Jacobin Italia. Vivere in un Paese senza sinistra [Vol. 1] 8832067005, 9788832067002

Il primo numero di Jacobin Italia: le lotte, la produzione e la riproduzione nel paese senza sinistra e i dieci anni dal

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Italian Pages 137 [140] Year 2018

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Jacobin Italia. Vivere in un Paese senza sinistra [Vol. 1]
 8832067005, 9788832067002

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VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

N° 1 / INVERNO 2018/2019

JACOBINITALIA.IT

N° 1 / INVERNO 2018/2019

Vivere in un paese senza sinistra DA JACOBIN USA

Breaking Bank. Dieci anni di crisi

12 euro

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Antonio Gramsci, Che Fare, 1923

VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Ed ecco cosa appare necessario fare immediatamente, ecco quale deve essere l’“inizio” del lavoro per la classe operaia: bisogna fare una spietata autocritica della nostra debolezza, bisogna incominciare dal domandarsi perché abbiamo perduto, chi eravamo, cosa volevamo, dove volevamo arrivare. Ma bisogna prima fare anche un’altra cosa: bisogna fissare i criteri, i princìpi, le basi ideologiche della nostra stessa critica.

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Avvenne domani La crisi dei trent’anni Marta Fana Giacomo Gabbuti

Rivoluzioni passive Come la tv colonizzò la rete diventando lo specchio deforme delle nostre vite tra redenzioni show e finte trasgressioni Giuliano Santoro

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SOMMARIO

Editoriale

Il debito italiano non è un’anomalia

Il paese senza sinistra non è pacificato. Ma come si fa opposizione al governo populista?

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Salvatore Cannavò Lorenzo Zamponi

Si scrive popolo, si legge nazione

Perché il giacobino nero?

Un esempio da non imitare David Broder

Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale Giulio Calella intervista Bhaskar Sunkara

Francesco Strazzari

Remeike Forbes

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Alla ricerca dei conflitti inaspettati

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Marco Bertorello Danilo Corradi

Napoleone era nero Wu Ming 1

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Francesca Coin Piero Maestri

Una scuola buona per grigi contabili

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Lavoro alla cinese, salari alla polacca

Parole contese Beni comuni Gaia Benzi

Biologico

Wolf Bukowski

Girolamo De Michele

Cambiamento

Senza Sinistra

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Giulio Calella

Alessandro Robecchi

Non è un paese per fare figli

Democrazia diretta Giuliano Santoro

Mutualismo

Salvatore Cannavò

Precarietà

Lorenzo Zamponi

Giacomo Gabbuti Lorenzo Paglione

Reddito Gaia Benzi

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La cura come business Sara R. Farris Sabrina Marchetti

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Violenza sulle donne Marie Moïse

Faccia da turco Alberto Prunetti

Le nuove emigrazioni italiane

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Simone Fana Francesco Massimo

Fumetto

Raccogliere Assia Petricelli Sergio Riccardi

Breaking bank: dieci anni di crisi

Meagan Day

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Ronald Janssen

Eileen Jones

Il millennio Minsky

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La crisi finanziaria e le serie televisive paranormali

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Governare con la moneta

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Tra Mercedes e magioni

Mike Beggs

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Citoyens Desk David Broder Giulio Calella Salvatore Cannavò Marta Fana Giuliano Santoro Lorenzo Zamponi Redazione Elisa Albanesi Gaia Benzi Marco Bertorello Wolf Bukowski Francesca Coin Danilo Corradi Girolamo De Michele Sara Farris Simone Fana Giacomo Gabbuti Piero Maestri Sabrina Marchetti Francesco Massimo Marie Moïse Assia Petricelli Alberto Prunetti Bruno Settis Wu Ming 1 Creative director Alessio Melandri Hanno collaborato Lorenzo Paglione Alessandro Robecchi Francesco Strazzari COPERTINA Manfredi Ciminale Illustratori Frita Luciop Martoz Pronostico Sergio Riccardi Web Master Matteo Micalella

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Jacobin Italia Rivista trimestrale n. 1 - inverno 2018/2019 Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 173/2018 rilasciata il 25/10/2018 Testata e articoli tradotti da Jacobin Usa su licenza di Jacobin Foundation Ltd 388 Atlantic Avenue Brooklyn NY 11217 United Staes www.jacobinmag.com Editore Edizioni Alegre società cooperativa Circonvallazione Casilina, 72/74 00176 Roma www.edizionialegre.it Direttore responsabile Salvatore Cannavò Chiuso in tipografia il 26 ottobre 2018 Stampa Arti Grafiche La Moderna S.r.l. via Enrico Fermi, 13/17 00012 Guidonia Montecelio (Roma) Distribuzione in libreria Messaggerie Spa Abbonamenti (4 numeri) Digitale: 24 euro Digitale + cartaceo: 36 euro Sostenitore: da 50 euro Spedizioni in paesi Ue: 20 euro Spedizioni in paesi extra Ue: 35 euro Info www.jacobinitalia.it [email protected]

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Avvenne domani

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I

t Happened Tomorrow è il titolo di un vecchio film hollywoodiano diretto dal regista francese René Clair. Venne distribuito in sala nel maggio del 1944, mentre nel corso di eventi ben più tragici, su diversi fronti della seconda guerra mondiale, si combatteva metro per metro e si strappavano a morsi brandelli di futuro. In quegli stessi giorni le truppe naziste battevano in ritirata da Montecassino e gli alleati si incamminavano verso Roma, coi partigiani a preparare il terreno. I deportati sinti e rom lanciavano un’eroica quanto dimenticata insurrezione contro le SS nel lager di Auschwitz. Sul fronte orientale l’Armata rossa liberava definitivamente la Crimea. Eppure anche la storia di quel film dal titolo sbilenco, appeso a un verbo al passato e un avverbio futuro, a suo modo riaccendeva una piccola fiammella. Raccontava la storia di un cronista precario che riceve da un anziano archivista la copia del giornale con le notizie del giorno successivo. È il sogno di ogni impresa editoriale, quello di raccontare anzitempo il futuro prossimo. Questa rivista non coltiva ambizioni talmente magiche ma si getta in un’impresa altrettanto ambiziosa. Nel tempo claustrofobico del passato rimosso e manipolato, del presente eterno e inafferrabile, del futuro da incubo dobbiamo tornare a immaginare l’avvenire. Il poeta diceva che «il futuro non è ancora scritto» e siccome non vogliamo metterci in fila e aspettare che le prossime pagine del nostro destino siano una copia ancor più brutta del presente, vogliamo scrivere capitoli inattesi e spiazzanti. Assieme alla testa di Luigi XVI, i protagonisti della rivoluzione francese decisero di afferrare i tempi nuovi cestinando il calendario ereditato dal vecchio mondo. Il 1793 è spirato prima del tempo, a settembre. Poi ha lasciato spazio all’anno II della nuova epoca rivoluzionaria. La ghigliottina ha tracciato un solco, c’è stato un prima e un dopo della rivoluzione. La scelta esprimeva l’utopia fondata sulla ragione al posto di superstizione e fatalismo, ma oggi questa possibilità sembra distante. Il calendario alludeva alla possibilità di lasciarsi indietro il fango e il sangue dell’oppressione. L’alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle si è accaparrata una specie di monopolio simbolico sulla speranza e in fondo sull’idea stessa di futuro. È per questo che, contro ogni evidenza, si dicono portatori del «cambiamento». Il loro governo va in direzione opposta a quella che auspicheremmo, ma senza battere un tempo nuovo, lo spirito offensivo dei gialloverdi rischia di farci apparire in posizione difensiva. Per prendere appunti di futuro cominciamo da una presa d’atto, cruda e persino banale nella sua spietatezza incontestabile. Il paese che ha dato vita al partito comunista più grande d’Occidente e che è stato un laboratorio per i movimenti sociali e il pensiero critico è diventato un paese senza sinistra. Si tratta di un’anomalia o piuttosto di un laboratorio? David Broder e Francesco Strazzari ci aiutano a relativizzare la questione parlando della crisi italiana dentro la più generale trasformazione della politica. Tutto questo quando ha avuto inizio? Anche qui, parlare di tempi e cicli, significa affrontare più livelli. Per Giuliano Santoro il decennio chiave, che ha saldato la rete alla televisione facendo dilagare l’egemonia dello spettacolo che ha spianato la strada alle destre, sono gli Anni Zero. Per Marta Fana e Giacomo Gabbuti, bisogna andare indietro di almeno trent’anni: il declino economico co-

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mincia con gli anni Novanta del secolo scorso. In questo paese ci tocca, come sottolineiamo in copertina, vivere. Lo abbiamo davvero fatto al di sopra delle nostre possibilità, abbiamo dunque qualche colpa da espiare? Dati alla mano, Marco Bertorello e Danilo Corradi discutono il dogma del debito. Vivere significa anche lavorare, amare, lottare. Qui i piani della produzione e della riproduzione si incrociano. Francesca Coin e Piero Maestri entrano nelle viscere di una di quelle che enfaticamente vengono definite «fabbriche 4.0» e scoprono che il lavoro è fatto di ritmi infernali e ricatti continui. Sara Farris e Sabrina Marchetti ci conducono tra le catene di montaggio invisibili delle fabbriche affettive del lavoro di cura. Girolamo De Michele ragiona della scuola e della mutazione antropologica del lavoro dell’insegnante. Giacomo Gabbuti e Lorenzo Paglione affondano lo sguardo sulla questione, spesso usata strumentalmente dai nostri nemici reazionari, della demografia. Anche emigrazione e immigrazione, al tempo delle identità meticcie, si incrociano. Simone Fana e Francesco Massimo riflettono sulla composizione della nuova ondata migratoria dall’Italia. Alberto Prunetti racconta in prima persona la sua storia di migrante italiano. Assia Petricelli e Sergio Riccardi raccontano a fumetti la storia di Soumaila Sacko, il sindacalista maliano ucciso nelle campagne di Rosarno. Non pensiate che la crisi della politica tradizionale (di assenza di sinistra parla Alessandro Robecchi) abbia cancellato i conflitti: Salvatore Cannavò e Lorenzo Zamponi percorrono l’Italia a volo d’uccello, interloquendo con alcuni dei protagonisti per l’avvenire parte dall’avvenire stesso, dalle alternative delle insorgenze degli ultimi tempi. che bisogna costruire e non dal rimuginare sulle sconfitte. Avrete notato come nel paese senza Ciò non toglie che siamo nani sulle spalle dei giganti, e che sinistre le parole abbiano cominciato a la nostra storia si riallacci a una lunga sequenza di lotte, di perdere di senso: si parla di beni comurivoluzioni, di tentativi di creare un nuovo mondo. ni, reddito o cambiamento in modo del La rivista che avete tra le mani è sorella della rivista statutto sganciato dalla realtà materiale. Noi tunitense Jacobin, il cui direttore e fondatore Bhaskar Sunpensiamo che anche il vocabolario sia un kara dialoga con Giulio Calella. Ospiteremo in ogni numero campo di battaglia, per questo cominciauna scelta degli articoli pubblicati dai nostri compagni d’olmo a lanciare qualche sasso nel pantatreoceano. Per cominciare ci occupiamo del decennale delno linguistico del potere e a riprenderci la crisi economica del 2008. Cominciando da una sequela di qualche parola-chiave. foto segnaletiche messa insieme da Meagan Day. Sono tutti In queste pagine non troverete alcuna villain, i cattivi dei fumetti che qui diventano personaggi requisitoria contro chicchessia. Non è reali e spietati affamatori. Il testo risponde a una domanda compito nostro e non ci interessa giudiche pochi si pongono: che fine hanno fatto gli apprendisti care, per di più con in tasca il proverbiale stregoni della finanza tossica? Segue una rassegna, a cura senno del poi, che cosa i partiti o i movidi Eileen Jones, sul modo in cui la grande crisi ha cambiato menti del passato avrebbero dovuto fare le storie che popolano il nostro immaginario cinematograper evitare la crisi in cui ci troviamo. La fico e televisivo. Infine, un articolo sui limiti dell’Unione ghigliottina serve anche a darci un taglio europea nell’ultimo decennio, a firma Ronald Janssen, e con alcune vecchie consuetudini e imun corposo saggio di Mike Beggs sull’economista socialista porre alcune linee di divisione. La lotta Hyman Minsky e la sua teoria dell’instabilità finanziaria. Last but not least, nel paginone centrale Wu Ming 1 racconta la storia dei giacobini neri, protagonisti della rivoluzione dimenticata di Haiti. Al contrario dei loro avversari francesi, quei ribelli ebbero il coraggio di porre la scandalosa questione della proprietà. Ecco perché li ricordiamo omaggiandoli con la nostra testata.

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Oltre la leggenda dell’egemonia culturale della sinistra, ecco come tra redenzioni improvvise e finte trasgressioni lo specchio deforme dell’individualismo si materializzò in rete e in televisione

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VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Illustrazioni di

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a Madonna appare a Paolo Brosio mentre sta partecipando a un’orgia. È il dicembre del 2008, manca qualche giorno a Natale e l’orologio segna le tre del mattino. Quando ha la visione si trova in un appartamento di Torino. La grande crisi incombe e la sinistra italiana per la prima volta nella storia della Repubblica è da pochi mesi fuori dal parlamento. Giuliano Santoro Brosio si inginocchia e recita per tre volte l’Ave Maria. Anche il popolo immerso nei festini berlusconiani e irretito dal sogno degli anni Ottanta infiniti ha da poco visto la luce. Gli italiani hanno cominciato la loro conversione ritrovandosi in una piazza convocata da un attore comico che manda tutti affanculo. Brosio intanto si dedica alla Madonna di Medjugorie. Coltivando una forma di culto tutt’altro che riservata decide di mettere in scena la sua spiritualità. Parla della sua fede sui social, scrive libri, raccoglie denaro a scopi benefici nel corso di eventi teletrasmessi. Brosio, del resto, ha già accompagnato gli italiani verso un’altra specie di catarsi. È diventato famoso stazionando su di un marciapiede, alle sue spalle il Palazzo di giustizia di Milano. Ha raccontato Tangentopoli, i politici con le occhiaie sotto il torchio degli interrogatori, la fila davanti alla procura per vuotare il sacco, il collasso dei partiti della Prima Repubblica. In quegli anni le reti berlusconiane lanciano i loro telegiornali e cominciano a mescolare intrattenimento e politica. La sua immagine di uomo impacciato accompagna il sogno giustizialista. Quel mix di ingenuità e ferocia culmina nel trionfo elettorale di Forza Italia. Da cronista del Tg4, a furia di siparietti con il direttore che lo bullizza dallo studio, Brosio diventa una specie di macchietta che compare davanti alle telecamere in coppia con la su’ mamma. Se vivere in un paese senza sinistra significasse liberarsi dell’universalismo eurocentrico e smettere di considerarsi pura testimonianza delle lotte (e delle, pur se onorevoli, sconfitte) del Novecento, allora non avremmo nulla da recriminare. Ma se per «sinistra» si intende l’attitudine di guardare alla società come un processo in continuo mutamento e non come un oggetto con un suo ordine definito e compiuto, allora è necessario chiedersi non cosa siamo ma in cosa ci stiamo Giuliano Santoro, trasformando. Per farlo bisogna riconoscere, leggere, innescare giornalista, scrive di i conflitti che attraversano la società e orientano queste trasforpolitica e cultura mazioni. L’improvvisa redenzione di Paolo Brosio ci interessa sul manifesto. È perché si trova in risonanza con le cicliche conversioni soft degli autore, tra le altre italiani. La sua storia abbraccia un momento storico decisivo. cose, di Un Grillo Dapprima l’Italia si tuffa, in ritardo rispetto al resto del mondo Qualunque e Cervelli e col fervore tipico del principiante, nella politica spettacolo. Sconnessi (entrambi La gente partecipa senza risparmio, come il pubblico pagato di editi da Castelvecchi), una puntata della Ruota della Fortuna: esulta guardando i po-

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Guida alla Roma Ribelle (Voland), Al Palo della Morte (Alegre Quinto Tipo).

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litici alla sbarra, lancia monete ai potenti in rotta («Vuoi pure queste/ Bettino vuoi pure queste» sulla cantilena di Guantanamera al potente in rotta Bettino Craxi) e infine, in attesa della conversione successiva, si rifugia nel tepore rassicurante del focolare della Casa della libertà. Chissà se dopo aver sentito quella voce cristallina che gli dice «Paolo, devi smettere» per un attimo Brosio pensa a quel decennio vorticoso che sta per finire. Magari gli sono passati davanti in soggettiva gli Anni Zero che hanno incubato il paese-senza-sinistra. In questo periodo alligna l’egemonia culturale che viene da lontano e che si proietta nel nuovo millennio. Antonio Gramsci chiama «rivoluzione passiva» il rinnovamento cui non corrisponde alcuna mobilitazione dal basso. Lo stato moderno tra le guerre napoleoniche, annota, nasce ad esempio «senza passare per la rivoluzione politica di tipo radicale-giacobino». La formula prevede che l’«egemonia culturale» sia solo un passaggio tattico che precede la conquista del potere. Da cui l’interpretazione scolastica, molto in voga presso i paranoici anticomunisti: nel paese in cui la rivoluzione è impossibile bisogna lavorare nello scritto su «Americanismo e fordismo», che il modello sottotraccia, impadronirsi lentamente delle di produzione della grande industria influenzava l’esistencasematte della cultura al fine di diventare za dei lavoratori oltre le mura della fabbrica e il tempo di classe dirigente. Questa semplicistica con- lavoro. Ecco allora che l’«egemonia culturale» non è una tiene il mito dell’«egemonia culturale» della specie di escamotage tattico per prendere il potere nel paesinistra. In realtà, Gramsci era poco avvez- se delle rivoluzioni mancate. zo a formule tanto lineari. Aveva già intuito, Se sprovincializziamo Gramsci, l’autore italiano più letto al mondo, scopriamo che la sua lezione serve piuttosto a capire come funziona il potere. Il potere non si limita a comanda dall’alto ma produce identità. Per questo, quando deve superare una crisi, cambiare tutto affinchè tutto resti uguale, ha bisogno di rivoluzioni passive. Gramsci ci aiuta a individuare la cultura come il campo di battaglia che definisce il nostro modo di vivere e leggere il mondo. «La cultura ha cessato di essere una sorta di appendice decorativa del “mondo pesante” della produzione e degli oggetti, la ciliegina sulla torta del mondo materiale», scrive il sociologo britannico Stuart Hall cercando un’«interpretazione gramsciana» dei «tempi nuovi». Per sfatare la leggenda della «egemonia culturale delle sinistre» bisogna disporre il proprio sguardo oltre i templi della cosiddetta «cultura ufficiale» e rigettare il campo di battaglia definito dal nostro nemico. Prendere atto che non c’è nulla di più ideologico delle narrazioni

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ciso postmoderno davanti alla sua immagine riflessa. «E dai, dimmi qualcosa! Lo so che ci sei dietro il vetro. Non mi vuoi parlare? Almeno girati che me devo cambia’ le mutande», dice una sera parlando allo specchio delle sue brame dietro al quale si nasconde una telecamera dello show che sarà oltrepassato dal panopticon dei social network ma che per primo segnala l’opportunità di mettere in scena senza soste la propria vita e trasforma in normalità la disponibilità a discutere dei cazzi propri con chiunque passi di lì per caso. Lo spiega bene Alessandra Ghisleri, la maga dei sondaggi artefice dei successi berlusconiani: «Il Gf copriva un periodo di campagna elettorale: fu un evento di costume, dirette 24 ore su 24, e iniziai a farmi domande su come quell’overdose di protagonismo cambiava la percezione della politica». È il 18 settembre del 2000 quando milioni persone assistono a un amplesso veloce, consumato dietro una tenda, tra Taricone e Cristina Pievani, un’altra concorrente. Gli italiani si innamorano del maschio dominante Taricone, se potessero già farlo stamperebbero un like immediato sulla sua pagina Facebook per seguirne tutti gli aggiornamenti. Intanto, fuori da quel set televisivo, succedono cose. Il numero di telefoni cellulari per la prima volta nella storia supera quello di impianti fissi. La bolla finanziaria di Internet sta esplodendo, ci vorranno i grandi monopoli digitali e la messa al lavoro molecolare del 2.0 per risollevare le sorti dei profitti. Si aprono scenari comunicativi inediti e si intravedono formulette politiche sincretistiche, fortunate e confusionarie. Da Venezia, in quel 18 settembre, il fondatore della Lega Umberto Bossi svuota l’ampolle con le sacre acque del Po, mette una pietra sopra allo scontro con Berlusconi e annuncia la nascita del Polo della

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che si presentano come post-ideologiche. Bisogna sondare l’insolito, misurarsi con dispositivi che paiono non avere nulla a che fare con la politica. «Può un socialismo del ventunesimo secolo risorgere o anche sopravvivere se resta completamente tagliato fuori dal campo dei piaceri popolari, per quanto questo rappresenti un’arena del tutto contradditoria e mercificata?» si chiede ancora Stuart Hall. Indagando la cultura popolare ci poniamo nella condizione di decostruire l’idea stessa di «popolo» che è andata affermandosi nel paese-senza-sinistra prima ancora che la sinistra scomparisse e che rischiamo di assumere come un dato naturale, oggettivo e totalizzante invece che come un dispositivo ben preciso. Non ci troviamo di fronte a un processo di lobotomia di massa, a un meccanismo unidirezionale e disarmante. Non parliamo di gente ipnotizzata davanti agli schermi. Scrivendo la storia della «mutazione individualistica» prodotta dal rapporto tra televisione e società italiana lo storico Giovanni Gozzini ci aiuta a rifuggire ogni tentazione apocalittica: «La televisione non è onnipotente. Se riesce a cambiare la testa delle persone è perché funziona da sponda (da specchio) a una trasformazione sociale profonda». Pietro Taricone è il personaggio simbolo della prima edizione del reality show per eccellenza, Il Grande Fratello, un altro dei feticci del decennio in cui l’egemonia culturale della televisione si è rinforzata attraverso l’uso scriteriato e di massa del web 2.0. All’alba del decennio che spazza via la sinistra, Taricone parla come un Nar-

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Libertà contro i «nazisti rossi alleati con i banchieri». I ragazzi rinchiusi da cinque giorni nella casa, ripresi dalle telecamere permanenti del Grande fratello, sono ignari di tutto ciò. Non lo sanno Pietro Taricone e Cristina Pievani mentre amoreggiano. Lei, sedotta e abbandonata, vince la prima edizione del reality show per eccellenza. Lui, Taricone, muore dieci anni dopo, per un tragico incidente durante un lancio col paracadute.

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Nell’immaginario collettivo galleggiano ambivalenze che restano tali e che riescono a paralizzare chi le subisce perché paiono foriere di contraddizioni ma non sfociano mai in conflitti. L’oggetto culturale Taricone è l’emblema di una forma di vita che cominciava a dilagare, imprenditore di se stesso e cultore della propria immagine. «Se me piace lu maccarrone perché devo rinunciare allo spaghetto che me piace pure assai?», domanda ai suoi coinquilini per giustificare l’ostentata bulimia sessuale. La stessa voracità che anni prima è stata preparata, con la scusa dell’ironia, dalle macchiette di Drive In che trasformano in burletta la liberazione sessuale. Il suo lancio nel vuoto dello star system, e i tremila e passa giorni che trascorrono dal salto allo schianto, durano quanto gli anni del ritorno al potere, dopo la fugace esperienza del 1994, di Silvio Berlusconi. Se si eccettua la parentesi claudicante del governo Prodi del 2006, il suo governo si protrae dal 2001 fino al tragico circo televisivo dell’Aquila all’indomani del tragico terremoto del 2009. È allora che il presidente, in palese delirio di onnipotenza e sancendo definitivamente il matriLA PARABOLA TRAGICA monio tra rappresentanza politica e rappresentazione spettacolare, E SIMBOLICA DI PIETRO mette in scena il teatro dell’assurdo della shock economy. Costruisce TARICONE COINCIDE una città parallela a quella devastata dal sisma. Era nato come palazCOL DECENNIO DI SILVIO zinaro artefice di Milano 2, gated community all’italiana costruita tra la BERLUSCONI PREMIER: Brianza e la metropoli. E cosa c’è di più politico del sogno borghese di DAL GRANDE FRATELLO una città senza conflitti sociali all’alba degli anni Settanta del NovecenAL G8 DELL’AQUILA to? Adesso mescola le origini con la storia successiva di impresario megalomane e provinciale al tempo stesso. Diventa il grande cerimoniere dello stato d’emergenza ospitando il G8 in mezzo alle macerie. Anni dopo la repressione sanguinosa del movimento che si era incontrato a Genova nel 2001 riconsegna all’opinione pubblica internazionale un’Italia pacificata e un mondo volenteroso. In mezzo ad un’orgia mediatica, ci si converte senza impegno, ci si sente più buoni. Non c’è da stupirsi se Taricone sembri più autentico dei suoi colleghi. È l’espressione di una generazione, quella nata negli anni Settanta, che ha digerito la televisione e che sa muoversi su più livelli. Recita la parte del coatto palestrato o è un coatto palestrato che sa recitare? Di certo si mostra consapevole, come i politici vecchi e nuovi «recita la normalità». «Pietro voleva fare il politico, prima di voler diventare imprenditore e poi attore», testimonia lo scrittore del momento Roberto Saviano, che Taricone lo conosce dai tempi della scuola. «Lei si farà strada nella vita», dice a Taricone l’ex presidente del consiglio Lamberto Dini dopo un comizio per le elezioni amministrative, alle quali il nostro concorre nelle liste di Rinnovamento Italiano (88 voti, 6 annullati). Lui mette in scena il suo corpo ma giocava con le parole, ipnotizzando e spiazzando un popo-

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La rappresentanza cede il passo alla rappresentazione

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lo di piccolo borghesi che sta scoprendo la trasgressione che in quegli anni diviene di massa fino a dilagare: l’inchiostro sul corpo depilato diventa la regola invece che la sua violazione. «L’usanza prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale», scriveva Cesare Lombroso dei tatuaggi. Danilo Montaldi, ancora un secolo dopo, afferma che il tatuaggio contiene l’autobiografia del delinquente di strada. Poi all’improvviso, come intuiscono Elio e le Storie tese in un brano di una quindicina di anni fa, tutti quanti «corrono a farsi un tatuaggetto» come Taricone. Oggi più di 8 milioni di italiani sfoggiano un marchio indelebile sul corpo: è un numero impressionante e fino a poco tempo fa impensabile. Ancora una volta, un codice che viene dai margini viene importato dalla cultura di massa e svuotato di senso. Taricone è espressione di una generazione disimpegnata che sposa il mito dell’autoimprenditoria, prima di diventare famoso si barcamena tra diverse attività commerciali, ma trasuda una carica politica nitidissima. Ha conosciuto il grado zero della convivenza umana. Ha fatto l’amministratore di condominio investendo di nascosto la liquidità MENTRE L’ONDA fresca proveniente dalle bollette dell’acqua degli inquilini e nel corSTUDENTESCA VIENE so di riunioni in cortili e androni ha maneggiato le passioni tristi SCONFITTA, LA SINTESI dell’individualismo proprietario, mediato tra millesimi, gestito i TRA TV E WEB PARTORISCE beni comuni in maniera decorosa, senza turbare i difensori del piaUN BLOB IDEOLOGICO nerottolo. «È un intellettuale, il Taricone. Un intellettuale duro. È un PRIVO DI OGNI COERENZA liberale, un liberale attento alla divisione crociana del liberalismo», E DUNQUE IRRESISTIBILE azzarda Christian Rocca sul Foglio. Quando il suo volo emblematico si è quasi concluso, Taricone scopre i fascisti. La sua figura anticipatrice diviene quasi profetica: «CasaPound mi piace moltissimo, mi piace il mutuo sociale, mi affascina l’idea del fare a prescindere dalle ideologie, credo che questo sia il futuro della politica», dice nel 2009, forse primo a endorsare i fascisti del terzo millennio. Il paese che dopo i generosi moti del movimento dell’Onda studentesca si prepara a espungere i conflitti dal suo orizzonte si specchia nell’immagine di Taricone. Si rivede in un trentenne che è espressione di un poutporri culturale che non ha alcuna coerenza interna e che proprio per questo appare irresistibile.

Federico Fellini nel 1985 non aveva ancora visto Facebook ma aveva capito da che parte stava andando la neotelevisione e profetizzato il flusso superficiale dell’informazione che si sovrappone al tempo della vita (la timeline) e le platee-ghetto delle bolle dei social network: «Lo stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata ha come unico risultato quello di creare una sterminata platea di analfabeti pronti a ridere, a esaltarsi, ad applaudire tutto quello che è veloce, privo di senso e ripetitivo». «È la cosa più orribile che abbia mai visto», è la sentenza che Marco Giusti ed Enrico Ghezzi campionano dal b-movie «The Blob» per riprodurre in forma paradossale lo spezzatino della neotelevisione e la sua tendenza a riprodurre i linguaggi della pubblicità. La cultura di destra è egemone, con Furio Jesi diremmo che «possiede tutta la sua oscurità che è dichiarata chiarezza, tutta

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Il nostro doppio agghiacciante

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la sua ripugnanza per la storia che è camuffata di venerazione del passato glorioso, tutto il suo immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva perenne». In virtù della mancanza di vincoli sociali se non quelli di rielaborare miti per legittimare poteri vecchi e nuovi, l’egemonia della cultura è il prodotto di una capacità camaleontica che le consente di passare dalla letteratura di consumo al giornalismo popolare, dalla televisione alla rete. Dalle pagine di Gente e Oggi ereditiamo l’ossessione monarchica incartata di gossip che accarezza un paese che si sente organo dei Savoia e che approderà ai giorni nostri a certe nostalgie borboniche mascherate di meridionalismo, rappresentate dai bestseller di Pino Aprile, che di Gente è stato direttore. Ma in fondo, se si insegue «la rivoluzione senza ghigliottina» (copyright Beppe Grillo) non serve far saltare teste, basta cambiare cavallo e passare ad altra dinastia: in questo caso dai Savoia si passa ai Borbone. La grande capacità di Indro Montanelli nel conoscere, blandire e rappresentare le pulsioni della piccola e media borghesia italiana si trasmette in tronconi giornalistici apparentemente diversi e confliggenti che pure (e a ragione) rivendicano la sua lezione e che nel governo gialloverde trovano una sintesi: il giustizialismo spinto e il conservatorismo bieco, il ghigno manettaro e il borbottio reazionario. Il tutto impacchettato dalle «idee senza parole» che dal lusso spirituale della letteratura reazionaria dell’Ottocento si trasmette negli slogan pubblicitari e in quelli elettorali. Del resto, cosa c’è di più falso e al tempo stesso realmente efficace della propaganda commerciale? Tutti sanno che è pensata proprio per spacciare merce eppure funziona, altrimenti avrebbe cessato di esistere da tempo. Attraverso lo specchio osserviamo i Taricone e ci troviamo di fronte a quello che fronte all’immagine riflessa che ci ipnotizza. A una figura Paolo Virno ha definito il nostro «doppio che per Virno deforma caratteristiche comuni come «l’inagghiacciante», perverte e al tempo stesso tellettualità di massa, le spinte autonomistiche e destatalizaffianca le forme di vita radicali contem- zanti, le “singolarità qualunque”, i cittadini smaliziati della poranee. Il fenomeno del quale Taricone è società dello spettacolo». L’audience è diviso in nicchie che stato anticipatore è il simbolo di un’egemo- non si parlano tra loro e che per ognuna di esse è possibile nia culturale ancora più pervasiva. Siamo di impacchettare una verità ad hoc senza che queste entrino in contraddizione perché è ormai dato per scontato che la sfera della parola sia performativa. La narrazione spezzettata, i tormentoni di Drive In e le bolle di Facebook. Attraverso lo specchio scorgiamo un altro concorrente un po’ defilato, sovente dileggiato dagli altri reclusi nella Casa. Lui, a differenza dello scaltro e sfortunato Taricone, percorre tutta la discesa agli inferi dello show biz che tocca agli ex concorrenti del Grande fratello, fino ad arrivare alla corte di Lele Mora. (E pensare che una volta Taricone aveva detto di voler fondare un sindacato degli ex concorrenti del Gf: «Sciopero compagni! Pensa alle trasmissioni tv senza quelli del Grande Fratello»). Verrà umiliato a favore di telecamera da un altro degli eroi tragici e ambivalenti degli Anni Zero, quel Fabrizio Corona che secondo lo scrittore Walter Siti rappresenta alla perfezione il rovesciamento della profezia pasoliniana: tutta la strafottenza del sottoproletariato e tutto l’egoismo della borghesia in una sola forma di vita. Il concorrente che pareva destinato come i suoi colleghi all’oblio o a campare facendo ospitate nelle discoteche di provincia e nei mobilifici della Brianza è diventato uno degli uomini più potenti d’Italia. Si chiama Rocco Casalino.

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La crisi dei trenta anni

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Il declino italiano non comincia oggi, né è tutta colpa dell’Ue: almeno dal 1992 le nostre classi dirigenti impongono un modello basato su scarsi investimenti e precarietà, che porta solo deindustrializzazione e povertà

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Dieci anni dopo la crisi del 2008, l’Italia batte ancora il record europeo di Neet, i giovani fuori dal mondo della formazione e senza lavoro. Sommandoli ai disoccupati “normali”, fanno quasi cinque milioni di persone senza lavoro, poco meno degli individui che vivono in povertà assoluta. La povertà pare il giusto prezzo da pagare Marta Fana Giacomo Gabbuti come risarcimento ai mercati per aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità, per aver fatto pagare salari troppo elevati alle imprese. Questo l’espediente retorico-ideologico esplicitato nella politica economica che già da metà anni Settanta non cessa di esser ripetuto dal padronato e dai governi che si sono succeduti. La cura proposta: dosi massicce di austerità, deregolamentazione del mercato del lavoro e una miope politica di deindustrializzazione e privatizzazioni scagliate contro la maggioranza della società, la stessa a cui simultaneamente sono stati chiesti sacrifici e responsabilità verso i propri aguzzini. Eppure, anche in termini di Pil la botta è ben lontana dall’essere riassorbita, tanto da rendere oramai impietoso il confronto persino con la Grande Depressione del 1929, quando si tornò ai livelli pre-crisi in soli otto anni. Tuttavia, un discorso sulla crisi italiana non può limitarsi all’ultimo decennio. Dentro la crisi globale, e dentro quella delle istituzioni economiche europee, l’Italia ne vive una più lunga e profonda. Se è almeno dai primi anni Settanta che a sinistra si discute di “crisi e ristrutturazione”, è dai primi anni Novanta che il declino italiano diventa lampante. Nel decennio 1990-2000 l’Italia inizia a crescere meno della media Ocse. A quel decennio ne seguono altri due di stagnazione e crisi. Recentemente, Andrea Califano ha mostrato in un articolo per la Fondazione Feltrinelli il declino di quegli indici che «contribuiscono a descrivere il cosiddetto “sistema nazionale di innovazione”», cioè i dati relativi a produzione scientifica, investimenti in ricerca e sviluppo, e «al livello di avanzamento tecnologico e produttivo del paese nel suo complesso». Dal 1995, siamo rimasti indietro anche rispetto a quella periferia mediterranea cui l’Italia, seconda industria europea, dovrebbe appartenere solo dal punto di vista geografico, e questo per scelte precise in termini di politica economica. Guardando ai redditi delle famiglie e alla loro distribuzione, gli economisti di Banca d’Italia Andrea Brandolini, Romina Gambacorta e Alfonso Rosolia indicano lo spartiacque nel 1992. Dopo decenni di crescita, da allora «i redditi reali delle famiglie hanno praticamente cessato di crescere, mettendo a rischio i livelli di vita conquistati». È un anno, il 1992, fortemente simbolico: prima del mercoledì nero di settembre in cui l’Italia fu costretta ad abbandonare il Sistema Monetario Europeo e svalutare la lira, erano arrivate la firma del trattato di Maastricht e l’avvio di Tangentopoli, entrambi in febbraio. L’Italia vive, potremmo dire, la sua crisi dei trent’anni – una crisi legata a quella politica in cui è degenerata e poi crollata la Prima repubblica. Trent’anni in cui, dopo il consolidamento del Miracolo economico, non Marta Fana, PhD ha saputo adattarsi ai mutamenti dell’economia globale, ai vinin Economics, si coli esterni cui è stata assoggettata dalla sua classe dirigente, ma occupa di mercato nemmeno ai cambiamenti resi necessari dalla transizione a un’edel lavoro. Autrice conomia avanzata. Come notava Marcello De Cecco in un luci-

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di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza). Giacomo Gabbuti è dottorando di storia economica all’Università di Oxford.

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C’

è grossa crisi

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dissimo saggio del 1995, (Tre storie economiche dell’Italia unita, ora nella raccolta L’economia di Lucignolo, Donzelli Editore) il «modello italiano» di transizione dalla grande industria fordista ai distretti mostrava già allora la sua «precarietà». «In cerca di riparo da sindacati e fisco», il nuovo capitalismo italiano si è caratterizzato per insufficienza di capitali e bassi livelli di scolarizzazione, specializzandosi in settori ad alta intensità di lavoro poco qualificato e a basso contenuto tecnologico. Lo Stato, «da protagonista dello sviluppo e grande committente delle maggiori imprese», si era trasformato già negli anni Settanta in un «dispensatore di redditi», necessari a sostenere, più che i consumi, la domanda per i nostri prodotti, sempre più in difficoltà sui mercati internazionali. Un’analisi corretta della storia recente del nostro paese sembra dunque una necessaria premessa alle spesso retoriche critiche alle politiche neoliberiste portate avanti negli ultimi decenni. Dietro la crisi della sinistra in Italia c’è anche l’incapacità di costruire analisi, narrazioni e mobilitazioni coerenti con questo prolungato declino. Che tengano conto della crescita delle diseguaglianze e dell’evoluzione di ciò che si produce (e come si produce) da cui originano i rapporti di forza.

Tra 2007 e 2016, nel più generale arretramento dei paesi avanzati e dell’area euro, l’Italia ha quasi dimezzato la sua quota della produzione industriale mondiale al netto del costo dei fattori (capitale e lavoro) impiegati per realizzarla. Pur rimanendo seconda potenza industriale europea, siamo quasi agganciati dalla Francia, producendo ancora solo l’87% di dieci anni fa. Alla contrazione della manifattura corrisponde la crescita di servizi. Tra questi, cresce anche la rendita pura e semplice: quella immobiliare, stando ai calcoli dell’economista di Banca d’Italia Roberto Torrini, è più che raddoppiata in termini di valore aggiunto nazionale, dal 5% del 1980 al 13%. Nello stesso periodo, il peso dell’industria (costruzioni incluse) è passato dal 28% (quota stabile tra il 1975 e il 1995) al 23% del 2013. Guardando alla sola manifattura, il valore aggiunto generato da SENZA IMPRESA PUBBLICA questo settore tra il 1995 e il 2017 si riduce del 12%, nonostante in terL’ECONOMIA ITALIANA mini assoluti aumenti di circa 2,5 miliardi. Un ruolo particolare, all’inRINUNCIA A OGNI terno del valore aggiunto, è dato da quella parte di produzione destiMODERNIZZAZIONE, nata al commercio con l’estero. Il quadro non è esaltante: dal 1995 le RESTA ANCORATA esportazioni italiane continuano a crescere, ma molto più lentamenA SETTORI A BASSO te che nel resto dell’eurozona, tanto che veniamo scavalcati non solo VALORE AGGIUNTO dalla Germania, ma anche da Grecia e Spagna. Proprio i servizi mostrano la dinamica più stagnante (alla faccia del turismo petrolio d’Italia!). Nello stesso periodo, la composizione delle nostre esportazioni è rimasta sostanzialmente identica. Tessile e lavorati del settore agricolo pesano ancora per un quarto delle esportazioni; il doppio che in Germania, dove beni e apparecchiature elettroniche pesano il 10% (6% da noi) e il settore auto il 22% (10,6 in Italia). Dagli anni Settanta è andato fortemente riducendosi il peso della grande industria, come di quella pubblica, entrambe importanti fattori nello sviluppo economico italiano. Secondo

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Dove stiamo facendo?

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i calcoli degli storici economici Renato Giannetti e Michelangelo Vasta, contenuti nel volume L’Impresa italiana nel Novecento (il Mulino) nel 1971 il valore delle 200 imprese manifatturiere ammontava a circa il 40% del Pil; nel 2001 questa quota era scesa al 16%. Negli stessi anni, si è ridotta la dimensione delle imprese, in particolare nella manifattura. Il numero medio di addetti per unità produttiva è nel 2014 di 3,7 (era 4,2 nel 1991). Più difficile è avere dati precisi sulla ritirata del pubblico. Aldilà di quelli noti sull’avanzo primario di bilancio, il World Inequality Database consente di approssimare il peso del capitale pubblico (finanziario e non) sul totale dell’economia, che sembra più che dimezzarsi negli ultimi vent’anni sia in percentuale al Pil che alla ricchezza complessiva. Nonostante la retorica sulla quarta rivoluzione industriale, insomma, l’obiettivo dei governi dell’austerità di portare la bilancia commerciale in pareggio è stato raggiunto aggrappandosi ai settori tradizionali dello sviluppo italiano (o abbattendo i consumi e quindi le importazioni degli italiani). Privata dell’importante ruolo dell’impresa pubblica, l’economia italiana anziché modernizzarsi rimane legata a settori a basso valore aggiunto, contenuto tecnologico e dimensione aziendale, come la ristorazione, il settore alberghiero, il commercio al dettaglio, la logistica e il magazzinaggio.

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Rinunciando a qualsivoglia forma di politica industriale (se non quella dei sempiterni sgravi fiscali alle imprese) e sottoscrivendo i vincoli europei, le classi dirigenti hanno provato a scaricare sul costo del lavoro il peso della competizione. Esemplari le campagne sul «Perché investire in Italia» del Ministero dello Sviluppo Economico, che nel 2016 rivendicava il costo del lavoro inferiore alla media europea («Un ingegnere in Italia guadagna in media 38.500 euro, mentre nel resto d’Europa 48.500»!). Anche in questo campo, il 1992 è uno spartiacque: l’Italia diventa laboratorio delle politiche neoliberiste nel mercato del lavoro, ridotto a unico campo d’azione della politica economica. La nuova fase di ristrutturazione iniziata a metà anni Settanta, fatta di esternalizzazione e decentramento produt- dalla lotta all’inflazione ma fu funzionale a rafforzare i protivo verso “la terza Italia” – quella delle regio- fitti privati, scaricando il peso della svalutazione sui reddini del Centro e del Nord-Est, dove in assenza ti da lavoro. Per il quarto di secolo successivo, al fantasma della grande industria prosperano i distret- dell’inflazione si sostituì il mantra «più flessibilità più creti – si intensifica negli anni Novanta. L’ag- scita». La disoccupazione poteva essere ridotta, si disse, da giustamento (basato su flessibilizzazione e contratti di lavoro flessibili (e ovviamente, salari inferiori). compressione salariale) richiede una nuo- Inizia la riforma permanente che dal Pacchetto Treu (1997) va cornice normativa. Gli accordi tra gover- arriva al Jobs Act di Matteo Renzi. no, imprese e parti sociali tra il 1992 e il 1993 Tra il 1992 e il 2017, il tasso di occupazione aumenta di sanciscono la fine degli adeguamenti auto- pochi punti percentuali (rimanendo tra i più bassi d’Euromatici dei salari e aprono alla contrattazione pa) grazie alla maggiore partecipazione femminile e alla sadecentrata, che alla luce dei rapporti di forza natoria dei lavoratori immigrati (2001). In entrambi i casi, si spiana la strada a ulteriore compressione sa- tratta di lavoro sempre più precario. Il tasso di part-time ha lariale. La deflazione salariale fu giustificata raggiunto il 32% dell’occupazione femminile (poco sopra la media europea), ma la metà delle lavoratrici accetta il tempo parziale per via della mancanza di offerte a tempo pieno. Nel campo del part time involontario, l’Italia vanta il primato europeo (61%), con punte del 74% per i lavoratori tra i 15 e i 34 anni (era il 44% appena nel 2004). Se l’aumento tocca tutta l’economia, la sua distribuzione è ancora asimmetrica tra settori produttivi, passando dal 48,8% dei lavorato-

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La risposta è dentro di te (ma è sbagliata)

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è cresciuta di quasi 10 punti percentuali. La povertà assoluta (misurata da una “linea di povertà” oggettiva, basata su consumi basilari), dopo un picco nei primi anni Novanta, e un declino successivo, è più che raddoppiata nell’ultimo decennio, trend non fermato dalla “crescita” degli ultimi anni. La disuguaglianza territoriale è esplosa in termini di reddito, occupazione, investiGli ultimi saranno i primi, ma lo sportello chiude alle 12 menti. Sono cresciuti anche i divari generazionali: gli economisti Massimo BaldiLa povertà e le diseguaglianze trovano origine nel- ni, Giulia Mancini e Giovanni Vecchi (in No le condizioni di ordinario sfruttamento del lavoro, frutto country for young people. Poverty and age dello stravolgimento dei rapporti di forza e dell’evoluzio- in Italy 1948-2018) hanno mostrato l’increne della struttura produttiva italiana. Quel 10% di famiglie mento drammatico della povertà minorile. che secondo l’Istat erano in povertà relativa nel 2016 – cioè La ciliegina sulla torta è data dall’aumento con meno del 60% del reddito medio – acquista un’altra delle differenze di genere in termini di revalenza se si considera che in queste condizioni si trova il tribuzione. Nell’articolo The Increase of the 34% delle famiglie di operai o lavoratori assimilabili, con- Gender Wage Gap in Italy during the 2008tro lo 0 di quelle con un capofamiglia dirigente. Rispetto a 2012 Economic Crisis, Daniela Pizzaluga e 20 anni fa, la povertà relativa tra le famiglie dei lavoratori Maria Laura Di Tommaso mostrano come la crisi (e soprattutto il congelamento degli stipendi nella pubblica amministrazione) abbia più che raddoppiato il gap salariale (da 3,8 a 8,6% dal 2008 al 2012), in controtendenza col resto d’Europa. Considerando nel loro insieme le famiglie italiane, dal 1992 a oggi le indagini di Banca d’Italia mostrano come la (scarsa) crescita si distribuisca in modo fortemente diseguale. L’indice di Gini, in crescita dal 1992, non si impenna durante la crisi, ma le famiglie più povere hanno visto i propri redditi ridursi o crescere sotto la media, mentre il ceto medio teneva a malapena il passo e i più ricchi andavano meglio di tutti. Ancor più che nei redditi, è nei patrimoni degli italiani che la disuguaglianza è preoccupante. Guardando ai dati fiscali si osserva una crescita della quota dei redditi dell’1% più ricco sin dai primi anni Ottanta (anche grazie alla riduzione, dagli anni Settanta, delle imposte sui redditi elevati). Nella ricchezza l’incremento è maggiore. I numeri elaborati da Paolo Acciari, Facundo Alvaredo e Salvatore Morelli, e presentati al Forum Disuguaglianze Diversità, mostrano come dal 1995, mentre la quota di ricchezza della metà più povera delle famiglie italiane si riduce dal 15 a poco più del 5%, l’1% più ricco è passato da circa 15 a oltre il 25%. Dal 2008, le poche famiglie che compongono lo 0,1 e lo 0,01% più ricco hanno più che raddoppiato la loro ricchezza. Sempre il World Income Database mostra come la ricchezza pesi in Italia più di 7 volte il Pil, ben di più che negli Usa e in Francia, mentre i primi studi dell’economista Francesco Bloise mostrano quanto questa contribuisce a rendere l’Italia un paese con bassissima mobilità sociale. Di fronte a un’economia stagnante e a un mercato del lavoro infernale, la posizione di chi ha si rafforza sempre di più rispetto a quella di chi ha bisogno di un salario per

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ri dell’industria, al 62% dei servizi. Proprio i servizi hanno trainato la dinamica occupazionale, a discapito del manifatturiero. Lo slittamento è evidente sia nell’occupazione, che nelle ore lavorate. Tra il 1993 e il 2017, queste ultime aumentano di 2,5 miliardi; una cifra risultante da un +4,3 nei servizi, e un -1,7 nel manifatturiero. Rispetto al 2008, tuttavia, nel 2017 mancano ancora 1,1 miliardi di ore. Questo travaso (così come la riduzione delle dimensioni delle aziende) maschera in parte la crescente esternalizzazione compiuta con gli appalti e il ricorso al lavoro interinale. Oggi sempre più lavoratori vengono assunti per pochi giorni al mese, o “affittati” tramite un’agenzia di somministrazione: nel 2017, il 36% dei contratti a termine durava meno di un mese, mentre il 32% di quelli in somministrazione si risolveva in una giornata.

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campare. Nell’ultimo decennio la quota di reddito nazionale (viziata dall’incapacità di misurare i redditi dei precari nella contabilità nazionale) che va ai lavoratori sembra essere aumentata, ma sempre secondo i dati di Torrini non ha recuperato il crollo avviato nei primi anni Ottanta, e accelerato proprio nei primi anni Novanta.

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In sostanza, a differenza che in Spagna o in Grecia, la crisi non ci ha colpiti improvvisamente nel 2008. Piaccia o no, l’unica narrazione coerente con questa crisi trentennale è stata quella anti-euro. Il nostro 99% non si è trovato di colpo senza casa, o licenziato, nel 2008, ma si adatta almeno dal 1992 alle prospettive stagnanti dell’economia italiana. Il passaggio alla moneta unica (iniziato con l’avvio del Sistema Monetario Europeo nel 1979) e l’accettazione dei vincoli di bilancio (sottoscritti proprio nel 1992) hanno contribuito a questa situazione (come era peraltro prevedibile, ed in effetti fu previsto allora). Nessuna risposta politica alla crisi italiana può evitare di porre il tema dell’Europa come dirimente, né tantomeno continuare a trattarlo nel modo fideistico con cui è stato fatto negli ultimi vent’anni. Questa risposta sorvola sulla specificità italiana, resa evidente dal confronto con la stessa periferia mediterranea, le cui cause affondano nei decenni ancora precedenti. Negli ultimi trent’anni però, tra le possibili risposte all’integrazione europea, le classi dominanti italiane hanno scelto un modello fatto di compressione salariale, espansione dei servizi, bassi livelli di investimenti, istruzione e inSiamo di fronte a uno scontro fra capitali nazionali. Che novazione, smantellamento dell’intervento pubblico. Ecco quali sono le responsabilità non può essere rimosso come fanno i sedicenti europeisti, di quei partiti che oggi hanno alzato i vessilli ma neppure risolto riducendo la capacità di agire a livello dell’antieuropeismo e che imputano all’im- nazionale alla capacità di esportazione e di accumulazione migrazione le condizioni dei lavoratori ita- privata, mentre si assume come inevitabile la contrapposiliani, mentre continuano a volere i voucher zione tra classi lavoratrici di diversi paesi. Senza l’ambizioe abbassare le tasse ai più ricchi, nonché a ne di ribaltare l’agenda politica ripudiando ogni cedimenopporsi all’intervento pubblico in settori to a narrazioni reazionarie e liberiste continueremo a vivere strategici come quello dellle infrastrutture in un paese senza sinistra. Questa ambizione titanica ma è autostradali. Per questo è necessario tenere l’unica opzione credibile, e capace di farsi egemonica. Parpresente il governo politico delle diverse fasi tendo da una rigorosa analisi, storica e materialistica, dei di questo lungo trentennio. Come per l’au- rapporti di produzione è possibile rivendicare con realismo sterità, le politiche che hanno accompagna- un programma di rottura e di emancipazione, coniugando to la svalutazione italiana si svolsero sotto la liberazione del e dal lavoro con la politica industriale e il l’egida dell’alleanza tra classe politica e im- ruolo propulsivo dello stato. In cui la riconquista della soprenditoriale: si pensi alla scelta di bloccare vranità economica non sia un espediente per garantire proi salari così da rendere immediato l’aumen- fitti a pochi, ma premessa per il benessere della maggioranto dei profitti una volta riesumate le espor- za, sottraendo al capitale privato la gestione non soltanto tazioni grazie alla svalutazione non e l’uso delle autostrade e dei trasporti, ma anche di sanità, istruclientelare e improduttivo della spesa pub- zione... Certo, il ritardo accumulato rende difficile costruire proposte credibili e all’altezza. Ma come suggerisce il blica dei governi democristiani e socialisti. personaggio guzzantiano Quelo che ci ha guidato in questa rassegna, tra le scorciatoie autoassolutorie e un’analisi realistica dei rapporti di produzione nel nostro Paese, del ruolo dell’Italia nel capitalismo europeo e globale, e del ruolo dell’intervento pubblico nell’economia italiana, la risposta per superare l’anomalia di un Paese senza sinistra è… la seconda che hai detto.

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Non sai che fare, non sai dove andare, miagoli nel buio

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40 35 30

37,2

Incidenza povertà relativa Valori % per tipologia del capofamiglia. Si considerano in povertà relativa le famiglie con redditi al di sotto del 60% del reddito mediano. Redditi equivalenti (scala Ocse modificata), esclusi quelli derivanti da patrimonio finanziario. Fonte: SHIW Banca d’Italia

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Operai e affini

20,1

20 15

Media nazionale lavoratori dipendenti

10 5

Manager

0 1986 1987 1989 1991 1993 1995 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016

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Avanzo primario (% del Pil)

2 0 -2

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2007

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14,7%

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12,2% 7,8%

Sud e isole

10,9%

39,4%

30,2% Valori % per distribuzione geografica. Si considerano in povertà relativa le famiglie con redditi al di sotto del 60% del reddito mediano. Redditi equivalenti (scala Ocse modificata), esclusi quelli derivanti da patrimonio finanziario.

Centro

Nord

1986 1987

1989 1991 1993 1995 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014

2016

Fonte: SHIW Banca d’Italia

L’avanzo primario è definito come differenza tra entrate e spesa totale del Paese, qui calcolato in rapporto % al Pil. Per la costruzione dei dati è stato usato il Government Finance Statistics Manual del Fondo Monetario Internazionale (edizione 2001). Stati uniti Spagna Italia Grecia Germania Francia

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Fonte: Fiscal Monitor (ottobre 2018)

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Composizione delle Esportazioni Italiane, 1995-2016 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 1996

2000

2004

2008

Valore aggiunto per macrosettori (valori in %) 76

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74 20 72 70

Industria Servizi Costruzioni

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68 66

5 64 0

La distribuzione del valore aggiunto per macrosettori economici: industria (inclusa energia), servizi e costruzioni, dal 1975 al 2013. I valori sono concatenati tenendo come valore base i prezzi del 2005. Fonte: rielaborazione degli autori a partire da A. Baffigi, Il Pil per la storia d’Italia. Istruzioni per l’uso (Marsilio, 2015)

62 1985

1995

2005

2013

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1975

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(Valori in %)

Fonte: Atlas of economic complexity, Center for International Development at Harvard University

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Lavoratori a tempo determinato (% dipendenti) Mezzogiorno

Servizi Altro Elettronica Meccanica

15

Nord Est

Centro Veicoli Chimica Siderurgia Mineraria Vetro e ceramica

10

Nord Ovest Incidenza per macro-area geografica dei lavoratori a tempo determinato sul totale dei dipendenti dal 1993 al 2017.

Alimentare Tessile

Fonte: Istat

5

4milioni

2012

2016

1993

1999

2005

2011

2017

Addetti per unità locali (1951-2014) Il numero di addetti rappresenta il numero di persone che svolgono (lavorando eventualmente a tempo parziale) delle attività economiche per conto di una stessa impresa, cioè le unità locali. Il dato si riferisce all’intera economia italiana per gli anni dal 1951 al 2014.

2013 2014 1991

3milioni

Fonte: Serie storiche Istat

2012 2011 2001

1981 VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

1961 1951

Unità locali

2milioni

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8milioni

10milioni

12milioni

14milioni

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Addetti

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PRODUZIONE

Il debito italiano non è un’anomalia Abbiamo davvero vissuto “al di sopra delle nostre possibilità”? La narrazione dominante scarica la responsabilità dei conti pubblici su di noi. Ma l’economia del debito è il nuovo ciclo economico in cui viviamo

e storia ed è docente a contratto presso l’Università di Tor Vergata. Insieme hanno scritto tra l’altro Capitalismo tossico (Alegre).

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ex ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, l’ultimo tedesco ad aver spezzato le reni alla Grecia nel 2015, affermò in quei giorni che sua nonna «diceva spesso che la bonarietà conduce alla sregolatezza». L’etica del debito e i sensi di colpa introiettati dal nipotino Wolfgang si rivelano più efficaci quando l’economia è declinata su scala individuale e personale. Ma non sono i singoli Marco Bertorello Danilo Corradi individui, è il sistema nel suo complesso, dunque prevalentemente quelli che al suo interno stanno più in alto, ad aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Quando si parla di debito pubblico in Italia, prevale l’idea che si sia formato a causa della corruzione e dello sperpero delle risorse pubbliche in particolare negli anni Ottanta. Questa visione si salda spesso con l’idea che il debito pubblico italiano sia un’anomalia rispetto Marco Bertorello agli altri paesi europei, cosa che per i liberisti certificherebbe collabora con il il fatto che l’austerity sia la giusta ricetta per tornare a una manifesto ed è autore gestione equilibrata dei conti pubblici. Altri argomenti presenti di volumi e saggi su invece tra i critici dell’economia liberista legano l’aumento del economia, moneta e debito semplicemente alla progressiva perdita della sovranità debito. monetaria, parabola questa che avrebbe impedito alla Banca Danilo Corradi, dottore d’Italia di essere l’acquirente di ultima istanza dei titoli pubblici di ricerca in storia, mantenendo bassi i costi sul debito. Tali idee non ci convincono insegna filosofia sul piano analitico e meno ancora su quello politico.

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Diversamente dai sistemi produttivi che lo hanno preceduto, in cui i cambiamenti si misurano su archi temporali secolari, il capitalismo si è caratterizzato fin dalle origini per il suo dinamismo, per la costante trasformazione determinata dalla ricerca del massimo profitto. Del resto Marx ed Engels già 170 anni fa affermavano che la borghesia non potrebbe esistere «senza rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali». La finanziarizzazione dell’economia, ossia la crescita di ruolo e incidenza della finanza, si è affermata dentro questa pulsione innovatrice, come risposta alla crisi del ciclo di accumulazione keynesiano-fordista iniziato nel secondo dopoguerra e caratterizzato da una crescita realizzata mediante un massiccio intervento pubblico volto a sostenere la domanda per una produzione di massa. La crisi di questo modello, iniziata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, è il frutto di un insieme dinamico di fattori, a partire dalla tendenza alla saturazione dei mercati e dalla concomitante forza del conflitto operaio capace d’intaccare sensibilmente i profitti delle imprese. Il caso dell’Italia è di particolare interesse, poiché è il paese che, dopo il grande balzo modernizzatore del miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta, ha pagato per primo gli effetti di questa crisi. L’Italia è diventata una sorta di modello “per caso”, non programmato, dove il debito non svolge più principalmente una funzione di sostegno all’investimento produttivo, ma diviene il nerbo atIL DEBITO NON SVOLGE traverso cui rilanciare un’economia che non riesce più a crescere ai PIÙ UNA FUNZIONE ritmi dei primi decenni del dopoguerra. DI SOSTEGNO In Italia il debito non è aumentato a partire dagli anni Ottanta, ALL’INVESTIMENTO bensì dai Settanta. Lo Stato, in quegli anni come in tutti i principali PRODUTTIVO, paesi, ha aumentato la propria spesa sociale (pur rimasta complessiÈ IL NERBO ATTRAVERSO vamente inferiore alla media europea), ma differentemente dagli alCUI RILANCIARE tri non ha aumentato le proprie entrate a un ritmo necessario a coUN’ECONOMIA prire le uscite. Durante gli anni Settanta in Italia la pressione fiscale CHE NON CRESCE in rapporto al Pil è rimasta stabile intorno al 24% fino al 1975 per poi salire al 28,7 nel 1980, mentre in Germania è aumentata dal 31,5 al 36,4% e addirittura in Francia dal 33,6 al 39,4%. Questo scarto si è tradotto in disavanzi primari molto elevati per tutto il decennio, segnando persino un -7,9% nel 1975 con l’effetto di alimentare la spinta alla crescita del debito italiano che è aumentato in un primo momento grazie alla modesta pressione fiscale e in un secondo a causa del sovrapporsi degli interessi crescenti su un debito sempre più elevato che tende ad autoalimentarsi. Neanche l’avanzo primario (il saldo positivo tra entrate e uscite al netto degli interessi) realizzato dal 1992 fino a oggi, fatto salvo il 2009, ha interrotto tale dinamica. Questa politica economica è andata prevalentemente a vantaggio dei profitti e della rendita finanziaria. Già nel 1985 l’economista Augusto Graziani sottolineava come, «con l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profitti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario». Il debito

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Italia modello per caso

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pubblico elevato è stata una condizione necessaria per tenere alti i profitti a fronte di un indebitamento privato (cioè quello di imprese e cittadini) crescente, ma ancora oggi decisamente inferiore rispetto agli Usa e ai principali paesi europei.

Debito che garantisce profitto Attraverso il debito pubblico si è fronteggiata la fine del ciclo keynesiano-fordista che in Italia, vuoi per il ruolo di parvenu della borghesia italiana, vuoi per un’industrializzazione ancora immatura, si è presentata prima che altrove. L’espansione dei mercati ha perso slancio in tutti i principali paesi. Il debito ha iniziato a divenire elemento di traino dell’economia prima nella sua variante pubblica, in Italia più che altrove, poi in quella privata, a partire da Usa e Regno Unito. Il debito, dunque, non è la risultante di corruzione o semplice sperpero, fenomeni che non solo in Italia ci sono indubbiamente stati, ma un elemento decisivo per garantire crescita economica e alti livelli di rendita e profitto. L’espansione della sfera finanziaria e del debito, pubblico o privato, hanno svolto un triplice ruolo: tenere alti i consumi nonostante l’attacco agli stipendi e allo Stato sociale; offrire uno sbocco d’investimento remunerativo al capitale in epoca di tendenziale sovrapproduzione e saturazione dei mercati; incrementare i valori degli assets (azioni; case; obbligazioni; derivati; ecc.) generando bolle speculative capaci di “moltiplicare” la spesa privata attraverso ulteriore indebitamento, in una sorta di keynesismo privato e finanziario, per usare l’espressione sintetica dell’economista Riccardo Bellofiore. La crisi iniziata nel 2007 e la successiva “crisi dei debiti sovrani” sono espressione dei limiti strutturali del ciclo di accumulazione fondato sul debito e iniziato a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. Anche la vulgata del debito che si accresce con la crisi è parzialmente scorretta. L’aggregato di debito privato e pubblico è in costante aumento da decenni. A conferma di questa tendenza, nel 2017 il debito globale è salito a 233mila miliardi di dollari ed è cresciuto di 71mila negli ultimi dieci anni e di 163mila negli ultimi venti (cioè è cresciuto più nella fase di euforia pre-crisi). Durante la crisi è avvenuta la trasformazione di molti debiti privati in debiti pubblici e di molti crediti privati a rischio in crediti pubblici, socializzando le perdite e privatizzando i profitti.

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Debito/Pil delle amministrazioni pubbliche 1861-2017

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Il punto quindi è non banalizzare il debito e comprendere come anche i suoi elementi disciplinanti (ossia i dispositivi di governo) siano subordinati alle necessità dei meccanismi di nuova accumulazione. L’economia contemporanea non riesce a dar vita a processi di valorizzazione paragonabili al ciclo espansivo precedente e utilizza il debito per drogare la crescita, come dato portante e non accessorio di un ciclo quarantennale di accumulazione. La decisione della Banca centrale degli Usa, a partire dal 1979, di imprimere un netto aumento dei tassi d’interesse segnò l’inizio di questa parabola. Il divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro del 1981, che favorì la progressiva fine del finanziamento del deficit facendo ricorso agli acquisti di titoli di Stato da parte della banca centrale, fu l’effetto dell’allineamento alle politiche monetarie restrittive che gli Usa imposero su un piano globale. Non a caso l’aumento del debito pubblico, e del suo costo, ha iniziato ad affermarsi anche in quei paesi dove tale divorzio è avvenuto molto più tardi. Parallelamente il debito risulta centrale anche dove la sovranità monetaria appare in capo alla propria banca nazionale. Il protagonismo delle banche centrali è tornato sotto altre vesti, cioè con politiche monetarie ultra-espansive, in concomitanza con l’affacciarsi dei primi affanni della finanza. Il volume dei bilanci delle banche centrali, infatti, è aumentato di 10 volte dal 1995 al 2015. Se le ragioni dell’uso del debito sono così profonde, per sovvertirne la logica di classe è necessario immaginare trasformazioni altrettanto profonde. Siamo sicuri che il semplice ritorno a una spesa pubblica che ripropone la vecchia crescita sia davvero la soluzione?

Dati fino al 2007 da Maura Francese e Angelo Pace, Il debito pubblico italiano dall’Unità ad oggi. Una ricostruzione della serie storica, in “Questioni di Economia e Finanza”, quaderni della Banca d’Italia, numero 31, Roma 2008. La serie del Pil si riferisce al lavoro di Alberto Baffigi, Italian National Accounts, 1861-2011, Bank of Italy, Economic History Working Papers n. 18, 2011 e relativa appendice. Si trova una sintesi del rapporto debito/ Pil ricostruito su questi dati in Emanuele Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, Il Mulino, Bologna 2015, Appendice Statistica. Dati successivi al 2008 da Eurostat.

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Trasformazioni profonde

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LOTTE

ALLA RICERCA DEI CONFLITTI INASPETTATI Come si fa opposizione sociale a un governo populista? Sono in crisi le forme tradizionali ma il paese senza sinistra non è pacificato. E il movimento delle donne rilancia in forma inedita una vecchia conoscenza: lo sciopero

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nsomma, c’erano anche da noi tutte le cause della Rivoluzione francese. Solo che non eravamo in Francia, e la Rivoluzione non ci fu. Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti». Questo passaggio fulminante di Italo Calvino, ne Il Barone rampante, è stato spesso tirato in ballo per descrivere l’Italia degli ultimi anni, apparentemente incapace di produrre le mobiSalvatore Cannavò Lorenzo Zamponi litazioni di massa che invece abbiamo visto riempire le piazze di Madrid, Atene o Parigi. Eppure l’idea di un paese pacificato e addormentato è contraddetta non solo dalla ricerca sociologica, che segnala nel decennio della crisi un numero di episodi di protesta pari se non superiore a quello di altri paesi, ma anche dalla quotidianità politica: il voto del 4 marzo mostra una rabbia anti-sistema e un desiderio di cambiamento innegabili, contraddicendo l’apparente calma piatta. A essere in crisi, più che il bisogno di parteciSalvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto pazione, sembrano le forme tradizionali del quotidiano e direttore editoriale di Edizioni conflitto sociale e il loro rapporto con la rapAlegre, è autore tra l’altro di Mutualismo presentanza politica.

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(Alegre). Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.

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Illustrazioni di

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«Oggi indosso una maglietta di un posto vicino a Milano, dove gli operai della Rimaflow hanno provato a reinventarsi il lavoro. Quando l’azienda ha chiuso, ne ha lasciati a casa trecento. Sono venuti da noi preti e ci hanno detto: non possiamo venire tutti da voi a chiedere di darci una mano per arrivare a fine mese, dobbiamo inventarcelo il lavoro. E allora la politica seria, là dove si tenta di inventarselo il lavoro, ci deve essere, ci deve stare, deve accompagnarli quei progetti». In queste parole pronunciate il 30 settembre 2018 da un prete di strada, don Massimo Mapelli, della Caritas di Milano sul palco della manifestazione nazionale del Partito democratico c’è tutta la sintesi di una fase storica. Un partito che si è fatto governo per più di vent’anni e per questo è stato travolto dalle urne il 4 marzo 2018. Un tema, il lavoro, scomparso dalla sua agenda politica. Una necessità, reinventarsi un’attività al tempo della globalizzazione e delle delocalizzazioni, perché la ex Maflow che produceva componenti per auto a ALLA MANCANZA Trezzano sul Naviglio, in Lombardia, se ne è andata nel 2009 in PoloDI SBOCCHI ISTITUZIONALI nia lasciando i lavoratori in mezzo alla strada. E c’è la Chiesa, tramiNON CORRISPONDE te la Caritas diocesana, che mai come nell’ultimo decennio ha svolPER FORZA MAGGIORE to un ruolo sociale, di supporto e riferimento anche alle lotte sociali, VIVACITÀ DI PIAZZA. essendosi spezzato un rapporto storico tra movimenti sociali e poliAL CONTRARIO, SI RISCHIA tica. La Caritas che parla, in forma quasi surreale, alla manifestazioLA SPOLITICIZZAZIONE ne a cui partecipano figure come Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, ex presidenti del consiglio, citando temi sociali di frontiera e alludendo a una cesura che costituisce uno dei nodi del paese senza sinistra. Maurizio Landini, una vita in prima fila nella Fiom e ora possibile segretario della Cgil, invita ad adoperare uno sguardo più ampio. «Non credo che le persone che vivono di lavoro si sentano rassegnate o demoralizzate. Questi sono sentimenti più propri dei militanti politici e degli intellettuali, che hanno tutti i motivi per esserlo, guardandosi intorno e pensando alla deriva politico-culturale che sta attraversando quelle che un tempo si chiamavano democrazie occidentali e che oggi sembrano avvolte da pericolose spirali nazionaliste e xenofobe». I lavoratori sono soprattutto “preoccupati” se non impauriti. Prevalgono l’impotenza e la solitudine. E va in crisi la politica: «Dagli anni Ottanta l’economia e le sue istituzioni internazionali hanno contato sempre di più mentre la politica e le sue istituzioni nazionali hanno dovuto adeguarsi ai vincoli sempre più stretti delle leggi di mercato». «In questo passaggio, la sinistra ha preparato la propria crisi». Difficile dunque, per Landini, dare al termine sinistra «un significato preciso, almeno nel nostro paese» anche perché se sinistra «è chi cancella l’articolo 18…». Settori come quello della logistica hanno visto negli ultimi anni lotte durissime: «Il bilancio è a macchia di leopardo, ci sono realtà, come quella dei corrieri, in cui sia-

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Movimenti, senza sinistra

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mo riusciti a ottenere grandi avanzamenti nelle condizioni dei lavoratori, mentre in altre, come nei casi di molti magazzini della grande distribuzione, ci sono ancora situazioni di caporalato spaventose, che continuiamo a denunciare» spiega Gianni Boetto dell’Adl Cobas. Un settore centrale nei processi di ricomposizione di classe, anche e soprattutto per la sua composizione in gran parte migrante, come del resto avviene per le battaglie contro il caporalato in agricoltura: «Abbiamo la necessità – segnala Boetto – di far capire che il nemico non è l’immigrato, questa è l’arma di distrazione di massa. Lo sforzo che facciamo è anche di natura culturale. Il piano istituzionale ormai mi pare devastato completamente. L’unica possibilità di creare un’inversione di tendenza è legata a quello che si produce dal basso in termini ricompositivi, pur sapendo che oggi è un’opzione molto minoritaria». A mancare, quindi, più che le mobilitazioni, sembra essere la loro forza politica generale. In una società che si spoliticizza, il rischio è che anche i movimenti si rinchiudano in una logica single-issue, debole e facilmente cooptabile. Un contesto ben diverso da quello del 2003, quando il movimento altermondialista, o “no global” veniva definito dal New York Times «la seconda potenza mondiale». Secondo Marco Bersani, di Attac Italia, associazione nata proprio nel vivo del movimento no global e che ha avuto sempre una dimensione sovranazionale, «il movimento ha imboccato la strada discendente proprio nel 2003 in seguito alla guerra contro l’Iraq. In quella fase ci siamo chiamati addirittura “Fermiamo la guerra”, ma se poi la guerra non la fermi, allora è il movimento ad andare in crisi». È la sconfitta della mobilitazione che provoca la rarefazione e la disintegrazione della loro forza politica. Un destino non molto diverso è toccato alla successiva ondata di mobilitazione, ripubblicizzazione del servizio idrico, è stata una mazzata». quella anti-austerità, tra il 2008 e il 2011, «Che facciamo adesso – continua De Marzo – un altro refecon le piazze studentesche, le battaglie del- rendum o un’altra raccolta firme dopo che abbiamo conla Fiom e il movimento per l’acqua bene co- vinto la maggioranza del paese sulla necessità di rimettere mune. Il 15 ottobre 2011 un corteo gigan- al centro i beni comuni e la giustizia ambientale e sociale e tesco riempiva le strade di Roma. Un mese nonostante la vittoria non è cambiato nulla?». dopo, il governo Monti si insediava nel silenzio generale. Giuseppe De Marzo, coor- Fare società per ricostruire la politica dinatore della Rete dei Numeri Pari, camLa sconfitta dei movimenti nella loro capacità di incipagna contro le disuguaglianze lanciata dall’associazione Libera, ricorda il decenna- dere direttamente sulla politica, e la contemporanea crisi le lavoro sui beni comuni, che «ha trovato il della sinistra lasciano un vuoto che preoccupa. La partesuo apice nella straordinaria mobilitazione cipazione non si fa con i vasi comunicanti, e non è detdella campagna referendaria del 2011 per il to che alla mancanza di sbocchi istituzionali corrispondiritto all’acqua e contro il nucleare». E al- da una maggiore vivacità in piazza. Anzi, il rischio è una lora, aggiunge, «la demoralizzazione forse spoliticizzazione della società intera, movimenti compreinizia proprio quando la grande vittoria dei si. Nessuno, tra le forze sociali, è indifferente alla necessimovimenti nella stagione referendaria viene tà di ricostruire strumenti di azione politica. Ma nessuno, tradita dalla politica. Non dare seguito alla d’altra parte, si fa illusioni su scorciatoie rispetto a un lunvolontà di 27 milioni di cittadini/e, ignorare go lavoro sociale. «La scomparsa di una rappresentanza politica del lale sentenze della Corte Costituzionale sulla voro non libera le energie delle persone, semmai le lascia più sole» dice Landini. Per ricostruirla, però, «non servono operazioni di assemblaggio di ciò che già esiste in forme frantumate, né si produce a tavolino». Bisogna relazionar relazionarsi alle persone in carne e ossa. Un lavoro di ricomposizio ricomposizione che si gioca sul terreno sociale, provando a tenere in insieme «il giovane precario, la partita Iva col lavoratore a

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Riflessioni simili arrivano da Alberto Campailla, tra gli animatori di Nonna Roma, associazione mutualistica nata da un’iniziativa di Arci e Cgil nel V Municipio di Roma, uno tra i più poveri della città. «Abbiamo deciso di rivolgerci agli ultimi – spiega Campailla – uscendo della dinamica assistenziale che spesso caratterizza queste iniziative, per creare invece processi di politicizzazione e attivazione. Siamo partiti dall’esperienza meno tipica per la sinistra, quella della distribuzione alimentare. Poi gli sportelli legali, i picchetti antisfratto. Quest’estate abbiamo organizzato un cinema all’aperto, perché non è vero che a chi ha fame basta il pane». La scelta del mutualismo richiede di mettere in discussione appartenenza e identità politiche e di misurarsi in nuovi collettivi: «Non ci concepiamo come volontari che aiutano altri – continua Campailla – ma come un’associazione di autorganizzazione. Della nostra associazione sono soci allo stesso modo sia i volontari sia le persone che aiutiamo, e abbiamo fatto assemblee tutti insieme. Alcuni hanno iniziato a venire ai picchetti, contribuiscono a tenere il magazzino. Di queste esperienze c’è un gran bisogno, nella crisi delle organizzazioni classiche, per tornare a ripoliticizzare, all’interno di processi di partecipazione. C’è un bisogno enorme di alfabetizzazione democratica». La scelta dell’azione sociale diretta caratterizza anche Mediterranea, l’operazione che ha fatto salpare una nave da Augusta ai primi di ottobre, su iniziativa di alcuni centri so-

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tempo indeterminato, il lavoratore con un salario sotto la soglia della povertà e il tecnico il cui salario varia sempre più a seconda degli andamenti aziendali, l’immigrato schiavo dei caporali con il dipendente delle ditte di subappalto». Insomma, una prospettiva che guarda direttamente al sindacato la cui guida Landini potrebbe assumere. Ma che punta anche a «ridare un senso chiaro all’agire collettivo, ricostruire la fiducia che solo agire in coalizione può migliorare la propria condizione materiale». Le esperienze mutualistiche nate negli anni della crisi partono proprio da questo assunto: l’idea che, nell’epoca dell’isolamento e dell’abbandono, sia inutile cimentarsi con la politica se non si sono prima costruiti i presupposti prepolitici per la partecipazione, cioè i legami sociali, le appartenenze solidali, il riconoscimento reciproco in un destino comune. Ricostruire in basso, per cambiare in alto. Su questa cesura un ex militante della sinistra radicale, fondatore dello Slai Cobas all’Alfa Romeo negli anni Ottanta, poi senatore di Rifondazione comunista e attivo nel movimento antiglobalizzazione, ha costruito una nuova vita politica. Gigi Malabarba, infatti, si è unito agli ex operai della Maflow:: «Siamo partiti dalla soddisfazione di un bisogno fondamentale, individuale e collettivo, ricreando, sia pure parzialmente, nuovi posti di lavoro, per poi passare a costruire comunità anche con la formazione di una rete di economia solidale e alternativa attorno alla produzione e distribuzione di prodotti alimentari». Malabarba parte dalla considerazione che «la fine del movimento operaio del Novecento ha lasciato un vuoto su cui i padroni del mondo hanno potuto affermare il pensiero unico liberista». «Pensare di ricostruire quel mondo è illusorio» continua Malabarba, «occorre creare embrioni di “contro-società”, e alle forme di economia alternativa “fuori mercato” combinare una teoria e una strategia di “poder popular”».

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ciali, dell’Arci e di Sea Watch, per riprendere l’opera di salvataggio in mare dei profughi. Ancora una volta, nella crisi della rappresentanza e della partecipazione politica, si sceglie il fare da sé solidale: «È strano per noi essere impegnati in un’azione umanitaria – spiega Giulia Sezzi, giovane attivista del centro sociale bolognese Làbas – che segue una logica che molto spesso abbiamo contestato. Ma quando l’atto umanitario viene negato politicamente, diventa un atto politico. Quando viene negato il diritto alla vita, per noi provare a riaffermarlo è un elemento di lotta politica». Il tentativo, anche qui, è quello di mettere in discussione identità stantie e costruire una nuova soggettività ibrida: «Noi non vogliamo diventare una Ong, ma sbaglia Salvini a incasellarci come “i centri sociali”: la nostra è una composizione ibrida della società civile che sceglie di riaffermare il diritto alla vita negato» chiarisce Sezzi. Il rischio di fare il gioco della Lega, scegliendo come terreno dello scontro proprio il tema dell’immigrazione, è evidente, ma la risposta non può essere l’inazione: «Ci abbiamo riflettuto molto – ammette Sezzi – e siamo consapevoli del rischio. Ma abbiamo deciso di fare un azzardo e andare a sfidare Salvini nella tana del lupo. Proprio perché lui ha consenso su questi temi, va sfidato. La nostra azione ha l’obiettivo proprio di spostare il consenso». Fare, direttamente, senza mediazione politica, sembra diventare la regola. Ma senza l’illusione dell’autosufficienza: «I nostri sono presidi democratici – aggiunge Campailla – soprattutto in certe aree delle grandi città. Ma siamo consapevoli che non bastiamo. Anche se ci fossero 150 realtà come la nostra, non arriverebbero mai a tutti. La necessità della politica come terreno della discussione pubblica rimane centrale». gazze che consegnano pasti e domicilio per piattaforme come Foodora, Deliveroo e Justeat) che sono nati negli ulGeneralizzare la lotta timi due anni in giro per l’Italia. Una vertenza che è arriRicostruire dal basso i legami sociali vata al ministero grazie alla sua portata simbolica, seconcome presupposto di una nuova politiciz- do il rider Nicola Quondamatteo: «Siamo riusciti a creare zazione, quindi, non significa sottrarsi allo un po’ di senso comune sul tema della precarietà, forse scontro quotidiano del dibattito politico. perché la nostra è una condizione estrema, ma credo anScontro che, nell’Italia senza sinistra, vede che che ci sono nervi scoperti, dal cottimo alla sicurezcome protagonisti il “governo del cambia- za, in cui molte persone si identificano. Siamo riusciti a mento” di Di Maio e Salvini, e l’opposizione creare empatia intorno a una condizione che parlava delliberista del Pd, schierata in difesa dei vin- la vita di molti». Il negoziato col governo, dopo un inizio coli di bilancio. Qual è l’alternativa? Come promettente si è spostato su binari meno ambiziosi, ma è si fa opposizione sociale a un governo po- un segnale soprattutto per i movimenti e per il sindacato: pulista? Ci sono contraddizioni in grado di «C’è attenzione a questi temi – spiega Quondamatteo – far saltare la delega in bianco che milioni di Confusa, contraddittoria, ma c’è. Si può rovesciare la narrazione dominante ma non possono farlo i rider da soli. italiani hanno dato al Movimento 5 Stelle? La prima delegazione che il neoministro Va ricostruita una mobilitazione del lavoro, e serve il sindello sviluppo economico Luigi Di Maio ha dacato. Al tavolo la Cgil ha dimostrato apertura, ma servoluto incontrare, appena insediato, è sta- ve a poco se non diventa pratica capillare nei territori. La ta quella di Riders Union Bologna, uno dei sfida è quella». Generalizzare la lotta per non essere cocollettivi di ciclofattorini (i ragazzi e le ra- optati, dicono i rider, per non essere assorbiti nella narrazione grillina. Sullo stesso piano gli archeologi, antropologi, archivisti, bibliotecari della campagna Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, scesi in piazza il 6 ottobre a Roma col mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo: «Primo obiettivo – spiega l’archeologo Andrea Incorvaia – è la fine del lavoro gratuito. Sfidiamo il governo a realizzare il cambiamento che promette». A

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capitalizzare i conflitti dell’ultimo decennio, in termini elettorali, è stato soprattutto il Movimento 5 Stelle. «L’abbiamo visto – racconta Giacomo Cossu, coordinatore naziona nazionale della Rete della Conoscenza, sindacato studentesco – dopo la formazione del governo. Ci siamo trovati di fronte a dissensi nei nostri confronti di molti studenti. Rispondia Rispondiamo partendo da proposte concrete, e da un confronto col governo che faccia emergere la contr contraddizione tra una retorica centrata sulla lotta alla precarietà e il riscatto di una generazione, e una realtà che non offre risposte». Bisogna attendere la fine della luna di mobilitamiele tra popolo e governo? «Arriverà solo grazie al conflitto. Senza una forte mobilita zione – risponde Cossu – i consensi aumenteranno. C’è il rischio di essere schiacciati su go una frattura imposta dall’alto, tra italiani e stranieri, abbiamo bisogno di incalzare il governo sul piano dei diritti sociali e materiali. Su questa frattura possiamo costruire un processo di mobilitazione che incida anche sulla questione del razzismo, cambiando il senso comune, costruendo il riconoscimento tra chi vive condizioni simili». Accanto ai migranti c’è Como Senza Frontiere, oggetto un IL MOVIMENTO 5 STELLE anno fa di un’aggressione fascista: «Il clima è difficile, non ci sono HA CAPITALIZZATO spazi di collaborazione – spiega Annamaria Francescato –, la società IN TERMINI ELETTORALI è parcellizzata. Di migranti si parla anche troppo, senza informarsi, I CONFLITTI DELL’ULTIMO rischiando di rafforzare chi è contrario. Cerchiamo di ascoltare e riDECENNIO. SI RIPARTE spondere ai problemi della gente in modo che i fatti dimostrino che DALLE CONTRADDIZIONI colpendo loro la situazione non migliora. I diritti o sono di tutti o diTRA PROMESSE E REALTÀ ventano privilegi. Già a partire dal decreto Minniti si andava oltre la lotta ai migranti attaccando i poveri, bianchi e neri». Tatiana Montella, di Non una di meno, movimento femminista che dal 2016 ha assunto una dimensione mondiale anche con la capacità di costruire scioperi nella giornata dell’8 marzo, porta in questa discussione uno sguardo positivo: «Oggi possiamo agire sulla base di un movimento nuovo, un soggetto protagonista della infase politica a livello globale che rompe con il femminismo degli ultimi decenni e che in orientamenteragisce con soggettività diverse, con la razzializzazione della classe, con gli orientamen ti sessuali, con una visione anticapitalista. E quindi propone un terreno favorevole di riri composizione di classe». Non una di meno costituisce una controtendenza rispetto alla Monfase di stagnazione che vivono gli altri movimenti sociali. «Lo sciopero – aggiunge Mon fortella – è un processo interessante di elaborazione e partecipazione e costituisce una for ma di politicizzazione e soggettivazione». Il movimento delle donne, quindi, come luogo già avanzato dei processi di soggettivazione politica, luogo in cui tentare «un processo di ricomposizione» perché, come accaduto in Spagna o in Argentina, «le donne sono state in grado di rappresentare una parzialità che parla al tutto». La strada non sembra semplice, ma alcune idee sono individuate: il mutualismo come strumento di conflittualità e costruzione della solidarietà; l’intersezionalità tra genere, “razza” e classe come terreno innovativo e riunificante; l’idea dell’agire collettivo, la necessità di ricostruire una visione del mondo. La strada che i movimenti sociali, sindacali e associativi devono percorrere per uscire dalla palude di un “paese senza sinistra” è lunga, ma l’Italia del 2018 è tutt’altro che un paese pacificato e ipnotizzato dagli stregoni del consenso al governo.

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EXTRA

Un esempio da non imitare L’Italia è un laboratorio che ha anticipato fenomeni di trasformazione politica che vediamo in tutto l’Occidente. Per superare la palude c’è bisogno di oltrepassare la controrivoluzione culturale iniziata negli anni Novanta

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Italia sarebbe sempre stata così. Un paese dove la disfunzionalità dello stato alimenta una diffusa cultura fascistoide. Un paese dove la demagogia, fin ai tempi di Cesare, ha sempre ingannato le masse, gli “analfabeti funzionali”. Idee del genere riflettono un senso comune sempre più visibile nei ranghi del centrosinistra italiano. La stessa nozione di progresDavid Broder so sociale cede a un pessimismo culturale secondo cui il nemico sono gli italiani stessi: “loro”, la destra, sono l’Italia. Ma può darsi che la parola d’ordine “più Europa” non sia la soluzione di ogni male. E pensando all’estrema destra in Germania (dove l’Alternative für Deutschland ha sorpassato il partito di centrosinistra più vecchio al mondo, l’Spd) o alla famosa Svezia socialdemocratica (dove un partito di matrice neonazista ha preso il 17,5% nel voto del 9 settembre), si potrebbe dubitare che il David Broder è uno problema risieda nell’humus culturale italiano. storico e traduttore Nel contesto attuale l’Italia più che un caso a parte è un preinglese. È il redattore cursore dei disastri che si diffondono pressoché ovunque. Il disaeuropeo di Jacobin gio italiano incarna un processo generale e di lunga durata, che Usa. non è riconducibile a difetti specificamente italiani né solo agli effetti della crisi del 2008.

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Particolarità

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Questo paese senza sinistra può sembrare un’anomalia. Ma in tutto l’Occidente si profila una profonda trasformazione politica. La crisi dell’organizzazione e dell’identità di classe è accompagnata da un senso sempre più invasivo di atomizzazione, di decadenza culturale e di crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni. Sì, quelle italiane fanno schifo. Ma riflettono anche uno specifico contesto storico e dei rapporti di forza nuovi. L’Italia ha anticipato lo sbandamento generale perché aveva vissuto il crollo delle forme politiche tradizionali già nei primi anni Novanta. Lo scioglimento del più grande partito comunista dell’Occidente nel 1991 e poi quello della Democrazia Cristiana, la discesa in campo di Silvio Berlusconi e la difficile integrazione europea hanno preparato le condizioni per la crisi odierna. Da allora gli italiani hanno visto l’ascesa di una serie di effimere forze politiche che hanno sfruttato e accelerato il venir meno dei partiti di massa. Dal marketing di Berlusconi all’utilizzo dei referendum online, la vita politica ha sempre più una partecipazione “estetica” mentre è sostanzialmente eterodiretta dall’alto, o nel caso del Movimento 5 Stelle da un’azienda privata. Ormai sono i leader a proclamarsi interpreti della volontà popolare, rottamando non solo l’establishment ma le stesse strutture democratiche. Allo stesso tempo, si indeboliscono le altre forme di partecipazione politica; non solo le sezioni di partito o le ormai-dimenticate “scuole politiche” ma anche i sindacati e le cooperative. Non è un caso che il 53% degli iscritti del sindacato più grande italiano, la Cgil, sia costituito da pensionati. Ma se l’Italia è un esempio estremo o precoce, non è un caso a parte. Anzi è proprio il ruolo internazionale dell’Italia, alla periferia dei paesi centrali, che le fa riflettere come uno specchio le contraddizioni più generali. E non è la prima volta nella storia che accade. Al limite dell’Occidente durante la guerra fredda, la politica interna della Repubblica nata nel 1946 rimaneva fortemente inquadrata dalla logica del conflitto. La conventio ad excludendum anti-comunista alimentava l’egemonia democristiana e minava le aspiraaspira zioni del Pci di staccarsi da Mosca. Ma allo stesso tempo la situazione bloccata riman rimandava all’avvenire le contraddizioni tre le diverse anime di questo partito. Nel 1991 fu il crollo dell’Urss a far esplodere le contraddizioni del Pci e di quella Repubblica, dando luogo alla cosiddetta Seconda Repubblica basata sul nuovo ordine europeo. Oggi, la fine dell’età d’oro dell’Unione europea fa sì che anche i contenitori po politici italiani degli anni Novanta e Duemila si esauriscano, trovandosi in una crisi simile a quella dei vecchi partiti alla fine della guerra fredda.

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Spezzati La struttura dei partiti di sinistra (e non solo quelli più grandi) del Novecento esprimeva e riproduceva un mondo oramai capovolto: una pedagogia paternalistica, una disciplina gerarchica e forme di inquadramento radicate in una forte divisione del lavoro tra leader-intellettuali e base. Ma allo stesso tempo ha creato fitte reti di partecipazione, di ascesa sociale e di acculturamento di massa. Questi partiti promettevano (e rimaneva una promessa) un futuro di benessere già preparato nelle vittorie parziali del presente. Ma dentro questo involucro c’erano anche i germi di futuri disastri. Dagli anni Settanta in poi il declino del movimento sindacale, la distruzione del comunismo di stato, e l’indebolimento dei controlli sul capitale nell’epoca della globalizzazione, hanno distrutto i legami tra sinistra, organizzazioni di massa e l’idea stessa della possibile riorganizzazione della società su altre basi. Si è ristretta non solo l’ambizione della maggior parte degli ex-leader comunisti diventati socialdemocratici IL FALLIMENTO o liberali ma spesso anche quella di una sinistra radicale sempre più DELL’OPPOSIZIONE frammentata e minoritaria. AL POPULISMO Allo stesso tempo, “esempi” stranieri come quello del partito È UNA LEZIONE: NON SI New Labour inglese hanno assunto una forma anche più violenta COMBATTONO I NUOVI quando sono stati calati nel contesto italiano. Se il leader laburista MOSTRI DIFENDENDO Tony Blair rivendicava la “modernizzazione” del suo partito (la creLO STATUS QUO scita della spesa pubblica, ma anche politiche del lavoro basate sulla concorrenza, la deregolamentazione dei centri finanziari, l’introduzione di dispositivi sempre più punitivi nel sistema del welfare) il centrosinistra italiano ha fatto tutto questo tranne che aumentare la spesa pubblica. La lunga stagnazione italiana abbinata alla distruzione voluta dell’identità operaia e comunista ha prodotto il partito di “centrosinistra” più elitario e destrorso d’Europa. Se l’ex segretario del Pd Matteo Renzi o l’ex-ministro dell’economia Carlo Calenda si immaginano come l’equivalente italiano del presidente francese Emmanuel Macron, il Pd stesso è stato il precursore del centrismo europeista ormai proclamato dal président eletto nel 2017 nonché dalla destra del partito laburista inglese, abbandonando ogni volontà di difendere gli interessi di chi guadagna cinque euro l’ora per arroccarsi sulle posizioni dei più “responsabili” e pro austerity.

Debolezza

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Gli applausi ai funerali per le vittime del crollo del ponte Morandi di Genova, il bagno di folla per Salvini a Viterbo, i paesini del Sud dove quelli che una volta erano definiti “terroni” adesso votano Lega… Ogni notizia, ogni sondaggio nelle ultime settimane di di-

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mostra la crescente egemonia di una destra più forte che mai, la distruzione non solo delle vecchie regioni rosse ex-comuniste ma anche di quelle bianche cattoliche. Se al momento di diventare il capo della Lega nel 2014 Salvini si vantava di essere allievo di Marine Le Pen, ormai è la leader dell’estrema destra francese che vuole imitare l’exploit del ministro dell’interno italiano. Non è stato tanto il sorpasso della Lega, quanto il berlusconismo degli anni Novanta, a dare il passo per le trasformazioni attuali del (centro)destra europeo e statunitense. L’esperienza dell’antiberlusconismo italiano, e il fallimento del tentativo di combattere il “populismo” subordinando la sinistra alla “difesa delle istituzioni”, offre una brutta lezione alla “resistenza” clintoniana negli Stati uniti o a chiunque pensa di far saltare la Brexit. Non si può combattere i nuovi mostri difendendo lo status quo che ha già perso ogni capacità di offrire una promessa per l’avvenire. La situazione odierna si deve agli stessi processi che hanno marcato il destino non solo dei disastrosi progetti di centrosinistra ma anche di gran parte dei movimenti di impronta radicale. Il laboratorio italiano produce risultati così devastanti proprio perché la frammentazione è il contrario della solidarietà e della fiducia nel riscatto collettivo. Dopo trent’anni di crisi, in cui vengono meno le esperienze concrete di vittoria con la lotta, l’idea stessa che sia possibile uscire dall’impasse e cambiare la società sta sparendo dall’immaginario collettivo. La lunga marcia per superare l’attuale palude parte dal bisogno di oltrepassare questa enorme controrivoluzione culturale.

In altri parti del continente vediamo processi simili, soprattutto il crollo dei partiti storici e l’ascesa di nuove forze oscure. Ma queste tendenze non si sono consumate ovunque nello stesso modo. In Inghilterra, in Francia, in Spagna, e non solo, ci sono nuovi movimenti che organizzano centinaia di migliaia di persone per combattere il clima reazionario che si sviluppa anche in questi paesi. Queste esperienze hanno molti limiti; in tutti questi casi, la centralità del leader riflette la debolezza di altre forme di lotta. E non esistono modelli da imitare ciecamente. Chi si proclama versione italiana del segretario laburista Jeremy Corbyn o del movimento Podemos in Spagna dimostra non solo incomprensione ma anche subalternità culturale. Anzi vanno riconnesse le tradizioni storiche e le realtà di questo paese, riconoscendo i suoi orrori ma anche le piccole scintille di speranza, di solidarietà, di orgoglio. La storia è un troll: non obbedisce mai a schemi prefissati, non c’è nessuna condanna senza appello. Le cose che consideriamo eterne o naturali si rivelano sempre effimere. La crisi che subiamo, l’assenza di solidarietà e il cinismo di un paese dove le cose non funzionano, possono sembrare insuperabili. Chi può dire che l’egemonia leghista non durerà dieci anni, un ventennio? Ma un bel giorno, finirà. Non sarà il “sol dell’avvenire” a portarci il riscatto, ma i nostri stessi sforzi, le nostre stesse lotte, le nostre stesse idee.

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Il troll dell’avvenir

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Si scrive popolo, si legge nazione Il modello della democrazia sovrana nasce in Russia, sotto le macerie del collasso sovietico. Un mix di nazionalismo, pensiero reazionario, neoliberalismo. Dove chi dissente è un traditore della patria

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a in fin dei conti a chi interessava davvero cosa pensassero i russi, fra le macerie ancora fumanti dell’implosione sovietica? Il vincitore nutre poca curiosità per il perdente: fra i cantori della “fine della Storia” e gli accigliati ammonitori dell’eterno ritorno della geopolitica, le idee che hanno catturato l’immaginario delle élite russe sono state a lungo considerate irrilevanti. Francesco Strazzari E così, in un mondo umiliato e con le spalle al muro, l’idea di “democrazia sovrana” – che nel 2006 venne tirata fuori dal cappello dell’ideologo del Cremlino Vladislav Surkov, già a capo delle comunicazioni del magnate Mikhail Khodorkovski, poi imprigionato – apparve agli osservatori esterni come poco più che l’ennesima operazione di propaganda dal fiato corto: la gestione mediatica di un regime politico ormai Francesco Strazzari è in piena involuzione. La fama di Surkov come grande burattinaio dell’era Putin, frequentatore dell’intellighenzia, della professore associato di filosofia occidentale e della rap music, autore sotto pseudoRelazioni internazionali nimo di un romanzo autobiografico sull’amoralità del potere, alla Scuola Superiore nonché autoproclamato direttore artistico di ideologie prêtSant’Anna di Pisa, à-porter, si proiettò sul suo artefatto concettuale, la demoSenior Researcher crazia sovrana: l’idea che non esista sistema democratico che al Consortium for non sia managed, che non esista stato fuori dal governo che Research on Terrorism lo gestisce, e che la libertà non gestita si riveli veleno per il and International Crime popolo e per lo stato. Eppure, la performance politica di quedel Norwegian Institute sto stretto collaboratore di Putin (poi approdato al ruolo di of International Affairs “architetto del Donbass” separatista) rivela molto di come la di Oslo. Con Marina Russia sovranista, la “democrazia gestita” dove acquistano Calculli ha scritto visibilità i rosso-bruni, abbia perseguito una propria distinta Terrore Sovrano, collocazione nella modernità, con un programma certamente Stato e Jihad nell’era alternativo a quello dell’Unione europea. postliberale (il Mulino).

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Una sola parola per dire popolo e nazione Il sovranismo putiniano non pensa in termini di diritti dei cittadini – pietra d’angolo del pensiero liberal-democratico – ma piuttosto di «bisogni della popolazione». A seconda del contesto il termine (proto-)slavo narod esprime sia il concetto di popolo che quello di nazione (e, all’occasione, anche gente, folla, ceto contadino e così via). La stessa idea di nazione arriva alle lande dell’Europa orientale come prodotto esportato dalla Francia rivoluzionaria ma filtrato dal romanticismo tedesco, che profetizza il «risveglio degli slavi». Su questa eco profonda e ambigua, prende corpo nella Russia contemporanea una narrazione di ritorno all’ordine dopo il caos tutta centrata su stabilità e sicurezza necessarie per il popolo/nazione. Si tratta di una tradizione inventata, comunque fondata su una memoria selettiva. Come che sia, riguarda la fine dell’abbrac-

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Se l’Unione europea vide nella fine della guerra fredda la nascita di un nuovo ordine post-sovrano, caratterizzato da interdipendenza, dinamiche transnazionali ed espansione di aree di governance sovranazionale, la Russia vi vede un ritorno all’ordine precedente al bipolarismo: un ordine basato sull’equilibrio di potenza e sul concerto delle potenze, popolato da stati-nazione capaci di alleanze tattiche ma vincolati dal principio di non ingerenza negli affari interni. Cresciuta sulle macerie del nazionalismo armato che porta ai massacri del ventesimo secolo, l’Europa si è rappresentata a lungo come progetto liberale e kantiano di graduale trascendenza dei confini nazionali e obsolescenza della forza: un sistema complesso di mutua interferenza che promuove interdipendenza, e in cui la sovranità nazionale appare per quello che è: una forma di ipocrisia organizzata, per dirla con Stephen Krasner, che viene smontata, condivisa e partecipata (il parlamento europeo). Insomma, una potenza civile e trasformativa delle relazioni internazionali, in cui la sicurezza dovrebbe fondarsi su apertura e trasparenza. Il ritorno a una Russia assertiva nelle aree di vicinato (Caucaso, Balcani, Mar Nero, Medio Oriente e oggi Africa) ha significato una sfida per l’ordine europeo, con Mosca (e oggi anche Washington) che agisce d’intesa con le forze sovraniste nei diversi paesi, in vista della ri-nazionalizzazione delle politiche europee in diversi settori cruciali. Nella concezione putiniana, la sovranità non è fondata sull’astrazione del diritto, ma sulla capacità dello stato. È nutrita di forza militare e indipendenza economica, poggia sull’identità culturale ed è rafforzata dalla tradizione, in sintonia con l’autorità religiosa. Le sue radici intellettuali non possono essere definite autoctone: ispirati dal pensiero neo-conservatore ocLA FINE DEL BIPOLARISMO E DELLA GUERRA cidentale (non da ultimo il “modello Singapore”), influenti ideologi FREDDA PER LA RUSSIA quali Andranik Migranyan e Igor Klyamkin già a fine anni Ottanta RAPPRESENTA IL RITORNO consigliavano di tenere salde le redini della transizione di mercato AL PASSATO: EQUILIBRIO mantenendo quote di controllo autoritario nelle mani dell’esecuDI POTENZE, ALLEANZE tivo. Sconfitte dai riformisti radicali, queste tesi ritornarono nella TATTICHE, SFIDA ALL’UE seconda parte dell’era eltsiniana, fra il bombardamento del parlamento e quello della Cecenia, quando l’invocazione dell’uomo forte preparò all’ascesa di Putin. Nel lievito del pensiero sovranista varato da Surkov (nato in Cecenia sotto lo scomodo nome di Aslambek Dudaev, poi cancellato dalla storia, al pari del villaggio natio) si rintracciano espliciti prestiti intellettuali conservatori che spaziano dall’anti-pluralismo decisionista di Carl Schmitt, il filosofo del diritto che elaborò alcuni concetti prestati al nazismo, alla vena anti-populista di François Guizot, uomo forte del regime orleanista, ispiratore del primato della borghesia, aspramente criticato da Marx e Engels.

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cio di valori universali, che viene dipinto corrispondente alla convulsioni politiche di 20-30 anni fa: catastrofe sociale, degrado morale, fine della sovranità. Ne emerge un modello conservatore plebiscitario (anti-politico e anti-democratico) di auto-legittimazione, di cui è illustrazione plastica il nazionalismo promosso in Russia dopo l’annessione della Crimea: un revival della Russia storica da un lato, e la crescente sfiducia dei cittadini circa istituzioni ritenute sempre più inefficaci e corrotte dall’altro. Non manca l’enfasi sulla sovranità come forma di vera libertà contro le imposizioni normative occidentali che promanano dall’arena internazionale. Il tema è un lemma del pensiero conservatore: priorità del rito storico sulla legge astratta, necessità di preservare le vere libertà contro le false libertà propugnate da fanatici rivoluzionari (liberali o socialisti o islamisti), da sempre quinte colonne di potenze straniere che tramano per minare la sovranità nazionale. Compito nazional-patriottico è non solo estirpare Ong e società civile, ma – con questo – rafforzare la disciplina morale domestica. A sostegno della sovranità la maggioranza morale serra i ranghi: ecco la proibizione degli studi di genere, la negazione dei diritti riproduttivi, la criminalizzazione dell’omosessualità. Gli spazi per il dissenso si riducono: i critici sono solo edonisti membri della classe media. Il 14 marzo 2014, parlando dell’annessione della Crimea, Putin li definisce «traditori della nazione». Il volto economico di questa assertività nazionalista, tutta giocata lungo il solco dell’ambizione allo status di grande potenza, fra moralità cristiana e machismo paramilitaresco, è la tutela dei diritti di proprietà. Il sovranismo non porta rivoluzione economica, ma un programma nazional-liberale che ha replicato in Russia i programmi di austerità la crisi dell’Ue, per il ritorno del nazionalismo». Il nocvisti altrove, in parallelo a repressione dei ciolo di queste proiezioni è chiaro: la sovranità non può movimenti di protesta. Certo il segno con- essere limitata in nome di diritti universali. Chi difende servatore della dottrina di governo viene la società davanti alla pervasività delle “riforme” neolibemodulato nel tempo, e potrebbe definirsi rali, o getta luce sulla violazione di diritti fondamentali è – con Samuel Huntington – «situazionale», accusato di ipocrisia e perseguito. Come il politologo Ivan soprattutto nelle fasi espansive. Appena si Krastev ebbe a spiegare già una decina di anni fa, per la riacutizza lo scontro con l’occidente libe- dottrina sovranista russa, sovranità significa né più né rale, ecco la stretta sul codice culturale dei meno che industria estrattiva e ragion di stato: il diritto valori fondanti della nazione, il ripiego su del governo a fare ciò che vuole sul proprio territorio e a perseguire i propri nemici fin nel cuore di Londra. un conservatorismo assiomatico. Incapace di capire se fosse una causa o un sintomo delLa guerra non lineare la crisi profonda dell’ordine liberale, l’Europa unificata ha a lungo considerato le varianti sovraniste come illusione È vero, come ha scritto Marco Bascetta ottica, trasmutazione dell’euroscetticismo, spasmo prosul manifesto, che quando oggi parliamo pagandistico. Non può stupire chi conosce la storia eurodi «sovranismo» non ci riferiamo a una pea che il nazionalismo, oggi ammantato di sovranismo, dottrina politica dotata di autonomia e raccolga ampi consensi popolari, operi per una virata stabilità: piuttosto, «si tratta dell’insieme della modernità in senso reazionario, identitario, religiodi proiezioni ideologiche, politiche prote- samente legittimato, colmo di contraddizioni e amnesie, zioniste e statalismo che lavorano, dentro perimetrato da barriere. Sorprende di più come il mondo della comunicazione nutra questo schema, e sorprendono le esitazioni della sinistra nell’organizzare una risposta chiara, ampia e partecipata. In un romanzo pubblicato sotto pseudonimo, Surkov scrive di guerra non lineare del futuro: lo scopo non è vincere contro il nemico, ma gestire il processo bellico per destabilizzare la percezione pubblica, «confondendo le piste, oscurando la verità».

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Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale L’inaspettata circolazione di idee socialiste nella patria del capitalismo, le ambizioni con cui è nata Jacobin, le evoluzioni della sinistra Usa, il suo sguardo sull’Italia. Intervista al direttore e fondatore della rivista statunitense

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veva solo 21 anni nel 2010 quando ha pensato di fondare la rivista Jacobin, coinvolgendo molti coetanei nell’ambizione di fare una rivista marxista ma non propagandistica, accurata ma non accademica, in grado di apparire innovativa senza rimuovere il passato, con un linguaggio capace di dialogare anche con l’immaGiulio Calella ginario pop e arrivare a più persone possibile. intervista Bhaskar Sunkara In questi otto anni c’è stata l’esplosione del movimento Occupy Wall street nel 2011, poi la coinvolgente seppur sconfitta campagna elettorale presidenziale per le primarie del Partito democratico di Bernie Sanders nel 2016 e infine l’elezione di Donald Trump: tutti fenomeni che in modi differenti tra loro hanno inciso non poco nella possibilità di far circolare idee socialiste nella patria del capitalismo. In Italia oggi, quando si parla di idee provenienti da oltreoceano, si cita spesso Steve Bannon, ex stratega di Trump, venuto nel nostro paese negli ultimi mesi per spiegarci come l’Italia del governo gialloverde sia un laboratorio di politiche sovraniste per tutta l’Europa, un modello per costruire un «partito del popolo» contro il «partito dell’establishment». Ma dagli Stati uniti, dal paese che da queste latitudini abbiamo sempre considerato “senza sinistra” paragonandolo all’Europa, soffia anche un vento contrario: quello della rivista Jacobin, di Black Lives Matter, il movimento antirazzista afroamericano nato a seguito dei continui omicidi Giulio Calella è codi cittadini neri perpetuati dalla polizia, del #Metoo femminifondatore e direttore sta e dei diversi candidati socialisti che hanno vinto a sorpresa generale di Edizioni le primarie del Partito democratico per le elezioni di Midterm Alegre. del 2018. Bhaskar Sunkara oggi è direttore ed editore di una Bhaskar Sunkara rivista che è arrivata a contare circa 40mila abbonati, che ha è editore, direttore settanta gruppi di lettura in tutto il paese capaci di incanalae fondatore di Jacobin re nuove energie militanti e più di un milione di contatti unici Usa. mensili da tutto il mondo sul sito jacobinmag.com.

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In Italia, ma non solo da noi, desta impressione e ammirazione che un ragazzo così giovane sia stato capace in pochi anni di fondare e animare una rivista divenuta un vero e proprio fenomeno editoriale e politico internazionale. Ci racconti innanzi tutto qualcosa sulla tua formazione personale? Sono diventato socialista in giovane età. La mia era una famiglia di immigrati e ho visto che mi era capitato di avere molte più opportunità a disposizione di quante ne avevano avute i miei fratelli, decisamente più grandi di me. Credo che la ragione sia stata semplice: non avevo certo delle qualità innate rispetto a loro, ma piuttosto io sono cresciuto in una zona con un’ottima scuola pubblica e ho avuto accesso alle politiche sociali. Per questo credo di poter dire che la mia sensibilità sia divenuta socialdemocratica in modo epidermico. Ma la mia è stata una politicizzazione totalmente spontanea, in larga parte casuale. La mia biblioteca di zona aveva un mucchio di testi di ispirazione socialista, la maggior parte donati da militanti comunisti e da associazioni culturali ebraiche. Per puro caso nell’estate successiva al Seventh grade [corrispondente alla nostra seconda media Ndr] scelsi di leggere La mia vita di Lev Trotsky, non mi piacque particolarmente (e ancora non amo molto quel libro), ma ne fui abbastanza incuriosito da decidere di leggere la biografia di Trotsky scritta da Isaac Deutscher, le opere di socialisti democratici come Michael Harrington e Ralph Miliband, e alla fine anche lo stesso misterioso Karl Marx. Il marxismo mi ha fornito gli strumenti per capire come mai le riforme conquistate all’interno del sistema capitalistico fossero così difficili da sostenere, e sul perché ci sia così tanta sofferenza in società così piene di abbondanza. Alla fine ho combinato autonomo. In altre parole, sul piano dei contenuti, si può il mio cuore socialdemocratico e il mio dire che all’inizio il nostro fosse un progetto marxista abcervello ancora confusamente marxista bastanza ortodosso. nell’idea politica che sostengo oggi: un raIl secondo obiettivo guardava invece al di fuori del nodicalismo consapevole delle difficoltà del stro mondo. Eravamo consapevoli di quanto le idee socambiamento rivoluzionario e, allo stesso cialiste fossero marginali negli Stati uniti e volevamo cotempo, di quanto profonde possano essere struire un luogo di elaborazione a sinistra del liberalismo, le conquiste delle riforme. rendere le idee socialiste chiare e accessibili attraendo persone non politicizzate o che si autodefinivano “libeQuali erano gli obiettivi iniziali con cui ral” ma nei fatti avevano molte idee radicali di sinistra. è nata la rivista Jacobin? In altre parole cercavamo una base di massa per le nostre Jacobin è nata con due obiettivi diversi idee politiche. tra loro. Il primo era più interno al dibattito della sinistra radicale statunitense e Riesci a fare una descrizione sociologica e politica ruotava soprattutto attorno al tentativo di dei lettori di Jacobin? Sono cambiati dopo il movimento far emergere il ruolo primario della classe Occupy Wall Street e dopo la campagna di Bernie Sanlavoratrice e l’importanza delle forme tra- ders per le presidenziali del 2016? In verità siamo ancora alla ricerca di quella base dizionali della politica socialista, ossia la forma partito e l’organizzazione sindaca- sociale di cui parlavo prima. Siamo cresciuti molto in le, in un’estrema sinistra egemonizzata in questi anni come diffusione, ma abbiamo una porzione modo crescente dal pensiero anarchico e sovradimensionata di lettori con istruzione universitaria mentre siamo ancora un po’ distanti dagli ambienti working class. Direi che il lettore medio di Jacobin ha 23-24 anni e frequenta il college. Ci sono poi molti figli di professionisti di classe media ormai declassati, e pur avendo tra i lettori di Jacobin molti attivisti sindacali tra loro ci sono soprattutto insegnanti e infermieri (la parte più istruita della working class). Le caratteristiche dei

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nostri lettori non sono cambiate dopo il movimento Occupy e la campagna per Sanders, piuttosto possiamo dire che prima non avevamo alcuna base di lettori mentre adesso una piccola base c’è.

Ha avuto una certa eco anche da noi in Italia la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez nelle primarie nel Quattordicesimo collegio di New York del Partito democratico per le elezioni di Midterm. Una ragazza di 28 anni, Latina, di famiglia working class e fresca di laurea in economia che sconfigge un boss del Partito democratico newyorkese come Joe Crowley, con il solo sostegno di un piccolo gruppo di militanti di ispirazione socialista. Hai più volte detto di guardare a queste candidature nel Partito democratico come uno strumento non per conquistare il partito ma per veicolare idee socialiste nel paese. Non c’è però un rischio di illudersi di poter cambiare dall’interno il Partito democratico? E in che modo si può non delegare, come più volte è stato fatto in Italia, la costruzione dell’alternativa al solo strumento elettorale?

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Qual è la situazione della nuova sinistra socialista Usa e che rapporto c’è tra sinistra politica e movimenti sociali in una società che non ha conosciuto importanti partiti socialdemocratici, tanto meno comunisti, e sindacati di classe come in Europa? Dobbiamo distinguere alcune cose, parzialmente diverse tra loro. Una cosa è l’ampia mobilitazione a sostegno di Bernie Sanders che ha attirato molto e continua a galvanizzare grazie alle sue assemblee e comizi nelle città; poi ci sono le persone che si sono entusiasmate con i nuovi candidati alle primarie del Partito democratico che si auto-definiscono socialisti come Alexandria Ocasio-Cortez; e infine c’è quel che si muove all’estrema sinistra. La mobilitazione più ampia si riattiverà con la campagna a favore di Sanders per le presidenziali del 2020, che ha molte potenzialità di far crescere la sinistra in generale e di produrre attivismo tra le persone. Poi c’è l’estrema sinistra, per lo più organizzata nei Democratic Socialists of America (Dsa). Quando, nel 2007, ho aderito a Dsa c’erano non più di cinquemila membri attivi. Oggi sono più di cinquantamila. Quindi c’è stata una crescita enorme. È uno spazio ampio, con orientamenti politici non sempre definiti e difficoltà nel costruire un quadro e delle azioni coerenti, ma sta avendo comunque una crescita incredibile. In questo momento negli Stati uniti a mio avviso non ci sono dei OCCUPY WALL STREET veri e propri movimenti sociali, almeno per la definizione che ne do io. E LA CAMPAGNA Black Lives Matter si è oggi in larga parte esaurito o si è spostato in una PER SANDERS HANNO direzione egemonizzata dalle Ong. Il movimento femminista del #MeAPERTO UN VARCO Too è importante e ha consentito a molte donne di ribellarsi a molestie PER L’ESTREMA SINISTRA e discriminazioni di genere, ma la mobilitazione è stata in larga parte NEL PAESE DI TRUMP mediatica. Vedremo se si riusciranno ad avere un maggior numero di azioni di lavoratrici intorno alle rivendicazioni del #MeToo, ma per ora non sono sicuro che sia un movimento sociale paragonabile a quelli che avete avuto in Europa o che esistono oggi in paesi come Brasile o India.

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Be’, dovremmo intanto fare una differenziazione tra i due tipi di candidature che hanno vinto a sorpresa le primarie nel Partito democratico. Ci sono le varie Alexandria Ocasio-Cortez, progressiste, che si autodefiniscono socialiste democratiche, sostenute da molti socialisti democratici ma che non hanno un legame reale con la tradizione socialista e la concezione dello Stato, della classe ecc. che ha la maggior parte di chi proviene da quella tradizione. E poi ci sono persone come la candidata senatrice Julia Salazar, che è una marxista con posizioni radicali e proviene da ambienti vicini a Jacobin e a Dsa. Io penso che concorrere apertamente come socialisti nelle primarie del Partito democratico sia una strategia che ha senso per la sinistra data la particolarità della nostra legge elettorale. Ma non dovremmo solo far partecipare candidati e festeggiare le loro elezioni, abbiamo bisogno di strumenti per formare gli eletti, per renderli controllabili collettivamente dai membri della propria organizzazione di appartenenza, e di molto altro ancora. Le campagne elettorali hanno dimostrato di essere un’utile scorciatoia, ma vanno utilizzate come strumenti per costruire il potere della classe. Dobbiamo essere guardinghi verso tutte le tendenze che scaturiscono dalla voglia di mantenere unicamente il proprio seggio parlamentare, ma se l’alternativa è sedersi e non far nulla o attendere che cambino le condizioni oggettive, allora io preferisco un approccio più attivo. Il varco che abbiamo di fronte in questo momento, oltre a piccole sacche di resistenza dei lavoratori come quella del sindacato degli insegnanti negli Stati uniti, è soprat- tente della storia e con l’eredità storica dell’assenza di partiti laburisti o socialdemocratici che abbiano rappretutto elettorale. sentato gli interessi del mondo del lavoro. Direi che in Europa ci sono nuovi spazi. Non credo Negli Usa fate i conti forse da quasi un secolo con l’assenza di una forte si- nel populismo di sinistra come teoria, ma penso che ci nistra politica, realtà che invece si sta siano aspetti della sua retorica popolare – come quelaffermando in Europa solo recentemen- li utilizzati da Podemos in Spagna – che dovremmo te. Come vedi dalla vostra prospettiva prendere come esempio. Penso che serva anche una questo cambiamento nel nostro paese, e posizione credibile sull’Europa, avanzando critiche da cosa possiamo imparare da voi per “vive- sinistra alle istituzioni europee, in modo che la destra re in un paese senza sinistra”, ossia per non finisca per presentarsi come la sola credibile forza ricostruire in un tale contesto idee e pra- di opposizione. Ma fondamentalmente penso che non si debba pertiche di trasformazione sociale? Questa è una buona domanda, ma pur- dere la fiducia nella capacità dei lavoratori di lottare per troppo non credo di avere una buona ri- la propria emancipazione. C’è ancora una working class, sposta. La storia della sinistra italiana mi può ancora essere organizzata, ci sono ancora interessi sembra una storia di opportunità spre- comuni che la uniscono. La working class è cambiata, cate, sconfitte autoinflitte e fallimenti. è stata frammentata, ma le intuizioni fondamentali del Anche la sinistra statunitense ha fatto la marxismo e del socialismo tengono ancora. sua parte di errori, ma abbiamo dovuto Cosa ti aspetti dall’esperimento di Jacobin Italia? cimentarci con la classe dirigente più poMi aspetto che un progetto legato al nome di Jacobin si ponga obiettivi ambiziosi, sia aggressivo nella ricerca del suo pubblico e nel farlo crescere, professionale nel suo modo di lavorare, ma anche impegnato nella lotta per una società socialista dopo il capitalismo – una società senza oppressione, integralismi e sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

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Quando i dannati della terra strappano i valori dell’illuminismo dalle mani degli ipocriti, possono farne un progetto radicale di emancipazione umana

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Identity (2012), leggibile qui: https:// www.jacobinmag. com/2012/03/theblack-jacobin-2 Traduzione di Wu Ming 1.

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uando ho proposto alla redazione statunitense di Jacobin il logo col giacobino nero, c’è stata un po’ di apprensione. Preoccupava l’idea di usare come “portafortuna” il profilo di una persona nera. C’era il rischio di risultare offensivi. La storia delle rappresentazioni visive dei neri Remeike Forbes è ricca di esempi negativi. Io stesso, immigrato nero giamaicano, ho avuto momenti di esitazione. Eppure proprio quelle preoccupazioni dimostravano che l’utilizzo aveva senso. La perversione stava nel presentare un volto nero come soggetto universale, onore sempre e solo accordato a volti bianchi. E non si trattava nemmeno di un banale tentativo di sovversione, di creare una contro-mitologia per mezzo di facili sostituzioni, come in quei dipinti dove Gesù ha i dreadlock. Benché sia una storia troppo spesso ignorata, è difficile trovare un migliore significante di universalismo della rivoluzione haitiana. Gli eventi che si svolsero sull’isola di Saint Domingue durante un’epopea lunga tredici anni hanno influenzato la storia mondiale. La rivolta degli schiavi colpì l’illuminismo occidentale al cuore delle sue contraddizioni. Prendendo il mantello dell’illuminismo e facendo di quest’ultimo un autentico progetto di emancipazione umana, quei rivoltosi spiazzarono, spaventarono e sconfissero Remeike Forbes è ogni impero presente in quell’area. Un furibondo Nail direttore creativo poleone Bonaparte cercò di eliminare ogni nero che di Jacobin, edizione avesse portato le spalline da ufficiale. I proprietari terstatunitense. Questo rieri del sud degli Stati Uniti imposero al loro governo che pubblichiamo di non riconoscere il nuovo stato indipendente. è un estratto Di contro, dando prova di profondo internazionaliriadattato del suo smo, i rivoluzionari haitiani ispirarono tanta gente quanarticolo The Black ta ne fecero arrabbiare, dai repubblicani radicali francesi, Jacobin: Our Visual che sostennero la libertà dei neri, al rivoluzionario latino-

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americano Simon Bolívar, che ad Haiti trovò rifugio. E immaginate la confusione dei soldati napoleonici nel sentire le truppe haitiane cantare la Marsigliese. «Libertà, uguaglianza, fraternità – o morte» era la giusta rivendicazione di quelle truppe. E sul quarto termine non scherzavano: prima della rivoluzione, gli schiavi avevano adottato la politica di avvelenare, finché loro fossero rimasti in catene, quasi tutto quello che respirava. Avvelenarono se stessi, i propri figli, il padrone, la padrona e tutta la famigliola della fottuta piantagione. E quando conquistarono la libertà, non c’era forza al mondo che potesse farli tornare indietro. Così, quando dopo l’ascesa al potere di Napoleone circolarono voci di un ritorno della schiavitù, si misero ad appiccare incendi.

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La rivoluzione haitiana racchiude in sintesi la missione storica della sinistra: la vera realizzazione dell’illuminismo. Quando i dannati della terra strappano i valori dell’illuminismo dalle mani degli ipocriti che li sbandierano, possono farne un progetto radicale di emancipazione umana. Marx colse bene la contraddizione: nel suo pensiero c’è sia la critica dell’illuminismo sia il progetto di espanderne gli ideali di emancipazione politica in un progetto di emancipazione umana. Ed è questo a risuonare lungo la storia della sinistra: la richiesta che i princìpi formalizzati nelle nostre istituzioni politiche si allarghino all’intera nostra esistenza – alla nostra vita sociale ed economica, nelle nostre case e nelle strade. La storia della rivoluzione haitiana dovrebbe sempre ricordare alla sinistra che rinunciando al pensiero critico non è immaginabile altra risposta alle contraddizioni dell’illuminismo se non la totale negazione dell’illuminismo stesso. Ricordiamo quel verso dell’Internazionale: «for reason in revolt now thunders». Poiché ora tuona la ragione in rivolta. Non è, non è mai stato un grido di rivolta contro la ragione, ma l’annuncio della rivolta della ragione.

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Reason in revolt

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La storia della testata di Jacobin è la storia di uno Spartaco haitiano, di un’armata di schiavi che fa la rivoluzione. Risulta più attuale che mai, per tante ragioni. Capitalisti e razzisti ancora non si sentono tranquilli perchè sanno che gira per il mondo Toussaint L’Overture

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ompie ottant’anni The Black Jacobins di C.L.R. James, saggio storico tra i più influenti del XX secolo, benché la sua influenza continui a suscitare imbarazzo, a essere rimossa o sminuita. È ancora incandescente la vicenda ricostruita – la rivoluzione haitiana guidata dall’ex-schiavo Toussaint L’Ouverture – ed è ancora drastica la riconsiderazione della tradizione rivoluzionaria che, fin dal titolo, il libro esorta a intraprendere. Wu Ming 1 Ispirato nella struttura e nello stile alla Storia della Rivoluzione russa di Trotsky, e scritto tendendo l’orecchio alle proteste internazionali contro l’invasione italiana dell’Etiopia, The Black Jacobins fu pubblicato nel 1938. L’anno che segna l’inizio della sconfitta dei repubblicani spagnoli, che James cita nella prefazione; l’anno del famigerato Accordo di Monaco, col quale le principali democrazie borghesi d’Europa – Francia e Regno Unito – aprirono la strada al progetto imperialista di Hitler; l’anno della “Notte dei cristalli”, i cui clangori sembrano già echeggiare nel libro. La seconda guerra mondiale era ormai dietro l’angolo. Proprio nel Regno Unito, C.L.R. James – nero delle cosiddette «Indie occidentali», militante marxista, scrittore e drammaturgo – osava alcune «considerazioni inattuali», e potenzialmente oltraggiose: una su tutte, che senza la rivolta di massa degli schiavi di Haiti, scoppiata nel 1791, la Rivoluzione francese non sarebbe stata la Révolution che tutti conosciamo. Non contento, aggiungeva che Toussaint L’Ouverture, spinto verso l’alto da contraddizioni immani e dall’urto di tumultuose forze sociali, fu uno dei più grandi uomini del suo tempo, pari solo al suo nemico Napoleone. Un Napoleone negro!? Quello che James stava dicendo – ora in forma allegorica, ora esplicitamente – era: non può darsi alcuna vera rivoluzione in occidente senza rivoluzioni nelle colonie. Nel 1938, mentre gli sguardi convergevano su Hitler, sembrava una prospettiva remota, un tema non all’ordine del giorno, e per una manciata d’anni la guerra sembrò spingerlo ancora più ai margini di ogni discorso. In realtà, mettendo a dura prova i centri dei più grandi imperi coloniali, (quello britannico e quello francese) e al tempo stesso mobilitandone in massa i sudditi «di colore», la guerra acuì proprio le contraddizioni su cui James aveva gettato luce.

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Nel dopoguerra, le atrocità del nazismo divennero la nuova pietra di paragone per le atrocità del colonialismo. Basti un solo esempio: nella seconda metà degli anni Cinquanta l’opinione pubblica britannica, ancora fresca di vittoria contro il nazismo, scoprì gli orrori della Pipeline, il sistema di centocinquanta lager – come altro chiamarli? – aperti in Kenya per deportarvi la popolazione Gĩkũyũ e stroncare l’insurrezione Mau Mau. Emersero casi di prigionieri bruciati vivi o castrati con pinze da bestiame. Lo scandalo portò all’indipendenza del Kenya, e accelerò la fine dell’impero «su cui non tramontava mai il sole». Quel che il borghese europeo non perdona a Hitler, scrisse Aimé Césaire nel 1950, «non è il crimine come tale, il crimine contro l’uomo; non è l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa metodi coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri d’Africa». Una riflessione che The Black Jacobins aveva anticipato ancor prima della guerra, come aveva anticipato quelle di un altro figlio delle Indie occidentali, Frantz Fanon, autore dell’altra grande opera anticoloniale del XX secolo: I dannati della terra (1961). Nel mentre, The Black Jacobins circolava, talvolta illegalmente, nei paesi dove ardevano le braci della rivolta coloniale. Diviso in dispense, copiato a mano modello samizdat, fu uno dei testi più diffusi nel Sudafrica dell’apartheid, tra attivisti di più generazioni, dal massacro di Sharpeville (1960) alla rivolta di Soweto (1976) e oltre. Riletta nel suo ottantesimo anniversario, questa storia di uno Spartaco nero, di un’armata di schiavi che fa la rivoluzione, risulta più attuale che mai, per tante ragioni. Troppe perché questo articolo possa contenerle. In Italia e in gran parte d’Europa, in una torsione paradossale, i termini «schiavi», «schiavitù» e «schiavisti» sono usati strumentalmente per difendere il privilegio bianco e attaccare le mobilitazioni antirazziste: «Siete voi buonisti a difendere la nuova tratta degli schiavi!», «Siete complici degli scafisti, i nuovi trafficanti di schiavi!», «Li portano qui per farne degli schiavi!».

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In Italia il libro di C.L.R. JaDel resto, neri ammassati su imbarcazioni che compiono un viaggio mes è edito da Derive Apdrammatico... Cosa potranno mai ricordare? prodi con il titolo I giacobini Ma l’allegoria è fallace: gli scafisti non sono negrieri ma passeurs, perneri. La prima rivolta contro ché i migranti vogliono essere trasportati in Europa e pagano per il viaggio, l’uomo bianco, con prefacioè per avere un servizio; che lo ricevano di qualità pessima, da parte di zione di Sandro Chignola carogne senza scrupoli, è colpa sì di quelle carogne, ma prima ancora è e postfazione di Madison colpa delle leggi europee sull’immigrazione. E, sì, la situazione rende quei Smart Bell. viaggi molto pericolosi, ma non li rende uguali al Middle Passage delle navi negriere. Il termine «schiavi» è usato dai razzisti per negare alle persone migranti ogni soggettività, ogni autonomia di scelta. Chi compie quei viaggi è descritto come mero corpo, materia bruta trasportata da un posto all’altro. Questo è il cliché razzista e coloniale sugli schiavi, e nessuno lo ha dimoWu Ming 1, membro del colstrato meglio di C.L.R. James. Nella massa derelitta degli schiavi di Haiti lettivo di scrittori il cui ultimo erano in corso, invisibili al padrone, sommovimenti profondi, prese di colibro è Proletkult (Einaudi), scienza, insubordinazioni striscianti, e quelli che nel gergo di oggi chiadirige per Alegre la collana di meremmo «percorsi di autoformazione». Ci si formava attraverso riunioni ibridi narrativi Quinto Tipo. e lezioni clandestine, attraverso il sabotaggio, attraverso la fuga per ragIl suo ultimo libro da solista giungere le comunità degli schiavi fuggiti, i Maroons, e persino per unirsi a è Un viaggio che non prociurme di pirati. Da tali processi emersero, al momento giusto, un soggetto mettiamo breve. 25 anni di rivoluzionario e un grande esercito popolare, coi suoi comandanti, lotte No Tav (Einaudi). coi suoi brillanti strateghi, con il suo incredibile Napoleone. Un esercito che scosse l’ordine del mondo. Mentre l’oblio del passato coloniale genera nuovi mostri e un delirio di massa su presunte «invasioni» dal sud del mondo, The Black Jacobins continua a influenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta continua a riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di Toussaint, uno qualunque, è divenuto il logo di Jacobin (si veda il testo di Reimeke Forbes pubblicato qui accanto). E quel lascito non cesserà di spaventare i padroni. Chiudo parafrasando una canzone degli Stormy Six: capitalisti e razzisti «ancora non si sentono tranquilli, perché sanno / che gira per il mondo Toussaint L’Ouverture». Illustrazione di

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Lavoro alla cinese, salari alla polacca Tecnologia e robotica utilizzate per tagliare il costo del lavoro e incentivi governativi per mantenere gli stabilimenti in Italia serviti solo a stringere sotto ricatto i lavoratori. Il caso Electrolux

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di lavoro, moneta e diseguaglianze. Piero Maestri, attivista, è stato redattore di Guerre&Pace ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre).

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ondata circa un secolo fa da Antonio Zanussi, che aveva aperto una piccola officina in Corso Garibaldi a Pordenone, l’azienda di elettrodomestici italiana è stata acquisita dalla multinazionale svedese Electrolux nel 1984, dopo un periodo di crisi. Nel 2004, l’allora Ceo Hans Stråberg ha annunciato il progetto di spostare alcune linee di produzione nell’Est Europa, in Polonia, Francesca Coin Piero Maestri Ungheria e Russia, aree low cost con minore sindacalizzazione e costi del lavoro più bassi. È iniziato allora un processo di ristrutturazione che ancora oggi scarica sui lavoratori la crisi del comparto e l’enorme competizione internazionale. Nel racconto dei tre delegati sindacali che abbiamo incontrato fuori dalla Electrolux di Solaro, nella provincia di Milano, il 2014 è l’anno zero, l’anno in cui sindacati, azienda e governo hanno firmato un accordo per un nuovo piano industriale per impedire il licenziamento del personale. Poco prima l’azienda, che in quel momento aveva quattro stabilimenti – Porcia, Susegana, Forlì e Solaro con un totale di circa 5.700 dipendenti – ha annunciato un piano di ristrutturazione che prevedeva, tra le altre cose, la chiusura dello stabilimento di Porcia e la Francesca Coin, perdita del posto di lavoro per 1200 persone, oltre a una lunga sociologa all’Università serie di decurtazioni di diritti, tra cui la riduzione del salario, Ca’ Foscari di la diminuzione delle ore retribuite al giorno, l’aumento dei Venezia, si occupa ritmi e dei tempi di lavoro. I mesi successivi sono stati segnati

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da presidi, scioperi e assemblee. Una mobilitazione durata sessanta giorni durante la quale i lavoratori hanno tentato di districarsi dalla situazione di ricatto, stretti da un lato dalla minaccia della delocalizzazione e dall’altro dall’imperativo di acconsentire alle richieste di maggiore redditività aziendale. È iniziata allora una lunga vertenza, al termine della quale è stato deciso il mantenimento di tutti e quattro gli stabilimenti (Porcia non ha chiuso), mentre i lavoratori hanno accettato incrementi di produttività, attraverso la riduzione delle pause e l’aumento della velocità delle linee di produzione. Messo sotto pressione dalla mobilitazione dei lavoratori, l’allora governo a guida Matteo Renzi ha giocato un ruolo fondamentale, impegnandosi a finanziare la decontribuzione dei contratti di solidarietà, che prevedono una riduzione delle ore di lavoro distribuita sulla totalità dei dipendenti, con condizioni e decorrenze diverse nei vari stabilimenti, oltre a integrare temporaneamente una parte della retribuzione delle ore perse e a mettere a disposizione dell’azienda incentivi a sostegno di investimenti, ricerca e innovazione in cambio della promessa di LA PAURA DELLA evitare i licenziamenti. In poche parole, i lavoratori hanno strapDELOCALIZZAZIONE pato all’azienda con le unghie e con i denti la promessa di non deHA IMPOSTO REGOLE localizzare, pagandone caro il prezzo, mentre il governo ha usato SADICHE, FATTE DI le risorse pubbliche per agevolare in tutti i modi l’azienda e evitare RIDUZIONE DELLE PAUSE di essere travolto dagli effetti di una politica del lavoro il cui unico DAL LAVORO E AUMENTO risultato è stato, come da decenni, quello di spremere il costo del DELLA PRODUTTIVITÀ lavoro e concedere incentivi e sgravi alle aziende per nascondere una struttura produttiva sempre più deindustrializzata. Con tutte le difficoltà del caso, in questi anni l’accordo ha retto. Mentre Susegana e Forlì, che producono rispettivamente frigoriferi a incasso e piani cottura, hanno aumentato la produzione, a Solaro, dove si fanno lavastoviglie, i volumi sono diminuiti. Più degli altri stabilimenti, infatti, Solaro ha risentito dell’aumento della competizione dall’Est Europa, specie alla luce della decisione di trasferire la produzione di 225mila lavastoviglie a incasso in Polonia, nel 2014. Da allora, a Solaro si lavora a singhiozzo, ci sono, oggi, quattro linee di produzione tra cui una destinata al mercato americano che lavora in modo intermittente, mentre buona parte della fabbrica lavora su due turni di sei ore effettive, pagati in solidarietà.

Abbiamo chiesto ai lavoratori quali siano le condizioni di lavoro nella fabbrica di Solaro, oggi. In sostanza, lavorare a Solaro in questo momento significa lavorare nella paura. Prima di tutto c’è la crisi di comparto: l’alto di gamma prodotto a Solaro non riesce a conquistare il mercato negli Stati uniti e in Asia, dove c’è troppa competizione da parte di marchi come Whirlpool e Medea, mentre il basso di gamma trasferito da Solaro a Zarow in Polonia continua a crescere di volume, tanto che Zarow è passata negli ultimi anni da una produzione di circa 600mila pezzi a un milione. Con questi numeri, vi sono a Solaro 200 lavoratori “eccedenti” rispetto quanto previsto dal piano industriale del

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«Dazi? Ci tremano i polsi»

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2014, che prevedeva, alla fine del 2018, la produzione di circa 870mila lavastoviglie, contro le 560mila attuali. La riduzione della domanda è andata di pari passo all’aumento della velocità delle linee. Con l’accordo del 2014, infatti, i lavoratori producono oggi in sei ore quello che nel 2014 producevano in otto. Recuperata l’efficienza e aumentata la produttività da 74 a 90 pezzi all’ora, l’azienda ha, sì, usato l’innovazione per migliorare le posizioni ergonomiche nelle postazioni più gravose, ma ha anche indotto i lavoratori a operare contro i propri interessi, producendo, a parità di domanda, nuovi esuberi. Al netto di tutta la letteratura tecno-ottimista sulla fine del lavoro (naive, negli attuali rapporti di forza), la tecnologia e la robotica sono state utilizzate anzitutto per tagliare il costo del lavoro. Abbassata la domanda e ridotti gli ammortizzatori sociali con il Jobs Act, posti di fronte alla gravosa scelta di aumentare la produttività o perdere il posto di lavoro i lavoratori si sono trovati a lavorare, su richiesta aziendale, contro i propri interessi e si trovano oggi nella stessa situazione del 2014: dover gestire 200 eccedenze, nonostante le 120 uscite volontarie incentivate negli scorsi anni. «Ci tremavano i polsi», dicono, quando Trump ha cominciato a parlare di dazi, perché, costretti dal realismo capitalista a guardare il futuro con gli occhi dell’azienda, sanno benissimo che riduzione della domanda significa, in potenza, perdita ulteriore di posti di lavoro.

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La politica di Electrolux ha avuto costi altissimi, nella vita dei lavoratori. Il diritto privato alla delocalizzazione, e la messa in competizione tra loro di due stabilimenti gemelli (in questo caso Solaro e Zarow) per poi punire con la chiusura o la ristrutturazione quelli meno efficienti (cioè quelli in cui il lavoro è più tutelato) ha imposto regole del gio- avviene a Susegana, multata per ritmi di lavoro ripetitivi co sostanzialmente sadiche nella vita dei e asfittici), l’aumento della produttività degli ultimi anni lavoratori, costretti a scegliere tra accon- ha avuto un impatto negativo sulla salute fisica dei lavorasentire a un maggiore sfruttamento o star- tori, aumentando le patologie muscolo scheletriche, dalla sene a casa. In questo contesto, la fabbrica tendinite alla sindrome del tunnel carpale. Il punto è che è diventata un luogo pervaso dalla paura, i lavoratori in questi anni hanno dovuto assorbire tutti i dicono i delegati. Paura significa chieder- costi e i rischi aziendali per evitare che qualcuno di loro risi continuamente «che ne sarà del nostro manesse a casa. Ma sino a quando sarà sostenibile decidefuturo?», «ci licenzieranno?», «cosa ci acca- re di «guadagnare meno, guadagnare tutti»? Sino a quando drà?». Paura significa, inoltre, stress, ansia, sarà possibile accettare di tagliarsi lo stipendio per coninsonnia, farmaci e psicofarmaci, non solo sentire a tutti di averne uno, mentre l’azienda minaccia di durante il lavoro, ma nel tempo libero, nel- chiudere per trasferirsi in Polonia perché preferisce i salari le pause, durante le ore notturne, negli in- polacchi? Fino a quando avrà senso acconsentire al detecubi la notte. Va poi detto che, nonostante rioramento delle condizioni di lavoro, per salvaguardare il l’inchiesta Inail del 2017 abbia considerato posto? Sono queste le domande che assillano la quotidial’Electrolux di Solaro un caso non proble- nità dei lavoratori di Solaro, e sono queste le domande a matico per quanto riguarda lo stress da cui, dopo vent’anni di violenza economica, sarebbe temlavoro-correlato (a differenza di quanto po dare una risposta. Perché è inutile dare incentivi alle aziende per mantenere uno stabilimento in Italia se poi il diritto del lavoro continua a essere secondario rispetto al diritto privato di esternalizzare la produzione ovunque i costi del lavoro sono più bassi. È inutile dare incentivi alle aziende per mantenere uno stabilimento nel nostro paese se poi l’unica organizzazione del lavoro legittima è quella fondata sul ricatto dei lavoratori.

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Guadagnare meno, guadagnare tutti?

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Una scuola buona per grigi contabili

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La riforma di Renzi è stata uno shock per i docenti, la cui trasformazione antropologica viene da lontano. All’ideologia delle competenze da apprendere va contrapposta la cooperazione sociale del sapere

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a legge 107/2013, detta “Buona Scuola”, che in piena continuità con le precedenti riforme della scuola e della dirigenza pubblica ha confermato il taglio dei curricoli scolastici e dei posti di lavoro, rafforzato la governance scolastica con l’introduzione del “preside-manager” e introdotto l’obbligo di alternanza scuola-lavoro a detrimento delle ore di scuola, è l’esito dell’abbandono, da Girolamo De Michele parte della sinistra di governo, dell’idea di una scuola per tutti, in grado di rimuovere alcuni degli ostacoli materiali – l’analfabetismo in primo luogo – che impediscono il pieno esercizio dei diritti costituzionali: una scuola che genera “cittadini costituzionali”, per dirla con il fondatore della Scuola di Barbiana, don Lorenzo Milani. Abbandonandola, la sinistra di governo ha abbracciato la visione di un riformismo tecnocratico che mira non all’istruzione di massa, ma alla formazione di un’élite di «imprenditori di se stessi», senza tener conto delle conseguenze di questa svolta: il progressivo ritorno di quelle disparità sociali che la scuola aveva cercato di contrastare. Proprio per questo la Buona Scuola è stata uno shock per gli insegnanti che, sentitisi traditi dallo schieramento su cui per anni avevano fatto affidamento, hanno spostato il proprio consenso elettorale sul M5S, come rivalsa rancorosa nei confronti del Partito democratico (vedi l’indagine Isos “Elezioni 2018. Genere, età, professione: identikit dei nuovi elettori a 5 Stelle”, Il sole 24 ore, 6 marzo 2018).

La controriforma dell’amministrazione

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lo spazio politico letterario Il Povero Yorick su www. euronomade.info. Ha curato i due volumi dell’autobiografia di Toni Negri.

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Ma la “trasformazione antropologica” dell’insegnante (l’espressione è di Marina Boscaino, un’insegnante molto attiva nelle lotte della scuola) ha radici lontane. Era di fatto già contenuta nella riforma della pubblica amministrazione del 1993, varata nel contesto di un uso disciplinare della crisi economica e della tempesta valutaria sulla lira del 1992 (una manovra finanziaria da 100mila miliardi di lire, l’accordo con i sindacati che cancellò la scala mobile, prelievo forzoso sui conti correnti del 6%, la legge 359/92 sul riordino, cioè sulle privatizzazioni, delle partecipazioni statali) che ha trasformato i pubblici dipendenGirolamo De Michele ti, e dunque anche gli insegnanti, in dipendenti pubblici con lavora nella scuola contratto di diritto privato. In parole povere: il cuore del mecome probapossibile stiere di insegnante non è più (come nel diritto pubblico) il insegnante e coordina contenuto della sua azione (insegnare, educare, formare), ma

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il rapporto paritario fra le ore di lavoro prestate e il salario retribuito (in termini giuridici, il “sinallagma contrattuale”). Ciò consente allo Stato di fare un elenco minimo di compiti che l’insegnante, in cambio del salario, deve svolgere: un elenco che può non contenere compiti essenziali per l’andamento della scuola, lasciando l’insegnante davanti alla scelta fra un lavoro malfatto e/o inutile, e un di più di lavoro volontario, gratuito o mal retribuito. Lo Stato mette sul tavolo un sacchetto e si arroga il diritto di dire: questi sono i pupazzi, con questo fate il presepe. Se poi manca l’asino, i Magi sono solo due e arrivano a piedi perché non hanno i cammelli, poco importa: è questo il modo in cui la trasformazione dell’istruzione italiana da scuola d’élite in scolarizzazione di massa, e l’irruzione dell’adolescenza nella scuole sono state gestite senza adeguare la struttura alla grande trasformazione sospinta dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta, scaricandone l’onere sul volontarismo degli insegnanti. L’attuale insegnante neo-assunto, che vaga alla ricerca di ore da svolgere in progetti spesso improvvisati per completare l’orario di servizio, ha la sua giustificazione in quella lontana controriforma dell’amministrazione; così come l’insegnante che si presenta col cappello in mano dal dirigente chiedendo di svolgere un qualche ruolo servile per poter avere un’integrazione salariale. Così, il mondo nel quale si dovrebbe attuare il diritto all’istruzione e a una vita degna di essere vissuta è popolato da piccoli, ingrigiti contabili portati a calcolare ogni minuto di forza-lavoro prestata in cambio di un salario chiedendosi: «Non avrà quell’altro lavorato mezz’ora più di un me?». Il compito dell’insegnante diventa non formare cittadini, ma selezionare futuri imprenditori di se stessi: la didattica si fa sempre più atomizzata e individualizzata, l’istruzione è sempre più considerata una merce da misurare e valutare. Il sapere è sminuzzato in tante particole dette “competenze”, un’entità astratta che gli stessi suoi teorici affermano non essere osservabile in sé, ma che nondimeno si presuppone debba esistere, un po’ come il flogisto o l’etere: e tanto peggio per quegli aspetti del processo educativo – capacità critica, cooperazione, pensieri lunghi e distesi – non inquadrabili nelle griglie di valutazione, che vengono esclusi da una scuola che produce individui in grado non di tenere insieme (che sarebbe il senso di competenza, da cum petere) la complessità del sapere con una mente ben fatta, ma di possedere singole nozioni rinchiuse in una testa ben piena. Per competere in quel mercato che è libero ed egualitario quanto lo sono nel libero pollaio la libera volpe e le galline: un luogo di sfruttamento che genera disuguaglianze e gerarchie, che segmenta la società in spezzoni per poterla meglio governare. Questo luogo è intersecato dalla scuola con una cospicua quantità di ore di “alternanza scuola/lavoro”, che un ispettore ministeriale definì «l’incontro del mondo degli adolescenti con quello degli adulti», con lo stesso tono con cui nel Mago di Oz Dorothy esclama «ho l’impressione che non siamo più nel Kansas»: ore inutili alla formazione e all’ingresso nel mondo del lavoro (non a caso si parla non di “occupazione”, ma di “occupabilità”), sottratte al tempo scuola nel quale si dovrebbe formare una mente critica.

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Queste diseguaglianze fra strati sociali, centro e periferia, città e provincia, nord e sud, migranti e indigeni, attraversano il corpo della scuola, che a sua volta le riproduce e le rilancia: non è casuale che i tassi di dispersione scolastica, che sono in media del 30%, sono molto più alti (fino al 60%) se si guardano i dati del sud, dei migranti, delle periferie, dei figli di genitori non diplomati o che svolgono lavori non qualificati. Così come non è un caso che l’orientamento, che dovrebbe favorire la migliore scelta per l’istruzione superiore, finisce per ribadire il ruolo delle appartenenze sociali sui destini educativi degli studenti. La scuola, insomma, non solo è impotente davanti alla forbice sociale, ma a volte coopera nell’allargarla: lo ha scoperto l’opinione pubblica con la pubblicazione di alcuni Rapporti di AutoValutazione (Rav) nei quali reputati licei si vantano di non avere fra i propri studenti migranti e non abbienti (salvo qualche inevitabile figlio di portinaio dei palazzi-bene: davL’INSEGNANTE INVECE vero non c’è più morale, contessa!). DI FORMARE CITTADINI La scuola, in conclusione, sembra essere ritornata ai tempi in cui SI TROVA COSTRETTO don Milani avviò la sua lenta rivoluzione. Verrebbe spontaneo dire A SELEZIONARE che per una scuola degna di essere vissuta è necessario tornare al I FUTURI IMPRENDITORI priore di Barbiana. Ma «attenzione che non ci si risvegli una mattiDI SE STESSI na con qualche cosa da salvare», ammoniva Claudio Lolli. Don Milani non era un profeta: era radicato nel contesto sociale, nelle lotte degli ultimi, nella coscienza che solo da una prassi didattica fatta in prima persona può nascere una teoria. Attualizzare don Milani significa attuare una didattica e uno stile di vita, che assumano la consapevolezza che non c’è pratica scolastica che non comporti sia la trasmissione della cultura dominante in chi apprende, sia la potenzialità di una critica di quel sapere. La scuola ha a che fare, sia in ciò che riceve dalla società nella quale è radicata, sia come soggetto collettivo attraversato dalle pratiche educative che restituisce alla società, non solo con beni accessibili a tutti come edifici e testi, ma anche con l’interazione sociale: con conoscenze, linguaggi, codici, informazione, affetti, e con la capacità di produrre e criticare questi aspetti dei processi che formano, in modo critico o assoggettato, tutti i soggetti che la popolano. Con le parole di Toni Negri e Michael Hardt, con quel comune che «non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i nostri rapporti». Ancora parafrasando Lolli: certo che il mantello di don Milani «è sempre in prima fila lì sull’attaccapanni» della sala insegnanti, e il suo fucile «è lì nascosto in quel libro di racconti: però che non diventino ricordi o fantasie, che non sia caricato solamente a sogni». Che lo si armi con una didattica che si rivolge non a singoli individui, ma al comune che apprende (e, why not, contesta e confligge), all’interno di uno stile di vita che al grigiore impiegatizio, alla frustrazione e alla sottomissione, sostituisca la cooperazione sociale: una scuola militante.

VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Per una scuola militante

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DIZIONARIO

Nel paese senza sinistra i discorsi perdono di senso. Vengono depoliticizzati dalle narrazioni mainstream, utilizzati a fini di marketing economico o elettorale, pervertiti dalla retorica di chi cambia tutto per non cambiare nulla. Abbiamo bisogno di riprenderci alcuni concetti, a partire da questi

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Illustrazioni di Luciop

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Beni comuni T

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Gaia Benzi

ra le recenti vette della politica di movimento – che certo non brilla per soddisfazioni – figura senza dubbio la vittoria al referendum sull’acqua del 2011: un punto di svolta della battaglia sulle privatiz zazioni, un momento di riscossa popolare e lo sdoganamento mainstream della locuzion e, tipica del lessico giuridico, di “bene comune ”. Ma che cos’è un bene comune? Intu itivamente, bene comune rimanda a un immaginario fatto di fiumi, boschi, prat i, vecchie mulattiere e spiagge cristalline, e sta di fatto a indicare un vasto e variegato grup po di beni cosiddetti indisponibili, inal Una carica propulsiva enorme, che ienabili e si è inservibili in termini di profitto. Nel diffusa velocemente, diventando persino tempo si è voluto distinguere i beni comuni di moda. E, proprio per questo, risu tout court, ltando come le risorse naturali, dai beni a volte annacquata: con la lodevole comuni ecceurbani, che ricadono nell’ambito zione della delibera del Comune più vasto di di Napoli un diritto alla città. sugli usi civici, capita infatti sempre più spesso che la retorica sui beni com Che un bene sia comune può non uni essere subito evidente; anzi, venga scopiazzata da amministraz ioni e quasi sempre lo diventa fond azioni private, in un clima di rinn ovalotta, gruppi eterogenei si quando è a rischio in mento apparente dove piogge di bandi e possono trasformare in vere e qualche modo. Nascono regolamenti sull’uso comune dei beni serproprie comunità. allora le battaglie in difevono solo a dare una nuova veste anà unit ai vecchi E si tratta di com sa dei beni comuni, pormodelli di partenariato pubblico-pr ivato. che molto variegate: dai giotate avanti da collettività Fra tante lotte vive e in salute, dun que, vani di Gezi Park a Istanbul composite che improvc’è pure il tentativo di disinnescare le potenai Sioux che negli Usa provisamente condividono zialità teoriche e pratiche che i ben i comuni teggono la loro terra, fino ai un percorso politico; e, han no dimostrato di avere nelle centinai allo tono resis che i a valsusin nell’unione data dalla di lotte che hanno ispirato, in Itali . cità velo a ’alta e nel dell pio scem mondo, magari appiattendole sul discorso Tutte però di base rivensecu ritario del decoro urbano. E forse, più dicano il diritto all’uso dei che i beni in se stessi, è proprio il comune beni in un’ottica di superaad essere oggi terreno di conflitto . mento dei vincoli imposti in , dalla mera proprietà alcuni casi mettendo in diata ma scussione non solo la proprietà priv zione dire sta que in È ale. stat anche quella attano che le battaglie sui beni comuni imp spesso anche sulle forme organizzative, ocrazia intrecciando esperimenti di dem . diretta e solidarietà mutualistica

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Biologico

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Wolf Bukowski

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C’

bra è una pubblicità, in radio, che sem di è tà real In o. ogic biol vino di parlare voce dà ; rnet inte ione ness con di un fornitore ndica di a un ipotetico produttore che rive nonno, sencoltivare «come mio padre e mio e che il clud za usare prodotti chimici» e con , «conenza vino va «condiviso», e, di consegu atura. pigi a dell divide» sui social il momento e nom il po cam E qui entra finalmente in non hé perc rio Prop dell’operatore di rete. solo un’idea promuove un prodotto reale ma assumerlo o iam poss », dere forte da «condivi è diventache ciò di ne azio pizz dunque quella nostalgia, oltre come stereoti o. che intrinsecamente reazioto il biologic enram chia ha che o ogic biol un di naria, è anche falsa. a Si tratt da cui è e alist ient amb ze istan Dal movimento che mirale rrito te sma i ann li neg va a una condivisione dei saperi nato come movimento contadino noche rno alla Settanta. Quelle istanze, tutt’altro (tradizionali e innovativi) e a un «rito ro ne futu azio un o alien stalgiche, erano proiettate vers terra» che era anche rifiuto dell’ iuttiv llo prod il que a to ge in cui si sarebbe abbandona del lavoro dipendente, si giun potenla «condismo capitalista per usare «le nuove scimmiottamento alienante che è ato o la graf foto nza, to zialità offerte dalla scie visione» sui social: il piat vita, e dunque depolitifacebosu g min », strea ’arte dalla tecnica e dall «pigiatura dell’uva» in cizzate. A che scopo imNero Alce dall’ a ilepass priv si o chi seppellire i «vec ok. Allo stesso mod pegnarsi per una soluchio mar il 2004 dal orti : rapp oggi ti di gi» e «i consun di allora a quella zione collettiva, difficile ad o man e in ato legg si e pass è com llo si», fra le clas da raggiungere, quando è del sioux a cava accomoda in un articolo del 1974 che aziende del mondo Legacoop, e si possibile raggiungere un superracconta le prime mosse di obiettivo come costosa nicchia all’interno dei indi vidu ale qui sono, quella che sarebbe divenmercati di catena. Supermercati che e ora? Salvare la salute del i di evol tata, di lì a poco, la cooguarda caso, tra le aziende più colp pianeta (provarci) è da alla sono e suolo, dedite com perativa Alce Nero. Erano ingenui, mentre per salva- consumo di ita espansione. infin ria aspirazioni collettive, e prop re la propria salute basta quindi politiche, mentre spendere un po’ (o molto) quelle attuali sono indidi più al supermercato. Poco imp orta che quell’obiettivo viduali, legate allo stile di individu ale sia illusorio, visto che in un pian eta devastato non si salva nessuno che apparte nga a un target da supermercato: gode egualmente di ottim a stampa. Proprio perché è concimato dal mar keting, il biologico di oggi sostituisce il coraggio di futu ro con la proiezione nostalgica verso le generazioni che coltivavano senza prodotti chimici. Però, se il viticolto re dello spot ha meno di un secolo d’età, è assai probabil e che il padre e il nonno abbiano abusato allegramente di prodotti di sintesi; e

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Cambiamento “T

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Giulio Calella

here is no alternative”, fu lo slogan coniato dal primo ministro britannico Margaret Thatcher negli ann i Ottanta mentre proponeva privatizzazioni e politiche liberiste. Poco dopo, nei primi ann i Novanta, il politologo Francis Fukuyama scris se La fine della storia proclamando, dop o il crollo del regime sovietico nel 1989, l’eco nomia di mercato capitalistica come l’insupe rabile orizzonte di tutti i tempi. In questi trent’anni in realtà la stor ia non ha mai smesso di ribellarsi alla sua fine, e più volte sono emerse lotte e idee per “un altro mondo possibile”. Ma le sentenze provvise esplosioni di fenomeni elet di Thatcher torali e Fukuyama, insieme alle rivoluzi nuo vi, sfociati in alcuni casi nella nasc oni fallite o ita di tradite del Novecento, hanno defi governi inaspettati. Ma se non si nito i nuovi immagina orizzonti di quelli che erano i part mai di poter cambiare gli elementi iti di sinistra strute trasformato la stessa contesa elet tura li della produzione e della politica torale nei che paesi occidentali in semplice “alte creano le diseguaglianze, prevale rnanza” di l’idea che governo, con sostanziale continu sia esattamente quell’unica società ità di politipossibiche concrete. le a esser stata tradita, e che basti rompere con le caste e le cosche perché ven Pian piano nel senso ga fuori, pensiero a lungo termine sbefcomune ha prevalso l’iqua si naturalmente, la promessa cap tore italista feggiata. È ciò che lo scrit dea che a livello politico di libertà individuali, economia dell a conoMark Fisher ha definito Reail futuro potesse essere scenza e merito. E se l’unica raziona lità è lismo capitalista, un sistema solo la reiterazione di ciò sem pre quella del mercato, allora si cam bia nel quale viene incentivato il che esiste già. Il presente tutto per non cambiare nulla, e può autoconformismo e il culto delle è divenuto l’unica tempodefinirsi “governo del cambiamento ” anche variazioni minime, e dove è ralità possibile, la memoque llo composto da chi taglia le tasse aimm e facil ai ric«più o diventat ria del passato è stata richi, chiude i porti ai migranti in fuga che do mon del dall fine a la ginare mossa e la possibilità di un povertà e lascia invariata la precarie La . mo» talis tà capi del del la fine mercato del lavoro. crisi economica iniziata nel Per poter cambiare davvero occo rre che 2008 ha tolto la copertura nien te sia definito naturale, perché nien te ideologica sulle speranze possa passare per immutabile. nel futuro, ma non ha minato i presupposti strutturali di quel realismo. Anzi, che “too big to ci è stato spiegato che c’erano ban ativa. fail”, che era impensabile un’altern di vita e la oni dizi con e dell nto ame Il peggior finito per geneperdita di prospettive hanno però imi chi ha min i rare rabbia, riducendo a consens vita a imdo dan e governato in questi trent’anni

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Democrazia diretta

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Giuliano Santoro

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«L

a classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla mac in terla met e ta pron e a china dello Stato bell o cald a se scris fini» ri movimento per i prop Karl Marx ne La Guerra civile in Fran gi, Pari di une Com a dell o cia a proposit e di primo esempio di presa del potere l’esempio dell’avverarsi rie ona luzi rivo ni uzio istit di one costruzi della «democrazia del zia diretta. ispirate al principio della democra pubblico» teorizzata are nella Non bisognava accontentarsi di entr politologo Bernard dal ve ististanza dei bottoni ma inventare nuo in. Sorretto da una Man onimento tuzioni. Per capire come quel prop a che disprezza i ttur stru gna partire possa essere stato pervertito biso vincoli organizzativi, za. Il dall deperimento della rappresentan izdribbla gli impegni concreti e teor no della voto alle elezioni, teorizza il deca M5S il e, za l’inutilità del radicamento real l’atto che sociologia Alessandro Pizzorno, è otere di impedisce il costituirsi del controp ione che la unisce più persone nella convinz letto all’e ce ntis cui si parlava prima e gara loro scelta serva a scegliere ento mom il re faccia seguito un mero libertà assoluta. Esaspera i governanti e indirizzare le edisce rapp orto di del voto, o meglio del televoto, imp pote re. Se decisione verso la direzione salta stata è che così è e: il rapporto il tra di formulare domand auspicata. Dunque, la cesdel u ssea Rou rma tafo potere costituente e concepita la piat sione di potere presuppone pote ali) di re cost M5S, priva di luoghi (seppur virtu ituit o, se non una relazione solidale tra stre che fine di ita forn e pari tra si sviluppano forme di confronto votanti, un contraltare che sta nel chi a si ellar app di solo part ono ecipazione dal basso consent conferisce grande imporma «dedei cittadini, istituzioni palazzo. Quella che Di Maio chia tanza ma anche molta sogno di orizzontali e alternative, mocrazia diretta» è l’avverarsi del delicatezza agli istituti nessione con l’imperfetto meccanismo ogni uomo di potere: essere in della democrazia rapprela posia abb sti della delega si inceppa, con l’elettore senza che que sentativa. Non esiste pree altri ad e zion diviene puro arbitrio. La sibilità di percepirsi in rela ferenza elettorale senza . ttivi colle prima forza politica italia- organizzarsi in corpi un progetto collettivo na, il Movimento 5 Stelle, che riequilibri i rapporti dichiara di voler mettere di forza ed eviti il più in pratica la «democrazia diretta» . Questo possibile che alla delega proponimento dovrebbe realizza rsi attraverso l’uso taumaturgico degli strumen ti digitali. Alla partecipazione subentra la com unicazione. I partiti diventano agenzie di promozione. Ai cittadini resta il compito di ratificare decisioni prese da altri. La democra zia diretta del quale si fa portatore il M5S è

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l Parlamento europeo ha inviato nel 2013 alla Commissione europea una racc omandazione finalizzata alla redazione di uno statuto della mutua europea. Tale prop osta dovrebbe tenere conto delle particola ri norme di funzionamento delle mutue in qua nto queste «forniscono una vasta gamma di servizi assicurativi, servizi di credito e altri servizi» su base solidarist istic ica a e finanziamento collettivo. Tra questi “altri servizi” quelli sani tari occupano in Italia un ruolo fondamental e. In un progetto di ricerca svolto su incarico della fondazione Cariplo e intitolat o La rinascita del mutualismo si scrive che «in quanto rico icon ndu duccibi ibili li alla categoria degli enti mutuali stici, le fondazioni possono essere a pieno titolo riconosciute come componenti del terzo settore», espressione che vuole richiamare la «terzietà degli enti mutualistici sia rispetto al privato sia rispetto al pubblico». Se pensiavenconcetto e alla pratica di mutualismo mo che in Europa, sulpo cam in tti profi di ve ga oggi dalle aspettati la base dei dati della Fezioridu ente segu con con sociale e sanitario derazione internazionale come lo ne, o cancellazione, del welfare così per l’assicurazione cooabbiamo conosciuto. Di fronperativa e mutualistica, le Eppure il ritorno alle origini del mov imenallidisce società mutualistiche pos- te a tali progetti imp to operaio, là dove tutto ebbe inizi o, si difcodel one ensi dim la e anch sono contare su 400 mifonde e si radica nel nostro Paese. Esiste un operativismo storicamente liardi di euro di premi racmutualismo conflittuale che mette in pratiin Italia, che e ato rmin dete colti, ci rendiamo conto ca esperienze di solidarietà dal bass o direttaa fine 2015, generava un fatche l’insidia principale al mente tra coloro che hanno pagato e contiito turato di 72 miliardi rifer nuano a pagare la crisi economica e gli effetti esolo alle prime 250 coop delle politiche neoliberiste; tra chi sper ime ples nrative con profitti com ta forme diverse di produzione e redi strib uLe oni. sivi pari a 382 mili zione delle risorse; tra chi mette in pratica un Coop sono in effetti azienagire collettivo improntato all’autor ganizzatali e com ite gest de globali zione e all’autogestione democratica. alcato mer un in e inserite Un mutualismo impregnato dell’asp iratamente competitivo dove zione alla trasformazione sociale che quin fatta e vien a renz diffe la di recupera la sua origine e la sua potenziadall’aumento della produt- lità. E che iniz ia a sperimentare, accanto a tività e dalla riduzione del forme di economia sociale e solid ale, ancosto del lavoro. che la “forma rivoluzionaria” di nuo ve istituzioni per una nuova società. Un mutualismo politico.

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Salvatore Cannavò

Mutualismo

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Precarietà

Lorenzo Zamponi

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to il el 1997, anno in cui viene approva del cato mer del me rifor di Pacchetto ra ministro lavoro che porta il nome dell’allo ano entr ici” “atip i tratt con i , Tiziano Treu ano e itali ento inam ’ord nell ente iam massicc quella a eme la parola “precarietà” appare insi La de ine pag “lavoro” solo per 36 volte sulle mpa acco ce, Repubblica. “Flessibilità”, inve rica reto La oli. gna “lavoro” in ben 487 artic ministro: dominante è illustrata dallo stesso l’occupaola agev si ione «con la flessibilizzaz il trend hé perc nnio dece un zione». Ci vuole si parla a, volt a prim la per , 2006 si inverta: nel sull’onda afora più di precarietà che di flessibilità, degli albori del grillismo, come met vediidici prov il giur 30, ci, e omi legg la econ tro tti con rica dei aglia della batt dell’insieme Il ni. usco è sottomento sul lavoro del governo Berl e perfino esistenziali a cui ognuno c’è : 2012 petizione rapporto si ribalta nuovamente nel posto nel meccanismo della com rica reto la e da salvare l’Italia dallo spread, individuale globale. rale sulla realtà della flessibilità torna a prevalere Il senso comune non è un dato natu 2015 aglia Nel . batt di ario po concreta di chi vive da prec a cui adeguarsi, ma un cam e si torna a ano arriva il Jobs Act di Matteo Renzi prodotto dai conflitti che attravers coere tend con fino parlare di precarietà, la società, uno spazio da posizione strumentale ento cim i nos tra rico di ggio i al sostanziale pare struendo meccanism al consenso, che inseil racdue termini nel 2018. collettivo in cui le persone trovino gue un cambiamento del e a cret con cen il vita fa, ria i Venti ann conto della prop nel senso comune. La ifica sign rlo ifica la Mod a rla. brav liora cele trosinistra modo per mig narrazione della flessibirio prop sul are er gioc lead a il rio oggi ersa tà; flessibili spostare l’avv lità e della competitività, avere la del più grande movimento della nec terreno. Poi, certo, bisognerebbe essi tà di ada tdi destra radicale dal docapacità di sfidarlo. tare completamente le poguerra, Matteo Salvini, nostre vite alle necessità durante i negoziati sul del capitale globale, ormai, non regg e più governo segnala come neanche a destra. A invertire que l tren d sono prima urgenza per l’ese stati venti anni di battaglie sociali. L’ico prena di «di cutivo il fatto che San Precario, creata dagli attivisti dell a man Una ire». carietà si muo festazione del primo maggio mila nese MayDay, è arrivata a farsi evocare anc he da chi un contratto di lavoro non ce l’ha ma subisce le stesse logiche di sfruttamento, come gli studenti dei movimenti dell’Onda tra il 2008 e il 2011, o da chi un contratto stab ile ce l’ha ma è tutt’altro che “garantito”, com e i metalmeccanici ricattati da Sergio Mar chionne alla Fiat. E è approdata perfino nell e piazze

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Reddito

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Gaia Benzi

eddito garantito, o anche: reddito incondizionato, di cittadinanza, di esistenza, reddito minimo universale, reddito di dignità, di inclusione, e così via. Più semplicemente, reddito di base: uno strumento di fiscalità redistrib utiva in mano allo Stato o a un’istituzione pubblica più o meno loca le, che investe un certo numero di beneficiari con lo scopo di gara ntirne la sussistenza. Un’intuizione di marca progress ista che compare per la prima volta sul finire del Settecen to in Francia come misura di contrasto alla povertà, e che riemerge spesso nella storia del pensiero economi co: soprattutto in periodi di crisi, quando un elevato tasso disoccupazione si somma all’aumento dell e disuguaglianze – quando cioè il lavoro scarseggia e la piena occupazione resta un miraggio lontano – l’ide a di eliminare la povertà dando dei soldi ai poveri torna a sembrar e terribilmente sensata. Tuttavia, il reddito di base non è una semplice elemosina. Nella sua formulazione più avanzata e radicale, il reddito è uno strumento di conflitto, pensato per libe rare uomini e donne dal ricatto del bisogno e dalla necessità di lavo rare per sopravvivere. A volte è inteso come misura universale, indi viduale e incondizionata, altre è pensato per platee di beneficiari più ito di il nome (reddito di inclusione, redd ristrette, ma in ogni caso quale rtà, libe di cittadinanza) e la promessa ha una valenza propula Nell . dole allo le efficace specchietto per siva, di emancipazione ivi osit disp i amb entr pratica, però, sono e autodeterminazione: vifinalizzati all’asservimento degli indi se le esigenze materiali solo non che , cato mer di dui alle logiche dell’individuo sono già ito alla subordinano l’erogazione del redd soddisfatte, aumenta il azione ccup diso alla e e iliar fam situazione suo potere contrattuale o conclamata, ma addirittura obbligan nei confronti del mercato ue lunq alla disponibilità a lavorare a qua del lavoro e ha più tempo e. condizione – anche gratis, se serv a disposizione per vivere la Con questi parametri, il reddito non sua vita e lottare per i suoi ica, è altro che l’ennesima toppa familist diritti. Bello, no? are welf un di ristretta e condizionata Bello. E infatti le proilità al collasso, che aumenta la ricattab poste di legge avanzate in del a citiv coer a forz dei lavoratori e la tal senso in Italia da Pd e e di mercato. Da strumento di conflitto CinqueStelle ne conservano ito di redd il ri, rato lavo dei ne emancipazio ista rnal pate ivo osit disp così nta base dive negli olio , ertà pov a dell nto ame iplin di disc ta. ingranaggi della macchina capitalis

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Marie Moïse

Violenza sulle donne L

un’emera questione è capire se si tratti di genza o di un’urgenza. come Affrontare la violenza sulle donne mefeno un di are parl ifica un’emergenza sign irven inte che a rest non cui no imprevisto, su o. piut com fatto a pre sem si qua re per punire, o solo Nello stato di emergenza emergon Quelle a. lem prob del enti evid più le forme che si o che non lasciano i segni sul corpo, contipiù, compiono lontano dagli occhi dei adere perv a nuano, ignorate o normalizzate, za gen mer all’e a la vita delle donne. Chi grid nte ilme erib pref i icid parla di stupri e femmin stra per o nier stra uno quando a compierli è ta con Non . ana itali na don da a danno di una subito vioche 4 donne italiane su 5 abbiano icidi su 3 min fem 2 che e , ano lenza da un itali e. Tanto la avvengano per mano di un familiar rali pundestra populista quanto le forze libe e voci che si successo anche me. L’insieme dell ergenza tano il dito sull’immigrazione – l’“em io politico spaz lo nte sono prese autonomame immigrazione” – costruene sue radall sin a lem prob ha fatto emergere il politica dell’emergenza do il mito che la violenza strutturaone ensi dim sua a dici, ovvero sin dall prova a occupare lo sulle donne sia propensiorelazioni e dall che, o men feno le. È quella di un spazio delle dirette inne degli uomini stranieri, a il sistema personali alle istituzioni, attravers teressate, togliendole in particolare di cultura ionaintero, o meglio, ne garantisce il funz la voce o peggio interislamica. Con la compliin piedi se le mento. Il capitalismo resterebbe venendo solo quando, cità dei mass media e dei la violenza a donne non fossero costrette con insieme alla voce, hanno generatori di fake news, do, nutrire, mon ro a mettere al ormai perso la loro stessa riprodurlo, ovve invocano la castrazione che il vite le ente vestire, soddisfare sessualm vita. Ma questo accade chimica, i militari per le capitalismo stesso sfrutta? 150 volte all’anno, 1 volta strade, l’inasprimento mergenLa violenza sulle donne non è un’e ogni 2,5 giorni. Altro che delle pene, le espulsioni viviamo. cui in ione ress za, ma il sistema di opp fenomeno imprevisto. e i corsi di educazione lo. icar srad di L’urgenza è quella Parlare di urgenza, ai valori occidentali per allora, significa riconorichiedenti asilo. scere la necessità impellente di affro È questo il modo ntare il problema, ma nella sua interezza. L’urgenza in cui si alimenta è quella di chi, negli ultimi due anni, ha riempito le piaz allo stesso tempo lo ze e i social network na con don la parola d’ordine “Non una di men a stereotipo dell o”: non lasceremo che un’altra vita soltanto ven vittima indifesa da ga portata via dalla violenza, senza aver lottato per lei, salvare. E così, la per tutte noi. Quel noi si è coagulato nel momento in cui l’esperienza diretta di chi ha subito violenza è tornata a uscire allo scoperto, nel guardarsi l’un l’altra e dirsi #metoo, è

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dito, il furto di vite in cambio di un reddito. Senza sinistra è non ce la faremo mai. Senza sinistra è quasi tutta la sinistra che si vede qui e ora, che orgogliosamente si chiama sinistra sì, ma i mercati, sì, ma i piccoli azionisti, sì ma l’azienda, sì, ma l’ordine, sì ma il decoro. Senza sinistra è si ma. Senza sinistra è il discorso della pena e del dolore, commozione, partecipazione, solidarietà che si arresta di fronte al discorso del conflitto, dei rapporti di forze. Sì, ma senza sporcare. Sì ma senza far danni. Senza sinistra è il contagio dello scandalo padronale: «Ecco, scioperano sempre al venerdì». Senza sinistra è ti pago in visibilità. Senza sinistra fa curriculum. Senza sinistra è la rabbia privatizzata, rancore personale, odio singolo che non si incanala, senza sinistra like, senza sinistra soft, senza sinistra incrementa il traffico, sei felice? Fatturi? Senza sinistra è chiamare «privilegi» i diritti, senza sinistra è combattere – allora sì – i privilegi. Senza sinistra è una pratica quotidiana di ognuno di noi, di chi se ne accorge, di chi non se ne accorge, di chi passa per caso e ci cade dentro, e sangue, e dita, e fratture multiple. Senza sinistra è un tombino per la strada, pertugio e trappola. Colla densa intorno, ambiente naturale, habitat. Così senza sinistra da faticare a immaginarla. È il perfetto romanzo del nemico: se il migliore dei mondi possibili si misura in fatturato, eccoci, questo lo è. Senza sinistra è ciò che non funziona applaudito come un successo, il vecchissimo venduto come nuovo, schiavitù e buoni pasto per lo zio Tom. Molto altro, oltre a questo, è senza sinistra. E senza sinistra non se ne esce.

Alessandro Robecchi, scrittore e autore satirico, è nella squadra di sceneggiatori che scrive gli spettacoli di Maurizio Crozza e collabora con il Fatto quotidiano. Il suo ultimo libro è Follia maggiore (Sellerio).

CORSIVO 75

enza sinistra è una pratica quotidiana affinata dall’esperienza, temprata dall’impotenza, morsicata dal bisogno. Senza sinistra è lo spuntone in acciaio sulle sedute pubbliAlessandro Robecchi che, alla stazione, sui muretti, accanto ai monumenti, dove si intende che il sostare improduttivo non è gradito agli sguardi, non conviene, turba l’ordine economico. Senza sinistra è il design cattivo, la panchina «antibivacco» per non farci dormire il barbone, è il gioco di tubi sulla grata che manda aria calda per farlo dormire al freddo. Senza sinistra è punizione costante, vigilanza, mercato. Senza sinistra è la casa sfitta. Senza sinistra è la moltitudine di poveri che difende il ricco e indica come nemico il più povero ancora, e poi quello più ancora, senza sinistra è il penultimo che picchia l’ultimo. Senza sinistra è la famiglia Joad dall’Oklahoma alla California a metà dei vecchi anni Trenta, senza sinistra è Josefa dal Camerun alla Libia al mare alla vigilia dei nuovi anni Venti. Senza sinistra è l’algoritmo, il braccialetto elettronico, la telecamera. Senza sinistra lo straordinario estorto. Il cottimo risorto? Senza! Il «meglio che niente»? Senza! Senza sinistra gospel. Senza sinistra blues. Senza sinistra è il trucco del portafoglio con il filo, che scappa via quando ti chini a raccoglierlo. Senza sinistra è la favola eterna delle due fasi. Fase uno: sacrifici e poi vedrete che… Fase due… spiacenti non si può fare. Senza sinistra è la truffa del merito, la retorica del merito, la vergogna del merito, una gara in cui si fissa il traguardo, ma non il punto di partenza. Senza sinistra è il taglio di tutto ciò che è pubblico, senza sinistra è le mani che si allargano e la faccia impotente: «Eh, è il mercato, che ci vuoi fare». Senza sinistra è non volerci fare niente, infatti. Senza sinistra è l’accumulo di vite per fare un red-

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Senza sinistra S

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(RI)PRODUZIONE

Non è un paese per fare figli Sì, l’Italia ha un problema demografico. Ma non date retta alla propaganda moralista delle destre di ogni tipo: per incentivare le nuove nascite bisogna riconoscere le famiglie non tradizionali e lottare contro le ingiustizie

è medico specializzando in sanità pubblica, fa parte dell’esecutivo nazionale del coordinamento “Chi Si Cura di Te”.

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P

resentando in diretta televisiva le prime bozze del cosiddetto «Decreto Dignità» e posto di fronte all’insinuazione che questo contenesse misure «da comunisti», il ministro del lavoro e “capo politico” del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio ha spiegato che la “stabilità” è necessaria per permettere ai giovani di fare figli, e che non può esserci crescita economica senza quella demograGiacomo Gabbuti Lorenzo Paglione fica. Per l’ennesima volta, anche in questa occasione Di Maio ha ribadito di non essere «di sinistra», ma di voler sostenere quei diritti sociali che la sinistra ha tradito, incluso quello «di fare figli». Negli stessi giorni uno spot della Chicco auspicava un nuovo “baby boom” al fine di rilanciare un Paese in crisi sollevando un vespaio di polemiche. Impossibile non pensare al patetico lancio del Fertility Day nel 2016. Quella campagna, voluta dall’allora ministra del governo Renzi, Beatrice Lorenzin, riduceva il problema demografico a scelte, comportamenti, stili di vita sbagliati dei giovani italiani (in primis, ovviamente, delle donne). Oltre a poche e occasionali forme di sostegno monetario e alle promesse di asili nido, anche per il centrosinistra la crisi delle nascite si Giacomo Gabbuti risolverebbe con campagne d’opinione volte a convincere i è dottorando mammoni italiani a metter su famiglia (e magari le donne a di storia economica starsene a casa con i bambini). all’Università di Oxford. L’idea conservatrice e sessista sottostante questa impostaLorenzo Paglione zione è stata analizzata. Lo stesso non si può dire del problema

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demografico. Le politiche nataliste sono sempre state un cavallo di battaglia dei nostalgici del Ventennio. Tuttavia, la dinamica demografica italiana degli ultimi decenni offre motivi di preoccupazione oggettivi. Ad esempio, è difficile attribuire simpatie mussoliniane al passaggio conclusivo dell’editoriale che l’Independent ha dedicato al crollo del Ponte Morandi di Genova. Tracciando il fosco quadro italiano, il quotidiano inglese ha ipotizzato che dietro molti dei problemi del nostro paese vi sarebbe la «disastrosa demografia». L’«invecchiamento della popolazione», sostiene il testo, rende «tetra» la prospettiva di migliori servizi pubblici e «improbabile» un miglioramento delle «condizioni di vita». Indicheremmo nelle politiche economiche e sociali la causa prima e più immediata delle disastrose prospettive italiane, ma che quello demografico sia un problema non sembrano esserci più dubbi. Non siamo più negli anni Venti del Novecento, quando, come ha spiegato la storica Anna Treves, le ansie demografiche erano basate su previsioni dimostratesi del tutto errate. In un’Italia che cercava nel “colonialismo demografico” una soluzione alla sovrappopolazione, le politiche nataliste vennero motivate dal terrore delle culle vuote e di un più generale “declino dell’Occidente”. Dopo una riduzione avviatasi a metà degli anni Sessanta, negli anni Ottanta il tasso di fecondità totale (definito come il numero medio di figli per donna in età riproduttiva) scese stabilmente sotto 2: l’Italia si ritrovò tra i paesi meno fertili al mondo. Negli ultimi due decenni c’è stata una lieve ripresa, complice anche l’apporto delle famiglie immigrate. Ma è dagli anni Novanta che il saldo naturale (la differenza tra natalità e mortalità) porta il segno meno. Dall’Unità era accaduto solo nel 1917-18, per tutt’altre cause. Pur essendo lontani dalla denunciata “sostituzione etnica”, sono stati i flussi migratori a tenere in positivo la bilancia demografica (almeno fino al 2015).

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Come illustrato dal demografo Francesco Billari al convegno per i novant’anni dell’Istat, in questi anni le migrazioni hanno portato al passaggio dalla demografia lenta, fatta di fenomeni sociali prevedibili, a una veloce, che richiederebbe rilevazioni più frequenti dei soli censimenti (basti pensare a quanto poco sappiamo dei nostri concittadini che si spostano all’interno dell’Ue). Non solo: in questi stessi decenni, spiega Billari, nei paesi economicamente avanzati «i differenziali tradizionali di fecondità vengono ribaltati». Da un lato, alla faccia delle letture clerico-fasciste, sono i «comportamenti familiari meno tradizionali» a far registrare maggiore fertilità. Dal 2008 al 2016, i nati fuori dal matrimonio sono cresciuti di 30mila unità, mentre le nascite totali sono calate di 100mila. In generale, tra i paesi più ricchi, quelli con il benessere più elevato mostrano più alti tassi di fertilità. Soprattutto, all’interno di questi paesi sono i più ricchi e istruiti a fare più figli. In un articolo del 2017, lo stesso Billari e Agnese Vitali mostrano come questa correlazione sia osservabile anche nel nostro paese. Non solo i dati sulla fertilità a livello provinciale evidenziano un ribaltamento delle tradizionali differenze nord-sud; allo stesso tempo, cambiano di segno le correlazioni con i principali fattori della fertilità. Mentre diventa fortemente negativo l’impatto delle differenze di genere nel tasso di occupazione, cresce

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Dalla demografia lenta a quella veloce

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SUPERGA

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CENTRO

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l’importanza dei figli nati fuori dal matrimonio, e diventa determinante la ricchezza media. Illuminante, in questo senso, è un altro lavoro di Billari (qui con Vincenzo Galasso) in cui si utilizzano come “esperimento naturale” le riforme pensionistiche Dini e Amato, con il conseguente peggioramento delle prospettive dei giovani, per dimostrare il forte effetto negativo di un peggioramento delle condizioni di vita sulla fertilità in un paese avanzato. Dietro il problema della bassa natalità italiana, dunque, si nasconderebbe una questione più complessa: influisce la diseguaLE DISEGUAGLIANZE glianza di genere (diventa sempre più rilevante il problema del SOCIALI INCIDONO cosiddetto double-shift: le donne che sempre di più entrano nel SU QUANTO SI VIVE mercato del lavoro senza perdere il monopolio di quello domestico E COME SI MUORE: e di cura) ma un ruolo ce l’hanno anche le prospettive stagnanti ISTRUZIONE E REDDITO per i giovani e le crescenti diseguaglianze territoriali. Queste ultime SI RISPECCHIANO non riflettono più, come nell’Italia del dopoguerra, fattori culturali, SU SALUTE E LONGEVITÀ ma sempre più condizioni oggettive e materiali, come le prospettive occupazionali e l’accesso ai servizi (si pensi ai citati asili). Da quest’ottica, pare utile leggere la questione con le lenti delle “diseguaglianze sociali in salute”, filone di ricerca che negli ultimi anni ha posto l’attenzione sui determinanti sociali dei crescenti differenziali di salute all’interno di città e territori. Fattori come istruzione, condizioni di lavoro, reddito familiare, incidono non solo sulle possibilità degli individui, ma sulla loro stessa salute e longevità, accanto alle caratteristiche genetiche e a fattori non modificabili come l’età. Lo studio delle diseguaglianze di salute dimostra come siano queste diseguaglianze (tra persone, territori, regioni) a spiegare sempre di più quanto si vive e di cosa si muore,

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anni

Differenza nella speranza di vita a 35 anni nei quartieri di Torino

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PORTA PALAZZO

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Passando dai quartieri più ricchi alle periferie più deprivate, lungo la linea del tram 3 di Torino si perdono quasi quattro anni di aspettativa di vita (Costa G., Stroscia M., Zengarini N., Demaria M., 40 anni di salute a Torino, spunti per leggere i bisogni e i risultati delle politiche, Inferenze, Milano 2017).

VALLETTE

77,8 anni

Tasso di fecondità totale

Differenza tra il tasso medio provinciale e la media nazionale. Elaborazione su dati Istat, basata su A. Vitali e F. C. Billari, Changing Determinants of Low Fertility and Diffusion: a Spatial Analysis for Italy, Popul. Space Place 2017, 23: e1998.

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Saldi demografici Italia, 1961-2017

10 8 6 Tasso di crescita naturale Tasso migratorio totale Somma

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nel nostro paese. Se già i dati censuari rivelano un importante gradiente nord-sud nell’aspettativa di vita, e una differenza di tre anni tra alto e basso livello di istruzione, ancor più impressionanti sono le differenze rilevate dal gruppo di ricerca animatore del portale disuguaglianzedisalute.it. I dati di Torino mostrano come, lungo il percorso del tram che parte dal quartiere ricco di Superga e si dirige verso la periferia di Vallette, l’aspettativa di vita si riduca di un anno per chilometro. A Superga la longevità è in linea con la media nazionale, a Vallette si è fermi ai primi anni Ottanta. Tenendo conto dei sempre più numerosi studi sulle conseguenze di queste diseguaglianze sulla stessa salute dei figli (dal peso alla nascita, allo sviluppo psico-motorio, entrambi correlati ai livelli d’istruzione dei genitori), non è difficile ipotizzare un loro ruolo sulla stessa scelta di mettere al mondo figli, in un paese in cui tra i bambini e le loro famiglie si registrano i tassi di povertà più elevati. Se quello della demografia sembra destinato a diventare sempre di più un fronte caldo del dibattito italiano, non è detto si sia costretti a subire la stantia retorica reazionaria. Al contrario, la fertilità può diventare un terreno su cui rilanciare e portare nel senso comune la necessità di contrastare la precarietà lavorativa, perseguire una reale uguaglianza di genere, riaffermare il diritto a servizi pubblici efficienti e contrastare i crescenti divari territoriali dentro le nostre città e regioni. Superando una volta per tutte l’imbarazzo legato alla tradizione non proprio democratica di certa demografia e mettendo al centro dell’analisi le diseguaglianze socio-economiche, è necessario prendere sul serio il diritto (non certo il dovere) di avere figli.

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Il tasso di crescita della popolazione è ottenuto sommando il tasso crescita naturale – la differenza tra il tasso di natalità e il tasso di mortalità – al tasso migratorio totale – il rapporto tra il saldo migratorio (immigrati meno emigrati) e popolazione residente. I tassi sono espressi in valori ‰ abitanti.

ente

Speranza di vita alla nascita

della popolazione per regione, genere e livello di istruzione 87 86 85

Donne

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L’aspettativa di vita calcolata dall’Istat nelle singole Regioni mostra evidenti gradienti sia nelle disuguaglianze tra le Regioni, in particolare tra quelle del sud e quelle del nord, sia, all’interno delle stesse Regioni, tra persone con diverso livello di istruzione.

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Uomini

Livello di istruzione Alto Medio Basso

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Sardegna

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Piemonte

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Fonte: Istat

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atorio, escita totale

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La cura come business 82

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Prima erano lavori svolti gratuitamente dalle donne nelle proprie case. Poi i servizi di assistenza sono passati anche sotto il controllo del mercato. Un caso emblematico di monetizzazione di affettività e relazioni sociali

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Venezia e autrice di diversi saggi su lavoro domestico e discriminazioni di genere e razza.

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a cura come business, come occasione di fare profitti. Niente a che vedere con la cura come patrimonio dello stato sociale, del welfare pubblico o, magari, della solidarietà sociale. La prima sta cacciando la seconda, almeno dalla metà degli anni Novanta. E da almeno due decenni, i bisogni di cura di persone anziane o malate, bambini e disabili sono al centro del dibatto politico e Sara R. Farris Sabrina Marchetti accademico, soprattutto fra studiose e attiviste femministe. Nonostante tocchi la sfera intima e personale, sulla questione della cura sono in gioco non solo le misure di welfare ma anche, sempre di più, soggetti privati e for-profit che offrono servizi di cura di vario tipo. La presenza di attori così diversi ha innescato una varietà di processi il cui esito dipenderà dall’equilibrio che si stabilirà fra stato, mercato, famiglie e terzo settore. Nel corso del Novecento, in Italia e in Europa ci sono stati numerosi tentativi di sperimentazione sul tema della cura da parte di organizzazioni ispirate da ideali comunitari, di solidarietà e per la valorizzazione del lavoro tradizionalmente svolto (gratuitamente) dalle donne nelle proprie case. Ma a partire dagli anni Novanta si è progressivamente interrotta l’idea di una fornitura pubblica di cura, sia istituzionale che partecipativa “dal basso”. Tanto nel caso della cura agli anziani che per quella dei disabili, le politiche si indirizzano largamente verso il modello del “cash for care”, ossia di un contributo monetario, invece che materiale, erogato a famiglie e persone con esigenze di questo tipo. Tale sistema ha progressivamente incentivato l’impiego di assistenti personali, su base privata e domiciliaSara R. Farris, Senior Lecturer re, da parte di chi riceve la cura, piuttosto che attraverin Sociologia a Goldsmiths so posti di lavoro gestiti direttamente dallo stato. Claire University of London, è autrice tra Ungerson nel suo saggio del 1997 Social Politics and the Commodification of Care, anticipa che attraverso quel’altro di In the name of women sto tipo di misure si passa da una visione “assistenziale” right (Duke University press). di chi necessita di cura a una visione di mercato, per la Sabrina Marchetti è docente di quale queste persone diventano “consumatori” che acSociologia dei processi culturali quistano il servizio di cui usufruiscono. all’Università Ca’ Foscari di

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Questo stesso processo riconferma, seppur con modalità nuove, la centralità della famiglia quale unità principale per il soddisfacimento dei bisogni di cura. Ne è infatti responsabile direttamente, ad esempio nel sempre maggiore coinvolgimento dei nonni per l’accudimento dei bambini, oppure indirettamente tramite la gestione dell’impiego di una persona esterna. Si compie così una parabola per cui a una fase iniziale di fuoriuscita della cura dall’obbligatorietà per le donne e di presa in carico in senso comunitario o istituzionale, fa seguito un nuovo familismo andato di pari passo con la creazione di una sfera di servizi di assistenza e cura in un regime di mercato.

Aziendalizzazione della cura In Australia, Usa, Canada, e in diversi paesi dell’Europa occidentale si assiste a un fenomeno di “aziendalizzazione della cura”. Il settore della cura è uno dei pochi che ha resistito alla crisi economica globale iniziata nel 2007 e ha attratto l’interesse di investimenti e imprese. Secondo il Global Healthcare Private Equity And Corporate Report, gli investimenti privati nel settore, includendo la cura per anziani e disabili, hanno raggiunto la cifra record di 36.4 miliardi di dollari nel 2016. Il 40% degli investimenti sono stati fatti da aziende europee. Si tratta, in pratica, della sempre maggiore (e aggressiva) presenza di aziende, incluse aziende quotate in borsa, in questo ambito di servizi. Tali aziende non stanno semplicemente allargando il ventaglio di servizi offerti, ma anche modificando radicalmente le condizioni di chi lavora in questo settore nonché le caratteristiche dell’assistenza che viene fornita.

In Italia le richieste nel settore della cura sono quasi interamente soddisfatte dall’impiego di donne migranti, specialmente di origine esteuropea, come assistenti familiari. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione del 2017, sono per tre quarti straniere le 739mila persone occupate come colf o badanti. Le loro remunerazioni sono generalmente molto basse, a causa della vulnerabilità I SOGGETTI CON e precarietà del lavoro offerto da lavoratrici straniere spesso senza BISOGNI DIVENTANO permesso di soggiorno. Questo modello tuttavia è lungi dall’esse“CONSUMATORI DI CURA” re interamente “in mano alle famiglie”, come spesso si dice, poiché E CHI LAVORA IN QUESTO sempre più amministrazioni municipali, associazioni, aziende e SETTORE, SOPRATTUTTO cooperative si inseriscono in questo mercato con diverse modalità. DONNE MIGRANTI, È L’aziendalizzazione della cura è evidente nella diffusione di ditte SPESSO SOTTOPAGATA private che forniscono assistenza alla stregua di qualsiasi altro operatore nei servizi. Fra tutte spicca il caso di PrivatAssistenza, un’azienda che opera su tutto il territorio italiano in modalità franchising, con incassi di oltre 50 milioni di euro nel 2016. Fra il 2010 e 2015 il numero di sedi di PrivatAssistenza è raddoppiato (da 80 a 180) arrivando a 40mila clienti.

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Franchising, aziende e cooperative

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Ben sappiamo che il settore privato è già estremamente diffuso nel caso degli asili nido per l’infanzia, solo parzialmente sostenuti da finanziamenti pubblici. Per l’Istat nel 2015 solo il 36% degli asili nido era di tipo pubblico anche se le differenze regionali sono parecchie: i bambini sotto i tre anni accolti in servizi comunali o finanziati dai comuni variano dal 18,3% del Centro al 4,1% del Sud. Infine, anche le cooperative sociali sono un attore sempre più centrale in questo panorama. Secondo un’indagine ISMU/Censis del 2013, le cooperative rappresentano il 14% del settore della cura domiciliare dando lavoro a circa il 6% degli occupati del ramo. Le cooperative sono spesso, ma non sempre, assegnatarie di finanziamenti da parte di enti locali dopo un processo di selezione di tipo competitivo, per bandi. Ma non sono estranee a logiche di tipo aziendale nella gestione del lavoro delle operatrici e nell’impostazione del servizio. Nell’ottica di una sempre maggiore riduzione dei costi organizzano la turnazione delle lavoratrici, la divisione e l’organizzazione dei loro compiti, la gestione della durata e sequenza delle mansioni in un’ottica di efficienza e massimizzazione del rendimento, con un utilizzo sempre più diffuso di supporti tecnologici, sullo stile di ciò che accade in ambito industriale. Nonostante al posto di macchinari si trovino persone vulnerabili, in condizione di malattia e fragilità.

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Questo fenomeno non è privo di ripercussioni sul’“immaginario della cura”. Il progressivo uscire della cura dalla sfera del lavoro riproduttivo non retribuito non ha contribuito al suo ripensamento come attività collettiva e condivisa. La logica di mercato non è slegata da un approccio personalistico e anzi emula modalità familistiche per intercettare i bisogni dei “consumatori” della cura. È il processo di aziendalizzazione a trasformare l’immaginario della cura. Nella concezione tradizionale, la cura consisteva in una serie di attività di carattere fluido, con mansioni cicliche e ripetitive, senza tempi fissi, basate più sulla risposta alle esigenze che su decisioni prese a priori; e soprattutto come attività intima basata sul rapporto “a due”. Nella cura aziendalizzata invece i pazienti sono accuditi da diverse persone in rotazione, non per una esigenza di collettivizzazione ma nell’ottica della sione, tenerezza e accudimento, ma diplomi e certificacatena di montaggio toyotista, con con- zioni di competenze. Inoltre, le condizioni lavorative sia seguente svuotamento della relazione nelle cooperative che nelle aziende per la cura peggiorapersonale e della capacità di ascolto dei no progressivamente. Così come sta accadendo più in generale in vari ambiti bisogni. Le qualità richieste alle assistenti non sono qualità umane, di compren- della nostra vita personale e familiare, le mansioni, le persone e i gesti collegati alla cura tendono a non esser più visti come una relazione umana, ma come un pacchetto di “items” da scegliere da una lista premendo un pulsante, e a cui dare il proprio “like” a servizio concluso. Ma nel nostro ideale “paese di sinistra”, come vorremmo organizzare la cura evitando che ricada sulle donne come responsabilità e attività prettamente di genere senza svuotarne il suo carattere affettivo e riproduttivo? E come possiamo rispondere al bisogno di cura da parte delle persone più fragili in un contesto di costante riduzione della spesa pubblica?

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Catene di montaggio impersonali

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(E)MIGRAZIONI

Faccia Cos’ero? Un migrante economico. Uno di quelli che secondo i lupi mannari al potere non andrebbero accolti. Uno da aiutare a casa sua. Solo che quelli che dicono aiutiamoli a casa loro, mi avevano rubato i diritti e il pane

PCSP (Alegre Quinto Tipo) e Amianto. Una storia operaia (Alegre). Per Alegre dirige la collana di narrativa Working class.

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to sul confine. Tra Europa e Regno Unito, tra indagine in prima persona sul mondo della nuova emigrazione italiana in Gran Bretagna e travel-logue di fatica. Lavoro sfruttato come un mulo al minimum wage ma fingo di fare inchiesta. Nella mia testa ronzano appunti e pagine di diario; buste paga con un insurance number della previdenza inglese e deformazioni sarcastiche di lavori inuAlberto Prunetti tili, penosi e repellenti, eseguiti da un italiano immigrato oltremanica. Un laureato working class che invece di fare il dottorato va a Bristol a pulire i cessi e cerca Shakespeare nelle latrine. Me l’aveva promesso anche Alan Sillitoe nel suo strepitoso racconto La solitudine del maratoneta: «so che quando avrò perso mi toccheranno i più infami lavori di sguattero e lavacessi nei mesi che mancano prima che abbia finito di scontare la Alberto Prunetti, pena». Sono un europeo del sud, un fottuto perdente, nell’escrittore e traduttore, tica del neoliberismo, sull’onda del “There is no alternative” è autore di 108 metri. della Thatcher e del “We are all middle class” recitato come un The new working mantra da Blair. E se non vuoi proprio vincere (perché non hai class hero (Laterza), ambizioni da quattrinaio) allora sei un fottuto Chav. Un coatto,

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Illustra

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uno scarto della società. E questo sono per loro, per chi fa shopping e viene a svuotare la vescica passando davanti a me, al ragazzo col mop. Altro che cervelli in fuga e altre paraculate da quattrinai. A volte mentre passo una spugnetta blu su uno specchio rigato da schizzi di sapone mi vengono in mente le pagine di Faccia da turco, l’inchiesta del giornalista tedesco Günther Wallraff. Uno che si finse un lavoratore turco per indagare lo sfruttamento della forza lavoro immigrata in Germania. Magari, mi dico, me ne sto undercover. Sto realizzando uno stunt. Sono davvero un cervello in fuga, in incognito nel mondo della lower working class inglese. Sono come Orwell in Down and Out in Paris and London. Butterò via la maschera dell’infiltrato nei cessi e dirò: «sorpresa, sono il vostro antropologo preferito, raccontatemi la vostra storia e facciamo una bella fotografia per The Guardian». Magari. Il fatto è che non dovevo fingere di essere immigrato: lo ero davvero. Non dovevo neanche alterare il mio aspetto fisico: le spalle, la statura e i miei modi erano perfetti, in un contesto working class. Solo il mio inglese era pessimo, ma non dovevo mica parlare granché. Bin, trash, litter. Shit. That’s it. E quanto alla faccia, ho scoperto che a Londra la faccia da turco e quella da italiano si equivalgono. Fino all’intercambiabilità, al punto che chi scrive si è trovato a lavorare sotto un turco che si fingeva italiano. Sia quel che sia, greco, italiano, spagnolo o portoghese, ho camminato sulla pista di quei nuovi emigrati europei del Sud, più o meno giovani, che la crisi ha portato a guadagnarsi il mestiere di vivere lontano da dove sono nati. Storie che il giornalismo, trincerato dietro la formula caricaturale dei “cervelli in fuga”, non riesce a raccontare. Perché dietro i cervelli ci sono i cuori e i piedi e le mani. E anche quelli che hanno una misera borsa di studio (e non era il mio caso), per campare devono portare coi piedi quel “cervello in fuga” dentro un centro commerciale alla periferia di Bristol, dove le mani dovranno pulire tavolini per la paga minima sindacale. E mentre le mani puliscono, col cervello ripassi la lezione. Non quella da dare all’università. Quella da prendere all’agenzia interinale: se ti ammali, la prossima settimana non ci sono ore per te. Fair enough. E intanto alle spalle ti accusano di portare via il lavoro agli inglesi. Britain first, dicono. Via gli stranieri

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dal Regno Unito, dicono. Tu incassi, hai visto di peggio. Dalle profondità dei cessi di un centro commerciale, con una pettorina da cleaner, analizzi la merda dei culi inglesi e tenti l’exit pool: aruspice di una Brexit tutta da venire, vincerà il Leave o il Remain? Vince il Leave, ma tu te ne sei già andato. Sei scappato dall’Italia, te ne andrai anche dall’Inghilterra. Tornerai, ripartirai. Nessuna patria ti aspetta. Sei rimasto intrappolato. Non c’è più né Italia né Inghilterra, questi nomi di vecchi paesi del Novecento sono solo specchietti per le allodole. La realtà del nostro presente è la no man’s land del precariato globalizzato. Contrazioni violente e spasmi muscolari, boccate d’ossigeno e fughe che ti spingono a Parigi, a Berlino, a Barcellona, ovunque ci siano flussi di lavoro migrante. Andartene è diventata la tua strategia, la mobilità coatta è il tuo mestiere precario. Mentre te ne vai, prendi appunti, scrivi. Mentre stai e lavori, osservi, fotografi, annoti. Interpreti gli eventi della grande migrazione globale. Scavalchi i muri che cingono il continente, dentro e fuori la ri-nazionalizzazione delle masse e i suoi confini instabili. “Leave or Remain”: sono tre parole, non due e tu sei un partigiano dell’or. Sei l’alternativa al gioco dello spettacolo, dell’Europa vs Regno Unito. In quello spazio di un’alternativa possibile, in quell’or, trovi il tuo rifugio fragile, costruisci il tuo nido instabile di uccello migrante. Da lì vedrai la working class britannica assumersi le colpe del vaso di pandora aperto ai piani alti della società inglese. Blame the poor, da quella regola non si scappa, ormai. Nella tua fuga, calcando le periferie, lavorando come un precario lavora, ti troverai nel punto migliore per capire la realtà: sul confine. Dove si possono tessere relazioni e interpretare meglio gli eventi. Su un confine che sembrava essere scomparso e che di nuovo si riforma, come una macchina mitologica del capitalismo crepuscolare, a ogni meridiano.

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È la fuga dei cervelli, dicono. Imprenditori di se stessi, mica disperati. Startupper, mica criminali. Noi expat, loro migranti. Noi cosmopoliti, loro criminali. Macché. Operai eravamo, perché in una caffetteria inglese quello fai. Lavoro seriale in catena. Come fare la pizza ananas e cotto da Pizza Hut: prodotti surgelati che vengono lavorati in catena. Operai della ristorazione e delle pulizie, immigrati in un paese ultraliberista deindustrializzato e convertito a un’economia di finanza (per i ricchi) e di servizi (per i poveri). Pigs, eurosfigati del sud, ecco cos’eravamo. E intanto riempivano le retoriche di invasioni che non c’erano, lasciando intere zone dello stivale demograficamente svuotate. Un paese avvilito, un paese senza giovani, perché intere generazioni scappavano. Un paese per vecchi. Ci mettevano gli uni contro gli altri. Inglesi contro continentali, assunti dalla compagnia contro interinali dell’agenzia, Commonwealth contro europei. Europei del sud (camerieri) contro europei dell’est (muratori, badanti). Anche all’interno della stessa nazionalità ci mettevano in conflitto: erasmus contro workers. Studenti vs lavoratori. Anche se poi nel finesettimana spalla a spalla pulivamo tutti gli stessi tavolini dei vari burgershit.

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Quale fuga?

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Welcome nel regno dei bullshit jobs. Lavoracci di merda che toccavano a noi. Perché scappavamo dall’Italia? Perché in Italia era peggio. Peggio dello sfruttamento c’è l’inferno. «Vengo dal sud della Sardegna. Sono figlia di una casalinga e di un operaio. In Italia ho fatto diversi lavori: cameriera, bracciante, commessa in un negozio di tabacchi, guida turistica, educatrice per bambino, ecc. per otto anni ho lavorato in Italia e non ho mai avuto un contratto di lavoro, a parte durante quei pochi mesi in cui ho lavorato come guida turistica con contratto a progetto. Ho lasciato l’Italia per questo motivo». (cit. in E. Pugliese, Quelli che se ne vanno, Bologna, il Mulino, 2018, p. 96). È la storia di Maria, 32 anni, della provincia di Cagliari, ma è anche la mia storia. Ho fatto gli stessi lavori: commesso, bracciante agricolo, guida turistica, babysitter. E anche il pizzaiolo, il barista, il boscaiolo, il manovale e lo stalliere. Praticamente sempre senza un contratto. Mi piace raccontare la mia storia in forma iperbolica: una sessione di architettura del paesaggio con decespugliatore dietro la schiena, un master come facchino in logistica dei traslochi, una sinfonia di merda di cavallo da eseguire nei box di un ippodromo, provetto interprete solista di pala e rastrelliera. Tutto al nero, ovviamente. Insomma, scappavo dai lavori di merda senza contratto, all’italiana, per impiegarmi in bullshit jobs con contratti di paglia, all’inglese. Almeno per farmi pagare non dovevo prendere a cazzotti il capo. Insomma, cos’ero? Un migrante economico. Uno di quelli che secondo i lupi mannari al potere non andrebbero accolti. Uno da aiutare a casa sua. Solo che quelli che dicono aiutiamoli a casa loro, mi avevano rubato i diritti e il pane e mi costringevano, dopo aver fatto strame delle conquiste dei lavoratori, a scappare dall’Italia. Ero un fottuto migrante economico. Scappavo dal deserto. Dal deserto italiano dei diritti del lavoro.

Mentre lavoravo nel Regno Unito, una volta pensai anch’io di aver diritto alle vacanze. Tre giorni fuori dalla mensa scolastica di un paesino del Dorset, dove sminestravo piatti, per visitare la Normandia. Un lusso da ricchi, che per poco non mi trasformò in clandestino. Avevo messo qualche soldo da parte, abbastanza da poter attraversare la Manica e andare a mangiare decentemente per un fine settimana. Mi imbarcai a Portsmouth e sbarcai a Cherbourg, in Francia. Per me tempi stretti: arrivo al venerdì pomeriggio, rientro la domenica sera, che il lunedì all’alba mi aspettava il grembiule di sguattero alla mensa scolastica dove lavoravo. La tradizione inglese vuole che ci si sbronzi nel traghetto, per combattere il fastidio del mal di mare: se devi vomitare, è bene farlo per una buona ragione, tipo una dozzina di lattine di lager, non per le fottute onde marine. Nel viaggio apprezzai un paio di inglesi working class. Mi dissero che loro evitavano di contaminarsi col continente, abitato da mangiarane: si fermavano solo il tempo di una mezz’ora, quanto serviva a comprare una quantità spaventosa, industriale, pantagruelica di casse di stella artois, le caricavano su una opel dai pneumatici deformati dal carico eccezionale e si affrettavano a rimbarcare il bottino nella stiva del primo traghetto in partenza verso la

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Quasi un clandestino…

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Gran Bretagna, stappando la prima d’una interminabile serie di lattine. Erano i vantaggi del cambio favorevole: adesso con l’euro forte tocca sbattersi nei musei. Devo ammetterlo: in Francia diventai anch’io un fucking frog, un mangiarane. Bevvi poco e mi infilai a vedere la cattedrale gotica di Caen e gli arazzi medievali di Bayeux, mangiai in maniera superlativa e conobbi una ragazza italiana che doveva andare in Inghilterra con lo stesso traghetto che dovevo prendere io al rientro. Il viaggio ebbe insomma un suo lato passionale. La domenica sera io e questa ragazza cenammo assieme (stavolta una pizza indegna) e poi ci mettemmo in cammino verso il porto. Solo che sbagliammo strada: depistati dalla sagoma di una nave da crociera, finimmo verso il porto industriale. Stava per scoccare l’ora dell’imbarco e ci mettemmo quasi a correre per arrivare in tempo. Entrai nella zona degli imbarchi sudatissimo e un po’ stravolto. Io e la ragazza eravamo gli ultimi passeggeri. La tipa al check-in prese i nostri biglietti e i documenti. Poi fece una telefonata, disse qualcosa in francese che non capii. Ci disse di sederci. Attendevamo. Vennero altri funzionari, poi poliziotti. Mi chiesero di passare in una stanza. La ragazza italiana se voleva poteva imbarcarsi. Io no. Il tempo passava, la nave era ferma. Quando cazzo mi facevamo entrare per partire? Mi dissero che il mio documento era strano. In che senso, chiesi. Nel senso che era in regola ma credevano che io non fossi Alberto Prunetti. A vedermi sembravo turco. Ero forse un curdo? Parlavamo inglese e il mio era forse migliore del loro, ci vivevo in Inghilterra. Quella conversazione era un nonsense. Mi sembrò un sogno, un delirio alla P.K. Dick. Mi dissero che Prunetti esisteva ma forse io gli avevo rubato l’identità e la ragazza italiana stava cercando di far entrare clandestinamente un immigrato irregolare nel Regno Unito... (Forse l’equivoco era dovuto al fatto che ero dimagrito molto da quando avevo fatto la foto per la carta d’identità). Cominciavo a innervosirmi, dissi che erano fuori di testa, che Prunetti ero io e che mi aspettava in Inghilterra il mio boss per pulire le stoviglie nel Dorset… avevo il numero di telefono, se volevano chiamarlo... Alla fine rinunciarono, non erano convinti ma mi fecero passare. Era un assaggio di quello che succede a chi ha la faccia da curdo o da turco o da siriano quando cerca di attraversare la Manica. Di lì a poco le cose sarebbero peggiorate. Il traghetto partì in ritardo. Quando entrai nell’area viaggiatori, mi guardarono tutti male: secondo loro, era colpa mia se partivamo in ritardo. Blame the poor. Io però tirai un sospiro di sollievo. Tornavo nel Regno Unito. Avevo oltrepassato il mare. Il confine. Era lunedì. Mi sentivo libero. Alle 6,30 del mattino il grembiule da sguattero mi aspettava. La libertà ai nostri giorni è libertà di farsi sfruttare. The working class hates Mondays. (You don’t hate Mondays, you hate capitalism).

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(E)MIGRAZIONI

Le nuove emigrazioni italiane Il dibattito pubblico si concentra su presunte “invasioni”, ma i numeri di coloro che se ne vanno dall’Italia sono comparabili a quelli del dopoguerra. Un fenomeno che va ben oltre la retorica dei “cervelli in fuga”

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«L

a tragedia di Marcinelle a me fa riflettere: non dobbiamo emigrare dall’Italia», ha detto il capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio in visita nel centro belga teatro della strage di minatori, molti dei quali emigranti italiani, del 1956. Qualche tempo prima il ministro del lavoro socialdemocratico tedesco e attuale presidente della Spd Andrea Nahles ha dichiarato: «Dobbiamo fermare l’imSimone Fana Francesco Massimo migrazione nel nostro sistema di servizi sociali. È una questione di autodifesa». Tra gli invasori indicati da Nahles migliaiai di cittadini polacchi, greci, spagnoli e italiani. Ormai è riconosciuto: dall’Italia si è tornati a partire. A dieci anni dalla crisi, la società italiana ricomincia a produrre emigrazione di massa, con livelli inediti dagli anni Settanta, come mostra il sociologo Enrico Pugliese nel suo ultimo libro Quelli che se Simone Fana si occupa di servizi ne vanno. Tuttavia si tratta di un tema che viene voluper il lavoro e per la formazione tamente oscurato dall’agenda politica, costruita intorprofessionale. Autore di Tempo no al paradigma dell’“invasione” o, quando affrontato, Rubato (Imprimatur). Scrive di lo si descrive con formule caricaturali come quella dei mercato del lavoro e relazioni “cervelli in fuga”. industriali. Mentre quantitativamente il fenomeno è comparaFrancesco Massimo, romano, fa bile all’emigrazione del dopoguerra, qualitativamenricerca a Parigi. Legge e scrive te e storicamente si affermano dinamiche nuove. Se di lavoro, relazioni industriali e in passato l’emigrazione era la prima tappa di un pasmovimenti sociali. saggio dalla precarietà alla stabilità, al prezzo di un

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La nuova emigrazione di massa

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forte sradicamento, per molti versi la situazione attuale appare complementare: emigrare sembra meno difficile ma la prospettiva della stabilità è sempre più incerta. Il panorama politico è cambiato e si mostra afflitto da un paradosso lacerante: l’emigrazione italiana in Europa è oggi non più una semplice migrazione internazionale, ma una migrazione interna a una entità politica sovranazionale; eppure le fratture nazionali non si attenuano, anzi si riformano sotto la spinta della destra xenofoba che, come nei casi inglese e tedesco, prende ormai di mira gli immigrati dal Sud e dall’Est Europa, seppure non con la stessa intensità dei migranti extra-europei. La forza con cui la narrazione dell’estrema destra si sta imponendo nel dibattito pubblico sembra influenzare anche alcuni settori della sinistra francese, tedesca e italiana.

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Svizzera Francia Germania Regno Unito

(secondo la “National Insurance Administration”)

Regno Unito Germania

(secondo lo “Statistisches Bundesamt”)

Il libro di Pugliese è importante anche perché problematizza la capacità di rendere conto del fenomeno migratorio da parte delle rilevazioni ufficiali. Comparando i dati dell’Istat (basati sulle cancellazioni anagrafiche) ai dati raccolti dai sistemi amministrativi tedesco e inglese (che registrano i cittadini stranieri in arrivo) emerge uno scarto notevole.

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Ansiosa di offrire una proposta politica competitiva con il paradigma xenofobo, la nuova sinistra nazionalista finisce con l’individuare nelle migrazioni un nemico che non riesce più a indicare. La scelta di inseguire la destra sul terreno a lei più congeniale rivela un’evidente subalternità che finisce per consegnare il governo politico di questi processi a progetti autoritari, che sono già all’opera. Allo stesso tempo, per restituire forza alla rivendicazione di libertà di movimento bisogna intervenire al cuore delle politiche economiche e di sviluppo che oggi governano questa Europa e che stanno determinando gli squilibri e le fratture sui quali si innestano le nuove migrazioni europee.

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Molteplicità delle migrazioni dall’Italia

meridionali che partono infatti, si aggiungono gli stranieri, che costituiscono più di un quarto delle partenze dall’Italia, secondo dati Istat. Ecco perché è forse più corretto parlare di emigrazioni dall’Italia, più che di emigrazione italiana. Le filiere dell’emigrazione interna e quelle dell’emigrazione internazionale sono tornate a saldarsi. Sullo sfondo, gli squilibri regionali italiani ed europei.

La povera emigrazione

Alla base di questi squilibri ci sono scelte politiche: nell’assenza di una politica industriale coordinata, nello smantellamento della ricerca pubblica e nella contrazione della spesa sociale. Nella fase post-crisi l’Europa e l’Italia conoscono gli effetti di un processo di ristrutturazione produttiva, che modifica in profondità i mercati del lavoro nazionali e la divisione del lavoro europea. Per quanto riguarda il caso italiano alcuni dati sono indicativi delle riorganizzazioni dell’economia nazionale e delle ripercussioni sulle condizioni di vita di larghe fasce della popolazione. L’Italia si classifica agli ultimi posti nel periodo post-crisi per incidenza della spesa pubblica in Ricerca e Sviluppo, con una media dell’1,2% contro il 2,9 registrato dalla Germania nello stesso periodo. Una dinamica che si accompagna a uno slittamento settoriale, con la crescita di settori produttivi a bassa qualificazione (ristorazione, trasporti, logistica), dove si concentra l’aumento dell’occupazione negli ultimi anni.

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Solo collocando l’emigrazione italiana nel contesto Europeo è oggi possibile comprendere e agire su questo fenomeno. La molteplicità è il primo dato importante su cui riflettere e che non viene mai intercettato dal dibattito pubblico. L’Italia è attraversata da vari tipi di migrazioni: internazionali e interne, comunitarie ed extra-comunitarie, dirette o “di rimbalzo”. Pugliese già a partire dagli anni Novanta ha coniato l’espressione “crocevia migratorio” per sottolineare la particolare posizione dell’Italia, al centro dei flussi migratori Mediterranei ed Europei. In una recente ricerca, analizza questi nuovi movimenti migratori, inserendoli nel contesto delle trasformazioni economiche e demografiche in corso nel Mezzogiorno, in Italia e in Europa. Una prima linea di frattura separa il Mezzogiorno d’Italia dal Centro-Nord e dall’Europa. Pugliese parla espressamente di “tsunami demografico”, riferendosi a un progressivo spopolamento del Sud e in particolare delle sue aree interne. Questo aspetto è stato rimosso dal dibattito politico: tra il 2002 e il 2018 sono partiti quasi 2 milioni di meridionali. Si tratta di un fenomeno paragonabile solo al grande esodo del decennio Cinquanta-Sessanta. È difficile quantificare, ma molti sono poi ripartiti, stavolta verso l’Europa. Sono queste, le cosiddette migrazioni di rimbalzo, che hanno subito un’accelerazione dopo la crisi. Non a caso, le regioni da cui partono più migranti sono il Lazio e la Lombardia. Un secondo elemento che non viene mai tematizzato è il carattere internazionale dell’emigrazione italiana. Ai

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Le statistiche sui servizi di mercato si accompagnano alla contrazione del lavoro pubblico, dovuta alla decennale politica di blocco del turn over, che penalizza soprattutto la componente più giovane della popolazione attiva. La bassa domanda di lavoro delle imprese nel settore dei servizi ad alto valore aggiunto e la debolezza della ripresa dell’industria in senso stretto costituiscono, quindi, un potenziale vettore dell’emigrazione italiana all’estero. Un processo che coinvolge nella gran parte dei casi la componente più giovane, residente principalmente al centro-nord, dove gli effetti della ristrutturazione post-crisi sono più evidenti, e con titoli di studio che vanno dalla laurea al diploma. Una composizione eterogenea che stride con la retorica dei cervelli in fuga, utilizzata spesso dai media per ridurre il tema dell’emigrazione a fenomeno di costume, oscurando le ragioni strutturali che determinano la fuga dall’Italia e, analogamente, dal Sud e dall’Est Europa.

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Questa fuga però non sembra più garantire a chi migra le prospettive di una stabilizzazione e di un miglioramento delle proprie condizioni. La gran parte delle migrazioni che oggi attraversano l’Italia e l’Europa hanno come dato di fondo una precarietà strutturale perché la degradazione del mercato del lavoro è andata avanti, a colpi di riforme, anche negli altri paesi europei: dalla Germania delle leggi Hartz al Regno Unito dei contratti a zero ore. Le due fasce ben distinte del mercato del lavoro dell’epoca fordista, una caratterizzata dall’impiego a tempo pieno e indeterminato e l’altra da occupazioni saltuarie e collegate alle oscillazioni del ciclo produttivo, hanno cambiato caratteristiche. La seconda si è allargata, mentre la prima non si è solo ridotta ma è stata essa stessa precarizzata. Si tratta di un fenomeno europeo, non solo italiano. Questo nuovo scenario mette in crisi la retorica mistificante autoconsolatoria della “fuga dei cervelli”. Perché oggi a migrare sono anche gli operai e le operaie. E perché anche i diplomati che fuggono dalla precarietà intravedono un orizzonte di incertezza permanente anche nei paesi di approdo. L’emigrazione precaria di massa non solo attraversa i confini ma modifica radicalmente i contesti in cui i flussi si dipanano, mostrando un elemento di resistenza irriducibile ai ripiegamenti autarchici e alle false mitologie del radicamento che tentano di imporsi nel dibattito pubblico. La soluzione non è smettere di emigrare dall’Italia, come Di Maio sembrerebbe invitarci a fare, ma rendere l’Italia, l’Europa e il Mondo un luogo in cui la libertà di migrare sia una condizione dell’emancipazione individuale e collettiva, di chi parte e di chi “accoglie”. Questa libertà deve e può essere garantita materialmente e politicamente. È urgente quindi che questo diventi oggetto di una lotta politica contro ogni scorciatoia sovranista e che allo stesso tempo vada oltre un generico umanitarismo.

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Dalla fuga dei cervelli alla precarietà europea di massa

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DA JACOBIN USA

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La crisi del 2008 ha ridisegnato i rapporti di forza globali e riscritto la relazione tra capitale finanziario e economia cosiddetta reale. Cosa ne è stato dei suoi protagonisti? In che modo gli spettri del debito hanno infestato le nostre case? Come (non) ha reagito l’Europa? E un saggio su un economista poco ortodosso

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SUBPRIME

Tra Mercedes e magioni Immaginateli uno accanto all’altro, come accade ai soliti sospetti prima di passare sotto il torchio dell’interrogatorio. Dieci anni dopo la crisi finanziaria, vediamo come se la passano i lupi di Wall Street

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egli anni precedenti la crisi finanziaria le banche d’affari hanno confezionato dei bond realizzati con mutui ipotecari tossici e li hanno venduti agli investitori. Quando i mutui hanno cominciato a perdere colpi, anche i bond sono venuti giù e la crisi immobiliare è diventata una crisi finanziaria. Milioni di statunitensi hanno perso casa, lavoro, risparmi e Meagan Day tranquillità d’animo. Alcuni hanno perso anche la propria vita, tra dipendenze Meagan Day è staff da sostanze e suicidi. Si dice che gli Stati uniti sono usciti dalla writer di Jacobin Usa. crisi ma quei milioni di persone che negli anni della recessione La traduzione hanno visto cancellati i loro sogni non hanno mai recuperato le dell’articolo è di proprie perdite, finanziarie e umane. Alberto Prunetti. Per buona sorte, i dirigenti di quelle banche che hanno giocato col fuoco per massimizzare i profitti hanno avuto il giusto castigo. O no?

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Dick Fuld Lo chiamavano “il gorilla di Wall Street”. Secondo il Times di Londra, chi gli stava accanto «sgobbava come uno schiavo, facendo da cortigiano per quel monarca medievale, assecondando cambi di umore e desideri, logorandosi attorno ai dettagli più minuti della sua agenda (incluse le decorazioni floreali) e isolandolo da qualsiasi difficoltà, da qualsiasi cosa non volesse sentire». Era incline ad attacchi esplosivi di rabbia. Anche quand’era di buon umore, secondo il Times, «sembrava compiacersi di fare pensieri violenti». Un bravo ragazzo. Fuld condusse l’operazione dei prestiti subprime con l’unica impresa che non aveva dovuto ancora salvarsi col paracadute, la Lehman Brothers. Sotto la sua direzione la Lehman arrivò a emettere i propri prestiti subprime: Fuld era proprio affascinato dal business di concedere mutui rischiosi a persone incapaci di ripagarli, a condizioni che garantivano il loro fallimento. Fuld è stato licenziato quando la Lehman è collassata. Ma non è stato mai legalmente perseguito e adesso ha fatto il proprio ritorno come amministratore delegato del Matrix Private Capital Group. Chi non si merita una seconda chance nella vita?

Jimmy Cayne La Bear Stearns ha cominciato a nuotare in cattive acque nel luglio 2007, quando i subprime fecero collassare i fondi di investimento. L’amministratore delegato Jimmy Cayne – famoso per i weekend di golf che durano almeno metà settimana – se ne sta a giocare a bridge a Nashville nel giorno in cui cominciano i guai. Cayne schiva il colpo e se ne va in pensione nel gennaio 2008. Vende per 61 milioni di dollari le sue quote aziendali e rimane a guardare al sicuro mentre la Bear Stearns affonda. La società era stata valutata nel 2007 per 20 miliardi di dollari. Un anno dopo viene venduta a JP Morgan Chase per 236 milioni di dollari. Ma non preoccupatevi del vecchio Jimmy Cayne. Viaggia per il mondo da giocatore altamente competitivo di bridge. A proposito, nel gergo americano del bridge, il termine “crash”, che di solito indica un tracollo bancario, si riferisce a una tecnica fraudolenta di gioco.

Kyle Bass, amministratore delegato di fondi speculativi, non è stato il primo a rendersi conto che la crisi dei subprime avrebbe causato un disastro finanziario. Ma non appena se ne è accorto, ha fatto tutto quanto era in suo potere per fronteggiare la crisi. Oh, no, scusate, solo un attimo… in realtà scommise sull’esplosione della bolla finanziaria e si mise in tasca milioni di dollari. Bass adesso divide il suo tempo tra il lavoro a San Francisco e Dallas, la pesca subacquea alle Bahamas e il riposo nel suo ranch texano – che secondo il Financial Times gode di uno «status leggendario tra i maschi alpha dei subprime» – dove adora guidare il suo fuoristrada Hummer pluriaccessoriato, «con cui si sottrae ai fastidiosi inseguitori lanciando chiodi sulla strada». Intanto continua a scommettere sul collasso economico su scala globale. «La Cina sta con le spalle al muro, ormai», dice. Ama il suo lavoro. «Non lo faccio per i soldi», sostiene (anche se ovviamente continua a fare un mucchio di quattrini), «quel che mi diverte è avere sempre ragione».

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Kyle Bass

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I RAGAZZI DELLA LEHMAN

John Thain

Nel 2008 il loro mondo se ne andò in fumo. Quella stabilità che davano per scontata si è dimostrata un’illusione, il loro Sogno Americano era un castello di sabbia. Rimasero appollaiati su una roccia, a contemplare il naufragio. Sì, sto parlando proprio dei banchieri. Intervistati dal Financial Times, gli ex impiegati della Lehman Brothers hanno raccontato di aver perso il controllo emotivo quando la società è andata in rovina. «Ti sentivi inerme», dice un banchiere d’affari, abbandonandosi ai ricordi. Un altro si ricorda di aver fissato un muro e di aver pensato: «È finito, quel mondo è finito. Che peccato». Molti dipendenti della Lehman si sono imbarcati sul mare increspato del libero mercato del lavoro, costretti a inviare mail piene di angoscia a esclusive agenzie di collocamento della finanza. Tenacia e capacità di recupero hanno pagato, e il Financial Times ha trovato che tutti gli intervistati hanno raggiunto prima o poi la terraferma, trovando impiego o da professionista o in un’impresa di venture capital. Quando si dice che gli affari vanno bene… Quando la crisi economica apre uno squarcio nel tuo universo, non hai altra scelta che perseverare. Questa straziante esperienza ha insegnato agli ex dipendenti della Lehman il valore dell’individualismo. «Ti rendi conto che tu stesso sei il tuo valore», dice un ex dipendente della sezione commerciale specializzata in mercati finanziari, oggi dirigente finanziario di un’altra società. «Non puoi dipendere da un marchio o da una banca».

John Thain viene chiamato come commissario della Merrill Lynch al principio della crisi. La banca aveva miliardi di dollari in prestiti tossici e vacillava accanto agli altri giganti dei subprime quando il mercato immobiliare cominciò a collassare. Non era colpa di Thain, piuttosto bisognava prendersela con Stan O’Neal. Se siete preoccupati del destino di O’Neal, rilassatevi: si è fatto dare 160 milioni di dollari per andarsene via prima che scoppiasse il casino. Ma anche Thain non è stato un santo. Dopo aver ricevuto il sostegno della fiscalità pubblica per tenere accese le luci della sua società e aver negoziato la vendita di Merrill Lynch alla Bank of America, è saltato fuori che Thain aveva speso un milione di dollari per ristrutturare l’ufficio e aveva pagato dei massicci bonus di uscita ai vertici della Merril.

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Jamie Dimon, amministratore delegato della JP Morgan Chase, è uscito dalla crisi finanziaria profumato come una rosa, dopo aver acquistato Bear Stearns e Washington Mutual, che stavano fallendo, e aver messo la sua banca sul sentiero che conduce ai profitti, evitando quello che ti infila in un procedimento giudiziario. O almeno così sembrava. Nel 2013 Dimon, in ritardo, ha concordato il pagamento da parte di JP Morgan di una multa di 13 miliardi di dollari per la vendita di prestiti tossici nel periodo anteriore alla crisi. Questa multa non è riuscita a scalfire la sua ottima reputazione. A quel punto, nel folklore della narrativa sulla crisi, i cattivi erano già stati identificati e Dimon non era tra questi. E poi tutti amano i vincitori e i profitti di JP Morgan Chase non hanno mai smesso di crescere dagli anni della crisi. Tutto è bene quel che finisce bene!

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Jamie Dimon

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Governare con la moneta La finanza, i debiti sovrani e l’Unione europea. Com’è potuto accadere che le élite politiche continentali abbiano finito per sfruttare la crisi economica come un’opportunità per imporre ricette liberiste?

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gni crisi è un’opportunità”: uno slogan spesso evocato in anni segnati da acute difficoltà economiche. L’Europa non fa eccezione. Soprattutto l’eurozona, dove i politici al potere e le élite economiche hanno visto nella crisi del 2008 un’opportunità d’oro per radicare nell’attuale politica economica due panacee neoliberali: l’idea che il deficit da spesa pubblica sia un male e che l’antidoto Ronald Janssen alla stagnazione vada cercato nella contrazione dei salari e nella “flessibilità” dei mercati del lavoro. Ma per capire come questa nuova linea programmatica si sia insediata in Europa è importante analizzare come gli attori chiave di queste politiche sono riusciti a far approvare le proprie riforme.

A fine anni Ottanta, quando la Commissione europea varò la campagna per la moneta unica con lo slogan “Un mercato unico, una moneta unica”, tra gli argomenti a favore di quel progetto c’era la tesi che una moneta unica europea avrebbe significato un unico tasso di interesse europeo. In particolare si sosteneva che, dal momento che non ci sarebbe più stato alcun fenomeno di svalutazione competitiRonald Janssen è va delle monete nazionali, i mercati finanziari non avrebbero consulente di politica più richiesto tassi di interesse più alti dai membri delle aree

economica presso il Trade Union Advisory Committee dell’Ocse. La traduzione dell’articolo è di Alberto Prunetti.

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Il prequel della crisi: la promessa di una moneta unica europea

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europee economicamente più deboli, che si trovavano a rischio di svalutazione. I tassi di interesse, che erano sempre stati sostanzialmente più elevati per paesi come l’Italia, avrebbero cominciato a convergere e a declinare sul basso livello dei tassi di paesi come la Germania, ossia sul livello dei mercati finanziari più affidabili. Grazie alla moneta unica, il costo della finanza sarebbe diminuito, stimolando investimenti, crescita economica e creazione di posti di lavoro in tutta l’eurozona. Volgendosi al passato, la promessa di “un mercato unico, una moneta unica, un unico tasso di interesse” si è materializzata in maniera evidente, almeno nel primo decennio dall’introduzione dell’euro e negli anni immediatamente precedenti. Ma l’analisi della Commissione ha trascurato due altri elementi che si sono dimostrati cruciali negli sviluppi successivi. In primo luogo, la convergenza dei tassi di interesse era un beneficio tangibile per molte economie europee, ma non per la Germania: la moneta unica infatti implicava la perdita di un importante vantaggio di posizione costituito da bassi tassi di interesse, un vantaggio che quel paese si era procurato nel corso di decenni con una strategia di “disinflazione competitiva”. Il governo di coalizione “rosso-verde” del cancelliere Gerhard Schröder, di fronte a una crescita epocale della disoccupazione che aveva quasi raggiunto il picco dei quattro milioni, decise di tornare a una strategia salariale competitiva: da un lato, rese flessibile il mercato del lavoro aumentando l’insicurezza dei lavoratori attraverso le note “riforme del Piano Hartz” che limitavano i benefici della disoccupazione a CI SONO VOLUTI ANNI un periodo massimo di un anno; dall’altro, a livello PRIMA CHE I BANCHIERI aziendale spinse il modello “alleanza per il lavoro”, in FRANCESI E TEDESCHI cui i rappresentanti dei lavoratori e i vertici aziendali CAPISSERO CHE INIETTARE si trovavano a negoziare nuovi investimenti o sicuCREDITO NELLE BOLLE rezza sul lavoro in cambio di salari e condizioni di IMMOBILIARI AVREBBE lavoro ridotti rispetto ai livelli fissati dalla contrattaALIMENTATO LA CRISI zione collettiva del settore di riferimento. Il secondo elemento trascurato aveva a che vedere con la maniera in cui le banche e i mercati finanziari avrebbero fatto uso di questi nuovi e più convenienti mezzi finanziari. Li avrebbero incanalati verso una maggiore capacità produttiva o li avrebbero diretti in attività speculative non sostenibili? Oggi conosciamo le risposte: la Grecia ha usato l’euro bonus per gonfiare i consumi, esponendosi ad ampi livelli di deficit, inizialmente rimasti nascosti, mentre in altri paesi dell’eurozona, tra cui Spagna e Irlanda, il costo più basso del denaro ha gonfiato una massiccia bolla immobiliare, assieme a un rialzo del debito privato. Nel frattempo le banche dei paesi di rilievo dell’eurozona hanno concesso pesanti prestiti a quelle dei paesi della periferia indebitata, finanziando il boom immobiliare di quei paesi e alimentando la propria posizione di creditori. Questo spiega quel che è accaduto dopo: i leader dell’eurozona hanno riscritto la storia, architettando una narrativa della crisi che allontanava la responsabilità dalle banche e dal mondo della finanza.

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Una nuova lettura delle cause della crisi Alla fine le bolle esplodono. C’è voluto almeno un decennio perché i banchieri francesi e tedeschi si rendessero conto che iniettando grossi flussi di credito nella bolla immobiliare spagnola o irlandese prima o poi le cose sarebbero andate a rotoli, ma alla fine quel momento è arrivato. Sotto l’impulso della crisi statunitense dei subprime del 2008, i proprietari di immobili spagnoli e irlandesi hanno cominciato ad avere problemi nel ripagare i loro mutui. Rendendosi conto che le banche locali di quei paesi stavano andando nei guai, le banche europee creditrici interruppero il loro flusso di finanziamenti. Con le banche periferiche vicino al collasso e quelle centrali in una situazione poco brillante, la crisi finanziaria nel 2010 era a livelli da mal di mare. A quel punto i politici dell’eurozona si trovavano di fronte a una scelta. Potevano ammettere di essersi addormentati al volante, loro e gli strumenti di controllo sulla finanza, mentre le banche da controllare gettavano il denaro dei creditori in un carosello di bolle alimentate dal credito dell’eurozona (e in tal caso i contribuenti avrebbero logicamente chiesto loro di pagare per ripulire tutto quel macello); oppure potevano sostenere la tesi della “santità del debito”, chiedendo che i governi dei paesi europei periferici pagassero in qualche modo il salvataggio d’emergenza. La storia ci insegna che hanno scelto la seconda ipotesi. Ma una volta fatta la scelta, il costo dei salvataggi andava razionalizzato politicamente. Pertanto i leader europei cominciarono a smerciare una reinterpretazione della crisi finanziaria che spostava l’attenzione dalle responsabilità di banche e finanza. Al loro posto, il messaggio diffuso era quello per cui i paesi delle economie periferiche avevano, in maniera irresponsabile, “vissuto oltre le proprie possibilità”. Adesso dovevano quindi stringere la cintola: per rimettere le cose a posto e ripagare i propri debiti, i governi di quei paesi dovevano tagliare le condizioni di vita dei propri cittadini. Da un lato, questo significava meno spesa pubblica; dall’altro, implicava un incremento delle esportazioni. Si sollevavano due pilastri fondamentali della politica economica neoliberale: il pilastro dell’austerità fiscale, con l’eliminazione del deficit pubblico e la riduzione del ruolo dello stato nell’economia; e il pilastro della competitività, per cui le istituzioni del mercato del lavoro che sostengono i diritti dei lavoratori devono indebolirsi in modo da poter contrarre i salari e spingere la crescita delle esportazioni.

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Sorprende vedere in che misura queste due prescrizioni, l’austerità fiscale e la deregolamentazione salariale, siano state realizzate. Per quanto riguarda la politica fiscale, tra il 2010 e il 2014, il 5% del Pil dell’eurozona è stato sforbiciato dall’economia tra tagli della spesa e aumenti delle tasse. Eppure l’economia quasi non è cresciuta. E i cambiamenti sono stati ancora più drammatici nell’area, meno conosciuta, della regolamentazione del mercato del lavoro. Gli stati dell’eurozona in deficit hanno ab-

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Massiccia austerità, profonda deregulation del mercato del lavoro

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bracciato in pieno la politica della deregolamentazione salariale competitiva, implementando tutte le misure necessarie a indebolire la forza di contrattazione dei sindacati e a rendere flessibili i salari. In Portogallo e Spagna il valore nominale del salario minimo è rimasto congelato per sette anni, mentre in Grecia è stato ridotto in maniera sostanziale. In Spagna e Portogallo i governi hanno attaccato la contrattazione per categorie, che creava una posizione di forza a favore di quei sindacati che avevano la maggioranza in un dato settore. Grecia, Spagna, Italia e Francia adottarono misure volte a invertire la gerarchia tra la contrattazione aziendale e quella per categorie. Se prima un contratto aziendale era concesso solo a condizione che i suoi termini fossero più favorevoli ai lavoratori di quanto fissato dagli accordi di settore, adesso accadeva l’opposto: si potevano siglare accordi al ribasso, facendo pressione sulla capacità dei sindacati di garantire agevolazioni a favore dei lavoratori. Alcuni governi sono arrivati al punto da ridare vita alla pratica dei sindacati gialli, concedendo ad “associazioni di persone” di negoziare al posto dei sindacati a livello aziendale (ovviamente gran parte di queste “associazioni” erano falsi sindacati sotto il controllo del datore di lavoro). Nella lista delle mosse per la deregolamentazione del lavoro c’era anche la revoca del principio dell’ultra-validità dei contratti di lavoro, costringendo così i sindacati a negoziare alla fine di un contratto senza considerare i livelli salariali anteriori. In questo modo i leader europei hanno snaturato la contrattazione collettiva in un processo in cui non si tratta di capire quanto aumenterà il salario; la domanda piuttosto è: quanto verrà tagliato?

Perché i paesi europei periferici hanno accettato questa narrativa? Perché, obbedienti, hanno realizzato queste politiche disastrose? In fondo, sapevano perfettamente che le politiche-gemelle di austerità fiscale e deregolamentazione salariale avrebbero prodotto una diffusa miseria economica e sociale, rischiando al tempo stesso di approfondire il problema a causa della deflazione dei prezzi, facendo cioè aumentare vertiginosamente il debito pubblico. La risposta è che si trovavano con le spalle al muro mentre i mercati finanziari erano sotto attacco. Grazie alle selvagge manovre speculative dei mercati finanziari, i governi e le banche periferici solo per rinnovare il loro debito dovevano affrontare tassi di interesse straordinariamente elevati (e, in ultima analisi, insostenibili). In un caso specifico, i tassi arrivarono al 45%. I mercati finanziari avevano dato l’avvio a una profezia che si auto-avvera: gli alti tassi di interesse derivanti dalla paura del default minacciavano di produrre quello stesso default che i mercati temevano. Di solito il compito di prevenire queste profezie che si auto-avverano ricade sulle banche centrali. Stampando denaro e usandolo per comprare quote di debito in difficoltà, la banca centrale può garantire che gli speculatori che scommettono contro il

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Paesi debitori con le spalle al muro

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debito perdano il proprio denaro. È proprio questo che in altre occasioni hanno fatto la Federal Reserve o la Bank of England, ma stavolta la Banca centrale europea era restìa a compiere questa operazione. Anzi, in realtà ha fatto l’opposto: in svariate occasioni, a un passo dalla crisi, la Banca centrale europea ha alzato i tassi di interesse invece di diminuirli, diffondendo messaggi di preoccupazione in merito all’inflazione. I governi, sotto la pressione dei mercati finanziari, cercavano disperatamente il sostegno della Banca centrale europea. Erano disposti a tutto per convincere la Bce a proteggerli dalle pressioni del mercato con l’acquisto di porzioni di debito dei loro paesi. Questo metteva i banchieri della Bce in una posizione di forza. La Banca centrale europea ha usato quella forza per indirizzare lettere segrete ai vertici dei governi di Spagna e Italia, esponendo per filo e per segno quale tipo di austerità fiscale e di deregolamentazione del mercato del lavoro dovevano essere realizzate. Ecco in che modo degli irresponsabili banchieri, con un passato nella finanza, sono arrivati a decidere su scelte di politiche economiche e sociali al posto di politici democraticamente eletti. Questo è avvenuto in maniera evidente nel caso di Grecia, Portogallo e Cipro, dove la Banca centrale europea, assieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Commissione europea, era parte della “troika” che ha scritto e imposto dei programmi di aggiustamento strutturale. Il potere della Bce ha giocato un ruolo centrale nel plasmare la costruzione delle politiche economiche europee su linee più aggressivamente neoliberali. Adottare quasi ogni propoBANCHIERI, CON UN sta venisse dalla Germania – un alleato chiave della PASSATO NELLA FINANZA, Banca centrale europea, a sua volta modellata su SI SONO RITROVATI pratiche e filosofia della Bundesbank – era consideA DECIDERE SULLE SCELTE rato un modo per tranquillizzare la Bce, sperando ECONOMICHE DI GOVERNI di non interrompere quel frammentario sostegno DISPOSTI A TUTTO che la Banca centrale europea offriva nella forma di PER FARSI PROTEGGERE qualche particolare espediente monetario. Pertanto quasi tutti i paesi membri dell’eurozona convennero immediatamente e senza troppe discussioni a ratificare il Fiscal Compact, un trattato internazionale che radicava una stretta disciplina fiscale nelle costituzioni o nelle leggi nazionali. Il Parlamento europeo e il Consiglio europeo hanno approvato senza grandi difficoltà anche il “Six-pack”, un pacchetto di sei regolamenti economici proposto dalla Commissione, che le conferisce il potere di emettere raccomandazioni e imporre sanzioni sugli stati membri. Questa misura, tra altre, era volta a rovesciare il principio della decisione democratica. Al posto di una maggioranza qualificata all’interno del Consiglio europeo per approvare una proposta della Commissione su argomenti relativi alla stabilità fiscale, il pacchetto Six-pack decide che l’adozione di un regolamento su proposta della Commissione (incluse eventuali sanzioni) sia accettato dal Consiglio a meno che una maggioranza qualificata di stati membri si dichiari contraria col voto.

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La politica di “governare con la moneta” raggiunge i propri limiti Alla fine questa politica di “governare con la moneta” – o forse bisognerebbe dire: “ricattare con la moneta” – ha raggiunto i propri limiti. Nell’estate del 2012 Mario Draghi, il neoeletto presidente della Bce, rivolgendosi a una platea di investitori a Londra fu costretto a cambiare completamente strada, nell’impossibilità di vendere il solito discorso sul ruolo della Bce volto a tenere esclusivamente sotto controllo l’inflazione: era ormai evidente che le speculazioni dei mercati finanziari avevano raggiunto un punto tale da compromettere l’esistenza stessa dell’euro. Col suo famoso discorso – «nell’ambito del nostro mandato la Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza» – Draghi dette ai mercati finanziari l’impressione che alla fine la Banca centrale europea avrebbe sostenuto il debito sovrano degli stati membri dell’eurozona. Questo rassicurò i mercati al punto che le speculazioni dei mercati finanziari non si intensificarono e permise di abbassare gradualmente i tassi di interesse dei paesi debitori. L’economia comunque dovette attendere ancora due anni e mezzo prima che la Bce, all’inizio del 2015, approvasse finalmente un chiaro programma di quantitative easing: sono stati acquistati centinaia di miliardi di titoli di debito sovrano, abbassando quindi i livelli dei tassi di interesse sul debito sovrano in difficoltà, per allinearli allo stato depresso delle economie periferiche. La Banca centrale era obbligata a questa mossa perché incombeva il rischio della deflazione: l’inflazione stava collassando quasi a zero e le previsioni sull’inflazione stavano impazzendo sotto l’obiettivo del prezzo di stabilità che la Bce aveva fissato al 2% dell’inflazione. Lo scenario era mutato profondamente. La Bce non poteva continuare a pretendere austerità fiscale in cambio di un alleggerimento monetario e gli stati membri potevano – e la Bce chiese di farlo per combattere la deflazione – rovesciare le politiche fiscali basate sull’austerità in politiche lievemente espansive. Di conseguenza, gli stati membri dell’euro hanno conosciuto una piccola ripresa delle economie e del mercato del lavoro.

La storia della crisi dell’euro ci insegna che le decisioni economiche e sociali, inclusa la costruzione del quadro europeo della governance economica degli anni di austerità dal 2010 al 2015, sono prese solo formalmente dai governi e dai politici. Dietro i processi decisionali delle democrazie si nascondono le forze della governance finanziaria che esercitano un potere di controllo anche sui governi democraticamente eletti. È importante sottolineare che non stiamo parlando di mercati finanziari anonimi che possono muoversi come locuste e spingere le economie in uno stato di equilibrio autodistruttivo. Quella è solo la punta dell’iceberg. La parte sommersa dell’iceberg è costituita dalle banche centrali “indipendenti” che fanno un uso astuto del disordine dei mercati finanziari per imporre delle “terapie shock” e affermare il loro punto di vista sulle scelte programmatiche da prendere in ambito economico e sociale.

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Una piccola lezione: il denaro non è mai “neutrale”

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Ogni programma politico progressista dovrà quindi fare i conti con questa “governance della moneta”, ossia col potere detenuto da banche centrali e istituzioni monetarie di controllare – o in caso contrario scatenare – l’agitazione dei mercati finanziari. Decenni di teoria economica monetarista hanno radicato la convinzione che la banca centrale debba essere indipendente dai governi e che la politica monetaria abbia principalmente a che fare con la lotta contro l’inflazione attraverso l’applicazione di regole tecniche da lasciare nelle mani di esperti finanziari. In realtà la banca centrale – soprattutto in tempi di crisi finanziaria, come nel caso dell’eurozona – risulta essere un attore politico chiave. Decidendo quanto denaro stampare, a chi fornirlo e a che prezzo, la banca centrale può acquisire un potere che non dovrebbe detenere: il potere di imporre le proprie prospettive sui governi democraticamente eletti. Nel caso dell’eurozona, questo problema è particolarmente impegnativo. In realtà alcune banche centrali, come la Federal Reserve o la Bank of England sono fondamentalmente sotto il controllo di un parlamento nazionale e sono consapevoli del fatto che il parlamento o il congresso possono in ultima analisi cambiare i termini del loro statuto o del loro mandato. Di fatto questo contribuisce a tenerli sotto controllo. Ma le cose sono completamente differenti con la Bce perché per cambiare lo statuto o il mandato della Banca centrale europea bisogna cambiare un Trattato europeo e per questo serve la firma e l’approvazione di tutti gli stati membri dell’eurozona, inclusa la Germania. Il fatto che un evento del genere sia alquanto improbabile concede ai banchieri della Bce ampi margini di movimento di fronte a politici e a governi nazionali. Sarebbe infine un errore pensare che la “governance col denaro” o il potere della Bce di far uso di politiche di sostegno monetario come quid pro quo in cambio di austerità fiscale e riforme strutturali siano scomparsi. Il quantitative easing sta per finire. Rimane da capire cosa succederà una volta che lo scudo che ha protetto i governi dalle forze distruttive dei mercati finanziari sarà abbassato. I mercati finanziari torneranno a colpire uno a uno i membri più vulnerabili dell’eurozona? E se ciò accadrà, la Bce interverrà? O tornerà alla vecchia strategia di alleviare la pressione dei mercati finanziari in cambio di un’aggressiva compressione fiscale e di una nuova deregolamentazione del mercato del lavoro? Tanto più che è preoccupante osservare che le élite finanziarie, in particolare i ministri delle finanze dei paesi chiave dell’eurozona, propongono in maniera sistematica riforme che in realtà continueranno a serrare la morsa dei mercati finanziari sugli stati membri più deboli. Consideriamo proposte come quella di chiedere alle banche di detenere più capitale quando investono nel debito pubblico di classe inferiore alla tripla A, o procedure di ristrutturazione automatica del debito con garanzie extra da garantire da parte delle banche nel caso di un portafoglio di prestiti non competitivo: sono tutte ipotesi che hanno in comune il fatto che, una volta applicate, le finanze e i risparmi si sposteranno dagli stati membri finanziariamente vulnerabili, come l’Italia o la Spagna, verso porti più sicuri, come la Germania, col rischio di rinnovare la pressione finanziaria a carico dei primi.

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La crisi finanziaria e le serie televisive paranormali

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Come sono state messe in scena l’esplosione della bolla immobiliare e le forze orrende che l’hanno generata? Guida ragionata al collasso attraverso i mutamenti dell’immaginario horror

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a crisi finanziaria del 2008 è stata raccontata al cinema attraverso film di finzione o romanzati, come The Big Short, Margin Call e The Wolf of Wall Street, e documentari come Too Big to Fail, Inside Job e Capitalism: A Love Story. Film con uomini ricchi in giacca e cravatta. Se ne stanno seduti alle loro scrivanie, parlano al telefono, si dirigono verso pompose riunioni a numero chiuso con una ventiquattrore in mano, si radunano nei convegni, fissano gli schermi dei Eileen Jones computer, si dichiarano incapaci di testimoniare nelle aule di giustizia. Ripensando all’immaginario complessivo che trasmettono, è fastidiosa l’assenza di una rappresentazione mostruosa che corrisponda a delle pratiche che sappiamo essere orrende. È risaputo che stanno distruggendo il mondo, come possono essere così banali, spregevoli e noiosi questi potenti di mezza età in giacca e cravatta? Gi studiosi hanno ritrovato un immaginario maggiormente Eileen Jones si spaventoso a proposito della crisi finanziaria nei film dell’orrooccupa di critica re successivi al 2008, che sembrano riflettere le ansie per il colcinematografica per lasso del mercato immobiliare in picchiata a causa della grande Jacobin Usa. Ha scritto recessione. Gli horror, specializzati nella rappresentazione di il libro Filmsuck Usa. inimmaginabili forze maligne, possono aggirare la difficoltà di Insegna alla University portare in scena in forma memorabile le complesse operazioni of Calirfornia, Berkeley. finanziarie, astratte e spesso deliberatamente oscure, dell’un La traduzione per cento dei ricchi del pianeta. Non è un problema da poco: dell’articolo è di come mettere in scena il terrore dell’esplosione della bolla imAlberto Prunetti. mobiliare e le forze orrende che l’hanno scatenata? Ad esempio

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le truffe basate su mutui predatori per adescare persone della classe lavoratrice che lottano per sopravvivere, spinte a possedere case che non possono permettersi. O i vertiginosi livelli di debito delle famiglie americane, paese in cui un gran numero di persone è proprietario di più di quel che potrà mai pagare con una vita di lavoro salariato. E, ancora più importante, le speculazioni finanziarie, catastrofiche e prive di regolamentazione, delle banche e dei fondi di investimento di Wall Street, salvati dal governo mentre i cittadini, a pezzi, pativano i morsi della crisi. Il cinema horror degli ultimi dieci anni, ritornato in auge, sembra essere il posto migliore per raccontare gli effetti traumatici della crisi finanziaria. Una tesi sostenuta in articoli come “The (Re)possession of the American Home: Negative Equity, Gender Inequality, and the Housing Crisis Horror Story” di Tim Snelson, “No Safe Spaces: Economic Anxiety and the Post-Recession Spaces in Horror Films” di Joni Hayward, “A Lesson Concerning Technology: The Affective Economies of Post-Economic Crisis Haunted House Horror in The Conjuring and Insidious” di Emanuelle Wessels, “The Great Recession and Transnational Horror: Sajit Warrier’s Crossover Film Fired (2010)” di Elena Oliete-Aldea e “When Commodities Attack: Reading Narratives of the Great Recession and Late Capitalism in Contemporary Horror Film” di Sean Brayton. I saggi di Snelson e di Wessels si concentrano sulla particolare impennata di popolarità del sottogenere di horror paranormale della “casa infestata”, con esempi di produzioni di successo realizzate dopo il 2008, come Paranormal Activity, Insidious e The Conjuring. In questi format la contesa sul possesso di una casa tra proprietari umani e misteriose forze oscure che ne pretendono il controllo rappresenta un’evidente allegoria della crisi immobiliare. Snelson sostiene che il sottogenere della “casa infestata” segna un ritorno all’importanza di testi che raccontino «insicurezza economica e mobilità sociale verso il basso dovute alla recessione» proprio come facevano, negli anni Settanta e Ottanta, filoni come quelli di Amityville Horror e Poltergeist. Ancora più drammatica è la versione televisiva di questo ritorno, posteriore al 2008, del sottogenere della “casa infestata”. La “casa working class in pericolo” è diventata un diffusissimo luogo di terrore e di scontro in un vasto numero di “spettacoli paranormali” molto diffusi in televisione. Il momento clou di questi reality ha a che fare con una decisione che il proprietario deve affrontare: cedere la casa all’invisibile entità maligna o decidersi a combatterla? Un buon esempio è la serie televisiva Kindred Spirits [per serie si intende qui principalmente il format dei reality Tv show, che simulano il documentario raccontando episodi di finzione come se fossero veri, ndt] che mette in scena settimanalmente la struttura narrativa tipica del paranormale: una famiglia in pericolo cacciata dalla propria casa da forze maligne al di fuori della loro comprensione. Adam Berry e Amy Bruni, investigatori dell’occulto, indagano i fenomeni spaventosi che secondo i proprietari si sono manifestati in casa, a partire dai classici racconti di porte che si aprono e chiudono da sole, orme prive di spiegazione e la saltuaria e terrificante apparizione di spettri. Di solito questi racconti procedono verso un’escalation di aggressioni fisiche da parte di entità invisibili, con la presenza di voci demoniache che ringhiano: «Vattene!».

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In un episodio Adam Berry grida a un proprietario terrorizzato: «Ma questa è la tua casa. La tua casa!». Il suo tono sovraeccitato vuole sottolineare che l’abitazione è uno spazio sacro, profanato e minacciato da un’intrusione ostile, e deve essere difesa. È inusuale che queste parole stiano in bocca a un detective. In genere in queste serie è il proprietario a fare l’appassionata dichiarazione in difesa della propria dimora, in una qualche versione della ricorrente formula: «Questa è la mia casa e non la lascerò senza combattere». Se non siete degli appassionati spettatori dei canali televisivi Travel Channel o Syfy, di Discovery’s Destination America o di A & E’s Biography, non potete rendervi conto di quale fenomeno siano diventate queste serie altamente stereotipate. Io ne sono consapevole perché ho cominciato a guardare show paranormali nel 2008 e li ho visti diventare sempre più diffusi nel corso dei dieci anni seguenti. Quella odierna è ormai la grande stagione delle serie paranormali e potete rendervene conto da soli. Cominciano in genere nella prima metà di settembre, raggiungono il loro climax per Halloween e poi svaniscono nel nulla verso Natale. Dopodiché le più popolari sono trasmesse in reLA CASA INFESTATA plica nel resto dell’anno. È TORNATA AD ESSERE Il mio interesse a riguardo è personale. Ne sono attratto in parte UN LUOGO DI TERRORE. perché la mia origine working class ha a che fare con una storia da LO SPAZIO CHE FINO “casa infestata”. Eravamo una famiglia operaia che aveva compraA POCO PRIMA ERA SICURO to una grande casa nel bel quartiere da borghesia medio-alta, una ADESSO È MINACCIATO casa che sarebbe dovuta essere oltre le nostre possibilità ma che per DA UN’INTRUSIONE OSTILE qualche strana ragione potevamo permetterci. Mai comprare una casa che risulta “stranamente” alla vostra portata, come ci insegnano molte storie horror successive al 2008. È una trappola! Il rapporto tra la narrazione da “casa infestata” e le ansie della classe lavoratrice non è mai stato analizzato in maniera esaustiva. Tuttavia Adam Curtis ha realizzato un buon primo tentativo con il suo video-saggio del 2011, Ghosts in the Living Room, in cui mappa le mutevoli convenzioni della rappresentazione di spettri e fantasmi in un contesto “realistico” nelle serie britanniche:

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Secondo Curtis la presenza dei fantasmi serve a rianimare vite banali e incolori con un’ondata di eccitazione e una sensazione di maggiore rilevanza all’interno del mondo. Scrive: «All’improvviso le periferie non sono più noiose. Diventano sinistre, misteriose, epiche». Terrorizzati da fantasmi o addirittura – nei casi più estremi – da demoni, i dispossessati raggiungono cime di importanza cosmica. Se il diavolo sa il tuo nome, ti sei guadagnato il riconoscimento di uno dei potenti del pianeta.

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Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta i fantasmi in televisione seguivano le regole classiche. Gli spettri abitavano in case vecchie, nelle dimore signorili o in vetuste rovine. [...] Ma nei primi anni Settanta si verificò un cambiamento curioso. I fantasmi si spostarono. Smisero di infestare i vecchi castelli e le rovine e si trasferirono nelle case più ordinarie delle periferie. La battaglia tra bene e male si spostava adesso nelle cucine e nelle camere di periferia, addirittura sugli scalini della Gran Bretagna contemporanea.

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The Haunted (Animal Planet, 2009 -2011, ora su Destination America), The Haunting of… (Biography Channel, poi su Lifetime Movie Network, 2012 - 2016), My Ghost Story (Biography Channel, poi Lifetime Movie Network, 2010 - 2013), Celebrity Ghost Stories (Biography Channel, poi Lifetime Movie Network, 2009 - 2014), Paranormal Witness (Syfy, 2011 - 2016), Paranormal Survivor (Travel Channel, 2015 - in corso), Paranormal Lockdown (Destination America, 2016 - in corso), My Haunted House (Lifetime Movie Network, 2013 - 2016), The Dead Files (Travel Channel, 2011 - in corso), Kindred Spirits (Syfy, 2016 - in corso), Ghost Hunters International (Syfy 2008 - 2012), Ghost of Shepherdstown (Destination America, 2016 - in corso), Ghost Mine (Syfy, 2013), Haunted Collector (Syfy, 2011 – 2013), Fact or Faked: Paranormal Files (Syfy, 2010 - 2012), Alaska Hauntings (Destination America, 2015 - in corso), Psychic Kids (A & E, 2008 - 2011), Scariest Night of My Life (Travel Channel, 2017 - in corso), Ghost Asylum (Destination America, 2014 - 2016), Haunted Towns (Destination America, 2017 - in corso).

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Curtis ha mappato la “ghost tv” dagli anni Settanta fino ai Novanta, quando una serie di successo intitolata Ghostwatch ha segnato un cambiamento nelle relazioni del pubblico col materiale trasmesso nella forma della non fiction. Sostiene che in questa epoca caratterizzata dal nuovo docudrama ibrido, finzione e racconto fattuale sono paradossalmente intrecciati tra loro non solo nella “ghost tv” ma anche nei programmi di informazione, che diventano sempre più orientati all’intrattenimento. Non ci si può fidare della dimensione fattuale di niente di quel che si vede in televisione e tuttavia gli eventi non sono considerati reali fino a quando non compaiono in televisione. Trasferendo la mappa di Curtis negli Stati uniti e allargando l’analisi fino al nuovo millennio, notiamo che una delle principali preoccupazioni dei proprietari di “case di fantasmi”, nella televisione del paranormale, è il desiderio che queste esperienze domestiche terrificanti siano certificate, da parte di figure autorevoli, come “fattuali” e degne di interesse. «Almeno so di non essere pazzo», è il frequente commento dei proprietari, grati che il loro terrore e il rischio di dover traslocare siano riconosciuti da un professionista. Il motore di molte di queste serie sta nel fascino di vedere “noti professionisti” e rappresentanti del mondo dei media diventare testimoni delle vite dei lavoratori, per verificare lo stato di assedio in cui versano. Vi chiederete quante serie paranormali siano state trasmesse complessivamente dal 2008. Ecco una lista abbastanza esaustiva, che indica nome della serie, network e anno di trasmissione:

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Certo, non tutte queste serie sono incentrate su indagini su case popolari in pericolo. Celebrity Ghost Stories è su case di celebrità infestate (ad esempio, c’è un episodio in cui Joan Rivers, ormai defunta, parla del suo appartamento infestato a New York). Tuttavia un numero sorprendente di episodi della serie ha a che fare con il passato di miseria di celebrità che un tempo vivevano in difficoltà, in classi subalterne, in condizioni rese ancora più dure da spaventose entità invisibili: ad esempio Ernie Hudson cresciuto nella povertà di una campagna, o Gina Gershon raccontata come un’attrice ambiziosa ma priva di quattrini che occupa la peggiore camera da letto di un affollato appartamento di New York che in passato – nel diciannovesimo secolo – aveva ospitato alcune prostitute vittime di abusi. Il format della casa infestata è elastico ed è popolare da secoli. Può adattarsi a chiunque, dagli aristocratici nelle loro magioni alle madri single che vivono nelle roulotte. Ma nell’attuale televisione americana del paranormale si possono distinguere dei trend specifici. All’inizio del nuovo millennio c’erano poche serie paranormali ma erano grandi successi che mostravano differenti approcci e indicavano la strada alle più popolari strutture narrative. La serie britannica Most Haunted (Living Tv, poi Reality Channels, 2002 – in corso), subito ritrasmessa negli Stati uniti, si basava sul classico approccio gotico che preferisce l’infestazione di proprietà aristocratiche e di famosi luoghi pubblici (castelli, teatri, chiese, musei, locande). La squadra di acchiappa-fantasmi si scontra con gli spettri in un’esplosione di paura isterica, urla e fughe, al fine di mettere in scena un’attività paranormale irresistibile. Il particolare modello di lotta coi fantasmi di Most Haunted compare anche in Ghost Adventures (Travel Channel, 2008 – in corso), una serie americana popolarissima e di lungo corso, che aggiunge agli scontri un alto livello di machismo. Ci sono un bel po’ di sfide urlate nell’oscurità che chiedono che i fantasmi «vengano fuori e si facciano vedere!». Serie tv come Scariest Places on Earth (Fox Family, 2000-2006) proseguono la tendenza di Most Haunted a investigare i luoghi pubblici che hanno beneficiato della presenza di turisti alla ricerca di emozioni e di bramosi acchiappa-fantasmi amatoriali. Gli hotel con la reputazione di luoghi infestati fanno adesso affari fiorenti smerciando esperienze sovrannaturali. Ma la struttura narrativa che più ci riguarda è quella resa famosa da Ghost Hunters (Syfy, 2004-2016), una serie diventata tanto popolare da essere imitata da altri programmi, aver dato vita a spin-off (Ghost Hunters International, Kindred Spirits), libri, tour con la presenza fisica di star del programma e un mucchio di gadget in vendita, inclusi mini-kit da acchiappa-fantasmi. Il timbro del programma è sorprendentemente working class. Il suo successo si basa su una configurazione interessante e nuova dal punto di vista della narrativa di fantasmi: porta in scena due operai, Jason Hawes e Grant Wilson, che di giorno fanno gli idraulici e di notte gli investigatori del paranormale. In un’era di molteplici lavoretti, caratterizzata da una classe lavoratrice sempre più stressata, la loro condizione di persone ordinarie è rinforzata dal fatto di doversi mantenere con due impieghi. Arrivano al punto di dover letteralmente cambiare la segnaletica magnetica del loro furgone alternando il lavoro diurno a quello notturno.

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La caccia ai fantasmi viene condotta alla stessa maniera dell’idraulica: con un approccio pratico, la tuta blu, utensili e maniere dure. Al posto della cassetta degli attrezzi, del piega-tubi e dello sturalavandini, i protagonisti trasportano dal furgone alla casa cavi, videocamere, registratori e rivelatori di movimento. Il processo di preparazione dell’attrezzatura è importante e viene mostrato in ogni episodio. Concentrano la loro opera, al posto dei tubi ostruiti, quasi sempre su case di ordinarie persone delle classi subalterne, nei guai con garage, cantine e stanze infestate da fantasmi. Grant e Jason dedicano parecchio tempo a smontare i racconti di presenze spettrali usando la loro esperienza operaia. Quel continuo picchiettio che si sente in casa è una comunicazione di malcontento dal regno dei morti o il risultato di tubi mal funzionanti? C’è una perdita di gas in casa che può dare allucinazioni a chi la abita, facendo credere di vedere il fantasma dei nonni defunti? O forse l’impianto elettrico danneggiato nel seminterrato contribuisce a creare quello che gli investigatori del paranormale chiamano “la gabbia della paura”, un’area circoscritta CI SONO INVESTIGATORI da un campo magnetico che può provocare mal di testa e nausea, DEL PARANORMALE assieme a inquietudine e ansia. CHE USANO LA LORO Quasi in ogni caso Grant e Jason raccolgono prove del fatto che ESPERIENZA OPERAIA, le case sono davvero infestate da entità soprannaturali, e quindi i COMPAIONO ESPONENTI loro clienti non patiscono solo gli effetti tipici della vita della classe DI UNA WORKING CLASS lavoratrice, come un’intensa stanchezza, uno stress che indebolisce SPAVENTATA E AFFRANTA le difese immunitarie e povere condizioni abitative. Possiamo ricondurre all’immenso successo di Ghost Hunters le tante serie paranormali che continuano a specializzarsi nell’indagine sulle abitazioni ordinarie di una classe lavoratrice terrorizzata. Un esiguo numero di programmi televisivi precedenti al 2008 tendeva a scegliere il modello investigativo di Ghost Hunters, come Paranormal State (A&E, 2007-2011), che portava in scena un team di studenti nei panni degli investigatori. Altre serie anteriori al 2008 si basavano invece sulla ricostruzione drammatica delle traumatiche esperienze soprannaturali degli ospiti, che le raccontavano comprovandone la veridicità. I programmi di reinterpretazione spettrale sono spesso introdotti o incorniciati dalla voce fuori campo di un’autorevole figura maschile che sembra rappresentare la verifica solenne e ufficiale delle esperienze soprannaturali, tanto vitale in questo format. Tra questi esempi troviamo Ghostly Encounters (del canale canadese Viva/T, in onda dal 2005 al 2011, poi venduto negli Stati uniti attraverso i canali Biography e Destination America) e A Haunting (Discovery Channel, 2007-2011, ora trasmesso su Destination America). Una serie classica, alla maniera di Ghost Hunters, è Dead File, un popolare show di Travel Channel che va in onda dal 2011. La serie porta in scena una squadra di investigatori composta da una medium, Amy Allan, e da un «detective della squadra omicidi di New York in pensione», Steve DiSchiavi. Lei ha il compito di comunicare in forma diretta con gli spiriti, mentre lui perquisisce gli immobili alla ricerca di tragedie pro-

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dotte da fantasmi e interroga i testimoni. Il climax di quasi ogni episodio è raggiunto quando DiSchiavi dice all’ansioso proprietario, la cui casa infestata rimane in attesa di un verdetto: «Il punto è: per te è sicuro rimanere qui? Oppure è arrivato il momento di andarsene?». Sempre più spesso nelle ultime stagioni sembra che Amy Allan porti cattive notizie ai proprietari: devono abbandonare le abitazioni. Entità maligne si sono impossessate delle loro case e né la saggezza né l’esorcismo potranno disperderle. In risposta a queste notizie, spesso elencando una serie di traumatiche aggressioni soprannaturali, queste persone, dall’aspetto impoverito e oppresso, si mettono a piangere. In molti episodi troviamo i duri segni fisici dell’esistenza impressi nel cuore del paese: persone prematuramente invecchiate, dalle facce rugose, con la pelle simile a cuoio, persone che tendono all’obesità, che hanno perso i denti, coi capelli sfibrati, tinti con prodotti alla buona. Una frustrante realtà scritta su quei volti e quei corpi, fatta di limitata disponibilità economica, molteplici lavori sottopagati, un’alimentazione di cibo-spazzatura e nessuna decente assistenza sanitaria. Raccontano quel che patiscono sotto un’oppressione sovrannaturale, e i sintomi della possessione spettrale risuonano – sorprendentemente – come versioni più intense di quel che le classi subalterne, in circostanze economiche precarie, soffrono quotidianamente. In ogni puntata c’è la stessa litania: una tremenda ansia, insonnia, incubi, umore improvvisamente rabbioso, malattia, depressione, pensieri suicidi, accresciuta dipendenza da alcol e farmaci, e un senso profondo di solitudine. Lottano per salvare case che spesso sono disordinate e fatiscenti, con mobilio logoro e mal assortito e tristi tentativi di riparazione lasciati in un permanente stato di incompiutezza. In molti episodi Steve DiSchiavi, dopo aver fatto il giro di quelle residenze malandate e aver ascoltato le loro sventure paranormali, domanda: «Lasciami chiedere una cosa: perché non ve ne andate da qui?». È una domanda che fa piangere il cuore, ed è anche offensiva, perché la risposta è già di fronte ai nostri occhi: la casa è l’unico bene di quella famiglia. Spesso il proprietario risponde in maniera educata, rendendo esplicita la propria disperata condizione: «Non posso permettermi di andarmene. Tutta la mia vita è in questa casa. È tutto quel che ho». Come forma di intrattenimento questi show televisivi sembrano particolarmente adatti alla nostra epoca di recessione economica. Trasmettono alla condizione di progressivo impoverimento della classe lavoratrice la qualità vivida di qualcosa di «sinistro, epico e misterioso», che Adam Curtis ha identificato nel suo saggio. Sarebbe difficile immaginare gli spettatori intenti a guardare infinite stagioni di varie serie sullo sgombero di appartamenti, piene di interviste a persone comuni, ansiose e depresse, messe davanti a una telecamera. Ma aggiungeteci fantasmi e demoni e detective del paranormale ed episodi con titoli come La casa del demonio, Vattene o muori o La casa del morto risorto: o: allora anche i mostri che ci rovinano la vita diventano degni avversari in un mondo estremamente terrificante.

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Il millennio Minsky Più che una teoria del collasso, per cogliere il significato degli eventi del 2008 serve un pensiero del salvataggio. Le analisi di Hyman Minsky, l’economista post-keynesiano preferito tra i marxisti e apprezzato dagli investitori

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opo averne vissuta una, rispetto agli anni precedenti il 2008 ora i socialisti sembrano meno preoccupati dalla “crisi”. A quei tempi, le teorie della stagnazione e della crisi erano una parte notevole del repertorio economico marxiano. Eri un sostenitore della Scuola della Monthly Review e della sua nozione di “problema cronico di assorbimento del surplus”? Ti convinceva di più la storia di RoMike Beggs bert Brenner della “sovracompetizione che cresce a partire dalla sovracapacità produttiva permanente della manifattura globale”? Oppure tutto questo era soltanto revisionismo senza speranze di chi aveva abbandonato la legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”? Naturalmente, dopo averla sognata così a lungo i teorici della crisi erano pronti ad agire quando la Lehman Brothers ha rotto il settimo sigillo e spalancato la stretta porta. Quando tutto è crollato, ero alla sessione Mike Beggs è redattore plenaria di Historical Materialism 2008 a Bloomsbury, Londra. di Jacobin Usa e La «finanziarizzazione» era un mero sintomo morboso del dedocente di economia clino dei rendimenti, forse uno sfogo per la sovra-accumulaziopolitica all’Università ne, e il mercato subprime era il suo ultimo disperato rifugio? di Sidney. Oppure la finanza era una sfera con una relativa autonomia in La traduzione cui nuove contraddizioni si stavano condensando? dell’articolo è di Marie Qualcuno colse l’attimo per lanciare una frecciata agli scritMoïse. tori marxisti Leo Panitch e Sam Gindin, che qualche anno pri-

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ma si erano assegnati la parte degli anti-Geremia, dei profeti eccentrici di un non-destino. Sostenevano che il capitalismo fosse in declino cronico dagli anni Settanta, e che si fosse salvato per un fortuito aggiustamento spazio-temporale dopo l’altro. Secondo loro, nel mondo a capitalismo avanzato l’accumulazione era debole solo in confronto col lungo boom del dopoguerra. In una prospettiva storica e su un’ampia estensione geografica, il capitalismo e l’impero se la stavano cavando bene. Eppure, ecco che arriva la grande crisi. Il presidente della Federal Reserve [la banca centrale degli Stati uniti d’America, ndt] non aveva avvertito che «potremmo non avere più un’economia lunedì prossimo»? Esattamente così! Ma riguardando indietro al 2008, Panitch e Gindin sembrano i più preveggenti. Non ne avevano mai negato la possibilità, avevano solo sostenuto che «prevedere una crisi non è una strategia». Le teorie della crisi non erano affatto di aiuto politico per i socialisti. Anche se una teoria spiega, la spiegazione è politicamente utile solo se identifica le leve più efficaci per l’azione. La teoria marxiana della crisi è inusuale perché è una diagnosi che non prova a fornire elementi per la cura. La prognosi è che il capitalismo è intrinsecamente instabile e non può essere stabilizzato. E poi? La speranza taciuta era che una grande crisi smascherasse il capitalismo, rivelasse che la prosperità che la gente pensava di possedere era una menzogna. Ma ora abbiamo realizzato che non delegittima il capitalismo, e non ne minaccia di per sé la fine. La crisi porta a un capitalismo malfunzionante per un po’ di tempo e legittima tutte le misure per ripristinarne il funzionamento, vero o falso che sia: salvataggi, incentivi alle aziende, austerità, contrasto all’immigrazione. Per troppo tempo i socialisti hanno immaginato la grande crisi come l’evento che avrebbe fatto saltare in aria il sistema.

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Intanto, la stampa economica stava scoprendo il proprio teorico socialista della crisi: Hyman P. Minsky. Nel 2016 l’Economist incluse l’«ipotesi dell’instabilità finanziaria» di Minsky nell’elenco delle sei teorie più influenti in economia, accanto al moltiplicatore keynesiano, l’equilibrio di Nash, l’asimmetria informativa. Gli ideatori di questi concetti – eccetto il moltiplicatore che è arrivato troppo presto – hanno ricevuto tutti il premio Nobel. Minsky era quello insolito, riconosciuto a malapena ai suoi tempi negli ambiti convenzionali della propria disciplina. L’Economist Economist constatò che prima della morte, nel 1996, lo avevano menzionato solo una volta e in seguito solo di sfuggita. A partire dal 2007 il giornale aveva recuperato, citandolo in più di trenta articoli. Paul Krugman dichiarò che «Siamo tutti minskiniani ora», e coniò l’espressione «momento Minsky» in un articolo firmato insieme a Gauti Eggertsson. Janet Yellen, allora presidente della Federal Reserve Bank of San Francisco ma destinata a cose ben più grandi, entrò alla 18th Annual Hyman P. Minsky Conference nel 2009 per presentare un articolo – intitolato «un crollo Minsky: lezioni per banchieri centrali». Mervyn King e Mark Carney, i successivi governatori della Banca d’Inghilterra, iniziarono a loro volta a citare Minsky.

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Il vero «momento Minsky» è il salvataggio

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menti. Poiché il bisogno di un quadro del genere si fa più chiaro durante una crisi finanziaria, Minsky è stato visto solamente come un teorico del punto di collasso. Ma Minsky viene interpretato a torto come un profeta. Una raccolta di suoi articoli si intitola, in modo abbastanza prevedibile, Potrebbe ripetersi? – il cui soggetto sottinteso è la Grande Depressione. Il saggio prende il nome da uno degli articoli della raccolta, in origine pubblicato nel 1962. Ovviamente si può presumere che la risposta di Minsky sia «Sì». In realtà lui risponde «Probabilmente no». L’occasione per scrivere quell’articolo fu un crollo nel mercato azionario, che aveva innescato sui giornali diverse riflessioni sulla crisi del 1929. Il Consiglio dei consulenti economici di Kennedy respinse la possibilità che potesse ripetersi, grazie ai «cambiamenti fondamentali messi in atto durante e a partire dagli anni Trenta». La risposta di Minsky scartava questa ipotesi non in quanto fondata sulla speranza, ma piuttosto per mettere a critica il fatto che non fosse sostenuta da alcuna spiegazione teorica della relazione tra i rapporti macroeconomici e il sistema finanziario. Il proposito di Minsky era di fornire tale teoria. L’articolo espose la prima formulazione di ciò che sarebbe divenuta più avanti «l’ipotesi dell’instabilità finanziaria». Questa avrebbe sempre incluso la tesi secondo cui la crescita del settore pubblico e i cambiamenti nella politica economica pongono un limite alle conseguenze macroeconomiche dei guai finanziari. All’inizio Minsky credeva che le banche centrali avessero imparato dall’esperienza della Depressione e che avrebbero fatto di tutto per interrompere una reazione a catena di bancarotte, agendo da finanziatori di ultima istanza, oppure organizzando e sottoscrivendo un salvataggio da parte di privati. Anche quando la banca centrale si rifiuta in partenza di supportare qualche strumento esotico o qualche istituzione che si comporta male, si trova sempre forzata al salvataggio quando la minaccia è il collasso del sistema. Inoltre, la spesa pubblica era molto più ampia in proporzione alle dimensioni dell’economia di quanto non fosse prima della Seconda Guerra Mondiale. Dato il sistema fiscale e dei trasferimenti, le riduzioni della spesa privata indussero automaticamente delle leve fiscali compensative, anche senza uno stimolo programmato e un deficit maggiore, furono iniettati dei Treasury bond [obbligazioni statali statunitensi, ndt] in un sistema finanziario affamato di titoli sicuri. Quello che Minsky definì «Grande Governo» agì da supporto per attenuare l’impatto di un’inflessione degli investimenti sulle entrate, l’occupazione, i profitti, e i valori patrimoniali.

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Minsky non stava mica lavorando nell’ombra ai suoi tempi – gli sconosciuti non hanno istituti di ricerca o conferenze annuali a loro nome. Ma il suo status di “classico” fu riconosciuto da due pubblici distinti. Fu un nome grosso tra i post-keynesiani e uno dei post-keynesiani preferiti tra i marxisti (per quanto mi riguarda, l’ho incontrato per la prima volta attraverso il punto di vista radicale di Doug Henwood su Wall Street, del 1998). Ebbe un certo seguito anche tra gli investitori professionisti. Uno di questi, Paul McCulley della Pimco – l’azienda di gestione di investimenti da un triliardo di dollari – coniò la nozione di «momento Minsky» e fu responsabile in larga misura della divulgazione del suo lavoro nei giornali di affari (McCulley è anche l’autore del concetto di «sistema bancario ombra [shadow banking]» - che peraltro ha teorizzato da una prospettiva minskiana). Minsky è considerato quasi ovunque come uno dei teorici del collasso finanziario. Il «momento Minsky», secondo McCulley, è il punto in cui una bolla speculativa, alimentata dal debito, esplode. Nel modello di Krugman e Eggertsson, il «momento Minsky» è il punto in cui le prospettive sul livello sostenibile della leva finanziaria (rapporto debito-capitale) improvvisamente crollano, spingendo i debitori a cercare di ridurre il loro debito con ogni mezzo necessario. Minsky fornisce un ingrediente mancante nella macroeconomia classica: il quadro per pensare alla relazione tra debito, prezzi delle attività (reali e finanziarie) e investi-

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Negli anni Settanta e Ottanta, quando presentò l’«ipotesi dell’instabilità finanziaria», Minsky non aveva bisogno di predire il futuro guaio finanziario. Poteva sottolineare una lunga serie di salvataggi nel sistema statunitense: una corsa ai certificati di deposito nel 1966, il default della Penn-Central railroad negli anni Settanta, il fallimento della Franklin National Bank del 1974, la corsa ai fondi fiduciari di investimenti immobiliari nel medesimo anno, il collasso di Penn Square del 1982. Questi erano gli episodi che aveva in mente Minsky; nessuno è rimasto nella memoria al giorno d’oggi. Erano crisi ordinarie e rimedi ordinari, e l’ordinarietà era il punto centrale per Minsky. Il vero «momento Minsky» è il salvataggio. Minsky non predisse l’implosione del capitalismo in una grande crisi che avrebbe eliminato tutti: «Abbiamo a che fare con un sistema intrinsecamente instabile», scrisse nel 1975, ma «l’instabilità fondamentale tende verso l’alto». Nel 1986, sintetizzava la questione così: Ogni volta che la Federal Reserve tutela uno strumento finanziario, ne legittima l’uso per il finanziamento di attività. Questo significa che l’intervento della Federal Reserve non solo disinnesca l’inizio di una crisi, ma prepara il terreno per una ripresa del processo di crescente indebitamento – e consente l’introduzione di nuovi strumenti (Stabilizing an Unstable Economy, 1986, p. 106).

Così come la Teoria Generale di John Maynard Keynes fu influenzata dal periodo di depressione in cui fu elaborata, anche l’«ipotesi di instabilità finanziaria» di Minsky fu il risultato dell’inflazione degli anni Settanta e del mercato in ascesa degli anni Ottanta:

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L’inflazione dei prezzi non era più cronica ai tempi in cui Minsky scrisse queste parole, e non lo è più da allora. La debolezza del lavoro (della pressione salariale) eliminò la parte di inflazione dovuta ai salari all’interno del ciclo economico, con il supporto della strategia delle politiche macro-economiche, studiate affinché partissero scioperi preventivi al primo segno di rigidità del mercato del lavoro. Ma l’inflazione dei prezzi delle attività non è mai finita. Ora la teoria di Minsky regge di più se inserita in una spiegazione del lungo trend ascendente del valore del capitale proprio e dei prezzi dei beni immobiliari che si è delineato a partire dagli anni Ottanta, con un passo all’indietro ogni due passi avanti. Minsky riesce a dare spiegazione sia del Greenspan put (provvedimento di politica monetaria che permetteva ai detentori di titoli di venderli a terzi in qualsiasi circostanza a un prezzo prefissato) sia del nuovo ruolo della Federal Reserve nei termini di «operatore di mercato di ultima istanza» come l’ha definita Perry Mehrling dopo il 2008. Chiunque abbia letto con attenzione la loro interpretazione di Minsky non resterebbe sorpreso nel leggere nel 2018 le prime pagine dei giornali che sostengono il «ritorno delle obbligazioni garantite», e che i titoli di credito sono «troppo attrattivi per essere ignorati», o che «il mutuo subprime è tornato sul mercato e ha un nome nuovo di zecca». E non sarebbe una sorpresa nemmeno sentire che il «sistema bancario ombra» godrebbe di ottima salute, come sostiene Daniela Gabor. Da una prospettiva minskiana, il periodo successivo al 2008 è il ripetersi della storia di cui Minsky aveva parlato. È la traiettoria di molti strumenti, istituzioni e mercati dall’innovazione alla crisi e al salvataggio fino alla ricostruzione come parte della fornitura finanziaria. Una volta era il mercato dei fondi

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Quello con cui ci sembra di avere a che fare è un sistema che sostiene l’instabilità proprio mentre impedisce la depressione del passato. Invece di crisi finanziarie e profonde depressioni distanti tra loro decenni, si verificano minacce continue di crisi e di profonda depressione a distanza di pochi anni l’una dall’altra; invece di un’effettiva depressione, ora abbiamo a che fare con un’inflazione cronica (Stabilizing an Unstable Economy, 1986, p. 106).

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federali, poi sono arrivati i certificati di deposito, i fondi di mercato monetario, i fondi fiduciari di investimenti immobiliari. Prima ti ignorano, poi ti ammoniscono, poi ti salvano, e poi diventi parte della fornitura finanziaria e ti ignorano di nuovo. Proprio come Keynes che cercava di fornire una teoria generale, e non solo una teoria per i tempi di crisi, Minsky volle fare altrettanto. Come afferma Perry Mehrling, «la sua enfasi sulla crisi può essere capita meglio come il tentativo di attirare l’attenzione sul suo modo di pensare […]. Per Minsky la crisi finanziaria era solo il caso più estremo di un problema permanente che ogni economia finanziaria sviluppata si trova ad affrontare, ovvero il problema del rifinanziamento a causa dello spostamento dell’equilibrio tra gli impegni di cassa e i flussi di cassa». Per Minsky, la finanza non è qualcosa di trapiantato nel capitalismo. La finanza non è un parassita e nemmeno una sfera separata. L’economia capitalista è finanziaria fino al midollo. Minsky non porta semplicemente l’attenzione sulle istituzioni finanziarie; egli tratta tutti gli attori economici come istituzioni finanziarie – banche, imprese e famiglie allo stesso modo. Tutte le unità economiche, infatti, hanno un bilancio, ricevono e fanno pagamenti, contraggono e concedono prestiti. La «transazione economica chiave» è «lo scambio di denaro oggi per altro denaro più avanti». Quasi tutti gli aspetti della finanza rientrano in questa definizione; nei dettagli si aggiungono solo le tempistiche e le condizioni per il «denaro più avanti». Alcune istituzioni sono specializzate in funzioni finanziarie e, in quanto nodi fondamentali nella rete delle relazioni monetarie, i mercati finanziari sono gli epicentri da cui il collasso LA FINANZA NON È facilmente si propaga. UN SEMPLICE PARASSITA La finanza è solo finanza. Non ha niente a che vedere con «l’ottiE NON AGISCE NEMMENO mizzazione intertemporale» dei modelli idealizzati. La finanza non SU UNA SFERA SEPARATA. ottimizza l’allocazione di mezzi scarsi tra usi alternativi in una soL’ECONOMIA CAPITALISTA cietà, né predice il futuro attraverso il buonsenso della gente. È solo PER MINSKY È FINANZIARIA «scambio di denaro oggi, per altro denaro più avanti». Il capitalismo FINO AL MIDOLLO è fondamentalmente instabile perché le aspettative sul «denaro più avanti» possono mettere in moto flussi di «denaro oggi» che hanno poco a che vedere con le condizioni macroeconomiche dell’oggi e fissano delle promesse di «denaro più avanti» basate su aspettative che potrebbero non concretizzarsi quando «più avanti» diventa «oggi».

Ancor prima di diventare un economista Hyman Minsky fu un socialista, e divenne economista proprio a causa della sua adesione al socialismo. I suoi genitori erano degli emigranti menscevichi (di buona annata, 1905), entrambi molto impegnati nei sindacati di Chicago e nei movimenti socialisti. I due si incontrarono per la prima volta alla festa del Socialist Party per il centenario della nascita di Karl Marx, nel 1918. Hyman nacque l’anno seguente. Vent’anni più tardi, Minsky era uno studente dell’Università di Chicago, infelice di specializzarsi in matematica e fisica, e che dedicava la maggior parte delle sue energie alla politica. Partecipava anche lui alle riunioni del Socialist Party e fu proprio lì che incontrò l’economista polacco Oskar Lange, chiamato a tenere un ciclo di lezioni per il Partito in Economia del socialismo. Il giovane Minsky trovava che gli interventi di Lange fossero «un modello di chiarezza nell’argomentare sia come un’economia di mercato possa raggiungere “l’efficienza”, sia come il socialismo di mercato decentralizzato possa realizzare gli obiettivi dei mercati, paradossalmente irrealizzabili sotto il capitalismo».

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Un giorno, su una fredda banchina della stazione, poco dopo la fine di una sua lezione, Lange convinse Minsky a passare agli studi di economia. Minsky non fu mai un leninista e mai un membro del Communist Party, ma continuò a ritenersi un socialista e contribuì a pubblicazioni socialiste, per decenni. Tra i suoi mentori si annoverano: il socialista di mercato e keynesiano Abba Lerner (che Minsky conobbe al rientro di Lerner dal Messico, dopo aver fatto lezione a Lev Trotsky su Keynes), Wassily Leontief (che più tardi lo fece assumere ad Harvard) e il suo tutor di dottorato Joseph Schumpeter, che Minsky descrisse come un «Marxista conservatore» (ma ancora meglio lo definì Joan Robinson: Schumpeter era «Marx con una variazione di aggettivi»). Minsky rimase molto deluso dalla traiettoria politica di Oskar Lange, che più avanti divenne collaboratore di Stalin e titolare della più alta carica nella Repubblica Popolare di Polonia. Ma tornando indietro agli anni Settanta – proprio a quando stava riformulando la sua Ipotesi dell’instabilità finanziaria – Minsky affermò che «il programma di ricerca che sto portando avanti è coerente con il Lange del 1939-42». Questa affermazione è la prova di quale fosse l’intento originario di Minsky con l’ipotesi dell’instabilità finanziaria. L’obiettivo non era dimostrare una propensione del capitalismo al collasso, ma piuttosto rendere evidente che i mercati finanziari reali non sono un insieme di informazioni magiche, ma un dispositivo che crea incentivi per organizzare la complessa divisione del lavoro in maniera equa ed efficiente. Minsky combinò Lange con Keynes. Le lezioni che Lange diede per il Socialist Party a Chicago si basavano su un lungo articolo pubblicato in due parti nella Review of Economic Studies del 1936-37, e pubblicate poi sotto forma di libro nel 1938. Oggi Lange è visto come un classico del chiedesse diseguaglianza o la proprietà privata dei mezzi «socialismo di mercato», ma il suo atteg- di produzione. In realtà il socialismo, nella prospettiva di giamento nei confronti del mercato era Lange, potrebbe avere un sistema di prezzi migliore. L’eambivalente e potrebbe essere definito quilibrio nella competizione di cui parlano i manuali di economia era una fantasia dal punto di vista del capitacome «socialismo dei prezzi». Mises e Hayek sostenevano l’impossibilità lismo. Nel capitalismo reale, le imprese non prendono i di gestire l’intricata moderna divisione del prezzi come un dato, ma occupano posizioni di maggiolavoro sulla base di una pianificazione cen- re o minor potere di mercato che cercano di difendere o tralizzata. Senza i mercati, i prezzi dei beni sfruttare. I risultati positivi di un’economia del benessecapitali sarebbero indeterminati e non vi sa- re potrebbero essere raggiunti solo in un’economia sorebbe modo di ripartire le risorse in maniera cialista in cui i prezzi siano direttamente stabiliti come efficace. Secondo i due autori, la generosa se vigesse un regime di concorrenza perfetta. Al conproduttività del capitalismo semplicemente trario delle imprese che cercano alla cieca una via per non era matura per la spennatura socialista: la minimizzazione dei costi e la massimizzazione dei togli la proprietà privata e il mercato e l’ab- profitti, una gestione socialista sarebbe orientata diretbondanza svaniranno. tamente alla minimizzazione dei costi, avendo i prezzi Lange rigirò quell’argomentazione con- come parametri. I pianificatori aumenterebbero o dimitro i due autori austriaci. Questi avevano nuirebbero i prezzi secondo il rapporto tra domanda e ragione a sostenere che i prezzi fossero offerta. Il banditore d’asta immaginario dell’equilibrio necessari, ma torto sul fatto che questo ri- economico generale di Walras – una descrizione dei processi di mercato reale completamente irrealistica – diventerebbe reale. Per Lange, la pianificazione e i mercati non erano in antitesi. I mercati sarebbero stati uno strumento per implementare i piani, trasmettendo informazioni e organizzando incentivi. I beni di consumo e il mercato del lavoro potrebbero restare, in quanto modo più funziona-

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le per assicurarsi che le persone siano libere di dirigere la produzione verso ciò che decidono di consumare, e di muoversi tra le possibilità di impiego a loro piacimento. Ma in questo caso lavorerebbero in maniera ben diversa. Anche i mercati ideali organizzano la produzione per soddisfare le persone in proporzione alle entrate da spendere; distribuendo in modo equo le risorse, il socialismo adempirebbe per la prima volta alle pretese democratiche del mercato, permettendo la libera espressione delle mode e dei gusti. Con la piena occupazione, il mercato del lavoro sarebbe il mercato dei venditori. Le differenze salariali rifletterebbero i gradi d’intensità e di amabilità degli impieghi, adempiendo alla teoria dei salari di Adam Smith come il capitalismo non ha mai fatto: professori e professoresse potrebbero guadagnare meno di lavoratori e lavoratrici delle pulizie. Le differenze di reddito derivanti da un divario nelle capacità o altre espressioni della fortuna potrebbero essere mitigate con una tassazione progressiva. E ovviamente, mentre il sistema dei prezzi potrebbe andare bene per il consumo individuale, la tassazione e i servizi pubblici si prenderebbero cura dei beni collettivi come l’educazione, la salute, le infrastrutture. Minsky vide una corrispondenza naturale tra la visione di Lange e quella di Keynes. La politica di Keynes era complessa e non era affatto socialista. Ma il libro di Minsky del 1975, John Maynard Keynes, si conclude con una lunga improvvisazione in cui prende sul serio l’ambiguo appello di

Keynes all’«eutanasia di chi vive di rendita» e alla «socializzazione degli investimenti». Minsky cita il Keynes degli anni Venti, quello che si proclamava «meno conservatore nelle mie tendenze di elettore laburista medio» e che «la Repubblica della mia immaginazione risiede nell’estrema sinistra dello spazio celeste». Lange pensava che, una volta eliminata l’ineguaglianza di risorse, un mercato idealizzato e simulato fosse un buon meccanismo distributivo. Allo stesso modo Keynes scriveva in Teoria generale:

Lange sosteneva che nella società capitalista l’ineguaglianza e il potere del mercato impedivano al meccanismo del prezzo di fare il suo lavoro – ovvero organizzare la produzione nel presente, per fare il miglior uso delle risorse e andare incontro ai bisogni e ai desideri in maniera corretta ed efficiente. Keynes sosteneva che in particolare avesse fallito il meccanismo del tasso di interesse nel suo compito di programmare nel tempo, per poter fare un uso pieno delle risorse nel presente e provvedere in simultanea ai consumi desiderati nel futuro. Il cuore di Teoria generale è che il tasso di interesse non porti a un equilibrio tra i risparmi desiderati e gli investimenti desiderati. Esso infatti non coordina le preferenze delle persone sulle tempistiche dei consumi e gli investimenti per provvedervi. Il tasso di interesse è un fenomeno monetario, determinato sui mercati finanziari. Non è veicolo di provvidenza ma semplicemente riflette gli esiti delle transazioni tra persone con prospettive incerte rispetto a un futuro incerto, motivate dalla speranza di guadagnare e dalla paura di perdere. Per l’intera comunità, risparmiare non significa provvedere per il futuro, ma astenersi dal consumo nel presente; l’aumento di risparmi di una persona corrisponde al declino delle entrate di un’altra. Sono gli investimenti che provvedono al futuro e questo dipende non dal risparmio, ma dalle prospettive di redditività futura, relativa ai tassi di interesse. Le imprese non hanno bisogno

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Se le nostre autorità centrali di controllo riuscissero a stabilire un volume complessivo di produzione corrispondente per quanto possibile alla piena occupazione […] allora non vi è alcuna obiezione da opporre all’analisi classica del modo in cui l’interesse individuale privato determinerà ciò che si produce in particolare, in quali proporzioni i fattori di produzione verranno comminati nella produzione e in che modo il valore del prodotto finale si distribuirà fra di essi (Utet, 2013).

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di mettere le loro mani nei risparmi della gente prima di poter investire; le banche e i mercati finanziari possono creare e mobilitare potere d’acquisto. Gran parte del lavoro di una vita di Minsky può essere visto come un’elaborazione di questo aspetto della Teoria generale. Keynes ha espresso la sua nel modo più modesto e astratto possibile. Se Keynes si focalizza sul tasso di interesse, su un solo tipo di obbligazioni, Minsky estende la sua analisi all’intera gamma di strumenti finanziari, in particolare ai titoli azionari. Se Keynes descrive la «preferenza per la liquidità» come l’esigenza di una certa quantità di denaro (comunque definita), per Minsky la liquidità è una cosa complessa che include l’interazione tra lo stato patrimoniale, i flussi di cassa previsti, e i flussi di cassa potenziali. Se Keynes negli anni Trenta si concentra sulle disfunzioni della disoccupazione, Minsky negli anni Settanta si focalizza sulle disfunzioni dell’inflazione e delle bolle speculative sui prezzi delle attività finanziarie. La tesi implicita è la stessa: non c’è ragione perché il perseguimento razionale del proprio interesse individuale sui mercati finanziari generi un esito razionale per il sistema intero. Non esiste nessuna mano invisibile finanziaria. Ma per Minsky nel 1975 un capitalismo stabilizzato non sarebbe stato sufficiente: anche il mercato falliva «in ciò che conduce a una distribuzione socialmente oppressiva della ricchezza», ma in misura molto più efficiente per il ricco e molto meno per il povero. «Riconoscere il meccanismo del mercato come determinante la direzione dell’occupazione potrebbe ricadere su un cortocircuito pre-esistente della distribuzione di mercato dei redditi». Dal punto di vista di Minsky anche Keynes faceva la medesima analisi e per que- generalizzare da Bloomsbury. Piuttosto che «filosofia e culsto sperava nell’«eutanasia di chi vive di tura» i ricchi continuavano a trovare nuove combinazioni rendita», ma pensava che sarebbe stato di beni ad alta intensità di capitale da desiderare e «il loro tutto troppo facile. Keynes credeva che la esempio trapelava verso il basso, verso i non così ricchi». remunerazione del capitale sarebbe dimi- Un’ondata dietro l’altra di novità tecnologiche ha colpito i nuita quando la ricchezza fosse diventata negozi nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, abbondante. In altre parole, si verificava mentre i contratti statali per l’armamento ad alta intensità di una caduta tendenziale del tasso di profit- capitale continuava ad aumentare. Non c’era alcuna garanto. Le ricompense per la mera detenzione zia che il capitale potesse diventare talmente abbondante da di ricchezza sarebbero andate scemando. eliminare i rendimenti derivanti dalla detenzione di ricchezIn realtà, questa si chiamerebbe «una esau- za (questa tesi, per inciso, proveniva direttamente da Lange). Minsky pensava che i gusti potessero evolvere prefestiva socializzazione degli investimenti»: lo scopo del profitto andrebbe scemando gra- rendo lo svago e la cultura a gadget ed energia, ma che questo sarebbe accaduto con molta più probabilità in una zie a questa. Purtroppo, diceva Minsky, non era così società che fosse già egualitaria. Così Keynes si sbagliava semplice. Keynes pensava che il capitale ad aspettarsi che i rendimenti derivanti dalla ricchezza avrebbe raggiunto un punto di saturazione sarebbero scomparsi: «potrebbe anche darsi che l’eutanaperché credeva, a torto, che le persone alla sia di chi vive di rendita nella forma a cui puntava Keynes fine sarebbero state soddisfatte delle merci, richieda innanzitutto limitazioni alla crescita dei bisogni per lo meno delle merci prodotte con inve- relativi, e tale crescita richiede una distribuzione delle enstimenti sostanziali di capitali. Sbagliava nel trate basata su uno scarso o nullo rendimento derivante dalla ricchezza posseduta, per esempio l’eutanasia preventiva di chi vive di rendita». Lo stesso Keynes diede seguito alla sua chiamata alla «socializzazione relativamente estesa degli investimenti», affermando che «non è la proprietà privata dei mezzi di produzione che deve assumere lo stato», ma era sufficiente «determinare l’ammontare complessivo delle risorse

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Molto più ampia di quanto il titolo non lasci intendere, quest’opera non è altro che il quadro per comprendere il capitalismo. Mescola la teoria economica con una trattazione della storia finanziaria statunitense sin dalla Seconda Guerra Mondiale. È la formulazione definitiva dell’Ipotesi dell’instabilità finanziaria di Minsky e si conclude con una serie di proposte politiche ancora più dettagliate. Sfortunatamente la proposta politica segna la ritirata dal socialismo di mercato degli anni Settanta. La radicalità del suo testo del 1975 non dovrebbe essere sovrastimata. In quell’opera Minsky faceva appello soltanLa ritirata di Minsky to alla socializzazione dei «piani alti». Ma lo schema precedente dava egual peso alla Un decennio dopo l’uscita del libro John Maynard Key- stabilizzazione macroeconomica, a un’enes, Minsky pubblicò la sua opera più importante, Stabili- spansione «dei beni comuni-sociali», e a zing an Unstable Economy (1986). una distribuzione egualitaria delle entrate. E Minsky lo chiamava tranquillamente «socialismo». A metà degli anni Ottanta, la stabilizzazione domina in maniera assoluta. «Il capitalismo è difettoso – scrive ora Minsky – perché non può assimilare prontamente i processi di produzione che usano capitale fisso su larga scala». Questa è la radice dell’instabilità finanziaria, verso l’alto e verso il basso: la produzione dipende da attività a lungo termine, ma il loro valore è instabile perché le persone non possono prevedere il futuro. Quando queste hanno fiducia nella profittabilità futura, le valutazioni sono alte, le imprese investono in capitale fisso, e il reddito creato dagli investimenti convalida le alte valutazioni. Quando le persone sono meno fiduciose, preferiscono la sicurezza e la liquidità, la valutazione delle attività a lungo termine diminuisce, gli investimenti si riducono e spese inferiori alle attese convalidano valutazioni più basse. Il capitalismo ha anche molti altri problemi, ma «per quanto detestabili possano essere l’ineguaglianza e l’inefficienza, non c’è legge scientifica o evidenza storica che dica che un sistema economico per sopravvivere deve andare incontro agli standard di eguaglianza ed efficacia». Il sistema è insostenibile se «oscilla tra minacce di collasso imminente dei valori dei beni e minacce di un’accelerazione dell’inflazione e di speculazione galoppante». Le sue proposte allora puntano al problema della stabilità. Una volta risolto questo, «tale programma economico è il migliore per minimizzare l’ineguaglianza» – ma l’ordine è chiaro. L’espansione del consumo collettivo è interamente ritirata. Minsky sostiene quello che definisce «il Grande Governo» innanzitutto in quanto forza di stabilizzazione macroeconomica. Gli stanziamenti federali dovrebbero almeno essere dello stesso ordine di grandezza degli in-

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destinate ad aumentare gli strumenti e il tasso base di ricompensa per coloro che li possedevano». Ma Minsky difese la causa della socializzazione in misura molto più letterale, almeno dei «piani alti» dell’industria. La prospettiva di Keynes era «coerente in linea di principio» con il socialismo di mercato dei suoi contemporanei come Lange e Lerner. Eppure, la politica keynesiana prese una strada diversa. I governi appresero la lezione dalla Seconda Guerra Mondiale, ovvero che un ampio budget di governo era sufficiente per stabilizzare l’economia capitalistica. La politica fiscale divenne il sostituto della socializzazione. La politica macroeconomica lavorò per rinforzare i rendimenti del capitale nella speranza di alimentare gli investimenti privati. «La politica della piena occupazione ha assunto una connotazione conservatrice; ciò che è stato raggiunto potrebbe essere chiamato in maniera appropriata come socialismo per i ricchi». L’instabilità finanziaria «verso l’alto» era l’effetto collaterale, poiché gli stabilizzatori automatici dei grandi stanziamenti di governo e i meccanismi di protezione della banca centrale salvavano il capitale dal crollo della valutazione senza essere in grado di tenere a bada l’esuberanza/la sovrabbondanza.

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vestimenti privati, in modo da poter finire il lavoro quando questi ultimi recedono – ma gli stanziamenti federali non devono essere più grandi. Minsky propone la «stima generosa» che il 20% del reddito nazionale lordo sia sufficiente, e tramite questo parametro le spese del governo federale del 1983 (l’anno che fa da parametro di riferimento) erano di oltre cento miliardi di dollari troppo alte (per un totale di 826 miliardi) per bilanciare il budget in condizioni di piena occupazione. Invece di espandere lo stato, egli propone di tagliare più di un decimo delle spese federali e di lasciare che le tasse assumano oscillazioni per stabilizzare la domanda. Questo implica una riforma del welfare: propone di «rimuovere i trasferimenti monetari in quanto barriere alla partecipazione al mercato del lavoro». Intende sia rimuovere la verifica dei mezzi su ciò che resta dei trasferimenti sia smantellare «il considerevole apparato per i trasferimenti». Finirebbe così l’aiuto federale ai disoccupati oltre le tredici settimane di copertura. Con la stabilità economica a piena occupazione, non sarebbe necessario estendere oltre tale misura. Invece, il governo manterrebbe un programma di garanzia dell’ocIN TUTTA LA SUA CARRIERA cupazione, garantendo un lavoro per chiunque altrimenti resterebbe MINSKY HA DESCRITTO disoccupato. Ma questi lavori devono essere abbastanza bassi così I MODI IN CUI LA FINANZA da limitare la parte inferiore della distribuzione dei salari di mercato. HA AGGIRATO OGNI Gli adulti percepirebbero una paga annuale pari a settemila dollari REGOLAMENTAZIONE (17.700 dollari nel 2018), all’incirca il salario minimo del momento, IMPEDENDO POLITICHE per effettuare «servizi pubblici, miglioramenti ambientali, ecc.» non MONETARIE RIGIDE meglio specificati. I giovani percepirebbero tremila dollari più vitto e alloggio per lavorare nei parchi nazionali, o come staff nei bar delle scuole e nelle biblioteche in cui studiano. La paga bassa è purtroppo necessaria, sostiene Minsky, perché «i vincoli ai salari e al costo del lavoro sono la conseguenza dell’impegno a mantenere la piena occupazione». La disciplina del mercato del lavoro si mantiene: la popolazione occupata potrebbe non temere la disoccupazione, ma rimarrebbe sicuramente preoccupata dalla riduzione del salario minimo.

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Nel 1975, Minsky aveva criticato il fatto che la teoria keynesiana del dopoguerra si basasse sul sovvenzionare i profitti e sul garantir loro un livello minimo – «il socialismo per i ricchi» – e propose un’alternativa «in cui i settori chiave sono socializzati, in cui il consumo comunitario soddisfa un’ampia proporzione di bisogni privati, e la tassazione delle entrate e della ricchezza è destinata a ridurre l’ineguaglianza». Queste proposte non erano solo positive in sé, ma aiutavano a far fronte al problema dell’instabilità del capitalismo, che chiamava alla «riduzione della dipendenza del sistema dagli investimenti privati». Il piano del 1986 va nella direzione opposta: la stabilità significa soltanto supportare la profittabilità per sostenere il consumo privato. «Una volta ottenuta una struttura istituzionale in cui gli incrementi esponenziali della piena occupazione sono vincolati anche quando i profitti sono stabilizzati, allora i dettagli dell’economia possono essere lasciati ai processi di mercato». Questo è molto più Keynes che Lange. Gli ideali di Minsky di un tempo sono ancora presenti nei principi generali della sua teoria: Minsky fa ancora appello al «controllo pubblico, di una proprietà pubblica non totale della produzione a capitale intensivo su larga scala».

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Se la disoccupazione aumenta poiché i salari del settore privato vengono aumentati per la pressione del sindacato, allora aumenterà l’offerta di lavoratori per [il programma di granzia occupazionale] […] Se il salario del […] programma di occupazione resta immobile, tuttavia, l’aumento dei salari del settore privato ha più probabilità di essere annullato dalla competizione del mercato.

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L’instabilità può essere stabilizzante «La stabilità è destabilizzante»: questo è lo slogan dell’«ipotesi dell’instabilità finanziaria» di Minsky. L’economista intendeva dire che i periodi di tranquillità finanziaria e macroeconomica alimentano la fiducia nel futuro che conduce alla sovra-espansione e alla fragilità. Ma politicamente parlando, è vero anche l’opposto: l’instabilità del capitalismo può essere stabilizzante. Prevedere la prossima crisi non è una strategia per i socialisti perché il socialismo non è semplicemente l’assenza del capitalismo. Non è come se il capitalismo fosse semplicemente un involucro che deve soltanto rompersi e svanire per rivelare un nuovo modo di produzione già pronto. Il socialismo subentrerà solo quando le persone saranno convinte

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Ma quando questi principi generali si declinano in proposte dettagliate, queste si limitano alle ferrovie e all’energia nucleare; altrove la politica della competizione e i limiti sulle dimensioni dell’impresa sono sufficienti. Minsky lascia intendere che la finanza favorisce gli oligopoli perché il potere del mercato protegge i loro flussi di denaro dall’instabilità macroeconomica. «Una volta che il Grande Governo abbia stabilizzato i profitti complessivi, le ragioni del banchiere per il potere del mercato perdono la loro forza». La soluzione per l’«impresa burocratica» è il finanziamento dell’«impresa innovatrice» Tutto sommato, sembra che Minsky abbia chiaramente riconfezionato le sue idee per l’era di Reagan. Da qualche altra parte continuò a parlare di «socialismo keynesiano», ma il suo significato era annacquato, e Minsky diventò più propenso a parlare di «varietà del capitalismo». Con il crollo del blocco orientale, portò avanti le sue proposte per la transizione cui diede inizio con una prospettiva decisamente Langiana – con pianificatori che usavano i segnali di prezzo per gestire le imprese pubbliche – ma anche in questo caso l’impressione è che avesse perso fiducia e i piani successivi finiscono con la privatizzazione. L’obiettivo principale del suo piano era la regolazione finanziaria. La grande ironia di Stabilizing an Unstable Economy è che la brillantezza dell’analisi e degli studi storici di Minsky nella maggior parte del suo libro compromette la fiducia del lettore nelle sue proposte finali. Per la sua intera carriera Minsky ha scritto dei modi in cui la finanza alla fine ha aggirato ogni autorità di regolamentazione che ostruiva il suo percorso e ha impedito rigide politiche monetarie inventando nuovi modi di estendere la liquidità. L’elemento centrale della sua proposta era una serie di controlli dello stato patrimoniale delle banche. Egli raccomanda un rapporto di adeguatezza patrimoniale – un rapporto attivi e capitale proprio del 5% come norma, ma variabile a discrezione della banca centrale «nel caso in cui il sistema bancario complessivo venga compromesso». Non dobbiamo immaginare cosa sarebbe accaduto se il piano di Minsky fosse stato messo in opera, perché non è poi così distante dai requisiti di adeguatezza del capitale imposti sul sistema bancario negli Stati uniti e in giro per il mondo dopo gli Accordi di Basilea del 1988. Il sistema bancario li aggirava, proprio come aveva fatto in passato con i requisiti di liquidità – come raccontato da Minsky al dettaglio in Stabilizing an Unstable Economy. Era più difficile gestire uno stato patrimoniale attorno ai requisiti di capitale di quanto non lo fosse con i requisiti di liquidità. Ma quello non era un problema se le banche potevano trasferire gli affari al di fuori dello stato patrimoniale. Ora sappiamo esattamente quello che è emerso: i requisiti di capitale non hanno evitato un’enorme crisi bancaria, ma le hanno dato la forma che poi avrebbe preso. Minsky, lo storico finanziario, non ne sarebbe rimasto affatto sorpreso.

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che sia una strada percorribile per organizzare la complessa divisione del lavoro da cui dipende la vita moderna. Anche le peggiori crisi finanziarie della storia non sono state fatali per le strutture economiche capitalistiche o per qualsiasi cosa simile. Nelle recessioni profonde, molte persone vengono espulse dal mercato del lavoro e gettate nella povertà o nell’insicurezza e bloccate in questa situazione per lunghi periodi. Molte persone perdono i loro risparmi di una vita, le loro case, e ancora più persone temono di perderli. L’instabilità finanziaria minaccia i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice, ma non minaccia il capitalismo in sé, a meno che non alimenti risposte politiche credibili nella promessa di costruire qualcosa di meglio. E abbiamo visto di continuo che le crisi alimentano le risposte politiche tecnocratiche e reazionarie tanto quanto quelle della sinistra. Una crisi finanziaria rivela quanto la sussistenza di ciascuno dipenda dalla fiducia degli investitori privati. Ripristinare la fiducia attraverso il ripristino della profittabilità ovviamente sembra un percorso di minor resistenza politica rispetto a un piano per mettere fine alla nostra dipendenza dagli investimenti privati. Niente ha più probabilità di scoraggiare ulteriormente la fiducia negli affari di un piano per socializzare gli investimenti in misura «relativamente estesa» o in altro modo. Questa tesi è stata sostenuta soltanto da Oskar Lange, nell’articolo che ha fornito le basi per quelle sue lezioni che hanno convertito Minsky all’economia tanto tempo fa:

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Questo è il gran paradosso della strategia socialista, che nessuno è riuscito ancora a risolvere: i suoi programmi compromettono le basi per un sistema presente prima che si possa costruire il sistema successivo. La vera debolezza che rende il capitalismo propenso alla crisi gli conferisce un’eccellente difesa dagli attacchi politici. Minsky ha ereditato dai socialisti di mercato e da Keynes un programma politico su tre assi fondamentali: eguaglianza, ampliamento dei servizi pubblici e stabilità. Quando è arrivato il momento critico negli anni Ottanta, si è trovato a sacrificare i primi due obiettivi in virtù di un’attenzione esclusiva al terzo. Non fu un fallimento personale; Minsky lesse sicuramente in modo corretto il vento della politica e ne concluse che non ci fosse alcuna via percorribile per una «socializzazione relativamente estesa degli investimenti». Quando la crisi arriva, è troppo tardi.

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Un sistema economico basato sull’impresa privata e sulla proprietà privata dei mezzi di produzione può lavorare solo fino a quando sarà garantita la sicurezza della proprietà privata e delle entrate derivate dalla proprietà e dall’impresa […]. Se il governo socialista socializza le miniere di carbone oggi e dichiara che l’industria tessile sarà socializzata tra cinque anni, possiamo essere abbastanza certi che l’industria tessile sarà rovinata prima di essere socializzata [...]. Quindi, è difficile che una programma complessivo di socializzazioni possa essere raggiunto per fasi progressive. […] Ogni esitazione, ogni vacillamento e indecisione provoca l’invitabile catastrofe economica.

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Iscriversi al Club dei Giacobini che si costituì nella Francia rivoluzionaria nel 1790 costava 36 lire. Associarsi alla nostra avventura giacobina costa 36 euro. Vi chiediamo di farlo da subito, di restare connessi al nostro sito e di seguire le tracce della congiura su Facebook e Twitter @JacobinItalia

DC S Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et; num dit, ut L. Bereoru menihilin iu co ad pribus con Etra ma, nonfex nium niustidees sis, det quo consu erteatus conte intrum estala eo, fatus? P. Idicave, ublin percdet quo consu erteatus conte intrum estala eo, fatus? P. Idicave, ublin perceniUt audernit. Decultorum es audemuntiu viribus o mus ventes anum res At verissi senatus viliciteatia confectur quo etoricavere aves vit? Bitante, ad confent. Git, caelientiam in su me clum diescierit demus; in terum nostra egitio int, meniUt audernit. Decultorum es audemuntiu viribus o mus ventes anum res At verissi senatus viliciteatia confectur quo etoricavere

Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et; num dit, ut L. Bereoru menihilin iu co ad pribus con Etra ma, nonfex nium niustidees sis, det quo consu erteatus conte intrum estala eo, fatus? P. Idicave, ublin perceniUt audernit. Decultorum es audemuntiu viribus o mus ventes anum res At verissi senatus viliciteatia confectur quo etoricavere aves vit? Bitante, ad confent. Git, caelientiam in su me clum diescierit demus; in terum nostra egitio int, mus, que publin horit, nortemni propos facrum. Forternici imus ter lostrium isse factuspim dum hos, quis. Grae, dic o Ximperis iam iae atam dum

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WU MING

VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Il romanzo sui vent’anni che sconvolsero il mondo.

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