L'eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento 8871803736, 9788871803739


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L'eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento
 8871803736, 9788871803739

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L’ECCESSO DELLA VISIONE Il cinema di Dario Argento a cura di Giulia Cariuccio Giacomo Manzoli, Roy Menarini

© 2003 Lindau s.r.l. Via Bernardino Galliari 15 bis -10125 Torino tel. 011/669.39.10 - fax 011/669.39.29 http: / /www.lindau.it e-mail: [email protected] Prima edizione: novembre 2003 ISBN 88-7180-373-6

L'ECCESSO DELLA VISIONE Il cinema di Dario Argento

a cura di Giulia Cariuccio Giacomo Manzoli Roy Menarmi

RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento particolare a Carla Alonso, Opera Film, a Fabio Maiello, e Franco Vitali. Un grazie per l'aiuto prezioso e la costante collabora­ zione a Gabrielle Lucantonio.

Nota dei curatori

Questa non vuole essere una prefazione, ma, letteralmente, una nota di accompagnamento ai saggi che seguono, per spiegarne la genesi e gli intenti. L'idea del volume è nata in seguito a un corso universitario di Storia del cinema italiano dedicato a Dario Argento, tenuto al DAMS di Torino da Giulia Cariuccio nell'anno accademico 2000/2001, con il contributo di Giacomo Manzoli e Roy Menarmi del DAMS di Bolo­ gna. La ricchezza del cinema di Argento da un lato e l'entusiasmo degli studenti dall'altro, insieme alla constatazione della scarsità di contributi (e quindi di tributi) da parte del mondo accademico nei confronti di una delle più interessanti figure registiche del cinema italiano, hanno stimolato i sottoscritti a pensare a un volume collettaneo che mettesse insieme critici e studiosi di vecchia o nuova fede argentiana nel tentativo di coniugare un approccio più cinefilo e mi­ litante a uno più «accademico». Con l'intento, così, di riflettere sul­ l'opera del regista, cercando innanzitutto di definirne e problematiz­ zarne una collocazione nel cinema contemporaneo. Dario Argento è uno dei pochissimi registi del cinema italiano contemporaneo che possono reggere senza imbarazzo il peso del­ l'appellativo «classico». I suoi film sono un punto di riferimento, in patria e all'estero, e su di essi si è comunque, ormai, accumulata una vastissima letteratura. Tuttavia, il suo muoversi continuamente lun­ go coordinate autoriali che si inscrivono nella cornice del genere in una relazione dialettica, ha fatto sì che questo interesse critico sia proliferato in maniera non sistematica, privilegiando un approccio

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cinefilo che è al contempo una ricchezza e un limite, nel colpevole e pressoché totale disinteresse degli studi universitari. Il nostro inten­ to, come si diceva, è quello di provare a fare il punto della situazio­ ne, analizzando il cinema di Argento secondo una doppia prospet­ tiva. Da un lato inquadrando i suoi film in senso diacronico, osser­ vando il corpus argentiano lungo la progressione di fasi e periodi, definiti sotto il profilo cronologico ma anche tematico e stilistico. Dall'altro, in senso sincronico, evidenziando una serie di elementi relativi alla messa in scena, allo stile, al genere, alla ricezione delle sue opere, per tracciare una mappa in cui emergano i tratti d'autore più specifici e il peculiare dialogo, rapporto, scambio e collocazione nei confroni del cinema contemporaneo, tra modernità e postmo­ dernità. Il testo è incorniciato da una intervista originale al regista e da un apparato bibliofilmografico il più possibile esaustivo.

L'ECCESSO DELLA VISIONE

Il cinema secondo Argento

a cura di Gabrielle Lucantonio

Sei figlio di un produttore e di una fotografa. Quanto la famiglia ha in­ ciso nelle tue scelte? Me lo sono chiesto spesso. Mia madre faceva la fotografa, e io non ho mai pensato di seguire le sue orme. A casa, ovviamente, si parlava molto di cinema, e col tempo mi sono appassionato. Spes­ so i miei gusti non coincidevano con quelli dei miei familiari. Ho coltivato il cinema al di fuori di tutto, era una cosa a cui amavo de­ dicarmi da solo, seguire. Il parlarne in modo naturale, apparteneva alla vita quotidiana della nostra famiglia. Questo mi ha aiutato a considerare il cinema in modo meno mitico, più professionale.

Spesso i tuoi film fanno pensare a un universo fiabesco, quanto l'infan­ zia è presente in essi? Quanto la tua infanzia è presente? Io penso che l'infanzia sia presente in molti autori. L'infanzia nel senso di momenti di scoperte, di curiosità, anche di libertà mentale. È un periodo nel quale il cinismo non ti ha ancora colpito, riesci a essere meno arido e più felice. Quindi quando scrivo ritorno all'in­ fanzia, e a volte, senza rendermene conto, mi ritrovo a pensare co­ me un bambino, ad avere delle paure da bambino. Qualche volta mi costringo proprio a ritrovare questa dimensione fiabesca...

Racconti spesso del lungo corridoio di casa tua che portava alla tua ca­ mera da letto...

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I.UC ANTON IO

Ritorno a quei momenti nei quali le paure erano più acute, anche gli amori. Gli adulti sono più composti, mentre io sono rimasto un po' bambino. Gli amici, i miei familiari mi rimproverano di questo: del modo di comportarmi, di agire in alcuni momenti. Nella vita è un difetto. I «Cahiers du cinema» hanno insegnato che la critica può formare dei cineasti. Quanto la tua professione di critico è stata importante nella tua formazione di cineasta? È stata importantissima. Quando lavori in un quotidiano devi ve­ dere tutti i tipi di cinema: i film di genere, ma anche quelli impegna­ ti. Vedere tanti film e rifletterci sopra mi ha insegnato molto. Anda­ va per la maggiore la critica contenutistica... C'era un gran schema­ tismo. A me piaceva difendere anche il cinema di genere, e per que­ sto ho avuto molti rimproveri dal giornale. Spesso, quando arrivavo, l'usciere mi faceva segno che c'era la lettera del direttore, così anda­ vo subito a trovarlo e dovevo giustificarmi. Sei stato sceneggiatore. Hai soprattutto scritto dei film di genere, dei film di guerra, dei western... Come il lavorare ad altri generi li ha per­ messo di entrare meglio nell'universo del thriller e dell'horror? Lavoravo per il cinema di genere, anche perché era il tipo di ci­ nema che amavo scrivere. Sempre per tornare al fatto che ero bam­ bino, mi piaceva il western, il film d'avventura pieno di colpi di scena, il thriller. Ho cominciato a lavorare scrivendo cose che pia­ cevano a me. In questo senso, sono stato facilitato. Ma, purtroppo, non trovavo partner per scrivere. Gli altri scrittori di cinema non praticavano il genere, non amavano questo tipo di film: i vampiri, Dracula, li consideravano robaccia. Inoltre, quando scrivevi questi IiIin, non era tacile trovare un regista di valore che li sapeva realiz­ zare. ( 'erano Bava, Leone, Preda, Margheriti, Fulci... Ho avuto la lui luna di lavorare per Sergio Leone e, grazie a lui, il genere ha co­ mincialo a essere apprezzato. L stato molto importante. l a ( litica italiana li e stata ila subito ostile: come spieghi questo com­ poi lamento *

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Subito no. Per il primo film fu abbastanza amichevole. Poiché ero un giovane critico affermato e riconosciuto pensavano che avrei fatto un cinema da critico, un cinema che loro amavano. Non capi­ vano perché io avessi studiato tutti questi anni come critico per fare un film che non fosse serio. Credevano che fosse un tradimento. Se arrivi al cinema dalla critica deve realizzare un film impegnato.

Racconta l'esperienza del tuo primo film L'uccello dalle piume di cri­ stallo (1970)... Facevo lo scrittore e scrissi un giallo cercando qualcuno che lo po­ tesse produrre. Mi proposero dei registi che a me non piacevano, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Avevo scritto un film diverso, con delle idee strane, dei suggerimenti di regia... Ho pensato: «Pos­ so realizzarlo anch'io». Mio padre Salvatore mi propose di produrlo, trovammo un finanziatore, il distributore Lombardo, che mi dette fi­ ducia. In seguito, però, le cose non andarono bene. Quando sei de­ buttante, è molto difficile, perché sei sottomesso a tantissima gente. È stato il film più arduo della mia vita proprio per questo motivo. Sentivo attorno a me un'aria di diffidenza, anche da parte degli atto­ ri con i quali ho cominciato a litigare. L'unico a darmi fiducia era il direttore della fotografia, Vittorio Storaro, che realizzava il suo pri­ mo film a colori. Era un mio aiuto, un mio alleato. Anche Lombardo non si fidava di me. Ha cominciato a visionare il materiale che gira­ vo. Mi faceva pervenire tante critiche tramite mio padre: «Il film è gi­ rato male ecc.». Una domenica, Lombardo mi convocò in una sua ca­ sa vicino Roma e ci andai senza sapere quello che volesse. Mi disse: «C'è un regista di film d'azione, molto bravo, Ferdinando Baldi, e vorrei che fosse lui a finire il film». Gli ho risposto: «Mi dispiace, non posso accettare, il film l'ho scritto io, mio padre è anche il produtto­ re. Potrei accettare se supero il budget». Ero avvilito. Ho passato un sacco di guai. Quando il film ebbe successo tutti dimenticarono, e il distributore Lombardo mi stipulò un contratto per un altro film.

Di solito dici di non amare II gatto a nove code (1971). Perché? L'uccello dalle piume di cristallo era andato bene. E ho dovuto gi­ rarne subito un altro. Ho cercato di realizzare un film più movi-

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meritato, con più azione. Dopo, quando l'ho visto, sono rimasto de­ luso. In alcune parti avevo tradito la mia idea... La scena nel cimitero è molto famosa... Altre scene sono abbastanza belle. Però molte, dopo averle viste, non mi sono piaciute. Molti amici miei o anche alcuni critici france­ si hanno amato parecchio il film. Ma con la sceneggiatura che ave­ vo, avrei potuto fare di meglio, avrei potuto impegnarmi di più... Nel Gatto a nove code ci sono anche degli attori americani, penso a Karl Malden. In quel periodo si usava molto nel cinema di genere chiama­ re attori americani. Tu perché lo hai scelto? Perché era di moda o perché ti piaceva? Entrambe. Gli attori italiani non li conoscevo tanto. Frequentavo molto il cinema americano. Lavorare con Karl Malden è stato fanta­ stico. Sembra banale, ma dirigere uno che aveva interpretato Fronte del porto (On the Waterfront, 1954) e Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar Named Desire, 1951), mi sembrava meraviglioso. Quando mi venne in mente, andai in America e gli proposi il film. Gli feci ve­ dere L'uccello dalle piume di cristallo e così lui accettò...

L'uccello dalle piume di cristallo è stato un successo di pubblico in America... Ti ha aiutato per trovare un produttore per Quattro mo­ sche di velluto grigio (1971), che se non sbaglio era co-prodotto dalla Paramount... Questo successo fu inaspettato. Il film uscì in pochi cinema, però le sale si riempirono. Per una settimana fu il primo incasso negli Sta­ ti Uniti, e questo mi ha permesso di proporre anche i miei film suc­ cessivi. Anche Profondo rosso (1975) e Suspiria (1977) hanno avuto un buon successo. Dicono che Quattro mosche di velluto grigio sia autobiografico: hai scelto Mimsy Farmer perché assomigliava a tua moglie, e Michael Brandon perché assomigliava a te... Visti i risultati, c'è qualcosa di vero, ma non era voluto. Non vo­ levo che lei assomigliasse a mia moglie, e lui a me... Brandon si è ta-

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gliato i capelli come i miei, si vestiva come mi vestivo io. Siamo an­ dati con mia moglie Marisa a una proiezione di Quattro mosche di velluto grigio. Finito il film, lei mi disse: «Ma perché mi odi così tanto? Non vedi che tutti ci stanno guardando?». Da quel momento, non ha più voluto saperne di me... In questo film, hai usato una macchina da presa molta sofisticata, per la scena finale... Avevo scritto già nella sceneggiatura che volevo un ultra rallenti nel fintile. Il film era pieno di scoppi, di forza e anche di vigore; mi sarebbe piaciuto che improvvisamente, nel finale, diventasse per due minuti come un balletto. Ho cercato questa macchina per fare un su­ per rallenti, e l'ho trovata all'università di Dresda. Di solito, veniva usata per studiare la fusione metallica e altre cose di questo genere: non era fatta per il cinema di finzione. La macchina conteneva poca pellicola, e questa scorreva a 30000 fotogrammi al secondo. A quella velocità la pellicola prende fuoco. Per risolvere questo problema, la si faceva scorrere in un bagno d'olio. L'estrema velocità rendeva im­ possibile girare per più di un secondo ogni volta. È stato un incubo. In Francia, sostengono che sei un autore manierista, in poche parole ap­ partieni a quei registi che lavorano su un materiale già esistente per creare qualcosa di diverso. Hai l'impressione di appartenere a una generazione manierista? Io penso di essere manierista. Il cinema per me è l'universo. Non parto da cosa vedo per la strada, ma dal cinema; per me è stato più importante il cinema di Andy Wharol che tanti libri che ho letto, perché mi ha fatto fare un salto in avanti nella mia concezione della vita. La mia generazione invece era folgorata dal pensiero politico...

Una delle grosse caratteristiche del tuo cinema, è che sei spesso distac­ cato dal sociale, non si capisce mai in quale città è girato il film, i perso­ naggi non hanno problemi finanziari. È molto diverso degli altri registi del­ la tua generazione... È quello che ti dicevo prima. Venivo folgorato da un'inquadra­ tura, da una scena, da un vecchio film che avevo visto, da un primo

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piano girato in un certo modo. Erano quelli i grandi momenti ispi­ rativi della vita.

Hai provato a cambiare genere con Le cinque giornate (1973)... Le cinque giornate è un film che dovevamo produrre con mio pa­ dre. L'avevo scritto e doveva realizzarlo Nanny 1 ,oy. Tuttavia, quan­ do ne parlavo con gli attori, mi dicevano: «Ma perché non lo fai tu?». Alla fine, mi sono trovato a realizzare un film che non era sta­ to pensato per me. Ho dovuto riadattarlo ai miei mezzi, perché era una commedia all'italiana. Ne ho fatto qualcosa di più sognante. Com'è nata l'idea di Profondo rosso? Mi venne l'idea di una sensitiva che, in mezzo a tanta gente, sen­ te un pensiero malvagio. Profondo rosso nasce da questa piccola idea, che ho portato avanti per un sacco di tempo. Cominciai a discuterne con Bernardino Zapponi, che avevo conosciuto nel periodo in cui la­ vorava per Fellini. Avevamo già lavorato insieme, ma nessun film era andato in porto. Mi piaceva il suo gusto per l'esoterismo, per Edgar Allan Poe, per i fantasmi, la sua cultura e i suoi pensieri. Cominciam­ mo a parlare di questa mia idea, e nacque il soggetto. Lui scrisse un trattamento che non corrispondeva al film che volevo. Così gli chiesi di scrivere un quarto di film per poterlo valutare. Lui lo scrisse, me lo fece leggere, ma non mi piaceva... Non aveva capito il senso dell'o­ pera, un certo mio gusto «pazzariello», provocatore. Volevo che que­ sto film fosse un po' diverso, pieno di allucinazioni, di irrazionalità. In quel periodo, avevo una piccola casa in campagna, dove avevo vis­ suto durante il mio primo matrimonio. Poi ci siamo separati e la casa era rimasta vuota. Siccome Fiore mi era stato data in affidamento, a casa c'era un via vai di governanti, bambini, e pensai che non avrei potuto lavorarci. La mattina partivo per questa casa in campagna e stavo lì finché veniva il tramonto. Scrivevo cose molto efferate, e quando vedevo calare il buio, mollavo tutto e scappavo. L'ho scritto molto rapidamente, tutto di getto, per due settimane consecutive. ( i sono momenti nel Ino film che evocano il cinema moderno, penso ad esempio alla sequenza della (alla che è molto lunga e contiene molli tempi

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morti. Inquadri dei dettagli architettonici, l'occhio di Mark, il coccio di una bottiglia... Un cineasta classico l'avrebbe fatta più breve... Stavo crescendo. Provavo il piacere di raccontare con dei tempi lunghi. Il film dura 2 ore e 5 minuti, è il più lungo che ho fatto. È il racconto di una persona sola che cerca di capire il segreto di questa casa. Incalzato dalla musica, anche lo spettatore incomincia il suo viaggio interiore. Lui non parla mai, osserva, cerca di comprendere: sentivo che dovevo raccontarla così. Per Suspiria, successivamente, ho realizzato un inizio molto lungo, molto rapido, con tempi molto più serrati. C'è lei che arriva, con una serie di premonizioni sul suo destino, l'acqua, la pioggia. È come se le dicessero: «Non andare, non andare». Anche in L'uccello dalle piume di cristallo c'è una scena molto lunga, dove apparentemente non accade quasi nulla.

Hai scoperto i Goblin. Parla di questo primo incontro... Chiesi a Giorgio Gaslini di farmi ascoltare delle musiche che mi ispirassero il ritmo durante le riprese. A parte un paio di brani che erano interessanti, gli altri mi sembravano troppo intellettuali. Non erano adatti al film che stavo girando in quel momento. All'editore musicale Carlo Bixio ho detto che le musiche di Gaslini non mi sem­ bravano adatte, e non ritenevo giusto continuare a farlo lavorare se non andava bene. Con Carlo Bixio, cercammo nomi famosi, ingle­ si... e mi propose un gruppo di giovani appena tornati dall'Inghil­ terra, dove avevano suonato nei concerti come supporter degli Yes. Erano molto bravi, colti e mi fece sentire un loro nastro. Di solito, non mi piacciono le prove che mi fanno ascoltare, ma quella volta andò diversamente e così incontrai i Goblin. Erano molto simpatici, preparati. Si sono messi insieme e hanno scritto e suonato un paio di pezzi bellissimi, e così completarono la musica del film. In questo film c'è anche Clara Calamai... Volevo una vecchia attrice italiana del periodo dei telefoni bian­ chi, quelle che ci avevano fatto sognare con i loro visini angelici. Pre­ si la Calamai dopo averne incontrate tantissime. Credo di aver visto anche Francesca Bertini. Clara Calamai era quella con più forza, con più vivacità, anche se beveva moltissimo...

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In Profondo rosso, c'è Edward Hopper, nel Fantasma dell'opera (1998) c'è Georges de La Tour... Quanto la pittura ispira la tua estetica? Non mi ispira soltanto la pittura, ma anche la scultura, l'architet­ tura. Sono affascinato dai palazzi, dalle piazze, dai portoni, dagli in­ terni delle case. Se ho girato spesso a Torino è perché Torino è com­ posita. Attraversi una strada e ti trovi in un altro mondo, c'è un altro stile, con un altro tipo di cultura. Una parte della città è Art Déco, un'altra è lugubre, strana, stregonesca. L'architettura e la pittura non mancano quasi mai. In Profondo rosso c'è certamente Hopper, ma ol­ tre Hopper, c'è l'iperrealismo. Ci sono alcuni interni, nella prima par­ te, come la casa della medium, che hanno uno stampo fascista. Quest'attenzione per le scenografie si noterà maggiormente nei due film successivi Suspiria e Inferno (1980), con il meraviglioso lavoro di Giuseppe Bassan... Per Suspiria, c'è un'architettura Art Déco un po' tedesca, pesante, eccessiva, molto nordica. Quella che si trova a Friburgo, a Monaco di Baviera, nei paesi della Foresta Nera. Per l'Accademia di danza, ab­ biamo trovato una casa appartenuta a Erasmo da Rotterdam: era stata restaurata e trasformata in banca. In Suspiria, c'è la parte che si svolge a Monaco, che è molto Jugendstil. Ho ripreso quindi dei palazzi di­ pinti, delle facciate, delle piazze... Per gli interni, alcuni vetri sono sta­ ti presi in un palazzo che si trova a Bruxelles. Per le camere delle ra­ gazze non abbiamo comprato niente, ma abbiamo costruito i mobili, lo stile doveva avere una compattezza incredibile. Invece per Inferno è andata diversamente. C'era anche un altro direttore della fotografia (Romano Albani per Inferno, Luciano Tovoli per Suspiria), che per que­ sto film era particolarissima, studiata sul rosso. Al contrario, il colore dominante di Inferno è il grigio, ci sono dei colori misti, un'altra tavo­ lozza. Inferno ha avuto ima genesi molto lunga, non riuscivo a scri­ verlo. L'ho fatto in parte a New York, dove faceva un freddo tremen­ do e stavo chiuso in albergo quasi tutto il tempo. Poi ho scritto a Ro­ ma un'altra versione. Non mi veniva bene. Ho dovuto sforzarmi mol­ tissimo, leggere molti libri sull'alchimia, andare nelle famose cattedra­ li gotiche, è stato faticoso. Volevo realizzare un film quasi controcor­ rente, dove non si spiega nulla. Il mistero è il centro dell'alchimia, che

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parla per non farsi capire. Se uno arrivasse a comprendere le cattedra­ li gotiche, potrebbe conoscere dei segreti che oggi non afferriamo. Tu dici spesso che per fare Suspiria, ti sei ispirato a Biancaneve e i sette nani. In cosa Suspiria è una favola? È una favola. Mi sono ispirato a Biancaneve e i sette nani come sti­ le, impianto narrativo ecc. Biancaneve, pura e vittima della strega cattiva è per adulti, non per bambini. Poi c'è anche un secondo pun­ to di vista, quello che ho sulla scuola, che per me è un luogo di stre­ goneria. Cercano di manipolare la tua anima, le tue conoscenze. Le maestre sono streghe che ti terrorizzano. Ho fatto comportare le at­ trici come se fossero delle bambine. Le porte hanno delle maniglie etite. Le stanze delle ragazze sono come quelle dei bambini con i mo­ bili piccoli...

In Inferno, ci sono alcuni effetti speciali realizzati da Mario Bava: coni'è stato il tuo rapporto con lui? Bava ha fatto alcuni effetti del film, per gentilezza, perché il figlio era il mio aiuto. Ma anche perché eravamo diventati amici. Mi dice­ va: «Ti devo riconoscenza, perché sei arrivato a portare all'attenzio­ ne della critica, del pubblico, un genere che in Italia non veniva con­ siderato». Mi riconosceva questo merito. Abbiamo ricostruito parte della facciata della casa newyorchese vicino Roma, in un grande campo molto vasto, senza sfondo. Costruimmo fino a un certo pun­ to, e Bava ordinò un cristallo immenso. Lo piazzò a una certa di­ stanza e cominciò a montarci sopra quello che mancava del palazzo: gli sfondi, le profondità. Era bellissimo. Bava fece anche il finale, quando la morte appare, scompare e riappare.

L'idea di Tenebre (1982) è nata perché qualcuno ti ossessionava in America... Non era una mia allucinazione. Avevo finito di lavorare con la Fox su Inferno. Mi proposero allora un altro lavoro, ma non mi pia­ ceva la storia. Cosicché mi chiesero se volevo realizzare un remake di un loro vecchio film. Cominciai a studiare questo nuovo progetto, e trovai anche un collaboratore americano. Un giorno, un uomo co­

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minciò a telefonarmi. Sosteneva di essere un mio a ni ni ini to re, vole­ va incontrarmi. Non aveva nulla da dirmi, ma mi telefonava tutti i giorni, mi infastidiva. Secondo me, mascherava anche la voce perché aveva un tono strano. Non dava nessuna notizia di sé, voleva solo conoscere gli affari miei. Un giorno, gli ho detto: «Con quale diritto mi infastidisci?». Mi rispose: «Con quale diritto entri nelle coscienze della gente, degli spettatori? Con quale diritto entri nei miei sogni. Non pensi che potresti anche pagarla per questo..Mi minacciava. Aveva visto Inferno... È il tuo film che mi ha inquietato di più, quello che lavora di più su II'inconscio... Perché è misterioso. Tante volte ti ritorna in mente, perché non riesci a risolvere la scena che hai visto anche se ci hai ragionato so­ pra... Però mi parlava di tanti film. Quando non ho più risposto al telefono, ha cominciato a mandarmi lettere. La cosa non si fermava, ero preoccupato. Ne ho parlato alla Fox e, il giorno stesso, è arriva­ to uno della sicurezza che mi ha fatto fare la valigia e mi ha portato a Santa Monica, in riva al mare, dove mi registrarono sotto un altro nome. Così andai avanti per un certo periodo. Questa persona ave­ va cominciato a cercarmi alla Fox con un certo metodo, telefonava a vari orari, a vari uffici. Decisi quindi di tornare in Italia. Ho voluto raccontare la storia di una persona che aveva turbato i pensieri di un'altra. Tanto che all'inizio desideravo, per dargli un'aria di verità, ambientarla in America. La prima stesura della sceneggiatura è am­ bientata a Los Angeles, ma il film veniva a costare una cifra enorme. Così l'ho girato in Italia. Perché realizzare un film luminoso dopo la cupezza di Inferno? Tenebre è tutto bianco, nero e grigio. Avevo voglia di cambiare. Inoltre fu girato a Roma, nella zona dell'EUR, tutta di marmo bianco. Con Tovoli, il direttore della fotografia, abbiamo discusso di questa cosa: voglio le notti molto luminose, irreali, come se fosse giorno. Bi­ sogna vedere tutto: le facce, gli sfondi. Tenebre è ripreso al contrario, si tratta delle tenebre interiori, mentre l'esterno è tutto luminoso. Sono molto affezionato a questo film, per tante ragioni: mi è piaciuto farlo, la storia era interessante, e c'è un numero incredibile di morti...

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Perché organizzi la morte come un rito? Non è tanto per fare paura, ma piuttosto per stupire. È un po' co­ me nei riti aztechi, dove sacrificavano vite umane. Costringevano a corse incredibili i sacrificati facendoli salire in cima alla piramide, dove sarebbero stati uccisi. Li incalzavano fino a farli arrivare sopra. Il cuore pompava, così appena gli davano una coltellata, usciva una fontana di sangue. Da sotto potevi vederlo, era spettacolarizzare la morte. Sono dei grandi momenti selvaggi, un rapporto molto inten­ so tra la vittima e il carnefice. Puoi parlare dell'utilizzo della Louma? Avevo Videa di una certa inquadratura, l'avevo scritto già nella sceneggiatura: desideravo un'inquadratura senza stacchi che univa due personaggi, collocati in due punti diversi di una stessa casa. Vo­ levo che la macchina facesse un solo movimento. La casa diventava la loro galera, la prigione dalla quale non si poteva uscire. «Come facciamo a realizzarlo?», chiesi a Tovoli. Lui aveva appena lavorato in un film in Francia e rispose: «C'è una macchina che si chiama Louma, è un sistema perfetto, con un controllo remoto tramite vari monitor». Venne da Parigi un tecnico della Louma, fece prima dei sopralluoghi e poi ci dette il via. Girammo tutto in una notte. Quest'inquadratura mi fa molto pensare alla penultima di Professio­ ne: reporter (7974)... Sono un grande estimatore di Michelangelo Antonioni, delle sue carrellate, i suoi movimenti di macchina, le sue lentezze. Dicevamo prima di Mark che cammina nella villa di Profondo rosso, ci sono an­ che le passeggiate di Jack Nicholson nella chiesa in Professione: re­ porter, ma questi tipi di scena si ritrovano in altri suoi film...

Romano Albani dice che per Phenomena (1985) gli avevi chiesto di ispirarti a II bacio della pantera (Cat People, 1942, di Jacques Tour­ neur). Qual è l'influenza di Cat People su Phenomena? L'influenza non era limitata a quel film, volevo che si ispirasse al cinema americano degli anni '40, che aveva una fotografia post espressionistica, con ombre, volti femminili bianchi. Lui vide Cat

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