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Italian Pages 180 [182] Year 2014
CINEMA n. 24
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Raffaele De Berti, Università degli Studi di Milano Massimo Donà, Università Vita-Salute San Raffaele Roy Menarini, Università degli Studi di Bologna Pietro Montani, Università “La Sapienza” di Roma Elena Mosconi, Università Cattolica di Milano Pierre Sorlin, Università Paris-Sorbonne Franco Prono, Università degli Studi di Torino
Questo volume è stato sottoposto a un processo di peer-review
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IL MOCKUMENTARY
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La fiction si maschera da documentario
MIMESIS Cinema
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© 2013 – M E (Milano – Udine) Isbn: 9788857519180 Collana: Cinema n. 24 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
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INDICE
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I
7 PARTE I FENOMENOLOGIA DEL MOCKUMENTARY
1. A
13
2. P
23
3. S
: R
35
4. G
45
5. I
61
6. I 83 PARTE II I FILM 7. I T 8. F
:
(1984)
R
R
103
(1995) 115
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9. T
(1999)
10. C D
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: (2006)
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11. U
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: L
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139 (2011)
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M
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INTRODUZIONE
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«In film school they teach you that the camera never lies – but does it tell the truth?» (Frank Gallagher).
Questo libro nasce dalla convinzione che attraverso lo studio di quell’affascinante forma filmica, denominata mockumentary, che abita l’ancor poco esplorato territorio di confine della docufiction, si possa giungere a una maggiore conoscenza del documentario stesso o quantomeno di ciò che concepiamo come tale. Adottando le estetiche della produzione fattuale per conferire un’illusione di verità a storie di fantasia, tali ibridi sembrano, infatti, suggerirci come nell’ambito dell’audiovisivo il reale sia profondamente legato alle nostre rappresentazioni di quest’ultimo. Sebbene le origini cinematografiche del mockumentary risalgano al 1965, è solo nel 2000 che i teorici della settima arte inizano a interessarsi a tali opere, complice forse il rapido incremento del numero di prodotti così realizzati cui si assiste negli anni Novanta. Un primo pionieristico studio, dal titolo Faking It, fa la sua comparsa nel 2001 per opera di due ricercatori neozelandesi della University of Waikato, Jane Roscoe e Craig Hight. Da allora, a livello accademico, l’interesse verso il finto documentario è andato crescendo. Tuttavia, forse in virtù del carattere multiforme e sfuggente di questi ibridi, si è teso ad analizzare singoli casi esemplari, dando vita a una letteratura disorganica, composta per lo più di saggi su specifici testi filmici. Raramente, invece, ci si è preoccupati di fornire uno sguardo complessivo su questa vasta produzione, come ci si propone invece nella prima parte del presente volume. Qui s’intende, infatti, delineare anatomia, storia e funzionamento del mockumentary per mettere in luce il suo essere uno stile nar-
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
rativo, trasversale a generi e poetiche autoriali, nonché a diversi media. Si segnala però che, sebbene venga fornita una panoramica complessiva delle molte tipologie di finti documentari che nascono dall’incontro di questo stile con i diversi mezzi di comunicazione audiovisivi, si è scelto di concentrare l’attenzione sui mockumentary filmici, siano essi destinati al grande o al piccolo schermo. Ecco allora che a questa prima sezione di stampo teorico ne segue una seconda, ove ci si focalizza su cinque film rappresentativi di alcuni dei molti volti del finto documentario: il mock-rockumentary (This Is Spinal Tap di R. Reiner); l’hoax e il mocku-biopic (Forgotten Silver di C. Botes e P. Jackson); il mocku-horror (The Blair Witch Project di D. Myrick ed E. Sánchez); il mockumentary storico-politico (Death of a President di G. Range). L’ultima pellicola (Il mundial dimenticato di L. Garzella e F. Macelloni) è stata invece scelta in quanto esempio sia della produzione contemporanea sia di quella italiana. Difatti, nonostante siano Stati Uniti e Gran Bretagna (rispettivamente nell’ambito cinematografico e in quello televisivo) a detenere il primato per quantità di mockumentary realizzati, anche il nostro Paese vanta la creazione di un circoscritto numero di tali opere, in crescita negli ultimi anni.1 Proprio in virtù del fatto che quello qui analizzato non è un fenomeno concluso, bensì in continua espansione, questo libro non intende proporsi come un punto d’approdo, quanto piuttosto come un primo passo verso la scoperta di questa sterminata e variegata produzione, che ben risponde al desiderio dello spettatore contemporaneo di fruire testi apparentemente reali.
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Si tratta per lo più di testi filmici, mentre è ancora estremamente scarna la produzione televisiva.
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RINGRAZIAMENTI
La mia gratitudine va a Raffaele De Berti, il quale ha incoraggiato e seguito con partecipazione il percorso di ricerca che ha condotto alla stesura di questo libro, fin dalla sua prima elaborazione nella forma di tesi magistrale. Desidero altresì ringraziare Elena Dagrada per essersi resa disponibile a discutere parte dei concetti qui contenuti, nonché Mauro Giori e Tomaso Subini per l’attenta lettura critica e i preziosi consigli. Sono grata, inoltre, a Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni che, con grande generosità, hanno fornito materiali e informazioni circa la realizzazione del loro Il mundial dimenticato. Ringrazio poi anche i bibliotecari del British Film Institute per aver facilitato le mie ricerche con il loro lavoro e la loro gentilezza. Un grazie, infine, va ai miei genitori e a mia zia Laura per il loro immancabile sostegno.
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PARTE I FENOMENOLOGIA DEL MOCKUMENTARY
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1.
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AL CONFINE TRA REALTÀ E FINZIONE
Secondo il teorico contemporaneo Bill Nichols non vi è film che non possa essere considerato un documentario, giacché «anche la più fantasiosa delle fiction rispecchia la cultura che l’ha creata e riproduce fedelmente l’aspetto di chi vi recita»1. In effetti, tutte le opere cinematografiche, per quanto si basino su mondi alternativi, ci danno conto dell’immaginario di un’epoca, nonché dell’evolversi del cinema stesso e del suo linguaggio.2 Inoltre, vi sono pellicole di finzione che, essendo ambientate nella contemporaneità del regista, costituiscono una testimonianza circa gli usi e i costumi di quel determinato periodo3 o film, quali Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, che, proponendosi come «opere di verità»4, divengono a proprio modo un documento sul momento storico in cui sono stati girati.5 Non mancano poi nemmeno pellicole che, essendo state realizzate al di fuori degli studi 1 2 3
4 5
Nichols, 2001: 13. Per una trattazione approfondita si vedano rispettivamente Gauthier, 2002: 23 e Odin, 2000: 203. Ad esempio, You’ve Got Mail (C’è posta per te, 1998, di N. Ephron) è una commedia romantica facilmente collocabile tra i film di finzione, ma è al contempo anche una testimonianza dell’affermarsi di una nuova forma di comunicazione: l’e-mail. Per di più, la pellicola di Nora Ephron è il remake di The Shop Around the Corner (Scrivimi fermo posta, 1940, di E. Lubitsch) ove i protagonisti, in linea con l’epoca cui appartengono, corrispondono invece per lettera. Gauthier, 2002: 23. Nel delineare le diverse possibili indicazioni che uno storico può ricavare dalle differenti tipologie di prodotti cinematografici, Pierre Sorlin (cfr. 2013: 177-184) rileva, ad esempio, come da film «ai margini», quali Le mani sulla città (1963, di F. Rosi) o Pelle viva (1964, di G. Fina), sia possibile ottenere informazioni utili circa il modo in cui gli uomini dell’epoca decifravano «l’ambiente in cui vivevano».
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
di posa, in paesaggi fattuali collocati nella realtà, forniscono informazioni attendibili sui caratteri di uno o più luoghi. Tuttavia, lo stesso Nichols opera poi una distinzione tra «documentari d’immaginazione» e «di rappresentazione sociale»6, utilizzando queste due espressioni per identificare rispettivamente i film di finzione e quelli appartenenti al cinema del reale. Nemmeno lui riesce quindi a prescindere da una separazione, quale quella tra fiction e non-fiction, che risulta ormai estremamente radicata nella concezione comune. A livello teorico, infatti, non si hanno dubbi nel ritenere che tutta la produzione audiovisiva possa essere suddivisa in due macro categorie, considerate come contrapposte e non intersecabili tra loro: da un lato il cinema documentario, in cui «la macchina da presa è al servizio della realtà che le sta di fronte», e dall’altro il cinema di finzione, dove «la realtà viene rielaborata per la macchina da presa»7. All’atto pratico, però, oggi è sempre più frequente incappare in prodotti ibridi, nei quali immaginario e fattuale si mescolano, dando vita a opere che, pur narrando vicende di fantasia, si fanno passare per documentari o che, nel raccontare il reale, ricorrono a elementi di messa in scena propri della finzione. Docudrama, mockumentary, documentari animati e docusoap sono solo alcune tipologie dei prodotti audiovisivi, denominati docufictions,8 che popolano questo territorio liminale ancora poco studiato, la cui esistenza stessa non solo dimostra come nell’ambito della settima arte i confini tra fattuale e fantasia siano estremamente sfumati, ma rende anche ulteriormente problematico definire il cinema del reale. 1.1 Il documentario: un trattamento creativo della realtà? Nell’immaginario collettivo il documentario è un cinema della verità che abbandona attori, sceneggiature e ogni altro trucco per fornire allo spettatore uno sguardo oggettivo sul mondo.
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Nichols, 2001: 13. Aprà, 2003: 350. Per una definizione di questo concetto si veda Rhodes; Springer, 2006: 1-9.
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Al confine tra realtà e finzione
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A ben vedere, però, esso non è esente da manipolazioni. Il solo fatto d’inquadrare il reale costituisce già di per sé un’adulterazione dello stesso in quanto nell’istante in cui selezioniamo una porzione di spazio, escludendone un’altra, diamo una nostra lettura del fattuale.9 A ciò si aggiunga che, come afferma Guy Gauthier, «nulla è reale al momento della proiezione»10, poiché attraverso il montaggio, per quanto ci si proponga di restare fedeli alle riprese, si finisce comunque per manipolare il profilmico, anche solo scegliendo una parte del girato per questioni di durata.11 Un’ulteriore rielaborazione si ha, poi, nel momento in cui si ricorre a operazioni di post-produzione, quali l’inserimento della voce over o il missaggio, nonché quando si impiega la tecnologia digitale. Quest’ultima ha messo in crisi il concetto d’immagine fotografica come copia esatta del fattuale, fornendo la possibilità di popolare l’inquadratura con elementi non presenti all’atto delle riprese. Non è un caso pertanto che, nel dare la prima definizione di documentario nel 1933,12 il regista John Grierson utilizzi l’espressione «creative treatment of actuality»13, concependo tale forma cinematografica non come semplice riproduzione della “vita”, ma come sua interpretazione. Questa visione è condivisa anche oggi da Nichols, il quale afferma: Se il documentario fosse una riproduzione della realtà, […] ci troveremmo semplicemente di fronte a una replica o una copia di qualcosa che già esiste. Ma esso non è una riproduzione della realtà, bensì una rappresentazione del mondo in cui viviamo. Rappresenta una visione particolare del mondo, una che potremmo non aver mai incontrato nonostante il tema affrontato ci sia familiare.14
9 10 11 12
13 14
Cfr. Aprà, 2003: 351. Gauthier, 2002: 20. Cfr. Aprà, 2003: 351. Il primo impiego cosciente del termine documentario viene attribuito a Grierson e risale al 1926, quando il regista britannico, recensendo Moana (L’ultimo Eden, 1926) di Robert Flaherty per il New York Sun, parlò di «valore documentario» del film. Prima di lui, però, il termine era già stato usato dall’americano Edward G. Curtis nel 1914 in riferimento alle proprie pellicole sui pellerossa (cfr. ibidem). Grierson, 1933: 8. Nichols, 2001: 31.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
L’impressione di realtà nel documentario è quindi costruita e, secondo Grierson, è proprio nel fare ricorso a una drammatizzazione delle vicende che tali opere acquistano valore artistico.15 Con questa definizione egli, in realtà, non fa altro che legittimare una pratica presente fin dalle origini del cinema. Difatti, per rendere le loro pellicole più accattivanti agli occhi del pubblico, i documentaristi hanno spesso utilizzato procedimenti propri della finzione, prima fra tutti la messa in scena. Si prenda ad esempio La Sortie des usines Lumière (L’uscita dalle fabbriche Lumière, 1895) di Auguste e Louis Lumière. Qui si può individuare quella che François Jost chiama «finta»16 ovvero la presentazione di un mondo che «si spaccia per la realtà ed è […] dell’ordine del come se»17. Tale film, infatti, non è frutto di una ripresa spontanea: agli impiegati sarebbe stato chiesto di uscire contemporaneamente dallo stabilimento e di agire per l’obiettivo.18 Tuttavia, come rileva Jost, ciò di per sé non costituisce una motivazione sufficiente per considerarlo un prodotto di finzione, in quanto «ogni giorno i lavoratori dovevano uscire dalla fabbrica in modo pressappoco simile»19. Si tratta perciò di una scena che aveva effettivamente luogo nella quotidianità, anche se è possibile che i dipendenti «fossero meno curati, con i capelli non così a posto quando la macchina da presa non c’era»20. Tale procedimento di “finta” si può rintracciare in modo ancor più evidente in Nanook from the North (Nanuk l’eschimese, 1922) di Robert Flaherty, dove allo spettatore viene fatto credere di trovarsi di fronte a riprese dal vero, sebbene molte delle sequenze siano frutto di una messa in scena.21 In questo caso, però, il regista, 15 16 17 18
19 20 21
Cfr. Ward, 2005: 9. Jost, 2003: 56. Ivi: 58. Ad esempio, sulle pagine della rivista Wide Angle Marshall Deutelbaum (1979: 30) scrive: «Sadoul’s brief comment on the film, on ouvre les portes au début du film, on les ferme à la fin, suggests that far from being a naive record of motion for its own sake, the film reflects a number of carefully chosen decisions about sequential narrative». Jost, 2003: 57. Ibidem. Le sequenze in oggetto sono quelle relative alla costruzione dell’igloo e allo stupore del protagonista davanti a un grammofono. La stessa famiglia di Nanook, inoltre, è costituita non da suoi veri parenti, ma da attori scelti da Flaherty.
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mosso dalla convinzione che sia necessario alterare alcuni aspetti di un evento per poterne comprendere l’essenza,22 va oltre il semplice portare sullo schermo azioni che gli Inuit erano soliti compiere nel loro quotidiano e arriva addirittura a inscenare pratiche ancestrali ormai desuete.23 Questa tendenza a plasmare il fattuale si è protratta fino ai giorni nostri e le pellicole di Michael Moore ne sono una prova. Nel realizzare film di denuncia che mirano a creare maggiore consapevolezza nel fruitore su problematiche quali la sanità o la diffusione delle armi da fuoco, egli interviene sulla realtà, provocandola, allo scopo di dimostrare una propria tesi. È il caso di quanto accade nella prima sequenza di Bowling for Columbine (Bowling a Columbine, 2002), dove, per provare che negli Stati Uniti chiunque può facilmente reperire un’arma, il regista si mostra nell’atto di aprire un conto corrente presso una filiale della North American Bank, la cui politica è di regalare un fucile ad ogni nuovo correntista. La messa in scena e la ricostruzione di avvenimenti non sono, tuttavia, le uniche due convenzioni proprie della finzione, cui il cinema del reale attinge. È frequente anche il ricorso ad attori e l’uso della colonna sonora o dell’illuminazione per creare tensione o coinvolgere emotivamente lo spettatore.24 È quindi nel giusto Ethan de Seife quando afferma che la manipolazione è connaturata a questa forma cinematografica: «A history of the manipulation of truth in documentary film is, essentially, a history of documentary itself»25. Pertanto, se decidessimo di considerare prodotti del cinema fattuale solo quelle pellicole che presentano la realtà in modo trasparente e oggettivo, avrebbe ragione Christian Metz nell’asserire che «ogni film è un film di finzione»26.
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24 25 26
Flaherty (in Chapman, 2009: 171) riteneva che «one often has to distort a thing to catch its true spirit». Vengono mostrati usi e costumi che, a seguito di una progressiva occidentalizzazione, gli Inuit avevano ormai abbandonato. Essi, infatti, per cacciare utilizzavano armi da fuoco e non indossavano più il vestiario tradizionale, che qui invece sfoggiano. Cfr. Roscoe; Hight, 2001: 17. De Seif, s.d.: 2. Metz, 1979: 55.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Ciò dimostra come, a dispetto delle apparenze, individuare una definizione di documentario sia un’impresa tutt’altro che facile. È lo stesso Nichols a rilevarlo nel suo Introduction to Documentary:
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Dare una definizione di documentario non è più semplice del darne una di amore o cultura. Il suo significato non può essere ridotto a un termine del dizionario come per le parole temperatura o sale da cucina. La definizione di documentario non è assoluta […] è sempre in relazione o in paragone a qualcos’altro.27
La ragione di tale difficoltà risiede principalmente nell’impossibilità di identificare criteri capaci di abbracciare tutti i film che, nel corso dei decenni, sono stati fatti ricadere sotto quest’etichetta. Per evitare di escluderne alcuni si tende spesso a formulare definizioni eccessivamente inclusive e troppo vaghe. Ad esempio, come rimarca Carl Plantinga in riferimento a quanto teorizzato da Grierson, possono essere considerate frutto di un trattamento creativo della realtà anche pellicole di finzione d’ambientazione realistica, quali ad esempio i film neorealisti.28 La formulazione individuata dallo studioso inglese risulta quindi eccessivamente generica e non adeguata. Ancor più nebulosa è la definizione proposta da Michel Colin, secondo il quale «può essere considerato come documentario ogni film di cui si dice che si tratta di un documentario»29, valutando così la volontà di appartenere a questa classe come condizione necessaria e sufficiente per essere considerato parte di essa. Nel tempo sono stati intrapresi molteplici percorsi per cercare di stabilire cosa sia il cinema documentario, definendolo in relazione al fattuale o alle tecniche adottate, per contrapposizione alla finzione o utilizzando il punto di vista del fruitore. Tuttavia, di là dall’aver portato alla nascita di numerose etichette, quali ad esem-
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Nichols, 2001: 31. Cfr. Plantinga, 1987: 44-45. Colin in Nepoti, 1988: 7.
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Al confine tra realtà e finzione
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pio «film di vita»30, «cinema-verità»31 o «cinema diretto»32, nessuna di queste strade si è dimostrata produttiva. In primo luogo, sebbene sia indispensabile che un film porti sullo schermo il vero per essere considerato un documentario, questo solo aspetto non è sufficiente per distinguere un prodotto del cinema del reale da uno del cinema di finzione. Vi sono, infatti, anche pellicole di fantasia che intrattengono un legame con il fattuale. Si pensi, ad esempio, ai film basati su storie vere o a quelli che conservano un rapporto indessicale con il profilmico. Altrettanto fallimentare si è rivelato il tentativo di definire il cinema del reale in relazione alle tecniche di cui fa uso. È ancora una volta Nichols a spiegarne la ragione: «I documentari non utilizzano un elenco fisso di tecniche, non riguardano una serie fissa di questioni, non mostrano un solo insieme di stili o formule. Non tutti i documentari hanno almeno alcune caratteristiche comuni di base. Le tecniche dei film documentari sono un’arena in cui le cose cambiano»33. Non si è avuta maggiore fortuna nemmeno nel considerare il cinema del fattuale in rapporto a quello di fantasia, sebbene in area anglosassone, proprio allo scopo di delimitarne i confini per contrapposizione alla finzione, sia stata appositamente introdotta la nozione di non-fiction. Jean Breschand nota che così facendo si è finito unicamente per spostare e non per risolvere il problema,34 aggiungendo un ulteriore concetto che necessita a sua volta di essere definito. Difatti, come puntualizza Paul Ward, i due termini non sono sinonimi: «All documentary film are nonfictional, but not all nonfictional films are documentaries»35.
30 31 32 33 34 35
Tale formula è stata utilizzata da Jean Benoît-Lévy (in Gauthier, 2002: 265) per rilevare come la caratteristica principale dei documentari sia di «riprodurre la vita in tutte le sue manifestazioni». Con questo termine «i suoi promotori avevano semplicemente voluto dire che filmavano senza prepararlo il quotidiano, verso il quale sceglievano di puntare il loro obbiettivo» (ivi: 267). Tal espressione, diffusa da Mario Ruspoli, va a sostituire la precedente in quanto meno polemica, ma al contempo capace di dare l’idea che il cinema sia un mezzo che riduce al minimo gli intermediari (cfr. ivi: 268). Nichols, 2001: 32. Cfr. Breschand, 2002: 3. Ward, 2005: 7.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Sempre considerando il cinema del reale in relazione a quello di finzione, nel suo Rhetoric and Representation in Nonfiction Film Plantinga suggerisce di spostare l’attenzione sullo spettatore, non basando più la distinzione tra fiction e non-fiction solo su proprietà intrinseche al testo filmico, ma prendendone in esame anche il contesto produttivo e distributivo, nonché quello della ricezione.36 In particolare, a suo avviso, sarebbero le consegne di lettura a fare di una pellicola un documentario, poiché determinano l’atteggiamento che il fruitore assume di fronte alle immagini. Proprio la decisione del pubblico di accogliere o meno l’etichetta attribuita al film da regista, produttore e distributore risulterebbe centrale per la sua classificazione,37 giacché una pellicola può essere accettata come a carattere fattuale anche quando propone delle ricostruzioni o fa uso di tecniche comunemente associate alla finzione, ma solo se quanto mostra rientra nella concezione che il pubblico ha del cinema del reale. Anche Ward in Documentary: The Margins of Reality si colloca lungo questa direttrice, affermando: «What makes a documentary a documentary resides […] in the complex interaction between text, context, producer and spectator»38. L’esistenza stessa di una forma cinematografica come il mockumentary invalida, però, tale criterio di definizione. In queste opere, infatti, i registi violano coscientemente il patto comunicativo, sfruttando spesso trailer, locandine e altri paratesti per presentare come reali dei mondi immaginari. Nascono così una serie di prodotti audiovisivi, deliberatamente volti a generare confusione nello spettatore, che dimostrano con quanta facilità egli possa essere tratto in inganno circa lo stato ontologico di un testo filmico. Allora come definire il documentario? Proprio per la complessità del rapporto che intrattiene con i due poli di realtà e finzione, l’unico modo per concepirlo sembra essere quello proposto da Jane Roscoe e Craig Hight: «We prefer to think about documentary as existing along a fact-fictional continuum, each text constructing 36 37 38
Cfr. Plantinga, 1997: 16. Plantinga (ivi: 21) puntualizza: «Indexing cannot be wholly determined by the producer/distributor/exhibitor, but also depends on that index being taken up by the audience». Ward, 2005: 11.
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Al confine tra realtà e finzione
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relationship with both factual and fictional discourses»39. Tuttavia, per individuare una risposta meno nebulosa ritengo, paradossalmente, che sia necessario guardare a quelle forme spurie che abitano la terra di mezzo tra vero e immaginario ed in particolare al mockumentary. Giacché si appropria delle estetiche documentarie per far apparire fattuali universi inventati, solo un’analisi di quest’ultimo può permetterci di arrivare a delineare quali costrutti e perché inducano il pubblico a considerare un prodotto audiovisivo come appartenente al cinema del reale, nella più ampia prospettiva di porre le basi per la futura individuazione di una definizione del documentario stesso.
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Roscoe; Hight, 2001: 7.
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PER UNA DEFINIZIONE DI MOCKUMENTARY
Ponendosi in linea con il pensiero baziniano, Jean-Luc Godard fa dichiarare al protagonista del suo Le Petit Soldat (Id., 1960): «La fotografia è la verità, e il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo». In realtà, non solo l’immagine fotografica di per sé è sempre finzione, poiché non è dotata del medesimo grado di esistenza di ciò che raffigura,1 ma il grande schermo può addirittura presentare come fattuali mondi immaginari. Esistono, infatti, prodotti audiovisivi che, pur narrando vicende di fantasia, si configurano come documentari. Nel tempo per denominare tali opere si è fatto ricorso alle più svariate etichette, quali faux documentary, fake documentary, cinema un-vérité, pseudo-documentary, cinema vérité with a wink, quasi-documentary, black comedy presented as in-your-face documentary e spoof documentary.2 Tuttavia, il termine più utilizzato per riferirsi a questi testi è il neologismo mockumentary, derivante dalla fusione dei vocaboli anglofoni mock e documentary.3 La sua 1
2 3
Cfr. Jost, 2003: 12. A ciò si aggiunga che nell’atto di realizzare una fotografia è possibile adottare degli accorgimenti che la inducano a documentare quello che noi vogliamo attestare. Marco Bertozzi (cfr. 2008: 32) porta l’esempio del lavoro di Charles Marville, il quale, incaricato di certificare le fasi d’intervento del progetto Haussmann, riesce a ottenere delle immagini che dimostrino la necessità delle operazioni di demolizione. Cfr. Roscoe, 2006: 908. Si precisa che inizialmente viene utilizza la forma mock documentary o mock-documentary. Solo in un secondo tempo avviene la crasi dei due vocaboli che porta all’introduzione della formula mockumentary. Sebbene quest’ultima sia oggi la più utilizzata, le prime due continuano però a convivere con essa. In alcuni casi si riscontra anche il ricorso al termine
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
paternità viene solitamente attribuita al regista Rob Reiner, che l’avrebbe introdotto nel 1984 per definire il proprio film This Is Spinal Tap (1984).4 Di fatto, però, si è riscontrato come già nel 1983 diversi critici americani usino l’espressione «mock documentary»5 nel recensire Zelig (Id.) di Woody Allen. Se, tra i tanti vocaboli impiegati, è quest’ultimo a consolidarsi, si ritiene dipenda dal suo essere il più adatto etimologicamente per indicare opere che non muovono dall’intento di frodare lo spettatore facendo passare per reale il falso, bensì che si appropriano delle estetiche documentarie a fini “ludici”, fornendo segnali del loro «giocare con i codici»6. Caratteristica di tali ibridi non è, infatti, solo il ricorso alla grammatica della cinematografia fattuale per raccontare accadimenti immaginari, ma anche la presenza di una gamma d’indizi volti a metterne in luce la natura finzionale. Essi possono venir proposti in numero maggiore o minore così come possono essere più o meno evidenti in relazione al grado di veridizione dei singoli testi, ma non mancano mai. Dimostrazione di come queste spie siano parte integrante del mockumentary, al pari delle estetiche documentarie, è il fatto che si possano rintracciare anche in opere il cui carattere fantastico è già di per sé così evidente da renderli superflui. Emblematico in tal senso è Surf ’s Up (Surf ’s Up – I re delle onde, 2007) di Ash Brannon e Chris Buck, lungometraggio incentrato su un giovane pinguino che aspira a diventare un surfista professionista. Il solo fatto che sia realizzato in animazione (e che quindi quanto mostrato manchi di un qualsivoglia rapporto indessicale con il reale) è sufficiente a chiarirne la natura fittizia. Ciò nonostante, nel corso del film è possibile no-
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mocumentary (cfr. ad esempio ibidem). Si noti, però, che ancora non viene fatto un uso esclusivo di quest’etichetta, preferendole a volte espressioni quali faux-documentary o fake documentary. Cfr. ad esempio Canova, 2009: 939. Nel suo saggio Rock & Mock: quando il duro si fa gioco Rosario Gallone (2009: 102-103) spiega poi come il regista statunitense avrebbe coniato tale vocabolo «sostituendo al prefisso rock di rockumentary […] il termine mock, che come sostantivo significa finto, mentre come verbo sta per prendersi gioco, fare il verso a». Cfr. ad esempio Kael, 1983: 84; Denby, 1983: 51. Sulla scorta di quanto fatto dalla critica americana anche alcuni recensori britannici usano questo termine nel parlare del film di Allen. È il caso di Gibbs, 1983: 17. Per un’esemplificazione di quest’ultimo concetto si veda Jost, 2003: 77.
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Per una definizione di mockumentary
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tare la presenza di tecniche sinonimo di manipolazione (quali il time-lapsing e il replay),7 d’inquadrature inverosimili come catturate dall’operatore al seguito dei protagonisti,8 di apparecchiature di ripresa apparentemente dimenticate in campo e di personaggi che si mostrano consapevoli d’essere filmati, tutti elementi abitualmente utilizzati per segnalare la finzionalità di quei finti documentari che, come in questo caso, falsificano la modalità di rappresentazione osservativa. A un primo livello, quindi, si può definire il mockumentary come un corpus di prodotti audiovisivi di fiction che si appropriano di estetiche consuetamente associate al cinema del reale al fine di strutturarsi come documentari per tutto l’arco della propria durata, dichiarando al contempo di essere frutto della creatività di uno sceneggiatore attraverso spie del loro carattere fantastico. Non rientrano invece in questa categoria né quelle opere fattuali che presentano come vero il falso, senza fornire indicazioni circa l’effettivo stato ontologico del materiale proposto, né quei testi di finzione che ricorrono in modo sporadico alla grammatica del cinema del reale.9 Proprio per tale motivo si ritiene più corretto italianizzare il termine mockumentary con l’espressione finto documentario (o tutt’al più fintumentario), piuttosto che con i vocaboli mockumentario e falso documentario, come sempre più spesso si tende a fare. Il primo, infatti, è una traduzione solo parziale del neologismo anglofono, mentre il secondo ne è una trasposizione scorretta giac-
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Vi è, infatti, una sequenza ove, grazie al time-lapsing, vediamo l’organizzatore del Big Z Memorial, Reggie Bellafonte, bere diverse noci di cocco a una velocità non verosimile. Inoltre, quando Cody sfida Tank Evans per la prima volta e cade malamente in acqua, si propone tre volte il replay del suo rovinoso schianto nell’oceano. Ad esempio, è presente una scena in cui si restituiscono visivamente i pensieri che attraversano la mente del giovane pinguino appena prima d’iniziare la gara. Erra pertanto, ad esempio, Cynthia J. Miller (cfr. 2009b: 135) a includere tra questi ibridi un film come CB4 (1993, di T. Davis), ove nel raccontare le vicende dell’omonimo gruppo rap si ricorre alle estetiche documentarie solo in alcuni momenti.
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ché, come riportato da Umberto Eco ne I limiti dell’interpretazione, per falso s’intende un prodotto «alterato con intenzione dolosa»10.
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2.1 In dialogo con le definizioni Critici e teorici della settima arte sono inclini a considerare il mockumentary un sotto-genere del documentario o, più spesso, un genere cinematografico a sé stante.11 La prima tendenza si deve a Nichols, il quale nel suo Introduction to Documentary, pur parlandone nei termini di «fiction non proprio vere»12, inscrive tali ibridi tra quei prodotti fattuali che adottano la modalità di rappresentazione riflessiva, ovvero tra quei documentari che intendono spingere lo spettatore a essere maggiormente conscio del proprio rapporto con questa forma filmica e con ciò che essa rappresenta. Come ben rilevano Roscoe e Hight, il teorico statunitense incorre, però, qui in errore, poiché pellicole quali David Holzman’s Diary (1967, di J. McBride) e No Lies (1978, di M. Block) (questi i titoli da lui portati ad esempio), pur condividendo l’intento di spingere il proprio pubblico a rapportarsi in modo più consapevole con la produzione audiovisiva fattuale, perseguono tale obbiettivo attraverso il racconto di vicende di fantasia, inscenate da attori.13 Come possono quindi essere considerate parte di una sotto-categoria del cinema del reale? Di conseguenza, nel momento in cui, ponendosi in continuità con Nichols, la studiosa Leshu Torchin etichetta il mockumentary come un «rapidly growing subgenre of the documentary»14, ne dà una definizione discutibile, giacché non basta che un testo filmico assuma l’aspetto di un documentario perché lo si possa ritenere tale. Soprattutto se, come nel caso in oggetto, tale opera chiarisce la sua natura immaginaria fornendo indizi della propria finzionalità.
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Eco, 1990: 162. Questo paragrafo riprende in parte Formenti, 2012. Nichols, 2001: 134. Cfr. Roscoe; Hight, 2001: 32-33. Torchin, 2008: 54.
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Per una definizione di mockumentary
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Posto ciò, prendiamo ora in esame codesti ibridi in relazione alla nozione di genere.15 Qualora per quest’ultimo s’intenda «un tipo di film che è diventato riconoscibile come tale perché nel tempo un sufficiente numero di film sono stati fatti e identificati in quel modo»16, sembrerebbe appropriato classificare così il mockumentary. Tuttavia, come delinea Roberto Campari, caratteristica delle pellicole di genere è «una certa ripetitività», ovvero «un’omogeneità nel tipo di storie narrate»17, non riscontrabile nei finti documentari, ove soggetti, ambientazioni e intrecci sono i più disparati e non si rileva la presenza di personaggi comuni alla totalità (o quasi) dei testi.18 Per di più, se è vero che vi sono molti mockumentary comicoparodistici, è però inesatto considerare l’umorismo un “attributo di genere” di tali opere,19 giacché non solo è possibile rintracciare anche numerosi finti documentari a carattere drammatico, ma è proprio con un film estremamente crudo, quale The War Game (Id., 1965) di Peter Watkins, che questa forma audiovisiva fa la sua prima comparsa sul grande schermo. E non si può certo risolvere la questione, come spesso accade, definendo questi ultimi dei
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Tra i tanti che classificano il mockumentary come un genere si ricordano, ad esempio, Miranda Campbell (2007: 53), che ne parla come di un «relatively new genre», e Andrea Bellavita (2008: 27), che lo definisce «un genere flessibile e sfuggente». King, 2002: 147. Campari, 2003: 722. Malgrado vi siano molte pellicole che vantano tra i propri personaggi un documentarista, ve ne sono altrettante ove o tale figura è solo evocata attraverso la colonna sonora (facendo udire le domande che pone a chi intervista), o addirittura la sua presenza può essere desunta unicamente in base al fatto che, di norma, affinché si possa girare un film, deve esserci qualcuno dietro la macchina da presa. Ad esempio, Alexandra Juhasz (in Juhasz; Lerner, 2006: 2) in F Is for Phony parla del mockumentary come di «a special breed of parody», mentre è con le parole «one part humour and two parts transgression» che Miller (2009a: 3; 2012: xi) descrive tali testi. Prima di lei, anche Campbell (cfr. 2007: 53) in un articolo apparso sulla rivista Taboo individua nell’ironia una loro caratteristica. All’origine di questa tendenza vi è probabilmente il fatto che, nella prima monografia dedicata all’argomento, Roscoe e Hight (2001) prendano in considerazione solo opere comico-parodistiche, ignorando invece film drammatici significativi, come The Blair Witch Project (Il mistero della strega di Blair, 1999, di D. Myrick e E. Sánchez).
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
docudrama,20 dacché non romanzano avvenimenti reali, bensì danno conto di vicende immaginarie, proprio come avviene nei finti documentari umoristici. I mockumentary, inoltre, non differiscono tra loro solo per il tipo di vicende narrate, ma anche per come le raccontano. In primo luogo, non falsificano una medesima modalità di rappresentazione del fattuale. Difatti, sebbene spesso ci si appropri delle estetiche del cinema diretto, poiché più facili da imitare, si fa altresì ampio ricorso alla forma descrittiva e a quella partecipativa così come non mancano casi di opere ove addirittura si adotta più d’una modalità.21 Secondariamente, questi prodotti non presentano un grado uniforme di finzionalità. Alcuni esibiscono il proprio carattere immaginario fin dai primi minuti, altri palesano il loro stato ontologico solo nella seconda metà e altri ancora, denominati hoax,22 si mantengono perfettamente credibili come documentari fino ai titoli di coda e oltre. A ciò si aggiunga che, sebbene molti mockumentary siano creati chiedendo agli attori d’improvvisare a partire da un trattamento, se ne contano altrettanti ove gli interpreti recitano attenendosi scrupolosamente a una sceneggiatura. Unica differenza è che nel primo caso il modus operandi adottato dal regista viene messo in rilievo nel promuovere il film (probabilmente per cercare di far passare l’idea che, per quanto raccontino vicende immaginarie, tali opere sono comunque dotate di una certa spontaneità), facendo così apparire questa come la modalità di realizzazione del mockumentary per eccellenza. Allo stesso modo, nemmeno la scelta di ricorrere a volti sconosciuti, come avviene nel succitato The 20 21
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È il caso, ad esempio, di Roscoe; Hight, 2001: 57 e Smith, 2006: 62. Si pensi, ad esempio, a Forgotten Silver (1995, di C. Botes e P. Jackson) ove, a sequenze nelle quali un narratore in voce over illustra filmati e fotografie d’epoca, se ne alternano altre in cui la macchina da presa segue Jackson e Botes mentre intraprendono la ricerca del set cinematografico utilizzato da Colin McKenzie per girare il film Salome. Per approfondimenti al riguardo si rinvia al capitolo 8 del presente volume. Tale vocabolo è di origine anglofona e corrisponde all’italiano scherzo, beffa o, secondo Luca Damiani (cfr. 2004: 20), bufala. Si tratta di un termine adoperato in area anglosassone per identificare genericamente ogni tipo di burla mediatica indipendentemente dal mezzo di comunicazione cui ci si affida e poi ripreso da Roscoe e Hight (cfr. 2001) per indentificare quei mockumentary particolarmente credibili come veri documentari, capaci, appunto, di beffare lo spettatore circa il proprio stato ontologico.
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Per una definizione di mockumentary
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War Game, può essere ritenuta un tratto caratteristico di questi testi. Sono, infatti, altrettanto numerosi i finti documentari che contano tra i propri interpreti volti familiari al grande pubblico. Si pensi, ad esempio, al caso di Christopher Guest che, per realizzare i suoi Waiting For Guffman (Sognando Broadway, 1996), Best in Show (Campioni di razza, 2000) e A Mighty Wind (A Mighty Wind - Amici per la musica, 2003), ha addirittura dato vita a una vera e propria compagnia composta da noti comici, tra cui Eugene Levy, Michael McKean e Harry Shearer.23 Da questa breve disamina emerge quindi come i mockumentary non presentino quell’insieme di caratteristiche semantiche e sintattiche comuni necessarie per poter parlare di genere. E anche adottando la prospettiva negoziale di Rick Altman, per cui il genere non è da intendersi come «una proprietà dei testi» quanto piuttosto come «un prodotto derivato dalle pratiche comunicative»24, risulta ugualmente inadeguato circoscrivere il finto documentario a tale tipologia di “contenitore”. Infatti, i paratesti che pubblicizzano tali ibridi li presentano o come prodotti fattuali o come film appartenenti a specifiche categorie del cinema di fiction, mentre non li classificano mai come mockumentary, a dimostrazione di come l’industria cinematografica non abbia mai riconosciuto quest’ultimo nemmeno come un ciclo.25 Non si è, perciò, venuta a creare neanche una specifica «comunità costellata»26 di fruitori che tragga piacere dalla visione di una determinata pellicola in quanto mockumentary. Inoltre, non solo i critici non fanno ancora un uso esclusivo di questo vocabolo (prediligendo a volte espressioni quali faux-documentary o semi-documentary),27 ma non sono neppure compatti nel definire il finto documentario un genere. Vi è chi 23 24 25
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Per una descrizione del metodo di lavoro adottato da Guest si veda Muir, 2004. Altman, 1999: 177. Ad esempio, i flani apparsi sulla rivista Time Out in occasione dell’uscita di Sidewalks of New York (I marciapiedi di New York, 2001, di E. Burns), Confetti (Id., 2006, di D. Isitt) e Cloverfield (Id., 2008, di M. Reeves) delineano rispettivamente questi film come «a fresh honest take on dating & mating…. It’s Sex in the City with a grittier edge», «the funniest British commedy in years» e «the ultimate monster movie». Altman, 1999: 236. Per il primo caso si veda ad esempio Millar, 2001: 55, mentre per il secondo Roberts, 2002: 27.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
preferisce parlarne nei termini di «format»28 e chi, più frequentemente, in quelli di stile. Ad esempio, Patrick Gibbs nel recensire Zelig per il Daily Telegraph utilizza l’espressione «mock documentary style»29, mentre su Duellanti Mario Serenellini descrive Borat - Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan (Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan, 2006, di L. Charles) come «diretto in stile finto documentario»30. Peraltro, già Roscoe e Hight in Faking It riconoscono che considerare il mockumentary un genere è limitativo, poiché non permette di restituire il carattere mutevole dei testi a esso ascrivibili: «To conceive the mock-documentary as a genre would ultimately lead us to obscure the diversity of textual strategies which fall under this umbrella, and to diminish the shifting nature of the form»31. Essi propongono quindi di concepirlo piuttosto come un discorso «informed and shaped through the particular relationship it constructs with documentary proper, with the discourse of factuality, and especially through the complexity of its engagement with viewers»32. Ancora nel 2010, però, quando torna sulla questione all’interno del suo Television Mockumentary, lo studioso neozelandese si limita a classificare in modo vago il finto documentario come un «complex discourse»33. Tuttavia, è possibile giungere a una definizione meno aleatoria di mockumentary. Esso, infatti, può essere ritenuto, a tutti gli effetti, uno stile narrativo «collettivo»34, giacché ad accomunare queste opere è un insieme di elementi “di superficie” «dotati di una fortissima autonomia e che incrociano, trasversalmente, i sistemi degli autori, interpretati in senso tradizionale, e i sistemi dei generi»35. Sebbene si possa rintracciare anche in film di registi dotati di una precisa autorialità (quali Woody Allen, Peter Gree28 29 30 31 32 33 34 35
È ad esempio il caso di Shoard, 2006: 21. Gibbs, 1983: 17. Serenellini, 2007: 42. Roscoe; Hight, 2001: 183. Ibidem. Hight, 2010: 17. Tale termine è qui inteso nell’accezione delineata in Bertetto, 2006: 82-83. Quaresima, 2007: 537. A questa conclusione sembra si stia avvicinando anche Hight (cfr. 2012: 73), seppur limitatamente all’impiego televisivo del mockumentary.
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naway e Tim Robbins) o in prodotti identificabili come appartenenti a specifiche categorie del cinema di fiction (come ad esempio l’horror, la fantascienza o il bipoic), il mockumentary gode di dinamiche di evoluzione indipendenti da quelle delle poetiche d’un singolo cineasta o di un determinato genere e legate, invece, al progressivo modificarsi delle modalità di rappresentazione del documentario. Ecco, allora, che nei testi più recenti a essere riprodotte sono spesso le estetiche delle riprese di videofonini e telecamere di sorveglianza, come accade ad esempio in Death of a President (Morte di un Presidente, 2006, di G. Range). Non si tratta, però, di uno stile inteso come «catalogo […] di tipi d’inquadrature e di montaggio», quanto piuttosto come «sistema complesso, stratificato, in cui interagiscono elementi tecnico-linguistici (riprese, montaggio, illuminazione), ma anche elementi non linguistici (narrativi, iconografici, tematici e pragmatici)»36. Se, infatti, i suoi due tratti caratteristici sono, da un lato, il ricorso a istanze veridittive e, dall’altro, a indizi di finzione, i primi sono per lo più rintracciabili a livello tecnico-linguistico, mentre i secondi appartengono più frequentemente al livello iconografico e/o a quello narrativo. Si pensi, ad esempio, a quei casi in cui a rimarcare la natura fittizia di questi prodotti audiovisivi sono la non plausibilità della vicenda stessa o l’uso della parodia. Va, inoltre, rilevato che, in relazione al mockumentary, la nozione di stile non è da concepirsi nell’accezione di «norma»37 (che il finto documentario rifugge in virtù della sua stessa natura parassitica che lo porta ad avere un carattere camaleontico), bensì in quella di «scarto, variazione, differenza rispetto ad un modello comune»38 che in questo caso è quello dello stile classico hollywoodiano, a cui si contrappone nettamente. Difatti, se il secondo si contraddistingue per un montaggio invisibile, improntato al principio della continuità, considerata indispensabile per restituire allo spettatore l’impressione di realtà, il primo presenta un montaggio frammentato, nonché costanti sottolineature della presenza di un obbiettivo pronto a scrutare tutto ciò che accade, operate sia attraverso i movimenti di macchina prescelti sia attra36 37 38
Buccheri, 2010: 38. Compagnon, 1998: 188. Ibidem.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
verso sguardi in macchina o interazioni dei personaggi con l’apparecchiatura stessa e con coloro che la utilizzano. E ciò accade indipendentemente dalla modalità documentaristica falsificata. Ad esempio, un montaggio discontinuo si rintraccia in Zelig (ove è dovuto all’accostamento di materiali di diversa provenienza) così come in Cloverfield (in cui addirittura vengono giustapposti «frammenti filmici di temperatura emotiva opposta»39). Non stupisce, quindi, che tale stile nasca proprio negli anni Sessanta, periodo in cui si è alla ricerca di alternative all’allora dominante cinema classico hollywoodiano che permettano sia di rinnovare la grammatica da esso imposta sia di produrre pellicole con budget ridotti. Il mockumentary è, infatti, in grado al contempo d’innovare il modo di raccontare la finzione e di limitare i costi di produzione senza che ciò precluda la possibilità di ottenere considerevoli profitti al botteghino, soprattutto se a essere riprodotte sono le estetiche della modalità osservativa.40 Esempio in tal senso è Paranormal Activity (Id., 2007, di O. Peli) che, a fronte di un investimento di 15.000 dollari, ne ha incassati ben 193.355.800.41 Non sono, però, necessarie elevate somme di denaro nemmeno per ricreare immagini dall’aspetto datato. Si pensi a Forgotten Silver: prodotto con soli 620.000 dollari, è la dimostrazione di come sia possibile realizzare «such effects as old film and lost worlds on no budget at all»42. Non meno importante è il fatto che il ricorso alle estetiche documentarie consenta di approcciare in modo originale soggetti ampiamente sfruttati. Si prenda ad esempio il già citato Cloverfield. È proprio la scelta di adottare il punto di vista soggettivo (e quindi limitato) di un inesperto videoamatore a evitare che questo monster movie diventi semplicemente l’ennesima storia di fantascienza in cui una creatura spaventosa minaccia la sopravvivenza degli abitanti di una metropoli, rendendola invece un prodotto innovativo.43 39 40 41 42 43
Uva, 2009: 147. Come rileva Shoard (2006: 21), «pretending to be a fly on the wall is the perfect excuse for scuzzy lighting, poor sound and a meager budget». Tali dati sono tratti dal sito Mojo Box Office. Cfr. Horton, 2001: 55. Difatti, come evidenzia Uva (2009: 146), solitamente in un monster movie «la prospettiva adottata è di tipo rigorosamente olistico». Pertanto la
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Per una definizione di mockumentary
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Analogamente, da film quali Husbands and Wives (Mariti e mogli, 1992) di Woody Allen o Sidewalks of New York di Edward Burns emerge come la falsificazione delle estetiche del cinema diretto, e in particolare il ricorso alle interviste, presenti un notevole vantaggio rispetto all’adozione della tradizionale grammatica del cinema classico hollywoodiano: un approfondimento della psicologia e dei sentimenti dei personaggi altrimenti impossibile. Le interviste, infatti, consentono un’introspezione dei protagonisti molto superiore a quella di un qualsiasi film sentimentale realizzato in modo tradizionale. Si consideri Husbands and Wives. Qui i diversi personaggi, nel commentare le proprie vicende affettive, rivelano alla macchina da presa timori, frustrazioni, gioie e pensieri reconditi, quasi fossero sul lettino di uno psicologo. Attraverso tali interviste i protagonisti possono, inoltre, fornire informazioni relative ad accadimenti passati che è necessario il pubblico conosca per comprendere appieno quanto avviene nel presente filmico. A trarre beneficio dall’adozione di questo stile non sono quindi solo singoli soggetti, bensì interi generi. Si pensi in particolare al caso dell’horror, ove con sempre maggior frequenza per spaventare lo spettatore si sceglie la forma del finto documentario. In generale il mockumentary non è, però, da intendersi solo come uno dei possibili stili cui fare ricorso per raccontare la finzione, quanto come il «modo di essere»44 che un prodotto audiovisivo deve adottare per poter instaurare una riflessione meta-cinematografica sulle pratiche documentaristiche stesse. Infatti, «il mockumentary, oltre a essere un film di finzione, è anche sempre un metadocumetario», ovvero «un prodotto che s’interroga sul carattere epistemico del documentario»45.
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scelta di un punto di vista infradiegetico risulta inedita. Un caso ancor più eclatante di come il ricorso a tale stile possa rendere più accattivante un film è costituito da They Shoot Movies, Don’t They?...the Making of Mirage (2000, di F. Gallagher). Esso viene realizzato nel 1992 come un tradizionale racconto di finzione. Il regista, però, riesce a trovare un distributore disposto a farlo circuitare solo nel 2000, quando decide «to pitch it as a documentary along with fabbricated press clippings to support the story and a false obituary of the protagonist» (Cain, 2009: 9). Metz, 1991: 186. Bellavita, 2008: 28. Va detto però che questo tipo di riflessione spesso non deriva da una precisa volontà del regista, bensì è connaturata nel fatto stesso di raccontare la finzione attraverso l’adozione delle estetiche docu-
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Come nota Vincenzo Buccheri, «un modello stilistico è sempre anche […] la forma di un discorso»46 che permette di esprimere «una certa visione del mondo di cui è, ancora, sintomo»47. Secondo questa concezione «estensiva»48 uno stile cinematografico è, quindi, anche «un sistema formale storicamente e socialmente situato, cioè in stretta connessione con il contesto storico, tecnologico, industriale, economico e culturale in cui i testi vengono prodotti e fruiti»49. Ecco allora che, guardando al mockumentary in quest’ottica possiamo, in primo luogo, comprendere perché il tipo di marche veridittive rintracciabili in tali opere cambi nel tempo in relazione al modificarsi di ciò che lo spettatore considera come prova documentaria. Secondariamente, si può arrivare a ipotizzare che non sia casuale il fatto che questo stile trovi crescente spazio ai giorni nostri, dal momento che si dimostra capace di rispondere a un’esigenza di racconti “reali” propria della società odierna, presso la quale la produzione pseudo-fattuale è andata prendendo sempre più piede, come dimostra la grande proliferazione di reality show e affini.
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mentarie. Inoltre, come si vedrà nel capitolo 5, ad essa può essere accostata anche una critica a specifici aspetti della nostra società o ai media in generale. Tuttavia, ciò è legato ai soggetti scelti e non al tipo di appropriazione delle estetiche documentarie, come suggeriscono invece Roscoe e Hight (cfr. 2001). Per tale ragione si è qui scelto di non leggere questo corpus di opere in base ai tre gradi di mock-dockness da loro individuati, bensì di considerarlo in relazione ai generi ibridati da codesto stile. Buccheri, 2010: 49. Carluccio, 2006: 115. Buccheri, 2006: 100. Buccheri, 2010: 37.
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SPETTATORI CONSAPEVOLI E INCONSAPEVOLI: IL MOCKUMENTARY COME MODALITÀ DI RICEZIONE Alla base del mockumentary vi è un’idea di ricezione come processo di comunicazione fondato sulla negoziazione.1 Nel dar vita a questi ibridi ci si avvale, infatti, di marche consuetamente associate alla produzione fattuale per indurre il pubblico a costruire, almeno in un primo tempo, «un enunciatore reale interrogabile in termini di verità»2. Le iniziali istruzioni di «lettura documentarizzante»3 vengono, però, poi negate attraverso l’inserimento di elementi volti a segnalare la natura fittizia del testo, invitando così i fruitori a una rinegoziazione del patto comunicativo. Il mockumentary ipotizza quindi uno spettatore «partecipe, coinvolto nella definizione e nella chiusura del senso del film»4. In questo caso, tuttavia, egli non ha solo la facoltà di mostrarsi «scettico»5, bensì gli s’impone d’esserlo, seppur limitatamente al grado di esistenza del mondo tratteggiato dall’opera. Ma, come notano Roscoe e Hight, affinché ciò accada, è necessario che egli sia altresì un «knowing and media-litterate viewer»6, avente soprattutto familiarità con i codici e le convenzioni del cinema del reale. Quello appena descritto è, però, un percorso di visione ideale, giacché vi possono essere casi in cui il carattere fantastico di tali ibridi è tanto palese da spingere il pubblico a mettere in atto da subito un modo di «lettura finzionalizzante»7, così come casi in cui 1 2 3 4 5 6 7
Per la trattazione del concetto di negoziazione applicato alla spettatorialità si rimanda a Casetti, 2002. Odin, 2000: 205-206. Per una definizione di tale concetto si veda ivi: 191-211. Fanchi, 2005: 92. Per questo concetto si rinvia a Jost, 2003: 43. Roscoe; Hight, 2001: 52. Per una trattazione approfondita di tale nozione si veda Odin, 2000.
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il fruitore non riesce a cogliere le spie della natura fittizia di questi prodotti e continua pertanto a leggerli come veri documentari. Ciò può dipendere semplicemente da una visione passiva, ma anche dal fatto che queste opere sono spesso costruite facendo riferimento a precise subculture. Di conseguenza, saperi culturali specifici diventano volutamente il discrimine per il riconoscimento della loro finzionalità, venendosi così a creare diversi possibili livelli di comprensione del testo. Si pensi, ad esempio, ai mock-rockumentary (finti documentari che danno conto del tour o del concerto tenuto da una band), la cui irrealtà è segnalata principalmente attraverso il ricorso a una comicità di tipo parodistico. L’effettivo carattere immaginario di tali pellicole è facilmente individuabile da chi conosce l’universo musicale in oggetto, ma non altrettanto da quanti mancano di nozioni in materia. Ecco allora che la «situazione di visione»8 acquista qui un ruolo superiore a quello che può avere nella ricezione di un normale film di fiction o di un vero documentario. Difatti se, come ben rileva Hight, ciascuno di questi ibridi può generare una pluralità di risposte,9 non dipende solo in astratto dal tipo e dal numero di marche veridittive e indizi di finzione adottati (che pure svolgono un ruolo fondamentale), ma anche da fattori quali razza, età, identità sessuale, storia personale, grado di conoscenza dell’argomento trattato e livello d’istruzione del singolo spettatore. Dal momento che, all’atto della ricezione, intervengono variabili soggettive da lui non controllabili, un regista non può quindi imporre un percorso fruitivo univoco. Può solo imprimere al proprio prodotto un grado ideale di realismo (che può spaziare dall’evidentemente fittizio all’estremamente credibile come vero), scegliendo tra una gamma di elementi testuali ed extra-testuali a sua disposizione. Non sorprende pertanto constatare, a volte, lo stupore di questi filmmaker di fronte a spettatori incapaci di cogliere una finzionalità, a loro avviso, evidente.10 8 9 10
Per una definizione di questo concetto si rinvia a Fanchi, 2005: 116. Cfr. Hight, 2010: 34. Ad esempio, Filippo Macelloni (in intervista inedita rilasciata all’autrice in data 4 giugno 2013), regista insieme a Lorenzo Garzella de Il mundial dimenticato (2011), dichiara con un certo stupore: «Quando abbiamo scritto e poi girato il film non pensavamo ci sarebbero stati equivoci. Non solo fin da subito ci sono abbastanza elementi da indurre il pubblico a seguirlo
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Premesso ciò, vediamo ora in che modo, da un lato, si conferisce veridizione a tali opere e, dall’altro, se ne segnala la natura immaginaria.
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3.1 La costruzione del reale Come afferma Marco Bertozzi, «la situazione in cui guardiamo il film, la sala in cui è proiettato, i primi informativi narrativi ma anche, a un certo livello, i valori di una società, il clima storico e i bisogni immaginifici di una cultura» sono tutti «elementi capaci d’indirizzare la nostra credenza cinematografica»11. In particolare, nel caso del mockumentary, due sono i fattori extra-testuali cui si ricorre maggiormente per guidare lo spettatore nella scelta del patto comunicativo da instaurare: i paratesti (ovvero «quegli elementi o prodotti che affiancano […] la produzione e il consumo di un oggetto culturale»12) e il contesto mediale della ricezione. I primi, oltre che per fornire le consegne di lettura, possono essere sfruttati anche per presentare come veri personaggi o eventi narrati dal film, avvalorando così l’idea che appartengano al mondo reale. Si pensi, ad esempio, alle diverse pagine web messe in rete in occasione dell’uscita di Cloverfield, ove si delineano come esistenti figure e realtà fittizie presenti nella pellicola.13 Anche il contesto mediale di per sé può incidere profondamente sull’instaurarsi o meno dell’iniziale contratto comunicativo di veridizione tra il fruitore e l’opera, in quanto siamo abituati a concepire la sala cinematografica come luogo della finzione e il piccolo schermo, invece, come un enunciatore collocabile nel nostro stesso spazio. Di conseguenza, quando un prodotto audiovisivo ci viene presentato come fattuale da quest’ultimo, siamo propensi a crederlo ciecamente tale, mentre tendiamo a mettere in discus-
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come una storia di finzione, ma con il procedere del racconto la vicenda diventa sempre più incredibile. Invece molto spesso gli spettatori, al termine della proiezione, chiedono dettagli come se le vicende che hanno appena visto sullo schermo siano esistite veramente». Bertozzi, 2008: 18. De Berti, 2000: 3. Per una trattazione approfondita di tale aspetto si rimanda al capitolo 6 del presente testo.
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sione con più facilità queste istruzioni di lettura, se ci troviamo al cinema.14 Come si vedrà in seguito, non è quindi casuale che gli hoax siano destinati quasi esclusivamente alla televisione. L’illusione di realtà di un mockumentary dipende, però, in primis dal suo ricorrere a costrutti convenzionalmente considerati come garanzia di autenticità, la cui presenza di per sé valida agli occhi dello spettatore un’opera come prodotto a carattere veritativo. Si tratta di codici usati con tale frequenza nella produzione fattuale da divenire «part of our everyday common sense understandings of documentary»15. Tra i principali vi sono, ad esempio, le dichiarazioni di esperti e testimoni oculari, le fotografie, i filmati d’archivio, le riprese di videocamere di sorveglianza, i frammenti di notiziari o cinegiornali, le inquadrature mosse e sgranate e il bianco e nero, nonché la diretta, ritenuta da Jost l’istanza capace di generare in noi il maggior effetto di realtà, giacché «ci dà l’impressione […] di essere testimoni del mondo»16. Ciascuno di questi elementi ha un suo preciso valore veridittivo. Le testimonianze, essendo di persone che hanno vissuto i fatti in oggetto o possiedono una conoscenza specialistica sull’argomento, conferiscono credibilità a quanto narrato.17 Le fotografie, e per estensione i filmati d’archivio, comprovano l’esistenza del soggetto e/o dell’evento raffiguratovi, giacché tutt’oggi si risente della concezione baziniana per cui l’immagine fotografica sarebbe «impronta digitale»18 del proprio modello. E ciò, nonostante si sia ampiamente dimostrato quanto le odierne tecnologie permettano di manipolare un fotogramma. Ancor più probanti sono ritenute poi le riprese delle videocamere di sorveglianza, dacché acquisite attraverso un apparecchio meccanico che, per essere azionato, non necessita della presenza fisica di un operatore. È duplice, invece, la funzione assunta dagli spezzoni dei programmi d’informazione: attestare il verificarsi dei fatti raccontati e, al contempo, dimostrare che generano un
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Cfr. Odin, 2000: 211. Per una trattazione più approfondita di tale aspetto si veda il capitolo 6 del presente volume. Roscoe; Hight, 2001: 17. Jost, 2003: 35. Cfr. ivi: 16. Bazin, 1945: 9.
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«interesse»19, ovvero che li si ritiene meritevoli di attenzione mediatica. Per quanto riguarda poi le estetiche sporche ottenute con camera a mano o con un cellulare, esse sono associate all’idea di una realtà colta nel suo farsi, esente quindi da qualsivoglia messa in scena, mentre il bianco e nero è considerato sinonimo di autenticità in virtù del fatto che la manipolazione delle immagini si è resa possibile solo dopo l’introduzione del colore.20 Anche in questo caso si tratta di una concezione talmente radicata in noi da indurci a ignorare che oggigiorno è possibile falsificare qualsiasi tipo di materiale, come d’altro canto dimostrano mockumentary quali Zelig e Forgotten Silver. Essendo legati alla nostra idea di cinema del reale, tutti questi costrutti hanno acquisito il loro status di marche di autenticità in relazione al tipo di pratiche documentarie che si sono andate affermando negli anni. Pertanto, alcuni di essi hanno origini più antiche, mentre altri hanno assunto questa funzione solo in tempi recenti. Se, infatti, fino agli anni Cinquanta si associa il documentario alla presenza di una voce maschile, anonima e onnisciente (detta voice of God) che commenta una successione d’immagini fornendone una precisa lettura, è solo a seguito dell’avvento del cinéma vérité che riprese malferme realizzate con camera a mano e luce naturale diventano sinonimo di fattuale. Questo secondo approccio non porta, però, alla scomparsa del precedente ed essi vengono quindi a costituirsi come due delle possibili modalità di rappresentazione del reale.21 Tuttavia, nell’ottica del mockumentary, il primo tende ad assumere un carattere veridittivo superiore, sia perché impone un maggiore distacco emozionale dalle vicende raccontate sia perché il ricorso a un’istanza narrante estranea agli eventi attestati enfatizza nel fruitore l’impressione di oggettività.22 Ecco allora che nel realizzare gli hoax si tende a privilegiare proprio questa forma.
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Tale termine è qui inteso nell’accezione utilizzata in Colombo, 1984. Cfr. Roscoe; Hight, 2001: 17. Oltre a queste due, Nichols (cfr. 2001: 106-144) delinea altre quattro modalità di rappresentazione del documentario: poetica, riflessiva, partecipativa e rappresentativa. Cfr. ivi: 114.
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Va detto, poi, che vi sono altre due marche utilizzate con frequenza nei finti documentari per infondere veridizione agli accadimenti di cui si dà conto: da un lato, il ricorso ad attori sconosciuti che esibiscono una recitazione naturale per avvallare l’idea che si tratti effettivamente di prodotti fattuali e, dall’altro, l’inserimento di quelli che Fausto Colombo definisce «reperti»23, ovvero elementi aventi la funzione di conferire concretezza e rilevanza a quanto narrato. Questi ultimi, che possono essere visivi o sonori, constano in materiali considerati traccia del passaggio terreno di una data persona o del verificarsi di un determinato evento, quali contratti, cartelle cliniche, manifesti, cartelloni pubblicitari, pagine di giornali, gadget vari e registrazioni di dichiarazioni o colloqui. Infine, qualora la narrazione sia ambientata in un’epoca passata, si tende ad alimentarne il realismo “storicizzandola”, ovvero accostandone i fatti immaginari a veri accadimenti del periodo. È quanto avviene ad esempio in Zelig, il cui omonimo protagonista, fuggito da New York per non dover rispondere dei molti capi d’imputazione a suo carico, si ricongiunge alla psicanalista Eudora Fletcher a Monaco durante un raduno del partito nazionalsocialista, causando l’interruzione di un discorso del Führer. 3.1.1 L’hoax Come accennato in precedenza, non tutti i mockumentary esibiscono un medesimo grado di veridizione. Vi sono testi la cui finzionalità è tanto accentuata che la presenza di estetiche della cinematografia fattuale non riesce a ingenerare nello spettatore l’adozione di un modo di lettura documentarizzante.24 Ci sono poi film, quali This Is Spinal Tap o il succitato Zelig, la cui apparente veridicità viene progressivamente minata da un susseguirsi d’indizi volti a renderne sempre più esplicito l’effettivo stato ontologico e opere, note come hoax, il cui carattere fittizio è reso evidente solo attraverso i titoli di coda o addirittura con dichiarazioni successive.
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Per una definizione di tale concetto si rinvia a Colombo, 1984: 51. Si pensi ad esempio a C.S.A.: The Confederate States of America (2004, di K. Willmot), che ipotizza cosa sarebbe accaduto se la guerra civile statunitense fosse stata vinta dai confederati.
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Se i codici della produzione fattuale sono sufficienti a imprimere la necessaria illusione di realtà alle opere appartenenti ai primi due gruppi, gli ibridi inscrivibili nel terzo vanno oltre la categoria jostiana di «finta enunciativa»25. La loro credibilità poggia, infatti, anche sul ricorso a paratesti che li presentino come autentici, sullo sfruttamento dell’effetto veritativo del mezzo televisivo e sul vantare «istituzioni forti» (ovvero soggetti caratterizzati da «una vocazione documentarizzante»26) tra i propri produttori, nonché su soggetti costruiti a partire da credenze condivise o verità parziali. Si prenda ad esempio il finto scoop sul referendum istituzionale del 2 giugno 1946, proposto da Giovanni Minoli nella puntata di Mixer (1980 – 1998, Rai2/Rai3) del 5 febbraio 1990. Tale hoax rivela come sei giudici della corte d’appello avrebbero sostituito due milioni di schede a favore della Monarchia con altrettante, ove il voto andava invece alla Repubblica. Per far apparire realistica la vicenda, si propongono testimonianze dirette (un’intervistaconfessione a uno degli artefici del broglio elettorale), prove visive (un filmato in bianco e nero attestante l’accordo di segretezza stipulato da quanti hanno partecipato all’inganno), interviste a esperti (quali il presidente del movimento monarchico Fert Sergio Boschiero, il Ministro della Real Casa Falcone Lucifero, l’allora caporedattore dell’Avanti! Ugo Zatterin e il giurista Stefano Rodotà)27 e documenti autografi (la dichiarazione di un tipografo del Poligrafico dello Stato attestante il sequestro da parte della polizia di un cliché per la stampa di schede abusive in favore della Repubblica), nonché un servizio che, attraverso veri materiali di repertorio, contestualizza storicamente i fatti. Si colloca altresì il finto scoop all’interno di un programma d’informazione il cui conduttore è noto per un giornalismo responsabile e, soprattutto, si sfruttano sospetti effettivamente esistenti, giacché i primi dubbi di un possibile broglio sul referendum si sono sollevati non appena il 7 giugno 1946 Giuseppe Romita ne ha comunicato i risultati.28 25 26 27 28
Jost, 2003: 76. Odin, 2000: 209. Peraltro tali dichiarazioni sono genuine, giacché costoro non vengono preventivamente messi al corrente di essere coinvolti nella realizzazione di un prodotto di finzione. Al riguardo si veda Costantini, 1990. Il giornalista Orazio Petracca (1990: 10) delinea: «Un gruppo di giuristi dell’Università di Padova contestano i risultati diffusi da Romita osservan-
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La veridizione di questo ibrido non trova quindi la propria origine solo nella sua enunciazione audiovisiva, ma anche nella scelta di far leva a livello narrativo su concezioni diffuse, per quanto fallaci, inducendo così lo spettatore a ignorare i pur presenti indizi di finzione.29
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3.2 La decostruzione della veridizione Le spie utilizzate per segnalare la natura immaginaria di un mockumentary possono essere di tipo narrativo, visivo o, con minor frequenza, sonoro e possono essere più o meno numerose in base al grado di finzionalità che s’intende imprimere al testo. Esse inoltre non hanno tutte un medesimo livello di evidenza: vi sono indizi facilmente identificabili, ma anche elementi che richiedono un fruitore accorto per essere colti. Il primo è il caso di titoli di testa e/o di coda ove si rivela la presenza di attori, di soggetti di per sé
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do che il decreto legislativo col quale è stato indetto il referendum prevede la maggioranza degli elettori votanti e invece il ministero degli Interni non ha reso noto questo dato, limitandosi a fornire le cifre dei voti validi. […] E subito dopo si innesta sullo stesso problema un reclamo presentato da Enzo Selvaggi, […] il segretario generale del Partito democratico nazionale […]. C’è in effetti un contrasto di norme tra il decreto che indice e quello che disciplina il referendum (dove si parla solo di voti validi) e c’è soprattutto il fatto che il governo non dispone dei dati complessivi, perché in alcune sezioni […] le schede bianche e quelle nulle non sono state contate. Anzi di alcune sezioni […] mancano tutti i dati. La storia della Repubblica comincia così con un pasticcio che […] diede fiato alle voci sugli imbrogli che avrebbe commesso Romita in quelle due ore della nottata tra il 3 e il 4 giugno». Per questa ragione tale hoax scatena polemiche da parte della classe politica e la richiesta dell’immediata convocazione della Commissione di Vigilanza della Rai. Al riguardo si veda s.n., 1990: 3. Nel presentare il programma, l’annunciatrice dichiara che verrà proposta «una ricostruzione molto particolare» del referendum Repubblica – Monarchia del giugno 1946, che si concluderà con un colpo di scena a sorpresa, e chiede al pubblico di «sospendere ogni giudizio fino alla fine del servizio». Analogamente, durante la messa in onda del finto scoop si mostra in sovrimpressione la seguente scritta: «Attenzione, questo dossier va visto fino alla fine perché si conclude con un colpo di scena». Inoltre, nella parte finale della trasmissione Minoli svela la natura fittizia di tale notizia con un monologo in cui paragona questo servizio all’hoax realizzato da Welles nel 1938.
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non plausibili in quanto reali e del ricorso a interpreti noti. Per il secondo si pensi, invece, a inquadrature non verosimili come riprese dall’operatore che, nella finzione, starebbe girando il “documentario” o all’impiego di tecniche proprie della grammatica del cinema di fiction tradizionalmente bandite dai prodotti a carattere fattuale.30 Tra le molte spie adoperate per chiarire la natura fittizia di questi ibridi si ricordano poi anche l’inserimento di sequenze mentali, la presenza di una componente narrativa forte (come può essere l’ampio spazio dato al racconto di storie d’amore “casualmente” sbocciate nella vita dei protagonisti proprio mentre sono seguiti da una troupe) e l’impiego di una comicità di stampo parodistico.31 Quest’ultima, che spazia dall’esplicito umorismo costruito sul nonsense del mock-rocumentary The Rutles – All You Need Is Cash (1978, di E. Idle e G. Weis) allo humour sofisticato di Zelig, assolve al duplice scopo di «mettere in discussione la serietà del materiale»32 mostrato e di sottolineare che alla base dell’opera vi è una sceneggiatura. Tuttavia, si tratta di una spia soggettiva, giacché lo spettatore può riconoscerla solo proporzionalmente alla nozione che ha di quanto viene deriso. Ci saranno, perciò, fruitori che la coglieranno subito, altri che la individueranno solo in alcuni punti e altri ancora che non la identificheranno affatto, continuando a leggere il film come un vero documentario. Si segnala inoltre che non solo alcuni indizi assumono la propria funzione in relazione a una specifica forma di rappresentazione del documentario, ma che vi sono altresì spie dotate di un potenziale riflessivo, ovvero che possono indurre lo spettatore a ragionare sulla fallacia di alcune concezioni alla base della cinematografia documentaria, e in particolare del cinéma vérité. È il caso, ad esempio, della presenza, in mockumentary che si appropriano della modalità osservativa, di momenti ove il sonoro non è congruente come diegetico. Si evidenzia così che i documentari, 30 31
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Le tecniche in oggetto sono ad esempio fast motion, time-lapse e replay. La maggior parte di queste pellicole non intende, infatti, svilire ciò che deride, bensì solo generare a «critical commentary» (Roscoe; Hight, 2001: 29). Non mancano, però, casi in cui alla parodia si predilige una satira pungente. Si pensi a Borat ove, come nota Paolo Mereghetti (2007a: 57), «la risata […] arriva dall’umiliazione di chi è diverso». Colombo, 1984: 55.
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al pari dei film di finzione, sono il risultato di un’operazione di costruzione di suono e immagini e non una riproposizione fedele del reale. Analoga funzione è assolta dalle inquadrature che esibiscono apparecchiature di ripresa o un regista nell’atto di filmare, in quanto esse rammentano al pubblico che ciò cui assiste è solo un possibile sguardo sul fattuale, filtrato dalla soggettività di un operatore.33 Si pensi, infine, alle numerose sequenze in cui vi sono personaggi che evidenziano la propria consapevolezza d’essere scrutati dall’obbiettivo di una macchina da presa chiedendo di ripetere una scena venuta male o di tagliare parte del girato, intimando al cameraman di allontanarsi, salutando e ammiccando in direzione dell’apparecchio o interagendo con i membri della troupe. Viene qui messa in discussione la concezione alla base del cinema diretto per cui il soggetto di un documentario tenderebbe a dimenticare la presenza della macchina da presa e agirebbe in modo spontaneo.34
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Ciò è molto evidente in David Holzman’s Diary, ove il protagonista tratta la propria Éclair quasi alla stregua di una persona, parlandone nei termini di una «she», e definisce in generale tutta la propria strumentazione come «friends». Si evidenzia poi ulteriormente il fatto che la pellicola sia frutto di un’operazione di montaggio mostrando il personaggio seduto accanto al proprio tavolo di montaggio, luogo della manipolazione filmica per eccellenza. Emblematico in tal senso è il mock-rockumentary Bad News Tour (1983, Channel 4, di S. Johnson), ove vi è una scena in cui due dei protagonisti ripetono un’azione appena compiuta, poiché la prima volta a loro avviso non hanno agito in modo sufficientemente spontaneo, una ove un membro della band chiede alla fidanzata di salutarlo in modo più drammatico, al fine di ottenere un prodotto più accattivante, e una in cui un secondo musicista del gruppo evidenzia il fatto di star leggendo un copione, lamentandosi di non riuscire a vedere il testo scritto per lui, perché troppo lontano.
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4. GENESI E SVILUPPO DI UNO STILE NARRATIVO
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4.1 In principio fu Orson Welles Se sugli schermi cinematografici il mockumentary fa la sua comparsa solo dalla seconda metà degli anni Sessanta, in ambito radiofonico tale forma narrativa viene impiegata già nel 1938. L’esempio più celebre è il radiodramma War of the Worlds, andato in onda il 30 ottobre di quell’anno dagli studi newyorkesi della CBS all’interno del programma Mercury Theatre on the Air.1 A scegliere questo stile è un giovane Orson Welles che, dovendo realizzare una riduzione radiofonica dell’omonimo romanzo fantascientifico di Herbert George Wells, adotta la formula del finto notiziario per rendere la vicenda meno surreale.2 Gli accadimenti al centro dell’opera dello scrittore inglese vengono, quindi, narrati attraverso bollettini informativi, comunicati in diretta ed interviste a esperti e testimoni oculari, che si pretende interrompano ripetutamente un programma di musica, onde aggiornare i radioascoltatori sul verificarsi di uno sbarco alieno nel New Jersey. War of the Worlds finisce così per acquisire una plausibilità tale da ingenerare il panico in circa due dei sei milioni di americani all’ascolto, convinti della veridicità degli eventi narrati.3 Persone in preda al 1
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Non si tratta, però, del primo ricorso allo stile mockumentary in ambito radiofonico, giacché nel settembre di quello stesso anno Welles aveva già utilizzato la tecnica del finto notiziario per drammatizzare Julius Caesar (cfr. Berg, 2003: 407). Su Cinema nuovo Esteve Riambau (1988: 34) riporta: «[…] nella prova generale precedente la trasmissione, Welles insisté, secondo Houseman, perché si accentuasse l’aspetto di attualità e si moltiplicassero gli effetti drammatici, al fine di offrire un’impressione di autenticità». La stessa CBS prima della messa in onda, temendo il verificarsi di qualcosa di analogo, impone a Welles di apportare alla sceneggiatura alcune modifiche volte a evidenziare la natura finzionale dell’opera. Tali precauzioni,
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terrore invadono le strade. I centralini delle redazioni di giornali e stazioni di polizia sono presi d’assalto dalle telefonate dei radioascoltatori e l’esercito deve intervenire per evitare saccheggi a città lasciate in stato di semi abbandono da abitanti in cerca di luoghi più sicuri ove rifugiarsi.4 Oltre al ricorso a un linguaggio che ricalca perfettamente quello delle cronache giornalistiche dell’epoca (dando l’impressione che annunciatori, orchestre, reporter e scienziati vadano in onda da postazioni diverse, sebbene tutto sia trasmesso dallo stesso studio),5 a conferire autenticità al programma contribuisce anche il riferimento a luoghi e istituzioni reali,6 nonché la scelta d’impiegare l’elemento radiofonico di veridizione per eccellenza: il bollettino informativo. Non meno importante è il ruolo svolto dal contesto storico e mediale in cui il radiodramma viene presentato. Nel 1938 le tensioni in Europa aumentano ed eventi quali l’annessione dell’Austria alla Germania e il Patto di Monaco determinano il diffondersi della paura di una guerra incombente. Proprio su tali timori fa leva Welles per rendere verosimile la sua trasmissione, al punto che la maggior parte di quanti sono colti dal panico dichiara poi di non aver pensato che fosse effettivamente in atto un’invasione marziana, bensì un attacco tedesco sapientemente dissimulato.7 In questo periodo, inoltre, non è infrequente che la programmazione radiofonica sia interrotta da brevi notiziari volti a dar conto di fatti drammatici, quali quelli relativi agli sviluppi sulla
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però, si rivelano inutili, poiché non impediscono il compiersi di scene d’isteria collettiva (cfr. Berg, 2003: 407). Per un resoconto dettagliato delle reazioni degli ascoltatori si veda Cantril, 1952: 47-63. Per far apparire il programma il più credibile possibile Welles fa ascoltare all’attore Frank Readick (interprete dell’inviato Carl Philips) la registrazione della diretta radiofonica del 6 maggio 1937, in cui il reporter Herbert Morrison dà conto dell’esplosione del dirigibile Hindenburg (cfr. Sciachitano, 2004: 76-77). Inizialmente i riferimenti ai luoghi reali del New Jersey sono molto marcati, ma per evitare la censura lo sceneggiatore Koch è costretto a renderli meno evidenti (cfr. Riambau, 1988: 34). Cfr. Sciachitano, 2004: 81. Per una panoramica del contesto in cui va in onda questo hoax si veda Gallop, 2011: 13-18.
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Genesi e sviluppo di uno stile narrativo
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crisi dei Sudeti.8 Pertanto gli ascoltatori credono che la trasmissione originaria venga effettivamente sospesa per dare spazio ad aggiornamenti sullo sbarco alieno, non accogliendo come indizio di finzione la sua collocazione in un contenitore consuetamente dedicato al racconto dell’immaginifico, quale il Mercury Theatre On the Air.9 A rendere il pubblico propenso a considerare veridico quanto ode, concorre altresì il medium attraverso cui War of the Worlds viene fruito. Siamo, infatti, nell’epoca in cui la radio è considerata il principale mezzo d’informazione (a essa più che non ai giornali ci si rivolge per le notizie), nonché una voce autorevole cui accordare fiducia incondizionata.10 Tra gli elementi che contribuiscono a indurre gli ascoltatori a instaurare una modalità di lettura documentarizzante va collocata, infine, anche la scelta di far leva, a livello narrativo, sulla credenza che l’uomo non sia solo nell’universo. Sebbene, a detta del regista, proprio il soggetto del radiodramma costituisca la principale spia della sua natura fittizia, giacché «for many decades The Man From Mars has been almost a synonym for fantasy»11, esso in realtà funge quindi da marca veridittiva. Tuttavia, ciò non significa che il programma sia privo d’indizi volti a metterne in luce il carattere finzionale, come evidenziato anche nella conferenza stampa tenutasi il giorno seguente alla messa in onda.12 Dopo un inizio tradizionale, in cui si specifica che sta per essere presentato un adattamento del romanzo di H. G. Welles e lo stesso regista ne legge l’incipit, per altre due volte nel corso della trasmissione si segnala che il programma è una drammatizzazione di The War of the Worlds.13 Esso termina poi con un 8 9
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Cfr. Riambau, 1988: 36; Sciachitano, 2004: 76. In precedenza vengono proposti solo adattamenti di noti romanzi, quali Jane Eyre e Oliver Twist. Fa eccezione la trasmissione del 9 ottobre, in cui si presenta la drammatizzazione di una storia vera: Hell on Ice di Commander Ellsberg. Cfr. Cantril, 1952: 68-69. Welles in s.n., 1938: 12. Per un resoconto di quanto accaduto durante la suddetta conferenza stampa si rimanda a Gallop, 2011: 79-83. Per una trascrizione completa del radiodramma si veda Cantril, 1952: 4-43. Si trasmettono annunci volti a rassicurare gli ascoltatori circa la finzionalità di War of the Worlds anche nelle ore successive alla sua messa in onda. Inoltre, quando ci si rende conto dell’errata interpretazione data
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monologo, in cui Orson Welles sottolinea nuovamente che, quanto proposto nell’ora precedente, era pura finzione: This is Orson Welles, ladies and gentleman, out of character to assure you that the War of the Worlds has no further significance than as the holiday offering it was intended to be. The Mercury Theatre’s own radio version of dressing up in a sheet and jumping out of a bush and saying Boo! Starting now, we couldn’t soap all your windows and steal all your garden gates, by tomorrow night…so we did the next best thing. We annihilated the world before your very ears, and utterly destroyed the Columbia Broadcasting System. You will be relieved, I hope, to learn that we didn’t mean it, and that both institutions are still open for business. So good-bye everybody, and remember, please, for the next day or so, the terrible lesson you learned tonight. That grinning, glowing, globular invader of your livingroom is an inhabitant of the pumpkin patch, and if your doorbell rings and nobody’s there, that was no martian…it’s Hallowe’en.14
È però solo attraverso quest’ultima dichiarazione, ove è tratteggiato come uno scherzo di Halloween,15 che si rende palese il suo essere un prodotto di fantasia, giacché le precedenti spie vengono invece volutamente collocate in una posizione tale da vanificarne l’utilità. Dopo il comunicato iniziale passano ben trentanove minuti prima del successivo annuncio, non permettendo a quanti sintonizzatisi in un secondo momento di avere chiaro lo stato ontologico del programma. E, come emerso da uno studio condotto dallo psicologo Hadley Cantril, proprio tra costoro è da rintracciarsi non solo il maggior numero di quanti sono colti dal panico, ma anche la fetta più consistente di ascoltatori.16 Quell’anno, infatti, la domenica sera gli americani solitamente si sintonizzano sul più popolare Chase and Sanborn Hour della NBC, in onda in contemporanea al Mercury Theatre on the Air, per poi abbandonarlo temporaneamente in favore della CBS durante i dieci minuti in cui sulla prima stazione si dà spazio a un cantante poco amato. Ecco
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dal pubblico al radiodramma, il 60% delle stazioni radio emana analoghi comunicati. Cantril, 1952: 42-43. La data stessa in cui viene trasmesso costituisce un ulteriore indizio della sua finzionalità. Cfr. Cantril, 1952: 76-84.
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allora che la scelta di Welles di proporre la parte più spaventosa del radiodramma proprio in questa finestra temporale è strategica, poiché gli permette di rubare «una bella fetta di pubblico alla radio concorrente» e di rendere il suo scherzo più efficace, giacché «quel pubblico non aveva sentito l’introduzione allo show»17. Ne consegue che, quantomeno fino alla pausa pubblicitaria, l’unica spia a disposizione di questi ascoltatori è l’inverosimiglianza della durata delle azioni: la «trasmissione […], in poco più di mezz’ora, narrava poco meno di un’apocalisse»18. Al contrario, la scelta di situare gli eventi in un futuro prossimo, e più precisamente la sera del 30 ottobre 1939,19 pur costituendo apparentemente un ulteriore indizio di finzione, se considerata in relazione all’originaria ambientazione ottocentesca del romanzo, acquisisce la funzione di un elemento di veridizione. Da questa breve disamina emerge quindi come World of the Worlds non sia solo un primo esempio di mockumentary, ma anche «an early archetype of the electronic media hoax»20. Infatti, oltre a essere oggetto di diverse emulazioni radiofoniche,21 diviene il modello di riferimento per coloro che nei decenni successivi scelgono di realizzare tale tipologia di falsi documentari su altri mezzi di comunicazione.22 17 18 19 20 21
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Sciachitano, 2004: 76. Riambau, 1988: 36. A tal proposito Welles (in s.n., 1938: 12) dichiara: «[…] the broadcast was performed as if occurring in the future, and as if it were then related by a survivor of a past occurrence». Roscoe; Hight, 2001: 78. Tale radiodramma viene imitato a Santiago in Cile nel novembre 1944, a Quinto in Ecuador nel 1949, dove causa disordini tali da portare alla morte di sei persone, e a Buffalo (New York) nel 1967 (cfr. War of the Worlds Invasion: the Historical Perspective. http://www.war-ofthe-worlds.co.uk/ [6 marzo 2013]). Ad esempio, ispira il teledramma I figli di Medea (1959, Rai1, di A. G. Majano), in cui si finge d’interrompere la diretta di un adattamento della Medea di Euripide, per annunciare che Enrico Maria Salerno ha rapito il figlio dell’ex-moglie Alida Valli e rifiuta di rivelare dove lo nasconde. Uno psicologo e un poliziotto invitano i telespettatori a chiamare un finto numero telefonico, se in possesso d’informazioni utili al ritrovamento del bimbo. Nonostante costoro siano interpretati da noti attori, in molti credono alle loro parole e contattano i centralini della Rai o telefonano al falso numero. Come nota Aldo Grasso (1989: 80), si tratta quindi di un caso in cui «la burla wellesiana dell’invasione dei marziani» viene piegata «a fini
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Inoltre, benché, a seguito del panico causato dalla trasmissione di Welles, il parlamento statunitense vieti l’uso di finti notiziari nei radiodrammi,23 soprattutto in Gran Bretagna le stazioni radio hanno continuato a sfruttare lo stile documentaristico per raccontare la finzione, per lo più in chiave comico-parodistica.24
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4.2 The Swiss Spaghetti Harvest e le origini televisive del mockumentary25 La nascita del mockumentary audiovisivo viene solitamente fatta risalire al 1 aprile 1957, quando, a chiusura del programma d’informazione Panorama, va in onda un servizio che dà conto di come quell’anno in Canton Ticino si registri un raccolto di spaghetti particolarmente abbondante.26 Il filmato, oggi noto come The Swiss Spaghetti Harvest (BBC1, di C. de Jaeger), mostra alcune contadine nell’atto di cogliere tale pasta dagli alberi per stenderla poi al sole a essiccare, mentre, in voce over, il presentatore Richard Dimbleby spiega che si tratta di coltivazioni familiari ed è solo grazie al paziente lavoro dei selezionatori di sementi, se tutti i fili sono uguali. Tale servizio è un pesce d’aprile mediatico, orchestrato dall’operatore Charles de Jeager con la complicità dello scrittore David Wheeler e il beneplacito del direttore di Panorama Michael Pea-
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moralistici». Inizialmente il Senatore Clyde L. Herring idea addirittura un disegno di legge volto a limitare la libertà delle emittenti. Alcune proteste bloccano, però, il provvedimento e ci si limita quindi a vietare l’uso di finti notiziari nei radiodrammi (cfr. Gallop, 2011: 113; Scaichitano, 2004: 81). Cfr. Hight, 2010: 46. Roscoe e Hight (cfr. 2001: 79-82) includono tra i precursori del mockumentary il Monty Python’s Flying Circus (1969-1974, BBC1) e il Saturday Night Live (1975- , NBC), in quanto terreno di sperimentazione dello sfruttamento di estetiche fattuali a fini comico-parodistici, nonché la serie Hill Street Blue (1981-1987, NBC), per aver introdotto l’uso dello stile vérité in opere drammatiche. Eppure, già nel 1967 con David Holzman’s Diary si falsifica la modalità osservativa per narrare le disavventure di un uomo, mentre nel 1969 esce il divertente Take the Money and Run (Prendi i soldi e scappa) di Woody Allen. Pertanto, è più corretto considerare le trasmissioni indicate dai due studiosi come frutto della generale tendenza dell’epoca a ibridare fiction e non-fiction e non come anticipatori del mockumentary. Si vedano Canova, 2009: 939; Miller, 2009a: 3.
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cock.27 Molti spettatori accolgono, però, la notizia come veridica e chiamano i centralini della BBC per sapere dove acquistare una pianta di questa pasta. Se ciò accade, non è solo perché The Swiss Spaghetti Harvest è costruito secondo i canoni del servizio giornalistico, ma anche poiché viene proposto all’interno di un contenitore d’attualità, noto per essere una “finestra sul mondo” dedita a investigare rilevanti questioni politiche e sociali,28 e poiché a commentare le immagini è la voce di un anchorman che gode di grande attendibilità presso il pubblico.29 Nel The Guardian Book of April Fool’s Day, Martin Wainwright aggiunge che a conferire autenticità al filmato concorrono altresì il ricorso a termini legati a saperi specifici e il presentare la coltivazione di spaghetti come un fatto risaputo.30 Per di più, in questo periodo in Gran Bretagna tale tipologia di pasta è ancora un alimento relativamente esotico e, sebbene inizi ad apparire con maggior frequenza sulle tavole, gli inglesi ignorano in che modo sia prodotto. Nemmeno la spia volta a segnalare la natura finzionale del servizio risulta efficace. Difatti, malgrado, al rientro in studio, Dimbleby saluti i telespettatori con la formula «Now we say goodnight […] on this first day of April», enfatizzando le ultime parole, la collocazione del filmato nella parte conclusiva del programma (momento destinato alla trattazione di notizie più frivole) fa sì che il pubblico non sospetti si tratti di uno scherzo.
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De Jaeger deve l’idea di tale hoax alla sua maestra elementare, che soleva dire: «Boys, you are so stupid, you’d believe me if I told you that spaghetti grew on trees». Egli gira il filmato nei pressi di Lugano, coinvolgendo alcune donne del posto, cui chiede d’indossare il costume locale. Per una descrizione dettagliata di come sia stato realizzato, si rinvia a Wainwright, 2007: 40-46. Cfr. Pickering, 1997: 1718. Riguardo a Dimbleby, Wainwright (2007: 42) scrive: «[…] his word was trusted, almost revered. Even when he dealt with Panorama’s lighter items, the audience could be sure that what they were hearing was true». Per conferire autenticità al racconto si parla, ad esempio, di tipi di tonchio e, nel corso del commento, Dimbleby afferma: «Many of you, I am sure, will have seen pictures of vast spaghetti plantations in the Po Valley». Formulando così la frase, induce il pubblico a pensare di aver già visto tali immagini (cfr. ivi: 46).
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Analogamente a quanto accade in ambito radiofonico, anche sul piccolo schermo, quindi, il finto documentario appare inizialmente nella forma dell’hoax, per poi, però, proliferarvi in una molteplicità di configurazioni diverse, essendo questo un «medium which provide ideal conditions for mockumentary discourse»31. Come vedremo nel quinto capitolo, infatti, la televisione propone una variegata programmazione fattuale, fornendo una pluralità di estetiche da poter falsificare e permettendo di adottare questo stile per creare un’ampia gamma di prodotti.
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4.3 Verso il mockumentary cinematografico Se andiamo alla ricerca dei film che hanno gettato le basi per l’avvento del mockumentary sul grande schermo, incappiamo ancora una volta nel nome di Orson Welles. Egli, infatti, nella seconda sequenza di Citizen Kane (Quarto Potere, 1941) ricorre a un finto cinegiornale, il News on the March, per introdurre il protagonista della pellicola. Qui, falsificando il modello di The March of Time e adottando elementi tipici dei servizi commemorativi dell’epoca (quali bruschi cambiamenti di luce, giustapposizioni discordanti e transizioni abborracciate),32 si dà conto delle principali gesta pubbliche di Kane, al fine di fornire allo spettatore le indicazioni necessarie a orientarsi fra i luoghi e le epoche in cui si dipanerà il racconto.33 Nel fare ciò, proprio come accadrà poi in molti mockumentary, Welles utilizza sia finti materiali di repertorio sia reperti. Mostra, quindi, prime pagine di testate nazionali e internazionali che coprono la notizia della morte del personaggio, foto di lui bambino e locandine di spettacoli che hanno visto protagonista la moglie. Per il suo documentare la vita di una figura fittizia fornendone le “prove” visive, News on the March anticipa in piccolo quanto farà quarant’anni più tardi Woody Allen con Zelig, di cui può essere considerato un diretto precursore. Unica differenza è che nel caso 31 32 33
Hight, 2010: 73. Rasmussen, 2006: 7. Proprio per far sì che abbia l’aspetto di un vero cinegiornale, Welles ne affida il montaggio al Newsreel Department della RKO (cfr. Carringer, 1985: 150). Naremore, 1978: 86.
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di Citizen Kane lo spettatore ha chiara fin da subito la natura finzionale del testo filmico che sta fruendo. Questo falso cinegiornale non è però l’unico motivo per cui Welles viene ascritto tra gli anticipatori di tale stile. Vi rientra anche per F for Fake (F come Falso, 1973) giacché, come nota Elena Dagrada, l’obbiettivo del film è «di smascherare quella forma di dittatura potenziale intrinseca ai mezzi di comunicazione di massa»34. Un intento che condivide con diversi mockumentary. Né documentario, né opera di fantasia. Questa pellicola è «un […] saggio sulla relatività della verità nel mondo contemporaneo e sul problema della finzione»35. Una galleria di falsi, falsari e contraffazioni che, pur non essendo un mockumentary, come tali prodotti invoca la necessità di un fruitore attivo, il quale non accolga passivamente tutto ciò che gli viene mostrato e ricordi che il cinema è sempre e comunque rielaborazione di frammenti, falsificazione e soprattutto magia. E lo è anche quando si propone come fattuale.36 Ecco allora che il regista non solo induce il pubblico ad adottare un modo di lettura documentarizzante attraverso la promessa di narrare il vero, per poi disattenderla negli ultimi minuti della pellicola, ma continua a interpolare a immagini documentarie inquadrature che lo mostrano in una sala di montaggio, luogo della manipolazione filmica per eccellenza. Sebbene F for Fake venga realizzato ben otto anni dopo la prima apparizione di un finto documentario sugli schermi cinematografici, la riflessione che Welles v’imbastisce ha influenzato molti dei mockumentary realizzati nei decenni successivi e può pertanto esserne effettivamente considerato in parte un precursore. È, invece, discutibile la scelta di Roscoe e Hight di collocare tra gli anticipatori del finto documentario registi quali Robert Altman e Martin Scorsese, per aver fatto di uno sporadico ricorso a estetiche fattuali una marca del proprio stile filmico, o pellicole come Independence Day (Id., 1996, di R. Emmerich) e When Harry Met Sally… (Harry ti presento Sally, 1989, di R. Reiner), poiché utiliz34 35 36
Dagrada, 2007: 212-213. Quintana, 2007: 249. A tal proposito Paolo Bertetto (2007: 220) nota: «Se c’è quindi un elemento forte che caratterizza fin dall’inizio F for Fake è quello di essere un film contro l’idea di cinema come immagine ontologica, immagine della realtà e dell’essere».
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
zano interviste o notiziari fittizi per dare una patina realistica al racconto.37 Le opere in oggetto, infatti, sono successive a molti dei principali mockumentary e non possono pertanto aver concorso nel tracciare la strada che ne ha portato alla creazione. Altrettanto inesatto è considerare tra i suoi antesignani i movimenti della Nouvelle Vague e del neorealismo poiché, nel primo caso, le pellicole in oggetto mancano dell’intenzione di far credere fattuale l’immaginario, mentre nel secondo sono più vicine al docudrama che non al mockumentary. Infatti, se è vero, come delineano Francesco Casetti e Luca Malavasi, che i film neorealisti adottano una serie di procedimenti volti a «costruire degli effetti di realtà» per «far sembrar vero quanto viene mostrato sullo schermo»38, non è sufficiente che una pellicola presenti un narratore di stampo documentaristico, come accade in Paisà (1946, di R. Rossellini), o che si apra con un cartello che insiste «sulla veridicità dei fatti mostrati»39, come ne La terra trema (1948, di L. Visconti), per poterle assimilare ai mockumentary. Non per nulla Casetti e Malavasi parlano giustamente di effetti di realtà e non d’illusione di realtà, giacché l’obbiettivo di tali opere non è quello di proporsi allo spettatore come documentari, bensì semmai come prodotti di finzione basati su fatti reali. E ciò, peraltro, non accade nemmeno in tutti i casi. Si prenda ad esempio Roma città aperta (1945, di R. Rossellini). Pur narrando vicende ispirate ad accadimenti fattuali, esso presenta un cartello iniziale ove si prendono le distanze da possibili legami con eventi e personaggi reali. Si compie quindi qui addirittura un’operazione opposta a quella caratteristica del mockumentary, che propone invece come veri dei racconti di fantasia. Pertanto, è più appropriato leggere tutte queste pellicole come prodotti di un medesimo clima culturale, caratterizzato dall’urgenza di rinnovare il linguaggio della finzione attingendo a estetiche documentarie, per rispondere a una diffusa esigenza di realismo.
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Cfr. Roscoe; Hight, 2001: 84-97. Casetti; Malavasi, 2003: 176. ivi: 190. Peraltro, in alcuni casi l’utilizzo di singole marche veridittive in prodotti di fiction può risultare addirittura controproducente in termini di realismo, come rilevato da Tomaso Subini (cfr. 2011: 78) in relazione al ricorso ad autentici frati francescani fatto da Rossellini per il suo Francesco giullare di Dio (1950).
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Non è un caso, infatti, che il mockumentary nasca proprio negli anni Sessanta, periodo in cui, da un lato, grazie all’avvento del cinema diretto si assiste a una rinascita del documentario e, dall’altro, nell’ambito della finzione si è alla ricerca di strutture narrative e modalità di scrittura innovative, che permettano di andare oltre i canoni imposti da Hollywood. Per di più, si mette in discussione il sistema produttivo e distributivo dello studio system, fino ad allora dominante, realizzando film a basso costo, interpretati da attori poco conosciuti o non professionisti e girati fuori dagli studi di posa con troupe ridotte. I cineasti, infatti, grazie all’introduzione di macchine da presa leggere, si sono affrancati dalla costrizione del cavalletto, acquisendo un’inedita libertà di movimento.40 In un contesto di questo tipo falsificare le estetiche documentarie per narrare l’immaginario non può che risultare una strada quanto mai appropriata da percorrere. 4.4 Il mockumentary approda sul grande schermo È il 1965 quando per la prima volta un mockumentary viene proposto nelle sale cinematografiche. Siamo in Gran Bretagna e il film in oggetto è The War Game di Peter Watkins. Prodotto dalla BBC e pensato per essere trasmesso su quest’emittente, esso viene invece destinato al grande schermo in virtù della sua crudezza, che i dirigenti della rete giudicano eccessiva per il pubblico televisivo.41 40
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Ad esempio, l’Éclair introduce una macchina da presa 16mm che pesa solo 6 kg ed è abbastanza silenziosa da consentire la registrazione del suono in presa diretta. Essa può anche essere collegata al Nagra, un magnetofono che permette di catturare voci e rumori dal vero, in sincrono con l’immagine. Solo dopo una protesta popolare Watkins ottiene il permesso per una limitata distribuzione cinematografica del film. Per vederlo in televisione bisogna invece aspettare il 1985 (cfr. Murphy; Cook, 2006: 1416). Come riportato da James M. Welsh (1983: 39-40), secondo il regista le ragioni della mancata messa in onda sono due: «The first is entirely political. The British government […] is clearly terrified of a wide-ranging and strong debate with Britain […] on the whole question of unilateral nuclear disarmament, and The War Game would help to create such a debate […]. The second reason […] It is, perhaps too effective a demonstration of the medium’s ability to fabricate events».
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Per realizzare tale pellicola, che dà conto dei devastanti esiti di un ipotetico attacco nucleare sulla popolazione del Kent, Watkins esegue meticolose ricerche sulla bomba atomica, si avvale di attori non professionisti e ricorre a numerose marche veridittive, quali il bianco e nero, riprese mosse, suono in presa diretta e un narratore onnisciente in voce over, nello stile dei documentari divulgativi della BBC.42 Unico vero indizio della natura fittizia dell’opera è il suo soggetto. Non viene, infatti, nemmeno indicata la presenza di attori nei titoli di coda. Il film inventa così una pagina della Storia britannica in modo tanto realistico da vincere, paradossalmente, il premio Oscar come miglior documentario. D’altro canto, però, ottiene solo una limitata distribuzione cinematografica poiché, in un contesto quale quello della Guerra Fredda, il tema trattato risulta particolarmente scottante. Se è quindi l’Inghilterra a dare i natali al mockumentary, poco tempo dopo questo stile viene adottato anche negli Stati Uniti. Ad aprire la strada è David Holzman’s Diary di Jim McBride, spesso erroneamente identificato come il primo finto documentario. Realizzato con un budget di soli 2.500 dollari, il film falsifica la modalità osservativa per proporsi come il video-diario di un aspirante regista disoccupato, il quale riprende la propria vita, sicuro di poterla così comprendere. Ricorrendo a immagini sgranate in bianco e nero, riprese con camera a spalla e interpreti sconosciuti che esibiscono una recitazione naturale, nonché non inserendo titoli di testa,43 McBride dà vita a una pellicola capace d’indurre il pubblico a crederla un prodotto del cinema del reale, almeno fino ai titoli di coda, ove si rivela la presenza di attori. In verità, indizi
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Girato a Rochester e Chatham nel Kent, il film non contiene materiali di repertorio, ma solo riprese realizzate ad hoc con il ricorso alla macchina a mano (cfr. Murphy; Cook, 2006: 1415). Per una descrizione completa dei suoi aspetti produttivi si rimanda a Watkins in Rosenthal, 1971: 154-159. Nella sua analisi Sharon L. Zuber (2009: 33) individua anche un’altra marca veridittiva: «The film begins with a black screen and bold white letters that announce Direct Cinema Limited Presents mimicking the opening of Primary (1960), Drew Associates’ film that help define the Direct Cinema style». Alla studiosa, però, è sfuggito che tale cartello appare solo nella versione del film diffusa tra il 1979 e il 2000, periodo in cui la sua distribuzione viene appunto affidata alla Direct Cinema Limited.
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di finzione sono disseminati lungo tutto l’arco del film,44 ma per essere colti richiedono uno spettatore attento e, in parte, cinefilo. Mentre con The War Game Watkins addotta il mockumentary per indurre il pubblico a considerare come l’informazione sia soggetta al controllo del potere politico,45 qui ci si appropria di estetiche e convenzioni del cinema diretto con l’intento di metterne in discussione l’assunto per cui lo sguardo della macchina da presa sarebbe imparziale e capace di restituire gli avvenimenti senza influire sul loro svolgimento.46 Due riflessioni diverse, accomunate però dalla volontà di stimolare il pubblico a una fruizione non passiva. Due anni dopo l’uscita di David Holzman’s Diary, anche Woody Allen sceglie la forma del mockumentary per il suo esordio alla regia. Ne nasce Take the Money and Run, commedia che documenta le disavventure del ladro maldestro Virgil Starkwell. Prodotto a basso costo e con una troupe ridotta, il film simula le estetiche del reportage televisivo ricorrendo a marche veridittive quali un narratore in voce over e interviste a testimoni, le cui dichiarazioni convalidano quanto narrato dallo speaker.47 Ciò nonostante, la finzionalità della pellicola è resa evidente già solo dal fatto che il protagonista, cui presta il volto Allen stesso, sia un personaggio marcatamente inverosimile. Si tratta quindi di un’operazione di segno diverso rispetto a quelle effettuate da McBride con David Holzman’s Diary e da Watkins con The War Game, a dimostrazione di come fin dalle sue origini 44
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Ad esempio, i molti riferimenti visivi e vocali a film di finzione, la continua mostrazione della macchina da presa (trattata quasi alla stregua di un personaggio) e l’uso dello slow motion. Inoltre, nella sequenza iniziale il protagonista chiarisce la natura dell’opera, definendola «a fairy tale». Welsh, 1983: 39; MacDonald, 1998: 361. Non solo David non riesce a ottenere la verità mettendo su pellicola la sua vita, ma finisce per provocare dei mutamenti in essa proprio a causa della presenza della macchina da presa. McBride mette così in discussione le principali concezioni del cinéma vérité come dimostra la dichiarazione fatta da Pennebaker (in Aprà, 1986: 189) all’attore L. M. Kit Carson, dopo la visione del film: «Voi avete ucciso il cinéma-vérité. Niente più cinema verità». Riguardo alla veridizione del film, Allen (in Björkman, 1993: 39-40) dichiara: «[...] volevo realizzarlo in bianco e nero e farlo sembrare un vero documentario. Cosa che ho fatto in seguito con Zelig. Ma a quell’epoca non mi permisero di realizzarlo in bianco e nero».
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il mockumentary risulti essere uno stile multiforme, atto a creare prodotti tra loro differenti. Il film di Allen intende, infatti, unicamente intrattenere il pubblico e manca della volontà d’indurlo a una qualsivoglia riflessione. Inoltre, utilizza per la prima volta la forma del finto documentario con finalità comico-parodistiche, tracciando una strada perseguita da molti altri registi nei decenni a seguire, al punto da indurre numerosi teorici a ritenere erroneamente che il mockumentary possa essere solo a carattere umoristico. Va detto, poi, che è con Take the Money and Run che il finto documentario s’inserisce per la prima volta nel cinema mainstream (in quanto il film di McBride viene distribuito solo nel circuito universitario a causa della sua durata troppo breve per poterne permettere la programmazione in una normale sala di prima visione)48. Fino a tutti gli anni Ottanta le opere realizzate adottando tale stile sono, però, un’eccezione nel panorama cinematografico complessivo e restano spesso confinate nelle sale d’essai. Tuttavia, in questo periodo, accanto a lavori più sperimentali quali Vertical Features Remake (Remake delle fattezze verticali, 1978) e The Falls (Le cadute, 1980) di Peter Greenaway, vedono la luce anche film come Zelig e This Is Spinal Tap, poi divenuti modelli di riferimento per la creazione di tali ibridi. In ogni caso, è solo con gli anni Novanta che si assiste a un sensibile incremento nel numero di mockumentary prodotti. A spiegarne la ragione sono Steven Lipkin, Derek Paget e Jane Roscoe, i quali ritengono che, verso la fine del XX secolo, il diffondersi in area anglofona di tre dibattiti incentrati rispettivamente sugli effetti dei media, sulla distinzione tra “arte alta e bassa” e sulle nozioni di falso e autentico porti a una generale riscoperta delle docufic-
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Tra le proiezioni che esulano dal circuito universitario si ricorda quella svoltasi nel dicembre 1973 presso il Whitney Museum of American Art a New York (cfr. Sayre, 1973: 34). Sebbene non abbia un’adeguata diffusione, in pochi anni il film diventa un classico del cinema underground, influenzando diversi registi, tra cui Brian De Palma (in Stevens, 2006) che dichiara: «When I got my first 8mm sound camera I’d carry it around like David Holzman and try to film everything I did… […] And it all came from David Holzman’s Diary».
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tions.49 Sarebbe quindi la perdita di fiducia nella possibilità che i media abbiano effetti positivi, la messa in discussione del valore dell’espressione artistica e la necessità di ridefinire il rapporto tra fotografia e reale a spingere i registi a realizzare con sempre più frequenza tale tipologia di opere. Sebbene ciò sia corretto, ritengo che nello specifico del mockumentary un’importante spinta derivi dall’esigenza del cinema mainstream di rinnovare le proprie modalità narrative per dare nuova linfa a generi che altrimenti rischiano di sclerotizzarsi. Essendo già stati incrociati tra loro, non resta che ibridarli con la non-fiction. In particolare nel 1999 con lo sbalorditivo successo riscosso da The Blair Witch Project si scopre come questo stile, accostato all’horror, permetta di ottenere dei blockbuster a costi ridotti. Complice proprio la possibilità di realizzarli con piccoli budget,50 non solo dal 2000 i mockumentary costituiscono una parte sempre più significativa della produzione cinematografica e televisiva, ma dilagano anche sul web. Carlo Prevosti spiega così il motivo della grande popolarità acquisita negli ultimi anni: Non c’è da stupirsi che questo neo-genere stia vivendo un momento di crescita vertiginosa. La sovraesposizione visiva, post 11 settembre, ha contribuito a rafforzare il presupposto che il rapporto conflittuale tra realtà e finzione costituisca un elemento fondamentale della visione cinematografica, mentre le nuove tecnologie di comunicazione ne hanno moltiplicato esponenzialmente le potenzialità.51
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Lipkin; Paget; Roscoe, 2006: 11. Sono gli stessi registi a confermare come questa sia spesso la ragione per cui si sceglie di adottare tale modalità narrativa. Ad esempio, Alexandra Juhasz (in Juhasz; Lerner, 2006: 6) nel testo F Is for Phony riporta: «[…] the creative team behind Men Bites Dog: It Happened in Your Neighborhood (Remy Belvaux and Benoit Poelvoorde, 1992) explain that they made a fake documentary […] because, as broke film-school students, it was the only kind of narrative feature film they could afford». Analogamente, riferendosi a The Blair Witch Project, Eduardo Sánchez (in Ascher-Walsh, 1999: 35) dichiara: «It was supposed to look like a documentary […] because we had no money». Prevosti, 2007b: 102.
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Infatti, come nota Christian Uva, il diffondersi di nuovi dispostivi leggeri non porta solo a un rilancio del documentario, ma anche di questi ibridi,52 i quali trovano nel digitale una tecnologia dotata di una «peculiare malleabilità» che permette «di rendere credibile per lo spettatore anche la realtà più impossibile»53. Da forma narrativa utilizzata in via sperimentale per discostarsi dalle modalità di racconto dominanti, il mockumentary si va quindi affermando come uno dei possibili linguaggi audiovisivi per il racconto di vicende di finzione. In generale, oggi i Paesi che hanno all’attivo la maggiore produzione di tali film sono Stati Uniti e Gran Bretagna, seguiti da Canada e Australia,54 ma quasi tutte le nazioni possono vantare la creazione di almeno un finto documentario. Non fa eccezione nemmeno l’Italia dove, oltre ad essere nato il filone del mockuhorror con Cannibal Holocaust (1979) di Ruggero Deodato, sono stati prodotti, ad esempio, Colpo di Stato (1969) di Luciano Salce, Le ragioni dell’aragosta (2007) di Sabina Guzzanti, Riprendimi (2008) di Anna Negri, L’era legale (2011) di Enrico Caria e Il mundial dimenticato di Garzella e Macelloni. Inoltre, non solo gli organizzatori di festival cinematografici dimostrano grande attenzione verso tali opere, ospitandole nella propria programmazione, ma sono sorte anche manifestazioni interamente dedicate a esse, quali il Toronto International Mockumentary Film Festival, l’hollywoodiano MockFest e, dal 2010, il Piemonte DocuMenteur Filmfest.
52 53 54
Cfr. Uva, 2012: 146-147. Ivi: 152. In Australia, però, si adotta il mockumentary per creare per lo più prodotti destinati al piccolo schermo.
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I MOLTI VOLTI DEL MOCKUMENTARY
Un mockumentary può essere biografico, storico-politico, horror, sentimentale o di fantascienza,1 così come può assumere i tratti di un rockumentary, di un documentario sociale o del making of di un’improbabile produzione cinematografica. Più raramente ci si può, poi, imbattere in testi a carattere scientifico, come The Baby Formula (2008, di A. Reid), ove la storia di due donne lesbiche desiderose di partorire ciascuna il proprio figlio diventa lo spunto per trattare il tema dell’inseminazione artificiale, o The Hellstrom Chronicle (La cronaca di Hellstrom, 1971, di E. Spiegel e W. Green), che vince l’Oscar come miglior documentario dando conto di un mondo ipotetico in cui sono gli insetti a dominare la Terra. Esistono, infine, persino mockumentary d’animazione. Si tratta solitamente di cortometraggi, come nel caso del pluripremiato The Toll (2006, di J. Z. Pike), avente per protagonista un troll smanioso d’essere accettato dalla società, o, più raramente, di mediometraggi, quale ad esempio In Smog and Thunder - The Great War of the Californias (2003, di S. Meredith), resoconto di quanto accadrebbe se San Francisco e Los Angeles entrassero in guerra tra loro, realizzato utilizzando 120 dipinti satirici dell’artista Sandow Birk. Nel 2007 si tenta, però, anche la strada del lungometraggio 1
Per ragioni di spazio non si prenderanno qui in esame i mockumentary a carattere fantascientifico. Si ricorda però che tra essi figurano, da un lato, titoli dalla finzionalità evidente, realizzati falsificando la modalità osservativa, quali Cloverfield e District 9 (Id., 2009, di N. Blomkamp), e, dall’altro, hoax, come Alien Abduction – Incident in Lake County (1998, UPN network, di D. Alioto). L’esistenza di civiltà aliene è, infatti, una di quelle credenze diffuse sfruttabili per la costruzione di questa seconda tipologia di finti documentari, come peraltro dimostrato da War of the Worlds di Welles.
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con il già citato Surf’s Up, penguin movie che adotta «una forma paradossale di cinema vérité»2. Proprio in base al genere ibridato, questo mare magnum di prodotti audiovisivi etichettabili come finti documentari può essere suddiviso in una serie di filoni, anche se ciò non significa che tutti i mockumentary siano riconducibili a uno di tali insiemi né che, qualora lo siano, ne presentino la totalità dei tratti. Vediamo quindi nel dettaglio quali sono le caratteristiche dei principali gruppi rintracciabili.
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5.1 Biografie immaginarie Attestando la vita dell’inesistente ladro Virgil Starkwell, Allen apre la strada alla realizzazione di un consistente numero di mocku-biopic.3 Da allora si sono, infatti, narrate le vicissitudini di un variegato campionario di esistenze immaginarie, quasi tutte riconducibili a due dei «tre tipi fondamentali di film biografici»4 individuati da Renato Venturelli: quello riguardante membri della società civile e quello relativo a esponenti dello show business. In particolare, nel primo caso a essere raccontate sono le vite di curiosi everyman (come Kenny, l’installatore di gabinetti portatili al centro dell’omonima pellicola di Clayton Jacobson), mentre nel secondo si spazia da attori a musicisti, da cineasti a personaggi di pellicole o serie televisive. Quest’ultimo, ad esempio, è il caso del cortometraggio R2-D2: Beneath the Dome (R2-D2: Sotto la cupola, 2001, di D. Bies e S. Susser), ove si attestano gli alti e bassi della carriera del robot protagonista di Star Wars (Guerre stellari, di G. Lucas). Tuttavia, è sempre Allen a firmare nel 1983 la regia del più celebre finto documentario biografico: Zelig. Il film, che combina veri materiali d’archivio e sequenze appositamente girate per ricostruire l’ipotetica esistenza di un camaleonte umano vissuto tra il 1920 e il 1930, alla sua uscita nelle sale si rivela un disastro commerciale,5 2 3 4 5
Ma. Ga., 2007: 95. Seppur rare, esistono anche finte autobiografie. Ad esempio, si pensi a David Holzman’s Diary. Venturelli, 2003: 516. Cfr. Schwartz, 2000: 273; s.n., 1995a: 57.
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ma con il tempo entra nella coscienza collettiva, divenendo altresì un modello per la realizzazione di tale tipologia di opere. Nel 1999 a questa cinebiografia fittizia l’autore newyorkese ne fa, poi, seguire una terza, dalla finzionalità più esplicita, intitolata Sweet and Lowdown (Accordi e disaccordi) e incentrata sul jazzista eterno-secondo Emmet Ray. Egli si consacra così come il regista più prolifico di questo filone.6 In generale, pur avendo l’aspetto di prodotti del cinema fattuale, questi finti documentari presentano tutte le caratteristiche del biopic. In primo luogo, proprio come prescritto dal genere, il personaggio di cui si attesta l’esistenza non solo è il «centro focale del racconto»7, ma è altresì colui che connette «lo spazio nella misura in cui fa da legame tra le diverse sequenze o inquadrature del film»8. In secondo luogo, anche qui si rintraccia la struttura propria del racconto mitico e fiabesco, condivisa da tutte le cinebiografie. Ciascuna di tali figure, infatti, «realizza un processo di redenzione che attinge la dimensione eroica, per lo più in opposizione a prove, ostacoli, divieti, infermità, pericoli»9. Ad esempio, il dj Frankie Wild protagonista di It’s All Gone Pete Tong (2004, di M. Dowse) deve affrontare una progressiva sordità, mentre il cineasta Colin McKenzie, della cui carriera dà conto Forgotten Silver, è costretto a confrontarsi con un susseguirsi di sfortunate circostanze. Per di più, in questi testi è frequente l’impiego delle due tecniche che Francesco Arlanch, nel suo Vite da film, individua come ricorrenti nei biopic: il flashback e il montage.10 Non solo, infatti, spesso si rievocano frammenti della vita del personaggio a partire da dichiarazioni di testimoni oculari o esperti raccolte nella contemporaneità, ma troviamo anche pellicole strutturate come lunghi flashback. È, ad esempio, il caso di Zelig, che si apre con alcuni fotogrammi raffiguranti un’accoglienza trionfale tributata al protagonista dalla città di New York, per poi però tornare 6
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Allen realizza per la PBS un quarto mocku-biopic dal titolo Men of Crisis: the Harvey Wallinger Story (1971), incentrato su un’inesistente figura vicina all’amministrazione Nixon. Per motivi politici, però, non andrà mai in onda (cfr. Girlanda; Tella, 1991: 79). Pesce, 1993: 12. Vernet in ibidem. ivi: 13. Cfr. Arlanch, 2008: 73-77.
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indietro nel tempo, al fine di ricostruire il percorso di vita che porta quest’uomo, inizialmente emarginato dalla società, a divenire un eroe. Allo stesso modo, soprattutto quando la modalità documentaristica falsificata è quella descrittiva, è consuetudine trovare sequenze composte da un montaggio veloce di fotografie e/o altri reperti, come accade nella succitata opera di Allen. L’unica difformità rispetto ai biopic tradizionali si ha proprio qualora, nel costruire questi ibridi, ci si appropri di quest’ultima modalità di rappresentazione del cinema del reale, poiché in tal caso, da un lato, viene a mancare un approfondimento psicologico del personaggio e, dall’altro, s’impone allo spettatore un distacco emotivo dalle vicende umane presentate, inducendolo a rapportarvisi con lo stesso “disinteresse” emozionale con cui ci si accinge a fruire un prodotto fattuale. Per quanto riguarda, invece, le differenze che i mockumentary di questo filone presentano tra loro, si rintracciano soprattutto nella tipologia di estetiche documentarie falsificate e nella cura con cui comprovano l’esistenza dei propri protagonisti.11 Ad accomunarli, invece, oltre alla presenza dei tratti caratteristici del biopic, sono il ricorso all’umorismo e la tendenza a palesare la loro finzionalità attraverso spie evidenti, quali gag capaci di far ridere lo spettatore del, o con il, soggetto, l’utilizzo di attori noti oppure l’adozione di tecniche del cinema di fiction inammissibili in un documentario. Ecco allora che Allen interpreta sia il ruolo di Virgil che di Leonard Zelig e affida quello di Emmet a Sean Penn o che in Take the Money and Run troviamo un flashback mentale dei momenti felici trascorsi dal protagonista con la donna amata (immagini che una macchina da presa difficilmente potrebbe catturare, giacché non è in grado di filmare quanto avviene nella nostra testa). Inoltre, nel tratteggiare queste esistenze fittizie si dà ampio spazio al racconto della vita affettiva dei personaggi, rendendoli protagonisti di storie d’amore in perfetto stile hollywoodiano, che acquistano rilievo soprattutto nella seconda metà della pellicola, al fine di chiarirne definitivamente la natura fantastica. Vediamo quindi Kenny con11
Si spazia, infatti, da casi come Sweet and Lowdown, ove ci si limita a inserire qualche sporadica dichiarazione di persone edotte sul soggetto, a casi come Zelig, in cui si ricorre congiuntamente a materiali di repertorio, reperti visivi e sonori, citazioni e testimonianze. Riguardo al secondo si veda Colombo, 1984: 50-54.
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quistare una hostess risolvendo un problema idraulico occorso nel bagno dell’aereo su cui viaggia, Virgil innamorarsi di una donna cui intendeva rubare la borsetta e Zelig scoprire di provare forti sentimenti per la sua psicanalista. Se ci si sente in dovere di usare indizi di finzione evidenti, si deve al fatto che di per sé il genere biografico è portatore di veridizione, poiché intrattiene un rapporto ambiguo con il reale. Difatti, nonostante il biopic sia una categoria del cinema di fiction, si compone di film che narrano di personalità veramente esistite. Di conseguenza, pur consapevole che gli eventi narrati sono romanzati, lo spettatore tende a ritenere tali opere una fonte attendibile sulla vita del soggetto.12 E non può quindi che essere ancor più propenso a credere a quanto vede, qualora gli sia presentato sotto forma di documentario. 5.2 Mock’n’roll: il finto rockumentary Il 22 marzo 1978 la NBC trasmette The Rutles - All You Need Is Cash, un TV-movie che ripercorre le vicissitudini artistiche della band fittizia The Rutles, parodia dei celebri Beatles.13 Ha così origine uno dei più popolari filoni del finto documentario: il mockrockumentary. Tale film differisce, però, per molti aspetti dalle pellicole che in seguito andranno a formare questa sotto-categoria del mockumentary. Esso, infatti, adotta la modalità descrittiva per dar conto dell’intera carriera di un gruppo musicale creato facendo riferimento a una specifica band del panorama discografico reale. Al contrario, i finti rockumentary realizzati successivamente, proprio come i veri documentari musicali Dont Look Back (1967, di D. A. Pennebaker) o The Last Waltz (L’ultimo valzer, 1978, di M. 12 13
A determinare tale propensione è anche il fatto che, come evidenzia Venturelli (cfr. 2003: 517), spesso i biopic nel tentare di dar seguito a un’ambizione didattica attingono anche a forme del documentario. Ad esempio, se a entrambi il primo manager procura una scrittura ad Amburgo, i Beatles suonano però nel club Indra, mentre i Rutles si esibiscono nei locali della Reeperbahn, la via a luci rosse. Analogamente, la sostanza stupefacente assunta per aumentare la propria creatività, nel primo caso, è l’LSD e, nel secondo, il tè.
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Scorsese), falsificano le estetiche del cinema diretto per attestare quanto accaduto durante il concerto o il tour di un gruppo o, più raramente, di un singolo artista. Inoltre, sebbene non manchino eccezioni, come Medusa: Dare to Be Truthful (1992, di J. Brown e J. Fortenberry) ove il riferimento sono Madonna e il suo Blond Ambition Tour, solitamente i personaggi qui proposti sono costruiti attingendo genericamente agli stereotipi propri del tipo di musica di cui si fanno espressione e non prendendo a riferimento precise figure fattuali.14 Si pensi ai rapper Niggaz With Hats di Fear of a Black Hat (1994, di R. Cundieff ), incarnazione di cliché degli artisti hip hop quali violenza, misoginia e culto per le armi. Se quindi The Rutles - All You Need Is Cash è il primo mockrockumentary, non è però il film che assurge a modello per la realizzazione di questi finti documentari, ruolo che spetta invece a This Is Spinal Tap. Non a caso, non solo si fa riferimento alla pellicola di Reiner nel recensire o pubblicizzare i successivi mockrockumentary,15 ma essa, a volte, viene anche citata all’interno di questi ultimi. Esempio in tal senso è Hard Core Logo (1996, di B. McDonald), film incentrato sul tour che dovrebbe sancire la reunion dell’omonimo gruppo punk. Qui, quando durante un viaggio i membri della band giocano a una versione cinematografica della catena di parole per tenersi occupati, uno di essi nomina appunto il mockumentary statunitense. Come traspare già da questa prima disamina, a dispetto dell’etichetta loro attribuita, questi finti documentari non guardano solo all’universo del rock, bensì ai più svariati generi musicali. Si spazia dal folk dei gruppi al centro di A Mighty Wind al pop delle band di Join the Flumeride (1998, di T. Persson), dal rap di Fear of a Black Hat alla polka del duo lettone Shmenge Brothers, protagonista di The Last Polka (1985, di J. Blanchard).16 14 15
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Ciò non significa però che in tali film non vi possano essere singole gag costruite facendo riferimento a precisi artisti, come accade in This Is Spinal Tap. Al riguardo si veda Gallone, 2009: 103-104. Ad esempio, il critico James Christopher (2004: 4) definisce A Mighty Wind «a folk-music version of This Is Spinal Tap» e il recensore di Variety Brendan Kelly (1996: senza pagina) descrive Hard Core Logo come «a dark, bitingly funny slice of Spinal Tap-like material», mentre Fear of a Black Hat nel proprio Press Book è presentato come la «rap’s answer to This Is Spinal Tap». Peraltro non è infrequente che in questi film appaiono, in piccoli ruoli o
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Anche i pretesti narrativi che giustificano, nella finzione, la scelta di un regista di filmare questi artisti sono molteplici: dalla reunion di un gruppo dopo tanti anni al concerto commemorativo in onore di un produttore musicale appena deceduto, dal lancio di un nuovo album alla necessità di una studentessa di sociologia d’analizzare da vicino la cultura hip hop per la sua tesi di dottorato. Sebbene differiscano quindi tra loro per alcuni aspetti, tali opere hanno però diversi elementi in comune. In primo luogo, ricorrono quasi tutte a una comicità di tipo parodistico (con l’eccezione ad esempio di Hard Core Logo, che termina addirittura con il suicidio del leader della band). Secondariamente, presentano un’ossatura uniforme: al pari dei veri rockumentary, propongono immagini di concerti e relativi backstage, nonché di prove o soundcheck, inframmezzate da interviste ai soggetti stessi, ma anche a fan o loro collaboratori. Tuttavia, la narrazione è organizzata secondo una tradizionale struttura narrativa in tre atti, articolata intorno a una situazione di conflitto che può derivare da litigi, gelosie o difficoltà incontrate da questi artisti sul proprio cammino. Per di più, i momenti musicali non segnano una battuta d’arresto nel progredire del racconto. Al contrario, contengono elementi utili alla sua evoluzione o, più semplicemente, gag funzionali a tratteggiare i personaggi. Di conseguenza, sebbene non possano essere propriamente considerati dei musical, questi mockumentary presentano tratti in comune con le pellicole appartenenti a tale genere cinematografico. E ciò non è casuale. Difatti, il rockumentary, cui codesti ibridi si rifanno, nasce negli anni Sessanta proprio per andare a colmare un vuoto lasciato dalla temporanea sclerotizzazione del musical, reinventandolo «savagely»17. Inoltre, i brani eseguiti sullo schermo da questi artisti fittizi non sono semplici parodie di canzoni esistenti, bensì composizioni originali che rispecchiano in modo perfettamente plausibile il genere imitato, relegando la comicità al solo livello testuale.18
17 18
camei, reali star del panorama musicale di riferimento. Ad esempio, in The Rutles - All You Need Is Cash compare George Harrison, mentre in Join the Flumeride Per Gessle, leader del gruppo pop-rock Gyllene Tider. James in Beattie, 2005: 22. Ad esempio, l’album contenente le musiche di A Mighty Wind viene così recensito sulla rivista Empire: «[...] this collection by the film’s fictional groups […] is, on a musical level, so authentic it pulls the album back
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Tant’è che frequentemente costoro sconfinano nel reale, scalando le classifiche con i propri album o tenendo veri concerti, come accade, ad esempio, per i Rutles, gli Spinal Tap e i gruppi folk di A Mighty Wind. Infine, tali ibridi sono altresì accomunati da una critica alle pratiche del cinema diretto, volta a evidenziare l’infondatezza della concezione per cui un soggetto dimenticherebbe d’essere scrutato da un obbiettivo e ne ignorerebbe la presenza. Ecco allora che troviamo sequenze ove i protagonisti ordinano all’operatore di non riprendere un dato avvenimento o gli chiedono di tagliare il girato in fase di montaggio, ma incappiamo anche in scene in cui essi si rivolgono al cameraman per offrirgli da bere, intavolare una conversazione, invitarlo ad assumere sostanze stupefacenti (come avviene in Hard Core Logo) o, addirittura, per proporsi sessualmente (come accade in Medusa: Dare to Be Truthful dove, mentre la cantante pratica del sesso orale con il cameraman, quest’ultimo, ligio al proprio dovere, continua a filmare).19 5.3 Cos’accade se… il mockumentary è storico-politico A differenza dei finti rockumentary, i mockumentary storicopolitici non seguono un modello unitario. Pur essendo tutti attraversati dalla medesima volontà d’indurre lo spettatore a riflettere su come i media tendano ad asservirsi all’autorità politica vigente, possono sviluppare tale tematica in tre modi diversi: documentando la campagna elettorale di un immaginario candidato politico, svelando l’esistenza di una cospirazione o adottando l’approccio del what if per reinventare il passato o ipotizzare futuri scenari apocalittici. È Robert Altman a dare avvio nel 1988 al primo di questi filoni con la miniserie Tanner ’88 (Id., HBO), che segue la corsa alle Primarie del democratico Jack Tanner. Avvalendosi di una sceneggiatura-dispositivo che lascia spazio all’improvvisazione, facendo
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from the novelty abyss. Beneath that sunshine surface, however, lurks a mischievous spirit that ribs the hippie sentiment of the lyrics» (s.n., 2004: 147). La sessualità è un tema molto presente in questi film, come si vedrà, ad esempio, per This Is Spinal Tap nel capitolo 7.
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interagire il personaggio con i veri protagonisti della scena politica del momento e mandando in onda con cadenza irregolare le undici puntate così realizzate, al fine di seguire il calendario delle Primarie effettivamente in atto nell’anno in oggetto,20 si crea quella che Robert Self definisce «a real campaign for a fictional candidate»21. Nel 1992 sulla scia dell’esempio altmaniano Tim Robbins realizza per il grande schermo Bob Roberts (Id.), mockumentary sulla corsa dell’omonimo cantante repubblicano per un seggio al Senato. Alla sua campagna elettorale fanno poi seguito quelle di Fred Tuttle in Man with a Plan (1996, di J. O’Brien) e Jack Tybalt in Bottomfeeders (2001, di B. Price),22 mentre con A New Tomorrow (2007, di C. Corr) si “documenta” la lotta per la poltrona di sindaco dell’inesistente cittadina di Venison. I candidati immaginari protagonisti di tali opere non si rifanno a specifiche figure del vero panorama politico, bensì sono costruiti guardando a più personalità o basandosi su diffusi stereotipi. A volte, però, essi possono fuoriuscire dai confini dello schermo cinematografico. È il caso di Tuttle, che nel 1998 corre realmente per un seggio al Senato, sconfiggendo, grazie a un voto di protesta della popolazione, il milionario Jack McMullen.23 Per quanto riguarda invece gli avvenimenti narrati, non solo tendono a essere plausibili,24 ma possono anche richiamare fatti realmente occorsi, al fine di porre l’attenzione su questioni sentite come attuali al momento della realizzazione del film. È il caso, ad esempio, di A New Tomorrow, che si sofferma sul tema dell’impegno delle truppe americane in Iraq, o di Bob Roberts, che tratta della violazione dell’emendamento Boland e della guerra del Golfo. Spesso poi tali ibridi invitano altresì gli spettatori a recarsi alle urne, come accade nella già citata pellicola di Robbins che termina con un cartello recante la parola «VOTE». 20 21 22 23 24
Cfr. Thompson, 2006: 151; Self, 2002: 123-124. Self, 2002: 123. Quest’ultimo, però, è solo evocato e mai mostrato, preferendo fornire il punto di vista della responsabile della campagna elettorale e di uno dei volontari al suo servizio. Al riguardo si veda Colton, 1998. Ad esempio, riferendosi ai fatti narrati nel film Bob Roberts, Angelo Acerbi (1993: 26) afferma: «[…] anche se essi non si sono affatto svolti in quei termini, avrebbero potuto tranquillamente accadere».
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Ad accomunare questi mockumentary è poi anche, da un lato, il ricorso a una satira pungente e, dall’altro, la scelta di appropriarsi della modalità documentaristica osservativa. Attraverso la prima si mette in luce il carattere spesso farsesco delle elezioni, mentre la seconda diventa strumento per una critica al cinema diretto, e in particolare a un film come Primary (Elezioni primarie, 1960, di R. Drew). Si mostra, infatti, la fragilità dell’assunto di Richard Leacock, per cui, durante una situazione critica, un soggetto dimenticherebbe di essere scrutato dalla macchina da presa e agirebbe in modo naturale.25 E lo si fa attraverso personaggi che, chiedendo all’operatore di spegnere l’apparecchio ogni qual volta si trovano in una situazione di difficoltà, evidenziano d’essere consapevoli della presenza dell’obbiettivo. Si mette così in luce anche come i politici sfruttino i media per dare all’elettorato un’immagine di sé accuratamente costruita, che li renda appetibili ai loro occhi. Ecco allora, ad esempio, che il regista Terry Manchester stipula un accordo con Roberts per cui, qualora il candidato lo ritenga opportuno, egli deve smettere di riprendere. Il secondo gruppo di mockumentary storico-politici si compone, invece, di prodotti che ricorrono alla forma del reportage televisivo per svelare intrighi immaginari, orditi dal governo di una nazione proprio grazie all’ausilio dei media. Si tratta di opere, destinate al pubblico del piccolo schermo, la cui struttura è sempre la medesima: una voce over guida lo spettatore alla scoperta delle prove dell’esistenza di una cospirazione. Tali testi possono rendere esplicita la propria finzionalità dando conto di complotti improbabili, come avviene ad esempio in The Canadian Conspiracy (1985, di R. Boyd), ove si sostiene che il governo candese avrebbe inviato nella nascente televisione americana alcuni comici addestrati a conquistare gli Stati Uniti attraverso il controllo dell’industria dell’intrattenimento. Più spesso, però, essi sono hoax. Si pensi a Konspiration ’58 (2002, di J. Löfsted), che proverebbe come in realtà i Mondiali di calcio svoltisi in Svezia nel 1958 non avrebbero mai avuto luogo, o di Opération Lune (2002, di W. Karel), che smaschererebbe l’esistenza di una cospirazione ordita dal governo americano intorno alla conquista della Luna. Anche in questo caso, quindi, l’intento è di denunciare come attraverso il controllo 25
Cfr. Beattie, 2008: 77-78.
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dei mezzi di comunicazione si possa facilmente manipolare l’opinione pubblica. Il terzo e ultimo gruppo di tale filone, la cui nascita coincide con l’avvento del mockumentary, consta invece di opere che attestano alternativamente quanto sarebbe avvenuto se in un determinato periodo, e limitatamente a una precisa area geografica, la Storia avesse avuto diverso corso o cos’accadrebbe qualora, un domani, si verificasse un dato avvenimento catastrofico. Se il primo è il caso del già citato C.S.A.: The Confederate States of America o di Первые на Луне (First on the Moon, 2005, di A. Fedorchenko), che attribuisce ad astronauti sovietici i primi passi sul suolo lunare, per il secondo si ricordano invece i TV-movie The Day Britain Stopped (2003, BBC2, di G. Range), ove si dà conto dell’ipotetico collasso del sistema dei trasporti britannico, e Smallpox 2002 - Silent Weapon (2002, BBC2, di D. Percival), che attesta il verificarsi di un’epidemia di vaiolo. È il soggetto stesso di questi film a chiarirne la natura finzionale, resa ancor più evidente nei mockumentary incentrati su un evento futuro dal ricorso alla forma del documentario retrospettivo. Non essendo quindi necessario usare la comicità per fornire una spia del loro effettivo stato ontologico, questi ibridi sono generalmente a carattere drammatico. Altra loro caratteristica è, poi, la trattazione di tematiche tipiche del film politico, come ad esempio il razzismo.26 Si pensi al succitato film di Willmott, che descrive un’America ove le televendite, invece di pentole e materassi, offrono servitori di colore, mentre la nota serie di Frank Capra Why We Fight (Perché combattiamo, 1942-1945) si trasforma in Why We Fought e spiega agli spettatori come la schiavitù sia sempre stata alla base della fiorente economia statunitense.27 Si segnala, infine, che tra questi mockumentary vi è anche un gruppo di film che ipotizzano gli assassinii di personalità di rilievo, la cui morte può avere gravi ripercussioni sugli assetti di una nazione. Generalmente a essere uccisi sono capi di Stato, come nel caso del Primo Ministro danese Anders Fogh Rasmussen in AFR (2007, di M. H. Kaplers) o del Presidente degli Stati Uniti Georg 26 27
Per le tematiche caratteristiche del film politico si rinvia a Di Giorgi, 2003: 470. Per approfondimenti sul film si veda Prasch, 2012.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
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W. Bush in Death of a President. Il primo di cui si è documentato la finta uccisione è stato, però, Bill Gates in Nothing So Strange (2002, di B. Flemming). Questi film, che si pongono a metà tra un whodunit e un thriller, hanno tutti una struttura analoga: nei primi minuti si fornisce prova visiva della morte del soggetto in questione, per poi dar conto delle inchieste condotte sull’accaduto e delle oscure verità che ne sono emerse. Si tratteggiano, inoltre, le ripercussioni politiche (o economiche, nel caso della scomparsa di Gates) dell’evento in questione, criticando altresì il modo in cui i media rispondono a situazioni di crisi. 5.4 Il mockumentary “sociale” «This is a film about people and their obsession»28, dichiara il regista Christopher Guest nel presentare il suo mockumentary Best in Show, ove si dà conto di quanto accaduto durante un’importante competizione newyorkese per cani di razza. Tale definizione è estensibile alla totalità dei finti documentari collocabili nel filone “sociale”, dacché ben descrive queste pellicole che illustrano ipotetici spaccati della nostra società e gli eccentrici personaggi che ne fanno parte. Esse, infatti, nel raccontare storie dall’accentuata finzionalità e dal tradizionale impianto narrativo,29 muovono dal pretesto di tratteggiare i fenomeni più vari: dai garage-sale di G-Sale (2003, di R. Nargi) al surreale collezionismo di pasti congelati di Never Been Thawed (2005, di S. Anders), passando per competizioni volte a eleggere il miglior parrucchiere o a decretare il matrimonio più originale.30 Peculiarità di questi ibridi è il ricorso a una comicità di tipo parodistico e alle estetiche proprie del cinema diretto, nonché il progressivo ridursi, lungo l’arco della loro durata, delle marche veridittive impiegate, arrivando quasi a far dimenticare al pubblico di star assistendo a un “documentario”. Non è infrequente, inoltre, né che siano caratterizzati da una recitazione basata in larga 28 29 30
Guest in Millar, 2001: 55. Il loro essere prodotti di finzione è chiarito anche da manifesti e flani che ne accompagnano l’uscita, ove sono presentati come commedie. Gli ultimi due sono i casi di The Big Tease (1999, di K. Allen) e Confetti.
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parte sull’improvvisazione né tantomeno che i ruoli principali siano ricoperti da attori noti. Quest’ultimo è il caso di Drop Dead Gorgeous (Bella da morire, 1999, di M. P. Jann), mockumentary sul concorso per incoronare Miss Mount Rose, le cui protagoniste Amber Atkins e Rebecca Leeman hanno rispettivamente i volti di Denise Richards e Kirsten Dunst. Per quanto riguarda poi la modalità di rappresentazione del cinema del reale adottata, vi è la tendenza a prediligere quella osservativa, ma non mancano nemmeno film ove ci si avvale di quella partecipativa, facendo diventare il regista un personaggio del mondo fittizio raccontato. È quanto accade, ad esempio, in The Delicate Art of Parking (2003, di T. Carlson), finta inchiesta sul lavoro di alcuni ausiliari della sosta canadesi. Qui, oltre a cimentarsi con tale occupazione per sperimentare personalmente una tecnica volta a ridurre la rabbia dei multati, il presunto documentarista influenza l’evolversi delle vicende che attesta. In generale, i mockumentary ascrivibili a questo filone possono essere suddivisi in due gruppi. Il primo, più esiguo, si compone di pellicole corali che “mascherano” con blande estetiche del cinema fattuale avvincenti racconti ambientati in un luogo di lavoro. Si pensi a Chalk (2006, di M. Akel), incentrato sulle difficoltà incontrate da alcuni professori che insegnano nel medesimo liceo, o al già citato film di Carlson, il cui vero nucleo narrativo è costituito dallo svelamento di un mistero. I finti documentari appartenenti al secondo gruppo danno, invece, conto di una situazione competitiva, focalizzandosi su un singolo concorrente o, più spesso, seguendo le vicende di diverse figure. Nel primo caso, si addotta una tradizionale struttura in tre atti e il protagonista è chiamato a superare una serie di ostacoli prima di ottenere il meritato trionfo. Esempio in tal senso è Drop Dead Gorgeous, ove l’indigente Amber, che si mantiene agli studi truccando salme, vince il titolo di Miss Mount Rose dopo essere sopravvissuta a diversi attentati alla sua vita, architettati dalla ricca figlia di un’ex reginetta di bellezza. Più numerosi, sono invece i testi che presentano una «struttura polifonica»31, proponendo un ventaglio di personaggi rappresen31
Per questo concetto si rimanda a Provenzano, 2012: 86.
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tativi della varietà d’identità sessuali e ceti sociali propria dell’odierna società. Tali opere si articolano in una parte introduttiva, ove ciascuno dei protagonisti si racconta brevemente, una centrale, che dà conto della competizione, e una conclusiva, volta a documentare se e come, a distanza di alcuni mesi dall’evento, la loro vita sia cambiata. Si fa inoltre ricorso a interviste-confessionale, cui ci si affida, inizialmente, per consentire ai personaggi di autopresentarsi e, in seguito, per mettere lo spettatore a conoscenza dei pensieri e sentimenti che animano costoro nel corso del loro percorso verso la vittoria o la sconfitta. Imbeccati dalle domande di un documentarista (mostrato solo di rado), essi, infatti, riassumono il proprio passato e riflettono sul loro presente, esteriorizzando il bagaglio emozionale che esso comporta. In alcuni casi, poi, queste opere possono anche esibire i tratti di specifici sotto-generi del cinema di fiction, come accade in Confetti, che presenta attributi di genere della wedding comedy, quali i personaggi dei due «fussy gay wedding planners»32. Infine, va rilevato che, sebbene il principale obbiettivo di tali testi sia d’intrattenere, essi portano avanti, attraverso la lente della parodia, anche una critica a pratiche della nostra società (come appunto concorsi di bellezza, mostre canine, garage-sale e così via), ai media in generale e/o all’approccio documentaristico propugnato dagli esponenti del cinema diretto. Ad esempio, il succitato film di Debbie Isitt, costruito come un «reality cinema game»33, irride sia la produzione televisiva pseudo-fattuale sia gli eccentrici matrimoni a tema, mentre Drop Dead Gorgeous non solo evidenzia l’eccessiva rivalità presente nel tipo di manifestazioni di cui dà conto, ma critica altresì il documentario osservativo.34 5.5 Making of… di film mai girati Non è infrequente che un mockumentary ricordi allo spettatore la natura mediata dell’immagine filmica che sta fruendo, mostran32 33 34
Barber, 2006: 11. Peraltro, personaggi gay sono ricorrenti nei mockumentary “sociali”. Christopher, 2006: 15. Ad esempio, quando un personaggio rimane incastrato nella portiera dell’auto, l’operatore non interviene per aiutarlo e viene posta in sovrim-
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do un personaggio-regista nell’atto di effettuare le riprese (esibendolo generalmente mentre cattura il proprio riflesso in uno specchio, così da non incorrere in inquadrature inverosimili). È quanto accade, ad esempio, nella parte iniziale di David Holzman’s Diary (fig. 1) o in quella di Chronicle (Id., 2012, di J. Trank). Vi sono poi casi in cui l’ipotetico documentarista può diventare protagonista del mondo fittizio raccontato, influenzando il corso delle vicende di cui dà conto, come si è visto per The Delicate Art of Parking. Molto spesso, inoltre, in questi ibridi troviamo citazioni o riferimenti alla produzione cinematografica precedente. Pellicola simbolo in tal senso può essere considerata C.S.A.: The Confederate States of America, dove viene proposta una rilettura in chiave “sudista” della filmografia d’importanti autori statunitensi, quali David W. Griffith (qui artefice del fantomatico The Hunt of Dishonest Abe, incentrato sulla tentata fuga in Canada di un Abram Lincoln truccato da afroamericano) o Frank Capra. Esistono, però, anche diversi mockumentary il cui soggetto è il cinema stesso, declinato dal punto di vista di differenti categorie di lavoratori del settore. Realizzati falsificando la modalità documentaristica osservativa e facendo ampio ricorso a intervisteconfessionale, tali film si propongono per lo più come making of d’immaginarie pellicole e hanno per protagonisti registi o produttori indipendenti alle prese con la ricerca di finanziamenti, il reperimento di un distributore e le molte difficoltà che si possono incontrare su un set.35 E non si tralascia nemmeno l’“altro cinema” ovvero il mondo del porno. Quest’ultimo è al centro di Love Shack (2010, di G. Sacon e M. B. Silver), “documentario” sulla realizzazione di un progetto del defunto produttore di film hardcore Mo Saltzman, di cui si vuole onorare la memoria portando a termine quanto aveva ideato. Come rileva Hight, caratteristica di tali opere è, in primo luogo, la presenza di note figure del panorama cinematografico nei panni
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pressione la seguente didascalia: «It is the policy of the documentary crew to remain true observers and not interfere with its subjects». Non mancano però nemmeno mockumentary che guardano al mondo dei festival. È il caso di Festival (Id., 2011, di B. Leigh e M. R. West), ove si racconta di un piccolo gruppo di lavoro alle prese con l’organizzazione della sua prima manifestazione.
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di se stesse.36 Costoro generalmente interpretano dei camei, ma vi è anche un caso in cui tutta la vicenda s’incentra intorno a un vero regista. La pellicola in oggetto è Incident at Loch Ness (2004, di Z. Penn), che si propone come il resoconto del fallito tentativo di Werner Herzog di girare un documentario sul mostro di Loch Ness e vede pertanto l’effettivo filmmaker tedesco tra gli attori. Proprio il raccontare storie di aspirazioni frustrate è un altro dei tratti comuni a questi mockumentary. Emblematico in tal senso è They Shoot Movies, Don’t They?...the Making of Mirage, che narra addirittura di come un regista hollywoodiano sacrifichi la propria vita per far sì che il suo primo film venga distribuito. I finti documentari appartenenti a questo filone rivolgono inoltre un medesimo sguardo critico all’industria cinematografica, anche se solitamente attraverso il filtro della parodia. In particolare si mette in luce come sovente le logiche produttive dominanti costringano i filmmaker a compromessi che snaturano il loro progetto originario. Ecco allora, ad esempio, che in Incident at Loch Ness, all’insaputa di Herzog, il produttore del documentario, interpretato da Zak Penn, ricorre a ogni sorta di effetti speciali (tra cui addirittura un Nessie telecomandato) per rendere accattivante il film.37 Analogamente in The Making of…And God Spoke (1993, di A. Borman), dove si dà conto della realizzazione di un’epopea a soggetto biblico, a causa di un ritardo sui tempi di lavorazione, gli Studios obbligano l’autore a eliminare buona parte delle scene che vedono protagonista Gesù, figura non certo marginale nelle Sacre Scritture. Sempre qui si affronta poi anche il tema del product placement. Infatti, non riuscendo a trovare altrimenti il denaro per terminare la pellicola, si stipula un contratto con la Coca-Cola, che prevede di mostrare le bibite dell’azienda nel film. Ed ecco allora che Mosè deve scendere dal monte Sinai, tenendo tra le mani, oltre alle tavole dei dieci comandamenti, anche sei lattine della popolare bevanda. Infine, l’industria cinematografica viene altresì derisa proponendo dei personaggi che incarnano gli stereotipi di quest’ambiente. Si pensi al direttore della fotografia di …And God Spoke, che fa ritardare l’intera lavorazione per conferire al film atmosfere 36 37
Hight, 2010: 48. Per approfondimenti al riguardo si veda Herbert, 2009.
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bergmaniane, ma in realtà ottiene solo inquadrature completamente nere, o all’attrice-diva di Love Shack che, per timore d’essere messa in ombra da una giovane promessa, ingaggia una faida con lei, causando lo stallo delle riprese e mettendo in forse il futuro della pellicola.
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5.6 Per una paura “reale”: il mocku-horror Come illustra Gary D. Rohdes in un saggio apparso sulle pagine della rivista Post Script, tutta la storia del genere horror è pervasa da tentativi di rendere le vicende raccontate più realistiche. Se per ottenere tale effetto nel 1932 Tod Browning, portando a compimento un percorso iniziato da Lon Cahney, pone al centro del suo Freaks (Id.) veri uomini deformi al posto dei consueti mostri soprannaturali, a partire dagli anni Sessanta questa ricerca di realismo si persegue altresì facendo uno sporadico ricorso a estetiche proprie del cinema fattuale. Si pensi, ad esempio, a Night of the Leaving Dead (La notte dei morti viventi, 1968, di G. Romero), i cui titoli di coda scorrono su una successione di fotografie accompagnate da una registrazione delle voci di poliziotti e reporter. Tale processo giunge a maturazione nel 1979, allorché l’italiano Ruggero Deodato con Cannibal Holocaust “documenta” per la prima volta la paura, mescolando addirittura ai finti decessi dei protagonisti le vere uccisioni di alcuni animali, nonché chiedendo agli attori di farsi credere morti, così da far sembrare autentica la vicenda narrata.38 Tuttavia, affinché il mockumentary si affermi come stile adatto a raccontare il terrore, bisogna aspettare il 1999, anno in cui fa la sua comparsa quello che diverrà poi il film di riferimento per la realizzazione di questi finti documentari: The Blair Witch Project.39 Pochi sanno, però, che un anno prima della sua uscita nelle sale, sempre negli Stati Uniti vede la luce un altro finto documentario, a cui quello di Myrick e Sánchez assomiglia così tanto da essere
38 39
Cfr. Rhodes, 2002: 48-52. Per un’analisi di Cannibal Holocaust come mockumentary si rinvia a Jauregui, 2004. Per la trattazione di questo film si rimanda al capitolo 9.
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stato accusato di plagio.40 L’opera in oggetto è The Last Broadcast (1998, di S. Avalon e L. Weiler). Prodotto con soli 900 dollari e ricordato per essere il primo film interamente girato, montato e distribuito in digitale, il mockumentary di Avalon e Weiler presenta diversi punti di contatto con il suo più celebre successore: si propone come il frutto del montaggio di found footage, pretende di attestare quanto accaduto a chi ha realizzato i filmati rinvenuti, termina con la morte/sparizione dei protagonisti ed è accompagnato da un sito web pensato per essere un suo prolungamento.41 Avrebbe quindi tutte le caratteristiche per ottenere quel successo che spetterà poi a The Blair Witch Project, ma l’ostinazione dei due registi a volerlo distribuire in digitale, nonostante festival e sale cinematografiche siano ancora scarsamente equipaggiati in tal senso, finisce per penalizzarlo, impedendogli di avere un’adeguata circuitazione.42 Al contrario, il finto documentario di Myrick e Sánchez, anche grazie a un’accorta campagna pubblicitaria, ottiene l’attenzione di pubblico e critica, divenendo il baluardo di un rinnovamento nel modo di raccontare la paura. Questa pellicola dimostra, infatti, che non servono effetti speciali ed elaborate creature mostruose per spaventare lo spettatore. Il terrore può essere suscitato anche solo attraverso l’idea che quanto narrato possa essere stato realmente esperito dai protagonisti. Se ciò accade, è perché, nel momento in cui si trova ad assistere a un film dell’orrore avente le sembianze di un prodotto fattuale, il fruitore non è più portato a prendere le distanze da quanto vede, rassicurandosi del fatto che «It’s not real», bensì tende a pensare: «It could be me»43. La vicenda raccontata acquisisce pertanto una maggiore carica orrorifica ai suoi occhi, procurandogli conseguentemente maggior piacere. Ed è proprio su ciò che insistono i mocku-horror. Tendono, infatti, a proporsi come found footage film al grado «zero» (ovvero come semplici «objet retrouvé»44 esenti da elaborazioni), attestan40 41 42 43 44
Al riguardo si veda Kendzior, 1999. Cfr. Higley, 2004: 89. Sulla vicenda distributiva del film si veda almeno Thompson, 1999. Roscoe, 2000: 7. Si segnala, però, che vi sono anche spettatori che considerano tali film noiosi, preferendo a essi gli horror tradizionali. Bertozzi, 2012: 41.
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ti quanto avvenuto negli ultimi attimi di vita di persone scomparse o morte in circostanze misteriose. Inoltre, adottano le estetiche proprie della modalità partecipativa o di quella osservativa, fornendo un punto di vista limitato sulla vicenda, che spesso coincide con quello soggettivo della vittima.45 Per di più, il suono deve apparire come catturato in presa diretta e, di conseguenza, la musica è ammessa solo se diegetica. Non è infrequente inoltre che le storie proposte prendano le mosse da situazioni che il pubblico potrebbe vivere nella propria quotidianità, quali perdersi in un bosco o udire rumori non giustificati nel silenzio della propria abitazione.46 Il loro rispondere appieno a un’esigenza di realismo che, come si è visto, attraversa tutta la storia del genere horror, nonché il fatto che possano essere realizzati con budget contenuti, ha portato questi finti documentari a venir prodotti con sempre maggior frequenza negli ultimi anni, come dimostra il fatto che nel solo 2010 siano stati ben otto i mocku-horror realizzati.47 Si può quindi azzardare l’ipotesi che il mockumentary stia diventando la modalità privilegiata per narrare la paura. 5.7 Il mockumentary sentimentale La forma del mockumentary può essere adottata anche per raccontare di relazioni amorose o del loro sgretolarsi, come accade in film quali Husbands and Wives, Sidewalks of New York, Riprendimi o Paper Heart (2009, di N. Jasenovec).48 Realizzate falsificando 45 46
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Può essere adottata una camera a mano, ma anche (come accade in Paranormal Activity) una videocamera di sorveglianza, la cui visuale sugli eventi è limitata dalla propria staticità. Addirittura il regista Oren Peli (in Hewitt, 2009: 81) ha dichiarato di aver avuto l’idea per il soggetto di Paranormal Activity proprio da un’esperienza personale: «[…] I moved to a new house, and me and my girlfriend would start hearing strange noise at night [...] Most of it was probably just the house settling, but there were a few things we didn’t know how to explain. […] I thought maybe we could set up video cameras to see what was going on. I didn’t actually do it, but that was the grain of the idea». Tra essi si ricordano The Last Exorcism (L’ultimo esorcismo, di D. Stamm), Paranormal Activity 2 (Id., di T. Williams) e Grave Encounters (ESP - Fenomeni paranormali, dei The Vicious Brothers). Tali film narrano rispettivamente della crisi matrimoniale di due coppie,
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la modalità osservativa e affidando i ruoli principali a volti noti del panorama cinematografico,49 queste pellicole chiedono allo spettatore d’instaurare un modo di lettura finzionalizzante fin dai loro paratesti, proponendosi come prodotti appartenenti al genere sentimentale più che come documentari. Emblematico in tal senso è il manifesto della pellicola di Jasenovec ove, accanto all’immagine dei due giovani protagonisti che corrono mano nella mano, leggiamo: «A documentary story about love that’s taking on a life of its own» (fig. 2). Si cancella quindi il vocabolo «documentary» per sostituirlo con la più appropriata parola «story», evidenziando così come si faccia qui ricorso alle estetiche del cinema del reale puramente per conferire nuova vitalità a un soggetto ormai abusato. E ciò è valevole per tutti i film appartenenti a tale filone. Tant’è che essi non solo spesso non forniscono una giustificazione del perché si sarebbe scelto di puntare l’obbiettivo proprio su quelle determinate coppie,50 ma non si preoccupano nemmeno d’incorrere in incongruenze narrative e/o visive. Ecco allora che, nel succitato film di Burns, il dentista Griffin Ritso costringe la sua giovane amante a incontri clandestini, poiché non intenzionato a lasciare la propria moglie per lei, ma permette al contempo che i loro momenti d’intimità vengano ripresi, con il rischio che, un domani, la consorte possa vedere il documentario e apprendere
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delle vicende sentimentali di sei newyorkesi, le cui vite s’intrecciano in una complessa trama di rapporti amorosi, della separazione tra l’attore Giovanni e la montatrice Lucia, genitori di un bimbo di appena un anno, e della relazione sbocciata tra i giovani Charlyne e Michael, mentre la prima è impegnata a realizzare un documentario sul tema dell’innamoramento. Nella pellicola di Allen, oltre al regista stesso, figurano Mia Farrow, Sidney Pollack e Judy Davis. In Sidewalks of New York troviamo Stanley Tucci, cosciuto per ruoli minori in film come Deconstructing Harry (Harry a pezzi, 1997, di W. Allen). La protagonista di Riprendimi è Alba Rohrwacher, apparsa in precedenza in produzioni quali Giorni e nuvole (2007, di S. Soldini), mentre il Michael Cera di Paper Heart qualche anno prima d’interpretare questo mockumentary raggiunge il successo internazionale con Juno (Id., 2007, di J. Reitman). Questo è il caso di Husbands and Wives e Sidewalks of New York, film che per altro la critica ha riconosciuto essere somiglianti. Ad esempio, il critico Matteo Bittanti (2002: 38) rileva: «[...] I marciapiedi di New York è un omaggio esplicito a Mariti e mogli, di cui riprende l’estetica semi-documentaristica».
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così della sua infedeltà. Tuttavia, tale incoerenza non disturba affatto il fruitore, che continua a diegetizzare, poiché sa di non star assistendo a un prodotto fattuale. Per la stessa ragione, egli accetta altresì “casualità” irrealistiche, quali il fatto che le vicende dei sei protagonisti di Sidewalks of New York finiscano per intrecciarsi tra loro o che, in Paper Heart, Charlyne s’innamori di Michael proprio mentre sta realizzando un documentario per scoprire se questo sentimento esiste. A denotare come queste pellicole ricorrano al mockumentary unicamente in quanto stile capace di rendere innovative vicende consuete è anche il fatto che in esse non si sia consistenti nel proporre inquadrature verosimili come filmate dalla macchina da presa al seguito dei protagonisti. Ad esempio, sia in Riprendimi sia nel succitato film di Jasenovec, ogni qual volta un personaggio si rivolge all’operatore, quest’ultimo viene mostrato attraverso un controcampo, impossibile in assenza di una seconda troupe. Non è inoltre infrequente incappare in sequenze che restituiscano sogni o fantasie dei protagonisti, come accade nei mockumentary di Anna Negri e Woody Allen, ove si propone rispettivamente un incubo avuto da Lucia e quanto immaginato dalla studentessa Rain mentre legge il romanzo scritto dal proprio professore. Si ricorre, poi, altresì alla tecnica del flashback per mostrare avvenimenti passati, risalenti a un periodo di molto precedente a quello in cui si gira il documentario, e che non è quindi chiaro perché sarebbero stati filmati. Tali immagini, peraltro, non hanno una qualità diversa da quelle attestanti gli eventi presenti, risultando così ancora più inverosimili come fattuali. Ciò accade, ad esempio, in Sidewalks of New York ogni qual volta i personaggi raccontano alla macchina da presa di un accadimento trascorso, ma anche in Husbands and Wives quando, durante un’intervista, Gabe narra del suo primo incontro con la moglie Judy. Vengono poi spesso adottati elementi propri della grammatica cinematografica di fiction non ammissibili in prodotti appartenenti alla modalità documentaristica scelta. Si pensi al fermo immagine cui si ricorre ampiamente in Riprendimi o all’uso che si fa del jump cut in Sidewalks of New York (tale per cui spesso i personaggi, invece di andare fuori campo fisicamente, si dissolvono nel nulla come per magia), nonché alla musica extradiegetica presente in entrambi questi film.
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Ciò detto, non stupisce quindi constatare, ad esempio, che Elio Girlanda e Annamaria Tella nella loro monografia dedicata ad Allen non leggano Husbands and Wives come un finto documentario, bensì semplicemente come «una commedia drammatica» dallo «stile apparentemente improvvisato e senza regole»51.
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Cfr. Girlanda; Tella, 1991: 129.
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6.
IL MOCKUMENTARY COME STILE INTERMEDIALE E TRANSMEDIALE
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6.1 Dalla televisione al web: l’intermedialità del mockumentary Giacché per conferire a un racconto finzionale le sembianze di una vicenda fattuale è sufficiente ricorrere a quegli elementi riconosciuti dal pubblico come marche veridittive del mezzo di comunicazione cui il prodotto è destinato, oltre a ibridare i più svariati generi cinematografici, il mockumentary migra con facilità da un mass medium all’altro. A comprovare il suo essere uno stile intermediale1 è la sua stessa Storia: nato in radio, approda in seguito sul piccolo e poi sul grande schermo, per arrivare nell’ultimo decennio a propagarsi anche nel web ove, come vedremo, viene sfruttato sia per creare prodotti audiovisivi sia per realizzare siti Internet. Non mancano poi nemmeno casi in cui viene applicato per dar vita a testi a stampa, come dimostrato, ad esempio, dalla presenza di diversi articoli di giornale in cui si trattano come reali gli universi o i personaggi fantastici di falsi documentari filmici. Tuttavia, come ben rileva Hight, tra questi mezzi di comunicazione ve n’è uno in particolare che offre le condizioni ideali per il proliferare di tale modalità narrativa, tanto che quest’ultima ha finito per naturalizzarvisi.2 Il medium in oggetto è la televisione, dove il fattuale trova spazio in una molteplicità di forme differenti,3 fornendo pertanto una gamma molto ampia di estetiche da poter falsificare. Non è quindi casuale che questo stile faccia la sua comparsa sul piccolo schermo oltre un decennio prima 1 2 3
Tale termine viene qui adottato nella sua «accezione minimalista» così come delineata da Gaudreault (cfr. 1998: 207). Cfr. Hight, 2010: 73. Per una panoramica delle diverse tipologie di programmi fattuali proposti sul piccolo schermo si veda ivi: 102-133.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
del suo avvento cinematografico né che quello che è poi divenuto il primo mockumentary proiettato nelle sale, The War Game di Watkins, venga originariamente pensato per essere trasmesso su tale mezzo di comunicazione. Secondo il ricercatore belga Jelle Mast, vi sarebbe inoltre un legame tra il recente radicarsi di una reality TV in cui la realtà viene utilizzata come strategia discorsiva per dar vita a prodotti che «(re)combines and thus revise traditional television genres, both factual and fictional»4 e il parallelo incremento del numero di finti documentari creati per il piccolo schermo. Ecco allora che non stupisce constatare, ad esempio, che il primato nella creazione di mockumentary seriali spetti proprio alla Gran Bretagna, ove per lungo tempo la docu-soap è stata un format dominante nella programmazione di prima serata.5 6.1.1 Le categorie del mockumentary televisivo In televisione le estetiche documentarie vengono falsificate per dar vita a quattro macro-categorie di prodotti audiovisivi: finti servizi giornalistici, programmi non seriali, singoli episodi di telefilm di successo6 e intere serie. Al primo gruppo appartengono quelle brevi notizie, denominate April Fool’s Day Hoax e costruite per essere pesci d’aprile mediatici, che sono solitamente proposte a chiusura di un reale programma d’informazione o di un telegiornale, ricordando al telespettatore in quale giorno dell’anno ci si trova per permettergli di riconoscerne la natura finzionale. Esse hanno soggetti molto variegati. Si spazia dall’annuncio, dato nel 1962 sull’allora unico 4 5 6
Mast, 2009: 231. Cfr. Hight, 2012: 75. Sebbene sia più frequente il ricorso al finto documentario per realizzare singoli episodi di telefilm, non mancano, però, nemmeno casi in cui tale stile è adottato per realizzare puntate fittizie di serie fattuali. Si pensi, ad esempio, a Unauthorized Biography: Milo-Death of a Supermodel (1997, Comedy Central) che fornisce la biografia dell’inesistente modella Erma Jean Bagnoll, parodiando estetiche e struttura della serie documentaristica Biography (1962 – , CBS/A&E/The Biography Channel). Tuttavia, tali puntate non sono proposte al telespettatore come parte del programma che irridono, ma vanno in onda separatamente. È quindi più corretto inscriverle trai mockumentary non seriali.
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Il mockumentary come stile intermediale e transmediale
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canale svedese, della possibilità di aggiungere il colore alla programmazione televisiva infilando sul proprio apparecchio una calza di nylon al più recente servizio sull’esistenza di una colonia di pinguini in grado di volare, andato in onda nel 2008 all’interno della trasmissione BBC Breakfast (2000 – , BBC1). Esistono, poi, falsi documentari non seriali più estesi. Anche in questo caso si tratta prevalentemente di hoax trasmessi il primo d’aprile o la notte di Halloween, sul modello di quanto fatto da Welles con The War of the Worlds. Nonostante Hight ne parli nei termini di «examples of a stunt […] mockumentary agenda that seeks the status of media events»7, tali ibridi presentano una narrazione capace sia di far riflettere il pubblico sulle proprie pratiche di fruizione sia soprattutto di avvincerlo. Si pensi, ad esempio, a Ghostwatch (1992, BBC1, di L. Manning). Proposto la notte del 31 ottobre 1992 e articolato come la prima puntata in diretta di una nuova serie fattuale sul paranormale, questo programma è a tutti gli effetti un mocku-horror. Protagonista è la presentatrice Sarah Greene che, accompagnata da un cameraman e da un tecnico del suono, si avventura in un’abitazione londinese infestata da fantasmi con la speranza di riuscire a riprendere tali entità. Mentre all’interno dell’edificio cresce la paura, in studio lo scettico conduttore Michael Parkinson e un’esperta fittizia commentano gli anomali fenomeni che hanno luogo nella casa, fino all’improvvisa interruzione del collegamento con Sarah Green e al verificarsi di eventi paranormali anche nel teatro di posa. Si racconta pertanto una tradizionale storia dell’orrore, seppur utilizzando «all of the familiar tropes of live television broadcasting»8. Non è accidentale che queste prime due macro-categorie di opere televisive in stile mockumentary si compongano di prodotti ove il finto documentario viene adottato nella sua forma più credibile. È proprio nel piccolo schermo che l’hoax trova il suo terreno privilegiato, giacché, venendo inserito in questo contesto mediale, beneficia di quell’«effetto di realtà»9 che tale mezzo di comunicazione tende a conferire alla propria programmazione. Lo spettatore, infatti, è abituato a concepire la televisione come una fonte 7 8 9
Hight, 2010: 99. Ivi: 96. Ferraris, 2011: 37.
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d’informazione (se non addirittura come la fonte d’informazione per eccellenza) e di conseguenza questo medium acquisisce ai suoi occhi un’autorità tanto indiscutibile da indurlo a credere ciecamente alla veridicità di ciò che vi viene presentato come reale. Lo studioso Tijani El-Miskin ritiene addirittura che il piccolo schermo induca a un «transfictional disavowal»10 tale per cui, quando si ricorre alle estetiche documentarie per “dar conto” della fantasia, anche se s’informa il fruitore di star assistendo a una drammatizzazione, quest’ultimo tenderà comunque ad accogliere l’opera in oggetto come vera, considerando invece falsa la dichiarazione della sua natura immaginaria. Per dimostrare tale teoria egli porta ad esempio il caso di Special Bulletin (1983, NBC, di E. Zwick). Quando il 20 marzo 1983 sul canale statunitense NBC va in onda questo hoax, che si propone come l’edizione straordinaria di un telegiornale volta a interrompere la normale programmazione della rete fittizia RBS per fornire la copertura in diretta della minaccia di un attentato nucleare, esso viene accolto da molti telespettatori come reale. E ciò, a dispetto del fatto che non solo non vi sia corrispondenza tra il tempo dell’azione e quello della narrazione, ma anche che prima e dopo l’inizio di ogni pausa pubblicitaria si proponga un cartello recante le parole: «The following program is a realistic depiction of fictional events. None of what you are about to see is actually happening». Gli spettatori ignorano, infatti, le ripetute dichiarazioni del carattere fantastico dell’opera e, al termine del programma, chiamano spaventati i centralini della NBC per sapere se il disastro nucleare documentato abbia realmente avuto luogo.11 Inoltre, si assiste perfino al verificarsi d’isolate scene di panico tra gli abitanti di Charleston, area ove si finge si verifichino gli avvenimenti raccontati e dove la trasmissione va pertanto in onda con la scritta «fiction» permanentemente sovrimpressa in un angolo dello schermo. Se le prime due categorie di mockumentary televisivi si compongono di hoax, i prodotti appartenenti al terzo gruppo hanno al contrario un evidente carattere finzionale e si possono rintracciare nei più svariati telefilm: dal political drama The West Wing (West Wing, 1999 – 2006, NBC) alla sitcom animata The Simpsons (I Sim10 11
El-Miskin, 1989: 73. Ivi: 72.
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pson, 1989 – , FOX),12 passando per i medical drama ER (E.R. – Medici in prima linea, 1994 – 2009, NBC) e Grey’s Anatomy (Id., 2005 - , ABC), il legal drama The Practice (Id., 1997 – 2004, ABC), la serie fantasy-mitologica Xena: Warrior Princess (Xena – Principessa guerriera, 1995 – 2001, Syndication) e quella tragicomica M*A*S*H (Id., 1972 – 1983, CBS), nonché per prodotti fantascientifici come X-Files (Id., 1993 – 2002, FOX) e Babylon 5 (Id., 1993-1998, PTEN/ TNT). Tali puntate mantengono la medesima struttura narrativa degli episodi del telefilm in cui s’inseriscono,13 adottando però un diverso punto di vista sugli eventi: quello di una troupe esterna entrata appositamente nello spazio del racconto. Si prenda, ad esempio, These Arms of Mine (Queste mie braccia, 2010, ABC) della settima stagione di Grey’s Anatomy. Esso si pone in continuità con quanto narrato in precedenza già solo proponendosi come un documentario televisivo finalizzato a dare conto degli effetti che una sparatoria, avvenuta nell’ospedale alcuni mesi prima, avrebbe avuto sulla quotidianità dei chirurghi protagonisti della serie. Inoltre, non solo, come di consueto, nel corso della puntata si seguono i casi di tre pazienti, dedicando maggior spazio a uno di essi e soffermandosi invece meno a lungo sugli altri due, ma l’episodio è anche perfettamente integrato nella linea narrativa complessiva del telefilm. Porta, infatti, avanti il racconto delle vicende private dei personaggi, annunciando, ad esempio, il conferimento alla pediatra Arizona Robbins di un premio che le permetterà di andare 12
13
In questa serie troviamo addirittura due mocku-episodi: Behind the Laughter (Dietro la risata, 2000, FOX) nell’undicesima stagione e Springfield Up (Come eravamo…a Springfield, 2007, FOX) nella diciottesima. Il primo imita le estetiche del programma Behind the Music (1997 – 2006, VH1) per dar conto dalle “vera” storia della famiglia che interpreta la sitcom The Simpsons, fingendo che tali personaggi siano attori reali. Nel secondo invece si falsifica sia la modalità descrittiva sia quella interattiva, coniugandole. Fa eccezione solo You Are There (Xena e l’intervista alla mitologia, 2001, Syndication), episodio della sesta stagione di Xena: Warrior Princess. Qui non si racconta, come d’abitudine, un’avventura che vede Xena impegnata a sconfiggere mostruose creature mitologiche, ma ci si limita a interrogare i vari personaggi della serie per comprendere se costei sia o meno un’eroina. Tale differenza è determinata dal fatto che, essendo il telefilm ambientato in un’epoca antecedente all’introduzione delle apparecchiature di ripresa, l’episodio non può risultare credibile come documentario. L’impossibilità di applicare il mockumentary in modo coerente ha pertanto indotto i produttori a optare per un esercizio di stile a sfondo ludico.
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a lavorare in Africa (evento che nel prosieguo della serie avrà delle ripercussioni sul rapporto tra quest’ultima e la sua compagna, la dottoressa Calliope Torres). Due sono, però, le differenze tra questi mocku-episodi e le normali puntate dei telefilm di cui fanno parte. In primo luogo, sia che si falsifichi la modalità documentaristica osservativa sia che ci si appropri di quella descrittiva, viene tolto spazio all’azione per darlo a interviste ove i personaggi parlano di sé e della propria vita. Secondariamente, per restituire l’idea che si tratti di prodotti fattuali non si ricorre a quegli elementi consuetamente associati alla fiction, quali filtri, slow-motion, fast motion e musica extradiegetica finalizzata a conferire pathos, preferendo marche legate alla produzione documentaristica, come riprese mosse e fuori fuoco, sottopancia con l’indicazione del nome e della professione dei protagonisti (elemento, quest’ultimo, che diversamente sarebbe innecessario, poiché chi segue la serie conosce già l’identità dei personaggi) o estetiche di videocamere di sorveglianza. Assistiamo quindi a un cambiamento di tipo prettamente stilistico, il cui valore aggiunto, com’è ancora una volta Hight a rilevare, consta nel restituire l’idea che l’intero complesso narrativo della serie si collochi «in some form of actuality which continues outside the scene that are seen each week by viewer»14. Ecco allora, ad esempio, che non solo il succitato These Arms of Mine si apre con una propria sigla e, verso la metà della puntata, propone un’anticipazione di quanto sarà mostrato dopo la pausa pubblicitaria, ma in esso vengono anche pixellati i volti di alcune infermiere e di un paziente deceduto per non rivelarne l’identità, si bippano i termini scurrili e si forniscono nome e qualifica dei diversi personaggi mediante didascalie in sovrimpressione. Quando adottate in queste mocku-puntate, anche quelle spie di finzione extra-narrative tipiche del finto documentario, come soggetti che salutano in direzione dell’obbiettivo o giraffe in campo,15 perdono la finalità di rivelare allo spettatore la già palese natura
14 15
Hight, 2010: 154. Quest’ultimo è il caso, ad esempio, dell’episodio Spirit of America (Braccio della morte, 1997, ABC) della serie The Practice, ove il microfono della giraffa appare frequentemente nella parte superiore dell’inquadratura.
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fittizia di quanto sta fruendo per demarcare unicamente il fatto che si sia in presenza di un prodotto in stile mockumentary. In alcuni casi tali elementi mantengono però la funzione d’instaurare una riflessione sulle pratiche del cinema del reale. Ciò è particolarmente evidente nell’episodio dal titolo Ambush (Diritto d’immagine, 1997, NBC) con cui si apre la quarta stagione di ER.16 Qui, attraverso personaggi che coprono l’obbiettivo con la mano per non essere ripresi, intimano all’operatore di allontanarsi o chiedono di poter ripetere una frase per articolarla meglio, si denuncia l’impossibilità della macchina da presa di catturare un reale spontaneo, a dispetto di quanto teorizzato dagli esponenti del cinema diretto. Quest’idea per cui riprendere il fattuale ne comporti un cambiamento può anche essere espressa rendendo l’ipotetico regista del documentario un personaggio del mondo fittizio di cui dà conto. È il caso, ad esempio, di Springfield Up ove, nell’attestare come si siano evolute in trent’anni le vite di alcuni abitanti di Springfield, il filmmaker Declan Desmond (cui è Eric Idle a prestare la voce) arriva addirittura a interagire con i suoi soggetti al fine di dimostrare a Homer Simpson di non essere il fallito che crede. La quarta e ultima macro-categoria di mockumentary televisivi è costituita dalle produzioni seriali, la cui ormai consolidata presenza nei palinsesti di molte nazioni può essere considerata, secondo Hight, un segnale che questo stile narrativo sia entrato a far parte del «mainstream of globalised television formats»17. Principale caratteristica di tali prodotti è di presentare come reale un racconto di fantasia più o meno articolato, falsificando generalmente la modalità documentaristica osservativa. Non è, però, infrequente nemmeno che si ricorra al linguaggio proprio del giornalismo televisivo o che si riprendano precisi «reality formats»18, come avviene per Reno 911! (Id., 2003 – 2009, Comedy Central) ove, nel seguire l’attività di alcuni ufficiali di polizia, mettendone in luce l’incompetenza, si richiamano estetiche e struttura di Cops (Id., 1989 – , FOX).19 16 17 18 19
L’episodio è andato in onda in diretta, proponendosi, però, come il risultato di quanto documentato da una troupe televisiva chiamata a dar conto soprattutto del lavoro del dottor Green. Hight, 2010: 197. Ivi: 235. Non tutti i programmi che riprendono le estetiche di un format televisivo
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In generale, tali produzioni sono prevalentemente a carattere umoristico e si dividono in serie composte da puntate che propongono ciascuna un racconto a sé stante (e che sono tra loro collegate solo dalla trattazione di una medesima tematica oppure dalla presenza di uno stesso conduttore) e serie i cui episodi, pur essendo fruibili anche singolarmente, sono attraversati da una linea narrativa che giunge a conclusione solo al termine della stagione. Esempio della prima tipologia è Almost True (2010 – 2012, DeejayTV/Rai2) di Carlo Lucarelli, ove ogni puntata adotta l’approccio del what if per reinventare il corso di un noto avvenimento storico, come l’assassinio di John Kennedy, che qui si finge sia stato commesso da Elvis Presley. Il secondo invece è il caso delle numerose «mocku-soap»20 che, imitando le fattuali docu-soap, danno conto di un periodo della vita di una o più persone, spesso senza però preoccuparsi di giustificare, nella finzione, perché si sia scelto di realizzare un documentario proprio su quella data figura. Né, nel caso in cui la serie prosegua per più stagioni, di tratteggiare i cambiamenti verificatisi nella quotidianità dei personaggi a seguito della loro esposizione mediatica. I soggetti di cui si dà conto sono ancora una volta molto eterogenei. Si spazia dalle gesta di una squadra giovanile di hockey alle malefatte di alcuni delinquenti che vivono in un parcheggio di camper, passando per la storia di un’attrice senza lavoro che cerca di riacquistare popolarità lasciando entrare nel suo privato le telecamere di un reality show.21 È stata poi addirittura realizzata una mocku-soap per bambini dal titolo The Naked Brothers Band (Id., 2007 – 2009, Nickelodeon), i cui protagonisti sono due fratellini prodigio divenuti famosi in tutto il mondo con il loro gruppo musicale.
20 21
possono, però, essere considerati dei mockumentary. Ad esempio, non è corretta la scelta di Hight (cfr. 2012: 86-88) di ascrivere tra le mocku-serie un prodotto come Posh Nosh (2003, BBC2) che si configura piuttosto come una parodia dei programmi di cucina. Hight, 2010: 253. Le mocku-soap in oggetto sono rispettivamente The Tournament (2005 – 2006, CBC Television), Trailer Park Boys (2001 – 2008, Showcase) e The Comeback (2005, HBO). Per approfondimenti riguardo alla prima e alla terza si rinvia a ivi: 268-269, 274-278. Per la seconda, invece, si veda ivi: 247-252; DeFino, 2009.
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Nel raccontare tali realtà si fa un ampio ricorso a intervisteconfessione derivate dalla reality TV, attraverso le quali si rende possibile un inconsueto approfondimento della psicologia e dei sentimenti dei personaggi, creando altresì un senso d’intimità che porta lo spettatore a empatizzare con essi.22 L’intervista però può anche essere sfruttata per generare umorismo, come accade ad esempio in Modern Family (Id., 2009 – , ABC), ove la comicità scaturisce spesso proprio dal contrasto tra quanto i membri di questa moderna famiglia allargata affermano nel rapportarsi tra loro e quanto invece confessano alla macchina da presa. Come ben tratteggiato da Hight in relazione alla celebre mocku-soap britannica The Office (Id., 2001 – 2003, BBC), definita dallo studioso Brett Mills «comedy vérité»23, proprio il ricorso alle estetiche documentaristiche fornisce infatti nuove possibilità comiche che permettono un rinnovamento del genere della sitcom.24 Il cambiamento più evidente che l’adozione dello stile mockumentary ha apportato a questo format televisivo è però la scomparsa delle caratteristiche risate registrate. Trattandosi di elementi sonori di tipo extradiegetico, la loro presenza minerebbe in modo evidente la premessa per cui lo spettatore starebbe fruendo un prodotto fattuale e si rende pertanto necessario espungerle.25 Si segnala infine che, sebbene l’obbiettivo primario di tali prodotti sia di fornire allo spettatore un racconto coinvolgente, vi si può rintracciare anche una satira ai contesti sociali o culturali che si vanno a “documentare”, nonché una critica alla reality TV. Ecco allora, ad esempio, che la studiosa Lisa Bode evidenzia come la serie We Can Be Heroes: Finding the Australian of the Year (2005, ABC TV), incentrata sulla corsa al titolo di Australiano dell’anno, «satirizes contemporary Australia’s obsessive search for heroes, and ordinary people’s hunger for celebrity»26, mentre Christopher 22
23 24 25 26
Si arriva anche a casi estremi come Marion and Geoff (2000 - 2003, BBC2), serie che si compone solo delle video-confessioni del tassista Keith Barret, le cui vicissitudini vengono quindi restituite unicamente attraverso le sue parole. Per approfondimenti al riguardo si veda Hight, 2012: 75-77. Mills in Bode, 2009: 69. Cfr. Hight, 2010: 283. Al riguardo si veda anche Gervais; Merchant in Walters, 2005: 26. Cfr. Kocela, 2009: 166. Bode, 2009: 70.
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Kocela pone l’accento su come, nella versione americana di The Office, il personaggio del direttore generale dell’azienda rapporti costantemente la propria “realtà” con quelle proposte dai programmi televisivi pseudo-fattuali di maggior successo.27
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6.1.2 Il mockumentary 2.0 Sebbene sia la televisione a fornire il contesto mediale ideale per il mockumentary, anche navigando nel web è possibile incappare in numerosi video che adottano tale stile. Si tratta per lo più di cortometraggi a carattere comico-parodistico conchiusi in se stessi, sebbene non manchino casi di mocku-webisodes o di web-series interamente create ricorrendo a questa forma narrativa.28 Girati prevalentemente da amatori, studenti delle scuole di cinema o aspiranti registi, tali prodotti sono quasi sempre realizzati con intento “ludico”. Ne consegue che spesso l’originalità dell’idea di base non è supportata dal dispiegamento di un’adeguata tecnica e la recitazione è troppo caricata. A essere falsificata è solitamente la modalità documentaristica osservativa, perché più facile da imitare. Riprese mosse effettuate con camera a mano, interviste a testimoni oculari o esperti fittizi e il ricorso a sottopancia con l’indicazione del nome e della professione di chi parla sono quindi le marche veridittive più diffuse. Frequentemente, poi, il titolo stesso del cortometraggio contiene la parola mockumentary, fornendo così all’internauta una chiara indicazione del tipo di opera che si accinge a fruire e, di conseguenza, del patto comunicativo da instaurare con essa. A differenza di quanto accade sugli altri media, nel web questi ibridi 27
28
Cfr. Kocela, 2009: 162. Ad esempio, in un episodio questo personaggio critica così la lentezza di un operario incaricato di sostituire la moquette dell’ufficio: «Extreme Home Makeover put toghether a house in an hour. If you were on that crew, you would be fired like that». Per il primo caso si pensi ai webisodes incentrati sui personaggi secondari della mocku-soap televisiva The Office, distribuiti su Internet per tener desto l’interesse nei confronti della serie durante la pausa tra la fine della messa in onda di una stagione e l’inizio di un’altra. Per il secondo si ricorda la serie vincitrice di tre Webby Awards e due W3 Awards Dorm Life (20082009). Realizzata da un gruppo di studenti della University of California e ambientata in un dormitorio, essa finge di documentare la vita di un gruppo di matricole universitarie, falsificando la modalità osservativa.
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sono quindi presentati come tali e non come prodotti del cinema del reale. Ciò si deve al fatto che, non offrendo la rete spazi distinti per realtà e fantasia, un finto documentario vi può essere riconosciuto solo se così etichettato. Spiega Hight: […] mockumentary has difficulty remaining distinctive in an environment where there are few stable and familiar modes of representation, where the convergence between non-fiction and fictional content is such an integral feature of this new mediascape. […]. Within online media there is often a confusion between forms that in previous media could be assumed to be more clearly delineated between common-sense dichotomies of fact and fiction, objective and subjective or authoritative and amateur. Such dichotomies are more difficult to maintain on the World Wide Web, and hence mockumentary is inevitably on more slippery representational ground.29
A livello di soggetti, invece, i mockumentary destinati alla rete spaziano dalla cronaca della quotidianità di una ragazza costretta a vivere in un supermercato Walmart al resoconto delle difficoltà incontrate dal protagonista di una nota serie di libri per bambini nell’accettare di essere caduto nell’anonimato,30 passando per “documentari” sulle vicende di stravaganti politici fittizi,31 musicisti immaginari e persone affette da curiose dipendenze, quali quelle da altruismo, da Monopoli o da ciambelle. Diversi sono inoltre i 29 30
31
Hight, 2010: 52-53. I finti documentari in oggetto sono rispettivamente I Live at Walmart - A Mockumentary (2010) e Where’s Waldo? - The Documentary (2007), fruibili agli indirizzi http://www.youtube.com/watch?v=pUhcu5Ab3VU&feat ure=related e https://www.youtube.com/watch?v=g_-IzsH7Z64 (9 marzo 2013). Si ricordano, ad esempio, i finti notiziari sulle attività politiche dell’inventato Senatore sempre alticcio Dave Tillis. Riguardo cui il giornalista Elmar Burchia (2011) in un articolo apparso su Corriere.it racconta: «Le performance dello strambo politico ubriaco sono diventate un cult nella Rete; per fortuna, o purtroppo, Dave Tillis è solo l’ultima (geniale) trovata del sito satirico The Onion. In molti però hanno creduto alla sua storia, tanto che nella blogosfera è diventato il beniamino degli elettori sfiduciati». Una volta scoperta la finzione, in molti chiedono «una poltrona (vera) al Congresso per il politico sopra le righe», ritenendolo migliore degli effettivi senatori statunitensi.
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video a carattere scientifico. Ne è un esempio, Survival of the Fittest (2003, di K. Ramsey), ove si dà conto di come la studiosa del comportamento animale Penelope Brambels avrebbe scoperto l’esistenza in Antartide di pinguini femmina che si prostituiscono in cambio di sassi.32 In altri casi si parodiano poi programmi pseudo-fattuali, come MTV True Life (Id., 1998 - , MTV) o MTV Cribs (Id., 2000 - , MTV),33 con l’intento di evidenziarne l’ampia tendenza alla messa in scena. E molti sono altresì i cortometraggi che scelgono come soggetto un social medium per indurre lo spettatore a riflettere sulle forme di comunicazione proprie del web. Attraverso il ricorso a un’esagerazione comico-parodistica, si sottolinea come tali portali abbiano cambiato il nostro modo di comunicare, inducendoci a relazionarci con l’altro in modo sempre più virtuale e sempre meno fisico. È il caso di Facebook - A Mockumentary (2010, di J. Gross), in cui s’intervistano diversi giovani riguardo al tipo di utilizzo che fanno di questo social network ed essi, nel professarsi entusiasti di tale mezzo di comunicazione, rilasciano dichiarazioni del tipo: «There was a rule in my family, a strict one, we could not eat dinner until our Facebook status was posted» o «What do you mean talk to someone in real life? We have Facebook!».34 Un altro esempio è costituito da Flutter: The New Twitter (2009, di A. Bouvè), che “documenta” la nascita di un ipotetico nanoblog analogo a Twitter, ove però all’utente si richiede di esprimersi in soli 26 caratteri. Qui a essere irrisa è la frenesia propria della nostra società, contraddistinta dall’ossessione di risparmiare tempo in ogni frangente.35 Nel web il finto documentario viene, infine, sfruttato anche per realizzare cortometraggi in animazione e spot pubblicitari. Se il primo è il caso di An Interview with Death (2006, di K. Schreck), 32 33
34 35
È visibile all’indirizzo: http://www.metacafe.com/watch/548128/penguin_prostitution/ (9 marzo 2013). Un esempio del primo caso è MTV True Life: I’m a Ginger, “documentario” sulle difficoltà incontrate da un liceale a causa del colore rosso dei propri capelli: http://www.youtube.com/watch?v=0qR7Ta0sy1I (9 marzo 2013). Per il secondo si veda invece MTV Cribs: The Guido Edition di Amanda LaCroix: http://vimeo.com/10892368 (9 marzo 2013). Può essere visionato all’indirizzo http://www.youtube.com/ watch?v=YrelW76nobc (9 marzo 2013). È fruibile all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=BeLZCy-_m3s (9 marzo 2013).
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ove si utilizza la stop-motion per dar conto di pensieri e opinioni dalla Morte riguardo al suo lavoro,36 per i secondi si pensi a The Mystery of Dalarö (2004).37 Ideato come parte della campagna per il modello S40 della Volvo e presentato nei titoli di testa come «a documentary by Carlos Soto», tale cortometraggio si articola come un’inchiesta sulla misteriosa scelta di 32 famiglie, non legate da rapporti di parentela e tutte residenti nel villaggio svedese di Dalarö, di acquistare il 25 ottobre 2003 la medesima automobile presso la stessa concessionaria. Ed è attraverso le dichiarazioni fornite dai diversi acquirenti intervistati sul perché abbiano scelto proprio quell’autovettura che si esalta il prodotto fornendo una descrizione delle sue qualità, senza così intaccare l’apparente veridizione del video, ottenuta attraverso il dispiegamento di marche quali articoli di giornale, una fotografia in bianco e nero e le testimonianze di protagonisti ed esperti. Quest’ulteriore impiego del mockumentary ne comprova ancora una volta la duttilità e la capacità di rispondere alle esigenze comunicative sia di più generi che di più media. 6.2 Ecosistemi narrativi in stile mockumentary Proprio in virtù del suo essere uno stile intermediale, il finto documentario viene altresì utilizzato per dar vita a narrazioni transmediali, ovvero per dipanare una storia su più mezzi di comunicazione attraverso la creazione di una serie di testi, fruibili anche autonomamente, che apportano ciascuno un contributo separato e rilevante al racconto.38 Nello specifico si generano ecosistemi narrativi «onnivori»39 aventi come epicentro una pellicola, le cui vicende e personaggi vengono fatti fuoriuscire dai confini dello schermo per rispondere a esigenze di marketing. I prodotti così creati vanno però ben oltre l’essere semplici paratesti per configurarsi piuttosto come veri e propri prequel o sequel del film. 36 37 38 39
Visibile all’indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=VWYB9yM0mOE (9 marzo 2013). Al riguardo si veda anche Schaffner, 2012: 204-205. Cfr. Jenkins, 2006: 84. Per una definizione di «sistema onnivoro» si veda almeno Zecca, 2012: 24.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Il caso a oggi più noto, e forse anche il più articolato, è quello di The Blair Witch Project che, come si vedrà nell’ottavo capitolo, ha coinvolto il cinema, il web, la televisione e la carta stampata. Tuttavia, il più delle volte si sfruttano solo i primi due mezzi di comunicazione. È quanto accade, ad esempio, per Nothing So Strange di Brian Flemming, il cui mondo fittizio viene prolungato in rete attraverso la creazione di un universo virtuale composto da una pluralità di siti Internet tra loro interrelati. Vi è un webring commemorativo dedicato al defunto Bill Gates (fig. 3), un portale sulla sua vita curato dall’immaginario ingegnere elettronico Jack Perdue (cui è uno dei veri finanziatori del film a prestare il volto) e uno spazio web volto a promuovere un inesistente volume incentrato sul presunto assassino del fondatore della Microsoft.40 Il sito principale è però quello di Citizens For Truth, una fittizia organizzazione di Los Angeles che, reputando inadeguate le indagini condotte dalla polizia, si adopera a far venire alla luce quanto effettivamente accaduto.41 A tal scopo sono proposti alcuni scritti che metterebbero in discussione l’operato delle forze dell’ordine e una galleria d’immagini e video relativi, invece, ad azioni intraprese dal gruppo. Attraverso un collegamento ipertestuale è poi possibile accedere a una pagina ove è pubblicato l’ipotetico rapporto redatto, a chiusura del caso, dall’agente Gill Garccetti, e con il quale Citizens for Truth ritiene si sia cercato d’insabbiare la verità. Come delineato da Kate Stables sulle pagine di Sight and Sound, attraverso quest’insieme di siti web non solo vengono quindi introdotti nuovi personaggi non presenti nel testo cinematografico, come Jack Prude, ma si spinge anche «the film’s narrative into a second chapter»42, di cui è il pubblico stesso a poter divenire in parte autore elaborando le proprie teorie cospirazioniste. 40
41 42
Il webring in oggetto è composto dai siti Remembering Bill Gates. http:// webspace.webring.com/people/qb/billgatesizdead/, Remembrance – A Tribute to Bill Gates. http://members.fortunecity.com/microsbill/ e Bill Gates 1995-1999. http://billgates1999.tripod.com/. Nel secondo e terzo caso si fa invece riferimento rispettivamente a Bill Gates Is Dead. http:// www.billgatesisdead.com/ e The First Shot of the Class War. http://www. angelfire.com/biz7/firstshot/ (9 marzo 2013). Ci si riferisce a Citizens for Truth – About Citizens for Truth. http://www. citizensfortruth.org (9 marzo 2013). Stables, 2002: 54.
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Il mockumentary come stile intermediale e transmediale
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Occasionalmente, per creare narrazioni transmediali in stile mockumentary, ci si avvale anche di social media, com’è avvenuto nel caso di Cloverfield. Infatti, oltre a mettere in rete una pagina web per la compagnia giapponese da cui Robert Hawkins (il personaggio cui è dedicata la festa d’addio, durante la quale, nel film, il mostro invade New York) viene assunto, una per il prodotto di cui dovrà studiare una campagna pubblicitaria e una ove una figura secondaria del film diventa lo spunto per narrare una vicenda cui la pellicola non fa cenno,43 qualche settimana prima della sua uscita nelle sale vengono aperti profili MySpace per ciascuno degli otto protagonisti, fingendo si tratti di giovani realmente esistenti. E, attraverso il blog che il social network offre ai suoi utenti, si pretende che essi pubblichino informazioni riguardanti la propria vita e commentino quanto scritto dagli amici, costruendo così un racconto degli eventi subito precedenti a quelli oggetto del testo cinematografico. Ad esempio, il 5 gennaio 2008 Robert annuncia: So I got a job offer, and it’s everything I wanted. More money, more power, more creative freedom. I’d even have up to five people working under me, and you know how much I’ve always wanted underlings. One catch -- I need to move to freakin’ JAPAN! The job is the V.P. of Marketing and Promotions for SLUSHO! brand “happy drink.” Apparently it’s all the rage in Asia. I’d be part of a team tasked with replicating the drink’s popularity in the Western world. […] When I said I’d be willing to leave NYC for the new gig, I was thinking maybe Chicago or Toronto, maybe L.A. Japan is a whole other 43
Nei primi due casi si tratta rispettivamente di Tagruato Corporation. http://tagruato.jp/index2.php e Slusho. http://slusho.jp/ (9 marzo 2013). Nel terzo si fa riferimento al racconto di come l’ipotetico fidanzato di Jamie Lascano, Teddy Hanssen, sarebbe sparito mentre si trovava all’estero a indagare sulle attività illecite della Tagruato, per conto dell’eco-gruppo T.I.D.O. Wave (cui a sua volta è dedicata la pagina T.I.D.O. http://tidowave.com/blog/). A tale figura, non presente nel film, è dedicato sia un blog (Missing Teddy Hanssen. http://missingteddyhanssen.blogspot.com/), ove la sorella chiede aiuto agli internauti per ritrovarlo, sia un sito (Jamie and Teddy. http://www.jamieandteddy.com/) contenente i videomessaggi che la compagna gli ha mandato dal momento della sua partenza. Attraverso questi ultimi si apprende che il giovane invia alla ragazza un pacco contenente una misteriosa sostanza, ch’ella assume, divenendo così eccessivamente euforica.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
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extreme. I’m not a particularly worldly fellow, and I’d definitely be in store for some major culture shock. But you know what? Maybe this is exactly the jolt my lame little life needs. […] I told them I needed the weekend to think it over, but I’m pretty sure I’m gonna take it. I mean, I can’t think of a good enough reason not to.44
Tutti gli altri personaggi lasciano dei commenti al post. Elizabeth McIntyre scrive: «Japan!? Oh my god, Rob! Come over this weekend so we can talk about it?»45. Hudson Plattcerca, invece, dissuade l’amico: «Dude I just googled Slusho, did you know they are a subsidiary of some evil oil company called Tagruato? We both know how much you hate oil (you always say no oil when you order a hoagie), so you better turn down the job and stay here and live with me forever and ever»46. Al contrario, Jason approva la scelta del fratello: «My Japanese friend Kuroki paid me off in Slusho once to settle a bet. That shit is delicious. I’ve been craving more ever since I tried it. Your job will be a piece of cake, Slusho sells itself. Please tell me you get a free lifetime supply or something»47. Viene così creato un prequel del film, in cui però la collocazione temporale degli avvenimenti non è coerente con quella del testo cinematografico.48 Tuttavia, espandere l’universo narrativo di un mockumentary in rete è anche funzionale a conferire maggiore credibilità a quanto vi viene narrato, dal momento che oggigiorno si tende a considerare reale un soggetto o un ente già solo perché ha un suo profilo su un qualsivoglia social network o vi è un portale a esso dedicato. Per questa ragione si riscontrano altresì casi in cui il web viene sfruttato semplicemente come «storyworld channel»49, ovvero per realizzare «artefatti diegetici»50 che, sebbene non forniscano un 44 45 46 47 48
49 50
Blog di Rob Hawkins. MySpace. http://www.myspace.com/robbyhawkins/ blog (9 marzo 2013). Ibidem. Ibidem. Ibidem. Nel film la partenza di Robert viene festeggiata il 22 maggio 2007, mentre sul proprio blog il ragazzo annuncia di aver ricevuto l’offerta di lavoro solo nel gennaio 2008. Si tratta, però, di una discrepanza scarsamente rilevante e coglibile solo dopo l’uscita del mockumentary nelle sale. Per una definizione si veda Zecca, 2012: 26. Ivi: 29.
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Il mockumentary come stile intermediale e transmediale
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ampliamento della storia, concorrono nel dare l’impressione che un determinato personaggio sia reale, presentandolo come una figura esistente. Si pensi, ad esempio, all’Official Frankie Wilde Website, ove si dà conto dell’ascesa e della caduta del dj fittizio su cui s’impernia It’s All Gone Pete Tong, consustanziando quanto affermato con dichiarazioni di giornalisti e di persone che l’avrebbero conosciuto, nonché con reperti, quali fotografie, canzoni, interviste, spot e video musicali.51 Ancor più interessante in tal senso è il caso del sito incentrato sui wedding planner Heron e Hough, protagonisti del film Confetti.52 Qui si propone sia il portfolio di questi due professionisti (che in realtà è un resoconto degli allestimenti pensati per il matrimonio delle tre coppie su cui è incentrata la pellicola) sia un test attraverso cui l’internauta può scoprire quale sarebbe il tema più adatto per le proprie nozze. Inoltre, è presente un articolo (ipoteticamente scritto dai due organizzatori di matrimoni per l’immaginaria rivista che dà il titolo al finto documentario), ove essi dispensano consigli alle giovani coppie su come ottenere una cerimonia nuziale da sogno.53 Possiamo quindi notare come il mockumentary sia uno stile narrativo «a manifestazione multipla»54, perfettamente capace di rispondere alle esigenze di un’epoca della convergenza, quale quella contemporanea, che concepisce i media e le tecnologie come «opportunità di elaborazione ed interscambio pluridimensionale»55.
51 52 53 54 55
Cfr. Official Frankie Wilde Website. http://www.frankiewilde.com/ (9 marzo 2013). Si tratta di Heron & Hough. http://www2.foxsearchlight.com/confetti/ hh_us/popup.htm? (9 marzo 2013). L’articolo, per grafica e contenuti, ricalca i servizi pubblicati dai periodici per future spose. Metz, 1971: 228. Gazzano, 2006: 56.
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PARTE II I FILM
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IL MOCK ROCKUMENTARY PER ECCELLENZA: THIS IS SPINAL TAP 1984 DI ROB REINER
È il 1979 quando, durante lo speciale The T.V. Show della ABC, fa la sua prima comparsa un finto gruppo musicale destinato a diventare la mocku-band più celebre delle storia del cinema: gli Spinal Tap. Sotto lunghe parrucche, che richiamano le capigliature dei rocker dell’epoca, spuntano i volti dei comici Harry Shearer, Michael McKean e Christopher Guest, i quali eseguono dal vivo il brano Rock and Roll Nightmare. A introdurre la loro performance, in quella che vuol essere una parodia del programma musicale The Midnight Special (1973-1981, NBC, di B. Sugarman), è Rob Reiner.1 Sebbene subito dopo quest’apparizione televisiva essi decidano di rendere tale complesso protagonista di un film, trascorre diverso tempo prima che la pellicola venga alla luce. Difatti, la Marble Arch Productions, che inizialmente investe nel progetto commissionando loro la stesura di una sceneggiatura, di lì a poco fallisce e i tre attori impiegano due anni per trovare un’altra casa di produzione disposta a finanziare il film.2 Una volta ottenuto da quest’ultima un budget di circa 2,2 milioni di dollari, girano però la pellicola in sole cinque settimane, effettuando le riprese in ambienti reali e senza mai scrivere una sceneggiatura. Scelgono di adottare lo stile mockumentary proprio perché consente loro di non doversi attenere a un testo preconfeziona1 2
Per approfondimenti si veda: Bond, 2003: 26; Braund, 2004: 115-116; Harmetz, 1984: C20. Per il racconto di come sia nato il personaggio del lead guitarist Nigel Tufnel (Christopher Guest) si rimanda a Goldberg, 1984: 38. I tre attori utilizzano, però, il denaro dato loro dalla Marble Arch Productions per girare il cortometraggio Spinal Tap: The Last Tour, esemplificativo della pellicola cui intendono dar vita e contenente molte delle gag comiche poi utilizzate nel film (cfr. de Seife, 2007: 16; Braund, 2004: 116). Per un resoconto delle difficoltà incontrate nel trovare una casa di distribuzione si veda invece Goldberg, 1984: 39.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
to, come racconta il comico Harry Shearer sulle pagine del Sunday Times: «We wanted to do a film, but we didn’t want to write a screenplay, just musical numbers […]. That’s how the documentary idea came»3. Oltre ai testi delle canzoni, vengono quindi stese unicamente la biografia di ciascun membro della band, la storia del gruppo e un breve trattamento della pellicola ove si delinea lo scopo di ogni scena, senza però prestabilire come i personaggi debbano reagire alle diverse problematiche di fronte a cui li pone il progredire della vicenda.4 Nasce così This Is Spinal Tap, finto documentario comico-parodistico, realizzato facendo ampio ricorso all’improvvisazione, che dà conto del disastroso tour americano con cui nel 1982 la band britannica Spinal Tap avrebbe promosso oltreoceano il proprio album Smell the Glove. Riconosciuto già all’epoca, sulle pagine di Photoplay, come un «mock documentary rockumentary»5, il film esce nelle sale statunitensi il 2 marzo 1984 in un numero limitato di copie, ottenendo inizialmente uno scarso riscontro di pubblico. Tuttavia, grazie al passaparola, con il trascorrere delle settimane gli spettatori aumentano, permettendo alla pellicola d’incassare complessivamente circa 4,5 milioni di dollari. È però solo nell’ottobre di quell’anno, quando viene distribuito in videocassetta, che This Is Spinal Tap registra quel successo che, con il tempo, lo farà assurgere a film
3 4
5
Shearer in Perry, 1984: 50. Ad esempio, McKean (in Desowitz, 1984: 13) rivela: «[…] when Janine […] enters the film to manage the group, we weren’t certain how the various characters would react». È invece Reiner (in Harmetz, 1984: C20) a spiegare il metodo di lavoro adottato: «We shot each scene three or four times. The first time, I’d just turn on the camera and see what happened. The second time, we added things or changed focus. The third time was to get variations and the fourth time was for cutaway shots». M.G., 1984: 21.
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Il mock-rockumentary per eccellenza: This Is Spinal Tap (1984)
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culto,6 nonché a modello sia per la realizzazione di mock-rockumentary sia più in generale per quella di finti documentari.7
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7.1 Quando la finzione appare reale Come racconta lo stesso Reiner, quando This Is Spinal Tap viene presentato in anteprima in due centri commerciali di Seattle e Dallas, molti spettatori lo scambiano per un vero prodotto del cinema del reale e si chiedono perché il regista abbia realizzato «a serious documentary about a terrible band they had never heard of»8. Se ciò accade, si deve in primo luogo alla presenza di personaggi e situazioni tanto verosimili che il chitarrista degli Aerosmith, Brad Whitford, arriva a dichiarare: «I’d swear those Spinal Tap guys were at half our meetings. The funniest thing is, the first time [Aerosmith lead singer] Steve [Tyler] saw it he didn’t see any humour in it. That’s how close to home it was»9. Difatti, non solo i membri di questa band fittizia vivono sventure plausibili,10 ma sono altresì caratterizzati dalla medesima inettitudine, stupidità e irragionevolezza propria di tanti veri rocker mediocri. Per di più, giacché i tre attori protagonisti sono dei musicisti competenti con 6
7
8 9 10
Per una trattazione dettagliata di come This Is Spinal Tap sia diventato un film culto si rinvia a de Seife, 2007. Si segnala inoltre che nel 2002 la pellicola è stata inclusa nel National Film Registry, e che nell’ultimo decennio è stata annoverata tra i 100 migliori film di tutti i tempi da periodici come il New York Times e l’Entertainment Weekly. Prova di come tale film abbia costituito un punto di riferimento per i mockumentary realizzati in seguito è data dal fatto che, ad esempio, Bob Roberts sia descritto su Variety come «a sort of political This Is Spinal Tap» (McCarthy, 1992: 43), che …And God Spoke venga presentato ai lettori del Los Angeles Times come «a hilarious mockumentary in the tradition of This Is Spinal Tap» (Thomas, 1994: F15) o che A Mighty Wind sia definito da The Times «a folk-music version of This Is Spinal Tap» (Christopher, 2004: 4). Reiner in Harmetz, 1984: C20. Al riguardo si veda anche Hill, 1984: 15. Whitford in de Seife, 2007: 39. A tal proposito il critico Alexander Walker (2000: 12) nota: «Every catastrophe is plausible: from the Army radio messages that seep into the sound system from the military base next door to the gig, to the use of astrology to plan the route of the tour».
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
esperienza lavorativa nel settore,11 riescono a portare sul grande schermo un gruppo perfettamente credibile anche dal punto di vista musicale. E nemmeno la scelta di fingere che gli Spinal Tap siano inglesi, pur essendo i loro interpreti americani, riesce a togliere veridicità ai personaggi, i quali esibiscono un accento britannico tanto autentico da suscitare persino il plauso della critica anglosassone.12 Un ruolo altrettanto importante nell’indurre i fruitori a instaurare un modo di lettura documentarizzante è assolto poi dalla presenza di numerose marche veridittive, quali la grana grossa delle immagini, brevi inquadrature fuori fuoco,13 bruschi movimenti di macchina e didascalie volte a indicare la qualifica del soggetto mostrato o le diverse località ove giunge la band. Inoltre, in linea con quanto accade normalmente nei rockumentary, le esibizioni degli Spinal Tap sono documentate ricorrendo a contre-plongée o riprese laterali dei diversi musicisti, inquadrature della folla che assiste allo spettacolo e campi medi o lunghi in plongée raffiguranti contemporaneamente membri del gruppo intenti a suonare e fan in delirio. Per di più, si attesta l’esistenza e la rilevanza di tali artisti attraverso interviste, reperti (quali copertine di precedenti album o fotografie in bianco e nero raffiguranti David e Nigel bambini) e dichiarazioni di estimatori della band, nonché materiali di repertorio costruiti ad hoc. Quest’ultimo è il caso di due spezzoni tratti rispettivamente dai fantomatici programmi Pop, Look and Listen e Jamboreebop che, imitando le estetiche di show dei relativi periodi storici, certificano altrettanti momenti della carriera del gruppo: l’esordio nel 1965 con un brano di stampo beatlesiano e l’ascesa al successo negli anni Settanta con Listen to the Flower People.14 11 12 13
14
Cfr. Bond, 2003: 25-26. Ad esempio, sull’Observer Philip French (1984: 19) scrive: «[…] the accuracy of the American actors’ English accents is uncanny». Per esempio, quando la fidanzata di David arriva in teatro durante un soundcheck della band, sentiamo prima una voce di donna senza vederne la sorgente e, solo in un secondo tempo, la macchina da presa mostra il volto di chi sta parlando, eseguendo una rapida panoramica, seguita da una zoomata in avanti che porta temporaneamente l’immagine a essere fuori fuoco. La stessa scena si sarebbe potuta rendere utilizzando un campo/controcampo, ma si sarebbe persa l’impressione che l’evento sia stato filmato in modo estemporaneo. Per approfondimenti in merito si veda de Seife, 2007: 77.
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Il mock-rockumentary per eccellenza: This Is Spinal Tap (1984)
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Tuttavia, se numerosi spettatori non colgono la natura fittizia del film, è dovuto anche alla tipologia d’indizi utilizzati per segnalarne il carattere finzionale. Difatti, di là dai volti di McKean, Guest, Shearer e Rainer già discretamente noti al pubblico televisivo dell’epoca e dai titoli di coda ove si rivela la presenza di attori, la principale spia dell’effettivo stato ontologico di This Is Spinal Tap è costituita dal ricorso a un umorismo di tipo parodistico facente leva sia su cliché largamente condivisi sia su aspetti noti solo a quanti posseggono un sapere specifico sul mondo dell’heavy metal. Di conseguenza, ciascun fruitore potrà individuare alcune delle gag proposte, la totalità di esse o nessuna in base al proprio grado di conoscenza di tale genere musicale. Coloro che mancano di nozioni in materia tenderanno quindi a leggere l’opera come un prodotto fattuale e pertanto non potranno che considerarla un documentario su un gruppo mediocre. È pur vero che il testo filmico presenta altri indizi della sua natura di mockumentary, come ad esempio figure di montaggio non ammissibili in un prodotto del cinema del reale e personaggi che agiscono per la macchina da presa o si rivolgono a chi vi sta dietro,15 ma si tratta di elementi che, per essere individuati, richiedono un pubblico accorto. Infine, va rilevato che nemmeno la campagna pubblicitaria del film invita esplicitamente il fruitore a instaurare un patto comunicativo di finzione, poiché svela solo in parte il suo essere un prodotto di fantasia. In particolare, è unicamente la cartellonistica a evocare il carattere non documentaristico dell’opera. Per il manifesto, infatti, si sceglie l’immagine di una chitarra elettrica con il manico annodato, richiamando la locandina di Airplane! (L’aereo più pazzo del mondo, 1980, di J. Abrahams, D. Zucker e J. Zucker) al fine di suggerire che, come quest’ultimo, anche This Is Spinal Tap è una commedia.16 Al contrario, sulla carta stampata appaiono an15
16
Ad esempio, quando Nigel viene intervistato da Reiner mostra a favore di macchina sia una delle proprie chitarre sia un trasmettitore senza fili. Analogamente, il promoter Artie Fu in, entrando nella stanza d’albergo degli Spinal Tap, nota la presenza dell’équipe e, guardando in direzione dell’obbiettivo, saluta chi vi si trova dietro. Sebbene le due pellicole siano tra loro dissimili, vengono messe in relazione anche da alcuni critici. È quanto accade su Photoplay, dove si legge: «Spinal Tap could, I suppose, do for rock concerts what Airplane! did for
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
nunci essenziali, dai quali non emerge alcuna indicazione circa il genere della pellicola.17 E neppure il trailer sconfessa la pretesa del film di appartenere al cinema fattuale, giacché non solo contiene diverse marche veridittive (come, ad esempio, il frammento di un’intervista a un fan della band), ma, a dispetto di quanto afferma Ethan de Seife secondo cui sono presenti diversi momenti comici capaci di svelarne la finzionalità,18 propone una sola spia del suo carattere fittizio: una gag relativa all’incapacità del gruppo di trovare il palcoscenico in un auditorium di Cleveland, di cui si accentua il carattere umoristico attraverso il contrasto tra le parole della voce over, che annuncia l’imminente ritorno degli Spinal Tap sulla scena, e le immagini della band persa nei meandri del retropalco.19 Le altre inquadrature presenti, invece, essendo decontestualizzate, perdono la propria carica umoristica. E solo chi avesse già visto This Is Spinal Tap, ricollegandole a esso, potrebbe individuarvi un indizio dell’effettivo stato ontologico del film.20 7.2 Per una critica della cultura heavy metal e del cinéma vérité Dopo un prologo ove Reiner nei panni del regista Marty DiBergi spiega agli spettatori perché abbia scelto di realizzare il “rockumentary” cui stanno per assistere, la pellicola dà conto del viaggio della band attraverso diverse città degli Stati Uniti, acquisendo in parte i caratteri di un road movie e in parte quelli di un musical,
17 18 19
20
flying» (M.G., 1984: 21). Per approfondimenti si rimanda a de Seife, 2007: 18-19. Cfr. ivi: 19-20. Riferendosi agli Spinal Tap, la voce over dichiara: «Now they are on the verge of the greatest comeback of all time. This is their moment. Their time has come…any minute now…any second». Dalle inquadrature proposte appare, però, chiaro che sarà necessario più di qualche secondo prima del loro trionfale ritorno sulle scene, giacché non riescono a trovare il palco. Troviamo, ad esempio, un piano americano raffigurante Derek mentre fa suonare il metal detector di un aeroporto, ma manca la parte successiva della scena ove se ne svela il motivo: la presenza nei suoi pantaloni di un cetriolo avvolto nell’alluminio per sembrare più dotato.
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Il mock-rockumentary per eccellenza: This Is Spinal Tap (1984)
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giacché le canzoni spesso contengono elementi utili all’evolversi del racconto.21 La cronaca di quanto avvenuto durante il tour americano del gruppo è, però, frammentata da interviste ai protagonisti del film che informano il pubblico non solo di come gli Spinal Tap abbiano esplorato diversi generi musicali prima di trovare nell’heavy metal la propria collocazione, ma anche del rapporto d’amicizia che lega il cantante David St Hubbins e il chitarrista Nigel Tufnel fin da bambini. Come nota Plantinga, quest’ultimo aspetto viene evidenziato per poter poi introdurre nella vicenda un conflitto, in linea con quanto accade solitamente nei mock-rockumentary.22 Sarà l’arrivo della fidanzata del cantante a determinare l’incrinarsi del rapporto tra i due artisti, rafforzando così il legame che This Is Spinal Tap intrattiene con il racconto cinematografico classico. Infatti, pur essendo costruita falsificando la modalità documentaristica osservativa, a livello narrativo la pellicola di Reiner presenta una tradizionale struttura in tre atti: l’iniziale armonia tra i membri della band viene rotta proprio quando Jeanine, intromettendosi nelle scelte artistiche del gruppo, provoca prima l’allontanamento del manager Ian e successivamente di Nigel. Solo la restaurazione dell’equilibrio iniziale permette agli Spinal Tap di evitare lo scioglimento e tornare in vetta alle classifiche. Tuttavia, non sempre nel corso dell’opera l’azione procede secondo un nesso di causa-effetto, facendo sì che la pellicola a tratti appaia più
21
22
Ad esempio, è durante il brano Stonehenge che si verifica l’evento che determinerà poco dopo la messa in discussione della presenza di Ian come manager del gruppo: viene calato sul palco un monolite (della cui realizzazione si è preso carico il manager) che dovrebbe rendere più spettacolare l’allestimento scenico del brano, ma che è tanto piccolo da far inciampare ripetutamente due nani vestiti da elfi, chiamati a danzarvi intorno. Lo studioso Andrew Caine (cfr. 2008) nel suo saggio Can Rock Movies Be Musicals? arriva addirittura a sostenere che This Is Spinal Tap sia da considerarsi un musical, nonostante manchi di alcune caratteristiche peculiari del genere, come, ad esempio, la presenza di un intreccio romantico. Altman (cfr. 1999: 83) delinea, però, come quest’ultimo sia un elemento fondativo del musical come genere. Di conseguenza non si può propriamente ritenere tale il film di Reiner. Cfr. Plantinga, 1998: 327.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
«like a series of vignettes which are hung upon the skeleton of the three-act/journey structure»23. Ciò nonostante, ci troviamo di fronte a un film dall’impianto pressoché tradizionale, che ricorre alle estetiche documentarie per portare avanti un duplice obbiettivo: da un lato, parodiare una specifica cultura musicale per criticarne aspetti quali l’ostentata iper-mascolinità e la misoginia e, dall’altro, per riflettere sulle pratiche che contraddistinguono il cinema diretto. Nel primo caso, oltre a riprendere i cliché che concorrono a formare la mitologia heavy metal per deriderli, si mette in luce come l’immagine di mascolinità data dagli artisti ascrivibili a questo genere sia «a fabrication and an exaggeration»24. Attraverso l’incapacità della band di farsi espressione di una sessualità dominante, si rivela come, in realtà, il maschilismo sia solo una maschera indossata da questi musicisti per fini puramente spettacolistici. Con la figura di Jeanine, caricatura di vere mogli di rocker quali Yoko Ono e Linda McCartney, si tratteggia poi l’idea della donna come minaccia all’interno di un mondo che si vuole sia di soli uomini (fanno eccezione unicamente le groupies adoranti poiché completamente sottomesse). Tuttavia, secondo Plantinga, il fatto che la fidanzata di David sia ritratta «as a stereotyped bitch»25 se, da un lato, incoraggia lo spettatore a provare piacere quand’ella, alla fine del film, torna a essere relegata al ruolo di semplice spettatrice, d’altro canto, rende più debole la riflessione sulle relazioni di genere. Scrive, infatti, lo studioso: «Had she been portrayed more sympathetically, This Is Spinal Tap would more clearly highlight the cultural practices leading to her exclusion»26. Per quanto riguarda, invece, la critica alle pratiche documentaristiche, pur mancando la volontà decostruttiva propria di mockumentary come David Holzman’s Diary, si evidenzia sia la tendenza dei rockumentary a trattare troppo seriamente il proprio soggetto sia il loro dar conto di una realtà costruita.27 È soprattutto attraverso il personaggio del regista Marty DiBergi, ispirato al Martin Scorsese di The Last Waltz, che si delinea l’impossibilità di cattu23 24 25 26 27
De Seife, 2007: 63. Plantinga, 1998: 320. Ivi: 330. Ibidem. Per la trattazione del primo aspetto si veda de Seife, 2007: 75.
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Il mock-rockumentary per eccellenza: This Is Spinal Tap (1984)
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rare un evento senza interferire con esso. Emblematica in tal senso è la prima sequenza del film ove, come nota il già citato de Seife, «Reiner, as Marty DiBergi, neatly and speedily deflates the pomposity of anyone who believes he can capture on film the genuine truth about anything, even something as mundane as a mediocre metal band», segnalando altresì allo spettatore come il cinéma vérité costituisca «a key frame of reference for understanding This Is Spinal Tap»28.
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7.3 Dalla finzione alla realtà: gli Spinal Tap invadono la scena musicale Nati come band fittizia frutto del genio comico di Guest, McKean e Shearer, gli Spinal Tap travalicano ben presto la linea di demarcazione tra fantasia e realtà, finendo per diventare un vero gruppo musicale. Il chitarrista Nigel Tufnel, il cantante David St Hubbins e il bassista Derek Small escono, infatti, dallo schermo cinematografico per calcare veri palcoscenici, tracciando così una strada che verrà poi seguita, seppur in tono minore, dai protagonisti di altri mock-rockumentary. Dapprima è la necessità di promuovere il film che li spinge a esibirsi in locali quali il CBGB di New York o il Music Machine di Los Angeles, a partecipare in veste di artisti ospiti al Saturday Night Live o al Joe Franklin Show (1951-1993, WJZ-TV), a incidere per la Polydor Records il loro primo disco, This Is Spinal Tap, e a realizzare il videoclip del brano Hell Hole, poi trasmesso da MTV.29 Quest’intento pubblicitario viene però a mancare, quando nel 1992, dopo un periodo di silenzio, gli Spinal Tap tornano sulla scena musicale con l’album Break Like the Wind e con un tour mondiale,30 nonché con il mediometraggio A Spinal Tap Reunion: 28 29
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Ivi: 46. Riguardo a tale video, de Seife (ivi: 91-92) nota: «The Hell Hole video brims with parodies of the clichés of this then-nascent form: scantily-clad women, imperfect lipsynching, multiple short scenes of the band in concert, frequent frontal staging […], egregious use of tacky video-editing effects […], the use of midgets for comedy, and even slow-motion footage of someone (in this case, Nigel) emerging from a swimming pool». In occasione del loro ritorno sulla scena, il 31 ottobre 1991 tengono un’au-
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
The 25th Anniversary London Sell-Out (1992, di J. Di Bergi), 31 non più propriamente un mock-rockumentary in quanto costituito per buona parte da riprese di un concerto realmente tenutosi alla Royal Albert Hall di Londra. Canzoni ed esibizioni della band smettono così di essere solo i “paratesti” di un’opera cinematografica per diventare espressione della produzione di uno dei tanti gruppi che affollano il mercato discografico.32 Ed è in quest’ottica che vanno letti sia i loro successivi lavori (tra cui si annoverano diversi singoli e un terzo album dal titolo Back from the Dead, uscito nel 2009) sia, ad esempio, la loro partecipazione come testimonial a una campagna lanciata nel 1996 per promuovere l’immagine di IBM in occasione delle Olimpiadi di Atlanta.33 A dimostrazione del fatto che, da personaggi di una commedia, siano stati progressivamente riconosciuti come veri e propri musicisti vi sono, da un lato, video su YouTube in cui gruppi amatoriali e non si cimentano in cover dei loro brani e, dall’altro, articoli apparsi nell’ultimo ventennio sulle pagine di popolari periodici, ove a rispondere alle domande dei giornalisti sono Nigel, David e Derek e non gli attori che danno loro vita. Ad esempio, nel 2009 su Vanity Fair leggiamo: M.H. How does it feel to have influenced everyone from Metallica to Flight of the Conchords? D.S.H. Anyone who was touched by us in any way, we deny it. […] M.H. How come there has never been a Spinal Tap sex-tape scandal? N.T. We tried. There was no interest. […] M.H. What would you say are the influences of the Spinal Tap sound?
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dizione per trovare il nuovo batterista, indetta con il seguente annuncio: «Drummer died, need new one. Must have no immediate family. Auditions October 31 at LA Coliseum with David St. Hubbins, Nigel Tufnel, Derek Smalls. R.S.V.P. 818-777-8929» (s.n., 1992: senza pagina). È anche noto con il titolo The Return of Spinal Tap. Va collocato, invece, tra i paratesti del film il libro Inside Spinal Tap, una sorta di mockumentary cartaceo, scritto nel 1985 da Peter Occhiogrosso, ove si parla della band e di ciascuno dei suoi componenti come di persone reali con alle spalle una vera carriera artistica (cfr. de Seife, 2007: 36). Cfr. White; Helmore, 1996: 3. Troviamo poi spot, quale quello realizzato nel 2006 per Volkswagen, che vedono protagonista il solo Nigel.
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Il mock-rockumentary per eccellenza: This Is Spinal Tap (1984)
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D.S. I would say that a great and unrecognized influence on our sound has been sonar. A lot of our records, if you have the right system, you can hear messages to marine creatures. Marty DiBergi: You had a big whale following there for a while, right? D.S. No, that was just the groupies.34
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Siamo quindi di fronte a un caso in cui si va ben oltre il «franchise transmediale»35 teorizzato da Henry Jenkins, giacché la finzione sconfina a tal punto nel fattuale da diventarne parte, permettendo ai tre personaggi di sperimentare effettivamente la vita della rock star e di diventare “protagonisti” del panorama musicale.
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Hogan, 2009: 82. M.H., N.T., D.S.H. e D.S. stanno rispettivamente per Michael Hogan, Nigel Tufnel, David St Hubbins e Derek Small. Jenkins, 2006: 43.
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FORGOTTEN SILVER 1995 E LE ORIGINI NEOZELANDESI DEL CINEMA
Tra i 150 soggetti che la rete televisiva TVNZ riceve, quando nel 1994 annuncia l’intenzione di produrre, in collaborazione con la New Zealand Film Commission, sette drammi contemporanei diretti da registi autoctoni, ve n’è anche uno inviato da Peter Jackson e Costa Botes per la realizzazione di un mockumentary sulla vita di un immaginario cineasta delle origini.1 I due filmmaker hanno questo progetto nel cassetto da diverso tempo e lo propongono all’emittente quasi per gioco. Tuttavia, con loro grande sorpresa, viene scelto all’unanimità dai dirigenti della rete, i quali concedono addirittura agli autori un budget superiore a quello previsto di 400,000 dollari,2 probabilmente in virtù del fatto che, dopo il buon risultato di pubblico ottenuto con Heavenly Creatures (Creature del cielo, 1994), il nome di Jackson è divenuto garanzia di successo.3 1
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Riguardo alla paternità dell’idea di tale mockumentary vi sono versioni contrastanti. Alcuni studiosi affermano che sarebbe stato Botes a concepire il progetto, coinvolgendo solo in un secondo tempo Jackson (cfr. Lang, 2008: 9; Sibley, 2006: 282; Botes in Pryor, 2003: 164). Quest’ultimo, però, in un’intervista rilasciata al giornalista Thierry Jutel, dichiara di essere lui l’ideatore di Forgotten Silver. A fornirgli lo spunto sarebbe stato un articolo di giornale, letto sei anni prima, ove si dava conto del rinvenimento nel deserto a nord di Los Angeles di un’intera città biblica in legno e cartongesso, utilizzata da Cecil B. DeMille nel 1923 come set per The Ten Commandments (I dieci comandamenti) e poi abbandonata tra le dune. Ispirato da ciò, il regista neozelandese avrebbe proposto il progetto a Botes, il quale l’avrebbe accolto con entusiasmo (cfr. Jackson in Jutel, 1996: 23). Probabilmente la verità sta nel mezzo: a Botes spetta la paternità dell’idea di raccontare la vita di un immaginario pioniere del cinema, mentre Jackson ha concepito la parte del film relativa alla messa in scena della spedizione che conduce al ritrovamento del set di Salome. Il film è costato 620,000 dollari. Cfr. Jackson in Jutel, 1996: 23; Sibley, 2006: 284, 286.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Vede così la luce Forgotten Silver, un mediometraggio che, nei modi convenzionali del documentario celebrativo, attesta il fortuito ritrovamento di alcune pellicole che proverebbero come tutte le più importanti invenzioni della storia del cinema siano da attribuirsi a un neozelandese: il dimenticato Colin McKenzie. Girato da Jackson e Botes in parte in studio e in parte in ambienti reali suddividendosi equamente il lavoro,4 il film ripercorre l’esistenza di questo grande pioniere, capace d’introdurre tra il 1901 e il 1927 la carrellata, il primo piano, il sonoro e il colore, nonché di realizzare il primo lungometraggio e di escogitare la candid-camera, senza però mai vedersi riconosciuto nessuno di questi traguardi a causa di un susseguirsi di avverse circostanze. Nonostante si tratti di un’opera di fantasia, allorché il 29 ottobre 1995 la pellicola va in onda su TVNZ all’interno del Montana Sunday Theatre, una cospicua parte dei circa 440,000 telespettatori che assistono al programma lo scambia per un prodotto fattuale.5 Essi sono talmente entusiasti all’idea che un loro connazionale abbia stabilito così tanti primati in campo cinematografico da considerarlo un eroe e il Museum of New Zealand decide addirittura di dedicargli parte del proprio spazio espositivo.6 Grande è quindi la delusione, quando la mattina seguente su tutti i principali quotidiani appare un medesimo trafiletto ove si chiarisce che Forgotten Silver racconta vicende fittizie.7 Molti decidono di rendere pubblico il proprio disappunto inviando alle redazioni dei periodici locali lettere ove esprimono
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Per indicazioni su come i due registi si siano suddivisi il lavoro si rinvia a Jackson in Adamek, 2005: 88 e in Jutel, 1996: 23. Per quanto riguarda invece le location si vedano Pryor, 2003: 168-169 e Jackson in Behind the Bull, documentario sulla realizzazione di Forgotten Silver presente nei contenuti extra del dvd di Forgotten Silver distribuito da First Run Features nel 2000. Anche i telespettatori che, essendo incerti sullo stato ontologico del film, telefonano ai centralini della TVNZ per sapere se McKenzie sia realmente esistito vengono indotti a considerare Forgotten Silver un documentario. Si è, infatti, deciso di perpetrare lo scherzo fino al giorno successivo e a chi chiama per avere informazioni si risponde quindi in modo tale da spingerlo a credere veridico quanto narrato. Cfr. Jackson in Behind the Bull. Cfr. ad esempio NZPA, 1995: senza pagina.
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Forgotten Silver (1995) e le origini neozelandesi del cinema
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rabbia e risentimento nei confronti degli autori di tale beffa.8 Vi è chi afferma che Jackson dovrebbe essere fucilato, chi annuncia che d’ora in poi pagherà il canone con i soldi del Monopoli, chi lamenta che si sia attribuito a Colin McKenzie anche il merito di aver filmato il primo volo dell’aviatore Richard Pearse, sminuendo così la portata storica di questa vera impresa, e chi si dichiara indignato per il fatto che tra i produttori dell’opera figurino enti pubblici.9 Tale ira non si placa nemmeno quando i due registi spiegano di non aver creato questo prodotto con l’intento d’ingannare il pubblico e comprovano la loro buona fede ponendo l’accento sulla presenza di diversi indizi volti a segnalarne la finzionalità.10 Ciò, come ben rilevano Ian Conrich e Roy Smith, è sintomatico di quanto gli spettatori desiderino che gli avvenimenti narrati dal film siano reali,11 sebbene a determinare una reazione tanto violenta concorra sicuramente anche la frustrazione provata nel veder venir meno la diffusa credenza per cui un’opera classificata come a carattere documentaristico, che ricorre a estetiche consuetamente associate al cinema fattuale, debba necessariamente narrare il vero. Dopo questa sua prima diffusione, la pellicola viene presentata nei più importanti festival del mondo,12 ove riscuote l’entusiasmo della critica, e conquista sia il TV Award ai New Zealand Film and TV Awards sia l’Audience Jury Award al Festival Internazionale del
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Al riguardo si vedano almeno: Roscoe; Hight, 2006: 178-181; Chapple, 1995: 26; Sadashige, 1997: 938; Conrich; Smith, 1998: 58. Cfr. rispettivamente Anderson, 1995: senza pagina; McLauchlan, 1995: senza pagina; Conrich; Smith, 1998: 62; Bryant, 1995: 165. Per una trattazione delle dichiarazioni rilasciate dai due registi si veda almeno Pryor, 2003: 170-172. Cfr. Conrich; Smith, 1998: 58. Oltre che nella sezione “La finestra sul cinema: 100+1” della LIII Mostra del cinema di Venezia, Forgotten Silver viene proiettato ai festival di Umea, Helsinki, Haifa, Cannes, Cork, Chicago, Londra, Montreal, Toronto e Rotterdam, nonché al Telluride Film Festival, Mill Valley Film Festival, al Los Angeles e al Denver Film Festival (cfr. s.n., 1996: 14).
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Cinema di Porto, divenendo in breve tempo un modello per la creazione di mockumentary di qualità.
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8.1 Forgotten Silver come racconto di un’esistenza vissuta per il cinema Pur avendo le sembianze di un prodotto del cinema del reale, Forgotten Silver appartiene al genere biografico, e in particolare s’inscrive nel gruppo di biopic dedicati a personaggi della settima arte.13 Tale pellicola è, infatti, prima di tutto il racconto di un percorso di vita: quello di un dimenticato cineasta che incarna tutti gli stereotipi dell’«archetypal resourceful Kiwi Bloke»14, divenendo così strumento di una satira al «bisogno d’identità» caratteristico dei neozelandesi, «popolo giovane […] alla ricerca delle proprie origini storiche e della propria specificità»15. Modellato in parte sul vero pioniere Rudall Hayword e in parte sullo stesso Jackson, del quale può quasi essere considerato un alter ego,16 Colin McKenzie è quindi la figura che assicura «alla finzione contemporaneamente la sua durata e la sua continuità»17, subordinando alla propria presenza sia quella di ogni altro personaggio sia lo svolgersi delle azioni.18 A ulteriore dimostrazione del fatto che quest’opera sia un biopic è il diffuso ricorso alle tecniche del montage e del flashback, caratteristiche del genere. Numerose sono, infatti, le sequenze costituite da un montaggio veloce di fotografie e/o brevi filmati di repertorio privi di dialogo, ove il racconto degli eventi è affidato unicamente alla voice of God. E spesso i diversi momenti della vita 13 14 15 16
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Per una descrizione dei tre tipi fondamentali di biopic si rinvia a Venturelli, 2003: 516-517. Conrich; Smith, 1998: 61. Al riguardo si veda anche Wilson, 2012: 110-111. Vergerio, 1996: 33. Ad esempio, non solo Colin condivide con Jackson il fatto di avvicinarsi al cinema in giovane età e di sviluppare i propri effetti speciali, ma con la decapitazione di Giovanni Battista realizza anche la prima scena splatter, genere ampiamente praticato dall’autore di The Lovely Bones (Amabili resti, 2009) (cfr. Cicala, 2006: 69). Per i punti di continuità tra McKenzie e Hayword si veda invece Pryor, 2003: 164. Vernet in Pesce, 1993: 12. Cfr. ibidem.
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Forgotten Silver (1995) e le origini neozelandesi del cinema
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di McKenzie sono narrati a partire da dichiarazioni rilasciate nella contemporaneità dalla sua seconda moglie Hannah. Inoltre, non solo l’intero “documentario” prende le mosse dal ritrovamento di un falso found footage (intendendo quest’ultimo nella sua accezione di «film ritrovati perché riemersi dai depositi dimenticati del cinema, delle sue storie e delle sue istituzioni»19), ma si finge anche che a permettere il progredire nella ricostruzione dell’esistenza di questo pioniere siano alcune scoperte fatte da Jackson durante le riprese.20 Proprio uno di tali rinvenimenti, che hanno la funzione di dare risposta a misteri introdotti per rendere più accattivante la vicenda, è al centro della seconda linea narrativa rintracciabile nella pellicola: il racconto della fortunata spedizione nella giungla intrapresa dai due autori del mockumentary per riportare alla luce il set di Salome, colossal biblico alla cui realizzazione Colin dedica diversi anni della propria vita. Forgotten Silver è quindi un film dalla struttura articolata, che da un lato omaggia le settima arte richiamando opere capaci di segnarne la Storia, come Intolerance (Id., 1916) di Griffith o The Ten Commandments di DeMille,21 e dall’altro porta avanti una riflessione ad ampio spettro sulla pratica cinematografica. Affronta, ad esempio, il tema del director’s cut e «dell’eterna lotta tra finanziatore e autore, ognuno con in testa idee diverse su ciò che il prodotto finito deve essere e sul suo scopo»22, ma anche quello del rapporto con il reale, mettendo in evidenza come la presenza di una cinepresa possa influenzare il corso degli avvenimenti. E ciò, ad esempio, viene fatto sottolineando che, se Colin non si fosse 19 20
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Bertozzi, 2012: 41-42. Nel corso del film hanno luogo, infatti, «due scoperte che fanno cambiare rotta alla trama, una all’inizio e l’altra alla fine» (Bordoni; Marino, 2001: 84), cui si aggiungono altri rinvenimenti d’importanza inferiore, quale quello del filmato attestante la morte di Colin. Si ricorda anche che il filmato realizzato da Colin a Tahiti per testare la propria pellicola a colori richiama le vedute dei fratelli Lumière e, in modo minore, i film di Flaherty, mentre la scena della sua morte durante la Guerra Civile Spagnola ne evoca una analoga presente ne La batalla de Chile (La battaglia del Cile, 1974-1979) di Pablo Guzman. Per di più, attraverso la figura di Stan the Man si rende omaggio a veri cineasti neozelandesi come il già citato Hayward e Ted Coubray. Bordoni; Marino, 2001: 83.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
trovato sulla traiettoria di Pearse, costringendolo a schiantarsi al suolo per evitarlo, il volo di quest’ultimo non sarebbe terminato anzitempo e sarebbe entrato negli annali. Inoltre, non solo il film deride le «nevrosi degli storici del cinema perennemente alla ricerca della prima volta e del documento inedito»23, ma attribuendo l’origine della settima arte a un neozelandese, contesta la centralità in essa acquisita da Hollywood per allinearsi con quelle posizioni revisioniste secondo cui «prominent historical figures were actually gay, black or otherwise different»24. La scelta stessa di configurare la pellicola come un hoax permette poi d’indurre lo spettatore a considerare con quanta facilità si possa manipolare l’immagine filmica, fino ad arrivare a fabbricare miti e credenze.25 8.2 La costruzione del realismo in Forgotten Silver Come dichiarato dagli stessi registi, Forgotten Silver presenta diverse spie del suo essere un’opera di fantasia, quali incongruenze narrative,26 personaggi caricaturali,27 un susseguirsi di gag che rendono la vicenda «increasingly comic, if not downright ludicrous»28 e l’inverosimiglianza delle reiterate disavventure di Colin, data dal ricorso alla figura retorica dell’accumulazione. Per di più, nel raccontare l’esistenza di quest’ultimo, oltre alle numerose traversie affrontate nel tentativo di emergere come regista, si dà ampio spazio alla sua melodrammatica relazione amorosa con l’attrice Maybelle, caricando, in entrambi i casi, la narrazione di pathos attraverso la musica di commento e le parole della voce over. 23 24 25 26
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Vergerio, 1996: 33. Sadashige, 1997: 938. Cfr. Conrich; Smith, 1998: 60. Ad esempio, in occasione della Prima Guerra Mondiale Colin viene riformato poiché ha i piedi piatti, ma questa sua “malformazione” non costituisce più un impedimento quando decide di partecipare alla Guerra Civile Spagnola, ove troverà la morte. Si pensi al produttore cinematografico Rex Solomon, arricchitosi vendendo Bibbie e disposto a finanziare solo film ispirati alle sacre scritture. Grant, 1999: 19. Tra esse si ricorda, ad esempio, la gag relativa al gran numero di uova rubate da Colin per realizzare il suo primo lungometraggio.
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Forgotten Silver (1995) e le origini neozelandesi del cinema
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A tali indizi macroscopici se ne aggiungono poi altri che, per essere colti, necessitano di una fruizione più attenta, come rumori all’apparenza diegetici associati, però, a fotografie e non a immagini in movimento o un esempio di scorretto posizionamento della macchina da presa.29 Tra essi ricade anche l’inquadratura conclusiva, raffigurante McKenzie nell’atto di riprendere la propria persona riflessa in uno specchio (fig. 4), la cui finalità è di ricordare al pubblico che, per quanto realistico, un prodotto cinematografico è sempre il risultato di una selezione soggettiva del profilmico. Tuttavia, a dispetto delle numerose spie della sua finzionalità, il mockumentary di Jackson e Botes è stato addirittura definito «New Zealand’s biggest ever hoax»30. Esso si colloca, infatti, in quella tipologia di finti documentari estremamente credibili come prodotti fattuali che devono il proprio realismo sia a elementi a essi intrinseci sia a fattori extra-testuali. Nel caso di Forgotten Silver alla prima categoria appartengono due ordini di marche veridittive: quelle proprie della modalità osservativa (come riprese mosse o sfocate e un’illuminazione naturale), adottate prevalentemente per attestare la spedizione nella giungla che si vuole sembri colta nel suo svolgersi, e quelle relative alla modalità descrittiva (quali finti filmati dall’aspetto deteriorato,31 fotografie in bianco e nero o color seppia e la tradizionale voce di commento onnisciente), utilizzate nel dar conto della vita di Colin.32 29
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Per il primo caso si pensi alla sequenza in cui si mostra il piccolo Colin intento a tosare una pecora. Qui si odono dei belati che non possono, però, provenire dall’animale raffigurato, giacché l’immagine è un’istantanea. Nel secondo caso, invece, si fa riferimento alla scena ove Jackson e Botes entrano nel set di Salome. Sebbene essi scoprano il luogo proprio in quel momento, la macchina da presa riprende il loro ingresso dall’interno, rivelando come tale azione sia frutto di una messa in scena. Chapple, 1995: 26. Il vero materiale di repertorio utilizzato dai due registi si riduce, infatti, ad alcuni film del cinema delle origini e a qualche fotogramma raffigurante Stalin (cfr. Jackson in Adamek, 2005: 89). Per la restante parte Forgotten Silver è stato girato utilizzando moderne apparecchiature di ripresa e procedendo poi al deterioramento della pellicola o alla manipolazione digitale delle immagini. Per approfondimenti al riguardo si veda Botes, 1995-1996: 4. Si noti che Hight e Roscoe (cfr. 2001: 116), in Faking It, individuano erroneamente la presenza della sola modalità documentaristica descrittiva.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
La concretezza e la rilevanza di quest’ultimo è altresì restituita proponendo numerosi reperti visivi (tra cui le sue macchine da presa, le pizze rinvenute, costumi e scenografie del film Salome, pagine di giornali ove si parla di lui, una sua cartella clinica e il contratto che stipula con il governo sovietico per ottenere il denaro necessario a completare il proprio colossal biblico), nonché dichiarazioni di testimoni oculari ed esperti, le cui parole assolvono la funzione di dare «valore»33 a quanto narrato. Il realismo delle vicende raccontate è inoltre accentuato dal fatto che s’intreccino con veri accadimenti storici,34 come nel caso della morte del fratello di Colin, Brooke, collocata durante la battaglia di Gallipoli, tristemente nota per i molti giovani australiani che vi hanno perso la vita. Nella direzione di una ricerca di massima verosimiglianza va poi anche la scelta degli interpreti, selezionati non tanto per le loro capacità recitative quanto per un aspetto fisico credibile come proprio di uomini e donne degli anni Venti.35 Tra gli elementi testuali che contribuiscono a far sembrare Forgotten Silver un documentario sono, infine, da inscriversi i titoli di testa e di coda, giacché i primi, attribuendo la produzione del film a due “istituzioni forti” quali la New Zealand Film Commission e la New Zealand On Air, conferiscono serietà al progetto, mentre i secondi, non rivelando la presenza di attori, inducono a pensare che si tratti effettivamente di un prodotto del cinema del reale. Questi ultimi non si limitano, però, a esprimere riconoscenza nei confronti di figure ed enti fittizi come fossero fattuali, ma li mescolano a nomi di persone e istituzioni esistenti. Si ringraziano pertanto indistintamente il vero produttore Harvey Weinstein e l’immaginaria Hannah McKenzie o l’effettivo Foxton Museum of Visual Science e il fittizio Colin McKenzie Trust. Vengono poi citati anche gli attori principali del film, fingendo tuttavia si tratti di persone che hanno fornito un contributo nel lavoro di ricerca sulla figura di questo dimenticato cineasta. Ecco quindi che Beatrice Ashton, Thomas Robins e Sarah McLeod sono ringraziati «for their generouse assistance with research», mentre non si fa alcun cenno al loro essere interpreti rispettivamente di Hannah, Colin e 33 34 35
Per una definizione di tale concetto si rinvia a Colombo, 1984: 54. Conrich; Smith, 1998: 59. Cfr. Jackson in Adamek, 2005: 89.
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Forgotten Silver (1995) e le origini neozelandesi del cinema
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Maybelle. A insistere affinché nei titoli di coda non s’inserisca la lista dei membri del cast è stato Peter Jackson, in quanto convinto che solo così il film possa risultare credibile come documentario. E ciò è tanto più importante perché dimostra che Forgotten Silver è tutt’altro che un «unintentional hoax»36, come viceversa affermato da Roscoe e Hight in Faking It. Per quanto concerne invece i fattori extra-testuali che concorrono a indurre gli spettatori a instaurare con la pellicola un patto comunicativo di veridizione, si annovera in primo luogo il contesto della fruizione. Nel 1995 ricorre il centenario dall’avvento del cinema e ogni nazione si affretta a ricordare l’importante ruolo svolto dai propri pionieri attraverso film-omaggio, dando vita così a una sorta di gara per attribuirsi la paternità di quest’invenzione.37 Non appare quindi anomalo ai telespettatori neozelandesi che la TVNZ investa nella realizzazione di un documentario su un cineasta locale. A eliminare poi ogni sospetto circa l’improvvisa scoperta dell’esistenza di quest’ultimo contribuisce il fatto che, già da un paio d’anni, il New Zealand Film Archive stia invitando la popolazione a donare i propri filmati privati giacenti in stato di abbandono in soffitte, garage o capanni degli attrezzi con la speranza che, tra il tanto materiale privo di valore, possano venire alla luce anche pellicole di una qualche rilevanza storica. E proprio a tale iniziativa troviamo un diretto riferimento nella prima sequenza di Forgotten Silver. In secondo luogo, si consideri che il venir proposto sul piccolo schermo legittima ulteriormente agli occhi del pubblico tale film come prodotto del cinema del reale, giacché vi è l’abitudine ad attribuire al mezzo televisivo «un’autorità indiscutibile»38, ritenendo veridico a prescindere quanto propone come fattuale. Al punto che i telespettatori non s’interrogano sull’anomala collocazione di questo “documentario” in uno spazio che fino a quel momento ha accolto solo prodotti di finzione. Fondamentale nel far apparire veridica la pellicola è infine il ruolo ottemperato dalle consegne di lettura fornite attraverso i diversi paratesti. Non solo, infatti, la TV Guide lo presenta come 36 37 38
Roscoe; Hight, 2001: 144. Cfr. ad esempio Cicala, 2006: 57-58; Conrich; Smith, 1998: 57. Damiani, 2004: 17.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
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un «documentary about the life of Colin McKenzie, a pioneer NZ film-maker»39, ma il giorno precedente la messa in onda sul periodico The New Zealand Listener appare anche un articolo dal titolo Heavenly Features «written in the same tones as the discourse of Forgotten Silver itself»40, che può pertanto essere considerato una versione cartacea di questo mockumentary. Realizzato con la complicità della giornalista Denis Welch, tale pezzo porta all’attenzione dei neozelandesi la notizia del sensazionale rinvenimento delle opere di Colin McKenzie, raccontando come sia avvenuta tale scoperta di portata storica attraverso le testimonianze di Jackson, Botes, Hannah McKenzie e dell’archivista Jonathon Morris. Possiamo, ad esempio, leggere: Given the recent resurgence of interest in New Zealand’s film history, it still seems extraordinary that no one approached Hannah McKenzie about her husband’s work. Botes says she did seek advice about the content of the chest from time to time, “but no one took her seriously, perhaps because her experience of Colin was such a brief one.” Hannah McKenzie, now 77 – she married McKenzie shortly before his death, when she was 19, and has never remarried – prefers not to dwell on the past. “The suitcase of films was just part of his estate that I inherited,” she says. “It was just prior to the war and then the war happened and the films were just put away. It wasn’t till I knew that young Peter was somehow involved in films that I thought of getting in touch with him.”41
Si annuncia inoltre che questo «sensational find»42 sarà oggetto di un documentario che verrà trasmesso il giorno seguente all’interno del Montana Sunday Theatre, fornendo persino una spiegazione plausibile del perché un prodotto fattuale vada in onda in uno spazio normalmente destinato alla finzione: And to viewers wondering what a documentary – however sensational – is doing in the Sunday Theatre slot, Jackson explains: “It was 39 40 41 42
s.n., 1995b: 73. Roscoe; Hight, 1996: senza pagina. Welch, 1995: 31. Ibidem.
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Forgotten Silver (1995) e le origini neozelandesi del cinema
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actually the Film Commission which suggested it. They had already got involved in funding it and they felt that the Montana Theatre would be just right for it”.43
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Dato che The New Zealand Listener è solito condurre un giornalismo responsabile, i lettori non hanno motivo d’essere sospettosi e accolgono quindi come vero l’articolo, senza cogliere i diversi indizi della sua natura fittizia disseminati nel testo, quali, ad esempio, le dichiarazioni di Jackson e Botes poste a chiusura del pezzo e volte a suggerire la possibilità che la pellicola di cui si parla non sia un documentario: “There was some pressure on us at first to possibly dramatize some aspects of Colin’s life, but frankly, even though it’s a documentary, the events of his life were so dramatic that the word drama is not inappropriate.” Adds Botes: “It’s as gripping as any fictional story”.44
Tuttavia, si tratta di spie che solo a un lettore accorto potrebbero far nascere dei dubbi circa lo stato ontologico del testo e, di conseguenza, del film. Non sorprende pertanto che la maggior parte dei telespettatori instauri con quest’ultimo un patto comunicativo di veridizione.
43 44
Ivi: 32. Ibidem.
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THE BLAIR WITCH PROJECT 1999 E LA PAURA “REALE”
Per spaventare lo spettatore cinematografico non servono elaborati effetti speciali e mostri raccapriccianti. È sufficiente narrare una favola antica, quale quella di tre giovani sperduti in un bosco infestato da una strega cattiva, fingendo che si tratti di una vicenda reale.1 A intuirlo nel 1992 sono Eduardo Sánchez e Daniel Myrick, due studenti della University of Central Florida, cui viene l’idea di girare un horror moderno costruito sul modello dei documentari de In Search Of… (1976-1982, Syndicated), una serie televisiva dedicata al paranormale, andata in onda negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni Settanta.2 Prima che essi arrivino a concretare tale progetto, dando vita a The Blair Witch Project, trascorre però diverso tempo. Per quattro anni, infatti, cercano invano un produttore disposto a finanziare il film, finché nel 1996 convincono l’amico Gregg Hale a fornire l’appoggio economico necessario. A lui, in un secondo tempo, si aggiunge lo scrittore e conduttore John Pierson, che dà loro 10,000 dollari in cambio della possibilità di mandare in onda un breve trailer della pellicola nel proprio programma Split Screen (19971
2
La «paura della perdita di orientamento e dello smarrimento nel bosco», su cui fa leva The Blair Witch Project, è tipica, infatti, della tradizione fiabesca. Nello specifico il film richiama Hansel e Gretel dei fratelli Grimm (Picciotti, 2000: 52). A tal proposito, Myrick (in McDowell, 2001: 141-142) spiega: «The basic idea was […] those old In Search Of episodes that came on in the ‘70s. We just watched those shows as kids and it really freaked us out. And so we thought it would be cool to do a modern day horror movie formatted like one of those documentary shows. […] And then from there we just kind of came up with the idea of three missing filmmakers. We find their footage, and from that we needed to have reason for those filmmakers to be out in the woods, so we came up with the Blair Witch mythology and it just kind of grew from there».
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
1998, Independent Film Channel).3 Grazie anche al contributo di alcuni familiari, i due registi riescono così a fondare una società volta a sostenere la realizzazione di questo mockumentary: la Haxan Films. Assicuratisi il budget necessario a produrre il finto documentario, Myrick e Sánchez si dedicano quindi al reclutamento dei tre attori protagonisti. Come appare chiaro già dall’annuncio del casting pubblicato sul settimanale Backstage, ricercano interpreti con buone capacità d’improvvisazione, disposti a recitare in situazioni estreme. Ed è solo dopo numerosi provini che la scelta ricade su Heather Donahue, Joshua Leonard e Michael C. Williams,4 i quali vengono poi sottoposti a un training psico-fisico di stampo militare per insegnar loro sia a sopravvivere in un bosco sia a maneggiare l’attrezzatura filmica (una cinepresa 16 mm e una videocamera Hi8) che saranno chiamati a utilizzare. Infatti, al fine di rendere il più credibile possibile la performance dei tre giovani, i registi adottano la tecnica del «method filming»5, la quale prevede non solo di ridurre al minimo i contatti tra troupe e attori, affidando a questi ultimi il compito di effettuare le riprese, ma anche di razionare loro il cibo e di terrorizzarli ogni notte con rumori raccapriccianti. Girato in soli otto giorni nell’ottobre del 1997, The Blair Witch Project è quindi apparentemente frutto di un approccio realizzativo fortemente improntato al realismo, di cui è lo stesso Myrick a fornire una descrizione dettagliata: Ed and I came up with a script prior to shooting. Basically, it was a script without dialogue, so we had all the major scenes and major plot points already mapped out. […] Ed and I scouted out these woods, determined where the camp sites were going to be, and de3 4
5
Cfr. Bart, 2006: 70. Tale trailer viene realizzato dai registi prima di girare il film per dimostrare quale tipologia di prodotto intendano creare. Riguardo ai suoi provini Heather (in Richards, 1999: 75) ricorda: «The first audition I sat down and I read for Dan [Myrick] – he didn’t even introduce himself. He said, “You’ve served seven years of a 25-years sentence, why do you think we should give you parole?” I said, “I don’t think you should,” and it went on from there. The second time I came in, they actually had pieces of the story structure that they had worked out for the movie and so we worked on scenes that would be in the movie eventually». Higley; Weinstock, 2004: 24.
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The Blair Witch Project (1999) e la paura “reale”
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termined were all the major scens where going to be […]. […] we used a global positioning system, a little GPS handset, that allowed us to plug in these points, […] so that we could give this handset to the actors, and each day, give them a new set of way points so that they could rendezvous with these pre-determined points without the aid of any markers and without the aid of us. […] Their only instruction was to be there at a certain time. That eneabled them to kind of remain in character and feel lost without having crew members around or anybody guiding them through the woods, and as they got to one of this check points, there was a little basket and a bicycle rack. They’d know they made it and they would have fresh batteries and fresh magazines for their camera and directing notes. Those directing notes would have more logistical information for the next checkpoint, and also character information […].6
Tuttavia, il fatto che nei titoli di coda si annoveri la presenza di un direttore della fotografia e di un suo assistente (rispettivamente Neal Fredericks e Hector Lopez) porta a sospettare che quanto raccontato alla stampa circa il modus operandi scelto corrisponda solo in parte al vero. Tale dubbio appare ancor più legittimo, qualora si consideri che, in fase di montaggio, l’iniziale idea d’inframmezzare il materiale girato nel bosco con interviste ai parenti dei ragazzi scomparsi e documenti d’altro genere viene abbandonata a favore del ricorso al solo falso found footage, poiché si ritiene che, così facendo, la pellicola risulti più accattivante.7 Ma, se sono stati effettivamente gli attori a eseguire le riprese di quest’ultimo, come si giustifica l’inserimento dei nomi di Fredericks e Lopez nei credit? Non è forse possibile che durante le interviste si sia scelto di fornire una versione colorita di quanto realmente accaduto sul set per creare maggiore attenzione intorno all’opera? Il quesito resta aperto, mentre di certo vi è che, quando Myrick e Sánchez presentano The Blair Witch Project al Sundance Film Festival nel gennaio del 1999, esso viene notato dalla Artisan Entertainment, la quale di lì a poco decide di acquistarne i diritti di 6 7
Myrick in McDowell, 2001: 142-143. Cfr. ivi: 144. In realtà, secondo gli autori di The Last Broadcast, Myrick e Sánchez avrebbero operato tale cambiamento dopo aver visto il loro mockumentary, per ridurre le similitudini tra i due prodotti (cfr. Kendzior, 1999: 38).
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
distribuzione per circa un milione di dollari.8 E il 16 luglio di quello stesso anno tale mocku-horror esce nelle sale statunitensi. Inizialmente sono ventisette cinema a proporlo, ma nel giro di due settimane arrivano a essere 2,000. E, solo in patria, il film incassa complessivamente ben 138 milioni di dollari,9 dimostrando come non siano indispensabili grandi budget per riportare un ingente successo di botteghino.10
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9.1 L’horror incontra il cinéma vérité The Blair Witch Project è prima di tutto un film dell’orrore e, come tale, presenta tratti caratteristici del genere, quali atmosfere cupe, un «complex discovery plot»11, una componente sonora capace di produrre tensione e personaggi che commettono il fatale errore di avventurarsi laddove «no one in their right mind would go»12. In particolare, s’inserisce tra quelle pellicole, come The Haunting (Gli invasati, 1963, di R. Wise), che scelgono di non esibire la creatura che minaccia i protagonisti.13 Qui, infatti, a suscitare paura non è un mostro ottenuto con complessi effetti speciali, bensì l’idea che quanto raccontato possa essere stato realmente esperito dai protagonisti.
8 9 10 11
12 13
Prima che The Blair Witch Project venga presentato al Sundance Film Festival, un suo rough cut della durata di due ore e mezza viene proiettato presso l’MGM Film Theater di Orlando (cfr. Bart, 2006: 72). Hopgood, 2006: 238. Stando a quanto scrive Geoff King (cfr. 2002: 104) nel suo La Nuova Hollywood, il film avrebbe guadagnato addirittura 140 milioni di dollari. The Blair Witch Project ottiene anche numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Prix de Jeunesse al Festival di Cannes. Il «complex discovery plot» si articola in quattro parti: l’avvio, la scoperta, la conferma e il confronto. La prima consta nell’ottenimento delle prove dell’esistenza di un mostro, la seconda si ha quando alcuni personaggi comprendono che quest’ultimo è reale, la terza quando anche coloro che non vi credevano si convincono della sua esistenza e la quarta nel momento in cui si verifica lo scontro tra i protagonisti e la creatura malvagia (cfr. Carroll, 1990: 99 ss.). Nel caso di The Blair Witch Project quest’ultima fase non viene mostrata, ma si lascia intendere che sia avvenuta. Rhodes, 2002: 59. Cfr. ivi: 55.
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The Blair Witch Project (1999) e la paura “reale”
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Proprio a tal fine si opta per una narrazione in soggettiva, ove il punto di vista adottato è quello delle vittime, le cui sensazioni di terrore vengono restituite visivamente attraverso inquadrature mosse e scarsamente illuminate, accompagnate da un sonoro diegetico fatto di respiri affannosi e urla strazianti.14 Siamo quindi di fronte a un caso in cui la soggettiva acquisisce la funzione di «veicolo di partecipazione emotiva»15, per far sì che lo spettatore assuma su di sé lo sguardo dei protagonisti e, attraverso l’attivazione della propria fantasia, produca quell’orrore che l’immagine di per se stessa non contiene.16 Come nota Fincina Hopgood, in The Blair Witch Project manca, infatti, la rappresentazione esplicita della violenza propria dell’horror mainstream, giacché la creatura paranormale che insidia i tre giovani, pur essendo continuamente evocata nei loro discorsi, resta una minaccia invisibile cui è pertanto l’immaginazione del fruitore a dover dare forma, attribuendole i tratti più spaventosi che riesca a concepire.17 Il suo non prestarsi a uno scontro con Heather, Michael e Joshua, se da un lato la rende una figura invincibile, priva però il pubblico di quella catarsi finale caratteristica del genere, risultante da un duello tra il bene e il male in cui il primo trionfa sul secondo.18 Emerge quindi come, riportando l’horror «to its absolute basics»19, Myrick e Sánchez realizzino un film “avanguardistico”,20 ove quelle estetiche che solitamente in un mockumentary fungono da marche veridittive, pur essendo presenti in numero consistente, acquisiscono una funzione prettamente stilistica. Inquadrature mosse, sgranate e occasionalmente fuori fuoco, ottenute con il ricorso a una camera a mano,21 attori sconosciuti che esibiscono 14 15 16 17 18 19 20 21
Hopgood (2006: 247) sostiene addirittura che «the film chooses to represent its horror obliquely, through the soundtrack rather than through the image». Dagrada, 2003: 27. A tal proposito si vedano: McDowell, 2001: 141; McCarthy, 1999: 79. Cfr. Hopgood, 2006: 247. Cfr. Picciotti, 2000: 52. O’Hagan, 1999: 25. Per una trattazione più approfondita di The Blair Witch Project come prodotto d’avanguardia si rimanda a Hopgood, 2006: 246-247. La continua presenza di tali inquadrature disturba alcuni spettatori al punto che, come riportato da Peter Bart (2006: 75), su Entertainment Weekly appare la seguente indicazione: «Before heading out to The Blair
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
una recitazione naturale e mantengono il proprio vero nome, una scarsa illuminazione, il suono all’apparenza in presa diretta, il cartello d’apertura che presenta il film come un documentario, le testimonianze sull’esistenza della strega rilasciate dagli abitanti di Burkittsville, il bianco e nero delle riprese effettuate da Joshua con una cinepresa 16 mm e l’assenza di musica (se non in un’occasione ove è giustificata dalla presenza di una fonte plausibile)22 sono tutti elementi che non intendono tanto mascherare il carattere fantastico del racconto, quanto piuttosto rendere “reale” la paura.23 Difatti, nonostante Jane Roscoe sulle pagine del periodico Jump Cut arrivi addirittura a parlare di The Blair Witch Project nei termini di hoax,24 da un’indagine condotta dalla studiosa Margrit Schreier è emerso come la finzionalità della pellicola risulti palese alla maggior parte dei fruitori.25 Diverse però ne sono le ragioni. Mentre per quanti rispondono alle domande della ricercatrice a rendere inverosimile la vicenda, più che la possibile esistenza di una strega, sarebbe l’incapacità dei tre ragazzi di utilizzare una bussola,26 secondo Gary D. Rhodes il principale indizio della sua natura fittizia risiederebbe invece nel fatto che, pur trovandosi in una situazione di elevato pericolo, i protagonisti continuino a riprendere. Egli, infatti, sulle pagine di Post Script si chiede: «[…] would anyone really keep filming while running hurriedly up and down flights of stairs, all the while scared to death at hearing the voice of a missing friend?»27.
22 23
24 25 26 27
Witch Project this weekend, better pop a couple of Dramamine and bring an empty popcorn bucket […]. Across the country more and more viewers are vomiting after getting motion sickness from the shaky camera work and grainy footage». Tale occorrenza musicale si ha quando i tre giovani iniziano il loro viaggio in macchina alla volta di Burkittsville, ma è giustificata dalla presenza dell’autoradio. Diversa è invece la ragione che determina l’assenza dei titoli di testa. Inizialmente presenti, vengono tolti per esplicito volere della Artisan Entertainment, la quale desidera che il film appaia più credibile come prodotto del cinema del reale al fine di mantenersi in linea con la direzione adottata per la campagna pubblicitaria (cfr. Malin in Ascher-Walsh, 1999: 36). Cfr. Roscoe, 2000: 3-8. Per approfondimenti riguardo a come sia stata condotta l’indagine e al dettaglio dei risultati si rinvia a Schreier, 2004. Cfr. ivi: 330. Rhodes, 2002: 59.
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The Blair Witch Project (1999) e la paura “reale”
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Di là dalle spie presenti a livello narrativo e dal suo venir etichettata subito dalla critica come un film dell’orrore (seppur peculiare), l’opera di Myrick e Sánchez contiene poi diversi elementi volti a segnalare più sottilmente il suo essere frutto di una messa in scena, quali inquadrature che mostrano Heather o Joshua nell’atto di riprendere,28 sequenze ove i giovani agiscono ripetutamente per l’obbiettivo29 e un continuo passaggio straniante dal bianco e nero della cinepresa 16 mm, con cui i tre studenti girano la loro pellicola, al colore della videocamera Hi8 utilizzata dalla ragazza per filmarne il backstage. Per di più, nel realizzare il proprio documentario, Heather tende a catturare sempre un “reale” preordinato (la vediamo, ad esempio, applicarsi il rossetto sulle labbra prima di posizionarsi di fronte all’obbiettivo oppure leggere brani selezionati in precedenza), suggerendo allo spettatore come questa debba essere la chiave di lettura dell’intera pellicola. Oltre a evidenziare la già palese finzionalità dell’opera, tali elementi contribuiscono anche a portare avanti una riflessione sulle pratiche del cinema del reale, mettendone in luce i limiti. In particolare, come nella maggior parte dei mocku-horror, si può rintracciare una critica all’ossessione di ottenere prova filmica di tutto ciò che accade. A farsene veicolo è soprattutto il personaggio di Heather, che persiste nel riprendere ogni avvenimento a dispetto delle ripetute richieste dei due compagni di spegnere la videocamera.30 Se da un lato quindi The Blair Witch Project denuncia la tendenza dei documentaristi a invadere il privato dei propri soggetti (mostrando ad esempio Joshua filmare l’amica mentre minge tra i cespugli), dall’altro dimostra l’incapacità della macchina da presa «to capture the very subject it seeks to record: the witch
28 29
30
In particolare si ricorda una delle scene iniziali ove si propone un mezzo primo piano a colori di Joshua che filma Heather seguito da uno in bianco e nero di quest’ultima che riprende il giovane. Vi sono casi in cui è Heather a chiedere ai compagni di compiere delle azioni (ad esempio, vi è un’inquadratura ove la ragazza invita Mike a dimostrare l’utilizzo di un bastone trovato nel bosco ed egli obbedisce) e casi ove ciò viene fatto spontaneamente (come quando la giovane assume pose vezzose nel mostrare se stessa e l’appartamento in cui vive o i due uomini esibiscono a favore di camera le cibarie che stanno acquistando al supermercato). Cfr. Hopgood, 2006: 245.
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herself»31. Costruito falsificando le estetiche del cinéma vérité, nel richiamare alcune istanze di tale movimento per dimostrare la fallacia dei suoi assunti, il film ricorda che una cinepresa non potrà mai restituire altro che un vero filtrato, come ben emerge da una conversazione dei tre studenti:
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JOSH: I see why you like this videocamera so much. HEATHER: You do? JOSH: It’s not quite reality. MIKE: Reality says we’ve gotta move. JOSH: No but its totally like filtered reality man. It’s like you can pretend everything is not quite the way it is.
Tuttavia, va notato che, a differenza di quanto accade in altri mockumentary dove la scelta di adottare tale stile è determinata in parte proprio da una precisa volontà di criticare le pratiche documentarie, nel caso di The Blair Witch Project la riflessione sul cinéma vérité resta subordinata all’intento di spaventare lo spettatore ed è più che altro conseguente alla scelta di avere per protagonisti tre giovani che si misurano con questa forma cinematografica. 9.2 The Blair Witch Project e la narrazione transmediale A corredo del proprio film Myrick e Sánchez mettono in rete un sito web che si propone come costruito da persone interessate a far luce sulla vicenda di questi studenti misteriosamente scomparsi.32 Esso si articola in tre sezioni, composte rispettivamente da una cronologia di eventi paranormali verificatisi tra il 1785 e il 1997 nella cittadina di Blair (che vengono consustanziati attraverso immagini, mappe, pagine di giornali, filmati, dichiarazioni di esperti o documenti di varia natura), dalle biografie dei ragazzi accompagnate da una serie di fotografie, che risalgono per lo più al periodo appena precedente l’avventura nel bosco, e da materiali riguardanti l’inchiesta condotta dalla polizia a seguito della loro 31 32
Ivi: 246. Cfr. Sánchez in Jenkins, 2006: 92-93.
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scomparsa (quali finti estratti di notiziari e ipotetiche interviste ai genitori dei giovani). Proprio quest’ultima parte del sito nel periodo dell’uscita della pellicola viene aggiornata settimanalmente con notizie sul procedere delle ricerche.33 L’intento che muove i due registi, e in un secondo tempo l’Artisan Entertainment, a creare e arricchire tali pagine è di tipo prettamente commerciale: dar vita a una campagna pubblicitaria basata sul poco dispendioso, ma efficace, viral marketing. Tuttavia, non si tratta del consueto sito web promozionale, inscindibile dal film che reclamizza, bensì di un prodotto mediale che, oltre a prestarsi a essere fruito autonomamente, «offre un contributo distinto e importante all’intero complesso narrativo»34. Infatti, da un lato, fornisce le radici della leggenda della strega di Blair e, dall’altro, racconta un aspetto, quale quello delle ricerche effettuate a seguito della sparizione di Heather, Michael e Joshua, che in The Blair Witch Project non viene trattato. E lo fa sfruttando materiali non presenti nella pellicola. Siamo quindi al cospetto di un caso di narrazione transmediale (concetto che, come delinea Henry Jenkins, fa il suo ingresso nel dibattito pubblico proprio in relazione a questo mockumentary),35 di cui tale mocku-sito è però solo uno dei tanti tasselli.36 Una settimana prima dell’uscita del film sul canale via cavo Sci-Fi va, infatti, in onda un finto documentario sulla leggenda della strega di Blair dal titolo Curse of the Blair Witch (1999), del quale è la ricercatrice Jane Roscoe a fornire una descrizione: Utilizing the left-over footage from film, it is presented as an expositional documentary and appropriates the expected codes and conventions of that mode. Using experts (the Blair historian, profes33 34 35 36
Cfr. Manera, 2000: 29. Jenkins, 2006: 84. Cfr. ivi: 90. Proprio come per i mockumentary audiovisivi anche questo sito contiene un indizio della propria finzionalità: un link a una pagina ove è possibile acquistare prodotti legati al film (cfr. Hopgood, 2006: 241). Si segnala, inoltre, che nel web sono apparse molte altre pagine dedicate alla pellicola di Myrick e Sánchez, spesso create da fan ossessionati dall’idea di scoprirne l’evoluzione della storia. Tra le tante si ricordano, ad esempio, The Blair Witch Project Countdown! e The Blair Witch Forum (cfr. Bart, 2006: 72).
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sor of anthropology, and Folklaw) as well as authentic looking documents from the time (diaries and letters) its objective is to build up an account to convince us that the Blair Witch exists. As well as the material on the Blair Witch myth, the show also includes extracts from The Blair Witch Project which in this context, are used as evidence to support the myth of the Blair Witch.37
Viene poi pubblicato, a firma del noto giornalista dell’occulto D. A. Stern, il libro The Blair Witch Project: A Dossier, ove sono raccolti articoli di giornale, lettere, fotografie, verbali della polizia, testimonianze e pagine del diario di Heather. E si mette in commercio Josh’s Blair Witch Mix, un cd musicale, contenente brani appositamente selezionati, che si finge corrisponda a un nastro ritrovato nell’automobile di Joshua. Sulle pagine di diversi periodici appaiono inoltre mocku-articoli che portano avanti la finzione del film. È il caso, ad esempio, di un pezzo proposto da Premiere nell’agosto 1999, ove si pretende che a una giornalista, recatasi nel bosco insieme ai registi e agli attori di The Blair Witch Project per intervistarli, sia capitata una sorte analoga a quella dei protagonisti della pellicola: On May 6, 1999, Premiere magazine writer Holly Millea and photographer Patrick Andersson hiked into Maryland’s Black Hills Forest with the filmmakers of the low-budget horror movie The Blair Witch Project. In a strange turn of events that is still under investigation, none of them have been seen or heard from since. Herewith are excerpts from Milles’s notes and tape recordings, which were found several weeks later, along with Andersson’s film, buried beneath an abandoned cabin in the woods.38
L’articolo riporta poi tutto il contenuto dei suddetti appunti, i quali terminano con le urla della donna che implora pietà a un’entità ignota. Si è quindi applicato lo stile mockumentary a molteplici media per forgiare prodotti che, pur concorrendo a creare interesse intorno al film, vanno ben oltre la semplice funzione promozionale svolta invece da paratesti quali trailer e flani, ove non a caso si di37 38
Roscoe, 2000: 4. s.n., 1999: 80.
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chiara però la natura fittizia della pellicola, presentandola come appartenente al genere horror.39
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Nel primo caso ciò avviene inserendo inquadrature scure e confuse su cui sono sovrimpressi giudizi espressi dalla critica, quali «Genuinely frightening (Newsday)», «One of the creepiest films since The Exorcist (Entertainment Weekly)» e «Scary as Hell (Rolling Stone)», nonché attraverso la presenza di un tappeto sonoro di grida, tuoni e altri rumori angoscianti. Nel secondo, invece, si ottiene tale effetto aprendo l’annuncio con il già citato giudizio espresso dalla rivista Rolling Stone, seguito dalla fotografia in bianco e nero di un bosco spettrale dagli alberi avvizziti e privi di foglie.
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CRONACA DI UNA MORTE IMMAGINARIA: DEATH OF A PRESIDENT 2006 DI GABRIEL RANGE Nel 2006 il regista inglese Gabriel Range, già autore di The Day Britain Stopped, sceglie di seguire nuovamente la strada tracciata da Peter Watkins con The War Game, adottando la forma del mockumentary fantastorico per narrare l’ipotetico assassinio dell’allora Presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Ne nasce Death of a President, thriller costruito come un documentario retrospettivo, che viene insignito del Premio Internazionale della Critica al Toronto Film Festival di quell’anno. Negli Stati Uniti, però, la pellicola suscita forti polemiche ancor prima della sua uscita, poiché si ritiene possa istigare atti emulativi. Hilary Clinton, pur non avendola vista, si affretta a definirla spregevole. Radio e televisioni, quali la NPR e la CNN, decidono di non promuoverla per evitare di creare imbarazzo alla Casa Bianca e due catene di sale cinematografiche rifiutano di proiettarla.1 Anche in Italia il film è oggetto di ostracismo da parte del 30% degli esercenti. Tuttavia, come suggeriscono alcuni critici, ciò si deve più al manifesto scelto per pubblicizzarlo che non al suo soggetto.2 La locandina con cui viene promosso è, infatti, una sorta di annuncio funebre: su uno sfondo bianco si riporta in nero il nome del Presidente degli Stati Uniti, seguito dalla sua data di nascita e di morte (fig. 5). Più in piccolo è indicato, poi, il titolo dell’opera e il mese in cui uscirà nelle sale.3 1 2 3
Le catene in oggetto sono Regal e Cinemark. Il loro rifiuto fa sì che il film negli USA esca solo in novanta copie e non in seicento come inizialmente previsto. Ad esempio, su Il Giornale di Brescia Alberto Pesce (2007: 33) scrive: «Da noi, invece, suscita semmai scalpore — più della pellicola — la fredda lapide funeraria del poster pubblicitario!». Si tratta del medesimo manifesto utilizzato negli USA, unica differenza è che in quest’ultimo il testo è bianco su sfondo nero. Diverge, invece, la lo-
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Se tale strategia di marketing in parte penalizza la pellicola alimentando le controversie intorno a essa, al contempo ne chiarisce però il carattere fantastico,4 invitando lo spettatore a instaurare da subito un modo di lettura finzionalizzante. Questa linea viene perseguita anche con il trailer, ove non solo è presente un cartello recante la frase «Cosa succederebbe se…», rivelatrice della natura ipotetica del film, ma si esplicita altresì che Death of a President è incentrato sull’assassinio di Bush,5 proponendo alcuni fotogrammi della sequenza concernente il delitto, nonché frammenti di falsi notiziari in cui si comunica la morte del politico. Per i flani si sceglie invece la stessa immagine, raffigurante un momento dell’attentato, adoperata al termine delle riprese da Channel4 per svelare l’effettivo argomento del finto documentario.6 Nel complesso
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candina spagnola, che raffigura una prima pagina del quotidiano El Mundo ove è riportata solo la notizia della morte di Bush e dell’uscita nelle sale del controverso film che la documenta. Sul Corriere della Sera il film, in un primo tempo, è definito proprio come appartenente al genere fantastico (s.n., 2007: 20). Maurizio Porro (2007: 21) lo classifica, poi, come «fanta-documentario». Più ambiguo è il trailer statunitense in cui non solo vi sono diverse marche veridittive (parte di un’intervista rilasciata dal responsabile della sicurezza, fotogrammi presi da telecamere di sorveglianza e inquadrature mosse o fuori fuoco), ma nell’unico frammento dell’audio di un telegiornale proposto ci si limita ad annunciare: «We are just getting report of a shooting incident. Its not clear if the President itself has been hit, but apparently there are casualties». Temendo che la scelta d’inscenare l’assassinio di una personalità vivente del calibro del Presidente degli Stati Uniti possa suscitare aspre critiche, come poi avviene, l’argomento del film è tenuto segreto fino al termine delle riprese. Per evitare una fuga di notizie dal set, si arriva addirittura al punto d’informare solo gli attori principali del fatto che la sceneggiatura preveda la morte di Bush (cfr. Dickson, 2006: 26). Oltre che per i flani, il fotogramma con cui si svela il soggetto dell’opera è usato (sia in Italia sia negli USA) anche per realizzare un secondo manifesto, resosi necessario forse proprio a causa delle polemiche suscitate dalla prima locandina.
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Cronaca di una morte immaginaria: Death of a President (2006)
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quindi in Italia s’imposta una campagna pubblicitaria volta a presentare il film come un prodotto di finzione.
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10.1 La fantastoria: un modo per riflettere sulla contemporaneità Death of a President si apre con un cartello ove si chiarisce che, nonostante la presenza di fotogrammi raffiguranti persone reali, la pellicola è un’opera di fantasia, confermando quindi al fruitore l’indicazione di adottare un modo di lettura finzionalizzante anticipata dai paratesti. In linea con quanto accade generalmente per i mockumentary fantastorici, anche in questo caso è il soggetto stesso della pellicola a costituire la principale spia della sua natura immaginifica, poiché lo spettatore sa che George W. Bush non è effettivamente morto a Chicago il 19 ottobre 2007 per due colpi d’arma da fuoco, come invece si enuncia nel film. Per di più, alla sua iniziale apparizione nelle sale, la finzionalità del testo è resa ancor più evidente dal fatto che si dà conto di un avvenimento che nella realtà non può ancora essersi verificato, perché collocato in un futuro prossimo. Infatti, Death of a President esce nei cinema statunitensi il 27 ottobre 2006 e in quelli italiani il 9 marzo 2007, ma si propone come un documentario girato nel 2008 per raccontare di accadimenti svoltisi a partire dall’autunno 2007. Come notato da Carlo Prevosti sulle pagine della rivista Duellanti, si tratta però di un indizio della sua natura fittizia che la pellicola è andata perdendo con il trascorrere dei mesi. Il futuro prospettato dalla finzione è ben presto diventato passato ed è scomparso lo scarto tra il periodo temporale della narrazione e quello in cui si trova lo spettatore.7 Ciò nonostante, il carattere fantastico dell’opera continua a essere palese, al punto tale che Range non ha sentito la necessità di denunciarne l’effettivo stato ontologico attraverso il ricorso a quelle spie, frequenti nei mockumentary, quali personaggi che fanno cenni alla macchina da presa8 o operatori e giraffisti che prendo7 8
Cfr. Prevosti, 2007a: 3. In realtà è presente un’inquadratura ove il figlio del vero assassino saluta in direzione della cinepresa insieme ai suoi commilitoni. Tale azione però è giustificata dal fatto che, nella finzione, si trova al fronte e sta girando un filmato per i propri familiari.
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no parte all’azione. Egli si limita a utilizzare in alcune sequenze il rallenty o il time-lapse, due forme evidenti di manipolazione del girato. È il caso di quanto accade in una delle scene iniziali ove si documenta come, mentre la limousine presidenziale attraversa le strade di Chicago, un gruppo di manifestanti, intenti a contestare proprio l’impopolare politica estera di Bush, blocchi il passaggio alla vettura, permettendo a un contestatore di arrivare a pochi centimetri da essa. Qui, per creare maggior pathos, la corsa dell’uomo verso l’automobile viene rallentata fino a proporre un fermo immagine del momento in cui le forze dell’ordine riescono a catturarlo.9 Inoltre, lungo tutto l’arco del film, il regista inserisce alcune brevi sequenze sperimentali, frutto di evidente messa in scena. Ad esempio, dell’arresto del presunto assassino Jamal Abu Zikri si dà conto solo verbalmente attraverso la testimonianza in voce over della moglie dell’uomo. A livello visivo, si opta invece per una successione d’immagini evocative: il dettaglio di una porta che viene sfondata, un vetro che va in frantumi, i pezzi di un oggetto non ben identificabile, catturato nell’atto di cadere a terra, e una torcia che s’infrange al suolo (fig. 6). La sequenza si chiude poi con lo schermo nero progressivamente invaso da una luce accecante. Non si mostra quindi quanto effettivamente avvenuto, ma ci si limita a simboleggiare l’irruzione della polizia in casa del sospettato attraverso alcune sineddoche visive. Da questa breve disamina degli indizi di finzione dispiegati nella pellicola, emerge come difficilmente si potrebbe indurre lo spettatore a instaurare con essa un patto comunicativo di veridizione. E questo non è nemmeno l’intento che spinge il regista ad adottare la forma del mockumentary. Infatti, come dichiara lui stesso in un’intervista rilasciata a Michele Puccioni, la scelta di realizzare un finto documentario retrospettivo è determinata dalla capacità del vocabolario del cinema del reale di portare il pubblico a un coinvolgimento e a delle reazioni diverse rispetto a quelle indotte da
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Un altro esempio è costituito da una sequenza ove si restituisce l’impressione che il filmato di una videocamera di sorveglianza sia riavvolto e poi fermato.
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un film di finzione e più funzionali al tipo di discorso che intende intavolare.10 D’altronde, conformemente a quanto è solito accadere per i mockumentary storico-politici, l’obbiettivo perseguito da Range con Death of a President non è tanto d’indurre una riflessione sulle pratiche del cinema del reale quanto piuttosto sui media, concentrandosi soprattutto sul modo in cui «rispondono a un momento di crisi»11. E lo fa denunciando come i mezzi di comunicazione «negli Stati Uniti hanno generalmente risposto a ogni allarme su presunti terroristi inchinandosi all’agenda repubblicana»12. Emblematica in tal senso è la sequenza ove si evidenzia come giornali e televisioni diano ampio spazio alla notizia secondo cui l’assassinio del Presidente sarebbe l’arabo Abu Zikri, mentre l’identità dell’effettivo attentatore (un veterano di nazionalità americana) venga rivelata solo in un trafiletto apparso sul Chicago Sun Times in terza o quarta pagina. Tale verità non aiuta a supportare la politica messa in atto dall’amministrazione Cheney e viene perciò messa a tacere, lasciando nel braccio della morte l’innocente siriano. I media sono, quindi, tratteggiati come totalmente asserviti al potere, anche se, secondo lo studioso Carl Freedman, il solo fatto che nella finzione qualcuno abbia potuto realizzare il documentario dimostrerebbe, in realtà, che la libertà in «the fictional US of 2009 [sic] has not been extinguished quite so completely as one might have feared»13. Accanto a tale riflessione ne viene poi portata avanti una seconda, a essa legata, «sul clima di paura che si è sviluppato dopo l’11 settembre e su come l’amministrazione Bush l’abbia utilizzato ai suoi fini, in particolare per giustificare l’invasione dell’Iraq»14. La morte del leader americano non viene quindi inscenata per esprimere un dissenso nei confronti del politico come individuo,15 ma 10 11 12 13 14 15
Cfr. Range in Puccioni, 2007: 9. Ivi: 10. Ibidem. Freedman, 2009: 331. Ibidem. Freedman (2009: 328) nota: «Although clearly made from a political viewpoint opposed to that of the Bush Administration, the film does not allow itself to be distracted by that infantile personal obsession with the fortythird president which the film itself represents critically and convincingly […]. To the degree that the film shows Bush as a personality at all, he
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per delineare gli effetti che la discutibile guerra al terrorismo intrapresa dal suo partito ha avuto sugli USA e i cambiamenti subiti dalla politica estera del Paese in direzione antiaraba.16 Ecco allora che il primo atto del neo Presidente Dick Chaney è quello di varare il Patriot Act III, misura che concede all’FBI d’invadere la libertà e la privacy della popolazione. Inoltre, non solo la colpa dell’attentato viene fatta ricadere su Abu Zikri, forzando la mano sulle prove a suo carico, ma si cerca di addurre i labili legami che l’uomo ha con il terrorismo a pretesto per sfruttare la vicenda in chiave antisiriana. 10.2 Un thriller realistico Prodotto per il canale britannico More4 con un budget modesto, Death of a President presenta una narrazione a più voci, che permette di restituire gli eventi da diversi punti di vista. A far procedere il racconto è, infatti, il susseguirsi delle testimonianze di svariate persone coinvolte nella vicenda, anche se spesso in modo marginale. Più che venir esibiti, gli avvenimenti vengono quindi esposti oralmente attraverso le parole dei personaggi intervistati dall’ipotetico documentarista, la cui esistenza è solo presupposta e mai mostrata. Costoro non si limitano, però, a riportare i fatti, ma rievocano altresì le emozioni provate. Allo sguardo asettico del documentario retrospettivo fa, pertanto, da contraltare una componente sonora ricca di pathos, grazie anche alla presenza di una musica dai toni cupi e minacciosi. Il film che ne risulta è un incrocio tra un thriller politico e un whodunit, composto da veri materiali d’archivio manipolati,17 immagini costruite ad hoc e in-
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comes across as the perfectly likeable type […]. We see Bush […] engaging in good-humoured, generous witticisms with political opponent […]; and after the assassination we see spontaneous expressions of loss and love by those […] who had been close to the president». Proprio questo secondo Mereghetti (cfr. 2007b: 61) è il vero soggetto del film. Per trovare le inquadrature di repertorio necessarie a raccontare la storia, Range visiona un elevato numero di filmati e notiziari televisivi. Lui stesso spiega: «Per ogni singola sequenza del presidente Bush o di qualunque altro, cercavamo delle cose molto specifiche, e bastava il vestito sbagliato, la cravatta sbagliata per far sì che quello che altrimenti sarebbe stato un
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quadrature che si finge siano state girate dall’immaginario regista che opera nel 2008. Non ci si auspica quindi che lo spettatore creda si tratti effettivamente di un prodotto del cinema fattuale, bensì che dimentichi rapidamente che Bush non è morto, aprendosi alla realtà alternativa dipinta dal film.18 È proprio a tal fine che si dispiegano numerose marche veridittive, quali dichiarazioni di testimoni oculari, immagini di repertorio, fotografie, frammenti di telegiornali, riprese tratte da telecamere di sorveglianza, pagine di giornali e documenti di vario genere,19 nonché didascalie volte a fornire indicazioni spazio-temporali. Vengono poi proposte molte riprese sporche, mosse, sgranate o fuori fuoco e spesso non s’inquadra un soggetto specifico, dando l’impressione che si tratti di filmati realizzati in momenti di concitazione. Si ricorre anche a formati diversi (DV, alta definizione e telefoni cellulari)20 per far credere che gli avvenimenti siano colti da apparecchiature di ripresa e punti di vista differenti, come avverrebbe oggigiorno, qualora si verificassero realmente. Rivela, infatti, il regista: A ogni singola scena pensavamo: Chi sono io che tengo la cinepresa? Sono un manifestante? Sono un giornalista? Sono un membro della polizia di Chicago?. Dovevamo sempre pensare a come questa persona avrebbe usato la cinepresa e assicurarci al 100 per cento che la cinepresa si movesse in maniera credibile.21
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pezzo molto promettente di immagini d’archivio si trasformasse in materiale completamente inutile» (Range in s.n., 2007: 14-15). Se in molti casi si sono manipolati materiali di repertorio, in altri si è invece intervenuti direttamente sul profilmico, adeguandolo alle proprie esigenze. Per approfondimenti si veda Thumim in contenuti extra del dvd di Death of a President distribuito da Feltrinelli – Real Cinema nel 2007. Cfr. Range in Puccioni, 2007: 10. Ad esempio, si mostrano cartine geografiche, il documento d’identità di un arrestato e la lista di quanti lavorano nell’edificio da cui ha sparato il cecchino. Le inquadrature ottenute avvalendosi dell’alta definizione vengono poi peggiorate, copiandole. Range (in s.n., 2007: 16) rivela: «Abbiamo addirittura utilizzato delle U-Matic ¾ […]. È un modo per emulare cosa accade quando un nuovo girato viene mandato via satellite a un network da qualche altra parte e poi copiato su un’altra cassetta». Range in s.n., 2007: 16.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Per di più, il cast è composto da attori poco o per nulla noti, che esibiscono una recitazione apparentemente naturale, 22 frutto di un lungo lavoro di preparazione:
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Range ha iniziato fornendo agli attori un’enorme quantità d’informazioni sul background dei personaggi che dovevano interpretare. Ha filmato brevi interviste e le ha guardate insieme agli attori, discutendo con loro su cosa funzionava e cosa no. Poco prima delle vere riprese, gli attori hanno ricevuto la sceneggiatura. […] Poi li ha fatti accomodare per una maratona di interviste lunga otto ore.23
A ciò si aggiunga che, nel caso della testimonianza resa dalla moglie di Jamal, il fatto di far parlare la donna in arabo permette di restituire l’idea di una componente sonora esente da manipolazioni. A conferire veridizione alla pellicola contribuiscono altresì l’apparire sullo schermo del vero volto di Bush,24 i riferimenti a vicende di attualità, come quella dei Lackawanna Six,25 e la presenza di materiali di repertorio relativi ad avvenimenti reali, a cui si conferisce un diverso significato grazie a un sapiente lavoro di manipolazione digitale delle immagini. Quest’ultimo è il caso di quanto avviene per il discorso tenuto da Dick Cheney al funerale di Bush (veramente proferito dal politico nella realtà, ma per commemorare Ronald Reagan)26 o per quello pronunciato dal Presidente degli
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A tal proposito Emma Perry (2006: 177) sulle pagine della rivista Time Out nota: «[…] it really feels like these people – Bush special advisor Eleanor Drake, head of presidential protection detail Larry Stafford, superintendent Greg Turner of the Chicago Police Department, Zahara Abu Zikri, wife of Muslim suspect, etc – are recounting real memories and feelings». Tra i numerosi attori si ricordano Becky Ann Backer nel ruolo di Eleanor Drake e Michael Reilly Burk nei panni del capo della divisione di Chicago dell’FBI Robert Maguire. s.n., 2007: 17. Si è sovrapposto il volto del vero Bush al corpo dell’attore che lo impersona nel film grazie al ricorso a effetti speciali. Per maggiori dettagli si rimanda a Range in s.n., 2007: 15; Franceschini, 2007: 20. Si tratta di un gruppo di amici yemeniti, naturalizzati americani, noti anche con il nome di Buffalo Six, che fornivano un supporto materiale ad Al-Quaeda. Essi sono stati arrestati nel settembre del 2002 a Lackawanna. Cfr. Freedman, 2009: 329.
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Stati Uniti poco prima di essere assassinato (da lui effettivamente proposto al The Economic Club durante una visita a Chicago). Tutti questi elementi di veridizione concorrono a dare una forma innovativa e di maggior impatto a un film che altrimenti sarebbe stato l’ennesimo thriller politico incentrato su un Capo di Stato americano.
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UN CASO ITALIANO: IL MUNDIAL DIMENTICATO 2011 DI LORENZO GARZELLA E FILIPPO MACELLONI Tra i racconti che Osvaldo Soriano dedica al calcio ve n’è uno dal titolo Il figlio di Butch Cassidy, ove si narra di un fantomatico mondiale che «non figura in nessun libro di storia, ma si giocò nella Patagonia argentina»1 nel 1942. È dalla lettura di tali pagine che i registi Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni traggono l’idea di girare un mockumentary che dia conto di quanto sarebbe accaduto se questo torneo si fosse effettivamente disputato. A spingerli a scegliere la forma del finto documentario è, da un lato, la volontà di «raccontare una vicenda in cui memoria e leggenda si confondano, proprio come nella letteratura di Soriano». E, dall’altro, la consapevolezza che «le storie calcistiche ricostruite al cinema hanno molto spesso un sapore posticcio», ma al contempo l’intuizione che ciò «sia dovuto al fatto che questo sport abbia un suo potente immaginario visivo, costituito da immagini documentarie, diverse e peculiari in ogni epoca, a cui gli spettatori si sono abituati»2. Di conseguenza, il mockumentary appare loro lo stile più appropriato per narrare avvenimenti calcistici di fantasia. Nel maggio 2002 i due registi iniziano quindi a lavorare alla sceneggiatura de Il mundial dimenticato, la cui realizzazione è, però, destinata a scontrarsi ben presto con notevoli difficoltà di tipo economico.3 Infatti, se nell’estate 2006 il film sembra godere del 1 2 3
Soriano, 1994: 191. Garzella in intervista inedita rilasciata all’autrice in data 4 giugno 2013. La scelta del finto documentario si dimostra vantaggiosa anche da questo punto di vista. Spiega Garzella (ibidem): «Il mockumentary ci ha permesso di affrontare la lavorazione, estremamente incerta e avventurosa, con più tranquillità perché, se mancano i soldi per ricostruire una scena, ci si può affidare al racconto di un’intervista e si mostrerà solo una fotografia sbiadita, magari suggerendo: ah, destino crudele, tutti i filmati sono andati distrutti».
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
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sostegno di un nutrito gruppo di produttori (tra cui figurano Rai Cinema, Jean Vigo Italia, Amedeo Pagani e Daniele Mazzocca), nel febbraio 2007, a causa di un drastico cambiamento alla direzione di Rai Cinema, il castello produttivo crolla e a finanziare l’opera resta il solo Mazzocca. Si continua ugualmente a girare, ma gli scarsi fondi a disposizione fanno sì che un paio di volte la lavorazione oltreoceano venga interrotta per mancanza di denaro e la troupe si trovi costretta a tornare in Italia senza sapere se la pellicola verrà mai terminata. A tal proposito Macelloni illustra: Abbiamo dovuto adattare la sceneggiatura alle ristrettezze che via via si aggiungevano, togliendo giorni di riprese, rinunciando a location previste e riducendo drasticamente il numero di comparse. La parte più difficile da girare è stata quella delle ricostruzioni delle partite dei Mondiali del 1942. Avevamo previsto una serie di lavori di scenografia da fare nello stadio (un piccolo stadio di epoca peronista nella periferia di Buenos Aires), che si sono poi ridotti a un bandierone appeso in modo approssimativo su un lato del campo per coprire quello che c’era dietro. E ci siamo dovuti ingegnare non poco per trovare posizioni per la macchina da presa che non mostrassero i palazzi moderni o l’assenza di elementi scenografici.4
Se un importante aiuto economico arriverà nel 2010 con l’ottenimento, al terzo tentativo, del finanziamento ministeriale per Opere prime e seconde, nel frattempo si cercano partner sia in Italia che all’estero. Più volte co-produttori di varie nazionalità o ditte interessate al product placement sembrano sul punto di aggregarsi, ma pochi sono gli accordi che vengono effettivamente suggellati. Tra essi si ricorda quello con l’argentina Dock Sur Producciones, che nel febbraio 2010 salva il progetto dal naufragio, per sparire però nel maggio 2011. È ancora una volta il regista fiorentino a dar conto dell’accaduto: Dovevamo girare la scena finale del film, con pioggia artificiale, varie comparse (tra cui un buon numero di soldati tedeschi armati), cavalli e molto altro. Ma quando siamo arrivati sul set non c’erano né cavalli né soldati armati né macchine per la pioggia. C’era solo il povero aiuto attrezzista che cercava disperatamente di allagare il 4
Macelloni in ivi.
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Un caso italiano: Il mundial dimenticato (2011)
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terreno di gioco con un tubo di gomma per annaffiare i gerani.5
Per terminare il film Garzella e Macelloni si trovano pertanto costretti a ricorrere ai propri risparmi. Ricorda il primo: «Utilizziamo i nostri bancomat per noleggiare una macchina della pioggia, due cavalli e qualche comparsa al nero. Si gira di sabato, senza regole e senza coperture. Quindici persone della troupe vengono a lavorare de onda (gratis), spinti solo dall’empatia per due disgraziati e testardi registi»6. Conclusa la lavorazione, Il mundial dimenticato viene presentato alle Giornate degli Autori della 68ª Mostra del cinema di Venezia. Esce poi nelle sale italiane l’1 maggio 2012, preceduto da una campagna di viral marketing che si avvale del web per dar vita a un’estensione diegetica mediale del testo cinematografico,7 funzionale a conferire veridizione a quanto narrato nella pellicola. Si mette, infatti, in rete il blog dell’immaginario insegnante giapponese Katsuro Matsuda, ove si finge che costui, avendo perso 100 milioni di yen durante un quiz televisivo per aver affermato che i mondiali del 1942 si sono giocati in Patagonia, chieda agli internauti di aiutarlo a dimostrare la correttezza della sua risposta.8 E nei giorni successivi vengono pubblicati alcuni video in cui esponenti del mondo del calcio si esprimono a sostegno della sua causa, tra cui ad esempio un filmato ove Gigi Buffon svela al giornalista Darwin Pastorin come, per parare i rigori, sia solito utilizzare il medesimo metodo adottato dal portiere della nazionale mapuche in quel fantomatico campionato.9 Parallelamente Repubblica TV mette in risalto la vicenda sia diffondendo un servizio che dà conto
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Ibidem. Garzella in ivi. Per una definizione del concetto di estensione diegetica mediale si veda Zecca, 2012: 30. Si segnala inoltre che i due registi hanno ideato e sviluppato la campagna pubblicitaria in collaborazione con Domenico Nucera e con l’agenzia TBWA. Il blog in oggetto è MUNDIALCAUSE – A 100 million yen story. http:// mundialcause.wordpress.com/ (2 marzo 2013). Cfr. Repubblica TV. http://video.repubblica.it/dossier/europei-2012-polonia-ucraina/buffon-agli-europei-parero-i-rigori-con-il-metodo-mapuche/95692/94074 (2 marzo 2013).
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
della storia di Matsuda sia riproponendo i vari video apparsi sul blog di quest’ultimo.10 Creato tenendo a modello, da un lato, mockumentary come Zelig e Forgotten Silver e, dall’altro, il documentario When We Were Kings (Quando eravamo re, 1996) di Leon Gast, il film ottiene numerosi riconoscimenti sia nazionali che internazionali, anche se curiosamente spesso li vince nella categoria destinata ai prodotti del cinema del reale.
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11.1 Dalla pagina allo schermo, tra analogie e differenze Come già War of the Worlds di Orson Welles, anche Il mundial dimenticato è la trasposizione di un testo letterario. In questo caso, però, pochi sono i punti di continuità tra l’opera filmica e il racconto cui essa si rifà. L’ambientazione storico-geografica è la medesima ed entrambi narrano di quanto accaduto durante le partite del leggendario mondiale arbitrato da William Brett Cassidy, il quale, non avendo a disposizione cartellini gialli e rossi (poiché non ancora inventati), si avvale di un revolver per mantenere l’ordine in campo. Per di più, in ambedue i testi è l’Italia a giocare e vincere la partita inaugurale, per poi essere però sconfitta in semifinale dalla Germania (favorita da un arbitraggio tutt’altro che imparziale),11 a sua volta battuta dalla squadra indigena dei mapuche nell’ultimo scontro di campionato. Tuttavia, le analogie tra le due opere si esauriscono qui. Infatti, Soriano tratteggia un torneo del tutto amatoriale che si chiude con una finale surreale, lunga una notte e un giorno, durante la quale porte e pallone scompaiono per riapparire magicamente quando una chiamata del Führer distrae i tedeschi.12 Al contrario, il mondiale di cui danno conto Garzella e Macelloni è una competizione semi-professionistica con partite dalla durata regolamentare, 10 11 12
Per tale sevizio si rinvia a Repubblica TV. http://video.repubblica.it/sport/ giappone-perde-1-mln-al-quiz-e-s-incatena-per-protesta/95683/94065 (2 marzo 2013). Riguardo alla semifinale Italia–Germania si riscontra un’altra analogia: il fatto che, in entrambi i casi, gli italiani tirino peperoncino negli occhi degli avversari per sopraffarli. Cfr. Soriano, 1994: 197-198.
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Un caso italiano: Il mundial dimenticato (2011)
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ove è in virtù della sua superiorità che la squadra mapuche vince per 2 a 1 il match conclusivo, giocato su un campo reso scivoloso da una pioggia battente. Inoltre, nel racconto sono i germanici, giunti nella Terra del Fuoco per installarvi la prima linea telefonica, a lanciare «l’idea di un campionato mondiale che avrebbe dovuto immortalare con la prima telefonata il loro passaggio portatore di civiltà in quei confini del pianeta»13. Nel film, invece, l’organizzazione del torneo si deve al Conte e Ministro dello Sport di Patagonia Vladimir Von Otz, un personaggio assente nel testo letterario che ricorda da vicino il Kane di Welles. Non solo, infatti, viene presentato attraverso un finto cinegiornale analogo al News on the March di Citizen Kane, ma come quest’ultimo è un potente magnate, ha un’estesa collezione di cimeli e rarità (in questo caso legati al calcio) e abita in un imponente palazzo-museo, nel cui parco vi sono animali esotici provenienti da tutto il mondo. Molte altre sono poi le figure rintracciabili nella pellicola e non ne Il figlio di Butch Cassidy. L’inserimento di alcune di esse, quali anziani ex-giocatori presenti al torneo del 1942, è determinato dalla scelta stessa di impiegare la forma del mockumentary, che rende necessario affidarsi alla memoria di testimoni oculari per raccontare vicende altrimenti impossibili da ricostruire. Vi sono, però, altresì personaggi introdotti per aggiungere nuovi livelli alla narrazione. È il caso del cineoperatore incaricato di filmare il campionato, Guillermo Sandrini, figura che ha diversi tratti in comune con il Colin McKenzie di Forgotten Silver, quali la sfortuna (perderà la vita proprio per portare a compimento la sua mansione) e l’inventiva (a lui si deve la prima macchina da presa subacquea, nonché una serie d’innovativi apparecchi atti a catturare i movimenti delle partite di calcio, come il cine-casco, la camera fluctuante e la cine-pelota). Ma si pensi anche alla fotografa ebrea Helena Otz, perno di un «quadrato amoroso» che vede coinvolti il succitato Sandrini, l’attaccante nazista Klaus Kramer e il portiere mapuche Nahuelfuta. È, infatti, proprio attraverso la sua presenza che s’immette una componente sentimentale, assente nelle pagine di Soriano.14 13 14
Ivi: 192. Riguardo alla vicenda sentimentale, Garzella (in intervista inedita rilasciata all’autrice in data 4 giugno 2013) racconta: «Fra maggio e agosto 2009
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Viene invece ridimensionato il ruolo dell’arbitro Cassidy. Protagonista indiscusso nel testo letterario, è qui ridotto alla figura stereotipica del bandito dal grilletto facile sulla cui testa pendono numerose taglie.15 Se quindi nel complesso i debiti di Macelloni e Garzella verso lo scrittore argentino sono minimi, si rintraccia invece una forte consonanza tra Il mundial dimenticato e il già citato mockumentary di Jackson e Botes. E ciò, non solo per il richiamo al suo protagonista, ma altresì per la presenza della medesima struttura narrativa. Anche qui, infatti, sono alcuni rinvenimenti a determinare, nella finzione, la realizzazione stessa del documentario e, in un secondo tempo, a rendere possibile la ricostruzione degli eventi.16 Inoltre, analogamente a quanto osservato in precedenza per Forgotten Silver, vi s’intrecciano due linee narrative: una collocata nel presente filmico, volta a dar conto delle ricerche intraprese dal giornalista Sergio Lewinsky, e una che ripercorre quanto avvenuto nel 1942. A ciò si aggiunga che, pur non essendo un hoax, il mockumentary italiano è ugualmente realizzato con l’intento «di stimolare il pubblico ad assumere un ruolo attivo nella percezione del film e a interrogarsi sulla potenza persuasiva delle immagini»17. Infine, proprio come per la pellicola neozelandese, numerose sono le
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dei potenziali co-produttori tedeschi ci hanno chiesto di rivedere la sceneggiatura per aumentare il peso della storia d’amore, facendo virare il più possibile il film verso la commedia romantica. Abbiamo quindi aggiunto un nuovo livello, teso ad approfondire la figura di Helena Otz, inserendo spezzoni di un finto film biografico di serie B, Alma rubia, sceneggiato a partire dal diario privato di Helena. Esso ricostruiva soprattutto l’amore contrastato della fotografa per il bomber Kramer e la sua relazione con Nahuelfuta. Questo livello è stato poi abbandonato, quando la partnership tedesca è venuta a mancare». Differisce anche la narrazione della sua morte. Garzella e Macelloni nei titoli di coda raccontano, infatti, che l’arbitro ha perso la vita durante un rodeo. Soriano (cfr. 1994: 211-212), invece, ne Gli ultimi giorni di William Brett Cassidy delinea come sia stato ucciso mentre tentava di oltrepassare la frontiera degli Stati Uniti. Due sono i ritrovamenti principali: quello iniziale dello scheletro di Sandrini che porta Lewinsky a interessarsi alla vicenda e quello finale della bobina contenente quanto filmato dal cineoperatore appena prima di morire, grazie a cui si scopre l’esito della partita Mapuche–Germania. Vi sono poi rinvenimenti minori, quale quello del cinegiornale Luce che dà conto della semifinale Italia-Germania. Garzella in intervista inedita rilasciata all’autrice in data 4 giugno 2013.
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citazioni cinematografiche, la più esplicita delle quali consta nel riferimento a Olympia (Id., 1938) di Leni Riefenstahl. Viene invece a mancare una riflessione sulla pratica filmica tout court, sostituita dalla trattazione di temi legati al calcio, quali il doping, gli illeciti sportivi e l’introduzione della prova video. Ecco allora che i giocatori mapuche devono la loro superiorità all’assunzione di sostanze erboristiche, i tedeschi corrompono l’arbitro Cassidy affinché li favorisca nella partita contro l’Italia e nella semifinale Mapuche – Inghilterra, per stabilire se un goal segnato dai primi abbia effettivamente oltrepassato la linea di porta, si ferma la partita e si visiona il girato di Sandrini. Ovviamente non mancano poi nemmeno richiami a figure ed eventi che hanno segnato la storia di questo sport, quali ad esempio il portiere del Chelsea William “Fatty” Foulke o la semifinale Italia – Germania del giugno 1970 conclusasi 4 a 3.18 11.2 Il realismo magico de Il mundial dimenticato Pur ricadendo tra i mockumentary fantastorici, Il mundial dimenticato ne rappresenta un caso peculiare, giacché in esso non si adotta l’approccio del what if per reinventare il passato, bensì per colmarne un vuoto. Non entrando quindi in palese contraddizione con l’effettivo corso della Storia, la pellicola risulta maggiormente credibile come fattuale rispetto a quelle solitamente inscrivibili in questo sotto-filone del finto documentario storico-politico. Ciò nonostante, anche qui è il soggetto stesso del film a costituire il principale indizio del suo essere un’opera di fantasia, dal momento che la vicenda narrata è tratta da un testo letterario dichiaratamente di fiction. Aspetto, che viene peraltro esplicitato a chiusura della seconda sequenza del mockumentary, facendo affermare a Lewinsky: «Come scrive Osvaldo Soriano in un suo racconto, il mondiale del 1942 non figura in nessun libro di storia, ma si giocò nella Patagonia argentina». Il carattere finzionale dell’opera è poi ulteriormente accentuato delle intricate relazioni amorose di Helena Otz, nonché dal fat18
Anche ne Il mundial dimenticato la semifinale tra Italia e Germania termina con tale risultato, ma a parti invertite rispetto a quanto accaduto negli anni Settanta.
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to che buona parte delle testimonianze siano indirette, arrivando addirittura ad affidare il ricordo di quanto accaduto durante la finale a due giocatori non presenti in campo perché malati, i quali espongono versioni contrastanti circa l’esito della partita, basate su un nebuloso “sentito dire”.19 A tali spie si aggiungono, inoltre, una stereotipizzazione in chiave umoristica dei personaggi (evidente ad esempio nella mostrazione dei giocatori inglesi intenti a bere il thè negli spogliatoi), il ricorso in diverse occasioni a musica extra-diegetica laddove si propongono scene girate secondo i dettami della modalità osservativa e il fatto che, nel corso delle proprie interviste, lo scrittore Osvaldo Bayer, l’ex-calciatore Jorge Valdano e lo storico Pierre Lanfranchi definiscano rispettivamente il mondiale del 1942 come «una fantasia», «una leggenda» e «una storia di sognatori». Malgrado la presenza dei suddetti indizi, Macelloni racconta, però, che non solo al termine del film è stato più volte avvicinato da spettatori che gli hanno chiesto dettagli sulle vicende appena viste, come se si trattasse di fatti realmente accaduti, ma anche che «su un importante quotidiano sportivo nazionale di colore rosa, dopo la proiezione di Venezia, stava per essere pubblicato un articolo in cui si raccontava che Il mundial dimenticato rivelava finalmente un incredibile evento della storia del calcio»20. A rendere possibile ciò, è il dispiegamento di un vasto numero di marche veridittive. Infatti, oltre a proporre elementi caratteristici sia della modalità descrittiva (come la voice of God) sia di quella osservativa (quali riprese mosse e luce naturale), questo mockumentary presenta tutti e quattro gli ordini di discorso funzionali a conferire rilevanza, interesse e valore alla vicenda “documentata”, delineati da Fausto Colombo in relazione a Zelig.21 Ecco allora che troviamo materiali di repertorio (sia finti che veri),22 reperti sonori 19 20 21 22
Tale scelta è funzionale anche a creare attesa nello spettatore circa il risultato finale del torneo. Macelloni in intervista inedita rilasciata all’autrice in data 4 giugno 2013. L’articolo sarebbe poi stato bloccato durante la notte da un collega dell’autore, che aveva invece colto il carattere finzionale della pellicola. Cfr. Colombo, 1984: 49-58. Nel primo caso si tratta di filmati d’epoca o estratti di odierni notiziari ricreati ad hoc, mentre nel secondo di frammenti di veri cinegiornali relativi al periodo in oggetto. Questi ultimi sono per lo più materiali dell’Istituto Luce funzionali a una contestualizzazione storica della vicenda. In alcu-
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(come, ad esempio, la registrazione radiofonica di una dichiarazione rilasciata nel 1941 dal Conte Otz sull’importanza di manifestazioni sportive come i mondiali) e interviste a testimoni oculari ed esperti,23 nonché reperti visivi e citazioni relative sia, più in generale, all’evento calcistico sia a singoli personaggi. Quest’ultimo è il caso, ad esempio, del cinegiornale sulla semifinale Italia – Germania rinvenuto presso l’Istituto Luce o del filmato ove si propongono i diversi apparecchi ideati da Sandrini per riprendere al meglio il torneo. Tra i reperti visivi si annoverano, invece, da un lato, materiali quali locandine delle partite, figurine dei giocatori o articoli sulla manifestazione apparsi in quotidiani dell’epoca e, dall’altro, le lettere d’amore scritte da Kramer a Helena, i cataloghi delle mostre in cui sarebbero stati esposti i lavori di quest’ultima, le cineprese dell’operatore argentino o le moltissime fotografie deteriorate dal tempo. Il realismo della pellicola è poi ulteriormente rafforzato dalla presenza di attori poco conosciuti o addirittura non professionisti,24 dal fatto che il ruolo del protagonista del presente sia ricoperto da un vero giornalista, da numerosi riferimenti a personaggi storici realmente esistiti (come la già citata Leni Riefenstahl che si finge sia addirittura stata contattata per filmare il mondiale, ma abbia declinato l’offerta) e dall’interpolazione d’inquadrature realmente documentaristiche dei luoghi ove si reca Lewinsky.25 Sebbene sia una commedia surreale, Il mundial dimenticato presenta pertanto una forte patina veridittiva, ottenuta guardando in modo consapevole alla precedente produzione di finti documentari, a dimostrazione di come da forma narrativa “sperimentale” si stia oggi affermando come uno dei linguaggi a disposizione dei registi per raccontare la finzione.
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ni casi vengono anche manipolati per inserirvi personaggi della finzione filmica. Si pensi, da un lato, agli immaginari ex-giocatori che avrebbero partecipato al torneo del 1942 e, dall’altro, ai numerosi veri storici o esponenti del mondo del calcio, quali Roberto Baggio e Gary Lineker. È il caso degli interpreti del portiere Nauhelfuta, di Magdalene Otz e dell’ex-calciatore Sarkento. Ciò era già stato fatto nel 1967 da Jim McBride in David Holzman’s Diary.
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Fig. 1. Fotogramma tratto da David Holzman’s Diary, 1967
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Immagini
Fig. 2. Manifesto del film Paper Heart, 2009
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Fig. 3. Screenshot del sito Bill Gates 1955-1999
Fig. 4. Fotogramma tratto da Forgotten Silver, 1995
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Immagini
Fig. 5. Manifesto italiano del film Death of a President, 2007
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Fig. 6. Fotogramma tratto da Death of a President, 2007
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INDICE DEI FILM
Almost True (2010 – 2012), 90. Ambush (1997), 89. AFR, di M. H. Kaplers (2007), 71. Airplane!, di J. Abrahams, D. Zucker e J. Zucker (1980), 107. Alien Abduction – Incident in Lake County, di D. Alioto (1998), 61 nt. 1. A Mighty Wind, di C. Guest (2003), 29, 66, 67 nt. 18, 68, 105 nt. 7. A New Tomorrow, di C. Corr (2007), 69. An Interview with Death, di K. Schreck (2006), 94. Bad News Tour, di S. Johnson (1983), 44 nt. 34. Behind the Laughter (2000), 87 nt. 12. Best in Show, di C. Guest (2000), 29, 72. Bob Roberts, di T. Robbins (1992), 69. Borat - Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan, di L. Charles (2006), 30, 43 nt. 31. Bottomfeeders, di B. Price (2001), 69. Bowling for Columbine, di M. Moore (2002), 17. Cannibal Holocaust, di R. Deodato (1979), 60, 77. CB4, di T. Davis (1993), 25 nt. 9.
Chalk, di M. Akel (2006), 73. Chronicle, di J. Trank (2012), 75. Citizen Kane, di O. Welles (1941), 52-53, 153. Cloverfield, di M. Reeves (2008), 29 nt. 25, 37, 61 nt. 1, 97. Colpo di Stato, di L. Salce (1969), 60. Confetti, di D. Isitt (2006), 29 nt. 25, 72 nt. 30, 99. C.S.A.: The Confederate States of America, di K. Willmot (2004), 40 nt. 24, 71, 75, Curse of the Blair Witch (1999), 135. David Holzman’s Diary, di J. McBride (1967), 26, 44 nt. 33, 50 nt. 25, 56-57, 58 nt. 48, 62 nt. 3, 75, 110, 157 nt. 25. Deconstructing Harry, di W. Allen (1997), 80 nt. 49. Death of a President, di G. Range (2006), 8, 31, 72, 139-147. District 9, di N. Blomkamp (2009), 61 nt. 1. Dont Look Back, di D. A. Pennebaker (1967), 65. Dorm Life (2008-2009), 92 nt. 28. Drop Dead Gorgeous, di M. P. Jann (1999), 73-74. Facebook - A Mockumentary, di J. Gross (2010), 94.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
Fear of a Black Hat, di R. Cundieff (1994), 66. Festival, di B. Leigh e M. R. West (2011), 75 nt. 35. F for Fake, di O. Welles (1973), 53. First on the Moon, di A. Fedorchenko (2005), 71. Flutter: The New Twitter, di A. Bouvè (2009), 94. Forgotten Silver, di C. Botes e P. Jackson (1995), 8, 28 nt. 21, 32, 39, 63, 115-125, 152, 153. Francesco giullare di Dio, di R. Rossellini (1950), 54 nt. 39. Freaks, di T. Browning (1932), 77. Ghostwatch, di L. Manning (1992), 85. Giorni e nuvole, di S. Soldini (2007), 80 nt. 49. Grave Encounters, dei The Vicious Brothers (2010), 79 nt. 47. G-Sale, di R. Nargi (2003), 72. Hard Core Logo, di B. McDonald (1996), 66-68. Heavenly Creatures, di P. Jackson (1994), 115. Husbands and Wives, di W. Allen (1992), 33, 79, 80 nt. 50, 82. I figli di Medea, di A. G. Majano (1959), 49 nt. 22. I Live at Walmart – A Mockumentary (2010), 93 nt. 30. Il mundial dimenticato, di L. Garzella e F. Macelloni (2011), 8, 9, 36 nt. 10, 149-157. Incident at Loch Ness, di Z. Penn (2004), 76. Independence Day, di R. Emmerich (1996), 53. In Smog and Thunder - The Great War of the Californias, di S. Meredith (2003), 61.
Intolerance, di D. W. Griffith (1916), 119. It’s All Gone Pete Tong, di M. Dowse (2004), 63, 99. Konspiration ’58, di J. Löfsted (2002), 70. Join the Flumeride, di T. Persson (1998), 66, 67 nt. 16. Juno, di J. Reitman (2007), 80 nt. 49. La batalla de Chile, di P. Guzman (1974 - 1979), 119 nt. 21. Ladri di biciclette, di V. De Sica (1948), 13. La Sortie des usines Lumière, di A. e L. Lumière (1895), 16. La terra trema, di L. Visconti (1948), 54. Le mani sulla città, di F. Rosi (1963), 13 nt. 5. Le Petit Soldat, di J. Godard (1960), 23. L’era legale, di E. Caria (2011), 60. Le ragioni dell’aragosta, di S. Guzzanti (2007), 60. Love Shack, di G. Sacon e M. B. Silver (2010), 75, 77. Man with a Plan, di J. O’Brien (1996), 69. Marion and Geoff (2000 – 2003), 91 nt. 22. Medusa: Dare to Be Truthful, di J. Brown e J. Fortenberry (1992), 66, 68. Men of Crisis: the Harvey Wallinger Story, di W. Allen (1971), 63 nt. 6. Moana, di R. Flaherty (1926), 15 nt. 12. Modern Family (2009 – ), 91. MTV Cribs: The Guido Edition, di A. LaCroix (2010), 94 nt. 33.
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Indice dei film
MTV True Life: I’m a Ginger (2008), 94 nt. 33. Nanook from the North, di R. Flaherty (1922), 16. Never Been Thawed, di S. Anders (2005), 72. Night of the Leaving Dead, di G. Romero (1968), 77. No Lies, di M. Block (1978), 26. Nothing So Strange, di B. Flemming (2002), 72, 96. Olympia, di L. Riefenstahl (1938), 155. Opération Lune, di W. Karel (2002), 70. Paisà, di R. Rossellini (1946), 54. Paper Heart, di N. Jasenovec (2009), 79, 80 nt. 49, 81. Paranormal Activity, di O. Peli (2007), 32, 79 nt. 46. Paranormal Activity 2, di T. Williams (2010), 79 nt. 47. Pelle viva, di G. Fina (1964), 13 nt. 5. Posh Nosh (2003), 90 nt. 19. Primary, di R. Drew (1960), 56 nt. 43, 70. R2-D2: Beneath the Dome, di D. Bies e S. Susser (2001), 62. Reno 911! (2003 - 2009), 89. Riprendimi, di A. Negri (2008), 60, 80 nt. 49, 81. Roma città aperta, di R. Rossellini (1945), 54. Sciuscià, di V. De Sica (1946), 13. Sidewalks of New York, di E. Burns (2001), 29 nt. 25, 33, 79, 80 nt. 49 e 50, 81. Smallpox 2002 - Silent Weapon, di D. Percival (2002), 71. Special Bulletin, di E. Zwick (1983), 86. Spirit of America (1997), 88 nt. 15.
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Springfield Up (2007), 87 nt. 12, 89. Star Wars, di G. Lucas, 62. Surf’s Up, di A. Brannon e C. Buck (2007), 24, 62. Survival of the Fittest, di K. Ramsey (2003), 94. Sweet and Lowdown, di W. Allen (1999), 63, 64 nt. 11. Take the Money and Run, di W. Allen (1969), 50 nt. 25, 57-58, 64. Tanner ‘88, di R. Altman (1988), 68. The Baby Formula, di A. Reid (2008), 61. The Big Tease, di K. Allen (1999), 72 nt. 30. The Blair Witch Project, di D. Myrick e E. Sánchez (1999), 8, 27 nt. 19, 59, 77-78, 96, 127-137. The Canadian Conspiracy, di R. Boyd (1985), 70. The Comeback (2005), 90 nt. 21. The Day Britain Stopped, di G. Range (2003), 71, 139. The Delicate Art of Parking, di T. Carlson (2003), 73, 75. The Falls, di P. Greenway (1980), 58. The Haunting, di R. Wise (1963), 130. The Hellstrom Chronicle, di E. Spiegel e W. Green (1971), 61. The Last Broadcast, di S. Avalon e L. Weiler (1998), 78, 129 nt. 7. The Last Exorcism, di D. Stamm (2010), 79 nt. 47. The Last Polka, di J. Blanchard (1985), 66. The Last Waltz, di M. Scorsese (1978), 65, 110. The Lovely Bones, di P. Jackson (2009), 118 nt. 16. The Making of…And God Spoke, di A. Borman (1993), 76, 105 nt. 7.
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Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario
The Mystery of Dalarö (2004), 95. The Naked Brothers Band (2007 – 2009), 90. The Office (2001 – 2003), 91, 92. The Rutles – All You Need Is Cash, di E. Idle e G. Weis (1978), 43, 65, 66, 67 nt. 16. These Arms of Mine (2010), 87-88. The Shop Around the Corner, di E. Lubitsch (1940), 13 nt. 3. The Swiss Spaghetti Harvest, di C. de Jaeger (1957), 50-52. The Ten Commandments, di C. B. DeMille (1923), 115 nt. 1, 119. The Toll, di J. Z. Pike (2006), 61. The Tournament (2005 – 2006), 90 nt. 21. They Shoot Movies, Don’t They?... the Making of Mirage, di F. Gallagher (2000), 33 nt. 43, 76. The War Game, di P. Watkins (1965), 27, 29, 55-57, 84, 139. This Is Spinal Tap, di R. Reiner (1984), 8, 24, 40, 58, 66, 68 nt. 19, 103-113.
Trailer Park Boys (2001 – 2008), 90 nt. 21. Unauthorized Biography: MiloDeath of a Supermodel (1997), 84 nt. 6. Vertical Features Remake, di P. Greenway (1978), 58. Waiting For Guffman, di C. Guest (1996), 29. We Can Be Heroes: Finding the Australian of the Year (2005), 91. When Harry Met Sally…, di R. Reiner (1989), 53. When We Were Kings, di L. Gast (1996), 152. Where’s Waldo? – The Documentary (2007), 93 nt. 30. Why We Fight, di F. Capra (1942 1945), 71. You Are There (2001), 87 nt. 13. You’ve Got Mail, di N. Ephron (1998), 13 nt. 3. Zelig, di W. Allen (1983), 24, 30, 32, 39, 40, 43, 52, 57 nt. 47, 58, 62, 63, 64 nt. 11, 156.
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Cinema 1 2 3
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