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Italian Pages 160 [81] Year 2008
VIAGGIO
IN ITALIA
una collana diretta da Fabio Francione
al piccolo Pietro
EDIZIONI
FALSOPIANO
Fabrizio Fogliato
LO VISIONE NEGATA IL CINEMA DI MICHAEL HANEKE
Ringrazio
INDICE Capitolo primo LA VISIONE NEGATA Esercizi crudeli Frammenti dal passato Austria Infelix
Capitolo secondo MICHAEL HANEKE Ritratto di un regista “contro” Spostamenti progressivi del dolore
Capitolo terzo LA TRILOGIA GLACIALE “Guerra civile” minuto per minuto Apartament complex Il limite estremo dell’interazione © Edizioni Falsopiano - 2007 via Baggiolini, 3 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com
Capitolo quarto DER SIEBENTE KONTINENT La strada maestra che conduce alla morte
Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Roberto Dagostini - Falsopiano Stampa: Impressioni Grafiche S.C.S. a r.l. - Acqui Terme Prima edizione - Dicembre 2007
Architettura della solitudine Il logaritmo della follia
Capitolo quinto
Capitolo nono
BENNY’S VIDEO
FUNNY GAMES
Programmato per uccidere
Giocare con il Male
L’ossimoro dello sguardo
La morte ha fatto l’uovo
Transmediatico
Reality horror show
Capitolo sesto
Capitolo decimo
71 FRAGMENTE EINER CHRONOLOGIE DES ZUFALLS
CODE INCONNU-RECIT INCOMPLETE DE DIVERS VOYAGE
Amore e morte nel giardino della quotidianità
Good news: la follia della normalità
Il diavolo probabilmente...
Import/export
Trans-europe-express
XYZ: il codice del nulla
Capitolo settimo
Capitolo undicesimo
DAS SCHLOSS
LA PIANISTE
Partitura incompiuta per un passaggio televisivo
L’occhio del sesso
Il puzzle dell’assurdo
L’immagine Malattia = normalità
Capitolo ottavo
Il sorriso della iena
FUNNY GAMES: L’ARCHETIPO DELLA CRUDELTA’ Capitolo dodicesimo Quando “i clowns” bussano alla tua porta Irreversible
LE TEMPS DE LOUP Ils Profondo nero 9
No man’s land
Capitolo tredicesimo
Capitolo primo
CACHÈ
LA VISIONE NEGATA
Schegge di paura Blow-up Black-out – progressiva fermentazione familiare
Cast and credits
Il tempo in cui l’uomo era un albero senza organi né funzioni, ma di volontà albero di volontà che avanza tornerà. È stato, tornerà. Perché la grande menzogna è stata quella di ridurre l’uomo a un organismo. Ingestione, assimilazione, incubazione, espulsione, creando un ordine di fun zioni latenti che sfuggono al controllo della volontà deliberatrice. La volontà che decide di sé ad ogni istante. Antonin Artaud
Bibliografia
Esercizi crudeli Il cinema di Michael Haneke è fatto di apparenze e suggestioni che nel momento in cui prendono forma sullo schermo vengono immediatamente confutate dalla messa in scena di una realtà rarefatta e immobile, deprivata di emozioni e carica di provocazioni. Ad una prima visione dei suoi film tutto appare artefatto, volutamente asettico, freddo e distaccato, e di conseguenza i corpi dei personaggi che popolano il suo cinema sembrano automi meccanizzati e privi di anima piegati alle esigenze crudeli del regista demiurgo. Tutto ciò è solo apparenza però, perché il principio che sta alla base della poetica di Haneke è quello del “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. Un teatro nato per restituire al palcoscenico una convulsa e coinvolgente concezione di vita con una messa in scena di violento rigore ed estrema condensazione degli elementi scenici che diventano ostacolo al movimento degli attori, attraverso la quale va intesa la crudeltà sulla quale il teatro stesso si fonda. Elementi questi, ampiamente riscontrabili nei film del regista austriaco che da Artaud deriva anche la concezione dei corpi attoriali posizionati su un palcoscenico esistenziale dove il corpo senza organi è quel corpo totale e compatto che non accetta ferite, che non intravede né possibilità né speranza, che non “permea tutte le cose, ma tutte le cose sospinge”, ma che è monolitico e 10
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indivisibile. Provocatoriamente, ma consapevolmente è lo stesso regista austriaco ad affermare: “I miei film sono una forma di consapevole omissione del lato bello della vita”.1 Teorizzando questo punto di vista non si può che considerare, che la volontà di Haneke è quella di scavare nei gangli di una società, quella contemporanea, dove benessere e consumismo apparentemente sono indici di evoluzione e progresso, ma nella realtà dei fatti stanno conducendo l’uomo verso un imbarbarimento involutivo e primordiale. I personaggi del suo cinema sono divisi sostanzialmente in due categorie: vittime colpevolmente inconsapevoli nel rutilante mondo contemporaneo, o automi meccanizzati e talvolta radiocomandati privi di ogni emozione e di intelligenza. Il corpo nel cinema di Haneke è quindi si una rivisitazione delle concezioni artaudiane, ma nello stesso tempo ne prende le distanze per intraprendere una via nuova e sconosciuta. È qualcosa di post-organico e diversamente crudele che deviando dalla compattezza del teatro di Artaud si presenta sgretolato e frammentato. È un immagine metallica e controllata in un soggetto post-umano appesantito e oppresso dal gravame della carne. Il soggetto post-umano è fissato nella sua più consumata disaggregazio ne molecolare, destituito della sua compattezza ed erra indefessamente alla ricerca di una sua reiscrizione soggettivizzante.2 Quest’idea dell’umano è incarnata in personaggi che spesso diventano archetipi e rappresentanti di un orrore della società ampiamente condivisibile, ma che talvolta può risultare indigesto ai palati più fini ed edulcorati. Nel suo cinema c’è qualcosa di Baconiano, sono frammenti che si annidano nelle pieghe di inquadrature rigorose e geometriche, in spazi claustrofobici e agorafobici all’interno dei quali si muovono personaggi falsi e ingannevoli. Come nella pittura di Francis Bacon, Haneke costruisce i suoi “quadri” con rigore geometrico e maniacale divisione dei volumi, entro cui inserisce in una “gabbia” contemporaneamente simmetrica e distorta, figure normali e quotidiane che dietro ad un’esistenza irreprensibile e a un’apparente perbenismo nascondono menzogna e crudeltà.
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Intensamente viventi i personaggi di Bacon lasciano a volte vedere i pro pri denti, pezzetti di scheletro, stalattiti e stalagmiti rocciose che spuntano davanti alla caverna della bocca .. perché, per conoscerla meglio e gustarne tutte le bellezze non si potrebbe esplorare la vita con accanimento senza arri vare a mettere a nudo – almeno a sprazzi – l’orrore che si nasconde dietro i paludamenti più sontuosi.3 Questa concezione falsa e inquietante dell’essere umano vive nel cinema di Michael Haneke sulla dialettica tra angoscia e perturbante. L’angoscia è quella continuamente trasmessa a livello sensoriale dal divenire delle situazioni e dalle azioni compiute dai personaggi. È un’angoscia intesa in senso Sartriano, cioè con un essere che è organizzato nel mondo con una realtà umana intesa da un lato, come continua emergenza “dell’essere nel non-essere” e dall’altro come un mondo sospeso nel nulla. Il nulla è all’origine del giudizio negativo, perché “fonda la negazione come atto, perché è la negazione come essere”.4 In base a ciò la volontà del regista austriaco di “omettere il lato bello della vita” diventa una dichiarazione di intenti, la necessità di fare un cinema rigoroso ed essenziale per fare emergere la malattia e il disagio dell’uomo contemporaneo nel quotidiano, costruendo un “nulla” dove l’unica certezza possibile è quella di una realtà mistificata attraverso la manipolazione delle immagini. Il perturbante invece è ciò che Freud definisce come “quell’emozione risultante dalla trasformazione impercettibile di ciò che è familiare in qualcosa di sinistro”. Questa condizione nel cinema di Haneke è un basso continuo che attraversa tutte le sue opere e trova la sua compiutezza nei luoghi, negli spazi e nei microcosmi descritti e raccontati nei suoi film, dove da situazioni iniziali di calma apparente, attraverso rarefatti movimenti di macchina e progressivi spostamenti della tensione, il regista guida lo spettatore in esperienze da incubo che via via assumono forme sempre più crudeli e asettiche. Egli è fautore di un cinema che si rifiuta di dare risposte ma che pone continuamente domande. La sua è una “visione negata” perché non ottimizza mai il rapporto con lo spettatore ma anzi lo negativizza coinvolgendolo in un esercizio crudele e sadomasochistico, dove i ruoli di “servo” e “padrone” sono continuamente invertiti. La sua è un’arte della visione “altra”, riconducibile all’esperienza di Aldous Huxley, basata sul principio: sensazione + selezione + percezione = visione. Quando noi vediamo, la nostra mente entra in rapporto con gli eventi del mondo esterno per mezzo degli occhi e del sistema nervoso. Nel processo 13
della visione, mente, occhi e sistema nervoso sono strettamente associati in un tutto unico. Influenzando uno di questi elementi si influenzano tutti gli altri.5 Anche Haneke coinvolge, attraverso il suo cinema, questi tre elementi agendo continuamente sulla mente attraverso una messa in scena interattiva che pone lo spettatore in uno stato di continua tensione psichica ed emotiva. È un sadico inteso nel suo valore più alto, cioè quello impersonale che identifica la violenza psicologica con un’idea della ragione pura, con una dimostrazione terribile in grado di subordinare a sé l’altro elemento. Manipola cioè a proprio piacere lo spettatore così come racconta che i media manipolano la realtà, al fine di portare ogni persona che si pone davanti alla visione di un suo film ad una reazione estrema: di amore incommensurato o di odio viscerale. È un provocatore per vocazione e intelligenza, che non teorizza ma che conosce molto bene la psicologia umana e di conseguenza sa come urtare la sensibilità dello spettatore per mettere a nudo al sua ipocrisia. Nell’unico suo film dichiaratamente a tesi, Funny Games (id. 1997), gioca continuamente a rimpiattino con la crudeltà solleticando nello spettatore gli istinti più bassi e portandolo incredibilmente ad abbracciare “il Male” attraverso un sottile e impercettibile gioco di specchi in una messa in scena teatrale che è l’archetipo della crudeltà artaudiana. “Come autore ho l’obbligo di prendere sul serio i problemi delle figure che sto cercando di descrivere. È ciò che intendo quando parlo di amare i propri personaggi. Certo che non amo Paul in Funny Games ma come auto re devo cercare di farlo agire il più brillantemente possibile”.6 L’intenzione di Michael Haneke è quella di abituare lo spettatore ad un nuovo modo di interpretazione fino a portarlo a sfondare i suoi limiti e a costringerlo comunque ad una reazione. Secondo il cineasta austriaco lo spettatore va al cinema e paga il biglietto per assistere deliberatamente ad una menzogna, per poter dimenticare la propria vita almeno per un paio d’ore. Su questo presupposto Haneke agisce invece in maniera simmetricamente opposta con il fine di condurre lo spettatore alla presa di coscienza che la realtà quotidiana è perennemente controllata e costantemente deformata dai media. Teoria questa applicata alla sua opera attraverso la fissità della macchina da presa e con la lunghezza esasperante di alcune inquadrature, oltre ad un utilizzo del nero come spazio mentale di elaborazione testuale del significato. In controtendenza rispetto a gran parte del cinema contemporaneo, in Haneke 14
l’utilizzo del montaggio è rarefatto e quasi impercettibile al fine di manipolare il meno possibile la narrazione. “Le sequenze lunghe e ferme non manipolano almeno per quanto riguar da il fattore temporale. Il montaggio invece tende ad abbreviare o a prolun gare; per questo scelgo la forma che manipola il meno possibile e che tra smette allo spettatore l’illusione di un realismo quasi documentario”.7 È quindi, quello del cineasta austriaco un cinema che agisce sul doppio binario del piacere e del dolore con la tendenza dichiarata e programmatica di spingersi Freudianamente “al di là del principio del piacere”: Perché se tale dominio esistesse quasi tutti i nostri processi psichici dovrebbero accompagnarsi al piacere o portare al piacere, conclusione inve ce smentita dalla generale esperienza.8 Partendo da questa consapevolezza Haneke costruisce, attraverso il suo cinema l’intelaiatura di una società che in maniera irresponsabile e fallimentare è tesa verso la conquista di un piacere momentaneo ed è costantemente sospesa in uno spazio-altro inesistente, ma enucleato e parcellizzato dal continuo bombardamento di immagini false che producono stereotipi standardizzati e banalizzati di una possibile, ma irraggiungibile, esistenza. Le componenti sociologiche, psicanalitiche, sadiche e crudeli del suo cinema sono il compendio necessario per poter porre lo spettatore di fronte ad uno specchio dove egli non si vuole riconoscere. Uno specchio incrinato dalla spasmodica ricerca dell’effimero e dove non esiste più differenza tra realtà e finzione tanto che i due piani sono inesorabilmente destinati a confondersi spiazzando e irritando continuamente chi guarda. Per tutti questi motivi quello del cineasta austriaco è un cinema destinato a dividere sempre e comunque e che pone l’incauto fruitore di fronte ad una visione pericolosa e traumatica. È un esercizio crudele che lascia allo spettatore un’unica alternativa: prendere o lasciare. Frammenti dal passato Un regista come Michael Haneke, con una poetica talmente radicale e rigorosa da sfiorare la patologia, porta con se in realtà la dote di tre grandi maestri: Robert Bresson, Alfred Hitchcock e Pier Paolo Pasolini. Se dai primi 15
due prende sicuramente la perfezione della messa in scena e l’eleganza formale, e dal poeta-regista italiano che viene più influenzato nella rappresentazione dell’estetica e della violenza. “L’unico che, a mio avviso, è riuscito a rappresentare la violenza in maniera responsabile, è stato Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodomia. Lì la violenza era quello che è e questa violenza non si può consumare, a meno che non si abbia qualche serio problema. Se ci si sente responsabili per il film come opera d’arte questa è l’unica possibilità. Se, invece, il cinema è, per definizione, merce, allora è giustificato qualsiasi cinismo e tutto può essere rappresentato, tutto è legittimo e diventa solo una questione di bravu ra tecnica. Ma questa è una posizione con la quale non mi voglio neanche confrontare, perché la trovo fatale”.9 Come Pasolini quindi, anche Haneke rifiuta dichiaratamente l’uso consumistico della violenza nel cinema. Egli non vuole confrontarsi con un discorso estetico e plastico della rappresentazione della violenza, ma raccontarla semplicemente per quello che è: un istinto primordiale che provocatoriamente, nel suo cinema, assume con malcelato sadismo un aspetto ludico e/o metaforico. Nel cinema di Haneke anche le immagini più banali possono assumere da un momento all’altro risvolti sinistri ed esplodere in atti di violenza messi in scena con freddezza e distacco e realizzati con la cura di un entomologo. L’occhio di Haneke osserva, viviseziona e trasferisce nel fuori campo l’atto di violenza che attraverso questo espediente assume connotati estremi e talvolta insostenibili. Il regista porta quindi lo spettatore ad essere cosciente di quel che è successo: ne vede le cause, sente il dolore ma gli è stato impedito di vedere l’azione violenta… e questo per lo spettatore moderno è veramente qualcosa di inconcepibile. Secondo il cineasta austriaco, la nostra società è messa in pericolo dall’accumulo di immagini violente e deprivate di contesto e di realtà, che vengono presentate dal cinema e dalla televisione senza una scala di valori che permetta loro di poter essere selezionate e percepite per quello che sono. Così, riconducendosi a Pasolini anche Haneke è convinto che la realtà innocente del corpo è violata, manipolata, manomessa dalla forza inarrestabile del consumismo e che anzi la violenza sui corpi, diventati merce è il dato più macroscopico della società contemporanea.
e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia”.10 Haneke racconta quindi, la banalità del quotidiano attraverso l’orrore di una violenza ghignante senza più codici ne dialettica, utilizzando personaggi/archetipi così come faceva Robert Bresson. Come il regista francese, a cui Haneke qualche anno fa ha anche dedicato un saggio, sa scorgere le caratteristiche dell’organizzazione poetica dell’esistenza oltrepassando i limiti di una logica rettilinea per esprimere la complessità stratificata dei legami umani e la verità della vita. Lo fa attraverso la negazione, e cioè l’omissione della felicità, al fine di fare emergere lo sguardo di personaggi la cui malvagità ha qualcosa di gratuito e di necessario allo stesso tempo, come se fossero inclini e costretti al Male senza averne coscienza. Esaurita l’apologia, ma non la ricognizione, dell’inferiorità antagonisti ca, l’occhio del regista si posa sul mondo, e sulla trasparenza di negatività e di orrore che ne promana. La negazione non assume più la forma dell’azio ne, del gesto del comportamento ma si trasmette tutta e soltanto allo sguar do…11 La “visione negata” di Haneke è quindi riconducibile ad un’astrazione necessaria per poter distogliere il reale dalla matassa inestricabile della finzione e della menzogna e ciò può avvenire solo attraverso lo sguardo. Sguardo che, come in Bresson si risolve nella fissità dell’immagine che porta con se un ritmo nascosto. Ciò è esplicitato nella estrema essenzialità delle inquadrature all’interno delle quali il rapporto spazio-tempo crea una pressione ritmica che non rende necessario l’utilizzo del montaggio. In questa direzione si spiega anche l’utilizzo diegetico che Haneke fa della colonna sonora, perché egli come Tarkowskij è convinto che: “Il mondo risuona in maniera tanto meravigliosa di per se che, se impa rassimo ad ascoltarlo nella maniera dovuta, la musica non sarebbe affatto necessaria al cinema”.12
“Le vite sessuali private hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore
Questa essenzialità bressoniana legata alla sequenzialità delle immagini costruisce una sensazione in divenire di tensione costante mutuata direttamente dalla poetica di Alfred Hitchcock. C’è nel cinema di Haneke una perenne sensazione di minaccia imminente che incombe sull’uomo che da un lato è cosciente che il primo significato dell’esistenza è quello di combattere il male che è dentro di sé, ma dall’altro è consapevole della sua inclinazione verso la malvagità che lo conduce ad
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una degradazione spirituale. Questa ambigua minaccia assume toni hitchcockiani attraverso l’uso inconsueto della suspance, che nel caso di Haneke non dilata mai i tempi dell’azione, ma amplia le attese e a volte perfino gli spazi all’interno di una sola inquadratura. Azioni banali e apparentemente insignificanti assumono nel contesto della narrazione impensabili aspetti di minaccia pronta a scaricarsi improvvisamente su uno o più personaggi o destinata a crescere spasmodicamente per poi restare cinicamente inevasa. Si può quindi dire che la poetica di Michael Haneke ha si dei padri nobilissimi, ma da essi prende contemporaneamente le distanze per frammentarsi in una serie di spunti riveduti e corretti e più spesso piegati alle proprie esigenze narrative. La sottile intelligenza di Haneke sta infatti nella sua capacità di costruire una messa in scena perturbante, in apparenza semplice ed essenziale ma che in realtà è assai complessa e stratificata, e in cui le cose non dette e non esplicitate sono il vero corpo sommerso del suo iceberg cinematografico.
L’immagine idilliaca dell’Austria, con le sue splendide montagne innevate e l’incantevole paesaggio alpino, nasconde dietro di se un passato represso che più volte è stato preso come punto di partenza per una critica violenta alla società da parte di scrittori autoctoni come Thomas Bernard e Elfriede Jelinek. Haneke come regista si è in un primo tempo inserito in questa linea di pensiero continuando il lavoro sia di illustri predecessori del cinema muto quali Erich Von Stroehim e Joseph Von Sternberg, sia di famosi documentaristi quali Ulrich Seidl. Recentemente il giornale tedesco Frankfürter Allgemeine si è spinto addirittura a parlare di una renaissance cinematografica austriaca in considerazione dei premi conferiti da vari festival cinematografici ad opere come Hundstage (Canicola, 2001) di Ulrich Seidl, Lovely Rita (id., 2002) di Jessica Hausner e Die Klavierspielerin (La pianista, 2001) di Michael Haneke. Inoltre, a questi film di alto profilo vanno aggiunte una serie di opere minori che in patria hanno sbaragliato i botteghini con incassi superiori ad ogni aspettativa; tra questi, degni di nota sono l’interessante commedia grottesca Der Uberfall (La rapina, 2000) e il giallo caratterizzato dal più tipico milieu viennese Komm, Süßer Tod (Vieni, dolce morte, 2000). Tutti questi film, che fanno da corollario all’opera di Michael Haneke, indiscusso leader artistico, raccontano un “Austria Infelix” fatta di brutture, di
degrado, di solitudine e violenza, lontana parente dell’immagine da cartolina raccontata nei film dell’imperatrice Sissi, tanto cara agli abitanti della terra di Mozart. Per capire quindi, questo nuovo cinema austriaco, ma anche l’immagine sconcertante di questo paese che ci viene fornita da una pellicola come Canicola, bisogna tornare indietro nel tempo e ripercorrere la storia. L’impero austro-ungarico era immenso e culturalmente molto attivo ad inizio secolo, ma dopo la prima guerra mondiale non restò più niente di questo antico splendore che era perfino in grado di mettere Vienna in competizione con Parigi. L’Austria svuotata della sua popolazione e amputata dei suoi territori, continua però a vivere con l’idea dell’impero e una struttura sociale da anciènne regime: clero, nobiltà, stato. Nasce allora nella popolazione un insopportabile senso di frustrazione che la porta ineluttabilmente ad abbracciare la Nazionalpolitik di Adolf Hitler. Con Hitler l’Austria si illude di tornare a essere la grande potenza che era stata, poiché con l’anschluss diventa parte del grande impero tedesco, e per il popolo austriaco avere un loro concittadino (Hitler era originario di Braunau) a capo del Terzo Reich, è motivo di orgoglio da grande potenza. Nel 1938, quando Hitler tornò in Austria venne acclamato da una folla immensa: uomini, donne e giovani ebrei furono costretti a pulire i marciapiedi con degli spazzolini da denti per accogliere il Führer. Alcune foto lo testimoniano. Questa infatuazione incondizionata per Hitler si spiega col fatto che fa emergere negli austriaci ciò che diventa l’animo umano quando viene lasciato libero dopo secoli di addomesticamento. Dopo il trauma della seconda guerra mondiale, nel 1955 l’Austria viene dichiarata “vittima di guerra” il che è un’enorme menzogna fatta passare dagli alleati. Tutto ciò ha portato gli austriaci a non porsi mai il problema delle loro colpe, tanto che i vecchi nazisti hanno tranquillamente continuato a fare la loro vita e a lavorare in patria. In questo contestoipocrita e in un’atmosfera che si fa sempre più irrespirabile, nasce in Austria un movimento artistico estremo di cui Haneke non può non aver tenuto conto durante la sua formazione: la Vienna direct art. Gli Azionisti (questo è il nome degli autori di questa avanguardia estrema), Hermann Nitsch, Otto Muehl, Günter Brüs… sono i protagonisti di performances, realizzate a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, dove il corpo è lo scenario dell’azione. Si tratta di messe in scena estremamente crude e destabilizzanti (incluse la rappresentazione esplicita di atti sessuali e il reciproco cospargersi di fluidi corporei) che hanno l’obiettivo di rivolgere un violento attacco estetico ai tabù autoritari e mostrare la valenza liberatoria della natura degli istinti.
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Austria infelix
“La distruzione è la premessa stessa di qualsiasi costruzione. La libertà dell’arte si afferma attraversala distruzione delle barriere intellettuali, morali e sociali che impediscono questa libertà. Per poter creare bisogna prima di tutto distruggere”.13 Queste esperienze scioccanti, violente e brutali, sono il sintomo di un forte attacco ad una società, quella austriaca, implosa e narcisa che continua a specchiarsi in un passato ormai inesorabilmente tramontato e che vive in una incomunicabilità in continua espansione, trasversale a tutte le classi sociali e dalla quale lo stesso Michael Haneke non rimane immune. “L’incapacità di comunicare è un’esperienza centrale della mia vita, sia professionalmente che personalmente. Credo che l’incomunicabilità sia una delle esperienze più formative dell’uomo moderno. (…) L’esperienza della freddezza, del non-amore, l’incapacità di comunicare sono immagini forma tive, indelebili e molto forti”. 14 Haneke quindi, riesce a far tesoro degli aspetti più negativi del mondo contemporaneo e anzi a valorizzarli come elementi formativi: cosa questa peraltro molto presente nel suo cinema e che fonda le sue origini ancora una volta nella storia di un paese che a ben guardare è molto diversa da ciò che crediamo. All’inizio degli anni ’80 in Austria resiste la Grosse Koalition tra Partito Socialdemocratico e Partito Cristiano Sociale Popolare, che nel corso del decennio porta al raggiungimento di un elevato standard di vita, ma anche ad un disinvestimento della popolazione nell’interesse politico e ad un atteggiamento di totale delega verso le istituzioni. Negli anni ’90 però la situazione cambia drammaticamente sia in Austria che in Europa. Con la caduta del socialismo reale, il capitalismo acquista nuovo vigore e si spinge verso il neoliberismo con proposte di “ammodernamento” dello stato sociale e tante privatizzazioni. Con l’entrata nell’Europa il governo austriaco ha condotto una politica antisociale e antipopolare tagliando settanta miliardi di scellini dagli aiuti sociali e determinando contemporaneamente una riduzione sostanziale dei lavoratori dipendenti. In questo contesto di sbandamento socio-politico si inserisce la figura sinistra di Jörg Haider. Nato a Bad Goisern nel 1950 da una famiglia pesantemente collusa con il nazismo, Haider diviene leader, sin da giovane sul finire degli anni ‘70, del movimento liberale FPÖ (Partito Liberale Austriaco) nella sezione della Carinzia. Grazie al suo carisma nel 20
1986 ne diviene segretario nazionale e abbandona il capitalismo per una sorta di populismo nazionalista che lo porta alle politiche del 1999 ad ottenere quasi il 30% dei voti. Sale quindi al governo dell’Austria stringendo alleanza tra il suo FPÖ e i popolari del ÖVP, con un accordo contestatissimo dall’Unione Europea e rimasto in vigore fino al 2002, quando Haider ritira la fiducia al governo guidato dal popolare Wolfgang Schüssel; atto, questo, che segna l’inizio della sua parabola discendente. Questa figura di leader populista e xenofobo, che porta con sé il culto delle “piccole patrie” che odia gli intellettuali e che si presenta come se fosse un maestro di sci è l’archetipo del fascista contemporaneo europeo, frutto del crollo delle ideologie e sintesi di un vuoto politico che non è solo austriaco. Non è quindi una figura marginale come si potrebbe pensare tanto che la stessa Elfriede Jelinek gli ha dedicato un caustico ritratto nel monologo L’Addio, la giornata di delirio di un leader populista, e che lo stesso Michael Haneke ha più volte sintetizzato nei caratteri di alcuni protagonisti dei suoi film. “I miei film sono stati commentati spesso dal partito di Haider, ma io lo considero come un complimento, non mi disturba. Intorno al mio ultimo film scatteranno sicuramente tante discussioni e polemiche, anche perché la FPÖ non perderà l’opportunità di scagliarsi nuovamente contro l’autrice Elfriede Jelinek”.15 Il suo cinema glaciale quindi, affonda le radici nella storia di un paese che ancora oggi non sembra riconoscersi per quello che è e che inconsapevolmente si sta dirigendo verso un primitivismo dei sentimenti e un individualismo becero e ottuso. Questo è frutto di anni di repressioni, ipocrisie, e finte illusioni e rappresenta il delirio di una nazione, centro di un Europa che a poco a poco si sta lasciando contagiare dallo stesso male. “Cerco di non legare i miei film a luoghi geografici particolari. Cerco di dar loro una significatività a prescindere dal posto in cui vengono visti”.16 Questa dichiarazione rilasciata da Michael Haneke al festival di Cannes nel 1989 è la risposta ad una giornalista che gli domandava dopo aver visto il film Der Siebente Kontinen (Il Settimo continente, 1989): “Ma l’Austria è davvero così orribile?”. Il regista è quindi consapevole che l’orrore non è esclusivo del suo paese ma è qualcosa di serpeggiante in tutto il continente. Analizzando il suo percorso artistico è più che evidente la volontà del regista di rendere irriconoscibili le location dei suoi film. Linz, Vienna, Parigi… 21
sono nel cinema di Haneke città anonime e mai caratterizzate, luoghi universali che rappresentano il tentativo di raccontare un continente privo di identità e che non si riconosce in valori comuni ma che si vuole ostinatamente considerare unito. Quella descritta dal regista austriaco è un’ Europa da incubo, assimilabile a quella raccontata da Eli Roth nell’incompreso e sottovalutato Hostel (id., 2005). In questo film il giovane regista amErikano costruisce un continente-lagër dove “puoi pagare per fare qualunque cosa”:questo è ciò che fanno annoiati e boriosi manager o falliti e frustrati commercianti, che pagano ingenti somme di denaro per torturare e uccidere giovani vittime. I carnefici però sono solo l’ultimo anello di una catena composta da ambigui gestori di ostelli, giovani e disinibite ragazze dell’est, e apparentemente innocui viaggiatori, che sono invece il veicolo”fantasma” che conduce gli ignari e ingenui stranieri verso una morte orribile. Nell’Europa di Hostel le ragazze concedono sesso e morte contemporaneamente e i bambini uccidono per una gomma amErikana. Il film di Roth quindi, non è altro che un’esplicitazione dell’orrore contemporaneo, lo stesso che Haneke preferisce mantenere implicito. Entrambe i registi raccontano un’Europa senza speranza né per i carnefici, né per le vittime: lo fanno senza dare risposte, ma lasciando allo spettatore il compito ingrato di affrontare il valore politico delle loro opere, altrimenti sospeso in un’inquietante ambiguità. L’Europa per Haneke è un calderone di etnie non integrate, di persone che non vivono ma che compiono azioni, ed è un posto dove le immagini hanno più potere delle parole e dove la comunicazione è un “codice sconosciuto”. L’Europa è figlia della sua storia che in un secolo l’ha portata dall’anciènne regime all’Unione Europea ma che non ha mai mutato il proprio conservatorismo e che vive sospesa in una “permanenza del possibile” che è destinata a rimanere tale. Questo disincanto del regista austriaco è figlio della rabbia degli Azionisti viennesi che distruggevano per ricreare, illudendosi di destabilizzare uno status quo inossidabile. Haneke sostituisce all’evidenza provocatoria dello shock degli azionisti un cinema glaciale e definitivo che cerca di frantumare i tabù del mondo contemporaneo come il culto del denaro e il politically correct, attraverso una visione-off radicale, che costringe comunque lo spettatore a ragionare sul proprio vissuto e sulle proprie scelte, ma che vuole spingersi ambiziosamente a porre domande e a riportare in luce questioni represse e/o dimenticate della storia recente. Da Der Siebente Kontinent (Il Settimo Continente, 1989), fino all’ultimo Caché (Niente da nascondere, 2005), c’è un lungo filo rosso legato a doppio nodo con un passato mai riconciliato e con una storia forzatamente rimossa che è pronta a saltar fuori all’improvviso con il suo carico di orrore per destabilizzare tranquille famiglie apparen-
temente indifese, chiuse in moderne abitazioni hi-tech, inconsapevoli che un giorno qualunque la storia può suonare alla porta e chiedere loro conto di colpe commesse da altri. Haneke in definitiva è autore di un cinema moderno che racconta realtà contemporanee che sono le conseguenze di un passato storico che appartiene a tutti ma che nessuno si sogna mai di analizzare per cercarne la verità.
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Capitolo secondo MICHAEL HANEKE La negazione è l’unica forma d’arte che si possa prendere sul serio Michael Haneke
Ritratto di un regista “contro” La carriera di Michael Haneke si può ricondurre ad un percorso di ricerca e innovazione continua, inevitabilmente teso ad un orientamento cinematografico. In Austria i mezzi principali di sperimentazione sono il teatro e la televisione. Questi due “opponenti” per storia e tradizione sono il veicolo più fruibile per i giovani che si vogliono avvicinare all’arte della rappresentazione. La maggior parte dei registi, ma anche dei tecnici austriaci, impara il mestiere lavorando per la televisione, da quella nazionale ai piccoli canali regionali dove spesso si cimentano nell’allestimento di spettacoli teatrali e dove nella maggior parte dei casi vi rimangono imprigionati dal punto di vista lavorativo. Molto di rado capita che il riconoscimento culturale di un regista passi da uno di questi due mezzi a quello cinematografico. Il cinema austriaco paradossalmente vive, per motivi economici ma anche di opportunità, all’ombra di quello che ovunque e quasi sempre, è considerato il “figlio di un Dio minore”: la televisione. Partendo da questi presupposti Michael Haneke può essere quindi considerato un regista “contro” non solo per il suo modo di fare cinema, ma anche per il suo percorso culturale e di formazione. Nasce il 23 Marzo 1942, quando per motivi di lavoro i genitori si trovano a Bad Gastein e l’ospedale più vicino è quello di Monaco di Baviera. Il padre Fritz Haneke è figlio di un commerciante di Düsseldorf e lavora prevalentemente e limitatamente in Germania. Sin da giovane intraprende la carriera di attore che lo accompagnerà per tutta la vita, accanto a quella di regista teatrale. Sposa in seconde nozze Beatrix Von Dagenschild, futura mamma di Michael Haneke. 24
Beatrix ha origini nobili ed è anche lei attrice presso il Burgtheater di Vienna. Il mestiere e l’esperienza di vita di questi genitori marchiano indelebilmente la volontà e le scelte del piccolo Haneke, che volente o nolente si trova spesso e inconsapevolmente in contatto con famiglie e personalità austriache di alto livello. Sin da piccolo Haneke si trova a contatto con personaggi illustri passati e futuri della scena artistica Viennese. Ha solo tre anni quando incontra a Salisburgo una sua coetanea dal luminoso avvenire: l’incontro con Romy Schneider avviene grazie all’amicizia tra le due madri e alle frequentazioni familiari del più alto milieu viennese. Nel 1946 il giovane Haneke si trasferisce a Wiener Neustadt, in campagna dove frequenta il liceo tra non poche difficoltà, portandolo a termine in ritardo soltanto nel 1962. In questo lungo periodo viene praticamente cresciuto dalla zia che lo ospita, poiché la madre va a trovarlo soltanto la domenica. L’immersione totale in un mondo artistico a 360° non può che contagiarlo, e così mentre frequenta la scuola, va di nascosto a Vienna per studiare pianoforte ma vede naufragare il suo desiderio di diventare pianista a causa della sua mancanza di talento. “Da giovane ero molto interessato alla musica e alla letteratura. Volevo infatti diventare un pianista, però mi sono reso conto che non possedevo suf ficiente talento e allora mi sono buttato sulla letteratura con la ferma inten zione di diventare scrittore”17 A diciassette anni si reca quindi a Vienna per dare l’esame di ammissione al Reinhardt-Seminar (Accademia d’arte drammatica di Vienna), ma viene respinto. Naufragata anche l’ipotesi di intraprendere una carriera d’attore si iscrive all’università alla facoltà di Filosofia e scienze teatrali. Questo è il periodo più fertile per la sua formazione che comincia a delinearsi in due ambiti distinti ma complementari: la scrittura e il cinema. La prima gli offre la possibilità di dare corpo alle influenze di D. H. Lawrence e Lawrence Durrel che lo appassionano in quegli anni e che ispirano il racconto Persephone che viene anche premiato alle Jugend kulturtagen (giornate culturali della gioventù). Il secondo invece, rimane un desiderio e un obiettivo alimentato da una impulsiva cinefilia che lo porta per alcuni anni ad andare al cinema anche tre o quattro volte al giorno. A questo periodo di immersione totale nell’arte ne segue uno nettamente contrapposto dove le necessità e le responsabilità familiari prendono decisamente il sopravvento.
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“Poi mi sono sposato, mia moglie aspettava un bambino e perciò sono stato costretto ad accettare i lavori più diversi: in una fabbrica di pentole, alla posta ecc. Era come cambiare mondo, lì non si parlava affatto di cine ma e letteratura; e io non avevo più tempo per dedicarmi ad esse. Ho cerca to poi di lavorare per una casa editrice. Ho dato ad Hans Weigel dei testi che avevo scritto perché li passasse alla Residenz di Salisburgo”.18 In questo periodo di difficoltà anche economiche, Haneke scrive la sua prima sceneggiatura: Wochenende (Weekend) che racchiude dentro di se l’embrione delle tesi enunciate nel futuro Funny Games. Ottiene 300.000 marchi di sovvenzione per la realizzazione del film ma non riesce a portare a termine il progetto per mancanza di conoscenze in ambito cinematografico e deve quindi restituire i soldi. È il 1967 e ad Haneke, che nel frattempo scrive recensioni cinematografiche e letterarie, viene offerto un posto al canale televisivo Südwestfunk di Baden-Baden. Qui realizza alcune trasmissioni radiofoniche sugli allestimenti teatrali che gli valgono una scrittura come drammaturgo televisivo. I tempi sono maturi ormai per l’agognato salto alla regia: prima teatrale e poi passando attraverso la televisione, verso quella cinematografica. È il 1971, Haneke lascia il posto alla Südwestfunk per dirigere l’allestimento di Giorni interi tra gli alberi di Margherite Duras, allo Stadttheater di Baden-Baden. A questo primo lavoro ne seguono altri in Austria, e poi in Germania a Berlino e ad Amburgo dove mette in scena La notte delle lesbiche di Enquist. L’esperienza della regia teatrale consolida le conoscenza letterarie e gli permette di acquisire la necessaria sicurezza per controllare la messa in scena oltre a fortificare le sue capacità relazionali bypassando la sua timidezza. Questi sono piccoli passaggi che preparano il suo futuro dove vedrà realizzati i suoi desideri e le sue aspettative. L’anno della svolta definitiva è il 1974. Haneke ha 32 anni e raggiunge il primo obiettivo per il grande salto verso il cinema: la regia televisiva. È ancora la Südwestfunk, cui è sempre rimasto legato, ad offrirgli l’opportunità di dirigere il film per la televisione Und was kommt dannach (After Liverpool); un film grezzo e “povero” dove prevalgono le inquadrature fisse e un impianto fortemente teatrale. Haneke continuerà a lavorare per una quindicina d’anni per la televisione con lavori come: Lemminge (Lemming, 1979), Variation (Variazione, 1983) e Fraülein – Ein deutches Melodram (Ragazza - Un melodramma tedesco, 1986 ). “Quando ho iniziato a fare cinema sono stato costretto ad abbandonare 26
l’attività teatrale soprattutto per mancanza di tempo. Ma alla fine è stato sempre il cinema che mi ha dato più soddisfazioni, perché mi ha permesso di realizzare le mie idee e di avere il controllo totale sui miei progetti. In teatro invece la regia è maggiormente condizionata dalla capacità degli attori, e dalla necessità di controllarli. La mia forza consiste nell’inventarmi qualco sa e trasmetterlo, sia alla gente che lavora con me, si agli spettatori che vanno a vedere i miei film”. 19 Arriva quindi il 1989, Michael Haneke esordisce nel cinema a 47 anni e fa subito rumore. Il suo Der Siebente Köntinent (Il Settimo Continente, 1989) spiazza contemporaneamente critica e pubblico e getta le basi provocatorie e destabilizzanti per il suo cinema a venire. Un cinema d’arte che fa della “negazione” il suo asso portante e dell’”opposizione” alla regola alla sua linfa vitale. Spostamenti progressivi del dolore
La scelta è o mente che desidera o desiderio che ragiona e tale principio attivo è l’uomo Aristotele Il senso dell’immagine nel cinema di Michael Haneke è un concetto estremamente dinamico che si regge su un equilibrio instabile fatto di percezioni e piccoli e invisibili spostamenti dello sguardo. L’occhio del cineasta vive attraverso un punto di osservazione “esterno” alla situazione narrata, in una posizione strategica in grado di mettere in scacco lo spettatore e le sue consolidate certezze. Haneke si interroga continuamente sul possibile disagio che si crea nell’uomo quando viene posto di fronte al dolore degli altri. Il fluire interminabile di immagini che avvolge la vita dell’uomo contemporaneo ottunde la percezione e annulla il senso critico delle singole persone che sotto l’incessante bombardamento di pixel televisivi vivono in una realtà aliena e virtuale. In questo, il pensiero del regista austriaco coincide esattamente con quello della sociologa Susan Sontag che in un suo saggio sulla fotografia e sulle immagini di guerra sostiene che: 27
Possiamo anche sentirci obbligati a guardare fotografie che documenta no grandi crimini e crudeltà. Ma dovremmo sentirci altrettanto obbligati a riflettere su quel che significa guardarle, sulla capacità di assimilare real mente ciò che esse mostrano. Non tutte le reazioni provocate da tali immagi ni sono controllate dalla ragione e dalla coscienza.20 La perdita del controllo sulle immagini è quindi l’elemento cardine attorno a cui ruota l’atteggiamento dell’uomo verso di esse. Se da un lato prevale l’assuefazione ad aver ormai già “visto tutto”, dall’altro il fermare lo sguardo, e quindi la macchina da presa, sull’orrore e sui tabù della società, provoca irritazione e sdegno in chi guarda, a causa del senso di colpa “incosciente” che vive dentro ogni spettatore. Questa oppressione indotta dalla colpa si concretizza in una claustrofobia onnipresente nel cinema di Michael Haneke. Paure e ansie alimentano una sindrome da accerchiamento generata dal restringimento delle storie e dal confinamento dei personaggi in spazi asfittici e soffocanti, vittime di nevrosi o stati d’animo indotti da situazioni di chiusura impreviste. Il mondo quotidiano, le abitazioni, gli uffici, e quindi gli spazi dove “si vive” sono privi di qualità emozionale: le pareti sono scarne, l’arredamento spesso segue geometrie pre-definite, i colori freddi e le “vie di fuga” spesso non esistono, tanto da suscitare una situazione di ingabbiamento che inevitabilmente genera nei personaggi emozioni negative e stati di depressione. La figura a cui spesso rimanda il cinema di Haneke è quella della tana, della caverna, e quindi del rifugio primordiale, cioè di un luogo facilmente difendibile e controllabile finché le sue dimensioni non oltrepassano un certo limite. Sono spazi entro i quali esplode una violenza insensata e assurda e dove paradossalmente, ma perfettamente in linea con le ansie di sicurezza e il vivere odierno, il pericolo non viene dall’esterno, ma da un interno sempre più familiare e intimo. Ecco quindi che l’indice di imbarbarimento dell’uomo contemporaneo, secondo Haneke, si manifesta nella necessaria esiguità di spazi su cui esercitare un maniacale controllo che diventa però inutile quando la tragedia e il dolore sfondano gli argini dell’emotività e deflagrano sulla scena in tutto il loro criptico orrore. L’emersione della violenza nella situazione-trappola dipende in gran parte dal disagio per il mancato rispetto della nostra bolla personale, cioè lo “spazio nostro” da non invadere attorno a noi.21 Diventa quindi fondamentale nella costruzione dell’immagine hanekiana 28
la condizione del rapporto uomo-ambiente dove il corpo-unico dell’individuo si trova in contrapposizione ontologica con il corpo-multiplo della società, ma dove non trovando vie di scampo per evadere e fuggire dall’orrore quotidiano, sceglie la regressione barbarica e la discesa verso una relazione primitiva con le persone, gli spazi e gli oggetti. Haneke che individua nella manipolazione dell’immagine e nell’impossibilità umana di contenere il dolore l’origine scatenante di questo ritorno al primitivismo, e che ha una visione apocalittica delle conseguenze possibili, costruisce le sue immagini attorno a due soli elementi: il tempo e il nero. Il tempo dilatato delle inquadrature del regista austriaco ha uno scopo ben preciso: quello di portare lo spettatore a osservare la scena e non semplicemente a vederla. C’è la volontà di spingere il pubblico ad una visione “attiva” scevra di effetti e/o sovrastrutture, che attraverso gli occhi attiva il cervello e si connette al sistema nervoso. Paradossalmente questo avviene nel cinema di Haneke attraverso la rappresentazione della negatività insita nell’uomo, che a differenza di quanto accadeva invece per Bresson, non sfocia mai in una redenzione, bensì approda quasi sempre a d una tragedia e a uno stato delle cose sospeso sulla “permanenza del possibile”. Robert Bresson apre il suo Un condameé a mort s’est éschappe (Un condannato a morte è fuggito, 1956) con le parole del dialogo tra Cristo e Nicodemo: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo spirito”.22 e consegna il film alla speranza. Haneke apre il suo Der Siebente Köntinent sulla targa di un’auto chiusa tra le spazzole di un autolavaggio e consegna il film tra le braccia della morte sin dalla prima inquadratura. La “visione negata” del regista austriaco è quindi connaturata con il tempo in cui egli vive. Oggi chi vuole riflettere seriamente sui mali della società non può e non deve permettersi il lusso di concedere spazio alla speranza. Questo non per un intento banalmente provocatorio e supponente, bensì per irritare l’occhio e i nervi di una società abituata a tutto, che si può fermare a riflettere solo davanti ad un orrore senza fine e dove quindi, non può fare altro che interrogarsi su se stessa. In questo contesto assume grande importanza il secondo elemento costitutivo delle immagini e del cinema di Michael Haneke: il nero. Lo schermo nero domina gran parte della durata dei film della “trilogia glaciale”, mentre nel proseguo della filmografia del regista assume un ruolo più marginale e circostanziato , ma non meno importante. 29
Nei primi tre film: Der Siebente Köntinent, Benny’s Video (id. 1992) e 71 fragmente einer chronologie des zufalls (71 frammenti di una cronologia del caso, 1994), il nero rappresenta lo spazio pensante. È un nero tranciante che interrompe l’azione e che piomba sulle immagini e sui dialoghi come una ghigliottina per spezzare la continuità, ponendo lo spettatore in attesa spasmodica per il ritorno delle immagini. Il nero che tronca l’azione è lungo e fastidioso e spinge lo spettatore ad una doppia reazione: quella di interrogarsi su che cosa sta succedendo e quella, una volta capito il meccanismo, di rilassare la vista e distendere i nervi. Il nero, inteso come spazio pensante in cui lo spettatore si pone domande e riflette sull’accaduto, ha la valenza di intervallo nel continuum delle immagini, e serve ad Haneke per comunicare allo spettatore la precarietà e la falsità delle relazioni e delle convenzioni sociali; inoltre riesce a trasmettere un fastidioso senso di disagio, che lo prepara al precipitare degli eventi imminenti. Il nero, inteso invece come momento di relax, che assumerà nei film seguenti, a partire da Code Inconnu (Storie - Codice sconosciuto, 2000), una posizione sempre più circostanziata ed evidente, sembra derivare dalla pratica del palming descritta da Aldous Huxley. La più importante di queste tecniche di rilassamento (prevalentemente) passivo è il procedimento che il Dott. Bates ha chiamato palming, nel quale gli occhi vengono chiusi e coperti con le palme delle mani. Per evitare di esercitare una qualsiasi pressione sui globi oculari (che non devono mai essere premuti, fregati, massaggiati o comunque manipolati) bisogna appog giare la parte inferiore delle palme sugli zigomi e le dita sulla fronte. In tal modo, senza peraltro dover toccare i globi oculari, si impedisce alla luce di pervenire agli occhi. Il palming si esegue al meglio in posizione seduta con i gomiti appoggia ti un tavolo oppure su un cuscino ben imbottito tenuto sulle ginocchia. Quando gli occhi sono chiusi e ogni luce viene schermata dalle mani, il campo sensoriale appare agli organi della vista così rilassati di un nero uniforme.
André Bazin sosteneva che: “L’uomo è spinto ad imbalsamare, a conservare, in qualche modo ciò che è destinato a perire. Ne deriva un’ossessione riproduttiva che viene prima di ogni esigenza estetica”.23 Haneke riprende questa tesi e la destruttura spezzando, attraverso il “nero” questa tendenza ossessiva verso la riproducibilità. Lo fa parlando degli uomini: le sue sono storie quotidiane che presentano un progressivo spostamento del dolore. Uno spostamento impercettibile sviluppato attraverso una “regia che non si vede”, che approda ad un movimento subliminale dell’immagine che, spogliata di fronzoli e orpelli, appare lineare nella sua essenzialità e avvolta da una banalità inquietante. “Quello che cerco è un tipo di atmosfera riconoscibile per lo spettatore medio di un qualsiasi paese industrializzato. E poi lo distruggo”.24 Questa tendenza alla distruzione è derivativa dell’Azionismo Viennese e del suo più importante rappresentante Otto Muhel, che nelle sue installazioni distrugge subito l’oggetto prima di trasformarlo in qualcosa di inedito. Attraverso la distruzione degli oggetti Muhel mette in scena la distruzione simbolica delle morali passatiste e sfonda i confini che delimitano i tabù falsi e ipocriti che incatenano l’uomo contemporaneo. Così Michael Haneke costruisce nei suoi film delle situazioni apparentemente serene e quotidiane pronte per essere distrutte e vivisezionate ipotizzando che se non si distrugge prima un oggetto ne resta sempre qualcosa. Questo qualcosa è il dolore, presenza costante e indispensabile nella cinematografia di Haneke che identifica l’uomo nel suo lato più debole e spaventoso. Il dolore è, per il regista austriaco, un magma incandescente che si allarga a macchia d’olio e che prima o poi travolge tutti i suoi personaggi. È una presenza ctonia e persistente che abita in ogni fotogramma e che alimenta il progressivo degradare dell’uomo verso il male, parallelamente al suo allontanarsi dalla spiritualità.
Michael Haneke, si rende conto della tensione insostenibile che i suoi film innestano nel sistema nervoso di chi guarda e spezza la continuità delle immagini con spazi dedicati alla distensione. Si allontana quindi dall’ossessione continuativa delle immagini televisive per mettere in guarda l’uomo sul fatto che la necessità di vedere può inconsciamente trasformarsi in una dipendenza.
“Mi interessa l’uomo cosciente che il significato dell’esistenza consiste in primo luogo nella lotta contro il male che è dentro di noi, nell’elevarsi nel corso della propria vita sia pure di un solo gradino in senso spirituale. Un’unica alternativa, infatti, si contrappone al cammino dell’elevazione spi rituale, ed è quella della degradazione spirituale, alla quale tanto ci predi spongono l’esistenza di tutti i giorni e il processo di adattamento ad essa!...”25
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Come per Tarkovskij anche per Haneke l’uomo è in equilibrio su di un filo teso tra spirito e materia, ma il suo realismo prende nettamente le distanze dall’ascetismo del regista russo. Le immagini di Haneke, oltre che negare la felicità, costituiscono un sistema di “opposizione” che prevede la malattia mentale e fisica come l’unico baluardo che è possibile alzare contro gli orrori del quotidiano e le angosce esistenziali. Per Haneke l’uomo è incapace di provare sentimenti positivi: non sa più amare e si adagia apaticamente in una società di massa avida di successo e di denaro e che ha definitivamente abdicato verso il “criterio di scelta”. Per questo il suo cinema statico-dinamico, ci offre una ”visionenegata” delle cose positive e si anima di progressivi spostamenti del dolore, perché i suoi personaggi non fanno scelte e non sono protagonisti attivi della loro esistenza, bensì spettatori passivi che si lasciano condurre dal solo desiderio di alleviare e allontanare il dolore che li colpisce, senza ragionare né sulle cause, né sulle conseguenze. Il consumismo e la “società” di massa hanno definitivamente chiuso gli occhi e spento il cervello dell’uomo contemporaneo così che, paradossalmente per un’artista, l’unico modo per scuotere le coscienze rimane quello di negare quella felicità tanto agognata utilizzando immagini statiche ed esasperanti da interrompere bruscamente con uno schermo nero, che dentro il suo vuoto apparente racchiude l’essenza del pensiero e della riflessione.
Capitolo terzo LA TRILOGIA GLACIALE Prima di tutto voglio mostrare come è la realtà secondo me. Nella maggio ranza dei casi si scopre che è molto sconvolgente per lo spettatore. Ma que sto provoca qualcosa sul piano emozionale e può portarlo a prendere coscienza. Urich Seidl – Regista di Canicola
“Guerra civile” minuto per minuto I primi tre film di Michael Haneke, oltre a rappresentare la sintesi di una poetica sono l’esemplificazione del concetto di “guerra civile” vissuta nel quotidiano, in ambiti familiari e/o sociali. “Io non riesco a liberarmi dal sospetto che sia proprio questa guerra civi le, disperatamente vicina, e non quella più spettacolare, vista forse troppo spesso sugli schermi televisivi, a rendere la gente sgomenta, impaurita e mortalmente (nel senso letterale della parola) aggressiva.”26 L’esperienza del quotidiano viene dipinta nella trilogia, come qualcosa di mostruoso, dove il distacco dalla realtà dei personaggi è l’elemento scatenante di azioni violente e inspiegabili che hanno come unico obiettivo quella della distruzione: se di sé stessi o degli altri non ha importanza quello che conta è il compimento dell’azione. Azione di morte, che agisce perpendicolarmente al microcosmo domestico in Der Siebente Kontinent e Benny’s Video e trasversalmente alla società in 71 Fragmente einer Cronologie des Zufalls. L’aggressione si scatena in universi-trappola implosi e repressi su una “normalità” di vita spettrale e meccanizzata, dove le pulsioni più elementari
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come mangiare, dormire e fare sesso vengono anestetizzate da una ritualità spaventosa. La sensazione che si ha guardando i film di questa trilogia è quella che i desideri e gli istinti dei personaggi vengano vissuti da loro stessi come un disturbo e un fastidio che possa minacciare il loro presunto equilibrio. Ecco perché l’ordine dei pasti, la compostezza del dormire e la precisione degli atti sessuali mettono angoscia ancor più della messa in scena ordinata e geometrica. La pulsione dell’aggressività è insita nell’uomo come ci ricorda l’etologo Irenäus Eibl-Erbesfeldt, ma nella società moderna ha perduto molta della sua importanza, che è quella della spontaneità come valvola di scarico per le tensioni accumulate. Ignorando questa funzione l’uomo moderno porta la tensione e il rancore ad un punto di non ritorno, dove l’unica valvola di sfogo è rappresentata dalla morte. “Ignorando le premesse biologiche, l’uomo proietta l’ira che periodica mente l’invade nell’ambiente, fuori di sè; per esempio, per quanto riguarda la convivenza, sulle persone a lui più vicine e , nell’ambito di gruppi mag giori, sulle minoranze e sui confinanti.”27
un metro quadrato di blu è più blu di un centimetro quadrato dello stesso colore”. Ampliando le superfici monocromatiche, così come avviene in tutta la trilogia, il regista austriaco ottiene l’effetto di generare angoscia nel rapporto tra spazi e personaggi. Nei tre film infatti esiste la relazione biunivoca fra spazi ristretti (appartamenti, scale mobili, ascensori, uffici, abitacoli di automobili) e grandi superfici (pavimenti, pareti, veneziane, vetrate, strade), plasmata attraverso la scelta del “punto di vista” della ripresa che in certe posizioni è capace di determinare la sensazione claustrofobica del quadro audiovisivo. Questi elementi sono i tasselli della “guerra civile” che si scatena tra le pareti domestiche asettiche e prefabbricate dei nuovi edifici residenziali dove abitano i personaggi delle tre storie e che hanno come unica conseguenza di macchiare le lisce e lucide superfici blu dell’hi-tech contemporaneo del rosso indelebile e sporco del sangue umano. Apartament complex
A causa dell’impossibilità di “comunicare” il proprio dolore esistenziale la famiglia di Der Siebente Kontinent si auto-elimina, così come Benny uccide la sua coetanea in una “cameretta” virtuale dove la realtà è stata sostituita dalla finzione della telecamera, che non solo “registra” le sue giornate, ma documenta cinicamente il suo estremo grido d’aiuto filmando il suo omicidio. Allo stesso modo 71 Fragmente einer Cronologie des Zufalls intreccia storie di persone e famiglie estranee, che trovano la loro comunione sacrificale nello stesso giorno, nella stessa ora e nello stesso luogo in un freddo mattino viennese nel momento in cui un uomo impugna una pistola. I ruoli sono intercambiabili, ma il risultato è comunque quello di una morte violenta e immotivata se non da quel male esistenziale conformisticamente represso. Haneke immerge questa trilogia in tonalità blu fredde e metalliche e non solo per sottolineare il congelamento dei sentimenti (i tre film sono conosciuti come “Trilogia del Congelamento”), ma anche per creare distacco nello spettatore, per non renderlo complice degli eventi. I colori sono produttori di senso, e come sottolinea Kandinsky: “il colore è un mezzo per stimolare direttamente l’anima”. Haneke utilizza il “blu” della trilogia come elemento autoriflessivo e contraddittorio, visto che in psicologia questo coloretrasmette sensazioni positive come calma e soddisfazione, ma anche negative come distacco e depressione e sembra fare sua la riflessione sul blu di Matisse: “
Il rapporto dell’uomo con lo spazio della sua abitazione si alimenta del suo apparato sensoriale e del condizionamento delle sue reazioni. La vita che conduce l’uomo moderno è costituita da piccoli e grandi elementi forniti da un sistema di sensi che reagisce in maniera meccanica e omologata all’ambiente in gran parte prefabbricato dalla nostra società. I moderni spazi urbani offrono infatti paesaggi unificati, esperienze visive monocordi e scarsi incentivi alla messa in atto di rapporti spaziali diversificati. Haneke non manca di sottolineare questa dimensione uomo-spazio, che soprattutto nella “Trilogia del Congelamento” assume le forme di un architrave portante che sostiene le tre storie narrate che a loro volta sono una rielaborazione di tre fatti di cronaca realmente accaduti. È inconfutabile il desiderio di Michael Haneke di svelare personaggi veri che si nascondono dietro una facciata di iper-normalità e conformismo che vivono vite pre-confezionate dietro le facciate anonime degli ambienti in cui vivono. Linz per Der Siebente Kontinent e Vienna per Benny’s Video e per 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, sono città anonime o meglio spezzoni di ambienti riconducibili ad un nome o ad una identificazione solo tramite targhe automobilistiche o cartelli stradali. L’intento di Haneke è non solo quello di rendere anonimi i luoghi per creare storie paradigmatiche che potrebbero accadere ovunque in Europa, ma
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anche quello di rendere asettici e “grigi” gli ambienti al fine di creare “cittàschermo” dove i protagonisti delle storie non vivono , bensì fanno delle cose la cui somma è una proiezione di vita. Questa idea è esplicitata in Der Siebente Kontinent dallo spezzettamento delle azioni nel primo blocco del film, così come in Benny’s Video è l’interferenza realtà-finzione a creare un “nulla” sospeso dove i protagonisti si muovo come in un acquario. In 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, l’ossessione per i luoghi chiusi e la precisione matematica con cui le storie si incrociano e chiudono i personaggi in ambienti sempre più ristretti, sono il basso continuo che lega azioni minimali quasi sempre “schermate” da un vetro, da una rete, un computer… “Lo stesso uso della parola “facciata”è significativo: indica come nel l’uomo ci siano diversi livelli da penetrare, e insieme, allude alla funzione delle strutture architettoniche , che forniscono all’uomo schermi dietro cui si può ogni tanto celare. Mantenere una facciata può costare molta fatica l’ar chitettura si prende sulle spalle gran parte di questo fardello, e fornisce agli uomini un comodo rifugio, dove ci si può “mettere in libertà”e sentire se stessi.”28 Per Michael Haneke questo “sentirsi se stessi” non esiste, a causa delle sovrastrutture che regolano la vita degli individui, costretti a costruirsi o ripararsi dietro una facciata per poter affermare la loro esistenza e il loro senso di appartenenza alla società. La possibilità di “mettersi in libertà” assume allora i toni cupi e minacciosi del quotidiano raccontato come un inferno visto da vicino. Anna, Gorge Eva, la famiglia di Der Siebente Kontinent compiono nel corso degli anni sempre le stesse azioni, costruendo una vita (?) priva di emozioni e di contatti. Nel film i personaggi mantengono sempre una distanza di sicurezza gli uni dagli altri e si avvicinano solamente nel momento dell’autoannullamento dove li vediamo vicini stretti in un abbraccio mortale. In Benny’s Video il contatto tra Benny e i suoi genitori è addirittura omesso in partenza in quanto tra i membri di questa famiglia non c’è alcuna possibilità di interazione. L’unico contatto è ancora una volta quello della morte, schermata questa volta dalla pistola da macellaio che separa Benny e la sua vittima coetanea. In 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls il distacco dei personaggi viene amplificato dalla distanza dei rapporti umani e perfino la famiglia apparentemente normale, continua ad essere unita solo per necessità di circostanza (emblematica la scena dello schiaffo a tavola tra i due coniugi). 36
La “distanza intima” di un abbraccio, di un amplesso, o di qualunque altra forma di manifestazione di sentimenti è bandita dalla trilogia hanekiana. Nella distanza intima la presenza dell’altro è evidente e può talvolta esse re eccessivamente coinvolgente, a causa dell’intensificarsi e ingigantirsi degli apporti sensoriali.29 Questa dimensione dove il contatto fisico si manifesta nel più alto grado di conoscenza e di relazione viene omessa in tutta la trilogia dove i sentimenti sembrano “congelati” appunto, in attesa di una società migliore in grado di meritarseli. Di conseguenza le automobili di Der Siebente Kontinent e 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls e la stanza di Benny’s Video, sono delle bare entro cui la morte è già presente a causa del fatto di essere ambienti repellenti ai sentimenti. In Der Siebente Kontinent, è nell’abitacolo della loro vettura nel tunnel dell’autolavaggio che Anna e Georg prendono consapevolezza del loro desiderio autodistruttivo. Questo simbolo di ricchezza e di autodeterminazione di classe dell’uomo contemporaneo (dal modello della vettura possiamo spesso risalire al tenore di vita del proprietario) è l’area spaziale entro cui l’uomo combatte la sua “guerra civile” contro se stesso. Nello spazio angusto e ristretto dell’abitacolo (che oggi le case automobilistiche cercano di rendere inutilmente sempre più largo e confortevole) si consumano e si alimentano frustrazioni e preoccupazioni e la “vicinanza” delle persone rimane apparente, perché quando cala il silenzio la freddezza del mezzo meccanico acuisce il distacco tra gli individui. L’automobile, poi, accentua ulteriormente il processo di estraniazione dell’uomo dalla ricchezza del proprio organismo e del suo ambiente: si ha l’impressione che l’automobile sia proprio in guerra con la vita delle città e forse dello stesso genere umano.30 Non è casuale quindi che l’automobile abbia un ruolo di primo piano in questa trilogia di film (che vogliono essere il punto di vista di Michael Haneke sulla società), dove il distacco, l’alienazione e l’asetticità dei rapporti umani restituiscono allo spettatore il malessere fastidioso e metallico di un abisso glaciale dei sentimenti.
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Il limite estremo dell’interazione Il problema violenza-media viene sollevato, in generale, con il proposito di arrestare un colpevole. A seconda delle posizioni dei contendenti, o i media sono considerati quell’oggettivo “specchio della società” che non riflette niente altro se non la realtà, oppure è la continua presenza della violenza nei media a essere considerata la vera responsabile della crescente violenza nei rapporti quoti diani. (…) l’infruttuosità di questa domanda è produttiva per entrambe le posizioni: ognuno ha ragione.31 Dal punto di vista dell’interazione dei personaggi, quello che colpisce analizzando la “trilogia del congelamento” è la totale mancanza di possibilità di comunicare che impedisce ai personaggi di poter avere anche solo una minima interazione. Anna e Georg in Der Siebente Kontinent e Anna e Georg in Benny’s Video, sono genitori che non solo non riescono a comunicare con i figli, ma sono incapaci perfino di avere un dialogo di coppia; paradossalmente sono i figli che tentano un approccio goffo e/o provocante per svegliarli dal loro torpore. A tal proposito vale la pena prendere in considerazione la scena di Der Siebente Kontinent dove, dopo aver finto di essere cieca e aver provocato una reazione violenta nella madre, Eva si reca a dormire. Anna, sua madre, si siede sul letto accanto a lei e tenta di abbracciarla, ma incapace di pronunciare parola o di esprimere qualunque sentimento viene a sua volta abbracciata e tirata a sé da Eva che tenta così di consolarla. Allo stesso modo in Benny’s Video è lo stesso Benny che “comunica” ai genitori il suo omicidio attraverso la video-ripresa dello stesso, tentando inutilmente di lanciare un messaggio verso Anna e Georg, due genitori apatici e distaccati. Ancora, in 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, il piano-sequenza di nove minuti della telefonata tra padre e figlia, diventa la cartina di tornasole dell’incomunicabilità di questa società, dove solo attraverso lo “schermo” del telefono con grossa fatica e insistenza si può “ricostruire” un’idea di famiglia. Nella solitudine del padre inquadrato in un piano medio, fisso e lunghissimo, con sullo sfondo il televisore acceso, Haneke condensa l’idea che sta alla base del ribaltamento delle due situazioni sopra citate e trasmette contemporaneamente il senso di angoscia che imprigiona l’uomo contemporaneo. Siamo individui soli, viviamo in mezzo agli altri ma siamo soli e l’unica nostra vera amica e “compagna” è l’immagine, che riempie le nostre giornate ma che annulla il nostro senso critico e costruisce i muri della nostra volon38
taria prigionia in un isolamento centripeto che non risparmia nessuna individuo. È una realtà agghiacciante ma che collima perfettamente con il concetto di angoscia di Jean-Paul Sartre, che Haneke individua come unica e ultima reazione limite in un processo di interazione tra gli individui che va sempre più esaurendosi. L’angoscia si distingue dalla paura perché la paura è paura degli esseri del mondo e l’angoscia è angoscia di fronte a me stesso. La vertigine è ango scia in quanto temo non di cadere nel precipizio, ma di gettarmici io stes so.32 Alla luce di queste considerazioni la risposta biunivoca (vista in precedenza) che Haneke dà sull’interazione tra violenza agita nella realtà e violenza mostrata nei media, diventa il paradigma con cui confrontare e mettere in relazione il senso di solitudine e indifferenza che attraversa tutta la trilogia. Queste peculiarità negative del vivere odierno sono ben identificate nella definizione di Jean-Paul Sartre: “le persone sono delle funzioni”. In Der Siebete Kontinent Georg controlla la sicurezza dell’azienda dove lavora, Anna nel suo negozio controlla la vista dei clienti, Eva controlla che i pesci dell’acquario abbiano da mangiare. In Benny’s Video, Anna “controlla” Benny durante il viaggio in Egitto, Georg controlla di non lasciare tracce del crimine commesso da suo figlio e Benny cerca ricontrollare la realtà e al contempo “controlla” ciò che riprende. In 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls ogni personaggio ha una funzione di controllo diretta o indiretta su chi gli sta accanto. Michael Haneke quindi, ci dice attraverso i suoi personaggi che ogni uomo ha una sua funzione che lo aliena dalla vita vera e che lo riduce ad un semplice meccanismo di controllo. I risultati di questa degenerazione sono la solitudine dell’individuo e l’indifferenza verso gli altri, che diventano esclusivamente “forme” che ci passano accanto per la strada, quando non oggetti sui quali poter agire anche a distanza con dei comportamenti indirizzati al controllo e al dominio. Non me ne curo, quasi agisco come se fossi solo al mondo; “sfioro” le persone come “sfioro” i muri, le evito come evito gli ostacoli, la loro libertàoggetto è per me solo il loro “coefficiente d’avversità”; non mi immagino neanche che possano guardarmi.33 Questa considerazione ci porta alla conclusione, condivisa da Michael Haneke, che l’uomo è “nemico” di se stesso, e che le sua paure insicurezze 39
lo hanno condotto verso un autoannullamento di sicurezza. Ecco allora che la trilogia del congelamento diventa una sintesi di quella condizione sospesa dell’uomo che abbiamo chiamato “permanenza del possibile”. In attesa, l’uomo vive in spazi-prigione, si isola dal mondo e da se stesso, ricerca la morte come risposta al suo disagio esistenziale e combatte un nemico che non esiste: l’unico vero nemico è nascosto dentro di se e riconoscerlo fa davvero paura. Haneke, lo ha capito e ce lo mostra per metterci in guardia e tentare do frenare la nostra deriva.
Capitolo quarto DER SIEBENTE KONTINENT (IL SETTIMO CONTINENTE) Entrando nella mostra Travis vede le atrocità del Vietnam e del Congo mimetizzate nella morte “parallela” di Elisabeth Taylor; cura l’attrice morente, erotizzando i suoi bronchi trafitti nelle verande iperventilate dell’Hilton di Londra; sogna Marx Ernst, superiore degli uccelli; “Europa dopo il diluvio”; la razza umana, Calibano che dorme su uno specchio imbrattato di vomito. James G. Ballard, La mostra delle atrocità
La strada maestra che conduce alla morte Nel 1989 Haneke scrive il suo primo film per il cinema: Der Siebente Kontinent. Il film nasce mentre il regista austriaco si trova in vacanza su un isola greca. Il plot originale prende spunto da un fatto realmente accaduto. In quel periodo Michael Haneke legge una serie di articoli riguardanti fatti di sangue avvenuti all’interno di famiglie piccolo borghese e rimane fortemente colpito dalle dinamiche e dalle conseguenze di questi fatti. In un primo momento decide di raccontare la storia in falshback, ma subito si rende conto che così facendo commetterebbe lo stesso errore dei giornalisti, cioè quello di dare spiegazioni più o meno fondate, ma comunque sempre banali e opinabili. Per evitare di cadere in questa trappola decide di omettere le cause, lasciando lo spettatore libero di farsi una propria idea, e scrive la sceneggiatura articolandola come uno schema matematico: tre parti divise per anni strutturate come un progressivo incedere verso la soluzione finale. Anna (Birgit Doll), Georg (Dieter Berner) e Eva (Leni Tanzer) sono i tre componenti della famiglia Schober. Le vicende familiari si sviluppano nell’arco di tre anni; dal 1987 al 1989. Georg lavora presso una grande azienda come addetto alla sicurezza, mentre Anna sioccupa del negozio di famiglia: 40
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un negozio di ottica in cui lavora anche suo fratello Alexander(Udo Samel). La routine quotidiana scorre inesorabile e sempre uguale a se stessa, ma qualcosa sembra minarla dall’interno. Il detonatore della crisi è l’episodio in cui Eva finge di non riuscire più a vedere. È la scintilla, le aggressività latenti si scatenano lentamente e irrimediabilmente. Alexander soffre di depressione e durante una cena comincia a piangere senza ritegno. Sulla famiglia aleggia un’atmosfera mortifera, un desiderio inconfessato di “settimo continente”. L’escalation è cominciata. Anna e Georg chiudono il conto in banca e ritirano i soldi. Georg accompagnato da Eva va a vendere la macchina. I due coniugi scrivono ai loro genitori dicendo che hanno intenzione di andare in vacanza. Dopo aver fatto l’ennesima spesa alimentare si chiudono in casa e cominciano a distruggere i mobili e l’arredamento. Terminata questa operazione eliminano se stessi. Der Siebente Kontinent è un film che paralizza, sia per gli eventi narrati che per la clinica rigidità della messa in scena. Haneke inchioda lo spettatore e il suo sguardo impedendogli qualunque via di fuga e con questa trappola emotiva, che lascia sconcertati al termine della visione, racconta l’orrore della quotidianità quando diventa sterile ed ellittica coazione a ripetere. L’andirivieni ossessivo della dipendenza è piacevole all’inizio in quanto mima, replicandolo, un originario movimento di soggettivazione andato a buon fine; ma la sua carica di soggettivazione e di piacere si esaurisce rapi damente in una ripetizione che richiede, in primo luogo, il ritorno ad un livello più basso, e che si chiude subito in un circolo vizioso invalidante.34 Questa sterilità della coazione a ripetere, che Stefania Consigliere definisce “piacere minimo”, alimenta la pellicola di Haneke in tutte le 47 sequenze di cui è composto il film. Il primo segmento di Der Siebente Kontinent è costituito da sette inquadrature programmatiche all’interno delle quali è contenuto strutturalmente ed emotivamente tutto il film che verrà. -La prima inquadratura mostra la targa di una macchina. Siamo a Linz, ma solo questo elemento ce lo dimostra. Il numero della targa è il primo segno di catalogazione dell’esistenza a cui tanti ne seguiranno nel corso della pellicola. -La seconda e la terza inquadratura mostrano rispettivamente una ruota ed un fanale dell’auto. Sono campi strettissimi, che contengono a malapena l’elemento in questione. Questi due quadri sono la sintesi dell’oggettivizzazione delle azioni e delle persone che attraversa il film, dove per gran parte 42
vedremo mostrate parti di azioni e porzioni di spazio ristrette che escludono la figura intera. Anche il corpo è parcellizzato e ne viene mostrata solo la parte che compie l’azione in questione. -La quarta inquadratura ci mostra uno spruzzo di detersivo che irrompe sul parabrezza. La scena è l’esplicazione per immagini della “visione negata” di Haneke, che egli trasformerà in elemento specifico nel corso del film, e anticipa la crisi della piccola Eva quando comunica all’insegnante che non ci vede più. Infatti nell’inquadrare il parabrezza, Haneke nasconde con il detersivo i volti della famiglia chiusa nell’abitacolo. -La quinta inquadratura ci mostra l’interno dell’abitacolo: non vediamo fuori, a causa dello scorrere dei detersivi e delle spazzole dell’autolavaggio. Anna e Georg sono in silhouette di spalle. Come noi non vedono la fine del tunnel. Sono immobili e silenziosi, come lo saranno ogni volta all’interno dell’abitacolo della macchina. La scena anticipa anche quella in cui sempre all’interno di un autolavaggio Anna prende coscienza della propria condizione di non-vita e scoppia in lacrime. -La sesta inquadratura ci mostra il frontale dell’auto ripulita, chiuso tra le strette barriere del tunnel. Dopo aver acceso i fari l’auto si muove, esce dall’autolavaggio e passa davanti alla pubblicità dell’Australia che mostra un immagine con una spiaggia, il mare e le montagne: il “settimo continente”. Ecco la destinazione della famiglia Schober. Haneke ce la mostra ancora primi che il film incominci. -La settima inquadratura è un lungo quadro nero che nel corso del film assumerà una doppia valenza: rappresentazione fisica del “nulla” che anima l’esistenza della famiglia e spazio di riflessione per lo spettatore. La fede nella civiltà è un mito eurocentrico, un’autointerpretazione della modernità con la quale essa adora se stessa.35 Partendo da questo presupposto narcisistico della contemporaneità Michael Haneke tratteggia in Der Siebente Kontinent un quadro familiare senza speranza. La famiglia Schober è archetipo della famiglia piccolo borghese che popola l’Europa. La coppia rappresenta la classica situazione di base dell’Europa centra le, della quale qualsiasi spettatore ha esperienza. Se inseguissi delle situa zioni più particolari credo che diminuirei la mia cerchia di spettatori o comunque il loro tasso di identificazione. Quello che cerco è un tipo di atmo sfera riconoscibile per lo spettatore medio di un qualsiasi paese industrializ 43
zato. E poi la distruggo.36 Una famiglia che non vive ma che compie delle azioni la cui somma da come risultato un’equazione ripetitiva e sistematica: agisco per cui vivo. Nella prima parte del film, non vediamo mai i tre protagonisti, ma vediamo solo le azioni che compiono dal risveglio fino al termine della giornata. Azioni meccaniche reiterate che Haneke associa all’alienazione meccanizzata delle cassiere, dei dati matematici della sicurezza dell’azienda in cui lavora Georg, dello scorrere dei numeri sulla pompa di benzina e così via. Verso la metà del film c’è un’inquadratura apparentemente insignificante e slegata dal contesto narrativo, ma che sintetizza al meglio il senso critico di Haneke nei confronti della società. L’inquadratura fissa, mostra una palestra dove dei bambini saltano la cavallina. L’azione è scandita dall’”hop” dell’insegnante e ogni salto ne replica un altro. Oltre a rappresentare l’immutabilità di un’esistenza omologata e condizionata solo dalla riproducibilità di se stessa, alla luce degli eventi del film questa inquadratura assume anche un valore metaforico. In Der Siebente Kontinent, nella vita della famiglia Schober non cambia mai nulla eccetto gli spazzolini da denti (!) e la macchina (solo il colore non il modello). Ma quello che più colpisce è la continua e persistente presenza della televisione, che anche nell’autoannullamento finale rimane intera e funzionante e diventa specchio catodico del suicidio familiare. L’inquadratura del salto della cavallina legata alla persistenza televisiva diventa la metafora della riproduzione delle immagini nella società. Le immagini scorrono senza lasciare traccia? In realtà ciò accade solo apparentemente, perché l’eredità che lasciano è ben più grave e si risolve in una vera e propria violenza esercitata sulla mente di chi le guarda. Un primo accenno a questo aspetto è rappresentato nel film, dal fratello di Anna, Alexander che ricorda una frase pronunciata dalla madre morta: “Certe volte mi immagino che gli uomini invece di una testa impenetrabile, abbiano un monitor dal quale traspaiano i loro pensieri”.Quest’assunto prende forza nel finale straziante dove la famiglia si suicida disperatamente, ma compostamente, davanti allo scorrere delle immagini televisive. Anna uccide la figlia Eva con un bicchiere di latte avvelenato mentre sullo schermo scorrono le immagini di un video musicale: la canzone è “The Power of love”. Se non è cinismo questo...
La solitudine alimenta la morte ed è conseguenza del benessere imperante. In Der Siebente Kontinent i momenti in cui viene sottolineato l’isolamen-
to dell’individuo sono numerosi e diversi tra loro: c’è il sintomo patologico della depressione di Alexander, c’è l’incomunicabilità deterministica tra Anna e Georg, c’è la distanza dai rispettivi genitori colmata solo attraverso le lettere, ma c’è soprattutto l’episodio della “cecità” di Eva. La bambina si finge cieca a scuola e la maestra le chiede il motivo: non riceve risposta ma riesce facilmente a smascherare la finzione. Quello di Eva è un tentativo, ingenuo e fallimentare, di comunicazione all’interno di un ambiente, sia scolastico che familiare, ormai refrattario a qualunque tipo di emozione e sentimento. Eva si confronta con la madre sull’argomento: ancora una volta non c’è comunicazione e la scena si chiude con lo schiaffo di Anna alla figlia. Più tardi Anna scorge sulla scrivania di Eva un ritaglio di giornale che riporta la scritta: “Blind. Aber nie mehr einsam” (Cieca. Ma mai più sola). Anna guarda fuori dalla finestra, ma non vede niente. La non-presenza è un ulteriore sintomo del vuoto che circonda la famiglia Schober. La malattia come riposta alla mancanza è presente ne “Il Deserto Rosso” (id. 1964) di Michelangelo Antonioni, dove il piccolo Valerio finge una malattia alle gambe per far si che la madre Giuliana si interessi a lui. Il disagio esistenziale raccontato da Antonioni nel film del ‘64 accomuna in molti aspetti la parabola autodistruttiva di Der Siebente Kontinent. Non c’è differenza tra l’Enichem di Ravenna e l’azienda di Linz in cui lavora Georg, così come il presentarsi della finta malattia è solo il preambolo dell’espansione patologica e contaminante, presaga di morte, che investirà i personaggi di lì a poco. In Antonioni c’è la nave che ormeggia davanti alla baracca dei borghesi annoiati e arricchiti, portatrice di un’epidemia (forse) e subito dopo c’è il maldestro tentativo interrotto di suicidio di Giuliana. Anche in Der Siebente Kontinent c’è una nave. Nella terza e ultima parte del film lo scorrere delle immagini è scandito dal suono sordo e minaccioso della sirena di una nave (ma siamo a Linz!) e la piccola Eva quando va con il padre Georg a vendere la macchina ha la visione di una nave addobbata a festa che le scorre davanti. La morte si sta avvicinando, in entrambi i casi, ma il finale di Antonioni è ben diverso da quello di Haneke. La supina accettazione della propria esistenza da parte di Giuliana (“Io devo pensare che tutto quello che mi capita è la mia vita”) contrasta nettamente con l’omicidio/suicidio della famiglia Schober in Der Siebente Kontinent. Haneke costruisce il suo finale cinico e glaciale strutturando un’architettura della solitudine che trova il suo perfezionamento nella scena, un po’ didascalica della distruzione dell’acquario e successiva morte dei pesci: come questi muoiono una volta distrutta la loro casa, così anche alla famiglia, dopo la distruzione dei propri beni non rimane che il suicidio.
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Architettura della solitudine
L’orrore più concreto ha inizio con un rumore e con una frase del tutto inaspettata: si vede un primo piano della lampada da notte accesa, improv visamente si sente chiaro e profondo il suono della sirena di una nave. Poi Georg dice: “Dobbiamo anche disdire l’abbonamento al giornale”.37 L’orrore della solitudine è quindi in Der Siebente Kontinent una presenza costante e reale. Solitudine che è anche della morte, visto che Anna prende coscienza del suo stato di isolamento e di fallimento esistenziale davanti ai due cadaveri deposti sull’asfalto dopo l’incidente stradale. Haneke sottolinea questo aspetto anche attraverso l’inserimento in colonna sonora di un brano musicale particolarmente significativo: l’ultimo concerto per violino di Alban Berg. Il brano che sottolinea la visione della nave (la morte) da parte di Eva, mentre si trova nel “cimitero delle auto” (altro elemento di morte), rimanda anche esso alla morte. Berg ha scritto questo concerto in occasione della morte della figlia di Alma Mahler-Werfel, Manon Gropius (...), morta in giovane età di poliome lite. Berg ha intitolato il concerto Dem Andenken eines Engels (In ricordo di un angelo). Poco dopo anche Berg è morto improvvisamente; e così ha in un certo senso composto il proprio requiem.38 Michael Haneke con Der Siebente Kontinent costruisce quindi, una lucida operazione matematica che da una condizione di stasi cresce lentamente nella progressione della follia e tende irrimediabilmente verso l’infinito della pace eterna. Anni dopo un’altra regista austriaca, allieva nello stile freddo, geometrico e rigoroso di Michael Haneke, riprenderà questi elementi per raccontare un’altra strage familiare. Jessica Hausner in Lovely Rita (id. 2002) racconta l’uccisione dei genitori da parte di un’adolescente sola e disadattata e conclude il film con la giovane Rita che guarda la televisione seduta sul divano accanto ai cadaveri dei genitori. L’ultimo sguardo in macchina prima dei titoli di coda appare come una minaccia di continuità dell’orrore in una società sempre più progredita e tecnologizzata, ma sempre più isolata e depressa, segno che la lunga strada verso la morte aperta da Haneke continua ad essere percorsa.
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Il logaritmo della follia Il disagio esistenziale di Der Siebente Kontinent è un elemento permeabile a crescita progressiva. È paragonabile al logaritmo matematico, dove al posto dello spazio è possibile sostituire il tempo della realtà. Logaritmo: l’esponente della potenza al quale bisogna elevare un nume ro costante (o base) per ottenere un determinato numero.39 La funzione logaritmica, una volta raggiunta l’unità, cresce lentamente ma sempre progressivamente nel tempo, tendendo all’infinito. Per traslazione la “follia del quotidiano” di Der Siebente Kontinent assume gli stessi caratteri dove la crescita è rappresentata da una dipendenza dalle cose e la tendenza è rivolta inevitabilmente verso l’infinito della vita umana: la morte. Il primo fattore che influenza la dipendenza è la necessità del riempimento. Nel film di Haneke il vuoto esistenziale è riempito dal nutrimento meccanico di dover compiere azioni sempre uguali a se stesse e da quello materico della necessità di alimentarsi. In Der Siebente Kontinent il cibo è solo un fattore di riempimento, non da né piacere né soddisfazione, anzi è un elemento presente in eccedenza che funge da fattore di controllo sul quotidiano (i pasti scandiscono i momenti di “vita” familiare) e da fattore che garantisce sicurezza (la tavola è sempre piena di piatti lussuosi e appetitosi). Il non farsi mancare nulla garantisce alla famiglia Schober la giusta tranquillità per poter vivere. Paradossalmente, ma non casualmente, in questo contesto bulimico di viveri, viene a mancare la parola. I pranzi e le cene del film sono caratterizzati dalla quasi totale assenza di dialoghi. I primi piani sui volti di Anna, Georg, Eva e Alexander durante la masticazione sottolineano una tristezza e un disagio del nutrirsi. Sono visi atoni e insignificanti che esprimono il “nulla” che Haneke, con un uso insistito del primo piano utilizzato provocatoriamente in antitesi al suo stesso significato (l’espressione di uno stato emozionale), esprimono al meglio la patologia della dipendenza che si espande senza limiti nell’esistenza contemporanea. Quello del riempimento bulimico è un’immagine che torna spesso nei discorsi delle persone dipendenti. Riempirsi, in un modo o nell’altro, signifi ca evitare il nulla, la mancanza, l’assenza, significa occupare tempo, spazio e pensieri, anche se si ha l’impressione di vivere solo grazie ad un compor tamento ripetitivo e senza fine. Interrompere una dipendenza significa, inve 47
ce, confrontarsi con il vuoto, con un sé poco affidabile e con l’incertezza del l’ambiente circostante, rischioso e sconosciuto. Riempirsi significa aggrap parsi a un “quantitativo” necessario per vivere.40 Il concetto di “aggrapparsi alla vita” grazie al riempimento di cose, sostanze ed oggetti è esemplificato dalla rappresentazione del denaro all’interno del film. Georg mira ad un aumento di stipendio, che quando arriva è il più importante elemento di felicità per la famiglia; uguale importanza ha il comunicarlo repentinamente ai propri genitori. Tutto il film è scandito da pagamenti, da numeri che appaiono sul display dei registratori di cassa, da banconote che passano di mano. Nel momento della distruzione il denaro diventa l’elemento politico che Haneke usa provocatoriamente nei confronti del pubblico. La distruzione del denaro buttato nella tazza del water è la violazione enfatizzata (l’inquadratura è fissa e ravvicinata) dell’unico tabù esistente nella società odierna: non si può buttar via il denaro. (Haneke racconta a tal proposito di gente inferocita che a questa scena abbandona la sala ovunque il film venga proiettato). Il delirio che porta la famiglia a distruggere ogni cosa materiale che faccia parte della sua vita dovrebbe essere un atto liberatorio e un urlo disperato nei confronti di una società omologata. Michael Haneke invece compie un secondo atto politico rappresentando il “caos” della distruzione come una serie di azioni metodiche, asettiche, e programmate. Con la stessa geometrica precisione e con la stessa maniacale puntigliosità esercitate nella quotidinità, la famiglia Schober mette in pratica la propria autodistruzione. Nei loro gesti non c’è il minimo sentore di una liberazione, bensì si avverte la costrizione dell’ordine che permane incredibilmente anche nella follia. Sin dal momento in cui Georg distribuisce ordinatamente gli attrezzi sul divano, come sul tavolo di una sala operatoria, Haneke mette in scena un’allucinante chirurgia della distruzione, dove ogni vestito viene tagliato minuziosamente, i quadri vengono staccati delicatamente dalle pareti così come ogni fotografia viene strappata in piccoli pezzi e ogni disco spezzato con la stessa modalità. Tutto viene distrutto tranne la televisione e prima del suicidio la famiglia Schober consuma un ultimo pasto seduta sulle proprie macerie. Inevitabile quindi che questo logaritmo della follia conduca alla morte. Morte che è anche essa messa in atto con un ordine sistematico e glaciale che paralizza. Morte che avviene tramite avvelenamento quasi a sottolineare che la bulimia non abbandona la famiglia neanche nel momento più estremo, davanti ad uno schermo televisivo seduti sul divano prima e sul letto poi. Anna uccide Eva con il latte, poi va in bagno e si prepara il suo “cocktail” di 48
medicinali girandolo con lo spazzolino da denti (elemento permanente dell’ordine e della pulizia). Anche Georg compie la stessa azione, ma non ottenendo subito i risultati decide di iniettarsi il “cocktail” nelle vene. Prima di raggiungere Anna ed Eva in stanza, scrive su un muro i numeri della morte: giorno e ora, mettendo vicino al suo nome un punto interrogativo (ancora elementi numerici di catalogazione). Una volta in camera da letto si sdraia e abbraccia moglie e figlia. Questo terribile finale è acuito dunque da questa immagine della famiglia stretta in un abbraccio mortale, davanti ad un video che non trasmette più nulla. Lo zoom finale lento e minaccioso racconta a ritroso l’esistenza della famiglia Schober fin dentro lo schermo dove rimane solo più l’effetto neve. Poi un lampo riconsegna allo spettatore lo schermo nero. Questa inquadratura finale rappresenta al meglio il significato della pellicola: la vita reale delle persone equivale sempre più alla finzione raccontata dalla società delle immagini. Questa empasse esistenziale è il vero pericolo che incombe su di un’esistenza che si costruisce sempre più come il concatenamento di una serie di ingranaggi ma che ha perso definitivamente l’anima dei sentimenti. Se Antonioni in Deserto rosso prefigurava la “malattia dei sentimenti”, Haneke in Der Siebente Kontinent l’ha definitivamente conclamata.
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Capitolo quinto BENNY’S VIDEO Un dì nell’acqua chiara d’un ruscello bevea cheto un Agnello, quand’ecco sbuca un lupo maledetto, che non mangiava forse da tre dì, che pien di rabbia grida: “E chi ti ha detto d’intorbidar la fonte mia così? Aspetta temerario!” Il lupo e l’agnello
Programmato per uccidere All’inizio degli anni ‘90 Michael Haneke legge un articolo riguardante un fatto di cronaca: un adolescente ha ucciso un suo coetaneo. Quello che lo colpisce è la “motivazione” che il ragazzo dà del delitto: “Volevo sapere come era”. A partire da quel momento per circa tre anni, Haneke colleziona articoli di giornale riguardanti simili fatti di cronaca. La sentenza-motivazione è però l’elemento attorno a cui, nel 1992 costruisce Benny’s Video, ossia la risposta alla domanda: Com’è la morte? Una famiglia composta da tre elementi: il padre Georg (Ulrich Mühe) impiegato alla Intercom, la madre Anna (Angela Winkler) proprietaria di un negozio a Vienna e il figlio Benny(Arno Frisch). Benny è un adolescente, in una famiglia benestante, con l’hobby della videoripresa. Gira video e noleggia film in videoteca e fa della sua stanza un laboratorio di immagini in movimento. La “camera oscura” in cui vive è la sua caverna, il suo rifugio. Non intrattiene nessun rapporto coi genitori e si isola sempre più perdendo il senso della realtà. Conosce, davanti alla videoteca, una ragazza (Ingrid Strassner) sua coetanea. Se la porta a casa e le mostra un video amatoriale sulla macellazione di un maiale. Mentre le spiega come funziona la pistola da macello, la sfida a premere il grilletto: lei si rifiuta ma lui no e la ferisce. La ragazza grida e lui spara altre due volte e la uccide. I genitori una volta venuti a conoscenza, occultano l’accaduto: il padre fa a pezzi il cadavere mentre Anna va in vacanza con 50
Benny in Egitto. Al suo ritorno Benny si consegna alla polizia. Benny’s Video parte in un’atmosfera di festa tra amici della sorella di Benny, subito interrotta bruscamente dal Padre Georg che invita tutti quanti ad andarsene. L’effetto incisivo delle parole del padre crea un’anomalia in una situazione normale ed è il primo segno perturbante che destruttura l’ordine costituito dagli eventi. Per tutto il film l’anomalia è il filo conduttore che determina il corso degli eventi. Questa presenza di elementi non riconducibili al normale svolgimento di determinate funzioni, crea continuamente un disturbo emotivo che amplifica la portata e il valore simbolico delle singole azioni. Il film che si apre con il video, ripreso da Benny, della macellazione del maiale presenta subito questa situazione: il video si pone subito come elemento metacinematografico, visto che improvvisamente si interrompe, torna indietro e riparte al rallentatore. L’anomalia retroattiva della riproducibilità delle immagini è un primo segnale destabilizzante che Haneke pone allo spettatore. Si è verificato, forse, attraverso il potenziale di diffusione dei media elet tronici, attraverso l’enorme crescita quantitativa, un salto qualitativo del l’orrore che solo ora, e troppo tardi apre gli occhi ai responsabili di fronte ai pericoli, solo apparentemente esorcizzati nella rappresentazione di un atavi co cupio dissolvi.41 Benny domina il suo mondo virtuale, un mondo oscuro e precario inserito in un contesto di perfezione hi-tech (l’arredamento dell’appartamento) freddo e lineare. Aspetto questo sottolineato da Haneke attraverso la riquadratura degli spazi inquadrati, dove spesso compaiono profili verticali e/o orizzontali di mobili e pareti e dove i vuoti geometrici (stipiti delle porte, finestre...) creano al loro interno altri spazi. Tali spazi sono dominati dal silenzio e inquadrati in maniera asettica e priva di emozione, rotti solo dal fragore diegetico dell’heavy metal ascoltato da Benny. In un contesto così perfettibile Haneke inserisce un’inquadratura di raccordo fuori asse (l’unica nel film) che crea un’anomalia carica di significato. I genitori sono partiti e hanno lasciato solo Benny. Egli si reca in videoteca, noleggia il film The Toxic Avenger che guarda la sera prima di addormentarsi. Il mattino dopo esce di casa e si reca alle prove di canto al Bundgymnasium für Knaben und Madchen. Nel momento in cui esce dalla porta scorrevole del palazzo la macchina da presa di Haneke è posizionata fuori asse rispetto alla simmetria degli spazi. In questa inquadratura Haneke concentra l’anomalia di Benny e il suo 51
transfert in un mondo personalizzato dove lui è il padrone e il deus ex machina di ogni azione: lo vediamo distribuire droga (farmaci) a pagamento durante le prove del coro, “sedurre” la ragazzina, fumare altezzosamente e presentarsi come un uomo adulto capace di controllare la realtà (la telecamera live sulla strada sottostante), invitarla a casa, offrirle da mangiare e infine ucciderla. Questo ultimo momento rappresenta la “perdita di controllo” sul reale evidenziando lo spaesamento di fronte alla morte. La sequenza dell’omicidio è costruita da Haneke sulla linea di confine che separa la realtà dalla finzione. Vediamo prima la ragazza di quinta, di fronte ad un piccolo monitor dare del codardo a Benny perché non ha avuto il coraggio di premere il grilletto della pistola da macellazione, e subito dopo il controcampo con lei di fronte che cade a terra dopo lo sparo “liberando” così lo schermo del monitor attraverso il quale percepiamo, dalle grida e dai rumori, la sofferenza della ragazza ferita (non vediamo mai il suo corpo), e l’allucinato andirivieni di Benny per ricaricare la pistola e per mettere fine alle grida di lei. Michael Haneke con questa inquadratura crea un’anomalia della visione e provocatoriamente pone lo spettatore nella stessa posizione di colpevolezza di Benny: stiamo guardando “la ripresa” dell’omicidio di Benny. Nella parte centrale del film assistiamo prima la rituale del passaggio di Benny e poi alla rimozione del “sacrificio” da parte dei genitori. Fintanto che rimane vivo, il sacrificio non può rendere manifesto lo spo stamento sul quale è fondato. Non deve dimenticare completamente né l’og getto originario né il paesaggio che fa scivolare da questo oggetto alla vitti ma realmente immolata, senza di che non ci sarebbe più alcuna sostituzione ed il sacrificio perderebbe la sua efficacia.42 Benny una volta uccisa la ragazza è quindi pronto per compiere il suo rituale di passaggio: passare cioè dalla condizione di padrone a quella di prigioniero. Rimuove quindi, ogni traccia del suo delitto (tranne quella registrata sul nastro), beve e mangia, si sveste e si cosparge con il sangue della vittima. Poi esce e si mostra agli altri, va al cinema e tornando a casa entra da un barbiere e si fa radere a zero. La testa rasata, anche esteticamente può così manifestare la sua mutazione. Evenienza suggellata dalla reazione del padre, che in un lungo monologo (è tale perché non riceve risposta da Benny) in bagno, rivolgendosi al figlio dice a un certo punto: “Pensi di piacere ai tuoi insegnanti con questo look da campo di concentramento?” In seguito Benny mostra il video del suo delitto ai genitori, che una volta assicuratisi che nessuno ha né visto né sentito quello che è successo, decido52
no di rimuovere “il sacrificio”. Nuovamente Benny acquisisce il ruolo dominante all’interno della famiglia. È un’altra anomalia quella che ci presenta il “colpevole” come il risolutore del suo stesso delitto. Benny è potentissimo poiché è il riflesso del padre: questi domina la moglie e non perde mai il controllo della situazione. Georg decide che Benny andrà in vacanza con Anna, mentre lui si occuperà di far sparire il cadavere. La “potenza” di Benny è sottolineata da Haneke con un’inquadratura. Terminato il colloqui con i genitori Benny dice “ho fame”: Anna si toglie gli orecchini e va a preparare evidenziando con il “togliere” il suo passaggio da donna a serva. L’ultimo blocco del film è rappresentato dal viaggio-rinascita di Benny in Egitto. Viaggio che inizia nel sottosuolo del sotterraneo del palazzo da cui Benny e Anna escono in macchina e vi fanno rientro dopo la prenotazione del viaggio. Haneke costruisce questa serie di inquadrature ad anello come a voler rappresentare l’ora d’aria concessa al prigioniero Benny. Il viaggio in Egitto dovrebbe essere nelle intenzioni dei genitori il momento di distacco per Benny sia dal suo mondo fatto di immagini sia dalla sua prigionia autodecisa. Haneke anche qui interpone un’anomalia, facendo invece diventare la vacanza un vero e proprio rito di espiazione e un percorso di redenzione. Non si può interpretare diversamente la sequenza video delle riprese di Benny in cui si susseguono la strada deserta (il cammino), il mercato con i poveri che chiedono l’elemosina (il contatto con la realtà), l’ingresso in una chiesa spoglia con un soffitto azzurro (l’ammissione di colpa e la scelta della redenzione): sequenza sottolineata per tutta la sua durata da un brano di musica sacra. Al suo ritorno Benny infatti, si autodenuncerà alla polizia mostrando il proprio video e trascinando con sé i genitori che sono altrettanto colpevoli ma che rimangono sorpresi dalla scelta di Benny. Loro non hanno fatto alcun percorso, ma anzi sono rimasti immobili protetti dalle loro certezze materiali e di rispettabilità. Certezze che credono possano garantire loro l’immunità dalla colpa, ma che il gesto anomalo (se si considera lo svolgersi dell’intera vicenda) di Benny fa crollare simultaneamente. Il cerchio si è chiuso, così come il film che si apre e si chiude su un’immagine video e l’anomalia è stata ricondotta al prototipo, ma resta sempre quella terribile risposta alla domanda che il padre rivolge a Benny: “Perché l’hai fatto?” Benny: “Volevo sapere com’era”. L’ossimoro dello sguardo Il rito della violenza, nel cinema, si alimenta dello sguardo dello spettato53
re e si innesta programmaticamente sul limite che divide la realtà dalla finzione. La violenza mediatica consuma i margini della messa in scena e attua un processo di seduzione che erode lentamente il “controllo” di chi guarda, smascherando ineluttabilmente l’artificio pericoloso che la sottende. Il rito della violenza necessita sia della compartecipazione dello spettatore voyeur, sia della necessaria autenticità affinché la messa in scena dell’atto violento possa sembrare qualcosa di vero ma anche di fortuito e casuale ripreso e filmato in quel momento solo grazie ad una serie di coincidenze. Questi elementi sono esemplificati al meglio dal filmato amatoriale che apre Benny’s Video. La ripresa in piano-sequenza dell’uccisione del maiale ha al suo interno tute le componenti sopra elencate, compreso l’elemento di casualità. La violenza non colpisce solo i conoscenti o gli estranei, ma è una minaccia costante pronta a colpire indistintamente. Chi compie un atto di violenza non richiede niente alle sue vittime, ma semplicemente si pone nella condizione di dover superare un limite, oltre il quale esiste solo il piacere di uccidere. L’incipit di Benny’s Video rappresenta quindi, un atto di pura gratuità, ma è ancora circondato da quell’alone di sicurezza in cui lo spettatore identifica sia il colpevole che la vittima ed è così consapevole del “controllo” che Benny esercita sulla sua azione: Benny sta guardando una vhs su cui è registrata l’esecuzione del maiale. Haneke a partire da questo momento elimina una ad una tutte le componenti di sicurezza presenti in questo breve filmato e compie un percorso di spoliazione per poter far emergere l’essenza della violenza.
In contrapposizione a quanto teorizzato da Sofsky, Michael Haneke intraprende un percorso a ritroso il cui doppio obiettivo è quello di erodere le certezze e i margini di sollievo dello spettatore econtemporaneamente quello di
svelare l’ipocrisia e la manipolabilità della finzione. Nelle intenzioni quest’ultimo elemento è già presente nel discusso e discutibile Cannibal Holocaust (id. 1978) di Ruggero Deodato. Questa pellicola (più conosciuta per le infami uccisioni reali di animali sul set al servizio dello spettacolo, che per i suoi contenuti eversivi e di critica nei confronti dell’informazione), potenzialmente rappresenta il punto di non ritorno della rappresentazione della violenza e della manipolazione di essa da parte dei media. Cannibal Holocaust è un viaggio all’inferno ambiguo e destabilizzante dove la realtà e la finzione ma anche le loro riproduzioni mediatiche si mischiano continuamente in un caleidoscopio di emozioni contrastanti. La pellicola vive sull’interscambio multiplo di fascinazione e disgusto della sua messa in scena ipocrita e sensazionalistica. Cannibal Holocaust così come Benny’s Video alimenta l’ossimoro dello sguardo, dove l’orrore del cannibalismo associato all’omicidio di Benny, paradossalmente diventa l’elemento positivo se messo in relazione con l’olocausto degli indigeni associato alla reazione dei genitori di Benny. Per capire meglio analizziamo la trama di Cannibal Holocaust: La storia si sviluppa a ritroso, presentando la vicenda già conclusa ma ignota sia allo spettatore che ai personaggi del film. Il professor Munroe (Robert Kerman), viene incaricato di rintracciare una spedizione di quattro reporters recatisi in Amazzonia per riprendere le immagini esclusive di alcune presunte tribù cannibali. Messosi sulle loro tracce, l’antropologo entra progressivamente in contatto con il mondo selvaggio della foresta, dove vivono i pacifici Akumu e gli antropofagi Shamatari e Anamuro. Attraverso lo scambio culturale entrerà in possesso delle pellicole girate dai reporters. Scoprirà così che Alan Yakes e il suo gruppo si sono macchiati di crimini indicibili e di efferati delitti ai danni degli indios al solo scopo di realizzare un documentario sensazionale, fino ad arrivare al proprio sacrificio pur di riprendere la realtà. Realizzato tra New York e Leticia (una località al confine tra Colombia, Brasile e Perù) con un budget di 180 milioni in sette settimane di riprese, è sicuramente uno dei film più estremi dell’intera cinematografia mondiale. Sia Cannibal Holocaust che Benny’s Video presentano la stessa struttura fatta di immagini riprese con due formati diversi, al fine di rendere distinguibile la realtà dalla finzione, ma con l’intento provocatorio di invertirne le parti: in Benny’s Video le riprese video raccontano il reale e quelle in pellicola la finzione, così come in Cannibal Holocaust il super8 racconta la “presunta” realtà mentre il 35 mm la “finzione” della vicenda. Accentuando l’aspetto pseudo-realistico, con l’utilizzo di tremolanti immagini in super8 graffiate e
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Ciò che anima gli uomini non è la brama di stimoli e sensazioni, ma la violenza stessa, la distruzione del corpo estraneo, i gemiti della creatura, l’o dore del sangue. All’inizio le reazioni sono ancora contrastanti. La violenza disgusta, provoca ripugnanza, incute paura e orrore, ma nello stesso tempo attrae e alletta. Lo shock provoca il voltastomaco, un momento di nausea, vertigini, poi un breve vibrare di fasci di nervi finché finalmente il sollievo placa la paura. Qualsiasi cosa accada, lo spettatore sa di essere al sicuro. Il dolore che ascolta e che vede non è il suo dolore. Assapora sempre di più la forza d’animo che sale dentro di lui, il coraggio di opporsi all’orribile, di misurarsi con esso. A distanza di sicurezza, si erge, si eleva sull’accaduto, prova persino una sensazione di sublimità.43
“bruciate” in post-produzione, Ruggero Deodato si spinge fino al limite dello snuff movie. Lo fa con una sfrontatezza e con un cattivo gusto talmente esasperati da trasformare l’estremo della rappresentazione in una riflessione profonda e sconvolgente sulla trasmutazione dell’immagine e sull’ipocrisia della stessa. A partire dalla rappresentazione dei quattro reporters fatta attraverso lo schermo di una televisione, passando per l’intervista al prof. Munroe ripresa attraverso gli schermi di uno studio televisivo, fino all’orgia di sangue e devastazione perpetrata da Yates e il suo gruppo filmata in super8 e in stile documentaristico, Deodato costruisce un reality malsano in cui niente è come sembra. Quando prima della riunione finale la produttrice dice al professore: “Certo è terribile, ma se debitamente montato, rappresenta un documento unico e di irripetibile”, abbiamo la consapevolezza che l’immagine è intrinsecamente falsa, in quanto è solo la riproduzione della realtà. Allo stesso modo quando Haneke in Benny’s Video fa vedere l’uccisione del maiale al rallentatore, il “vero” della ripresa assume i connotati stranianti e deformi del “falso” della finzione. Il suono sordo delle urla del maiale e il tonfo cupo dello sparo creano un effetto di distonia in cui è evidente la manipolazione mediatica. Haneke vuole confondere, vuole togliere certezze allo spettatore, per fare emergere la gratuità della violenza. Non dà spiegazioni sociologiche, ma si limita ad utilizzare in modo critico gli stessi mezzi con cui la violenza viene riprodotta: telecamere, televisioni, monitor e videoregistratori. Benny attraverso questi elementi “controlla” la sua vita come un reality ma improvvisamente il reale “vero” deflagra nella sua esistenza con l’omicidio della sua coetanea. Questo improvviso scarto confonde lo spettatore ed elimina la distanza di sicurezza che c’è tra chi guarda e l’immagine. Anche Ruggero Deodato in Cannibal Holocaust utilizza lo stesso espediente, quando in The Last road to Hell (un finto documentario che il prof. Munroe visiona per capire chi erano i quattro reporters), tra le varie esecuzioni capitali reali, ne inserisce una finta girata da lui stesso, ottenendo così l’effetto di confondere il pubblico sulla veridicità di ciò che sta vedendo. Da dentro lo schermo cinematografico, attraverso il nostro “intelligentis simo” atto di vedere, si instaura un rapporti immediato con la nostra imma ginazione (ovunque essa risieda, vi sono molte teorie al riguardo), ed è con la nostra stessa emozionalità che derivano il “significato” dell’immagine. Emozione legata anch’essa alla nostra carne attraverso i falsi allarmi dei nervi ingannati dalla percezione (davanti allo schermo si piange, si ride, si 56
sobbalza, ecc...), mentre il fantasma, quasi nell’immediatezza della percezio ne si impone annullando l’eventuale distanza per entrare in noi.44 Benny’s Video e Cannibal Holocaust sono quindi la sintesi dell’ossimoro dello sguardo. Sono due film che attraverso la rappresentazione della violenza riflettono sull’ambiguità del vedere. I media, e la televisione in modo particolare, sono per Haneke e Deodato un elemento di controllo e un potere in grado di condizionare la mente dello spettatore,in quanto scelgono cosa mostrare e attraverso il montaggio sono in grado di manipolarne il significato. Lo sguardo dello spettatore è quindi impotente di fronte alla “visione negata” dei fatti. Ogni immagine può essere modificata da chiunque per i propri fini. Anche le immagini documentarie, e quindi presunte reali, possono essere rallentate o velocizzate con un videoregistratore o edulcorate di ciò che è più sconveniente. Così la violenza viene addomesticata attraverso la sua rappresentazione e viene deprivata degli aspetti significanti. L’orrore, viene somministrato al pubblico in dosi omeopatiche, eppure viene montato in modo da colpevolizzare chi lo commette. Attraverso queste metodologie i media rendono accettabile qualunque efferatezza, perché tendono ad esorcizzare le cause e i contenuti più estremi (e quindi significanti), per mostrare solo gli aspetti più shockanti e superficiali, nell’illusione di poter controllare il Male e di poterlo dominare anche nella realtà. Haneke quindi con Benny’s Video realizza un filmmonito contro il controllo che le immagini esercitano sull’uomo e viceversa. La sua visione negata che nel finale mostra il pentimento (forse) di Benny solo attraverso i monitor di video sorveglianza è un ulteriore sberleffo nei confronti dello spettatore. Questi, convinto e rassicurato dell’autodenuncia di Benny riacquista il sollievo perduto per tutta la durata della pellicola, e non si accorge che quello che sta vedendo è solo un’immagine “falsa”, riproduzione elettronica del reale realizzata tramite un dispositivo artificiale. Inoltre Haneke inserisce come sottofondo agli ultimi fotogrammi del film, il sonoro di un telegiornale, facendo così apparire la vicenda come una delle tante notizie di cronaca che si confondono tra la guerra serbo-bosniaca e un disastro aereo in Svezia. Poi compare sul monitor la scritta Benny’s Video a suggellare definitivamente confusione tra realtà e finzione. Transmediatico Con Benny’s Video Michael Haneke affronta il tabù contemporaneo della morte. Questo tema, sempre più rimosso dalla società, percorre tutta la pelli57
cola in modo sotterraneo per poi emergere improvvisamente nel finale, quando Georg rivolto a Benny chiede: “Perché l’hai fatto?” e il figlio dopo un attimo di esitazione risponde: “Volevo sapere come era”. Questa sentenza esplode come una bomba in una pellicola dall’andamento teso ma calmo, e rappresenta la fine di ogni possibilità di dialogo tra Benny e la società. Questo perché la persistente esposizione alle immagini del ragazzo ha poco alla volta nullificato la sua identità e ogni suo collegamento con il reale. La televisione, sia come palinsesto, sai come strumento di riproduzione cancella lentamente ogni cosa fino ad isolare l’individuo in universo mediatico dove non c’è più distinzione tra bene e male, tra reale e virtuale e tra azione e riproduzione.
momento in cui, riproducendo la stessa situazione Benny mostra ai genitori impassibili il suo omicidio. L’assenza di spiegazioni apparenti è una precisa scelta del regista che vuole evitare che lo spettatore, come Benny, “controlli” ciò che sta vedendo.
La televisione sostituendosi-con la sua “quasi-realtà” alla realtà quoti diana, cancella i valori, le situazioni, l’identità che tutti noi abbiamo avuto dentro la società in cui viviamo. Detto diversamente la società televisiva toglie, cancella. Questo non è un male in assoluto ma , togliendo e cancel lando, la televisione non sostituisce altre cose.45 Questa non-sostituzione accentua lentamente il processo di svuotamento e conduce inesorabilmente alla morte. Il problema appunto è che, non sostituendo ciò che toglie la televisione cancella l’identità. Questa si costruisce sin dall’infanzia con coordinate spazio-temporali in grado di identificare i limiti dell’agire e il perimetro del movimento. Analizzando lo spazio di Benny, cioè la sua cameretta, salta subito agli occhi la non-assimilabilità con la stanza di un adolescente: monitor, telecamere e altri dispositivi elettronici sono immersi nell’oscurità di un “laboratorio”. La sua è una “camera oscura” dove egli riproduce, tramite telecamera e videoregistratore, una realtà controllabile, al fine di possederla. In sintesi si può definire Benny un “transmediatico”, cioè un individuo che “gioca” con la realtà e di conseguenza con la vita. Vive un’esistenza traslata da ciò che vede e riprende. Controlla, con il telecomando e con i tasti di fastforward e rewind, la realtà quotidiana e questi sono gli “strumenti” con cui potenzialmente egli può creare o distruggere ogni cosa. Esemplare il momento in cui riavvolge il nastro con le riprese dell’uccisione del maiale, che a velocità normale muore, ma schiacciando rewind miracolosamente torna in vita. Aggiungiamo che tutto ciò avviene in un contesto dove i genitori non solo non esercitano alcun “controllo”, bensì sono “spettatori” della vita di loro figlio. Condizione questa, resa magnificamente da Haneke in due momenti sovrapponibili del film: all’interno del video, dove Anna e Georg sono spettatori dell’uccisione del maiale ripresa da Benny; e nel
L’assenza di motivazioni date, viene valorizzata se messa in relazione con il teorema del film, in cui c’è un omicidio compiuto da un adolescente che si pone una domanda: che cosa è la morte? Ecco allora che torniamo al punto di partenza e al tema centrale della pellicola. Se prendiamo in considerazione il fatto che Benny noleggia film in continuazione ed è esposto giorno e notte ad immagini televisive appare chiara l’intercambiabilità di realtà e finzione come di persone e personaggi che affollano la sua mente. Haneke pone il punto di rottura di questa situazione dopo la visione da parte di Benny del film The Toxic Avenger (id. 1985) di Lloyd Kaufman e Michael Herz. Scelta non casuale, visto che nel bene e nel male si tratta di una pellicola spartiacque, che impone un’accelerazione improvvisa al processo di “giocabilità” delle immagini. Le caratterizzazioni estreme e demenziali dei personaggi unite all’esasperazione di ogni situazione costituiscono una pellicola, che si configura all’insegna dell’eccesso sia formale che contenutistico, evidenziando oltre misura l’aspetto splatter e centrifugando svariati elementi di cultura pop, immaginario adolescenziale con bizzarrie varie. Il risultato è un prodotto greve e post-moderno dove gli aspetti più cruenti della vita, come la violenza, lo stupro, l’orrore e la morte vengono ribaltati e miscelati in un prodotto sgradevole ma accattivante. Haneke dunque, compie questa scelta per affermare il concetto secondo cui è la forma della rappresentazione che determina l’effetto del contenuto. La violenza in The Toxic Avenger e per traslato nella vita di Benny, viene percepita con assoluta intercambiabilità, cosa che produce l’effetto di far percepire tutto ciò che viene rappresentato e vissuto come fittizio, e permette di esercitare quel “controllo” che costituisce la rete di sicurezza (il possesso delle immagini). Ovvio che questa escalation, che corre parallelamente all’assuefazione mediatica, sia inarrestabile e che porti a considerare la morte un effetto speciale (come dice Benny: “un po’ di pla-
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Mi sono reso conto che in questo modo l’argomento affrontato rimane nella mente e nel cuore del pubblico più a lungo di quanto succede se viene data loro anche solo una piccolissima risposta. In quest’ultimo caso, gli spet tatori, prendono subito per buona questa risposta, si attaccano fermamente ad essa e dicono: “Si, la vicenda è terribile, ma tanto non mi riguarda affat to”.46
stica, del ketchup”). Benny “gioca” quotidianamente con la vita e con la morte , manipola, monta e smonta ogni situazione in un percorso di autoannullamento. Benny subisce una mutazione che da essere umano lo trasforma in un essere transmediatico e diventa archetipo di un’involuzione sociale dove tutto è “trans”, perché tutto è modificabile e trasponibile nell’illusione umana di potersi autodeterminare. Quando vengono a mancare i limiti, erosi dal nulla, mediatico ed esistenziale, l’individuo si trova solo e “cosificato” e si accorge di essere solo l’interfaccia (nel caso di Benny’s Video rappresentata dagli schermi) di un meccanismo sociale indifferente e apatico. Haneke fa quindi sua una riflessione sui media di Jean Baudrillard, e con Benny’s Video concretizza la minaccia che la società delle immagini esercita costantemente sui suoi spettatori. Il silenzio è bandito dagli schermi, bandito dalla comunicazione. Le immagini dei media (e i testi mediatici sono come le immagini) non tacciono mai: immagini e messaggi devono succedersi senza soluzione di continuità. Ebbene, il silenzio è appunto questa sincope nel circuito, questa leggera catastrofe, questo lapsus che, in televisione per esempio, diventa altamente significativo – rottura carica al contempo di angoscia e di giubilo, che veri fica il fatto che tutta questa comunicazione è in fondo soltanto uno scenario forzato, una fiction ininterrotta che ci dispensa dal vuoto, dal vuoto dello schermo mentale di cui spiamo le immagini con lo stesso affascinamento. L’immagine dell’uomo seduto contempla, in un giorno di sciopero, lo scher mo vuoto del suo televisore, potrà valere un giorno come una delle più belle immagini dell’antropologia del XX secolo.47
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Capitolo sesto 71 FRAGMENTE EINER CHRONOLOGIE DES ZUFALLS (71 FRAMMENTI DI UNA CRONOLOGIA DEL CASO) La frammentazione è indispensabile se non si vuole cadere nella rappresen tazione. Vedere gli esseri e le cose nelle loro parti separabili. Isolare queste parti. Renderle indipendenti al fine di conferire a esse una nuova dipendenza. Robert Bresson Amore e morte nel giardino della quotidianità Per chiudere la “trilogia del congelamento”, Haneke si rivolge ancora una volta ad un fatto di cronaca. Il film 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls si apre con un cartello nero che rivela il fatto prima ancora che la storia cominci: il 23 Dicembre 1993 uno studente di 19 anni Maximiliam B. sparò a tre persone in una filiale della Wiener Bank e subito dopo si uccise con un colpo di pistola alla testa. Haneke si lega a questo evento per imbastire una pellicola dove ogni frammento reca al suo interno cause e conseguenze, ma mai spiegazioni. Il film narra la storia di un gruppo eterogeneo di persone che non hanno nulla in comune, ma che per colpa del caso si ritroveranno al centro di una tragedia. Un ragazzo dodicenne (Gabriel Cosmin Urdes) è un clandestino fuggito dalla Romania. Max (Lukas Miko) è uno sportivo che viene dalla provincia e condivide la sua stanza con Hanno. Bernie è un soldato dell’esercito, di 27 anni. Hans (Alexander Pschill) ha 46 anni e guida un blindato portavalori; è sposato con Maria e insieme hanno una figlia di pochi mesi. Tomasek (Otto Grunmandl) è un anziano di 70 anni, vive da solo e ha rapporti familiari difficili. Paul (Udo Samel) e Inge (Anne Bennet) Brunner desiderano un figlio. La mattina del 23 Dicembre 1993 alcuni di loro si incontreranno per la prima volta... L’intento di Michael Haneke è dunque quello di raccontare la realtà in 61
modo trasversale. Il Male che attraversa i primi due film della trilogia, in maniera perpendicolare nel nucleo familiare, qui si allarga e si pone obliquamente attraverso la società. Quella di 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls è una struttura a incastro dove, come in un puzzle disarticolato, ogni tassello non deve convergere in un punto preciso. La realtà non può mai essere raccontata nella sua totalità in quanto molteplice, sfaccettata e ondivaga, ma può essere interpretata, eludendo gli aspetti psicologici e sociologici, al fine di non cadere nel qualunquismo del cinema mainstream. Quello che conta per Haneke è lasciare lo spettatore interdetto davanti a una visione parziale, e perciò stimolante, degli accadimenti, con l’intento dichiarato di non dare risposte ma di sollevare esclusivamente delle domande. “Compito dello spettatore è scoprire chi, che cosa e perché. Il mio com pito è stato invece quello di costruire una struttura fatta di domande, di evi tare di dare risposte e di rendere possibili molteplici e contraddittorie inter pretazioni”.48 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls è diviso in quattro parti (le prime due della durata di circa 30 min., le seconde due di 6 min.), che chiameremo statiche, più una quinta parte che chiameremo dinamica (durata 20 min.). Le parti statiche riportano date casuali antecedenti al 23 Dicembre 1993 e costituiscono la presentazione dei personaggi e il racconto degli eventi personali intorno al loro contesto privato. L’ultima parte è invece il racconto scandito delle dinamiche del caso attraverso cui i personaggi convergono verso un unico e determinato evento: la strage finale.
sporco e prepara la colazione. Maria si reca in bagno, sente piangere la bambina e scoppia anche lei in lacrime davanti allo specchio. Il disagio e la depressione sono le conseguenze del congelamento dei sentimenti. Haneke, all’interno del film, ritorna più volte sull’argomento sottolineando, attraverso piccoli gesti impacciati o distratti seguiti da uno stato d’animo di disagio, la fragilità di personaggi sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Parallelamente anche la religione è ormai solo un feticcio, un simulacro cartaceo diviso in tanti piccoli pezzi da ricomporre. Attraverso il gioco della croce componibile, Haneke sottolinea la mercificazione dello spirito conclamata dalla scommessa economica che, verso la fine di questa prima parte, scatena lo scatto d’ira di Max. Quello che rimane all’uomo è la sicurezza degli oggetti e del denaro. Il regista austriaco racconta attraverso il lavoro di Hans (guida un portavalori) le traiettorie (viaggi dal deposito alla banca) e le dinamiche che compongono la “mostra delle atrocità” del consumismo. Tutta la sequenza della consegna del denaro è frammentata e “chiusa” su dettagli di movimento: azioni meccaniche e ritualizzate prive di calore e di imprevedibilità, ma anzi fredde e impersonali tanto da risultare inutili. Aspetto questo che Haneke concretizza nei tre minuti statici della partita di ping-pong di Hanno con la macchina. Scena provocatoria e irritante dove non accade nulla, ma dove si ha la sgradevole sensazione che quel “nulla” è una realtà di vita a causa della modernizzazione incontrollata per cui l’uomo è diventato un robot, in perenne allenamento, alla disperata ricerca della performance. 26 Ottobre 1993
Un ragazzino rumeno attraversa un corso d’acqua, sale una collinetta e si dirige verso un deposito; si nasconde su un camion carico di lavatrici e intraprende il suo cammino di clandestino. Per Haneke le persone ormai sono merce all’interno di un sistema economico di import/export. Quest’aspetto è sottolineato dalla dinamica stessa del viaggio che parte da un luogo semplice tra acqua e erba, per poi concludersi (al termine della sequenza dei titoli di testa) tra l’asfalto e le macchine di Vienna, davanti al grattacielo PHILIPS, chiuso tra un McDonald e la Coca Cola. Tre simboli del consumismo che agli occhi del piccolo rumeno rappresentano un paradiso artificiale di luci e colori. Una famiglia si alza al suono della sveglia. La madre getta via il pannolino
Hans si alza presto, va in bagno, si chiude dentro si inginocchia e prega. La preghiera è quindi “nascosta” ed è alimentata esclusivamente dalla paura (Hans prega che non gli succeda niente e che non arrivi una guerra nucleare). Una bambina, Anni, viene adottata da due genitori soli. Una volta condotta a casa, la sua prima richiesta è quella di poter vedere la sua cameretta. Per Haneke i bambini sono creature sole. Abbandonati alle istituzioni (scuole, istituti, ecc....) da genitori troppo presi dal lavoro o spaventati dalle responsabilità, i bambini si chiudono in un isolamento protettivo dove la richiesta di uno spazio proprio (la cameretta), materializza il luogo ovattato necessario per tenere lontano gli “altri”. I bambini però sono anche gli unici esseri umani ancora in grado di comunicare. Emblematica a questo proposito la scena dove il bambino rumeno (clandestino) e quello austriaco (ricco) giocano sul ciglio della banchina della metropolitana. Nella loro diversità, sia di classe che di origine, trovano il punto di incontro nella gestualità silenzio-
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12 Ottobre 1993
sa che esprime vera gioia. Il bambino rumeno sorride (è l’unica volta nel film) quando vede il bambino austriaco che si comporta come lui. Haneke però, chiude anche questa sequenza nel pessimismo mettendo i due bambini ai margini di uno spazio diviso dal vuoto dei binari, e consegna questo alito di speranza alle intenzioni ma non hai fatti. Mentre le armi circolano di mano in mano, in luoghi di consumo (non a caso bar, ristoranti, mense), tra scambi di denaro e gioie di possesso, in questa seconda parte ci sono le due sequenze fondamentali e complementari della pellicola. Il piano-sequenza statico di 9 min., in cui il vecchio Tomasek parla al telefono con la figlia è la sintesi hanekiana dell’incomunicabilità e del disinteresse verso le persone; fattori questi che hanno contagiato anche il nucleo familiare. Situazione questa, ripetuta con modalità diverse nel secondo piano-sequenza di tre minuti contenete la dichiarazione d’amore di Hans a Maria durante la cena. L’inquadratura fissa sui coniugi seduti a tavola i una stanza semplice e spoglia e immersi in un silenzio assordante è la sintesi del perturbante freudiano e allo stesso tempo rappresenta il momento estremo della scelta decisiva. Questo frammento rappresenta la quintessenza tematica del film. L’amore più naturale qui appare come una dichiarazione oscena, una proposizione insensata e la violenza fisica sembra il solo colpo di freno, probabilmente temporaneo, alla deriva psicologica die sentimenti.49 30 Ottobre 1993 Il bambino rumeno parla in televisione e i coniugi Brunner decidono di adottarlo. La televisione, in questa scena, è il tramite tra il disagio della clandestinità e la possibilità di vita e di benessere. Anche qui però è il caso a determinare l’incontro, che può avvenire solo grazie al telecomando. Se il canale fosse stato un altro il bambino rumeno, probabilmente, sarebbe stato rispedito al suo paese. La sequenza successiva è quella della perquisizione a casa del giovane militare ed è un’ulteriore sottolineatura della frammentarietà esercitata dal controllo e da chi lo dispone. 17 Novembre 1993
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Questa parte del film è concentrata quasi esclusivamente sul gioco. Vediamo quello di carta della croce componibile riportato sullo schermo di un computer e quindi modificato sia di contesto che di significato. Facendolo diventare un programma, Haneke ne sancisce definitivamente la sua mercificazione, che è per traslato quella della religione, che attraverso la rete diventa indiscriminatamente fruibile a chiunque. Aspetto questo, ulteriormente sottolineato dalla sequenza successiva del Mikado dove lo spettatore è in trepida attesa del movimento sbagliato, ma che per Haneke diventa la metafora della realtà, dove le merci muovono le persone. Non è quindi casuale che uno dei due ragazzi affermi: “Io non gioco per niente. Dobbiamo giocarci qualche cosa. Il tuo orologio?”. 23 Dicembre 1993 L’ultima parte di 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls è quella dinamica, quella del movimento convergente verso l’evento definitivo. Tutto inizia nella maniera più tranquilla: Hans esce di casa per andare al lavoro; Tomasek si veste accuratamente per andare a trovare la figlia in banca; Inge Brunner è in macchina con il bambino rumeno e gli insegna alcune parole in tedesco; Max telefona a casa avvisando che arriverà nel tardo pomeriggio. È quasi Natale, ma le luci e le vetrine colorate non sollevano il grigiore che aleggia su Vienna. Mentre è in macchina Max si accorge di essere in riserva e si ferma ad un distributore di benzina. Una volta terminato il rifornimento si accorge di non avere soldi. Entra nel gabbiotto del titolare e chiede di poter pagare con il bancomat. Si sente rispondere che non è possibile e in malo modo viene invitato ad andare a prelevare i soldi nella banca al di là della strada. Max inserisce la carta nel bancomat, ma questo è fuori servizio. Dietro la sua macchina ferma si è creata la coda e la gente spazientita continua a suonare il clacson. Max entra in banca e chiede gentilmente, superando la fila allo sportello, di poter avere subito i soldi ma viene violentemente scaraventato a terra da un cliente. Sconfortato e avvilito rientra in macchina e accende la radio, mentre le macchine gli suonano imperterrite, viene insultato da un automobilista. Max entra in banca e comincia a sparare a caso, poi esce, attraversa la strada sparando alle macchine, entra nella sua auto e si uccide. Tutti i personaggi quindi, compiono in viaggio che li porterà casualmente ad incontrarsi con Max e la sua pistola alla vigilia delle vacanze di Natale in un freddo e livido mattino viennese. Non è casuale, ma anzi è simbolico, che la morte dia loro appuntamento in banca, perché per Haneke la corsa insen65
sata, immota e inconcludente del consumismo è un cerchio i cui punti di unione sono la nascita e la morte. Il film infatti si apre con un bambino che esce dall’acqua e sale su un camion di merci in viaggio e si chiude davanti ad una banca, dentro una macchina che quel viaggio non lo farà più. Quello che rimane della tragedia è solo l’ennesima e “banale” notizia di “guerra” che apre un telegiornale. Il diavolo probabilmente... 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls è un film che sancisce la contemporaneità degli eventi e l’indifferenziazione degli esseri umani dalle loro azioni. È un film che costruisce una serie di ponti tra le cause e le conseguenze di fatti di carattere internazionale con quelle di fatti privati. La scelta di mettere in scena un omicidio collettivo, estremamente drammatico nella sua casualità e alimentato da un annebbiamento temporaneo di chi lo compie, (ma sedimentato e cresciuto nel tempo), indirizza il film verso un’omologazione degli eventi. Le violenze della guerra nell’ex-Jugoslavia, l’operazione Restore Hope in Somalia, il conflitto eterno tra cattolici e protestanti nell’Ulster, sono eventi che non sono indivisibili dai fatti di cronaca o dal fenomeno della clandestinità che sono presenti in Europa. Le une non sono né risposte né spiegazioni rispetto le altre, ma fanno parte entrambi delle medesime dinamiche che alimentano la violenza. La televisione è quindi lo strumento che “spiega” questa contemporaneità di eventi grandi e piccoli. La profusione di schermi presenti, in secondo piano, nelle scene di 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, racconta la fluidità ininterrotta delle immagini, mentre ai telegiornali che aprono ogni parte dl film, sempre uguali ma sempre diversi, spetta il compito di serializzare, restringere o estendere il campo delle informazioni. Con questa scelta narrativa Haneke riflette sì sulla riproducibilità della realtà attraverso le immagini, ma anche e soprattutto sulla interazione di forza e di violenza secondo cui la passività di una società benestante e “imperialista” immersa nella storia, “giustifica” la violenza insensata e destoricizzata di un singolo individuo troppo sensibile, e quindi inadatto al contesto sociale, freddo e calcolatore in cui egli vive. Paradossalmente quindi, per Haneke, la televisione diventa l’oggetto-icona di un meccanismo economico tacito e “libero”, alimentato dal capitale attraverso cui le immagini divengono il motore sia delle azioni internazionali che di quelle individuali. La convinzione che bisognasse fare qualcosa per fermare la guerra in 66
Bosnia si è fondata sull’attenzione dei giornalisti - “l’effetto CNN”, come lo si è a volte definito – che sera dopo sera , per oltre tre anni hanno fatto entra re le immagini dell’assedio di Sarajevo in centinaia di milioni di case.50 Ovvio che in tutto questo, ci sia necessariamente lo zampino del Male e che, citando un famoso titolo di Bresson, Il diavolo probabilmente..., sia il distributore occulto e beffardo delle armi. Armi che in 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls si spostano in continuazione ma che non determinano né l’ora né il movente, dato che la strage avviene nella casualità più assoluta. Le armi rubate all’inizio del film passano continuamente di mano in una logica mercantile continua ed inesausta che le pone come elemento di scambio con il denaro e che quindi, per osmosi, le mette sullo stesso piano. Armi e denaro sono quindi la “moneta del diavolo”, con cui egli compra le vite umane e di conseguenza sono elementi catalizzatori e contagiosi del Male. Haneke riprende quindi la teoria che sta alla base dell’ultimo e splendido film di Robert Bresson. Ne L’argent (id. 1983) la banconote falsa da cinquecento franchi porta con sé un carico di malattia che alimentato dallo scambio (e quindi dal rafforzamento) e dal suo fascino (l’emozione del rischio), corrompe l’innocenza degli individui e li conduce al furto prima, e al delitto poi. Bresson, come Haneke, impedisce ogni via di fuga allo sguardo dello spettatore, e inquadra gli oggetti, anche i più banali, in modo “perverso” (isolandoli dal contesto) per farli diventare muti testimoni della progressione del Male nel quotidiano. Ne L’arg e n t, Il denaro e gli oggetti non sono innocenti ma sono simboli ambigui dell’estremizzazione del desiderio dell’uomo, tanto che ad un certo punto (con la scelta di Lucien di rubare per fare beneficenza) si sintetizzano nel bancomat e diventano l’unicum con cui Bene e Male si toccano e si intrecciano. Il bancomat iniziale e quello successivo bloccato fraudolentemente da Lucien assumono un’incombenza minacciosa e malefica da diretti dispensa tori automatici del Male, che danno origine al giro corruttore e distruttivo del denaro...51 Michael Haneke sostituisce, o meglio integra, il denaro con le armi e a differenza di Bresson, che nel finale del film offre la possibilità della redenzione al suo protagonista, chiude tutte le porte impedendo ogni possibilità di scelta. Opzione sintetizzata dalla lunga e silenziosa immagine della chiazza di sangue che si espande sotto il corpo di Hans, al termine della strage. Il sangue si espande nel silenzio dell’indifferenza ed è il risultato del contagio malefico 67
esercitato dal denaro. Haneke quindi, come Bresson attraverso la staticità della macchina da presa, cerca di cogliere i movimenti interiori omettendo provocatoriamente i movimenti esteriori, limitandosi a filmare azioni meccaniche isolate dal loro contesto. Compie quindi, in 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, un’opera di astrazione, dove nulla è determinato, e di frantumazione (del tempo e dello spazio) in cui tutto appare inspiegabilmente casuale. Niente è esibito o raccontato, ma tutto è mostrato nel silenzio freddo e glaciale dei non-sentimenti: il silenzio dell’incomunicabilità.
della famiglia e del futuro e di conseguenza non permette agli esseri umani di interagire. In Europa c’è come un blocco emotivo che congela i sentimenti a causa del dolore mai somatizzato che la tecnica e la produzione instillano nelle persone. Dolore che scaturisce dal fatto che la partecipazione alla vita ormai è un esercizio sterile e improduttivo perché non è più spontanea ma è indotta e indirizzata da sovraorganismi meccanici che “fanno agire”, “fanno credere” e “fanno sapere”. L’ausiliare “fare” posto davanti alle azioni, indica quindi che non si tratta più di scelte autonome, bensì di operazioni programmate da altri.
Trans-Europ-Express
La posta in gioco della tecnica e delle scienze sembra essere piuttosto quella di farci confrontare con un mondo definitivamente irreale, al di là di qualunque principio di verità e di realtà. La rivoluzione contemporanea è quella dell’incertezza. Noi non siamo pronti ad accettarla. E il paradosso è che cerchiamo di sfuggirvi attraverso una maggiore informazione e comuni cazione, aggravando con ciò stesso la relazione di incertezza.52
La struttura di 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, si basa sul principio di “realtà parziale”. Non è infatti possibile conoscere, e di conseguenza raccontare, la totalità degli eventi. Haneke non è interessato a fornire un quadro esaustivo delle dinamiche di vita che regolano i suoi personaggi. Egli si limita a costruire un anello all’interno del quale l’arcipelago di situazioni e di relazioni si costruisce attorno ad una serie di microcosmi organizzati intorno alla dissoluzione e alla solitudine. La struttura ad anello è data dai movimenti di macchina, simili ma opposti che aprono e chiudono il film. L’apertura con il cammino del piccolo rumeno verso la fuga è sottolineata da un lento carrello aereo che muove da sinistra verso destra per raccontare un inizio di vita, mentre nel finale, lo stesso movimento e la stessa direzione seguono il giovane Max verso la morte. Morte che avviene dentro l’abitacolo di una macchina ad indicare ancora una volta come nel cinema di Haneke i mezzi meccanici siano il viatico attraverso cui la “grande mietitrice” si presenta agli uomini. Già in Der Siebente Kontinent la “scelta” di morte avveniva dentro la macchina, così come è per Max davanti alla stazione di servizio mentre ascolta la musica chiuso nell’abitacolo. Come dicevamo, la solitudine e la dissoluzione attraversano 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, un film dove i corpi non si incontrano più, gli sguardi non si incrociano mai e le parole sono diventate inutili. Questo quadro agghiacciante e volutamente disarticolato nella struttura casuale del film spiega che l’intento di Haneke è quello di affrontare un discorso ampio che non riguarda solo l’Austria, ma che abbraccia tutta l’Europa. Per questo non ci sono nel film, come nel resto della tricologia, elementi riconoscibili per l’identificazione dei luoghi, proprio perché l’alienazione che accomuna le microsocietà raccontate è estendibile ad un contesto ampio ed eterogeneo in cui si configura una follia collettiva. La solitudine è alimentata dall’incertezza: del lavoro, 68
Haneke, come Baudrillard, crede che la sovraesposizione alle immagini sia deleteria e pericolosa e per questo motivo in 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, inserisce continuamente nelle inquadrature schermi video, monitor, televisioni e telecamere, per concretizzare il principio di incertezza che sta alla base della contemporaneità e quindi del suo film. La “sicurezza” data dalla televisione tiene lontano le paure delle persone (i telegiornali con le immagini di guerre lontane) e fornisce la base d’appoggio per continuare a sopravvivere. Inevitabile quindi che l’incomunicabilità, l’indifferenza e l’incertezza riducano il fatto di cronaca (giornalistica) e di sangue (reale) della strage del giovane austriaco solo all’ennesimo servizio giornalistico mischiato tra la guerra dell’ex Jugoslavia e l’accusa di pedofilia a Michael Jackson. L’obiettivo per Michael Haneke è quello di “seguire” casualmente alcune persone e strutturare le loro dinamiche in brevi sequenze disorganizzate, con il presupposto che la vita sia un percorso astratto che apparentemente non conduce da nessuna parte. In realtà ogni persona esiste solo per la traccia che lascia al suo passaggio e diventa così specchio multiplo di quella che incontra e che a sua volta ha lasciato un’altra traccia. La struttura di 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls è dunque un intrecciarsi continuo di tracce di persone che attraversano luoghi e spazi per “combattersi” in una guerra civile pregressa. La dittatura del tempo impone ritmi scanditi che devono essere seguiti: pena il disagio e la depressione. Il “vuoto” di certe inquadrature diventa per necessità il momento di relax e di riposo per 69
praticare lo scollamento dalla tempistica imposta dall’esistenza. La cronologia frammentata di Haneke ha quindi lo scopo di destrutturare questo sistema malefico e di ammonire lo spettatore. L’Europa, sempre più unita e contemporaneamente sempre più distante, è per Haneke un non-luogo dove esseri umani automatici si muovono come morti viventi nella confusione tecnologica e dove l’interscambio import/export delle merci è diventato l’unico mezzo per stabilire un contatto comunicativo. Non c’è speranza quindi, e ancora una volta una “visione negata” quella che ci offre questo regista austriaco. Visione che dopo aver raccontato il congelamento dei sentimenti sposterà le prospettive su un altro concetto cardine della società contemporanea: il nemico.
Capitolo settimo DAS SCHLOSS (IL CASTELLO) Purtroppo, però, anche lei è qualcosa, un forestiero, uno di troppo e sempre tra i piedi, che procura un mucchio di seccature, uno che costringe a far slog giare le domestiche e non si sa quali intenzioni abbia; uno che ha sedotto la piccola Frieda e al quale purtroppo ora bisogna darla in moglie. In fondo non le faccio un rimprovero per tutto questo. Lei è quello che è; in vita mia ne ho viste già troppe per non poter sopportare anche questa. Da Il Castello di Franz Kafka
Partitura incompiuta per un passaggio televisivo A distanza di quindici anni, Michael Haneke torna a lavorare per la ORF, la televisione di stato austriaca. La scelta coincide con il momento in cui il suo cinema compie un cambio di traiettoria, e cioè passa dall’analisi dei nonsentimenti della “trilogia del congelamento” all’analisi della figura del “nemico” nella società. Das Schloss (il Castello, 1997) è quindi un film-cerniera poiché qui le due tematiche del cinema di Haneke si fondono magnificamente, e si potrebbe quasi dire che, nel corso della narrazione, un argomento lascia il posto all’altro. Inoltre, questo film per la televisione è l’occasione per lavorare all’adattamento di un romanzo di Kafka, uno degli autori preferiti dal cineasta austriaco. Michael Haneke vive il rapporto tra cinema e letteratura come un conflitto inestricabile che solo la rappresentazione reale(e quindi parziale) degli eventi è in grado di risolvere in modo concreto e plausibile:soluzione adottata per tradurre in immagini la scrittura dell’autore praghese. Considero Kafka l’autore più “concreto” della moderna letteratura tede sca. Per me Kafka non è un autore surrealista e non è possibile inserirlo in 70
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nessuna categoria. Secondo la mia opinione le sue storie sono molto reali stiche. E questa è la cosa che più mi ha interessato nel fare il mio adatta mento. La cosa che più mi ha stimolato è stata la possibilità di trovare una strada per risolvere il conflitto tra letteratura e cinema.53
In un villaggio isolato e quasi sepolto dalla neve, un giorno arriva K. (Ulrich Muhë), un uomo che dice di essere un agrimensore chiamato dal castello per effettuare certe misurazioni. Accolto con ostilità non riesce a inserirsi in un contesto abitativo complesso, regolato da ferree ma incomprensibili regole di convivenza. Affiancato da due stralunati e presunti aiutanti Arthur (Frank Giering) e Jeremias (Felix Eitner), prova a stringere rapporti con qualcuno degli abitanti. Si lega a Frieda (Susanne Lothar) un’ambigua cameriera che lavora presso una birreria ed è alle dipendenze (anche amorose) di un certo Klamm. Quando viene scoperta la loro relazione, lei viene licenziata e a K. viene offerto un posto da bidello presso la scuola locale. In un crescendo assurdo di incontri e fraintendimenti K. Cerca di stabilirsi nel villaggio e cerca di avere un contatto con qualcuno del castello che possa spiegargli la sua situazione. Con il passare del tempo la sua presenza viene sempre meno tollerata e sempre più spesso viene invitato ad allontanarsi. In questo clima di difficile convivenza, K. si reca all’incontro con il Sindaco (Nikolaus Paryla) che dovrebbe spiegargli il perché sia stato chiamato, ma questo, da possibile incontro rivelatore si presenta invece come l’ennesima complicazione. La burocrazia imperante con le sue discriminazioni e la sua impenetrabilità ostacola ogni tentativo di K. E scatena conflitti tra lui e le persone che lo circondano. K. si renderà conto che la sua posizione non è mai minimamente cambiata dal giorno del suo arrivo: egli rimane uno straniero indesiderato che nel migliore dei casi, viene a malapena tollerato. La prima inquadratura del film è rivelatrice di tutto il contesto. Un quadro abbozzato presenta un villaggio abbarbicato sul dorso si una collina e nella parte alta, dove presumibilmente si trova il castello, l’immagine è strappata ed è completata da un frammento di registro catastale. Ecco quindi che il castello, che nel film non si vede mai, si presenta subito come metafora della burocrazia opprimente che graverà su K. e sulla sua vicenda. Nella scena suc-
cessiva K. apre la porta su cui è affissa questa immagine e di conseguenza Haneke “alza il sipario” sugli avvenimenti a seguire. Immerso in un grigiore impersonale, Das Schloss presenta tutta una serie di caratteristiche riconducibili all’omologazione e al “congelamento dei sentimenti” sin qui raccontati dal regista nelle sue opere. Il film non è ambientato in nessuna epoca, ma in una sorta di “passato sospeso” dove tutto sembra appartenere alla seconda metà del secolo scorso. Il villaggio sorge in un luogo indefinito spazzato continuamente da bufere di neve e i personaggi parlano tutti un tedesco perfetto e scolastico privo di accenti. Gli interni si assomigliano tutti, immersi in una semioscurità eterna rotta dalla luce tenue di poche lampade. Da questa rappresentazione emerge lampante il “nulla” sartriano che abita nell’opera di Kafka, con la persistente presenza di spazi vuoti dove l’orrore metafisico dell’autore praghese, si sedimenta e si dispiega. Negli angoli delle stanze, lungo le pareti spoglie e decadenti, sui pavimenti scricchiolanti, Haneke concretizza quel graduale processo di sottrazione che porta alla scomparsa di ogni forma, tipico delle opere dell’autore praghese. La disposizione delle immagini, nell’adattamento di Haneke, è di una precisione geometrica così come la struttura portante del film ruota attorno ad un alternarsi matematico di contrasti. Inquadrature fisse alternate a lunghi carrelli, totali alternati a dettagli ed esterni alternati ad interni si dispongono progressivamente nella forma filmica, regolati dalla presenza frammentaria dello spazio nero utilizzato come momento di divisione tra i vari capitoli e quindi riconducibile alla struttura letteraria. Come dice Sartre, il “nulla” genera l’angoscia cioè la paura di ciò che l’uomo ha dentro di sé, ma questi non riconoscendola la riversa nell’ostilità verso gli altri. Questo concetto sta alla base del Das Schloss di Michael Haneke, dove la sequenza in cui Frieda confida a K. la sua intenzione di lasciarlo e il successivo incontro di K. con Burgël, diventa lo spartiacque della poetica del cineasta austriaco. Il momento dell’abbandono di Frieda sintetizza il “congelamento dei sentimenti”, mentre l’incontro con il funzionario rende consapevole K. di essere un “nemico” per la comunità e rappresenta il momento in cui egli, presa coscienza della sua condizione tenta di ribellarsi al sistema. Secondo l’editore Max Brod il romanzo di Kafka avrebbe dovuto concludersi con una parziale vittoria dell’agrimensore, lasciando così intravedere un segno di speranza. Poiché quella di Michael Haneke è una ”visione negata” il momento del riscatto di K. non solo non arriva mai, ma viene addirittura trasformato in una cocente sconfitta. K., impotente, può solo rendersi conto di essere un “nemico” e cercare di sopravvivere in un luogo inospitale. Questa idea è esplicitata da Haneke con la scelta volontaria di non tradurre per immagini le ultime righe del romanzo dove è presente l’unico gesto
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In Das Schloss ci sono tutte le interruzioni e i neri del cinema del regista austriaco, che definisce sin dai titoli di testa l’opera di Franz Kafka come un “frammento di prosa” e non come un romanzo incompiuto, allineandosi così sull’idea originale dello scrittore.
di accoglienza (da parte della madre di Gerstacker) nei confronti di K. Era la madre di Gerstacker. Elle tese a K. la mano tremante e lo fece sede re accanto a lei; parlava a fatica e si stentava a comprendere quel che dice va, ma le sue parole54
Il Castello è il terzo e ultimo romanzo scritto da Franz Kafka. L’opera è rimasta incompleta a causa della prematura morte dell’autore avvenuta per tubercolosi il 3 giugno del 1924 nel sanatorio Hoffman a Kierling nei pressi di Vienna, all’età di quarant’anni. I due precedenti romanzi L’AmErika e Il processo sono datati rispettivamente 1912 e 1914. con diverse modalità appaiono entrambi incompleti. Nel caso de Il processo c’è la mancanza di parti intermedie, mentre per quanto riguarda L’AmErika si può parlare di una “sospensione” momentanea prima della stesura definitiva. Tali interruzioni non sono comunque paragonabili con quella de Il castello avvenuta per la morte del suo autore e quindi non per scelta. Il castello è dei romanzi di Kafka quello che presenta una migliore ed esplicita continuità degli eventi. L’inizio della vicenda si svolge nell’arco di qualche giorno, o di qualche notte, poiché il personaggio di K. si presenta in uno stato di stanchezza che si protrae per tutta la lunghezza del romanzo. L’azione quindi è molto concentrata e contemporaneamente ininterrotta. Questo aspetto viene comple-
tante smontato nell’adattamento di Haneke che costruisce il suo Das Schloss sulla frammentazione degli eventi e sulla segmentazione delle riprese. Apparentemente in contrasto con Kafka, in realtà Haneke centra a pieno l’intenzione che sta alla base dell’autore praghese, che lavorando sulla continuità della scrittura interviene sulla frammentarietà dell’azione. La scelta di Haneke di far recitare ad un attore (Udo Samel) la parte del narratore è un modo per trasporre in immagini il pensiero di Kafka. Nel film quello che si nota è che il narratore non interviene in maniera tradizionale, cioè come una voce-off che al cinema serve per raccordare gli episodi separati dal tempo, ma interviene nello stesso momento dello svolgersi dell’azione. La finalità di questa scelta è esplicitata dalla scena in cui K. a colloquio con Burgel (un funzionario relativamente importante del castello) viene colto dal sonno mentre questi cerca di offrirgli la possibilità di accedere al castello. In questo caso la voce narrante si prende carico dei pensieri di K. e la sovrapposizione “fastidiosa” del dialogo e della voce off diventa lo strumento attraverso cui Haneke esplicita l’impenetrabilità e l’assurdità della situazione in cui K. si trova coinvolto. È questo il momento in cui K. prende coscienza di essere un “nemico” ed è il momento in cui la narrazione passa, secondo la volontà di Haneke, dall’aspetto puramente metaforico ad un aspetto reale e contemporaneo. La scelta di Haneke di interrompere l’azione con improvvisi “spazi neri” oltre a fungere da momento di separazione tra i capitoli del romanzo sottolinea il fatto che nel romanzo di Kafka alcuni passaggi e alcuni avvenimenti siano stati cancellati dallo stesso autore. Inoltre questa scelta elimina in parte il conflitto tra cinema e letteratura, poiché Michael Haneke traduce in immagini le “correzioni” e quindi la volontà dell’autore. Il regista austriaco mantiene la vicenda su un livello prettamente terreno e di conseguenza contestualizzato al presente al fine di aggiungere un ulteriore capitolo alla sua poetica che interviene esclusivamente sulla società che lui condivide. Nel suo adattamento tralascia quindi gli aspetti metafisici e trascendentali che caratterizzano l’opera di Kafka, per concentrarsi sull’assenza e sulle difficoltà dei rapporti relazionali. L’apatia dei personaggi e la banalità di certe situazioni sono per traslato quelle raccontate nella trilogia precedente. Haneke quindi interpreta Il Castello di Kafka alla luce della realtà che egli vive e di conseguenza il castello, mai mostrato, diventa la metafora del potere politico ed economico che muove le persone come marionette. Se ne deduce che, il gran burattinaio dell’adattamento di Haneke non può avere una dimensione trascendente come per Kafka, ma può solo ed esclusivamente rappresentare la sintesi della meccanizzazione irreversibile della società presente in tutta la sua opera.
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Questa omissione (resa solo attraverso la voce-off) unita alla scelta di tradurre per immagini un’opera incompleta, certifica la volontà di Michael Haneke di riflettere sulla parzialità dell’esistenza al fine di rendere più realistica la messa in scena. Nella nostra vita è impossibile catturare la realtà nella sua totalità e Kafka è stato il primo a mostrare questo concetto nei suoi lavori. Egli ha compreso che la descrizione totale della realtà è una pura illusione. Il fatto che il romanzo non sia finito lo rende solo più realistico: un frammento di realtà.55 L’omissione voluta di ogni positività è quindi la scelta politica di una “visione negata” che fa emergere, anche attraverso un’opera del passato come quella di Kafka, l’omologazione, l’indifferenza e il senso di soffocamento che abitano l’Europa contemporanea. Il puzzle dell’assurdo
K. diventa dunque l’altra metà del Gregor Samsa de La metamorfosi e cioè il lato non mostruoso del diverso e quindi dello straniero. Se il Samsa trasformato in scarafaggio viene osteggiato ed ucciso a causa del suo aspetto fisico, a K. viene impedito di integrarsi a causa del suo arrivo improvviso. La non programmaticità della sua venuta porta scompiglio e “scandalo” nel villaggio succube del castello, e subito la burocrazia si attiva per regolarizzare la sua presenza. Significativo a questo proposito che subito all’inizio del film venga chiesto a K. il permesso per presenziare nella locanda. Permesso che per Haneke è l’equivalente del “permesso di soggiorno” richiesto agli extracomunitari per poter essere integrati in una comunità che non è la loro. Il castello è quindi l’Europa che si presenta accogliente e tollerante ma che alimenta nei suoi sotterranei un razzismo strisciante e una xenofobia latente che si concretizzano in una “violenza” subliminale” esercitata nei confronti dello straniero. Violenza rappresentata dalla rigidità e dalla impenetrabilità della burocrazia che talvolta non è solo ostacolo all’integrazione ma è, con la sua assurdità, l’elemento che fa svoltare gli intenti e le volontà dello straniero nella direzione sbagliata. Ancora un a volta quindi la “visione negata” di Haneke non è fine a se stessa ma è l’esemplificazione di una realtà difficile e contorta che vede il diverso come il nemico e che quindi si “arma” per opporsi attraverso un’apparente legalità. Il nemico, cioè l’altro, saranno d’ora in poi al centro della filmografia di Haneke, nelle forme e nei contesti più diversi e la prima volta che si presenteranno a bussare alla porta avranno le sembianze bonarie e tranquille di due candidi clown. Dietro la maschera però... c’è l’orrore.
Capitolo ottavo FUNNY GAMES: L’ARCHETIPO DELLA CRUDELTA’ Non è più il sognatore lunare della nenia antica Che rideva dai sovrapporta ai nostri avi; La sua allegrezza, come la sua candela, ahimè, è morta E il suo spettro oggi ci tormenta, smilzo e chiaro. Ed ecco, nello spavento di un lungo lampo la sua pallida Casacca, sollevata dal vento gelato, ha l’aria Di un sudario; e la sua bocca è spalancata, tanto che Sembra ch’egli stia urlando per il morso dei vermi. Da Pierrot di Paul Verlaine
Quando “i clowns” bussano alla tua porta Esiste un cinema estremo per vocazione, quello teorico, provocatorio e autoriflessivo. È un cinema che si pone in antitesi con lo spettatore e che usa le proprie immagini per teorizzare. Questo cinema non dialoga con il pubblico, ma mette quest’ultimo in condizione subalterna rispetto alla narrazione. Funny Games (id. 1997) appartiene pienamente a questa idea cinematografica e lo stesso Michael Haneke non ha mai fatto mistero dell’intento provocatorio che sta alla base dell’opera. “È il classico concetto di thriller. Funny Games usa questa situazione per dare allo spettatore la possibilità di realizzare la sua posizione come consu matore di violenza. Utilizzare uno scenario familiare aiuta a rendere questo processo trasparente”.56 Funny Games si pone quindi in una condizione di superiorità rispetto allo spettatore. Il discorso che sta alla base del film è lucido e spietato e manipo-
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la continuamente lo sguardo e la psiche di chi guarda. Michael Haneke instaura tra sé e lo spettatore un rapporto sado-masochistico, il cui deus exmachina è rappresentato dalle figure bonarie e rassicuranti di Peter e Paul. Questi che non sono volutamente due personaggi interagiscono tra loro scambiandosi continuamente i nomi: dai santi cattolici Peter e Paul a Beavis & Butt-head, fino alla cartoonizzazione di Tom e Jerry. Sono quindi due archetipi riconducibili alla coppia comica (uno magro e uno grasso) e si identificano con la coppia circense per eccellenza: i clowns. Paul è alto, magro, preciso e puntiglioso, saccente e “perfetto” mentre Peter è basso grasso, pasticcione e idiota. Aggiungiamo il fatto che sono vestiti di un bianco candido, si presentano educati e gentili e vediamo che ci troviamo davanti a due non-personaggi che sono incarnazione dell’”altro” e quindi del “nemico”. Questa nuova figura che si affaccia nel cinema di Haneke, agisce contro ogni regola che normalmente la nostra società rispetta. I due “clowns” scardinano ogni costruzione logica delle dinamiche che agiscono nei rapporti tra esseri umani e smontano con il loro agire folle, il meccanismo consolidato che agisce sul rispetto e la dignità di uomini e donne. Non è quindi casuale che Haneke, per cortocircuitare le dinamiche logiche e ordinarie della società, abbia utilizzato due “pagliacci”, poiché la comicità surreale del duo stride violentemente con la violenza e il sadismo perpetrati. Inoltre dietro la figura del clown si nasconde da sempre la presenza latente della minaccia e dell’inquietudine, anche per il fatto che spesso la figura del pagliaccio è stato considerata la metafora della condizione umana. Una metafora carica di negatività e di malessere al punti da diventare incarnazione carnevalesca della morte stessa.
della morte. Peter e Paul agiscono secondo un registro comico che è già il contrario di ciò che rappresenta. Dietro il loro candore si nasconde un “nemico” carico dell’orrore strisciante di un essere sconosciuto e subdolo che attira e ripugna nello stesso tempo e soprattutto che gode a torturare e a uccidere senza pietà e senza alcun rimorso. È il diverso, l’”altro” che terrorizza e mina la sicurezza dell’uomo contemporaneo. Diversità che Peter e Paul esprimono attraverso la loro latente e costruita (dal regista) omosessualità. Paradossalmente quindi questo nemico è l’uomo stesso, cioè colui che è contemporaneamente sia vittima che carnefice. Quello messo in atto da Haneke in Funny Games è un gioco di specchi cinico e irritante, ma che trova spiegazione nella teoria della psicosi familiare di Jacques Lacan.
I personaggi di Pierrot e Arlecchino passarono da protagonisti dell’arte popolare a tema letterario degli scrittori colti, spesso accompagnato da una funerea ironia. Divennero personaggi legati alla morte e al suo trionfo. Come scheletri della Dance Macabre rappresentarono la miseria della dimensione cor porea fino a trasformarsi in fantasmi e spiriti, liberati dal peso della materia.57 Fantasmi quindi, incarnazione “angelica” del Male assoluto. Peter e Paul sono il “nemico” che abita dentro ogni essere umano. Il lato oscuro che si materializza nel doppio e che compie il male per il Male. Non ci sono spiegazioni, non c’è logica, ma c’è solo il puro esercizio di azioni malvagie tese a offendere, ferire e infine uccidere. Il clown diventa quindi, il simbolo dell’uomo stesso e della sua divisione tra ricerca del divertimento e vocazione alla verità. Ma il divertimento è il contrario della felicità, perché non dà gioia in se stesso, ma permette all’uomo di dimenticare le sofferenze e il pensiero
La volontà di Haneke di costruire un gioco al massacro interattivo con lo sguardo dello spettatore, si concretizza lentamente all’interno della pellicola e agisce più sul livello psichico che su quello reale. C’è da parte del regista austriaco la necessità di caricare le figura dei due clowns (Peter e Paul), di un significato superiore che si manifesta a livello subconscio come un fantasma del passato e si rivela apertamente nel discorso pronunciato da Paul sul divano di fronte alla famiglia prigioniera. La “banalità del male” enunciata da Paul per giustificare il suo agire è carica del peso della storia e si manifesta attraverso la condizione di prigionia della famiglia Shöber che appare vittima di un esperimento di inaudita crudeltà. Il nucleo familiare è impotente di fronte alla volontà (altra) di chi vuole osservarne il comportamento in tale condizioni. Per questo motivo i due archetipi Peter e Paul, non sono solo figure allegoriche della condizione umana contemporanea, ma fondano le loro radici nel fango melmoso e insanguinato della storia del ventesimo secolo. Sono figli virtuali del nazismo e
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L’io riflesso sotto i tratti scomposti delle sue incidenze formatrici e seguendo minacce reali o intrusioni immaginarie, è rappresentato dall’adul to castratore o dal fratello penetratore: la sindrome della persecuzione inter pretativa, con il suo oggetto a senso omosessuale latente. Un gradino ulte riore l’io arcaico manifesta la sua disgregazione nel sentimento di essere spiato, indovinato, svelato, sentimento fondamentale nella psicosi allucina toria, e il doppio in cui si era identificato si oppone al soggetto, sia come eco del pensiero e degli atti nelle forme auditive verbali dell’allucinazione, i cui contenuti di autodiffamazione indicano l’affinità evolutiva con la repressio ne morale, sia come fantasma speculare del corpo in certe forme di alluci nazione visiva, le cui reazioni suicidarie rivelano la coerenza arcaica con il masochismo primordiale.58
dei totalitarismi che hanno corrotto l’Europa, e sono l’evoluzione del perverso pensiero ideologico che ha dominato le masse alla metà del secolo scorso. Il padre-archetipo di questi due individui potrebbe benissimo essere l’Hans Vergerus, protagonista di Das Schlangenei (L’uovo del serpente, 1972) di Ingmar Bergman. Vergerus è il prototipo delirante e allucinato dello scienziato nazista che uccide la gente per i suoi folli esperimenti. In questo film, Bergman descrive in un’atmosfera plumbea e decadente lo spirito e le idee cresciute nella Germania pre-nazista, che da lì a poco si sarebbero concretizzate nella trappola individuale e collettiva perpetrata ai danni della popolazione tedesca. Vergerus, come Peter e Paul, si presenta elegante e raffinato, gentile e cortese, suadente e rispettoso, ma agisce cinicamente e solo ed esclusivamente per biechi interessi personali. L’orrore che dimora in lui si nasconde dietro il paravento pleonastico della ricerca scientifica e si maschera attraverso il camice bianco e candido (come per Peter e Paul) della medicina. Vergerus, come la coppia hanekiana, agisce su meccanismi sociali consolidati e li smonta in funzione dei propri obiettivi. Non esita a reclutare ragazzi affamati e disperati al solo fine di sottoporli a terribili esperimenti e ha la pretesa di giustificare le sue nefandezze come necessarie per poter capire i comportamenti umani. Come lo scienziato, anche Peter e Paul agiscono per dimostrare come i comportamenti omologati e reiterati delle persone, siano facilmente penetrabili e possano essere rivoltati e utilizzati contro gli uomini stessi, per fini malvagi. La mescolanza di commedia e di estremo sadismo costruita da Haneke in Funny Games, si rivela un cocktail micidiale capace di incrinare ogni logica e ogni certezza. La banalità del male è presente sempre e ovunque, perchè abita nell’animo umano. Il tema dell’aggressione, inteso come fattore biologico proprio dell’uomo, è sempre attuale ed è impossibile, anche se è doloroso ammetterlo,, non riconoscerlo e non affrontarlo. Anche se nella società moderna si cerca di eliminare l’aggressività, basta un solo sguardo attento, per rendersi conto che nessun altro tema domina la vita più di questo. Haneke, che ha ben presente questo aspetto dell’esistenza, non rinuncia all’idea di di porre al centro della pellicola un interscambio biunivoco tra grandi e piccoli conflitti. Il tema dell’aggressione infatti, spiega al meglio La teoria di Paracelso sulla corrispondenza tra uomo e mondo: microcosmo uguale macrocosmo. Attraverso la metafora, Haneke ci ricorda cinicamente che, se un giorno due clowns bussassero alla nostra porta per chiedere delle uova, noi non avremmo comunque nessuna speranza, e saremmo sempre e comunque responsabili delle nostre azioni. Irreversible
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Accusato più volte e da più parti di essere un regista-provocatore Haneke confeziona con Funny Games la risposta a tali accuse. Il film in questione è una prigione, una black-box dove lo spettatore è chiuso e impotente. L’unica possibilità di fuga è quella di abbandonare la visione per non essere “complice” di quanto avviene sullo schermo. Michael Haneke per realizzare questa esperienza si rifà agli Azionisti viennesi, che con le loro performences ritualistico-psicanalitiche mettevano in evidenza le esperienze umane più estreme. Otto Muhel, leader indiscusso del movimento, ripudia i canoni tradizionali dell’espressione artistica e sostiene che l’arte Azionista “è una pratica in cui tutte le possibilità di sviluppo di un progetto concettuale possono essere esplorate”. Agendo sull’ambiguità e mescolando l’aspetto ludico con quello scatologico, le performances di Otto Muhel si avvicinano nella loro forma materialistica e frammentaria, alla provocazione di Funny Games. Se per Muhel la sessualità è produzione e la fame è consumo, per Haneke la violenza è produzione e la fame è riempimento. Muhel e Haneke sono entrambi figli di una nazione, l’Austria, martoriata dalla storia, che nell’idea dei due artisti diventa archetipo di partenza per contestualizzare un discorso più ampio e generalizzato. Lo strumento utilizzato è per entrambi quello del cinema: questo offre la possibilità di costruire “provocazioni” per distruggere le dinamiche che animano il mondo piccolo-borghese. Tutto ciò ha molto a che fare con l’Austria, che è priva di zone metropo litane. Anche Vienna è una cittadina di provincia. E la campagna la conosco troppo poco. L’80% degli austriaci e dei tedeschi ha una mentalità piccoloborghese.59 La rappresentazione della violenza è analizzata, in Funny Games, secondo due canali: da un lato come l’ambiente piccolo-borghese reagisce di fronte all’irruzione del nemico e dall’altro come lo spettatore reagisce di fronte a situazioni paradossali e insostenibili. Nel film è omessa la scelta in contrapposizione all’idea di un cinema dove la diegesi è snodata e aperta al caso, ma lo spettatore è parte di un rapporto sado-masochista in cui il regista è il suo “padrone”. Haneke violenta colui che guarda mettendo in evidenza il meccanismo. La costruzione cinematografica di Funny Games recupera quel cinema materialista che, evidenziando al pubblico il lato produttivo e fattivo della messa in scena, rivela la sua inautenticità. La pellicola e la pista sonora sono elementi fisici e concreti, l’immagine è materia e il cinema non è “innocente”. Il paradosso è che il lavoro compiuto da Haneke utilizza l’inautenticità teorica del cinema per creare una 81
propria e personale autenticità. Quando, dopo aver reso lo spettatore complice e fan di un omicidio, Haneke “ordina” a Paul di cercare disperatamente il telecomando: il trucco è svelato e può iniziare l’opera di disarticolazione dell’ingranaggio-cinema. L’assurdo, che entra nella pellicola attraverso il rewind, svela il meccanismo di fruizione della violenza. Questo espediente, irritante e saccente, inchioda al muro lo spettatore-voyeur e ne manipola la psiche portandolo ad interrogarsi sulle sue responsabilità di “muto” osservatore/complice di un omicidio. Nel rewind l’artificio si identifica con l’immagine digitalizzata e con il nastro video dove è possibile far andare indietro la registrazione e incidere sopra un’altra scena con un esito diverso. Portare indietro il nastro è un’operazione compiuta da Paul (con il tacito assenso di Haneke) che non permette sublimazione, cioè non permette che si faccia giustizia e quindi non permette che si segua l’ordine consolidato delle reazioni imposte dalla società. Il gioco è macabro e la violenza perpetrata da Peter e Paul si riversa crudelmente sullo spettatore perchè il gioco non è leale, non segue regole precise, ma è dichiaratamente scorretto. È un meccanismo irreversibile che trasla nei rapporti umani l’inversione psichica. Infatti, se la psicanalisi è partita dalle forme latenti dell’omosessualità per riconoscere le discordanze psichiche più sottili dell’inversione, è in fun zione di un’antinomia sociale che bisogna comprendere questa impasse immaginario della polarizzazione sessuale quando in modo invisibile vi si mobilitano le forme di una cultura, i costumi, le arti, la lotta e il pensiero.60 L’omosessualità latente di Peter e Paul è quindi la chiave di lettura che permette di sviscerare il meccanismo che sta alla base di Funny Games. È l’elemento destrutturante che anima l’inversione e la confusione dei ruoli, poiché incarna l’anomia sociale dei due giovani e ne scopre apertamente il ruolo di “opponenti” nella società. Contrapposti alla famiglia piccolo-borghese, i due giovani identificano “l’altro” che si intromette nel quotidiano. La paura ossessiva del diverso è la molla che fa scattare tutto il concatenarsi di intimidazioni e violenze successive. I candidi archetipi del Male sono quindi l’essenza stessa della poetica di Michael Haneke. Sono la materializzazione della “visione negata”, perchè sono il collante che lega il “congelamento dei sentimenti” con il “nemico”. Peter e Paul, ovviamente, non sono omosessuali, ma Haneke ce lo fa credere lo stesso perchè la sua provocazione agisce sulla rappresentazione della violenza e sulla manipolazione dei caratteri. Solo così l’inautentico può diventare autentico e la realtà e la finzione possono diventare due parti scisse e separate di un unico concetto: l’immagine. 82
Capitolo nono FUNNY GAMES La signora von Dunajew potrà non solo punire a sua discrezione il pro prio schiavo per ogni sua minia inavvertenza o colpa, ma avrà anche il dirit to di maltrattarlo secondo il suo capriccio o per mero passatempo come più le piaccia, o addirittura di ucciderlo, se le aggrada; in breve, egli è sua pro prietà assoluta. Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch Giocare con il male Colpito da una serie di fatti di cronaca nera con protagonisti ragazzi giovani e benestanti, Michael Haneke comincia a documentarsi e a raccogliere materiale sull’argomento. La sua ricerca lo conduce in un territorio destabilizzato, dove la violenza è ordine e le regole vengono continuamente infrante. Il continuo rimando al gioco che il regista austriaco percepisce nei fatti di cronaca collezionati, lo induce a costruire una pellicola provocatoria, fastidiosa e sadica. Convinto assertore del falso-cinematografico, mette in scena con Funny Games, un kammerspiel claustrofobico e crudele. Ho affermato più volte che per me un lungometraggio produce menzogne a ventiquattro fotogrammi al secondo. Talvolta sono menzogne a servizio di una verità, ma non sempre.61 Il film di Haneke si sviluppa sul crinale dell’ambiguità tra realtà e finzione e muove tutta una serie di meccanismi contraddittori che omettono la violenza di tipo etcnico e sociale in favore di un sadismo ludico che vede come agenti provocatori due “angeli” sterminatori. Una famiglia tipo, composta dalla madre Anna (Susanne Lothar), dal Padre Georg (Ulrich Mühe) e dal figlio Georgi (Stefan Clapczynski), arriva 83
nella casa di villeggiatura in riva al lago. La situazione di idillio familiare e ambientale viene turbata da due giovani misteriosi e sconosciuti che riescono ad entrare in casa presentandosi come educati e molto formali. Paul (Arno Frisch) e Peter (Frank Gering) gettano subito la maschera, ed i n seguito ad una banale discussione, aggrediscono violentemente e sistematicamente i membri della famiglia. La violenza non risparmia niente e nessuno e deliberatamente segue una escalation programmatica di sadismo gratuito. Peter e Paul propongono alla famiglia di partecipare ad una scommessa, come quelle televisive, i cui termini sono quelli di vita o di morte nelle successive 12 ore. Il gioco ha così inizio. Il film incomincia con una serie di inquadrature ariose dall’alto che mostrano il verde paesaggio austriaco come tranquillo e lussureggiante. Una macchina con a rimorchio una barca coperta percorre le strade ordinate e prive di traffico che si dipanano attraverso i boschi. Percepiamo i dialoghi all’interno dell’abitacolo: marito e moglie stanno giocando ad indovinare brani musicali classici e delicati mentre si dirigono verso un possibile periodo di riposo e tranquillità lontano dalla città. La musica diegetica, classica e suadente, si integra perfettamente con il paesaggio circostante. Improvvisamente sull’inquadratura che presenta la famiglia chiusa dentro l’abitacolo, irrompe il suono brutale extra-diegetico della musica di John Zorn e dei Naked City. Suoni durissimi, urla strazianti, chitarre velocissime compongono un mix inquietante e spigoloso mentre a tutto schermo compare la scritta rossa, irriverente e provocatoria, Funny Games. La distonia entra sin da subito nella pellicola e contamina come un virus inestirpabile tutto il resto della narrazione. La scelta della musica sperimentale di John Zorn non è per nulla casuale, perché oltre ad essere l’elemento perturbante che rende traballante l’iniziale situazione idilliaca, è supportata dal fatto che nei booklet discografici dell’artista sono presenti scene di violenza e immagini di tortura. Qualcosa di ancor più esterno rispetto alla diegesi ci introduce, prima ancora che il film cominci, in un’atmosfera torbida e malsana che prelude a ciò che aspetta gli ignari protagonisti della vicenda. Il secondo segnale di anormalità è dato da una inquadratura apparentemente insignificante. Georg ferma la macchina di fronte al cancello dei vicini di casa e li esorta a non allenarsi per la partita a golf del giorno successivo. Dietro le inferriate del cancello si intravedono due figure vestite di bianco, due estranei su cui Anna e Georg si interrogano su chi possano essere. Haneke filma in campo-lungo e l’imbarazzo del colloquio è evidente e sospetto. Mette tra la famiglia e i vicini oltre che la distanza anche un cancello e il tono di voce dell’amico Fred è 84
piatto e scostante. Il regista elabora quindi un percorso a tappe lento e inesorabile, attraverso cui tutta una serie di piccoli elementi portano all’introduzione dell’orrore. Peter e Paul si presentano da subito come educati e gentili, con un’aria rassicurante e con un atteggiamento quasi ingenuo. Sono vestiti di bianco, ordinati e puliti e si presentano alla porta di casa della famiglia Schober con modi raffinati e cortesi. Haneke introduce qui un altro elemento di distonia che stride fortemente con la situazione formale. Rolfi, il cane lupo degli Schober abbaia insistentemente e sbatte violentemente contro la zanzariera dietro cui si trovano Peter e Paul, che si presentano con le mani guantate di bianco, creando una tensione tanto assurda quanto reale. Il regista austriaco introduce i suoi due protagonisti attraverso le vesti dell’inganno consegnandoli da subito ad essere l’incarnazione del Male. Secondo lo studioso dell’aggressività Friederich Hacker, l’inganno più efficace del Demonio è far credere che egli non esiste e, se esiste, è negli altri e non in noi stessi. Haneke prende alla lettera la teoria del medico tedesco e fa di Peter e Paul gli archetipi del Male assoluto, che in Funny Games agiscono secondo le loro regole, che sono provocatoriamente in netto contrasto con quelle comunemente accettate dalla società. Il gioco segue un disordine logico secondo cui, la violenza perpetrata dai due è inversamente proporzionale a quanto di tale violenza ci viene mostrato. L’aggressione è immediata, repentina e si scatena sempre nel fuori-campo. Nella sequenza in cui Georg viene colpito con la mazza da golf, il movimento è rapido, quasi impercettibile, e la discrezione con cui non-viene mostrato l’atto trasmette al meglio la forza e la veemenza con cui i fatti si compiono. Haneke, per tutta la pellicola, relega nel fuori-campo gli atti di tortura e prevaricazione, e cinicamente alterna a questi inquadrature al limite del ridicolo, come quando viene ucciso il piccolo Georg e noi vediamo Paul in cucina che si prepara un panino. Haneke in Funny Games elimina anche gli spazi-neri che identificano il suo cinema. Lo fa per due motivi: il primo perché non vuole dare allo spettatore il tempo di pensare, anche perché non ce n’è bisogno, il secondo perché qui non si tratta di raccontare un fatto reale ma al contrario l’obiettivo è solo quello di esprimere una teoria. Non c’è motivazione per quello che accade, tutto è volutamente insensato e frustante. Espediente che trasmette una sensazione sadica e asettica dello sterminio progressivo e metodico della famiglia Schober. Si giunge alla violenza in primo luogo quando non c’è altra via di scam po, e secondariamente quando già una volta l’uso della violenza ha avuto successo. Questo modello teorico fa dell’uomo un oggetto di manipolazione 85
illimitata. L’individuo diventa il burattino delle circostanze, cui vengono in tal modo attribuite un’enorme importanza e la responsabilità di tutto.62 Proprio su questa manipolazione agisce Funny Games. Il processo psicologico per cui lo spettatore è continuamente indotto e contemporaneamente disatteso, nel suo desiderio di un lieto fine della vicenda e un circolo perverso che Haneke si diverte ad alimentare. Tutta la vicenda, dall’uccisione del cane Rolfi, sino all’unica scena di violenza mostrata, quella dell’uccisione di Peter da parte di Anna, ma subito smentita dal riavvolgimento del nastro(!), è una logorante partita a scacchi dove ogni possibilità di fuga viene immancabilmente frustrata e la morte è costantemente rinviata. Haneke gioca con il Male e gioca sporco, perché mette a nudo gli aspetti più deteriori dello spettatore. Il Male che è ripreso, incarnato, omesso e centrifugato in ogni azione, e chiuso in una visione negata che non ne mostra gli esiti. Solo in un caso ci viene mostrato in un campo lungo freddo e allucinato il corpo del piccolo Georgi riverso sul tappeto mentre il televisore imbrattato di sangue (altra immagine provocatoria, anche se didascalica) trasmette le immagini di una corsa automobilistica. Questa immagine è la sintesi della distonia che anima Funny Games: un quadro statico in cui la morte si percepisce attraverso i cinque sensi e in cui il rumore ossessivo della televisione crea un disturbo che impedisce allo spettatore di mettere subito a fuoco la situazione. Per questo il piano-sequenza dura più di un minuto, per permettere ai nostri occhi di decifrare la violenza insita in esso. Non c’è speranza per nessuno, né per chi agisce sullo schermo, né per chi sta dall’altra parte comodamente seduto in poltrona: tutto è programmato e stabilito in maniera agghiacciante. La morte costantemente posticipata, finalmente arriva fredda e implacabile ed evidenzia l’alterità dei suoi agenti (Peter e Paul) e la passiva accettazione dello spettatore-voyeur. Lo sguardo in macchina finale inquadra il volto di Paul semi-sorridente e Haneke beffardamente ci dice che il “nemico” non è negli altri ma è dentro di noi. L’orrore non ha mai termine e si alimenterà di una persistente coazione a ripetere, perché il dolore si accompagna sempre al piacere e incentiva il desiderio, perché nella falsità dell’immagine è racchiusa una terribile verità: per quanto assurdo tutto ciò è plausibile e, purtroppo, desiderabile.
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La morte ha fatto l’uovo Nel 1971 il regista amErikano Elia Kazan dirige un piccolo film, quasi per scommessa con un cast fatto tutto di esordienti (tranne Patrick, McVey), con un budget risicato e una piccola troupe. Il film è The Visitors (I Visitatori) ed è girato in 16 mm, con uno stile semi-amatoriale, ed è imperniato su un piccolo nucleo di persone chiuso dentro uno spazio di una casa isolata immersa in un paesaggio innevato. Kazan, che ha 62 anni ed è al suo penultimo film, costruisce un kammerspiel drammatico che, quasi in diretta, inscena la falsa coscienza e la crisi del riflusso post-Vietnam. Il film è scritto dal figlio Chris Kazan e l’episodio che è alla base del soggetto ispirerà il successivo Casualities of War (Vittime di Guerra, 1989) di Brian De Palma. Due soldati dell’esercito amErikano, il portoricano Antonio Rodriguez (Chico Martinez) e lo yankee Mike Nickerson (Steve Railsback), dopo avere scontato due anni di prigione, vengono rilasciati. I due hanno subito una condanna per stupro e il relativo omicidio di una ragazza avvenuto durante un’operazione di rastrellamento in Vietnam. Antonio e Mike vanno a trovare Bill Schmidt (James Woods allora esordiente), il commilitone che li aveva accusati e spediti di fronte alla corte marziale. Bill vive con la moglie Martha (Patricia Joyce) e il figlioletto Hal, in una grande casa di proprietà del padre di lei, lo scrittore western Harry Wayne (Patrick McVey). A poco a poco i rapporti si fanno tesi e lentamente affiorano violente tensioni represse che conducono a svolte tragiche e imprevedibili. The Visitors anticipa Funny Games, perché l’unica differenza sostanziale tra le due pellicole è data dal background storico e violento della guerra del Vietnam, mentre gli sviluppi della vicenda e le scelte registiche sono perfettamente sovrapponibili. Nel film di Kazan, come in quello di Haneke, ci sono tutta una serie di piccoli elementi perturbanti e distonici che preludono al precipitare degli eventi e all’emergere della violenza. The Visitors si apre con un cartello nero che riporta a tutto schermo (come Funny Games) il titolo del film. Una grande casa è inquadrata dall’esterno, vediamo le luci accendersi nelle varie stanze, e ci immaginiamo una tranquilla vita familiare. Martha va davanti a una grossa finestra, Bill si avvicina e la abbraccia da dietro infilando la mano sotto la sua vestaglia per toccarle il seno ma Martha quasi infastidita toglie la mano di Bill e si allontana. L’elemento di distonia è duplice, perché non solo siamo di fronte a una sessualità incompiuta e quindi ad un unione precaria, ma inquadrando la scena dall’esterno con in mezzo la “bar87
riera” della vetrata, Kazan ci presenta la famiglia (come fa Haneke attraverso il parabrezza dell’automobile) in una situazione di prigionia sicura ma provvisoria. Altro elemento perturbante, che collima con il dialogo con i vicini di Funny Games, è dato dall’arrivo dei due visitatori. Kazan costruisce la scena in un’unica inquadratura sfruttando al massimo le potenzialità di linguaggio della profondità di campo. Attraverso la tenda della porta di casa vediamo arrivare la macchina; questa si ferma, un uomo scende e mettendosi di spalle si appoggi ad essa mentre l’altro si dirige verso la porta. Il punto di vista è quello di Martha, che è sola in casa con in braccio il piccolo Hal, mentre Bill è andato a comprare il giornale. Martha apre la porta e Antonio Rodriguez le si presenta cordialmente come un amico di Bill. La distonia, che cattura lo sguardo di Martha, è data dall’altro uomo che le rivolge le spalle e non sembra minimamente interessato alla situazione. È un elemento perturbante che fa crescere la tensione e che si aggiunge ai modi educati e sinceri dei due visitatori. Si avverte che qualcosa di inquietante è sospeso nell’aria, ma niente è ancora definito. Non sono ancora presenti né violenza né dolore, ma come in Funny Games si avverte la sensazione del tragico e l’immanenza dell’aggressione che esploderà all’improvviso e scaturirà da un inaspettato cambio di prospettiva. Il dolore colpisce in quanto dolore, in modo ineludibile e inaggirabile. Non è qualcosa di cui, provandolo, ci si chieda il segno o la portata o la posi zione nell’ordine nelle cose: esso si presenta alla coscienza indiviso e tota lizzante.63 La violenza, che in Kazan è legata la tradimento e alla verità, anche in The Visitors è affrontata con discrezione e pudore. Se la riflessione appare ambigua e disturbante, come in Funny Games l’aggressione parte dal sesso maschile ma è provocata dal sesso femminile: in Haneke la reazione violenta di Anna, in Kazan la rivolta di Martha contro la giustificazione dello stupro addotta da Mike. Entrambi i registi sono consapevoli che è l’uomo il depositario del principio di Marte e che lo spirito di corpo (in un caso la simbiosi di Peter e Paul e nell’altro l’appartenenza all’esercito di Mike e Antonio), sia il paradigma universale dietro cui nascondere la tendenza all’aggressività.
da è in che misura ciò sia innato oppure culturalmente indotto.64 Quello che colpisce è come in Kazan, la violenza sia animata non solo dalla repressione del risentimento ma anche da un inusuale, per dei militari, senso di invidia. Più volte i due fanno presente a Bill che: “Hai fatto i soldi”, oppure “Hai delle persone che fanno le cose per te” restituendo appieno il malessere, il disagio e la difficoltà di integrazione di cui furono vittime tutti i reduci del Vietnam. In entrambe le pellicole, l’aggressione si trasforma in sadismo. Questo registro estremo, che appare più accentuato in Funny Games, vive sul principio ambiguo e malsano secondo cui una volta accettato il dolore e viceversa quando questo viene perseguito, c’è sempre una tendenza al piacere. Il miraggio di un bene successivo è connaturato all’idea stessa del sadico (ma anche della vittima), che è consapevole che l’attraversamento del dolore è necessario per giungere al paradiso o all’orgasmo. Non è casuale quindi che The Visitors termini con uno stupro (plastica reiterazione di ciò che è avvenuto in Vietnam) e che Funny Games finisca con la morte della donna (nell’acqua) pronta per una ri-nascita spirituale. Per questo il sadico vorrà delle prove manifeste dell’asservimento alla carne della libertà dell’altro: tenderà a far chieder perdono, lo obbligherà con la tortura e le minacce ad umiliarsi, a rinnegare ciò che ha di più caro. Si dice che ciò avviene per gusto di dominio, per volontà di potenza. Ma que sta spiegazione è vaga ed assurda. È il gusto di dominare che bisognerebbe spiegare prima di tutto e proprio questo gusto, non può essere anteriore al sadismo come suo fondamento, perché nasce come questo e sul suo stesso piano, dall’inquietudine di fronte all’altro. Infatti se il sadico si compiace di costringere con la tortura l’altro a rinnegare, è per una ragione analoga a quella che permette di interpretare il senso dell’amore.65
Non può essere casuale, né da un punto di vista simbolico né da quello della ricerca scientifica, il fatto che il sesso maschile ha molto più a che fare con il tema dell’aggressività nella su forma negativa di violenza. La doman -
In entrambi i casi la violenza è legata al cibo e all’esigenza del nutrimento. La bulimia di Peter e Paul in Funny Games è direttamente proporzionale allo svuotamento di energie che sopravviene dopo aver compiuto atti violenti. È una fame-chimica simile a quella del post-orgasmo. In The Visitors, Martha prepara la cena e Kazan in montaggio alternato mostra il trasporto del cadavere del cane ucciso dal padre con i due militari. Dopo la cena, durante la quale il padre ubriaco si ferisce e crolla sul tavolo durante un racconto di tortura (più va avanti nella descrizione più le energie gli vengono meno), si scatena l’aggressione ai danni di Bill che si confronta virilmente con Mike, Questi avuta la meglio sul giovane amico aggredisce Martha e la stupra. Il dolore e il piacere che convivono nel sadismo non si annullano a vicenda: la
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diminuzione dell’uno non corrisponde all’incremento dell’altro. Questa assenza di corrispondenze viene evidenziata nei due film con le scelta adottata , per inquadrare gli esterni e gli interni e all’uso del campo e del fuoricampo. In entrambi i film gli esterni sono ariosi, spaziosi, inquadrati in campo lungo e percorsi da una luce delicata e uniforme. Al contrario, i personaggi negli interni sono inquadrati quasi sempre in primo piano o a mezza figura. Sono schiacciati contro le pareti o oppressi dai soffitti, agiscono nella penombra e sono debitamente ripartiti. La loro presenza è divisa, di solito a coppie o a trio e si presentano sempre, a tavola o sul divano, opposti gli uni agli altri. Le famiglie non si scompongono allo scattare dell’aggressione, momento cardine in cui ogni individuo agisce in modo indipendente dagli altri, annullando legami e relazioni. Haneke e Kazan con questa messa in scena alternata tra dentro/chiuso e fuori/aperto rispettano le regole della dimensione spaziale e creano i presupposti per creare l’infrazione alle regole dei rapporti. La tensione che lentamente si insinua nei due film agisce su di un set/architettura che è riproposizione del vivere quotidiano. I corridoi, le porte, gli stipiti attraverso cui osserviamo l’agire dei protagonisti sono passaggi virtuali in cui si muovono “mostri” annidati nell’ombra. L’utilizzo insistito del sonoro fuori-campo anticipa tutta una serie di aspettative e condiziona inevitabilmente il desiderio di vedere ciò che è successo dall’altra parte. Questa dimensione angosciante e perturbante e data dalle barriere che dividono gli spazi che costituiscono un interdizione tra sentito/mostrato e tra desiderio di conoscere la soluzione dell’atteso/inatteso. L’attrazione/repulsione che ne scaturisce è innescata dal sonoro, mentre il mostrato resta ineluttabilmente fuori. Questo accade non solo per lo spettatore ma anche per i protagonisti che non vedono mai ciò che accade nell’altra stanza.
spettatore dell’orrore esistenziale. The Visitors si chiude con un campo fisso immerso nella semi-oscurità, chiuso su Martha e Bill seduti uno di fronte all’altro, leggermente sfasati e con in mezzo la culla vuota. Un altro loop quindi, che attraverso l’inquadratura dall’alto chiude il cerchio del film riprendendo l’assenza di sessualità raccontata all’inizio. Bill chiede a Martha, che ha appena subito lo stupro da parte di Mike: “stai bene?” e lo schermo diventa nero. Nella apparente diversità, i due finali sono invece perfettamente sovrapponibili quale espressione di quella “visione negata” che omette volutamente il lato positivo della vita. Non c’è quindi alcuna possibilità di fuga dal circolo vizioso della violenza, perché questa alimenta se stessa e tutto si riduce ad una sostanziale caccia tra gatto e topo in cui il desiderio che qualcosa possa succede per interrompere l’orrore, viene inesorabilmente frustrato. Cos’ come Peter ogni volta rompe le uova, così ogni volta la morte cerca, cova e sopprime le sue vittime. Reality horror show
Queste limitazioni trovano la loro determinazione nei finali dei due film. Funny Games si chiude con un loop che esalta la superiorità di Peter e Paul e che sancisce l’assoluta reversibilità dell’atto di morte che attraverso lo sguardo in camera di Paul evidenzia la passiva accettazione da parte dello
Funny Games si alimenta dell’indeterminatezza e dell’imprevedibilità del gioco. Quando si inizia a giocare non si sa né quali saranno gli sviluppi futuri, né quando il gioco terminerà. Ci sono delle regole, si seguono quelle e si vede che cosa succede. Funny Games costruisce delle sue regole personali che per quanto assurde possano sembrare, sono in realtà molto tangibili e concrete. La tensione e la crudeltà presenti nel film sono talmente particolari che non svelano mai il carattere teorico e di rappresentazione di ciò che è mostrato. Il gioco comincia con una scommessa come quelle che si vedono in certi spettacoli televisivi del sabato sera: le vittime designate non rimarranno in vita più di dodici ore. L’aspetto ludico della situazione stride con l’azione estrema cui sono sottoposte le vittime di Peter e Paul. La domanda che Haneke ci pone è la seguente: esiste un comportamento “giusto” e “logico”per reagire a tale situazione? Se partiamo dal presupposto che tutta la vicenda ha origine da una semplice richiesta di uova (che ovviamente è puro pretesto), dobbiamo prendere atto che le regole con cui si comporta la famiglia borghese sono in netto contrasto e in antitesi con quelle dettate da Peter e Paul. Il mondo piccolo borghese, nella realtà conosce queste situazioni di aggressione e violenza solo tramite la finzione cinematografica e la riproduzione televisiva. È per questo che Georg non riesce a credere a quello che succede davanti ai suoi occhi. Lui, come anche Anna, hanno assolutamente bisogno di avere una spiegazione per quello che sta succedendo. L’irrazionale
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Importantissimo a questo punto è risalire all’azione di deprivazione sen soriale che anche il set architettonico accoppiando le due forme di interdi zione,può infondere. Infatti la qualità materiale del set è quella di essere opaco e di negare all’occhio una parte almeno della sua potenza (può offri re zone poco illuminate, buie o invisibili per sue complicate qualità topogra fiche, come nel caso delle quinte di un labirinto): l’azione sostanzialmente è quella di limitare il campo più di quanto non sia già limitato.66
non è minimamente contemplato dalla loro mentalità, e quando Paul snocciola in maniera irridente una serie di situazioni di degrado e di violenza subita attraverso cui giustifica il comportamento suo e di Peter, Georg e Anna sono ancora più spiazzati. Si guardano sorridendo e con la convinzione di essere protagonisti di un incubo che prima o poi finirà. Allo stesso modo lo spettatore è violentato dalla situazione estrema che si trova di fronte: è come se si trovasse protagonista inatteso di un reality-show sadico e delirante. Disturbato da un atteggiamento di attrazione/repulsione, anche lo spettatore è convinto di trovarsi di fronte ad una situazione che prima o poi si risolverà nel migliore dei modi. Michael Haneke invece destruttura ogni regola che nella consuetudine costituisce il principio di azione-reazione e riflette sull’atteggiamento ormai passivo nei confronti delle immagini violente e stigmatizza l’invadenza e la spettacolarizzazione della violenza da parte dei media. Chi subisce passivamente la programmazione televisiva media, assiste sui più diversi canali a un centinaio di omicidi, quasi tutti derivanti da una men talità maschile distorta. A questo si aggiunge la celebrazione della violenza in innumerevoli video e e videogiochi per bambini.67 La violenza ormai documenta situazioni abnormi che sono diventate “normali”. Non crea nulla, non solleva problemi, non stimola la mente, ma al contrario stabilizza uno status-quo di torpore e assuefazione. La provocazione di Michael Haneke si manifesta attraverso il dialogo tra Paul e lo spettatore. Questi interrogando chi dall’altra parte dello schermo è sicuro e seduto nella sua poltrona infrange la regola secondo cui lo spettatore “mette alla prova” le sue emozioni e sperimenta le proprie paure rassicurato dal fatto di trovarsi di fronte ad un contesto di pura finzione. Il crescere progressivo dell’interazione tra le due parti al di qua e al di la dello schermo, arriva al punto di svelare il meccanismo cinematografico. Paradossalmente questo avviene in netto contrasto con il volere dello spettatore perchè quando Anna uccide Paul, è il momento in cui trionfa la giustizia. Ma questo avviene nelle regole della società mentre cinicamente Haneke le sovverte e “resuscita” Peter: il gioco deve continuare e un elemento così importante non può essere eliminato. Haneke riesce anche nell’intento di far esultare lo spettatore per un omicidio, mettendo così a nudo la sua “propensione” al male e il suo sadismo voyeuristico.
ne delle regole e la loro infrazione.68 Le regole del gioco sono quindi vincolanti per la sua riuscita. Anche in The Visitors, sono determinanti per lo svolgersi dell’azione. Se in Funny Games Paul prende il telecomando e schiaccia rewind per resuscitare Peter, nel film di Kazan la stessa situazione si verifica nel momento in cui Marta cambia improvvisamente atteggiamento nei confronti di Mike. Ballando con lui, accetta le sue regole e questa decisione condiziona il seguito degli eventi. Infatti, dopo essersi ribellata inutilmente allo stupro di Mike, si ritrova terrorizzata e singhiozzante abbandonata sul letto. A questo punto Antonio, il portoricano, entra nella sua stanza e fissandola le dice: “Lei è folle se crede di poter cambiare le regole a metà del gioco”. La stessa cosa avviene in Funny Games dove oltre alle regole è già stato definito anche il copione e perfino il finale. Non c’è possibilità di sovvertire la situazione: la famiglia Schober deve essere sterminata e Peter e Paul devono mettersi in viaggio alla ricerca di altre vittime. Quella di Haneke quindi è non solo una “visione negata” ma è una “visione sadica” che si prende tutto il tempo a sua disposizione. Una visione che agisce in maniera sistematica e ordinata, che dispone pazientemente i suoi strumenti di tortura e che gode della situazione ambigua e contraddittoria. Agisce nell’ambito di un determinismo universale in vista di un fine che sarà sicuramente raggiunto, perché è già stato programmato. Una visione ambigua e consapevole che l’obiettivo può essere raggiunto solo attraverso una libera e completa adesione dei due giocatori: il carnefice e la vittima.
Ci inganna promettendoci una verità, mentre poi la trasgredisce in un gioco quasi perverso tra l’attesa e la delusione dell’attesa, tra l’enunciazio 92
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Capitolo decimo CODE INCONNU-RECIT INCOMPLETE DE DIVERS VOYAGE (STORIE- RACCONTO INCOMPLETO DI DIVERSI VIAGGI) Ogni epoca ha creato le proprie immagini orrorifiche: mostri e demoni sui cornicioni delle chiese medievali, le visioni di uno Hieronymus Bosch o di un Goya, le foto delle guerre e delle tremende carestie d’oggi. Noi le abbiamo fatte sparire, le abbiamo sfrattate dal cuore, ma ad un tratto ecco una nuova immagine che non è possibile scacciare. Un’immagine qualunque, come tante altre della nostra quotidianità, nemmeno opera di un uomo, ma di qualcosa che non conosce pietà, una videocamera automatica: persone che bighellonano in un supermercato a Liverpool tra cui due ragazzini, ripre si da dietro, sfocati, che conducono per mano un bimbetto di due anni. Werner Herzog Good news :la follia della normalità Dopo l’esperienza contraddittoria di Funny Games che gli vale apprezzamenti ma anche critiche ferocissime e un certo ostracismo (nei cinema italiani viene distribuito in pieno agosto), Michael Haneke, nei tre anni successivi, lavora ad un progetto di respiro internazionale. Nel 2001 esce Code Inconnu-Recit incomplete de divers voyage (Storie-racconto incompleto di diversi viaggi), un affresco gelido e poco conciliante sulle relazioni umane nell’Europa che si appresta all’unificazione. Il film appare a prima vista come un mosaico composto da tutte una serie di situazioni, di umiliazioni e di violenze pubbliche e private che si organizzano in un percorso parallelo per giungere a comporre un quadro della condizione umana continentale. L’obiettivo di Haneke è quello di fare partecipe lo spettatore di un’urgenza umana intrinseca alla convivenza e che contemporaneamente, attraverso l’immigrazione, si spinge sempre più vicino alle porte della mitteleuropa. Il regista austriaco riflette su questa “minaccia” perlopiù ignorata da gran parte 94
degli europei che di conseguenza, non avendo la consapevolezza della portata del problema, identificano nell’extracomunitario solo il “nemico” da abbattere e/o espellere in quanto catalizzatore delle loro paure. Haneke confeziona con Code Inconnue un tracciato, ipotetico ma plausibile, delle dinamiche interrelazionali pubbliche e private. Per fare ciò, nel film, accentua il distacco dello spettatore, che non è mai emotivamente coinvolto da ciò che succede sullo schermo, frammentando la narrazione attraverso bruschi stacchi neri che da un lato sollecitano il confronto tra mostrato e colui che guarda, ma dall’altro frustrano il desiderio di finzione e stimolano la riflessione. Personaggi e storie si intrecciano per le strade di Parigi. Anne (Juilette Binoche) è una giovane attrice che sta per sfondare nel cinema. È sposata con George (Thierry Neuvic) un fotografo di guerra, il cui fratello voglioso di indipendenza fugge dalla casa del padre in campagna. Un ragazzo del Mali (Lu Yenke) vuole fare il buon samaritano, ma il suo comportamento reca danni a lui e a chi cerca di difendere. Una clandestina rumena (Luminita Gheorghiu) giunge a Parigi con la speranza di vendere giornali ma finisce tristemente a chiedere l’elemosina. Amadou è un insegnante in una scuola di musica che deve puntualmente affrontare i guai della sua famiglia... Code Inconnu si basa sul principio di azione e reazione: ad ogni azione compiuta ne corrisponde una uguale e contraria. Tale principio viene applicato in una messa in scena che contestaulizza il microcosmo privato con il macrocosmo pubblico. Anche il cinema di Michael Haneke, che con Funny Games ha ulterior mente spostato il lavoro della mdp sulla percezione paradossale di uno scac co matto sensitivo, costruisce con Code Inconnue, un percorso babelico, dove i linguaggi del glocal, ormai si intersecano in maniera permanente pro ducendo nel tempo e nello spazio un disagio continuo, nella conseguente incomunicabilità delle Storie (postumane).69 Il principio di azione/reazione irrompe nella pellicola sin da subito. Haneke, utilizzando il piano-sequenza come scelta narrativa, cerca di dare continuità alle storie rendendole il più possibile reali e ottenendo il risultato di esaurire interi episodi narrativi in un’unica inquadratura. Ponendo al centro delle vicende il tema comune del “nemico” compone un quadro psicologico di rara efficacia dove ogni reazione umana è condizionata esclusivamente dalle paure e dalle ansie nei confronti dello straniero e/o del diverso. Condizioni queste che Haneke declina attraverso varie forme e modalità, con l’intento ben preciso di portare la riflessione sul terreno a lui più congeniale: 95
quello del paradosso e della provocazione. In Code Inconnu, questo terreno si concretizza nella figura paradossale del “nemico che non c’è”, ma che in realtà vive nel pensiero e nella mentalità degli uomini e che serve loro per dare un senso alla vita e per giustificarne le scelte. Il “nemico” è quindi un puro pretesto che si anima in un’interminabile attesa per poi rivelarsi come un’ossessione necessaria agli uomini per solidificare la loro identità in un’entità unica e distaccata da salvaguardare e da difendere ad ogni costo. Attraverso il principio di azione/reazione, Haneke esplicita questa sua riflessione in due episodi del film. Un giovane nero vede un’adolescente umiliare una donna mendicante buttandole addosso un sacchetto di carta appallottolato. Egli rincorre il ragazzo e lo invita a chiedere scusa poi di fronte alla reazione violenta di questi, cerca di attirare l’attenzione dei passanti, raccontando l’accaduto. Intervengono i poliziotti e di colpo la situazione viene ribaltata. La “buona azione” del samaritano provoca una reazione opposta a quella che dovrebbe essere e contraria alle sue intenzioni. I bianchi rilasciano le loro generalità e se ne possono andare tranquillamente; l’adolescente viene recuperato dalla cognata e riceve anche le scuse dei poliziotti. Il giovane nero è arrestato e condotto al commissariato e la mendicante, poiché priva di documenti, è espulsa e rimandata in Romania. Haneke nel ragazzo nero identifica il “nemico”. Colui cioè che ci è distante e ci minaccia. Il ri-conoscere lo straniero è quindi necessario per consentire alla polizia di esercitare il suo ruolo di difensore del cittadino e quindi di far prevalere il potere coercitivo nei confronti del “nemico”. Se lo straniero suscita nell’uomo la curiosità verso l’esotico, il “nemico” incute timore perché è sconosciuto nella realtà ma è conosciuto nel pensiero come l’individuo che minaccia la libertà e l’incolumità del mondo occidentale. Haneke, costruisce nella scena un ponte tra il giovane nero e la donna rumena. Quest’ultima è vittima silenziosa e innocente ma paradossalmente è quella che in tutta la vicenda deve pagare il prezzo più alto. La sua “colpa” di essere clandestina non le permette di vivere nella “civiltà”. Proprio per questo la donna rumena nel film è un simbolo: rappresenta il pericolo che minaccia la nostra tranquillità e che quindi anche nel Bene di una rivendicazione di rispetto assume i connotati sinistri del Male immanente.
gli altri, ogni volta che a qualunque costo ci imponiamo di resistere alle affa scinanti ma misteriose se-duzioni dell’alterità.70 Anne viene invitata dall’agente immobiliare a visitare un appartamento nel centro di Parigi. Entra in una stanza detta “della musica” e scopre che le finestre sono murate. Di colpo viene chiusa dentro a doppia mandata e viene presa dal panico. Nuovamente la situazione si ribalta quando scopriamo trattarsi di una scena del film in cui lei sta recitando. L’azione di finzione dell’agente immobiliare suscita in Anne una reazione di paura e contrariamente immette nello spettatore il disappunto emotivo che provoca lo scoprire che ciò che credeva reale è semplicemente una recita. Il lato immaginario della situazione contrasta violentemente con quello della realtà, in quanto la finzione diventa il modo per divincolarsi dal reale, dagli avvenimenti e dai fatti e permette di entrare in un luogo (in questo caso la stanza chiusa) dove si trova la distanza dalle cose e dal desiderio che suscita ogni mancanza. In questo caso la mancanza di Anne collima con la sua indifferenza verso che le vive accanto e verso le persone che incontra. Unicamente presa dalla passione per il suo lavoro, Anne riduce la sua esistenza ad un estenuante ricerca della performance attoriale. Ad un certo punto è lei stessa che non distingue più la differenza tra realtà e set. A questo proposito è emblematica la scena al supermercato dove lei, davanti al marito, recita la parte della moglie infedele fingendo di essere stata incinta e di aver successivamente abortito, mentre George era in Kosovo. Alla domanda del marito: “È vero?”, lei risponde glaciale: “Decidilo tu”. La stanza murata diventa quindi il simbolo di un luogo dove espiare le proprie colpe ed è il passaggio necessario che fa da preambolo alla scena in cui sarà la stessa Anne ad essere vittima di un’aggressione. La sequenza in cui due giovani arabi molestano e insultano la giovane attrice, non è niente altro che il risultato e la reazione obbligata alla sua indifferenza. È quindi, solo l’atto terminale di un percorso di “rivolta” delle etnie “nemiche” che dalla Francia alla Romania passando per il Medioriente, riflettono una condizione di oppressione legata al loro essere diverse e quindi extra. Uomini e donne clandestini, cioè una categoria superflua che consuma senza offrire nulla in cambio, costretta a perdere la propria identità per rinnovarla in quella del paese “ospitante” al fine di poter essere legittimati e integrati.
Forse allora scopriremmo che noi stessi, in fondo siamo il nostro peggior nemico ogni volta che ipostatizziamo e feticizziamo le nostre tradizioni come fossero altrettante sacre e inviolabili fortezze Bastiani, ogni volta che riven dichiamo ed esasperiamo le nostre differenze culturali nei confronti di tutti
Fino a quando l’immigrato è solo un immigrato il problema non si pone, non necessita di parole o di discussioni. Quando è solo povera manodopera, clandestino da espellere, disperato da aiutare, l’immigrato non importa
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cos’altro sia. Quando però l’immigrato diventa un (possibile) cittadino diventa barbaro, persino pericoloso.71
gione. Ciò che è paradossale nella nostra società è che l’uomo è sempre di più solitario nel momento in cui i mezzi di comunicazione si moltiplicano.72
Haneke nella scena del bar costruisce un microcosmo espressione della società contemporanea, dove in spazi rigorosamente separati (comunità) convivono autoctoni e stranieri: il regista agisce esasperando il senso di divisione tra le parti attraverso la ripresa dei movimenti di chi entra e di chi esce. Quella di Code Inconnu potremmo quindi definirla una pornografia spaziale, che attraverso gli ambienti e le reazioni (che questi suscitano) determina una incompatibilità tra gli individui e una inconciliabilità dei conflitti che li posseggono: siamo di fronte ad una “guerra civile” pregressa e sotterranea che giorno dopo giorno si alimenta nell’Europa contemporanea. Dalla città (Parigi) alla campagna (Dinville) non c’è più alcuna differenza, ma al contrario l’individualismo e il consumismo hanno spinto la società nel vicolo cieco dell’omologazione comportamentale.
Non ho pensato questa storia legata ad una forma corale ma io credo che quando si crea un mondo, tutto è legato. Allo stesso modo, in un coro i sin goli membri possono essere molto solitari! La solitudine per me è l’incapa cità di comunicare, l’incapacità di amare e l’incapacità di uscire da una pri -
Haneke e Seidl si ritrovano quindi sullo stesso terreno. In entrambi i film, la costante comportamentale dei protagonisti è quella di un’impossibilità di fuga da comportamenti e scelte dominati da una pulsione regressiva verso l’immobilità. Code Inconnu in maniera meno dirompente rispetto ad Hundstage mette in scena la negazione di un’immediata identificazione con i personaggi, ma che paradossalmente appaiono imprigionati nella loro emotività. Nelle strade che circondano Vienna le temperature stanno salendo: è il week end più caldo dell’anno. La serata del venerdì è consacrata alla discoteca dove la giovane Anna e il suo ragazzo Mario iniziano un odissea di litigi amorosi. Nella villetta a schiera dell’ingegner Walter è già mattino: ora in cui inizia il controllo quotidiano delle provviste, del giardino, del rumore dei vicini. Poco più in là, una coppia consuma tra interminabili silenzi e brevi urla la tragica morte della figlia. Il signor Hruby vaga sotto l’estenuante caldo cercando di vendere i suoi sistemi d’allarme, mentre una maestra viene umiliata dal giovane amante. Fuori, per le simmetriche strade di periferia,, si sposta Anna, una ritardata mentale che ama fare l’autostop e mandare in crisi, con le sue domande, gli accaldati guidatori. Seidl e Haneke muovono entrambi le loro critiche alla società attraverso la pornografia spaziale. Le periferie di Vienna e di Parigi sono periferie ovunque percorse da un movimento discontinuo e caotico. Sono spazi senza caratteristiche evidenti ma semplici associazioni di immagini perfettamente intercambiabili. Spazi finti, confinati tra palazzoni e negozi. Anche la campagna francese e rumena, che appare in Code Inconnu, è un paesaggio inerte fatto di case fatiscenti e di terreni incolti. Non c’è differenza tra le carrellate di Seidl sui centri commerciali della periferia viennese e quelle di Haneke sulle case semicostruite e grezze della Romania. Le une sono il prodotto delle altre e viceversa, perché sono il frutto di una dinamica import/export che interscambia prodotti e persone. I movimenti verso i centri commerciali e quelli di fuga dalle condizioni di povertà sono entrambi animati dalla stessa necessità: quella della lotta per la sopravvivenza dentro e fuori dal proprio ambiente domestico. Il paesaggio è comunque desolante ma rispecchia perfettamente il tempo in cui viviamo, condizionato dall’indifferenza e dall’arbitrarietà sostituibilità degli spazi e dei ruoli sociali. È così che la moglie del greco, in Hundstage, passa con estrema disinvoltura dall’orgia al tetto coniugale, sotto il quale ha una relazione con il massaggiatore davanti al marito separato in
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Import/Export Nel 2001 a Parigi si svolgono le storie di Code Inconnu; nello stesso anno a Vienna, un altro regista austriaco, Ulrich Seidl, mette in scena Hundstage (Canicola), un quadro sconcertante del degrado della società. Le due pellicole hanno come ambientazione le due ex-capitali della fiorente mitteleuropa di fine ottocento. Città che da rigogliose metropoli culturali si sono, nella declinazione dei due registi, via via trasformate nell’anticamera dell’inferno. Code Inconnu e Hundstage oltre ad avere in comune la stessa struttura narrativa, fatta di vari episodi intrecciati, presentano, anche se con modalità diverse, la deriva e l’imbarbarimento retroattivo dell’Europa. Hundstage è il primo film di finzione del documentarista Ulrich Seidl che per questa prova rinuncia ad utilizzare il piano-sequenza come espediente narrativo. Scelta non casuale ma volta ad ottenere una maggiore conoscenza dei personaggi. Con un percorso inverso quindi, rispetto ad Haneke, Seidl confeziona una pellicola che vive sull’incomunicabilità tra gli individui e sull’omologazione degradante delle scelte di vita.
casa. Ed è così che Jean in Code Inconnu si impegna nella fattoria dopo il regalo della moto ricevuto dal padre, per poi fuggire clandestinamente alla prima occasione. Il collante dei due film è quindi la negazione di ogni possibile momento di felicità.
diventare cittadino integrato e puntello dell’economia nazionale diventa paradossalmente uno sconosciuto, un invasore, un primitivo che spaventa e che minaccia la nostra libertà.
Se si conoscono dei momenti di felicità, vale la pena viverli piuttosto che fanne dei film. Non credo che la vita sia segnata da stadi di felicità ma piut tosto dalla ricerca della felciità. In ogni caso io non sono un fotografo di matrimoni!73
XYZ: il codice del nulla
La mancanza di felicità, Seidl la trasporta negli spazi del film. Lo spazio abitato è quindi il luogo-simbolo del degrado umano e diventa il modello pornografico dove implodono le tensioni: la casa, la metropolitana, l’automobile sono spazi chiusi in cui Seidl e Haneke costruiscono strutture visive dominate da una rigorosa assialità geometrica in contrasto con le enfatiche reazioni emotive e violente delle persone. In Code Inconnu l’apaticità e l’immobilità dei personaggi, paradossalmente sorregge un intreccio di tensioni rare a vedersi. La stanza in cui viene chiusa l’attrice eil vagone della metropolitana dove Anne subisce l’aggressione dei giovani arabi sono luoghi permeati dalla paura e dalla rabbia e dove la tensione aleggia nell’aria. Michael Haneke sembra dirci che lo spazio dove vivono i personaggi è il motore delle loro azioni e delle conseguenti reazioni. La pornografia spaziale inscenata da Haneke ci permette, attraverso il piano-sequenza, di partecipare alla situazione narrata in tutta la sua durata reale e quindi di essere inchiodati allo sviluppo logico dell’esibizione sadica dei corpi che permette di comprendere l’omologia con lo sviluppo delle azioni e i tempi e i movimenti nello spazio da cui nascono le inevitabili reazioni. Michale Haneke, in Code Inconnu, mette in pratica ciò che sostiene Antonin Artaud quando afferma che: “La crudeltà è portare la logica delle cose fino alle ultime conseguenze”. La crudeltà in questo caso è quella di mostrare l’inutile “guerra civile” che l’uomo combatte contro se stesso. Il “nemico” autocostruito dall’uomo per giustificare se stesso, nell’Europa dei nostri giorni è lo straniero, il figlio con sui non si comunica, il pregiudizio e il giudizio degli altri e infine l’extracomunitario che disperato fugge dalla povertà del suo paese in cerca di fortuna. Questi è portatore della “colpa” di essere sconosciuto e di frequentare spazi che sono di altri, e pertanto, secondo Haneke, la sua è una condizione precaria legata cinicamente al percorso delle merci. È un prodotto import/export che quando è necessario come forza lavoro, manovalanza, sostituto è ben accetto e addirittura richiesto, ma che quando cerca di affermare una sua identità e di
Il “codice sconosciuto” del titolo del film, si riferisce al numero che bisogna digitare per aprire la porta sui citofoni parigini. Questo numero è simbolo dell’incomunicabilità che attanagli gli individui e allude al senso stesso del film, dove perfino la vita stessa è indecifrabile. In tutta la pellicola le comunicazioni tra i personaggi non avvengono mai oralmente, ma sempre tramite espedienti. Dalle fotografie di George, al foglietto di addio di Jean al padre, fino al bigliettino anonimo lasciato sotto la porta di Anne; c’è un’impossibilità al dialogo sconcertante. Michael Haneke, provocatoriamente apre e chiude il film con una sequenza di “dialogo” tra bambini-sordomuti, confinando nella diversità e nell’handicap l’unica speranza di comunicazione. Per Haneke nel mondo contemporaneo la malattia è la vera normalità, mentre la routine quotidiana ha qualcosa di patologico e incarna il pericolo di contagio. L’assenza di dialogo tra i personaggi è disarmante perché trasversale: accomuna marito e moglie, padre e figlio, cittadino ed extracomunitario e perfino regista e attrice. In queste condizioni solo la menzogna reale o simulata può provocare una reazione, poiché all’incomunicabilità relazionale si somma una incomunicabilità intergenerazionale che assume toni drammatici: quando il padre di Jean si chiude in bagno e piange è solo il preludio al momento in cui, dopo la fuga dal figlio, ucciderà tutti gli animali della stanza e si chiuderà in casa nella depressione più totale. La conseguenza terribile dell’incomunicabilità è quindi estrema e coincide con la morte, come anche l’episodio del funerale dalla piccola Francine ci suggerisce. Le abitazioni sono prigioni di solitudine in cui si celano orrore e disperazione, ma dove le pareti non sono abbastanza spesse per nascondere. Così Anne mentre stira sente le urla di Francine, ma rimane inerte e non reagisce, così come è incapace di ribellarsi alle molestie dei giovani arabi. Anne riesce solo a piangere e quasi svergogna di ringraziare l’uomo che ha reagito agli insulti dei giovani difendendola. I volti delle persone in Code Inconnu sono tristi, apatici e rassegnati. Sono volti sospesi in immagini di “guerra”, come il regista ci suggerisce attraverso la sequenza di foto, fatte da Gorge nella metropolitana, con in sottofondo il racconto di un episodio di guerra in Afghanistan. Haneke ci dice che le “grandi” guerre sono il frutto delle “piccole” guerre civili e non che noi, ogni
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giorno, conduciamo verso il nostro prossimo. Gli scatti in bianco e nero, cosi come quelli del Kossovo, sono il risultato del talento di Luc Delahaye, corrispondente di guerra che qualche anno fa realizzò un lavoro di documentazione sul popolo della metropolitana di Parigi. L’idea di utilizzare delle immagini fisse fu suggerita ad Haneke dal fotografo-cineasta Raymond Depardon che indirizzò poi il regista verso il giovane membro dell’Agenzia Magnum. La sequenza di foto di morte riguardante la guerra del Kosovo, che introduce il personaggio di Gorge è emblematica. Sono immagini di case in fiamme, di corpi straziati e di distruzione dove non sempre si riesce a distinguere il soggetto, tanta è la rovina di carne, sangue e pietra che esse raffigurano. Haneke inserisce questa sequenza tra l’episodio dell’arresto del giovane nero e la telefonata al padre taxista per informarlo dell’accaduto, per sancire l’assoluta reversibilità delle situazioni. Il contrasto è netto a livello visivo: le immagini di finzione sono nitide chiare e luminose, mentre la serie di fotografie reali sono sporche, sfocate e imprecise. Nella menzogna della finzione si può controllare la qualità dell’immagine e la precisione dell’inquadratura , ma nella verità del reale bisogna necessariamente catturare l’attimo, per cui, il controllo non è possibile. Il vizio dell’istantanea si contrappone inevitabilmente all’immagine cinematografica anche a livello visivo, quindi non c’è comunicazione ma solo la fredda riproduzione su carta o pellicola degli eventi. Fotogrammi che nascono dal nulla e nel nulla svaniscono; volti che si manifestano e scompaiono senza lasciare traccia, persi in una narrazione pensata come un susseguirsi di istantanee che sezionano il mondo e lo ripresentano in maniera scomposta e magmatica. Fotografie e immagini, sterili riproduzioni evanescenti che hanno cancellato la carne e il sangue del corpo, che purtroppo si ripresenta nella sua violabilità e fragilità, solo, sofferente e martoriato nelle istantanee di guerra.
ne della storia grande e piccola. In Code Inconnu, la musica dei tamburi suonati da persone di tutte le etnie e tutte le età è il ritmo tribale e primitivo che fa da colonna sonora al cittadino europeo. È quasi un rumore che copre tutto e che aumenta la distanza tra gli individui. Su questo rumore, nel finale, scorrono le immagini: Anne torna a casa, così come la donna rumena espulsa ritorna a Parigi e così come George torna dalla guerra. Il frastuono assordante dei tamburi scandisce le tre sequenze che riportano i personaggi negli stessi luoghi di partenza e nelle stesse condizioni. Portato a termine il loro percorso, ritornano per cominciarne un altro nuovo ed uguale. L’unica differenza è che George non riesce ad entrare in casa. Anne l’ha lasciato, non glielo ha comunicato ma ha semplicemente cambiato il codice del citofono. Questo codice è quindi la sintesi di un “nulla” che aleggia sui cittadini Europei, che li rende sempre più insicuri e incapaci di comunicare. Rappresenta la fredda tecnologia che ha ucciso i sentimenti, separato gli individui e condizionato le menti. Haneke chiude il film con un bambino sordomuto che “parla”. A differenza dell’inizio il bambino è solo e non è di fronte ad una platea; inoltre i suoi gesti non sono sottotitolati e pertanto rimangono incomprensibili allo spettatore. Inquadratura glaciale e definitiva che oltre alla visione nega anche la parola. Quello che per stile e situazioni appare come il meno estremo dei film di Michael Haneke è in realtà il più politico e pessimista: il testamento dell’uomo contemporaneo e una pietra tombale sull’Europa Unita. La fede nella civiltà è un mito eurocentrico, un’autointerpretazione della modernità con la quale essa adora se stessa.75
Tocchiamo nuovamente la questione della centralità del corpo nella guer ra mediatica che stiamo vivendo: è interessante ricordare che persino il corpo morto resta”persona”, se trattato in un certo modo,e soprattutto se può servire ad attivare una relazione passionale con lo spettatore.74 La vita sembra essere solo un vortice di visioni sfocate e di passaggi fugaci, dove immagini fisse e in movimento si alternano senza soluzione di continuità. Dietro tutto ciò, il nulla e l’angoscioso dibattersi degli esseri umani, colpevoli della loro insipienza e alienazione, spinti verso un inutile e disperata ricerca di un segno che renda comprensibile la realtà. L’assenza di dialogo è quindi totale sia a livello relazionale che tra le modalità di riproduzio102
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Capitolo undicesimo LA PIANISTE (LA PIANISTA) Erika, però, non vuole passare all’azione, vuole solo guardare, semplice mente stare seduta a guardare. A osservare. Erika guarda senza toccare, non prova alcuna sensazione e non ha mai l’opportunità di toccarsi. La madre dorme nel letto accanto al suo e sorveglia le mani di Erika. Queste mani devo no esercitarsi a suonare, non scivolare sotto la coperta come le formiche verso il barattolo della marmellata. Erika non prova quasi nulla, anche quando si taglia o si punge: dei suoi sensi ha sviluppato al massimo solo la vista. La pianista di Elfriede Jelinek L’occhio del sesso Michael Haneke presenta al festival di Cannes 2001 il suo adattamento cinematografico di Die Klavierspielerin (La pianista), romanzo scritto nel 1983 dal premio nobel per la letteratura Elfriede Jelinek. Oltre alla nazionalità austriaca, entrambi gli artisti hanno in comune una visione fredda e senza speranza della società in cui vivono.
rifiutato. Elfriede Jelinek è una scrittrice austriaca scomoda e irriverente, combattuta soprattutto dalla FPO di Jorg Haider per i suoi temi e le sue opinioni spesso provocatorie e critiche nei confronti della nazione austriaca. Il suo romanzo Die Klavierspielerin, presenta una struttura compatta e allo stesso tempo discontinua e particolare. La prima parte incentrata sulle dinamiche familiari e sul rapporto simbiotico madre-figlia è interrotta da frequenti incursioni nell’infanzia di Erika in cui emblematicamente la protagonista non è mai chiamata con il suo nome ma diviene oggetto identificabile attraverso il pronome LEI. La seconda parte del romanzo è più classica e più sfrangiata e segue la tormentata storia di amore tra Erika e Walter. Haneke de-struttura l’opera della Jelinek, cancella i riferimenti al passato e alla gioventù di Erika e fa sostanzialmente cominciare la vicenda dall’incontro dell’insegnante con il giovane Klemmer (questi nel romanzo è già un suo allievo). “C’erano molti flash-back e un flash-back al cinema è sempre una spie gazione. Avete una situazione, tagliate e vedete un flash-back che è la spie gazione della scena che avete appena visto. Questo da una sorta di spiega zione psicologica che detesto, quindi sono obbligato a tagliare tutti i flashback che nel libro raccontano la gioventù di Erika Kohut. Ed è per questa ragione che ho dovuto inventarmi, ad esempio, la simbiosi madre-figlia così come la troviamo nel film”.76
Erika Kohut (Isabelle Huppert), insegna pianoforte al conservatorio di Vienna. Vive insieme alla madre (Annie Girardot) in un appartamento viennese con mobili vecchi e luci soffuse. I vestiti di Erika appaiono senza tempo e senza colore e nascondono l’identità di un essere camaleontico capace di mimetizzarsi con l’ambiente circostante. A causa della sua incapacità di comunicare con gli altri, Erika si rifugia nel mondo delle sue fantasie sessuali alimentate dalle immagini dei peep-show che frequenta di nascosto. Walter Klemmer (Benoit Magimel) è uno studente di ingegneria che lei incontra durante un concerto privato. Walter la seduce e la sua infatuazione per Erika riesce a infrangerne l’apparente controllo. Le fantasie represse della donna vengono alla luce e cominciano a confondersi con la realtà che lei ha sempre
A prima vista Haneke sembra voler dare della vicenda una lettura in chiave psicanalitica inserendo un modello double-bind della relazione madrefiglia e dando una lettura patologica della simbiosi. Il giovane Klemmer è quindi una scheggia impazzita, un elemento invadente e disturbante destinato all’eliminazione. In realtà la lettura che Haneke dà del romanzo, si allontana dall’aspetto psicanalitico, seppur questo rimanga sempre sotto traccia per addentrarsi nel territorio molto più complesso e cinematograficamente pertinente dello sguardo e della sua potenza. Il film La pianiste vince la palma d’oro festival di Cannes, grazie anche alla presenza monumentale di Isabelle Huppert (vincitrice del premio come miglior attrice). L’interprete francese dona al personaggio di Erika Kohut ambiguità e fascino e affronta la performance attoriale con lucida abnegazione misurandosi, anche fisicamente, con i territori estremi e malsani della psiche umana. La crudezza del tema, la violenza e le scene disturbanti trovano il loro equilibrio lirico in un viso pulito e in un corpo statuario al servizio delle maniere di una signora perbene. Quella della Huppert è una recitazione calibrata e minimale fatta di
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gesti austeri e misurati e da una dizione che mai tradisce emozione. Isabelle Huppert è il valore aggiunto del film come anche lo stesso Haneke ci ricorda: “La presenza di Isabelle Huppert era la condizione sine qua non per me per fare il film perché non conosco nessuna altra attrice che possa interpre tare questo ruolo meglio di lei. Come attrice ha la possibilità di questi due estremi del personaggio: una sensibilità straordinaria nel mostrare la soffe renza e una intellettualità persino fredda che è molto forte. Questi due estre mi fanno parte anche del carattere di Erika”.77 Il personaggio di Erika è protagonista di un film severo e matematico, costruito quasi interamente sui rapporti di sguardo e sul voyeurismo come strumento di autodeterminazione. La complessità della vicenda è bene esemplificata dal modo di essere e dal carattere di Erika: pianista di insuccesso e amante incompiuta. Erika non è una virtuosa, non ricerca l’ambizione per se stessa ma al contrario è il frutto di una desiderata e programmatica ambizione sociale della madre. Non disprezza l’”altra” società così come non disprezza la massa ma anzi, invidia chi vive in modo superficiale ed edonistico così come invidia quei vestiti che lei non può permettersi e che pertanto compra di nascosto. Il problema è che questa invidia lei non può né manifestarla, né esprimerla. La ricerca di un’ascesa estetica appare quindi solo come il contraltare obbligato dalla repressione degli istinti corporei. Il voyeurismo di Erika è un esercizio mentale che mette in atto il “guardare”selettivo in contrapposizione al “vedere” totalizzante. Questo avviene perché lei cerca di prendere coscienza della sua femminilità e della sua sessualità, attraverso le sue uscite clandestine nei peep-show della periferia viennese o nei drivein frequentati da giovani a guardare i loro rapporti sessuali. In realtà questa scelta la porta solo ad essere passivamente protagonista di una serie di atti mancati.
modo con cui prova piacere è quello di esercitare pratiche di automutilazione che rappresentano atti simbolici di produzione di un altro “sè”. Questi atti ambivalenti rappresentano una sorta di (auto)deflorazione e (auto)castrazione, in cui Erika assume un ruolo aggressivo verso se stessa: non è un caso che lo strumento usato sia una lametta da barba, simbolo e strumento prettamente maschile. Haneke, in questo caso, inserisce anche nel film un ulteriore riferimento alle pratiche distruttive dell’azionismo viennese, i cui membri praticavano l’automutilazione rivendicando la valenza politico-rivoluzionaria del gesto. Il regista austriaco costruisce la scena dell’automutilazione sull’utilizzo disturbante del sonoro. Il disagio dello spettatore non è tanto provocato dall’atto in sé; Erika si siede sul bordo della vasca, allarga le gambe e osserva la sua vagina con uno specchio prima di agire con la lametta, bensì dallo stridere dei piedi sul fondo smaltato della vasca: un rumore “morboso” che restituisce appieno il dolore/piacere e la sofferenza della protagonista. La scena è inserita da Haneke dopo quella dell’incontro di Erika con il giovane Klemmer. Lei è quindi già stata “trapassata” dal sentimento amoroso e quindi sente già di essere diventata oggetto delle attenzioni dell’altro, ma allo stesso tempo è consapevole che non si tratta di amore ma di una superficiale seduzione. Sedurre, è assumere interamente a mio rischio e pericolo la mia oggetti vità per altri, significa mettermi sotto il suo sguardo e farmi guardare da lui, è correre il pericolo di “essere visto” per incominciare qualcosa di nuovo e di impadronirmi dell’altro, nella mia oggettità. Io rifiuto di abbandonare il terreno sul quale sento la mia oggettità; è su questo terreno che voglio attac care battaglia rendendomi “oggetto affascinante”.79
Il guardare quindi è per Erika uno strumento di autocoscienza ma allo stesso tempo è la funzione attraverso cui lei afferma e nega se stessa. L’unico
Pertanto il suo gesto è la metonimia della penetrazione “virtuale” di Walter ed è la conseguente perdita della verginità. Guardandosi nello specchio lei è solo “guardona” di se stessa e la vista del suo sesso da origine a un’ossessione visiva che può solo “immaginare” il coito. Nella scena della lezione di pianoforte Erika e Walter si trovano nella stesa stanza: lei è di spalle rivolta alla finestra mentre mangia un panino; il giovane è seduto al pianoforte. In questa scena due corpi di carne sono presenti in uno spazio sospeso nella duacromia della scena in “bianco e nero” (pareti bianche/pianoforte nero) e si percepisce la forte presenza fisica del corpo. In questo piano americano in “bianco e nero” (anche Erika e Walter sono vestiti con questi colori) si avverte il senso perturbante e inquieto che anima la relazione divisa tra la freddezza di Erika e la seduzione di Walter.
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Perchè “guardare” è una funzione della mente, “vedere” una funzione dell’occhio, e davanti allo schermo cinematografico (come davanti a un qua dro o davanti a una foto) la funzione “guardare” non comanda più alla fun zione “vedere”, come sarebbe quasi sempre nella vita: la selettività del “guardare” non tocca minimamente la non selettività del “vedere”.78
Questi si dichiara quasi comicamente, paragonando il suo innamoramento ad una “vite piantata in un bullone”, mettendo così a nudo tutta la sua inconsistenza e superficialità. Dopo aver invitato, inutilmente, Erika ad una passeggiata, Walter se ne va scocciato. Scende le scale, apre la porta e si dirige verso la macchina per recuperare l’attrezzatura da hockey. Poco dopo, anche Erika scende le scale e attraverso la porta socchiusa lo spia e lo segue con lo sguardo. In quel momento lei vede “l’immagine” di ciò che lui è: un giovane rampollo borghese e superficiale. Quando Walter si allontana lei lo segue e lo spia da dietro le sbarre del cancello della pista do hockey. Erika lo guarda ed esprime il suo amore, ma per paura che si tratti solo di una sterile seduzione decide di anticipare le mosse e di condurre il gioco secondo le sue regole spietate. Regole esemplificate al meglio nella frase che Erika pronuncia dopo la consegna della lettera contenente le “istruzioni”: “io non ho sentimenti Walter, e se anche ne ho per un giorno, non prevarranno mai sulla mia intelligenza”. Con questa dichiarazione la donna mette una pietra tombale sulla loro relazione. Questo evento era già stato anticipato nella scena delle prove per il Jubilaumskonzert. Il punto di rottura della vicenda de La pianiste è racchiuso in questa scena, dove durante l’audizione di Anna, lo sguardo e la seduzione prendono il sopravvento sull’azione. Lo sguardo è intriso di sessualità tra gelosia, invidia e desiderio e diventa la funzione attraverso cui si determinano le azioni. L’audizione di Anna è il momento in cui tutto comincia a precipitare. Erika seduta in platea, inquadrata in primo piano fa un micro-movimento che annuncia un enorme cataclisma. È un gesto irreversibile, un gesto definitivo: lei sente lo sguardo di Walter su di sé, è turbata e inquieta. Quando il giovane Klemmer sale sul palco con la piccola Anna, tra i due c’è una sorta di complicità, che per Erika diventa ripugnante e insopportabile. Momento che è spettro della gelosia e della follia amorosa che conduce alla mostruosità. Quando la donna vede Anna e Walter complici sul palco se ne va per non guardare, non già per fare del male. Scende nello spogliatoio e si siede su un bancone, poi vede un bicchiere, lo prende lo chiude in un fazzoletto di seta e lo frantuma sotto i suoi piedi per poi deporne i cocci nella tasca del cappotto di Anna. Il bicchiere infranto e la conseguente ferita di Anna sono il tentativo estremo e brutale, di Erika di risparmiare alla ragazza il suo stesso destino: quello di rimanere una pianista minore vittima della ambizioni degli altri. Anna è dunque la proiezione di Erika, entrambe condividono il destino del fallimento e la loro unica soddisfazione sarà quella di suonare nei salotti della ricca borghesia viennese. Erika quindi, compie il gesto con la convinzione di fare il bene della piccola Anna. Questa intenzione è confermata dal fatto che quando la madre di Anna va a parlare con Erika
dice: “Abbiamo sacrificato tutto per lei”; Erika stizzita la contraddice dicendo: “Voi avete sacrificato tutto? No, Anna ha sacrificato tutto”. Da questa frase si avverte tutta la sofferenza di Erika per non essere riuscita a diventare la grande pianista che sua madre avrebbe sempre voluto, fatto che è causa della sua frustrazione, malessere e solitudine. Lo sguardo ritorna in tutta la sua potenza nella scena finale del film. Haneke omaggia Hitchcock, uno dei suoi maestri, e realizza una scena “classica” dove il raccordo sullo sguardo è elemento fondamentale del montaggio. È una scena di attesa dove il desiderio perde la componente sessuale per riacquistare quella razionale. Haneke quasi sospende la scena in un’atmosfera rarefatta dove l’alternarsi dei rumori e delle voci calibra lo stato d’animo dei protagonisti. Non si sa cosa sta per succedere, la suspence sale e il dettaglio del coltello nella borsetta crea turbamento. La scena è anche uno sguardo ironico sul melodramma ma con una forte componente di violenza e di distanza dai sentimenti passionali. Erika si pone in disparte dal salone della Concert House e osserva in lontananza, da dietro le porte, il mondo che non le appartiene: un mondo borghese fatto di pregiudizi, conformismo, menzogna e apparenza. Aspetta e guarda in attesa del suo oggetto del desiderio (Walter), per avere la certezza che lui non è niente altro che ciò che lei ha sempre creduto. Chiusa nella gabbia sfarzosa e dorata della Concert House attende trepidante per poi muoversi quando vede arrivare la sua preda. Mentre Erika si dirige verso il giovane Klemmer, Haneke la inquadra da dietro all’altezza della testa, evidenziandone lo chinion in puro stile hitchcockiano. Erika vede Walter passare mentre è circondato da puttanelle, lo osserva salire le scale e quindi allontanarsi definitivamente da lei. La pianista è pronta a morire, ma ironicamente si ferisce solo alla spalla. Non riesce a suicidarsi come avrebbe fatto la Madame Bovary di turno, ma paradossalmente con il suo gesto mancato si riconsegna alla vita abbandonando quel luogo e quel mondo finto e ipocrita. Facendola allontanare verso chissà quale direzione (la camminata di Erika è insolitamente risoluta) Haneke concede alla protagonista la speranza della fuga. Il film si chiude con l’inquadratura fissa e silenziosa dell’esterno della Concert House che sembra quasi un pianoforte, inquadrato con la stessa precisione matematica utilizzata nell’inquadrare dall’alto la tastiera del pianoforte all’inizio del film.
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L’immagine Quella che Erika proietta sugli altri è solo la sua immagine: proietta il suo
desiderio travestito da masochismo per giocare d’anticipo e mettere alle corde chi gli sta di fronte. La sua intelligenza lucida e dominante, la mette in condizioni di dettare regole e modi della seduzione. Il masochista, come teorizza Leopold Von Sacher-Masoch, è solo apparentemente una vittima perchè egli proietta la sua immagine di masochista e non la sua realtà. Nel rapporto propriamente sado-masochistico e quindi nella dialettica servo-padrone, è il masochista ad avere il ruolo dominante, perchè è lui che spinge la relazione verso le estreme conseguenze e che plasma la controparte sulle misure di ciò che gli serve. Erika utilizza quindi la sua immagine masochista per scongiurare l’umiliazione e per esorcizzare le sue paure trasformando il suo piacere ed evitando di essere vittima della sua incapacità relazionale. In La pianiste avviene in ambito psicologico ciò che in un classico del S/M hard-core chic come The Image/The Punishment of Anne (1975) di Radley Metzger, avviene con il desiderio borghese. Claire (Marilyn Roberts) una ricca donna borghese esibisce e prostituisce la giovane e virginale Anne (Mary Mendem). Sullo sfondo di una Parigi lussureggiante, Claire coinvolge in un menage a trois il play boy Jean (Carl Parker). La relazione S/M trasforma Anne in un oggetto di piacere che in situazioni sempre più estreme e pericolose finisce per diventare il feticcio che tiene in vita i due annoiati borghesi. Nel finale Anne si rivela solo come “L’immagine” del desiderio di Claire:è lei, borghese, ipocrita e arrogante, che vuole essere frustrata, picchiata e seviziata. Anne è solo la sua immagine attraverso cui lei esorcizza le sue paure e la sua incapacità di amare. Nel film di Metzger lo svelamento avviene su due livelli, prima attraverso una serie di fotografie fetish che Claire mostra a Jean e dopo attraverso il travestimento. La serie di foto che ritraggono Anne incatenata o frustrata si chiude con un dettaglio del pube che non corrisponde a quello della giovane ma in cui la presenza di una mano con le unghie smaltate sembra ricondurre a Claire. Nel finale è la stessa Claire a presentarsi a casa di Jean vestita come una scolaretta (stessi vestiti indossati in precedenza da Anne), per farsi picchiare e possedere. La dinamica dello svelamento di The Image è perfettamente riconducibile a quella de La pianiste. Anche qui sono due i momenti in cui Erika frappone fra sé e Walter la propria immagine masochista. La prima è quella dove Walter sorpreso ed esterrefatto legge la lettera di Erika dove sono contenute le istruzioni su come essere picchiata. In questa scena Erika esplicita la sua sofferenza. Da sotto il letto tira fuori la scatola dei “giochi” e dispone gli oggetti contenuti come una composizione astratta ma pregna di significato: è come una bambina con la sua scatola dei tesori. La scatola che contiene gli strumenti della sua tendenza masochista è una mtefao-
ra: è come se lei ponesse tra sé e Walter l’immagine della propria sofferenza. Non è casuale quindi che lei si trovi ai piedi del giovine seduta come una bambina in cerca di comprensione e/o approvazione. Quando Erika si rialza e si siede nuovamente sul letto e torna quindi sullo stesso piano di Walter, Haneke con il campo e il contro-campo mette in scena la dialettica del dolore che si oppone alla seduzione. Erika esibisce la sua immagine, e quindi la proiezione fetish di se stessa, come una prova d’amore. Lei non vuole essere né picchiata né frustrata, ma per la prima volta sta espellendo, quasi vomitando, la sua sofferenza e la sua capacità di sopportazione del dolore. Esibisce la sua “malattia” e svela la sua fragilità incrinando le certezze dell’uomo. Da questo momento in avanti non può più accadere nulla. La seconda scena di svelamento è quella in cui Walter, dopo essersene andato, ritorna a notte fonda e mette in atto le fantasie di Erika. Lui sbaglia perché non capisce e prende alla lettera ciò che Erika ha scritto. Il risultato, inevitabile, è che picchiandola e poi penetrandola lei rimane sotto di lui immobile e passiva. Entrambe le scene hanno una struttura statica e rigorosa e trasmettono un senso di Unheimlich che permette al regista di mettere alla prova gli spettatori. Più volte la macchina da presa inquadra il volto di Erika: una maschera che sembra sul punto di sciogliersi. La sua bocca si stroce, i suoi movimenti si fanno nervosi, le guance si rigano di lacrime e tutto sembra rimandare ad una silenziosa angoscia. Il volto di Erika è un quadro espressionista che, come Il Grido di Edward Munch, condensa con una potenza visiva senza pari l’ineluttabilità del dolore. Il Grido rappresenta il senso di perdita e di equilibrio di ogni essere umano e l’immagine della consapevolezza di essere giunti al punto di non ritorno: le sensazioni che trasmette il quadro di Munch danno vita all’emblema del dolore universale. Così il volto di Erika trasmette tutta la sua sofferenza repressa in una condizione di vita forzata e inadeguata. Erika può vivere solo attraverso l’immagine dei suoi desideri. Nel piano-sequenza al campo di hockey lei mette in scena “l’immagine” del suo stupro facendosi penetrare da Walter. È un’immagine volutamente volgare e sporca che si limita ad essere la rappresentazione dell’istinto animalesco che anima il suo desiderio e che rimanda alla pornografia più estrema.
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La pornografia mette in scena pulsioni, desideri e fantasie primordiali che rimandano ai territori sommersi della psiche e della coscienza, laddove la sessualità si coniuga con forze ed esperienze primarie come la violenza, il sangue, la morte, il sacrificio.80 Erika è un animale in cerca di esperienze primarie e per questo motivo
compie le sue incursioni nei territori più estremi della pornografia come il pissing e il puking, perchè la sua sessualità vive immersa in una sofferenza senza fine. Quando si reca al peep-show, entra nella cabina e davanti alle immagini di un blow-job, pesca nel cestino un fazzoletto sporco di sperma e lo annusa, sfoga solo e semplicemente le sue pulsioni represse: ha infatti lo stesso atteggiamento austero di quando suona il pianoforte. È una sfida continua, tra lei e la sua immagine, che si concretizza nel desiderio vissuto con la logica della vertigine e che trova il suo compimento ultimo nella scena in cui lei mostra a Walter la sua immagine masochista. Scena in cui lei vorrebbe esprimere amore ma in cui riesce solo ad esprimere una pulsione animale, vittima della sua assuefazione all’onanismo e al godimento solitario. Erika mette di fronte a Walter “l’immagine” di una donna che apparentemente vuole essere oggetto, ma che in realtà desidera solo essere amata per ciò che è. Qui è la mia soggettività ad essere considerata come ostacolo all’atto pri mordiale per cui l’altro mi fonderebbe nel mio essere; si tratta proprio di negare questa, prima di tutto, con la mia libertà. Tento quindi di impegnar mi tutto nel mio essere-oggetto, rifiuto di essere qualcosa di più che oggetto, mi riposo nell’altro; e poiché sento questo essere-oggetto nella vergogna, voglio ed amo la mia vergogna come segno profondo della mia oggettività: e poiché l’altro mi coglie come oggetto col desiderio attuale, voglio essere desiderato, mi faccio oggetto di desiderio nella vergogna.81 In La Pianiste come in The Image è tutto un gioco di apparenze nascoste e svelate. Apparenze che fanno parte del gioco della seduzione e che nascondono la menzogna. L’inganno avviene attraverso la vista perché Erika e Claire si mostrano nella loro immagine di desiderio ma nascondono allo spettatore il loro volto reale perché abitato da paure e frustrazioni. Il “nemico” questa volta è sotto pelle: è amalgamato nella carne e corre con il sangue delle due protagoniste. Il “nemico” ha il volto oscuro/affascinante del masochismo e della violenza, pulsioni animali stimolate dalla repressione sessuale. Mezger e Haneke giocano quindi la stessa partita: quella della sostituibilità del piacere delle immagini in contrapposizione all’insostituibilità della realtà della sofferenza. Malattia = Normalità “La musica ha un ruolo molto importante nei miei film. Ma non faccio mai 112
comporre una colonna sonora, ma uso per la maggior parte brani di musica classica: penso che così si evidenzi meglio lo stato d’animo dei miei perso naggi. I Lieder di Schubert usati in La Pianiste hanno un significato specia le essendo i portavoce dell’animo sofferente di Erika Kohut. Le parole “evito i sentieri dove camminano gli altri viandanti” esprimono molto della com plessità di questa figura e potrebbero essere usate come motto del film”.82 In La pianiste la musica di Schubert rappresenta al meglio l’equazione malattia=normalità. È una musica celebrale fatta di grida improvvise e di frasi sussurrate. È una musica fatta di note di follia che lentamente si insinuano tra i personaggi creando un mondo di pazzia incompatibile con le consuetudini. Quando Erika intima al suo allievo di suonare Schubert “fortissimo o pianissimo” sottolineando che la sua musica va “dalle urla ai mormorii”, è la trasposizione musicale della sua mancanza di equilibrio interiore. Il disequilibrio di Erika si manifesta appieno nella relazione con Walter, che come la musica di Schubert, vive di fasi alterne opposte ed estreme: dall’amore all’odio, dal piacere allo “schifo”. Le parole di Schubert potrebbero benissimo essere pronunciate da Erika: “I cani abbaiano, le catene fanno fragore, gli uomini dormono, nei loro letti...ho raggiunto la fine di tutti i miei sogni, che farò tra i dormienti?”. Come sostiene lo psicanalista ungherese Imre Herman, la musicalità è spesso associata alla perversione e inoltre l’utilizzo di uno strumento musicale presuppone contenuti sessuali devianti associati al contatto con l’oggetto. Il pianoforte è quindi uno dei due termini del rapporto sado-masochista, perché è schiacciato contro il corpo e subisce la pressione violenta delle dita del pianista; corpo e strumento formano quindi un unicum in cui ognuna delle due parti agisce determinatamente secondo la funzione servo-padrone. È quasi incredibile, ma è confermato dai fatti, che tutti i famosi perverti ti erano dotati di talento musicale. Bloch afferma che il famoso Marchese de Sade, affetto da sadismo, era un musicista di talento ed un bravo ballerino. Che egli amasse la musica è confermato da Paul Lecroix, il quale scrive: “Possedeva un talento naturale nel canto e la sua voce toccava le corde più sensibile e profonde del cuore delle donne”.83 La musica ne La pianiste, non è quindi solo un elemento narrativo, ma nelle scelte di Haneke travalica i confini letterari e cinematografici e giunge sul terreno delle emozioni e della malattia. Questa per Haneke rappresenta la normalità in quanto è barriera da opporre alla dilagante omologazione. La 113
malattia di Erika è ripresa per accenni e per sfumature. I suoi abiti cambiano nel corso della pellicola passando da toni grigi ed anonimi a toni accesi e colorati. Così come nella musica si parla di gamme e di sfumature, così nel film ci sono variazioni musicali nei colori. All’inizio Erika è vestita di nero e avorio (come anche nel finale del film), colori che rimandano ai tasti del pianoforte, mentre dopo la seduzione di Walter la ritroviamo con una camicetta arancione e un golfino rosso (del tutto inadeguati), a sottolineare la sua infatuazione. Analogamente al colore anche il corpo manifesta cambiamenti: la sintomatologia della malattia è il preambolo ai problemi dell’anima. Ciò che prende forma nel corpo ha una natura psicosomatica che correla in sincronia corpo, psiche e anima dando vita al fattore ansiogeno che determina la malattia. A questo proposito è esemplare la scena della consegna della lettera in cui la tosse di Erika è un fatto fisico alimentato da uno stato psichico. Erika tossisce nervosamente e i piccoli ripetuti colpi di tosse diventano fastidiosi e inquietanti allo stesso tempo. La tosse la sta soffocando e lei si oppone trattenendola. Nella situazione c’è una sorta di paradosso: i piccoli colpi di tosse anticipano tutta l’ansia di Erika che mentre è rivolta verso il muro, esplode in un attacco di tosse prolungato che le fa sfuggire il controllo sulla situazione. È come se il corpo agisse autonomamente senza più il controllo della volontà del suo proprietario dando vita a una reazione istintiva che lei non aveva previsto. La musica diventa quindi specchio dell’anima e elemento anticipatore degli eventi. Nella scena dell’audizione di Walter Klemmer la musica ha un ruolo determinante nel percorso seduttivo che il giovane compie verso Erika. È una scena dove la musica esprimendo tutto il suo valore metaforico ci informa sulla natura e sulla qualità del sentimento d’amore che Erika esige. Lei è contemporaneamente sedotta dal modo di suonare del giovane e dal suo atteggiamento. Sente brio nella sua esecuzione, ma sente anche la presunzione con cui egli suona, una certa volgarità che le fa presagire quale sarà il sentimento amoroso di Klemmer. Lei ricerca un sentimento d’amore perfetto e si rende conto che Walter l’amerà con la stessa arroganza con cui suona. Questo la infastidisce e nel suo giudizio negativo sull’esecuzione musicale si nasconde il presentimento di una relazione che la porterà verso la distruzione perché animata esclusivamente dalla veemente seduzione del maschio. Non è quindi casuale che Erika, durante la prima lezione con Walter affermi: “Lei con il suo fisico non riconoscerebbe l’abisso neanche se ci fosse dentro”, denunciando così l’inadeguatezza musicale di Klemmer dovuta alla sua salute fisica. Solo nella malattia, come fu per Schubert, Schumann, Beethoven e tanti altri, può esistere l’estro e solo nella malattia si può comprendere l’abisso del dolore. 114
Il godimento è proprio l’usufrutto industriale dei corpi, all’opposto di ogni seduzione: il godimento è un prodotto di estrazione, prodotto tecnologi co di un macchinario dei corpi, di una logistica dei piaceri, che va dritta allo scopo, e non ritrova che il suo oggetto morto. 84 Haneke riesce quindi ad evitare abilmente ogni facile psicologismo e non presenta Erika come un caso patologico, ma come un essere umano complesso e introverso. Il regista da alle sue immagini il ritmo musicale di una partitura eccelsa in cui Erika è la donna “normale” che vive in una società “malata”. Erika è il frutto incontaminato di dinamiche sociali in cui il mondo “sano” con le sue brutalità è infinitamente più terribile e crudele del mondo da lei immaginato e proiettato. Il sorriso della iena Il risultato del rapporto di simbiosi con la madre è un forte senso di colpa e una profonda sofferenza. A causa delle presenza ossessiva della madre e dell’invadenza del controllo che lei esercita, Erika fatica ad immaginare una sessualità diversa rispetto a quella vissuta. Non riesce a separare il senso di colpa da un profondo disgusto verso se stessa e si rifugia nell’automutilazione perché il suo godimento è inevitabilmente legato al binomio piacere/distruzione. Allo stesso modo e sullo stesso binomio vive il rapporto con la madre, dove la dipendenza da lei rappresenta il farmaco utile ma illusorio per regolare le proprie relazioni e per rafforzare la propria autostima. Emblematica a questo proposito è la violentissima scena iniziale del film (inopinatamente tagliata nella versione italiana), dove madre e figlia si affrontano selvaggiamente come un cacciatore e una preda. Il predatoremadre ghermisce la dignità della preda-figlia, che a sua volta si ribella e infierisce con i propri artigli sulle iena ghignante. La tendenza alla perfezione, instillata in Erika dalla madre, è l’elemento scatenante dell’aggressività animale perché ricorda il fallimento e la debolezza. Erika è rimasta una semplice insegnante di pianoforte non dando la soddisfazione alla madre di una prestigiosa carriera. Questa frustrazione, repressa e mal sopportata, la madre la riversa sulla figlia attraverso uno strenuo e disperato controllo delle sue attività e dei suoi movimenti. Inoltre, come ci ricorda Freud, il comportamento vessatorio e repressivo reprime le pulsioni e di conseguenza per Erika, una volta mancata la perfezione è inevitabile la scelta masturbatoria di una ses115
sualità solitaria. E se in una minoranza di individui si manifesta una pulsione irrefrenabi le verso livelli sempre più alti di perfezione, essa può spiegarsi nel modo più naturale come una conseguenza della rimozione delle pulsioni, su cui è fon dato ciò che di più prezioso esiste nella civiltà umana. La pulsione rimossa non cessa mai di lottare per il soddisfacimento completo che consisterebbe nella ripetizione di un’esperienza originari adi soddisfacimento.85 Il contraltare di questa relazione è rappresentato da un disperato bisogno di affetto che conduce Erika verso comportamenti apparentemente incestuosi come nella scena in cui le due donne sono nello stesso letto dopo la violenza subita da Erika e dopo la dipartita di Klemmer. Nella scena non c’è la morbosità dell’incesto ma si avverte l’abbandono a un’animalità totale che non esprime una perversione sessuale ma che comprende il carattere selvaggio della simbiosi madre-figlia. Si avvertono la lacerazione dell’emotività e il sopravvento dell’istinto più primitivo ma anche più naturale: quello di una donna che vorrebbe rientrare nel ventre sicuro e caldo della propria madre e che si interroga sul mistero del piacere e del desiderio. Erika è come una bambina che anela a capire come è potuta venire al mondo come ben si comprende nel momento in cui solleva la camicia da notte della madre e vede il suo sesso, luogo del desiderio e del piacere e luogo dell’origine della vita. In quel momento Erika riconosce contemporaneamente la propria unicità e la propria condanna alla solitudine. Terminata la violenza istintuale dell’”aggressione” quello di Erika è un corpo abbandonato come un cadavere sul letto di un obitorio, il corpo di una donna che ha preso definitivamente consapevolezza della sua inadeguatezza. La pianiste è una film che, proprio come quei contrasti fra la serenità della musica e la violenza dei sentimenti della quale si nutre, sembra alimentarsi delle proprie asperità. Come tutti gli altri film di Haneke, anche questo urta, dispiace e destabilizza lo spettatore. È un film che sviscera i sentimenti più profondi ed oscuri che si annidano nella sofferenza umana e che fa emergere il “nemico” incarnato nel dolore. Una “visione negata” della gioia e del piacere che sfocia in uno studio meticoloso delle relazioni umane intrise di incomunicabilità e di sofferenza. Una messa in scena per immagini dell’algolagnia attraverso una dissezione accurata, scientifica e crudele. Quello di Haneke è un lavoro da entomologo, di qualcuno cioè che osserva, distaccato l’opera della morte, consapevole che da essa può sempre nascere una ragione di vita.
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Capitolo dodicesimo LE TEMPS DE LOUP (IL TEMPO DEI LUPI) Temprata sulle mutilazioni digestive di un corpo squartato da diecimila guerre, e il male, e la malattia, e la miseria, e la penuria delle derrate ali mentari, oggetti e sostenze di prima necessità. I guardiani dell’ordine del profitto, delle istituzioni sociali e borghesi, che non hanno mai lavorato ma hanno accatastato granello per granello da miliardi di anni il bene sottratto e lo mantengono a forza in certi anfratti difesi da tutta l’umanità. Antoin Artaud Ils Michael Haneke continua la sua esplorazione della figura del nemico. Ma se ne La Pianiste si è limitato alla descrizione di un individuo, del suo rapporto malato, ma sano, con al società e del suo nemico sotto pelle, con Le Temps de Loup (Il tempo dei lupi, 2003) allarga i suoi orizzonti per descrivere una società implosa e collassata ridotta all’imbarbarimento, che vede nemici ovunque e che non si accorge di essere diventata ormai la controfigura di se stessa. Haneke passa quindi dalla soggettività all’intersoggettività, raccontando un “tempo dei lupi” dove l’essere umano ha ormai lasciato il posto all’animale umano: uomini, donne e anche bambini ridotti a combattere contro se stessi in un estenuante quanto inutile gioco al massacro. Le Temps de Loup è presentato e inopinatamente stroncato al festival di Cannes del 2004, forse a causa del suo quoziente disequilibrato di intelligenza e sgradevolezza. Anna (Isabelle huppert), il marito e i due figli Eva (Anais Demoustier) e Ben (Lucas Biscombe), arrivano nella casa di campagna e la trovano occupata da una famiglia di extracomunitari: l’uomo uccide a sangue freddo il marito di Anna. La donna rimasta sola con i figli si reca in cerca di un aiuto che gli abitanti del villaggio, impauriti e chiusi nelle loro case, le negano. 117
Durante la notte, passata in un casolare, incontriamo un giovane ladruncolo, che unitosi a loro le conduce in una desolata fabbrica-stazione, dove uomini, donne, vecchi e bambini delle più svariate nazionalità hanno trovato rifugio. Gli uomini in fuga di Le Temps de Loup sono stanchi, apatici e privi di volontà: fuggono da una catastrofe in atto ma di cui non si conoscono né le cause né le dimensioni. I personaggi si muovono in un contesto di “assenza” dove il nulla poco alla volta divora ogni cosa. Sono persone spaesate, in balia di se stesse e degli eventi che non si riconoscono più in un identità. Lo spaesamento è riprodotto in pellicola da Haneke attraverso l’utilizzo continuo e alternato di campi lunghi e primi piani. I campi lunghi raccontano un paesaggio spettrale grigio, nebbioso e buio mentre il primo piano, attraverso la ripresa dei volti sofferenti, impassibili e macchiati di sangue, descrive la deriva che è in atto. Tutta la vicenda si svolge in campagna mentre la città viene solo e sempre nominata come luogo di “partenza”. Haneke intende questa campagna come il terreno della storia: quello dove si sono combattute numerose battaglie e quello dove l’Europa ha costruito la sua identità attraverso la morte e la distruzione delle guerre del secolo scorso.
È sufficiente leggere molti passaggi dei libri sulla Cecenia della giorna lista Anna Politkovskara per “rivedere” parti del film che raccontano le dif ficoltà di approvvigionamento e di sostentamento, l’impossibile convivenza, insomma quelle situazioni di solito non viste dalle cronache di guerra e din torni.87
Attraverso pochi elementi Haneke precipita lo spettatore in un incubo dal passo lento e dal ritmo statico: è in atto qualcosa di terribile, un rifugio sicuro è l’unica meta e l’acqua è il bene più prezioso e per averla si è pronti a prostituirsi e ad uccidere. Il tempo è indefinito e sospeso: c’è un oggi fatto di radio, biciclette, fucili ma anche di carcasse di animali che bruciano, di ammassi di profughi e di xenofobia latente, ma c’è anche un tempo attivo fatto di speranza (il treno) e di spiritualità (la leggenda dei 36 gusti). Le Temps de Loup è un film spietato e crudele che immagina un’umanità terminale in cui la società è ormai assente e dove la lotta per la sopravvivenza domina il pensiero e l’agire delle persone. L’istinto animale si coniuga al baratto e alla necessità di scambio delle merci, ma i beni che contano non sono né gioielli né preziosi, ma le cose utili: pile, forbici, taniche e coltelli. Quello di Haneke è quindi un tempo “barbaro”, dove gli “altri” (cioè la parte animale dell’essere umano) hanno preso il sopravvento, che appare lontanissimo a venire ma che in certe regioni dell’Europa è attuale e presente.
Haneke quindi, va oltre la realtà raccontando come la paura della morte produca il bisogno di sicurezza: l’uomo vuole sopravvivere a se stesso e vuole sopravvivere agli altri. L’unico strumento che ha a disposizione per fare ciò è il proprio corpo, motore dell’agire ma anche catalizzatore di sofferenze. Il corpo è quindi amico e avversario e si contrappone prepotentemente all’assenza che domina l’esterno. Haneke sposa nuovamente il paradosso come elemento provocatorio ed esplicativo del suo pessimismo e presenta la sopravvivenza come una forma estrema e disumana di evoluzionismo. Per fare ciò deve sprofondre il suo film in un contesto metaforico dove l’elemento dominante è l’assenza. Sin dai titoli di testa, piccolissimi e quasi invisibili che scorrono su uno sfondo nero, vuole immergere lo spettatore in una dimensione estranea. I titoli appaiono sfuocati e angoscianti e paradossalmente enfatizzati dall’assenza di colonna sonora. L’incipit de Le Temps de Loup è il risultato del percorso coerente del regista austriaco che prova a mettere in abisso il vuoto imperante e a filmare la “normalità” malata che ammorba la società. La sintesi dei primi cinque minuti di film è tutta nel campo e controcampo iniziali che mettono di fronte noi e “loro”. Nel campo vediamo una monovolume percorrere una strada nel bosco, fermarsi davanti ad una casa, e la famiglia scaricare i bagagli. Nel contro-campo (all’interno della casa) vediamo un’altra famiglia (di extra-comunitari) che ha preso possesso dell’abitazione e che con un fucile minaccia i proprietari di andarsene. Il proprietario rivendica il suo possesso alludendo alla violazione della “proprietà privata” ma alllo stesso tempo si dimostra disponibile alla convivenza e alla divisione delle provviste. L’uomo col fucile spara e lo uccide. Haneke filma questi cinque minuti iniziali in modo freddo e cronachistico trasmettendo allo spettatore la sensazione che il film sia già risolto. Tutto quello che verrà dopo serve solo per contestualizzare l’evento primordiale, infatti non si racconterà come si è arrivati al fatto che un uomo ne abbia ucciso un altro in una proprietà privata, bensì l’assenza in cui ciò è potuto accadere, la notte della ragione e la fuga dell’uomo dalla morte. La notte avvolge il film: una notte nera e profonda, impenetrabile e che è prima di tutto assenza di luce. Non è casuale che nella notte scompaia Ben e che il fuoco acceso da Eva sia
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Tempi e luoghi restano in gran parte indefiniti. Tutto si svolge in campa gna, la vasta campagna di un qualsiasi paese del centro Europa, quei dolci campi di frumento e granoturco che nascondo fra le loro zolle il sangue e le ossa dei milioni di morti della storia.86
il solo punto luminoso nella scena. Sentiamo le voci di Eva e della madre ma non le vediamo: lo schermo è nero e il nostro sguardo cerca disperatamente una via di fuga che trova nel fuoco: questo prende il sopravvento e sfuggendo al controllo di Eva si presenta in tutta la sua forza luminosa ma distruttrice. Haneke costruisce il suo film sulla contrapposizione esterno/interno, dove lo spazio e la sua delimitazione determinano i conflitti. Questo perché nella fuga, il rifugio diventa la necessità determinante per la sopravvivenza. L’istinto animale porta l’uomo alla disperata ricerca di una tana, che si identifica con l’istinto di occupazione della costruzione-rifugio. La sicurezza di uno spazio riconduce subito al corpo e alle sue funzioni primarie, mangiare, riprodursi e dormire, e pertanto diventa l’oggetto del “desiderio” che scatena l’aggressività. Come negli animali infatti, l’aggressività porta alla delimitazione del territorio occupato e alla sua difesa per proteggere i propri consanguinei. A maggior ragione la casa di campagna, come è quella del film, riconduce ad una necessità superflua e non primaria in grado di scatenare l’odio di chi vive in indigenza. È in questo che la casa di campagna, si può pensare derivata dalla cultu ra della capanna (in quanto spazio emanato) che si esprimerà tramite ogget ti che, per quanto possiamo constatare, incarnano l’istinto abitativo attra verso una sapienza costruttiva perfettamente rispondente al bisogno biologi co, ma anche rituale e simbolico dell’abitare.88
so la ripresa di piccole/grandi violenze. Alcune scene sono emblematiche: l’inquadratura di un uomo che si sistema il moncherino della gamba e la protesi mentre accanto a lui una donna allatta un neonato; un vecchio che porta un po’ di latte a sua moglie e questa lo beve tutto senza lasciargliene un goccio nonostante le sue richieste gestuali; lo stupro violentissimo (la donna è sodomizzata, tenuta per i capelli e con un coltello sotto la gola) nel silenzio “affollato e indifferente” della notte. Corpi spogliati di ogni volontà in cerca di rifugio nell’altro ma solo utilizzati e/o scambiati come merci in una dialettica import/export che nonostante l’arrivo del “tempo del lupo” non accenna ad esaurirsi. Le difficoltà non ribaltano i rapporti sociali pre-esistenti, ma al contrario acuiscono l’aggressività e la cultura del possesso spersonalizzando l’individuo e modificando i sentimenti. Il principio dell’aggressività collettiva si manifesta attraverso la tensione latente verso lo sbranamento che caratterizza la convivenza forzata.
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Una situazione di stimolo scatenante molto efficace è la vera o immagi naria minaccia nei confronti del proprio gruppo: essa scatena profondi fatti emozionali, e demagoghi, di ogni tempo hanno saputo risvegliare questa spe cie di eccitazione e volgerla ai loro fini. L’aggressività, poi, viene attivata anche quando viene impedita (frustrata) la soddisfazione di un bisogno.89
Haneke prende questo ambiente rurale e lo metaforizza, facendolo diventare il risultato di speculazioni economiche e di un benessere arrogante ed egoista. Questa scelta è chiara dal momento che il regista decide di non mostrare l’edificio in tutta la sua interezza (dall’esterno vediamo a malapena la porta e dall’interno parte di una stanza), non dando quindi la possibilità (e neanche il tempo) all’edificio di diventare perturbante. Haneke filma solamente uno spazio esterno/interno che non è mai né ambiguo né minaccioso ma che è semplicemente allegoria di una contrapposizione economica ed esistenziale. All’assenza di rapporti e quindi di dialogo di questa scena si aggiunge l’assenza di solidarietà della seconda parte del film. Nella microsocietà rinchiusa nella stazione-fabbrica e dominata dalla paura si attivano due principi istintivi: quello della fuga verso l’altro e quello dell’aggressività collettiva. Il primo principio ha come conseguenzal’individualismo esasperato derivato dalla condizione di sovrabbondanza delle merci e di culto dello spreco oltre che da un’inopinata insensibilità verso i bisogni dell’altro tipici dell’uomo moderno che vengono sottolineati sottilmente da Haneke attraver-
Michael Haneke sposa appieno questa teoria etologica e trasforma la disperazione degli individui in elemento scatenante della gerarchizzazione del gruppo. L’uomo inserito in un contesto di estranei acquisisce forza perché non è legato né da vincoli né da legami e di conseguenza è meno inibito all’aggressività. Se poi i rapporti del gruppo sono regolati dall’egoismo è inevitabile che si instauri una gerarchia improvvisata che ha nel più forte (poiché armato e carismatico) il suo leader. Klosowski rivendica “regole civili” in un contesto assurdo. Il suo non è un comportamento illogico ma il risultato di un percorso veloce e senza ostacoli che egli ha fatto nell’assenza di opposizione. Klosowki è l’organismo di controllo che in uno spazio fisico circoscritto e delimitato (la stazione), impone una gestione militare del territorio e delle risorse per garantirsi un potere “conquistato” sul campo: egli garantisce la sopravvivenza del gruppo razionando le risorse e di conseguenza pretende il rispetto delle regole. A questo proposito è significativa la scena in cui un piccolo gruppo si ribella alle regole e offre al venditore d’acqua un orologio in cambio di 10 litri in più. Il venditore guarda Klosowski, intasca l’orologio e se ne va rimproverando il gruppo: “perché non l’hai sacrificato prima per aiutarli?”.
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Quando poi, dalla città arriva un nuovo gruppo con un nuovo leader, il processo si ripete: il nuovo “uomo forte” sostituisce il vecchio e detta le regole sancendo la indispensabilità dell’individuo e la sostituibilità del leader. In una inquadratura centrale del film Haneke trasla questo discorso sulle dinamiche di potere su un piano esistenziale più alto come quello del rapporto morte-vita. Una ragazza è morta e la stanno seppellendo. Noi vediamo i piedi di chi prega sulla tomba e in profondità di campo, alcuni fuochi che si muovono lontanissimi. Nello stacco successivo passiamo dalla morte della ragazza all’arrivo di un gruppo di “sopravvissuti” dalla città: una vita se ne è andata altre ne sono arrivate per sostituirla. In questo freddo e cinico apologo sulla deriva umana, quale è Le Temps de Loup, ogni situazione vive su contrasti stridenti e provocatori che sintetizzano al meglio la “visione negata” di Haneke. Egli porta lo sguardo dello spettatore a confrontarsi con le proprie costrizioni e con il proprio malessere represso. La “visione negata” di questa profezia escatologica allontana lo sguardo dello spettatore perché lo conduce ad un confronto angosciantemente reale spingendolo, tramite un estetica rara e irritante, verso l’assenza che domina il suo essere. Haneke materializza l’assenza e trasporta il suo film su un piano perfettamente allegorico ma che ha le sue radici ben piantate nella carne dell’uomo, delle sue contraddizioni e delle sue paure. Profondo nero
macchie che dalla figura si allargano sul piano, indipendenti dal flusso luminoso che dovrebbero originarle. Tale scelta origina una lettura dissociativa dell’opera che mette in contrapposizione l’individuo con la propria ombra. Se si aggiunge il fatto che l’ombra è rosa come a rappresentare una “colata” di pelle dal volto delle figure che invece appaiono in tutto il loro grigiore, ecco che quelli di Bacon diventano individui-zombi privi di vita e condannati alla coazione a ripetere. Allo stesso modo gli “abitanti” della stazione del film di Haneke sono individui apatici e demotivati che vivono in un contesto de-colorizzato. Emblematica a questo proposito è la scena in cui Anne e i suoi due figli entrano per la prima volta nell’edificio. I loro volti stanchi ed emaciati assumono un biancore mortale che quasi si mimetizza con l’ambiente dominato dai grigi e dai neri dando un senso di alterità del luogo e trasformando lo status della famiglia: da esseri umani a zombie. Tutti gli elementi di questa situazione riconducono quindi al classico di George A. Romero, Night of the living dead (La notte dei morti viventi, 1968). Anche qui un luogo isolato diventa rifugio per un gruppo di uomini in fuga da una tragedia inspiegabile, e anche qui come in Le Temps de Loup, il micro-cosmo costituitosi diventa allegoria della società. La notte dei morti viventi sarebbe “un’allegoria che vuole tracciare un parallelo tra quello che le persone stanno diventando e l’idea che le persone si muovano su diversi livelli di follia, chiari solo a loro stesse”.90
La stazione di Le Temps de Loup non è un luogo di arrivi e partenze come è nella realtà. È un rifugio statico immobile immerso nella natura più lussureggiante ma anche nella notte più nera e impenetrabile. È un avamposto militare, una fortezza Bastiani di buzzatiana memoria e un lungo beckettiano dove si attende un treno che, forse, non arriverà mai. È uno spazio isolato, realistico e tangibile ma anche immaginario e metaforico in cui i personaggi vivono situazioni paradossali e in cui le reazioni a volte scomposte, a volte penose rimandano direttamente alla quotidianità della società contemporanea. L’estetica del luogo sembra provenire da un dipinto di Francis Bacon e più precisamente al Trittico – Agosto 1972, dipinto in cui i colori dominanti che sono il grigio, il nero e il verde, rimandano all’estetica dell’edificio di Haneke non solo cromaticamente ma anche per la disposizione. Le ombre originate dalle figure sedute, rannicchiate, accovacciate, comunque scomposte, del Trittico- Agosto 1972, non hanno alcuna coerenza con le figure che le originano ma appaiono come
L’Hary Cooper egoista e prepotente del film di Romero è il Klosowski del film di Haneke. Entrambi si sentono forti e convinti di avere ragione in virtù del loro status e delle loro scelte. La Barbra del film di Romero e la Anne di Le Temps de Loup sono due donne traumatizzate (una ha perso il fratello l’altra il marito), apatiche e passive che si trascinano stancamente e si fanno guidare dagli altri. Non hanno vitalità, bensì istinto, che si risveglia in tutta la sua aggressività nel momento in cui si trovano di fronte quegli “altri” che hanno ucciso la lo vita. Per Barbra questo momento coincide con la comparsa del fratello/zombie Johnny, mentre per Anne il trovarsi di fronte nuovamente alla famiglia e all’uomo che ha ucciso suo marito, scatena in lei una violenza istintuale che si esaurisce subito tutta nell’aggressione a causa della sua debolezza. In entrambi i film l’ordine, l’intelligenza e la razionalità che dovrebbero animare gli assediati e i resistenti si disintegrano inesorabilmente di fronte all’inettitudine, all’egoismo e all’apaticità dei soggetti: entrambi i gruppi cercano la via della sopravvivenza attraverso una follia, anzi più follie disarticolate e scollegate che trovano la loro ragione d’essere nell’individualismo imperante.
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La difficoltà anziché originare solidarietà e comunione di intenti, acuisce ed esaspera il conflitto in atto. I rapporti dei personaggi in entrambe le pellicole, si basano esclusivamente sulla pulsione “conservatrice” della ripetizione del loro comportamento in condizioni di normalità. La differenza ambientale e le relative difficoltà non mutano il comportamento pre-esistente degli individui tanto che l’identificazione dell’essere umano con lo zombie appare come una fatto ormai sancito ed indivisibile. In Al di là del principio del piacere, Sigmund Freud analizza come la coazione a ripetere non sempre ri-produce un piacere o l’effetto di esso, ma come sia talvolta un atto meccanico e psichicamente consolidato che ri-produce situazioni standardizzate. Il fatto nuovo e notevole di cui dobbiamo ora tener conto è che la coazione a ripetere evoca dal passato anche esperienze che non comportano la minima possibilità di piacere, esperienza che anche negli antichi tempi non hanno mai dato soddisfacimento nemmeno alle pulsioni sessuali che furono, da allora, rimosse.91 In Le Temps de Loup uomini e donne, vecchi e bambini sono degli zombies che non si nutrono di carne umana ma che divorano il prossimo attraverso una lunga serie di piccole violenze. Haneke accentua l’effetto di certe situazioni per chiarificare come l’essere umano sia ormai in perenne conflitto con se stesso, vittima di paure e diffidenze. Quando Anne aggredisce la famiglia che le ha ucciso il marito sullo sfondo sentiamo il fragore degli spari e con le immagini vediamo la macellazione dei cavalli che serviranno per nutrire il gruppo. Carne chiama carne quindi, in un contesto dove la violenza regola le dinamiche relazionali in uno spazio dove l’esterno (nella seconda parte gli episodi di violenza avvengono tutti alla luce del sole) fa paura tanto quanto l’interno. La dialettica e la consuetudine spaziale è quindi annullata come in Night of the living dead : fuori i morti viventi, dentro gli umani ma ormai tra vivi e morti non c’è più alcuna indifferenza per cui il processo di negazione e di annullamento appare ormai irreversibile. In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un assedio che non ha né cause, né spiegazioni in cui l’esterno è il luogo dell’istinto e dell’aggressione ma anche dell’ordine apparente e delle regole da rispettare, mentre l’interno è l’avamposto delle pulsioni primordiali come violenza, nutrimento e sesso che però trovano soddisfacimento non in una dimensione di piacere, bensì in una tendenza all’autoaffermazione violenta. Terrorizzato da se stesso, l’uomo antepone la distruzione del corpo alla morte, prima spersonalizzando e violentando il suo prossimo per determinare il proprio ruolo dominante, poi attraverso la spartizione classista dello spazio. È così che attraverso l’insoffe124
renza verso l’invasione del proprio spazio, si manifesta l’istinto violento e animale di difesa del proprio territorio. Questo atteggiamento lo si vede nelle liti che si verificano per il controllo dei “micro-spazi” all’interno della stazione o le uccisioni immotivate ed egoistiche degli animali: Ben uccide l’uccellino per possederlo così come il giovane ladruncolo uccide la capra (privando i bambini del latte) per non essere scoperto. Il furto è carico di conseguenze, perchè tra l’altro, ha dato vita ad un conflitto animato dalla vendetta nei confronti dei coniugi polacchi. Per opporrsi a questo vuoto nero e profondo che inghiotte ogni cosa l’unica strada percorribile è quella del sacrificio. Come in Nigh of the living dead, anche in Le Temps de Loup, l’elemento naturale dominante è il fuoco. Il fuoco illumina, scalda, permette di vedere e di “trovare” ma serve anche per bruciare gli animali infetti, nel film di Haneke, e i cadaveri dei morti viventi in quello di Romero. Il fuoco genera il sacrificio, alimentato dalla leggenda, dal sangue e dalla vista della morte. In Le Temps de Loup il piccolo Ben sente il racconto della leggenda dei trentasei giusti: questi personaggi sono quelli citati nella Torah (il libro sacro dell’ebraismo) secondo cui in qualsiasi momento della storia ci sono sempre trentasei giusti che reggono il mondo. Nessuno sa chi sono, ma il loro sacrificio “invisibile” può servire per salvare l’umanità. Dopo aver sentito questa storia raccontata dal polacco durante la notte, Ben, il giorno dopo, vede il corpo seminudo della ragazzina morta suicida. Durante la notte successiva perde sangue dal naso, si alza, va verso il fuoco acceso sui binari, si spoglia e quando sta per gettarsi dentro viene salvato da un uomo che sta facendo la guardia. Ben segue quindi un rituale di purificazione che vuole avere potere salvifico e immanente con l’obiettivo di ingannare la violenza e quindi di allontanarla da sé e dalla propria comunità. Nel film, il sangue imbratta più volte il viso dei personaggi, comparendo come elemento vermiglio e perturbante che anticipa la tragedia, concretizzando attraverso la sua fluidità il carattere contagioso della violenza. Nel sacrificio di Ben il sangue che scende dal naso è anticipatore del suo essere vittima della suggestione e della sua purezza di bambino. Abbiamo già parlato del sangue sparso per errore o per malizia ed è il san gue che si asciuga sulla vittima, perde presto la sua limpidezza, si fa torbido e sporco, forma delle croste e si stacca a placche; il sangue che invecchia sul posto forma un tutt’uno con il sangue impuro della violenza, della malattia e della morte. A quel cattivo sangue, subito guasto, si contrappone il sangue fre sco delle vittime appena immolate, sempre fluido e vermiglio poiché il rito non l’utilizza che nel momento stesso in cui viene versato e sarà presto ripulito.92
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La speranza quindi è riposta nell’innocenza e nel coraggio dell’infanzia che tende a sacrificare se stessa per “salvare” gli adulti in un atto di perdono cristologico. Il sacrificio appare ormai necessario come soluzione estrema atta a risvegliare gli adulti che, come il loro linguaggio, appaiono ormai vinti ed esausti. A tal proposito è interessante notare come Le Temps de Loup, così come Night of the living dead, il ruolo dell’informazione e dei media sia in perfetta sintonia con “l’assenza” delle persone. Nel film di Romero i telegiornali e i servizi di informazione radiofonici sono del tutto inutili e rappresentano il trionfo dell’ovvio: arrivano sempre dopo e non producono nessun risultato pratico dicendo cose che sia i personaggi che gli spettatori sanno già. Anche nel film di Haneke la radio dà informazioni inutili e vaghe sui rifornimenti che nulla tolgono e nulla aggiungono a quanto già sappiamo. Per entrambi i registi quindi il fulcro dell’autodistruzione e della deriva umana risiede nell’incomunicabilità e nell’inutilità del linguaggio. Venendo a mancare la comunicazione, gli individui perdono la loro razionalità e regrediscono ad uno stato barbarico e bestiale. Quando le parole perdono la loro potenza l’uomo si esprime attraverso grugniti e guidato dall’istinto animale dà origine ad una pulsione violenta che si materializza anche nel più piccolo gesto insignificante. Con Le Temps de Loup Haneke ha tracciato una strada che individua nel sovraccarico di merci e di parole il male dell’Europa. Si è spinto sul terreno del paradosso per sancire l’irreversibilità del processo in atto: cambiando le condizioni divita le dinamiche umane non migliorano ma anzi peggiorano. Il paradosso è quindi quello secondo cui il benessere corre sul binari parallelo delle barbarie. Questa teoria inserita in un discorso estremo sulle dinamiche sociali è stato portato alle estreme conseguenze da un giovane regista belga che si è inserito nel solco tracciato da Haneke. Fabrice du Welz, nel suo Calvaire (2006) ha tracciato il ritratto di un’umanità giunta al capolinea e al punto di non ritorno che potrebbe anche coincidere con l’inizio di una nuova storia. Il cerchio in Calvaire si chiude intorno alla bestialità pura e semplice che risveglia il lato animale rimosso e dimenticato. Attraverso una messa in scena scarna e essenziale il giovane regista belga costruisce un ritratto muto e sporco, dove i gesti dominano le parole, di un’Europa primitiva dominata dall’istinto e dal sacrificio, dove una danza tribale anticipa e preannuncia la morte. Calvaire è quindi, in definitiva, il completamento necessario di Le Temps de Loup: il capitolo finale di un percorso retroattivo dell’uomo verso la sua essenza. Il termine ultimo della ragione e l’inizio di qualcosa di sconosciuto, un viaggio unidirezionale verso la speranza o verso la catastrofe, come presagiscono le scene finali di entrambi i film, dove un lungo carrello laterale si interrompe bruscamente su una natura incontaminata e minacciosa. 126
No man’s land In assenza di linguaggi vocali, l’unica lingua universale che contraddistingue i personaggi di Le Temps du Loup è quella della violenza. La violenza disarticola i meccanismi consolidati della convivenza civile e traccia una linea di demarcazione tra gli esseri umani. Quella della violenza è una lingua univoca e diretta: chiarisce i ruoli e annulla i dubbi, poiché è essa stessa che che crea i fatti con cui, a posteriori, viene giustificata. Al centro di queste dinamiche si pone il corpo inteso come strumento necessario all’agire. È attraverso il corpo e sul corpo che si esercita la violenza. La paura della morte produce il bisogno di sicurezza, di durata, di immor talità. L’uomo vuole sopravvivere a se stesso e vuole sopravvivere agli altri. Il progetto di sopravvivenza si rivolge soprattutto al proprio corpo. Perché è appunto il corpo quello minacciato dalla morte. È l’avversario naturale di ogni sopravvivenza, un avversario che ci si porta in giro con sé ogni giorno, con cui non si può mai sfuggire.93 Il corpo quindi è ciò che viene esposto al piacere come all’offesa. I corpi del film di Haneke subiscono continue offese ma solo raramente subiscono la morte diretta: si muore per suicidio, negligenza o casualità. Il corpo quindi subisce il dolore passivamente, senza che ciò sia riconducibile ad un pericolo di morte, ma che in qualche modo anticipa una fine presunta e come ogni esperienza di vita profonda esercita fascino, dando vita ad una relazione corpo/ambiente ben presente nel film di Haneke. La condizione di vita precaria che si instaura nella stazione-fabbrica messa in relazione con la componente famiglia-monca (manca il padre) di Anne ci dà un quadro esaustivo di come la catastrofe sia perennemente tangibile in un contesto societario basato sulla provvisorietà. È questa in fondo la sterzata politica che Haneke imprime al suo film. La stazione, il treno e la famiglia borghese sono i tre vertici di un triangolo ideale che per Haneke rappresenta la modernità: la babele contemporanea (stazione), la tecnologia sterile e abusata (il treno) e l’elemento primo di rottura della solidarietà (la famiglia). In questa “terra di nessuno” presente nel film, troviamo un edificio-rifugio metafora delle abitazioni contemporanee. Abitazioni perennemente modificabili dove le stanze assomigliano sempre più ad un grande loft (non a caso l’interno della stazione non ha né pareti divisorie né locali separati) necessarie per vivere “a scadenza” e che, almeno in via teorica, possono essere abbandonate qualora venga 127
meno la loro utilità. Ogni cosa in questo ambiente può essere organizzata secondo linee sempre diverse e cambiando l’ordine e la “suddivisione” degli spazi il risultato non cambia e di conseguenza appare evidente il suo carattere fondamentale: la provvisorietà. Il treno che non arriva e i binari che attraversano costantemente il film creano spesso un “muro” che divide gli individui sono il segno metaforico del fallimento del progresso. Non è casuale che la tecnologia sia completamente assente in Le Temps du Loup, ma che anzi le pile e la radio assumano un valore incommensurabile. Haneke esalta questi strumenti come la panacea verso l’invasione delle immagini e come elementi di “dolcezza” in uno scenario apocalittico: le pile servono per comprare l’acqua e Eva chiede di poter ascoltare per un attimo la musica dolce della musicassetta del polacco, donandosi l’unico vero momento di piacere e di gioia (lei sorride) all’interno del film. Il treno è anche un elemento ritornante che determina attese e frustrazione. L’attesa alla stazione aumenta nervosismo e aggressività mentre il passaggio del treno durante la fuga di Anne e della sua famiglia genera rabbia edelusione a causa del suo non fermarsi davanti alla loro richiesta di aiuto. Solo Ben, il bambino consapevole e coraggioso osserva il treno passare senza avere alcuna reazione. Haneke utilizza un carrello laterale per seguire Anne, Eva e il giovane ladro mentre inseguono il treno, ma filma Ben di spalle che ne osserva il passaggio e successivamente Ben seduto mentre in profondità di campo il treno si allontana. Questa scelta di regia esalta la forza di Ben e dei bambini in generale, identificandoli come l’unico elemento di speranza per questo nostro mondo malato. La famiglia brghese infine, una volta privata del suo “capo” diventa un coacervo di incertezze dove regna la confusione dei ruoli. Anne che dovrebbe prendere in mano le redini della situazione appare troppo livorosa e superficiale per poter reggere il ruolo. Emblematica a tal proposito la scelta di Haneke di trasformare il ruolo da protagonista della Huppert in un ruolo secondario schiacciata sia dall’atmosfera generale oppressiva e spaesante ma anche e soprattutto dalla personalità della giovane Eva. Questa che non a caso porta il nome dell prima donna, è responsabile, intraprendente e materna. Protegge il suo fratellino dalle brutture del mondo quando gli copre gli occhi durante lo stupro, si prende cura della madre spronandola e confortandola ed educa maternamente il giovane ladruncolo facendogli restituire gli occhiali rubati e mettendolo di fronte alle sue responsabilità dopo l’uccisione della capra. Eva scrive una lettera al padre morto compiendo un gesto inutile per lo scopo ma utilissimo per la sua autostima. Scrive al padre descrivendo la situazione in cui si trova ed esponendogli tutto il peso che lei sente sulle sue spalle nel momento in cui si ritrova a vestire i panni scomodissimi del capo-famiglia. In un mondo come quello di Le Temps du Loup
dove i luoghi sono precari, il porgresso inutile, e la famiglia confusa tra ruoli invertiti e dinamiche incompiute, Haneke pone l’accento sulla speranza. L’ennesimo paradosso di questo grande cineasta è quello di scegliere il suo film più nero e disperato per inserire un accento di ottimismo e di speranza per il futuro. Per questo il film non è paiciuto alla critica internazionale perché il tentativo di sacrificio di Ben appare come il gesto inutile di un innocente, ma è in realtà la scintilla necessaria per scuotere il torpore generale. Il treno arriva e viaggia spedito verso la natura (forse): la vita riprende il suo corso e l’uomo rinasce dalle sue stesse ceneri, quelle provenienti da un fuoco testimone del coraggio di un bambino.
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Caché (inopinatamente tradotto in italiano in Niente da nascondere), e vincitore del premio per la miglior regia al festival di Cannes 2005, descrive come un ambiente e una situazione standardizzati su norme sociali consolidate, possano venire improvvisamente turbati da un malessere sgradevole quanto inaspettato proveniente da un passato dimenticato o ignorato.
Capitolo tredicesimo CACHÈ (NIENTE DA NASCONDERE) Negazione: Risposte in termini negativi Contenuti che simboleggiano diniego di pulsioni. Ripudio delle risposte date Minimizzazione: Risposte a connotazione negativa o riferibili ad aspetti pulsionali vengono presentate in modo non minaccioso. Schegge di paura Dopo aver rintracciato nell’assenza di linguaggio, di solidarietà e di luce il male ontologico che attraversa l’Europa contemporanea, Michael Haneke con Caché (Niente da nascondere 2005) affronta il senso di colpa opprimente e sinuoso che aleggia sugli abitanti del continente. Sin da subito è chiaro come la storia singola della famiglia Laurent non possa essere scissa dalla storia collettiva della nazione, in questo caso la Francia. Quella di Caché è una storia universale in cui luoghi, tempi e protagonisti appaiono perennemente sostituibili: potrebbe svolgersi in qualunque nazione, in qualunque perio do storico e gli attori potrebbero essere rintracciabili in qualunque strato sociale. Il senso di colpa che attraversa il film, che distrugge ruoli consolidati, che scardina le convenzioni, che offre improvvisi quanto inquietanti ribaltamenti, appartiene a tutti e a nessuno proprio perché l’uomo tende per sua natura a rimuovere le colpe sia singole che collettive, e a rimandare il confronto con esse il più in là possibile nel tempo.
Nella Francia contemporanea, Georges Laurent (Daniel Auteuil), conduce una popolare e seguita trasmissione televisiva sui libri. Un giorno qualunque le sue abitudini sono improvvisamente interrotte da una misteriosa minaccia. Il popolare conduttore comincia a ricevere delle videocassette avvolte in disegni cruenti e violenti che riproducono la facciata della sua abitazione e i movimenti suoi e della sua famiglia. Anne (Juliette Binoche), la moglie condivide il disagio mentre i rapporti con il figlio Pierrot (Lester Makedonsky) si fanno sempre più tesi. Georges comincia a pensare che dietro alle videocassette ci sia la voglia di vendicarsi di Majid, un figlio di braccianti algerini che lavoravano nella fattoria dei suoi genitori. L’esistenza della famiglia Laurent viene sempre più sconvolta dalla presenza davanti alla porta di casa di altre videocassette…
“La questione algerina naturalmente è nel film, ma sarebbe un peccato ridurre la storia solo a questo. È un film sulla colpa in generale, sulle colpe personali di ognuno di noi, la storia di un uomo che nasconde la testa sotto la coperta per dimenticare le sue scelte. Ogni paese ha una colpa da rimuo vere, come la Francia, ma in ogni paese le conseguenze politiche possono essere diverse. L’Austria, la Germania hanno anche loro un passato politico da lasciare nell’oblio”.94
La serenità e la quiete domestica di una vita organizzata intorno a dinamiche consolidate e abitudinarie legate alla sicurezza lavorativa di un’occupazione prestigiosa quanto remunerativa in grado di garantire uno stato di benessere permanente, non garantiscono la sicurezza e l’immunità nei confronti della responsabilità delle proprie scelte. Lo scorrere tranquillo e gioioso di una famiglia apparentemente solida residente in una bella abitazione parigina, può improvvisamente perdere il suo equilibrio a causa di uno sguardo “altro”che proviene da un abisso mai manifestatosi sino ad ora. Caché racconta qualcosa di nascosto che si annida nella banalità del quotidiano ma che affonda le sue radici nell’innocenza e nella violenza dell’infanzia. Paradossalmente, rispetto al titolo, il film mostra tutto ciò che c’è da mostrare, non nasconde nulla, non afferma nulla, non dà risposte ma pone delle domande. I titoli di testa sono già emblematici e appaiono come una dichiarazione d’intenti del regista: mostrati in tutta la loro completezza su un’immagine falsa che riproduce la realtà, non-filmata, ma genera un set dove l’azione collima con l’inazione e dove l’attesa dell’evento si spegne nella presentazione del non-evento. Quella che pensiamo essere l’immagine del film, e che invece si rivela come la riproduzione video dell’esterno della casa è solo il primo elemento di un percorso di negazione e di minimizzazione che
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Haneke conduce per tutta la durata del film. La strada ripresa dalla videocamera è sempre quella, e quando la voce fuori campo dei due personaggi principali rivela il loro disagio di fronte a ciò che non sono in grado di comprendere, noi scrutiamo il fotogramma in lungo e in largo cercando di trovare qualcosa che non c’è. Cos’è che non va? Forse quella luce accesa? Forse quell’auto in parcheggio? Forse quella porta chiusa? Forse quella lontana discussione, appena percepibile in distanza? E poi da dove provengono quei commenti? Dalla finestra del palazzo di fronte da due persone offscreen a poca distanza dall’incrocio?95 Nel cinema di Haneke l’immagine nega la sua essenza, non spiega ma anzi insinua il dubbio e l’incertezza. La potenza dell’immagine è esplicitata al meglio dal regista austriaco in questa prima inquadratura del film dove l’importante resta sempre nel fuori campo (il commento di Anna e Georg) mentre in campo resta il superfluo e l’inutile. Haneke si muove quindi al di là dell’inquadratura, in quello spazio impercettibile ma esistente dove negazione ontologica ed assunto diegetico convivono nella riproduzione parziale della realtà. Questa riproduzione del reale trova il suo compimento nella struttura narrativa del film, dove lo svelamento parziale delle cause non chiarifica completamente l’evolversi delle conseguenze, la colpa di Georges è chiusa in un passato rimosso e apparentemente è minima rispetto alle conseguenze che il popolare conduttore deve subire. Lo scarto politico di Cachè è dunque concentrato nel paradosso della contraddizione intuitiva tra le colpe del singolo e della collettività. La colpa di Georges è quella di aver impedito a Majid di avere un istruzione e di vivere con una famiglia ed è direttamente proporzionale alla colpa della Nazione che il 17 Ottobre 1961 annegò nella Senna oltre 200 manifestanti algerini radunati dal Fronte Nazionale per sostenere l’indipendenza dell’Algeria. Secondo Haneke, non è importante che tra quei manifestanti ci fossero i genitori di Majid, ma il fatto che in seguito a quell’episodio Georges abbia potuto esercitare la sua predominanza di bianco egoista e benestante nei confronti dell’orfano “invasore” del suo spazio. L’odio, la sua inutilità e la sua pericolosità sono esemplificati al meglio dal regista nella sequenza del primo incontro tra Georges e Majid. Nella stanza scarna dell’abitazione di Majid, Georges irrompe con la sua sicurezza ed aggressività di uomo convinto di trovarsi di fronte all’autore delle minacce: si mostra violento e risso facendo finta di non riconoscere il compagno d’infanzia, e dandogli persino del lei si mostra padrone della situazione e minaccia il “nemico”. Al contrario Majid è dimesso quanto incredulo di fronte all’aggressività dell’”amico” e mantiene un atteggiamento calmo e sereno nonostante l’odio riversatogli 132
addosso da Georges. In questo ribaltamento dei ruoli dove l’aggressore è aggredito e l’aggredito è aggressore, Michael Haneke racchiude il suo disappunto verso un sentimento distruttivo come l’odio. Questo sentimento sia che riguardi un conflitto etico-razziale sia che sia il risultato di un rancore covato da tempo è comunque sempre alimentato da un senso di colpa non riconosciuto. L’odio è un sentimento che nega il secondo parametro di confronto perché tende a sopprimere l’altro cercando l’approvazione degli “altri”. Georges è quindi una figura emblematica di questo assunto in quanto egli, attraverso la menzogna e la manipolazione dei fatti cerca nella famiglia, negli amici e poi nella Polizia la conferma delle sue ragioni. È interessante notare come l’odio di Georges, alimentato dalla minaccia “innocua” delle videocassette, entra in conflitto con un alternativa di vita e con l’omissione della verità che egli nasconde prima a se stesso e poi agli altri, nella convinzione irrazionale di essere comunque e sempre nel giusto. Perché l’odio implica un riconoscimento della libertà dell’altro. Solo che questo riconoscimento è astratto e negativo; l’odio conosce solo l’altrooggetto, e si attacca all’oggetto. Vuole distruggere proprio quell’oggetto, per sopprimere nello stesso tempo la trascendenza che lo abita. Questa trascen denza è solo presentita, come al-di-là inaccessibile, come continua possibi lità di alienazione del per-sé che odia.96 La naturale conseguenza della persecuzione, carica di odio, messa in atto da Georges è dunque la morte di Majid. La distruzione dell’altro porta con se il senso di liberazione dalla colpa. Non a caso, dopo il suicidio dell’algerino, Georges arriva a casa, si chiude nella sicurezza di ambienti familiari, prende un sonnifero e si mette a dormire, perché la cura e la scorciatoia più semplice per affrontare il senso di colpa sono sia per il singolo che per la collettività, l’oblio e la rimozione. L’uomo che Georges crede essere l’autore dei filmati che minacciano la sua tranquillità, si è ucciso davanti ai suoi occhi. L’ha invitato a casa per svelargli un segreto e quando si è trovato di fronte a lui gli ha detto: “Georges, sono contento che tu sia venuto, volevo che tu fossi presente”, e con colpo secco si è tagliato la gola. Questa scena rappresenta un’accelerazione, filmica ed emotiva, improvvisa in un andamento lento e cadenzato. È una scena che esaurisce tutta la sua forza nel giro di pochi secondi e dove l’immagine tende a svanire e a svuotarsi di significato così come il corpo esanime di Majid emette gli ultimi rantoli in seguito all’emorragia. Il sangue versato in questo atto di auto eliminazione è immota. Il suicidio è un atto definitivo che conclude la persecuzione. Il rapporto è interrot133
to con l’eliminazione (seppur auto-indotta) di uno dei due termini del confronto e quindi la violenza assoluta ha cancellato in un colpo solo la socialità e la colpa dell’altro che ora si sente autorizzato ad esprimere la sua convinzione di essere nel giusto. La colpa è annullata dalla mancanza di un “terzo”, nei cui confronti l’atto di violenza possa suscitare una qualche reazione. “Terzo” che Haneke invece identifica nelle nuove generazioni. Il figlio di Majid e quello di Georges sono il termine verso cui è rivolta la violenza dei padri. Nell’ultima inquadratura del film che propone in campo medio la scalinata davanti alla scuola di Pierrot, i due si incontrano e parlano. Non sentiamo cosa si dicono, ma la loro presenza nel lato basso di sinistra del quadro sembra volerci dire che loro sono gli eredi delle colpe dei padri. Questa inquadratura è stata al centro di molte e opinabili interpretazioni, ma indipendentemente dal fatto che né spiega né conclude nulla, rappresenta al meglio il concetto di “visione negata” tanto cara ad Haneke. L’assenza di spiegazioni e la contemporanea molteplicità di spiegazioni riassumono al meglio l’omissione narrativa e figurativa alla base della poetica del regista austriaco. Se il cinema vuole provare ad essere riproduzione del reale, non può concludere le proprie vicende perché nella realtà niente si conclude ma tutto si intreccia. Pierrot e Majid ereditano il vissuto e le colpe dei padri, sta a loro adesso gestire questo peso e questa responsabilità. I due ragazzi non sono soli ma inseriti (nella inquadratura come nella vita) in una società fatta di altri figli e adesso sta al loro senso di responsabilità la possibilità di scegliere l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’altro. Vedere nell’altro un”amico” o un “nemico” è la grande responsabilità che grava sull’uomo contemporaneo.
Blow-up
Questa responsabilità di scelta si intreccia inevitabilmente con il senso critico attraverso cui l’uomo contemporaneo si pone davanti alle immagini: il senso di sgradevolezza e di disarmonia che accompagna l’intera pellicola deriva appunto dalla presunzione di onniscenza dei protagonisti nell’interpretare le immagini riprodotte dalle VHS. Presunzione che Haneke punisce moralisticamente conducendo il gioco fino alle estreme conseguenze perché per il regista l’immagine è falsa, subdola e manipolabile, ma il suo carattere più affascinante e più pericoloso è l’ambiguità.
In Caché l’obiettivo di Haneke è quello di annullare il confine tra realtà e finzione attraverso il procedimento inverso a quello abituale del suo cinema. Se fino ad ora, l’assenza di una colonna sonora, la fissità della macchina da presa e il sottodimensionamento dei suoi protagonisti hanno rappresentato la cifra stilistica del suo rigore, con questo film si passa ad una sintesi cinematografica del concetto di immagine che poggia sull’unificazione diegetica di realtà e finzione. Haneke attraverso questo film pone allo spettatore la domanda provocatoria e insidiosa sulla veridicità dell’immagine. Ad ogni inquadratura mette in atto un cambio di prospettiva reversibile che pone l’interrogativo sulla natura dell’immagine: è reale o è la sua riproduzione? In Caché la riproduzione del reale sfocia nel perturbante a causa dello sguardo dell’”altro” sconosciuto che attraverso la fiction guarda il nostro privato. Il piano fisso iniziale è dunque un atto di minimizzazione che destabilizza lo spettatore nel momento in cui viene contestualizzato: apparentemente non presenta niente di minaccioso, ma quando l’immagine viene riavvolta svela il suo aspetto inquietante. Il leit-motiv del film vive continuamente sull’ambiguità dell’immagine in un’alternanza continua di campi medi e lunghi immobili nella loro asetticità che si sovrappongono ai primi piani svuotati di ogni emotività. La freddezza della rappresentazione è perfettamente congeniale alla volontà di destabilizzare ed interrogare da parte del regista. Il massimo di obiettività apparente espresso attraverso la riproduzione video del reale, coincide paradossalmente con l’assenza di decifrabilità. Ogni immagine ne contiene un’altra, e poi ancora un’altra e così via fino all’infinito ma non si tratta di metacinema bensì di un azione di detection improntata unicamente verso lo svelamento. Come in Blow-up (1966) di Antonioni, anche in Caché assistiamo ad un processo di ingrandimento per la definizione del reale. Georges, da un cassetta ricevuta decifra attraverso i tasti di rewind, fast-forward e pause il nome di una via (Avenue Lenin) e da lì risale prima al quartiere, poi al palazzo ed infine all’appartamento. Il processo quindi si sviluppa attorno all’ingrandimento di una dettaglio che permette a Georges di penetrare la realtà e di trovare una strada possibile per risolvere il suo problema. Haneke come Antonioni insiste sull’ambiguità dell’immagine che aumenta progressivamente in relazione all’aumentare del suo significato. L’uomo che Georges trova dietro quell’appartamento non è la soluzione al suo problema, ma lo diventa in quanto capro espiatorio necessario al fine di ritrovare la tranquillità perduta.
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Il carattere del nemico quindi, si alimenta di due opposti comportamenti: può offenderci o resisterci. Può sottrarsi alle linee di potere disciplinare e alle osservazioni cliniche, e per questo stesso diventa potenzialmente perico loso, individuale, clandestino.97
A noi pare dunque che sia stato proprio il cinema a riportare “in chiaro” quel che era nascosto, e a sospingere Georges indietro, verso il suo crimine. A chi se ne stupisca, si può rispondere che niente è vietato alla sua onnipo tenza, nell’universo separato che è ogni film.98 La volontà di scomposizione dell’immagine filmica permette dunque l’emersione del significato. Come il fotografo Thomas, in Blow-up, attraverso l’ingrandimento e la scomposizione dei dettagli svela l’omicidio, così Georges in Caché pretende di svelare il mistero attraverso l’interpretazione delle immagini. Per entrambi però il risultato è fallimentare perché annullato dal senso di colpa gravante che conduce all’inazione e all’oblio. Sia Thomas che Georges davanti all’omicidio rimangono immobili e passivi perché il significato dato alle immagini non ha rivelato la realtà ma forse solo una sua riproduzione fantasmatica. L’inconsistenza materiale delle immagini rimanda inevitabilmente a David Lynch e al suo Lost Highway (Strade perdute, 1998), in cui una coppia dallo stile di vita agiato è turbata da una serie di videocassette che contengono immagini della loro abitazione che progressivamente dall’esterno penetrano nell’interno. Attraverso la moltiplicazione dei punti di vista e lo sconfinamento attraverso gli spazi dell’abitazione Lynch penetra lentamente in un abisso esistenziale che conduce all’omicidio e all’orrore. A differenza di Haneke quindi, Lynch agisce sugli strati del perturbante attraverso un processo di addizione dei significati che corre parallelo alla sottrazione di elementi scenici disvelando il rimosso elaborando un’indagine incompleta che si ferma prima dello stop-frame. Lynch deborda nell’onirismo e nella scissione fantasmatica del reale, mentre Haneke vede la stessa realtà attraverso una dimensione oscura e simbolica che penetra il reale allontanandosi dalla fiction. Alla fine quindi quella tra Caché e Lost Highway è solo una distinzione estetica legata all’aspetto concettuale della detection attraverso l’immagine che evidenzia la differenza di sguardo tra Europa e America.
Il cinema quindi, offre la possibilità di riprodurre il reale attraverso codici generali di fissazione e divulgazione delle immagini ma la sua peculiarità permette attraverso il movimento e la profondità di campo di creare l’illusione filmica. Haneke dispone le sue immagini sul livello dell’ambiguità costruendo molteplici piani prospettici che aumentano la prospettiva e che permettono allo spazio di assurgere ad elemento diegetico imprescindibile della rappresentazione. Il regista austriaco in Caché trasporta questo discorso, prettamente cinematografico sul livello narrativo. La dicotomia tra le immagini perturbanti che giungono in casa Laurent attraverso le VHS con le immagini dell’Iraq e della Palestina provenienti dalla TV, è solo la rappresentazione del rapporto biunivoco tra “piccola storia” e “grande storia”. Le immagini, in Caché, in definitiva non svelano nulla ma appaiono indecifrabili e ingannevoli ad ulteriore conferma che quella di Haneke è una continua ricerca sulle modalità disgregative nella società contemporanea che inevitabilmente incrocia sempre l’inconsistenza mediatica e la manipolabilità dell’immagine. Blackout – Progressiva frammentazione famigliare
Tradizionalmente il cinema fonda le basi della sua riproduzione della realtà nella “oggettività” fotografica; in più però, della realtà il cinema con serva il carattere fenomenologico. L’impressione di realtà attivata dalle immagini si basa sulla dialettica di apparenze che trae origine dalla ripro duzione; la riproduzione trasforma la realtà in atto, ma in un atto che pos siede le stesse caratteristiche percettive con cui i nostri sensi mediano la realtà.99
In Caché la disgregazione è già in atto. Sin dalla prima inquadratura, un campo medio di un esterno, dove un occhio sconosciuto ha ripreso con una telecamera una porzione di spazio privato e ha inviato questa ripresa agli abitanti di quello spazio, ci troviamo di fronte ad un atto di disgregazione filmica che ben presto trasla la propria forza distruttrice nelle dinamiche familiari. La reazione stupita e scomposta che Anna e Georges hanno di fronte a quelle immagini insignificanti, contiene già tutti i presupposti del carattere disgregante della “minaccia”. In C a c h é, anziché riunirsi e stringersi calorosamente per difendersi in maniera compatta dalla minaccia che proviene dall’esterno, la famiglia imlpode in un processo di frammentazione alimentato dalla menzogna. Le piccole menzogne quotidiane e la mancanza di fiducia tra marito e moglie sono svelate solo dall’imprevisto, altrimenti la loro esistenza continuerebbe nell’ipocrisia e nella coazione a ripetere di ritmi di vita consolidati in grado di garantire la necessaria sicurezza. Quando questa viene meno, attraverso le videocassette, i personaggi sono obbligati a svelare il loro vero volto. Caduta la maschera, l’orrore esistenziale, coperto dalla banalità e ripetitività del quotidiano abitudinario, si rivela con tutta la sua forza attraverso menzogne, gelosie e sfiducia. Segni premonitori di uno stato depressivo latente
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dovuto allo stato pervasivo di una situazione di apparente sicurezza. La disincarnazione dell’evento temibile non si limita a spostarlo avanti nel tempo ma lo sgancia anche da qualsiasi avvenimento preciso (per quanto indesiderabile ed orribile) che si immagina possa aver luogo nel futuro.100 Questo senso di impotenza di fronte ad una minaccia latente ma imprecisata nel tempo aumenta l’insicurezza di Anna e Georges e svela l’identità ipocrita del loro rapporto e il sottile gioco di apparenze su cui si basa l’esistenza serena dei Laurent. Non è casuale che l’interno dell’abitazione sia l’ambiente sicuro e protetto entro cui nasce e si sviluppa la crisi, così come non è casuale che ogni componente della famiglia faccia riferimento ad un oggetto-feticcio per delimitare il suo guscio. La parete spoglia e immersa nella semi-oscurità nella camera di Anna e Georges è la negazione di quella tappezzata di posters e di adesivi di Pierrot e di quella del salotto ricoperta di libri, in modo da restituire allo spettatore un senso di falso e di “costruito” per preservare l’apparenza. La realtà è altra, è una realtà fatta di sangue che appare nei sogni e di gelosie inspiegabili che si manifestano nei pensieri di Pierrot. Se tutto appare come “vorrebbe essere” questo non impedisce di vedere dietro il rapporto di facciata di Anna e Georges, le crepe che lacerano la loro relazione e che inevitabilmente si riversano sull’introverso Pierrot “vittima” del modello educativo imposto dai genitori. Michael Haneke impone al film la scelta politica del dualismo esser/avere dimostrando come sia incontrovertibile che l’uno necessariamente sia caché per l’altro. Nella dialettica spaziale tra esterno e interno si frappone quello spazio infinitesimale in cui si genera il paradosso. La vita di un conduttore televisivo e di una editrice generano un benessere che non li rende immuni dalle proprie colpe che necessariamente devono essere espiate. Il non sentirsi colpevoli per qualcosa che “è successo quando avevo 6 anni” non basta per acquisire la certezza che il passato è passato e pertanto non può influire sul presente ma la pena da scontare per il male commesso arriverà imprevista e violenta per mano di Divina. È quindi naturale che Caché si concluda senza lo svelamento della minaccia e senza l’individuazione del colpevole perché ogni causa ha una sua conseguenza e l’uomo per quanto cerchi di rendersi onnipotente non può nulla contro una volontà trascendente e immanente che bypassa l’esistenza terrena. La minaccia infantile che accompagna le videocassette su cui è registrata la sterile e improduttiva apparenza dell’esistenza vissuta nel benessere dato da un’abitazione sicura, dal frigorifero sempre pieno, e dagli stessi movimenti ripetuti all’infinito rappresenta quindi la trascendenza della punizione inflitta per l’espiazione della colpa. Per questo la famiglia di Georges va in crisi, perché le sue bugie non riescono a maschera138
re come l’identificazione di un colpevole sia solo un’ulteriore dimostrazione dell’ipocrisia che accompagna la vita di questi personaggi: il capro espiatorio è necessario per spiegare a se stessi che c’è sempre un motivo che spiega ogni cosa. Haneke invece agisce all’opposto, non spiega, non trova e non conclude perché il suo obiettivo è quello di mettere a confronto le piccole e grandi colpe con l’imponderabilità delle improvvise espiazioni. Mostra allo spettatore ciò che questi non vuole vedere , cioè l’indicibile che abita dentro ognuno di noi, quella parte di mistero e di oscurità che appartiene a tutti, quei segreti inconfessabili che si alimentano dal desiderio ed infine quello che il nostro occhio seleziona, nasconde e rimuove. La “visione negata” è dunque l’unica possibilità che, attraverso l’ipotesi, può svelare in ambito cinematografico la vera essenza dell’uomo sia attraverso lo schermo sia attraverso il flusso di immagini che penetra dentro l’occhio dello spettatore e raggiunge il cervello.
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Conclusioni LEAHCIM EKENAH Gli uomini non traggono piacere ma al contrario un grande dispiacere dalla vita in compagnia. Hobbes Attualmente Michael Haneke si trova in America dove sta lavorando alla post produzione del remake di Funny Games. A dieci anni di distanza il regista torna sulla “scena primaria” del suo cinema: cambiano le carte, cambiano i giocatori ma non cambiano le regole. La regola unica e inalterabile che contraddistingue il suo cinema è quella della “visione negata” attraverso cui è possibile (e forse oggi è l’unico modo) aprire la mente dello spettatore, instillare il dubbio e centrifugare le certezze. L’obiettivo di destabilizzare lo spettatore è si un’azione provocatoria, ma contemporaneamente è l’esemplificazione teorica secondo cui, per distinguere il Bene dal Male è necessario mostrare solo quest’ultimo. Il Male presente nel cinema di Haneke è (quasi) sempre fuori campo e arriva allo spettatore attraverso le conseguenze del suo agire. Agendo per sottrazione, e quindi spogliando la scena del superfluo, imponendo agli attori situazioni di precarietà per “strappare” l’istinto, lavorando in set “reali” che non necessitano di modifiche scenografiche, Haneke costruisce un cinema unico alimentato da un’angoscia e da un perturbante costantemente latenti. Per Haneke il Male è un magma indefinito e “trasparente” che si allarga a macchia d’olio sull’Europa. Un’Europa asettica e glaciale che paradossalmente mantiene quei tratti espressionistici che sono stati la cifra stilistica di partenza del cinema muto di un grande regista austriaco: Erich Von Stroheim. Haneke non è solo l’opposto di Stroheim per quanto riguarda la messa in scena scarna, essenziale e rigorosa rispetto a quella magniloquente, ridondante e passionale del suo illustre predecessore, ma è il completamento di una poetica di realismo estremo che accomuna i due 140
austriaci nell’esercizio della “visione negata”. Erich Von Stroheim non ha mai utilizzato artifici per mostrare il suo “realismo sporco”, presentando in ogni personaggio le ambiguità, i dubbi e le inquietudini caratteristiche di ogni uomo. Ha sempre privilegiato il lato negativo di caratteri e situazioni perché come Haneke è convinto che il cinema sia un’”arma” da puntare contro gli spettatori al fine di suscitare domande e non dare risposte. È curioso pensare che i due più grandi cineasti austriaci del XX° secolo si “ritrovino” oggi sul suolo americano, così come è curioso, ma non casuale, che la macchina cinema cerchi di inghiottire i suoi figli “ribelli”. A Stroheim non è mai stato permesso di portare a termine un film secondo la sua volontà, e Haneke, forse, ha attraversato l’oceano per vendicare un “padre incompreso”, attraverso il remake del suo film più teorico: Funny Games. Il cerchio quindi si chiude e il gioco ha inizio: il Male sfonda lo schermo e mostra il suo volto orribile attraverso la negazione del Bene in una società che non è più solo quella europea, ma è globalizzata e mondiale ed è retta su rapporti sadici e violenti “necessari” per comprendere l’essenza dell’uomo. La “visione negata” di Michael Haneke diventa quindi la “visione negata” di un mondo che preferisce tenere gli occhi chiusi piuttosto che guardare il suo volto morente. Haneke quindi gira la sua macchina da presa sui volti del pubblico come se questa fosse l’occhio di Dio, lo sguardo assoluto e omnipresente che osserva morire un mondo disumanizzato dove non esiste più la giustizia sostituita dalla reversibilità permanente dei ruoli di vittima e carnefice. La “visione negata” di Michael Haneke è dunque un atto di trascendenza che attraverso l’esercizio crudele del suo cinema crea un’estetica della paura necessaria (moralisticamente) e provocatoria (teoricamente) per squarciare l’ipocrisia di una società dove non sono più possibili né espiazione, né redenzione.
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CAST AND CREDITS
71 fragmente einer chronologie des zufalls Titolo italiano: 71 frammenti di una cronologia del caso Austria, 1994, 35mm, col., 96’
Der siebente kontinent
Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke. Fotografia: Christian Berger; Suono: Marc Parisotto; Montaggio : marie Homolkova. Scenografia: Christoph Kanter; Costumi: Erika Navas; Trucco: Ilse WeiszStainer; Assistente alla regia: Ramses Ramsauer; Direttore di produzione: Hermann Wolf, Mingo Krusche; Produzione: Weit Herduschka, Wega-Film (Wien) con Zweites Deutesches Fernsehen (ZDF)-Arte
Titolo italiano: Il settimo continente Austria 1989, 35mm, col., 111’ Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke; Fotografia: Anton peschke Ayers; Suono: Karl Schilfener; Montaggio: Marie Homolkova ; Scenografia Rudolf Czettel; Trucco: Ernst Dummer; Effetti speciali: Willi Neuner; Assistente alla regia: Hanus Polak Jr.; Produzione :Veit Herduscka, Wega-Film (Wien)
Interpreti:Gabriel Cosmin Urdes (giovane rumeno); Lukas Miko (lo studente); Otto Grunmandl (Tomek, il vecchio); Anne Bennet (Inge Brunner); Udo Samel (Paul Brunner); Branko Samarowski (Hans); Claudia Martini (Maria); Georg Friedrich (il soldato); Alexandes Pschill (Hanno); Dorothee Hartinger (Kristina)
Interpreti: Dieter Berner (Georg); Udo Samel (Alexander); Leni Tanzer (Eva); Brigit Doll (Anna); Elizabeth Rath (l’insegnante); Robert Dietl (Oertl) Das Schloss Benny’s video Titolo italiano: Il castello Austria-Svizzera,1992, 35mm, col.,105’ Austria, 1997, 35mm, col., 131’, TV Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke; Effetti: Willi Neuner Fotografia: Christian Berger ; Suono: Karl Schilfener Montaggio: Marie Homolkova; Musiche: Johann sebastian bach ; Costumi: Erika Navas; Scenografia: Christoph kanter; Assistente alla regia: Hanus Polak Jr.; Direttore di produzione: Michael Katz, Gebhard Zupan; Produzione:Veit Herduscka, Wega-Film (Wien) Interpreti: Arno Frisch (Benny); Angela Winkler (La Madre); Ulrich Muhe (Il Padre); Ingrid Stassner (La Ragazza); Max Berner; Stephanie Brehme Shelly Kastner; Hanspeter Müller; Stefan Polasek; Christian Pundy
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Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke dall’omonimo romanzo incompiuto di Franz Kafka il Castello; Costumi: Lisy christl Fotografia: Jiri stibr , Suono: Marc Parisotto; Montaggio: Andreas prochaska ; Scenografia: Christoph kanter; Trucco: Waldemar Prokomski; Assistente alla regia: Hanus Polak Jr.; Direttore di produzione: Michael Katz; Produzione:Weit Herduschka, Wega-Film (Wien) con Osterraichischer Rundfunk (ORF), Bayerischer Rundfunk (BR) - Arte Interpreti: Ulrich Muhe (K.); Susanne Lothar (Frieda); Frank Giering(Artur); Felix Eitner (Jeremias); Nikolaus Paryla (Governatore); Inga Busch (Amalia); AndrÈ Eisermann (Barnabas); Dorte Lyssewski (Olga); Norbert 143
Schwientek (Burgel); Otto Grunmandl (l’oste); Voce narrante: Udo Samel Funny Games
La pianiste
Austria, 1997, 35mm, col., 103’
Titolo italiano: La pianista
Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke; Fotografia: Juergen juerges ;Suono : Walter Hamann; Musica: Giuseppe Verdi, Wolfgang Amadeus Mozart, John Zorn; Montaggio: Andreas prohaska ; Scenografia: Christoph kanter; Costumi: Lisy Christl; Assistente alla regia: Hanus Polak Jr.; Direttore di produzione: Werner F. Reitmeier; Produzione: Weit Herduschka, Wega-Film (Wien)
Francia-Austria, 2001, 35mm, col., 130’
Interpreti: Christoph Bantzer (Fred); Stefan Clapczynski (Georgie); Arno Frisch (Paul); Frank Giering (Peter); Wolfgang Glueck (Robert); Doris Kunstmann (Gerda); Susanne Lothar (Anna); Susanne Meneghel (Sorella Di Gerda); Ulrich Muehe (George); Monika Zallinger (Eva).
Code inconnu – Recit incomplete de divers voyage
Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke dal romanzo di Elfriede Jelinek Der Klaviespelerin; Fotografia: Christian Berger; Suono: Guillame Sciama, Jean Pierre Laforce; Montaggio : Monika Willi, Nadine Muse;. Scenografia: Christoph Kanter; Costumi: Annette Beufais; Direttore di produzione: Marin Karmitz, Alain Sarde; Produzione: Weit Herduschka, Wega-Film (Wien), MK2 sa e Les Films Alain, Arte France Cinema, /Canal+, Arte, Centre Nationale de la Cinematographie, OFI, WFF,ORF, EURIMAGES Interpreti:Isabelle Huppert (Erika Kohut); Benoît Magimel (Walter Klemmer); Annie Girardot (Madre Di Erika); Anna Sigalevitch (Anna Schober); Udo Samel (Dr. Blonskij); Susanne Lothar (Signora Schober); Cornelia Kondgen (Signora Blonskij)
Titolo italiano: Storie – Racconto incompleto di diversi viaggi Francia-Germania-Romania, 2001, 35mm, col., 117’
Le temps du loups
Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke. Fotografia: Jurgen Jurges; Suono: Guillame Sciama, Jean Pierre Laforce; Montaggio : Andreas Prohascka, Karin Hartusch, Nadine Muse. Scenografia: Emmanuel De Chauvigny; Costumi: Francois Clavel; Assistente alla regia: Alain Olivieri, Yvon Crenn; Direttore di produzione: Marin Karmitz, Alain Sarde; Produzione: MK2 Productions/Les Films Alain Sarde/Arte France Cinema/france 2 Cinema/Bavaria Film Gmbh/ Filmex Romania con Procep/ Canal+
Titolo Italiano: Il tempo dei lupi
Intrpreti: Juliette Binoche (Anne); Thierry Neuvic (Georges); Bruno Todeschini (Pierre); Ona Lu Yenke (Armadou); Sepp Bierbichle (Contadino); Luminita Gheorghiu ( Maria); Alexandre Hamidi (Jean); Maimouna Helene Diarra (Aminate)
Interpreti:Isabelle Huppert (Anne Laurent); Patrice Chereau (Thomas Brandt); Lucas Biscombe (Ben); Béatrice Dalle (Lise Brandt); Anaïs Demoustier (Eva); Daniel Duval (Georges Laurent) Marilyne Even (Signora Azoulay); Olivier Gourmet (Kowsloski); Florence Loiret (Nathalie Azoulay); Brigitte Rouan (Bea); Hakim Taleb, Maurice Benichou, Rona Hartner,
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Francia-Austria, 2004, 35mm, col., 110’ Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke; Fotografia: Jurgen Jurges; Suono: Guillame Sciama, Jean Pierre Laforce; Montaggio : Monika Willi, Nadine Muse;. Scenografia: Christoph Kanter; Costumi: Lisy christl; Direttore di produzione: Veit Heiduschka, Margaret Menegoz; Produzione:
Philippe Nahon, Serge Riaboukine Cachè
BIBLIOGRAFIA
Titolo italiano: Niente da nascondere Libri su Michael Haneke Francia- Germania-Austria-Italia, 2005, 35mm, col., 114’ Regia: Michael Haneke; Sceneggiatura: Michael Haneke. Fotografia: Christian Berger; Suono: Jean Paul Maugel, Jean Pierre Laforce ; Montaggio: Michael Hudecek ; Scenografia: Christoph Kanter, Emmanuel De Chauvigny; Costumi: Lisy Christl; Produzione: Les Film Du Losange,Weit Herduschka, Wega-Film (Wien), con Arte France Cinema/France 3 Cinema, ORF film/Fernseh-Abkommen Interpreti: Daniel Auteil (Georges Laurent); Juliette Binoche (Anne Laurent); Maurice Benichou (Majid); Annie Girardot (La madre di Georges); Walid Afkir (il figlio di Majid); Lester Makedonsky (Pierrot); Daniel Duval (Pierre); Nathalie Richartd (Mathilde); Denis Podalydes, Aissa Maiga
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Note (specificare il capitolo per inserimento fine capitolo)
15 Tereza Knapp, op.cit., internet 16 Michael Haneke in Cafèbabel, cit. internet
1 Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti, La negazione è l’unica forma d’arte che si possa prendere sul serio, in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p.59
17 Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti, “La negazione è l’unica forma d’arte che si possa prendere sul serio” colloquio con Michael Haneke, in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino, 1998, p.42
2 Antonin Artaud, Il sistema della crudeltà, Mimesis, Milano, 1997, p.109
18 ibidem
3 Francesca Marini, Bacon, Rizzoli, Milano 2004, p.29
19 Tereza Knapp, intervista a Michael Haneke in Frameonline, cit. internet
4 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Net, Milano 2002, p.53
20 Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Oscar Mondadori, Milano, 2003, p.91
5 Aldous Huxley, L’arte di vedere, Adelphi, Milano, 1989, p.37 21 Davide Manti, Ca(u)se perturbanti, Lindau, Torino 2003, p.291 6 Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti, op. cit., p.53 7 Tereza Knapp, Intervista a Michael Haneke, in Frameonline, n.7, Novembre-Dicembre 2001
22 Gv. 3, 8-9, Vangelo e Atti degli Apostoli, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, 1989 23 André Bazin, Che cosa è il cinema, Garzanti, Milano 1973, p.3
8 Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere, Bruno Mondatori, Milano, 1995, p.25 9 Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti, op. cit., p.59 10 Pier Paolo Pasolini, Abiura della trilogia della vita, in Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano, 1995, p.146
24 Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti, La negazione è l’unica forma d’arte che si possa prendere sul serio, in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p.52 25 Andrei Tarskovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988, p.184
11 Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro, Milano 2004, p.83
26 M. Haneke, Appunti su “71 Fragmente einer Cronologie des Zufalls”, in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p. 68
12 Andrej Tarkowskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988, p.148
27 Irenäus Eibl – Eibesfeldt, Amore e Odio, Adelphi, Milano, 1996, p.42
13 Otto Müehl e gli azionisti viennesi, Conversazione tra Daniel Roussel e Thierry Laurent, in Croniques, cit. internet.
28 Edward T. Hall, La dimensione nascosta, Bompiani, Milano, 1988, p. 133 29 Ivi, p.147
14 Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti, op. cit., p.61 30 Ivi, p.83 152
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31 Michael Haneke, Violenza e Media in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p. 71
45Marino Livolsi, Socializzazione virtuale in Giovannella Greco (a cura di) Mediamorfosi, Rubettino, Catanzaro 2000, p.114 46Intervista a Michael Haneke in “Filmbullettin”, Maggio 1992
32 Jean-Paul Sartre, L’Essere e il Nulla, Net, Milano 2002, p.64 47Jean Baudrillard, La Trasparenza del Male, Sogarco, Milano 1990, p.19 33 Ivi, p.431 34Stefania Consigliere, Sul piacere e sul dolore, DeriveApprodi, Roma 2004, p.168 35Wolfgang Sofsky, Il paradiso della crudeltà, Einaudi, Torino 2001, p.66 36Alexander Horwatt, Giovanni Spagnoletti, “La negazione è l’unica forma d’arte che si possa prendere sul serio”. Colloquio con Michael Haneke. In Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p.52 37Bert Rebhandt, Piccola mitologia della pellicola nera, in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p. 106.
48Michael Haneke in extra del DVD 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, Kino on Video, New York City 2006. 49Jean-Claude Polack, Per un’ecologia della violenza in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p.130 50Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p.99 51Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro, Milano 2004, p.135 52Jean Baudrillard, La trasparenza del Male, SugarCo, Milano 1990, p.50 53Intervista con Michael Haneke, Parigi 28 Agosto 2003 in extra del DVD Das Schloss, Wega Film, Vienna 2003
38Ibidem p.177 39Giacomo Devoto, Giancarlo Oli, Dizionario della Lingua Italiana, Le Monnier, Firenze 2000, p.1172 40François-Xavier Poudat, La dipendenza amorosa, Castelvecchi, Roma 2006, p. 99 41Michael Haneke, Violenza e Media, in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p.73 42René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2003, p.19 43Wolfgang Sofsky, Il Paradiso della crudeltà, Einaudi, Torino 2001, p. 9
54Franz Kafka, Il Castello, Newton Compton, Roma, 1990, p.237 55Intervista con Michael Haneke, Parigi 28 Agosto 2003 in extra del DVD Das Schloss, Wega Film, Vienna 2003 56Jonathan Ronmey, Michael Haneke on Funny Games, in booklet allegato a Funny Games collector’s edition, Tartan Video, 2006 57Vera Agosti, La figura del clown: metafora della condizione umana, MEFFirenze Atheneum, Firenze 2005, p.80 58Jacques Lacan, I complessi familiari, Einaudi Psicologia, Torino 2005, p.56
44Davide Manti, Ca(u)se Perturbanti, Lindau, Torino 2003, p. 71 59Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti, La negazione è l’unica forma 154
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d’arte che si possa prendere sul serio, in Alexander Horwath, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau, Torino 1998, p.57
76Intervista a Michael Haneke i extra del DVD La pianista
60Jacques Lacan, op. cit., p.80
77Ibidem
61Michael Haneke in Cinema del silenzio, cit. internet
78Noel Burch, Prassi del cinema, Il Castoro Milano 2000 p.44
62Rüdiger Dahlke, Aggressione come scelta, Medeiterranee, Roma 2004 p.20
79Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Net, Milano, 2002 p.422
63Stefania Consigliere, Sul piacere e sul dolore, DeriveApprodi, Roma 2004, p.133
80Valeria Giordano, Stefano Mizzella (a cura di), Aspettando il nemico, Universale Meltemi, Roma 2006, p.197 81Jean-Paul Sartre, op. cit. , p.428
64Rüdiger Dahlke, Op. cit., p.74 82Intervista a Michael Haneke in Frameonline, cit. internet 65Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Net, Milano 2002, p.455 66Davide Manti, Ca(u)se perturbanti, Lindau, Torino 2003 p.301
83Imre Herman, Perversione e Musicalità di Renzo Editore, Roma, 1997 p.16
67Rüdiger Dahlke, Op. cit., p.81
84Jean Baudrillard, Della seduzione, SE, Milano, 1997 p.30
68Davide Manti, Op. cit., p.70
85Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere, Bruno Mondadori, Roma, 1995 p.100
69Andrea Caramanna, New Cinema, Seb 27, Torino 2006 p.123 86 Il tempo dei lupi, Il Sole-24 Ore, 13 Giugno 2004 70Valeria Giordano, Stefano Mizzella (a cura di), Aspettando il nemico: per corsi dell’immaginario e del corpo, Melteni, Roma 2006 p.60
87 Il tempo dei lupi, l’Unità 4 Giugno 2004
71Ivi, p.42
88 Davide Manti, Ca(u)se Perturbanti, Lindau Torino, 2003, p.137
72Michel Chiment, La normalité n’existe pas, in “Positif” n.500, Ottobre 2002
89 Irenaus Eibl-Eibesfeldt, Amore e Odio, Adelphi, Milano, 1996 p.105
73Michel Chiment, La normalité n’existe pas, in “Positif” n.500, Ottobre 2002
90 Dario Buzzolan, George A. Romero: La notte dei morti viventi, Lindau Torino, 1998, p.93
74Valeria Giordano, Stefano Mizzella, op.cit. Pag. 180
91 Sigmund Freud, Al di là del Principio del Piacere, Bruno Mondadori, Roma, 2003, p.56
75Wolfgang Sofsky, Il Paradiso della crudeltà, Einaudi, Torino, 2001, pag.66
92René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 2003 p.60
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93 Wolfgang Sofsky, Il Paradiso della crudeltà, Einaudi, Torino, 2001 p.8 94 Intervista a Michael Haneke in Cineuropa, 14 Maggio 2005, cit. internet 95 Paolo Cherchi Usai, Caché (Niente da nascondere) in SegnoCinema n.136, Novembre, Dicembre 2005 96 Jean- Paul Sartre, L’Essere e il Nulla, Net, Milano, 2002 p. 463 97 Valeria Giordano, Stefano Mizzella, Aspettando il nemico, Meltemi, Roma 2006, p.44 98 Roberto Escobar, Niente da Nascondere, in Il Sole 24-Ore, 23 Ottobre 2005 99 Roberto Nepoti, L’illusione filmica, Utet, Torino, 2004 p.61 100Stefania Consigliere, Sul piacere e sul dolore, DeriveApprodi, Roma 2004, p. 233
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