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Italian Pages 137 [140] Year 2019
JACOBINITALIA.IT
N° 2 / PRIMAVERA 2019
SCIOPERI!
N° 2 / PRIMAVERA 2019
Scioperi! DA JACOBIN MAGAZINE
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Verso le primarie Usa: What Bernie should do 11/02/19 09:02
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Diffida del tempo in cui gli scioperi cessano mentre i grandi proprietari sono ancora vivi, perché ogni piccolo sciopero soffocato dimostra che il passo è in atto.
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SCIOPERI!
John Steinbeck, Furore, 1939
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Se ci fermiamo
Ritorno al futuro In Italia si sciopera sempre di meno. Ma le nuove forme di sfruttamento impongono strategie che riconnettano lavoratori e cittadini, produzione e vita
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SOMMARIO
Editoriale
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Le periferie del lavoro in sciopero
David Broder Giacomo Gabbuti
Marta Fana Simone Fana
Se nulla può accadere tutto è possibile
Scioperi di tutto il mondo
Marco Marrone
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Un femminismo per il 99% Cinzia Arruzza Tithi Bhattacharya Nancy Fraser
Inés Campillo Poza
Fuori dai cancelli
Lo sciopero femminista rompe il ricatto verso le donne ed evidenzia il conflitto tra vita e sistema capitalistico Sara R. Farris Marie MoÏse
Francesco Massimo Lorenzo Zamponi
E l’8 marzo spagnolo bloccò il paese
E ai tuoi figli chi ci pensa?
Sciopero Sociale Valerio Renzi
Sciopero dell’alternanza Giulia Biazzo
Sciopero bianco Gaia Benzi
Sciopero del consumo Guanluca Carmosino
Sciopero alla rovescia Giulio Calella
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Questo è il mio sciopero
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Libertà Uguaglianza Intersezionalità
Il momento #MeToo
Wissal Houbabi
La coscienza di classe deve sfidare le logiche razziste, l’antirazzismo contestare il dominio del patriarcato, e il femminismo attaccare ogni sfruttamento
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Francesca Coin intervista Kimberlé Crenshaw
Lo sciopero è delle donne cioè per tutti Assia Petricelli
con i fumetti di
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Rita Petruccioli Sarah Mazzetti Sara Colaone La Tram
Sulle tracce della parola sciopero Gaia Benzi
Selene Pascarella
C’è del disagio Simona Baldanzi
Riot or Strike? Le rivolte e le insurrezioni urbane sono davvero lo strumento rivendicativo per eccellenza di questo momento storico? Kim Moody
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Shawn Gude
Nel grembo della vecchia società David Broder
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Eric Blanc
Il socialista e la liberale
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I socialisti al Congresso
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Verso le primarie Usa: What Bernie should do Con ogni mezzo necessario Meagan Day
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Citoyens Desk David Broder Giulio Calella Salvatore Cannavò Marta Fana Giuliano Santoro Lorenzo Zamponi
Sabrina Marchetti Francesco Massimo Marie Moïse Assia Petricelli Alberto Prunetti Bruno Settis Wu Ming 1
Redazione Elisa Albanesi Gaia Benzi Marco Bertorello Wolf Bukowski Francesca Coin Danilo Corradi Girolamo De Michele Sara Farris Simone Fana Giacomo Gabbuti Piero Maestri
Creative director Alessio Melandri Hanno collaborato Cinzia Arruzza Simona Baldanzi Tithi Bhattacharya Giulia Biazzo Inés Campillo Poza Gianluca Carmosino Nancy Fraser Wissal Houbabi
Jacobin Italia Rivista trimestrale n. 2 - primavera 2019 Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 173/2018 rilasciata il 25/10/2018 Testata e articoli tradotti da Jacobin Usa su licenza di Jacobin Foundation Ltd 388 Atlantic Avenue Brooklyn NY 11217 United Staes Editore
Edizioni Alegre società cooperativa Circonvallazione Casilina, 72/74 00176 Roma www.edizionialegre.it
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Marco Marrone Selene Pascarella Valerio Renzi Illustratori Frita Manfredi Ciminale Martoz Pronostico COPERTINA Luciop Fumetti Rita Petruccioli Sarah Mazzetti Sara Colaone La Tram Web Master Matteo Micalella
Direttore responsabile Salvatore Cannavò Chiuso in tipografia il 4 febbraio 2019 Stampa Arti Grafiche La Moderna S.r.l. via Enrico Fermi, 13/17 00012 Guidonia Montecelio (Roma) Distribuzione in libreria Messaggerie Spa Abbonamenti (4 numeri) Digitale: 24 euro Digitale + cartaceo: 36 euro Spedizioni in paesi Ue: 20 euro Spedizioni in paesi extra Ue: 35 euro Info www.jacobinitalia.it [email protected]
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LA TRUFFA MILIONARIA AI DANNI DEGLI ITALIANI LE ALLEANZE CON PERSONAGGI IMPRESENTABILI AL SUD LE TRAME OPACHE SULLO SCACCHIERE INTERNAZIONALE TUTTA LA VERITÀ SUL PARTITO DI MATTEO SALVINI
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Se ci fermiamo
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«E
oggi il 24 aprile 1970 / è giorno di sciopero: l’Ordine degli Scopini / è entrato nella storia; / bisogna essere contenti, come se gli angeli / fossero scesi sulla terra». Le parole di Pier Paolo Pasolini dovevano accompagnare le immagini di un documentario sulla mobilitazione degli spazzini. Il filmato andò perduto, ci sono rimasti i versi che testimoniano il benvenuto del poeta ad alcuni lavoratori nella grande epopea della lotta di classe. Pasolini riconosce un elemento decisivo: attraverso lo sciopero una massa di individui atomizzati diventa corpo collettivo. Si costituisce come soggetto storico. Il che equivale a dire che prima di chiedersi se una lotta abbia vinto dovremmo prendere atto che questa sia avvenuta, che un evento sia arrivato a mutare l’equilibrio delle cose e cambiare la disposizione degli attori in campo. Col primo numero di Jacobin Italia abbiamo proposto il tema introduttivo (forse spietato, di certo non disarmato) su cosa significasse «vivere in paese senza sinistra». In questo numero ci occupiamo dello sciopero, cioè di una delle pre-condizioni di un’azione politica che non si limiti a raccogliere a valle le domande sociali o che non pensi, secondo l’inquietante utopia liberale, di organizzare individui in quanto individui. Uno sciopero è scontro (non esiste sciopero senza una controparte) ma al tempo stesso costruzione di alternativa e socializzazione. Purtroppo si sciopera di meno e peggio, nel senso che è sempre più difficile danneggiare chi detiene il potere e farsi sentire. Ne parlano Francesco Massimo e Lorenzo Zamponi, raccogliendo le voci dei soggetti diversi che in questi anni organizzano i lavoratori e le lavoratrici. Emerge, in diversi modi, l’esigenza di allargare le forme della lotta sui luoghi di lavoro per eccellenza. Nell’era della frammentazione produttiva e del dominio dello spettacolo, lo sciopero funziona quando riesce a estendere il suo impatto materiale e simbolico al di fuori dei confini dati. A patto che l’operaio massa maschio e bianco sia mai stato veramente il soggetto egemone (ne dubitano David Broder e Giacomo Gabbuti), bisogna partire dalla presa di coscienza che la produzione è andata oltre i confini della fabbrica. Ci servono scioperi di nuovo tipo. Ne sono convinte le femministe di Non Una di Meno che hanno indetto lo sciopero femminista globale dell’8 marzo. «Pensiamo che uno sciopero, articolato in vari modi anche inediti, sia lo strumento più potente che consente la sottrazione dal lavoro produttivo e riproduttivo», dicono nell’appello che lancia la giornata. Bisogna proiettarsi nel nuovo scenario riprendendo la sfida delle origini, testimoniata dall’etimologia della parola sciopero in alcune lingue europee (ne scrive Gaia Benzi) e attraversata dalle tante modalità di scioperare, che passiamo in rassegna. Proprio del nodo della riproduzione sociale, e di uno sciopero che coglie la sfida di sottrarsi dallo sfruttamento e al tempo stesso rilanciare costituendosi come comunità in lotta che si prende
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VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
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cura di sé stessa oltre le gerarchie imposte e i ruoli dati, parlano Sara Farris e Marie Moïse. Si tratta di rivendicare un femminismo per il 99%, che vada alla radice delle disuguaglianze e dello sfruttamento dicono Cinzia Arruzza, Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya nel loro Manifesto di cui anticipiamo un brano. E bisogna calare le lotte di classe dentro la linea del colore e dei conflitti di genere. Di questo Francesca Coin è andata a discutere con Kimberlé Crenshaw, che ormai anni fa ha elaborato il concetto di intersezionalità. Dello sciopero intersezionale fornisce una testimonianza Wissal Houbabi, donna, lavoratrice e migrante di seconda generazione. Dicevamo dell’aspetto simbolico: Selene Pascarella ripercorre le influenze del nuovo movimento femminista sul linguaggio del principale agente di produzione di immaginario dei nostri tempi: le serie tv. Come racconta Inés Campillo Poza l’anno scorso, in Spagna, lo sciopero dell’8 marzo ha bloccato pezzi di paese e aperto uno spazio pubblico alternativo all’ondata reazionaria. Ancora, nuove lotte si vanno diffondendo a partire dai luoghi di lavoro sparsi sul territorio. Lo spiegano Marta e Simone Fana e lo scrive Marco Marrone a proposito della lotta dei rider bolognesi, quei lavoratori che si muovono con un piede dentro alla piattaforma digitale che li comanda e l’altro per strada a consegnare pasti. Di uno sciopero che irrompe per le strade di una città, e che permette a lavoratori e lavoratrici di guardarsi negli occhi parla il racconto di Simona Baldanzi. Nell’inserto, curato e introdotto da Assia Petricelli, quattro tavole per quattro storie a fumetti di scioperi al femminile. Il primo è narrato da Rita Petruccioli, è avvenuto l’8 marzo di oltre cent’anni fa e diede addirittura il via alla rivoluzione russa. Poi Sarah Mazzetti racconta di quando le operaie dell’Essex misero in ginocchio la Ford, Sara Colaone di quelle della Valsusa che intrecciarono la loro lotta alla solidarietà di un territorio ribelle e la Tram ripercorre lo sciopero delle donne argentine che ha inaugurato il movimento globale Ni Una Menos. Infine, un saggio di Kim Moody approfondisce il tema delle forme di lotta. Nell’era della circolazione delle merci e dei capitali, lo sciopero assomiglia a una rivolta urbana? Moody prende sul serio la suggestione, ragiona su come la produzione sia divenuta mobile e cala questo scenario dentro una nuova generazione di scioperi sviluppatasi negli Stati uniti. A proposito di Usa, la sezione della rivista dedicata alla nostra testata sorella si occupa dell’altro corno del problema e affronta di petto il tema delle elezioni presidenziali. Cosa succederebbe se davvero Bernie Sanders dovesse vincere nel 2020? La partita è aperta ma difficile e piena di contraddizioni, in palio c’è la questione non scontata del rapporto tra stato e trasformazione, tra istituzioni e lotte. Si propone in modalità inedite anche perché proviene dalla parte del pianeta che alcuni non si sarebbero aspettati. È il bello della storia. E testimonia il fatto che gli angeli non smettono di scendere sulla terra.
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In Italia si sciopera sempre di meno. Manca la percezione del rapporto tra le lotte e l’interesse comune. Ma le nuove forme di sfruttamento impongono strategie che riconnettano lavoratori e cittadini, produzione e vita
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Illustrazioni di
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PROSPETTIVE SCIOPERI!
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iffida del tempo in cui gli scioperi cessano mentre i grandi proprietari sono ancora vivi – perché ogni piccolo sciopero soffocato dimostra che il passo è in atto». Ci vuole la fiducia straordinaria nell’umanità e nella sua capacità di redenzione che aveva John Steinbeck, per identificare, come nelle righe tratte da FuroFrancesco Massimo re che aprono questo numero di Jacobin Italia, anche i momenti Lorenzo Zamponi di bassa mobilitazione, anche le sconfitte, come pause disegnate sul pentagramma dell’emancipazione collettiva. Viviamo in un «tempo in cui gli scioperi cessano», oggi, in Italia? A giudicare dal dibattito pubblico sembrerebbe di sì e di no, a fasi alterne e a seconda del punto di osservazione. A metà gennaio la Cgil ha messo in fila su Facebook tutti gli scioperi generali e le manifestazioni nazionali fatte dal 2010 in poi, per difendersi dalla nota critica «Perché protestate ora e non lo facevate contro il Pd? Dov’eravate all’epoca della legge Fornero, del Jobs Act e dell’articolo 18?», quotidianamente avanzata dal Movimento 5 Stelle da quando è arrivato al governo. Una narrazione uguale e contraria arriva dall’opposizione: «I sindacati che facevano sciopero generale contro tutte le nostre manovre espansive devono essere ancora in settimana bianca» ha scritto l’ex presidente del consiglio Matteo Renzi sul Foglio. Ognuno è convinto che lo sciopero sia sempre e solo strumentale all’interesse di partito. La guerra civile simulata della politica italiana sembra basarsi su una messa in scena continua di vittimismo e tribalismo. Niente è genuino, tutto è complotto. Non esistono interessi sociali legittimi e loro espressioni politiche, ma solo cospirazioni e propaganda.
Non c’è spazio, in questo reality, per il conflitto sociale. E in particolare per la sua capacità di esprimere politica in maniera autonoma, di far irrompere la materialità di bisogni e desideri, di portare in scena un punto di vista radicato nella vita concreta delle persone. Meglio rimuovere, o provare a integrare anche il conflitto nelle narrazioni dominanti. Ma capire se e quanto si scioperi in Italia non è solo questione di propaganda di partito. Nella primavera 2016, ai tempi della lotta (poi persa) contro la riforma del lavoro in Francia, non c’era pagina Facebook più Francesco Massimo, o meno populista che non ripetesse la stessa domanda: «Perché romano, fa ricerca in Italia non si sciopera come in Francia?». Pochi mesi prima, a a Parigi. Legge e scrive settembre 2015, erano bastate due ore di assemblea sindacadi lavoro, relazioni le dei lavoratori del Colosseo a far gridare allo scandalo. Punindustriali e movimenti tualmente, ogni anno, alla diffusione della relazione dell’Autosociali. rità di garanzia sugli scioperi, si ripropongono gli stessi titoli:
Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.
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Lo sciopero di Schrödinger
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«Record di scioperi nei servizi pubblici: il primato è dell’Italia». Lo sciopero è come il gatto di Schrödinger, allo stesso tempo vivo e morto, finché non si apre la scatola. Ma dal 2009 l’Italia non contribuisce più al dataset sugli scioperi dell’Organizzazione internazionale del lavoro, dunque la scatola è difficile da aprire. Possiamo però provare a capire se sono cambiate le cose rispetto al passato. L’Autorità di garanzia fornisce dati sugli scioperi proclamati, a prescindere dalle adesioni, a partire dal 2004, e la situazione è pressoché stabile: circa 2.000 scioperi all’anno, di cui circa 300 di rilevanza nazionale. L’Istat conta le ore di sciopero fatte per ogni 1.000 ore lavorate da ogni dipendente di una grande azienda: qui il calo, dalle oltre 30 ore all’anno dei primi anni 2000 alle meno di 15 del 2013, è evidente. Peccato che quasi l’80% dei lavoratori italiani sia impiegato in piccole e medie imprese. Misure meno tradizionali consegnano un quadro più interessante. L’analisi degli eventi di protesta condotta sulle pagine di Repubblica da Massimiliano Andretta dell’Università di Pisa ci mostra che lo sciopero è ancora la forma di proUna volta smontato l’argomento dell’eccezionalità itatesta più frequente in Italia, dominando liana negativa, non si possono non fare i conti col declino la scena del conflitto sociale negli anni oggettivo di uno strumento. Come ha scritto l’anno scordella crisi e dell’austerità. Secondo il so Doug Henwood su Jacobin, gli Stati uniti hanno visto sondaggio condotto nel 2015 dal progetnel 2017 solo 7 scioperi con oltre 1.000 aderenti: vent’anni to di ricerca Livewhat, quasi il 30% deprima erano 29, quarant’anni prima erano quasi 300. Un gli italiani aveva partecipato, nei cinque processo inevitabilmente legato alle dinamiche di trasforanni precedenti, almeno una volta a uno mazione della produzione e della forza lavoro a livello glosciopero: più che in qualsiasi altro paebale, come spiega Kim Moody in questo stesso numero. se coinvolto nell’indagine. E solo in ItaL’esperienza dello sciopero non è uguale per tutti: lia, tra i paesi analizzati, più di metà del «Nell’industria lo sciopero è ancora uno strumento uticampione, almeno una volta nella vita, lizzato e che funziona – spiega Valentina Orazzini della aveva scioperato. Fiom-Cgil, il più grande sindacato dei metalmeccanici – Uno strumento in crisi Anche perché non esiste più la mediazione istituzionale. E quindi a sbloccare il rinnovo del contratto sono state Ancora una volta, insomma, il luogo le ore di sciopero fatte, costringendo le imprese a sedersi al tavolo». Ma non è così dappertutto: «Ad esempio la comune dell’Italia addormentata e adcantieristica navale – continua Orazzini – ha il probledomesticata, in cui il conflitto è scomma degli appalti, e quindi una condizione di ricattabiparso e ogni velleità di protesta è assorlità. Se dentro un cantiere con 1.000 persone, 900 lavobita nell’adorazione per il Renzi, Di Maio rano per centinaia di microimprese, hai una capacità di o Salvini di turno, non regge la prova dei organizzazione minore». Il nesso tra precarietà e ricattanumeri. In Italia si sciopera: forse meno bilità è al centro della crisi dello sciopero anche nell’adi un tempo, ma ancora più che altrove. groindustria: «L’istituto dello sciopero – racconta Roberto Iovino della Flai, federazione Cgil dell’agroindustria – è stato svuotato di fatto, da una parte per la precarietà contrattuale, dall’altra per la liberalizzazione dei licenziamenti. In questo modo si confina l’esercizio dello sciopero a una fetta di lavoratori tutelati, anche all’interno della stessa azienda».
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La frammentazione del lavoro è più evidente nella grande distribuzione: «Un metalmeccanico fa una riunione in fabbrica e vede 200 persone – spiega Cristian Sesena della Filcams-Cgil, sindacato di commercio e servizi –. Noi per vedere 200 persone in un centro commerciale dobbiamo fare 20 assemblee in due giorni, tra turni sfalsati, lavoratori part-time, aziende diverse. Inoltre ormai hai una base di lavoratori ricattabile, precaria, sottoposta a ripercussioni. Per un part time involontario rinunciare alla giornata di lavoro è un condizionamento che osta allo sciopero». Simile la vicenda dei call center raccontata da Sergio Bellavita dell’Usb, confederazione sindacale di base: «Se l’azienda può trasferire in un attimo tutte le chiamate in un altro centro di un altro paese lo sciopero diventa poco efficace». Gianni Boetto dell’Adl-Cobas, sindacato di base particolarmente attivo nella logistica, ha una lunga esperienza di conflitto sul lavoro: «Rispetto agli anni Settanta oggi si sciopera meno – dice –. È cambiata la composizione tecnica e politica della classe operaia. Le cose sono cambiate con la ristrutturazione del ciclo produttivo, con i processi di decentramento e decentralizzazione, con la parcellizzazione del lavoro». L’impressione, però, è che dietro alla minore disponibilità allo sciopero ci sia anche la scarsa fiducia in questo strumento, esito di un lungo addestramento alla sconfitta: «Il declino dello sciopero – aggiunge Bellavita – è legato alla crisi delle soggettività sociali che hanno determinato il conflitto. Un conto è scioperare nel momento in cui ci sono delle battaglie sui grandi valori che attraversano il paese e
che ti fanno sentire parte di un’unica classe, un altro è farlo da solo in una fabbrica. La percezione diffusa dei lavoratori è che lo sciopero non possa cambiare le cose. Il senso di sconfitta è pesante e reale». Una scarsa motivazione dovuta alla scarsa efficacia, a sua volta negata alla natura delle vertenze: «Ci troviamo quasi sempre a fare lotte difensive – nota Luca De Crescenzo dei Clash City Workers, collettivo di inchiesta e battaglia sui temi del lavoro in varie città italiane – quando il padrone sta minacciando di chiudere o delocalizzare. Se lui vuole interrompere la produzione, il blocco della produzione gli fa poco danno. Tanto più che siamo in una fase di recessione».
A essersi esaurita è l’idea che sul movimento operaio e sulle sue lotte sul posto di lavoro riposasse un progetto di emancipazione generale dell’essere umano: liberare la fabbrica dall’oppressione e da lì rivoluzionare la società. Le spalle dell’operaio massa, ancorché robuste, non potevano reggere da sole quella missione storica. «Lo sciopero è sempre più bersaglio privilegiato dell’iniziativa neoliberale – sottolinea Francesco Raparelli delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario di Roma, realtà di movimento che organizza precari e intermittenti – penso ad esempio alle proposte di legge di Ichino. In assenza di tute-
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La repressione e la delegittimazione
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la reale (articolo 18), con la prevalenza del lavoro precario, lo sciopero è sempre meno un diritto facile da esercitare. Il ricatto spaventa e rende passivi». C’è poi l’altra faccia della medaglia, cioè la repressione della libertà sindacale, che copre un panorama molto ampio di azioni che pongono degli ostacoli all’organizzazione collettiva e alla libertà sindacale sia fuori che dentro le aziende). Nelle grandi come nelle piccole imprese, chi aderisce al sindacato “sbagliato”, quello non gradito al datore di lavoro, rischia di subire discriminazioni. Per non parlare della violazione del diritto di informazione che la legge attribuisce ai sindacati. Si tratta di una condotta antisindacale che contraddistingue in particolare alcune grandi multinazionali della “Nuova economia dei servizi”. Ryanair è stata condannata per aver rifiutato di incontrare le organizzazioni sindacali. Lo stesso ha cercato di fare Amazon lo scorso anno, rifiutando per settimane di sedersi al tavolo delle trattative, finché il governo non è intervenuto per salvaguardare almeno le apparenze. L’offensiva dei padroni è facilitata dall’estensione delle misure repressive contro lo sciopero e l’azione collettiva. «La regolamentazione dei servizi essenziali – spiega Gianni Boetto – ha reso molto difficile esercitare il diritto di sciopero in certi settori. E nella logistica stiamo sperimentando la repressione: recentemente dei compagni del Si Cobas sono stati condannati a due anni e mezzo per un picchetto alla Dhl del 2017. Con le norme introdotte nel ‘decreto sicurezza’ se fai un blocco stradale puoi prendere fino a sei anni di galera. È chiaro che è un deterrente forte». Aggiunge De Crescenzo: «Chi colloca la propria pratica sindacale nello stretto recinto delle regole antidemocratiche sulla rappresentanza ha una serie, ridottissima, di strumenDAGLI ANNI OTTANTA ti legali per praticare il conflitto. Ma chi si pone fuori da quel recinÈ SALTATO IL NESSO to si ritrova a commettere reati, data la stretta repressiva degli ultimi TRA SCIOPERO anni». Le proposte di regolamentazione, per quanto ammantate di E INTERESSE COMUNE: ragionevolezza vagamente qualunquista, riposano su un retroterra CIÒ APRE LA STRADA ideologico che andrebbe indagato. Dietro alla logica dei “servizi esALLA SUA LIMITAZIONE senziali”, che ha imposto vincoli legislativi, o addirittura amministraE DELEGITTIMAZIONE tivi (si pensi a figure come quella del Garante degli scioperi) alla libertà di sciopero, c’è il divorzio tra lavoratore e consumatore-utente, tra sciopero e cittadinanza. Dagli anni Ottanta, con l’affermarsi di sigle sindacali autonome in molti settori, il blocco dei trasporti pubblici o quello degli scrutini scolastici vengono sempre più spesso interpretati come espressioni particolaristiche, ignorando, come sottolineato da Aris Accornero, che si tratta di risposte conflittuali «all’isolamento che sentivano crescere intorno a sé i lavoratori» più che di egoismo di categoria. Salta il nesso di identificazione in un interesse comune, e si apre la strada alla delegittimazione dello sciopero e, di conseguenza, alla sua graduale limitazione.
Oltre la ritualità, verso la cittadinanza
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D’altra parte, nella storia del conflitto sul lavoro, le condizioni favorevoli e tutelate sono state l’eccezione, non la norma. «Anche all’epoca del fordismo – ricorda De Crescenzo – si diceva ‘Ora che c’è la catena di montaggio la gente non potrà più scioperare’.
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Dunque, non bisogna negare le difficoltà ma neanche assolutizzarle. Anzi, in una fase di arretramento dovremmo provare a essere un elemento di tenuta, e non un amplificatore della sconfitta». «La battaglia che con le Clap stiamo conducendo in questi anni, organizzando lavoro precario come impoverito – aggiunge Raparelli – insiste proprio sulla riappropriazione dello sciopero e della lotta, indipendentemente dalle bandiere e dagli ‘interessi di bottega’. Ovviamente è il movimento delle donne che, a livello globale, sta rendendo possibile questo processo di rinnovamento dello sciopero». La sconfitta non è generalizzata: «Ci sono settori dove invece lo sciopero ha oggi un’efficacia molto forte – racconta Boetto –. Ad esempio la logistica. Negli ultimi anni nelle aziende che seguiamo sono state fatte migliaia di scioperi, anche con vertenze molto dure, per settimane. Una forza lavoro molto sfruttata, con una forte componente migrante, si rende conto che ha un certo potere contrattuale. Lì lo sciopero ha ancora senso. In altri settori dove potrebbe andare allo stesso modo: manca il processo organizzativo». Anche secondo Bellavita «l’esperienza più interessante è quella della logistica. Il blocco delle merci in un sistema che pretende la consegna immediata del prodotto comprato online permette ai lavoratori di esercitare un potere enorme. Ad essere in crisi è lo sciopero rituale. Una volta funzionava lo sciopero che già si predisponeva alla contrattazione, perché c’erano dei margini. Oggi lo scontro è talmente violento che dovresti mettere in campo una mobilitazione come ai primi del NoveIL VALORE È VINCOLATO cento, di settimane, se vuoi davvero modificare l’agenda politica. AGLI ASPETTI SIMBOLICI: Perché non c’è una rappresentanza politica del lavoro, la situazioDIVENTA FONDAMENTALE ne è completamente diversa». Parole d’ordine simili a quelle rilanPORTARE LO SCIOPERO ciate dai Clash City Workers: «Se è morto lo sciopero rituale – conFUORI DAI LUOGHI tinua De Crescenzo – lunga vita allo sciopero conflittuale. Al di là DI LAVORO E INTACCARE della singola vertenza lo sciopero serve ad accrescere la coscienza IL MARCHIO DELL’AZIENDA dei lavoratori, su quello ci dovremmo concentrare. Il nostro ruolo allora diventa quello di dare più risonanza e sostegno possibile a questi scioperi, fargli strappare consenso attraverso il riconoscimento di una comunità di interessi anche da parte di chi è lontano o di chi addirittura ne è danneggiato, come nel caso del trasporto pubblico». Superare le ritualità riappropriandosi dello sciopero come tempo liberato e militante. Il valore della protesta si basa sulla rottura della quotidianità, sull’uscita dalla routine ricavando tempi e spazi di costruzione di una realtà diversa. In uno sciopero non si interrompe solo la produzione per danneggiare la controparte, si interrompe anche il lavoro per liberare temporaneamente il lavoratore e dargli la possibilità di parlare con i suoi compagni, discutere, organizzarsi, vivere in un tempo e uno spazio diversi da quelli della produzione. Ma qual è il confine tra produzione e vita, tra lavoratore e consumatore, nel tempo del lavoro frammentato e digitalizzato? E come si sciopera, su questo confine? Nell’epoca in cui il valore aggiunto di una produzione è strettamente legato alle componenti simboliche del marchio, diventa decisivo portare lo sciopero fuori dai posti di lavoro e riuscire ad attaccare la reputazione aziendale. «Lo sciopero di 8 ore, intero turno, an-
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nunciato rischia di essere sempre meno produttivo – riporta Sesena –. Funzionano molto di più gli scioperi a singhiozzo, anche di una sola ora, all’ora di punta, in un McDonald’s. Accanto a questo stanno venendo fuori, in molte multinazionali, altri strumenti di lotta, riguardanti la reputation aziendale. Le aziende sono più sensibili a un danno con la clientela che a 8 ore di sciopero. Soprattutto quelle che coltivano un’apparenza socialmente responsabile, usano l’equo e solidale, si danno un’aria di buonismo per fidelizzare i clienti, poi scaricandola su un peggioramento delle condizioni di lavoro. Ovviamente è uno strumento non sostitutivo ma integrativo, nell’ambito di una strategia di conflitto». Se cala il potere contrattuale dei lavoratori cresce quello dei consumatori, e le due realtà sono separate solo da un velo ideologico. Stracciarlo e riunificarle diventa parte fondamentale del lavoro sindacale e politico, non solo nei servizi ma anche nell’agricoltura e nell’industria: «C’è bisogno sempre di più – conferma Iovino – di legare sciopero e cittadinanza, quindi sciopero non solo della produzione ma anche del consumo. Legare con un elemento di solidarietà lavoro e cittadinanza è necessario. Questo è successo alla Pernigotti e anche alla Perugina: con certe multinazionali funziona se allo sciopero dei lavoratori corrisponde una campagna di sensibilizzazione della cittadinanza legata al consumo. Mostrando che le aziende fanno profitto sulla pelle dei lavoratori danneggi la loro reputazione. Anche nel primo sciopero dei braccianti migranti a Nardò nel 2011, il blocco della produzione ha funzionato perché c’era una forte denuncia pubblica sul ruolo dei caporali, che ha alzato l’attenzione mediatica fino a convincesfaldata. Negli anni della crisi ci sono stati diversi tentatire le istituzioni a intervenire». vi di ricomposizione tra battaglie del lavoro e lotte per il La sfida della ricomposizione cambiamento più generale: dallo “sciopero sociale” lanciato nel 2014 a partire da alcuni centri sociali alla “coalizioSe le catene del valore e della produne sociale” proposta dalla Fiom l’anno successivo, fino alla zione si scompongono e si diffondono, campagna della Cgil sui referendum abrogativi di alcune la sfida diventa ricomporre la scissione norme del Jobs act e alla raccolta di firme promossa dall’Utra lavoratore e consumatore, tra sciosb per il reddito. Per giungere alla sperimentazione dello pero e cittadinanza. La consapevolezza sciopero femminista dell’8 marzo. Se c’è bisogno di ricostruire la motivazione individuale di un’enorme frammentazione sociale si accopagna a una conflittualità che, in dell’azione collettiva, la costruzione politica dello sciopero forme manifeste o latenti, è diffusa nella diventa centrale: «Lo sciopero stesso – nota Orazzini – può società. La debolezza sui luoghi di lavoessere un elemento di ricomposizione, a seconda di come ro riflette la loro scarsa centralità in una lo prepari. Il tema non è tanto indirlo, è costruirlo. Sono gli società che guarda altrove. Conflitti atoelementi di partecipazione democratica che tu hai nella costruzione dello sciopero. È lì che provi a intercettare anche mizzati e isolati, privi di un processo di quelli con cui è più complicato parlare». Il paradosso dello emancipazione generale in cui riconoscersi, tendono ad avvizzire. Privo di risciopero di Schrödinger sta nella sfida della ricomposizioferimenti politici, il sindacato si è ritrone. Un processo politico che non può essere assolto esclusivato a rappresentare da solo una classe vamente dallo sciopero e dall’azione sindacale, pena un lonel frattempo a sua volta frammentata e goramento di questi strumenti. Emerge la necessità di una ricomposizione politica, senza la quale le lotte continueranno ad apparire molteplici ma confinate, spontanee ma autoreferenziali. Anche a questo serve recuperare e innovare lo sciopero: rompere l’ordine della produzione, restituire capacità di azione e consapevolezza a chi è sfruttato, ritrovare un senso di riconoscimento fra lotte e comunità, luoghi del conflitto e spazi della cittadinanza.
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REGNO UNITO
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Partecipanti a uno sciopero
POLONIA
32,9
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Fonte: sondaggio (18.368 rispondenti) condotto nell’ambito del progetto di ricerca europeo LIVEWHAT (2015)
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Percentuale di persone che dichiarano di aver preso parte a uno sciopero nei periodi corrispondenti.
FRANCIA
SPAGNA
Una volta nella vita
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Nell’ultimo anno
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Scioperi proclamati per anno in Italia
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Ore di sciopero per dipendente nelle grandi aziende italiane
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Ore di sciopero su mille ore lavorate, in media annuale, nelle aziende con almeno 500 dipendenti. Fonte: Istat.
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Consenso nei confronti di varie forma di lotta contro l’austerità Percentuale di persone che hanno dichiarato di approvare da 6 in su (in una scala da 0 a 10) le seguenti forme d’azione in risposta all’austerità. Fonte: sondaggio LIVEWHAT (2015).
Corteo
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Sciopero
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Acampada Occupazioni, altro
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Numero totale di scioperi e numero di scioperi di rilevanza nazionale proclamati in Italia per anno. Fonte: Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
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Forme di protesta contro l’austerità in Italia
35 30 25 20
Eventi di protesta per anno, raccolti su Repubblica da Massimiliano Andretta (Università di Pisa) per il libro Late Neoliberalism and its Discontents in the Economic Crisis (Palgrave, 2017). Cortei
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Scioperi
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SCIOPERO FEMMINISTA
E ai tuoi figli chi ci pensa?
Illustrazioni di
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Questa è una delle formule usate per ricattare le donne e costringerle al lavoro di riproduzione sociale. Al contrario, lo sciopero dell’8 marzo rompe l’isolamento ed evidenzia il conflitto tra vita e sistema capitalistico
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«S
i nosotras paramos, se para el mundo». Questo slogan del movimento argentino condensa in poche parole il senso dello sciopero della riproduzione sociale, che si svolge ormai da tre anni consecutivi in occasione della giornata di mobilitazione femminista internazionale contro la violenza di genere dell’8 marzo. Tradotto: «Se ci fermiamo noi donne, si ferma il mondo». Sara R. Farris Marie MoÏse In questo dato risiede però un paradosso, una delle tensioni principali che la pratica dello sciopero mira a far esplodere: è il lavoro delle donne che consente la sopravvivenza e la riproduzione di quello stesso sistema che le sfrutta, violenta e uccide ogni giorno. La riproduzione sociale di per sé non è un meccanismo dannoso. Con essa infatti si fa riferimento a tutte quelle attività che consentono la riproduzione della vita e della forza lavoro di giorno in giorno e da una generazione all’altra. Il problema non è dunque la riproduzione in sé, ma il fatto che avviene nel contesto del dominio capitalistico, ossia di un sistema di sfruttamento e violenza di genere, razza e classe, le cui modalità di riproduzione si basano a loro volta sullo sfruttamento e la violenza
Sara R. Farris, Senior Lecturer in sociologia a Goldsmiths University of London, è autrice di In the name of women right. The Rise of Femonationalism (Duke University Press, 2017). Marie Moïse, attivista, è dottoranda in filosofia politica all’Università di Padova e Tolosa. Con Alberto Prunetti ha tradotto Donne, razza e classe di Angela Davis (Alegre, 2018).
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Negli ultimi anni abbiamo assistito a una rinascita degli studi e dell’attivismo femminista che prendono ispirazione da varie declinazioni dei marxismi del Novecento e del primo decennio del Ventunesimo secolo. Proprio il tema della riproduzione sociale è al centro di questa rinascita. Che sia per la riscoperta della rivendicazione del “wage for housework” (il salario per il lavoro domestico) o magari a causa della centralità assegnata nel contesto capitalistico al lavoro di cura o riproduttivo in senso lato come complemento essenziale del lavoro “produttivo”, le teorie e le pratiche femministe connesse alla riproduzione sociale sono oggi centrali nel movimento femminista internazionale. Ma il concetto di riproduzione sociale anche all’interno delle impostazioni marxiste non viene analizzato in maniera univoca. Da una parte troviamo i femminismi che si richiamano alle posizioni sostenute negli anni Settanta dai lavori pioneristici delle scrittrici e attiviste Selma James e Mariarosa Dalla Costa, che considerano il lavoro riproduttivo come direttamente produttore di valore nel senso marxiano del termine. Il lavoro quotidiano
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Il concetto di riproduzione sociale
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Il dibattito all’interno del movimento femminista sembra avere posizioni più fluide e ibride, animate sostanzialmente dal tentativo di mettere in luce il grande sottobosco del lavoro di cura non pagato, o malpagato, delle donne, e le sue ripercussioni sulle diseguaglianze di genere, razza e classe. Inoltre, i cambiamenti epocali che hanno investito la composizione del mercato del lavoro negli ultimi trent’anni nel cosiddetto mondo occidentale – in particolare il declino del paradigma sociale fordista che si reggeva sulla famiglia mononucleare dipendente dal salario del breadwinner maschio, e l’ingresso in massa delle donne (bianche) nell’arena lavorativa extra-domestica – hanno trasformato la percezione e in parte la stessa natura del lavoro di cura riproduttivo. Il lavoro domestico salariato è divenuto realtà diffusa vista la crescita della domanda di colf, badanti e babysitter, trainata soprattutto dall’aumento del lavoro femminile. A sua volta, la crescita e maggiore visibilità delle lavoratrici domestiche o badanti a pagamento, e il fatto che si tratti per lo più di donne migranti, di colore e/o povere, ha fatto emergere in maniera marcata le distinzioni e divisioni su cui il femminismo nero statunitense insisteva già dalla fine dell’Ottocento: il colore della pelle e la classe sociale di appartenenza dividono le donne più di quanto il genere le unisca. In questo senso, il problema della riproduzione sociale non è solo quello del lavoro non retribuito, non valorizzato, segregato e femminilizzato delle donne in ambito domestico: rirguarda anche il lavoro sfruttato e razzializzato delle donne povere e migranti.
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delle donne in ambito domestico viene considerato direttamente all’origine del plusvalore – ossia del profitto capitalistico – nella misura in cui tale lavoro riproduce la merce forza-lavoro. In altre parole, secondo le femministe che seguono questa tradizione, il lavoro domestico non retribuito delle donne (la preparazione dei pasti, la cura della casa, la pulizia degli indumenti e cosí via) è quello che rende possibile la riproduzione su scala quotidiana della capacità del lavoratore e della lavoratrice di partecipare al processo che da origine al profitto capitalistico. Le femministe che si ispirano al lavoro della teorica Lise Vogel, invece, considerano il lavoro riproduttivo, sempre in termini marxiani, come produttore diretto di valori d’uso e perciò non di valore di scambio, o plusvalore. Secondo questa posizione, il pasto caldo o la divisa da lavoro stirata non sono, in senso stretto, merci in vendita sul mercato (valori di scambio) ma “oggetti” di consumo immediato che servono al soddisfacimento di bisogni (valori d’uso). Cionondimeno, tale lavoro è essenziale per la riproduzione quotidiana della forza-lavoro ed è al contempo la chiave per comprendere storicamente la posizione subalterna delle donne nell’epoca della produzione capitalistica. L’interrogativo se il lavoro riproduttivo sia o meno produttore di plusvalore continua ad animare il dibattito teorico femminista. Per esempio, studiose e attiviste come Silvia Federici e Kathi Weeks, da una parte, e Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya dall’altra, si richiamano rispettivamente alle due diverse tradizioni succitate.
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Femminismo liberale e femminismo anticapitalista
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In questo riconoscimento si incunea la differenza tra una prassi femminista liberale e una anticapitalista. Il femminismo liberale riconosce senz’altro l’importanza del lavoro di cura non pagato e si batte perché le donne si sottraggano al suo giogo ed entrino a far parte a pieno titolo della forza lavoro salariata. Tuttavia, rimane silente rispetto al fenomeno sostituzionista – ossia di fronte al fatto che quando le donne in carriera lavorano, ci sono altre donne che prendono il loro posto a casa sottopagate – e non critica la natura stessa del sistema di sfruttamento capitalistico. Inoltre, gli sforzi delle femministe (liberali e non) per riconoscere il valore economico del lavoro di cura e valorizzare il tempo speso soprattutto dalle donne in attività non retribuite, ha contribuito in parte – sia pure in maniera involontaria – all’incremento dei tassi di sfruttamento delle donne, soprattutto nei paesi poveri. Basti pensare al fenomeno del microcredito in Bangladesh, o alle varie campagne della Nike per l’educazione delle bambine nei villaggi poveri nei paesi in via di sviluppo, che hanno avuto l’effetto di sottrarre molte donne al lavoro riproduttivo e rurale nei villaggi per farle diventare o piccole imprenditrici ultra-indebitate, o lavoratrici salariate e super-sfruttate nelle megalopoli dei paesi dipendenti. Il femminismo anticapitalista al contrario si batte non solo per una maggiore parità di genere nella condivisione del lavoro di cura, OGGI LA RESPONSABILITÀ ma anche perché esso non diventi un ghetto per le donne di colore DI RIGENERARE IL LAVORO e povere, e perché il rapporto di sfruttamento più in generale venE LA VITA STESSA ga abolito. In altre parole, non identifica la segregazione delle donne VIENE FEMMINILIZZATA nell’ambito domestico e nella sfera privata come causa essenziale, E RAZZIALIZZATA : sebbene non unica, della subordinazione di genere nelle nostre soCIOÈ PRIVATIZZATA cietà: la connette anche alle diseguaglianze di razza e allo sfruttamento di classe mostrandone l’unità imprescindibile. Ciò implica che nel sistema capitalistico la responsabilità di sostenere e rigenerare la forza lavoro e la vita stessa, anziché essere ripartita sulla società nella sua interezza, venga privatizzata, nello stesso momento in cui viene femminilizzata e razzializzata, ovvero strutturalmente assegnata alle donne e specialmente a quelle non bianche e occidentali, sul piano simbolico quanto materiale. Tale privatizzazione significa che la responsabilità di sostenere la riproduzione sociale risiede in uno spazio che da una parte può essere definito «più in qua del mercato», come scrive l’economista Amaia Pérez Orzoco nel suo libro Subversión feminista de la economía (Traficantes de sueños, 2014), ovvero organizzato attorno alle strutture della quotidianità e dell’intimità, ma dall’altra parte anche in questi spazi sempre più spesso tale responsabilità assume forme di mercato, quelle che nel primo numero di questa rivista abbiamo definito «cura come business». Dall’angolo visuale del femminismo anticapitalista perciò non si punta ad abolire le pratiche di riproduzione sociale e di cura che sono essenziali per la perpetuazione stes-
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sa della vita, ma a sottrarle alle logiche di mercato. La riproduzione sociale in questa prospettiva potrebbe essere intesa come la somma di tutte quelle attività che ci permettono di vivere collettivamente, nel senso più pieno di questa parola. Ma una vita degna di essere vissuta non può darsi entro un sistema intrinsecamente contrario alla vita, o meglio attaccato a questa per risucchiarla.
La pratica dello sciopero riproduttivo fa da detonatore delle tensioni interne alle ambivalenze insite in questo concetto. Il suo intento è quello di bloccare le attività di riproduzione sociale e cosí di arrestare la riproduzione di un sistema in conflitto con la vita. Ma bloccare la riproduzione sociale non può significare fermare le attività che ci consentono di preservare la vita stessa. Se così fosse, lo sciopero riproduttivo rischierebbe di essere inteso come un autogol, un atto di autodistruzione, uno sciopero contro sé stesse. Ma anche come uno sciopero a danno delle persone di cui ci si prende cura. Che sciopero è quello in cui nessuno prepara da mangiare ai bambini e li porta a scuola, nessuno sostiene le persone anziane, disabili o inferme, in cui i ragazzi a scuola non ricevono alcuna educazione e i malati in ospedale l’assistenza di cui hanno necessità? Non può essere questo lo sciopero femminista, ma questa immagine in termini ipotetici fa emergere il carattere ambivalente del lavoro di cura. La cura è la linfa delle nostre relazioni sociali e personali, passa anche attraverso l’affetto, il sostegno emotivo, l’amore: scioperare può apparire un controsenso. Lo è meno se consideriamo che le attività di cura, o riproduzione sociale vengono di fatto imposte (più o meno esplicitamente o forzatamente) alle donne in un contesto che le considera vocazione di genere e non lavoro come attività umana creativa a tutti gli effetti. È per questo che se le donne scioperano dal lavoro riproduttivo non riusciamo a immaginare nessun altro che possa svolgere quel lavoro. Se si fermano le donne, rischia veramente di fermarsi il mondo. Se concepito come mera astensione dal lavoro di cura, lo sciopero riproduttivo rischia quindi di non trovare adesione tra le donne, che pur trovandosi a praticare la riproduzione sociale in una dimensione di coercizione socialmente leggittimata e di ripartizione ineguale del lavoro, al di là della volontà individuale non sono
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Cosa significa scioperare
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nelle condizioni di sottrarvisi, perché significherebbe sottrarsi alla responsabilità sociale di preservare la vita, specialmente quella che dalla cura altrui dipende per sopravvivere. Se lo sciopero riproduttivo viene concepito semplicemente come una scelta individuale, si trascurano le condizioni di isolamento in cui le donne si trovano a svolgere il lavoro di cura e i rischi che comporta una sottrazione altrettanto individuale da quelle relazioni. A ostacolare la partecipazione delle donne a uno sciopero così inteso, si aggiunge la costruzione ideologica che pervade ogni rapporto basato sulla coercizione più o meno esplicita, e che mira ad attribuire la responsabilità di quel rapporto a chi lo subisce, a maggior ragione quando prova a sottrarvisi («Non puoi lasciarlo, ha bisogno di te», «E ai tuoi figli poi chi ci pensa?»). Con queste premesse, il rischio è che uno sciopero della riproduzione sociale risulti possibile solo per poche, ovvero per chi è nelle condizioni, strutturalmente determinate dalla classe e dalla razza, di farsi sostituire in cambio di un compenso. Per questo non va inteso come mera astensione dal lavoro di cura, ma come pratica collettiva di interruzione della privatizzazione, femminilizzazione e razzializzazione di quel lavoro. Significa arrestare il meccanismo di imposizione unilaterale della cura alle donne, cosa ben diversa dall’arrestare ogni attività di cura tout court, specialmente quelle da cui sono interamente dipendenti diverse vite. A ben guardare invece, una parte della cura può anche arrestarsi del tutto: non muore nessun adulto in salute se si ritrova a doversi preparare il pranzo o stirarsi le camicie, se non avrà nessuno su cui sfogare la frustrazione della giornata di lavoro appena conclusa, o eventualmente un corpo In secondo luogo quell’insieme di solitudini riscattate a disposizione per soddisfare il proprio è qualcosa di più della loro somma. In quel modo di stare desiderio sessuale. Per contro, chi non in relazione, già prende vita l’alternativa possibile di una avrà messo il proprio corpo a disposidimensione collettiva, di un sistema di relazioni sociali zione di queste necessità, si potrà perche mentre mira a sovvertire le asimmetrie di potere esimettere di dedicare la propria forza, alstenti, già ne esperisce la sovversione al proprio interno, meno per un giorno, alla lotta, ovvero a mettendo in pratica una nuova sostanza sociale. In questa se stessa e alle proprie compagne. sostanza, la riproduzione della vita non può che essere di Questa forma di sciopero assume il interesse collettivo, condiviso, socializzato. È la relazione senso di una fuoriuscita dalla solitudireciproca e cooperativa la forma che si oppone all’assene e dall’isolamento in cui tale lavoro gnazione del lavoro di cura alle donne, e mentre vi si opviene svolto. Un atto di fuga, non indipone già si propone come alternativa concreta. viduale ma collettivo, per due ragioni. Le pratiche dello sciopero Innanzitutto la destinazione della corsa è una giornata in cui si danno appuntaSe le reti di donne da sempre consentono alle stesse mento tutte le fuggitive che avranno abdi far fronte al peso della riproduzione sociale imposta, bandonato (a sé stesso) il sistema che le nuove sperimentazioni sono fiorite in questi anni di moopprime. In quel giorno, migliaia di vite vimento femminista trasformandosi in armi di conflitto. minacciate, ferite e sfruttate potranno In Argentina il primo sciopero femminista è stato lanciaspecchiarsi l’una nell’altra, nel potersi to da Ni Una Menos nell’ottobre 2016, in risposta al brutale dire e sentirsi dire: “non sei sola”. stupro e omicidio della sedicenne Lucía Pérez. Nella relazione inaugurata tra la questione della violenza e la pratica dello sciopero, la mobilitazione ha ampliato il significato di entrambi i concetti, intendendo la violenza non solo come atto fisico contro le donne ma come categoria analitica più generale che descrive i vari modi in cui il sistema capitalistico soggioga le donne. Lo sciopero si è così esteso anche
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alla lotta per la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), intrecciando la questione della giustizia riproduttiva alla lotta contro i femminicidi, la disparità salariale, i tagli al welfare e così via. La strutturazione e diffusione sociale dello sciopero ha visto impegnate decine di realtà di sostegno e accompagnamento autorganizzato all’Ivg. Per far fronte agli alti rischi degli interventi clandestini (500 mila all’anno e centinaia di decessi) le reti informali di attiviste socorristas collaborano con professionisti del settore sanitario per assicurare e rivendicare l’accesso a un aborto sicuro, libero e gratuito. L’8 marzo 2018, nello stato spagnolo, circa sei milioni di persone hanno aderito alle 24 ore di sciopero («uno sciopero – nelle parole del sindacato Cgt – per vivere, uno sciopero per prenderci cura di noi»). Accanto allo sciopero dal lavoro salariato, della formazione e dei consumi, il blocco ha riguardato anche il lavoro domestico e di cura non retribuito. A questo scopo, nelle piazze della mobilitazione così come in diversi spazi sociali e associativi del territorio cittadino, sono stati allestiti e aperti sin dalle prime ore del mattino gli “espacios de cuidados 8M”, spazi in cui gli uomini UNO SCIOPERO CON UN che scioperavano in solidarietà si sono occupati dei bambini e delle CARATTERE DAVVERO persone con necessità di cura, ma anche dei pasti e dei momenti di RIPRODUTTIVO: MENTRE ricreazione, per sostenere le donne nella loro giornata di mobilitaBLOCCA UN SISTEMA zione e portare il lavoro di cura al di fuori della dimensione familiare. INEGUALE PROCUCE Da febbraio 2018 negli Stati uniti si è alzata un’ondata di sciopeNUOVE FORME SOCIALI ri delle insegnanti, che dal West Virginia si è propagata in Oklahoma, Arizona, Colorado, Kentucky, e North Carolina. A distanza di un anno, l’onda è ancora alta: a gennaio 2019 a Los Angeles hanno scioperato ancora 30 mila lavoratrici della scuola. Partita dalla rivendicazione per un aumento dei salari, la lotta ha intrecciato le condizioni di vita delle insegnanti con quelle degli studenti e delle loro famiglie, soprattutto nelle zone più povere e segnate dal razzismo, nelle quali la scuola è l’unico mezzo di accesso a un pasto caldo al giorno o all’assistenza sanitaria. Per questo, la lotta per l’aumento dei salari si è affiancata alla battaglia contro i tagli ai servizi di ristorazione scolastica, e per l’assunzione di nuovo personale infermieristico e bibliotecario. In West Virginia, durante le giornate di sciopero, le insegnanti hanno partecipato alla mobilitazione spesso insieme ai propri figli e alle famiglie degli studenti, provvedendo in prima persona al mantenimento del servizio di ristorazione. Come fa notare Bhattacharya in un articolo su rebelnews.ie, il fatto che le insegnanti abbiano scioperato non solo per le proprie condizioni di vita ma anche per quelle dei loro studenti, è da leggere attraverso le lenti della riproduzione sociale: chi svolge ruoli di cura si occupa delle persone prima che dei profitti. In Italia, per la costruzione dello sciopero dell’8 marzo 2019, il movimento Non una di meno sperimenta le “Case dello sciopero”, ovvero spazi in cui ricevere tutte le informazioni e il sostegno materiale allo sciopero riproduttivo, accanto agli spazi di cura condivisa, alla didattica e alle mense popolari in piazza. Sono pratiche per lo sciopero riproduttivo le casse di mutuo soccorso che restituiscono alle lavoratrici di cura salariate in sciopero il corrispettivo in denaro della giornata di lavoro, e i collettivi sindacali che intervengono in settori di lavoro in gran parte informale e precario come il sex work, l’assistenza alla persona e i servizi di pulizia. Il lavoro di cura non si arresta con lo sciopero riproduttivo,
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ma è una nuova comunità di lotta a farsene carico. A renderlo possibile sono le reti di solidarietà e le relazioni di mutuo sostegno, in cui la responsabilità di preservare la vita viene condivisa, anche al di là dei ruoli di genere. Tutte e tutti possono partecipare alla fuga e farsi trovare nella piazza dello sciopero, sottrarsi al sistema di sfruttamento e scioperare dal ruolo che si trovano quotidianamente ad assumere, donne e uomini, razzializzati e non. E c’è spazio per chiunque abbia bisogno di cure per sopravvivere. Tutte e tutti, o meglio il 99%, contro quell’1% che da questo sistema trae benefici e profitti. È uno sciopero con un carattere ma anche uno scopo davvero riproduttivo: mentre interrompe un sistema ineguale, produce forme sociali che vanno al di là di questo. Così la cura si trasforma nella sostanza prima dello stare in relazione, nella sorgente comune di sopravvivenza, nella matrice di un mondo che valga davvero la pena riprodurre.
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E l’8 marzo spagnolo bloccò il paese Nel 2018 lo sciopero delle donne ha coinvolto sei milioni di lavoratrici e lavoratori di tutti i settori. Alcune grandi fabbriche hanno interrotto la produzione e le televisioni sono state costrette a modificare la programmazione
L
o sciopero delle donne dell’8 marzo 2018 rappresenta un evento fondativo nella storia del femminismo in Spagna. Diversamente dal solito, l’organizzazione di una giornata di sciopero dal lavoro non arrivava dal movimento sindacale, ma dal movimento femminista. L’appello alla mobilitazione, inoltre, si rivolgeva a tutte le donne, le invitava a scioperare in contesti diversi, non solo nel lavoro e nello Inés Campillo Poza studio, ma anche nella cura e nel consumo. Il movimento femminista proponeva una risignificazione dello sciopero includendovi tutte le attività necessarie per la riproduzione sociale, indipendentemente dal fatto che fossero retribuite. L’obiettivo era mostrare che «se ci fermiamo, si ferma il mondo». E così è stato.
Sebbene non ci siano cifre certe sull’impatto dello sciopero del lavoro di 24 ore, circa sei milioni di lavoratrici e lavoratori si sono uniti ai blocchi di due ore convocati dai sindacati maggioritari, specialmente nei settori dell’istruzione, della sanità, della pubblica amministrazione e dei trasporti. Le fabbriche Seat e Ford hanno interrotto la produzione e la programmazione televisiInés Campillo Poza, va è stata modificata. Perfino la regina Letizia ha fatto saltare sociologa e femminista, la sua agenda di quel giorno. Ma se la vittoria di uno sciopero è professoressa non si misura unicamente dai dati dell’adesione, bensì anche
alla Universidad a Distancia di Madrid. La traduzione è di Lorenzo Zamponi.
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Un successo insperato?
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dall’impatto sull’opinione pubblica, il successo è stato inequivocabile. Le donne del nostro paese si sono riprese le strade: ci sono stati caceroladas [proteste con pentole e coperchi, ndt], picchetti, blocchi di strade e ferrovie, azioni, presidi e manifestazioni di massa. Non si era mai visto niente di simile. Nonostante le dimensioni della mobilitazione abbiano preso di sorpresa molti analisi e mezzi di comunicazione nazionali e internazionali, come ha segnalato la veterana femminista Justa Montero «lo sciopero aveva già vinto» prima che iniziasse la giornata, dato che l’appello era riuscito a mettere in marcia un processo di cambiamento che si è esteso per mesi «come una macchia d’olio che sarebbe arrivata in ogni angolo» (Ctxt, 27/03/2018). Un processo di cambiamento avvenuto su un terreno reso già fertile dalla potente ondata di mobilitazioni femministe che caratterizza la Spagna dal 2014.
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In quell’anno, dopo l’esaurimento del movimento 15-M e delle maree in difesa dei servizi pubblici, emergeva Podemos e la priorità pareva trasferirsi verso la sfera istituzionale. Molti attivisti iniziarono a parlare di riflusso della mobilitazione sociale, ma in realtà il femminismo ha continuato ad aumentare la propria capacità di mobilitazione. Le principali battaglie di questa ondata femminista si sono concentrate sull’aborto (e il diritto a decidere sul proprio corpo) e le violenze di genere. Nel 2013-2014, la campagna contro il progetto di legge taforma nel novembre 2015 è stata un grande successo. sull’aborto del ministro Gallardón ha seL’appello contava, per la prima volta nella storia del femgnato un salto di qualità nelle mobilitaminismo spagnolo, sull’appoggio di tutti i sindacati e parzioni, come dimostra l’enorme manifetiti politici, compresi i conservatori Ciudadanos e Partido stazione del Treno della Libertà o il fatto Popular. Già prima dell’irruzione del movimento internache i cortei femministi di Madrid abbiazionale #MeToo, il movimento 7-N e le mobilitazioni legano abbandonato il loro tradizionale perte al caso dello stupro di gruppo de “la Manada” sono riucorso minoritario riempiendo le princiscite a inserire le violenze maschiliste nell’agenda politica pali vie del centro cittadino. Le proteste del nostro paese e a portare in parlamento, alla fine del hanno portato al ritiro del progetto di 2017, un Patto statale contro la violenza di genere. legge e alle dimissioni del ministro. Il movimento femminista spagnolo si è unito alla conAlla fine del 2014 è nata la Piattaforvocazione dello sciopero internazionale delle donne dell’8 ma 7-N contro le violenze maschiliste, il marzo 2017 e ha sperimentato per la prima volta la forcui obiettivo era riformare la legge sulmula dello sciopero quadruplo (lavoro, studio, cura, conla violenza di genere affinché includessumo) che prevedeva blocchi del lavoro di sole due ore. se la protezione contro ogni tipo di vioL’appello chiamava in causa i sindacati, le uniche organizlenza, compresa quella sessuale, anche zazioni che possono legalmente proclamare uno sciopero, al di fuori dell’ambito della coppia e ined è stato necessario che un piccolo sindacato del settore dipendentemente dalla presentazione di pubblico, la Intersindical, si unisse al movimento per condenunce. La Marcia Statale Contro le Viovocare formalmente l’astensione dal lavoro. Nonostante il lenze Maschiliste organizzata dalla piatpoco tempo e la fretta, la mobilitazione ha riscosso un certo successo, soprattutto nelle grandi città. Il giorno dopo, le femministe hanno deciso di iniziare a lavorare per preparare uno sciopero di 24 ore per l’anno seguente. Il successo dello sciopero dell’8 marzo 2018 va contestualizzato, pertanto, in questa ondata più ampia di irruzione nello spazio pubblico, creazione di alleanze e costruzione di senso comune femminista nel nostro paese.
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L’ondata femminista
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Inoltre, il lungo periodo di organizzazione, la decentralizzazione delle azioni, i negoziati con i sindacati e il crescente interesse dei media, hanno facilitato la diffusione dei dibattiti e obbligato individui e organizzazioni politiche e sociali a schierarsi. Così lo sciopero ha potuto contare sul sostegno inedito di alcuni membri della Chiesa cattolica. Decine di associazioni di professioniste (giudici, ricercatrici, sportive, professioniste del teatro, donne delle pulizie) hanno pubblicato manifesti di adesione, ma il processo dello sciopero ha provocato anche la creazione di nuovi collettivi di donne che tenevano insieme le rivendicazioni generali dell’8 marzo con richieste specifiche dei diversi settori (giornaliste, accademiche, donne dell’industria editoriale, lavoratrici della sanità, maestre ed educatrici, lavoratrici delle Ong, studentesse, ecc.). Senza dubbio, il gruppo più forte e influente (e ancora attivo) è stato quello delle giornaliste, cosa che spiega sia il grande interesse dei media sia l’influenza che ha avuto quella giornata sui palinsesti televisivi. Lo sciopero dell’8 marzo 2018 ha ottenuto una vittoria ancora più sorprendente del movimento femminista: quella di uscire dalla marginalità per interpellare le maggioranze sociali, nonostante l’assenza di istituzionalizzazione, di strutture e risorse. In questo percorso, il femminismo ha beneficiato sicuramente della crescente delusione per l’incapacità del Partito socialista (Psoe) e dei partiti del cambiamento di impedire un nuovo governo conservatore nel 2016. In uno scenario politico spostato sempre più a destra, segnato dalla crisi catalana e dal declino del Partido Popular, lo sciopero femminista ha offerto uno dei pochi spazi di incontro per la gente del campo progressista.
L’8 marzo 2018 è diventato una pietra miliare del femminismo spagnolo. Non solo è riuscito a mobilitare il paese, ma anche a provocare un cambio di posizione e discorso nelle destre del Partido Popular e Ciudadanos. Dopo il successo della mozione di sfiducia nei confronti del presidente del consiglio Rajoy in giugno, il nuovo primo ministro, il soIL MOVIMENTO cialista Pedro Sánchez, ha nominato un governo a maggioranza femHA COINVOLTO LE minile e creato un Ministero dell’Uguaglianza. Da allora, le relazioni MAGGIORANZE SOCIALI, tra il Psoe e Podemos sono migliorate, fino ad arrivare a un accordo HA APERTO UNO SPAZIO sulla legge di bilancio 2019, le cui misure principali sono l’aumento IN UNO SCENARIO del salario minimo, l’equiparazione del permesso di paternità a quelCHE SI SPOSTAVA lo di maternità, l’universalizzazione degli asili nido e la dotazione di SEMPRE PIÙ A DESTRA bilancio per il Patto di stato contro la violenza di genere. Nonostante queste circostante sembrino indicare una crescente egemonia del femminismo nel nostro paese, la recente irruzione del partito di ultra-destra Vox mette in rilievo la resistenza profonda di determinati settori sociali all’avanzata dei diritti delle donne. L’8 marzo 2018 ha fissato l’asticella molto in alto ma da allora il contesto politico si è radicalmente trasformato, anche con alcune divisioni all’interno del femminismo sul tema della prostituzione o sul ruolo delle persone trans nel movimento. Resta da vedere come il nuovo sciopero inciderà sul panorama attuale.
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Un femminismo per il 99%
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Le donne che scioperano parlano a tutti perché sanno che la richiesta di uguaglianza formale ed emancipazione non prescinde dalla trasformazione delle relazioni sociali nel loro insieme. Un manifesto programmatico
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ella primavera del 2018 Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Facebook, ha informato il mondo che «staremmo decisamente meglio se metà dei paesi e delle aziende fossero gestiti da donne e metà delle case fossero gestite da uomini: non possiamo ritenerci soddisfatte fino a quando quest’obiettivo non sarà raggiunCinzia Arruzza to». Esponente di punta del femminismo delle donne in carriera, Tithi Bhattacharya Nancy Fraser Sandberg si era già fatta un nome (e un bel gruzzolo) esortando le donne manager a «farsi avanti» nelle stanze dei consigli di amministrazione. Da ex capo del personale di Larry Summers – Segretario al Tesoro degli Stati uniti d’America, l’uomo che ha deregolamentato Wall Street – Sandberg non si è fatta scrupoli a suggerire alle donne che la strada maestra verso l’uguaglianza di genere passa attraverso il successo ottenuto con tenacia nel mondo degli affari. Quella stessa primavera uno sciopero femminista militante ha paralizzato la Spagna. Assieme a cinque milioni di manifestanti le organizzatrici della huelga feminista, lo sciopero femminista di 24 ore, hanno rivendicato una «società libera dall’oppressione sessista, dallo sfruttamento e dalla violenza», invitando «alla ribellione e alla lotta contro l’alleanza tra patriarcato e capitalismo che ci vuole obbedienti, sottomesse e silenziose». Mentre il sole tramontava su Madrid e Barcellona, le organizzatrici dello sciopero dichiaravano al mondo: «Incrociamo le braccia l’8 marzo e interrompiamo ogni attività produttiva e riproduttiva [...]. Non accettiamo condizioni di lavoro peggiori di quelle degli uomini, o di essere pagate meno degli uomini per lo stesso lavoro». Queste due voci rappresentano due sentieri opposti, un bivio in cui LA CREDIBILITÀ DELLE ÉLITES CROLLA si trova il movimento femminista. Da un lato, Sandberg e quelle della E LA LORO PATINA sua sorta considerano il femminismo come l’ancella del capitalismo. DI PROGRESSO PERDE Vogliono un mondo in cui uomini e donne della classe dominante conLUCENTEZZA: C’È SPAZIO dividano equamente il compito di gestire lo sfruttamento sul posto di PER UN FEMMINISMO lavoro e l’oppressione nella società. Si tratta di una visione strabiliante ANTICAPITALISTA di pari opportunità di dominio, per cui si chiede alle persone coCinzia Arruzza è docente di muni, in nome del femminismo, filosofia alla New School for Social di essere grate che sia una donna e non un uomo a mandare a rotoli il loro sindacato, a ordinare a un droResearch. È coautrice di Storia ne di uccidere i loro genitori o a rinchiudere i loro figli delle storie del femminismo in una gabbia ai confini col Messico. In netto contrasto (Alegre, 2017). col femminismo liberale di Sandberg, le organizzatrici Tithi Bhattacharya insegna studi della huelga feminista chiedono la fine del capitalismo, globali alla Purdue University. ossia di quel sistema che genera padroni, costruisce Ha curato Mapping Social confini nazionali e produce droni per sorvegliarli. Reproduction Theory (Pluto Di fronte a queste due visioni del femminismo ci Press, 2017). Nancy Fraser insegna filosofia e troviamo davanti a una biforcazione e la nostra scelta politica alla New School for Social comporta conseguenze straordinarie per l’umanità. Research. Ha scritto Fortunes of Un sentiero conduce a un pianeta devastato in cui la Feminism (Verso, 2013) e con Rahel vita umana è così impoverita da diventare irriconosciJaeggi, Capitalism: A Conversation bile, o forse addirittura da non essere più possibile. L’al-
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in Critical Theory (Polity, 2018). A vocal supporter of the International Women’s Strike, she coined the phrase ‘feminism for the 99%’. Traduzione di Alberto Prunetti.
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tro sentiero porta a quel mondo che da sempre fa parte dei sogni più nobili dell’umanità: un mondo giusto, in cui ricchezza e risorse naturali sono condivise da tutti, in cui libertà e uguaglianza sono premesse, non aspirazioni. Il contrasto non potrebbe essere più marcato. Ma quel che rende la scelta più difficile è il fatto che non esistono vie intermedie. Dobbiamo questa carenza di alternative al neoliberismo, una forma di capitalismo finanziario, altamente predatorio, che ha dominato il pianeta negli ultimi quarant’anni. Dopo aver avvelenato l’atmosfera, irriso ogni pretesa democratica, teso fino al punto di rottura le nostre società e degradato le condizioni di vita della vasta maggioranza, questa forma di capitalismo ha alzato la posta in gioco per ogni lotta sociale, trasformando ogni timido tentativo di conquistare riforme modeste in battaglie all’ultimo sangue per la sopravvivenza. In queste condizioni, il tempo degli eterni indecisi è scaduto e le femministe devono prendere una posizione. Continueremo a inseguire la “pari opportunità di dominio” mentre il pianeta brucia? O riusciremo a immaginare la giustizia di genere in forma anticapitalista, andando oltre l’attuale crisi, verso una nuova società? Questo manifesto è una mappa del secondo sentiero, un itinerario che riteniamo necessario e possibile. Si può concepire un femminismo anticapitalista oggi che la credibilità delle élites politiche sta crollando ovunque. Tra le vittime contiamo non solo i partiti di centro-sinistra e di centro-destra che hanno promosso il neoliberismo, ormai disprezzate vestigia di un tempo andato, ma anche gli alleati del femminismo delle élites che calcano le orme di Sandberg, la cui patina di “progresso” ha ormai perso lucentezza. Il femminismo liberale ha incontrato la sua Waterloo nelle eleScriviamo non per delineare un’utopia immaginaria, ma zioni presidenziali statunitensi del 2016, per segnare la strada che deve essere percorsa per raggiunquando la candidatura di Hillary Clinton, gere una società equa. Ci proponiamo di spiegare perché sostenuta da un forte battage pubblicitale femministe dovrebbero prendere la strada degli scioperi rio, non è riuscita a smuovere le elettrici. femministi, perché dobbiamo unire le forze con altri moPer buone ragioni: Clinton incarnava il vimenti anticapitalisti e antisistema, perché il nostro moprofondo scollamento tra l’ascesa delle vimento deve diventare un femminismo per il 99%. Solo in donne in carriera verso ruoli di prestigio e questo modo il femminismo può raccogliere le sfide della i miglioramenti nelle vite della vasta magnostra epoca: collegandosi con i militanti antirazzisti, con gioranza delle persone. gli ambientalisti, con gli attivisti per i diritti dei migranti e La sconfitta di Clinton ci ha suonato la dei lavoratori. Rifiutando con decisione il dogma del “farsi sveglia: ha esposto il fallimento del femavanti” e il femminismo dell’1%, il nostro femminismo può minismo liberale e creato un’apertura per rappresentare una speranza per il resto del mondo. sfidarlo da posizioni di sinistra. Nel vuoto Quel che ci fornisce oggi il coraggio di imbarcarci in prodotto dal declino del liberismo, abbiaquesto progetto è la nuova ondata di mobilitazioni del mo l’opportunità di creare un altro femfemminismo militante. Non si tratta del femminismo minismo: un femminismo con una diffedella donna in carriera che si è dimostrato un disastro rente definizione di quel che è rilevante per le donne lavoratrici e ormai sta perdendo credibilida un punto di vista femminista, con un tà, né del “femminismo del microcredito” che pretende differente orientamento di classe, con un di fornire “empowerment”alle donne del Sud del mondo differente ethos, radicale e trasformativo. prestando loro minuscole somme di denaro. Quel che ci Questo manifesto è il nostro tentativo dà speranza sono piuttosto gli scioperi femministi interdi promuovere un “altro” femminismo. nazionali del 2017 e del 2018. Sono questi scioperi – e i movimenti sempre più coordinati in crescita attorno a essi – che hanno prima ispirato e poi dato forma concreta a un femminismo per il 99%. [tratto da Femminismo per il 99%. Un manifesto, Laterza, 2019]
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SOGGETTI
Se si analizza la composizione della forza lavoro in Italia, anche nel periodo d’oro della fabbrica fordista, il mito dell’operaio massa metalmeccanico si ridimensiona. L’oppressione di classe attraversa tutti gli spazi e le attività produttive
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imbomba la fabbrica di macchine e motori/Più forte il silenzio di mille lavoratori». Le macchine ferme, i camion bloccati, gli operai schierati nel picchetto. Quando ci si immagina uno sciopero, vengono in mente le figure più classiche della fabbrica fordista. I giganti dell’industria nazionale, i cuori battenti della produzione di massa – si tratti delle iconiche Mirafiori o Pomigliano, degli stabilimenti David Broder Giacomo Gabbuti Ilva o quelli Pirelli – bloccati dalla massa operaia. Una foto famosa raffigura i proletari davanti ai cancelli, le braccia incrociate, in rappresentanza dell’intera Resistenza italiana. Negli Stati uniti, quando gli studenti vogliono sottolineare la valenza generale delle loro lotte brandiscono lo slogan: «L’università è una fabbrica!». Ma non c’è più il futuro di una volta. L’Italia rimane la seconda potenza industriale nel vecchio continente, eppure queste famose “fortezze della classe operaia” non esistono più. Oggi Mirafiori, mitizzata per decenni anche per aver ospitato i primi scioperi operai contro il regime fascista, impiega solo 5 mila dipendenti, contro i quasi 60 mila del 1980. E l’operaio della fabbrica non esercita la stessa influenza sull’immaginario collettivo. È facile lamentare il declino di un’Italia che non esiste più, e depositare i fiori sulla tomba di una classe operaia defunta. Ma non è detto che i lavoratori delle grandi fabbriche rappresentassero da soli la totalità della classe, del soggetto antagonista; che fossero gli unici depositari della stessa domanda di un’altra società. Il teorico dell’operaismo Mario Tronti parlava della sparizione dei tratti specifici della fabbrica nel momento in cui la sua logica produttiva e organizzativa si impadronisce dell’intera società. Oggi vediamo come un mondo mercificato (o almeno, l’Italia) ha superato il ruolo della fabbrica stessa. La sparizione delle grandi fabbriche ha distrutto un riferimento simbolico per l’esistenza (e l’auto-coscienza) di una classe. Nella cultura scientista e produttivista ottocentesca che permeava le grandi organizzazioni David Broder è uno socialiste della Seconda Internazionale, l’operaio industriale era storico e traduttore un riferimento simbolico per una classe intera. Il leader socialinglese, redattore democratico tedesco Eduard Bernstein teorizzava la possibilità europeo di Jacobin di arrivare al socialismo attraverso la massificazione di un nuMagazine. mero sempre più grande di operai nelle fabbriche, mentre nelle Giacomo Gabbuti opere di Karl Marx e di Friedrich Engels, la parola fabbrica invoca è dottorando lo stadio più avanzato dello sviluppo capitalista, il suo punto di di storia economica concentrazione e massificazione più impressionante. Allo stesso all’Università di Oxford. tempo, uno studio del modello della singola fabbrica con il suo
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padrone e i suoi operai permetteva uno sguardo chiaro sui rapporti di classe generali nella società intera, attraverso lo specifico luogo di produzione, in un modo molto più evidente che nel caso di un artigiano o di un mezzadro. Eppure anche ai loro tempi la stragrande maggioranza della classe non lavorava nelle fabbriche. Del resto, per gran parte della storia non furono gli operai di quegli stabilimenti i protagonisti del movimento operaio e socialista. Nel suo Making of the English Working Class (la cui traduzione con Rivoluzione industriale e classe operaia, titolo dell’edizione in lingua italiana, è quasi abusiva), lo storico marxista inglese Edward Palmer Thompson insiste sul fatto che la classe operaia si è formata attraverso un processo attivo, basato sulla sua coscienza di sé, le sue organizzazioni e la sua visione parziale della società. Era nata non nelle grandi fabbriche ma nei bassifondi e nelle botteghe: gli eroi della sua narrazione sono sellai, calzolai, edili, anche mercanti. Una forza tutt’altro che omogenea, lontana dallo stereotipo dell’operaio massa uniformato dalla disciplina di fabbrica. so del manifatturiero si svolgeva lontano dalle fabbriche, Se questo fu vero nella patria della rimolte volte in condizione di auto-impiego, o persino con voluzione industriale, figuriamoci in un quel lavoro a domicilio che costituisce ancora ai giorni nopaese come l’Italia. Come ha ricostruito stri l’ombra inquietante del Made in Italy, come ha racconlo storico Manfredi Alberti nel suo Senza tato un’inchiesta recente del New York Times. lavoro (Laterza, 2016), il nostro è un paeProprio dall’incertezza concettuale legata alla definise storicamente caratterizzato da disoczione di “industria” deriva, secondo lo storico economico cupazione e sotto-occupazione. Quando Stefano Fenoaltea, l’inaffidabilità del primo censimento ina cavallo del Novecento comincia l’indudustriale italiano del 1911. Mentre il contemporaneo censtrializzazione, non ebbe come sfondo simento della popolazione contava 4,3 milioni di persone enormi pozzi carboniferi o grandi stabiattive nell’«industria, arti e mestieri», in quello industriale, limenti siderurgici, ma impianti tessili, escludendo coloro che lavoravano da soli o nella propria spesso alimentati da energia idroelettriabitazione, erano impiegate appena 2,3 milioni di persone. ca, dove donne e bambini dalle mani sotNon sono stati i “creativi” a portare l’arte di inventarsi un tili, che più del capofamiglia dovevano lavoro in Italia: la forza lavoro da sempre comprende una contribuire a stabilizzare i redditi famischiera di lavoratori del terziario, dai negozianti ai venditori liari, costituivano una presenza preponambulanti. Secondo i dati rielaborati da Paolo Sylos Labini derante. Allo scoppio della prima guerra nel suo Saggio sulle classi sociali (Laterza, 1975), artigiani mondiale, le case automobilistiche itae negozianti, quasi il 20% della forza lavoro nel 1881, non liane erano ancora piccole officine che sarebbero scesi per un secolo sotto il 10%, per salire sopra sfornavano prodotti di nicchia, spesso il 15% dopo la guerra (anche per le politiche loro favorevoli destinati all’esportazione, mentre il grosdella Democrazia cristiana). Solo la grande domanda provocata dalle commesse belliche spinse il presidente della Fiat Giovanni Agnelli a progettare il Lingotto; ma anche nella parentesi fordista, il gigantismo della fabbrica è stato un’eccezione, su uno sfondo di piccoli e piccolissimi stabilimenti. Non solo: quando, alla fine del boom degli anni Cinquanta, gli occupati agrico-
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dominante, fu l’esperienza di una, due generazioni al massimo. Non deve sorprendere che i protagonisti della nascita del movimento operaio nel nostro paese non lavorassero nelle fabbriche, e la figura del militante non coincidesse solo con l’operaio maschio che bloccava la catena di montaggio. La stessa terminologia “operaio” col tempo ha cambiato significato, proiettando l’ideologia presente sul passato. Lungi dal riferirsi ai soli blue collar, l’etimologia latina si riferisce a chi compie un lavoro, di qualunque natura. Come testimoniato dal Vocabolario Etimologico di Ottorino Pianigiani (1907), nell’uso dell’epoca il termine si riferiva ancora a chi esercitava «ogni sorta di lavoro manuale, senza precedente addestramento o istruzione, come sono i facchini, gli scavatori, i carrettieri e simili». Nell’Ottocento c’erano dunque Società operaie composte esclusivamente di artigiani, mentre la costituzione della Federterra (1901) – l’unione sindacale contadina, tra i cui dirigenti spicca la figura di Argentina Altobelli – precede di qualche anno quella della Confederazione generale del lavoro (1906). La lotta per fermare il capitalismo e lo sfruttamento, non passava necessariamente dalle fabbriche, mentre la formazione di un contro-potere, di una classe, fu sempre anche un processo politico.
Fondata sul lavoro Sono state, dicevamo, le due guerre mondiali a dare alle fabbriche un ruolo così centrale; il nesso tra mobilitazione di massa, produzione di guerra e destino della Patria ha “nazionalizzato” (anche quando non in senso letterale) i grandi siti di produzione, ponendoli al centro della comunità nazionale. Il Pci insisteva (contro ogni evidenza) a dire che gli scioperi del marzo del 1943 fossero cominciati alla Fiat di Mirafiori. Inaugurata da Mussolini nel 1939 ed esempio massimo, come ha ricostruito da ultimo Bruno Settis nel suo Fordismi (il Mulino, 2016), di realizzazione dei principi fordisti in Italia, Mirafiori era
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li vennero superati per la prima volta da quelli industriali, questi erano già stati sopravanzati dagli addetti del terziario, come è possibile verificare dai dati assemblati da Claire Giordano e Francesco Zollino di Banca d’Italia. Il picco assoluto nell’industria si toccò alla fine degli anni Settanta, con poco più di 7,5 milioni di addetti – circa il 35% della forza lavoro, contro l’oltre il 50% dei servizi. E la dimensione delle aziende aveva già iniziato il declino di cui abbiamo già parlato nel primo numero della rivista. Anche quando si espandeva, la fabbrica contribuì a produrre figure ibride come i cosiddetti “metalmezzadri”, poco disposti a disperdere l’eredità di quella massa di coloni, mezzadri, affittuari, enfiteuti, piccolissimi proprietari, che popolavano le campagne accanto ai veri e propri lavoratori “dipendenti” (stabili e giornalieri). Usando come riferimento il censimento del 1901, dei circa 9,5 milioni di occupati in agricoltura, poco meno di 4 milioni erano “dipendenti” (di cui 2,8 giornalieri), mentre 2,5 erano coltivatori in proprio. Il resto era costituito da oltre 2 milioni di mezzadri e quasi 700 mila affittuari – figure peraltro sottostimate dalla pratica di considerare le loro mogli come “donne di casa”, come dimostrato da Giulia Mancini sulla Rivista di storia economica, nonostante partecipassero al lavoro in modo tutt’altro che marginale. Fuori dal mito insomma, la preponderanza di una forma della classe – quella del maschio adulto occupato nell’industria – scompare. Il lavoro nelle fabbriche, organizzato secondo il ciclo fordista, non fu mai maggioritario; e anche dove fu pre-
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centrale nel mito della “civiltà del lavoro” creato dal regime fascista; collocarvi l’agitazione operaia voleva dire strappargli una potente arma dalle mani. Ma proprio la guerra aveva mostrato la fragilità del mito, e l’Italia riuscì nell’impresa ben poco eroica di entrare nel conflitto ancor più impreparata che nel 1915, mandando soldati al massacro, dall’Egitto alla Russia, con scarpe di cartone e armamenti antidiluviani. In quegli stessi anni, tuttavia, si era compiuta una svolta considerevole nell’immaginario marxista. La “costruzione del socialismo” nell’Unione sovietica, dove il primo stato operaio realizzava la sua rivoluzione industriale in pochi anni, aveva impresso nei comunisti italiani (e non solo) l’idea secondo cui la crescita delle forze di produzione equivaleva a quello che il Marx dell’Ideologia tedesca definiva lo «scrollarsi di dosso l’antica sozzura» ereditata dai rapporti di classe arretrati. I successi dell’industrializzazione nell’Urss dimostravano la possibilità di un futuro alternativo. Già in Marx era presente l’idea secondo cui lo sviluppo industriale gettasse le basi materiali per il superamento del capitalismo. Ma il modello sovietico, nonché la strategia dei fronti popolari interclassisti lanciata negli anni Trenta, potenziava una concezione del lavoro industriale quale cuore non solo economico, ma anche morale, della rinascita italiana. Se nel biennio rosso del 1919-20 gli operai avevano occupato le fabbriche per bloccare la produzione, nel 1944 lo faranno per difendere il patrimonio industriale italiano dai tentativi nazisti di trasferirlo in Germania. SECONDO IL MITO È troppo facile liquidare l’ideologia del Pci, e della sinistra italiaALIMENTATO DAL PCI GLI na nel suo insieme, come un culto della produzione di massa o di SCIOPERI DEL MARZO 1943 un singolo tipo di operai. Se questo mito attraversava la sua cultura, ERANO COMINCIATI e anche le sue pubblicazioni dirette a braccianti o alle donne (reALLA FIAT DI MIRAFIORI: lativamente meno presenti nelle grandi fabbriche), era allo scopo NEL CUORE DELLA CIVILTÀ di insistere sull’esistenza di un alleato forte per quegli strati della DEL LAVORO FASCISTA classe che dubitavano della propria forza politica. Indubbiamente le conquiste dei metalmeccanici avevano la capacità di catalizzare l’attenzione, e contribuivano (tanto quanto le sconfitte) a “cambiare il vento” nelle relazioni industriali del nostro paese. Ma se queste avessero rappresentato la totalità del movimento operaio italiano, la sua storia andrebbe del tutto circoscritta al triangolo industriale. Eppure, la storia del biennio rosso è fatta di occupazioni delle fabbriche, ma anche di moti annonari e proteste contro il caro vita, nonché di scioperi dei braccianti, ma anche di mezzadri e affittuari che soprattutto in Emilia e Toscana (dove 180 mila mezzadri parteciparono a uno sciopero regionale) pretendevano di rinegoziare e migliorare i loro contratti. Secondo le statistiche rielaborate dallo storico dell’agricoltura Pablo Martinelli, nel 1919 e 1920 si ebbero rispettivamente 208 e 189 scioperi agrari, che coinvolsero 500 mila e poi oltre un milione di persone. Non erano certo operai metalmeccanici i braccianti che ripresero a occupare i latifondi dopo la liberazione, come quelli massacrati a Portella della Ginestra nel 1947, proprio mentre tornavano a celebrare il primo maggio. Nello stesso anno, ottenevano
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per legge l’obbligo, imposto con lotte durissime, di assumere e impiegare un minimo di lavoratori (il cosiddetto imponibile di mano d’opera). Né mancò la classe in una città come Roma, dove anche per la precisa volontà delle classi politiche liberali, lo sviluppo di «una soverchia aggregazione di operai», nelle parole di Quintino Sella, fu limitato quasi esclusivamente agli edili – uno di loro era ad esempio Angelo “Sigaro” Conti, voce e chitarra della Banda Bassotti recentemente scomparso. Non la fabbrica, ma la sua stessa rabbia animava quei disoccupati che – prima del lancio del Piano del lavoro nel 1949 – animarono gli “scioperi alla rovescia”. Secondo Aldo Venturelli, della borgata di Pietralata, «quando noi c’avevamo qualcosa che non ce andava bene, tipo le strade che qua erano piene de buche e non ci si poteva neanche camminare, facevamo lo sciopero alla rovescia. […] Noi della borgata prendevamo le pale e i picconi, andavamo per strada e allargavamo ancora di più le buche che già c’erano, così il Comune poi doveva veni’ per forza a ripara’ la strada». Di fronte alla proprietà assenteista o alle istituzioni negligenti, si coltivavano le terre e realizzavano le opere pubbliche, dimostran1947: NEGLI SCONTRI do allo stesso tempo la loro necessità e la possibilità di combattere la IN UNA BORGATA ROMANA disoccupazione. Le testimonianze dei dirigenti comunisti Aldo Natoli MUORE GIUSEPPE TANAS. e Leo Canullo concordano nell’attribuire il primo sciopero di questo RAPPRESENTA QUESTA tipo ai cittadini di Primavalle, un’altra delle “borgate ufficiali” romane ETEROGENEITÀ: (ne parla Luciano Villani in Le borgate del fascismo, Ledizioni, 2012). COMUNISTA, PARTIGIANO, Nel dicembre del 1947 le mobilitazioni portarono a violenti scontri con BORGATARO E SARDO la polizia, nei quali perse la vita Giuseppe Tanas. Nella sua condizione di iscritto al sindacato, comunista, partigiano, borgataro e sardo, Tanas incarna l’estrema eterogeneità del proletariato urbano romano. In un paese in cui era ancora viva l’eredità di Lombroso, e in cui l’italiano era ancora appannaggio di pochi studiati, la coesistenza nelle lotte e nelle organizzazioni operaie di quei quasi 9 milioni di italiani che, tra il 1955 e il 1971, si trasferirono da una regione all’altra, sembra smentire quanti oggi attribuiscono all’omogeneità etnica o culturale la forza delle socialdemocrazie scandinave. Sempre a Primavalle, secondo la partigiana e parlamentare comunista Marisa Rodano, nel 1950 le militanti dell’Unione donne italiane organizzarono i lavori di sterro di una strada «già prevista nel Piano regolatore del 1931», raccogliendo le attrezzature necessarie, e istituendo un centro di raccolta «ove affluiscono in commovente gara le offerte di pane e di viveri dei commercianti e della popolazione». Come ha ricostruito qualche mese fa sul manifesto Giuliano Santoro, citando proprio i lavori di Villani, è soprattutto nelle lotte per il diritto all’abitare – dalle occupazioni, prima simboliche e poi reali, all’auto-riduzione degli affitti – che, a Roma, non solo i movimenti,
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ma lo stesso Pci ha svolto l’attività probabilmente più incisiva nella ricomposizione della classe, catturata nelle splendide foto di Tano D’Amico. L’antropologo Stefano Portelli da anni lavora al caso di Nuova Ostia, salita agli onori della cronaca per le gesta del clan Spada e l’ascesa di Casa Pound. Complesso abusivo rimasto invenduto, Nuova Ostia fu occupata da 1.300 famiglie organizzate dal Pci. L’assegnazione delle case non realizzò però la promessa di inclusione, disgregando le comunità di baraccati. Se, come scrive Portelli, il “disastro” per le periferie non è l’“abbandono” ma il “disprezzo” (con cui si scarica su di loro per esempio lo stigma di Mafia Capitale, che pure ha arricchito settori assai poco popolari della città), è innegabile che la sinistra italiana, anziché piangere la fine della fabbrica, avrebbe potuto presidiare le periferie, in cui non mancano né le contraddizioni reali su cui intervenire, né le “storie di successo” da cui trarre ispirazione. Anche negli anni Sessanta, quando la fabbrica visse la sua breve stagione di protagonismo, la classe comprendeva le operaie tessili, come quelle dei Cotonifici Valle sa: finita (e persa) la lotta di classe delle grandi fabbriche, Susa intervistate da Aris Accornero dula resistenza è rimasta frammentata, e scollegata da ogni rante i durissimi scioperi del 1960-61. In orizzonte per la società dell’avvenire, come ricostruito da questo senso, le varie Mirafiori costituiSalvatore Cannavò e Lorenzo Zamponi sempre nello scorvano il collante ideologico per altre lotso numero di Jacobin Italia. te, nel tentativo di superare la storica diAltrove – dalla Francia alla Spagna passando per il monvisione (espressa soprattutto durante il do anglosassone – la scomparsa del movimento operaio fallimento del biennio rosso) tra gli openella sua forma novecentesca ha riaffermato la centralità rai nell’industria fordista e il resto del dell’azione politica nella ricomposizione di un soggetto di paese. Le migrazioni di massa del dopoclasse. I nuovi movimenti europei non parlano più, come il guerra hanno rinsaldato nell’esperienza Pci, dello sviluppo inevitabile delle forze produttive, ma di collettiva questo legame, provocando come creare forme di produzione che migliorino la vita delciò che Marx chiamava la “sussunzione le persone, instaurando nel contempo un rapporto armoreale” – il disciplinamento della massa nioso con l’ambiente. Se la difesa della dignità del lavoro si operaia e dell’organizzazione del lavoro fa sempre più dura, si rilancia elaborando e conquistando stessa sotto il regime della fabbrica. Annuove forme di diritti sociali. Purtroppo, in Italia, sembriache l’immaginario politico venne strutmo lontani da entrambe le cose. Ma se la nostra Repubblica turato da quel sistema e dai punti alti si fonda sul lavoro, questo non è mai stato solo quello svolto di lotta dell’operaio-massa. Ma la fine nelle varie Fiat o Alfa degli anni Quaranta e Cinquanta. Il di quel momento e la scomparsa delle dominio capitalista si estende alla società intera, e la resifigure di quell’epoca hanno poi prodotstenza è sempre stata altrettanto trasversale. Lo sciopero, la to un vuoto nell’identità di classe steslotta, l’immaginario di un ordine nuovo, non sono stati assemblati su una catena di montaggio fordista. Sono un’eredità che viene da lontano, e rimangono attuali anche dopo la morte, o il declino, di una particolare loro figura. Come sempre nella storia del movimento operaio, quel che ci serve è organizzazione e politica; da perdere abbiamo solo la nostra impotenza.
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Nella nuova classe operaia dei servizi, dalla logistica al turismo, emergono e si intensificano conflitti contro forme di comando antiche e moderne al tempo stesso
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di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur, 2018).
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ornare a ragionare di composizione del lavoro significa riconoscere quello che viene volutamente nascosto. Comporta indagare i contorni delle lotte che insorgono nelle periferie del capitalismo, nella filiera della logistica, della grande distribuzione, nell’inferno dei call center, negli anelli che collegano la produzione al consumo. In questi interstizi emerge l’immagine di una nuova classe Marta Fana Simone Fana lavoratrice, in cui i criteri etnici e di genere sconvolgono l’immaginario tradizionale della classe operaia bianca, autoctona, maschile. Una realtà che viene quotidianamente marginalizzata, frammentata, divisa, rimossa nei luoghi di lavoro e nella società. Sono soprattutto i settori tradizionalmente classificati come periferici, che acquisiscono oggi centralità nel processo di accumulazione e valorizzazione del capitale, non sorprende, quindi, che siano i comparti dove si formano con maggiore frequenza conflitti e in cui si assiste a risposte repressive. Senza la logistica, ad esempio, l’assetto globale della produzione industriale rimarrebbe lettera morta, priva di sbocchi nel mercato delle merci e dei servizi; lo stesso vale per il segmento che segue il trasporto delle merci: il commercio al dettaglio. I mall, i centri commerciali, assomigliano sempre più a nuove fabbriche fordiste in cui segmenti apparentemente distinti sono allineati su un’unica catena di montaggio: dalle pulizie alle casse, dalla sorveglianza ai magazzini. Ma è anche il settore in cui si manifestano chiaramente le trasformazioni nel contenuto e nell’organizzazione del lavoro dovute all’applicazione di diversi tipi di tecnologia: la digitalizzazione e l’automazione. Senza tuttavia produrre alcuna liberazione dal lavoro, al contrario svalutandolo ulteriormente nella direzione dell’intensificazione dei tempi di lavoro o nel controllo di quelli di non lavoro. Dalle casse automatiche costantemente sorvegliate da almeno un addetto, ormai simile a una biglia di flipper che si muove tra clienti sempre sull’orlo di una crisi di nervi davanti a un codice a barre, fino ad arrivare alla commessa che dovrà ripetere migliaia di volte lo stesso gesto fisico per riportaMarta Fana, re in ordine i prodotti sugli scaffali. PhD in Economics, In questa figura della nuova classe operaia dei servizi si consi occupa di mercato densano gli aspetti materiali e simbolici dello sfruttamento. del lavoro. Autrice Processi di comando antichi e moderni, che si servono della di Non è lavoro categoria della femminilizzazione – intesa come svuotamento è sfruttamento del contenuto fisico e ripetitivo delle mansioni lavorative – per (Laterza, 2017). mascherare il controllo classista sul lavoro. Mercificazione e ogSimone Fana si occupa gettivazione della donna, alla quale viene richiesto di sorridere
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per nascondere la brutalità del gesto routinario, dei ritmi infernali che dispongono del suo corpo, ormai trasformato in un’appendice della macchina, mero aspetto cosmetico del gioco capitalistico. Il ruolo della componente femminile diventa, al contrario, centrale proprio perché in grado di mettere in crisi le rappresentazioni dominanti che finiscono per schiacciare il conflitto di genere nell’ambito separato della riproduzione sociale. Produzione e riproduzione tornano a essere due dimensioni inscindibili delle nuove forme di conflitto: si lotta per migliorare la propria condizione lavorativa e per riconquistare potere nella società. Liberazione nel lavoro e dal lavoro, si sarebbe detto un tempo, come spazio necessario per ricostruire l’unità dei meccanismi di comando e il campo di espressione delle forze antagoniste.
In questi interstizi che legano l’organizzazione della fabbrica moderna con le politiche di controllo della forza lavoro, tra cui figurano le misure di restrizione del diritto di sciopero (il riferimento è al decreto legge 113/2018 che reintroduce il reato di blocco stradale e alle norme vessatorie contenute nel decreto sicurezza con la riduzione dei fondi per i titolari di protezione internazionale) poste dal governo in carica, si colloca la vertenza ItalPizza, azienda leader nel settore delle pizze surgelate e situata nel polmone produttivo italiano alla periferia modenese. Protagoniste nove donne IL RUOLO DELLA provenienti da angoli diversi del mondo. È novembre quando deciCOMPONENTE FEMMINILE dono di ribellarsi a un’organizzazione del lavoro brutale, iscrivendosi MOSTRA CHE PRODUZIONE al sindacato Si Cobas per rivendicare condizioni lavorative dignitose. E RIPRODUZIONE SONO Le richieste sono minime: adeguamento delle condizioni contrattuali DIMENSIONI INSCINDIBILI alla tipologia di mansioni svolte (le lavoratrici svolgevano attività di DELLE NUOVE FORME farcitura e preparazione delle pizze inquadrabili nel contratto alimenDI CONFITTO NEL LAVORO tarista, ma l’azienda applicava il contratto Multiservizi per abbattere il costo del lavoro), regolarizzazione dei turni di lavoro per bloccare la pratica degli straordinari non pagati, restituzione dei contributi non versati. Una scelta che non viene digerita dall’azienda ItalPizza che decide di sospenderle fino al 20 gennaio. Atto unilaterale di un’impresa abituata a disporre dei lavoratori e delle lavoratrici senza restrizioni, grazie a quel potere illimitato nell’organizzazione del lavoro che si traduce nel ricorso alla pratica dell’appalto del ciclo produttivo attraverso l’intermediazione di due cooperative. La protesta delle donne, che aderiscono allo sciopero globale dell’8 marzo, avvia la mobilitazione, con scioperi e presidi davanti allo stabilimento. Il clima diventa incandescente: lo sciopero indetto da un piccolo gruppo di lavoratori trova la risposta repressiva delle forze dell’ordine. Nel silenzio delle istituzioni politiche locali e nazionali la mobilitazione non si ferma, coinvolgendo in pochi giorni nuovi lavoratori, sensibilizzando una parte dell’opinione pubblica cittadina, diventando vertenza nazionale e obbligando l’azienda a tornare sui propri passi. Si arriva a un accordo in prefettura che richiama l’azienda a riassumere le nove donne e verificare con le organizzazioni sindacali la corretta applicazione dei contratti collettivi di categoria. Il richiamo non sortisce gli effetti
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La vertenza ItalPizza
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sperati. L’azienda relega le nove donne riassunte alle mansioni di pulizia, fuori dal ciclo di produzione e dall’ambito contrattuale previsto. Nulla pare cambiare anche in riferimento alla gestione dei turni che vengono comunicati solo qualche ora prima del loro effettivo svolgimento. Ma alla fine la lotta paga: tutte vengono reintegrate alle mansioni precedenti. È sempre il sistema degli appalti e subappalti contro cui hanno puntato il dito lavoratrici e lavoratori addetti alle pulizie dell’hotel di lusso Hyatt di Paris-Vendôme. L’ultima riforma del lavoro, voluta per decreto dal presidente francese Emanuel Macron, ha infatti escluso i lavoratori in appalto dal diritto di associazione sindacale e quindi di rivendicazione. Da qui sono partiti tre mesi di sciopero a oltranza con chiare richieste: internalizzazione, aumenti salariali e rimborso dei costi del trasporto pubblico. Il 21 dicembre dello scorso anno, il management dell’hotel di lusso ha dovuto cedere: sono state corrisposte le rivendicazioni monetarie e contrattato il riconoscimento dell’azione sindacale per i lavoratori e le lavoratrici in appalto. Una vittoria, seppur non totale, che ha incontrato la solidarietà morale e finanziaria dei colleghi delle pulizie della Gare du Nord. Dall’altro lato dell’oceano negli Stati uniti nuove mobilitazioni si susseguono riportando al centro del dibattito pubblico le condizioni di lavoro di una classe lavoratrice sempre più ampia e sfruttata, che prova a riprendersi lo stesso protagonismo sindacale e politico di qualche decennio fa. Contro le narrazioni sulla fine del lavoro, la classe lavoratrice statunitense si è unita negli ultimi anni attorno a una rivendicazione comune: l’aumento dei minimi salariali, unendo politicamente quel che il capitalismo continua a dividere.
Antidoti alle narrazioni dominanti
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L’analisi della realtà rimane il migliore antidoto contro la falsa coscienza delle narrazioni dominanti che provano a dividere la classe lavoratrice lungo direttrici identitarie per frammentare l’indivisibilità delle condizioni materiali e di sfruttamento che dai luoghi di produzione si riversano lungo gli spazi sociali e di cittadinanza. Le lotte che concretamente si svolgono non si limitano a svelare questo tentativo, a smascherare il suo portato politico e ideologico, ma mostrano i nessi tra la dimensione oggettiva, morfologica del capitalismo contemporaneo e il ruolo soggettivo delle forze in campo, tra struttura dell’organizzazione del lavoro e conflitto. Donne e immigrati, soggettività espulse nella frammentazione del ciclo di produzione e dalla sfera dei diritti sociali impongono un nuovo ritmo alla ristrutturazione capitalistica. Un fatto non inedito nel corso della storia del capitalismo. Come la forza lavoro che dal meridione si riversava nel triangolo industriale rinfocolando il conflitto operaio negli anni Sessanta del secolo scorso, le nuove figure operaie spiazzano il racconto accomodante delle classi dominanti, segnalando un punto di crisi potenziale dell’attuale assetto sociale. Certo, diversamente dall’epoca gloriosa del conflitto operaio, questo tempo sconta l’assenza di organizzazione politica. La parola mancante, che è strumento pratico che ricompone una parte contro un’altra, dividendo e tagliando il campo tra un “noi” e un “loro”. Si gioca molto se non tutto qui, nella capacità di attraversare per salti e strappi questo passaggio, dalla fabbrica antica e moderna sino al cuore delle istituzioni.
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Se nulla può accadere, tutto è possibile
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Le lotte dei rider, i fattorini comandati da una piattaforma digitale, mescolano strumenti tradizionali e pratiche innovative. Storia della Riders Union Bologna e del suo sciopero al tempo della frammentazione sociale
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a vicenda dei rider, i lavoratori e le lavoratrici delle consegne a domicilio la cui organizzazione è disciplinata da una piattaforma digitale, e delle loro lotte dipanatesi nel corso dell’autunno si muove su di un doppio paradosso. Il primo è quello più generale della sinistra politica Marco Marrone, e sindacale, che ha raggiunto una condiMarco Marrone ricercatore in zione di afasia proprio nel momento in sociologia presso il cui il neoliberismo attraversava l’apice Center for Humanities della sua crisi di consenso. Il secondo è quello che ha che fare and Social Change con la capacità dei rider stessi di aprire in un contesto particodell’Università Ca’ larmente ostile all’autorganizzazione una finestra attraverso cui Foscari di Venezia, parlare a quella parte di lavoratori e lavoratrici, in crescita espoè tra i fondatori di nenziale, esclusi dalle tutele salariali. Per comprendere come Riders Union Bologna. questo sia stato possibile, ma soprattutto quali indicazioni questa lotta ci offre per il futuro, bisogna disporsi a uno sguardo dal basso, assumendo fino in fondo la prospettiva dell’organizer. Solo da questo punto di vista è possibile cogliere non solo le contraddizioni che si aprono alle frontiere dell’accumulazione capitalista, ma anche le opportunità che questa fase storica offre alle lotte dei lavoratori.
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L’ascesa delle piattaforme digitali L’esplosione delle piattaforme digitali non è avvenuta nel vuoto, né è il frutto di un naturale sviluppo tecnologico. Essa affonda le sue radici in trasformazioni di più lunga durata. È il trentennio neoliberista ad aver creato le condizioni politiche e sociali necessarie allo sviluppo delle piattaforme. Non è un caso che la maggior parte di queste emerga a seguito delle politiche neoliberiste di austerity, le quali hanno impresso nella società una trasformazione delle condizioni materiali e soggettive che spingono sempre più individui verso l’economia dei lavoretti, la cosiddetta gig economy. Questa relazione spiega la tendenza delle piattaforme a sussumere, grazie agli strumenti tecnologici, attività una volta marginali e condotte nell’informalità, come la consegna del cibo, l’affitto di breve durata o il lavoro di cura. Un processo che pure potrebbe comportare benefici ai lavoratori in questo settore, ma che, a causa della natura estrattiva delle “leggi di produzione” delle piattaforme, fa sì che i laCONTRO L’ISOLAMENTO voratoti finiscano non solo per restare nella medesima condizione di SI È PARTITI DAL DIALOGO povertà e insicurezza che caratterizza la dimensione informale, ma NELLE CHAT DI GRUPPO subiscano anche una sollecitazione costante a intensificare la loro E SI È ARRIVATI A USARE prestazioni e i rischi connessi. Si determina così un circolo vizioso che STRUMENTI MUTUALISTICI vede i comportamenti organizzativi delle piattaforme incrementare COME CICLOFFICINE gli stessi fattori che hanno prodotto l’esplosione dell’economia dei laE SPAZI SOCIALI voretti. È in questa tendenza che si articola la natura estrattiva delle piattaforme che disegnano un modello di impresa basato su ingenti finanziamenti volti a conquistare il mercato già prima di assicurarsi una sostenibilità economica. Questa caratteristica, inoltre, rende le piattaforme dipendenti dagli investimenti provenienti da alcuni tra i maggiori gruppi finanziari, tra cui Jp Morgan, Deutsche Bank, ma anche la nostrana Intesa San Paolo. In un mercato a tendenza oligopolistica, ciò finisce per innescare la“guerra mondiale delle piattaforme”. In prima linea, sul fronte di questa guerra che non hanno dichiarato, ci sono i rider, chiamati a pagare gli alti costi sociali di questo modello di impresa.
Il confronto con questo scenario è il punto di partenza delle strategie organizzative della Riders Union Bologna (Rub), perché sono proprio le tendenze di cui parlavamo poc’anzi a causare il forte turn-over che caratterizza questo lavoro, la spinta verso l’individualizzazione della prestazione e anche il ruolo della componente simbolica volta a legittimare l’idea del lavoretto. Così, mentre per aggirare gli ostacoli del turn-over è bastato organizzarsi attraverso lo strumento delle chat di gruppo, per riuscire a rompere il particolare isolamento e l’effetto di una narrazione volta a scoraggiare la conflittualità, è stato necessario fornirsi di strumenti di natura mutualistica. In un tale contesto, luoghi e strumenti come le ciclofficine, il dopolavoro, i punti solidali, si sono rivelati preziosi perché in grado di costruire aggregazione e solidarietà. A seguito dei primi scioperi dei rider dell’inverno del 2017 le aziende hanno cominciato a prendere alcune contromisure. Dapprima hanno scelto di porsi come
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Le strategie organizzative
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interlocutori e accettato di discutere di questioni fino ad allora negate. Poi hanno scelto la pratica delle assunzioni selvagge, tentando di minare la solidarietà collettiva e sabotare la possibilità dei lavoratori di organizzarsi. Ma gli strumenti mutualistici hanno consentito ai rider di mettere in piedi un presidio in grado di durare nel tempo.
Reinventare lo sciopero La difficoltà maggiore per la Rub è stata quella di riuscire a mettere in campo una strategia vertenziale efficace. A causa delle condizioni contrattuali cui vengono sottoposti, i rider sono esclusi dagli strumenti tradizionali della tutela sindacale. Inoltre le “leggi di produzione” che caratterizzano le piattaforme determinano un’asimmetria di potere che rende difficile incidere sui comportamenti organizzativi. In altre parole, la strategia vertenziale ha avuto la necessità di reinventare la pratica dello sciopero, reso inagibile nella sua forma tradizionale proprio dal modo in cui le piattaforme funzionano. Pur senza abbandonare l’obiettivo di praticare un’astensione collettiva che limitasse il più possibile l’operatività, il tentativo è stato quello di influenzare l’opinione pubblica più che esercitare la capacità di mettere in crisi il ciclo di accumulazione delle piattaforme. Ciò è avvenuto innanzitutto invocando la responsabilità politica di chi detiene le leve dell’amministrazione delle infrastrutture cittadine all’interno delle quali le piattaforme operano. È in questo senso che la Rub ha guardato alla città non semplicemente come agglomerato di persone, ma come una rete di relazioni sociali e istituzionali da mobilitare per mettere in crisi i giganti delle piattaforme.
Le lotte nel momento populista
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Oltre che essere un’esperienza da cui trarre spunto per pensare allo sciopero nell’era della “digitalizzazione del tutto”, dunque, l’esperienza della Rub è significativa del potenziale politico e simbolico che tale pratica assume all’interno di quello che la filosofa Chantal Mouffe definisce momento populista. Le lotte dei e delle rider non avrebbero potuto ottenere dei risultati, seppure parziali, senza la capacità della Rub di riuscire a capitalizzare quei tratti del momento populista che, a causa dell’assenza di un’alternativa politica, gonfiano spesso il consenso delle destre. La centralità assunta dalla dimensione simbolica e la natura antagonista del rapporto con le istituzioni, due tra gli elementi che caratterizzano il momento populista, hanno consentito ai rider di diventare il simbolo del rifiuto della precarietà e della povertà prodotta dal neoliberismo. Dopo la sentenza d’appello del tribunale del lavoro di Torino, che ha riconosciuto la fattispecie della subordinazione del rapporto di lavoro di cinque rider di Foodora, diventa sempre più urgente riuscire a ottenere un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita per tutti e tutte. L’efficacia della lotta si misurerà dunque sulla capacità di mobilitare quei lavoratori oggi esclusi dalle tutele salariali. Questo obiettivo necessita dell’alleanza di tutte le energie che si oppongono alle tendenze estrattive del capitalismo. Solo se ci sarà questa alleanza potremo dire che le lotte dei rider sono state una scintilla in grado di far sì che, citando lo scrittore Mark Fisher, «in una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile».
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DIZIONARIO
Non esiste soltanto una forma di lotta: se l’obiettivo è sempre lo stesso, “far male al padrone”, nella storia dei movimenti sociali e dei conflitti nel mondo del lavoro esistono diversi esempi di sciopero e differenti modalità da adottare in base a necessità e condizioni. Ve ne proponiamo cinque. Alcune fanno parte della storia sindacale, altre sono sperimentazioni proiettate verso il futuro
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Illustrazioni di
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Valerio Renzi
o sciopero sociale è lo sciopero che si trasforma in coalizione. È l’estensi one della mobilitazione dallo spazio del lavoro a quello della città e dei flussi. È il 2 novembre del 2011 quando migliaia di manifestanti bloc cano il porto di Oakland. Il movimento Occupy si è diffuso in tutti gli Stati uniti tra piazze e assemblee, quando si pone il dello sciopero come pratica sociale problema di come mobilitare e far è sicuincontrare lavoramente più semplice. Pensiamo ratori, disoccupati, attivisti delle più alle mobisvariate cause litazioni in Francia contro la Loi Trav scegliendo per farlo lo spazio dell ail: le o sciopero. All’alba pratiche di mobilitazione sperime il principale porto commerciale dell ntat e nel a costa ovest è movimento della Nuit Debout da paralizzato e lo sarà nuovamente migliaia il 12 dicembre sucdi giovani e giovanissimi, si sono cessivo, mentre la mobilitazione non incontraha mai smesso te sull’estensione del conflitto sul di invadere lo spazio della città calif terreno orniana. Le pradella legislazione del lavoro con il tiche e l’allusione allo sciopero per conflitto ottenere sindacale più tradizionalmente inte elementi concreti di giuso. Laddove l’arma dello sciopero è utili stizia sociale lasceranno Da Oakland a Oaxaca lo zzata a pieno e non solo come rituale, sim i più duraturi segni di sciopero si estende a tutta la ulacro di conflittualità, l’estensione sociale quella stagione, con le città. Nel primo caso assume dello scio pero ai non garantiti diventa una lotte dei lavoratori di prima la forma del blocco possibilità più che concreta. Walmart e di altri grandi dei flussi e delle merci e poi In Italia le possibilità di uno sciopero marchi per un salario miquello di alleanza sociale tra soci ale si sono manifestate il 14 novemb nimo. Prima ancora, Oarsi, dive categorie e soggetti re del 2014 , quando la mobilitazione contro di xaca in Messico nel 2006, lotta una nel secondo da il Jobs Act è stata promossa con una uno sciopero a oltranza settore si estende velocissigiornata di lotta da una coalizione compost degli insegnanti si era tramamente a soggettività poa da real tà sociali, organizzazioni studente . sformato in insurrezione. loro tra ime rsiss dive litiche sche e sigle del sindacalismo di base. Per La protesta dei precari delLo sciopero sociale connetla prima volta i movimenti sociali non la scuola contro il taglio dei si sono te l’astensione dal lavoro limi tati ad alludere allo sciopero di chi fondi era stata duramente dei lavoratori dipendenti e non ha diritto a scioperare, ma si sono repressa, e agli insegnanti contrattualizzati, alle lotte posti il problema del come metterlo in prat si unirono studenti, disocdi precari e autonomi che ica. Sare bbe ora di riprendere il discorso. cupati, altre categorie di lare del diritto a sciopera voratori pubblici e non solo, sono privi. Coinvolge poi e istanze sul piasindacati e forze politiche e soggetti che portano avanti bisogni o sociali. L’Assemblea popolare no della riproduzione e non solo della produzione, pensiam . base di ito redd un di ne azio dei popoli di Oaxaca (Appo) all’accesso alla casa o alla rivendic solo non e dov rio rato labo aveva occupato l’intera città Lo sciopero sociale diventa così un ismo di classe, ma dove si e lo sciopero degli insegnanti si ricompone il puzzle dell’antagon zione. ilita era proseguito per oltre cininventano forme inedite di mob e forze sindacali in madall o icat que mesi. Dove lo sciopero viene prat re pubblico, l’estensione niera potente, a cominciare dal setto
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Giulia Biazzo
introduzione dell’alternanza scuo la-lavoro, cioè dell’obbligo di fare espe rienze lavorative non retribuite per tutt i gli studenti dell’ultimo triennio delle sup eriori, a partire dall’anno scolastico 2017 /2018, ha dato l’opportunità per la sperime ntazione di una nuova forma di lotta. Sciopera re è farsi zare il mondo della formazione giustizia assieme, in una reazione in una a catena, subalternità netta al modello prec per rifiutare il ricatto del legame ario marcio tra e sfruttato dell’odierno mercato mondo del sapere e sistema prod del uttivo di lavoro. sfruttamento, riportare l’immag inazione al Una forma di mobilitazione nata potere e riconquistare il tempo rub dal ato. basso: avevano incrociato le brac A partire dall’elemento nuovo dell cia a già il primo maggio 2017, a Nap (non) categoria dello studente in oli, gli alternanza stud enti in alternanza scuola-lavoro scuola-lavoro, infatti, è nata l’esi genza di chiamati a lavorare durante la fest metterne in discussione le prospett a dei ive, forti lavo ratori presso l’edificio monume dell’idea che il collettivo, se orga nnizzato, può tale di Pio Monte della Misericordi costruire curiosità e attivazione, a, al fine di come del resto poche settimane ripensare non solo il prima i ragazzi del liceo Vittorio Emanue sistema formativo ma le II la necessità di ricominciare di Napoli spediti a lavorare durante anche il mercato del le a vedere la scuola come stru pause didattiche. lavoro. ’edell mento di ribaltamento Una battaglia continuata attraver Nel limbo tra lo staso sistente. Per fare ciò, servono più di cinquanta statuti dei diri tus di studente e queltti in ale zion ilita nuove forme di mob ternanza autoprodotti e approva lo di lavoratore, senza ti nelle lo o stat è e studentesca, com scuole. Un primo passo verso un diritti e tutele e senza ripenalla rovescia lanciato pero scio sam ento dell’attivazione individuale possibilità di decidere, in dall’Unione degli Studenti il funzione del risveglio della collettiv è tornata, prepotente, ità, 13 ottobre 2017 con lo slogan capace di contrapporsi al paradigm a di “È il nostro tempo”. individualismo, solitudine e asso gget Nelle piazze è stata cotamento che sta provando a plas mar e struita una grande provoil modo di fare, di vivere e interpre tare cazione. Gli studenti hanno la scuola. lavo detto: “Se ci trattate da ratori, ci prendiamo un diamo!” E ritto che non abbiamo e scioperi nersi aste per cia brac le to hanno incrocia eme insi casi ni alcu in , ento dallo sfruttam i ituit sost re esse per ti nzia lice ri ai lavorato un, den dalla loro manodopera gratuita do mon al co logi ideo acco l’att do cian liznda azie dell’istruzione e l’obiettivo di
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Sciopero bianco
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Gaia Benzi
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scruonsiste nel rispetto pedissequo e eppure poloso di norme e regolamenti, ti paesi, lo sciopero bianco è illegale in mol vegia. Altrotra cui Francia, Danimarca e Nor del cosidero ve è tollerato, e incluso nel nov allo sciooltre detto sciopero articolato, che pero a scio lo dere pero bianco può compren gatto, a pero scio lo scacchiera, a singhiozzo, tutvia: così e nari ordi lo sciopero degli stra a rativ lavo vità ’atti dell ne te forme di ostruzio e vera una a che più e volt , vità proparziali o limitate prendere la maggior parte dell’atti disua una a ro lavo del ione propria interruz duttiva. urbo se non la forsarticolazione. Un’attività di dist Ancora oggi lo sciopero bianco è ideità, uttiv di lae gori proprio di sabotaggio della prod cate e vari da ta scel ma di lotta il diritcui in i test con i que in tto del rattu nti ale sop voratori, specialmente dai dipende soggetto a è o o ntit gara è non pero Aliscio di di to trasporto pubblico: è stato il caso nel 2017 forti restrizioni. talia nel 2008, è successo ancora sciopeeciPer questo motivo la pratica dello part a con le Ferrovie e Atac, l’aziend o il fascihe Anc . ano ro bianco ebbe molta fortuna sott rom o pata del traporto pubblic anie dog smo, nelle ondate di modei llo se il più famoso resta que plicabile: è una forma bian pero bilitazioni che fra il ‘42 e il scio uno ri italiani del 1989: in di ritorsione che fa prodi scio‘44 coinvolsero il triangoco a singhiozzo misto a giornate pria, ribaltandone il bloccare a lo industriale italiano. Il no varo arri rie, pero vere e prop senso, la burocrazia geane con itali suo successo gli garantì oltiere fron e dell ma l’intero siste neralmente utilizzata deChie . tralpe il soprannome di 100% del ne esio d’ad ali percentu dai pad roni taper all’i o met ano tere itali istrasciopero vano una seria riforma dell’ammin nel sacc o rilavo sia rato non ri e ene lasebb a, ingerenze lian zione doganale che arginasse le vora trici . iva Nell ogat o scio prer pero tto affa protesta to mas di Guardia di finanza e affini: una bianco tutte le norme, i tiere fron e nazionale – un po’ come contro la militarizzazione dell codicilli e le clausole pree. ider le french fries o l’insalasorr si che, a pensarla oggi, fa qua senti nel contratto di lata russa. voro vengono scrupoloL’idea dello sciopesam ente rispettate, anche lì dove il risp abè o ro bianco in fond etto minuzioso dell a norma è contrario al buon senso. ree e plic bastanza sem Questa forma di sciopero, oltre a rallentare la produzione, sottolinea l’enorme mole di lavoro abitualmente svolta al di fuori delle norme prev iste nel proprio incarico ufficiale eppure data per scon tata dai datori di lavoro. In alcuni settori uno scio pero bianco è in grado addirittura di fermare complet amente l’erogazione del servizio o l’attività produttiv a: segno, questo, che le mansioni extracontrattuali pos sono arrivare a com-
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Institute ha uando il Birmingham Civil Rights del premio deciso di revocare l’assegnazione e milinera ale «Fred Shuttlesworth» all’intellettu co di cari a a colp le tante Angela Davis ha posto qua Bds na pag cam alla quest’ultima il sostegno offerto itabds , ioni sanz e (Boicottaggio disinvestimento ele. Evidentemenlia.org) per il boicottaggio di Isra ggio, malgrado otta boic il te uno strumento come della fragilisello app un da in questo caso sia nato contro l’oc2005 nel ese stin pale boicottagsima società civile sono di due tipi: le campagne di in determinati imprese a o cupazione e l’apartheid israeliani, cap o fann che gio dei marchi discussione equilavoratori dei contesti è in grado di mettere in ità dign la no etta che non risp iative. iniz altre di più ni azio narr e re contro libri di pote o dell’ambiente (storiche quelle di Adbusters quella e Lo sanno bene, tra gli altri, quelli Nike la tlé, Nes la te, la Del Mon Giornata del la , Day hing Not Buy del i otor in corso prom denominata Abiti puliti, ancora anta paesi, che sess oltre in sa diffu isto acqu tro le denon in diciassette paesi europei, con stesso giorno del aturiero) calz viene festeggiata ogni anno nello localizzazioni nel tessile e nel Canada nel 1992 to buy, (da Black Friday. Adbusters nasce in io» e il cosiddetto «buycottagg blicità («rivista erenze pref le come periodico di critica della pub are acquistare), cioè indirizz otti prod o per l’ambiente mentale», vers i ator dei cittadini consum tito l’appello con cui è refavo ali recita il sottotitolo), per poi soci sole clau che garantiscono nata la mobilitazione di uiti circ i diffondersi in molti paesi così o con Nas ri. voli ai produtto Occupy Wall Street, nel uppi con il magazine omonimo del commercio equo e solidale, i Gr ni a tadi con i e ovunque con il sito adbu- settembre 2011. rcat i me ali, solid o di acquist Qua lche rete ann una o è fa i i Ogg baratto e sters.org. «chilometro zero», le giornate del gran di med te, ia artis furo e ti no artis di globale del Buy Nothing. costretti a occuparsi di tavo scrittori e «dissidenti Ha scritto il saggista catalano Gus un altro boic to otta sapu ggio ha te, il che i» mor di ural e cult Duch: «Di fronte alle economi per ore d’am o mostrare i nessi tra critica (parzialmente vinto), boicottaggio diventa un gest quello rimbalzato su del capitalismo, antila vita». Facebook, grazie a un consumismo e comunigruppo di operaie, con le cazione indipendente. pag ine «Boicotta Omsa», «Mai più Om dei uno Adbusters è stato sa» e «A piedi nudi! Io non compro Omsa e Golden Lady finc parè li soggetti dai qua hé non riassumono». Decine di migliaia di donne si impegnarono, e resero pubblica la loro scelta, a non acq uistare i marchi controllati dalla multinazionale delle calz e, invaghita dei bassi costi del lavoro in Serbia. Del resto gli strumenti a disposiz ione del movimento del consumo critico, che ha ormai qua rant’anni di storia alle spalle ma che in fondo ha le sue origini nelle prime proteste dei lavoratori all’inizio dell a rivoluzione industriale,
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e un operaio, per lottare per i prop ri diritti, si astiene dal lavoro, cosa può fare un disoccupato? È da questo quesito che già nel primo dopoguerra, poi più compiut amente intorno agli anni Cinquanta, si svilu ppano nelle campagne e borgate italiane forme di mobilitazione definite “sciopero alla roveessere svenduta. Lo abbiascia”. Si tratta di proteste di tipo sind acale mo visto infine nelle espeattuate svolgendo un lavoro non richiesto rienze delle fabbriche rese non addirittura vietato dall’imp renditore. cuperate che, sull’esempio Pratiche con l’obiettivo di riapprop riarsi della ormai ventennale in Argenpropria forza lavoro, magari iniziand o a cotina, si sono propagate in struire un’opera di pubblica utilità (manutenEuropa e in Italia: a Trezzazione delle strade, costruzione di fognature, no sul naviglio nel 2013 un ristrutturazione di case abbandona te) per gruppo di lavoratori in caspoi pretendere dallo sa integrazione per la chiustato il riconoscimento arrestati per occupazione di sura della Maflow, azienda e pagamento del lavoro suolo pubblico e resistenza di componentistica per auto, svolto, oppure coltivana pubblico ufficiale e per ha occupato i capannoni e do un terreno incolto difendersi citarono proprio continuato a lavorare riconper poi chiedere al proil diritto e dovere al lavoro vertendo la produzione verso prietario il salario corriprevisto dall’articolo 4 della il riciclo di apparecchiature spondente o la terra. Costituzione. elettroniche e mettendosi in Lo sciopero alla roveDi fronte all’impossirete con altre realtà per la scia rimasto più a lungo bilità di scioperare non produzione e distribuzionella memoria è quello solo per i disoccupati ma ne di generi alimentari del 2 febbraio del 1956 anche per precari con finte “a sfruttam ento zero”. raccontato dallo storico partite iva, collaboratori E lavorando senza attivista non violento occasionali o operai la cui padroni si può mostraDanilo Dolci nel libro Profabbrica chiude o migra re al rovescio anche la cesso all’articolo 4. A Partiall’estero alla ricerca di società. nico, provincia di Palermo, manodopera low cost, un gruppo di braccianti lo sciopero alla rovescia praticare dai riguidati dallo stesso Dolci torna di attualità. Lo abbiamo visto ando il sussidio di iniziò a lavorare una strada cercatori non strutturati che, rivendic di e assegnisti, hanno lasciata all’incuria: furono disoccupazione anche per dottoran ttività lavorativa e mostrato in piazza che la loro è un’a to nel mondo rurale non solo formativa. Lo abbiamo rivis dove un gruppo nze, nella Fattoria Mondeggi, vicino Fire isce da quattro gest auto e di agronomi e contadini occupa rietà della prop di ria fatto anni i 200 ettari agricoli della ile, stava per utib disc ione gest Provincia che, dopo anni di
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CROCEVIA
Libertà Uguaglianza Intersezionalità La coscienza di classe deve sfidare le logiche razziste, l’antirazzismo contestare il dominio del patriarcato, e il femminismo attaccare ogni sfruttamento. Ecco perché i conflitti devono mettersi al crocevia delle linee di potere
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o incontrato Kimberlé Crenshaw all’Università Sorbona di Parigi nel gennaio 2019, a una conferenza organizzata da Marta Dell’Aquila e Eraldo Souza dos Santos per celebrare il trentesimo anniversario del concetto di intersezionalità. Kimberlé Crenshaw ha sviluppato tale concetto nel 1989 nel suo articolo “De-marginizing Francesca Coin the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Anintervista Kimberlé Crenshaw ti-discrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics”. In quell’occasione, il suo obiettivo era sfidare i limiti delle leggi anti-discriminazione che consideravano il genere e la razza come categorie separate e reciprocamente esclusive. Negli ultimi trent’anni, l’intersezionalità è diventata uno strumento analitico essenziale per esplorare come molteplici strutture di oppressione plasmano la vulnerabilità individuale. In questa intervista Crenshaw non ci offre soltanto un corso intensivo sull’intersezionalità, concetto divenuto centrale nella Francesca Coin, costruzione degli scioperi del movimento femminista globale sociologa all’Università negli ultimi anni. Ci spiega anche perché un approccio interCa’ Foscari sezionale è vitale per trasformare l’attuale situazione politica. di Venezia, si occupa In un maestoso esempio di sofisticazione teorica e semplicità, di lavoro, moneta Crenshaw usa la nozione di fallimento intersezionale per spiee diseguaglianze. gare l’elezione di Donald Trump. Non è semplicemente il risenKimberlé Crenshaw timento di una classe lavoratrice che si sente lasciata indietro insegna alla Ucla a spiegare il trionfo elettorale dell’estrema destra, sostiene. È di Los Angeles il risentimento della classe lavoratrice radicato nel diritto pae alla Columbia. Tra triarcale e nella supremazia bianca, ciò che determina la sua
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i pionieri della teoria critica della razza, ha introdotto il concetto di intersezionalità.
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vittoria. In questo senso, il trionfo dell’estrema destra in paesi come gli Stati uniti o l’Italia, che hanno una storia irrisolta di supremazia bianca e fascismo, può essere visto come il risultato di una serie di fallimenti intersezionali – quando la coscienza di classe non contesta le logiche del razzismo, quando l’anti-razzismo non contesta le logiche del patriarcato, quando il femminismo non contesta le logiche del razzismo, finiscono loro malgrado per rafforzarle. Tra le più importanti studiose mondiali di teoria critica della razza, giurista alla Ucla School of Law e alla Columbia Law School e instancabile attivista per i diritti civili, Kimberlé Crenshaw era appena arrivata a Parigi quando ci siamo incontrate ed era chiaramente provata dal jet lag e dall’influenza. Desideriamo ringraziarla per la sua generosità di tempo, ironia, lucidità e passione politica, e con lei Madeline Cameron Wardleworth, Julia Sharpe-Levine, Marta Dell’Aquila, Eraldo Souza dos Santos per aver reso possibile questa intervista.
L’intersezionalità è una metafora che ho sviluppato per chiarire i modi in cui forme di discriminazione distinte a volte si intrecciano e creano ostacoli che spesso non vengono compresi se confinati nella discriminazione razziale o di genere. Ho deciso di scrivere un articolo per evidenziare in che modo le leggi anti-discriL’INTERSEZIONALITÀ minazione fossero inadeguate ad affrontare la discriminazione delle È UNA METAFORA, donne nere. La ragione per cui in tribunale i giudici non erano in graUNA CORNICE CHE do di capirlo è che la discriminazione razziale e quella di genere veniCONTIENE I MODI CON CUI vano considerate come categorie separate e mutualmente esclusive: DIVERSE STRUTTURE DI si poteva essere oggetto dell’una o dell’altra, ma l’idea che si potesse POTERE DISCRIMINANO E essere vittima di entrambe era in gran parte difficile da immaginare. CREANO VULNERABILITÀ Era come se questi due tipi di discriminazione fossero binari paralleli che viaggiavano su linee rette senza incontrarsi mai. Volevo trovare una metafora per cambiare il modo in cui le persone pensano la discriminazione e dire che in verità queste due linee non sono parallele ma curvano [ride]. Per questo ho portato quel pensiero sino al punto in cui quelle categorie non erano più lineari ma potevano intersecarsi. Da allora mi sono resa conto che si possono sempre elencare i fatti, ma se non si può dare a chi ascolta una cornice in cui inserirli, i fatti non contano. L’intersezionalità era una cornice capace di contenere al suo interno gli innumerevoli modi in cui le donne di colore sono oggetto di discriminazione. Uno dei motivi per cui le ragioni della loro discriminazione sono state a lungo ignorate, è che le cornici concettuali suggerivano che il razzismo fosse qualcosa che accade a tutte le persone della stessa razza come la misoginia è qualcosa che accade a tutte le persone dello stesso genere, ma non è detto sia così. In alcuni dei casi di discriminazione lavorativa che stavo esaminando c’erano tipi di impiego per persone nere e tipi di impiego per le donne, ma i lavori per le persone nere erano per uomini neri e i lavori femminili erano per donne bianche. Era il classico tipo di situazione in cui hai due strutture di potere che si intersecano facendo subire alle donne nere un trattamento distinto rispetto agli uomini neri e alle donne bianche. Vedevamo questi fatti ma non avevamo una cornice teorica in base alla quale mostrare e far capire ai giudici la discriminazione delle donne nere come sottogruppo. Per riuscirci dovevamo più o meno ricreare la scena del delitto e mostrare come queste strutture di oppressione si intersecano con modalità uniche per persone che si trovavano in una posizione tale da sperimentare entrambi i tipi di discriminazione.
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Oggi celebriamo il trentesimo anniversario dell’intersezionalità e vorrei tornare a trent’anni fa, quando hai usato questo concetto per la prima volta. Puoi dirci come hai sviluppato il concetto e qual era il suo scopo?
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Il mio primo uso dell’intersezionalità era interno alla giurisprudenza, è stato fatto in un momento e in un modo tale da essere riconoscibile a chi lavorava nel campo degli studi giuridici. Potremmo dire che si trattava della prima generazione del concetto di intersezionalità. Dovrei anche dire che tale concetto nasceva all’intersezione tra il femminismo nero, dato che ero una femminista nera, e la teoria giuridica critica, poiché facevo parte di un movimento che interrogava i modi in cui il diritto formava e regolava ogni tipo di gerarchia sociale. Piuttosto che vedere le leggi contro la discriminazione nelle loro funzioni intrinsecamente liberatorie, guardavamo al diritto come parte costitutiva delle condizioni strutturali che consentivano la discriminazione stessa, oltre che cercarne la soluzione. Entrambi questi orientamenti intellettuali contribuivano a trasformare le donne nere in un luogo privilegiato di analisi, per identificare il modo in cui la legge cercava di naturalizzare quanto accadeva loro e per trasformarlo in un problema sociale e legale. L’intersezionalità era la cornice che usavo per guardare legge strutturava la violenza e a cosa dovevamo fare noi in quanto femministe per riscriverla e per rivelare l’influenza all’insieme di questioni che si manifestadel patriarcato. Al tempo, la violenza contro le donne non vano insieme al graduale dispiegamenera definita così, non c’era un oggetto, c’era solo una patoto di movimenti femministi, antirazzisti logia famigliare, strane cose che accadevano nelle famiglie e poi queer negli anni Ottanta e Novanta. In quegli anni, la violenza contro le donne povere o di colore. In realtà accadevano anche alle famiglie del ceto medio seppur queste non fossero mai identificate era un vero punto di riferimento per capicome luoghi di violenza. Alcune parti del movimento femre in che modo il femminismo stesse inminista e chi si occupava di questioni legali al suo interno, contrando il diritto. Per certi versi, ci stastavano ragionando su cosa trascende tutte queste narrava obbligando a pensare al modo in cui la zioni, ed è la violenza contro le donne – fenomeno sistemico, sociale, istituzionale e culturale. Questo accadeva nello stesso momento in cui il femminismo nero cominciava a criticare il femminismo tradizionale per le sue dimensioni solipsistiche. Io prendevo parte a questi dibattiti, credevo che ci fosse qualcosa che si chiamava violenza contro le donne e che avesse senso tentare di teorizzare il ruolo del patriarcato al suo interno, ma allo stesso tempo capivo che all’interno di quelle uguaglianze c’erano anche differenze: differenze di vulnerabilità, differenze nell’accesso alle risorse, differenze nel modo in cui lo stato si preoccupava della violenza o meno, differenze tra chi aveva il potere retorico di dire «Mi è accaduto questo e a qualcuno interessa» e chi quel potere non ce l’aveva. In alcuni momenti navigare l’uguaglianza e la differenza era davvero difficile e l’intersezionalità era un modo per inquadrare quale fosse la sfida. Il patriarcato creava le condizioni per la violenza e allo stesso tempo una donna immigrata che si trovava ad affrontare la
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Fai spesso riferimento al caso giudiziario della DeGraffenreid vs. General Motors in cui un gruppo di dipendenti nere ha citato in giudizio la General Motors sostenendo che le loro politiche occupazionali discriminavano le donne nere. In quel caso, il tribunale ha respinto la richiesta in quanto non ha riconosciuto che le donne nere si trovassero ai margini di categorie di discriminazione legalmente protette. Da allora, hai sottolineato che l’importanza dell’intersezionalità non è solo nelle cause legali, ma anche nella retorica, nella politica, nei movimenti sociali. Potresti dirci qualcosa di più al riguardo?
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violenza di un partner su cui faceva affidamento per ricevere la green card – che negli Stati uniti è una condizione per rimanere nel territorio nazionale – viveva una vulnerabilità intersezionale, che da un lato la portava a condividere alcune vulnerabilità con le donne dell’élite ma dall’altro la esponeva a condizioni come la xenofobia o l’accesso linguistico che sono il prodotto di altre strutture di potere. Così ho iniziato a pensare che l’intersezionalità fosse utile non solo nel quadro giuridico, ma anche per guardare al modo in cui le strutture di potere hanno un impatto diverso su persone diverse. Anche se hanno in comune una stessa vulnerabilità come nel caso della violenza contro le donne.
pito dei migranti e delle popolazioni di colore. Che cosa intendi per fallimento intersezionale e qual è il ruolo del risentimento bianco in tale fallimento?
Be’, questa è un’ottima domanda. Direi che il fallimento intersezionale è la conseguenza di una visione politica che vuole essere trasformativa ma non riesce a interrogare pienamente i fondamenti della propria azione e diviene vulnerabile a contraddizioni politiche che rubano al movimento la sua stessa capacità di fare ciò che dichiara di voler fare. In questo senso, abbiamo parlato di fallimento intersezionale all’interno dei movimenti antirazzisti fondati sul patriarcato o all’interno del femminismo fondato sulla supremazia razziale. Si potrebbe dire allo stesso modo che i fallimenti intersezionali riguardano una politica di classe che si fonda su confini nazionali, su nozioni xenofobe di cosa sia la comunità o su stereotipi patriarcali rispetto a come dovrebbe essere la famiglia. Come si presenta un movimento di classe che non include i lavoratori migranti? Cosa succede quando la tua coscienza di classe si fonda su stereotipi nazionalisti e xenofobi? Significa che si vedono nemici e minacce dove vi sono opportunità e che ci sono cose che non si vedono, per esempio che ciò che realmente minaccia i lavoratori non sono altri lavoratori ma una massiccia iniquità nella distribuzione della ricchezza e del potere. Una coscienza di classe che non guarda in alto ma in basso è una ricetta per il fallimento degli interessi della classe lavoratrice in tutto il mondo. È un problema enorme negli Stati uniti e infatti uno degli argomenti usati per giustificare lo spostamento all’estrema destra è che la classe lavoratrice sta rispondendo al fallimento della politica tradizionale e cercando un riconoscimento politico capace di evitare il continuo arretramento sociale ed economico. Ma se questo spiegasse davvero la vittoria di Trump, le donne nere sarebbero le sue principali sostenitrici perché socialmente ed economicamente hanno sempre subito le perdite più significative! Se questa fosse davvero l’analisi, le persone che sostengono Trump sarebbero completamente diverse. E ciò basta per dire che questa articolazione della classe lavoratrice è di per sé un fallimento intersezionale.
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Quando Trump è stato eletto, hai scritto che la sua vittoria era il sintomo di un fallimento intersezionale. In quei giorni, i media mainstream sostenevano che l’elezione di Trump fosse una conseguenza delle perdite subite dalla classe lavoratrice. La classe lavoratrice era stata lasciata indietro e questa era la causa scatenante del risultato elettorale. Il risentimento di classe da solo, tuttavia, non spiega cosa è successo. In White Rage (Bloomsbury, 2016), Carol Anderson guarda ai modi in cui ogni passo avanti dei movimenti afroamericani nella storia degli Stati uniti è stato osteggiato dal risentimento bianco. In questo senso, non si tratta semplicemente delle perdite della classe lavoratrice. È il modo in cui queste perdite hanno risvegliato la percezione di un diritto acquisito bianco in base al quale la giustizia di classe poteva essere perseguita solo a sca-
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Ciò che mi affascina è il modo in cui l’accusa di vittimismo che muovono all’intersezionalità non gli impedisca di usare il proprio vittimismo in modo legittimo. Di fatto quella della destra non è davvero una critica al vittimismo, è una critica contro chi lo rivendica, e quindi fondamentalmente è una vera e propria presa del potere. Il mio collega Luke Harris dice che ciò fa parte di un’azione più ampia contro i diritti civili, che include i programmi di discriminazione positiva [affirmative action] e le politiche di eguaglianza perché per loro tutto si riduce L’ELEZIONE DI TRUMP a un problema di “diminuita sovra-rappresentazione” [diminished È DOVUTA AL FALLIMENTO over-representation]. Fondamentalmente gli uomini bianchi sono INTERSEZIONALE, A UN sovra-rappresentati in tutta la società. La sovra-rappresentazione è ANTIRAZZISMO FONDATO spesso il prodotto di un potere illegittimo e l’intersezionalità offre SUL PATRIARCATO strumenti retorici, analitici e teorici per interrogare quella distriO A LOTTE DI CLASSE CON buzione asimmetrica del potere. Il contraccolpo è che l’intersezioPRESUPPOSTI XENOFOBI nalità viene percepita come ingiusta nei loro confronti. Quindi per loro è ingiusta anche una lieve e modesta diminuzione della loro sovra-rappresentazione – non parliamo di togliere loro il potere o di camminargli sulla testa, diciamo solo che la tremenda sovra-rappresentazione che hanno nei luoghi di potere non coincide con la democrazia, non è equa. In questo caso, il potere stesso di rivendicare lo status di vittima in modo così facile è un’illustrazione plastica di che cosa significa essere nel gruppo dominante, del potere di essere maschio e di essere bianco. Kate Manne, l’autrice di Down Girl: The Logic of Misogyny (Oxford University Press, 2017), di cui sono una grande fan, ha una parola per tutto questo ed è himpathy – l’empatia sproporzionata per gli autori maschili di molestie sessuali. Ne ha parlato all’udienza di Kavanaugh [il giudice nominato da Trump alla corte suprema che ha avuto un’accusa per stupro], e anche se molti hanno visto Christine Blasey Ford come una legittima testimone di qualcosa che a molte persone sembra essere avvenuto, e nonostante Kavanaugh abbia mostrato una fondamentale mancanza di qualificazione per essere un giudice e di non avere il temperamento che avrebbe dovuto avere, c’è stata una reazione di himpathy nei confronti di un uomo bianco dell’élite che stava perdendo ciò che aveva diritto di avere. L’empatia nei confronti dell’élite maschile e bianca, a mio avviso, sta giocando un ruolo importante anche nel modo in cui queste argomentazioni semplicistiche contro l’intersezionalità vengono assunte come verità evangeliche. Gli uomini bianchi dell’élite fanno sempre ragionamenti intersezionali che non sono visti come tali, perché lo status quo inizia con loro – con la loro biografia e la loro identità sociale. La neutralità inizia sempre dagli uomini bianchi. Così, quan-
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Pensi che questo sia il motivo per cui stanno cercando di ridefinire l’intersezionalità in termini di vittimismo? Voglio dire, sembra che l’estrema destra stia offrendo una definizione di intersezionalità purificata dalle strutture di oppressione che producono vulnerabilità – l’etero-patriarcato, il razzismo o la storia coloniale, per esempio. Poiché non vedono alcuna struttura di oppressione, tali analisi riducono la nozione di intersezionalità a una politica identitaria – c’è persino un calcolatore on line che ha lo scopo di calcolare il tuo punteggio intersezionale per premiare i più oppressi. Immagino che sia questo che intendi quando parli di definizioni di intersezionalità non-intersezionali, come quella di Ben Shapiro. In Italia, un paese che non ha mai fatto i conti con la sua storia patriarcale, coloniale o fascista, mi sembra che l’intersezionalità sia spesso percepita come un termine radical-chic, fastidioso, per molte persone, sino a configurarsi talvolta come una specie di vero e proprio tradimento dei “veri” valori di classe, come se la classe lavoratrice vera richiedesse la fedeltà a un immaginario identitario virile e bianco.
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do affermano di aver perso qualcosa perché il loro diritto ad averla è il fondamento dello status quo, la gente la vede come una perdita illegittima. Quando invece altre persone affermano di aver perso qualcosa, la domanda diventa: «Ma eri veramente sicura di meritarlo»? Le persone di colore, le donne e i migranti non hanno lo stesso capitale retorico e sociale degli uomini bianchi. Quando gli uomini bianchi dicono che qualcosa li danneggia, diviene subito un problema sociale. Quando invece persone di colore sostengono di essere state danneggiate da secoli di colonialismo, schiavitù e patriarcato nessuno ci crede: questo è il potere! La cosa che mi spaventa è che tanto è facile attivare l’empatia nei confronti di chi esercita potere, quanto è facile attivare il pregiudizio contro chi non ne ha. La critica all’intersezionalità di Ben Shapiro attiva il pregiudizio istantaneamente, lo attiva banalmente dicendo «Ehi, questa retorica è contro di noi» e il pregiudizio si risveglia istantaneamente. Io lo chiamo “ebollizione lenta” perché è spuntato all’improvviso ma è il risultato di una lunga evoluzione di cui fa parte tra le altre cose tutta la retorica contro il “politicamente corretto”. L’intera lotta contro il “politicamente corretto” è di fatto una lotta contro l’anti-razzismo, il femminismo e contro il discorso anti-coloniale. Quando sento persone di sinistra fare propria questa retorica mi chiedo: ti rendi conto che quello che stai facendo in realtà è dare legittimità al ripudio di cose che ci hanno fatto male? Se ora la società converge sul fatto ABBIAMO BISOGNO che la correttezza politica è una cosa negativa, quello che sostanzialDI PIÙ FORZA COLLETTIVA, mente hai perso è la capacità di ripudiare socialmente la schiavitù e CIÒ ACCADE SE RIUSCIAMO il razzismo. Mostro spesso in classe un video sul movimento per i diA TESSERE TRA LORO ritti civili alla fine della segregazione, quando gli attivisti stavano cerCON PIÙ EFFICACIA cando di agevolare il processo di de-segregazione lasciando entrare i LE NOSTRE DIVERSE neri come clienti nei ristoranti e per questo intervistano le camerieNARRAZIONI re. D’un tratto vedi queste belle donne bianche che diventano feroci: «Viola i miei diritti civili, viola la mia libertà di dover servire quelle persone». Quindi la capacità di trasformare la giustizia sociale – di genere, razziale, o economica – in un’offesa contro altre persone è precisamente la posta in palio di questa lotta al “politicamente corretto” – non poterti insultare, non poterti escludere e riempire di botte viola i miei diritti civili.
La somiglianza che più mi colpisce è la rimozione. In città come Atlanta si vedono chiaramente le conseguenze di questa rimozione, in un paese che è in gran parte basato sul furto – furto di lavoro, di terra, di sovranità, di vita, e queste sono cose che ovviamente proiettano le loro conseguenze di generazione in generazione. Noi comprendiamo bene le conseguenze di certi avvenimenti storici per le generazioni successive nelle cose che vogliamo celebrare. L’eccezionalità americana, per esempio, è l’eredità dei padri fonda-
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Vedi differenze tra gli Stati uniti e l’Europa, a questo proposito?
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tori che hanno creato questo grande paese, si dice, e noi celebriamo questa roba. I termini e le condizioni che hanno reso gli Stati uniti ciò che sono, tuttavia, non sono visti come rilevanti, oggi. Il furto di terra, di lavoro e di vita non è il punto di partenza per riarticolare o ridistribuire le opportunità nella società americana. È interessante venire in Europa e vedere che anche qui il passato coloniale europeo, il passato antidemocratico e fascista di alcuni paesi europei, sono interamente rimossi. In entrambi i continenti l’incapacità di portare la storia consapevolmente avanti è il principale problema del nostro tempo. C’è un vuoto, una contraddizione ovunque tra il fatto che le condizioni materiali sono un prodotto del colonialismo e della schiavitù ma la coscienza sociale non è in grado di integrare questa realtà. Credo che questo sia il movimento di giustizia sociale fondamentale oggi, che deve colmare il divario tra l’origine storica delle disuguaglianze e la mancanza di mezzi retorici prontamente disponibili per affrontarle.
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Credo che le conseguenze del recente spostamento a destra di tutto il pianeta siano profondamente inquietanti per tutti coloro che temono che la direzione in cui stiamo andando dovrà peggiorare ancora prima di migliorare. Voglio pensare che questo incoraggi quello che io chiamerei il “partito dell’umanità” ad auto-interrogarsi realmente su ciò che abbiamo perso e su ciò che non abbiamo fatto in modo efficace per lasciare che questi insegnamenti diventimo a un bivio: non saremo in grado di convincere nessuno lezioni per il futuro. Ma sono anche no se non riusciamo a convincere noi stessi che la causa profondamente consapevole della posdi questa crisi non siamo noi. Se abbandoniamo i piccosibilità opposta, cioè che quel poco di li passi che abbiamo fatto per rendere la nostra società trazione che il femminismo, l’antirazzipiù equa e capace di affrontare alcune delle eredità diffismo e tutti i discorsi di liberazione hancili che hanno rubato le opportunità e la nostra vita, alno in questo momento potrebbe essere lora non vedo come potremmo trovare una via d’uscita sabotata dalla tendenza a indicare proda tutto questo. Siamo in un momento critico ed è fonprio i movimenti di liberazione come damentale all’interno dei movimenti progressisti trovare cause dell’attuale fase invece di guarmodi per creare un’interfaccia molto più robusta ed effidare a tutti i modi in cui neoliberismo cace. Le femministe non devono rinunciare al femminie fascismo sono stati resi possibili. Siasmo, gli antirazzisti non devono rinunciare all’antirazzismo e le persone guidate dalla coscienza di classe non devono rinunciarci, ma dobbiamo interrogarci sul modo in cui le fondamenta dei nostri movimenti spesso costituiscono la negazione della rilevanza di tutti gli altri. Se riusciamo a farlo, possiamo avere la capacità di articolare effettivamente una visione della fase attuale che ci aiuti ad arrivare a un futuro degno delle vite che vogliamo vivere. Se non lo facciamo non vedo davvero cosa possa interrompere la tendenza che vediamo in tutto il mondo. Rafforzare la distribuzione tradizionale del potere è facile, è come far rotolare una palla in discesa, ma non va nella direzione di cui abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di più mobilitazione collettiva, di più forza collettiva e ciò accade solo se siamo in grado di tessere più efficacemente tra loro le nostre varie narrazioni sino a farle diventare parte della nostra coscienza comune.
SCIOPERI!
Il futuro, in questa situazione, come lo vedi?
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CROCEVIA
Questo è il mio sciopero o sciopero femminista intersezionale mi permette di esprimere la consapevolezza di ciò che sono: sciopero in quanto donna, perché la violenza di genere colpisce con sempre più ferocia ed è il governo stesso a fare da mandante; sciopero contro la strumentalizzazione dei nostri corpi a fini razzisti; sciopero in quanto lavoratrice sottopagata e sotto ricatto; ma sciopero anche in quanto figlia di migranti. Wissal Houbabi Mio padre venne in Italia, partito dal Marocco negli anni Settanta. Quante generazioni di italiani nativi sono nate dal suo arrivo? Oggi si guarda intorno e mi dice: «Se avessi provato a migrare oggi non ce l’avrei mai fatta». Migrare più che un diritto universale è un diritto occidentale, altrimenti è una Loro botta di culo. Sulla mia pelle ho vissuto le varie fasi di quei confini materiali e immateriali che genera l’acquisizione dei documenti, e quindi, dei diritti. La legge sancisce un Noi e un Loro interno con la Ius Sanguinis: si è cittadini italiani solo se Wissal Houbabi è nata si è eredi dell’etnicità italiana e non dall’appartenenza al territorio. nel 1994 in Marocco Quando acquisisci la cittadinanza sei tra il Noi, ma solo sulla carta. Lo Ius Sanguinis è un dispositivo di controllo di cui il sangue è il e cresciuta in Italia. simbolo, il simbolo della razza, da quella non puoi scappare. Studia lingue e Io ero una di Loro nei luoghi di lavoro in cui dicevano «Diamo letterature straniere precedenza agli italiani», ai controlli doganali ai limiti di circolaall’Università di zione, nelle ultime parole a cui non sai rispondere: «Se non ti sta Trieste. Femminista bene torna a casa tua». intersezionale, fa parte
di Non Una di Meno. È appassionata di cultura hip hop e cultural studies. Si esprime con la scrittura, la poesia, la calligrafia araba, il disegno e la pittura.
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«Parlo come donna, lavoratrice e figlia di migranti». L’8 marzo visto da un’attivista di Non Una di Meno. Una giornata che serve a costruire un «Noi» inclusivo, adatto alle sfide e alle minacce dei nostri tempi
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Ero una di Loro negli uffici della questura, nelle impronte digitali depositate per i rinnovi, ancora rinnovi, per integrarmi, integrarmi in cosa? Ero una di Loro dopo tanti anni, perché da bambina ero solo bambina e tra bambini si gioca. Sono venuta in Italia con mia madre con il ricongiungimento familiare che considera la famiglia monoreddito come un nucleo unico e indissolubile. Le leggi che disciplinano la regolarizzazione dei e delle migranti non prendono in considerazione la violenza di genere, non sono strumenti che permettono di sottrarsi alla subordinazione imposta da mariti e/o padri se si parla, appunto, di dispositivi di controllo a nuclei familiari. I documenti vengono così riconosciuti e successivamente rinnovati, scadono regolarmente e seguono scadenze ben precise: contrattuali, scolastiche e così via, un circolo vizioso che costa caro e che spiega come la stabilità in Italia sia dipendente da un’occupazione. Il ricatto economico nasce da qui: per un nucleo familiare il rischio della disoccupazione può portare alla perdita stessa della permanenza in questo paese o comunque si è destinati alla vita da immigrate e immigrati irregolari, con tutto ciò che ne consegue.
Chi crea il Noi e il Loro
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La differenza tra Noi e Loro la sancisce la legge, non la percezione sociale che pure inevitabilmente ne risente. Sono i documenti il principale fattore che differenzia le due parti. Prima c’è stata la legge Bossi-Fini, che aveva come obiettivo quello di cancellare l’immigrazione clandestina: una norma che ha subordinato l’ingresso e la permanenza in Italia al contratto di lavoro; ha introdotto l’espulsione immediata con accompagnamento alla frontiera; ha dimezzato la durata dei permessi di soggiorno (da quattro a due anni) e ha aumentato (da cinque a sei) gli anni per richiedere la carta di soggiorno. La legge Minniti-Orlando ha introdotto forme istituzionali di discriminazione razziale e, attraverso lo strumento del Daspo urbano, dichiarato guerra ai poveri anziché alla povertà. Un sindaco, in collaborazione con il prefetto, può multare e poi stabilire un divieto di accesso ad alcune aree della città per chi «ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione» di infrastrutture di trasporto. Per i migranti che fanno ricorso contro un diniego alla protezione umanitaria, inoltre, c’è un grado di giudizio in meno, giustificato dall’esigenza di accelerare le procedure per l’esame dei ricorsi sulle domande d’asilo e quindi bastano colloqui videoregistrati, senza contraddittorio e senza che il giudice possa rivolgere domande al richiedente asilo che ha presentato il ricorso. Vengono inoltre istituiti i Centri di permanenza per i rimpatri – Cpr, in precedenza Cie e prima ancora Cpt, istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano – ossia strutture per immigrati in attesa di rimpatrio ma che di fatto agiscono come regimi di privazione della libertà personale. Infine, la legge sulla sicurezza dell’attuale ministro dell’interno Matteo Salvini. Secondo cui il mondo diventa più sicuro eliminando la protezione umanitaria, allungando da tre a sei mesi il periodo di trattenimento per chi è privo di permesso di soggiorno, rendendo più difficile rinnovare il permesso stesso e favorendo di conseguenza lo sfruttamento delle migranti e dei migranti, e quindi di tutti i lavoratori, per via del ricatto attuato con la legge
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Bossi-Fini. Il decreto sicurezza, inoltre, elimina il sistema Sprar (Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo) il cui approccio è l’accoglienza diffusa e integrata nel territorio. Sono questi i principali dispositivi di controllo e contrasto all’immigrazione e all’inclusione che non solo mettono a rischio la vita di migliaia di persone, aumentando esponenzialmente la ricattabilità economica, ma aumentano inevitabilmente discriminazioni e razzismo sociale: «Ci rubano il lavoro», «Le case ater non agli stranieri», «Prima gli italiani», sono affermazioni sempre più comuni. La convinzione che purtroppo maturano sempre più persone è che, se non ci fossero Loro, stareste tutti meglio. Ma in realtà gli stranieri sono discriminati se sono poverissimi e la guerra gliela stanno facendo i poveri alimentati dalla propaganda del governo, esasperati dalle proprie condizioni economiche e di precarietà.
Le questioni di classe, di genere e di razza si intrecciano. I e le migranti economici non sono più contemplati, si parla solo di «profughi veri» che devono chiedere «permesso, per favore e grazie»: queste parole del ministro dell’interno Matteo Salvini alimentano una gerarchia sempre più rigida, arbitraria e violenta. In questo clima di odio e disuguaglianze dobbiamo concentrarci su ciò che realmente ci divide: i diritti. Sono le leggi sempre più discriminatorie che condizionano le nostre vite. Gli avvenimenti di cronaca sempre più violenti che lasciano sempre più indifferenti hanno una radice comune: gli strumenti del potere. Per questo occorre imbracciare le uniche armi che abbiamo a dispoSI PUÒ SCIOPERARE sizione, il mutualismo e lo sciopero, superando l’idea che quest’ultimo DAL RAZZISMO, abbia a che fare solo con le condizioni lavorative. Si può scioperare dal DALLO SFRUTTAMENTO, razzismo, dallo sfruttamento, dall’esclusione e dalle leggi che la regolaDALL’ESCLUSIONE mentano. Un clima così violento fa sì che la lotta sia necessaria come la E DALLE LEGGI nostra sopravvivenza. Un clima così violento non può passare alla stoCHE LA REGOLAMENTANO ria senza nessun tentativo di ribaltare il tavolo. Lo dobbiamo a noi stessi, a chi è costretto nella marginalità e alle morti nel Mediterraneo, che da culla di civiltà si è trasformato nel suo cimitero. Uno sciopero a cui richiamarsi fu fatto nel 2010, nell’esperienza del primo marzo, «Una giornata senza di noi (migranti)», che dalla Francia si è diffuso in Italia, in Grecia e altri paesi europei, dando vita a comitati e assemblee in varie città che si dichiaravano «stranieri non dal punto di vista anagrafico, ma perché estranei al clima di razzismo che avvelena l’Italia del presente. Autoctoni e immigrati, uniti nella stessa battaglia di civiltà». Uno sciopero dal lavoro (per chi ne ha le possibilità) ma non solo, dal consumo, dal silenzio. Uno sciopero che coinvolga in primis chi vive sulla propria pelle l’odio e le discriminazioni, ma anche chi non si riconosce in quel Noi passivamente complice. Uno sciopero che reinventi nuovi strumenti di difesa e di attacco affinché possa essere realmente incisivo. Si può fare, dobbiamo rialzare la testa, dimostrare che viviamo in un paese che non è espressione di questo governo o quello precedente, ma degli e delle studenti, dei braccianti sfruttati, delle badanti sottopagate, degli e delle operaie nella logistica, di chi un lavoro non riesce ancora a trovarlo perché «si da precedenza agli italiani». Un Noi inclusivo e che guardi alla realtà di oggi.
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Uno sciopero intersezionale
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Lo sciopero è delle
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Sapevate che da un 8 marzo nel 1917 partì la Rivoluzione Russa? E che Non Una di Meno è nato in Argentina? Conoscete la lotta delle operaie in Valsusa? E lo sciopero epico nell’Essex nel 1968? Quattro tavole a fumetti ci ricordano che le donne indicano la via a tutti gli oppressi
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el 1987, un agile ma dirompente libretto firmato da Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, poneva una questione sulla quale da alcuni anni dibattevano le femministe al di qua e al di là dell’Oceano. Il tema è il seguente, ancora in grado di arroventare il dibattito pubblico: l’uso del maschile inteso come neutro e inclusivo anche del Assia Petricelli genere femminile. Sabatini e le altre denunciavano con forza le insidie nascoste in una consuetudine che sminuisce e invisibilizza le donne. Chi oggi volesse provare a ricostruire una storia degli scioperi delle donne si troverebbe di fronte a questo ostacolo: nella maggioranza dei casi le cronache fanno riferimento all’iniziativa di «lavoratori» e «operai», rendendo invisibile la presenza femminile. Eppure le donne ci sono sempre state – negli scioperi come in tutti i grandi movimenti, dalla Rivoluzione francese alle primavere arabe – sebbene raramente i loro nomi siano passati alla storia. L’inserto a fumetti di questo numero racconta alcune delle loro storie. A cominciare da quella delle operaie del distretto di Vyborg, a Pietrogrado, raccontate da Rita Petruccioli in L’avresti creduto?. Il 23 febbraio 1917, secondo il calendario giuliano allora in vigore in Russia, l’8 marzo, secondo quello gregoriano, per prime incrociarono le braccia e scesero in strada per protestare contro la guerra e per il pane. Da quello sciopero inaspettato prese avvio la rivoluzione che avrebbe portato alla caduta dello zar. Quell’anno, in quella data, si celebrava la Giornata Internazionale della donna, nata negli Stati uniti nel 1908 e diffusasi in Europa nell’ambito del Congresso delle donne socialiste. La manifestazione univa le rivendicazioni salariali delle lavoratrici a istanze di carattere politico, come il diritto al voto, e non aveva una data fissa. Soltanto nel 1921 la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste fissò l’8 marzo come giornata ufficiale, in onore della storica ribellione delle donne russe. L’8 marzo, dunque, nasce come giornata di lotta, e ricorda uno sciopero e l’inizio di una rivoluzione. Con il passare del tempo la connotazione politica si è andata perdendo, così come la memoria delle origini. Si è affermato il falso storico che farebbe coincidere la “Festa delle donne” con l’anniversario di un evento tragico e luttuoso: il rogo di centinaia di lavoratrici nella fabbrica Cotton di New York. Assia Petricelli L’attuale movimento femminista globale ha rianè insegnante nodato i fili col passato, risignificando lo strumento di lettere nei licei, principe della lotta della classe: lo sciopero. Col lavoro sceneggiatrice sempre più disperso e frammentato sembrava destinae documentarista. to alla soffitta. Invece, l’idea di uno sciopero di produIl suo fumetto zione e riproduzione sociale si concretizza per la prima Cattive ragazze volta per iniziativa delle argentine di Ni una menos il (Sinnos, 2014), 19 ottobre 2016, all’indomani del brutale femminicidio realizzato con il della giovanissima Lucía Pérez. È stato poi replicato disegnatore Sergio l’anno successivo in tutto il mondo, a cento anni esatti Riccardi, ha vinto da quell’8 marzo 1917. Ce lo racconta a fumetti La Tram il Premio Andersen. con il suo Mira como nos ponemos.
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In questi cento anni sono state numerose le mobilitazioni con un protagonismo femminile. Ne abbiamo scelte due. La celebre lotta delle operaie dello stabilimento Ford dell’Essex, nel 1968, portata sul grande schermo da Nigel Cole nel film We want sex e qui illustrata con tratto deciso e giocoso da Sarah Mazzetti in Dagenham 1968. In una realtà composta da 55 mila uomini e 187 donne, le addette alla cucitura dei sedili per auto erano costrette a lavorare in condizioni proibitive oltre che private della qualifica di operaie specializzate che veniva riconosciuta ai colleghi maschi. Per questo bloccarono a oltranza la produzione. L’agitazione assunse un carattere generale con la rivendicazione della parità salariale per tutte le lavoratrici inglesi. La Ford capitolò quando la causa delle operaie di Daghenam si impose all’attenzione del governo laburista. Venne emanato l’Equal Pay Act, che proibiva ogni discriminazione tra uomini e donne in termini di retribuzione e condizioni di impiego. In Italia la parità salariale fu raggiunta nel 1977. Ma la storia delle rivendicazioni delle lavoratrici italiane inizia decenni prima e conta numerose agitazioni che meriterebbero di essere ricordate. Tra queste abbiamo scelto lo sciopero al Cotonificio Valle Susa, raccontato da Sara Colaone in E lée la va in filanda. In un distretto operaio periferico, dispersa in undici stabilimenti distaccati su un territorio fatto di monti e campagne, operava una forza lavoro composta in larga misura da donne scarsamente sindacalizzate. Diedero luogo a una mobilitazione durata cinque mesi che sperimentò forme di protesta innovative e dure, come lo sciopero a scacchiera, l’occupazione dei binari, i picchetti fuori dagli stabilimenti. La lotta fu radicata, come testimoniano le casse di resistenza organizzate non solo dai sindacati, ma anche da parrocchie e vari altri soggetti. Sono quattro momenti storici narrati da quattro autrici diverse, per stile e personalità artistica. Quattro storie e quattro matite accomunate da un elemento. Mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a un profluvio di biografie di donne, di individualità quasi sempre rappresentate come straordinarie, le tavole di queste pagine raccontano la forza del collettivo, la potenza che esprimono le donne quando mettono da parte le divisioni e le rivalità a cui la cultura patriarcale le ha educate fin da bambine, quando si riconoscono l’una nell’altra come vittime di una stessa oppressione e alleate in un processo di liberazione. Dalla Pietrogrado del 1917 fino ai nostri giorni le donne che lottano appaiono come un “soggetto imprevisto”, subiscono un’iniziale sottovalutazione da parte delle organizzazioni politiche e sindacali. Ecco ad esempio cosa scriveva Trotsky nella sua Storia della Rivoluzione Russa: «Il 23 febbraio era la ‘giornata internazionale della donna’. Nei circoli socialdemocratici si pensava di celebrare questa giornata nelle forme abituali: riunioni, discorsi, manifestini. Ancora alla vigilia, nessuno si sarebbe sognato che questa ‘Giornata della donna’ potesse inaugurare la rivoluzione. Non una sola organizzazione aveva preconizzato uno sciopero per quel giorno. Di più, un’organizzazione bolscevica tra le più combattive, il comitato del rione essenzialmente proletario di Vyborg, sconsigliava qualsiasi sciopero». Le donne hanno dimostrato di porsi all’intersezione di varie forme di lotta, includendo nella battaglia per i propri diritti quelle per i diritti di altri oppressi. Con una provocazione, si potrebbe dire che se esiste un genere in grado di includere l’altro, la storia dimostra che questo è il genere femminile. E che, quando lo sciopero è delle donne, allora è lo sciopero per tutti.
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#MeToo
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Il momento La sequenza è eloquente: mostra come alcune serie tv utilizzino temi dei movimenti femministi per disinnescarli. Ma c’è vita al di fuori dello schermo. E le narrazioni non pacificate riescono a far passare il loro messaggio
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cronaca. Ha scritto di serie tv per Carta, Speechless, Urbanfantasy.it e Horror. it ed è autrice del libro Tabloid Inferno (Alegre Quinto Tipo, 2016)
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ono con te per abbattere il patriarcato». Abby, detta la rossa nel circolo maschile dei furbetti della Casa bianca, guarda negli occhi la sua migliore amica, la donna più potente del mondo, colei che ha portato a un nuovo livello essere Mr. Wolf e risolvere problemi, in due parole, Olivia Pope. Olivia ha una missione, difendere la prima presidente degli Selene Pascarella Stati uniti dal complotto testosteronico per abbatterla. Sarà una battaglia suicida; è pronta, se deve, a compierla da sola. Ma Abby aspira a un’altra idea di sorellanza. Il suo motto è insieme «Giù da una scogliera», gladiatrici su tacco dodici, unitevi! Tra tutti i momenti topici della tv legati alla congiuntura Selene Pascarella ha sociopolitica, quello innescato dalla puntata numero quatuna laurea in Scienze tordici dell’ultima serie di Scandal incarna al meglio la defidella comunicazione e nizione di «Momento #Metoo». una specializzazione Si tratta di una svolta nella narrazione verticale di una in narrazione seriale serie, cioè destinata a concludersi nell’arco di una puntata televisiva. Giornalista e o due, che strizza l’occhio al movimento per i diritti delle criminologa, unisce la donne che ha detronizzato Harvey Weinstein e Kevin Spacey, passione per il piccolo guadagnandosi la palma di «Persona dell’anno» sulla coperschermo a quella per la tina del Time nel 2017.
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Una marea impossibile da ignorare, che le major televisive hanno provato ad addomesticare in due fasi: prima, nel momento di massimo fulgore dell’hashtag, capitalizzando il consenso del pubblico femminile, poi, quando il movimento ha superato lo status di fenomeno social stagionale, tranquillizzando l’audience trasversale dei preoccupati dalla deriva del cosiddetto «femminismo giustizialista». Hanno avuto (tra gli altri) il loro momento #MeToo serie animate (I Griffin), commedie graffianti e grottesche quali Shameless, medical drama come The Good Doctor e Grey’s Anatomy, il telefilm spagnolo di culto La Casa De Papel e la serie nostrana L’amica geniale. I primi sei episodi della quarta stagione di Unbreakable Kimmy Schmidt, a detta degli autori, sono una riflessione sull’impatto delle silence breakers (come vengono definite le donne che hanno denunciato molestie) nei luoghi di lavoro. Una dichiarazione d’intenti che suona studiata per alzare le aspettative e quindi gli ascolti dello show. C’è stato persino chi ha voluto rivendicare l’aderenza al «#MeToo prima del #MeToo». Il produttore di Law & Order - Unità Vittime SpeLA SERIE DIETLAND ciali, Dick Wolf, ha sostenuto di aver anticipato il movimento con il INCROCIA LA SFIDA suo poliziesco, incoraggiando le vittime a denunciare. ALLL’OMOLOGAZIONE Sia l’attrice protagonista, Krysten Ritter, che gli autori del serial DEI CORPI FEMMINILI Marvel Jessica Jones hanno sottolineato come la seconda stagione CON LE AZIONI ARMATE dell’adattamento tv del fumetto, girata quando non era ancora esploDI UN GRUPPO DI DONNE so il caso Weinstein, possa essere considerata un dialogo con le donANTI-STUPRATORI ne che hanno dato vita al #MeToo. Jessica, abusata da un villain con il potere di piegare la volontà altrui, riprende a suon di pugni il controllo della propria vita. Non v’è dubbio che la serie a lei intitolata offra spunti di riflessione sul tema dell’interiorizzazione della violenza patriarcale e del suo superamento. Eppure la scelta del committente Netflix di mandarla in onda a partire dall’otto marzo e di affidare tutti gli episodi della seconda serie a regie femminili ha offuscato la forza dirompente di questa eroina con un’aura di pink washing. Lasciando aperto un interrogativo: piuttosto che aprire un dibattito pubblico a partire dalle dinamiche di potere e di abuso all’interno dei propri set, le case di produzione si sono concentrate su operazioni di facciata per mettersi al riparo dal boicottaggio? Il caso Netflix è esemplare in tale senso. Preoccupata di smaltire «l’effetto Spacey», accusato di molestie e rimosso dal cast di House Of Cards, ha imposto un rigido decalogo di regole di condotta sul set. «Vogliamo che ogni produzione Netflix costituisca un ambiente lavorativo sicuro e rispettoso» ha dichiarato un portavoce. Quali sono queste regole?
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irobi. , sono Na Professore . Quindi fuori gioco Berlino è o io n da ora so a partire a il ci in o: com al comand to! matriarca arta, di Alex Pina) iC D sa a C (La
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Vietato guardarsi negli occhi per più di cinque secondi, abbracciare senza permesso o chiedere il numero di telefono se non dopo esplicita offerta. Una soluzione che nella sua banalizzazione delle forze in campo riduce la questione a pura formalità o ennesima «follia del politicamente corretto» offrendo tanto a chi la impone senza convinzione che a chi la disattende una comoda via d’uscita. La questione della violenza di genere è grave ma non seria, perciò si può affrontare a colpi di grottesche stereotipie. Nel mondo della televisione vige una regola: Show, don’t tell. Ovvero se devi raccontare una dinamica non descriverla, mettila in campo, fai in modo che viva sullo schermo. E invece le narrazioni di riparazione in rosa, la risposta predominante all’interrogativo sotteso dal mondo reale ai professionisti del racconto seriale, sono costruite intorno a un’insuperabile dicotomia, o didascalica esaltazione del femminino o messa in ridicolo delle istanze femministe. Di fronte a movimenti che hanno superato il #MeToo con il #WeTogether, portando avanti un piano di lotta antirazzista, internazionale e basato sul rifiuto dello sfruttamento capitalistico, il settore di punta dell’industria culturale non è andato aldilà dell’agiografia temporanea, ben presto scaduta nell’aperta ostilità. La stagione conclusiva di House of Cards, portabandiera della buona coscienza di Netflix nei confronti delle donne, sostituisce il personaggio di Kevin Spacey, il gigionesco, perfido e vincente politico Frank Underwood, partito deputato e finito Presidente Usa con una scia di omicidi e intrighi, con la ll? bé ’ so vist’ come moglie Claire, interpretata da Robin Wright. - Lila, ma hai te! So chin’e salu r Ma noi solo pe - Belli só bell… e ci ’ che arrivan’ on chiss’ ce sta bu illeccient? tirano intr’a m tte, n’ Ada e noi zi ne en pr Chell’ se a? o e vas’ e bast tanto le dann ? E se si te a n’ lia gg Non ho pau E se domani pi ant? ra di nessun a una tutte qu o nel mondo d piglian’ a una ello spettaco lo. H o rifiutato un stanzo) rapporto co di Saverio Co e, al ni n H ge a a rv ic ey Weinstei (L’am n in non men di tre occasi o oni... Su cin que Tina Fey)
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E Claire in pochi episodi diventa la materializzazione degli incubi di certi editorialisti nostrani preoccupati dalla castrazione del maschio e dall’imminente nascita di un matriarcato fondato sull’isteria. L’ultima sequenza consegna una serie dove ogni pessimo dialogo e trito colpo di scena grida: «Sei stata tu a rovinarmi, col tuo #Metoo!» e una leader del mondo libero con pancione che si bulla di aver concepito l’anticristo. Un clima apocalittico anticipato in tempi non sospetti da Dietland, adattamento dall’omonimo romanzo da Marti Noxon per il LA SERIE DIETLAND canale Amc. Qui la protagonista, Prugna, alle prese con lo stigma INCROCIA LA SFIDA che schiaccia ogni corpo femminile non omologato, incrocia la sua ALLL’OMOLOGAZIONE battaglia personale al sovrappeso con la guerra di un gruppo armato DEI CORPI FEMMINILI femminista che colpisce i violentatori seriali di donne. Si parte dalla CON LE AZIONI ARMATE messa in discussione in chiave ironica della cultura dello stupro, imDI UN GRUPPO DI DONNE posta anche a colpi di standard estetici, ma si scivola ben presto nella ANTI-STUPRATORI parodia al servizio del più retrivo dei luoghi comuni: il femminismo che si oppone al sistema sfocia nell’integralismo, mette a rischio la società come la conosciamo (un auspicio, più che una minaccia, ça va sans dire) per rivelarsi infine inadeguato all’obiettivo, velleitario e fallimentare. Tra il 2018 e il 2019 sono state messe in cantiere due serie con l’obiettivo di raccontare l’ascesa e gli “eccessi” del #MeToo. Ryan Murphy sta realizzando per Netflix l’antologica Consent, dove in ogni episodio si affronta un caso diverso di molestie, compreso quello che ha coinvolto Spacey.
e ferocite to troppo oltr con le folle in eToo si è spin li e finiscano M ta e # m il e co rs o in Fo e iniz le buone caus - Io penso che r? te i per le folle at M es kLiv no preoccupat so do r on - Come #Blac m il o i di tutt ackLivesMatte ente gli uomin ne che il #Bl m io sa az - Non ti seguo vi up ov cc pr eo im pr essa uniscono e non si ha la st - Le donne si le streghe, ma al e cc ca le o inferocite anchi. tazione dei bi rovini la repu ght, di Robert
le King)
King e Michel
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Gli Amazon Studios hanno accolto un progetto rifiutato da Apple in quanto «controverso» in cui Whitney Cummings, di 2 Broke-Girls, e Lee Daniels, di Empire, raccontano le dinamiche innescate all’interno dei college dalla discussione pubblica sulle violenze di genere. Il momento #MeToo sta diventando un paradigma in uso nel lungo periodo per disinnescare le criticità sollevate attraverso narrazioni antagoniste e non convenzionali dai movimenti femministi come Non Una Di Meno. Per fortuna la partita per il controllo dell’immaginario televisivo non si svolge in un unico campo. Dal basso, a opera delle donne che si vogliono soggetto e non oggetto dello storytelling, molto si agita per bucare lo schermo. Le ancelle di Handmaid’s Tale con le loro vesti rosse e il capo tutt’altro che chino sotto le alette bianche sono state protagoniste di manifestazioni, presidi e flash mob in tutto il mondo, Italia compresa. A dimostrazione che le rappresentazioni complesse e non pacificate prodotte per la tv sanno portare il loro messaggio al di fuori di essa, dialogare (e scontrarsi anche) con un’audience attiva e combattiva, alla ricerca non di chiavi di lettura usa e getta ma di immagini e parole capaci di smontare le narrazioni del potere, patriarcato incluso. Le sex workers di The Deuce (Hbo), le lottatrici di wrestling di Glow (Netflix), le intelligenze artificiali in rivolta di Westworld (Hbo) sono altri esempi riusciti di fiction in grado di rappresentare e rispecchiare un’agitazione femminile che si dichiara permanente. Un’attitudine ribelle che le major tv possono edulcorare, demonizzare e ridicolizzare con un unico effetto, il pubblico inizierà a cercare le sue narrazioni altrove.
solennemente Promettiamo voce la di restituire , tte al silenzio do ri e alle donn re ra impa di ascoltare e lle loro storie de na nu og da imes)
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da Rh omy, di Shon (Grey’s Anat
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Feminist La collana Feminist, per leggere la realtà e le questioni di genere con un approccio femminista intersezionale
“Razzismo e sessimo frequentemente convergono e la condizione delle donne lavoratrici bianche è spesso legata allo status oppressivo delle donne di colore” Angela Davis
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IL RACCONTO
C’è del disagio «Lo sciopero deve fa’ male sennò che sciopero è?», dice un lavoratore mentre i suoi colleghi si vedono, si toccano, si riconoscono. Capisci che funziona quando il problema di uno diventa il problema di tutti
di Fahrenheit Radio3 Rai, di Il Mugello è una trapunta di terra (Laterza, 2014) e di Maldifiume. Acqua, passi e gente d’Arno (Ediciclo, 2016).
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I
l ritrovo è al bar, il Via vai a Calenzano. Da lì deve partire il corteo per l’Osmannoro, l’area industriale appiccicata a Firenze, la zona adiacente l’autostrada strategica per la logistica, da dove partono i driver ogni giorno. Il loro quotidiano via vai è fatto di indirizzi sui tablet, di carico e scarico pacchi, di spunte, di bestemmie al traffico, di parSimona Baldanzi Simona Baldanzi è cheggi in terza fila. nata a Firenze e vive Stamani sono lì al bar. Ognuno con la nel Mugello. È autrice divisa e il marchio. Il marchio dei corrieri. Ce l’hanno sul furtra l’altro di Figlia di gone, sul giubbetto, sul cappellino. Li distingui dai colori. Sono una vestaglia blu rossi, arancioni, gialli e rossi, rossi e neri, bianchi e neri, marro(prima edizione: Fazi, ni. Li vorrebbero competitivi e concorrenti. Qua si mischiano: 2006), che ha vinto il il bar si riempie di colori che si muovono a chiazze. Qualcuno Premio Miglior Esordio li guarda tintinnando il cucchiaino nella tazzina del caffè. No,
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non sono squadre. In realtà il loro lavoro è molto individuale. Quando è che si ritrovano così tutti insieme? Sembrano stupirsi anche loro. Si vedono, si riconoscono, si salutano facendo baccano. Le strette degli abbracci o le pacche sulla schiena fanno un rumore ovattato ma deciso sulle giacche tecniche. È il primo dei due giorni di sciopero proclamati per il rinnovo del contratto scaduto da qualche anno. I due giorni indicati sui volantini, affissi nelle bacheche in capannoni e magazzini, lasciati sul tergicristalli dei furgoni. I due giorni scelti prima del ponte dei morti, che si allunga il disagio, che così si fa, come ha detto Pasquale, lo sciopero deve fa’ male sennò che sciopero è. È il primo dei due giorni di sciopero dove ti vedi, ti tocchi, ti riconosci e il problema di uno diventa il problema di tutti, comincia con quel rumore lì, preciso. Colpi di affetto su giacche che vestono persone che fanno lo stesso lavoro e vivono la stessa condizione. Il piazzale antistante al bar si riempie di bandiere e striscioni. Gruppi di corrieri provano a tirarne su uno per misurare la tenuta delle aste. Sono lì nei pressi della polizia. Per un attimo le divise si sovrappongono. Colori che si cancellano. Si illumina tutto. Il sole si sta alzando e il cielo si fa sempre più azzurro schietto. Tante e tanti si aggirano a sistemare stoffe, a togliere le pieghe, a srotolare. Sbocciano caratteri e frasi in un mormorio che si fa folla. Aumentate i vostri profitti cancellando i nostri diritti. Se il pacco vuoi consegnato il nostro contratto va rinnovato. Contro il logorio del city courier contratto nazionale subito. Vogliamo il #contratto subito.
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Arriva anche il furgone che deve aprire il corteo. Bandiere mixer e grosse casse formano l’altare della contestazione. Ci sale su Leandro, sindacalista con quarant’anni di esperienza. Di scioperi ne ha fatti un bel po’. Non è di quei sindacalisti stanchi che ti dicono «Sono 30 anni che vengo in piazza, ora andateci voi». Come se la voglia di cambiare il mondo avesse una scadenza, tipo lo yogurt. O che svanisse come una bibita gassata lasciata aperta. Ad alcuni succede. A Leandro no, non ancora. Prende il microfono, ci batte sopra l’indice per vedere se funziona. Se suo padre avesse creduto nella professione del dj, forse avrebbe vagato per le disco dance di mezza Europa. Invece quella era considerata solo una bravata, un passatempo giovanile. C’era da portare a casa lo stipendio, altro che occhiaie e a letto fino mezzogiorno. Ha trovato da lavorare in un supermercato dove ha fatto il delegato per vent’anni e ora è funzionario nella categoria dei trasporti e della logistica. Il fazzoletto rosso se lo è legato al collo come un cowboy. Il gilet rosso lo ha sopra il giubbotto. Gli è toccato mettersi gli occhiali che da vicino comincia a vederci male. Lunghi anni di speaker alla radio, di teatro e cabaret lo aiutano nello scandire bene la voce. Risuona nel piazzale. «Sistemiamoci per benino che fra poco si parte». Tutti sembrano muoversi a caso e invece si posizionano per formare un corpo unico, lungo e compatto. Ci sono tanti giovani e tanti stranieri. Per molti è il primo sciopero. Lo vedi da una specie di indugio rispettoso negli sguardi. Aspettano segnali. «Su le mani!» Scherza al microfono Leandro. «Le lavoratrici e i lavoratori del trasporto merci sono qui e sono i più belli».
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Parte subito Killing in the name dei Rage Against the Machine. Dalle strade intorno continuano ad arrivare lavoratrici e lavoratori e le auto rallentano tutte. Leandro ha fatto decine di assemblee e ha sentito crescere un entusiasmo nuovo. A tutti in camera del lavoro ripeteva convinto «non sarà la solita manifestazione, cresce col passaparola. Questo sciopero monta, lo sento. Questo andrà bene». Alcune ragazze delle cooperative si sbracciano verso il furgone e urlano per farsi sentire. Chiedono di cosa c’è bisogno. Leandro indica un paio di ragazze che sul marciapiede stanno montando delle grosse scatole di cartone. «Chiedete a quella coi capelli corti, è Daniela».
«Sapete prima che l’acqua cominci a bollire quel palpito che ha? È un sentimento di questa specie» (La battaglia, John Steinbeck)
Quando c’è da preparare uno sciopero al secondo piano in Camera del lavoro si sente sempre una risata che sembra un’eco dei gong. Che avrà da ridere? Daniela si diverte a preparare cartelli, striscioni, a spillare e incollare. Lo fa volentieri anche per lo sciopero di altri, di altre categorie. Scherza con tutti. «È l’unica catena di montaggio che può metterti bene», dice. La sera prima del ritrovo al Via vai aveva fatto tardi a preparare le lettere e a incollarle sulle scatole. Su ogni scatola una grande lettera. La stampante aveva fatto i capricci e così, messi a letto i tre figlioli, si era chinata sul tavolo a riempire col pennarello nero le lettere sbiadite. Sua mamma a cena le aveva mugugnato, «tanto prima o poi te le danno. Che si è mai visto un’impiegata di banca che manifesta per un corrie-
I pacchi sono venuti perfetti, composti e scocciati sul momento e non c’è rimasto nessuno spazio bianco nelle lettere. Ogni scatolone è in fila sul marciapiede a comporre il blocco: CONTRATTO NO UN PACCO Leandro e Daniela danno indicazioni per tenere ciascuno uno scatolone. Quei pacchi si posizionano in apertura al corteo proprio dietro al furgone. Fotografi e telecamere cercano di inquadrare quella fila e la folla sempre più piena che si disegna dietro.
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re?». Allora sì, che con quel pennarello ci aveva dato giù più forte. Le piacciono quei momenti lì, da vigilia. C’è l’attesa, ci sono i pensieri. Un suo amico le ha detto, «non è vero niente che lo facciamo per i nostri figli, per i diritti e tutte quelle stronzate. Lo facciamo per noi, perché ci piace». Forse tutti i torti non li ha. La volta che si è resa conto che le piaceva era a Milano, a una manifestazione per il contratto del commercio. Anche lì sua mamma, prima di partire in pullman la mattina all’alba, le aveva rivolto la solita domanda: «O che si è mai visto un’impiegata di banca che manifesta per una commessa?». Faceva freddo, non conosceva quasi nessuno eppure riconosceva odori, sguardi, gesti simili. Ebbe forte e nitida la sensazione di non voler essere da nessun’altra parte, anche se era festa, anche se aveva lasciato i piccini a letto e il vento le tagliava gli zigomi.
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Dopo poco che il corteo è partito, un sacco di ragazzi in divisa fanno a gara a chiedere di tenere un pacco-lettera. Fanno a turno. Ci sono e vogliono stare in prima fila. La strada è conquistata dal lungo corteo e il traffico è bloccato su un senso di marcia. «Siete bellissimi visti da qua». Urla al microfono Leandro. I Clash dalle casse rimbombano. Una ragazza in divisa arriva correndo con le sue scarpe antinfortunistiche. Ha capelli neri raccolti in una coda. I colleghi appena la vedono la fischiano e le danno dei pizzicotti sulle guance. Altri legano le giacche intorno ai fianchi e ballano. In fondo si vedono accendersi dei fumogeni gialli e poi rossi e arrivano altri striscioni. Basta appalti. I diritti non si toccano. Non si sa come mai, sempre in culo agli operai. Fra le nuvole di fumo si vedono tre ragazzi con la divisa e gli occhiali da sole che tirano su in alto un piccolo striscione. C’è del disagio. Si fermano compiacenti a farsi fotografare e intervistare dai giornalisti. Avanzano spediti e conquistano le prime file. I compagni più anziani con lo stesso colore delL’ORGOGLIO DI STARE la divisa, gli tirano degli scappellotti, forse per il ritardo, forse per INSIEME DALLA PERIFERIA la scritta. Non si capisce più niente. Sembra una forca a scuola o PUZZOLENTE AL CENTRO un piccolo rave. Le incazzature sono in tasca, sui volti si sorride. Ai CITTÀ SI È GONFIATO: cancelli dei piazzali da cui si vedono tanti furgoni fermi, arriva del NON PIÙ ISOLATI fumo. Sono le grigliate improvvisate. Insieme ai dati altissimi sulle DA UN SELFIE MA GRANDI adesioni allo sciopero che si diffondono, alle foto sui social network FOTO DI GRUPPO dall’Italia intera, inebria tutti. Intanto anche i pacchi-lettere si sollevano in onde e balli. Le ragazze delle cooperative cantano a squarciagola. Nella calca e nella folla una di loro perde il cellulare. Leandro proverà a cercarlo. «Non stare a perdere tempo. Cosa vuoi che sia rispetto a questa giornata?». Kozeta è al suo primo sciopero. A lavoro non si tira indietro quando c’è da aiutare colleghi e delegati. È giovane e saggia, ha il viso dolce, ma è una che non si piega. Il giorno dopo il corteo si sposta in città, a Firenze. Gli striscioni, il disagio, le rivendicazioni e i pacchi-lettera sono stati ricomposti sul Ponte alla Vittoria. Sole per due giorni di fila è un lusso per chi lotta. A un certo punto c’è tensione. Lo si vede dalla folla che si comprime. Un corriere prova a passare col suo furgone. Lavoratrici e lavoratori lo fermano. Battono le mani sulla fiancata. Leandro teme il peggio e prova ad avvicinarsi velocemente. Sente degli applausi e non capisce. Cosa succede? Il lavoratore ha mollato il furgone e si è unito a loro battezzato da un po’ di caffè da un termos. L’orgoglio di stare insieme dalla periferia puzzolente al centro città si è gonfiato: non più isolati selfie, ma grandi foto di gruppo, con sfondo il bianco marmo del Duomo.
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La firma del rinnovo del contratto c’è stata un mese dopo. Se non fosse bastato fermarsi per Halloween, c’era sempre il Natale. Poi glielo dovevano spiegare i padroni, ai bambini la storia dei pacchi e del contratto.
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DIZIONARIO
Illustrazioni di Manfredi Ciminale
Sulle tracce della
parola
Che vuol dire oggi scioperare? E cosa significava quando questa pratica è nata? In che modo il linguaggio che usiamo può aiutarci a riflettere sulla storia delle azioni politiche? Un viaggio etimologico nell’Europa che lotta
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erché parlare oggi di etimologie? Che senso ha andare a cercare nei meandri della storia linguistica il significato che le parole avevano cento, duecento, trecento anni fa? Potrebbe sembrare un esercizio ozioso, una curiosità da eruditi, ma non lo è. Ne è passato di tempo da quando Isidoro di Siviglia vergava pagine e pagine di pergamene con le Etymologiae della lingua latina, Gaia Benzi andando a scartabellare accezioni, riscontri, incrociando fonti e attestazioni. Uno sforzo improbo che oggi ci sembra superfluo, disabituati come siamo a porre domande che non possano avere una risposta immediata. Grazie a Google sappiamo tutto, e subito. Basta indirizzare l’algoritmo al meglio e il desiderio di conoscenza diventa niente più che un prurito da grattare. Eppure non tutte le domande trovano risposta in un codice binario. Certo, capire da dove viene un termine è in linea di massima abbastanza facile, ma non sempre il mero dato genealogico basta a spiegarne il significato. E non vale nemmeno la pena cercare un’origine al senso, da cui far scaturire le accezioni successive quasi fossero mere variazioni sul tema, interpretazioni di una purezza primordiale. È solo attraverso la ricostruzione dei contesti mutevoli in cui la parola è stata utilizzata che possiamo sperare di far luce, almeno in parte, sulla sua carica espressiva. Come dice Indiana Jones: «La X non indica mai il punto in cui scavare». In queste righe proviamo a scavare un po’ intorno alla X, seguendo le tracce lasciate dalla parola sciopero in alcune lingue europee. Nei paesi mediterranei, dove la rivoluzione industriale è arrivata con calma, la parola “sciopero” era presente nelle pieghe di un atteggiamento esistenziale, in una visione della vita priva di lavoro che sembra già inglobarne gli aspetti riproduttivi. In FranGaia Benzi è attivista cia e Inghilterra, invece, dove la pratica dello sciopero moderno e ricercatrice di è nata e si è sviluppata per la prima volta, la parola risulta più letteratura italiana. Ha legata al dato materiale, a luoghi o episodi specifici. scritto per Micromega, Nelle parole che usiamo ci sono tanti significati, dei quali Dinamopress, a volte non siamo consapevoli e che non sempre finiscono su CheFare e Nazione Wikipedia. Ma la lingua ne porta le tracce, e può aiutarci a riaIndiana. dattarle al presente.
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Sciopero in italiano
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Insomma lo scioperato è un pericoloso sfaccendato, che anzi addirittura “impedisce alcuno dall’accudire le sue faccende”: si vede che, come le risate, anche gli scioperi sono contagiosi. Eppure nei vocabolari dell’Ottocento – quando gli scioperi veri e propri iniziarono a prendere forma, e da oltremanica arrivarono in Francia, e poi in Italia scavallando le Alpi – la scioperaggine è una qualità dell’anima, “il non far nulla, il perdimento di tempo”. Perder tempo che ha anche una sua connotazione nobile: per tornare al latino, è l’otium dello studio, della vita campagnola e dell’attività fisica, contrapposto al negotium della città con i suoi tribunali e il clientelismo dilagante. È una predisposizione ad affrontare una vita grama e a inventarsi possibili vie di fuga, da cui risuona ancora l’eco di una novella boccacciana o di una pièce da Commedia dell’Arte in cui il povero Zanni vessato dai padroni si ingegna in tutti i modi per metterli nel sacco e finalmente scioperare.
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e dovessimo fare un’analisi di storia della lingua, dovremmo cominciare dicendo che la parola sciopero, come moltissime parole italiane, ha un’etimologia latina. Un’etimologia per la verità assai pulita e lineare, davvero semplice e immediata: il prefisso “sci” sta per ex, mentre “opero” viene da operare, vale a dire “lavorare, produrre”. Dunque scioperare significa ex-operare, “uscire dal lavoro”, “smettere di lavorare”, “lavorare al di fuori di”. La linguistica dice questo, e lo dice correttamente, ma di certo non lascia trapelare il disprezzo, l’acredine e in buona sostanza l’onta sociale che questa “fuoriuscita dalla produttività imposta” si è sempre portata dietro. “Sei uno scioperato !”, gridavano i nostri nonni, e cioè sei un vagabondo, uno sfaticato, anzi meglio uno scansafatiche, uno che il lavoro lo evita in tutti i modi – perché lavorare, come i nostri nonni sapevano bene, stanca. Se poi lo sei in forma accrescitiva – ovverosia uno scioperone – probabilmente sei anche un po’ “scimunito, merendone”, e così via.
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Grève
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ciopero, in francese, si dice grève, che in italiano suona un po’ come “ghiaia, terriccio, bordo limaccioso di un fiume” – magari la Senna, ai lati della quale si snodano gli argini e le piazze di Parigi. Una di queste, l’odierna place de l’Hôtel-de-Ville, era un tempo place de Grève, la piazza di ghiaia, per tanto tempo la più grande della città. Sede dei mercati generali fino al 1135, per i parigini d’epoca moderna fu soprattutto la piazza deputata alle esecuzioni capitali; e proprio a place de Grève fece la sua comparsa per la prima volta madame guillotine quando, il 25 aprile del 1792, troncò la testa a un ladro di nome Nicolas Pelletier. Ma place de Grève era anche il luogo dove si radunavano gli operai sfaccendati, in attesa di un impiego: da mercato generale era passato ad essere, letteralmente, il mercato della manodopera. Fino al 1850 entrer en grève significava cercarlo, un lavoro, attenderlo pazientemente seduti da una parte, in piazza, a non far niente. Già da qualche anno, però, grève stava assumendo altri significati. Non lavorare, questo era sicuro, ma non perché il lavoro non c’è, bensì perché non si vuole: dall’assenza di lavoro all’atto di rifiuto del lavoro stesso. En grève non era più l’operaio disoccupato, in passiva attesa e alla mercé dei caporali, ma il padrone: mettre un patron en grève, rendere lui quello senza niente da fare, rifiutandosi di lavorare. I primi furono i tagliatori di pietre, che un lunedì mattina del 1805 incrociarono le braccia chiedendo un aumento di salario, e molti altri ne seguirono. Oggi la vecchia place de Grève vive soltanto nella memoria letteraria, nelle pagine del Rosso e il Nero in cui un giovane Julien Sorel vaga distrutto dall’amore per la bella Mathilde discettando della tragica storia di Boniface de La Mole. Per fortuna l’odierna Esplanade de la Libération ospita ancora scioperi e manifestazioni, tenendo viva l’antica tradizione.
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Huelga
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do latina da cui deriva, follicare. Un respiro quasi sempre di sollievo, di quando finalmente si stacca e si torna a casa, si levano le scarpe e ci si butta sul letto. Un respiro che è un rantolo di soddisfazione, quasi un ansimare, che non indica malattia ma felicità (l’ansimare di una risata convulsa) o piacere (l’ansimare del sesso). Chi sicuramente cercava sempre di holgar era Sancho Panza nel romanzo fondativo della coscienza europea, il Quijote, dove la parola si incontra spessissimo con il significato di scansar le fatiche, ma anche giacere carnalmente – e le due cose, in fondo, possono andare perfettamente d’accordo. Nella lingua che ha inventato i picari e le loro mirabolanti disavventure, la parola sciopero resta dunque legata a un atto fisico, sensuale, e c’è da sperare che di questa allegria gioiosa resti ancora qualche traccia nell’odierno huelga.
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a parola usata per “sciopero” in lingua spagnola è huelga, e come per l’italiano deriva da un termine latino. Solo che in questo caso la strada è stata molto, molto più lunga: huelga è un sostantivo che a sua volta deriva dal verbo holgar – letteralmente “riposarsi, stare senza far niente”, ma anche “divertirsi, rallegrarsi”. Anche in spagnolo scioperare ha a che fare con l’ozio, cioè la cessazione della produttività lavorativa, ma non solo: ha qualcosa dell’assenza totale di fatica, stress, preoccupazioni, letteralmente di vacanza – di sé dal mondo e del mondo dal sé. Solo che quando holgar si è affacciato alle coscienze le vacanze non esistevano affatto, e men che mai le ferie; e se per fortuna si trovava un lavoro, quasi sempre era fatica e sofferenza. Non sorprende allora che holgar sia etimologicamente connesso al respiro, nella parola tar-
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Strike
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alle rive della Senna a quelle del Tamigi per il primo strike della storia: lo sciopero dei marinai portuali nella Londra del 1768. Un anno significativo per l’Inghilterra, all’epoca in pieno fermento industriale. Avevano aperto le prime fabbriche, e i fiumi della nazione trasportavano incessantemente carbone dalle miniere alla capitale. Ogni mese frotte di individui si riversavano in città dalle campagne in cerca di opportunità tra le ciminiere fumanti. Molti di loro si erano specializzati nel nuovo business del carbone, scaricandolo dalle chiatte che facevano su e giù per il Tamigi, spesso in cambio del semplice vitto e alloggio. La maggior parte di loro era composta da irlandesi, che dopo le rivolte agrarie del 1762-63 si erano trasferiti altrove, non senza però portarsi dietro le strategie e le tattiche usate dai contadini fittavoli per contrastare le vessazioni dei proprietari terrieri. La vita degli scaricatori di carbone era dura, ma certo anche per gli altri operai della filiera c’era poco da scherzare: dai minatori ai portuali, se la passavano male un po’ tutti. Erano anni travagliati, ricchi di rivolte e sommovimenti. I primi a protestare per paghe migliori furono i tessitori di seta nel 1765. Quando tre anni dopo, nel mezzo di una carestia alimentare, scoppiò la protesta dei lavoratori del carbone, non si poteva dire non fosse nell’aria. Il gesto dei marinai di ammainare (to strike) la vela di controranda ebbe un grande successo, e fu ripetuto negli anni successivi da molti in tutta l’isola, finendo col dare il nome alla pratica stessa dello sciopero. E in fondo non può stupire che siano stati proprio i marinai a dettare il passo dei cambiamenti sociali in un’isola come l’Inghilterra, che di navi e marinai ha sempre vissuto e prosperato. Si potrebbe quasi dire, esagerando forse un po’, che uno sciopero è una forma diversa e contemporanea di ammutinamento. In questo caso non per un fantomatico tesoro alla Long John Silver, ma per una giusta paga e sacrosanti diritti.
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IL SAGGIO
Riot or Strike?
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Le rivolte e le insurrezioni urbane sono davvero lo strumento rivendicativo per eccellenza di questo momento storico? Un saggio mette in discussione questa tesi. E si chiede se e in che modo esiste un rapporto tra forme di lotta e cicli economici
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the Battleground of Class War (Haymarket books, 2017). Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Alberto Prunetti.
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el suo libro vivace e coinvolgente dal titolo Riot. Strike. Riot [Verso, 2016] Joshua Clover espone un ragionamento eccezionale (e apertamente marxista) per sostenere la propria tesi: i lavoratori dipendenti si trovano sempre meno alla base delle sollevazioni e le rivolte stanno prendendo il posto degli scioperi come principale espressione di ribellione sociale nel capitalismo frenetico dei noKim Moody stri giorni. In questo libro c’è molto materiale interessante e originale. Gran parte di quel che sostiene Clover a proposito delle turbolenze del capitalismo contemporaneo, e di del suo rallentamento apparente, si basa sul denaro, anche se si può dissentire da alcuni punti specifici dell’analisi. Inoltre l’autore mira a una crescita nelle lotte sociali, una speranza che chiunque, nella sinistra, deve sicuramente coltivare. Non c’è da meravigliarsi che quest’opera abbia suscitato attenzione e dibattiti in merito alle nuove forme di protesta sociale – il movimento Occupy, le rivolte contro la brutalità poliziesca nelle comunità afro-americane, le primavere arabe, e altre – che esigono una scrupolosa attenzione, a maggior ragione oggi alla luce di una poliedrica “resistenza” anti-Trump. Allo stesso tempo ci sono seri problemi teorici ed empirici con la sua tesi centrale. Al cuore della prospettiva presentata in Riot. Strike. Riot c’è la divisione della storia in periodi di circolazione (dal Medioevo fino all’era del mercantilismo), produzione (con l’avvento del capitalismo industriale) e di nuovo circolazione (quando il capitalismo raggiunge il suo periodo di ripetute crisi e lenta crescita, a cominciare dagli anni Settanta). A ciascuno di questi periodi dovrebbe corrispondere una forma preponderante di conflitto sociale coerente col modello economico in vigore, che si tratti di produzione o circolazione: rivolte nella prima era di commercio o circolazione, scioperi con la crescita della produzione industriale, ancora rivolte «con il regresso della produzione industriale nei principali paesi capitalisti». La prima cosa che si nota a proposito del capitalismo, per Kim Moody, come descritto in Riot. Strike. Riot, è ciò che manca. La lettucofondatore della ra che ne fa Clover è dualistica, monca, divisa tra «industria» e rivista Labor Notes, è «circolazione». A parte la finanza, manca tutto il settore privato autore di numerosi libri dei «servizi», per non parlare del settore pubblico. In realtà «il regresso della produzione industriale» nelle sul movimento operaio economie capitaliste sviluppate è un declino statistico prostatunitense tra cui porzionale alla produzione di merci in termini di Pil e occuOn New Terrain: How pazione; un declino rispetto alla crescita dei «servizi», più che Capital Is Reshaping
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un vero e proprio declino dell’output industriale. Questo ha continuato a crescere, anche se molto lentamente, in molti paesi sviluppati, su scala globale e anche negli Stati uniti. Il regresso dell’industria è dunque relativo e rappresenta solo una parte della storia dei cambiamenti del capitalismo e della classe lavoratrice. La storia del capitalismo, in effetti, è la storia del capitale che estende in continuazione la mano dello sfruttamento su nuove aree di attività economica e sociale, come risulta dalle analisi dettagliate di Harry Braverman. Ossia che la circolazione del capitale si estende sempre a nuovi settori di produzione. Quel che è cresciuto negli ultimi decenni non è la circolazione nel senso limitato della finanza, come sottolinea Clover, ma il settore privato dei «servizi» che il capitale continua ad acquisire, in cui la finanza, le assicurazioni e i beni immobili rappresentano circa un terzo del valore aggiunto. Gli altri che rappresentano i restanti due terzi e impiegano più del 90% della forza-lavoro del settore privato dei servizi – sanità, ristorazione, trasporti, comunicazione, viaggi, ospitalità, intratteniGLI SCIOPERI POSSONO mento, gestione rifiuti, servizi di utilità – a malapena trovano posto RAPPRESENTARE nella ricostruzione di Clover, in cui il capitalismo appare svuotato e LA FORMA PIÙ COMUNE diviso tra finanza e produzione di merci. DELLA LOTTA DI CLASSE La difficoltà di questa visione del capitalismo e dei suoi spostaMA I LAVORATORI menti riguarda il fatto che gran parte delle industrie di servizi che SVILUPPANO ANCHE ALTRE sono apparse negli ultimi cinquant’anni sono organizzate sulla base TATTICHE E STRATEGIE capitalistica della produzione di valore (con l’eccezione dei settori finanziario, legale, del business e di alcuni servizi professionali). Questo significa assumere centinaia di migliaia, milioni di lavoratori, investire in quote crescenti di capitale fisso, pagare salari dal capitale variabile, creare profitti dal plusvalore, tendere a concentrare i lavoratori sfruttati in grandi luoghi di lavoro e produrre merci. In altre parole, tutto questo è parte della produzione capitalista. Un capitalismo moderno privo di questa parte di produzione sarebbe davvero uno strano mostro. Inoltre al pari dell’«industria» e per le stesse ragioni il settore dei servizi ha visto molti conflitti di classe, sindacati, scioperi e altre forme di resistenza nella classe lavoratrice nel corso degli ultimi anni fino ai giorni nostri (pensiamo agli insegnanti della West Virginia). Per la stessa ragione abbiamo assistito al declino dei sindacati là dove, nei servizi, erano un tempo forti, e di scioperi là dove erano frequenti. In altre parole il problema ha a che fare con la crisi sindacale più che con il calo degli iscritti in miniere, acciaierie e fabbriche. Il tentativo di periodicizzare l’ultima fase del capitalismo secondo l’attività economica, classificandola come una fase di «circolazione» in senso quantitativo, senza alcun riferimento ai servizi produttivi, ci pone di fronte a dei dubbi. L’esclusione di più di metà del valore aggiunto del Pil del settore dei servizi privati, che in gran parte rappresenta una produzione reale, assieme all’equazione tra produzione e industria, crea una rappresentazione fuorviante del capitalismo contemporaneo, un’illusione ottica e statistica. Tornando all’analisi di Clover c’è un problema di determinismo nel fare un’equazione tra le caratteristiche economiche prevalenti di ogni periodo e la presunta risposta delle classi subalterne. Non sorprende che questo collegamento causale alquanto schematico, con una caratterizzazione economica di un periodo storico associata a una singola tattica principale, abbia ricevuto una buona dose di critiche. Ad esempio Alberto Toscano su Viewpoint Magazine mette in discussione la tendenza di Clover a considerare inevitabile questa periodizzazione. Tanto più che gli scioperi tendono ad avere alti e bassi, come le maree. Anche Toscano ammette che Ernest Mandel era nel giusto quando sosteneva l’impossibilità «di stabilire ogni correlazione diretta tra
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gli alti e i bassi dell’intensità della lotta di classe, da un lato, e il ciclo degli affari o le “onde lunghe”, i livelli occupazionali o la disoccupazione, dall’altro». Nel capitalismo gli scioperi possono rappresentare la forma più comune dell’abituale conflitto di classe (o di più rare sollevazioni radicali), tuttavia non tracciano inevitabilmente una traiettoria uniforme nei periodi di alta produttività. Al tempo stesso i lavoratori hanno sviluppato molte altre tattiche e strategie, tra cui svariate forme di azione politica, tattiche per i luoghi di lavoro meno specializzati, occupazioni, disobbedienza civile di massa, a volte rivolte e occasionalmente anche il conflitto armato. Toscano critica anche la combinazione, realizzata da Clover, «dell’opera di Robert Brenner, di Giovanni Arrighi e di una teoria della crisi che si fonda teoreticamente sul valore per fornire l’armatura logica e storica dell’impianto complessivo della propria teoria». Affronterò più avanti questo contraddittoria combinazione. Sviluppando una rappresentazione storica della rivolta come atto sociale di ribellione e la teoria della sua emergenza come principale forma di lotta, Clover attinge a molte correnti del marxismo e del più vasto pensiero di sinistra, dando alla propria narrazione un certo carattere eclettico. In primo luogo paga un breve omaggio all’analisi sulle origini del capitalismo nell’agricoltura inglese sviluppata da Robert Brenner e Ellen Meiksins Wood. Un’analisi importante per l’enfasi sulla natura espansionistica del capitalismo. Scrive Wood: Questo sistema era unico nel suo dipendere da un’espansione intensiva, distinta da quella estensiva; nell’estrazione del valore del surplus creato nella produzione, che è cosa diversa dal profitto nella sfera della circolazione; nella crescita economica basata su un incremento di produttività e nella competizione all’interno di un mercato unico: in altre parole, nel capitalismo.
Ovviamente questa è la visione che Marx aveva del sistema. Non è tuttavia su questa base teoretica che Clover sviluppa la teoria dell’emergente centralità della rivolta fissando la periodizzazione alla base della propria proposta. Si basa invece sul suo opposto, su quello che Wood ha definito il «modello della commercializzazione», associato alle teorie di Henri Pirenne, Fernand Braudel, Giovanni Arrighi e altri. In questa visione il capitalismo si estende «dall’Italia del xiii secolo fino all’Occidente dei nostri giorni», per usare le parole di Braudel, e viene generato dall’espansione del commercio. Sia il tempo che lo spazio pongono questa teoria in ulteriore contrasto con le tesi di Brenner e Wood.
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L’idea di Clover di dividere la storia in periodi di circolazione, industria o produzione, e poi dagli anni Settanta ancora circolazione, è presa in prestito da Il lungo xx secolo di Giovanni Arrighi. In quest’opera, e quindi anche in quella di Clover, la «formula generale del capitale», D-M-D (ossia Denaro-Merce-Denaro), si divide in D-M nell’industria e nella produzione, e M-D nella fase finanziaria che designa quello che Arrighi, ispirato da Henri Pirenne, vede come un ciclo ricorrente di finanza-industria-finanza, a partire dal Medioevo. L’opera storica di Arrighi, in tutto il suo acume, si basa sul «modello della commercializzazione» sviluppato in maniera pionieristica da Pirenne e criticato da Brenner e Wood per la tesi secondo la quale il capitalismo si svilupperebbe dall’espansione dei traffici e del commercio. Nella prospettiva della commercializzazione la formula D-M-D si applica allo stesso modo alla circolazione del capitale in praticamente tutti i sistemi economici.
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«Circolazione» i: ritorno al futuro?
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tano dalla produzione, verso la finanza e la speculazione. Ma in termini di flussi economici globali (ossia circolazione) lo scambio di merci è ancora molto più consistente dei servizi, per non parlare dei flussi finanziari. Secondo uno studio del 2014 del McKinsey Global Institute nel 2012 lo scambio di merci su scala mondiale valeva 17,5 bilioni di dollari, pari all’80% dei flussi economici globali, mentre i servizi pesavano solo per 4,2 bilioni di dollari. I flussi finanziari, che includono gli investimenti diretti esteri (Fdi), i fondi di investimento a capitale proprio e le obbligazioni, assieme ai depositi e ai prestiti esteri, ammontano a solo 3,9 bilioni di dollari, ossia al 15% dei flussi economici mondiali. (Secondo l’Onu «finanza e assicurazioni» valgono assieme per l’11,4% dei servizi commerciali di esportazione delle economie sviluppate nel 2013, e molto meno per le economie dei paesi in via di sviluppo). Dal 1980 al 2004 i flussi finanziari sono rimasti una piccola percentuale dei flussi economici globali complessivi, in lieve crescita dal 2004 al 2007. Solo nel 2007 si sono avvicinati ai flussi delle merci e solo per un anno, all’apice della speculazione immobiliare e finanziaria che ha preceduto la Grande recessione, prima di cadere a terra. La finanziarizzazione, come regime dominante del capitalismo, a quanto pare ha vissuto un’epoca davvero breve. E le finanze, che sono sempre un aspetto necessario del capitalismo, non sono cresciute più velocemente delle merci e dei servizi su scala mondiale, negli ultimi anni. Il traffico globale di merci è cresciuto di circa l’undici per cento ogni anno dal 2002 al 2012, e quello dei servizi è cresciuto del 10%, mentre il flusso finanziario è cresciuto di solo il sei per cento all’anno, in media. Bisogna anche tenere presente che mentre gli investimenti diretti esteri (Fdi) sono considerati parte dei flussi finanziari nel rapporto McKinsey, secondo l’Onu invece solo
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Almeno in quella forma, è un completo circuito del capitale. Ma la circolazione, come Marx la definisce, verrebbe meno nell’opera di Arrighi e Clover, con la separazione della semplice formula D-M-D in distinte epoche di sviluppo economico. In D-M di per sé non c’è alcuna realizzazione del valore, alcuna espansione, neanche un mero margine di profitto per il commerciante. Inoltre in Marx la formula D-M-D è grossomodo un processo di scambio vincolato a una scadenza, non un processo in cui ogni metà rimane fissa per un’epoca, che si tratti della circolazione nella pratica del mercante medievale di «comprare al fine di rivendere a un prezzo più elevato», come scrive Marx, o del sistema dinamico di auto-espansione tipico del modo di produzione capitalista, per rimanere più vicini all’epoca futura della circolazione. La semplice formula generale D-M-D rappresenta una base sovraccaricata dalla costruzione di un’ambiziosa architettura, edificata con sette secoli di storia economica. Anche mettendo da parte i problemi derivati dall’uso e dalla misura di D-M-D, davvero ci troviamo o stiamo per entrare in un’era di «circolazione» o di dominio finanziario, in cui la produzione è diventata secondaria? La risposta è no, nella misura in cui Clover tende a eguagliare la crescita del settore finanziario, ossia l’epoca della finanziarizzazione, con l’avvento di un nuovo periodo di circolazione. C’è un debito enorme in tutto il mondo e questo, assieme a tassi di profitto incerti, ha spostato i profitti lon-
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il venti per cento dello stock accumulato su scala globale di fondi di investimento esteri va considerato come «finanza». Il che rappresenta una buona quota finanziaria, ma non basta per definire la nostra epoca come quella del «capitale finanziario». Nell’economia statunitense al picco della produzione negli anni Sessanta i profitti delle società che si occupavano di finanza equivalevano a circa il quindici/sedici per cento dei profitti globali delle aziende degli Stati uniti; raggiunsero circa il 20% alla fine degli anni Ottanta per poi arrivare brevemente a un picco del 25% nel 2007, poco prima della Grande recessione. Da allora sono scesi a una quota che sta tra il 20 e il 22%. Mentre il livello dei profitti della finanza è evidentemente cresciuto nel tempo in conseguenza dell’aumento del debito e delle turbolenze dei tassi di profitto, le società non finanziarie ancora sono responsabili per il settantacinque/ottanta per cento dei profitti totali. Si tratta di una crescita, certo, ma non segna né un dominio né una nuova fase di circolazione staccata dalla produzione. È anche obsoleto l’esempio di Clover secondo cui «i produttori statunitensi di automobili ottengono sempre più profitti non dalla produzione bensì finanziando acquisti di consumo con linee di credito interne». La General Motor ha smantellato le sue linee di credito nel 2006 e la Crhysler nel 2010, al fine di ridurre il debito e per concentrarsi sulla produzione automobilistica. Solo la Ford conserva il suo programma di credito. La General Electric ha fatto lo stesso per concentrarsi sulla produzione manifatturiera, come parte di un movimento complessivo del capitale statunitense volto ad allontanarsi dalla conglomerazione, per muoversi verso la VIVIAMO IN UN’ERA produzione nei principali settori merceologici attraverso proceduCARATTERIZZATA re di fusione e acquisizione che si sono accelerate a metà anni NoDA CIRCOLAZIONE vanta. Come abbiamo visto sopra, in contrasto con quanto implicaE DOMINIO DELLA FINANZA to dalle tesi di Clover, troviamo produzione anche di beni materiali IN CUI LA PRODUZIONE a livelli più alti del passato in tutto l’Occidente, inclusa l’economia È DIVENTATA SECONDARIA? statunitense, nonostante un considerevole spostamento della proLA RISPOSTA È NO duzione manifatturiera verso le zone delle economie dell’est e del sud del pianeta. Anche la forza lavoro manifatturiera statunitense, molto ridimensionata, produce adesso quattro volte quel che produceva negli anni Sessanta e due volte quanto produceva nei primi anni Ottanta, all’inizio dell’era neoliberale. Il tentativo di Clover di costruire una base teoretica per una distinta era di circolazione sotto il modo di produzione capitalista semplicemente non tiene, da un punto di vista teoretico come da un punto di vista empirico.
«Circolazione» ii: produzione come movimento
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Al tempo stesso nell’uso molteplice e flessibile che Clover fa del termine «circolazione» c’è qualcosa di più di un semplice gioco di prestigio. Ad esempio è fuorviante la sua tesi per cui la crescente forza lavoro assunta nel trasporto o nel magazzinaggio – in imprese come Ups o nella logistica – apparterrebbe al regno della circolazione, secondo lo schema M-D,
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in opposizione alla produzione, perché questi lavoratori si limiterebbero a muovere cose. Confondere i circuiti del capitale analizzati da Marx col movimento spaziale di materiali e merci lungo le catene di rifornimento contemporanee, e con la logistica nel processo della produzione, da un lato conduce alla fusione tra valore d’uso e valore di scambio, dall’altro sembra un semplice gioco di parole. Sebbene vincolato a scadenze temporali dalle forze della competizione, il processo produttivo non è qualcosa che avviene in un tempo o in uno spazio specifico. La produzione di merci procede evidentemente attraverso catene di rifornimento che vanno dai materiali grezzi fino al parco macchine, attraverso parti intermedie e lavori in corso d’opera per arrivare finalmente al prodotto finito. In questo processo ogni passo implica il movimento di valori d’uso materiali, che siano vicini o lontani, considerati come input produttivi. Il capitale circola attraverso questi processi produttivi non come una sfera separata, neanche al livello di catene di rifornimento globali, ma come un aspetto essenziale della produzione. La circolazione di capitale LA CIRCOLAZIONE NON È è fondamentale in questo processo produttivo. Dato che le merUNA SFERA SEPARATA: ci devono cambiare ubicazione sia durante la produzione che per LE MERCI DEVONO ESSERE raggiungere il mercato, Marx scrisse nei Grundrisse: «Il trasporto al SPOSTATE SIA DURANTE mercato (condizione spaziale della circolazione) rientra nel processo LA PRODUZIONE di produzione». CHE PER RAGGIUNGERE Il movimento è lo stato naturale delle merci all’interno (e tra) ogni IL MERCATO fase della produzione fino alla vendita finale e alla realizzazione del plusvalore. Inoltre i treni, i camion, i container, i muletti, i magazzini, i porti, i terminal, ecc., che questi lavoratori attivano per creare plusvalore sono parte del capitale fisso, proprio come l’equipaggiamento di una catena di montaggio in uno stabilimento automobilistico. Si chiede Toscano: «Un porto dei giorni nostri non è forse più una fabbrica (nell’essenza e nell’aspetto) che un mercato?». Si può dire lo stesso di un magazzino o di un centro di distribuzione moderno, il cui numero negli Stati Uniti è cresciuto del 150% dalla fine degli anni Novanta. Infatti Marx è stato chiaro sul fatto che anche gli elementi mobili del capitale fisso, come «una locomotiva, una nave» e oggi un camion, sono capitale fisso, invariabile, nel processo produttivo, nel senso che il loro valore è fissato come quello di una macchina immobile. Al tempo stesso gran parte del capitale fisico implicato nel movimento dei materiali è stazionario, così come gran parte degli operai (quelli che lavorano nei magazzini statunitensi sono 843 mila). Scrive David Harvey: «La mobilità spaziale delle merci dipende dalla creazione di una rete di trasporti che nello spazio risulta immobile». Siano stazionari o in movimento, molti degli operai di questi lavori connessi al trasporto delle merci producono plusvalore, come sostiene Marx nel secondo volume del Capitale. Sono parte della produzione e ce ne sono molti di più adesso che venti anni fa o giù di lì. E ovviamente tutti questi lavoratori che muovono beni strumentali, materiali grezzi, semilavorati e prodotti finiti non si troverebbero di fronte un numero crescente di posti di lavoro se non avessero da muovere nient’altro che asset finanziari digitalizzati.
La «sovrappopolazione»
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Clover usa la ben nota citazione da Marx sull’aumento della «sovrappopolazione» o sull’esercito industriale di riserva e sulla pauperizzazione come «legge generale assoluta dell’accumulazione capitalista» per puntellare il suo stesso argomento secondo il quale questa eccedenza di popolazione «è ricentrata dalla riorganizzazione economica dalla sfera della produzione in quella della circolazione».
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Questo significa probabilmente che il «surplus di popolazione» o l’esercito industriale di riserva sono ridotti a una legione di consumatori, anche se non «nel senso popolare del termine», osserva Clover, dato che non hanno un salario da spendere. È difficile, a dirla tutta, immaginare un gruppo sociale meno adatto a far parte del campo capitalista della «circolazione» che, tutto sommato, richiede la spesa di denaro su una scala significativa. Le razzie dei negozi che capitano spesso nelle rivolte non sostituiscono il consumo nel sistema né lo danneggiano, e tanto meno di fatto intaccano in maniera significativa le grandi concentrazioni di capitale. Ad ogni modo l’esercito industriale di riserva esiste al di fuori della circolazione del capitale fino a quando una sua parte viene trascinata in una qualche forma di produzione. Clover ha ragione sul fatto che ci sia stata una crescita dell’esercito industriale di riserva o un’eccedenza di popolazione negli ultimi due o tre decenni e in forma più accentuata a partire dalla Grande recessione. Tuttavia la citazione dal Capitale utilizzata da lui e altri sul ruolo dell’incremento di produttività nella creazione di un «surplus di popolazione» non è il punto di arrivo dell’analisi di Marx attorno alle dinamiche di occupazione, disoccupazione e accumulazione sotto il capitalismo. Nel contraddittorio processo di auto-espansione dell’accumulazione di capitale (per tornare a Brenner, Wood e a molti storici ed economisti marxisti) l’esercito industriale di riserva serve da prerequisito necessario per l’espansione della produzione (anche se una consistente porzione di questa popolazione rimane a lungo inutilizzata, e una piccola parte ana chi lavora part-time per ragioni economiche), mentre la che in maniera permanente). Scrive Marx: forza lavoro cresce attingendo braccia dall’esercito di riMa se una sovrappopolazione operaia serva. è il prodotto necessario dell’accumulazioNonostante il ritmo lento della ripresa statunitense il ne, ossia dello sviluppo della ricchezza su numero degli occupati nel settore privato della produziobase capitalistica, questa sovrappopolane e dei lavoratori non supervisionati è cresciuto da otzione diventa, viceversa, la leva dell’accutantotto milioni e 673mila del settembre 2010 a centodue mulazione capitalistica e addirittura una milioni e 463mila del settembre 2017. delle condizioni d’esistenza del modo di Nel periodo neoliberista cominciato alla fine degli anni produzione capitalistico. Settanta l’accelerata transizione del capitale da un’industria a un’altra, dalla produzione di merci alla produzione Pertanto, mentre a partire dal 2009 di servizi nell’economia reale, ha preso la forma familiare l’agonizzante ripresa procede lentadel declino dell’occupazione manifatturiera: una sorta di mente, la produzione aumenta comun“muta”, di trasformazione dei lavori attraverso aumenti di que silenziosamente e i tassi di disocproduttività, razionalizzazione o rilocazione da un lato, cupazione scendono fino al picco della dall’altro da un aumento di investimenti e di occupazione misura U-6 rate per tutti i gruppi sociali in quelle che si possono definire le industrie dei servizi, (l’etichetta U-6 indica le persone diun cambiamento reso sostenibile in genere da bassi salari. soccupate che cercano un’occupazione Alcuni di questi lavori dovevano incontrare la crescente full-time assieme ai lavoratori già ocdomanda di riproduzione sociale, soprattutto nel settore cupati per un numero ristretto di ore e privato degli Stati Uniti, altri hanno a che fare con la manutenzione degli asset fissi del capitale, in perpetua espansione, altri si occupano di ripulire i disastri che il capitale produce, altri ancora hanno a che fare con la movimentazione di materiali e merci: tutti sono conseguenza dell’attuale accumulazione, anche a un ritmo più lento. Il veicolo per la transizione della manodopera da un settore a un altro, come sosteneva Marx, è il turnover
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dell’esercito industriale di riserva. La mera crescita della popolazione non basta a fornire manodopera per tutti questi lavori, che possono essere eseguiti solo da un esercito di riserva di adulti abili e disponibili, alcuni dei quali negli anni recenti sono prelevati dall’esercito di riserva globale grazie all’immigrazione. Per i maschi, i cui tassi di partecipazione alla forza lavoro sono diminuiti Nonostante gli afroamericani e gli ispanoamericani coin maniera significativa, nondimeno stituiscano una percentuale sproporzionata dell’esercito di abbiamo diciassette milioni e 851 mila riserva, la sovrappopolazione non rappresenta un corpo lavoratori che sono entrati nella forpermanente di individui, come implicato invece dall’analisi za lavoro, mentre tredici milioni e 949 di Clover. Piuttosto, come abbiamo visto sopra, è una base mila ne sono usciti. Nello stesso periodo potenziale ricorrente per un’ulteriore espansione, senza la quattro milioni e 947 mila afroamericaquale il capitale non può crescere. Il ciclo di sviluppo del ni sono entrati nella forza lavoro, mencapitale, con «periodi di vitalità media, di produzione con tre due milioni e 712 mila ne sono usciti. massimo impegno, di crisi e di stagnazione [...] ha per fonSi noti che tra gli africani la proporzione damento la continua costituzione di un esercito industriale tra chi entra e chi esce è più alta della di riserva o di una popolazione eccedente». media: ovviamente questo accade non Questo è chiaro nelle cifre di chi entra e di chi lascia perché i lavoratori neri sono benestanla forza lavoro. Tra il 2004 e il 2014 33 milioni e 880 mila ti, ma probabilmente perché hanno più lavoratori sono entrati a far parte della forza lavoro civile necessità dei bianchi di cercare lavoro statunitense, mentre venticinque milioni e 360 mila lavodato che hanno meno risorse su cui fare ratori ne sono usciti. Pertanto la forza lavoro è cresciuta affidamento, e pertanto vengono caratdi otto milioni e mezzo di lavoratori, dai 147 milioni e 401 terizzati come disoccupati piuttosto che mila del 2004 ai 155 milioni e 922 mila del 2014, nonostan«non nella forza lavoro». te la Grande recessione. A dicembre del 2017 il tasso di disoccupazione ufficiale era per i neri del 6,6%e per i bianchi del 3,7, mentre la proporzione dei lavoratori occupati e di quelli «non nella forza lavoro» era dell’1,6 % per i bianchi e dell’1,5% per i neri. Quel che risulta chiaro da questi dati è che nel processo di formazione dell’esercito di riserva o della «sovrappopolazione» c’è un vasto e costante turnover, come indica lo stesso Marx. È anche chiaro che gli afroamericani e gli ispanoamericani che lasciano l’esercito di riserva inevitabilmente si trovano a gravitare nella fascia dei lavori sottopagati. Guardando a chi è assunto nel settore dell’economia di cui si è parlato sopra, ossia quello in espansione dei «servizi», qualcos’altro diventa evidente: si tratta di lavori perlopiù con bassi salari realizzati, in maniera sproporzionata, da lavoratori afroamericani o ispanoamericani. Pertanto mentre i lavoratori di colore perdono i lavori ben pagati nell’industria manifatturiera e si spostano nella disoccupazione o fuori dalla forza lavoro per un certo periodo di tempo, a volte anche lungo, alcuni di loro o altri lavoratori come
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Un esercito di riserva, non un corpo permanente
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loro si sono spostati per impiegarsi in un settore in espansione di lavori a basso salario, talvolta precari, spesso privi di prospettive. In questo processo il capitale ha ricreato la gerarchia razziale di impiego che era stata in un certo modo modificata durante il periodo di crescita economica successivo alla Seconda guerra mondiale, grazie alle conquiste dei diritti civili e agli alti livelli di sindacalizzazione. Se il surplus di popolazione è razzializzato, allora anche la forza lavoro è razzializzata. Questo è un punto fondamentale a proposito di gerarchia e conflitto sociale che non appare in Riot. Strike. Riot. Il razzismo e la rabbia che produce tra le sue vittime non è in prima istanza una questione di circolazione o consumo contro la produzione. Ha a che fare piuttosto col posto di neri e ispanoamericani nel processo di accumulazione del capitale inteso in maniera complessiva, sia ai nostri giorni che in chiave storica. Come ha dimostrato con considerevoli dettagli analitici ed empirici lo storico marxista Howard Botwinick nella sua opera Persistent Inequalities, contrariamente all’idealizzazione della teoria neoclassica sul livellamento dei salari, la diversità dei salari e la loro gerarchizzazione all’interno della stessa classe lavoratrice sono il risultato della competizione capitalistica e di un diversificato processo di accumulazione. Le «persistenti ineguaglianze» create e riprodotte nel processo di competizione e accumulazione sono la base che soggiace alla gerarchia, razzializzata e connotata dal punto di vista di genere, dell’occupazione lavorativa negli Stati uniti e altrove. Mentre le radici dell’ineguaglianza razziale e di genere sono anteriori al LE DISUGUAGLIANZE SONO capitalismo, l’accumulazione capitalistica non di meno riproduce la geLA BASE CHE SOGGIACE rarchia e l’ineguaglianza nell’occupazione e nelle entrate salariali anche ALLA GERARCHIA all’interno della classe lavoratrice, e quindi si riflette nell’educazione, negli RAZZIALIZZATA alloggi, ecc. E CONNOTATA DAL PUNTO In The Production of Difference David Roediger e Elizabeth Esch hanno DI VISTA DEL GENERE mostrato, in maniera specifica e su base storica, come il capitale razzializDELLA FORZA LAVORO za questa gerarchia occupazionale diversificata – a volte con la collaborazione della manodopera bianca – e come questa gerarchia venga interiorizzata come “normale” tra molti operai e manager bianchi. Per cominciare a comprendere le condizioni che hanno prodotto il senso di ingiustizia o la rabbia che spinge le vittime di queste disuguaglianze – siano occupate o disoccupate – a ribellarsi, manifestare, scioperare, fare sit-in, occupare, resistere e opporsi in molti modi, bisogna guardare al processo di accumulazione nel suo insieme, senza considerarlo semplicemente l’arena del consumo. Certo, il razzismo ha vita propria, ha una relativa autonomia che lo fa valere in ogni aspetto dell’esistenza sociale, ma viene nondimeno costantemente riprodotto e rafforzato nel processo stesso dell’accumulazione capitalistica. Cosa dire allora della tesi centrale di Clover? La «rivolta» sta diventando davvero la forma principale della lotta sociale? Nessuno mette in discussione il fatto che la forma convenzionale dello sciopero è in calo a partire dai primi anni Ottanta fino al picco negativo dei nostri giorni e che rimarrà così nei paesi capitalisti sviluppati, anche tra gli operai manifatturieri, per ragioni che sono state analizzate e dibattute frequentemente, molte
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delle quali hanno poco a che fare con il declino dell’occupazione dell’industria manifatturiera di per sé. Ma ne deriva che questo periodo vede o vedrà l’emergere della rivolta come forma principale di ribellione sociale? Al riguardo il determinismo di Clover che collega «circolazione» e rivolta si schianta contro il fatto che l’apice storico delle moderne rivolte e ribellioni statunitensi, in gran parte con base afroamericana e urbana, si è avuto a metà degli anni Sessanta, quando la produzione era ancora in forte espansione, la disoccupazione era relativamente bassa e in diminuzione (sempre più alta per i neri, ma in diminuzione) e molti di quelli che parteciparono alle rivolte, da Watts a Detroit fino a Newark, erano operai occupati e sindacalizzati. È emblematico di quel periodo che all’indomani della rivolta di Detroit del 1967 la rivista radicale nera di Detroit Inner City Voice abbia dichiarato che nonostante «abbiamo dato un calcio nel sedere alla struttura del potere bianco [...] stiamo ancora lavorando, stiamo ancora lavorando troppo duramente, siaL’APICE DELLE RIVOLTE, mo pagati troppo poco, viviamo in case pessime, mandiamo i nostri IN GRAN PARTE CON BASE bambini in scuole sotto gli standard minimi, paghiamo troppo cari i AFROAMERICANA generi alimentari e siamo trattati come cani dalla polizia». E URBANA, SI È AVUTO «Stiamo ancora lavorando» e tuttavia «viviamo in case pessiA METÀ ANNI SESSANTA, me», «trattati come cani dalla polizia», sebbene assunti, ovviaQUANDO LA PRODUZIONE mente con un salario inadeguato. Soltanto nella “lunga estate ERA IN ESPANSIONE calda” di quell’anno ci furono 159 rivolte nelle città statunitensi. I fattori economici giocarono un ruolo in queste sollevazioni e da sola la disoccupazione non basta a spiegare queste rivolte, dato che l’occupazione era relativamente alta e la risacca della deindustrializzazione ancora di là da venire. Gli abusi sul posto di lavoro e le condizioni sociali in genere erano sufficienti a produrre la rabbia che sta alla base delle rivolte. Molte erano scatenate da incidenti di razzismo, compiuti di solito dalla polizia, ieri come oggi. Quella stessa rabbia si espresse dopo l’omicidio del più famoso leader dell’America nera: in seguito all’assassinio di Martin Luther King, nell’aprile del 1968, scoppiarono rivolte in più di un centinaio di città degli Stati uniti. La struttura complessiva del razzismo – nel lavoro, nel salario, negli alloggi, nell’educazione, nella disoccupazione e nella violenza della polizia – era e rimane alla base della rabbia che provocò le insurrezioni seguite a pesanti provocazioni. Clover ha ragione a considerare le rivolte degli anni Sessanta una transizione dalla fase “legale” (ma anche provocatoria) del movimento per la liberazione dei neri verso una fase più esplosiva, ma il suo tentativo di classificare gli anni Sessanta e i primi Settanta come l’inizio di una transizione verso l’era della circolazione e pertanto delle rivolte non è convincente. È un errore analitico perché l’occupazione nel campo della produzione era ancora relativamente elevata e sarebbe rimasta tale negli anni Settanta anche nel comparto manifatturiero, nonostante il crollo del 1974-75; è un errore empirico perché il numero delle
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rivolte, in tutto il decennio e su base annuale, è diminuito dopo gli anni Sessanta per almeno quarant’anni. Da Watts a Baltimora, la traiettoria delle rivolte non procede in maniera lineare e neanche in forma irregolare, seguendo un arco, come sostiene Clover. C’è stata una lunga pausa, negli Stati uniti come in tutto il mondo, fino al 2005, quando le cose sono improvvisamente accelerate prima di decollare intorno al 2010-11 con le Primavere arabe. Considerando il crescente numero di rivolte urbane degli ultimi anni, non c’è stato alcun altro periodo negli Stati uniti (e negli altri paesi sviluppati) che sia andato tanto vicino al numero di rivolte urbane degli anni Sessanta e all’alto e crescente livello di scioperi e di rivolte sindacali tipici di quell’epoca di brusche sollevazioni sociali. Se dovessimo derivare una teoria dall’esperienza degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta potremmo sostenere probabilmente che le lotte e le sollevazioni sociali di lavoratori, disoccupati, persone razzialmente oppresse e donne tendono a crescere e a cadere più o meno simultaneamente, anche se non in maniera regolare.
La doppia rivolta di giovani e razzializzati Nell’analisi di Clover la crescita e la convergenza di rivolte, occupazioni e altre azioni nelle strade, nelle piazze e nelle autostrade dovranno (inevitabilmente?) culminare nella comune, come società che trascende il capitalismo, i rapporti salariali e il Ma il problema è più grande di questa comune idealizconsumo come fonte di profitto. Tuttazata. Ogni cambiamento delle relazioni sociali e dei sistevia al contrario delle rivolte nelle strade mi economici richiede l’agire umano. e nelle piazze la comune secondo CloSe il nucleo di membri occupati della classe lavoratrice ver «non è un posto» come la comune non è più il principale candidato, quale forza sociale occudi Parigi ma «una relazione sociale». perà questo ruolo? Non bisogna essere David Harvey per Clover non ha dubbi sul fatto che la sovrappopolaziocomprendere che, anche nell’era di inne razzializzata sia in pole position come agente di camternet, gli esseri umani e le loro società biamento nella nuova era della circolazione. La risposta sono radicati su coordinate spaziali e completa, tuttavia, il culmine di questo discorso di 180 temporali anche se i loro luoghi si molpagine, spesso prolisso ma ben scritto, si trova in questa tiplicano, si espandono globalmente e i brano succinto: loro abitanti migrano da un luogo a un altro. Il luogo è una dimensione essenLa forma di questa doppia rivolta è abbastanza chiara. ziale della condizione umana.
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Clover riconosce le difficoltà di mettere assieme i due elementi ma non è questo il problema più grosso. Il problema principale è che entrambi i partecipanti a questa «doppia rivolta» possono per un certo periodo fermare la società in uno o più posti, giocando un ruolo nei più ampi movimenti per il cambiamento sociale, ma nessun grup-
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Una rivolta scoppia quando i giovani scoprono che le strade che un tempo promettevano un minimo di integrazione formale garantita nell’economia sono oggi state pignorate. Un’altra rivolta scaturisce dal surplus di popolazione razzializzata e dalla violenza dell’amministrazione statale. Nel primo caso i rivoltosi possiedono delle cambiali prive di validità. Nel secondo caso, i rivoltosi non hanno proprio nulla.
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po possiede molto potere sociale o capacità di resistenza sulla lunga distanza. La loro stessa separazione dalla produzione evidenzia la loro relativa debolezza sociale. Inoltre ancora oggi i giovani sono divisi per classi sociali e hanno quindi diverse aspirazioni e possibilità. Gli studenti laureati frustrati, con minori prospettive riguardo la propria carriera accademica, o quelli che frequentano un master in Business, si trovano nella stessa posizione dei giovani che hanno studiato di meno e ora sono intrappolati in un lavoro da McDonald’s o peggio? E quel che è più importante è il fatto che, anche unendo le forze, i giovani e la parte attiva dell’esercito industriale di riserva rappresentano solo una minoranza del proletariato nel suo complesso o anche solo del proletariato razzializzato, e nemmeno in quanto giovani, generalizzando, sono parte del proletariato o ne condividono l’esperienza. Clover sta forse pensando a una vittoria rivoluzionaria o a una comune realizzata da e per una minoranza? La sua è forse una versione urbana, da Primo mondo, della teoria guerrigliera del «focolaio» elaborata da Régis DI RECENTE I MOVIMENTI Debray negli anni Sessanta, ma scritta in forma più elaborata e senSTATUNITENSI HANNO za la disciplina centrale? E che dire della visione di un socialismo MESSO IN PIEDI FORME dal basso, democratico e maggioritario, la cui forma politica venne DI SCIOPERO POLITICO suggerita a Marx dalla comune di Parigi, radicata in un luogo ben FUORI DALLO SPAZIO preciso? DELLA CONTRATTAZIONE Quale ruolo ha nella prospettiva di Clover – se ne ha uno – il vaCOLLETTIVA sto numero di cento milioni e più di lavoratori assunti nel settore privato della produzione o tra i lavoratori non supervisionati, le cui mani impugnano le leve, a bassa o alta specializzazione tecnologica, della produzione, della distribuzione e dei servizi sociali, molti dei quali incastrati in una realtà che vede un aumento intensivo del lavoro, salari stagnanti o in decrescita e un futuro senza pensione? Che dire dei sette milioni circa di lavoratori del settore pubblico ora sotto attacco, che sono anche parte di un più ampio proletariato? Questo gruppo di persone appartenenti alla classe lavoratrice, assieme ai loro colleghi e dipendenti, hanno visto le loro cambiali diventare cartastraccia. E hanno sia i numeri che un gran potenziale di forza in più rispetto all’esercito di riserva in eccesso e ai giovani disoccupati o sottoccupati, messi assieme. Potremmo anche chiederci: che dire della maggioranza bianca di quell’esercito di riserva in eccesso? Fanno in qualche modo parte dello scenario (anzi, del «focolaio»), assieme a quelli «che non fanno parte della forza lavoro»? Guardando l’altro lato dell’equazione rivolta/comune, che dire della classe capitalista, dei suoi arrampicatori sociali, dei loro protettori militari? I ricchi si limitano a imbarcarsi, coi militari al seguito, verso i loro paradisi fiscali per scambiarsi modelli di marketing verticale come lo Schema Ponzi? Non ci sono qui né strategia né attori in gioco, e nessuna forma di determinismo. La comune aspetta un attore sociale o attori con sufficiente potere da crearla e un luogo sulla terra dove realizzare la sua costruzione materiale.
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In ultima analisi la periodizzazione di Clover non funziona. La sua economia biforcata non rappresenta il vero capitalismo. Il suo uso della formula della circolazione di Marx e lo schema teoretico che cerca di derivare da questa, non reggono a un’attenta analisi. Il determinismo che informa tutta la sua teoria non riesce a portare a termine il risultato che ha promesso. È un peccato perché Clover è sulla pista giusta quando vede una crescita generale della resistenza e dell’attivismo d’opposizione e di disturbo, da Seattle a Occupy a Ferguson negli Stati uniti, le Primavere arabe e altre forme di resistenza in giro per il mondo, per non parlare di altri eventi realizzatisi dopo la pubblicazione del suo libro, come le mobilitazioni anti-Trump che hanno seguito la sua elezione e che si sono protratte anche in seguito. Le rivolte e le insurrezioni urbane di sicuro faranno parte di questa rinnovata ondata di resistenza e di attivismo, perché le ragioni che le provocano e le alimentano non scompariranno senza un profondo cambiamento sociale. I recenti movimenti di opposizione, tuttavia, non si basano solo – neanche primariamente – sulla «sovrappopolazione» e non è assolutamente inevitabile che saranno le rivolte a dominare le molteplici forme di azione che già vediamo all’orizzonte, assieme a quelle che ancora non sono comparse sulla scena. Tra le varie forme di lotta Clover rimuove la svolta compiuta da vari movimenti statunitensi proprio verso lo sciopero, stavolta realizzato fuori dallo spazio formale della contrattazione collettiva (e dalle statistiche governative) e pensato spesso in chiave politica. Gli scioperi di massa dei lavoratori immigrati del 2006 e del 2016; lo sciopero delle donne dell’8 marzo 2017 e 2018; i camionisti ispanoamericani nel porto di Los Angeles, senza alcun accordo di contrattazione collettiva, che però hanno scioperato quindici volte negli ultimi quattro anni; i tassisti di New York che hanno scioperato brevemente per protestare contro il travel-ban di Trump contro i musulmani, come hanno fatto i dipendenti di Google (anche se alla fine si è aggiunto il loro illuminato amministratore delegato); fino all’uso saltuario dello sciopero negli ultimi sette anni dal movimento Fight for $15 tra i lavoratori dei fast food, i Chicago Teachers Union e gli insegnanti del West Virginia. È qualcosa di nuovo nella politica statunitense che merita attenzione e analisi. Per essere precisi, tutti questi esempi rappresentano dei tentativi e non equivalgono allo sciopero di massa analizzato da Rosa Luxemburg o allo sciopero generale propugnato da Georges Sorel, discusso da Clover nel suo quinto capitolo. Ma come potrebbero questi esempi non risuonare nei ghetti e nei quartieri degli Stati uniti e nei luoghi di lavoro in cui si sgobba sotto pressione, per paghe più o meno basse? L’epoca di turbolenze economiche descritta da Clover non sembra destinata a scomparire. L’enorme pressione sulla forza-lavoro in quasi tutti i settori è provocata da anni di metodi di lean production, logistica just-in-time e dai recenti progressi nelle strategie di sorveglianza, finalizzati alla standardizzazione totale e all’accelerazione del lavoro: tutto questo indica la possibilità (non l’inevitabilità) di una rinascita di un’azione sul posto di lavoro, che includa lo sciopero e che, speriamo, vada anche oltre. In fin dei conti per la maggior parte «stiamo ancora lavorando, stiamo ancora lavorando troppo duramente, siamo pagati troppo poco...».
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WHAT BERNIE SHOULD DO
La strada che separa il socialista Bernie Sanders dalla Casa bianca nel 2020 è ancora lunga e piena di ostacoli. Eppure questa anomalia consente di aprire alcuni scenari. Il primo riguarda l’essenza stessa della scommessa: una volta entrato nella stanza dei bottoni cosa potrebbe e soprattutto dovrebbe fare un presidente di sinistra? Donald Trump 107
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Hillary Clinton
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uò un socialista diventare presidente degli Stati uniti d’America? Ha senso, nel 2020, una nuova sfida di Bernie Sanders per la Casa Bianca? E cosa dovrebbe e potrebbe fare una volta eletto? A venti mesi dalle prossime elezioni presidenziali (previste per il 3 novembre 2020), inizia la gara delle primarie. Nel campo democratico c’è forte attesa per la selezione del candidato in grado di battere Donald Trump dopo un solo mandato. A differenza di quattro anni fa, quando Hillary Clinton era già la candidata in pectore, a oggi non esiste un vero e proprio frontrunner. L’establishment liberal sembra essere ancora frastornato dalla batosta del 2016, quando con Clinton fu sconfitto un intero sistema di potere e consenso, quello del «neoliberismo progressista», per usare la felice espressione di Nancy Fraser, che domina il centrosinistra americano da oltre trent’anni. Negli Usa tira un’aria nuova: non c’è candidato democratico, oggi, che non abbia dichiarato il suo appoggio al progetto Medicare for all, cioè l’introduzione di un servizio sanitario nazionale pubblico per tutti negli Stati uniti, che solo tre anni fa Hillary Clinton definiva «un’idea che non passerà mai e poi mai». L’impressione, in generale, è che l’elettorato democratico, negli anni della crisi economica, si sia significativamente spostato a sinistra, e che nella fase di forte polarizzazione della presidenza Trump sia impossibile competere senza una candidatura dalla forte carica populista. Il Partito democratico non è ancora (e probabilmente non sarà mai) un partito di sinistra alla Sanders, ma non è più (almeno per ora) solo un partito centrista alla Clinton. Anche se, come ha scritto sul Guardian il direttore di Jacobin Bhaskar Sunkara, «è probabile che nel 2020 le grandi aziende scommetteranno sul Partito democratico forse più di quanto hanno fatto nel 2016. In circostanze normali, il Partito democratico sarebbe il loro secondo partito preferito. Con un Trump così imprevedibile in circolazione, diventa spesso e volentieri il primo». L’establishment liberal, non volendo cedere a sinistra sul piano della linea politica, prova a recuperare questa carica populista appellandosi a candidati i cui tratti biografici (donne, minoranze etniche, giovani, personalità carismatiche) possano permettere di raccontare una storia di insorgenza in grado di mobilitare un elettorato giovanile sempre più insofferente. Candidati come Julian Castro, Kirsten Gillibrand e soprattutto Kamala Harris e Cory Booker, in attesa della possibile discesa in campo della giovane stella liberal Beto O’Rourke, rappresentano questo: il tentativo di trovare un “nuovo Obama”, un candidato carismatico, innovativo ed entusiasmante,
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che sappia mobilitare elettorato giovanile, donne e minoranze etniche, restando ben ancorato ai paletti ideologici del modello centrista. A spaventare l’establishment democratico è infatti il consenso crescente riscosso da Elizabeth Warren e Bernie Sanders, due candidati anti-establishment che, per la prima volta in decenni, hanno possibilità realistiche, per quanto minoritarie, di partecipare alla corsa per la Casa Bianca, e di giocarsela per vincere. È a cosa potrebbe davvero fare se fosse eletto il senatore del Vermont che Jacobin Magazine dedica il tema del numero 32 della rivista, di cui traduciamo qui alcuni articoli. La sua proposta politica suscita a sinistra aspettative ben più forti di quanto faccia quella di Elizaberth Warren: come spiega l’articolo di Shawn Gude, la senatrice del Massachusetts è una delle voci più credibili a sinistra all’interno del Partito democratico, avendo guidato storiche battaglie per la tutela dei consumatori e contro Wall Street, ma resta una liberaldemocratica, concentrata più sull’attenta regolazione del mercato che sulla limitazione del suo ruolo, e il suo liberalismo si porta dietro la convinzione che «gli imprenditori possano essere illuminati, il capitalismo possa essere reso democratico, e la potenza americana possa essere utilizzata a fini progressivi». Bernie Sanders, invece, promette cambiamenti profondi. Una presidenza socialista degli Stati uniti, spiega Meagan Day, potrebbe fare la differenza attraverso l’emanazione di executive orders, decreti presidenziali in grado di aggirare le prevedibili ostilità parlamentari, su temi come clima, politica estera, giustizia penale, salario minimo, debito studentesco. Ma conquistare il governo non equivale a prendere il potere, ricorda l’articolo di David Broder: la storia della sinistra europea dell’ultimo secolo si svolge in gran parte sul crinale di questa contraddizione, tra mobilitazione di classe e istituzionalizzazione nell’apparato statale. In tempi di rinnovato interesse della sinistra per la conquista dello stato, Broder ricorda due lezioni fondamentali della storia del Novecento: senza l’organizzazione e la mobilitazione di una radicata base sociale e senza la volontà di usare il potere statale per cambiarne in profondità la natura e i meccanismi, ogni vittoria rischia di essere effimera. Sulle lezioni storiche e le contraddizioni della politica parlamentare si concentra anche Eric Blanc: attraverso la vicenda di Meyer London, deputato di New York al congresso per il Partito socialista tra il 1915 e il 1932, Blanc segnala l’efficacia con cui il Partito democratico tende storicamente a cooptare e neutralizzare le voci radicali, e suggerisce la necessità di autonomia nell’organizzazione e nell’agenda politica per i socialisti al congresso, a cominciare dalle nuove deputate Alexandria Ocasio-Cortez e Rashida Tlaib.
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CAUCUS
I socialisti al Congresso Molto prima di Alexandria Ocasio-Cortez, la città di New York elesse il deputato della classe operaia Meyer London. Era il 1915 quando iniziò una lunga storia politica che è piena di indicazioni utili ancora ai giorni nostri
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Eugene Debs
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opo decenni di subordinazione bipartisan alle aziende degli Stati uniti, l’elezione di Alexandria Ocasio-Cortez è una boccata d’aria di cui si sentiva il bisogno. Prima ancora di assumere il mandato, Ocasio-Cortez ha già scatenato un’impennata di adesioni nei Democratic Socialist of America (Dsa), ha ventilato l’idea di un nuovo sub-caucus al Congresso [con il termine caucus, si intende Eric Blanc sia una assemblea di partito che un raggruppamento di eletti], ha promosso la disobbedienza civile nello staff di Nancy Pelosy e si è opposta alla richiesta di Amazon di un nuovo quartier generale finanziato dal governo nel Queens. Come ha scritto in un recente tweet in cui si dichiarava a favore del Green New Deal e a garanzie per lavori nell’amministrazione federale, è giunto il momento che i deputati eletti «spingano in avanti il limite di quel che è possibile». In un contesto caratterizzato da profonda rabbia popolare contro lo status quo, sono segni incoraggianti. Sia gli amici che gli avversari sono consapevoli che Ocasio-Cortez – come Bernie Sanders, Rashida Tlaib, Julia Salazar e altri socialisti eletti di recente – possono giocare un ruolo di rilievo, riportando in vita una sinistra working class negli Stati uniti. Le possibilità politiche sono immense, come anche però le pressioni dall’alto. Le pressioni dei moderati su Ocasio-Cortez aumenteranno in maniera significativa e non è chiaro quanto lei sia pronta a rompere con le norme, le politiche e le strutture del Partito democratico. Insieme a mosse più ribelli, ha anche offerto un ramo d’olivo all’establishment del partito, ad esempio offrendo il proprio sostegno alla candidatura di Nancy Pelosi come speaker della Camera. Il Partito democratico forse non è così abile a vincere le elezioni, ma se la cava benissimo se c’è da cooptare movimenti sociali e figure radicali. Per questo Bhaskar Sunkara, direttore di Jacobin, di recente ha Eric Blanc si occupa di sostenuto che «per essere sicuri che i nuovi socialisti eletti non storia del movimento finiscano come i democratici filocapitalisti, serve un caucus al operaio e insegna Congresso per i socialisti democratici». sociologia alla Per essere precisi, i socialisti eletti in che modo dovrebbero New York University. comportarsi per essere diversi dai democratici progressisti o La traduzione moderati? Per rispondere a questa domanda, non c’è bisogno è di Alberto Prunetti. di ricorrere a congetture. Un secolo prima del sorprendente shock elettorale di Ocasio-Cortez, un simile terremoto politico ha colpito il paese quando New York elesse il suo primo socialista al Congresso: Meyer London, immigrato ebreo e leader della classe operaia. Sebbene oggi i Democratici amino prendersi il merito delle riforme del New Deal, bisogna dire che gran parte di questi cambiamenti erano già stati promossi al Congresso da questo deputato socialista di New York. I nuovi socialisti di oggi hanno molto da imparare da questa storia dimenticata.
Un socialista al Congresso
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Meyer London e Alexandria Ocasio-Cortez hanno tanto in comune, al di là di essere membri socialisti del Congresso eletti a New York. Come Ocasio-Cortez, London veniva da una famiglia di immigrati e fu eletto in un distretto composto in gran parte da immigrati
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di classe operaia. Mentre era al Congresso, dal 1915 al 1919 e poi dal 1921 al 1923, London combatté con decisione contro la politica razzista del governo federale che fissava quote per l’immigrazione di asiatici ed ebrei. Queste restrizioni, sosteneva, «violano il principio fondamentale del socialismo, che proibisce il razzismo». Come la sconfitta di Joe Crowley, personaggio interno al potere democratico, messa a segno da Ocasio-Cortez anche la vittoria di London su Henry M. Goldfogle nel 1914 fu un colpo diretto al cuore del Partito democratico, a New York e nel resto del paese. Fu anche una potente ispirazione per i lavoratori, che in migliaia celebrarono la sua elezione, per tutta la notte, nelle strade del Lower East Side. Pochi giorni dopo dodicimila persone si stiparono nel Madison Square Garden per celebrare la vittoria. L’evento venne descritto dal New York Times in questi termini: Il meeting è stato movimentato e pieno di entusiasmo. Una vivace aria musicale ha fatto alzare in piedi la folla, esultante. Ogni acuto oratorio portava a un’interruzione fragorosa e quando il deputato London è comparso per parlare la folla ha applaudito per almeno 15 minuti.
Sebbene London si trovasse alla sinistra del Congresso, in realtà faceva parte dell’ala meno radicale del Socialist Party (Sp). Con solo una superficiale adesione al marxismo, London credeva in una forma di transizione evoluzionista verso il socialismo ed esitò a opporsi alla Prima guerra mondiale, al contrario di Eugene Debs, suo compagno di partito. Semmai, la relativa moderazione di London ci viene in soccorso per farci capire quanto le posizioni da lotta di classe che abbracciava fossero la norma tra tutti i socialisti, all’epoca. Quel che lo rese diverso dai progressisti ufficiali non era una stravaganza personale ma la sua lunga adesione al Sp e il suo impegno nel progetto politico di base del partito. Per costruire un profilo politico che fosse differente da tutte le fazioni istituzionali, London adottò tre massime socialiste che ancora oggi non hanno perso la loro rilevanza: dai forza alla lotta di classe, promuovi il socialismo, resisti contro il Partito democratico.
I socialisti guardano al mondo in maniera diversa dai democratici moderati. Se i moderati fondamentalmente vedono la politica come una questione che si distende su uno spettro che va da sinistra a destra, per i socialisti la direzione giusta è il basso contro l’alto. Ad esempio: gli operai contro i capi. Questa divergenza si esprimeva anche nel campo dei fondi per la campagna elettorale. Non sorprende che Meyer London non avesse finanziatori aziendali. Raggiunse la fama politica principalmente mettendosi alla testa della “rivolta dei ventimila” del 1909-10, uno sciopero generale esplosivo di operai immigrati del settore tessile. «Non possiamo fidarci della pietà dei datori di lavoro», dichiarò a nome del comitato sindacale, «con nostro dolore, ci siamo fidati di loro anche troppo a lungo». Dopo il successo di quello sciopero, l’ascesa di London al Congresso dipese principalmente da risorse fornite dai sindacati, dal Sp e da piccoli donatori. In confronto, oggi quasi ogni membro del Congressional Progressive Caucus prende denaro da aziende. Da parte sua, la sedicente progressista Nancy Pelosi ha un patrimonio netto di 120 milioni: non solo riceve un
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Classe contro classe
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cospicuo sostegno finanziario dalle imprese, ma in quanto proprietaria di un’azienda enologica non sindacalizzata, Pelosi alla lettera è una capitalista (come il suo marito milionario). Il denaro non è tutto ma queste basi materiali danno forma alle politiche dei deputati eletti. London è sempre stato chiaro sul fatto che cercava di rappresentare gli interessi della classe operaia contro il capitale. A un raduno di massa di lavoratori dell’East Side, spiegò: «Con la vostra assistenza, la vostra cooperazione e il vostro sostegno, cercherò di lottare per i lavoratori di questa città, dello stato e della nazione». E al contrario di molti benintenzionati politici progressisti non ebbe mai paura di indicare i capitalisti come origine dei problemi dei lavoratori. In risposta alle rivolte delle donne lavoratrici in conseguenza delle penurie alimentari del 1917, dichiarò: Il popolo non può affidare la questione del pane, la questione della vita, ai governanti e ai servi dei riccastri, responsabili dell’alto costo della vita. Chi, all’infuori delle masse operaie e del movimento socialista, può essere incaricato degli interessi vitali del popolo, in tempi tanto difficili?
Sebbene London si mobilitò su un ampio spettro di tematiche – tra cui il sostegno per il suffragio delle donne, la legislazione contro i linciaggi e l’autodeterminazione di Porto Rico – la sua attenzione si concentrò sulle richieste più scottanti dei lavoratori. Durante la sua campagna elettorale e dopo l’elezione, London denunciò regolarmente la mancanza di case popolari a buon mercato, di salari sufficienti per campare, di una sanità pubblica e un’assicurazione sociale. Sosteneva che questi punti fossero prese di posizione chiave che distinguevano i socialisti dai politici rivali: «Quel che ascoltiamo durante la campagna elettorale è rumore, solo rumore e nient’altro. Ogni canLONDON CONCENTRÒ didato del vecchio partito cerca di competere con gli altri evitando di LE FORZE SULL’OBIETTIVO affrontare le questioni davvero vitali». DI ISTITUIRE UN SISTEMA Un’analisi di classe ispirava anche la sobria valutazione di London SANITARIO NAZIONALE sui limiti di quel che si può realizzare attraverso mezzi meramente eletE UN’ASSICURAZIONE torali, soprattutto in una legislatura dominata da politici filo-aziendali. SOCIALE UNIVERSALE Il New York Call, un quotidiano socialista, descriveva la situazione in questi termini: «Si trova letteralmente chiuso in una gabbia di persone ostili, dove nessuno è ammesso, a parte i suoi nemici». In questo contesto London interpretò il suo ruolo soprattutto come volto ad accrescere la coscienza di classe, sostenere le lotte dei lavoratori e diffondere le idee socialiste fuori dai corridoi del potere. Subito dopo le elezioni del 1914 disse con fermezza ai suoi sostenitori: Non mi aspetto di compiere miracoli al Congresso. Mi aspetto di consegnare un mesaggio… Compagni, non permettete a voi stessi di farvi ingannare da questa vittoria. Non diventate meno attivi. Cominciate il lavoro di organizzazione in ogni distretto. Il nostro non è che un piccolo inizio.
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L’impegno a cambiare il dibattito politico nazionale e a costruire un potere di classe si concretizzò nel principale disegno di legge di London, a cui lavorò dal 1914 in avanti: spingere per una forma di assicurazione sociale universale, nella forma di un sistema sanitario nazionale, una cassa a sostegno di disoccupati e disabili e un programma di lavori
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nelle opere pubbliche. Come osserva lo storico Gordon Golberg, «nonostante il rifiuto della Camera ad appoggiare la sua proposta, London […] ha contribuito a lastricare la strada delle riforme del New Deal». Osteggiati dal Congresso, London e il Socialist Party proclamarono un giorno nazionale d’azione per il 12 febbraio 1915 per ottenere l’assicurazione sociale. Di fronte a una manifestazione di migliaia di persone in Union Square, London disse chiaramente che l’organizzazione e la lotta di massa erano necessarie per obbligare lo stato a concedere quell’ambizioso programma di riforme. «Se la classe operaia serra le proprie forze, può costringere il governo ad agire su questi problemi». Quest’analisi è stata rivendicata due decenni più tardi, quando uno sciopero generale senza precedenti, guidato dai socialisti, obbligò un riluttante Roosvelt e il Partito de«SIAMO CAPITALISTI, mocratico a promulgare la “seconda” fase radicale del New Deal. LE COSE FUNZIONANO Anche se la storia non si ripete alla stessa maniera, oggi gli inseCOSÌ», HA RISPOSTO LA gnamenti di questa esperienza sono evidenti nella lotta per il MeSPEAKER DEL PARTITO dicare for All e il Green New Deal. Dato che entrambi costituiscono DEMOCRATICO NANCY un attacco frontale al grande business, è altamente improbabile che PELOSI A UNO STUDENTE la vittoria arrivi da manovre di corridoio nella commissione della camera dei rappresentanti o da compromessi con leader comprati dalle aziende come Pelosi, che ha respinto tutti i tentativi di far approvare un progetto di assicurazione sanitaria quando già era presidente della camera nel periodo dal 2007 al 2011. Per far vincere le richieste scottanti sostenute dai socialisti e dagli onesti progressisti serve la lotta di classe, non i compromessi di classe.
Una visione socialista
Niente illustra in maniera più convincente il fallimento economico e morale del presente sistema di proprietà, individuale o capitalistico, della scarsità di cibo nelle nostre città più ricche e nei periodi più prosperi nella storia del nostro paese […]. Non siamo mai stati tanto ricchi e ci sono le rivolte per il pane! Questo è il capitalismo. Questo è il dominio del capitale privato sulla società umana.
Per London, il socialismo è sostanzialmente volto a espandere la democrazia nell’arena economica abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione: «Senza democrazia
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Al contrario dei socialisti – e oggi di una vasta maggioranza di millennial – i Democratici moderati e progressisti sostengono apertamente il capitalismo. In un town hall meeting della Cnn del 2017 è diventata famosa la risposta di Nancy Pelosi a un giovane studente della New York University che suggeriva al Partito democratico di spostarsi a sinistra per offrire «un più deciso contrasto alle politiche economiche di destra»: «Siamo capitalisti, le cose funzionano così». Più di recente la senatrice democratica Elizabeth Warren ha dichiarato alla stessa maniera di essere «capitalista fino al midollo». Al riguardo la posizione di Meyer London era inequivocabile. Il capitalismo, dichiarò in un discorso al Congresso del 1916, è di per sé un sistema irrazionale e dispendioso, che spreca miliardi per l’espansione militare mentre lascia morire di fame le persone:
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industriale non ci riterremo soddisfatti […]. Non avremo pace fino a quando il potere capitalista sarà distrutto e i lavoratori saranno emancipati dalla schiavitù del salario». Questa presa di posizione, spiegava, non significa invocare la violenza e nemmeno sminuire la lotta per le riforme. Ottenere le riforme darebbe ai lavoratori la fiducia e l’organizzazione necessari per lottare prima o poi per una trasformazione sociale più sostanziale. Infatti gran parte della mobilitazione pubblica di London e delle sue proposte legislative si concentravano su questioni concrete. Ad esempio, London riuscì a far approvare dal Congresso la prima legge che permetteva ai lavoratori di esigere le paghe loro dovute da quelle aziende che avessero dichiarato fallimento. Una vittoria che ha fissato un precedente legale, tra altre cose, per l’attuale campagna dei lavoratori licenziati di Toy R’ Us promossa da Alexandria Ocasio-Cortez. Nonostante London di solito si concentrasse su lotte per riforme richieste con urgenza, un’ampia visione di un futuro socialista era parte importante del suo sistema di valori e della sua mobilitazione pubblica. Convincere le persone che un mondo migliore fosse possibile non andava contro a una politica di riforme quotidiane e aveva benefici reali nella lotte del presente. Rifiutando il capitalismo, London riusciva con più facilità a convincere i lavoratori che non avrebbero dovuto sopportare il loro destino per tutta la vita: lo status quo non era né legittimo né inevitabile. Una stimolante visione di una società priva di classi aiutò il Socialist Party a tesserare più di centomila membri e gli fornì le convinzioni politiche e morali che animarono la loro instancabile opera nelle battaglie elettorali e sindacali. Al raduno per la vittoria elettorale del 1916 London spiegò: Non avete fatto questi sacrifici per me. Ognuno in questa campagna ha lavorato per l’ideale che sprona i socialisti a lavorare contro tremende avversità nella battaglia contro il capitalismo. Il socialismo è la voce dell’umanità, del futuro e del mondo. Avete un nobile e leale compito. Non dovete neanche per un attimo vacillare ma dovete lottare, dovete sempre lottare.
La forza di questa dinamica si è resa di nuovo evidente durante le recenti campagne di Sanders e Ocasio-Cortez. Il loro sostegno al socialismo democratico – nonostante siano più socialdemocratici di London e delle prospettive del Socialist Party – ha fatto iscrivere ai Dsa decine di migliaia di nuovi membri, inclusi i leader di base dello sciopero degli insegnanti del West Virginia del 2018. Negli anni a seguire, continuare a usare l’arena elettorale per radicare l’influenza dei socialisti organizzati in sindacati e movimenti di massa sarà essenziale per generare il potere sociale necessario a prevalere sul neoliberismo e, alla fine, sul capitalismo stesso.
La trappola del Partito democratico
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I moderati di sinistra e i progressisti mainstream considerano il Partito democratico un’organizzazione aperta e neutrale che le “forze del bene” possono utilizzare. Al contrario, London e il Socialist Party sostenevano che i lavoratori avessero bisogno di un loro partito specifico perché il Partito democratico, nonostante la sua retorica populista, era un’istituzione saldamente controllata dal grande business.
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Sebbene London collaborò con altri deputati e sostenne sempre ogni legge positiva, che andasse a vantaggio dei lavoratori, non si trattenne dal dichiarare che gli altri partiti «erano a servizio dei capitalisti contro la classe operaia». Non era retorica priva di fondamento. Come nel caso della presidenza Obama, la prassi empirica dell’amministrazione di Woodrow Wilson (1913-21) rivelava la vera fedeltà di classe dei leader democratici. Erano sordi alle richieste dei lavoratori di riforme economiche e politiche e infatti furono proprio i democratici ad avere la responsabilità della sconfitta del lungo iter legislativo per un’assicurazione sociale universale, un disegno di legge voluto da London. Rompendo con la retorica progressista e con le promesse fatte in campagna elettorale, i democratici si opposero anche alla modesta proposta di formare una commissione per studiare i problemi della disoccupazione. London prese la parola alla Camera per denunciare «l’ignoranza e la mancanza di trasparenza» di entrambi i partiti:
E proprio come nel caso di Obama, quando le sue politiche economiche e il salvataggio delle aziende hanno lastricato la strada alle elezioni di Trump, Wilson – «il male minore» – portò nel 1920 all’elezione del repubblicano Warren Harding, ossia «il grande male». London non rimase affatto stupito da questi sviluppi, dato che «il primato vergognoso» del governo democratico aveva dimostrato la vacuità delle loro promesse elettorali di sinistra. LONDON RIFIUTÒ Forse ciò che distingue in maniera netta da un punto di vista poDI CANDIDARSI litico London da Ocasio-Cortez e da altri socialisti appena eletti è NELLE LISTE DEL PARTITO proprio l’antagonismo verso il Partito democratico. Dopo aver rifiuDEMOCRATICO. tato, per una questione di principio, di correre al voto sulla lista di un IL CHE GLI CONSENTÌ partito capitalista, London era stato un candidato socialista indipenMAGGIORE INDIPENDENZA dente dal 1896, prima di vincere finalmente nel 1914 su una lista del DALLO STATUS QUO Socialist Party. Rifiutare di correre su una lista del Partito democratico rese più arduo il percorso elettorale di London ma una volta eletto gli fornì, alla pari degli altri candidati del Socialist Party, maggiore indipendenza organizzativa e politica dallo status quo. London era assolutamente libero di dire quel che pensava e di combattere con coraggio per i lavoratori, dato che non dipendeva dalla macchina del Partito democratico per i finanziamenti, per il sostegno degli attivisti e per le commissioni congressuali. E la sua indipendenza non fu offuscata dalla necessità di sostenere i democratici mainstream (una regola che puntella lo status quo, come osserva Kim Moody, che la leadership democratica continua a esigere dalla sua ala progressista). London in campagna elettorale appoggiò solo altri socialisti e, una volta al Congresso, si astenne dal votare il candidato democratico per la presidenza della camera.
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Quarantasette democratici traditori, troppo codardi da votare una misura socialista che aveva la possibilità di passare, che l’avevano votata l’anno scorso ma si sono rifiutati di votarla quest’anno: la più spregevole azione politica di cui un partito debba essere ritenuto colpevole.
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Certo, la sua indipendenza aveva degli svantaggi. La classe egemone si rivolse a London e al Socialist Party più col bastone che con la carota: gran parte del suo mandato coincise con un giro di vite bellico contro il dissenso e il primo “terrore rosso”, quando un vasto numero di radicali, in ogni angolo degli Stati uniti, vennero sottoposti a censura o imprigionati o si videro privati dei diritti democratici fondamentali da parte dell’amministrazione Wilson. Ansiosi di sconfiggere un candidato che non potevano controllare, i Repubblicani e i Democratici fecero convergere le proprie forze su un candidato sicuro, in modo da prevalere su London nel 1918. Quando nel 1920 questa manovra non bastò a sconfiggerlo, i leader del partito nel 1922 modificarono la geografia dei distretti elettorali, cancellando il distretto che l’aveva eletto. Al contrario, oggi la ribellione elettorale socialista si è realizzata soprattutto all’interno delle liste del Partito democratico. I socialisti organizzati erano una componente importante ma non decisiva della campagna di Ocasio-Cortez. Questa ambiguità politica ha aiutato alcune figure di spicco del Partito democratico come Steny Hoyer, Minority Whip della Camera, a minimizzare i legami socialisti di Ocasio-Cortez, sostenendo che in fondo «lei è una democratica». L’apparato del partito, almeno per il momento, sembra più interessato a integrarla che a isolarla. Se ci riuscirà è un’altra faccenda e dipenderà non solo dalle scelte di Ocasio-Cortez e del suo team, ma anche dalla pressione dal basso generata dai movimenti di massa e dalle organizzazioni socialiste. La natura istituzionale del Partito democratico lo rende impenetrabile a una conquista da sinistra. Quindi prima o poi i lavoratori dovranno formare un loro partito. Ma non ci sono risposte facili o semplici formule su come procedere nel nuovo contesto dei nostri giorni. Considerando le relative debolezze del movimento socialista e i noti ostacoli all’elezione di candidati provenienti da partiti terzi, aveva tatticamente senso per Ocasio-Cortez, come Sanders prima di lei, correre su una lista elettorale del Partito democratico. Allo stesso tempo, i deputati socialisti hanno bisogno della piena indipendenza dall’establishment del partito per promuovere in maniera efficace gli interessi della classe lavoratrice. Fare compromessi con leader come Nancy Pelosi e Chuck Schumer può sembrare pragmatico ma è un sentiero scivoloso. Seguire le regole del gioco ha portato troppi politici onesti a piegarsi e venire inclusi nella macchina, finanziata dal business, del Partito democratico, il cui centrismo fallimentare ci ha portati all’attuale incubo di Trump. Anche in termini di realpolitik, è controproducente per i socialisti e per i veri progressisti compromettersi con la leadership di Pelosi e Schumer, dato il supporto tremendamente basso di cui godono tra la vasta maggioranza degli statunitensi. Per questioni pratiche e di principio, ha più senso continuare a rafforzare ed esporre le contraddizioni tra i lavoratori e l’establishment del Partito democratico. Come Meyer London un secolo fa, l’elezione di Ocasio-Cortez ha sollevato enormi speranze e aspettative in milioni di persone. Per fortuna Ocasio-Cortez ha dimostrato la propria volontà di rompere alcune regole dei democratici. Probabilmente sarà necessario romperle tutte se vogliamo costruire un’alternativa credibile al trumpismo, soddisfare le nostre richieste più urgenti e ricostruire un movimento di massa tra i lavoratori negli Stati uniti.
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Il socialista e la liberale Bernie Sanders non viene considerato come l’unico candidato anti-establishment. Accanto a lui c’è Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, che si limita a voler correggere le storture e invocare la concordia tra le classi
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lizabeth Warren capisce meglio di chiunque altro la differenza tra lei e Bernie Sanders. Sanders «è un socialista», spiega Warren, «mentre io credo nei mercati». Warren è una «capitalista fino al midollo», mentre Sanders è appunto un socialista democratico. Cavilli a parte – di sicuro Warren non campa grazie alle rendite del capitale, e i mercati sono compatibili con il socialismo – la Shawn Gude senatrice del Massachusets ha ragione: lei e Sanders vengono da tradizioni politiche differenti. Di base Warren è una fan dei regolamenti, e crede che il capitalismo funzioni meglio con la libera competizione; Sanders Shawn Gude è un tribuno del popolo, consapevole dell’esistenza delle clasè associate editor si sociali, e ritiene il capitalismo fondamentalmente ingiusto. di Jacobin Magazine. Warren interpreta le sue riforme più ambiziose come tentativi La traduzione è di Gaia di rendere il capitalismo «responsabile»; Sanders preme per legBenzi. gi come lo Stop Bezos Act e denuncia gli amministratori delegati per lo sfruttamento dei lavoratori. Warren desidera un clima di armonioso accordo tra lavoratori e datori di lavoro; Sanders incoraggia i lavoratori a contrattaccare. Anche le differenze in politica estera derivano dalle diverse tradizioni politiche cui fanno riferimento. Nessuno dei due appoggia l’interventismo militare, ma il senatore del Vermont si è dimostrato molto più propenso a criticare i crimini dell’imperialismo Usa – come nella fa-
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mosa dichiarazione in un dibattito del 2016 contro Hillary Clinton: «Henry Kissinger non è un mio amico». Warren, pur disapprovando l’avventurismo stile Bush, vede il ruolo dell’America sotto una luce molto più convenzionale: quest’anno, in un saggio per Foreign Affairs, ha sostenuto che dovremmo «promuovere la potenza americana e i suoi valori in tutto il mondo». La tradizione politica di Warren si colloca alla sinistra del liberalismo middle-class; Sanders, invece, fa riferimento al socialismo americano. Per metterla in termini più iconici, Warren è Louis Brandeis, Sanders è Eugene Debs.
Brandeis e Debs
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Brandeis e Debs sono probabilmente svaniti dalla memoria collettiva, ma sono state due figure centrali nella politica americana del Ventesimo secolo. Noto ai più come «il difensore del popolo», Brandeis ha fatto l’avvocato dal 1878 al 1916, quando Woodrow Wilson lo scelse come primo giudice ebreo della Corte suprema. Mente legale raffinata e appassionata nella difesa delle cause che prendeva a cuore, Brandeis disprezzava corruzione e monopoli, riteneva danneggiassero l’interesse pubblico. Il suo bersaglio principale erano le grandi corporation e la finanza. La loro straordinaria crescita, intuì Brandeis, non era il risultato di efficienza o di qualità superiore dei prodotti. Erano semplicemente bravi a fare i prepotenti. Il loro comportamento monopolistico travolgeva le aspirazioni dei semplici consumatori e lavoratori, lanciando sul mercato una specie di incantesimo pestifero – una sorta di «maledizione della grandezza».
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Le disuguaglianze aumentarono ulteriormente, ed era sempre più difficile attuare una forma di controllo popolare. «Dobbiamo fare una scelta», sostenne Brandeis in una delle sue frasi più citate. «Possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe». Eppure Brandeis non era un radicale. Acceso sostenitore della piccola impresa, pensava alle riforme come strumenti di prevenzione contro il socialismo. «La legge che vogliamo rinforzare», scrisse Brandeis nel 1912 consigliando Woodrow Wilson, «è la legge della competizione»: se le imprese avessero dovuto competere per accaparrarsi forza lavoro e consumatori, se un set di regole chiare avesse limitato l’avidità di businessman senza scrupoli, tutti avrebbero ricevuto un trattamento equo. Brandeis diede corpo ai suoi ideali nel 1910, a New York, quando contribuì a organizzare uno sciopero degli operai del settore tessile. Portando avanti la sua idea di «auto-governo dell’industria», aiutò a istituire tre comitati con una rappresentanza di lavoratori per gestire le dispute amministrazione-personale e supervisionare le condizioni di lavoro. Brandeis, scrive la sua biografa Philippa Strum, pensava che «se le persone avessero esposto con ragionevolezza il proprio punto di vista le une alle altre sarebbe stato possibile raggiungere un accordo». Debs, il membro più importante del Partito socialista d’America, la pensava in maniera molto diversa sul capitalismo industriale. Il capitalismo aveva concentrato la ricchezza e il potere nelle mani di pochi, la soluzione invece era creare un «commonwealth cooperativo» in cui l’industria sarebbe stata controllata democratiEUGENE DEBS camente e i lavoratori avrebbero ricevuto i frutti pieni del loro lavoro. La ERA SOCIALISTA solidarietà, e non la competizione, era la parola d’ordine di Debs. E SINDACALISTA Il potere doveva essere strappato alla classe degli imprenditori atINDUSTRIALE, traverso il voto, gli scioperi e l’unità di classe. Nessun tipo di patteggiaSI OPPOSE ALLA PRIMA mento equanime, nessuna forma di ragionamento pacato avrebbero GUERRA MONDIALE potuto colmare il gap strutturale tra lavoratori, lavoratrici, e capitalisti. E FINÌ IN CARCERE Debs arrivò a queste convinzioni tardi nella vita. Come giovane sindacalista di Terre Haute, in Indiana, aveva spronato i suoi colleghi ferrovieri alla sobrietà, a diventare impiegati modello, nella speranza che un atteggiamento conciliante avrebbe fruttato delle ricompense. La prova della lotta di classe fece a pezzi questa ricetta. Alla fine del secolo era diventato un socialista convinto e un sindacalista industriale. Quando Debs tuonava alla folla assorta – tutto accovacciato, la zucca pelata che sporgeva in avanti, le mani che gesticolavano in fuori – parlava con l’autorevolezza di qualcuno che era stato perseguitato e imprigionato per aver guidato scioperi e predicato il vangelo democratico della working class. Ma fu un’arringa contro la prima guerra mondiale a sbatterlo in galera per parecchio tempo. Il Partito socialista si oppose sin da subito all’entrata in guerra degli Stati uniti: ritenevano la guerra un conflitto tra potenze imperialiste in competizione tra loro che facevano dei lavoratori carne da macello. Debs, gettando una luce tra le ombre del militarismo, aveva preso posizione contro la guerra nell’estate del 1918. Fresco di visita alla prigione locale
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dove erano rinchiusi tre pacifisti socialisti, si presentò davanti alla folla in un parco pubblico di Canton, in Ohio, con un discorso che ironizzava sull’idea che la posta in palio della guerra fosse la democrazia e stroncava i «rottami di Wall Street». Il governo lo arrestò subito. Brandeis – consigliere fidato di Woodrow Wilson anche dopo la nomina alla corte suprema – si bevve la retorica presidenziale sul rendere il mondo un «posto sicuro per la democrazia». Sostenne la guerra. Se l’internazionalismo aveva portato Debs a stare dalla parte dei socialisti tedeschi che per decenni si erano opposti al militarismo del Kaiser, l’internazionalismo di Brandeis lo aveva condotto a supportare la guerra di Wilson come meccanismo di controllo dell’aggressività tedesca. Debs aveva stretto legami di solidarietà con le forze democratiche al di là dei confini; Brandeis credeva nel potere benevolo dell’emergente stato americano. Quando il caso di Debs arrivò sulla scrivania della Corte Suprema nel 1919, le fratture generate dalla guerra erano ancora molto forti. Brandeis si unì agli altri giudici nel confermare la pena del Detenuto Numero 9653.
Warren e Sanders
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Per come la racconta lei, Elizabeth Warren è arrivata alle sue convinzioni politiche attraverso anni di studio delle leggi statunitensi sulla bancarotta, dopo esser stata cresciuta da una famiglia working class in Oklahoma. Professoressa di legge, negli anni Ottanta e Novanta Warren scoprì che un gran numero di statunitensi stava precipitando verso la bancarotta, non in virtù di sperperi privati, ma per via di salari stagnanti e del comportamento rapace di banche e società di credito. Anno dopo anno, indipendentemente dalle performance dell’economia, i grafici di Warren registravano tassi di fallimento sempre più alti. Mentre faceva pressioni sui legislatori per una riforma progressiva della bancarotta, fu testimone delle tattiche pesanti che i creditori mettevano in campo per fare a pezzi i loro avversari. Warren, da sempre convinta sostenitrice del gioco pulito e della fedeltà ai fatti, era sconvolta. «Ho passato più o meno vent’anni a sudare sopra ogni singolo dettaglio di una lunga serie di studi accademici, agonizzando sulle dimensioni e sul significato statistico degli esempi, per essere sicura che qualunque cosa scrivessi fosse giusta», ricorda Warren nel suo libro del 2014, A Fighting Chance. «Le banche compilano un assegno, commissionano uno studio che simpatizza per loro, e si comprano letteralmente i fatti». Nel 2007 – qualche anno dopo una sua apparizione da Dr. Phil che l’aveva messa sotto i riflettori – Warren pubblicava un articolo sul giornale Democracy chiedendo una «Commissione di Sicurezza sui Prodotti Finanziari». Come ispirata dal fantasma di Brandeis, Warren sosteneva che una nuova agenzia avrebbe potuto passare indenne per l’enorme montagna di legalese tributario e difendere i piccoli consumatori dagli imbrogli delle grandi banche. Questo genere di visione riformista le ha procurato anche alcuni incarichi politici. Il capitalismo di Warren è un capitalismo regolamentato nel quale ciascuno gioca secondo le regole, non importa a quale classe appartiene, e ne ottiene dei benefici. I lavoratori lavorano sodo e ricevono una paga decente, i piccoli imprenditori lavorano sodo e com-
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petono in un mercato giusto, le corporation – felici di tener fede ai patti pagando tasse più alte – fanno bellissimi profitti. Il sistema funziona a meraviglia, lontano dagli strepiti del conflitto di classe, perché ciascuno riceve quanto gli spetta.«Perché il capitalismo funzioni», scriveva Warren nel 2014, «abbiamo bisogno gli uni degli altri». Per Bernie Sanders non c’è un sistema da aggiustare. Il sistema, per Sanders, sfrutta i lavoratori e divora i loro sogni. Lo scorso luglio ha richiamato formalmente un Comune che aveva assunto cinque lavoratori a salario minimo, specificando che il loro lavoro da incubo era fatto di turni lunghi, paghe da fame, capi terribili. Inquadrando il problema nella cornice più ampia «amministratori delegati vs lavoratori», Sanders si è scagliato contro un sistema economico che tratta gli esseri umani come cose, «usa e getta». Spesso ha usato il suo nutrito seguito sui social per dare risonanza ed esprimere solidarietà alle lotte di lavoratori e lavoratrici. Se il background da professoressa di legge di Warren ha contribuito a farla diventare una liberale riformista, nel caso di Sanders sono state le prime esperienze ad alimentare il suo socialismo democratico. Nato a Brooklyn da genitori immigrati della working class, Sanders si unì alla Lega dei Giovani Socialisti (Young People’s Socialist League) negli anni Sessanta, al college. L’organizzazione, come ha spiegato Sanders in un’intervista del 2016, «mi aiutò a fare due più due». Povertà, guerra e razzismo erano tutte intorno a lui. Ma qual era la causa? I Giovani Socialisti – la costola giovanile del vecchio Partito socialista di Debs – davano la colpa all’ordine economico che accumulava vantaggi per chi era già all’apice della società e metteva lavoratori e lavoratrici di tutte le razze gli uni contro le altre. Dopo una serie di candidature fallite come terzo partito – e un periodo di lavoro come produttore di materiale educativo, incluso un documentario elogiativo su Eugene Debs – Sanders diventò finalmente sindaco di Burlington, in Vermont, nel 1981. Qui provò a incrementare la partecipazione della working class locale e a promuovere la solidarietà e la pace a livello internazionale. Visitò il Nicaragua rivoluzionario, convincendo il consiglio comunale ad avviare un gemellaggio con Puerto Cabezas (una città del Nicaragua governata dai sandinisti), e portò Noam Chomsky nella sala del municipio a parlare della politica estera statunitense. Il numero di sostenitori schizzò alle stelle. L’ultimo libro di Sanders è la testimonianza di quanto poco si sia allontanato da quella visione di solidarietà working class. Nel libro critica l’idea che gli Stati uniti debbano esercitare «una benevola egemonia globale», denunciando a livello nazionale una «politica estera monocolore», e individua nella negligenza criminale di Trump dopo l’uragano che ha devastato Porto Rico l’ultimo episodio di una «lunga storia di colonialismo e sfruttamento». Fa anche una lista di crimini interventisti: il rovesciamento del Mohammad Mossadegh nel 1953, il colpo di stato contro Salvador Allende nel 1973, il «supporto per i regimi sanguinari di El Salvador e Guatemala» negli anni Ottanta. Le alternative oggi? Un «movimento progressista globale» che riesca a sfidare le metastasi autoritarie. Invecem, quando Warren critica la politica estera statunitense cita aspetti assai più recenti. Dopo la caduta dell’Unione sovietica, scrive in un saggio su Foreign Affairs, gli Stati uniti si sono impantanati in una «guerra senza fine» e «hanno cominciato a esportare un tipo particolare di capitalismo» che favorisce le élite benestanti. Warren non è una guer-
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rafondaia, ma certo è convinta che uno stato forte possa portare prosperità nel mondo e bilanciare l’influenza di Russia e Cina. «Invece che separare il perseguimento di ideali progressisti dal mantenimento del dominio americano», ha sottolineato lo scrittore liberal Peter Beinart l’anno scorso, «Warren prova – senza successo – a tenerli uniti».
Le differenze sono importanti
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Sanders e Warren hanno entrambi posizioni apparentemente in contrasto con le loro rispettive tradizioni politiche. Sanders vuole rompere con le grandi banche, non nazionalizzarle; Warren ha introdotto una legge che potrebbe far nascere un produttore governativo di farmaci generici. Anche se alcune di queste differenze sono spiegabili (forse Sanders proporrebbe politiche più radicali se il clima politico fosse favorevole, e Warren maschera la sua legge sui farmaci generici con il linguaggio della competizione), nessuno dei due segue la propria ideologia alla lettera. E dunque perché anche solo cercare di inquadrare Sanders e Warren all’interno di una tradizione politica? Non è forse l’esercizio ozioso di un accademico, il riflesso condizionato di un tassonomista compulsivo? La risposta breve è che le figure politiche e intellettuali sono molto di più che la semplice somma delle loro dichiarazioni. Hanno visioni del mondo diverse e storicamente determinate che, una volta portate alla luce, possono doIL PRESIDENTE SANDERS narci una comprensione migliore delle loro convinzioni di fondo e aiuNON DOVREBBE LIMITARSI tarci a predire come potrebbero comportarsi in circostanze differenti. A OCCUPARE GLI SPAZI Immaginate: il Presidente Sanders siede nell’Ufficio ovale mentre POLITICI: DOVREBBE le strade brulicano di persone che manifestano contro il riscaldaAMPLIARLI. AD ESEMPIO mento globale. Non sarà più la tassa sul carbone la mossa politica più INCORAGGIANDO radicale: la nazionalizzazione delle compagnie di combustibili fossili L’AZIONE DEI MOVIMENTI sarà ormai entrata nel dibattito pubblico. Ad ogni modo potremmo aspettarci che Sanders non sia solo impegnato a occupare gli spazi politici aperti, ma che sia propenso a intraprendere azioni volte ad ampliare quegli stessi spazi, ad esempio girando il paese e incoraggiando i movimenti a compiere ulteriori azioni. Il Presidente Warren sarebbe sicuramente favorevole a varare leggi contro il cambiamento climatico, ma, viste le sue tendenze politiche, possiamo immaginare che sarebbe meno propensa a stimolare un movimento di massa. Mentre Warren è una voce anti-corporation dai saldi principi in un partito che ancora sguazza nel denaro di Wall Street – cosa fondamentale per qualsiasi movimento di sinistra – la sua visione politica soffre degli stessi limiti di analisi e proposte che aveva Brandeis. Malgrado tutta la loro competenza, il liberalismo middle-class di Brandeis e Warren soffre di un idealismo secondo cui esistono datori di lavoro illuminati, i capitalisti possono diventare democratici, e l’imperialismo statunitense può essere sfruttato per fini positivi. La visione di Brandeis ottenne i maggiori consensi cento anni fa. Oggi non sarebbe male se li ottenesse la visione del principale erede di Debs.
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Nel grembo della vecchia società
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Essere eletti non significa conquistare il potere, diceva Léon Blum. E gli sfruttati possono difendere le loro conquiste solo cambiando la natura delle istituzioni
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o giuro solennemente. . . ». Il 20 gennaio 2025 è stato un momento di orgoglio per Bernie Sanders. A momenti la rielezione del socialista uscente non era sembrata così sicura: Hillary si era dimostrata forte nella sua quarta corsa consecutiva per le primarie del Partito democratico, e le pubblicità con ologrammi del Gop [il Grand Old Party dei Repubblicani, ndt] che mostravano il giovane Bernie David Broder mentre ballava su un tetto dell’Università di Chicago, per poco non avevano ribaltato il risultato dell’Ohio. Ma alla fine è arrivato al suo secondo insediamento. Non c’è però l’entusiasmo di quattro anni prima: come notato dal mezzobusto della Fox, Dave Rubin, la folla su Capitol Hill si è notevolmente assottigliata. Bernie ha portato a casa alcune vittorie, dall’aver messo fine alla cauzione in contanti fino all’introduzione di un salario minimo di 15 dollari. Ma nonostante fossero stati eletti in parlamento dozzine di socialisti, l’opposizione bipartisan ha ostacolato sia la riforma sanitaria che i piani per la cancellazione del debito studentesco.
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Non è difficile immaginare che la presidenza di Bernie Sanders possa avere questo esito: la storia di una speranza seguita da uno stallo. Nella sua corsa alle primarie del 2016 ha sottolineato la necessità di uno scontro con gli interessi particolari e con i miliardari che dominano la politica statunitense. Eppure le probabilità di vincere una simile battaglia sono scoraggianti: i movimenti sociali David Broder è uno e dei lavoratori sono ancora deboli, e i loro alleati sono lungi dal storico e traduttore far man bassa del Congresso. inglese. È il redattore Un’eventuale amministrazione Sanders sarebbe destinata ad europeo di Jacobin affrontare una seria opposizione da entrambi i partiti, così come Magazine. dalle grandi imprese e dalla macchina statale. Oltretutto, Bernie La traduzione è non potrà far tutto da solo: se mai divenisse presidente, uno dei di Leopoldo Calabria. principali effetti positivi sarebbe quello di creare lo spazio politico (e legislativo) in cui altre forze siano in grado di mobilitarsi. Ciò è fondamentale se consideriamo quanto le istituzioni americane siano antidemocratiche e quanto siano state pensate proprio per esserlo. Anche al di là delle privazioni del diritto di voto o del ruolo dei finanziamenti elettorali privati – molto più importante che in altri paesi occidentali – l’andamento dei cicli elettorali, il ruolo politico della Corte Suprema e la natura stessa del Senato servono a consolidare il potere costituito. Certamente anche in Europa, le nuove forze di sinistra si troverebbero ad affrontare enormi ostacoli nel caso in cui riuscissero a ottenere l’incarico di governo. Forze come France Insoumise, Podemos o il Labour di Jeremy Corbyn rappresentano la speranza di rompere con il neoliberismo. Eppure questi partiti ancora senza esperienza di governo dovrebbero sicuramente affrontare delle battaglie con l’Unione europea, il rischio di fuga di capitali all’estero e resistenze sia all’interno che all’esterno della macchina statale. Come disse il primo ministro socialista francese Léon Blum, «vincere le elezioni» non
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Contropotere I marxisti hanno sempre respinto l’idea, cara al pensiero liberal-democratico, secondo cui lo stato sia un terreno neutrale da riempire con qualsiasi contenuto consentito attraverso le elezioni. Le origini storiche dello stato, dopo tutto, si trovano nell’appropriazione violenta e privata del potere politico, a cui le forme di controllo democratico si sono aggiunte solo molto più tardi. Processi burocratici ben congegnati sono stati progettati per incanalare e frustrare la volontà popolare mantenendo la stabilità istituzionale.
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equivale a «conquistare il potere». Le sue esperienze di presidente tra il 1936 e il 1938, in cui fece importanti riforme poi immediatamente revocate dai suoi successori, come la settimana lavorativa di 40 ore, lo dimostrano. La recente esperienza di Syriza in Grecia ha anche evidenziato come l’inerzia istituzionale possa semplicemente scavalcare la volontà popolare nei momenti di crisi. In effetti, la storia è piena di personalità di sinistra che ottengono una carica per poi incontrare ostacoli. Chi da sinistra si oppone alla centralità della politica elettorale può citare una desolante serie di governi apparentemente socialisti che, invece di riformare o abolire il capitalismo, ne sono stati “riformati” diventando semplici amministratori del sistema esistente. Ciò sembra indicare il valore della mobilitazione al di fuori delle istituzioni, relegando al massimo l’utilizzo del parlamento alla propaganda contro il sistema. Tuttavia è tutt’altro che inevitabile che gli sforzi riformisti portino esclusivamente alla delusione e alla smobilitazione. E se dopo decenni di trionfalismo neoliberista, la sinistra radicale a livello internazionale è di nuovo in IL PROGRAMMA grado di parlare di conquista del governo, non dobbiamo giungere DI SANDERS RICHIEDE impreparati a questa battaglia. La rivoluzione potrebbe non essere UNA RIFLESSIONE SULLA dietro l’angolo. Ma possiamo sperare di realizzare ciò che il programSTRATEGIA DA SEGUIRE ma elettorale del Labour del 1983 definiva «un cambiamento fondaPER LOTTARE ANCHE mentale e irreversibile nell’equilibrio del potere e della ricchezza a DENTRO LE ISTITUZIONI favore dei lavoratori e delle loro famiglie». IN CASO DI VITTORIA La presidenza può essere usata non solo per attuare politiche particolari, ma anche per cambiare le basi stesse della politica. Come per vecchie conquiste del Labour come il Servizio sanitario nazionale, l’obiettivo è fare profonde riforme che durino al di là delle singole sconfitte elettorali. Ciò richiede una prospettiva strategica in grado non solo di frenare il neoliberismo, ma di costruire la via per una trasformazione socialista a lungo termine della società. Bernie Sanders non è certo un moderno erede dei riformisti di ispirazione marxista del ventesimo secolo. Ancor più chiaramente, il Partito democratico non è e non è mai stato niente di simile ai vecchi partiti di massa dei lavoratori. Eppure i discorsi del senatore democratico-socialista sul conflitto, la mobilitazione contro l’1% che detiene ricchezze e potere e la logica stessa delle sue scelte politiche, richiedono una riflessione su quale strategia potrebbe sopravvivere anche al di là di una sua amministrazione. E ciò implica prima di tutto continuare la lotta anche all’interno dello stato. Il cambiamento istituzionale non rispecchia sempre i cambiamenti sociali. I sorprendenti successi di Sanders e Corbyn, in una situazione di crisi del neoliberalismo ma anche con livelli storicamente bassi di conflittualità sociale, hanno prodotto una rivitalizzazione generale delle idee socialiste, contribuendo anche ad alimentare altri tipi di mobilitazione. E nemmeno un tiepido riemergere dell’organizzazione “dal basso” fornisce soluzioni automatiche per le battaglie che da intraprendere direttamente a livello statuale. Piuttosto, la nuova sinistra sta scoprendo la necessità di cambiare lo stato stesso.
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Karl Marx non ha mai scritto di proprio pugno una teoria generale dello stato, tantomeno ha offerto una visione generale del cambiamento politico. A volte ha postulato la possibilità di una transizione democratica al socialismo, facendo propria la visione diffusa durante il movimento cartista britannico degli anni 1830-1840 che riteneva il suffragio universale e i parlamenti annuali richieste rivoluzionarie. Ma durante la rivoluzionaria Comune di Parigi del 1871 ha anche sottolineato la necessità per i lavoratori di fare qualcosa in più che «impadronirsi della macchina statale così com’è». Dopo la sanguinosa sconfitta della Comune, verso la fine del Diciannovesimo secolo la principale forza organizzativa e intellettuale del socialismo europeo fu il Partito socialdemocratico tedesco (Spd). L’iniquo sistema di voto di classe (i voti dei lavoratori contavano meno), la monarchia e un periodo di organizzazione quasi clandestina indirizzarono la Spd verso la necessità di una “repubblica democratica”, cioè una rivoluzione per sostituire lo stato imperiale tedesco. Il fatto che la Spd sia stata effettivamente esclusa dagli incarichi pubblici, pur essendo nel frattempo diventato il più grande partito in Germania, ha dato l’avvio alla costruzione di un potente apparato al di fuori delle istituzioni statali. Come per il Partito Comunista Italiano (Pci), forte di milioni di tesserati ma impossibilitato a entrare nel governo nazionale nell’era della Guerra Fredda, la posizione strutturalmente subalterna ha costretto la Spd a costruire un “paese all’interno del paese”, una vasta rete di cooperative, sindacati e istituzioni per l’istruzione, la cultura e il tempo libero al di fuori dello stato. Questo processo ha creato le basi di potere di una classe operaia in continua espansione, alimentando l’idea che la crescita dell’industria avrebbe creato la massa necessaria per creare finalmente una maggioranza sociale. Ma questa prospettiva “evoluzionista” spinse anche alcuni socialisti a povece le conquiste sociali erano già in atto nella formazione stulare la possibilità di costruire gradualdelle contro-istituzioni. mente la nuova società in grembo alla Nel famoso slogan del teorico tedesco, «Il movimento è vecchia, avendo come approdo finale un tutto, l’obiettivo finale non è nulla» per lui, a quanto pare, cambiamento a livello istituzionale. I sela vera rivoluzione consiste negli amici fatti lungo la strada. gnali di successo nel costruire potere dal Eppure, come ha duramente controbattuto Rosa Luxembasso portarono alla compiaciuta conburg, ciò denota ingenuità sulla prospettiva che il capivinzione di allentare le tensioni di classe. talismo si sarebbe semplicemente adeguato alla ragione Ciò venne teorizzato in modo esplisuperiore dell’armonia sociale. Nella lettura di Bernstein, cito da Eduard Bernstein, uno dei prola politica istituzionale non era tanto una priorità quanto tagonisti della Spd e protagonista del una cosa non problematica; infatti, fu il suo antagonista “dibattito sul revisionismo” alla fine del Karl Kautsky a interrogarsi più seriamente sulle forme desecolo. Bernstein postulò la necessità mocratiche che avrebbe preso una riorganizzazione sociaper i socialdemocratici di ripudiare la lista della società. tradizione politica rivoluzionaria, insiQuando lo stato tedesco entrò in guerra nel 1914, il prestendo sul fatto che esempi del passato dominio della politica nazionale sul “contropotere” locale come la rivoluzione francese avevano si affermò rapidamente. Parte della motivazione della Spd prodotto il caos e la tirannia laddove indi sostenere lo sforzo bellico risiedeva nella necessità di evitare un nuovo ciclo di repressione che sarebbe scaturito dall’opposizione alla guerra, con il rischio di distruggere le istituzioni messe in piedi fino a quel momento. Lenin replicò acidamente che il “socialismo” non risiedeva nei circoli operai finora scampati al divieto statale, ma in prigione con i pochi socialisti che si erano schierati contro la carneficina.
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ne di richieste istituzionali intermedie come “l’assemblea costituente”, la forza del regime fascista negò alle sue idee qualsiasi prova immediata nella pratica. Questa, tuttavia, non era un’idea strettamente italiana. Altre esperienze del primo Novecento indicano l’interazione tra l’azione dal basso della classe operaia e il livello statale. Mostrano quanto ridondante sia qualsiasi analisi che contrappone semplicemente la politica istituzionale al potere operaio e la necessità di consolidare i principi di soliFuori dallo stato, per lo stato darietà anche a livello istituzionale. Prendiamo il caso della Working Men’s Questa prospettiva fu particolarmente discussa negli Medical Aid Society di Tredegar, creata scritti dal carcere del marxista italiano Antonio Gramsci, dai lavoratori dell’acciaio e del carbone con la sua insistenza sul fatto che le strutture più complesin una città del Galles del Sud nel 1890. se dello stato e della società civile in Occidente richiedevaBasandosi su precedenti iniziative filanno la costruzione di un’egemonia della classe lavoratrice su tropiche, l’ente mutualistico era finanvasti strati della società. Ma, nonostante la sua elaborazioziato e gestito dagli stessi lavoratori e al tempo della seconda guerra mondiale copriva fino al 95% della popolazione locale. Era l’illustrazione perfetta del potere del collettivismo e della solidarietà di classe, poiché ciascuno si assumeva la responsabilità e l’orgoglio di prendersi cura della collettività. Eppure questo schema aveva dei limiti evidenti. Perché i lavoratori dovevano pagare per la propria assistenza sanitaria, anche se su base collettiva, piuttosto che ottenere che fosse finanziata dalla fiscalità generale? Un’iniziativa veramente socialista non avrebbe dovuto puntare a erodere il potere sociale del capitale? Infatti, nelle battaglie portate avanti dai circoli laburisti nel periodo tra le due guerre, i principi del “localismo” divennero il principale nemico da combattere. Piuttosto che voler finanziare e gestire i propri servizi, i lavoratori avrebbero dovuto poter contare sull’assistenza sanitaria gratuita come un diritto garantito dallo stato. Fu un figlio di Tredegar, il laburista ministro della salute nel dopoguerra, Aneurin Bevan, a diventare il principale artefice del Servizio sanitario nazionale. Nella sua dura battaglia contro le lobby di medici e dentisti, Bevan notoriamente avvisava: «Stiamo venendo a Tredegarizzarvi». Trasformare un servizio fornito da associazioni di beneficenza o da attività private in uno nazionalizzato portò la solidarietà dei lavoratori a un livello superiore. L’assistenzialismo aveva senza dubbio i suoi critici da sinistra. Non solo lo si poteva ritenere funzionale al capitale per avere una forza lavoro pacifica, istruita e sana, ma i limiti sulla fornitura del servizio potevano anche avere un effetto “disciplinante”, ad esempio attraverso le condizioni poste sui sussidi di disoccupazione. Tuttavia, la crescente preca-
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Quello è stato un momento particolarmente traumatico nella storia socialista. Luxemburg aveva messo in guardia che riforma e rivoluzione non erano percorsi alternativi per uno stesso obiettivo finale, ma diverse concezioni della politica. Nei cinque anni successivi, la trasformazione della Spd nel partito dominante della Repubblica di Weimar (favorendo l’assassinio di Rosa Luxemburg) sembra confermare tale lettura. Nonostante le riforme sociali sotto il suo mandato, la Spd tra le due guerre scartò ogni prospettiva di superamento del capitalismo, identificandosi in uno stato fallito. Sulla scia della rivoluzione russa e della fallita rivoluzione tedesca, i comunisti ripudiarono così il nome “socialdemocratico”. Eppure da nessuna parte in Occidente si è materializzata la rivoluzione. Piuttosto, la linea dominante del pensiero marxista quasi ovunque in Europa divenne il tentativo di spiegare perché operare attraverso istituzioni consolidate, piuttosto che costruirne all’esterno, fosse necessario per raggiungere il socialismo.
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rietà e le basse aspettative di vita delle giovani generazioni hanno fatto sembrare la vecchia socialdemocrazia un’età dell’oro: la domanda comune non è la speranza di andare oltre l’assistenzialismo, ma di realizzare i suoi principi in modo più completo.
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Nell’attuale ondata di politica democratico-socialista, la vecchia condanna dell’azione statale (“grigia”, “burocratica”) è in declino. In effetti, la richiesta di un rinnovato intervento pubblico (anche se gli storici partiti socialdemocratici siano stati distrutti nella maggior parte dei paesi) è un cambiamento significativo nel senso comune di sinistra degli ultimi anni. La questione del maneggiare il potere statale sta di nuovo diventando un terreno realistico di discussione per forze da tempo ridotte a un ruolo assolutamente marginale. Dopo il tanto decantato fallimento del socialismo di stato (e della svolta neoliberale della socialdemocrazia) all’inizio degli anni Novanta, le idee di mutuo aiuto e potere “dal basso”, al di fuori dello stato, sono diventate la norma per vaste aree della sinistra. Il periodo tra il movimento anti-globalizzazione a cavallo del millennio e Occupy Wall Street ha visto l’ascesa di un pensiero che rifiutova l’azione di stato a favore di idee incentrate sull’autogestione della comunità, sugli spazi liberati e sul «cambiare il mondo senza prendere il potere». Il defunto Mark Fisher notava come la convinzione nell’impossibilità di agire nello stato fosse essa stessa un prodotto di quello che ha definito “realismo capitalista”: ovvero, il rimanere intrappolati nella prospettiva ideoloMARK FISHER NOTAVA gica fornita dal neoliberismo stesso. Nel caso britannico, le affermaCOME LA CONVINZIONE zioni secondo cui «il parlamento non ha mai cambiato nulla» sono CHE AGIRE DENTRO LO andate curiosamente di pari passo con battaglie politiche quasi inSTATO FOSSE IMPOSSIBILE teramente incentrate sulla difesa dei precedenti successi del Partito DERIVASSE DA QUELLO laburista, ma attraverso proteste di piazza decentralizzate piuttosto CHE HA DEFINITO che tramite politiche parlamentari. REALISMO CAPITALISTA Nonostante fosse una fase di riflusso per la sinistra, non era difficile coinvolgere un numero sufficiente di persone per portare avanti tali forme di mobilitazione. Un nucleo di attivisti può riprodurre se stesso e persino degli spazi di autonomia all’interno del sistema capitalista ma far poco per mettere in discussione le relazioni di potere nella società nel suo complesso. Il capitale è capace di reintegrare le controculture isolate sotto forma di consumismo etico e verde. La maggior parte della gente non ha il tempo, le risorse o l’energia per prendere parte alla mobilitazione politica permanente. L’azione politica non è fine a se stessa. La mobilitazione permanente (o le “assemblee” basate sulla democrazia diretta) rischiano di non essere capaci di offrire una prospettiva realistica e affidabile di cambiamento per la maggioranza: divengono il parente povero dei diritti garantiti dallo stato. Questa è forse una chiave per spiegare la recente ondata di esperimenti social-democratici, che sono lontani dall’essere semplice emanazione del movimento Occupy o delle proteste di piazza del 2011. In quei movimenti i precari e gli invisibili potevano riconoscere le loro richieste comuni, ma anche la loro mancanza di potere strategico. Si sono fatti sentire per settimane e mesi, ma hanno avuto difficoltà a imporre un reale cambiamento politico. In effetti, partiti come Podemos e Syriza (e ancor più i movimenti di Sanders, Corbyn o Mélenchon) sono emersi dopo che queste proteste “dal basso” erano già calate in modo significativo. I non rappresentati non aspiravano a restare in piazza in modo permanente ma ad essere... rappresentati. Tuttavia, l’improvvisa ascesa di questi nuovi partiti significa anche che li aspetta una prova del fuoco non appena dovessero trovarsi in situazioni per cui non hanno una strategia.
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I “non rappresentati” aspirano ad essere rappresentati
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È fin troppo facile spiegare il fallimento del governo Syriza in Grecia come un caso di “tradimento”. Eppure l’opposizione da sinistra al primo ministro Alexis Tsipras è stata notevolmente limitata. Una popolazione affossata da anni di austerità non era nelle condizioni per un nuovo ciclo di mobilitazione. In assenza di una strategia di rottura, i negoziati con Bruxelles hanno semplicemente intrappolato i greci all’interno di una logica anti democratica con istituzioni in cui avevano poco peso. Syriza ha ottenuto un breve sostegno di massa, dimostrando soltanto che la volontà popolare non era decisiva.
La questione è come cambiare questa logica: i mezzi attraverso cui promettenti movimenti democratico-socialisti sono in grado di cambiare lo stato, piuttosto che essere ostacolati o cooptati dalle strutture di potere esistenti nella società. Le mobilitazioni elettorali consentono rapidi spostamenti nella narrazione politica dominante, e permettono alla sinistra di ottenere vittorie anche in assenza di movimenti più profondamente radicati. Il problema, tuttavia, è che la discussione su come “il populismo di sinistra” possa raccogliere una base elettorale, sul modello delle idee della filosofa Chantal Mouffe, raramente affronta il tema di ciò che la sinistra dovrebbe fare dopo essere riuscita a insediarsi al governo. Nel volatile contesto politico di oggi, che in effetti presenta opportunità storiche per vincere le elezioni, è naturale che i socialisti siano più interessati a come arrivare al potere che a come usarlo. Ma questo riflette un certo tipo LA DISCUSSIONE SUL di “realismo capitalista”: perché mentre i marxisti dei decenni passati «POPULISMO DI SINISTRA» si chiedevano come la politica istituzionale potesse portare a una fuRARAMENTE AFFRONTA tura società socialista immaginata come quasi certa, oggi è più facile IL TEMA DI CIÒ considerare Bernie o Corbyn come una “interruzione” difensiva di una CHE LA SINISTRA preponderante ondata reazionaria. DOVREBBE FARE Possiamo sperare che a differenza dell’Obamacare, i piani per l’asUNA VOLTA AL GOVERNO sistenza sanitaria e l’istruzione di Bernie riescano a imporre un cambiamento duraturo nella politica degli Stati uniti: esempi pratici della fattibilità e della necessità di un’azione pubblica e della collettivizzazione della cura. Abbiamo bisogno che i nostri diritti allo studio, alla salute e all’alloggio siano una garanzia piuttosto che qualcosa per cui dobbiamo costantemente pagare o combattere. Se nessun avvicendamento nel potere e nella ricchezza è veramente “irreversibile”, che almeno le nostre vittorie possano consolidarsi per decenni. Parte della soluzione sta nello sviluppo di una cultura socialista in seno a partiti politici che sopravvivono ai singoli leader. Nonostante tutti i fallimenti del governo laburista del 1945 (in particolare la sua gestione dell’Impero), fu possibile imporre un cambiamento duraturo alla politica britannica, e oggi persino i Tories sono costretti a porre i loro stessi attacchi contro il Ssn come una difesa della sua sostenibilità. Un servizio usato e amato da milioni e milioni di persone, viene riconosciuto da tutti come un risultato della tradizione laburista e rappresenta, allo stesso tempo, un collante che tiene unita l’idea socialista. La domanda, quindi, è come rendere permanenti i nostri successi ed effimeri quelli delle forze di classe ostili: come realizzare molti Ssn. Senza dubbio, le risposte a questo problema varieranno notevolmente da una società all’altra. Ma la via più ovvia sembra risiedere nell’espansione dell’esistente esperienza riformista: vale a dire prendere gli esistenti movimenti populisti di sinistra e democratico-socialisti e radicarli in reti più vaste di organizzazione di partito, in grado di perpetuarsi. Senza dubbio, la crescita dei Democratic Socialists of America (Dsa), l’elezione di giovani di sinistra come Alexandria Ocasio-Cortez e la massiccia mobilitazione della gioventù ingle-
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La lotta di classe della socialdemocrazia
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se nel partito laburista stanno ponendo le basi di questo cambiamento nella pratica. Se l’organizzazione dei partiti e la formazione politica sono ancora in ritardo rispetto ai progressi che i nostri movimenti stanno facendo nella politica nazionale, possiamo almeno vedere i segni della formazione di un nuovo strato di attivisti, con esperienze e aspettative marcatamente diverse da quelle dell’estrema sinistra post-sessantottina. I cambiamenti ora in corso avranno sicuramente effetti decennali sulla nostra comprensione di ciò che è possibile.
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Nell’attuale ondata di avanzata socialista, vediamo sia i vantaggi dell’azione elettorale che i limiti imposti dalle istituzioni. Ma la situazione non è statica. Come dice il marxista greco Nicos Poulantzas, lo stato è «soprattutto la condensazione di un rapporto di forze definito dalla lotta». Con ciò intende lo stato come forza potenzialmente conservatrice e al tempo stesso come campo di battaglia: un insieme di istituzioni che contengono il “sedimento” delle lotte passate e una relazione sociale contesa tra interessi di classe rivali. Per questa ragione, il cambiamento istituzionale è di per sé una dimensione fondamentale della battaglia da combattere. Ciò è evidente nel caso francese, dove la strategia di France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon è quella di conquistare la presidenza proprio per abolire i poteri di questa istituzione e inaugurare una “Sesta Repubblica”. Se il suo movimento è ampiamente criticato in quanto leaderistico, la forte attenzione alle questioni costituzionali mira proprio a dissipare il potere istituzionale in tutta la società francese, imponendo ogni sorta di controllo popolare sul potere del capitale. Alla falsa contrapposizione tra la mobilitazione dal basso e le aspettative nel previsto da France Insoumise); i sommovimenti contro il leader provvidenziale, questo progetto monopolio dei media in Gran Bretagna e dei super-Pac negli propone una socialdemocrazia della Stati uniti; l’introduzione di servizi di assistenza sanitaria e lotta di classe: la lotta per espandere il di istruzione (ri)nazionalizzati possono seriamente limitapotere delle persone della classe operare la presa del capitale sulla nostra immaginazione. Queste ia all’interno della vita istituzionale. Nel azioni, insieme alle iniziative per sbloccare i sindacati e in1864 Karl Marx poté dichiarare che la vertire le restrizioni sulle libertà civili, possono, a loro volta, prima legge limitativa dell’orario di lapreparare il terreno per una prospettiva più ampia di avanvoro rappresentava «la prima volta in cui zamento del potere della classe operaia nella società. l’economia politica della classe media Sarebbe ingenuo pensare che una futura presidenha dovuto soccombere chiaramente di za Sanders potrebbe fare tutto questo per noi. Anche in fronte all’economia politica della classe assenza dei pericoli internazionali che hanno abbattuto operaia». Il capitale si è saputo adattare progetti riformisti dal Cile alla Grecia, sicuramente dovrà al cambiamento, eppure il rapporto di affrontare un’enorme opposizione, e i suoi stessi obiettivi forza e si è spostato a favore del lavoro. Non è difficile pensare a misure simili espliciti non propongono in realtà una riorganizzazione che possano far avanzare il nostro potecomplessiva della società. Eppure la possibilità della sua re oggi. Il radicamento costituzionale dei elezione, come nei casi inglesi e francesi, offre reali oppordiritti sociali e dei doveri ecologici (come tunità da sfruttare. Non si tratta semplicemente di “rendicontare le azioni dei leader”, come se fossero solo temporanei alleati per un idealizzato movimento “reale” dal basso. Piuttosto, la lotta consiste nell’usare il loro potere per fare cambiamenti che vanno oltre le loro figure: imporre riforme che respingano il potere del capitale e garantiscano una base su cui i lavoratori possano costruire le loro vite e le loro lotte.
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Riappropriarsi dello stato
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Con ogni mezzo necessario Se Bernie Sanders nel 2020 dovesse essere eletto presidente dovrebbe far ricorso a tutti gli strumenti a sua disposizione per forzare gli equilibri istituzionali e fare sponda con i movimenti sociali. Ecco alcuni esempi
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ernie Sanders è il politico più popolare negli Stati uniti. Se dovesse spuntarla nel campo delle primarie del Partito democratico, schivando con successo gli attacchi delle élite del partito che non lo riconoscono quale loro alleato, non c’è dubbio che potrebbe vincere la presidenza nel 2020. È una prospettiva eccitante per quelli di noi che credono, come disse una volta Sanders, che «questa è una guerra di Meagan Day classe, e noi ci alzeremo a combatterla». Ma un socialista democratico alla Casa Bianca è quanto di più lontano dall’essere un proiettile d’argento. La Corte Suprema è già persa per i liberal, per non parlare dei socialisti, per molti decenni a venire, e la maggioranza del Congresso sarà probabilmente composta da una Meagan Day è staff combinazione di repubblicani conservatori proni all’austerità e writer di Jacobin democratici centristi più che disposti a incontrarli a metà straMagazine. da. Anche se il loro numero aumenta in modo esponenziale, i La traduzione progressisti come Rashida Tlaib e Alexandria Ocasio-Cortez, che condividono l’agenda di giustizia economica e sociale di è di Leopoldo Calabria. Bernie, sarebbero in minoranza sotto un’amministrazione Sanders. Dovremmo avere sane riserve su ciò che un solo socialista democratico potrebbe realizzare alla guida di uno stato capitalista. In questo contesto politico, cosa potrebbe fare Sanders oltre a combattere e perdere, negoziare e concedere, deludendo inevitabilmente? Gli ordini esecutivi [provvedimenti firmati dal presidente che indirizzano le politiche esecutive delle agenzie del governo federale, ndt] sono potenti strumenti per i presidenti, che spesso ne rilasciano centinaia sia di efficaci che di nefasti. Ci sono le alte vette della famosa Proclamazione di Emancipazione di Lincoln, e c’è anche la recente direttiva di Trump che consente a livello federale di aumentare il taglio di legname sulle terre pubbliche. Franklin D. Roosevelt usò 3.522 ordini esecutivi per fare cose come creare l’Amministrazione dei Lavori Civili, che ha dato lavoro ai disoccupati, e l’Amministrazione per l’Elettrificazione Rurale, che
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ha portato energia elettrica ai poveri delle aree rurali; inoltre ha usato un ordine esecutivo per iniziare l’internamento degli americani giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Gli ordini esecutivi sono effimeri: possono essere cambiati di segno dal presidente successivo, rovesciati dalla Corte Suprema, e in alcuni casi annullati dalla nuova legislazione. Per ottenere un cambiamento duraturo, non possiamo fare affidamento sulle direttive di un singolo politico. Abbiamo bisogno di un movimento di massa dal basso che possa inviare rappresentanti socialisti progressisti e democratici nello stato, mentre si moltiplicano le proteste, gli scioperi e altre attività capaci di creare crisi al di fuori dello stato, a cui i legislatori siano costretti a rispondere. Ma la costruzione di un simile movimento non esclude la concomitanza con un’azione esecutiva aggressiva. Se un ipotetico presidente Sanders dovesse emettere centinaia o persino migliaia di ordini esecutivi destinati a frenare il potere dei capitalisti, sarebbe un grande vantaggio per i movimenti extraparlamentari. In primo luogo, ordini esecutivi ambiziosi possono far crescere l’immaginazione popolare e aumentare le aspettative dei lavoratori. Le idee politiche che una volta sembravano irrealizzabili possono essere immediatamente legittimate, così come la politica che le anima. In secondo luogo, gli aggiustamenti effettuati dall’ordine esecutivo che attenuano il potere della classe dirigente rendono più facile per i lavoratori organizzarsi e partecipare ad attività politiche volte al cambiamento di lungo termine. La destra ha metabolizzato il fatto che drastici cambiamenti nella politica hanno un enorme potenziale per alterare l’equilibrio del potere. La raffica di ordini esecutivi reazionari di Donald Trump è un esempio calzante. Dall’istituzione di un discriminatorio divieto di viaggio al progetto di costruzione del muro al confine, ha spostato gli obiettivi politici e stabilito nuove e terrificanti norme nella politica americana, nonostante ne siano seguiti scontri nei tribunali e al Congresso. Il presidente Bernie Sanders non riuscirebbe a tenere a bada i poteri forti da solo, ma sarebbe obbligato a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione, inclusi gli ordini esecutivi. Ecco alcuni esempi del tipo di ordini esecutivi che potrebbe emettere una volta in carica. Questa lista è tutt’altro che completa, si concentra su alcune aree chiave per brevità, ma è la dimostrazione del potere di un singolo presidente di intervenire politicamente e di creare nuove possibilità politiche – in questo caso per i molti, invece che per i pochi.
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Per ordine esecutivo, un ipotetico presidente Bernie Sanders potrebbe fissare obiettivi aggressivi di riduzione dei gas serra e di consumo di energia per tutto il governo federale, compresi i militari (il Dipartimento della Difesa degli Stati uniti è uno dei peggiori inquinatori del mondo). Potrebbe indirizzare tutte le branche dell’esecutivo pertinenti – compreso l’Epa, il Dipartimento degli Interni, il Corpo degli ingegneri dell’esercito, ecc. – a tener conto dell’impatto da gas serra di qualsiasi proposta infrastrutturale e dichiarare che qualsiasi progetto che potenzialmente aggrava il cambiamento climatico va respinto. «Questo porterà inevitabilmente a contenziosi», spiega Basav Sen, direttore del progetto Climate Justice presso l’Institute for Policy Studies (Ips). «Le corti finiranno per consentire ad alcuni di questi progetti di andare avanti, ma questa è una tattica di temporeggiamento molto importante, e crea un argine perché l’industria dovrà combattere battaglie legali contro il governo federale per ogni pezzo di infrastruttura dannosa che si cerca di costruire. Alcuni saranno bloccati e tutti saranno notevolmente rallentati, affossando il capitale e rendendo più difficile la costruzione di nuove infrastrutture per i combustibili fossili». Sanders potrebbe anche emettere un ordine esecutivo che indirizzi le agenzie federali a rendere conto sull’equità dell’impatto ambientale di tutti i progetti di infrastrutture proposti, aggiunge Sen, e quindi respingere quelli che provocano danni sproporzionati alle comunità
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di colore e ai poveri. Potrebbe anche emettere un ordine esecutivo per il ricongiungimento con l’Accordo sul clima di Parigi. «L’accordo di Parigi è in buona sostanza difettoso», afferma Sen. «I suoi obiettivi non sono abbastanza ambiziosi ed è del tutto volontario. Ma detto questo, è ancora importante per noi essere parte della comunità globale di nazioni responsabili, e impegnarci veramente in questo processo e contribuire nel modo in cui possiamo all’azione globale per il clima». Un presidente Sanders potrebbe istituire una task force inter-agenzie per definire i parametri di un New Deal Verde. Potrebbe anche fermare tutte le vendite di concessioni per l’estrazione di carbone, petrolio e gas, l’estrazione di uranio e altre forme di sfruttamento minerario e del suolo federale. Infine, potrebbe impedire a qualsiasi azienda rea negli ultimi dieci anni di violazioni ambientali di ottenere contratti federali. Presi insieme, questi ordini esecutivi spingerebbero la politica climatica americana in una direzione decisamente più sostenibile, rendendo più difficile per le imprese degradare il pianeta a scopo di lucro.
Gli Stati uniti hanno la presenza militare a più ampio raggio nella storia del mondo. Per ordine esecutivo, il presidente Bernie Sanders potrebbe «ritirare le truppe dai paesi di tutto il mondo in cui sono schierate», dice Phyllis Bennis, direttore del New Internationalism Project dell’Ips, compresi i luoghi in cui stanno «effettuando assassinii e altre cosiddette azioni antiterrorismo che violano il diritto internazionale e che non ci rendono più sicuri così come non rendono più sicure le persone di altri paesi». Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che dichiara la chiusura ufficiale della «Kill List», una banca dati di individui che il Pentagono ha contrassegnato per la cattura o l’eliminazione. Potrebbe anche terminare tutte le campagne segrete di bombardamento tramite ordine esecutivo. «Solo nel 2017, i civili uccisi da bombe sganciate dalla coalizione a guida Usa in Iraq e in Siria potrebbero essere addirittura 6.000», afferma Bennis. «È orribile. I bombardamenti segreti non sono chiaramente segreti SANDERS POTREBBE per le persone che vengono bombardate» e tuttavia si verificano costanCOMINCIARE temente, sprecando denaro per distruggere vite umane. Come comanCANCELLANDO dante in capo, Sanders potrebbe terminarli unilateralmente. LA KILL LIST, IL DATABASE Il presidente Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che riDEI SOGGETTI stabilisca la legittimità della Risoluzione dei Poteri di Guerra, che richieCHE IL PENTAGONO de il consenso del Congresso per entrare in guerra. I presidenti hanno VORREBBE ELIMINARE violato questa legge per decenni. Dopo l’11 settembre, la prima volta che si è manifestato pienamente il potere del Congresso di intralciare i guerrafondai del governo è stata l’anno scorso, quando lo stesso Sanders ha invocato la Risoluzione dei Poteri di Guerra in un disegno di legge per porre fine al sostegno degli Stati uniti all’intervento saudita in Yemen. Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che stabilisca una politica di abrogazione di qualsiasi intervento militare non autorizzato dal Congresso, affermando pubblicamente i principi anti-guerra e pro-democratici a motivazione della sua stessa conformità con la Risoluzione dei Poteri di Guerra. Tramite ordine esecutivo, Sanders potrebbe dichiarare che nessun individuo che ha lavorato per una società appaltatrice della difesa può essere nominato in un’agenzia federale. L’emissione di un ordine esecutivo in tal senso «avrebbe l’effetto di ridefinire pubblicamente quali sono gli interessi americani», afferma Bennis. «Gli interessi del Pentagono riflettono gli interessi delle corporation statunitensi o del popolo statunitense?». Mentre il potere di spesa in quanto tale appartiene al Congresso, Sanders potrebbe stabilire una commissione allo scopo di condurre una revisione da cima a fondo del budget mili-
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tare degli Stati uniti, con l’obiettivo di ridimensionarlo radicalmente. Il presidente Trump ha recentemente ordinato a una task force di identificare eccessi nel servizio postale degli Stati uniti – perché non crearne una per valutare l’esercito più sproporzionato e distruttivo che il mondo abbia mai visto? Infine, il Pentagono ha attualmente un programma per fornire equipaggiamento militare gratuito o a basso costo alle forze dell’ordine statunitensi. «È così che ti ritrovi un veicolo blindato per le strade di Ferguson dopo che Mike Brown è stato ucciso», dice Bennis. «E quanto fornito, è stato utilizzato». Il presidente Bernie Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che interrompe questo programma, vanificando i tentativi di militarizzare la polizia nazionale e portare la guerra nelle strade americane.
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La struttura del sistema di giustizia penale pone alcune sfide uniche per il ramo esecutivo, poiché la maggior parte della sua attività si svolge sotto la giurisdizione statale e locale. Tuttavia, un presidente Bernie Sanders potrebbe minare le fondamenta della detenzione di massa attraverso determinati ordini esecutivi, e potrebbe usarne altri per inviare un messaggio potente. Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che imponga al Dipartimento di giustizia di abbandonare le pene minime obbligatorie nei procedimenti federali e di perseguire soluzioni non carcerarie per le trasgressioni minime. Il presidente ha anche il potere di concedere clemenza ai prigionieri federali tramite ordine esecutivo: il presidente Jimmy Carter ha graziato tutti i renitenti alla leva dopo la guerra del Vietnam, e Obama ha amnistiato centinaia di detenuti per droga nei suoi ultimi giorni di mandato. Le commutazioni di Obama si applicavare e punire i trafficanti di droga», dice Kara Gotsch, Direttore no selettivamente ai detenuti che avevano delle Iniziative Strategiche presso The Sentencing Project. «Al completato dieci anni di condanna e che si erano comportati bene in prigione. Sancontrario vogliamo che i soldi vengano ridestinati. Vogliamo ders potrebbe completare il lavoro perdoprendere un miliardo di dollari e investire in un programma nando ogni trasgressore per droga incarcedi intervento che cerchi di incanalare le persone con disturbi da uso di sostanze verso il trattamento, un approccio che rato a livello federale e condannato in base punti alla salute delle comunità. C’è così tanto che può esseai draconiani requisiti della War on Drugs, re fatto a livello amministrativo per ridefinire le strategie su indipendentemente da quanta pena abcome affrontiamo il crimine». biano scontato o dal fatto che abbia otteSanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che innuto una qualificazione Ged o un posto di dirizzi tutte le agenzie a porre fine alla pratica della confisca lavoro – criteri che erano importanti per l’amministrazione Obama. dei beni civili, vale a dire l’espropriazione delle proprietà di Allo stesso modo, mentre i presidenti qualcuno solo per il sospetto che abbia commesso un criminon possono decidere in merito all’entità ne. Il procuratore generale di Obama, Eric Holder, ha posto dei fondi, possono stabilire le priorità per dei limiti alla confisca dei beni civili, ma sono stati respinti. Sanders potrebbe dichiarare la fine immediata della pratica il modo in cui tali fondi vengono utilizzati in tutte le agenzie, dalla Dea e dall’Fbi al Dipartimento per la all’interno delle agenzie. «Il Dipartimento sicurezza interna. Per ordine esecutivo, Obama ha «eliminato di Giustizia può dichiarare di non voler la casella», intendendo la casella di spunta che costringe i canspendere un miliardo di dollari che altrididati a lavori federali a rivelare i loro precedenti penali. Trumenti andrebbero all’Agenzia sulle droghe mp non ha ancora annullato l’ordine, ma è probabile che lo per l’applicazione della legge per perseguiconsideri prima o poi. Se lo fa, Sanders può riemettere l’ordine con una clausola aggiuntiva: vietare la casella anche a coloro che detengono appalti federali, dato che hanno un numero di dipendenti quasi uguale a quello dei lavoratori federali diretti.
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di essi sono in codici postali con massimo una filiale bancaria. Il presidente Bernie Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che autorizzi l’ufficio postale a iniziare a offrire servizi bancari pubblici, assicurando che nessuno venga escluso dai tradizionali servizi finanziari. Oltre a evitare semplicemente alcuni quartieri, le banche attuano anche prestiti discriminatori. Sebbene non siano più autorizzati a negare prestiti agli afro-americani per motivi razziali, per esempio, possono eseguire complessi algoritmi di valutazione del rischio che perpetuano pregiudizi razziali e di altro tipo, nascondendosi dietro i numeri quando l’equità delle loro politiche di prestito viene messa in discussione. Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che imponga a tutte le agenzie di vigilanza finanziaria di dare priorità a ECONOMIA documentare e combattere la discriminazione nei prestiti, non solo riaffermando lo Gli Stati uniti sono pieni di deserti bancari, luoghi sia urbaspirito del Fair Lending Act, ma lasciando ni che rurali dove le banche hanno deciso che non è redditizio anche una traccia cartacea di diversi rioperare. Questo costringe le persone a rivolgersi a varie tiposultati e potenziali violatori aziendali. La logie di usurai e a operazioni di incasso di assegni, spendenRegola Volcker, che proibisce alle banche di usare i soldi dei depositanti per il tipo do in media il dieci percento del loro reddito in commissioni di speculazione rischiosa che ha portato esorbitanti che i servizi finanziari «alternativi» fanno pagare. C’è una soluzione alla nostra portata a questo problema: la al crollo economico del 2008, ha reso Wall legge federale richiede già che il servizio postale degli Stati Street furiosa. Sotto Trump, i controllori uniti abbia un ufficio per ogni codice postale, e il 60 percento federali delle banche sono stati messi al lavoro nella riscrittura della regola per dare più libertà ai banchieri. Bernie Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che indichi a tutte queste agenzie – la Fed, la Sec e la Fdic – di lasciare intatta la regola Volcker. E mentre ci lavora, potrebbe emettere un ordine che vieti la nomina di banchieri, avvocati e lobbisti di Wall Street nelle agenzie incaricate di supervisionare il settore finanziario – qualcosa che Obama ha ripetutamente fatto. Nel 2014, Obama ha emesso un ordine esecutivo che fissa il salario minimo per impiegati e appaltatori federali a 10,10 dollari l’ora – quattro dollari in meno di quello che gli analisti del Mit hanno determinato costituisca un salario di sussistenza nel 2013. Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che corregga il problema, istituendo una task force per determinare il vero salario di sussistenza negli Stati uniti e stabilendo di conseguenza il minimo del governo federale. Infine, potrebbe emettere un ordine esecutivo che stabilisca nuove priorità tra le agenzie federali che amministrano programmi sociali. Lo scorso aprile Trump ha emesso un ordine in cui dichiarava che «molti dei programmi progettati per aiutare le
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PRIMAVERA 2019
Infine, Sanders potrebbe lanciarsi in alcune mosse ardite con ordini esecutivi nel tentativo di aprire un nuovo terreno intorno a questioni di giustizia penale. Ad esempio, l’anno scorso Sanders ha presentato un disegno di legge al Senato per trattenere i fondi federali anti-crimine alle città che utilizzano il sistema di rilascio su cauzione. Mentre il finanziamento è principalmente giurisdizione del Congresso, un ordine esecutivo potrebbe essere un gesto potente per legittimare il movimento che vuole la fine del meccanismo di libertà su cauzione. Nel 2017, Trump ha emesso un ordine analogo che ha spogliato le sanctuary cities [le città che non applicano o riducono la portata delle leggi che limitano i diritti degli immigrati senza documenti, ndt] dall’ammissibilità di sovvenzioni federali. Sebbene sia stato rapidamente dichiarato incostituzionale dai tribunali, ha avuto un forte impatto sul clima politico, intensificando il sentimento anti-immigrati e rafforzando l’idea che gli immigrati privi di documenti mettono in pericolo i cittadini americani. Se Sanders dovesse provare la stessa tattica per la libertà su cauzione, potrebbe essere sconfitto – ma metterebbe l’ingiustizia del sistema di cauzione in contanti sotto i riflettori nazionali, rafforzando gli sforzi per approvare un disegno di legge come il suo No Money Bail Act al Congresso.
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famiglie hanno invece ritardato l’indipendenza economica, perpetuato la povertà e indebolito i legami familiari» e ha incaricato le agenzie di aderire ai cosiddetti «Principi della mobilità economica»: inasprendo i requisiti di idoneità al lavoro, riservando benefici solo ai più poveri (le valutazioni sulle condizioni economiche), riducendo «sprechi dispendiosi, consolidando o eliminando programmi federali che sono duplicati o inefficaci» (austerità) e autorizzando il settore privato a intervenire per risolvere i problemi attualmente delegati al governo federale (privatizzazione). Sanders potrebbe immediatamente ribaltare questo ordine ed emetterne uno suo, istruendo le agenzie ovunque possibile a operare secondo «principi di eguaglianza economica», come la progettazione di programmi universali invece di insistere sulle valutazioni sulle condizioni economiche, de-mercificazione invece di privatizzazione e ridistribuzione invece di austerità.
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Gli americani detengono più di 1.500 miliardi di dollari in debiti studenteschi. Ciò impedisce a decine di milioni di persone di acquistare case e mettere su famiglia e le trattiene in lavori che non vogliono, spesso più di uno alla volta, costretti a districarsi per effettuare pagamenti prima che gli interessi vadano fuori controllo. Cosa potrebbe fare un presidente Bernie Sanders per affrontare questa crisi tramite ordine esecutivo? Per prima cosa, potrebbe emettere un ordine esecutivo che indirizzi il suo BISOGNEREBBE MINARE Segretario all’Istruzione a cancellare tutti i debiti contratti con istituti LE FONDAMENTA DELLA fraudolenti a scopo di lucro. DETENZIONE DI MASSA Durante il mandato di Obama, gli attivisti hanno fatto pressioni sul ELIMINANDO LA PENA suo segretario all’istruzione, Arne Duncan, per cancellare tutto il debito MINIMA OBBLIGATORIA a carico federale degli studenti che hanno conseguito lauree in istituti E CAMBIANDO LA POLITICA a scopo di lucro fraudolenti come il Corinthian e l’Itt. Ma Duncan si è SULLE DROGHE tirato indietro. Secondo Ann Larson di The Debt Collective, una delle motivazioni che ha fornito era che il Dipartimento per l’istruzione non aveva il mandato per una mossa così drastica, dal momento che i suoi leader non sono eletti. Un ordine esecutivo di Obama avrebbe minato questo fondamento logico, ma non si è mai materializzato. Ma questa sarebbe ancora solo una goccia nel mare. Che dire degli studenti laureati in università no profit che stanno faticando a trovare stabilità a causa del peso del loro debito studentesco? Nel 2015, il 70 per cento degli studenti universitari si è laureato in istituti no profit contraendo un debito studentesco. Larson sostiene che il presidente Bernie Sanders potrebbe anche fare qualcosa a riguardo. «Quando al Congresso fu dato il potere di emettere e raccogliere prestiti per gli studenti nel 1958, il Dipartimento per l’Istruzione ricevette dal Congresso anche il potere cosiddetto di “compromesso e risoluzione”, che consente di rinunciare al diritto di incassare», dice Larson. «E poi l’Higher Education Act del 1965 ha consolidato questo potere nelle mani del Segretario all’Istruzione». Sanders potrebbe emettere un ordine esecutivo che ordini al suo Segretario dell’Istruzione di cancellare immediatamente tutti i debiti dei prestiti agli studenti per i quali il governo federale è creditore, che consiste nella maggior parte del debito degli studenti negli Stati uniti. L’ordine esecutivo potrebbe anche indirizzare il Dipartimento di Educazione a assumere tutto il debito dei mutuatari che devono denaro ai creditori privati, e annullare anche quello, riducendo il carico dei prestiti agli studenti americani da 1.500 miliardi di dollari a zero. Secondo le stime degli economisti, la cancellazione immediata di tutti i debiti studenteschi fornirebbe un grosso guadagno all’economia americana, riducendo la disoccupazione di circa lo 0,3% e aumentando il Pil di quasi mille miliardi di dollari nel prossimo decennio.
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BONUS: ANNULLAMENTO DEL DEBITO STUDENTESCO
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Iscriversi al Club dei Giacobini che si costituì nella Francia rivoluzionaria nel 1790 costava 36 lire. Associarsi alla nostra avventura giacobina costa 36 euro. Vi chiediamo di farlo da subito, di restare connessi al nostro sito e di seguire le tracce della congiura su Facebook e Twitter @JacobinItalia
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