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Italian Pages 232 [277] Year 2014
Viaggio in Italia Monografie 12
© 2017 Inprogress srl Consulenza e Servizi per il Territorio via Nazionale, 17 50123 Firenze Tel./Fax 055 2654524 - [email protected] www.askaedizioni.it Progetto editoriale: Aska edizioni VIAGGIO IN ITALIA - MONOGRAFIE Collana diretta da Stefano Beccastrini Redazione: Antonella Chessa Progetto grafico: Mirco Bettazzi, Leonardo Nassini Realizzazione eBook: Leonardo Nassini ISBN 978-88-7542-288-2 Ringraziamenti: Indigo Film, Stefano Martina, Carla Pagani (Ediesse), Pamela Pifferi, Stefania Trenca Referenze fotografiche: Indigo Film, Gianni Fiorito, Archivio fotografico Franco Vigni (pp. 9, 16, 23, 24, 31), Chuck Zlotnick (pp. 154, 166, 174), Pat Redmond (pp. 161, 171) L’Editore è pronto a riconoscere ai legittimi detentori il copyright relativo alle fotografie delle quali non è stato possibile identificare gli aventi diritto. Si ringraziano:
Con il contributo di:
Presentazione di Claudio Carabba
Le acque sono buie e profonde. L’uomo che nuota lentamente, col fucile armato, non riesce a squarciare il buio con la sua torcia subacquea. Ma può vedere i pesci che gli nuotano vicino e il polpo che esce dalla tana, il polpo specialmente… La prima immagine che ricordo del cinema di Sorrentino, è appunto il prologo di L’uomo in più, il debutto che nel 2001 lo lanciò come uno dei nuovi autori (inquieti e importanti) del cinema italiano. Rivisti tutti insieme gli “incipit” dei suoi film hanno la capacità di calarti, immediatamente, nel groviglio narrativo che sta per sciogliersi sullo schermo. Se l’immersione notturna di L’uomo in più è la rivelazione “segreta” di una tragedia e l’annuncio di altri colpi che travolgeranno i due protagonisti della storia (Tony e Antonio Pisapia, uniti dal destino cattivo), in Le conseguenze dell’amore il vuoto sotterraneo dell’aeroporto anticipa il gelo svizzero dell’albergo sul lago, che avvolge l’imperturbabile Titta Di Girolamo, chiuso nei suoi misteri. In L’amico di famiglia, l’ordinata malinconia dell’usuraio di Sabaudia è anticipata con cenni tenebrosi (la sepoltura nella spiaggia nera, la donna tutta sola al terminal degli autobus, la fatica del domatore di cavalli); in Il Divo bastano le parole beffarde sugli avversari incontrati nel corso del tempo (dal medico “infausto” ai nemici politici) che sono tutti morti e il primo piano della testa dolente riempita di spilloni, come nei “supplizianti” di Hellraiser, per farci capire il taglio grottesco eppure a suo modo anche storico-realistico con cui Sorrentino rappresenterà la vita e la lunga carriera di Giulio Andreotti. E, naturalmente, toccherà ancora una volta al suo attore indispensabile, Toni Servillo, incarnare dolorosamente il simbolo dei “peggiori anni della nostra vita” (ma la politica italiana, che niente ci risparmia, altri decenni, forse ancor più brutti e gaglioffi ci ha poi regalato) scanditi da un Potere meschinamente assoluto. Ma attenzione, fuggire, andare in un altrove lontano, non è una scorciatoia verso la felicità. Lo stravolto Cheyenne (Sean Penn) di This Must Be the Place è già sconfitto e immobilizzato quando il film comincia; e il gelo al neon del supermercato diventa lo specchio dell’anima mesta. Il tempo passa via crudele, e spesso noi non ce ne accorgiamo: o comunque,
non ci possiamo far niente. Franco Vigni ha intitolato il suo appassionato saggio La maschera, il potere, la solitudine, sintetizzando bene alcuni spunti capitali di Sorrentino. Il fatto che Vigni nel suo lavoro abbia analizzato, con un’analisi che si spinge sino ai dettagli, tutte le opere, mi permette di perdermi in accostamenti e affinità elettive, più libere, e forse infondate. Ad esempio, di fronte al viso impenetrabile di Titta Di Girolamo (Le conseguenze dell’amore) e al trucco ipercarico di Cheyenne, entrambi immobili, in un caffé o nella luminosa veranda di casa, mi viene in mente una delle poesie più celebri del Novecento italiano, il leggendario «meriggiare pallido e assorto» di Eugenio Montale, con quella sua chiusa che davvero mi sembra giusta per i cavalieri perdenti di Sorrentino: «E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». Il coccio di bottiglia può essere un brutto incidente sul campo di calcio, i grigi giorni spesi a tenere contabilità dei crimini, la perduta voglia di suonare o perfino il fantasma dell’Olocausto; in fondo non importa granché. Ciò che conta è che, a metà del cammino, l’uomo non è più lui («perì di noi gran parte») e difficilmente potrà ritrovarsi, quale voleva. Certo, può arrivare un evento che rimette in moto la macchina: la casta attrazione per una giovane donna in Le conseguenze dell’amore, la morte di un padre mai amato e la rinnovata cognizione di vendette private e scellerati dolori collettivi in This Must Be the Place. Quasi tutti gli eroi (se così si possono definire) di Sorrentino hanno un passato, glorioso o pesante, alle spalle. Solo in L’uomo in più il regista ci fa vedere il momento della caduta del doppio “Pisapia”, il cantante e il calciatore, travolti da eventi straordinari nel momento della gioia apparente. Negli altri racconti tutto è già avvenuto: il “ragionier” Titta Di Girolamo è da lungo tempo al servizio della mafia; Geremia de’ Geremei è sempre stato nella sua vana vita l’usuraio “amico di famiglia”; forse neppure il superbo Andreotti ha potuto scegliere la sua sorte e si commuove, insieme alla fida moglie, ascoltando la musica di Renato Zero, piena di umana nostalgia («tutti vogliono tutto, per poi accorgersi che niente..»). Sorrentino scende nel male di vivere, senza perdersi in astratti giudizi morali. Il titolo del suo unico, scapigliato, romanzo, Hanno tutti ragione, rimanda (non so, se volontariamente) a una fulminante riflessione che Jean Renoir butta là, fra i nobili che aspettano annoiandosi la seconda guerra mondiale, in La regola del gioco: «Il tragico nella vita è che ciascuno ha le sue ragioni». Il che non significa che tutto debba languire o naufragare in una sorta di cinismo
universale. Non per niente poco prima della sublime crudeltà di La regola del gioco, Renoir aveva girato il suo film più oratorio e utopistico, La grande illusione (un capolavoro, sia detto per inciso). Così Sorrentino non condanna e non assolve. Preferisce disegnare la devastata “geografia sentimentale” che soffoca i suoi personaggi: dal caos di Napoli alla calma gelida della Svizzera, dai deserti urbani di Sabaudia a quelli di polvere americani, il mondo può sembrare una botola segreta, una rete priva di smagliature e varchi. Può capitare che ogni tanto qualcuno si svegli: per andare a morire a viso duro come Titta Di Girolamo; o per tentare di vivere meglio come lo sbigottito Cheyenne. Già l’aveva detto in L’uomo in più. Il pareggio non esiste: qualcuno vince, qualcuno perde, ma sarebbe sempre meglio giocarselo, il secondo tempo.
Nota introduttiva
«Faccio film – ha avuto occasione di affermare Sorrentino – perché mi interessano le persone e non c’è nulla che mi diverta nella vita come studiare i comportamenti individuali. [...] Mi piace rovistare nelle zone eccessive dell’inconscio, scoprire legami particolari». Speleologo dell’interiorità ed esploratore dei territori incerti dell’Io, Paolo Sorrentino – nell’arco di appena un decennio in cui si è imposto come uno dei principali autori del cinema nazionale e uno dei maggiori registi italiani contemporanei più apprezzati nel mondo – è andato via via precisando un percorso artistico di spiccata originalità ispirativa e comunicativa, delineato da una precisa architettura di segni, di idee, di motivi, di stile, di atmosfere, di immagini che specificano e ribadiscono l’unità poetica e l’identità autoriale del suo cinema. Un cinema in cui ogni opera si configura come un tassello di un discorso poetico coerente e personalissimo che il regista napoletano ha sviluppato come un itinerario nella coscienza dell’individuo, e che fa emergere una raffinata sensibilità nel sondare la psicologia umana, lasciandone trapelare profondità e misteri, ambiguità e contraddizioni. In sofisticate tessiture narrative, nelle quali si evidenzia la pregnante scrittura, mai casuale, dei dialoghi e l’elaborato e calibrato dipanarsi degli avvenimenti, Sorrentino incastona squarci di vite colte nel momento della perdizione, di esistenze al limite spinte o proiettate verso l’oscura zona di annullamento di se stesse ma delle quali emerge sempre ciò che di più umano esse sanno ancora preservare. I suoi personaggi – calciatori, cantanti, ex broker, usurai, politici, uomini “in più”, “amici di famiglia” sopraffatti dalle “conseguenze dell’amore”, “divi” – sono figure “mascherate” di esclusi o di (auto)reclusi, serrati in un’indolenza, o in un’impotenza, e in una solitudine che li astrae non solo dall’universo esterno ma anche da se stessi. Personaggi che implacabili vortici di tradimenti, subdoli maneggi, infide trame – nella
realtà torbida e fagocitante, malata e putrescente in cui sono calati, mossa da dinamiche perverse di potere, regole spietate, rapporti crudeli e cinici – conducono dalle vette del successo, o della ricchezza o del potere, ai margini di esistenze opache, abrase, incolori, meschine, sapendo tuttavia recuperare e manifestare alla fine quel nucleo di umanità che fa risaltare di essi la loro grandezza. Nella sua continuità, il cinema di Sorrentino testimonia una costante fecondità creativa e una innovativa e originale pratica registica, che procede per accenni, squarci evocativi, frammenti metaforici, accensioni poetiche, aforismi visivi, allusioni ed atmosfere – nell’attitudine a coniugare etica ed estetica – che mirano non tanto a riprodurre il reale bensì a trasfigurarlo, distorcerlo, frammentarlo, allegorizzarlo, ingigantirlo, restituendone così un’immagine traslata ancora più densa e pregnante. È un cinema percorso da una ricerca dello spazio dell’immagine, da un’attenzione forte al linguaggio cinematografico, da una scrittura che si muove sul crinale del grottesco e del surreale, della “rappresentazione” della realtà e della sua trasfigurazione metafisica e visionaria. In racconti che si strutturano per capitoli o “blocchi” narrativi, connotati in modo programmaticamente “ambiguo”, infittiti di tracciati metaforici, di invenzioni simboliche, di supporti tematici, o anche solamente di possibili percorsi interpretativi, Sorrentino delinea la visione di un mondo inattingibile, sapendo provocare positivamente lo spettatore catturandolo nella complessità dei suoi tracciati narrativi, inducendolo alla partecipazione alla vita polisemica del testo, spingendolo alla meditazione e a una ricerca interpretativa personale, favorendo gli strumenti per rendere le proprie opere davvero operanti e feconde, per fare di esse un meccanismo potente e profondamente dialettico di ricerca della verità e di interpretazione del mondo.
1. Tre passi nel grottesco: gli inizi
In principio era la parola. È dalla scrittura, dalla passione e dalla vera e propria «ossessione» per essa che il cinema di Paolo Sorrentino ha origine, traendovi stimoli e nutrimento. Una passione intensa e irrefrenabile, di cui quella successiva per le immagini è una diretta conseguenza e derivazione. Nato a Napoli il 31 maggio 1970 e cresciuto in un ambiente familiare piccolo borghese – il padre bancario, la madre casalinga – nel quale la lettura ha un ruolo affatto marginale («Vengo da una casa priva di libri. In tutto, sopra la mensola, c’erano dodici best seller»1), Sorrentino, dopo la scuola dell’obbligo, si iscrive a un liceo dei salesiani. In quella scuola improntata al rigore e all’austerità nasce la curiosità – quella curiosità destinata ad accendere lo spunto di ogni opera dell’autore e da cui scaturirà il suo intero universo narrativo – verso le persone e verso il lato occulto che in esse sempre si cela: «Non è stata una scuola come le altre – ha successivamente ricordato il regista – Eravamo tutti maschi e il ricordo non è lieto né felice. L’universo femminile, in un’età decisiva per un ragazzo, non esisteva. Però la mia ossessione per ciò che è nascosto e misterioso viene da lì. I preti erano severi. Vivevano al piano di sopra, in un luogo inaccessibile, celato alla vista. Parlavano di loro tutto il giorno. Dove andavano? Cosa facevano davvero quando andavano in ritiro spirituale negli stessi conventi dalle suore di clausura? Cose così»2. Conseguita la maturità, si iscrive alla facoltà di Economia e Commercio della propria città. Ma l’urgenza della scrittura
prorompe e fa irruzione nel corso degli studi, si alterna alla preparazione degli esami, sgorga e si insinua tra gli appunti delle materie economiche: «Studiavo economia e commercio ma avevo il pallino della scrittura. Scrivevo qualsiasi cosa mi venisse in mente: racconti brevi, poesie. Era proprio un’ossessione. Finito di studiare un esame mi mettevo a scrivere»3. Il cinema, Sorrentino, lo scopre da spettatore, intorno ai 18-19 anni, e, all’inizio, l’aspetto della scrittura ad esso inerente, l’interesse per l’apporto sceneggiatoriale appaiono preminenti su quello della realizzazione delle immagini e della creazione vera e propria del testo filmico: «Ho pensato che potesse essere interessante la modalità della scrittura per il cinema. Mi comprai il manuale della sceneggiatura di Moscati, se non ricordo male»4; «ho pensato che il cinema fosse un’attività che richiedeva solo un buon dilettantismo per cominciare, e dunque mi è sembrata una cosa possibile per me […] Mi ero fatto l’idea che il cinema potesse essere il rifugio del dilettante, e che era divertente mettermi alla prova»5. La scoperta e l’interesse verso la nuova forma espressiva coincide con il fermento creativo da cui, in quelle stagioni, il cinema italiano è interessato. Sono gli anni, infatti, in cui nel panorama del cinema nazionale si affaccia alla ribalta una nuova generazione di autori che sembra dar vita a un “giovane”, o comunque “altro e diverso” cinema: un cinema che cerca di disincagliarsi dalle secche espressivo-produttive di gran parte degli anni Ottanta, di levare le ancore e gonfiare le vele lasciandosi alle spalle quel vuoto sconfortante e gli abissi della mediocrità in cui la produzione filmica nazionale era piombata nei lustri precedenti, pur seguendo rotte non definite né tracciate o programmate. In un involucro fatto di reiterazione di modelli consolidati, di uso e abuso del comico, di manieristica poeticità, di “piacevolezza” e di fievole garbo – nell’ambito di quel cinema nazionale da anni diventato ormai lagunare e paludoso, nel quale le isole o gli atolli dell’autorialità rimanevano circondati da vaste sacche di acqua stagnante determinate da una marcata erosione della qualità cinematografica e da uno iato tra le promesse e i risultati, i progetti e le attuazioni – i nuovi e giovani autori tentano, ognuno con modi e pratiche differenti e seguendo ciascuno il proprio personale tragitto, di aprire dei varchi, o quanto meno degli spiragli, delle aperture, attraverso sguardi non stereotipati verso insondati o non sufficientemente scrutati orizzonti tematici, cercando di imporre una nuova autorialità. Va riconsolidandosi in quegli anni un cinema che, pur non traducendosi in un vero e proprio “movimento” dagli intenti unitari e non
configurandosi in nessuna scuola precisa, riprende a muoversi nel segno di una recuperata attenzione alla strutturazione delle storie, dei personaggi e dei dialoghi, di una ritrovata consapevolezza dell’apparato narrativo, ridisegnando un più edificante profilo di sé. Nell’ambito di tale rinnovato vigore, di rigenerata “nouvelle vague”, pur se destinata in qualche caso a ripiegarsi in risacca, si evidenzia quella che (forse impropriamente) appare come la “scuola napoletana”: «All’inizio degli anni novanta, appena si apre l’era Bassolino, a Napoli c’era l’illusione di un periodo molto ricco e pieno di fermento. C’era molta eccitazione, che non so quanto imputare al fatto che avessi vent’anni. Ma forse un reale fermento c’era sul serio. C’era anche una grande facilità a entrare in contatto con le persone. C’era una vita sociale ricca. […] Poi tutto ciò si è un po’ spento. Alcuni se ne sono andati, altri si sono chiusi in casa»6. Sono in particolar modo gli autori di quella “scuola vesuviana” – Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Mario Martone, uniti dalle stesse radici e da uno stesso humus culturale – a fornire a Sorrentino una decisiva spinta propulsiva, a prospettargli un cinema estraneo ai canoni di una rappresentazione naturalistica e una diversa, grottesca e simbolica dimensione narrativa. «Molto dei miei inizi – ha egli stesso successivamente ricordato – è dettato dall’entusiasmo che generò Libera [Corsicato, 1993] perché fu una cosa inedita nel panorama napoletano, anche italiano: l’idea che si potesse fare un film dal minimalismo imperante, che si potesse fare una commedia surreale. Libera mi fece pensare che se ne avevano fatto uno, forse se ne poteva fare un altro. […] Corsicato mi incuriosì molto, Libera fu una ventata di aria fresca, Martone mi piaceva, ma Capuano era un regista a cui guardavo con molta ammirazione, mi piaceva più di tutti. Vito e gli altri (1991) è un film importante, meraviglioso. Anche Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996) è un film bellissimo. Capuano ha, soprattutto nei primi film, il grande respiro della scrittura, che mi interessava molto e mi interessa ancora»7. Sull’onda dell’entusiasmo generato (anche e soprattutto) dai film d’esordio dei tre esponenti del gruppo vesuviano, Sorrentino comincia a scrivere i suoi primi soggetti cinematografici e a girare i primi cortometraggi. Frequentando il Centro Culturale Giovanile di via Rocco Caldieri a Napoli, fa conoscenza con un giovane cineasta, sceneggiatore e direttore di produzione, Maurizio Fiume, con una certa esperienza alle spalle sia in ambito cinematografico che in quello televisivo. È lui a iniziare all’arte cinematografica il giovane e ancora inesperto Sorrentino, portandolo successivamente a Roma – insieme
all’altro «accanito» e «ossessionato» allievo Ivan Cotroneo, il quale si iscriverà al Centro Sperimentale – a fare l’assistente a un film dell’ex Smorfia Enzo Decaro, Ladri di futuro. Dopo l’esperienza romana, Sorrentino decide di tornare a Napoli, riprendendo a studiare e a scrivere. Ma il cinema, ormai, si prospetta come una vera e propria “frenetica passion” che lo induce a interrompere, a pochi esami dalla laurea, gli studi di economia e ad avventurarsi sempre più nel fagocitante mondo del cinema. Ventiquattrenne, scrive e dirige il suo primo lungometraggio, Un paradiso, selezionato e presentato al festival di corti, il Palermo Film Festival, promosso da Ciprì e Maresco, e incentrato, quell’anno, sul tema della morte. «Era un’ideuzza. L’avevo girato insieme a un amico, Stefano Russo. Uno psicanalista in uno studio televisivo diceva: “un uomo, un attimo prima di morire, rivede tutta la sua vita e in particolare il momento più importante”. Stacco sull’uomo, triste, un po’ grigio, che si lancia da un ponte e rivede, in rapidi flash, tutta la sua vita. E il momento era che cantava al karaoke in un pub con i suoi amici»8. Lo stesso anno, Sorrentino collabora come volontario, con l’incarico di «runner automunito», alla realizzazione dell’opera prima di Stefano Incerti, Il verificatore («film [che], produttivamente parlando, era super low budget, anzi quasi no budget, quindi braccia, forze e veicoli erano ben accetti»9). Ha il desiderio di imparare, si muove sul set su cui ha la possibilità di rimanere a lungo con una curiosità commista tuttavia a una certa svagatezza e neghittosità che, a riprese terminate, lo conduce a “smarrire” il girato rischiando di mandare a monte l’intero film. «Lavorare – ha successivamente rievocato Nicola Giuliano, co-fondatore insieme a Francesca Cima della Indigo Film, che proprio sul set del film di Incerti ebbe l’occasione di conoscere Sorrentino con cui stringerà un lungo e ferace sodalizio professionale – era una parola grossa nel suo caso, dal punto di vista della produzione, Paolo era sempre in ritardo. Era evidente che non gli importava nulla di ciò che stava facendo, ma era un modo di avvicinarsi a un set cinematografico. Ma nonostante fosse sempre in ritardo perché o non si svegliava o era nascosto in un bar a bere caffè e a fumare sigarette, ogni tanto aveva anche dei colpi di genio da un punto di vista organizzativo, riuscendo a risolvere anche due o tre situazioni difficili sul set che gli hanno valso la promozione sui titoli di coda del film con il ruolo di ispettore di produzione… una cosa vergognosa! […] Paolo comunque sul set era molto simpatico, molto spiritoso. Anche questo fatto cialtronesco dal punto di vista
lavorativo, perché non era ciò che del cinema gli interessava, lo rendeva simpatico a tutti»10. Proseguendo il proprio apprendistato, l’anno successivo, nel ’95, Sorrentino svolge il ruolo di aiuto regista per Maurizio Fiume per la realizzazione del cortometraggio Drogheria. Ma, soprattutto, dà seguito a quella tensione travolgente e incontenibile per la scrittura che lo pervade, scrivendo una serie di soggetti per cortometraggi, tutti orientati su una linea grottesco-surreale, che sottopone all’attenzione di Nicola Giuliano il quale, pur stimando le qualità di quel giovane dalle idee vulcaniche e dalla scrittura fluida, non le reputa realizzabili. «All’epoca mi premeva soprattutto la scrittura, tant’è che ho fatto il regista, ma, tutto sommato, se mi avessero detto di non fare il regista e di fare lo sceneggiatore a vita, non mi sarei strappato i capelli, mi sarebbe andato bene comunque perché il film si gioca nella sceneggiatura»11. Tra le numerose sceneggiature che sgorgano dalla sua prolifica vena inventiva vi è anche quella di un lungometraggio, Dragoncelli di fuoco, il cui titolo viene in seguito modificato in Napoletani, che, inviata al concorso Solinas, vince nel 1997 il premio ex aequo con altri lavori. In un intreccio palesemente irreale e iperbolico, e in una modalità di costruzione di figure e situazioni che si inscrive nella sfera del grottesco, è narrata la storia di un cuoco napoletano di fama mondiale, Peplo Palatone, che ambisce a vincere il “Grembiule di platino”, sorta di prestigioso concorso gastronomico a cui partecipano i più grandi cuochi del mondo. Per assicurarsi il titolo, e per suggellare la sua fulgida carriera con la proposta di un nuovo e sorprendente piatto, con l’aiuto del fido assistente Fofò organizza nella sua sfarzosa casa una grande cena alla quale invita alcuni dei più temuti critici gastronomici ai quali poter servire il grande piatto: i “dragoncelli di fuoco”, appunto, un’antica pietanza egizia su cui grava una maledizione destinata ad avere i suoi ferali effetti sul cuoco che la cucina. Tra i partecipanti alla cena vi è anche un killer che, spacciatosi per un noto critico gastronomico, assoldato da altri cuochi invidiosi, ha il compito di eliminare Peplo. Oscillando tra la caricatura e il mostruoso, la storia si fa rivelatrice di un’intensa imagerie grottesca, di un allestimento scenico e di una visione del mondo che si rifanno ai moduli del bizzarro e del deforme. Attraverso l’intervento di Giuliano, la sceneggiatura arriva nelle mani di Antonio Capuano il quale, riconoscendo le qualità della scrittura e ravvisando nel registro adottato dal giovane sceneggiatore una consonanza con la propria “cifra” narrativa, decide di dare fiducia a Sorrentino proponendogli di
scrivere insieme a lui la sceneggiatura del suo terzo film, prodotto da Gianni Minervini. Con Polvere di Napoli (1998), che segna il riconoscimento delle qualità di Sorrentino, il futuro regista guadagna i primi soldi nella sua vita: «Con Gianni Minervini facemmo una trattativa. Lui mi disse: “Ti do sette milioni”. E io: “Va bene”. Una trattativa di otto secondi!»12. Ideale prosecuzione nel contemporaneo del desichiano L’oro di Napoli, articolato in cinque episodi di autonoma narratività che ambiscono a dare spessore al “clima” di una città mettendone in rilievo l’“anima”, la sua temperatura vitale, Polvere di Napoli risente dell’apporto di Sorrentino soprattutto per il registro commediale, inedito per Capuano, e per il prevalere di un linguaggio onirico, surreale, eccessivo, tratto distintivo e unificante delle precedenti prove sceneggiatoriali di Sorrentino e su cui si impronteranno, di lì a poco, i suoi due successivi cortometraggi. Il primo dei quali, realizzato nel 1998 attraverso la neonata Indigo Film, si intitola L’amore non ha confini.
Beato Treppiede è un sicario quarantenne che vive sul litorale degradato della provincia napoletana. Rozzo e laido, gradasso e al contempo pavido, possiede una particolare e singolare qualità: ha una forza straordinaria nelle mani. Un giorno viene convocato dal Mahatma, noto boss della malavita napoletana che vive rinchiuso in un bunker circondato da quattro suoi fidi: lo stilista di quartiere Nello Monello, il redivivo fisico nucleare Ettore Majorana (a cui è concesso di parlare solo nei giorni dispari), un sedicente mago, Gino Teppore alias mago Topazio, e la serva-moglie Eva Primadonna. Sospettando che uno di essi l’abbia “tradito” affermando di ritenerlo ingrassato, chiede a Beato di scoprire il responsabile di tale affronto e di giustiziarlo davanti ai propri occhi. Individuato immediatamente il traditore, Beato afferra una lama e la scaglia contro il
mago, trafiggendolo. Avvicinatosi poi al boss che gli è adesso grato, riconosce nella sua donna un proprio vecchio amore, quell’allora ragazzo a cui Beato, da adolescente, era legato da un’intensa quanto impossibile passione amorosa. Ritrovato, adesso in sembianze femminili, l’antico oggetto del desiderio, si sbarazza del boss sferrandogli un poderoso colpo con la mano e si allontana insieme al riscoperto amore di gioventù. «È un lavoro – ha avuto modo di affermare l’autore – che prende ironicamente spunto dalla pittura espressionista tedesca, al fine di decontestualizzarla e calarla prima nell’urbanistica degradata e sconcia della periferia marina di Napoli e poi in un improbabile rifugio-bunker di un criminale che si nutre di Otto Dix, della collaborazione del ritrovato fisico Ettore Majorana, di un mago e di uno stilista dei poveri. Il tutto attraverso il filo conduttore di un sicario distratto, arrogante, pauroso e decisivo quando si tratta di uccidere solo con l’ausilio degli schiaffi»13. In uno spazio squallido e degradato, quello della provincia napoletana, dai toni pasoliniani, Sorrentino situa una vicenda dai contorni grotteschi che si sviluppa attraverso una serie di quadri, siparietti, schizzi, accensioni surreali da cui trapelano le doti di messinscena visionarie del regista. Il quale già da questo breve lavoro si mostra portatore di un’idea di cinema originale, personale e a tratti rivelatrice, capace di giocare al contempo con la più fervida fantasia e con la realtà. È a un realismo grottesco che il regista impronta il suo racconto, in cui la fantasia, esaltata dall’irruzione dell’irriverente, della bizzarria, della insensatezza, anima un carnevalesco mondo in cui si riflette il reale, nella costante definizione di corpi, azioni, comportamenti, gesti, atti in forme esagerate, iperboliche, paradossali. È una dimensione dell’assurdo quella in cui Sorrentino colloca e fa muovere i suoi personaggi, rappresentanti di un mondo apparentemente privo di una referenzialità immediata, surreale ed onirico, non specchio della realtà ma espressione, piuttosto, di una sua trasfigurazione e deformazione. Parte dalla realtà, Sorrentino, per poi alterarla, distorcerla attraverso il filtro del comico e del tragico, della caricatura e del mostruoso, del riso e dell’orrido, non per discostarsene e astrarsene ma per coglierne, al contrario, la vera essenza, liberandosi dalle apparenze fin troppo mostrate e distruggendole, per scoprire il senso ultimo della trasformazione in atto. Parte dalla realtà, quella realtà, di cui non può non risaltare lo squallore, che l’inquadratura iniziale rivela, nella quale l’obiettivo, attraverso un lungo movimento di camera car, coglie in campo medio uno scorcio paesaggistico-
ambientale del litorale napoletano sotto un cielo fosco, con le modeste casupole popolari dai profili geometrici e i deteriorati caseggiati dai muri di cemento che si affacciano sulla spiaggia deserta e desolata, e con alcune barche tirate a riva, intercettando alla fine e arrestandosi sul dettaglio di un provvisorio cartello piantato sulla sabbia su cui campeggia la scritta «Benvenuti a Licola». Il cartello, subito dopo, si inclina e cade all’indietro, lasciando intravedere, in campo lungo, uno dei dimessi fabbricati che campeggiano sullo sfondo. A una porta finestra dalle persiane aperte è affacciata una figura maschile che la macchina da presa, nell’inquadratura successiva, con un raccordo quasi sull’asse, mostra in un piano ravvicinato mettendone subito in evidenza la sgradevolezza, accentuando quei tratti che ne fanno diventare una sorta di grottesca maschera: l’espressione vagamente stolida, il corpo di cui una corta canottiera celeste e le mutande – i soli indumenti che l’uomo ha indosso – fanno risaltare la flaccidità, l’acconciatura bizzarra, con un lungo codino che pende sulla schiena. Beato è, fin dalla sua presentazione, una figura eccessiva, assurda, dirompente. Con l’esaltazione del suo aspetto fisico marcato, con la successiva esplorazione del disadorno e pacchiano ambiente abitato (la camera da letto in cui successivamente, escludendo di campo l’uomo, la macchina da presa si insinua con un movimento in avanti, rivelando il letto su cui è abbandonata una donna – che, di spalle all’uomo, gli ricorda di «cambiarsi le mutande» – sormontato da una mastodontica immagine del Cristo), fa subito irruzione nella struttura narrativa la componente della deformazione, dell’abnorme, presentandosi fin dall’inizio come motivo dominante, lente di ingrandimento attraverso cui osservare una realtà essa stessa deformata, “innaturale”, per meglio coglierne le deviazioni e le alterazioni, per volerla ritrovare poi, attraverso l’iperbole e l’esagerazione, più rivelata. Caricata ed esagerata è la rappresentazione della realtà, come esagerata è la forza che Beato si ritrova nelle mani e che lo rende simile a una sorta di Ercole o, piuttosto, di incredibile Hulk, di figura fumettistica o cartoonesca. L’eccesso della sua forza coincide con l’eccesso e l’esagerazione del personaggio, delle sue azioni o delle situazioni che provoca o nelle quali si ritrova coinvolto, dello stesso spazio umano (o subumano) in cui agisce. In un paesaggio in cui la degradazione si pone come segno distintivo e omologante, come in una sorta di far west (o, piuttosto, di far-sud) dove non ci sono regole e vige solo la legge del più forte, Beato si aggira come un moderno pistolero: lo vediamo imbracciare un fucile e, dal pianerottolo
esterno della casupola, sparare un colpo verso l’orizzonte, al confine tra mare e cielo; lo vediamo più avanti, in strada, estrarre in modo imprevedibile e incongruente due pistole e far esplodere e partire dei colpi verso un pallone tirato in aria. Lo vediamo ancora fermarsi con l’auto davanti a un bar-saloon di periferia, entrare nel locale deserto, avvicinarsi al barista dandogli una leggera pacca su una guancia che, in virtù della poderosa e incontrollata forza di cui Beato è dotato, lo fa sollevare in aria e crollare fragorosamente a terra; come un cowboy, con le sue inseparabili pistole che assumono quasi un valore totemico, si siede a un tavolino davanti a una vasca da pesci vuota, vantando tonitruantemente amicizie influenti e un ruolo di temibile boss, salvo poi assumere un atteggiamento dimesso e servile allo squillo del cellulare attraverso cui viene convocato dal Mahatma. Tutto, nell’icastica messa in scena che Sorrentino allestisce, nell’espressionistico squarcio di napoletaneità ritratto, vira nella modalità del grottesco, tutto è inserito in uno sfrenato gioco farsesco e calato in una dimensione dell’assurdo: gli oggetti, le situazioni, i personaggi. Fumettistiche, come Beato, sono le figure dei “fantastici quattro”, gli improbabili, soggiogati personaggi che compongono la corte di cui il Mahatma si circonda e da cui è riverito; fumettistica è la figura dello stesso boss, il quale vive rinchiuso nel bunker che ha le fattezze di un oscuro antro. Come un’entità divina e soprannaturale da adorare trova presentazione il suo personaggio, apparendo dalla porta del cavernoso rifugio da cui si sparge un intenso e mistico chiarore che contrasta con l’oscurità del bunker e che immerge la sua figura in una luce aureolare, inquadrato frontalmente da un’angolazione dal basso che ne risalta la maestosità, con in mano un guinzaglio a cui sono legati due bimbi i quali, camminando a quattro zampe, ne precedono il lento e solenne incedere. Il Mahtma è, burlescamente, la “grande anima”, la “guida spirituale”, oggetto di venerazione e al contempo soggetto di soggiogazione. È il signore delle tenebre (tetro, rischiarato da una tenue luce, è il rifugio-regno in cui vive), il grande burattinaio che può disporre delle coscienze e dei corpi (in primo luogo quello della figura femminile Eva Primadonna) dei suoi schiavi-marionette. Ma ad esso, al suo potere dispotico (al redivivo fisico nucleare il boss-santone concede di parlare solo nei giorni dispari), Beato saprà opporsi in nome di un ritrovato amore giovanile, di una memoria e di un sentimento riaffiorante che sembra superare – come suggerisce ed emblematizza il titolo del cortometraggio – qualsiasi confine, nel dispiegamento di una favola che si nutre di miti
popolari, di miti che vengono distrutti, rovesciati (il lui amato di un tempo si è tramutato in una lei), in un gioco di ribaltamenti su cui il grottesco si fonda, nella deflagrazione – appunto, grottesca – delle masse corporee, nelle espressioni e nei gesti caricati, nella strutturazione spaziale e scenografica, negli stessi abbigliamenti bizzarri ed eccentrici dei personaggi (la veste simil cardinalizia del Mahatma). Parimenti alla componente caricaturale e parodistica delle figure messe in scena, che allegorizza una realtà onirica e ironica, e alla presenza fisica dei corpi la cui deformazione o trasfigurazione riduce gli stessi personaggi a maschere – elemento che, variamente modulato, caratterizzerà tutto il successivo e più maturo cinema dell’autore – Sorrentino, già in questo suo vero primo elzeviristico componimento che progredisce per accumulazione e contrasti di scene, tipi, ambienti, colori, attribuisce particolare importanza alle scelte di organizzazione spaziale, al materiale scenico e plastico e allo spessore semiotico e simbolico di cui esso è portatore. Come i personaggi, anche lo spazio, esterno o interno, trova una alterazione. Privati della loro identificabilità, i luoghi si impongono nella loro astrattezza, prospettando un senso “metafisico” del paesaggio: l’iniziale desolato scorcio marino, con il grigiore delle costruzioni che si uniforma a quello della spiaggia e del cielo; i fabbricati semidiroccati e abbandonati attraverso cui, tra calcinacci e detriti, tra materassi e rifiuti abbandonati, Beato, nella sequenza successiva, raggiunge la spiaggia dove scorge due ragazzi seduti di spalle sulla sabbia che, suscitando in lui un senso di forte turbamento, sembrano fargli riemergere nella mente lontani e sopiti ricordi. O, ancora, la strada che conduce al bar davanti al quale Beato si arresta con l’auto, costeggiata da due lunghe file di spoglie e scheletriche pensiline la cui prospettiva accentua il gioco di fuga e la metafisicità del paesaggio. Luoghi vuoti, deserti, disabitati, privi di presenze umane e di vitalità. Ad essi fa da controcanto lo spazio chiuso del rifugio-bunker, la tenebrosa spelonca di cui il Mathama ha fatto il proprio regno: spazio, anch’esso, informe, in cui il vuoto si riempie di oggetti più disparati e assurdi: una zucca che troneggia al centro di un tavolo, un mappamondo luminoso che l’obiettivo più volte rivela, una carrozzina che appare come per magia sospinta da una mano invisibile, presenze demistificanti e paradossali di una realtà di cui si mette in evidenza la trasfigurazione. Si tratta di una pratica che già qui contribuisce a determinare quella particolare cifra espressiva propria di Sorrentino, che le successive opere
corroboreranno, consistente nell’utilizzo e nella messa in scena di un campionario di oggetti, talvolta multicolori e multiuso, di qualsiasi natura e di qualunque tipo, che non sono mai meramente “scenografici” ma quasi sempre semioticamente pregnanti, investiti di significati forti, e perciò spinti verso una zona simbolica, fino ad autorizzare l’ipotesi di un duplice livello di lettura, uno letterale e primario, l’altro simbolico-allegorico, fondamento di interpretazioni che talvolta possono anche andare oltre il denotato. In L’amore non ha confini gli oggetti dispiegano una loro espressività burlesca e onirica, colti nel loro aspetto segreto e irrazionale, messi in risalto da un variato gioco luministico che li fa apparire e sparire come presenze fantasmatiche e dall’estrema mobilità della macchina da presa a cui il regista fa ricorso e che conferisce plasticità all’immagine. Su tutti, si impone il motivo del mappamondo, oggetto che, messo più volte in relazione con la figura della donna del Mahatma, la macchina da presa iteratamene intercetta nei suoi continui movimenti, evidenzia in dettagli espressivi che ne portano alla superficie la sua valenza simbolica. Illuminata dal suo interno, presenza stridente in quel microambiente chiuso, buio e impenetrabile, la sfera appare quasi dotata di una propria “anima” che la fa diventare essa stessa personaggio, facendosi tramite del riemergere, in Beato, di una memoria lontana. Tramite il motivo del mappamondo si esplicita e si dispiega infatti la distensione temporale del ricordo – visualizzato in un breve flashback – che riconduce il protagonista agli anni della sua adolescenza, a quell’amore giovanile di un tempo per il suo coetaneo Evaristo, al triste congedo da lui, sulla spiaggia deserta, tra una valigia e, appunto, un mappamondo. Il quale, in un sarcastico gioco citazionistico, come lo slittino del wellesiano “citizen Kane” sembra caricarsi di valenze psicanalitiche. Il mappamondo, per Beato e per il ritrovato Evaristo-Eva, è il richiamo al passato, a una giovinezza lontana, a un desiderio interrotto. Il mappamondo è un’immagine pulsione, riverbero di un tempo preferito ma anche motivo che ingloba il cambiamento, l’annullamento delle regole, l’apertura al futuro, l’affermazione della forza di vita (e delle sue capacità rigenerative) contro le forme, rigide e fossilizzate, del mondo che il grottesco sempre comporta. Sulla sua immagine, quasi un’icona, il surrealistico apologo trova conclusione. Sbarazzatosi del Mahatma, insieme al ritrovato amore di un tempo Beato si avvia di spalle verso l’uscita del bunker. Un movimento di dolly a scendere rivela nuovamente il globo girevole, in dettaglio, sul quale scendono adesso dei rivoli d’acqua (a cui sonoramente si accompagna il
rumore over della pioggia) che ne percorrono e rigano la superficie, nunzio e allegoria di una rinascita e di una rigenerazione (di cui la materia acquea si fa metafora) o, forse, di un definitivo affondamento e annegamento. Celate dietro a quel miniaturizzato universo, le due figure escono nella luminosità del giorno, incamminandosi e inoltrandosi in quel grande carnevale – con i suoi splendori e le sue miserie, le sue meraviglie e le sue mostruosità – che è il mondo. A L’amore non ha confini fa seguito, tre anni dopo, quasi contemporaneamente alla realizzazione del lungometraggio d’esordio, un altro short: prodotto ancora dalla Indigo in collaborazione con il comune di Milano e Tele+, La notte lunga, girato in digitale, fa parte di una tetralogia di cortometraggi (diretti, gli altri, da Alessandro Piva, Gianluca Maria Tavarelli e Felice Farina) sulla tematica della droga, scritti da studenti delle scuole superiori nell’ambito di un intervento di prevenzione sul tema delle sostanze stupefacenti realizzato dal comune di Milano. Dallo spunto di partenza fornito dai ragazzi della seconda classe elettrauto della scuola Amoretti, Sorrentino, allargandolo e trasformandolo, elabora la sceneggiatura. La storia è quella di Manolo, un parrucchiere dedito alla cocaina che lo porta a vivere in una dimensione in bilico tra il sogno e la realtà. È innamorato di Ariel Bachini, una giovane e affascinante star del cinema che a lui, coiffeur delle dive agli Champs Elysées, si è rivolta per un nuovo taglio dei capelli. Per poterla incontrare, si dirige in una discoteca dove l’attrice ha in programma un’esibizione. Dopo essersi recato a casa di uno spacciatore sedicente medium, in cerca di un’altra dose di cocaina di cui è rimasto sprovvisto e di cui avverte l’impellente necessità, riesce ad avvicinarla, in una sorta di “capsula” luminosa dove l’attrice è attorniata da uno stuolo di inservienti-collaboratori e di fotografi. Lì Manolo la conquista, avendo con lei un approccio amoroso che prosegue nella casa della donna. Pur sentendosi attratto dal corpo giovane del suo idolo, non riesce tuttavia ad avere un rapporto con lei, in una scissione tra mente e corpo, tra desiderio e stimolazione fisica. Dolcemente, lei gli pratica un sensuale massaggio nella vasca da bagno. Bruscamente Manolo si sveglia, si desta dall’incubo – come tante altre notti – sul letto del proprio appartamento dall’aspetto dimesso. In piedi, davanti a uno specchio, c’è sua moglie che ha il volto della donna da lui sognata e insieme a lui fa l’estetista nel piccolo negozio in decadimento che ha ormai per clienti solo uno sparuto gruppetto di anziane signore. I due hanno un alterco. Manolo, rimasto solo, sniffa
ancora una dose di cocaina. Sulle note di un brano rock comincia a ballare, inciampando miseramente sul tappeto e cadendo goffamente per terra. Al di là della tematica della tossicodipendenza da cui il lavoro prende spunto, appare evidente come, più dell’intento pedagogico, a Sorrentino interessi giocare sulle diversi dimensioni del reale e dell’onirico e sul loro intreccio, sulle modalità dell’ambiguità, dell’apparenza, dello sdoppiamento, in un continuo andare e venire tra l’incubo e la realtà realizzato mediante un linguaggio frenetico e brusco, fatto di violenti primi piani e dettagli, stacchi improvvisi, calembour linguistici, segni rivelatori (lo scavalcamento di campo nella serie di campi-controcampi con cui è risolto l’incontro tra il protagonista e la diva). Concentrando la storia nell’arco temporale di una “notte lunga”, l’autore imbastisce una vicenda strutturata come un percorso interiore, come tentativo di interiorizzazione di un punto di vista, quello del protagonista, che si muove tra un versante e l’altro. È un cammino introspettivo attraverso i sentieri dell’anima, un itinerario tortuoso e psichedelico – come quello allegorizzato dalle immagini che seguono il percorrimento del personaggio del colorato corridoio della discoteca e l’attraversamento della pista da ballo tra la massa dei corpi che si contorcono al ritmo della musica techno – verso il profondo che attraversa il conscio e l’inconscio e che scardina gli equilibri interiori. Tra due risvegli, e tra due sniffate di cocaina, si incastona la vicenda che, in un accentuato dinamismo della macchina da presa e in una messa in scena fantasmagorica, trova dispiegamento nel territorio rarefatto del sogno e della trasfigurazione della realtà, i cui elementi, appunto, sono trasposti in una dimensione fantastico-onirica: la diva del cinema dai capelli a caschetto arancioni, e la corte di impresari, fotografi, giovani ragazze, valletti e figure servili da cui la donna è circondata; la navicella lucente e cellophanata in cui ella, come una dea, è venerata; l’ingresso di Manolo in quella sorta di olimpo e il suo riuscito tentativo di ritagliarsi il suo momento di intimità con lei; l’abbandono amoroso e la defaillance erotica causata dall’assunzione della droga che, nel dispiegamento della storia, diviene anche occasione di una digressione dai risvolti umoristici e grotteschi: quelli che impregnano la parentesi narrativa del pusher-finto medium alle prese con una seduta spiritica, cercando di mettersi in “contatto” con il marito defunto di un’anziana baronessa interessata a conoscere il nascondiglio del denaro appartenuto allo scomparso consorte, del quale il medium riesce a “dare voce” in una pratica truffaldina che l’improvvisa irruzione di Manolo
nell’appartamento porta inopportunamente allo svelamento. Così come allo svelamento della dimensione del sogno, o dell’incubo, conduce al termine il risveglio del protagonista, nell’evidenziazione della distorsione e del tempo fusionale dell’onirismo, provocati dall’esperienza allucinogena e dalla dipendenza dalla droga in cui egli ha finito per incanalare la propria vita. Una vita ambigua, dalle febbrili rifrangenze, in cui è sempre in agguato il momento della caduta: fisica e reale, come quella di Manolo nelle immagini conclusive, o professionale ed esistenziale, come quella di tutti i protagonisti dei film a venire di Sorrentino. Tra i due cortometraggi, nell’arco temporale di un triennio, Sorrentino prosegue la pratica sceneggiatoriale. Chiamato da Umberto Contarello – in un’esperienza e in una collaborazione che per Sorrentino si rivela assai preziosa14 – scrive la sceneggiatura di un film, La voce dell’amore, ambientato nel mondo della musica napoletana, di cui Michele Placido è chiamato a firmare la regia, ma che tuttavia non giungerà mai a realizzazione. Per la televisione, in un lavoro d’equipe, collabora con Rai Fiction scrivendo i primi dieci episodi della prima serie poliziesca, ambientata a Napoli, di La squadra. Mentre è impegnato nel lavoro sceneggiatoriale per le puntate della fiction televisiva, la Indigo Film riesce a trovare i finanziamenti necessari per la realizzazione di un progetto che Sorrentino già da tempo aveva fatto leggere a Nicola Giuliano. Il regista abbandona così il lavoro per La squadra per l’approntamento del suo primo lungometraggio.
1 P. Sorrentino, Paolo Sorrentino/La scena del potere, incontro con Dario Zonta, in Emiliano Morreale, Dario Zonta (a cura di), Cinema vivo. Quindici registi a confronto, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009, p. 220. 2 P. Sorrentino, Alla ricerca del sogno, intervista a cura di Malcom Pagani, in «MicroMega», n. 6, 2011, pp. 34-35. 3 P. Sorrentino, in Cinema vivo, cit., p. 212. 4 Ibid. 5 P. Sorrentino, Paolo Sorrentino: il cinema, il divertimento, l’ossessione, intervista a cura di Piero Spila e Bruno Torri, in «Cinecritica», n. 56, ottobre-dicembre 2009, p. 7. 6 P. Sorrentino, in Cinema vivo. Quindici registi a confronto, cit., p. 220. 7 P. Sorrentino, Conversazione con Paolo Sorrentino, intervista a cura di Domenico Monetti e Luca Pallanch, in Pierpaolo De Sanctis, Domenico Monetti, Luca Pallanch (a cura di), Divi & antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Laboratorio Gutenberg, Roma, 2010, p. 143. 8 Ibid. 9 Nicola Giuliano, Conversazione con Francesca Cima e Nicola Giuliano, intervista a cura di D.
Monetti e L. Pallanch, in Divi & antidivi, cit., p. 159. 10 Ivi, p. 160. 11 P. Sorrentino, in Divi & antidivi, cit., p. 144. 12 Ibid. 13 P. Sorrentino, in Luisa Ceretto, Roberto Chiesi (a cura di), Una distanza estranea. Il cinema di Emanale Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, Edizioni di Cineforum, Torre Bordone, 2006, p. 65. 14 «Contarello, essendo uno sceneggiatore molto scafato, mi ha insegnato molto sulle regole, sui trucchi, cose che i manuali non ti possono spiegare perché la sceneggiatura si impara facendola, non si impara con una specie di decalogo. Contarello mi ha insegnato moltissimo sui trucchi, anche su come mettere a fuoco una specie di mondo, per usare una brutta parola, poetico. Io prima avevo le idee vaghe, lui mi ha insegnato in questo senso». P. Sorrentino, in Divi & antidivi, cit., p. 152.
2. La doppia vita di Antonio: L’uomo in più
«Un giorno – ha ricordato Nicola Giuliano - «[Sorrentino] scrisse questo trattamento dal titolo Il diluvio di mattina presto, lungo 25 pagine, che raccontava la storia di un cantante e di un calciatore… ed era meraviglioso. Era il germe iniziale de L’uomo in più. Una volta letto, bisognava assolutamente farlo»1. La (duplice) storia di L’uomo in più nasce dagli interessi nutriti da Sorrentino verso due differenti ma in qualche modo complementari ambiti, quello sportivo e quello canoro: «erano due universi paralleli che mi affascinavano: il calcio e la canzone italiana. Avevo la passione per il calcio, come tanti italiani. Il punto di partenza era reale, c’era un calciatore della Roma, negli anni Ottanta, che si chiamava Di Bartolomei, che smise di giocare e poi si suicidò. Mi colpì, era un fatto insolito; effettuando delle ricerche, mi sono reso conto che il suicidio era molto raro nell’ambito degli sportivi professionisti. [...] Tutte le volte che lo sentivo parlare, mi sembrava un calciatore così atipico, cioè una persona silenziosa, triste, lontana dall’immagine corrente del campione. Senza dubbio, le analogie con il mio personaggio sono forti: la fine tragica…». Se il personaggio del calciatore è modellato sulle vicende dello sfortunato giocatore della Roma (ma anche sullo spregiudicato modulo calcistico che
l’ex allenatore della squadra del Cittadella Ezio Glerean aveva elaborato negli anni ’90 mutuandolo dagli olandesi dell’Ajax), il personaggio del cantante trova la sua ispirazione a più protagonisti del panorama della musica leggera italiana degli anni Sessanta e Settanta: «i vari Bongusto, Califano. Non è una questione di qualità musicale, ma di interesse per gli uomini, le vite private. […] Il mondo della canzone non mi appassionava molto sul piano musicale, che trovavo discutibile, ma a causa dei personaggi di questo ambiente. Esiste tutta una categoria di cantanti italiani, con delle vite molto strane, delle vite da star nonostante non lo siano veramente. […] Nelle intenzioni il mio cantante è un mix di tutta una serie di cantanti, un omaggio ai vari Peppino Di Capri, Bongusto, Peppino Gagliardi, lo stesso Califano. […] Ho preso quello che mi piaceva di tanti cantanti e tante cose me le sono inventate. Ciò che mi intrigava era l’idea di persone che facevano innamorare le coppie, che riscattavano la vita del pubblico negli anni ’60 e ’70. Ora la fruizione della musica è più nevrotica, non ci si innamora con le parole di una canzone. E mi piaceva raccontare il declino di quel mondo in fondo ancora romantico, che coincide con l’inizio degli anni ’80, gli anni della mia adolescenza. Il declino privato di personaggi pubblici mi affascina. Mi piacciono i film che raccontano le discese anziché le ascese. Come C’era una volta in America. Attorno a Tony e Antonio si creano delle gabbie da cui è difficile uscire. Nel Viaggio al termine della notte Céline dice di un personaggio che “aveva delle pene superiori al suo livello di istruzione”. Di lì, in fondo, è discesa tutta la sceneggiatura. Una frase illuminante per due personaggi che si trovano di fronte a una serie di problemi superiori alle loro capacità di elaborarli. Quella è veramente una frase importante per raccontare tutto il film. […] Ho dunque scelto questa storia di due universi paralleli. Fare confluire due storie, che avrebbero potuto essere due film, in uno solo. […] Il film si basava sull’idea dell’omonimia, del caso che può decidere una vita, e questa idea era declinata in due storie diverse. Certamente, però, era presente anche una forma di paura. Adesso dico una cosa che può sembrare una battuta, ma non lo è: la mia paura era che potessi fare quel primo film e mai un secondo, e allora dato che avevo la possibilità di raccontare due storie ne ho approfittato»2. Dal primo trattamento della storia, che suscita gli entusiasmi di Giuliano, trova sviluppo la sceneggiatura che conoscerà ben otto stesure ed elaborazioni, la prima delle quali vince nuovamente il premio Solinas, mentre la seconda ottiene il contributo statale (anche se il film avrà la partecipazione finanziaria di Mediaset). Di stesura in stesura, in un seguito di «lunghe
nottate trascorse a casa di Paolo – ha rievocato ancora Giuliano – a discutere scena per scena, battuta per battuta»3, lo script prende forma come work in progress, si definiscono il gioco di incastri e i parallelismi tra i due personaggi, fino all’inserimento, nell’ultima versione, degli episodi onirici del cantante che chiudono idealmente l’incipit sottomarino. Nel lungo periodo della progettazione («È passato tanto tempo tra la prima stesura e le riprese anche perché è stato il primo film non solo per Paolo, ma anche per noi come produzione. Non è stato facile. Ci è voluto tempo»4), si pensa anche alla scelta degli attori. Scelta che cade su Toni Servillo (con cui Sorrentino inizia il suo lungo sodalizio artistico) per il personaggio del cantante, e Andrea Renzi per quello del calciatore: «[…] durante la stesura della sceneggiatura, ho sempre pensato a Toni Servillo, che ritengo sia uno dei pochissimi attori italiani capaci di unire un grande senso della misura ad una potenza espressiva innegabile. È uno di quei pochi attori capaci di appropriarsi dello “spazio”. Le difficoltà del personaggio del calciatore erano in direzione opposta. La necessità espressiva seconda la quale Andrea Renzi doveva “subire” la macchina da presa, e allo stesso tempo mettere in scena un personaggio timido, in qualche modo “fisso”, che ripiega tutte le sue delusioni e le sue amarezze sempre e solo su se stesso, possedeva in sé il rischio di un personaggio immobile e annullato. Penso che la grande capacità di Andrea sia stata quella di riuscire a vivacizzare il personaggio all’interno di una griglia molto rigida. La sua idea, ad esempio, di ricorrere ad un accento umbro è stata senza dubbio un’idea felice: perché, a dispetto della cadenza umbra, è emersa sempre più una figura tenera, malinconica, involontariamente divertente che, per il tipo di rapporti che instaura nel corso del racconto, ne fa una persona indifesa alla quale ci si affeziona senza riserve». Ultimato il cast e con una troupe di assoluti professionisti, Sorrentino, nel 2000, dà inizio alle riprese che si protraggono per nove settimane, in una Napoli priva di una riconoscibilità immediata e di ogni aura fascinosa («si è girato a Napoli per comodità, ma si poteva fare pure a Genova. Bastava una città di mare per via del legame forte che aveva il cantante con i frutti di mare che per me sono una quintessenza del vitalismo»5), fatta di pochi scorci allungati e molti “interni con figure”. Pressoché in contemporanea alla sua presentazione alla Mostra veneziana, il film, nel settembre 2001, approda nelle sale, scontando in non scarsa misura, a livello distributivo, la scomparsa prematura – avvenuta cinque mesi prima – del coproduttore e distributore
della Lucky Film Kermit Smith. 1980. Negli spogliatoi di uno stadio, durante l’intervallo di una partita di calcio, l’allenatore di una squadra che milita nella massima serie inveisce rabbiosamente contro i giocatori, insultandoli per la loro scarsa resa. Il capitano della squadra, il difensore Antonio Pisapia, propone un nuovo modulo di gioco: tutti devono partecipare all’azione di attacco. L’allenatore gli si rivolge furiosamente. Rientrato in campo, Antonio realizza uno spettacolare goal in mezza rovesciata, il goal della sua vita, che permette alla squadra di piazzarsi in classifica in una posizione valida per la coppa Uefa. Divenuto immediatamente un beniamino dei tifosi, e ricevute le congratulazioni del presidente (oltre che del suo vecchio allenatore, il Molosso, con cui egli continua ad avere un rapporto di stima e di confidenza), Antonio, che non è più un ragazzino, pensa già al proprio futuro come allenatore. Nel frattempo il suo omonimo Antonio (in arte Tony) Pisapia, cantante melodico di successo, tiene un concerto davanti ai suoi numerosi fans. All’apice della notorietà, in testa alle classifiche con il suo hit «La notte», Tony, attorniato da una specie di corte, conduce una vita sregolata fatta di donne, cocaina e cene di pesce nei più rinomati ristoranti. Passa da un locale all’altro, da un’avventura all’altra, mostrando disinteresse e indifferenza nei confronti sia della futile e vacua moglie che della figlia studentessa a Londra. Terminato il concerto, forse il più bello ed entusiasmante della sua carriera, Tony decide di festeggiarlo a modo suo in un locale dove, tra un ballo e una sniffata, si lascia sedurre da una giovane ragazza. Dopo averla condotta nel proprio loft arredato sfarzosamente, durante l’amplesso con la giovane, che si rivela minorenne, viene sorpreso dalla moglie e dall’anziana e acida madre (che non gli ha mai perdonato la morte del fratello – dalla quale egli continua a essere ossessionato – durante una battuta di pesca subacquea) da cui viene denunciato con l’accusa di stupro. L’arresto è inevitabile. Quasi contemporaneamente, anche la carriera sportiva dell’altro Pisapia viene bruscamente interrotta allorché Antonio, dopo essersi rifiutato di truccare un incontro per un giro sporco di scommesse che un suo compagno in tutta normalità gli propone, subisce in allenamento un grave infortunio che lo costringe al ritiro dall’attività agonistica. Trascorrono quattro anni. Sia Antonio che Tony, dopo gli eventi da cui sono stati entrambi travolti e che hanno radicalmente inciso sulla loro notorietà e sulle loro stesse vite divenute adesso marginali, si ritrovano alle prese di
dover risalire la china e ricominciare daccapo la carriera. Antonio, frequentato e terminato il corso per tecnici dove è risultato tra i più bravi, ha continuato a elaborare il rivoluzionario modulo tattico, del quale discute spesso con il suo ex allenatore, basato su un ipotetico “uomo in più” in attacco. La sua vecchia squadra, nonostante le continue rassicurazioni del presidente, non l’ha però ancora richiamato, e vane risultano le iterate richieste che egli rivolge alla società le cui promesse restano vaghe, rinviate di continuo alla stagione successiva. Dedica il suo tempo a perfezionare il suo innovativo schema di gioco che sempre più diviene, per lui, una vera e propria ossessione, non avvedendosi dell’inesorabile naufragio a cui va incontro la propria esistenza. La situazione economica, dato che egli non accetta di svolgere altri lavori, si fa precaria, il matrimonio si disgrega. La moglie, esasperata dalla sua ossessione, ben presto lo lascia. Anche Tony, abbandonato dalla moglie, è rimasto solo, anch’egli si ritrova a fare i conti con un’esistenza che va vieppiù sfilacciandosi. È stato assolto al processo, ma la sua carriera ne ha pagato comunque le conseguenze. Il successo e la popolarità non sono ormai che un ricordo. Non è più chiamato a esibirsi in concerti. L’unico ingaggio che riesce ad ottenere da Genny, il suo manager, è per un’umiliante esibizione nella piazza di un paesino in Abruzzo, alla presenza di pochi e distratti spettatori. Della vita di una volta non sono rimasti altro che l’uso della cocaina e la passione di cucinare il pesce in maniera sublime, appresa in tempi passati quando era stato in carcere per spaccio di stupefacenti. Per non umiliarsi ulteriormente rifiuta la proposta di una lunga tournée in crociera che a fatica è riuscito a procacciargli il suo manager il quale, sdegnato, minaccia di troncare per sempre i rapporti con lui. Orgoglioso, Tony decide di chiudere con i concerti e di rinunciare a cantare. L’apatia da cui si lascia avvolgere lo induce a non andare neppure al funerale del padre. Durante un pranzo in riva al mare con la figlia, con la quale ha un rapporto difficile, combina con l’amico che gestisce il ristorante, il quale si vuole ritirare, di rilevarne il locale. Per procurarsi i soldi per i primi pagamenti svende la propria fuoriserie, ma anche tale progetto è destinato a naufragare a seguito dell’ingerenza della malavita a cui l’amico è indotto a vendere il locale. Pur con riluttanza, Tony si vede costretto a chiamare il suo manager e rendersi disponibile per l’incarico che aveva in precedenza rifiutato, ma anche quell’opportunità è ormai svanita e la richiesta si risolve in un ennesimo scacco. Trovare riscatto diventa sempre più difficile. Per Tony come per Antonio, il
quale, preso dalle proprie teorie calcistiche, riesce ad applicarle, seppure con successo, solo nel calcetto a cinque. La squadra che dovrebbe assumerlo e da cui non ha avuto più notizie è in zona retrocessione e, alla sua guida, viene richiamato il vecchio allenatore amico di Antonio, più reclamato dalla piazza che desiderato dal presidente. È lui, il Molosso, a riferirgli che, nell’accettare l’incarico, lo ha imposto alla società come secondo per la prossima stagione, ma Antonio intuisce la vanità della promessa. In preda a un senso di frustrazione, sempre più segregato nella propria malinconia e nella propria fissazione, non dà seguito neanche alla storia con una signora del bel mondo, attratta dalla sua sensibilità introversa (la lascerà sola, sulla banchina del porto, la mattina della progettata partenza per una vacanza a Capri, ad aspettare il traghetto che mai nessuno dei due prenderà). Il sogno di allenare la sua vecchia squadra si infrange definitivamente quando il presidente, a cui Antonio direttamente si rivolge, gli confessa che per lui non ci sarà mai posto. Un giorno, casualmente, Tony e Antonio si incontrano, si sfiorano in un mercatino, si osservano in silenzio. La sera, Tony vede in televisione Antonio che, nello stesso programma di confessioni pubbliche a cui egli è stato invitato per una puntata della settimana successiva, racconta con amarezza le proprie disavventure, confessa il proprio fallimento, parla di chi gli ha precluso la carriera di allenatore. Ottenuto perentoriamente dalla redazione del programma il numero telefonico di Antonio, Tony prova più volte a chiamarlo, ma il telefono, nel suo appartamento, squilla a vuoto: Antonio, preso un taxi, va all’aeroporto e lì, in un campetto da calcio, si spara. Dal canto suo, Tony (che si è rasato i capelli a causa di un piccolo intervento chirurgico), appresa la notizia al radiogiornale, dopo il funerale di Antonio al quale, lontano da tutti, assiste, decide di fargli giustizia: va dal presidente e lo pugnala. Poi si reca nello studio per partecipare al programma televisivo, ricorda la sua vita, ricorda gli episodi del passato, ricorda anche Antonio. L’indomani, all’alba, vaga nella zona del porto. Quando si accorge di essere inseguito dalla polizia, tenta la fuga in una barca a remi, arriva al largo e si tuffa in mare. Si ritrova in una cella attorno a una tavola imbandita del pesce che ha cucinato per i suoi compagni carcerati. Il buio della profondità marina squarciato dalle luci violente di tre sub, armati di fiocine, intenti in una battuta di pesca notturna; i loro corpi volteggiano nell’oscurità, scendono verso il fondo marino; scagliate dai fucili subacquei le punte uncinate dei dardi si conficcano mortalmente nei corpi delle prede; il
fascio luminoso di una torcia intercetta una piovra che si ritrae sul fondale scoglioso; un sub la afferra con le mani, la piovra reagisce, si dibatte, nella colluttazione l’uomo perde il boccaglio, annaspa: la sua torcia affonda nell’abisso, divenendo un punto luminoso che via via si affievolisce e si disperde. Come un’epigrafe, l’incipit – corpo narrativo apparentemente a se stante, autonomo, destinato tuttavia a trovare nella struttura diegetica dell’opera riecheggiamenti, fraseggi, riprese che ne chiariscono l’iniziale enigmaticità – enuclea l’assunto attorno al quale L’uomo in più si costruisce, racchiuso nella stessa citazione, una frase di Pelé, che Sorrentino appone all’inizio del film: «il pareggio non esiste». Non esiste, almeno, nella vita, dove l’individuo, prodotto di un mondo senza pietà, è sottoposto a una dura lotta per la sopravvivenza, come una forza centrifuga dalla quale non è dato sottrarsi: o si prevale o si soccombe, ci si libra verso il successo e l’affermazione di sé o si precipita rovinosamente al suolo, si emerge o ci si inabissa. La sequenza iniziale, che precede gli stessi titoli di testa, sembra così riassumere tutto ciò che avverrà nel corso del film e anticipare l’inevitabile gioco di conflitti in cui si ritrovano a dibattersi i due protagonisti. Dei quali la storia narra le parallele vicende e i differenti destini, lungo un percorso fatto di situazioni e vicissitudini speculari, nei meandri dell’inquietudine e dell’afflizione, ma anche negli interstizi della reazione e nell’evoluzione di fronte a eventi che fanno coincidere la diversità. Il motivo che balza subito agli occhi, e nel cui alveo Sorrentino incanala la duplice vicenda nella quale la struttura narrativa si articola, è quello del doppio, motivo che alla narratività, come è noto, è assai caro, e a cui sia la letteratura che il cinema hanno assai sovente fatto ricorso, in storie di eventi e personaggi che, come in uno specchio, si raddoppiano e si intersecano in una realtà proteiforme dove ritrovare la propria identità. Ricorrendo a tale espediente, dietro le dichiarate suggestioni esercitate dalle opere di Kieslowski e Antonioni6, l’autore sa imprimere ad esso nuovi scarti, inedite variazioni, seducenti sfumature, nella elaborazione di una trama dei destini incrociati e delle vite parallele che, inconsapevoli l’una dell’altra, vivono similari eventi e sembrano ricongiungersi mediante un filo invisibile. Attraverso i due protagonisti Sorrentino dà vita a due figure emblematiche della condizione di specularità e duplicità. Come la figura mitologica di Giano, Antonio Pisapia è un ibrido bifronte, figura convergente e divergente, dalle facce contrapposte, in una forma di enantiomorfismo in cui ognuna
delle due immagini è speculare dall’altra, ne riflette i tratti ma li rovescia. Hanno in comune nome e cognome, i due protagonisti, e persino il giorno e il mese di nascita, il 15 agosto (ma non l’anno e il luogo: nel 1934, a Napoli, il cantante, nel 1949, a Narni Scalo, il calciatore), e una vita condotta nella stessa città. Sono omonimi, godono di notorietà e successo in due mondi professionali differenti ma paralleli che rappresentano le due anime popolari della cultura italiana. Se l’uno si esibisce sui palchi delle sale da concerto e dei night, la sera, davanti a un microfono e a una platea di ammiratori, l’altro, con il pallone, scatena la domenica sul terreno di gioco l’esaltazione dei tifosi. Canore o atletiche, le loro doti hanno loro permesso di accedere a una mobilità ascensionale in un ambito, quello dell’intrattenimento spettacolare, in cui si riflettono e sono concentrate al massimo grado le dinamiche sociali improntate alla competizione, al conflitto, alla sopraffazione, a logiche e a rapporti di potere (incarnato o rappresentato dall’allenatore della squadra e dal presidente della società nel caso di Antonio, dal manager e dall’industria discografica nel caso di Tony). Del calcio o della canzonetta, i microcosmi ai quali i due protagonisti appartengono si muovono in una simile traiettoria orbitale, gravitando attorno a uno stesso nucleo composto di imprenditori, procuratori, personaggi cinici e senza scrupoli: un universo sostanzialmente volgare, avido, fagocitante, nel quale imperano il tradimento, la corruzione, gli interessi, specchio di una degenerazione morale ed etica (nonché estetica) che proprio negli anni Ottanta, nei quali Sorrentino non casualmente situa la duplice vicenda, sembra dilagare e imporsi come perverso modello comportamentale, causa e al contempo effetto di una mutazione antropologica da cui il sistema sociale italiano, in quelle stagioni, va subendo una vieppiù marcata deformazione e aberrazione. Sono gli anni del cinismo ammorbante, della rapacità allignante, del rampantismo arrembante, nei quali i rapporti di forza divengono dominanti e spietati: o si vince o si perde, in quella partita che è poi la vita in cui il pareggio non è contemplato. Sono gli anni nei quali alla moralità in via di disgregazione fa da contrappunto un moralismo ancora ben solido e compatto. Sono gli anni nei quali esteticamente regna la grossolanità e la pacchianeria: «visivamente – ha chiosato Sorrentino – l’immagine che si ha di quel periodo è quella di anni all’insegna del cattivo gusto. Quando si vedono fotografie dell’epoca si rimane impressionati dalla bruttezza delle pettinature, degli abiti, della scelta assurda degli accoppiamenti dei colori. Insomma il trionfo del kitsch»7. Di quegli anni, dell’horror vacui che li caratterizza, i due protagonisti sono il
riflesso. Arricchitisi in fretta calcando le scene o i campi da calcio, essi si affacciano ai vulgar eighties proiettati nell’effimero e fugace limbo della notorietà. Sono entrambi all’apice del successo, entrambi sembrano vivere agiatamente nei sobborghi prestigiosi di Napoli in ville spaziose con viste mozzafiato sul mare, in un lusso esibito un po’ kitsch da nuovi ricchi, in un’opulenza che si manifesta sia attraverso l’arredamento (gli svariati divani, poltrone, lampade, sedie, sgabelli, tavoli, piante, acquari che ingombrano le stanze, tra suppellettili, soprammobili, orpelli vari che fanno mostra di sé) che attraverso il cibo (la sovrabbondanza di pietanze di cui la tavola di Tony è imbandita, da lui approntate per cercare di ottenere la benevolenza del suo impresario e riuscire ad avere un nuovo ingaggio dopo lo scandalo che l’ha travolto). Espressione di uno stesso status sociale, connotato da un apparente e illusorio benessere, che li accomuna, Antonio e Tony hanno però caratteri differenti, indoli opposte. Antonio è un introverso, un timido, perciò ha deciso di giocare in difesa: «I timidi – racconterà al conduttore del programma televisivo al quale è stato invitato come ospite, parlando di sé e della sua vita – decidono di fare i difensori, si nascondono dietro gli attaccanti, passano più inosservati, questo fino a quando c’è stata la marcatura a uomo, ma da quando è stato introdotto il calcio a zona, bisogna farsi vedere, io questo non l’ho mai saputo fare». Si “fa vedere” per una volta, Antonio, realizzando il goal spettacolare in mezza rovesciata, il goal che, come gli ricorda il suo ex allenatore Molosso esortandolo a dissipare quella sua perenne cupezza e a godersi quel momento di celebrità, «si fa una sola volta nella vita». Ma, come tutti i timidi, Antonio non ama stare sotto i riflettori, cerca di schivare gli sguardi che la sua vincente piroetta calcistica ha fatto improvvisamente accentrare su di lui, come quelli insistenti dei due tifosi della sua squadra che, per strada, nell’oscurità della sera, fermatisi su uno scooter a uno stop a fianco dell’auto di Antonio e riconosciuto il loro beniamino, gli lanciano attraverso il finestrino. Umile e riservato, si sottrae alle luci della ribalta, si rintana nell’ombra e nell’oscurità (quella della sera in cui avviene il citato incontro con i due tifosi, quella che permea gli ambienti della sua villa sulla collina di Posillipo da cui si domina la vista sul golfo e sulla città, quella in cui sovente scivola la macchina da presa seguendo la sua figura). Più che al presente egli guarda al futuro, nel quale proietta e focalizza gli slanci e gli impeti, l’autentica aspirazione e l’intenso desiderio da cui è animato: entrare nel settore tecnico della società sportiva, diventare l’allenatore della sua
squadra, elaborare le sue ardite e offensivistiche teorie tattiche: gioco a zona, difesa alta, tattica del fuori gioco e pressing avanzato, con quattro punte che si muovono in verticale, a rombo. È la strategia dell’“uomo in più”, del giocatore che fa la differenza, crea le intese, predispone i fraseggi, segna la supremazia del collettivo. L’“uomo in più”, nel modulo di gioco di Antonio, si adopera al coinvolgimento degli altri giocatori, favorisce il coronamento dell’unità di squadra, la formazione dello spirito di corpo: una teoria innovativa che tuttavia, in un ambiente in cui prevalgono gli egoismi, i personalismi, la prevaricazione, l’inaffidabilità, non può trovare rispondenza e attuabilità.
Sguaiato e triviale è l’allenatore della squadra che, nella sequenza iniziale, inveisce con veemenza contro i suoi stessi giocatori per la loro scarsa prestazione sul terreno di gioco: toltosi la giacca e scagliatala con impeto verso il muro dello spogliatoio, sbraita nei loro confronti, li insulta, mortifica la loro dignità. Solo Antonio, a fronte del mutismo dei propri compagni che, seduti sulle panche, subiscono le ingiurie senza accennare la benché minima reazione, si rivolge all’inferocito mastino suggerendogli il nuovo schema tattico che già va elaborando nella sua mente, prima di alzarsi e, dandogli le spalle senza curarsi delle sue irriguardose parole, avviarsi verso il corridoio che porta al campo da gioco. Meschini, pavidi o corrotti sono gli altri giocatori, i compagni di quella squadra per la quale Antonio idealisticamente cerca di mettere a punto e in pratica le proprie teorie, e che ostinatamente continua a considerare come una vera e propria famiglia, senza avvedersi della trama di finzioni e di inganni che si tesse al suo interno. In tutta normalità essi gli propongono di truccare le partite, rendersi complice del giro sporco di scommesse da cui il mondo calcistico, in quegli anni, viene inquinato e degradato. Ma Antonio, serio e corretto, si oppone, rifiuta di prestarsi a imbrogli e illegalità che altererebbero e falserebbero quel sistema in cui crede fermamente. Per lui il calcio è tutto, è la ragione della sua vita, il nutrimento di tutta la sua esistenza. In esso ha trovato il proprio riscatto sociale e in esso ha l’irriducibile desiderio di rimanere. Il calcio, per lui, è il suo passato e il suo futuro, per questo non accetta né compromessi né trasgressioni. È forse proprio a causa della sua intransigenza e della sua irremovibilità che sarà costretto a terminare anzitempo la sua carriera da giocatore, allorché durante un allenamento un duro contrasto con uno dei compagni gli provoca la rottura dei legamenti del ginocchio. Si interrompe bruscamente la sua carriera da calciatore, ma rimane integro il sogno per il quale è venuto elaborando il suo teorema, chimera da inseguire per dispiegare le ali e spiccare il volo come gli aerei che più volte osserva partire per lidi lontani, e davanti ai quali, dissoltasi e dileguatasi ogni illusione, deciderà di togliersi la vita. Infido e ingannatore è infine il presidente della squadra, dispensatore di promesse e di mendacie, il quale si limita a rassicurare, a rinviare alla stagione successiva, ad alimentare le illusioni di Antonio ben sapendo che per lui non ci sarà mai alcun incarico. Lo umilia, se ne fa atroce beffa richiamando a guidare la squadra, avviata verso la retrocessione, l’ex allenatore Molosso ma confermando come suo vice Palumbo, uno degli ex
compagni di squadra coinvolti nel giro delle partite truccate. Sleale e doppiogiochista, galleggia sull’ipocrisia, evitando persino di riceverlo, delegando il direttore sportivo a incontrarlo, in un bar, davanti a una tazzina di caffè con la quale Antonio simula il suo schema tattico, le manovre del fantasista e gli avanzamenti delle punte. Ben più amare di quel caffè saranno le crudeli, annichilenti parole con cui Antonio, quando riuscirà finalmente a incontrare il presidente, verrà da lui definitivamente liquidato: «Penso che il calcio è un gioco, e tu sei un uomo fondamentalmente triste». Parole pesanti come macigni che causano un’angoscia che stringe come un nodo scorsoio, e da cui Antonio finirà per essere annientato. Solo il suo vecchio allenatore, il Molosso, nonostante la diversità di vedute in fatto di moduli calcistici (è fautore e sostenitore del “catenaccio”, che si caratterizza per una spiccata propensione difensiva: «con il catenaccio e il contropiede – ricorda ad Antonio – ho vinto due scudetti e tre coppe Italia»), lo sostiene e lo incoraggia, cerca di infondergli fiducia. Richiamato ad allenare la sua vecchia squadra, per volere più della piazza che del presidente al quale non è gradito, cerca di imporre Antonio come suo secondo, ben conscio però di essere anch’egli, nel perfido e corrotto sistema di cui fa parte, niente più che una pedina. Sa, a differenza di Antonio rispetto al quale è più scaltro e meno sognatore, di essere in balìa di un potere superiore, di non avere funzione autonoma, di avere capacità di agire solo secondo il volere altrui. Di Antonio ha stima e considerazione, ma conosce fin troppo bene quell’ambiente intriso di meschinità, corruzione e crudeltà per nutrire velleità, è troppo esperto per impuntarsi. «Il calciatore – ha avuto modo di chiosare lo stesso regista – viene allontanato dal mondo del calcio perché ha dei principi e un’etica ben definita che male convive con un ambiente solo in apparenza sano, quello dello sport, che porta con sé gravi mali, cinismo e bassezze morali»8. Con quel mondo e con l’ambiente che lo circonda Antonio ha un rapporto di inadeguatezza. Fedele ai propri principi, in coerenza con la rettitudine sulla cui direttrice ha sviluppato la propria carriera e impostato la propria vita, non si adegua al degenerato sistema di ricatti, imposizioni e tradimenti a cui quell’universo è andato conformandosi. Estromesso dalla squadra e dalla società sportiva e rimasto privo di ogni sostentamento economico, non si adatta, nonostante le esortazioni e gli insistenti inviti della moglie con la quale la sua relazione progressivamente si sfalda fino a sgretolarsi definitivamente, a cercare un’altra occupazione («Stai scherzando? – le
risponde con disappunto al suggerimento rivoltogli dalla donna di fare l’assicuratore – Io sono un allenatore. E poi – prosegue con tono più flemmatico come cercando una scusa da addurre più a se stesso che alla moglie – per fa’ l’assicuratore ci vuole pure la licenza media»)9. Si ritrova inadeguato, fuori ruolo e fuori contesto, persino alla festa, che egli crede erroneamente in maschera, alla quale Elena – la donna borghese che dalla sua indole introversa e dalla sua umbratilità è irretita ma alle cui attenzioni egli non riesce a dare vero seguito – l’ha invitato, presentandosi, equivocando, vestito da calciatore. La realtà, dalla quale viene escluso e da cui egli stesso vieppiù si aliena, si riduce per Antonio al suo simulacro: come il panno verde del Subbuteo – proiezione fittizia e surrogato del reale campo da calcio a lui precluso – che egli srotola sul tavolo del soggiorno e su cui simula gli schemi ed elabora la sua fenomenale tecnica di gioco. Su quel panno studia notte e giorno la rivoluzionaria tattica, mette in scena come in un teatrino il suo pensiero ossessivo in iterate rappresentazioni che rivelano la finzione a cui il reale viene ricondotto.
Scontratosi con una realtà cinica e strangolatoria, nella partita esistenziale dove il pareggio non esiste, Antonio, inseguitore di princìpi e di illusioni, non può che soccombere. Non nel gioco, bensì nella vita egli diviene l’uomo in più, l’escluso, lo scarto, colui che non rientra negli schemi che altri hanno imposto e che hanno eletto a regola comportamentale. Speculare e rovesciata rispetto a quella di Antonio è l’immagine dell’altro Pisapia, il cui stile di vita votato agli eccessi sembra contrastare con il repertorio di canzoni d’amore, melodiche e sentimentali, che lo hanno portato alla celebrità. Arrogante, volgare, insolente, Tony è un’esibizionista dissipatore, un’edonista teso a soddisfare le sue grandi passioni: il piacere delle donne, l’ebbrezza della droga, la buona cucina e, in particolar modo, il pesce di cui si ritiene specialista. In bilico continuo fra autodistruzione e
vitalismo, Tony incarna la voracità del periodo, la tendenza, assunta a modello di vita, di prevalere contro la morale comune, contro le regole consolidate. Se Antonio si caratterizza per il rispetto di un’etica ben definita, che lo conduce a scontrarsi con un ambiente conformato ai disvalori della falsità e della doppiezza, la figura di Tony, al contrario, è connotata dall’assenza di ogni moralità. Più che andare contro di essa, egli sembra non conoscerne l’esistenza o non curarsene. Se Antonio cerca di mimetizzarsi, di fuggire dagli sguardi, di celarsi ad essi, Tony è animato dalla sottile vanità che la sua notorietà e le sue performance canore alimentano. Tanto è idealista e illuso l’uno, quanto realista e cinico è l’altro. Sedotto dal successo, cavalca l’egocentrismo, ama mettersi in mostra, esibirsi in pubblico come nel privato. Sul palcoscenico di un teatro, davanti a una platea di fans che lo applaudono fervidamente, il suo personaggio trova presentazione, al termine di un suo concerto. L’obiettivo coglie la sua figura di spalle, completo bianco e camicia sgargiante, seduto su uno sgabello, mentre, con la sigaretta accesa, attacca le note di un’ultima canzone, quella di maggiore successo, nel cui titolo sembra condensarsi e riassumersi tutto il suo universo e a cui la sua immagine, e la sua vita, si legano indissolubilmente («Voglio lasciarvi con la cosa che mi è più cara al mondo, “La notte”», annuncia agli entusiastici spettatori che lo acclamano). Un universo in cui la normalità si offusca («La notte, mille luci che non fanno luce a uno come me», canta ispirato) e la trasgressione può prendere il sopravvento, facendo da guida, come un faro, nell’oscurità in cui tutto è lecito. Eccolo, così, dopo il concerto, adescare nel camerino una sua ammiratrice di cui ha ricevuto la visita. Eccolo, in una sequenza successiva, scarrozzare di notte in compagnia degli amici con l’auto sportiva, infilarsi in discoteca, dimenarsi tra giovani ragazze con il bicchiere in mano e la sigaretta accesa, sniffare cocaina nel bagno, lasciarsi sedurre da una ninfetta concupiscente. Contrariamente ad Antonio, Tony è un attaccante: aggredisce la vita, la divora con ingordigia, insegue e soddisfa le sue passioni, rischia in ogni istante dell’esistenza che vive all’insegna dell’eccesso, dell’euforia, dell’hic et nunc, immerso in un presente di cui è avido e di cui è incline ad assaporarne fino in fondo il gusto. È tuttavia un presente nel quale il passato sovente fa irruzione, proiettandovi una fosca ombra: quel passato che intermittentemente riaffiora nella sua memoria – connesso alla sequenza con cui il film si apre – o che si presenta sotto forma di sogno o di incubo, in cui egli vede se stesso sulla riva del mare, in una luce dapprima abbacinante che
gradualmente va offuscandosi; vede la madre, vestita di nero, passargli accanto, proseguire verso il mare, avvicinarsi protettivamente alla figura di un sub appena uscito dall’acqua – il fratello che Tony ha perduto – con il volto coperto, seduto di spalle sulla battigia. È un passato la cui dimensione si farà vieppiù soverchiante fino a prevalere su quella del presente, determinando una vera e propria curvatura, per Tony, della propria vita e dell’universo intorno a sé. Pubblico e successo di colpo svaniscono, l’impalcatura di piacere e di passioni si sgretola, le trasgressioni, l’esagerazione, il consumo smodato della vita divengono ricordo. Il tempo sembra flettersi su se stesso, si incurva lambendo il territorio della nostalgia nella quale egli, accusato di violenza sulla minore ed estromesso dall’ambiente del quale ha fatto parte, si inoltra, divenendo icona di un passato in cui la sua vita sempre più si incunea. «Tony è la nostalgia. Sempre rivolto al passato, l’unica materia di cui può parlare e per la quale gli altri lo identificano»10: del proprio passato parla al suo manager, davanti alla tavola che trabocca di pietanze che egli ha cucinato per lui, rievocando l’anno, il ‘70, in cui una sua canzone di successo era al primo posto delle classifiche, lo stesso anno in cui venne arrestato per spaccio di droga finendo in prigione; allo stesso passato, unico vacuo argomento di cui discorrere, accenna una volta di più alla figlia tornata da Londra per il funerale del padre di Tony, durante il loro distaccato incontro al ristorante in riva al mare: «Ci so’ stato a Londra, c’ho suonato. Nel ‘70»; «Era il ’69 – lo corregge bruscamente la figlia – nel ’70 stavi in carcere. La so questa storia, non me la raccontare un’altra volta». Nella nostalgia, nella sensazione di allontanamento da qualcosa una volta posseduto e poi perduto – una nostalgia interna, legata a una dimensione di perdita interiore – Tony si immerge come in un acquario, il cui motivo – nella scrittura adottata dal regista densa di riferimenti e connotazioni simboliche, nella quale assai sovente gli oggetti e le figure rappresentate si caricano di significati secondari che ne arricchiscono il significato globale – ricorre d’altronde lungo l’intero film. All’acquario accenna Tony al suo agente, in una delle sequenze iniziali, subito dopo il suo concerto trionfale («Voglio che in albergo mi fai trovare un acquario» gli dice in riferimento al prossimo concerto in programma a Milano); un acquario, del quale con insistenza l’obiettivo coglie iteratamente l’immagine, risalta tra la congerie di oggetti, mobili, decorazioni di cui è arredata la dimora di Tony. L’acquario è la sua stessa casa, è il suo universo, è lo spazio ovattato in cui fluttuare e nel quale
annullare la percezione dell’esterno, della realtà, dei legami parentali e affettivi che Sorrentino sa descrivere attraverso brevi ma incisivi ed efficaci tratti. Vacua, inaridita, priva di passioni e di interessi è la relazione che egli ha con la moglie, enucleata in una breve sequenza nella quale lo spazio asettico della loro abitazione fa da traslazione spaziale alla loro reciproca indifferenza rasentante quasi l’ostilità; freddo, scevro di reale partecipazione affettiva e di volontà comunicativa è il suo rapporto con la figlia, che trova delineamento nel capitolo narrativo del loro disagevole incontro in riva al mare, il giorno del funerale del padre di Tony, in cui si rapprende il senso di una totale incomunicabilità e si cristallizza la distanza che li rende ormai come due estranei (dalla veranda del ristorante, nell’inquadratura con cui la sequenza trova conclusione, Tony vede la figlia allontanarsi, di spalle, lungo la riva sabbiosa). Glaciale è il rapporto con la madre, la cui figura assume i connotati di un’apparizione fantasmatica e orrorifica, nei sogni ricorrenti di Tony ma anche nella realtà, in un procedimento di programmata “ambiguità” in cui il reale e la visionarietà sembrano confondersi e sovrapporsi, sfumando l’una nell’altra: come nella sequenza nella quale Tony è colto in flagrante nella stanza della figlia, con le figure della moglie e della madre che paiono materializzarsi dal nulla, nella notte piovosa, come visioni spettrali rischiarate da sinistri e intermittenti bagliori, minacciose e incombenti sagome da cui Tony sarà condotto nel suo inesorabile sprofondamento nell’oscurità («Sei una latrina – gli si rivolge sprezzantemente e impietosamente la madre – […] ci dovevi finire tu in quel mare, stronzo cocainomane»). Ombra, per Tony, è la figura materna; ombra è pure la figura paterna, presenza incorporea relegata nei recessi della memoria, maglia di un tessuto familiare irrimediabilmente sfrangiato (neanche al suo funerale Tony si presenterà: «Mi so’ svegliato tardi», ripete laconicamente alla figlia delusa che gli chiede ragione della sua assenza), traccia di quel cosmo esterno che egli sembra guardare dalle pareti vitree del proprio spazio esistenziale del quale l’immagine dell’acquario si presenta come allegoria. È non casualmente un acquario, ancora, ad apparire all’ingresso del ristorante (quello da lui preferito) che egli vorrebbe rilevare, nella cui gestione intravede una possibilità di sopravvivenza, di galleggiamento, l’ancora a cui aggrapparsi per evitare il naufragio esistenziale. Lo stesso acquario che, in un’immagine successiva, vediamo portar via dai malavitosi che sul locale hanno messo le mani e di cui essi riescono a impossessarsi, venendo a negare a Tony anche
quell’ultima occasione, sancendo una estromissione che diviene completa e inesorabile. Gli spazi, per Tony, divengono sempre più luoghi dell’estraneità e della sopraffazione, nella vertiginosa caduta che la sua carriera e la sua vita repentinamente subiscono. In essi si riflettono le stesse coordinate di privazione-esclusione, partecipanti a una medesima condizione di ostilità, di indifferenza e di sconfitta. Perde la notorietà, perde i contratti e le opportunità di esibirsi nei locali una volta gremiti e adesso preclusi, perde quello che era stato il suo pubblico: nessuno lo cerca più, nessuno vuole vederlo neanche in televisione, di notte, nei vecchi film di repertorio. Solo una desolata piazzetta di un paesino abruzzese – la sola occasione che il suo tracotante manager, che della sorte di Tony è gerente e giudice, gli offre – con tre sconosciuti ad accompagnarlo, davanti a uno sparuto gruppetto di spettatori indifferenti, in un’ultima umiliante apparizione da cantante. Perde la moglie, perde la vecchia fuoriserie che, per procurarsi i soldi per il primo pagamento all’amico con cui ha combinato di rilevare la gestione del ristorante, vende a uno sfasciacarrozze il quale gli dà qualche banconota liquidandolo senza pietà: «Io ti faccio un piacere a te: ‘sta macchina tiene lo stesso mercato che tieni tu». Perde quell’opportunità della nuova occupazione in cui aveva riposto la speranza di poter rialzare la testa, perde la propria dignità, implorando vanamente il suo manager, parlandogli al telefono tra una sniffata di cocaina e un’altra, di farlo cantare su quella nave da crociera in precedenza rifiutata perché «riduttiva»; perde persino i capelli, che è indotto a rasare per il piccolo intervento di asportazione della cisti a cui si sottopone. A restargli sono le sue passioni di sempre, la cocaina e il pesce, consumate adesso in una solitudine che la dimensione spaziale dell’ambiente domestico mette in risalto, traducendo visivamente l’ombra di una vieppiù esulcerata estraneità, la demarcazione di un cerchio che attorno a Tony sembra stringersi sempre di più. Negli interni dell’abitazione, nel «vuoto “arredato” di detriti estetici»11, l’obiettivo ne spia la sua immobilità, l’indolenza, l’isolamento, l’abbandono (sul letto, di pomeriggio, mentre si accende stancamente l’ennesima sigaretta; sul divano o sulla sedia, accanto all’apparecchio telefonico attraverso il quale sembrano ridursi le occasioni comunicative con l’universo esterno; nella cucina, nella preparazione e poi nella consumazione del pasto in un rito consuetudinario e solitario, nella meccanica iterazione dei gesti quotidiani), in un descrittivismo che diviene vibrazione interiore, nella mise en scène di un tempo sospeso e immobile che si fa eco della tensione del
personaggio, secondo un procedimento in cui il momento oggettivo sfuma in quello soggettivo, rivelatore della vita interiore del personaggio. Nella caduta libera verso il fondale buio dell’esistenza, anche Tony viene ad essere un “uomo in più”, ombra di se stesso, effigie imbalsamata di una foto da appendere in un dimesso ristorante di provincia (dall’oste che, dopo il concerto di Tony nella desolata piazzetta del piccolo paese abruzzese, ricorda tutti i suoi vecchi successi prima di servirgli una più che modesta cena) alla stessa parete su cui si trova pure la foto di Antonio. Come quei ritratti appesi al muro, anche le vite dei due Pisapia si incrociano, convergono, si sovrappongono, nella condivisione, oltre che del nome e della data di nascita, di uno stesso destino, in una dinamica narrativa del raddoppiamento e del riflesso che riproduce lo sguardo circolare dei due protagonisti e che il montaggio alternato su cui la storia è costruita, nei numerosi capitoli di cui essa si compone, continuamente ribadisce. Il parallelismo dei due percorsi esistenziali è corroborato infatti dalla struttura narrativa a incastri, in un intrecciarsi continuo dei due piani, degli accadimenti che i due personaggi si trovano a subire, nella progressiva rarefazione delle loro vite e nel delineamento di una stessa parabola esistenziale. Da un personaggio all’altro, da una vicenda all’altra, si riverberano le situazioni e gli eventi attraverso un fraseggio di similitudini, di simmetrie, di analogie, di inquadrature, di “passaggi”, di movimenti di macchina e di montaggio, segno di una scrittura cinematografica che si contraddistingue per l’impetuosità del segno, per la sintesi del dettaglio, per le visioni folgoranti, per la potente espressività delle immagini. Così, nelle due sequenze che fanno seguito al prologo, il fragore dei tifosi che gremiscono le tribune del San Paolo di Napoli e che accompagna il rientro in campo di Antonio prima della sua trionfale performance sfuma, quasi senza soluzione di continuità, attraverso uno stacco, nello scrosciante applauso e nelle esclamazioni con cui il pubblico, nel locale nel quale Tony si sta esibendo in concerto, entusiasticamente invoca il bis. Come il loro successo, simultanea è anche la loro brusca caduta, con l’accusa di violenza all’uno e l’infortunio che occorre all’altro: fornisce le proprie generalità il primo, nella stanza del commissariato, seduto davanti al funzionario che lo interroga; riferisce i propri dati anagrafici il secondo, sul letto dell’ospedale – ancora attraverso un gioco di stacchi – all’infermiera che siede davanti a lui. Di entrambi, subito dopo, lo sguardo smarrito e mesto si posa sulle due diverse finestre, con la
pioggia che cade sui vetri e rende sfocata la vista esterna, come sfocato, incerto ed evanescente si prospetta il loro futuro. Di entrambi le esistenze si sbriciolano, si rarefanno, si disperdono negli anditi sonnacchiosi degli spazi domestici che la macchina da presa esplora con movimenti sinuosi, rimbalzando da un ambiente all’altro, da una casa all’altra. Il sistema di specularità si riflette anche nei gesti dei personaggi, nelle loro azioni, nelle angolazioni con cui la macchina da presa li inquadra: si china sul modellino del campo steso sul tavolo Antonio, ripreso frontalmente in piano ravvicinato, spostando le pedine sul tappeto verde nella simulazione dei suoi schemi di gioco che si tramutano in griglie mentali, gabbie in cui finisce per rimanere irretito, «nella penombra ingolfata di non-comunicazione»12 del salottino con la moglie che cerca di dissimulare la telefonata all’amante; si chinerà più avanti Tony, in un’inquadratura del tutto speculare, sul tavolo del suo salotto, disponendo con cura e attenzione sopra di esso delle conchiglie in una composizione arabescante, in figure ripetute e serrate, fantastiche e splendidamente inutili. L’intero corpo narrativo, inoltre, nei due piani in cui esso è articolato, è percorso e arricchito da un continuo gioco di rimandi fondato sui numeri Tre e Quattro, in una serie di corrispondenze, analogie, “rime”, testimone di una meticolosità e di una compiutezza già presenti, qui come in tutte le successive opere dell’autore, nella fase di elaborazione della storia e nel lavoro di scrittura del film. Quello di Sorrentino è infatti è un metodo di lavorazione che tende a privilegiare la sceneggiatura quale momento fondativo del processo creativo dell’opera. Saltando le fasi del soggetto e del trattamento, il regista è solito infatti partire direttamente dalla scaletta e dalla sceneggiatura «che si alimenta spesso di sensazioni visive»13 («metto la musica al massimo volume – rock, tecno – e vado in una specie di trance, mi esalto ed inizio a scrivere. Vado in una sorta di delirio, di estasi, come quando fai gol»14). In essa sono già contenuti indicazioni puntuali e dettagli che in prevalenza, dopo uno scrupoloso e meticoloso lavoro di limatura dei dialoghi, e dopo una sorta di storyboard che segna un’ulteriore stesura della sceneggiatura, tendono a trovare attuazione nella fase delle riprese, nella grande capacità di pre-vedere le immagini, la loro sequenza e il loro ritmo, e nella propensione a seguire lo schema predisposto e a lasciare il minimo spazio all’improvvisazione che i luoghi, gli ambienti, i set talvolta impongono15. Quattro, come si è osservato, sono le punte – una in più rispetto alle tre previste nel più offensivo modulo in pratica adottato – su cui si basa il
modulo di gioco che Antonio elabora, convinto che si tratti di un’intuizione geniale, come quattro sono i turnisti, in sostituzione dei suoi vecchi musicisti che hanno abbandonato il gruppo, di cui Tony vorrebbe disporre per il suo concerto nel paesino abruzzese («Tre – gli risponde il manager in modo perentorio che non ammette repliche – Ne prendiamo tre»). Quattro sono gli anni che separano i due piani temporali del racconto e che segnano, per i due protagonisti, la perdita del successo e la successiva decadenza, in un trascorrere del tempo esplicitato da una breve sequenza-cerniera nella quale, su uno sfondo nero, l’obiettivo mostra quattro ballerine che, al termine, inquadrate dall’alto, si dispongono a formare una figura romboidale all’interno della quale, in sovrimpressione, appare la scritta “1984”. Quattro, ancora, sono le strisce di cocaina che Tony si prepara sul tavolo, nella sequenza della fallimentare e degradante telefonata a Genny come ultima occasione per rientrare nel giro: ne tira tre, prima di abbandonarsi sullo schienale della sedia reclinando la testa all’indietro, con un rivolo di sangue che gli esce dalla narice. Sono tre le sequenze oniriche che portano alla superficie l’inconscio di Tony, tre i personaggi la cui vita viene troncata da una morte violenta, per incidente, suicidio od omicidio (il sub nel prologo, Antonio e il presidente), tre i milioni di lire che gli organizzatori del programma televisivo offrono a Tony per la partecipazione (riuscirà però ad ottenerne il doppio); tre gli assi che il Molosso, in una partita a poker con gli amici, cala sul tavolo vincendo la mano; tre i giocatori della ex squadra di Antonio che, dopo il suo gesto autoannichilatorio, la macchina da presa inquadra in successione, per stacco, quando il Molosso, all’inizio di un allenamento, comunica loro di voler provare il modulo dell’uomo in più: tre primi piani dei calciatori che si raccordano alla figura di Tony (il “quarto uomo”) seduto su una sedia, nel successivo totale del suo salotto. Tre sono anche i bambini che in un giardinetto giocano a pallone in mezzo ai quali passa Tony, uscendo dalla sede della società di calcio dopo averne ucciso il presidente. Tre sono pure gli oggetti (un mazzo di chiavi, un accendino e l’orologio) che l’allenatore, all’inizio del film, depone con gesti lenti su un tavolo dello spogliatoio prima della sfuriata ai giocatori della squadra; tre, infine, nella sequenza conclusiva, sono i carcerati con cui lo stesso Tony divide la cella carceraria: un trio, rispetto ai quali egli è l’“uomo in più”. Simmetrie che si rispecchiano, analogie che si ripetono nella densa trama di contrappunti da cui l’impianto narrativo è segnato e che contribuiscono a
tracciare le linee di un destino comune, i contorni di due personalità simili, quasi identiche, trovando infine soluzione in una convergenza, in una sovrapposizione di identità, nella scoperta dell’alterità come uguale, dell’altro come proprio doppio. È la ricomposizione di una dualità che la sequenza dell’incontro dei due personaggi suggella: tra i banchi del mercato, all’ora di chiusura, essi, casualmente, si incrociano. Si osservano da lontano, in silenzio, come guardandosi nello specchio. Ognuno scorge negli occhi dell’altro la propria immagine. Uno sguardo breve, intenso, che fa emergere alla coscienza dei personaggi la concretezza del proprio doppio, dell’essere speculari. La stessa concretezza che si ripresenta poco oltre, quando il loro sguardo sembra di nuovo incrociarsi, seppur mediato dall’apparecchio televisivo di fronte al cui schermo Tony guarda e ascolta la confessione del suo alter ego: «Comunque – dice Antonio con tono accorato durante la trasmissione dopo aver parlato del proprio fallimento e di chi gli ha chiuso le porte in faccia – non è questo di cui volevo parlare. Volevo… volevo dire un’altra cosa: oggi io ho incontrato una persona». L’obiettivo stringe sul suo primissimo piano, sul dettaglio dei suoi occhi, che trova risonanza nel primissimo piano e nello sguardo di Tony il quale, con espressione turbata, fissa lo schermo, fissa lo sguardo del suo doppio, fissa se stesso. È il momento cruciale in cui la duplicità di Antonio Pisapia cortocircuita: in quello sguardo fortuito e fugace, con il quale entrambi riescono forse a comunicare tutta la propria ansia e che li rende coscienti della loro specularità, le due vite si uniscono, convergono, si sovrappongono, per poi scindersi e divergere di nuovo come i raggi riflessi di una luce rifratta, destinati l’uno a persistere e propagarsi, l’altro a smorzarsi e a spegnersi. Segno di incontro e di intesa, quello sguardo si pone infatti, al contempo, anche come momento di rottura del parallelismo, segnando la divergenza delle due figure e la divisione delle due vite, conducendoli a reagire ai propri malesseri e inappagamenti l’uno con l’introiezione e l’altro con l’estroiezione (fisicamente suggerita dall’escrescenza che Tony ha sul cranio e che si fa asportare chirurgicamente), avviandoli rispettivamente verso l’implosione e verso l’esplosione. Sopraffatto dai miasmi della meschinità e del cinismo, dell’ipocrisia e degli infingimenti, della disonestà e della viscidità che la realtà esala, Antonio soccombe. Segregato nella sua disperazione e in una indotta inoperosità e passività va all’ultimo appuntamento, a quello stesso aeroporto da cui altri ha visto partire per andare a visionare giocatori all’estero. Da dietro la rete di
recinzione, come tante altre volte in passato, si ferma a guardare gli aerei alzarsi in volo – quel volo tante volte ambito, vagheggiato e negato, verso destinazioni per lui irraggiungibili – in una contemplazione che si fa agonia di ogni alito esistenziale e sociale, preludio del viaggio senza ritorno, l’unico che oramai può intraprendere, verso l’autoannichilimento. Arretra, si gira, si allontana, scomparendo dall’inquadratura e dalla vita. Solo la rete rimane stagliata nell’azzurro del cielo, come una gabbia che cinge il vuoto, e, fuori campo, il rombo potente dei motori dei velivoli, e uno sparo che spegne ogni anelito. Dall’alto, in plongée, l’obiettivo inquadra il volto di Antonio riverso sul terreno; un movimento di dolly verso l’alto, a cui si unisce un movimento rotatorio della macchina da presa che pare avvitarsi su se stessa, ampliando il campo visivo mostra progressivamente il corpo inerte e scomposto di Antonio, al centro di un campetto da calcio diserbato e grigio, e una pistola vicino alla tempia, come ferale, beffarda e conclusiva messa in scena di uno schema che ha al suo centro l’uomo in più. Se il “più”, per Antonio, è sottrazione e perdita, del ruolo sociale e di quello esistenziale, per Tony, al contrario, è acquisizione e risarcimento: da scarto, esso diviene scatto e riscatto. L’uomo in più è l’escluso, ma è anche «l’altro che trasforma, è l’incontro con se stessi, come altri, il doppio di sé, il sé come doppio. […] È qualcun altro, un alieno che è dentro ciascuno come la cisti che Tony si fa asportare dalla testa e che gli cambia i connotati (il taglio dei capelli), gli cambia la vita, trasformandolo in ennesimo “altro”»16. Riflessa come in uno specchio, l’immagine del proprio doppio si palesa emergendo dalle profondità del subconscio che ancora una volta la sequenza di spessore onirico-allucinatorio, che mediante una dissolvenza si innesta e si collega alla scena del suicidio di Antonio, viene a concretare: rivede ancora la madre sulla spiaggia, Tony, accanto al sub che, di spalle, si toglie la maschera e, insieme alla madre, si volta – verso la macchina da presa, verso lo stesso Tony che, in piedi, tiene stretto in una mano un coltello – rivelando il suo volto, quello di Antonio. Nella cui vita, o nella cui morte, Tony decide di far confluire la propria esistenza, in una sovrapposizione con il proprio doppio, restituendo ad esso ciò di cui era stato derubato, la sua onestà tradita, la sua dignità scippata, la sua integrità un po’ triste infranta dai disvalori del tempo. Quando Antonio muore, Tony sente di dover riparare un torto, di dover prendere un’altra direzione, di dover ricongiungersi con quel se stesso rivelato di cui raccoglie e incanala l’energia dispersa dalla morte. In lui si attua una slittamento che lo conduce al raccoglimento dei segni lasciati dal
passaggio di Antonio, nella percezione che qualcosa in sé, dalla sua immagine riflessa, ha preso origine, nella riappropriazione dell’altra parte di se stesso. Il “transfert” si palesa, visivamente, nella sequenza della sepoltura del corpo di Antonio: la bara, al cimitero, viene sollevata e sistemata nel loculo murario; di spalle, un piccolo gruppo di persone – la moglie, il Molosso, alcuni ex compagni di squadra – assiste alla cerimonia; un breve carrello indietro include in campo il primo piano di Tony – inizialmente sfuocato – anch’esso di spalle, in fondo, lontano da tutti; un movimento ottico, contemporaneamente, sposta il fuoco dallo sfondo alla sua figura, veicolando l’idea dell’impossessamento, da parte di Tony, dell’identità del suo doppio, la trasposizione di pulsioni da un soggetto all’altro. In sé Tony scopre ciò che Antonio solo subisce, scopre la forza di sfidare la mediocrità e il cinismo, di reagire all’indifferenza e alla morale comune, di affermare la propria libertà. Come una spettrale apparizione, materializzazione del fantasma del Pisapia giocatore, Tony appare al presidente della squadra di calcio – il quale, nell’udire il suo nome annunciato dalla sua segretaria, viene colto da un forte turbamento – nel cui ufficio egli si presenta, con movenze rapide e decise, per restituire dignità all’altro se stesso, per la messa in atto della rivalsa su chi, del suo doppio, ne ha distrutto le illusioni e la vita, per il compimento di un’azione che la scrittura a cui Sorrentino ricorre evoca indirettamente, nel privilegiamento dell’ellisse, nell’adozione di uno stile che lavora per sottrazione e che tende a un addensamento di significati. Senza indugio Tony si siede di fronte al presidente, lo guarda fisso negli occhi. Con uno stacco l’obiettivo, all’esterno, mostra in campo medio la repentina uscita di Tony dalla società e il suo rapido allontanamento. Nell’ufficio il corpo del presidente giace riverso a terra con una ferita al cuore, trafitto da uno stiletto. L’azione in quanto tale risulta eliminata, soltanto evocata dai raccordi, senza preparazione né tantomeno musica ad avvisare lo spettatore, nel suggerimento dell’omicidio affidato a un effetto di montaggio. Si allontana verso il lungomare Tony, dopo il suo gesto omicida che lo conduce a riappropriarsi dell’altra parte di se stesso, della propria libertà, della propria identità, della propria memoria. Quella memoria che lascia fluire durante il programma televisivo a cui la sera stessa egli prende parte, la stessa trasmissione alla quale anche Antonio aveva partecipato. Con impeto erompono i ricordi dalla sua mente come tasselli, come tessere di una vita che si ricompone, in un lungo “amarcord”: «Io mi ricordo tutte le volte che avevo
la voce bassa e avevo paura di salire sul palcoscenico, mi ricordo i fiori dentro i camerini, le donne fuori dai camerini che dicevano che volevano conoscermi, mi trovavano interessante, ma poi si finiva sempre a letto. Dicevano che ero bello, io non mi sono sentito mai bello, io mi sentivo potente, non me n’è mai fregato un cazzo di nessuno… io mi ricordo tutto, è ‘na strunzata che la cocaina ti scassa la memoria, so’ trent’anni che la tiro e non mi sono mai dimenticato niente: io me la ricordo tutta la cocaina che mi sono tirato, del resto tutti hanno tirato in questi anni di merda, chi è che non l’ha fatto?. Soltanto i poveri non hanno pippato e non sanno quello che si sono persi. Io mi ricordo quando cantai a New York e Frank Sinatra dovette venire a sentire ‘sto fenomeno di Tony. Mi ricordo mia madre quando era giovane, che vi devo di’, per me rimane comunque la donna più bella che ho conosciuto nella mia vita; poi mi ricordo un amico, si chiamava Antonio Pisapia, era un grande calciatore, voleva fare l’allenatore e non gliel’hanno fatto fare e si è suicidato, ma io non mi suiciderò mai, perché un’altra cosa mi ricordo io: io ho sempre amato la libertà e voi non sapete manco che cazzo significa. Io ho sempre amato la libertà, io sono un uomo libero». Si interrompe, guarda intorno a sé gli operatori dello studio televisivo, guarda l’obiettivo della telecamera, in un silenzio che sembra riprendere e proseguire quello di Antonio con il quale trovava interruzione la sua confessione pubblica. È il ricongiungimento con se stesso, con il suo “idem et alter” («Voglio andare a Capri!», urla dalla barchetta con cui, nella sequenza successiva dell’inutile fuga dalla polizia da cui è inseguito, si allontana in mare remando finalmente felice, evocando quell’approdo che Antonio, nel suo naufragio, non aveva raggiunto); è il recupero e il ricongiungimento con il suo passato, con quella zona buia e profonda della memoria: dalla stessa barchetta Tony si tuffa in mare, in una immersione che si riconnette a quella iniziale della battuta di pesca, in un gioco di echi e corrispondenze nel quale la figura di Tony è ricondotta e sembra sovrapporsi a quella del fratello subacqueo perduto. Di spalle, con le falde del cappotto che l’acqua solleva, Tony svanisce nel verde del mare; insieme all’immagine, lentamente la sua figura si dissolve, fino quasi a scomparire, schiudendo a una differente dimensione e a una diversa misura delle cose. Sui dettagli di alcune foto affisse su un muro bianco – ritratti di bambini sorridenti, scorci sereni di vita familiare – si apre la sequenza conclusiva. Un uomo si fa il segno della croce, un altro sente l’odore dell’improvvisata
cucina che sembra inebriare i corpi e le menti, un terzo distoglie lo sguardo dal giornale che tiene di fronte, si gira e fissa in basso verso il centro del tavolo dove Tony pulisce il pesce appena cucinato e fa le porzioni. Tutti, con il massimo raccoglimento, osservano quella prelibatezza come fosse una reliquia, poi, in religioso silenzio, inizia la consumazione del pasto. Dai tre uomini parte un applauso, Tony ride, compiaciuto e appagato. Dalla sua espressione felice e pacificata l’obiettivo lentamente si ritrae rivelando, in primo piano, le sbarre che serrano la finestra della cella, scorre sul grigio e scrostato muro esterno del carcere, ne oltrepassa il muro di cinta, abbraccia la distesa del mare che si stende tutt’intorno, accarezza la linea dell’orizzonte rosseggiante, in un’immagine lieta e radiosa che contiene al contempo anche il suo contrario: un lieto fine che, insieme, è la sua negazione, in una visione del mondo e dell’esistenza che si fa ambigua e sfuggente in cui realtà e sogno, concretezza e visione sembrano intrecciarsi e convivere sullo stesso piano, secondo una procedura che troverà sviluppo lungo tutto il cinema dell’autore profilandosi come una vera e propria costante poetica. La quale consiste essenzialmente nel connotare in modo programmaticamente “ambiguo” i racconti, collocandoli a metà strada tra realtà oggettiva e realtà soggettiva mediante un costante movimento di traslazione delle cose che le fa oscillare dal vissuto all’immaginario, dal reale alla rêverie. Sovente oggettività e soggettività, nel cinema di Sorrentino, si intersecano e si sovrappongono quasi senza soluzione di continuità: squarci della realtà fisica si alternano e si confondono con immagini oniriche o mnemoniche o visionarie, in film in cui talora l’evocazione prevale sul racconto, e nei quali, tuttavia, l’atmosfera rarefatta ha pur sempre un’evidente corposità e un saldo spessore morale. Si tratta, appunto, di quella volontaria, deliberata e produttiva “ambiguità” che è il modo sorrentiniano di essere dialettico e che rende il cinema dell’autore ricco di una pluralità di sfaccettature, conferendo alle immagini – che seguono talvolta la dinamica pendolare della memoria e dei sogni – la massima fascinazione e, in pari tempo, il massimo potere d’urto. In L’uomo in più sono le tre sequenze oniriche – soggettivizzazione dell’inconscio di Tony – a concretare esplicitamente tale dinamica, ma sono altresì i diversi momenti nei quali a prevalere è la tendenza a lasciare irrisolte e indefinite le situazioni che si impongono, appunto, più che nella loro concretezza, nella loro visionarietà: il momento in cui Tony viene colto in flagrante con la ragazza minorenne nella stanza della figlia, dove a risaltare è
la fantasmaticità delle figure della madre e della moglie; l’incontro al mercato tra i due protagonisti; il tuffo di Tony dalla barca e il suo inabissamento in mare; e la sequenza conclusiva che sospende il “senso” del film e prolunga la storia in una molteplicità di vie di fuga. Il procedimento di sospensione e il movimento di traslazione trovano attuazione anche attraverso la “densità” spaziale che Sorrentino modella e a cui dà forma e l’insieme delle modalità espressive che definiscono la sua peculiare cifra espressiva, una scrittura non tanto descrittiva quanto, piuttosto, evocativa, in grado di veicolare la rarefazione degli stati d’animo e il progressivo sgretolamento delle esistenze e dell’interiorità dei personaggi. Alla loro plasmazione è finalizzata la messa in scena, nel delineamento degli ambienti, interni ed esterni, che oltrepassa il dato realistico sconfinando in quello simbolico. Ingombri di oggetti, gli appartamenti dei due protagonisti riflettono non solo lo “stile” del periodo ma anche la differente dinamica interiore dei loro dimoratori pur nella similitudine dei loro percorsi esistenziali: oscuri, avvolti sovente nella penombra sono gli ambienti nei quali acquista vieppiù spessore il pensiero buio e ossessivo che insegue Antonio; trapassati da una luce fredda, secca ed essenziale sono i geometrici interni in cui si rinserra l’esistenza di Tony: una sorta di metaforica prigione che sembra prefigurare quella reale con cui la storia trova conclusione. Ottenebrati o rischiarati da una luce algida, gli interni danno corpo, dei due protagonisti, al senso della loro solitudine che prende le mosse da uno stato di esclusione sociale per estendersi anche a quello esistenziale. Della reale vita e dei luoghi esterni, da protagonisti divengono osservatori: più volte l’obiettivo li inquadra immobili davanti alle finestre al di là delle quali si spalanca un mondo da cui essi sono estromessi. In direzione della finestra dell’ufficio della questura, dalla quale si vede la pioggia, Tony guarda dopo il suo arresto; sulla finestra dell’ospedale, similmente, si fissa lo sguardo di Antonio dopo il suo infortunio. Coricato dagli infermieri sulla lettiga per essere trasportato verso la sala operatoria, egli passa davanti all’ampia vetrata del corridoio al di là della quale si apre la vista – lo scorcio del golfo, con il Vesuvio sullo sfondo – da cui la macchina da presa si allontana fino al dissolvimento dell’inquadratura e della visione. Il paesaggio sembra rarefarsi, perdere consistenza, farsi incorporeo, svanire: come quello – con l’azzurra orizzontalità del mare sormontata dalla mole maestosa del vulcano – che la grande finestra dell’appartamento di Antonio incornicia, davanti alla quale egli siede immobile, con lo sguardo perso nel vuoto e la mente invasa da
esiziali pensieri. La città, con la sua seducente bellezza, il mare e gli ampi spazi appaiono sempre lontani, inarrivabili, sfuggenti, posti al di là di una finestra, di un limite invalicabile, di una barriera: come le sbarre della cella carceraria nell’inquadratura conclusiva, o la rete dell’aeroporto attraverso cui Antonio guarda gli aerei alzarsi in volo e dileguarsi in cielo, o, ancora, lo steccato che delimita la veranda del ristorante sul mare contro cui si staglia la figura di Tony seduto a pranzo con la figlia, lo stesso steccato attraverso il quale, successivamente, l’obiettivo ritrae lo stesso Tony nell’atto di osservare i malviventi, celato alla loro vista, che del locale prendono possesso. Degli spazi esterni, quelli realmente vissuti dai due protagonisti appaiono piuttosto come il simulacro, segno tangibile di una condizione di isolamento, di “compressione”, di impossibilità di movimento. Lo stadio, nella sequenza che segue quella di apertura, è solo un tunnel. La macchina da presa segue l’ingresso in campo di Antonio, lo inquadra di spalle mentre percorre il lungo e buio corridoio che dallo spogliatoio conduce al campo da gioco, arrestandosi alla vista della luce, cogliendo solo rapidamente uno scorcio delle tribune e uno spicchio di cielo. Dei veri stadi, ad Antonio, non rimarranno che i surrogati: quello del piccolo campo da calcetto dove cerca di applicare ridicolmente i propri schemi; quello del panno verde da srotolare sul tavolo e davanti al quale passare le notti insonni; quello incolore e diserbato sotto una sopraelevata stradale dove Antonio ha il suo ultimo incontro con il Molosso, e dove l’incessante rumore del traffico e lo scorcio della degradata periferia acuiscono il grigiore in cui si spengono, di Antonio, le ultime illusioni. Oscuri e spenti, similmente, sono gli spazi nei quali anche Tony si trova vieppiù relegato: buia è la desolata piazzetta del paesino dove tiene il suo ultimo concerto, cinerea e livida è la tonalità di cui si colora il molo dove egli, all’alba, rivolge un saluto a dei pescatori ai quali dispensa le proprie amare e disilluse riflessioni sulla vita prima dell’inutile fuga in mare. Solo sullo scafo, bianco come il cappotto che indossa, mentre cerca, remando, di allontanarsi verso l’orizzonte, la sua figura, per qualche istante, si staglia contro il cielo chiaro, sul mare cristallino su cui si riflette il bagliore del sole, prima del tuffo in acqua, prima dell’inghiottimento e del lento dissolvimento nell’oscurità marina, prima del ritorno nell’oscurità, quella della cella da dove il mare, su cui il sole spande riflessi rosseggianti e argentati, può essere solo una lontana e opaca visione. La dimensione spaziale, insomma, nella sua stratificata strutturazione, si pone
in L’uomo in più – e più in generale nell’intero cinema dell’autore – come costante figurativa e supporto tematico teso a dare valenza simbolica alle vicende dei personaggi e alle loro esistenze, correlato in ogni caso con la loro condizione interiore. Appare d’altronde ovvio come tale dimensione si concreti anche attraverso i procedimenti costruttivi dell’inquadratura e l’elaborata dinamica visiva di cui il film si dimostra assai ricco. Ciò che più colpisce, nella maggior parte delle inquadrature in cui il testo filmico è articolato, è la duttile mobilità della macchina da presa: il gran numero di carrelli e panoramiche, sovente combinati con movimenti di dolly o louma, e di steadycam danno luogo a immagini elaborate e suggestive ma anche estremamente funzionali al discorso narrativo. La macchina da presa spazia in tutti i sensi e in tutte le direzioni, crea nuove dinamiche, si muove liberamente all’interno del campo visivo, scopre i personaggi immersi nei loro ambienti evidenziandone il senso di solitudine, mette in relazione le loro figure con lo spazio che li circonda, modella e dà forma ai loro labirinti psicologici, si avvicina lentamente ai loro corpi con movimenti fluidi e avvolgenti creando delle vere e proprie avventure dello sguardo, delle acrobazie visive che intensificano il ruolo dello spettatore al cui ideale sguardo erratico i movimenti della camera corrispondono. La presenza attiva della macchina da presa, che si concretizza appunto in questa sua continua mobilità e che costituisce una delle cifre costitutive del cinema di Sorrentino, si palesa soprattutto nei piani sequenza e/o nelle lunghe inquadrature a cui il regista, nel suo lungometraggio d’esordio come nelle sue successive opere, sovente ricorre. Si veda, in L’uomo in più, il piano sequenza – della durata di quasi tre minuti – attraverso cui viene descritta la vita sregolata di Tony: l’obiettivo lo inquadra dall’alto, in plongée, di notte, alla guida della sua rossa cabriolet in compagnia di quattro amici; fermatosi davanti al club scende dall’auto, mentre la macchina da presa, con un movimento rotatorio e un dolly a scendere, mostra il suo ingresso trionfale nel locale; un lungo e sinuoso movimento di steadycam lo segue all’interno del club, in una sorta di gioco a rimpiattino che più volte esclude di campo la sua figura per poi intercettarla e coglierla nuovamente, lungo un tragitto costellato di calorosi incontri con le sue fans, sigarette accese, whisky, battiti di mani ad accompagnare e scandire il ritmo della musica disco, il dimenarsi in mezzo alla pista tra le parche battute scambiate con il manager e con gli amici e gli ammiccanti sorrisi femminili, e l’allontanamento verso la toilette, in un cocktail di sesso, droga e disco music.
O si veda, ancora, la lunga inquadratura (70’’) in cui trova svolgimento lo scacco di Tony scippato del progetto di gestione del ristorante: sceso da un taxi si avvicina fischiettando al locale, costeggiandone un lato su cui si apre una fila di finestre; passa davanti alla macchina da presa che lo segue con un movimento fluido giungendo a inquadrarlo di spalle in piano ravvicinato; avvedendosi della presenza dei malavitosi fermi all’entrata, Tony rallenta il passo fino ad arrestarsi; il movimento di macchina prosegue, escludendolo di campo, portandosi sui tre uomini sulla veranda (uno si aggiusta un coltello allacciato alla caviglia, un altro, il boss, si cura della propria abbronzatura seduto su una sdraio, il terzo armeggia vicino all’acquario), poi, dopo aver ruotato su se stessa, torna a inquadrare Tony il quale indugia dietro lo steccato (in un’immagine che sembra presagire e preannunciare l’incarceramento finale), prima di allontanarsi con un gesto di stizza e disappunto, ripreso adesso dall’obiettivo, dall’interno del locale, dall’angolazione opposta a quella iniziale, in un ribaltamento di prospettiva che rovescia il ruolo del personaggio e il suo agire. Ciò che emerge nei due piani sequenza descritti, e più in generale nelle molteplici inquadrature nelle quali prevale l’insistita erranza dello sguardo, è l’intreccio tra l’oggettività e la soggettività dei personaggi, l’andirivieni senza stacchi tra oggettive e soggettive, in una con-fusione di sguardi mirata non solo al delineamento della tensione interiore dei protagonisti ma anche alla raffigurazione di una realtà di cui indeterminate e sfuggenti si fanno le coordinate. Come, per non fare che un solo esempio, nella citata inquadratura in cui Antonio, all’ospedale, sollevato dal letto da due infermieri e coricato sulla lettiga, viene trasportato fuori dalla camera. Girando la testa, prima di uscire dal campo visivo, volge lo sguardo fuori campo verso destra; la macchina da presa, con un movimento combinato, svela il volto della giovane infermiera seduta davanti a lui la quale, sollevando gli occhi dalla cartella che ha tra le mani, con espressione dolce e intenerita guarda in direzione dell’obiettivo seguendo l’allontanamento di Antonio; proseguendo nel suo movimento la macchina da presa arretra, esce dalla stanza, escludendo di campo la donna ed esplorando il salone dall’ampia vetrata. Si tratta, insomma, di quella tecnica espressiva che consiste in una voluta e produttiva indeterminatezza del reale e che connota il linguaggio e la poetica di Sorrentino. Sotto tale “cifra”, stilistica e narrativa, definita appunto dalla indefinibilità della realtà e dalla tendenza a “far sentire” la presenza della macchina da presa, in uno schema tattico che si rivela innovativo e vincente,
si pone anche il secondo lungometraggio dell’autore. Le conseguenze dell’amore si colloca nel segno della continuità e dell’ulteriore messa a fuoco del Sorrentino Touch. Tra i due lungometraggi, nel 2002, il regista napoletano collabora alla realizzazione del documentario La primavera del 2002. L’Italia protesta, l’Italia si ferma. Girato da una molteplicità di autori coordinati da Francesco Maselli, il lavoro documentaristico segue le diverse fasi della manifestazione nazionale del 23 marzo indetta dalla Cgil e del successivo sciopero generale del 16 aprile contro il terrorismo e in difesa dell’articolo 18. Una lunga didascalia che ricostruisce il percorso che ha portato alle due giornate di mobilitazione fa da prologo alle immagini – commentate, oltre che dalle parole, dalle musiche di Nicola Piovani – delle assemblee in fabbrica, del viaggio su navi, pullman e treni dei manifestanti, dello sfilare tra le vie e le piazze della capitale di fiumi di manifestanti con le bandiere sindacali, lavoratori garantiti e precari, immigrati e no global, fino al discorso di Cofferati e le fabbriche deserte e silenziose del giorno dello sciopero. Un lavoro collettaneo, realizzato da una moltitudine di registi con 3 milioni di “attori”, come testimonianza di un’Italia che protesta e che sfila per un progetto di cambiamento.
1 N. Giuliano, cit, p. 162. 2 P. Sorrentino, dichiarazioni estratte dalle seguenti interviste e scritti: Entretien avec Paolo Sorrentino, intervista a cura di Lorenzo Codelli, in «Positif», n. 528, febbraio 2005 (poi anche in L. Ceretto, R. Chiesi [a cura di], cit., pp. 43-44); Paolo Sorrentino: il cinema, il divertimento, l’ossessione, in «Cinecritica», cit.; P. Sorrentino, I figli di Frida, in Lia Furxhi (a cura di), L’uomo in più di Paolo Sorrentino, Aiace FAICinema/2, Torino, 2003, p. 10. 3 N. Giuliano, cit., p. 162. 4 M. Giuliano, ivi, p. 163. 5 P. Sorrentino, in Divi & antidivi, cit., p. 146. 6 «Ho dunque scelto questa storia di due universi paralleli. Fare confluire due storie, che avrebbero potuto esser due film, in uno solo. […] Era il tema del “doppio”, tema complesso che mi affascina, ma che non sono in grado di sfruttare completamente. Mi ricordo di avere visto parecchie volte La doppia vita di Veronica di Kieslowski, che mi aveva molto impressionato. Così come Professione reporter di Antonioni». In L. Ceretto, R. Chiesi (a cura di), op. cit., p. 44. 7 P. Sorrentino, I figli di Frida, cit., pp. 8-9.
8 Ivi., p. 7. 9 A tale riguardo va notato come Sorrentino abbia deciso di eliminare in fase di montaggio due sequenze, evitando altresì il conseguente rallentamento del ritmo narrativo che il loro inserimento avrebbe implicato. La prima riguarda la frequentazione di Antonio del corso di allenatore al centro di Coverciano, con Enzo Decaro nelle vesti di una sorta di guru del calcio che prepara gli aspiranti allenatori con metodi motivanti e galvanizzanti. La seconda è riferita al conseguimento dello stesso Antonio della licenza media, persuasosi a ripiegare su un altro impiego come una sorta di rivalsa dopo l’abbandono della moglie, con una lunga carrellata, all’interno di un’aula scolastica, sui bambini seduti ai banchi fino allo scoprimento della figura dell’ex calciatore, in stridente contrasto con quelle dei piccoli alunni, seduto all’ultimo banco alle prese con lo svolgimento del tema incentrato, incongruentemente, sulla problematica dell’adolescenza. 10 Alberto Zanetti, in «Cineforum», n. 409, novembre 2001. 11 Bruno Roberti, in «Filmcritica», n. 519, novembre 2001. 12 Ivi. 13 P. Sorrentino, Paolo Sorrentino: “Lo stupore delle vite ordinarie”, intervista a cura di Angela Prudenzi, in «Cinecritica», n. 34/35, aprile-settembre 2004, p. 37. 14 P. Sorrentino, A proposito del Divo: intervista a Paolo Sorrentino, a cura di Nicola Lusuardi e Gino Ventriglia, in «Script», n. 44/45, settembre 2007-aprile 2008, p. 116. 15 «Prima di iniziare le riprese, faccio a modo mio, perché non so disegnare, una specie di story board, che per me significa fare un’ulteriore stesura della sceneggiatura, perché certe volte i luoghi in cui devi girare ti parlano in modo diverso da ciò che avevi previsto sul copione. Se hai immaginato una casa e ti trovi davanti un castello, evidentemente devono cambiare i dialoghi e anche le situazioni. Lo story board non mi serve per ricordarmi di fare un primo piano o un campo lungo, ma per descrivere meglio l’azione una volta che ho presente il luogo dove devo girarla». P. Sorrentino, intervista a cura di P. Spila e Bruno Torri, in «Cinecritica», cit., p. 10. 16 A. Zanetti, cit.
3. L’uomo con la valigia: Le conseguenze dell’amore
«Mi trovavo a San Paolo, in un albergo che aveva un bar tutto di legno, molto atipico per il Brasile: c’erano 50°, dentro era Tirolo. Gli uomini che erano seduti lì mi incuriosivano e allo stesso tempo mi disorientavano, perché non avrei saputo dire da dove venivano, se avevano famiglia, se trattavano affari loschi o erano normalissimi manager. […] Mi hanno colpito questi uomini d’affari, un po’ gli stessi ovunque. Li ritrovavo a Stoccolma come in Brasile. Rappresentavano degli universi sconosciuti, misteriosi. […] Il film nasce dal desiderio di scavare nella vita di uno di questi uomini, di una di queste apparizioni temporanee e fugaci che io vedevo ai bar degli hotel. Quando mi raccontavano delle storie, li trovavo molto ambigui. Potevano essere dei tranquilli padri di famiglia di passaggio, oppure, ipotesi più mostruose, dei maniaci di prostitute minorenni. […] Sono partito da uno spunto minimo, un gesto colto di sfuggita, per inventare la biografia di un personaggio che vive in situazioni molto lontane da me. Inoltre sono molto affascinato da quelli che il sociologo Marc Augé definisce non-luoghi, come aeroporti, stazioni, alberghi, ed alle persone che vi si muovono dentro»1. Da un viaggio, da un ambiente, dagli incontri con personaggi diversi e ignoti, da una situazione che lascia adito alla fantasticheria e, soprattutto, dalla capacità di elaborazione
creativa delle impressioni, dall’inclinazione alla visionarietà e da un atteggiamento di curiosità verso le cose del mondo e le persone trae origine Le conseguenze dell’amore: «In gioventù – ha ricordato ancora l’autore – prima di scoprire il cinema, se mi domandavano cosa volevo fare da grande rispondevo: il professore universitario o il ricercatore. E questa cosa mi è rimasta, perché prima di girare un film analizzo e studio il tema come fossi un ricercatore, così soddisfo la mia curiosità. Mi dico: “che bello adesso mi posso mettere a studiare”. […] prima di fare Le conseguenze dell’amore sono stato un anno a leggere tutto quello che si poteva sulla mafia in maniera molto empirica e disordinata, anche perché non ho gli strumenti per essere uno studioso. Quella è la mia grande curiosità: quando intravedo un mondo che posso studiare e scoprire»2. Un albergo, un uomo segregato nel suo spazio asettico e anonimo e serrato in un involucro di solitudine, e un potere soverchiante che, di quell’essere, ne ha prosciugato e desertificato l’esistenza rendendolo, non molto diversamente dai due protagonisti del precedente film, un naufrago della vita, un escluso e un recluso, un «borderline del successo»: di L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore appare come una variazione e un ampliamento. Scritto in pochi giorni durante le festività natalizie del 2002, e realizzato nell’autunno successivo in una sinergia produttiva tra Indigo Film e Fandango, il secondo lungometraggio dell’autore viene presentato in concorso al Festival di Cannes 2004. In un albergo né lussuoso né ordinario di una piccola città della Svizzera italiana, ormai da molti anni si trascina e si consuma la vita piatta, monotona e metodica del cinquantenne Titta Di Girolamo. Vive lì, confinato in quel ristretto spazio, tra la propria camera e la hall, trascorrendo il tempo nella iterazione di consolidate e inveterate abitudini: osserva gli avventori, scambia sporadiche e scarne battute con chi cerca di incunearsi nella sua solitudine, annota sintetiche frasi e pensieri su un taccuino, intrattiene frettolose e fredde conversazioni con la famiglia in Italia, si concede qualche sporadica partita a carte con due anziani coniugi – Carlo e Isabella, gli ex proprietari dell’albergo ormai decaduti, i quali hanno fatto anch’essi di quella stessa residenza la loro prigione – subendo con passività gli inganni del vecchio (aduso a barare) e origliandone, nelle notti insonni, le loro conversazioni con uno stetoscopio accostato alla porta della loro camera. Saltuariamente, unico “svago” che si concede, si reca a un grande centro commerciale, aggirandosi inerte tra i lucidi pavimenti, le scale mobili e lo
scintillio abbagliante e stordente delle vetrine che mettono in mostra abiti di alta sartoria. Degli altri consueti “riti” che scandiscono l’esistenza di Titta fa parte la dose settimanale di eroina, assunta invariabilmente ogni mercoledì alle 10 di mattina, e, soprattutto, il saltuario arrivo di misteriose valige piene di soldi che egli, senza neanche aprirle ben conoscendone il contenuto e ben sapendo cosa deve farne, carica immediatamente nel bagagliaio della sua auto recandosi a consegnarle in una banca, rimanendo poi lì, con aria assente e distaccata, ad aspettare che gli impiegati finiscano di contare a mano, una ad una, l’ingente quantità di banconote. La sua spenta metodicità e la sua impassibilità cominciano ad alterarsi a causa di alcuni eventi inattesi e imprevisti. Dapprima riceve la visita del più giovane, attivo e gaudente fratellastro Valerio il quale, in partenza per le Maldive, gli racconta che Dino Giuffrè, un vecchio amico di Titta (il quale continua a ritenerlo il proprio «migliore amico» pur non vedendolo da venti anni), lavora in Trentino, tra le montagne isolate, come riparatore dei tralicci della luce. Successivamente deve subire l’incursione di due sicari mafiosi che occupano temporaneamente la sua stanza, utilizzandola come base d’appoggio per la “missione” (l’uccisione del pentito Martusciello e del figlio paralitico) ordinatagli dal boss, compiuta la quale lasciano l’albergo. Ma è soprattutto la presenza della barista dell’hotel, Sofia, la giovane e avvenente donna che sembra riservargli delle attenzioni, a far increspare e flettere la linea piattamente orizzontale della sua vita. A seguito, un giorno, della reazione brusca e impulsiva della giovane, che lo rimbrotta di non ricambiare mai il suo saluto, Titta abbandona il suo distaccato atteggiamento sedendosi per la prima volta al bancone del bar. È l’avvento di un cambiamento. Pur non abbandonando la propria laconicità, ma mostrando comunque segni di incrinamento della propria imperturbabilità, egli accoglie dentro di sé quel turbamento amoroso che, in un crescente coinvolgimento sentimentale, lo induce, di lì a non molto, a regalare alla ragazza una costosa Cabriolet, dopo aver sottratto centomila franchi da una delle solite valige e dopo aver abilmente saputo camuffare l’ammanco dei soldi dinanzi al direttore della banca. All’offerta, tuttavia, del costoso regalo, Sofia, forse equivocando e diffidando di colui che al proprio sguardo rimane ancora uno sconosciuto, un individuo di cui oscuro le è sia il passato che il presente, reagisce dapprima con un rifiuto. Più tardi, in preda a un senso di colpa, si reca nella stanza di Titta il quale, dopo aver assunto la droga contravvenendo alla
settimanale, inveterata consuetudine, le svela la propria identità, le parla delle proprie abitudini e del segreto che nasconde: le racconta della sua pratica di assunzione di eroina e del suo passato, di quando lavorava come broker, dell’investimento rovinoso che un giorno aveva fatto per conto della mafia, del successivo confinamento in Svizzera a cui per punizione è stato obbligato, e del forzato incarico, come emissario del clan, di riciclaggio di denaro sporco. Appresa la verità, la ragazza riacquista la fiducia nei confronti di Titta e sembra ricambiare i suoi sentimenti. Con lui, per festeggiare l’imminente compleanno dell’uomo, fissa un appuntamento per l’indomani. Ma un doppio contrattempo impedisce il loro incontro: l’incidente che Sofia, recandosi all’appuntamento, ha con l’auto ricevuta in dono, e, prima ancora, l’aggressione dello stesso Titta da parte dei due sicari mafiosi che lo derubano della valigia appena recapitatagli, contenente nove milioni di dollari, prima della consegna in banca. All’emissario di Cosa Nostra, che lo interroga, Titta racconta al telefono dell’accaduto, ma si rifiuta di partire subito per la Sicilia, dove è stato convocato con impellenza per un chiarimento, non volendo mancare all’appuntamento con Sofia del cui incidente egli è ignaro. Deluso dall’assenza di lei, persuaso che la giovane abbia cambiato idea, decide di partire e di incontrare l’emissario. Giunto in Sicilia, viene condotto nella sotterranea sala riunioni di un hotel dove avviene l’incontro-processo con gli esponenti di Cosa Nostra, trovandosi al cospetto del boss Nitto Lo Riccio. A lui Titta riferisce di essere riuscito a rientrare in possesso della valigia (dopo aver ucciso i due sicari), ma di non avere alcuna intenzione di restituirla. Determinato a non rivelare il nascondiglio (si offre, la valigia, traboccante di soldi, allo sguardo attonito dei due anziani coniugi, squadernata sul letto della loro stanza, ai quali Titta ha deciso di lasciarla), viene portato in una cava deserta. Agganciato a una gru, viene lentamente calato in una forma di calcestruzzo, lasciandosi immergere in essa, mentre il suo pensiero, prima dell’atroce morte, va a quel lontano amico che, su un traliccio dell’elettricità in alta montagna, sembra per un attimo fermarsi e pensare a lui. Citando Viaggio al termine della notte di Céline, in più di un’occasione Sorrentino si è soffermato sull’idea dell’“immagine potente”: l’idea, in sintesi, «che dentro un’immagine, una scena, un dialogo tra due attori o un monologo di un attore si crei qualcosa che sia sconvolgente ma non provocatorio»3. Potenti, dotate di una forza espressiva e comunicativa in grado di riverberarsi nell’intero corpo del testo filmico si pongono, nelle
opere dell’autore, le immagini iniziali, le quali si strutturano come microcosmi, carichi di tensione drammatica o lirico-figurativa, quasi autonomi poemi visivo-sonori essi stessi capaci però di illuminare il macrocosmo del testo conferendogli fin dall’inizio una precisa impronta stilistica, emotiva ed autoriale. L’incipit, nei film di Sorrentino, riveste sempre un’importanza decisiva. Come già in L’uomo in più, il segmento iniziale di Le conseguenze dell’amore, agendo nella direzione della essenzializzazione, possiede quella potenza in grado di compendiare un intero mondo e, con esso, quegli elementi che connotano il cinema di Sorrentino, colti, appunto, nella loro essenza e nella loro pregnanza. La lunga inquadratura di apertura (della durata di quasi due minuti), rigorosamente fissa, mostra un lungo corridoio di cemento armato, illuminato da due file di luci al neon il cui freddo bagliore si riflette sul lineolum lucido e chiaro del pavimento; dalla profondità del corridoio, spostandosi su un tapis-roulant, in modo quasi impercettibile avanza una figura indefinita, muovendosi verso l’ideale punto di fuga del quadro evidenziato dalle dritte pareti, su cui risaltano delle lunghe linee orizzontali parallele al soffitto, e dai corrimano che delimitano il nastro trasportatore. Simile a un manichino, la rigida e scura silhouette si avvicina lentamente alla macchina da presa situata all’estremità del nastro, al termine del quale, in basso, pulsa una luce bianca. La figura, che gradualmente si definisce in quella di un fattorino in livrea, porta una valigia. Giunto al termine del suo lento trascinamento – mentre un breve carrello verso destra, trasformandosi poi in una altrettanto breve panoramica nella stessa direzione, interrompe la fissità della composizione – l’uomo abbandona il tapis roluant e, mantenendo lo sguardo fisso davanti a sé, senza mutare l’impassibile espressione e proseguendo il suo rigido incedere, vira leggermente sulla sua sinistra, nel forte stridio che le ruote della valigia, scorrendo adesso sul pavimento, producono.
Fortemente geometrica e prospettica, l’immagine fornisce sinteticamente e simbolicamente l’impronta spaziale e temporale in cui si colloca la materia narrativa, enucleando i dati tematici che troveranno svolgimento e ampliamento nel prosieguo della storia. Illuminato da una luce algida e ospedaliera che accentua la freddezza delle tonalità cromatiche, lo spazio del corridoio (che si rivela quello del caveau di una banca) si impone nella sua glacialità, nella sua scabrezza e nella sua vuotezza. Inerte e immobile, bloccata in una fissità come quella di una statua, la figura dell’uomo accentua il senso di isolamento e di chiusura. Come molti altri spazi che definiscono la realtà che i film di Sorrentino fanno emergere, e nei quali i suoi personaggi si ritrovano a orbitare e fluttuare nel vuoto esistenziale che li circonda, quel corridoio su cui a lungo l’obiettivo si mantiene nell’inquadratura iniziale si configura come un non-luogo, uno spazio disgregante in cui la vita è sottoposta a un processo di rarefazione e di evaporazione e in cui i personaggi che li abitano, o che in essi sono relegati e confinati, sono fissati nel loro nonessere, immobilizzati in un tempo che non ha divenire. «Lo spazio del non luogo – ha scritto Marc Augé – non crea identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine. Esso non lascia spazio nemmeno alla storia […]. L’attualità e l’urgenza del momento presente vi regnano»4. Recintato e reclusivo, il non-luogo è sospeso in una atemporalità che stacca i gesti, i comportamenti e le parole dal mondo circostante. In esso la storia si annulla, cristallizzata in un presente che si perpetua sempre uguale a se stesso.
L’intera vicenda, a ben vedere, si costruisce e si dipana attraverso una successione di spazi, gli unici possibili, astratti e disidentificanti, partecipanti a una medesima condizione di estraneità. Simbolico non-luogo, innanzitutto, è il paese dove la vicenda – in una cittadina non meglio precisata del Canton Ticino (il cartello stradale ben visibile dalla vetrata del bar con la scritta “Lugano”, sopra a quello indicante la direzione di Mendrisio, lascerebbe presupporre che non si tratti strettamente di questa città) – trova ambientazione: quella Svizzera italiana «che è al centro dell’Europa ma non è Europa, che è Italia ma non è Italia…»5, quasi sorta di no man’s land senza storia né passato, terra neutrale divenuta dimora di un’umanità composita, paese che riflette l’immagine dell’efficienza, della pulizia, dell’ordine, della perfezione e del benessere, ma anche dell’affarismo, rifugio di faccendieri, finanzieri di promiscua estrazione, uomini d’affari che con i guanti vellutati gestiscono traffici economici, in operazioni in cui labile e sfumato è il confine tra la legalità e l’illegalità. La Svizzera è il paradigma del paradiso (fiscale) ma anche del purgatorio (esistenziale), delle possibilità (di sopravvivenza) ma anche delle limitatezze (di azione), della libertà ma anche dell’esilio e della reclusione: «la Svizzera – ha precisato il regista – ha un’identità fluida, poco riconoscibile. C’è una forte idiosincrasia tra il mondo della gente comune, che è minoritario, e l’universo dei ricchi, che è impenetrabile. Tutto accade in interni, dall’esterno non si vede nulla. In Svizzera trovi banche ad ogni angolo di strada, ma dentro non c’è la gente in coda come da noi: c’è il vuoto, il silenzio totale, una sola persona allo sportello. La difficoltà di mettere a fuoco certi ambienti ha stimolato la mia immaginazione e mi ha spinto a raccontarli»6. Il paradigmatico macro non-luogo che la Svizzera rappresenta si scompone in – contenendoli – una serie di micro spazi anch’essi simbolo di spersonalizzazione, luoghi della solitudine, dell’interazione strumentale e contrattuale, dell’anonimato, della non identitarietà: come l’angusto, oppressivo e isolante corridoio dell’incipit, raffigurato in un gioco prospettico che ne mette in risalto la sua chiusura, il quale prelude all’altro non-luogo – tra i più emblematici – di cui esso si fa allegoria e del quale diviene una prosecuzione, dove si consuma l’intera vicenda: l’hotel7, spazio di transito, di attraversamento, luogo per antonomasia in cui non è dato riconoscersi come appartenenti, che può essere abitato ma non “vissuto”. Contenitore strutturato in una molteplicità di celle-camere uguali l’una all’altra, l’hotel è uno spazio perennemente provvisorio, di passaggio, dormiente e senza sogni, nel quale
non è dato creare una sedentarietà identitaria, in cui la soggettività va incontro a uno sfaldamento e la memoria non ha possibilità di fondarsi. Al suo interno, nei suoi silenti anditi nei quali la relazionalità si infrange e si disperde nella fuga di stanze e nel groviglio dei locali in cui il suo spazio è strutturato, la macchina da presa, dopo il prospettico quadro iniziale del corridoio, attraverso un falso raccordo di sguardo e in un simbolico continuum si introduce nell’inquadratura successiva, planando sulla figura di una giovane (Sofia) che, dietro al bancone del bar, agitando blandamente uno shaker, si volta verso sinistra a gettare uno sguardo dietro di sé. Al volto della donna, sul quale si abbozza un sorriso, fa seguito, per stacco, quello di un uomo su una poltrona (un cliente dell’albergo seduto nella hall), con il cranio glabro, un papillon di tessuto quadrettato e un paio di occchiali bianchi che incorniciano gli occhi lascivi e danno risalto al suo sguardo lubrico, rivolto fuori campo verso destra, che sembra collegarsi e rispondere a quello della giovane donna. Sulla cui figura, di nuovo per stacco, l’obiettivo si riporta nell’inquadratura successiva: la ragazza arretra di qualche passo, continuando a osservare nella stessa direzione e ritraendosi verso l’estremità del bancone, con il volto parzialmente celato da un lampadario che pende dal soffitto. Ancora uno stacco, a introdurre una nuova inquadratura che rivela il vero oggetto dello sguardo della donna: non l’uomo inquadrato precedentemente, ma un altro avventore – quel Titta Di Girolamo (nella cui scelta del “frivolo” nome è evidente il richiamo a Fellini e al suo Amarcord) attraverso la cui prospettiva la diegesi trova orientamento – seduto in disparte in un altro angolo della hall, il volto seminascosto, una sigaretta tra le dita, in una postura che evidenzia da subito la sua immobilità e inerzia, rivelato dall’obiettivo in un gioco disorientante di sguardi, di falsi raccordi e di falsi campi-controcampi, in un’instabilità percettiva che rende sfuggenti e indeterminati sia il contesto spaziale, l’involucro dell’hotel, che i soggetti in esso racchiusi e reclusi. Tutto appare incerto e indefinito: l’ambiente anonimo del salone dell’albergo, la direzione e l’oggetto degli sguardi, la soggettività della visione, sottoposta a un processo di sdoppiamento che ne sfalda caleidoscopicamente l’univocità. In quel microuniverso entropico, in quell’ambiente che si fa sintesi e simbolo di un «mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero»8, e in cui si produce una diffrazione della visione e uno sfasamento fra il tempo individuale e il tempo reale, vive la sua nonvita Titta Di Girolamo. Fin dall’inizio il racconto ne adotta il punto di vista,
mediante il procedimento della voce narrante off9 (e over) – ironica e distaccata – dello stesso protagonista a cui Sorrentino – recuperando una tradizione consolidata in letteratura della quale il cinema, a sua volta, ha fatto ampio uso – fa ricorso, in una duplice strutturazione del racconto: un “racconto primo” che mette in scena il personaggio focalizzatore, e un “racconto secondo” in cui questi diviene il narratore. La voce narrante opera un’incursione nella coscienza del protagonista che della narrazione, rivolgendosi direttamente allo spettatore, è al contempo soggetto e oggetto, in un film che gioca ampiamente sull’ambiguità dello sguardo (talvolta vediamo la soggettiva, poi il soggetto, e scopriamo che non è quello che credevamo) e sullo scarto di focalizzazione non dichiarato prioritariamente. Del proprio dramma, come sguardo-sapere che contempla un’esistenza e che davanti a sé non trova altro che il proprio fallimento e la propria morte, Titta si fa primo spettatore: «La cosa peggiore – così ha inizio la narrazione in prima persona, mentre l’obiettivo si dirige sulla figura immobile di Titta, ne svela il suo volto imperturbabile, tornando poi a inquadrare, alternativamente, gli altri personaggi nel salone del bar dell’albergo, ancora in un gioco disorientante di falsi raccordi – che può capitare ad un uomo che trascorre la maggior parte del tempo da solo è quella di non avere immaginazione. La vita, già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa, in mancanza di fantasia, uno spettacolo mortale. Prendete questo individuo con il papillon [la macchina da presa mostra il primo piano dell’uomo precedentemente presentato, ai cui lati siedono due giovani donne, e a cui si avvicina la barista chinandosi sul suo tavolo]. Molte persone nel guardarlo si metterebbero a congetturare sulla sua professione, sul tipo di rapporti che intrattiene con quelle donne. Io invece vedo davanti a me solo un uomo frivolo. Io non sono un uomo frivolo. L’unica cosa frivola che possiedo è il mio nome, Titta Di Girolamo». Tra pietrificazione e imbalsamazione Titta, più che vivere, vegeta e sopravvive nella sua impotenza recluso in quel limbo immoto, acquietato e narcotizzato di quel triste albergo, immerso nella cappa di una imperscrutabile malinconia, ormai incapace di sentire e provare emozioni, maschera fissa immobilizzata che, come la figura del facchino nell’incipit del film sembra allegorizzare, lo rende simile a una statua, senza storia né affetti. Derubato della vera vita da Cosa Nostra, obbligato a un’esistenza murata nell’alienante monotonia di giornate che si ripetono sempre uguali scorrendo senza scarti, in una forzata sepoltura esistenziale che non può trovare termine che con l’attuazione di quella fisica e reale, Titta è intrappolato nel nulla,
invischiato nelle paludose sabbie mobili della solitudine, sprofondato in una routine meccanicamente regolata a cui la punizione che gli è stata inferta lo ha (con)dannato. Su un binario rigidamente determinato, sorta di infinito tapis roulant da cui non è concessa la discesa e che procede invariabilmente in una obbligata direzione, in una circolarità che fa coincidere la fine con l’inizio, scorre inerte la sua vita. I suoi movimenti e i suoi gesti hanno luogo all’interno di una vicenda obbligata: egli non può che subirla fatalisticamente, privato di autenticità, alterità e umanità da quel potere mafioso, del quale egli era stato contabile e prestanome, che lì lo ha relegato per uno sbagliato e fallimentare investimento in borsa, imponendogli l’ingrata mansione di riciclaggio del denaro sporco che una misteriosa signora dagli occhiali neri periodicamente gli recapita. In balìa di tale potere che ha annullato la sua personalità e prosciugato la sua vitalità, egli ha l’incarico di depositare il denaro in banca, nell’espletamento di una “cerimonia” che si svolge in una reiterazione fredda dei gesti e di scanditi movimenti e che ha il suo invariato prologo nel (mai preannunciato) arrivo delle valige consegnate nella sua stanza. Quelle valige in cui è contenuto, oltre che il denaro, anche il suo segreto. In esse si cristallizza il suo passato, si coagulano quei fantasmi da cui egli è rincorso. Come apparizioni spettrali, aliene e inquietanti, precedute dalla fugace apparizione della sfuggente donna dagli occhiali neri, esse gli si presentano, e una fuggevole ombra di smarrimento scalfisce per un istante la sua imperturbabilità e impenetrabilità. Rimane lì, fermo sulla soglia della sua stanza – nella sequenza in cui la macchina da presa inquadra per la prima volta la misteriosa valigia, in inquadrature illuminanti e in dettagli di incisiva pregnanza simbolica – a osservare turbato quella presenza ingombrante che, come una ritmica pulsazione, produce un varco nella sua memoria: sollevandosi sopra le sue spalle, la macchina da presa rivela, appoggiato sul pavimento della camera, lo scuro parallelepipedo su cui si fissa lo sguardo del protagonista e in cui si raggrumano i suoi ricordi e la sua inquietudine; alternativamente, in campo-controcampo, l’obiettivo inquadra la valigia e la figura immobile di Titta (che, non distogliendo gli occhi dal bagaglio, chiude alle sue spalle la porta della stanza), cominciando poi a scendere scivolando sulla stessa valigia fino a che questa viene a occupare e coprire l’intero quadro, rivelandone in dettaglio la testura, amplificando la sua valenza simbolica di oggetto spaesante e conturbante. Dalla stessa scura sagoma, dopo una breve dissolvenza in nero che segna una brevissima ellissi, la
macchina da presa si risolleva riportando in campo Titta il quale, ritrovata la consueta freddezza e impassibilità, esegue quasi meccanicamente gli usuali gesti: il prelevamento di una pistola nascosta nell’involucro del televisore e del radiocomando dell’auto da una piccola cassaforte, l’accurata scelta dell’abbigliamento da indossare, il trascinamento veloce e deciso della valigia nel corridoio dell’albergo, la discesa in ascensore, il raggiungimento del garage e lo scoprimento dell’auto dal telone protettivo, il caricamento del bagaglio, l’accensione del motore, il percorrimento del breve tragitto che separa l’albergo dalla banca, il controllo e il riconoscimento da parte delle guardie agli ingressi dell’edificio, l’inoltramento nel sorvegliato garage sotterraneo, l’affidamento dell’auto e della valigia ai fattorini, la salita in ascensore verso un piano superiore della banca. Qui, in un ampio locale, alcuni impiegati prelevano dalla valigia i mazzi di banconote disponendoli su un lungo tavolo disposto al centro della stanza, provvedendo a contare manualmente il denaro, banconota dopo banconota. In disparte, dando loro le spalle, Titta, distaccato ed estraniato, attende seduto davanti a una finestra. La macchina da presa carrella sulla distesa delle mazzette di banconote, coglie in dettaglio i biglietti che con gesti veloci gli impiegati, procedendo al conteggio, fanno scorrere tra le dita. Il loro fruscio aumenta via via di intensità, imponendosi in un primo piano sonoro che copre ogni altro rumore: si fa esso stesso colonna sonora, trasformandosi, agli orecchi di Titta, in musica, in suono del mare, in rumore delle onde, come trasportandolo per un istante in un mondo altro e diverso, inaccessibile, che egli può soltanto sognare o immaginare. Un mondo fantasticato che le parole del direttore, rivolgendosi a Titta, fanno subito svanire: «Perché – gli chiede – ci tiene così tanto che i soldi siano contati a mano dagli impiegati e non dalle macchinette contasoldi?». Il fruscio si interrompe bruscamente, gli impiegati volgono lo sguardo verso Titta, ripreso adesso di nuca, di scorcio, in primo piano. «Non bisogna mai smettere di avere fiducia negli uomini – gli risponde con tono freddo e indifferente – Il giorno che accadrà sarà un giorno sbagliato». Crede nel fattore umano, Titta, dichiara la sua fiducia nell’agire degli individui dal cui consorzio è però isolato, separato, scisso, estraneo al fluire della vita e delle cose. Non ha relazioni, non ha condivisione di memorie né di progetti, il passato sembra non appartenergli, come non gli appartiene il futuro per il quale l’unico proposito è quello, come annota nel suo taccuino di appunti, di «non sottovalutare le conseguenze dell’amore». Congelato in un presente assoluto, si ritrova inghiottito dal buio di un’esistenza che, come il
fumo delle sigarette perennemente accese e fumate che rendono indistinte e inconsistente la sua figura e la realtà che lo circonda, diviene impalpabile, sfuggente, irreale, in una scissione da se stesso e dalla vita. Sospeso sul crinale tra l’esserci e il non esserci, Titta è un residuo spettrale di una vita ormai spenta. Del mondo una volta abitato, dei rapporti un tempo vissuti, non rimane che una flebile eco, un’immagine lontana e vieppiù sbiadita. Solo sulla lontananza e sul ricordo sono fondate le uniche relazioni – o piuttosto l’apparenza di esse, scevre di un’autentica comunicazione – per lui possibili. Legato a un filo, quello telefonico, è il rapporto con la famiglia, sfilacciato e illusorio, che si perde lontano nel tempo e nello spazio, fatto di silenzi e pause, di frasi concise e lapidarie, di parole consuetudinarie e fredde, quando non di ostilità e avversione (i figli che si negano alle sue brevi e sporadiche telefonate). Infattibile, ormai reciso o forse mai realmente consolidato, è il rapporto con il fratellastro, che di Titta è l’opposto (tanto è schivo e refrattario alle relazioni umane l’uno, quanto è esibizionista e vanaglorioso l’altro), separati da una distanza, non solo anagrafica, e da una incapacità di comunicare che il loro fugace, freddo e disagevole incontro nel salone del bar dell’albergo (dove il fratello fa una breve sosta prima di reinventarsi come istruttore di surf al mare assolato dei Caraibi) fa emergere: «Sei sempre stato un uomo superficiale – gli dice Titta con tono di riprovazione, biasimandolo per la sua ambiziosità e fatuità, prima del loro distacco – Anzi non sei neanche un uomo: sei soltanto un ragazzo»). Impraticabile e ormai compromesso è il rapporto con la figura paterna, evocata durante la scarna e difficile conversazione con il fratello («Perché lo dovrei chiama’? Per sentirmi dire ogni volta che sono un criminale?»). E illusorio ed etereo, fondato sul vuoto e sul silenzio, sul ricordo e sull’assenza, è il rapporto con l’amico d’infanzia, Dino Giuffrè, l’amico migliore non più incontrato né sentito da vent’anni («Quando si è amici una volta lo si è per tutta la vita» sentenzia Titta) che il fratello gli menziona e al cui nome Di Girolamo ha un trasalimento: quell’amico di un tempo la cui vita, analogamente a quella di Titta, ha subìto un cambiamento; una vita anch’essa sospesa letteralmente nel vuoto, passata a riparare i cavi dei tralicci dell’alta tensione in montagna, quando i forti temporali e le tormente di neve fanno saltare le linee elettriche. Un lavoro solitario («di merda» secondo il fratello), un lavoro che Titta ignorava e così simile, per certi versi, al suo (in Svizzera, nella segregazione coatta dell’albergo, quello di Titta; in Trentino, nel confinamento tra le montagne,
quello dell’amico): un rispecchiamento di destini, due percorsi che procedono paralleli, intrappolati nell’isolamento, senza possibilità, tuttavia, di incrociarsi. Incapsulato in un’eterna zona di frontiera, imbrigliato in uno spazio in cui ogni emozione, così come ogni eco della realtà esterna, è negata, fuori dal tempo e dalla storia, lontano dalla famiglia che non è più la sua e dalla casa dove non può più abitare, Titta si fa elemento di una rappresentazione di cui, più che soggetto, ne è l’oggetto. Del reale, del mondo da cui è stato estromesso e in cui non può agire e intervenire, non può che essere spettatore. Significativamente e allusivamente la macchina da presa coglie sovente la sua figura in prossimità di finestre, di vetrate, di vetrine, di superfici riflettenti in una simbolica costruzione dell’interazione, o piuttosto della separazione, tra interni ed esterni. Riproposta più volte da angolazioni e in maniere differenti, ripresa a inquadratura fissa, o mediante carrelli e dolly, quella della finestra-vetrata è un’immagine-motivo che ricorre costantemente lungo tutto lo sviluppo diegetico della storia e, più in generale, nell’intero cinema dell’autore caricandosi di allusioni connotative e di polisensi significati, quasi sorta di cornice all’interno della cornice filmica dell’inquadratura. Di fronte a un vetro è posto sovente Titta, ritagliato nella nicchia luminosa che rompe l’uniformità dei muri e delle pareti, proiettandosi sulla vitrea superficie diafana che, più che mettere in comunicazione, divide lo spazio interno da quello esterno marcando la separazione tra lo stesso Titta e il cosmo da cui è escluso. Vicino alla vetrata del bar, nella sala al pianterreno dell’albergo, in un angolo è situata la poltrona a lui riservata. Da lì, da quella postazione modesta e protetta, egli trascorre il tempo guardando le vite degli altri, dei clienti dello stesso albergo e di coloro che passano dalla strada di fronte, abitatori di quel mondo da cui Titta è separato dall’invisibile barriera che, come un sepolcro, sembra cingerlo e chiuderlo in una sorta di loculo tombale. Il motivo della morte, d’altronde, aleggia fin dalle prime inquadrature, esplicitandosi nella scena del passaggio, nella strada di fronte all’hotel, di una carrozza funebre trainata da cavalli, risolto attraverso uno scambio di campi e controcampi, in un’alternanza interno-esterno, e un nuovo equivoco e disorientante gioco di sguardi, accompagnato dal rumore variamente modulato dello scalpiccio degli zoccoli dei cavalli che “congela” e blocca i movimenti dei personaggi. Seduto sulla poltrona in prossimità della vetrata, ripreso dall’esterno, Titta, di profilo con la testa girata verso il fondo
dell’inquadratura, guarda in direzione degli avventori del bar i quali, come in un tableaux vivant, fissano il loro sguardo in un punto indeterminato oltre le spalle dello stesso protagonista, mentre sulla vetrata in primo piano va riflettendosi l’immagine del passaggio della carrozza funebre che, nell’inquadratura successiva (con il rumore dello zoccolio che diviene ovattato) l’obiettivo riprende e segue dall’interno, al di là della testa sfuocata di Titta, con un lento movimento di carrello-panoramica. La breve scena, che introduce il tema della morte a cui iteratamente, nello sviluppo della vicenda, viene fatto riferimento, quasi sorta di motivo conduttore («Ci vuole coraggio a morire in modo rocambolesco», dice Titta, poco più avanti, al vecchio viveur caduto in disgrazia con cui si intrattiene a giocare a carte), ci fa subito percepire, mediante l’immagine della vetrata, il senso di ineluttabile chiusura in cui il protagonista è serrato. Attraverso vetri e finestre egli osserva ciò da cui è escluso, in un processo di fantasmatizzazione del proprio corpo. Apertura verso l’esterno, la finestra è un varco di comunicazione, ma è anche una barriera di allontanamento e di distacco, forma simbolica della separazione tra l’individuo e il mondo. Allegorizza la possibilità all’apertura, ma si propone anche come limite e come chiusura, riducendo la relazione con l’universo a pura relazione ottica. Titta guarda verso l’esterno, ma non può appartenere ad esso, non può abitarlo, non può penetrarlo, non può e non vuole relazionarsi con esso. Dalla finestra della sua camera, da quelle degli altri ambienti che connotano lo spazio anonimo e disidentificante dell’albergo e che si definiscono come differenti celle di una stessa prigione, dalla vetrata del bar, guarda senza tuttavia veramente vedere, corpo privato della sua realtà viva, parvenza evanescente e momentanea. Tutto sembra assorbito e fagocitato da quell’intercapedine che si fa punto di separazione tra il soggetto e l’universo circostante: il passante nella strada che, in una breve gag umoristica, nell’incrociare e nel guardare una giovane donna che cammina, sbatte contro un lampione; la segnalazione luminosa di un semaforo che risalta nell’oscurità della sera; i due ragazzi i quali, nella strada deserta e illuminata dalle luci artificiali dei lampioni, giocano con le racchette rilanciandosi una pallina, la cui immagine appare come inghiottita dalla stessa lastra di vetro attraverso la quale l’insonne Titta, di notte, osserva quel di fuori che si fa inattingibile, lontano dallo sguardo, dal corpo e dal pensiero. Gli stessi scorci esterni, nelle rare, solitarie e inconcludenti uscite del protagonista dal recinto dell’hotel, hanno come sfondo teche di cristallo (le vetrine dei negozi) oppure
sembrano essere contemplati (il lago da cui l’ambiente urbano è costeggiato) come attraverso un’invisibile lamina intransitabile, osservati con uno sguardo inerte che evidenzia l’intorpidimento esistenziale del personaggio, il suo esserci/non esserci che si perde e si dilegua tra le cose, il suo affacciarsi su una realtà avulsa e indifferente. Dissociato dal mondo esterno, Titta è dissociato anche da se stesso: dissociato è il suo atto del guardare, dissociata è anche la sua voce over che si stacca dal suo personaggio, come contemplato da un punto di vista diverso ed estraneo. Simbolicamente la sua figura appare sovente riflessa da specchi, sdoppiata in una serie di rimandi speculari, riprodotta in molteplici rifrazioni che sottolineano la scissione del personaggio e quella tra esso e la realtà. Di specchi, oltre che di vetri, e di superfici levigate, speculari, opalescenti pullulano gli ambienti dell’albergo in cui, come i fili di un’aracnea tela, Titta è catturato. Uno specchio si trova nella hall, un altro nella sala bar dietro al bancone, uno nella saletta dove è il tavolo da gioco, uno è collocato nel vano ascensore, un altro nel corridoio in cui è situata la stanza di Titta, altri ancora fanno parte dell’arredamento della sua camera. Specchi che frantumano lo spazio e le figure riproducendoli in una miriade di rifrazioni. La diegesi del film si costruisce nello spazio deformato di una visione sdoppiata, attraverso, appunto, i rimandi d’immagine, le sovrapposizioni, i riflessi, o l’interposizione di vetri, barriere, sbarramenti tra i personaggi. Il gioco di iperbolica emergenza di un «occhio scorporato»10 si esplicita in particolar modo in quelle inquadrature in cui l’autore ricorre a uno sdoppiamento “al quadrato”: si pensi, ad esempio, all’inquadratura nella quale Titta, accingendosi alla consegna in banca dell’ennesima valigia, viene sorpreso e derubato del denaro da parte dei due sicari della mafia: davanti a uno specchio che riflette il suo volto, egli, ripreso in primo piano di spalle, si riordina con le mani i capelli; sulla destra, su un altro specchio più piccolo di forma circolare incorniciato da una luce, è riflesso un particolare rovesciato, ingrandito e deformato, del viso e delle lenti degli occhiali, mentre sulla sinistra, repentinamente, appare la mano di un sicario che gli punta la pistola all’altezza del collo. In una prospettiva speculare si organizzano dunque molte delle immagini del film, producendo una frammentazione degli ambienti, una dissociazione dello sguardo e della coscienza che non sono solo quelli del protagonista ma, a ben guardare, anche degli altri dimoratori, per costrizione o per necessità, di quello stesso microcosmo che depriva di identità. Come la cameriera addetta
alla pulizia delle camere, che la macchina da presa, non meno significativamente, ritrae dall’esterno, al suo primo apparire, attraverso il vetro della finestra della camera di Titta, colta nella meccanica e stanca iterazione dei gesti quotidiani, nell’invariato, pigro svolgersi delle usuali faccende da cui trapela un senso di mestizia e solitudine: lo straccio da passare con svogliata lentezza sui vetri, i letti da rifare, la parca mobilia da riordinare, le suppellettili da spolverare (è passando lo straccio sullo schermo del televisore – non funzionante – della camera di Titta che ella, facendo cadere involontariamente l’involucro che ne protegge il retro, scopre lo strano contenitore nel quale l’uomo cela la pistola), in un sintetico descrittivismo che rende il ritmo grigio delle giornate, nella rappresentazione di un tempo che torna sempre su se stesso, senza sviluppo. Calcificati nei ricordi, fossilizzati in un passato continuamente evocato come contraltare a un presente chiuso e immoto privo di qualsiasi apertura e prospettiva, sono anche Carlo e Isabella, i due anziani coniugi aristocratici decaduti per debiti di gioco. Segregati, non diversamente da Titta, in quel guscio dove l’esistenza non può passare che di sghembo, anch’essi sono spinti alla deriva della vita, serrati in una triste camera di quell’albergo – del quale la dissennatezza di lui ha portato alla perdita – trasformata in una casaprigione, un ombroso museo-ospizio dove tutto appare imbalsamato. In inquadrature rivelatrici e simboliche la macchina da presa ritrae i loro «corpi curvi a un tavolo», «chinati» su «dei piatti di brodino» o sul piano del tavolo da gioco con le carte tra le mani a giocare con Titta ad asso pigliatutto, come chinata verso la morte è ormai la loro vita: al marito – il quale aspira a compiere, come atto conclusivo della propria esistenza, «qualcosa di spettacolare» o, quantomeno, a mettere in atto una «morte rocambolesca» – con disincanto, rassegnazione e disillusione risponde Isabella: «lo spettacolo è finito […]; siamo vecchi, moriremo qua dentro. Se morirai prima tu io ti seguirò subito dopo, di crepacuore. E viceversa». A rimanere, a evocare ossessivamente i segni della vita trascorsa e di un tempo preterito irrimediabilmente sepolto è la vana illusione di poterlo resuscitare (anche ricorrendo al raggiro con cui l’uomo, sistematicamente, sconfigge Titta al gioco delle carte, fino al suo smascheramento che mette fine all’inganno), sono i rimpianti e i penosi ricordi dei cimeli posseduti e perduti, che fanno affiorare la coscienza di ciò che essi non sono più.
Tutti i personaggi sembrano essere ingessati in ruoli prestabiliti, al servizio di un potere o alla mercè di un fato a cui non possono che piegarsi. Tutti appaiono stretti in una divisa che si fa metafora della gabbia esistenziale in cui ognuno di essi è compresso: ha la livrea nera il fattorino della banca, il grembiule bianco e celeste la cameriera, il completo blu scuro il direttore della banca, anch’egli indotto a prestarsi alla finzione e alla messa in scena del gioco delle parti lasciandosi umiliare – a fronte del bluff messo in atto da Titta per coprire la mancanza di centomila dollari dalla somma consegnata – pur di poter continuare a trattenere il denaro sporco nel proprio caveau. Ha una “divisa da lavoro” anche il sicario giovane – bizzarramente caratterizzato, con una stanghetta degli occhiali rabberciata con lo scotch – giunto dalla Sicilia per eseguire l’uccisione del pentito Martusciello e del
figlio paralitico: una divisa annunziatrice di morte, una stridente tuta colorata di lycra che egli indossa prima dell’esecuzione e che ripone con meticolosa cura dopo il duplice omicidio. Tutti, insomma, indossano un’uniforme, tutti sono oggetto di un rito determinato e fissato, in una cornice chiusa e circoscritta dove non è data alcuna possibilità di movimento, o in cui le mosse, tutt’al più, sono limitate e determinate, soggette a rigide regole: come i pezzi invariabilmente allineati sulla scacchiera disposta sul tavolino davanti alla poltrona su cui Titta siede, all’angolo della sala bar, con i quali mai nessuno gioca, elementi inerti di una recita che si perpetua e che non conosce varianti, in una discrasia della visione e dell’essere, fra ciò che essi sono stati e ciò che sono. Del gioco della vita Titta – e con lui le altre figure che ne condividono la triste sconfitta e l’inesorabile emarginazione – è divenuto una pedina, mero strumento di operazioni bancarie manovrato da un potere criminale che lo ha privato, oltre che della libertà, della propria identità. Defunto come affermato commercialista, come marito e come padre, mai veramente divenuto membro della “famiglia” di Cosa Nostra (con i cui esponenti non ha pressoché nulla in comune, neanche il linguaggio), è precipitato in quell’interstizio in cui labile e indistinguibile si fa il confine tra l’esistere e il non-esistere. È un non-morto che ha rinunciato a ogni vita possibile, rassegnandosi a restarne ai margini e a guardarla dall’esterno, divenendone passivo osservatore. Non vive più, ma guarda vivere, da quel limbo al limite fra la vita e la morte, solo con la propria identità spettrale e la propria ombra, inghiottito nella paludosità di una routine rigidamente disciplinata fatta di rituali minimali e ripetitivi: lo stare seduto sulla stessa poltrona rivolta verso l’esterno dell’albergo, le serali partite a carte con gli anziani coniugi e con il direttore dell’hotel, le saltuarie, solitarie e inconcludenti uscite nello shopping mall, nel trapasso dal nonluogo dell’albergo a un altro non-luogo, dove si consuma l’unico diversivo della passeggiata, composto da geometrici spazi asettici, corridoi, scale mobili, lucernari, vetrine riflettenti, materializzato in uno scintillio abbagliante e stordente di immagini, luci, colori. Rituali vuoti, privati di senso, ripetuti nel lento scorrere del tempo che l’insonnia di cui Titta soffre (e, visivamente, le frequenti inquadrature nelle quali appaiono orologi e sveglie) dilata ed esaspera: «Esiste nel mondo una specie di setta – recita ancora la voce narrante del protagonista – della quale fanno parte uomini e donne, di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età, razze e religioni. È la setta degli insonni, e io ne faccio parte, da dieci anni. Gli uomini non aderenti alla
setta a volte dicono a quelli che ne fanno parte: se non riesci a dormire puoi sempre leggere, guardare la tv, studiare o fare qualsiasi altra cosa. Questo genere di frasi irrita profondamente i componenti della setta degli insonni. Il motivo è molto semplice: chi soffre d’insonnia ha un’unica ossessione, addormentarsi». Immagini di lancette, di luci semaforiche (segnalanti anch’esse lo scorrere temporale) scandiscono il tempo che fluisce lento, angoscioso, in una dimensione quasi irreale. È d’altronde il rapporto con il tempo – ovvero il lavoro che Sorrentino fa su di esso, nella duplice accezione di tempo cronologico (e storico) e di tempo narrativo (e cinematografico) – a disvelare la grande capacità espressiva del regista, la sua ricchezza di invenzione, attestando il carattere peculiare e innovativo della sua complessiva opera: nella quale, alla particolare organizzazione e “densità”spaziale, si unisce lo specifico spessore temporale che egli conferisce ai suoi racconti, strutturati secondo un fluire narrativo improntato alla rappresentazione di un tempo interiore (quello non della prassi oggettiva ma della vita soggettiva dell’individuo) che talvolta sconfina nell’irrazionale, nell’onirico, nella creazione di una dimensione in cui più piani temporali coesistono e si sovrappongono. Il risultato è un tempo diegetico che subisce contrazioni o dilatazioni, restringimenti o sospensioni, attraverso soprattutto i lenti e avvolgenti movimenti di macchina a cui il regista fa ricorso – cifra stilistica tra le più ricorrenti e identificabili del cinema sorrentiniano – o le lunghe inquadrature, alternate talvolta a immagini di breve o brevissima durata, e i piani sequenza interminabili. Alla determinazione del peso della temporalità è tuttavia legata l’intera organizzazione di quei procedimenti tecnico-espressivi che, nel loro complesso, sostengono o frantumano il tempo, sottolineano dei particolari o manifestano delle pause. In tale direzione, ad esempio, agisce l’uso del ralenti: già impiegato da Sorrentino in L’uomo in più – nella pur breve inquadratura dell’infortunio occorso ad Antonio, quale ideale soggettivizzazione del suo punto vista, con la macchina da presa piazzata a livello del terreno di gioco a riprendere frontalmente l’allenatore e il massaggiatore della squadra che accorrono a prestare soccorso al giocatore crollato a terra – in Le conseguenze dell’amore esso trova applicazione in due momenti diversi della vicenda, nei quali il tempo della rappresentazione ha un durata maggiore rispetto al tempo reale. Nel primo la macchina da presa, come possibile soggettiva di Titta, segue Sofia che, con un vassoio in mano, scende gli scalini che conducono alla sala bar dirigendosi verso
l’angolo in cui il protagonista è seduto; nel secondo, come controcampo a una precedente soggettiva del protagonista, l’obiettivo mostra il suo arrivo all’aeroporto in Sicilia e il suo incerto avvicinarsi al sicario mafioso da cui è atteso, prima di essere condotto al cospetto del boss. In entrambi i casi (e nei vari momenti in cui tale procedimento troverà impiego nelle successive opere dell’autore) il ralenti manifesta un’alterazione della soggettività del personaggio, l’insorgere di un turbamento (causato nel primo caso dalla giovane barista che sovvertirà l’ordine delle cose incrinando il precario equilibrio del suo mondo, nel secondo caso dall’esponente di quel potere mafioso che dell’esistenza di Titta manovra i fili tessendone la trama), la percezione di un tempo dilatato. Alla costituzione del grado di tensione temporale, e quindi del ritmo narrativo, è ricondotto il fascio di tutti gli altri procedimenti formali a cui Sorrentino, in una regia sorvegliatissima, fa ricorso. Si pensi all’uso del sonoro, alle irruzioni della musica – che alterna ritmi sincopati ed adagi – all’uso significante di certi suoni e rumori, come il già ricordato fruscio delle banconote nella sequenza del conteggio del denaro, o il ticchettio amplificato di un orologio nella sequenza dell’assunzione da parte di Titta dell’eroina. O si pensi, ancora, ai vuoti e ai tempi morti attraverso i quali il racconto procede, in una inazione in cui i comportamenti ossessivi di Titta, le volute bianche e dense del fumo delle sigarette da cui sovente è avvolta la sua figura o i fuori fuoco che ne dissolvono e sfumano i contorni, il silenzio, l’attesa acquistano espressivo rilievo. Tutto, l’azione come la vita, appare sospeso in un tempo che per Titta fluisce angoscioso, nel trascorrere delle giornate che si ripetono all’insegna dell’inerzia a cui neanche le notti sembrano porre fine: notti insonni passate a origliare da dietro una porta, captando con uno stetoscopio gli stralci di conversazione dell’anziana coppia che vive nella stanza difronte alla sua, o a supplire alla mancanza di una reale presenza fisica femminile e del sesso praticato con il sesso immaginato popolato di fugaci visioni di corpi e volti immateriali che il ricordo fa illusoriamente apparire (la moglie con l’abito da sposa, la donna bionda osservata di sfuggita al centro commerciale, le occasionali clienti dell’albergo sedute sulle poltrone, la barista che si cambia la veste davanti allo specchio). Spossessato della propria esistenza, spossessato dei luoghi, spossessato della propria identità, spossessato degli affetti familiari, spossessato anche del sonno, Titta non dispone di alcunché. Di un’unica cosa può ancora avvalersi, qualcosa che il potere occulto e piovresco da cui la sua umanità è stata
prosciugata non gli ha ancora sottratto: la materialità del corpo, elemento attraverso il quale poter rivendicare una propria soggettività, sorta di filtro, o di schermo, interposto tra sé e il mondo. Con la maschera di apparente indifferenza e sconcertante impassibilità che si è modellato, una maschera ermetica e impenetrabile, con il suo indurimento e la sua glacialità egli reagisce al vuoto in cui è costretto replicandolo, riflettendolo come una superficie speculare. Alla solitudine in cui è serrato reagisce con l’assunzione radicale della solitudine stessa. Non ride mai, non risponde ai saluti né ai sorrisi, irrigidito in una immobilità elaborata e messa in atto come unica strategia di sopravvivenza. L’indurimento, l’annullamento di qualsiasi espressione emotiva, la rigidezza della muscolatura facciale, il processo di sottrazione gestuale sono il segno, portato alle estreme conseguenze, assolutizzato ed esasperato, di una semioticità corporale con cui tentare, paradossalmente, di opporsi alla coercizione subita, di affermare una fittizia individualità negata. Dietro le posture e gli atteggiamenti pietrificati, Titta soffoca i moti emotivi che tuttavia affiorano, repentini e incontrollabili, incrinando la sua imperterrità: basta il richiamo alla memoria dell’immagine dell’amico di un tempo, o l’arrivo imprevisto e non programmato dei due sicari, o un semplice accenno al periodo dell’infanzia («Mai!», ripete con un anomalo tono acuto della voce, attirando per un attimo verso di lui gli sguardi sorpresi e stupiti degli occasionali compagni di gioco, riprendendo l’osservazione dell’anziana Isabella riguardo all’importanza di non rompere mai il cordone ombelicale con l’età della gioventù) perché sulla sua maschera si producano screpolature lasciando trapelare la latente umanità. Attraverso il corpo, intorpidito e anestetizzato, egli cerca di sottrarsi al controllo dello spazio istituzionale e del potere totalizzante; attraverso il corpo insegue il tentativo di forgiare una propria soggettività alterata. Tesa alla creazione di un’identità fittizia e alla illusoria riappropriazione del sé è la pratica, metodicamente seriale, della settimanale assunzione dell’eroina, programmaticamente e invariabilmente applicata ogni mercoledì mattina, da ventiquattro anni, sempre alle dieci in punto: pratica che, in realtà, vissuta in modo abitudinario e ritualizzata, è divenuta, al pari di tutte le altre iterate pratiche e gesti da lui introiettati, routine rigidamente disciplinata, sospingendolo e relegandolo anch’essa in quella zona borderline in cui labile e sfumato si fa il confine tra una soglia e l’altra, tra uno stato e l’altro. Titta esiste ma non vive, è alle dipendenze della criminalità organizzata ma non è
un criminale, si droga ma non è un drogato: «Sulla droga – recita ancora la sua voce over mentre l’obiettivo palesa allo spettatore il suo “segreto inconfessabile” – la società civile tende a semplificare, distinguendo il mondo tra tossicodipendenti e non tossicodipendenti. Questa separazione netta non tiene conto di situazioni intermedie molto diffuse, come la mia […]. Non posso definirmi un tossicomane, non posso definirmi un uomo estraneo al problema della droga». Il ricorso all’eroina si configura anch’esso, per Titta, come tentativo di modificazione del proprio corpo e, con esso, del proprio stato sensoriale che si allarga e sconfina in una dimensione onirico-allucinatoria alla quale la macchina da presa, in due differenti, speculari sequenze, dà visivo spessore attraverso funambolici movimenti, in un distorcimento della realtà, in una alterazione della percezione dello spazio come del tempo che restituisce il distorcimento coscienziale del protagonista. Come un rito, regolato dai gesti consuetudinari, nella semioscurità della sua stanza, accanto alla sveglia che segna le dieci in punto, Titta procede all’assunzione della dose settimanale della bianca sostanza: il braccio disteso, il laccio emostatico posizionato sopra il gomito, l’iniezione endovenosa, la mano chiusa a pugno e poi aperta. Di fronte, sullo sfondo, il contorno sfuocato della finestra chiusa da un’inferriata su cui l’obiettivo, correggendo il fuoco, si dirige inclinandosi verso il basso e rivelando in campo medio dall’alto uno scorcio dell’esterno, la strada sotto l’albergo verso il cui ingresso vediamo avanzare la figura di Sofia. Dalla grata la macchina da presa, invertendo il movimento, si ritrae tornando a inquadrare l’interno buio della camera: tre figure, un uomo e due donne, con un abito talare bianco e un crocefisso appeso al collo, sono sedute a un lato del letto dove Titta, adesso, giace interamente avvolto in una coperta. Destandosi dal suo stato allucinatorio si alza con uno scatto repentino, per poi distendersi in un nuovo abbandono. Il corpo si contrae e si irrigidisce, si distende e si rilascia; la mente fluttua, il tempo e lo spazio si flettono e si incurvano. Interamente risolta attraverso un complesso movimento di macchina – in una vera e propria acrobazia dello sguardo – e la sincronizzazione tra esso e il movimento del corpo dell’attore, è l’inquadratura della seconda iniezione di eroina che il protagonista, trasgredendo all’inveterata abitudine, assume dopo la disillusione amorosa causata dall’iniziale rifiuto di Sofia del dono offertole e la disattesa delle sue aspettative, in uno sfasamento visuale che allegorizza ed evidenzia lo sfasamento sensoriale: partendo dal piano ravvicinato del
protagonista ripreso di schiena, seduto di lato sul letto della camera, la macchina da presa, dopo un movimento in avanti a stringere sulla nuca, effettua una duplice rotazione di 180° sull’asse verticale, combinata con un movimento di dolly prima a scendere poi a salire, mentre Titta, sotto l’effetto della droga, si accascia lentamente all’indietro, con la testa penzolante che sporge dal bordo del letto. Unendosi a un movimento prima di avanzamento poi di arretramento l’obiettivo scivola sul volto capovolto del personaggio rivelandone i dettagli, in una prospettiva rovesciata che segna l’inoltramento di Titta – e insieme dello spettatore – nella dimensione di una realtà trasfigurata priva di limiti, coercizioni, ingabbiamenti. I quali riprendono di nuovo il sopravvento, come forma di autoreclusione e di autocontrollo, non appena l’effetto allucinatorio svanisce e quella realtà fittizia si dissolve: l’individuo ritorna allora soggetto passivo, il suo corpo infunzionale, il suo volto catatonico come riflesso della serialità automatica degli atteggiamenti. Le posture, i movimenti, i gesti vengono allora ricondotti nella griglia di un comportamento rigido e programmato simile a quello di un automa: come una macchina, di cui egli in fondo non è che un ingranaggio, Titta agisce e si muove, nell’iterazione dei compassati movimenti sempre uguali, sicuri e impersonali. Come una macchina che necessita di periodica manutenzione si sottopone, una volta all’anno, al lavaggio completo del sangue, una pratica medica costosissima, a ribadire la sua robotizzazione. Come una macchina Titta ha imparato a narcotizzare ogni sorta di emozione, come unico modo possibile di rapportarsi all’ambiente e al potere a cui soggiace. Potere del quale ha assimilato la connotazione coriacea, la capacità di non svelarsi, di condurre il gioco mostrandosi per ciò che non è e con ciò che non ha, di ribaltare le situazioni attraverso sottili escamotage dialettici o bluff portati alle estreme conseguenze: come quello messo in atto con il direttore della banca nel momento in cui quest’ultimo, e gli impiegati intenti al conteggio dei soldi, si avvedono dell’ammanco dalla somma consegnata. Negando l’evidenza, Titta, con l’aplomb di un professionista giocatore di poker, rilancia, rovescia le parti, ostenta la risolutezza di chi ben conosce la debolezza altrui: con la sigaretta in mano, volgendo le spalle all’azione, con superbia e sdegnosità respinge le insinuazioni del direttore inducendolo ad accondiscendere, con un ipocrita sorriso, alla meschina finzione dell’impiegata che allunga la mano ad afferrare ed estrarre dalla valigia delle inesistenti mazzette di banconote. Contro la sua statuaria immobilità e la sua apparente insensibilità rimbalzano
gli sguardi e le domande di coloro che, attirati dalla sua riservatezza maniacale, cercano di incunearsi nella sua interiorità e penetrare i suoi insondabili segreti. Proprio nel tentativo di sottrarsi a ogni rapporto e a ogni tipo di relazione, di estraniarsi dal mondo e di sfuggire al bisogno di esternare i propri sentimenti e la propria umanità, Titta fa convergere su di sé le attenzioni e l’interesse indiscreto di chi gli sta intorno. Cerca di forzare la corazza dietro cui egli è trincerato il cliente dell’albergo che gli chiede della sua professione, e al quale Titta, ricorrendo a un’evidente e sardonica menzogna, risponde di lavorare «per una grossa associazione di intermediazione finanziaria, la “Moulinex”». Tenta di sapere il suo segreto il direttore dell’albergo – che camuffa con una finta discrezione la propria visione mercantilistica delle relazioni umane – al quale il protagonista, come risposta, “sfidandolo” a una sorta di duello dialettico in cui ognuno dei due è chiamato a svelare il proprio segreto inconfessabile più recondito, racconta l’aneddoto, insieme tenero e feroce, della minestrina sottratta al fratellino piccolo. Cerca di ottenere le sue attenzioni, soprattutto, Sofia, l’essere che di Titta appare come l’opposto (all’immobilità del protagonista si contrappone l’espressività della giovane, all’età adulta dell’uno fa da contraltare la giovinezza dell’altra, all’introversione e alla chiusura del primo fa da contrasto l’espansività e la socievolezza della seconda) ma anche, al contempo, come suo riflesso speculare, nella condivisione di una simile solitudine e di una simile enigmaticità proiettata nello spazio angusto e totalizzante dell’albergo (le sue conoscenze, infatti, e i suoi rapporti umani sembrano essere circoscritti anche per essa al solo microuniverso dell’hotel). È il suo bisogno di contatto umano a indurla, esasperata dall’apparente disinteresse che l’ospite dimostra nei suoi confronti, a reclamare da lui un riconoscimento, appunto, umano, foss’anche solo un saluto. È la sua vitalità a innescare in Titta una trasformazione dagli esiti imprevedibili. Come la Sophie di Viaggio al centro della notte di Céline – che Sorrentino cita esplicitamente attraverso un breve brano che una giovane ospite dell’albergo legge all’amica11 – Sofia è l’incarnazione di «una forza allegra, precisa e dolce insieme», portatrice di un turbamento e di un’inquietudine che viene a scompaginare il narcotizzato mondo di Titta. Il cui precario equilibrio va in frantumi, destabilizzato dall’inaspettata insorgenza di un sentimento del quale egli, nonostante il monito annotato nel proprio taccuino, non sa prevederne fino in fondo le conseguenze, e che determina la perdita e l’abbandono dell’autocontrollo e la fuoriuscita dal sé. È una progressiva
attrazione che, anch’essa, passa e si corrobora attraverso sguardi fugaci e rubati, indiretti e obliquati, mediata da una superficie riflettente e originata dal gesto con cui la donna si cambia maliziosamente la veste di fronte allo specchio del bancone del bar lasciando intravedere il seno nudo. Quel gioco di sguardi nascosti e di schermaglie erotiche genera in Titta una forza prorompente che viene a scardinare i suoi ferrei schemi comportamentali. Pur semplicemente accennata e ridotta a mere visioni e sensazioni oculari che escludono un reale contatto corporeo, la pressione dei sensi che in lui si determina conduce a uno stravolgimento e alla riapertura, o all’illusione di essa, di una partita esistenziale amorfa. Sotto quella pressione Titta decide di smettere di perdere, sia nelle partite truccate ad asso pigliatutto (smascherando il baro Carlo) che, soprattutto, nella propria vita. Il semplice intravedere la possibilità dell’amore lo induce a scegliere, ad agire, a divenire da oggetto degli eventi soggetto delle azioni. «Forse sedermi a questo bancone – così si rivolge per la prima volta alla ragazza, dopo essersi attirato la sua rimostranza per l’apparente indifferenza mostrata nei suoi confronti e compiendo la scelta di rispondere alle sue attenzioni – è la cosa più pericolosa che ho fatto in tutta la mia vita»: come nel gioco degli scacchi, Titta decide di uscire dallo stallo esistenziale compiendo una mossa della quale intuisce la pericolosità ma capace di condurre a una trasformazione, a ricostruire un’etica esistenziale a lungo rifiutata, determinando una serie di ulteriori mosse pur nella imprevedibilità del loro esito drammatico. A quel semplice atto – a sua volta determinato dall’evento anch’esso inaspettato dell’arrivo del fratellastro – corrisponderanno delle scelte apportatrici di nuova linfa vitale e obiettivi reali, pur nella fuggevolezza e brevità della loro durata. Spinto dal sentimento amoroso, o piuttosto dal semplice pensiero dell’amore – un amore in realtà che rimane irrealizzato – Titta diviene incube di eventi: sceglie di sottrarre il denaro dalla valigia, sceglie di portare fino in fondo il bluff con il direttore della banca, con l’aplomb del giocatore consumato, per coprire l’ammanco. Incapace o disabituato a esprimere affetti con parole e gesti («Che cosa devo dire.. Che ne so… Che cosa si dice in questi casi… Io sono un commercialista», risponde confuso a Sofia che gli chiede conto del suo comportamento di fronte alla fuoriserie ricevuta in dono, davanti alla quale si manifesta la reazione brusca e sconcertata della donna), sceglie di palesare quel sentimento attraverso l’unico modo per lui concepibile, riconducibile a una visione commercialistica delle relazioni umane entro i cui schemi ha sempre vissuto, accompagnando la ragazza in
quella cornice urbana fatta di negozi asettici e di non-luoghi (il negozio di calzature), comperandole e regalandole oggetti (le scarpe, la costosa cabriolet) che suppliscono alla sua afasia e alla comunicazione verbale. Nel fugace sussulto di sentimenti che lo anima, Titta sceglie di mettersi in gioco, di farsi prendere la mano, di uscire dal torpore, di lasciarsi coinvolgere, fino allo svelamento del suo segreto inconfessabile: sorpreso dopo l’assunzione “fuori orario” della droga dalla ragazza, la quale pretende che il suo “corteggiatore” le riveli la vera identità, egli le racconta la sua storia di solitario per imposizione, la sua esistenza passata e quella presente, le proprie abitudini e la segregazione in cui è costretto, confessando a qualcuno per la prima volta in vita sua quanto gli è successo, uscendo così dal suo stato di omertà, dissipando la sua impenetrabilità. La sua fissità vacilla, la serialità automatica degli atteggiamenti subisce degli sfasamenti, la bolla in cui è racchiuso e che lo isola dall’ambiente circostante comincia a incrinarsi, sottoposta a pressioni esterne, ad attraversamenti e incursioni improvvise (del fratellastro, di Sofia, dei due sicari che occupano dapprima la sua stanza e successivamente cercano di sottrargli la valigia prima della consegna in banca) che determinano, come in una sorta di reazione a catena, eventi sempre più incalzanti e disruptivi che sfuggono al suo controllo. Il desiderio ritrovato, la riscoperta del bisogno di libertà incondizionata non possono allora che infrangersi contro il caso (l’incidente d’auto che impedisce alla ragazza di presentarsi all’appuntamento, inconveniente che Titta fraintende in senso negativo) e contro i rigidi, condizionanti e inesorabili vincoli imposti dal potere e rivelarsi nella loro beffarda, drammatica illusorietà. Rappresentato nelle sue diverse declinazioni e nei suoi differenti risvolti (grottesco, sarcastico, tragico), quello del potere è uno dei motivi che solca l’intero cinema sorrentiniano. Potere camorristico, potere mafioso, potere economico, potere criminale che ha raggiunto impunemente un ruolo ormai istituzionale, potere politico, potere occulto. Potere legale o illegale, lecito o illecito, che agisce nell’apparente rispetto delle leggi o nel sovrano disprezzo di esse. Potere che si manifesta nel suo aspetto soverchiante e nelle sue logiche aberranti. Potere che conforma la vita pubblica e pervade quella privata, e che i personaggi sorrentiniani detengono o subiscono, nel delineamento dei diversi rapporti di forza nelle cui dinamiche essi assumono, di volta in volta, il ruolo di dominatori o dominati, soggiogatori o sottomessi, vincitori o perdenti. Sui rapporti di forza, nella loro rappresentazione
sardonica, si imposta il cortometraggio d’esordio dell’autore; ad essi sono vincolate le vicissitudini dei due Pisapia in L’uomo in più, con il coatto assoggettamento dei due protagonisti al soverchiante potere di chi decide del loro futuro e con il conclusivo gesto del cantante Tony mediante il quale i rapporti di forza trovano il loro annullamento e il loro, seppur drammatico, ribaltamento. Su di essi trova sviluppo Le conseguenze dell’amore, in cui Titta soggiace al potere spietato e canceroso della criminalità organizzata e internazionalizzata che ne coarta l’esistenza determinando il suo naufragio e la sua marginalità, obbligandolo al contempo ad essere, dello stesso meccanismo di potere, strumento e ingranaggio. Nell’unico spazio scenico in cui gli è concesso di vivere e in cui si svolge la messinscena della tragedia dell’esistenza, Titta subisce un potere occulto che lo manipola, lo trasforma e ne annulla la personalità. È un potere feroce e crudele del quale egli è sia pedina che vittima. Pur appartenendo a un’altra cultura, di quel mondo, in passato, Titta è stato collaboratore, prestando ad esso la sua professionalità di commercialista e di broker. Di quel mondo conosce le regole di cui adesso, come conseguenza degli illegali e fallimentari investimenti per esso fatti, ne subisce i deleteri effetti di confinamento dalla vita. Di quel mondo, dove i rapporti di forza si esplicitano al massimo grado, adottando il punto di vista di Titta – che rispetto alla macchina criminale per cui agisce è insieme sia esterno che interno – Sorrentino ne evoca l’apparato e la meccanica, sapendo andare oltre i semplicistici giudizi morali, nell’elaborazione di una vicenda che si costruisce come un enigma, come una sorta di puzzle che si compone tessera dopo tessera, sequenza dopo sequenza. Progressivamente si chiarisce il mistero che si cela dietro l’apatia e l’atrofia del protagonista, nel graduale disvelamento di quel potere occulto e di quel sistema mafioso a cui tutto e tutti, a ben vedere, appaiono implicitamente conformati, in un quadro che ha per sfondo lo squallore e la meschinità. Ne accoglie le dinamiche, infatti, il direttore della banca, pronto a ogni compromesso e a ogni umiliazione pur di scongiurare l’estinzione del conto; ne fa propria la logica il direttore dell’albergo, nella convinzione che anche la discrezione sia sottomessa e vincolata al denaro. Filtrato dalla soggettiva di Titta, evocato nei suoi riflessi indiretti, il mondo criminale si materializza bruscamente, nella sua invasività e nella sua esizialità, attraverso le figure dei due killer mafiosi. Messaggeri di morte, ancorché stravagantemente tratteggiati (il già citato dettaglio dell’asticella degli occhiali del sicario giovane aggiustata con il nastro adesivo, la sua tuta
colorata indossata per la fredda duplice esecuzione; il marcato accento siculo dell’altro, le bibite da egli scolate prelevate dal frigo bar e i colpi assestati al televisore – che Titta ha destinato a uno scopo diverso connesso al suo “lavoro” – per cercare di farlo funzionare), essi appaiono al cospetto di Titta, suscitando in lui turbamento, apprensione, agitazione, come ombre minacciose, dapprima prendendo possesso della sua camera per portare a compimento il sanguinoso rito, poi sottraendogli la valigia con il denaro. «Ultracorpi di un’invasione in una società sana, […] [essi] seguono linee di azione e percorsi mentali astrusi e imprevedibili, mescolando pancia e morte, ferocia e stordimento bambinesco senza batter ciglio»12: «a un certo punto – risponde il sicario giovane al compare che si informa sull’esito dell’azione criminosa – mi è venuta fame», in una apparentemente incongrua associazione sangue-cibo, morte-fame che verrà ribadita nella sequenza del “summit” mafioso al cui cospetto Titta più avanti si ritroverà (il padrino che dopo aver segnato la condanna a morte del protagonista si informa sul ristorante prenotato per la cena) e durante il successivo, conclusivo tragitto in auto di Titta che lo conduce verso la morte (con un killer che, a commento e suggello della repentina e occultata esecuzione dell’emissario traditore, canticchia Rossetto e cioccolato di Ornella Vanoni). Il sistema mafioso si manifesta e si esplica nella sua voracità, nella sua avidità, nella sua insaziabilità, nella sua implacabilità. È un’organizzazione bulimica e cannibalesca, che si nutre di soldi e di delitti e impone una incondizionata e assoluta devozione. Di essa Titta ben ne conosce le regole, ed è proprio in virtù di ciò che decide di cercare di sovvertirle, di alterare i rapporti di forza, in una tragica e convinta sfida che non può che terminare con la sua fine ma anche, al contempo, con la riappropriazione di sé. Ribaltando quei rapporti, abbandonando la sua remissività, mette in atto una feroce rivalsa (non diversamente da Tony Pisapia in L’uomo in più, che vendica il proprio “doppio” con l’uccisione del presidente della squadra di calcio), si trasforma egli stesso in spietato killer, in una serie di precipitosi eventi narrati in una frantumazione di brevi flashback, uccidendo i due sicari (intervenendo sul quadro dei comandi elettrici del corridoio dell’albergo, dopo essere stato derubato della valigia, blocca l’ascensore, raggiunge rapidamente il garage precedendo i due mafiosi, si nasconde nell’abitacolo dell’auto coperta dal telo di protezione, fa fuoco contro i due al loro sopraggiungere). Si libera dei sicari, ma non può sfuggire alle nefaste conseguenze dell’amore, o, piuttosto, della possibilità o della disillusione di
esso. Oppostosi con fermezza all’emissario mafioso che gli intima di rientrare immediatamente in Sicilia per un impellente chiarimento sull’accaduto con i vertici di Cosa Nostra, ritarda la partenza non volendo rinunciare all’appuntamento con Sofia e a quel sentimento amoroso che gli ha infuso una ritrovata vitalità. Che il fato, crudele e beffardo, rende di nuovo evanescente smorzandola fino al suo definitivo spegnimento. Il sentimento deraglia, fuoriesce dal tracciato immaginato e idealizzato, così come esce dal rettilineo – costeggiato dai campi bagnati da un innaffiatoio automatico il cui ticchettare ritmato acuisce la tensione della scena – su cui corre l’auto che Sofia guida recandosi all’appuntamento. Sentitosi tradito nell’unico trasalimento affettivo che lo ha fugacemente risvegliato dal torpore esistenziale («Non sono mai stato amato da nessuno io» proferisce amaramente tra sé e sé consegnando per l’ultima volta il consueto assegno di pagamento al direttore dell’albergo), mentre un’ambulanza a sirene spiegate trasporta la ragazza all’ospedale, Titta intraprende il suo ultimo percorso che non può, anch’esso, che passare e svolgersi attraverso la desolazione dei non-luoghi della modernità in cui fino alla fine egli rimane immerso: l’aeroporto dove viene prelevato dall’emissario, e l’hotel dove egli viene condotto nei cui locali sotterranei ha luogo il processo («Pensavo – risponde Titta all’emissario che gli chiede ragione del beffardo sorriso che per un istante si disegna sul suo volto – che non riesco a liberarmi degli alberghi. Non è assurdo?»). All’interno di quelle viscere, in cui si consuma il terminale tratto dell’itinerario, coincidente con quello della sua stessa vita, che Titta compie, penetra la macchina da presa in un lungo piano sequenza (della durata di quasi sette minuti) che, ancora una volta, ne esalta il dinamismo e l’estrema mobilità (facendo da contraltare, qui come in tutte le altre sequenze in cui il film è articolato, all’immobilità del protagonista, in un equilibrio di estrema funzionalità ed efficacia), ne sottolinea l’onniscienza e l’onnipresenza. In esso, ancora una volta, il punto di vista oggettivo si alterna e si sovrappone a quello soggettivo, nella definizione di uno sguardo plurimo, complesso e indefinibile, come complessa e indefinibile è la stessa realtà. L’inquadratura ha inizio dall’oscura camera dell’hotel dove Titta è scortato e sorvegliato da tre sicari che, controllando dalla finestra lo spiazzo sottostante, attendono l’arrivo del boss. Al suo sopraggiungere (a bordo di una Uno scortata da una moltitudine di altre auto di grossa cilindrata) i personaggi escono dalla stanza e, accompagnati da un carrello indietro a precederli,
percorrono il corridoio fino all’ascensore. Mantenendosi sul primissimo piano di Titta, il cui volto ne riflette l’agitazione, la macchina da presa, assieme ai personaggi, giunge a un piano basso dell’albergo e, all’apertura della porta dell’ascensore, assumendo il punto di vista del protagonista adesso escluso di campo (la cui ideale soggettiva è sottolineata dagli sguardi degli altri personaggi che più volte si girano verso l’obiettivo guardando in macchina), segue di spalle l’avanzare dei sicari dapprima attraverso un’ampia hall, poi lungo un interminabile corridoio che accede, presidiato da un gruppo di scagnozzi armati, al salone conferenze. In fondo al quale, dietro un lungo tavolo a cui è seduta la “commissione”, campeggia sarcasticamente la scritta di un convegno di medicina, “Ipertrofia della prostata. X corso di aggiornamento”. Da soggettiva l’inquadratura torna in oggettiva con la reinclusione in campo di Titta che, di spalle, si avvicina al tavolo per l’inevitabile “processo” che lo attende. Mantenendosi sulla sua figura, con una rotazione di 180° la macchina da presa giunge a inquadrare in campo medio il salone dalla prospettiva opposta a quella iniziale, che viene quasi a coincidere con quella del boss Nitto Lo Riccio (colto parzialmente di scorcio, di spalle, nella parte destra dell’inquadratura) seduto a un’estremità del tavolo. Davanti al capo supremo, immagine di un potere criminale livido e rapinoso, oscuro e mimetizzato (come mimetizzato all’obiettivo rimane il volto di Nitto), che ha acquisito un ruolo ormai istituzionale benché guasto e marcescente (come la scritta del convegno medico simboleggia), Titta si siede, esitante e timoroso. Con lo sguardo abbassato, tradendo tutta la sua inquietudine e la sua umana paura, racconta al boss i particolari dell’accaduto, l’agguato da parte dei due sicari e la sottrazione della valigia, la telefonata a Pippo D’Antò, la repentina reazione e il recupero dei soldi. Ma racconta anche, rialzando lo sguardo verso il boss in un soprassalto di dignità e in una tragica e convinta sfida di cui pure egli ben conosce la sorte, di un altro contrattempo, la decisione di non restituire la valigia: «Voi vi siete rubati la vita mia. E io mi rubo la valigia vostra». Il boss-giudice si alza e abbandona la sala, lasciando Titta al suo destino ormai segnato e ineluttabile. Rifiutandosi di consegnare la valigia, Titta pareggia i conti: li pareggia con se stesso e con quel sistema di cui è stato succube e che gli ha espropriato la vita. A un’esistenza vissuta da morto intuisce di poter dare senso e risarcimento morendo sentendosi vivo. Dalla condizione di morto virtuale decide di passare a quella di morto effettivo, attuando una ribellione che è una scelta e un atto di coraggio (quel coraggio, appunto – come aveva
proferito al vecchio Carlo – necessario per morire in modo rocambolesco). Rocambolescamente, la morte di Titta trova il suo atroce inscenamento, dopo il viaggio notturno a bordo dell’auto scortata, nella luminosità e nell’aspetto lunare dello spazio aperto della cava – l’unico vero luogo, nell’intera vicenda, a sfuggire alla claustrofobica anonimia dei non-luoghi dove si consuma l’intera vicenda – immerso nel silenzio e privo di vita, contemplato in una prospettiva che diviene parametro della vicenda di isolamento del protagonista. Agganciato ad una gru, il suo corpo viene calato nel calcestruzzo, in un lento sprofondamento che sancisce la sua sconfitta ma che paradossalmente cementifica e solidifica il suo esserci. «Lungi dall’essere meramente svuotato, egli emerge come una fiamma fredda, dunque affinata, dunque intensificata. La sua morte nell’asprezza del calcestruzzo è una sanzione duplice e ambivalente, che getta le basi dell’intenso finale»13. Alla rigidità del corpo che sprofonda e del quale a Titta è negato qualsiasi controllo si contrappone adesso il pensiero: con esso, prima di essere definitivamente sepolto nella tomba di cemento, egli sembra ripercorrere l’intera sua vita, ristabilire la propria identità, riaffermare la propria soggettività. Il tempo, soggettivo e narrativo, si increspa, nel susseguirsi di immagini in cui le visioni del passato, del presente e del futuro si alternano, si uniscono e si fondono, rivelando retrospettivamente la portata della disobbedienza e della ribellione di Titta: l’uccisione dei due sicari, nel garage dell’albergo, e il recupero della valigia; lo stupore con cui Carlo e Isabella, destinatari dell’inatteso dono, fissano con sguardo attonito, sul letto della loro camera, la valigia traboccante di denaro; il volto pensieroso di Sofia ritornata (forse) alla sua solitudine. E la visione dell’amico di infanzia a cui Titta rivolge il suo ultimo pensiero: lo spazio della cava, velato adesso da una cortina di nebbia che lo rende ancora più straniante e metafisico, dissolve nello scorcio di un paesaggio innevato. Tra le montagne si erge un traliccio dell’alta tensione. Sulla sua cima, come sospeso sul vuoto in mezzo alla distesa di neve e contro il vento tagliente, Dino Giuffrè ripara la linea. Per un attimo «si ferma, la malinconia lo aggredisce e allora si mette a pensare»; alza lo sguardo fissando l’obiettivo sulle ultime parole di Titta, e con la mente e con il ricordo pare andare all’amico di sempre, ormai niente più che un nome portato dal vento, il nome di una solitudine raccolto da un’altra solitudine. Se il lungometraggio d’esordio di Sorrentino, tre anni prima, aveva avuto più
successo di critica che di pubblico, Le conseguenze dell’amore riesce ad arrivare al cuore di entrambi, sancendo l’ufficiale riconoscimento dell’autorialità del regista napoletano che si va affermando come uno dei più talentuosi autori del giovane cinema italiano. Plurivincitore, dopo la presentazione cannense, ai David di Donatello e ai Nastri d’argento 2005, il film risulta, la stessa stagione, il titolo italiano più rappresentato ai festival internazionali e la pellicola tricolore più vista all’estero. Nel frattempo Sorrentino continua ad operare, e sperimentare, anche in altre direzioni. Sempre nel 2004 dirige un cortometraggio, Quando le cose vanno male, realizzato nell’ambito dell’iniziativa Giovani talenti italiani promossa dall’Unione Italiana Casting, volta a rivelare giovani attori esordienti in una serie di provini affidati a troupe professionali e all’esperienza di noti registi. Il breve episodio di Sorrentino (il quarto della serie di otto cortometraggi di cui il video si compone) propone una scenetta (teatrale) che trova ambientazione in un appartamento dove un uomo è in compagnia di una prostituta slava in abiti succinti. Scambiandosi domande e provocazioni, sembrano misurarsi reciprocamente. Finché si decidono a iniziare i preliminari erotici, ma l’uomo versa dello champagne sul divano suscitando la stizzita reazione della donna la quale gli rinfaccia aspramente che è nuovo: i due, in realtà, sono marito e moglie che stavano inscenando una commedia erotica prima di un amplesso a cui l’inconveniente ha messo bruscamente fine, riconducendo la coppia alla loro reale e sbiadita vita matrimoniale. Lei si toglie la parrucca e lui esce a comprare le sigarette. Realizzato in un’unica lunga inquadratura, con movimenti di macchina a mano che seguono gli spostamenti dei due personaggi su un palcoscenico spoglio, lo short è la messa in scena di una finzione. Incanalando l’esile spunto narrativo sui binari dello sdoppiamento e dell’ambiguità, Sorrentino gioca ancora una volta sul rovesciamento delle apparenze, sul trapasso “a sorpresa” dalla simulazione alla realtà, in una sorta di esercitazione al servizio dei due giovani attori emergenti (il ruolo del personaggio femminile è interpretato da Francesca Inaudi). Per la televisione, l’anno successivo – prima di prendere parte con un cammeo a Il caimano di Nanni Moretti (nel film dentro il film, “Cataratte”, prodotto dal protagonista Bruno Bonomo, nel ruolo del promesso sposo trafitto da una bandiera rossa dall’eroina Aidra mentre una specie di prete maoista Paolo Virzì sta per celebrare il loro matrimonio) – il regista firma la regia dell’allestimento teatrale diretto da Toni Servillo, con l’interpretazione
della compagnia dei Teatri Uniti, della commedia di Eduardo De Filippo Sabato, domenica e lunedì. Tornando a respirare la “polvere di Napoli”, Sorrentino si accosta per la prima volta come regista al mezzo televisivo attraverso il lavoro eduardiano riletto per il piccolo schermo, misurandosi da un lato con la scrittura perfetta del grande attore e drammaturgo partenopeo, dall’altro con i moduli della rappresentazione teatrale essenzialmente caratterizzata da un aspetto più statico rispetto alle forme della rappresentazione filmica. La commedia di De Filippo, come è noto, ambientata in una Napoli piccolo borghese alla vigilia del boom economico, racconta i tre giorni di concitata e tragicomica vita domestica di una numerosa famiglia in cui convivono tre diverse generazioni, tra accese discussioni, incomprensioni e litigi. Attorno al rito della preparazione del ragù – autentico filo conduttore della vicenda – nel giorno che precede il dì di festa, mentre si diffondono gli odori e la fragranza del condimento sacrale, tra fornelli e tavola da pranzo si costruisce la tragedia dell’incomprensione e della paura della solitudine, delle verità appese e delle scosse telluriche dei sentimenti. In una scena-cucina avara di arredi deflagrano così i conflitti all’interno della domestica comunità di bislacchi e ridicoli personaggi cechoviani, nella rilettura acuta di Servillo tesa da un lato al rispetto del testo, di cui ne preserva l’aura classica, dell’ambientazione, dei costumi, del “clima” dell’epoca in cui la vicenda è situata, e dall’altro all’evidenziazione degli impalpabili terremoti che scuotono e minano l’interiorità dei personaggi, alla messa in risalto dei loro sismi psicologici e degli stati d’animo di una nevrosi collettiva, agli albori di uno sviluppo economico effimero e ingannatore, con un fervore affaristico di rinnovamento del modo di vivere e delle mode proiettabile nel periodo odierno. Dando spessore al grumo incandescente di sentimenti e tumulti passionali e rancorosi, la regia di Servillo, dietro allo strato superficiale del “veder comico”, rivela il “sentir triste”, il tragico quotidiano, un malessere che sembra travalicare quello serpeggiante negli anni ruggenti del boom incipiente espandendosi alla sfera del contemporaneo e dell’universale, riportando il teatro di Eduardo al moderno sentire. Nel filmare il gruppo di famiglia in un interno napoletano, assumendo come riferimento il lavoro di grandi registi del cinema, come Bergman e Fellini, che hanno realizzato opere di grande pregio per il piccolo schermo, Sorrentino organizza la regia televisiva sulla profonda e serrata unità interiore entro cui si raccoglie la rivisitazione di Servillo, dinamicizzando la
messinscena teatrale mediante i movimenti della macchina che creano uno spazio astratto, in sintonia con l’impianto scenico e con la fertile direzione e resa attoriale, proporzionandosi sullo schermo in senso specificamente cinematografico o, meglio, televisivo. La macchina da presa diviene una sorta di occhio che registra i comportamenti dei personaggi, ne carpisce i pensieri, le confessioni, i trasalimenti. Con movimenti lenti e avvolgenti, pausati da momenti di eloquente fissità, l’obiettivo scandaglia nella ulcerata interiorità dei personaggi, nel rapporto ormai avvelenato, in particolare, dei coniugi Peppino e Rosa Priore in cui la vicenda trova il suo perno drammaturgico. Degli interpreti la macchina da presa condivide lo spazio stando sempre sul palcoscenico, creando delle dinamiche visive che mettono in relazione tra loro i personaggi e solidificano le loro tensioni, abbandonando il punto di vista dello spettatore teatrale e adottando una prospettiva interna alla scena che prosegue anche a recita finita: l’obiettivo rimane lì, sul palco, a riprendere di spalle l’intera compagnia degli attori che si inchinano davanti alla platea vuota del teatro, in una rappresentazione di cui la macchina da presa non è un semplice occhio osservatore ma è essa stessa protagonista.
1 Le dichiarazioni di Sorrentino sono contenute in La vita fuori della porta, intervista a cura di Barbara Corsi, in «Vivilcinema», n. 3, maggio-giugno 2004; e in «Positif», cit. 2 P. Sorrentino, in Cinema vivo. Quindici registi a confronto, cit., p. 219. 3 In Divi e antidivi, cit., p. 145. 4 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Eléuthera, Milano, 1993, p. 95. 5 P. Sorrentino, L’hotel come non-luogo, intervista a cura di Gianni Canova, in «Duellanti», settembre 2004. 6 P. Sorrentino, in «Vivilcinema», cit. 7 Come ha avuto modo di ricordare lo stesso Sorrentino, le riprese sono state effettuate negli interni di un hotel di Treviso: «Abbiamo cercato a lungo e alla fine abbiamo deciso di girare in un hotel di Treviso che presentava – come spero si veda nel film – una struttura architettonica molto diversa da quella tipica degli alberghi. Non c’è un corridoio centrale su cui si aprono le stanze a destra e a sinistra, ma ci sono ben due corridoi, di cui uno tondo. Lo stesso bar è lontanissimo dalla tradizionale iconografia alberghiera: il bancone sembra l’altare di una chiesa». In «Duellanti», cit.
8 M. Augé, op. cit., p. 74. 9 Il ricorso alla voce off, ha spiegato Sorrentino, è legato soprattutto alla necessità di controbilanciare «la parsimonia di informazioni sull’intrigo» che, senza di essa, «rischiava di rendere incomprensibile il film. Ma non volevo una voce off che fosse una banale spiegazione di ciò che succede. Quindi ho voluto adottarla come strumento che dica qualcosa di apparentemente poco utile per informare lo spettatore, ma che, in modo sotterraneo, agisce per fornire delle informazioni sul carattere del personaggio. Mi affascinava, questo uso ironico della voce off, che non fosse pesante». In «Positif», cit. 10 Francesco Cattaneo, in «Cineforum», n. 439, novembre 2004. 11 Si tratta della sequenza in cui Titta, di ritorno da una delle sue solitarie e inconcludenti uscite, trova l’angolo della sala bar in cui è solito sedersi occupato da due giovani ospiti, di cui una, con un libro in mano, legge all’altra un passo dell’opera dello scrittore francese: «Maria, senti qua che bello: “Poi succeda quel che vuole. Bell’affare. Il vantaggio d’eccitarsi, in fin dei conti, solo su delle reminiscenze. Puoi possederle, le reminiscenze. Puoi comperarne di belle, di splendide, una volta per tutte. La vita è più complicata, quella delle forme umane specialmente. Un’avventura paurosa, non c’è niente di più disperato. A confronto di questo vizio, delle forme perfette, la cocaina non è che un passatempo per capistazione. […] Ma torniamo alla nostra Sophie: facevamo come dei progressi in poesia, solo con l’ammirare il suo essere tanto bella e tanto più incosciente di noi. Il ritmo della sua vita scaturiva da altre sorgenti, che non le nostre, striscianti per sempre le nostre, invidiose. Questa forza allegra, precisa e dolce insieme, che l’animava dai capelli alle caviglie ci veniva a turbare. Ci inquietava in un modo incantevole, ma ci inquietava, è la parola…» 12 Roberto Curti, Crudel tiranno amor, in P. De Santis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), cit., p. 54. 13 F. Cattaneo, cit.
4. La bella, il brutto e il cattivo: L’amico di famiglia
Dirompenti, anomali, irregolari, inadeguati, quelli sorrentiniani sono personaggi, prevalentemente uomini in là con gli anni, “fuori dal mondo”: personaggi estromessi in un universo umano o subumano forgiato sui rapporti di forza, in cui il potere, sotto le diverse maschere e forme di volta in volta assunte, si manifesta nella sua invariata ferocia, nella sua spietata crudeltà, nel suo agghiacciante egoismo. Sono personaggi di “ex”, personaggi messi all’angolo che subiscono l’indifferenza, l’insensibilità, l’infidezza, la degenerazione che permeano gli orrorifici ambienti in cui sono immersi e in cui agiscono (o, come Titta, non agiscono) e che pagano la loro inadeguatezza con l’estromissione dai rapporti sociali, con l’emarginazione, con la statica e immobilizzante angoscia, con l’abissale solitudine come unica loro compagna. Sono personaggi che condividono una persistente e diffusa sensazione di disincanto nei confronti della vita, a cui la vita stessa li ha temprati ancor prima del loro apparire in scena, prima di quel loro tratto esistenziale che i differenti film dei quali essi sono protagonisti narrano nel dispiegamento della parabola narrativa. Sono scettici verso la realtà perché di essa hanno imparato a conoscerne gli implacabili meccanismi e la desolata tristezza che
vi regna. Hanno imparato l’importanza di indossare una maschera, e una divisa, attraverso cui cercare di rendersi impermeabili e impenetrabili, una maschera di apparente imperturbabilità e cinismo che tuttavia si rivela inefficace a proteggerli dalle pulsioni interiori, dall’emergere e dal deflagrare incontrollato dei sentimenti e della passione, dalle impreviste e imprevedibili conseguenze, appunto, dell’amore (per le donne, o per il trono). Su quell’elemento che improvviso prorompe da un’umanità interiore fino ad allora tenuta soffocata scivolano, perdono il loro equilibrio e quella loro apparente coriaceità assistendo come attraverso uno sguardo esterno alla loro stessa conseguente caduta in cui la narrazione sempre li coglie, sapendo tuttavia trovare la forza di uno scarto, di un colpo d’ala, sia pure, talvolta, dall’esito ferale. «A me interessano le vite ordinarie – ha avuto d’altronde modo di precisare Sorrentino – che poi rivelano una loro eccezionalità, gli individui che a un certo punto della loro esistenza subiscono una perdita. Sono legato a un saggio di Bataille che illustra come per ogni uomo arrivi il momento di dedicarsi alla perdita di sé. E come questa attitudine fosse alimentata nell’antichità e invece combattuta in epoca moderna. Sono affascinato dall’idea che una persona possa dilapidare gratuitamente la propria vita, e la mia ambizione è di fotografare il momento esatto in cui questa dispersione prende forma. A volte è il caso a dominare, altre la scelta del singolo, ma non cambia molto. Non sono mai controllabili le ragioni per cui si manda tutto a monte, quello che accade avviene e basta. È l’assurdità della vita stessa, insomma, che spesso coincide con il senso di perdita. Non posso prescindere da questa idea»1. In bilico tra la rovina e il riscatto, i protagonisti sorrentiniani si ritrovano a scontrarsi con un destino avverso non rinunciando tuttavia a giocare l’ultima partita che ha per posta la loro dignità. Decidere come perdere è, in fondo, la loro vittoria, e la loro caduta acquista una valenza in qualche modo eroica, divenendo da personaggi persone, nella messa in risalto del loro gigantismo: «sono i perdenti, che conservano comunque un’aura di grandezza. Grandezza patetica, ignobile, sciagurata. Ma pur sempre grandezza»2. Personaggi che possiedono un loro precipuo magnetismo, raccontati lungo la curva sempre elastica del grottesco o del rocambolesco (come la morte a cui volontariamente e coscientemente va incontro Titta) che non si congela mai in una fissa e abusata griglia drammaturgica ma si arricchisce di sfumature e vibrazioni interiori. Personaggi dei quali Sorrentino sa visitare gli abissi della
coscienza e scandagliare l’animo, portando in pari tempo alla luce tutta la mostruosità e l’aberrazione che abita, più che nelle loro coscienze, nel mondo senza ideali e senza remore che li circonda, nell’aracnea tela di cui essi in fondo sono, più che i tessitori, le prede. A tale galleria di personaggi appartiene anche il protagonista di L’amico di famiglia, attraverso il quale Sorrentino, facendo propria la frase di Fellini secondo cui «la bellezza alberga nello squallore», così come nella bellezza spesso alberga la mediocrità, elabora un vero e proprio trattato sull’opposizione fra bellezza e bruttezza, fisica quanto spirituale: «Ho tentato di mostrare in maniera magnifica lo squallore. Il personaggio di Geremia è un concentrato di qualcosa che condividiamo tutti: cerchiamo di far vedere agli altri un aspetto buono e rassicurante, ma è solo apparenza. Spesso, al contrario, chi appare mostruoso rivela un’umanità inattesa»3. «Una volta, in Siberia – così lo stesso autore ha rievocato la genesi del film – c’erano decine di gradi sotto zero, durante una gita che somigliava ad una deportazione, io me ne stavo aggrappato alla poltrona dell’autobus con trentotto di febbre. Ma loro no. L’autobus si è fermato e loro non hanno battuto ciglio, lei molto anziana, il figlio anziano quasi quanto lei. Se ne sono fottuti di tutto. Volevano fare una passeggiata nella tundra. Hanno sfidato un freddo feroce, mano nella mano, e quasi pattinando al ralenti sul ghiaccio sono scivolati intimi, di spalle, in mezzo agli alberi innevati e al niente bianco della Siberia. Quando sono risaliti sull’autobus, allegri e congelati, lui si è messo a parlare con un’altra gitante, un’altra disperata come lui e allora io ho guardato solo la madre. Si era chiusa in un tetro risentimento. Una mummia gelosa e densa di rabbia. Stava pensando, ne sono sicuro, di aver perso, in un colpo solo, il figlio e il fidanzato. Questo film è nato così, guardando di sbieco, per un attimo, un rapporto morboso, malato, degenerato e al tempo stesso comico. E mi è parso subito un doppio salto mortale fare un film che fosse al tempo stesso malato e leggero, comico e drammatico in eguale misura. E con giocosa incoscienza mi sono lanciato in quello che sempre, a mio parere, dovrebbe essere un film: un salto non statale. Meglio se doppio, triplo. Come certi tuffi difficili. Un tuffo dentro l’uomo e la sua degenerazione. Che poi sono una endiadi»4. Apologo sull’estetica del brutto, sul fascino ambiguo della bruttezza e sulla bellezza che in esso si cela, L’amico di famiglia è un’opera barocca, onirica, disturbante per la sua carica iconoclasta, per i paradossi di cui si nutre, per i particolari sgradevoli di cui è intriso, per il fitto reticolo di simboli tra il
buñueliano e il felliniano, per le vite sporcate e miserabili di cui narra, per il meccanismo che induce l’osservatore, pur attraverso la lente deformante del grottesco, a provare nei confronti del protagonista un senso di repulsione che diviene anche attrazione. Protagonista per il cui ruolo la scelta, fin dal primo momento, cade su Giacomo Rizzo. Con quel «misto di comico e di tragico nei tratti del viso», l’attore napoletano si cala con un perfetto physique du rôle nei panni (luridi) dell’usuraio Geremia: «Era da tempo che mi interessava Giacomo Rizzo. A parte che il film, e lui lo sa – non è che dico una cattiveria – aveva bisogno di uno particolarmente brutto e Rizzo è proprio un prototipo di bruttezza! Ma lui lo sa, glielo ho detto dal primo momento perché sarebbe stato imbarazzante tenere questa ipocrisia per tanto tempo. In certi casi la strada è sempre quella di dirlo. [ …] [Il modo di camminare] me lo sono inventato io, […] io cerco sempre di fare entrare gli animali nei miei film, lui doveva essere un topo, quel cappotto è studiato per essere del colore del topo, quindi lui cammina come un topo»5. Individuato in Rizzo il “brutto”, Sorrentino affida gli altri due ruoli, quelli della “bella” e del “cattivo”, a Laura Chiatti, scelta dopo una sequela interminabile di provini, e a Fabrizio Bantivoglio, considerato dal regista «il De Niro italiano»6, con il quale egli concretizza il progetto di un sodalizio artistico a lungo coltivato. Montato dapprima in una versione “lunga”, con una molteplicità di finali, presentata al festival di Cannes 2006, il film esce successivamente nelle sale in una versione rivista e rimaneggiata, più breve e snella: «Rivedendolo due mesi dopo il festival di Cannes, dove L’amico di famiglia era stato accolto comunque bene, ho trovato alcuni difetti prima non visti, così ho tagliato sei minuti del finale. Il montaggio era stato fatto velocemente e il film sembrava lungo e più faticoso da comprendere. C’erano code di racconto che non servivano, come il ritorno improvviso della giovane Rosalba dall’usuraio o il suo tentato omicidio da parte del cliente mancato nobiluomo. Ma il senso del film è rimasto lo stesso e si conclude sempre con le immagini di Geremia alla ricerca, con il metal detector, di monete perse nella sabbia»7. Geremia de’ Geremei è un anziano di particolare sgraziataggine e ripugnanza che vive in una cittadina dell’Agro Pontino dove è proprietario di una piccola sartoria. Dietro il paravento di un’onesta occupazione nasconde però, vera sua fonte di guadagno, la sua intensa attività di usuraio, condotta con aspetto da poveraccio e con una falsa grazia e benevolenza che lo portano a proclamarsi, a chi a lui ricorre per avere un prestito di soldi, “amico di famiglia”. Si considera un benefattore, a chiunque dispensa
massime di vita prese dai Reader’s Digest e dedica il suo ultimo pensiero da vivo, ma non esita a mostrarsi cinico e spietato con chi non rispetta i tempi o le modalità di restituzione del denaro attraverso vessazioni e violenze, fiancheggiato da due sgherri, i gemelli Contessa, incaricati del recupero dei crediti e relativi regolamenti di conti con i vari debitori. Bieco e miserabile, ha come unico “amico” Gino (dei cui consigli e delle cui informazioni sui clienti si avvale), un malinconico proprietario di un bar con il mito del country che si veste come un cowboy e vive in un vecchio caravan in mezzo a una “prateria” dell’Agro Pontino sognando il Tennessee. Cinico nell’approccio con gli altri e con la società, Geremia, nonostante la ricchezza accumulata (rigorosamente depositata in una serie di cassette di sicurezza) con la sua esecrabile pratica, assume l’avidità e l’avarizia a regole di vita e conduce una vita miseranda. Con la vecchia madre inferma e ossessiva, similmente ripugnante e inchiodata al letto, che lo comanda e ne dispone, vive in un appartamento perennemente buio, decrepito e sudicio. Tutta la sua condotta è impostata e si svolge all’insegna di una drastica economizzazione e di una esasperata tirchieria: i ridicoli acquisti al supermercato, le misere pappette consumate in solitudine, gli stessi abiti vecchi e lerci, i gianduiotti accumulati in gran quantità rigorosamente da non dare a nessuno. Arraffatore di beni materiali e possessore di roba, è però totalmente privo di affetti di cui pure è alla disperata ricerca. Per questo si rivolge a un’agenzia specializzata la cui titolare lo mette in contatto con ragazze dell’est – come Belana, una giovane vedova appena giunta dalla Romania – le quali tuttavia, dopo averlo conosciuto, fuggono, respinte dalla sua ripugnanza e dalla sua laidità. Eppure non pochi sono coloro che, poveracci vari e assortiti, spinti dal bisogno di denaro a lui si rivolgono. Gli si rivolge una giovane coppia da poco sposata che vuole mettere su casa ma che non riesce poi a far fronte al pagamento del debito, per la riscossione del quale Geremia non esita a ricorrere alle intimidazioni, alle vessazioni (privandoli delle loro fedi e della collanina del battesimo della loro figlioletta e appropriandosi degli oggetti casalinghi) e alle umiliazioni (palpando la ragazza e strusciandosi ad essa). Gli si rivolge una signora di mezza età che vuole concedersi un intervento di chirurgia estetica. Gli si rivolge il figlio illegittimo di un nobile che aspira ad acquistare il titolo nobiliare paterno. Gli si rivolge una pensionata che, dichiarandosi malata terminale, gli chiede un prestito per provvedere alle necessarie cure, ma che poi spende nottetempo i soldi giocando al bingo.
Informato da Gino della ingannevolezza della donna e della sua impossibilità a restituire la somma (i bot del figlio che ella aveva dato come garanzia si rivelano inesistenti), Geremia ingiunge al “socio” di sbarazzarsene; ma Gino, mosso a pietà, si offrirà di accoglierla, tenendola al sicuro, nel suo caravan (fino a quando la donna, ottenuta finalmente la vincita di una consistente somma di denaro, potrà riscattare il prestito). A Geremia si rivolge anche un povero padre, Saverio, che vuole organizzare, per poterne ostentare la convenzionalità e non perdere il decoro al cospetto dei numerosi invitati, l’imminente matrimonio della figlia Rosalba neoproclamata Miss Agro-Pontino, alla cui avvenenza e alla cui sensualità esuberante il sarto-usuraio rimane tutt’altro che indifferente. Concesso il prestito, Geremia si intrufola sempre più nella loro casa e nelle loro faccende, pretendendo di dare consigli anche sull’acquisto delle bomboniere. Ma soprattutto si intrufola nella vita di Rosalba di cui si invaghisce segretamente. Nonostante la giovane non nasconda la sua ripulsa per colui che ormai è divenuto “l’amico di famiglia”, prima del matrimonio, mettendo da parte il suo disgusto, gli concede i propri servigi sessuali in cambio della riduzione del tasso di usura. Verso di lei Geremia avverte un’irresistibile attrazione. Persino al funerale della madre della ragazza, colta da infarto dopo avere appreso dell’attesa di Rosalba di un figlio (della cui paternità neanche la stessa giovane è certa), Geremia, che non ha perso occasione di lucrare anche sul luttuoso evento, privo di qualsiasi scrupolo tenta con lei un ulteriore approccio. Sopraffatto dal turbamento emotivo verso Rosalba, egli sembra non poter fare a meno di quell’amore impossibile. Già scompaginata dall’irruzione di quel sentimento che viene a cortocircuitare la sua aridità sentimentale e che sembra non poter trovare una reale corrispondenza, la vita di Geremia subisce un altro improvviso soprassalto a seguito di un’insolita e vertiginosa richiesta di prestito, da parte di un sedicente imprenditore – Giulio Montanaro, “il re del bidet”, titolare di un’azienda produttrice di sanitari – e del suo collaboratore, di oltre un milione di euro – in realtà il suo intero capitale – per una grossa partita di bidet per una importante catena alberghiera. Dopo l’iniziale titubanza, e dopo aver ottenuto come garanzia dall’industriale i contratti di fornitura (successivamente affidati a un avvocato conoscente di Gino che ne dovrebbe controllare l’originalità e l’autenticità), Geremia, nonostante la contrarietà della madre e il tentativo di dissuasione di Gino, decide di concedere il prestito con cui rischia di perdere tutta la ricchezza accumulata.
Decide di giocare il tutto per tutto, spinto anche dal sogno d’amore per Rosalba di cui adesso, dopo un apparente ripensamento della giovane (che si mostra insofferente dell’uomo che ha sposato) e l’accenno di una relazione tra i due, intravede una possibilità, senza che si capisca realmente chi stia moralmente ricattando chi. Ma la sconfitta, su entrambi i fronti, sarà inevitabile. Amaramente e beffardamente egli scopre la congiura che Gino, in combutta con Rosalba, ha attuato per derubarlo. Perduti tutti i soldi, perduto il sogno d’amore, Geremia perde anche la madre. Al funerale della donna, nella casa che vede presenti solo i due impiegati delle pompe funebri, egli riceve la fugace visita del padre che, prima di eclissarsi, gli allunga in silenzio delle banconote. A lui, a quel padre assente e dimenticato, Geremia, nella scena conclusiva, parla come se parlasse a se stesso, avvicinandosi a una fontana e immergendo la testa nell’acqua.
Pullulante di segni, motivi, atmosfere, cifre stilistiche, tematiche ricorrenti e allusioni iterate che ne determinano l’unità poetica e la continuità stilistica, il cinema di Sorrentino si sviluppa lungo una traiettoria ellittica o curvilinea in cui ogni film sembra inanellarsi e concatenarsi con quello precedente, in un travasamento di situazioni, elementi figurativi, parallelismi, simbolismi, ambienti ritratti in composizioni geometriche e astratte. Se l’inquadratura di apertura di Le conseguenze dell’amore, con il lungo e prospettico corridoio del caveau della banca, e l’ambiente claustrofobico dell’hotel in cui l’intera vicenda trova svolgimento rimandano all’immagine conclusiva del primo lungometraggio (con la macchina da presa che si allontana dalla figura di
Tony al di là delle sbarre della cella carceraria in cui è rinchiuso), nella veicolazione di uno stesso senso di chiusura e di imprigionamento, L’amico di famiglia sembra iniziare laddove il film precedente finisce, o partire comunque da una visione analoga a quella con cui esso termina, con l’immagine simbolica (di cui solo successivamente il regista ci fa capire il contesto e il significato) di una donna dal volto rugoso con il velo da suora in riva a un mare piatto, su una spiaggia deserta al tramonto, sepolta fino al collo nella sabbia. Davanti a un rosario poggiato davanti a sé, con un bisbiglio che le dissonanti vibrazioni musicali di Teardo coprono e rendono inudibile, la monaca sembra come pregare, in una sorta di ultimo desiderio del condannato. Un movimento di dolly prima verso l’alto poi verso il basso, combinato a un arretramento della macchina da presa, ampliando il campo visivo scopre due uomini-sicari, di spalle, quasi sagome semivisibili, che la osservano e decidono della sua sorte. Prima del buio, prima della dissolvenza in nero che introduce i personaggi e la storia: una storia che procede lenta, in un tempo dilatato come in un sogno, al rallentatore, come le immagini con cui la narrazione si dischiude: un cavallo che galoppa all’interno di un recinto, nel verde della pianura agropontiniana; i dettagli dei corpi giovani e floridi di alcune ragazze che, colte nei loro gesti atletici e in salto, giocano a pallavolo in un campetto di terra rossa delimitato da edifici geometrici e squadrati, tra panni bianchi stesi ad asciugare; e i personaggi fermi nel loro mondo che, come tutti i protagonisti del cinema dell’autore, appaiono connotati fin dal loro apparire da una “divisa”, da una particolare e riconoscibile veste esteriore che è sempre messa in relazione con il loro essere interiore. L’abbigliamento indossato dai personaggi sorrentiniani, infatti, le loro caratteristiche fisiche e corporali, il loro incedere sono dettagli significativi e rivelatori del loro essere. Indossa una divisa, quella da calciatore, Antonio Pisapia, così come è caratterizzato da una sorta di uniforme – l’abbigliamento anni Settanta, le camicie sgargianti, il lungo colletto sulla giacca chiara, la sigaretta in bocca – il suo omonimo cantante in L’uomo in più. Stretto in una rigida divisa che si fa metafora della gabbia esistenziale in cui è recluso è Titta, in Le conseguenze dell’amore, assieme a tutti gli altri personaggi che portano anch’essi, come già si è notato, un’uniforme. Nella sua strana, grottesca assisa, come un’orrida maschera, è ritratto fin dall’inizio, emergendo dall’oscurità, Geremia de’ Geremei: un fazzoletto bianco legato stretto attorno alla testa per far aderire alla fronte – rimedio popolare e antico
per blandire il mal di testa – le patate tagliate a fette, il profilo del volto irregolare e sgraziato, un cappotto sformato e bisunto che mette in risalto l’accentuata curvatura della schiena e l’aspetto fisico deforme. Stagliato contro una parete blu pende un lampadario la cui sagoma scura è simile a un gigantesco e minaccioso ragno. Geremia si volta per un istante verso di esso, poi si gira lentamente verso la macchina da presa fino a guardare dentro l’obiettivo, fin quasi a penetrare dentro l’anima di chi alla sua storia sta per assistere. E come un ragno, come uno strano, ripugnante insetto, il personaggio, attraverso una serie di dettagli che ne mettono in rilievo la sgradevolezza, viene progressivamente messo a fuoco nella sua connotazione tanto fisica quanto morale: un braccio perennemente e misteriosamente ingessato legato al collo con una fascia8, dal quale penzola una busta di plastica dall’enigmatico contenuto, una mano con l’unghia del dito mignolo spropositata con la quale all’occorrenza pulirsi i denti o gli orecchi, l’incedere claudicante e a scatti, l’approccio untuoso, l’abbigliamento pacchiano (le camicie a fiorellini o multicolori, un vistoso moschettone fissato al passante dei pantaloni da cui pende un mazzo di chiavi) e presumibilmente fetido. Deambula costantemente strisciando, trotterella lungo i muri verso casa, sputando agli angoli delle chiese, o verso il negozietto che gli serve come paravento muovendo le zampette, appunto, come un insetto, sorta di kafkiano scarafaggio sordido e respingente. Il suo aspetto deforme è specchio dell’anima: un’anima anch’essa viscida e repellente. Ricevuto il proprio retaggio culturale e delinquenziale da un padre anch’egli usuraio – senza tuttavia possederne le stesse doti e lo stesso talento “manageriali” – e da cui da bimbo è stato abbandonato e disconosciuto («non mi considera proprio – dice della figura paterna – e io non considero lui»), svolge la sua esecrabile attività nel retrobottega del suo negozietto di sartoria dove ha alle dipendenze un gruppetto di operaie dalle facce tristi supponibilmente mal pagate. Scevro di qualsivoglia remora e scrupolo morale, è dedito a speculare sul prossimo calpestandone la dignità pur ostentando umanità come se fosse un confessore senza fede. Con atteggiamento falso e ipocrita, sfoggiando falsa amicizia, si rivolge a chiunque con «fratello caro» o «sorella cara», a chiunque dispensa consigli e massime filosofiche prese dai Reader’s Digest, a chiunque promette che il suo ultimo pensiero sarà per lui. Si professa e si autoincensa come benefattore, il salvatore della gente dai suoi disastri economici, dalle angherie
e dalle ristrettezze della vita quotidiana. È l’amico di famiglia che nessuno vorrebbe mai sentire al telefono o trovare a sorpresa sulla porta di casa, è il demone che nutre e riduce alla fame. È l’ombra cupa e minacciosa che assale e irretisce, un’ombra furtiva e avvolgente, come quella che egli proietta sul muro della stanza dove sottopone una sua vittima, la giovane madre indebitata, a una lascivia perquisizione. È Geremia «cuore d’oro» – così ama farsi chiamare – è il profeta di una religione che ha come oggetto di adorazione e di devozione non un’entità spirituale e divina ma l’entità tangibile e pragmatica del denaro: «Non ho fiducia nel Vaticano – dice all’aspirante acquirente di titoli nobiliari che a lui si è rivolto per un prestito – non ho fiducia in Dio. […] È lui che non ha avuto fiducia in me: se l’avesse avuta, mi avrebbe fatto più aggraziato». Conscio della propria bruttezza, che crede di controbilanciare con la propria dialettica, con la propria loquacità, con la propria spicciola saggezza popolare e domestica di cui fa ostentazione, con la “bellezza”, insomma, dell’intelletto, ritenendo di far risiedere nell’arte della parola la propria «arma vincente di seduzione», si attacca al denaro come una sorta di risarcimento e di vendetta contro quel fato che, negandogli un corpo armonioso, gli si è mostrato in tutta sua natura malevola. Come Mazzarò nella novella verghiana, anch’egli deforme, descritto nella sua pinguitudine simile a quella di un maiale, Geremia – al quale l’avanzata età, a cui il nome rimanda, ha contribuito a corrompere il già deturpato aspetto fisico – è un accumulatore di roba. Avido di ricchezza, camuffata dietro i suoi modi melliflui e falsamente premurosi, arraffa in modo compulsivo soldi e ogni tipo di beni materiali verso cui è attratto da una fame aggressiva e feroce. Non disdegna nulla, neanche i prosciutti ricevuti come “ringraziamento”, o come il robot da cucina di cui, nell’appartamento dei novelli sposini che non riescono a far fronte alla restituzione del prestito da lui erogato e degli esosi interessi, si impossessa («Io lo volevo regalare a mia madre – esclama con un fanciullesco infervoramento – ma costa 900 euro. Uno schiaffo alla miseria»). Come un rapace si avventa sugli oggetti di valore, sui preziosi, sui monili d’oro e d’argento. Con cupidigia soppesa sui piatti della bilancina le fedi nuziali e il regalo di battesimo della piccola figlia che dai due si fa consegnare. Come un animale predatore dopo aver consumato il pasto a lui dovuto ma non ancora sazio, prima di lasciare l’appartamento dove minacciosamente si è recato per la riscossione del credito, torna ad annusare la sua preda: avvedendosi del gesto della ragazza la quale, rimasta sola nell’ingresso che lo scatto del contatore dell’elettricità ha
fatto cadere nell’oscurità, si è portata le mani in tasca («in una situazione di agio – le sussurra – l’essere umano tende a mettere le mani in tasca. L’ho letto sui libri, reparto psicologia. Le mani in tasca indicano nonchalance, ma io qua ne vedo poca di nonchalance»), Geremia le si avvicina, le si struscia contro, le infila voluttuosamente un mano nella tasca dei jeans fino ad estrarne l’ultimo anello, sottraendole la sua ultima gioia e privandola anche del suo ultimo sussulto di dignità. Nella sua tela fatta di continui ricatti e umiliazioni egli attrae e trattiene le sue vittime: ne svuota le tasche, ne succhia l’anima, ne spreme la vita. Conosce le debolezze degli altri e le sfrutta a propria vantaggio: «Ti ho visto piangere – così si rivolge a un suo intimorito e svilito debitore che non ha assolto agli impegni presi scovato e colto di sorpresa nel bagno di una discoteca – Ora io lo so, l’ho letto sui Reader’s: l’uomo non perdona colui che ha visto piangere… Un amico non si nasconde nel cesso di una discoteca. Tutto questo è umiliante. Ti ho visto piangere. E tu mi vuoi dimenticare. Va bene. Ma come faccio a dimenticare che mi devi 42.000 euro? Io devo avere, e tu devi dare. Ma non è questo il mio vantaggio. Ti ho visto piangere... Questo è il mio vantaggio».
Tutto è oggetto di speculazione, di mortificazione e di ricatto, tutto è valutato in termini monetari, la vita come la morte, i matrimoni come i funerali («Il funerale è venuto così e così, peccato – commenta dopo la modesta celebrazione delle esequie della madre di Rosalba, trasformata biecamente anch’essa in occasione di lucro e guadagno – Ho visto funerali più belli e
accattivanti»). Il denaro, per lui, è il suo vero credo, è il suo valore, il suo punto di riferimento antropologico, la sua sola, sconcertante unità di misura delle relazioni umane, il fattore che determina le relazioni di forza e di potere di cui esso è perno e motore. Con un rilevatore di metallo perlustra spiagge e prati in cerca di qualsiasi cosa abbia un valore economico, un monile o una semplice monetina lasciata incautamente o distrattamente cadere, sulla sabbia o in un cespuglio, da qualche passante. Il denaro, non dissimilmente da Titta in Le conseguenze dell’amore, è per lui un’ossessione e una dannazione. Come Titta, trasporta le banconote nel caveau di una banca, con l’unica differenza, semmai, del contenitore: non una valigia scura di elegante fattura ma dei miseri e ridicoli fustini da detersivo. Accumulando denaro e preziosi, con i suoi turpi mercimoni Geremia ha capitalizzato una ricchezza materiale di cui tuttavia, nella sua grettezza e nella sua meschinità d’animo, non gode né saprebbe godere. L’avidità e l’ammassamento di soldi e beni sono fini a se stessi. La sua ingordigia di denaro e di roba è pari alla sua spilorceria: i gianduiotti accumulati in abbondante quantità – arraffati dal vassoio nel bar di Gino – di cui fa mostra nel proprio negozietto di sartoria e destinati solo a se stesso; le misere e disgustose pappette consumate al lume di candela nello squallore del proprio appartamento; gli ordinari abiti consunti e lerci o quelli démodé da indossare per i matrimoni o per i funerali, in uno stesso cerimoniale che appare interscambiabile. Emblematico nel tratteggio della sua estrema taccagneria portata all’eccesso è l’episodio del supermercato, caricato di accenti sardonici e parodistici: tra gli scaffali ricolmi di cibarie, all’orario di chiusura, Geremia si aggira furtivamente; trafuga una confezione di merendine (che, tornato a casa, lancerà sul letto dove la madre è perennemente accucciata, come il padrone lancia l’osso al suo cane) nascondendola sotto il cappotto sudicio e sformato, trotterellando poi verso la cassiera alla quale mostra, come unico acquisto, una caramella digestiva per la quale reclama lo sconto. I soldi generano miraggi e deliri di onnipotenza che in Geremia si traducono tuttavia in precarietà e degrado. Lurido e perennemente immerso nella penombra, in una oscurità quasi impenetrabile che si confonde con il torbido, è l’appartamento nel quale Geremia vive in un rapporto morboso con la vecchia madre inferma e in cui aleggia un senso di corruzione, di putrefazione e di morte. Fetidi secchi raccolgono l’acqua che gocciola dal soffitto a cui sono appesi prosciutti, tra le pareti grondanti umidità, sporcizia e avarizia. In quello spazio dove tutto è fetido l’obiettivo coglie il
personaggio nelle faccende quotidiane, la consumazione dei miseri e solitari pasti, l’accudimento della madre inferma, la lettura della Selezione del Reader’s Digest a cui attingere la propria spicciola cultura e la propria conoscenza al contempo nozionistica e “filosofica”, compiuta e concreta, ostentata attraverso un linguaggio di servizio, alto e basso insieme, aulico e popolare. Lì, in quelle stanze dove tutto appare opprimente, si muove nell’ombra, tra le pareti e la vecchia e pulverulenta mobilia su cui sono ammassati arredi, ninnoli e suppellettili di cattivo gusto (tra cui risalta un cane di ceramica, a grandezza naturale, con un fazzoletto usato e sporco tra i denti) che rimandano a un passato ammuffito, a un tempo imbalsamato, a un’età fossilizzata in cui Geremia vive come in un bozzolo. Un bozzolo, quello della fanciullezza, in cui egli, pur ormai vecchio e deforme, continua in fondo ad essere rinchiuso, come un bruco mai divenuto farfalla. Quella fanciullezza che la collezione di statuine e figurine di plastica che riempiono gli scaffali, oggetti simbolo di un’infanzia a cui egli è rimasto ancorato, richiama visivamente. Quella fanciullezza e quell’infanzia evocate dal ricordo, a cui per un istante egli si abbandona, dell’assente figura paterna – al contempo temuta, aborrita, vagheggiata – e del suo abbandono della famiglia per trasferirsi da Latina a Roma («Ha lasciato mia madre che avevo nove anni – racconta alla ragazza romena che l’agenzia matrimoniale gli ha fatto incontrare e che egli ha condotto nel proprio appartamento, prima che questa si dilegui sconcertata dall’incuria e dall’orripilanza dello spazio domestico e di lui – Non l’ho rivisto più»). Non diversamente dagli altri protagonisti sorrentiniani, anche per Geremia la figura paterna si palesa nella sua lontananza e nella sua assenza, nell’esplicitazione di un simile rapporto di amore-odio verso quei padri che non sanno lasciare ai figli alcuna certezza. Padri intesi come entità sia fisica che simbolica, come autorità, riconosciuta o negata, come silenzio e vuoto, o come voce e parola. Ombra evanescente, in L’uomo in più, è la figura paterna per Tony, la cui morte simbolica, che si traduce in un senso tra i due di totale incomunicabilità, avviene ben prima di quella reale e fisica (e alla cui cerimonia funebre, come a ribadire l’inconsistenza di un legame assai prima scomparso e sepolto, egli deciderà di non recarsi), come d’altronde evanescente è la presenza dello stesso Tony, nel ruolo egli stesso di padre, per la figlia. Irrimediabilmente sfrangiato, in Le conseguenze dell’amore, è il rapporto fra Titta e la propria figura genitoriale, definito anch’esso nel segno del distacco e della glacialità, e che trova perpetuazione nel legame, interrotto
e disgregato, tra lo stesso Titta e i propri figli (i quali si negano anche alle sue brevi e sporadiche telefonate). Il mondo in cui è calato Geremia è lo stesso mondo in cui vivono e agiscono (e talvolta periscono) gli altri protagonisti sorrentiniani: un mondo che rende orfani (muore il genitore di Tony; muore Titta, in un annichilimento più o meno volontario, determinando l’orfanezza dei suoi figli; muore la madre di Geremia così come quella di Rosalba; morirà, ancora, il padre di Cheyenne nel successivo This must be the place), nel quale i figli disconoscono i padri e i padri ripudiano i figli, nell’unico rapporto possibile di ostilità e avversione, nell’ineluttabile solitudine a cui a nessuno è dato di sfuggire. Rinnegato dal padre è Geremia, rinnegato dal padre è pure Tesauro, che aspira a comprare il titolo nobiliare di quel genitore mai conosciuto, che dalla propria vita lo ha cancellato e da cui mai è stato riconosciuto. Per entrambi, in fondo, quella paterna è una figura irreale e inesistente, è una parvenza intangibile e sfuggente che tradisce il sentimento di una assenza, di una mancanza, di un vuoto, di una rivalsa per ciò che non si è potuti essere o non si è potuti diventare. A Geremia Tesauro si rivolge per poter rimpossessarsi di una identità negata; a Tesauro Geremia – che in lui in fondo intravede il riflesso di se stesso – si rivolge con disincanto, nella consapevolezza che quella paterna può esistere solo come immagine della mente, come ombra inafferrabile ed evanescente: «Quando i padri se ne vanno – gli dice con lucido disinganno sentendosi ora quasi partecipe delle sue ansie e spinto adesso da un’esigenza di pietà umana – in cielo o in terra non importa, non tornano più. Ci rimane il ricordo, e dopo un poco neanche più quello. E allora diventano i nostri eroi, e gli eroi non hanno cognomi, non hanno figli, non hanno famiglia. Sono uomini adulti soli contro tutti e orgogliosi di esserlo. Noi siamo i figli, ma non saremo mai eroi». Se la figura del padre, per Geremia, si definisce nella sua fantasmaticità e incorporeità, quella materna, al contrario, si impone nella sua corporeità e nella sua tangibilità. Ad essa, presenza soverchiante e fagocitante, matrona orrenda e ingombrante che lo comanda e ne dispone, egli è vincolato e legato da un cordone ombelicale mai veramente reciso. Costretta a letto, immobile e malata, giace debordante e querulante tra le sudice lenzuola, sotto una fila di crocefissi appesi alla parete, inchiodata davanti alla tv perennemente accesa su documentari naturalistici dove la bestia più feroce divora la più debole, e dove si consuma l’eterna lotta tra predatore e preda. Arpia e obesa, è essa stessa presenza quasi animalesca in
quel vero e proprio museo del disgusto che l’ombroso e respingente appartamento costituisce. Con lei Geremia, il quale ha il compito di accudirla e pulirla, ha un rapporto insano e morboso, lo stesso rapporto, del resto, che egli ha con tutto, con i soldi, con le donne, con la vita stessa. Con lei egli, sorta di feto adulto, vive in uno stato di fusione simbiotica, come il bambino che esiste in funzione della figura genitoriale che lo fa esistere come tale. Insieme, stesi sul letto sfatto, come incestuosi amanti, mano nella mano guardano sul grande schermo televisivo le immagini di documentari naturalistici, come osservando la loro immagine speculare, sussultando con un senso di ripulsa alla visione dei rettili. Come il mondo animale che quei documentari mostrano, dove la bestia più forte divora la più debole e il vegetariano è preda del carnivoro, anche il consorzio umano – o piuttosto disumano – appare regolato da simili e spietate leggi. Nel modello di interazione antagonista a cui esso è conformato Geremia è il rettile, il coccodrillo, il predatore che spreme le vite degli altri. Delle sue prede segue le impronte, si informa sui particolari della loro sfera più intima e privata, le segue passo a passo, le azzanna, annienta la loro volontà, schiaccia la loro dignità, allo stesso modo in cui il suo sgherro – uno dei due gemelli pizzaioli di cui egli si serve per mettere in atto intimidazioni e rappresaglie – schiaccia una zanzara posatasi sul muro dell’appartamento della giovane coppia indebitata. Fagocitatore e manovratore delle esistenze altrui, egli rimanda a una visione sconcertata dei rapporti umani e a un modello di società antropologicamente arcaica, animalesca, indecifrabile e brutale. Una società malsana che trasuda corruzione in cui l’implacabile ferocia e la pulsione cannibalesca che sta dietro all’agire di Geremia (e degli altri personaggi) nasconde un desolante deserto affettivo, l’aridità dei sentimenti, il vuoto della solitudine. Quella solitudine nella cui morsa, come si è già rilevato, sono stretti tutti i personaggi sorrentiniani, unica dimensione sociale per loro possibile, condizione imprescindibile dell’individuo dalla quale si origina, quale strategia di sopravvivenza, la messa in atto dei rapporti di forza, la tecnica del dominio, la volontà di potenza, le dinamiche del potere che dal denaro vengono regolate. Orchestratore e timoniere di miserabili destini, divoratore delle vite altrui (oltre che dei gianduiotti di cui è goloso e geloso e che sembrano compensare quell’amore che egli non ha e che non gli appartiene), Geremia è soprattutto un uomo solo, serrato in un isolamento che la sua difformità fisica rende ancor più acuto e impenetrabile. Lo stesso isolamento, d’altronde, di cui
soffrono tutti gli altri protagonisti del cinema di Sorrentino, distaccati dall’umano consorzio verso il quale nutrono diffidenza e rabbia remota, in un rapporto di animosità e impotenza. Si tratta di un atteggiamento che, della vita, tende a smascherare ogni illusione, e che in Geremia si palesa soprattutto, a compensazione dell’assenza di qualsiasi attrattiva fisica, mediante l’uso arguto delle parole, attraverso quell’eloquio fatto di massime, di risposte taglienti, di frasi sarcastiche, di aforismi – assai simili a quelli del “divo” Andreotti, del quale Geremia appare quasi una prefigurazione – con cui giudica gli altri, giudica il mondo e anche se stesso: «Io ho reso possibile il vostro sogno, sorella cara – così si rivolge alla giovane che verso di lui è insolvente – e questo è giusto. Ma i sogni a un certo punto finiscono. La mia vita si chiama risveglio, e pure questo è giusto. Dove sta la coscienza?»; a Rosalba, che gli chiede come si può diventare disperati come lui, prontamente risponde: «Con un’infanzia felice»; «Il suicidio – risponde ancora di rimando alla giovane che provocatoriamente lo esorta a compiere tale estremo gesto – ha sempre un risvolto ironico, e io non posso permettere di suscitare l’ironia su di me». E, ancora: «Siete qui tutti in affitto. Il mondo vi è stato dato in prestito. Io vi presto il mondo, quando ogni tanto lo perdete». Insieme al potere delle parole, il potere del denaro, per Geremia, è un mezzo per riscattare la sua posizione nei rapporti con il mondo, elemento di rivalsa nei confronti di una vita e di un’entità matrigna, equivalente a quel Dio da egli sconfessato, che ha riunito in lui tutto ciò che gli altri possono additare a sprezzo. Come uno specchio, rifrange sugli altri, attraverso l’uso dei soldi, il disprezzo che la sua deformità attira, sfogando la sua dannazione, la sua sgraziataggine, con uno dei mestieri più esecrabili. Non diversamente dallo shakespeariano mercante di Venezia Shylock, si rivale del suo castigo e della malignità del fato con un’attitudine crudele verso i più deboli. Come Titta Di Girolamo in Le conseguenze dell’amore, anche Geremia è condannato a guardare attraverso un vetro quell’universo esterno da cui la sorte crudele, facendolo nascere sgorbio e negandogli più aggraziate fattezze, lo ha estraniato. Dalla finestra dell’oscuro appartamento, come dal ventre materno in cui vive racchiuso, spia dalle persiane semiabbassate il gruppo delle giovani ragazze che, nello spiazzo sottostante, giocano a pallavolo. Ne osserva i corpi freschi e floridi, i loro movimenti atletici, la grazia dei loro gesti – esaltata ed enfatizzata, nelle inquadrature iniziali, dal ralenti a cui l’autore fa ricorso – e quella loro bellezza esteriore che a lui è preclusa e che
non può appartenergli. Due mondi separati appena da una rampa di scale, da una distanza che per Geremia diviene tuttavia profonda come un abisso. Di quella leggiadria, nell’intimità del proprio perimetro domestico, può soltanto cercare ossessivamente di far rivivere, nella propria lurida e buia stanza (attigua alla camera della madre la quale, come un’amante gelosa, mostra risentimento fingendo di essere assopita), il patetico simulacro, facendo emulare quelle stesse movenze a una matura conoscente – Amanda, l’unica con cui pare avere una parvenza di consonanza e intimità e con cui condivide una simile deformità fisica e una stessa malsanità («Noi abbiamo il tanfo delle persone malate – le dice Geremia – Siamo malati ma siamo bellissimi») – dal corpo sformato e debordante costretta a mimare con la sua flaccida pesantezza il gioco della pallavolo: goffamente, esibendo il suo corpo cascante e molle, la donna cerca di colpire vecchi palloni appesi al soffitto, in un ralenti immaginario a cui Geremia (che osserva i maldestri movimenti della donna da dietro le lenti scure degli occhiali da sole) la obbliga, con una gestualità che vorrebbe simulare e imitare quella dei corpi giovani e sodi delle giovani giocatrici, finendo per crollare miseramente e rovinosamente sul pavimento, come un «angelo rumoroso»9. La bellezza, per Geremia, può essere solo sognata, vagheggiata, immaginata, inseguita, sbirciata di soppiatto, rubata attraverso fugaci visioni: è la bellezza delle giovani pallavoliste o dei floridi corpi femminili che egli incrocia per la strada o nel parco dove va alla ricerca di monete o di monili; è la bellezza della giovane che egli scorge seminuda, assopita al sole ai piedi di un albero, oggetto di una visione e di un desiderio amoroso che non può che galleggiare sulle sponde increspate dell’immaginazione e dell’onirismo (immagina di sfiorarle e accarezzarle il piede nudo, di sedersi vicino a lei dietro l’albero). È la bellezza della giovane madre che, non riuscendo a far fronte al pagamento del debito contratto, Geremia sottopone a vessazioni e mortificazioni, strusciandosi contro il suo corpo, accarezzandone il fianco facendo scendere la mano nella tasca dei pantaloni fino ad estrarne il gioiello bramato generatore di miraggi e di un delirio di onnipotenza. È la bellezza, o la freschezza, della giovane immigrata romena in cerca di marito che l’agenzia matrimoniale gli fa incontrare e che da lui rifugge, preferendogli – come una successiva breve sequenza rivelerà – un vecchio paralitico in carrozzella, in un’ennesima e bruciante mortificazione che non fa che rimarcare la sua esclusione e la sua diversità. È la bellezza, soprattutto, di Rosalba, attraverso il cui personaggio, con la sua
avvenenza e la sensualità esuberante, trova dispiegamento la coppia di estremi su cui il film si costruisce: la bruttezza e, appunto, la bellezza, l’abiezione e la dignità, l’amicizia e il tradimento. Incentrando la vicenda sul rapporto tra Geremia e Rosalba, scavando nell’interiorità dei due personaggi, Sorrentino, sulla falsariga della citazione felliniana, dialettizza l’opposizione fra la bruttezza esteriore/interiore di Geremia e la bellezza esteriore di Rosalba. Se Geremia è la quintessenza dell’orrido e della ripugnanza, Rosalba, al contrario, è il prototipo della bellezza e della sensualità. Progressivamente, nell’intreccio narrativo composto di una moltitudine di immagini e figure, il suo personaggio viene messo a fuoco e delineato nelle sue dinamiche interiori lungo la traiettoria della relazione tra i due termini – la bellezza, appunto, e la bruttezza – raffigurati nella loro contrapposizione ma anche, al contempo, nella loro complementarità. Emerge, fasciata in un vestito argentato, al culmine della cerimonia per l’elezione di Miss Agro Pontino, riverbero della moltitudine di deprimenti show che invadono piazze e schermi televisivi di un paese ormai prostrato agli idoli dell’idiozia e del consumismo, dove estinta è ogni ideologia civile e dove l’apparire prevale ormai sull’essere. Tra volute di fumo artificiale che si alzano dall’improvvisato palco allestito nella piazza cittadina, sotto i riflettori accesi, la ragazza si esibisce in un numero di ballo impacciato e quasi penoso, in un agitarsi goffo e marionettistico. Eletta reginetta della serata, davanti alla platea, che applaude e segue il numero beotamente, intervenuta alla manifestazione portandosi da casa sedie e panche, Rosalba è espressione di una femminilità avvenente quanto vacua e affatto priva di talento, vittima della propria bellezza e del proprio veleno. Scaltra e determinata, conscia della avvenenza del proprio giovane corpo usato come mezzo, ambisce velleitariamente a sfondare nello spettacolo come valletta o starlet, massima aspirazione in un paese vieppiù mediocre e decadente, fatuo e omologato nel segno della futilità e della immoralità, dominato dalla dittatura della volgarità.
Ambiziosa e ribelle, si mostra insofferente di tutto e di tutti. È insofferente del giovane che sposa, inseparabile dal proprio casco da motociclista e dal proprio cellulare, e che ben presto finisce per considerare un «deficiente». È insofferente delle convenzioni e delle consuetudini cerimoniali, delle costrizioni della morale piccolo borghese, dei preparativi e della festa delle proprie nozze considerati solo una farsa. È insofferente, soprattutto, del proprio padre il quale, rivoltosi a Geremia, si è indebitato per poter ostentare un matrimonio di prammatica, sebbene arrangiato e triste. Similmente agli altri personaggi del cinema sorrentiniano, anche per Rosalba la figura del padre – padre come simbolo di autorità, possessore delle norme che regolano il mondo e detentore dei valori etici che lo sorreggono – si prospetta come entità negata, nell’ambito dell’istituzione familiare di cui, come tematica che
solca l’intero cinema dell’autore, si mette in risalto la sua dissoluzione e la sua impossibilità. Del padre Rosalba si rifiuta di agire nel suo stesso modo, ribellandosi al suo sistema di valori, scegliendo di non essere come lui, in un mondo tuttavia che non permette all’innocenza di sopravvivere, in cui non c’è posto per essa e per la gioventù se non come fantasma, come inganno e apparenza. Ruvido è il confronto fra i due, nella sequenza in cui, entrambi insonni, di notte si imbattono l’uno nell’altra nel bagno piastrellato di nero del loro appartamento, allorché Rosalba, apprendendo la vera identità di quello sconosciuto, invadente e sgradevole “amico di famiglia”, scopre la verità: «Che pena, papà – gli dice con tono sdegnoso – Indebitarsi per offrire un pranzo a degli sconosciuti, per farmi vestire di bianco, e per illudervi che sono una vergine e bambina. Io non sono né l’una né l’altra cosa. È tutto una farsa. Tu e mamma siete atroci»; «Lo so che non sei né vergine né bambina – le risponde il padre, interessato a salvare le apparenze nel perenne inseguimento di un falso benessere che si fa inafferrabile come una proiezione mentale o un miraggio, ferito da una vita di ristrettezze economiche da celare e occultare, agli altri e ai figli, per timore del disprezzo e di rivelarsi perdente – E so anche che sarà un pranzo scadente, con la pasta scotta, la frittura congelata. Lo so che non te ne frega niente del matrimonio sfarzoso, che per te sono soldi buttati. […] Non lo faccio per te, lo faccio per me, perché non voglio più essere umiliato. Sei mai stata umiliata tu? Mai. E lo sai perché? Perché le umiliazioni che erano destinate a te me le sono prese tutte io». Del padre, Rosalba ne disconosce il suo ruolo autoritario e i valori, il suo dominio e la sua morale. Nel rifiuto di quei modelli verso cui mostra disgusto assoluto, ella tuttavia decide di farli propri, introiettandoli, assorbendoli, impossessandosene, servendosene come indolente ritorsione nei confronti della società da cui vorrebbe estraniarsi, della famiglia verso cui nutre un velenoso rancore e anche di se stessa. Ribelle, oltre che all’istituzione familiare, a un intero sistema sociale, essa ne diventa un ingranaggio. Del proprio corpo giovane, della propria avvenenza ne fa un mezzo, uno strumento con il quale dissolvere e annullare, più che quei modelli ammuffiti, contestati e aborriti, la propria anima, in un futuro azzerato e spersonalizzato. Entrata in contatto con l’orrido sarto-usuraio – complice, il giorno delle proprie nozze, l’imprevista scucitura di una spallina dell’abito nuziale che Geremia viene chiamato a ricucire – ella non esita a concedergli il proprio corpo, a smerciare il proprio fascino dietro il quale nasconde i caratteri del
cinismo, del calcolo, dell’opportunismo, della corruzione, della bassezza morale. A Geremia – che la vicinanza di quel corpo procace e florido, lubricamente sfiorato, fa voluttuosamente ansimare – gli offre quella bellezza che gli specchi della stanza duplicano e rendono ancor più desiderabile. Gli offre «il paradiso» in cambio di uno sconto sugli interessi sul prestito per il quale il padre si è indebitato («Vanno calcolati correttamente – gli dice facendogli capire il proprio intendimento – i piaceri del paradiso»). Trova sgradevole Geremia, fino al punto di dichiararglielo ripetutamente («Lei è niente, perché non tenta il suicidio? […] È un topo, un topo presuntuoso»; «Come si diventa disperati come te?»), ma, spinta dal disamore e da una pulsione autoannientante che va ben al di là dei meri vantaggi pecuniari, accetta di compiacere quel crescente, irresistibile desiderio che Geremia nutre vieppiù per lei. Un desiderio vero, forse l’unico, sincero e autentico desiderio amoroso che egli abbia mai provato nella sua vita e che lo conduce a un innamoramento di cui, non diversamente da Titta, finisce per sottovalutare le conseguenze, nell’illusione di poter sconfiggere la solitudine e l’alterità con i sentimenti. Un desiderio sfrenato e incontrollabile, un’ossessione amorosa alla quale cade preda e che lo porta a scoprirsi, a spogliarsi della sua repellenza, se non fisica quantomeno morale, a decidere di affrancarsi dal dominio assoluto della madre malata e uscire dal suo castrante ventre, a esternare la propria laidità («Sono un poveraccio, un meschino. Un essere squallido, lo so», confessa alla ragazza). Lo porta, insomma, a umanizzarsi, a rivestire quel corpo sgraziato di un senso di pietas, a trovare e rivelare quel nucleo di coscienza che ha in sé in una sorta di mimesi espiativa. In disparte, nella chiesa dove si è appena celebrato il matrimonio di Rosalba, segue con gli occhi velati di commozione e di rincrescimento l’avanzare della giovane, tra le sagome scure degli invitati, verso l’uscita, ne intravede il volto, sotto il velo da sposa, anch’esso similmente turbato rivolto verso lo stesso Geremia, segnato da un forzato riso il quale muta in un pianto a stento trattenuto che un primo piano sonoro, unendosi alla musica, fa risaltare. Come in una visione immaginifica od onirica, la vede poi apparire da dietro una statua della vergine, in un’inquadratura che incornicia specularmente i due volti, quello scultoreo e quello umano, quasi come riflesso l’uno dell’altro. Rosalba è l’immagine ossessiva che lo insegue, lo possiede, lo tormenta. È l’immagine di un sogno amoroso da sempre inseguito e mai raggiunto, è l’oscuro oggetto del desiderio, la “fidanzata”-madre, l’ambiguo “sdoppiamento” della figura materna, il “sostituto” – o doppio, appunto – di
essa, nell’idea di un suo “rimpiazzamento-duplicazione” che le immagini, nella loro intensità figurativa e simbolica e nell’indeterminatezza surreale del sogno, sembrano veicolare: sulla voce off della madre – che mette in guardia Geremia dalla donna che lo ha stregato – l’obiettivo, nella penombra della stanza del protagonista, ritrae una figura che, di spalle, con una lunga coperta rossa a fasciarne e avvolgerne la testa e il corpo, avanza verso la finestra sullo sfondo; in controcampo, dall’esterno, l’obiettivo ne rivela il volto – quello di Rosalba, come invecchiata e spenta – contornato dallo spesso drappo e dalla cornice della stessa finestra che, dopo un arretramento della macchina da presa, si rivela essere la cornice di un quadro o di uno specchio appeso alla parete scrostata e screpolata della camera della decrepita madre. Per amore di Rosalba, in cambio di una sua parola d’affetto, Geremia si dice disposto a tutto, ad annullare il debito, a credere alla finzione, a dare adito all’illusione: «Se mi dici che mi ami – le propone seduto sullo scivolo dell’acqua park nella breve parentesi dell’escursione lacustre in gondola – azzero il debito di tuo padre. Non mi importa se me lo dici per finta, mi basta che tu me lo dica». La osserva ballare, di nascosto, sulla pista della discoteca dove egli si è recato per umiliare, nel bagno, un suo debitore. Contempla la sua sensualità, contempla quella sua avvenenza e quella giovinezza che gli bruciano l’anima e che lo conducono alla dannazione e alla morte interiore: «Io ti ho ucciso, lo so – le dice – ma quando uccidi una persona muori con lei. Io sono morto con te… Io e te siamo sulla stessa barca». Non sa tuttavia Geremia che Rosalba, interiormente, è gia morta ben prima di lui, divorata da un cupio dissolvi autodistruttivo, dalla rinuncia alla propria personalità, dal desiderio dell’estenuazione, dal rifiuto dell’esistenza, nella trasformazione dell’innocenza perduta in negatività impietosa e annichilitoria. Con crudele cinismo e con spregiudicato calcolo conduce il gioco degli inganni (quello stesso gioco a cui lo stesso Geremia l’ha spinta) nella simulazione di qualcosa che non ha regole. Si presenta nel suo appartamento, provocatoriamente, dicendogli di non aver indossato le mutandine, simula un sentimento che non prova e, successivamente, un amplesso che interrompe quando una delle patate strette sulla fronte di Geremia – il quale, sopra di lei, tenta goffamente di amarla – le cade sul volto. Il monito sibilato da Geremia a Rosalba al loro primo ruvido incontro («Non confondere mai l’insolito con l’impossibile») trova un ribaltamento: invaso da un folle amore e da un’intrattenibile euforia, è Geremia stesso, adesso, a
confondere l’impossibile con l’insolito. L’illusione di quel sentimento lo fa sentire per la prima volta adulto, gli fa sorgere l’intento di sottrarsi al dominio materno, recidere il cordone ombelicale che alla madre morbosamente ancora lo lega. Crede di essere cresciuto, Geremia, ma sarà proprio la mamma, come un bambino bisognoso e desideroso di porsi sotto il suo manto protettivo, che egli invocherà, preso dallo sconforto e dalla rabbia, dopo la scoperta del gioco di finzioni e del tradimento di Rosalba (aspettandola sotto la casa di lei la vede salire su un’auto, la segue fino alla roulotte di Gino, la spia e la osserva attraverso il vetro parlare con lui): un grido disperato che, dal finestrino aperto della sua vecchia auto rossa, si perde nel buio della notte. Un grido inascoltato, come inascoltato e vano è il tentativo di riconciliazione con il padre di cui adesso cerca il conforto, quasi ravvisando e riconoscendo in lui il possessore delle norme che regolano il mondo, il conoscitore delle regole che lo sorreggono che Geremia non ha mai appreso e che il padre, abbandonandolo, non gli ha tramandato, nel desiderio e nel sentimento, più o meno latente, di essere come lui. Del padre si ferma sotto l’elegante palazzo dove egli abita davanti al Colosseo, suona esitante il campanello, invoca il suo nome al citofono senza ricevere risposta, mentre il padre, dalla finestra, lo guarda in silenzio allontanarsi nell’oscurità e risalire nell’auto. Se l’orizzonte di Geremia, bambino brutto mai cresciuto (di cui solo un altro bambino ha il potere di suscitare la vera ira, come il piccolo nipote dell’anziana indebitata il quale, dopo la fortunata vincita della nonna al bingo, recandosi nella sartoria di Geremia per la restituzione del debito rifiuta il gianduiotto che sorprendentemente si vede da lui offrire, provocando la stizzosa reazione dell’usuraio che scaglia il vassoio contro la parete) rimane racchiuso nell’ambito di un nucleo familiare pur disgregato di cui anela a un’utopica ricomposizione, lo sguardo di Rosalba, fredda e atroce ninfa, è proiettato ben oltre, oltre la propria famiglia, oltre i propri genitori, oltre gli amici di famiglia: «la disumanità distaccata e algida di Rosalba costituisce un passo indietro e non in avanti nella scala evolutiva rispetto alla sub-umanità di Geremia»10. Ben più dello sgraziato e disgraziato “amico di famiglia”, Rosalba è espressione di un mondo triste e ripiegato su se stesso di cui Sorrentino radiografa la sua laida, immorale dimensione; è il simbolo di un paese moralmente devastato e sordido, popolato da un’umanità in regresso, da un paesaggio umano squallido e desolante. Figure non certo meno rivoltanti di Geremia – il quale rivela comunque di possedere una parvenza di autenticità e di sincerità e un’ombra di umanità – e
che a Rosalba, con cui condividono una vuotezza interiore, fanno eco, sono i clienti che a lui ricorrono per bisogni superflui e volgari, disposti a tutto per ottenere i soldi tanto desiderati, resi dall’urgenza di denaro e dall’ipocrisia ancora più laidi di lui: la signora cellulitica, con una pensione di invalidità fasulla, che aspira a un trattamento di chirurgia estetica per poter soddisfare il «bisogno di cocktail e discoteche, di stare in mezzo ai giovani il sabato sera» (e che da Geremia, svestita, come un quadro o una scultura stagliata contro una parete dipinta di blu si lascia contemplare e scrutare nel retrobottega del suo negozietto); i novelli sposini che si indebitano per metter su la loro casabomboniera con il frullatore da 900 euro; il padre della stessa Rosalba che a lui ricorre per invitare duecento sconosciuti a un misero e inutile pranzo di nozze e, successivamente, per poter dare sepoltura alla moglie morta d’infarto; il figlio che anela ad acquistare i titoli nobiliari del padre; la vecchia che gioca al bingo la sua vita, una vita appesa a un numero, costretta a nascondersi, nella difficoltà a restituire il debito contratto, per sottrarsi a un’ulteriore punizione ben più temibile di quella subita da parte dei due gemelli picchiatori alle dipendenze di Geremia (i quali, dopo averla sepolta fino al collo sulla spiaggia, con una mazza la colpiscono con forza sulle mani che spuntano dalla sabbia, in una fulminea inquadratura che riecheggia quella iniziale del film, con la monaca anch’essa insabbiata e anch’essa presumibilmente cliente dell’usuraio e vittima di una simile ritorsione11). È un bestiario umano, un circo di mostri, di poveracci senza più un barlume di dignità, figure di un degrado sociale dilagante, di una miseria morale che diviene incancrenimento dell’anima, tumefazione cancerosa di una provincia, di un ambiente, di un paese, di un tempo immobile e stanco. Da esso non sfuggono neanche i due sgherri al seguito di Geremia (dei quali egli si serve per la messa in atto di intimidazioni, ritorsioni e regolamenti di conti), gemelli pizzaioli-giocolieri di sera (si esibiscono durante la festa country in un numero acrobatico facendo piroettare in aria l’impasto della pizza) e spietati aguzzini di giorno; né i tre centurioni da avanspettacolo (un anziano padre e i suoi due figli) che, fingendosi finanzieri, per un pugno di euro si prestano a prender parte all’atroce beffa orchestrata da Gino nei confronti di Geremia. Tutti sono mossi dal denaro, tutti dipendono dal suo potere incatenante che innesca e determina le diverse relazioni e i diversi rapporti fra i personaggi, clienti e prestatori a strozzo, prede e predatori, vittime e carnefici, amici di famiglia e falsi amici degli amici di famiglia. Come Gino, figura patetica e
solitaria, intristita e fuori contesto, ancorata a un tempo e a una dimensione fanciullesca che sono quelli del sogno e del mito. Come un cowboy all’italiana, con accento veneto, vive in un vecchio caravan affondato negli spazi aperti dell’Agro Pontino, inseguendo un anacronistico miraggio country e sognando il Tennessee, il «posto più lontano che c’è». Nella sua caricaturale e pittoresca divisa da “vaccaro texano”, sorta di statuina di un improbabile presepe western, l’obiettivo lo ritrae nelle inquadrature iniziali, cogliendo il suo profilo scuro e misterioso, sulle dolci note soul di My Lady Story: il cappello a tese larghe, la giacca con le frange, gli stivali con la punta, fissato in una postura da mandriano americano abbarbicato a un palo di un recinto – la testa china, un piede su un filo della rete, un braccio sollevato a metà abbandonato sul palo, l’aria pensierosa – all’interno del quale, in ralenti, galoppa un cavallo. Vive lì, lontano da tutto e da tutti, ai bordi del lago sorvegliato da un solitario spaventapasseri, in quella roulotte senza più ruote e ammaccata da cui sporge una testa di cavallo, prigioniero di un passato doloroso (l’incidente in cui ha perduto la donna amata, rievocata in un fulmineo e straziante flashback, lungo il ritorno da un raduno country) e di una malinconia che sembra espandersi e avvolgere le cose e la coscienza con brumosi riflessi. Vive lì, tra quella mobile home e il bar desolato e vuoto che gestisce, immerso nel sogno di un altrove lungo la strada della viabilità dell’immaginario e dell’utopia, in una solitudine che neanche le feste country – nella balera di provincia camuffata da saloon affollata di giovani e meno giovani con uno stesso abbigliamento in tema, raduni del tutto equivalenti o speculari al concorso di bellezza a cui partecipa e si esibisce Rosalba o alla discoteca dove la vediamo successivamente ballare in mezzo alla massa uniformata e omologata – riescono a dissipare. Solo con Geremia, al quale per un qualche motivo è finito con il fare da sensale e garante raccogliendo informazioni sulle persone che al piccolo usuraio si rivolgono, sembra avere un rapporto che ha la labile parvenza di amicizia: «Ma secondo te, siamo amici noi?», domanda Gino al compare il quale, dopo aver riflettuto un po’, risponde «Devo dire che è un’eventualità alla quale non avevo mai pensato». Come Geremia, nonostante il carattere e il fisico assai diversi, anche Gino è un marginale, un dropout, un osservatore esterno e passivo della vita e della bellezza da cui si sente o si è escluso (come l’uno osserva con sguardi furtivi le giovani pallavoliste, così l’altro, nel caravan, si circonda di foto che ritraggono procaci e svestiti corpi femminili). Lavora per l’“amico” come collaboratore e informatore senza
tuttavia condividerne la protervia e la crudeltà: si mostra conciliante, fa da mediatore (intervenendo a favore di Rosalba nella scelta delle bomboniere e suscitando l’irritabilità di Geremia che vorrebbe far prevalere anche in ciò il proprio cattivo e pacchiano gusto), chiede pietà per l’anziana signora catturata dal bingo fino a proteggerla offrendole rifugio e nascondendola, dopo la punizione da lei subita (la si vede con entrambe le mani fasciate) nel proprio caravan. Con Geremia Gino è solito andare a pesca: seduti sul muricciolo delimitante il canale che sfocia nel mare, gettano le lenze sull’acqua, in una pratica predatoria che è specchio delle dinamiche sociali, delle relazioni interpersonali, dei rapporti di potere determinati dalla legge imprescindibile della vita secondo cui il pesce piccolo è mangiato dal più grosso. E il pesce grosso (come quelli che vanno a riempire la propria cesta, accanto a quella di Geremia contenente solo un misero pesce di ben modeste dimensioni), nel rapporto tra i due, è Gino, in quel contesto western bastardo e fasullo in cui i cowboy buoni dalla mira infallibile sono una proiezione immaginifica di un mondo lontano o forse scomparso e inesistente, e dove gli amici sono solo presunti. Tutti sono coinvolti nel gioco di infingimenti e di inganni, tutti bluffano e nessuno è ciò che dice di essere, tutti rubano – come è avvertito Geremia dalla madre malata in una sentenza che ha un fondo di verità – e tutti sono infelici. Se Geremia è il topo, Gino è il gatto che, con infidezza, lo sfida sul suo stesso terreno, solletica la sua volontà di potenza, lo induce a «giocare per una volta su un tavolo più grande, con una posta più alta, con le regole di una specie più forte e più adatta»12. Vale la pena di ricordare a tal riguardo come quello del gioco, o piuttosto della sfida, sia un altro dei motivi che percorrono il cinema dell’autore. Nel gioco del calcio, e successivamente in quello del Subbuteo, si cristallizzano i tormenti e le pulsioni suicide di Antonio Pisapia in L’uomo in più; tra il tavolo a cui gioca ad asso pigliatutto con i due anziani coniugi e quello situato in prossimità della vetrata della hall dell’albergo sul quale è disposta una scacchiera, si corrode la segregata esistenza di Titta Di Girolamo in Le conseguenze dell’amore. Al bingo è legata la sorte dell’anziana giocatrice che, in L’amico di famiglia, si indebita per poter soddisfare la propria insopprimibile pulsione. Il gioco è una modalità rappresentativa, è una metafora della vita stessa. I personaggi sorrentiniani “giocano” il lavoro, “giocano” l’amore, “giocano” se stessi, “giocano” quella lotta a cui la realtà – “materiale” esistenziale sul quale e a partire dal quale essi giocano –
continuamente e inesorabilmente li spinge e li obbliga. Al gioco si inganna, al gioco si bluffa, come i due aristocratici anziani decaduti in Le conseguenze dell’amore. E, anche, come Gino, che congiura astutamente per derubare l’usuraio allestendo la recita del falso imprenditore Montanaro, il “re del bidet”, ordendo una trama e orchestrando una truffa che, sardonicamente, ha come scenario, o come cornice e contesto, l’ambiente – il bagno – che della vicenda diviene uno dei luoghi privilegiati, in una correlazione metaforica tra i luoghi e i personaggi, tra l’“anima” degli uni e quella degli altri. Nel bagno piastrellato di nero avviene il notturno e aspro confronto-scontro tra Rosalba e il padre, con quest’ultimo seduto sul bordo della vasca. Nel bagno della discoteca Geremia sorprende e umilia l’uomo, spaurito e addossato in un angolo, verso il quale egli è creditore. La stessa camera da letto dove giace la madre di Geremia assume (anche) la funzione di (maleodorante) latrina (in una delle sequenze iniziali la donna ingiunge al figlio di andare a cambiarle la padella, quella «macro», quella che egli prenderà e porterà via, per l’ultima volta, oramai inutile, dopo il decesso della donna), spazio ricondotto in una dimensione allegorico-simbolica dove le diverse funzioni corporali – il mangiare e il defecare, in una sorta di intescambiabilità o di equipollenza delle due azioni – trovano entrambe espletamento (in quella stessa stanza consumano i loro pasti sia la madre che il figlio). In un bagno – si ricorda – il cantante Pisapia, in L’uomo in più, si lascia sedurre dalla ragazza minorenne, inizio di un percorso verso l’anonimato, l’isolamento, la perdita di sé. E ancora in un bagno, quello della camera di Titta, in Le conseguenze dell’amore trova presentazione il personaggio del killer più giovane, immerso nella vasca, prima del compimento del suo delittuoso incarico, come in un irridente rito pre-purificatore. Il bagno è associato alla sporcizia, è il luogo deputato alla liberazione delle cose sporche, ma è anche il luogo del rispecchiamento in cui nella sporcizia fisiologica si riflette quella morale: una sporcizia che, quella dei personaggi sorrentiniani, non può trovare lindura. Le immagini in cui l’intero film si struttura, nella messa in scena di un’estetica del brutto e del ripugnante, “evocano” e agiscono d’altronde in direzione di una sensorialità che, anch’essa, non può che essere associata alla lordura e alla laidità, che è tanto fisica quanto, appunto, coscienziale e sensoriale. Degli odori, del sudore, della saliva, degli elementi organici, della sporcizia (i denti e le orecchie che Geremia si pulisce con la spropositata unghia del mignolo, il suo bisunto
cappotto, la scarpa messa sul davanzale della finestra e poi riposta nella scarpiera, il secchio nell’appartamento colmo dell’acqua torbida gocciolante dal soffitto, l’umidità di cui grondano le pareti, le lenzuola, come sudari, che avvolgono il corpo della madre malata) e del marciume le inquadrature sembrano suggerire e comunicare la loro sgradevolezza, oltre che visiva, anche olfattiva. Tra file di bidet, lavandini e water (su uno dei quali è seduta una seducente “segretaria-assistente”) ha luogo la messa in scena dell’incontro tra Geremia e il fantomatico titolare dell’azienda produttrice di sanitari per la fasulla trattativa che Gino ha escogitato avvalendosi della complicità di tre commedianti da strada (nonché delle due ammiccanti ragazze che, al termine del teatrale atto, immerse in una vasca idromassaggio, si offrono lascivamente a Geremia e allo stesso Gino). L’orgoglio, l’ambizione di poter emulare il comportamento del padre, l’aspirazione a poter essere come lui, e lo stordente inebriamento amoroso verso Rosalba spingono Geremia ad accettare la giocata – l’intera sua ricchezza – in una partita truccata che non può che vederlo sconfitto. Sotto la monumentalità del romano Altare della Patria – la cui poderosa e “minacciosa” verticalità sembra comprimere e svilire ancor più la figura del protagonista – nel buio della notte si consuma l’atroce beffa e si rivela l’amara scoperta dell’inganno, la truffa predisposta da Gino e la sua combutta con Rosalba, attraverso lo smascheramento dei tre teatranti, cialtronesche figure vestite da antichi centurioni, comparse di un cinema italiano che fu («Una volta a Cinecittà eravamo de casa» dice uno dei tre all’attonito e amareggiato Geremia, «poi – prosegue il fratello maggiore – er cinema italiano è entrato in crisi…») e di una presente recita che si svolge all’insegna della buffoneria. Geremia perde la partita, e i soldi, e tutta l’inutile ricchezza accumulata. Perde la possibilità di una ritorsione e di una vendetta (fatta irruzione nel caravan di Gino, dove crede di sorprendere insieme l’“amico” e Rosalba, si ritrova a sparare alle loro sagome fatte di cuscini) e perde anche la madre, in una privazione totale e assoluta figurativamente allegorizzata dal suo spogliamento e dalla nudità della sua figura: la macchina da presa, dopo il suo rinvenimento del corpo senza vita della genitrice davanti al televisore rimasto acceso, lo scopre nella stanza accanto inquadrandolo di spalle, senza vesti, con il telefono in mano. A perdere, però, sono forse tutti quanti: perdente è Rosalba, che naviga sugli insicuri frammenti dell’esistenza
aggrappata solo alla propria mediocrità («Che cosa sai fare tu?», le chiede il padre, dandole le spalle seduto sul bordo del letto, prima della partenza di lei per la capitale all’inseguimento di un po’ di effimera notorietà; «So… so ballare», risponde Rosalba senza forse credere lei stessa alla propria vana ambizione; «Tu – conclude il padre – non sai fare niente»). L’obiettivo, nell’ultima inquadratura in cui esso la ritrae, la coglie seduta a un tavolo all’interno di un anonimo bar, sola, con lo sguardo velato di tristezza, con le luci che, al di là del vetro, risaltano nell’oscurità, evanescenti come il suo sogno, sfocate come il suo futuro. Perdente, in fondo, è anche Gino, dalla cui figura la macchina da presa si accomiata inquadrandolo con il suo cappello da cowboy sulla cima del tronco di un albero appoggiato ai rami, in un altrove vago e imprecisato così simile a tanti altri altrove o al qui lasciato, mentre fischietta e accenna con la chitarra le note di una canzone, malinconica come la sua solitudine. Tutti sono coinvolti nel feroce e incessante balletto dell’esistenza nel quale i ruoli della vittima e del carnefice, termini essenziali di quell’opposizione binaria su cui la tematica sorrentiniana del potere e dei rapporti di forza si impernia, cambiano di segno, si ripetono all’infinito e sembrano rincorrersi in un sistema circolare secondo un’equidistanza che li rende intercambiabili. La reversibilità degli opposti, la dissomiglianza dell’identico: su questi elementi L’amico di famiglia trova sviluppo. In tale gioco assurdo del chi è chi, nel perpetuo girotondo della voracità, è possibile allora provare compassione anche per l’orrore conclamato, quando chi è diverso rivela un orrore ancora peggiore. Nella sconfitta, è Geremia allora l’eroe-antieroe di un mondo avvolto come una densa cortina dal senso del mostruoso e dell’osceno. Pur beffato e frodato, pur derubato degli affetti e del denaro, pur privato della madre, pur ferito nella sua squallida ma sostanziale sensibilità, con un inestinto spirito e un rinnovato vigore sembra ricominciare la sua attività di collezionatore di soldi e di ricchezza, sapendo che l’immoralità e la cattiveria del mondo non possono essere combattute che con la stessa immoralità e la stessa cattiveria. È l’ambiguo assunto che la sequenza finale pare estrinsecare. Con il braccio legato al collo e l’oscillante sacchetto di plastica penzolante si avvicina a una fontana inginocchiandosi davanti ad essa, in un dialogo interiore con la figura paterna: «Ci siamo seduti dalla parte del torto, papà, perché tutti gli altri posti erano occupati. E va bene. Ci siamo detti: “Facciamo i cattivi perché i buoni muoiono bambini”, e pure questo va bene. Ci siamo solo dimenticati di dirci
qual è il limite. Perché c’è il limite, papà. Ma io non lo conosco». Immerge la testa nell’acqua e la risolleva, come un’abluzione, in un nuovo battesimo che non redime, che non espia il peccato: un battesimo che non terge la coscienza, un battesimo di chi le colpe, in fondo, non le vuole rinnegare. Perché quelle degli altri sono ancora più orride. L’obiettivo, nel sottofinale del film, si sofferma sulla sua figura in riva al mare, con il braccio non più serrato dal gesso, a cercare monetine sotto la sabbia con il suo strambo apparecchio, con un fervore giulivo e fanciullesco che è forse una sorta di resurrezione e di rinascita, un continuare a giocare (con la massima serietà di cui è capace), pur sapendo che non c’è nulla oltre questo gioco che lo motivi o lo giustifichi. La macchina da presa, con un movimento di dolly a salire che amplia il campo visivo, rimane a contemplare il suo allontanamento lungo la riva sabbiosa, come un inoltramento in un’infanzia protratta all’infinito. Aderendo al riprovevole, allo strano, al deforme, Sorrentino ritrae lo scenario atroce di un cosmo gravido e saturo di patologie e di cattiveria, in un intreccio narrativo essenzializzato che sembra rinunciare allo sviluppo diegetico per privilegiare la descrizione delle figure – quelle dei tre protagonisti ma anche quelle, molteplici, di minor rilievo – e dell’ambiente da esse popolato. Già si è notato come nel cinema dell’autore la dimensione spaziale sia assunta come precisa e peculiare categoria espressiva, giocando un ruolo preponderante nell’impianto compositivo delle opere. Nelle quali i luoghi e gli ambienti si definiscono come lembi del paesaggio interiore dei personaggi scossi da sussulti tumultuosi, sballottati come palline in quella metaforica roulette che è quella che chiamiamo realtà. Personaggi e ambienti trovano sempre una continua e stretta correlazione, messa in evidenza anche dalla stessa costruzione interna delle inquadrature attuata mediante gli incessanti movimenti di macchina e un gioco variato di campiture e relazioni spaziali tra gli stessi personaggi e tra essi e lo sfondo, in ambientazioni sempre fortemente connotate dal punto di vista architettonico e scenografico. A restituire il disperante squallore che esala dalla vicenda e la nullità e la vacuità dei personaggi, in L‘amico di famiglia, sono i paesaggi dell’Agro Pontino e gli ambienti astratti e dechirichiani, di età littoria, di Sabaudia, di Pontinia e di Latina, luoghi senza connotati, città sorte dal nulla e rese ancora più vuote e metafisiche dalla costruzione scenografica e dal procedimento di “svuotamento” e di alterazione operato da Sorrentino: «Volevo che la desertificazione lunare dei personaggi rimbalzasse sui luoghi. Cercavo atmosfere un po’ metafisiche. Quindi ho preso luoghi reali e li ho svuotati. Di
auto, di moto, di persone. […] volevo soprattutto un risultato visivo ordinato. Di fronte a personaggi che sono tutti un po’ fascistoidi, mi piaceva che anche le architetture fossero tali. Luoghi in ordine. Senza orpelli. Architetture che sono perfino belle, in contrasto con la bruttezza degli uomini che le abitano. […] [Sabaudia e Latina] sono città relativamente nuove che non hanno una storia. Nel film poi sono ancor più vuote perché ho chiesto alla produzione […] di togliere anche le auto parcheggiate. Per me le auto parcheggiate sviliscono l’immagine. Inoltre tutti gli esterni sono illuminati […] e anche questo toglie realismo. […] Luoghi ‘medi’, di poca storia, le cui case, almeno io le immagino così, nascondono invece un mare di orpelli. All’esterno invece sono prive di tutto, anche di macchine posteggiate. Non volevo una immagine ‘media’, quel caos indistinto che non mi piace e che svilisce l’immagine»13. Deprivati di qualsiasi presenza, disabitati e stilizzati, estetizzanti e asettici, i luoghi pontiniani e sabaudiani, della cui recente malsana antichità restano apparentemente solo le zanzare, divengono l’alienante palcoscenico dove trovano svolgimento le tragedie degli uomini ridicoli che il regista mette in scena. Tra le quinte architettoniche di una struttura urbana aperta e decentrata, tra gli edifici monolitici e monumentali di un fascismo italiano di lunga durata, nelle cui propaggini il presente sembra continuare a intingersi, si muove Geremia: con il suo deambulare claudicante trotterella lungo i muri dei razionalisti edifici che risaltano con le loro linee rette, con i loro travertini bianchi, con le loro forme pure, e dei quali la singolare prospettiva di ripresa e la costruzione dell’immagine accentuano la loro valenza straniante e metafisica. Come nell’inquadratura, per non fare che un solo esempio, in cui Geremia, passando davanti alla chiesa (si tratta di quella della Santissima Annunziata di Sabaudia) – dopo averne rasentato il fianco in mattoni rossi e avere sputato agli angoli delle sporgenze semicircolari delle cappelle laterali – rimane attratto da due appariscenti ragazze. Le segue per un breve tratto, poi torna sui propri passi. L’obiettivo inquadra la sua figura in campo lungo, incorniciata dalla fuga di geometriche aperture del marmoreo e bianco atrio della chiesa sopra la larga base gradinata, con l’imponente monumentalità cilindrica del battistero che, in primo piano sulla sinistra dell’inquadratura, conferisce all’immagine un senso di astrattezza e di mistero. Come ritagliato tra le quinte con un artificio quasi teatrale, il protagonista sgambetta sullo sfondo dei porticati bianchi con le loro taglienti ombre che rievocano le pittoriche suggestioni dechirichiane. Spazi dove il vuoto regna sul pieno
(contrastando con l’interno dell’appartamento di Geremia, ingombro di ogni sorta di orpelli) sovente bagnati da una forte luminosità (accentuata, appunto, dall’illuminazione artificiale sovrapposta a quella naturale) che contrasta con la perenne oscurità degli interni, in cui le sporadiche figure umane sembrano divenire esse stesse elementi strutturali degli stessi paesaggi, come elementi architettonici integrati nel contesto urbanistico. Spazi desolati che trovano il loro riempimento solo per i funerali (lo spiazzo davanti al cimitero, nella sequenza della cerimonia funebre della madre di Rosalba) o per le squallide rappresentazioni popolari cui assiste tutta la popolazione (il viale, al crepuscolo, percorso dalle persone con le sedie portate da casa, e la piazza dove esse si radunano per la cerimonia serale del concorso di bellezza), riflesso della degradazione e dei laidume di cui non solo la piazza ma un intero paese appare impregnato. Spazi che si animano di un’umanità malata, grottesca e tragica, in un ritratto nel quale si propagano, come dichiarato omaggio, riecheggiamenti e riverberi felliniani14 che si esplicitano non solo attraverso singole immagini e riferimenti diretti (la suora che cammina con la parabola in mano, la citazione esplicita al regista riminese nella battuta di una delle tre truffaldine comparse che, smascherata da Geremia, si rivela come tale alludendo a un cinema italiano passato e scomparso: «Io ho fatto la comparsa col maestro Fellini, du’ vorte»), ma si esplicita anche, e soprattutto, attraverso quella dimensione dell’immaginario tramite la quale Sorrentino, nel rifiuto del mero mimetismo, cerca e rappresenta della realtà il lato più intimo e ombroso, in una messa in scena più obliqua che diretta dell’azione. Sottoposta a un processo di stilizzazione e disgregazione, la parabola narrativa si sviluppa per immagini oniricheggianti, frammenti imbevuti di un humour tenebroso e disperato, siparietti farseschi e vere e proprie gag (il grido strozzato di Geremia, quando Rosalba si presenta alla sua porta senza mutandine, e il suo successivo, repentino e rumoroso svenimento), inquadrature sghembe o dalla composizione geometrica (lo sbocco del canale nel mare, con i muretti laterali che dividono a metà l’inquadratura; il bagno in cui discutono animatamente Rosalba e il padre Saverio, con il gioco delle fughe chiare che creano una sorta di scacchiera sulle mattonelle scure), stacchi improvvisi, particolari rivelatori, immagini rapide pulsanti di sensazioni e visioni rarefatte – in un décor studiato fino all’ultimo dettaglio – che si susseguono in un montaggio alternato, tagli e ellissi, sovrapposizione di rumori che accentuano la valenza iperrealistica delle immagini (il rumore ipnotico del monopattino
con cui gioca una bambina sul pianerottolo dell’appartamento di Geremia), analogie e associazioni di montaggio (il particolare, per esempio, del bordo circolare di un secchio ripreso dall’alto in plongée – con cui si chiude la sequenza nella quale Geremia deterge il corpo della madre supina sul letto – e il dettaglio dell’apertura circolare del caveau – con cui si apre la sequenza successiva – dove Geremia si reca a depositare i soldi). O, ancora, accostamenti dissonanti che trovano una correlazione con le pulsioni sintetiche e le sfumature elettroniche delle commistioni musicali (originali o preesistenti), dalla techno alle malinconie del blues e del country, in un procedimento che si determina come uno degli aspetti peculiari della pratica cinematografica dell’autore nella quale la componente visiva è fortemente vincolata a quella musicale, in un gioco nel quale la musica, essa stessa fonte di ispirazione, si riveste di immagini e le immagini vengono dipinte con la musica: «la musica per me è fondamentale. Cerco e studio prima la colonna sonora, poi il film. Penso ritmicamente. Quando scrivo, lo faccio ascoltando a massimo volume quella che poi sarà la musica del film, compresi i brani di repertorio. Parto da loro per poi arrivare alle immagini e alla storia, mai viceversa»15. Se in Le conseguenze dell’amore tale pratica si traduceva in un lavoro «in sottrazione», in L’amico di famiglia essa conduce a un gioco «ad eccedere», ad aggiungere – personaggi, descrizioni ambientali e, nella parte conclusiva, eventi – a inseguire la mole di parole e di immagini a cui il regista dà vita in una composizione baroccheggiante che dichiaratamente intende allontanarsi dalla piattezza di un’imperante volgarità proto-televisiva: «Sono d’accordo con Carmelo Bene quando diceva che l’immagine è volgare in sé, e che l’unico modo per sfuggire a questa volgarità è aver immagini in eccesso: immagini barocche come antidoto alla medietà dello “stile” televisivo»16. È quel barocchismo formale che va ad arricchire e impreziosire quella personale architettura di idee, di stile, di immagini che definisce il cinema dell’autore, capace di raccontare con raffinatezza e pregnanza, in una messa in scena meticolosa e in un intrecciarsi continuo di comico e tragico, di caricaturale e mostruoso, di ridicolo e di orrido, la degradazione e il deterioramento di un mondo e la mostruosità ambigua e affascinante dei personaggi che lo abitano.
1 P. Sorrentino, intervista a cura di A. Prudenzi, in «Cinecritica», cit. 2 Anton Giulio Mancino, Anziani, media statura: italiani strana gente, in «Cinecritica», n. 56, ottobredicembre 2009, pp. 20-21. 3 P. Sorrentino, Il fascino del brutto? Me l’ha insegnato Fellini, intervista a cura di Cristiana Paternò, in http://news.cinecitta.com/people/intervista.asp?id=5313. 4 P. Sorrentino, in Note di regia. 5 P. Sorrentino, in Divi & antidivi, cit., pp. 156-157. 6 «Volevo strappare Bentivoglio […] al cliché dei personaggi quasi sempre identici che il cinema finora gli ha proposto. Io gli ho chiesto di andare decisamente in un’altra direzione. E lui l’ha fatto, in un modo che a me pare molto efficace». P. Sorrentino, Lo strozzino, il cowboy e la solitudine, intervista a cura di Gianni Canova, in «Duellanti, n. 30, novembre 2006. 7 La dichiarazione di Sorrentino è in Stefano Stefanutto Rosa, Sei minuti di troppo, http://news.cinecitta.com/dossier/articolo.asp?id=6075. I due finali eliminati, insieme a un’altra scena modificata rispetto alla presentazione cannense, e ulteriori scene tagliate nel montaggio definitivo sono contenuti nel dvd del film distribuito da Medusa, 2007.
8 La misteriosità del braccio ingessato è in realtà dovuta al taglio, effettuato in fase di montaggio, della scena nella quale Geremia, camminando per la strada e voltandosi al passaggio di un’appariscente ragazza, finiva per precipitare in un’enorme buca aperta per lavori in corso, in una scena per certi versi simile a quella contenuta in Le conseguenze dell’amore (l’uomo che, osservato da Titta dalla finestra della sua camera d’albergo, girandosi per seguire il passaggio di una ragazza, sbatte contro un palo). 9 «Di notte, a letto – dice ancora Geremia ad Amanda con le carni flaccide abbandonate su una sedia dopo la sua mortificante caduta – ci pare di sentire i rumori della notte, ma quelli non sono i rumori della notte, sono i rumori della nostra malattia. E allora ci sentiamo morti e perduti, e invece siamo degli angeli, degli angeli rumorosi». 10 Anton Giulio Mancino, L’amore al tempo dell’orrore, in «Cineforum», n. 459, novembre 2006. 11 È la stessa suora che, successivamente, vediamo passare per la strada di una Sabaudia deserta e metafisica e che, incrociando Geremia preceduto dalla giovane immigrata romena, cerca di celare il proprio volto, sottraendosi allo sguardo di lui, dietro una parabola che regge con le mani: la stessa parabola che l’obiettivo, poco più avanti, rivela all’interno dell’appartamento dello stesso Geremia, accanto al letto della madre inferma: «Una monaca ha portato ‘sto coso – fa notare la donna al figlio – teneva male alla schiena… Chissà dove l’ha rubato ‘sto coso, eh?»; «Mamma, le monache non rubano», risponde Geremia; «Rubano tutti – replica la madre – e tutti sono infelici». 12 Cristiana Paternò, in «Vivilcinema», n. 5, settembre/ottobre 2006. 13 Per le diverse affermazioni di Sorrentino cfr. le interviste a cura di G. Canova, in «Duellanti», n. 30, cit.; C. Paternò, cit.; Sorrentino, usuraio d’immagini, intervista all’autore, in http://interviste.35mm.it/interviste/sorrentino-usuraio-d-immagini.html. 14 « Mi sono ispirato in maniera irriverente a Fellini, che in Roma mette in scena una galleria di mostri per me bellissimi»; «Fellini […] mi piace più di qualunque altro, sono pazzo di Fellini. Quando dico che nei miei film lo cito spesso, nessuno ci crede. Sarà che sto attento a non farmene accorgere, e per fortuna, perché se uno scopiazza Fellini merita di essere condannato senza appello». P. Sorrentino, intervista a cura di C. Paternò, cit., e intervista a cura di A. Prudenzi. ,cit.. 15 P. Sorrentino, intervista a cura di G. Canova, cit. 16 Ibid.
5. Un ballo in maschera: Il Divo
L’intero cinema di Sorrentino, già lo si è evidenziato, orbita attorno alla tematica del potere le cui dinamiche innervano la struttura diegetica delle diverse opere e determinano l’agire dei personaggi, governano il loro rapportarsi e il loro scontrarsi, conducono al loro prevalere o al loro sottostare, alla loro sopraffare o all’essere sopraffatti in un continuo e spietato gioco altalenante – che è poi quello dell’esistenza – che li rende di volta in volta predatori o prede, soggioganti o soggiocati, dominatori o dominati. Da esso, dalla sua logica imperante, ai protagonisti sorrentiniani non è dato sfuggire: il potere o lo esercitano o lo subiscono, o prevalgono o soccombono, lungo un percorso in cui all’ascesa segue sempre la caduta. Il potere, nelle parole dello stesso autore, «è il punto d’approdo della storia del mondo, gli espedienti per raggiungerlo una mappa per capirne le pulsioni. […] Quel che apprezzo nel raccontare il potere coincide con ciò che mi affascina nella vita. Il grande motore dell’esistenza sono i rapporti di forza»1. Del potere – quello trasversale e inconfessabile che ha segnato e determinato nell’arco di oltre quaranta anni di storia repubblicana le sorti di un intero paese in una sostanziale inconoscibilità della verità ufficiale, un potere assoluto, il potere tout court – e dei suoi ineluttabili ingranaggi, Sorrentino, con il suo quarto lungometraggio, giunge a darne una rappresentazione diretta e immediata attraverso quella che appare la sua tenebrosa e gelida icona, attraverso colui che del potere, dei suoi intrighi, dei suoi misteri, delle sue
congiure, della sua fortuna è simbolo ed effigie, incarnandone l’essenza e l’anima, l’amoralità e l’implacabilità, la spregiudicatezza e l’indagabilità, la degenerazione e l’autoreferenzialità. Al potere, Andreotti è l’uomo che ha consacrato tutto se stesso. Protagonista assoluto dell’Italia dal secondo dopoguerra fino a Tangentopoli, Andreotti è la longa manus di un impero teocratico, il manovratore oscuro e stratega imperscrutabile, il detentore di verità nascoste e taciute, il nocchiere solcatore delle acque del mare nostrum, il traghettatore carontesco di un fiume infernale che scorre attraverso un inestricabile e ultradecennale viluppo di interessi, complotti, segreti, omicidi. Ma è, soprattutto, un’immagine complessa, indefinibile e sfuggente. In un itinerario cinematografico, quale è quello di Sorrentino, che trova il suo Leitmotiv nell’indagine dei rapporti e dei meccanismi del potere e nella complessità e chiaroscurità dei personaggi, l’esemplare figura di Andreotti – di cui Il Divo (La spettacolare vita di Giulio Andreotti) offre lo sfaccettato e caleidoscopico ritratto, come un mosaico composto di infinite e prismatiche tessere – si pone come un inevitabile approdo. Il progetto di un film sul politico più misterioso, ambiguo, pieno di segreti dell’Italia repubblicana – ha ricordato Sorrentino – risale indietro nel tempo, agli anni della sua giovinezza o, forse, dell’adolescenza o dell’infanzia: «L’idea l’ho sempre avuta, è talmente antica che non so rintracciare l’origine della suggestione iniziale. Mi affascinano tutte le cose legate al potere, mi attrae il fatto che i potenti vivano in un’altra dimensione, che non è la nostra dimensione quotidiana, ma è la dimensione del tirare le fila di certe cose. A 18 anni provai a fare un cortometraggio su Andreotti con un mio amico, tutto inventato, surreale, ma lo interruppi. […] Dopo L’amico di famiglia, che non è andato come speravo, ero un po’ demotivato e mi sono detto “ora ci provo”. Non avevo tutta questa voglia di fare un film tanto per fare un film, fa parte del mio carattere: quando prendo una batosta, alzo il tiro. E mi sono reso conto che il tiro l’avevo alzato, perché questo film nessuno lo voleva. Non tanto per ragioni di ordine politico, piuttosto perché c’era uno scetticismo di fondo. Mi sono sentito dire che Andreotti era un personaggio che non interessava nessuno. […] Questo al netto di tutte le resistenze legate alla politica, al fatto che Andreotti è immediatamente sinonimo di guai, di pericolo. La paura è molto diffusa in Italia. Ora molti si affannano a dire che non bisogna gettare la croce addosso ad Andreotti, ma in privato tutti hanno una fortissima paura che sia veramente responsabile di alcuni misfatti e che possa veramente alzare il telefono e dire “toglietemi quello di torno”. Questo
io lo percepivo quando andavo a chiedere le partecipazioni finanziarie al film. Nessuno mi ha voluto dare i soldi, quasi nessuno»2. La fase preparatoria del lavoro di scrittura è lunga ed elaborata: su Andreotti Sorrentino compie un ampio e accurato lavoro di documentazione, legge le biografie e un’enorme mole di articoli, coadiuvato dal giornalista Giuseppe D’Avanzo, accumula un’ingente quantità di materiali e informazioni – ritrovandosi a doversi destreggiare nella sterminatezza della letteratura disponibile e nella vastità della documentazione cartacea accumulata – raccoglie testimonianze di chi lo ha conosciuto e ha lavorato con lui, incontra giornalisti e alcuni dei protagonisti della vita politica e giudiziaria dell’epoca, tra cui Pomicino, che gli ispira «l’aspetto mondano-clericale» del suo personaggio3. E incontra lo stesso Andreotti4. Iniziando a elaborare la sceneggiatura, decide di circoscrivere la tessitura della story a un determinato periodo della carriera politica del protagonista, quello del suo apice e della successiva fase di decadenza. Sceglie gli spunti più cinematografici, seleziona gli episodi e i fatti, ancorandosi da un lato agli atti (processuali) e alla realtà, dall’altro all’invenzione e alla visionarietà, giostrando, nella delineazione della figura andreottiana, tra il pubblico e il privato, tra la cifra realistica e quella immaginifico-onirica. I flashback, i tagli, le intuizioni surreali, gli squarci incubici, i lacerti di autocoscienza, i fantasmi dell’anima, l’alternanza e il montaggio fulmineo degli episodi e delle sequenze sono già tutti lì, nella sceneggiatura dettagliata e particolareggiata. Luogo principale delle riprese, oltre a Palermo e Napoli, Roma, negli esterni scorci notturni e negli interni di Montecitorio, in una resa “sacrale” dell’istituzionalizzazione e dell’iconografia del potere laico. E, anche, Torino, per la reinvenzione dell’appartamento di Andreotti, tra «ninnoli, suppellettili, mobili, oscurità»5. Dalla fine dell’ultimo dei suoi sette governi, nel 1992, l’anno dopo la nomina a senatore a vita dell’allora presidente della repubblica Cossiga, allo sfaldarsi della sua corrente e all’inizio del processo di Palermo, nel 1996, che lo vede imputato per associazione mafiosa: il film ripercorre l’ultima parte da “divo” di Giulio Andreotti – in un’alternanza di squarci della vita pubblica e della vita privata, in particolare con la moglie Livia e la segretaria Enea – il politico più influente che ha determinato le sorti del paese italiano per quasi mezzo secolo. Più influente ma anche più ambiguo, segreto, misterioso, complesso, imperscrutabile, che tartarughescamente si è infiltrato in ogni piaga e in ogni interstizio del Potere nostrano, sospettato di
tutto perché capace di tutto, credente in un dio che ammette l’uso del Male a fin di Bene. Stragi, suicidi eccellenti, assassinii, rapimenti, strangolamenti, avvelenamenti, sparizione di personaggi scomodi, accuse dei pentiti della mafia: in tutto egli sembra essere coinvolto, su tutto sembra esserci lo zampino della sua figura, onnipotente, piovresca, silenziosa, insinuante, solitaria, isolata, inamovibile, gelida, orchestratore e manovratore abilissimo e occulto della Storia ufficiale, della storia propria e delle molte storie altrui.
Discostandosi dagli schemi del cinema inchiesta, deviando dai binari del film pamplhet, Sorrentino, della “ragion di Stato” e del totem immutabile e
inattaccabile dello scenario e dell’immaginario politico italiano del secondo dopoguerra, sviscera l’ambigua complessità in un ritratto in cui a imporsi è, soprattutto, l’inafferrabilità, che contiene in sé, assieme a una componente di sospetto-oscurità, quella di una disorientante e ipnotica fascinazione. Il regista sceglie di muoversi in un territorio sospeso tra la riconoscibilità e la veridicità storica e la trasfigurazione surreale che produce, intorno al personaggio cardine e all’idea del Male che essa veicola, un alone sfumato in cui repellenza e magnetismo si sovrappongono. Pur mettendo in scena una figura nella sua precisa identificabilità, appare subito tuttavia evidente come Sorrentino intenda astrarsi dal dato biograficodocumentaristico per offrire un’immagine, di Andreotti – con intorno tutto un teatrino di marionette politiche – e di quel potere di cui è l’impersonificazione, che si muove sul crinale del verosimile e del grottesco, secondo la propria precipua cifra poetica, in un flusso verista e immaginifico, tra biografia documentata o possibile, in un continuo movimento di andirivieni tra il realistico e l’irreale, il caricaturale e il mostruoso, il ridicolo e il tragico. E appare altresì evidente come l’Andreotti sorrentiniano (imperturbabile nel volto di Tony Servillo, cristallizzato in un tratto caratteriale esasperato ma di simbolica e grande nitidezza) sia la sintesi e la summa di tutti gli altri protagonisti che popolano l’universo narrativo dell’autore, i quali, a loro volta, sembrano possedere caratteristiche e sembianze “andreottiane”. Di Tony Pisapia l’Andreotti sorrentiniano è animato da una simile amoralità; di Titta Di Girolamo possiede la stessa rigorosa inamovibilità, la stessa ingessatura corporea, la stessa (ipotetica o probabile) connessione con l’organizzazione criminale, la stessa riservatezza maniacale; di Geremia de’ Geremei ha un analogo aspetto esasperatamente marcato, un’analoga affliggente emicrania, un’analoga consuetudine a esprimersi con perle di massime di vita e di tagliente cinismo, un’analoga ossessiva propensione per gli ambienti bui, un analogo ricorso al ricatto, un’analoga ingerenza nelle vite altrui. Con tutti, soprattutto, spartisce l’isolamento, spartisce quella solitudine nella quale ogni personaggio si specchia, e condivide altresì una parabola esistenziale in cui, raggiunto il punto più alto e di maggiore splendore, ha inizio, ineluttabilmente, la fase discendente, il declino e la decadenza. Il Divo si concentra infatti sul momento terminale della lunga traiettoria politica andreottiana, sull’ultimo dei suoi sette governi, sulla sconfitta nella corsa alla presidenza della Repubblica, sul processo palermitano per
associazione per delinquere di tipo mafioso, in un movimento oscillante e pendolare e in un avvicendamento dell’ambito pubblico e di quello privato. È in quest’ultimo, nell’appartamento continuamente ombroso in cui vive e nel quale solo tenui fenditure di luce rischiarano appena le pareti e l’arredo antiquato, che il protagonista trova presentazione – dopo una serie di didascalie, su fondo nero, che forniscono un sintetico “glossario italiano” elencando e riassumendo le “voci” principali del complesso contesto storico e politico in cui lo scorcio narrativo si inserisce – in una simbolica e pregnante inquadratura di apertura che appare già come una dichiarazione di intenti, definendo la vettorialità lungo cui il racconto troverà sviluppo ed esplicitando la chiave antirealistica e grottesca con cui il regista mette in scena la Storia e il Potere. Come l’incipit di L’amico di famiglia, l’inizio di Il Divo mostra l’evidenza di una maschera che non può che essere deforme: dal buio che oscura l’intero quadro, ritagliato al centro dell’immagine in una nicchia di luce verso cui la macchina da presa, come attratta da un misterioso effetto di calamitazione, si dirige, emerge la sagoma ingobbita, scura e nerovestita del “divo”, incurvato sulla scrivania con la testa china incollata a un’agenda, assorto a scrivere con le mani quasi giunte poggiate sopra le pagine su cui fa scorrere la sfera della penna. Poi, interrompendo la scrittura, rannicchiato nelle spalle tese, alza lentamente la testa rivelando la faccia trapunta da aghi per la cura dell’emicrania, le orecchie rivolte esageratamente in avanti, la montatura eccessiva degli occhiali, volto caricato e carnascialesco di un Potere che sembra provenire dall’oltretomba e che nell’oltretomba, subito dopo – con lo spegnimento della lampada posta sulla scrivania e l’abbuiamento della scena – sembra sparire, avvolto dalle tenebre. Da subito le immagini rivelano del Divo la sua natura vampiresca, il suo essere un nonmorto, un nosferatu che la stessa voce over del personaggio ribadisce e sottolinea: «”Lei ha sei mesi di vita”, mi disse l’ufficiale medico alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto, ma era morto lui. È andata sempre così. Mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo, sono morti loro. In compenso per tutta la vita ho combattuto contro atroci mal di testa. Ora sto provando questo rimedio cinese, ma ho provato di tutto. A suo tempo l’Optalidon accese molte speranze. Ne spedii un flacone pure ad un giornalista, Mino Pecorelli. Anche lui è morto». I divi non muoiono mai, sopravvivono a se stessi. Come i vampiri: si rintanano e agiscono nell’oscurità, vivono nutrendosi dell’essenza vitale di altre creature di cui sono avidi. Assalgono di notte, assetati del sangue delle
loro vittime. Sulle sonorità dure e cadenzate dei Cassius si sussegue una sequenza di morti ammazzati: Mino Pecorelli (marzo ’79), falciato in un agguato da una raffica di mitra; Giorgio Ambrosoli (luglio ’79), freddato con quattro colpi di pistola; Roberto Calvi (giugno ’82), impiccato sotto un ponte di Londra, con il corpo penzolante sopra le acque del Tamigi; Michele Sindona (marzo ’86), avvelenato in una cella carceraria; Carlo Alberto Dalla Chiesa (settembre ’82), assassinato a colpi di kalashnikov; Aldo Moro (maggio ’78), rannicchiato e trafitto dalle pallottole sotto la coperta all’interno del tristemente noto bagagliaio della Renault 4. Agguati, omicidi, assassinii, attentati eseguiti con freddezza nell’oscurità della sera o della notte, la stessa oscurità in cui i mandanti di quelle morti irrisolte restano avvolti. E, ancora, la strage di Capaci, enucleata in immagini trasfiguranti, simboliche, potenti, riproposte più avanti, come un’allucinazione, come un incubo che turba il sonno e la coscienza: il dettaglio dell’apertura circolare di un cilindro di cemento, poggiato su un terreno arido, ripreso da una prospettiva grandangolare e deformante; all’altra estremità, in fondo, un uomo vestito di bianco si china a osservare al suo interno; una mano, in primo piano, introduce nella cavità cilindrica uno skateboard a cui è fissato dell’esplosivo; dall’alto, in plongée, l’obiettivo inquadra in campo lungo il suolo brullo, asciutto e secco; apparendo dalla sinistra la carcassa di un’auto precipita, in ralenti, verso il punto in cui sul terreno si apre un cratere; l’impatto provoca una devastante esplosione. Ancora una strage, condensata in due sole inquadrature dal forte peso figurativo e simbolico; ancora delle vittime in una storia – del film, della repubblica italiana – che si riempie sempre più di morti. I quali, come in un horror o come in un giallo – quei gialli di cui Andreotti è appassionato lettore ma dei quali strappa la pagina in cui si rivela l’assassino – si accumulano, si moltiplicano, si ammassano: come i misteri. Il Divo, è stato acutamente notato, si configura come «un film necrofilo e necroforo: ama la morte che aborre. E la mette incessantemente in scena, e non sa evitarla perfino quando tenta di mostrare la vita. […] E la Storia fa del cimitero il suo punto d’attrazione fatale»6. Fu in un cimitero, d’altronde, che il vero Andreotti chiese in sposa la futura moglie Livia: nella rievocazione dell’episodio, la macchina da presa, in un’immagine decolorata, segue l’avanzare delle due figure, nella loro macabra passeggiata d’amore, tra le file di tombe e di lapidi, tetro sfondo non solo di un matrimonio ma di un’intera esistenza. Sulle croci su di esse incise, sulle cui immagini si sovrappone la
voce di Andreotti nella sua “confessione”, scorre l’obiettivo, a rievocazione del lungo elenco di omicidi politici e di stragi e di casi irrisolti che hanno segnato nell’arco di alcuni decenni la storia repubblicana italiana, in una sostanziale inconoscibilità della verità ufficiale. È un orizzonte, quello della morte, verso cui si proiettano le vicende di gran parte dei personaggi che si muovono in uno scenario su cui aleggia continuamente un fosco presagio funereo: la morte è rappresentata, allegorizzata, evocata (persino nel titolo del giallo che Andreotti, durante la visita a Mosca, legge a letto sotto il ritratto minaccioso di Karl Marx: Morte di una ninfa, appunto). Morti violente, per mano assassina o per pulsione suicida: corpi crivellati, corpi scomposti riversi sul terreno, corpi di impiccati, corpi sfigurati, corpi che cadono dalle finestre di alti palazzi e si sfracellano al suolo. Delitti efferati, morti per soffocamento, o morti per infarto (quello che coglierà il già arrestato Evangelisti, spazzato via dal ciclone di Tangentopoli, davanti al cui feretro vediamo Andreotti indugiare, nella camera mortuaria, in una fredda e formale visita che diviene un diversivo alla noia nell’inerzia indolente e apatica che precede il processo). Muoiono tutti, muoiono giornalisti, banchieri, magistrati, pentiti di mafia, amici di partito e di “famiglia”, ma il Divo, il convitato di pietra, il conte Dracula, rimane, indifferente e imperterrito, glaciale e distaccato. Resta solo, semmai, un lieve disturbo psicosomatico, quell’emicrania da combattere con gli aghi cinesi o con il Tedax per il quale egli continuamente si raccomanda affinché venga incluso nel prontuario dei farmaci, rimedi al mal di testa e agli effetti indesiderati delle stragi e degli intrighi che a lui, alla sua responsabilità diretta o indiretta, vengono ricondotti. Nell’organizzazione geometrica dell’inquadratura, dopo il concitato montaggio delle morti e dei cadaveri eccellenti, l’obiettivo torna a scrutare lo spazio privato e domestico ritraendo da una prospettiva verticale, in perfetta simmetria, il dettaglio di un tavolo su cui è posta una scatola di aspirina tra due bicchieri d’acqua nei quali si sciolgono le pastiglie. Tutto si riassorbe, tutto si ricompatta, in un ritorno all’ordine nell’ambito di un potere oscuro che si perpetua, il cui vero volto rimane nella penombra, inattaccabile, invisibile, nascosto: nella penombra della cucina, in mezza figura frontale, l’Innominato si porta alla bocca i due bicchieri, uno dopo l’altro, dietro al lampadario acceso che gli copre e ne cela interamente la testa, in un’atmosfera cupa e astratta. Non ha volto perché, di volti, ne ha cento o mille – come gli infiniti soprannomi che nel corso degli anni gli sono stati
assegnati: la Prima lettera dell’alfabeto, il Gobbo, la Volpe, il Moloch, la Salamandra, il Papa Nero, l’Eternità, l’Uomo delle Tenebre, Belzebù, il Divo Giulio – ognuno a scrutarsi intorno, ognuno a cercare e creare legami e complicità. Come tutti i vampiri, anche il divo Giulio aborre la luce. Il buio è il suo regno. Con scrupolo maniacale, all’inizio del film, lo vediamo spegnere rapidamente uno dopo l’altro gli interruttori delle stanze del suo oscuro appartamento, quasi a spegnere uno ad uno i suoi segreti, a offuscare la realtà occultandola nel buio. Li spegnerà anche successivamente, in modo sistematico e ossessivo, nella sequenza del rientro a casa insieme alla moglie: lei accende gli interruttori, lui li ripreme per non alterare quella perenne oscurità in cui, oltre all’appartamento, è immersa la sua vita e in cui affondano i misteri e la verità.
Vive di notte, Andreotti, e sembra non dormire mai: di notte pedala sulla cyclette; di notte, raggiungendo abitudinariamente a piedi il suo luogo di lavoro, gira con la scorta per le vie deserte di una Roma spettrale: l’attacco della Pavane di Fauré, che entra lento con le note del flauto, accompagna il lento incedere del protagonista, nella sua postura rigida, lungo una via del Corso inanimata rischiarata dai lampioni e dalle luci blu di due auto blindate, mentre gli uomini della scorta, a piedi, armati, gli guardano le spalle spiando tutt’intorno e controllando ogni sua sosta. Lui, il Divo, cammina, si ferma,
perplesso, costeggiando un muro su cui campeggia il suo nome scritto con lo spray, per poi muoversi ancora insieme al corteo silenzioso fino a sboccare in piazza Colonna. Fatto ingresso in chiesa, si fa dare dal suo confessore la benedizione (politica più che religiosa) e l’assoluzione, per vanità e opportunità, ben sapendo l’importanza di avere la legittimazione (anche) degli apparati ecclesiastici ai fini del consolidamento della propria gestione del potere politico, quel potere verso cui è rivolta l’unica sua fede. Al «così illustre parrocchiano» il prete rammenta la frase di Montanelli secondo cui De Gasperi e Andreotti andavano insieme a messa e tutti credevano che facessero la stessa cosa, mentre invece De Gasperi, in chiesa, parlava con Dio, Andreotti con il prete: «I preti votano – replica Giulio con sferzante freddezza – Dio no». Cammina ancora nell’oscurità, prima dell’alba, in una sequenza successiva, fermandosi improvvisamente, allungando misteriosamente il collo verso l’alto e portando le mani ai fianchi, mentre uno stridio di gabbiani irrompe, ovattato, nel campo sonoro. Lo vediamo ancora, nello smorto chiarore purpureo dell’aurora, dopo la perdita degli incarichi governativi e del prestigio politico e all’indomani degli scandali e degli arresti di Tangentopoli, fermarsi a guardare lo scaricamento della carne macellata da un frigo-camion, nella messa in risalto di sinistri e metaforici bagliori, a evocazione della tanta altra carne – umana – mandata anch’essa similmente al macello dal potere, legittimato o criminale che sia. Tutto è livido, scuro, ombroso nella fotografia di Luca Bigazzi basata sul privilegiamento degli ambienti bui e delle scene notturne o sulla evidenziazione dagli spettrali riverberi di luce, di obliqui squarci luminosi che ammantano personaggi, luoghi e situazioni di inquietanti baluginii. Tinte tenui e spente e sinistri effetti luministici definiscono i paesaggi desolati e tenebrosi, disegnano personaggi bizzarramente deformi o caricaturali, dando rilievo alla presenza del tragico e del mistero e ai segnali di morte che gravano come un’ombra minacciosa per tutta la durata del film. In chiesa, in strada, nei corridoi e nelle sale del Palazzo dove le strategie politiche, lontane dalla realtà delle persone, trovano la loro orditura, l’Andreotti sorrentiniano, creatura notturna, si muove con passo lento e distaccato, in un atteggiamento compassato e in un incedere curial-vedovile che lo rendono una figura a-temporale ed eterna, un essere dotato di una capacità quasi “divina”, o infernale, nel ristabilire l’ordine delle cose, nel conciliare le discordanze, nel far coincidere gli opposti. Di Dio possiede la
stessa conoscenza, conosce gli stessi segreti: «Questo Dio lo sa, e lo so anch’io», dirà nella confessione “spettacolare” poco prima della fine. Più di Dio conosce i misteri degli accadimenti grondanti sangue ma avvolti nella nebbia dei segreti di stato, o sepolti in quell’archivio personale e privato che gli consente di tenere sotto scacco tutta quell’umanità da cui è circondato traboccante anch’essa di segreti inconfessabili: documenti e fascicoli che riempiono gli scaffali e i ctoni corridoi di infernali antri capaci di far tacere, al solo nominare, chi deve tacere. Perché la verità deve rimanere oscura, perché la verità, potrebbe rispondere Andreotti con le stesse parole di Titta Di Girolamo, «è noiosa». Perché anche Giulio, se guardasse fuori dalla finestra come fa Titta dalla hall ovattata dell’albergo, alla domanda «che si dice fuori, dottore?», potrebbe rispondere come lui: «Niente». Il controllo esercitato sulla propria vita e su quella di coloro che lo attorniano, e la propria onniscienza, lo rendono una creatura sovra-dis-umana, una sorta di automa, un Golem apparentemente privo di qualsiasi reazione emotiva, che sembra non provare mai dolore, né affetto, né emozione. Mai un bacio (se non quello, presunto, scambiato con Totò Riina), mai un sorriso, mai un abbraccio: rimane inerte come un manichino, in imbarazzo, quando la moglie dell’ambasciatore francese, in un colloquio privato, come segno di ringraziamento lo stringe a sé. Il sismografo della sua emotività, perennemente inerte, si aziona, registrando lievi oscillazioni e scalfendo appena la sua imperturbabilità, solo nei rari momenti in cui l’ordine delle cose e del mondo sembra sfuggire al suo controllo o nelle occasioni in cui il sistema di repressione delle reazioni subisce un allentamento ed esse si manifestano incontrollabili: la morte della madre o quella di De Gasperi, cagione, insieme alla prima nomina come sottosegretario, degli unici tre pianti della sua vita; il rapimento di Moro, causa di un conato di vomito; o, anche, l’incongrua presenza di un gatto sornione, dagli occhi di colori diversi, il quale, nell’ampio e sontuoso salone di palazzo Chigi che Andreotti attraversa il giorno dell’insediamento del suo settimo governo, gli si para davanti: i due si “affrontano”, come in un surreale “duello” (risolto, come in un western, in un campo-controcampo dei due “sfidanti”); Andreotti batte la mani, il gatto resta lì, accoccolato, non si sposta, con gli occhi fissi puntati avanti sui quali scorgiamo il riflesso del Divo e sui quali egli sembra vedere il riflesso di sé stesso, vedere la propria doppiezza e il proprio potere accecante; il felino, infine, “si arrende”, si allontana, gli cede il passo, gli lascia la strada libera verso quel trono su cui egli si appresta ancora una volta
ad assidersi. Di lui, l’unica l’immagine ad avere il potere di intaccare la sua fissità singolare, la sua volontà ferrea di non far trapelare nulla, di non far trasparire indizi di sorta, è quella di se stesso, della propria coscienza: è quella che egli vede riflessa nelle pupille bicromatiche del gatto, è quella che, soprattutto, sotto forma di persistente incubo e di spettro, rinviano le parole di Aldo Moro, il cui rapimento e la cui successiva uccisione da parte delle Brigate Rosse pesano su di lui come un macigno impossibile da rimuovere. Come fendenti, al pari delle frequenti emicranie, le parole dello statista – provenienti dal proprio memoriale, scritte a lui e su di lui, e rimarcanti proprio la sua assenza di umanità e di pietà – tormentano le sue notti insonni costringendolo a specchiarsi nella propria coscienza. Attraverso degli inserti vocali che a più riprese intervengono, la figura dello statista sequestrato e prigioniero delle BR e i suoi terribili atti d’accusa aleggiano lungo l’intero film, riecheggiano inesorabili nella sua mente come una voce oltretombale incisa su un nastro svolto e riavvolto all’infinito. E non servono, per alleviarne o blandirne il devastante effetto, né gli aghi cinesi né l’aspirina. Quel ricordo, quegli inappellabili giudizi, quegli interrogativi iterati che non trovano risposta («Che cosa ricordare di lei, onorevole Andreotti? Non è mia intenzione ricordare la sua grigia carriera. Non è questa una colpa. Che cosa ricordare di lei? Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza un momento di pietà umana. Che cosa ricordare di lei?») lo pongono come davanti a uno specchio che restituisce di lui stesso un’immagine raccapricciante e orribile: l’immagine della verità. Occultato quello specchio, spente le luci che lo illuminano, annullata quell’immagine mostruosa che esso riflette, repressa la verità dietro il travestimento ambiguo della “ragion di stato”, il protagonista riacquista la consuetudinaria compostezza di divo-maschera fermo, sagoma contratta e ripiegata su se stessa, e riassume quella rigidità impenetrabile e gelida che non lascia trasparire alcuna emozione, alcuna debolezza o indulgenza, resa ancora più evidente e marcata dall’affannarsi e dall’agitarsi continuo della galleria di comprimari-cortigiani di cui gode l’appoggio e l’ossequio. La cui entrata in scena – ritratti in una sintesi icastica e aggressiva, in un bozzettismo emblematico dell’indossamento anche da parte di essi di una maschera come modo di adeguamento e di sopravvivenza in un universo di aberrante deviazione – assume connotazioni gangsteristiche: introdotti o accompagnati da didascalie nomenclative mobili e plastiche (e che
interverranno lungo tutto il film, ribaltandosi, ruotando davanti e dietro ai diversi personaggi, o alle loro salme, a chiosare il loro ruolo) giungono alla corte del divo Giulio i vassalli di quella che la premurosa segretaria Enea annuncia come «una brutta corrente». Un gruppo di uomini, ognuno con una precisa caratterizzazione; un «mucchio selvaggio» che fa la sua comparsa, enfatizzata dal ralenti come in un film western, scendendo dalle auto blu o dalle fuoriserie rosse, al rombo cupo delle pale di un elicottero a cui si unisce un prolungato suono basso e tetro e il richiamo di un fischio, in una spiazzante intrusione sonora extradiegetica che astrae la scena dall’ambito realistico proiettandola in una dimensione surreale: Cirino Pomicino, “O Ministro”, sorta di fanciullesco e frenetico giullare dal dinamismo irrefrenabile, tessitore di trame e organizzatore di feste danzanti, instancabile sarto delle ricuciture politiche; Franco Evangelisti, alias “Limone”, l’adulatore vile e interessato, ipocrita e servile, il Forrest Gump della politica italiana incapace di esprimere un benché elementare personale concetto oltre al suo iterato e cantilenante «Bboni, state bboni»; Giuseppe Ciarrapico, alias “il Ciarra”, il plutocrate potente e influente; Vittorio Sbardella, “lo Squalo”, dal ghigno satanico e l’andatura spavalda (avanzando in direzione della macchina da presa lungo il corridoio del palazzo, scorgendone all’estremità la segretaria di Andreotti, punta verso di lei l’indice alzando il pollice della mano, a guisa di pistola, mimando il gesto di sparare); Fiorenzo Angelini, alias “Sua Santità”, il cardinale espressione di un cattolicesimo politico costituitosi in sistema, l’alto prelato fautore di uno stretto connubio chiesastato repubblicano. E poi, ancora, Salvo Lima, “Sua Eccellenza”, il fiancheggiatore di un’altra “santa” alleanza, quella tra sistema politico e sistema mafioso. Un teatrino grottesco e ridicolo, un balletto frenetico di sosia caricaturali, un girotondo di individui ai margini della rispettabilità (il cui destino sarà quello dell’arresto, con l’avvento di Tangentopoli, o della morte): il circo barnum della politica che congloba acrobati, pagliacci, animali ammaestrati e bestie feroci, tutti riuniti attorno al grande burattinaio in un ambiente, il bagno, che si definisce come uno dei più ricorrenti nel cinema sorrentiniano (sarà ancora in un bagno – cloaca della moralità, luogo di rigurgito dei tormenti e dell’incubo della verità – che ad Andreotti apparirà, riflessa da uno specchio, la visione fantasmatica di Aldo Moro, come uno spettro incombente e vendicativo, persistente e opprimente le cui parole, terribili atti d’accusa, perforano la mente del protagonista come un’altra, ben più lancinante,
emicrania). È in un bagno, infatti, quello del palazzo dove Andreotti sta per ricevere la sua settima investitura, che egli riceve i suoi obbedienti esecutori di ordini, con quest’ultimi disposti a cerchio addossati ai lavabi o seduti, come il cardinale, sul “trono”, e lui, la grande attrazione, al centro della stanza sulla poltrona da barbiere mentre si fa radere la barba. Tutti insieme a disegnare, tra una battuta sarcastica e l’altra, i destini di un intero paese. I gregari-marionette si accalorano, si infervorano, si alterano, si agitano in un turbinio frenetico che trova la sua ludica esplicitazione nella sequenza del festino organizzato da Pomicino nella sua villa, teatro dei festeggiamenti per l’insediamento del nuovo governo Andreotti. Nella fuga e nel labirinto di stanze l’occhio mobile ed errante della macchina da presa – esplorando gli ambienti, i volti, i corpi vorticanti in una lunga inquadratura di oltre un minuto e mezzo – segue una folla variopinta che si abbandona alle danze al ritmo ossessivo di una musica tribale. In mezzo ad essa, la “brutta corrente”. Solo lui, Giulio, è seduto sul divano al centro della stanza, tra la moglie e il luogotenente Evangelisti, nella sua perenne immobilità statuaria, a stringere le mani di grigi e compassati notabili adoranti, prima di alzarsi – acconsentendo al consiglio della consorte che gli fa notare l’ora tarda – e congedarsi indietreggiando, senza voltarsi. Al suo saluto, Pomicino si getta nella foga del ballo, mulinando le braccia, dimenando il corpo come un guitto al ritmo dei tamburi, in una esibizione istrionica e buffonesca. Che anticipa l’altra, estemporanea e bambinesca performance, poco più avanti, della “scivolata” nel corridoio di Montecitorio: con un sorriso malizioso, il ministro si lancia in una corsa lungo il Transatlantico scivolando alla fine sul pavimento lucido, in un urlo liberatorio e quasi propiziatorio in vista dell’elezione del presidente della Repubblica intorno alla cui candidatura di Andreotti egli si accinge a quadrare il cerchio. Tutti si scompongono, si accipigliano, fremono, si accodano alle danze o, come accade nella scena della seduta parlamentare che precede la votazione per la carica presidenziale, si infervorano, sbraitano, urlano, inveiscono, trattano e contrattano, fanno e disfanno. Tutti tranne Giulio (rimane seduto sul suo scranno, nella stessa sequenza, conservando il proprio abituale controllo nella concitazione generale), che del balletto della politica e del potere è da sempre il trascinatore: «Lei ha mai ballato, presidente?», gli chiede una signora durante un’altra festa ancora nella villa di Pomicino, avvicinandosi a lui che se ne sta in disparte, in piedi, quasi a disagio tra le coppie strette in un lento; «Tutta la vita», le risponde. È quel balletto del
quale egli riduce ai minimi termini la comunicatività e la gestualità: bastano frasi lapidarie e sarcastiche, piccole mosse, lievi cenni gettati come sassi nel grande stagno del silenzio. Il suo codice comunicativo, nella sua visione pragmatica della politica, è basato su un laconismo fulminante, fatto di sentenze lapidarie, di motti secchi e taglienti («Chi non vuole far sapere una cosa non deve confidarla neanche a se stesso, perché non bisogna mai lasciare tracce» dice al telefono a una sua interlocutrice mentre Salvo Lima, trovandosi ad ascoltare nel suo appartamento la conversazione, comincia a dare segni di crescente inquietudine finendo per girare le spalle e allontanarsi in preda all’ansia, prima di essere ucciso, di lì a non molto, dai sicari della mafia) e di un’irrinunciabile ironia tesa a spiazzare gli interlocutori, aggirare le domande, sviare gli argomenti, rispondere non rispondendo, tenersi sulla difensiva, respingere le accuse, impartire velatamente ordini, camuffare gli intenti e le segrete valutazioni, esporre in modo indiretto e sottile intendimenti e idee. Un’ironia che persino il prete confessore trova «atroce» (ma l’ironia, gli risponde di rimando Andreotti, «è la migliore cura per non morire, e le cure per non morire sono sempre atroci»). Le reazioni, gli stati d’animo, le opinioni sono tutti ridotti e compendiati nelle scarne, concise e affilate parole e nei pochi e appena percettibili cenni che devono essere costantemente osservati e interpretati da chi lo circonda: «Se fa girare i pollici – spiega la segretaria Enea alla moglie dell’ambasciatore francese, che da lui ha chiesto di essere ricevuta, spiegandole il trucco per decifrare il pensiero del suo enigmatico datore di lavoro – significa che lei sta dicendo cose intelligenti, se si gira la fede al dito, significa che non è d’accordo con quello che lei sta dicendo, se i polpastrelli cominciano a toccarsi a intervalli regolari significa che entro cinque minuti lei sarà congedata». Perfino i moti affettivi e più intimi, se mai di essi egli è capace, rimangono inesternati, trattenuti e congelati dietro a un gelido sarcasmo e un inestinguibile cinismo. Curvato su se stesso, come ingobbito dal peso dei segreti, calcola ogni mossa da fermo, sotto la superficie di quel corpo imbalsamato e goffo, apparentemente innocuo e inoffensivo nella sua ridicolaggine: nella scena della rievocazione della battuta di caccia, nell’ambito di un incontro segreto tra lo stesso Andreotti e i boss mafiosi, gli si apre il fucile, rivelandosi incapace di dare la morte con le proprie mani, avendo poi un trasalimento al rumore di uno sparo. Aduso a celare i segreti (l’unico di cui trova l’ardire della rivelazione, durante un incontro con Cossiga, è quello di essere stato innamorato da giovane di
Mary Gassman), Andreotti è lui stesso un segreto. Le sue motivazioni rimangono oscure, anche alle persone che gli stanno accanto, ai collaboratori fidati, alla moglie stessa, tutti incapaci, in fondo, di un’interpretazione autentica. Tutto, in lui, rimanda a un rituale teatralmente monodico e ripetitivo imperniato sulla finzione. In tale scenario, allora, nella messinscena del rapporto verità-segreto su cui Sorrentino imposta la narrazione e pedina la sua figura, si inserisce un’ulteriore finzione, quella della confessione che, in un ribaltamento dei due termini, tende a far affiorare la possibile verità. Quella verità che lo stesso Andreotti dichiara e rivela – a se stesso e agli spettatori, nell’artificiosità del racconto filmico – in una sorta di “sequenzamanifesto” organizzata secondo moduli esplicitamente teatrali, costruita nella finzione, in cui lo statuto del suo segreto viene capovolto. Solo allora le parole taciute vengono pronunciate, la verità apocalitticamente indicibile viene detta, e la «mostruosa, inconfessabile contraddizione» viene ammessa e svelata: «perpetuare il Male per garantire il Bene». Nello spazio scenico dell’intimità domestica si accendono i riflettori, inquadrati a vista: Andreotti è in piedi, di spalle, incorniciato dal profilo della porta; davanti a lui la tenda bianca della finestra, come un sipario, con ai lati due tende nere a delimitare la quinta. Si gira su se stesso, verso la macchina da presa che carrella verso di lui. Nel salone, al centro dell’inquadratura, si siede sulla poltrona, si aggiusta gli occhiali sul volto, dà inizio alla recita guardando verso l’obiettivo, illuminato da una intensa luce a spiovente, in una teatralizzazione sottolineata figurativamente – come nota De Sanctis nel suo acuto saggio sul film – dall’immagine «rigorosamente calibrata e bilanciata simmetricamente», con l’arredamento ai lati del divo-attore che «si fa speculare (a destra e a sinistra compaiono due termosifoni, due quadri, due statuette totalmente identiche…), avvalorando la sensazione che il politico, nel confessarsi, si stia davvero guardando allo specchio, dall’astratto di uno spazio puramente scenico, mentale»7. Andreotti si rivolge alla moglie, evocando i suoi «occhi pieni e puliti e incantati» che «non sapevano non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese». In un crescendo (auto)distruttivo e urlato, perdendo l’abituale armatura di compostezza, si autoaccusa di tutti i morti e di tutte le stragi avvenute in Italia negli anni della strategia della tensione o, piuttosto, «della sopravvivenza». Scoperchia il sarcofago dei segreti, dichiara quella verità occultata e da occultare perché tutti pensano «che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo, e
noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene». Il tono, infine, si smorza, i riflettori si spengono, il buio cala, la recita della finzione della verità e della verità della finzione trova termine. Torna l’immagine del bicchiere in cui si scioglie l’aspirina, del tavolo di marmo e del lampadario della cucina. Torna l’oscurità che ristabilisce quella insondabilità e quell’enigmaticità attorno alle quali egli ha costruito la propria inossidabilità e strutturato la propria “trasversalità”.
Nel potere, e nella politica quale mezzo del suo raggiungimento e del suo
mantenimento, è racchiuso tutto il senso della sua vita. Lo insegue, lo cerca, lo brama mirando sempre più in alto nella sua vertigine d’onnipotenza. «So di essere di modesta statura, ma non vedo giganti intorno a me» risponde con un tono quasi di quieta rassegnazione, come il Cristo, accettando la candidatura alla più alta carica dello Stato, nell’ambizione di poter coronare la sua vita “spettacolare” salendo sul gradino presidenziale: alla tavola del potere – nel lussureggiante giardino della villa, immerso nel buio, dove ha svolgimento la festa, in un’immagine di cui risalta l’impostazione plastica e prospettica e l’evidente riferimento figurativo e iconografico – Andreotti, illuminato da una sorgente luminosa proveniente dall’alto, siede al centro, con ai lati i suoi apostoli, come, appunto, in un’“ultima cena”. La macchina da presa carrella in avanti verso la tavola girandole poi intorno fino a riprendere le figure di spalle, coglierle adesso nell’ombra nel loro tramare politico. Un brindisi finale suggella la pianificazione dell’ascensione del redentore verso il Quirinale: alzatisi dalla tavola apostolica i discepoli levano in alto i calici raccogliendosi intorno alla figura del proprio Salvatore, mentre riecheggiano stridenti, nella colonna sonora che aumenta di intensità, i versi che i Ricchi e Poveri cantano in La prima cosa bella («… che ho avuto dalla vita, il tuo sorriso giovane…»). Ma, appunto, come in un’ultima cena, il tradimento è in agguato, evocato dall’enorme mozzarella, «la ragazza obesa di Mondragone», che campeggia sulla tavola e che evoca lo spirito di Sbardella, il Giuda che se n’è andato abbandonando la corrente e rendendone precaria la compattezza e la solidità. L’acqua, quella del bicchiere che Andreotti ha sempre davanti a sé in cui spumeggiano le pastiglie contro l’emicrania, non si tramuta questa volta in vino. E inefficace si rivela, il giorno delle votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica, il mattutino rito aspersorio operato dal sacerdote che benedice le sale e l’aula di un palazzo di Montecitorio ancora deserto. Gli equilibri iniziano a incrinarsi, la tela delle alleanze comincia a sfilacciarsi, vieppiù lacerata dalla sequela incalzante di omicidi, di uccisioni, di stragi che irrompono nella scena sociale e politica. Tra cui quella di Capaci, riproposta nella sua essenzialità e nella sua secchezza attraverso l’apparizione, improvvisa e devastante, dello skateboard vagante che irrompe improvvisamente nelle sale di Montecitorio durante la «compravendita» di voti: scorre veloce sul pavimento passando tra i politici ai lati del lungo corridoio, si alza poi in volo, in una irreale soggettiva, verso il vetro di una finestra; esplode, ma a ricadere per terra, al posto del vetro frantumato, è
ancora una volta l’auto distrutta, quella del magistrato Falcone, inquadrata prima dall’alto poi dal basso, in una cesura del sonoro che della scena restituisce tutto il suo (reale) orrore, fino al detonante impatto con il suolo. In una rete di ricatti sempre più intrigata, si consuma la disgregazione del teocratico impero andreottiano e inizia inesorabile la fase del declino, tra l’arresto dei boss mafiosi, le confessioni dei pentiti, i delitti e le “sparizioni” improvvise, i sempre più aspri scontri di interesse legati alla gestione del potere, l’ombra incombente di Tangentopoli con i suoi retroscena orrendamente svelati. Si esaurisce in breve tempo, del Divo, la parabola del suo ultimo governo, scema il suo sogno di salire al vertice del Quirinale, il sogno alla cui realizzazione fino all’ultimo ha puntato, il coronamento di una vita spettacolare: sotto lo sguardo impietoso e il ghigno vendicativo di Sbardella, mentre il parlamento plaude all’elezione di Scalfaro, si consuma la sua sconfitta. Sotto le parole di Buscetta si sgretola la sua credibilità, si frantuma piano piano l’imponente struttura del potere costruita nel corso degli anni e dei decenni, segnando una stagione politica ormai avviata alla fine. Come una trottola, il giro vorticoso del potere rallenta, esaurisce la sua spinta propulsiva, si ferma e si blocca, in un arresto – dell’azione, del movimento, del tempo – che la sequenza dell’intrappolamento nell’auto riassume e metaforizza: sotto un diluvio incessante, nell’oscurità, Andreotti è seduto all’interno dell’auto blu ferma sulla strada. Gli uomini della scorta, osservati al ralenti, tentano di aprire la portiera che però rimane bloccata; si affannano, accorrono tutti intorno alla macchina, ma la maniglia non cede, lo sportello non si apre, ogni tentativo si rivela vano e privo di efficacia. Sotto i colpi degli uomini l’auto comincia lievemente a oscillare. Sull’immagine del volto imperturbabile del senatore, che il finestrino rigato dalla pioggia lascia intravedere all’interno dell’abitacolo, si inserisce in off la voce del pentito Mannoia che avverte di «tenersi forte alle sedie, perché tutto si tiene, tutto si tocca, tutto si collega». Avviato lungo il tratto conclusivo della propria traiettoria parabolica, Andreotti esce dalla scena politica, in un distaccamento dalla pratica diretta del potere a cui le modalità espressive ancora una volta alludono: un carrello indietro a precedere mostra il suo ultimo attraversamento del corridoio di Montecitorio, seguendo il suo avanzare verso l’uscita fino a quando, con uno scarto, il personaggio svolta verso la sua destra scomparendo dal quadro, e scomparendo al contempo anche da quel palazzo di cui l’immagine successiva propone l’aula parlamentare semibuia e deserta.
Estromesso dal potere, unica sua vera ragione esistenziale, Andreotti è estromesso dalla sua stessa vita dalla quale sembra appartarsi sempre più, in un apparente abbandono a una torpida indolenza (lo vediamo inerte e inoperoso, nell’ombroso ambiente domestico, seduto sulla poltrona o sulla cyclette), in una solitudine che si palesa in tutta la sua dolente intensità drammatica e dolorosa profondità, e che egli proietta nella sfera somatica manifestandosi fisicamente attraverso il tremore alle mani da cui è colto, o il dolore alle gambe che, dopo l’estenuante autopunitiva camminata notturna nel corridoio, lo costringe a letto. La perdita del dominio politico implica anche la perdita del controllo fisico: in un’immagine solo apparentemente incongrua, in realtà simbolica e pregnante, buñueliana-daliana e raccapricciante, vediamo il dettaglio della mano del protagonista, poggiata su un tavolo di marmo bianco, sulla quale zampettano delle formiche, come ultracorpi dell’isolamento che proliferano e invadono i tessuti del corpo come della mente. È quella solitudine che sottolinea la segretaria Enea («Andreotti, stringi stringi, è sempre stato un uomo solo, e da oggi è ancora più solo») accingendosi anch’ella a lasciare l’ufficio, il proprio incarico e la politica, prima di sfogare il pianto di tanti, troppi segreti sul sedile di un autobus diretto anch’esso verso lo spazio della malinconia e di una simile solitudine. Tessera dopo tessera, confessione dopo confessione, arresto dopo arresto, il puzzle dei rapporti tra politica e mafia comincia a comporsi e a delinearsi, in un’immagine complessiva che tuttavia rimane indistinta e imprecisa, nella difficoltà concreta di una reale messa a fuoco, nell’impossibilità effettiva di far veramente luce in quella immensa oscurità che come un buco nero tutto sembra inghiottire. Del mistero non emergono che frammenti, insufficienti a tracciare i contorni della verità che rimane fondamentalmente inconoscibile. In tale inestricabilità, Sorrentino si muove sul versante della deliberata “ambiguità” adottando la procedura – che trova sviluppo lungo tutto il suo cinema e che ha in Il Divo la sua manifesta evidenziazione – di connotare il racconto, nei diversi segmenti narrativi di cui esso si compone, collocandolo nella zona di confine tra il reale e la rêverie. In tale direzione è impostata la scena dell’incontro, e del bacio, tra Andreotti e Riina. Scena che non a caso Sorrentino inserisce come soggettivizzazione del pentito mafioso Balduccio Di Maggio, facendone la rappresentazione della sua testimonianza. In una casa dai saloni asettici di cui risalta l’acceso biancore, bagnati da una luce vivida che contrasta con la penombra in cui tutta la storia affonda, il regista fa incontrare i rappresentanti massimi del potere e del contropotere.
Attraversando un salone – in movimento rallentato, in una sospensione del tempo e in una “suspense” acuita dal ronzio del vorticare delle pale di un ventilatore che si impone come suono dominante – Riina si dirige verso Andreotti seduto su un divano sotto il dipinto di un gigantesco volto di bambino, come un ritratto pagano. Del boss, un movimento verticale della macchina da presa verso l’alto ne percorre la figura rivelando il dettaglio delle mani tozze, i pantaloni su cui risalta una macchia, il volto e l’espressione tra il “villanesco” (dopo l’incontro lo vediamo dirigersi verso un orticello in campagna e accoccolarsi a prendersi cura delle piantine) e lo stolido, in una sorta, anch’esso, di maschera, l’unico vera faccia che ogni potere, legale o criminoso che sia, sembra possedere e mostrare. Dal divano Andreotti si alza: il suo volto, per un attimo, si sovrappone a quello enorme del ritratto, in un’associazione che suggerisce del Divo un’immagine pagana di divinità. I due, in piedi uno di fronte all’altro, sembrano scrutarsi, contrapposti da primissimi piani frontali e dettagli in un climax, di nuovo, da film western. In un’immagine simmetrica, che vede la loro entrata in campo dalle estremità opposte del quadro, i due, di profilo, avanzano l’uno verso l’altro scambiandosi un bacio a destra e uno a sinistra, sull’attacco della voce e delle note folk di Beth Orton che, sciogliendo la tensione, tramutano l’intera scena in un assurdo balletto. Sacralizzata e divinizzata, attraverso una scelta stilistica e una messa in scena rigorose e la ieraticità dei movimenti dei personaggi, l’immagine del potere subisce tuttavia, non solo nella scena descritta ma nell’intero corpo del film, una deformazione grottesca che la riconduce a una dimensione grezza, ottusa, puerile, in una sorta di regressione infantile che i personaggi che del potere sono l’emblema e l’incarnazione subiscono. Con espressione bambinesca, goffa e vagamente ebete Totò Riina, condotto dopo l’arresto nell’aula bunker di Rebibbia, risponde al microfono dal suo recinto-“palco” con un sorrisetto, sotto i flash dei fotografi, alle domande della folla di giornalisti da cui, come un secondo “divo” o, piuttosto, come un “controdivo”, è assediato. E ancora stolidamente, in un quasi controcampo, si volta verso l’obiettivo – che lo incornicia al di là dello spioncino della porta della gabbia – e, guardando in macchina, rivolgendosi a un ipotetico piantone, chiede di poter avere «un bicchiere d’acqua con le bollicine, cortesemente». Similmente anche il Divo Giulio, gerente massimo di un potere che ha deformato dall’interno i suoi connotati, è sospinto verso una sorta di deriva infantile quale condizione che appare connaturata al potere stesso, in un risucchiamento verso uno stato
fanciullesco dell’essere che si manifesta attraverso precisi segni, situazioni o associazioni iconografiche. Si pensi alla citata sovrapposizione del suo volto a quello gigante del bambino che troneggia al centro della parete nell’appartamento del bacio con Riina (sovrapposizione che sembra fare del Divo un “dio bambino” o una primigenia creatura). O si pensi al bizzoso e frenetico andirivieni lungo il corridoio di casa, dopo il ricevimento dell’avviso di garanzia, con un movimento pendolare della macchina da presa che, seguendo la sua ombra sfocata, si sofferma per due volte sull’immagine nitida di una statua, in primo piano, raffigurante un bambino. O si pensi, ancora, alla telefonata fatta alla moglie dal Cremlino, in cui egli si diverte a farle pronunciare parole che mettano in evidenza il suo difetto di pronuncia, in un processo di infantilizzazione e di regressione del linguaggio che il brano musicale conclusivo del film, sul quale scorrono i titoli di coda, assolutizza ed emblematizza (il balbettio «Da da da» ripetuto da Trio). Condizione ineludibile del travestimento e del mascheramento propri del potere, l’apparire e il manifestarsi dell’infantilismo, a cui i suoi detentori sono come condannati, implica tuttavia un allentamento e un’attenuazione della fissità e della mostruosità con cui il potere stesso grottescamente si manifesta, investendo il soggetto di un’umanizzazione, benché appena accennata, che la maschera assente e indifferente ammanta. Screpolandosi, questa lascia allora il posto al personaggio, all’uomo, alle sue debolezze, alla sua vulnerabilità, alla sua problematicità, alle sue riflessioni che ne rivelano le diverse sfaccettature, la natura composita, la complessità, l’ambiguita e, in ultimo, la grandezza. È quell’umanità, trapelante da alcuni fugaci sguardi (quello, per esempio, con cui Andreotti osserva la signora francese – che da lui è stata in precedenza beneficiata di un consiglio personale in merito a una relazione adulterina della donna con un giovane amante – ballare sorridente con il marito ambasciatore) che tradiscono un senso di mestizia e una profonda solitudine («So cos’è la solitudine, non è una gran bella cosa – confida alla donna al termine del loro breve colloquio – Per il mio ruolo, per la mia storia avrò conosciuto nella mia vita approssimativamente 300.000 persone. Lei crede che questa folla oceanica mi abbia fatto sentire meno solo?»). È quell’umanità, e persino quella tenerezza, che traspaiono dall’unico momento di autentica intimità, in una delle incursioni nella vita privata del personaggio, che egli ha con la moglie Livia, e da lei propiziato, quando un’altra, soffusa, velata e malinconica immagine – allegorizzata dallo specchio attraverso cui all’inizio della sequenza i loro profili offuscati sono
osservati – affiora. Nella plumbea atmosfera della casa – con le luci della ribalta oramai spente, l’elezione a presidente dissolta, il rinvio a giudizio in atto, il processo all’orizzonte – la coppia è seduta rigidamente sulle poltrone davanti alla televisione da cui arrivano, attraverso programmi e canali diversi, crudeltà e insinuazioni contro di lui: l’allusione all’incontro e al bacio con Riina, la battuta satirica di Beppe Grillo – sulla gobba e sulla “scatola nera” contenente tutti i segreti della storia italiana – alla quale Andreotti tradisce un abbozzato e spontaneo guizzo emotivo. La donna cambia ancora canale: sulle note di I migliori anni della nostra vita di Renato Zero la macchina da presa, sollevandosi con un breve dolly da dietro la sagoma scura dell’apparecchio televisivo, si sofferma sul piano ravvicinato delle due figure sedute una accanto all’altra. La donna si gira verso di lui, il suo sguardo indagatore si posa sul profilo del compagno dei “migliori anni” e di un’intera esistenza e sul suo volto finalmente, fuggevolmente umano. Tende la mano, teneramente, verso di lui, rimanendo a osservarlo, a scrutare la sua espressione ritornata algida e distaccata, quasi a voler andare oltre quella superficie cutanea che l’obiettivo ispeziona in dettaglio e cercare di penetrare nella sua anima che rimane, anche per lei, enigmatica, misteriosa, insondabile fino alla fine. Le zone d’ombra non solo non si diradano, ma si infittiscono, si addensano, gravano pesanti sulla verità che resta occultata. La maschera, subito, nuovamente si ricompatta (in un procedimento inverso a quello suggerito dall’esibizione televisiva del cantante, il quale, apparendo in scena dapprima con un mantello e un cappuccio che ne coprono interamente la figura, si libera successivamente di essi spogliandosi del mascheramento), e quell’interiorità, quell’ego che per un attimo ha mostrato un piccolo cedimento acquista di nuovo il carattere di inespugnabilità. Sulla quale, d’altronde, e sull’impossibilità di decifrazione del mistero, l’intero film è imperniato. E non valgono a far luce su di esso gli interrogatori condotti dalla commissione inquirente di fronte alle cui domande Andreotti si trincera in un iterato «non ricordo», a ripresa dell’infinita serie di «archiviato» che egli ripete come una litania al proprio confessore rievocando i 26 precedenti casi di denuncia subita. E non vale a far chiarezza neanche la messa in scena del colloquio con Scalfari, la loro disfida verbale che si risolve in un ribaltamento dei ruoli e che non porta a nessuna chiara conclusione. L’obiettivo inquadra dapprima i due personaggi in campo medio all’interno di un salottino, seduti sulle poltrone disposte perpendicolarmente l’una rispetto all’altra. Con uno stacco si mantiene poi a lungo sulla mezza figura di Andreotti, sulla destra
dell’inquadratura, e sul primissimo piano quasi di nuca, in ombra sulla sinistra, di Scalfari. Al politico il giornalista (sul quale adesso la macchina da presa si sofferma ritraendolo in primo piano frontale) rivolge una serie di insinuazioni, dubbi, sospetti riguardo al suo coinvolgimento nell’affaire Tangentopoli e alla “casualità” sul numero ingente di omicidi e scomparse e sugli innumerevoli scandali in cui egli è stato negli anni tirato in ballo. «Insomma – conclude Scalfari – come ha detto Montanelli, delle due l’una: o lei è il più grande scaltro criminale di questo paese, perché l’ha sempre fatta franca, oppure è il più grande perseguitato della storia d’Italia». Dal primo piano del giornalista l’obiettivo, con un movimento di carrello-panoramica verso destra, si sposta sul primo piano di Andreotti che, ricusando i sospetti e le accuse, passa al contrattacco citando il suo ruolo di mediatore in un altro affaire, quello del fallito tentativo di acquisto da parte di Berlusconi della testata diretta dallo stesso Scalfari, permettendogli così di mantenere la propria autonomia e libertà. Uno stacco ci riporta ancora sul primo piano del giornalista, ma, adesso, da una prospettiva rovesciata, in uno scavalcamento di campo che, come ha osservato ancora De Sanctis, «ribalta la posizione dei due interlocutori all’interno del quadro, mettendo il giornalista al posto del politico e viceversa, in uno scambio di ruoli tra l’accusatore e l’accusato»8, sottolineato a sua volta dallo scambio conclusivo delle battute: «Guardi che le cose non stanno esattamente così – replica Scalfari – La situazione era un po’ più complessa»; «Ecco – controbatte Andreotti – lei è abbastanza perspicace e l’ha capito da solo, la situazione era un po’ più complessa. Ma questo non vale solo per la sua storia, vale anche per la mia». Come una superficie riflettente, l’inattingibilità e la monoliticità del protagonista rinviano le accuse, fanno rimbalzare i sospetti, deviano le allusioni, nell’infattibile scioglimento del grumo in cui l’inattendibile e il verosimile si intersecano indissolubilmente, nel caleidoscopico, vertiginoso e disorientante artificio di rifrazioni, di immagini speculari ognuna delle quali è il riflesso di un’altra immagine, all’infinito. È così che Il Divo si configura come la rappresentazione di un enorme enigma esistenziale di impossibile soluzione, la cui messa in scena è affidata a una struttura, anch’essa, complessa, stratiforme, deformante, avente il compito di ingigantire, stravolgere, scomporre e ricomporre fatti, situazioni, personaggi, in un proliferare di significanti visivi e sonori. Nella sua composizione “in abisso”, come in un gioco di due specchi contrapposti che, appunto, si riflettono reciprocamente e continuamente, Il Divo si costruisce
come lo spettacolo di uno spettacolo, la recita di una recita, un artificio del quale Andreotti è al contempo artefice e attore, nella messa in scena di se stesso. La voce over con la quale il film ha inizio e dalla quale l’intera storia è contrappuntata è già di per sé emblematica del procedimento di teatralizzazione adottato da Sorrentino: Andreotti osserva e parla di se stesso, e la vicenda, in tale telaio narrativo, non può che essere immersa in un sistema dove si rende impossibile l’accertamento di una verità dietro il suo continuo volontario slittamento offuscatore. Come ogni vero mattatore, egli si pone sempre al centro della scena, nei diversi atti di cui egli è il fulcro narrativo e nella geometricità rigorosa e nella simmetria assoluta delle immagini nella quali è evidenziata, appunto, la sua centralità. Si pensi, per non fare che qualche esempio, all’inquadratura in cui egli, per la presentazione alla stampa del suo settimo governo, posa in un salone del Quirinale insieme alla squadra dei ministri, in un campo medio frontale di cui egli rappresenta il punto focale messo ancor più in risalto da un lento carrello che, avanzando sulla sua figura, giunge a coglierlo in primo piano; si pensi alla già citata scena della confessione, di cui è solista e protagonista incontrastato in una esibizione davvero divistica nella rappresentazione di una deliberata finzione dentro la finzione; o alla ricordata immagine del “cenacolo”, con Andreotti seduto al centro, dietro alla tavola, attorno al quale i suoi “apostoli” sono disposti in due gruppi di tre, diversi ma equilibrati simmetricamente; o si pensi ancora all’immagine, speculare alla precedente, in cui, nell’ambiente domestico, alla vigilia del processo di Palermo, è ritratto a capotavola con la famiglia riunita seduta ai suoi lati (ancora tre componenti per parte) alla quale chiede sostegno, costituendo l’asse centrale della scena compositiva: immagine a cui fanno seguito due false soggettive, anch’esse simmetriche, dalla spalla del protagonista; come pure nell’inquadratura dell’interrogatorio davanti ai membri della giunta per il senato per le autorizzazioni a procedere, dove la figura di Andreotti si colloca esattamente nel punto di intersezione delle diagonali del quadro. Insistita, evidente, esplicita, la teatralità si manifesta lungo l’intero film, attraverso i cambi e le variazioni luministiche all’interno della stessa scena (evidente e dichiarato è l’artificio dell’accensione e dello spegnimento delle luci, a vista, nella sequenza dell’autoaccusa; come pure quello mediante il quale si concreta la visionaria apparizione di Moro, riflessa sullo specchio del bagno, rivelata da una luce – quella della “coscienza” – che si accende improvvisa su di lui) o attraverso gli iterati sguardi in macchina dei diversi
personaggi che sembrano evidenziare il gioco della finzione, il trucco che si rivela dietro alla messinscena. Sono sguardi stranianti i quali più che – od oltre a – porsi come soggettive dirette del protagonista, in un procedimento teso all’identificazione con esso dello spettatore (sull’aereo su cui Andreotti si imbarca, diretto a Palermo, i passeggeri si voltano a guardare in direzione dell’obiettivo), si pongono come rifrazioni, devianti e deformanti, di uno sguardo prismatico, quello dell’istanza narrante, che è al contempo dentro e fuori la storia, presente (l’intenso sguardo in macchina, ad esempio, della hostess con la maschera dell’ossigeno alla bocca) e assente (quello di Totò Riina all’inizio del processo) ma continuamente incombente. Sono sguardi che chiamano direttamente in causa lo spettatore, sollecitato ogni volta a riflettere, invitato ad addentrarsi nella complessità dell’enigma, esaltando il suo ruolo attivo nell’interpretazione della pluralità di segni di cui il film è intessuto e della stessa realtà. Nella sua espressiva teatralità, Il Divo si snoda lungo un percorso che si inoltra nei recessi e nei meandri dell’anima, come un viaggio misterioso, dedalico, affascinante dentro la testa (dolorante e sviante) e nella mente, nelle vicende, nel potere, nell’imperitura capacità di sopravvivenza dell’uomo più indecifrabile nell’Italia malata della prima repubblica (e in cui la seconda affonda le proprie tortuose e marcescenti radici) in un gioco disorientante e stratificato nel quale verità e menzogna si intersecano e si confondono continuamente. È un procedere per blocchi, per frammenti, per associazioni fulminanti, per schegge narrative, per un eccesso di segni che si susseguono mediante un montaggio (visivo e sonoro) alternato e incrociato, complesso e concitato, convulso e centrifugato, effervescente come l’aspirina che reiteratamente vediamo sciogliersi nel bicchiere – con l’abolizione dei nessi tradizionali, dei raccordi canonici e degli indici di interruzione o spostamento dell’azione – in un vortice quasi onirico o, appunto, mentale di immagini e suoni dove il reale e l’immaginario si compenetrano a vicenda. I fatti, le situazioni, i momenti diegetici subiscono interruzioni, stasi, rallentamenti, condensazioni, dilatazioni, riprese repentine che differiscono nei tratti e nei caratteri dal loro momento iniziale (la visita della moglie dell’ambasciatore), accelerazioni, tagli, ellissi, iterazioni (lo skateboard e l’auto che esplode, o gli inserti coscienziali con la voce di Moro), in un proliferare di immagini apportatrici non tanto di una ricomposizione bensì di un’ulteriore scomposizione, aprendo varchi e producendo riverberi che si propagano all’infinito e non trovano una conclusione lineare. Ogni scaglia diegetica
attiva un sistema di riflessioni multiple rifrangendo, in un intenso e vibrante effetto cromatico e luministico, una pluralità di significati, alimentato anche dal variegato ed elaborato sistema di intrusioni musicali, o meglio sonore, di cui Sorrentino si avvale. Insieme alla dimensione visiva, di raffinata preziosità e rara efficacia, e insieme a quella verbale-dialogica (di cui va rilevato il grande contributo ai fini del disegno unitario delle singole opere), particolare importanza assume, nel cinema di Sorrentino e specificamente in Il Divo, la dimensione sonora, l’uso complessivo del materiale sonoro non verbale (musica, rumori, silenzi) strutturalmente finalizzato alla creazione di una trasfigurazione visionaria della realtà, di forme di astrazione funzionali al racconto. Le cupe sonorità originali di Teardo, in ll Divo, e soprattutto il complesso di commistioni musicali inusuali e ardite – le canzonette, i brani rock o folk, gli estratti di sinfoniche composizioni (Faurè, Vivaldi, Saint-Saëns) – si relazionano con le immagini in un contrappunto spiazzante, quasi sempre paradossale e stridente, tendente non tanto a sottolineare emotivamente le fasi dell’azione e della storia quanto, piuttosto, ad astrarle dal dato cronachistico in un procedimento, anch’esso, distorcente. È il caso, per non fare che un solo esempio, della scena del gatto che ostruisce l’incedere di Andreotti nel salone di palazzo Chigi, la cui “tensione” è diluita nell’ariosità dell’“Allegro” del Concerto per flauto e archi di Vivaldi. Non minor peso hanno, come nelle opere precedenti dell’autore, i suoni nel loro complesso («Dopo la scrittura – ha affermato lo stesso autore – il suono è la fase in cui si possono fare più cose dal punto di vista creativo, è un universo infinito di scoperte»9), aventi un valore marcatamente simbolico, agendo in direzione di un’alterazione della percezione del tempo narrativo e di enfatizzazione di determinati momenti e situazioni. Privilegiati sovente da Sorrentino per la loro particolare espressività, i rumori accentuano la componente metafisica del grottesco, dilatano le coordinate temporali delle sequenze, danno pregnanza e risonanza alle singole immagini: il fischiettio che accompagna l’entrata in scena degli esponenti della corrente andreottiana a palazzo Chigi, lo strusciare dei pedali della cyclette, il vorticare delle pale del ventilatore. E, insieme ad essi, il silenzio, inteso come dimensione sonora, sia pure in negativo, che si impone quando la caratterizzazione grottesca dei personaggi e delle circostanze lascia il posto all’orrore del reale, e un intenso sentimento del tragico si rapprende nelle parole e nelle immagini di cui l’asciuttezza e l’icasticità rendono inutile qualsiasi sottolineatura sonora: il
monologo-confessione, l’elenco dei singolari e inspiegati casi con cui Scalfari mette il Divo di fronte alle proprie responsabilità, la carcassa dell’auto che crolla prima della deflagrazione. Nella sua architettura complessa e imponente, Il Divo è giostrato su una composizione polifonica che compatta, con grande fluidità, le diverse componenti che lo sorreggono e su cui è costruito e che forniscono all’opera la dimensione di grande momento di riflessione e di pensiero e, insieme, di intensa ricerca poetica. In essa confluisce, valorizzata ed esaltata, quella grande attenzione all’aspetto formale che contraddistingue tutte le tappe del percorso artistico dell’autore, la ricerca di nuovi moduli stilistici e linguistici che è poi una delle cifre costitutive del cinema sorrentiniano. Il quale si affida a un’accurata costruzione dell’immagine, alla geometricità della composizione, ai contrasti e ai cambiamenti di luce, alle espressive soluzioni cromatiche (con dominanti scure), a insolite e significanti prospettive (l’angolazione grandangolare dal basso, ad esempio, mediante cui è ripreso Sbardella al suo apparire in scena o lo stesso Andreotti nell’inquadratura che precede l’onirica apparizione sullo specchio del fantasma di Moro, materializzazione dell’incubo che si incunea nella coscienza del protagonista), ai carrelli, ai dolly, ai louma e agli steadycam che danno luogo a una ieraticità funerea, ai movimenti incessanti della macchina da presa che producono uno sguardo che non è mai stabile bensì continuamente fluttuante. Ed è con tale sguardo che il film termina, in una chiusa dove si esprime compiutamente il “senso” cui il film ambisce presentandosi come deliberata proposta della chiave di lettura dell’opera. In un complesso piano sequenza – un tortuoso movimento combinato di carrello-panoramica-dolly – in un andirivieni senza stacchi tra oggettive e semisoggettive, si assiste all’ingresso di Andreotti nel palazzo di giustizia palermitano per l’udienza del processo: un carrello in avanti segue il suo avanzare, di spalle, lungo uno stretto corridoio su cui si apre una serie di porte; svoltando verso una di esse, la macchina da presa oltrepassa ed esclude di campo il protagonista; percorre un altro breve corridoio, passando davanti a degli agenti in divisa, fino ad entrare nell’ampia sala emiciclica dove già si trovano i fotografi, i giornalisti, il personale assistente, gli avvocati disposti ai loro banchi; tutti si voltano a guardare in direzione dell’obiettivo che, proseguendo nel suo movimento, piegando verso destra, esplora l’ampio spazio e i diversi personaggi presenti; vediamo Andreotti rientrare in campo, avvicinarsi ai suoi avvocati difensori, stringere loro la mano, essere escluso di nuovo dal quadro mentre la
macchina da presa, compiendo un movimento rotatorio di quasi 360° (a cui si unisce un lieve dolly verso l’alto), mostra l’ingresso in aula del Tribunale, sul palco elevato dove è posto lo scranno, fino a tornare ad inquadrare l’imputato Andreotti seduto a fianco degli avvocati, colto adesso – in un capovolgimento del punto di vista operato sul piano della scrittura – dalla stessa prospettiva visiva degli stessi giudici. L’obiettivo stringe su di lui, lo isola da tutte le altre figure, lo incornicia frontalmente in primo piano, fisso come sempre nella sua rigida postura, «indifferente, livido, assente». La voce del presidente del Tribunale diviene vieppiù ovattata sino a sfumare e svanire, e un’altra, quella oltretombale e conturbante di Moro, continua a riecheggiare come una maledizione. L’immagine lentamente si decolora, sbiadisce, vira sulle tonalità grigie. Wellesianamente, in un gioco variato di luci e di ombre, Sorrentino rinuncia a dare giudizi netti, lasciando che l’enigma resti enigma, affidando allo spettatore (facendo alla fine coincidere il suo punto di vista con quello degli amministratori della giustizia seduti al banco), come unico giudice, ogni possibile conclusione. La macchina da presa rimane fissa sul primo piano frontale del personaggio, in un’immagine che per certi versi rinvia a quella finale di Citizen Kane, nella quale l’obiettivo si arresta sul cartello appeso al cancello del castello del potente magnate: «No trespassing». L’accesso è vietato, e irrisolvibile rimane il mistero. 1 P. Sorrentino, in «MicroMega», cit., p. 31. 2 P. Sorrentino, in «Script», cit., p. 113-114. 3 «Letterariamente Pomicino è un avamposto meraviglioso. Un misto di intelligenza, comicità e cialtroneria unita al gusto per la battuta che è poi quello che non posso fare a meno di raccontare». P. Sorrentino, in «MicroMega», cit., p. ٢٨. 4 «[Incontrai Andreotti] due volte. Mi accolse con grande gentilezza. Parlò per ore, anche di alcuni esponenti del Pci, disegnandoli con sincere parole di stima. Non aveva capito esattamente che volessi fare un film su di lui e credeva fossi lì per convincerlo a cedere i diritti di uno dei suoi tanti libri: “Questo non glielo posso dare, mi duole, l’ha opzionato Lizzani”. Poi si rese conto delle mie intenzioni e iniziò la meticolosa opera di minimizzazione: “Se lei passasse più tempo con me capirebbe che la mia vita è stata piatta. Le sconsiglio di proseguire comunque, non ho mai fatto nulla di significativo”. […] Si illudeva che in ogni caso non se ne sarebbe fatto nulla. Il secondo incontro fu più breve, a tratti teso. L’idea che si raccontasse l’Andreotti segreto non lo esaltava». P. Sorrentino, in «MicroMega», cit., pp. ٢٨-٢٧. 5 P. Sorrentino, in Cinema vivo. Quindici registi a confronto, cit., p. 230 6 Gianni Canova, Benvenuti nel deserto del reale, in «Duellanti», n. 43, giugno 2008. 7 Pierpaolo De Sanctis, Il divo. La complessità dell’enigma, in Divi & controdivi, cit., pp. 87-88. 8 Ivi, p. 93. 9 P. Sorrentino, in «Cinecritica», cit., p. 13.
6. Strade perdute: This Must Be the Place
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2008, Il Divo si aggiudica il premio della giuria (oltre a ricevere, successivamente, altri numerosi riconoscimenti italiani e internazionali). A consegnare il premio a Sorrentino, la sera della cerimonia, è un altro divo, Sean Penn, che della giuria è presidente, rimasto particolarmente affascinato dal flusso di immagini della pellicola dell’autore napoletano. È in quell’occasione, sul palco della sala dove ha luogo la premiazione, che prende le mosse il progetto di una collaborazione tra Sorrentino e l’attore americano che porterà alla realizzazione di This Must Be the Place: «Durante le foto ricordo – ha rievocato Penn – gli ho detto: “Quando vuoi, dove vuoi, io ci sarò”»1. Memore della promessa, con in mente Penn come protagonista e con il sogno di poter disporre dell’apporto musicale e della stessa presenza scenica di David Byrne, idolatrato fin dal periodo della propria infanzia2 (e da un cui brano musicale, come tributo, è mutuato il titolo del film), il regista inizia a scrivere la sceneggiatura in collaborazione con Umberto Contarello. Prima della concretizzazione del progetto, dalla lunga ed elaborata genesi, Sorrentino prosegue ancora a operare ecletticamente su differenti fronti3. Dopo aver partecipato con un piccolo cammeo a Questione di cuore (2009)
di Francesca Archibugi (nella sequenza nella quale il protagonista Alberto, sceneggiatore del cinema italiano, colto da infarto, riceve in ospedale la visita degli artisti per cui ha lavorato), e prima di prender parte, ancora nel ruolo di se stesso, a tre episodi della serie televisiva Boris (2010), nel 2009, tornando a confrontarsi con la forma del “racconto breve”, dirige il cortometraggio La partita lenta, realizzato nell’ambito del progetto “perFiducia”, sostenuto da Intesa Sanpaolo, mirante a valorizzare le forze positive e i valori etici che animano l’Italia. Per raccontare il valore della fiducia come forza propositiva e propulsiva che, pur in una situazione di difficoltà, consente di avanzare verso la meta, Sorrentino impiega la metafora sportiva del gioco e della sfida, motivo il quale, come già si è rilevato, fa sovente irruzione nelle strutture drammaturgiche delle sue opere. Sogno e al contempo ossessione, anelito e dannazione, ragione di vita e causa di morte è il calcio, in L’uomo in più, per Antonio Pisapia. Attraverso i floridi corpi delle giovani pallavoliste spiate dalla finestra, in L’amico di famiglia, interviene il motivo dello sport a rimarcare lo scarto tra la bellezza (delle ragazze) e la bruttezza (di Geremia), tra l’armonia dei movimenti delle une e la sgraziataggine dell’altro. A essere assunto come metafora della vita, in La partita lenta, è il gioco del rugby che, mediante l’azione di squadra, l’intesa collettiva, l’obiettivo comune da raggiungere, si fa veicolo di principi morali, di modalità di pensiero, di trasformazione e di maturità dell’essere. In un raffinato bianco e nero, Sorrentino mette in scena un incontro di rugby, in uno spazio vuoto e desolato di periferia, in occasione del quale un padre e un figlio, che giocano nella stessa squadra, ritrovano il loro rapporto. Non ci sono parole, non ci sono dialoghi, in una “storia” il cui messaggio scaturisce dall’espressività delle immagini, dai movimenti rallentati, dal taglio e dalla plasticità delle inquadrature, dall’intensità dei primi piani, dagli sguardi, dalle atmosfere sospese, dalla fluidità dei movimenti di macchina, dalla rarefazione delle atmosfere e dalla metafisicità degli ambienti che (nella versione lunga dello short4) precedono la fase della partita: lo stanco ritorno del padre dal lavoro, la scassettatura della posta nell’androne dell’anonimo caseggiato, il rientro nel modesto appartamento; i rapidi sguardi scambiati con l’austera madre, con la distaccata moglie, con il figlio che gli lancia un borsone e con il quale l’uomo, subito dopo, esce da casa; l’arrivo con l’utilitaria nello spiazzo deserto davanti a un ipermercato al cui interno, tra gli scaffali colmi di prodotti e i corridoi vuoti, un ragazzo emo con una chitarra si muove con movimenti convulsivi davanti a uno schermo televisivo; il raggiungimento
del campo da gioco, tra i palazzoni e le costruzioni della periferia disidentificante; i preparativi nello spogliatoio e la tensione che precede la gara. E poi l’inizio dell’incontro, visto come una sorta di balletto estetizzante avvolto nel fango, vibrante di un ritmo lento, nella successione di immagini in ralenti: la mischia dei giocatori delle due squadre (con la macchina da presa che scivola al centro del corridoio che essi formano), l’aggrovigliamento dei corpi, la contesa e il lancio della palla verso il personaggio del figlio, i tentativi di placcaggio degli avversari, la corsa e l’attraversamento del campo fino al raggiungimento della linea di meta. Dove il giovane, rialzatosi, dopo gli abbracci dei compagni rimane fermo a guardare oltre quella linea, verso la gradinata dalla cui sommità, rivelata da un movimento di dolly, appare la figura della madre. In una sospensione del tempo, si alternano per stacchi i primi piani del ragazzo, del padre e della donna che adesso accenna un saluto e un sorriso ai quali essi rispondono, in un ideale abbraccio, in un’intesa che non è solo sportiva ma che è anche, e soprattutto, umana ed esistenziale. Si vince con lo spirito di gruppo, si vince con la solidarietà. Quella stessa solidarietà che è al centro anche del documentario collettaneo L’Aquila 2009 – Cinque registi tra le macerie, che raccoglie – su iniziativa del quotidiano «la Repubblica» – cinque cortometraggi (a quello di Sorrentino si uniscono gli episodi diretti da Michele Placido, Mimmo Calopresti, Ferzan Ozpetek e Francesca Comencini) girati tra le macerie a brevissima distanza dal terremoto che nell’aprile 2009 ha colpito il capoluogo abruzzese: cinque segmenti in ognuno dei quali si racconta, si guarda e si coglie il senso drammatico delle cose viste nello stesso devastato e spettrale scenario, dove a tremare, oltre alla terra, sono le esistenze degli individui. Il terremoto squassa la superficie della terra, ma ancor più incide sul corso della normale quotidianità delle persone. Generatore di un’onda d’urto potente e devastante, il sisma screpola non solo i muri ma anche le coscienze. Sul motivo della perdita e dell’assenza – delle abitazioni, delle case, delle abitudini, degli oggetti, dei ricordi e anche, almeno in un primo momento, delle tende – si imposta l’episodio di Sorrentino, L’assegnazione delle tende, che si apre con le immagini di strade deserte, in un silenzio rotto dal rumore dei teli che nascondono la facciata di un edificio e che il vento gonfia e fa ondeggiare, dell’acqua che versa da una grondaia o che scorre tumultuosa in prossimità di una casa lesionata, dal rombo cupo di un elicottero e dalle ruspe che rimuovono le macerie. Delle architetture malsicure, degli ambienti sventrati,
delle case sfaldate – oramai deprivate della loro valenza di luogo di continuità delle tradizioni, di conservazione della memoria individuale, di protezione, di “angolo sicuro di tepore” – la macchina da presa rivela squarci del loro contenuto di quotidianità, sgretolato come sgretolati sono i muri. Dal paesaggio fisico e geografico, l’obiettivo passa ad esplorare quello umano: la voce di un uomo, al megafono, scandisce dei nomi, chiamando all’appello intere famiglie, seguiti da un quasi ossessivamente reiterato «non sono state assegnate»: una cupa litania che sottolinea la provvisorietà e la precarietà delle esistenze, con i loro sfaldamenti e gli inevitabili sovvertimenti, che l’evento sismico sempre determina. Collettaneo è anche il film-documentario, Napoli 24 (2010), a cui Sorrentino collabora realizzando uno dei ventiquattro frammenti, realizzati da altrettanti autori, di cui l’opera si compone: una pluralità di sguardi che si concentra sulla città partenopea, sospesa tra sogno e realtà, miseria e nobiltà, restituendone la sua complessa e caleidoscopica immagine di metropoli dove convivono tradizione e avanguardia, superstizione e cosmopolitismo. Ultimo tratto della “staffetta”, l’episodio di Sorrentino, La principessa di Napoli, si focalizza sulle figure di un’anziana principessa, Uzza de Gregorio di Sant’Elia, e di suo figlio. In immagini prospettiche e di impianto simmetrico, l’obiettivo ritrae la donna negli interni sontuosi dell’antica dimora nobiliare, negli ambienti decorati da tappeti, lampadari, tendaggi, oggetti da cui trasudano le vestigia aristocratiche di un tempo preferito nel quale tutto sembra essere bloccato, le cose come gli stessi dimoranti, colti anch’essi in pose statiche (la principessa e il figlio seduti immobili ai lati opposti di una stanza, di fronte a un tavolo su cui sono disposti volumi antichi) che li rendono simili a dei manichini. Sostenendosi a un bastone, la donna, seguita di spalle, avanza lungo un corridoio accedendo all’ampio e disadorno terrazzo esterno. Dall’alto di un altro terrazzo, che sovrasta un piccolo loggiato, getta il suo sguardo sulla periferia della città che un movimento di panoramica scopre ed esplora, con i suoi palazzi recenti e anonimi, espressione di una modernità degradata con cui quella dimora, e il passato che essa evoca, non possono che mettere in evidenza l’irrimediabile contrasto, nel ritratto di un tessuto urbanistico e umano contraddittorio e proteiforme. È ancora Napoli, «con quell’apertura alata a mare, sterminata», che «ti dà la sensazione che se vuoi puoi fuggire» (anche se «poi non fuggi mai»), che Sorrentino sceglie di rappresentare ed eleggere come sfondo della vicenda
narrata in Hanno tutti ragione, il romanzo che segna l’esordio dell’autore nella narrativa letteraria e con il quale torna alla forma espressiva da cui la sua pratica cinematografica scaturisce. Abbandonandosi al potere descrittivo e digressivo della parola5, Sorrentino elabora un tracciato narrativorimembrativo che, nei motivi, negli ambienti, nei personaggi, vibra di rimandi a L’uomo in più, al quale – o piuttosto a una cui costola – il romanzo dichiaratamente è ricondotto: di Tony Pisapia, Tony Pagoda, il protagonista della storia, è la diretta rifrazione. Come il suo omonimo, anch’egli è un cantante melodico-confidenziale “da night” (il cui estemporaneo successo lo ha portato, una volta, a un incontro professionale con Frank Sinatra), come lui è un grandissimo consumatore di cocaina, di donne, di sesso, di tutto ciò che gli capita a tiro, sorta di prototipo di tutti gli eccessi possibili che hanno riguardato soprattutto la coda degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ‘80, fatti di smoderatezze e di apparenza. Istrione, esagitato, opportunista, eccessivo, disilluso, ma anche lucido, acuto, sagace, pervaso da una grande umanità, Tony, della propria vita famelica, cinica, ingorda, rapace, attraverso aneddoti illuminanti e digressioni filosofiche, ripercorre il passato e il presente, dalla fine, appunto, degli anni ’70 – con il protagonista/io narrante che si ritrova a fare i conti con i suoi quarantaquattro anni «carichi e feroci» – agli inoltrati anni 2000: i ricordi di adolescenza, l’iniziazione al sesso e alla droga, gli amici di sempre, quelli della sua band, la passione carnale e gli amori morbosi, i vari incontri con personaggi eccentrici e smodati quanto e più di lui, i concerti, il successo, l’inizio del declino, le esibizioni in piazze minori e periferiche, gli episodi grotteschi e violenti, l’amore per l’unica donna verso cui abbia mai nutrito autentico affetto, il divorzio chiesto dalla moglie ben poco tollerata. E la decisione di lasciare l’Italia alla ricerca di una nuova esistenza, la scelta dell’abbandono della musica e del silenzio, i venti anni trascorsi in Brasile, ai confini con la foresta amazzonica, a lottare con gli scarafaggi, con l’umidità e con la noia; il ritorno, infine, in Italia, in una Roma vuota e crepuscolare, all’alba del nuovo millennio, inseguito da quella stessa solitudine inestinguibile e imperitura da cui tutti, nessuno escluso, sembrano essere trafitti, e l’incontro con nuove figure, piene di soldi e di malinconia, in un paese divenuto ancora più spregiudicato, faccendiere e immorale. Fino all’epilogo, che vede Tony ormai settantaseienne abbandonarsi al sonno e al sogno – all’immagine di sé, bambino, assieme ai genitori, nell’unico istante, forse, di vera felicità provata, rivelatore del sentimento puro dell’esistenza e della sostanza reale di se stesso – in un
tramonto romano. Il tramonto di una giornata, e anche quello della vita. Giocando su un registro ricco di metafore iperboliche e sorprendenti, di invenzioni e di azzardi linguistici e di una vivace gamma di aggettivi «spiazzanti e convincenti» (per riprendere le stesse definizioni dell’io narrante nella sua «lezione sulla seduzione»), Sorrentino impronta il suo testo narrativo (impaginato come una sorta di “memoriale” del protagonista che, iteratamente, interpella e si rivolge direttamente al lettore) a uno sperimentalismo letterario, sferzante e spericolato, che trova profonde consonanze con la sua pratica registica. Con l’occhio visivo e fluido dello sguardo cinematografico, con una scrittura capace di provocare l’accensione dell’immagine, l’autore, in una lunghissima “soggettiva” del personaggio di Tony Pagoda, ne ripercorre l’esistenza attraverso il suo stesso sguardo e la sua mente «cocainata» che amplia o contrae la percezione delle cose, del mondo, dello spazio e del tempo (l’infinita domenica dilatata a dismisura, la cui narrazione occupa una buona parte del testo, e i venti anni brasiliani condensati in appena un capitolo), nella cui dimensione Sorrentino si muove con grande fluidità, mediante ralenti, accelerazioni, pause, flashback, ellissi, aperture visionarie, nella rappresentazione e nella restituzione dell’avventura e del grande viaggio della vita. Ed è all’insegna del viaggio che l’itinerario creativo dell’autore trova prosecuzione: il viaggio in America, quello compiuto dallo stesso regista e quello indotto a intraprendere il protagonista di This Must Be the Place. Il cui nucleo originario, cellula germinale da cui prenderà sviluppo la storia dell’ex rockstar Cheyenne, è rinvenibile proprio in un viaggio: «Tutti i luoghi sono buoni per concepire un film – ha scritto Sorrentino – ma solo uno è il luogo perfetto: il viaggio. Il viaggio è quella zona di sospensione che accende l’unico sentimento necessario per mettersi a ideare un film: l’euforia, quella vertigine brevissima, evanescente, che ti porta nel mondo parallelo dell’invenzione e ti fa dire: “Sì, ecco, questa è l’idea, questo è il film”. Dopo, niente sarà più come prima. Dopo, ci sarà il lavoro. Lunghissimo, troppo lungo. Un lavoro di anni che ti farà dire alla fine: “Ma perché ho fatto questo film? Neanche me lo ricordo più”. Perché quella fiammata iniziale dell’euforia, nel frattempo, si è allontanata, si è sbiadita, ha perduto parte del suo senso. Questo film è durato, dalla concezione all’uscita nelle sale, tre anni, eppure quel momento di euforia iniziale lo ricordo perfettamente. Tornavo in aereo da Trieste. Avevo presentato Il Divo a Pordenone e a Udine. E, mentre guardavo la costa adriatica dal finestrino, in una nitida giornata di
maggio, come per incanto, ho avuto l’idea del film. Da quel viaggio, sono cominciati altri viaggi, affinché prendesse forma, in maniera sempre più precisa e definitiva, il film. Lunghe incursioni nell’entroterra degli Stati Uniti e in Irlanda. Naturalmente, il viaggio non è solo il luogo della breve euforia creativa, ma è soprattutto il luogo dove si amplificano la curiosità, la fatica, la malinconia, l’ironia, la tristezza, l’assenza e la mancanza, l’incredulità e il silenzio. Questo film è figlio di questi stati d’animo, allevati, di volta in volta, in auto o in aereo, da solo o con i miei meravigliosi collaboratori che, ormai da un certo numero di anni, mi assistono con una pazienza che io non riuscirei ad avere neanche con un figlio»6.
Quello di Sorrentino è un cinema che parte da un’intuizione e che ha soprattutto bisogno di un’aderenza appassionata a un progetto, prima di lasciarsi andare alla ricerca dell’immagine-suono, dell’emozione che permei quel fotogramma nel modo più pieno e pregnante. «Per quanto mi riguarda – ha affermato ancora l’autore – ogni film deve essere una caccia smodata all’ignoto e al mistero. Non tanto per trovare una risposta, quanto per continuare a tenere viva la domanda. Durante la genesi di questo film, una delle tante domande che non mi abbandonavano mai riguardava la vita segreta, misteriosa che, da qualche parte nel mondo, gli ex criminali nazisti sono costretti a condurre. Uomini, ormai, con le armoniose fattezze di anziani innocui e bonari, in realtà preceduti dall’innominabile crimine par excellence: lo sterminio di un popolo. Dunque, un rovesciamento dell’immaginario. Per scovare uno di questi uomini ci voleva una caccia e per avere una caccia ci voleva un cacciatore. Qui entra in gioco un elemento ulteriore del film: una mia necessità istintiva di innescare nel dramma una componente ironica. Allora, per raggiungere questo obiettivo, insieme a Umberto Contarello, abbiamo cominciato a scartare le ipotesi del cacciatore “istituzionale” di nazisti e pian piano siamo approdati ad un opposto assoluto del detective: una ex rockstar lenta e pigra, sufficientemente annoiata e chiusa in un proprio mondo autoreferenziale da essere così, apparentemente, la figura più lontana dalla ricerca insensata, in giro per gli Stati Uniti, di un criminale nazista, ormai probabilmente morto. Lo sfondo del dramma dei drammi: l’Olocausto, e il suo avvicinamento a un mondo opposto, fatuo e mondano per definizione, quale quello della musica pop e di un suo rappresentante, mi è sembrata una combinazione sufficientemente “pericolosa”, da poter dare vita ad una storia interessante. Perché solo dentro il pericolo del fallimento, credo che il racconto possa autenticamente vibrare»7. Con un budget di ventotto milioni di dollari, Sorrentino, nell’agosto 2010, inizia le riprese, tra l’Irlanda e l’America. In concorso, il film viene presentato al Festival di Cannes 2011. Cheyenne è una ex rockstar cinquantenne originaria di New York che ormai da venti anni, all’apice della celebrità, ha abbandonato le scene musicali e il mondo dello spettacolo. Un tempo mitico simbolo del gothic rock e leader del gruppo musicale “Cheyenne & the Fellows”, spende le sue giornate nell’indolenza, ingabbiato nella sua maschera che lo aveva portato al successo, ancorato a un passato (e a un trauma) invadente e opprimente, schiavo del personaggio che è stato e che, pur abiurandolo, cerca di
mantenere vivo, incapace di rinunciare al mascheramento di quegli anni passati. Nella sua mastodontica villa neogotica alla periferia di Dublino, circondata da un grande parco con annessa una piscina perennemente vuota usata per giocare a pelota, godendo ancora i frutti economici della sua passata celebrità e degli investimenti fatti in borsa, vive da semipensionato, annoiato e fuori dal tempo, con la premurosa e ancora innamorata moglie Jane, vigilessa del fuoco (la quale vanamente cerca di spingerlo a tornare sulle scene), e un cane, tentando di mantenersi vagamente in forma praticando improbabili esercizi fisici. La sua monotona apatia e il suo semieremitaggio sono interrotti solo dalle periodiche visite al cimitero (alla tomba di due fratelli adolescenti che i suoi passati e lugubri inni rock hanno portato al suicidio, per il quale egli adesso prova un senso di colpa) o, con il proprio inseparabile carrellino per la spesa, dal diversivo della passeggiata al supermarket, dove si aggira con la sua aria catatonica e con il suo incedere lento e goffo tra gli scaffali. E sono interrotti altresì da svariati incontri di varia natura: con un giovane che si presenta nella sua villa (e che aveva sentito suonare nel centro commerciale) proponendogli di produrre il primo disco della sua band («The Pieces of Shit») di cui egli è il frontman e della quale gli consegna una demo di pezzi originali; con un amico che gli parla della proprie pene amorose, delle proprie performance erotiche e del segreto per irretire le donne. E, soprattutto, con Mary, una groupie dark sedicenne similmente annoiata e malinconica, con cui egli ha instaurato un rapporto di sintonia emotiva e verso la quale nutre un affetto quasi paterno. Con tenerezza e premura, Cheyenne si adopera per propiziare il suo fidanzamento con il suo coetaneo Desmond, il cameriere esitante e maldestro che lavora nel locale – il bar inglobato in un grande complesso commerciale – in cui essi sono soliti trovarsi e che della ragazza si mostra innamorato. Mary ha un fratello, Tony, sparito misteriosamente da casa da più di tre mesi, senza più dare di sé alcuna notizia. Della sua enigmatica scomparsa soffre di un intollerabile e inconsolabile dolore la madre che, non facendosene una ragione, rimane ogni giorno davanti alla finestra, con lo sguardo afflitto rivolto verso la strada, nella vivida speranza di poter vedere tornare il figlio. È nella casa di Mary e della madre, dove egli si è recato per tentare di dare conforto alla donna e alleviare il suo dolore, che Cheyenne riceve telefonicamente la notizia dell’imminente morte del padre con il quale ha da tempo interrotto i rapporti. Nonostante la precarietà della relazione (i due,
oramai da trenta anni, sono divenuti estranei l’uno all’altro) e nonostante la lontananza, Cheyenne è indotto a intraprendere il viaggio per gli Stati Uniti dove la famiglia ancora risiede. Il suo arrivo a New York, dopo il lungo tragitto in nave (ha paura di volare) attraverso l’oceano, è tuttavia tardivo. Del padre non può che trovarne le spoglie. Dopo aver assistito a un’esibizione di David Byrne, con l’ex cantante e anima dei Talking Heads, con il quale nel suo passato di musicista ha collaborato, ha un toccante incontro-confessione. Dal proprio cugino Cheyenne apprende che il genitore, ebreo ex deportato e reduce di Auschwitz, ha dedicato gli ultimi trenta anni della sua esistenza a cercare ossessivamente, in lungo e in largo per tutti gli Stati Uniti, l’aguzzino nazista, Aloise Lange, che lo aveva umiliato durante la prigionia, senza tuttavia riuscire a scovarlo. Attraverso la lettura dei diari, Cheyenne tenta di mettere a fuoco la vita del padre – dal quale ha sempre ritenuto di non essere stato amato – che egli di fatto non conosce. Seguendo l’esortazione del cugino, Cheyenne si rivolge a Mordecai Midler, un anziano e burbero cacciatore di criminali nazisti, il quale tuttavia, ritenendo Lange un «pesce piccolo» e con molte probabilità oramai morto, non reputa opportuno dedicarsi al suo braccaggio. Con la sua inesorabile lentezza e con nessuna dote di investigatore, Cheyenne decide, contro ogni logica, di proseguire lui stesso l’indagine andando alla ricerca di quel novantenne forse già scomparso di vecchiaia. Sulla base di indizi vaghi e inconcludenti, a bordo di un pick-up affidatogli da un uomo d’affari incontrato casualmente in un locale, intraprende così un viaggio nell’America profonda attraverso i vari States, in un tragitto contrappuntato dall’incontro con una serie di bizzarre figure. Dapprima fa tappa a Bad Axe, in Michigan, dove del criminale cercato risiede la moglie, un’ex insegnante americana di storia. Fingendosi un suo vecchio allievo, egli si intrufola nella sua casa riuscendo a trafugare nottetempo un indizio (un foglio con il nome della località della scuola frequentata dal piccolo figlio della nipote) utile per il proseguimento della propria ricerca. Si reca così ad Alamogordo, in New Mexico, dove riesce ad allacciare amicizia e ad avere la fiducia di Rachel, la nipote di Lange, che lì, nella piccola cittadina, lavora come cameriera in un bar e vive accudendo amorevolmente il figlio orfano del padre, e che contribuisce non poco alla presa di coscienza di Cheyenne di se stesso e della sua capacità compassionevole verso gli altri. Da lei riesce a carpire il nome dello sperduto e lontano luogo dove suo nonno, del quale ella mostra di non
sapere la vera identità, si è ritirato. Con un diverso pick-up (dopo che quello prestatogli è andato distrutto per autocombustione), procuratosi una pistola, Cheyenne si rimette così in viaggio, dirigendosi verso Huntsville, nello Utah. Qui si imbatte in un vecchio inventore in ritiro, Robert Plath (sua, racconta a Cheyenne, è l’invenzione del trolley), che gli parla di un tedesco molto anziano che vive nelle vicinanze, in una vecchia casa in collina, e che si fa chiamare Peter Smith. La casa, però, è disabitata. Rientrato nel motel dove ha preso alloggio, Cheyenne trova ad attenderlo Mordecai. È lui, dopo aver cambiato opinione e messosi sulle tracce di Lange, a condurlo nel vero nascondiglio dove l’ex nazista si è rifugiato. In una baracca isolata in mezzo a una distesa ghiacciata, tra le montagne rocciose, Cheyenne, solo di fronte al vecchio aguzzino, è testimone del suo “monologo-confessione” sull’«inesorabile bellezza della vendetta», al termine del quale Cheyenne rinuncia ai propositi vendicativi premeditati. Decidendo di non usare l’arma che ha con sé, sceglie di umiliarlo, così come Lange aveva umiliato suo padre: lo costringe a uscire nudo, nel gelo della piana imbiancata. Con il ritorno a casa, e con una nuova consapevolezza, ha termine il viaggio, apportatore di una maturità, di un cambiamento che è tanto esteriore quanto interiore, di una trasformazione che è fisica quanto mentale. Compendio mitico dell’avventura e dell’individualismo, il motivo del viaggio ricorre in tutta la storia della cultura americana. Il viaggio è il momento dell’impresa, è la scoperta della vita e dei suoi valori, la disponibilità all’apertura verso una diversa impostazione dell’esistenza, la realizzazione delle proprie capacità, il cammino verso un “oltre” e un “altrove” il cui raggiungimento coincide con l’acquisizione di una diversa coscienza di sé. Sullo sfondo dei grandi spazi che solo il nuovo continente può offrire, in un accumulo di esperienze e di tensioni, viaggiano i tanti eroi della narrativa americana, letteraria e cinematografica, attraverso le grandi distese e lungo le strade che sono quelle dell’immaginario, in storie e racconti la cui struttura di fondo è costituita da un itinerario da intraprendere, da un tragitto che conduce i protagonisti attraverso un certo spazio. Spostamenti fisici e geografici da un luogo all’altro, i viaggi che tali personaggi affrontano sono però anche, e soprattutto, itinerari interiori, cammini nei meandri della propria coscienza alla ricerca di un equilibrio interiore perduto: viaggi come allegoria di itinerari esistenziali, metafora di una dinamica morale che conduce i protagonisti, al termine del loro errabondaggio, al ritrovamento di una verità
e di una identità smarrita e negata. Nella sua trasferta oltreoceano, nel suo attraversamento della frontiera, Sorrentino, in This Must Be the Place, si impossessa dei riti e dei miti della cultura e del cinema americani, approntando un road movie che si snoda attraverso i luoghi topici e tipici che definiscono uno dei generi per eccellenza del cinema a stelle e strisce, adottandone il registro espressivo, la struttura drammaturgica, la tradizione consolidata. Tra road movie e romanzo di formazione, This Must Be the Place è la storia di un viaggio che, in uno spazio americano che è al contempo fisico e mitologico, conduce in un percorso iniziatico il protagonista Cheyenne, bambino invecchiato, alla crescita personale, al ricongiungimento con se stesso, con il proprio passato e con le tradizioni da cui proviene, all’acquietamento e alla risoluzione del proprio conflitto interiore. Pur incanalando la vicenda nel solco del film on the road, Sorrentino non rinuncia tuttavia a inoculare nei momenti hollywoodianamente topici a cui egli ricorre – e per i quali potrebbe partire il gioco dei rimandi, primo fra tutti quello, dichiarato ed esplicito, al David Lynch di Una storia vera (The Straight Story) – il siero di una personale cifra di umori, di un ventaglio di motivi e soluzioni connaturati alla propria poetica. Risulta infatti evidente come Sorrentino non si limiti semplicemente a ricalcare i moduli del genere, intrecciando infatti ad essi, e inserendo nell’impianto narrativo e formale dell’opera, i temi, le atmosfere, i segni che definiscono il proprio universo artistico e un modo di vedere le cose e il mondo che sono prerogativa dell’autore e prosieguo delle sue esperienze precedenti. Basta osservare This Must Be the Place alla luce di esse, infatti, per vedere in trasparenza le suggestioni, i moduli espressivi, gli artifici tecnici che definiscono l’universo narrativo dell’autore. Sorrentino cambia, insomma, o allarga il suo orizzonte (spaziale) per meglio ripetere. Non è arduo rintracciare l’appartenenza di Cheyenne a quella galleria di personaggi che popolano il mondo narrativo sorrentinano, uomini adulti che mantengono tratti di infantilità, rinserrati nella propria solitudine, estraniati dal mondo e da se stessi, incamminati in un tragitto esistenziale che è quello della perdita (del successo, della ricchezza, degli affetti, dei legami parentali, delle illusioni, del potere), costeggiando i meandri dell’inquietudine, arrischiandosi sugli abissi dell’inconscio, inoltrandosi nei dedali della rêverie. Personaggi trincerati dietro una maschera che tradisce la disgregazione dell’identità e da essi adottata come sola occasione di
adeguamento all’universo in cui si ritrovano a mareggiare. In ciò non può che risaltare l’affinità del protagonista di This Must Be the Place con tutti i precedenti protagonisti del cinema dell’autore, radicalizzandone per certi versi i tratti peculiari e gli elementi caratterizzanti.
Manifestamente ed emblematicamente, già nell’incipit – uno dei momenti filmici privilegiati da Sorrentino, in cui l’autore sottolinea la propria predilezione per lo sguardo e nel quale si raccolgono quei dati che danno poi spessore alla traccia narrativa e sostanziano l’intera opera, mediante il ricorso a essenziali tratti figurativi e a particolari che si caricano di allusioni connotative – si impone ancora una volta il motivo del mascheramento: fin
dalle inquadrature iniziali Cheyenne è ritratto come un malinconico e stralunato personaggio carnascialesco, una sorta di clown dagli occhi bistrati e il rossetto vermiglio, corpo-maschera immobile (plasmato sul modello di Robert Smith dei Cure) ingabbiato nel proprio passato e immerso in un torpore depressivo. In una serie di dettagli sono colte le fasi del suo mattutino rito mascheratorio: lo smalto nero alle unghie dei piedi, un pendente aggiustato all’orecchio, il rossetto acceso sulle labbra, una nube di lacca spruzzata sugli scomposti e cotonati capelli corvini, la matita nera che cerchia gli occhi tristi e spenti facendo ancor più risaltare il pallore del volto imbellettato, le mani che allacciano i bottoni di una camicia scura. In quella maschera di tetra intensità, grottesca e lugubre insieme, che lo specchio davanti al quale si completa il quotidiano rituale del trucco riflette e rinvia, è cristallizzata la vita di Cheyenne. Con il successo, i palcoscenici, gli eccessi lasciati da tempo alle spalle, egli è ormai solo il fantasma di se stesso, vitrea icona bloccata in un tempo preferito a cui egli è rimasto ancorato. Ha abdicato al mondo dello spettacolo, da molti lustri, così come ha abdicato alla vita, schiacciato da un passato che dopo avergli dato notorietà lo ha intrappolato in un opprimente senso di colpa (per aver causato la morte, con le sue canzoni disperate e pessimiste, di due fan troppo fragili), nell’apatia e nella depressione, preda di una tristezza in cui il passato, e il futuro, non sono più proiezioni del presente ma sono nel presente, nella sua dilatazione immobilizzante, stagnante ed eterno. Come un’ombra lenta e dissociata, in un incedere indolente che sembra portarsi addosso una malinconia infinita, si muove stancamente negli ampi ambienti inconti e sonnacchiosi della villa-castello alle porte di Dublino in cui si è rinserrato, malinconico tempio di aristocratico minimalismo e di assurdo razionalismo, con la cucina ordinata e aliena sulla cui parete campeggia superfluamente e tautologicamente l’insegna luminosa «cuisine” (e dove mai nessuno vediamo cucinare ma, tutt’alpiù, scaldare in forno una pizza surgelata). Di quel volto grottesco e spento, di quel corpo avvizzito la macchina da presa indaga le pieghe e gli indolenti movimenti: lo sguardo apatico, gli occhialetti da vecchietta sulla punta del naso, le spalle lievemente incurvate, la postura piegata alla vita, l’incedere lento, le membra rattrappite di cui i fiacchi esercizi ginnici, ai quali svogliatamente e sbrigativamente egli si dedica, e gli affannosi incontri a pelota con la moglie ai quali non può che perdere (se non quando ella lo lascia deliberatamente vincere) mettono ancor più in evidenza la flaccidità, una mancanza di vigore che si rispecchia a
livello psichico come tristezza. Ha il fisico precario e incerto da vecchio, ma un fare fanciullesco a cui comportamenti, abitudini, attitudini sono ricondotti: la vocetta flebile e cantilenante, una risatina mugolata sovente sfoderata, la cannuccia in bocca con cui continuamente sorbire bibite quasi come surrogato delle sigarette mai fumate («Perché – si chiede all’inizio della disagevole conversazione con la madre di Mary afflitta dal dolore per la sparizione del figlio – fra tutti i vizi che mi sono concesso in passato non c’è mai stato quello del fumo?»; «Non hai mai cominciato a fumare – gli risponde la donna – perché sei rimasto un bambino. I bambini sono i soli che non hanno mai il desiderio di fumare»). Dei bambini possiede il candore, la purezza, la gentilezza d’animo, la tenerezza, la fragilità, gli aspetti limpidi e commoventi: è un essere eternamente rallentato, con la loquela pacata intrisa di ironia, che nell’universo – non meno bizzarro – in cui è calato, e che non riesce a mettere ben a fuoco, si ritrova ad aggirarsi spaesato, svagato, stralunato, mesto, trovando nell’ironia il proprio modo e l’unica possibilità di stare e di adattarsi al mondo. In relazione alle cui dinamiche non agisce, ma semmai reagisce con le battute, con le sue risatine strascicate, con la “spensieratezza pensierosa”. Il tempo, per lui, pare essersi bloccato. Di esso, nell’incapacità di ricompattare la sua unità sgretolata e di risolvere la propria crisi spirituale e coscienziale, subisce la dis-armonia, lo iato tra le falde di passato deattualizzate e punte di presente prive di spessore temporale («Lo sai qual è il vero problema? – così si rivolgerà a Rachel – Che passiamo senza neanche farci caso dall’età in cui si dice “un giorno farò così”, all’età in cui si dice “è andata così”»). Cinquantenne mai veramente cresciuto (che necessita delle premure della moglie materna da cui è accudito, appunto, come un bambino), Cheyenne è come intrappolato in una dimensione infantile mai abbandonata. Nonostante la presa di distanza e l’abiura della moda e della filosofia dark che aveva contribuito a promuovere in gioventù e da quel gothic rock di cui un tempo era stato un idolatrato simbolo, continua ad abbigliarsi nello stesso modo, a truccarsi come da adolescente, pur inseguito dal rimorso per le giovani vite dei due fratelli troncate da un’adesione eccessiva ed esasperata ai testi delle sue canzoni. Tormentato dal ricordo e dal senso di colpa (che lo induce, contravvenendo al monito dei loro genitori, a recarsi al cimitero e deporre i fiori sulla tomba dei due adolescenti che insieme si sono dati la morte), è tuttavia incapace di fare i conti con il proprio passato, proseguendo a dare vita al personaggio che era stato, riproponendo all’infinito l’immagine di sé, e
di rapportarsi con il presente e con il mondo. La realtà, per lui, è solo causa di disturbo: «Qualcosa mi ha disturbato, non so bene che cosa, ma qualcosa mi ha disturbato», usa ripetere con insistenza. Ogni contrarietà, ogni ostacolo, ogni imprevisto, ogni difficoltà è un inciampo fastidioso nel monotono e tedioso svolgersi della vita, qualcosa che egli aspirerebbe a rimuovere con un semplice sbuffo dall’angolo della bocca, così come è solito fare per scansare la ciocca di capelli che gli cala sul volto. Le complicazioni e le asperità, nello spartito piatto dell’esistenza, sono come note stridenti, alterazioni dell’andamento lento, semplificato e tedioso della quotidianità: come l’improvviso e penetrante assolo di chitarra che si sovrappone alla morbidezza ritmica del brano musicale suonato dalla band di giovanissimi nel grande centro commerciale dove Cheyenne, in una delle sequenze iniziali, si incontra con Mary, provocando il subitaneo allontanamento del protagonista. Cheyenne si è arreso alla propria immagine così come si è arreso alla vita, affrontata come un ingombro, come un fardello gravoso e schiacciante. Quel fardello che, con valenza allegorica, si trascina perennemente dietro e che assume le fattezze del carrellino per la spesa prima e del trolley (lungo l’intero viaggio in America) poi. Con quel carico a rotelle, rasentando l’orlo di una depressione incipiente, arranca per le strade dei suburbi dublinesi. Con il carrellino esce da casa per incontrare la sua giovane amica; con esso, ancora insieme alla ragazza, si reca al cimitero; con esso si dirige al supermarket, aggirandosi abulico e disorientato tra gli scaffali ricolmi di cibarie e imbattendosi in due giovani donne che lo osservano con sorrisetti denigratori: si soffia via i capelli dalla faccia, prosegue nel suo pigro incedere, mentre dal carrello delle due clienti, al centro della corsia, versa del latte. Il carrellino che Cheyenne si trascina continuamente dietro è quello del peso dell’irrisolto passato, ma è altresì quello del vuoto del presente, delle giornate trascorse in un eterno e inconcludente vagabondare tra i pochi amici o conoscenti e luoghi pieni di niente, in una perenne fluttuazione e in un senso di precario galleggiamento, di blocco del divenire, di svuotamento interiore. Tutto si annulla, in una temporalità immobile dove a rimanere è il vuoto (del tempo e della vita) e l’esperienza di esso. Vuota è la piscina usata solo come spazio per giocare a pelota («Perché non c’è acqua nella piscina?» gli domanda Desmond, che Cheyenne ha invitato nella sua villa per propiziare il suo incontro con Mary, e al quale egli, con aria attonita, risponde «Non lo so. Nessuno ce l’ha mai messa»). Vuoti, o parcamente arredati, sono gli ambienti
di cui si compone la stessa villa goticheggiante in cui il protagonista è quasi sempre colto in atteggiamento inerte e passivo. Vuoti sono gli spazi nei quali si reca, non-luoghi caratterizzati dalla provvisorietà, dal passaggio e da un individualismo solitario che hanno la prerogativa di non essere identitari e realmente relazionali: il supermarket, o il bar all’interno del centro commerciale in cui egli è solito trovarsi con Mary. Spazi che si evidenziano per la loro negazione della conoscenza individuale, spontanea e umana, luoghi di transito ma inabitati e inabitabili. La vuotezza degli spazi riflette quella degli individui e della loro interiorità: di Cheyenne, ma anche, a ben vedere, quella degli altri personaggi, anch’essi similmente catturati e proiettati in una dimensione che è quella della melanconia e della privazione. Come Mary, che ha fatto dell’ex rockstar di cui è amica il proprio oggetto di culto (di lui, del suo passato, dei suoi dischi e delle sue canzoni conosce ogni particolare), divenendo seguace della tendenza di cui egli, al suo sguardo, continua ad essere l’emblema e l’incarnazione. Come il suo idolo si veste con un abbigliamento “gotico”, trucco, capelli, anfibi e vestiti neri. Con un montaggio alternato la sua figura viene fin dall’inizio correlata con quella di Cheyenne. L’obiettivo la intercetta dopo un vorticoso movimento di macchina che esplora uno scorcio della periferia dublinese: l’avveniristica struttura dell’Aviva Stadium, il tetto di una casa, una donna (la madre della ragazza) alla finestra, il giardinetto e la strada antistante dove Mary indugia qualche istante prima di allontanarsi con lo skateboard costeggiando la foce del fiume. E l’incontro con Cheyenne, nel grande spazio stordente del centro commerciale definito da vetrine scintillanti, luci, scale mobili, corridoi, dove i due si soffermano ad ascoltare la giovane band. Pur nella sua giovane età, anche Mary sembra scivolare sulla patina sdrucciolevole di un’affiorante mestizia e di un’apatica indolenza che la priva della volontà nel prendere decisioni (sulle attenzioni che le riserva l’impacciato Desmond), dell’energia vitale, della capacità di prospettare il proprio futuro del quale, e dal quale, avverte il vuoto. Tutti soffrono di una perdita, accomunati dal motivo dell’assenza o dell’inattuabilità dell’unità familiare. Tutti, nell’universo narrativo non solo di This Must Be the Place ma più in generale dell’intero cinema sorrentiniano, sono segnati da una stessa condizione di orfanezza, reale o virtuale, effettiva o simbolica. Del padre è orfana Mary, privata, oltre che dell’affetto paterno, della presenza del fratello, allontanatosi misteriosamente da casa: quel fratello per il quale la madre (della cui scomparsa sembra
indirettamente attribuire la causa, se non la colpa, a Cheyenne: «Dov’è mio figlio? – gli chiede – Questa è la domanda che ti dovresti fare») si è chiusa in una lancinante sofferenza che la induce a rimanere seduta alla finestra, abbandonata a se stessa, con i capelli biondi disfatti e la sigaretta in mano, nella prolungata e vana attesa del suo ritorno. Del padre – quel padre ritenuto anaffettivo del quale ormai da tempo ha operato il distacco – rimane orfano Cheyenne, dalla cui morte è innescata e prende avvio la traccia narrativa del viaggio sottolineando e definendo al contempo uno dei fili conduttori non secondari dai quali la complessiva opera dell’autore è solcata. È (anche), infatti, come si è evidenziato, nel rapporto lacerato e non conciliato fra i diversi personaggi sorrentiniani e la figura paterna che è possibile rinvenire la loro comune appartenenza a un cosmo che, appunto, rende orfani (in cui è d’altronde riflesso il dato autobiografico del regista8), o che vede contrapposte le figure genitoriali a quelle filiali, private, queste ultime, del sistema dei valori idonei per interpretare ed elaborare la realtà che le circonda di cui i padri sono il simbolo. Nella deprivazione e nella mancanza della figura paterna i figli, sovente, si mostrano così incapaci di indirizzare il loro sguardo in avanti verso la crescita e la vita adulta, rimanendo invischiati in una dimensione puerile che è poi quella della nostalgia, che si traduce in uno sguardo rivolto indietro, verso il passato (e, freudianamente, verso la madre, come per Geremia in L’amico di famiglia). Più che nella sua presenza, ancora una volta, il personaggio del padre si manifesta nella sua assenza o nella sua lontananza. «Non so spiegare esattamente il motivo per cui non ho parlato con mio padre per trenta anni – dirà Cheyenne alla nipote di quel criminale nazista sulle cui tracce si svolgerà il suo itinerario americano, in una toccante confessione che si tramuta in straziante presa di coscienza – Pensavo che alla base ci fosse una mancanza di stima reciproca. Quando avevo quindici anni ho stabilito che non mi voleva bene, perché mi truccavo gli occhi esattamente come me li trucco oggi. E quando si è ragazzi, non si ha mai voglia di tornare sulle proprie decisioni». Recisi in gioventù i legami con il proprio genitore, ribellatosi al suo ruolo autoritario e ai suoi modelli comportamentali, Cheyenne si vede preclusa anche la possibilità di una rimarginazione di quella frattura causata dalla propria contestazione adolescenziale, negata e resa impraticabile dalla morte del padre (la cui rivelazione è suggerita da Sorrentino tramite il dettaglio del filo rosso del telefono, l’unico esile filo che a lui ancora può legarlo, e un lento movimento di macchina che di spalle si avvicina alla
figura del protagonista) e dal tardivo arrivo (dovuto al panico del volo e alla paura di morire) nell’avita dimora. Dove, del genitore, non può che rinvenire il suo già irrigidito e freddo corpo, il suo simulacro inerte, e quelle sue parole affidate ai diari in cui è condensato il senso di tutta una vita, come vestigia enigmatiche e spettrali di un essere che a Cheyenne è ignoto. Davanti alla salma del padre rimane come attonito, con le mani tremolanti che scostano il lembo del lenzuolo che ne copre il corpo, ne fissa il volto, osserva il numero marchiato a fuoco che reca sull’avambraccio.
Orbato della presenza paterna, è a sua volta egli stesso un padre mancato («Una rockstar non dovrebbe avere figli – così risponde a una delle
molteplici domande che gli pone Desmond, dopo la cena malamente interrotta da una serie di gaffe – perché c’è sempre il rischio che ti venga fuori una stilista strampalata»). Segnati dalla condizione dell’orfanezza o dell’assenza filiale, i personaggi sono animati dal desiderio di colmare il vuoto fisico della figura di cui sono privi con un “sostituto”: come Mary, che ravvisa in Cheyenne una sorta di “doppio”, appunto, della figura paterna di cui poter emulare il comportamento, e da cui ricevere la possibilità di orientarsi in un mondo in cui ogni valore e ogni appartenenza sembrano essere mere proiezioni rarefatte; e come Cheyenne, che si pone in confronto con la giovane quasi come un padre nei confronti della figlia, nel proposito di «far fidanzare una ragazza triste con un ragazzo triste». Ognuno è alla ricerca di qualcun altro, in «un labirinto parentale in cui tutti, alla fine, potrebbero essere padri, o figli, o fratelli o sorelle di qualcun altro»9, in un intreccio parafamiliare indefinibile nel quale i ruoli possono risultare intercambiabili: come Jane, per Cheyenne, è la moglie da cui egli ha bisogno di essere maternamente accudito e motivato giorno dopo giorno, così Cheyenne, per Mary, è il padre che ella non ha ma anche il “fratello” maggiore (e quasi come un “figlio” ritrovato egli, al termine del suo viaggio, riacquistate finalmente le vesti di adulto, con un sorriso di riconoscimento verrà accolto dalla madre della ragazza). Sono tracce, indizi che Sorrentino dissemina nel tessuto narrativo (è nella casa di Mary e della sua genitrice che egli viene raggiunto dalla telefonata attraverso cui è informato dell’incipiente morte del padre) in una “determinata” indeterminatezza che legittima una pluralità di possibili interpretazioni e dà adito a differenti chiavi di lettura. Tutto, anche le relazioni tra i personaggi, sembra inserito in un gioco di prospettive – nella predilezione sorrentiniana del non-detto e dell’allusivo – nel quale gli elementi sono fluttuanti e mobili e niente e nessuno in fondo è quello che univocamente sembra, in un’illusione prospettica che trova il suo acme e la sua esplicitazione figurativa nella sequenza del concerto di David Byrne a cui Cheyenne, appena giunto in America dopo la morte del padre, assiste. La scena è risolta in un unico piano sequenza (di oltre quattro minuti) che ha il suo inizio, sulle note della canzone che dà il titolo al film, sulla figura di una giovane donna la quale, seduta su una poltrona in quello che parrebbe essere uno scorcio domestico in stile anni ’50-60, segue con lievi movimenti del corpo e della testa il ritmo musicale. Arretrando e ampliando progressivamente il campo visivo, la macchina da presa svela la natura illusoria dell’immagine incastonata in realtà in un grande riquadro sul fondo
del palco dove fanno apparizione l’ex leader dei Talking Heads, al centro dell’inquadratura, e, ai suoi lati, i componenti del gruppo. Mentre i musicisti proseguono l’esecuzione del brano musicale, l’immagine dietro di essi si inclina, ruota su se stessa di 90° (la donna sulla poltrona, adesso, è inquadrata dall’alto, in plongée), si solleva fino all’altezza delle loro teste, iniziando poi ad avanzare verso il pubblico radunato ai piedi del palco, oltrepassando le figure degli stessi musicisti, fino a occupare l’intera metà superiore dell’inquadratura. L’obiettivo vira poi a sinistra, coglie uno scorcio del pubblico, si dirige verso Cheyenne, immobile tra la folla che agita le braccia al ritmo della musica, fino a inquadrarlo in primo piano cogliendone il senso di afflizione e di accorato dolore che traspare dal volto.
Il passato, che l’immagine della scenografia mobile evoca, invade vieppiù lo schermo, grava sul presente, sovrasta lo stesso pubblico, sembra incombere sulla figura del protagonista sul quale il piano sequenza, con il suo artificio di proiezioni prospettiche, si conclude, ponendo in contrasto i due stati temporali, le luci dei riflettori (che illuminano David Byrne) e l’oscurità (in cui Cheyenne è avvolto), l’astro del pop ancora rifulgente e l’ex stella ormai tramontata e offuscata, avviluppata nel buio del fallimento. Nella relazione che si stabilisce è inscritto lo scarto, la diversità del rapporto con cui ognuno dei due personaggi è posto in relazione all’dea artistica e alla sfera dell’espressione musicale di cui entrambi sono rappresentanti: se del cantante scozzese-americano emerge la vena realmente ispirativa e creativa, di Cheyenne viene sottolineata l’appartenenza, vissuta in modo non conciliato, a un mondo musicale modulato sui motivi dell’effimero, delle tendenze estemporanee, del guadagno facile, del carattere seriale e ripetitivo della produzione artistica che produce uno snaturamento creativo dell’arte. Esplicativa della situazione conflittuale della coscienza del protagonista è la successiva sequenza del confronto verbale con Byrne (che con l’amico, in passato, ha collaborato alla realizzazione di uno dei suoi dischi, e la cui figura ha la funzione e il ruolo di mettere in rilievo la dinamica delle tensioni sviluppate attorno alla figura di Cheyenne), momento estremo e rivelatore della propria crisi interiore: all’interno di un vecchio teatro dismesso dove risalta un innovativo strumento a tastiera che Byrne ha messo a punto, ha luogo, del protagonista, la confessione di profondo e vieppiù urlato dolore: «Io ero una popstar del cazzo e scrivevo canzonette lugubri perché erano di moda e ci si faceva un sacco di soldi con testi deprimenti per ragazzetti depressi. E due di loro, più deboli di tutti gli altri, ci sono rimasti sotto: questo è stato il risultato. E adesso io vado al cimitero tutte le settimane per alleviare il senso di colpa, ma col cazzo che lo allevio, così peggiora solamente. E allora mia moglie mi dice “Ma perché non torni a suonare?”, e io penso che è una stupida oppure penso che magari mi ama fin troppo, e allora è stupida uguale perché come fa a non rendersi conto del disastro che si ritrova davanti!». In un orizzonte di vita privo di senso e di prospettive, Cheyenne, detrito del passato, anacronistico spettro di se stesso, è suo malgrado sospinto a compiere un tortuoso itinerario lungo gli sconosciuti sentieri di una memoria che è al contempo individuale e storica, e che lo porta a scoprire e confrontarsi con un diverso passato, con la figura paterna, con gli orrori della
Shoah. È un tragitto che, originato da una quete, da una detection, diviene un percorso di iniziazione, di apprendimento, di appropriazione – pur tardiva – e prosecuzione del percorso del padre, mirato allo scovamento dell’ufficiale nazista causa del tormento e dell’ossessione, del genitore, di tutta una vita. Un percorso a ritroso capace di far ripartire e riconsolidare il tempo, che lo conduce alla conoscenza del passato del padre (il lager), del suo obiettivo perseguito per decenni, fino alla morte, con tenacia e un implacabile livore, e dell’inferno da cui, come quel numero segnato sul braccio, la sua esistenza era per sempre stata marchiata: quell’inferno a cui le stesse parole del padre, in un lacerto dei suoi diari, danno voce («Prima dell’inferno, una sola parola ha definito la mia vita: spensieratezza. Da bambino mi piaceva guardare il cielo della Polonia. Lo stesso cielo che in seguito ho visto dal campo rigato dalla striscia nera del fumo dei miei parenti: eppure questa macabra visione non mi impediva di godere della bellezza di quel cielo. Un altro pensiero mostruoso, come tutti i pensieri che gli uomini fanno all’inferno…»); quell’inferno che a Cheyenne rievoca Mordecai Midler, lo spigoloso ma al contempo umano e sensibile cacciatore ebreo di criminali nazisti il quale, come una sorta per lui di “padre putativo” (quasi un “sostituto”, ancora, della figura paterna), indirizza in qualche modo la sua confusa ricerca; quell’inferno che trova diretta raffigurazione attraverso la proiezione delle diapositive del genocidio razziale alla quale Cheyenne si ritrova ad assistere (visione quasi intollerabile che ne provoca l’inopinato e fulmineo allontanamento), con le immagini degli ebrei nei campi di sterminio che si alternano a quelle dei volti dei giovani di oggi, e con il secco e metallico rumore causato dall’avanzamento del caricatore del proiettore simile a quello della mannaia di una ghigliottina. È dalla rievocazione di quelle atrocità, di quell’odio così totale e misterioso, e dalla voce fantasmatica del padre (una voce guida che scandirà l’intero percorso) che il viaggio ha inizio, lungo la strada della vendetta ma soprattutto della conoscenza, in un cammino punteggiato da una serie di incroci di varia natura (oltre che da una colonna sonora penetrante e incisiva10), dall’incontro con tante e differenti solitudini, dallo sfioramento di una galleria di figure che ritraggono le prismatiche facce veritiere e assurde dell’immensa provincia americana: l’uomo d’affari texano che affida al protagonista il proprio pick-up di lusso fatto oggetto di una maniacale adorazione (riproposto in un successivo inserto mnemonico, dopo che il pickup ha preso improvvisamente fuoco, mentre parla a Cheyenne del valore
della fiducia nel mondo moderno); il camionista con cui il protagonista, assistendo impotentemente all’autocombustione del veicolo, ha un breve scambio di battute; una poliziotta nana, e, più avanti, una commessa nana anch’essa; un tatuatore tatuato dall’aspetto similmente mesto e dall’indole altruista; un anziano e taciturno indiano, in giacca e cravatta, a cui Cheyenne accetta di dare un passaggio, spuntato dal nulla e che nel nulla di un’assolata e desertica distesa, tagliata dal dritto nastro d’asfalto che scorre fino all’orizzonte, si dilegua; due ragazzi che in un bar giocano a ping pong dei quali Cheyenne, seduto a un tavolo davanti al bicchiere in cui un tiro maldestro di uno dei due fa finire la pallina, sa farsi poi umoristica beffa (sfidandolo a un incontro a ping pong, approfitta della distrazione del giovane da lui provocata deliberatamente per vincere la sfida); un vecchio esperto di armi e di uccisioni “autorizzate”; una figura impettita con baffetto hitleriano sul rimorchio trainato da un trattore; una grassona groupie dark da cui il protagonista è rincorso; una comitiva di tedeschi sul ciglio della strada che Cheyenne, di proposito, inzacchera passando con il pick-up su una pozzanghera; l’anziano inventore del trolley ritiratosi a vivere in una sperduta località. Figurine bizzarre di un album che raccoglie trance di vita comune, ritrattini pieni di calore e di colore, schizzi, bozzetti dai quali trapela l’amabilità, il senso dell’humour, il gusto della minuzia. Una singolare galleria di personaggi, di esistenze parallele, di presenze incongrue (alle quali si potrebbero aggiungere quelle stranianti degli oggetti, come il pistolone western che Cheyenne si procura, o degli animali: l’oca che la moglie del persecutore nazista accudisce in casa; l’enorme e quieto bisonte che, come in una visione onirico-allucinatoria, appare al protagonista al di là della finestra della casa disabitata dell’uomo braccato nella quale ha fatto irruzione; o il cane con il collare anti-morso, simile a un paralume, dello stesso Cheyenne). Tracce di vissuti diversi, di simili solitudini, di consonanti afflizioni, di orrori del passato nascosti o camuffati dietro a bambole e pupazzi, cuscini ricamati e tazze da tè, carte da parati a fiori e oche accudite come animali da compagnia che riempiono tranquille casette color crema: come quella dove vive la moglie dell’ex ufficiale nazista (ritratta dal padre nei suo diari) nello sperduto paesino del Michigan che segna per Cheyenne la prima tappa di un viaggio ancora lungo e pieno di incognite. Attesa l’anziana donna all’uscita della chiesa, la segue fino all’abitazione. Si finge un suo ex allievo, si sofferma con lei a sorseggiare il tè, allude al marito e ai figli cercando di
ottenere informazioni utili alla propria ricerca, accenna alle sue lezioni di storia di una volta, all’Olocausto, alle insondabili ragioni di un odio così viscerale dei nazisti verso gli ebrei. Si congeda da lei per poi, nottetempo, intrufolarsi nuovamente, di nascosto, nell’abitazione, appiattirsi al muro della cucina accanto all’oca starnazzante all’imprevisto sopraggiungere della donna, sottrarre un foglio con un disegno infantile affisso alla porta del frigorifero: è l’indizio che lo condurrà alla successiva tappa del cammino, all’incontro con Rachel, la giovane nipote del persecutore del padre, e con il suo piccolo figlio Thomas, con i quali si crea un nucleo di solidarietà, in un episodio che, nell’andamento ondivago della narrazione densa di paragrafi, incisi, parentesi, divagazioni, note, trova una più ampia elaborazione e un più marcato rilievo simbolico. Rimasta sola ad accudire il figlio (dopo la presumibile morte del marito militare in guerra), la figura di Rachel veicola, corroborandolo, il motivo dell’orfanezza e dell’assenza genitoriale che si ripropone attraverso una serie di echi, di corrispondenze, di cerchi concentrici facenti riferimento al concatenamento delle vicissitudini e delle esperienze dei personaggi. Quasi ombra ormai evanescente, per Rachel, è il proprio padre, trasferitosi da tempo a Hong Kong senza far più ritorno in America, così come per quest’ultimo è a sua volta la figura paterna (l’ex ufficiale tedesco) nei confronti della quale egli ha inteso interrompere qualsiasi rapporto. La condizione di (reale) orfanezza è vissuta anche dal piccolo Thomas, che trasla forse l’assenza della figura paterna nella paura che egli, pur abitando in prossimità di un laghetto, ha dell’acqua. In una similarità di situazioni, nella comunanza di privazione di affetto o vicinanza genitoriale, ognuno, della figura mancante, viene ad assumere il ruolo di surrogato o, ancora una volta, di sostituto. Quasi come a un padre – quel padre che non è più che un ricordo di cui egli sistema su un tavolo la foto incorniciata che lo ritrae con la divisa dell’esercito davanti alla bandiera americana – si rivolge Thomas a Cheyenne: mettendogli tra le mani una chitarra (che l’ex cantante non ha più suonato né ripreso dal suo ritiro dalle scene) lo persuade con caparbietà a eseguire assieme il brano dei Talking Heads, This Must Be the Place. Sulle note della canzone che il bambino intona, la macchina da presa scruta in una serie di primissimi piani i volti dei personaggi, ne avvolge le figure, nell’aleggiamento di un senso di armonia e di serenità di quello che potrebbe sembrare un pur momentaneo “gruppo di famiglia in un interno”. Bisognoso della vicinanza paterna è Thomas, bisognosa d’affetto è Rachel (si abbandonerà alle confidenze, nella
sequenza successiva, a una tenerezza comprensiva e a un desiderio di contatto fisico con il protagonista a cui egli tuttavia si sottrae). Bisognoso di una presenza filiale, di qualcuno che verrà dopo di lui, è Cheyenne: della mancanza di un figlio, adesso, egli giunge ad avvertire l’enorme vuoto, nell’acquisizione di una nuova e sofferta coscienza, nella lacerante cognizione della necessità della paternità quale condizione essenziale per poter comprendere il rapporto con il proprio padre: «Soltanto ora – così troverà conclusione la scena della sua confessione a Rachel, dello svelamento dei propri reconditi tormenti, in una progressiva contrazione del volto che tradisce il proprio profondo dolore dell’animo e il proprio inconsolabile rimpianto – ho capito che un padre non può fare a meno di amare suo figlio. Sono stato fottuto. Sono stato fottuto dal fatto di non avere avuto figli. E ora che l’ho capito è troppo tardi». Nello scavo di questa situazione, momento fondante del tragitto formativo che conduce Cheyenne a capire l’essenza e il valore della paternità pur non avendo avuto figli, Sorrentino introduce una ventata di calore umano, di sincerità, di verità psicologica che pervade la figura del protagonista, nell’apertura di nuovi spiragli nel suo percorso esplorativo alla ricerca della realtà negli interstizi della verità, nel quale gli accadimenti esterni giungono progressivamente a ricomporre le ansie interiori: «Cheyenne – ha chiosato lo stesso regista – non ha avuto figli e quindi interpreta questa relazione conoscendo solo la condizione di figlio. Mentre l’analisi del rapporto col proprio padre assume una sua completezza quando diventa duplice, ovvero quando da figlio diventi a tua volta padre. Salti la barricata e finalmente capisci. Ecco come di riflesso questa relazione viene percepita in modo completo e profondo. Se salti il passaggio dell’avere un figlio, il rapporto diventa ben più problematico, difficile da comprendere appieno. Il film riflette su questo tema»11. Come “figlio” e “padre”, in un’intesa che suggella per entrambi lo sviluppo di un processo di maturità, il piccolo Thomas e Cheyenne trovano congedo: l’uno alle prese con la vita da affrontare e le paure da superare (vediamo il bambino entrare in acqua nella piccola piscina che Cheyenne ha fatto installare sulla collinetta che sormonta il lago e avvicinarsi alla madre piena di attenzioni e premure), l’altro lungo la prosecuzione del cammino (anch’egli con una paura – quella di crescere – da poter lasciare definitivamente alle spalle12) teso alla ricostruzione del mosaico disgregato dei legami con la figura paterna, verso un passato da ricomporre ma
soprattutto verso un futuro da costruire. Quello di Cheyenne, in fondo, è un viaggio che segue lo svolgimento di un sogno di normalità a lungo bramato, di riappacificazione soprattutto con se stesso, che si nutre di incontri con personaggi perduti, apparizioni enigmatiche e non prive di una leggera componente di bizzarria, e al contempo con un’umanità solidale (si pensi alla serenità che emanano gli scambi di informazioni e i lacerti di dialoghi scambiati da Cheyenne con gli estranei incrociati, alle gentilezze offerte e accettate), in un accumularsi di attese, di rimandi, di suspense psicologica, di squarci di verità che si aprono all’improvviso dentro l’anima dei diversi personaggi. Ma è altresì un percorso sostanziato dallo spostamento fisico e geografico attraverso gli sconfinati spazi americani, tra bar con i lunghi banconi e diners desolati, motel tristi e sperduti e stazioni di servizio al centro del niente: distese che strade rettilinee tagliano in composizioni di calibrata geometria e astrattismo, ponti sospesi sulle profondità dei canyon, immensi paesaggi su cui campeggiano le difficoltà del vivere e il contrappunto delle solitudini sperdute. Paesaggi di cui la regia sa restituire il senso della grandezza e al contempo dello spaesamento, del vuoto, dell’assenza. Accarezzati da una camera in volo o contemplati nella loro (semplice) vastità, in uno sguardo che segue sovente traiettorie curvilinee e ondeggianti, i luoghi che la macchina da presa abbraccia in totali, campi lunghi o lunghissimi sono inscritti in un mito inteso come spazio scenico, come spazio di rappresentazione (ogni immagine, nel lungo tratto narrativo che segue il dispiegarsi del viaggio di Cheyenne, è americana). Del mito, tuttavia, le immagini dell’opera di Sorrentino non provocano la sensazione, né tantomeno si pongono come proiezione di qualsivoglia sogno americano. Degli scenari codificati, dei luoghi iconografici l’obiettivo coglie tutt’al più il riflesso (come quello luccicante dell’orizzonte del deserto che si riverbera sulla cisterna di un camion fermo a un distributore sotto il quale scivola la macchina da presa), nel privilegiamento di luoghi spogli e dimenticati, di distese inquadrate attraverso il dettaglio di tele di ragno o del filo spinato, di lande desolate dove troneggiano paradossali sculture (quella del pistacchio più grande del mondo) o fesse da strade rettilinee dove campeggiano gigantesche insegne pubblicitarie (l’enorme bottiglia di whiskey che viene innalzata, bloccando il traffico, ai bordi della strada percorsa da Cheyenne), di ampi spazi di cui risalta l’enorme vuoto: allegoria di quello esistenziale, di famiglia, di rapporti, in cui tutti stanno sospesi in precari equilibri, ma nel quale ognuno,
alla fine, acquisisce il desiderio, e la necessità, di muoversi in esso, di agire (come Thomas, proteso verso la crescita; come la triste Mary, forse, la quale, rivelando la sua decisione di non lasciarsi andare a un possibile amore con Desmond, sembra anch’essa rivolta a una più salda coscienza di sé). Nel vuoto assoluto della distesa ghiacciata cinta dalle montagne trova approdo il viaggio di Cheyenne. Dal pick-up, seduto accanto a Mordecai, rimane per qualche istante a osservare il rifugio isolato dove Aloise Lange, al termine scovato, si è rintanato ai margini del mondo, in mezzo al nulla. Con dei lenti e iterati movimenti la macchina da presa, all’interno, da dietro la sagoma scura di una parete svela la figura, di profilo, dell’ex nazista ormai piegato alla vecchiaia. Davanti alla piccola finestra dell’angusto ambiente siede su una poltrona, gli occhiali scuri inforcati a coprire gli occhi che sembrano non vedere più, le mani colte dal tremore senile. Avanzando e compiendo una leggera rotazione, la camera si avvicina all’uomo stringendo sul suo volto fino a incorniciarlo quasi frontalmente in primissimo piano. Tre lunghe inquadrature che si ripetono (e in ognuna delle quali il personaggio si toglie gli occhiali rivelando il suo sguardo assente), a seguire gli altrettanti “capitoli” del suo monologo inatteso e spiazzante, una sorta di indagineconfessione-espiazione (che ancora una volta, quale procedimento peculiare del cinema dell’autore, trova dispiegamento attraverso modalità di messinscena teatrali) su vittime e carnefici: l’attitudine all’imitazione quale prerogativa dei gerarchi nazisti («Ognuno di loro imitava ognuno di loro; ognuno di loro, a parte gli ebrei: loro non imitavano nessuno»); l’umiliazione («rispetto ai tanti orrori di Auschwitz, una piccola cosa») alla quale aveva costretto il padre di Cheyenne e l’ossessione della vendetta da questi coltivata per tutta la vita («Tuo padre mi scriveva lettere, mi scriveva parole tra le più atroci, parole tra le più splendide… Ho odiato tuo padre perché la sua ossessione per me mi ha reso la vita impossibile, ma devo ammettere che mi ha completamente conquistato. L’inesorabile bellezza della vendetta: un’intera vita dedicata a vendicare un’umiliazione. Questa si chiama perseveranza, si chiama grandezza»). E il furto: quello dell’innocenza, dell’anima, dei «brividi di beatitudine» della giovinezza. Di colui che aveva odiato – derubato della vita e scaraventato nel girone infernale del lager – e dal quale era stato a sua volta esecrato, riprende adesso le parole: «La piccola bicicletta, il bacio furtivo nel retro del giardino a tredici anni, le nuvole nere, l’ebbrezza del tuono che si avvicina, il ticchettio della pendola, gli abbracci stretti della madre, le carezze cortesi del padre, il dito che si muove scrivendo
sul vetro appannato, l’angolo vicino alla finestra, la coperta calda quando si ha la febbre, il cielo terso del nord dell’Europa. A tutti, senza alcuna distinzione, è stata rubata la propria giovinezza. A tutti, senza alcuna distinzione, è stata rubata la spensieratezza. Dall’altro lato del filo spinato anche noi, anche noi guardavamo la neve. E Dio, Dio è come… Dio è… Dio…». La macchina da presa, sulle parole con cui il monologo trova interruzione, prosegue il suo movimento girando attorno alla figura del vecchio e giungendo a inquadrarlo dal lato opposto a quello iniziale, come a rivelarne, anche di quell’incarnazione del male assoluto e dell’assenza radicale di amore e di pietà, il duplice, ambiguo, inafferrabile e misterioso aspetto. Cheyenne, che il movimento di macchina ha incluso adesso nel campo visivo, si alza dalla sedia, si pone davanti al vecchio, estrae lentamente dalla tasca la macchina fotografica, rinunciando a fare uso della pistola, avvicinandola al volto dell’uomo (al quale toglie gli occhiali scuri). Lo scatto produce un suono secco e sordo, come lo sparo di un’arma da fuoco. Con uno stacco l’obiettivo si riporta all’esterno, inquadra l’abitacolo del pick-up rosso al cui interno è rimasto Mordecai che, con un’espressione di incredulità, quasi sobbalzando, guarda davanti a sé, verso il rifugio. Nell’algore del campo ghiacciato, che rimanda all’immagine di un campo di sterminio innevato, si consuma la vera vendetta. Nudo, con passo incerto e curvato sulle spalle, la testa china e le mani giunte sul basso ventre, l’anziano criminale esce dal rifugio trascinandosi sulla neve. In campo medio, a cui segue una serie di piani ravvicinati, in un’eloquente fissità la macchina da presa segue il faticoso incedere dell’uomo, ne scruta le pieghe del corpo raggrinzito. È lì, in quella landa fredda e inospitale sferzata dal vento, che l’antica ferita dell’anima può trovare rimarginazione, e l’affronto subito dal padre può ottenere risarcimento. È lì che il passato e il presente possono saldarsi in un ristabilimento cronologico del tempo, e la colpa trovare espiazione: la colpa di un figlio nei confronti del padre, quella di un uomo verso se stesso, quella, anche, tra le più immani, inumane, innominabili perpetrate nella Storia. Quella è la meta del viaggio, quello è il posto da cui poter estendere lo sguardo verso l’orizzonte del nuovo, abbandonare la vecchia maschera, avviare un autentico rapporto con se stesso, con gli altri, con il mondo. Quello è il luogo nascosto dell’anima dove il conflitto interiore giunge a risoluzione, e dove il vortice di rimorsi, di paure e di malinconia si acquieta in un angolo di pacificazione.
Con una maturità al termine raggiunta, Cheyenne può intraprendere la via del ritorno con la consapevolezza acquisita di adulto (sceglie di volare in aereo, accetta di fumare), con quel nuovo se stesso che ora può e deve guardare ogni cosa in modo diverso. È infatti un uomo rinnovato quello che viene giù lungo la strada dublinese, nell’epilogo, senza più il trolley né il carrellino. Dalla finestra dell’appartamento la madre di Mary guarda quella sfuggente figura avanzare verso di lei. Una forte emozione, credendo di intravedere il figlio scomparso, appare nitida sul suo volto; un turbamento che lentamente si stempera e si spegne tramutandosi in un’espressione di velata delusione. Dalla strada, sotto la finestra, Cheyenne, abdicato al vecchio mascheramento, con il suo maturo aspetto le sorride. Nell’accoglimento di quel sorriso, come un segno di riconoscimento in cui si sciolgono contrasti, timori, sofferenze, è
suggellato il reciproco sostegno tra i due personaggi, la condivisione dei sentimenti, il ritrovamento delle rassicuranti e protettive vibrazioni affettive. Ora Cheyenne può ritornare in contatto con i propri simili e con la vita, e può vivere senza strapparsi dalle proprie radici perché è in esse che ritrova la sua identità, la sua cultura, la sua memoria. E può avviarsi lungo un nuovo percorso in grado di offrire una diversa prospettiva, come l’inquadratura conclusiva, speculare a quella della parte iniziale del film, sembra sottolineare: dal volto sorridente di Cheyenne, con un movimento di dolly a salire e avvitandosi su se stessa, la macchina da presa scorre sulla facciata della casa, ne oltrepassa il tetto scoprendo la mole futuristica dell’Aviva Stadium e panoramicando poi dall’alto sulla città, cogliendo l’orizzonte dove sembrano stagliarsi nuove impressioni ed emozioni alle quali protendersi e abbandonarsi. Lo stesso orizzonte, in fondo, dove sembra estendersi il cinema di Sorrentino, teso alla produzione di visioni, alla generazione di immagini, all’ampliamento dei confini della percezione. 1 Sean Penn, intervista a cura di Arianna Finos, in «il Venerdì di Repubblica», 30 settembre 2011, p. 22. 2 «Volevo rivivere quelle vertigini di passione ed emozione che provavo da ragazzo quando mio fratello, di nove anni più grande, mi introduceva alla bellezza del rock. Ho trascorso quel periodo della mia vita a vivisezionare fino alla patologia soprattutto i Talking Heads e il suo genio: David Byrne. E allora un po’ temerariamente ho chiesto a David Byrne tre cose: di usare This Must Be the Place come titolo e canzone portante del film, di comporre la colonna sonora e di interpretare se stesso nel film. E, clamorosamente, David ha accettato tutte e tre le cose». P. Sorrentino, intervista a cura di Paolo Pugliese, in http://www.occhisulcinema.it/Focus%20On%20118.htm. 3 A tale poliedricità è riconducibile anche la realizzazione di due short pubblicitari: il primo, successivo a L’amico di famiglia, realizzato per la Fiat (Croma. Un grande viaggio, 2006, con Jeremy Irons, girato tra Palma de Mallorca e l’Inghilterra), incentrato sul motivo del viaggio inteso come piacere della scoperta; il secondo, successivo a This Must Be the Place, realizzato per il marchio di biancheria intima Yamamay (Allo specchio, 2011), nel quale l’autore, avvalendosi del corpo seducente di Isabella Ferarri e di una serie di immagini che si rincorrono attraverso continui riflessi – sullo sfondo di un’ampia e sfarzosa camera da letto di una sontuosa villa (la stessa in cui erano ambientati i capitoli delle feste in Il divo) e del lussureggiante parco con piscina da cui essa è cinta – svela il fascino sottile dell’italiana maison de lingerie. 4 Del cortometraggio, infatti, esistono due versioni: una “lunga” (di dieci minuti) e una breve (di tre minuti). 5 «In letteratura esiste una libertà meravigliosa. Lo scrittore può fuggire attraverso linee e sentieri che la complessità e i limiti del cinema non possono sostenere. La digressione, almeno per me, è una delle cose per cui vale la pena vivere». P. Sorrentino, in «MicroMega», cit., p. ٢٤. 6 P. Sorrentino, Tutto quello che ho visto (e nel film non vedrete), in «il Venerdì di Repubblica», cit., p. 26. 7 P. Sorrentino, intervista a cura di P. Pugliese, cit.
8 «Ho messo a nudo le mie domande perché ne avevo un profondo bisogno. Per indole e per pudore, l’idea di abusare delle proprie esperienze personali non mi entusiasmava. Questa volta volevo raccontare qualcosa che fosse proprio mio. È stato un azzardo ma sono contento di averlo compiuto». P. Sorrentino , in «MicroMega», cit., pp. ٣٨-٣٧. 9 Mauro Caron, in «Segnocinema», novembre-dicembre ٢٠١١. 10 Della quale fanno parte, oltre alla canzone portante dei Talking Heads che dà il titolo al film e ai diversi brani di repertorio, le canzoni attribuite alla fittizia band “The Pieces of Shit” (composte in realtà dallo stesso Byrne in collaborazione con Will Oldham e interpretate da un talentuoso ragazzo, Michael Brunnock, trovato su MySpace) che Cheyenne – ricevuta dal frontman del gruppo la demo da cui rimane colpito emotivamente – ascolta a bordo del pick-up lungo il suo viaggio, e che contribuiscono anch’esse, quale espressione di una musica diversa da quella da lui suonata in passato, a determinare in lui la presa di coscienza e il cambiamento. 11 P. Sorrentino, Di padre in figlio, intervista a cura di Simone Isola e Luca Lardieri, in «Close Up», n. 1 (n.s.), settembre-ottobre 2011. 12 «Bisogna scegliere una volta nella vita – dice Cheyenne a Rachel seduti uno accanto all’altra al bordo del laghetto – anche solo una, in cui non aver paura»; «E tu – gli chiede la donna – hai scelto qual è quella volta?»; «Si, questa volta».
7. Alla ricerca del tempo perduto: La grande bellezza
In modo vieppiù rigoroso, nella sua duplice e intrecciata pratica registica e letteraria, l’itinerario artistico di Sorrentino, percorso con intenso afflato poetico e con esemplare autonomia intellettuale, sembra procedere verso una forma diegetica svincolata dagli schemi narrativi tradizionali. La struttura delle sue opere tende a divenire ondivaga, sfaldata, episodica, smembrata, in una dissoluzione e frammentazione del testo, sia filmico che letterario, il quale si scinde e si disintegra, si annebbia e si disgrega per ricomporsi in un caleidoscopio di immagini, come tessere di un puzzle, che rifulgono nella loro “grande bellezza” e nella loro densità sia figurativa che significante. Su tale cifra stilistico-narrativa è impostato il secondo romanzo dell’autore, Tony Pagoda e i suoi amici, nel quale Sorrentino, riprendendo il protagonista di Hanno tutti ragione, ne continua la storia, sospesa tra il mondo di chi fa spettacolo e un’intricata rete di relazioni pubbliche, offrendo una serie di ritratti che sono le facce della nostalgia: antiche e nuove conoscenze dell’invecchiato e immalinconito cantante neomelodico napoletano Tony Pagoda, reali personaggi del mondo dello spettacolo, da Enzo Paolo Turchi e Carmen Russo al mago Silvan, da Antonello Venditti a Maurizio Costanzo a Ezequiel Lavezzi, ai quali si affiancano personaggi fittizi, riflessi o alter-ego,
a loro volta, di altri personaggi, figure surreali, simboli di una morale dell’assurdo. Ogni vicenda è composta di frammenti di vita altrui, di particolari delle frequentazioni del protagonista al quale la vita che gli brulica intorno diviene ogni giorno più incomprensibile. Tra «poesia, volgarità e tenerezza», Sorrentino-Pagoda ritrae un’umanità varia, fatta di gente conosciuta e di gente qualunque, della quale risalta talora la misera mediocrità talaltra l’aura di grandezza. È un variegato atlante della psicologia umana, disseminato di affermazioni icastiche, di filosofici elzeviri, di ciniche saggezze, di aforistiche considerazioni sulla vita (fatta di emozioni che non hanno senso, che «si addizionano tra loro, incongrue, per accumulo […], come una lista della spesa»1) osservata attraverso la lente della nostalgia, quel potente e struggente sentimento che dell’intera silloge di ritratti costituisce il vero e proprio fulcro narrativo: «La vita, diciamo la verità, è proprio infame. Da bambino, ricordi tutto, ma non hai niente da ricordare. Da vecchio, non ricordi nulla, ma avresti fiumi di cose da far accomodare sul tavolino della nostalgia. Ti si spappola tra le dita, come la brioche secca di tre giorni fa, la memoria dei momenti altisonanti»2. Struggimento per un vagheggiato ritorno (all’innocenza della propria infanzia, al periodo in cui le madri «chiamavano dai balconi», agli anni della propria giovinezza, all’inizio di un amore quando esso aveva tutta la sua intensità e la purezza, ai primi passi di un’amicizia non ancora macchiata da incomprensioni o tradimenti, a una mitica età dell’oro), la nostalgia, per il personaggio di Pagoda così come per il suo creatore, è «l’unico toccasana», «una spalliera […] che dovrebbe ricordarci l’inevitabile ritmo delle cose»3, è un’ancora a cui aggrapparsi, una risorsa per fuggire dalle insidie di una realtà che si fa confusa e inesplicabile, incrostata di malinconia e di accidia. È nella nostalgia e nell’accarezzamento del passato che, di Pagoda, confluiscono e si confondono, come in un grande mare, le risate, i pianti e tutte le sue emozioni, belle o brutte. Ed è in quello stesso grumo indistinto, in quello spazio dell’anima che acuisce il desiderio di richiamare in vita ciò che è sepolto nella memoria, che si situerà la storia del protagonista del sesto lungometraggio dell’autore. Con il quale Sorrentino, oltre a corroborare la propria autorialità e imporsi definitivamente all’attenzione della critica e del pubblico internazionali4, si muove alla ricerca di una nuova forma di espressione filmica, di inusitata potenza estetica, basata su una struttura fluida e apparentemente frammentaria, complessa e stratificata, in cui i nessi narrativi appaiono sottratti alle consuetudinarie logiche e dinamiche spazio-
temporali. L’opera fluisce per fughe, affioramenti improvvisi, imprevedibili smottamenti, variazioni repentine, innesti onirici, lampi memoriali o visionari, effrazioni, scivolamenti deliberati da una situazione all’altra, da un piano all’altro (realistico, grottesco, caricaturale, visionario), producendo tracce e sensazioni che gradualmente si sedimentano e si solidificano, originando aloni che si condensano, percezioni che si rapprendono. Si assiste così non solo a uno sgretolamento della narrazione (che non concepisce linee rette e direzioni da seguire ordinatamente) e a una messa in discussione dell’impressione della realtà, ma anche alla dilatazione dei dettagli, ciascuno dei quali possiede esso stesso la valenza di potenziale nucleo narrativo. Le inquadrature, sovente irrelate, postulano l’azione integratrice dello spettatore aprendo a una pluralità di sensi, rinviando a qualcosa che va oltre le stesse immagini. Sempre più quello di Sorrentino si profila come un cinema di centrifuga messa in gioco di materiali diversi, come un sistema complesso nel quale si uniscono e si fondono, in un rapporto contrappuntistico e sincretico e in un’originale resa espressiva, la potenza figurativa delle immagini e quella evocativa del materiale sonoro a cui l’autore fa ricorso come aspetto determinante nella costruzione del proprio universo poetico. Percorso da una ricerca sullo spazio dell’immagine e da una particolare sensazione e percezione del tempo, il cinema di Sorrentino appare focalizzato alla rappresentazione dello stream of consciousness dei protagonisti, il cui stato interiore conferisce alla percezione temporale, e, specularmente, a quella spaziale, un valore relativo, di indeterminatezza; tal che tempo e spazio sono vissuti come un’entità indissolubile e intesi in modo soggettivo, costituendo le coordinate di una tensione interiore, le ascisse dinamiche di una traiettoria all’interno dell’anima. Ed è (una volta ancora) come un itinerario, rispecchiando la dimensione fugace e incerta del ricordo, dell’onirismo e degli inoltramenti nell’interiorità del protagonista, che si configura La grande bellezza: un “viaggio al termine della notte”, nell’oscurità di una Roma in cui si mescidano il sacro e il turpe, il divino e il decrepito, il sublime e il triviale, la grandezza e la meschinità, la meraviglia e la vacuità, la somma bellezza e l’infima bruttezza. L’intero testo è giostrato su una costruzione polifonica che compatta, con grande fluidità, il mondo interiore del protagonista e quello esteriore della città eterna, contribuendo a fornire all’opera la dimensione di grande momento di riflessione e di pensiero e, insieme, di intensa ricerca poetica. Disseminato di
citazioni e denso di riferimenti sia cinematografici che letterari, La grande bellezza è stato accostato da una parte della critica, prima ancora della sua uscita, al cinema felliniano e, soprattutto, a La dolce vita, di cui si è voluto indebitamente leggerlo come una sorta di seguito o di rivisitazione5, istituendo un paragone tra i due film in un’operazione rischiosa e sdrucciolevole. All’eredità estetica (se non poetica: in questo anzi notevolmente distaccandosene) dell’autore riminese, Sorrentino si appella soprattutto per una comune sensibilità artistica e una costante attenzione all’aspetto formale6, traendone spunti e motivi che però sono soltanto il punto di partenza di una ricerca, tutta personale, di moduli tematici e linguistici che sono precipui della poetica del regista napoletano. Protagonista-guida del film, osservatore partecipe ma anche distante della varia umanità che si muove attorno a lui e attorno a Roma, è Jep Gambardella, trasferitosi nella capitale quaranta anni prima quando, novello vitellone in cerca di fortuna, come scrittore aveva conquistato la fama con il suo primo, e unico, romanzo, «L’apparato umano», con il quale aveva vinto il premio Bancarella. Adesso, a sessantacinque anni, dissipato da tempo il proprio talento – per pigrizia e per smagamento, sentendo di non avere più nulla da comunicare ad altri che vivono come lui – è un giornalista alla moda, cura interviste e firma articoli per un importante giornale alle dipendenze di una direttrice nana. Ma, soprattutto, è il “principe dei mondani”, frequentatore delle ville e dei salotti romani più esclusivi dove trionfalmente entra. Dolente, disincantato, salace, trascorre le notti immerso nelle fescenniniche feste della capitale, vivendo essenzialmente senza far nulla, guardando con lo sguardo disilluso il (non) vivere di quella sfilata di personaggi fragili e vacui, che si illudono di divertirsi e si trascinano stancamente, con cui egli è solito trascorrere infinite serate sul proprio terrazzo con vista sul Colosseo, e che, insieme a lui, si agitano nei palazzi privati, nelle ville sterminate o nelle altre superbe terrazze della città. Come quella, che si affaccia sul centro della capitale, in cui ha luogo la notturna festa, esagitata e assordante, organizzata per il compleanno dello stesso Jep, in un bailamme impressionante e in un groviglio spaventoso di corpi che danzano invasatamente al ritmo delle hit più aggiornate. Del teatrino confuso e annoiato fa parte l’abituale cerchia di (illusorie) amicizie di cui egli è solito circondarsi: Romano, un non più giovane drammaturgo di provincia mai realizzato ancora in attesa di esordire, anch’egli trapiantato nella capitale in giovane età, perennemente al guinzaglio di una giovane
esangue con confuse velleità artistiche dalla quale subisce iterate mortificazioni; Stefania, una sedicente scrittrice (di partito) che millanta i propri successi letterari e una supposta vocazione civile, nonché familiare, e che Jep, cinicamente, costringerà a confrontarsi con le proprie menzogne svelando e rivelando i suoi scheletri nell’armadio; Viola, una ricca vedova con un figlio affetto da gravi problemi psichici e invaso da cupi e ferali pensieri; Lello Cava, facoltoso venditore all’ingrosso di giocattoli, dalla facilità e scioltezza di parola e marito infedele di Trumeau; Dadina, la direttrice nana del giornale per il quale Jep scrive. Una compagnia desolata e tediata, dove ognuno recita la propria parte nonostante l’evidenza della realtà. Compresi gli altri personaggi che, saltuariamente od occasionalmente, nei successivi notturni ritrovi salottieri sulla terrazza di Jep, vengono a unirsi alla fedele cerchia, anch’essi ombre di intellettuali, falliti di vario genere, esseri vacui e vanesi intenti a tessere trame di rapporti inconsistenti: come il silente amante-accompagnatore di Dadina, il taciturno Sebastiano Paf, il «più grande poeta vivente», il quale alla parola preferisce l’ascolto, o come la milanese e ricchissima Orietta, malata di noia e di culto narcisistico della propria bellezza, con la quale Jep, nella sontuosissima dimora di lei in piazza Navona, ha un annoiato e distaccato amplesso, allontanandosi poi di soppiatto e dileguandosi nella notte deserta. Dalle feste e dalle serate mondane Jep rincasa all’alba, assaporando le strade, le piazze, gli argini del Tevere e gli altri luoghi di una Roma semideserta e silenziosa, godendo, prima di coricarsi, dei sorprendenti scorci di cui la capitale è prodiga. Una mattina, tornando da uno di quegli insipidi salotti, sul pianerottolo davanti alla sua abitazione gli si presenta un uomo, Alfredo, il marito di Elisa De Santis, la donna che di Jep, in gioventù, era stata il primo (e probabilmente unico) amore, perduto senza mai conoscerne il vero motivo. Elisa è morta, lasciandosi dietro solo un diario dove narra del forte amore che per tutta la vita ha continuato a nutrire per Jep, del quale il marito è stato un semplice surrogato, nient’altro che «un buon compagno». Turbato, Jep torna con la memoria o con l’inconscio a quel distante ricordo e a quella lontana presenza, l’unica, forse, dell’intera sua esistenza capace di suscitare in lui un autentico sentimento amoroso. Ai consueti e rituali incontri mondani, o agli eventi di varia stramberia a cui si ritrova ad assistere per il proprio lavoro giornalistico, Jep si imbatte in una serie di singolari, bizzarre, stravaganti figure: un’artista nuda che, su un palco allestito ai piedi dell’antico acquedotto romano, si scaraventa contro il
muro battendovi violentemente la testa; un santone-chirurgo estetico organizzatore di botox party e i vari personaggi che si affidano alle sue taumaturgiche iniezioni; un pittore-lanciatore di coltelli che, nel giardino di una casa privata in cui si svolge una delle tante feste che scandiscono la vita di Jep, scaglia i pugnali circoscrivendo di azzurro il corpo di una spaurita Trumeau; una bambina pittrice, nello stesso giardino, che viene esibita per il suo talento di realizzare quadri con il proprio corpo intriso di vernice, capace di stupire i presenti con il proprio gesto artistico; un artista allestitore di una mostra fotografica fatta delle infinite foto scattate a lui stesso in ogni giorno della sua esistenza. L’incontro con Ramona, la figlia di un vecchio amico cocainomaneeroinomane direttore di sala di un locale di strip-tease, sembra interrompere l’eterna ripetizione della vita di Jep e increspare la superficie di indolenza su cui essa scorre. Spogliarellista, a 42 anni, in quello stesso locale di cui una volta il padre era stato il proprietario, Ramona, all’interno di quella bellezza esteriore del proprio corpo visto come veicolo di piacere, racchiude uno sguardo e un animo di sofferenza. Con lei Jep instaura un rapporto innocente e profondo. Durante una festa, con la complicità di un misterioso “guardiano” che possiede le chiavi dei più bei palazzi di tutta Roma, essi si ritrovano a percorrere i saloni meravigliosi di nobili residenze traboccanti di tesori artistici. Come quella bellezza che i due hanno l’occasione di contemplare, avvolta nella penombra, anche la bellezza di Ramona è avviluppata in un’oscurità che ben presto prenderà il sopravvento. Sfibrata da una malattia incurabile, ella si spegnerà di lì a poco. Muore Ramona, così come muore, con un gesto autoannichilatorio, il problematico figlio di Viola, andando incontro alla morte alla guida della propria auto. Al funerale di quest’ultimo, Jep, contravvenendo ai propri precetti comportamentali di una codificata recita, si lascia andare a un pianto facendosi sopraffare per qualche istante da un moto di sincerità. In un piccolo teatro, Romano trova finalmente l’opportunità di debuttare davanti a un pur ristretto pubblico, ma al termine della rappresentazione, come facendo un amaro bilancio della propria vita, deluso dall’ingannevole attraenza di Roma e dal comportamento sussiegoso e sprezzante della ragazza esangue, lascia la città salutando solo Jep, per far ritorno al proprio paese, nella triste constatazione della propria sconfitta esistenziale. Anche Viola, dopo la morte del figlio, si appresta a lasciare la città, preparandosi per andare a fare il volontariato in Africa dopo aver donato tutti i propri
beni alla chiesa. Sempre più intensi, in Jep, si fanno il senso e la consapevolezza della disgregazione della propria vita – nella quale più nulla rimane in cui credere – che si consuma e si dissipa nello spettacolo aberrante e miserabile dell’inazione e della chiacchiera che ogni sera, tuttavia, non sa e non vuole sottrarsi a mettere in scena. Percepisce la propria inadeguatezza, tanto da non avvedersi che il signore benvestito del piano di sopra, che egli vede dal proprio terrazzo durante il suo arresto per opera della DIA, è un noto latitante da tempo ricercato in tutto il mondo. Nella capitale, per ricevere un’importante onorificenza, giunge suor Maria, chiamata la “santa”, un’ultracentenaria suora missionaria in Africa. In processione, al cospetto di quella figura esilissima segnata dalla fatica e dalla vecchiaia, sfilano prelati ed esponenti di tutte le religioni. Facendo affidamento sul rilascio di una sua intervista per il proprio giornale, Dadina si adopera per organizzare un ricevimento a casa di Jep, del quale la missionaria, durante i suoi passati studi compiuti in Italia, aveva a suo tempo letto e apprezzato il romanzo. Ma alla concessione dell’intervista – alla cena sulla terrazza di Jep alla quale prendono parte anche un cardinale in odore di soglio pontificio che discetta di cucina e due nobili decaduti “a noleggio” – oppone il diniego l’assistente della “santa”, della quale, come assente e avulsa dalla conversazione, egli riferisce i pensieri. In compagnia dell’anziana suora, ritiratasi e addormentatasi successivamente sul pavimento della camera dello stesso Jep, questi tuttavia si ritroverà all’alba, sulla terrazza, davanti all’imprevedibile, affascinante, fatata apparizione di centinaia di fenicotteri che, appollaiati sui davanzali, a un soffio della donna volano via, a stormo, nel cielo di una Roma ancora dormiente. Mentre suor Maria, con estrema fatica e lentezza, sale inginocchiata la Scala Santa, Jep, a bordo di un traghetto, raggiunge l’isola dove tanti anni prima, sugli scogli, aveva vissuto le fortissime, intense emozioni dell’amore per Elisa. Con la mente ne riaccende la fantasmatica adolescenziale figura, torna alla sua perturbante nudità, a quei vividi e conturbanti sommovimenti dell’animo, a quel lontano “sparuto sprazzo di bellezza” perduto e lontano nel tempo. Solo ora, forse, il nuovo romanzo di Jep può davvero avere inizio. «Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. […] Basta
chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita». È dall’introduttiva, paradigmatica e illuminante citazione celiniana, che del film ne dichiara da subito il motivo conduttore, e dal dettaglio scuro dell’interno della canna del cannone del Gianicolo, da cui la macchina da presa si ritrae poi repentinamente subito prima dello sparo dello stesso cannone, che il percorso narrativo ha inizio. Un percorso che procede su versanti speculativi, su argini contrapposti, paralleli ma al contempo antitetici, in una Roma che assurge a grande metafora di un’intera nazione e dell’universo dell’animo umano, eletta a luogo della grande bellezza – che Sorrentino scompone e ricompone in fascinosi intrecci di luoghi e ambientazioni – ma anche della grande bruttezza. Una Roma che emerge nei suoi aspetti esteriori più visibili, evidenti e turistici ma insieme nei suoi scorci più reconditi, esoterici e ctoni, che producono una sorta di timore e tremore interiore. Tutto, nell’intero film, trova sviluppo all’insegna dell’ambivalenza e del contrasto, tutto è inscritto in un sistema dicotomico che investe sia i luoghi che i personaggi sottraendoli a una focalizzazione unica. A cominciare, appunto, da quella Roma che, fin dall’inizio, appare come sfondo imprescindibile e grandioso, scenario monumentale e prismatico il cui punto di fuga si fa indefinito e indefinibile: la Roma caput mundi, la Roma città eterna, sontuosa e monumentale, imponente e sfarzosa, fatta di statue e fontane, monumenti e antiche rovine. Una Roma sacra e sacrale, vuota e silenziosa, santuario di meraviglia e magnificenza, traboccante dei fasti di un glorioso passato, immersa quasi in una dimensione metafisica e ipnotica, in cui le sporadiche e pigre presenze umane – una signora che fuma all’ombra di un albero, appoggiata a una statua, con un giornale tra le mani; una figura maschile, immobile, dinanzi a un’altra statua che ne incornicia il volto; un altro uomo, assopito su una panchina – appaiono come figure ieratiche, inerti e “bloccate” come quegli incombenti mezzibusti marmorei di cui i viali alberati del Gianicolo sono costeggiati. Con movimenti flessuosi e circoavvolgenti la macchina da presa ritrae l’enorme bacino semicircolare della fontana di Paolo V, scivolando sulla superficie dell’acqua su cui si riflette il sole che splende sulla città, quasi accarezzando quell’elemento fluido in cui, psicoanaliticamente, abitano la vita e l’eternità, sostanza purificatrice per eccellenza e veicolo di rigenerazione, per poi cogliere, con un avvitamento su se stessa, l’imponente mole marmorea da cui la vasca è sovrastata e dalla cui maestosa arcata centrale un coro esegue della musica sacra, in una fusione armonica di musica e immagini. E la città, sullo sfondo,
bagnata dal sole, rifulgente in tutto il suo straripante incombente fascino. Ma come quell’acqua, che nel suo ambivalente simbolismo racchiude anche il segno della dissoluzione, in un’opposizione binaria di energia vitale e carica distruttiva, anche la grande bellezza della città romana, come «la bellezza in disfacimento delle nature morte barocche»7, si intride di un senso di degradazione, di decadimento, di sfacelo, di volgarità (il nugolo di turisti che fotografano compulsivamente, un obeso che si terge il sudore con l’acqua della fontana, l’esclamazione in romanesco «Mi hai proprio rotto il cazzo»). «Roma o morte» è la prima frase che leggiamo, incisa sulla marmorea base della statua di Garibaldi davanti a cui vediamo sostare una figura maschile, poco prima che un turista giapponese, staccatosi dal gruppo di visitatori raccolti intorno a una guida, si accasci al suolo, dopo l’ennesima fotografia alla stordente veduta della città, stroncato da un infarto. Come per il Tony Pagoda protagonista dei due romanzi del regista, Roma assomiglia «a quel che è: una straordinaria città morta. È l’integrità del cadavere il grande miracolo estetico e mistico di Roma»8. Roma è un «grande catino […] che accoglie tutti, democraticamente, con noncuranza e malevolenza»9, dove si confondono il grande tutto e il grande niente, gli splendori e le miserie, il sommo e l’infimo, il mirabile e lo scialbore, l’incanto e la prosaicità, l’universale e il provinciale, la meraviglia e la volgarità, l’attrazione e la delusione, l’isterico divertimento e la sconcertante solitudine, rimandandosi a vicenda, nutrendosi l’uno dell’altro, riflettendosi reciprocamente come in un gioco di specchi in cui ognuno di essi rinvia l’immagine dell’altro («Roma è morta. Questo è il motivo per cui, stringi stringi, è il posto migliore del mondo in cui vivere. Per sentirsi vivi, non bisogna forse ossessivamente relazionarsi alla morte?»10). La grandezza trapassa così, d’improvviso, nella meschinità, la nobiltà nella miseria, la solennità nella mediocrità, l’unicità nell’ordinarietà eccentrica, la chiarità diurna nell’oscurità notturna, la calma immota nella sguaiataggine, l’armonia nella disorganicità, il canto melodioso e soave in un grido sgraziato e cacofonico, la musica sacra nel ritmo techno e nella hit da discoteca remixata. Sulle cui note, senza soluzione di continuità, sull’ampia terrazza con vista della capitale sotto la gigantesca insegna luminosa del Martini, monumento di una contemporaneità degradata e degradante, danza vorticosamente la folla variopinta, massa umaniforme, (a)varia(ta) e variegata, in un codificato rito mondano ossessivo e orrorifico che si ripete sempre uguale a se stesso. In modo insistito, in una esplicativa e
lunga serie di inquadrature ravvicinate, la macchina da presa si incunea nel groviglio dei corpi esagitati, od osserva dall’alto i personaggi allucinati brulicanti come formiche in quello spazio contratto, in quel mondo festante e festaiolo, rivelando nei dettagli un vasto campionario umano fatto di giovani o di sessantenni travestiti da giovanotti, tutti in preda a una fallace gaiezza e felicità, esemplari di una tribù intenta a mettere in scena lo spettacolo della mondanità. Un girotondo vorticoso e assurdo, un carnevale grottesco di tipi e di mostri, una parata di volti laccati, di soggetti eleganti o volgari, di musicanti insensatamente vestiti da messicani che fendono con le loro trombe la folla incurante, di attorucoli che mescolano Proust e Ammaniti, di nani e ballerine, di parvenu e di radical-chic che, in un profluvio di cocktail superalcolici e flûtes di champagne, si agitano e si dimenano al suono di una remixata raffaellacarraiana A far l’amore comincia tu. Una deboscia sudata e frenetica, un bestiario antropico, un tourbillon di maschere deformi di cui l’ex soubrette televisiva Lorena, in completo disfacimento psico-fisico, dedita alla cocaina, che fa la sua comparsa uscendo da una monumentale torta, è l’immagine paradigmatica e allegorica.
Ma analogamente al capitolo introduttivo, nel quale la magniloquenza e la magnificenza – che si vorrebbero perfette, pure e perenni – sono punteggiate dall’irruzione del grottesco, anche la sequenza della festa, pur in termini rovesciati, balugina di riflessi diversi, aprendo spiragli di una leggiadria sommessa (una spogliarellista-ballerina di burlesque che, dall’altro lato di un vetro insonorizzante, si muove sinuosamente a beneficio degli invitati, immersa nella luce e nel silenzio) che riesce a insinuarsi nella sguaiataggine e nella laidezza dell’orrorifico ambiente. Tutti si muovono freneticamente, tutti celebrano il “divo”, il festeggiato Jep Gambardella, in quell’atmosfera di esibita e ipocrita euforia da cui prende origine, del protagonista, il personale itinerario alla ricerca del tempo perduto. Su un ritmo sudamericano, la folla ballante, compiendo movimenti
sincronizzati, si dispone in due file fronteggianti, formando una sorta di corridoio lungo il quale la macchina da presa avanza avvicinandosi progressivamente alla figura di Jep, al centro dell’inquadratura, isolandola e stringendo sul suo primo piano. Le immagini e la musica rallentano, il rumore si affievolisce, e un’altra dimensione temporale si impone, quella dell’interiorità del protagonista di cui la voce over, in un procedimento precipuo del cinema sorrentiniano, introduce diegeticamente l’inoltramento nella coscienza, in una sorta di sdoppiamento del personaggio – il quale mantiene lo sguardo fisso verso l’obiettivo, come specchiandosi in esso e osservando con distacco la propria vita – che si pone al contempo dentro e fuori la narrazione. Con una frase ambigua e radente ci informa della sua precoce predestinazione alla sensibilità, del suo ineluttabile destino a diventare uno scrittore, a diventare Jep Gambardella. Inizia così il viaggio nell’interiorità del protagonista, un percorso che si incunea tra le pieghe della sua psiche e della realtà visibile, in una profonda e malinconica rivisitazione della sua vita e in una meditazione su se stesso e sul mondo che lo circonda. È un tragitto che si snoda all’interno dell’animo del personaggio, progredendo narrativamente per “stazioni”, per associazioni inattese e accostamenti imponderabili, sviluppandosi come una ricognizione nell’inconscio del protagonista e del suo “apparato umano”, attorcigliandosi attorno a un presente/passato irrisolto, dolente, fonte di falsi movimenti o di illusioni di rinascita, in cui prendono corpo tanto ricordi e visioni quanto fantasmi di relazioni/conflitti con se stesso prima che con gli altri. Anch’egli, non diversamente da tutti gli altri protagonisti della narrativa sorrentiniana, filmica e letteraria, è pervenuto al raggiungimento della notorietà, al conseguimento del successo, all’acquisizione di uno status sociale connotato da un benessere materiale di cui l’appartamento con l’ampia terrazza che si affaccia sul Colosseo e gli abiti impeccabili da dandy sono le manifestazioni più esteriori ed evidenti. Anch’egli detiene ed esercita un euforico, benché ingannevole e miserabile, potere (quello «di far fallire le feste») che lo illude di poter dominare l’universo circostante da cui in realtà è dominato o che comunque subisce. Anch’egli dal mondo e dal prossimo si è alienato, in un rapporto inaridito con la realtà, scegliendo deliberatamente e risolutamente di vivere fino in fondo quella meschinità a cui la vita lo ha temprato, arroccandosi in una asocialità camuffata nel suo contrario. Anch’egli si è modellato una maschera e indossa un’uniforme, costituite dalle giacche sgargianti, dalle scarpe alla moda, dagli occhiali pesanti. «Condannato alla
sensibilità», ha dissipato il proprio talento dopo l’unico romanzo giovanile, un libro di cui tutti parlano e del quale il film porta una sola diretta citazione (attraverso il personaggio di Orietta che a memoria ne recita alcune eloquenti frasi): «A luce intermittente, l’amore si è seduto nell’angolo. Schivo e distratto esso è stato. Per questa ragione, non abbiamo più tollerato la vita». L’unica opera di Jep si è quindi chiusa con una delusione e una ferita: l’amore non è stato fedele. Si è manifestato ma non è stato vissuto. «Schivo e distratto», esso non ha mantenuto la sua promessa. Come quell’amore, anche Jep si è seduto nell’angolo. Perduto il rapporto tra le parole e il mondo, non ha saputo dare seguito a quel primo romanzo, divenendo un giornalista di costume, muovendosi tra servizi giornalistici e frequentazioni del jet-set e della mondanità romana. Del cui mondo fatuo e vuoto, vacuo e putrescente, in un deliberato sprofondamento nel suo turbine, egli è divenuto il principe, il patrono delle profane feste, il primattore di una perpetua e invariata messa in scena che trova il suo stanco rituale nel chiacchiericcio inane e nelle futili conversazioni sulle terrazze, nelle feste esagitate e sguaiate, nei consuetudinari “trenini” – acme di quel mulinello di insensatezza che esse rappresentano – che non portano mai da nessuna parte e nei quali si esprime tutta l’ipocrisia, il gioco di ruolo, il fingere di essere altri da sé di un’umanità sbilenca e spaesata. Ognuno recita la propria parte, in quel triste rito sociale goliardico e dissennato, traviante e deragliante, in cui, come in un inutile e grottesco carosello, sfila un campionario di creature proiettate fuori dalla Storia, in una dimensione senza tempo, estrinsecazione di un benessere inquieto e ostentato, di un frenetico presenzialismo, di un movimento sterile e nevrotico, di quel gorgo di infingimenti con cui camuffare la realtà, di una noia che, baudelairianamente, «inghiottirebbe il globo con uno sbadiglio». Recita la propria parte il personaggio di Lello Cava, il lascivo imprenditore venditore all’ingrosso di giocattoli, emblema della volgarità, che fa la sua prima apparizione, nella sequenza della prima frastornante festa, gridando tra le danze a una ballerina «T’ chiavass’» e che successivamente scopriremo essere un cliente abituale di prostitute e travestiti, pur non esitando a dichiarare, a fianco della moglie Trumeau, di essere «l’unica coppia che si ama in Italia». Veste i panni dell’intellettuale engagé Stefania, ideologicamente schierata, rivendicando la propria attiva partecipazione alla discussione dei problemi sociali e politici, gloriandosi di qualità letterarie, di meriti artistici, di benemerenze familiari che Jep, impietosamente e lucidamente, non esita a smascherare, stigmatizzando il suo
comportamento, biasimando il suo autoplauso, mettendo a nudo tutto il suo disagio, la sua fragilità, la serie di menzogne, rivelando la reale natura del personaggio anch’esso, non difformemente da tutti gli altri, dalla vita devastata e sull’orlo della disperazione. Ostenta modi pieni di alterigia e superiorità la ricca e vedova altoborghese Viola, convinta di essere un’intellettuale solo perché non ha la televisione da vent’anni, mostrandosi incapace di far fronte ai disagi psichici del figlio, il quale troverà solo nel suicidio la soluzione ai propri problemi. Fluttua nella vuotezza esistenziale la ricca milanese Orietta – che si unisce alla compagnia, e carnalmente con Jep, per una sola notte – personaggio nullo che campa sul nulla («Ma tu che lavoro fai?» le domanda Jep mentre i due passeggiano «mollemente» attraverso piazza Navona, con «l’andatura del presagio amoroso», avviandosi verso l’abitazione di lei che nella realtà è trasposta nella monumentale magnificenza della chiesa di Sant’Agnese in Agone; «Io... io sono ricca» risponde la donna). Facendo del proprio corpo l’oggetto di una compiaciuta ammirazione, ella vive nella venerazione di sé sublimata negli innumerevoli autoscatti realizzati con il telefonino alla cui visione Jep si sottrae, dandosi alla fuga dal letto su cui pigramente ha appena consumato l’amplesso («La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni – così riprende la sua voce narrante a giustificazione del suo allontanamento – è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare»).
Per tutte – per Stefania, per Viola, per Orietta – la fatuità, l’erosione sentimentale, la mancanza di un reale spessore esistenziale, la nevrosi e, soprattutto, la solitudine, si sviluppano e si solidificano all’interno dei loro palazzi, negli spazi ampi delle loro abitazioni fastose e sibaritiche straripanti di sfarzo e di lusso dove l’obiettivo le coglie nei momenti in cui l’esaltazione della mondanità svanisce e si dissolve, e la dimensione privata e interiore prende il sopravvento. Offuscato lo scintillio delle feste, svanito il chiacchiericcio irrito, nelle architetture squadrate ed essenziali dei saloni (quelli della dimora di Stefania), nei vani enormi e vuoti (quelli della residenza romana di Orietta), negli ambienti sontuosi e principeschi (quelli del palazzo di Viola) restano soltanto, campeggianti in quadri simili a nature morte, gli sguardi opachi, spenti, accorati, disperati, delusi o sgomenti dei
personaggi: di Stefania, che dal bordo della piscina interna dove in solitudine nuota il marito del quale ha saputo l’infedeltà, sembra dolorosamente considerare e osservare il quadro di un relazione ormai disgregata e di una vita irrimediabilmente sfilacciata; di Orietta, che dalla finestra del suo palazzo rimane a osservare il repente allontanamento di Jep dopo la loro fredda e fugace relazione notturna; di Viola, chiusa nel proprio dolore, lo sguardo al nulla e gli occhi asciutti, dopo il gesto autoannichilatorio del figlio, in quegli spazi assurdamente sfarzosi (a capo di un’elegante tavola vuota apparecchiata con posate d’argento, bicchieri di cristallo e piatti in porcellana, vicino a un cane e, più in disparte, un cameriere filippino che sosta immobile con un vassoio in mano) che sembrano ancor più acuire la sua disperazione e la sua solitudine. Disperazione e solitudine che, non molto difformemente dall’Irene del rosselliniano Europa ’51, la condurranno a un allontanamento dalle frequentazioni mondane e a un sempre più serrato isolamento, con la deliberazione di donare tutti i propri beni alla Chiesa e l’attività caritatevole svolta in parrocchia, e con l’intendimento di fare la volontaria in Africa. Sorta di cechoviani, angoscianti futljari (astucci, foderi) dell’accidia e del fallimento, gli ambienti sfarzosi in cui i personaggi vivono – con i loro silenti anditi e gli innumerevoli vani e corridoi – e in cui si sbriciolano le loro esistenze, fanno da scenario ai loro conflitti, concretando quel gioco comicotragico della vita nel quale essi rimangono irretiti. Il disfacimento è generalizzato, la decadenza diffusa, la desolazione trasversale. Alla miseria, morale assai più che economica, nessuno si sottrae. Non ne è indenne neanche l’anziana coppia di nobili decaduti, i conti Colonna di Reggio, che si lasciano assoldare come “controfigure” di blasonati discendenti di un’aristocratica casata ad essi invisa. Similmente ai personaggi dei due coniugi aristocratici caduti in disgrazia in Le conseguenze dell’amore, a cui sono riconducibili per una stessa declinevole sorte, essi sono relegati a vivere in uno spazio marginale e angusto, che è tanto fisico quanto sociale. L’obiettivo li coglie, seduti su delle vecchie poltrone davanti a uno schermo televisivo, all’interno del loro modestissimo monolocale buio, una sorta di scantinato, dalle cui alte aperture verso l’esterno filtra uno smorzato e fievole chiarore. Lì, in quello spazio triste e oscuro quasi privo di pertugi, è rinserrata la loro esistenza, in uno squallore orbo di prospettive la cui unica apertura è rivolta verso il passato, verso la propria memoria e verso la nostalgia. Al termine della cena sulla terrazza di Jep, per la quale sono stati
noleggiati per compiacere la “santa” e assecondare la sua richiesta, prima del loro rientro nel desolato loculo, la contessa si sofferma davanti all’antica reggia dove è nata, adesso adibita a museo. Dopo essersi fatta aprire il grande portone dal guardiano, percorre da sola le ampie sale del palazzo nobiliare tra lo splendore degli arredi ottocenteschi, dirigendosi verso la camera da letto, fermandosi davanti alla teca contenente la propria culla, rimanendo ad ascoltare da un citofono collegato a una guida automatica a gettoni, con accorato turbamento e mestizia, la storia di ciò che ella conosce meglio di chiunque altro, la storia del luogo, della propria famiglia e di se stessa. A nessun personaggio è dato di evadere dalla vuotezza interiore e dallo sfacelo che si manifesta a tutti i livelli e sotto ogni aspetto, incluso quello fisico e corporale, come suggella il rito del botox officiato da un chirurgo plastico venerato come un santone, nel maestoso salone rischiarato da luci soffuse in cui ognuno, come in un cerimoniale religioso, è in attesa di farsi iniettare la dose della taumaturgica botulinica tossina. A turno, ogni partecipante è chiamato al cospetto del chirurgo il quale distribuisce le minuscole iniezioni che restituiscono la giovinezza, in una sorta di sacramento profano, nella ripetizione della sacrale azione, nel susseguirsi veloce di sussurri, nell’iterazione della cantilena di un’infermiera-segretaria addetta alla riscossione che scandisce l’ammontare della parcella. Tutto è ipocrisia, tutto è una baracconata, tutto è un trucco (come ribadisce l’illusionista che prova il numero di sparizione della giraffa) e nessuno è esente dalla menzogna: in fondo, persino il marito di Elisa, quando contrito comunica a Jep di voler vivere nell’adorazione della moglie defunta, in una certa misura mente, perché successivamente lo rincontreremo con la sua nuova moglie con cui conduce un’esistenza “normale”. E all’insegna della menzogna, a ben vedere, si pone anche la vita della stessa Elisa, rimasta sposata per trentacinque anni a colui che, nel proprio diario, chiama semplicemente «un buon compagno». In ogni dove alligna l’horror vacui: aleggia nelle chiacchiere frivole e nel cinismo dei salotti, ristagna negli immensi vani dei palazzi vuoti, si effonde nell’universo chic delle performance pseudoartistiche, si propaga nella Chiesa subdola e assai poco spirituale. Privi di un centro di gravità, i personaggi sembrano vivere fuori da ogni realtà e fluttuare in una simile inconsistenza, in un’uguale vaghezza, in un’analoga mediocrità e irrilevanza: la bodyartista nuda che «vive di vibrazioni» e che, dopo la sua autolesionistica performance estrema – la quale si traduce in un violento
colpo dato con la testa contro il muro dell’antico acquedotto romano – si mostra incapace, nell’intervista rilasciata a Jep, di spiegare il senso delle parole da lei stessa usate; il pittore-lanciatore di coltelli che infilza le lame affilate attorno al corpo dell’intimorita moglie di Lello; il cardinale gourmer il quale, più che alla spiritualità, si mostra interessato alla materialità gastronomica snocciolando ricette culinarie. È un quadro variopinto e multicolore – come quello che, durante un party, la ragazzina action-painter usata e fatta esibire per il suo talento artistico dipinge in una sorta di furiosa trance, frutto della rabbia repressa per il tempo sottrattole al gioco, gettando secchi di vernice contro la tela e spargendo i colori con le mani e con il proprio corpo – sotto la cui patina speciosa e corrusca, sfolgorante e caleidoscopica, si cela tuttavia lo sfondo di un’umanità di cui non può non risaltare la disgregazione morale e l’assenza di valori e di ideali. È una tribù che, nelle sue consuetudinarie cerimonie festaiole, celebra il niente, e di cui Jep è il suo guru e il suo sciamano, con una consapevolezza, una percezione e un dolore di sé, tuttavia, maggiore dei suoi semplici adepti. «Sono anni che tutti mi chiedono perché non torno a scrivere un romanzo – rivela in un’amara confessione Jep, tra i fumi dell’alcol, alla propria colf filippina, figura che esula da quel frastornante e insensato bailamme e che ascolta le parole di Jep forse senza neanche capirle, in una sorta di (auto)confessione da cui trapela tutta la propria disillusione, alludendo a quella fauna trasversale che, sulla terrazza del proprio appartamento, si produce nel ciclico rituale mondano – Ma guarda là fuori, Ahè. Guarda in terrazza. Quella gente. Questa è la mia vita. Ed è niente. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente e non c’è riuscito. Come potrei riuscirci io?». Per accidia o per cinismo, Jep ha lasciato che il vuoto mediocre della chiacchiera e della mondanità prendesse in lui il sopravvento, ponendosi come obiettivo quello di riuscire a sopravvivere, in mezzo «alla sensazione di attraversare l’esistenza come se fosse immerso in una perenne villeggiatura»11, in una socialità stantia fatta di serate contraffatte e fatue, di drink, di sesso abitudinario e svogliato (quello consumato per inerzia con Orietta, quello della coppia esibizionista osservato apaticamente da un angolo della propria camera). Disingannato e indolente, come una sorta di flâneur, spreca e dissipa il proprio tempo, consapevole del proprio comportamento pigro e privo di impellenza. Discosto dal mondo circostante, alienato da esso e anche da se stesso, Jep è, soprattutto, come tutti gli altri protagonisti del cinema dell’autore, una figura di grande solitudine, un ritratto di una
condizione umana il cui punto di fuga si situa nelle occasioni perdute, nelle opportunità mancate, nella disperazione di un’esistenza corrosa. Similmente a tanti altri personaggi sorrentiniani, Jep è un enigma, un mistero irrisolto, una figura elusiva e sfuggente dall’identità frastagliata e indefinita. «Chi sono io?»: così egli, conversando distrattamente con Trumeau sulla terrazza dove l’amarezza e la forsennatezza si uniscono nel vortice delle danze e dei trenini, cita l’inizio di un romanzo (Nadja) di André Breton, il cui riferimento viene non solo a incastonarsi nel nutrito gioco citazionistico da cui l’intero film è contrappuntato, ma appare, tra tutte le allusioni e i richiami letterari di cui La grande bellezza è disseminato, quello più potente e permeante. Sorta di introspezione autoanalitica e poetica, affondamento nella psiche della figura narrante, il testo bretoniano – nel quale alla narrazione si aggiunge una serie di immagini, tra cui foto e disegni (compresi quelli reali della stessa Nadja) che divengono parte integrante della storia e che restituiscono realtà esistenti e simboli di avvolgente fascinazione – trova sviluppo in un susseguirsi di visioni, di squarci coscienziali e memoriali. Le schegge narrative si (ri)compongono contemporaneamente all’incontro (autobiografico) dell’io narrante, e della successiva storia di quasi amore, brevissima e intensa, con la seducente, misteriosa ed enigmatica donna del titolo (realmente esistita, realmente conosciuta da Breton e, come il personaggio del romanzo, internata in una clinica psichiatrica dopo la fine della relazione con lo scrittore), incarnazione di una visione simbolistica del mondo. Del romanzo di Breton, a ben vedere, La grande bellezza ne coglie, nutrendosene, le suggestioni, nello strutturarsi su un analogo impianto diegetico, nell’adozione di un non dissimile meccanismo evocativo e coinvolgente che oscilla tra il racconto, il saggio e il diario, nel proporsi come un inoltramento in quel territorio in cui il reale e il suo fantasma si confondono. Il quesito capitale con cui il racconto letterario ha inizio è lo stesso, in fondo, che sembra porsi Jep lungo l’intero suo itinerario. Della figura narrante del romanzo anch’egli potrebbe seguire lo stesso filo di smarrenti riflessioni: «Se per una volta mi rifacessi a un proverbio – così prosegue il testo di Breton – in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto. Debbo riconoscere che questa espressione mi porta fuori strada, in quanto tende a stabilire tra certi esseri e me rapporti più singolari, meno evitabili, più conturbanti, di quanto non pensassi. Dice molto di più di quello che vuol dire, mi attribuisce da vivo il ruolo di un fantasma, implica evidentemente un’allusione a ciò che ho
dovuto cessare di essere per essere colui che sono»12. Anche Jep, in fondo, ha rinunciato a ciò che era per essere, dopo aver scalato tutti i gradini sociali della mondanità capitolina, colui che è, un qualcun altro, tuttavia, dall’identità frantumata e sgretolata, che non è mai riuscito a riannodare i fili della propria memoria lasciandoli attorcigliare attorno al fuso del dissipamento (del talento, del tempo, della vita), del tedio e del vuoto. Lo sgretolamento dell’io e lo smarrimento identitario si palesano ed emergono, ponendo Jep come dinanzi a una superficie riflettente e inducendolo a specchiarsi nella propria interiorità, nella sequenza del casuale incontro, durante una delle sue passeggiate solitarie, con una bambina che, sottrattasi allo sguardo della madre in apprensione, si è nascosta all’interno del Tempietto del Bramante. Secondo un procedimento consueto della pratica e della poetica dell’autore, il punto di vista oggettivo si avvicenda e si confonde con quello soggettivo, nella restituzione di uno sguardo composito, sovrapposto, scisso e indefinito. In un’apparente soggettiva di Jep (sottolineata dallo sguardo in macchina del personaggio della madre della bambina che si rivolge al protagonista chiedendogli se abbia visto sua figlia), la macchina da presa avanza lentamente verso l’ingresso del Tempietto fino a introdursi nel suo interno, nella cui penombra – mentre la figura della donna, preoccupata, si allontana di spalle scomparendo dietro al piccolo edificio circolare circumnavigandone il perimetro e cercando la figlia – appare la stessa figura di Jep. Attraverso la grata situata sul pavimento al centro della sala rotonda, che separa l’ambiente superiore dalla sottostante cripta, la voce della bambina – che lì si è nascosta – attrae l’attenzione del protagonista: «Chi sei tu?» chiede la piccola a Jep il quale si china verso la grata. «Chi sono? – replica il protagonista adesso inquadrato dal basso attraverso il foro circolare che si apre sul soffitto decorato con stucchi all’antica – Io sono…», «No, tu non sei nessuno» lo interrompe bruscamente la voce fuori campo della bambina dalla cui prospettiva la figura di Jep è colta. «Nessuno? – ripete sorpreso e confuso quest’ultimo – Ma io…», farfuglia senza trovare le parole o una risposta plausibile e chiarificatrice prima di allontanarsi e scomparire dal quadro, al di là dell’apertura circolare nel soffitto, come una figura fantasmatica.
Da un mondo del quale una volta ha fatto parte, e in cui forte era ancora il proprio ruolo e il proprio peso, Jep si sente estraniato, divenendo il ritratto di una condizione umana impaniata che ha perso qualsiasi appiglio alla realtà e alla quale non resta che rivolgere lo sguardo, piuttosto che alle speranze, al tempo preterito, alle occasioni perdute, alle opportunità mancate. È quello stesso sguardo, flesso verso la nostalgia, che il personaggio di Romano – il quale di Jep è una sorta di alter ego, di riflesso, di doppio malinconico e patetico – mette autobiograficamente in scena nell’unica sua recita, prima dell’abbandono dei propri progetti di attore-drammaturgo e di Roma stessa: «Ho trascorso tutte le estati della mia vita a fare propositi per settembre. Ora non più. Ora trascorro l’estate a ricordare propositi che facevo e che sono svaniti. Per pigrizia. Per dimenticanza. Che cosa avete contro la nostalgia? È
l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro. Senza pioggia, agosto sta finendo. Settembre non comincia. E io sono così ordinario». Nel piccolo teatrino off, sul palco modesto, spoglio e senza fondale, davanti a un’esigua platea, Romano recita così l’addio ai propri vagheggiamenti artistici, abdicando definitivamente ai propri intendimenti a lungo e vanamente inseguiti e a un’illusione perennemente frustrata. Trapiantato nella capitale dalla provincia, analogamente a Jep, in età giovanile, adattatosi a vivere in una piccola stanza buia in un appartamento per studenti, mortificato nelle proprie aspirazioni artistiche così come in quelle sentimentali (continuamente sottomesso alla volontà e all’insolenza della giovane donna che da anni gli promette l’amore), Romano – il quale esorbita dalla cerchia delle abituali amicizie inutili che al protagonista fanno corona e che intorno a lui gravitano – si ritrae infine dal gioco degli infingimenti e si rassegna al proprio fallimento. Decide di rinunciare, sceglie di uscire dalla finzione prendendo coscienza dei propri limiti, acquistando consapevolezza della propria inadeguatezza e della propria mediocrità che, infine, accetta, rivelando così una sorta di onestà intellettuale. Con un sorriso triste, dopo la recita, saluta per l’ultima volta Jep («Roma mi ha molto deluso») sul cui volto si disegna un’espressione di incredulità e di tristezza, di comprensione e di tenerezza, sullo sfondo monumentale delle terme di Caracalla dove l’illusionista svolge le prove di un numero di magia facendo sparire la giraffa. Se Romano risolve di abbandonare la simulazione, Jep, nella sua inerzia emotiva e la sua attrazione per l’errore, rimane all’interno di un reale dove tutto, appunto, è improntato al trucco, come la giraffa che un momento appare e un momento dopo non c’è più, alla ricerca di un’identità che, come la grande bellezza anelata e inseguita, si fa sfuggente, inafferrabile, evanescente, effimera, fugace, che può sbucare dal nulla con l’eleganza silenziosa di Fanny Ardant e nel nulla poi dissolversi e scomparire. Solo con se stesso, Jep vaga nei meandri di una realtà vieppiù degradata e degenerata di cui sembra aver smarrito la rotta e dalla quale si sente dissociato, non avvertendone più le tensioni e gli impulsi a intervenire, non corrispondendo più alla sua capacità di raccontare, non rinvenendo in essa nulla di profondo, nulla che tocchi la vera vita. Il suo esistenziale vagolare trova traslazione figurativa e narrativa nelle passeggiate fatte in solitaria di ritorno a casa, nel cuore della notte o nell’aria sospesa dell’alba, camminando verso casa, con le mani unite dietro la schiena, dopo l’ennesima inutile festa – a smaltire quell’insonnia che, seppure non patologica, diviene ulteriore tratto
di affratellamento del personaggio di Jep con i tanti altri personaggi sorrentiniani – attraverso una città imperturbabile, archeologica, barocca e moderna, in cui i rumori della realtà si fanno lontani fino a scomparire, avvolta in un’atmosfera silenziosa e arcana, quasi cercando in essa un’altra dimensione delle cose. Una Roma straripante grandiosità e malinconia, antica ma moderna, nobile ma volgare, solenne ma miseranda, lontana dalla frenesia del quotidiano, della quale Jep si fa distaccato osservatore, in cui si intrecciano e si confondono strade e giardini, piazze e parchi, luoghi e ambientazioni su cui l’obiettivo scorre, slitta, plana in continui movimenti fluidi e libratori: la piazza dove Jep, nella tersa e cristallina luce mattutina dopo l’iniziale festa sulla grande terrazza, si sofferma a una fontanella a sciacquarsi la faccia; l’argine del fiume, sul quale avanza lentamente un battello, che egli percorre costeggiando il “muraglione”, e da cui, alzando lo sguardo, assiste a un volo di passeri che nel cielo disegnano una coreografia multiforme; la via Veneto (deliberato riferimento felliniano) nella sua «decadente maestosità», spenta, anonima e crepuscolare, “centro di servizi” di un turismo sempre più danaroso e orientaleggiante. Luoghi e ambienti deserti attraversati da rare e bizzarre presenze, tratteggiate con il gusto caricaturale e grottesco, che forniscono ad essi una connotazione orfica e surreale: un domestico asiatico che trascina un cagnolino avvolgendo il guinzaglio a cui esso è legato, una donna che si aggira parlando al telefonino con i parenti in un’altra parte del mondo; un terzetto di uomini attempati che corrono sul lungotevere discorrendo rozzamente in romanesco; uno sceicco arabo che cena in silenzio, davanti a un piatto di carbonara, al fianco della moglie immobile e digiuna avvolta in un vestito nero che le lascia scoperti solo gli occhi, dietro alla gelide pareti di vetro di un grande ristorante illuminato; una escort dagli occhi spenti e tristi all’interno di una sterminata limousine bianca; un gruppetto di cinesi ridanciani che sbucano da un locale di lusso infilandosi in una sfarzosa auto; delle bambine vestite da novizie protette dai cancelli di una chiesa; e una galleria di suore – intente a richiamare le novizie, o a sistemarsi furtivamente le mutande sotto la tonaca, o a cogliere le arance da un albero in bilico sui pioli di una scala, o a ridere sguaiatamente, oppure sormontate da ombrelli neri sotto la pioggia – che evocano ancora, in un gioco citazionistico e al contempo omaggistico, lo sguardo disincantato e sarcastico di Fellini. Sotto la rifulgente luce diurna o nella fosca oscurità notturna, le passeggiate solitarie e senza scopo di Jep si fanno allegoria di un itinerario in cui si
addensa tutta l’insensatezza, l’inconcludenza, l’asocialità e l’isolamento da cui anche Jep, al pari degli altri personaggi, è avvolto. Come tutti i protagonisti sorrentiniani, anch’egli sembra sovrastare il mondo, ma in realtà lo subisce finendo per esserne sovrastato, camuffando il disagio dietro il mascheramento del bon vivant. Come una solitaria creatura notturna, o come un’ombra, vive nell’oscurità della notte, inghiottito dal buio di un’esistenza che diviene impalpabile e irreale, in una scissione da se stesso e dalla vita, non difformemente dal pirandelliano Mattia Pascal di cui Jep, nel ventaglio di citazioni dalle quali il film è punteggiato, ascolta un brano sotto forma di audiolibro proveniente da una fonte sonora fuori campo13, nella sequenza in cui, al termine della lunga notte di festeggiamento del proprio compleanno, nella luce ormai nitida del giorno si accinge ad abbandonarsi al sonno, emergendo dietro delle pile di libri con una maschera facciale di colore bianco, copertura spettrale, nella sua fissità mortifera, con cui il protagonista si confronta con la propria nudità. Nel privato spazio domestico, dismessa l’uniforme del proprio personaggio teatralizzato, siede nella cucina silenziosa intrattenendosi per qualche istante con la domestica filippina – che Jep chiama affettuosamente «farabutta», l’unica figura, assieme alla direttrice del giornale, fuori dalla confusione collettiva e dall’inscenamento della finzione, con la quale egli può mettere a nudo la fragilità della propria vita perduta – prima di prendere sonno, supino sul letto, fissando il soffitto della camera sul quale vede l’immagine di un mare calmo, limpido e azzurro che ondeggia con infinita dolcezza. Quel mare che vorrebbe ritrovare in mezzo al marasma della dolcevita cafonal di Roma, sotto la coltre delle correnti e dei vortici di parole vuote e futili. Anche Jep, in fondo, nella riflessione sul tempo scivolato via e sul dissolvimento delle proprie ambizioni artistiche che è indotto a compiere, potrebbe ripetere le stesse parole di Cheyenne in This Must Be the Place: anche lui, come l’ex rockstar, è passato senza accorgersene «dall’età in cui si dice “un giorno farò così” all’età in cui si dice “è andata così”». Procedendo sul solco della simulazione e della finzione, attraverso tale territorio desolato, Jep si ritrova tuttavia a costeggiare zone coscienziali in cui l’apparenza tende a svaporare facendo affiorare il profondo se stesso e la propria vera essenza, come attimi di riavvicinamento al proprio vero io e alle proprie radici, momenti nei quali sull’infingimento tendono a prendere il sopravvento squarci di autenticità e sincerità, e in cui egli si rende visibile nella propria vera essenza. Sono attimi forieri di refoli di sollievo, benché
lieve e forse effimero – propagato, per esempio, dalla purezza delle educande o dalla spensieratezza e dall’innocenza dei bambini che Jep osserva dalla sua terrazza nel sottostante giardino – portatori di un recupero della memoria e di un’immagine del tempo preterito. Tale dinamica acquista spessore soprattutto attraverso le figure della colf e di Dadina, la direttrice – affetta da nanismo – del suo giornale, la quale, pur anch’essa invischiata nello stesso ambiente di Jep, si rivela donna forte, saggia, a tratti materna. Entrambe assolvono la funzione di mettere in rilievo la dinamica delle tensioni sviluppate attorno al personaggio di Jep, sapendone raccogliere sfoghi e rivelazioni. Con loro egli ritrova frammenti di schiettezza (parlando con la prima in dialetto napoletano), di genuinità (consumando le tisane preparate dall’una per fargli smaltire i fumi dell’alcol, e gustando i minestroni cucinati dall’altra davanti a un gigantesco orso di peluche), di una memoria che rinvia alla dimensione dell’infanzia e dell’innocenza, intenerendosi e facendosi prendere da una vera commozione allorché Dadina gli si rivolge chiamandolo con il suo nomignolo di una volta: «Com’è che mi hai chiamato Geppino? – le chiede con un sentimento di tenerezza e di nostalgia – Nessuno mi chiama più Geppino da secoli»; «Perché un amico – gli risponde dolcemente la direttrice amica – ogni tanto ha il dovere di far sentire l’altro amico come quando era bambino». Molti elementi del film, d’altronde, rimandano al tempo scivolato via, agli istanti svaniti e dileguati di un tempo sepolto che riaffiora di tanto in tanto negli interstizi della memoria. Paradigmatica, in tale senso, è la nostalgica sequenza della sterminata esposizione fotografica allestita dall’artista sotto la loggia affrescata di Villa Giulia: una serie gigantesca e infinita di ritratti dello stesso artista scattati dalla nascita durante l’intera sua vita, prima dal padre poi da lui stesso, giorno dopo giorno, con costanza maniacale. Davanti agli occhi commossi di Jep scorre la monumentale opera sul tempo frantumato, fatta di migliaia di scatti, che fissa un’intera esistenza, nel succedersi delle diverse stagioni, nell’alternarsi delle differenti emozioni, nel cambiamento dei segni che il tempo imprime sul volto e anche sull’animo. Come le due facce di una stessa medaglia, il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra. Già si è messo in evidenza come il tempo, nel cinema di Sorrentino, sia una precisa e peculiare categoria espressiva attraverso la quale l’autore esprime il molteplice, il contraddittorio, l’indefinibile del reale, in film che sovente si affidano alle istanze della memoria, i cui palpiti, come proustiane «intermittenze del cuore», suscitano la resurrezione del passato rendendolo
vivo e attuale. Alla memoria e ai ricordi della propria mente affida il racconto di sé Antonio Pisapia, in L’uomo in più, nel corso del programma televisivo a cui egli prende parte; all’immagine del lontano amico di un tempo, in Le conseguenze dell’amore, rivolge l’ultimo pensiero Titta Di Girolamo prima della propria atroce morte; alla scoperta e al confronto con un diverso passato, a un recupero memoriale al contempo individuale e storico, è improntato il percorso intrapreso da Cheyenne in This Must Be the Place. È la riemersione del passato, il riaffioramento di ciò che è sepolto nel tempo perduto a interrompere l’eterna iterazione della vita di Jep e l’inerte mulinare della sua esistenza, attraverso l’incontro con il marito di Elisa, l’ormai defunta fidanzata di una stagione lontana e irrecuperabile. È quell’immagine del passato obliata, ma in realtà mai del tutto dimenticata e mai completamente messa a fuoco, quell’immagine di una bellezza vista e perduta per sempre, rievocata a più riprese – al cui ricordo si unisce il rimpianto di quello che avrebbe potuto essere ma non è stato – a cagionare nel protagonista la riattivazione delle “intermittenze del cuore”, di una memoria che sollecita il presente e cattura con un’impressione o una sensazione l’essenza preziosa della vita. Con il ricordo, e con la nuova coscienza di essere stato, per quella donna per la quale egli aveva provato il primo e unico fremito passionale, il solo vero amore, ritornano la giovinezza, i turbamenti dell’adolescenza, il sentimento che egli non aveva saputo o potuto vivere. Velata di malinconia, la nostalgia fa spazio alla consapevolezza di non poter correggere il passato. Emerge dal mare – da quella stessa distesa azzurra e nitida che Jep, socchiudendo gli occhi, vede proiettata sul soffitto della propria camera – quella figura di un passato come segreto, fantasma «di una possibilità prodigiosa di felicità compiutasi in un tempo attimale e irrecuperabile»14. Ritratta su uno scoglio, nella purezza di una Venere terrena e (im)pudica, nella fotografia incorniciata che adorna il modesto appartamento del marito; ridestata oniricamente nel sogno che trasporta Jep indietro nel tempo, all’età della propria giovinezza, in cui passato e presente sembrano intrecciarsi e fondersi; resuscitata mnemonicamente, in un ricordo dai riverberi subcoscienziali segmentato e recuperato in due scene diverse e distanti, Elisa, fulgida e radiosa nei suoi vent’anni, è l’immagine rarefatta e vaporosa foriera di uno struggente sentimento e di una straziante meravigliosa bellezza, una bellezza grande, grandissima, mai vissuta veramente, che si manifesta pienamente solo quando ormai è troppo tardi, una bellezza che unicamente nella memoria ha la possibilità di risiedere.
È tuttavia quell’immagine, quella presenza fantasmatica che repentinamente fa incursione nella mente di Jep, a riattivare in lui una processualità affettiva spenta e smarrita. Una processualità che trova concretazione e articolazione attraverso l’incontro con Ramona. Spogliarellista ancora esuberante nel locale di strip-tease gestito dal padre, apparente personificazione della floridezza, Ramona racchiude tuttavia in sé, dietro quella parvenza solare, una dolcezza recondita, una profonda malinconia, un grande segreto, il pesante fardello di una malattia incurabile. La forza della sua figura deriva proprio dalla sua ambiguità, dalla sua contraddittorietà ed enigmaticità, con il suo corpo visto come veicolo di piacere e, al tempo stesso, di sofferenza. Conduce la vita che lei stessa si è scelta senza rivelarne e raccontarne neanche le ragioni, legando la sensualità del suo corpo vivente a quella del suo stesso corpo morente. Similmente al personaggio di Romano (di cui il suo nome, d’altronde, è l’anagramma, e al quale essa è associabile), Ramona rivela una semplicità, un’onestà, una grande umanità e sensibilità (è l’unico personaggio che, nella sequenza della perfomance di action painting, si accorge del pianto della bambina-artista sfruttata e usata) le quali hanno il potere di incantare Jep. Non è arduo intravedere nel tratteggiamento del suo personaggio l’accostamento alla figura della Nadja bretoniana, a cui essa è riconducibile per una serie di aspetti, interiori quanto esteriori, dei quali il più patente, a livello figurativo, è certamente il curioso mantello che Ramona indossa durante il tour notturno con Jep tra i palazzi nobiliari di Roma: un mantello dalla foggia singolare, fiabesco, con un ampio risvolto che le fascia il collo e avvolge parte della testa, così sorprendentemente simile a quello abbozzato in uno dei disegni di Nadja che corredano e integrano il testo narrativo di Breton. Come Nadja, Ramona è «l’anima errante»15, con gli sguardi carichi di sofferenza, gli occhi nei quali traspare e si rispecchia un alcunché «oscuramente di sventura e luminosamente d’orgoglio»16, e una salute «molto compromessa» per la quale essa spende tutto il proprio denaro17. Come la protagonista (del romanzo e della vita) dello scrittore-poeta francese, Ramona cela un insondabile mistero. Da tale enigma doloroso (e dal desiderio di conoscerlo), dalla fragile sensualità della donna, provocante e innocente in pari tempo, Jep rimane irretito e sedotto, mentalmente prima ancora che fisicamente: «È stato bello non fare l’amore» dice a Ramona prona e seminuda sul letto, la mattina che segue all’unica notte passata insieme; «è stato bello volersi bene», risponde Ramona con un sorriso pacato e gli occhi ancor chiusi, quegli occhi che Jep, come l’André/io narrante del
romanzo bretoniano, vede «aprirsi al mattino su un mondo in cui il palpito d’ali della speranza immensa si distingue appena dagli altri rumori che sono quelli del terrore», su un mondo sul quale egli non aveva «ancora visto, fino allora, se non degli occhi che si chiudevano»18. Il nucleo di purezza che Jep ravvisa in Ramona, la quale sembra avere il talento di possedere ancora un’intatta capacità di stupore e di schiettezza, lo porta a percepire la decadenza dei volti, dei luoghi e anche di se stesso, ad acquisire consapevolezza dello scorrere degli anni lungo il logoro nastro di indolenza, ad avvertire lo scarto tra il mondo interiore e quello esteriore, e l’approssimarsi della fine di un’epoca e anche del proprio tempo («Mi sento vecchio» dice ancora a Ramona).
Ramona, per Jep, si profila come una possibile salvazione, introducendo una fresca imprevedibilità di vita («Avevo dimenticato – dice ancora Jep – cosa significasse “voler bene”»). È Ramona a scorgere il pianto di Jep al funerale del figlio di Viola, funerale presentato come un rito codificato le cui regole sono da Jep stesso disattese. È lei a condurlo dalla fallace messinscena dei cerimoniali e dall’accidia all’esperienza del dramma e del dolore reale. È lei, ancora, a suscitare una consonanza affettiva e una partecipazione intima e di immedesimazione che conduce a una comprensione profonda, a una comune tenerezza, a una condivisione emozionale: quella delle struggenti rimembranze, relative alla rispettiva adolescenziale iniziazione amorosa (il ricordo di Ramona della sua prima volta con un giovane acrobata del pallone, la rievocazione da parte di Jep di Elisa, al porticciolo, di notte, sotto il faro, in un racconto che una crescente emozione interrompe e sospende); quella delle nostalgie («Lo vedi il mare?», chiede Jep a Ramona fissando il soffitto; «Sì, lo vedo il mare», risponde lei guardando in alto e vedendo nient’altro che una parete bianca); quella della bellezza artistica nascosta nei luoghi segreti e inaccessibili che Stefano – l’amico delle principesse, il custode delle chiavi «dei più bei palazzi di Roma» che egli conserva in una valigia preziosa come quella di un prestigiatore – offre ai loro sguardi, guidandoli come un angelo del passato tra i giardini e le stanze dei nobili. Girando la chiave nel buco della serratura del portone del palazzo dei Cavalieri di Malta – un portone incantato e magico che ricorda la porta misteriosa e altalenante del racconto di H.G. Wells The door in the wall, aprendo a un luogo meraviglioso, talmente bello da apparire quasi fatato – attraverso la quale si incastona la vista della cupola di San Pietro, Stefano li introduce in luoghi fascinosi, seducenti e bellissimi, autentici scrigni di artistici tesori capaci di colmare l’animo e gonfiare il cuore di nostalgie inappagabili. Insieme a quelli rapiti di Jep e Ramona, lo sguardo della macchina da presa sfiora statue antiche e maestose sculture, sinistri colonnati, saloni sontuosi, preziosi stucchi, sequenze di sublimi dipinti (e, surrealmente, tre anziane principesse che flemmaticamente giocano a carte attorno a un tavolo da gioco) e giardini lussureggianti dalle geometriche forme, illuminati dalle sciabolate di luce tenue e calda di un candelabro che Stefano tiene in mano. Dalla penombra, in dettaglio ravvicinato, come una meravigliosa apparizione emerge il ritratto, emanante al contempo candore e sensualità, della raffaelliana Fornarina. Come sopraffatto da una struggente nostalgia e da un dolore che affonda nel profondo della propria memoria, Jep rimane a contemplare la discinta
seminudità della muliebre bellezza, nel riaffiorante, tormentoso ricordo del lontano e perduto amore giovanile (al quale il rumore delle onde, sovrapponendosi per qualche istante alle note della bizetiana Sinfonia in do maggiore da cui le immagini sono accompagnate, dà sonoro spessore). In modo simile alla bellezza conturbante di quei tesori che solo per brevi istanti la luce rivela e fa brillare, anche quella di Ramona è destinata ad essere ben presto avvolta dall’oscurità in cui la sua stessa vita – ingannevole come la prospettiva della galleria (quella di Borromini a palazzo Spada) in cui Ramona entra svelandone con il sorriso di una bambina il segreto e il trucco – trova abbuiamento e spegnimento. Pur non direttamente rappresentata, ma iteratamente allusa ed evocata, la morte permea l’intera storia divenendone uno dei fili conduttori, vero e proprio leitmotiv da cui l’intero magistero artistico di Sorrentino è percorso. Non c’è film o romanzo dell’autore in cui non ci siano una o più morti: morti per suicidio o per omicidio, per malattia o per esecuzione, per infarto o per consunzione, violente o rocambolesche, tragiche o grottesche. Rito metafisico, evento ultimo d’ogni vita, fattore imprescindibile della meccanica esistenziale, la morte, nelle opere sorrentiniane, è anche rito narrativo che, nella dinamica diegetica, assume risvolti allegorici, alludendo a quel ripiegamento e a quel senso della perdita (di sé, del successo, delle illusioni, del tempo, della giovinezza, del potere o della vita stessa) a cui i personaggi vanno incontro. Di impronte funeree sono incisi tutti i film, dominati da un senso di morte che campeggia continuamente nell’intelaiatura delle storie, pur quasi mai mostrata nella sua diretta evidenza e manifestazione, ma più sovente rappresentata indirettamente, relegata al fuori campo o racchiusa negli ellittici passaggi attraverso cui la composizione narrativa delle storie trova strutturazione: è il caso, in La grande bellezza, del suicidio del figlio di Viola e della morte di Ramona, veicolata, quest’ultima, impersonalmente, senza che ci sia Jep, attraverso una veloce inquadratura del padre della donna la cui espressione palesa dolore e afflizione, al quale un amico rivolge concise parole di circostanza. Di corpi in decadimento e in disfacimento, di segnali ferali, di prefigurazioni mortuarie e dei riti che alla morte sono connessi, sono costellati i film di Sorrentino, in un susseguirsi, oltre che di morti, di funerali e di immagini cimiterali. Al funerale e alla sepoltura del corpo del suo “doppio”, in L’uomo in più, assiste in disparte Tony Pisapia. Con il passaggio di una carrozza funebre trainata da cavalli, nella strada di fronte all’hotel, trova icasticamente
inizio la vicenda di Titta in Le conseguenze dell’amore. In opportunità di lucro e guadagno, in L’amico di famiglia, si trasforma per Geremia la celebrazione delle esequie della madre di Rosalba, prima del funerale della madre dello stesso protagonista che vede presenti solo i due impiegati delle pompe funebri. Punto d’attrazione fatale, della privata vita di Andreotti e al contempo della storia italiana di cui egli è stato l’oscuro manovriero, costellata di morti occulte e di lapidi, si fa l’immagine del cimitero in Il Divo. Al cimitero, alla tomba dei due fratelli adolescenti per il cui suicidio sente il peso della propria responsabilità, si reca più volte Cheyenne in This Must Be the Place, nel tentativo di alleviare il senso di colpa da cui è oppresso; e dal cimitero, al suo arrivo a New York, avrà inizio il percorso dello stesso personaggio verso il recupero di una memoria individuale e storica. Cerimonie funebri e campi cimiteriali, in ogni opera di Sorrentino, punteggiano le vicende dei protagonisti sui quali continuamente alita, incombe o grava il richiamo, il senso o il presentimento della morte, nella riflessione sul senso vano e misterioso dell’esistenza segnata dal sentimento continuo della fine e dal suggello funebre che in essa è impresso. Di riferimenti mortuari le stesse trame dialogiche dei diversi film sono contrappuntati, e attorno alla morte, in orbite ravvicinate, gravita costantemente il pensiero dei personaggi: quello opprimente e soverchiante di Tony Pisapia verso la morte del fratello che la madre non gli ha mai perdonato («Ci dovevi finire tu in quel mare»), quello “ultimo” che Geremia a chiunque promette di rivolgere, quello tormentoso e fagocitante, in La grande bellezza, del figlio di Viola, Andrea («Proust scrive che la morte potrebbe coglierci questo pomeriggio […]; e poi Turgenev: “La morte aveva gettato il suo sguardo su di me, notandomi”», recita lugubremente, «serio come un folle», a Jep), che lo condurrà a mettere in atto il suo gesto autodistruttivo. La stessa sensazione di disincanto che i personaggi nutrono nei confronti della vita sembrano averla anche nei confronti della morte. Sottratta alla sua dimensione sacrale, essa tende a essere ricondotta nell’orizzonte del rito, della rappresentazione e della recita. Quella recita di cui Jep ne elenca pedagogicamente i comportamenti e i canoni, le regole e i precetti, nella sequenza teatralizzata che precede quella del funerale di Andrea: nel negozio di lusso in cui ha accompagnato Ramona per l’acquisto di un abito adeguato all’occasione – un salone dalle bianche pareti di marmo, simile a una galleria d’arte, dove aleggia un «vago odore di fine del mondo», con le scarpe esposte
sul soffitto obliquo che sorregge una rampa di scale e il vuoto al centro, e i vestiti alle pareti incorniciati come quadri, illuminati da una luce opalescente – Jep, seduto su un pezzo unico di marmo sagomato a forma di divano, come sotto i riflettori di un ipotetico palcoscenico davanti a un fantomatico pubblico, recita la propria «filosofia del funerale». Dell’«appuntamento mondano par excellence» al quale «si va in scena» e in cui «tutto deve essere calibrato», Jep espone le norme, in una lezione su come vestirsi e come comportarsi, su quando piangere o non piangere, su quando rimanere dietro le quinte e quando apparire in scena. Sulle parole conclusive si innesta il reale inizio dello “spettacolo”, nella chiesa in cui ha luogo il funerale del giovane, rappresentazione della morte scevra di una ritualità vera alla quale Jep, con il suo consono vestito scenico, dà luogo al copione. Di fronte alla sua “platea”, autentico mattatore della scena, con una serietà immane e trattenuta avanza sicuro lungo la navata, raggiungendo Viola distrutta dal dolore. Sotto gli sguardi dei convenuti, nel “teatro” ammutolito, poggia le proprie mani sulle sue braccia, le sussurra all’orecchio la frase di circostanza che la rappresentazione richiede. Ma l’esibizione subisce una variazione imprevista: improvvisandosi amico di Andrea, portando la cassa sulle spalle e avanzando lungo la navata, colto dal pianto abdica alla recita, sopraffatto da un moto di sincerità e animato da un’istanza di autenticità che lo conduce progressivamente a disgiungersi dalla finzione. Degli amici, delle amanti, del proprio stile di vita, della città stessa che conosceva («Roma è molto cambiata» osserva Stefano; «in modo verticale» ribadisce Jep): la morte aleggia intorno al protagonista, e di un forte senso di decadimento, nostalgia, fallimento si intride vieppiù una realtà interiore della quale le immagini restituiscono irrelatamente e allegoricamente il disancoramento, l’incagliamento, l’inabissamento: come quelle, realistiche, della nave colossale, immobile e morta, sdraiata su un fianco al largo dell’isola del Giglio, che Jep guarda a lungo da un belvedere a picco sul mare, come ad osservare la propria deriva. «Non so’ più adatto a questa vita, a questa città… – confessa Jep a Dadina – Sta morendo tutto quello che mi sta intorno: persone, cose… Mi muoiono davanti, e io…». Il senso di inadeguatezza e lo strazio della perdita, che neanche quelle cose sospese in una dimensione a sé, svelando una natura meramente effimera, riescono più ad alleviare, fanno moltiplicare le esistenziali domande destinate a rimanere inevase («E ora, chi si prende cura di te?» si rivolge al protagonista la donna “pazza”, seduta all’interno di un
bar, nella sequenza in cui l’utilizzo del ralenti fornisce ad essa una valenza onirico-visionaria, estrinsecazione dell’interiorità sfaldata dello stesso protagonista). Ad esse non trova le risposte Jep, nell’incapacità di afferrare e fermare l’esperienza autentica; né tantomeno sa trovarle il cardinale mondano ed egocentrico – che di lui ha fattezze ben più estreme – il quale, quando il protagonista gli chiede un conforto spirituale, si allontana con un pretesto, accomiatandosi e dileguandosi infine nel buio della sua auto, congedandosi da lui con uno sguardo severo, risentito e ombroso, e l’imposizione del segno della croce allorché Jep gli chiede di svelargli l’arcano. Prossimo forse al soglio pontificio e con la fama di essere stato un grande esorcista, anche il cardinale è espressione di una bruttezza umana grottesca e amorale, manifestazione di un mondo senza più punti di riferimento, nemmeno spirituali. È forse, tuttavia, nella purezza dell’ultracentenaria suora-santa – plasmata sulla figura di Teresa di Calcutta, rugosa e sdentata – nella semplicità della sua condizione estranea al progresso, nella sua ieraticità decrepita e muta, nella sua fragilità la quale cela un’inaudita forza interiore, che Jep individua le possibili risposte. «Cercavo la grande bellezza, ma non l’ho trovata», le risponde questi – per una volta – sinceramente, alla domanda sul perché non abbia mai più scritto un libro. Anche la santa, che vive nell’ascesi, dorme per terra e assiste i poveri, è alla ricerca in fondo della “sua” grande bellezza, situata per lei in cima a quella Scala Santa che al termine ella sale con sforzo immane, devastata dalla fatica – come nello spasimo stesso della morte – con le ginocchia sul marmo dei gradini, con incalcolabile lentezza ma incrollabile determinazione. È quella bellezza, eterea e impalpabile, evanescente e fatata, che per qualche istante si posa sullo stesso terrazzo di Jep, prendendo le fattezze di uno stormo di fenicotteri di cui la “santa” dice di conoscere i nomi di battesimo di ognuno di essi, prima che un suo lieve soffio, come un ordine ancestrale, faccia riprendere loro il volo nel cielo di una Roma che «sta per svegliarsi, proprio quando tutto sta finendo»19. «Sa perché io mangio solo radici? – così si rivolge la “santa” a Jep – Perché le radici sono importanti». È con tale acquisizione che Jep, al termine del proprio viaggio la cui traiettoria diviene quella di un nostos, di un anelato ritorno alle origini e alle proprie radici, si rifugia nel ricordo («in quel luogo ameno dove la felicità», come Sorrentino narra nel suo secondo romanzo in un episodio che fa riferimento alla figura di Fellini, seduce «con la sua naturalezza, in maniera ineluttabile»20), in un recupero del tempo e in una
fuga dal presente, ritraendosi dentro di sé e dentro il mondo, fino a tornare adolescente, anche soltanto con la memoria: quell’amore sugli scogli, l’amore perturbante e trepidante della giovinezza, è l’unico riparo, l’unico approdo sicuro e sereno che, seppure solo per qualche istante, possa far svanire, come un trucco, l’ombra incombente della morte. Sull’isola in cui infine egli fa ritorno, sotto il faro del porto che lo illumina a intermittenza, socchiudendo gli occhi Jep rivede lei, Elisa De Santis a vent’anni. La rivede, con la sua innocenza infinita, sbottonarsi lentamente la camicetta, illuminata per attimi dalle rapide sciabolate di luce del faro. Rivede il suo sorriso, i suoi occhi trasparenti, la sua nudità, la sua figura intrisa dello stesso impressionante candore della raffaelliana Fornarina. E rivede la propria immobilità, la propria paralizzante emozione, il proprio stupore che non proverà mai più, davanti a quell’indimenticabile, incommensurabile bellezza dell’amore. «Finisce sempre così. Con la morte – recita il monologante finale con la voce over di Jep, mentre l’obiettivo stringe lentamente sul suo primo piano fino al dettaglio dei suoi occhi chiusi – Prima, però, c’è stata la vita. Nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla bla bla bla. Altrove c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco». Jep riapre gli occhi che adesso sembrano illuminarsi. Sorride, con lo sguardo rivolto in macchina – raddoppiando la presenza dell’artificio e della messa in scena a cui le sue ultime parole fanno riferimento – come addentrandosi nel dolce enigma delle possibilità, in una fuga nel tempo e del tempo, con l’acquiescenza di chi considera la propria vita perduta senza rimedio, o forse, con qualche barbaglio di speranza, con un rinnovato desiderio di vivere, fosse anche in un mondo interiore fatto di poesia e di rimembranze, nella contemplazione tipica di chi ha davvero capito la propria vita, di chi ha capito che l’unica bellezza possibile è quella al passato, quella che rifulge per un istante e poi svanisce, quella che è frammista alla bruttezza, allo squallore, alla noia, alla caducità. Comprende forse, Jep, che l’inanità, l’inconcludenza, la perdita di tempo sono componenti ineliminabili dell’esistenza, aspetti imprescindibili di quella giostra che è la vita, perpetuo mulinello di attese e delusioni, disincanti e buffonerie, crudeltà e tenerezze, sincerità e insincerità, verità e menzogna,
ricerca del bello e inabissamento nel grottesco. Solo comprendendo questo egli può recuperare la sua identità di scrittore, cominciando a raccontare ciò che vive organizzando e strutturando le parole, per dare senso a ciò che di senso è orfano, per dare ordine a un mondo caotico e disordinato, smembrato e frantumato, guatandolo da una diversa prospettiva, “da dentro” e “da sotto”, come nel lungo piano sequenza finale, su cui scorrono i titoli di coda, nel quale la città è osservata a pelo d’acqua, ripresa dal ventre del Tevere. Nella consapevolezza che la bellezza, come per l’io narrante del romanzo di Breton che così trova conclusione, «sarà CONVULSA o non sarà»21. Sull’immagine dell’acqua, su cui scorrono il tempo e le rimembranze, il passato e il presente, trova conclusione La grande bellezza. Sul motivo dell’acqua, e su quello della sabbia, è incentrato lo short pubblicitario (Sabbia, 2014) realizzato da Sorrentino per Giorgio Armani, nel quale il regista, cogliendo orfici scorci delle isole di Lipari e Stromboli (le spiagge bianche e cangianti della prima e quelle più scure e ruvide della seconda, gli edifici orfani di vita lambiti dall’acqua e dal vento, due corpi nudi come dune di sabbia, e il silenzio avvolgente), in immagini evocative disegna un’atmosfera ondeggiante, rarefatta e onirica. Sul motivo dell’acqua e della sabbia (quella della spiaggia brasiliana di Grumari, quartiere della zona ovest di Rio de Janeiro) è imperniato anche l’episodio (La fortuna) del collettaneo Rio, Eu te amo (2014), terza parte del progetto “franchise” Cities of Love (dopo Parigi e New York) ideato dal produttore Emmanuel Benbihy e omaggio internazionale a più voci22 alla carioca “Cidade Maravilhosa”. Nello spazio della spiaggia dorata e selvaggia, paradiso dei surfisti, Sorrentino, nel suo segmento narrativo, imbastisce una vicenda dai contorni sarcastici, quasi sorta di thriller psicologico e di noir dai risvolti umoristici e grotteschi, la quale ha per protagonista una coppia di turisti americani (l’anziano paraplegico e diabetico James e la ben più giovane moglie Dorothy, tracotante e persino sadica, della quale egli è succubo) che vive un rapporto in cui il sentimento amoroso si è tramutato in indifferenza e ostilità. Al punto da indurre l’uomo, ribaltando i rapporti di forza, ad anelare e pianificare, assistito dalla fortuna, la morte della moglie, lasciandola dimenarsi tra le onde perigliose – similmente all’insetto zampettante riverso sul dorso da lui osservato in precedenza sull’acqua della piscina della loro casa delle vacanze – mentre affannosamente chiede soccorso, e lasciandola poi annegare in quel verde e grande mare che egli, al termine, con espressione serena e appagata rimane a contemplare: un mare
che appare metafora della condizione umana, di cui i personaggi sorrentiniani sono emblematica espressione, e in cui tutto si confonde e si annulla: la cinica futilità e la noia, la finzione e la solitudine, la bellezza e la bruttezza, la vita e la morte. 1 P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 77. 2 Ibid. 3 Ivi, p. 23. 4 Presentato al Festival di Cannes 2013, La grande bellezza ha successivamente ottenuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, tra i quali l’European Film Awards 2013, e il Bafta Awards, il Golden Globes e il premio Oscar 2014 come miglior film straniero. 5 Si veda, per non fare che un solo esempio, la recensione di Silvio Danese, Sorrentino insegue Fellini. La bellezza c’è, il resto no, in «La Nazione», 21 maggio 2013. 6 «Da ragazzo – ha ricordato Sorrentino – mi sono formato su Fellini e la sua lezione è stata da me interiorizzata esattamente come la buona educazione che mi è stata inculcata dai miei genitori: Fellini è parte di me, visto che ho scelto di fare del cinema in Italia». Cfr. La vertigine del vuoto, intervista a cura di Marco Spagnoli, in «Vivilcinema», n. 3, maggio-giugno 2013. 7 Daniela Brogi, “La grande bellezza (P. Sorrentino, 2013)”, in «Between», III.5 (2013), http://www.between-journal.it. 8 P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 86. 9 P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 183. 10 P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 88. 11 P. Sorrentino, La grande bellezza. Diario del film, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 12. 12 André Breton, Nadja, Einaudi, Torino, 1972, p. 5. 13 «Nessun dubbio su le mire infami del Malagna; bisognava dunque, a ogni costo, al più presto, salvare la ragazza» (dal capitolo IV). 14 D. Brogi, cit. 15 A. Breton, op. cit., p. 57. 16 Ivi, p 52. 17 Ivi, p. 56. 18 Ivi, pp. 90-92. 19 Paolo Sorrentino, Umberto Contarello, La grande bellezza, Skira, Ginevra-Milano, 2013, p. 213. 20 P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 61. 21 A. Breton, op. cit., p. 137. 22 Oltre a quello di Sorrentino, il film comprende gli episodi realizzati da Stephan Elliott, Im Sang-soo, Carlos Saldanha, Nadine Labaki, José Padilha, Guillermo Arriaga, Andrucha Waddington, Fernando Meirelles e John Turturro.
8. Gioventù perduta: Youth - La giovinezza
«Insonne, mi sono trascinato con la fatica del respiro dimezzato alla mia finestra, di fronte a un bel panorama discreto. E scopro nella notte che la vecchiaia e la giovinezza possiedono straordinari, inattesi punti di contatto. Come tutti i grandi dolori. Vecchiaia e gioventù si accaniscono sui dolori e sulle malinconie. Con la stessa intensità. Con vigore cieco»1. Il sintagma del flusso coscienziale di Tony Pagoda, nel primo romanzo di Sorrentino, sembra quasi riassumere e prefigurare il nucleo originario attorno al quale si costruisce Youth – La giovinezza: quella giovinezza – come ancora l’autore fa affermare al suo personaggio letterario nel successivo romanzo, che, «alle volte, […] t’insegue negli angoli della vecchiaia»2. Costruito su continue modulazioni, giustapposizioni, digressioni, scarti improvvisi, accumulazioni iconiche e frammentarie, reiterazioni, richiami, rimandi, echi, abbandoni – come una partitura che procede per esposizioni, sviluppi e riprese, contrappuntata da allusioni, cenni, indizi, eventi svaporanti che oscillano tra il reale e la rêverie, in volute astratte che rendono rarefatti spazi, oggetti, personaggi – Youth3, quasi sorta di continuum de La grande bellezza, si configura come una grande allegoria degli aspetti profondi e lirici dell’esperienza umana, e come una riflessione sul passare del tempo, sul
rapporto dell’individuo con il presente, il passato e il futuro, in uno svolgimento spiraliforme e labirintico al cui centro si situa la rivelazione di un segreto. La giovinezza del titolo è quella che due anziani artisti, Fred Ballinger e Mick Boyle, entrambi alla soglia degli ottanta anni, osservano, non senza una struggente malinconia, nella cornice di un elegante hotel-centro benessere chiuso da montagne incantate, ai piedi delle Alpi svizzere, in cui, come ogni anno, trascorrono un periodo di cura-riposo. Oltre che amici di una vita, essi sono anche consuoceri. Fred è un celebre compositore e direttore d’orchestra che ha ormai da tempo posato la bacchetta decidendo di ritirarsi dalle scene; determinato a non tornare sui propri passi, indolente e disincantato, oppone un secco e distaccato rifiuto alla proposta di un emissario della regina d’Inghilterra, giunto da Londra, di dirigere un concerto per la stessa sovrana la quale, per festeggiare il compleanno del figlio Filippo, lo vorrebbe ancora sul podio per l’esecuzione della sua più celebre composizione, Simple Songs. Mick, invece, è un regista di altrettanta fama ancora in attività, vivace ed energico: attaccato ostinatamente alla propria ispirazione artistica, sta ultimando la sceneggiatura di quello che dovrebbe essere il film definitivo della sua carriera, pensato per la diva Brenda Morel, la sua attrice feticcio con cui ha girato molte delle sue opere e con cui spera di lavorare ancora. Nella calma del lussuoso resort, tra i riti del benessere, le sedute di massaggi, i bagni in piscina, le passeggiate nel verde, le terapie salutistiche, i check-up medici, la quotidiana valutazione sulla funzionalità della loro renitente vescica, i semplici e vacui passatempi e i tristi spettacolini di intrattenimento serale per gli ospiti (cantanti locali, anziani suonatori di corni alpini, mimi, mangiatori di fuoco, soffiatrici di bolle di sapone che si esibiscono su un palchetto girevole nel giardino dell’hotel), i due amici si confrontano con la propria vita, ripensano egoismi e generosità, discutono con ironia e nostalgia di emozioni, amori condivisi, pulsioni, desideri perduti e aneliti non ancora del tutto sopiti. E, anche, osservano gli eccentrici e misteriosi altri ospiti dell’hotel: un carismatico ex talento del calcio sudamericano dall’enorme obesità e asmatico, fantasma sfatto di Maradona; un monaco tibetano dedito alla meditazione e in paziente attesa di levitare; una non più giovane e distinta coppia tedesca che non proferisce mai parola (ma che emette urli prolungati di piacere avvinghiandosi contro gli alberi del bosco); una massaggiatrice timida e minuta che compensa la propria
laconicità producendosi nella propria camera in aerobici movimenti plastici; una giovane prostituta dell’albergo dallo sguardo triste e smarrito accompagnata dalla madre; un trepidante istruttore di alpinismo; miss Universo con la sua dirompenza fisica. E un giovane attore americano, Jimmy Tree, che vorrebbe essere riconosciuto per il suo valore e per i suoi film diretti da grandi registi, ma identificato dal pubblico solo con un insulso personaggio di robot da lui interpretato. È con lui – il quale sta preparando una nuova importante parte per un prossimo film da girare in Germania, e utilizza la vacanza per studiare e costruire il nuovo personaggio – che Fred inizia a intrattenere delle brevi conversazioni sul senso delle cose, mentre Mick lavora entusiasticamente insieme a un gruppo di sceneggiatori al suo nuovo film, “L’ultimo giorno della vita”, di cui ancora sta cercando il finale adatto. Fred viene raggiunto nella sua stanza d’albergo dalla figlia Lena che, del padre, svolge l’incarico di assistente. Abbandonata inopinabilmente dal marito Julian – il figlio di Mick – infatuatosi di una giovane postar, Lena ha un incalzante confronto con il genitore, serrato nella sua apatia, rinfacciandogli la sua anaffettività, la sua narcisistica chiusura nella propria realizzazione artistica, la sua vita coniugale tormentata e i suoi iterati passati tradimenti nei confronti della moglie assente, alla quale ormai da anni egli non si reca più a fare visita. Alla nuova e insistente richiesta da parte dell’emissario della regina, ripresentatosi all’hotel, Fred replica seccamente – alla presenza della propria figlia, che solo adesso rinviene nelle parole del genitore quella parte dolce, calda, sensibile ed emozionale del suo animo – confessando di aver composto quelle melodie perché fossero intonate dalla moglie Melanie, che adesso non può più cantare. Mentre l’attore americano decide di ricusare il ruolo che sta preparando (quello di Hitler), scegliendo di raccontare non l’orrore ma il desiderio, Mick, raggiunto dalla diva da lui vagheggiata e venerata, è da lei posto con brutale sincerità di fronte a un’amara realtà: risoluta nella decisione di recitare in una profittevole serie televisiva, rinuncia a partecipare al film del vecchio amico, provocando in lui il tracollo emotivo. Mick, di lì a poco, dopo la partenza del gruppo di sceneggiatori, sciente del naufragio del proprio progetto e, forse, del fallimento dell’intera propria carriera – della quale, come in una visione, appaiono al suo sguardo tutte le eroine a cui ha dato vita nei suoi film – al cospetto dell’amico si getta dal balcone della stanza,
suicidandosi. Mentre Lena scopre con l’istruttore di alpinismo l’ebrezza dell’altezza, della paura, della libertà e, forse, dell’amore, Fred risolve di recarsi a Venezia (dove per molti anni aveva diretto l’orchestra, e dove dapprima si reca al cimitero di San Michele in cui si trova la lapide sepolcrale di Igor Stravinski), nella clinica nella quale la moglie è ricoverata in stato catatonico. Solo ora – in un toccante dialogo con lei impraticabile, rievocando la loro comune vita passata, fatta di insicurezze e doveri, pur avendo voluto sembrare agli occhi dei figli genitori semplici e rassicuranti – si riaccendono in lui il desiderio e la prospettiva del futuro. Solo ora le sue “Simple Songs” – simbolo dell’amore verso la moglie distrutta dalla malattia e riflesso di un’esistenza solo apparentemente semplice – possono trovare ancora la loro esecuzione.
Se la ricerca sullo spazio dell’immagine costituisce una delle cifre poetiche del cinema di Sorrentino, è tuttavia il rapporto con il tempo – ovvero il lavoro che il regista fa su di esso, nella duplice accezione di tempo cronologico (e storico) e di tempo narrativo (e cinematografico) – a disvelare la sua grande capacità espressiva, la sua ricchezza di invenzione, attestando il carattere peculiare, e innovativo, della sua complessiva opera. Privilegiando nei propri film la dimensione temporale, Sorrentino li struttura secondo un fluire narrativo improntato alla rappresentazione di un tempo interiore (quello non della prassi oggettiva ma della vita soggettiva dell’individuo: un tempo non lineare e cronologico bensì fluttuante, rarefatto, disteso o contratto, soggetto alla percezione interiore della realtà). Alla determinazione della tensione temporale concorrono gran parte delle soluzioni stilistiche fortemente
personali, delle soluzioni formali, dei codici espressivi, delle modalità linguistiche e dei procedimenti costruttivi di cui egli fa uso, tendenti non soltanto alla frammentazione della diegesi ma anche alla proposta di una dimensione cinematografica del tempo, dove il presente e la memoria convivono e, talvolta, si fondono in uno stato onirico-immaginifico. In una comunicazione dei diversi strati del tempo, eterogenei tra di loro (il passatoricordo, l’evanescenza del presente, l’indeterminatezza del futuro), i racconti appaiono sempre più organizzati non su nessi consequenziali ma secondo una progressione non lineare, procedendo per iperboli, citazioni e suggestioni visive e sonore, in un ondeggiamento fluttuante e intermittente guidato dal carattere fantasmatico del ricordo stesso. I personaggi – uomini soli e tormentati per lo più in balìa dei propri conflitti interiori, che scontano le conseguenze dell’amore o della notorietà, alla ricerca, oppure alla deliberata rinuncia, di un possibile riscatto – sembrano galleggiare in una temporalità sospesa, in racconti in cui lo sviluppo della loro interiorità procede in modo divagante. Il fulcro narrativo (l’acquisizione del successo, della notorietà, della celebrità, del potere) – in un topos che, pur declinato di volta in volta in modi diversi, appare tipico dell’intero cinema di Sorrentino – è in gran parte già avvenuto, e il tempo che si impone, lungo la parabola discendente di tali personaggi, è quello della rimemorazione del passato (del suo vagheggiamento, del suo ritrovamento o, anche, della sua rimozione) e quello di un presente in cui la realtà si fa opaca e sfuggente, rivelando, degli stessi personaggi, una stanchezza di fondo e il loro scivolamento in uno stato di abbandono, di inedia, di inazione. È sulla dimensione fuggevole del tempo, e sui continui rovesciamenti prospettici delle dimensioni temporali, che Youth trova strutturazione4. «Unico soggetto possibile – come ha inteso chiosare il regista in occasione della presentazione cannense del film – l’unica cosa che ci interessa veramente, quanto ne passa e quanto ce ne rimane», il tempo ne diviene il motivo dominante: il tempo dell’esistenza, il tempo che separa la giovinezza dalla vecchiaia, il tempo vissuto e visitato dalla memoria, il tempo che scorre, il tempo che imprime sui corpi il suo inesorabile passare, il tempo che resta. Nel sonnolento centro termale svizzero incastonato tra le montagne (un albergo di lusso a metà tra un resort e un centro di cura, quasi versione aggiornata dello stesso sanatorio citato da Thomas Mann in La montagna incantata), non-luogo dorato, geometrico e patinato, appariscente e luccicante, solenne e sfarzoso, dove la vita sembra scorrere con un ritmo
diverso, scandita dai rituali quotidiani che evidenziano l’ordine e il senso quasi ossessivo della simmetria (che le molte inquadrature rigorosamente simmetriche mettono ancor più in risalto), galleggiano le figure degli ospiti, perlopiù attempati, come immersi in una sorta di bolla di vetro, nella piatta attualità atemporale, quasi a voler cercare una cristallizzazione del tempo e dei corpi che esso, ineluttabilmente, altera, sfigura e deturpa. Corpi debordanti e tatuati (quello della carismatica gloria del football, con il ritratto di Karl Marx riprodotto sulla schiena) devastati da un’abnorme pinguedine. Corpi massaggiati, immersi nell’acqua termale o clorata delle vasche, corpi cosparsi di fango, aspersi di sudore nella sauna, corpi palpeggiati da mani esperte, corpi venduti o appagati da chi sa procurare ad essi un illusorio piacere. Corpi avvolti nei bianchi accappatoi dati in dotazione dall’albergo, che, al trillo delle campanelle annuncianti il quotidiano rito, percorrono in un’astrazione geometrica corridoi asettici, vuoti e inquietanti che conducono alle piscine, ai check-up, alle sale massaggi, in un’immagine corale di solitudini individuali. Corpi anonimi confusi nell’anonimato degli ambienti. Corpi come immobili e perturbanti nature morte, avvolti dai vapori delle saune e dei bagni turchi, abbandonati in pose statiche al caldo e al sudore, in una staticità quasi teatrale. Corpi tonici, fascinosi e seducenti oltre ogni misura di chi, della giovinezza, è nel pieno e turgido fulgore (miss Universo, con la sua dirompenza fisica), e corpi senili che subiscono le ingiurie degli anni, corpi cadenti di chi, della giovinezza e della vita che guarda scorrere davanti ai propri occhi, ha solo l’immagine del ricordo o dell’epifanica apparizione (quella “divina” del corpo nudo della stessa miss Universo, che fende le acque della piscina davanti allo sguardo estatico dei due amici protagonisti). Corrosa dal tempo, la giovinezza è rimembranza e rimpianto, ma anche specchio inesorabile di un presente eroso, disgregato, impalpabile, fuggevole. Più che il disfacimento dei corpi, è infatti quello dell’animo che, dei personaggi, finisce per impadronirsi, causando il loro slittamento e sprofondamento in un’apatia emotiva che offusca e anestetizza le istanze vitali e creative. È di essa, e di una mancanza d’azione, che Fred Ballinger è preda. Abulico, indolente, impassibile, Fred – giunto nell’ultimo quadrante della vita, quello definitivo – appartiene a quella categoria di personaggi sorrentiniani adagiati nell’indolenza, nel disincanto, nello scetticismo, nell’imperturbabilità di fronte alle vicende del mondo. Abbandonate le scene
musicali, i teatri, i palcoscenici, si è ritirato dalla musica e dalla vita, in uno stato di indifferente quiete e di distanza dalle cose. È un uomo che si sente malato, ma che in realtà è sanissimo (come si sentirà dire dal medico dell’hotel al termine del soggiorno). Scisso tra i ricordi del passato (tra i quali la frequentazione, in gioventù, di Igor Stravinskij) e lo straniante rapporto con il presente, racchiude un animo ormai rassegnato e svuotato che lo induce a rifiutare sia l’insistito invito del concerto da dirigere alla presenza della regina britannica, per l’esecuzione della sua composizione più famosa, che la proposta di una pubblicazione francese delle sue memorie, esacerbando la propria durezza e accrescendo la distanza che lo separa dalle emozioni e dagli affetti. Dietro agli spessi occhiali cela lo sguardo immalinconito di chi ha abdicato a vivere, abbandonandosi alla propria inedia, disamorato di tutto e di tutti. Come gli altri protagonisti del cinema di Sorrentino, oltre all’ironia amara e al cinismo – tratto distintivo indispensabile per l’estraniamento dalla realtà e da ciò che è preso in considerazione – Fred detiene, dietro la freddezza e l’imperscrutabilità dello sguardo, dei segreti inconfessabili: un grumo di colpe, affetti, tradimenti, rimorsi, sentimenti, incomprensioni, rimpianti che la memoria fa riemergere inducendolo all’inazione, non permettendogli l’abbandono e lo svelamento. Sono quelle colpe e quei tradimenti che la figlia Lena – distesa sul lettino accanto al padre, entrambi supini e ricoperti di impacchi di fango scuro, con lo sguardo rivolto verso il soffitto della sala, in una lunga inquadratura di oltre due minuti e mezzo in cui l’obiettivo si mantiene staticamente sul suo primo piano – abbandonata dal compagno che le ha preferito la giovane popstar, gli rammenta biasimando le sue assenze e le sue mancanze di padre e di marito. Sono quelle colpe e quei tradimenti nei confronti della moglie soprano sempre messa nell’ombra (della cui sorte, della cui disabilità fisica, psichica e cognitiva lo spettatore rimane ignaro fino allo svelamento finale della sua invalidante malattia), donna tanto amata quanto trascurata per amore dell’arte. La memoria e le zone oscure della coscienza riaffiorano e si cristallizzano in simboliche e spaventose visioni oniriche: nella veneziana piazza San Marco, irreale, notturna, deserta e con l’acqua alta, una passerella sopraelevata, lunga e stretta, attraversa quella sorta di lago quadrato; su di essa, in direzione opposta a quella verso cui cammina Fred, procede, altera e sensuale, miss Universo con la sua procace bellezza; i due corpi si incrociano, si sfiorano in un fugace sfregamento che può sembrare carico di promesse; di spalle,
ancheggiando, la donna si allontana e scompare, come volatizzandosi; repentinamente l’acqua, fino a qual momento placida, sale di livello, inondando rapidamente la passerella e la figura di Fred che, immobile al centro della piazza, guarda con terrore l’acqua arrivargli sempre più su, urlando – prima dell’affannoso risveglio – il nome della moglie. Nelle falde vorticose della memoria si rincorrono accoramenti, inquietudini, ambasce, incertezze e desideri inappagati e sospesi: come il giovanile amore, mai realmente vissuto ma solo ardentemente vagheggiato e congetturato, condiviso con l’amico di sempre, e capace ancora, mezzo secolo dopo, di suscitare gelosie e risentimenti verso l’altro. Prima ancora che intorno alle emozioni, la vita interiore di Fred sembra raggrumarsi intorno al pensiero e alla memoria. Sotto l’autenticità dell’Io, tuttavia, la maschera dell’indifferenza e dell’inerzia che egli è andato costruendosi trova delle screpolature: rivelatori sono gli sguardi teneri, pudici e furtivi rivolti alla figlia, la cui improvvisa solitudine li induce entrambi a un delicato rinvenimento di un rapporto che solo ora ritrova una traccia possibile; rivelatori sono il dolente fervore e il profondo turbamento con cui, all’emissario di Buckingam Palace, motiva il rifiuto di esibirsi per la sovrana, evocando accoratamente la figura della moglie adorata che non può più cantare e sostenerlo, come ha fatto per la vita intera. Rivelatori sono i gesti e i momenti in cui sembra rinvenire l’intenso e mai sopito amore per la musica – un amore altrettanto grande come quello per Melanie – che della sua intera esistenza ne ha segnato il percorso: i reiterati sfregolamenti della carta delle caramelle, stropicciata musicalmente tra le dita, o il concerto improvvisato di muggiti e campanacci di mucche al pascolo che egli, seduto su un tronco nella tranquillità di una vallata, dirige come se fossero gli elementi di un’orchestra, in una sorta di agreste e improvvisata composizione semplice. Semplice come la canzone da lui stesso composta in cui è custodito tutto il suo intenso amore per la moglie; semplice come la canzone che a entrambi – come egli rammenta nell’impossibile dialogo all’interno della clinica veneziana in cui ella è ricoverata - «piaceva pensare di essere, nonostante tutto».
Semplice, e spontanea, come è l’infanzia, intesa da Sorrentino come sentimento di innocenza e desiderio, luogo depositario di schiettezza e purezza. Delle quali, in Youth, si fanno espressione le due figure di bambini – portatori non tanto di una forza pragmatica quanto di una forza valore – aventi entrambi la funzione di innescare o evidenziare la dinamica delle tensioni sviluppate attorno al personaggio di Fred e a quello di Jimmy. Sul primo, infatti, il bambino che egli sente reiteratamente esercitarsi al violino provando in modo incerto le prime note di una delle sue «Canzoni semplici» (e al quale Fred, quasi come un maestro, di musica ma anche di vita, consiglia di correggere la posizione dell’archetto), agisce da impulso attivando in lui il flusso mnesico («Sì, è bellissimo – replica Fred, sorridendo teneramente, al bambino sorpreso di trovarsi di fronte l’autore del pezzo che
sta provando – L’ho composto quando ancora amavo» ). In Jimmy, la bambina che egli incontra in un negozio di souvenir e oggetti di artigianato locale – e da lei riconosciuto non per l’insulso personaggio di robot con cui dal grande pubblico è identificato e in cui ormai appare imprigionato, ma per il ruolo di un giovane padre in un film più impegnato che nessuno ha visto – provoca stupore e commozione, spronandolo forse a prendere decisioni future e contribuendo alla sua crescita professionale. L’infanzia è la stagione che sostiene l’attività creativa e imprime spinta alla creazione, piena e totale espressione di vita. Isola incorrotta di purezza e sincerità, l’infanzia – come la giovinezza – si presenta però anche, irrimediabilmente, come un pianeta dove non è dato fare ritorno, che può esistere solo in quel regno dall’altra parte dello specchio o nelle fenditure di una memoria che il tempo lentamente disgrega e disperde: «Dell’infanzia – racconta Mick all’amico Fred durante una delle loro passeggiate nel verde – non mi ricordo proprio niente. Solo una cosa continuo a ricordare […]: il momento preciso in cui ho imparato ad andare in bicicletta». Uniti da un vincolo di parentela e di antica amicizia – un’amicizia fraterna e fedele negli anni, improntata tuttavia alla limitatezza e alla parzialità che esclude le cose brutte lasciando solo quelle belle – Fred e Mick rappresentano e simboleggiano due caratteri opposti: tanto l’uno appare distinto da una funzione passiva, dall’acquiescenza, dalla disillusione, dall’attesa (della fine), quanto l’altro rappresenta invece il dinamismo, il fervore, la dedizione, la passione per la propria attività creativa. Persuaso della necessità di consacrarsi al lavoro, Mick è attaccato ostinatamente alla propria ispirazione artistica, nella convinzione del valore della socialità dell’arte. Entusiasticamente lavora al suo nuovo film, a quell’ultimo lavoro che vorrebbe essere una sorta di testamento intellettuale, personale e spirituale, di cui è intento a ultimare la sceneggiatura assieme al giovane gruppo di collaboratori al suo seguito. L’antinomia tra i due personaggi riguarda la contrapposizione/confronto tra la scelta della chiusura (con il presente, con la speranza, con il mondo) e il gesto intellettuale ed emozionale di un’apertura creativa che sembra non rinunciare a proporsi. Diversi nell’animo, Fred e Mick sono però in realtà figure complementari, così distanti ma così vicine, quasi specchio l’uno dell’altro nella consapevolezza della limitatezza del tempo a loro concesso e di un divenire che va velocemente esaurendosi. Entrambi sono ancorati alla stessa, giovanile e idealizzata immagine della donna che insieme hanno desiderato senza averla avuta nessuno dei due.
Entrambi sono padri assenti di ieri che scoprono l’anfrattuoso e disagiato confronto con i figli di oggi. Entrambi si confrontano con le proprie inquietudini, le proprie colpe, i propri rimorsi. Entrambi sono assaliti dai ricordi che sfuggono e dalla cognizione di una memoria destinata a perdersi nel tempo: «Penso alle cose che uno col tempo non ricorda più – dice Fred a Mick – Io non ricordo più i miei genitori. Com’erano fatti, come parlavano. Ieri notte guardavo Lena che dormiva e ho ripensato a tutte quelle piccole, migliaia di cose che, da padre, ho fatto per lei. E le ho fatte col preciso intento che poi lei, da grande, se ne ricordasse. E invece lei, col tempo, non ne ricorderà nessuna». Sugli scarti generazionali, gli scarti tra i figli e i genitori, tra la giovinezza e la vecchiaia, tra il vicino e il lontano, e sui rovesciamenti prospettici di cui il tempo si pone come elemento focale, Youth si imbastisce. Scarti e rovesciamenti dei quali paradigmatica diviene la sequenza in cui Mick, sulla terrazza bellavista del rifugio che egli ha raggiunto con il gruppo dei suoi collaboratori – con i quali è alla ricerca del finale della sua storia – per ammirare il superbo panorama alpino, invertendo il binocolo spiega la diversità della prospettiva con cui ognuno, a seconda dell’età, guarda il proprio orizzonte, al futuro o al passato. Ognuno, in quell’ovattato microcosmo, è indotto a porsi davanti a una metaforica lente temporale che rende cangianti la veduta e la prospettiva della propria vita. Ognuno è spinto a passare in rassegna rimemorazioni e rimpianti, a scavare nella memoria e nel fondo segreto di se stesso per cercare un senso ultimo delle cose. Alla donna che lo accompagna e che gli sta massaggiando le enormi gambe doloranti, l’ex gloria del calcio sudamericano – semidisteso sul lettino su un terrazzo dell’hotel – dice di pensare al futuro, ma il suo sguardo malinconico e perso nel vuoto è rivolto al passato, alla nostalgica e struggente visione di un giardino-campo da gioco illuminato dai riflettori, al cui bordo ventuno giocatori, disposti in un’unica fila, salutano un pubblico che non c’è, e al centro lui, il campione, inquadrato di spalle, con la maglia numero dieci dell’Argentina e la prestanza fisica di chi ha ancora l’intera vita davanti a sé, e una destrezza e una “grande bellezza” che ora trovano soddisfazione, con uno sforzo immane, solo nel gesto di un palleggio solitario verso il cielo con una pallina da tennis. Al futuro vorrebbe guardare anche Mick, per scongiurare quella morte a cui il titolo del suo definitivo film allude, ma nella cui voragine finirà per sprofondare ed esserne fagocitato.
Privato della possibilità di realizzare il suo film, con la cognizione del naufragio del proprio progetto artistico e anche della propria vita, deluso e vecchio, confinato in una irrimediabile e insanabile solitudine (la stessa, in fondo, della giovane escort dall’espressione malinconica con cui egli, in una breve sequenza notturna, passeggia in silenzio mano nella mano, senza incrociare il suo sguardo, sotto la lunga tettoia antistante l’ingresso dell’hotel, in una triste e illusoria messa in scena a pagamento), prima di agire in direzione dell’annullamento di sé e dell’arresto del tempo individuale cristallizzato nella sua necessità luttuosa, quasi in una febbrile visione allucinatoria, Mick rivede tutte le attrici e le eroine dei propri film, in un incedere verso i propri fantasmi, in un viaggio regressivo verso un contesto spettrale e inconsistente dove la separazione tra realtà e irrealtà, e tra presente e passato, non ha più ragione di esistere: dalle nebbie incerte di una memoria intrisa di afflizione, come apparizioni fantasmatiche (in una sequenza che si nutre delle suggestioni e dei miti che alimentano l’immaginario di Sorrentino, esplicitando il suo attingimento al proprio bagaglio culturale e visivo), sparse per il prato, si rivelano al suo sguardo turbato i personaggi di tutti i tipi, età e costumi eterogenei che, di volta in volta, recitano le battute dei propri film, specchio di tutta la sua trascorsa carriera ma anche di un presente ormai eroso. Alla densa nube nera che va addensandosi nella sua mente, e al nulla insostenibile che di lui si impadronisce, Mick finisce per soccombere, in un repentino gesto autoannichilatorio (il silenzioso salto dal balcone della camera di Fred) a cui l’amico assiste sgomento e incapace di reagire, e che l’obiettivo, in un procedimento tipico dell’autore, relega al fuori campo. Da immagini, reminescenze, visioni oniriche, in Youth, sono assediati i personaggi. Del rimaneggiamento del ricordo e/o della dinamica onirica si nutrono tutti i film di Sorrentino, nei quali la dimensione mnemonicoimmaginaria è sempre in funzione di un raffronto diretto con il presente, affiorando e imponendosi nei momenti in cui l’individuo si trova in uno stato di difficoltà (morale, esistenziale, fisica). Il dato reale, nei film dell’autore, sconfina sovente nel surreale, accogliendo gli echi e i riflessi che scaturiscono dalle profondità labili, vischiose e intangibili dell’interiorità degli stessi personaggi e dai meandri più profondi della loro anima. «In tutti i miei film – ha avuto modo di chiosare il regista – ci sono i sogni perché possono avere una grande potenza nel creare una sintesi dello stato psicologico del personaggio»5. Oggettivazione del flusso della coscienza dei personaggi, l’interpolazione di sequenze onirico-immaginifiche, nel cinema
di Sorrentino, implica un processo mentale per cui il soggetto è indotto a instaurare una comunicazione con se stesso, conversa con la propria coscienza, si autointerroga. L’inserimento di scene, episodi, inserti i quali assumono una parvenza di interpolazione memorativa e/o fantastica e onirica, punta inoltre a creare una nuova dimensione cinematografica del tempo, dove sovente presente e passato sembrano fondersi, e in cui la memoria si tramuta talvolta in uno stato onirico-allucinatorio. In esso, in una dialettica della percezione inconscio-reale e in un appannamento visivo e spirituale che lo condurrà all’esiziale atto, affonda Mick. In esso scivola Fred, nella citata sequenza del sogno, e vi precipita anche Lena, in un episodio onirico analogamente deviante verso l’angoscioso e lo spaventevole, risolto visivamente come un videoclip nel quale la presenza della vera Paloma Faith – la popstar per la quale il personaggio di Lena viene abbandonato dal marito – rende i differenti livelli della rappresentazione, il vero e il sogno, il reale e la finzione, sovrapposti e intrecciati, nella mescolanza dell’immagine del volto dell’attrice con quello diegeticamente in fieri del suo personaggio (così come quello del soprano Sumi Jo, nella sequenza conclusiva del film, o come quello di David Byrne in This Must Be the Place). Riflesso delle tensioni interiori dei personaggi, l’elemento onirico-visionario, strumento di indagine sul tempo della memoria, con le sue brumose e talvolta febbrili rifrangenze, punteggia i sentieri impervi della coscienza e i tragitti esistenziali che i personaggi, in Youth e più in generale nell’intero cinema sorrentiniano, sono indotti a intraprendere, ponendosi alla ricerca della propria identità. Tragitti, appunto, che si inoltrano nei dedali dell’onirismo e della rêverie, lungo i quali i protagonisti vanno incontro a uno stato di crisi, di turbamento, di ripiegamento su se stessi, ma al termine dei quali essi, attraverso il lacerante senso della perdita di sé, sanno ritrovare la propria redenzione o un proprio, e sia pure drammatico e talvolta ferale, equilibrio. Come quello, letterale e allegorico al contempo, che sembra recuperare Lena, che l’obiettivo coglie – in una delle conclusive inquadrature, incastonata significativamente all’interno della sequenza dell’esecuzione del concerto da parte di Fred – sospesa vertiginosamente nel vuoto e nel silenzio tra le montagne rocciose, abbarbicata all’istruttore di alpinismo, volteggiante con lui sopra la vallata che si estende lontanissima, dischiusa adesso a un futuro in cui alla pur non fugata paura si unisce un rinnovato desiderio. Quello della sospensione è, d’altronde, lo stato in cui tutti i personaggi si ritrovano a fluttuare, tutti soggetti a movimenti oscillatori tra due diverse
dimensioni, tra la giovinezza e la senilità, la vita e la morte, la creatività e il nulla. Tra la terra e il cielo, nel giardino dell’hotel, sta sospeso il monaco buddista nella sua miracolosa pratica levitazionale: seduto a gambe incrociate, di spalle, avvolto nel rosso abito monacale, si solleva in aria (mentre la macchina da presa, con un movimento prospettico combinato, ne segue e ne rivela l’ascesa), come conseguenza prodigiosa dell’estasi mistica o, forse, di quel trucco e di quell’illusione che, come già affermava Jep Gambardella in La grande bellezza, sono un fatto della vita (oltre che del cinema). Sospeso tra il desiderio e l’orrore è il giovane attore californiano Jimmy Tree, che tenta di affrancarsi dall’immagine e dal ruolo di un’interpretazione giovanile dell’insignificante robot con armatura con il quale viene da tutti identificato e in cui è come ingabbiato. A quella maschera di automa, che gli dà un’identità esterna da lui detestata rendendolo inappagato e frustrato, cerca di sovrapporne un’altra, quella di Hitler, sinistra e grottesca, ancora più oscena da mettere in scena. Con essa, con andatura claudicante e appoggiandosi a un bastone di radica, fa ingresso nell’hotel, si siede al tavolo della sala, in disparte, dedicandosi alla colazione, sotto lo sguardo attonito e silenzioso degli altri ospiti che lo osservano non senza soggezione. Ma su quella stessa funerea maschera, a un repentino e stizzoso gesto di Jimmy, si disegna una smorfia rugosa di dolore che rivela, del personaggio, il cosciente smacco. Di maschere – tragiche, grottesche, sinistre, caricaturali, ingessate, eccessive – pullula il cinema di Sorrentino, in un continuo giocare dei personaggi con l’apparenza. Maschere esistenziali, che portano dentro di sé la pietrificazione e l’irrigidimento dei protagonisti nella loro strategia di sottrazione alla vita verso cui essi manifestano il loro disincanto, e maschere reali che forniscono ai personaggi una caratteristica quasi carnascialesca. Lugubre è il travestimento di Jimmy nel suo calarsi nella parte del personaggio che è chiamato a interpretare, e alla quale, scegliendo di non raccontare l’orrore che quella figura evoca, deciderà di abdicare. Come una maschera deforme appare il volto raggrinzito, segnato dalle rughe e incorniciato da una finta cascata di capelli biondi, dell’attrice invecchiata Brenda Morel, la diva idolatrata da Mick da cinquantatré anni e undici film, che ha saputo e sa fino in fondo, ponendolo di fronte all’amara realtà, tenere in pugno la sua carriera. “Cadente”, “ombra sbiadita della bellezza che fu” (come è descritto il suo personaggio nel copione per lei scritto da Mick), abbandona l’amico di
sempre per guadagnare di più in una serie televisiva, lasciando emergere l’aspetto illusorio e ingannevole della vita (e del cinema) e l’ombra della morte. Sconvolta, dopo il suicidio di Mick, immobilizzata dalle hostess si dimena sdraiata a terra all’interno dell’aereo, bramendo di rabbia e di dolore, il volto contratto, il trucco sciolto, la parrucca che scivola via lasciando intravedere i capelli diradati e ingrigiti. Di inquietante fissità, come una muta e munchiana maschera di dolore e di morte, è il volto deformato e congelato in una perpetua e atroce smorfia di Melanie, che una maledizione silenziosa e segreta ha privato di espressioni ed emozioni condannandola all’impetramento e alla paralisi fisica e psichica. Dopo il monologante e impossibile dialogo di Fred, nella clinica in cui la donna consuma la sua morte a Venezia, l’obiettivo si avvicina lentamente alla sua figura immobile, inizialmente quasi di spalle, con la fronte appoggiata alla finestra. Poi, con uno stacco, dall’esterno ne ritaglia il volto imbalsamato, la fronte addossata al vetro, gli occhi incavati che fissano il vuoto, la bocca aperta, e un’assenza e un estraniamento dalla vita reale che evocano quelle dipinte da Géricault nello sguardo della Alienata con la monomania dell’invidia.
È però proprio lo specchiarsi in quella deformità grottescamente esibita, sprigionante malinconia, dolore e orrore, a segnare, tanto per Fred quanto per Jimmy, lo sfaldamento della loro maschera interiore e a generare l’inizio della possibile rigenerazione, mettendo in gioco il sopravvivere per trasformarlo di nuovo in un vivere, in un evolversi di quelle dinamiche vivifiche o salvifiche da cui tutti i protagonisti sorrentiniani, alla fine, appaiono innervati e mossi. Rinunciando all’interpretazione del personaggio di Hitler, fugando l’orrore che quella figura richiama, Jimmy sceglie il desiderio. Imparando a convivere con quell’insopprimibile senso di inadeguatezza che in ogni individuo è connaturato (come gli rammenta la bambina incontrata nel negozio di souvenir citando proprio una delle battute del suo film misconosciuto), egli può ricomporre la sua identità sfaldata e
riappropriarsi delle pulsioni più autentiche e vitali. Analogamente, raffrontandosi con il senso della morte (quella fisica di Mick e quella psichica di Melanie), anche Fred, lasciando sfaldare il proprio algore interiore e l’immagine pietrificata dentro di lui, giunge al rimpossessamento di vivificanti pulsioni, a una ripresa creativa, al recupero della valenza vivificatrice dell’espressione artistica e della musica come balsamo al dolore di vivere, al rinvenimento di ciò che Kandinskij definiva «l’equilibrio dell’interiorità e dell’esteriorità» propria di quell’arte originata dalla «vita interiore perduta e ritrovata», e da cui scaturisce «una nuova armonia o bellezza»6. La cognizione della perdita (dell’amico e della moglie) segna l’inizio della possibile rigenerazione del protagonista sottraendolo all’apatia e a quel reclusivo luogo della mente in cui, cercando di sfuggire a una realtà insostenibile perché angosciosa, come una sorta di gabbia aveva trovato rifugio: una gabbia che l’obiettivo sembra rendere tangibile, nelle inquadrature nelle quali – nello studio del medico del centro benessere – l’obiettivo ritaglia i piani ravvicinati di Fred posto in prossimità di una gabbia circolare per uccelli dove un merlo si produce in un canto semplice e perfetto, cogliendo poi la sua figura attraverso la trama a sbarre della stessa gabbia. Dal cui dettaglio, come ideale soggettiva di Fred, l’obiettivo, avanzando lievemente verso la finestra della stanza e con una variazione di focale che sembra dissolvere il telaio del recinto metallico, scopre in basso, nel giardino, la figura della giovane massaggiatrice – la quale porta un apparecchio per i denti che la fa sembrare ancor più bambina di quello che è – seduta a un tavolo girevole. Sorridendo fra sé – non dissimulando una sensazione di sollievo alla rivelazione da parte del medico della natura fittizia, filtrata dalla bugia, della relazione tra Mick e la donna da entrambi amata in gioventù – Fred guarda ancora fuori dalla finestra attraverso la grata dell’uccelliera. La ragazza, in basso, gli sorride. «Lei sa cosa l’attende fuori di qui? – gli chiede il medico – La giovinezza». La quale, oltre che ricordo e rimpianto, si prospetta a Fred come territorio delle possibilità non ancora esaurite e di nuove esperienze emotive, chance di vita che egli torna a guardare da una diversa prospettiva. Affrontando e calandosi nel dolore, egli ricuce lo scollamento dalle pulsioni più vitali e riacquista quel desiderio, associato alla giovinezza, che fa virare l’attesa della morte verso una riconciliazione con la propria esistenza. Sull’immagine di Fred che, dopo la visita alla moglie, come imbambolato sta immobile sul ponte adiacente alla clinica, si inseriscono le note degli
orchestrali che provano i loro strumenti. All’interno del teatro, sul palco inondato di luce bianca, l’orchestra si appresta a suonare. Nella sala occupata da una platea elegante, in un silenzio che diviene assoluto, fanno ingresso la regina e il principe Filippo accomodandosi su due sedie eleganti. Gli applausi della platea accolgono l’entrata sul palco della prima violinista, poi del soprano Sumi Jo. Dalla quinta, verso cui gli sguardi, in un grumo di tensione, si volgono apprensivi, esce Fred dirigendosi verso il podio. Il concerto ha inizio: sotto i suoi gesti ampi e pacati si diffondono le note della sua Simple Song. Con padronanza di sé Fred dirige l’orchestra, lasciando che un’altra voce e un’altra bocca inondino la platea del suono della musica e delle parole scritte per amore. Con movimenti lenti e avviluppanti, di avvicinamento e di allontanamento, la macchina da presa scorre sugli orchestrali, fluisce sul soprano e sulle sue rosse labbra, indugia sui piani ravvicinati di Fred che sembra dissimulare qualsiasi emozione, scivola sulla platea ritraendo il volto attento e commosso di Jimmy. Le note e le emozioni si diffondono tutt’intorno e sembrano propagarsi in altri ambienti e in spazi diversi: nella stanza dell’hotel dove la giovane massaggiatrice si esercita davanti allo schermo televisivo con il corpo flessuoso impegnato in posture coreografiche, nella clinica dove Melanie è serrata nella sua assenza, con gli occhi perduti nel nulla e la bocca aperta, come se stesse cantando. Infine la melodia sfuma, l’orchestra si arresta, un silenzio che sembra interminabile avvolge la sala, come in una sorta di sospensione del tempo, in un finale – tutto sorrentiniano – a “canone sospeso” che si rifrange in una molteplicità di prismatiche linee di fuga, dove è adombrato il composito senso della contraddittorietà umana. Fred, di spalle, si volta verso la platea, senza abbandonare la propria impenetrabile espressione; guarda fisso davanti a sé, in direzione della macchina da presa, verso un punto indefinito, in cui fantasmaticamente sembra stagliarsi l’immagine dell’amico perduto verso cui paiono rivolgersi la sua mente e il suo ricordo: Mick, in primissimo piano, dispone i palmi delle mani a simulare un immaginario cannocchiale, guardando dentro l’obiettivo della macchina da presa, come in una contemplazione della giovinezza, o nella contemplazione tipica di chi ha davvero capito la propria vita, di chi ha capito, come Jep Gambardella, che in fondo «è tutto un trucco». 1 P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, op. cit., p. 309. 2 P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, op. cit., p. 87. 3 Il nucleo originario della storia trae origine da due ricordi dell’autore: «Uno era un fatto di cronaca: la
regina Elisabetta aveva invitato Riccardo Muti a Buckingham Palace, ma non si erano accordati sul repertorio e lui non andò. La cosa mi colpì, perché da buon provinciale pensavo che alla regina non si potesse dire di no, ma Muti, napoletano come me, evidentemente si era sprovincializzato prima. La seconda era il ricordo di una cena con due uomini anziani che si erano messi a parlare di una ragazza di sessant’anni prima, ognuno voleva sapere se l’altro c’era stato. Non è che litigassero, ma si avvertiva una certa frizione». P. Sorrentino, Confessioni di un anziano quarantenne, intervista a cura di Paola Zanuttini, in «Il Venerdì di Repubblica», 8 maggio 2015. 4 Sul tempo, sul suo scorrere, sull’incontro e sulla sovrapposizione di passato e presente, morte e vita, realtà fisica e squarci onirici e immaginifici, è imperniato anche lo short pubblicitario, The dream (2014) – in una pratica alla quale il regista sempre più si mostra dedito – realizzato da Sorrentino per Bulgari. Pur nella sua brevità, lo short è innervato da una struttura narrativa la quale, in una Roma deserta e arcana, bagnata dalla luce sospesa dell’alba, si organizza attorno alle apparizioni fantasmatiche che si materializzano allo sguardo di una donna (Valeria Golino) all’interno della “Domus” che racchiude la storia e l’evoluzione stilistica del marchio. In quello spazio che si configura come un purgatorio – luogo di passaggio verso il paradiso, limbo di lusso e piaceri – sfilano figure dell’aldilà che emergono dal passato o dalla fantasia della protagonista rapita da quelle visioni come riflessi della propria anima: i propri genitori defunti, dive del passato, aristocratiche agée, ninfette inondate dai flash fotografici dei paparazzi, esseri enigmatici e surreali. Presenze misteriose che si animano, per poi dissolversi e svanire al risveglio della città. Sull’incontro e sulla seducente intesa tra giovinezza e vecchiaia, si costruisce lo short per “Intenso” di Dolce & Gabbana (2015), in cui un prestante Colin Farrell, su una barca a vela davanti a un’isola vulcanica, tra avvenenti e giovani corpi che sul ponte ballano al ritmo della musica techno, avanza verso un’anziana donna sulla prua, stringendosi a lei in un ballo e in un abbraccio intriso di tenerezza, con lo sguardo fiero, profondo e “intenso” rivolto verso l’orizzonte rosseggiante, mentre il battito ritmato della musica sfuma nelle più melodiche note rétro di L’appuntamento di Ornella Vanoni. Sulla seduzione dei corpi e sui movimenti sinuosi della modella Elisa Sednaoui trova modulazione il motivo del ribaltamento della realtà in un altro short girato da Sorrentino per la campagna di Missoni “Eau de Parfum” (2015), in cui una spruzzata della fragranza conduce a una danza sensuale e divertita dando accesso a una (olfattiva) joy de vivre. 5 P. Sorrentino, in «Il Venerdì di Repubblica», cit. 6 Vasilij Kandinskij, in Tutti gli scritti 2, Feltrinelli, Milano, 1981, 3ª ed., p. 208.
9. Un’anima divisa in due: The Young Pope
Nella sua spiccata peculiarità, la pratica artistica di Sorrentino tende a propagarsi in traiettorie e ambiti che investono sperimentalismi e inedite modalità di narrativa e di scrittura, sia letteraria che filmica. Rientra in tale orbita – oltre al microracconto pubblicitario realizzato per il marchio Campari11 – il suo terzo romanzo, Gli aspetti irrilevanti, in cui l’autore, partendo da ventitré scatti di Jacopo Benassi, immagina le esistenze delle persone ritratte, attraverso le quali coglie e restituisce, in scorci di vite e in un vasto spettro di caratteri e personalità che si compongono in una sorta di affresco o di narrazione corale, tutte le sfumature e il caleidoscopico aspetto dell’esistenza umana. È nel segno della scelta e dell’utilizzo di nuove e inesplorate modalità diegetiche che si pone The Young Pope (2016), serie-non serie televisiva articolata in dieci episodi che si presenta in realtà come un unico fluviale film, in una partitura sincopata contrappuntata da andate e ritorni, digressioni e riprese, citazioni e aperture immaginifiche e visionarie. Di notevole impegno produttivo (40 milioni di euro di budget e sette mesi di riprese), The Young Pope è un’opera imponente per mole, di raffinata scrittura sia visiva che dialogica, sarcastica e dolente. È un racconto di ampio respiro che ha la
movenza di una orchestrazione musicale articolata in tempi e movimenti differenti, in cui le iterazioni, le variazioni, gli incisi, i refrain, le parentesi oniriche o mnemoniche, i contrappunti, gli sviluppi di problematiche legate alla fede religiosa e all’assenza-presenza di Dio, nonché la ricchezza dei mezzi impiegati, assicurano largo spazio a una espressione di tipo drammatico intrisa di risonanze ironiche o fantastiche, ricca di elementi dialettici atti a esprimere le più diverse sfaccettature della condizione umana. The Young Pope è una saga epica, una lunga narrazione che si dispiega in un tempo diegetico di alcune stagioni e che scava nei temi capitali del regista, alternando in un unico flusso narrativo il presente e il riemergere del passato, la visione ampia ed estesa di un intero microcosmo, caricato di valenza simbolica, e lo sguardo focalizzato e concentrato sui traumi personali del protagonista. Attraverso la cui figura – un immaginario, controverso ed enigmatico pontefice – l’autore, nella corroborazione di quella vera e propria Grundform della sua poetica, si cala nuovamente nelle pieghe del Potere delineando le psicologie di personaggi colti nel loro gioco di pratiche occulte e di trame oscure, nella dimensione dei loro insondabili misteri e nella loro abissale solitudine. Il quarantasettenne cardinale americano Lenny Belardo è stato appena eletto papa, salito al soglio pontificio a discapito del suo mentore – il tradizionalista cardinale Spencer – come espressione di tattiche di conclave. Nessuno, però, sembra conoscerlo davvero, e la sua elezione coglie tutti di sorpresa. Adottato il nome pontificale di Pio XIII, richiamandosi così ai suoi predecessori più reazionari, si rivela subito spigoloso e imprevedibile. Molestato da incubi, inflessibile nelle sue decisioni e nei suoi oscuri e oscurantistici propositi, si dimostra tutt’altro che malleabile e manovrabile e per nulla propenso a compromessi. Ripristina ancestrali riti, cerimoniali e gerarchie e, insofferente alla folla e refrattario ai viaggi, si sottrae agli sguardi dei fedeli, scegliendo di agire nell’invisibilità e proibendo di divulgare la propria immagine. Pertinace e irritabile, governa da subito con piglio duro e autoritario, umiliando ogni sottoposto, pretendendo una devozione assoluta e totale, avvalendosi della propria perspicacia, del proprio carisma e di una machiavellica sottigliezza psicologica (nonché dei segreti confessionali dei cardinali che egli induce il padre confessore a riferirgli) per assoggettare tutti al proprio arcano disegno «rivoluzionario» impostato come anti-conciliare. A cominciare dal cardinale Voiello, il napoletano segretario di Stato profondo conoscitore delle stanze e dei segreti
della Santa Sede, sulla cui spregiudicata scaltrezza politica e sul cui cinico arrivismo (ai quali si unisce un’autentica passione per la squadra di calcio partenopea) sono polemicamente incentrati diversi libri che egli conserva compiaciuto. Facendo ricorso a una tattica da doppiogiochista, Voiello, appoggiato da alcuni cardinali, cerca di contenere le derive più pericolose e di contrastare le posizioni più estreme di Belardo, giungendo ad architettare uno scandalo per screditarlo che tuttavia non troverà seguito. Ognuno, nella spietata strategia del nuovo papa tesa a dare un nuovo volto alla chiesa e in una generale animosità e avversione per la maggior parte dei cardinali, è fatto bersaglio: come il prefetto della congregazione per il clero, il cardinale Assente, al quale Lenny fa confessare la sua omosessualità e per questo allontanato; o il presidente del governatorato del Vaticano, il cardinale Ozolins, destituito dal suo incarico e spedito in una sperduta diocesi in Alaska. Controversi, e talvolta aspri e tesi sono i confronti che Belardo intrattiene con il suo vecchio maestro Spencer, così come ruvido e gelido sarà il tardivo ricevimento in Vaticano del giovane presidente del Consiglio italiano, in un incontro che si risolve in una sorta di duello diplomatico e di ricatto politico nel quale Belardo si rivela abile stratega nel proponimento del suo programma restauratore. Sempre più ampi si rivelano lo smarrimento e lo sgomento dei fedeli nei cui animi il nuovo papa, sostenitore della fede senza incertezze e di un dogma tendente a ripristinare la verticalità assoluta di Dio, semina dubbi e spaesamenti richiamandoli a un sacrificio assoluto e a un fideismo di stampo oscurantista, in una visione della chiesa che mira ad alimentare in essi la paura e la soggezione. E non meno disorientati appaiono i cardinali durante la cui prima, sontuosa convocazione egli compie un’ulteriore svolta verso i princìpi più dogmatici della dottrina. Provocatorio nelle affermazioni e misterioso nelle intenzioni, Belardo, tra le complesse trame di potere, sembra instaurare tuttavia anche rapporti improntati al confronto e alla confidenza, dimostrando talora la propria estrema fragilità, la propria sincerità d’animo e la disponibilità all’ascolto: con suor Mary, la volitiva suora americana da cui Lenny, abbandonato dai genitori hippy a sette anni, è stato allevato in un orfanotrofio, e che egli, rinvenendo in lei un surrogato della figura materna, chiama accanto a sé nominandola sua assistente personale in aperto contrasto con Voiello (pur prendendone successivamente le distanze e imponendole rapporti formali); con Gutierrez, il monsignore di origine spagnola maestro di Cerimonie
(successivamente insignito della porpora cardinalizia), la cui aria mite e dimessa e la cui bontà ispirano a Lenny un sentimento di fiducia e di amicizia (a lui, cresciuto in Vaticano dal quale non è mai uscito, il papa affiderà in seguito l’incarico di recarsi a New York per indagare sugli abusi sessuali perpetrati dal potente arcivescovo Kurtwell); con il cardinale Dussolier, con cui Lenny è cresciuto insieme nell’orfanotrofio di suor Mary, destinato a ricoprire il ruolo di nuovo prefetto della Congregazione per il clero selezionando aspiranti sacerdoti in tutto il mondo; con la giovane e affascinante responsabile del marketing e della comunicazione del Vaticano, con la quale, superata l’iniziale diffidenza, egli instaura un rapporto di amicizia basato sull’ironia; con Ester Aubry, la moglie di una guardia svizzera in Vaticano, che nutre ardentemente il desiderio di diventare madre benché sterile e che ha per Lenny una devozione quasi mistica; con lo stesso padre confessore da cui egli estorce le altrui confessioni, al quale confida le proprie private paure. Spregiudicato e risoluto, Belardo si rivela tuttavia attraversato da dubbi e travagliato da crisi di fede, che forse non ha mai veramente avuto, tormentato soprattutto dai suoi traumi infantili, dal ricordo dell’abbandono dei suoi genitori, dei quali egli ignora la sorte, e dallo struggente desiderio di un loro rincontro. Al senso di solitudine e al vuoto interiore da cui è vieppiù invaso si unisce un crescente senso di inadeguatezza che alcuni eventi contribuiscono ad acuire: il suicidio di un giovane a cui è stato negato di diventare sacerdote perché omosessuale, la morte violenta in Honduras di Dussolier (dalla doppia vita e dalle relazioni ambigue e pericolose), la malattia e la scomparsa di Spencer (il quale, in punto di morte, all’orfano che ha visto diventare papa chiede di raccontargli il miracolo compiuto da adolescente nella casa del custode dell’orfanotrofio in cui è cresciuto), la partenza di Ester che nel frattempo ha realizzato la maternità ambita (allontanatasi, forse, anche per sottrarsi alle sempre più eccessive ingerenze di Lenny nella sua vita familiare dopo la nascita del figlio). Sempre più l’incertezza si insinua nel suo animo, facendo emergere tutta la sua fragilità, tanto da farlo riflettere sulla possibile rinuncia al papato. Dopo aver accettato di recarsi in Africa, in un paese in cui vige un potere dittatoriale (e dove egli pronuncia un discorso dedicato alla pace e incontra una suora simbolo del mondo missionario e della carità della quale saprà mettere a nudo la falsità e l’improbità) e dopo la partenza di suor Mary (destinata a prendere il posto della suora africana nell’assistenza dei
bambini), Belardo si risolve ad andare a Venezia, dove ha sempre creduto fossero i suoi genitori. Apparendo per la prima volta in pubblico senza nascondimenti, pronuncia un commosso discorso che invita alla conciliazione, con Dio – un Dio non più inaccessibile bensì un Dio della concordia e del sorriso – e con gli uomini. Tra la folla raccolta in piazza San Marco crede di ravvisare i propri genitori che si allontanano, quindi, colto da forte sgomento e da malore, si accascia sulla balconata della basilica. Forse soltanto adesso, da figlio abbandonato e smarrito, riesce a diventare davvero il padre della chiesa e di tutti i fedeli.
Un groviglio di corpi nudi di neonati apparentemente senza vita su cui scivola la macchina da presa, da sotto il quale fuoriesce, di spalle, la figura biancovestita di Lenny Belardo nell’oscurità della deserta veneziana piazza San Marco. Così trova apertura The Young Pope, con un’immagine che si definisce subito di valenza onirica
(facendo infatti seguito quella del risveglio del protagonista) ma che prelude a sua volta a un’ulteriore scena che scopriremo essere immaginaria e sognata: quella del lento e ieratico incedere del giovane papa appena eletto, in un tempo dilatato, attraverso le ampie sale della basilica di San Pietro, e del suo primo discorso in cui invita i fedeli esortandoli a inseguire la libertà senza sensi di colpa. Ancora un risveglio, ancora l’inconscio del protagonista che emerge. Nel suo spessore visionario e nella sua capacità evocativa, il duplice sogno iniziale (come un sogno dentro un sogno), rivelatore dei moti inconsci dell’animo del protagonista, si pone come momento enunciativo e sorta di indicazione del tema dell’intera narrazione sulla quale esso getta l’impronta: che è quello, al contempo, delle dinamiche del potere e di quelle coscienziali, di cui Sorrentino mostra con sguardo acuto e beffardo complessità e contraddizioni. Di esse, in un tempo diegetico ora esteso ora contratto, ora sospeso ora ellittico, l’autore scandaglia e scruta i movimenti oscillatori e i pendolarismi, in un ambiente compresso, chiuso, costretto e limitato che dilata e assolutizza la dimensione, oltreché del mistero, dell’isolamento e della solitudine come componente imprescindibile della condizione umana. Intransigente e irritabile, vendicativo e contraddittorio, enigmatico e magnetico, cinico e spietato, sprezzante e difensore implacabile dei princìpi più dogmatici della dottrina, carismatico e problematico, Lenny Belardo è l’emblema di un potere, politico e spirituale, rappresentato nella sua ambiguità, nei suoi intrighi, nelle sue strutture occulte, nelle manovre intestine, nei rapporti di forza. Un potere, di cui egli è gerente, che segue e si manifesta ancora una volta nei suoi rituali teatrali, e la cui immagine, sacralizzata e divinizzata, assume ancora una volta una deformazione grottesca: come è esemplificato nella sequenza del concistoro e del duro discorso ai cardinali, con la figura di Belardo troneggiante sulla sedia gestatoria portata in spalla, fasciata nei sontuosi paramenti liturgici, e il volto severo sormontato dalla tiara papale – il copricapo oblungo e bombato simbolo della sovranità assoluta del pontefice, del suo comando incondizionato e totale e del diritto-dovere dell’obbedienza – simile a una maschera caricaturale. Nella sua autoreferenzialità («Non c’è niente al di fuori dell’obbedienza a Pio XIII»), il discorso che Lenny rivolge al collegio dei cardinali si fonda su un anacronistico potere per diritto divino e sul principio del contatto diretto con Dio. Quello stesso Dio, in fondo, a cui si richiamava e si equiparava Andreotti nel precedente film di Sorrentino: anche Lenny, come pronuncia il
personaggio del politico italiano nella sua confessione, potrebbe dichiarare di avere «un mandato divino»; anche Lenny, come Giulio, potrebbe affermare che «bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene», e asserire una condivisione piena tra il suo sapere e quello della legge divina («Questo Dio lo sa. E lo so anch’io»). Anche Lenny è un “divo”, forse, paradossalmente, meno credente di Giulio. Come lui ama agire nell’ombra, vuole essere invisibile, celarsi alla vista dei fedeli, ascondere il proprio volto, occultare la propria immagine (alle omelie si mostra in silhouette, sagoma nera invisibile ai fedeli, o di spalle), sottrarsi ai media e all’opinione pubblica, farsi icona dell’assenza ben sapendo che essa, come spiega alla responsabile del merchandising del Vaticano, costituisce il massimo della visibilità alimentando meglio il proprio mito. E come Jep Gambardella ne La grande bellezza, il quale ha conseguito l’euforico potere, per quanto miserabile, di far fallire le feste mondane di cui egli è primattore, così Lenny Belardo non vuole semplicemente reggere le sorti del cristianesimo, del quale è a capo, ma vuole anche detenere il potere di farlo fallire. Entrambi, Jep e Lenny, sono emblemi di due mondi diversi dei quali ognuno celebra i suoi riti; entrambi, nell’inazione a cui la loro solitudine li danna e li condanna, si ritrovano a inseguire le immagini di un tempo preterito, indotti a confrontarsi con il senso della perdita e con lo struggente sentimento di un giovanile incontro d’amore non vissuto: con Elisa Jep, con una ragazza che lo travolge per una settimana prima della sua entrata in seminario Lenny, e il cui ricordo, in quest’ultimo, viene a intensificare il lancinante senso dell’assenza dei propri genitori. Ecco allora intervenire e subentrare un’altra dimensione, secondo un procedimento tipico e topico dell’intero cinema di Sorrentino nel quale dei personaggi vengono sempre messi in risalto complessità e contraddizioni. All’increspamento della narrazione fa così riscontro quello dell’interiorità del protagonista, nell’emersione di un passato irrisolto e dolente, evocato attraverso le frequenti incursioni oniriche o mnemoniche, fonte di dilanianti tormenti e di interiori contrasti. Incapace di superare il dolore di essere stato abbandonato dai genitori in tenera età, e incapace di liberarsi dal ricordo di un’infanzia drammatica, Lenny è in lotta con se stesso e con i propri fantasmi, segregato in una solitudine che si traduce in una stanchezza diffusa e cronica che lo porta a cercare lunghe pause di ozio, in cui l’unica sua compagna è proprio la stessa solitudine. Alla quale viene ricondotta la sua visione di un cristianesimo rigido e tradizionalista. In esilio dal mondo, egli
ha abbracciato la fede trasponendo in essa il proprio dolore privato, con la ferita insanabile dell’orfanezza (o quantomeno dell’abbandono) che lo fa dubitare di quella stessa fede. Come quei genitori che si sono dileguati, anche Dio – quel Dio al quale egli propugna una devozione assoluta – si fa così un’immagine sfuggente e indefinita, assente e irraggiungibile. L’assenza degli uni si riflette nell’assenza dell’altro, o ne segna comunque profondamente la capacità di credervi e quella di essere, da papa, padre e madre dei credenti. Nel fosco vuoto e nella voraginosa assenza (d’amore, di fede) in cui Lenny è rinserrato, balugina allora il riaffiorare della memoria nel barbaglio di attimi impossibili da recuperare, e di immagini che rinviano gli sprazzi di un’armonia e di «un’indelebile, arcaica» bellezza vissuta nell’età in cui si ha tutta la vita davanti e nella quale, bambini, si può «dipingere il futuro con colori che la realtà non conosce»: la presenza rassicurante e protettiva dei genitori, prima dell’abbandono; l’immagine, foriera di emozioni, di suor Mary a vent’anni, con i capelli sciolti e biondi inondati dal sole mentre correva e con la palla faceva canestro; le infinite chiacchierate notturne con l’amico d’infanzia Dussolier nella grande camerata del dormitorio dell’orfanotrofio a sognare e inseguire il futuro; e il grande, unico amore di adolescente, l’amore di una settimana, per la ragazza conosciuta su una spiaggia della California, alla quale egli aveva rivolto il proprio pensiero e il proprio amore in lettere scritte e mai inviate. Topos della poetica sorrentiniana, l’infanzia, in The Young pope, si palesa ancora una volta come sentimento di innocenza e desiderio, come luogo depositario di fede e speranza, ma anche, e irrimediabilmente, come un pianeta dove non è dato ritornare, che può esistere soltanto come isola della memoria. Per Lenny, tuttavia, l’infanzia costituisce un limbo esistenziale che si traduce in una sospensione del dolore: ha con l’infanzia un legame fortissimo, è unito ad essa da una sorta di cordone ombelicale, ma da essa, al contempo, e dai suo riverberi drammatici, cerca di liberarsi, di affrancarsi dalla condizione di perenne figlio. Da tale antinomia e da tale scissione scaturisce un contrasto interiore che si ripercuote sulla rigida impostazione su cui risolutamente modella il proprio pontificato e si propaga su un intero ambiente e sugli altri personaggi. I quali rivelano anch’essi i lati nascosti e oscuri della propria personalità, le scissioni dell’animo, le crisi morali, le debolezze (l’alcolismo a cui è dedito Gutierrez, le frequentazioni equivoche di Dussolier, l’infedeltà di Ester, l’ambizione del padre confessore di diventare cardinale) insieme a inaspettate virtù ed evoluzioni (il
tramutamento della paura nel coraggio, nello stesso Gutierrez, necessario per confidare la sua omosessualità a Belardo il quale gli affida l’incarico di segretario personale; l’anima gentile e la bontà che si rivelano in Voiello, che accudisce un ragazzo affetto da handicap e si lascia invadere da un tenero affetto e da un impossibile e irrealizzabile sentimento amoroso nei confronti di suor Mary), e un comune, ineluttabile, effuso e divorante senso di solitudine che domina su tutto e su tutti. Dal groviglio di contraddizioni interiori, come da quello dei corpi inanimati dei neonati nell’iniziale sequenza onirica, Lenny cerca infine di distaccarsi, cessando di nascondersi, intraprendendo un percorso di ricerca che lo conduce nei luoghi – fisici quanto dell’anima – all’origine del suo trauma. Dalla veneziana basilica di San Marco si affaccia su una piazza stracolma, affidando le sue parole alla rievocazione della storia e degli insegnamenti di una giovane beata sudamericana e invitando i fedeli al sorriso. Tra la folla, scrutando con un monocolo, crede di vedere i propri genitori che si voltano, così come gli voltarono le spalle da bambino, allontanandosi. Con un’espressione di forte turbamento si appoggia al palchetto, per poi accasciarsi sulla balconata. Dall’alto, in plongée, l’obiettivo inquadra il suo corpo sofferente sorretto da Gutierrez, nella riproposizione plastica della Pietà michelangiolesca più volte in precedenza evocata o direttamente mostrata. La macchina da presa, con un lungo e vertiginoso movimento a salire, si ritrae progressivamente dalla sua figura allargando sempre più smisuratamente il quadro, allontanandosi dalla basilica, dalla città veneziana, dalla laguna e dalla terraferma, fino a inquadrare, in ultimo, l’intero globo terrestre e l’oscurità che sembra inghiottirlo, in uno sguardo irreale, come divino, a considerare l’ambivalenza dell’essere umano e la sua grande fatica di stare al mondo. 1 Nello short (Killer in red, 2017) Sorrentino narra una breve storia dalle atmosfere noir, sviluppata su due piani temporali diversi, tra luci soffuse e riprese voluttuose di cocktail e corpi, attraverso le figure di una seduttiva dark lady, che cerca di ottenere l’indipendenza attraverso il denaro e l’eliminazione fisica del facoltoso marito produttore cinematografico hollywoodiano, e di un bartender che ha il talento di intuire il pensiero dei suoi avventori e di servire quindi il cocktail perfetto per il carattere di ciascuno.
Filmografia
LUNGOMETRAGGI L’UOMO IN PIÙ (2001) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: P. Sorrentino; fotografia: Pasquale Mari; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Lino Fiorito; costumi: Silvia Nebiolo; musica: Pasquale Catalano; suono: Daghi Rondanini; interpreti: Toni Servillo (Tony), Andrea Renzi (Antonio Pisapia), Nello Mascia (il Molosso), Ninni Bruschetta (Genny), Angela Goodwin (la madre di Tony), Enrica Rosso (Elena), Clotilde Sabatino (Vanna), Roberto De Francesco (Gigi Moscati), Italo Celoro (l’allenatore), Baniamino Femiano (il presidente), Marzio Honorato (Tagliaferri), Peppe Lanzetta (Salvatore), Stefania Barca (Monica), Rosaria De Cicco (Maria), Monica Nappo (Veronica), Maurizio Cocorullo (Filippo Reale), Andrea Marrocco (Piva), Antonio Marfella (Sossio Novelli), Maurizio Corvino (Palumbo), Ciro Petriccione (1° motociclista), Vincenzo Pirozzi (2° motociclista), Agostino Chiummariello (Titta), Lello Pascarella (bassista), Marco Sorrentino (chitarrista), Ludovica Zoina (ragazza discoteca), Ginestra Paladino (infermiera), Antonio Conte (commissario), Adriana Del Duca (ragazza di Genny), Rosina Misasi (segretaria), Tony Laudario (cameriere), Luigi Sabatini (oste), Gennaro Piccirillo (costruttore), Federico Torre (uomo scosso), Marcello D’Elia (ospite tv), Francesca Calabrese (ospite tv), Patrizia Imperato (Lucilla), Claudia Di Salvo (ragazza che balla), Peppe Barile (camorrista), Alfonso Postiglione (chirurgo), Silvia Franco (infermiera), Pierluigi Tortora (autista), Vincenzo Merolla (commissario), Augusto Lala (detenuto), Maurizio Ricci (detenuto), Lino Fiorito (detenuto); produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Kermit Smith, Angelo Curti per Indigo Film/Keyfilms; distribuzione: Keyfilms; prima proiezione: 31 agosto 2001 (Mostra del cinema di Venezia); durata: 100’. LE CONSEGUENZE DELL’AMORE (2004) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: P. Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Lino Fiorito; costumi: Ortensia De Francesco; musica: Pasquale Catalano; suono: Daghi Rondanini, Emanuele Cecere; interpreti: Toni Servillo (Titta Di Girolamo), Olivia Magnani (Sofia), Adriano Giannini (Valerio), Raffaele Pisu (Carlo), Angela Goodwin (Isabella), Diego Ribon (il direttore), Giselda Volodi (una cameriera), Giovanni Vettorazzo (signor Letizia), Ana Valeria Dini (la lettrice), Gianna Paola Scaffidi (Giulia), Antonio Ballerio (il direttore di banca), Gilberto Idonea, Gaetano Bruno (i sicari), Enzo Vitagliano (Pippo D’Antò), Nino D’Agata (un mafioso), Vittorio Di Prima (Nitto Lo Riccio), Pietro Manigrasso (fattorino), Rolando Ravello (uomo con papillon), Carlo Feltrami (portiere), Mauro Pescio (barista), Carlo Beltrami (portiere di giorno), Marian Stan (portiere di notte), Arturo Fuselli, Dino Angelino (figli di Titta), Roberta Serretiello (Liliana), Sara Celeghin (ragazza che ascolta), Manuela Lamanna (donna della valigia), Antonio Spadaro (fattorino), Roberta Fossile, Marco Sorrentino, Sergio Valery, Ilaria Andolfi (contabili), Angelo Montella (Martusciello), Michelangelo Dalisi (ragazzo in carrozzella), Giampiero Giudicepietro (basista), Jessica Zambeli (infermiera), Giorgio Scarpato (mafioso), Maurizio Ricci (mafioso), Gigi Cappabianca (notaio), Giovanni Morosso
(Dino Giuffrè); produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Domenico Procacci, Angelo Curti per Indigo Film/Fandango/Medusa; distribuzione: Medusa; prima proiezione: 13 maggio 2004 (Festival di Cannes); durata: 100’. L’AMICO DI FAMIGLIA (2006) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: P. Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Lino Fiorito; costumi: Ortensia De Francesco; musica: Teho Teardo; suono: Daghi Rondanini, Emanuele Cecere; interpreti: Giacomo Rizzo (Geremia de’ Geremi), Fabrizio Bentivoglio (Gino), Laura Chiatti (Rosalba), Gigi Angelillo (Saverio), Clara Bindi (madre di Geremia), Nicola Grittani e Francesco Grittani (i gemelli Contessa), Marco Giallini (Attanasio), Lorenzo Gioielli (Montanaro), Alina Nedelea (Belana), Roberta Fiorentini (madre di Rosalba), Geremia Longobardo (Giacomo), Fabio Grossi (il cognato di Saverio), Barbara Valmorin (la nonna del Bingo), Lorenzo Sorrentino (suo nipote), Giorgio Colangeli (Massa), Barbara Scoppa (Tiziana Senatore), Elias Schilton (Tesauro), Luisa De Santis (Silvia), Paola Sebastiani (Amanda), Lucia Ragni (la cassiera), Emilio De Marchi (chef), Valentina Lodovini (donna debitrice), Simone Gualtieri (marito donna), Liliana Bernacciano (suora), Antonella Salvucci (presentatrice), Daniela Terrieri (cantante country), Giorgia Cardosi (moglie di Gino), Giovanni Caruso (padre di Geremia), Annalisa Milanese (ragazza parco), Sofia Mann (ragazza vasca 1), Victoria Monti (ragazza vasca 2); produzione: Domenico Procacci, Nicola Giuliano, Francesca Cima, per Fandango/Indigo Film e Babe Film/Studio Canal; distribuzione: Medusa; prima proiezione: 25 maggio 2006 (Festival di Cannes); durata: 102’. IL DIVO (La spettacolare vita di Giulio Andreotti) (2008) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: P. Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Lino Fiorito; costumi: Daniela Ciancio; musica: Teho Teardo; suono: Emanuele Cecere; interpreti: Toni Servillo (Giulio Andreotti), Anna Bonaiuto (Livia Danese), Giulio Bosetti (Eugenio Scalari), Flavio Bucci (Franco Evangelisti), Carlo Buccirosso (Paolo Cirino Pomicino), Giorgio Colangeli (Salvo Lima), Alberto Cracco (don Mario), Piera Degli Esposti (la signora Enea, segretaria di Andreotti), Paolo Graziosi (Aldo Moro), Lorenzo Gioielli (Mino Pecorelli), Gianfelice Imparato (Vincenzo Scotti), Massimo Popolizio (Vittorio Sbardella), Aldo Ralli (Giuseppe Ciarrapico), Giovanni Vettorazzo (magistrato Scarpinato), Cristina Serafini (Caterina Stagno), Achille Brugini (cardinale Fiorenzo Angelini), Fanny Ardant (la moglie dell’ambasciatore francese), Orazio Alba (Gaspare Mutolo), Fernando Altieri (Oscar Luigi Scalfaro), Stewart Arnold (Larry Schoenbach), Nuot Arquint (killer Lima), Antonello Avallone (medico), Gaetano Balistreri (Tommaso Buscetta), Dezio Bettini (Licio Gelli), Pietro Biondi (Francesco Cossiga), Gianni Bissaca (senatore), Claudio Bonis (Pippo Calò), Achille Brugnini (cardinale Angelini), Simone Carella (Rino Formica), Domenico Centamore (Balduccio Di Maggio), Michele Chiadò (senatore Pellegrino), Umberto Contarello (deputato), Carlo Cozzani (cardinale IOR), Luciano Cravino (magistrato), Paolo De Giorgio (Stefano Bontate), Roberto De Rossi (giornalista ospedale), Renato Di Pietro (Stefano Rodotà), Salvatore D’Onofrio (capo scorta Andreotti), Lombardo Fornaia (Michele Sindona), Massimo Franceschini (giornalista), Domenico Gennaro (Francesco Marino Mannoia), Orlando Gerace (Nino Salvo), Carlo Girando (magistrato Natoli), Victor Goubanov (Michail Gorbacëv), Ernesto Izzo (deputato), Manuela La Manna (impiegata Quirinale), Fiorenza Liberto (donna festa), Giusto Lopiparo (deputato), Umberto Mancini (deputato), Bob Marchese (senatore), Luigi Messina (presidente Ingargiola), Roberto Minutillo Turtur (deputato quotazioni), Gaetano Mosca (usciere Mario), Giuseppe Pappadà (Arnaldo Forlani), Giuseppe Perri (Tano Badalamenti), Giuseppe Pesare (senatore), Alvaro Piccardi (Raul Gardini), Alessandro Pisticcio (deputato), Gilda Postiglione (giornalista), Alberto Pozzo (avvocato Coppi), Mario Prosperi (cardinale Pappalardo), Antonino Pugliesi (Vito Ciancimino), Giulio Raffi Casagrande (uomo festa), Lorenzo Ragazzini Regis (generale Gianadelio Maletti), Enzo Rai (Totò Riina), Luisella Rossboch (senatrice), Natale Russo (Leonardo Messina), Giorgio Sappa (deputato), Cesare Scova (deputato), Maurizio Troppa (deputato), Lorenzo Ventavoli (deputato), Wibke Walbrich (giornalista), Angelo Zito
(Giancarlo Caselli); produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Andrea Occhipinti, Maurizio Coppolecchia, Fabio Conversi per Indigo Film/Lucky Red/Parco Film, in coproduzione con Babe Film, StudioCanal, Arte France Cinéma, in collaborazione con Sky Cinema; distribuzione: Lucky Red; prima proiezione: 23 maggio 2008 (Festival di Cannes); durata: 110’. THIS MUST BE THE PLACE (2011) (Italia/Francia/Irlanda) – regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: P. Sorrentino, Umberto Contarello; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Stefania Cella; costumi: Karen Patch; musica: David Byrne, Will Oldham; suono: Srdjan Kurpjel; interpreti: Sean Penn (Cheyenne), Frances McDormand (Jane), Judd Hirsch (Mordecai Midler), Eve Hewson (Mary), Kerry Kondon (Rachel), Grant Goodman (Tommy), David Byrne (se stesso), Harry Dean Stanton (Robert Plath), Heinz Lieven (Aloise Lange), Joyce Van Patten (Dorothy Shore), Olwen Fouéré (la madre di Mary), Shea Whigham (Ernie Ray), Liron Levo (Richard), Sam Keeley (Desmond), Simon Delaney (Jeffrey), Seth Adkins (Jimmy [ragazzo ping pong]), Stafford Douglas (amico ragazzo ping pong), Ron Coden (cliente armeria), Davis Gloff (armaiolo), Bern Cohen (rabbino), Sarah Carroll (donna sulla nave), Danielle O’Brien, (cliente supermercato), Margaret O’Neilly (cliente supermercato), Hairin O’Donovan (anziana signora banca), Johnny Ward (Steven), Jer O’Leary (anziano signore cimitero), Master Deng (maestro di Tai Chi), Jane Myers (fidanzata di Jeffrey), Heather Fedyk (1ª donna ascensore), Iris Frank (2ª donna ascensore), Andrea Mellos (3ª donna ascensore), Sara Kamoo (4ª donna ascensore), Bill Hoffinger (anziano signore funerale), Nana Ansah (parcheggiatore), Pricia Hicok (donna reception), Gordon Michaels (giovane tatuato), Madge Levinson (Jackie), David Krieger (Batman), Frank Adakai (indiano), Suzanne Enslen (benzinaia), Amy Julia Cheyfitz (ragazza Goth), Greg Trzaskoma (uomo aeroporto); produzione: Nicola Giuliano, Andrea Occhipinti, Francesca Cima, Mario Spedaletti per Indigo Film/Lucky Red/Medusa Film e Arp/France 2 Cinema/Element Pictures/Bord Scannàn Na Héireann/The Irish Film Board; distribuzione: Medusa; prima proiezione: 20 maggio 2011 (Festival di Cannes); durata: 119’. LA GRANDE BELLEZZA (2013) (Italia/Francia) – regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: P. Sorrentino, Umberto Contarello; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Stefania Cella; costumi: Daniela Ciancio; musica: Lele Marchitelli; interpreti: Toni Servillo (Jep Gambardella), Carlo Verdone (Romano), Sabrina Ferilli (Ramona), Carlo Buccirosso (Lello Cava), Iaia Forte (Trumeau), Pamela Villoresi (Viola), Galatea Ranzi (Stefania), Franco Graziosi (il conte Colonna), Giorgio Pasotti (Stefano), Massimo Popolizio (Alfio Bracco), Sonia Gessner (la contessa Colonna), Anna Della Rosa (ragazza esangue), Luca Marinelli (Andrea), Serena Grandi (Lorena), Ivan Franeck (Ron Sweet), Vernon Dobtcheff (l’illusionista Arturo), Dario Cantarelli (l’assistente della santa), Lillo Petrolo (Lillo De Gregorio), Luciano Virgilio, (Alfredo), Aldo Ralli (cardinale), Giusi Merli (suor Maria), Giovanna Vignola (Dadina), Anita Kravos (Talia Concept), Francesca Golia (suora botox), Silvia Munguia (Ahè), Massimo De Frankovic (Egidio), Roberto Herlitzka (il cardinale Bellucci), Isabella Ferrari (Orietta), Fanny Ardant [non accreditata] (se stessa), Antonello Venditti [non accreditato] (se stesso), Alberto Aguirre (Mariachi festa), Maria Rosaria Alati (donna anziana botox), Francesca Amodio (Carmelina), Stefania Barca (donna botox), Gabriella Belisario (ragazza botox), Alessia Bellotto (ammiratrice Jep), Concetta Buzzanca (signora matrimonio), Gino Camini (mariachi festa), Annaluisa Capasa (Elisa De Santis), Roberta Cartocci (guida turistica), Severino Cesari (Sebastiano Paf), Margherita Cornali (donna “adoro”), Jamaica Corridori (ballerina burlesque), Natalia De Maria (cubista festa Jep), Carmelo Di Marco (uomo jogging), Giulia Di Quilio (donna coppia esibizionista), Giorgia Ferrero (ammiratrice Jep), Melania Fiore (infermiera pos), Lorenzo Gioielli (uomo coppia esibizionista), Mayda Gonzales (mariachi festa), Maria Lovetti (contessa festa), Roberto Lumiento (trans), Agata Malyszko (Polina), Giulia Maulucci (ammiratrice Jep), Paolo Mazzarelli (attore fiction), Flavio Mieli (Jep giovane), Claudio Minutillo Turtur (figlio Lillo), Daniele Pilli (prete funerale), Monica Piseddu (madre chiostro), Pedro Ramirez (mariachi festa), Maura Rossi (pazza bar), Massimo (autista pullman), Catarina Scalaprice (ammiratrice Jep), Carlo
Sorrentino (2° figlio Lillo), Elisabetta Ventura (ballerina ventilatore), Sara Wakayanagi (cantante giapponese); produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Fabio Conversi, Jérôme Seydoux per Indigo Film/Babe Films/Pathé/France 2 Cinéma; distribuzione: Medusa; prima proiezione: 20 maggio 2013 (Festival di Cannes); durata: 142’. YOUTH – LA GIOVINEZZA (2015) (Italia/Francia/Svizzera/Gran Bretagna) – regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: P. Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Ludovica Ferrario; costumi: Carlo Poggioli; musica: David Lang; suono: Emanuele Cecere; interpreti: Michael Caine (Fred Ballinger), Harvey Keitel (Mick Boyle), Rachel Weisz (Lena), Paul Dano (Jimmy Tree), Jane Fonda (Brenda Morel), Alex McQueen (l’emissario della regina), Ed Stoppard (Julian), Sonia Gessner (Melanie), Rolly Serrano (sudamericano), Loredana Cannata (la moglie del sudamericano), Madalina Ghenea (Miss Universo), Robert Seethaler (Luca Moroder), Luna Zimic (la massaggiatrice), Tom Lipinski (lo sceneggiatore innamorato), Chloe Gessner (la sceneggiatrice), Alex Beckett (lo sceneggiatore intellettuale), Nate Dern (lo sceneggiatore spiritoso), Mark Gessner (lo sceneggiatore timido), Sumi Jo (se stessa), Paloma Faith (se stessa), Mark Kozelek (se stesso), Gabriela Belisario (escort), Laura De Marchi (madre di escort), Wolfgang Michael (medico), Heidi Maria Glössner (moglie silenziosa), Helmut Förnbacher (marito silenzioso), Maria Letizia Gorga (cantante), Leo Artin (bambino violinista), Emilia Jones (ragazzina pallida), Aldo Ralli (direttore hotel), Vincent Wolterbeek (massaggiatore orientale), Viktoria Mullova (violinista); produzione: Carlotta Calori, Francesca Cima, Nicola Giuliano, Fabio Conversi per Indigo Film/Pathé/France 2 Cinéma/Number 9 Films/C-Films; distribuzione: Medusa; prima proiezione: 20 maggio 2015 (Festival di Cannes); durata: 118’. THE YOUNG POPE (serie TV in 10 episodi) (2016) (Italia/Francia/Spagna/Gran Bretagna/Usa) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto: P. Sorrentino; sceneggiatura: P. Sorrentino, Umberto Contarello, Tony Grisoni, Stefano Rulli; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Ludovica Ferrario; costumi: Carlo Poggioli, Luca Canfora; musica: Lele Marchitelli; suono: Emanuele Cecere; interpreti: Jude Law (Lenny Belardo), Silvio Orlando (cardinale Voiello), Diane Keaton (Suor Mary), Javier Cámara (monsignor Gutierrez), Scott Shepherd (cardinale Dussolier), Sofia Dubois (Cécile de France, responsabile del marketing), Ester Aubry (Ludivine Sagnier), James Cromwell (cardinale Spencer), Toni Bertorelli (cardinale Caltanissetta), Marcello Romolo (don Tommaso, il padre confessore), Gianluca Guidi (padre Amatucci), Stefano Accorsi (il presidente del Consiglio), Ignazio Oliva (padre Valente), Maurizio Lombardi (cardinale Assente), Vladimir Bibic (cardinale Ozolins), Sebastian Roché (cardinale Marivaux), Ramón García (Aguirre), Guy Bord (arcivescovo Kurtwell), Biagio Forestieri (Peter, il marito di Ester), Frank Gingerich (Lenny bambino), Jack McQuaid (Dussolier bambino), Patrick Mitchell (Lenny adolescente), Andrew R. Wolf (Dussolier adolescente), Delaina Mitchell (la donna amata da Lenny) Carolina Carlsson (primo ministro Groenlandia), Milvia Marigliano (suor Antonia), Armando Pizzuti (prete Triregno), Franco Pinelli (Tonino Pettola); produzione: Wildside, Haute et Court Tv, Mediapro, Sky, HBO, Canal+; prima proiezione: 3 settembre 2016 (Mostra del cinema di Venezia, episodi 1 e 2); presentazione integrale televisiva: 14 ottobre–11 novembre 2016 (Sky); durata: 542’.
CORTOMETRAGGI E MEDIOMETRAGGI UN PARADISO (cm.) (1994) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino, Stefano Russo; soggetto e sceneggiatura: P. Sorrentino, Stefano Russo; fotografia: Davide Pontoriere; montaggio: Stefano Russo; interpreti: Leonardo Ragozzino, Antonio Castaldo, Mauro Maglione; produzione: Polymedia (presentato al Festival di Capalbio 1994 e al Festival di Palermo Cinema 1995); durata: 2’.
L’AMORE NON HA CONFINI (cm.) (1998) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: P. Sorrentino; fotografia: Pasquale Mari; montaggio: Jacopo Quadri; scenografia: Antonio Farina; costumi: Alessandra Cianelli; musica: Pasquale Catalano, Ninette e le bimbo visioni; suono: Alessandro Rolla, Daghi Rondanini; interpreti: Gianni Ferreri, Gaetano Amato, Giovanni Esposito, Caterina De Regibus, Luigi Petrucci, Antonio Castaldo, Nicola Laieta, Sergio Marra, Anna Troise, Gaetano Esposito, Edoardo Tartaglia; produzione: Nicola Giuliano per Indigo Film; prima proiezione: novembre 1998 (Torino Film Festival); durata: 16’. LA NOTTE LUNGA (cm.) (2001) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto: seconda classe elettrauto scuola Amoretti di Milano; sceneggiatura: P. Sorrentino, Anna Mittone; fotografia: Mario Amura; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Lino Fiorito; costumi: Lilla Angellotti; suono: Saverio Mascolo; interpreti: Roberto De Francesco (Manolo), Chiara Caselli (Ariel Bachini/la moglie), Tina Fermiano, Federico Torre, Lello Pascarella, Marianna Gragnaniello, Giuseppina Caputo, Ines Astarita, Gianni Fiorito, Giuseppe Ausilio, Luca Catoggio; produzione: Nicola Giuliano e Francesca Cima per Indigo Film; prima proiezione: 8 ottobre 2001 (Torino Film Festival); durata: 13’. LA PRIMAVERA DEL 2002. L’ITALIA PROTESTA, L’ITALIA SI FERMA (mm.) (2002) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino, insieme a Agenore “Age” Incrocci, Alfredo Angeli, Franco Angeli, Giorgio Arlorio, Mario Balsamo, Marco Bellocchio, Gioia Benelli, Giuliana Berlinguer, Mario Cambi, Fiore De Rienzo, Maurizio Carrassi, Carlo Di Carlo, Massimo Felisatti, Nicolò Ferrari, Gianfranco Fiore, Andrea Frezza, Giuliana Gamba, Roberto Giannarelli, Franco Giraldi, Ugo Gregoretti, Sabina Guzzanti, Wilma Labate, Salvatore Maira, Giulio Manfredonia, Francesco “Citto” Maselli, Gianni Minà, Mario Monicelli, Lucio Pellegrini, Paolo Pietrangeli, Gillo Pontecorvo, Andrea Porporati, Marco Simon Puccioni, Francesco Ranieri Martinotti, Nino Russo, Massimo Sani, Stefano Scialotti, Pasquale Scimeca, Ettore Scola, Sergio Spina, Paolo Taviani, Vittorio Taviani, Marco Turco, Fulvio Wetzl, Cesare Noia, Gianni Serra, Riccardo Tortora (coordinatore Francesco Maselli); produzione: CGIL; durata: 53’. QUANDO LE COSE VANNO MALE (cm., episodio di Giovani talenti italiani; gli altri episodi sono diretti da: Maria Sole Tognazzi, Silvio Soldini, Gabriele Muccino, Lucio Pellegrini, Paolo Virzì, Sergio Rubini, Marco Risi) (2004) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Ludovica Rampolli; costumi: Jessica Zambelli; interpreti: Francesca Inaudi (la moglie), Fulvio Pepe (Arturo); produzione e distribuzione (dvd): Unione Italiana Casting; prima proiezione: agosto 2004 (Mostra del cinema di Venezia); durata: 4’. LA PARTITA LENTA (cm., progetto cinematografico “perFiducia” promosso da Intesa Sanpaolo) (2009) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto: Umberto Contarello; sceneggiatura: U. Contarello, P. Sorrentino; fotografia: Gergely Poharnok; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Eugenia Di Napoli; costumi: Daniela Ciancio; suono: Emanuele Cecere; interpreti: Monica Dugo (moglie), Roberto Bernardini (marito), Renato Gnani (figlio), Francesco Iacorossi (Amico), Flavio Gregori (ragazzo emo); produzione: Maurizio Coppolecchia per Parco Film/Indigo; prima proiezione: 27 marzo 2009; durata: 3’ versione breve; 10’ versione lunga. L’ASSEGNAZIONE DELLE TENDE (cm., episodio di L’Aquila 2009 – Cinque registi tra le macerie; gli altri episodi sono diretti da: Mimmo Calopresti, Francesca Comencini, Ferzan Ozpetek, Michele Placido) (2009) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; fotografia: Stefano Cipullo; montaggio: Mariagrazia Morrone; produzione: «la Repubblica»; prima proiezione: 6 maggio 2009; durata: 3’ (durata complessiva: 23’). LA PRINCIPESSA DI NAPOLI (cm., episodio di Napoli 24) (2009) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino (gli altri episodi sono diretti da: Giovanni Cioni, Bruno Oliviero, Gianluca Iodice, Diego
Liguori, Roberta Serretiello, Luca Martusciello, Nicolangelo Gelormini, Guido Lombardi, Mariano Lamberti, Andrej Longo, Mario F. e Stefano Martone, Fabio Mollo, Mario Spada, Pietro Marcello, Andrea Canova, Lorenzo Cioffi, Massimiliano Pacifico, Marcello Sannino, Federico Mazzi, Vincenzo Cavallo, Gianluca Loffredo, Daria D’Antonio, Ugo Capolupo); fotografia: Luca Bigazzi, Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; musica: Coh; interpreti: principessa Uzza de Gregorio di Sant’Elia, Carlo de Gregorio di Sant’Elia; produzione: Angelo Curti, Nicola Giuliano, Giorgio Magliulo per Ananas/Indigo Film/Sky Dancers/Teatri Uniti; prima proiezione: 1° dicembre 2010 (Torino Film Festival); durata: 3’ (durata complessiva: 75’). LA FORTUNA (cm., episodio di Rio, Eu te amo) (2014) (Brasile/Usa) – regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Luiz Gonzaga; interpreti: Basil Hoffman (James), Emily Mortimer (Dorothy); produzione: Conspiração Filmes, Bossa Nova Films, Empyrean Pictures, Riofilme; durata: 8’(durata complessiva: 98’).
REGIE TELEVISIVE SABATO, DOMENICA E LUNEDÌ (2005, tv) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; soggetto: dall’omonima commedia di Eduardo De Filippo; fotografia: Mario Amura, Pasquale Mari; montaggio: Giogiò Franchini, Maria Valerio; costumi: Ortensia De Francesco; suono: Daghi Rondanini, Emanuele Cecere, Francesco Sabez; interpreti: Anna Bonaiuto (Rosa Priore), Toni Servillo (Peppino Priore), Alessandra D’Elia (Virginia, la cameriera), Roberto De Francesco (Rocco, figlio di Peppino e Rosa), Enrico Iannello (Federico, amico di Rocco), Gigio Morra (Antonio Piscopo, padre di Rosa), Monica Nappo (Giulianella, figlia di Peppino e Rosa), Betti Pedrazzi (Amelia Priore, sorella di Peppino), Tony Laudario (Attilio, figlio di Amelia), Marcello Romolo (Raffaele Priore, fratello di Peppino), Francesco Silvestri (Luigi Iannello), Mariella Lo Sardo (Elena, moglie di Luigi), Enrico Ianniello (Catiello, il sarto), Salvatore Cantalupo (Michele, fratello di Virginia), Antonello Cossia (Roberto, figlio di Peppino e Rosa), Antonio Martella (dottor Cefercola); produzione: Teatri Uniti per Raidue Palcoscenico e RaiTrade; prima trasmissione: Raidue, 25 dicembre 2005; durata: 100’.
SHORT PUBBLICITARI CROMA. UN GRANDE VIAGGIO (cm., short pubblicitario per Fiat) (2006) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Israel Kamakawiwo’ole (Over the Rainbow); interpreti: Jeremy Irons; produzione: Movie Magic International; durata: 45’’. ALLO SPECCHIO (cm., short pubblicitario per Yamamay) (2011) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Eugenia Di Napoli; musica: Antonella Ruggiero con i Subsonica (“Per un’ora d’amore”); interpreti: Isabella Ferrari; produzione: Collateral Films; durata: 1’. SABBIA (cm., short pubblicitario per Giorgio Armani) (2014) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Francesco Di Stefano; scenografia: Angelo Panzironi; interpreti: Daisy Mancini, Carlos Machado; produzione: Indigo Film; durata: 2’. THE DREAM (cm., short pubblicitario per Bulgari) (2014) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; musica: Emanuele Cecere; interpreti: Valeria Golino; produzione: Viola Prestieri e Riccardo Scamarcio; durata: 9’. “INTENSO” (cm., short pubblicitario per Dolce & Gabbana) (2015) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino;
musica: Ornella Vanoni; interpreti: Colin Farrell; durata: 15’’. MISSONI EAU DE PARFUM (cm., short pubblicitario per Missoni) (2015) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; interpreti: Elisa Sednaoui; durata: 1’. KILLER IN RED (cm., short pubblicitario per Campari) (2017) (Italia) – regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: P. Sorrentino; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Andrea Rosso; musica: Lele Marchitelli; suono: Emanuele Cecere; interpreti: Clive Owen, Caroline Tillette; produzione: Filmmaster; durata: 13’.
SCENEGGIATURE POLVERE DI NAPOLI (1998) (Italia) – regia: Antonio Capuano; soggetto: A. Capuano, Tonino Taiuti; sceneggiatura: A. Capuano, Paolo Sorrentino; fotografia: Pasquale Rachini; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia e costumi: Mario Di Pace; suono: Tiziano Crotti; interpreti: Silvio Orlando, Tonino Taiuti, Lola Pagnani, Teresa Saponangelo, Raffaele Musella, Antonino Iuorio, Gianni Ferreri, Gigio Morra, Alan De Luca, Francesco Pennasilico, Giovanni Esposito; produzione: Gianni Minervini per Ama Film; distribuzione: Iif; durata: 104’. LA SQUADRA (2000, primi dieci episodi della prima serie TV) (Italia) – regia: Claudio Norza, Isabella Leoni, Stefano Alleva, Gianni Leacche, Lucio Gaudino, Alfredo Peyretti, Giorgio Molteni, Daniele Cini, Stefano Bambini; soggetto: Wayne Doyle, Mauro Casiraghi, Chris McCourt; sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Lorenzo Favella, Massimo Martella, Mauro Casiraghi, Laura Sabatino, Vinicio Canton, Donatella Diamanti, Anna Samueli, Luca Monesi, Francesco Cioce, Paola Fossataro, Luca Vendruscolo, Stefano Russo, Barbara Rossi Prudente, Daniele Senatore; fotografia: Pietro Emozione, Enzo Napolitano; montaggio: Pietro Centomani; scenografia: Mario Di Pace; costumi: Itala Scandariato; musica: Vito Abbonato, Andrea Ridolfi; interpreti: Renato Carpentieri, Massimo Bonetti, Mario Porfito, Andrea Marrocco, Giovanni Rienzo, Vincenzo Failla, Massimo Wertmüller, Federico Tocci; produzione: GrundY Italia, Rai Fiction.
INTERPRETAZIONI E PARTECIPAZIONI IL CAIMANO (2006) (Italia) – regia: Nanni Moretti. QUESTIONE DI CUORE (2009) (Italia) – regia: Francesca Archibugi. BORIS (2010, episodi 12, 13, 14 della terza serie TV) (Italia) – regia: Davide Marengo.
Bibliografia
MONOGRAFIE Pierpaolo De Sanctis, Domenico Monetti, Luca Pallanch (a cura di), Divi & antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Laboratorio Gutenberg, Roma, 2010.
SCENEGGIATURE, GUIDE E DIARI FOTOGRAFICI GIANNI FIORITO, Il divo: un film di Paolo Sorrentino [diario fotografico], Dante & Descartes, Napoli, 2008 PAOLO SORRENTINO, UMBERTO CONTARELLO, La grande bellezza [sceneggiatura], Skira, Ginevra-Milano, 2013 PAOLO SORRENTINO, La grande bellezza. Diario del film (foto di Gianni Fiorito), Feltrinelli, Milano, 2013 COSTANTINO D’ORAZIO, La Roma segreta del film “La grande bellezza”, Sperling & Kupfer, Milano, 2013 PAOLO SORRENTINO, La giovinezza. Youth [sceneggiatura], Rizzoli, Milano, 2015. PAOLO SORRENTINO, Il peso di Dio. Il Vangelo di Lenny Belardo, Mondadori, Milano, 2017
ARTICOLI E SAGGI CRITICI ANGELA PRUDENZI, Gli uomini e le loro scelte, in «Cinecritica», n.34-35, aprile-settembre 2004 FIAMMETTA GIROLA, Paolo Sorrentino, in «Annuario del cinema 2005», Edizioni di Cineforum, Bergamo, ottobre 2005 PIERPAOLO LOFFREDA, Le identità perdute dei non-luoghi, in Luisa Ceretto, Roberto Chiesi (a cura di), Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, Edizioni di Cineforum, Torre Bordone, 2006 ALBERTO MORSIANI, Brutto sporco e cattivo. Metafisica dei luoghi e disfacimento dei sentimenti in L’amico di famiglia, ivi MARIAPIA COMAND, La matematica del mistero, in Vito Zagarrio (a cura di), La meglio gioventù. Nuovo cinema italiano 2000-2006, Marsilio, Venezia, 2006 FRANCESCO CRISPINO, La regia dei nuovi esordienti, ivi ANTON GIULIO MANCINO, Anziani, media statura: italiani strana gente, in «Cinecritica», n. 56, ottobre-dicembre 2009
ROBERTO CHIESI, Paolo Sorrentino e la malattia del presente italiano, ivi GIACOMO TAGLIANI, Le conseguenze del vissuto [su Le conseguenze dell’amore], in Riccardo Guerrini, Giacomo Tagliani, Francesco Zucconi (a cura di), Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, Le Mani, Recco, 2009 CHRISTIAN UVA, Un cineglossario italiano tra autore e genere:Il Divo di Paolo Sorrentino [su Il Divo], in Franco Montini (a cura di), Autorialità e cinema di genere, FAC, Roma, 2009 FRANCESCA DOSI, Per un nuovo cinema del reale: Le conseguenze dell’amore e Il Divo di Paolo Sorrentino, in Chroniques italiennes, Université de la Sorbonne Nouvelle – Paris III, 26ème année, n. 85/86, 2010 MILLICENT MARCUS, The Ironist and the Auteur: post-realism in Paolo Sorrentino’s “Il divo” [su Il Divo], in «The Italianist», n. 2, 2010 ANTONIO TRICOMI, Il Divo. Perché al disincanto non segue l’utopia, in Id., La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea [su Il Divo], Quodlibet, Macerata, 2010 FRANCESCA DOSI, Per un nuovo cinema del reale: ‘Le conseguenze dell’amore’ e ‘Il Divo’ di Paolo Sorrentino, in «Chroniques italiennes», n. 85/86 (2/3 2010), Université de la Sorbonne Nouvelle – Paris III, Paris NICOLETTA MARINI-MAIO, Non confesso, dunque sono. Il Divo di Paolo Sorrentino, in Christian Uva (a cura di), Strane storie. Il cinema e i misteri d’Italia [su Il Divo], Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2011 PIERPAOLO ANTONELLO, I due corpi del divo. Le maschere del potere: Andreotti, Tatcher, Elisabetta II [su Il Divo], in «Bianco e Nero», n. 576-577, maggio-dicembre 2013 ANTONIO IANNOTTA, Le immagini del potere. Note sull’identità italiana nel cinema di Paolo Sorrentino [su L’uomo in più, Il Divo e La grande bellezza], in «California Italian Studies», n. ,(٢) ٦ ٢016
INTERVISTE DI CARATTERE GENERALE (le interviste e le dichiarazioni del regista relative specificamente ai singoli film sono riportate nella sezione successiva) ANGELA PRUDENZI (a cura di), Paolo Sorrentino: «Lo stupore delle vite ordinarie», in «Cinecritica», n. 34-35, aprile-settembre 2004 ROBERTO ROMBI, Salvatores e Sorrentino. Volevamo diventare rockstar [sulla registrazione dell’incontro pubblico con i due registi organizzato da Mario Sesti all’Auditorium di Roma, trasmessa da Rai Sat nel marzo 2006], in «la Repubblica», 3 marzo 2006 GIOVANNI PERAZZOLI (a cura di), Il giovane cinema cresce. Incontro con Matteo Garrone, Paolo Sorrentino e Saverio Costanzo, in «MicroMega», n. 7, settembre 2006 EDOARDO ZACCAGNINI, GIOVANNI SPAGNOLETTI (a cura di), Intervista a Paolo Sorrentino, in «Close up», n. 23, dicembre 2007-marzo 2008 PIERO SPILA, BRUNO TORRI (a cura di), Paolo Sorrentino: il cinema, il divertimento, l’ossessione, in «Cinecritica», n. 56, ottobre-dicembre 2009 DARIO ZONTA (a cura di), Paolo Sorrentino/La scena del potere, in Emiliano Morreale, Dario Zonta (a cura di), Cinema vivo. Quindici registi a confronto, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009 MALCOLM PAGANI (a cura di), Alla ricerca del sogno, in «Micromega», n. 6, giugno 2011 (una
sintesi dell’intervista è contenuta in «D/Repubblica», 3 settembre 2011)
RECENSIONI E INTERVENTI CRITICI SUI SINGOLI FILM L’AMORE NON HA CONFINI LUCA MOSSO, Spazio Italia, in «Cineforum», n. 380, dicembre 1998 L’UOMO IN PIÙ LIA FURXHI (a cura di), L’uomo in più di Paolo Sorrentino, Aiace FAICinema/2, Torino, 2003 (con un saggio di Morando Morandini, la sinossi del film, un intervento di Sorrentino e una scheda biografica) SILVIA ANGRISANI (a cura di), Quando il successo ti abbandona [intervista], in «Vivilcinema», n. 2, marzo-aprile 2001 DOMINIQUE BORDE, Suspense existentiel, in «le Figaro», 14 maggio 2004 MICHELE ANSELMI, in «Vivilcinema», n. 4, luglio-agosto 2001 MAURIZIO CABONA, in «Il Giornale», 1 settembre 2001 PAOLO D’AGOSTINI, in «la Repubblica», 1 settembre 2001 FABIO FERZETTI, in «Il Messaggero», 1 settembre 2001 ALESSANDRA LEVANTESI, in «La Stampa», 2 settembre 2001 DAVID ROONEY, in «Variety», vol. 384, n. 3, 3 settembre 2001 LUIGI PAINI, in «Il Sole – 24 Ore», 9 settembre 2001 ROBERTO ESCOBAR, ivi STEFANO COCCIA, in «Cinemasessanta», n. 261, settembre-ottobre 2001 VINCENZO BUCCHERI, in «Segnocinema», n. 117, settembre-ottobre 2001 MARCO LOMBARDI, in «Duel», n. 91, ottobre 2001 MARCO CURATOLO, in «Rivista del Cinematografo», n. 10, ottobre 2001 MAURO GERVASINI, in «Film TV», 16 ottobre 2001 ALBERTO ZANETTI, La doppia vita di Antonio, in «Cineforum», n. 409, novembre 2001 LORENZO CODELLI, in «Positif», n. 489, novembre 2001 BRUNO ROBERTI, in «Filmcritica», n. 519, novembre 2001 FLAVIO DE BERNARDINIS, in «Segnocinema», n. 112, novembre-dicembre 2001 ROBERTO ESCOBAR, in «Il Sole – 24 Ore», 3 dicembre 2001 CARLO CHATRIAN, in «Panoramiche-Panoramiques», n. 31, inverno 2002 GIONA A. NAZZARO, ivi FABIO FERZETTI, in FAC, Comitato nazionale per la diffusione dei film d’Arte e di Cultura, La prima volta. Esordi ed esordienti nel cinema italiano del presente, Roma, 2002 ROBERTO NEPOTI, in «la Repubblica», 10 agosto 2005 MAURIZIO PORRO, in «Corriere della Sera», 16 luglio 2005 PAOLO SORRENTINO, in La meglio gioventù. 20 registi italiani raccontano la loro prima inquadratura, Filmitalia/Marsilio, Venezia, 2007
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