchina da presa alla stregua di strumento esplorativo è funzionale all’idea di costruire dei personaggi che non sono pienamente consapevoli dello spazio in cui agiscono e del loro ruolo all’interno della trama. Per enfatizzare i caratteri di incertezza e sospensione – quell’effetto di “nebbiosità” che assale fin dall’inizio la cittadina sul mare e che ora invade anche la casa – il direttore della fotografia Sergio Armstrong ha del resto utilizzato un sistema di lenti che non ci permette di essere sicuri se ciò che stiamo vedendo è in primo piano oppure sullo sfondo, al centro o di lato, se è a fuoco o fuori fuoco e siamo persino incerti sui colori. Si crea una sorta di sensazione viscerale che non è solo visiva ma si trasforma anche in qualcosa che colpisce il tono e l’atmosfera del film. […] Abbiamo utilizzato una camera HD RED con delle lenti sovietiche degli anni cinquanta e sessanta. A causa di queste lenti, il sensore era incapace di catturare correttamente l’immagine5.

C. Aguilar, “Why The Club Director Pablo Larraín Knows the Catholic Church Won’t Respond to His Controversial Film”, cit.

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L’incompatibilità tra le lenti sovietiche, i filtri digitali e la camera ha permesso al direttore della fotografia di ottenere delle immagini in cui vengono meno il rapporto e la distanza tra i piani, la posizione dei soggetti nell’ambiente è incerta e i cromatismi si confondono. L’“atmosfera” del film prodotta da questi effetti di distorsione dell’immagine viene amplificata dalle inquadrature ravvicinate in cui il volto in primo piano si deforma e si confonde con ciò che gli sta intorno, oppure è controbilanciata dai movimenti di macchina che, liberi da specifiche funzioni narrative o dall’obbligo di evidenziare un punto di vista diegetico, perlustrano lo spazio e restituiscono almeno in parte l’equilibro tra le sue parti. L’arrivo di padre Lazcano a La Boca non è un caso isolato: dopo che quest’ultimo ha terminato la sua dichiarazione di innocenza, una cantilena proveniente dal cortile esterno risuona nella casa e attira l’attenzione di tutti: «Cuore di porcellana, chi ti vuole, chi ti ama, Sandokan si chiama. Dal cielo cadde una rosa, trasportata giù dal vento, e ogni petalo diceva: “Sono Sandokan, mi presento”. Arancia cinese, limone francese, dammi un bacino e ti starà vicino». Attraverso una delle finestre, accompagnato da un ritornello infantile e inquietante, appare il passato di padre Lazcano [Fig. 2]. È Sandokan, un vagabondo che insegue il prete nei suoi spostamenti forzati da una città all’altra. Da bambino Sandokan è stato violentato da padre Lazcano e adesso lo cerca, gli dà la caccia e allo stesso tempo lo desidera. Un amore abietto, in cui la fede e il sesso sono inscindibili, lega il vagabondo al sacerdote. Ma quest’ultimo non è più in grado 148

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Fig. 2

di sostenere i ricordi empi che il primo, con le sue cantilene e i suoi racconti che descrivono minuziosamente gli abusi, gli rievoca. La tensione si accende improvvisamente: padre Ortega inizia a gridare e ad accusare il nuovo arrivato, Mónica cerca di convincere inutilmente Sandokan a entrare in casa, padre Silva estrae una pistola e incita padre Lazcano a uscire per spaventare il disturbatore, padre Vidal, inginocchiato di fronte ad un altare, prega e piange in modo convulso. La sequenza termina con il gesto estremo di padre Lazcano che, nuovamente inquadrato di spalle, si spara alla tempia di fronte a Sandokan. La polizia si accontenterà di credere alle testimonianze, tutte concordi nell’affermare l’instabilità del prete che ha estratto la pistola per suicidarci all’improvviso e senza alcuna ragione apparente, mentre gli altri inquilini erano intenti a guardare un reality show sul canale nazionale. La Chiesa, invece, non è convinta dell’ipotesi di depressione che avrebbe condotto al suicidio e invia nella casa padre García, un gesuita esperto in situazioni di crisi il cui compito non sarà soltanto quello di far luce – come lascia presagire l’esergo contenuto nei titoli di testa in cui 149

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viene citato il quarto versetto del primo capitolo della Genesi: «Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre» – sul suicidio avvenuto il giorno precedente ma anche di far emergere i molti segreti rinchiusi tra le mura della casa. Bisogna “coltivare la repressione”, dichiara padre Vidal a padre García. Provocato dall’emissario delle istituzioni ecclesiastiche che vuole scavare nella psicologia degli ex preti e al contempo comprendere le cause del suicidio, il personaggio interpretato da Alfredo Castro svela senza timori le sue colpe: «Ho commesso l’errore di scrivere una lettera a un vescovo di Roma, raccontandogli quanto fossi felice di aver represso il desiderio di dormire con altri preti. Sa cosa mi ha risposto? Se ero anche capace di reprimere il desiderio di abusare di un bambino. “Certo!”, gli ho risposto. […] Perché la malattia di innamorarsi di un bambino si può curare, si può reprimere. […] Quel vescovo mi ha accusato di difendere la pedofilia, ma questa è una menzogna. Stavo solo difendendo la capacità di reprimersi». Durante l’interrogatorio i due uomini sono seduti uno di fronte all’altro [figg. 3-4]. Sullo schermo si alternano, attraverso una serie di campi e controcampi, il primo piano di padre García e il primissimo piano di padre Vidal. All’impassibilità del primo che con voce ferma e tono inquisitorio pone le sue domande, fanno seguito le risposte di padre Vidal. Su di lui l’obiettivo si sofferma più a lungo, rivelando i movimenti del volto e i mutamenti emotivi che dall’impassibilità passano alla commozione e infine alla rabbia.

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Fig. 3

Fig. 4

Se in Jackie, la pellicola analizzata nell’ultimo capitolo di questo libro, è all’opera una strategia di esposizione del volto, utile sia alla riemersione del trauma connesso alla morte del presidente Kennedy sia alla costruzione di un’immagine efficace e duratura del potere, in Il club la frontalità dei personaggi colloca lo spettatore all’interno di un meccanismo confessionale che si ripete in molte altre sequenze, sino a coinvolgere tutti i personaggi del film. Utili alla progressione della trama, i diversi momenti confessionali che costellano la pellicola sono altresì capaci di definire le sfaccettature di una condotta fondata sulla ritenzione della colpa che impedisce al colpevole di ritenersi tale. “Repressione” è un 151

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termine che compare due volte nel passo citato e che padre Vidal ripeterà e ribadirà anche in seguito: è nella capacità di trattenere il male, di renderlo parte integrante del proprio sé, non semplicemente di sopportarlo come un fardello, che risiede la coerenza morale dell’ex sacerdote. In un’altra sequenza del film, padre Vidal usa di fronte al suo inquisitore alcune parole inquietanti: «Io sono arrivato qui circa quattro secoli fa. All’epoca, si diceva che ci avesse creato il diavolo. Ora si dice che sia stato Dio per amare il prossimo, perché è sporco. Amare coloro che fanno sesso osceno, che ridono di se stessi, che si umiliano, che fumano in bagno […] Non si illuda, perché io so più di lei. Io so molto più di lei. Io lo so, perché in questo sesso squallido e profondo, io ho visto la luce più amorevole di nostro Signore». Si tratta di parole pronunciate con toni profetici, nelle quali la colpa è concepita come il mezzo per raggiungere la grazia: secondo una logica di attrazione tra gli opposti, che altera il principio cristiano della solidarietà verso gli ultimi, l’abietto non solo è la chiave di accesso a una conoscenza esclusiva ma è anche prossimo al divino6. Piuttosto che assumersi le responsabilità per i crimini commessi e di cercare

Sulla Chiesa in quanto “corpo bipartito”, che comprende in sé tanto il peccato quanto la grazia attraverso il binomio tra fuscum (il corpo “fosco”) e decorum (la dimensione “decora”), si vedano le riflessioni contenute in G. Agamben, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Roma-Bari 2013, in particolare p. 17. 6

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III. Critica della morale vittimaria

una forma di redenzione, gli uomini che mangiano, cantano e pregano tra le mura della casa gialla si dichiarano portatori di un sapere e di una verità esclusivi proprio perché colpevoli. Larraín mette dunque alla prova questa razionalità che sconfina nel patologico attraverso la riapparizione della vittima. Sandokan è tornato. Si apriranno le porte della casa? E se questo accadrà, sarà per lasciare definitivamente spazio a un’indagine giudiziaria? Oppure, secondo le modalità dell’inchiesta voluta dalla Chiesa, si tratterà di aprirsi alla vittima, accoglierla tra i carnefici, per fare sì che la comunità tormentata dalla colpa possa richiudersi attorno ad essa?

Confessioni Sandokan e García arrivano entrambi del passato ma hanno obiettivi differenti: il primo desidera che il tempo si riavvolga e che le violenze subite si ripetano; il secondo è interessato a scavare nelle biografie dei preti per portare questi ultimi a un’ammissione di colpevolezza secondo la strategia dell’istituzione ecclesiastica che coincide al contempo con la messa al bando dei criminali e il nascondimento dei crimini all’opinione pubblica. Il primo reitera il meccanismo della vittima, il secondo vuole instillare il senso di colpa nei carnefici e chiudere la casa che li protegge. Due posizioni agli antipodi che il film mette in tensione, intrecciando il racconto delle perversioni all’indagine sui peccati passati e sulle colpe presenti. La presenza di padre García è percepita fin dal 153

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principio come fonte di cambiamento e quindi di pericolo per i quattro ex sacerdoti che vorrebbero proseguire indisturbati la loro vita di provincia, lontani da qualunque forma di visibilità e di giudizio. Qualcuno arriva addirittura a insinuare che la Chiesa, nel suo percorso di rinnovamento, abbia individuato in loro dei capri espiatori e stia utilizzando il gesuita per sbarazzarsene. Il circuito vittimario diventa reversibile e coloro che durante gli anni della dittatura erano degli aguzzini o dei fiancheggiatori del regime adesso si percepiscono come bersagli. Perdono e indulgenza, perdono e clemenza, perdono e pietà: alcuni versi del canto popolare Perdón, oh dios Mío – leitmotiv del film – accompagnano i gesti della sorella Mónica che lava le scale di ingresso da una chiazza di sangue, ultima traccia del suicidio. Nella sequenza successiva, dedicata al funerale di padre Lazcano, sono i membri del club a cantare in coro gli stessi versi. Questa scelta di montaggio permette alla colonna sonora e in particolare alla musica, che inizialmente era in una posizione off e faceva da accompagnamento drammatico alle immagini, di essere presa in carico dai soggetti in campo7. Oltre ad essere strumentale alla ritualità compiuta e raccolta del funerale, il brano fa da controcanto alla filastrocca con la quale Sando-

7 Sulla collocazione spaziale e temporale del sonoro in relazione alle immagini e in merito ai loro rapporti in funzione del montaggio audiovisivo si rimanda al classico M. Chion, L’audiovisivo. Suono e immagine nel cinema, tr. it., Lindau, Torino 2001, pp. 61-84.

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III. Critica della morale vittimaria

kan si è introdotto nel film. In breve tempo si passa dall’ironia macabra di quest’ultima alla ieraticità riservata all’ultimo saluto per il defunto: il campo sonoro è l’indicatore delle trasformazioni passionali dei personaggi e delle predisposizioni emotive degli spettatori. Nel verso di Perdón, oh dios Mío, l’atto di perdonare è sempre accompagnato da sinonimi che predispongono il destinatario alla compassione. La preghiera è un’invocazione, una richiesta rivolta al divino affinché sia misericordioso nei confronti dell’anima che si prepara a raggiungerlo. Gli ex preti sono disposti ad affidarsi alla clemenza divina affinché il defunto possa essere perdonato e la sua anima riposare in pace, ma non sono altrettanto disponibili ad ammettere i propri peccati e soprattutto a chiedere imploranti un’assoluzione. Il ruolo del gesuita all’interno della trama del film è dunque quello di provare a carpire le verità custodite da ciascuno degli abitanti per ottenere un’ammissione di colpevolezza ed obbligarli così a redimersi. Se nella trilogia della dittatura la violenza e le forme del consumo sono ascrivibili all’orizzonte delle tecniche disciplinari che dall’esterno agiscono sul soggetto, orientandone i comportamenti e assuefacendone i desideri, in Il club padre García assume una funzione pastorale: il suo scopo è quello di condurre gli abitanti della casa a un esame interiore che Foucault annovera tra le tecnologie del sé, ovvero una delle forme di cura e governo delle soggettività. Tra il dominio sugli altri – il controllo, la disciplina – e il dominio del sé c’è interdipendenza; si tratta in entrambi i casi di forme governamentali: la prima 155

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agisce dall’esterno e viene interiorizzata, proiettando un sistema di regole e di attese sul comportamento del soggetto; la seconda si propaga dall’interno verso l’esterno, estraendo una verità dal soggetto e imponendo, in seguito, le regole di comportamento da seguire. Come scrive Foucault, Governare le persone, nel senso ampio del termine […] non è un modo di forzare le persone a fare ciò che vuole chi governa; è sempre un equilibrio versatile, fatto di complementarità e conflitti tra tecniche che assicurano la coercizione e i processi attraverso cui il sé è costruito [e] modificato da se stesso8.

Obiettivo delle tecniche del sé è dunque quello di rivelare e far enunciare un regime di veridizione: «Se, per il governo degli uomini nelle nostre società, ciascuno è chiamato non solo a obbedire, ma anche a produrre e rendere pubblica la verità su di sé, [l’esame di sé o] l’esame di coscienza e la confessione dovranno essere annoverati tra le più importanti procedure di questo tipo»9. La volontà di sapere, l’obbligo a dire la verità su se stessi istruiscono l’azione

8

M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, tr. it., Cronopio, Napoli 2012, p. 40. Per un’introduzione a questi argomenti si veda anche M. Foucault, Tecnologie del sé, in Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, a cura di L. H. Martin, H. Gutman e P. H. Hutton, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 11-47.

9

M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., p. 41.

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III. Critica della morale vittimaria

di padre García e lo rendono una “bestia da confessione”, intenzionata a escogitare e praticare diversi stratagemmi, primo fra tutti l’interrogatorio, per far in modo che gli ex preti mettano in pratica un esercizio di decifrazione interiore, si ritengano colpevoli e infine si rimettano nelle sue mani di confessore10. Come risulta evidente già dall’analisi svolta nel secondo paragrafo di questo capitolo, relativa al faccia a faccia tra padre García e padre Vidal, il gesuita non sta svolgendo una vera e propria confessione. Gli elementi che mancano sono molteplici: dall’assenza del confessionale che viene sostituito dal salotto, alla postura del sacerdote che, anziché disporsi ortogonalmente rispetto al confessato e nascondere il suo volto dietro a un velo o a una grata, si rivolge verso quest’ultimo e lo fissa; inoltre il vincolo della segretezza è compromesso dalla presenza di un registratore; infine il confessore non pronuncia l’assoluzione e il confessato non ammette le sue colpe che, al contrario, sono considerate uno elemento di saggezza e beatitudine. Nonostante la mancanza degli elementi menzionati, previsti dal sacramento della confessione, la serie di interrogatori che caratterizzano molte sequenze del film sfruttano e trasformano quello che Foucault definisce il “rituale discorsivo” della confessione: La confessione è un rituale discorsivo in cui il soggetto che parla coincide con il soggetto dell’e-

10

Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, tr. it., Feltrinelli, Milano 1985, p. 55.

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nunciato; è anche un rituale che si dispiega in un rapporto di potere, poiché non si confessa senza la presenza almeno virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza e interviene per giudicare, punire, perdonare, consolare, riconciliare; un rituale in cui la verità mostra la sua autenticità grazie all’ostacolo ed alle resistenze che deve eliminare per formularsi; un rituale, infine, in cui la sola enunciazione, indipendentemente dalle sue conseguenze esterne, produce in colui che l’articola delle modificazioni intrinseche: lo rende innocente, lo riscatta, lo purifica, lo sgrava dalle sue colpe, lo libera, gli promette la salvezza11.

Attraverso la confessione si estrae dal penitente un discorso che verrà sanzionato da chi detiene il potere di giudizio rispetto a un sistema di valori. All’estrazione della verità segue l’assoluzione, ossia l’assoggettamento dell’individuo all’insieme di regole a cui quest’ultimo dovrà conformarsi. La sanzione del confessato è ottenuta attraverso la formula rituale pronunciata dal confessore: “Io ti assolvo”. La verità confessata non è libera, bensì sottoposta al vaglio del discorso del potere che si propone come tecnica di costruzione e manipolazione del sé. Al di là della dimensione sacramentale, quello della confessione è dunque un discorso efficace che ha l’obiettivo di produrre un effetto di verità e, di conseguenza, un adeguamento del soggetto

11

Ivi, p. 57.

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penitente al sistema dei valori rispetto al quale egli cerca di conformarsi. Da ciò la possibilità di astrarlo dal contesto originario di matrice religiosa o dalle sue declinazioni in ambito giudiziario e di considerarlo come un dispositivo che prevede una determinata relazione fra i soggetti e lo spazio, l’enunciazione di un particolare regime di verità e l’interiorizzazione di una norma. Considerato dal punto di vista dei suoi elementi strutturali e dei suoi effetti il dispositivo confessionale può essere rinvenuto in molti format mediatici, dal reality show alla tribuna politica sino ai programmi di varietà. La duttilità del dispositivo confessionale permette agli enunciati che necessitano di collocarsi all’interno di un determinato orizzonte di verità e di sanzioni di servirsene, adeguandone gli elementi figurativi e narrativi più superficiali12. Da Rashomon (1950) di Akira Kurosawa a Io confesso (1953) di Alfred Hitchcock, all’interno della storia del cinema non sono di certo pochi i film che hanno indagato l’efficacia narrativa del dispositivo confessionale, sfruttando a pieno le dinamiche tra il segreto e la menzogna, facendo leva sulla suspense e quindi sulle discrepanze tra il sapere degli spettatori e quello dei personaggi. Ma è soprattutto il cinema politico italiano – da Todo Modo (1976) di Elio Petri a Il Divo. La spettacolare vita di Giulio Andreotti

12

Sulla funzione paradigmatica del dispositivo confessionale e sui suoi investimenti sintagmatici all’interno dei sistemi discorsivi della contemporaneità si veda G. Agamben, Signatura rerum. Sul Metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 20.

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(2008) di Paolo Sorrentino – ad aver esplorato, tanto sul piano espressivo che su quello teorico, sino alle conseguenze più estreme, la potenza assoggettante di questo dispositivo13. Traendo spunto da alcune delle strategie del cinema politico italiano che hanno proposto una critica per immagini al legame tra potere ecclesiastico e politico, è possibile notare come anche Il club metta al lavoro e deformi il dispositivo confessionale, con l’obiettivo non tanto di rivelare bensì di stanare gli effetti che determinati valori e condotte producono sui soggetti. Due visioni della Chiesa e due etiche del sé si fronteggiano, prospettando modelli d’azione antagonisti. Il primo risponde a una tendenza conservatrice, rappresentata dal gruppo degli ex preti, nascosti nella casa dalle mura gialle da anni e ormai abituati all’isolamento e alla connivenza con i crimini commessi in passato, che vuole sopravvivere nonostante le condizioni storiche – la fine della dittatura – e sociali

13

Il legame tra soggetto e verità, all’incrocio perverso tra la dimensione politica e religiosa, nel film di Petri è analizzato in G. Tagliani, Critica del dispositivo confessionale: Todo modo, in “Fata Morgana”, n. 24 (2014), pp. 279-285. Sul dispositivo teologico-politico attivato dal dialogo confessorio tra i protagonisti di Todo Modo si veda anche A. Scarlato, Religione, in Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita. Volume III, a cura di R. De Gaetano, Mimesis, Milano 2106, pp. 145-146. Sulle funzioni della confessione in Il Divo, cfr. N. Marini-Maio, Non confesso, dunque sono. Il Divo di Paolo Sorrentino, in Strane storie. Il cinema e i misteri d’Italia, a cura di C. Uva, Rubettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 145-148.

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– gli scandali prodotti dai casi di pedofilia – le siano avverse. La seconda visione coincide invece con una spinta rinnovatrice: padre García vuole contribuire alla realizzazione di una “Chiesa nuova” e per questo impone il suo ruolo e sfrutta la sue capacità investigative per sgretolare le ipocrisie e le bieche abitudini quotidiane del gruppo. Accompagnato da quest’ultimo, lo spettatore scandaglia gli antri abietti della coscienza di chi è stato connivente con la dittatura di Pinochet e ha abusato del proprio ruolo sacerdotale per violentare e deportare. Le confessioni occupano la parte centrale del film, inizialmente sono disposte in sequenza ma poi vengono frammentate dal montaggio che alterna volti, racconti, accuse. Cappellano dell’esercito per trentacinque anni, padre Silva è stato il confessore dei gerarchi del regime. Contravvenendo alla segretezza del sacramento, aveva trascritto tutto ciò che gli veniva detto nel confessionale. Sul suo quaderno erano annotate le fosse comuni per i desaparecidos e le case di tortura, i furti e gli omicidi. Per paura delle ritorsioni, il sacerdote bruciò il quaderno ma solo dopo aver memorizzato tutte le informazioni in esso contenute. In un acceso scambio, padre García arriverà ad accusarlo di complicità con la dittatura. Di padre Ramírez non si sa nulla, il suo dossier non si trova. La sua storia è celata nel mistero e i molti anni passati nella casa lo hanno inebetito quasi del tutto. Ma, nonostante l’età e le condizioni di salute mentale, sarà lui a rivelare la verità sulle circostanze della morte di padre Lazcano: di fronte al suo confessore, descrive in prima battuta la scena del suicidio e poi ripete, riproducendo lo stesso ritmo 161

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cantilenante a cui si è già fatto cenno, il racconto delle sevizie fatto da Sandokan. Di padre Ortega si viene a sapere che era invischiato in una tratta di bambini che venivano tolti alle ragazze madri dei sobborghi per essere poi adottati dalle famiglie borghesi. Dio gli ha dato una missione – controbatte a padre García che lo accusa di rapimento di bambini – quella di salvare le donne che non possono avere figli. Da monaca a sorvegliante, Sorella Mónica, dopo un viaggio in Africa e la perdita dell’affidamento di una bambina, ha scelto di fare penitenza e così si è ritrovata ad accudire e sorvegliare gli abitanti della casa a La Boca. Dicono e non dicono, i personaggi inquadrati frontalmente dalla macchina da presa. I loro ricordi personali – i meccanismi di investigazione e le tattiche di oblio – costituiscono qualcosa di ben più vasto e problematico di una questione privata. La loro esposizione di fronte alla macchina da presa è funzionale a rivelare qualcosa e nascondere molto altro. Se, in Notturno cileno, Roberto Bolaño dava spazio ai ricordi che, in una lunga e tragica notte, assalgono il prete e critico letterario Sebastian Urrutia Lacroix – risvegliato dalla sua coscienza di giovane invecchiato che gli intima una assunzione di responsabilità nei confronti del passato – Larraín prosegue in questo modo la sua riflessione per immagini sui passaggi più bui della memoria del suo Paese14.

Cfr. R. Bolaño, Notturno cileno, tr. it., Adelphi, Milano 2016, in particolare pp. 78-83.

14

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Nella costruzione figurativa del dispositivo confessionale prevista dal film, la frontalità del volto del confessore si intervalla a quella del confessato. Nel passaggio da un campo a un controcampo, lo spettatore è chiamato gradualmente a prendere parte a questa struttura rappresentativa proprio a partire dagli sguardi in macchina dei personaggi che si alternano nei ruoli stabiliti dal dispositivo. Le interpellazioni – in particolare quella relativa alla prima confessione di padre Vidal – convocano dunque un’istanza esterna al dispositivo, marcano una momentanea fuoriuscita dalla narrazione non tanto per costruire un’intesa quanto piuttosto per sottolineare il portato etico e politico di cui anche lo spettatore dovrebbe farsi carico15. Le minacce di padre Silva, le rivelazioni dell’anziano Ramírez, il sorriso ipocrita della ex suora, l’espressione contrita di padre Ortega, non sono altro che meccanismi di autodifesa dall’onta dei mali commessi, strumenti per obliare il passato a vantaggio della propria incolumità. Il gioco di sguardi in cui si fronteggiano i soggetti in campo coinvolge anche lo spettatore che osserva e al contempo è “osservato” proprio nei momenti in cui le colpe vengono alla luce e si incrinano i meccanismi di immunizzazione, fondati sulla capacità di reprimere il male, di convivere nell’oscurità grazie al suo retaggio, che fanno da collante per il gruppo.

Sull’interpellazione e sulle modalità che definiscono questa forma di sguardo, cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986, pp. 34-39. 15

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Sacrifici Fin dal suo arrivo, ciò che colpisce di Sandokan non è la sua andatura, spesso traballante a causa dell’abuso di alcool, e nemmeno il suo abbigliamento trasandato o la sua capigliatura arruffata e la barba incolta. Sono i suoi racconti turpi e il tono della sua voce a impressionare. La filastrocca con cui si introduce nella narrazione filmica, le sue dichiarazioni di odio e allo stesso tempo di amore per chi ha abusato di lui, lacerano le inquadrature e riecheggiano nella colonna sonora, si imprimono nella memoria dello spettatore. Se l’imperativo di padre Vidal è di coltivare la repressione delle proprie perversioni, con la stessa dedizione con cui tutte le mattine allena il levriero sulla spiaggia, per contenerle nel segreto della propria coscienza, Sandokan agisce secondo un programma opposto: verbalizza i traumi subiti nel passato e va alla ricerca di una violenza che li rievochi e li riattualizzi. Pertanto, il ritorno della vittima, la sua presenza perturbante, scuote le mura della casa gialla, il castello di menzogne e di autoassoluzioni che il padre gesuita aveva già iniziato a scalfire. Da una parte c’è la segretezza, il perimetro sicuro nel quale preservare e convivere con la propria turpitudine senza subire le conseguenze del giudizio morale o legale, dall’altra la trasparenza, un’apertura estrema e senza alcuna protezione per il soggetto di parola. Chiusura ed esposizione incondizionata al mondo: queste due strategie, pur essendo contraddittorie, convivono all’interno di quel cristallo, dove tutto è opaco e deformabile, nel quale Larraín ha 164

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disposto i carnefici e la vittima. Dall’altra parte, non c’è spazio per la commiserazione: la retorica compassionevole, incentrata su una antropologia della sottomissione del soggetto – vittima è chi subisce, incapace di reagire – non rientra tra gli espedienti adoperati per dare forma alla dismisura degli eventi e delle loro conseguenze. La distanza da queste posizioni è tale da manifestarsi con chiarezza in diverse sequenze del film. Ad esempio, quando padre García propone a Sandokan un rifugio sicuro presso una famiglia di Santiago, quest’ultimo descrive il suo violentatore, ormai defunto, come il suo primo e più grande amore, per poi proporsi di adescare dei bambini che soddisfino gli appetiti sessuali dei preti nascosti a La Boca. Ogni tentativo di sostegno alla vittima o di emancipazione offerto ai carnefici fallisce di fronte al riprodursi delle forme di assoggettamento. Piuttosto che interrogarsi sulle ragioni che fondano il desiderio della vittima di tornare a subire gli abusi è forse importante descrivere i modi di manifestazione di questo desiderio e comprendere le dinamiche di reiterazione del suo sacrificio. In primo luogo, è importante sottolineare le differenze a livello compositivo che distinguono le sequenze delle confessioni analizzate in precedenza e quelle che coinvolgono Sandokan. Nelle prime, la composizione non presenta cambiamenti sostanziali e si basa sul fronteggiarsi dei volti, sulla contrapposizione dei regimi discorsivi in cui ciò che per un verso è peccaminoso e abominevole diventa strumento di beatitudine e infine vige l’opposizione, a livello profondo, tra spinte trasformatrici e forme di 165

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chiusura e di ritenzione. Al contrario, la figura di Sandokan si manifesta in forme variabili e opera una relativa dinamizzazione dei rapporti tra i personaggi che compongono il club. Le forme di costruzione narrativa e le modalità di messa in scena del suo personaggio sono l’indicatore prossemico del tentativo ossessivo di ristabilire un’intimità con i suoi violentatori. Dalla sua apparizione sonora all’inizio del film fino all’accoglienza tra le mura della casa che si verifica nel finale, è possibile rinvenire una serie di tappe intermedie che includono la visita alla tomba di padre Lazcano, gli sguardi fugaci in pescheria e sul litorale, l’incontro con padre Vidal che lo esorta a lasciare il Paese e quello già menzionato con padre García. Ma la sequenza che più di tutte evidenzia questo meccanismo di attrazione degli opposti è quella in cui Sandokan trascina coperte, assi e pezzi di lamiera per costruirsi un rifugio di fortuna su una delle alture, disposte lungo la spiaggia, sempre assediata dalla nebbia, che costeggiano la casa. Seduto su un vecchio divano consunto aspetta, vuole essere visto, esige che le sue parole vengano ascoltate e la sua richiesta di entrare soddisfatta. Mónica è la prima ad avvertire la sua presenza: dall’interno dell’abitazione rivolge il suo sguardo preoccupato alla finestra [fig. 5]. Nell’inquadratura successiva la macchina da presa prende il posto della suora, superando la distanza spaziale e oltrepassando le barriere architettoniche, per avvicinarsi all’uomo seduto. Attraverso un carrello in avanti, l’obiettivo arriva ad inquadrare il primo piano del volto, segnato dalla fatica e dall’attesa [fig. 6]. I due sguardi non trovano, almeno per il momento, una sintesi ma lo spettatore può cogliere le pulsioni contrastanti che li attraversano. 166

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Fig. 5

Fig. 6

Il secondo elemento riguarda il trattamento figurativo e narrativo riservato alla vittima. I movimenti goffi di Sandokan e soprattutto la voce – laddove nelle cantilene il linguaggio regredisce a una phonè capace di modulare soltanto i bisogni connessi al piacere e al dolore – oltre ad essere un effetto, una traccia, delle sofferenze patite, sono anche lo strumento che ne enuncia e testimonia la storia. Il suo è un corpo-involucro disponibile a essere nuovamente esposto, attraversato e infine svuotato dagli abusi16. Si riprendono qui le riflessioni di Elaine Scarry sulla struttura della tortura e sul rapporto torturato-torturatore, cfr. E. Scarry, 16

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Al contempo, il corpo violentato di Sandokan si presta a essere e a mostrarsi consenziente e persino partecipe della sua punizione e distruzione17. Non c’è alcuna richiesta di vendetta o di giustizia da parte della vittima: le minacce urlate sono soltanto uno stratagemma per innescare nuovamente le violenze e ritornare nella condizione di soggetto che le sopporta. Il modello che regola i rapporti tra i soggetti è quello di una violenza mimetica che contagia anche la vittima stessa, la quale desidera permanere nel suo status. Il suo è un sacrificio necessario a impedire lo scoppio di ulteriori conflitti, a placare gli scontri interni causati dalla sua presenza e dal tentativo di sradicare le regole e le abitudini che avevano garantito l’integrità della piccola comunità in esilio composta dai sacerdoti penitenti. È noto come per l’antropologo e filosofo René Girard i rituali di espulsione – da quello ebraico del “capro espiatorio” al pharmakós greco, dal mito edipico ai transfert collettivi di ostilità contemporanei, – servano a limitare la disgregazione della comunità

The Body in Pain: The Making and Unmaking of the World, Oxford University Press, Oxford 1985, pp. 27-59. Esiste una tradizione iconografica molto longeva a proposito rappresentazione delle vittime e della loro sofferenza, che dalla scultura greco-romana, almeno a partire dall’Altare di Pergamo, arriva fino alle fotografie scattate nel carcere di Abu Ghraib nel 2004. Rimandi a questa tradizione possono essere rinvenuti anche ne Il club perché nel film il corpo della vittima è volontariamente reificato per il piacere e l’esaltazione dei suoi oppressori. Per un approfondimento teorico, cfr. S.F. Eisenman, The Abu Ghraib Effect, Reaktion Book, London 2007, pp. 60-72. 17

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III. Critica della morale vittimaria

dirottando la violenza verso un agente esterno. In particolare, Girard utilizza il paradigma della vittima espiatoria per spiegare le modalità con cui i gruppi sociali sconvolti dalle rivalità interne sanino i loro conflitti attraverso l’individuazione di un colpevole determinato – una vittima sulla quale concentrare la loro collera – da distruggere per riportare la quiete: «Tutti i rancori sparsi su mille individui differenti, tutti gli odi divergenti, ormai convergeranno su un unico individuo, la vittima espiatoria»18. E, ancora, Qualsiasi comunità in preda alla violenza o oppressa da qualche disastro al quale è incapace di porre rimedio si getta volentieri in una caccia cieca al “capro espiatorio”. Istintivamente si cerca un rimedio immediato e violento alla violenza insopportabile. Gli uomini vogliono convincersi che i loro mali dipendono da un unico responsabile di cui sarà facile sbarazzarsi19.

È l’ultima notte tra quelle raccontate nel film di Larraín. La tensione è palpabile. Ognuno teme per sé e per la tenuta del club. La situazione precipita e, nel precipitare, si risolve, si ricompone. Nel buio, con circospezione, padre Silva e padre Ortega attraversano la cittadina per uccidere – con del pane “farcito” di vetri – i cani da corsa degli altri abitanti di La Boca nelle loro dimore. Sorella Mónica soffoca il suo

R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it., Adelphi, Milano 1992, p. 118.

18

19

Ibidem.

169

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stesso amatissimo levriero con una busta di plastica e poi, in lacrime, si reca dagli altri proprietari per aizzare la loro sete di vendetta e indirizzarla verso il presunto assassino. Mentre una parte del gruppo sta mettendo all’opera il piano per incolpare Sandokan della morte dei cani e renderlo così una vittima espiatoria, padre Vidal incontra una comitiva di surfisti, composta da due uomini e una donna, e gli offre del denaro per picchiare e far scappare il vagabondo. Ma questi non accettano l’offerta e oltraggiati dalla sua proposta lo picchiano, per poi abbandonarlo sulla spiaggia con il volto sanguinante. Il destino del carnefice e della vittima si intrecciano nuovamente ma questa volta per subire un’ondata di violenza che non sono in grado di comprendere o controllare. Sandokan alza entrambe le braccia al cielo quando intravede la folla inferocita che sta per travolgerlo ed esige vendetta per l’uccisione dei cani. Un gesto che rivela per l’ennesima volta la sua arrendevolezza e che non sarà sufficiente a evitare il linciaggio [fig. 7]. Nel montaggio, i colpi inferti sul suo corpo e su quello di padre Vidal si avvicendano. La rabbia della comunità si scarica attraverso una forza che si abbatte senza trovare alcun ostacolo. Dopo i pugni dei suoi persecutori, padre Vidal è ancora in grado di reggersi in piedi e fa ritorno a casa. Purtroppo è ignaro dello stratagemma messo in atto da coloro che fino a quel momento sono stati i suoi complici: non sa che nel loro tentativo di trasformare Sandokan in un capro espiatorio hanno dovuto sacrificare il loro levriero. Quando raggiunge il cortile di ingresso, il corpo senza vita dell’animale giace a terra 170

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III. Critica della morale vittimaria

Fig. 7

Fig. 8

coperto; Vidal lo vede, lo scopre, si inginocchia su di esso, pone le mani e la testa sulla carcassa. Come se tutta la sofferenza subita e prodotta potesse manifestarsi pienamente solo adesso: nel gesto estremo di abbracciare l’animale, la repressione che ha guidato e giustificato ogni azione cede il passo al fluire di un sentimento di compassione finora inespresso [fig. 8]. L’impassibilità del suo volto è sostituita da un pianto incontenibile: seduto sull’inginocchiatoio della piccola cappella esterna alla casa, Vidal non vuole nemmeno concedere il perdono a Mónica. In questa sequenza, è il personaggio interpretato da Castro a svolgere il ruolo di confessore, eppure egli non accetta di assolvere la peccatrice, che lo osserva dall’alto, 171

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né vuole essere connivente con il piano architettato per preservare la loro sicurezza domestica. L’ennesimo stacco di montaggio riporta lo spettatore sul luogo del pestaggio. Sandokan riesce a malapena a respirare e con fatica appoggia la testa sul gradino di una scalinata. Piange di dolore mentre padre García lo osserva commosso. Il sacrificio che è stato costretto a subire lo eleva – dal punto di vista figurativo e tematico – a una figura cristologica che sopporta il peso dell’inconsapevolezza degli uomini per garantire a questi ultimi, attraverso il calvario della passione, la redenzione o per lo meno la coesione, la stabilità del club. Se i membri del club pensavano di fare di Sandokan un capro espiatorio, allontanandolo dalla casa e dal piccolo villaggio lungo la costa, la volontà ossessiva di quest’ultimo di restare legato ai suoi persecutori unita alla pietà di padre García, trasformano il rito di espulsione in un’affermazione del sentimento cristiano della compassione per la vittima. Come messo in evidenza dallo stesso Girard, a differenza degli altri paradigmi vittimari, il racconto della Passione di Cristo propone una ricompattazione attorno alla vittima che interrompe e ribalta il circuito vittimario dell’espulsione del capro espiatorio20. Nelle sequenze finali di Il club la Passione di Cristo viene del resto citata e riattualizzata a più riprese, manifestando la trasformazione della vittima espia-

20

Cfr. R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, tr. it., a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 2001, in particolare pp. 181-199 e pp. 201-209.

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toria in una figura miracolosa capace di far cessare il conflitto e di ricompattare attorno a sé la comunità. Dopo aver assistito a una carneficina così efferata, padre García prende sulle sue spalle il corpo in frantumi di Sandokan e lo trascina lungo le strade ormai desolate. La macchina da presa segue a poca distanza questa deposizione che condurrà entrambi verso la casa dalle mura gialle, dove le contrapposizioni si apprestano a terminare in vista di una conclusione che imporrà un ordine nuovo, ma secondo vecchie regole. Il club, o della sospensione dei peccati Prendersi cura della vittima. Prendersi cura di Sandokan: è questa la punizione che il confessore infligge ai sacerdoti sconsacrati, costringendoli così a sopportare gli effetti delle loro azioni. La sequenza finale espone una paradossale riconciliazione all’interno di quello stesso luogo eretto per proteggere i carnefici dalla possibilità di subire ritorsioni per il male commesso. La casa dalle mura gialle è funzionale al controllo da parte degli organismi religiosi che possono regolamentare le forme di vita di chi si è macchiato di pedofilia e prendersi cura delle vittime che potrebbero screditare l’istituzione stessa. Uno spazio di messa al bando nel quale la legge vigente è quella del silenzio e della preghiera. Il legame instabile tra convivenza e connivenza che caratterizza questo ambiente, fin dalle prime inquadrature del film, trova dunque una stabilizzazione nell’identificazione di una forma di penitenza che prevede l’ospitalità di Sandokan: la 173

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prova vivente di quanto si vorrebbe occultare e con il quale bisognerà confrontarsi quotidianamente. È dunque grazie al nuovo calvario imposto alla vittima e alla sua inclusione tra le mura domestiche che la piccola comunità, confinata sulle alture di La Boca, potrà ricomporsi. La lavanda dei piedi – reinterpretazione iconografica di un altro dei momenti della Passione messi in scena da Larraín – che padre García compie nei riguardi di Sandokan è l’atto umile e servile con il quale si indica agli altri la strada da intraprendere per purificarsi dai mali. Nell’inquadratura, il soggiorno è invaso dalla luce del giorno, i soggetti dell’azione non sono perfettamente al centro dell’immagine ma permane il rigore e la sacralità della scena [fig. 9]. La spossatezza del vagabondo, con il viso sanguinante, le braccia penzolanti lungo la sedia, è controbilanciata e sostenuta dall’abbraccio del prete che, dopo aver lavato, asciugato e baciato i piedi, sembra sostenere tutto il peso di questo corpo oltraggiato. Il rumore di una campanella rompe la solennità del momento e segnala il risveglio degli altri abitanti. Disposti attorno al tavolo discuteranno sommessamente dell’offerta del gesuita: se gli ex preti daranno un letto all’estraneo, rendendolo parte integrante del piccolo gruppo che abita la casa, lui terminerà l’indagine, si dimenticherà di loro. Un ricatto che viene prontamente “tradotto” dagli astanti nei termini di una penitenza necessaria, di un’opportunità che la “nuova chiesa” concede ai preti per salvare le loro anime. Sandokan sarà ribattezzato Tomas, avrà un letto e una stanza. Nel perseguire nelle loro condotte virtuo174

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III. Critica della morale vittimaria

Fig. 9

se, gli altri inquilini dovranno rispettare e supportare la sua personale condotta che prevede l’assunzione in grandi quantità di barbiturici, analgesici, psicofarmaci e sedativi. Tutti insieme potranno onorare i sacrifici di quella notte buia, intonando in coro il canto liturgico dedicato all’“agnello di Dio” che, per riprendere ancora Girard, manifesta una differenza rispetto al capro espiatorio, in quanto capace di rimuovere «gli attributi negativi e sgradevoli del capro, e pertanto corrisponde[re] meglio all’idea di vittima innocente ingiustamente sacrificata»21. Come si è avuto modo di sostenere fin dall’introduzione, uno dei principali assi tematici e concettuali del cinema di Larraín coincide con la decostruzione di un’idea semplicistica del trauma e della vittima22. Attraverso una scrittura filmica che risulta a tratti “teorematica”, il regista cileno mira a indagare le

21

Ivi, p. 203.

22

Su questo aspetto, con esplicito riferimento a Il club, cfr. M. Sesti, Per un cinema “irresponsabile” (dunque politico). Conversazione con Pablo Larraín, cit., p. 161.

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dinamiche storiche e politiche che hanno determinato una condizione di subalternità e dunque a restituire i processi sociali mediante i quali la vittima stessa è costruita in quanto oggetto politico e sociale. Ancor di più di quanto non avvenisse nella trilogia della dittatura, la critica della “morale vittimaria” costituisce il fuoco teorico di Il club23. Come in molti altri casi, il cinema di Larraín non sembra voler proporre vie di uscita. Analizza – con un cinismo da entomologo anziché con l’empatia che potrebbe contraddistinguere chi sceglie di costruire un profilmico saturo di terrore e violenza – dinamiche psicologiche, sociali e politiche quanto mai complesse, per restituire allo spettatore una vasta gamma di azioni e inazioni, passioni espresse e forme di insensibilità. Larraín si conferma interessato ad analizzare i dispositivi di potere e indagare le aberrazioni che si producono all’interno delle loro meccaniche. Passando attraverso i diversi paradigmi vittimari – mostrandone le trasformazioni – e giungendo al cuore della morale cristiana, un film come Il club mostra dunque come la pace raggiunta dopo il terrore rischi di costituire una situazione di equilibrio – necessaria e provvisoria, in ogni caso paradossale – tra “vittime” e “peccatori”. Un equilibrio che si determina a completo discapito di ogni esigenza di verità, di ogni desiderio di giustizia.

23

Per una critica alla pervasività del paradigma vittimario in epoca contemporanea, cfr. D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Roma 2014.

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III. Critica della morale vittimaria

Per nasconder la lettera il ministro era ricorso all’espediente più ingegnoso del mondo, che era di non tentar nemmeno di nasconderla. Edgar Allan Poe, The Purloined Letter

Signore e signori, tanto per cominciare questo è un film che parla di raggiri, di frodi e anche di bugie. Raccontate davanti al caminetto, in una grande piazza o in un film, quasi tutte le storie, più o meno, celano una qualche menzogna. Ma non questa volta. È la mia promessa. Nella prossima ora, ciò che ascolterete sarà verità “vera”, basata su fatti veri. Orson Welles, F for Fake

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IV. Io (non) sono Pablo Neruda

IV. IO (NON) SONO PABLO NERUDA

Questo non è un biopic Politica e poesia sono inscindibili nella vita di Pablo Neruda, l’una alimenta l’altra e se la prima ha ispirato la gran parte dei suoi versi, questi ultimi sono sempre stati uno strumento per incidere sulla storia dei popoli conosciuti durante gli innumerevoli viaggi e raccontare l’epopea delle loro ribellioni. Per comprendere la forza di questo legame tra scrittura e azione politica è sufficiente citare poche righe del poema biografico in prosa dal titolo Confesso che ho vissuto che Neruda scrive nell’ultimo anno della sua vita: «E, a un tratto, vedo che dal sud della solitudine sono andato verso il nord che è il popolo, il popolo al quale la mia umile poesia vorrebbe servire da spada e da fazzoletto, per asciugare il sudore dei suoi grandi dolori e per offrirgli un’arma nelle lotte per il pane»1. Dallo scoppio della guerra civile in Spagna (1936) all’organizzazione dell’emigrazione in Cile dei rifugiati spagnoli minacciati dal franchismo (1939), dalla nomina a senatore per il Partito comunista cileno

1

P. Neruda, Confesso che ho vissuto, tr. it., Einaudi, Torino 2016, p. 194.

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durante il governo guidato da Gabriel González Videla (1945) all’esilio e alla fuga dalla terra d’origine (1949), dalla partecipazione alla campagna elettorale di Allende sino al Premio Nobel per la letteratura (1971): Neruda ha viaggiato attraverso l’America del Sud e l’Europa, l’Unione Sovietica e l’estremo Oriente; ha partecipato alla storia dei movimenti operai e contadini; ha dato un importante contributo alla letteratura mondiale. È come se ogni evento che ha scosso la vita delle donne e degli uomini conosciuti fosse documentato dalla sua scrittura. Lo testimoniano poemi e raccolte poetiche come Residenze sulla terra (1933), La Spagna nel cuore (1937), l’opera monumentale Canto Generale (1950) e il Memoriale di Isla Negra (1964). Come sintetizzare dunque la vita di uno dei più grandi intellettuali della storia cilena e mondiale del Novecento, nello spazio limitato di un film? Come restituire la personalità, le qualità poetiche e la sensibilità sociale e politica nel tempo dell’esperienza filmica? Larraín sembra ben consapevole del carattere smisurato dell’impresa e quando suo fratello, nonché produttore, Juan de Dios Larraín, gli propone di intraprendere questa avventura la sua risposta è negativa: «Mi fa paura, è troppo grande, è una follia!»2. Nonostante le ritrosie iniziali, la produzione di Neruda inizia durante la realizzazione de Il club ed esce nelle sale nel 2016; viene presentato

La dichiarazione di Larraín è riportata nell’intervista di C. Béghin, à la poursuite du cosmos. Entretien avec Pablo Larraín, in “Cahiers du cinéma”, n. 729 (2017), p. 38.

2

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all’interno di alcuni festival internazionali; ottiene diversi riconoscimenti, tanto da essere proposto per rappresentare il Cile agli Oscar del 2017. Nonostante il tempo abbastanza lungo impiegato per la scrittura della sceneggiatura, un montaggio molto impegnativo, dapprima approdato a una versione di oltre tre ore di durata, la realizzazione in parallelo di altri progetti e il ritiro dalla candidatura agli Oscar, Neruda fa breccia nel pubblico e nella critica internazionale. Con Neruda, Larraín affronta di nuovo i traumi del suo Paese e i prodromi della dittatura ricorrendo per la prima volta a un protagonista della storia del Novecento. Dall’uomo della strada che vuole essere Tony Manero, al testimone mancato dell’autopsia di Allende, dal pubblicitario che contribuì a traghettare il Cile verso la democrazia al manipolo di preti peccatori, custodi del retaggio macabro e violento del regime di Pinochet: la lista dei personaggi meschini, incapaci di agire e di ricordare, o comunque marginali, periferici, anche quando diventano protagonisti dei grandi cambiamenti che attraversano il Paese, si interrompe per confrontarsi con il mito di Neruda. Sotto molti aspetti, il poeta è il negativo dei personaggi dei film precedenti. Dal punto di vista tematico si tratta di un eroe acclamato dal popolo con poche ombre nella sua storia, sempre critico nei confronti del potere politico e mai connivente con esso. Dal punto di vista compositivo, nelle tecniche fotografiche e nelle scelte di ripresa mediante le quali si costruisce l’immagine del protagonista, la frattura è altrettanto netta. Ai movimenti incerti con la camera a mano in Tony Manero e alla fissità del piano sequenza in Post Mortem, si sostituisce la fluidità della 181

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steadicam e del dolly. I filtri estetici e cognitivi delle telecamere U-Matic in formato 4:3 adoperate in No - I giorni dell’arcobaleno vengono abbandonati mentre le lenti di fabbricazione russa, impiegate in Il club per scrutare e deformare il volto in primo piano dei peccatori, vengono riutilizzate alla stregua di grandangolari, in modo da ritagliare il centro della scena per il personaggio in campo e produrre degli effetti di lens flare che accecano e ingannano l’occhio dello spettatore nelle riprese in esterno. Eppure, la presa in carico di un punto di vista così autorevole non si traduce in un vero e proprio biopic. Per catturare l’“essenza di una vita” – quella di Neruda, viaggiatore delle latitudini estreme, creatore di mondi attraverso la scrittura –, Larraín non rispetta le regole del biopic, un macro genere profondamente radicato nella storia del cinema, in cui il linguaggio cinematografico, ricorrendo di volta in volta agli stilemi del film storico o di quello bellico, del western o del melodramma, si adegua, in modi più o meno fedeli, alle biografie di personaggi storici, di esponenti della società civile o dello spettacolo3. In primo luogo, il film non racconta l’intera esistenza di Neruda ma si concentra su quella porzione degli avvenimenti descritti nel “Quaderno otto”, intitolato La patria in tenebre, della sua autobiografia4.

3

Per un’introduzione generale alla storia del biopic, cfr. M. Argentieri, Il film biografico, Bulzoni, Roma 1984. Sui suoi sviluppi, cfr. E. Cheshire, Bio-pics. A Life in Pictures, Wallflower, New York 2015.

4

Cfr. P. Neruda, Confesso che ho vissuto, cit., pp. 221-253.

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L’ottavo capitolo di Confesso che ho vissuto incomincia nel 1943, anno del ritorno in Cile. Nel 1945, Neruda viene nominato senatore della Repubblica. A tre anni di distanza, dopo aver denunciato pubblicamente la piega repressiva del governo e l’esistenza di campi di concentramento per i dissidenti politici, riceve un mandato di arresto che lo obbliga a scappare prima in Argentina e poi a Parigi (1949). Dopo un prologo nel quale Neruda pronuncia il suo ultimo intervento pubblico in Senato, poi stampato con il titolo Io accuso per difendersi dall’insinuazione di tradimento lanciatagli dal presidente Videla, Larraín si concentra sui tredici mesi che separano la clandestinità dalla fuga dal Cile. Di questi mesi, il film non propone un racconto epico ed edificante, non esprime – sembra anzi negarela – una funzione didattica; il personaggio di Neruda non sempre appare come un “uomo esemplare”. Caratteristiche che sembrano marcare una distanza dalle finalità ideologiche e pedagogiche che hanno accompagnato la diffusione del biopic nel cinema hollywoodiano classico5. Un secondo elemento che contribuisce a destrutturare la forma biografica sono i continui attacchi alla continuità spaziale delle diverse sequenze. La frammentazione della messa in scena, ottenuta attraverso il continuo spostamento tra gli spazi del set – un andirivieni tra una sala del Senato e l’altra, tra gli interni e gli esterni delle case private, adibite a nascondigli durante la clandestinità – è un tratto

5

Cfr. G.F. Custen, Bio/Pics: How Hollywood Constructed Public History, Rutgers University Press, New Jersey 1992, pp. 32-34.

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caratteristico che accompagna i dialoghi tra Neruda e gli altri personaggi. Lo spazio viene dissezionato e ricomposto continuamente dal montaggio che sposta i personaggi da un luogo all’altro della scenografia. Si prenda come esempio l’incontro con il Ministro Jorge Alessandri Rodríguez: Neruda si reca nella sua abitazione aristocratica per chiedergli di chiudere il campo di concentramento per i dissidenti politici di Pisagua, controllato dal giovane capitano Pinochet, «una volpe dagli occhi azzurri», recita il commento. La conversazione non si interrompe mai ma i due uomini passano senza soluzione di continuità dalle stanze lussuose della casa di Alessandri all’aula buia e vuota del Senato. Infine, l’elemento di maggiore destabilizzazione della forma biografica è la frammentazione dell’identità narrativa di Neruda. Se la biografia è il racconto di una vita attraverso e a partire dal suo protagonista, in Neruda è l’antagonista, il capo della polizia Óscar Peluchonneau – ispirato all’omonimo personaggio storico, mai citato nel “Quaderno otto” e in gran parte frutto dell’invenzione del regista e dello sceneggiatore Guillermo Calderón, nonché delle capacità attoriali di Gael García Bernal – a romanzare la storia della fuga del poeta. A complicare le cose, si aggiunge la presenza di una voce off che non assume i tratti di un’istanza onnisciente, detentrice di un sapere maggiore dei personaggi, e che non si identifica con il protagonista Neruda, interpretato da Luis Gnecco. Questa rivela piuttosto i pensieri e le ambizioni del commissario Peluchonneau. Attribuendo all’inseguitore il ruolo di narratore interno al racconto, il film rischia di mettere in ombra la figura e le gesta del poeta. Ma il meccanismo 184

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messo in opera è molto più complesso: la distribuzione del sapere e del potere narrativo è costantemente sotto lo scacco della dialettica che intercorre tra il racconto della fuga e l’intromissione della voce off6. Se in Io non sono qui (2007) di Todd Haynes, film emblematico per le trasformazioni che ha operato nel macro genere del biografico, le tappe della vita e della musica di Bob Dylan sono suddivise in sei quadri interpretati da altrettanti attori e personaggi, costruendo così un’intelaiatura figurativa capace di palesare le maschere sociali del cantautore e le sfaccettature della sua identità, in Neruda Larraín trasforma l’espediente narrativo della fuga del poeta in uno strumento per depistare tanto gli spettatori quanto i personaggi, fino a far dubitare che le fila della narrazione siano effettivamente nelle mani dell’investigatore Peluchonneau7. Quel «germoglio fragile nato dall’unione della storia e della finzione»8 è ciò che il filosofo Paul Ricœur definisce come identità narrativa, individuale o collettiva, e si contraddistingue per il legame tra configurazione narrativa – la possibilità di raccontare delle storie su se stessi – e

6

Sui rapporti tra la voce off e i delegati della narrazione, cfr. A. Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, tr. it., Lindau, Torino 2007, pp. 159 sgg. 7

Sulle evoluzioni del biopic nel cinema contemporaneo, con particolare rifermento al film di Haynes, si veda D. Bingham, Whose Lives Are They Anyway?: The Biopic as Contemporary Film Genre, Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey, London 2010, pp. 377-403. 8

P. Ricœur, Tempo e racconto. Volume terzo. Il tempo raccontato, tr. it., Jaca Book, Milano 1985, p. 375.

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“rifigurazione dell’esperienza”, ovvero la capacità che il racconto di sé ha di incidere sul mondo dell’agire e del patire. Scrive ancora Ricœur, riferendosi alla distinzione tra identità come medesimo (idem) e identità nel senso di se stesso (ipse): L’ipseità può sottrarsi al dilemma del Medesimo e dell’Altro, nella misura in cui la sua identità riposa su una struttura temporale conforme al modello di identità dinamica frutto della composizione poetica di un testo narrativo. A differenza dell’identità astratta del Medesimo, l’identità narrativa, costitutiva dell’ipseità, può includere il cambiamento, la mutabilità, nella coesione di una vita. Il soggetto appare allora costituito ad un tempo come lettore e come scrittore della propria vita, secondo l’auspicio di Proust.

E, ancora, prosegue: Come viene verificato dall’analisi letteraria dell’autobiografia, la storia di una vita non finisce mai d’essere rifigurata da tutte le storie veridiche o di finzione che un soggetto racconta a proposito di sé. Questa rifigurazione fa della vita stessa un tessuto di storie raccontate9.

Un tessuto di storie raccontate “nutre” una porzione centrale della vita di Neruda come la fuga dal Cile. L’identità del poeta, lettore e scrittore di se stesso, prende forma attraverso la moltiplicazione delle voci

9

Ivi, p. 376.

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e dei punti di vista, combinando tratti biografici ed elementi finzionali. Chi è, dunque, tra l’inseguitore e l’inseguito, ad avere il controllo del racconto? Come si è avuto modo di anticipare e come si vedrà in seguito, la voce di Peluchonneau si intromette continuamente nelle azioni e nei dialoghi, tanto da sembrare capace di esercitare un controllo “panottico” sulla materia narrativa del film. Eppure Neruda è sempre in vantaggio rispetto a Peluchonneau: abbandona i suoi rifugi poco prima di essere scoperto dalla polizia, volutamente lascia indizi del suo passaggio, si traveste da donna o da prete durante le scorribande notturne a Santiago, si fa crescere la barba, si camuffa tra le cornici che occupano la vetrina di un negozio di fotografia durante le rappresaglie. Tracce e finti indizi, nascondigli e travestimenti: il poeta dissimula continuamente la sua presenza ma al contempo si palesa, tappezzando la sua fuga con una lunga serie di depistaggi. Con grande abilità costruisce il suo spettacolo ingannatore ai danni del suo inseguitore, ossia della figura del poliziotto che si pretenderebbe portatrice del “racconto di verità” e quindi capace di articolare per lo spettatore i nessi tra eventi ed esistenti. Il commissario racconta la storia ma ne resterà sopraffatto10. Al contrario, il poeta si appresta a con-

10 Gli effetti del continuo rincorrersi che contraddistinguono sia il rapporto della voce off con la narrazione sia il racconto dell’inseguimento sono analizzati anche in J. Lepastier, Neruda de Pablo Larraín. Auteur en quête de personnages, in “Cahiers du cinéma”, n. 729 (2017), p. 37.

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quistare un posto d’onore nella memoria collettiva e per questo, dopo aver deciso di entrare in clandestinità anziché finire in carcere come la gran parte dei suoi compagni comunisti, si fa fotografare, con quel piglio istrionico e carnevalesco che lo caratterizza, assieme alla compagna argentina Delia del Carril [fig. 1]. Per loro è stato predisposto un vero e proprio set fotografico al centro di una piazza della capitale, con tanto di fondale marino e finta barca che li condurrà tra le braccia della resistenza. Lo sguardo ammiccante, rivolto verso l’obiettivo, di Neruda, il sorriso e il saluto di Delia ai sostenitori: per diventare leggendaria la caccia al poeta ha bisogno della sua iconografia e perciò, nell’inquadratura successiva, la fotografia è già stampata in bianco e nero, pronta per essere diffusa dai giornali di sinistra [fig. 2]. Filmando la storia della fuga di Neruda dalla sua patria d’origine, Larraín costruisce un personaggio che ridicolizza il Governo autoritario di Videla e sbeffeggia la polizia sguinzagliata per reprimere il comunismo. Ecco un personaggio capace di creare immagini e attrarre verso di sé l’immaginario di lavoratori e prigionieri politici che nutrono con le sue poesie le loro speranze di libertà. Come si avrà modo di osservare in dettaglio nel corso di questo capitolo e come emergerà ancora in quello dedicato a Jackie, l’espediente biografico è dunque un inganno per critici e spettatori poco attenti. Il regime poetico si prende gioco dei “fatti”, la potenza mitopoietica del personaggio si sostituisce all’attendibilità dell’inchiesta. Dov’è Neruda? Si domanda il presidente Videla, oltraggiato dalle offese pubbliche del poeta, invidioso dei suoi versi recitati da migliaia 188

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IV. Io (non) sono Pablo Neruda

Fig. 1

Fig. 2

di proletari. Non bastano trecento poliziotti a trovare Neruda. La propaganda diffamatoria sui giornali, alla radio, sui muri di Santiago, non è sufficiente a screditare il suo nome. Neruda non si trova. Neruda si mostra nella sua poesia, è nelle sue immagini. È in questo stesso periodo di clandestinità che completerà la stesura della sua opera più grande: il Canto Generale11.

11

P. Neruda, Canto Generale, Testo spagnolo a fronte, SugarCo, Milano 2004.

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Il piacere dell’inseguimento «Sono un ottimo poliziotto. Posso essere anche un grande artista» afferma Peluchonneau a voce alta, dopo aver ricevuto dal presidente Videla l’incarico di arrestare e umiliare pubblicamente Neruda. La macchina da presa lo inquadra in primo piano, frontalmente, con il volto in penombra. La luce che filtra attraverso una delle tende de La Moneda ritaglia i contorni dalla sua sagoma in modo netto e preciso. I capelli impomatati, il baffo curatissimo, il completo perfettamente inamidato, l’immancabile borsalino: assomiglia al personaggio di un noir degli anni quaranta, il detective dal destino già scritto che precipita verso il baratro preannunciato dalla voce narrante. Ricevuto l’ordine, il commissario inizia la sua caccia, si mette sulle tracce che volontariamente il poeta dissemina durante la sua fuga attraverso il Cile. Inizia così il viaggio tra le abitazioni di fortuna e i bordelli di Santiago, passando per la città marittima di Valparaiso e Temuco – il paese del sud dove Neruda trascorse l’infanzia e l’adolescenza –, fino alla cordigliera delle Ande, confine che separa la “prigione cilena” dalla “libertà argentina”. Il montaggio dissemina i dialoghi di falsi raccordi, frammenta le sequenze mentre la colonna sonora è costantemente attraversata dalla voce off del commissario che a sua volta sembra rincorrere sia l’inseguitore stesso che il fuggiasco. La voce off fa la sua comparsa nel film ben prima di Peluchonneau, nella seconda sequenza, quando, assieme alla macchina da presa, entra nella villa di Neruda mentre è in corso una festa in maschera. 190

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IV. Io (non) sono Pablo Neruda

Fig. 3

Questa voce apostrofa con toni sprezzanti l’élite di politici e intellettuali comunisti che balla e ride mentre il suo stesso popolo – il suo elettorato di riferimento – soffre la fame. Neruda fa il suo trionfale ingresso in scena: mascherato da Lawrence d’Arabia – evidente citazione del biopic di David Lean girato nel 1962 – intona alcune strofe dal ventesimo poema della raccolta giovanile Venti poemi d’amore e una canzone disperata (1924) [fig. 3]. «Puedo escribir los versos más tristes esta noche»12: la musica è stata spenta, in silenzio gli ospiti si dispongono in cerchio attorno alla figura del cantore degli amori mentre la macchina da presa fissata sulla steadicam – controllata dall’operatore Darío Triviño, scomparso a poca distanza di tempo dal termine delle riprese – volteggia attorno al protagonista13.

12

Posso scrivere i versi più tristi stanotte.

Sulle caratteristiche e gli effetti dei movimenti di macchina e in particolare sull’uso prolungato della steadicam in Neruda, si veda anche l’intervista a Larraín contenuta in J. Teodoro, “The State That I Am In”, in Film Comment, vol. 52, n. 6 (2016), pp. 43-46.

13

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Il momento di attenzione poetica viene disturbato dalla voce off che doppia la recitazione dei versi, li ridicolizza, fantastica sui pensieri delle invitate che immaginano Neruda fare l’amore con una rosa tra i denti. Se Neruda ha la sua poesia, questa voce definisce la vena artistica del commissario: essa lo precede o lo accompagna, sotto forma di commento irriverente alle posizioni politiche e alla poetica di Neruda. I desideri e le ambizioni di Peluchonneau sono un controcanto, una melodia secondaria che si sovrappone al disegno melodico principale composto dalle azioni e dai versi del poeta. Ma, a ben intendere, la voce off irride anche il poliziotto e nel farlo lo appella usando la terza persona, come a volersi distanziare dai gesti compiuti mentre è inquadrato: «Il sagace commissario Peluchonneau dirige l’operazione come se fosse la conquista dell’Egitto». La prima perquisizione, come le successive, è un fallimento: i festeggiamenti sono già terminati e gli inquilini hanno già fatto i bagagli, avvertiti in tempo dai compagni di partito. Non restano che gli oggetti preziosi: i quadri e gli schizzi di Delia, i libri di Pablo, i souvenir e i ricordi dei tanti viaggi. I comportamenti del capo della polizia sono rivolti alla risoluzione del caso assegnatogli e sono il precipitato della conformazione del soggetto a un sistema di norme e valori preordinati. L’imperativo di acciuffare il nemico del governo è la molla di regolazione del suo piacere, inteso come perfetta integrazione a un sistema disciplinare da parte del quale si attende – e del quale si assapora – la sanzione positiva. Da qui la derisione e il disprezzo rivolti al sistema valoriale dell’antagonista e ai comportamenti che questo sollecita: l’università 192

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è il luogo dove si apprende l’arte dell’inganno burocratico, i viaggi sono passatempi di cui bearsi, i comunisti sono irrispettosi nei confronti della legge, la sofferenza dei poveri è una fonte di ispirazione, la poesia è solo un modo di disporre le parole secondo sequenze insolite. Il dileggio dell’habitus del nemico è allo stesso tempo un paravento dietro cui celare i fallimenti degli stratagemmi adottati, primo fra tutti il tentativo di sedurre la prima moglie di Neruda, l’olandese María Antonieta Hagenaar, per farla testimoniare ai microfoni di Radio Minería, stazione radiofonica diffusa in tutto il Cile, contro l’ex marito. Ogni volta che esce dal suo ufficio per riprende l’inseguimento, Peluchonneau scende la scalinata del commissariato e si imbatte nella statua del fondatore della polizia investigativa, Olivier Peluchonneau. Seduto su un scranno, il volto di poco girato a destra e il mento all’insù, la barba folta ma curata, le gambe leggermente divaricate, il piede destro in avanti: la plasticità delle forme e la configurazione della postura sono inprontate alla solennità e al dinamismo, come se la figura fosse stata ritratta nel momento di passaggio dalla stasi al movimento [fig. 4]. Il grande poliziotto è sempre pronto all’azione. La macchina da presa riproduce il movimento dello sguardo ammirato di Óscar, che si sposta dal basamento alla testa della statua. La steadicam fluttua attorno alle due figure: prima compie una mezza rotazione alle spalle del personaggio, poi, dopo uno stacco rapido, lo inquadra frontalmente avvicinandosi fino al primo piano; con il secondo stacco l’asse di ripresa si inverte e il movimento in avanti coinvolge il volto della statua. Mentre le colonne dell’edificio 193

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Fig. 4

che custodisce l’effige del suo fondatore si deformano a causa dell’utilizzo dell’obiettivo grandangolare, la voce off rivela allo spettatore il legame tra i due Peluchonneau. Óscar si ritiene il figlio, seppur illegittimo, di Olivier. Nato da una relazione con una prostituta, egli è riuscito a convincere la burocrazia delle sue origini e ha ottenuto il riconoscimento del cognome. Ora è fiero di far parte della famiglia dei Peluchonneau e dovrà onorarne l’eredità. È dunque nel rapporto tra l’attore e il monumento che il film mette in scena una forma di vita in cui desideri, sentimenti e attese sono tutti canalizzati all’interno di dispositivi che ne determinano il perimetro delle possibilità, facendo pendere il giudizio morale e sociale tra il lecito e il proibito, tra l’opportuno e il disdicevole, tra l’apprezzamento e la disapprovazione. Peluchonneau trascorre la sua quotidianità e costruisce il suo progetto esistenziale entro questi confini prestabiliti, sfrutta ogni mezzo a disposizione per riuscire nell’impresa dalla quale dipende la sua integrità soggettiva e il suo riconoscimento sociale.

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Il desiderio della fuga Se il commissario si identifica nel mandato istituzionale di perseguitare Neruda e nel piacere che provoca, quest’ultimo vive in clandestinità per disarticolare e infrangere le regole di un gioco prestabilito. «Non mi troveranno mai qui! Ma mi piacerebbe saperli più vicini», confessa ai suoi protettori. Egli non si limita a eludere il mandato di arresto ma provoca e sfida i suoi avversari. È una “macchina desiderante” sospinta da forze poetiche, che non si accontenta di opporre resistenza ed è capace di creare nuovi flussi e concatenamenti14. Se nella trilogia le forme di manifestazione della sensibilità dei protagonisti sono disciplinate dalla dittatura o canalizzate all’interno di apparati spettacolari, in Neruda la sensibilità è continuamente sollecitata e messa alla prova dalla volontà dei soggetti: il soddisfacimento degli obiettivi previsti dal ruolo o le capacità desideranti dei personaggi attivano e trasformano sia l’interazione

14

Sull’opposizione tra il piacere regolamentato e disciplinato, che nel film è ascrivibile al personaggio di Peluchonneau, e il desiderio creativo e ri-generativo, connesso invece a Neruda, si vedano le riflessioni contenute in R. De Gaetano, La potenza delle immagini. Il cinema, la forma e le forze, cit., pp. 181-186. A sua volta De Gaetano riattualizza, all’interno della dinamica tra forme e forze del cinema, la teoria del piacere come effetto conclusivo dei dispositivi di potere delineata da Foucault e il desiderio come positività analizzato da Deleuze e Guattari. Cfr. M. Foucault. L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, cit.; G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it., Einaudi, Torino 2012.

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con l’ambiente circostante sia lo svolgimento della trama. Dal disciplinamento indotto dalla dittatura al gioco cangiante di rimandi, citazioni e trabocchetti in Neruda: i caratteri di un’estetica neobarocca – già sperimentata da Larraín in No – trovano nel film del 2016 un ulteriore sviluppo – o, meglio, un’anticipazione, visto che gli eventi narrati risalgono alla fine degli anni quaranta – attraverso la dialettica tra le spinte centrifughe del montaggio, tese a destabilizzare le unità di tempo e spazio, e la forza centripeta del personaggio di Neruda che, grazie alla sua eccedenza, diventa un attrattore capace di calamitare su di sé il mondo frammentario del film. Il primo tentativo intrapreso da Neruda per oltrepassare la frontiera del Paese non va in porto perché il nome sul suo documento di identità non coincide con quello presente sul passaporto: sul primo è riportato il nome di battesimo Ricardo Reyes Basoalto – con il quale è registrato all’anagrafe del Cile – mentre il documento per l’espatrio reca il nome d’arte con il quale è universalmente conosciuto. La non coincidenza tra l’identità anagrafica e quella artistica è uno dei primi segnali di non conformazione ai dispositivi di organizzazione politica e sociale. Una potenza desiderante si esprime nella figura di Neruda fino a travalicare il personaggio stesso e condizionare la composizione e l’organizzazione narrativa del film stesso: da una sequenza all’altra, lo spettatore assiste alla continua infrazione delle regole dei generi e al fluire dalle forme, dal carnevalesco al poliziesco, fino al western [fig. 5]. Le situazioni narrative si frammentano e si aprono a fluttuazioni continue: le arringhe politiche posso iniziare in un gabinetto adi196

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Fig. 5

bito a salotto e terminare nelle aule del Senato, una bozza può diventare un poema, un incontro può ripetersi trasformandosi, un finale può essere riscritto. Le capacità deterritorializzanti del desiderio incidono sulla conformazione dello spazio, sulla geografia civile e politica della Nazione. Le camminate notturne del fuggiasco trasgrediscono i sistemi reticolari e irreggimentati della città. Queste passeggiate non hanno altro scopo se non quello di provocare gli inseguitori, sottoponendoli all’estenuante tattica del depistaggio. Le lande innevate della regione centromeridionale di Araucanía del finale del film non sono solo il luogo più adatto per concludere l’inseguimento ma – proprio perché incontaminate o presunte tali – sono spazi ancora esclusi dai dispositivi di striatura che caratterizzano la macchina statale: si tratta di intermezzi, spazi lisci da esplorare nella clandestinità. Lungo questo corridoio inospitale, il desiderio si predispone alla rigenerazione nell’altrove15.

15

Sulle diverse modalità di costruzione dello spazio in relazione alla categoria liscio-striato, cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille

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Non è l’integrità morale a segnare la forza del personaggio o la fiducia cieca negli ideali del comunismo ma la capacità e la libertà di riconfigurare la propria soggettività in rapporto agli ambienti e alle situazioni. Si può accordare fiducia anche al nemico e diffidare della volontà del partito. Per attraversare indenni la cordigliera è dunque necessario chiedere la protezione del latifondista Pepe Rodríguez, «un capitalista moderno, proprietario di aziende tessili e di altre fabbriche» ma anche «un autentico reazionario, membro eminente del partito più di destra del Cile»16. Il film di Larraín, al pari del memoriale di Neruda, ritrae Rodríguez come un uomo capriccioso e senza scrupoli, avvezzo al contrabbando e padrone assoluto di un terra leggendaria, temuta già all’epoca dei conquistadores perché abitata dagli ultimi e combattivi Mapuche. Il suo interesse personale lo porta ad ostacolare gli obiettivi del governo e a proteggere Neruda nell’ultima parte del suo viaggio. Neruda e Rodríguez: li separa un baratro ideologico, eppure siedono uno di fronte all’altro per bere e conversare. Come già aveva fatto in No e come tornerà a fare in Jackie, con questa sequenza di Neruda Larraín rende esplicita e quasi didascalica la sua indagine sui legami complessi e stratificati tra le forme della creatività, l’istituzione statale e le forme del potere capitalistico. Rodríguez libera Neruda, lo lascia passare. Non che abbia rispetto o stima per la sua

piani. Capitalismo e schizofrenia, cit. pp. 698-735. 16

P. Neruda, Confesso che ho vissuto, cit., p. 237.

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poesia, ma è piuttosto interessato alla sua capacità di infrangere le leggi e di superare i confini dello Stato, che per Rodríguez significano imposte, dazi doganali, monopoli. Ciò che il capitalista sembra ammirare di Neruda è la forza del desiderio, la potenza di deterritorializzazione. Qualcosa che un giorno, probabilmente, potrà risultare utile al suo progetto autoritario e commerciale al contempo.

Quiero castigo Come in tutte le sue pellicole e come si è avuto modo di esplicitare più volte, Larraín sceglie di restituire le mille sfaccettature, le criticità di qualsiasi realtà, di qualsiasi figura, quandanche eroica e monumentale. Pur mostrando la grandezza di Neruda, la sua capacità di costruire universi e mondi narrativi, il film mira anche a sottolineare le contraddizioni, i compromessi, le compromissioni. Non mancano sequenze corali, capaci di far valere la potenza epica della parola letteraria che ha caratterizzato la storia del Cile e del Sudamerica. Proprio da queste sequenze, proprio dalla poesia e dalla sua forza, è del resto possibile far emergere nuove criticità. La poesia di denuncia è contagiosa, rinsalda gli animi afflitti e unisce nella lotta ma è anche il sintomo del divario che separa coloro che subiscono la repressione dall’eccezione di chi invece può sfuggirvi e utilizzare la sua posizione a vantaggio dei più deboli. In una delle sequenze centrali di Neruda, si ritrova il canto di accusa Los Enemigos, pubblicato all’interno del Canto Generale: il testo della poesia e 199

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l’ingiunzione «Pido castigo» («chiedo castigo»), che chiude ogni strofa, sono pronunciati ad alta voce dai proletari nei sobborghi, dalle operaie nei piazzali dei luoghi di lavoro, dai prigionieri rinchiusi nel campo di Pisagua. La lettura ad alta voce dei versi battuti a macchina e distribuiti clandestinamente diventa il canto contro ogni ingiustizia e si propaga da un’inquadratura all’altra. Durante questa sequenza, anche il commento fuori campo abbandona la sua funzione di controcanto e si unisce al popolo che domanda vendetta: sulla voce off si installa la voce di Neruda che sta interpretando la poesia in una serata di festa, attorniato da amici, sostenitori e compagni di partito, accorsi ad ascoltarlo e omaggiarlo. Il ricercato può sferrare il suo attacco, declamare con furia l’ultimo verso che recita «Quiero castigo» (voglio castigo) – non più una richiesta, presumibilmente indirizzata a incoraggiare l’azione altrui, bensì l’affermazione di una volontà di giustizia – e ricevere, ancora una volta, gli applausi del pubblico e non i pugni chiusi in segno di protesta. È insomma durante un evento mondano che il poeta può sfoggiare il frutto della sua creatività e autografare le sue ultime opere. Le contraddizioni di questo atteggiamento non passano inosservate e una donna tra gli invitati non perde l’occasione per ridicolizzare gli stereotipi che Neruda ha alimentato nel tempo, dal cliché dell’amatore a quello del cantore delle sofferenze del proletariato [fig. 6]. Dopo aver chiesto una dedicata e ottenuto un bacio, Silvia – questo il suo nome – fa notare all’ex senatore che non c’è alcun motivo di preoccuparsi: l’esibizione della clandestinità, 200

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Fig. 6

esemplificata dalla festa in suo onore, è la prova che il governo non ha intenzione di catturarlo perché rischierebbe di creare uno scandalo internazionale e per questo si accontenta di perseguitarlo. La messa in scena e il montaggio del film esaltano il rapporto improvvisamente dialettico che si instaura tra i due e lo stupore di Neruda. La schiettezza di Silvia e il suo stato di palese ubriachezza imbarazzano i commensali ma pongono al centro della conversazione l’ineguaglianza tra le classi sociali: lei è una donna qualunque, serva della borghesia fin dalla nascita, Neruda invece è intoccabile, malgrado sia ricercato e braccato dalla polizia. È possibile ribellarsi al capriccio di un despota, mascherato da Presidente democratico, come Videla che la notte non dorme perché tormentato dall’incubo della fama di Neruda? Diventare un gigante popolare, rischiare di tramutarsi in martire oppure restare in silenzio, scappare senza lasciare tracce. Nonostante le spavalderie, il poeta rifiuta queste soluzioni e sceglie di confrontarsi con i lettori, presunti o potenziali, i critici più o meno acuti e i nemici sempre più insidiosi. Aiutato dal montaggio che crea instabilità tra 201

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una sequenza e l’altra e dalla macchina da presa che perlustra ogni scena e si sofferma sui personaggi che la abitano, Neruda riscrive le storie che costellano la sua fuga, ne fa emergere pericoli e potenzialità, lascia che il desiderio scuota gli eventi e prospetti nuove possibilità. Sono i suoi versi a fare da collante anche nelle situazioni conflittuali, ad unire il popolo ma anche a mostrare le falle e la fragilità della sua immagine pubblica.

Per una teoria del racconto Il principale paradosso riguardante il rapporto tra le immagini dell’inseguimento e la voce off è che quest’ultima è stata ideata e scritta dallo sceneggiatore Calderón alla stregua di un poema di Neruda. «È la voce off a far trapelare che Peluchonneau potrebbe essere un personaggio di Neruda», rivela Larraín nell’intervista ai “Cahiers du cinéma”17. Dunque, Peluchonneau, la cui voce è data in prestito al commento, non è soltanto l’inseguitore ma anche e soprattutto un personaggio frutto dell’invenzione letteraria del poeta e la voce off sembra una coscienza sovrapersonale, capace di criticare le scelte e le posizioni di Neruda e al contempo di svelare le ambizioni di gloria e le paure del poliziotto. Ma allora, forse, tutto il film può diventare un poema di Neruda mai scritto? Questa chiave di lettura è avvalorata da C. Béghin, à la poursuite du cosmos. Entretien avec Pablo Larraín, in “Cahiers du cinéma”, cit., p. 39. 17

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diversi indizi, distribuiti nei centosette minuti della pellicola. La prima apparizione di Peluchonneau è accompagnata dalla voce off alla prima persona singolare che lo introduce allo spettatore alla stregua di un personaggio della finzione romanzesca: «Ora entro in scena, lo devo fare. Vengo da una pagina bianca, alla ricerca del mio inchiostro nero. È qui che entra in scena il poliziotto: pieno di vita, con il petto gonfio». Il commissario deve ancora prendere forma e necessita delle capacità creative dello scrittore per essere completato: la strategia metanarrativa di costruzione del personaggio si innesta all’interno della trama dell’inseguimento. Il poliziotto rincorre il poeta in fuga, ma il suo personaggio è – parafrasando Pirandello – “in cerca del suo autore”. Dalla fonte creativa della scrittura, Peluchonneau proverà a emanciparsi durante l’intero corso del film, affermando per differenza la sua personalità narrativa: non si lascia consumare dai vizi del poeta e non perde occasione per definirsi il più abile tra gli investigatori. Durante la perquisizione nella villa di Neruda, un libro lasciato sopra a una macchina da scrivere attrae l’attenzione di Peluchonneau; e non può essere altrimenti visto che è stato disposto in modo inusuale proprio sullo strumento di lavoro dello scrittore. Si tratta di un giallo: La donna nello zoo. Sulla prima pagina la dedica «Sorgi a rinascere con me fratello poliziotto» e la firma «Pablo». Si tratta di una riscrittura del primo verso della poesia Sube a nacer conmigo, hermano tratta sempre dal Canto Generale. La dedica è una provocazione ma è anche un invito a intraprende assieme un processo di rigenerazione 203

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delle forme che rischiano di cristallizzarsi in cliché, incapaci di restituire l’articolazione tra passioni e azioni che alimenta la strategia dell’inseguimento. È dunque l’incontro tra Peluchonneau e Delia a svelare l’intero artificio che si cela dietro la costruzione narrativa della trama poliziesca, trasformandola in un pretesto narrativo. Neruda e la sua amante si sono da poco separati: il primo prosegue da solo alla volta del Cile settentrionale, la seconda viene scortata a Santiago. Il poliziotto la ritrova nella villa dove è iniziata la fuga ed è pronto a consegnarle il mandato di arresto. Il dialogo tra i due si alterna tra l’interno e l’esterno della casa, tra il patio alberato, immerso nella penombra del tramonto, e un tavolino in salotto attorno al quale i loro volti si fronteggiano in primo piano [fig. 7]. Il discorso di Delia trasforma gli indizi – i romanzi gialli in primo luogo, volutamente abbandonati durante i diversi spostamenti – in prove che dimostrano il completo controllo di Neruda su tutti i comportamenti degli altri personaggi. «In questo romanzo ruotiamo tutti attorno al protagonista. […] Ha scritto questa storia tempo fa. Mi dica: l’ha mai visto un prigioniero annoiato?». E, ancora, prosegue: «Nella sua testa sta scrivendo un romanzo affascinante. Ha creato te, il poliziotto tragico. Ha creato me, la moglie assurda. E ha creato lui, il fuggitivo vizioso». Neruda allora è un narratore onnisciente – onnipotente – capace di scrivere e riscrivere il destino dei suoi personaggi e ricostruire gli eventi trascorsi, da un’altra prospettiva. Attraverso dei brevi flashback, lo spettatore e Peluchonneau possono rivedere quanto è già accaduto ma dal punto di vista eccentrico di un inseguitore – «guardiano di una frontiera immagina204

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Fig. 7

ria» lo definisce Delia durante il dialogo – inseguito dalla sua preda: Neruda che spia gli appostamenti in auto del commissario che attende il suo arrivo alle feste, gli rivolge uno sguardo ammiccante mentre fissa l’obiettivo per immortalare l’inizio della sua clandestinità. Come in Providence (1977), il film di Alain Resnais in cui i personaggi provano a contrastare le scelte azzardate, le falde di presente e passato, i vuoti di memoria generati dello scrittore-narratore Clive Langham, anche il Neruda di Larraín ha il potere di togliere e restituire ai suoi personaggi la consapevolezza di essere il frutto della sua immaginazione. Ma Peluchonneau non vuole assecondare il suo destino di personaggio secondario. La caccia non si arresta, prima o poi riuscirà ad afferrare il poeta. Come accennato nei capitoli precedenti, la sequenza finale del film è ambientata nel paesaggio innevato dell’Araucanía. Per volontà di Rodríguez, Neruda è scortato attraverso la montagna andina, fino al confine argentino, da un gruppo di uomini esperti e fedeli al latifondista. A qualche chilometro di distanza c’è Peluchonneau, accompagnato da due 205

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uomini ai quali ha ceduto la sua moto e promesso l’emozione di acciuffare un pericoloso criminale. I corpi, degli uomini e dei cavalli, affondano nella neve che ha ricoperto le vette e lascia intravedere solo le cime degli alberi. Il commissario sente l’eco dell’ululato di Neruda. Si ferma, scende da cavallo per scrutare l’orizzonte. In risposta, grida il nome del poeta. Sul suo grido, anche la voce off sussurra il nome Pablo e afferma di sentirlo ansimare per la paura. La resa dei conti è vicina: finalmente si incontreranno. Peluchonneau espone il piano per sorprendere i nemici e sconfiggerli, ma subito dopo uno degli accompagnatori lo colpisce alle spalle con un bastone, lasciandolo a terra ferito e stordito. Si riprende poco dopo aver ricevuto il colpo ma ormai è solo, spaventato e barcollante. Intravede tra la vegetazione i suoi traditori e spara contro di loro ma non ha la forza di mirare all’obiettivo. Il rumore dei proiettili riecheggia tra le montagne e giunge fino a Neruda che prontamente ferma il suo gruppo per provare a individuare l’origine degli spari. Adesso è Neruda che vuole trovare il suo inseguitore mentre quest’ultimo, con le poche forze rimaste, urla il suo nome. Dopo essere stato braccato così a lungo, non può perdersi il finale della sua storia. Entrambi sono immersi nella neve fino al ginocchio e vagano stremati, nel tentativo di incontrarsi. In punto di morte, Peluchonneau non ha più la forza di parlare. Al suo posto interviene la voce off che rivela il crollo di ogni certezza: per tutta la vita il commissario ha creduto di essere un erede del fondatore della polizia investigativa e invece ora si sente un “Neruda”, uno dei figli degli oppressi. 206

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IV. Io (non) sono Pablo Neruda

Non gli importa se le sue azioni sono il frutto della penna del poeta, non prova più rabbia per essere un personaggio secondario. L’importante è aver opposto resistenza alla gabbia dei ruoli narrativi e sociali che tendeva a relegarlo sullo sfondo ed essere riuscito a conquistare un finale epico, una morte degna di un grande poliziotto e di un grande uomo. È ormai giunto il tramonto quando Neruda trova il corpo senza vita del suo inseguitore, disteso a terra con il volto rivolto al cielo, gli occhi chiusi, le tracce rosse del sangue che sporcano il biancore del terreno innevato [fig. 8]. Il poeta è inquadrato dal basso e il punto di vista è leggermente inclinato come se si trattasse di una soggettiva impossibile, quella del cadavere [fig. 9]. I suoi accompagnatori gli domandano se riconosce il corpo. Neruda nega ma dopo un controcampo sul cadavere, si ricrede e afferma: «Sì lo conosco. È il mio poliziotto, il mio persecutore». Se a livello visivo l’inquadratura si concentra sul primo piano del poeta, la colonna sonora, attraverso la voce off, opera la sovrapposizione definitiva tra le parole di Neruda e quelle di Peluchonneau. Ormai si tratta dello stesso personaggio colto nella sua complessità che, attraverso la sovrapposizione delle recitazioni attoriali – Gnecco e Bernal mantengono le loro differenti tonalità di voce –, fa emergere i tratti differenziali della sua “identità narrativa”. È così che Larraín utilizza la voce off non solo per restituire un flusso di coscienza o commentare gli accadimenti ma anche – riallacciandosi nuovamente alla riflessione di Ricœur proposta in apertura – come un’istanza immaginativa e configurativa, capace di tematizzare e quindi di far percepire allo spettatore il prendere 207

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SENSIBILITà E POTERE

Fig. 8

Fig. 9

forma dell’identità lungo lo scorrere delle storie18. La morte del commissario segna il momento della rinascita, preannunciata dalla dedica sul libro giallo: gli elementi che fino a quel momento erano conflittuali risorgono per convergere verso una “rifigurazione dell’esperienza biografica” raccontata. Mentre il corpo del commissario viene collocato in una bara e sepolto nei boschi dai suoi stessi carnefici – gli

18

Sul legame tra il lavoro narrativo dell’immaginazione, nel senso di schematismo kantiano, e il momento configurativo descritto da Ricœur cfr. P. Montani, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini e Associati, Milano 1999, pp. 11-14 e pp. 47-51.

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IV. Io (non) sono Pablo Neruda

emissari di Rodríguez –, Neruda, accompagnato da Picasso, è celebrato dalla stampa francese come il principale artefice della resistenza cilena. In Confesso che ho vissuto, Neruda ricorda che un giornalista di “France Press” lo informò che, in seguito alla notizia del suo arrivo in Francia, il governo cileno aveva rilasciato una dichiarazione secondo la quale ad aver raggiunto Parigi fosse in realtà un sosia e che la sua cattura fosse imminente. Come replicare allora a queste speculazioni se non attraverso una dissimulazione ironica: «Risponda […] che io non sono Pablo Neruda, ma un altro cileno che scrive poesie, lotta per la libertà, e si chiama anche lui Pablo Neruda»19. Nel suo epilogo, Larraín trasforma la falsa notizia diffusa dal governo di Videla, riportata nell’ottavo capitolo della biografia, in un sogno che Neruda afferma di fare spesso: sta per congelare nella neve mentre un poliziotto lo insegue ed è sul punto di sparargli. Una giornalista gli domanda il nome dell’uomo che turba il suo sonno. Uno stacco di montaggio riporta per qualche istante lo spettatore ad Araucanía, nel punto in cui è sepolto il commissario. La voce off interviene per invogliare Neruda a pronunciare il nome del suo persecutore. Questa richiesta insistente non può essere disattesa e, dopo essere ritornati nel bar parigino dove è in corso una conferenza stampa informale, Neruda ripete e scandisce il nome: «Si chiama Óscar Peluchonneau» [fig. 10]. Il corpo del commissario si rianima, la bara si apre. La finzione può ricominciare, la poesia può tornare a “rifigurare”

19

P. Neruda, Confesso che ho vissuto, cit., p. 248, corsivo mio.

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Fig. 10

il racconto della lotta degli oppressi. Le parole di Neruda sono la voce del popolo. «La sua arte mi ha dato la vita. Ero di carta e ora sono di sangue. Posso scrivere i versi più tristi questa notte»: sono le ultime parole del film, poi il rumore di una macchina da scrivere e la scritta «Fine». Il Neruda di Larraín è un personaggio capace di riavvolgere continuamente la sua storia per immaginare, attraverso la finzione filmica, una forma di riscatto per il suo popolo perseguitato. Riscatto che passa attraverso modelli poetici, incardinati all’interno di alcune figure ed “elementi di interecessione” come la trama, fondata sull’inseguimento e i suoi intrighi, i movimenti della macchina da presa, la voce off e soprattutto il nome e il personaggio di Peluchonneau20. Elementi che appartengono alla costruzione narrativa, al montaggio, alla struttura enunciativa e che permettono di esprimere la visione estetica ed etica del mondo di un “autore” chiamato Neruda. È

20

Sul concetto di intercessore, cfr. G. Deleuze, Gli intercessori, in Id., Pourparler. 1972-1990, cit., pp. 161-179.

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IV. Io (non) sono Pablo Neruda

attraverso questi intercessori che la poesia, ossia una pratica di scrittura, prende vita e si rende efficace. Allo stesso tempo, gli intercessori filmici si configurano come una manifestazione libera indiretta dello sguardo di Neruda, inteso a sua volta come personaggio-autore, generatore e attrattore di mondi. Già parlando dei film della trilogia della dittatura si è avuto modo di sottolineare l’interesse di Larraín nei confronti della “soggettiva libera indiretta”. Facendo ancora riferimento a Deleuze è dunque possibile comprendere gli effetti di indecidibilità del punto di vista che caratterizzano un film come Neruda: Si stabiliva una contaminazione […] tale che le visioni insolite della macchina (l’alternanza di diversi obiettivi, lo zoom, le angolazioni straordinarie, i movimenti anormali, le interruzioni…) esprimevano visioni individuali del personaggio e queste si esprimevano in quelle, ma elevandone l’insieme alla potenza del falso. Il racconto non si rapportava più a un ideale del vero che ne costituisce la veridicità, ma diventa uno “pseudo-racconto”, un poema, un racconto simulante o piuttosto una simulazione di racconto21.

Sì è visto più volte come il commento si intrometta nelle sequenze. Si è notata la libertà concessa ai movimenti di macchina, gli stacchi e i falsi raccordi operati dal montaggio che servono a costruire l’orizzonte di fabulazione nel quale si esprime la visione e

21

G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 167.

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la scrittura di Neruda. Si è messo in evidenza come mediante tali scelte compositive si costruisca un punto di vista sulle immagini che continuamente trascende il confine tra verosimile e finzionale a vantaggio della potenza riconfigurante della narrazione. Anche Neruda, al pari di Orson Welles e dei suoi personaggi, è un falsario che «Esiste soltanto in una serie di falsari che ne sono le metamorfosi, perché la potenza stessa esiste solo sotto forma di una serie di potenze che ne sono gli esponenti»22. Seguendo questa linea interpretativa, il falso, piuttosto che opporsi al vero, è potenza creatrice e Neruda non può trovare un appellativo migliore. Grazie alla sua penna, una fuga diventa un tòpos letterario, un pretesto, un “racconto simulante”. La forza sovversiva della sua poesia si camuffa sotto le spoglie di un falso alter ego, quello di un commissario alla ricerca della fama, per poi riemergere tra le maglie della narrazione e rigenerarsi grazie agli incontri che da essa scaturiscono. Larraín costruisce dunque il suo film sotto forma di meta-narrazione come per “donare” al suo personaggio la possibilità di raccontare ancora e diversamente la sua storia. Al contempo, da fuggiasco, Neruda torna a essere poeta nella misura in cui permettere ai suoi versi di trasformarsi in parola condivisa: una traccia viva della storia dei vinti.

22

Ivi, pp. 162-163.

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IV. Io (non) sono Pablo Neruda

Tu, città di Tebe, orgoglio della terra asiatica, da te mi allontanai, con un corredo splendido, ricco di ori, per entrare nella regale dimora di Priamo, assegnata in moglie a Ettore, per dargli un erede. Era invidiabile un tempo la mia sorte: ora io, Andromaca, sono la donna più infelice del mondo [se altra mai vi fu o vi sarà]. Il mio sposo, Ettore, l’ho visto morire ucciso da Achille: Astianatte, suo figlio e mio, i Greci lo hanno precipitato dall’alto delle torri, dopo aver conquistato Troia. Euripide, Andromaca

Mentre si stavano avvicinando, io ero impegnato a filmare: Jacqueline e il Presidente facevano gesti di saluto e quando l’automobile fu in linea con la mia camera sentii uno sparo. Vidi il Presidente piegarsi verso Jacqueline – non capii subito cosa stava accadendo – poi arrivò il secondo sparo. Vidi aprirsi la sua testa e iniziai a gridare “Lo hanno ucciso, lo hanno ucciso!” continuando a filmare fino a quando non arrivarono al sottopassaggio. Abraham Zapruder

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SENSIBILITà E POTERE

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V. Jackie, o della “viseità”

V. JACKIE, O DELLA “VISEITÀ”

Campo e controcampo Hyannis Port, Massachusetts, dicembre 1963. Di fronte a una grande vetrata, una donna guarda verso l’esterno. Un taxi giallo è in arrivo, un uomo scende e si avvicina alla porta: «Signora Kennedy, mi hanno detto di venire; le mie condoglianze». È l’inizio di Jackie, il primo film di Pablo Larraín completamente ispirato a vicende storiche e politiche indipendenti dal Novecento cileno. Un’idea nata durante il Festival di Berlino del 2015, dall’incontro con Darren Aronofsky, proprietario dei diritti della sceneggiatura originale di Noah Oppenheim. Un’esperienza produttiva perlopiù sviluppata in Francia, alla “Cité du cinéma” di Luc Besson. Un film che punta dritto alle stanze del potere degli Stati Uniti d’America; quelle stesse stanze – sebbene abitate da altri inquilini – che costituivano il fuoricampo invisibile delle violenze civili e politiche di Tony Manero e Post Mortem, ma anche delle grandi coreografie sociali e delle forme di emancipazione commerciale di No. Con Jackie, Larraín si confronta con qualcosa di completamente nuovo, tanto dal punto di vista produttivo, quanto nella pratica registica e narrativa: 215

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lavora in una lingua diversa dallo spagnolo e realizza il film in Europa. Si confronta in modo esplicito con quel Paese che aveva costituito l’ossessione indiretta della trilogia. Pone al centro della sua opera un personaggio femminile, interpretato da una superstar internazionale. Eppure – nel tentativo di raccontare i tre giorni che separano l’assassinio del trentacinquesimo Presidente americano John Fitzgerald Kennedy del 22 novembre 1963 dai funerali del 25 novembre – la sua ricerca cinematografica non sembra cambiare rotta. Lo spessore teorico che la caratterizza, e che si è avuto modo di indagare a più riprese, si trova qui ribadito e rilanciato. L’intreccio e la sovrapposizione tra le diverse opere – che caratterizza la filmografia del regista cileno come un’opera unica e processuale al contempo – si riafferma dunque al di fuori della trilogia e del contesto sudamericano, assumendo lo statuto di una diagnosi, in progress, del complesso rapporto tra forme di potere, esercizio della violenza e forme di rappresentazione in Occidente. L’uomo che arriva in taxi a casa di Jacqueline Lee Bouvier Kennedy è il cronista Theodore H. White, convocato nella tenuta della potente famiglia di origine irlandese e di religione cattolica per elaborare un articolo sui tragici giorni appena trascorsi e, in particolare, sull’eredità dell’ex Presidente, dopo che gli interventi sul “New York Times” di Arthur Krock e Albert Merriman Smith ne avevano messo in discussione la grandezza e l’importanza storica. La destinazione dell’articolo è la rivista “Life” che, negli anni precedenti, aveva contribuito alla costruzione del mito dei Kennedy. Fin dalla prima inquadratura – aprendo la porta 216

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V. Jackie, o della “viseità”

al giornalista – il volto di Jackie è pallido, scavato, profondamente segnato. Il suo approccio è teso, come di chi non intende concedere un’intervista e tantomeno cedere a una confessione. L’obiettivo è piuttosto quello di elaborare una “versione oggettiva” dei fatti corrispondente al suo punto di vista di first lady e moglie di John Fitzgerald Kennedy: la più vicina testimone, la più diretta responsabile della grandezza del Presidente. «Lo sa che rileggerò questa conversazione per evitare che dica qualcosa di diverso da ciò che intendo dire esattamente», esplicita la donna a White ancor prima di avergli fatto varcare la soglia di casa. Il confronto tra i due si svolge dapprima in esterni, per proseguire all’interno della casa e poi di nuovo all’esterno, come un punto di ancoraggio nel corso dell’intero film. Un totale mostra lo spazio architettonico e la disposizione delle due figure. Lungo il porticato d’ingresso, White siede a sinistra, mentre Jackie si trova a destra. Dopodiché, la conversazione si sviluppa attraverso la tecnica del campo e controcampo [figg. 1-2]. Quello ambientato sotto questo porticato è uno dei momenti più fortemente traumatici nella vita della protagonista: il tentativo di ricordare e raccontare i tragici avvenimenti di Dallas. Ma è anche uno dei passaggi più oscuri nella storia degli Stati Uniti d’America. Un momento in cui la fastosità e i cromatismi pastello che avevano accompagnato l’ascesa al potere dei Kennedy e determinato il rinnovamento dell’immagine dell’intero Paese sembrano perduti. Se l’incontro tra Jackie e White deve servire proprio a questo – a ristabilire la “gamma cromatica” –, Larraín 217

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Fig. 1

Fig. 2

mette in scena questo momento critico della storia personale e collettiva come un faccia a faccia livido che sembra ispirarsi ad American Gothic (1930) di Grant Wood e alle posture ieratiche che caratterizzano l’iconografia pittorica americana precedente alle avanguardie. Come già avveniva in alcuni film precedenti, anche in questa sequenza i codici del linguaggio cinematografico tradizionalmente adibiti all’articolazione filmica di un dialogo a due sono spinti al 218

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V. Jackie, o della “viseità”

limite. Anziché alternare inquadrature oblique sui personaggi – dove le camere formano un angolo di circa centoventi gradi –, le camere sono poste sul filo della regola dei centottanta gradi. Come spiega con entusiasmo Stéphane Fontaine, l’operatore del film, «Abbiamo piazzato le due camere l’una alle spalle dell’altra in mezzo agli attori, in modo tale che questi non si vedessero tra di loro. Questo permette di fare dei veri campi e controcampi a centottanta gradi con degli sguardi strani come se ognuno guardasse in camera»1. Fin dalle prime immagini, lo spettatore è dunque catturato dalla forza di questo dialogo che si protrarrà fino alla fine del film. Attraverso tale scelta tecnica di ripresa, Larraín rispetta la reciprocità degli sguardi che definisce le condizioni di interlocuzione diegetica e, allo stesso tempo, chiama in causa lo spettatore, lo trascina dentro la messa in scena, tra un campo e un controcampo. Sebbene i personaggi non guardino mai in macchina, la piena esposizione dei volti raddoppia le condizioni di attenzione. Per riprendere le parole dello storico e teorico dell’arte Meyer Schapiro, in uno studio fondamentale per la comprensione delle differenze che intercorrono tra l’utilizzo di figure di profilo e di figure frontali all’interno della rappresentazione visiva, Il volto di profilo è distaccato dall’osservatore e appartiene, assieme al corpo in azione (o in uno

J.-P. Tessé, Un portrait cubiste. Entretien avec Stéphane Fontaine, chef opérateur, in “Cahiers du cinéma”, n. 730 (2017), p. 20. 1

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stato intransitivo), ad uno spazio condiviso con altri profili posti sulla superficie dell’immagine. Per dirla nelle grandi linee, è come la forma grammaticale della terza persona, l’impersonale “egli” o “ella” con la forma verbale concordata e appropriata; mentre al viso rivolto all’esterno viene accreditata un’attenzione, uno sguardo latentemente o potenzialmente rivolto all’osservatore e corrispondente al ruolo dell’ “io” nel discorso, con il suo complementare “tu”2.

Le parole dello studioso statunitense risultano utili a comprendere come, all’interno di una tradizione di lungo periodo, la rappresentazione frontale del viso costituisca una forma di esposizione che coinvolge direttamente lo spettatore, laddove il profilo coincide invece con una forma diegetica dell’azione. Ma al di là della scelta tecnica, come della sua valenza espressiva, si tratta di andare più a fondo. Perché mai girare un dialogo sul filo dei centottanta gradi? Per quale motivo esporre così esplicitamente i personaggi e dunque lo spettatore stesso all’interno di un film di finzione a tema storico? A ben vedere, l’esposizione pubblica e la sua efficacia costituiscono il tema stesso del confronto tra M. Schapiro, Parole e immagini: letterale e simbolico nell’illustrazione del testo, in Per una semiotica del linguaggio visivo, a cura di G. Perini, tr. it., Meltemi, Roma 2002, p. 162. Sui rapporti tra frontalità e profilo nella rappresentazione occidentale, cfr. anche F. Frontisi-Ducroux, L’apostrofe o lo sguardo dell’immagine, in Argomentare il visibile. Esercizi di retorica dell’immagine, a cura di T. Migliore, Esculapio, Bologna 2008, p. 188.

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V. Jackie, o della “viseità”

i due personaggi. Che cosa è opportuno rivelare di un’esperienza intimamente traumatica affinché l’immagine pubblica della ex coppia presidenziale possa passare alla storia? Che cosa è invece opportuno nascondere, negare, contro ogni evidenza, affinché il discorso non prenda una piega sbagliata, decostruendo un mito lentamente costruito nel corso degli anni? Che cosa hanno pensato dunque i telespettatori del funerale di Kennedy? E che impressione ha fatto sull’opinione pubblica l’immagine di Jacqueline con l’abito completamente sporco di sangue? Come riuscire a controllare la propria immagine in un momento in cui nulla dentro di sé sembra tenere? Se il campo e controcampo a centottanta gradi della prima sequenza definisce il regime enunciativo dell’intero film, protagonista di Jackie è il volto stesso. È Jacqueline, la prima first lady nella storia degli Stati Uniti ad assumere funzioni di visibilità pubblica di primo piano. È il Premio Oscar Natalie Portman chiamata a entrare e uscire dal personaggio, ad essere all’altezza di una delle più celebri icone femminili del Novecento. Fin dalla sequenza iniziale, al cuore del film si trova dunque il volto e, con il volto, il primo piano, quand’anche si tratti di un paesaggio, di un salone, di una facciata, di una parata. Il volto non tanto considerato in sé come qualcosa di precostituito, un dato di fatto, una parte del soggetto, ma come tutto ciò che, subendo un certo trattamento visivo – una scelta di composizione –, si costituisce in quanto interfaccia pubblica: strumento di espressione, interazione, comunicazione, governance. Jackie, o della “viseità” si potrebbe dire facendo riferimento alla riflessione che Gilles Deleuze 221

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e Félix Guattari hanno dedicato al volto in quanto emblema dell’efficacia e del potere delle immagini nella cultura occidentale e del quale hanno provato ad elencare alcune figure prima di elaborare una concettualizzazione astratta: Il potere materno che passa per il viso, nel corso dell’allattamento, il potere passionale che passa per il viso dell’amato, anche nelle carezze, il potere politico che passa per il viso dei capi, banderuole, icone fotografiche, anche nelle azioni di massa, il potere del cinema che passa per il viso della star e il primo piano, il potere della televisione…

E, ancora, proseguono i due filosofi cercando di sintetizzare e generalizzare, Il viso che qui agisce non è individuale, è l’individuazione che risulta dalla necessità del viso. A risultare decisiva è non l’individualità del viso, ma l’efficacia della cifratura che esso permette di operare in determinate situazioni. Non è una questione di ideologia, ma di economia e organizzazione di potere. Non intendiamo certo affermare che il viso, la potenza del viso, generi il potere e lo spieghi. In compenso, alcuni concatenamenti di potere hanno bisogno della produzione di viso, altri no3.

È dunque a partire dal viso di Jackie e dalla

3

G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., pp. 270-271.

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“viseità”, intesa come capacità di produrre facce e interfacce a partire da qualsiasi oggetto o situazione, che Larraín sembra proseguire la sua ricerca cinematografica sui rapporti tra sensibilità e potere. Ma esporre il proprio volto a poche ore di distanza da un evento traumatico come la morte del proprio marito non può coincidere in toto, agevolmente, con una sessione di marketing o di storytelling. Piuttosto, significa perdere continuamente il filo senza smettere di cercarlo. Perdersi e ritrovarsi, continuamente, facendo passi avanti e passi indietro. Affermando e negando: «Non crediate che vi lasci pubblicare questa cosa. Perché io non l’ho mai detta», ripete più volte Jacqueline al giornalista, sempre più incredulo, sempre più impotente di fronte alle sue esplosioni emotive e al suo autocontrollo. Come già anticipato, la funzione di questo campo e controcampo non si limita alla prima sequenza ma costituisce l’impalcatura narrativa dell’intero film. Le colonne della tenuta di Hyannis Port costituiscono l’architettura di un’opera capace tanto di decostruire il mito dei Kennedy quanto di partecipare al suo rilancio nell’immaginario. Come sempre e, forse, più che mai, lo sguardo di Larraín è intenzionato ad analizzare e descrivere ancor prima di criticare. Di fronte a tutto ciò che è capace di produrre fascinazione, il giudizio coincide con un esito contrastato di luce e di ombre. Da un lato, dunque, il viso di Jackie e i suoi micromovimenti: l’intensità del pathos di chi è sconvolto, sul punto di rinunciare, di ritirarsi, di riconoscere alla propria sensibilità il diritto alla non esposizione. Dall’altro, la faccia di Jackie, e il suo darsi in modo 223

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efficace, producendo adesione e conformazione da parte degli spettatori. Da un lato il visus, participio passato di videre, “vedere” e dall’altro la facies, l’“aspetto”, il limite esterno che apre il soggetto alla socialità e che può irrigidirsi fino a coincidere con una maschera4. È attorno all’idea di trauma che, ancora una volta, si articolano e complessificano tali opposizioni, così come quella tra privato e pubblico. È dunque in questa doppia articolazione del primo piano – come qualcosa di profondamente intimo e inevitabilmente esposto – che Larraín focalizza la sua attenzione e l’attenzione degli spettatori.

L’invenzione della Casa Bianca Come in una celebre canzone di Lou Reed, il 22 novembre 1963 è uno di quei giorni che restano impressi nella memoria: «I remember where I was that day / I was upstate in a bar. / The team from the university / was playing football on TV. / Then the screen went dead…»5. Uno di quei giorni in cui gli eventi drammatici trasmessi via radio, televisione e altri mezzi di comunicazione si intrecciano e si me-

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Per una distinzione tra volto, viso e faccia, cfr. P. Magli, Il volto e l’anima. Fisiognomica delle passioni, Bompiani 1996, pp. 9-15. Sul rapporto tra volto e maschera, cfr. anche H. Belting, Facce. Una storia del volto, tr. it., Carocci, Roma 2014, pp. 29-47. Ricordo dove ero quel giorno / ero in un bar fuori città / una squadra universitaria / giocava a football alla televisione / poi lo schermo si schiarì. 5

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scolano con il qui e ora della vita dei singoli. Date simboliche, molto spesso accompagnate da immagini di forte impatto che nell’offrire una testimonianza oculare dell’evento in questione tendono a esaurirlo in se stesse; come se non ci fosse un fuoricampo, come se non ci fosse niente da dire o da osservare se non a partire da esse e dalla loro riproduzione ad libitum, in un meccanismo psicologico e sociale di coazione a ripetere. Come è noto, il 22 novembre del 1963, un sarto di origini russe di nome Abraham Zapruder si apposta, con la sua cinepresa amatoriale Bell&Howell Zoomatic Director Series 8mm modello 414 PD, in cima al terrapieno sul lato destro della strada in cui sarebbe passato il corteo presidenziale. L’obiettivo è quello di condividere con la propria famiglia le immagini del fortuito passaggio del Presidente proprio sotto le finestre della sua ditta di confezioni di abiti. Al di là delle intenzioni d’uso da parte del cineamatore, i fotogrammi impressi sulla pellicola costituiscono senz’alcun dubbio il documento filmico più osservato, scandagliato e discusso del XX secolo. Da subito sottoposto al controllo dei servizi di intelligence, l’intero filmato sarà reso pubblico nella sua interezza soltanto nella metà degli anni settanta, mentre già il 29 novembre del 1963 la rivista “Life” avrebbe ottenuto il diritto di pubblicare i fotogrammi più significativi, epurando le immagini riguardanti l’esplosione del cranio. Chi non conosce la produzione di Larraín se non a partire da Jackie, può rimanere sorpreso di non trovare traccia di quella manciata di secondi di footage. Chi arriva in sala pensando a qualcosa di simile a JFK – Un 225

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caso ancora aperto (1991) di Oliver Stone, così come chi si lascia ingannare dal titolo e crede di assistere a un biopic con al centro il triangolo amoroso tra Jacqueline, John F. Kennedy e Marilyn Monroe, resta spiazzato. Come nei precedenti film, quand’anche la materia in questione si presterebbe a un simile trattamento, Larraín rifiuta la pista strettamente investigativa, non si interessa alla congiura, ignora il fascino della macchinazione. Che si tratti dei giorni della presa del potere da parte di Pinochet, del Plebiscito che ha cambiato la storia del Cile o della messa al bando di Pablo Neruda, per chi conosce il suo cinema, ogni “caso” è sempre e al contempo aperto e chiuso. Ciò che conta non sono le immagini in quanto indizi o prove di qualcosa d’altro, come un “complotto contro l’America”, che si tratterebbe di “scoprire”, ma piuttosto le immagini considerate in se stesse, ovvero nella loro efficacia simbolica, nel loro impatto culturale e sociale. In Jackie, come nella maggior parte dei film precedenti, Larraín si nutre di immagini d’archivio – tanto da produrre effetti di camouflage tra la finzione e il documento mediatico – e allo stesso tempo rifiuta di incorporare e rimontare immagini sottoposte a un processo di forte iconizzazione mediatica: che si tratti dell’attacco al palazzo presidenziale de La Moneda dell’11 settembre 1973 o dell’assassinio di Kennedy. È così che, in Jackie, trovano prima di tutto spazio le immagini della trasmissione A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy, registrata da Franklin James Schnaffer – all’epoca consulente televisivo di Kennedy e futuro regista di film come Il pianeta delle scimmie (1968) e Papillon (1973) – e mandato in onda da tre canali nazionali come ABC, 226

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CBS e NBC nel 1962, registrando un enorme successo di audience. Come già avveniva in altri film precedenti del regista cileno, il trattamento del materiale d’archivio è del tutto particolare. Non si tratta infatti, semplicemente, di prelevare le immagini di archivio o di inserirle all’interno del film oppure di riprodurle in modo libero. Come spiega ancora l’operatore, tutte le scene in bianco e nero in cui Natalie Portman interpreta Jackie come si trattasse di un filmato d’archivio sono state girate in piena conformità di sceneggiatura e storyboard con i documenti originali: All’inizio avevamo immaginato di integrare Natalie nelle immagini d’archivio. […] Alla fine abbiamo girato con la camera tri-valvole degli anni ottanta che Pablo aveva usato per No, che abbiamo passato in bianco e nero. Essendo una camera tecnicamente limitata e male regolata, il risultato era abbastanza vicino a quello delle immagini d’archivio. Ho poi esasperato il bricolage filmando il video con la camera in 16mm su un vecchio monitor a valvole6.

Il montaggio intermediale della trasmissione di Schnaffer costituisce dunque il primo dei numerosi flashback, delle molteplici digressioni, attraverso le quali Jacqueline cerca di elaborare una sintesi – al contempo privata e pubblica – di quanto accaduto negli ultimissimi giorni, negli ultimi anni accanto a John Fitzgerald Kennedy. J.-P. Tessé, Un portrait cubiste. Entretien avec Stéphane Fontaine, chef opérateur, cit., p. 20.

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Fig. 3

La sequenza si apre con le immagini a colori della first lady, nell’interpretazione di Portman, che ripete la frase: «Welcome to the White House, welcome to the White House», mentre la sua assistente che le suggerisce di provare con qualcosa di più personale tipo: «Welcome to the People’s House». Jacqueline si dirige dunque verso le macchine da presa, quando un raccordo di montaggio porta sulle immagini e il sonoro del filmato originale d’epoca [fig. 3]. Un establishing shot mostra dunque la facciata della Casa Bianca vista dal giardino Sud, dopodiché il footage prosegue con la voce del presentatore che introduce i contenuti della trasmissione e l’immagine originale di Jacqueline che cammina attraverso un lungo corridoio. Man mano che la donna si avvicina – dal campo medio al totale, fino al primo piano –, il montaggio intermediale articola il passaggio dal “prelievo” archiviale [fig. 4] all’“innesto” finzionale [fig. 5]7.

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Sull’utilizzo di tali termini per articolare le diverse forme di

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Fig. 4

Fig. 5

Dopodiché, una volta entrata in scena, Jackie inizia la sua recita: il racconto delle motivazioni personali e delle ragioni pubbliche per cui ha deciso, in accordo con il Presidente, di intraprendere un lavoro di ricostruzione degli arredi della Casa Bianca: un

elaborazione delle immagini d’archivio cfr. ancora M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., pp. 176-192.

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luogo istituzionale sostanzialmente concepito, fino a quel momento, come residenza di passaggio dei diversi presidenti e dunque non pienamente valorizzato in termini storici, culturali e simbolici. Allo sguardo dello spettatore, la recitazione dell’attrice può apparire caricaturale nel tentativo di riprodurre Jacqueline: il volto è contratto, la plasticità del sorriso è spinta al limite, la pronuncia marca le singole parole come si trattasse di scandire la conversazione per un pubblico straniero. Eppure, a ben vedere, si tratta della stessa esasperazione dell’espressività del volto femminile e della voce rinvenibile nei filmati originali: una comunicazione composta e iperbolica al contempo, capace di impressionare milioni di spettatori e mettere finalmente a tacere le voci di quanti avevano visto negli investimenti per valorizzare gli interni della Casa Bianca un semplice spreco corrispondente alle manie aristocratiche della first lady. La ricostruzione dei filmati d’archivio può risultare falsa, di maniera, ma non per un difetto di conformità rispetto agli originali o per un difetto di veridicità degli originali stessi. Come sempre, il regista non è interessato a sviluppare una riflessione opponendo “autenticità” e “falsità”, quanto piuttosto a dare spessore alle cornici, alle soglie, agli spazi di articolazione tra le diverse forme mediatiche, tra la sfera privata e quella pubblica, tra l’intimità e la storia. Attraverso il montaggio, Larraín marca continuamente il passaggio dal documento d’archivio all’innesto filmico in bianco e nero, fino alle immagini a colori con la troupe e l’assistente di Jackie che la rassicura con lo sguardo, invitandola a sorridere e a dispiegare al massimo la sua cortesia, le sue doti 230

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comunicative. Come già avveniva in No, dove pure si trattava di fare i conti con il marketing politico e con la capacità di un gruppo di copywriter di incidere nella storia di un popolo e di un continente, anche in questo caso il regista monta la scena e smonta la retorica di Jackie. Nel passaggio dal documento alla magnificazione finzionale dello stesso e fino al backstage a colori nel quale le insicurezze e le sicurezze della first lady trovano conforto e correzione, Larraín costruisce e allo stesso tempo decostruisce, ma non distrugge. Non si tratta tanto di criticare le dichiarazioni di Jackie né di sottoporla a un giudizio, al senno di poi, quanto di comprendere il significato politico e il prezzo psicologico e sociale di mettere in scena le stanze del potere, di “inventare la Casa Bianca”. Dalla facciata del palazzo al primo piano di Jackie, ciò che sembra interessare il regista è la funzione di rappresentanza implicata nei “volti” – il loro esprimere efficacemente qualcosa che va oltre se stessi – e, al contempo, la loro inequivocabile capacità di restituire la traccia di un’insicurezza, un residuo di mistero, una potenziale crisi. Il volto – scrive JeanLuc Nancy – come «qualcosa che mette in gioco la sorte della figura in generale: della rappresentazione, della finzione, quindi della presenza e della verità»8. Identificando nel primo piano e nel volto il problema teorico fondamentale di Jackie, è come se Larraín riuscisse a problematizzare la sua stessa assunzione all’interno della grande cinematografia J.-L. Nancy, L’altro ritratto, tr. it., Castelvecchi, Roma 2014, p. 23. 8

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internazionale, nonché l’ingaggio di Portman in quanto protagonista del film: il paradosso della grande attrice chiamata a interpretare i gesti e i micromovimenti facciali di una non attrice – «Mi sta dando un consiglio professionale?» chiederà Jackie al giornalista permessosi di fare un apprezzamento sulla sua capacità come conduttrice televisiva – che ha saputo imporre alla politica una svolta nella direzione dello star system fino a condizionare il mondo della moda, del cinema e dell’arte. È il regista stesso a sottolineare tali implicazioni del volto: Guardate da vicino le sue fotografie [di Jackie], soprattutto quelle a colori, si trovano on line. Per esempio in alcuni ritratti pubblicati su “Life”, i suoi occhi sono delle porte cosmiche che aprono su un luogo sconosciuto, impossibile a comprendere! Natalie Portman era la buona attrice per il ruolo, non solo perché poteva incarnare la sua eleganza, la sua sofisticatezza e la sua educazione. Ma anche perché poteva avere lo stesso mistero nello sguardo. È per questo che ci sono tanti primi piani nel film9.

Nel corso dell’intero film si fa dunque a più riprese ritorno sulle immagini di A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy in quanto esemplificative dell’impatto rivoluzionario di Jackie e dei Kennedy, del loro modo di intrecciare la pratica politica e la comunicazione di massa. Il film procede C. Béghin, Les yeux de “Jackie”, in “Cahiers du cinéma”, n. 730 (2017), p. 16.

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attraverso un montaggio non lineare che trova un costante punto di appoggio nella cornice narrativa del dialogo con il giornalista. Dopo le prime immagini della visita in Texas, così come dopo il funerale e fino alla fine del film, si continua a tornare, insieme a Jackie, nelle stanze della Casa, venendo a conoscenza dei suoi propositi di restauro e incontrando il Presidente in persona che elogia l’impegno della moglie nel rendere la Casa Bianca quanto più bella possibile; si assiste agli sfarzosi concerti di musica classica che per la prima volta vengono realizzati all’interno di quelle stanze e che Larraín mostra attraverso una lento movimento in avvicinamento che riprende la “corte” dei Kennedy fino a isolare il volto di Jackie in un primissimo piano. Ma, tra le varie perlustrazioni della residenza del Presidente degli Stati Uniti d’America, è la lunga sosta nella camera di Abraham Lincoln a suscitare particolare attenzione. In questo caso, la scelta è quella di inserire tale sequenza d’archivio nel momento in cui la prima parte del film volge al termine, dopo le immagini del giuramento del nuovo presidente Lyndon B. Johnson e prima della lunga parte dedicata alla concezione dei funerali. La sequenza inizia con un’immagine d’archivio che mostra una scala interna alla Casa Bianca. Jackie e il conduttore della trasmissione stanno incamminandosi mentre la voce originale di quest’ultimo esplicita allo spettatore che da lì si sale al secondo piano, nelle stanze private del Presidente e della sua famiglia, dove nessuna emittente televisiva ha mai avuto accesso. Uno stacco di montaggio porta sull’immagine fin233

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Fig. 6

zionale in bianco e nero di Jackie che, con rispetto e fierezza, osserva e invita lo spettatore televisivo a osservare «ciò che la Casa Bianca ha fatto al presidente Lincoln», come quest’ultimo è cambiato dal 1861, quando è ancora un uomo forte “con il sopracciglio inarcato”, e il 1865, soltanto una settimana prima del suo omicidio. Mentre scandisce le sue parole, il montaggio alterna un controcampo con il ritratto del più influente Presidente della storia degli Stati Uniti: uno zoom in avanti stringe sull’occhio sinistro [fig. 6], mentre uno zoom out allarga sull’immagine che corrisponde allo stato di invecchiamento e precarietà descritto da Jackie. La visita procede nelle stanze di Lincoln, alternando ancora prelievi d’archivio, innesti in bianco e nero e immagini a colori corrispondenti alla messa in scena finzionale. Di fronte al letto dell’ex Presidente, perfettamente conservato, si produce una sorta di identificazione da parte di Jackie con Mary Todd Lincoln: indentificazione nel gusto estetico che l’aveva portata ad acquistare alcuni pezzi pregiati di arredamento così come nelle insinuazioni, allora 234

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ricevute, riguardo al suo utilizzo di risorse economiche per tali oggetti di moda. Ma è soprattutto il fatto di essere riuscita a recuperare tali arredi a riempire di soddisfazione Jacqueline, dopo che la first lady, divenuta vedova in seguito all’assassinio del 1865, era stata costretta a venderli per mantenersi in vita. Il passaggio del documento mediatico A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy in cui Jackie si confronta con la figura di Lincoln e dell’allora first lady costituisce dunque per Larraín l’occasione per proseguire la riflessione sul primo piano e sul volto in quanto luogo teorico di riconoscimento della sensibilità umana nonché iscrizione dell’autorità e del potere. Come ha mostrato lo storico e teorico dell’arte Hans Belting nell’importante saggio dedicato alla storia del volto nella rappresentazione occidentale, la modernità si identifica nel superamento dell’icona in direzione del ritratto: dal vero volto di Cristo – che intrattiene un rapporto ontologico con il modello – alla più comune raffigurazione che intrattiene un rapporto determinato ma relativo con il singolo individuo al quale si riferisce10. Si tratta di un’importante osservazione che non deve tuttavia impedire di riconoscere l’importanza assunta – all’interno di una storia delle immagini di lungo periodo – dalla forma ritratto in quanto strumento di glorificazione

10 H. Belting, Facce. Una storia del volto, cit., pp. 121-138. Sulla funzione teologica e antropologica dell’icona religosa, cfr. H. Belting, La vera immagine di Cristo, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007.

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del potere politico11. È grazie al ritratto, concepito nella sua declinazione moderna, che tanto le figure del potere assoluto quanto quelle del potere democratico si dotano di un duplice corpo: il primo soggetto alla caducità, mortale, e il secondo imperituro, come immortale si pensa l’istituzione che esso rappresenta e della quale dovrà garantire la continuità secondo le modalità di successione prefissate dalla tradizione12. Del faccia a faccia tra Jackie e Lincoln – effettivamente avvenuto ed effettivamente andato in onda il giorno di san Valentino del 1962 –, Larraín può dunque permettersi di esaltare, all’interno del suo film, gli aspetti teorici di maggiore interesse. Identificarsi nell’effigie del più grande Presidente e nella sua fedele compagna, raccogliere e collezionare i loro suppellettili come si trattasse di preziose reliquie, costituisce per Jackie un’occasione di nobilitazione e prestigio, un solido punto di partenza sul quale basare la sua personale rivoluzione mediatica, tutta novecentesca. Ma ciò che più affascina e che più di tutto il resto sembra rendersi funzionale al gioco di Larraín è l’inquietante riferimento da parte di Jackie alla morte di Lincoln per omicidio; è l’identificazione con la vedova e con il suo trovarsi costretta a

11 Per un’iconologia politica del ritratto, cfr. A. Warburg, Arte del ritratto e borghesia fiorentina, in Opere. I. La rinascita del paganesimo antico e altri scritti, a cura di M. Ghelardi, tr. it., Aragno, Torino 2004, pp. 109-146.

Il riferimento classico è allo studio di E. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di legalità nella teologia politica medievale, tr. it., Einaudi, Torino 2012.

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rivendere tutti le suppellettili che aveva acquistato; è l’autocompiacimento per aver operato una compensazione provvidenziale a tale esito sfortunato. Di fronte al ritratto di Lincoln, di fronte ai “due corpi di Lincoln” Jackie non ha parole che per quello mortale e si concede un triviale montaggio comparativo tra le condizioni di invecchiamento manifestate nelle diverse immagini ufficiali che restano della sua presidenza. Il montaggio video del film, così come quello della trasmissione televisiva originale, rompono dunque l’unitarietà del ritratto, invadono la cornice, stringono sul dettaglio del sopracciglio: cercano la traccia della caducità, il micromovimento capace di disfare l’organicità sacrale del volto. Quella che sembrava una ricerca di prestigio assumeva già i tratti inquietanti del presagio.

Zapruder’s Rispetto ai precedenti film del regista, Jackie si sviluppa secondo una dinamica a forma di vortice che sembra trascinare la protagonista e con lei tutta la scena, in un vuoto. Al centro del vortice si trova il filmato che Larraín si rifiuta di mostrare: i ventisei secondi impressi dal più celebre cineamatore del Novecento sulla sua pellicola 8mm. È in prossimità di quel momento traumatico che il discorso di Jackie tende continuamente a perdere il filo; è attorno alla memoria implicita delle immagini di quell’evento che lo spettatore stesso sussulta e non smette di domandarsi se le ritroverà o meno, rimontate, rielaborate all’interno della tessitura intermediale del film. «La 237

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morte compie un fulmineo montaggio retrospettivo della nostra vita»13, scriveva del resto Pier Paolo Pasolini nel 1967, prendendo come esempio proprio il filmato amatoriale che documenta la morte del presidente americano John Fitzgerald Kennedy. Ma come rimontare, per se stessi e per un pubblico allargato, in un discorso sensato, i frammenti di una vita che nel corso delle ultime quarantotto ore sembrano sparsi in mille direzioni diverse? Come si è avuto modo di esplicitare, il faccia a faccia con il giornalista costituisce un punto di ancoraggio a partire dal quale si sviluppano i dolorosi tentativi di rimemorazione e ottimizzazione comunicativa da parte di Jackie. Tutte le sequenze del film sembrano del resto interpretabili a partire da tale cornice di riferimento. Eppure, qualcosa sembra sottrarsi a tale struttura. Nel corso del film, si ritrovano infatti, a più riprese, le immagini relative a una situazione narrativa che non si lascia pensare come un flashback risultante dal confronto tra Jackie e White: si tratta dell’incontro con il parroco, prospettato alla protagonista da Bobby Kennedy, il fratello minore del Presidente: una figura ben presente e problematica nel racconto di Larraín. Tali sequenze non sembrano adeguarsi alla logica narrativa di subordinazione rispetto alla cornice narrativa per almeno tre ordini di ragioni: in primo luogo, il dispositivo della confessione riproduce lo schema dell’intervista giornalistica stessa, traslandone il senso; in secondo luogo, le scelte di messa in

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PP. Pasolini, Osservazioni sul piano sequenza, in Id., Empirismo eretico, cit., p. 241.

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Fig. 7

scena privilegiano in questo caso la copresenza delle due figure all’interno della medesima inquadratura, sostituendo il profilo alla frontalità del campo e controcampo a centottanta gradi [fig. 7]; in terza battuta, il confronto con il sacerdote sembra aprirsi verso una temporalità postuma, successiva, rispetto alla morte e al funerale del Presidente, tanto da entrare nel merito della cerimonia di sepoltura dei corpi dei figli della coppia, precedentemente deceduti, al lato della tomba del padre. Larraín non è certo nuovo a simili sovrapposizioni o ripetizioni con variazione di uno stesso schema. Quantomeno a partire da Il club, lo si è visto rielaborare il dispositivo teologico della confessione spingendolo verso un punto di indistinzione tra la richiesta di assoluzione, l’intervista e l’inquisizione. Allo stesso modo in Jackie non sembra possibile parlare di confessione se non in senso traslato. Se non il giornalista, neppure il parroco giunge a dare un’esplicita assoluzione alla donna, anche quando quest’ultima è sul punto di rivelare i propri dubbi, le insicurezze, le meschinità, i peccati. Piuttosto, le occasioni di con239

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fronto con i due uomini sembrano costituire, all’interno del film, due vie differenti – a tratti intrecciate, ma sostanzialmente complementari – di un processo di ricerca ed elaborazione di un senso a quanto di più sconvolgente avvenuto nei giorni immediatamente precedenti. Se l’incontro con il sacerdote spinge la donna al confronto con una dimensione privata, un’intimità del senso, il dialogo con White espone Jackie allo sforzo di produrre una narrazione efficace, capace di sigillare pubblicamente la biografia di John Fitzgerald Kennedy e della first lady. È in relazione alle due figure del parroco e del giornalista che il primo piano di Jackie sembra del resto esprimere pienamente le due modalità di articolazione del volto identificate fin dalla prima sequenza: da un lato, il volto inteso come qualità, potenza, “pura affezione”, manifestazione di una condizione di instabilità e apertura nei confronti di diverse faglie di passato e di altrettanti futuri possibili; dall’altro, il volto inteso come affetto orientato, “immagine-azione”, messa in sintassi di rappresentazioni capaci di agire in modo efficace, produrre un effetto performativo su scala sociale14. È così che – se si eccettua un brevissimo flashback nel momento dell’interramento di Kennedy – le immagini dell’assassinio si ritrovano due volte. Due volte si torna sul luogo del delitto, passando da strade diverse, diversamente significative. Una struttura non lineare che corrisponde ai diversi tentativi di

Sulle implicazioni estetiche del primo piano e del volto, in riferimento implicito al concetto di viseità precedentemente introdotto, cfr. G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., pp. 125-147. 14

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elaborare una versione dei fatti che sia articolabile sul versante pubblico. Una struttura non lineare che, nondimeno, corrisponde a un percorso psicologico di elaborazione del trauma, da parte della protagonista, attraverso il montaggio15. La prima volta è White a sollecitare la memoria di Jackie. È dal confronto cinico – per quanto rispettoso – che si sviluppa tra i due che la vedova cerca di immaginare la scena. Un primissimo piano mostra i suoi sforzi, il suo bisogno di spingersi sulla scena del trauma ed elaborare un racconto: le sue parole si soffermano sui raggi del sole che illuminavano la parata, sul volto di John, sulla sua bocca, la sua bellezza, il suo sorriso. Le frasi sono intercalate dal singhiozzo, fino a quando lo sfogo non si interrompe e il volto di Jackie si irrigidisce: «Non pensi per un solo secondo che la lascerò pubblicare tutto questo!». Con freddezza, il giornalista rilancia con una madeleine de Proust la domanda capace di stimolare una reazione cognitiva ed emotiva da parte della donna: «Che rumore ha fatto il proiettile?». Nel controcampo, Jackie è inquadrata in primo piano, impassibile, quando il forte rumore dell’esplosione segna il passaggio alle immagini dell’assassinio: la macchina presidenziale

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Come riferimento classico sulle forme di elaborazione del trauma attraverso il racconto narrativo, cfr. Sostituire con C. Caruth, Unclaimed Experience. Trauma, Narrative and History, cit., soprattutto pp. 25-26. Per una esplicita riflessione sul montaggio in quanto forma di elaborazione di un trauma psicologico e collettivo, cfr. A. Mengoni, “Accumulare prove”. Trauma e lavoro memoriale in Muriel di Alain Resnais, in Racconti della memoria e dell’oblio, a cura di Id., Protagon, Siena 2009, pp. 187-231.

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è inquadrata da dietro attraverso un camera car, poi lateralmente con le grandi strisciate di sangue che si propagano lungo la fiancata, il dettaglio del battistrada, poi di nuovo la vettura inquadrata frontalmente e, infine, la macchina da presa che sale e si avvicina a Jackie e al corpo mortalmente ferito di John. Un raccordo di montaggio interrompe repentinamente la sequenza dell’omicidio per riportare lo spettatore alle fasi immediatamente successive, al primissimo piano allo specchio del volto di Jackie, pieno di sangue. Se la costruzione spiraliforme porta la narrazione a prendere la tangente ogniqualvolta sembra avvicinarsi con forza al centro della composizione, è dunque verso la fine del film, nel confronto con il parroco, che Jacqueline riesce a tornare sulle immagini dell’omicidio fino a restituirle nella loro dimensione drammaticamente spettacolare. La vettura che correva a tutta velocità sembra per un attimo rallentare il passo ed ecco che diventa possibile salire a bordo, a fianco di se stessi e del proprio marito – tra Jackie e “Jack”, come la donna chiama il Presidente durante l’intero corso del film –, di fronte ai propri gesti istintivi di coraggio e compassione. «Ho detto a tutto il mondo che non posso ricordare, ma non è vero. Io posso ricordare. Io mi ricordo tutto», dice la donna al sacerdote, mentre il montaggio alterna le immagini di Dallas: inquadrata frontalmente è la first lady stessa che saluta i cittadini ai lati della strada; un colpo di fucile raggiunge il collo di John, silenziosamente, e poi subito un altro colpo che perfora la testa e la sfigura, agita la composizione tutta; il gesto di Jackie che si protende a raccogliere il pezzo di cervello, il suo volto pieno di sangue. Un’inquadratura dall’alto 242

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Fig. 8

che restituisce l’ultimo abbraccio tra i due [fig. 8], nell’auto che corre di nuovo a tutta velocità. Se l’intero film è girato in 16mm, con l’obiettivo di mescolarsi ai frammenti di footage dell’epoca, disseminati e dissimulati lungo l’intero corso del film, la sequenza dell’omicidio è una delle poche realizzate attraverso la manipolazione digitale dell’immagine16. Si tratta di una messa in scena che, soprattutto alla prima visione, sorprende lo spettatore, come se si trattasse di un brevissimo snuff movie all’interno di un film a tema storico e politico. Ma ciò che può sembrare una semplice spettacolarizzazione, un osceno soffermarsi sul dettaglio del colpo e delle ferite, non è che il modo attraverso il quale Larraín concilia il punto di vista di Jackie sugli eventi traumatici con la sua ricerca di uno sguardo descrittivo e analitico, in un certo senso distaccato, freddo.

Cfr. ancora J.-P. Tessé, Un portrait cubiste. Entretien avec Stéphane Fontaine, chef opérateur, cit., p. 20. 16

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SENSIBILITà E POTERE

Ancora una volta, il suo atteggiamento nei confronti dei materiali d’archivio e le forme della loro rielaborazione cinematografica sono sorprendenti. La messa in scena della sequenza dell’assassinio si discosta tanto dal semplice prelievo del filmato originale di Zapruder e dal blow up investigativo che caratterizza la narrazione di Oliver Stone, quanto dalla serializzazione e dalla parodizzazione. Tendenze, quest’ultime, che si ritrovano nell’iterazione serigrafica di Jackie e nel film Since, realizzato da Andy Warhol nel 1966, dove i diversi personaggi sono seduti sul divano della Factory, come si trattasse della Limousine presidenziale, e riproducono la dinamica dei fatti in forma farsesca. Come messo in evidenza in un celebre studio di Hal Foster, il genio di Warhol non sembra del resto approfondire le implicazioni psicologiche e traumatiche dei Disasters con i quali si confronta, compresa la morte di Kennedy e la trasformazione di Jacqueline in un personaggio tragico17. «Sentii la notizia dalla radio mentre stavo dipingendo da solo nel mio studio», dichiarerà Warhol, Ma non credo di aver perso una sola pennellata. Mi piaceva moltissimo avere Kennedy come presidente, ma non mi disturbava più di tanto che fosse morto. Quello che mi dava fastidio era il modo in cui la televisione e la radio stavano facendo sì che tutti si sentissero così tristi18.

17 H. Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, tr. it., Postmedia, Milano 2006, pp. 135-139. 18

A. Warhol, P. Hackett, Pop. Andy Warhol racconta gli anni

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V. Jackie, o della “viseità”

Per contro, la messa in scena di Larraín entra dentro al fotogramma Zapruder per esaltare la plasticità cromatica degli incarnati, dell’abito rosa, dell’automobile nera, delle rose rosse. Sembra voler restituire una rotondità alla pellicola. Una monumentalità che non diviene scultorea ma neppure pulp. Si tratta piuttosto di qualcosa di corporeo e materico. Anziché riprendere Warhol, nella restituzione in primo piano del violento impatto, Larraín sembra percorrere la stessa strada del Cy Twombly della serie pittorica Nine Discourses on Commodus, realizzata nel dicembre del 1963 e accolta con freddezza in una New York che pensava di poter adottare la scorciatoia dell’oblio come forma di elaborazione del trauma. Un ciclo in nove parti che si ispira alla crudeltà, alla follia e all’omicidio dell’imperatore Commodo (161-192 d.C.), figlio e successore di Marco Aurelio, ma che di fatto restituisce una scansione figurale dell’esplosione del cranio di John Kennedy, dove la materia plastica del rosso si raggruma sulle altre macchie di colore tenue, contribuendo in modo improvviso e sconvolgente alla loro vivificazione. Come scrive Roland Barthes, in una riflessione sul trattamento del colore nell’opera di Twombly che sembra potersi riferire anche a Jackie: «Anziché di “macchia” sarebbe probabilmente meglio parlare di macula; perché la macula non è una macchia qualsiasi; come ci dice l’etimologia, è la macchia sulla pelle»19.

Sessanta, tr. it., Meridiano Zero, Padova 2008, p. 81. R. Barthes, Sagesse de l’art, in Id. Œuvres Completes, III, [1974-1980], Seuil, Paris 1995, p. 1022. 19

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SENSIBILITà E POTERE

Come è noto, quantomeno a partire dai servizi della rivista “Life” della fine degli anni cinquanta, la famiglia Kennedy è protagonista di un decisivo rilancio del rapporto tra immagine e potere politico che caratterizza la cultura occidentale sul lungo periodo. Non è certo Jackie a concepire per la prima volta tale rapporto, così come non ha molto senso pensare la società dello spettacolo come una semplice innovazione novecentesca. Si tratta piuttosto di riconoscere i tratti specifici della loro strategia di comunicazione politica senza distaccarsi da una prospettiva comparativa di lungo periodo. Come nella riflessione di Louis Marin, che ha indagato il rapporto tra immagine e potere identificando un oggetto teorico nei ritratti e nelle cerimonie sotto il regno di Luigi XIV, Rappresentare è mettere una forza in forma di segni, che si tratti delle guardie e dei tamburi del re o degli ambasciatori del principe; il potere è mostrare questi segni, farli vedere per fare conoscere le cose di cui sono i segni, per fare credere naturalmente e senza violenza alla forza che rappresentano. Il grande arco della rappresentazione si prolunga qui dalla pittura alla commedia alla politica; dalla metafora dell’immagine e dalla metamorfosi di scena alla transustanziazione e all’eucarestia del politico20.

Tale citazione esprime in modo chiaro e sintetizza

20

L. Marin, Signe et force. Mises en scéne, in Id., Politiques de la représentation, Kimé, Paris 2005, p. 186.

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V. Jackie, o della “viseità”

una lunga riflessione teorica mirata a sottolineare le funzioni rituali del ritratto e della parata, l’importanza di investire nell’architettura e nell’arredo dei luoghi istituzionali e nella produzione di eventi spettacolari come strategie mirate ad esprimere – rendere visibile e credibile – la forza del potere politico senza bisogno di articolarla nelle forme della violenza. Da Tony Manero a No, da Post Mortem a Neruda, si tratta del resto di tematiche fondamentali del cinema del regista cileno. Ma che cosa succede all’immagine che esprime e identifica il potere politico quando la violenza fa inaspettatamente ritorno? Se il ritratto dell’uomo di potere e, in senso lato, le immagini che partecipano alla sua glorificazione costituiscono una forma moderna e secolarizzata di transustanziazione – un’“eucarestia del politico” –, come interpretare, come gestire – psicologicamente e mediaticamente – l’irruzione di un fiotto di sangue che buca l’immagine? Che significato sociale assegnare alla variante, tutta laica, del “Miracolo di Bolsena” costituita dal filmato Zapruder e impressa nella memoria collettiva del mondo intero come un momento critico dell’iconologia politica? È dunque Jacqueline, nella ricostruzione psicologica e pubblica proposta da Larraín, a farsi carico di tali questioni. Se l’identificazione con la moglie di Lincoln nella sequenza girata all’interno della Casa Bianca e la prefigurazione della morte sembravano assegnarle il ruolo tragico e melodrammatico di una moderna Andromaca, è dunque con l’omicidio di Kennedy che si opera la trasformazione iconografica – un’inversione semantica come quelle indagate da Aby Warburg nel 247

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suo Bilderatlas Mnemosyne21 – in una santa Veronica: la pia donna che – stando al Vangelo di Luca e soprattutto ai Vangeli Apocrifi – asciugò il volto insanguinato di Cristo con un panno di lino durante la Passione. Santa Veronica, venerata dalla Chiesa Cattolica e considerata protettrice dei fotografi, proprio in relazione al suo gesto capace di lasciare impressa una traccia – la Traccia – sul panno bianco22. Fin dalle immagini immediatamente successive all’omicidio, Larraín insiste sul primo piano di Jacqueline, insanguinato, stravolto e determinato. Sulla sua scelta di non cambiarsi di abito e di non uscire dalla scala posta sul retro dell’aeroplano di ritorno a Washington. La decisione di esporsi pubblicamente e mediaticamente con l’abito sporco di sangue. Ma sono forse le immagini del lento attraversamento della Casa Bianca a restituire tutto lo spessore teorico della questione. Inquadrata in piano americano con un obiettivo che valorizza la profondità della scenografia [fig. 9], Jackie percorre quegli stessi saloni nei quali ha guidato gli spettatori di A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy. Le stanze piene degli arredi sfarzosi ai quali ha dedicato tanta attenzione: i ritratti, le poltrone, i monili, i “segni” mediante i quali far credere il popolo americano, sen-

A. Warburg, Mnemosyne. L’Atlante delle immagini della memoria, a cura di M. Ghelardi, tr. it., Aragno, Torino 2002.

21

22

Sulla Veronica e sul problema teorico della rappresentazione dell’invisibile, cfr. almeno V. Stoichita, Cieli in cornice. Mistica e pittura nel secolo d’oro dell’arte spagnola, a cura di L. Corrain, tr. it., Meltemi, Roma 2002.

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V. Jackie, o della “viseità”

Fig. 9

za l’esercizio della violenza, al potere dei Kennedy. «Non è sangue, è rosso» avrebbe detto Jean-Luc Godard nel 1965, parlando di uno dei suoi film più celebri e teorizzando così una concezione del colore come pure forza espressiva indipendente dagli oggetti rappresentati23. Jackie è senza alcun dubbio il film più espressamente legato a un’estetica coloristica tra quelli prodotti dal regista cileno. Un rosso sangue affiora nell’abito rosa Chanel di Jacqueline Kennedy, come un sudario che si decide di esporre, per mostrare a tutti “che cosa gli hanno fatto”, per far vedere che è vero. Il funerale di Lincoln – Mi scusi, sa chi era James Garfield? – No, signora.

23

J.-L., Godard, Parliamo di Pierrot, in Id., Il cinema è il cinema, tr. it., Garzanti, Milano 1971, p. 227.

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– Sa chi era William McKinley o che cosa fece? – No. – Furono entrambi presidenti, assassinati mentre erano in carica. E Abraham Lincoln lo conoscete? Sapete cosa fece? – Vinse la Guerra civile. Abolì la schiavitù, signora. – Proprio così, grazie. Sono questi i termini del dialogo che si sviluppa a bordo del carro funebre che trasporta la bara dall’aeroporto alla Casa Bianca. Sono le domande poste da Jacqueline all’autista e a un’accompagnatrice. Nessuno ricorda Garfield e McKinley, tutti ricordano Lincoln. L’ombra del più importante Presidente nella storia degli Stati Uniti continua a incombere anche sulla memoria postuma dei Kennedy. Se il presagio contenuto nel filmato d’archivio della visita televisiva della Casa Bianca si è trasformato in una maledizione, non è comunque il caso di cedere o di abbandonare il confronto. Per quanto ambizioso, per quanto fuori misura. Occorre piuttosto riaffermarlo, spingerlo fino all’estremo, ritrasformarlo in un’occasione di nobilitazione e acquisizione di prestigio e memorabilità. È a partire da tale dialogo che si sviluppano le vicende legate all’allestimento del funerale del trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America sulla scorta di quello del sedicesimo Presidente svoltosi nella seconda metà del XIX secolo. Subito dopo aver parlato con l’autista del carro funebre, Jackie assume una nuova funzione narrativa, si incarica di una missione storica: «Per favore, dì loro che voglio i libri su Lincoln. Quelli sul suo funerale», dice a Bobby seduto al suo fianco durante il viaggio. Il 250

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V. Jackie, o della “viseità”

montaggio narrativo ritorna dunque all’interno delle sale della Casa Bianca, piene di mobilia ma ormai svuotate di senso, e poi al faccia a faccia tra Jackie e White che fa da cornice narrativa, per arrivare a mostrare la sequenza di ricerca storica e iconografica sulla cerimonia funebre di riferimento. Dapprima si osserva il dettaglio di una piantina della città di Washington con evidenziato il percorso che, attraversando Pennsylvania Avenue, condusse il corpo di Lincoln dalla Casa Bianca fino al Campidoglio per poi fare ritorno al punto di partenza e raggiungere la Cattedrale di Saint Matthew. Mentre un addetto al cerimoniale illustra a Jackie la dinamica degli eventi [fig. 10], la camera a mano inquadra una serie di stampe e riproduzioni visive dell’epoca [fig. 11]: immagini che mostrano una lunga processione alla quale presero parte migliaia e migliaia di persone, cittadini, senatori, membri del Congresso, militari, diplomatici… L’uomo si sofferma a descrivere la coperta nera e i ricami, le nappe, con i quali fu decorato per l’occasione il cavallo del Presidente. Dopodiché la macchina da presa stringe su un primissimo piano del volto di Jackie inquadrata di profilo. La vedova si domanda per un attimo che cosa avrebbe pensato il marito di un simile dispendio di denaro per cose futili, esteriori, manifestazione di vanità, ma subito si riprende, di fronte allo sguardo perplesso dell’interlocutore: «Dobbiamo farlo perbene Bill, dobbiamo farlo come si deve». Se nella riproduzione finzionale delle immagini d’archivio si poteva identificare una riflessione teorica sul rapporto tra la performance divistica di Jacqueline Kennedy e quella della star Natalie Portman – e dun251

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SENSIBILITà E POTERE

Fig. 10

Fig. 11

que sul rapporto tra la messa in scena mediatica del potere politico e la messa in scena cinematografica –, la sequenza relativa alle ricerche iconografiche sul funerale di Lincoln sembra interpretabile come una trasfigurazione scenica del lavoro di documentazione condotto dal regista stesso e dalla sua équipe per la realizzazione di Jackie. È come se, da questo momento in poi, la regia filmica si trovasse a fare i conti con un suo delegato finzionale, un alter ego del regista impegnato a prelevare, riprodurre e innestare autonomamente 252

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V. Jackie, o della “viseità”

le immagini di repertorio ai fini della glorificazione postuma di Kennedy. Jackie stessa come regista di un film nel film: il remake del funerale di Lincoln. È del resto a questo punto del racconto, in relazione alla vicenda del funerale, che Larraín mescola in modo pressoché impercettibile le immagini in 16mm del footage dell’epoca con quelle in 16mm girate ad hoc per il film. Se fin dalla prima sequenza il volto di Jackie, inquadrato in primo piano, stava per qualcosa di più vasto e concettualmente problematico di una semplice parte del suo corpo, la regia dei funerali costituisce l’esplicitazione di un processo di costruzione della parata come “auto-ritratto mediatico” di Jackie e John Fitzgerald Kennedy e della loro famiglia politica. L’immagine definitivamente gloriosa di un Presidente il cui programma era pieno di promesse – dal disgelo della Guerra fredda ai diritti civili –, ma al quale l’omicidio ha impedito di sottoporsi al giudizio storico. Le immagini del trasferimento della bara al Campidoglio e del funerale coincidono con piani dal basso, realizzati al livello stradale, che salgono progressivamente d’altezza, fino a un’inquadratura dall’alto che esalta in campo lungo gli uomini, i cavalli e i mezzi a motore che sfilano lungo la grande Avenue, come da copione. Sono queste le immagini della parata, finalmente compiuta, composta, riuscita, da intendersi all’interno dell’articolazione teorica del film come trasfigurazione iperbolica del viso del potere, della sua efficacia, della sua tenuta simbolica d’insieme24.

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Sul rapporto tra ritratto politico e rappresentazione topografica

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Se il volto della vedova è coperto da un sottile velo nero, è dunque in relazione a queste sequenze che il problema teorico dell’invisibilità e della visibilità dei corpi, della loro esposizione pubblica, torna a porsi con forza. In primo luogo, come una decisione che concerne i membri della famiglia: è opportuno far comparire all’interno della cerimonia pubblica i figli di Jacqueline e John? Assume un qualche senso che non sia puramente strumentale esporre al pubblico Caroline e John Jr., rispettivamente di sei e tre anni? È attorno a queste domande – esplicitamente poste dal giornalista – che Jackie sembra combattere tra l’esigenza di elaborare un senso privato e familiare agli eventi traumatici e il dovere di concepire una narrazione di ampia portata, epocale. È dunque a partire da queste stesse domande e dalla scelta di Jackie – l’“altro regista” – di esporre i bambini che Larraín sembra permettersi di indugiare sui loro volti con un primissimo piano, adottando una scelta inconsueta, una vicinanza eccessiva, nei confronti di chi, come i due piccoli, è solo parzialmente in condizione di ricambiare lo sguardo. In secondo luogo, i funerali costituiscono un affare di stato che mobilita gli addetti alla sicurezza del

dello spazio urbano, cfr. L. Marin, La mappa della città e il suo ritratto, in Id., Della rappresentazione, a cura di L. Corrain, tr. it., Mimesis, Milano 2014, pp. 75-90. Per una ripresa del rapporto tra ritratto e parata in relazione alle forme della comunicazione politica contemporanea, cfr. L. Acquarelli, Dai dispositivi di sacralizzazione al “bagno di folla”, in “E/C”, n. 13 (2013), pp. 123-133.

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V. Jackie, o della “viseità”

presidente Johnson e i servizi segreti. Dopo l’assassinio di Kennedy e dopo l’improvviso omicidio dello stesso Lee Harvey Oswald, appena arrestato dalla polizia di Dallas in quanto responsabile della morte del Presidente, la politica è sotto tiro. Non ci sono le condizioni per una marcia di centinaia di metri, in mezzo a migliaia e migliaia di persone, in un centro abitato, in uno spazio complesso dal punto di vista architettonico e urbanistico e dunque impossibile da mettere in sicurezza. Ma Jacqueline è ostinata e dopo un piccolo ripensamento si impunta, decide che l’unico modo per attribuire al marito il valore storico che merita e che non ha avuto la possibilità di conquistare coincide con la piena realizzazione del remake del funerale di Lincoln, senza tagli di copione, cavalli compresi. È pronta a farlo a tutti i costi, anche a seguito della notizia, pervenuta dai servizi segreti, che alcune autorità presenti alla cerimonia sarebbero a rischio di subire ulteriori attentati. Come dichiara con aria di sfida al funzionario che cerca di metterla in guardia sui rischi in questione: «Informi i partecipanti al funerale che domani camminerò di fianco a Jack, da sola se necessario. E dica al generale De Gaulle che se vorrà spostarsi su un’automobile corazzata o un carro armato non me la prenderò e, sono certa, nemmeno le decine di milioni di persone che guarderanno». Il dialogo tra Jackie e il responsabile della sicurezza sembra mettere in scena una riflessione di Jean Baudrillard, scritta in riferimento all’omicidio di John e a quello di Robert Kennedy del 1968: Tutti i poteri, tutte le istituzioni parlano di se stessi 255

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attraverso la negazione, al fine di tentare, simulando la morte, di sfuggire alla loro vera morte. […] i Kennedy sono stati uccisi perché avevano ancora una dimensione politica. Gli altri – Johnson, Nixon, Ford – avevano solo il diritto a fantasmatici tentativi, omicidi simulati. Ma questa aura di una minaccia artificiale era ancora necessaria per nascondere che essi non erano altro che manichini del potere25.

Il rapporto tra assassinio e minaccia di morte, tra violenza realizzata e violenza messa in riserva, si ritrova tanto nel film quanto nel passo di Baudrillard. Ma, a ben vedere, la riflessione di Larraín – e, dunque, indirettamente di Jackie – sembra più elaborata e complessa di quella del sociologo francese. Come anticipato nei paragrafi precedenti, l’atteggiamento della protagonista non è privo di lucidità e manifesta una profonda comprensione dei rapporti che intercorrono tra immagine, potere e violenza. La questione posta dalla donna non è tanto quella di mettere in discussione l’effettiva possibilità che qualcuno voglia attentare alla vita di De Gaulle, del neo-presidente Johnson o di qualunque altro invitato e successore di Kennedy: la violenza politica non si esaurisce certo con la sua famiglia e la sua “dimensione politica”. Piuttosto, per raggiungere fino in fondo il suo obiettivo sa che è necessario sfidare il rischio stesso, la possibilità della violenza, allo stesso tempo fantasmatica e concreta.

J. Baudrillard, Simulacres et simulation, Galilée, Paris 1981, p. 35. 25

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V. Jackie, o della “viseità”

Fig. 12

Dall’esposizione pubblica del sangue impresso sul tailleur alla moda all’organizzazione dei funerali di Stato, Jacqueline non si limita dunque a dare sfogo alla sua vanità. Se esporre il volto alle telecamere era uno degli elementi decisivi del successo politico dei Kennedy, la scelta di forzare la propria famiglia, e con lei il potere politico americano, a una ri-esposizione pubblica dopo l’irruzione della violenza è il punto di maggiore interesse teorico dell’intero film. Una strategia, quella di Jackie, capace di ribadire l’efficacia dell’immagine, ri-autenticarla nella prova di esposizione al pubblico, con ciò che comporta. Attraverso le sequenze relative ai funerali, attraverso la compromissione tra lo sguardo di Jackie, in quanto artefice, e quello di Larraín, in quanto regista, il film mostra dunque lo straordinario successo del funerale come occasione di ri-mediazione della violenza stessa e delle immagini che ne offrono documentazione: un grande rito collettivo capace di mettere la forza subita così come la forza sopravvivente in riserva nell’immagine. 257

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È dunque quella con il volto di Jackie che guarda dal finestrino durante il trasferimento della bara al Campidoglio una delle inquadrature più significative di tutto il film [fig. 12]. Mentre la colonna sonora originale di Mica Levi sovrappone toni acuti e gravi, i suoi occhi osservano, attraverso il vetro, la folla immensa accorsa alla cerimonia. Non c’è bisogno di un controcampo per restituire l’orientamento e l’efficacia di questo sguardo. È sufficiente una sovrimpressione, un montaggio plastico di più immagini all’interno della singola inquadratura: il viso di Jackie sul quale scorrono le sagome dei cittadini americani accorsi a rendere omaggio al Presidente Kennedy; la messa in scena del film di finzione che fa corpo unico con il documento d’archivio. Camelot Esattamente al centro del film – tra un dialogo con Bobby sull’opportunità di un grande funerale pubblico e l’ennesimo faccia a faccia con White –, Larraín immagina una sequenza musicale, un’ultima danza notturna prima di lasciare la Casa Bianca. Jackie indossa una vestaglia e si aggira all’interno dei grandi saloni, apre una porta, si avvicina lentamente a un giradischi, lo accende: «It’s true! It’s true. / The crown has made it clear / The climate must be perfect all year / A law was made a distant moon ago here / July and August cannot be too hot / And there’s a legal limit to the snow here / In Camelot! / The winter is forbidden till December / And exits March the second on the dot / By order, summer lingers through 258

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V. Jackie, o della “viseità”

September / In Camelot! / Camelot! Camelot!»26. La musica allegra che si propaga nelle diverse stanze interrompe i toni dissonanti della colonna sonora e sembra proiettare la protagonista al di fuori del dramma che sta vivendo. La si vede tornare in camera da letto, aprire lo scrigno di oggetti preziosi, indossare una collana di perle, un leggero abito rosso, poi nero, versarsi del gin, servirsi la cena, darsi il rossetto, prendere una serie di sedativi e, infine, sedersi alla scrivania del Presidente. Ma i suoi gesti sono scattosi, nervosi. La melodia musicale e il tenore festivo degli abiti indossati uno dopo l’altro non sembrano offrire un momento d’evasione o una via di fuga. Piuttosto, transitando da una parte all’altra della Casa Bianca e dando luogo a gesti di trasformismo radicale, Jackie sembra fare esperienza della caducità degli oggetti dei quali si è circondata e attraverso i quali ha concepito il suo ruolo di first lady. Il senso della canzone tende perlopiù a sfuggire allo spettatore, preso dal drammatico trasformismo della donna che – nella notte più buia della sua vita – prova a indossare tutte le maschere che restano dei volti passati, inutilmente. Una nervosa sessione di prova che si conclude con la donna che prende il posto del Presidente stesso, siede sulla sua sedia e È vero! È vero. / La corona lo ha reso chiaro / Il clima deve essere perfetto tutto l’anno / Una legge è stata fatta diverse lune fa / Luglio e agosto non possono essere troppo caldi / E c’è un limite legale alla neve qui a Camelot / A Camelot! / L’inverno è vietato fino a dicembre / E con l’arrivo di marzo finisce immediatamente / L’estate si protrae per ordinanza fino a settembre / A Camelot! / Camelot! Camelot! 26

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accetta di prendere il controllo della fase politica e mediatica del funerale. Se il significato del testo e il senso assunto dall’inserimento di tale canzone non originale all’interno del racconto non è da subito chiaro, sono dunque gli ultimi minuti del film a renderlo esplicito. Sono le battute finali del confronto con il giornalista recatosi presso la residenza dei Kennedy di Hyannis Port a specificare la non casualità del riferimento musicale. White ha praticamente concluso il suo articolo, quando Jacqueline gli comunica che c’è ancora un’ultima cosa di cui parlare, probabilmente più importante di tutto il resto: ogni sera, prima di andare a dormire, lei e “Jack” accendevano il vecchio grammofono e ascoltavano alcuni dischi e, soprattutto, Camelot, il musical di Broadway del 1960 ispirato alla leggenda cavalleresca di Re Artù. Senza interruzione, Jacqueline, ricorda l’ultima strofa dell’intera opera e, mentre la cita, detta al giornalista la frase conclusiva dell’articolo che sarà effettivamente pubblicato su “Life” il 6 dicembre 1963: «Don’t let it be forgot / That once there was a spot / For one brief shining moment that was known / As Camelot»27. Il suo volto è compiaciuto e triste allo stesso tempo, nell’idea di aver effettivamente vissuto come in un romanzo cavalleresco, in un mondo pieno di ideali, passioni e bellezza; un mondo che, ahimè, difficilmente potrà tornare. Il film sta per finire e si alternano le diverse serie Non lasciare che vada dimenticato / Che c’era una volta un posto / Per un breve splendente momento / Come Camelot. 27

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V. Jackie, o della “viseità”

narrative per volgere al termine. Il parroco scambia le ultime battute con Jackie e celebra il nuovo interramento dei figli precedentemente deceduti. White augura la buonanotte alla signora Kennedy. Una targa affissa all’interno della Casa Bianca ricorda che «In questa stanza vissero J.F. Kennedy e la moglie Jacqueline, durante i due anni, dieci mesi e due giorni in cui fu Presidente degli Stati Uniti d’America. 20 gennaio 1961 – 22 novembre 1963». Tutto sembra concluso, quando un’ulteriore sequenza, una coda, si protrae oltre i margini del racconto narrativo. Esterno, notte. Un’auto nera scortata da due motociclette si arresta di fronte a un semaforo rosso. Inquadrato attraverso il finestrino, il volto di Jacqueline che guarda verso l’esterno [fig. 13]. Un controcampo, compatibile con il suo punto di vista in movimento inquadra la vetrina di un’elegante boutique [fig. 14]. Una commessa è impegnata nell’allestimento della composizione, nella scelta dei modi di esposizione degli abiti. La sequenza prosegue secondo la tecnica del campo e controcampo e si assiste dunque con Jackie all’immagine di un furgone dal quale vengono scaricati una serie di manichini che indossano tailleur azzurrini, bianchi, rosa, gialli. Portano tutti la stessa parrucca nera. Sono tante immagini di Jackie che si espongono nelle vetrine degli Stati Uniti d’America e dell’intero Occidente. Mentre il sonoro coincide nuovamente con l’ultima canzone del disco Camelot – e prima che il montaggio torni nuovamente, per un’ultima volta, sulle immagini di mondanità festiva della Casa Bianca all’epoca dei Kennedy –, il volto di Jackie appare 261

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SENSIBILITà E POTERE

Fig. 13

Fig. 14

lievemente sorpreso ma non dispiaciuto da ciò che ha scorto dal finestrino. Parlando con il giornalista aveva dato per conclusa l’esperienza di Camelot, tanto intendendo il gioco privato tra lei, suo marito e la cerchia ristretta degli ospiti della Casa Bianca, quanto l’utopia politica e sociale di felicità globale. Eppure, eccola là, davanti ai suoi occhi – a portata di tutti o di tutti quelli che possono permettersela – la “mondanità” di Camelot. Se l’indagine delle forme “eterotopiche” e “utopi262

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V. Jackie, o della “viseità”

che” dell’immaginario mediatico costituiva uno dei plessi teorici fondamentale della trilogia della dittatura, l’ultima sequenza di Jackie sembra riprendere in modo esplicito – anticipandola agli anni sessanta – la riflessione di No sull’affermazione dell’estetica commerciale in quanto strumento di governance. Come è noto, è del resto in relazione all’evento della morte di Kennedy che Fredric Jameson ha identificato la “nascita del Postmoderno”. Secondo l’interpretazione del critico e teorico americano – citata e discussa per molti decenni dopo la sua elaborazione –, proprio la morte del Presidente marca duplicemente l’ingresso in una nuova epoca: costituisce il primo evento interamente mediatico, inteso come «Un evento unico, se non altro perché è stato un’esperienza collettiva unica (mediatica, comunicazionale), che ha preparato la gente a interpretare in modo nuovo avvenimenti del genere»28; si tratta inoltre della scaturigine di tutti i cospirazionismi che avrebbero agitato l’Occidente nei decenni successivi, nonché di un’“estetica del complotto” che si ritrova in numerosi scrittori e registi29. Si è evidenziato più volte, lungo il corso dell’intero libro, come Larraín tenda a sottrarsi alle modalità narrative della cospirazione e dell’inchiesta, anche quando l’evento storico in questione sembrava incon-

28

F. Jameson, Postmodernismo, cit., p. 826.

Su questo punto, a partire da Jameson, cfr. P. Knight, The Kennedy Assassination and Postmodern Paranoia, in The Cambridge Companion to John F. Kennedy, a cura di A. Hoberek, Cambridge University Press, New York 2015, pp. 164-177. 29

263

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SENSIBILITà E POTERE

cepibile al di fuori di tale cornice interpretativa. Che si tratti dell’omicidio di Allende, della fuga di Neruda o dell’omicidio di Kennedy, il regista cileno non pretende di pervenire a una verità ultima e definitiva sulla logica degli eventi storici, ma non per questo si concede al fascino sublime del “caso ancora aperto”. Piuttosto che indagare il singolo fotogramma d’archivio storico per produrre insinuazioni sulla realtà referenziale alla quale rimanda, cerca di dare spessore all’immagine, immagina i controcampi polemici della storia. Già nel film del 2012, emergeva del resto con grande evidenza come, all’interno di tale concezione, il “finzionale” non si opponga al “documentale” ma stabilisca un rapporto di coalescenza con esso, dove l’uno non è che l’altra faccia dell’altro. Se il cinema di Larraín non si lascia identificare, ma anzi si oppone, alla postmodern paranoia, risulta altresì fuorviante l’idea di interpretare l’intero film del 2017 a partire dalla sequenza finale e dalla serializzazione commerciale dello “stile Jacqueline”. Certo, grazie alla potenza deterritorializzante del capitalismo, Camelot è ormai dappertutto e in nessun luogo e forse proprio grazie a questo la protagonista potrà uscire provvisoriamente fuoricampo, riprendersi il privato, la vita con i propri figli, che Larraín prefigura in una serie di immagini girate in controluce, lungo una spiaggia, che sembrano ispirate a Terrence Malick. Ma, per rendere giustizia alla composizione quanto mai elaborata di un film come Jackie, occorre tenere memoria del punto di partenza e degli snodi intermedi. Occorre ricordare che – contro molte attese – la Jackie del film non è quella serigrafica di Warhol. Dopo la morte di Ken264

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V. Jackie, o della “viseità”

nedy gli interni della Casa Bianca orgogliosamente allestiti sono divenuti inabitabili; i colori pastello degli abiti alla moda rischiano di risultare eufemistici rispetto all’affermazione di un “rosso trauma”. Solo attraverso la scelta di esporre il proprio volto e di indossare il trauma stesso, Jackie riuscirà, almeno sul versante pubblico, a ribadire l’efficacia della propria icona. Un’icona tessile, dove la granulosità dei fili costituisce l’elemento più importante. È dunque per questa via che il regista cileno sembra sottrarsi a quelle scorciatoie teoriche che portano all’identificazione della morte di Kennedy con l’inizio di un dominio capitalistico e commerciale inteso come superamento dalle forme politiche e comunicative della sovranità statale. Come in altri film, anche in Jackie si assiste al conflitto tra la logica della tradizione e quella della creatività, tra il potere politico e quello commerciale ma, ancor più che nei precedenti, questo conflitto non si esprime in una dialettica oppositiva. La profondità del personaggio coincide con la sua capacità di concepire il rapporto tra violenza, sensibilità e potere secondo una prospettiva storica e teorica di lungo periodo: Jackie l’icona pop, la “modella di Chanel”; Jackie che, immediatamente, comprende il significato iconografico e politico del sangue e assume il coraggio di dirigere una cerimonia pubblica della portata di un funerale di Stato; Jackie come primo personaggio pubblico capace di dare «al popolo americano una cosa che gli era sempre mancata: la maestà», per riprendere le parole di un quotidiano britannico dell’epoca che lo sceneggiatore trasforma liberamente per metterle in bocca a White. 265

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SENSIBILITà E POTERE

Uscendo dal cinema, due immagini del volto di Jackie attraverso il finestrino dell’automobile restano impresse nella memoria dello spettatore. Due immagini che chiudono le pagine di questo libro. La prima, si è vista nel paragrafo precedente, coincide con un’unica inquadratura nella quale il volto della donna coesiste in sovrimpressione con l’immagine sfuocata del popolo americano [fig. 12]: un “bagno di folla”, risposta rituale a una crisi simbolica dell’istituzione statale, momento di ricongiungimento e inscrizione del corpo collettivo in quello individuale del potere. La seconda è quella vista poco sopra. La sequenza finale del film che mette Jackie di fronte ai suoi simulacri [figg. 13-14]: l’effetto di ritorno del successo dei funerali, la portabilità mediatica della sua immagine, la disseminazione commerciale del suo stile. Rispetto alla prima immagine dal finestrino, l’articolazione del campo e controcampo dischiude qui uno spazio di praticabilità sociale, una normalità del quotidiano che prende forma e si propaga attraverso l’articolazione mediatica dei beni di consumo. Due sguardi dal finestrino: il primo rivolto al popolo degli Stati Uniti d’America, il secondo a quello di Camelot. Sguardi diversi e, tuttavia, strettamente legati nel discorso di Larraín, dove l’uno costituisce il punto di appoggio dell’altro e non il suo opposto. Jackie, o della “viseità” si proponeva all’inizio del capitolo. Se Larraín compone con questo film un ritratto per alcuni critici troppo indulgente, la sua riflessione si spinge ancora più avanti rispetto alla filmografia precedente fino a indagare i complessi rapporti che intercorrono tra le forme dell’iconologia 266

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V. Jackie, o della “viseità”

politica e quelle della comunicazione mediatica, tra il regime di efficacia dell’autorità statale e quello della macchina capitalistica, tra sovranità e governamentalità. Una serie di rapporti che pongono una sfida alla teoria proprio mentre danno forma alla pratica politica e comunicativa contemporanea.

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SENSIBILITà E POTERE

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Filmografia

FILMOGRAFIA

Fuga Regia: Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Mateo Iribarren, Pablo Larraín, Hernán Rodríguez Matte. Fotografia: Miguel Littín Menz. Scenografia: Rodrigo Bazaes. Musica: Juan Cristóbal Meza. Montaggio: Juan Carlos Macías. Suono: Mauricio Molina. Interpreti: Benjamín Vicuña, Gastón Pauls, Francisca Imboden, María Izquierdo, Willy Semler, Héctor Noguera, Alfredo Castro,Alejandro Trejo, Paulina Urrutia, Mateo Iribarren, Marcial Tagle, José Soza, Luis Dubó, Héctor Morales. Produzione: Fabula, Prodigal. Durata: 110’. Paese: Cile, Argentina. Anno: 2006.

Tony Manero Regia: Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Alfredo Castro, Mateo Iribarren, Pablo Larraín. Fotografia: Sergio Armstrong González. Scenografia: Polin Garbisu. Montaggio: Andrea Chignoli. Suono: Miguel Hormazábal. Interpreti: Alfredo Castro, Amparo Noguera, Héctor Morales, Paola Lattus, Elsa Poblete, Nicolás Mosso, Enrique Maluenda, Marcelo Alonso, Antonia Zegers, Diego Medina, Cristián Ordoñez, Greta Nilsson, Marta Fernández, Marcial Tagle, Freddy Huerta, Jaime Silva, Rodrigo Pérez, Francisco González, Luis Uribe. Produzione: Fabula, 269

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SENSIBILITà E POTERE

Prodigital. Distribuzione: Ripley’s Film. Durata: 98’. Paese: Cile, Brasile. Anno: 2008.

Resurrección Regia: Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Alfredo Castro, Mateo Iribarren, Pablo Larraín. Fotografia: David Bruno. Montaggio: Isidora Marras, Paulina Rojas. Suono: Antonio Luco. Interpreti: Felipe Braun, Isidora Cabezón. Produzione: Pueblo Cine, Escuela de Cine de la Universidad Católica de Chile. Durata: 9’. Anno: 2009. Post Mortem Regia: Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Eliseo Altunaga, Mateo Iribarren, Pablo Larraín. Fotografia: Sergio Armstrong. Scenografia: Polin Garbizu. Montaggio: Andrea Chignoli. Suono: Miguel Hormazábal, Matías Valdés. Interpreti: Alfredo Castro, Antonia Zegers, Jaime Vadell, Amparo Noguera, Marcelo Alonso, Marcial Tagle, Santiago Graffigna, Ernesto Malbran, Aldo Parodi. Produzione: Autentika, Canana, Fabula. Distribuzione: Archibald. Durata: 98’. Paese: Cile, Germania, Messico. Anno: 2010.

No - I giorni dell’arcobaleno (No) Regia: Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Pedro Peirano, dal romanzo I Giorni dell’arcobaleno 270

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Filmografia

di Antonio Skármeta. Fotografia: Sergio Armstrong. Scenografia: Estefania Larrain. Musica: Carlos Cabezas. Montaggio: Andrea Chignoli, Catalina Marín Duarte. Suono: Miguel Hormazábal. Interpreti: Gael García Bernal, Alfredo Castro, Luis Gnecco, Néstor Cantillana, Antonia Zegers, Marcial Tagle, Pascal Montero, Jaime Vadell, Elsa Poblete, Diego Muñoz, Roberto Farías, Sergio Hernández, Manuela Oyarzún, Paloma Moreno, César Caillet, Pablo Krögh, Patricio Achurra, Amparo Noguera, Alejandro Goic, Carlos Cabezas, Paulo Brunetti, Iñigo Urrutia, Pedro Peirano, Patricio Aylwin, Eugenio Tironi, Juan Forch, Eugenio García, Juan Gabriel Valdés, Jaime de Aguirre, Florcita Motuda, Patricio Bañados, Osvaldo Silva, Carmen María Pascal, María Teresa Bacigalupe, Cecilia Echeñique, Tati Pena, Javiera Parra, Isabel Parra, Cristina Parra, Milena Rojas, Carlos Caszely, Gabriela Medina, Malucha Pinto, Maitén Montenegro, Jorge Yáñez, Claudio Narea, Marco Antonio de la Parra, Ana María Gazmuri, Marcela Medel, Reinaldo Vallejo, Claudio Guzmán, Consuelo Holzapfel, Maricarmen Arrigorriaga, Shlomit Baytelman, Delfina Guzmán, María Elena Duvauchelle, Julio Jung. Produzione: Participant Media, Funny Balloons, Fabula, Canana Films. Distribuzione: Bolero. Durata: 118’. Paese: Cile, Francia, Messico, Stati Uniti d’America. Anno: 2012.

Il club (El club) Regia: Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Guillermo Calderón, Pablo Larraín, Daniel Villa271

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SENSIBILITà E POTERE

lobos. Fotografia: Sergio Armstrong. Scenografia: Jean Rabasse. Musica: Carlos Cabezas. Montaggio: Sebastián Sepúlveda. Suono: Miguel Hormazábal. Interpreti: Alfredo Castro, Roberto Farías, Antonia Zegers, Marcelo Alonso, Jaime Vadell, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking, José Soza, Francisco Reyes, Diego Muñoz, Gonzalo Valenzuela, Catalina Pulido, Paola Lattus, Erto Pantoja, Felipe Ríos. Produzione: Fabula. Distribuzione: Bolero. Durata: 98’. Paese: Cile. Anno: 2015.

Neruda Regia: Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Guillermo Calderón. Fotografia: Sergio Armstrong. Scenografia: Estefania Larrain. Musica: Carlos Cabezas. Montaggio: Hervé Schneid. Suono: Kevin Colman. Interpreti: Gael García Bernal, Luis Gnecco, Mercedes Morán, Emilio Gutiérrez Caba, Diego Muñoz, Alejandro Goic, Pablo Derqui, Marcelo Alonso, Michael Silva, Francisco Reyes, Jaime Vadell, Néstor Cantillana, Alfredo Castro,Marcial Tagle, Amparo Noguera, Ariel Mateluna, Cristián Chaparro, Pablo Schwarz, Cristián Campos, Luis Dubó, Roberto Farías, Ximena Rivas, Felipe Ríos,Javiera Cortés, Paola Lattus, Claudia Vicuña, Francisca Imboden, Trinidad González, Juan José Ossa, Álvaro Espinoza, José Quilapi, Mario Soto, Victor Montero, Rubén Azócar, Juan Cristóbal Jaramillo, José Soza, Daniel Antivilo, Héctor Noguera, Roberto Cayuqueo, Julio Jung, Betania González, Jorge Yáñez, Senin Selim, Claudio Arredondo, Nicolás Torres, Heidrun Breier, 272

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Filmografia

Nikolás Bottinelli, Elsa Poblete, Victor Hugo Ogaz, Hernán Lacalle, Margarita Sánchez, Daniel de la Vega, Claudia Cabezas, Julio Milostich. Produzione: AZ Films, Casting del Sur, Fabula, Funny Balloons, Participant Media, Reborn Production, Setembro Cine, Willies Movies. Distribuzione: Good. Durata: 107’. Paese: Argentina, Cile, Spagna, Francia. Anno: 2016.

Jackie Regia: Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Noah Oppenheim. Fotografia: Stéphane Fontaine. Scenografia:Jean Rabasse. Costumi: Madeline Fontaine. Musica: Mica Levi. Montaggio: Stéphane Fontaine. Suono: David Miranda-Hardy. Interpreti: Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup, John Hurt, Richard E. Grant, Caspar Phillipson, John Carroll Lynch, Beth Grant, Max Casella, Sara Verhagen, Hélène Kuhn, Deborah Findlay, Corey Johnson, Aidan O’Hare, Ralph Brown, David Caves, Penny Downie, Georgie Glen, Julie Judd, Peter Hudson, John Paval, Bill Dunn, Vivienne Vernes, Yann Bean, Ken Starcevic, Craig Sechler, Rebecca Compton, Bryan Ashby, David DeBoy, Stéphane Höhn, Serge Onteniente, Sunnie Pelant, Aiden Weinberg, Brody Weinberg, Roland Pidoux, Antoine De la Morinière, Gérard Pierrot, Ian McCleary, Justin Schweiger, Emmanuel Herault, William Beaux d’Albenas, Nicolas Guigou, David Friszman, Chloé Berthier, Eric Soubelet, Gaspard Koenig, Mathilde Ripley, Barbara Foliot, Albain Venzo, Frédérique 273

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SENSIBILITà E POTERE

Adler, Patrick Hamel. Produzione: Fox Searchlight Pictures, LD Entertainment, Wild Bunch, Protozoa Pictures, Fabula, Why Not Productions, Endemol Shine North America, Bliss Media. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 100’. Paese: Cile, Francia, Stati Uniti d’America. Anno: 2016.

SERIE TV

Prófugos Regia: Javier ‘Fox’ Patrón, Jonathan Jakubowicz, Pablo Larraín. Soggetto e sceneggiatura: Josefina Fernández, Pablo Illanes, Mateo Iribarren, Enrique Videla. Fotografia: Miguel Ioann Littin Menz, Benjamín Echazarreta, Sergio Armstrong. Musica: Camila Moreno. Montaggio: Diego Macho Gómez, Andrea Yaconi. Interpreti: Néstor Cantillana, Benjamín Vicuña, Luis Gnecco, Camila Hirane, Blanca Lewin, Amparo Noguera, Antonia Zegers, Aline Küppenheim, Francisco Reyes, Marcelo Alonso, Luis Dubó, Francisco Melo, Alfredo Castro, Cristián Campos, Diego Muñoz, Roberto Farías, Victor Montero, Claudia Di Girólamo, César Caillet, Stefano Mamani, Catherine Bossans, Alejandro Goic, Fele Martínez, Sebastián de la Cuesta, Rodrigo Pérez, Paulina Urrutia, Carolina Marzán, Mateo Iribarren, Edgardo Bruna, Cristián de la Fuente, Héctor Morales, Tiago Correa, Pablo Krögh, Angelica Castro, Ana Cárdenas, Matías del Río, Jaime Omeñaca, Diego Ruiz, Sergio Hernández, Andrés Velasco, Nicolás 274

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Filmografia

Brown, Pablo Vila, Marcelo Valdivieso, Claudio González, Claudia Vicuña, Ramón González, Sofía Mena, Gabriela Hernández, Luis Wigdorsky, Daniela Ramírez, Catherine Mazoyer, Francisco Ossa, Felipe Bianchi, Eva Gómez, Jesús Codina, Laura Galán, Paola Lattus, Andrea Martínez, Jaime Hanson, Rodolfo Pulgar, María Paz Grandjean, Carlota Gómez Carrasco, Jaime McManus, Mario Ossandón, Eduardo Hoffman, Mariana Loyola, Viviana Herrera, Patricio Achurra, Jorge Alís, Nelson Brodt, Pablo Schwarz, Montserrat Estévez, Regildo Castro, Moira Miller, Erto Pantoja, Pancho González, Ariel Mateluna, César Arredondo, Natalia Grez, Lía Maldonado, Pablo Ausensi, Yenniferth Vargas, Luis Eduardo Campos, Alessandra Denegri, Óscar Hernández, Carolina Carrasco, Diego Noguera, Camilo Carmona, Sofía García, Andrés Neira, Mario Bustos, Juan Pablo Miranda, Maricarmen Arrigorriaga, Miguel Angel De Luca, Marcela Golzio, Rosa Leyton, Gilda Maureira, Alejandra Oviedo, Héctor Escudero, Eugenio Morales, Cristián Gajardo, Ernesto Gutiérrez, Aldo Parodi, Salvador Soto, Benjamín Hidalgo, Carmen Gloria Méndez, María de la Luz Prat, Cristián Carvajal, Arturo Batalla, Cecilia Hidalgo, Fidelina Ramírez, Richard González Segura, José Palma, Manuel Peña, José Baeza, Juan Pablo Larenas, Ignacio Baeza, Jesús Briceño, Ricardo Herrer, Claudia Cabezas, Karla Matta, Guilherme Sepúlveda, Noelia Arias, Sergio Piña, Gonzalo Canelo, Alex Rivera, Nury Ortego, Gonzalo Pinto, Miriam Collao, Valeria Elgueta, Licinia Benítez, Cristián Hidalgo, Simón Pascal, Otilio Castro, Cristobal Tapia Montt. Produzione: Efetres. Fabula, HBO Latin America. Durata: prima stagione 275

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SENSIBILITà E POTERE

di 13 episodi da 45’; seconda stagione di 13 episodi da 55’. Paese: Cile. Anno: 2011 (prima stagione) e 2013 (seconda stagione).

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Indice dei nomi e dei film

INDICE DEI NOMI E DEI FILM

11 de septiembre 2013 (A. Jaar, 2013), 18 11 S e t t e m b r e 2 0 0 1 (11’09’’01 - September 11, AA. VV., 2002), 18 Acquarelli, Luca, 254n Acta general de Chile (M. Littín, 1985), 12, 97 Addis, Maria Cristina, 25n Affetti e dispetti (La Nana, S. Silva, 2009), 16 Agamben, Giorgio, 32 e n, 45 e n, 152n, 159n Aguilar, Carlos, 143n, 147n Allende Gossens, Salvador Guillermo, 11, 13, 18, 38, 59n, 65n, 82, 102, 115, 122, 180, 264 Allende Llona, Isabel, 12 Arasse, Daniel, 24n Argentieri, Mino, 182n Armocida, Pedro, 16n Armstrong, Sergio, 147 Aronofsky, Darren, 215 Arriagada Herrera, Genaro Luis, 100, 123 Aumont, Jacques, 24n Aylwin Azócar, Patricio, 112, 115, 121 Bachelet Jeria, Verónica Michelle, 121 Badham, John, 13, 50, 53 Badiou, Alain, 24 e n

Bañados Montalva, Federico Patricio, 110 Barthes, Roland, 50n, 245 en Bataille, Georges, 137 Battaglia del Cile: il colpo di stato, La (La batalla de Chile: La lucha de un pueblo sin armas - Segunda parte: El golpe de estado, P. Guzmán, 1976), 12, 65 Battaglia del Cile: il potere popolare, La (La batalla de Chile: La lucha de un pueblo sin armas - Tercera parte: El poder popular, P. Guzmán, 1979), 12, 65 Battaglia del Cile: l’insurrezione della borghesia, La (La battalla de Chile: La lucha de un pueblo sin armas. Primera parte: La insurreción de la burguesía, P. Guzmán, 1975), 12, 65 Baudrillard, Jean, 255, 256 e n Bazin, André, 81n Béghin, Cyril, 180n, 202n, 232n Belting, Hans, 224n, 235 en 277

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Indice dei nomi e dei film

Benítez, Hermes, 65n Benjamin, Walter, 103n, 114n Besson, Luc, 215 Bingham, Dennis, 185n Bloch-Robin, Marianne, 132n Bloch, Marc, 114n Bois, Yve-Alain, 24n Bolaño Ávalos, Roberto, 12, 13, 35, 162 e n Bongers, Wolfgang, 112 Bonne, Jean-Claude, 24n Bosque de Karadima, El (M. Lira, 2015), 141, 143 Bredekamp, Horst, 27n Caetlin, Benson-Allot, 116n Calabrese, Omar, 107n, 130n Calderón, Guillermo, 142, 184, 202, Canetti, Elias, 80n Canova, Gianni, 28n Careri, Giovanni, 24n Caruth, Cathy, 29n Casetti, Francesco, 25n, 126n, 163n Casimiro, Dominique, 132n Caso Pinochet, Il (Le Cas Pinochet, P. Guzmán, 2001), 66 Caso Spotlight, Il (Spotlight, T. McCarthy, 2015), 141 Castro Gómez, Alfredo Arturo, 46, 94, 150, 171 Cati, Alice, 64n Cavallo, Ascanio, 16n

Cecchi, Dario, 65n Cheshire, Ellen, 182n Chion, Michel, 154n Cofralandes I - Evocaciones y valses (R. Ruiz, 2002), 12 Cofralandes II - Museos y clubes en la región antártica (R. Ruiz, 2002), 12 Cofralandes III - Rapsodia chilena (R. Ruiz, 2002), 12 Cofralandes IV - Rostros y rincones (R. Ruiz, 2002), 12 Colonia (F. Gallenberger, 2015), 141 Commodo imperatore, 245 Corrain, Lucia, 248n, 254n Cox Huneeus, Francisco José, 142 Custen, George F., 183n Cy Twombly [Parker, Edwin Jr.], 245 Damisch, Hubert, 24n Daney, Serge, 87 De Gaetano, Roberto, 25n, 28n, 54 e n, 160n, 195n De Vincenti, Giorgio, 25n Debray, Régis, 118n Del Ninno, Maurizio, 110n Deleuze, Gilles, 22 e n, 24 e n, 33n, 34n, 40 e n, 41 e n, 42n, 69, 70 e n, 72, 73n, 135 e n, 195n, 197n, 210n, 211 e n, 221, 222n, 240n Delgado, Teresa, 100n Demaria, Cristina, 65n Derrida, Jacques, 118n

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Indice dei nomi e dei film

Didi-Huberman, Georges, 84n, 114n Dinoi, Marco, 64n, 114n, 229n Divo. La spettacolare vita di Giulio Andreotti, Il (P. Sorrentino, 2008), 159 Dottorini, Daniele, 24n Duprat, Arnaud, 132n Dylan, Bob [Zimmerman, Robert Allen], 185

102, 142 e n, 155, 156 e n, 157 e n, 195n Francia Boido, Aldo, 11 Freedberg, David, 27n Frei Montalva, Eduardo, 11 Frei Ruiz-Tagle, Eduardo Alfredo Juan Bernardo, 121 Friedman, Milton, 35, 102 Frontisi-Ducroux, Françoise, 220n

Echenique Celis, Cecilia, 110 Eisenman, Stephen F., 168n Eliash, Elisa, 16 Esposito, Roberto, 131, 132n, 145n Euripide, 213

Galbiati, Alessio, 56n, 67n Gallenberger, Florian, 141, 143 Gallese, Vittorio, 51n Ganni, Enrico, 103n, 114n García Bernal, Gael, 184, 207 García Márquez, Gabriel José de la Concordia, 12 e n García, Eugenio, 95 Garroni, Emilio, 27n Gaudreault, André, 185n Gesù Cristo, 172, 235, 248 Ghelardi, Maurizio, 236n, 248n Giglioli, Daniele, 176n Girard, René, 168, 169 e n, 172 e n, 175 Gnecco, Luis Enrique Dessy, 184, 207 Godard, Jean-Luc, 249 e n Gómez-Barris, Macarena, 31n, 121 e n Grease (R. Kleiser, 1978), 55 Guareschi, Massimiliano, 34n Guattari, Félix, 34n 135 e n, 195n, 197n, 222 e n

F for Fake (O. Welles, 1973), 177 Fassin, Didier, 30, 31n Febbre del sabato sera, La (Saturday Night Fever, J. Badham, 1977), 13, 51 Fernández Almendras, Alejandro, 16 Ferrera, Anita, 82n Fincher, David Andrew Leo, 134 Fofi, Goffredo, 21 e n Fontaine, Stéphane, 219 Forch, Juan, 110 Fornari, Giuseppe, 172n Foster, Hal, 244 e n Foucault, Michel, 26 e n, 33n, 39 e n, 40 e n, 41 e n, 45n, 90n, 92 e n,

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Indice dei nomi e dei film

Guerra, Michele, 51n Gutman, Huck, 156n Guzmán Lozanes, Patricio, 11, 12, 18, 19, 64, 65, 66, 67, 81, 116 Hackett, Pat, 244 Hamilton, James, 141 Haynes, Todd, 185 e n Henrichsen, Leonardo, 64 Hirmas, María Eugenia, 108n Hirsch, Marianne, 129n Hitchcock, Alfred Joseph, 159 Hoberek, Andrew, 263n Hollier, Denis, 24n Huacho (A. Fernández, 2009), 16 Huneeus, Carlos, 102n Hutton, Patrick H., 156n

Kaplan, E. Ann, 30n Karadima Fariña, Fernando Salvador Miguel, 141 Kennedy, John Fitzgerald, 14, 18, 26, 216, 226, 238, 245, 255 Kleiser, Randal, 55 Knight, Peter, 263n Krauss, Rosalind, 24n Krock, Arthur, 216 Kurosawa, Akira, 159

Jaar, Alfredo, 18 Jacoviello, Stefano, 130n Jameson, Fredric, 102n, 263 e n JFK - Un caso ancora aperto (JFK, O. Stone, 1991), 225 Jodorowsky Prullansky, Alejandro, 11

LaCapra, Dominick, 30n Larraín Fernández, Hernán, 21 Larraín, Juan de Dios, 180 Lawrence d’Arabia (Lawrence of Arabia, D. Lean, 1962), 191 Le Goff, Jacques, 125 e n, 126 Lean, David, 191 Lee Bouvier Kennedy Onassis, Jacqueline, 14, 15, 20, 34, 221, 226, 231, 236, 244, 251, 265 Lelio, Sebastián, 116 Lepastier, Joachim, 187n Levi, Mica, 258 Lincoln, Abraham, 236, 251 Lira, Matías, 141 Littín Cucumides, Miguel Ernesto, 11, 12, 81, 97 Llueve sobre Santiago (H. Soto, 1975), 12 Loach, Ken, 18 Lyotard, Jean-François, 102

Kantorowicz, Ernst Hartwig, 236n

Machuca (A. Wood, 2004), 16

Iannotta, Daniella, 64n Inzerillo, Andrea, 24n Io confesso (I Confess, A. Hitchcock, 1953), 159 Io non sono qui (I’m Not T h e re , T. H a y n e s , 2007), 185

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Indice dei nomi e dei film

Magli, Patrizia, 224n Malick, Terrence Frederick, 264 Mami te amo, (E. Eliash, 2008), 16 Marco Aurelio imperatore, 245 Marin, Louis, 24n, 28 e n, 29, 109n, 246 e n, 254n Marini-Maio, Nicoletta, 160n Marker, Chris [BoucheVilleneuve, Christian François], 12 Martin, Luther H., 156n Matte Lecaros, Magdalena, 21 Maza, Gonzalo, 16n McCarthy, Thomas Joseph, 141, 143 McLuhan, Herbert Marshall, 97 e n Melville, Herman, 64 Memoria dell’acqua, La (El botón de nácar, P. Guzmán, 2014), 116 Memoria ostinata, La (Cile, la memoria obstinada, P. Guzmán, 1997), 66 Mengoni, Angela, 241n Metz, Christian, 51n Migliore, Tiziana, 220n Mitchell, William John Thomas, 27n Mondzain, Marie-José, 118 e n Monroe, Marilyn [Mortenson, Norma Jeane], 226 Montani, Pietro 26n, 27n, 53n, 120n, 126n, 208n Morin, Edgar, 51n

Moulian, Tomás, 55n Nancy, Jean-Luc, 231 e n Navidad, (S. Lelio, 2009), 16 Neruda, Pablo [Reyes Basoalto, Ricardo Eliécer Neftalí], 12, 15, 20, 87, 116, 179 e n, 181, 182 e n, 189 e n, 198 e n, 202, 209 e n, 226 Nostalgia della luce (Nostalgia de la luz, P. Guzmán, 2010), 116 Nye, Joseph Samuel, 117n Oppenheim, Noah, 215 Orozco, Gisela, 124n Oswald, Lee Harvey, 255 Paley, Julia, 118 e n Panizza, Tiziana, 16 Papa Benedetto XVI, 141n Papa Francesco I, 141n Papillon (F.J. Schnaffer, 1973), 226 Parra, Isabel [Parra Cereceda, Violeta Isabel], 110 Parra, Tita [Parra Cereceda, Cristina Isabel], 110 Pasolini, Pier Paolo, 69, 70 e n, 238 e n Peirano Olate, Pedro Pablo, 96 Pejesapo, El (J.L. Sepúlveda, 2007), 16 Peluchonneau Bustamante, Óscar, 184 Penna, Tati [Penna Brüggemann, Constanza], 110 Perini, Giovanna, 220 Petri, Elio, 159, 160n 281

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Indice dei nomi e dei film

Pianeta delle scimmie, Il (Planet of the Apes, F.J. Schnaffer, 1968), 226 Pinochet Ugarte, Augusto José Ramón, 13, 14, 26, 32, 54, 81, 82 e n, 95, 102 e n, 110, 115, 120, 121, 126, 130, 142, 226 Pinotti, Andrea, 28n, 126n Piñuel Raigada, José Luis, 108n Pirandello, Luigi, 203 Pittet, Daniel, 141n Poe, Edgar Allan, 177 Portman, Natalie [Hershlag, Natalie], 221, 227, 228, 232, 251 Postino, Il (M. Radford, M. Troisi, 1994), 15 Providence (A. Resnais, 1977), 205 Puig Delledonne, Juan Manuel, 90 Radford, Michael, 15 Rancière, Jacques, 24 e n, 120n Rashomon (A. Kurosawa, 1950), 159 Rechtman, Richard, 30, 31n Reed, Lou [Reed, Lewis Allan], 224 Remitente: una carta visual (T. Panizza, 2008), 16 Resnais, Alain, 205 Richard, Nelly, 121 e n Ricœur, Paul, 63, 64n, 185 e n, 186 e n, 207, 208n Riediger, Hellmut, 103n, 114n Ritorno al futuro (Back to

the Future, R. Zemeckis, 1985), 133 Rivas, Sebastián, 123n Rother, Larry [Rohter, William Lawrence Jr.], 123n Ruiz Pino, Raúl, 11, 12, 17 e n, 81, 96, Saitta, Juri, 16n Salcedo, José Manuel, 110 S a l v a d o r A l l e n d e ( P. Guzmán, 2004), 12, 64, 65, 66 San Luca evangelista, 248 Santa Cruz Grau, José Miguel, 20 e n Santa Veronica, 248 Scarlato, Alessio, 160n Scarry, Elaine, 167n Schäfer Schneider, Paul, 142 Schapiro, Meyer, 219, 220n Scherson, Alicia, 16 Schmitt, Carl, 32 Schnaffer, Franklin James, 226, 227 Scorsese, Martin Charles, 72 Sepúlveda Calfucura, Luis, 12 Sepúlveda, José Luis, 16 Serrano Pérez, Marcela, 12 Sesti, Mario, 22n, 175n Silva Irarrázabal, Sebastián, 16 Since (A. Warhol, 1966), 244 Siti, Walter, 137 Skármeta Vranicic, Esteban Antonio, 12, 95, 96

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Indice dei nomi e dei film

e n, 119 Skidmore, Thomas, 108n Smith, Albert Merriman, 216 Social Network, The (D. Fincher, 2010), 134 Solis, René, 19n, 98n Somaini, Antonio, 28n, 126n Sorrentino, Paolo, 160 Soto Soto, Helvio, 11, 12 Stabili, Maria Rosaria, 68n Stiegler, Bernard, 118n Stoichita, Victor, 248n Stone, William Oliver, 226, 244 Tagliani, Giacomo, 160n Taxi Driver (M. Scorsese, 1976), 72 Taylor, Marcus, 33n, 102n Teodoro, José, 191n Tessé, Jean-Philippe, 219n, 227n, 243n Todd Lincoln, Mary, 234 Todo Modo (E. Petri, 1976), 159 Toesca y Ricci, Joaquín, 15 Toffetti, Sergio, 50n Travolta, John Joseph, 49, 52, 53, 55, 73, 90 Triviño, Darío, 191 Troisi, Massimo, 15

Turistas (A. Scherson, 2009), 16 Urrutia Neno, Carolina, 17n, 22n, 42 e n Uva, Christian, 160n Videla, Gabriel Enrique, 14, 116, 209 Villalobos, Daniel, 142 Villarroel Márquez, Mónica, 12n, 112n Violi, Patrizia, 31n, 121n Virilio, Paul, 41n Warburg, Aby Moritz, 236n, 247, 248n Warhol, Andy [Warhola, Andrew Jr.], 244 e n, 245, 264 Welles, George Orson, 177, 212 Winn, Peter, 33n Wood Montt, Andrés, 16 Wood, Grant, 218 Zapruder, Abraham, 213, 225, 244 Zemeckis, Robert, 133 Zuckerberg, Mark Elliot, 136 Zunzunegui, Santos, 25n

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ISBN 978-88-6822-532-2

9 788868 225322

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