«Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978) 9791254693223, 125469322X

Il volume, frutto di una estesa ricerca d’archivio, analizza le formazioni riconducibili a quella peculiare area politic

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Italian Pages 364 [365] Year 2023

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Table of contents :
Copertina
Occhiello
Frontespizio
Colophon
Indice
Ringraziamenti
1. Riflessioni introduttive
1. Prologo
2. L’oggetto della ricerca e lo specchio deformante del Sessantotto
3. Fasi, stagioni ed eventi periodizzanti
4. Violenza, repressione e strategie della tensione
5. Relazioni di genere e moralità: il caso di Servire il popolo(ma non solo)
2. Gli anni del dissenso
1. Gli anarchici
2. Bordighisti e trockisti
3. Dissidenti comunisti, socialisti di sinistra e transfughi libertari
3. Una destalinizzazione a metà
1. Le ripercussioni del 1956: l’area della Sinistra comunista
2. La nascita del neo-operaismo
3. Anarchici, bordighisti e trockisti prima del Sessantotto
4. La Cina è vicina: la formazione dei primi nuclei stalino-maoisti
4. Il quinquennio rosso (1965-1969)
1. Verso il partito: le organizzazioni stalino-maoiste
2. Il biennio 1967-68: tra operaismo e maoismo
3. Servire il popolo e la scissione tra “rossi” e “neri”
4. Tra Trockij e Mao: Avanguardia operaia
5. Il rimescolamento post-movimentista
1. Gli “eretici” del Manifesto
2. Nascita di Potere operaio e di Lotta continua
3. Dal movimento studentesco al Movimento studentesco
6. Sentieri divergenti
1. Lotta continua dal processo Pinelli-Calabresi alla critica dell’estremismo
2. Il Pdup per il comunismo e la nascita di Democrazia proletaria
3. Lotta continua dall’apogeo alla dissoluzione
Abbreviazioni e sigle
Riferimenti archivistici
Indice dei nomi
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«Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978)
 9791254693223, 125469322X

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Eros Francescangeli

«Un mondo meglio di così» La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978)

VIELLA

La storia. Temi 109

Eros Francescangeli

«Un mondo meglio di così» La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978)

viella

Copyright © 2023 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: maggio 2023 ISBN 979-12-5469-322-3 ISBN 979-12-5469-284-4 ebook-pdf

FRANCESCANGELI, Eros “Un mondo meglio di così” : la sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978) / Eros Francescangeli. - Roma : Viella, 2023. - 361 p. ; 21 cm. (La storia. Temi ; 109) Indice dei nomi: p. [345]-361 ISBN 979-12-5469-322-3 1. Movimenti di estrema sinistra - Italia - 1943-1978 322.420945 (DDC 23.ed) Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler

viella

libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Ringraziamenti 9

1. Riflessioni introduttive 1. Prologo 2. L’oggetto della ricerca e lo specchio deformante del Sessantotto 3. Fasi, stagioni ed eventi periodizzanti 4. Violenza, repressione e strategie della tensione 5. Relazioni di genere e moralità: il caso di Servire il popolo (ma non solo)

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2. Gli anni del dissenso 1. Gli anarchici 2. Bordighisti e trockisti 3. Dissidenti comunisti, socialisti di sinistra e transfughi libertari

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3. Una destalinizzazione a metà 1. Le ripercussioni del 1956: l’area della Sinistra comunista 2. La nascita del neo-operaismo 3. Anarchici, bordighisti e trockisti prima del Sessantotto 4. La Cina è vicina: la formazione dei primi nuclei stalino-maoisti

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4. Il quinquennio rosso (1965-1969) 1. Verso il partito: le organizzazioni stalino-maoiste 2. Il biennio 1967-68: tra operaismo e maoismo 3. Servire il popolo e la scissione tra “rossi” e “neri” 4. Tra Trockij e Mao: Avanguardia operaia

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5. Il rimescolamento post-movimentista 1. Gli “eretici” del Manifesto 2. Nascita di Potere operaio e di Lotta continua 3. Dal movimento studentesco al Movimento studentesco

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«Un mondo meglio di così»

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6. Sentieri divergenti 1. Lotta continua dal processo Pinelli-Calabresi alla critica dell’estremismo 2. Il Pdup per il comunismo e la nascita di Democrazia proletaria 3. Lotta continua dall’apogeo alla dissoluzione Abbreviazioni e sigle Riferimenti archivistici Indice dei nomi

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E mi ricordo chi voleva al potere la fantasia Erano giorni di grandi sogni sai Erano vere anche le utopie, eh […] Però ricordo chi voleva un mondo meglio di così… Vasco Rossi, …stupendo, 1993 (Vasco Rossi, Tullio Ferro, Massimo Riva)

Ringraziamenti

Volendo ringraziare chi mi ha aiutato a realizzare questo volume, comincio dicendo che sono molti. Questo studio è iniziato quasi vent’anni fa. Ciò ha comportato che molte di queste persone non siano più tra noi. Le elenco in ordine alfabetico: Tom Behan, Gisella Bochicchio, Anna Bravo, Valerio Bruschini, Rocco Cerrato, Armando Ceste, Ferdinando Cordova, Antonino Criscione, Gigi Dall’Aglio, Andreina De Clementi, Ivan Della Mea, Paola Di Cori, Gigi Di Lembo, Mario Dondero, Claudia Evangelisti, Gigi Falossi, Rudy Leonelli, Attilio Mangano, Marco Melotti, Lidia Menapace, Sandro Miglietti, Nicola Mocci, Lucia Motti, Mario Paolinelli, Renata Petrangeli, Sergio Ragni, Claudio Sabattini, Corrado Sannucci, Emma Scaramuzza, Nicola Tranfaglia e Claudio Venza. Tra l’agosto 2022 e l’uscita del volume, altri due amici di vecchia data hanno lasciato questo mondo. A settembre se n’è andato a sorpresa Carmelo Adagio, con il quale ho condiviso l’esperienza della fondazione dell’associazione Storie in movimento e della rivista «Zapruder». Circa un mese prima era scomparso Marco Pellegrini, che è stato in grado di spronarmi, facendomi conoscere persone “centrali” per la mia vita e la mia professione. Se non ci fossimo incontrati (a Leningrado, nel lontano 1987) la mia vita sarebbe diversa, inclusi rapporti di amicizia, esperienze editoriali e anche familiari. Tramite Marco ho potuto conoscere, all’alba del millennio, Paola Ghione e Mauro Morbidelli, amici fraterni con cui ho condiviso punti di fuga, orizzonti collimanti, appassionate discussioni e scorribande storiografiche. A loro, che difficilmente avrebbero potuto immaginare come le nostre vite si sarebbero intrecciate, va un ringraziamento speciale. Un ringraziamento particolare va anche a Carlo Fumian che pur non conoscendomi si è reso disponibile a supervisionare il mio percorso dottorale a Padova, confrontandosi con me generosamente e in modo paritario. Anche all’amica Antonietta Girolami va un affettuoso grazie, seppur la sua vicenda, cioè la barbara esecuzione di suo marito (e padre di sua figlia Roberta Peci) da parte delle Brigate rosse-Partito della guerriglia, non ha trovato spazio in questo volume. I colloqui con lei sono stati

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«Un mondo meglio di così»

illuminanti per capire la “continuità culturale” tra l’esperienza della militanza in una formazione della sinistra rivoluzionaria e la scelta della lotta armata. Un doveroso e sincero ringraziamento va inoltre a tutto il personale degli archivi e delle biblioteche che ho frequentato. Rivolgo, in particolare, la mia gratitudine a Francesca Albani, Caterina Arfè, Lucilla Garofalo, Linda Giuva, Valeria Gidaro, Mariapina Di Simone e Annalisa Zanuttini (dell’Acs), Rosanna De Longis e Patrizia Rusciani (della Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma), Fabrizio Billi (dell’Asnsmp), Franco Bertolucci (della Bfs), Paolo Casciola (del Cspt), Paola De Ferrari (dell’Archimovi), David Bidussa ed Emanuele Fatta (della Fondazione Feltrinelli), Giovanna Bosman e Cristiana Pipitone (dell’Apc) Silvana Barbalato, Pietro Polito, Marco Scavino e Marco Revelli (dell’Acspg), Maurizio Lampronti (dell’Archivio storico Il Sessantotto di Firenze), Monica Grossi (all’epoca delle mie ricerche direttrice dell’Archivio di Stato di Sassari), Vladimiro Satta (della Biblioteca del Senato) e, last but not least, Margherita Becchetti e William Gambetta (del Csmp), i quali, ma il discorso vale anche per altri summenzionati, sono più che una frequentazione professionale. La ventennale frequentazione con William e Margherita ha decisamente arricchito la mia vita e, ancor di più, questo libro. I soggiorni a Boston, Cambridge, Providence, New York e in California e la partecipazione a seminari e convegni ad Harvard University e Brown University mi hanno dato la possibilità di frequentare numerosi centri studi e biblioteche, al cui personale va un sentito grazie (in particolare a quello della Boston Public Library, dell’Houghton Library di Harvard, della New York Public Library e delle biblioteche della New School for Social Research), nonché l’opportunità di incontrare o conoscere, tra altri studiosi e studiose, Pamela Ballinger, Mario Biagioli, Renae M. Bredin, Federico Finchelstein, Vivien Greene, Charles S. Maier, Thomas E. Mertes, Erica Moretti, Robert (Bob) Lumley, Dimitri Papandreu, Lucia Re, Massimo Riva, Stefano Selenu e Jeffrey Schnapp, che ringrazio vivamente per gli scambi di opinione. Tra coloro che sono stati prodighi di suggerimenti, e indicazioni ci sono numerosi amici, grazie ai quali questo libro non sarebbe quello che è. Alcuni di loro mi hanno fatto utili osservazioni, altri mi hanno indicato sentieri prima di allora inesplorati, altri ancora mi hanno supportato e talvolta sopportato, ospitandomi in varie occasioni. Anche qui – escludendo i già ricordati – li elenco tutti in ordine alfabetico, supponendo che i più “stretti” non se ne avranno a male nel trovarsi in un elenco di una trentina di persone. Grazie molte dunque a Stefano Agnoletto, Roberto Bianchi, Andrea Brazzoduro, Luca Bufarale, Gino Candreva, Silvia Casilio, Liliana Ellena, Giovanni Focardi, Claudio Fogu, Alessio Gagliardi, Diego Giachetti, Chiara Giorgi, Marco Grispigni, Federico Goddi, Ilaria La Fata, Lidia Martin, Paolo Mencarelli, Franco Milanesi, Guido Panvini, Santo Peli, Elena Petricola, Giovanni Pietrangeli, Marco Rossi, Ilenia Rossini, Laura Schettini, Davide Serafino, Giulia Strippoli, Andrea Tappi e Stefania Voli.

Ringraziamenti

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Vorrei ringraziare anche tutti coloro che in questi anni mi hanno incoraggiato ad andare avanti (a cominciare dai miei genitori – Fernando e Mirella – e dai miei fratelli, Mirko e Ariel), mi hanno suggerito qualcosa di utile, segnalato un particolare fondo archivistico o reso partecipe della loro esperienza quale ex protagonisti della storia qui raccontata. Alcuni di loro sono amici di «Zapruder» o dell’Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea (Issasco). Esprimo quindi il mio ringraziamento a Pietro Acquistapace, Giulia Albanese, Manfredi Alberti, Luigi Ambrosi, Giorgio Amico, Silvio Antonini, Enrica Asquer, Elena Bacchin, Francesco Bachis, Luca Baldissara, Fiammetta Balestracci, Andrea Baravelli, Tommaso Baris, Sandro Bellassai, Lorenzo Benadusi, Cesare Bermani, Teresa Bertilotti, Felice Carlo Besostri, Emmanuel Betta, Gian Luigi Bettoli, Barbara Biglia, Agostino Bistarelli, Angelo Bitti, Chiara Bonfiglioli, Bruno Bonomo, Aldo Borghesi, Eliana Bouchard, Giovanna Boursier, Beatrice Busi, Pino Cacucci, Gia Caglioti, Marco Caligari, Enea Cannillo, Francesca Capece, Marco Capoccetti Boccia, Roberta Cairoli, Silvia Camilotti, Loris Campetti, Enrica Capussotti, Roberto Carocci, Gennaro Carotenuto, Mirco Carrattieri, Bruno Cartosio, Alessandro Casellato, Pietro Causarano, Annalisa Cegna, Francesco Chiapparino, Enrico Ciancarini, Bruno Cianci, Salvatore Cingari, Augusto Ciuffetti, Marco Clementi, Mario Coglitore, Michele Colucci, Maria Vittoria Conconi, Davide Conti, Fulvio Conti, Salvatore Corasaniti, Francesco Corsi, Alice Corte, Guido Crainz, Silvia Cristofori, Barbara Curli, Adriana Dadà, Alberto De Bernardi, Giovanni De Luna, Elena De Marchi, Marco De Nicolò, Beppe De Sario, Christian De Vito, Claudio Del Bello, Tommaso Dell’Era, Valeria Deplano, Monica Di Barbora, Beatrice Di Castri, Laura Di Fabio, Michelangela Di Giacomo, Costantino Di Sante, Patrizia Dogliani, Matteo Dominioni, Gabriele Donato, Mirco Dondi, Angelo d’Orsi, Leila El Houssi, Valerio Entani, Walter Falgio, Luca Fanelli, Irene Fattacciu, Omar Favaro, Carlo Feltrinelli, Marco Fincardi, Monica Fioravanzo, Maura Firmani, Filippo Focardi, Steven Forti, Gianni Fresu, Stefano Galieni, Stefano Gallo, Monica Galfré, Damiano Garofalo, Alessio Giannanti, Alessandra Gissi, Gaia Giuliani, Eric Gobetti, Leo Goretti, Fabio L. Grassi, Andrea Graziosi, Oscar Greco, Davide Grippa, Paola Guazzo, Martina Guerrini, Andrea Hajek, Alexander Höbel, Virgilio Ilari, Pasquale Iuso, Livio Karrer, Nicola Labanca, Antonio Lenzi, Gianmario Leoni, Giuliano Leoni, Marco Lorenzin, Fabrizio Loreto, Antonella Lovecchio, Antonello Lullia, Fiamma Lussana, Luca Madrignani, Bruno Maida, Maria Malatesta, Luigi e Peppe Manias, Andrea Maori, Sabrina Marchetti, Luciano Marrocu, Antonio Masala, Roberto Massari, Jessica Matteo, Paolo Mattera, Juri Meda, Diego Melegari, Maria Grazia Meriggi, Alfredo Mignini, Matteo Millan, Claudia Minciotti Tsoukas, Carlo Modesti Pauer, Giancarlo Monina, Raul Mordenti, Marilena Moretti, Ilaria Moroni, Antonio Moscato, Gabriele Muccino, Michele Nani, Raffaele Nencini, Simone Neri Serneri, Roberto Niccolai, Livio Oddi, Giangiacomo Orrù, Alba, Enzo, Vania e Umberto Orti, Tullio Ottolini, Deborah Paci,

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«Un mondo meglio di così»

Giulia Pacifici, Carla Pagliero, Grazia Pagnotta, Damiano Palano, Andrea e Mario Palazzino, Francesca Palmas, Cristina Palmieri, Catia Papa, Marco Paponi, Antonio Parisella, Chiara Pavone, Sabina Pavone, Pietro Peli, Anna Pellegrino, Carlo Maria Pellizzi, Luca Peretti, Vincenza Perilli, Paolo Perri, Alessandro Pes, Bruno Pettinari, Paolo Pezzino, Gabriele Polo, Sandro Portelli, Carmelo Previti, Gabriele Proglio, Paolo Raspadori, Marco Reglia, Luisa Renzo, Antonello Ricci, Simone Ricci, Andrea Ricciardi, Ferruccio Ricciardi, Cecilia Ricciarelli, Vanessa Roghi, Toni Rovatti, Giorgio Sacchetti, Cristina Saccia, Andrea Saccoman, Fabio Salomoni, Paola S. Salvatori, Mariuccia Salvati, Andrea Sangiovanni, Daniele Sanna, Alessandro Santagata, Elisa Santalena, Gianpasquale Santomassimo, Stefano Santoro, Matteo Saudino, Giovanni Savino, Anna Scattigno, Raf (Valvola) Scelsi, Giovanni Scirocco, Luis Miguel Selvelli, Vittoria Serafini, Enrico Serventi Longhi, Ivan Severi, Alessandro Simoncini, Federico Sora, Paola Staccioli, Chiara Stagno, Giulietta Stefani, Matteo Stefanori, Paola Stelliferi, Alessandro Stoppoloni, Francesca Tacchi, Ermanno Taviani, Barbara Tonelli, Simona Urso, Christian Uva, Giorgio Vecchio, Roberto Ventresca, Angelo Ventrone, Andrea Ventura, Elisabetta Vezzosi, Vittorio Vidotto Xavier Vigna, Luciano Villani, Anna Maria Vinci, Franco Vite, Paola Zappaterra e Marco Zerbino. Infine, mi sento di esprimere un ringraziamento particolare a coloro che hanno permesso che questo libro sia come potete leggerlo, ossia Cecilia Palombelli e Virginia Lepri della casa editrice Viella, che hanno dispensato energie, saperi e competenze. Ma il ringraziamento più grande va alla mia famiglia, cioè a mia moglie e ai miei figli (non importa se “acquisiti” o “naturali”), che in questi anni hanno reso possibile che compissi le mie ricerche e scrivessi queste pagine. Grazie dunque, in ordine di apparizione, a Monica Morbidelli, a Vittorio Totaro e a Pietro Francescangeli, ai quali questo libro è dedicato, nella speranza che almeno gli ultimi due riescano a vedere, nell’arco della loro vita, se non i prodromi di «un mondo meglio di così», quantomeno un pianeta più armonioso e pacificato.

1. Riflessioni introduttive

1. Prologo Se negli anni convulsi dell’immediato secondo dopoguerra, carichi di difficoltà ma anche di molte speranze, non esistevano quotidiani riferibili alla sinistra rivoluzionaria e l’età media del corpo militante era più o meno quella del resto della società, se non leggermente più alta, nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento la situazione era ben diversa. Se mi è concesso un artificio (un discorso amplificante) per rendere più efficace il contrasto tra i due periodi, in un giorno feriale compreso tra il 9 e il 25 febbraio del 1979 un simpatizzante della sinistra rivoluzionaria, una volta giunto in edicola, poteva scegliere tra ben cinque quotidiani di area («il manifesto», «Lotta continua», «Quotidiano dei lavoratori», «Ottobre» e «la Sinistra»).1 E al loro interno trovava la 1. In realtà, i cinque quotidiani vennero diffusi “in contemporanea” solo nell’arco di tempo indicato. I trenta numeri di «Ottobre» furono pubblicati, a cura del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) “linea nera”, dal 21 gennaio al 25-26 febbraio 1979, mentre «la Sinistra» (cento numeri in tutto, editi dal Movimento lavoratori per il socialismo) dal 9 febbraio all’8 giugno 1979. Più longevi furono il «Quotidiano dei lavoratori» (pubblicato da Avanguardia operaia dal 26 novembre 1974 al 12 giugno 1979) e «Lotta continua», realizzato dall’omonima organizzazione fino al 1976 e poi da un collettivo redazionale di ex attivisti di Lc (in edicola dall’11 aprile 1972 al 5 novembre 1982). Ancora in vita invece «il manifesto», il cui primo numero uscì il 28 aprile 1971. Cfr. Archivio del centro di documentazione di Lucca. I periodici politici, a cura di Anna Maria Siccardi, Edizioni Regione Toscana, Firenze 1994, ad vocem. A riprova che la percezione della situazione fosse più o meno quella descritta cfr. le riflessioni di Davide Degli Incerti: «L’Italia è l’unico paese capitalistico in cui la sinistra non parlamentare […] dispone di 3 giornali quotidiani; ed è anche l’unico paese dell’Europa occidentale in cui l’insieme di questa sinistra riesce a

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«Un mondo meglio di così»

conferma – peraltro oggettiva – di come un considerevole numero di giovani (dunque «il futuro») fossero dalla sua stessa parte della barricata, pronti – e ciò era invece frutto di una proiezione soggettiva – a sferrare il fatidico assalto al cielo per abbattere la società capitalista e instaurare un ordine nuovo senza sfruttati né sfruttatori. Effettivamente, la rivoluzione era sembrata, ad alcuni, relativamente vicina. Era stato, tuttavia, un miraggio. Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto. Questa, beninteso senza alcuna pretesa di completezza, è in effetti la storia di un tramonto. Il tramonto di quel sole, solitamente ritratto a mezza figura sul mare, che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento aveva cominciato a illuminare le menti e a scaldare gli animi delle plebi e dell’intellettualità più sensibile alle tematiche «sociali». Un tramonto globale, per lo meno per quanto riguarda i primi “due mondi”, che per evidenti ragioni di economia del testo (e prima ancora della ricerca) viene descritto puntando l’attenzione sull’Italia. Tuttavia, l’allegorico sole morente non è, sia chiaro, l’idea di rivoluzione o di affrancamento sociale (le idee, al di là della loro realizzabilità e bontà, non muoiono, oppure scompaiono assai lentamente), ma quell’insieme di organizzazioni – figlie delle teorie ottocentesche e della prassi della prima metà del Novecento – che dal 1943 al 1978 ha creduto nella rivoluzione sociale e ha cercato di prepararne il trionfo. L’analisi di quella peculiare area politica che tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del Novecento si autorappresentò, e in genere venne rappresentata, come «sinistra rivoluzionaria» o, a ridosso del Sessantotto, «nuova sinistra», in alternativa a quella definita «ufficiale», «istituzionale» o «storica», cioè Pci e Psi in primis (anch’essi comunque caratterizzati dalla presenza di componenti interne “massimaliste”), è storiograficamente rilevante per una serie di motivi.2 Innanzitutto il fatto che il ciclo di protesta politico-sociale che in Europa ebbe il suo culmine nel 1968-69, in Italia sia incidere in profondità dentro il corpo sociale» (Davide Degli Incerti, Sul perché non è possibile indicare la data di nascita della sinistra rivoluzionaria italiana, in La sinistra rivoluzionaria in Italia. Documenti e interventi delle tre principali organizzazioni: Avanguardia operaia, Lotta continua, PdUP, a cura di Id., Savelli, Roma 1976, p. 11). 2. Preferisco utilizzare, come espliciterò oltre, la definizione di «sinistra rivoluzionaria» a quella di «nuova sinistra». Su ciò cfr. voce Nuova sinistra, redatta da Mauro Morbidelli, in Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, diretta da Aldo Agosti, con la collaborazione di Luciano Marrocu, Claudio Natoli, Leonardo Rapone, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 504-509.

Riflessioni introduttive

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durato più di un decennio (non a caso le definizioni più usuali sono quelle di «lungo Sessantotto», «stagione dei movimenti» o «anni dell’azione collettiva») dando vita a strutture associative, o rafforzando quelle già esistenti, riconducibili al modello del partito politico (più o meno strutturato, a seconda delle inclinazioni). In una prospettiva comparata, l’Italia si differenziò dalle altre realtà anche per la distribuzione geografica di tali strutture associative, nonché in relazione alla loro diffusione sociale. Nella generalità dei casi, infatti, tali sodalizi si caratterizzarono come fenomeni principalmente urbani. In Italia, invece, le formazioni della sinistra rivoluzionaria si svilupparono – prima, durante e dopo il 1968 – anche nella periferia: nelle città di provincia, nel meridione d’Italia e, in alcuni casi, anche nei piccoli e piccolissimi centri abitati e/o in “inusuali” ambiti extraurbani.3 Analogamente, se negli altri contesti il bacino di reclutamento fu essenzialmente studentesco o circoscritto a settori identitari e/o particolari (si pensi agli afroamericani negli Usa), in Italia i movimenti di contestazione e le strutture organizzate della sinistra rivoluzionaria (strutture d’intervento create in alcuni casi ad hoc, non di rado con il contributo della sinistra riformista e di ampi settori della società civile) raggiunsero ampiezze e rilevanze ragguardevoli, coinvolgendo anche gli appartenenti ai cosiddetti apparati repressivi dello Stato: dalla magistratura alle forze dell’ordine,4 per giungere ai militari di professione e – soprattutto – di leva, ambito nel quale primeggiò Lotta continua.5 A differenza che in altri paesi, la sinistra rivoluzionaria italiana si 3. Per la presenza “rurale” del soggetto preso in esame, cfr. ad esempio Matteo Amati, Animali abbandonati in pascoli abusivi. Un ’68 diverso, Prefazione di Guido Crainz, Viella, Roma 2018. Gli studi sulla contestazione studentesca e/o operaia e sulla presenza della sinistra extraistituzionale in provincia sono numerosi; qui mi limito a citare, per le sue analisi a tutto tondo e per l’indagine del rapporto con le istituzioni locali, lo studio di William Gambetta, Alberto Molinari, Federico Morgagni, Il Sessantotto lungo la via Emilia. Il movimento studentesco in Emilia Romagna (1967-1969), Prefazione di Massimo Mezzetti, BraDypUs, Roma 2018. 4. Cfr. Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, a cura di Nello Rossi, FrancoAngeli, Milano 1994 e Michele Di Giorgio, Per una polizia nuova. Il movimento per la riforma della Pubblica Sicurezza (1969-1981), Viella, Roma 2019. 5. A riguardo cfr. Armando Todesco, I Pid: i Proletari in divisa. Storia della contestazione nell’esercito, 1969-76, Cst, Milano 2001; Elena Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni settanta. Lotta Continua, Edizioni Associate, Roma 2002; Eros Francescangeli, Sinistra extraparlamentare e attività antimilitarista in seno alle Forze

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«Un mondo meglio di così»

caratterizzò altresì per un elevato tasso di “pluralismo culturale” (evidente anche dalla frammentazione organizzativa). Alle minoranze «storiche» di orientamento marxista o libertario si affiancarono varie culture, da quella laico-azionista-radicale a quella cristiana (cattolici ed evangelici), dal dissidentismo ingraiano interno al Pci alla sinistra socialista d’impronta morandiana. La diffidenza verso le pratiche istituzionali di competizione politica, se non precluse un utilizzo alternativo delle istituzioni (dai referendum alla rappresentanza parlamentare), produsse un proliferare di consuetudini e metodi di lotta extraistituzionali. Questi, in alcuni casi, assunsero anche forme illegali (autoriduzioni, occupazioni di case, obiezione coscienza, ecc.) e/o violente (dagli scontri con le forze dell’ordine agli agguati contro gli avversari politici). Tali modalità, presenti anche nel trentennio 1945-1965 (ancorché “gestite” soprattutto dal Pci e dalle sue organizzazioni collaterali), acquistarono via via credito e spazio a partire dal quadriennio 1966-1969 per acutizzarsi nel 1977, un anno caratterizzato da un’elevatissima conflittualità sociale e politica con episodi di estrema violenza (uso di armi da fuoco nei conflitti di piazza, feriti, morti) e che rappresentò il preludio dell’immediato tracollo delle organizzazioni rivoluzionarie, strette tra il “riflusso” verso il privato e l’opzione della lotta armata. Dall’Album di famiglia della sinistra rivoluzionaria, e in particolare dai filoni politico-culturali riconducibili all’operaismo miliarmate (1969-1978), in Le sfide della pace. Istituzioni e movimenti intellettuali e politici tra Otto e Novecento, a cura di Alfredo Canavero, Guido Formigoni e Giorgio Vecchio, Led, Milano 2008, pp. 489-504 e Deborah Gressani, Giorgio Sacchetti, Sergio Sinigaglia, S’avanza uno strano soldato. Il movimento per la democratizzazione delle Forze armate (1970-1977), DeriveApprodi, Roma 2022. Sulle lotte degli ufficiali cfr. Per difendere chi? Parlano gli ufficiali delle FF. AA., a cura di Franco Travaglini, con contributi di Mario Barone e Falco Accame, Prefazione di Giorgio Rochat, Mazzotta, Milano 1976. Più in generale, su militarismo e antimilitarismo e sul rapporto tra Forze armate e società cfr. L’antimilitarismo oggi in Italia. Antologia, a cura di Giorgio Rochat, con la collaborazione di Franco Giampiccoli, Eugenio Rivoir e Marco Rostan, Claudiana, Torino 1973; Giulio Massobrio, Bianco rosso e grigioverde. Struttura e ideologia delle Forze armate italiane, Bertani, Verona 1974; Esercito e società borghese. L’istituzione militare nell’analisi marxista, a cura di Fabrizio Battistelli, Savelli, Roma 1976; Cittadini in uniforme. Il rinnovamento delle forze armate nel rinnovamento dello stato e del paese, Prefazione di Falco Accame, Lerici, Cosenza 1976; L’esercito è un cadavere armato. Controinchiesta sull’esercito, a cura di Militari autonomi organizzati, Collettivo editoriale Librirossi, Milano 1978 e Virgilio Ilari, Le forze armate tra politica e potere. 1943-1976, Prefazione di Falco Accame, Vallecchi, Firenze 1979.

Riflessioni introduttive

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tante di Potere operaio e Lotta continua e al marxismo-leninismo (nella sua accezione stalino-resistenzial-secchiana), provenne infatti anche il fenomeno della lotta armata.6 La risposta delle istituzioni e del sistema produttivo di fronte alla persistenza del ciclo conflittuale fu articolata. Da un lato vennero parzialmente soddisfatte alcune rivendicazioni (maggiori diritti per i lavoratori, decreti delegati per la scuola, riforma psichiatrica, ecc.), dall’altro a livello economico si cominciò a ristrutturare l’organizzazione del lavoro con l’intento di ridurre la forza lavoro occupata e di modificarne gli assetti professionali, mentre a livello politico-militare nel 1970-73, nel 1975 e nel 1977-79 si attuarono alcune “strette repressive”. Infine, non è possibile ignorare che alcuni settori del sistema politico si attrezzarono illegalmente per frenare l’offensiva «sovversiva», ricorrendo a quella che è stata definita strategia della tensione.7 6.  Sul nesso sinistra rivoluzionaria, violenza politica e lotta armata cfr. Richard Drake, Apostles and agitators. Italy’s marxist revolutionary tradition, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 2003, pp. 218-232; Pietro Calogero, Carlo Fumian, Michele Sartori, Terrore rosso. Dall’Autonomia al partito armato, Laterza, Roma-Bari 2010; I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta, a cura di Angelo Ventrone, Eum, Macerata 2010; Verso la lotta armata. La violenza politica nella sinistra radicale degli anni Settanta, a cura di Simone Neri Serneri, il Mulino, Bologna 2012; Gabriele Donato, «La lotta è armata». Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato. 1969-1972, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia, Trieste 2012, poi riedito come «La lotta è armata». Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972), DeriveApprodi, Roma 2014; Id., La violenza, la rivolta. Cronologia della lotta armata in Italia. 1966-1988, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia, Trieste 2017; Anna Cento Bull e Philip Cooke, Ending Terrorism in Italy, Routledge, London-New York 2013; Davide Serafino, La lotta armata a Genova dal Gruppo 22 ottobre alle Brigate rosse (1969-1981), Pacini, Pisa 2016; Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa. Storici e magistrati a confronto, a cura di Carlo Fumian e Angelo Ventrone, Padova UP, Padova 2018; Francesco Benigno, Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica, Einaudi, Torino 2018 e Chiara Dogliotti, Come pesci nell’acqua. Le Brigate rosse e i contesti della violenza politica, Viella, Roma 2022. 7. Su strategia della tensione, doppio Stato e servizi paralleli esiste una vasta letteratura. Mi limito a segnalare Franco De Felice, Doppia lealtà e doppio Stato, in «Studi storici», 3 (1989), pp. 493-563; Mirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione. 1965-1974, Laterza, Roma-Bari 2015 e Angelo Ventrone, La strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Mondadori, Milano 2019. Per una lettura differente, cfr. Giovanni Sabbatucci, Il golpe in agguato e il doppio Stato, in Giovanni Berardelli et al., Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, il Mulino 1999, pp. 203-216; Vladimiro Satta,

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Nonostante esista una letteratura sufficientemente nutrita, gli studi finora prodotti sono per lo più centrati sul contesto generale (la crisi italiana, la «stagione dei movimenti», ecc.) o limitati all’analisi di situazioni particolari (Potere operaio, Lotta continua, il femminismo, ecc.). Inoltre la maggioranza di essi è caratterizzata dall’abbondante utilizzo di fonti autorappresentative, non tenendo conto delle altre fonti disponibili (tra le quali quelle di polizia).8 A tal proposito, le fonti utilizzate per portare a termine questo studio sono riconducibili a tre differenti tipologie: bibliografiche, emerografiche e documentarie. Per quanto riguarda le fonti bibliografiche, ho utilizzato: fonti coeve (atti di convegni, risoluzioni, raccolte di documenti politici, analisi varie) prodotte dalle strutture associative della sinistra rivoluzionaria o da altri soggetti; opere coeve che “storicizzano” le questioni analizzate (o ne hanno la pretesa) ma hanno il più o meno palese scopo di incidere sul dibattito politico in corso (anche se secondarie, sono, ad ogni buon conto, delle fonti importanti, in quanto – seppur frutto di analisi – sono state scritte a ridosso degli eventi osservati e studiati e quindi in grado di restituirci la percezione dei I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 2016 e Laura Di Fabio, Due democrazie, una sorveglianza comune. Italia e Repubblica Federale Tedesca nella lotta al terrorismo interno e internazionale, Le Monnier, Firenze 2018. 8. Sulle dissidenze “sinistriste” degli anni Quaranta-Cinquanta cfr. Maurizio Lampronti, L’Altra Resistenza. L’Altra opposizione (comunisti dissidenti dal 1943 al 1951), Lalli, Poggibonsi 1984 e Arturo Peregalli, L’altra Resistenza. Il PCI e le opposizioni di sinistra. 1943-1945, Graphos, Genova 1991. Sulle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria degli anni Sessanta-Settanta, cfr. Massimo Teodori, The New Left: a Documentary History, Jonatan Cape, London 1970 [1a ed. Bobbs-Merril, Indianapolis-New York 1969]; Walter Tobagi, Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, Sugar, Milano 1970; La sinistra extraparlamentare in Italia. Storia. Documenti. Analisi politica, a cura di Giuseppe Vettori, Newton Compton, Roma 1973; Massimo Teodori, Storia delle nuove sinistre in Europa, 1956-1976, il Mulino, Bologna 1976; Carlo Vallauri, I gruppi extraparlamentari di sinistra. Genesi e organizzazione, Bulzoni, Roma 1976; Mino Monicelli, L’ultrasinistra in Italia 1968-1978, Laterza, Roma-Bari 1978; Franco Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1956 alla fine degli anni ottanta, 3 voll., Rubbettino, Soveria Mannelli-Messina 1993; Diego Giachetti, I partiti della nuova sinistra: origini, sviluppo, epilogo, in Gli anni della rivolta. 1960-1980: prima, durante e dopo il ’68, a cura di Fabrizio Billi, Punto Rosso, Milano 2001, pp. 85-102; Fabrizio Fiume, Verso un Futuro Assoluto. La Nuova sinistra in Italia fra utopia e tradizione, Giannini, Napoli 2007; Danilo Breschi, Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ’68, Mauro Pagliai, Firenze 2008; e Angelo Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione. 1960-1988, Laterza, Roma-Bari 2012.

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fenomeni appena conclusi o ancora in corso); testimonianze, riflessioni e memorialistica; la cosiddetta letteratura secondaria, costituita, per lo più, da testi di storiografia e storia. Per quanto concerne le fonti di natura emerografica, i giornali che ho consultato sono, principalmente, quelli strettamente legati all’oggetto della ricerca. Tuttavia, oltre alle testate delle principali organizzazioni politiche della sinistra rivoluzionaria italiana («Umanità nova», «Azione comunista», «Lotta continua», «Potere operaio», «il manifesto», «Servire il popolo», ecc.) ho vagliato anche la stampa che si rapportò con esse, dai maggiori quotidiani d’informazione e di partito (come «l’Avanti!» e «l’Unità») ad alcuni settimanali di partito e non («L’Espresso», «Rinascita», e altri ancora). Per quanto riguarda la documentazione archivistica, essa è riconducibile, fondamentalmente, a due tipologie di documenti: quelli elaborati dagli ambienti della sinistra rivoluzionaria (bollettini interni, circolari, volantini, manifesti, scambi epistolari, verbali di riunioni e assemblee, ecc.) e quelli prodotti dalle strutture investigative dello Stato (relazioni sull’ordine pubblico, rapporti di elementi “fiduciari”, ma anche materiale intercettato clandestinamente o sequestrato durante le perquisizioni). I primi documenti sono visionabili – principalmente – nei luoghi che raccolgono i materiali prodotti dal soggetto studiato, mentre i documenti della seconda tipologia li ho reperiti in alcune serie del fondo archivistico del ministero dell’Interno, conservato presso l’Archivio centrale dello Stato (Roma) e in altri Archivi di Stato provinciali.9 Relativamente ai primi, mi limito a segnalare i “luoghi” dove ho reperito il maggior numero d’informazioni: alcuni fondi conservati presso la Fondazione Istituto Gramsci a Roma (in particolare “Comitato centrale”, “Direzione” e “Segreteria” dell’Archivio del Partito comunista [italiano]), l’Archivio storico della nuova sinistra Marco Pezzi di Bologna (in particolare i fondi “Luigi Vinci”, “Marco Pezzi”, “Alberto Ricci” ed “Enrica Casanova”), l’archivio della Biblioteca Franco Serantini di Pisa (in particolare i fondi relativi ai “Gaap. Gruppi anarchici d’azione proletaria” e alla “Federazione anarchica italiana”), l’Archimovi di Genova (in particolare il 9. Per un repertorio delle fonti, centrato sul periodo 1966-1978, cfr. Guida alle fonti per la storia dei movimenti in Italia (1966-1978), a cura di Marco Grispigni, Leonardo Musci, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, Roma 2003. Si veda inoltre Ilaria Moroni, Rete degli archivi per non dimenticare. Guida alle fonti per una storia ancora da scrivere, Icpal, Roma 2010.

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fondo “Bruno Piotti”), il Centro studi movimenti di Parma (in particolare il fondo “Gian Giacomo Migone”), il Centro studi Piero Gobetti a Torino (fondo “Marcello Vitale”, suddiviso in numerosi subfondi), il Centro studi Pietro Tresso a Firenze (i vari fondi sui gruppi trockisti italiani), l’Archivio storico Il Sessantotto di Firenze, la Houghton Library di Harvard University a Cambridge-Massachusetts (che conserva la Trotsky Collection, ossia le carte del leader bolscevico, inclusa la corrispondenza con gli italiani) e, i numerosi fondi sugli anni Sessanta-Settanta presso alcuni istituti della rete degli Istituti storici della Resistenza. In relazione ai documenti della seconda categoria, le cosiddette “carte di polizia”, ho visionato parecchi faldoni custoditi presso l’Archivio di Stato di Sassari (Fondo Donazione Mattone e Fondo Questura-Gabinetto) e numerosi – forse troppi – fascicoli delle seguenti serie archivistiche dell’Acs: Gabinetto, Archivio generale, Fascicoli permanenti, Partiti politici 1944-1966; ivi, Fascicoli permanenti, Partiti politici 1971-1975; ivi, Fascicoli permanenti, Partiti politici 1981-1985 (che contiene anche sviluppi del decennio precedente); ivi, Fascicoli correnti (tutte le serie, dal 1944 al quinquennio 1976-1980 che, al pari di quella del quadriennio 1967-1970, contiene anche la categoria permanente «Partiti politici»); Dipartimento pubblica sicurezza, Segreteria del Dipartimento, Ufficio ordine pubblico, Categorie permanenti, G Associazioni 1944-1986; e, infine, Direzione generale della Pubblica sicurezza, Divisone affari generali e ivi, Divisione affari riservati. Inoltre, lo studio delle tematiche relative alla sorveglianza e repressione delle attività della sinistra rivoluzionaria da parte dello Stato, si è avvalso della consultazione del fondo – conservato presso la Boston Public Library – del Federal Bureau of Investigation relativo al Cointelpro/New Left (acronimo del programma operativo denominato Counterintelligence Program. Disruption of the New Left). Premesso che le “carte di polizia” sono innanzitutto una fonte sui sorveglianti nella loro relazione con i sorvegliati, l’importanza di questa tipologia di documenti per studiare la storia della sinistra rivoluzionaria risiede, come osservato, nel fatto che proprio perché nessun punto di osservazione può essere «considerato, di per se, del tutto attendibile o scientificamente “neutro”», l’analisi di una «visione palesemente “nemica” può diventare elemento indispensabile della conoscenza».10 Tra queste carte, 10. Cfr. Giorgio Sacchetti, Sovversivi agli atti. Gli anarchici nelle carte del ministero dell’Interno. Schedatura e controllo poliziesco nell’Italia del Novecento, La Fiaccola,

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infatti, è stato possibile trovare alcuni documenti “scottanti” (corrispondenza interna intercettata dagli apparati di sicurezza, istruzioni clandestine, ecc.) riguardanti questioni private interne o, soprattutto, gli ambiti afferenti l’uso della forza.11 Documenti che altrove sono irreperibili, poiché non conservati/versati per comprensibili motivi di riservatezza e/o sicurezza. Inoltre, tale documentazione pone in risalto, pur non svelando l’identità dei soggetti, la rete di informatori e infiltrati degli apparati di sicurezza dello Stato, interna o comunque vicina (a volte erano amici o conoscenti) alle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria.12 Ragusa 2002 [nuova ed. Carte di gabinetto. Gli anarchici italiani nelle fonti di polizia (1921-1991), 2015], p. 9. Cfr. inoltre Lorenzo Pezzica, Presentazione, in Cesare Bermani, Giampietro N. Berti, Piero Brunello et al., Voci di compagni schede di questura. Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia dell’anarchismo, Elèuthera, Milano 2004, pp. 7-11. 11. Ad esempio, nel marzo del 1974 i carabinieri di Greve in Chianti rinvennero due ciclostilati di Ao recanti istruzioni in materia di autodifesa e eventuale attività clandestina. Il primo, diviso in due parti, era intitolato Riservato ai dirigenti delle sezioni, zone, zone regionali, e del centro nazionale e aveva come eloquente indice/sottotitolo: «1) Indicazioni per misure di vigilanza ordinaria da applicare immediatamente e in permanenza (pag. 1-3); 2) Norme e misure da adottare tassativamente in caso di azione clandestina totale (pag. 4-11)». Il secondo documento era invece intitolato Note per la formazione di unità operative – Plotoni – e conteneva indicazioni per i servizi d’ordine e gli scontri di piazza. Cfr. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 358, f. G5/45/15 «Organizzazione comunista Avanguardia operaia», in particolare la riservata-doppia/busta del prefetto di Firenze alla Dgps del 14 marzo 1974 e le copie dei due ciclostilati. Il ritrovamento di tali documenti, che costò ad Ao l’accusa di associazione sovversiva, venne usato politicamente in occasione delle elezioni amministrative del giugno 1975, dove Ao si presentò, in alcune realtà, insieme al Pdup-pc con la denominazione di Democrazia proletaria. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 29, f. 371/P «Avanguardia operaia», sf. «Milano», Appunto (indicato come proveniente dai Carabinieri) da Milano del 5 maggio 1975, allegato alla lettera del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 13 maggio 1975. Cfr. inoltre «Avanguardia operaia» replica all’accusa di associazione sovversiva, in «Corriere della sera», 1° maggio 1975 (nella cronaca milanese). 12. Anche qui a titolo esemplificativo, si veda la riservata del questore di Milano al prefetto di Milano del 26 novembre 1975, in Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 22, f. 348/P/19 «Movimento Lotta comunista», con la quale si riferisce dell’assise nazionale di Lotta comunista: «hanno partecipato circa 1.300 delegati provenienti da varie città italiane […] I lavori sono stati caratterizzati dalla massima riservatezza e nella circostanza gli organizzatori hanno attuato rigorosissimi servizi di vigilanza e controllo sia fuori del locale che agli ingressi e nella sala in cui si poteva accedere, passando attraverso una doppia fila di elementi del servizio d’ordine, solo esibendo un’apposita tessera e sottosta[re] a perquisizioni personali». Seguono cinque pagine di dettagliata relazione.

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Per quanto riguarda le fonti orali, dato che ho scelto di evitare il doppio registro di lettura (storia/memoria), ho optato per la loro esclusione. Questo per l’ovvio motivo che la testimonianza rilasciata in epoca a noi contemporanea (ma il discorso, ovviamente, è valido anche per le fonti bibliografiche di carattere memorialistico) ha un elemento di parzialità in più rispetto alle fonti coeve ai fatti studiati: il portato culturale, in termini di Weltanschauung, dei decenni trascorsi schiaccia il ricordo verso il presente e le sue categorie interpretative e valutative che, molto spesso, differiscono notevolmente da quelle di cinquant’anni prima. Infine un’avvertenza: nell’uso del plurale – onde evitare di appesantire il testo declinando una varietà di elementi grammaticali nei due generi, ricorrendo alla barra separatrice – segnalo che userò il maschile neutro, riferendomi tuttavia, dove non diversamente precisato, ad entrambi i generi. Si tenga conto, in ogni caso, che questa storia è, come si avrà modo di vedere e per quanto ciò possa rammaricarci, una storia prevalentemente maschile e solamente nell’ultimo scorcio di tempo – grossomodo a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta – l’universo femminile ne entrò a far parte in modo significativo. 2. L’oggetto della ricerca e lo specchio deformante del Sessantotto Credo che l’operazione di definire l’oggetto della ricerca sia un passaggio estremamente importante, poiché ogni definizione ha genealogie e confini semantici determinati e rimanda a significati quasi mai collimanti. Il primo scoglio da superare nella narrazione delle dinamiche politiche e organizzative dell’oggetto del presente saggio è, dunque, la definizione dell’oggetto stesso. Il lemma da utilizzare per descrivere quella’area, erede delle dottrine di Karl Marx e Michail Bakunin (dunque figlia della tradizione del radicalismo politico ottocentesco ed erede del massimalismo dei primi del Novecento), che a cavallo dell’inizio dell’età degli estremi si distinse dalla componente «riformista» per poi espandersi, mescolarsi e segmentarsi nel corso del Novecento in virtù dei contributi di pensatori e pensatrici e di uomini e donne d’azione, non è una questione meramente terminologica.13 Essa 13. Anche in virtù dell’importante presenza di questa componente politica, Hobsbawm, in uno dei suoi libri più celebri, ha definito il Novecento «the age of extremes», una definizione che non trova spazio adeguato nella versione italiana. Cfr. Eric J. Hobsbawm, Il Se-

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si manifesta fin dall’origine, nelle rappresentazioni e autorappresentazioni coeve, e si trascina fino ai nostri giorni. Dalle fonti d’epoca alle ricostruzioni storico-giornalistiche, dai libri di testo agli studi caratterizzati da approcci di tipo scientifico, per definire l’oggetto di questo studio, accanto al sostantivo «sinistra» (meno problematico ma in realtà anch’esso oggetto di discussione) si sono utilizzati, il più delle volte con riferimento agli anni 1966-1980, gli aggettivi: nuova, extraparlamentare, estrema, ultra, rivoluzionaria, radicale, intransigente, di classe, operaia (o proletaria), antistituzionale, antisistemica, extraistituzionale, antagonista, eretica, e ancora, anche se in misura minore, sovversiva, eversiva, altra, critica, dissidente, non ufficiale, movimentista, comunista, libertaria, antiautoritaria, barricadera, insurrezionalista, insorgente, guerrigliera. I problemi sono due: uno riguarda l’essenza del fenomeno studiato e i suoi confini, l’altro la portata ideologica, ossia la carica etico-politica, che caratterizza ciascuna delle espressioni sopra riportate (cioè il significato e il meta-significato di ogni significante). Insomma, tali lemmi non sono sinonimi, o meglio, hanno differenti ombrelli semantici mai del tutto sovrapposti e, in ogni modo e anche qualora lo fossero, hanno valenze di segno diverso che distorcono, in un senso o nell’altro, la percezione del fenomeno. E poco importa – ai fini di un tentativo di definizione di tipo scientifico – che l’attribuzione di segno, positivo o negativo, possa variare al variare del soggetto emittente o ricevente). Essa soggiace a logiche valutative che, seppur rovesciabili, rappresentano in ogni caso una lente deformante di una realtà complessa e a volte contraddittoria che è doveroso inquadrare con il grandangolo, evitando gli approcci di tipo politico (che spesso suggeriscono qualità tutte da dimostrare) o moralistico (la divisione tra buoni e cattivi). Per fare un esempio: definire «estremista» un militante, a prescindere dalla gratificazione o meno del soggetto medesimo, ha come scopo e, in generale, risultato quello di presentarlo in modo negativo, evocando l’altro da lui come «moderato», «equilibrato», «pacato», «ragionevole». Viceversa, definire l’area in cui militava lo stesso ipotetico attivista come «nuova», al di là se lo fosse effettivamente o meno, ha come scopo quello di rappresentare il tal soggetto sotto una luce positiva, in opposicolo breve [1914-1991: l’era dei grandi cataclismi], Rizzoli, Milano 1995 [ed. orig. Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, Michael Joseph, London 1994]. Negli Stati uniti il volume è stato pubblicato con il sottotitolo A History of the World, 1914-1991, Vintage books, New York 1996.

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zione all’area concorrente, che sarebbe «vecchia», «tradizionale», dunque «stanca», se non «logora».14 È quindi prioritario individuare la realtà studiata, cioè delinearne i margini perimetrali, stabilendo cosa includervi o meno e quindi trovare la definizione più corrispondente. Superfluo precisare che tali limina sono fondamentalmente di natura politica e, pur tracciati da altri, soggettivamente avallati dal sottoscritto. Il soggetto preso in esame in questo volume sono quelle organizzazioni politiche che non ritenevano possibile costruire «un mondo meglio di così» attraverso il gradualismo riformista, ambendo dunque – in nome della fratellanza universale e del superamento dei contrasti tra popoli, etnie, generi e generazioni – al raggiungimento di una società di tipo egualitario, caratterizzata, nella sua fase di pieno sviluppo, dall’estinzione dello Stato, dall’abolizione della proprietà privata e dalla liberazione dell’umanità dalla «schiavitù del lavoro». Per giungere a tale scopo (definito anche «socialismo», «comunismo» o «anarchia») ritenevano ineluttabile il rovesciamento, necessariamente basato sull’uso della forza, dell’ordine politico-istituzionale e sociale costituito. Analizzando l’Italia del secondo dopoguerra, ritengo difficilmente inseribili in questa categoria, quantomeno nella loro interezza, il Pci, il Psi e il Psiup, poiché orientati – come già detto nonostante la presenza di componenti interne para-rivoluzionarie o rivoluzionarie – verso prospettive riformistiche. Mi riferisco quindi a quelle formazioni che, a partire dalle prime fasi della Liberazione fino alle soglie degli anni Ottanta del Novecento, credettero che in Italia fosse possibile porre in essere un sovvertimento dell’ordine costituito su basi comunistiche, ponendosi dunque alla sinistra del Pci, del Psi e anche del – certamente più affine – Psiup.15 La scelta di “lasciare fuori” da questa 14. Come osservato, ciascuna delle locuzioni citate «indica realtà diverse e cela precise scelte ideologiche da parte di chi le usa»; Aldo Sabino Giannuli, Premessa, in Il sessantotto. La stagione dei movimenti (1960-1979). Premessa Dizionario Glossario, a cura della redazione di «Materiali per una nuova sinistra», Edizioni associate, Roma 1988, p. 20. 15. A riguardo cfr. gli interventi collimanti con tale giudizio in Il comunismo italiano nella storia del Novecento, a cura di Silvio Pons, Viella, Roma 2021. Sul Partito socialista italiano di unità proletaria cfr. Silvano Miniati, Psiup 1964-1972. Vita e morte di un partito, Edimez, Roma 1981; Elisa Bizzarri, L’organizzazione del Psiup (1964-1972), in I partiti italiani tra declino e riforma, a cura di Carlo Vallauri, vol. II, Bulzoni, Roma 1986, pp. 1027-1101; Anna Celadin, Mondo nuovo e le origini del Psiup. La vicenda socialista dal 1963 al 1967 attraverso cinque anni di editoriali, con interviste a Vittorio Foa e Fausto Bertinotti, Postfazione di Felice Besostri, Ediesse, Roma 2006; Enrico Baiardo, Socialismo in movimento. Il Psiup e la sinistra degli anni Sessanta, Erga, Genova 2013 e, infine,

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storia le componenti rivoluzionarie interne ai principali partiti operai italiani (nel Pci, peraltro, individuabili con difficoltà essendo proibita l’organizzazione di correnti interne) è fondamentalmente motivata dal fatto che questo è uno studio sui gruppi e sulle organizzazioni che in toto si autorappresentarono come «rivoluzionarie». Quindi, frazioni, correnti, strutture sindacali e parasindacali, sensibilità, ma anche movimenti e altre esperienze “liquide” (coordinamenti di lotta, ambiti relazionali informali, circoli culturali, occupazioni di spazi, eventi/processi di insubordinazione collettiva, ecc.) ne sono esclusi. Inserire tutto ciò in un unico “calderone”, avrebbe senz’altro dilatato lo spettro della realtà analizzata, restituendogli tutta la sua ampiezza. Tuttavia, dal punto di vista euristico, ciò avrebbe significato introdurre un fattore distorsivo che avrebbe reso più difficile individuare la fisionomia dell’oggetto di studio, nonché generato una lettura della realtà che avrebbe potuto attestare una rilevanza, influenza e persistenza del fenomeno assai sproporzionate. Detto ciò e considerando valide le osservazioni di Aldo Giannuli sui problemi connessi all’utilizzo di espressioni quali «estrema sinistra» o «sinistra antistituzionale» e sull’inidoneità dei lemmi «sinistra extraparlamentare», «sinistra di classe» e «sinistra comunista»,16 ritengo preferibile utilizzare il termine «sinistra rivoluzionaria» o, per evitare ripetizioni, «extraistituzionale» o «antisistemica», benché numerosi studiosi e parte di coloro che hanno idealmente raccolto l’eredità di tale soggetto (che già negli anni SessantaSettanta prese ad autorappresentarsi così) utilizzino l’espressione «nuova sinistra».17 Se quest’ultima definizione può essere valida per definire solo alcune componenti che presero parte a quel movimento antiautoritario che chiamiamo Sessantotto, oppure se adoperata in senso lato (dove «nuova» ha dunque valenza cronologica/ideologica e sta a indicare un mutamento di registro del soggetto in relazione ai cambiamenti politici, sociali ed economici occorsi negli anni Cinquanta), se inteso in senso stretto, tale lemma non può qualificare organicamente, cioè nella sua totalità, il soggetto al cenAldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, Roma-Bari 2013. 16. Cfr. Giannuli, Premessa, pp. 19-25. 17. Su alcune curvature delle autonarrazioni del soggetto di questo libro e più in generale dei movimenti conflittuali, cfr. Emmanuel Betta ed Enrica Capussotti, «Il buono, il brutto, il cattivo»: l’epica dei movimenti tra storia e memoria, in «Genesis», 1 (2004), pp. 113-123 e Joseph Maslen, Autobiographies of a Generation? Carolyn Steedman, Luisa Passerini and the Memory of 1968, in «Memory Studies», 3 (2013), pp. 23-36.

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tro dell’analisi di questo studio. L’inadeguatezza non dipende solamente dal fatto che la locuzione «nuova sinistra» mal si adatterebbe ai gruppi “storici” pre-sessantottini (e, come vedremo, anche sessantottini e post-sessantottini), ma anche e soprattutto perché in Italia essa definisce qualcosa di differente, come del resto già sottolineato da Giannuli che affermava, d’accordo con Massimo Teodori, che i «radicali furono fra i più convinti sostenitori di questa definizione, accettandola anche per sé stessi» e che l’esigenza di trovare un sinonimo politically correct al sempre più imbarazzante «sinistra rivoluzionaria» derivò dal fatto che «l’emergere del terrorismo imponeva una demarcazione dall’area armatista».18 Effettivamente, nell’accezione di «New Left (with first letters capitalized)»19 di Teodori, se in Italia il Partito radicale è incluso a pieno titolo all’interno dell’ombrello semantico del lemma, negli Stati Uniti raggruppamenti quali il trockista Socialist Workers Party (Swp) o i meno strutturati, ma d’orientamento marxista, Youth Against War and Fascism (Yawf) non vi rientrano, essendo annoverati tra le forze della sinistra tradizionale («Traditional Left»).20 Secondo Teodori, tali organizzazioni avrebbero in comune con la ben definita New Left l’inclusione nella categoria «new radicalism (with a small r)».21 In quest’ottica interpretativa a maglie strette, anche i movimenti di liberazione degli afroamericani sarebbero un oggetto distinto dalla New Left, poiché quest’ultima, in realtà, sarebbe «a phenomenon which originated and has developed prevalently among young whites».22 Dunque, l’accurata definizione di Teodori identifica i newleftist statunitensi come bianchi (prevalentemente Wasp), appartenenti alla media borghesia, di orientamento antifascista quanto, anche se in misura minore, antimarxista. La gamma andrebbe dunque dal progressismo radicale (i liberal) all’anarchismo delle correnti individualiste e antiorganizzatrici. Come altresì osservato da Marica Tolomelli, il «movimento intellettuale della nuova sinistra», ha ben poco «a che fare con i gruppi della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta con cui di solito viene confusa in Italia».23 Infatti, se con New Left intendiamo, guardando alla Gran 18. Giannuli, Premessa, pp. 22 e 23. 19. Teodori, The New Left, p. 4. 20. Cfr., a riguardo, ivi, pp. 3-4 e 490. 21. Ivi, p. 5. 22. Ivi, p. 4. 23. Marica Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Carocci, Roma 2008, p. 36. Cfr. inoltre Ead., L’Italia dei movimenti. Politica e società nella Prima repubblica, Carocci, Roma 2015.

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Bretagna, il movimento di Edward P. Thompson e Raymond Williams (che dette vita, per l’appunto, la «New Left Review») o, guardando agli Usa, ciò che ha descritto Teodori, occorre prendere atto che, in Italia, entro la cornice semantica del termine possono rientrare, come già accennato, il Partito radicale, i gruppi di Aldo Capitini e parte del dissenso cattolico,24 alcuni settori del movimento femminista, i movimenti pacifisti ed ecologisti ma ben poche esperienze della sinistra classista. In ogni caso non certo il movimento studentesco del 1967-68 nella sua totalità, la gran parte del movimento femminista e la maggioranza delle organizzazioni che negli anni Settanta erano definite «extraparlamentari», le quali, pur accogliendo alcune sollecitazioni riconducibili alla cultura della «nuova sinistra», in particolare la carica antiautoritaria e demistificante proveniente dalla Scuola di Francoforte e dal post-strutturalismo francese, avevano ben altre genealogie (Bakunin, Lenin, Stalin, Trockij, Mao e Che Guevara). E furono proprio queste organizzazioni (come vedremo altamente “ideologizzate”) che prepararono e plasmarono a loro misura il Sessantotto italiano (da cui la sua diversità). E non il contrario: e cioè che le organizzazioni rivoluzionarie sarebbero nate come scorie del Sessantotto. Il primo paradigma da mettere in discussione è dunque quello della sessantottogenesi (il termine non sarà forse il massimo ma credo che renda bene l’idea) dei gruppi politici della sinistra rivoluzionaria. Chi studia i movimenti sociali e il radicalismo politico di sinistra deve necessariamente fare i conti con il Sessantotto, fenomeno che aleggia su ogni ricostruzione dei processi di conflittualità sociale e politica tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Che sia stato un evento-processo di portata straordinaria non v’è dubbio. E, pur riconoscendone la poliedricità, pressoché tutte le analisi di tipo scientifico sono in ciò concordi.25 Se è dunque fuori discussione la sua valenza periodizzante, ciò che è invece opinabile, sia in alcune opere di natura scientifica, sia in molte memorie o autobiogra24. Su cattolici e stagione conflittuale si veda Richard Drake, Catholics and the Italian Revolutionary Left of the 1960s, in «The Catholic Historical Review», 94 (2008), pp. 450-475 e Alessandro Santagata, La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68, Viella, Roma 2016. Più in generale, cfr. Lucia Ceci, La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento, il Mulino, Bologna 2022. 25. Oltre a quanto già citato, si veda Marcello Flores e Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, il Mulino, Bologna 1998; Giuseppe Carlo Marino, Biografia del Sessantotto. Utopie, conquiste, sbandamenti, Bompiani, Milano 2000 e Stuart J. Hilwig, Italy and 1968. Youthful Unrest and Democratic Culture, Palgrave Macmillan, New York 2009.

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fie, sia nelle ricostruzioni divulgative (dagli articoli commemorativi alle opere narrative o di fiction) sono due letture del fenomeno che, seppur frutto di semplificazioni interpretative, vengono comunemente accettate come assodate. Ossia la valutazione del Sessantotto studentesco (a volte inteso, prescindendo dalle evidenze cronologiche e dall’esegesi delle fonti, come anno 1968 e come movimento corporativo-studentista)26 quale evento paradigmatico per eccellenza e il nesso causale tra il Sessantotto, la successiva stagione dell’insorgenza sociale («figlia» per l’appunto della contestazione studentesca) e, poi, la pratica della lotta armata. Secondo la variante apologetica di quella che può definirsi una metafisica del Sessantotto vi sarebbe stato – sorto quasi dal nulla – un Sessantotto prettamente studentesco-universitario, spontaneo, gioioso, tollerante, antiideologico e antiautoritario versus un decennio successivo egemonizzato, se non dagli operai in carne e ossa, dalla mistica e dall’estetica della cultura operaia e contraddistinto da fanatismo ideologico, burocratizzazione, intolleranza, rabbia e violenza. La seconda stagione rappresenterebbe una degenerazione del Sessantotto del quale humus sarebbe comunque figlia. Un tragitto, dunque, che andrebbe da Eros a Thanatos o, per usare una metafora cromatica, dall’iride multicolore delle insegne pacifiste, al rosso delle bandiere e del sangue degli attori sociali coinvolti, per giungere, infine, al grigio plumbeo delle armi e delle munizioni della peggio gioventù.27 Insomma, per dirla con le parole di Francesco Guccini: «son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte», dove il legame tra Sessantotto (i 26. L’avvio esplosivo, nel 1968, della protesta universitaria in una realtà importante come Roma ebbe come effetto quello di dare visibilità e centralità concettuale proprio a quell’anno. Cfr. Un altro Sessantotto. La protesta nella memoria dei docenti dell’Università di Roma “La Sapienza”, a cura di Francesca Socrate, 2 voll., Biblink, Roma 2008. Per la creazione del 1968 come «anno degli studenti» per antonomasia cfr. Rossana Rossanda, L’anno degli studenti, De Donato, Bari 1968. Su Sessantotto e università cfr. Le istituzioni universitarie e il Sessantotto, a cura di Alessandro Breccia, Clueb, Bologna 2013. Sulla centralità del Sessantotto come processo complesso e ad ampio raggio cfr. il numero speciale Italy 1968. Representation and Memories of 1968 and its Aftermath in Italian Culture, a cura di Sarah Carey e Brendan Hennessey, «Carte Italiane», 2, 4 (2008) e Fulvio De Giorgi, La rivoluzione transpolitica. Il ’68 e il post-’68 in Italia, Viella, Roma 2020. 27. Tale punto di vista è, ad esempio, sintetizzato efficacemente da Ferrarotti: «Il ’68 conteneva ed era portatore di novità positive, segnalava l’esigenza di una socializzazione del potere al di là della democrazia aritmetica o di pura procedura, […]. Tutto ciò è stato eliminato e sepolto dalla violenza armata del terrorismo [che] è stato la tomba del ’68» (Franco Ferrarotti, Il ’68 quarant’anni dopo, Edup, Roma 2008, p. 143).

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fiori) e forme di lotta violente o armate (allora, nel 1974, ancora agli esordi) è decisamente esplicitato.28 Ci sono ovviamente anche le ricostruzioni, peraltro non rare, riconducibili alla variante denigratoria del medesimo assioma del rapporto filiale tra Sessantotto e pratiche insorgenti nell’Italia degli anni Settanta. Secondo tale punto di vista non vi sarebbe stato, tuttavia, un Sessantotto «buon padre» e una successiva stagione conflittuale «figlia degenere», bensì una lineare trasmissione del corredo genetico; insomma, se non proprio qualis pater, talis filius, il Sessantotto sarebbe stato contagiato, fin dagli esordi, dai germi della degenerazione.29 A prescindere dal giudizio sul Sessantotto, che è diametralmente opposto ed è funzionale a processi di legittimazione e/o delegittimazione estranei a ricostruzioni sine ira et studio, le due varianti non mettono minimamente in discussione il nesso causale tra la contestazione studentesca del 1967-68, la stagione dell’antagonismo sociale e politico diffuso (19681974) e gli anni della violenza politica, sempre meno diffusa e sempre più d’avanguardia (1975-1982), come se prima di allora non si fossero mai utilizzati repertori riconducibili alla categoria – anch’essa discutibile, poiché caratterizzata da confini mutevoli – di «violenza politica».30 Le ragioni di tale schema interpretativo sono molteplici. Basti solo accennare che se per i detrattori del Sessantotto – riferibili per lo più a culture 28. Francesco Guccini, Canzone delle osterie di fuori porta, in Stanze di vita quotidiana, 1974. Su questa linea cfr. la riedizione del volume di Giampaolo Pansa, L’utopia armata. Come è nato il terrorismo in Italia. Dal delitto Calabresi all’omicidio Tobagi, Edizione speciale per il Giornale (su licenza Sperling & Kupfer), Milano 2009 [1a ed. Storie italiane di violenza e terrorismo, Laterza, Roma-Bari 1980]: «Soltanto alcuni ebbero l’onestà di ammettere subito che il terrorismo […] andava messo sul conto del Sessantotto» (p. 2). 29. Generalmente riconducibile al campo “moderato” o “conservatore”, tale lettura ha tuttavia trovato spazio, saldandosi con i giudizi sul movimento studentesco propri di Giorgio Amendola, anche in alcuni settori della saggistica della sinistra “tradizionale”, che valutava il “movimento” come «piccolo-borghese» e incline alle lusinghe dell’estremismo. Cfr. ad esempio Gian Mario Bravo, Critica dell’estremismo. Gli uomini, le correnti, le idee del radicalismo di sinistra, il Saggiatore, Milano 1977, p. 370. 30. Anche per quanto riguarda la violenza politica, l’analisi delle fonti, soprattutto quelle di polizia, conferma che i repertori di lotta violenti furono utilizzati ben prima del Sessantotto. A riguardo, si veda, il case study su Roma nell’immediato secondo dopoguerra di Ilenia Rossini, Riottosi e ribelli. Conflitti sociali e violenze a Roma (1944-1948), Carocci, Roma 2012. Su tali questioni rinvio inoltre a Eros Francescangeli, Le parole e le cose. Sul nesso sinistra rivoluzionaria, violenza politica e sociale, lotta armata, in Parole e violenza politica. Gli anni Settanta nel Novecento italiano, a cura di Giuseppe Battelli e Anna Maria Vinci, Carocci, Roma 2014, pp. 61-73.

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politiche tradizionaliste – l’assunto si inserisce funzionalmente nel discorso teso a rappresentare la contestazione studentesca e giovanile degli anni Sessanta come foriera di processi “degenerativi” a 360 gradi (prima Sex, Drugs and Rock’n Roll e, poi, anche piombo), per coloro che giudicano positivamente l’evento-processo, in particolare per chi ne fu partecipe, l’assunzione di tale punto di vista dipende da molteplici ragioni, tra cui la necessità, sentita fin da subito, di costruirsi un mito fondativo generazionale, cioè la volontà di presentare l’esperienza del movimento studentesco come qualcosa di imparagonabile con quanto accaduto in precedenza. Anzi, in alcune letture iperbolizzanti, il Sessantotto sarebbe una sorta di “anno zero” in cui tutto ebbe inizio.31 Come osservato da Bruno Bongiovanni: «per un errore di prospettiva legato al suo presentarsi come momento fondante, il Sessantotto italiano è stato quasi esclusivamente e incongruamente intrecciato con il “dopo” (autunno caldo, stagione dei movimenti, Settantasette, anni di piombo) invece che con il prima (“miracolo italiano” e modernizzazione)».32 E i legami con il dopo sono costruiti attorno a dispositivi analitici e discorsivi che intendevano dimostrare come ci sia stato un rapporto di causa-effetto tra l’evento supremo e (praticamente tutto o quasi) ciò che è avvenuto successivamente. Anche qui è utile ricorrere alle puntuali riflessioni di Bongiovanni, che ha scritto con cognizione di causa, dato che ha esaminato una realtà, quella torinese, in cui più che altrove studenti e operai svolsero un ruolo rilevante: Sulla base del principio sempre parzialmente illusorio della simultaneità, il Sessantotto studentesco e il Sessantanove operaio, anche sfasati cronologicamente, furono in seguito psicologicamente ricompattati dalla memoria militante collettiva, ma nella realtà furono certo anch’essi più «contemporanei» che realmente «unitari».33 31. Ad esempio: «Cosa c’era prima del ’68?», si chiedeva Beniamino Placido nel 2003 «C’era il contrario di quel movimento. Fu quello come si esprimevano i giornali dell’epoca, un periodo di storia in cui non succedeva nulla, in cui pareva che nulla dovesse accadere. In cui sembrava che la gente (specie quella più giovane) vivesse immersa in una specie di sonnolenta apatia»; Beniamino Placido, Il Sessantotto che i ragazzi non conoscono, «la Repubblica», 28 settembre 2003. Per una riflessione sulla memoria e sull’uso pubblico degli anni della conflittualità diffusa in Italia, si veda John Foot, Looking back on Italy’s ‘Long «68»’. Public, Private and Divided Memories, in Memories of 1968. International Perspectives, a cura di Ingo Cornils e Sarah Waters, Peter Lang, Oxford 2010, pp. 103-129 e Andrea Hajek, Negotiating Memories of Protest in Western Europe. The case of Italy, Palgrave Macmillan, London 2013. 32. Bruno Bongiovanni, Il Sessantotto studentesco e operaio, in Storia di Torino, vol. IX, Gli anni della Repubblica, a cura di Nicola Tranfaglia, Einaudi, Torino 1999, p. 787 (l’intero saggio è alle pp. 779-826). 33. Ivi, p. 820.

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Questa sorta di assenza di memoria rispetto al prima (dovuta anche all’ingresso di molti giovani dei ceti medi in una “scena politica” estranea al loro background) e la tendenza a includere in un unico insieme esperienze tra loro differenti, ma più o meno simultanee, ha condotto alla rappresentazione dell’avvento, durante e dopo il 1968 (qui inteso come anno), di una sinistra «diversa», «altra», definita per l’appunto «nuova» (anche se la definizione era già diffusa). Ma per quanto riguarda l’Italia le novità furono ben poche. Come notato da Ginsborg (il quale non mette tuttavia in discussione il principio della sessantottogenesi) nell’«autunno del 1968 nacque così la Nuova Sinistra italiana, una sinistra che in realtà non era affatto nuova, ma vecchia almeno come la rivoluzione russa».34 E, in effetti, se è vero che le principali organizzazioni della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta nacquero nel corso del biennio 1968-69, è altresì vero che i presupposti della loro genesi affondano le radici nel decennio-quindicennio precedente e che accanto a tali organizzazioni ve ne furono altre che avevano alle spalle almeno un venticinquennio di storia. Come già accennato, le matrici culturali della sinistra extraistituzionale italiana degli anni Settanta sono infatti riconducibili alle varianti dei due filoni di pensiero tradizionali del movimento operaio italiano, ossia l’anarchismo e il marxismo. In Italia le idee-guida della «nuova sinistra» intesa in senso stretto (quella che si manifestò nella sfera anglosassone)35 non permearono, se non marginalmente, i movimenti e i gruppi antisistemici che si manifestarono e organizzarono prima, durante e dopo il Sessantotto. Ciò almeno fino, all’incirca, al 1975-1976, quando, parallelamente alla riscoperta della dimensione privata e alla valorizzazione di alcune istanze individualistiche, all’interno di quello che genericamente veniva definito «il movimento» cominciarono a essere apertamente criticate le forme totalizzanti di militanza e a essere percepite come importanti alcune contraddizioni differenti dalla tradizionale, quanto ritenuta fondamentale, tra Capitale e Lavoro. Prima fra tutte – e non poteva essere altrimenti dato 34. Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 19431988, Einaudi, Torino 1989, p. 423. 35. Cfr. Michele De Gregorio, La British New Left e l’umanesimo socialista, in L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, a cura di Pier Paolo Poggio, vol. II, Il sistema e i movimenti (Europa: 1945-1989), Jaca Book, Milano 2011, pp. 249-273 e Id., Rasta, Beatnik e marxisti culturalisti. I disordini di Notting Hill del 1958 e la nascita della new left britannica, in «Zapruder», 28 (2012), pp. 104-109.

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l’esaurimento del ciclo di conflittualità operaia e l’assenza, nell’Italia di allora, di linee di frattura basate su identità etniche – quella di genere. A livello autorappresentativo, ma anche nella “sostanza”, il Sessantotto studentesco fu dunque essenzialmente «classista» e «rivoluzionario» fin dai primi vagiti (l’aggettivo «studentesco» andrebbe dunque inteso come esplicativo della posizione sociale dei “contestatori” e della centralità degli atenei come luoghi e volani del conflitto). L’antiautoritarismo e lo spontaneismo del movimento degli universitari e di alcune delle formazioni della sinistra rivoluzionaria post-sessantottesca derivarono dunque non già dalla cultura della New Left (e ancor meno da quella dei “figli dei fiori”) ma, come segnalato, dal neo-operaismo e, in misura minore, dal terzomondismo. Il primo fu una cultura politica che, come vedremo, dalla Francia s’innestò, attraverso Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi», nel solco della tradizione sindacalista rivoluzionaria, socialista libertaria e anarchica del movimento operaio italiano.36 Il secondo, come noto, prese progressivamente corpo dalle dottrine maoista e guevarista in seguito alle vittoriose rivoluzioni antimperialiste cinese (1949) e cubana (1959) e si alimentò con la cosiddetta «Grande rivoluzione culturale proletaria» del 1965-69 (in realtà uno scontro all’interno del Partito comunista cinese che si trasferì in molti ambiti della società). Come si avrà modo di leggere nei capitoli successivi, queste e altre esperienze che si costituirono attorno a pubblicazioni, collettivi di lavoratori, avanguardie studentesche, furono centrali per la formazione di quella intellettualità che esercitò la propria leadership politico-culturale nel decennio 1968-1978. Un’intellettualità, dunque, che si forgiò in un rapporto di sostanziale continuità con la generazione di «rivoluzionari» che l’ebbe preceduta. È quindi da respingere il paradigma interpretativo secondo il quale i gruppi della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta nacquero dal Sessantotto.37 Anzi, credo sia 36. La comune matrice venne notata anche dagli apparati investigativi, che all’inizio degli anni Settanta definivano ancora Potere operaio un movimento «anarcosindacalista» rinviando, per gli eventuali riscontri, al fascicolo 295/P, cioè quello della Fai; si veda l’incartamento intestato al gruppo rivoluzionario in Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 26, f. 362/P «Potere operaio». 37. Anche un’analisi sociologica coeva smentì il luogo comune che i gruppi politici avessero avuto il carattere esclusivo di «fronda giovanile». Analizzando il caso milanese, era infatti possibile notare come «questo tipo di posizione autonoma o extraistituzionale» fosse transitata «attraverso esperienze politiche e associative precedenti», segnandone «la maturazione o la crisi»; cfr. La politica dei gruppi. Aspetti dell’associazionismo politico di

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più rispondente alla realtà il rovesciamento di prospettiva. Ossia occorre leggere il Sessantotto italiano, non già come una sorgente, ma come una conseguenza del gauchisme (che, ovviamente, sarebbe una delle “cause”, non certo l’unica) e, in particolare, delle sue varianti neo-operaista e mao/ terzomondista. Ciò spiegherebbe, in parte, anche alcune delle specificità del Sessantotto italiano, tra le quali la “potenza sovversiva” e la sua lunga coda. Dallo studio incrociato delle fonti coeve è emerso abbastanza chiaramente come il rapporto tra il Sessantotto e la militanza politica nei gruppi della sinistra rivoluzionaria pre e post sessantottina fosse caratterizzato sia da elementi di continuità-omogeneità sia da elementi di rottura-eterogeneità. In ogni caso, i primi sembrano sopravanzare i secondi. Se ciò non può condurre a una sottostima della portata del Sessantotto, appaiono tuttavia confermate le interpretazioni di Mangano, Giachetti, Lumley e Flores-De Bernardi38 secondo le quali il Sessantotto fece uscire dall’isolamento la sinistra rivoluzionaria, contribuendo in modo considerevole alla nascita di quelli che furono i raggruppamenti principali del periodo 1970-1974, i cui leader – con l’eccezione del personale politico proveniente dai quadri operai della Fgci o di chi diede vita a «il manifesto»39 – si erano formati attraverso l’esperienza del movimento studentesco. Al contempo, la crescita dei «gruppi» rappresentò «la fine del movimento studentesco come forza autonoma».40 base in Italia dal 1967 al 1969, a cura di Franco Rositi, Presentazione di Sergio Ristuccia, Edizioni di Comunità, Milano 1970, p. 154. 38. Oltre agli studi già citati, cfr. Attilio Mangano, Autocritica e politica di classe. Diario teorico degli anni Settanta, Ottaviano, Milano 1978; Diego Giachetti, Oltre il Sessantotto. Prima durante e dopo il movimento, Bfs, Pisa 1998; Id., Un Sessantotto e tre conflitti. Generazione, genere, classe, Bfs, Pisa 2008 e Robert Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo. Studenti e operai nella crisi italiana, Presentazione di Luisa Passerini, Giunti, Firenze 1998 [ed. orig. States of Emergency. Cultures of Revolt in Italy from 1968 to 1978, Verso, London-New York 1994]. 39. Su ciò cfr. Antonio Lenzi, Il manifesto, tra dissenso e disciplina di partito. Origine e sviluppo di un gruppo politico nel Pci, Prefazione di Sandro Rogari, Città del Sole, Reggio Calabria 2011 e Id., Gli opposti estremismi. Organizzazione e linea politica in Lotta continua e ne il Manifesto-Pdup (1969-1976), Città del Sole, Reggio Calabria 2016. 40. Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo, p. 127. Anche Tarrow ha messo in discussione il paradigma secondo il quale le organizzazioni e i movimenti sarebbero tra loro in antitesi, in quanto molti movimenti furono un prodotto «di campagne di mobilitazione condotte da un’organizzazione» (Sidney Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia. 1965-1975, Laterza, Roma-Bari 1990 [ed. orig. Democracy and disorder. Protest and Politics in Italy, 1965-1975, Clarendon Press, Oxford 1989]).

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Chiarito ciò, va precisato che la presente ricostruzione è una storia politica, e non militare, delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria (ovviamente non tutte, ma solo quelle ritenute più significative ai fini di una risultante interpretativa). L’oggetto di questo libro è dunque la componente politica della sinistra rivoluzionaria italiana attraverso i suoi principali percorsi organizzativi. Restano dunque fuori dalla ricostruzione, oltre che i movimenti, le strutture fluide e l’associazionismo legato al soggetto,41 anche le formazioni militari “dissidenti” del 1943-45 (i partigiani di Stella rossa e Bandiera rossa), l’Armata rossa e la Volante rossa dell’immediato dopoguerra, e le organizzazioni armate (Brigate rosse, Nap, Prima linea, ecc.) o in ogni modo caratterizzate da uno spiccato militarismo e dalla propensione al ricorso a metodi terroristici (Gap, Azione rivoluzionaria, ecc.). Ciò non perché non facessero parte dell’album di famiglia della sinistra rivoluzionaria (chi scrive crede che ne abbiano fatto parte a pieno titolo e ciò è provato dalla fitta rete di relazioni tra l’area del soggetto analizzato e i gruppi armati clandestini), ma per il fatto che le logiche del politico sono differenti da quelle del militare e così anche gli strumenti per il loro studio (fonti, approcci, ecc.). Chi scrive pensa che una ricostruzione che includa il fenomeno della lotta armata debba essere decifrata attraverso il prisma del ricorso all’uso della forza, un ambito che qui si è scelto di analizzare solo marginalmente, come “forma di lotta”, anziché come principale e dirimente canone interpretativo/ narrativo. Ovviamente, le premesse politiche, i casi di doppio livello (tra legalità e illegalità) sono invece inclusi in questa narrazione. Quanto alle non poche organizzazioni che qui non hanno trovato spazio (alcune invero non secondarie, come ad esempio Avanguardia comunista o il Movimento lavoratori per il socialismo), ai fini di una lettura olistica del fenomeno, esse avrebbero aggiunto qualcosa di significativo solo assai parzialmente, trasformando vieppiù quella che intende essere una narrazione di sintesi in un’opera a carattere enciclopedico. 41. Benché presenti e citati in varie parti del libro, sono ad esempio esterni alla ricostruzione qui compiuta i comitati, i collettivi e i gruppi informali riconducibili all’autonomia operaia (intesa come movimento informale) e finanche all’Autonomia operaia (intesa come rete organizzativa degli organismi autonomi che presero forma in concomitanza con lo scioglimento di Potere operaio). Su ciò cfr. Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, 3 voll., DeriveApprodi, Roma 20072008 e ai successivi volumi con lo stesso titolo pubblicati dalla medesima casa editrice. Cfr. infine Salvatore Corasaniti, Volsci. I Comitati autonomi operai romani negli anni Settanta (1971-1980), Le Monnier, Firenze 2021.

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3. Fasi, stagioni ed eventi periodizzanti La ricerca abbraccia un arco temporale relativamente ampio della storia istituzionale e politico-sociale italiana e del movimento operaio italiano e internazionale. Se il terminus a quo è mobile, poiché è legato a filo doppio alle vicende resistenziali e, in particolare, al “passaggio del fronte” e al conseguente trasferimento dei poteri dalla Rsi al Regno del Sud, come terminus ad quem si è ipotizzato il 1978, poiché l’assassinio di Aldo Moro segnò indubitabilmente un punto di non ritorno (l’inizio della fine) che contribuì a scompaginare, frantumandole o riassemblandole, numerose esperienze associative invero già segnate da una crisi profonda. Una crisi manifestatasi apertamente con le elezioni del 20 giugno 1976 e conclusasi, volendo andare oltre il 1978, con la «marcia dei quarantamila» dell’ottobre 1980. Infatti, dopo il 1980, nonostante l’esistenza di alcune aggregazioni (Democrazia proletaria, Fai, Quarta internazionale, Lotta comunista, la rete dell’Autonomia operaia, ecc.), la sinistra rivoluzionaria perse il suo seguito “di massa” (anche se, in realtà, un vero e proprio seguito di tal fatta non lo ebbe mai), tornando ad essere – come negli anni Cinquanta – un fenomeno di ridotte proporzioni. Una perdita di consensi direttamente proporzionale alla fama che i gruppi che scelsero la lotta armata riuscirono ad acquisire grazie alle loro azioni che, al di là del numero degli attivisti «combattenti» e dell’ampiezza dell’area che li fiancheggiava, catalizzarono l’attenzione di tutto l’universo politico e mediatico. Ma se il soggetto studiato tornò alle dimensioni degli anni Cinquanta e tale periodo è in questa sede trattato, perché allora non analizzarne anche le vicende e i processi negli anni Ottanta e Novanta del Novecento o addirittura nei primi anni del nuovo millennio? In fondo, componenti consistenti del movimento antinucleare degli anni Ottanta, del movimento degli studenti medi del 1985, della scena subculturale/controculturale (skinhead, punk, ecc.), delle manifestazioni a sostegno dei movimenti di liberazione nazionale, dei centri sociali occupati, del movimento degli universitari del 1990 (la cosiddetta Pantera), dei coordinamenti antirazzisti e dei movimenti antiglobalizzazione a cavallo dei due millenni, erano – laddove più, laddove meno – riconducibili alla sinistra rivoluzionaria. I motivi di questa esclusione sono vari e, sia detto a scanso di equivoci, non dipendono da una presunta scarsità di fonti.42 Come espongo più compiutamente oltre, 42. Cfr. ad esempio Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 357, f. G5/42/314 «Movimenti giovanili». Cfr. inoltre Eros Francescangeli, Creste, borchie e panini. Le subculture «spetta-

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in primo luogo il ridimensionamento della sinistra rivoluzionaria fu causato da una débâcle politico-organizzativa – un otto settembre dilatato nel tempo – che ebbe tra i suoi effetti quello di spingere i militanti di base verso altri lidi e quello di “azzerare” le leadership storiche, le quali, più o meno direttamente, si “riciclarono” nella sinistra riformista, se non nel cosiddetto campo avversario. Ciò avvenne anche in conseguenza di una sconfitta storica di quel soggetto sociale che la sinistra rivoluzionaria considerava centrale: la classe operaia. Già nei primi anni Ottanta, le “centralità” dell’intervento politico dei reduci e degli eredi del soggetto analizzato erano più articolate, quando non esclusivamente altre: il genere, le generazioni, il territorio, la marginalità sociale, le etnie/culture e i flussi migratori, l’ambiente, le lotte antimilitariste e contro le istituzioni totali, le libertà individuali in tema di sostanze proibite, i diritti civili. Ciò fu affiancato dall’irrompere di nuovi media (si pensi al fenomeno delle “radio libere”) che stravolsero forma, e anche sostanza, della comunicazione della sinistra antisistemica.43 Non casualmente, anche l’aggettivo utilizzato nelle autorappresentazioni mutò. In luogo di «rivoluzionaria», «nuova» o «extraparlamentare», si fecero largo altre definizioni: «per l’alternativa», «popolare», «antagonista», «critica» (che, avendo un ombrello semantico più ampio, esprimono altri significati), quando non si optò per aggettivazioni specialistiche posposte al medesimo sostantivo: «ecologista», «antirazzista», «studentesca», «combattente», ecc. Insomma, già alla fine degli anni Settanta il mondo non era più quello di prima e anche il soggetto principale dell’azione collettiva era qualcosa di profondamente differente (e ciò vale, pur se in misura minore, anche per coloro che aderirono alle formazioni armate).44 Le dinamiche economico-sociali degli anni colari» milanesi nelle carte di polizia (1984-1985), in «Zapruder», 21 (2010), pp. 106-113. Più in generale cfr. Beppe De Sario, Resistenze innaturali. Attivismo radicale nell’Italia degli anni ’80, Agenzia X, Milano 2009. Sul movimento antinucleare cfr. Catia Papa, Energia, democrazia, sviluppo: il movimento antinucleare in Italia (1976-86), in «Meridiana», 98 (2020), pp. 241-253. 43. Sulle “radio libere” mi limito a segnalare «Zapruder», 34 (2014), a cura di Ilaria La Fata, Giovanni Pietrangeli e Luciano Villani, intitolato Sulla cresta dell’onda. Suoni e parole alla conquista dell’etere, in particolare gli articoli di Paola Stelliferi, Una radio tutta per sé. L’esperienza di Radio donna a Roma (pp. 42-59); William Gambetta, Radiografie. I simboli delle radio dell’estrema sinistra italiana (pp. 60-66); Emmanuel Betta, Archiviare fonti multimediali nell’età digitale. Un progetto online per Radio onda rossa (pp. 102-107); Deborah Sannia, Oltre Alice (pp. 112-115) e Valentina Antoniol, L’irruzione di Sherwood. Nascita di una radio libera tra nuovi linguaggi e pratiche di “rivoluzione” (pp. 116-119). 44. Come osservato a proposito di Marco Donat-Cattin, egli «appartiene a una generazione che percepisce ancora l’alito della tradizione del movimento operaio e che allo stesso

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Ottanta e gli eventi internazionali dei primi anni Novanta (la dissoluzione della Jugoslavia e del blocco sovietico) avrebbero poi confermato come il sol dell’avvenire (inteso, lo ripeto, non come idea di rivoluzione ma come prassi ancorata alla tradizione otto-novecentesca) non stesse in realtà sorgendo, ma tramontando. Affrontando la questione delle periodizzazioni, dopo l’ovvia premessa che tale operazione è un procedimento del tutto soggettivo, la mia ipotesi è quella di suddividere tutto il periodo preso in considerazione, gli anni che vanno dal 1943 al 1978 (o 1980, considerando anche la “coda”) e che potremmo chiamare «l’epoca dell’assalto al cielo», in due grandi periodi: «la stagione del vetero-libertarismo e del dissenso eterodosso» (1943-1964) e quella «della contestazione e dell’insubordinazione diffuse» (1965-1978). A loro volta, le due stagioni, possono essere suddivise in periodi più bervi: gli anni dell’opposizione all’Unità nazionale (19431948); gli anni del terzocampismo e del filo-titoismo (1949-1955); gli anni della destalinizzazione (1956-1960); gli anni dell’incubazione dell’operaismo e del marxismo-leninismo (1961-1964); gli anni della politicizzazione terzomondista e della contestazione studentesca (1965-1968); gli anni della protesta operaia e della radicalizzazione dello scontro (1968-1974); gli anni del declino e della – quantomeno così percepita – violenza diffusa (1975-1977); l’anno (o gli anni) del terremoto politico-organizzativo (1978 o, con la “coda”, 1978-1980). Come si può vedere, gli anni salienti della stagione della conflittualità armata (gli anni della violenza rivoluzionaria d’avanguardia o, altrimenti detti, del terrorismo) sono in parte fuori dalla periodizzazione proposta. Anche qui, lo ripeto, non per la determinazione di non considerare le formazioni armate degli anni Settanta-Ottanta come parte dell’insieme «sinistra rivoluzionaria», bensì perché ritengo – e le carte di polizia sull’ordine pubblico e i gruppi della sinistra rivoluzionaria stanno lì a dimostralo – che dopo il 1980, cioè nell’ultima fase dei cosiddetti «anni di piombo», la “partita” fosse già terminata (supplementari compresi).45 tempo è già altrove, ma non così altrove come i giovanissimi dei circoli del proletariato giovanile» (Monica Galfré, Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione, Einaudi, Torino 2022, p. 187). 45. La fortunata formula «anni di piombo» s’impose a livello pubblico dopo l’uscita del film di Margarethe von Trotta Die bleierne Zeit (1981), ispirato alle sorelle Gudrun e Christiane Esslin. Tuttavia, l’«età del piombo» del titolo non si riferiva al metallo delle munizioni ma, utilizzando un’espressione del poeta Friedrich Hölderlin contenuta nella

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Peraltro, ritornando sulla questione delle definizioni, per qualificare gli anni che vanno dalla metà degli anni Sessanta ai primissimi anni Ottanta, ritengo incongrua l’espressione «anni di piombo» (che ha dato vita a un vero e proprio filone metaforico, per cui si parla di «intellettuali di piombo», «schermi di piombo», «aule di piombo»), poiché, per dirla in breve, il problema consiste nella pressoché esclusiva lettura di quegli anni attraverso il prisma della violenza politica (diffusa e a mano armata), creando, anche involontariamente, così l’effetto dell’oscuramento del tutto in ragione della parte. Un tutto che, sia osservando i soli processi conflittuali che le dinamiche dell’intera società italiana nel suo complesso, non fu solo plumbeo. Quegli anni, benché caratterizzati da forme conflittuali uniche, furono anche altro: non solo via Fani, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, le azioni delle Brigate rosse o le stragi di Ustica e Bologna. Tuttavia, non trovo ugualmente adeguata la definizione – solitamente utilizzata da chi preferisce la locuzione «nuova sinistra» a «sinistra rivoluzionaria» o «extraistituzionale» – di «stagione dei movimenti» (in questo caso riferita al periodo 1965-1978), poiché sovrastima il ruolo dei movimenti, spesso rappresentati come “spontanei” e sovente dipinti in modo idilliaco, sottostimando quello delle organizzazioni, che qui in Italia, come già detto, svolsero invece la funzione fondamentale di incubatrici e galvanizzatrici del ciclo di protesta. Inoltre, in tale definizione l’ingombrante presenza della violenza (sia diffusa che d’avanguardia) viene messa in secondo piano, se non espunta, assieme alla carica insorgente, antiautoritaria e disarticolante del protagonismo politico-sociale di quel quindicennio.46 Per definire gli anni che vanno dal 1965 al 1978/1980, osservati attraverso il prisma della conflittualità pubblica, preferisco dunque usare la già citata formula di «anni della contestazione e dell’insubordinazione diffuse». Se, in quanto critico delle impostazioni sessantottocentriche, non posso ovviamente essere d’accordo con l’espressione «lungo Sessantotto» (spesso utilizzata come variante di «stagione dei movimenti»), non ritengo ugualmente calzante la categoria, adoperata ad esempio da Ginsborg e anche da Tarrow (benché lirica Der Gang aufs Land, alla deprimente realtà del secondo dopoguerra. Mentre in Italia (e non solo) venne tradotto in Anni di piombo, altrove non fu così: nel Regno unito il film fu distribuito con il titolo Two German Sisters (e così anche in Spagna e Catalogna), mentre negli Usa uscì come Marianne and Juliane. 46. Considerazioni interessanti, a riguardo, sono in Alessio Gagliardi, «Stagione dei movimenti» e «anni di piombo»? Storia e storiografia dell’Italia degli anni settanta, in «Storica», 67-68 (2017), pp. 83-129.

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l’integri con l’utilizzo del condivisibile concetto di ciclo di protesta), di «anni» (o «stagione» o, ancora «epoca») «dell’azione collettiva», mutuata dagli studi di Charles Tilly sulle collective actions e sui relativi repertori. E ciò perché ritengo che il dato maggiormente mutevole siano appunto i repertori e la loro impetuosità e non il requisito della collettività dell’azione, che fu invece un dato meno dinamico e, soprattutto, caratteristico anche di altre «epoche».47 Seppur sinteticamente, è il caso di elencare gli eventi significativi che, agli estremi o all’interno delle varie fasi temporali precedentemente individuate, segnarono il passo di questa nostra storia. Sono moltissimi e differenti per tipologia e ambito. Mi limiterò, dunque, a segnalarne solo alcuni il cui impatto fu più pregnante di quello determinato da altri. Per praticità, è preferibile raggrupparli (con un’operazione anch’essa parziale) in insiemi dotati di coerenza interna in base allo spazio e alle forme dell’agire politico. Suddividerei dunque gli eventi e i processi che in qualche modo hanno influenzato le culture politiche e i comportamenti delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria in: 1) eventi di carattere internazionale; 2) eventi interni legati alla politica istituzionale; 3) eventi interni legati i momenti alti di conflittualità politica e sociale; 4) eventi interni luttuosi. Ovviamente, gli ambiti ora individuati non sono compartimentati, e una singola vicenda può essere annoverata nell’uno o nell’altro insieme (come, ad esempio, la morte violenta di Che Guevara, collocabile sia nel primo gruppo, sia nell’ultimo). Per quanto riguarda gli eventi «internazionali», il primo grande evento che influenzò il soggetto studiato fu la rottura dei rapporti tra l’Urss e lo Stato federale jugoslavo del maresciallo Tito, cominciata con la sospensione di quest’ultimo dal Cominform (giugno 1948) e proseguita con la denuncia, da parte dell’Unione sovietica e dei suoi alleati, del trattato di amicizia (settembre 1949). Ciò contribuì sia alla nascita di alcuni sodalizi titoisti, tra cui spiccò quello fondato, nel 1951, dagli ex deputati comunisti Aldo Cucchi e Valdo Magnani, sia a far sembrare la Jugoslavia, agli occhi delle dissidenze antistaliniste, un possibile modello alternativo di socialismo «reale». Anch’essa proveniente dall’Est fu la catena di eventi che si 47. Tra vari studi cfr. Charles Tilly, Conflitto e democrazia in Europa, 1650-2000, Bruno Mondadori, Milano 2007 e Id., Contentious Performances, Cambridge University Press, Cambridge 2008. Cfr. inoltre Charles Tilly e Sidney Tarrow, La politica del conflitto, ed. italiana a cura di Tommaso Vitale, Bruno Mondadori, Milano 2008.

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aprì dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953), e cioè il XX congresso del Pcus del febbraio 1956 (con la lettura, da parte di Chruščëv, del famoso “rapporto segreto” in cui venivano denunciati i crimini dello stalinismo) e la rivolta ungherese e la conseguente invasione del paese da parte delle truppe sovietiche (ottobre-novembre 1956). Tra le conseguenze italiane del 1956 vi fu il fenomeno del doppio distacco dal Pci: sia numerosi intellettuali su posizioni antistaliniste, sia alcuni elementi genericamente stalinisti cominciarono ad allontanarsi da quello che fino ad allora era considerato il partito-guida.48 Se la rivoluzione cubana (gennaio 1959) non provocò, almeno immediatamente, ricadute a livello politico-organizzativo (anche perché venne sostenuta dai partiti della sinistra istituzionale), il suo ascendente contribuì, saldandosi con la simpatia verso le lotte di liberazioni dei popoli del Sud del mondo, a sedimentare quell’humus terzomondista che cominciò a dare i suoi frutti, grazie anche alla fondazione della Organización de solidaridad con los pueblos de Asia, África y América latina (più nota come Tricontinental), nella seconda metà degli anni Sessanta, quando tre questioni tangenti il nodo imperialismo/antimperialismo – la guerra francoalgerina (1954-1962), la guerra del Vietnam (1960-1975) e la rottura tra cinesi e sovietici (a partire dal 1960) – infiammarono, non solo in Italia, le coscienze di molti giovani.49 È proprio in questo frangente che i “campi” si ridefinirono (e non solo a sinistra) identificandosi a partire dal rapporto con i tre eventi (solo in parte simultanei) e delineando, così, uno scenario di blocchi contrapposti dove da un lato vi era l’occidentalismo atlantista, dall’altro l’antimperialismo della Cina e dei movimenti di liberazione del Sud del mondo, mentre in mezzo vi era l’Urss (paese «revisionista» e sostenitore della coesistenza pacifica con gli occidentali per molti rivolu48. Cfr. Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956, a cura di Giuseppe Vacca, Rinascita-Editori Riuniti, Roma 1978; Antonio Jannazzo, La crisi del marxismo nell’Ungheria delle riforme, Bonacci, Roma 1980; Quel terribile 1956. I verbali della direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI, a cura di Maria Luisa Righi, Introduzione di Renzo Martinelli e Premessa di Giuseppe Vacca, Editori Riuniti, Roma 1996; Gregorio Sorgonà, La svolta incompiuta. Il gruppo dirigente del Pci dall’VIII all’IX congresso (1956-1965), Aracne, Roma 2011 e Aspettando il Sessantotto. Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968, a cura di Francesca Chiarotto, Accademia University Press, Torino 2017. 49. Cfr. ad esempio Vincenzo Calò, Cuba non è una eccezione, Longanesi, Milano 1963, che più che un testo filocubano è in realtà un manifesto antimperialista filocinese.

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zionari, patria suprema del pericolo comunista per l’oltranzismo atlantista). Ad esempio, la guerra d’Algeria, vero e proprio volano della ripresa dell’antimperialismo militante durante la Guerra fredda, fu utilizzata dai rivoluzionari per denunciare l’opportunismo della sinistra francese e contribuì decisamente a compattare ed estendere spazialmente, politicamente, ma anche sotto il profilo di una nuova consapevolezza di genere, il fronte antimperialista50 (e, per contrasto, anche quello imperialista),51 mentre il conflitto vietnamita – grazie anche alla diffusione del mezzo televisivo, che trasmise i massacri e le asperità della guerra “in diretta” e quasi senza filtri – preparò le condizioni, in una società in cui le culture politiche di stampo cattolico, comunista e socialista occupavano spazi e ambiti assai rilevanti, per un antimperialismo culturale “di massa”. Infatti 50. Per una critica alle posizioni del Pcf cfr. Arrigo Cervetto, La questione algerina e l’opportunismo colonialista della sinistra francese, in «Prometeo», III serie, marzo 1960. Sul conflitto franco-algerino e le sue ricadute, mi limito a segnalare la bibliografia più attinente al nostro discorso: Sylvain Pattieu, Les camarades des frères. Trotskistes et libertaires dans la guerre d’Algérie, Préface de Mohammed Harbi, Syllepse, Paris 2002; Nicola Labanca, La guerra d’Algeria e l’opinione pubblica italiana, in Benjamin Stora, La guerra d’Algeria, il Mulino, Bologna 2009, pp. 154-158; Jeffrey James Byrne, Mecca of Revolution. Algeria, Decolonization and the Third World Order, Oxford University Press, New York 2016; l’agile volume di Cesare Pianciola, La guerra d’Algeria e il “manifesto dei 121”, Edizioni dell’Asino, Roma 2017; Elaine Mokhtefi, Algiers, Third World Capital. Freedom Fighters, Revolutionaries, Black Panthers, Verso, Brooklyn 2018 e Alain Ruscio, Les communistes et l’Algérie. Des origines à la guerre d’indépendance, 1920-1962, La Découverte, Paris 2019. Sul nesso donne e lotta di liberazione algerina, cfr. Natalya Vince, Our Fighting Sisters. Nation, Memory and Gender in Algeria, 19542012, Manchester University Press, Manchester 2015 e Claire Mauss-Copeaux, La vita vera. Le donne algerine nella guerra d’indipendenza, in «Zapruder», 50 (2019), pp. 1643. Per quanto riguarda lo specifico di questo studio, cfr. Tullio Ottolini, Giovanni Pirelli e la guerra d’indipendenza algerina. Tra attivismo intellettuale e soutien concreto, in Giovanni Pirelli intellettuale del Novecento, a cura di Mariamargherita Scotti, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 85-110 e le più recenti riflessioni di Andrea Brazzoduro, La Francia e la guerra d’Algeria. Il «Rapporto Stora» tra uso politico del passato e conflitti del presente, in «Storica», 78 (2020), pp. 7-32 e Id., “Se un giorno tornasse quell’ora”. La nuova sinistra tra eredità antifascista e terzomondismo, in «Italia contemporanea», 296 (2021), pp. 255-275. 51. Le guerre d’Algeria e poi del Vietnam svolsero un ruolo non secondario anche nel processo di ricompattamento della destra neofascista con quella conservatrice. Per i neofascisti, nel volgere di pochi anni gli “Alleati” da nemici divennero il male minore con cui stringere accordi e per conto del quale svolgere “il lavoro sporco”. Cfr. Gianni Scipione Rossi, L’influenza della guerra d’Algeria sull’estrema destra italiana, in I dannati della rivoluzione, pp. 21-39.

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se volessimo trovare un elemento di politica internazionale attorno cui si costruì un’identità collettiva diffusa, questo fu senz’altro, in particolare tra i giovanissimi, la guerra del Vietnam.52 Ma accanto alla politicizzazione in senso antimperialistico (e, in particolare, antistatunitense) dei giovani, le implicazioni del conflitto nel sud-est asiatico spinsero, come notato da Crainz, numerosi attivisti a mettere in discussione sia la politica sovietica della «coesistenza pacifica» sia la togliattiana «via nazionale» al socialismo; inoltre, il Vietnam e, più in generale, le lotte dei vari movimenti popolari di liberazione degli anni Sessanta, contribuirono a ricalibrare gli strumenti di lotta e a innalzare il livello dello scontro: «terzomondismo e violenza trovarono qui, e nell’esperienza di Ernesto Che Guevara, un luogo eletto di incubazione. Proprio Che Guevara spendeva bruciante ironia per le forme generiche e inefficaci di solidarietà».53 Il terzo corno di questa identità antimperialista, la rottura tra i comunisti cinesi (che si aggregarono idealmente alla dissidenza filostalinista del Partito del lavoro d’Albania) e il resto del movimento comunista internazionale, prese forma tra il 1960 e il 1964 a partire dalla questione della «coesistenza pacifica» tra i due blocchi. Un vulnus, quello «cinese», che si approfondì e si allargò, come accennato in precedenza, con il diffondersi, a partire dal 1965, del mito della Rivoluzione culturale e del culto di Mao Zedong, tanto che la stampa benpensante cominciò a definire i rivoluzionari, per sineddoche, «cinesi».54 52. Già in epoca coeva il Pci parlò di «generazione del Vietnam»; cfr. Claudio Petruccioli, La generazione del Vietnam, in «Rinascita», 9 luglio 1966. 53. Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2005 [1a ed. 2003], p. 131. 54. Le ostilità furono aperte dai cinesi nell’aprile del 1960 con il documento intitolato Viva il leninismo; cfr. Viva il leninismo, in Dossier dei comunisti cinesi, a cura di Roberto Gabriele, Nicola Gallerano e Giulio Savelli, Prefazione di Lucio Libertini, Edizioni Avanti!, Milano 1963. In Italia la fortuna del maoismo fu agevolata dalla polemica tra Togliatti e il Pcc in occasione del X congresso del Pci (Roma, 2-8 dicembre 1962) e dalle risposte dei dirigenti cinesi. Sui rapporti Pci-Pcc cfr. Marco Galeazzi, Il Pci e il movimento dei paesi non allineati. 1955-1975, Prefazione di Antonio Varsori, FrancoAngeli, Milano 2011, pp. 60-63. Sul rapporto tra la Rivoluzione culturale e il soggetto studiato cfr. Roberto Niccolai, Quando la Cina era vicina. La rivoluzione culturale e la sinistra extraparlamentare italiana negli anni ’60 e ’70, Prefazione di Renzo Rastrelli, Bfs/Centro di documentazione di Pistoia, Pisa/Pistoia 1998. Sul maoismo internazionale cfr. Robert J. Alexander, International Maoism in the Developing World, Praeger, Westport (Ct) 1999 e Id., Maoism in the the Developed World, Praeger, Westport (Ct) 2001.

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La comparsa anche in Italia, sull’onda di quello statunitense, del movimento studentesco (1965-1968) è, come ho già avuto modo di dire, un altro evento-processo importante. Anche se ciò che chiamiamo Sessantotto fu inizialmente caratterizzato anche da posizioni “corporative”, quest’ultime furono quasi subito abbandonate dato che, come accennato, la saldatura tra tematiche particolari (le lotte degli universitari) e generali (anche e soprattutto internazionali come i diritti civili negli Usa, la guerra del Vietnam o l’emancipazione dei popoli del Sud del mondo) fu una caratteristica globale degli anni della «contestazione giovanile».55 In Italia tale fenomeno fu, in una prospettiva comparativa, accentuato. Ciò perché, come detto nel paragrafo precedente, buona parte dei gruppi dirigenti del movimento studentesco provenivano dagli ambienti della sinistra rivoluzionaria o, come nel caso dei «cattolici del dissenso» e dei «socialcomunisti critici», ne subirono il fascino fin dai primi passi del loro impegno politico. E il fatto che alcune tematiche care al “movimento” internazionale in Italia abbiano trovato poco credito – si pensi al consumerismo, al «dissenso» negli Stati dell’Europa dell’Est, ma anche allo stesso femminismo (che decollò pienamente solo a ridosso della metà degli anni Settanta) – mentre altre, invece, 55. Sulla dimensione globale della protesta contro l’intervento statunitense in Vietnam e, più in generale, del lungo Sessantotto cfr., tra i numerosi studi, Arthur Marwick, The Sixties. Cultural Revolution in Britain, France, Italy, and the United States, c.1958c.1974, Oxford University Press, Oxford-New York, 1998; Roberto Bianchi, La dimensione internazionale, in Giulia Albanese et al., I due bienni rossi del Novecento. 1919-20 e 1968-69. Studi e interpretazioni a confronto, Ediesse, Roma 2006, pp. 249-262; GerdRainer Horn, The Spirit of ’68. Rebellion in Western Europe and North America, 19561976, Oxford University Press, Oxford 2007; 1968 in Europe. A History of Protest and Activism, 1956-1977, a cura di Martin Klimke e Joachim Scharloth, Palgrave Macmillan, New York 2008; 68. Une histoire collective (1962-1981), a cura di Philippe Artières e Michelle Zancarini-Fournel, La Découverte, Paris 2008 (2a ed. 2015); The long 1968: Revisions and New Perspectives, a cura di Daniel J. Sherman, Ruud van Dijk, Jasmine Alinder e Aneesh Aneesh, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2013; Robert Gildea, Europe’s 1968. Voices of Revolt, a cura di James Mark e Anette Warring, Oxford University Press, Oxford 2013; The Third World in the Global 1960s, a cura di Samantha Christiansen e Zachary A. Scarlett, Berghahn Books, New York-Oxford 2015; The Global 1960s. Convention, contest and counterculture, a cura di Tamara Chaplin e Jadwiga Pieper Mooney, Routledge, London 2018; The Routledge Handbook of the Global Sixties. Between Protest and Nation-Building, a cura di Chen Jian, Martin Klimke, Masha Kirasirova, Mary Nolan, Marilyn Young e Johanna Waley-Cohen, Routledge, London-New York 2018 e Giuseppe Maione, Ripensare il Sessantotto. I movimenti di protesta negli USA, Europa e Terzo mondo, goWare, Firenze 2019.

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abbiano avuto maggior fortuna che altrove (si pensi all’antifascismo) non può che confermare la validità di questa tesi.56 Gli altri eventi «internazionali» che influenzarono il soggetto preso in esame furono, in ordine cronologico: il colpo di Stato “dei colonnelli” in Grecia (aprile 1967); la morte di Che Guevara (ottobre 1967), l’offensiva vietnamita del Tet (gennaio 1968); il “maggio francese” del 1968; la primavera di Praga e l’invasione della capitale cecoslovacca da parte delle truppe del patto di Varsavia (estate 1968); il colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile (settembre 1973); la “rivoluzione dei garofani” e il processi conflittuali portoghesi (1974-1975) e il quasi concomitante trapasso di regime in Spagna in seguito alla morte di Francisco Franco (1975). Raggiunta dunque una sorta di “vetta” nel 1974-1975, tutta una serie di questioni – per una ragione o per un’altra – si risolsero o con una delusione delle attese rivoluzionarie o con la sconfitta del nemico e, dunque, il venir meno del fattore mobilitante. L’esito moderato della rivoluzione portoghese (quello che veniva definito «processo rivoluzionario in corso», bruscamente interrotto dopo il fallito colpo di Stato dei parà vicini alla sinistra rivoluzionaria del novembre 1975), la presa di Saigon da parte delle truppe dell’Esercito popolare del Vietnam del Nord (30 aprile 1975) e quindi la conclusione del lungo conflitto del sud-est asiatico, la fine delle dittature in Grecia e Spagna, con il ritorno, in ogni caso soft, della democrazia, l’affievolirsi della luminosità del “faro” cinese, il quale – almeno dal 1972 – aveva imboccato la via della coesistenza pacifica con il fino a poco tempo prima vituperato imperialismo americano, sono tutti fattori che contribuirono ad abbassare notevolmente la tensione politica del “bacino di utenza” della sinistra rivoluzionaria.57 56. In Italia l’associazionismo a tutela del consumatore restò pressoché estraneo alle culture della sinistra rivoluzionaria; cfr. a riguardo Roberta Sassatelli, La politicizzazione del consumo. La cultura di protesta e l’emergere delle associazioni dei consumatori in Italia e in Europa, in Genere, generazione e consumi. L’Italia degli anni Sessanta, a cura di Paolo Capuzzo, Introduzione di Paolo Capuzzo, Federico Romero ed Elisabetta Vezzosi, Annali della Fondazione Istituto Gramsci, XII, Carocci, Roma 2003, pp. 82-83 (l’intero saggio è alle pp. 6389). Sul rapporto con il dissenso politico “oltre cortina” cfr. Il dissenso: critica e fine del comunismo, a cura di Pier Paolo Poggio, Marsilio, Venezia 2009; Valentine Lomellini, L’appuntamento mancato. La sinistra italiana e il Dissenso nei regimi comunisti (1968-1989), Prefazione di Antonio Varsori, Postfazione di Marc Lazar, Le Monnier, Firenze 2010 e soprattutto Paolo Sensini, Il «dissenso» nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977, Introduzione di Luciano Pellicani, Postfazione di Aldo Giannuli, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. 57. Sul ruolo periodizzante degli anni Settanta e sulla loro centralità nel panorama internazionale mi limito a segnalare Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta,

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Per quanto riguarda gli eventi interni legati alla politica istituzionale e ai momenti alti di conflittualità politica e sociale (inclusi gli eventi luttuosi “collettivi”, legati alla gestione dell’ordine pubblico o alla strategia della tensione), se essi verranno citati nel corso dell’esposizione, è qui il caso di segnalare i più eclatanti: la “svolta di Salerno”, che ridiede oggettivamente “fiato” al dissidentismo social-comunista e al libertarismo; la scissione di palazzo Barberini, che interessò – inizialmente – anche alcune componenti rivoluzionarie; l’attentato a Togliatti del luglio 1948; i fatti di Modena, del gennaio 1950; il luglio 1960 e i tumulti in Sicilia, a Genova, a Roma e a Reggio Emila; le lotte operaie del 1962-1964 e i fatti di Piazza Statuto a Torino dell’estate 1962; l’occupazione della Sapienza a Pisa, nel febbraio 1967; la “battaglia” di Valle Giulia, il 1° marzo 1968; i fatti di Avola, il 2 dicembre 1968 e quelli della “Bussola”, tra il 31 dicembre 1968 e il 1° gennaio 1969; la rivolta di Battipaglia dell’aprile 1969; le lotte operaie del 1969 e gli scontri di via Larga a Milano, con la morte dell’agente Annarumma; la strage di piazza Fontana e la conseguente criminalizzazione della sinistra rivoluzionaria; la lunga e ineguagliata rivolta di Reggio Calabria (luglio 1970-febbraio 1971); la morte di Feltrinelli, l’uccisione di Calabresi e il ritrovamento di un presunto arsenale dell’«ultrasinistra» a Camerino, tra il marzo e il novembre del 1972 (un anno davvero centrale per la strategia della tensione); la strage di piazza della Loggia a Brescia e quella dell’Italicus, rispettivamente nel maggio e nell’agosto del 1974 e il già ricordato sequestro (e poi uccisione) di Aldo Moro, nel marzo-maggio 1978. Ma anche alcuni eventi istituzionali furono fondamentali per l’agenda della sinistra rivoluzionaria italiana: il referendum sul divorzio (maggio 1974); le elezioni politiche del 1972 e, soprattutto, quelle del 1976. Quest’ultimo episodio, come accennato, fu fondamentale per attivare quel processo di dissolvimento (già in nuce dopo l’esplosione della contraddizione di genere e di quella cultural-generazionale) che, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, ridimensionerà notevolmente le forze della sinistra rivoluzionaria. Le elezioni politiche – anticipate di un anno – a cura di Luca Baldissara, Carocci, Roma 2001; Giovanni Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007; Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi, a cura di Alberto De Bernardi, Valerio Romitelli e Chiara Cretella, Archetipolibri-Gedit, Bologna 2009; The Shock of the Global. The 1970s in Perspective, a cura di Niall Ferguson, Charles S. Maier, Erez Manela e Daniel J. Sargent, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 2010; Simona Colarizi, Un paese in movimento. L’Italia negli anni Sessanta e Settanta, Laterza, Bari-Roma 2019 e, infine, L’Italia degli anni Settanta. Narrazioni e interpretazioni a confronto, a cura di Fiammetta Balestracci e Catia Papa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.

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del 20 giugno 1976, infatti, furono elezioni cariche di aspettative (e questo la dice lunga sulla presunta «extraparlamentarità» dell’area qui esaminata) poiché nelle consultazioni elettorali dell’anno precedente le liste di Democrazia proletaria (il cartello elettorale tra Avanguardia operaia e il Pdup per il comunismo) avevano incassato risultati che lasciavano ben sperare (in alcune realtà, ad esempio, Dp raggiunse la soglia del 4%). L’altro elemento che lasciava ben sperare i rivoluzionari era la novità rappresentata dall’estensione del diritto di voto ai diciottenni: oltre tre milioni di giovani compresi tra i 18 e i quasi 25 anni avrebbero votato per la prima volta. Era la fascia di età che nei mesi precedenti aveva svolto un ruolo primario nell’agone politico e sociale italiano: gli studenti, le femministe, i soldati di leva, il cosiddetto proletariato giovanile. A fronte di tutto ciò, le previsioni che circolavano vedevano Dp attestata tra il milione (secondo i pessimisti) e i due milioni e mezzo di preferenze.58 Come noto, e come esposto più compiutamente oltre, le cose andarono diversamente. E le illusioni lasciarono rapidamente il campo alla disillusione. Infine, tra gli eventi luttuosi con valenza periodizzante o comunque “impattante”, una posizione particolare hanno avuto le uccisioni, reali o ipotizzate, di manifestanti e di militanti o simpatizzanti politici o sindacali (a prescindere se «rivoluzionari» o meno) compiute dagli apparati dello Stato (in operazioni di ordine pubblico o in altre circostanze) o da attivisti genericamente definibili come neofascisti.59 Partendo dagli anni Sessanta (dato 58. Lc si distinse particolarmente per i pronostici ottimistici, avanzando l’ipotesi che il cartello unitario dei rivoluzionari fosse potenzialmente in grado di intercettare «milioni di voti» (Le elezioni e l’unità a sinistra, in «Lotta continua», 10 aprile 1976). Mimmo Pinto ricorda come circolassero «stime interne che ipotizzavano un 6-7 per cento. Lotta continua, delirando, arrivo a parlare del 15» (in Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. Storia di Lotta Continua, Sperling & Kupfer, Milano 2006 [1a ed. Arnoldo Mondadori, Milano 1998], p. 270). 59. Sulle morti cruente degli attivisti di sinistra cfr. Fabio Giovannini, La morte rossa. I marxisti e la morte, Dedalo, Bari 1984; Diego Giachetti, Son morti sui vent’anni. Senso della vita e significato della morte nei movimenti degli anni settanta, in «Zapruder», 3 (2004), pp. 114-118; Pierluigi Zavaroni, Caduti e memoria nella lotta politica. Le morti violente della stagione dei movimenti, FrancoAngeli, Milano 2010. Seppur dal taglio divulgativo cfr. inoltre Cristiano Armati, Cuori rossi. La storia, le lotte e i sogni di chi ha pagato con la vita il prezzo delle proprie idee. Dagli eccidi di contadini e operai nel dopoguerra all’esecuzione di Valerio Verbano e Peppino Impastato, dai caduti del ’77 alla morte di Carlo Giuliani, Newton Compton, Roma 2008. Per quanto riguarda le uccisioni supposte, fra tutte spicca la morte di cinque giovani attivisti della Fagi di Reggio Calabria, archiviata come incidente stradale (a riguardo cfr. Fabio Cuzzola, Cinque anarchici del Sud. Una

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che, prima, tali eventi luttuosi avevano un effetto mobilitante principalmente su Pci e Psi), tra le varie morti, particolarmente “sentite” furono quelle di: Giovanni Ardizzone, ucciso da un automezzo della Celere durante una manifestazione pro Cuba (Milano, 27 ottobre 1962); Paolo Rossi, morto in seguito a un’aggressione di neofascisti all’università (Roma, 26 aprile 1966);60 Domenico Congedo, simpatizzante anarchico, precipitato da un cornicione della facoltà di Magistero in seguito a un assedio – apparentemente non contrastato dalla forza pubblica – di militanti neofascisti (Roma, 27 febbraio 1969);61 Cesare Pardini, colpito da un candelotto lacrimogeno durante una manifestazione del movimento studentesco (Pisa, 27 ottobre 1969); Giuseppe Pinelli, il noto anarchico precipitato (in circostanze insufficientemente chiarite) dal quarto piano della questura meneghina dopo un fermo in relazione alla strage di piazza Fontana (Milano, 15 dicembre 1969);62 Saverio Saltarelli, militante del gruppo bordighista che pubblicava «La Rivoluzione comunista» (il PcInt-Rc), anch’egli colpito da un lacrimogeno (Milano, 12 dicembre 1970); Vincenzo De Waure, studente maoista napoletano, barbaramente ucciso da ignoti, probabilmente un gruppo di neofascisti che cosparse di benzina il suo corpo e lo bruciò (Napoli, 21 gennaio 1972); Franco Serantini, attivista anarchico, morto in carcere in seguito alle percosse subite al momento dell’arresto (Pisa, 7 maggio 1972);63 Mariano Lupo, giovane storia negata, Prefazione di Tonino Perna, Città del sole, Reggio Calabria 2001 [nuova ed. Cinque anarchici. Una storia negata, Prefazione di Tonino Perna e Postfazione di Carmelo Tenio, Castelvecchi, Roma 2020]). 60. Sulla morte di Paolo Rossi cfr. Paola Ghione, L’emergere della conflittualità giovanile: da piazza Statuto a Paolo Rossi, in Giovani prima della rivolta, a cura di Paola Ghione e Marco Grispigni, Manifestolibri, Roma 1998, pp. 115-131. 61. Sulla morte di Congedo cfr. Francesca Socrate, Una morte dimenticata e la fine del Sessantotto, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1 (2007), pp. 157-190. 62. Sulla vicenda di Pinelli cfr. Camilla Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Feltrinelli, Milano 1971; Comitato di controinformazione, Pinelli: un omicidio politico, Galileo, Padova 1971; Marco Sassano, Pinelli: un suicidio di Stato, Prefazione di Riccardo Lombardi, Marsilio, Padova 1972; Il malore attivo dell’anarchico Pinelli. La sentenza del 1975 che chiuse l’istruttoria sulla morte del ferroviere Pino Pinelli, che entrò innocente in un ufficio al quarto piano della Questura di Milano, e ne uscì dalla finestra, il 15 dicembre 1969, a cura di Adriano Sofri, Sellerio, Palermo 1996; Amedeo Bertolo et al., Pinelli. La diciassettesima vittima, Prefazione di Luciano Lanza, Bfs, Pisa 2006; Adriano Sofri, La notte che Pinelli, Sellerio, Palermo 2009 e Paolo Brogi, Pinelli. L’innocente che cadde giù, Castelvecchi, Roma 2020. 63. Sull’uccisione di De Waure cfr. Assassinato dai fascisti, in «Servire il popolo», 29 gennaio 1972. Su Serantini cfr. Giustizia per Franco Serantini, Amministrazione provincia-

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attivista di Lotta continua, aggredito a coltellate da un gruppo di neofascisti (Parma, 25 agosto 1972);64 Roberto Franceschi, studente della Bocconi e attivista del Movimento studentesco (Ms), colpito a morte da un colpo di arma da fuoco esploso dalle forze dell’ordine (Milano, 23 gennaio 1973); Vincenzo Caporale, ferito mortalmente da un candelotto lacrimogeno durante un corteo contro la legge sul fermo di polizia (Napoli, 21 febbraio 1973); Fabrizio Ceruso, militante diciannovenne dell’Autonomia operaia, ucciso a San Basilio, durante una lotta per l’occupazione delle case, da un colpo di arma da fuoco esploso dalle forze dell’ordine (Roma, 8 settembre 1974); Sergio Adelchi Argada, militante del Fronte popolare comunista rivoluzionario della Calabria, ucciso a colpi di pistola da militanti neofascisti (Lamezia Terme, 20 ottobre 1974); Claudio Varalli, studente diciassettenne del Ms (Milano, 16 aprile 1975), Giannino Zibecchi, giovane insegnante e militante antifascista (Milano, 17 aprile 1975), Tonino Miccichè, leader di Lc alla Falchera (Torino, 17 aprile 1975) e Rodolfo Boschi, militante del Pci (Firenze, 18 aprile, 1975), uccisi, nell’arco di tre giorni, in circostanze differenti.65 Sempre nel 1975 – l’anno con più attivisti morti ammazzati – ci furono poi le uccisioni di Alberto Brasili, studente-lavoratore di sentimenti antifascisti, accoltellato da un gruppo di “sanbabilini” (Milano, 25 maggio 1975); Alceste Campanile, militante di Lc, ucciso in circostanze mai chiarite fino alla confessione del suo assassinio da parte di un neofascista (Reggio Emilia, 12 giugno 1975); Iolanda Palladino, morta in un ospedale romano dopo essere stata investita da una molotov lanciata da attivisti missini contro un corteo che festeggiava l’esito delle elezioni (Napoli/Roma 17/21 giugno 1975); Piero Bruno, anch’esso giovanissimo attivista di Lc, fatto segno di vari colpi di arma da fuoco in occasione di una manifestazione per la libertà dell’Angola (Roma, 23 novembre 1975).66 E poi ancora: Mario Salvi, ventunenne attivista dell’Autonomia operaia, “freddato”, dopo aver lanciato le di Pisa, Pisa 1974 e Corrado Stajano, Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini, Einaudi, Torino 1975. 64. Sull’omicidio di Lupo cfr. Piermichele Pollutri, Parma 25 agosto 1972. Omicidio di Mariano Lupo, Fedelo’s, Parma 2009. 65. Sulla morte di Tonino Miccichè cfr. Filippo Falcone, Morte di un militante siciliano, Meridionali nella Torino degli anni Settanta, Prefazione di Luigi Manconi, Postfazione di Marco Scavino, Cronologia a cura di Alessandra Capitolo, Lighea, [Torino] 1999. La figura di Tonino Miccichè è rievocata anche in Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009, passim. 66. Sull’omicidio di Brasili, cfr. la fiction di Carlo Lizzani, San Babila ore 20: un delitto inutile, Italia, 1976, 105’. Su Piero Bruno, cfr. Massimiliano Coccia, Gli occhi di Piero.

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una molotov, da un agente di custodia in servizio presso il Palazzo di Giustizia (Roma, 7 aprile 1976); Gaetano Amoroso, antifascista già attivista del Pc(ml)i, accoltellato da un gruppo di neofascisti (Milano, 30 aprile 1976); Luigi Di Rosa, ventunenne della Fgci, ucciso a colpi di pistola dai neofascisti al seguito del deputato missino Sandro Saccucci, dopo un comizio “a mano armata” (Sezze Romano, 28 maggio 1976); Francesco Lorusso, attivista di Lotta continua colpito da un proiettile esploso da un carabiniere durante una manifestazione (Bologna, 11 marzo 1977); Giorgiana Masi, studentessa diciannovenne uccisa da un proiettile vagante durante una manifestazione indetta dal Partito radicale (Roma, 12 maggio 1977); Walter Rossi, ventenne di Lc, ucciso da neofascisti mentre effettuava un volantinaggio (Roma, 30 settembre 1977); Benedetto Petrone, diciottenne attivista della Fgci, accoltellato da una squadra di neofascisti (Bari, 17 novembre 1977); Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Fausto e Iaio), attivisti del Centro sociale Leoncavallo, impegnati contro la diffusione dell’eroina e assassinati in circostanze mai chiarite (Milano, 18 marzo 1978); Peppino Impastato, dirigente di Dp, ucciso dalla mafia (Cinisi, 8 maggio 1978); Ivo Zini, neolaureato iscritto al Pci, assassinato da un nucleo armato neofascista (Roma, 28 settembre 1978); Claudio Miccoli, giovane dirigente ambientalista, ucciso a bastonate da un gruppo di neofascisti (Napoli, 6 ottobre 1978).67 Infine, non è possibile non sottolineare l’importanza del 1977, anzi del Settantasette, inteso come evento-processo; un movimento frastagliato e poliedrico la cui riconducibilità a paradigmi interpretativi univoci appare Storia di Piero Bruno, un ragazzo degli anni settanta, con la collaborazione di Susanna Fontana, Alegre, Roma 2006. 67. Sulla morte di Lorusso cfr. Parliamo di Francesco, Cooperativa editoriale 15 giugno, Roma 1978, Giorgio Guidelli, Un ragazzo così. L’altra fede di Francesco Lorusso, Quattro venti, Urbino 2011. Sulla morte di Giorgiana Masi si veda 12 maggio 1977. Cronaca di una strage. L’esecuzione di Giorgiana Masi: anche il compromesso uccide, Centro di iniziativa giuridica Piero Calamandrei, Roma 1979. Su Petrone Le due città. I giorni di Benedetto Petrone, Libreria cooperativa, Bari 1978. Sull’omicidio di Tinelli e Iannucci, cfr. Daniele Biacchessi, Fausto e Iaio. La speranza muore a diciotto anni, Baldini & Castoldi, Milano 1996. Su Impastato cfr. Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, Peppino Impastato. Anatomia di un depistaggio. La relazione della Commissione parlamentare antimafia presentata da Giovanni Russo Spena, con contributi di Giuseppe Lumia et al., Editori Riuniti, Roma 2001; Peppino Impastato e i suoi compagni, Radio Aut. Materiali di un’esperienza di controinformazione, a cura di Salvo Vitale, Prefazione di Erri De Luca, Alegre, Roma 2008 e la fiction di Marco Tullio Giordana, I cento passi, Italia, 2000, 104’.

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difficoltosa.68 Ad ogni buon conto, se fosse possibile individuare il minimo comun denominatore del fenomeno, questo potrebbe essere il rigetto – a tratti scanzonato, a tratti disperato – nei confronti delle compatibilità e degli spazi di mediazione, delle forme di lotta tradizionali, dei riti e delle pratiche consolidate della politica, degli istituti del movimento operaio organizzato, siano essi canonici (partiti parlamentari e sindacati) che eterodossi (le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria).69 Visto in quest’ottica, il Settantasette può essere classificato come un movimento «antipolitico», una sorta di contraltare del Sessantotto del quale rappresenterebbe, per l’appunto, l’epilogo. Come notato da Claudio Del Bello in occasione del ventennale dell’evento, il ’77 fu «il primo quadro dell’ultimo atto»: la débâcle di quel movimento aprì una «serie di sconfitte che [chiuse] il ciclo delle lotte sociali aperto con il ’68. Fu poi seguita dai 35 giorni alla Fiat […] e poi da quella nel referendum sulla scala mobile».70 Ai fini della nostra storia, il Settantasette rappresentò indubbiamente un evento-processo che, inserendosi prepotentemente nella crisi delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, contribuì a disarticolarne il tessuto organizzativo ordito nel decennio 1966-1975, acutizzando contraddizioni già giunte a maturazione nel biennio 1975-76 e limitando la gamma delle opzioni politico-organizzative percorribili a quattro possibilità: 1) il disimpegno dall’attività rivoluzionaria “tradizionale” (che significava e avrebbe significato moltissime cose: il ripiegamento individualistico/intimistico, la valorizzazione/politicizzazione della dimensione privata e professionale, la fuga dalla realtà attraverso l’alcool e/o l’eroina, la scoperta di nuovi orizzonti politici a partire dal proprio vissuto o da contesti circoscritti caratterizzati da maggior pragmatismo); 2) la scelta di tentare l’assalto al cielo con una delle formazioni che avevano optato per la lotta armata o la violenza diffusa e generalizzata (Brigate rosse, Prima linea o qualche 68. Su ciò cfr. Luca Falciola, Il movimento del 1977 in Italia, Carocci, Roma 2015; Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, Manifestolibri, Roma 2017; Il movimento del ’77. Radici, snodi, luoghi, a cura di Monica Galfré e Simone Neri Serneri, Viella, Roma 2018 e Da “non garantiti” a precari. Il movimento del ’77 e la crisi del lavoro nell’Italia post-fordista, a cura di Domenico Guzzo, FrancoAngeli, Milano 2019. 69. Un rifiuto che non riguardò tuttavia l’uso del manifesto murale come canale comunicativo. Cfr. William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Prefazione di Edoardo Novelli, DeriveApprodi, Roma 2014. 70. Odradek, Introduzione. Perché questo libro, in Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ’77, a cura di Claudio Del Bello, Odradek, Roma 2005 [1a ed. 1997], p. 23.

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struttura politico-militare dell’area dell’autonomia operaia); 3) l’istituzionalizzazione del proprio agire politico attraverso la partecipazione a quel processo di aggregazione-parlamentarizzazione che avrebbe condotto alla nascita di Democrazia proletaria; 4) la militanza ultra-minoritaria in una delle sempre più scarne organizzazioni residuali della sinistra extraistituzionale. La maggioranza dei giovani ribelli del 1977, più o meno coscientemente avversa alla generazione che la precedette, si orientò verso una delle prime due opzioni e, in subordine, verso la terza.71 Come osservato – enfatizzando più del dovuto il peso della componente “creativa” del Settantasette – la spaccatura tra il movimento e i fratelli maggiori che avevano fatto il ’68 e all’inizio si illusero che l’esplosione delle università potesse rinfoltire le file della sinistra rivoluzionaria organizzata, fu pre-politica: «Sconfina nell’antropologia: dogmatismo contro spontaneismo, militanza contro festa, ragione contro emozione, settarismo contro autocoscienza, primato delle masse contro bisogno individuale, leaderismo contro comunicazione orizzontale, seriosità contro dissacrazione».72 Anche se non incolmabile, il fossato che divise i gruppi della sinistra rivoluzionaria dal sentire comune del movimento settantasettino fu in ogni modo assai ampio. L’estraneità, quando non l’avversione, alle concezioni politico-organizzative proprie del marxismo e del leninismo (e finanche dell’anarchismo tradizionale) fu, infatti, una delle caratteristiche del movimento del Settantasette nel suo complesso, non solo della componente ludico-goliardica o di quella femminista. Un movimento dalle tinte marinettiane, diciannoviste o, nella migliore delle ipotesi, sindacaliste rivoluzionarie,73 che rifiutava la centralità e l’eticità del lavoro e – in opposizione alla politica dei sacrifici del Pci – rivendicava il «diritto al lusso», difficilmente poteva essere attratto dai modelli politici e organizzativi della sinistra leninista. Inoltre, la nuova figura sociale 71. Per il percorso di molti attivisti verso la seconda opzione cfr. Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973-1976), DeriveApprodi, Roma 2019. Cfr. anche Alberto Pantaloni, La dissoluzione di Lotta continua e il movimento del ’77, DeriveApprodi, Roma 2019. 72. Stefano Cappellini, Rose e Pistole. 1977. Cronache di un anno vissuto con rabbia, Sperling & Kupfer, Milano 2007, p. 95. 73. Sulle analogie tra dannunzianesimo e movimento del 1977, cfr. Claudia Salaris, Il movimento del Settantasette. Linguaggi e scritture dell’ala creativa, AAA, Bertiolo 1997 e Ead., Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, il Mulino, Bologna 2002. Già all’epoca (18 settembre 1977), Enrico Berlinguer in un’intervista a «La Stampa» del 23 settembre bollò gli attivisti di Autop come «nuovi fascisti» (Cfr. Albertina Vittoria, Storia del PCI. 1921-1991, Carocci, Roma 2006, p. 135).

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del Settantasette, lo studente e/o il proletario “non garantito”, non trovò alcuna sponda capace di rappresentarne umori, interessi e idealità, divenendo così, suo malgrado, l’archetipo della generazione No future. Come per ogni movimento, difficile – se non impossibile – individuare un momento iniziale, anche perché tra i repertori d’azione della vicenda settantasettina la prassi violenta, anche e soprattutto «d’avanguardia», è un elemento caratterizzante (oltre che dirimente). E se volessimo utilizzare la categoria di violenza politica come paradigma interpretativo al fine di individuare il terminus a quo del fenomeno, ci troveremmo di fronte al fatto che dalla metà del 1975 in poi l’andamento delle azioni illegali poste in essere dalle organizzazioni politiche (e, ovviamente, politicomilitari) della sinistra rivoluzionaria si mantenne più o meno costante e il susseguirsi di azioni violente riconducibili al soggetto in questione fu, praticamente, senza soluzione di continuità. Ciò (nonostante il discorso pubblico “d’ordine” diramasse notizie tali da giustificare l’introduzione di una legislazione emergenziale)74 a fronte di un netto calo delle denunce per reati commessi nel corso di manifestazioni politiche e sindacali nel quinquennio 1971-1976 (e, incredibilmente, anche nei primi nove mesi del 1977). In un documento riepilogativo redatto alla fine del 1976 si affermava ad esempio come la «situazione dell’ordine pubblico [fosse] andata nettamente migliorando dal 1971 al 1975, facendo registrare una diminuzione del numero delle persone denunciate per reati commessi nel corso di tali manifestazioni».75 Segno evidente di una progressiva quanto drastica diminuzione della conflittualità di piazza, compensata però da una simultanea tendenza alla clandestinizzazione delle pratiche di forza (agguati e attentati), sempre più «d’avanguardia» e sempre meno «di massa».76 74. Sull’introduzione di leggi ad hoc per fronteggiare la conflittualità diffusa, cfr. Eros Francescangeli, Liberalismo reale. La percezione della Legge Reale e dei suoi esiti nella sinistra rivoluzionaria italiana (1975-1977), in Patrizia Dogliani e Marie-Anne Matard Bonucci, Democrazia insicura. Violenze, repressioni e Stato di diritto nella storia della Repubblica (1945-1995), Donzelli, Roma 2017, pp. 225-237. 75. Acs, Mi, Gab., Fc, 1976-1980, b. 55, f. 11001/110/2 «Ordine e sicurezza pubblica. Affari vari. II fascicolo», sf. 10 «Ordine e sicurezza pubblica. Dibattito al Senato. Discorso on. Cossiga», ssf. «Ordine pubblico e sicurezza interna», Ordine pubblico; reati commessi durante manifestazioni politiche e sindacali; sommosse carcerarie; sequestro di armi e munizioni) e ivi, ssf. «Vertice Op», Mi-Dgps, Dati statistici per il dibattito al Senato della Repubblica sull’ordine pubblico, dattiloscritto, novembre 1977. 76. In relazione agli episodi schedati come «attentati», ecco le statistiche: nel 1974 (482 attentati e 67 denunciati); nel 1975 (628 episodi e 111 denunciati); nel 1976 (1.198 attentati e

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4. Violenza, repressione e strategie della tensione Attorno al rapporto tra il soggetto sinistra rivoluzionaria e l’insieme di repertori d’azione (evidentemente correlati a determinati campi teorici) che definiamo “violenza politica”, si è avviato un dibattito e sono usciti alcuni studi significativi.77 Come ci sono state alcune proficue occasioni di scambio che, lungi dal “chiudere” il discorso, hanno lasciato intravedere prospettive d’indagine ad ampio raggio.78 115 denunciati). Nei primi nove mesi del 1977 ci furono invece ben 1.693 attentati: «Per gli attentati di cui si è scoperto l’autore (46) sono state denunciate 94 persone […]. In particolare, nell’anno in corso sono stati effettuati 46 attentati con armi da fuoco contro esponenti politici, giornalisti, dirigenti di azienda» (ibidem). Nel 1975 gli attentati riconducibili a quest’ultima tipologia furono appena dodici e nel 1976 quattordici. L’incremento fu dunque notevole. 77. La rivista «Zapruder» ospitò una discussione sul lessico e le categorie interpretative in relazione al nodo sinistra rivoluzionaria e violenza politica: cfr. Marco Grispigni, L’eskimo che conoscevi tu. Lo spettro degli anni settanta nel dibattito pubblico, in «Zapruder», 4 (2004), pp. 136-141; Eros Francescangeli e Laura Schettini, Le parole per dirlo. Considerazioni sull’uso ideologico di alcune categorie nello studio degli anni Settanta, ivi, pp. 142-146; Marco Pellegrini, In principio fu La seconda volta. Le storie della conflittualità armata in Italia al cinema e in tv tra banalizzazione e uso politico, ivi, pp. 147-148 e Marco Grispigni, Terrorismo: uso, abuso e non uso di un termine, ivi, 6 (2005), pp. 140-144. Si vedano, inoltre, «Zapruder», 20 (2009), intitolato Diritto e castigo. Movimenti e ordine pubblico in età contemporanea, curato da Luigi Ambrosi e Marco Scavino e «Zapruder», 32 (2013), intitolato Sotto attacco. La violenza politica in discussione, curato da Antonio Lenzi e Marilisa Malizia. Per quanto riguarda gli studi, cfr. Silvia Casilio, «Il cielo è caduto sulla terra!». Politica e violenza politica nell’estrema sinistra in Italia (1974-1978), Prefazione di Angelo Ventrone, Edizioni associate, Roma 2005; Guido Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Einaudi, Torino 2009; Carlo Fumian, Alle armi, in Calogero, Fumian e Sartori, Terrore rosso, pp. 167-218; Marica Tolomelli, Militanza e violenza politicamente motivata negli anni Settanta, in Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi, pp. 192-210; Barbara Armani, Italia anni Settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, in «Storica», 32 (2005), pp. 41-82; Lorenzo Bosi e Maria Serena Piretti, Introduzione. Violenza politica e terrorismo: diversi approcci di analisi e nuove prospettive di ricerca, in «Ricerche di storia politica», 3 (2008), pp. 265-272, nel numero intitolato Violenza politica e terrorismo; Il decennio rosso. Contesto sociale e conflitto politico in Germania e in Italia negli anni Sessanta e Settanta, a cura di Christoph Cornelißen, Brunello Mantelli, Petra Terhoeven, il Mulino, Bologna 2010; Guido Panvini, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano, Marsilio, Venezia 2014 e Marco Grispigni, Quella sera a Milano era caldo. La stagione dei movimenti e la violenza politica, Manifestolibri, Roma 2016. 78. Cfr., tra le varie iniziative, le Giornate di studio seminariali Violenza politica e lotta armata nella sinistra italiana degli anni Settanta (Firenze, 27-28 maggio 2010) e

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Innanzitutto cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. La categoria analitica di violenza «politica» o «politicamente motivata» o, ancora, di «violenza rivoluzionaria», per utilizzare l’espressione – benché circoscritta alla lotta armata, vale a dire al “caso limite” – di Isabelle Sommier,79 è ancora materia di dibattito. Non sono tra coloro che le negano il rango di concetto e, dunque, validità a livello scientifico; tuttavia alcune debolezze – principalmente dovute all’uso strumentale o spettacolare che se ne fa – le sono proprie. Violenza politica è un’espressione il cui ombrello semantico è assai vasto: dagli spintoni per impedire un volantinaggio di chi viene percepito come concorrente, avversario o nemico, fino alla strage di obiettivi mirati o casuali, per giungere agli stermini di massa.80 In ogni modo, prendo per buona la definizione di Max Kaase (seppur limitata al solo danno fisico): «è considerata violenza qualsiasi forma di danno fisico diretto o indiretto intenzionalmente inflitto da parte di alcuni individui ad altri individui o alle cose. Sono quindi definiti violenza politica tutti gli atti di danneggiamento fisico volontario».81 Ovviamente a contenuto politico. E qui sorge un problema, proprio attorno all’aggettivo. Come considerare, ad esempio, un picchetto operaio durante uno sciopero, una rivolta più o meno spontanea di braccianti agricoli o un corteo “militante” all’interno di una fabbrica? Violenza politica o violenza sociale? Se vogliamo leggere il fenomeno in senso stretto, gli esempi appena riportati sono ascrivibili tra le forme di violenza sociaViolenza politica e lotta armata negli anni Settanta (Reggio Emilia, 21-22 ottobre 2010), il panel all’interno della VI edizione dei “Cantieri di storia” della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Forlì 22-24 settembre 2011) intitolato Stati d’emergenza. Strategie di difesa e offesa tra sinistra rivoluzionaria e Stato negli anni dell’azione collettiva, il convegno Anni ’70. Parole e violenza politica. Gli anni Settanta nel Novecento italiano (Trieste, 22-23 marzo 2012) e il dialogo A ferro e fuoco: violenza politica, per un’analisi di una categoria controversa, nell’ambito dell’VIII edizione del Simposio estivo di storia della conflittualità sociale (Monte del Lago, 26-29 luglio 2012). 79. Cfr. Isabelle Sommier, La violenza rivoluzionaria. Le esperienze di lotta armata in Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti, DeriveApprodi, Roma 2009. 80. I repertori della cosiddetta «violenza politicamente motivata» sono assai differenti. Come ulteriore testimonianza della debolezza della categoria cfr. il volume, dal taglio divulgativo, di Ezio Cecchini, Storia della violenza politica, Mursia, Milano 1992, il quale entro la cornice semantica del lemma include ambiti ed eventi assai disparati: dall’antico regno di Israele alla «guerra santa» dell’Islam in epoca contemporanea, dai processi di Verona e di Norimberga all’esecuzione dei coniugi Rosenberg. 81. Max Kaase, Partecipazione, valori e violenza politica, in La politica della violenza, a cura di Raimondo Catanzaro, il Mulino, Bologna 1990, pp. 11-12.

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le, non politica. E per continuare, restando ovviamente nella dimensione pubblica, le violenze a sfondo religioso (tra credenti di fedi differenti o tra fazioni della stessa fede), sportivo (si pensi al fenomeno ultras e alle sue commistioni con istanze riconducibili al politico o al prepolitico) o cultural-spettacolare (le scaramucce punk contro skin degli anni Ottanta), come le focalizziamo? Insomma, tutto ciò per dire che i contorni dell’oggetto di analisi sono assai labili. E se una classificazione di tipo scolastico appare ardua, se non impossibile, ciò non significa che si debba rinunciare a riflettere su ampiezza, contorni, tipologie, significati e significanti delle forme più “dure” di pubblica conflittualità. Una conflittualità pubblica che – dovrebbe essere ovvio, ma non sempre è così – ha avuto e ha tra i suoi attori principali, se non il protagonista, lo Stato. Ma come considerare le forme di coercizione basate sulla forza poste in essere dallo Stato? Ossia: la violenza istituzionale delle forze preposte al mantenimento dell’ordine pubblico contro le organizzazioni e i movimenti antistituzionali o antigovernativi (e in alcuni casi non necessariamente tali), è considerabile una particolare forma di violenza politica? In relazione alla violenza delle istituzioni, la definizione fornita da Kaase può essere accettabile: «la violenza politica può anche essere esercitata, e lo è di frequente, dallo Stato; in questo caso si parla solitamente di repressione».82 A riguardo, anche Vittorio Vidotto include taluni interventi delle forze dell’ordine nella categoria – assunta come contenitore ampio, quindi in modo inclusivo – di violenza politica: quelli che travalicano la «corretta difesa dell’ordine pubblico» ponendosi «al di fuori dei canoni di una democrazia equilibratamente conflittuale».83 Considerazioni valide, anche se non evidenziano a sufficienza come nel discorso sulla violenza politica l’aggettivo sia più rilevante del sostantivo. Pestare brutalmente un gruppo di ultras dopo un fermo di polizia, è un episodio che si pone al di fuori del lecito ma non è classificabile come violenza politica. Viceversa, intervenire contro un picchetto organizzato da un’ipotetica avanguardia di lavoratori durante una lotta di fronte ai cancelli di una fabbrica è un atto riconducibile alla sfera politica, anche qualora i tutori dell’ordine si muovessero nel rigoroso rispetto della legge. A mio avviso, dunque, l’attività repressiva della forza pubblica indi82. Ivi, p. 12. 83. Vittorio Vidotto, Violenza politica e rituali della violenza, in I dannati della rivoluzione, pp. 49-50 (l’intero saggio è alle pp. 41-59).

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rizzata contro repertori e ambiti di natura politica, deve essere inclusa – con i distinguo del caso e tenendo presente che non è genericamente lo Stato ma il governo a indirizzare la macchina operativa dell’ordine pubblico – nella categoria di violenza politica, a prescindere dalla legittimità e/o correttezza degli interventi. Quanto appena esposto rinvia alla relazione antagonistica esistente tra lo Stato (inteso come Stato-sistema o Stato-regime e non come idea di Stato quale complesso di istituzioni apparati e funzioni) e la sinistra rivoluzionaria. In modo speculare allo Stato liberalcapitalista e atlantista, per la sinistra rivoluzionaria italiana – come osservato da Manconi – «porsi la “questione dello stato” [ha equivalso a] porsi la questione del potere e, prima ancora, della prospettiva-vittoria/sconfitta nel rapporto con il proprio fondamentale antagonista».84 Un antagonista che, ad ogni buon conto, si era attrezzato anche clandestinamente (sia legalmente che illegalmente). Tuttavia, per quanto riguarda le relazioni conflittuali tra sovversivi e potere costituito, non è il caso di assumere come pietra angolare la questione del reale o presunto “doppio Stato”. Con ciò non voglio affermare che sarebbe preferibile lasciare fuori dalle ricostruzioni di snodi, processi, atteggiamenti ed eventi della stagione conflittuale considerata circostanze quali, ad esempio, i numerosi “filtri” informativi operati discrezionalmente dai vertici dei servizi segreti o, a proposito di paramilitarizzazione del conflitto, la rete clandestina atlantista di Stay-behind (cioè, in Italia, la cosiddetta “Gladio”, nome in realtà dell’operazione). Bensì che in assenza di documenti o dati processuali inequivocabili, l’atteggiamento di chi intende dimostrare la “chiusura del cerchio”, anche ove questa è indimostrabile, è debole. Astenendomi dal menzionare la copiosa bibliografia su «poteri occulti», «servizi deviati», e «doppio Stato» (costituita anche da contributi apprezzabili che – anche se non sempre integralmente – riescono a prendere le distanze da letture “dietrologiche” e “complottiste”), mi limito a segnalare che in Italia i documenti che testimonierebbero un organico intervento dei “servizi” contro la sinistra rivoluzionaria italiana (o, viceversa, di una sua eterodirezione contro la sinistra istituzionale) non sono emersi con sufficiente chiarezza. Questo, ovviamente, non significa che ciò non sia accaduto e che non si possano formulare ipotesi (peraltro verosimili e condivisibili) di tale natura, soprattutto qualora l’analisi venga allargata al 84. Luigi Manconi, Il nemico assoluto. Antifascismo e contropotere nella fase aurorale del terrorismo di sinistra, in La politica della violenza, p. 47.

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medio-lungo periodo e alla sinistra nella sua interezza (includendo, quindi, anche socialisti e comunisti “ufficiali”).85 Diversa, invece, è la situazione statunitense, dove, come già accennato, il Federal Bureau of Investigation progettò e mise in pratica un “programma” ad hoc (il Cointelpro/New Left) teso a disarticolare le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria degli Usa. Una serie di documenti in cui si trasmettono consigli, direttive, strategie e materiali per raggiungere lo scopo prefissato: opuscoli finalizzati a sminuirne la presa delle organizzazioni radical sulla massa dei giovani, campagne tese a schernirne e denigrarne i dirigenti (insistendo, ad esempio, sulla condotta morale e/o sull’uso di sostanze stupefacenti), lettere anonime e pressioni su famiglie e istituzioni scolastiche o accademiche, incoraggiamento e creazione di discordie e rivalità personali tra i vari leader e/o di dissidi tra i vari gruppi e tra questi e le altre componenti del fronte della contestazione (sinistra liberal, afroamericani, ecc.).86 Tuttavia, stragismo a parte, anche in Italia sono esistiti episodi documentabili di “guerra psicologica”. Tra questi, ai fini del nostro discorso, ne spiccano due in particolare: la già ricordata “operazione” di alcuni ufficiali dei Carabinieri, basata su prove risultate poi artificiose, con il ritrovamento – nei pressi di Camerino – di un arsenale che, secondo le prime indagini (condotte dal capitano Giancarlo D’Ovidio), sarebbe stato a disposizione di studenti universitari greci avversi al regime dei colonnelli e di elementi locali della sinistra rivoluzionaria (novembre 1972);87 e l’accanimento 85. Per un’analisi sul medio-lungo periodo della lunga guerra civile tra due blocchi contrapposti cfr. Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea (1914-1945), il Mulino, Bologna 2007 e Angelo Ventrone, La strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Mondadori, Milano 2019. 86. Cfr. Boston Public Library, The Counterintelligence program of the Fbi, New Left, microfilm LA229-N392-1978x (1/4), in particolare il Memorandum «Counterintelligence Program. Internal Security. Disruption of the New Left (Cointelpro - New Left)», trasmesso da C.D. Brennan a W.C. Sullivan il 7 marzo 1968. Sulle operazioni “speciali” degli apparati di sicurezza statunitensi, la bibliografia è sterminata quanto inattendibile dal punto di vista scientifico. Per un’attenta analisi sul medio-lungo periodo cfr. invece Mario Del Pero, Cia e covert operation nella politica estera americana del secondo dopoguerra, in «Italia contemporanea», 205 (1996), pp. 691-712 e Id., Gli Stati Uniti e la «guerra psicologica» in Italia (1948-56), in «Studi Storici», 4 (1998), pp. 953-988. 87. Sulla montatura del ritrovamento, presso la località Svolte di Fiungo, dell’arsenale di Camerino, cfr. Bruno Pettinari, Le armi di Fiungo, in «Storia e problemi contemporanei», 11 (1993), pp. 53-82 e la narrazione autobiografica di Loris Campetti, L’arsenale di Svolte di Fiungo, Manni, San Cesario di Lecce 2020.

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degli apparati di sicurezza nei confronti di Giangiacomo Feltrinelli. Non è questa la sede per parlarne diffusamente e, per chi fosse interessato, si rinvia alla letteratura esistente.88 Basti qui accennare che già nel 1948 l’editore milanese subì le attenzioni dell’Intelligence del Belpaese e che il monitoraggio della sua attività (principalmente condotte dalla Divisione affari riservati del ministero dell’Interno, retta da Federico Umberto D’Amato) proseguì costantemente fino alla sua morte.89 Non stupisce, dunque, che nel 1971 egli fu bersaglio di un’operazione in stile Cointelpro, ossia la pubblicazione di un opuscolo denigratorio di un centinaio di pagine, intitolato Feltrinelli: il guerrigliero impotente. Redatto probabilmente da un autore della cerchia del “Bagaglino” (il cabaret romano che raccoglieva gli umori dell’anticomunismo capitolino), lo scritto meriterebbe uno studio a parte, in bilico tra storia politico-sociale, studi di genere, analisi letteraria e psicologica.90 L’intenzione era quella di colpire Feltrinelli ferendo – con argomentazioni viriliste e populiste – il suo amor proprio, al fine di costringerlo a uscire “allo scoperto” facendogli compiere qualche passo falso. Ciò sa88. A riguardo cfr. Eros Francescangeli, Morte a Segrate. La tragica fine di Giangiacomo Feltrinelli e le sue interpretazioni, relazione tenuta nella quinta edizione di “Chiasmi”, Brown-Harvard Graduate Student Conference in Italian Studies
at Brown University, 2-3 marzo 2012. Per un profilo dell’editore si veda senz’altro la biografia scritta dal figlio: Carlo Feltrinelli, Senior Service, Feltrinelli, Milano 1999. Cfr. inoltre Aldo Grandi, Giangiacomo Feltrinelli. La dinastia, il rivoluzionario, Baldini&Castoldi, Milano 2000. Caratterizzati da un pur tra loro differente approccio divulgativo sono invece i volumi di Egidio Ceccato, Giangiacomo Feltrinelli. Un omicidio politico, Prefazione di Guido Salvini, Castelvecchi, Roma 2018 e Ferruccio Pinotti, Untold. La vera storia di Giangiacomo Feltrinelli, Round Robin, Roma 2022. 89. Cfr. Giacomo Pacini, Il cuore occulto del potere. Storia dell’Ufficio Affari riservati del Viminale (1919-1984), Roma, Nutrimenti, 2010, pp. 137-138. Sulla figura di D’Amato cfr. Id., La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati, Einaudi, Torino 2021. 90. Cfr. Feltrinelli: il guerrigliero impotente, Edizioni «Documenti», Roma [1971]. Come è stato osservato, l’avversione di Federico Umberto D’Amato (iscritto alla P2) verso Feltrinelli appare quasi come una «questione personale», riconducibile a una forma di «odio antintellettuale […], qualcosa di tossico e polmonare» (Feltrinelli, Senior Service, p. 414). Il volume uscì come supplemento alla rivista «Documenti sul comunismo», edizione italiana del periodico anticomunista francese «Est & Ouest» (Bollettino dell’Istituto per gli Studi e le informazioni di politica internazionale). Diretta da Emilio Cavaterra, la redazione si trovava in piazza Rondanini 29, nello stesso edificio (e, probabilmente, negli stessi locali) in cui, tra il 1971 e il 1976, si trovava anche la redazione del mensile «La Destra», edito da Le edizioni del Borghese. Nella stessa piazza v’era anche il cabaret “Il giardino dei supplizi”, scissione di destra del “Bagaglino”.

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rebbe confermato anche dallo stesso D’Amato che, secondo un documento rintracciato da Giannuli, nel maggio 1972 (ossia due mesi dopo la morte dell’editore) avrebbe “rivendicato” l’operazione durante una riunione del cosiddetto Club di Berna, un organismo informale di coordinamento tra i capi delle strutture di Intelligence europee. Al di là dei dettagli e di alcune forzature interpretative a livello di riscontri oggettivi, la lettura di Giannuli è plausibile e Feltrinelli, come noto, cadde nella trappola, fornendo la “prova” che i bombaroli provenivano dalle fila della sinistra extraistituzionale.91 Ma sia gli Affari riservati che la prefettura e la questura milanesi (come anche gli omologhi uffici romani e i vari ministri dell’Interno dal 1968 in poi) ben sapevano, stando ai documenti conservati all’Acs, che le bombe avevano una matrice neofascista. Tuttavia, in molti documenti la rappresentazione della situazione era simile al quadro che aveva già dipinto il prefetto Libero Mazza, dapprima con il suo “famoso” rapporto del dicembre 1970 (reso pubblico nell’aprile 1971), poi attraverso successive relazioni nel corso del 1971. In una di queste, lo stesso prefetto rappresentava così la situazione: L’attività sindacale non si è sottratta all’influenza del Movimento Studentesco e dei gruppi extra-parlamentari di estrema sinistra […]. Quasi sempre anzi i sindacati hanno concesso aiuto e copertura a questi gruppi di oltranzisti rivoluzionari. Non si consente più, da qualche tempo, che cortei e manifestazioni si svolgano nel centro, accogliendo in tal modo le vibrate e giustificate proteste di esercenti e cittadini. […] Ai movimenti di estrema sinistra sono da aggiungere quelli di estrema destra che da oltre un anno a questa parte hanno accresciuto la loro virulenza sia per reazione agli eccessi compiuti per lungo 91. Cfr. Aldo Giannuli, Feltrinelli, così i Servizi tentarono di incastrarlo, in «l’Unità», 28 maggio 2005. L’argomento principale della relazione introduttiva di D’Amato in uno degli incontri del Club (svoltisi tra il 15 e il 18 maggio 1972), sarebbe stato proprio l’editore rivoluzionario. A riguardo ecco cosa avrebbe affermato D’Amato: «elemento di interesse è la pubblicazione, lo scorso febbraio, di un libro dal titolo Feltrinelli guerrigliero impotente […]. Il libro voleva far uscire Feltrinelli allo scoperto e farlo agire sul piano personale rivoluzionario» (cit. ibidem). Nell’impossibilità di visionare le carte originali, balza tuttavia agli occhi un’incongruenza: il libello in questione non fu pubblicato nel febbraio 1972 ma, secondo la data di stampa, nell’aprile 1971. Qualora ciò non sembrasse un’argomentazione sufficientemente convincente, valgano come elementi probanti il fatto che uscì come supplemento al n. 159 di «Documenti sul comunismo» (datato febbraio 1971, anche se uscì oltre un mese dopo) e soprattutto la circostanza che il volume sia posseduto dalla biblioteca dell’Acs a partire dal settembre 1971 (cfr. il Registro d’ingresso della biblioteca dell’Acs, 1971, pp. 62-63).

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tempo dai loro antagonisti, sia per una maggiore tolleranza nei loro confronti da parte di settori sempre più vasti della cittadinanza.92

Facendo leva sulla pericolosità degli «opposti estremismi», il prefetto Mazza leggeva la violenza neofascista come una reazione alle intemperanze dei rossi. Una reazione a suo parere giustificata, se non benvoluta (questo sembra essere il significato del termine «tolleranza»), da ampi settori della cittadinanza esasperati dal sovversivismo diffuso. In effetti, era la linea anti-sovversiva che prefettura, questura e vertici dei Carabinieri adottarono fin dalle prime «contestazioni» e dalle prime bombe nel 196768, addossando la responsabilità ai «cinesi» (cioè ai maoisti e/o terzomondisti), ai neo-operaisti – Potere operaio (Potop) e Lotta continua (Lc) – e agli anarchici (i quali, in effetti, non furono estranei all’utilizzo di ordigni a scopo dimostrativo). Una linea di condotta che fu coerentemente mantenuta fino alla metà degli anni Settanta e che raggiunse il punto di massima applicazione, durante l’autunno caldo, in occasione della morte dell’agente del 3° celere Antonio Annarumma in seguito agli scontri di via Larga del 19 novembre 1969, nel giorno dello sciopero generale per la casa (che alcune ricostruzioni individuano come momento iniziale della strategia della tensione)93 e, soprattutto, della strage di piazza Fontana. Se per gli eventi di via Larga ad essere colpita moralmente fu l’intera sinistra, la linea di condotta delle autorità (a cominciare dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat) fu quella di dividere il “fronte rosso”, separando i «moderati» dagli «estremisti», piuttosto che demonizzare tutte le organizzazioni operaie antigovernative, Pci e Cgil in primis. Se infatti 92. Acs, Mi, Gab., Fc, 1971-1975, b. 21, f. 11001/49/1.1 «Milano. Ordine pubblico. Incidenti vari. Anni: 1971-72. I fascicolo», sf. «Anni 1971», riservata per corriere del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 9 luglio 1971. 93. Cfr. ad esempio Cesare Vanzella, Il caso Annarumma. La rivolta delle caserme e l’inizio della strategia della tensione, Contributi di Giorgio Benvenuto e Mario Capanna, Castelvecchi, Roma 2019. Sui fatti di via Larga cfr. inoltre Elenco degli incidenti verificatisi nel novembre 1969, allegato alla nota del Capo della polizia al Gab. del Mi del 23 dicembre 1969, in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 39, f. 11001/97 «Incidenti durante manifestazioni politiche o sindacali. Statistica». In realtà, tale strategia «controinsorgente» si affacciò sulla scena politica a partire dalla metà degli anni Sessanta per poi trasformarsi da «guerra psicologica» a «guerra non ortodossa» tra la seconda metà del 1968 e la fine del 1969. Cfr. Mimmo Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia, Rizzoli, Milano 2008; Paolo Morando, Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza, Bari-Roma 2019 e Davide Conti, L’Italia di piazza Fontana. Alle origini della crisi repubblicana, Einaudi, Torino 2019.

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è indubbio che Saragat, con il suo tempestivo quanto inopportuno comunicato, si antepose illegittimamente agli inquirenti qualificando la morte dell’agente come «barbaro assassinio» e «odioso crimine» quando non era ancora ben chiara la dinamica della morte, non ritengo tuttavia così pacifico che la volontà fosse quella di criminalizzare la totalità dei lavoratori in lotta ed «essere contro gli scioperanti».94 Il comunicato presidenziale era, a riguardo, abbastanza chiaro: la morte di Annarumma, ammoniva Saragat: «non soltanto offende la coscienza degli italiani ma è una sfida assurda e selvaggia alle manifestazioni dei lavoratori per la soluzione dell’angoscioso problema della casa».95 Il fatto che il Pci, a livello centrale, abbia criticato duramente tale comunicato era in sintonia con la linea di netta opposizione al secondo governo Rumor e di tiepida tolleranza – che si protrasse almeno fino al 1972 – verso le organizzazioni rivoluzionarie. Qualche anno dopo, si pensi al 1977, in analoghe situazioni drammatiche, lo stesso partito avrebbe sottoscritto testi assai simili per contenuti e forme. Se dunque è pur vero, come osservato da Guido Crainz, che nelle relazioni prefettizie la segnalazione della pericolosità dei «gruppi di estrema sinistra» era non di rado accompagnata da «attacchi alle forze tradizionali della sinistra e ai sindacati»,96 è altrettanto vero che quando si verificarono casi di dissociazione dalle posizioni più radicali, come fece ad esempio il Pci a Rieti, furono accolti positivamente.97 94. Dondi, L’eco del boato, p. 131. 95. Cit. in Raffaello Ares Doro, I presidenti della Repubblica in Italia e Francia: trasformazioni radiotelevisive e protagonismo mediatico (1969-1981), in La Repubblica del presidente. Istituzioni, pedagogia civile e cittadini nelle trasformazioni delle democrazie, a cura di Giovanni Orsina e Maurizio Ridolfi, Viella, Roma 2022, pp. 259-279 (citazione a p. 262). È evidente, dunque, come i «delinquenti» da «isolare» e «mettere in condizione di non nuocere» fossero i «violenti», cioè i militanti delle formazioni «estremiste», e non la totalità dei lavoratori che manifestarono che, secondo Saragat, erano invece il bersaglio della «sfida assurda e selvaggia». 96. Crainz, Il paese mancato, p. 358. 97. I consiglieri comunali del Pci di Rieti si dissociarono dai comunicati nazionali, aderendo a una mozione di Dc, Psi, Pri e Movimento autonomo socialista che denunciava il «piano di tutti i gruppi eversivi che, strumentalizzando le giuste lotte dei lavoratori per il rinnovo dei contratti nazionali di categoria, esasperano i rapporti sociali ed incitano alla aperta ribellione delle masse». Il prefetto trasmise la delibera, sottolineando con soddisfazione l’appoggio del Pci locale alle «posizioni assunte dal Governo». Cfr. la nota del prefetto di Rieti al Gab. del Mi del 29 novembre 1969 (recante il timbro visto dal signor ministro), in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 30, f. 11001/48/2 «Milano. Ordine pubblico. Attentato del giorno 12 dicembre 1969», sf. 3 «Manifestazioni di protesta e di solidarietà»

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In occasione della strage del 12 dicembre avvenne un ulteriore salto di qualità. Qui, fin da subito, le autorità orientarono le indagini principalmente verso la sinistra rivoluzionaria in generale e, in particolare, verso gli anarchici, i marxisti-leninisti – soprattutto quelli di Servire il popolo, cioè l’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti) – e gli attivisti di Lc. I fascicoli del Gabinetto del ministero dell’Interno relativi all’attentato del 12 dicembre sono illuminanti. A fronte di tre gruppi di destra (cioè il Movimento nazionale rivoluzionario, il Gruppo di opposizione extraparlamentare e l’Associazione studentesca di azione nazionale «Giovane Italia»), a Milano vennero perquisiti i locali di nove realtà associative della sinistra rivoluzionaria: due sedi dell’Uci(ml) e gli uffici di: Lc, Gruppo anarchico di via Scaldasole, PcdI(ml)-linea rossa, PcdI(ml)-linea nera, Avanguardia proletaria maoista, Lega dei comunisti marxisti leninisti d’Italia, Partito rivoluzionario marxista leninista d’Italia e Associazione Italia-Cina.98 Su scala nazionale la sproporzione è ancora più evidente: se per quanto riguarda gli uffici le cifre parlano di 66 sedi di sinistra e 15 di destra (81,5% contro 18,5%), delle 367 «perquisizioni personali e domiciliari» effettuate su scala nazionale, 310 (pari all’84,5%) sono relative a «elementi di sinistra» e solo 57 riguardano «elementi di destra» (pari al 15,5%). Tra i 367 «elementi di sinistra» – inclusi esponenti della sinistra istituzionale o dirigenti dell’associazione pacifista (così la definiscono le stesse carte di polizia) Servizio civile internazionale – i cosiddetti «cinesi» primeggiano sugli anarchici e sugli attivisti della neocostituita Lotta continua (Potop si classificò al quarto posto).99 Se per quanto riguarda gli anarchici pesava la tradizione “bombarola” (un’usanza antica e relativa ad alcune componenti ancora presenti nel 1969),100 non si comprendono i motivi di tanto accanimento contro e l’articolo, nella cronaca di Rieti, Votato dal gruppo consiliare comunista un odg sui gravi incidenti a Milano, in «Il messaggero», 27 novembre 1969. 98. Cfr. l’appunto s.d. (ma anteriore al 16 dicembre 1969) Sedi perquisite a Milano in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 30, f. 11001/48/2, sf. 1 «Attentato terroristico contro Banca nazionale dell’agricoltura. Varie». 99. Cfr. l’appunto del 15 dicembre 1969 In relazione ai recenti tragici avvenimenti… in ivi. Relativamente alle sedi perquisite, Restivo, in risposta alle interrogazioni parlamentari di alcuni senatori, menzionò la cifra di 66, cioè – un lapsus freudiano? – le sole sedi dei gruppi e delle organizzazioni di sinistra, «cui risultano far capo», per usare le sue parole, «elementi di provata pericolosità per l’ordine pubblico» (cfr. il testo dell’intervento di Restivo, in ivi). 100. Cfr. ad esempio la documentazione in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 30, f. 11001/48/1.1 «Milano e provincia. Ordine pubblico. Incidenti. 1° fascicolo», sf 1 «Varie»

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i mao-stalinisti. Una pur sommaria conoscenza della cultura politica (e della conseguente prassi) di tali gruppi – conoscenza che gli apparati di Intelligence dovevano avere, data la rete di fiduciari che frequentava tale ambiente – poteva far escludere, se non l’attrazione verso la lotta armata – che ci fu, basti dire che Renato Curcio e Mara Cagol militarono nel Pcdi(ml)-linea rossa –, comunque il loro coinvolgimento in una simile azione. È dunque un’ipotesi non priva di fondamento che tale componente politica (e il discorso vale anche per gli anarchici, in maggioranza non certo «dinamitardi») fosse già naturalmente predisposta a ricoprire il ruolo del demone, poiché già da tempo l’opinione pubblica conformista apostrofava negativamente «capelloni», anarchici e, per l’appunto, «cinesi», come si può evincere dalla lettura dei principali quotidiani d’opinione di area moderata o conservatrice e come ben rappresentato dai film La Cina è vicina (del 1967 e fondamentalmente critico verso i maoisti) e, soprattutto, Sbatti il mostro in prima pagina (del 1972), entrambi di Marco Bellocchio (all’epoca della seconda pellicola già convertito alla causa di Servire il popolo).101 Inoltre, non si può ignorare la circostanza che l’imput a procedere in tale direzione giunse – fin dalle prime battute – dai vertici degli apparati di sicurezza. Anche qui, la documentazione consultabile in seguito alla direttiva dell’aprile 2014 è chiarificatrice. Se infatti il 12 dicembre stesso il Centro Cs/1 di Roma (dove Cs sta per contro-spionaggio) comunicava tramite marconigramma al Raggruppamento centri Cs (R/C Cs) che erano state attivate, al fine di sondarne le reazioni, «tutte fonti settore filocinese et anche estrema destra»,102 il giorno successivo il R/C Cs comunicava all’ufficio superiore preposto alla sicurezza interna e al controspionaggio, cioè l’Ufficio «D» del Servizio informazioni difesa (Sid), che nella notte tra il 12 e il 13 dicembre furono condotte numerose perquisizioni a sedi e abitazioni di esponenti dell’Unione dei comunisti, trasmettendo infine, nonostante e ivi, f. 11001/48/1.2 «Milano e provincia. Ordine pubblico. Incidenti. 2° fascicolo», sf. 10 «Attentati dinamitardi commessi in varie città d’Italia». 101. Cfr. Marco Bellocchio, La Cina è vicina (Italia, 1967, 95’) e Sbatti il mostro in prima pagina (Italia-Francia, 1972, 93’), con protagonista Gian Maria Volonté. Il titolo del lungometraggio La Cina è vicina s’ispirò alla campagna di scritte murali filocinesi (si veda oltre), a loro volta ispirate dal titolo del diario di viaggio di Enrico Emanuelli, pubblicato nel 1957. 102. Marconigramma del Cs 1 al R/C Cs di Roma del 12 dicembre 1969 in Acs, Dr2014, Cartella 1° versamento, documento AISE_RGPT_1-5_ f0045_c0001_d0004_o.pdf.

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non fossero emersi elementi utili all’indagine, un elenco di tredici attivisti, quattro dei quali indicati come «fanatici adepti [del] movimento».103 Lo stesso ufficio, due giorni dopo, svelava indirettamente – attraverso un appunto (dapprima segreto, poi riservato) del R/C Cs all’Ufficio «D» del Sid – i fini immediati di tale atteggiamento investigativo e le autorità che lo avevano ispirato. Ecco il testo: Nel corso dei servizi fiduciari e diretti iniziati da questo R/C, anche sulla base delle direttive impartite dal Sig. Capo Servizio e da codesto Sig. Capo Ufficio […], pur non essendo ancora potuti giungere a raccogliere elementi concreti od indizi sulle persone che hanno commesso i delitti, è stato possibile sin qui indirizzare le indagini su piste diverse ed, in particolare, verso i movimenti estremisti. Nel corso dei servizi, […] si è reso possibile, senza scoprirci, venire a conoscenza e reperire materiale che dà l’esatta organizzazione, scopi, entità e sistema di finanziamento dell’UCI.104

Se il documento fosse attendibile, come sembra, gli attivisti dell’Uci(ml) furono colpiti dall’ondata di perquisizioni anche per via delle direttive impartite dal direttore del Sid in persona (cioè l’ammiraglio Eugenio Henke) e dal direttore dell’ufficio «D» del medesimo organismo (cioè il colonnello Federico Gasca Queirazza, che dal luglio 1968 sostituì il parigrado Enzo Viola), al fine di valutare in modo accurato l’organizzazione e la consistenza del gruppo maoista. Molti altri documenti provenienti da più parti d’Italia confermerebbero tale schema interpretativo: e cioè che l’attentato sia stato utilizzato come pretesto per poter controllare i cosiddetti sovversivi, alcuni dei quali vennero tratti in arresto, nonostante l’estraneità con la strage del 12 dicembre, per possesso di armi o per reati analoghi, come nel caso di Ovidio Bompressi.105 Intendiamoci, una condotta legittima, se non fosse che così facendo le indagini sulla strage (e anche 103. Marconigramma da R/C Cs a «D», n. 36227/I, ore 11:00 del 13 dicembre 1969, in ivi, documento AISE_RGPT_1-5_ f0045_c0001_d0005_o.pdf. Ecco la parte del testo relativa alle perquisizioni: «Reparti arma territoriale gruppi Cc Roma I, II, III habent effettuato decorsa notte relazione noti fatti Mi et Roma varie perquisizioni sedi Uci et abitazioni esponenti et gregari predetta unione. Corso perquisizione non sunt stati raccolti concreti elementi utili indagine». 104. Appunto (dapprima segreto, poi riservato) del tenente colonnello comandante il Raggruppamento centri CS di Roma all’ufficio “D” [del Sid] del 15 dicembre 1969, in ivi, documento AISE_RGPT_1-5_ f0045_c0001_d0004_o.pdf (corsivo mio). 105. Cfr. i documenti in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 30, f. 11001/48/2, sf. 2 «Indagini» e sf. 3 «Manifestazioni di protesta e di solidarietà».

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le sensazioni della pubblica opinione) vennero pilotate prevalentemente in un’unica direzione. Fortunatamente per Brandirali e Sofri, la pista “cinese” e pure quella di Lotta continua non riuscirono a decollare per mancanza di indizi. Di conseguenza l’ipotesi anarchica, con Feltrinelli in qualità di battitore libero, prese sempre più quota, alimentata – almeno fino al 1972 – dalla condotta politica di anarchici e gappisti feltrinelliani che prestava certamente il fianco al gioco delle forze dell’ordine e dei servizi segreti.106 Un gioco, come già accennato, “sporco”, dato che tali autorità erano ben consapevoli (o, a voler essere indulgenti, non potevano ignorare) come dietro le bombe del 1968-69 vi fossero, in realtà, i neofascisti. Se le inchieste giudiziarie e palamentari relative alla strategia della tensione hanno ormai appurato, seppur in modo nebuloso, il ruolo depistante – quando non provocatorio – di figure di spicco quali i generali Vito Miceli e Gian Adelio Maletti (tra loro acerrimi rivali) o gli ufficiali dei carabinieri Giancarlo D’Ovidio e Antonio Labruna (tutti, per inciso, iscritti alla loggia P2) e numerose pubblicazioni hanno documentato le connivenze di costoro con la manovalanza “nera”, anche le carte di polizia conservate all’Acs ci restituiscono l’immagine di una catena di comando sostanzialmente omogenea che, per poter indagare sulla sinistra rivoluzionaria (allo scopo di reprimerla), fu restia a intervenire in direzione opposta, nonostante gli elementi a disposizione non mancassero. Un’ulteriore informativa (di cui esistono tre distinte versioni) del comandante del centro Cs/1 al comandante del raggruppamento dei centri controspionaggio del Sid, redatto il 17 dicembre 1969, ci informa come una «fonte solitamente attendibile» e «non remunerata» contattata nei giorni precedenti avesse individuato come autore degli attentati romani del 12 dicembre il sedicente anarchico Mario Merlino (del Circolo anarchico 22 marzo e già militante dell’ambiguo Gruppo XXII marzo, animato in realtà da noti neofascisti). Il documento preso in esame, datato 17 dicembre, viene definito per praticità Versione A (incipit: «Centro C.S. 1. Roma, lì 17 dicembre 1969»). Di questo appunto esiste una versione più nota anch’essa datata 17 dicembre, qui definita Versione B (incipit: «17 dicembre 1969. 106. Su ciò cfr. Eros Francescangeli, Attività clandestine e reti relazionali di Giangiacomo Feltrinelli e dei Gruppi di azione partigiana (1969-1972), in Repenser les années 1970. Le cas italien, a cura di Christophe Mileschi ed Elisa Santalena, numero speciale della rivista «Écritures Italies», 11 (2020), pp. 109-125.

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Secondo notizie confidenziali pervenute»). C’è infine un altro appunto dattiloscritto del 16 dicembre, redatto dal Cs/3, che è poi la fonte primaria delle due varianti del giorno successivo, qui denominata Versione C (incipit: «li, 16 dicembre 1969. Appunto»).107 Il testo della Versione B fu utilizzato dai giudici Emilio Alessandrini e Luigi Fiasconaro nella requisitoria per il processo relativo alla strage e fu reso noto al pubblico da «l’Unità».108 Analizzando questa versione, Aldo Giannuli giudica il documento «uno strano pasticcio apparentemente incomprensibile», rientrante nelle «operazioni di intorbidamento fatte dai servizi»109 ed effettivamente nel 1985 gli uomini del Sid coinvolti nella stesura dell’informativa ritrattarono le notizie da essi raccolte.110 Tuttavia, che tale «velina», nelle sue tre varianti, possa essere stata un’operazione di intorbidamento del Sid è questione ancora dibattuta, anche alla luce della considerazione di come l’appunto fosse un documento a esclusivo uso interno (Sid e organi di polizia), che non fu divulgato fino a quando, nel novembre 1973, il comandante del nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Roma lo trasmise su richiesta al giudice Gerardo D’Ambrosio.111 Ad ogni buon conto, secondo tale informativa, al fiduciario in questione (cioè, come si seppe più tardi, il neofascista Stefano Serpieri), Merlino (definito «noto» nelle versioni A e C e «anarchico» nella versione B) riferì come al momento dell’esplosione egli si trovasse in compagnia di Stefano Delle Chiaie che, dunque, gli avrebbe fornito un alibi. Circostanza ritenuta tuttavia inconsistente poiché – per conoscenza diretta dell’informatore – Delle Chiaie, segnalato come manovratore di Merlino, si sarebbe trovato altrove e non in compagnia del sedicente anarchico. Sempre secondo il confidente, dietro la strage ci sarebbe l’agenzia Aginter Presse di Lisbona, diretta dall’avventuriero – definito anarchico – Yves Guérin-Sérac (pseu107. Cfr. ivi, Dr-2014, Cartella 1° versamento, documento AISE_RGPT_1-5_f0045_ c0001_d0012_o.pdf. Sugli appunti del 16 e 17 dicembre 1969, citati in vari processi, Mario Casaburi, Il diritto all’impunità. Piazza Fontana 1969. Inchieste, processi e depistaggi. Una strage senza colpevoli, Castelvecchi, Roma 2014, passim. 108. Cfr. Il Sid conosceva già nel 1969 la matrice fascista della trama?, in «l’Unità», 9 febbraio 1974. 109. Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, Milano, Bur, 2008, p. 307. 110. Cfr. Falsa la nota Sid su Piazza Fontana, in «la Repubblica», 2 aprile 1985. 111. Cfr. Giannuli, Bombe a inchiostro, p. 305 e Acs, Dr-2014, Cartella 1° versamento, f0045, c0001, documento AISE_RGPT_1-5_f0045_c0001_d0012_o.pdf.

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donimo dell’ufficiale paracadutista, e già membro dell’Oas, Yves Félix Marie Guillou), coadiuvato da «Roberto Leroj» (recte: Robert Leroy).112 Al di là delle congetture e/o delle supposte omissioni (secondo Giannuli l’appunto fu un attacco del Sid alla Divisione affari riservati, dato si menzionava Delle Chiaie – ritenuto un uomo della Dar – ma non Pino Rauti, ritenuto invece un collaboratore dei servizi militari e anch’egli in contatto con Guérin-Sérac, mentre per Delle Chiaie tale informativa sarebbe stata confezionata ad hoc da Dar e Sid al fine di «incastrarlo»),113 il documento segnalava l’esistenza di una, seppur fosca nei contorni politici, rete di agenti intenti a creare situazioni «torbide» per poi poterle sfruttare politicamente. Nonostante lo stesso confidente abbia più tardi dichiarato, in sede processuale, di non aver mai riferito agli uomini del Sid sui rapporti tra Delle Chiaie e l’Aginter Presse, questi – come documentato da alcuni studi specifici – furono in realtà assai frequenti e la fondatezza delle informazioni dell’appunto (una volta appurata la reale collocazione politica di tale Internazionale della tensione) si è rivelata sostanzialmente corretta.114 Infine, l’informativa esplicitava – e questo è interessante ai fini del nostro discorso (ed ha pari validità, se non più, anche nel caso il testo fosse stato “assemblato” autonomamente dal Sid) – quale fosse lo scopo delle azioni dinamitarde del 12 dicembre (che nelle intenzioni avrebbero dovuto però essere solo dimostrative): quello di far ricadere sulle spalle del fronte avversario la responsabilità dell’accaduto. Al pari della fonte originaria del 16 dicembre, in cui i gruppi maoisti erano menzionati («Di qui il collegamento Merlino-Delle Chiaie il quale ultimo con gli attentati intende colpire i gruppi filo-cinesi»), nella Versione A, prima di una correzione apportata manualmente a penna, era scritto chiaramente come: «Merlino e Delle Chiaie avrebbero commesso gli attentati per farne ricadere la responsabilità sui filocinesi». Dopo la modifica, la Versione A 112. Cfr. Acs, Dr-2014, Cartella 1° versamento, f0045, c0001, documento AISE_ RGPT_1-5_f0045_c0001_d0012_o.pdf. 113. Cfr. Giannuli, Bombe a inchiostro, pp. 305-307 e Stefano Delle Chiaie, L’aquila e il condor, con Massimiliano Griner e Umberto Berlenghini, Postfazione di Luca Telese, Sperling & Kupfer, Milano 2012, p. 117 ss. 114. Cfr. Luc van Dongen, La guerre contre-révolutionnaire et contre subversive selon Robert Leroy, in Subversion, anti-subversion et contre-subversion, a cura di François Cochet e Olivier Dard, Riveneuve, Paris 2009, pp. 283-300 ed Eduardo González Calleja, Le reti di protezione del terrorismo di destra in Europa e il ruolo di Stefano Delle Chiaie e Yves Guérin-Sérac, in Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa, pp. 139-152.

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divenne: «Merlino e Delle Chiaie avrebbero commesso gli attentati nella speranza che la responsabilità ricadesse su altri movimenti politici» (formula, senz’altro più vaga, ripresa nella Versione B: «Merlino e Delle Chiaie avrebbero commesso gli attentati per farne ricadere la responsabilità su altri movimenti politici»).115 Assai significativo, inoltre, anche il fatto che il Sid, una volta appurato il reale orientamento dei membri dell’Aginter Presse, si guardò bene dal darne notizia a polizia e carabinieri. In un documento inviato l’11 aprile 1970 dall’Ufficio «D» del Sid al R/C Cs di Roma, consegnato alla magistratura nel 1976, si esplicitava come Guérin-Sérac e Leroy non fossero «anarchici», bensì membri di «un’organizzazione anticomunista», aggiungendo: «si suggerisce di tacere questa notizia alla Pubblica Sicurezza e ai carabinieri».116 Del resto, anche l’appunto datato 25 gennaio 1969, allegato alla Riservata del prefetto di Roma del 31 gennaio 1969 (recante il timbro visto dal signor ministro), era restato lettera morta, a dispetto della rilevanza delle informazioni per la sicurezza dello Stato in esso contenute: Degna di particolare attenzione è la posizione che in seno al Movimento Studentesco andrebbero assumendo gli elementi provenienti da organizzazioni di destra, noti sotto la denominazione di “nazi-maoisti”. […] In tale quadro, la fonte riferisce che attentati dinamitardi, sia pure non gravi e comunque a carattere dimostrativo, potrebbero essere portati [a compimento] tra alcune settimane contro uffici pubblici, ministeri compresi.117 115. Cfr. Acs, Dr-2014, Cartella 1° versamento, f0045, c0001, documento AISE_ RGPT_1-5_f0045_c0001_d0012_o.pdf. Sulle false flag operations della destra neofascista e il ruolo di Delle Chiaie, cfr. Eros Francescangeli, Agli albori della strategia della tensione: il caso di Milano, in «Memoria e Ricerca», 2 (2023), pp. 255-270. 116. Il contesto delle stragi. Una cronologia. 1968-1975, elaborato redatto dal senatore Alfredo Mantica e dal deputato Vincenzo Fragalà (con la collaborazione di Virgilio Ilari), 26 giugno 2000, in Senato della Repubblica e Camera dei Deputati, XIII legislatura, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Documento XXIII, 64, vol. I, tomo III, p. 82 (citazione) e 215. Ora anche in Benito Li Vigni, Stragi. Da Ustica a Bologna le verità nascoste. I depistaggi hanno occultato mandanti ed esecutori ma soprattutto le responsabilità politiche, Sovera, Roma 2014, pp. 15-16. 117. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 5, f. 161P/46/93 «Partito comunista d’Italia. Affari generali», sf. 4 «Gioventù comunista d’Italia (marxista-leninista). Organizzazioni varie», Appunto del 25 gennaio 1969, allegato alla riservata del prefetto di Roma al Gab. del Mi del 31 gennaio 1969.

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Dopo aver indicato i nomi dei possibili attentatori (tutti attivisti di Primula Goliardica, formazione «nazi-maoista» collegata all’Unione democratica per la nuova repubblica di Pacciardi), il rapporto proseguiva così, delineando quella strategia che solo alcuni mesi dopo sarebbe stata definita «della tensione»: Parlando di episodi di violenza avvenuti in passato (attentati ai distributori di benzina, ai torprdoni della PS ed alla sede del Liceo Mamiani), la fonte ne attribuisce la responsabilità ad estremisti del gruppo, già appartenenti al movimento pacciardiano Nuova Repubblica ed alla formazione Giovane Italia, inseritisi nel clima contestatario del Movimento Studentesco allo scopo di esasperare al massimo le situazioni e creare ripercussioni negative nell’opinione pubblica e contromisure energiche da parte delle Autorità. La loro è, in definitiva, un’azione che mira a portare discredito sul Movimento.118

Un’azione disgregante che anche il prefetto milanese Mazza avrebbe dovuto conoscere bene, dato che nel settembre dello stesso anno (ossia tre mesi prima della strage) comunicò telegraficamente al ministero dell’Interno come gli autori di alcuni atti vandalici avvenuti il 14 settembre 1969 a Legnano (ai danni della locale sezione del Psi, del Circolo culturale socialista Filippo Turati e di un altro circolo culturale socialista) fossero, contrariamente a quanto apparso in prima istanza, due attivisti missini i quali, una volta arrestati, ammisero di avere vergato con vernice nera le scritte «viva Mao viva anarchia» nei «luoghi [delle] azioni delittuose [allo] scopo [di] sviare [le] indagini [di] polizia».119 Se tale fu l’obiettivo – cioè quello di depistare gli investigatori, addossando la responsabilità delle azioni violente all’opposta fazione – non si può non concludere constatando come gli attivisti della strategia della tensione siano riusciti a raggiungerlo pienamente. Anche perché, per usare le parole del prefetto milanese, tra quei «settori sempre più vasti della cittadinanza» che ebbero una «maggiore tolleranza nei loro confronti» vi erano, è lecito supporre, anche molti solerti funzionari dello Stato. Detto ciò, è opportuno valutare solo “di sponda” le politiche e le pratiche controinsorgenti dello Stato e cercare invece di riflettere peculiarmente attorno alle modalità di uso della forza tipiche della sinistra rivoluziona118. Ibidem. 119. Ivi, b. 30, f. 11001/48/1.1, sf. 1 «Varie», telegramma del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 15 settembre 1969.

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ria.120 Un uso della forza, difensivo e offensivo, teso a prevenire ipotetiche restrizioni degli spazi di agibilità o – nelle intenzioni – a creare i presupposti per il rovesciamento dell’ordine costituito. Il luogo privilegiato dello scontro tra le strutture di autodifesa di ciò che negli anni Settanta veniva chiamato “movimento” e coloro che venivano mandati a difendere l’ordine pubblico era la piazza. Come notato da Isnenghi, in concomitanza con il biennio 1968-69, «prende avvio una pluriennale stagione di lotte che fa della piazza, della presa della piazza, della gestione della piazza, una pratica preminente».121 Dopo la stagione dello scelbismo, interrotta dall’esperienza del centrosinistra, la piazza tornò a essere uno degli spazi della contesa tra sinistra antagonista e Stato. Era una piazza che a volte univa le compagini della stessa “parte”, ma anche che le segmentava o le divideva nettamente poiché essa fu vissuta e utilizzata sia come luogo di certificazione del peso politico (e militare) dell’attore politico-sociale che come laboratorio permanente di ideazione e messa in atto di discorsi, pratiche d’azione e rituali alle spalle dei quali vi erano determinate tradizioni e precise strategie. Per quanto riguarda i livelli di scontro, ossia la scala d’intensità, occorre dire che il potenziale offensivo (generalmente dispiegato dai servizi d’ordine) variò a seconda del luogo, della fase, e dell’attore politico. L’elemento geografico e quello cronologico, pur importanti, appaiono tuttavia subordinati al fattore dell’appartenenza a un determinata area politica, a testimonianza che il sentiero dell’azione violenta fu (salvo tragici “imprevisti” o “sbandamenti” occasionali) una scelta sostanzialmente consapevole. A proposito di intensità della violenza politica di piazza (considerando, in questo caso, anche la presenza dell’estrema destra) è possibile distinguere tra tre modalità: bassa (minacce, scazzottate, “gogne”, danneggiamenti a cose, aggressioni non particolarmente cruente, scontri di reciproco contenimento); media (aggressioni cruente, assalti frontali con impiego di “artiglieria”, cioè sassi, bombe molotov, mazzafionde); e alta (impiego delle armi da fuoco contro cose e persone, assalti ad armerie, devastazioni di sedi della controparte). 120. Sulla conflittualità tra rossi e neri cfr. Andrea Rapini, Antifascismo sociale, soggettività e “strategia della tensione”, in «Novecento», 1 (1999), pp. 145-166 e I neri e i rossi. Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, a cura di Mirco Dondi, Controluce, Nardò [2008]. Sulla controinsorgenza e la gestione della pubblica sicurezza cfr. Donatella Della Porta e Herbert Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai “no global”, il Mulino, Bologna 2003. 121. Mario Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, il Mulino, Bologna 2004 [1a ed. Mondadori, 1994], p. 449.

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Dal punto di vista cronologico, ogni qualvolta vi fu la percezione di una forzatura della legalità compiuta dall’antagonista (fosse anche la “sua” legalità), cioè un “salto di qualità” del livello di durezza dello scontro (poco importa se tale salto fosse effettivo, coerente o solamente episodico o, addirittura, se effettivamente posto in essere dall’antagonista), essa comportò il quasi immediato adeguamento al nuovo, più alto, livello di scontro da parte dell’altro attore. I morti di piazza (sia dell’una che dell’altra parte) o l’introduzione (o reintroduzione) di modalità percepite come eccessive rispetto agli standard bellici ritenuti “normali” scandirono i vari stadi della spirale ascendente. Dopo il luglio 1960 e gli scontri di piazza Statuto del 1962 – dove centinaia di operai ricorsero a pratiche di lotta che poi ritroveremo nel decennio successivo – gli eventi periodizzanti ruotano infatti attorno a frangenti particolarmente gravi. Sebbene nella prima metà degli anni Sessanta vi siano state lotte operaie e studentesche classificabili come “dure”, nel quadriennio 1963-66 (i primi anni del centrosinistra) i conflitti restarono sul piano politico e l’uso della forza fu sostanzialmente limitato. Furono la già menzionata morte dello studente socialista Paolo Rossi (aprile 1966) e le vicende della situazione internazionale (dalle lotte di liberazione nel “terzo mondo” – Vietnam in primis – ai fermenti politici e culturali dei giovani a livello planetario) a far salire una tensione già alta. Mentre le lotte studentesche del 1966-67 si assestavano, quasi fin dal principio, su posizioni operaiste e terzomondiste (basta leggere uno dei “testi sacri” del Sessantotto, Le tesi della Sapienza, per rendersene conto), il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia (aprile 1967) e l’uccisione di Ernesto Che Guevara (ottobre 1967) rappresentarono, per tanti e tante, il segnale che la battaglia politica diveniva sempre più spietata e generalizzata.122 Già nel 1967, dunque, il bivio luxemburghiano tra socialismo o barbarie sembrava all’ordine del giorno; la rivoluzione – quella proletaria – era percepita come a portata di mano. Per smontare il paradigma interpretativo secondo il quale fu solamente a partire dal 12 dicembre 1969 (giorno della strage di piazza Fontana, evento che segnerebbe la «perdita dell’innocenza») che il “movimento” ricorse a repertori violenti di media-alta intensità, Vidotto documenta come 122. Cfr. ad esempio il rapporto sulla manifestazione romana organizzata dopo l’uccisione di Guevara, al termine della quale molti tra i manifestanti, «che lungo tutto il percorso avevano scandito grida come “Che-Che-Che”, “Ho-Chi-Minh”, “Guerra no-guerriglia sì”», cercarono di raggiungere l’ambasciata Usa, scontrandosi, pur blandamente, con le forze dell’ordine. In Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 289, f. G5/5/32 «Associazione di amicizia Italia-Cuba», riservata del questore di Roma alla Dgps del 18 ottobre 1967.

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dopo i fatti del 29 febbraio e del primo marzo 1968, in cui gli studenti scagliarono sassi contro le forze dell’ordine, «il 31 maggio a Campo dei Fiori [venissero] lanciate le prime molotov».123 In realtà – e ciò rafforza quanto sostenuto da Vidotto – l’impiego di bombe incendiarie è documentato anche per i fatti torinesi di piazza Statuto di sei anni prima.124 E andando a ritroso, gli episodi di conflittualità politica e sociale caratterizzati da un impiego “deciso” della forza non sono certo rarissimi. Come osservato da Tolomelli, «il fenomeno della violenza politica non costituì una novità per la storia del mondo occidentale: basti pensare alle tensioni sociali che caratterizzarono la rivoluzione d’ottobre e successivamente il “biennio rosso” europeo-occidentale».125 Servizi d’ordine, scontri di tipo militare con avversari politici e polizia, devastazioni di sedi, aggressioni, e finanche impiego di armi da fuoco e uccisioni mirate non sono la risultante della presunta «perdita dell’innocenza». Gli esempi sono numerosi: basta avere la volontà e la pazienza di spulciarsi la stampa dell’epoca e i faldoni relativi all’ordine pubblico negli archivi di Stato per rendersi conto che anche negli anni Quaranta, Cinquanta e nei primi anni Sessanta si verificarono episodi di violenza «rivoluzionaria» assai cruenti: dalla devastazione di sedi di partito a vere e proprie sollevazioni popolari.126 La differenza rispetto agli anni della conflittualità diffusa e dell’insubordinazione collettiva risiede nel fatto che prima del 1966-67 queste violenze furono organizzate, incanalate o contenute delle organizzazioni della sinistra “istituzionale”. Tra il 1966 e il 1968, infatti, il controllo delle pratiche violente sfuggì di 123. Vidotto, Violenza politica e rituali della violenza, p. 51. 124. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 146, f. 13347/81 «Torino e provincia. Automobili e motociclette. Industria», sf. «Incidenti di piazza dello Statuto. Processo a carico dei dimostranti», telegramma del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 10 luglio 1962 ed Eros Francescangeli, Stato e insurrezione. La violenza rivoluzionaria e gli scontri di piazza: definizioni, periodizzazioni e genealogie, in «Zapruder», 27 (2012), pp. 144-153. Sui fatti di piazza Statuto cfr. Dario Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Torino, luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979 e Marco Ferrero, La rivolta di piazza Statuto nelle carte di polizia, «Zapruder», 20 (2009), pp. 108-113. 125. Tolomelli, Militanza e violenza politicamente motivata negli anni Settanta, p. 195. 126. Cfr. ad esempio i rapporti sulla devastazione della sede del Msi torinese (compiuta, secondo i dati dell’ufficio politico della questura, da circa 5.000 dimostranti) del marzo 1950 in Acs, Mi, Gab., Fc, 1957-1960, b. 14, f. 11060/81 «Torino. Incidenti», sf. «Incidente del 17 marzo 1950. Devastazione sede del Msi» o, per restare sulla stessa unità archivistica, le relazioni sulla sollevazione popolare (con utilizzo di armi da fuoco) di Rionero in Vulture del 29-31 marzo 1960 (ivi, f. 11060/63 « Potenza. Incidenti»).

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mano a Pci, Psiup e Cgil e il rafforzamento o l’organizzazione ex novo dei “gruppuscoli” produsse meccanismi di decentramento dell’uso della forza prima di allora difficilmente possibili. In generale, a giudicare dalle carte di polizia e dalle cronache giornalistiche, negli anni del “lungo Sessantotto”, fino al 1975-76 le forme di violenza maggiormente diffuse furono quelle riconducibili al livello di bassa o medio-bassa intensità. Questo anche nelle grandi città dove tuttavia gli episodi violenti di intensità elevata furono, anche prima del 197475, rilevanti. Ad ogni buon conto, concordo con Augusto Illuminati nel ritenere che l’approccio alla questione dell’uso della forza fosse mutato all’incirca nel 1974 «per l’inasprirsi della repressione, per degrado interno e per la propagazione di uno stile militare» che si andò progressivamente affermando sia nelle Brigate rosse, sia «nello sbandamento dei gruppi, i cui servizi d’ordine le emularono, sia nella nuova autonomia organizzata o spontanea».127 Si aggiunga che il 1974 fu l’anno di altre due stragi – Brescia e treno Italicus – che acutizzarono un livello di tensione già elevato a causa del quadro politico e della recessione economica. L’aspetto militare guadagnò terreno sul politico e sul sociale. Per ciò che concerne la geografia dello scontro, il fenomeno della violenza di piazza fu un fenomeno prevalentemente metropolitano. Ovviamente ci furono delle eccezioni. Se la capitale della violenza politica di piazza fu indubbiamente Milano, violenti e ripetuti scontri si verificarono anche a Roma (in concomitanza di manifestazioni in cui il tema dell’antifascismo fu dominante, ma anche durante le lotte per la casa),128 e a Torino (in occasione di proteste operaie). Ma scontri particolarmente violenti si verificarono anche a Bologna129 e in misura minore a Genova, Napoli, Bari e Palermo. Tra le città più piccole, spicca il caso di Padova, sede di una 127. Augusto Illuminati, Percorsi del ’68. Il lato oscuro della forza, DeriveApprodi, Roma 2007, p. 91. 128. Su Milano cfr. Vladimiro Satta, Il rapporto Mazza. La crisi dell’ordine pubblico all’inizio degli anni Settanta, in «Nuova Storia Contemporanea», 6 (2010), pp. 57-80 e Davide Steccanella, Milano e la violenza politica. 1962-1986. La mappa della città e i luoghi della memoria, Milano, Milieu, 2020. Sull’attivismo antifascista a Roma cfr. Jessica Matteo, Parole pubbliche e memorie private. L’antifascismo militante a Roma negli anni Settanta, Prefazione di Francesca Socrate, Polis Sa, Nocera Superiore 2020. 129. Cfr. Eros Francescangeli, Sorvegliare con lentezza. I gruppi della sinistra extraparlamentare bolognese nelle carte di polizia, in Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi, pp. 322-337.

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consistente area operaista: rispetto alla popolazione, il numero e l’intensità dei conflitti fu veramente notevole e tale livello di conflittualità rimase più o meno costante per tutto il decennio.130 La mappa politica dell’uso della forza in piazza vedeva i gruppi di matrice operaista, Potere operaio e Lotta continua, in prima fila nell’enfatizzazione e nell’organizzazione degli scontri del “decennio caldo” (1968-1977), seguiti dalla componente stalino-maoista, all’interno della quale spiccava il Movimento studentesco (poi Movimento lavoratori per il socialismo) e, quindi, dalle altre aree politiche (Avanguardia operaia, Manifesto, ecc.).131 Soffermando – per esigenze di spazio – l’attenzione ai primi è possibile notare come per il filone operaista (che, tuttavia, al suo interno ha molte varianti, alcune delle quali contrarie a forme violente di azione diretta), la violenza, considerata motore storico per eccellenza, divenisse un fattore decisivo per l’autonomizzazione della classe operaia dalle logiche di tipo consociativo, quando non lo strumento della progressiva presa del potere del soggetto rivoluzionario. La forza, dunque, non rientrava nella sfera della tattica, ma in quella della strategia. A questa linea, corretta con dosi più o meno massicce di leninismo, s’ispirò senz’altro Potere operaio e, anche se con alcune differenze, Lotta continua. Nel 1977 la componente operaista-insurrezionalista-movimentista, raccolta attorno alla rivista «Rosso», fu la principale artefice del “salto di qualità” compiuto con l’introduzione delle armi da fuoco nelle manifestazioni e il loro utilizzo contro gli appartenenti alle forze dell’ordine. Ciò comportò il passaggio dal servizio d’ordine a schiere ordinate (concepito per l’impatto frontale con la compagine avversaria) all’agile nucleo mobile ad alto potenziale offensivo. Una “rivoluzione copernicana” che, di fatto, fece scomparire i vari servizi d’ordine, i cui membri, spiazzati come soldati napoleonici di fronte a un commando di guastatori, dovettero scegliere se sotterrare l’ascia di guerra o imitare le gesta dei nuovi guerrieri metropolitani. 130. A riguardo, si veda Andrea Baravelli, Istituzioni e terrorismo negli anni Settanta. Dinamiche nazionali e contesto padovano, Viella, Roma 2016. 131. Ciò anche prima del 1967-1968. In un volantino di «Classe operaia» si poteva infatti leggere: «Opponiamo al piano di stabilizzazione capitalistica un piano di lotte generali della classe operaia crescenti sia per estensione che per violenza! L’anno scorso i padroni parlarono di “scontro” ma non ebbero il coraggio di affrontarlo. Dobbiamo imporgli noi lo scontro, adesso!» (volantino «a cura di Classe operaia» in Acs, Mi, Gab., Pp, 1944-1966, b. 100, f. 278/P, allegato alla riservata del prefetto di Torino del 7 aprile 1965; maiuscolo anziché corsivo nell’originale).

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Infine, riguardo al ruolo delle donne negli scontri di piazza, se è vero che i servizi d’ordine furono ambiti prevalentemente maschili, è altresì vero che la presenza femminile non fu marginale. E fu una presenza importante, non solo nelle funzioni di supporto logistico. Come ricorda Erri De Luca (dirigente del servizio d’ordine “volante” di Lc a Roma), «ho conosciuto donne in mezzo a quegli scontri che erano più coraggiose degli uomini. Avevano una freddezza della mischia che impediva a noialtri di ritirarci. Non era [il servizio d’ordine] un’attività di competenza esclusivamente maschile».132 La rappresentazione di una dicotomia netta, innanzitutto dentro Lc, tra donne da un lato e servizio d’ordine dell’altro cominciò ad acquisire credito dopo lo scioglimento dell’organizzazione e alla sua costruzione contribuirono in modo considerevole i fatti del 6 dicembre 1975, ovvero la cosiddetta aggressione del servizio d’ordine guidato da Erri De Luca al corteo femminista, secondo la versione “ufficiale” divenuta quasi leggendaria, stratificatasi in storie (a partire da quella scritta da Luigi Bobbio) e memorie.133 Ho fatto riferimento alla storia di Lc di Bobbio, che in realtà è un’interpretazione “a caldo” delle vicende di Lc dal punto di vista dell’asse politico che decise di lasciare morire l’organizzazione, anche perché in quella sede si definì il paradigma interpretativo dello strettissimo rapporto tra l’appartenenza ai servizi d’ordine e l’adesione alla lotta armata, come se quest’ultima fosse la logica conseguenza dell’aver militato nei primi. Uno schema duro a morire. Ad esempio, nell’ottimo lavoro a cura di Catanzaro e Manconi, Storie di lotta armata, si stabilisce, mediante i quesiti posti agli ex militanti del “partito armato”, un nesso, che appare causale, tra la partecipazione agli scontri di piazza e la successiva esperienza nella lotta armata.134 Il fatto che la quasi totalità degli intervistati (e probabilmente di coloro che scelsero tale strada) abbia percorso sentieri che dalla molotov condussero al kalashnikov, non autorizza tuttavia a conferire efficacia anche al ragionamento inverso, 132. Testimonianza riportata in Stefania Voli, Divergenze della memoria. Servizi d’ordine, violenza politica e uso della forza nei ricordi delle donne di Lotta continua, in «Zapruder», 7 (2005), p. 80. Sul servizio d’ordine di Lc si veda il volume, a cavallo tra biografia, storia e memoria, di Fabrizio Salmoni, I senza nome. Il Servizio d’ordine e la questione della «forza» in Lotta continua, DeriveApprodi, Roma 2022. 133. Cfr. Luigi Bobbio, Lotta continua. Storia di una organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma 1979 [nuova ed. Storia di Lotta continua, Feltrinelli, Milano 1988]. 134. Cfr. Storie di lotta armata, a cura di Raimondo Catanzaro e Luigi Manconi, il Mulino, Bologna 1995.

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ossia che tutti (o quasi) gli appartenenti ai servizi d’ordine abbiano terminato la loro carriera di attivisti politici come «terroristi». Mancano i dati a riguardo, ma forse – tenendo conto della varietà dei gradi di coinvolgimento a livello di mansioni (dai “combattenti” effettivi alle staffette) e della grande fluidità organizzativa della strutture – potrebbe essere vero proprio il contrario. Si giungerebbe così a “scoprire” una realtà banalmente lapalissiana: e cioè che la maggioranza di coloro che presero parte a scontri violenti (in modo più o meno strutturato) non scelse la strada della lotta armata. 5. Relazioni di genere e moralità: il caso di Servire il popolo (ma non solo) Il film di Nanni Moretti Il Caimano inizia con una fiction nella fiction: in essa un dirigente di un’organizzazione maoista italiana degli anni Settanta, interpretato dal regista Paolo Virzì, celebra un’unione tra due militanti promessi sposi, interpretati dal regista Paolo Sorrentino e da Margherita Buy. Il film nel film (un trash intitolato Cataratte) è deliberatamente parodistico e Fabrizia, la “sposa in rosso”, si rivela essere Aìtra, una terribile nemica la quale uccide lo sposo infilzandolo con l’asta di una delle bandiere rosse d’ordinanza. Anche se iperbolizzata, la ricostruzione è veritiera: Moretti si è ispirato ai matrimoni celebrati nella prima metà degli anni Settanta nelle sedi dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), detta anche più semplicemente Unione. La coreografia, la citazione di prammatica del «presidente Mao», i numerosi bambini con fazzoletto rosso al collo, i riferimenti ai figli dei ricchi «coi capelli lunghi e i loro vestiti da copertina» che devono donare tutti i propri beni «al Partito», non lasciano alcun dubbio: tutto ciò, negli anni Settanta, era prerogativa della sola Unione, più nota, dal nome del suo giornale, come Servire il popolo.135 135. Cfr. Nanni Moretti, Il Caimano, Italia/Francia, 2006, 100’. In una delle bandiere è percepibile la parola «servire». Questo incipit sarcastico verso gli stalino-maoisti degli anni Settanta non desta stupore, data l’esperienza giovanile di Moretti nell’organizzazione trockista Nuclei comunisti rivoluzionari (gruppo «Soviet») guidata da Paolo Flores d’Arcais. Sull’intreccio tra sfera pubblica e privata nell’Uci(ml) cfr. Eros Francescangeli, The bride in red: morality and private relationships in the Italian revolutionary Left. The case of the Maoist group Servire il popolo, in «European Review of History», special issue ‘The personal is political’: sexuality, gender and the Left in Europe during the 1970s, 1 (2015), pp. 101-119.

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Dileggiati dalle altre organizzazioni rivoluzionarie, i matrimoni comunisti, insieme ad altri repertori tipici dell’Uci(ml), condussero l’organizzazione di Brandirali alla ribalta delle cronache. Oltre ai matrimoni di partito, anche le manifestazioni dei bambini con tanto di Libretto rosso, le sfilate accuratamente pianificate e dal forte impatto scenico e le spedizioni propagandistiche delle italiche guardie rosse colpirono l’immaginario dei ceti medi. La stampa che si autorappresentava come “moderata” non perse occasione per denunciare tali “stranezze”. Nel giro di pochi mesi l’Uci(ml) divenne così il gruppo maoista per antonomasia, oscurando le organizzazioni già presenti dalla prima metà degli anni Sessanta. Ciò contribuì a consolidare la rappresentazione in chiave parodistica dei gruppi maoisti e a percepirli come un prodotto del Sessantotto.136 Prima degli anni della conflittualità diffusa la società occidentale fu attraversata da un movimento di presa di coscienza attorno a tematiche connesse a genere, sessualità e relazioni familiari. Se, come sottolineato da Hobsbawm, il neofemminismo «fu forse il risultato più duraturo degli anni della radicalizzazione politica»,137 ciò che avvenne negli anni 136. Sull’Uci(ml), rinominatasi nel 1972 Partito comunista (marxista-leninista) italiano, cfr. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 329, f. G5/35/128 «Gruppo m.l. Falcemartello. Settore 5 Vietnam», e ivi., b. 364, f. G5/53/31 «Unione dei comunisti italiani m.l.». Cfr. anche, nonostante il taglio giornalistico, Stefano Ferrante, La Cina non era vicina, Sperling & Kupfer, Milano 2008. 137. Cfr. Hobsbawm, Il Secolo breve, p. 391. Sul neofemminismo mi limito a segnalare la bibliografia più attinente: I movimenti femministi in Italia, a cura di Rosalba Spagnoletti, La nuova sinistra, Roma 1971; Femminismo e lotta di classe in Italia (1970-1973). Analisi, documenti e prospettive, a cura di Biancamaria Frabotta, Introduzione di Giuseppina Ciuffreda e Biancamaria Frabotta, La Nuova sinistra/Savelli, Roma l973; Italian feminist thought. A reader, a cura di Paola Bono e Sandra Kemp, Basil Blackwell, Oxford 1991; Luisa Passerini, Storie di donne e femministe, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Viella, Roma 2005 (in particolare il saggio di Elena Petricola, Parole da cercare. Alcune riflessioni sul rapporto tra femminismo e movimenti politici negli anni Settanta, pp. 199-224); Elda Guerra, Storia e cultura politica delle donne: Archetipolibri-Gedit, Bologna 2008; Fiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie (1965-1980), Carocci, Roma 2012; Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere, Bononia University Press, Bologna 2015; Ead., “Una originaria, irriducibile asimmetria”. Il rapporto della nuova sinistra con i femminismi in Italia (1972-1976), in «Italia contemporanea», 287 (2018), pp. 15-43; Ead., Fare storia del neofemminismo italiano: origini, ipotesi, risultati, prospettive, in L’Italia degli anni Settanta, pp. 145-163; Women’s history at the cutting edge. An Italian perspective, a cura di Teresa Bertilotti, Viella, Roma 2020; Anna Frisone, Femminismo al lavoro. Come le

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Sessanta fu una rivoluzione dei costumi che, travalicando la sfera del politico, si diffuse ovunque, sconvolgendo pratiche, discorsi e gerarchie. Ciò fu possibile grazie alla spinta propulsiva della svolta culturale degli anni Cinquanta: una “rivoluzione” che ebbe come risultato l’incubazione e la successiva sedimentazione di una subcultura giovanile caratterizzata dall’avversione alle norme imposte dalla morale dominante, soprattutto in materia di relazioni amorose e sessualità.138 In un paese che stava vivendo il suo boom economico, caratterizzato da un contesto culturale arretrato e, dal punto di vista di genere, asimmetricamente pervaso dalla moralità di stampo cattolico, l’impatto che ebbe la rivoluzione dei costumi fu notevole.139 In generale, ogni innovazione nella sfera del costume e del pudore era percepita come un attacco alla tradizione e alle fondamenta della società, attribuendole una valenza “rivoluzionaria” che in altri contesti più avanzati non aveva e conducendo anche a letture riduttive del Sessantotto.140 La rivoluzione cultural-sessuale degli anni Cinquanta e Sessanta spostò il baricentro delle dinamiche di genere. La corporeità, le emozioni e le sensazioni da ambiti accessori divennero centrali, facendosi così largo nella sfera dei diritti, fino alla ridefinizione delle donne hanno cambiato il sindacato in Italia e in Francia (1968-1983), Viella, Roma 2020 e, infine, Elisa Bellè, L’altra rivoluzione. Dal Sessantotto al femminismo, Prefazione di Silvia Gherardi, Rosenberg & Sellier, Torino 2021. 138. Cfr. Jon Savage, Teenage. The creation of youth culture, Viking, New York 2007. Per quanto riguarda l’Italia vedi Simonetta Piccone Stella, La prima generazione. Ragazzi e ragazze nel miracolo economico italiano, FrancoAngeli, Milano 1993; Le rappresentazioni sociali dei giovani in Italia, a cura di Franco Crespi, Carocci, Roma 2002; Enrica Capussotti, Gioventù perduta. Gli anni Cinquanta dei giovani e del cinema in Italia, Giunti, Firenze 2004; Giovani e generazioni nel mondo contemporaneo. La ricerca storica in Italia, a cura di Patrizia Dogliani, Clueb, Bologna 2009 e, infine, Dalla Trincea alla piazza. L’irruzione dei giovani nel Novecento, a cura di Marco De Nicolò, Viella, Roma 2011. 139. Su ciò cfr. Fiammetta Balestracci, Le rivoluzioni sessuali degli anni Settanta in Italia: storia, narrazioni e metodologie, in L’Italia degli anni Settanta, pp. 165-187 e, più in generale, Ead., La sessualità degli italiani. Politiche, consumi e culture dal 1945 ad oggi, Carocci, Roma 2020. 140. Ciò accadde perché i nuovi comportamenti non ebbero il tempo di «maturare e farsi cultura» (Carla Ravaioli, La donna contro se stessa, Laterza, Bari 1969, p. 82). Come osservato, tali letture erano basate su «un luogo comune giornalistico, quello secondo cui, privo di esiti significativi sul piano politico, il ’68 sarebbe stato essenzialmente una fase di rinnovamento nei comportamenti» (Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America. Con un’antologia di materiali e documenti, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 8).

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coordinate del rapporto donna-società. Conseguentemente, al pari degli operaisti che rivendicavano il diritto all’autonomia di classe, il radicalismo femminista chiedeva il diritto alla soddisfazione sessuale anche in un’ottica separatista che, nelle componenti più conseguenti, si enucleava in lesbofemminismo.141 Sebbene gli aspetti legati alla “fisicità” siano stati poco indagati dalla storiografia italiana, come sottolineato da Paola Di Cori,142 essi furono centrali nei processi di presa di cosciena e di costruzione identitaria del soggetto. Questo valse, come notato da Giddens, anche per i maschi, i quali realizzarono finalmente di appartenere anch’essi a un genere, smettendo di considerarsi come i soli soggetti artefici di Storia.143 L’emergere del neofemminismo, molto più radicale e diffuso rispetto a quello emancipazionista, ebbe effetti dirompenti su una cultura virilista già gravemente segnata dalle trasformazioni degli anni Sessanta. Ciò, soprattutto, tra i giovani maschi della sinistra rivoluzionaria. Tuttavia, tale acquisizione non fu merito esclusivo del femminismo, ma, principalmente, uno degli effetti delle esperienze di lotta vissute in prima persona dagli studenti e dagli operai nel 1967-1969. Tali esperienze contribuirono al superamento dei repertori e delle pratiche di militanza delle generazioni precedenti.144 Esperienze inter-sessuali di lotta e politicizzazione che, come documen141. Cfr. Il movimento delle lesbiche in Italia, a cura di Monia Dragone, Cristina Gramolini, Paola Guazzo, Helen Ibry, Eva Mamini e Ostilia Mulas, Prefazione di Luisa Passerini, Il Dito e la Luna, Milano 2008. 142. Cfr. Paola Di Cori, Rappresentare il corpo e la sessualità. Un problema teorico nella storia e nella politica delle donne, in La sfera pubblica femminile. Percorsi di storia delle donne in età contemporanea, a cura di Dianella Gagliani e Mariuccia Salvati, Clueb, Bologna 1992, pp. 25-40 (cit. a p. 25). Cfr. inoltre Ead., Silenzio a più voci. Neofemminismo e ricerca storica: un incontro mancato, in «Zapruder», 5 (2004), pp. 104-107. 143. Cfr. Anthony Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, il Mulino, Bologna 1995 [ed. orig. The transformation of intimacy. Sexuality, love and eroticism in modern societies, Polity Press, Cambridge 1992], p. 69. Sul rapporto tra storia e genere, in chiave critica nei confronti del soggetto unitario, si veda Joan W. Scott, Gender and the Politics of History, Columbia University Press, New York 1988. Per una riflessione sulla mascolinità riferita all’Italia cfr. Carla Ravaioli, Maschio per obbligo. Oltre il femminismo verso una ridefinizione dei ruoli, Bompiani, Milano 1973; Genere e mascolinità. Uno sguardo storico, a cura di Sandro Bellassai e Maria Malatesta, Bulzoni, Roma 2000 e, infine, Sandro Bellassai, La mascolinità contemporanea, Carocci, Roma 2004. 144. Cfr. Sandro Bellassai, L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma 2011, pp. 126-127.

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tato da Passerini, fecero da battistrada anche al neofemminismo che, per l’appunto, in Italia si sviluppò diffusamente solo a partire dalla prima metà degli anni Settanta.145 Si tenga peraltro conto che fino alla fine degli anni Sessanta il corpus dottrinario e semantico del femminismo era guardato con sospetto da ampi settori della sinistra italiana (rivoluzionaria, e istituzionale), poiché in grado di rompere “l’unità di classe” e di compattare in un fronte “spurio” le donne della classe operaia e dei ceti benestanti.146 In quest’ottica, lo sviluppo della sinistra rivoluzionaria post-sessantottina, con il suo atteggiamento modernizzatore in fatto di relazioni di genere, rappresentò un potente polo attrattivo per lo stesso nascente movimento femminista, oltre che, ovviamente, per le militanti rivoluzionare che scelsero tale opzione politica solo in un secondo momento (quando cioè le organizzazioni rivoluzionarie entrarono in crisi).147 Più rara, invece, fu la contaminazione in senso contrario. Anche se in Italia i gruppi di autocoscienza maschile non si svilupparono come nei paesi di area protestante,148 a partire dal 1974 qualche militante maschio riconducibile al radicalismo di sinistra sperimentò qualcosa di simile, osteggiato tuttavia dai gruppi femministi che le giudicavano tali esperienze come una strumentalizzazione della loro prassi. Tenendo presente che gli atteggiamenti machisti erano ben radicati anche all’interno della sinistra rivoluzionaria, lo scarso successo di tali gruppi informali non deve dunque sorprendere. 149 145. Cfr. Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze 1988, p. 4. 146. Cfr. Sandro Bellassai, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del PCI (1947-1956), Carocci, Roma 2000, pp. 272-279. 147. Come notato: «i movimenti femministi sono stati più volte accostati a quella complessa tendenza al mutamento nota come “nuova sinistra” [qui da intendersi in senso lato e non come New Left in senso stretto], o addirittura considerati come prodotto e parte integrante di essa» (Ravaioli, Maschio per obbligo, p. 76). Cfr. anche Maria Luisa Boccia, Il patriarca, la donna, il giovane. La stagione dei movimenti nella crisi italiana, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, vol. II, Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 258 (l’intero saggio è alle pp. 253-282). 148. Cfr. Joseph Pleck, Jack Sawyer, Maschio e maschismo. Esperienze americane contro il potere del cazzo, La Salamandra, Milano 1974, p. 10, e Victor J. Seidler, Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992 [ed. orig. Rediscovering Masculinity. Reason, Language and Sexuality, Routledge, LondonNew York 1989], pp. 92-98. 149. Cfr. Diego Giachetti, Nessuno ci può giudicare. Gli anni della rivolta al femminile, DeriveApprodi, Roma 2005, pp. 161-163. Cfr. anche Stefano Segre, L’antimaschio. Autocoscienza e liberazione del maschio, Gammalibri, Milano 1982.

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In ogni modo, nel 1979 Carla Ravaioli poteva notare come la rimessa in discussione del ruolo egemone maschile avesse modificato i comportamenti di un numero notevole di uomini riconducibili al radicalismo di sinistra: «Il fenomeno ha riguardato quasi esclusivamente, in un primo tempo, i giovani delle sinistre extraparlamentari, cioè quelli che […] si sono scontrati per primi col j’accuse delle compagne femministe, con il loro rifiuto a prestarsi come oggetti sessuali non meno che come materne garanti di conforto materiale e sentimentale».150 Tuttavia, l’attenuazione degli squilibri tipici della società patriarcale non fu uniforme: i benefici a essa connessi vennero tratti maggiormente dalle giovani provenienti dalla borghesia e, a parità di provenienza sociale, dalle attiviste riconosciute, anche e soprattutto dai maschi, come dirigenti. Seppur viziata da eccessivo schematismo, una ricerca sociologica coeva condotta tra un campione di operai del Pci e della sinistra rivoluzionaria ha messo in risalto come le difficoltà della donna nel conciliare l’ambito familiare con quello dell’attivismo politico fossero utilizzate dai militanti maschi come pretesto per relegare, di fatto, la donna entro le mura domestiche. Le differenze tra le due “anime” della sinistra furono considerate impercettibili.151 Le militanti di estrazione popolare che riuscirono a conciliare attivismo politico e “vita domestica” ricoprirono incarichi di secondo piano e la loro considerazione fu proporzionale all’importanza della mansione da esse espletata. Il vissuto delle dirigenti fu invece differente: le leader (invero assai poche) non si differenziavano infatti dagli uomini nelle pratiche e nei discorsi relativi alla militanza politica. Rifiutando i ruoli tradizionalmente femminili, esse ponevano in essere e subivano un processo di desessuazione, avvalorando così la logica secondo cui «la donna che assume modelli maschili di efficienza e conoscenza scientifica viene valutata più delle altre donne».152 A livello di relazioni coniugali e sessuali la realtà fu un po’ differente. Qui le asimmetrie dovute alle fratture prodotte dalle categorie idealtipiche di Classe e Genere appaiono attenuate. In altre parole, in tale sfera la donna 150. Carla Ravaioli, Le donne, in Antonio Gambino et al., Dal ’68 a oggi. Come siamo e come eravamo, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 317-368 (cit. a p. 355). 151. Laura Grasso, Compagno padrone. Relazioni interpersonali nelle famiglie operaie della sinistra tradizionale e della sinistra extraparlamentare, Guaraldi, Rimini-Firenze 1974, p. 107. 152. Ibidem.

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– anche quella di origine proletaria – si avvicinò decisamente alla propria idea di emancipazione-liberazione. Le relazioni familiari e la sfera relativa alla sessualità furono investite da un’onda d’urto al cui centro vi erano pratiche e discorsi finalizzati alla liberazione sessuale, intesa come espansione di tutte le potenzialità represse dalla società capitalistico-patriarcale. Seppur non sempre e ovunque, in nome del libero amore, vennero messe sotto accusa le «vecchie forme del sentimento amoroso, quali la gelosia e il possesso all’interno della coppia».153 Il sesso fu vissuto come una rete relazionale allargata, un codice di comunicazione universale in cui i tradizionali confini tra sfere privata e pubblica vennero messi in discussione, perdendo di nitidezza.154 Anche la sessualità venne dunque “collettivizzata”, sia quella esperita all’interno di relazioni più o meno formalizzate, sia quella sperimentata negli spazi di collettivi di vissuto, come le zone occupate (facoltà universitarie, luoghi di lavoro, spazi socialmente riconvertiti) o le comuni. Per quanto riguarda le relazioni di coppia, il risultato dei cambiamenti culturali avvenuti nella seconda metà degli anni Sessanta fu la messa in discussione della coppia tipica, basata sulla supremazia del maschio e sulla monogamia femminile (ciò a livello teorico poiché, in realtà, le relazioni continuarono a essere asimmetriche).155 Tuttavia, una parte della giovane sinistra rivoluzionaria post-sessantottina rimase ancorata alle tradizioni etico-morali del movimento operaio istituzionale: fu la componente riconducibile, in termini di culture politiche, allo stalino-maoismo e al togliattismo di sinistra. All’interno di quest’area si di153. Passerini, Storie di donne e femministe, p. 149. 154. Cfr. Marisa Rusconi, Amati amanti. Idillio e sopraffazione: la coppia narrata a due voci, Feltrinelli, Milano 1981. 155. Cfr. Giachetti, Nessuno ci può giudicare, pp. 41-55. Sull’esperienza delle comuni cfr. Donata e Grazia Francescato, Famiglie aperte: la comune. Analisi socio-psicologica delle comuni nordamericane, con una nota sulle comuni italiane, Feltrinelli, Milano 1974; Le comuni familiari tra pubblico e privato, a cura di Guido Campanili e Paolo Donati, FrancoAngeli, Milano 1980; Marilena Moretti, La rivoluzione non è una cosa seria. Un film documentario di Marilena Moretti, in «Zapruder», 11 (2006), pp. 96-101 e, infine, Sofia Serenelli, Il Sessantotto e la famiglia. Storia di una comune nella campagna marchigiana 1976-1987, in «Italia contemporanea», 255 (2009), pp. 174-202. Ciò comportò una fuga dalla famiglia e dalle sue responsabilità che condusse alla negazione della maternità da parte delle giovani donne della sinistra rivoluzionaria, in sintonia con il «generale rifiuto delle generazioni del ’68 a farsi genitori» (Anna Scattigno, La figura materna tra emancipazionismo e femminismo, in, Storia della maternità, a cura di Marina D’Amelia, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 273-299, cit. a p. 286).

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stinse il gruppo di Servire il popolo, che si caratterizzò per uno stile di militanza integrale e per l’acceso moralismo, distinguendosi nettamente anche dagli altri gruppi togliattian-stalino-maoisti, tanto da guadagnarsi il sarcastico accostamento al sodalizio etico-religioso di fra’ Girolamo Savonarola.156 Ad esempio, già nel primo numero di «Servire il popolo» si affermava a chiare lettere che il militante doveva integrarsi nelle masse popolari, «subordinando i propri interessi particolari agli interessi generali del proletariato», poiché solo così avrebbe potuto «criticare le idee borghesi che vivono in lui».157 E tra queste vi erano anche le concezioni in fatto di morale, relazioni familiari e sessualità in voga durante le occupazioni universitarie: I militanti rivoluzionari nati dalle lotte studentesche comprendono che la loro ribellione alle forme di comportamento borghesi non si possono risolvere oggi con la loro libertà. […] [Scollegata] dalla lotta di classe, la libertà individuale diviene esibizionismo da gran signore, e in ultima analisi esercita anche un ruolo negativo verso i giovani operai allettati dai nuovi miti del benessere.158

Se la parità di diritti tra uomo e donna fu teorizzata e tendenzialmente applicata (nonostante i documenti si riferissero quasi sempre all’universo maschile),159 l’attività nei confronti della “questione femminile” non si scostava dalla linea emancipazionista-classista di osservanza terzinternazionalista. Il femminismo era dunque osteggiato, in quanto la contraddizione tra i generi era considerata secondaria, risolvibile, in ultima istanza, con la risoluzione della contraddizione fondamentale tra Capitale e Lavoro. Quando, con l’approssimarsi della trasformazione in Pc(ml)i, fu costituito un settore d’intervento specifico (la Lega delle donne comuniste italiane), questo si limitò a gestire le iniziative contro il carovita (coinvolgendo casalinghe e “popolane” nelle battaglie per l’autoriduzione dei costi della spesa) e gli appuntamenti ludico-coreografici della Lega dei pionieri comunisti italiani (l’associazione dei bambini, figli degli attivisti e 156. Cfr. Mino Monicelli, Compagno Savonarola, in «L’Espresso», 22 giugno 1969. 157. Sul militante di tipo nuovo, in «Servire il popolo», novembre [1968], paragrafo Cos’è il militante rivoluzionario? 158. Ivi, paragrafo Sul comportamento. 159. Si veda, ad esempio, l’articolo 2 del secondo capitolo dello Statuto approvato nell’aprile del 1972: «I comunisti marxisti-leninisti sono uomini onesti, sinceri, attivi che amano il popolo e lo servono con tutto il cuore»; Aldo Brandirali, Il partito comunista (marxista-leninista) italiano. Tesi. Statuto. Rapporto al congresso di fondazione (Milano, 15 aprile 1972), Edizioni Servire il popolo, Milano 1973 [1a ed. 1972], p. 97.

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dei simpatizzanti di Servire il popolo). Insomma, l’organizzazione di spazi e tempi della donna in quanto massaia e madre.160 Come ricordato a quasi quarant’anni di distanza da Nuccia Famoso: «eravamo solo le donne del partito, in un partito maschilista».161 Fino al 1972 l’immagine della donna che il gruppo dirigente di Servire il popolo aveva era ancora quella di una creatura timorosa e politicamente arretrata, da sostenere e alfabetizzare.162 Procedendo in modo dottrinario per schemi dicotomici semplicistici, gli attivisti di Servire il popolo giunsero a definire dettagliatamente cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato anche in materia di sessualità e rapporti affettivi.163 Sostanzialmente ignari delle abitudini sessuali del popolo, la simbiosi con esso fu ricercata appellandosi a un’idea di moralità rivoluzionaria astratta quanto autoritaria. In nome dell’altruismo (una vera e propria idea-feticcio per Brandirali e compagni) e della comunanza con le masse, gli inviti alla “normalità” erano onnipresenti e poco importava se tale “normalità” fosse la medesima della società capitalistico-patriarcale. Istituzioni quali il matrimonio, la famiglia, ma anche la religione cattolica, venivano giudicate in termini sostanzialmente positivi.164 Parallelamente, vennero banditi, in quanto egoistici, tutti i comportamenti ritenuti immorali: oltre al divieto di assumere droghe e di vestire in modo lussuoso, stravagante o indecoroso (che per le donne significava divieto di minigonna e capelli preferibilmente corti), furono tassativamente proibiti i rapporti extraconiugali e quelli omosessuali. Se la gioventù era caldamente invitata a «spazzare via [la] concezione marcia del giovane ‘capellone’, del giovane ‘libero’ che fa quello che gli passa per la testa fregandosene degli altri»,165 Michele Santoro, a distanza di venticinque 160. Cfr. Lega delle donne comuniste italiane, Le donne si uniscono per il governo rivoluzionario. Relazioni, interventi, mozioni e conclusioni della prima conferenza nazionale della Lega delle donne comuniste tenuta a Bologna nei giorni 4-5 dicembre 1971, Edizioni Servire il popolo, Milano 1972. 161. Testimonianza in Ferrante, La Cina non era vicina, p. 196. 162. «La Lega delle Donne porta le donne a vincere la paura mediante l’unità e, in tal modo, sviluppa la loro lotta sociale e le educa al comunismo»; Brandirali, Il partito comunista (marxista-leninista) italiano, p. 87, in cui sono riportate le correzioni (in questo caso le parti tagliate) delle Tesi approvate dal congresso di fondazione. Nella versione riveduta e corretta della primavera del 1973, infatti, la definizione scomparve perché giudicata «arretrata e limitata» (ivi, p. 92). 163. Cfr. ivi, pp. 127-134. 164. Cfr. Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 124 e Brandirali, Il partito comunista (marxista-leninista) italiano, p. 62. 165. I giovani vogliono il comunismo, Edizioni Servire il popolo, Milano 1972, p. 28.

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anni dai fatti, ricordava come nella drammatica riunione a preludio della sua estromissione dall’Uci(ml) avesse dato rilievo, in una sorta di autodafé, ai «tradimenti in amore» e alle «donne borghesi» all’epoca frequentate.166 Anche all’idealtipico eterosessuale-monogamico erano tuttavia poste alcune limitazioni. A coronamento di un convegno organizzato ad hoc, l’organizzazione maoista (in questo caso sorda verso la “saggezza popolare” che vorrebbe che «tra moglie e marito» non si mettesse «il dito») elaborò un decalogo comportamentale – che è impossibile sapere se osservato o meno – che prevedeva, tra l’altro: la proibizione della masturbazione, del coito anale e, parzialmente, di quello orale (ammesso solo «nella fase iniziale del rapporto»); la tendenziale obbligatorietà all’orgasmo «unico e simultaneo»; e lo stigma verso coloro che fossero attratti oltremisura dall’altro sesso (poiché sintomo di mentalità morbosa e piccolo borghese).167 L’omosessualità, quasi mai nominata direttamente, era equiparata ad altre “degenerazioni” tipiche della società dei consumi, colpevolmente alimentate da intellettuali e artisti complici della cultura borghese. I cenni polemici contro Pier Paolo Pasolini possono essere letti sotto questa luce: «Il nudo e la pornografia sono stati un centro dell’azione disgregante della borghesia reazionaria. La donna è ora completamente nuda in ogni messaggio culturale borghese. E ora Pasolini, revisionista e compare di Berlinguer, ha introdotto la completa nudità dell’uomo. Cosa potranno offrire ancora?». La critica contro il supposto decadentismo degli intellettuali, rei di aver presentato e presentare il popolo sotto una cattiva luce, proseguiva così: Pasolini ha introdotto un’immagine ripugnante del popolo per dire alla fine che lui preferisce le immagini di sogno. Il regista Leone ha fatto del popolo messicano l’emblema della rivoluzione egoistica, marcia quando nasce e più sporca dei dominatori ricchi. Gli americani addetti alla cultura hanno orientato i giovani vuoti alla fuga in capanne isolate per l’eremitico “amore libero” e “l’allevare galline”.168

166. Cfr. Michele Santoro, Michele chi?, Baldini & Castoldi, Milano 1996, p. 50. 167. Cfr. Giachetti, Oltre il Sessantotto, p. 113 e Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 122. 168. Brandirali, Il partito comunista (marxista-leninista) italiano, p. 264. Il biasimo a Sergio Leone è per il lungometraggio Giù la testa, che, peraltro, si apre con una citazione di Mao Zedong (cfr. Sergio Leone, Giù la testa, Italia, 1971, 150’). Nemmeno Petri fu risparmiato: «La classe operaia non ‘va in paradiso’, la classe operaia cerca il vero dio della

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L’invettiva si concludeva con un altro virtuosismo di retorica moralista in cui convergevano, sotto copertura, pregiudizi di vario tipo: Credete davvero che nel nudo, nella provocazione formale, nella ipercritica, la borghesia abbia creato il superamento delle inibizioni? Ma guardate le strade di notte, invase dalle lunghe auto della media borghesia in cerca di prostitute, e capite così come questa classe di depravati, drogati e invertiti è schiava di retrive inibizioni nascoste.169

L’amore vero, disinteressato e sano era dunque, secondo il Brandiralipensiero, una virtù prettamente popolare che trovava il suo coronamento nell’unione stabile di un uomo e una donna (dove il termine maschile precede sempre quello femminile).170 In contrapposizione alla poligamia studentesca (giudicata piccolo borghese o borghese), il modello esemplare era la coppia eterosessuale a vocazione permanente e auspicabilmente prolifica che acquisiva così l’aggettivazione di «proletaria».171 Tutto ciò, condusse i seguaci di Brandirali a ricercare i propri partner all’interno dell’organizzazione-partito: la sede divenne dunque anche un luogo di socializzazione preliminare per relazioni sessual-affettive. Relazioni che, dato l’ambito fortemente comunitario, dovevano di fatto essere condivise dal collettivo. La comunità, rappresentata dall’istanza di base dell’organizzazione politica, assumeva dunque le prerogative già appartenute alla famiglia tradizionale anche per quanto riguardava l’individuazione del partner. Certo, il partito-famiglia non giungeva a “sceglierlo” ma, nei fatti, lo doveva “approvare”. Infatti, già prima dei “matrimoni comunisti”, all’interno del gruppo politico venivano incoraggiati i fidanzamenti tra compagni.172 Se spesso, e ciò è comprensibile data la tendenza universale all’omogamia sociale, i componenti della coppia erano ambedue dirigenti (o ambedue militanti di base) oppure omogenei per provenienza sociale, talvolta l’amore sbocciava anche tra elementi eterogenei per gerarchia interna o ambiente sociale d’origine: tra un dirigente (quasi sempre maschio) e una trasformazione, il popolo» (il riferimento è a Elio Petri, La classe operaia va in paradiso, Italia, 1971, 125’). 169. Brandirali, Il partito comunista (marxista-leninista) italiano, p. 267. 170. Ibidem. 171. Si veda, ad esempio, Canzone dei fidanzati comunisti, in «Servire il popolo», 22 aprile 1972, nella quale, tra altre strofe, si recitava: «Ci sposeremo e lotteremo assieme/ai nostri figli, e tanti ne faremo». 172. Cfr. Ferrante, La Cina non era vicina, p. 220.

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semplice attivista, oppure tra una persona classificabile come intellettuale e un’altra di estrazione proletaria o popolare (in questo caso l’asimmetria appare meno netta). Tale evidente tendenza endogamica fu suggellata, a partire dal 1972, dall’introduzione della cerimonia nuziale di partito, il cosiddetto matrimonio comunista (o rosso), fortemente voluto da Brandirali e da altri dirigenti di primo piano dell’organizzazione (tra cui Angelo Arvati ed Enzo Todeschini). L’unione dei primi «sposi rossi», Sergio Bisi e Cristina Soraci, fu officiata l’8 gennaio 1972, ricevendo il sostegno mediatico degli organi di partito. La cerimonia fu ammantata di solennità: la sala addobbata per l’occasione, i militanti vestiti a festa, i mazzi di fiori, il registro per verbalizzare e, infine, l’officiante, ossia il presidente della Commissione di matrimonio (in questo caso Todeschini), che nella sua veste di “pubblico ufficiale proletario” e dirigente di partito, ammoniva i presenti con frasi tese a sottolineare come il campo dei problemi famigliari non fosse qualcosa di personale, estraneo alla lotta di classe.173 Benché le unioni non abbiano superato il centinaio, grazie a queste cerimonie l’attenzione verso l’organizzazione maoista crebbe considerevolmente. Non si può escludere, dunque, che la trovata possa essere letta anche utilizzando lenti meno idealistiche di quelle adoperate dalla pubblicistica autorappresentativa: ossia come una mossa propagandistica, nell’ottica di una strategia finalizzata al proselitismo o, in ogni caso, a guadagnare visibilità a livello pubblico in vista del congresso di fondazione del Pc(ml)i.174 Sull’onda del successo fu pubblicato anche un opuscolo, un reportage – nelle intenzioni dei curatori una sorta di vademecum – su «un matrimonio comunista» tra due dirigenti di primo piano di Servire il popolo (in realtà, di primissimo piano, dato che si trattava del leader maximo Aldo Brandirali e della sua nuova compagna Teresa De Grada, figlia di Raffaele, noto critico d’arte ed ex partigiano comunista). L’opuscolo, ricavato dalla trascrizione della registrazione sonora del rito matrimoniale, avrebbe dovuto essere letto «avidamente» dai giovani, 173. Cfr. Celebrato dal Partito il primo matrimonio comunista, in «Servire il popolo», 15 gennaio 1972. 174. Brandirali motivava la scelta dei matrimoni di partito come una riedizione delle unioni celebrate in montagna dai partigiani durante la lotta di liberazione dal nazifascismo (cfr. Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 123). Per i commenti – più ironici che indignati – dei giornali conservatori cfr. Gianna Preda [Giovanna Predassi], Compagni a due piazze, in «Il Borghese», 6 febbraio 1972 e Piero Palumbo, Vuoi tu, compagna Rossella, unirti in matrimonio con il compagno Luciano?, in «Gente», 22 aprile 1972.

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che avrebbero poi dovuto «discuterlo fra loro» al fine di «partire dai suoi insegnamenti» per rafforzare la loro coscienza politica e «per affrontare con serenità le cose più naturali della vita».175 Stando alla trascrizione, alla cerimonia presero parte, non solo i candidati coniugi e i loro testimoni (due per ciascuno), ma anche l’ex marito della sposa e l’ex moglie dello sposo (Duccio Bigazzi e Anna Villa), nonché, come si può apprendere, i genitori degli sposi e i genitori degli ex coniugi.176 In un clima di ostentato ecumenismo venne dunque posto in essere un rito collettivo in bilico tra rappresentazione catartica e psicodramma collettivo. Le vicissitudini dei due promessi sposi e delle loro precedenti unioni venivano lette in filigrana come allegorie delle vicende dell’organizzazione e, più in generale, della società italiana e dell’imminente rivoluzione socialista. Il personale e il politico, più che interscambiabili, erano piani sovrapposti. Alcuni passaggi del testo sono, a riguardo, assai significativi: mentre il presidente-officiante elogiava la «vittoriosa» lotta condotta dai due compagni poiché il loro obiettivo era «quello dell’unità tra di loro al servizio dell’unità del Partito col fine ultimo dell’unità e della liberazione del popolo», il primo testimone della sposa dichiarava che ella «mentre si ribellava al suo vecchio rapporto arretrato, mentre scopriva una linea sempre più chiara per trattare questo genere di contraddizioni, [aveva] capito che nel Partito era veramente necessaria la Lega delle Donne Comuniste».177 Così se l’ex marito della sposa, poco prima del mea culpa circa il suo essere «l’elemento arretrato» della coppia, attribuiva l’incapacità di realizzare un’unione positiva ai vicendevoli «difetti da intellettuale», l’ex moglie dello sposo, dopo aver ammesso che il mantenimento in vita del vecchio rapporto avveniva «per opportunismo», si augurava che nella nuova unione egli non dovesse più subire «quegli atteggiamenti cattivi» dovuti alla volontà di restare con lui «senza fare fatica e senza osare lottare». Il discorso dello sposo, più articolato e di ampio respiro, era la summa di tutto ciò ed è efficacemente sintetizzabile, nel suo catechistico semplicismo, da similitudini quali «Il matrimonio comunista come espressione di un governo del popolo» oppure da frasi come la seguente: «Portare avanti la rivoluzione è 175. Un matrimonio comunista, Edizioni Servire il popolo, Milano 1972, p. 7. Che il matrimonio in questione fosse proprio quello tra Brandirali e De Grada è confermato (in base a interviste ai protagonisti realizzate a ridosso del 2007) in Ferrante, La Cina non era vicina, p. 217. 176. Cfr. Un matrimonio comunista, p. 31. 177. Ivi, pp. 14 e 19.

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unirci, è creare una famiglia giusta, portare avanti la rivoluzione perché è il solo modo per creare una famiglia giusta».178 Sebbene non si fosse dilatato per intensità e ampiezza, l’afflato moralistico di Servire il popolo non si esaurì con i matrimoni di partito e la precettistica sessuale. Dopo la trasformazione dell’Uci(ml) in Partito comunista (marxista-leninista) italiano,179 la «deriva nell’intimo» trovò la sua massima espressione nelle scuole quadri del 1973, centrate sulla sessualità: «un’esperienza che segnerà tutti e che tutti […] ricordano malvolentieri, con reticenza».180 Nel giugno dello stesso anno, Brandirali stroncò il film di Bertolucci Ultimo tango a Parigi: la censura che lo colpì era giudicata un «fatto interno alla borghesia»; il film andava rigettato perché menzognero «sulla questione sessuale» e «specie nuova di oscurantismo».181 Qualche settimana dopo, il segretario generale elargì consigli su sessualità e problematiche a essa connesse: l’uomo (questa volta inteso come maschio) era l’agente della borghesia all’interno della coppia, la sua indole cacciatrice un residuo reazionario contrastabile solamente con «l’amore d’attacco», debita premessa per il raggiungimento dell’orgasmo simultaneo.182 Tali esuberanze in campo etico-morale furono maldigerite da molti attivisti che abbandonarono l’organizzazione. Il controllo comportamentale derivante dalla logica del personale è politico (o meglio: del politico che pervadeva la sfera personale) divenne difficilmente sopportabile. Anche perché l’ironia tagliente delle avanguardie femministe e delle altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria non risparmiò colpi.183 Nel giro di pochi mesi l’organizzazione maoista cominciò a sfaldarsi. Uno sfaldamento che, dopo l’insuccesso elettorale del maggio 1972, crebbe esponenzialmente fino alla crisi interna che condusse all’espulsione dello stesso Brandirali. 178. Ivi, pp. 24-26, 31 e 37. 179. Anche la fondazione del Pc(ml)i fu coronata da un matrimonio: «Si sono sposati due dei più amati dirigenti del nostro Partito: la compagna Luciana Polliotti e il compagno Arnaldo Minetti» (Si sono sposati due compagni, in «Servire il popolo», 22 aprile 1972). 180. Ferrante, La Cina non era vicina, p. 221. 181. Aldo Brandirali, Moralismo e liberalismo. La bandiera del sesso e i suoi eroi, in «Servire il popolo», 23 giugno 1973. 182. Aldo Brandirali, Alcuni orientamenti sulla questione sessuale, in «Servire il popolo», 7 luglio 1973. 183. Cfr. ad esempio il ciclostilato: Centro Sexpol Aleksandra Kollontaj, Brandirali boia e buffone, Milano, novembre 1974.

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Credo che Servire il popolo abbia raccolto quel bisogno, quasi religioso, di spiritualità, certezze, disciplinamento e finanche “ripristino” della moralità che si manifestò a ridosso del Sessantotto o immediatamente dopo come una sorta di effetto “rinculo”. Ciò avvenne – seppur in modo contraddittorio, diacronico e, probabilmente, “a macchia di leopardo” – anche in altre organizzazioni (e anche in altri paesi).184 In mancanza di una ricerca complessiva su relazioni famigliari e affettività/sessualità nella sinistra rivoluzionaria italiana, le testimonianze e gli studi su Lotta continua autorizzano a ritenere valida questa interpretazione. L’occhio benevolo verso il libero amore (purché endogamico, soprattutto per il genere femminile), non sollevò infatti Lc da atteggiamenti moralistici nei confronti delle militanti che non vollero adeguarsi al modello estetico asessuato (mascolino) post-sessantottesco. Alcuni dirigenti di Lc non fecero mistero della loro disapprovazione degli atteggiamenti di quelle donne che nelle pratiche della militanza andavano «svestite, o facevano cose per cui prestavano il fianco alle critiche che Lotta Continua era un’accozzaglia di puttane».185 Margherita D’Amico, dirigente torinese di Lc, ricorda come fosse stata rimproverata e costretta a porre fine alle sue frequentazioni di ex attivisti che fumavano spinelli e come Giorgio Pietrostefani (dirigente di spicco dell’organizzazione operaista) in un’occasione la apostrofò dopo averla vista «con gli orecchini e la gonna», mentre un’altra volta la convocò per tentare di convincerla a non interrompere una relazione sentimentale con un compagno di Lotta continua.186 E lo stesso Pietrostefani ricorda, a proposito della dimensione totalizzante dell’attivismo, «Lotta con184. Seidler, riflettendo sulla vicenda del East London Big Flame e della Red Therapy, narra dell’esperienza precedente totalizzante e traumatizzante di uno di loro in una comune maoista in cui i rapporti individuali erano vietati poiché egoistici (Seidler, Riscoprire la mascolinità, p. 94). 185. Mauro Perino, Lotta Continua. Sei militanti dopo dieci anni, Rosenberg & Sellier, Torino 1979, p. 167. Tali critiche sarebbero state veicolate da alcuni esponenti della Cgil e del Pci torinesi. Cfr. Guido Viale, Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta continua, Interno4, Firenze 2022, p. 48. Come ricordato: «Il modo in cui la CGIL e i comunisti della zona ci facevano la guerra era dicendo che noi facevamo le puttane, che andavamo lì, prendevamo gli operai e ce li portavamo a letto: questo era il motivo per cui gli operai venivano con noi» (testimonianza di Franca Fossati in Stefania Voli, Quando il privato diventa politico. Lotta continua 1968-1976, Edizioni Associate, Roma 2006, p. 42, p. 291). Cfr. inoltre Ead., Soggettività dissonanti. Di rivoluzione, femminismi e violenza politica nella memoria di un gruppo di ex militanti di Lotta continua, Firenze University Press, Firenze 2015. 186. Cfr. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 169.

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tinua e la politica erano per noi una religione», chi non era di Lc «era come se non fosse cristiano. Eravamo fanatici, la classe operaia era un’ossessione religiosa».187 Come osservato da Voli nel suo studio tra storia e memoria, una volta esauritasi la spinta propulsiva dell’«onda liberatoria, spensierata e allegra che caratterizzava il movimento studentesco», anche all’interno di Lc calò «il divieto su qualunque comportamento in contraddizione con il cliché del perfetto “rivoluzionario”: niente capelli lunghi, niente abiti stravaganti o vistosi, niente concerti o discoteca e, soprattutto, niente sostanze stupefacenti».188 Se è plausibile che la dicotomia tra un “prima” libertario e un “dopo” costretto nei ranghi della moralità rivoluzionaria sia anche il frutto della distorsione della memoria dovuta al tracollo valoriale di un discorso pubblico operaio e antistituzionale, è comunque vero che a partire dal 1970 il richiamo alla moralità e all’estetica rivoluzionarie tornarono (dopo la parentesi sessantottina) in voga. Tuttavia, va detto che ciò non impedì ai militanti di Lc di ascoltare musica rock, ballare, amoreggiare e finanche avere un taglio dei capelli un po’ più lungo di quello di Lenin e Mao. È possibile quindi concludere ipotizzando che in Servire il popolo si sia manifestato maggiormente (e in modo iperbolico a causa dell’accentuata propensione alla ritualizzazione del politico) quel “colpo di frusta” postsessantottino che interessò, forse a esclusione degli anarchici, un po’ tutte le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria italiana. Il perché di questo gap è spiegabile, a mio avviso, con la provenienza sociale (borghese o piccolo borghese) e/o culturale (cattolica) di buona parte degli attivisti e, quindi, con i loro sensi di colpa e il conseguente desiderio di espiazione-redenzione.189 A questo si aggiunga un manicheismo di fondo (ereditato dalla tradizione 187. Ibidem. 188. Voli, Quando il privato diventa politico, p. 51. Nello stesso volume cfr. la testimonianza di Giuliano Mochi Sismondi, che conferma come alcuni militanti torinesi fossero stati sospesi dell’organizzazione «perché riconobbero che ogni tanto si facevano una canna», attribuendo a Pietrostefani la responsabilità di quella che reputa una rigidità ingiustificata: «Pietro su queste cose era veramente dogmatico e categorico» (ivi, p. 324). Sul rapporto tra personale e politico in Lc, cfr. anche Penelope Morris, «Cari compagni, sto male…». Emozioni e politica nelle lettere a «Lotta continua», in Politica ed emozioni nella storia d’Italia dal 1848 ad oggi, a cura di Penelope Morris, Francesco Ricatti e Mark Seymour, Viella, Roma 2012, pp. 211-240. 189. Cfr. Ferrante, La Cina non era vicina, in cui si riportano le considerazioni, successive di oltre trent’anni, di Elena Adilardi, militante di Servire il popolo, a proposito delle collettivizzazioni: «avevamo una formazione cattolica con il nostro senso di colpa, la nostra colpa sociale da espiare» (ivi, pp. 94-95). Brandirali, che cattolico non era, si è poi

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stalino-comunista, innestata su un substrato culturale tipico della religiosità popolare) e un approccio all’agire politico romantico-escatologico, prevalentemente emozionale. I discorsi di Servire il popolo erano, in molti casi, repertori retorici riconducibili a performance emotive: nella produzione del gruppo in questione sono frequenti non solo lemmi quali «giustizia» o «benessere» ma anche termini come «amore», «sentimento», «altruismo», «felicità» e «gioia». L’autorappresentazione scritta da Brandirali ne è un esempio: Così nella nostra azione politica esistono profondi sentimenti umani. Abbiamo trovato la ragione di fare politica senza scopi personali ma disposti fino infondo al sacrificio; ciò perché abbiamo imparato che seguendo lo scopo personale finiamo in un mondo triste e marcio, mentre seguendo lo scopo collettivo giungiamo con la forza del popolo, la sola forza di vittoria, ad ottenere un mondo felice e giusto.190

Ciò produsse un determinato clima interno, intendendo con ciò qualcosa che va oltre il regime interno, e che comprende anche le modalità empatiche tra il gruppo dirigente e il resto dell’organizzazione, l’intensità e la capillarità della dimensione comunitaria, il rapporto con l’esterno, l’atmosfera generale tra gli associati. All’interno dell’Uci(ml) prima, e del Pc(ml)i poi, questo clima fu quello tipico delle sette. Il culto del capo, che produsse imbarazzanti forme di “beatificazione”, fu dunque la logica conseguenza.191 E tale clima, quasi inevitabilmente (cioè a prescindere dalla volontà dei dirigenti), trasformò l’energia positiva e il tessuto relazionale solidale degli attivisti in forme di convivenza patologiche e il desiderio fecondo di comunanza con il popolo in sterile autoreferenzialità.

avvicinato al cristianesimo militante, aderendo a Comunione e liberazione. Anche Angelo Arvati è approdato a posizioni cattoliche. 190. Brandirali, Il partito comunista (marxista-leninista) italiano, p. 204. Per alcune suggestioni sul rapporto tra società ed espressione dell’emotività cfr. William M. Reddy, The Navigation of Feeling. A Framework for the History of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 2001. 191. Cfr. la testimonianza di Mordenti: «Ho visto con i miei occhi […] bassorilievi in ceramica che effigiavano il Segretario generale, rappresentato con il pugno alzato, il fazzoletto rosso al collo, un bambino per mano; ho sentito con le mie orecchie falsi canti popolari (commissionati a musicisti iscritti all’Unione) che inneggiavano alla “capa grossa” e al “ccuore bbuono” del suddetto Segretario generale»; Raul Mordenti, Frammenti di un discorso politico. Il ’68, il ’77, l’89, Essedue-Cierre, Verona 1989, p. 48.

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1. Gli anarchici A cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento in Italia era presente, già da tempo, una sinistra rivoluzionaria le cui origini non erano certo recenti: bordighisti e trockisti avevano infatti alle spalle una ventina di anni di attività al margine della sinistra “ufficiale” (Psi e Pci), mentre gli anarchici avevano dietro di essi più di ottanta anni di storia. Se il filo rosso della continuità ideologica rimase intatto anche durante il ventennio fascista (nell’esilio o nella clandestinità) quello della continuità organizzativa venne riannodato dopo l’8 settembre 1943, quando anche i prigionieri politici giudicati come «pericolosi» furono liberati dalle carceri e dai luoghi di confino.1 Dopo l’ingresso delle truppe alleate a Roma, gli anarchici del “Regno del Sud”, già attivi nella clandestinità, cominciarono a organizzarsi alla luce del sole. Nel settembre 1944, su iniziativa del gruppo libertario napoletano, numerose realtà territoriali si diedero appuntamento a Napoli 1.  Sull’anarchismo italiano, oltre a quanto segnalato specificamente, cfr. Antonio Senta, Utopia e azione. Per una storia dell’anarchismo in Italia (1848-1984), Elèuthera, Milano 2015; L’anarchismo italiano. Storia e storiografia, a cura di Giampietro Berti e Carlo De Maria, Biblion, Milano 2016; Parlare di anarchia. Le fonti orali per lo studio della militanza libertaria in Italia nel secondo Novecento, a cura di Enrico Acciai, Luigi Balsamini e Carlo De Maria, Biblion, Milano 2017 e, per un focus sulla presenza femminile, Le donne nel movimento anarchico italiano (1871-1956), a cura di Elena Bignami, Milano-Udine, Mimesis 2018. Benché circoscritto nel tempo e nello spazio, si veda inoltre Luigi Balsamini, Fonti scritte e orali per la storia dell’Organizzazione anarchica marchigiana (1972-1979), Inventario del fondo archivistico a cura di Matteo Sisti, BraDypUS, Bologna 2016.

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per una riunione dei gruppi anarchici dell’Italia centro-meridionale. La riunione – alla quale intervennero delegazioni e singoli provenienti da Lazio, Puglia, Basilicata, Calabria, Umbria, Toscana e Sicilia – stabilì di dare vita a una confederazione dei circoli per giungere a una Alleanza dei gruppi libertari (Agl) che avrebbe dovuto definire le proprie linee programmatiche dopo la fine delle ostilità. I convenuti decisero altresì di pubblicare – dando mandato a Cesare Zaccaria, Giovanna Caleffi (vedova di Camillo Berneri), Pio Turroni e Armido Abbate di chiedere alle autorità la necessaria autorizzazione – il periodico «Volontà» (che avrebbe visto la luce solo nel luglio 1946). Venne altresì deliberata l’esclusione di accordi permanenti con partiti e associazioni che non fossero riconducibili all’anarchismo e l’assunzione di un atteggiamento di netta opposizione nei confronti della ricostituita Cgil, giudicata un’organizzazione sindacale verticistica e autoritaria, caratterizzata dall’uso di metodi antilibertari. Fu dunque intimato agli anarchici romani di revocare la loro partecipazione al Consiglio direttivo del sindacato unitario. L’orientamento prevalente fu quello del richiamo alla tradizione individualista, antiorganizzatrice e aclassista, riconducibile ai gruppi libertari italiani che negli Stati uniti d’America pubblicavano il giornale «L’Adunata dei refrattari» e in Italia il foglio «Rivoluzione libertaria», animato da Giovanna Caleffi, Pio Turroni e compagni.2 Attestati viceversa su posizioni classiste, organizzatrici e collettiviste, gli anarchici toscani, guidati da Pasquale Binazzi, si erano costituiti, già dalla primavera-estate del 1943, in Federazione comunista anarchica italia2. Cfr. Federazione anarchica italiana, Congressi e convegni 1944-1962, a cura di Ugo Fedeli, Libreria della Fai, Genova 1963, pp. 23 ss. e Adriana Dadà, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito. Storia e documenti dell’anarchismo italiano, Teti, Milano 1984, p. 98. Per una biografia dei militanti menzionati (come di quelli citati più avanti), cfr. Dizionario biografico degli anarchici italiani, diretto da Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele, Pasquale Iuso, 2 voll., Bfs, Pisa 2003-2004, ad vocem. Sulla pubblicistica libertaria, cfr. Leonardo Bettini, Bibliografia dell’anarchismo. Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia (1872-1971), vol. I, t. 1, Crescita politica, Firenze 1972 e Id., Bibliografia dell’anarchismo. Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati all’estero (1872-1971), vol. I, t. 2, Crescita politica, Firenze 1976. Più specificamente cfr. Franco Schirone, La stampa anarchica clandestina nella Resistenza 1943-1945, in La resistenza sconosciuta. Gli anarchici e la lotta contro il fascismo. I giornali anarchici clandestini 1943-45, Zero in condotta, Milano 1995, pp. 9-12; ora riedito in La resistenza sconosciuta. Gli anarchici e la lotta contro il fascismo [nuova ed. riveduta], Zero in condotta, Milano 2005, pp. 171-177. Sulla ripresa dell’anarchismo nel dopoguerra, si veda Emanuela Minuto, Frammenti dell’anarchismo italiano 1944-1946, Ets, Pisa 2011.

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na (Fcai), riprendendo la pubblicazione, grazie al tipografo Lato Latini, di «Umanità Nova» (edizione fiorentina), la storica testata fondata da Errico Malatesta.3 Un’esperienza analoga, in termini politici e organizzativi, venne posta in essere dagli anarchici romani, i quali – diretti da alcuni libertari della “vecchia guardia” quali Bernardino De Dominicis, Ugo Di Bernardino e Renato Gentilezza – nell’estate del 1944 diedero vita alla Federazione comunista libertaria del Lazio (Fcll) e alla Federazione comunista libertaria italiana (Fcli), dando alle stampe, anch’essi, alcuni numeri di «Umanità Nova» (edizione romana).4 Dopo la Liberazione si tenne a Milano, dal 23 al 25 giugno 1945, un importante convegno interregionale delle Federazioni comuniste libertarie Alta Italia (Fclai) al quale presero parte molte realtà anarchiche dell’Italia settentrionale e, in parte, centrale (gruppi toscani e marchigiani), nonché, anche se probabilmente giunto a lavori conclusi, Pio Turroni, in rappresentanza dell’Agl.5 Tra gli invitati anche Corrado Bonfantini, comandante 3. Cfr. Dadà, L’anarchismo in Italia, p. 96. Sull’edizione fiorentina di «Umanità Nova» cfr. Filippo Benfante, Lato Latini, il tipografo fiorentino, in «Archivio G. Pinelli. Bollettino», 20 (2002), pp. 39-45 e Marco Rossi, «Umanità nova» nella Resistenza, in Cronache anarchiche. Il giornale Umanità Nova nell’Italia del Novecento (1920-1945), a cura di Franco Schirone, Zero in condotta, Milano 2010, pp. 247-258, in particolare pp. 252-254. Su Latini, oltre alla voce redatta da Giorgio Sacchetti in Dizionario biografico degli anarchici italiani, vol. II, ad vocem, cfr. Umberto Tommasini, Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona, a cura di Claudio Venza, Odradek, Roma 2011, p. 194. 4. Cfr. Massimiliano Ilari, Parole in libertà. Il giornale anarchico Umanità Nova (1944-1953), Zero in condotta, Milano 2009. Con la dicitura iniziale di giornale della Federazione comunista libertaria italiana, dal dicembre 1944 all’ottobre 1945 venne anche pubblicato, a Milano, il foglio «Il comunista libertario». In realtà, esso era la voce della Fcl lombarda, come testimoniato dalla sottotitolazione successiva e dall’esperienza editoriale che ne ha costituito la naturale prosecuzione: il settimanale «Il libertario» (che riprese il nome del periodico spezzino dei primi del Novecento diretto da Pasquale Binazzi). Sul gruppo romano vedi anche Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 295/P «Federazione anarchica italiana», copia della nota del questore di Roma alla Dgps dell’11 novembre 1944. Sulla Fcli (alla quale una fonte confidenziale attribuisce la cifra di 2-3.000 aderenti a Roma) si veda anche la nota del Capo della polizia al Gab. del Mi del 23 marzo 1945 (ivi). 5. Cfr. Federazione anarchica italiana, Congressi e convegni, p. 33 ss. e Il Convegno interregionale della Federazione Comunista Libertaria dell’Alta Italia, in «Il comunista libertario», 10 luglio 1945. Cfr. inoltre Pasquale Iuso, Gli anarchici nell’età repubblicana. Dalla Resistenza agli anni della Contestazione. 1945-1968, Bfs, Pisa 2014; Giampietro Berti, Contro la storia. Cinquant’anni di anarchismo in Italia (1962-2012), Biblion, Milano 2016; Con l’amore nel pugno. Federazione Anarchica Italiana (1945-2012). Storia e documenti, a cura di Giorgio Sacchetti, Zero in condotta, Milano 2018; Fabrizio

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delle Brigate “Matteotti”, in relazione con gli anarchici meneghini (in particolare con Germinale Concordia, Mario Orazio Perelli e Antonio Pietropaolo della Brigata “Bruzzi-Malatesta”) fin dalle prime fasi della guerra di Liberazione e, insieme a essi, protagonista del fallito tentativo di accordo tra resistenti anticiellenisti e repubblichini per una soluzione della guerra civile in senso repubblicano e socialista.6 Rispetto ai deliberati “individualisti” e “antiorganizzatori” di Napoli, l’assise milanese si orientò in senso opposto, decidendo di intervenire, seppur con posizioni e metodi anarchici, sia nei Cln, sia nella Cgil. Il convegno del giugno 1945 deliberò altresì, d’accordo con i diretti interessati, di indire immediatamente una riunione ad hoc del costituendo movimento giovanile, la quale si concluse con la fondazione della Federazione giovanile comunista libertaria Alta Italia (Fgclai) e la contestuale adesione di questa al Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà (o più semplicemente Fronte della gioventù, Fdg), promosso ed egemonizzato dai giovani del Pci. Infine, i convenuti al convegno interregionale di Milano decisero di organizzare un congresso nazionale da tenersi nel settembre successivo a Carrara, tradizionale “roccaforte” del movimento anarchico italiano.7 Milano e Carrara erano due realtà nelle quali l’anarchismo poteva vantare un radicamento di tutto rispetto. Da un rapporto di un inviato del Pci, citato nel saggio di Minuto, a fronte di un numero di anarchici stimato complessivamente attorno alle 30.000 unità, due terzi di queste sarebbero state attive nella zona di Milano mentre i militanti presenti a Carrara e zone limitrofe avrebbero raggiunto la cifra di circa 3.000 unità (la zona, in rapGiulietti, L’anarchismo in Italia. 1945-1960, Galzerano, Casalvelino Scalo 2018; Sentieri libertari. Storie e memorie sulla Federazione anarchica italiana. 1945-2015, a cura di Luigi Balsamini e Giorgio Sacchetti, Zero in condotta, Milano 2019. 6. Su Bonfantini e i tentativi di accordo tra antifascisti e repubblichini cfr. Libero Cavalli e Carlo Strada, Nel nome di Matteotti. Materiali per una storia delle Brigate Matteotti in Lombardia, 1943-45, Prefazione di Libero Biagi, FrancoAngeli, Milano 1982; Il partito socialista nella Resistenza. I documenti e la stampa clandestina, a cura di Simone Neri Serneri, Nistri-Lischi, Pisa 1988; Cesare Bermani, Il “rosso libero”. Corrado Bonfantini, organizzatore delle Brigate “Matteotti”, fondazione Anna Kuliscioff, Milano 1995; Italino Rossi, Gli anarchici nella guerra partigiana, in La resistenza sconosciuta [nuova ed. riveduta], pp. 139-169; Stefano Fabei, I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella Repubblica di Mussolini, Prefazione di Giuseppe Parlato, Mursia, Milano 2011. 7. Cfr. Federazione anarchica italiana, Congressi e convegni, p. 33 ss.; Sacchetti, Sovversivi agli atti, p. 56 ss. e l’articolo Il Convegno interregionale della Federazione Comunista Libertaria dell’Alta Italia.

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porto alla popolazione, fu valutata come quella in cui la presenza libertaria era «più forte»).8 Infine, aspetto non secondario, la composizione sociale degli anarchici carraresi era, in prevalenza, indubbiamente proletaria (cavatori di marmo e operai legati al settore marmifero e lapideo). Ciò, dal punto di vista organizzatore-classista dei milanesi, lasciava ben sperare.9 All’assise di Carrara (15-19 settembre 1945) parteciparono circa 250 attivisti di differenti tendenze, provenienti da varie parti d’Italia. Intervennero anche, come invitate-osservatrici, alcune formazioni politiche “affini”, le quali portarono il loro saluto: l’Unione Spartaco (Us) nella persona di Carlo Andreoni e il Partito socialista di unità proletaria (Psup), rappresentato dal suo segretario Sandro Pertini.10 Il Movimento comunista d’Italia (Mcdi), meglio noto con il nome del suo giornale («Bandiera rossa»), inviò un cordiale messaggio augurale. Adottando un modello organizzativo rispettoso dell’autonomia di gruppi e singoli e individuando soluzioni che potessero essere accettate dalle varie sensibilità si decise di costituire, come organizzazione di sintesi (cioè in grado di raccogliere tutti gli anarchici senza troppi vincoli di natura organizzativa), una formazione denominata – dopo una discussione a tratti animata – Federazione anarchica italiana.11 Parallelamente, le realtà giovanili presenti (una decina di federazioni tra provinciali e regionali) si costituirono, con il beneplacito dell’assise generale, in federazione nazionale, decidendo, in sintonia con i deliberati della Fai, di non partecipare, salvo eccezioni, «ad alcuna organizzazione politica», tra cui – nella fattispecie – il Fronte della gioventù.12 8. Cfr. Minuto, Frammenti dell’anarchismo italiano, p. 63. 9. La vocazione organizzatrice dei libertari milanesi è sottolineata anche da Minuto: una delle otto sezioni milanesi fu intitolata a Lenin (ivi, pp. 63-67). 10. Da una nota dei carabinieri è possibile apprendere come la partecipazione di Pertini al congresso della Fai fosse stata assai breve, in quanto «Pertini […] per non avere contatti con l’Andreoni fece immediatamente ritorno a Roma» (Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 295/P, rapporto riservato-personale del vice comandante generale dell’Arma dei carabinieri al ministro dell’Interno e al presidente del Consiglio dei ministri del 9 ottobre 1945). I due esponenti socialisti furono «ambedue molto applauditi dai congressisti ma in polemica fra di loro» (Sacchetti, Sovversivi agli atti, p. 58). 11. Cfr. Congresso della Federazione Anarchica Italiana a Carrara, in «Umanità Nova», 7 ottobre 1945; Si veda inoltre, Federazione anarchica italiana, Congressi e convegni, p. 43 ss. e, per una ricostruzione più dettagliata, Minuto, Frammenti dell’anarchismo italiano, p. 99 ss. 12. Cfr. Il convegno dei giovani, in «Umanità Nova», 30 settembre 1945.

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Il risultato del congresso costitutivo della Fai fu – anziché la nascita di un vero e proprio partito anarchico sul modello malatestiano – la genesi di una struttura ibrida tra un’organizzazione politica e un movimento di opinione. Va aggiunto che, come notato da Adriana Dadà, nell’impossibilità di arrivare a una sintesi tra le due tendenze principali di segno opposto (individualisti, antiorganizzatori e aclassisti da un lato, anarcocomunisti, collettivisti, marxisti libertari e consiliaristi dall’altro) la neonata federazione non individuò alcuna strategia comune, in ossequio al principio del rispetto della libertà e dell’autonomia dell’individuo. Si giunse così, nel giro di pochissimi mesi, all’esplosione delle profonde contraddizioni interne, all’intensificarsi delle spinte centrifughe e, grazie a un abile lavoro politico ed editoriale, al progressivo «infeudamento» del movimento anarchico alle tesi propugnate dall’«anarchismo liberale» riconducibile a «L’Adunata dei refrattari».13 Di conseguenza, all’inizio del 1946 si verificarono le prime scissioni. In gennaio, come segnalato dalle autorità di Pubblica sicurezza, a Milano si determinò la frattura della Fai «nelle due correnti che si erano delineate nel movimento sin dal Congresso di Carrara del settembre ’45: la corrente anarchica tradizionale […] e la corrente libertaria che ha costituito la “Federazione Libertaria Italiana”».14 Quest’ultima, proseguiva il rapporto, «si propone di dar consistenza di partito al movimento e raccogliere in esso tutte le forze socialiste rivoluzionarie che accettano i metodi libertari, per farle partecipare […] alle lotte che si combattono in Italia fra capitale e lavoro. […] Pare che alla Federazione Libertaria intenda aderire l’Unione Spartaco».15 In effetti, in seguito all’adozione da parte della Fcl lombarda delle cosiddette Tesi di Milano, presentate da Concordia, Perelli e Pietropaolo (tesi di tendenza classista e organizzatrice), tra il gennaio e il febbraio 1946, la maggioranza degli anarchici lombardi fuoriuscirono dalla Fai per poi unificarsi con la Federazione socialista libertaria cremonese (già espulsa dalla Fai alcuni mesi prima), la Fcl del Lazio e l’Unione Spartaco di Carlo Andreoni, dando vita, quindi, alla Federazione libertaria italiana (Fli), di cui si dirà in seguito. All’interno della Federazione anarchica italiana, la tregua tra la tendenza organizzatrice e la maggioranza “liberal-libertaria” resse fino al 13. Cfr. Dadà, L’anarchismo in Italia, pp. 100-102. 14. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 297/P «Partiti politici», rapporto allegato alla lettera del Capo di Gab. del Mi alla Presidenza del Consiglio dei ministri del 20 marzo 1946. 15. Ibidem.

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III congresso (Livorno, 23-25 aprile 1949) dove, alla presenza di circa 200 delegati, l’ala attestata su posizioni classiste – animata da Pier Carlo Masini, Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi – propugnò la trasformazione della Fai in un «movimento orientato e federato», maggiormente definito in senso politico-organizzativo. Dopo più di un anno di aspre polemiche tra il gruppo di Masini e Cervetto (raccolto attorno al periodico «L’Impulso») e l’area antiorganizzatrice di Turroni, Caleffi e Zaccaria (che pubblicava «L’Antistato» e, in ogni modo, controllava anche «Volontà» e «Umanità Nova», diretta da Armando Borghi), in occasione del IV congresso della Fai (Ancona, 8-10 dicembre 1950) la componente “individualista” espulse i sostenitori del progetto politico per un «movimento orientato e federato».16 Come osservato da Franco Bertolucci e Giorgio Mangini, il motivo principale della rottura risiedeva «nella diversa analisi del ruolo che il movimento anarchico [avrebbe dovuto] avere nel nuovo contesto creatosi in Italia dopo la guerra: a differenza della maggioranza della Fai, che non intende[va] legarsi ad una prospettiva organizzativa più o meno centralistica, né al classismo, la volontà [degli espulsi era] quella di voler costruire una sorta di organizzazione politica, un “partito” libertario» che, al pari degli altri partiti, potesse, stringere alleanze sulla base dell’internazionalismo proletario e collegarsi agli operai «e al sindacato in una prospettiva classista e in particolare consiliarista».17 I transfughi della Fai – qualche decina di attivisti in tutto, come ricorda Arrigo Cervetto – si costituirono in Gruppi anarchici d’azione proletaria (Gaap) in un’apposita conferenza tenutasi il 24 e 25 febbraio 1951 a Genova-Pontedecimo.18 16. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 295/P, riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 17 aprile 1952. Si veda anche Dadà, L’anarchismo in Italia, p. 105 ss., Sacchetti, Sovversivi agli atti, pp. 69-70 (in cui è riprodotto un elenco di militanti che presero parte ai lavori del III congresso della Fai) e p. 74, nonché Alessandro Aruffo, Breve storia degli anarchici italiani. 1870-1970, Datanews, Roma 2006 [1a ed. 2005], p. 121. Come osservato: «A Livorno le differenze emergono con forza. Durante il congresso Masini interviene più volte criticando le posizioni di alcuni degli esponenti più in vista dell’anarchismo dell’epoca» (Franco Bertolucci e Giorgio Mangini, Note per una biografia masiniana, in Pier Carlo Masini. Impegno civile e ricerca storica tra anarchismo, socialismo e democrazia, a cura di Idd., Bfs, Pisa 2008, p. 31). 17. Cfr. Bertolucci e Mangini, Note per una biografia masiniana, p. 36. 18. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 295/P, riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 17 aprile 1952. Come ricordato da Arrigo Cervetto nei suoi manoscritti: «A Pontedecimo eravamo poco più di una ventina ed avevamo poco più di vent’anni» (in

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Tra l’inizio degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta la presenza anarchica riferibile alla Fai era considerevole, in forme e quantità differenti, in Liguria, Lombardia, Toscana (in particolare nel Carrarese, nel Pisano e nel Livornese), Puglia, e nelle province di Trieste, Torino, Bologna, Ancona, Roma, Napoli e Messina. Durante gli anni Cinquanta, in concorrenza con una Federazione anarchica in mano agli “individualisti” antiorganizzatori (ma che aveva al suo interno anche alcuni “collettivisti” che non vennero espulsi o non vollero mai abbandonare il sodalizio), si svilupparono i Gaap. Se l’azione svolta dalla Fai verso l’esterno fu essenzialmente di natura propagandistica e culturale («Volontà» ospitò, ad esempio, interventi di Gaetano Salvemini, Aldo Capitini, Danilo Dolci), con aneliti rivoluzionari sempre più labili,19 i Gruppi anarchici d’azione proletaria – composti per lo più da giovani operai – si orientarono, partecipando alle lotte politiche e sindacali del periodo, verso una politica “frontista” che non escludeva il superamento della propria esperienza organizzativa a vantaggio dell’unità di tutti i rivoluzionari. Ciò contribuì alla formazione di quadri dirigenti che furono, negli anni Sessanta, fra gli animatori di alcune significative esperienze della sinistra rivoluzionaria quali Azione comunista (poi trasformatasi in Lotta comunista).20 Presenti soprattutto in Liguria, la consistenza dei Gaap era, sia in termini numerici sia di capillarità territoriale, assai contenuta. Se l’area dei Guido La Barbera, Lotta comunista. Il gruppo originario 1943-1952, Edizioni Lotta comunista, Milano 2012, p. 47). Sulla figura di Cervetto, cfr. Giorgio Amico e Yurii Colombo, Un comunista senza rivoluzione. Arrigo Cervetto dall’anarchismo a Lotta comunista: appunti per una biografia politica, Massari, Bolsena 2005. Sui Gaap è fondamentale Gruppi anarchici d’azione proletaria. Le idee, i militanti, l’organizzazione, a cura di Franco Bertolucci, 3 voll., Bfs, Pisa 2017-2019. 19. Secondo un’informativa del Capo della polizia, che trasmise informazioni ricevute dalla questura di Ancona, il VI (erroneamente numerato come VII) congresso della Fai (Senigallia, 1-4 novembre 1957) assunse, tra le altre, le seguenti decisioni (tipiche della tradizione riformista piuttosto che di quella rivoluzionaria): «assoluta equidistanza» tra Dc e Pci; approvazione dell’atteggiamento critico del Psi sui fatti d’Ungheria; auspicio di una «sollecita unificazione dei due partiti socialisti per dare al Paese maggiore sicurezza di vita democratica e libera e le riforme sociali che si attendono»; adesione a un eventuale sindacato unitario solo se estraneo al «politicantismo dei partiti» (ivi, riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 12 novembre 1957). Si veda anche ivi, riservata del prefetto di Ancona al Gab. del Mi del 6 novembre 1957 e l’allegata lista di 35 partecipanti in qualità di delegati (tra essi figure storiche dell’anarchismo quali Armando Borghi, Italo Garinei, Giuseppe Mariani, Umberto Marzocchi e Attilio Paolinelli). 20. Cfr. Dadà, L’anarchismo in Italia, p. 117 ss.

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simpatizzanti – gli abbonati a «L’Impulso» e altri contatti sporadici – si aggirava attorno alle 500 unità, gli attivisti – secondo una stima per difetto – sarebbero stati «cinque-sei uomini a Savona, forse una quindicina a Genova, sei-otto a Roma: una trentina nei gruppi maggiori, 50-70 l’anno in totale […] non più di 10 o 15 militanti il motore dell’organizzazione».21 Tali dati sono confermati dai rapporti delle autorità preposte alla vigilanza ai fini della pubblica sicurezza, le quali seguono con discreta attenzione l’attività dei militanti dei Gaap in ragione del loro dinamismo, prescindendo dalla consistenza organizzativa e – dato che non si trattava di un gruppo “individualista” – dalla conseguente «pericolosità» politico-sociale: se alla seconda conferenza nazionale dei “gaappisti” (Firenze, 1-2 giugno 1952) parteciparono appena una ventina di attivisti (più sei osservatori),22 le presenze registrate alla terza assise generale (Livorno, 26-27 settembre 1953) furono di poco superiori.23 Dopo la conferenza nazionale di Livorno, l’indirizzo “frontista” dei Gaap divenne più marcato. In egual misura si accentuò la propensione all’«internazionalismo proletario», anche dal punto di vista organizzativo. Nell’ottobre del 1953 Pier Carlo Masini, presentando l’esperienza della sua organizzazione, partecipò all’incontro di Milano fra i militanti della 21. Cfr. La Barbera, Lotta comunista, p. 50, in cui si precisa che i dati riprodotti sottostimano «quanti non sono menzionati nelle fonti scritte, ma non di molto»; il testo, pur essendo un volume realizzato a scopo promozionale, è filologicamente rigoroso e contiene ampi stralci di documentazione coeva. 22. Alla seconda conferenza nazionale dei Gaap, tenutasi in modo «strettamente riservato» alla Casa del popolo di Rifredi, presero parte 18 persone il primo giorno e 25 il secondo («oltre a 6 esponenti» del locale Pci «in qualità di osservatori»). Il carattere riservato dell’assise nel suo complesso e il fatto che i lavori della seconda sessione si fossero svolti «in un clima di maggiore riservatezza» non impedirono alle autorità di venire a conoscenza degli argomenti trattati nella prima giornata e della provenienza geografica dei convenuti: attivisti di Livorno, Genova e Roma il primo giorno, a cui si aggiunsero, la seconda giornata, «alcuni rappresentanti del Movimento Anarchico bolognese ed emiliano» (Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 295/P, nota del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 9 giugno 1952). 23. La terza conferenza nazionale dei Gaap si tenne presso la sede del Pri livornese. Erano presenti delegazioni provenienti da Roma, Firenze, Livorno, Bolzano, Savona, Torino, Vicenza, Taranto, Perugia, Genova-Sestri, Genova-Nervi. In qualità di osservatori vi erano alcuni militanti della Fai e del Partito comunista internazionalista, mentre inviarono indirizzi di saluto l’Unione socialista indipendente e i Gruppi comunisti rivoluzionari. In una fotografia si possono contare 28 differenti persone (cfr. Bertolucci e Mangini, Note per una biografia masiniana, p. 40 e illustrazione n. 4).

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«sinistra operaia». La riunione (cui intervennero Onorato Damen e altri militanti internazionalisti separatisi da Bordiga, alcuni trockisti e, a titolo personale, Giorgio Galli) si concluse con l’approvazione di un documento finalizzato all’unità delle forze di opposizione di classe e internazionaliste.24 Per quanto concerne l’aspetto delle relazioni sovranazionali, nel giugno del 1954 due delegati dei Gruppi anarchici d’azione proletaria (Aldo Vinazza e Mario Filosofo) parteciparono, a Parigi, ai lavori della conferenza internazionale delle organizzazioni anarcocomuniste finalizzata alla costituzione dell’Internazionale comunista libertaria, della quale i Gaap divennero la sezione italiana.25 Le successive tre conferenze nazionali (Bologna, 31 ottobre-1 novembre 1954; Pisa, 31 ottobre-1 novembre 1955 e Milano, 13-15 ottobre 1956) sancirono l’avvicinamento alle organizzazioni della dissidenza comunista. Un percorso che condusse il gruppo di Masini, Cervetto e Parodi (che con la sua ultima conferenza assunse il nuovo nome di Federazione comunista libertaria, sezione italiana dell’Internazionale comunista libertaria) a convergere con il gruppo di Giulio Seniga e Luciano Raimondi e a dare vita, nel 1957, al Movimento della sinistra comunista (Msc) il quale – a dispetto della denominazione e finanche dello stile di militanza – non fu e non divenne mai un gruppo classificabile come bordighista.26 24. La riunione si tenne nella sede del Psdi di piazzale Baiamonti. Un incontro successivo si tenne a Foggia, il 26 e 27 dicembre 1953 (cfr. ibidem). Giorgio Galli, a distanza di sessant’anni, ricorda come dopo essere entrato in relazione con il gruppo di Seniga avesse anche conosciuto «il gruppo di anarchici che stavano diventando comunisti, da dove poi è venuta Lotta comunista con Cervetto e Parodi, e poi i vecchi bordighisti… anche Bordiga e Damen»; Giorgio Galli, Intervista, a cura di William Gambetta e Massimo Giuffredi, in «Zapruder», 27 (2012), p. 126. In realtà il «gruppo di Seniga» si costituirà solamente dopo la fuoriuscita di questi dal Pci e cioè dopo l’estate del 1954. 25. La conferenza parigina si tenne dal 5 al 7 giugno 1954. Dal numero di dicembre, nella sottotitolazione de «L’impulso», alla dizione «organo dei Gruppi anarchici d’azione proletaria» venne aggiunto «Sezione dell’Internazionale comunista libertaria» (cfr. Perché è sorta e perché deve avanzare l’Internazionale comunista libertaria, in «L’impulso», 15 luglio 1954, ivi, 15 dicembre 1954 e Bertolucci e Mangini, Note per una biografia masiniana, p. 41). 26. Alla quinta conferenza nazionale dei Gaap parteciparono anche, in qualità di osservatori-invitati, Giulio Seniga e Giorgio Galli. Già nel giugno del 1956, in occasione dell’uscita del primo numero di «Azione comunista», Masini partecipò alacremente alla realizzazione del giornale della sinistra rivoluzionaria antistalinista (cfr. Bertolucci e Mangini, Note per una biografia masiniana, pp. 41-44). Sui preparativi della sesta conferenza dei Gaap vedi anche Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 295/P, copia della riservata del prefetto di Milano alla Dgps del 3 ottobre 1956.

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2. Bordighisti e trockisti L’area definibile come bordighista (che, in ogni modo, mai si autodefinì tale) o, secondo la propria autorappresentazione, «internazionalista» o della «sinistra comunista», si riorganizzò a partire dal 1942-43 grazie agli sforzi di Onorato Damen: già dirigente e deputato del Partito comunista d’Italia (Pcdi) degli anni Venti e principale organizzatore, nei primi mesi del 1943, del Partito comunista internazionalista (PcInt).27 Attorno a Damen si raccolsero, tra gli altri, i bordighiani Mario Acquaviva, Fausto Atti, Guido Torricelli e l’ex azionista-socialista Bruno Maffi,28 i quali definirono le linee guida del piccolo partito stabilendo un rapporto di continuità ideologica con il Pcdi delle origini e la Frazione di sinistra del Partito comunista d’Italia (Fs-Pcdi), attiva nel decennio precedente in Belgio. Riprendendo il titolo della testata della Frazione (che a sua volta lo riprese dal periodico della «sinistra» del Pcdi), nel novembre 1943 il PcInt pubblicò il giornale clandestino «Prometeo» che, nella temperie della guerra civile, veicolò la posizione dei comunisti internazionalisti in materia di lotta antifascista: fedeli all’interpretazione bordighiana dell’insegnamento leninista del «disfattismo rivoluzionario», essi, considerando fascismo e democrazia come due facce della medesima medaglia, giudicarono lo scontro allora in atto come riconducibile a un conflitto armato inter-imperialistico e, conseguentemente e a differenza delle altre aree della sinistra rivoluzionaria, si opposero alla lotta partigiana (e all’antifascismo) in nome dell’affratellamento dei proletari e della trasformazione della guerra in rivoluzione sociale.29 Una posizione che costò al Partito comunista internazionalista l’accusa di filofascismo e la netta ostilità, oltre che dei fascisti, delle forze impegnate nella lotta partigiana (tanto che tra il marzo e il luglio del 1945 Acquaviva e Atti vennero assassinati, presumibilmente da elementi riconducibili al Pci).30 27. Su Damen cfr. la voce redatta da Franco Andreucci in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943), a cura di Franco Andreucci e Tommaso Detti, vol. II, Editori Riuniti, Roma 1976, ad nomen. 28. Per un profilo biografico di Maffi cfr. la voce redatta da Aldo Agosti in ivi, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1977, ad nomen. 29. Cfr. Peregalli, L’altra Resistenza, p. 330 ss. Si veda inoltre, Id., Il Partito comunista internazionalista 1942-1945, «Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso», Serie “Studi e ricerche”, 17 (1990) e la documentazione in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P «Partito Comunista Internazionale. Trotzkista». 30. Cfr. Peregalli, L’altra Resistenza, pp. 354-364. Sulla morte di Atti e Acquaviva cfr. Guelfo Zaccaria, 200 comunisti italiani tra le vittime dello stalinismo, Azione comune, Mi-

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Come notato da Renosio, che ha analizzato il caso astigiano, la campagna denigratoria dei comunisti filosovietici contro le dissidenze della sinistra rivoluzionaria fece ricorso all’uso quotidiano e sistematico del sospetto e della diffamazione.31 Il principale dirigente del PcInt, Onorato Damen, ebbe modo di constatarne l’efficacia: se egli riuscì a tutelare l’incolumità della propria persona,32 il Pci ne impedì la nomina alla Consulta nazionale italiana, nonostante Damen ne avesse pieno titolo in qualità di ex deputato della XXVII legislatura dichiarato decaduto dal regime fascista.33 Forte di un certo seguito tra la classe operaia fin dal 1944 (soprattutto in Lombardia, Piemonte ed Emilia), il PcInt si rafforzò dopo la Liberazione, estendendosi a livello nazionale grazie alla confluenza della maggioranza della Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti italiani lano 1964, p. 104 e Il centrismo ha ucciso in Mario Acquaviva, come la socialdemocrazia tedesca in Karl Liebnecht [sic], il campione della lotta contro la guerra e della rivoluzione proletaria, in «Battaglia comunista», 28 luglio 1945. 31. Cfr. Mario Renosio, Tra mito sovietico e riformismo. Identità, storia e organizzazione dei comunisti astigiani (1921-1975), Prefazione di Aldo Agosti, Gruppo Abele, Torino 1999, in particolare le pp. 143-150. Analizzando il caso di Acquaviva, Renosio ha constatato come nella base comunista lo stigma conseguente all’infondata accusa di collaborazione con i nazifascisti fosse rimasto vivo anche a distanza di sessant’anni (ivi, p. 147). Per avere un’idea dei toni di parte staliniana cfr. Pietro Secchia, Il “sinistrismo” maschera della Gestapo, in «La nostra lotta», dicembre 1943 (in cui i bersagli sono «Prometeo», «Stella rossa» e «Bandiera rossa» di Basso) e quello di Felice Platone, Vecchie e nuove vie della provocazione trotskista, in «Rinascita», aprile 1945. Si tenga conto che Felice Platone e Mario Acquaviva erano cognati. 32. Secondo una dichiarazione resa da Riccardo Lombardi a Damen, in una riunione del Cln, i membri del Pci chiesero agli altri rappresentanti dell’antifascismo (che respinsero la richiesta) l’autorizzazione ad avere “le mani libere” verso gli attivisti del PcInt. Cfr. Zaccaria, 200 comunisti italiani tra le vittime dello stalinismo, p. 113. 33. In due sedute del Consiglio dei ministri durante il governo Parri, il liberale Manlio Brosio (vicepresidente del Consiglio e ministro per la Consulta nazionale) pose la questione della nomina di Damen nell’organismo consultivo preposto a pronunciarsi sull’azione legislativa del governo, incontrando l’opposizione di Togliatti che nella seconda riunione espresse così la propria disapprovazione: «è un collaboratore del fascismo. Organizzò gruppi che spezzavano la resistenza». Così anche Emilio Lussu, Mauro Scoccimarro e Giuseppe Romita. Anche Brosio si allineò, notando tuttavia come Damen fosse stato «un uomo che certamente ebbe un atteggiamento disinteressato e coraggioso», impersonando «il tipo del marxista vecchio stile». Cfr. Archivio centrale dello Stato, Verbali del Consiglio dei ministri. Luglio 1943-maggio 1948. Edizione critica, a cura di Aldo G. Ricci, vol. V, t. 1, Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 1995, p. 433 e ivi, t. 2, p. 1105.

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(Fscsi), già attiva nell’Italia centro-meridionale e alla quale collaborava, pur sporadicamente, un redivivo Bordiga, decisosi a interrompere il suo ambiguo isolamento.34 Ma l’assorbimento della Frazione non diede i risultati sperati; sia per gli esiti moderati (ossia non socialisti) della lotta di Liberazione sia, tempo dopo, per il ricollocamento del Pci all’opposizione. Alla fine degli anni Quaranta, all’interno della compagine internazionalista – che pubblicava il giornale «Battaglia comunista» e la rivista teorica «Prometeo» – cominciarono a manifestarsi le prime serie divergenze. Dopo la deludente partecipazione alle elezioni politiche del 1948 (in cui il PcInt raccolse circa 20.700 voti, quasi 3.700 in meno rispetto a quelli ottenuti per l’elezione dell’Assemblea costituente) e dopo che il primo congresso del partito (Firenze, maggio 1948) si pronunciò sulla natura sociale dell’Urss (giungendo alla conclusione che si trattasse di «capitalismo di Stato») e su alcuni temi da sempre nodali per il movimento comunista quali il ruolo dei sindacati e le questioni nazionale e coloniale, si costituirono due tendenze interne contrapposte.35 La frattura avvenne tra i sostenitori (tra cui Damen) dell’intervento nelle lotte operaie e sindacali e del rafforzamento organizzativo in stretto contatto con la classe operaia e la componente ispirata da Bordiga (tra cui Maffi e il 34. Per quanto le voci di un’attività delatoria di Bordiga a favore del regime fascista siano prive di fondamento, l’ex dirigente del Pcdi non esitò tuttavia a intrattenere rapporti epistolari con i vertici del ministero dell’Interno, sia indirizzando varie istanze al dicastero retto da Mussolini, sia allacciando rapporti diretti con il Capo della polizia Arturo Bocchini (e poi con i suoi successori Carmine Senise e Renzo Chierici) al fine di risolvere a proprio vantaggio una contesa familiare avverso la cognata Linda De Meo, moglie dell’ex deputato socialista Corso Bovio. A riguardo, cfr. Eros Francescangeli, Meandri dell’Estrema: l’ingegner Bordiga, in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, direzione scientifica di Mario Isnenghi, vol. IV, Il Ventennio fascista, a cura di Mario Isnenghi e Giulia Albanese, t. 1, Dall’impresa di Fiume alla Seconda guerra mondiale (1919-1940), Utet, Torino 2008, pp. 218-223. 35. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, nota del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 11 maggio 1948 e Il processo di formazione e la nascita del Partito comunista internazionalista, “Quaderni di «Battaglia comunista»”, 6, Edizioni Prometeo, Milano 1993. Benché siano ricostruzioni dal taglio “militante” (soprattutto la prima, esplicitamente bordighiana), sul PcInt “unitario” si vedano i volumi di Sandro Saggioro, Né con Truman né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionalista (1942-1952), Colibrì, Paderno Dugnano 2010 e di Dino Erba, Nascita e morte di un partito rivoluzionario. Il Partito Comunista Internazionalista 1943-1952, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano 2012. Si veda inoltre il bilancio di Onorato Damen, Amadeo Bordiga, Validità e limiti d’una esperienza, Editoriale periodici italiani, Milano 1971.

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dirigente del bordighismo dell’esilio Ottorino Perrone) la quale, giudicando lontana una ripresa rivoluzionaria, riteneva una necessità prioritaria e inderogabile l’opera di ridefinizione della teoria marxista attraverso lo studio.36 In concomitanza con una consistente e perdurante emorragia di iscritti, la scissione si consumò alcuni anni più tardi, a partire dall’ottobre 1951, dopo l’espulsione dal partito di Damen e dei dirigenti della sua tendenza – Giovanni Bottaioli, Aldo Lecci e Giacomo Stefanini (noto anche come Mauro o Luciano) –, durante le fasi di preparazione del II congresso del partito (Milano, 31 maggio-2 giugno 1952),37 il cui svolgimento fu patrocinato dalla componente damenista e osteggiato da quella bordighista che, pur essendo maggioritaria, mal sopportava – per sua caratteristica costitutiva – il democraticismo in materia di definizione dell’orientamento politico.38 Damen e la sua tendenza, definita «attivista», conservarono la proprietà delle due testate mentre la corrente Bordiga-Maffi, detta «attesista», iniziò a pubblicare, dall’ottobre 1952, un nuovo organo di stampa, «Il Programma comunista».39 Entrambe le organizzazioni mantennero tuttavia inalterato il loro nome fino al 1965, quando la formazione di Bordiga e Maffi (anche se Bordiga, più che altro, svolse il ruolo di “eminenza grigia”)40 assunse la denominazione di Partito comunista internazionale 36. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti (1960-1979). Premessa Dizionario Glossario, a cura della redazione di «Materiali per una nuova sinistra», Edizioni associate, Roma 1988, p. 246 ss. 37. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 9 giugno 1952. Secondo l’informatore, una «fonte fiduciaria attendibile», «il Congresso sarebbe stato preparato e diretto alla defenestrazione del maggiore esponente, Amadeo Bordiga, data la sua “linea attendista”» (ibidem). 38. Come notato: «Damen e i suoi, invece di partecipare ad una ricerca comune per la sopravvivenza del partito, si lanciano nella campagna per il nuovo congresso […]. È la soluzione più detestabile per Bordiga il quale non può ammettere che nel partito questioni di orientamento e di teoria siano affidate al meccanismo della maggioranza e della minoranza»; Saggioro, Né con Truman né con Stalin, p. 191. 39. La componente ispirata da Bordiga tentò, in quanto maggioritaria, di mantenere il controllo di «Battaglia comunista», pubblicando, dal febbraio al settembre 1952, vari numeri del periodico. In novembre il prefetto milanese comunicava «che in data 2 ottobre c.a. è stato registrato presso il Tribunale di Milano un nuovo periodico di carattere politico dal titolo “Programma Comunista” di proprietà del sig. Adanti Sergio e diretto dal sig. Bruno Maffi» (Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, riservata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 13 novembre 1952). 40. Il ruolo marginale di Bordiga venne confermato anche dall’autorità preposta alla sorveglianza politica. Come scrisse, trasmettendo un’informativa della questura na-

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(PcInt.le). Fino a quella data ci furono, dunque, due distinte, quanto ridotte, organizzazioni denominate Partito comunista internazionalista (per la verità, come si vedrà successivamente, nel 1964 se ne aggiungerà una terza), per distinguere le quali è prassi riferirsi al loro organo di stampa (da cui i lemmi – utilizzati invero da una cerchia assai ristretta di persone – di battaglisti e programmisti).41 Negli anni Cinquanta, mentre il Partito comunista internazionalistaBattaglia comunista (PcInt-Bc) allacciò rapporti con differenti strutture rivoluzionarie di vari paesi (come il gruppo consiliarista-operaista francese Pouvoir ouvrier che pubblicava la rivista «Socialisme ou barbarie») e cercò di sfruttare le situazioni determinatesi dal XX congresso del Pcus e dai fatti d’Ungheria (come si vedrà, avvicinandosi, pur brevemente, al gruppo di «Azione comunista»), il PcInt-Pc si chiuse in se stesso, trasformandosi, sostanzialmente, in un’organizzazione propagandista che si limitò a pubblicare una rivista di teoria marxista. Secondo Bordiga e i programmisti, infatti, nei periodi controrivoluzionari sarebbe stato impossibile radicarsi nella la classe operaia, poiché questa non avrebbe potuto che esprimere, al meglio, un’esigua avanguardia cosciente il cui compito avrebbe dovuto essere quello di salvaguardare il marxismo, teoria scientifica «invariante» del proletariato a livello planetario. Considerandosi il depositario della scienza marxista e il partito mondiale della rivoluzione, il PcInt-Pc, attraverso il proselitismo propagandistico, costruì proprie sezioni anche all’estero. I battaglisti – o damenisti che dir si voglia – si orientarono invece verso la «centralità operaia», escludendo – a differenza di Bordiga e compagni – il sostegno politico ai movimenti di liberazione nazionale che negli anni Sespoletana, il questore della capitale, ed ex funzionario dell’Ovra, Saverio Polito: «l’ing. Bordiga Amedeo […] serba regolare condotta in genere. Com’è noto egli, ex leader del PCI, non condividendo la linea politica del partito, si appartò […]. Fu continuamente vigilato e non dette luogo a rilievi di sorta con la condotta politica, né è stato mai notato, in questa città, in compagnia di persone comunque sospette politicamente» (Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, copia della nota del questore di Roma alla Dgps del 25 novembre 1952). 41. Come rilevato dalle autorità, dopo il II congresso del PcInt «il dissidio si accentuò maggiormente, dando vita ad una vera e propria corrente di opposizione, la quale, ben presto, si staccò dal partito […]. Sicché, attualmente, esistono due gruppi politici che hanno la stessa denominazione […], agiscono sul medesimo piano ideologico ed hanno programmi pressoché uguali». Quanto alla consistenza numerica delle due formazioni politiche concorrenti: «Ciascun gruppo, attualmente, in tutta Italia, conta poche centinaia di aderenti» (ivi, riservata-raccomandata del prefetto di Milano alla Dgps del 23 maggio 1959).

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santa s’imposero sulla scena politica dando vita al filone terzomondista. Coerentemente con ciò, l’atteggiamento nei confronti delle lotte della Cina di Mao e della Cuba di Fidel Castro e Che Guevara fu di severa critica, giacché lotte di natura borghese.42 Se ciò isolò «Battaglia comunista» rispetto al resto della sinistra rivoluzionaria – sempre più attenta alle questioni delle lotte di liberazione nazionali (dall’Algeria al Vietnam) – non fu così per le iniziative orientate verso la classe operaia. Scrollandosi di dosso una certa vocazione antiunitaria tipica dell’area di provenienza (che i detrattori della «sinistra comunista» hanno sempre definito «settarismo»), la Federazione cremonese del PcInt-Bc fu in grado, ad esempio, di porre in essere, tra la fine degli anni Cinquanta e il 1966, l’esperienza del Gruppo di unità proletaria, intersecando una figura del calibro di Danilo Montaldi, il quale, pur non aderendo al partito damenista, collaborò stabilmente con esso.43 Nel ricostruire le vicende dell’area trockista in Italia non è possibile prescindere dalla dimensione sovranazionale del movimento, raccolto attorno alla Quarta internazionale (Qi) fondata da Trockij nel 1938. Una dimensione che influenzò in modo significativo i processi aggregativi (e disgregativi) nei vari stati, Italia inclusa. Dopo il ventennio fascista il movimento trockista italiano – sorto alla fine degli anni Venti e sviluppatosi tra mille difficoltà negli anni Trenta in Francia44 – stentò a riorganizzarsi compiutamente sino alle so42. Durante una riunione «in una bottiglieria della periferia» torinese nella tarda primavera del 1958, Damen affrontò la questione degli «Avvenimenti francesi» e dell’indipendenza algerina. Alla presenza di 20 militanti del PcInt (a Torino «privo di sede» e la cui attività veniva giudicata «saltuaria ed inconsistente»), egli avrebbe detto che il Fln algerino «pur mirando all’indipendenza nazionale, finirebbe per porre il Paese sotto il controllo economico e politico di forze capitaliste straniere (USA-Inghilterra-URSS), con la conseguenza […] di cambiare soltanto il padrone». Rincarando la dose, secondo Damen «il mondo arabo sarà la chiave di volta della potenza economica, politica e capitalistica del domani» e «da esso scaturirà il rafforzamento ideologico della destra borghese del mondo, e cioè la rinascita del fascismo» (ivi, nota del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 21 giugno 1958). 43. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 246 ss.; cfr. inoltre Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Feltrinelli, Milano 1977, p. 58 ss. Su Montaldi cfr. il numero monografico a lui dedicato di «Parolechiave», 38 (2007); Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento, a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati, Viella, Roma 2021 e Giorgio Amico, Danilo Montaldi. Vita di un militante politico di base (1929-1975), DeriveApprodi, Roma 2022. 44. Sulla genesi del trockismo in Italia, cfr. Eros Francescangeli, L’incudine e il martello. Aspetti pubblici e privati del trockismo italiano tra antifascismo e antistalinismo (1929-1939), Morlacchi, Perugia 2005 e Gabriele Mastrolillo, La dissidenza comunista ita-

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glie degli anni Cinquanta. Ereditando un bagaglio teorico bordighisteggiante (acquisito anche in ragione della netta simpatia dello stesso Trockij verso Bordiga e i suoi seguaci),45 la prima esperienza organizzativa d’ispirazione quartinternazionalista, il Partito operaio comunista (bolscevico-leninista), Poc(bl), vide la luce nel gennaio 1945 dalla confluenza di due distinte componenti. La prima area politica era rappresentata dal gruppo trockista – interno al Psup (in ragione della tattica «entrista») – che faceva capo a Nicola Di Bartolomeo. Caratterizzata dalle posizioni bordighisteggianti di Di Bartolomeo, questa componente si costituì in «Centro nazionale provvisorio per la costruzione del Partito comunista internazionalista (Quarta internazionale)» mettendosi in contatto con la “centrale” mondiale, con sede a New York, attraverso alcuni soldati statunitensi e britannici di stanza in Italia. La seconda componente – attestata su posizioni affini a quelle della «sinistra comunista» – era costituita dalla federazione pugliese del Pci, retta dal già bordighista (e già confidente della polizia politica fascista) Romeo Mangano.46 Se, alla luce di ciò, appare valida la definizione del Partito operaio comunista come «gruppo parabordighista»47 è tuttavia da rilevare che le due tendenze – soprattutto a causa degli atteggiamenti ambivalenti di Mangano – non raggiunsero mai l’auspicata sintesi politica. A dispetto del nome del suo organo di stampa, «IV Internazionale», dopo tre anni di manovre tese ad autonomizzare la sezione italiana dall’organizzazione mondiale e, all’interno di questa, di tentativi caratterizzati da una slealtà di fondo tenliana, Trockij e le origini della Quarta Internazionale 1928-1938, Carocci, Roma 2022. Si veda inoltre Livio Maitan, Per una storia della IV internazionale. La testimonianza di un comunista controcorrente, Prefazione di Daniel Bensaïd, Alegre, Roma 2006. 45. Di particolare interesse i documenti in Houghton, Trockij, bMS Russ 13.1, 286287; ivi, 1126-1135 e ivi, 1136-1138. Dalla loro analisi è possibile constatare la predisposizione di Trockij, incurante delle divergenze tra la sua concezione politica e il corpus dottrinario dei seguaci di Amadeo Bordiga, a tessere rapporti con i bordighisti italiani. Sull’attività spionistica del bordighista Ugo Girone nei confronti di Trockij, cfr. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 322-326 e Mauro Canali, Le spie del regime, il Mulino, Bologna 2004, pp. 153 e 707. 46. Cfr. l’appunto del 2 gennaio 1945 in Acs, Mi, Dgps, Sis, Sez. II, b. 42, f. Lp 14 «Partito operaio comunista bolscevico leninista». Già dirigente nazionale della Fgci (membro del suo primo Comitato centrale), Romeo Mangano fu considerato, per tutto il ventennio fascista, un dirigente della Frazione di sinistra del Pci. Sul ruolo di Mangano (nome in codice “Violino”) come confidente della polizia politica si veda Canali, Le spie del regime, p. 301 ss. e Francescangeli, L’incudine e il martello, pp. 288-289. 47. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 196.

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denti alla creazione di una fronda su posizioni bordighiste, il Poc(bl) venne estromesso dalla Quarta internazionale nell’aprile del 1948, in occasione del II congresso mondiale.48 L’assise mondiale della Qi decise altresì che la tendenza trockista del Partito operaio comunista si sarebbe dovuta raccogliere attorno a un periodico che sarebbe stato pubblicato («prossimamente») nella prospettiva di costruire, anche in Italia, un’autentica organizzazione d’orientamento quartinternazionalista.49 La rivista cui faceva riferimento la risoluzione era «4a Internazionale» che, in effetti, vide la luce qualche mese dopo, nel luglio 1948. Essa venne pubblicata da un gruppo di fuoriusciti dal Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) di Saragat, in maggioranza già appartenenti alla Federazione giovanile socialista (Fgs) – che pubblicava un giornale intitolato «La Rivoluzione socialista»50 – e alla corrente di sinistra, prima minoritaria nel Psup ma poi maggioritaria nel Psli, denominata Iniziativa socialista. Costoro – dopo che il partito sorto nel gennaio 1947 con la scissione di Palazzo Barberini decise di percorrere la strada riformistica, filo-governativa e filo-atlantista e dopo il commissariamento della Fgs con modalità autoritarie – si costituirono, nel febbraio 1948, in Movimento socialista di unità proletaria (Msup).51 Ad ogni 48. Durante una riunione del Cc del Poc(bl), tenutasi nel febbraio 1948, Mangano sostenne come nella battaglia contro il gruppo dirigente dell’Internazionale tutti i mezzi fossero leciti, incluso quello di boicottare i deliberati sostenuti dal Segretariato internazionale e approvati (con il beneplacito della sua corrente) in occasione del I congresso del Poc(bl). Inoltre, Mangano e la sua componente, ostacolarono sistematicamente l’intervento politico entrista nei confronti della Fgs, pubblicando su «IV Internazionale» l’elenco dei «giovani saragattiani» che, in realtà, svolgevano attività clandestina pro Quarta internazionale dentro la Fgs e il Psli. Cfr. Le Parti Ouvrier Communiste (Italie) et la IVe Internationale (Rapport presénté au Congrès Mondial), in «Quatrième Internationale», 3-4-5 (1948), p. 106 e Paolo Casciola, I difficili rapporti tra il POC e la Quarta Internazionale (1946-1948). Appunti di lavoro, in Diego Giachetti, Alle origini dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari 1947-1950. Una pagina di storia del trotskysmo italiano, «Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso», Serie “Studi e ricerche”, 9 (1988), p. 7. 49. Cfr. Paolo Casciola, Appunti di storia del trotskysmo italiano (1930-1945), «Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso», Serie “Studi e ricerche”, 1 (1986), pp. 44-48 e Id., I difficili rapporti tra il POC e la Quarta Internazionale, pp. 3-10. 50. Sulla Fgs e il suo battagliero organo cfr. Leo Solari, I giovani di «Rivoluzione socialista», Iepi, Roma 1964. Si veda anche Id., I giovani socialisti nel crocevia degli anni ’40, Introduzione e cura di Davide Conti, Odradek, Roma 2009. 51. Da non confondersi con l’omonimo movimento, comunque successivo, diretto da Alfredo Lavatelli e Pietro Gomarasca (cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 111, f. 1034/P «Azione socialista. Mov. vari»). La Dichiarazione costitutiva fu sottoscritta da

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buon conto, a Parigi, in occasione del congresso dell’omologa struttura giovanile della Sfio (aprile 1947), il giovane socialista Livio Maitan (segretario della Fgs dal novembre 1947) aveva già preso contatti diretti con il dirigente trockista Ernest Mandel. Alcuni mesi dopo, egli e altri esponenti della gioventù socialista aderirono alla Quarta internazionale e s’impegnarono a compiere attività frazionistica dentro il Psli prima e nel Msup poi, con lo scopo di attrarre il maggior numero di militanti nell’alveo trockista. All’interno del Msup – che non si strutturò mai compiutamente in partito – unitamente a Maitan, simpatizzavano per la Quarta internazionale Ruggero Mura, Giorgio Ruffolo, Giuseppina Verdoja (che aderiranno poi all’organizzazione trockista italiana), Gaetano Arfè e Rino Formica (che torneranno, invece, nel Psi).52 Nel corso del 1948-49, all’attività «entrista» nel Msup – che nel frattempo aveva aderito al Fronte democratico popolare, insediando Maitan nell’esecutivo nazionale – si accompagnò l’attività propagandistica attraverso la rivista «4a Internazionale», alla quale collaborava anche l’ala quartinternazionalista del Poc, fuoriuscita dal partito di Mangano e riconducibile ai nuclei di Napoli, Roma e Milano, facenti capo – rispettivamente – a Libero Villone, Bruno Nardini ed Enrico Bellamio. Sebbene nel suo primo anno di vita «4a Internazionale» non fosse l’espressione di un gruppo politico strutturato, essa si prefiggeva di contribuire alla «chiarificazione teorica all’interno del panorama marxista italiano» con lo scopo dichiarato di lottare politicamente «contro il riformismo e l’opportunismo delle direzioattivisti di Roma (tra cui Letizia Del Vecchio, Giuseppe Pacini, Ruggero Mura e Renato Scoppetta), Milano (tra cui Virgilio Dagnino e Ludovico Targetti), Venezia (tra cui Livio Maitan), Bolzano (Remigio Pesso), Pavia (Giorgio Tuffi), Modena (Raniero Miglioli), Napoli (Vittorio Menichino e Placido Valenza), Salerno (Baratta), Reggio Calabria (Leonida Repaci), Palermo (Enrico Paresce e Beppe Sitaiolo) Cagliari (Maria Corda) e Sassari (Nanni Dore). Cfr. Giachetti, Alle origini dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, p. 19. Sullo scioglimento della direzione della Fgs da parte del partito e sulla nomina di una «commissione straordinaria di reggenza» (tra i cui membri Rino Formica) cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 110, f. 672/P «Partito socialista lavoratori italiani», nota del Capo della polizia al Gab. del Mi del 18 febbraio 1948, che osservava: «In seguito a tale provvedimento, alcuni componenti la precedente Direzione Giovanile hanno abbandonato il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani» (ibidem). 52. A riguardo cfr. Gaetano Arfè, Quel mio errore giovanile e le cose di oggi, in «l’Unità», 11 gennaio 1987 che rievoca, oltre ai propri, anche gli “slanci” rivoluzionari di Rino Formica e Giorgio Ruffolo (anch’egli, successivamente, esponente del Psi). Di Ruffolo si veda l’articolo (siglato con il suo pseudonimo): Marcello Arienti [Giorgio Ruffolo], L’economia americana tra la prosperità e la depressione, in «4a Internazionale», 3 (1948). Cfr. inoltre Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 110, f. 672/P.

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ni tradizionali del movimento operaio». Fedeli all’impostazione trockiana del Programma di transizione, la responsabilità delle sconfitte del movimento operaio (dall’ascesa del fascismo al riflusso post-resistenziale passando per la vittoria del fronte «antiproletario» alle elezioni del 18 aprile) non veniva imputata a errori tattico-strategici di tipo massimalistico o alla debolezza della classe operaia italiana, bensì all’incapacità delle direzioni dei partiti socialista e comunista di assumersi l’onere della «presa del potere». Di fronte al tradimento dei dirigenti, sarebbe stato dunque necessario – secondo tale schema interpretativo – dotarsi di una nuova e autentica direzione rivoluzionaria che sarebbe dovuta sorgere dalla fusione di tutte le correnti critiche di sinistra.53 Ma il grosso delle correnti critiche di sinistra – da «Stella rossa» di Torino al Movimento comunista d’Italia di Roma (più noto con il nome del suo giornale, «Bandiera rossa») – erano, già da qualche tempo, sulla via del tramonto, mentre la distanza politica che separava gli anarchici e i bordighisti «ortodossi» dai trockisti era tale da non consentire processi di unificazione. Ai lavori della prima conferenza nazionale del movimento trockista italiano (Roma, 1-2 gennaio 1949) partecipò dunque un numero ridotto di militanti provenienti, principalmente, dal Movimento socialista di unità proletaria e dal gruppo trockista del Poc(bl).54 La costituenda organizzazione politica, che per più di un anno non ebbe un nome “ufficiale”, si dotò comunque di un Comitato centrale e di un Comitato esecutivo posto sotto il controllo del Segretariato internazionale della Quarta internazionale. Se alla fine del maggio 1949 una riunione del Cc stabilì di orientarsi verso la costituzione di un’organizzazione politica indipendente, respingendo la proposta di confluire come frazione nel Psi, in dicembre i membri del Cc formularono alcune proposte per il nome da attribuire alla nuova formazione. Tenendo presente che in Italia la consueta denominazione delle sezioni nazionali della Qi – Partito comuni53. Cfr. i documenti in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, in particolare sf. «Gruppi comunisti rivoluzionari italiani aderenti alla IV Internazionale» e ivi, Mi, Dgps, Dar, 1951-1953, b. 50, f. P/18 «4a Internazionale». Si veda anche Giachetti, Alle origini dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, pp. 13-37. 54. Cfr. Livio Maitan, La strada percorsa. Dalla Resistenza ai nuovi movimenti: lettura critica e scelte alternative, Introduzione di Fausto Bertinotti, Massari, Bolsena 2002, p. 111, che ricorda «una partecipazione che, nel contesto dato, poteva considerarsi soddisfacente». Erano presenti delegati provenienti da Lombardia, Piemonte, Liguria, Tre Venezie, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Sicilia e Sardegna.

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sta internazionalista – non poteva essere utilizzata perché già “ipotecata” dell’organizzazione bordighista, un referendum interno – ratificato da una riunione del Comitato centrale del febbraio 1950 – fece prevalere (con il 53%) la denominazione Gruppi comunisti rivoluzionari (IV Internazionale), scartando le opzioni Gruppi italiani della IV Internazionale e Gruppi di critica comunista.55 All’atto della loro costituzione, i Gcr – presenti a Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia, Trieste, Perugia, Napoli, Palermo e Sassari – furono la combinazione di quattro provenienze politico-culturali differenti: la “vecchia guardia” trockista degli anni Trenta, successivamente raggruppatasi nel Poc(bl); i militanti e i dirigenti della Federazione giovanile socialista che uscirono da un Psup considerato subalterno al Pci e condivisero con i riformisti di Saragat l’esperienza del Psli per poi abbandonarlo quando ne fu chiaro l’orientamento moderato-atlantista; alcuni militanti della sinistra del Partito d’azione (Pda) – tra cui Leone Iraci Fedeli e Bruno Orsini – che si sciolse nell’ottobre 1947; un piccolo gruppo di militanti – come Franco Villani – fuoriusciti dal Pci. Se la presenza femminile si faceva notare (almeno a giudicare dagli articoli della stampa conservatrice),56 nei primi anni di vita, oltre alle aree politiche anzidette, i Gcr attrassero anche qualche individualità di rilievo: fra tutte, Renzo Gambino – proveniente dal Psli – e Francesco Cretara, Maria Bozzi e altri ancora provenienti dal disciolto Mcdi. Fu un’eredità del Movimento comunista d’Italia anche il nome del periodico agitatorio dei Gruppi, «Bandiera rossa», mutuato dalla “famosa” testata della più importante formazione partigiana romana. Il primo numero del giornale – diretto da Villani e con un comitato di redazione integrato da Maitan, Mura, Ruffolo e Villone – uscì nell’aprile 1950, dopo che la rivista «4a Internazionale» aveva cessato le pubblicazioni per insufficienza di risorse finanziarie.57 55. Cfr. Giachetti, Alle origini dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, p. 55. Tale nome venne conservato fino al 1979, quando, in occasione del XXI congresso dell’organizzazione, fu mutato in Lega comunista rivoluzionaria (Lcr). 56. Cfr. l’articolo Trotzkisti a convegno, in «Il Tempo», 6 marzo 1950, in cui si notava come gli attivisti fossero «giovani intellettuali di ambo i sessi con forti inquinazioni [sic] di esistenzialismo; almeno a giudicare dalle chiome delle fanciulle che vendevano opuscoli di propaganda». 57. Cfr. Giachetti, Alle origini dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, pp. 39-61; Id., I Gruppi Comunisti Rivoluzionari tra analisi e prospettive 1948-1951. Il contesto nazionale e internazionale nei primi anni della “Guerra Fredda”, «Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso», Serie “Studi e ricerche”, 19 (1990), passim e i documenti in Acs, Mi,

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L’attenzione per le vicende internazionali, spinse i Gruppi a sostenere – finanche attivamente attraverso “brigate del lavoro”, ma comunque in modo critico – l’esperienza titoista. Se, infatti, i legami con i «socialisti indipendenti» filotitoisti presenti in Italia non riuscirono a consolidarsi dal punto di vista politico-organizzativo (ciò non impedì, in ogni modo, la difesa dei dissidenti titoisti dagli attacchi stalinisti di Pci e Psi), la solidarietà verso la Jugoslavia divenne un cavallo di battaglia dei neocostituiti Gcr (e ciò, comprensibilmente, attirò l’attenzione della polizia).58 Nei confronti delle altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, se la bussola teorica era la tattica del fronte unico proletario, in pratica furono mantenuti rapporti stretti solo con gli anarchici del gruppo di Masini, Cervetto e Parodi che nel febbraio 1951 costituirono i Gaap (relazioni che, come si vedrà, avrebbero prodotto qualche frutto).59 La II conferenza nazionale dei Gcr (Roma, 29 luglio-2 agosto 1950) – cui presero parte venti delegati in rappresentanza di nove realtà provinciali – unitamente alla conferma della validità della tattica del fronte unico, non escluse la possibilità di stabilire legami organici (seppur di tipo frazionistico) con gli oppositori interni al Pci attestati su posizioni titoiste, non escludendo, dunque, di agire come frazione organizzata all’interno di una formazione politica nata da una scissione del Pci.60 Tuttavia, alla Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, sf. «Gruppi comunisti rivoluzionari italiani aderenti alla IV Internazionale». 58. Il 1° aprile 1950, presso la sede della Federazione anarchica laziale, i Gcr di Roma organizzarono una riunione su “La questione jugoslava e i rapporti tra stati socialisti” alla quale intervennero circa cinquanta persone. Secondo l’informatore del questore Polito, vennero invitate al dibattito le direzioni di Pci, Psi, Psu (il partito sorto dalla fusione degli autonomisti del Psi guidati da Giuseppe Romita e della sinistra zagariana del Psli), Federazione anarchica laziale e Partito comunista internazionalista, ma solo gli anarchici aderirono all’iniziativa, mentre Lucio Libertini del Psu intervenne «a titolo puramente personale» (ivi, copia della nota del questore di Roma alla Dgps del 2 aprile 1950). 59. Alla riunione fondativa dei Gaap partecipò anche Livio Maitan come rappresentante dei Gruppi comunisti rivoluzionari. Cfr. Gruppi comunisti rivoluzionari, Risoluzione del CE sui rapporti con il gruppo “Per un Movimento Orientato e Federato”, in «Bollettino interno», 4 (1950) e A convegno gli anarchici dissidenti, in «Bandiera rossa», 3 (1951). 60. Ai lavori della II conferenza nazionale presero parte, in rappresentanza di alcune decine (al massimo un centinaio) di iscritti, delegati di Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia, Napoli, Palermo, Sassari e Perugia. Cfr. Giachetti, I Gruppi Comunisti Rivoluzionari tra analisi e prospettive, pp. 34-40. Al termine dei lavori, il nuovo Comitato centrale dei Gcr appena eletto dall’assemblea, individuò, a sua volta, i membri del nuovo Comitato esecutivo: Alfonso Cascone, Leone Iraci Fedeli, Livio Maitan, Ruggero Mura e Giorgio

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prova dei fatti (la rottura di Magnani e Cucchi con il Pci, di cui si dirà tra breve) il Comitato centrale dei Gcr, ribaltò l’iniziale giudizio favorevole espresso dall’esecutivo (nel quale il segretario nazionale si trovò in minoranza), qualificando il movimento titoista, che da lì a poco si sarebbe costituito in Movimento lavoratori italiani, come un “malcontento” nei confronti dello stalinismo di segno fondamentalmente socialdemocratico e, quindi, una rottura di «destra».61 Nel corso degli anni Cinquanta i Gruppi comunisti rivoluzionari, seguendo le indicazioni della Quarta internazionale, si orientarono invece per l’«entrismo» nel Partito comunista. Constatato come le previsioni di Trockij sulla crisi rivoluzionaria (anticapitalista in occidente e antiburocratica nell’Est europeo) conseguente alla seconda guerra mondiale si fossero dimostrate infondate, il principale dirigente della Qi, il greco Michalis N. Raptis (noto con lo pseudonimo di Michel Pablo, o più semplicemente “Pablo”), promosse un’operazione di “aggiustamento” della dottrina trockista secondo la quale nello scontro tra imperialismo atlantista e blocco stalinista (l’Urss, «stato operaio burocraticamente degenerato», e gli altri «stati operai deformati») i trockisti avrebbero dovuto parteggiare senza indugi per il secondo e, alla luce di ciò, entrare fin da subito nei partiti comunisti che avessero un minimo di radicamento sociale poiché avrebbero giocato un ruolo «progressivo». Rispetto all’entrismo classico degli anni Trenta (che prevedeva l’ingresso dei trockisti nei partiti socialisti come legittima frazione organizzata), ciò che propose “Pablo” fu un «entrismo» sui generis che presupponeva, data l’antidemocraticità del regime interno e la manifesta avversione verso il trockismo, l’ingresso nei partiti stalinisti con modalità clandestine. In Italia la nuova tattica, alla cui genesi contribuì anche Maitan, nel frattempo entrato a far parte del Segretariato internazionale, venne approvata con la III conferenza nazionale (straordiRuffolo. Il Ce, in una successiva riunione, riconfermò Maitan nella carica di segretario nazionale. Cfr. ivi, p. 38 e La Conferenza dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, in «Bandiera rossa», 3 (1950). 61. Assente Maitan, il 31 gennaio del 1951 il Comitato esecutivo dei Gcr decise un’apertura nei confronti dei due deputati del Pci. Due successive riunioni tenutesi a febbraio non riuscirono a far rientrare l’opposizione di Maitan che, sostenuto dal Si, produsse un documento di minoranza. Si andò dunque ad una verifica delle sensibilità a livello periferico e a fronte di un netto sostegno della mozione di Maitan da parte dei gruppi locali si convocò il Cc, il quale, nove voti contro tre, capovolse il giudizio espresso dal Ce. Sulla questione si veda Giachetti, I Gruppi Comunisti Rivoluzionari tra analisi e prospettive, p. 47 ss.

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naria) dei Gcr del luglio 1951, anche se, effettivamente, l’entrismo su larga scala fu messo in pratica solo alcuni mesi più tardi. L’applicazione italiana dell’entrismo sui generis significò la perdita dell’indipendenza organizzativa. La quasi totalità dei militanti si iscrisse al Pci, con spazi di manovra assai ridotti, mentre altri attivisti, con l’andare del tempo, si organizzarono anche all’interno del Psi. Solo un piccolo gruppo di quadri (costituito da Villani, Villone, Maitan, Ruffolo e altri) rimase fuori dal partito di Togliatti e da quello di Nenni, occupandosi della pubblicazione e della diffusione di «Bandiera rossa» e di altre attività complementari, come ad esempio l’organizzazione di seminari finalizzati alla formazione-quadri.62 Negli anni Cinquanta, i risultati della politica entrista furono contraddittori: se, da un lato, vennero costituiti nuovi gruppi o si rafforzarono quelli esistenti e la scissione internazionale “antipablista” del 1953 sfiorò appena i Gcr, dall’altro alcuni dirigenti della prima ora – tra gli altri Mura, Ruffolo, Iraci Fedeli e Villani – abbandonarono l’organizzazione.63 3. Dissidenti comunisti, socialisti di sinistra e transfughi libertari Accanto alle tre dissidenze “storiche” (anarchismo, bordighismo e trockismo), dalla caduta del fascismo fino alle soglie del Sessantotto, si manifestò – in forme differenti – un’area non riconducibile a qualcosa di unitario, classificabile dunque con formule differenti corrispondenti – più o meno – alle varie sensibilità che la contraddistinsero: neomassimalisti, luxemburghiani, stalinisti antitogliattiani, azionisti di sinistra, sociallibertari. Collocate finanche agli antipodi di un ideale spettro politico che va dall’«oggettivismo» intransigente fino al più esasperato «soggettivismo», ciò che rende possibile inserire in un unico insieme queste aree politiche è la loro spiccata opposizione alla «collaborazione» con la classe 62. Maitan ha ricordato un seminario nazionale sulla teoria della rivoluzione permanente (Venezia, agosto 1952). Purtroppo l’incontro fu «seguito da una circostanza tragica. Sulla via del ritorno il giovane sassarese Nanni Dore, con noi dai tempi della Fgs, moriva in un incidente stradale nei pressi di Montefiascone. Una perdita che ci sconvolgeva, per le qualità umane dello scomparso oltre che per il vuoto che si creava per noi in Sardegna e che non sarebbe stato colmato per molti anni» (Maitan, La strada percorsa, p. 149). 63. Cfr. Diego Giachetti, La svolta entrista. La Quarta Internazionale e i Gruppi Comunisti Rivoluzionari negli anni 1951-1953, «Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso», Serie “Studi e ricerche”, 22 (1992), passim.

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dominante e la marcata insofferenza verso le pratiche compromissorie. Già a partire dalle fasi iniziali della guerra di liberazione si costituirono alcuni movimenti dissidenti che si autorappresentarono come «a sinistra» dei due principali partiti operai (i quali si erano riorganizzati recuperando solo in parte le rispettive basi). Accomunate dall’opposizione alla monarchia e ai governi di unità nazionale patrocinati dal Cln, le formazioni più rilevanti, alcune anche sotto il profilo militare, furono il Partito comunista integrale (noto come «Stella rossa», anche qui dal nome del suo giornale), il già menzionato Movimento comunista d’Italia («Bandiera rossa»), il Partito italiano del lavoro (Pil) e il Fronte proletario rivoluzionario (Fpr) di Lelio Basso, che a Milano pubblicava un giornale con lo stesso titolo di quello del Movimento comunista d’Italia. Se i comunisti dissidenti di «Bandiera rossa» e «Stella rossa» si raccolsero attorno a militanti scollegati dal Pci attestati su posizioni rigidamente classiste e organizzatisi autonomamente nella lotta antifascista, il Fpr raccolse l’eredità dell’ala sinistra del Movimento di unità proletaria per la Repubblica socialista (Mup),64 fondato da Basso nel 1942 e poi unificatosi con il Psi e l’Unione proletaria italiana (Upi) per dare vita, nell’agosto 1943, al Partito socialista di unità proletaria (Psup, poi Psiup fino al 1947). Se per la ricostruzione storica dell’attività politico-militare delle dissidenze di sinistra durante Resistenza si rinvia alla letteratura esistente,65 è invece opportuno accennare alla loro attività nel periodo successivo alle operazioni belliche (alcune formazioni, come ad esempio «Stella rossa», si sciolsero con la fine dell’esperienza resistenziale). 64. Sul Mup si veda Fabrizio R. Amati, Il Movimento di unità proletaria (1943-45), in Il Movimento di unità proletaria (1943-1945). Con due contributi su Lelio Basso e il PSI nel dopoguerra, a cura di Giancarlo Monina, Carocci, Roma 2005, pp. 3-178 e Sarah Verrengia, Il Movimento di unità proletaria, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (2006), pp. 45-86. Benché riferito a un periodo successivo, su Basso si veda Roberto Colozza, Lelio Basso. Una biografia politica (1948-1958), Ediesse, Roma 2010. 65. Cfr. Peregalli, L’altra Resistenza, pp. 171-286 e, per quanto riguarda il Mcdi, Giorgio Genzius [Roberto Leonardo Guzzo], Tormento e gloria. “Verità alla ribalta”, s.e. [Industria tipografica fiorentina], Firenze 1964 e Silverio Corvisieri, Bandiera rossa nella Resistenza romana, Odradek, Roma 2005 [I ed. Samonà e Savelli, Roma 1968], pp. 11-146. Si vedano inoltre – benché divulgativi ed esplicitamente “militanti” in chiave anti Pci – Roberto Gremmo, I partigiani di “Bandiera rossa”. Il “Movimento Comunista d’Italia” nella Resistenza Romana, Edizioni Elf, Biella 1996 e Id., I comunisti di “Bandiera rossa”. L’opposizione rivoluzionaria del “Movimento Comunista d’Italia” (1944-1947), Edizioni Elf, Biella 1996.

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Dopo la liberazione di Roma, il Movimento comunista d’Italia, il cui contributo alla Resistenza romana fu rilevante (dei 335 trucidati alle Fosse Ardeatine, 52 appartenevano al movimento comunista dissidente), poteva contare su parecchie migliaia di militanti, organizzati in decine di sezioni, e su una struttura militare, denominata Armata rossa, che incorporava anche militanti di base del Pci. Se in un primo momento Antonino Poce – uno dei leader del movimento insieme a Pietro Battara, Francesco Cretara, Raffaele De Luca, Orfeo Mucci e Filiberto Sbardella – fu addirittura affiancato al vice questore di Roma e l’Armata rossa, proseguendo negli arruolamenti, si candidò a tutrice dell’ordine pubblico capitolino, dopo qualche settimana – anche a causa dell’aperta ostilità del Pci – le autorità alleate intimarono lo scioglimento della milizia popolare e arrestarono Poce.66 Sciolti i distaccamenti dell’Armata rossa e preso atto dell’impraticabilità di una soluzione “alla jugoslava”, nel luglio 1944 il Mcdi si trovò di fronte al dilemma di cosa fare del proprio movimento: ricomporre la frattura con il Pci (da molti ritenuta provvisoria, poiché dettata dalla clandestinità); procedere nella costruzione di un partito autonomo oppure, come suggerito fin dai primi di giugno da Battara, confluire nel Psup per rafforzarne l’ala sinistra. Tale situazione d’incertezza fu aggravata dalla censura alleata che non autorizzò l’uscita di «Bandiera rossa» per quasi un anno e dall’indisponibilità del Partito comunista a qualsiasi ipotesi di confluenza collettiva. All’abbandono di Battara (che entrò nel Psup) e dello scrittore Guido Piovene (incline a una non meglio definita unità delle forze socialiste che lo farà avvicinare al Pci), si aggiunse il temporaneo allontanamento di De Luca e, nell’agosto 1944, la scissione del gruppo dirigente in due tronconi: da un lato la corrente Sbardella-Poce dall’altro quella Cretara-Mucci. La prima su posizioni 66. Negli stessi giorni, il Pci lanciò l’ennesima scomunica verso il Mcdi, il quale rispose asserendo che essa «copre di una degradante umiliazione chi […] sostituisce alla serena e misurata polemica un linguaggio indegno della severità dell’ora che volge» (Diffide, in «Bandiera rossa», 14 giugno 1944). Come notato, l’Armata rossa fu denigrata dai vertici del Pci come «sedicente quanto equivoca ‘Armata’», nonostante molti suoi membri fossero iscritti al partito togliattiano o vi confluirono dopo lo scioglimento; cfr. Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), Nota introduttiva di Nicola Gallerano, Edizioni «Quaderni piacentini», Piacenza 1976, p. 233. Anni dopo, Amendola riconobbe il ruolo svolto da Bandiera rossa (e anche da Stella rossa) nella Resistenza: «vi furono formazioni che, pur criticando la linea del partito, diedero il loro contributo alla lotta armata raccogliendo migliaia di adesioni, come Bandiera rossa a Roma e Stella rossa a Torino»; Giorgio Amendola, La crisi della società italiana e il Partito comunista, in «Critica marxista», 2 (1969), pp. 17-52, cit. a p. 52.

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filosovietiche di sinistra (secondo le quali Togliatti non avrebbe applicato le direttive di Stalin) e oscillante tra la prospettiva di fondersi con altre aree della dissidenza di sinistra e quella dell’ingresso dei propri iscritti nel Pci anche a titolo individuale; la seconda critica verso l’URSS e orientata – una volta tramontata l’ipotesi della confluenza organizzata nel partito di Togliatti – al consolidamento del Movimento comunista d’Italia come forza politica autonoma. Ne seguì una scissione anomala: mentre il vertice si spaccò in due (stabilendosi in due distinte sedi) le sezioni mantennero l’unità organizzativa, contribuendo così al riassorbimento dello scisma.67 Per cercare di rompere l’isolamento generato dall’ostilità del Pci e delle altre forze della coalizione governativa, Bandiera rossa si fece promotrice della costituzione di un’alleanza tra le forze politiche dissidenti rispetto alla linea del Cln: in particolare il Partito repubblicano, i cristianosociali e i comunisti libertari. Insieme a questi ultimi, dette vita al Fronte democratico delle sinistre, il quale riuscì a organizzare alcune significative manifestazioni che, tuttavia, non riuscirono a produrre risultati concreti anche a causa dell’assenza, all’interno del fronte, di un collante politico a livello programmatico che andasse oltre la contestazione – pur legittima, in via di principio – del Cln come rappresentativo del popolo italiano. Un esito similare ebbe altresì il tentativo di collegamento, varato nel gennaio 1945, con la già menzionata Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti italiani e con l’Unione Spartaco di Carlo Andreoni.68 Dopo la Liberazione il movimento comunista dissidente entrò irrimediabilmente in crisi, nonostante «Bandiera rossa» (nuova serie) avesse ripreso – pur senza autorizzazione – le pubblicazioni e il movimento avesse svolto un ruolo rilevante nel tumulto romano del 6 marzo 1945 (in seguito alla fuga del generale Roatta).69 È verosimile ipotizzare che, in seguito alla 67. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 297/P, rapporto allegato alla lettera del Capo di Gab. del Mi alla presidenza del Consiglio dei ministri del 20 marzo 1946, che è una risposta a una richiesta di informazioni pervenuta tramite lettera urgentissima dell’Headquarters Allied Commission del 15 marzo 1946. Cfr. inoltre Corvisieri, Bandiera rossa nella Resistenza romana, p. 147 ss. 68. Cfr. Peregalli, L’altra Resistenza, p. 236. 69. Sui tumulti successivi alla fuga di Roatta, cfr. Rossini, Riottosi e ribelli, pp. 117118. Se «Il Tempo» riferì che nella manifestazione prevalse «l’elemento comunista, ma forse più quello dissidente di quello ufficiale», il quotidiano del Pci non menzionava, se non accennando alla presenza di provocatori, la partecipazione degli attivisti del Mcdi (cfr. Tragici incidenti al Quirinale durante la manifestazione per la fuga di Roatta, in «Il Tempo», 7 marzo 1945 e Il Partito comunista esige in nome del popolo un radicale mutamento

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forte espansione extra-romana (il movimento aveva, pur non eguagliando la consistenza delle sezioni capitoline, sedi in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia),70 i vertici dell’organizzazione non furono in grado di gestire la situazione. A Roma il declino fu netto: delle circa 40 sezioni attive in marzo, solo 14 ne risultavano in agosto (le autorità segnalarono un calo di iscritti da 60.000 a 4.000 unità). La liberazione del paese e il nuovo governo Parri, anziché fornire nuova linfa al movimento comunista dissidente, lo esposero alla repressione poliziesca: dalla Puglia a Roma, i militanti di Bandiera rossa vennero perseguitati per la loro azione politica. Ciò determinò il disorientamento della base e lo sgretolamento del gruppo dirigente. Se già nel 1946 il Mcdi non fu in grado di presentare liste elettorali autonome, dopo l’estromissione del Pci dal governo il movimento subì un tracollo organizzativo: a fronteggiare la corsa degli iscritti verso il partito di Togliatti restò solo un piccolo gruppo di militanti, il quale si limitò a mantenere formalmente in vita l’organizzazione fino al 1949, pubblicando un giornale intitolato «L’Idea comunista».71 Il fenomeno delle dissidenze socialiste e comuniste non interessò solamente l’Italia centro-settentrionale. Per varie ragioni, tra cui la presenza di vecchi gruppi dirigenti non allineati con le direttive dei rispettivi “centri”, nel meridione d’Italia crebbero numerose iniziative orientate verso il “sinistrismo”: a cominciare dalla frattura del Pci napoletano, la cosiddetta scissione di Montesanto, per arrivare alla ricostituzione del sindacato su basi classiste, la Cgl riorganizzata a Salerno, altrimenti detta – per distinguerla da quella unitaria di Bari – rossa, che ebbe tra i suoi massimi dirigenti Nicola Di Bartolomeo ed Enrico Russo.72 nella politica interna governativa e Vibrata manifestazione di protesta per la politica di tolleranza verso il fascismo, in «l’Unità», 7 marzo 1945). 70. Sulla presenza del Mcdi in Sicilia (due gruppi, uno a Lentini e uno a Biancavilla) e sul loro sostegno alle tematiche indipendentiste cfr. Gremmo, I comunisti di “Bandiera rossa, p. 130 ss. 71. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 297/P, rapporto allegato alla lettera del Capo di Gab. del Mi alla presidenza del Consiglio dei ministri del 20 marzo 1946 e Peregalli, L’altra Resistenza, pp. 232-240. 72. Sulla “scissione di Montesanto” e la Cgl rossa cfr. Clara De Marco, La costituzione della Confederazione Generale del Lavoro e la scissione di Montesanto (1943-44), in «Giovane critica», 27 (1971), pp. 52-74; Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, vol. V, La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1975, p. 153 ss.; Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia dal 1943 ad oggi, Laterza, Roma-Bari

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Come già accennato, a partire dalla primavera dal 1944 venne costituita, in Campania, la Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti italiani che – al pari di altre formazioni politiche quali il Centro marxista d’Italia (Cmdi), il Partito socialista rivoluzionario italiano (Psri) e la Libera unione degli eguali (Lude)73 – ebbe origine, primariamente, dalle espulsioni di quadri del Partito comunista, critici verso la nuova politica togliattiana di unità nazionale (la cosiddetta “svolta di Salerno”). Infatti, tolto un gruppo di militanti più o meno legati alla sinistra bordighiana o trockista (Ludovico Tarsia, Antonio Natangelo, Eduardo Magnelli, Matteo Renato Pistone e il segretario della Cgl “rossa” Enrico Russo), alla nascita e alla crescita della Frazione contribuirono molti quadri e dirigenti del Pci campano, tra cui Ippolito Ceriello e Danilo Mannucci della federazione salernitana (la quale, su posizioni classiste e antimonarchiche, pubblicava «Il Soviet»), e Vincenzo Iorio e Libero Villone della federazione napoletana (estromessi dall’apparato da Eugenio Reale, uomo della nuova dirigenza imposta dal “centro”). Sorta allo scopo di unificare i diversi gruppi di opposizione nati in varie località dell’Italia meridionale, la Fscsi si estese in breve tempo in molte zone del meridione d’Italia (soprattutto in Calabria) e, parallelamente all’avanzata della linea del fronte verso nord, anche a Roma (sotto la guida di Otello Terzani) e in altre città dell’Italia centrale (Grosseto e Firenze). Funzionante come un vero e proprio partito (nonostante non si considerasse tale), dopo pochi mesi di vita, fu in grado di raccogliere alcune migliaia tra militanti e simpatizzanti. Alla fine del 1944, la Frazione – che pubblicò «Il Proletario» a Napoli, «La Sinistra proletaria» a Roma e il foglio «Frazione di sinistra salernitana» a Salerno – ritenne giunto il momento di convocare un convegno dei comunisti e dei socialisti «di sinistra» al fine di costituire, unitariamente, un nuovo partito classista e rivoluzionario. L’assise si tenne 1988 [1a ed. Storia del sindacato in Italia 1943-1969: dalla resistenza all’autunno caldo, 1973], pp. 69-74; Antonio Alosco, Alle radici del sindacalismo. La ricostruzione della CGL nell’Italia liberata (1943-1944), SugarCo, Milano 1979; Peregalli, L’altra Resistenza, pp. 13-65; Antonio Alosco, Il sindacato eretico. La Confederazione rossa nel «Regno del Sud» (1943-44), Prefazione di Giorgio Benvenuto, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2006 e Francesco Giliani, Fedeli alla classe. La Cgl rossa fra occupazione alleata del Sud e “svolta di Salerno” (1943-45), Ac Editoriale, Milano 2013. 73. Sul Centro marxista d’Italia e il Psri (formazioni di dimensioni ridotte e prevalentemente a carattere locale) cfr. Peregalli, L’altra Resistenza, pp. 116-132. Sul Psri cfr. anche Lampronti, L’Altra Resistenza. L’Altra opposizione, pp. 31-35. Sulla Libera unione degli uguali cfr. Antonio Alosco, Un tentativo di «sinistra alternativa» nel «Regno del Sud», in «Prospettive Settanta», 4 (1979), pp. 528-538.

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il 6 e 7 gennaio 1945, a Napoli, e vi presero parte, oltre ad alcune organizzazioni minori e a singoli esponenti (tra cui Amadeo Bordiga), il Movimento comunista d’Italia (rappresentato da Sbardella, Poce e De Luca) e i socialisti di sinistra dell’Unione Spartaco (rappresentata dal suo massimo dirigente, Carlo Andreoni). Ma la netta impostazione antistaliniana della Frazione – secondo la quale l’Urss era uno Stato «antiproletario» che, al pari dello stalinismo svolgeva un ruolo «controrivoluzionario» – entrò in collisione con l’impostazione di una parte del Mcdi che al contrario sostenne, per bocca di Sbardella, l’identità tra Lenin e Stalin, denunciando altresì Togliatti come un traditore dello stalinismo. La riunione, al di là delle buone intenzioni (dopo l’approvazione di una mozione sulla necessità di fondare un partito classista, venne costituita una commissione per organizzare un convegno pubblico delle opposizioni di sinistra), si concluse con un nulla di fatto e ognuno proseguì per la propria strada.74 Nel corso del 1945, la Frazione diede alle stampe un opuscolo programmatico – redatto da Pistone e Villone – intitolato Per la costituzione del vero partito comunista nel quale furono ribadite le idee guida del movimento. Parallelamente, cominciarono a manifestarsi divergenze interne: mentre una corrente (capeggiata da Russo e Villone) criticò gli atteggiamenti intransigenti della maggioranza, il grosso dell’organizzazione chiese a Bordiga di porsi alla testa del movimento, orientandosi verso il recupero del programma originario del Pcdi. Entrata in relazione con il Partito comunista internazionalista, la Frazione – o meglio, la sua componente maggioritaria – vi confluì nel luglio 1945. Quanto alla minoranza, se qualche militante venne riassorbito dal Pci, Enrico Russo entrò nel Partito socialista (poi, attraverso la corrente Iniziativa socialista aderirà al Psli, per uscirne dopo pochi anni), mentre Libero Villone e altri confluirono nel Partito operaio comunista.75 Un’altra corrente della dissidenza socialista di sinistra fu quella che si raccolse attorno al già più volte citato Carlo Andreoni, il quale, passando per il Mup e il Psup (di cui fu vicesegretario nazionale), si caratterizzò per la sua opposizione al collaborazionismo del Comitato di liberazione nazionale. Già alla fine di settembre del 1943 si fece promotore, all’interno della direzione 74. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 297/P, rapporto allegato alla lettera del Capo di Gab. del Mi alla presidenza del Consiglio dei ministri del 20 marzo 1946. 75. Ibidem. Sulla Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti italiani cfr. anche Peregalli, L’altra Resistenza, p. 66 ss.

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del Psup, della costruzione di un blocco di forze «incrollabilmente repubblicane», suscitando la disapprovazione pressoché unanime. Marginalizzato dall’organizzazione militare del partito, egli, utilizzando i contatti con i partigiani delle Brigate d’assalto Matteotti, cominciò ad agire come tendenza interna per cercare di trascinare i socialisti fuori dal Cln. Arrestato dai tedeschi nel marzo 1944 ma liberato grazie all’intermediazione del Partito socialista, dopo la “svolta di Salerno” Andreoni, pur restando iscritto al Psup, se ne allontanò politicamente. Nel giugno 1944 promosse la pubblicazione de «Il Partigiano», cercando di coagulare attorno a sé il dissenso di certi ambienti della Resistenza romana. Attorno al giornale si raccolsero alcune bande di resistenti (coordinate da un Comando superiore partigiano) il cui intendimento dichiarato fu quello di condurre la guerra civile non solo contro il nemico esterno (i tedeschi) ma anche e soprattutto contro il nemico interno (fascisti e capitalisti), seguendo l’esempio jugoslavo. Nel tardo autunno del 1944, il movimento – fino ad allora di natura prettamente militare – si dotò di una “sponda politica”, l’Unione Spartaco (Us).76 In dicembre, la nuova organizzazione adottò alcuni documenti programmatici (fra cui Il Manifesto di Spartaco) in cui vennero precisati gli orientamenti del sodalizio. Annoverando nel proprio pantheon Babeuf e Mazzini, Blanqui e Marx, Lenin e Kropotkin, senza tralasciare Sorel, l’Unione Spartaco, pur omaggiando la rivoluzione d’ottobre, criticava lo Stato sovietico poiché dimostratosi incapace di offrire al popolo le libertà civili. Per quanto riguarda l’Italia, si auspicava la destituzione immediata della «monarchia fascista» e l’instaurazione di un governo provvisorio che eliminasse l’«ordinamento tirannico» istituito con l’accondiscendenza del Cln. Secondo le autorità di Ps, oltre ad Andreoni, i principali dirigenti dell’Unione Spartaco furono Antonino Poce (dirigente del Mcdi), Giovanni Forbicini (leader anarchico d’inizio secolo e membro della Fcl laziale), Roberto Secondari (anch’egli membro della Fcl laziale e fratello del più noto Argo, comandante, nel 1921, della prima organizzazione antifascista) e Attilio Busacca, segnalato come capo del Partito repubblicano del lavoro. L’organizzazione di Andreoni, in effetti, era un’unione di forze già esistenti, le quali – quantomeno in parte – portarono a compimento un processo di fusione. Cosa che avvenne – come già anticipato – nel febbraio 1946, quando l’Unione Spartaco (che dal settembre 1945 prese a pubblicare, in sostituzione de «Il Partigiano», un nuovo organo di stampa, «L’Internazio76. Cfr. Lampronti, L’Altra Resistenza. L’Altra opposizione, pp. 47 ss.

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nale») si unì organicamente con i gruppi fuoriusciti dalla Fai, dando vita alla già menzionata Federazione libertaria italiana.77 Guidata da Andreoni, Concordia, Perelli e Pietropaolo, la Fli riuscì ad attrarre a sé alcune realtà anarchiche e a dialogare con provenienze politiche differenti (Tristano Codignola, ad esempio) ma, nonostante essa facesse esplicito riferimento alle dottrine anarchiche, il libertarismo che professò si discostava non poco da quello “classico”. Classificabile come movimento socialista eterodosso con venature luxemburghiane, la Fli – che con il congresso di Milano (7-9 settembre 1946) mutò il proprio nome in Federazione libertaria d’Italia (Fldi) – tra l’estate e l’autunno del 1946 dette voce alla protesta di molti partigiani che, delusi dall’amnistia di Togliatti, ripresero la via della montagna,78 promuovendo la costituzione di una struttura unitaria che assunse il nome di Movimento di Resistenza Partigiana (Mrp). Formalmente autonomo dalla Fli, esso attrasse ex partigiani del Pci, Psup e Pda, le cui direzioni osteggiarono il movimento, pur con peculiari differenze di stile. Il Pci, ad esempio, accusò Andreoni di essere stato un agente dell’Ovra; una calunnia che suscitò l’energica reazione di Sandro Pertini.79 Ad ogni buon conto, alla fine di ottobre alcuni dirigenti del Mrp, tra cui il socialista di sinistra Alfredo Lavatelli e lo stesso Andreoni, furono arrestati con l’accusa di sedizione. Rilasciati dopo pochi giorni, il movimento di protesta, e con esso il Mrp, scemò nel mese successivo.80 Alla fine di gennaio del 1947, a sorpresa, Andreoni e altri dirigenti della Federazione libertaria (tra cui Bruno Valerj e il trio Concordia-Perelli-Pietropaolo) aderirono, a nome della Federazione, al neocostituito Psli. Sconfessati dagli altri membri della Fldi, i suoi principali dirigenti, entrando alla spicciolata nel partito di Saragat, si separarono bruscamente da una base e da un nucleo di quadri che, probabilmente anche in ragione di ciò, non fu più in grado di rilanciare l’esperienza federativa libertario-socialista.81 77. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 110, f. 455/P «Federazione libertaria comunista», rapporto del Capo della polizia al Gab. del Mi del 12 giugno 1945. 78. Cfr. Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 170-173. 79. Cfr. Sandro Pertini, Prima di tutto la verità, in «Avanti!», 2 novembre 1946. 80. Cfr. Enzo Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945-48, Feltrinelli, Milano 1975, p. 170 ss., Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione 1945-1947, Zero in condotta, Milano 2009, p. 59 ss. 81. Cfr. la documentazione in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 110, f. 455/P e ivi, f. 672/P. Cfr. inoltre Lampronti, L’Altra Resistenza. L’Altra opposizione, pp. 72-84; Peregalli, L’altra Resistenza, pp. 149-163.

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Conclusa l’esperienza della Federazione libertaria d’Italia, Andreoni divenne un dirigente della formazione saragattiana. Espulso da questo partito nel 1952, egli, su posizioni socialdemocratiche di sinistra, accentuò il suo anticominformismo, aderendo all’Unione socialista indipendente (fondata nel marzo 1953 dalla confluenza di gruppi dissidenti socialcomunisti). Germinale Concordia, invece, nel 1949-50 diede vita ad una nuova struttura organizzativa, il Partito comunista nazionale italiano (Pcni) che, sospettato dalle autorità di filotitoismo, si orientò subito in direzione di un comunismo libertario teso a valorizzare il decentramento dei poteri.82 Nel maggio 1951, il Partito comunista nazionale si fuse con altre esperienze eterodosse anticominformiste per dare vita ad una nuova formazione politica denominata Movimento comunista di unità proletaria (Mcup), altresì noto come Unità proletaria-Movimento per l’indipendenza e l’unità del proletariato italiano. Patrocinato dallo scrittore Mario Mariani (emigrato in Sud America durante il fascismo) e da Bruno Rizzi (il padre della teoria del «collettivismo burocratico»)83 e organizzato da Giosuè Ciarlo, il movimento ebbe vita breve a causa dell’efficace ostracismo del Pci. In quegli anni, Concordia fu il principale animatore della rivista «La Comune» e, successivamente, tra i collaboratori di «Tempi moderni», edito dal Centro italiano ricerche e documentazione (Cird). Affine alle posizioni di Rizzi, negli anni Sessanta fondò la casa editrice Italpress, cercando di dare voce al dissenso proveniente dai paesi esteuropei.84 Oltre al Pcni, nella prima metà degli anni Cinquanta sorsero, in casa comunista, altre dissidenze, le quali, tolta l’esperienza del Movimento per la sinistra comunista, non superarono il quinquennio di vita. Una buona parte di queste – alcune, invero, effimere – furono una conseguenza, come già detto, della rottura dei rapporti tra l’Unione sovietica e la Jugoslavia di Tito. Come notò il questore della capitale Saverio Polito, ciò avvenne anche perché, non appena consumata la rottura tra la Jugoslavia e il Cominform, il Partito comunista italiano non esitò a condurre una «spietata epurazione» che, sebbene colpisse elementi il cui nome non aveva «risonanza nazio82. Cfr. Partito comunista nazionale italiano, in «La Comune», s.d. [5 maggio 1950]. 83. Cfr. tra le altre opere Bruno Rizzi, La lezione dello stalinismo. Socialismo e collettivismo burocratico, Introduzione di Giorgio Galli, Opere Nuove, Roma 1962 e Id., Il collettivismo burocratico, Galeati, Imola 1967. 84. Cfr. i documenti in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 113, f. 1289/P «Partito comunista nazionale italiano» e ivi, b. 114, f. 1373/P «Unità proletaria» e la voce relativa a Concordia, redatta da Mauro De Agostini e Paolo Sensini, in Dizionario biografico degli anarchici italiani, vol. I, ad vocem.

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nale», ebbe in ogni modo serie ripercussioni nell’apparato poiché tali personalità erano «conosciute dalla base».85 Prima della fondazione del Movimento lavoratori italiani (Mli), erano sorte – nella primavera-estate del 1950 – alcune esperienze quali Politica nuova a Roma e Ordine nuovo nel Torinese oppure iniziative individuali tese a costituire una rete di contatti in vista della costituzione di una formazione politica a livello nazionale, tra le quali si distinse – per dinamismo e perseveranza – quella di Domenico David, di Soriano nel Cimino, che può essere considerato il precursore del titoismo italiano.86 Tra le dissidenze “titine”, una delle più rilevanti – anche se una sua collocazione sul fianco «estremo» della sinistra deve essere accolta con cautela (in quanto non tutti gli attivisti sarebbero classificabili come rivoluzionari) – fu il movimento promosso dai deputati comunisti Valdo Magnani (segretario della federazione reggiana, cugino di Nilde Iotti e già partigiano in Jugoslavia) e Aldo Cucchi (medaglia d’oro al valor militare), spregiativamente definito, dai comunisti cominformisti, il movimento dei magnacucchi.87 Dopo che, durante i lavori del congresso provinciale del Pci di Reggio Emilia (19-21 gennaio 1951), Magnani rese pubbliche le sue divergenze con il comunismo cominformista e che Cucchi espresse il proprio accordo con le tesi del primo, il 26 gennaio 1951 i due deputati emiliani rassegnarono le dimissioni dal partito. Espulsi dal Pci pochi gior85. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 113, f. 1254/P «Movimento comunista titista», Riservata del questore di Roma al Gab. del Mi del 25 novembre 1949. 86. Nel 1950 Domenico David pubblicò l’opuscolo Lettera aperta ai dirigenti del PCI (Tipografia Morara, Roma). Nell’estate del 1950 i carabinieri di Viterbo comunicavano che «viene riferito da fonte confidenziale, attendibile, che il 23 corrente sia stata costituita in Roma una “Cooperativa editrice popolare” presidente della quale sarebbe l’ex sindaco di Terni – Morselli – anch’egli espulso dal PCI ed il David assumerebbe l’incarico di una specie di Consigliere delegato. Tale cooperativa si riprometterebbe, per ora, la pubblicazione di un opuscolo quindicinale» (ivi, Copia del Promemoria riservato-personale della Legione Carabinieri Lazio-Gruppo di Viterbo al prefetto di Viterbo del 31 agosto 1950). Nel 1951 David avrebbe fatto parte della segreteria nazionale organizzativa del Mli. Sull’espulsione di David cfr. Giacomo Zolla, 30 anni di storia e di lotte dei comunisti di Soriano nel Cimino. 1936-1966. Memorie di alcuni compagni della provincia, s.e. [tipografia “La Commerciale”], Soriano nel Cimino 1972, pp. 78-82. 87. Cfr. ad esempio Chi sono i magnacucchi, s.e. [Società tipografica editrice bolognese], s.l. [Bologna], 1953. Le critiche non differivano da quelle degli anni TrentaQuaranta: «i “magnacucchi” [erano] una raccolta di avventurieri politici, una banda di spie e di provocatori, maneggiata e foraggiata da servizi spionistici stranieri, dalla Confindustria e dalle Questure» (ivi, p. 24).

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ni dopo, Cucchi e Magnani vennero fatti oggetto di una violenta campagna denigratoria e bollati come traditori. Tuttavia, sulla base dei contatti personali e grazie alla vasta eco del loro gesto (che raggiunse dimensioni internazionali), in pochi giorni essi riuscirono a costituire alcuni comitati per la costruzione di un movimento «per l’unità e l’indipendenza operaia», ricevendo il sostegno di intellettuali terzaforzisti quali Codignola, Ignazio Silone e Piero Calamandrei e attraendo – sulla base di una concezione politica che insisteva molto sulla dicotomia democrazia versus dittatura – alcuni comunisti e socialisti “delusi”. Nel maggio 1951, grazie all’incontro con altri transfughi azionisti o socialisti (tra cui Lucio Libertini, Vera Lombardi, Giuliano Pischel, Mario Giovana e Rino Formica), venne fondato il Movimento lavoratori italiani (Mli) e, a partire dalla metà di giugno, pubblicato il settimanale «Risorgimento socialista», gestito dai siloniani Vittorio Libera, Lucio Libertini e Massimo Fichera.88 Secondo il movimento, la rottura della Jugoslavia con il Cominform sarebbe andata incontro all’esigenza del proletariato di ciascun paese di percorrere vie nazionali al socialismo. Alla luce di ciò, rafforzando lo schieramento che a livello internazionale si opponeva alla divisione del mondo in due blocchi, si sarebbe sbarrata la strada al fascismo e spianata la strada alla «soluzione socialista».89 Alle critiche serrate al ruolo di Stato-guida dei paesi socialisti rivendicato dall’Urss faceva da contrappeso la netta opposizione al patto Atlantico. A livello sindacale si passò dall’iniziale (novembre 1951) sostegno all’Unione italiana del lavoro (Uil), giudicata un sindacato non allineato, alla denuncia, nemmeno un anno dopo (settembre 1952), del carattere burocratico e riformista di questa organizzazione e alla 88. Cfr. i documenti in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 45, f. 161/P/22 «Partito comunista italiano. Defezioni» e ivi, b. 114, f. 1378/P «Movimento lavoratori italiani». Cfr. inoltre Sergio Dalmasso, I socialisti indipendenti in Italia (1951-1957). Storia e tematica politica, in «Movimento operaio e socialista», 3 (1973), pp. 169-254; I Magnacucchi. Valdo Magnani e la ricerca di una sinistra autonoma e democratica, a cura di Giorgio Boccolari e Luciano Casali, Feltrinelli, Milano 1991 e L’eresia dei magnacucchi sessant’anni dopo. Storie, analisi, testimonianze, a cura di Learco Andalò, Bononia University Press, Bologna 2012. Interessanti anche le memorie della seconda moglie di Magnani e figlia del socialista filosovietico Fernando Schiavetti: Franca Magnani [Schiavetti], Una famiglia italiana, Feltrinelli, Milano 1991 [ed. orig. Eine italianische Familie, Verlag Kiepenheuer & Witsch, Köln 1990]. 89. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 114, f. 1378/P, dattiloscritto Le nuove condizioni generali della lotta per il passaggio dal capitalismo al socialismo, s.d. ma fine giugno 1951. Si veda inoltre Valdo Magnani e Aldo Cucchi, Crisi di una generazione, La Nuova Italia, Firenze 1952, p. 59.

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conseguente impostazione di un’attività sindacale promossa da strutture riconducibili al movimento: i Nuclei di attività sindacale (Nas).90 Con il passare dei mesi, il Mli – non senza conflitti interni, determinati anche dal profilo “intellettualistico” del settimanale91 – si orientò verso la socialdemocrazia di sinistra, cercando di attrarre il Psdi e il Psi fuori dall’orbita dei due maggiori partiti. Riuscendo solo parzialmente in tale intento, il movimento di Magnani e Cucchi – alla cui direzione si aggiunsero, oltre a Pischel, Riccardo Cocconi e Carlo Andreoni – si fuse, dopo la breve esperienza unitaria delle Federazioni socialiste indipendenti, con una frazione della sinistra socialdemocratica e con alcuni autonomisti espulsi dal Psi, dando vita – nel marzo 1953 – all’Unione socialista indipendente (Usi). Tale organizzazione politica, che si autorappresentò come «rivoluzionaria» ma si collocò nel campo terzaforzista tipico della socialdemocrazia di sinistra, si presentò autonomamente alle elezioni del giugno 1953, contribuendo, nonostante il magro risultato, a neutralizzare gli effetti maggioritari della “legge truffa”.92 Inseguendo il miraggio dell’unificazione dei terzaforzisti – dal Movimento di autonomia socialista (Mas) e da Unità popolare di Codignola e Calamandrei al nuovo Msup di Alfredo Lavatelli, dalla sinistra socialdemocratica (Mario Zagari) agli esponenti del Psi più sensibili alle tematiche autonomiste (Riccardo Lombardi)93 – l’Usi, dopo aver inglobato le organizzazioni pro-jugoslave triestine in conseguenza dell’insediamento dell’amministrazione italiana a Trieste, proseguì la propria attività per 90. Cfr. Movimento lavoratori italiani, Per l’unità e l’indipendenza del sindacato. Risoluzione del I convegno nazionale sindacale del Mli. Roma 25 novembre 1951, s.l. [Civita Castellana], s.e. [Arti grafiche Aurora], s.d. [1951] e Risoluzione finale del 2° convegno sindacale, in «Risorgimento socialista», 5 ottobre 1952. 91. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 114, f. 1378/P, riservata del questore di Roma al Capo della polizia dell’8 gennaio1952 e ivi, riservatissima del questore di Roma al Capo della polizia del 27 settembre 1952 con la quale si segnala una crisi diplomatica con gli jugoslavi per un articolo di Libertini. 92. Nelle consultazioni per l’elezione dei rappresentanti alla Camera dei deputati l’Usi, che non si presentò in tutte le circoscrizioni, raccolse circa 225.000 preferenze. Voti che, sommati ai circa 170.000 delle liste di Unità popolare, raggiunsero l’obiettivo di non far scattare il premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale. 93. Su Lombardi cfr. Luca Bufarale, Riccardo Lombardi. La giovinezza politica (1919-1949), Viella, Roma 2014. Più in generale, su quest’area cfr. Daniele Pipitone, Il socialismo democratico italiano fra la Liberazione e la legge truffa. Fratture, ricomposizioni e culture politiche di un’area di frontiera, Ledizioni, Milano 2013.

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qualche mese per poi scindersi, nella primavera del 1956, tra un’ala minoritaria favorevole all’ingresso nel Psdi (capeggiata da Cucchi, che, con la sua corrente, abbandonò l’unione) e quella filosocialista di Magnani e della maggioranza degli iscritti. Nel febbraio-marzo del 1957, l’Unione socialista indipendente – ad eccezione del nucleo sloveno di Trieste – si sciolse per confluire nel Partito socialista. Nel 1961 Magnani chiese di essere riammesso nel Pci, richiesta che fu accolta l’anno successivo.94 Altresì degna di nota è la “ricostituzione” di Stella rossa su basi anticominformiste, nell’aprile 1954 a Torino. In realtà, si trattava di un nuovo (quanto equivoco) movimento – la cui denominazione ufficiale fu Opposizione comunista Stella rossa (Ocsr) – organizzato dall’ex partigiano stellarossino Mario Arnò, schedato come «ex comunista ed anarchico», nonché collaboratore del movimento anticomunista Pace e libertà di Edgardo Sogno e del “discusso” Luigi Cavallo (anch’esso ex militante di Stella rossa), da Vittorio Tedeschi (anch’egli passato per Pace e libertà) e da Giovanni Moretti. Secondo le informative della polizia, altro non sarebbe stato che la prosecuzione dell’esperienza di Cucchi e Magnani (una riedizione «del defunto movimento “Ordine Nuovo”»), con l’appoggio diretto della Legazione jugoslava in Italia e di «noti agenti titini di Trieste». Presente in Piemonte e Lombardia, avrebbe allacciato contatti – al fine di un’improbabile operazione fusionista – con gli internazionalisti di Onorato Damen e con Lelio Basso; circostanza, quest’ultima, da accogliere – come sottolineano le stesse autorità – «con le dovute riserve, mancando di qualsiasi conferma».95 L’Ocsr, che si caratterizzò per la sua violenta polemica verso il Pci (definito «il partito cominformista»), proseguì tra alti e bassi la sua attività propagandistica per poco più di un anno, accentuando – grazie anche all’apporto di personalità provenienti dall’anarchismo quali Ilario Margarita – il suo antistalinismo. L’ultima uscita pubblica del movimento (che ricevette anche il sostegno di una parte dei partigiani “autonomi” della Fivl) fu un comizio di Arnò a Torino nell’ottobre del 1955: gli elogi alla «politica socialista di pace» jugoslava e indiana, vennero accompagnati con le aspre critiche a 94. Cfr. i documenti in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 45, f. 161/P/22; ivi, b. 114, f. 1378/P e ivi, b. 111, f. 1092/P «Unione socialista indipendente»; ivi, b. 115, f. 1417/P «Movimento socialista di unità proletaria»; ivi, f. 1431/P «Autonomia socialista. Dissidenti PSDI» e f. 1455/P «Unità popolare». 95. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 110, f. 446/P «Stella rossa. Movimento di opposizione comunista», Lettera del prefetto di Torino al Gab. del Mi dell’11 giugno 1954.

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Togliatti e ad altri dirigenti del Pci – tra cui Pietro Ingrao, Davide Lajolo e Luciano Gruppi – accusati per il loro passato fascista.96 La riappacificazione jugoslavo-sovietica (maggio-giugno 1955) e lo scioglimento del Cominform (aprile 1956) erosero, infine, le basi programmatiche su cui poggiava il piccolo movimento.97

96. Cfr. ivi, Lettera del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 5 ottobre 1955. 97. Cfr. ibidem e, per quanto riguarda i rapporti con Pace e Libertà, i vari documenti conservati ivi, b. 111, f. 840/P/5 «Fronte anticomunista. Organizzazioni varie». In un documento del 1954, Cavallo viene indicato come «giornalista segnalato dalla Questura di Roma, quale agente jugoslavo» (ivi, Scheda di aggiornamento relativa alla testata «Pace e Libertà» del 21 agosto 1954). Stando alle informazioni del ministero dell’Interno, nonostante fosse «corsa voce che la costituzione» del Comitato Alta Italia di Pace e Libertà «sarebbe stata promossa dagli anglo-americani e, segnatamente, dagli inglesi che lo finanzierebbero», è «stato accertato invece che il comitato è indipendente e finora non ha ricevuto alcun appoggio dall’estero» (ivi, riservata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 18 gennaio 1954).

3. Una destalinizzazione a metà

1. Le ripercussioni del 1956: l’area della Sinistra comunista Come già accennato, il 1956 rappresentò un anno spartiacque per il movimento operaio internazionale. In febbraio, durante il XX congresso del Pcus, Nikita Sergeevič Chruščëv, per mezzo di un rapporto che restò segreto solo per breve tempo, denunciò i crimini dello stalinismo, demolendo così il mito del dittatore georgiano e avviando, pur contraddittoriamente, un processo di destalinizzazione che coinvolse anche gli stati satelliti ed ebbe come conseguenza l’avvio della politica della «coesistenza pacifica» e la legittimazione della praticabilità delle «vie nazionali» al socialismo. In Europa ciò provocò, quasi ovunque (tranne che in Albania), un moto di avversione «del modello staliniano che si espresse con rivendicazioni di autonomia e di maggiore democrazia».1 Ma la pronta ricerca di «vie nazionali» al socialismo in Polonia e Ungheria, trovò – come noto – l’opposizione della nuova leadership sovietica che temette il distacco dei due paesi dal blocco esteuropeo. Quando il Pci tenne il suo VIII congresso (Roma, 8-14 dicembre), i carri armati sovietici a Budapest – giunti per stroncare la rivolta autonomista – avevano già fatto piazza pulita delle speranze di cambiamento dei ribelli. L’esito del congresso – che giudicò positivamente il processo di destalinizzazione ma, di fatto, approvò la sanguinosa repressione della rivolta ungherese, definita una «dolorosa necessità»2 – deluse le aspettative degli “innovatori” ma anche quelle dei “nostalgici”. 1. Leonardo Casalino, voce Il 1956, in Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, p. 759. Più in generale, sul 1956 cfr. Marcello Flores, Il 1956, il Mulino, Bologna 1996. 2. Pietro Ingrao, Masse e potere, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 142.

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La «via nazionale» al socialismo sarebbe dovuta passare – come primo passo – per le «riforme di struttura», per la cui realizzazione il partito avrebbe dovuto combattere, sia al suo interno che al di fuori, il «settarismo massimalistico» e il «revisionismo riformistico». Come conseguenza immediata, sia gli intellettuali che sull’onda dei moti ungheresi firmarono la “lettera dei 101” (una protesta indirizzata al Cc del Pci), sia molti elementi secchiani o genericamente stalinisti cominciarono ad allontanarsi dal partito. Se i sostenitori delle «posizioni settarie» si limitarono – almeno fino all’esplosione del dissidio tra Cina e Urss – a una sorta di resistenza passiva, coloro che non ritennero sufficiente la cesura con le pratiche e i costumi dello stalinismo si separarono immediatamente dal Pci. Tra abbandoni ed espulsioni gli iscritti scesero rapidamente di 200.000 unità, dando avvio a «una china discendente delle iscrizioni, che avrebbe cominciato a invertirsi solo all’inizio degli anni settanta».3 Nel frattempo, si consolidò anche il dissidentismo classista eterodosso, frutto della fusione tra i comunisti libertari dei Gaap e alcune realtà (o personalità) interne al Pci che si richiamavano al leninismo “genuino” e le dissidenze storiche trocko-bordighiste. Nel luglio del 1954 si raccolse attorno al transfuga del Pci Giulio Seniga, stretto collaboratore di Pietro Secchia, un nucleo di dissidenti orientati in senso operaista e rivoluzionario. Tra essi, figure di primo piano come l’ex partigiano Luciano Raimondi, dirigente nazionale dei Convitti «Rinascita», e Bruno Fortichiari, fondatore e già esponente di primo piano del Pcdi.4 Dopo due anni di attività entrista, in seguito alla pubblicazione del mensile «Azione comunista» Fortichiari e Raimondi vennero espulsi dal Pci, determinando così l’abbandono della prospettiva orientata al lavoro politico dentro il partito di Togliatti. Dopo i fatti d’Ungheria – che videro 3. Albertina Vittoria, Storia del PCI. 1921-1991, Carocci, Roma 2006, p. 86. 4. Deluso da Secchia e dalla sua condotta verso il nuovo corso del Pci, Giulio Seniga, per gli amici Nino, abbandonò Roma fuggendo a Milano, ospite di Gianni Brera, con parte dei soldi della cassa del partito (si presume la metà). In brevissimo tempo entrò in relazione con alcune personalità del dissidentismo socialcomunista, mutando così la sua iniziale impostazione staliniana e filosovietica nel suo contrario. Sul caso Seniga cfr. Fig, Apc, Partito, 1954, Caso “S”, mf. 021, pp. 1-752. Sulla fuga da Roma col “bagaglio che scotta” cfr. Giulio Seniga, Credevo nel partito. Memorie di un riformista rivoluzionario, a cura di Maria Antonietta Serci e Martino Seniga, Bfs edizioni, Pisa 2011, pp. 120-129. Si veda anche Mario Padano [Gianni Brera], La nuova battaglia di Seniga, in «Settimo Giorno», 7 maggio 1958. L’amicizia tra Seniga e Brera risaliva agli anni della Resistenza (cfr. Maria Antonietta Serci, L’archivio di Giulio Seniga, un riformista rivoluzionario, in Seniga, Credevo nel partito, p. 12).

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il gruppo di «Azione comunista» solidarizzare con gli insorti – la spinta verso l’unità delle dissidenze classiste subì un’accelerazione: il 16 dicembre 1956, nei locali del cinema “Dante” di Milano, gli azionisti-comunisti costituirono, unitamente ai trockisti dei Gcr, alla componente bordighiana sui generis raccolta attorno al PcInt-Bc di Onorato Damen e ai comunisti libertari dei Gaap – che continuavano a pubblicare «L’Impulso» ma avevano, nell’ottobre del 1956, mutato denominazione in Federazione comunista libertaria – il Movimento per la Sinistra comunista (Msc), con l’ambizione di costruire una grande alleanza delle forze della sinistra proletaria.5 Nonostante le varie iniziative “unitarie” dei primi mesi del nuovo anno6 e, quindi, l’iniziale sviluppo del progetto (soprattutto in Piemonte, Liguria, Marche, Umbria, Puglia, Sicilia e Sardegna), il processo di aggregazione non decollò. Dopo le defezioni della base “secchiana” (delusa dall’ostilità verso l’Urss in occasione dei fatti d’Ungheria), nella primavera del 1957 abbandonarono il movimento – con motivazioni differenti – anche trockisti e damenisti.7 Di fatto, il Movimento per la Sinistra comunista si risolse nella fusione – avvenuta in occasione di una riunione nazionale tenutasi a Genova il 28 aprile – tra il gruppo di Fortichiari e Raimondi e la Fcl, ossia gli ex Gaap. A dirigere il nuovo raggruppamento furono chiamati i principali esponenti dei due gruppi originari, fra cui Pier Carlo Masini, Ugo Scattoni, Fortichiari e Raimondi.8 5. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 138 e Acs, Mi, Dgps, Dag, 1956, b. 22, f. K3/1 «Federazione anarchica italiana» e ivi, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P «Movimento della Sinistra comunista», in particolare la riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 19 dicembre 1956. 6. Cfr. ad esempio l’informativa relativa a una riunione torinese del marzo 1957: «Si sono oggi qui riuniti i maggiori esponenti della costituenda “sinistra comunista”, cui aderirono elementi dissidenti del PCI, raggruppati in quattro diverse correnti politiche e cioè “Partito Comunista Internazionalista”-“Federazione Libertaria Comunista”-“Gruppo Comunista Rivoluzionario” e “Azione Comunista”. Gli stessi si erano già incontrati nei mesi scorsi a Milano, San Severo (Foggia) e Pesaro. Nella mattinata i predetti hanno tenuto un comizio pubblico al cinema “Maffei”, mentre nel pomeriggio si sono riuniti a convegno in un locale di corso Novara n. 5» (Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P, nota del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 10 marzo 1957). 7. Come nota Montaldi, nel 1957 «si disperde tutta una opposizione che all’VIII Congresso non ha potuto, saputo, voluto manifestarsi; […] l’opposizione si frantuma [e] non sa istituire un piano di lotte contro il piano riformistico dei destalinizzatori ufficiali» (Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia, pp. 322-323). 8. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 110, f. 455/P, telegramma del questore di Milano alla questura di Genova del 26 aprile 1957 e ivi, b. 100, f. 278/P, nota del prefetto di

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La nuova organizzazione decise di non pubblicare più «L’Impulso» e mantenne come proprio organo di stampa «Azione comunista» (nome con il quale continuò, di fatto, ad essere identificato il movimento).9 Come informò il prefetto genovese, «secondo notizie confidenziali pervenute alla locale Questura» avrebbero fatto parte del «corpo redazionale» della rivista Raimondi e Fortichiari (rispettivamente direttore e vicedirettore), il libertario Aldo Vinazza («residente a Genova, iscritto al CPC, per “attenta vigilanza”») e «il dott. Masini Pier Carlo, iscritto al CPC, per “attenta vigilanza”, anarchico, funzionario del provveditorato agli studi di Livorno – elemento molto preparato, cui verrebbe affidata la direzione del corpo redazionale – il quale avrebbe divisato [sic] di chiedere il trasferimento» da Livorno a Milano.10 Per quanto riguarda gli aspetti economici: «I fondi per il finanziamento di tale giornale e del movimento unificato della Sinistra Comunista sarebbero costituiti dalla somma di L. 200 milioni, di cui disporrebbe [Giulio] Seniga fin da quando lasciò (circa due anni or sono) l’ufficio affari di via delle Botteghe Oscure».11 Anche per merito della disponibilità finanziaria, il movimento riuscì ad aprire proprie sezioni in molte città italiane, come testimoniato – oltre che dalle fonti autorappresentative dello stesso Msc – dalle carte di polizia: da Trieste12 (la cui sezione nacque dalla confluenza del gruppo di anarchici Torino al Gab. del Mi del 9 maggio 1957 e nota a carattere riservato del questore di Roma al Capo della polizia del 3 giugno 1957. Per una sintesi cfr. Arturo Peregalli, Le dissidenze comuniste tra Lenin e Mao. «Azione Comunista» (1956-1965), in «Classe», 17 (1980), pp. 137-151 e Giorgio Amico, Azione comunista da Seniga a Cervetto (1954-1966), introduzione di Paolo Casciola, Massari, Bolsena 2020. 9. «L’Impulso» venne pubblicato fino al 30 aprile 1957, cioè fino al momento in cui la Fcl confluì nel Movimento della Sinistra comunista (cfr. Dizionario biografico degli anarchici italiani, vol. II, p. 637). Come notava il prefetto torinese: «Organo di stampa del Movimento sarà il noto periodico “Azione Comunista” già da tempo edito a Milano […], mentre il quindicinale “L’Impulso” finora stampato a Livorno a cura della Federazione Comunista Libertaria cesserà le pubblicazioni in attesa di una sua eventuale trasformazione in rivista bimestrale ad esclusivo carattere dottrinario» (Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P, nota del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 9 maggio 1957). 10. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P, copia della nota del prefetto di Genova alla Dag del 18 maggio 1957. 11. Ibidem. 12. Come notava il commissario prefettizio, il Partito comunista libertario (Pcl) «ha assunto dal 1° febbraio scorso la denominazione di “Movimento della sinistra comunista”. La decisione sarebbe stata presa dopo vari contatti che l’anarchico Bazzanella Claudio avrebbe ultimamente avuto con gli esponenti milanesi della sinistra comunista» (Acs, Mi,

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guidati da Claudio Bazzanella, organizzatisi nel corso del 1957 in Partito comunista libertario) a Perugia,13 dal meridione alle isole principali (le autorità, sorvegliando gli spostamenti di Masini, Raimondi e Cervetto, segnalavano la presenza di gruppi a Cagliari, Messina, Catania e Siracusa).14 Ciò nonostante, essa non riuscì ad attrarre a sé la gran parte dei gruppi della dissidenza socialcomunista manifestatasi dopo la crisi ungherese e l’VIII congresso del Pci né, tanto meno, i nuclei libertari “irregolari”, perdendo altresì le componenti insoddisfatte dai risultati della parziale unificazione. Ad esempio, il gruppo genovese di ex azionisti-comunisti – guidato dall’ex presidente provinciale dell’Anpi di Genova Fernando Pucci – diede vita all’effimera, quanto ambigua, esperienza del Partito social comunista nazionale (Pscn) che, in ogni modo, non riuscì a raggruppare più di 200 aderenti per poi scomparire nel giro di qualche mese.15 Se nelle prime fasi il collante politico, soprattutto a livello di base e nelle realtà periferiche, era costituito da un superficiale antitogliattismo,16 col trascorrere dei mesi all’iniziale pluralità di vedute, specie sulla queGab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P, riservata del Commissario generale del governo per il territorio di Trieste al Gab. del Mi del 20 marzo 1958). 13. Il prefetto perugino, dopo aver segnalato il limitato attivismo del gruppo (che associava «elementi anarchici e dissidenti del PCI»), forniva al ministero alcune note di costume sul conto del suo principale organizzatore, Victor Ugo Bistoni: «ex partigiano ed ex agente ausiliario di PS, nell’autunno dello scorso anno prese parte al concorso televisivo “Lascia o raddoppia?” sulla Storia dei Longobardi, vincendo il massimo premio di oltre cinque milioni di lire» (ivi, riservata-raccomandata-urgente del prefetto di Perugia al Gab. del Mi del 24 aprile 1958). Su Bistoni, cfr. la voce da me redatta in Dizionario biografico degli anarchici italiani, vol. I, ad vocem. 14. Cfr. i documenti in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P e ivi, f. 293/P «Movimento operaio di Azione comunista». 15. Cfr. ivi, b. 100, f. 279/P «Partito socialcomunista nazionale», in particolare la copia della riservata-raccomandata del questore di Genova alla Dag e Dar, del 20 luglio 1957 e la nota del Capo di stato maggiore al Gab. del Mi del 30 agosto 1957. Attraverso tali documenti, il questore genovese e il Capo di stato maggiore (il generale di Brigata Francesco Pontani) segnalavano la nuova organizzazione come una formazione a carattere sostanzialmente nazionalistico e corporativo. 16. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 293/P, riservata-raccomandata-doppia/ busta del prefetto di Catania al Gab. del Mi del 17 ottobre 1957, che restituisce, in modo esemplificativo, il clima del movimento in periferia. In merito ad una riunione tenutasi nei locali della Camera del lavoro di San Giovanni la Punta (in provincia di Catania), ecco cosa comunicava il prefetto: «Gli intervenuti, dopo una movimentata discussione, hanno dichiarato che il movimento, pur non essendo anticomunista, non approva l’operato dell’attuale direzione del partito e, in particolare, i metodi instaurati dall’On.le Palmiro Togliatti».

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stione della natura sociale dell’Urss, il giornale «Azione comunista» si indirizzò verso una forma di sinistrismo assimilabile all’antistalinismo anarco-bordighista. Ciò grazie agli interventi degli ex comunisti libertari e di Fortichiari ma anche ad alcuni contributi dello stesso Bordiga,17 il cui giudizio nei confronti del Msc fu, ad ogni buon conto, non certo indulgente. Altri collaboratori esterni della rivista e del movimento furono Giorgio Galli (legato a Seniga da amicizia)18 e, dal 1958, Danilo Montaldi,19 mentre vennero allacciati rapporti – tramite lo stesso Montaldi – con la rivista francese «Socialisme ou barbarie» (la quale, in parte e in principio, influenzò gli orientamenti del Msc tramite la componente degli ex Gaap) e, dalla fine del 1961, con il gruppo dei «Quaderni rossi» di Panzieri.20 Nonostante il processo di omogeneizzazione procedesse, all’interno del nuovo movimento si delinearono tre correnti contrapposte: quella rappresentata da Masini e Seniga (spalleggiati da Giorgio Galli), che considerava il Msc come transitorio ed era favorevole alla confluenza del movimento nel Partito socialista allo scopo di rafforzarne l’ala antistalinista e rivoluzionaria; quella di Cervetto e Parodi – nel frattempo convertitisi al leninismo più ortodosso (o presunto tale) – favorevole alla costituzione di un’organizzazione indipendente di rivoluzionari di professione; e quella di Fortichiari e Raimondi che tendeva a collocarsi nel mezzo, con la speranza di tenere unito il movimento. Durante e dopo il convegno di Livorno (3-4 novembre 1957), l’atteggiamento contraddittorio dei due dirigenti “storici” Masini e Seniga spinse la corrente di Cervetto e Parodi (altrimenti detti i “liguri”) ad autonomizzarsi dal movimento, pubblicando un bollettino ciclostilato («Orientamenti») e dando vita ai Collettivi di studio della sinistra comunista, incunabolo organizzativo dei Gruppi leninisti della sinistra comunista (Glsc), meglio noti – dal titolo della loro testata – come «Lotta comunista».21 Masini – di fatto – 17. Cfr., ad esempio, Il corso storico della Rivoluzione Russa, in «Azione comunista», 1 dicembre 1957. 18. Sull’amicizia tra Galli e Seniga cfr. Galli, Intervista, p. 125. Galli e Masini curarono i rapporti internazionali (cfr. Bertolucci e Mangini, Note per una biografia masiniana, p. 46). 19. Cfr. Gabriella Montaldi Seelhorst, Cronologia della vita e delle opere, in «Parolechiave», 38 (2007), p. 162. A riguardo, si veda anche Maria Grazia Meriggi, Il lavoro politico e l’impegno professionale di Danilo Montaldi, ivi, pp. 81-89. 20. Cfr. Peregalli, Le dissidenze comuniste tra Lenin e Mao, pp. 141-148 e Socialisme ou barbarie. Antologia critica, a cura di Mario Baccianini e Angelo Tartarini, Guanda, Parma 1969, pp. 26-27. 21. Cfr. Bertolucci e Mangini, Note per una biografia masiniana, p. 46.

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rimproverava ai suoi compagni ex Gaap (e poi Fcl) e ai nuovi compagni di strada di non rendersi conto come il progetto fosse sostanzialmente fallito, poiché il fenomeno della dissidenza socialcomunista si era rivelato «troppo debole».22 L’avvicinamento di Masini ad Alleanza socialista la formazione politica fondata dall’ex stalinista e poi convinto atlantista Eugenio Reale23 (movimento che pubblicava «Corrispondenza socialista» e che poi – nell’autunno del 1959 – confluì nel Psdi), ebbe come inevitabile conseguenza, nel dicembre del 1958, l’espulsione dell’esponente libertario dal Msc.24 Alcuni mesi più tardi, nell’aprile 1959, la stessa sorte toccò al principale promotore del movimento, Giulio Seniga, accusato di personalismo e burocratismo nonché di aver sostenuto l’attività disgregatrice di Masini.25 La risposta di Seniga – pubblica, poiché il Msc aveva pubblicizzato la sua estromissione con un comunicato su «Il Giorno» – era indicativa di quali fossero le ragioni centrali della contesa: Quando insieme ad altri compagni, ho constatato che, per essere più efficace, la nostra azione richiedeva iniziative e strumenti diversi dal “piccolo gruppo”, parodia del grande partito-caserma, ho cercato di orientare in questo senso la nostra azione […]. A questa esigenza di imboccare una strada nuova altri opposero trappole e resistenze. Da qui la decisione pratica di andare ognuno per la sua strada.26 22. Pier Carlo Masini, Le ragioni di dissenso, in «Bollettino interno del Movimento della sinistra comunista», 2 (1958). 23. In assenza di una biografia su Reale, cfr. Eugenio Reale l’uomo che sfidò Togliatti, a cura di Antonio Carioti, Liberal libri, Firenze 1998. Sul suo successivo “atlantismo militante” e sulla sua collaborazione all’ufficio retto da Federico Umberto D’Amato cfr. Pacini, Il cuore occulto del potere, p. 109. 24. In occasione del XXXIII congresso del Psi del gennaio 1959, Masini distribuì uno stampato fortemente antitogliattiano – dal titolo Una classe. Un partito. Numero unico edito a cura di un gruppo della Sinistra Comunista in occasione del 33º Congresso del Partito Socialista Italiano – che aveva tra i sui scopi quello di unificare la classe operaia nel Psi (cfr. Bertolucci e Mangini, Note per una biografia masiniana, p. 50). 25. Cfr. Seniga non ha più nulla a che fare con il nostro movimento, in «Azione comunista», 10 aprile 1959. Seniga fu criticato per aver «tollerato e poi agevolato il tentativo di P.C. Masini inteso a portare [il movimento e il giornale] su direttive completamente opposte a quelle che ne avevano caratterizzata l’origine». Inoltre lo si accusa di insofferenza verso il «controllo collegiale politico». 26. Lettera di Giulio Seniga al direttore de «Il Giorno», 12 aprile 1959; ora in Seniga, Credevo nel partito, pp. 169-170. Copia della lettera è conservata anche in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P.

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Oltre a indebolire il movimento (come notarono prontamente le autorità di Ps),27 le espulsioni di Masini e Seniga, necessarie per recuperare la dissidenza dei “liguri”, sancirono la supremazia di Cervetto e Parodi all’interno del Msc, il quale subì un’accelerazione in senso “iper-leninista” (a livello organizzativo) e “simil-para-bordighiano” (a livello teorico-politico). Con lo zelo che solitamente contraddistingue i neofiti, i due ex libertari formularono l’impianto teorico del loro leninismo attorno ad alcuni concetti chiave tra cui spiccava quello di «imperialismo unitario». Secondo tale formula l’economia globale sarebbe stata caratterizzata da un’unica legge, quella del mercato, in quanto anche i paesi autoproclamatisi socialisti sarebbero stati, in realtà, capitalisti. Conseguentemente, i conflitti tra nazioni o alleanze di Stati altro non erano che scontri per la spartizione delle sfere d’influenza e dei mercati. Come logico corollario, la rottura tra sovietici e cinesi venne letta, dalla maggioranza del Msc, come una lotta tra nazioni imperialiste: lo stagionato imperialismo sovietico versus il giovane e scalpitante imperialismo cinese. Ma una parte del movimento – quella maggiormente legata alle tradizioni partigiane e al mito della «resistenza tradita» – si fece interprete, tramite Raimondi, delle ragioni della Cina e, più in generale, delle istanze terzomondiste. Così, mentre la direzione del giornale veniva trasferita a Genova e, nel 1964, Arrigo Cervetto – in attesa di pubblicare «un testo-base della corrente leninista in Italia»,28 che vide poi la luce due anni dopo – definiva altre “linee guida” del movimento (un mix di oggettivismo messianico e rivendicazionismo sindacale), all’inizio del 1965 Raimondi abbandonò l’organizzazione rivendicando, in ogni modo, la direzione di «Azione comunista», della quale risultava essere proprietario. Ciò, dopo un decennio, sancì il tramonto (o, meglio, la metamorfosi) dell’esperienza: Raimondi, collegandosi con altri gruppi filocinesi, costituì la Federazione marxista-leninista d’Italia (Fmldi), mentre i “liguri”, nel dicembre 1965, in un’ottica comunque continuista, mutarono nome al movimento in Gruppi leninisti della sinistra comunista e alla testata in «Lotta comunista».29 27. Cfr. ivi, riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 14 aprile 1959. 28. Arrigo Cervetto, Lotte di classe e partito rivoluzionario, Lotta comunista, Milano 2004 [1a ed. 1966], p. IX. 29. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P e ivi, f. 293/P. Cfr. inoltre Il sessantotto. La stagione dei movimenti, pp. 138-139 e Amico e Colombo, Un comunista senza rivoluzione, p. 58 ss.

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Come noto, anche gli effetti del 1956 sugli intellettuali e le strutture culturali del Pci furono ragguardevoli. Alla “normalizzazione” delle riviste e degli istituti di studio vicini al partito filosovietico, si accompagnò l’abbandono di personalità quali Carlo Muscetta e Sergio Bertelli (organizzatori della “lettera dei 101”), Natalino Sapegno, Domenico Purificato, Delio Cantimori e Antonio Giolitti (che pubblicò il saggio Riforme e rivoluzione); mentre ne furono espulsi Fabrizio Onofri e il già citato Eugenio Reale (che, come detto, fondò la terzaforzista Alleanza socialista). Del resto, l’esigenza di individuare gli «elementi frazionisti» e «prendere misure» e quella di avere «compagni completamente leali col partito» nei vari apparati vennero formulate dalla direzione del Pci già alla fine di ottobre, cioè fin dal primo dei due interventi militari sovietici.30 Oltre alle esperienze terzaforziste (o, che dir si voglia, terzocampiste) di Giolitti e Reale, una conseguenza del XX congresso del Pcus e delle vicende del 1956 furono anche alcune microscissioni, prevalentemente a carattere locale, alcune delle quali riconducibili alle matrici culturali e politiche proprie della sinistra rivoluzionaria. Probabilmente dietro la scissione del Movimento della Democrazia comunista (Mdc) – promosso in Basilicata da Carlo Antolini, sindaco di Venosa e in contatto con Stella rossa di Torino – vi furono anche ragioni riconducibili ai fatti del gennaio 1956 (i violenti scontri tra polizia e dimostranti nei quali perse la vita il giovane disoccupato Rocco Girasole) e potrebbe inoltre esserci stata, come affermano le fonti fiduciarie, l’azione di alcuni industriali settentrionali.31 Più genuinamente figlie dello spirito del 1956 furono invece le esperienze del Riscatto dei lavoratori di Messina – fondato da Elio Cogliani, schedato come «comunista dissidente» – che nei primi mesi del 1958 si trasformò in Movimento democratico 30. Cfr. Quel terribile 1956, p. 240. Su Giolitti cfr. Antonio Giolitti. Una riflessione storica, a cura di Giuliano Amato, Viella, Roma 2012. 31. Si vedano i documenti in Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 292/P «Movimento della Democrazia comunista». Il 13 gennaio 1956 a Venosa alcune centinaia di disoccupati organizzarono uno “sciopero al rovescio”, spalando la neve dalle principali vie dell’abitato. L’intervento della celere, che cercò di togliere gli strumenti di lavoro e di disperdere i manifestanti, provocò violenti scontri che si conclusero con la morte del ventenne Rocco Girasole e molti feriti. Il successivo 5 novembre le forze dell’ordine circondano il centro storico di Venosa, traendo in arresto una trentina di persone. Sui fatti di Venosa e sulla loro memoria cfr. Mimmo Perrotta, Le memorie di Girasole. Una ricerca per il cinquantenario dell’uccisione di un bracciante lucano, in «Zapruder», 12 (2007), pp. 94-97. Cfr. anche il documentario di Giuseppe Bellasalma e Benedetto Guadagno, La morte di Girasole, Italia, 56’, 2006.

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dei lavoratori e del Movimento nazionale massimalista, promosso a Rimini nell’aprile 1958 da Anacleto Ricci, già membro della Fgci e del Pci.32 Si trattò, come detto, di esperienze locali che in termini numerici raccolsero appena qualche centinaio di militanti (solo eccezionalmente, come nel caso del Mdl, un migliaio o poco più) e che non seppero formare gruppi dirigenti in grado di traghettare la massa dei fuorusciti dal Pci verso una conseguente e duratura militanza rivoluzionaria. Una capacità posseduta, invece, da alcuni gruppi di intellettuali raccolti attorno a organi editoriali di carattere culturale, in grado di andare anche oltre la sfera degli ex comunisti. Se dopo il 1956 la cultura di sinistra fu infatti «investita fino in fondo dalla crisi dello stalinismo» e fu obbligata a trarre «un bilancio dei decenni trascorsi» mettendo in discussione i propri strumenti operativi,33 ciò avvenne anche e soprattutto grazie alla cosiddetta «stagione delle riviste» (1956-1969). Accanto a pubblicazioni a carattere prevalentemente politico, vennero fondati periodici di letteratura, poesia, storia e cinema che estesero la critica dal particolare ai problemi della società.34 Furono esperimenti di socializzazione di idee che travolsero i 32. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 281/P «Il riscatto dei lavoratori “Movimento politico”» e ivi, f. 287/P «Movimento nazionale massimalista». Il Mnm contava una quindicina di aderenti all’inizio, e circa 170 nel settembre 1959, mese in cui il prefetto di Forlì segnalava la costituzione di squadre denominate «Camicie d’argento», riunite in piccoli nuclei. «Dette formazioni secondo le intenzioni dei dirigenti del Movimento, dovrebbero essere adibite alla difesa democratica del partito» (ivi, raccomandata riservata del prefetto di Forlì al Gab. del Mi del 10 settembre 1959). 33. Cfr. Alberto Stramaccioni, Il Sessantotto e la sinistra. Movimenti e culture. L’esperienza umbra. 1966-1972, Prefazione di Fabrizio Bracco, Protagon, Perugia 1988, p. 30. Come notato, fu «soprattutto sul terreno culturale non immediatamente politico e teorico che le riviste [espressero] una mentalità aperta all’ecclettismo e alla molteplicità di punti di vista»; Marcello Flores, Il ’68 attraverso le riviste: anticipazioni, convergenze, fraintendimenti, in Il Sessantotto: l’evento e la storia, a cura di Pier Paolo Poggio, «Annali della Fondazione “Luigi Micheletti”», 4 (1988-1989), pp. 119-124 (cit. a p. 123). 34. Sulla stagione delle riviste cfr. Elisabetta Mondello, Gli anni delle riviste. Le riviste letterarie dal 1945 agli anni ottanta, Milella, Lecce 1985; Attilio Mangano, Le culture del Sessantotto. Gli anni sessanta, le riviste, il movimento, Prefazione di Pier Paolo Poggio, Centro di documentazione di Pistoia-Fondazione Micheletti-Comune di Pistoia, Pistoia 1989; Giuseppe Muraca, Da «Il Politecnico» a «Linea d’Ombra». Le riviste della sinistra eterodossa, Lalli, Poggibonsi 1990; Giancarlo Monina, Tra politica e cultura. «La Cittadella» (1946-1948), in 1945-1946. Le origini della Repubblica, a cura di Id., vol. II, Questione istituzionale e costruzione del sistema politico democratico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 257-302; Giacomo Pontremoli, I “Piacentini”. Storia di una rivista (1962-1980), Edizioni dell’Asino, Roma 2017. Volendo allargare lo spettro

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tradizionali confini disciplinari e che nell’arco di un decennio subirono un processo di radicalizzazione verso sinistra, dando vita a percorsi che non di rado riuscirono a convergere con quelli delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria.35 Ovviamente, anche alcune esperienze editoriali propriamente politiche contribuirono, tra il 1956 e il 1968, alla rielaborazione di un pensiero «rivoluzionario». Oltre alle pubblicazioni di area trockista («La Sinistra» e «Falcemartello») e alle riviste riconducibili al filone neo-operaista, di cui si dirà tra breve, vanno senz’altro ricordate «Problemi del socialismo», «Mondo nuovo», «Classe e Stato» e l’edizione italiana della statunitense «Monthly review».36 Infine, occorre senz’altro ricordare che il «sinistrismo» ebbe modo di svilupparsi anche all’interno di due pubblicazioni del più antico partito del movimento operaio italiano, l’«Avanti!» e «Mondo operaio», grazie all’opera di due intellettuali quali Gianni Bosio e Raniero Panzieri. All’interno dell’«Avanti!», dal marzo 1957 al febbraio 1958, Bosio diresse una rubrica che si caratterizzò, insieme ad altri spazi interni al giornale (tra cui la rubrica Arrivi e partenze di Luciano Della Mea), per autonomia ed eterodossia, tanto da poter essere considerata «una delle più significative e interessanti riviste della destalinizzazione».37 Parimenti, ciò accadde anche all’interno di «Mondo operaio» (la rivista teorica del Psi, diretta da Pietro Nenni) dalla primavera del 1957 al dicembre 1958, cioè alle riviste liberalsocialiste cfr. Marialuisa Lucia Sergio, L’uso politico delle riviste culturali e la nascita dei topoi della storiografia azionista, ivi, pp. 549-581. Sul rapporto tra intellettuali e impegno politico cfr. Mariamargherita Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Ediesse, Roma 2011 e Gilda Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Laterza, Roma-Bari, 2011. 35. Su ciò rinvio all’articolo, in corso di pubblicazione, Eros Francescangeli, Prima del Sessantotto. Per una genealogia della sinistra rivoluzionaria italiana degli anni Settanta, in «California Italian Studies», 12 (2023), pp. 1-28 (in particolare pp. 17-21). 36. Su «Classe e Stato» si veda in Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 423, f. 17031/81 «Torino e prov. Stampa in genere», riservata del prefetto di Bologna al Gab. del Mi del 26 ottobre 1965, con la quale si forniscono notizie sul proprietario (Federico Stame) e sul direttore responsabile (Luciano Della Mea), all’epoca dirigenti del Psiup. Dopo Della Mea il direttore responsabile fu Salvatore Sechi. 37. Merli, L’altra storia, p. 13. La rubrica diretta da Bosio era intitolata dapprima Vetrina del movimento operaio, poi Questioni di socialismo. Sulla rubrica Arrivi e partenze, cfr. Luciano Della Mea. Giornalista militante. Scritti 1949-1962, a cura di Paolo Mencarelli, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2007, pp. 79-98. Nella sezione antologica del volume si veda l’articolo Il controllo operaio, 25 marzo 1958 (ivi, pp. 262-265).

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durante il periodo in cui Panzieri la condiresse. Non fu un caso, dunque, che essa svolse il ruolo di levatrice del neo-operaismo italiano. 2. La nascita del neo-operaismo Per la ripresa dell’operaismo in Italia fu importante la già citata esperienza francese di «Socialisme ou barbarie» e Pouvoir ouvrier. Il grupporivista che ruotava attorno a Cornelius Castoriadis (noto, all’epoca, con gli pseudonimi di Pierre Chaulieu, Paul Cardan o Jean-Marc Coudray) e ad altri pensatori del gauchisme d’oltralpe (tra cui Claude Lefort, Claude Montal ed Edgar Morin) costituì un riferimento teorico che influenzò Panzieri e, in misura maggiore, Montaldi38 che, come osservato da Mariuccia Salvati, a sua volta giocò «un ruolo fondamentale per la diffusione delle teorie della rivista francese in Italia».39 La rivista francese, che raccoglieva anarcosindacalisti e marxisti di varie tendenze (in particolare trockisti dissidenti), nacque nel marzo del 1949 e già nel suo secondo numero definì l’asse teorico che poi ne contraddistinse l’esistenza. Partendo da premesse di tipo luxemburghiano e consiliarista, in particolare gli olandesi Herman Gorter e Anton Pannekoek (che nel 1946 aveva pubblicato il testo teorico I consigli operai), il gruppo ribadiva la centralità del modello consiliare sia nell’organizzazione delle lotte, sia 38. Cfr. il ricordo di Alquati: «Nel ’57, ottenuto finalmente il passaporto, feci il mio primo viaggio a Parigi con Danilo [Montaldi]. Conobbi Castoriadis, Léfort [sic], Morin e Goldmann, e Lyotard, e altri. Entrai in corrispondenza con alcuni di Socialisme ou Barbarie e di Pouvoir Ouvrier e in specie con Daniel Mothé, che verrà a trovarci a Cremona» (Testimonianza di Romano Alquati del dicembre 2000, contenuta nel Cd-Rom allegato a Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002). Come testimoniato anche da Negri: «Con il ’60 piombarono in Italia le più strane bande di eretici marxisti. Fra loro, gli unici dignitosamente attestati su un radicalismo intellettuale di grandi proporzioni storiche mi parvero gli uomini di Socialisme ou barbarie» (Toni Negri, Pipe-line. Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino 1983, p. 77). 39. Mariuccia Salvati, Per una biografia intellettuale, in «Parolechiave», 38 (2007), pp. 7-25 (per i rapporti tra Montaldi e «Socialisme ou Barbarie», pp. 12-18; cit. a p. 13). Cfr. inoltre Marco Gervasoni, Fra Montaldi e Panzieri. Socialisme ou Barbarie e l’inchiesta, in «Per il Sessantotto», 9 (1995), pp. 26-33 e Gianfranco Fiameni, Danilo Montaldi: Cremona, Milano, Parigi, in Danilo Montaldi (1929-1975): azione politica e ricerca sociale, a cura di Id., Biblioteca statale di Cremona, Cremona 2006, pp. 85-99.

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nell’edificazione della società socialista, la necessità di superare – a partire dalle strutture politiche – le divisioni tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (cioè tra esecutori e dirigenti) e l’indispensabilità dell’autonomia della classe operaia come prassi metodologico-politica.40 Le espressioni «azione autonoma» e «organismi autonomi» della classe operaia andavano tuttavia chiarite: la semplice esistenza di forme di lotta o di coordinamento sorte «più o meno spontaneamente» in seno alla classe lavoratrice non era condizione «sufficiente a definire tali organismi “autonomi” nel senso più pieno del termine», poiché la questione della loro autonomia e, congiuntamente, «dell’azione [autonoma] della classe operaia» rinviava – secondo i “socialbarbaristi” – al «contenuto ideologico e politico» di cui erano espressione. L’ovvia, quanto tautologica, conclusione era che potessero definirsi autonomi «solo quegli organismi che rappresenta[ssero] concretamente e teoricamente gli interessi storici della classe operaia».41 Nel corso del decennio successivo, il gruppo-rivista definì meglio il proprio corpus dottrinario. Mentre anche l’intellettualità riconducibile alla sinistra socialista ospitò gli interventi dei “socialbarbaristi”,42 in uno scritto del settembre 1957, Castoriadis definì ulteriormente la variante neo-operaista dell’espressione «dittatura del proletariato», asserendo che «l’iniziativa e la direzione della rivoluzione socialista e la successiva trasformazione della società non [sarebbero potuti] appartenere che al proletariato delle fabbriche» e che in tale processo «il punto di partenza e il centro del potere socialista [sarebbero stati] i Consigli operai in senso stretto».43 Tuttavia – nonostante ciò avesse già provocato l’allontanamento della componente anarcosindacalista raccolta attorno a Montal – veniva ulteriormente riaffermata l’importanza della struttura-partito, il cui ruolo non doveva essere meramente strumentale alla classe, bensì svolgere le funzioni di leadership politica, in quanto «sola forma attraverso la quale» poteva realizzarsi «in una società fondata sullo sfruttamento, una fusione fra intellettuali e operai».44 40. Cfr. Philippe Gottraux, «Socialisme ou Barbarie». Un engagement politique et intellectuel dans la france de l’Après-guerre, Payot, Lausanne 1997. 41. Il partito rivoluzionario (Risoluzione), in «Socialisme ou barbarie», maggio-giugno 1949, ora in Socialisme ou barbarie, p. 311. 42. Cfr. Gérard Genette, Claude Lefort ed Edgar Morin, Note su «Socialisme ou barbarie» (21 numeri apparsi: marzo 1949-marzo 1957), in «Ragionamenti», 10-12 (1957). 43. Cfr. Pierre Chaulieu [Cornelius Castoriadis], Sul contenuto del socialismo, ora in Socialisme ou barbarie, pp. 51-122 (cit. a p. 118; corsivo nell’originale). 44. Ivi, p. 117.

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I risultati di tale impostazione cominciarono a palesarsi attorno alla metà degli anni Cinquanta: il collegamento con le lotte del proletariato di fabbrica (in particolare con i lavoratori della Renault) e l’utilizzo dello strumento dell’inchiesta operaia contribuirono a svecchiare il gruppo-rivista e ad ampliarne la sua diffusione sul territorio nazionale. All’abbandono di certe «chiusure settarie» e di alcuni riverberi «meccanicisti» (ossia le letture che prospettavano l’imminenza e l’inevitabilità del crollo del sistema capitalistico), fecero riscontro l’apertura internazionale (oltre alle già citate relazioni con le dissidenze di sinistra italiane, ve ne furono anche con realtà statunitensi, canadesi, latinoamericane, spagnole e olandesi) e l’appoggio incondizionato alla rivolta ungherese del 1956 (la cui produzione documentaria trovò ampio spazio sulla rivista).45 Mentre progrediva la crisi che avrebbe condotto «Socialisme ou barbarie» alla dissoluzione (in concomitanza con la ripresa delle lotte sociali in alcuni paesi europei, quasi a significare che l’esperienza non resse alla prova dei fatti), Castoriadis, nel suo scritto Capitalismo moderno e rivoluzione, edito a puntate nel 1961 in tre numeri della rivista con lo pseudonimo di Paul Cardan, tracciò le linee guida di un operaismo al passo con i mutamenti della composizione di classe e, più in generale, delle società complesse, andando oltre l’originario fabbrichismo: secondo tale analisi, occorreva «ormai tener conto delle trasformazioni strutturali della società capitalistica» dato che la divisione in classi della società era sempre più «una divisione tra dirigenti ed esecutori»; si sarebbe assistito, insomma, a una proletarizzazione dei ceti medi, dagli impiegati a «frazioni importanti di intellettuali e di studenti». Quest’ultimi, sarebbero stati spinti, per via della crisi culturale e di valori della società, a una critica radicale del sistema capitalistico. Sette anni prima del 1968, il padre del neo-operaismo affermò quasi profeticamente: I giovani non si oppongono più agli adulti per prenderne il posto nel sistema, essi rifiutano questo sistema, non ne riconoscono più i valori. […] Presto o tardi, in coincidenza con uno degli «incidenti» inevitabili dell’attuale sistema, le 45. Rilevante, in termini di prestigio, fu anche la produzione editoriale ricollegabile a «Socialisme ou barbarie». Dall’esperienza con il gruppo operaio della Renault nacquero alcuni articoli poi raccolti in un volume – Journal d’un ouvrier di Daniel Mothé (pseudonimo di Jacques Gautrat) – la cui risonanza travalicò i confini francesi, così come accadde per l’analisi di Benno Sarel sul proletariato tedesco-orientale. Ambedue i testi, pubblicati in Italia da Einaudi su consiglio di Montaldi, influenzarono il nascente operaismo italiano (cfr. Benno Sarel, La classe operaia nella Germania Est, Einaudi, Torino 1959, e Daniel Mothé, Diario di un operaio. 1956-1959, Einaudi, Torino 1960).

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masse entreranno di nuovo in azione per mutare le loro condizioni di esistenza. Il destino di questa azione dipenderà dal grado di coscienza, dall’iniziativa, dalla volontà, dalla capacità di autonomia che mostreranno i lavoratori. Ma la formazione di tale coscienza, l’affermazione di tale autonomia, dipenderanno in modo decisivo dal lavoro continuo di una organizzazione rivoluzionaria.46

Se, come noto, l’«incidente» su grande scala sarebbe arrivato sei-sette anni dopo, l’Italia dei primi anni Sessanta, unitamente alle mobilitazioni del luglio 1960 e ai loro strascichi, vide il riacutizzarsi della conflittualità operaia. Effettivamente la prima metà del decennio fu costellata, come documentano i rapporti prefettizi, da un aspro braccio di ferro tra proletariato di fabbrica e industriali e le strategie di lotta padronali “classiche” (spionaggio interno, rappresaglie contro sindacalisti e agitatori, sospensioni, trasferimenti in reparti confino, licenziamenti, serrate, ecc.) ricevettero man forte nell’operato delle autorità governative, attraverso una gestione dell’ordine pubblico tesa a contrastare con decisione le modalità di lotta operaie (picchetti, manifestazioni di piazza, blocchi stradali, cortei interni, invasione di uffici, ecc.). La combattività operaia dispiegata durante le vertenze contrattuali venne contrastata tramite un uso della forza inequivocabilmente spropositato e iniquamente partigiano. Come sottolineato da Crainz: una «violenza legalizzata» posta in essere da coloro che, in ossequio alle direttive governative e a dispetto del dettato costituzionale, agivano come veri e propri corpi di classe, si estrinsecò attraverso cariche indiscriminate, lanci di lacrimogeni (molto spesso sparati ad altezza d’uomo), pestaggi, lanci di pietre precedentemente messe nel tascapane. Conseguentemente, la classe operaia perfezionò le proprie tecniche difensive e, maggiormente che in passato, ricorse anch’essa all’uso della forza contro la controparte e i “crumiri”.47 In tale contesto nacquero e si svilupparono le prime riviste neo-operaiste italiane che ebbero come principale ispiratore il già più volte menzionato Raniero Panzieri il quale – prima solo,48 poi insieme a Lucio Libertini49 – 46. Paul Cardan [Cornelius Castoriadis], Capitalismo moderno e rivoluzione, ora in Socialisme ou barbarie, pp. 123-224 (cit. alle pp. 223-224). 47. Cfr. Crainz, Il paese mancato, pp. 56-61. Per il periodo immediatamente precedente cfr. Id., Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 2005 [1a ed. 1996]. 48. Cfr. Raniero Panzieri, Consigli operai in Cina, in «Avanti!», 3 luglio 1957 e Id., Il controllo operaio al centro dell’azione socialista, in «Mondo operaio», gennaio 1958. 49. Cfr. Lucio Libertini e Raniero Panzieri, Sette tesi sulla questione del controllo operaio, in «Mondo operaio», febbraio [in realtà marzo] 1958.

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contribuì, un quarantennio dopo il biennio rosso, a rinverdire anche in Italia la tradizione consiliarista. Trasferitosi a Torino nell’aprile 1959 per lavorare come redattore da Einaudi e sempre più sfiduciato verso le capacità propositive della stessa sinistra del Psi, Panzieri allacciò rapporti con alcuni giovani socialisti torinesi della corrente bassiana (Romolo Gobbi, Giovanni Mottura, Vittorio Rieser, Edda Saccomanni, Emilio Soave) e vari intellettuali conosciuti in precedenza, tra cui Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Aris Accornero, Rita Di Leo a Roma e Luciano Della Mea e Danilo Montaldi a Milano. Da tale connubio nacque, grazie anche al contributo finanziario di Giovanni Pirelli, la rivista «Quaderni rossi».50 Pubblicata dall’Istituto Rodolfo Morandi, la rivista fu – in realtà e sulla falsariga di «Socialisme ou barbarie» – un gruppo d’intervento politico, autonomo dal Psi, che si costituì tra la fine del 1959 e il 1960. Verso la fine di febbraio del 1960, la decisione di Panzieri appariva già chiara: intervenendo in un incontro con Lelio Basso per discutere il rapporto tra militanza nei partiti tradizionali e nei gruppi autonomi, per il fondatore del neo-operaismo italiano non era più il caso di «mettere il vino nuovo negli otri vecchi, cioè nel Pci e nel Psi», occorreva piuttosto «rompere con certe strutture marce».51 Ad ogni buon conto, l’alternativa ai partiti della sinistra tradizionale non poteva certo essere rappresentata dalla «piccola setta», che costituiva – secondo Panzieri – «l’errore grossolano in cui [erano] cadute tutte le piccole formazioni di sinistra operaia».52 Dopo aver sancito la rottura con il Partito socialista in occasione del 50. Cfr. le carte in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 335, f. G5/37/9 «Istituto Rodolfo Morandi» e ivi, b. 346, f. G5/42/128 «Movimento Quaderni rossi». Cfr. inoltre Romolo Gobbi, Com’eri bella, classe operaia, Longanesi, Milano 1989, pp. 71-81; Fabrizio Billi, Dal miracolo economico all’autunno caldo. Operai e operaisti negli anni sessanta, in Il lungo decennio. L’Italia prima del 68, a cura di Carmelo Adagio, Rocco Cerrato e Simona Urso, Cierre, Verona 1999, pp. 137-172; Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, a cura di Paolo Ferrero, Prefazione di Marco Revelli, Punto Rosso-Carta, Milano-Roma 2005, pp. 48-55. Carteggi e documenti sono anche contenuti in L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «Classe operaia», a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana, Saggio introduttivo di Mario Tronti, DeriveApprodi, Roma 2008. Su Panzieri, oltre alla documentazione in Acs, Mi, Dgps, Dar, Cat. Z, Fp, b. 435, f. «Panzieri Raniero», cfr. Cesare Pianciola, Il marxismo militante di Raniero Panzieri, Centro di documentazione, Pistoia 2014; Raniero Panzieri. L’iniziatore dell’altra sinistra, a cura di Paolo Ferrero, Postfazione di Marco Revelli, Shake, Milano 2021 e Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi». Alle origini del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021. 51. Raniero Panzieri, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Introduzione e note a cura di Dario Lanzardo, Sapere, Milano-Roma 1973 [1a ed. 1972], p. 119. 52. Cit. in Raniero Panzieri, p. 53.

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XXXIV congresso (Milano, 15-20 marzo 1961), Panzieri – senza comunque interrompere i contatti con le dissidenze dei due «otri vecchi» e con la sinistra sindacale – poté dedicarsi alla definizione della rivista, il cui primo numero vide la luce nell’autunno del 1961. Frutto della collaborazione tra i gruppi di lavoro dell’Istituto Morandi e alcuni quadri della Cgil e della Fiom, il primo dei sei Quaderni che uscirono dal 1961 al maggio-dicembre 1965 (tutti a carattere monografico) era dedicato alle lotte operaie.53 In una prima fase, la rivista svolse prevalentemente lavoro di ricerca sociologica, anche se attraverso metodologie “militanti” quali – seguendo l’esempio dei francesi – l’inchiesta operaia e la conricerca. Il risultato di tali sforzi fu la “scoperta” dell’esistenza di uno iato tra gli operai più anziani e professionalizzati (attaccati al lavoro e mediamente politicizzati) e l’enorme mole di giovani operai (per lo più di recente migrazione) scarsamente professionalizzati, malamente retribuiti, quasi del tutto spoliticizzati e la cui affezione al lavoro e alle logiche a esso connaturate era pressoché nulla. Questa nuova figura di lavoratore, definito operaio-massa, era e sarebbe stata la figura dominante nei grandi impianti industriali dell’Italia settentrionale. Esso fu il soggetto centrale attorno al quale sarebbe ruotata l’attività politica neo-operaista. Come osservato, in un contesto di profitti capitalistici in costante crescita e di aumento della produttività dei lavoratori, i «bassi salari dell’operaio-massa, ed il clima da caserma, saranno elementi fondamentali dell’insoddisfazione operaia e all’origine delle proteste»54 del decennio successivo 1963-1972. In ogni modo, in concomitanza con le lotte contrattuali dei metalmeccanici del 1962, il gruppo-rivista subì la sua prima scissione: gli esponenti della sinistra sindacale che contribuirono alla realizzazione del primo numero (Vittorio Foa, Sergio Garavini, Emilio Pugno, Gianni Alasia) interruppero il loro rapporto con un ambiente percepito come estremistico.55 La contestazione operaia davanti alla sede torinese della Uil e i conseguenti tre giorni 53. Cfr. «Quaderni rossi», 1 (1961), numero intitolato Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, con articoli, tra gli altri, di Vittorio Foa, Giovanni Mottura, Romano Alquati, Vittorio Rieser, Giovanni (Gianni) Alasia e dello stesso Panzieri. Tra i collaboratori dei primi numeri della rivista vi erano Emilio Agazzi, Bianca Beccalli, Giuliano Boaretto, Massimo Cacciari, Luciano Della Mea, Pierluigi Gasparotto, Claudio Greppi, Dario e Liliana Lanzardo, Edoarda Masi, Toni Negri, Edda Saccomani, Michele Salvati, Salvatore Sechi e Mario Tronti. 54. Fabrizio Billi, Cronologia 1960-1980: la stagione della rivolta, in Gli anni della rivolta, p. 13. 55. Cfr. Mangano, Le culture del Sessantotto, pp. 46-47.

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di scontri tra polizia e giovani lavoratori del luglio 1962 (i cosiddetti fatti di piazza Statuto) se, da un lato, confermarono sul campo le analisi e le indicazioni politiche dei «Quaderni rossi», dall’altro contribuirono a minarne ulteriormente la compattezza. Unico soggetto a sinistra a non unirsi all’infondato coro di condanna che aveva definito i dimostranti «teppisti», «provocatori» e finanche «fascisti», il gruppo-rivista (che, in ogni modo, non risparmiò critiche agli scontri di piazza, definiti una «squallida degenerazione»), dopo il distacco definitivo di Fiom, Pci e Psi, si divise in due tronconi. Constatata l’insufficienza delle «Cronache dei Quaderni rossi» (settembre 1962) come strumento agitatorio al servizio dei lavoratori, dopo l’uscita del terzo numero (nell’estate del 1963)56 si consumò la separazione tra una componente che raccolse lo stesso Panzieri e un’altra costituita da Gobbi (già sostenitore del sabotaggio attraverso il numero unico «Gatto selvaggio»), Tronti, Asor Rosa, Romano Alquati, Pierluigi Gasparotto, Toni Negri e Massimo Cacciari, ossia – di fatto – i giovani dei «Quaderni», raccolti prevalentemente attorno a un asse romano-veneto con addentellati a Milano. Mentre il primo gruppo, quello dei «sociologi», giudicava i tempi per la creazione di una organizzazione autonoma di classe non ancora maturi e quindi propendeva per la prosecuzione del lavoro di analisi, per la componente degli «interventisti» la soggettività operaia avrebbe dovuto autorganizzarsi politicamente in una formazione rivoluzionaria. I primi proseguirono l’esperienza della pubblicazione affiancando a questa alcuni strumenti più agili: gli «Appunti dei Quaderni rossi» (pubblicati dal maggio 1963), le «Lettere dei Quaderni rossi» (di cui uscirono 13 numeri) e un «Notiziario politico» che svolse una funzione di coordinamento dell’attività dei gruppi territoriali della rivista (Torino, Biella, Ivrea, Pisa, Roma, Sassari e Catania). Dopo l’improvvisa morte di Panzieri – nell’ottobre 1964, a soli 43 anni – la rivista capostipite del neo-operaismo italiano continuò a essere pubblicata, sotto la direzione di Salvatore Sechi,57 fino alla fine dell’anno successivo, per poi estinguersi (le «Lettere» uscirono fino al marzo 1968) dando tuttavia linfa a numerosi e differenti percorsi intellettuali e politici.58 56. Cfr. «Quaderni rossi», 3 (1963), intitolato Piano capitalistico e classe operaia. 57. Cfr. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 335, f. G5/37/9, riservata del prefetto di Torino alla Dgps del 31 maggio 1968 in cui si rammenta che: «Proprietario del periodico risulta Giovanni Battista [sic] Pirelli […] mentre direttore responsabile figura il prof. Salvatore Sechi, […] assistente di storia presso la facoltà di magistero della locale Università». 58. Oltre ai documenti in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/128, cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 146, f. 13347/81, sf. «Procedimento in Corte d’Appello

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Raccolta attorno a Tronti, la seconda componente dette invece vita a una nuova esperienza editoriale: il mensile «Classe operaia». In realtà quella che è definibile come l’esperienza più genuina dell’operaismo politico o militante degli anni Sessanta-Settanta fu preceduta da un giornale nazionale, «Cronache operaie», frutto dell’unificazione di cinque pubblicazioni a diffusione locale: il già menzionato foglio torinese «Gatto selvaggio» (la cui diffusione accentuò la distanza tra «interventisti» e «sociologi» e costò a Gobbi una condanna per apologia di reato), le omonime testate «Potere operaio» di Milano e Marghera, «Cronache operaie dei Quaderni rossi» di Padova e «Classe operaia» di Genova.59 Nella genesi di «Classe operaia» fu importante anche l’esperienza de «Il Progresso veneto», quindicinale della sinistra socialista, diretto nominalmente da Negri e operativamente da Mario Isnenghi che, dal gennaio 1962 al giugno 1963, ne ebbe la condirezione e ne fu, in realtà, il factotum giornalistico «che incombe[va] in ogni numero con ogni sorta di firma o di sigla».60 Benché dopo l’estate del 1963 il giornale tornò nell’alveo della sinistra socialista istituzionale e alla stessa componente giovanil-intellettuale (Mario Isnenghi, Silvio Lanaro, Luciano Ferrari Bravo, ecc.) la definizione di «operaista» non calzi a pennello, non è errato affermare che «Il Progresso veneto» fu la palestra in cui si forgiò, grazie al connubio tra l’intellettualità patavina e i quadri operai di Marghera-Mestre, il nucleo dirigente del neooperaismo militante italiano della seconda metà degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta.61 Edita a Padova da Marsilio, nel primo numero (gennaio 1964) «Classe operaia» esplicitò il proprio profilo: la rivista, tramite un editoriale di Tronti, pose subito come vitale la questione dell’organizzazione politica proletaria al fine del rivoluzionamento della società. La classe, vista – di per i fatti di piazza Statuto del luglio 1962», riservata del prefetto di Torino dell’11 ottobre 1963. Cfr. inoltre Raniero Panzieri, pp. 54-62. 59. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 423, f. 17031/81, riservata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 7 novembre 1963. Sulla vicenda processuale di Romolo Gobbi, difeso dall’avvocato Bianca Guidetti Serra, si vedano, ivi, le missive (semplici note e riservate) del prefetto di Torino al Gab. del Mi del: 7 agosto 1963; 5 ottobre 1963; 19 novembre 1963; 17 gennaio 1964; 9 marzo 1964; 13 marzo 1964 e, infine, 22 maggio 1965. 60. Mario Isnenghi, Tra partito e prepartito. Il “progresso veneto” (1961-1963), in «Classe», 17 (1980), p. 22. 61. Cfr. Luigi Urettini, L’operaismo veneto da «Il progresso veneto» a «Potere operaio», in Il lungo decennio, pp. 173-204.

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fatto – come un soggetto rivoluzionario in sé, rappresentava l’elemento strategico; il partito politico, lo strumento tattico. Occorreva dunque rovesciare il rapporto classe-partito: La realtà della classe operaia è legata in modo definitivo al nome di Marx. La necessità della sua organizzazione politica è in modo altrettanto definitivo legata al nome di Lenin. La strategia leninista, con un colpo magistrale, portò Marx a Pietroburgo […]. Proviamo a fare il cammino inverso, con lo stesso spirito scientifico di avventurosa scoperta politica. Lenin in Inghilterra è la ricerca di una nuova pratica marxista del partito operaio: il tema della lotta e dell’organizzazione al più alto livello di sviluppo politico della classe operaia.62

Il nucleo “centrale” – individuato, con alcune ingenuità, dagli uomini del ministero dell’Interno63 – era composto da Alquati, Asor Rosa, Cacciari, Gaspare De Caro, Paolo Donati, Ferrari Bravo, Gasparotto, Claudio Greppi, Isnenghi, Mario Mariotti, Manfredo Massironi, Negri, Francesco Tolin e, ovviamente, Tronti. Attorno a esso si costituirono aggregazioni politico-redazionali a livello locale, finalizzate alla diffusione della rivista e all’intervento davanti alle fabbriche: a Genova (sotto la direzione di Gianfranco Faina), a Torino (coordinata da Alquati) e in altre realtà (Roma, Marghera-Mestre, Padova, Milano, Firenze, Bologna e Como). Collaborarono alla rivista, tra gli altri, Lapo Berti, Sergio Bologna, Umberto Coldagelli, Riccardo D’Este, Rita Di Leo, Romolo Gobbi, Silvio Lanaro, Massimo Paci e Adriano Sofri. Oltre all’analisi delle lotte operaie (metalmeccanici, edili, tessili, braccianti), il gruppo classoperaista si impegnò in ricerche sociologiche sulla realtà di fabbrica (Alquati) e in riflessioni sui processi di formazione delle ideologie culturali (Asor Rosa). Ma, dopo alcuni allontanamenti “di assestamento”, anche in seno a 62. M[ario] T[ronti], Lenin in Inghilterra, in «Classe operaia», 1 (1964), pp. 1 e 1820, cit. a p. 20. Ora in Mario Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1980 [1a ed. 1966], pp. 89-95. 63. «Il gruppo torinese del movimento “Classe operaia”, […] finora, ha agito in forma semiclandestina, diretto dal sig. Romano Alquati, residente a Milano, il quale sovente si reca in questa città anche per compiere traduzioni per conto della società editrice Einaudi. […] “Classe operaia” […] sembra intenzionata a dare ufficialità al movimento, presentandosi all’opinione pubblica torinese con una manifestazione popolare che dovrebbe aver luogo in una delle prossime settimane con l’intervento del pubblicista e studioso di problemi politici, noto con lo pseudonimo di “Asor Rosa” e di un certo prof. Caro (o De Caro), entrambi di Roma» (Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 100, f. 278/P, sf. «Movimento “Classe operaia”. Comunisti dissidenti», riservata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 7 aprile 1965).

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«Classe operaia» emersero divergenze di fondo. Alcuni redattori di primo piano – tra cui Asor Rosa e Tronti – si convinsero, alla luce delle difficoltà di organizzare un raggruppamento autonomo e delle considerazioni sulla strumentalità del partito, della necessità dell’«uso operaio» del Pci, proponendo l’entrismo nel partito al fine di modificarne la linea. Tale proposta venne accolta negativamente dalla componente che invece riteneva necessaria la prosecuzione dell’intervento autonomo in fabbrica (Gianfranco Faina, Toni Negri e i veneto-emiliani), anche e soprattutto contro le organizzazioni tradizionali del movimento operaio. La rottura avvenne tra la fine del 1966 e l’inizio del 1967: mentre Tronti dichiarò conclusa l’esperienza classoperaista per dare vita, insieme ad Asor Rosa e Cacciari (coinvolgendo inizialmente anche Negri), alla rivista «Contropiano», i gruppi del Veneto, dell’Emilia e di Genova – che già nel corso del 1966 cominciarono a utilizzare la sigla «Potere operaio-Redazione veneta di Classe operaia» – si organizzarono in alcune formazioni indipendenti quali Potere operaio veneto-emiliano, Potere operaio milanese e il Circolo Rosa Luxemburg di Genova.64 Nel marzo 1967 uscì l’ultimo numero di «Classe operaia». Nel frattempo stava cominciando una nuova era. 3. Anarchici, bordighisti e trockisti prima del Sessantotto Frutto di un lavoro preparatorio iniziato a metà degli anni Cinquanta, nel 1960 fu fondata la Federazione anarchica giovanile italiana (Fagi) che riuscì a imprimere al movimento anarchico italiano quell’accelerazione necessaria per uscire dall’impasse politico-organizzativa. Tra le numerose iniziative poste in essere dai giovani libertari vi fu, dal 24 al 26 dicembre 1966 presso il circolo “Sacco e Vanzetti” di Milano, l’organizzazione di una conferenza europea della gioventù anarchica, nella quale si discusse, tra le altre cose, in merito alla solidarietà nei confronti degli anarchici spagnoli oppressi dal franchismo, ai rapporti tra la gioventù libertaria e i “Provos” olandesi, alla posizione della Fagi di fronte alle nuove prospettive di lotta per il 1967. In particolare, secondo i «sondaggi esperiti in via fiduciaria» (ovvero il ricorso ai confidenti della Ps all’interno dell’area della sinistra rivoluzionaria), i convegnisti approvarono (con l’opposizione degli 64. Cfr. i documenti in Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 423, f. 17031/81. Cfr. inoltre Mangano, Le culture del Sessantotto, pp. 56-59.

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italiani) un odg in cui si affermava di rispondere alla repressione franchista con «cinque attentati ad altrettante cose spagnole fuori dai confini iberici» e di promuovere un lavoro comune «trattando i problemi riguardanti la “spoliticizzazione” dei giovani di Europa».65 Oltre all’organizzazione di numerosi gruppi di studio e di lavoro, alla gioventù anarchica (o meglio, a una parte di essa) si deve la creazione, nel 1963, di un percorso “revisionistico” dell’anarchismo che, per mezzo del periodico «Materialismo e libertà», approdò, a posizioni terzaforziste, secondo le quali – accostandosi alle teorie sul collettivismo burocratico di Bruno Rizzi – lo Stato «tecnoburocratico» sarebbe diviso in tre classi fondamentali: i detentori del potere, i gruppi in movimento verso la sua conquista, coloro che ne sono sottoposti (non solo proletari, dunque). Nel 1967, le realtà giovanili di Milano, Torino, Brescia e Vicenza che si riconobbero in queste posizioni si costituirono in una federazione di tendenza, dapprima denominata Gruppi giovanili anarchici federati (Ggaf), poi Gruppi anarchici federati (Gaf).66 Nel frattempo, all’interno della Fai il dibattito condusse molti associati a un riavvicinamento alle posizioni anarco-comuniste; parallelamente, un numero crescente di militanti contestò la gestione personalistica di «Umanità Nova» da parte di Armando Borghi. L’VIII congresso della Fai (Carrara, 1-4 novembre 1965) sancì la svolta in senso organizzatore e classista: la federazione adottò dunque un modello associativo di tipo malatestiano (ossia simile a quello dell’Unione anarchica italiana del 1920 che impegnava strutture e singoli a una sorta di – seppur temperato – «centralismo democratico») ed esautorò Borghi dalla gestione di «Umanità Nova». Ciò provocò la scissione della componente antiorganizzatrice e aclassista che, considerando la Fai una federazione di tendenza colpevole di aver operato una deviazione di tipo autoritario, si costituì – in un’apposita riunione tenutasi a Pisa il 19 dicembre 1965 – a sua volta in un organismo di tendenza, i Gruppi di iniziativa anarchica (Gia), dando alle stampe, dal marzo succes65. Ivi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 295/P, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 31 dicembre 1966. Come notava Mazza: «si fa osservare che alla risoluzione concernente gli attentati contro “cose spagnole in Europa” si sono opposti i giovani anarchici italiani, che hanno avanzato riserve sull’opportunità di “siffatte iniziative”». Tra i partecipanti italiani Mazza segnalava «i noti Amedeo e Gianni Bertolo, Enrico Rovelli, Pietro Provolo, Leone Vidali e Giuseppe Pinelli» (ibidem). 66. Cfr. Che cosa sono i GAF. Documento programmatico e accordo federativo dei Gruppi anarchici federati, Edizioni del Cda, Torino 1976.

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sivo, il periodico «L’Internazionale». L’epoca della casa comune libertaria, la federazione di sintesi, era tramontata; alle porte del Sessantotto gli anarchici, non considerando gruppetti isolati e individualità, si trovarono divisi in tre principali formazioni strutturate: Fai, Gaf e Gia.67 Estraniatosi deliberatamente dalle lotte studentesche e causticamente polemico verso i militanti dell’estrema sinistra (considerati, battaglisti inclusi, un’appendice della borghesia), già dai primi anni Sessanta il partito di Bordiga e Maffi (PcInt-Pc fino al 1965, Partito comunista internazionale da lì in poi) evitò il contatto con le realtà di lotta e il confronto con le organizzazioni politiche e sindacali, avviandosi inesorabilmente verso la senilizzazione, pur riuscendo ad attrarre a sé, grazie alla forza trascinante del mito della “purezza”, qualche giovanissimo; mentre dal punto di vista di genere l’asimmetria era, in controtendenza con le altre aree della sinistra rivoluzionaria, macroscopica. Un esempio basti per tutti: nonostante la presenza di alcuni giovani e giovanissimi (tra i 16 e i 20 anni), l’età media dei partecipanti a un convegno nazionale del partito, presieduto da Bordiga, tenutosi il 12 e 13 novembre del 1960 a Bologna era – in base ai dati disponibili – di circa 41 anni. Tra le 47 persone (su un totale di circa settanta) di cui la polizia fu in grado di fornire le generalità, gli ultra sessantenni erano una decina. In base al genere, i maschi erano 46, a fronte di una sola presenza femminile.68 Se a ciò aggiungiamo che, in nome di un funzionalismo gerarchico fondato sulle presunte competenze (cioè sulla base dell’assioma che il duo Bordiga-Maffi fosse l’interprete genuino e infallibile del marxismo scientifico), venne abolita qualsiasi prassi riconducibile a modelli decisionali di tipo democratico o comunque partecipativo e/o inclusivo,69 è possibile comprendere il progressivo calo del numero 67. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 101, f. 295/P, nonché Sacchetti, Sovversivi agli atti, pp. 96 ss. e Dadà, L’anarchismo in Italia, pp. 121 ss. 68. Sulla base dei 47 partecipanti identificati, le realtà provinciali rappresentate, senza contare i militanti della sezione francese, erano 24: Milano (10 attivisti); Torino (5); Ravenna (3); Francia (3); Roma (2 attivisti, di cui un uomo, classe 1885, e una donna, classe 1894); Alessandria, Genova, Forlì e Cosenza, ancora con due; infine Modena, Vicenza, Udine, Trieste, Livorno, Salerno, Massa Carrara, Reggio Emilia, Como, Varese, Parma, Firenze, Siena, Messina, Catania e Napoli (Bordiga) con un militante; Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, elenco allegato alla riservata-raccomandata del prefetto di Bologna al Gab. del Mi del 14 novembre 1960. 69. Come nota Saggioro, «da questo momento [1953] Bruno Maffi funzionerà come Commissario Unico […]. Quindi fine del CE e anche del CC; messa in soffitta anche di procedimenti tipo espulsione od altro, considerati solo residui di un passato democratico:

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degli attivisti e le cause di una serie di microscissioni che colpirono l’organizzazione bordighista a partire dai primi anni Sessanta. Se nel 1962 una parte di militanti milanesi abbandonò il partito per fondare il gruppo-rivista Ottobre rosso (Or) – che tuttavia scomparve dopo qualche anno – nel novembre 1964, il PcInt-Pc si lacerò ancora una volta. Il casus belli fu la volontà di Bordiga di istituzionalizzare il «centralismo organico» come regola del regime interno (il che avrebbe significato – come poi avvenne – l’adozione di qualsiasi scelta sempre e comunque seguendo il criterio «dall’alto verso il basso») e la sua netta opposizione alla sostituzione delle riunioni di studio con verifiche politiche utili a orientare il partito. Ciò provocò l’abbandono del partito da parte di Calogero Lanzafame e altri militanti, che fondarono il periodico «La Rivoluzione comunista», organo di un nuovo gruppo, presente soprattutto in Lombardia e a Genova, denominato – anche in questo caso – Partito comunista internazionalista (PcInt-Rc). Ma di fronte all’adozione di una struttura organizzativa di tipo leninista (articolata in organismi specifici quali i nuclei di fabbrica e le commissioni per il lavoro di massa), alcuni militanti di «Rivoluzione comunista» scelsero, alla fine del 1965, di compiere un’ulteriore rottura e si organizzarono in una nuova formazione politica, il Gruppo comunista internazionalista autonomo (Gcia) che, un decennio dopo, pubblicherà la rivista «L’Internazionalista». Nel frattempo, i programmisti ritoccarono il nome del proprio partito, sostituendo l’aggettivo «internazionalista» con «internazionale», indirizzando la propria attività verso lo studio e la propaganda sindacale (attraverso il foglio «Spartaco»).70 Per quanto riguarda i trockisti, dopo il XX congresso del Pcus e i fatti di Ungheria, i Gcr cercarono di recuperare la diaspora antistaliniana che già da qualche anno aveva preso piede nel Pci, allacciando rapporti – che chi non è d’accordo non partecipa più al lavoro collettivo e se ne va. […] Di congresso del partito non si parlerà più e nessuno solleverà il problema» (Saggioro, Né con Truman né con Stalin, p. 224). 70. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, pp. 249-250. Per quanto riguarda l’attività di studio, si veda Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Napoli al Gab. del Mi del 23 luglio 1965 con la quale si segnalava come il 18 e 19 luglio si fosse tenuto, nella sede napoletana del PcInt-Pc, un convegno «organizzativo ed ideologico» i cui lavori, svoltisi «in forma del tutto riservata» (anche se, evidentemente, non troppo) erano stati presieduti da Pierre Broué. Nelle carte ivi conservate c’è anche una copia di «Spartaco», il cui sottotitolo recita: «Bollettino centrale d’impostazione programmatica e di battaglia dei militanti del Partito comunista internazionale iscritti alla CGIL».

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come esposto si rivelarono sterili – con alcune dissidenze comuniste, in particolare con Azione comunista. Parallelamente a tale attività, comunque riconducibile alla tattica entrista, i vertici quartinternazionalisti stabilirono relazioni di tipo politico-culturale anche con alcuni intellettuali, da Panzieri a Cantimori, critici nei confronti dello stalinismo e del riformismo.71 Come ricorda Maitan, a ridosso del 1956 vi furono incontri finalizzati al superamento dello stalinismo «da sinistra» con alcuni intellettuali, tra cui Umberto Cerroni, Ludovico Geymonat, Carlo Muscetta, Delio Cantimori e sua moglie Emma Mezzomonti.72 Ad ogni buon conto, in casa trockista i “frutti” del 1956 si fecero sentire. Come osservato dal principale dirigente della sezione italiana della Qi: Per la prima volta, potevamo registrare la presenza di un contingente tutt’altro che trascurabile di nuovi aderenti […]. Più in particolare, a Torino erano entrati a far parte dell’organizzazione giovani intellettuali come Carlo Ottino e Leo Oggerino e, successivamente, sarebbero entrati il figlio di Piero Gobetti, Paolo, con la sua compagna Carla Bovero. A Roma riuscivamo a mettere radici e a reclutare nelle file del Partito comunista, in ambienti che potremmo definire pasoliniani […]. Sempre a Roma, aveva aderito già dagli inizi degli anni ’50 un militante molto noto nel movimento comunista romano, Francesco Cretara, che dal 1956 avrebbe assunto compiti di primo piano anche a livello nazionale.73 71. Stando a «una fonte abbastanza attendibile», Maitan e Panzieri si sarebbero incontrati nell’autunno del 1957 «per discutere in ordine all’ammissione nel PSI di elementi trotzkisti» (ivi, copia di Appunto dell’11 novembre 1957). Sulla seconda metà degli anni Cinquanta, cfr. Diego Giachetti, I Gruppi Comunisti Rivoluzionari negli anni della ripresa capitalistica e della “destalinizzazione” 1954-1959, «Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso», Serie “Studi e ricerche”, 32 (1994). 72. Cfr. Maitan, La strada percorsa, p. 209. Tra i rapporti con una certa “intellettualità critica” vi furono anche, oltre alle relazioni con «Ragionamenti», quelli con il gruppo di Comunità, raccolto attorno ad Adriano Olivetti. Maitan ricorda come la V conferenza nazionale dei Gcr si fosse tenuta «nella elegante sede di Comunità, la fondazione olivettiana, nei pressi di Porta Pinciana» (ivi, p. 210). 73. Ivi, pp. 211-212. Maitan ricorda ancora come il 1956 condusse a un rafforzamento della presenza dei Gcr anche in Puglia («per la prima volta dopo la rottura con il Poc» di Mangano) e al consolidamento delle posizioni «nella zona di Cortona-Camucia» (ivi, p. 212). Il gruppo di Camucia si costituì alla fine del 1952, raggruppando «18 iscritti e numerosi simpatizzanti» (Acs, Mi, Dgps, Dar, 1951-1953, b. 50, f. P/18, riservata-raccomandata-doppia/busta del questore di Arezzo alla Dar del 23 dicembre 1952). A promuoverlo e guidarlo fu l’ex sindaco di Cortona (e dirigente del locale Cln) Ricciotti Valdarnini, sul cui conto il questore annotava: «Nel 1919 si iscrisse al PCI […]. Dotato di una certa prestanza fisica e di una pronta intelligenza, malgrado la scarsa cultura, si guadagnò simpatie negli

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Nella prima metà degli anni Sessanta aderirono ai Gcr dirigenti comunisti come Silvio Paolicchi e alcuni militanti del Pci e della Fgci che durante e dopo il triennio 1967-1969 si affermeranno come figure di spicco della nuova sinistra: Augusto Illuminati, Paolo Flores D’Arcais, Edgardo Pellegrini, Giuseppe Paolo Samonà, Andreina De Clementi, Pio Marconi e Silverio Corvisieri a Roma, Massimo Gorla, Luigi Vinci e Aldo Brandirali a Milano. Nella capitale i militanti dei Gcr riuscirono a “impossessarsi” della segreteria della Fgci e del giornale «Nuova generazione», mentre nel 1962 su iniziativa dei due quartinternazionalisti Samonà e Giulio Savelli fu aperta la libreria Terzo Mondo e, in seguito, la casa editrice Samonà e Savelli. Degna di nota è anche la fondazione della rivista «La Sinistra» (1966-1968), diretta da Lucio Colletti e controllata – attraverso Samonà e Savelli – dai Gruppi comunisti rivoluzionari: uno strumento capace di avviare un serrato dibattito sul terzomondismo e che mise in relazione settori dissidenti all’interno del Pci e del Psiup.74 A Milano l’attività frazionistica nella Fgci condusse, nel 1966, Brandirali e altri giovani trockisti alla fondazione dell’associazione Falcemartello che – pubblicando l’omonimo periodico (1966-1968) – riuscì ad allargare considerevolmente i propri confini e si dimostrò un’esperienza assai vivace nel panorama della sinistra extraistituzionale.75 A Palermo, nel 1965, aderì alla Qi il gruppo di Sinistra comunista (Sc), costituitosi due anni prima attorno a Mario Mineo e ad alcuni militanti usciti dal Pci e dalla Fgci, seguendo il sentiero battuto qualche mese prima da alcuni dissidenti comunisti di Campobello (Trapani), guidati da Gaspare Bono, provvisoriamente costituitisi in Movimento comunista rivoluzionario (Mcr).76 ambienti sovversivi del tempo. Nemico accanito del fascismo fin dal suo sorgere, cercò, senza però riuscirvi, di organizzare gli “arditi del popolo”. […] Dal 1922 al 1933 fu segretario della cellula comunista di Camucia, e, per tale fatto, nell’anno 1933 venne arrestato e sottoposto ad ammonizione. Dal 1946 al 1950 è stato Sindaco del Comune di Cortona. […] Dopo la liberazione e fino al dicembre 1950 è stato l’esponente più in vista e di maggior rilievo del PCI nel Cortonese. In data 8 dicembre stesso anno è stato radiato dal PCI per “titismo”. È iscritto al CPC per “attenta” vigilanza» (ibidem). 74. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 421, f. 17031/69/S/2 «Roma e provincia. Stampa in genere», riservata-urgente-doppia/busta del questore di Roma alla Dag del 16 ottobre 1966 e Mangano, Le culture del Sessantotto, pp. 199-202. 75. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 183. 76. Cfr. Gaspare Bono, La lista del gallo. Autobiografia di un proletario siciliano (1914-1980), con interventi introduttivi di Livio Maitan, Davide Danti e Paolo Casciola, Nuove edizioni internazionali, [Milano] 1994, pp. 182-185. Per quanto riguarda la succes-

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Nel frattempo, nel 1962, l’organizzazione trockista italiana conobbe la sua prima scissione. Essa fu un riflesso della rottura internazionale che oppose il gruppo maggioritario di Mandel e Maitan al responsabile per l’America latina, l’italo-argentino Homero Ròmulo Cristalli Frasnelli, (meglio noto con lo pseudonimo di Juan Posadas), figura assai eccentrica di dirigente rivoluzionario.77 A scindere i Gcr sulle posizioni di Posadas, assertore della centralità delle rivoluzioni coloniali, fu un gruppo di militanti romani, guidati da Pietro Antonio Leone, ex dirigente della Federazione giovanile socialista romana e, secondo la polizia, «appartenente alla corrente carrista».78 Il gruppo decise di dare vita al Partito comunista rivoluzionario (trotskista), sezione italiana della IV Internazionale [posadista], Pcr(t). Tale organizzazione – che prese a pubblicare il mensile «Lotta operaia» e, dal 1966, la rivista teorica «Rivista marxista europea» – raccolse adesioni a Roma e in Abruzzo (poi anche altrove: Genova, Milano, e in alcune località della Sicilia e della Campania) caratterizzandosi per la marcata “vocazione entrista”. L’arrivo in Italia in qualità di esule politico siva attività di Bono nella Quarta internazionale cfr. ivi, pp. 185-197. Per la versione delle atorità sull’adesione di Bono alla Qi, cfr. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, nota del prefetto di Trapani al Gab. del Mi del 6 febbraio 1965, con la quale si comunicava come Bono fosse stato espulso dal Pci, nell’autunno del 1964, «per contrasti con la federazione provinciale di quel partito che non aveva voluto includerlo nella lista presentata per le elezioni comunali». 77. Tra le bizzarrie del trockista italo-argentino vale la pena citare la formula concepita per l’Italia del Fronte unico proletario che avrebbe dovuto raccogliere le forze politiche dalla sinistra democristiana a quella rivoluzionaria, il precetto della continenza sessuale per i militanti, la teorizzazione della legittimità e della necessità di una guerra nucleare preventiva da parte delle potenze esteuropee contro gli Usa e, dulcis in fundo, l’appello agli extraterrestri, indubitabilmente socialisti (in base all’interpretazione di alcuni passaggi marxiani e trockiani), per la liberazione della Terra dal capitalismo. Con quest’ultima stravagante teoria si guadagnò l’epiteto di “Ufo-trockista”. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 252 e, tra gli innumerevoli scritti del prolifico dirigente quartinternazionalista, J[uan] Posadas, La scienza spaziale, la funzione storica degli Stati operai e la costruzione del socialismo, Lotta operaia, [Roma 1971]; Id., Les soucoupes volantes, le processus de la matière et de l’énergie, la science, la lutte de classes et révolutionnaire et le futur socialiste de l’humanité, Revue Marxiste, s.l. [Paris] 1978; Id., Stato operaio, societa socialista e la invasione del Vietnam da parte della direzione controrivoluzionaria dello Stato operaio cinese, Scienza cultura e politica, Firenze 1979; Id., La crisi del capitalismo, la guerra e il socialismo, Scienza cultura e politica, Firenze 1981; Id., I preparativi di guerra e la funzione dei paesi socialisti, Scienza cultura e politica, Firenze 1983. 78. Acs, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 106, f. 311/P, riservata-raccomandata del questore di Roma alla Dgps del 13 luglio 1962.

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del leader maximo, alla fine del 1968, non ebbe effetti rilevanti sulle capacità di espansione dell’organizzazione, che non andò mai oltre qualche decina di attivisti.79 Non produsse altresì effetti significativi la scissione internazionale del 1965 promossa dall’ex segretario internazionale Michalis N. Raptis (“Pablo”) che, avendo maturato posizioni luxemburghiane e terzomondiste, ruppe con l’organismo dirigente – nel frattempo riunificatosi sotto la sigla di Segretariato unificato (Su) della Qi – dando vita alla Tendenza marxista rivoluzionaria (Tmr). In Italia, alcuni nuclei di attivisti “pablisti” sorsero – solo nei primi anni Settanta – a Roma, Bari e in qualche altra città (Milano, Verona e Lecce).80 Dopo la débâcle ingraiana al XI congresso del Pci (Roma, 25-31 gennaio 1966), nel partito cominciarono le epurazioni della sinistra interna dai posti chiave dell’apparato. Oltre agli ingraiani veri e propri, furono individuati e “colpiti” anche gli entristi dei Gcr: Illuminati e Paolicchi, già esautorati dai loro incarichi, vennero proscritti dal Pci; una sorte simile la ebbero Savelli, in quanto editore de «La Sinistra» e Pellegrini (che lavorava a «Paese sera») mentre Corvisieri, messo alle strette, si dimise dalla redazione de «L’Unità». Ciò, unito all’insofferenza di moltissimi militanti verso la pratica dell’entrismo, determinò una crisi di notevoli proporzioni (tanto che venne coniato il neologismo “uscismo”): l’arrivo del ciclone Sessantotto disgregò, infatti, una delle più consistenti organizzazioni della sinistra rivoluzionaria (circa duecento militanti effettivi e migliaia di simpatizzanti) con una velocità imprevedibile.81 79. Ibidem, nonché i documenti (lettere, alcune delle quali siglate da Piero Leone, e altro materiale) in Fig, Apc, Partito, 1969, Cc, mf. 307/2840-2910. Su «Lotta operaia» cfr. la relativa scheda in Archivio del centro di documentazione di Lucca. I periodici politici, p. 238. Posadas, recluso in una caserma di Montevideo, riuscì a raggiungere l’Italia insieme alla consorte Candida Rosa Previtera Negrito anche grazie a tre distinte interrogazioni parlamentari al ministro degli Affari esteri di Pci, Psiup e Psu. Cfr. Atti parlamentari. Camera dei Deputati, V Legislatura. Discussioni, Seduta pomeridiana di martedì 12 novembre 1968, pp. 3026 e 3033 e ivi, Seduta pomeridiana di mercoledì 13 novembre 1968 p. 3066. 80. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 290. La Tendenza marxista rivoluzionaria, che nel 1971 muterà la propria denominazione in Tendenza marxista internazionale, non deve confondersi con l’omonima struttura (una vera e propria tendenza interna ai Gcr) fondata nel 1973 da Roberto Massari. 81. Ivi, pp. 196-197, Giuseppe Paolo Samonà, Primo contributo inorganico e lacunoso a una riflessione sulla nostra storia e sulla sua attualità, in «Gcr. Bollettino di dibattito

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4. La Cina è vicina: la formazione dei primi nuclei stalino-maoisti Se il 1956 diede luogo ad una fuga dal Pci da parte di dissidenze generalmente critiche (per convinzione o disincanto) nei confronti del modello autoritario sovietico e quindi di segno antistalinista (anche se, a dire il vero, la componente neo-operaista non si distinse particolarmente in tal senso), gli eventi politici di quell’anno, tra i quali l’VIII congresso del Pci, ebbero come altra conseguenza la nascita di una dissidenza di segno opposto (anch’essa autorappresentatasi come di «sinistra») che è possibile definire neostalinista. La volontà di destalinizzare il Partito comunista italiano, la marginalizzazione di Pietro Secchia e della sua area dalle strutture chiave dell’organizzazione,82 la ricerca di una «via italiana al socialismo», produssero una reazione da parte di alcuni quadri (intermedi e di base) i quali – sull’onda lunga dei fatti del luglio 1960 – cominciarono a entrare in sintonia con le posizioni sostenute a livello internazionale dal Partito del lavoro d’Albania (Pla) che giudicava Chruščëv (poi Brežnev) e la dirigenza sovietica una «cricca revisionista» ostile al socialismo. La rottura tra cinesi e sovietici, consumatasi tra il 1960 e il 1964 anche attorno alla questione della difesa di Stalin e alla critica dell’opzione della «coesistenza pacifica» tra i due blocchi, fornì alla dissidenza neostaliniana, costituita essenzialmente da ex partigiani e qualche intellettuale isolato (come il latinista Concetto Marchesi), l’occasione per uscire allo scoperto. Senza rompere con il Pci, sia singoli sia gruppi più o meno omogenei a livello territoriale cominciarono a tessere la trama organizzativa di quella componente politica ormai definita da molti – e in particolare dalla stampa – «cinese», anche e soprattutto alla luce della polemica tra Togliatti e il Pcc cominciata in occasione del X congresso del Pci (Roma, 2-8 dicembre 1962) e amplificatasi dopo le risentite risposte dei dirigenti di Pechino.83 precongressuale», 20 (1977) e Silverio Corvisieri, Il mio viaggio nella sinistra, Editoriale L’Espresso, s.l. [Roma] 1979, p. 45 ss. 82. Su Secchia cfr. Marco Albeltaro, Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte, Laterza, Roma-Bari 2014. 83. In occasione dei lavori congressuali, Togliatti, seguito da Giancarlo Pajetta, attaccò esplicitamente il Pcc per avere sostenuto il Pla, ribadendo la giustezza da un punto di vista marxista-leninista della linea della «coesistenza pacifica». In risposta, i comunisti cinesi pubblicarono, in italiano e a cura della Casa editrice in lingue estere di Pechino, due libelli: Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Editoriale del Quotidiano del popolo (Renmin Ribao) del 31 dicembre 1962 (del 1963) e Ancora sulle divergenze tra il

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Secondo gli ideologi del Pcc, l’attacco subito da Togliatti, che avrebbe violato il codice disciplinare non scritto vigente tra i «partiti fratelli», andava rintuzzato in quanto: [Togliatti] e certi altri dirigenti del Partito comunista italiano […] nutrono le più grandi illusioni circa l’imperialismo, essi negano il fondamentale antagonismo tra i due sistemi mondiali del socialismo e del capitalismo e il fondamentale antagonismo tra l’oppressore e le nazioni oppresse, ed in luogo della lotta di classe internazionale e della lotta antimperialistica essi sostengono la collaborazione di classe internazionale e la creazione di un “nuovo ordine mondiale”. Essi hanno profonde illusioni circa i capitalisti monopolisti in patria […] e predicano il riformismo borghese, o “riforme di struttura” com’essi le chiamano, quale sostituto della rivoluzione proletaria.84

Mentre, a livello internazionale, ribadirono la critica alla politica distensiva dell’Urss verso gli Stati uniti (argomentando che l’effettiva coesistenza pacifica si sarebbe raggiunta solo lottando contro l’imperialismo), accusando i «partiti fratelli» allineati con Mosca di scarso senso internazionalista e di pavidità.85 Infine, in ossequio all’alleato albanese, l’accusa di essere sulla stessa lunghezza d’onda del “rinnegato” Tito. In una fase ascendente delle lotte di liberazione nazionale e agli inizi dell’escalation militare in Vietnam, l’accoglienza che in Italia ebbero tali posizioni fu più che benevola. Inoltre, per gli oppositori di Togliatti attestati su posizioni staliniste «la posizione cinese esprimeva l’avallo di un grande Stato socialista a tutti coloro che criticavano il revisionismo del Pcus e del Pci. Sembrava inoltre che la Cina andasse ad assumere il ruolo di nuovo Stato guida […] che peraltro appariva, almeno ufficialmente, in continuità con il modello staliniano».86 Le direttrici tattiche seguite dalla dissidenza neostalinista italiana furono due: la creazione di ambiti e spazi autonomi (principalmente pubblicompagno Togliatti e noi. Alcuni importanti problemi del leninismo nel mondo contemporaneo, (del 1964). I due testi sono poi stati raccolti in un unico volume: Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Alcuni importanti problemi del leninismo nel mondo contemporaneo, Casa editrice in lingue estere, Pechino 1964. 84. Ivi, p. 3. 85. Ivi, pp. 23-32. Come si legge: «Coloro che accusano la Cina di opporsi alla pacifica coesistenza, attaccano il popolo cinese anche perché appoggia la giusta posizione del popolo cubano, nella sua lotta contro l’imperialismo degli Stati Uniti» (ivi, p. 30). 86. Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 24.

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cazioni e riviste) e l’attività clandestina all’interno del partito. In una prima fase, neostalinisti e “cinesi” percorsero le due strade – peraltro non necessariamente antitetiche – insieme a militanti di orientamento differente (trockisti, socialisti di sinistra, ecc.). Come osservato da Ottaviano (che, prima di diventare parlamentare del Pci e studioso del movimento operaio, fu un militante maoista), i rapporti tra filocinesi e i trockisti87 furono numerosi: oltre alla pubblicazione del già citato Dossier dei comunisti cinesi, realizzato da attivisti antistalinisti o, all’epoca, non attestati su posizioni filostaliniane, è doveroso ricordare la prima Associazione Italia-Cina (ve ne saranno poi altre) costituita nel 1962 da militanti vicini alla Quarta internazionale (in particolare il gruppo della Sinistra comunista di Mario Mineo) con il sostegno di esponenti della sinistra socialista (tra cui Lucio Libertini).88 Tra le iniziative autonome dal Pci, realizzate in collaborazione o meno con gli “altri”, vi furono la campagna di scritte murali filocinesi (tra le quali spiccava, a mo’ di monito, «La Cina è vicina»)89 e, ancor prima, la prima pubblicazione marxista-leninista, cioè maoista, italiana: il numero unico «Viva il leninismo», stampato a Padova nell’agosto 1962 (anche se datato settembre) da un gruppo di dissidenti comunisti animato da Vincenzo (Enzo) Calò. Il giornale, che riprendeva il titolo del noto documento cinese contro 87. Cfr. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, pp. 139-140. In ogni modo, dopo la Rivoluzione culturale il solco tra mao-stalinisti e dissidenze “storiche” socialcomuniste tornò ad essere ampio. Cfr. Il partito rivoluzionario: un problema aperto. Contributo del movimento trotskista; critica del maoismo e dello spontaneismo, Samonà e Savelli, Roma 1969. 88. Cfr. a riguardo Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 205 e Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 288, f. G5/5/4 «Associazione italiana per i rapporti culturali e d’amicizia con la Repubblica popolare cinese». 89. Le scritte, realizzate con pennello e vernice, campeggiarono sui muri di alcune città italiane a partire dal 1963. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48 «Milano e provincia. Partito comunista d’Italia», sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 13 luglio 1963, con la quale si segnala, tra l’altro, la comparsa «sui muri di alcuni edifici della periferia milanese, di scritte come “La Cina è vicina”, “Viva Mao” e “Viva il PCC”», e ivi, f. 161P/46/60 «Piacenza e provincia. Movimento marxista leninista filo-cinese», riservata del prefetto di Piacenza al Gab. del Mi del 31 ottobre 1964 in cui si segnalano scritte murali in occasione di comizio di Amendola («sono state tacciate, con vernice nera ad olio, le seguenti scritte: “Viva Mao”-“Viva Stalin”-“Viva la Cina”»). Segnalazioni dello stesso tenore anche ivi, Fc, 1964-1966, b. 426, f. 17039/10 «Bari e provincia. Manifesti e scritte murali», telegramma del prefetto di Bari al Gab. del Mi del 17 agosto 1965 e ivi, Fc, 19671970, b. 5, f. 161P/46/77 «La Spezia e provincia. Movimento marxista-leninista», riservataraccomandata-doppia/busta del prefetto di La Spezia al Gab. del Mi del 16 ottobre 1966.

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il congetturato revisionismo sovietico, nacque come risposta all’esigenza di estendere al resto d’Italia la piattaforma (presentata da Calò) con la quale il Comitato federale del Pci di Padova si era posto in contrapposizione alle tesi del X congresso (con venti voti favorevoli, dieci contrari e due astenuti). Dopo l’espulsione dal Pci dei quattro firmatari del foglio «antirevisionista», i marxisti-leninisti padovani pubblicarono altri due numeri unici: «Viva sempre il leninismo» (ottobre 1962) e «Viva ancora il leninismo» (febbraio 1963), costituendo così, di fatto, il primo raggruppamento maoista italiano. I quattro autori del primo numero di «Viva il leninismo» estromessi dal Pci erano Alberto Bucco (del comitato federale, consigliere comunale e dirigente delle cooperative), Severino Gambato (segretario di sezione a Riviera del Brenta), Vincenzo Morvillo (del direttivo federale) e Wilson (detto Vittorio) Duse (della commissione federale di controllo). Collaborarono con il gruppo protomaoista italiano anche, a partire dal secondo numero, Ugo Duse (che non aveva relazioni di parentela con Wilson) e, al terzo numero, Mario Quaranta.90 Anche in questo caso, i marxisti eterodossi – nella fattispecie i neo-operaisti padovani (ancora interni al Psi) – sostennero la battaglia politica degli ultraortodossi in nome dell’antitogliattismo. Si veda, ad esempio, quanto scrisse Negri a Panzieri nel giugno del 1962: Allo scopo di consolidare la nostra posizione abbiamo preso contatto con un gruppo abbastanza consistente di comunisti che si muove nell’ambito della federazione comunista su posizioni di minoranza [...]. Ci hanno fatto vedere un documento che è davvero pauroso nell’insieme di settarismo, politicismo, astrattezza [...]. Malgrado tutto vale la pena di continuare i contatti con loro: oltre il settarismo e i vizi congeniti del militante comunista hanno infatti ormai precisa in mente la critica del PCI e dei partiti odierni [...] e tra i falsi problemi che pongono sono attenti tuttavia al problema della lotta di classe a livello internazionale.91 90. Cfr. ivi, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966 (con la quale il prefetto ripercorre la storia dei gruppi maoisti) e Comunicato della Federazione di Padova. Espulsi gli autori di un libello di infantile estremismo e di provocazione, in «l’Unità», 30 agosto 1962. Cfr. inoltre Dolores Negrello, A pugno chiuso. Il Partito comunista padovano dal biennio rosso alla stagione dei movimenti, FrancoAngeli, Milano 2000, pp. 133-148 ed Emilio Rosini, L’ala dell’angelo. Itinerario di un comunista perplesso, Storia e Letteratura, Roma 2003, p. 191 ss. Di quest’ultimo si veda anche la riflessione a caldo, Ipotesi di lavoro sulla Cina, in «La Sinistra», 4-5 (1967), pp. 37-40. 91. Lettera di Negri a Panzieri, 18 giugno 1962, ora in Raniero Panzieri, Lettere. 1940-1964, a cura di Stefano Merli e Lucia Dotti, Marsilio, Venezia 1987, pp. 364-365.

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Ma fu a Milano che nacque, nell’estate dell’anno successivo, l’iniziativa editoriale che più di altre contribuì al decollo del maoismo in Italia: le Edizioni Oriente. Fondate nel giugno 1963 da Giuseppe Oreste Regis e da sua moglie Anna Maria Arena (reduci da un soggiorno di studio e lavoro in Cina dal 1957 al 1961) e collegate alla Casa editrice in lingue estere di Pechino, le Edizioni Oriente esordirono pubblicando la famosa raccolta di articoli critici intitolata Ancora sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi, che sarebbe divenuta – assieme a un altro “gioiello” delle Edizioni, Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria (1966) e, ovviamente, alle Citazioni dalle opere del presidente Mao Tse-Tung (il cosiddetto «libretto rosso») – una delle pietre miliari della manualistica “emmellista”.92 Nello stesso anno, i coniugi Regis fondarono la rivista «Edizioni Oriente»93 (1963-1966), poi trasformatasi in «I Quaderni» (1966-1974) e poi ancora ne «I Quaderni della stampa cinese» (1975-1978), e nel 1965 il trimestrale, edito fino al 1979, «Vento dell’Est».94 Oltre al biasimo del togliattismo e della linea politica emersa dall’VIII congresso del Pci, prima del sopraggiungere della Rivoluzione culturale l’asse teorico delle Edizioni Oriente ruotò attorno alla critica serrata su due fronti: ossia ciò che veniva definito «imperialismo americano» e «revisionismo sovietico». A Giuseppe Regis e Maria Arena (la quale, oltre a detenere il 90% della proprietà, fu il vero “motore” delle Edizioni)95 si affiancarono, tra gli altri, Filippo Coccia, Mireille De Gouville, Edoarda Masi, Giorgio Zucchetti. Se inizialmente la diffusione delle pubblicazioni fu limitata (la ti92. Cfr. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 329, f. G5/35/125 «Gruppo rivoluzionario Edizioni Oriente», riservata-raccomandata del prefetto di Milano alla Dgps del 24 ottobre 1966. Come ricordato da Regis, alla fondazione delle Edizioni Oriente contribuirono anche Ugo Duse, Mario Geymonat e Osvaldo Pesce (cfr. Niccolai, Quando la Cina era vicina, pp. 74-75). 93. Sulla sospensione delle pubblicazioni cfr. ivi, riservata-raccomandata urgente del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 22 febbraio 1966, con cui si comunicava che in mancanza «delle indicazioni che la legge prescrive per la stampa periodica […], la locale Procura della Repubblica, in data 16 corrente, ha ordinato il sequestro di tre copie dell’ultimo numero […], ravvisando in essa gli estremi del reato di cui all’art. 16 della legge 8.2.1948 n° 47». 94. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-66, b. 408, f. 17031/48/N-Z «Milano e provincia. Stampa in genere», nota del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 4 [ma, probabilmente, 14] giugno 1966 e la nota del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 4 marzo1966. 95. Per i profili dei coniugi Regis, trasmessi da Mazza, cfr. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 329, f. G5/35/125, riservata-raccomandata del prefetto di Milano alla Dgps del 24 ottobre 1966.

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ratura del primo numero di «Vento dell’Est» fu di 500 copie), la casa editrice filocinese riuscì ad ampliare il suo spazio politico grazie anche alla distribuzione – prevalentemente in forma gratuita e a mezzo posta – di materiale propagandistico tra i membri dell’apparato del Pci «e tra le organizzazioni collaterali».96 Come osservato, sebbene collocate nell’ambito marxista-leninista, attraverso la loro opera di traduzione e divulgazione dei testi pubblicati dalla stampa o dalle agenzie cinesi, le pubblicazioni e le riviste delle Edizioni Oriente svolsero un ruolo «essenziale per tutti quei militanti e quelle organizzazioni politiche italiane che negli anni ’60 e ’70 si collocavano alla sinistra del PCI, del PSI e in seguito del PSIUP».97 Sempre nei primi anni Sessanta, tra le iniziative più scopertamente critiche verso la linea «revisionista» del Pci, è il caso di ricordare la costituzione, a Milano, del Gruppo proletario Luglio ’60 (Gpl60) attivo nel quartiere Lorenteggio-Giambellino. Tale collettivo politico sorse, nel marzo 1964, su iniziativa di alcuni militanti, tra cui Gino Montemezzani e Dino e Giovanni Morlacchi, radiati – o in procinto di esserlo – dalla sezione “Battaglia” del Partito comunista. Grazie al collegamento con le Edizioni Oriente, nel maggio 1964 alcuni attivisti del gruppo – inaugurando un tipico “rito” che sarà poi riservato alle élite delle organizzazioni maoiste – presero parte a un viaggio in Cina conclusosi, dopo visite a fabbriche e comuni contadine, con l’incontro (con tanto di foto ricordo) con il presidente Mao Zedong.98 Nel Gpl60 le posizioni staliniste convivevano con una forte carica antimperialistica (tratto comune con altri raggruppamenti maoisti) e una propensione all’azione diretta finalizzata all’organizzazione della lotta rivoluzionaria. In un documento del febbraio 1965, intitolato La fabbrica al contrattacco, si poteva infatti leggere: «ovunque oggi si combatte per l’edificazione socialista e l’indipendenza dei popoli, ovunque il capitalismo comincia ad accusare i colpi che gli vengono inferti dagli operai e dai contadini di tutto il mondo. […] E non ci vengano a parlare di pericoli di “fughe in avanti” gli specialisti delle fughe all’indietro».99 96. Ivi, riservata-raccomandata del prefetto di Milano alla Dgps del 24 ottobre 1966. 97. Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 72. 98. Cfr. le carte in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», in particolare la riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 24 marzo 1964. Cfr. inoltre Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Liberetà, Roma 2006, pp. 119-127. 99. Documento parzialmente riprodotto in Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X, Milano 2007, p. 54.

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Nonostante la presenza circoscritta e l’affiliazione al giornale «Nuova unità»,100 è possibile affermare che il gruppo agisse come una vera e propria organizzazione-partito. Forte, «secondo quanto riferito da buona fonte fiduciaria», fin dalle prime battute di un numero di attivisti che «supererebbe il centinaio»,101 il suo pur provvisorio Statuto non lasciava spazio a dubbi. Se l’articolo 3 precisava che potevano diventare membri del gruppo – aggiungendosi ai fondatori – tutti i lavoratori che, presentati da due iscritti, ne avessero fatto richiesta e avessero accettato le norme statutarie e «i principi fondamentali del marxismo-leninismo dandone prova con una azione politica conseguente»,102 con il successivo articolo si puntualizzava il cardine organizzativo della formazione: La vita politica del “Gruppo” si svolge secondo i principi del centralismo democratico. La sua organizzazione è articolata in cellule composte di un massimo di 10 membri e costituita principalmente nelle fabbriche e nei posti di lavoro. […] Il “Gruppo” è diretto da un Comitato Politico, cui spetta di deliberare sulla linea e sulla azione politica del “Gruppo” stesso.103

Il Gpl60, come detto, prese parte anch’esso all’esperienza che produsse il primo periodico di collegamento dei marxisti-leninisti a livello nazionale, il giornale «Nuova unità». Nel frattempo si erano infatti costituiti gruppi marxisti-leninisti esterni (ma non del tutto) al Pci, oltre che a Padova e a Milano (dove era attivo anche il Centro Lenin, collegato alle Edizioni Oriente e il gruppo organizzato da Mario Geymonat, espulso dalla sezione “Walter Fillak” della Fgci),104 anche a Roma (un gruppo ex attivisti 100. Come si può leggere nel manifesto costitutivo del gruppo esso «aderisce alla piattaforma politica proposta dai marxisti leninisti d’Italia pubblicata sul periodico Nuova unità e solidarizza con tutti i partiti comunisti marxisti leninisti» (Acs, Mi, Gab., Fc, 19671970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», trascrizione di: Il Comitato provvisorio del Gruppo proletario “Luglio 60”, Per la via italiana rivoluzionaria al socialismo, [Milano, marzo 1965], allegata alla riservata-raccomandata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 25 marzo 1964). 101. Ivi, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 24 marzo 1964. 102. Cfr. la trascrizione dello Statuto interno provvisorio del “Gruppo proletario luglio 1960”, ivi, allegato alla raccomandata-riservata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 1° giugno 1964. 103. Ibidem. Nell’ultimo articolo si precisava perfino come il Glp60 avese «una sua chiara bandiera […] rossa con falce e martello, ispirata alla tradizione rivoluzionaria del proletariato» (ibidem). 104. Ivi, riservata-raccomandata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 13 luglio 1963. Per quanto riguarda Padova, cfr. ivi, f. 161P/46/53 «Padova e provincia. Partito co-

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della Fgci di Campo Marzio) a Pisa e Livorno e, seppur di più modeste dimensioni, a Bologna, Brescia, Cagliari, Castelfiorentino, Catania, Crema, Cremona, Ferrara, Foggia, Forlì, Genova, Lecce, Pavia, Reggio Calabria, Sassari, Savona, Siena, Udine e Vicenza.105 In Sicilia, lo sviluppo dei primi nuclei maoisti si concretizzò, anche qui, in una iniziativa strutturata, autonoma dal Pci: nella seconda metà del 1963 venne infatti costituita una formazione politica – presente a Caltanissetta, Agrigento ed Enna – denominata Unità di lotta operaia internazionalista (Uloi). Le premesse per la sua nascita vennero poste in un incontro svoltosi a Serradifalco il 27 giugno 1963, alla presenza «dei compagni Lo Presti, Messana, Palermo, Stringi, Leonardo, Pace, Cannizzaro, Petrantoni» e del «compagno Mineo di Palermo»,106 quantunque l’atto di ufficiale di fondazione venisse ravvisato in una riunione tenutasi a Caltanissetta il 6 ottobre 1963. Animata da Giacomo Lo Presti, l’Uloi (come notano le autorità informate da un confidente)107 si ispirava alle tesi politiche del Pcc e, in polemimunista d’Italia “marxista-leninista”», riservata-raccomandata-doppia/busta-urgente del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 25 ottobre 1964. Tale documento stimava la consistenza dei marxisti-leninisti del Padovano attorno alle 150 unità. Tra i maggiori esponenti – oltre a Ugo Duse, Vincenzo Calò e i “maggiorenti” di Viva il leninismo – si individuavano Vincenzo Morvillo, Laura (detta Lauretta) Durigato, moglie di Calò, il «noto comunista» Salvatore Pellegrino e Ugo Pisani, «già consigliere comunale di Padova». Si precisava infine come gli appartenenti al nucleo emme-elle patavino si definissero «comunisti ortodossi», differenziandosi «nettamente dal gruppo degli intellettuali di “Classe Operaia”, definiti “anarco-sindacali[sti]”». 105. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-66, b. 408, f. 17031/48/N-Z, riservata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 4 aprile 1964 e La sinistra extraparlamentare in Italia, p. 35. 106. Uloi, Premessa a un contributo per la formazione di un partito rivoluzionario. Documento estratto dalla relazione del compagno Giacomo Lo Presti svolta alla riunione di Comunisti Siciliani tenutasi in Caltanissetta il 6 ottobre 1963, Sicilia mediterranea editrice, Caltanissetta 1963, p. 5. Nell’opuscolo è anche raffigurato lo stravagante simbolo dell’organizzazione: una stella di Davide inscritta in un cerchio e con la falce e martello (alla trockista, cioè rovesciata, con la “gobba” a sinistra) dentro l’esagono interno della stella. Tale emblema era descritto in versi («cantando, per Nuova Internazionale/il salmo marxista del Kibbutz e la Comune Cinese/Giallo radioso scudo di Davide/con falce e martello rutilanti fra Popoli». 107. Cfr. la documentazione contenuta in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/121 «ULOI Unità lotta operaia internazionalista» e ivi, Mi, Gab., Pp 1944-1966, b. 109, f. 348/P «Movimenti politici vari». Allegate all’opuscolo sopra menzionato, vi sono due foto, trasmesse da un confidente, con tanto di didascalie scritte sul retro. La prima ritrae quattro persone (successivamente numerate) attorno a un tavolino e reca scritto: «“ULOI” Convegno di Serradifalco del 27/6/63. 1) Messana Vito 2) Lo Presti Giacomo 3) Palermo

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ca con i dirigenti del Pci, «intendeva proseguire con intransigenza la linea d’azione, che fu intrapresa dall’Associazione Italia-Cina, accusata di aver attenuato la sua lotta “anti-revisionista” e ritenuta sospetta di ulteriori cedimenti per il prevalere tra le sue file “di una corrente conciliazionista”».108 Dalla lettura dell’opuscolo Premessa a un contributo per la formazione di un partito rivoluzionario, che aveva valenza di testo programmatico, si apprende infatti che in occasione della riunione fondativa del 6 ottobre Lo Presti e Mineo riferirono circa i contrasti sorti in seno all’Associazione Italia-Cina, «in relazione [alla] lotta contro il revisionismo, lotta che in qualche modo l’Associazione ha pur condotto».109 Anche in Sicilia il revisionismo è identificato con il Pci, reo – tra le altre cose – di aver permesso agli ex fascisti di entrare nel suo seno e poi di prosperare.110 Oltre alla questione, evidentemente “sentita”, degli ex fascisti presenti nel partito, il Pci siciliano, retto da Emanuele Macaluso, nel 1958 si era distinto per aver appoggiato, insieme ad altre forze tra cui spiccava il Movimento sociale italiano, l’elezione del democristiano dissidente Silvio Milazzo alla carica di presidente della Regione Siciliana, nonché di aver sostenuto la sua giunta condividendone le responsabilità di governo (la cosiddetta “operazione Milazzo”).111 La seconda parte del testo, intitolata Proposte per la costituzione di un nuovo partito marxista rivoluzionario italiano (datata 10 ottobre 1963), è siglata congiuntamente dall’Uloi e dal gruppo di Mineo, la palermitana Sinistra comunista. Ma se le due formazioni erano concordi nel ritenere che «attendismo ed entrismo aiuta[ssero], oggettivamente, gli apparati dirigenti dei due partiti tradizionali a ritardare, a tutto vantaggio delle correnti riformiste ed opportuniste, la presa di coscienza della base operaia e popolare»,112 sulla questione dell’unificazione nazionale dei gruppi maoisti attorno alla piattaforma proposta (presumibilmente reGiuseppe 4) Mineo Mario». La seconda raffigura quattordici persone a tavola mentre mangiano (ivi). 108. Ivi, Appunto senza alcuna intestazione del 4 dicembre 1963. «Una cauta opera di proselitismo – prosegue l’appunto – […] è stata per ora intrapresa soltanto nelle città di Caltanissetta, Agrigento ed Enna» (ibidem). 109. Uloi, Premessa a un contributo per la formazione di un partito rivoluzionario, p. 5. 110. Cfr. ivi, pp. 7-8. 111. Cfr. Milazzismo e revisionismo in Sicilia, in «Nuova unità», giugno 1964. Cfr. inoltre Emanuele Macaluso, Cinquant’anni nel Pci, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 130-131 e Gabriella Portalone, Sturzo e l’operazione Milazzo, Olschki, Firenze 2005. 112. Uloi, Premessa a un contributo per la formazione di un partito rivoluzionario, p. 24 (Punto XIII).

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datta da Lo Presti) al fine di «accelerare con tutti i mezzi […] il processo che condurrà alla costituzione del nuovo partito rivoluzionario italiano» non vi fu accordo.113 Loro malgrado, anche le due micro-organizzazioni siciliane scemarono nel giro di un anno, vuoi perché attratte nell’orbita di «Nuova unità», vuoi perché destabilizzate da due eventi traumatici che nella seconda metà del 1964 lasciarono ben sperare gli antirevisionisti e i loro alleati “tattici” trocko-operaisti: la morte di Togliatti (21 agosto) e la destituzione di Chruščëv (15 ottobre).114 Accanto a queste iniziative autonome o finanche indipendenti si sviluppò, all’interno del Pci, il fenomeno della diffusione di lettere anonime (indirizzate a singoli militanti comunisti) che criticavano la nuova linea «socialdemocratica» del partito inaugurata dalla svolta del 1956. Ciò, oltre a rafforzare i nuclei marxisti-leninisti esistenti (grazie anche alla pratica boomerang delle espulsioni dei dissenzienti dal Pci), condusse, nel marzo 1964, alla pubblicazione di un mensile di collegamento e orientamento che, dopo aver accantonato l’ipotesi «Prima linea», fu chiamato «Nuova unità», per sottolineare la necessità di un nuovo organo comunista in “rotta” con quello ufficiale del partito ma pur sempre nel medesimo solco politico-ideologico.115 Infatti, l’intento della maggioranza degli stalinomaoisti era quello di “rigenerare” il Pci, di ribaltare la situazione sfavorevole venutasi a determinare da dopo il XX congresso del Pcus estromettendo i vertici «imborghesiti», facendo leva su una base necessariamente «sana» e attestata su posizioni rivoluzionarie. Se il fulcro dell’operazione fu il gruppo padovano di Viva il leninismo e il Centro Lenin milanese, tra 113. Ibidem. Che il movimento di Lo Presti fosse bizzarramente eclettico lo si può dedurre da un volantino e un manifesto diffusi nel 1968 (quando dietro la sigla Uloi c’era ormai solo il suo leader maximo) che si concludevano con le seguenti esortazioni: «Viva Lenin-Trotsky e Stalin. Viva la Rivoluzione culturale. Viva Mao Tse Tung-Giap- e “Che” Guevara. Viva i giovani studenti operai e contadini» (Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/121, volantino e manifesto La storia insegna, allegati alla nota del prefetto di Caltanissetta al Gab. del Mi del 14 maggio 1968). 114. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/33 «Forlì e provincia. Partito comunista d’Italia marxista e leninista», riservata-raccomandata del prefetto di Palermo al Gab. del Mi del 17 novembre 1964, con la quale si trasmettevano informazioni su Mineo e gli altri elementi di spicco del suo gruppo (Giuseppe Brancato, Francesca Rizzo e Calcedonio Rame). Cfr. inoltre ivi, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 19 ottobre 1964. 115. Cfr. ivi, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservataraccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 9 marzo 1964.

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gli attivisti che la promossero vi erano Arturo Balestri, Fosco Dinucci, Ugo Duse, Dino Frangioni, Mario Geymonat, l’ex deputato del Pci Vincenzo Misefari, Osvaldo Pesce, Mario Quaranta, Giuseppe Regis, Livio Risaliti, e Carlo Savi.116 Diretta da Ugo Duse (coadiuvato dal vicedirettore Mario Geymonat, poi sostituito, dal numero 10, con Arturo Balestri), la prima serie di «Nuova unità» (come vedremo, ve ne sarebbe stata poi una seconda) era inequivocabilmente sottotitolata «Per la vittoria del marxismo-leninismo».117 L’articolo di apertura del giornale, otto pagine formato Tabloid, dichiarava gli intenti e individuava gli interlocutori dell’arcipelago di nuclei di cui il giornale era portavoce, ossia l’«avanguardia rivoluzionaria».118 Mentre un altro articolo, relativo al VI congresso dell’Anpi (Roma, 14-16 febbraio 1964), batteva sui tasti della Resistenza tradita e dell’antiamericanismo.119 Ma il documento principale del primo numero di «Nuova unità» era il testo programmatico Proposte per una piattaforma dei marxisti-leninisti d’Italia. In esso, dopo un’aspra critica al revisionismo, si affermava che la questione all’ordine del giorno era quella del bivio di fronte al quale si sarebbe trovato il Pci. Ossia se si fosse trasformato definitivamente in un «elefantiaco partito socialdemocratico» (impotente innanzi al fascismo e alla reazione), oppure se i comunisti italiani sarebbero stati capaci – contestando il vertice – di ricostituire il loro partito, rialzando «la bandiera della rivoluzione» e guidando le masse alla vittoria. Dato che la prima ipotesi veniva presentata come più probabile, i marxisti-leninisti avrebbero dovuto dunque preparare i quadri per far sorgere dal movimento il nuovo partito della classe operaia italiana.120 116. Cfr. L’incontro a Milano dei marxisti-leninisti d’Italia. La formazione del nostro movimento ed i suoi compiti attuali, in «Nuova unità», giugno 1964 e Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-66, b. 408, f. 17031/48/N-Z, riservata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 4 aprile 1964. 117. Ibidem. 118. Cfr. Perché questo giornale perché questo titolo, in «Nuova unità», marzo 1964. 119. Al Congresso dell’ANPI una mozione antirevisionista, ivi. 120. Proposte per una piattaforma dei marxisti-leninisti d’Italia, ivi. La primogenitura del documento, successivamente discusso con altri gruppi marxisti-leninisti e modificato, fu rivendicata dal Centro Lenin di Milano. Cfr. la G.R. [Giuseppe Regis], Premessa, in Centro Lenin (Gruppo milanese di unità marxista-leninista), Compiti del movimento dei marxisti-leninisti italiani per la costruzione del nuovo partito comunista (documento interno), [bozza di stampa], Milano, s.e., [1965], p. 3.

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Insomma, temi e modalità discorsive, eccezion fatta per l’opzione scissionista, della tradizione secchiana che si affiancavano ad attacchi all’Urss (giudicata revisionista) e al titoismo.121 Nel frattempo, il legame con i partiti “fratelli” di Cina e Albania si fece sempre più stretto (nei vari numeri di «Nuova unità» erano pubblicate manchette che segnalavano le frequenze e gli orari per ascoltare le trasmissioni in lingua italiana di Radio Tirana e Radio Pechino), mentre i rapporti con le altre componenti del dissidentismo social-comunista, trockisti in primo luogo, cominciarono a rarefarsi. Anche perché il recupero e la valorizzazione della figura di Stalin non fu un attributo secondario dell’area “emmeelle”. Lasciando intendere che sarebbero esistite divergenze tra Pcus e Pci sulla questione della rivoluzione italiana, la pubblicistica marxistaleninista (ignara o immemore dei zig-zag del dittatore sovietico in materia di frontismo e politica delle alleanze) rappresentava Stalin come un campione dell’antifascismo e dell’anticapitalismo rivoluzionari: più che un mito, una vera e propria “leggenda rossa”.122 In più, l’origine secchiana lasciò in eredità l’idolatria per la forma partito (che avrebbe dovuto essere centralista, gerarchico e in cui gli spazi di democrazia interna sarebbero stati ridottissimi) e, come osservato, per i moduli della clandestinità.123 All’interno della composita rete di collegamento – che ricevette aiuti (anche finanziari) dall’ambasciata cinese di Berna124 – si delinearono fin da subito due orientamenti contrapposti: uno per la costituzione immediata di un partito dei marxisti-leninisti italiani; l’altro favorevole a un atteggia121. Cfr., ad esempio, La Federazione giovanile Comunista di Venezia per una linea marxista-leninista, in «Nuova unità», marzo 1964, dove è trascritta una risoluzione della Fgci del capoluogo veneto del 12 novembre 1963 che accusava il patto “antinucleare” «che assicura agli USA e all’URSS il monopolio delle armi nucleari», condannando altresì «il metodo antimarxista del ricatto economico perpetrato dall’URSS nei confronti della Repubblica Popolare Cinese e della Repubblica Popolare Albanese, nel mentre si stringono patti economici e militari con il traditore Tito» (ibidem). 122. Cfr. La commemorazione di Stalin a Roma, in «Nuova unità», aprile 1964 (tutto maiuscolo anziché in tondo nell’originale). 123. Cfr. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 144. 124. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/53, riservata-raccomandatadoppia/busta-urgente del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 25 ottobre 1964 (secondo la quale il movimento filo-cinese avrebbe ricevuto dall’ambasciata cinese in Svizzera «sovvenzioni anche sotto forma di francobolli di rilevante valore filatelico») e Morlacchi, La fuga in avanti, p. 55.

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mento tattico che presupponeva l’attivismo politico dentro e fuori il Pci. Se nel giugno del 1964, in una prima riunione nazionale tenutasi a Milano, prevalse, su insistenza di Regis, l’atteggiamento entrista,125 il 6 novembre successivo, in occasione di un’assise nazionale (svoltasi ancora una volta a Milano, nella sede di «Nuova unità» e del Gpl60), gli orientamenti finalizzati alla costruzione di un’organizzazione indipendente che potesse agire alla luce del sole (e non come mero strumento di servizio per gli entristi) conquistarono posizioni. In tale assemblea venne altresì formalizzata la costituzione del Movimento marxista-leninista italiano (Mmli), nei fatti già esistente dalla comparsa di «Nuova unità» ed eletto un direttivo composto da Mario Geymonat, Giacomo (detto Gino) Montemezzani, Osvaldo Pesce e Giuseppe Regis.126 Nella stessa riunione del 6 novembre 1964 fu compiuto un ulteriore passo in avanti nel processo costitutivo della Lega della gioventù comunista (marxista-leninista) d’Italia, Lgc(ml)i, l’organismo giovanile del movimento che, organizzatosi stabilmente a Milano e nelle zone limitrofe il 1° ottobre 1964, si strutturò a livello nazionale in una successiva riunione tenutasi, sempre a Milano, il 26 e il 27 dicembre successivi.127 Diretta da Tullio Muraro e Arnaldo Bressan, la formazione giovanile del Mmli, che curò la pubblicazione dell’inserto «Gioventù rivoluzionaria» (ospitato nell’ultimo numero della prima serie di «Nuova unità»), si schierò a sostegno della linea “autonomista” perorata da Ugo Duse. Nel marzo del 1965 i leghisti – così si definivano ed erano definiti – balzarono agli onori della cronaca per l’annuncio pubbli125. Cfr. il resoconto della riunione milanese del 7 giugno 1964: L’incontro a Milano dei marxisti-leninisti d’Italia. La formazione del nostro movimento ed i suoi compiti attuali, in «Nuova unità», giugno 1964 e Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966, che segnala la consistenza numerica dei partecipanti («un centinaio di aderenti ai vari gruppi»). 126. Cfr. ivi, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966. 127. Cfr. ibidem. Per le tappe della costituzione dell’organismo giovanile marxistaleninista, si veda anche Un nuovo strumento di lotta rivoluzionaria: la lega della gioventù comunista (marxista-leninista) di Milano, in «Nuova unità», ottobre 1964; Progetto di Statuto della Lega della Gioventù Comunista (marxista-leninista) di Milano, ivi, novembre 1964; Attività della Lega della Gioventù Comunista (marxista-leninista), ivi; Un passo in avanti per la costituzione della Lega della Gioventù Comunista (m-l) d’Italia, ivi, dicembre 1964; Costituito a Milano il primo nucleo della Lega Gioventù Comunista (m-l) d’Italia, in «Gioventù rivoluzionaria», gennaio 1965.

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co della costituzione del Corpo volontario della libertà per il Vietnam, allo scopo di reclutare combattenti da affiancare alle truppe nord-vietnamite o ai partigiani Viet-Cong. In realtà, l’iniziativa, provocatoria e velleitaria quanto si vuole ma in sintonia con i sentimenti diffusi nella sinistra (non solo quella classificabile come rivoluzionaria),128 fu probabilmente, come del resto assodato dalle autorità di Ps, una trovata propagandistica.129 Nel frattempo, per usare le parole del prefetto milanese Mazza, «gravi contrasti erano sorti tra Osvaldo Pesce e Ugo Duse mentre altri contrasti andavano anche delineandosi tra gli esponenti del “movimento” vero e proprio e quelli della “lega della gioventù comunista (ml)”».130 Il risultato fu che, come un fulmine a ciel sereno, dopo il numero del gennaio 1965 (l’undicesimo e ultimo della prima serie) «Nuova unità» cessò le pubblicazioni. Il movimento subì una battuta d’arresto, una pausa di riflessione da cui uscì spezzato in tre tronconi: Regis e Arena si estraniarono (anche se provvisoriamente), proseguendo l’attività di propaganda politica e culturale filocinese delle Edizioni Oriente; Ugo Duse e la maggioranza della struttura giovanile cominciarono a organizzarsi 128. Cfr. a riguardo il film di Citto Maselli, Lettera aperta a un giornale della sera, Italia, 1967, 122’. Numerose sono anche le segnalazioni delle autorità: ad esempio nel corso di un’assemblea ad Amelia, l’onorevole Alberto Guidi (Pci) avrebbe affermato «che in caso di necessità occorre[va] sostenere il popolo del Vietnam anche con l’invio di volontari»; Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 426, f. 17037/80 «Terni. Manifestazioni pro stampa socialcomunista», riservata del prefetto di Terni al Gab. del Mi del 22 giugno 1965. Nell’ambito dell’attività di controllo di un gruppo di 370 giovani comunisti italiani in visita in Urss, l’ambasciatore Federico Sensi riferiva che secondo l’Agenzia Tass il segretario nazionale della Fgci avrebbe dichiarato «Noi siamo pronti a prendere le armi e combattere a fianco dei patrioti vietnamiti per la libertà e l’indipendenza del loro Paese» (Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 104, f. 12010/99 «Attività dei partiti. Viaggi all’estero», sf. 2 «Federazione giovanile com[u] nista italiana. FGCI. Viaggio a Mosca», telespresso dell’ambasciata d’Italia a Mosca al ministero degli Affari esteri del 28 marzo 1967). 129.  Ivi, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 20 marzo 1965. Si veda anche ivi, la riservata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 13 maggio 1965, (attraverso la quale si comunica che «secondo quanto accertato, nessuna domanda di arruolamento per il Vietnam è finora pervenuta» alla Lega) e ivi, f. 161P/46/61 «Pisa e provincia. Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Bari al Gab. del Mi del 11 aprile 1965, con la quale si escludeva che i filocinesi reclutassero volontari per il Vietnam. 130. Ivi, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966.

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autonomamente in una prospettiva anti-entrista, caratterizzata in senso antimperialista e barricadero; Balestri, Dinucci, Geymonat, Misefari e Pesce, che rappresentano la componente più autenticamente “ortodossa”, si attivarono per il rilancio dell’esperienza in chiave “continuista”.131 Nell’aprile 1965, mentre «Nuova unità» riprese le pubblicazioni (inaugurando la seconda serie), nella sede milanese della Lega della gioventù comunista (marxista-leninista) d’Italia si tenne una riunione nazionale (alla presenza «di oltre una ventina di persone») finalizzata alla ricomposizione della frattura venutasi a creare nel movimento. S’incontrarono le due anime più “politiche”, ma la riunione non condusse alla riconciliazione. Come rievocò sempre Mazza tempo dopo: I lavori, come era prevedibile, furono caratterizzati da notevoli contrasti sorti tra [gli] esponenti della “lega” e gli altri elementi, tra cui Osvaldo Pesce e Gino Montemezzani, esponenti del “movimento”, e si conclusero con una definitiva rottura tra le due fazioni. Si chiarisce, a tal proposito, che, mentre i primi insistevano perché si tenessero una linea “intransigente e rivoluzionaria” avallata da “atti rivoluzionari”, i secondi sostenevano la necessità della “battaglia politico-ideologica” contro il revisionismo “opportunista” del PCI, per la formazione di un partito marxista-leninista.132

Il movimento si era ormai scisso in modo irreparabile. Le tre componenti del marxismo-leninismo daranno vita, come vedremo, a tre distinte strutture associative. Se gli entristi-partitisti proseguiranno consolidando il loro movimento (per poi finalmente fondare, nell’ottobre del 1966, il primo partito m-l), Duse e i giovani m-l “irrequieti” fonderanno la Lega dei comunisti marxisti-leninisti d’Italia (Lcmli), mentre Regis – unificandosi con altri (fra cui alcuni transfughi delle altre due reti associative) – costituirà la Federazione dei gruppi marxisti-leninisti d’Italia (nota anche come Federazione marxista-leninista d’Italia). Dopo appena due anni e mezzo di vita l’area marxista-leninista si trovava dunque frammentata tra Movimento, Lega e Federazione, ingenerando confusione sia tra i suoi potenziali adepti, sia tra gli occhiuti funzionari preposti al controllo dei sovversivi. Non era che l’inizio. 131. Cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, pp. 36-37. 132. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966.

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1. Verso il partito: le organizzazioni stalino-maoiste La spaccatura degli “emme-elle” tra entristi-partitisti da un lato e antientristi-movimentisti dall’altro, emersa nel febbraio-marzo 1965, altro non era che il riflesso di due atteggiamenti mentali riconducibili a due distinte culture politiche o, dato che l’analisi è sul lungo periodo, tradizioni esistenti nel movimento operaio italiano in generale e nella sua componente rivoluzionaria – anche se non nelle medesime proporzioni – in particolare: la tradizione oggettivista e quella soggettivista. La prima era caratterizzata da un vero e proprio culto dell’organizzazione, attenta a non compiere passi falsi, quindi propensa ad atteggiamenti tattico-diplomatici e consapevole che la raccolta dei risultati del proprio lavoro non potesse che avvenire sulla lunga distanza, ossia quando le condizioni oggettive l’avessero resa possibile; la seconda, meno formale sul piano organizzativo, era invece contraddistinta dalla convinzione che i presupposti necessari per il cambiamento si sarebbero dati anche e soprattutto grazie al lavoro del fattore soggettivo (l’attore politico), da qui la necessità di agire, in modo indipendente, senza troppe attese o tatticismi (la cosiddetta “impazienza rivoluzionaria”). Tale contesto di rottura interna venne colto da un non precisato organismo di Intelligence (il Sifar oppure un Ufficio dei Carabinieri) che, a fine marzo del 1965, inviò al ministero un sufficientemente dettagliato Appunto in cui si comunicavano gli aspetti generali della frattura: «anche il campo filo-cinese è agitato da dispute, essendosi formata, in contrasto con una corrente più moderata, un’ala più oltranzista, decisa ad uscire dalla semiclandestinità, per rompere definitivamente con

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il PCI e passare ad un’azione più concreta».1 L’informativa in questione, dopo aver illustrato la situazione dell’area filocinese a livello nazionale, segnalando l’entità dei principali gruppi della penisola, ne stimò la consistenza numerica complessiva. In base a calcoli approssimativi, […] il numero dei filo-cinesi veri e propri oscillerebbe tra le 2.500 e [le] 3.000 unità. Il numero degli iscritti al PCI che sarebbero, invece, su posizioni di dissidenza filocinese può essere, complessivamente, calcolato intorno ai 12.000, dei quali soltanto una parte e cioè i 2/3 circa sarebbero da ritenere disposti a prendere aperta posizione contro la linea ufficiale del PCI.2

Secondo gli apparati investigativi dello Stato, il complesso dei marxistileninisti in rotta o disposti a rompere con il Pci sarebbe dunque ammontato a 10-11.000 unità. Se la stima fosse attendibile (e per quanto riguarda i numeri la risposta non può che essere affermativa) ci troveremmo di fronte a una crescita significativa. Escludendo il periodo resistenziale e post-resistenziale (in particolare dalla svolta di Salerno all’estromissione del Pci dalla compagine governativa), le potenzialità di sviluppo quantitativo di una singola area della sinistra rivoluzionaria – in termini di attivisti e simpatizzanti “stretti” – non raggiunsero mai, prima di allora, tali livelli. Mentre nel corso degli anni Cinquanta e nei primi del decennio successivo l’organico di una qualsivoglia formazione rivoluzionaria raramente superava le tre centinaia di militanti e la cifra di oltre un migliaio di attivisti fu raggiunta solo dalla dissidenza titoista (Mli, poi Usi), nel 1965 i «cinesi» avevano le potenzialità per superare quota diecimila. Tuttavia, se tale “balzo in avanti” si verificò nel corso del triennio successivo (grazie alla spinta propulsiva della Rivoluzione culturale e del movimento degli studenti universitari del 1966-1968), nel 1965 l’aspro dibattito tra le anime del movimento filocinese non agevolò certamente lo sviluppo dello stesso. Le modalità discorsive della diatriba furono perentorie ed ebbero come corollario la reciproca “scomunica”. Si veda, ad esempio, quanto scritto nel primo numero della seconda serie di «Nuova unità» (che pur 1. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 3, f. 161P/46 «Movimento filocinese in seno al PCI. Varie», Appunto del 26 marzo 1965. 2. Ibidem. Secondo l’Appunto, gruppi più o meno formali di marxisti-leninisti erano presenti nelle seguenti province: Ascoli Piceno, Bari, Bologna, Cremona, Firenze, Foggia, Forlì, Genova, La Spezia, Livorno, Milano, Padova, Palermo, Perugia, Pisa, Reggio Emilia, Roma, Savona, Venezia e Vicenza.

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mantenendo la continuità nella numerazione aveva mutato il sottotitolo in «Organo del Movimento marxista-leninista italiano»), pubblicato nella seconda metà dell’aprile del 1965. L’estromissione di Duse e dei giovani leghisti venne definita «una battaglia vittoriosa contro le infiltrazioni provocatorie di pochi individui trotzkisti e revisionisti»3 e la dinamica in corso, che non aveva escluso il “recupero” degli antagonisti, così descritta: «Nuova Unità» riprende le pubblicazioni continuando, con più vigore, la battaglia politico-ideologica iniziata nel marzo dell’anno scorso. […] C’è stata, ed è tuttora in corso, una lotta politica contro le tendenze chiuse, settarie, inconcludenti ed oggettivamente contrarie allo sviluppo del movimento, nel corso della quale la grandissima maggioranza dei gruppi marxisti-leninisti, concordi su una stessa linea ideologica e politica, […] hanno [sic] consolidato la loro unità costituendo il Comitato Nazionale provvisorio del movimento marxista-leninista italiano.4

Il Comitato nazionale provvisorio del Mmli, «costituito a Milano il 4 aprile 1965»,5 decise di convocare il congresso nazionale della rete associativa in data e luogo da comunicarsi per procedere sulla strada della costruzione del partito (obiettivo primario per gli entristi),6 mentre gli atti3. Comunicato, in «Nuova unità», aprile 1965. Il Comitato di direzione del giornale nazionale dei marxisti-leninisti era costituito da Arturo Balestri, Alberto Bucco, Vincenzo Misefari (responsabile), Osvaldo Pesce e Carlo Savi (ibidem). Si veda inoltre Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-66, b. 408, f. 17031/48/N-Z, nota del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 13 maggio 1965, con la quale il funzionario comunica che i motivi che avevano indotto Duse a «lasciare la carica di cui sopra [andavano] ricercati negli aspri contrasti di natura ideologica, sorti tra il predetto e […] Arturo Balestri, Osvaldo Pesce e Carlo Savi, i quali hanno conservato il controllo di “Nuova Unità” estromettendo il Duse» (ibidem). Alla luce di ciò, appaiono incongrue le espressioni, riferite a Ugo Duse, «scissione ispirata da» e «scissione promossa da» in Il sessantotto. La stagione dei movimenti, pp. 206 e 207. 4. Arturo Balestri, Una battaglia vinta. Verso il Congresso del Movimento marxistaleninista, in «Nuova unità», aprile 1965. 5. Il comitato era inizialmente composto da Arturo Balestri, Alberto Bargagna, Alberto Bucco, Fosco Dinucci, Dino Frangioni, Marino Gambato, Doro Lanza, Vincenzo Misefari, Gino Montemezzani, Renato Nadalin, Marco Parolini, Osvaldo Pesce, Ugo Pisani, Livio Risaliti, Franco Robustelli, Franco Saltarelli, Alberto Sartori, Carlo Savi, Pietro Scavo, Luigi Tosi, Piero Zampieri e «undici compagni», di cui si omettono i nomi, poiché «impegnati nella lotta all’interno del PCI». Cfr. Comunicato, in «Nuova unità», aprile 1965, nonché Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966. 6. Comitato nazionale provvisorio del Movimento Unitario dei marxisti-leninisti italiani, Appello ai compagni marxisti-leninisti, in «Nuova unità», aprile 1965.

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visti della Lega della gioventù comunista (marxista-leninista) d’Italia, per iniziativa del gruppo milanese (forte di un centinaio di aderenti), avevano serrato le proprie fila, formalizzando la nascita dell’aggregazione giovanile a livello nazionale in un convegno ad hoc tenutosi il fine settimana del 20 e 21 marzo 1965 a Milano.7 Contestualmente, decisero di trasformare in un giornale autonomo ciò che nel gennaio precedente era stato l’inserto di «Nuova unità», il foglio «Gioventù rivoluzionaria», e annunciarono l’uscita del mensile «Il Comunista».8 L’organo giovanile – che, in realtà, ebbe una vita stentata a causa delle ulteriori divisioni interne di cui si dirà – fu preceduto dalla pubblicazione del numero unico «Alla gioventù rivoluzionaria» (edito a Padova, nella prima decade di aprile). Come precisato dalla redazione, la sua uscita fu resa necessaria per rispondere agli attacchi condotti nei confronti dei giovani emmellisti a causa della «giusta iniziativa presa in difesa e appoggio della lotta dei nostri fratelli vietnamiti» (la sconclusionata proposta dell’invio di combattenti volontari in Vietnam) e per «informare tutti i compagni di Nuova Unità che la lotta per la vittoria del marxismo-leninismo [sarebbe stata] continuata da Il Comunista».9 Il giornale «Il Comunista», il cui primo numero aveva lo stesso sottotitolo della prima serie di «Nuova unità» («Per la vittoria del marxismo-leninismo»), divenne successivamente l’organo della formazione politica fondata da Ugo Duse e dai giovani, la già menzionata Lega dei comunisti marxisti-leninisti d’Italia,10 la cui dif7. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 3, f. 161P/46, Appunto del 26 marzo 1965. 8. Cfr. ivi, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966. 9. Comunicato di Redazione, in «Alla gioventù rivoluzionaria», n.u., aprile 1965. Cfr. inoltre Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 410, f. 17031/53 «Padova. Stampa in genere», riservata-raccomandata-doppia/busta del questore di Padova alla Dag e Dar della Dgps del 12 aprile 1965, nonché ivi, Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/53, raccomandatariservata del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 23 aprile 1965. Con le due missive si segnalava l’entità delle copie stampate (5.000), le generalità e i precedenti di colui che ne commissionò la realizzazione (Mario Quaranta), e i nomi dei collaboratori che avevano siglato i vari articoli (tra cui Ugo Duse, Arnaldo Bressan, Aldo Calcidese e Tullio Muraro). Come scritto del prefetto patavino, Mario Quaranta «venne espulso dal PCI nel marzo 1963 per avere collaborato alla pubblicazione del terzo numero [in realtà n.u] di “Viva ancora il leninismo”, pubblicato a cura di un gruppo di dissidenti (filo-cinesi) della locale federazione comunista» (ivi, riservata del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 9 agosto 1967). 10. Ivi, Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», nota del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 25 maggio 1965. Come si apprende,

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fusione nazionale fu tuttavia limitata (ebbe “punti di forza” solo a Milano, Brescia, Treviso e Padova).11 Il primo numero de «Il Comunista» (maggio 1965), conteneva una critica serrata alle posizioni degli emme-elle entristi, ritenuti degli opportunisti, e alle speranze di coloro che intravedevano nelle forze interne al Pci in dissidio con la linea maggioritaria un fattore di potenziale crescita per il movimento rivoluzionario. Secondo i redattori de «Il Comunista», gli idealizzati «vecchi e gloriosi compagni» iscritti al Pci, non farebbero altro che «aspettare l’osso del padrone», salvo poi lamentarsi della loro condizione di cani.12 Anche la classe operaia italiana si sarebbe trovata nella medesima condizione di subalternità all’ordine costituito: integrata in un sistema da cui avrebbe tratto relativi privilegi, essa sarebbe stata corresponsabile dello sfruttamento di tipo imperialistico del Sud del mondo. I marxisti-rivoluzionari occidentali avrebbero dovuto, dunque, favorire il successo delle rivoluzioni dei paesi coloniali o semicoloniali, agendo nel proprio paese alla stregua di una “quinta colonna”. Stante ciò, non può stupire la successiva presa di posizione di Duse e dei suoi – in nome del principio di autodeterminazione dei popoli – a favore del separatismo sudtirolese.13 Se quest’orientamento marxista-leninista si caratterizzò per un certo attivismo e per il suo spiccato terzomondismo, l’altra componente emme-elle – che, ancor più della prima, era riconducibile a «una cultura politica […] staliniano-operaista-d’apparato»14 – continuò la sua lunga marcia verso la costruzione del partito rivoluzionario (sempre più agevolata, in ciò, dalle il nuovo giornale maoista, «identificantesi con la ideologia “più spinta” prefissasi dal movimento», venne messo in vendita nelle edicole milanesi il 19 maggio 1965. 11. Ivi, b. 4, f. 161P/46/53, raccomandata-riservata del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 24 gennaio 1970, con la quale, tra l’altro, si specificava che al gruppo di Duse vi «aderì in un primo tempo anche Vesce Emilio, rappresentante di commercio […], che, successivamente, transitò nelle file di “Potere Operaio”». 12. Cfr. Il saluto de “Il Comunista”, in «Il Comunista», maggio 1965 e Vecchi e gloriosi compagni, ivi. 13. Cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, pp. 37-38 e Acs, Mi, Gab., Fc, 19671970, b. 4, f. 161P/46/53, riservata del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 22 agosto 1968, con la quale si segnalava la commissione (sempre da parte di Quaranta) di un volantino, allegato alla riservata, in cui si reclamava «il diritto di autodeterminazione per la popolazione del Tirolo, nonché l’istituzione dell’Università nella città di Bolzano». 14. Cfr. Mangano, Le culture del Sessantotto, p. 71 (corsivo nell’originale). In questo caso, «operaista» è da intendersi come sostenitore della «centralità operaia» e non

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“purghe” interne al Pci)15 appellandosi alla lettura stalinista dei principi leniniani. La delegittimazione dei concorrenti-avversari (anarchici, socialdemocratici, trocko-bordighisti o revisionisti che fossero) si avvalse dei cliché tipici della precettistica staliniana che riconduceva alla categoria di “tradimento” ogni opinione divergente: in un manifesto affisso a Milano in occasione del 12° anniversario della morte di Stalin, si attaccava, ad esempio, la risma di coloro che «sono sempre rimasti e rimarranno sempre rinnegati e revisionisti: da Bakunin a Kautski, da Trotski a Krusciov».16 Anche per ciò che concerne la democrazia interna, le procedure non andavano tanto per il sottile. Sia tra gli “ortodossi”, sia tra i “soggettivisti”. Come riferito dal prefetto Mazza, nell’ottobre del 1965 l’ufficio politico del Movimento avocò a sé «Nuova unità», sciogliendone il Comitato di direzione. Al contempo, il Movimento decise, dopo alcune riunioni a carattere riservato, di trasferire la propria sede centrale e quella del periodico da Milano a Roma. Nel frattempo, all’interno della corrente “soggettivista” (altresì definibile come giovanil-antimperialista), cominciarono a manifestarsi le prime crepe: nel febbraio del 1966, unitamente alla formalizzazione della struttura associativa animata da Ugo Duse, la Lega (Lcmli), una riunione di militanti dell’area espulse, anche per contrasti derivanti da una vicenda personale, Arnaldo Bressan.17 Lo stesso trattamento venne riservato a Donatella Borghesi, Pietro Cardinali, Alfonso Dall’Agnol, Elena De Martin, Giorgio Soragna, Giuseppe Maj e sua moglie Stacia Grella, i quali, con Bressan, continuarono a utilizzare – benché, teoricamente, in minoranza e, per di più, espulsi dall’organizzazione – il nome dell’organizzazione giovanile, eleggendo un organismo dirigente composto da Roberto Aristarco («figlio del noto critico cinematografico Guido Aristarco»), Donell’accezione, ormai condivisa, di marxista-consiliarista con venature leniniane alla Panzieri-Tronti. 15. Cfr. Una battaglia antirevisionista, in «Nuova unità», aprile 1965, sulle espulsioni e radiazioni nel Bergamasco. Tra gli espulsi anche il segretario della sezione Paci-Dell’Orto e il membro del Comitato federale Luigi Thiella (poi dirigente della Federazione e di Avanguardia proletaria maoista). 16. Così recitava un manifesto murale del movimento marxista-leninista milanese. Cfr. Il manifesto affisso a Milano e in numerose altre città, nel XII della morte di Stalin, in «Nuova unità», aprile 1965. 17. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966, con la quale si comunica – tra l’altro – che la contrapposizione tra Duse e Bressan si inquadrava «in una vicenda “strettamente personale”, in quanto, da tempo, la moglie del Bressan […] conive[va] “more uxorio” col Duse».

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natella Borghesi, Pietro Cardinali, Adriana Chiaia, Cesare Comitani, Alfonso Dall’Agnol, Franco Fiocchi, i coniugi Maj, Rinaldo Fiorani, Giorgio Soragna e dallo stesso Bressan. Ma anche i giovani che restarono a fianco di Ugo Duse si considerarono a tutti gli effetti membri della Lega della gioventù comunista (marxista-leninista) d’Italia, ed elessero anch’essi il loro gruppo dirigente (Vincenzo Calò, Mario Quaranta, Tullio Muraro, Giovanni Zambarbieri, Gino Scaraggini ed Elio Franzin). Per cui a partire dal febbraio del 1966 ci furono due leghe giovanili emme-elle con identico nome e una lega “generalista”, la Lcmli (anche se le due leghe che facevano capo a Duse erano pressoché sovrapposte).18 In bilico tra il movimento raccolto attorno a «Nuova unità» e il gruppo di Ugo Duse c’era la rete delle Edizioni Oriente dei coniugi Regis-Arena, la quale, seppur in modo fluido, si muoveva nella prospettiva di giungere alla costituzione di una formazione nazionale unitaria – non necessariamente centralizzata – dei marxisti-leninisti, cercando di conciliare le aspettative di «due forze destinate a marciare in parallelo»: quella «impegnata al ricupero della generazione proletaria ingannata e tradita dai revisionisti» e quella dei giovani, «chiamata ad educare e formare i rivoluzionari della nuova generazione».19 Se dalla prima «forza» sarebbe nata, come logica conseguenza, l’esigenza del lavoro entrista, la seconda «forza» necessitava di un’organizzazione autonoma ramificata al cui rafforzamento doveva essere subordinato il lavoro politico nel Pci. Tuttavia, contrariamente al giudizio di linearità espresso anche in sede storiografica, gli apparati investigativi giudicavano il ruolo di Regis come equivoco. Ecco la versione del prefetto Mazza, dopo la scissione della Lega della gioventù comunista (marxista-leninista) d’Italia: A questo punto ricomparve sulla scena il dott. Giuseppe Regis che, fin dal sorgere del fenomeno, aveva seguito e, secondo informatori attendibili, fomentato le varie scissioni. Infatti, a quanto affermano elementi qualificati, il Regis sarebbe una “pedina” del PCI, col compito di controllare, arginare e, se possibile, frazionare l’attività di tutto il “movimento filocinese” nel suo insieme che, anche se annovera modesti successi, tende in ultima analisi alla costituzione di un vero e proprio partito di opposizione al PCI.20 18. Ibidem. 19. Centro Lenin (Gruppo milanese di unità marxista-leninista), Compiti del movimento dei marxisti-leninisti italiani per la costruzione del nuovo partito comunista, p. 12. 20. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966.

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Se la notizia di Regis come “pedina” del Pci appare una forzatura, frutto probabilmente della visione – peraltro non necessariamente “obiettiva” – degli «informatori attendibili» (egli, a differenza di Duse o di altri, non rientrò nel Pci), non è da escludersi che, al fine di unificare in un movimento di sintesi l’intera area emme-elle, Regis e le Edizioni Oriente avessero temuto l’ossificazione organizzativa attorno al polo vetero-stalinista e a quello avventurista. Fatto sta che Regis, nel luglio del 1966, organizzò con Luciano Raimondi (dirigente di Azione comunista “convertitosi” al maoismo), un incontro nazionale finalizzato alla costituzione di un organismo unitario dell’area marxista-leninista. Al termine dell’incontro milanese (presieduto da Manlio Donati di Roma) le trenta persone convenute decisero di costituire la Federazione dei gruppi marxisti-leninisti d’Italia (Fmli).21 Il prefetto milanese, ne tratteggia i tratti distintivi e i primi passaggi: In particolare è bene ricordare che nel mese di giugno u.sc. alcuni esponenti di sparuti gruppi “filocinesi” italiani, provenienti dalle varie città […] si sono trovati d’accordo su alcuni giudizi di ordine politico-sociale e sindacale concernenti l’attività finora svolta dalla classe operaia e dalle forze antiriformiste, sulla base dei quali hanno lanciato un “appello” a tutti gli altri gruppi “marxisti-leninisti”, al fine di addivenire nel tempo più breve alla unificazione […] di tutte le forze “marxiste leniniste”. […] I lavori verterono su tre “relazioni” presentate all’assemblea dal noto dott. Giuseppe Regis di Milano […]; da Ugo Veneziani di Torino […]; dal prof. Luciano Raimondi di Milano, […] cui seguirono altri interventi da parte di delegati o singoli “antirevisionisti” di Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Palermo, Bergamo, Reggio Emilia e Bari.22

Insieme a Raimondi c’erano anche i giovani raccolti attorno alla Lega della gioventù comunista (marxista-leninista) d’Italia di Bressan che, dopo l’espulsione dal gruppo di Duse, avevano preso a pubblicare il periodico «Gioventù marxista-leninista» (del quale Raimondi figurava come direttore responsabile).23 I criteri individuati da Regis e Raimondi per raggiungere lo scopo prefisso furono, in sintesi, i seguenti: l’effettiva uguaglianza dei 21. Cfr. ivi, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 30 settembre 1966 e ivi, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966. 22. Ivi, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 30 settembre 1966. 23. Cfr. ivi, Fc, 1964-66, b. 407, f. 17031/48/A-M «Milano. Stampa in genere», nota del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 27 settembre 1966.

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gruppi territoriali e la loro centralità a livello organizzativo; lo scioglimento dei raggruppamenti nazionali (Movimento e leghe varie) nel momento della fondazione del soggetto unitario; partire fin da subito con l’unificazione (intesa come processo in divenire e includente) senza aspettare l’accordo di tutte i soggetti interessati; accordo su base programmatica; profilo federale del sodalizio con larga autonomia a livello locale; coordinamento (ed eventuale superamento) delle pubblicazioni esistenti. Al termine dei lavori dell’assemblea, dopo aver approvato – tenuto conto delle osservazioni emerse – i criteri proposti e i documenti sottoposti alla discussione (il Progetto di statuto e la Bozza di programma d’azione politica immediata), fu deciso di pubblicare il periodico «Rivoluzione proletaria» la cui gestione fu affidata a un comitato redazionale composto dal romano Manlio Donati, dal milanese Luciano Raimondi (anche direttore responsabile) e dal fiorentino Aldo Serafini. L’organizzazione fu invece diretta da una segreteria collegiale costituita da Gian Franco Matteuzzi, Antonio Monteleone, Luigi Thiella, Ugo Veneziani, Luciano Raimondi e Giuseppe Maj. Come presidente permanente dell’assemblea – l’organismo che, statutariamente, elaborava la linea politica della federazione, riunendosi ordinariamente ogni sei mesi – fu eletto Manlio Donati mentre come amministratore venne individuato Agostino Francesco Marchelli di Genova. Il superamento del “milanocentrismo” e l’attività di proselitismo indirizzata non esclusivamente verso i militanti del Pci (ad esempio, aderirono al neocostituito sodalizio alcuni «noti» membri del Psiup milanese tra cui Enrico Rambaldi, Leopoldo Leon e i fratelli Sergio e Giuliano Spazzali) contribuirono senz’altro allo sviluppo della Federazione dei gruppi marxisti-leninisti d’Italia.24 A dispetto di una letteratura tesa a rappresentare la Federazione come un’aggregazione variegata e polimorfa, con un profilo organizzativo duttile, per cui «per rintracciare una tipologia simile dovremo attendere fino al ’77, con la costruzione di Democrazia Proletaria»,25 va detto che se corrisponde al vero che il suo statuto contemplasse forme di autonomia da parte dei gruppi locali, questi erano in ogni caso «vincolati alle direttive generali o particolari impartite dalla Assemblea e di cui la Segreteria [ne doveva] garantire 24.  Ibidem. In riferimento al ruolo di Regis, il prefetto Mazza comunicava quanto segue: «il dott. Giuseppe Regis ha finora operato in modo da non apparire come il vero artefice dell’iniziativa […] non inserendosi nelle strutture direttive della […] organizzazione». 25. Cfr. Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 106.

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l’esecuzione».26 Quanto al programma politico, ma in questo caso la letteratura sul maoismo italiano è sostanzialmente concorde, esso non si discostava troppo da quello delle altre aggregazioni marxiste-leniniste, se non per un profilo politico-organizzativo fortemente sbilanciato verso tematiche care a una sinistra rivoluzionaria massimalista-militarista. Ad esempio, a differenza del movimento raccolto attorno a «Nuova unità», il programma della Federazione conteneva espliciti richiami – forse prospettati dai giovani che in un primo momento si erano schierati con Duse – alla «necessità della violenza rivoluzionaria» e alla «rivoluzione armata» per l’«instaurazione della dittatura del proletariato colla distruzione dello stato parlamentare borghese».27 In attesa della rivoluzione politica e sociale contro lo Stato borghese, una rivoluzione d’altro tipo stava avvenendo proprio nello Stato-guida di tutti i marxisti-leninisti: in Cina era infatti cominciata la cosiddetta Rivoluzione culturale (1966-1969). Essa contribuì, ancor più che la frattura tra Cina e Urss, a promuovere il maoismo. Come già osservato, se prima della Rivoluzione culturale la dissidenza filocinese era circoscritta, per usare l’espressione di Crainz, a «qualche gruppo di rigida ortodossia leninista e privo di influenza reale», durante e dopo la comparsa di tale fenomeno lo scenario mutò radicalmente, tanto da «abbagliare» anche settori culturalmente distanti dalla sinistra militante, soprattutto, «quando la sua eco verrà ad interagire con i movimenti del 1968».28 Infatti, se inizialmente le simpatie filocinesi attecchirono quasi esclusivamente tra coloro che reputavano lo stalinismo l’essenza del leninismo, dopo tale evento-processo anche alcuni (e per certi versi ampi) settori di sinistra antiautoritaria, antiburocratica e finanche cristiana si “convertirono” al maoismo. L’elogio acritico delle masse e del pauperismo, unitamente a slogan efficaci che esaltavano la dicotomia tra la base (sana e rivoluzionaria) e il vertice (corrotto e controrivoluzionario), ben si ricollegavano «al populismo del primo movimento operaio, coniugato talvolta con le fonti del dissenso cattolico».29 L’apparato 26. Lo statuto in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», copia fotostatica allegata alla riservata-raccomandatadoppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 30 settembre 1966. 27. Cfr. Proposta di programma politico della Federazione dei gruppi marxisti-leninisti d’Italia, ivi, copia fotostatica allegata alla riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 30 settembre 1966. 28. Crainz, Il paese mancato, p. 141. 29. Rossana Rossanda, La cometa Mao nel cielo d’Europa. Le molte Cine dei movimenti studenteschi, in 1968. Aprile, supplemento a «il manifesto», 27 aprile 1988, p. 4.

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liturgico, il tradizionalismo e il moralismo di buona parte dei gruppi maoisti si spiegano anche con la provenienza dei loro militanti da tale milieu, come sottolineato nei primi studi sull’argomento.30 Nel caso del Mmli, la Rivoluzione culturale fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Se la decisione di marciare risolutamente verso il partito era comunque già stata presa,31 la costituzione della Federazione (che, a differenza della più modesta Lega di Duse, era oggettivamente una concorrente temibile) e l’avvio della lotta interna al Pcc tra le due linee (la «nera» e la «rossa») fecero accantonare di colpo cautele ed esitazioni. Per fondare il Partito, nell’ottobre del 1966, venne scelta la città di Livorno, allo scopo di marcare la linea di continuità con il «glorioso» antecedente. E anche il nome prescelto, uguale a quello del Pci dei primi anni – ma con la specificazione, tra parentesi, dell’osservanza «emmellista» – fu funzionale a questa esigenza. Sebbene la storiografia abbia accreditato il “mito di fondazione” autorappresentativo, i costituenti del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) non poterono riunirsi nella sede “naturale” prescelta (il Teatro Goldoni, in cui nel 1921 avvenne la rottura tra socialisti e comunisti) in quanto già riservata per un comizio di Gus Hall – segretario generale del Partito comunista degli Stati uniti d’America (PcUsa) – e di Giuliano Pajetta del Pci.32 Il 14 ottobre, dunque, i circa cento delegati ripiegarono sull’Hotel Corsica, non senza accesi screzi determinati da rivalità interne e dal nervosi30. Nel 1976 Hellman notava come gli emme-elle si fossero diffusi nelle aree più cattoliche del paese: «Of the various groups to the left of the PCI, the emmellisti (particularly in Italy’s most Catholic areas), Lotta Continua, and the Manifesto all have been noted as attracting a large number of militant and revolutionary Catholics» (Stephen Hellman, The “New Left” in Italy, in Social and Political Movements in Western Europe, a cura di Martin Kolinsky e William E. Paterson, Croom Helm, London 1976, p. 270). 31. Nel gennaio 1966 il Mmli tenne il suo convegno, accentuando le già presenti modalità partitistiche, tra cui uno spiccato centralismo, mentre in giugno fu divulgato il documento Avanti con la costruzione del Partito. Cfr. Nanni Balestrini e Primo Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, a cura di Sergio Bianchi, Feltrinelli, Milano 2003 [1a ed. Feltrinelli 1997; 1a ed. L’orda d’oro, SugarCo, Milano 1988], p. 158. 32. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 5, f. 161P/46/95 «Partito comunista d’Italia. Congressi nazionali», telegramma del prefetto di Livorno al Gab. del Mi del 10 ottobre 1966, nonché l’ulteriore documentazione ivi conservata. Cfr. inoltre Marcello Lazzerini, Livorno: calorosa manifestazione attorno al compagno Gus Hall, in «l’Unità», 17 ottobre 1966.

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smo connesso alla circostanza.33 Il giorno successivo, dopo alcune ore di discussione i marxisti-leninisti procedettero finalmente alla costituzione del “nuovo” partito comunista, per poi discutere alcune questioni organizzative e definire la composizione degli organismi dirigenti.34 Per sottolineare la “storicità” dell’evento, durante la pausa pranzo, si erano recati in corteo presso i ruderi del teatro San Marco, al fine di issarvi la propria bandiera (episodio stravolto dalla stampa del Pci che non perse occasione per ingiuriare i filocinesi).35 Se i resoconti della “stampa borghese” furono, al di là dei toni, sostanzialmente obiettivi,36 la cronaca che ne fece «l’Unità» era un classico esempio di rovesciamento della realtà, a testimonianza di come i residui stalinisti fossero duri a morire anche all’interno del Pci.37 La mattina del 16 ottobre, trasferitisi alla Casa della Cultura, i congressisti, divenuti circa duecento, tennero una sessione pubblica in cui fu illustrato il programma basilare (la Dichiarazione di principio) del neocostituito partito, centrato sui capisaldi dell’anticapitalismo, dell’antimperialismo e dell’antirevisionismo. Quanto agli organismi dirigenti, i lavori del congresso, suddiviso in commissioni, individuarono il Comitato centrale che, a sua volta, elesse l’ufficio politico e la segreteria del partito (il segreta33. Ivi, telegrammi del prefetto di Livorno al Gab. del Mi del 13 ottobre 1966 e del 14 ottobre 1966. 34. Ivi, telegramma del prefetto di Livorno al Gab. del Mi del 15 ottobre 1966 e del 16 ottobre 1966, ore 9:30. 35. Come prontamente riferito: «comunicasi che ore 14,15 odierne delegati at congresso nazionale movimento marxista leninista dopo unanime votazione habet proclamato fondazione nuovo partito […]. Per conferire maggiore significato at proclamazione[,] congressisti habent lasciato sala lavori et habent raggiunto stabile vecchio teatro S. Marco […]. Dopo aver sollevato sui ruderi del teatro vessillo rosso con emblema falce et martello delegati habent raggiunto località designate per consumare pranzo […]» (ivi, telegramma del 15 ottobre 1966). 36. Cfr. ad esempio Mario Fazio, I comunisti filocinesi riuniti a Livorno fondano il nuovo partito «marxista-leninista», in «La Stampa», 16 ottobre 1966). 37. I «sedicenti “marxisti-leninisti” […] contornati da una trentina di giornalisti, dagli inviati della RAI-TV e da nugoli di poliziotti in borghese, si sono recati di fronte all’edificio dell’antico teatro San Marco […]. Qui giunti, i teppisti hanno tentato di lordare la lapide che ricorda lo storico avvenimento. Lo sconcio episodio anticomunista […] ha sollevato l’indignazione di alcuni passanti i quali hanno ricordato ai teppisti che il loro gesto era stato già compiuto, anni addietro, dai repubblichini. Dopo il tentativo vandalico, che qualifica con chiarezza la natura losca del gruppo “antimperialista”, i teppisti si sono eclissati, temendo le giuste reazioni della popolazione operaia livornese» (Sconcia provocazione anticomunista a Livorno, in «l’Unità», 16 ottobre 1966).

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rio Dinucci e i vicesegretari Pesce e Risaliti), nonché il direttore di «Nuova unità» (Vincenzo Misefari, che assunse anche la carica di presidente).38 Da un documento proveniente da informazioni di «persona solitamente bene informata» (riferite al Consolato d’Italia a Lione) si evince, oltre ai nominativi di tutti i dirigenti, la composizione dei delegati giunti a Livorno. Dando per buona tale informazione, essi sarebbero stati 206, così suddivisi: 37 dalla Toscana, 19 dalla Liguria, 18 dal Veneto, 18 dalla Campania, 17 dalla Calabria, 15 dalla Lombardia, 15 dall’Emilia, 14 dal Piemonte, 13 dalla Puglia, 13 dalla Sardegna, 12 dalle Marche, 10 dal Lazio e 5 dalla Sicilia.39 A livello organizzativo, il partito scelse di strutturarsi in cellule e federazioni, ovviamente sottomesse alla disciplina del centralismo democratico (o meglio, alla sua declinazione staliniana che prevedeva anche il centralismo dell’istanza superiore su quella inferiore). Su proposta dell’ufficio politico del neonato partito, il 4 dicembre 1966, a Roma, si tenne il congresso di fondazione dell’organizzazione giovanile del partito, l’Unione della gioventù comunista d’Italia (marxista-leninista), Ugci(ml), la quale elesse Antonello Obino proprio segretario nazionale.40 Il giornale «Nuova unità», pubblicato con cadenza settimanale, divenne quindi l’organo centrale dell’organizzazione che, nel biennio successivo, crebbe in modo consistente: nel momento di massima espansione avrebbe avuto più di 100 sezioni che, se non 20.000 (cifra giustamente ritenuta esagerata), inquadravano tuttavia alcune miglia38. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 5, f. 161P/46/95, telegramma del prefetto di Livorno al Gab. del Mi del 16 ottobre 1966 (ore 14:15). 39.  Ivi, telespresso «segreto» (d’ordine) del ministro degli Affari esteri ai Gabinetti della presidenza del Consiglio dei ministri e del Mi del 25 novembre 1966. In ogni caso, anche l’organo del partito pubblicò i nominativi dei dirigenti. Se il Cc era composto da 31 membri – tra cui Floriano Balestri, Dino Frangioni, Mario Geymonat, Angiolo Gracci, Mario Imperato, Giorgio Mangini, Alberto Sartori, Pietro Scavo e Marcella Vallini (unica donna) – dell’ufficio politico facevano parte Arturo Balestri, Mario Casaldi, Fosco Dinucci, Carmelo Fragomeni, Pietro La Gamba, Vincenzo Misefari, Antonello Obino, Osvaldo Pesce e Livio Risaliti (cfr. Gli organi dirigenti eletti dal Congresso, in «Nuova unità», 22 ottobre 1966). 40. Cfr. Convocato il Congresso Nazionale dei giovani marxisti-leninisti, in «Nuova unità», 3 dicembre 1966 e Viva l’Unione della Gioventù Comunista d’Italia (m.l.), ivi, 10 dicembre 1966, dalla lettura dei quali si evince il luogo della riunione (la sede del partito, in via Machiavelli 50) e la composizione della segreteria: Antonello Obino (segretario), Rolando Barnaba e Ubaldo Buttafava. L’Ugci(ml) pubblicò, dal 1967 al 1970, il periodico «La Guardia rossa» (testata che tuttavia venne mantenuta dalla componente giovanile “scissionista” legata a Osvaldo Pesce), fino al 1981 «Gioventù comunista» e, successivamente, «È ora» (dal 1981 al 1985) e «Diritto al futuro» (dal 1985 al 1991).

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ia di aderenti.41 Intanto era già cominciato quel fenomeno che protagonisti, antagonisti, pubblicisti e finanche storici definirono e continuano a definire Sessantotto. 2. Il biennio 1967-68: tra operaismo e maoismo Come già accennato, anche in Italia numerose tematiche care al movimento studentesco, ma anche al movimento antimilitarista e a quello beat, ebbero un carattere immediatamente politico e un profilo internazionale: dai diritti civili per la popolazione nera degli Usa, alla guerra del Vietnam, dall’emancipazione dei popoli soggetti a forme di neocolonialismo, al sostegno alle guerriglie antidittatoriali di sinistra in America Latina. Ciò anche grazie al fatto che le formazioni politiche o gli intellettuali della sinistra rivoluzionaria (in particolare i mao-stalinisti d’orientamento terzomondista, i neo-operaisti luxemburghiani e, anche se in misura minore, anarchici e trockisti), a partire dal 1965-1966 (quindi fin dalla loro comparsa), allacciarono rapporti stretti con tali movimenti, quando non ne costituirono direttamente il nucleo propulsivo. I primi fermenti giovanili antisistemici, ad esempio, s’incontrarono, sulle tematiche dell’antimilitarismo (e, in particolare, sull’obiezione di coscienza al servizio militare), con filocinesi e anarchici. Se già fin dal novembre 1965 la Lega della gioventù comunista (marxista-leninista) d’Italia, all’epoca ancora unita, si rese protagonista di una campagna antimilitarista e anti-Nato insieme ad altri giovani radicali,42 un anno dopo le proteste dei “capelloni” (così la stampa conservatrice definiva i beat) a favore dell’obiezione di coscienza videro ugualmente come comprimari giovani anarchici e maoisti.43 Ma se la controcultura, la cui 41. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 250. 42. Iniziativa che portò all’arresto di undici persone. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 19671970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Centro antimperialista milanese. CAM», riservata-raccomandata del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 16 marzo 1966 e l’allegato volantino Arresti, caccia al “cinese”, perquisizioni e sequestri: i comandi Nato arrivano in Italia?, Cc della Lega [della] gioventù comunista [(marxista-leninista) d’Italia], Milano, [marzo 1966], nonché ivi, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», riservata-raccomandata-doppia/ busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 18 marzo 1966. Oltre a sette leghisti vennero arrestati anche due giovani attivisti del Partito radicale e i due tipografi che stamparono i volantini antimilitaristi. 43. In ritardo rispetto agli Usa, il movimento beat italiano sorse nella seconda metà degli anni Sessanta. Cfr. I Capelloni. Mondo Beat, 1966-1967. Storia, immagini, docu-

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carica antisistemica fu in ogni modo dirompente, non contribuì più di tanto allo sviluppo delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, i contestatori universitari entrarono in relazione con il soggetto politico studiato ben oltre la semplice osmosi culturale: o entrando nelle organizzazioni già esistenti (soprattutto anarchiche o maoiste, oppure nei nuclei operaisti in fieri) o contribuendo a frantumarle per farne sorgere di nuove, come nel caso dei Gcr, oppure ancora fondandole ex novo. Fu proprio laddove avvenne la prima occupazione universitaria (Trento, gennaio 1966) che il movimento si politicizzò andando oltre il corporativismo studentesco. Dopo aver portato lo scompiglio in una «società compatta e ordinata come quella trentina», i giovani di Sociologia cominciano a ingaggiare battaglie sempre più aspre e radicali, fino all’intervento delle forze dell’ordine in occasione della «settimana del Vietnam» (12-18 marzo 1967), una mobilitazione dai contenuti antimperialistici che, dalla sede universitaria (all’epoca Istituto universitario superiore di scienze sociali), intendeva coinvolgere la città.44 Nella primavera del 1967, Mauro Rostagno, Renato Curcio e Mara Cagol, Duccio Berio e altri ancora, fondarono il Movimento per una università negativa (Mun), un soggetto politico-culturale che si distinse nella promozione dei «controcorsi» e delle «controlezioni».45 Unitamente alle battaglie generali, tra cui quelle per la liberazione dei contestatori colpiti dalla repressione (come nel caso di Giampaolo Spano, arrestato a Milano il 1° aprile 1967 in seguito alle proteste contro la visita del vice presidente statunitense Hubert H. Humphrey),46 gli attivisti del Mun elaborarono, in autunno, alla ripresa del nuovo anno accademico, un documento programmatico con il quale, oltre a disconoscere il menti, a cura di Gianni De Martino e Marco Grispigni, DeriveApprodi, Roma 1997; Diego Giachetti, Anni Sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione, Bfs, Pisa 2002; Marco Philopat, I viaggi di Mel, Shake, Milano 2004; Silvia Casilio, Una generazione d’emergenza. L’Italia della controcultura (19651969), Prefazione di Mirco Dondi, Le Monnier, Firenze 2013. Su sinistra rivoluzionaria e beatnik cfr. Gigi Effe [Giangiacomo Feltrinelli], Lo sciopero è riuscito, in «Mondo Beat», luglio 1967. 44. Cfr. Alessandro Silj, «Mai più senza fucile!». Alle origini dei NAP e delle BR, Prefazione di Pio Baldelli, Vallecchi, Firenze 1977, pp. 35-39. 45. Cfr. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 24 ss. e i documenti in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 378, f. G10/28/4 «Movimento “Università negativa”» e più in generale ivi, f. G10/28/5 «Movimento studentesco». 46. Cfr. ivi, b. 378, f. G10/28/4, riservata-raccomandata-doppia/busta del questore di Trento alla Dar della Dgps del 19 maggio 1967.

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valore della democrazia rappresentativa in nome dell’assemblearismo permanente, si opponevano all’uso capitalistico della scienza, affermando la necessità di un uso rovesciato – «negativo» per l’appunto – dell’accademia al fine di produrre contro-professionisti al servizio della classe antagonista e quadri politici in grado di «agire, in una prospettiva di lungo periodo, per la formazione (stimolazione) di un movimento “rivoluzionario” delle classi subalterne, che si esprima nella forma organizzativa più adeguata al nuovo tipo di lotta che si deve condurre».47 In sintonia con le Tesi della Sapienza – di cui si dirà tra breve – la classe operaia fu considerata il soggetto centrale del movimento rivoluzionario. Il movimento studentesco, era scritto nel documento, non doveva essere sopravvalutato: «Il corpo studentesco non può, a nostro avviso, in alcun modo essere considerato alla stregua di una “classe”, i cui interessi siano oggettivamente e potenzialmente antagonistici alla attuale formazione economico-sociale».48 Consci dell’inadeguatezza del modello assembleare come strumento di costruzione dell’avanguardia rivoluzionaria, alcuni “trentini” (Curcio, Cagol, Berio e Vanni Mulinaris) si convinsero, prima di altri, della necessità di costruirsi in un gruppo d’intervento militante che andasse oltre la caratterizzazione studentesca. Guardando al marxismo-leninismo, entrarono in relazione con Walter Peruzzi, del Centro di informazione (Cdi) di Verona, che nell’ottobre 1967 aveva cominciato a pubblicare la rivista «Lavoro politico». Il collettivo redazionale, formato da militanti provenienti dal Mun di Trento, dal Centro d’informazione di Bolzano e dal collettivo La Comune di Verona (nato dalle spoglie del Cdi veronese), si orientò decisamente verso il maoismo, dichiarando guerra, fin da subito al dogmatismo, all’ultrasinistrismo, nonché al trockismo e al revisionismo (valutato come principale nemico del marxismo-leninismo) e muovendosi per l’unificazione teorica dei rivoluzionari al fine di costruire il partito di tutti i marxisti-leninisti. La netta impronta partitista e probabilmente anche la necessità di avere una “Chiesa” di riferimento spinsero, nel novembre 47. Università negativa, in «Lavoro politico», novembre 1967. 48. Ibidem. Sulle occupazioni trentine e sull’«università negativa» cfr. Renato Curcio, Speranze inedite e remoti fantasmi di un’esperienza rapidamente conclusa, in 1968. Gennaio, supplemento a «il manifesto», gennaio 1988, pp. 18-20. Su Curcio, ecco cosa comunicava la questura genovese: «predetto est non conosciuto ambiente politico estrema sinistra locale et senza precedenti questi atti» (Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 378, f. G10/28/4 «Movimento “Università negativa”», telegramma cifrato del questore di Genova al Gab. del Mi dell’11 settembre 1967).

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1968, Peruzzi, Curcio, Berio e gli altri militanti del collettivo redazionale di «Lavoro politico» a entrare nel Pcdi(ml), a pochi giorni dalla scissione del dicembre 1968 tra “linea rossa” e “linea nera”.49 Oltre al maoismo (nella sua declinazione antiburocratica e terzomondista), l’altra cultura politica che influenzò indubbiamente il movimento degli studenti universitari fu, come già accennato, l’operaismo. Un operaismo, in realtà, “temperato” anch’esso dal terzomondismo, come ad esempio documentato nella mozione di minoranza presentata al XVI congresso dell’Unione goliardica italiana (Ugi) tenutosi a Rimini dal 28 al 30 maggio che riprendeva alcune sollecitazioni delle Tesi della Sapienza, concepite nel febbraio 1967 (durante l’occupazione «nazionale» del rinascimentale Palazzo della Sapienza di Pisa in occasione di una Conferenza dei rettori).50 Benché non ancora maggioritaria, già nella prima metà del 1967 l’autopro49. Cfr. Silj, «Mai più senza fucile!», p. 42 ss. e la documentazione in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 5, f. 161P/46/97 « Partito comunista d’Italia. Circoli politici culturali d’ispirazione filo-cinese», sf. «“La Comune”. Gruppo di intervento politico di tendenze filocinesi», in particolare la riservata-raccomandata del prefetto di Verona al Gab. del Mi del 7 agosto 1967, che informava come la trasformazione del Cdi nel gruppo de “La Comune” fosse, in realtà, «una scissione degli elementi estremisti filocinesi». Come noto, il gruppo di Berio, Curcio e Cagol diede poi vita al Collettivo politico metropolitano e successivamente a Sinistra proletaria, da cui nacquero le Br. Su ciò cfr. Andrea Saccoman, Sentieri rossi nella metropoli. Per una storia delle Brigate rosse a Milano, Cuem, Milano 2007; Marco Clementi, Storia delle Brigate rosse, Odradek, Roma 2007; Id., Paolo Persichetti ed Elisa Santalena, Brigate rosse, vol. I, Dalle fabbriche alla «campagna di primavera», DeriveApprodi, Roma 2017 e Matteo Antonio Albanese, Tondini di ferro e bossoli di piombo. Una storia sociale delle Brigate rosse, Pacini, Pisa 2020. 50. Dato che esistono due differenti testi così nominati, mi riferisco al documento presentato dalla minoranza “movimentista” dell’Ugi (gli attivisti del Psiup e della sinistra rivoluzionaria) in occasione del congresso di Rimini del maggio 1967, poi pubblicato con il titolo Le tesi della Sapienza in Università: l’ipotesi rivoluzionaria. Documenti delle lotte studentesche. Trento, Torino, Napoli, Pisa, Milano, Roma , Marsilio, Padova 1968, pp. 165-185 e poi, con lo stesso titolo, in Le radici del ’68, Cronologia e note bibliografiche di Marco Scavino, Baldini & Castoldi, Milano 1998, pp. 299-322. Il testo originario, sostanzialmente diverso per contenuti e obiettivi, era intitolato Progetto di tesi del sindacato studentesco elaborate collettivamente dagli occupanti la Sapienza di Pisa, Pisa, 7-11 febbraio 1967. Esso fu pubblicato nel numero di maggio-giugno de «il Mulino» (pp. 375-391). Il dattiloscritto è visionabile (oltre che in Archivio storico dell’Università di Pisa, cartella «Occupazioni 1967-’68», f. «“Pratica provvedimenti disciplinari”», in Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Centro studi Piero Gobetti, Ua 5, Progetto di tesi del sindacato studentesco elaborate collettivamente dagli occupanti la Sapienza di Pisa, Pisa, 7-11 febbraio 1967. Documentazione relativa all’esperienza pisana è contenuta anche in Archimovi, Fondo Bruno Piotti, Faldone II, f. 6 «Altre università».

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clamata avanguardia del movimento studentesco individuava, in contrasto con Pci e Psi, due temi fondamentali di mobilitazione: le lotte antimperialiste e le lotte sindacali. Per quanto riguarda il primo punto si notava come la consapevolezza politica degli studenti non fosse rimasta al livello «di lotte per la pace» o di richieste di condanna degli aspetti più sanguinosi dell’imperialismo (considerati obiettivi arretrati), ma avesse acquisito la «chiara coscienza che l’unico modo per porre fine alla guerra imperialista [fosse] quello di sconfiggere sul piano mondiale il dominio capitalistico, attraverso l’alleanza tra la classe operaia dei paesi capitalisti e le masse sfruttate dell’Asia dell’Africa e dell’America Latina».51 Il secondo punto, dopo aver delineato un percorso che avrebbe dovuto condurre alla costituzione di un sindacato studentesco, individuava come «controparte storicamente determinata» del movimento «la classe borghese dominante, che trova nel governo e nelle gerarchie accademiche le sue espressioni mediate». Compito del sindacato studentesco sarebbe stato dunque quello di posizionarsi «all’interno [dello] schieramento di classe» ponendosi «come parte di un processo più ampio […] di organizzazione politica della lotta anticapitalista», mirando altresì «al rifiuto organizzato delle disponibilità della forza lavoro».52 Il mito di una base autenticamente rivoluzionaria e l’esaltazione delle insorgenze spontanee si coniugavano con le pratiche teorizzate dagli operaisti da almeno una ventina di anni, spingendo il “movimento” a individuare «nel tema del potere operaio, come prospettiva rivoluzionaria di una nuova organizzazione sociale, il senso e il fondamento della propria azione collettiva».53 Tra Massa e la stessa città dove vennero ideate le Tesi della Sapienza si costituì, tra la fine del 1966 e l’inizio del 1967, il gruppo de il Potere operaio (prima «pisano», poi, per un breve periodo «toscano»). La denominazione del gruppo non fu una scelta originale, poiché già utilizzata altrove da altri raggruppamenti analoghi: difatti, come già accennato, nuclei d’intervento politico e giornali denominati «Potere operaio» esistevano (o erano esistiti) anche in altre realtà. Tra queste: Milano (prima quello fondato nel 1962 da Gasparotto, poi quello degli ex redattori di «Classe operaia»); Biella (fondato da Franco Ramella nel dicembre 1962); Venezia-Marghera (il gruppo della «Redazione veneta di Classe operaia», altrimenti noto come Potere operaio 51. Cit. in Università: l’ipotesi rivoluzionaria, p. 165. 52. Ivi, pp. 166 e 168. 53. Ivi, p. 178 (corsivo nell’originale).

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veneto-emiliano); Perugia (un piccolo gruppo sorto nel 1967 ed entrato in contatto con l’esperienza pisana per poi partecipare alla fondazione di Lc) e Roma (un gruppo eterogeneo per provenienza, attivo tra il 1967 e l’anno successivo).54 Il primo numero dell’omonima pubblicazione venne pubblicato nel febbraio del 1967 (non 1966, come erroneamente indicato in testata) in 3.000 esemplari (un numero significativo che raggiungerà, due anni dopo, il traguardo delle 20.000 copie).55 Il gruppo, che si espanse velocemente nei principali centri della fascia litoranea toscana (Pisa, Piombino, Livorno, Massa), nacque dall’incontro di ex collaboratori dei «Quaderni rossi» e attivisti del Psiup e della sezione universitaria del Pci: Luciano Della Mea, Adriano Sofri, Gianmario Cazzaniga, Paolo Cristofolini, Romano Luperini e Vittorio Campione (molti dei quali anche redattori di «Nuovo impegno»).56 Fortemente critico nei confronti delle istituzioni “tradizionali” del movimento operaio (nonostante – all’inizio – molti dei redattori fossero ancora iscritti al Pci o al Psiup), attorno al giornale si costituirono alcuni nuclei all’interno delle fabbriche (per esempio alla Olivetti di Massa, alla Saint Gobain di Pisa, all’Italsider di Piombino e alla Piaggio a Pontedera). Ma il gruppo, quantomeno nelle intenzioni, non intendeva attestarsi su posizioni “economiciste”: la lotta di classe non si sarebbe dovuta limitare al recinto della fabbrica, bensì avrebbe dovuto coinvolgere la quotidianità dei proletari (ciò sarà, come 54. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, pp. 259-263 e Adriano Sofri, il ’68 e il Potere operaio pisano, a cura di Roberto Massari, Introduzione di Luciano Della Mea, Massari, Bolsena 1998. Su «Potere operaio» a Biella si veda Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Franco Ramella, Ua 1 e 2. Sull’esperienza veneta, cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 3, f. 161P/46, nota del prefetto di Venezia al Gab. del Mi del 2 febbraio 1966. 55. Se i primi tre numeri de «Il Potere operaio» uscirono come supplemento a «Lotta di classe» di Ivrea, dopo l’autorizzazione del tribunale fu pubblicato il primo numero il 10 maggio 1967. Il direttore responsabile era Luciano Della Mea, mentre Adriano Sofri figurava come proprietario. Cfr. Luciano Della Mea, Una vita schedata, Prefazione di Stefano Caretti, Jaca Book, Milano 1996, p. 70. Sul bimestrale «Lotta di classe» (un ciclostilato diffuso, principalmente, tra i lavoratori della Olivetti) si veda in Acs, Mi, Gab., Fc, 19641966, b. 423, f. 17031/81, nota del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 27 aprile 1966. 56. Cfr. Romano Luperini, Da Potere Operaio a Lotta continua: note di cronaca e appunti per un bilancio critico, in «Nuovo impegno», 17-18 (1969), p. 106. Da rivista autonoma, «Nuovo impegno» si trasformò in uno strumento di dibattito teorico del Potere operaio pisano, divenendo poi l’organo della Lega dei comunisti pisani, poi della Lega dei comunisti toscani, e poi ancora, dopo l’unificazione con il gruppo romano Unità operaia, della Lega dei comunisti. Cfr. Archivio del centro di documentazione di Lucca. I periodici politici, p. 283.

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vedremo, uno dei tratti distintivi di Lc). Come precisato nell’editoriale del secondo numero, «Il Potere operaio», mentre rigettava il sindacalismo spicciolo, affermava di voler agire politicamente per contribuire alla nascita di una nuova organizzazione rivoluzionaria.57 Se il 1967 fu l’anno della riflessione finalizzata a definire le basi del giornale-organizzazione, il 1968 è l’anno dell’exploit. Come notato, ad assicurare il successo del Pop furono le modalità «fortemente innovative» delle sue pratiche politiche: «un forte attivismo, un linguaggio chiaro e diretto sia nei volantini che nel giornale che ne assicura un elevato grado di leggibilità anche fra gli operai, l’uso di forme di lotta nuove ed incisive, l’uso di forme espressive sino ad allora inedite (gli slogan, le canzoni di lotta scritte a getto continuo dal gruppo del Canzoniere Pisano)».58 Ma il 1968 fu anche l’anno del salto di qualità nello scontro con le forze dell’ordine: dopo una manifestazione studentesca conclusasi con incidenti (i cosiddetti fatti della stazione, del 15 marzo 1968), alcuni esponenti del gruppo furono fatti segno di denunce e mandati di arresto.59 Sofri, latitante insieme ad altri (tra cui Pietrostefani che si rifugiò a Pavia, ospitato dai militanti del gruppo “fratello” del Potere proletario) lasciò, giocoforza, la leadership della formazione politica nelle mani di Della Mea, sul quale ricadde l’onere della gestione delle mansioni organizzative, fra cui l’organizzazione logistica della rete di solidarietà verso latitanti, denunciati e arrestati.60 Nell’estate 1968, placatasi la fase repressiva successiva agli scontri del 15 marzo, all’interno del Pop scoppiò una crisi interna sulla questione chiave del modello organizzativo. Come ricordò Della Mea: 57. Cfr. Editoriale, in «Il Potere operaio», 8 marzo 1967. 58. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 260 e, per il Canzoniere pisano, pp. 145-146. 59. La manifestazione fu organizzata in seguito all’arresto avvenuto il 13 marzo di due militanti del Pop, Guelfo Guelfi e Marco Moraccini, accusati di reati connessi all’occupazione dell’ateneo. Dopo aver sfilato sotto il carcere pisano, i manifestanti giunsero alla stazione per bloccare il traffico. Ne seguirono violenti scontri che si protrassero per ore, quindi altri arresti e altre manifestazioni di protesta. Cfr. Franco Petroni, Cronaca della repressione a Pisa, in «Nuovo Impegno», 11 (1968), pp. 36-39 e la documentazione in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 36, f. 11001/61 «Pisa e provincia. Ordine pubblico. Incidenti» e ivi. b. 353, f. 15584/61 «Pisa. Università». 60. Cfr. Massimo Bertozzi, Teoria e politica alla prova dei fatti: il «Potere operaio» pisano (1966-1969), in «Classe», 17 (1980), p. 303 e Della Mea, Una vita schedata, pp. 70-71.

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Al rientro di Sofri dalla latitanza, io mi ero ritirato a Torre per riprendere il fiato e per ridare spazio alla leadership incontestata di Adriano. Furono proprio i compagni a lui più vicini, ormai insofferenti per questa leadership e per i modi in cui essa veniva esercitata, a venire a Torre per indurmi a prendere posizione. La cosa avvenne. Il dibattito interno […] si risolse in un confronto verticistico fra tre posizioni […]: quella spontaneista di Sofri, che raccolse la maggioranza; quella mia, alla quale si era associato Romano Luperini, che puntava ad una forma più o meno «cinese» di organizzazione, e federativa nei confronti di altri gruppi su scala nazionale; quella rigorosamente marxistaleninista di Cazzaniga, Campione e altri.61

In realtà, ad acuire il dissenso interno fu l’allargamento della distanza di vedute tra Cazzaniga e Sofri. Come osservato, il Potere operaio pisano, dopo aver consolidato le relazioni politico-organizzative con altri gruppi affini (Potere operaio di Torino, Potere proletario di Pavia, Per il Potere operaio di Perugia), si pose «il problema dell’organizzazione in maniera sempre più pressante». In tale direzione spinsero «maggiormente Della Mea e Cazzaniga» che, in concomitanza con il Maggio francese, presero «in mano il gruppo data la latitanza di Sofri». Fu «principalmente Cazzaniga che impr[esse] maggior vigore ad una chiarificazione interna».62 Ma mentre questi, spalleggiato da Vittorio Campione, aveva in mente l’esempio leninista dell’avanguardia esterna alle masse (costruzione di un partito in grado di stimolare, canalizzare e guidare la spinta eversiva delle masse verso la presa del potere), Sofri, influenzato dalle esperienze del movimento studentesco durante la sua latitanza, preferiva un modello organizzativo più fluido il cui compito sarebbe stato quello di stimolare e indirizzare la spontaneità delle lotte proletarie e studentesche (teoria dell’avanguardia interna alle masse). La posizione di Della Mea, che voleva essere un “ponte” tra le due visioni contrapposte, mirava al superamento della “tradizionale” teoria del partito come avanguardia esterna e, dunque, della concezione secondo la quale il rapporto tra organizzazione politica e movimenti di lotta avrebbe dovuto essere del tipo “cinghia di trasmissione”. Quindi, la teoria maoista e gli insegnamenti della Rivoluzione culturale avrebbero dovuto, secondo Della Mea, innestarsi su un substrato leninista, adottando, così, la formula 61. Della Mea, Una vita schedata, pp. 71-72. 62. Antonio Lenzi, Contributo allo studio di Lotta continua: nuovi documenti dell’esperienza pisana, in «Ricerche di storia politica», 2 (2012), pp. 189-200 (cit. a p. 193).

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“Lenin+Mao”. Inoltre, sarebbe stato necessario avviare un percorso costituente su base federale, aggregando le altre realtà consimili, dotando, nel frattempo, il Pop di un ufficio politico composto da delegati revocabili.63 Tale proposta venne respinta dai sofriani, per i quali solamente mantenendo una struttura “aperta” sarebbe stato possibile superare la tendenza «per cui l’atto stesso della proclamazione del partito significa l’esistenza effettiva del partito rivoluzionario». Una tendenza, questa, derivante «dall’avere un rapporto scorretto con le masse o dal non averlo affatto», ponendosi alla loro testa invece che nascere e crescere «solo come espressione diretta delle masse».64 Cazzaniga, dal canto suo, espresse la propria contrarietà verso le due posizioni in quanto viziate, per schematizzare, di astrattismo quella di Della Mea e spontaneismo quella di Sofri.65 Se le conclusioni concilianti di Della Mea lasciarono temporaneamente intravedere la possibilità di ricomporre la frattura tra la posizione di Cazzaniga e quella di Sofri, producendo tuttavia l’uscita di Luperini e altre soggettività neoleniniste (a Massa e La Spezia), dopo i fatti della Bussola (in cui rimase gravemente ferito in modo permanente un giovane del Pop, Soriano Ceccanti) la rottura divenne inevitabile: la minoranza neoleninista (indebolita dalla scissione dei luperiniani ma comunque agguerrita) contestò a Sofri, che si assunse la responsabilità politica della contestazione, il fatto di aver organizzato una manifestazione che essi giudicarono «avventurista».66 Tuttavia il casus belli che condusse alla dissoluzione del gruppo fu il suicidio/protesta dello studente praghese Jan Palach (gennaio 1969). Se per Sofri e i suoi la solidarietà nei suoi confronti 63. In realtà, la proposta di Della Mea fu la prima ad essere illustrata. Cfr. ibidem e Insmli, Fondo Lanfranco Bolis, b. 6, f. 20, Verbale dell’assemblea del PO del 7 settembre, Intervento di Luciano Della Mea. 64. Afgf, Fondo Nuova sinistra italiana, busta 1, f. «il Potere operaio pisano», Intervento dei compagni Brogi e Pietrostefani. Intervento per la riunione del 7 settembre. Pietrostefani propose un’attenzione maggiore verso il movimento studentesco e una conseguente variazione del funzionamento dei gruppi di lavoro dalla fabbrica al territorio al fine di «estendere il proprio intervento alla realtà sociale in generale e più in particolare al quartiere» (ibidem). 65. Cfr., Insmli, Fondo Lanfranco Bolis, b. 6, f. 20, Verbale dell’assemblea del PO del 7 settembre, Intervento di Gian Mario Cazzaniga. 66. Cfr. Bertozzi, Teoria e politica alla prova dei fatti, p. 309. Sui fatti accaduti la notte di capodanno alle Focette di Marina di Pietrasanta – sui quali si dirà – cfr. l’ampia documentazione conservata in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 29, f. 11001/42/2 «Marina di Pietrasanta. Lucca. Incidenti del 31/12/1968».

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avrebbe dovuto essere incondizionata (indipendentemente se fosse morto in nome o meno del socialismo, dato che la suo gesto aveva sollecitato la mobilitazione delle masse, divenendo «un’azione militante»),67 per Della Mea e Cazzaniga, benché il sacrificio di Palach non facesse loro «certo ridere», il suicidio non rientrava nella tradizione di lotta della coscienza popolare e operaia e, soprattutto, il tipo di mobilitazione generata da tale gesto non avrebbe avuto «contenuti socialisti».68 Il divario di posizioni, dietro alle quali stavano due modi assai diversi di concepire l’agire politico, condusse alle dimissioni di Della Mea che, oltre a opporsi a ciò che riteneva una forma di spontaneismo soggettivista, non condivideva, al di là del giudizio sui fatti di Praga, nemmeno le posizioni neoleniniste di Cazzaniga. Venendo a mancare il “pontiere”, anche la componente leninista si distaccò dal Pop, per fondare, qualche mese più tardi, il Centro Karl Marx di Pisa (Ckm-Pi), mentre Della Mea si ricongiunse con Luperini e gli altri fuoriusciti dopo il dibattito di settembre, costituendo la Lega dei comunisti pisani (Lcp).69 Nel frattempo, anche l’area maoista era in movimento. Nel corso degli ultimi mesi del 1966 e durante il primo semestre dell’anno seguente la Federazione dei gruppi marxisti-leninisti d’Italia (o Federazione marxistaleninista d’Italia) consolidò le posizioni già acquisite e ne conquistò altre, crescendo numericamente, anche se le cifre fornite da qualche informatore della polizia, 20.000 aderenti, appaiono sovrastimarne la consistenza.70 Con l’approssimarsi della data di fondazione del Pcdi(ml) la polemica con gli ex compagni del Movimento prese avvio con decisione. Ciò è deducibile, oltre che dalla stampa delle rispettive organizzazioni, dai rapporti di polizia. Se in una riunione “riservata” della Federazione tenutasi a Firenze nell’autunno del 1966 (presenti, tra gli altri, Luciano Raimondi e i dirigenti locali Aldo Serafini e Renzo Del Carria) l’unilaterale costituzione di un partito emme-elle veniva considerata deleteria in quanto votata al 67. Il Potere operaio, La Cecoslovacchia e la nostra lotta per il socialismo, in «Nuovo Impegno», 14-15 (1969), p. 121. 68. Ivi, p. 130. 69. Cfr. Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 226. 70. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 5, f. 161P/46/81 «Torino e provincia. Partito comunista d’Italia. Già movimento filo-cinese», riservata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 7 ottobre 1966: «Secondo fonti attendibili, i vari gruppi marxisti-leninisti che in data 3 luglio u.s. hanno aderito alla “federazione” costituita in Milano e che conterebbe circa 20.000 aderenti in tutta Italia, non parteciperebbero al congresso» costitutivo del Pcdi(ml).

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fallimento,71 in una lettera aperta di qualche giorno precedente, destina a replicare a «un violento attacco portato contro la Federazione nel numero di settembre di “Nuova Unità”» e a chiarire la posizione dei gruppi federati sulla questione della costituzione del partito, si poteva leggere quanto segue: Pertanto, con le posizioni di oggi di «Nuova Unità», la questione della costituzione del Partito è posta in termini di rottura contro tutti gli altri raggruppamenti o gruppi marxisti-leninisti e di forsennata polemica, diretta non contro i revisionisti, ma proprio contro gli altri marxisti-leninisti. Tutto ciò non preoccupa la federazione per se stessa. Non potranno essere i turpiloqui del Risaliti a dividerne le forze, e a screditarla di fronte ai simpatizzanti.72

A partire dall’autunno-inverno 1966 l’intensità della polemica con il Pcdi(ml) – il quale, a sua volta, non risparmiava certo colpi verso la Federazione – crebbe in modo esponenziale, anche a causa dell’attrattiva esercitata dal Partito, derivante dal semplice fatto di essersi autoproclamato tale.73 Il timore di una fuga di attivisti verso l’organizzazione di Dinucci, Risaliti, Misefari e compagni,74 condusse il gruppo politico che ruotava attorno alle Edizioni Oriente a un iniziale irrigidimento ideologico. Le stesse autorità di Ps notarono come la Federazione «in accesa polemica con i gruppi marxisti-leninisti che [avevano] fondato il Partito comunista d’Italia» si ritenesse «la sola depositaria dei più puri valori ideologici del marxismo-leninismo internazionale».75 Il Pcdi(ml) fu accusato di essere una caricatura in chiave massimalistica del Pci, costituito da dirigenti alla “vecchi gloriosi compagni” sul modello del partito m-l belga di Jacques 71. Ivi, b. 4, f. 161P/46/31 «Firenze e provincia. Partito comunista d’Italia», riservata del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 6 ottobre 1966. 72. Ivi, fotoriproduzione della lettera della Segreteria della Federazione dei gruppi marxisti-leninisti d’Italia, Milano, 22 settembre 1966. 73. Come notato: «proprio in questo autoproclamarsi partito sta la ragione del sia pur minimo aumento dei suoi militanti: tra il 1966 e il 1968 il Pcd’I rafforza la sua organizzazione mentre entra progressivamente in crisi la Federazione marxista-leninista» (Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 154). 74.  Nel febbraio 1967, ad esempio, il prefetto fiorentino comunicava che «la nota prof.essa Eleonora Benveduti in Turziani, già esponente del partito comunista italiano […] poi confluita nella federazione marxista-leninista d’Italia […], avrebbe dato la sua adesione al partito comunista d’Italia (ml)» (Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/31, riservata del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 28 febbraio 1967). 75. Ivi, riservata (vista dal sottosegretario Remo Gaspari) del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 10 marzo 1967.

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Grippa (sostenitore delle posizioni di Liu Shaoqi e mai sconfessato da «Nuova unità») e, infine, di avere un atteggiamento servile verso il Partito comunista cinese.76 Il 3 settembre 1967 la Federazione tenne il suo congresso (il primo, vi sarà poi quello straordinario che porterà allo scioglimento del sodalizio) in cui si rinominò – per non lasciare il termine comunista all’appannaggio di Lega e, soprattutto, Partito – Federazione dei comunisti marxisti-leninisti d’Italia (Fcmli). Le Tesi colà approvate rivalutarono – seppur parzialmente – il castrismo e il guevarismo e, alla luce di ciò, impressero al gruppo un profilo decisamente terzomondista e antistatunitense,77 la cui logica conseguenza fu, nel 1968, la costituzione di alcuni Centri antimperialisti (in concorrenza con il Fronte antimperialista del concorrente Partito), tra cui spiccava il Centro antimperialista Che Guevara di Roma, il quale, anziché proiettare l’organizzazione oltre i propri confini, innescò una serie di contraddizioni che contribuirono alla dissoluzione della Federazione.78 Se già nel 1967, dopo il congresso, un piccolo gruppo romano animato da Vincenzo Calò – noto come Tribuna rossa (dal foglio omonimo) 76. Per la polemica tra Federazione e Movimento (poi Partito) cfr. Walter Tobagi, Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, Sugar, Milano 1970, pp. 40-41. Jacques Grippa, partigiano ed ex dirigente del Pcb, in seguito alla sua espulsione per filomaoismo, fondò il Partito comunista vallone e, successivamente, il Partito comunista del Belgio. All’iniziale sostegno cinese, seguì la sconfessione di Pechino a causa della sua affinità con Liu Shaoqi (Liu Shao-chi, secondo la vecchia traslitterazione), leader della “linea nera” del Pcc e principale bersaglio insieme a Deng Xiaoping della Rivoluzione culturale. Cfr. Jacques Grippa (con la collaborazione di Serge Cols et al.), Marxismo-leninismo o revisionismo. Dal 13° al 14° Congresso del Partito comunista belga, Edizioni Oriente, Milano 1964 e, in relazione alla sua attività di comunista e antifascista, Id., Chronique vecue d’une epoque. 1930-1947, Epo, Anvers, 1988. Effettivamente, «Nuova unità», nella sua prima serie, pubblicò a puntate l’opera di Liu Shaoqi Come diventare un buon comunista (nn. 7, 8, 9 e 10 del 1964 e n. 1 del 1965). Tuttavia, non v’è motivo di dubitare che gli esponenti della Federazione (all’epoca ancora interni all’esperienza di «Nuova unità») non avessero condivisero tale scelta, come del resto dimostrato dall’edizione del testo di Liu Shaoqi a cura della casa editrice di Regis, con prefazione di uno tra i principali esponenti della Federazione (cfr. Liu Shao-chi, Come diventare un buon comunista, a cura di Arnaldo Bressan, Edizioni Oriente, Milano 1965). Lo stesso dicasi dell’atteggiamento verso Grippa e il grippismo. 77. Cfr. il volantino allegato alla riservata del prefetto di Firenze al Gab. del Mi dell’11 gennaio 1968, Federazione dei comunisti marxisti-leninisti d’Italia-Cellula “Mao Tse-Tung”, Cacciamo gli imperialisti americani dell’Italia!, Firenze, 10 gennaio 1968; in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/31. 78. Cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, pp. 45-46.

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ma denominato Centro d’iniziativa rivoluzionaria (Cir) – si distaccò dalla Federazione, nell’estate 1968 la crisi della struttura confederale marxistaleninista entrò nella sua fase terminale. In una riunione nazionale tenutasi a Milano i primi giorni di agosto, emersero – per usare le formule generiche del prefetto patavino – «contrasti di posizione e di impostazione politica che sfociarono nella costituzione di due correnti».79 Già latenti, le divergenze si erano manifestate, in realtà, un mese e mezzo prima, allorquando – come comunicava il ben informato prefetto Mazza – il 16 giugno l’ufficio politico della federazione si era riunito a Milano per discutere una mozione, presentata da Luigi Thiella di Bergamo e Sergio Spazzali di Milano e che non fu approvata, con la quale alcuni membri del medesimo organismo venivano accusati «di deviazionismo dal pensiero marxista-leninista a favore di una linea filo-castrista».80 Nel frattempo, mentre la sezione veneziana minacciava di autonomizzarsi, Spazzali, senza il consenso dell’ufficio politico, prese contatti con il nucleo romano che, di conseguenza e di tutto punto, venne sciolto in seguito all’espulsione di una decina di attivisti, accusati «di attività [volta] a disgregare l’organizzazione a favore del “Partito Comunista d’Italia (ml)”».81 Venne altresì sciolto l’ufficio politico, sostituito da un comitato politico provvisorio composto da Calcidese, Chiaia, Maj, Grienti e Marchelli (tutti di “maggioranza”) con il compito, data la gravità del momento, di organizzare un congresso straordinario della struttura associativa al fine di individuare un gruppo dirigente in grado di traghettarla oltre lo stato di crisi. Il documento preparatorio del congresso straordinario (il secondo e ultimo della Federazione) era costituito da una relazione di 25 pagine in cui si addossava la responsabilità della crisi, sempre secondo il prefetto Mazza, alle «manovre settarie e provocatorie» del Pcdi(ml), reo di aver «fatto una certa presa sui simpatizzanti marxisti-leninisti e determinato una contrazione dei consensi all’operato ed alle iniziative della Federazione». Oltre ai consensi, la «contrazione» si verificò anche in materia di «appoggi finanziari ed ideologici dei cinesi e degli albanesi»,82 i quali – tra l’altro – avevano di fatto riconosciuto il Pcdi(ml) come loro unico rappresentante. 79. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/53, raccomandata-riservata del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 24 gennaio 1970. 80. Ivi, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», nota (vista dal ministro) del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 20 agosto 1968. La mozione venne respinta con otto voti contrari, quattro favorevoli e un’astensione. 81. Ibidem. 82. Ibidem.

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I lavori dell’assemblea milanese del 3 e 4 agosto (alla presenza di 36 delegati), acuirono la crisi: Michele Semeraro impugnò il documento di maggioranza, presentando una sua mozione con la quale dichiarava di voler abbandonare l’agonizzante Federazione per costituire una nuova organizzazione.83 Tale situazione si risolse con un’immediata scissione: se la componente animata da Semeraro, Thiella e Spazzali dette vita all’Avanguardia proletaria maoista (Apm), l’altra, raccolta attorno a Raimondi e Maj e formalmente maggioritaria, si costituì in Partito rivoluzionario marxistaleninista d’Italia (Prmli). Quest’ultima organizzazione mantenne la testata «Rivoluzione proletaria»,84 mentre l’Apm, all’inizio con una serie di numeri unici (che poterono uscire utilizzando l’escamotage di piccole variazioni della testata), cominciò a pubblicare, a partire dal dicembre 1968, «Avanguardia proletaria».85 La separazione non diede tuttavia i frutti sperati. Il Partito rivoluzionario di Maj (anche a causa della “defezione” di Luciano Raimondi, all’estero per motivi professionali e poi reclutato, volendo dar credito al dossier Mitrokhin, come agente sovietico)86 non riuscì né a svilupparsi come polo alternativo al Pcdi(ml) né, tantomeno, a contrastare le spinte centrifughe all’interno dell’ex Federazione e, consumato da travasi e microscissioni, confluì parzialmente nell’Unione di Brandirali.87 83. Ibidem. 84. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 189. Secondo Mazza, la cronaca dettagliata della scissione sarebbe stata la seguente: «i dissidenti sono quindi usciti dalla sala del Congresso e si sono riuniti in un bar di via Savona dove hanno continuato a discutere sull’argomento. […] Gli altri partecipanti al Congresso hanno proseguito i lavori decidendo alla fine di costituirsi in partito e di mantenere come organo di stampa “Rivoluzione Proletaria”»; Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/48, sf. «Movimento filo-cinese in seno al PCI. Varie», nota (vista dal ministro) del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 20 agosto 1968. Sulla scissione della Federazione, cfr., inoltre, i documenti in ivi, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/119 «Avanguardia proletaria maoista», sf. «Milano». 85. Tra i numeri singoli: «Avanguardia proletaria» n.u., «Avanguardia proletaria» numero speciale, «Avanguardia proletaria [maoista]» (con la parola «maoista» scritta più piccola e in verticale), «[l’]Avanguardia proletaria» (con l’articolo scritto più piccolo) e «[W] Avanguardia proletaria» (con «W» scritto più piccolo). 86. Dapprima espatriato per lavoro a Città del Messico, come addetto presso l’Istituto italiano di cultura, nell’ottobre 1969 Raimondi, stando alle carte del dossier Mitrokhin, sarebbe stato reclutato dai sovietici (circostanza che tuttavia non ha trovato ulteriori riscontri) come collaboratore del Kgb (cfr. Gianni Mastrangelo, Il complotto comunista. Le trame svelate e i segreti. In appendice le schede del dossier Mitrokhin, Controcorrente, Napoli 2002, p. 224). 87. Cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, p. 46. Sul logoramento del gruppo di Maj si veda, a mo’ di esempio, ciò che scriveva il prefetto del capoluogo toscano: «il gruppo

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L’Avanguardia proletaria maoista ebbe invece miglior fortuna, senza tuttavia riuscire a competere con il Partito comunista d’Italia (ml), costituendo proprie sezioni territoriali a Roma, Palermo, Bari, Milano, Bergamo, Torino e Padova.88 In uno dei suoi primi documenti pubblici, mentre prendeva «atto dell’avvenuta liquidazione della Federazione e si costitui[va] come nucleo di avanguardia del partito politico del proletariato», l’Apm constatava l’assenza, in Italia, di un partito che avesse fatto proprio, assimilandolo, il pensiero di Mao: «l’artificiosa proclamazione di partiti sedicenti marxisti-leninisti, che coprono con affermazioni verbali tale mancata assimilazione, provoca[va]», secondo l’Apm, «la loro eterogeneità ideologica e politica, la permanenza dello spirito di gruppo, la mancanza di una linea politica e di massa marxista-leninista». Compito «fondamentale e immediato» sarebbe stato, dunque, «fare il partito». Ecco come: «bisogna eliminare le varianti del revisionismo di destra e di sinistra, oggettivamente alleate fra di loro e con l’avversario di classe: moderno revisionismo, trotskismo, castrismo, operaismo, spontaneismo, anarco-sindacalismo, dogmatismo, ecc.».89 In concreto, al di là degli interventi ad alto tasso ideologico contro tutte le altre formazioni della sinistra rivoluzionaria (una caratteristica assai marcata del gruppo), l’Apm si distinse nelle lotte per la casa a Milano, attraverso un organismo collaterale: l’Associazione inquilini rivoluzionari, fiorentino in argomento si è scisso; alcuni aderenti […] sono passati al [P]artito comunista d’Italia (ml), altri fra i quali gli avv. Aldo Serafini e Renzo Del Carria sono rimasti in posizione di attesa» (Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/31, riservata del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 2 ottobre 1968). Del Carria dopo qualche giorno aderì al Pcdi(ml) (cfr. ivi, riservata del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 9 ottobre 1968). 88. Cfr. «Avanguardia proletaria [maoista]», n.u., maggio 1969, in cui si segnalano sedi redazionali a Roma, Palermo, Bari e Milano. Cfr., inoltre, Acs, Mi, Gab., Fc, 19671970, b. 4, f. 161P/46/53, riservata del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 12 settembre 1968 (in cui si segnala l’attività di Sandro Parenzo) e ivi, f. 161P/46/54 «Palermo e provincia. Partito comunista d’Italia marxista-leninista», raccomandata del prefetto di Palermo al Gab. del Mi del 14 settembre 1968, che segnala la spaccatura tra il gruppo di Semeraro (Apm) e quello di Antonino Monteleone, leader siciliano del Prmli. 89. Avanguardia proletaria maoista, Servire il popolo. Fare il partito. Per la rivoluzione, per la dittatura del proletariato, per il socialismo, per il comunismo, Risoluzione della prima Conferenza nazionale dell’Avanguardia proletaria maoista, s.d. [ma prima del 12 settembre 1968], Milano. Uno dei bersagli di Apm fu senz’altro l’Uci(ml). Si veda, a riguardo, l’articolo di Maurizio Gubinelli, Le guardie rosa dell’università, in «Avanguardia proletaria maoista», n.u., maggio 1969.

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la quale contribuì alla fondazione dell’Unione inquilini (struttura parasindacale progettata, di fatto, quando ancora la Federazione era “unitaria” e, quindi, alla cui genesi concorse anche il Partito rivoluzionario marxistaleninista d’Italia).90 3. Servire il popolo e la scissione tra “rossi” e “neri” Nell’estate del 1968 nacque anche un’altra organizzazione politica della sinistra rivoluzionaria, la cui fama si è protratta nel tempo e che abbiamo già incontrato in precedenza: l’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), Uci(ml), meglio nota, dal nome del suo diffusissimo giornale, come Servire il popolo. Anche se le cronache agiograficopropagandistiche elaborate dal gruppo (e pure la storiografia che se ne è occupata) fanno risalire la nascita dell’Unione all’ottobre 1968, il nucleo centrale prese a costituirsi nell’agosto del 1968 da una ridefinizione ideologica del gruppo post-trockista Falcemartello che si fuse con alcune esperienze preesistenti, gruppi a carattere locale e con elementi del movimento studentesco romano (che faceva riferimento a Luca Meldolesi e Nicoletta Stame). L’antefatto della nascita dell’Uci(ml) può essere individuato nel congresso di Falcemartello, presieduto da Giangiacomo Feltrinelli, tenutosi all’Albergo Master di Sulzano, in provincia di Brescia, il 20 e 21 luglio 1968.91 Sia perché l’incontro lasciava presagire la nascita di una struttura dinamica destinata a espandersi, sia per la presenza di Feltrinelli, l’incontro di Sulzano fu attentamente seguito dalle autorità di Ps. Se il questore milanese Giuseppe Parlato (che ricoprirà l’incarico di capo della Polizia dal novembre 1976 al gennaio 1979), in concomitanza con l’inizio dei lavori era già in grado di comunicare al ministero gli scopi dell’incontro e l’identità 90. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 133. Sull’Unione inquilini, che si formalizzò come tale, dandosi uno statuto, solo nel dicembre 1969, cfr. Francesco Di Ciaccia, La condizione urbana. Storia dell’Unione inquilini, Prefazione di Franco Catalano, Feltrinelli, Milano 1974. 91. Vedi in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 329, f. G5/35/128, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Brescia al Gab. del Mi (e a 24 questure) del 22 luglio 1968. Documenti sulla nascita dell’Unione sono altresì in ivi., b. 364, f. G5/53/31 e ivi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 5, f. 161P/46/95, sf. 1 «Sulzano (Brescia). Congresso costitutivo del “Gruppo marxista Falcemartello”».

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del capo delegazione milanese, Aldo Brandirali,92 appena conclusa la riunione, il prefetto di Brescia Giuseppe Salerno, dettagliatamente informato da una fonte interna (forse legata alla gestione della struttura ospitante, o forse un confidente), così relazionava al medesimo referente: Scopo del congresso, cui hanno partecipato circa 110 persone, è stato quello di gettare le basi essenziali per il prossimo congresso nazionale […] I lavori [si sono svolti] sotto la presidenza del noto capo gruppo Giangiacomo Feltrinelli […]. Dopo la lettura del progetto di tesi i congressisti si sono divisi in gruppi di 10 persone con il compito di esaminare la relazione introduttiva […]. Durante il congresso e specie nel corso della discussione conclusiva, alcuni congressisti che portavano all’occhiello della giacca una medaglia rossa con sovrapposta l’effige di Mao Tse Tung, hanno ininterrottamente sostato all’ingresso della sala impedendo l’accesso agli estranei. […] Il congresso si è definitivamente concluso alle ore 21 di domenica […]. Il Feltrinelli Giangiacomo giunto a Sulzano a bordo della propria autovettura Citroen targata MI-D 12981 è ripartito verso le ore 23 di domenica 21 diretto presumibilmente a Milano.93

I documenti trasmessi (il Progetto di Tesi e la Mozione conclusiva) ci restituiscono, oltre ai contenuti politici dell’organizzazione ancora in fieri, le modalità e la tempistica previste dai costituenti. Il gruppo ex quartinternazionalista Falcemartello si sarebbe trasformato prima in Gruppo marxista-leninista Falcemartello (nucleo pilota di Milano) e poi – entro l’inverno – in un Gruppo marxista-leninista diffuso su tutto il territorio nazionale (che si sarebbe dovuto chiamare ugualmente Falcemartello). Il documento preparatorio sottolineava il carattere di transitorietà del Progetto di Tesi, considerato sì un «punto di arrivo di un’esperienza di anni di lavoro 92. «Giorni 20 et 21 corrente si svolgerà albergo Master di Sulzano (Brescia) congresso nazionale gruppo marxista-leninista “Falcemartello”. Corso riunione verrà discussa opportunità unificazione movimenti marxisti leninisti italiani. Delegazione milanese est guidata da Brandirali Aldo» (Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 329, f. G5/35/128, telegramma con precedenza assoluta del questore di Milano al Gab. del Mi del 20 luglio 1968). 93. Ivi, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Brescia al Gab. del Mi (e a 24 questure) del 22 luglio 1968. Le questure destinatarie della missiva (in base alla residenza dei partecipanti) furono quelle di: Milano, Bergamo, Catania, Vercelli, Torino, Livorno, Belluno, Varese, Mantova, Palermo, Reggio Calabria, Potenza, Macerata, Taranto, Pesaro, Napoli, Foggia, Asti, Firenze, Novara, Bari, Roma, Terni, Genova. Vennero identificate ottantuno persone, le cui generalità furono riportate in un elenco allegato. Tra queste, oltre ovviamente a Feltrinelli e Brandirali anche Giuseppe (più noto come Popi) Saraceno e un giovanissimo Enrico Galmozzi.

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politico che nel loro insieme costituiscono la “preistoria” del gruppo», ma anche e soprattutto un «punto di partenza» per «costituirsi in gruppo nazionale» e offrire il «proprio contributo per la realizzazione dell’unità del movimento marxista-leninista» e per la costruzione del «Partito dell’epoca della grande Rivoluzione Culturale Proletaria».94 I tratti caratterizzanti del lungo documento furono, anche se non in toto, recepiti e sintetizzati nella, pur non brevissima (undici pagine dattiloscritte), Mozione conclusiva, caratterizzata, anticipando quello che sarà lo stile di Servire il popolo, da un’analisi non particolarmente accurata e da una prosa semplice, ripetitiva, assertiva e a volte – a causa di una sintassi non propriamente eccelsa – fumosa. Secondo il documento conclusivo: l’imperialismo aveva «i giorni contati» e gli Usa erano «sull’orlo del baratro»; la classe operaia europea aveva «dichiarato la sua totale disponibilità alla lotta rivoluzionaria» e individuato i «più grandi traditori della nostra epoca: i revisionisti» (considerati i principali alleati dell’imperialismo); nei paesi diretti dai «moderni revisionisti» era necessaria «la riconquista del potere»; sull’onda della Rivoluzione culturale occorreva condurre la «lotta a fondo contro l’imperialismo» costituendo il «fronte antimperialista mondiale». La crisi italiana, infine, imponeva la necessità della costruzione del partito marxista-leninista. Un’attività che doveva essere ininterrotta: Noi dobbiamo costantemente costruire il partito, come dobbiamo costantemente realizzare la comprensione teorica e la generalizzazione programmatica del lavoro tra le masse. Solo svolgendo unitariamente i due compiti si crea il partito al servizio delle masse. […] La proclamazione ufficiale del partito è una prima tappa intermedia nel processo per la sua costruzione. La conquista di questa prima tappa segna la possibilità di unire i diversi settori delle masse in lotta, e rappresenta quindi l’inizio della lotta rivoluzionaria per la rottura violenta dello stato e per la presa del potere.95

Ovviamente, la lotta a fondo, oltre che nei confronti del revisionismo avrebbe dovuto essere condotta anche contro le «sue varianti» trockiste e spontaneiste. Mentre il castrismo, «pur non essendo il marxismo-leninismo della nostra epoca» (si precisava), veniva giudicato in modo sostanzial94. Gruppo marxista-leninista Falcemartello (nucleo pilota di Milano), Progetto di Tesi per il Congresso costitutivo del Gruppo Marxista-Leninista Falcemartello, Milano, luglio 1968. 95.  Mozione conclusiva proposta al congresso costitutivo del Gruppo marxistaleninista Falcemartello (nucleo pilota di Milano), Sulzano, 21 luglio 1968.

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mente positivo. Infine, l’unità dei marxisti-leninisti non sarebbe stata effettivamente tale se il contenitore fosse stato di tipo federativo (il pensiero era rivolto alla morente Federazione) o burocratico-dogmatico, con riferimento al Pcdi(ml). Il congresso del «nucleo pilota» della costituenda organizzazione elesse un ufficio politico con il compito di «seguire la realizzazione dei congressi costitutivi dei nuclei nelle diverse città, per procedere così alla realizzazione del congresso nazionale».96 Ed effettivamente durante l’estate 1968 Brandirali e altri esponenti del «nucleo pilota» presero contatto con altre realtà, tra cui il già citato gruppo del movimento studentesco romano attestato su posizioni maoiste organizzato da Luca Meldolesi e Nicoletta Stame e alcune realtà operanti in Calabria (facenti capo a Enzo Lo Giudice) e in Sicilia.97 Una volta unificate le avanguardie, il 4 ottobre 1968, in una riunione romana a casa di Meldolesi e Stame si procedette dunque, in modo sostanzialmente informale, alla fondazione dell’organizzazione. Non senza, tuttavia, perdere qualche pezzo. Accantonata l’ingombrante presenza di Giangiacomo Feltrinelli, come documentano le carte di polizia il gruppo Falcemartello subì, infatti, la scissione della componente studentesca guidata da Popi Saracino (futuro leader, con Mario Capanna, dell’organizzazione Movimento studentesco), sull’azione del quale il prefetto milanese Mazza comunicava quanto segue: il “gruppo Falcemartello”, in seguito a contrasti ideologici, si è scisso in due tronconi e ciò nonostante che il congresso di Sulzano avesse creato una certa apparente unità nell’organizzazione, fino ad allora divisa in trotzkisti, maoisti, entristi (corrente facente capo a J. Posadas), ecc. Essendo però rimasta l’impressione che i trotzkisti avessero prevalso, Giuseppe Saracino, responsabile della cellula “Lavoro studentesco” di “Falcemartello”, ormai intimamente convinto che il “Partito comunista d’Italia (m.l)” era il vero partito rivoluzionario, ha convocato il mese scorso presso il “Centro di documentazione Frantz Fanon” una riunione dell’ufficio politico. I convocati si trovarono unanimemente d’accordo nello stabilire che il “PCd’Italia” era l’unico partito rivoluzionario ma non lo erano altrettanto circa le modalità di fusione con il predetto organismo.98 96. Ibidem. 97. Cfr. Ferrante, La Cina non era vicina, pp. 5-9. Sull’attivismo degli emme-elle calabresi nell’estate del 1968 cfr. Piero Bevilacqua, Un anno di lotte in Calabria, in «Contropiano», 3 (1968), pp. 629-656. 98. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 329, f. G5/35/128, riservata-raccomandatadoppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 17 ottobre 1968.

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In verità, tolta la minoranza trockista, anche il resto del gruppo giudicava il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) un organismo rivoluzionario ma non fu d’accordo con la richiesta dell’adesione individuale, preferendo l’ingresso in forma organizzata, in stile entrista. Come specificò il prefetto Mazza: Infatti, una parte dei convocati, che fa capo ad Aldo Brandirali, ritenne che il gruppo dovesse entrare al completo nel partito come “Gruppo di opinione”. La parte, invece, che fa capo a Giuseppe Saracino era d’avviso che l’adesione dovesse essere individuale e che la linea dei marxisti-leninisti andasse ora rigidamente seguita. Su tale questione, peraltro, “Falcemartello” si è spaccato, determinando l’uscita dal movimento di 47 aderenti che rappresentano la frangia più attiva del gruppo. Gli altri membri, invece, attaccati, secondo la definizione di Saracino, a “posizioni di potere”, hanno deciso di costituirsi in “consiglio per la costruzione del partito rivoluzionario”. Tale nuovo partito, che si chiamerà “Unione comunista d’Italia” e avrà come organo di stampa un nuovo periodico, dovrebbe anche assorbire gli aderenti a “Falcemartello” del Lazio, della Calabria e della Sicilia.99

Come noto, in realtà, la nuova organizzazione, che nel momento in cui il prefetto di Milano scriveva al Gabinetto del ministro cui dipendeva era già nata da qualche giorno, sì denominò Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), mentre il «nuovo periodico», “scippando” una delle parole d’ordine che due mesi prima aveva caratterizzato la fondazione dell’Avanguardia proletaria maoista, venne intitolato «Servire il popolo». Il primo numero del giornale (che aveva per sottotitolo «Organo dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti)») uscì nel novembre 1968 e sopra la testata campeggiava uno degli slogan della mozione conclusiva del congresso di Sulzano: «Mettere la politica al primo posto!».100 Un concetto lineare e totalizzante che, come visto, gli attivisti dell’Uci(ml) misero in pratica con solerzia. Dopo una serie di crisi interne che videro protagonista Brandirali e il gruppo romano di Servire il popolo (prima Luca Meldolesi, poi Guglielmo Guglielmi), anche a causa dell’accerchiamento teso a isolarla dal resto della sinistra rivoluzionaria, l’Unio99. Ibidem. 100. Cfr. «Servire il popolo», n.u., novembre [1968]. L’articolo di fondo del primo numero, nella sua semplicità, veicolava i tratti salienti della linea generale che caratterizzerà il gruppo: cfr. Il significato di “Servire il popolo”, in «Servire il popolo», n.u., novembre [1968]). Il numero successivo uscì nel gennaio 1969 come «[Unire e] Servire il popolo», utilizzando l’escamotage delle parole «Unire e» scritte in corpo ridotto.

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ne cominciò a sfaldarsi. Uno sfaldamento che, dopo la pomposa trasformazione in Partito comunista (marxista-leninista) italiano e l’insuccesso elettorale del maggio 1972 (in cui le liste del partito, non presenti tuttavia in tutte le circoscrizioni elettorali, raccolsero 86.038 preferenze, pari allo 0,26% dei voti validi per l’elezione dei rappresentanti della Camera),101 crebbe esponenzialmente fino alla crisi interna che condusse all’estinzione dell’esperienza, dopo l’espulsione dello stesso Brandirali (che per un periodo venne sostituito da Francesco Leonetti).102 Tra l’estate e l’autunno del 1968, mentre l’Unione nasceva il Partito si lacerava. Se è sostanzialmente veritiero che la vecchia guardia del Pcdi(ml) fosse attestata su posizioni sostanzialmente staliniane ciò, tuttavia, non significò certo immobilismo. Nei due anni successivi alla fondazione, l’organizzazione guidata da Dinucci non produsse solo teoria. Alla prosecuzione della battaglia ideologica contro tutte le correnti antistaliniane, con particolare riferimento al titoismo, bersaglio prediletto dei comunisti cinesi e albanesi, si affiancò, come logica conseguenza, l’azione diplomatica verso i partiti fratelli: il Pcc e il Partito del lavoro d’Albania, i quali riconobbero “ufficialmente” il Pcdi(ml) come proprio partner in Italia, contribuendo così all’accrescimento del suo prestigio. Un prestigio “valorizzato” (in tutti i sensi) dalla costituzione, nel quadro dell’«attività internazionalista», delle 101. A Milano, presente anche al Senato mentre non lo era la lista del Manifesto, il Pc(ml)i ottenne 27.762 voti, cioè tre volte di più che alla Camera. Non sembra trovare riscontri il giudizio sferzante di Violi sulle allucinazioni del partito per la propria prestazione («si ribalta la valutazione dello scarso successo elettorale in “85.000 baionette pronte all’insurrezione”»; Patrizia Violi, I giornali dell’estrema sinistra, Garzanti, Milano 1977, p. 65). La formula usata dall’organo di stampa di Brandirali e compagni, nel titolo e nel testo dell’articolo, fu indubbiamente enfatica ma non così iperbolica: cfr., a riguardo, 85.471 voti di avanguardia per la lotta contro il clerico fascismo, in «Servire il popolo», 13 maggio 1972. Probabilmente, l’autrice ha preso alla lettera (miscelando tuttavia i contenuti) un articolo coevo di «Quaderni piacentini» che usò per l’appunto tale espressione. Cfr. Considerazioni postelettorali, in «Quaderni piacentini», 47 (1972), p. 35, in cui si affermava di non condividere l’ottimismo di Potere operaio «che parla del voto al Pci come di una scelta di classe (una sorta di nove milioni di baionette per la rivoluzione) che fa da pendant alla tesi dell’Unione dei Comunisti (85.000 persone pronte all’insurrezione)». 102. Brandirali, ormai attestato su posizioni fortemente autocritiche, fu espulso dall’organizzazione da egli fondata nel novembre 1975. Grazie a Leonetti – amico di Pasolini e, tra le altre esperienze maturate con il regista, profetica voce del “corvo marxista” di Uccellacci e uccellini – il periodico di analisi politica «Che fare», da «Bollettino di critica e azione d’avanguardia», nel 1973 si trasformò in «Rivista marxista-leninista di dibattito del Pc(ml)i» (cfr. Mondello, Gli anni delle riviste, pp. 91-92).

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Associazioni di amicizia Italia-Cina (qui, in realtà, si trattò di una riorganizzazione) e Italia-Albania, le quali, grazie alle donazioni provenienti da Pechino e Tirana, funsero anche da collettore finanziario del partito e da canale preferenziale per i rapporti di varia natura tra i governi cinese e albanese e il Pcdi(ml).103 Non secondario fu anche il fatto che la periodicità di «Nuova unità» (che stampava 20.000 copie) passò nell’autunno 1966 da mensile a quindicinale, divenendo poi, dopo la fondazione del partito (a partire dal numero del 22 ottobre 1966), un settimanale. Ma soprattutto il Partito emme-elle si caratterizzò, subendone anche conseguenze penali, per la partecipazione ad agitazioni di vario tipo: dalle lotte dei lavoratori portuali (come quelle dell’ottobre 1966 a Genova e Trieste),104 alle agitazioni contadine in Calabria (a Cutro e a Isola di Capo Rizzuto, nel novembre 1967),105 fino alla partecipazione “militante” nelle manifestazioni antimperialiste e 103. Il riconoscimento da parte del Pcc avvenne solo nell’agosto del 1968. In quei giorni Osvaldo Pesce e Dino Dini si recarono a Pechino per incontrare i principali dirigenti comunisti, tra cui Mao Zedong, coronando l’evento con l’immancabile foto ricordo. Cfr. i documenti in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 288, f. G5/5/4; ivi, b. 290, f. G5/5/44 «Associazione culturale amici della Cina» e ivi, b. 290, f. G5/5/60 «Associazione culturale Italia-Albania». I funzionari dei due governi presenziavano, talvolta, alle iniziative delle sezioni delle rispettive associazioni, che quasi sempre avevano sede nei locali del partito. Cfr. ivi, b. 288, f. G5/5/4, telespresso riservatissimo del ministero degli Affari esteri (Dgap-Uff. 5°) al Gab. del Mi del 25 gennaio 1968 e ivi, riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 6 luglio 1968, in cui si precisava anche che «le manifestazioni qui in argomento […] sono state riservatissime e tutti i partecipanti sono stati accuratamente controllati nella loro identità». 104. A Genova, in seguito a disordini avvenuti il 5 ottobre 1966 a latere della manifestazione in occasione dello sciopero generale, vennero arrestati più di settanta giovani, tra cui alcuni militanti di quello che, da lì a qualche giorno, sarebbe diventato il Pcdi(ml). Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/35 «Genova e provincia. Partito comunista d’Italia». Si veda inoltre: A[ntonello] Obino, Fermo atteggiamento dei militanti del Partito al processo di Genova, in «Nuova unità», 17 dicembre 1966; Il nostro Partito si tempra nella lotta contro le persecuzioni, ivi; A.O. [Antonello Obino], Il processo di Genova mostra la tempra rivoluzionaria dei militanti proletari, ivi, 24 dicembre 1966; e Processo di Genova: due linee a confronto, ivi, 31 dicembre 1966. Agli inizi di dicembre, incautamente, «Nuova unità» rivendicò in modo esplicito il ruolo giocato dai propri attivisti nelle agitazioni di ottobre: «durante gli scioperi svoltisi a Genova e Trieste all’inizio di ottobre, i giovani marxisti-leninisti si sono distinti per lo slancio rivoluzionario» (Convocato il Congresso Nazionale dei giovani marxisti-leninisti, ivi, 3 dicembre 1966). 105. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/31, riservata del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 22 novembre 1967. Cfr. anche Sulle lotte a Cutro e Isola Capo Rizzuto, in «Quaderni piacentini», 34 (1968), pp. 75-78.

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a sostegno della lotta dei nordvietnamiti (particolarmente “dure” in alcune realtà).106 Tale attività entrò in relazione dinamica con l’attivismo giovanile, ossia attirò giovani militanti che, a loro volta, alimentarono le azioni di protesta. Un attivismo barricadero che ben s’incontrava, inoltre, con l’immagine secchian-insurrezionalista che il partito dava di sé.107 Così, come già segnalato, nel biennio 1967-1968, pur in un contesto concorrenziale di proliferazione delle “centrali” stalino-maoiste, il Pcdi(ml) crebbe in modo considerevole, giungendo a capitalizzare un centinaio di sezioni che inquadravano alcune migliaia di attivisti e divenendo, dunque, la pietra di paragone per qualsivoglia aspirante formazione affine. Oltre che dal Pci e dalla sua struttura giovanile, i nuovi quadri maoisti provenivano dal movimento studentesco e, più in generale, dalla «radicalizzazione giovanile». La loro indole “spontaneista” scompaginò però, come già si è avuto modo di esporre, la vita interna delle organizzazioni emme-elle, tra cui quella del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista).108 Anche qui, per schematizzare, si delinearono due schieramenti: quello vetero-staliniano e quello giovanil-spontaneista. Ciò in particolare a partire dall’estate 1968, in concomitanza con l’ingresso di nuove leve organizzate, come, ad esempio, quelle provenienti dalle esperienze di Falcemartello di Milano e di «Lavoro politico» di Verona e Trento. Anche in questo caso, la letteratura esistente tende a rappresentare la contrapposizione delle due anime del marxismoleninismo, che condussero alla scissione tra “linea nera” e “linea rossa”, come contrapposizione tra una corrente burocratico-dogmatica (rappresen106. Cfr., ad esempio, ivi, riservata del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 28 aprile 1967, con la quale si sottolinea come: «gli attivisti del partito in argomento sogliono mettersi in evidenza nel corso delle varie manifestazioni per il Vietnam e si dimostrano sempre fra i più facinorosi, mettendo in difficoltà lo stesso apparato del Pci». In generale sulle conseguenze delle lotte condotte dal Pcdi(ml) in quegli anni, cfr. gli atti processuali e la documentazione dei difensori in Isrt, Fondo Gracci, Processi politici e sociali, Processi politici e sociali degli anni Sessanta. 107. Cfr. ad esempio Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/31, riservata (vista dal sottosegretario Remo Gaspari) del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 27 dicembre 1967, con la quale il prefetto di Firenze comunicava che Dinucci, in occasione di una conferenza, aveva «scagliato una pesante critica al PCI per l’asserito moderatismo politico […] e per l’abbandono totale di ogni linea rivoluzionaria». Riferendosi all’attentato a Togliatti, Dinucci avrebbe «accusato il PCI di non avere preso in seria considerazione, in quel momento, la conquista del potere attraverso una rivoluzione popolare, che allora avrebbe avuto certamente successo». 108. Cfr. Giachetti, Oltre il sessantotto, p. 107.

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tata dalla vecchia guardia legata al Pci) e una componente antiburocratica ed estrosa (i giovani, prevalentemente studenti). Se ciò può essere parzialmente vero (anche se, stando alle prese di posizione di quella che diverrà la “linea rossa”, l’attribuzione dell’aggettivo creativa è operazione assai discutibile),109 va sottolineato che la frattura generazionale delle due componenti emme-elle avvenne lungo la faglia del rapporto con l’insurrezione. Se i “vecchi” si attrezzarono per l’attesa dell’Ora X, dove sarebbero entrati in gioco i reparti scelti della rivoluzione, secondo un modello più “buzzatiano” che leninista (anche se questo era lo schema di riferimento esplicitato), i giovani del Partito e dell’Unione della gioventù erano – oltre che affetti, per dirla con Lenin, da «infantilismo» barricadero – fautori della trasposizione metropolitana della maoista «lotta di lunga durata», che avrebbe dovuto essere «lotta di popolo armata», senza attese troppo lunghe né vincoli elitari. Inoltre, giocarono, come in altre scissioni di formazioni rivoluzionarie, le rivalità personali, riconducibili a lotte interne di potere o a idiosincrasie tra caratteri differenti, nonché le accuse in merito a reali o presunte condotte illecite. Tali busillis – il primo comprensibilmente rimosso dalla memorialistica (tranne quella di coloro che scelsero la strada della lotta armata) – non sfuggirono agli apparati preposti alla sorveglianza e alla repressione delle attività sovversive. A riguardo, così riferiva nel dicembre 1968 il prefetto di Pisa, riportando le informazioni ricevute da «fonte fiduciaria solitamente attendibile»: Fin dall’agosto scorso si sono venute formando […] due correnti, una di maggioranza, facente capo al segretario nazionale Dinucci Fosco e l’altra di minoranza, capeggiata dai noti Misefari Vincenzo di Reggio Calabria, Balestri Arturo da Pisa, Sartori Alberto da Vicenza e Imperato Mario da Milano, fautrice quest’ultima di una linea politica più spostata su posizioni estremiste e rivoluzionarie rispetto a quella ufficiale del partito. Il contrasto […], fondato, a quanto pare, più su motivi di gelosia personale che non su veri e propri dissensi ideologici, ha raggiunto la sua fase più critica alcuni giorni or sono in seguito alla decisione della segreteria nazionale di respingere alcune centinaia di domande di ammissione al partito presentate da giovani studenti e operai, già appartenenti a gruppi anarchici e troskisti dell’Emilia, del Veneto e della Lombardia, con l’appoggio degli esponenti del gruppo di minoranza.110 109. Cfr. ad esempio Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 114. 110. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/61, riservata-raccomandatadoppia/busta del prefetto di Pisa al Gab. del Mi del 16 dicembre 1968.

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Al fine di giungere a un chiarimento, la segreteria, in mano alla maggioranza, convocò una riunione straordinaria del Comitato centrale, alla quale i membri della minoranza decisero di non partecipare. Di tutta risposta il Cc estromise dall’organizzazione gli esponenti assenti con differenti motivazioni: Misefari e Balestri «per aver avuto contatti» con elementi del Pci e «per essersi da questi lasciati corrompere», al fine di disgregare il Pcdi(ml); Sartori e Imperato, invece, «per aver avuto contatti con emissari castristi-anarchici e con il movimento troskista “Falce e martello” di Milano». Conseguentemente all’espulsione di Misefari, il Cc nominò Manlio Dinucci (cugino del segretario nazionale del partito) alla direzione di «Nuova unità». In una riunione successiva della medesima istanza vennero quindi espulsi il fiorentino Angiolo Gracci, il genovese Fernando Pucci e il pisano Dino Dini con l’accusa di collusione coi gruppi trockisti e borghesi «e di azione frazionistica e disgregatrice in seno al partito».111 A loro volta, tra il novembre e il dicembre 1968, gli esponenti della minoranza, unendo all’arbitrarietà di un gesto di cui precedentemente erano stati vittime l’illegittimità derivante dal non averne facoltà, espulsero per «deviazionismo politico» tutti i componenti della maggioranza in seno al Cc, incluso il segretario nazionale, autoprocamandosi come gli unici e autentici rappresentanti del partito. In tale veste, tennero un “congresso straordinario” (a Rovello Porro, in provincia di Como) in cui la maggior parte della dirigenza del partito fondato a Livorno nel 1966 (bollata come la destra della “linea nera”) venne giudicata in contumacia colpevole di essere controrivoluzionaria, in quanto autoritaria, neo-revisionista, settaria (cioè chiusa verso le masse e i suoi fermenti ribellistici) e profittatrice.112 Decisero anche, dopo aver individuato una nuova segreteria nazionale (composta da Dini, Gracci e Sartori), di continuare a pubblicare «Nuo111. Ibidem. L’ex comandante partigiano Angiolo Gracci (“Gracco”) fu una delle figure più importanti del marxismo-leninismo italiano. Egli fu costantemente monitorato dalle autorità di Ps, ben prima del suo ruolo di primo piano nella vicenda della scissione del Pcdi(ml). Cfr., ad esempio, Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/31, riservata (vista dal sottosegretario Remo Gaspari) del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 25 febbraio 1967. Sul fondo archivistico originato dalle sue carte cfr. Paolo Mencarelli, La resistenza continua. Il fondo di Angiolo Gracci a Firenze, in «Zapruder», 4 (2004), pp. 130-132. 112. Tra gli addebiti rivolti ai “neri” anche quello, che riguardava Osvaldo Pesce e Fosco Dinucci, dell’appropriazione personale «di fondi forniti dalla Cina» (Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/53, raccomandata-riservata del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 24 gennaio 1970).

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va unità», confermando Misefari nel ruolo di direttore. Il 10 dicembre, dunque, vennero pubblicati due distinti periodici con il medesimo nome, «Nuova unità», recanti entrambi la dicitura di «Organo centrale del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)».113 Da questo momento ci furono dunque (temporaneamente, dato che se ne sarebbe aggiunto un terzo) due Pcdi(ml), comunemente distinti dagli appellativi di “linea nera” e “linea rossa”. Benché tali definizioni, coniate dalla componente che propugnava posizioni e forme di lotta maggiormente dinamiche, si siano imposte fin da subito tra gli addetti ai lavori (militanti della sinistra rivoluzionaria, giornalisti e osservatori politici e finanche funzionari di Ps), dato che il gruppo della “linea rossa” dovette rinunciare alla testata a causa di un verdetto della magistratura che diede ragione ai “neri” e, dal marzo del 1969, dopo alcuni numeri unici,114 prese a pubblicare «il Partito», è probabilmente più opportuno distinguere le due organizzazioni sorte per divisione cellulare, mediante il loro organo di stampa; ciò anche se, formalmente, la continuità politico-organizzativa del Pcdi(ml) non venne mai meno (e quindi, nel caso della maggioranza, non ci sarebbe necessità di ulteriore precisazione). In ogni modo, per praticità, d’ora in avanti si affiancherà, a seconda di chi ci si riferisca, alla dizione Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) l’appellativo di Nuova unità o quello de Il Partito, Pcdi(ml)-Nu e Pcdi(ml)-P. Lo scontro tra i due tronconi del Pcdi(ml) divenne una lotta senza esclusione di colpi. Se i “rossi” accusarono i “neri” di essere una «cricca di rinnegati controrivoluzionari», questi ultimi etichettarono i dissidenti con gli aggettivi più vari, con valenza ovviamente denigratoria: «kruscioviani», «trotskisti», «avventurieri», «barboni» e «sacrestani» (riferendosi a Peruzzi 113. Cfr. ivi, f. 161P/46/61, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Pisa al Gab. del Mi del 16 dicembre 1968, nonché Niccolai, Quando la Cina era vicina, pp. 113-114, che sottolinea come il “congresso straordinario” vide tra i suoi promotori il gruppo di Peruzzi, Curcio e Berio («Lavoro politico» di Verona) e i toscani Angiolo Gracci e Dino Dini (ivi, p. 113). Sul ruolo centrale giocato dal gruppo di «Lavoro politico» nella frattura del Pcdi(ml) del dicembre 1968 concorda anche Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 157. 114. Il 17 dicembre 1968 (dopo il numero “apocrifo” di «Nuova unità»), fu pubblicato il numero unico «Nuova unità [marxista-leninista]» (con «marxista-leninista» scritto in caratteri più piccoli), «Organo centrale del Partito comunista d’Italia (m.-l.)»; il 21 gennaio 1969 fu editato «Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)», «giornale manifesto del Comitato Centrale del Pcd’I (m-l)», che annunciava l’avvio delle pubblicazioni de «Il Partito». In qualità di direttore responsabile, in entrambi i fogli figurava Vincenzo Misefari.

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e ai trascorsi cattolici di molti attivisti di «Lavoro politico»).115 Il “duello” fu particolarmente aspro a Firenze, uno dei maggiori centri – se non il principale – degli scissionisti. Qui l’intensità degli attacchi reciproci – anche se i “neri” superarono i “rossi” nelle modalità e nei toni della polemica – raggiunse picchi elevati. Oltre ad aggiornare il ministero dell’Interno sulla portata della scissione («che va assumendo, di giorno in giorno, sempre più vaste proporzioni») e sulle cause scatenanti («dissensi di carattere ideologico e di acquisizione di posizione di potere»), il prefetto fiorentino segnalava la presenza di un manifesto manoscritto con il quale si annunciava l’espulsione di Angiolo Gracci «per opportunismo e revisionismo borghese».116 Si trattava di un vero e proprio dazebao contro la persona di Gracci, del quale è il caso riportare alcuni passi salienti, al fine di rendere l’intensità dei toni polemici (in questo caso di parte “nera”): La cricca del rinnegato avvocato Gracci aveva assoldato elementi estranei al partito, in genere revisionisti camuffati, trotzkisti, anarchici ed intellettuali borghesi […]. Questo parolaio della rivoluzione e speculatore dei valori della resistenza non ha mai nascosto il suo odio contro Stalin, grande rivoluzionario e maestro marxista-leninista e da buon borghese stimava in privato l’infido controrivoluzionario Trotski. La classe operaia di Firenze e le masse popolari di S. Frediano conoscendo molto bene questa sanguisuga, che spilla il sangue degli operai costretti a ricorrere alle sue prestazioni di avvocato per difendersi dai padroni, non cadranno certo nella rete delle sue manovre ingannatrici.117

Nella violenta campagna anti-Gracci vennero impiegati anche volantini. Secondo i fiorentini del Pcdi(ml)-Nu, la borghesia si sarebbe avvalsa «di un pugno di rinnegati», dediti a pubblicare numeri apocrifi di «Nuova unità», per «confondere le masse e impedire lo sviluppo del Partito». A Firenze i «servi dei borghesi» erano guidati, recitava un volantino dei “neri”, dal «rinnegato Gracci», reo di aver «cercato invano di trasformare» il partito emme-elle in «un carrozzone elettorale di intellettuali borghesi, trotzkisti, anarchici e revisionisti». I giudizi personali su Gracci non si sco115. Cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, p. 48. 116. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 4, f. 161P/46/31, riservata del prefetto di Firenze al Gab. del Mi del 14 dicembre 1968. 117. Ivi, riproduzione fotografica del manifesto murale redatto a mano: L’opportunista Gracci smascherato e espulso dal Partito comunista marxista-leninista d’Italia [sic], s.l. [ma Firenze], s.d. [ma 12 dicembre 1968]; sottolineato anziché corsivo nell’originale.

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stavano dai toni dei manifesti murali: in aggiunta all’epiteto di «speculatore dei valori della resistenza» si aggiungeva solamente «già promotore e dirigente a Firenze dell’organizzazione giovanile fascista della “Repubblica” di Salò».118 Non che le modalità discorsive dei “rossi” fossero meno pungenti – i capi d’imputazione, tra l’altro, erano pressoché identici (Dinucci e i suoi – definiti «un pugno di rinnegati» – erano infatti accusati di trockismo, revisionismo, bordighismo, e via dicendo) –, tuttavia non raggiunsero quasi mai, quantomeno negli scritti, gli infimi livelli di quelle dei “neri”.119 Ad ogni buon conto, la scissione del novembre-dicembre 1968 e il conseguente innalzamento dei livelli di scontro misero in moto un complesso di dinamiche conflittuali e di spinte centrifughe che indebolì sia il Pcdi(ml)-Nu, che nel frattempo ottenne la conferma del riconoscimento cinese e albanese, sia il Pcdi(ml)-P che, quantomeno inizialmente, attrasse la maggior parte dei militanti dell’organizzazione. Nel corso del biennio 1969-70, come detto, all’opacizzazione dei frammenti del Partito fece da contraltare, nell’area emme-elle, la “folgorante” ascesa dell’Unione. 4. Tra Trockij e Mao: Avanguardia operaia La costituzione dell’Organizzazione comunista Avanguardia operaia (Ocao oppure, più brevemente, Ao) fu il risultato di un lento e non pianificato – quantomeno in modo organico – processo di crescita politicoorganizzativa attorno ad alcuni nuclei operai e a gruppi di giovani rivoluzionari milanesi attivato, a partire dal 1966-67, da esponenti della Quarta internazionale. Un processo di crescita – quello del “nucleo pilota” mila118. Ivi, Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), Spezziamo ogni manovra della borghesia, Firenze, [dopo 10 dicembre 1968]. Sulla base di ricerche documentarie compiute da Paolo Mencarelli, che ringrazio, la militanza fascista di Angiolo Gracci fu limitata al periodo a cavallo dell’8 settembre 1943. Egli fece parte del Movimento dei giovani italiani repubblicani (prosecuzione dell’esperienza di Giovane armata) la cui componente di sinistra aderì poi alla Resistenza. La collaborazione di Gracci a «La Patria», il periodico del movimento, si protrasse fino al 26 novembre 1943. Tra i principali artefici della campagna d’odio contro Gracci ci sarebbe stato Giovanni Scuderi, che appena un anno dopo avrebbe abbandonato il Pcdi(ml)-Nu per fondare l’Organizzazione comunista bolscevica italiana marxista-leninista (Ocbiml), poi trasformatasi, nel 1977, in Partito marxista-leninista italiano (cfr. http://www.pmli.it/lastoriapmliscuderi.htm). 119. Cfr. ad esempio Lettera del Comitato Centrale ai Partiti e ai Movimenti marxistileninisti, in «il Partito», 5 aprile 1969.

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nese – che si alimentò delle risorse fornite anche da altre realtà. Difficile, dunque, stabilire un evento o un micro-processo periodizzante individuabile come atto di nascita dell’organizzazione politica, come anche tracciarne la “preistoria”. Considerando la realtà milanese come centro egemone (del resto, il “milanocentrismo” di Ao è un dato indubbio e consolidato), è possibile far cominciare la storia di Avanguardia operaia, per usare le parole di una riservata del questore di Milano, alla fine del 1968, allorché si costituì come gruppo, pubblicando l’omonimo giornale (il cui primo numero uscì in dicembre), «attorno ai due noti esponenti di movimenti estremisti di sinistra, Luigi Vinci e Silvana Barbieri, i quali, dopo una esperienza in comune con i gruppi “La sinistra” e “Falce e Martello”, negli ultimi mesi del decorso anno decisero di formare un proprio gruppo politico, indirizzando la loro lotta nel campo sindacale, tra i lavoratori delle grandi industrie».120 Lo stesso Vinci, il principale organizzatore del gruppo, ricorda come non ci fosse «una data di nascita precisa di Ao. Formalmente si è costituita nel ’68, o un attimo prima sul finire del ’67; come gruppo politico vero e proprio esiste dalla metà del ’68 circa. Ma per quanto riguarda la formazione di una parte del nucleo iniziale dei quadri milanesi, bisogna tornare molto indietro», cioè alle vicende del Pci milanese della metà degli anni Sessanta.121 In effetti, il nucleo originario era un gruppo d’intervento operaio quartinternazionalista (quindi ricollegabile a «La Sinistra» e Falcemartello) che, nell’ambito della tattica entrista nel Pci, svolgeva la sua attività – sia a livello sindacale che propriamente politico – in alcune aziende milanesi: alla Sit-Siemens (o, più comunemente, Siemens), alla Borletti, alla Sip, alla Pirelli ma anche all’Atm. Oltre alla coppia Vinci-Barbieri, vi erano Massimo Gorla, Luigi Bello, Stefano Semenzato e Silverio Corvisieri (poi condirettore, con Augusto Illuminati e Giulio Savelli, de «La Sinistra»). Teoricamente trockisti, erano quadri politici formati sul modello leninista con influenze operaiste e terzomondiste-guevariste. Grazie a un paziente lavoro operaio di base e alla cassa di risonanza de «La Sinistra» e del circolo “Il Manifesto” (da non confondersi con l’omonimo e successivo gruppo-giornale) nel 1966-67 120. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 358, f. G5/45/15, riservata-raccomandata del questore di Milano alla Dar della Dgps del 27 febbraio 1969. 121. Cfr. l’intervista a Luigi Vinci in Daniele Protti, Cronache di “nuova sinistra” [Dal Psiup a Democrazia Proletaria], Gammalibri, Milano 1979, p. 129. Sull’esperienza di Ao cfr. Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli, Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia operaia. 1968-1977, Mimesis, Milano-Udine 2021.

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riuscirono a sedimentare nuclei di fabbrica che, in modo autonomo dalle organizzazioni sindacali, organizzarono lotte e produssero interessanti interpretazioni della realtà dal punto di vista operaio.122 Come ricordato da Silverio Corvisieri, con detto circolo «organizzai una tavola-rotonda con quadri operai»: I loro discorsi toccarono punti nevralgici della vita sindacale esprimendo, nel complesso, una critica per una certa subalternità […] nei confronti della politica di centro-sinistra […]. Con molta ammirazione parlarono anche della dura risposta degli operai dell’Alfa che, ad un attacco della «celere», avevano risposto mandando 80 poliziotti all’ospedale e riuscendo ad ottenere il rilascio dei loro compagni fermati trattenendo come ostaggi un commissario e tre agenti.123

Come confermato dagli appunti di Silvana Barbieri sull’esperienza dei comitati di sciopero alla Sit-Siemens, la partecipazione ai conflitti di fabbrica veniva soprattutto dalle donne e, in subordine, dai giovani (sottinteso maschi), ossia dai settori meno garantiti.124 Furono queste figure sociali a costituire il nerbo dei comitati politico-sindacali, denominatisi Comitati unitari di base (Cub), e dei gruppi di studio che a partire dalla seconda metà del 1968 costituirono l’ossatura di Ao nel Milanese. Tale culto della centralità operaia fu una caratteristica della costituenda formazione 122. Cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, pp. 122-123 e Stramaccioni, Il Sessantotto e la sinistra, p. 252. Per un profilo di Gorla cfr. Massimo Gorla. Un gentiluomo comunista. Cinquant’anni della nostra storia, a cura di Roberto Biorcio et al., Sinnos, Roma 2005 e Fabrizio Billi e William Gambetta, Massimo Gorla. Una vita nella sinistra rivoluzionaria, Centro di documentazione, Pistoia 2016. 123. Corvisieri, Il mio viaggio nella sinistra, pp. 82-83. Sul lavoro operaio propedeutico alla fondazione dell’Ocao, si veda inoltre l’opuscolo La parola agli operai. Tavola rotonda di Milano organizzata da “La Sinistra” con i lavoratori della Siemens, Borletti, GTE, ASCGE, Centrale del latte, ATM, PT, Bordoni-St. Gobain, Libreria Feltrinelli, [Tip. Edigraf Segrate] 1967, una copia del quale è conservata in Asnsmp, Fondo Luigi Vinci, f. «1-7-1967 al 31-8-1967». In ultima pagina si pubblicizzavano due dibattiti pubblici organizzati dal gruppo de “Il Manifesto”, tra cui quello del 10 dicembre 1967 su Potere operaio nella fabbrica e nella società; democrazia operaia nei sindacati e nel decidere gli obiettivi, i tempi, le forme di ogni lotta. 124. Cfr. Asnsmp, Fondo Luigi Vinci, f. «1-5-1967 al 30-6-1967», [Silvana Barbieri], appunti manoscritti sull’esperienza delle lotte alla Siemens, Milano, s.d. [maggio-giugno 1967], in cui si osservava: «Bisogna dire che alla Siemens l’avanguardia era costituita da donne e questo è comprensibile, in quanto sono quelle che subiscono lo sfruttamento più brutale».

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politica che, a differenza di quasi tutte le altre, concepì la «costruzione del partito» come un processo più o meno lento di crescita, proliferazione e aggregazione di nuclei di lavoratori d’avanguardia, inseriti in contesti ampi e/o di lotta.125 Come si desume dalla documentazione prodotta dall’Ocao, nel suo processo costitutivo il giornale «Avanguardia operaia» fu fondamentale. Uno strumento che appare molto efficace, a pochi mesi dalla sua nascita, ai fini della raccolta e dell’organizzazione politica delle forze, oltre che dell’agitazione a livello di massa, è “Avanguardia Operaia”, il giornale del nostro gruppo che appare in due distinte versioni alla Siemens e a Corsico, e che uscirà quanto prima presso altre aziende. […] In “Avanguardia Operaia” i problemi di linguaggio e le modalità dell’agitazione vengono gradatamente risolti, in una discussione continua con i lavoratori.126

La rottura con la sezione italiana della Quarta internazionale, in pieno processo di autodissoluzione, avvenne, oltre che a causa dell’effetto galvanizzante dello stretto legame con i movimenti degli studenti e degli operai,127 anche a causa della posizione filomaoista che assunsero i gruppi 125. Cfr. l’opuscolo Avanguardia operaia, Per il rilancio di una politica di classe, Samonà e Savelli, Milano 1968. Come si evince dal dattiloscritto della prima stesura dell’opuscolo, redatto da Luigi Vinci, la costituenda organizzazione non riteneva «che settori cospicui di quadri e di militanti proletari» si sarebbero saldati «alle avanguardie di sinistra rivoluzionaria e alla nuova sinistra studentesca» se non si fosse estesa l’azione dei gruppi impegnati concretamente nel lavoro operaio (cfr. Asnsmp, Fondo Luigi Vinci, f. «110-1967 al 31-10-1967», Un’analisi, un’esperienza concreta e una linea di lavoro operaio, dattiloscritto, [Avanguardia operaia di Milano], s.l. [Milano], s.d. [post 15 febbraio 1968]). 126. Asnsmp, Fondo Luigi Vinci, f. «1-10-1967 al 31-10-1967», Un’analisi, un’esperienza concreta e una linea di lavoro operaio, dattiloscritto, [Avanguardia operaia di Milano], s.l. [Milano], s.d. [post 15 febbraio 1968]. Dato che con la stessa testata uscirono differenti periodici (comunque editi dallo stesso gruppo), il testo citato si riferisce a due pubblicazioni edite nel corso del 1968: «Avanguardia operaia. A cura di un gruppo di lavoratori della Sit Siemens» (edito mensilmente nel primo semestre del 1968 e preceduto da un numero unico del 1967) e «Avanguardia operaia a Corsico» (diffuso nei primi mesi del 1968). Nel dicembre 1968 uscì, stampato da Grafica Effeti e poi edito da Sapere, il mensile «Avanguardia operaia» (in realtà, i primi tre numeri, irregolari, furono numeri unici in attesa di autorizzazione intitolati «Il giornale di Avanguardia operaia» con «Il giornale di» in corpo minore) e quindi, a partire dall’ottobre 1971 il quindicinale «Avanguardia operaia» («Giornale di agitazione comunista») che nel corso del 1972 mutò ancora una volta periodicità divenendo «Settimanale di agitazione comunista». 127. Come notato, per la formazione del gruppo e per la decisione di separarsi dalla Qi fu decisivo «l’afflusso di forze militanti provenienti dal movimento studentesco e il

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che diedero vita ad Ao. Corvisieri ricorda come l’allineamento alle posizioni cinesi fosse «massiccio», sia da parte di tutta la sinistra rivoluzionaria sia, dalla maggioranza dei trockisti: Ne seguì, in pratica, l’uscita in massa dai «gruppi comunisti rivoluzionari» che, del resto, già si erano «sciolti nel movimento» […]. Il gruppo milanese, cui andava tutta la mia fiducia per il successo avuto nell’organizzare alcuni nuclei di quadri operai e per aver pesato in modo decisivo nel dichiarare superata l’ipotesi trotskista senza peraltro sbandarsi nel mao-spontaneismo imperante, cominciò allora ad orientarsi verso la fondazione di una nuova organizzazione, Avanguardia Operaia, con il compito di stimolare una saldatura tra i vari gruppi leninisti e antistalinisti.128

Sebbene un primo tentativo di collegamento delle formazioni politiche della cosiddetta «area leninista» (i gruppi e le sensibilità più affini), pazientemente esperito nel corso del 1969, non fosse riuscito ad andare in porto a causa delle critiche di alcuni gruppi maoisti (che giudicarono il pool milanese di Ao un nucleo trockista),129 il gruppo di Vinci, Barbieri, Gorla e Corvisieri non si rassegnò. Conscia del suo radicamento operaio e preoccupata di non bruciare le tappe (il processo di costruzione dell’organizzazione venne concepito come un percorso di durata medio-lunga e, a differenza della maggioranza delle altre formazioni della sinistra antisistemica, il periodo vissuto non fu considerato come rivoluzionario) l’Ocao si preoccupò innanzitutto dell’estensione dei Cub, del rafforzamento del movimento degli studenti, della formazione teorica dei propri quadri e dell’instaurazione di rapporti politici con gruppi analoghi al fine della loro assimilazione.130 I frutti di tale azione costituente furono messi in evidenza, seppur con valutazioni di merito e un lessico di segno opposto a quello radicamento realizzato in alcune fabbriche milanesi tramite i CUB» (Giachetti, Oltre il sessantotto, p. 130). 128. Corvisieri, Il mio viaggio nella sinistra, p. 98. 129. Cfr. ivi, p. 108, il quale nota come l’esperimento «fallì clamorosamente in un convegno svoltosi nel dicembre a Milano». 130. Cfr. Per lo sviluppo di un’organizzazione nazionale, in «Avanguardia operaia», giugno 1970. Come nota Molinari, «fin dall’inizio c’è l’obbiettivo strategico di costruire una forza politica autonoma, cercando di delinearne il percorso e il processo reale fuori dagli schemi conosciuti (entrismo nel Pci, autoproclamazione di tipo m-l, movimentismo ideologico, ecc.)», Emilio Molinari, Per una storia di Democrazia proletaria, in Camminare eretti. Comunismo e democrazia proletaria, da Dp a Rifondazione comunista, Punto Rosso, Milano 1996, pp. 241-269, cit. a p. 241.

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del soggetto sorvegliato, dal prefetto milanese Mazza che all’inizio del 1972, in uno dei suoi “rapporti” (anche se non il più noto), descriveva così la rapida ascesa e la relativa pericolosità politico-sociale di Avanguardia operaia: È da considerare il movimento potenzialmente più pericoloso. Non è da escludere che all’occorrenza Avanguardia Operaia, mobilitando i propri nuclei di fabbrica, possa indurre forti aliquote di maestranze delle maggiori aziende a partecipare a moti di piazza e ad occupare stabilimenti, sulla falsariga di quanto si è verificato nel 1968 a Parigi in occasione del “maggio francese”. In ciò troverebbe l’adesione pronta ed attiva di altri gruppi operaisti eversivi come “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e “Sinistra Proletaria” […]. Qualora Avanguardia Operaia, nonostante sia avversata dai sindacati e dal PCI, dovesse svilupparsi ulteriormente, i conflitti nel mondo del lavoro diverrebbero sempre più aspri e violenti.131

I conflitti, sia nel mondo del lavoro che negli altri segmenti della società, crebbero per ampiezza e intensità; anche se – checché ne pensasse Mazza – non per merito o colpa di Ao la quale, in ogni modo, si sviluppò ulteriormente. Sulla base dei già menzionati orientamenti enunciati nel testo Per il rilancio di una politica di classe, a partire dall’inizio del 1969, il gruppo milanese portò infatti a compimento una serie di unificazioni. Nei primi mesi del 1969 avvenne la fusione con il Circolo Lenin di Mestre, il Circolo Rosa Luxemburg di Venezia e una parte del Circolo Raniero Panzieri di VeneziaMestre che, unitisi in un solo gruppo politico avevano precedentemente costituito Avanguardia operaia veneziana. L’unificazione tra Ao milanese e Ao veneziana sancì la nascita, anche a livello formale, dell’Organizzazione comunista Avanguardia operaia.132 Seguirono, nei primi mesi del 1970, le “uni131. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 358, f. G5/45/15, sf. «Cenni costitutivi», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Mi del 5 febbraio 1971. Il rapporto, avente per oggetto «Milano. Attività dei gruppi extra-parlamentari» (da non confondersi con l’omologo e ben più noto rapporto del 22 dicembre 1970: il “rapporto Mazza” per antonomasia), è una relazione sulle formazioni di maggior rilevanza suddivisa in sei punti: a) Movimento studentesco; b) Avanguardia operaia; c) Lotta continua; d) Unione comunisti italiani (m.l.); e) Organizzazione anarchica milanese; f) Sinistra proletaria. 132. Il Circolo Lenin di Mestre si era da poco costituito con una piattaforma neoleninista. Il Circolo Rosa Luxemburg di Venezia, invece, nacque nel 1968 su iniziativa di militanti dei Gcr (tra cui Renato Darsiè) e del movimento studentesco (Stefano Semenzato). Il Circolo Raniero Panzieri di Venezia-Mestre sorse alla fine del 1967 su iniziativa di militanti di Pci e Psiup affini ai «Quaderni rossi»; mentre la sua maggioranza decise di costituire Ao veneziana, la minoranza confluì in Potere operaio. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei

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ficazioni” con la parte maggioritaria del Circolo Karl Marx di Perugia, con il Circolo Lenin di Umbertide e con il Circolo Lenin di Foligno,133 mentre, nel settembre dello stesso anno, Ao assorbì (anche se il termine adoperato fu quello di fusione-unificazione) Sinistra leninista di Roma, dando discreta pubblicità alla vicenda, giudicata in termini positivi per la sua esemplarità.134 Laddove le condizioni per portare a compimento un processo di fusione effettivo e potenzialmente duraturo non furono giudicate sufficienti, l’Ocao strinse accordi di unità d’azione con realtà politiche locali, come con il Collettivo Lenin di Torino (promosso da Vittorio Rieser),135 il Centro di coordinamento campano (animato da Giovanni Mottura, Fabrizia Ramondino ed Enrico Pugliese)136 e il gruppo Sinistra operaia di Sassari e Porto Torres,137 con i quali organizzò importanti iniziative (tra cui i due convegni movimenti, pp. 153-154. Cfr. inoltre Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 29, Circolo Lenin di Mestre (Venezia), Avanguardia operaia. Appunti politici per un documento di lavoro del circolo Lenin, s.d. [1969]. 133. Il Ckm-Pg sorse tra il 1967 e il 1968 su iniziativa di militanti dei Gcr interni al Pci e di alcuni attivisti del Psiup. Se la maggioranza del gruppo confluì in Ao nel gennaio 1970, il resto ritornò nei ranghi della Qi oppure partecipò alle esperienze del Manifesto o di Lotta continua (la cui sezione locale fu fondata insieme ai militanti provenienti dal Potere operaio perugino). Il Circolo Lenin di Foligno, nato nel 1968 e strettamente collegato con il Ckm-Pg, si caratterizzò per l’intervento capillare verso gli operai, i ferrovieri e gli studenti medi. Infine, sorto anch’esso nel corso del 1968, il Circolo Lenin di Umbertide svolse la sua attività verso i braccianti e gli operai della piccola industria; dopo essere entrato in contatto con il Ckm-Pg, se ne distaccò per dissensi con la corrente vicina al Manifesto. Cfr. Stramaccioni, Il Sessantotto e la sinistra, pp. 268-272. 134. Cfr. Avanguardia Operaia e Sinistra Leninista si fondono, volantino a stampa, supplemento al n. 9 di «Avanguardia operaia», s.d. [ottobre 1970]. Il gruppo romano Sinistra leninista fu fondato nel 1970; animato da Vincenzo Sparagna, si caratterizzò come un gruppo maoista attivo, soprattutto, tra gli studenti medi, in particolare al liceo scientifico Guido Castelnuovo. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 283. 135. Il Collettivo Lenin di Torino nacque nel 1969, raccogliendo l’esperienza della Lega studenti-operai. L’unità d’azione con l’Ocao si protrasse fino al 1973, allorquando la maggioranza del gruppo decise di aderire senza riserve all’organizzazione. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 160 e, per le posizioni di chi non aderì ad Ao, Archimovi, Fondo Bruno Piotti, Faldone III, f. 1 «Documenti vari senza data», [documento de] I compagni del Collettivo Lenin di Torino che non sono confluiti in Ao, Torino, aprile 1974. 136. Di orientamento maoista, il Centro di coordinamento campano sorse nel 1971 dal nucleo di Architettura del gruppo Sinistra universitaria di Napoli. Si insediò a Caserta e a Napoli, distinguendosi per il lavoro politico tra gli operai dell’Alfa Sud. Nel 1973 aderì all’Ocao (cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 148). 137. Sorta nel 1970, Sinistra operaia di Sassari (e di Porto Torres) intrattenne rapporti con l’Ocao e con i gruppi della cosiddetta “terza tendenza”. Inizialmente orientata alla

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nazionali dei Cub del gennaio e del giugno 1972 che videro la partecipazione, rispettivamente, di 1.200 e 3.000 delegati), traendo a sé, in ogni modo, qualche quadro dirigente se non, successivamente, il soggetto politico nella sua interezza.138 Nel corso del biennio successivo (1971-1972), seguendo il canovaccio dell’accrescimento mediante l’inglobamento di gruppi locali affini (previa verifica dell’accordo sulle questioni di fondo), l’Organizzazione, come ormai la chiamavano i suoi militanti, assimilò gruppi di diverse dimensioni in varie parti d’Italia. Lo schema di massima veniva adattato tuttavia alle situazioni contingenti. Se con il Circolo Lenin della Romagna (Imola, Faenza e Castel Bolognese)139 esso fu applicato seguendo la declinazione “veneziana” (accorpamento dei gruppi locali su una base territoriale più ampia e, quindi, confluenza nell’organizzazione), il Centro Lenin di Caserta venne attratto nell’orbita di Ao attraverso il percorso “perugino” (con una sorta di “separazione del grano dal loglio”).140 Unità proletaria di Verona, invece, fu acquisita nel 1972, con modalità simili allo schema classico dei milanesi, cioè attraverso il rafforzamento dei Cub operanti nelconfluenza in Ao, nel 1973 mutò atteggiamento, aderendo alla Lega dei comunisti (ivi, p. 283). Su Sinistra operaia si vedano anche i documenti in AsSs, Fondo Questura-Gab., Serie categoria A4, b. 8, f. 18. 138. Cfr. Si è svolto a Milano il primo convegno nazionale dei CUB, in «Avanguardia operaia», febbraio 1972 e Convegno Nazionale CUB sui contratti, ivi, giugno 1972. Il convegno del 29 e 30 gennaio 1972 organizzato a Milano dalle quattro realtà politiche fu intitolato Lo sviluppo degli organismi di base per il rilancio della lotta di classe. Ai lavori presero parte circa 900 persone e numerose delegazioni, «dalla Sicilia al Friuli»: il Circolo Lenin di Bagheria, la Lega dei comunisti toscani, il Circolo Lenin di Trento, «nonché elementi di vari comitati di base di alcune fabbriche come la Pirelli, la Fiat, la Sir, la Borletti, l’ATM, l’Olivetti» (Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 29, f. 369/P «Partiti. Affari vari», sf. «Partiti. Congressi e convegni nazionali», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 31 gennaio 1972). Sul convegno del 3-4 giugno 1972 cfr. l’opuscolo Convegno degli organismi di base. Relazione introduttiva, [Industrie grafiche A. Nicola], Milano-Varese 1972. 139. Il gruppo che aderì all’Ocao aveva in precedenza portato a compimento un processo di convergenza: il Circolo Lenin della Romagna sorse, infatti, dalla fusione del Circolo Lenin di Imola «con quelli analoghi di Faenza e Castelbolognese [sic]» (Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 29, f. 371/P, sf. «Bologna e provincia», riservata del prefetto di Bologna al Gab. del Mi del 20 novembre 1971). 140. In questo caso la tardiva assimilazione del gruppo avviene a causa del logoramento e della conseguente scissione dello stesso: «parte degli aderenti del “Centro Lenin” sono confluiti nella nuova [sic] organizzazione di “Avanguardia Operaia” ed alcuni nel Partito di unità proletaria» (ivi, sf. «Caserta», riservata del prefetto di Caserta al Gab. del Mi del 23 dicembre 1974).

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le maggiori fabbriche della città scaligera e la simultanea selezione delle avanguardie interne.141 In altre realtà, infine, la sezione locale di Avanguardia operaia sorse, in questi casi solitamente in ritardo (ossia tra il 1973 e il 1975), attraverso l’acquisizione di membri fuoriusciti da altre organizzazioni politiche, Lotta continua in primis, formazione con la quale si verificò il maggior interscambio di militanti (sia in entrata che in uscita).142 Tale modus operandi dette i suoi frutti. Nella prima metà degli anni Settanta l’Ocao, al di là delle cifre fornite, poteva contare su alcune migliaia di attivisti (realisticamente tra i settemila e i dodicimila) ed era presente in varie province d’Italia (soprattutto centro-settentrionali), tra cui, in base alle segnalazioni delle autorità Ps, quelle di Asti, Bologna, Brescia, Caserta, Como, Firenze, Genova, Mantova, Milano, Padova, Palermo, Perugia, Ravenna, Roma, Siena, Sondrio, Torino, Varese e Verona.143 Sarebbe divenuta certamente l’organizzazione egemone della sinistra rivoluzionaria italiana se non avesse trovato sulla propria strada gli ostacoli rappresentati dal togliattismo di sinistra (il Manifesto) e dal mao-stalinismo da un lato (Servire il popolo e, in particolare, il Movimento studentesco di Mario Capanna) e dal soggettivismo dall’altro (Lotta continua e Potere operaio).

141. Unità proletaria di Verona nacque tra la fine del 1969 e l’inizio del 1970 su iniziativa di attivisti del movimento studentesco provenienti dall’esperienza trentina (Corrado Brigo) e lavoratori della Mondadori (organizzati da Vittorio Borelli). Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 296. 142. È il caso di Mantova, dove la sezione di Ao si strutturò a partire dai primi mesi del 1975: «Detto movimento ha origine da una frangia dissidente di “Lotta Continua” […]. Il dissenso sarebbe sorto per motivi elettorali: mentre infatti gli aderenti di “Lotta Continua” sono stati invitati a votare, nelle prossime elezioni, per il PCI, “Avanguardia Operaia” affiancherà il PdUP-Manifesto» (Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 29, f. 371/P, sf. «Mantova», raccomandata del prefetto di Mantova al Gab. del Mi del 17 maggio 1975). 143. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 29, f. 371/P e ivi, Dps, Op, Associazioni, b. 358, f. G5/45/15. Per quanto riguarda le cifre degli aderenti, cfr. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 615, che riporta le cifre fornite nel 1972 dalla stessa Ocao: 18.000 attivisti la maggioranza dei quali concentrati in settentrione. Secondo Giachetti, nel momento di massima espansione gli attivisti di Ao furono «dai 15 ai 18 mila» (Giachetti, Oltre il sessantotto, p. 87).

5. Il rimescolamento post-movimentista

1. Gli “eretici” del Manifesto Al pari delle altre aree politiche della sinistra rivoluzionaria nate a cavallo della temperie contestativa del 1967-1969, anche le origini del gruppo del Manifesto (il cui nome era, in molte realtà territoriali, Centro di iniziativa comunista del Manifesto) risalivano alla prima metà degli anni Sessanta. Come osservato, nel biennio 1969-1970 il gruppo rappresentò, tuttavia, «un’anomalia»: nonostante avesse «ricevuto dalle lotte operaie e studentesche una spinta propulsiva, esso affondava le sue radici non in quel movimento, ma in quella sinistra comunista che da alcuni anni non condivideva più la linea del partito».1 Se, come esposto più compiutamente nell’introduzione di questo lavoro, la genealogia di quasi tutte le formazioni della sinistra rivoluzionaria postsessantottina è da ricercarsi nelle esperienze precedenti al 1968 (quindi, da questo lato, il Manifesto non rappresentò «un’anomalia»), è qui il caso di sottolineare come l’area considerata fosse riconducibile a una «sinistra comunista» differente – per tradizione politica e provenienza socialorganizzativa – sia da quella trockista sia da quella stalino-maoista. Qui sta, a mio avviso, l’anomalia. Se l’iniziale collante politico-culturale fu ciò che è possibile definire come il togliattismo di sinistra di Pietro Ingrao, l’origine social-organizzativa del nucleo promotore fu decisamente elitarioleaderistica. Ossia, a differenza – ad esempio – dei quadri intermedi che 1. Giachetti, Oltre il sessantotto, p. 126. Cfr. inoltre Rina Gagliardi, L’anomalia “manifesto”. L’estremismo rigorosamente politico di un gruppo di frontiera, in 1968. Ottobre, supplemento a «il manifesto», 26 ottobre 1988, pp. 22-23.

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costituirono il Pcdi(ml), il nucleo promotore del Manifesto era costituito da figure di primissimo piano dal punto di vista teorico, politico e organizzativo: dirigenti di partito, “cavalli di razza”, giovani promesse e noti esponenti dell’intellighenzia rossa della capitale, tutti formatisi tra le Botteghe Oscure e le Frattocchie. Questo, al di là di occasionali episodi di estremismo (comunque «rigorosamente politico»),2 collocò il gruppo del Manifesto in una posizione mediana tra la composita area della sinistra rivoluzionaria da un lato e il Pci e il sindacato (con le loro strutture collaterali) dall’altro. Se per la storia delle origini del gruppo promotore interno al Pci, attestato su posizioni che solo stentatamente possono essere valutate come «rivoluzionarie», si rinvia alla letteratura esistente,3 è tuttavia il caso di accennare alle tappe principali che condussero alla costituzione dell’organizzazione politica del Manifesto (che, in quanto tale, si concretizzò a partire dall’estate del 1970). Come già evidenziato in relazione agli attivisti della Quarta internazionale dentro il Pci, dopo la sconfitta ingraiana al XI congresso (gennaio 1966), nel partito cominciarono le epurazioni dei dissidenti dai posti chiave dell’apparato. Infatti, dopo l’assise nazionale del partito, la riconfigurazione dell’assetto organizzativo può essere letta come «un fulgido esempio di una vera e propria estromissione […] di tutti i sospetti di ingraismo».4 Se Massimo Caprara, Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda vennero riconfermati in qualità di membri del Comitato centrale, il ruolo di altri (e quindi della componente ingraiana nel suo complesso) venne notevolmente ridimensionato: Aniello Coppola, Eliseo Milani e Ninetta Zandegiacomi uscirono dal Cc; Luciano Barca (già membro dell’ufficio di segreteria dopo il IX congresso) fu esautorato da ogni incarico organizzativo; ad Alfredo Reichlin, pur riconfermato in Direzione (ma già estromesso nel ’62 dal vertice de «l’Unità»), fu tolto l’incarico di segretario regionale del partito in Puglia (regione di importanza strategica per il Pci); Luciana Castellina e Lucio 2. Gagliardi, L’anomalia “manifesto”, p. 22. 3. Cfr. Aldo Garzia, Da Natta a Natta. Storia del Manifesto e del Pdup, Dedalo, Bari 1985, Sergio Dalmasso, Il caso “Manifesto” e il PCI degli anni ’60, Cric, Torino 1989; Lenzi, Il manifesto e, su Rossanda e le premesse che poi condussero alla nascita del gruppo, Alessandro Barile, Rossana Rossanda e il PCI. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica (1956-1966), Carocci, Roma 2023. Per una sintesi cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, pp. 219-221. Documenti relativi alla fase aurorale sono anche in Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 24, f. 359/P «Movimento politico “il manifesto”». 4. Lenzi, Il manifesto, p. 164. Sulla componente ingraiana nel Pci cfr. lo studio di Antonietta Gilda Paolino, Ingrao e gli ingraiani nel PCI da Budapest a Praga (1956-1968), Edizioni dell’Orso, Alessandria 2012.

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Magri furono rimossi dalle rispettive funzioni (nella Fgci e nella Commissione di massa).5 L’emarginazione dei dissidenti (talora, a dire il vero, sollecitata dagli stessi interessati),6 come notato da Crainz, fu «solo la punta di un iceberg»: il congresso del gennaio 1966 riaffermò «la priorità delle gerarchie interne rispetto alla riflessione e al rapporto con la società».7 E proprio la questione del rapporto dialettico tra Pci e società italiana, nell’ottica di una transizione al socialismo, fu il perno dell’opposizione ingraiana pre e post XI congresso. Durante la riunione del Cc del 26 ottobre 1965, una sorta di pre-congresso in cui si fronteggiarono (a causa del carattere riservato della discussione) posizioni divergenti e per nulla smussate, l’esponente eponimo della combattiva quanto nebulosa corrente interna al Pci faceva notare la presenza e l’importanza di una «ricchissima riserva di forze intellettuali […] fuori dei partiti politici»: gruppi del cattolicesimo di base, «forze nuove che, nelle università, negli istituti di ricerca, in diversi campi cominciano ad avvertire il carattere irrazionale dell’attuale sistema».8 L’Italia, secondo gli ingraiani, non era più un paese arretrato dal punto di vista capitalistico e, conseguentemente, le linee di conflitto si sarebbero spostate sempre più in contesti caratterizzati da modernità quali, in primo luogo, le grandi fabbriche. Se contaminazione doveva esserci, sarebbe dovuta avvenire dunque con queste «forze vive» e con la sinistra socialista (Psiup e lombardiani), non certo con il ceto politico di Psi e Psdi, come sostenevano Giorgio Amendola e la “destra” del partito.9 5. Anche i “riconfermati” vennero tuttavia sanzionati dal punto di vista politicoorganizzativo: Pintor, allontanato da «l’Unità», venne destinato in Sardegna; Rossanda decadde da responsabile della Commissione culturale e Natoli fu rimosso dalla sezione d’organizzazione (cfr. Lenzi, Il manifesto, pp. 164-165). 6. Cfr., ad esempio, quanto affermato da Ingrao e Reichlin durante la riunione di Direzione successiva al Comitato centrale che licenziò le tesi congressuali. Se Ingrao si disse disponibile a mettere in discussione la sua «presenza negli organismi dirigenti» (Fig, Apc, Partito, 1965, Direzione, mf. 29/1003-1004, intervento di Pietro Ingrao alla riunione della Direzione del Pci del 30 ottobre 1965), Reichlin disse di essere nella condizione di non poter più «continuare a fare il Segretario regionale in Puglia» (ivi, mf. 29/1004-05, intervento di Alfredo Reichlin alla riunione della Direzione del Pci del 30 ottobre 1965). 7. Crainz, Il paese mancato, p. 168. 8. Intervento di Pietro Ingrao alla riunione del Comitato centrale del Pci del 26 ottobre 1965, cit. in ivi, p. 164. Cfr. anche Il dibattito al CC sul rapporto di Longo e sulle Tesi per l’XI congresso del PCI, in «l’Unità», 29 ottobre 1965. 9. Se la maggioranza del gruppo dirigente del Pci osservò sospettosamente la scissione socialista che diede vita al Psiup (con la preoccupazione che indebolisse la sinistra

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Come ebbe modo di esporre lo stesso Ingrao dal palco del congresso, anziché giocare di sponda con il centrosinistra, sarebbe stato necessario preparare le condizioni per un nuovo meccanismo di accumulazione delle ricchezze, un modello alternativo di sviluppo economico e sociale (cioè la conquista legalitaria del potere e la realizzazione del socialismo attraverso riforme più o meno graduali).10 Infine, all’assunzione di tali linee d’intervento avrebbe dovuto accompagnarsi un diverso modo di concepire la dialettica all’interno del partito, dando voce e pubblicità alle varie posizioni politiche, prefigurazione di un socialismo anch’esso “diverso”. La conclusione dell’intervento di Ingrao all’XI congresso, in bilico tra rivendicazioni libertarie ed esecrazioni del frazionismo, fu infatti riservata alla questione della democrazia interna.11 Il fronte anti-ingraiano (ossia tutte le altre sensibilità del Pci, da Amendola a Cossutta, passando per Longo e Berlinguer) reagì in modo compatto, nel tentativo di emarginare ciò che sembrava delinearsi come una nuova frazione interna, al pari di quelle emme-elle e trockista (ma ben più insidiosa di queste). Fin dall’emergere del dissenso – presente anche in alcune federazioni, come quella bergamasca – l’apparato dirigente denunciò, ad esempio, la «violazione della disciplina di partito» e della «tradizione politica unitaria».12 Le ripetute accuse di frazionismo e la ridesocialista nel suo complesso), la componente ingraiana ne salutò la nascita con toni lusinghieri, intravedendo prospettive di realizzazione dell’unità delle sinistre (cfr. Garzia, Da Natta a Natta, p. 17). 10. Cfr. Pietro Ingrao, Intervento all’XI congresso del PCI, in «l’Unità», 28 gennaio 1966 e, più compiutamente, [Intervento di] Pietro Ingrao, in Partito comunista italiano, XI Congresso del partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 254-266. Cfr. anche Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 192. 11. [Intervento di] Pietro Ingrao, in Pci, XI Congresso del partito comunista italiano, p. 265. La platea, contrariamente alla presidenza, accolse il discorso positivamente. Cfr. a riguardo Luciano Barca, Cronache dall’interno del vertice del PCI, vol. I, Con Togliatti e Longo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. 374 e Pietro Ingrao, Volevo la luna, Einaudi, Torino 2007 [1a ed. 2006], p. 313, secondo il quale la sua componente («era vero che eravamo ormai una “frazione”») contribuì alla stesura dell’intervento (cfr. ivi, p. 313). 12. Fig, Apc, Partito, 1965, Direzione, mf. 29/781, intervento di Nilde Iotti alla riunione della Direzione del Pci dell’8 giugno 1965. Oltre a quello di Iotti, si vedano gli interventi di Amendola e Alicata (ivi, mf. 29/784 e 787). Nella successiva riunione di Direzione (tenutasi il 16 giugno), la richiesta di Ingrao sulla legittimità della pubblicizzazione del dibattito in fase precongressuale («se la penso in un certo modo […] ci dev’essere la possibilità di dirlo»; ivi, mf. 29/808) venne stigmatizzata assai duramente da Giancarlo Pajetta, Lama, Alicata, Colom-

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finizione degli assetti organizzativi a cavallo dell’assise di partito, ebbero come effetto quello di porre un cuneo tra Ingrao e il resto della “sinistra”.13 Se il primo, pur mantenendo i suoi convincimenti, non fu insensibile ai richiami all’ordine, gli esponenti che poi diedero vita alla rivista e al gruppo del Manifesto non deposero le armi; anche perché i segnali di una ripresa della conflittualità sociale e di «un’offensiva rivoluzionaria» generale e a livello planetario, già presenti nel 1965-66, nel 1967-68 si manifestarono in tutta la loro evidenza. La Rivoluzione culturale cinese (a proposito della quale i dissidenti della “sinistra” non presero tuttavia posizione fino al 1968),14 la mobilitazione studentesca, l’attivismo operaio, il fiorire di esperienze politiche a sinistra del Pci (tra cui le molte riviste)15 e – last but not least – l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, spinsero la componente critica interna a compiere il passo verso un’azione autonoma. Fu, ad ogni buon conto, un processo lento e contraddittorio nel quale entrarono in gioco molteplici fattori: non fu facile, infatti, per un gruppo classificabile come criticamente togliattiano (o, se si preferisce, togliattiano di sinistra) entrare in rotta di collisione con il Partito. Anche perché il Pci non era più quello degli anni Cinquanta (e non era nemmeno il Partito comunista francese): sulle questioni summenzionate, ad esempio, assunse posizioni che solo un decennio prima sarebbero stabi (cfr. ivi, mf. 29/800 ss.). Dello stesso tenore le critiche di Pecchioli, Macaluso, Novella, Sereni e Berlinguer nella riunione di Direzione, tenutasi il successivo 27 settembre. 13. Già durante i lavori dell’XI congresso, Ingrao tese a scindere la propria responsabilità da quella degli altri dissidenti, ai quali consigliò atteggiamenti più cauti e accomodanti. Cfr. a proposito le memorie di Rossanda: «A quelli fra noi che eravamo andati timidamente a dirgli: “Diamo battaglia” […] intimò di non darne nessuna. Intendeva esporsi e non voleva che altri si esponesse […]. Insomma gli “ingraiani” arrivarono all’appuntamento in ordine sparso, senza alcun collegamento, senza un vero scambio di idee, sottovalutando la preparazione di quella che poi avremmo chiamato “la frazione di maggioranza”» (Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2007 [1a ed. 2005], pp. 324-325). 14. Cfr. Lenzi, Il manifesto, p. 166, il quale definisce l’autocensura della sinistra ingraiana sull’importante evento un «assordante silenzio». Diversa invece la narrazione di Rina Gagliardi: «fu, certo, un gruppo profondamente maoista. Credo di poter dire, anzi, che fu l’unica forza politico-intellettuale della sinistra italiana, nuova e vecchia, ad assumere il maoismo come connotato discriminante della propria fisionomia» (Rina Gagliardi, La Cina vista dal “manifesto”, in 1968. Aprile, supplemento a «il manifesto», 27 aprile 1988, p. 21). 15. Cfr. Garzia, Da Natta a Natta, p. 18, il quale nota come sulle posizioni della «sinistra» abbiano influito «le elaborazioni che alcune riviste […] sono venute avanzando», in particolare «Quaderni rossi», «Giovane critica», «La Sinistra» e «Quaderni piacentini».

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te inimmaginabili. Se sulla Rivoluzione culturale cinese l’atteggiamento del Pci fu di chiusura (anche se non furono lanciate scomuniche verso Mao e il Pcc),16 nei confronti della mobilitazione operaia e della contestazione studentesca del 1967-1969 la linea di condotta non fu quella adottata nei confronti dei «gruppi estremisti».17 Non è questa la sede per affrontare la questione del rapporto tra Pci e Sessantotto (ai cui studi specifici si rinvia),18 tuttavia è importante porre in evidenza, per meglio comprendere le “difficoltà” della sinistra interna a recidere i legami con il Pci, come il partito di Longo (e di Berlinguer, che divenne vicesegretario nel febbraio 1969 in occasione del XII congresso) abbia teso a mantenere un canale di discussione aperto con la contestazione studentesca,19 tanto che in occasione delle elezioni politiche del maggio 1968 non poche componenti del “movimento” diedero indicazione di voto per il Pci.20 16. Si veda, a riguardo, L’azione unitaria dei comunisti. Relazione di Longo al Comitato centrale e alla Ccc, in «l’Unità», 12 ottobre 1966, ed Enrico Berlinguer, Noi e la Cina, in «Rinascita», 13 gennaio 1967. 17. Sulla questione dei rapporti tra Pci e sinistra rivoluzionaria in generale (ed estremismo e violenza politica in particolare) cfr. Ermanno Taviani, PCI, estremismo di sinistra e terrorismo, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, vol. IV, Sistema politico e istituzioni, a cura di Gabriele De Rosa e Giancarlo Monina, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 235-275. 18. Cfr. gli studi di Alexander Höbel, Il Pci di Longo e il ’68 studentesco, in «Studi storici», 2 (2004), pp. 419-459 e Giulia Strippoli, Il partito e il movimento. Comunisti europei alla prova del Sessantotto, Prefazione di Aldo Agosti, Carocci, Roma 2013. Cfr. inoltre Cristiana Pipitone, Le vite degli altri. I movimenti nelle carte del Pci, in «Zapruder», 16 (2008), pp. 140-143. 19. Per quanto riguarda gli scritti coevi sul rapporto tra Pci e movimenti contestativi cfr. Giuseppe Chiarante, La rivolta degli studenti, Editori Riuniti, Roma 1968 e Romano Luperini, Il PCI e il movimento studentesco, Jaca Book, Milano 1969. 20. Sull’indicazione di voto per il Pci cfr. Oreste Scalzone, Studenti partiti ed elezioni politiche, Feltrinelli, Milano 1968. A distanza di anni, Scalzone ricorda come Longo interloquisse con i dirigenti del movimento studentesco «in modo bonario, senza formalismi» (Id., Biennio rosso. ’68-’69. Figure e passaggi di una stagione rivoluzionaria, a cura di Ugo Maria Tassinari, SugarCo, Milano 1988, p. 63). Sull’incontro tra il segretario comunista e i vertici studenteschi, cfr. il verbale della riunione in Fig, Apc, Archivio Longo, mf. 441/5099-5131, Incontro di Longo con i compagni Jacoviello, Bandiera, Olivetti, Moretti, De Sanctis, D’Agostini, Scalzone (19 aprile [1968]). Dopo le elezioni, che premiarono il Pci, la polemica sul rapporto Pci-movimento riprese. Cfr. Giorgio Amendola, Necessità della lotta sui due fronti, in «Rinascita», 7 giugno 1968 e le risposte “filomovimentiste” di Achille Occhetto, Insurrezione e via democratica, ivi, 21 giugno 1968 e Lucio Lombardo Radice, Se lasciamo spazi vuoti… Necessità di costruire il «partito nuovo» degli anni Settanta, ivi.

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Infine, sulla questione cecoslovacca la posizione del principale partito della sinistra italiana si discostò – e non di poco – da quella assunta nel 1956 in occasione dell’invasione dell’Ungheria.21 Nonostante ciò, l’opposizione interna non considerò sufficienti tali aperture. Sull’epilogo della “primavera praghese” Luigi Pintor si espresse, in occasione del Comitato centrale convocato ad hoc, in modo netto: l’intervento delle truppe del patto di Varsavia (per la precisione, con l’eccezione della Romania) non doveva essere considerato semplicemente «un errore sia pure gravissimo» (come lasciavano intendere il tempestivo comunicato dell’Ufficio politico del Partito comunista italiano e la relazione di Longo al Comitato centrale);22 esso doveva essere considerato come il sintomo dello stato di profondo malessere del cosiddetto “socialismo reale”, il quale stava esprimendo orientamenti che andavano in direzione opposta rispetto «alla realtà della lotta di classe internazionale nel nostro tempo». Problemi che, proseguì Pintor, avevano «radici profonde» e implicavano «nuove riflessioni» anche a proposito della Rivoluzione culturale cinese.23 Come osservato, sui futuri prota21. In lingua italiana cfr. tra altri testi: Giovanna Marini, La repressione della primavera cecoslovacca: dal «grave dissenso» alla «riprovazione», in Luigi Longo. La politica e l’azione, Premessa di Giuseppe Vacca, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 119-127; Silvio Pons, L’Urss e il Pci nel sistema internazionale della guerra fredda, in Il Pci nell’Italia repubblicana, 1943-1991, a cura di Roberto Gualtieri, Prefazione di Giuseppe Vacca, Carocci, Roma 2001, pp. 3-34; Alexander Höbel, Il Pci, il ’68 cecoslovacco e il rapporto con il Pcus, in «Studi storici», 4 (2001), pp. 1145-1172; Id., Il contrasto tra Pci e Pcus sull’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Nuove acquisizioni, ivi, 2 (2007), pp. 523-550; Id., Il PCI e l’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, in Era sbocciata la libertà? A quaranta anni dalla Primavera di Praga (1968-2008), a cura di Francesco Guida, Carocci, Roma 2008, pp. 197-214; Viktor Zaslavsky, La Primavera di Praga: resistenza e resa dei comunisti italiani, «Ventunesimo Secolo», 16 (2008), pp. 123-194; La primavera di Praga. Quarant’anni dopo, a cura di Santi Fedele e Pasquale Fornaro, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009; Francesco Caccamo, Il PCI, la sinistra italiana e la Primavera di Praga, in Primavera di Praga, risveglio europeo, a cura di Francesco Caccamo, Helan Pavel, Massimo Tria, Firenze, Firenze University Press, 2011 pp. 145-170; Praga 1968. La «Primavera» e la sinistra italiana, a cura di Francesco Anghelone e Luigi Scoppola Iacopini, Bordeaux, Roma 2014 e Alfredo Laudiero, La primavera di Praga e le sue stagioni. Storia e storie, Viella, Roma 2018. 22. Cfr. Ore drammatiche a Praga. L’Ufficio Politico del PCI esprime il suo grave dissenso. Il comunicato dell’Ufficio politico, in «l’Unità», 22 agosto 1968. Per la relazione del segretario cfr. Longo: siamo stati e saremo solidali con il nuovo corso cecoslovacco. La relazione di Longo al CC e alla CCC, ivi, 28 agosto 1968. 23. Cfr. Il dibattito al Comitato Centrale e alla CCC del PCI, in «l’Unità», 30 agosto 1968.

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gonisti dell’esperienza del Manifesto l’intervento delle truppe del patto di Varsavia in Cecoslovacchia pose termine alle «illusioni di un sistema riformabile da sé», chiudendo «un ciclo di acquiescenza nei confronti del cugino sovietico».24 Ma non fu l’antisovietismo (categoria differente dall’antistalinismo, soprattutto dopo il XX congresso del Pcus) il fulcro della rottura tra Pci e opposizione interna di “sinistra”. Se è concesso individuare un trampolino di lancio che rese possibile gli sviluppi successivi della dissidenza ex-ingraiana, questo è rappresentato indubbiamente dalla contestazione studentesca. Il maggio francese, secondo il principale artefice del gruppo del Manifesto (che sull’evento scrisse un libro),25 aveva dimostrato come la rivoluzione fosse una possibilità concreta anche in occidente. In vista del XII congresso del partito il dissensò uscì dunque allo scoperto. Nel commentare le tesi, Rossanda, Pintor e Natoli espressero riserve su alcuni passaggi giudicando il documento – alla luce delle analisi sulla situazione politica internazionale e italiana – come vago e insufficiente. Ai lavori del Comitato centrale dell’ottobre 1968, Rossanda, intervenendo sulla relazione di Alessandro Natta, individuò nelle tesi la presenza di due orientamenti divergenti, uno che mirava alla transizione al socialismo e l’altro che presupponeva un programma riformistico, centrando l’attenzione sui rapporti parlamentari tra maggioranza e opposizione. Era dunque necessario, secondo la dirigente del Pci, sciogliere tale ambiguità imboccando la via della rottura con le compatibilità del sistema, poiché né le «strozzature» cui esso era giunto né il grado di maturazione delle forze che si liberavano «a sinistra» consentivano la percorribilità del «duplice binario». Infine, sulla questione del rapporto tra democrazia e socialismo occorreva «chiedere non solo più libertà ma più democrazia proletaria».26 Se Pintor e Natoli concordarono nel merito e nel metodo con la “controrelazione” di Rossanda, non così Ingrao: egli decise infatti di non esplicitare 24. Lenzi, Il manifesto, p. 203. I sovietici fecero sapere a Cossutta, incontratosi con Boris N. Ponomarev (responsabile degli affari internazionali del Cc del Pcus), come gli interventi al Cc di fine agosto avessero «suscitato sorpresa, delusione e indignazione, a partire da quelli di Natoli, Pintor, Rossanda» (Höbel, Il Pci, il ’68 cecoslovacco e il rapporto con il Pcus, p. 1165). Sulla questione delle eventuali pressioni sovietiche nella vicenda della radiazione dei dissidenti, cfr. Valentine Lomellini, Alla sinistra del PCI: il caso de «il manifesto» a Botteghe Oscure, in «Annali della Fondazione Ugo La Malfa», XXII (2007), pp. 115-139. 25. Lucio Magri, Considerazioni sui fatti di maggio, De Donato, Bari 1968. 26. Il dibattito sulle tesi del XII Congresso, in «l’Unità», 18 ottobre 1968.

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più di tanto le proprie differenze, giudicando anzi positivamente il metodo che aveva condotto alla stesura delle tesi.27 Al XII congresso del Pci (Bologna, 8-15 febbraio 1969) gli ingraiani senza Ingrao cercarono di organizzarsi al fine di non ripetere l’errore commesso tre anni prima. In questa occasione il ruolo di battitore venne affidato a Luigi Pintor che dal palco enunciò i principi guida della componente interna posizionata tra riforme e rivoluzione. Riprendendo le sollecitazioni di Magri sul neocapitalismo e sull’inadeguatezza della formula delle «riforme di struttura»28 e constatando come la contestazione giovanile dell’anno appena trascorso (già allora definito «il memorabile 1968»)29 avesse aperto una crisi di notevoli proporzioni, Pintor riteneva matura, anziché l’opzione riformista, «quella dell’alternativa politica al sistema, dell’assunzione del potere politico e sociale da parte di uno schieramento di forze» che si proponesse «gradualmente, ma con piena consapevolezza […] il superamento e la fine del capitalismo».30 La strada indicata da Pintor era quella della saldatura tra lotta operaia e studentesca, al fine di costituire, in «una più lunga prospettiva», un «tessuto di democrazia operaia di base, di tipo consiliare», la cui mancanza era all’origine dei problemi delle società esteuropee.31 Se le conseguenze del dopo-congresso non furono “disastrose” come quelle dell’assise precedente (Rossanda, Pintor e Natoli vennero riconfer27. Cfr. Lenzi, Il manifesto, pp. 209-210. Al termine dei lavori, Rossanda, Pintor e Natoli votarono contro l’impianto delle tesi (non così Caprara e Milani). Tuttavia, il partito «preferisce ricercare l’unanimità. Il documento viene messo ai voti come bozza per la discussione ed è approvato all’unanimità. Viene dunque rimesso in mano ai Congressi provinciali» (ivi, p. 210). 28. Il riferimento è al convegno del marzo del 1962 organizzato dell’Istituto Gramsci: cfr. Tendenze del capitalismo italiano, 2 voll., Editori Riuniti, Roma 1962. Il convegno fu teatro di differenziazioni e contrapposizioni che avrebbero segavuto effetti anche negli anni successivi (cfr. Maitan, La strada percorsa, p. 253). Come osservato, l’impianto ideologico di Magri fu criticato sia da Maitan che da Amendola (cfr. Ventrone, “Vogliamo tutto”, pp. 118-119). Sulla questione delle «riforme di struttura» cfr. Donald Sassoon, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il Pci dal 1944 al 1964, Einaudi, Torino 1980, pp. 241-288, Paul Ginsborg, Le riforme di struttura nel dibattito degli anni cinquanta e sessanta, in «Studi storici», 2-3 (1992), pp. 653-668. 29. [Intervento di] Luigi Pintor, in Partito comunista italiano, XII Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 169-175 (citazione a p. 169). 30. Ivi, p. 170. 31. Cfr. ivi, pp. 171-172.

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mati nel Cc, ma non Caprara), la situazione generale, la relativa libertà di manovra e la conclamata rottura con Ingrao, spinsero il gruppo dei dissidenti a coordinarsi a livello nazionale e, su proposta di Magri, a pubblicare nel giugno del 1969 il primo numero di una rivista che decisero di chiamare «il manifesto» e che fu diretta dallo stesso Magri e da Rossana Rossanda.32 Di fronte al successo del primo numero (55.000 copie vendute in successive ristampe) il Pci, che già aveva preso le distanze dall’iniziativa stigmatizzandola nel merito e soprattutto nel metodo,33 passò al contrattacco con interventi pubblici (un articolo di Paolo Bufalini su «Rinascita») e con misure tese, inizialmente, al “recupero” della dissidenza (colloqui personali dissuasivi e/o in grado di provocare fratture nel campo dei dissenzienti).34 Tuttavia, il fronte dei dissidenti non si indebolì; anzi, le aspre lotte dell’estate 1969 (tra cui la “battaglia di corso Traiano” a Torino) e una pubblicità del dibattito che oggettivamente giocò a favore della dissidenza (che – oltre che più a sinistra – appariva più libertaria, più antistalinista, più democratica, più movimentista, più operaista e più giovane del Pci), non poterono che consolidare il successo politico ed editoriale della pubblicazione.35 Con l’uscita del quarto numero della rivista (settembre 1969), la misura fu colma. Se l’editoriale Praga è sola denunciava l’irriformabilità dei regimi dei paesi esteuropei, il resto del numero poteva essere letto 32. Come ricorda Rossanda: «Così nacque l’idea, cara tutti gli intellettuali, di fare una rivista, un mensile esplicitamente di tendenza, qualcosa che non era contemplato dalle regole e che al Pci non sarebbe stato facile interdire […]. L’idea era soprattutto di Lucio Magri, che fu quello che tirò di più, vi mise corpo e anima». (Rossanda, La ragazza del secolo scorso, pp. 372-373). L’idea di pubblicare un mensile, in ogni caso, nacque nell’estate del 1968 (cfr. Sul “caso” del manifesto, in «il manifesto», dicembre 1969). 33. Cfr. gli interventi critici in occasione della riunione della Direzione del Pci del 7 e 8 maggio 1969 in Fig, Apc, Partito, 1969, Direzione, mf. 006/1658-1665. Per Amendola ad esempio la comparsa della rivista equivaleva all’«organizzazione della frazione con un collegamento nazionale» (ivi, mf. 006/1661). 34. Cfr. Lenzi, Il manifesto, p. 233-239; Paolo Bufalini, Su una nuova rivista, in «l’Unità», 4 luglio 1969 (anche in «Rinascita» uscita lo stesso giorno). Napolitano e Natta incontrarono Caprara, Natoli, Pintor e Rossanda, mentre Di Giulio e Cossutta ebbero colloqui con Valentino Parlato, Michele Rago e Ninetta Zandegiacomi (cfr. il verbale della riunione dell’Ufficio di segreteria del 3 luglio 1969, in Fig, Apc, Partito, 1969, Ufficio Segreteria, mf. 006/2575). 35. Per quanto riguarda il dibattito dell’estate 1969 cfr. Una risposta di Rossana Rossanda, in «Rinascita», 25 luglio 1969, La risposta di Paolo Bufalini, in «Rinascita», 4 luglio 1969 e Alessandro Natta, La concezione del partito e i problemi posti dalla rivista «Il Manifesto», in «Rinascita», 22 agosto 1969.

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come un attacco alle concezioni politico-organizzative del Pci.36 E tale fu la lettura che ne diedero i vertici in un’apposita riunione: un «attacco portato alla politica del Partito». Attacco, precisò Natta introducendo l’animata riunione della V commissione del Comitato centrale, che non poteva «essere lasciato senza risposta» e che avrebbe posto chi avesse continuato a condurlo in una posizione di incompatibilità con il partito.37 Particolarmente duri furono gli interventi di Ilio Barontini, nel mezzo del quale Natoli minacciò di abbandonare i lavori, e di Cossutta, che giudicò «gravissimo» l’orientamento de «il manifesto» contro le dirigenze dei partiti comunisti del blocco sovietico: «una posizione socialdemocratica di destra, di tipo saragattiano», tesa «all’appello all’eversione nei paesi socialisti».38 Mentre, stando ai verbali, Pio La Torre affermò che un’eventuale legittimazione dell’iniziativa avrebbe fornito «ad altri partiti il diritto di sollecitare analoghe eversioni all’interno del nostro Partito».39 Gli interventi di Rossanda e Pintor – che espressero le ragioni ideali dell’iniziativa e respinsero l’accusa di frazionismo, sostenendo come la loro fosse, in realtà, una concezione nuova dell’unità del partito – non furono recepiti dal consesso, se non marginalmente. Claudio Petruccioli, ad esempio, pur non sottovalutando la gravità del gesto dal punto di vista organizzativo, sottolineò come tutto lasciava supporre che, da quel momento in avanti, si sarebbe andati verso «un periodo non breve in cui il dissenso [doveva] essere previsto» e come, di conseguenza, la censura di una lettera-articolo di Pintor a «Rinascita» fosse un errore.40 36. Cfr. Praga è sola, in «il manifesto», settembre 1969, nel quale si sosteneva come fosse ormai necessario aiutare la nascita di una alternativa di sinistra rivoluzionaria «all’interno del campo socialista». Si veda anche Luigi Pintor, Il Partito “di tipo nuovo”, ivi e Lucio Magri, L’organizzazione comunista, ivi. 37. Cfr. Sintesi della discussione della riunione della V Commissione del Cc del 2 ottobre 1969, relazione di Alessandro Natta, Fig, Apc, Partito, 1969, Cc, mf. 305/533. Natta svolse la funzione di “accusatore” in quanto elemento di spicco del «gruppo dei centristi»: la «destra», infatti, si aspettava che la risoluzione del problema de «il manifesto» dovesse gravare su coloro che si erano mostrati più disponibili e tolleranti nei confronti della dissidenza (cfr. Paolo Turi, L’ultimo segretario. Vita e carriera di Alessandro Natta, Cedam, Padova 1996, pp. 329-330). 38. Cfr. Fig, Apc, Partito, 1969, Cc, mf. 305/535-536 (per l’intervento di Barontini) e mf. 305/537 (per quanto riguarda le citazioni dell’intervento di Cossutta). 39. Ivi, mf. 305/539. 40. Per gli interventi di Rossanda e Pintor, cfr. ivi, mf. 305/535, 540-541 e 545-46; per l’intervento di Petruccioli cfr. ivi, mf. 305/549. La lettera di Pintor cui fece riferimento

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Ma la maggioranza della V commissione del Cc non fu dello stesso avviso, così come la successiva riunione del Comitato centrale che, pur non prendendo ancora provvedimenti disciplinari (per espressa volontà di Berlinguer), mise i dissidenti di fronte a un aut aut: o la rivista o la permanenza nel partito. Fu inoltre deciso di rendere pubblico il dibattito (mediante la pubblicazione di un volume) e, fatto senza precedenti, di allargare la discussione alle istanze di base.41 Di fronte alla tenacia della dissidenza e all’uscita di un nuovo numero della rivista, la Direzione del partito e, poi, il suo Comitato centrale (d’intesa con la Commissione centrale di controllo) giunsero, a fine novembre dopo una serie di riunioni, alla decisione di radiare dal Pci (provvedimento meno grave dell’espulsione) Natoli, Pintor e Rossanda. La decisione venne presa a larghissima maggioranza: Ingrao, che in precedenza aveva tentato di minimizzare le responsabilità dei suoi ex compagni di schieramento, si allineò alle posizioni maggioritarie.42 Gli unici voti contrari al provvedimento di esclusione furono, oltre a quelli dei tre interessati, quelli di Lucio Lombardo Radice, Cesare Luporini e Fabio Mussi, mentre si astennero Nicola Badaloni, Giuseppe Chiarante e Sergio Garavini. Nello stesso frangente, il 26 novembre, la Ccc radiò dal partito anche Magri, mentre analoghi provvedimenti disciplinari furono presi – in tempi e ambiti differenti – nei confronti di Massimo Caprara, Luciana Castellina, Eliseo Milani, Valentino Parlato e Ninetta Zandegiacomi.43 I dissidenti, che a differenza delle altre formazioni della sinistra rivoluzionaria avevano una pur ridotta rappresentanza parlamentare di cinPetruccioli (una risposta polemica all’articolo di Giorgio Amendola, Partito di governo, in «l’Unità», 21 agosto 1969), fu inviata alla rivista teorica del Pci il 23 agosto. Respinta su indicazione dell’Ufficio di segreteria del partito (cfr. il verbale della riunione dell’Ufficio di segreteria del 2 settembre 1969, in Fig, Apc, Partito, 1969, Ufficio Segreteria, mf. 006/2589) venne poi pubblicata nel mensile dei dissidenti (cfr. Lettera a «Rinascita», in «il manifesto», settembre 1969). 41. Cfr. La questione del «Manifesto»: democrazia e unità nel Pci, Editori Riuniti, Roma 1969; la relazione di Natta è alle pp. 11-40, mentre per l’intervento di Enrico Berlinguer cfr. pp. 347-367. 42. Cfr. Pietro Ingrao, Volevo la luna, Einaudi, Torino 2007 [1a ed. 2006], p. 316, il quale ha espresso il proprio rammarico per non aver saputo difendere i compagni di area. L’essersi associato all’atto punitivo del partito nei confronti dei suoi «compagni stretti di lotta» viene giudicata, senza indulgenza verso se stesso, una «viltà». 43. Cfr. Garzia, Da Natta a Natta, p. 39. Per un sunto della discussione conclusiva sul caso manifesto cfr. Il dibattito al CC e alla CCC sulla relazione di Natta, in «l’Unità», 27 novembre 1969. Sull’espulsione di Magri cfr. La riunione della CCC. La radiazione di Magri, ivi.

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que deputati (a Natoli e Pintor si aggregarono Massimo Caprara, Liberato Bronzuto ed Eliseo Milani), tuttavia non pensarono di costituirsi immediatamente in un’organizzazione politica. L’editoriale del settimo numero della rivista, a riguardo, era sufficientemente chiaro: Le forze che oggi possono concorrere alla formazione di un nuovo partito rivoluzionario non sono già schierate in campo. […] Una soluzione frettolosa metterebbe capo, anche nell’ipotesi migliore, ad una organizzazione politica di tipo tradizionale […]. Mentre ciò che oggi occorre non è un nuovo partito, ma un partito diverso, una formazione politica originale, stimolo e sintesi di un movimento unitario e articolato. […] La classe operaia non può né intende fare a meno a cuor leggero, per fortuna, di una grande organizzazione che la rappresenti, non può correre il rischio di una disgregazione e pagare il prezzo di un lungo periodo di divisione e di lotta intestina.44

Dire addio al Pci era evidentemente difficile. Venne dunque lanciata la proposta di costituire «punti di incontro, centri di iniziativa per l’azione e la ricerca politica comune» in grado di raccordare ambiti di attivismo di base (ma non solo) di natura politica, sociale e finanche culturale. Nella fase iniziale, dunque, i circoli riconducibili all’area del Manifesto non si strutturarono né si autorappresentarono come un gruppo politico, anche se tutto lasciava intendere che lo sarebbero diventati in un lasso di tempo non troppo lungo. Come individuato da Castellina, «il manifesto» fu una «rivista, un movimento politico organizzato, un quotidiano»: fu dunque «molte cose assieme e non sarebbe certo possibile scrivere la storia di ognuna di queste esperienze disgiunta da quella delle altre».45 Tale struttura multitasking (e, ovviamente, la sua collocazione politica intermedia) fece sì che quest’area politica diventasse un punto di riferimento per quei militanti (giovani e meno giovani) che, tra il 1969 e il 1970, non avevano ancora definito la propria collocazione nell’ambito della geografia dei gruppi della sinistra rivoluzionaria, in primo luogo – come osservato da Giachetti – «per quelli che ancora si sentivano in una posizione di frontiera» tra la sinistra “tradizionale” e la “nuova” e «volevano dibattere e discutere prima di compiere scelte definitive».46 Ma la “base” classista e rivoluzionaria del 44. Ancora un lavoro collettivo, in «il manifesto», dicembre 1979. 45. Luciana Castellina, «il manifesto», in Il Parlamento italiano. 1861-1992, vol. XX, 1969-1972. Fra Stato sociale e contestazione. Da Rumor ad Andreotti, Nuova Cei, Milano 1992, pp. 126-127 (cit. a p. 126). 46. Giachetti, Oltre il sessantotto, pp. 127-128.

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Pci non rispose all’appello. Come osservato una decina di anni dopo i fatti, nel volgere di qualche mese l’ipotesi che il Pci – in ragione del ricambio generazionale e delle spinte radicali provenienti dalla società – si lasciasse permeare e “conquistare” dalle idee di preteso rinnovamento portate avanti dai dissidenti ex ingraiani dimostrò tutta la sua fallacia: Nell’analisi sul Pci, la funzione dell’apparato burocratico non era stata sufficientemente compresa, né in verità studiata. […] Di qui derivò l’errore di fare assegnamento esagerato sulla dialettica delle “forze classiste” interne, e l’illusione che la rivista influenzasse, per loro mezzo, l’apparato, il gruppo dirigente. […] Non si vide che quel modello di partito era fondato sull’esistenza di un “quadro” che costituisce un corpo relativamente separato e autonomo, rispetto alla base.47

Preso atto di ciò, dopo un periodo di riflessione interna, nel settembre 1970 la rivista corresse, se non invertì, la propria direzione di marcia, pubblicando le tesi (in 200 punti) Per il comunismo che, centrando l’attenzione più sul sociale, individuarono come interlocutore privilegiato dell’area in questione non più l’ipotetico quadro “radicalizzato” del Pci, bensì gli attivisti dei movimenti sociali (studenti e operai in primis) e i militanti di gruppi e gruppuscoli sorti sull’onda di quei movimenti.48 Le Tesi – che possono essere viste come l’atto di nascita del Manifesto come organizzazione politica – nella loro premessa affermavano a chiare lettere che occorreva «promuovere l’unificazione politica del vasto arco di forze che l’esperienza degli ultimi anni» aveva condotto alla «critica organica della linea riformista dei partiti tradizionali della sinistra italiana e, a livello mondiale, dell’Unione Sovietica». L’unificazione dei rivoluzionari venne dunque considerata un obiettivo improcrastinabile, a causa delle «difficoltà crescenti che il movimento di massa» incontrava in assenza di una forza in grado di proporre «uno sbocco generale» e «per la brusca accelerazione dell’inserimento pratico e ideale del Pci e del Psiup nel sistema».49 47. Ninetta Zandegiacomi, Introduzione, in Carlo Carotti, Il Manifesto 1969-1971. Saggio bibliografico, Ottaviano, Milano 1978, pp. 5-11 (cit. alle pp. 6-7). 48. Come osservato da Zandegiacomi: «la svolta non corrispondeva alla dinamica delle lotte, era stata essenzialmente provocata dal fallimento [dell’ipotesi] di stimolare e aggregare una lotta politica all’interno del Pci […]. Pochi mesi più tardi, quando usciva il primo numero de “il manifesto” quotidiano, l’incontro di ping-pong Cina-Usa annunciava che anche la situazione internazionale si stava modificando» (ivi, p. 7). 49. Premessa Perché le tesi, in Per il comunismo. Progetto di tesi, in «il manifesto», settembre 1970.

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Come osservato, le tesi Per il comunismo erano una sintesi fra la cultura politica d’origine del gruppo promotore (il togliattismo di sinistra) e il neo-operaismo degli anni Sessanta, con influenze provenienti dalla Rivoluzione culturale cinese e dalla scuola di Francoforte: il risultato fu «una interpretazione originale della tradizione comunista che sfociava in un maoismo antistalinista intellettualmente molto sofisticato».50 La raffinatezza dell’analisi (che tuttavia, in termini pratici, si rivelerà illusoria) aveva tra i suoi cardini il concetto della «maturità del comunismo», ossia dell’imminenza o quasi della rivoluzione politica e sociale in Italia. Più precisamente, nelle tesi Per il comunismo convivevano due visioni del processo rivoluzionario: una, calibrata sul breve-medio periodo, valutava la fase come un processo contraddittorio in cui erano miscelate potenzialità rivoluzionarie e componenti riformiste, l’altra, di breve periodo, giudicava la situazione italiana sull’orlo di una crisi di tipo rivoluzionario. Da qui la necessità di un quotidiano di orientamento politico e di agitazione e la costituzione di un movimento in grado di unificare le forze della sinistra rivoluzionaria. Con l’eccezione, come si vedrà, di Potere operaio, la risposta delle principali organizzazioni della sinistra extraistituzionale alla proposta unitaria del Manifesto fu negativa. Ciò condusse la formazione politica degli ex ingraiani ad accentuare le già presenti tendenze consiliariste e a ricalibrare il progetto di realizzazione di un quotidiano per tutta la sinistra rivoluzionaria (in realtà rivolto quella di matrice operaista o leninista antistalinista) in un più modesto giornale di analisi e di agitazione edito dall’area del Manifesto e, almeno in fase progettuale, da quella di Potop.51 Il tramonto della prospettiva di unificazione con Potere operaio (ipotesi che aveva causato l’allontanamento di Natoli, decisamente contrario alla fusione), spinse il gruppo a strutturarsi in forma partitica. Importante, a riguardo, fu il convegno tenuto a Rimini nel novembre 1971, quando il quotidiano, il cui primo numero era uscito il 28 aprile precedente, aveva già sei mesi di pubblicazioni alle spalle e una diffusione media di 40.000 copie a numero.52 50. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 220. 51. Come osservato, le «tentazioni “operaistiche” di questa fase» del Manifesto furono «curiosamente messe in rilievo e respinte» proprio da Potere operaio che, su posizioni sempre più neoleniniste, riteneva ormai necessario superare il consiliarismo di matrice luxemburghiana in nome di priorità quali il partito e l’insurrezione (cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, p. 119). 52. Sul passaggio da rete fluida a organizzazione strutturata cfr. Piattaforma per la costituzione del Manifesto in un movimento politico organizzato, in «il manifesto», primavera-

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Forte di cinque-seimila militanti, il gruppo del Manifesto aggregava un centinaio di Centri di iniziativa, con punti di forza in alcune grandi città (come Roma, Bologna, Napoli, Milano, Firenze e Palermo), in qualche centro urbano di medie dimensioni (Bergamo, Cagliari, Venezia, Padova, Pisa, Perugia, Siena e Ivrea) ma anche in contesti abitativi di più ridotte dimensioni (Verbania, Novi Ligure, Imola, Cesenatico, Rimini, Carbonia, Recanati, Fasano di Puglia, Colle Val d’Elsa).53 Dal punto di vista organizzativo, il sodalizio aveva una struttura “leggera”, con dinamiche interne abbastanza informali, «senza molti obblighi di disciplina, senza una precisa definizione della loro adesione e senza meccanismi stabiliti di formazione della volontà politica».54 Tra la seconda metà del 1971 e i primi mesi del 1972 la visibilità dovuta alla costante presenza del quotidiano e all’esistenza del drappello parlamentare ebbe tra i suoi risultati quello di attrarre alla formazione politica di Magri e Rossanda energie provenienti dal Psiup (Francesco Indovina) e dal mondo cattolico (Lidia Menapace). Ciò consolidò la “controsterzata” in senso moderato e istituzionale – già operante in seguito alla mancata unificazione con Potop e alle prese di distanza da alcune forme contestatiestate 1971, pp. 3-25. Copia del documento è anche in Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 24, f. 359/P, Bozza da discutere nei centri, allegata alla riservata del prefetto di Ravenna al Gab. del Mi del 13 ottobre 1971. Sulla diffusione del numero di copie del quotidiano (30.000 nella prima annata, 45.000 in prossimità della tornata elettorale del 1972) cfr. Mario Caciagli, L’insuccesso delle liste minori di sinistra, in Un sistema politico alla prova. Studi sulle elezioni politiche italiane del 1972, a cura di Mario Caciagli e Alberto Spreafico, il Mulino, Bologna 1975, pp. 179-250 (cit. a p. 184). Si veda anche Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano, il Mulino, Bologna 2000 [1a ed. 1996], pp. 240-241, secondo cui, invece, le vendite scesero «a una media di 23.000 copie, abbonamenti compresi». 53. Sulla consistenza numerica del gruppo, alle assemblee chiamate a pronunciarsi sulla partecipazione del Manifesto alle elezioni politiche del 1972 sarebbero intervenuti 4.684 attivisti di 103 realtà territoriali (cfr. «il manifesto», 7 marzo 1972). In base alla relazione di Rossanda all’assemblea nazionale del luglio 1972, gli affiliati erano 5.960, dei quali il 48% studenti, il 38% operai e il restante 14% costituito da insegnanti, impiegati e tecnici (cfr. ivi, 3 agosto 1972). Per le zone di maggior radicamento, oltre al materiale contenuto in Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 24, f. 359/P, cfr. anche le cifre delle sottoscrizioni per la nascita del quotidiano in Come è stato finanziato, come si sosterrà e come è fatto questo giornale, in «il manifesto», 28 aprile 1971. Sull’esperienza della militanza operaia a Colle Val d’Elsa, riferibile anche all’area del Manifesto, cfr. l’interessante case study di Francesco Corsi, Pietro Peli e Stefano Santini, L’utopia della base. Un Collettivo operaio nella Toscana tra gli anni ’60 e ’70, Prefazione di Mario Tronti, Punto rosso, Milano 2011. 54. Cfr. Caciagli, L’insuccesso delle liste minori di sinistra, p. 184. Identiche considerazioni sono in Giachetti, I partiti della nuova sinistra, p. 95.

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ve giudicate eccessivamente violente e/o inopportune – che si risolse nella scelta di prendere parte, con proprie liste (seppur “aperte”), alle elezioni anticipate del maggio successivo. Come già osservato all’epoca, la scelta provocò contrasti sia con le altre formazioni della sinistra rivoluzionaria che all’interno del gruppo. Se le organizzazioni concorrenti accusarono il Manifesto di opportunismo, parlamentarismo e di utilizzare il quotidiano (sedicente inclusivo e pluralista) in modo fazioso,55 le profonde divisioni interne sulla questione delle elezioni – presenti sia tra i quadri dirigenti, sia a livello di base – mostrarono «la grave incertezza politica e il mancato approfondimento teorico a proposito del problema delle istituzioni».56 Una scelta foriera di conseguenze e che avrebbe condizionato notevolmente gli assetti organizzativi del gruppo. 2. Nascita di Potere operaio e di Lotta continua Le due principali organizzazioni operaiste presenti a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, Lotta continua e Potere operaio, sorsero in seguito alla spaccatura del “movimento” sulla questione del rapporto tra avanguardia e masse.57 L’inconciliabilità dei differenti punti di vista emerse in tutta la sua evidenza dopo l’aspra vertenza sindacale del maggio-giugno 1969 alla 55. Dopo la gazzarra contro Ernesto Ragionieri messa in atto da elementi di Lc, il quotidiano attaccò i «gruppi avventuristi» senza fornire loro alcuna possibilità di replica. Nel frattempo, Ao accusava il Manifesto «di essere continuamente reticente sulle iniziative degli altri gruppi, o addirittura di appropriarsene», mentre la maggior parte delle organizzazioni concorrenti accusarono il giornale di trasformare «in campagna di opinione» la battaglia di Lc contro il fanfascismo. Infine, in occasione della manifestazione del 12 dicembre 1971, in merito alla decisione di tenere ugualmente un corteo vietato dalle autorità di Ps, il Manifesto si isolò dagli altri gruppi, ritirando poi la propria adesione al Comitato nazionale contro la strage di Stato (cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, p. 120). 56. Caciagli, L’insuccesso delle liste minori di sinistra, p. 183. All’interno dell’organizzazione politica si fronteggiarono tre posizioni: quella astensionista di principio, quella contraria alla partecipazione per ragioni tattiche (causa impreparazione del gruppo) e quella favorevole all’uso strumentale del parlamento. Alla fine prevalse l’ipotesi partecipazionista, sostenuta dai militanti di base e ratificata il 5 marzo 1972 con una netta maggioranza (circa i due terzi dei votanti) da un’assemblea di delegati del gruppo politico (ivi, pp. 183-184). 57. A riguardo, cfr. Eros Francescangeli, Primavera tiepida, estate torrida e autunno caldo. I conflitti sociali del 1969 e la nascita di Potere operaio e Lotta continua, in Contratto o rivoluzione! L’Autunno caldo tra operaismo e storiografia, a cura di Christophe Mileschi, Elisa Santalena e Marie Thirion, Accademia University Press, Torino 2021, pp. 79-96.

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Fiat di Torino e i violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine del 3 luglio.58 Se già nel 1966-67 la classe operaia del principale complesso industriale italiano aveva moltiplicato i «focolai di conflittualità»,59 l’agitazione della primavera del 1969 fu sostenuta dal movimento degli studenti universitari e, soprattutto, da pressoché tutti i gruppi cittadini della sinistra rivoluzionaria, in particolare dalle frange che avevano individuato nella fabbrica il proprio terreno d’intervento privilegiato: il Potere operaio torinese, il Fronte della gioventù lavoratrice (animato da Romolo Gobbi) e, soprattutto, la Lega studenti e operai e i neo-operaisti de «La classe».60 In giugno, le lotte proseguirono con maggior intensità, dopo che l’accordo sottoscritto dai sindacati il 28 maggio fu respinto dalle maestranze, attestate sulle posizioni dei giovani, dell’Assemblea operai-studenti, un organismo unitario che si riuniva all’ospedale delle Molinette.61 Tale struttura si caratterizzò per l’intenso lavoro agitatorio davanti alla Fiat: a ogni turno centinaia di giovani distribuivano agli operai volantini titolati «La lotta continua» o più semplicemente «Lotta continua» (e così venivano definiti un 58. Sulla conflittualità a Torino e, in particolare, in Fiat, cfr. Emilio Pugno e Sergio Garavini, Gli anni duri alla Fiat. La resistenza sindacale e la ripresa, Einaudi, Torino 1974; Marco Revelli, Lavorare in Fiat, Garzanti, Milano 1989; Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo, pp. 184-190; Valerio Castronovo, Fiat. 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano 1999, pp. 1174-1223 e Nicola Tranfaglia e Brunello Mantelli, Apogeo e collasso della «città fabbrica»: Torino dall’autunno caldo alla sconfitta operaia del 1980, in Storia di Torino, pp. 827-859. Più in generale cfr. Giovanni De Luna, Aspetti del movimento del ’68 a Torino, in La cultura e i luoghi del ’68, a cura di Aldo Agosti, Luisa Passerini e Nicola Tranfaglia, FrancoAngeli, Milano 1991, pp. 190-211; Marco Revelli, Il ’68 a Torino. Gli esordi: la comunità studentesca di Palazzo Campana, ivi, pp. 219-220 e Id., Il movimento studentesco torinese, in Il Sessantotto: l’evento e la storia, pp. 257-268. 59. L’espressione di Enrico Auteri, all’epoca giovane funzionario del personale Fiat, è in Giuseppe Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat. 1919-1979, il Mulino, Bologna 1998, p. 146. 60. Cfr. Bobbio, Lotta continua, pp. 25-30 e La Fiat è la nostra Università. Inchiesta fra i giovani lavoratori della Fiat, Feltrinelli, Milano 1969. Sulla Lega studenti e operai, animata da Dario e Liliana Lanzardo, cfr. la documentazione in Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Dario Lanzardo e Liliana Guazzo Lanzardo, Ua 28. Sull’antesignana commissione operaia del movimento degli universitari cfr. Liliana Lanzardo, Cronaca della commissione operaia del Movimento studentesco torinese. Dicembre 1967-maggio 1968, Centro di Documentazione di Pistoia, Pistoia 1997. 61. Cfr. Alberto Pantaloni, 1969. L’assemblea operai studenti. Una storia dell’autunno caldo, DeriveApprodi, Roma 2020.

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po’ da tutti).62 Fu tale struttura di coordinamento a organizzare il corteo del 3 luglio 1969 che culminò negli scontri di corso Traiano63 e a promuovere, per il 26 e 27 luglio, il «convegno nazionale dei comitati e delle avanguardie operaie».64 Un’assise già programmata prima degli scontri davanti a Mirafiori, come documentato dalle informative delle autorità di Ps.65 Il convegno torinese di fine luglio avrebbe dovuto far compiere un decisivo passo avanti verso un coordinamento stabile delle strutture di avanguardia in vista dello scontro con le istituzioni e le strutture dello Stato. In un volantino del 5 luglio, a bilancio delle agitazioni e in prospettiva di una loro estensione e radicalizzazione, si poteva leggere: La giornata del 3 luglio non è un episodio isolato o un’esplosione incontrollata di rivolta. Essa viene dopo cinquanta giorni di lotta alla Fiat, lotta che ha coinvolto un enorme numero di operai, ha bloccato completamente il ciclo produttivo, ha segnato il punto più alto di autonomia politica e organizzativa finora raggiunto dalle lotte operaie distruggendo ogni capacità di controllo sindacale. […] Un cartello issato su una barricata diceva chiaro il significato di questa lotta: “cosa vogliamo: tutto”. […] Sulla base di questa esperienza gli operai torinesi riuniti in assemblea dopo gli scontri del 3 luglio propongo62. Sul ruolo delle avanguardie esterne nelle lotte operaie del 1968-1969 cfr. Angelo Dina, Un’esperienza di movimento politico di massa: le lotte interne alla Fiat (fine 1968-giugno 1969), in «Classe», 2 (1970), pp. 133-150; Vittorio Foa, Note sui gruppi estremisti e le lotte sindacali, in «Problemi del socialismo», 41 (1969), pp. 658-670; Sandro Antoniazzi, Sindacato e contestazione, ivi, pp. 671-682 e Luciano Della Mea, Sul sindacato e i gruppi estremisti, ivi, 42 (1969), pp. 895-907. Sull’immigrazione meridionale a Torino, cfr. Michelangela Di Giacomo, Da Porta Nuova a Corso Traiano. Movimento operaio e immigrazione meridionale a Torino. 1955-1969, Prefazione di Goffredo Fofi, Bononia University Press, Bologna 2013. Sull’origine della dizione «lotta continua» cfr. Aldo Grandi, La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio, Einaudi, Torino 2003, p. 73. Molti dei volantini prodotti dall’Assemblea operai-studenti sono conservati in Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 21. 63. Cfr. l’elenco degli incidenti verificatesi nel luglio 1969 allegato alla nota del Capo della polizia al Gab. del Mi del 19 agosto 1969, in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 39, f. 11001/97. Su ciò cfr. Diego Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di Corso Traiano. Torino 3 luglio 1969, Bfs, Pisa 1997 [nuova ed. La rivolta di Corso Traiano. Torino 3 luglio 1969, 2019]. 64. Cfr. Acspg, Donazione Luigi Bobbio, Ciclostilati non ordinati, Operai e studenti, Lotta continua [Convegno nazionale operaio], volantino ciclostilato, [Torino], 23 luglio 1969. 65. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 5, f. 161P/46/93, sf. 3 «Gruppo politico “Potere operaio”. Attività», riservata (vista dal ministro) del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 27 giugno 1969.

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no a tutti gli operai italiani […] l’unificazione politica di tutte le esperienze autonome di lotta fin qui realizzate. Per questo verrà indetto a Torino un convegno nazionale dei comitati e delle avanguardie operaie.66

Ma il convegno di fine luglio, anziché unificare le avanguardie, contribuì a sancirne la separazione.67 Benché ci fossero reali divergenze sulla questione dell’organizzazione politica di classe, le ragioni della frattura tra «partitisti» e «movimentisti» sono, più probabilmente, da ricercarsi nelle rivalità tra la leadership del gruppo romano-veneto-milanese degli operaisti de «La classe» (Piperno, Scalzone, Negri, Bologna, Daghini e Magnaghi) e quella raccolta attorno all’asse politico-esistenziale costituito da Sofri e dai leader del movimento studentesco torinese (Viale e Bobbio) e trentino (Boato e Rostagno).68 A settembre, in concomitanza con l’inizio dell’«autunno caldo»,69 uscì il primo numero del settimanale «Potere operaio». I nuclei che vi con66. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 21, L’assemblea operaia di Torino, Fiat: la lotta continua, ciclostilato su quattro pagine, Torino, 5 luglio 1969 (tutto maiuscolo, anziché corsivo, nell’originale). Lo slogan fu ripreso da Nanni Balestrini come titolo del suo libro sui conflitti alla Fiat: cfr. Nanni Balestrini, Vogliamo tutto. Romanzo, Feltrinelli, Milano 1971. Un romanzo, secondo Fofi, in cui la «linearità potoppista è talmente evidente e schematica da risultare quasi patetica»; Goffredo Fofi, Vogliamo tutto meno Balestrini, in «Quaderni piacentini», 46 (1972), pp. 187-190 (cit. a p. 190). 67. Per i documenti preparatori cfr. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 21, Proposte per un documento, testo ciclostilato, s.l. [Torino], s.d. [post 3 luglio 1969], p. 14 e ivi, Per il convegno operaio di Torino. 27 luglio ’69, testo ciclostilato, s.l. [ma Torino], 19 luglio 1969, p. 10. Sul convegno torinese del 26 e 27 luglio 1969 cfr. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni settanta, pp. 39-50. 68. Cfr. Paolo Virno, Tutto cominciò nelle fabbriche. Conversazione con Franco Piperno sul ruolo di Potere Operaio, in 1968. Ottobre, supplemento a «il manifesto», 26 ottobre 1988, p. 16. Non dello stesso avviso Viale (cfr. Guido Viale, Il Sessantotto. Tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta, Milano 1978, p. 178) e Sofri (cfr. Grandi, La generazione degli anni perduti, p. 90). Sulla “personalizzazione” del contrasto era invece convinto il questore torinese (ivi, p. 321). 69. Su ciò cfr. Gino Giugni, L’autunno caldo sindacale, in «il Mulino», 207 (1970), pp. 24-43; Attilio Mangano, 1969. L’anno della rivolta. Uno studio sull’immaginario sociale, M&B, Milano 1999; Diego Giachetti e Marco Scavino, La Fiat in mano agli operai. L’autunno caldo del 1969, Bfs, Pisa 1999 e Diego Giachetti, L’autunno caldo, Ediesse, Roma 2013; Quando gli operai volevano tutto, a cura di Marco Grispigni, Manifestolibri, Roma 2019 e Giuseppe Maione, 1969. L’autunno operaio, Manifestolibri, Roma 2019. Sulla conflittualità operaia a Torino durante l’estate-autunno 1969 cfr. Per un movimento politico di massa. Raccolta di documenti della lotta di classe e del lavoro po-

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fluirono furono più o meno gli stessi che presero parte all’esperienza de «La classe»: ossia i romani che, provenienti dal movimento studentesco, si erano cimentati nel lavoro operaio (Franco Piperno, Lanfranco Pace e Oreste Scalzone); i veneto-emiliani del Potere operaio veneto-emiliano (già «Classe operaia») attivi nel “triangolo” Padova, Porto Marghera, Bologna (Toni Negri, Emilio Vesce, Guido Bianchini); alcuni militanti milanesi (Sergio Bologna e Giairo Daghini), torinesi (l’ex attivista comunista Alberto Magnaghi e l’ex “trentino” Mario Dalmaviva) e fiorentini (Lapo Berti, Claudio Greppi, Michelangelo Caponetto e Giovanni Contini Bonacossi). Come scritto nell’articolo di fondo (o editoriale) del primo numero del settimanale, era necessario andare oltre l’organizzazione dell’autonomia, per impostare una direzione operaia sulle lotte sociali.70 Il nuovo gruppo, che tuttavia non si strutturò immediatamente in un’organizzazione di tipo partitico, balzò quasi subito agli onori delle cronache a causa dell’arresto del direttore responsabile del settimanale, l’ex socialista padovano Francesco Tolin. In concomitanza con i già menzionati incidenti milanesi del 19 novembre in cui rimase ucciso l’agente Antonio Annarumma (commemorato da «Potere operaio», a onor del vero, come caduto «proletario»),71 a Tolin vennero contestati numerosi reati, in particolare quello di aver istigato gli litico alla Fiat, a cura dei Gruppi di lavoro del Psiup torinese, Musolini, Torino 1969; Romolo Gobbi, Quattordici mesi di scioperi alla Fiat Mirafiori (maggio 1969-luglio 1970), in «Contropiano», 2 (1970), pp. 311-530 e Diego Marconi, Classe operaia e movimento operaio in un anno di lotte alla Fiat, in «Relazioni sociali», 3 (1970), pp. 202-233. Sulla centralità della Fiat cfr. Gabriele Polo, I tamburi di Mirafiori. Testimonianze operaie attorno all’autunno caldo alla Fiat, Introduzione di Marco Revelli, Cric, Torino 1989. Sulla componente sindacale più vicina ai “contestatori” cfr. l’ampio e documentato studio di Fabrizio Loreto, L’«anima bella» del sindacato. Storia della sinistra sindacale (19601980), Prefazione di Adolfo Pepe, Ediesse, Roma 2005. Cfr. inoltre Id., L’unità sindacale (1968-1972), Ediesse, Roma 2009. 70. Cfr. Da “La Classe” a “Potere Operaio”, in «Potere operaio», 18 settembre 1969. Il giornale uscì con cadenza settimanale dal 18 settembre all’11 dicembre 1969, momento in cui interruppe le pubblicazioni, per poi riprenderle il 14 febbraio 1970, trasformandosi in quindicinale e poi in mensile, e interromperle definitivamente nel giugno 1972 (anche se nel novembre 1973 uscì un numero “isolato” della stessa testata edito, tuttavia, dall’area negriana che si stava strutturando nell’Autonomia operaia organizzata). Dal febbraio 1972 fu affiancato (e poi sostituito) dal settimanale «Potere operaio del lunedì», che fu pubblicato fino al dicembre 1973. Sull’esperienza di Potop cfr. Marco Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria, vol. 1, DeriveApprodi, Roma 2018. 71. «È morto il proletario Annarumma, e noi ci togliamo il cappello di fronte al morto» (I soli assassini sono i padroni, in «Potere operaio», 27 novembre 1969).

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operai italiani alla rivolta contro lo Stato e gli operai della Fiat a danneggiare le vetture dello stabilimento.72 Il conseguente procedimento penale, celebratosi per direttissima a partire dal 26 novembre e conclusosi con la condanna dell’imputato a un anno e cinque mesi di carcere,73 catalizzò l’interesse dell’opinione pubblica e degli ambiti professionali e intellettuali engagée, suscitando prese di posizione, manifestazioni di solidarietà, dissapori interni e finanche lacerazioni, come nel caso della nascita di Magistratura democratica (Md).74 Nel frattempo Potop si distinse per l’atteggiamento fortemente critico verso gli altri raggruppamenti della sinistra rivoluzionaria, caratteristica (valutata dagli altri soggetti come «settarismo») propria già dell’esperienza de «La classe», a cominciare dai marxisti-leninisti, giudicati l’incarnazione del peggior idealismo umanitarista. Se, ad esempio, fin dal primo numero di «Potere operaio» i militanti dell’Uci(ml) vennero ridicolizzati,75 nel terzo numero del settimanale i medesimi furono liquidati come «opportunisti» e «agenti pagliacceschi della pace sociale, arrivati ormai a teorizzare e praticare […] lo squadrismo contro i picchetti operai [e] l’esaltazione dell’etica del lavoro».76 Se la critica al terzomondismo fu, pur con toni più pacati, altrettan72. Cfr. Giachetti e Scavino, La Fiat in mano agli operai, p. 165. Uno degli scritti incriminati fu Sì alla violenza operaia, in «Potere operaio», 29 ottobre 1969. Sulle dinamiche che condussero all’arresto di Tolin cfr. Negrello, A pugno chiuso, pp. 157-159. Cenni biografici su Tolin sono in Acs, Mi, Gab., Fc, 1964-1966, b. 410, f. 17031/53, riservataraccomandata del prefetto di Padova alla Dag della Dgps del 28 ottobre 1966 e ivi, Fc, 1967-1970, b. 5, f. 161P/46/93, sf. 3 «Gruppo politico “Potere operaio”. Attività», riservata del prefetto di Padova al Gab. del Mi del 25 novembre 1968. Sull’arresto di Tolin cfr. ivi, riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 21 novembre 1969. 73. Cfr. ivi, riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 28 novembre 1969. 74. Per le manifestazioni di solidarietà nei confronti di Tolin cfr., ad esempio, ivi e Grandi, La generazione degli anni perduti, p. 108, che riporta la testimonianza di Jaroslav Novak sugli intellettuali da questi avvicinati, tra i quali Jean-Luc Godard, Mimmo Rotella, Enrico Baj e Mario Schifano. Sulla scissione di Md, cfr. Giovanni Palombarini, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia, Esi, Napoli 2000, pp. 76-79 e Livio Pepino, Obiettivo 2: appunti per una storia di Magistratura democratica, in «Questione giustizia», 1 (2002), pp. 112-145. Su Md cfr. anche Marco Ramat, Una piccola storia di una grande storia, in Storia di un magistrato. Materiali per una storia di Magistratura democratica, a cura di Id., Manifestolibri, Roma 1986 e Luigi Ferrajoli, Per una storia delle idee di Magistratura democratica, in Giudici e democrazia, pp. 55-79. 75. Cfr. Da “La Classe” a “Potere Operaio”. 76. Noi e i marxisti-leninisti, in «Potere operaio», 2 ottobre 1969.

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to serrata,77 meno virulenta fu la campagna contro le formazioni più “affini”, verso le quali non furono tuttavia risparmiate caustiche sferzate.78 In occasione del primo convegno nazionale (Roma, gennaio 1970), furono individuate le coordinate del gruppo: il tema del rifiuto del lavoro declinato in termini salariali (riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario e reddito politico generalizzato); implementazione della conflittualità permanente a prescindere dai contratti e dagli accordi (anche se in modo più malleabile rispetto a Lotta continua) e, infine, la costruzione della struttura organizzativa (il partito) in grado di guidare la classe operaia verso l’insurrezione contro lo Stato. Come osservato, Potop non si autorappresentò mai come una formazione «spontaneista», bensì tese a conciliare l’operaismo con una supposta tradizione leninista, centrando l’attenzione sugli aspetti militari di quella che riteneva la prassi bolscevica.79 Potop fu senz’altro l’organizzazione politica della sinistra rivoluzionaria che più di altre prese sul serio i propri proclami insurrezionalisti (tanto da creare una specifica struttura denominata Lavoro illegale). Ciò, tuttavia, venne letto dalle altre organizzazioni politiche (diverso il discorso per quelle militari, cioè Br e Gap) come una inopportuna “fuga in avanti” e contribuì all’isolamento del gruppo. Diviso tra una “destra” movimentista e critica verso la violenza d’avanguardia (ma non verso quella diffusa) e una “sinistra” partitista vicina alle nascenti formazioni della lotta armata, i 77. Cfr., ad esempio, No all’ideologia terzomondista, in «Potere operaio», 29 ottobre 1969. 78. Cfr. La sinistra extraparlamentare in Italia, pp. 92-93. Nel numero 6 del settimanale, ad esempio, si accusa il gruppo del Manifesto di veicolare un «neo-trotskismo cinesizzante» e di essere una «sinistra per bene», amica di Lombardi, Labor e Scalfari (cfr. ivi, p. 93). Invece, non sembra essere Lc il bersaglio dell’articolo de «La classe» citato polemicamente in Viale, Il Sessantotto, p. 178. I riferimenti al gruppo politico che «individua nei più scontenti la “sinistra del popolo”, finendo per organizzare solo poveri diavoli, repressi sessuali, adolescenti alle prese con edipo e giocasta, studenti in conflitto con la famiglia, mentecatti, disgraziati, cineasti in crisi, nobildonne angosciate, maniaci sessuali, borghesi ansiosi di espiazione, soggetti fobici», lasciano pochi dubbi sul reale obiettivo: ossia Servire il popolo. 79. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 263. Piuttosto che una compagine leninista, Potop appare tuttavia più un’organizzazione fochista-guerrigliera, benché metropolitana. Infatti l’intervento di tipo “entrista” nei confronti delle forze armate, auspicato e preteso da Lenin e messo in pratica dalla «spontaneista» Lc con i Proletari in divisa, in Potop fu pressoché assente. Su tali questioni cfr. Eros Francescangeli, Questioni di forza. Studi e riflessioni sull’analisi di militarismo e fascismo e sull’azione antimilitarista e antifascista nel movimento operaio italiano, Morlacchi, Perugia 2005.

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fatti del 16 aprile 1973 – noti come rogo di Primavalle (in cui alcuni giovani militanti di Potop furono responsabili dell’uccisione di due figli del dirigente missino Mario Mattei, Virgilio e Stefano) – e la protervia con cui il gruppo dirigente occultò la responsabilità degli autori materiali del misfatto, accentuarono una crisi interna che, dopo la IV conferenza di organizzazione (tenutasi a Rosolina dal 31 maggio al 3 giugno), condusse “il partito dell’insurrezione” alla dissoluzione. Molti dei suoi militanti andarono a infoltire le fila delle numerose assemblee autonome che, raccordandosi tra loro, diedero vita all’Autonomia operaia. La linea partitista, sostenuta da Piperno contro Negri, si risolse dunque in una clamorosa sconfitta.80 Chi invece si autorappresentò come fautrice della spontaneità proletaria fu Lotta continua. Le linee guida che poi sarebbero state proprie di Lc furono esposte da Sofri già nel settembre 1968 nel suo noto intervento in merito al dibattito interno al Potere operaio pisano. A ben vedere, si trattava di un leninismo attualizzato e stemperato dalle teorie consiliariste: se la «definizione storica dell’avanguardia» di Lenin era «inaccettabile», era altresì da respingere anche il suo contraltare, cioè il rifiuto totale del concetto di direzione politica.81 Nella pratica, tale impianto culturale similluxemburghiano venne sperimentato, come abbiamo visto, nelle lotte alla Fiat della primavera-estate 1969. Accanto alle rivendicazioni “salarialiste” care ai redattori de «La classe», l’assemblea delle Molinette si fece portatrice anche e soprattutto delle istanze della componente sofriana, in sintonia con i postulati dell’estremismo classico della “scuola olandese” (di Herman Gorter e Anton Pannekoek). I materiali prodotti dalle strutture che 80. Sulla dissoluzione di Potop cfr. i documenti in Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 26, f. 362/P e Grandi, La generazione degli anni perduti, pp. 288-309. Sul rogo di Primavalle cfr. il “depistaggio” compiuto dal gruppo (Primavale. Incendio a porte chiuse, La Nuova sinistra-Savelli, Roma 1974) e, per il punto di vista opposto, Roberto Rossetti, Da Primavalle a via Ottaviano. Uccisi due volte, Pagine, Roma 2019, dove il riferimento a via Ottaviano è relativo all’uccisione dell’attivista neofascista greco Miki Mantakas in occasione degli scontri verificatisi in concomitanza con una delle udienze del processo per le uccisioni di Primavalle. Sulla nascita e lo sviluppo dell’autonomia operaia (e di Autonomia operaia) oltre al già citato studio di Corasaniti, Volsci, pp. 11-89, cfr. Autonomia operaia, a cura dei Comitati autonomi operai di Roma, Savelli, Roma 1976 e Autonomia operaia, La storia e i documenti: da Potere operaio all’Autonomia organizzata, Savelli, Roma 1980. Sull’epilogo della vicenda cfr. Roberto Colozza, L’affaire 7 aprile. Un caso giudiziario tra anni di piombo e terrorismo globale, Einaudi, Torino 2023. 81. Adriano Sofri, Sull’organizzazione, in «Monthly Review», ed. italiana, 3-4 (1969), pp. II di copertina, 29-32 e IV di copertina (cit. alle pp. 29-31).

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coordinarono tale lotta confermerebbero tale inclinazione: esaltazione della spontaneità e dell’autorganizzazione, valorizzazione della democrazia assembleare e centralità della lotta di fabbrica come fulcro per la costituzione dell’organizzazione rivoluzionaria e per l’instaurazione del contropotere operaio (da cui la lotta per la lotta, al di là del raggiungimento degli obiettivi prefissati). Un contropotere che doveva essere, a tutti gli effetti e a scanso di equivoci (Lc non fu mai anarchicheggiante), un potere alternativo instaurato da una ben determinata organizzazione basata sulla centralità operaia. Su questo aspetto, la sintonia con i militanti che poi diedero vita a Potop fu totale.82 Nei giorni in cui si consumava la rottura tra consiliaristi e partitisti (ben rappresentati in sede di convegno da Viale e da Piperno)83 fu pubblicato, sotto la responsabilità di Salvatore Sechi, un numero unico intitolato «Lotta continua» e sottotitolato «Lettera degli operai della Fiat ai compagni meridionali». In esso s’invitavano gli operai settentrionali e meridionali all’unità, si criticavano i militanti dell’Uci(ml) e si annunciava la tempesta in arrivo: «in autunno scoppieranno le lotte: è un’occasione per unire tutti gli sfruttati contro il potere dei padroni».84 Il foglio estivo «Lotta continua» fu uno degli ultimi documenti concepiti unitariamente da sofriani e militanti ancora raccolti attorno a «La classe». È dunque corretto non considerarlo come uno dei numeri di prova dell’organo di coloro che daranno poi vita a Lc (il cui primo numero sarebbe 82. Se fino agli inizi di giugno le tematiche salarialiste erano preponderanti, col passare dei giorni la protesta si radicalizzò nelle forme e si politicizzò in senso consiliarista. Cfr. ad esempio Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 21, Lotta continua, volantino ciclostilato, Torino, 30 giugno 1969. 83.  Se Piperno spinse per la valorizzazione, in senso leninista, Viale, «influenzato dalle tesi sofriane sull’organizzazione» ribadì la centralità del modello organizzativo basato sulle «avanguardie interne alle singole lotte» (Il sessantotto. La stagione dei movimenti, pp. 212-213). Cfr. a proposito Guido Viale, La Fiat oltre il maggio francese, in «Monthly Review», ed. italiana, 7 (1969), p. 33, ora, con il titolo Cinquanta giorni di lotte alla Fiat, in Id., S’avanza uno strano soldato, Introduzione di Lisa Foa, Edizioni di Lotta continua, Roma 1973, p. 58. 84. Le lotte dell’autunno, in «Lotta continua», n.u., Torino, agosto 1969. Tale foglio (con direttore responsabile Salvatore Sechi) fu il primo periodico intitolato «Lotta continua». Il font della testata, scritto tutto in minuscolo, richiamava quello di «Lotta comunista». In un volantino del 21 ottobre 1969 (conservato in Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 21), la testata è invece simile a quella del successivo quotidiano. Sul periodico «Lotta continua», cfr. Archivio del centro di documentazione di Lucca. I periodici politici, p. 233 e Mangano, Le culture del Sessantotto, pp. 157-159.

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apparso in novembre) anche se il contributo dei “lottacontinuisti” ci fu. Come ricordato da Pietrostefani, fu sua (e di Emilio Vesce) l’idea di concludere il testo del foglio indirizzato ai «compagni meridionali» con un «Vinceremo».85 Un finale che, secondo la medesima testimonianza, fece arrabbiare Adriano Sofri, il quale non si faceva troppe illusioni sul livello della temperatura autunnale. In un documento ciclostilato finalizzato alla costruzione del tessuto organizzativo del costituendo gruppo politico, dopo aver ribadito la funzione paradigmatica dell’autonomia delle lotte operaie, Sofri, attaccando il «movimento operaio organizzato», puntualizzò la necessità, pur non sottovalutando le imminenti scadenze, di muoversi comunque con cautela, «senza niente concedere a un catastrofismo avventurista» poiché, concluse con una previsione poi rivelatasi erronea, «non ci sarà il big match quest’autunno».86 La realizzazione di un giornale nazionale fruibile dalle masse alle quali il gruppo intendeva rivolgersi era una tappa fondamentale del processo costitutivo dell’organizzazione rivoluzionaria. Secondo Sofri, infatti, era necessario realizzare non un giornale “per quadri” ma uno strumento di massa in grado di assicurare all’intervento diretto nelle lotte «una dimensione più ampia di discorso politico». Il giornale, dunque, sarebbe dovuto essere «la prima espressione tangibile di un collegamento politico permanente tra alcune situazioni di lavoro rivoluzionario» e, al contempo, «lo strumento per un collegamento più ampio».87 Se, sotto il piano formale, il gruppo in via di costituzione si presentava come “naturale” prosecuzione dell’Assemblea operai-studenti di Torino, le tappe che condussero alla costituzione di Lc come organizzazione politica nazionale coinvolsero anche altre realtà territoriali. E ciò ben prima della scissione dell’area leninian-operaista e dell’allontanamento della componente che faceva riferimento a Vittorio Rieser. Il verbale di una riunione del giugno 1969 ci restituisce come l’idea di un “noi” e un “loro” (riferito agli attivisti de «La classe») fosse ben presente. Quantomeno a partire da questa data, un gruppo “nazionale” informale di studenti rivoluzionari che facevano lavoro operaio si riunì periodicamente allo 85. Cfr. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 67. 86. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 24, Documento Sofri [titolo tracciato a mano], ciclostilato, s.l. [ma Torino], s.d. [ma dopo le ferie estive dell’agosto 1969 e prima della nascita del giornale], documento altresì noto con il titolo di Proposte dei comitati di base di Pisa e Torino per un giornale nazionale. 87. Ibidem.

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scopo di coordinarsi e di discutere delle prospettive immediate, tra cui due questioni ritenute cruciali: «la costruzione di un’organizzazione operaia dotata di continuità, e l’allargamento del discorso politico di massa al di là dello scontro interno alla fabbrica».88 Bobbio, respingendo le accuse di «esistenzialismo», espose le idee di fondo della componente consiliarista in procinto di fondare Lc: L’esigenza di organizzazione e di politicizzazione non viene comunque posta come discorso astratto come vorrebbero far credere quelli della Classe (cioè come discorso sull’uomo nuovo e sul socialismo) […]. Da questo punto di vista si impone un confronto sia [con le] posizioni della Classe, che interpreta la lotta della FIAT in modo restrittivo, come lotta fra operai e padrone sul salario e sulle condizioni di lavoro, [sia con le] posizioni dell’Unione, che alla FIAT non è intervenuta, perché ritiene che l’unificazione delle masse avvenga a livello astrattamente ideologico.89

Secondo Bobbio, tra queste due posizioni che sopravvalutavano o sottovalutavano l’importanza delle lotte di fabbrica, bisognava individuarne una in grado di esplicitare i contenuti politici della lotta. La principale indicazione era quella della «generalizzazione della lotta». Una generalizzazione, tuttavia, che non avrebbe potuto avere successo, come invece sostenevano i redattori de «La classe» (indubbiamente il bersaglio preferito dei sofriani), attraverso la simultaneità dello sciopero in tutti i reparti Fiat e la rincorsa degli obiettivi sindacal-salariali, ma con l’estensione del conflitto al proletariato urbano torinese. Al di là della rappresentazione della stampa benpensante e dell’arbitraria e col senno del poi fuorviante divisione tra «guerriglieri» e «moderati»,90 si trattava cioè «di utilizzare tutti i canali esterni alla fabbrica (i paesi, i quartieri, i mezzi di trasporto, la condizione di immigrato, di pendolare, ecc.)» per mettere in discussione la «condizio88. Cfr. ivi, Incontri di coordinamento Torino-Milano. Verbale della discussione di domenica 15 giugno a Torino (note dei compagni di Pavia), s.l. [Pavia], s.d. [post 15 giugno, ante 22 giugno 1969], Relazione iniziale di Luigi Bobbio. 89. Ibidem (corsivo mio). 90. Nel riferire della spaccatura verificatasi in occasione del convegno delle «avanguardie operaie», la classificazione dei cronisti di «Stampa sera» definiva coloro che avrebbero voluto l’estensione del conflitto all’intero proletariato torinese, cioè l’area che poi diede vita a Lc, come «guerriglieri» e coloro che intendevano privilegiare la lotta in fabbrica, cioè coloro che poi fondarono Potere operaio, come «moderati» (cfr. Pier Michele Girola e Maria Valabrega, Il congresso dei contestatori chiuso senza una linea comune, in «Stampa sera», 28 luglio 1969).

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ne sociale globale dell’operaio» e per creare reti di collegamento interne ed esterne alla fabbrica.91 Tale impianto non si tradusse, tuttavia, in assemblearismo o in acefalismo. Seppur interna alle situazioni di lotta, per i sofriani l’avanguardia era comunque qualcosa di distinto dal resto dei soggetti convolti nella situazione conflittuale. E come tale doveva avere i propri ambiti di agibilità. Nella già citata riunione del 15 giugno 1969, lo stesso Sofri ricordò ai propri compagni l’indispensabilità di fare in modo che, pur senza prospettare «il numero chiuso», la presenza alle riunioni di coordinamento potesse «essere numericamente più limitata».92 Se tale richiesta non fu prontamente assecondata (occorrerà aspettare fino al gennaio 1970), la successiva e ben più organica proposta di Sofri della fondazione di un giornale nazionale di collegamento delle lotte coagulò attorno al gruppo torinese alcune realtà: una componente significativa del movimento studentesco trentino (Marco Boato e Mauro Rostagno), il gruppo del Potere proletario di Pavia (Lanfranco Bolis e Guido Crainz) e, ovviamente, i toscani in sintonia con le posizioni di maggioranza del Potere operaio pisano. Se gli sforzi di insediarsi a Milano non sortirono gli effetti auspicati (i tentativi di “aggancio” del movimento studentesco della Cattolica e del Cub della Pirelli fallirono), il gruppo di Sofri, Viale e Bobbio strinse rapporti con alcuni esponenti del movimento studentesco veneziano ruotante attorno a Ca’ Foscari (animato dai fratelli Boato), con elementi di Marghera e con gruppi minori di Genova, Bologna Latina e Bagnoli, dove Cesare Moreno aveva cominciato ad organizzare le lotte degli operai dell’Italsider.93 Nell’autunno del 1969, a ridosso dell’uscita dei primi numeri del settimanale, gli attivisti di Lotta continua (ormai è possibile definirli così, anche se l’organizzazione prese a costituirsi dopo il successo della pubblicazione) organizzarono vere e proprie “carovane”, noleggiando anche dei pullman, verso le principali città centro-settentrionali, allo scopo di promuovere il loro progetto associativo con apposite assemblee itineranti (condotte e partecipate, populisticamente, quasi esclusivamente da operai) che videro la partecipazione di centinaia e centinaia di attivisti. I centri 91. Cfr. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 24, Incontri di coordinamento Torino-Milano, Relazione iniziale di Luigi Bobbio. 92. Ivi, [Intervento di] Sofri. 93. Cfr. Bobbio, Lotta continua, pp. 41-43, il quale legge il progetto sofriano di giornale nazionale come il detonatore dell’esplosione dell’esperienza unitaria dell’Assemblea operai-studenti.

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raggiunti furono: Pisa, Venezia, Firenze, Roma, Trento, Genova, Pavia, Bologna e Firenze.94 Le modalità fondative furono dunque anomale, per certi versi innovative, seppur “l’andata di Maometto alla montagna” era già all’epoca una prassi abbastanza diffusa: sulla base dell’idea sofriana dell’organizzazione come processo (e non tappa o, peggio, nucleo precostituito), i quadri di Lc si collegarono mettendo altresì in relazione reticolare molteplici situazioni di lotta. Per dirla con il loro lessico: «non esiste[va] mai un momento determinato in cui l’organizzazione [fosse] acquisita», essa era il frutto di «una direzione politica sempre più omogenea e unitaria» all’interno del movimento di lotta delle masse.95 Tuttavia, tra la fine del 1969 e l’inizio del 1970 il nucleo trainante della fase aurorale di Lc stabilì che tale omogeneità fosse, se non raggiunta compiutamente, quantomeno alla sua portata. La pratica delle assemblee itineranti fu interrotta e venne individuato un coordinamento nazionale composto da delegati intercambiabili (che, in quanto tali, non furono però in grado di costituirsi come effettiva direzione politica). Nelle varie sedi, o quantomeno nelle principali, si diffuse la struttura organizzativa della matrice torinese: nuclei di fabbrica, quartiere o scuola e, una volta alla settimana, l’assemblea generale operai-studenti, la quale si autorappresentava sia come ambito principale a livello territoriale dell’organizzazione, sia come strumento di collegamento delle avanguardie interne alle lotte (quasi un organismo bidimensionale: un po’ comitato federale di partito, un po’ soviet municipale o provinciale).96 Se le autorappresentazioni di dirigenti e attivisti (o di ex dirigenti ed ex attivisti che ne hanno ricostruito le gesta) in senso “nuovista” sono amplificate, è tuttavia vero che Lotta continua venne percepita come una “novità”, come un modo differente – totalizzante e intransigente da un lato, antiautoritario e poliedrico dall’altro – di vivere l’attivismo; come, in definitiva e per usare l’efficace espressione di Viale, uno «stato d’animo».97 E fu questo uno degli elementi del suo successo in termini di espansione 94. Cfr. Diego Giachetti, La carovana di Lotta Continua e l’“eterno” problema dell’organizzazione, in Storia cultura politica, Quaderno 22 del Centro di iniziativa politica e culturale, 2002, pp. 5-14. 95. Cfr. Troppo o troppo poco?, in «Lotta continua», 22 novembre 1969. 96. Cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 68. 97. Cfr. Viale, Il Sessantotto, p. 214. Secondo la ricostruzione mitologica di Viale, «Lotta continua non [aveva] né ideologia, né teoria, né strutture organizzative, né disciplina di partito, né programma e risoluzioni che ne fiss[assero] i compiti» (ibidem).

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quantitativa in un tempo relativamente breve. Se già il primo numero del giornale venne pubblicato in 65.000 copie e diffuso attraverso la vendita militante (segno evidente dell’esistenza di una base più o meno espansa),98 una buona parte dei quadri del movimento studentesco (secondo alcune ipotesi più della metà)99 entrò nei ranghi di Lotta continua, la quale nel volgere di un biennio (soprattutto dopo la svolta del 1971) divenne la principale organizzazione della sinistra rivoluzionaria italiana (ciò sia a livello sincronico che, relativamente al periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, diacronico). 3. Dal movimento studentesco al Movimento studentesco Tra le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria nate sull’onda delle proteste del movimento degli universitari del 1967-1968 vi fu il Movimento studentesco (Ms) o, per meglio distinguerlo Movimento studentesco della Statale (o, ancora, dal nome del suo principale leader, “gruppo Capanna”). Caso unico nel panorama contestativo del Sessantotto, si trattò della trasformazione in gruppo politico della stragrande maggioranza del movimento studentesco dell’Università Statale di Milano, i cui dirigenti non si divisero – come altrove – per dare vita o aderire a distinte organizzazioni politiche. Pur non essendo questa la sede per narrare le dinamiche di movimento che selezionarono il gruppo dirigente che poi costituì il Movimento studentesco (Mario Capanna, Salvatore “Turi” Toscano, Luca Cafiero, Giuseppe “Popi” Saracino, Giuseppe Liverani e altri) è necessario, tuttavia, accennare al fatto che la realtà del movimento studentesco milanese fu più “politicizzata” rispetto alle consimili, e si caratterizzò, fin quasi dalle prime battute, per il suo orientamento filo-maoista. Ciò anche perché al98. Sullo stile comunicativo di «Lotta continua», cfr. lo studio (relativo anche a «Potere operaio» e «Servire il popolo») di Violi, I giornali dell’estrema sinistra, pp. 69-168, che evidenzia come il periodico facesse ampio ricorso ai cliché tipici della cultura popolare: dall’impiego di fumetti, vignette e immagini fotografiche, dall’utilizzo di registri linguistici colloquiali e/o dialettali, del discorso diretto, di espressioni gergali e finanche triviali e di parole d’ordine semplici ed efficaci. Giudizio sostanzialmente analogo in Murialdi, Storia del giornalismo italiano, p. 241, che nota, riferendosi al quotidiano, come fosse «composto di pezzi brevi, scritti seguendo le mode espressive in auge tra i giovani contestatori, cioè in quel linguaggio definito “sinistrese”». 99. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 213.

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cuni di questi leader avevano già militato in organizzazioni rivoluzionarie filo-maoiste, come dimostra il caso di Popi Saracino, oppure si erano avvicinate al Mao-pensiero da provenienze cattoliche. L’omogeneizzazione politica del gruppo dirigente del movimento studentesco milanese avvenne anche a causa della portata dello scontro tra studenti e istituzioni che, come testimoniano gli episodi di impiego della forza dall’una e dall’altra parte o le numerose azioni eclatanti e dissacranti, nel capoluogo lombardo raggiunse vette ragguardevoli: dai numerosi interventi violenti della Ps per sgomberare le sedi universitarie occupate, alla contestazione alla Scala del dicembre 1968, per giungere alla “battaglia degli statini” contro il professor Pietro Trimarchi che costò a numerosi dirigenti della protesta (tra cui Capanna, Saracino, Toscano, Liverani e Andrea Banfi) l’arresto per sequestro di persona e la successiva condanna penale. Episodi che contribuirono a cementare i legami politico-amicali della base militante attorno ad alcune figure carismatiche.100 In ogni modo, la trasformazione del movimento studentesco della Statale in gruppo politico definito può datarsi a partire dalla fine di ottobre (o primi di novembre) del 1969, ossia allorquando Capanna affisse, alla stregua di un novello Lutero, il dazebao allegorico intitolato Del segugio e delle lepri nell’atrio della sede universitaria cui era iscritto, dopo essere stato estromesso dalla Cattolica nel 1968 insieme a Luciano Pero e Michelangelo Spada (che invece aderirono a Lotta continua). Lo scritto era una polemica contro lo spontaneismo imperante nel resto del “movimento” e contro il dogmatismo ideologico-formalista delle formazioni marxisteleniniste. Secondo Capanna, infatti, il movimento studentesco della Statale avrebbe dovuto dotarsi di un programma politico basato sul pensiero di Marx e di Lenin, in contrapposizione alle correnti strutturate che stavano andando per la maggiore – per l’appunto quella «estremista», Lc e Potop, e quella «dogmatica», i due Pcdi(ml) e l’Uci(ml) – e che per i capanniani rappresentavano due elementi di forte negatività. Tra la fine del 1969 e i primi mesi del 1970 il gruppo si strutturò in formazione politica organizzata, assumendo come proprio riferimento il marxismo-leninismo e, in 100. Sul processo Trimarchi, cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 352, f. 15584/48 «Milano. Università», sf. «Agitazione degli studenti». Sul ruolo di Capanna e della leadership del movimento studentesco milanese cfr., oltre alle memorie dello stesso Mario Capanna (Formidabili quegli anni, Rizzoli, Milano 1988), Marta Boneschi, La grande illusione. I nostri anni Sessanta, Mondadori, Milano 1996, pp. 362-389.

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particolare, il pensiero di Mao Zedong, letto non in chiave libertaria (come avrebbe potuto suggerire la lettura di un sufficientemente noto opuscolo capanniano dell’anno precedente) ma come logica e schietta prosecuzione dello stalinismo.101 In particolare, la declinazione dello stalinismo prediletta dal Movimento studentesco fu, grazie anche a figure quali Giuseppe Alberganti (emarginato dall’apparato dirigente del Pci da oltre un decennio), quella della fase dei fronti popolari (1935-1939). Una declinazione che, a differenza di quella terzoperiodista, tipica di altre correnti stalino-maoiste (ma anche, mutatis mutandi, della gran parte degli operaisti), assumeva la minaccia fascista (e, più in generale, l’involuzione autoritaria dello Stato) come «pericolo principale» e che, conseguentemente, vedeva nelle forze della sinistra operaia tradizionale e finanche di quella «borghese-progressista» un alleato “naturale” e, viceversa, nelle componenti «estremiste» della sinistra rivoluzionaria – in particolare quelle giudicate (a torto o a ragione poco importa) trockiste, consiliariste, anarchiche o riconducibili alla sinistra comunista – un altrettanto “naturale” nemico da battere (come si vedrà, anche letteralmente).102 Dopo la stretta repressiva conseguente agli incidenti di via Larga del 19 novembre 1969 (che videro Capanna al centro di polemiche per la sua partecipazione ai funerali dell’agente ucciso negli scontri) e alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre, il nucleo dirigente del Movimento studentesco riuscì a ricomporre la divisione interna causata dalla contrapposizio101. Cfr. Niccolai, Quando la Cina era vicina, pp. 181-182. Sul dazebao capanniano cfr. Lotta di classe nella scuola e movimento studentesco, «i quaderni di Avanguardia operaia», 2, Sapere, Milano 1971, p. 150. Per le posizioni antiautoritarie di Capanna nel 1968 si veda Mario Capanna, Movimento studentesco: crescita politica e azione rivoluzionaria, Sapere, Milano 1968. 102. Qualche anno più tardi, Capanna sostenne che il Ms «si dichiarò “stalinista” in antagonismo al trotzkismo di Ao» e che: «L’infarinatura di stalinismo, costò cara perché consentì a molti di dipingere il Ms come un’accolita di trinariciuti politici, cosa davvero lontana dalla realtà» (Capanna, Formidabili quegli anni, p. 110). Sull’attendibilità delle valutazioni ivi contenute, cfr. il condivisibile giudizio di De Bernardi: «Appartiene […] a un ben consolidato genere letterario la ricostruzione del Sessantotto milanese fatta da Mario Capanna: l’autobiografia del militante rivoluzionario da consegnare alla Storia. Come molte di queste rievocazioni, anche quella di Capanna non sfugge al romanzesco e le necessità dell’intreccio narrativo, combinate agli intenti autoincensatori, producono un’organizzazione delle rilevanze fattuali del tutto distorta e così distante dal reale corso degli eventi da rendere inutilizzabile storiograficamente (anche come fonte) il saggio capanniano»; Alberto De Bernardi, Le componenti sociali e politiche del Sessantotto a Milano, in Il Sessantotto: l’evento e la storia, pp. 269-288 (cit. alle pp. 270-271).

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ne tra Capanna e Toscano. Da oltre un mese, infatti, i due leader portavano avanti, stando alle informative della Ps, due concezioni differenti di organizzazione politica: In quest’ultimo periodo, ai vertici del Movimento studentesco […] si sta verificando una frattura di carattere politico e operativo. Tale situazione si ricollega alla diversa impostazione politica che i due leaders [sic] Toscano Salvatore e Capanna Mario intendono dare alla lotta del Movimento studentesco. Difatti, il Toscano, che segue la linea del PSIUP, vorrebbe accentuare gli interventi del Movimento studentesco fuori delle Università, mobilitando gli studenti sui temi dell’antimperialismo e sui problemi sindacali. […] Il Capanna, che da qualche tempo si ispira alla politica del PCI, si propone, invece, di far rientrare il Movimento studentesco all’interno degli atenei […]. Pertanto, il Capanna ha stilato un documento, che sarà divulgato nei prossimi giorni, nel quale, rifacendo la storia delle lotte del Movimento studentesco, ripropone questi obiettivi di azione.103

Nel documento capanniano, presentato in assemblea il 9 dicembre 1969, venivano tracciate le linee dell’azione e dei compiti futuri del Movimento studentesco, inteso, fece sapere il prefetto milanese, come «espressione di massa della presa di coscienza politico-rivoluzionaria [dei] ceti medi».104 Pur non rinunciando a compiere il proprio intervento politico, per Capanna il Movimento studentesco, in quanto movimento settoriale (cioè di studenti universitari), non avrebbe dovuto «enfatizzare i [propri] compiti presumendo di dare indicazioni strategiche complessive» all’intero arco dei soggetti rivoluzionari.105 Raggiunto l’accordo interno tra Capanna e Toscano, il documento, limato dai concetti più “studentisti”, venne approvato assemblearmente il successivo 18 dicembre con il titolo La situazione attuale e i compiti politici del Movimento Studentesco (che può essere considerato come il documento fondativo del gruppo). Contestualmente, la nuova formazione politica si avvicinò ancor più al Pci e, soprattutto, al sindacato, collocandosi così in 103. Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 352, f. 15584/48, sf. «Agitazione degli studenti», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi dell’8 novembre 1969. 104. Ivi, sf. «Movimento studentesco milanese», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 10 dicembre 1969, con la quale si trasmette copia fotostatica del documento, senza titolo, avente per incipit «Il capitalismo, giunto alla sua fase tardo-imperialista». 105. Ibidem.

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una posizione intermedia tra la sinistra rivoluzionaria e quella istituzionale (entrambe comunque criticate per motivi differenti).106 L’esigenza era quella, come scritto qualche anno più tardi, di «un rapporto critico e dialettico col sindacato, che non ne avall[asse] le scelte strategiche riformiste, ma che non divent[asse] scissionismo o contrapposizione frontale».107 Una tale impronta politica, tra Togliatti, Secchia e Mao, unita a un sindacalismo studentesco al limite del corporativismo (in grado comunque di mantenere il rapporto diretto con la classe operaia) e alla prassi dell’antifascismo militante (sulla base di parole d’ordine giudicate «arretrate», poiché «democratiche», dalla gran parte degli altri nuclei d’avanguardia), consentì all’eclettica formazione politica a base territoriale – milanese se non d’ateneo – di irrobustire le posizioni acquisite. Il consolidamento organizzativo del gruppo ricevette ulteriore credito dall’organizzazione del corteo (conclusosi con duri scontri tra polizia e attivisti di sinistra) del 21 gennaio 1970 e, in particolare, dalla manifestazione unitaria del 31 gennaio 1970, le quali, prime uscite pubbliche della sinistra rivoluzionaria (ma anche istituzionale) dopo l’ondata repressiva del dicembre 1969, videro la partecipazione, rispettivamente, di circa 5.000 e 30-40.000 persone.108 L’avvicinamento alla sinistra istituzionale, seppur caratterizzato da esitazioni e tortuosità (come in occasione del 25 aprile 1970),109 e la progressiva ostilità delle altre formazioni della sinistra rivoluzionaria, con 106. Cfr. Movimento studentesco. Storia e documenti, a cura di Luisa Cortese, Introduzione di Giulio Alfredo Maccacaro, Bompiani, Milano 1973, pp. 151-153 e 181. 107. Ivi, p. 152. 108. Cfr. Diecimila in corteo contro la repressione. Violente cariche della polizia, in «l’Unità», 22 gennaio 1970 e, per la manifestazione del 31 gennaio, Cinquantamila in corteo per le strade di Milano e Operai e studenti di Milano uniti: «La repressione non passerà!», ivi, 1° febbraio 1970. Sulla manifestazione del 21 gennaio 1970 e sugli scontri che la caratterizzarono cfr. la documentazione in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 30, f. 11001/48/1.1 e ivi, b. 352, f. 15584/48, sf. «Movimento studentesco milanese», ssf. «Manifestazione del 21/1/70». 109. Cfr. ad esempio ivi, sf. «Movimento studentesco milanese», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 30 aprile 1970. La nota prefettizia di Mazza riferisce quanto segue: «ponendosi in contrasto con il PCI, il Movimento Studentesco non ha partecipato alla manifestazione unitaria per il 25° anniversario della resistenza ma ne ha organizzat[a] una propria “contro il fascismo, l’imperialismo, lo Stato borghese ed il revisionismo”. […] l’“Unità”, a sua volta, […] ha assunto un atteggiamento critico verso la manifestazione indetta dal MS […]. Nella circostanza ha diffidato i “compagni comunisti” dal parteciparvi […]. Con tutto ciò molti elementi comunisti hanno preso parte alla manifestazione [del Ms] mettendosi al fianco degli aderenti ai vari movimenti marxisti-leninisti, presenti con tutti i loro quadri. Il corteo, composto da circa 5.000 unità,

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l’eccezione di Servire il popolo, contribuirono al distacco di una componente dissidente (definita, in senso dispregiativo, la «frazione»). A partire dal settembre-ottobre 1970 e fino alla fine dell’anno, infatti, il Movimento studentesco fu dilaniato da un dissenso interno che, nonostante fosse alimentato da temi apparentemente marginali, ne paralizzò l’attività. Si costituirono due schieramenti contrapposti: uno di maggioranza, costituito dalla leadership “storica” quasi al completo e su una linea di continuità con il progetto originario, e l’altro di minoranza, capeggiato da Popi Saracino (un “campione” di scissioni e onnipresente nelle carte di polizia) e patrocinatore di una sterzata programmatica verso tematiche e sensibilità affini a quelle delle altre formazioni della sinistra rivoluzionaria.110 Se la maggioranza tese a presentare il Movimento studentesco come movimento studentesco (cioè a celare l’effettiva, seppur non formalizzata, strutturazione in formazione autonoma politicamente omogenea), la minoranza era intenzionata a formalizzare lo stato di fatto e procedere più o meno speditamente verso la costituzione di una formale organizzazione rivoluzionaria. Dopo l’approvazione assembleare, il 20 dicembre 1970, del documento La situazione attuale e i compiti politici del Movimento Studentesco II (la «fantasia al potere» non era evidentemente nelle corde del Ms), la «frazione», che sul documento in votazione decise di astenersi, uscì dal raggruppamento politico (il “gruppo Saracino”, costituitosi in Collettivo politico studentesco Antonio Gramsci, confluirà poi, al termine di un percorso unificante, nell’esperienza del Gruppo Gramsci).111 Nonostante la scissione dei saraciniani e un incidente di percorso durante un’assemblea cittadina (che a causa della sopravvalutazione della portata dell’evento peserà sulle relazioni tra Ms e Avanguardia operaia),112 [si è concluso] in questo piazzale Loreto con un comizio del noto Mario Capanna e dei dissidenti del Pci Giuseppe Alberganti e Paolo Pescetti». 110. Cfr. Movimento studentesco, pp. 154-156 e 182-183. 111. Cfr. ivi, p. 183 ed Emanuele Criscione, Prefazione, in Salvatore Toscano, A partire dal 1968. Politica e movimento di massa, a cura e con prefazione di Emanuele Criscione, Mazzotta, Milano 1978, pp. 19-20, il quale presenta così le dinamiche e le conseguenze della separazione tra Saracino e il resto del gruppo dirigente: «La scissione di quella parte del movimento che proveniva da esperienze dogmatiche contribuì comunque al definitivo consolidamento del MS della Statale, a differenza che in altre città dove lo spontaneismo da un lato e l’emmellismo dall’altro ne avevano sancito la prematura scomparsa» (ibidem). 112. Il 18 gennaio 1971, in un’assemblea cittadina, il Movimento studentesco venne «messo in minoranza» da Ao e «scissionisti» saraciniani coalizzati; cfr. Movimento studentesco, pp. 157 e 183.

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all’inizio del 1971 il gruppo di Toscano, Capanna e Cafiero, come documentarono le autorità di Pubblica sicurezza, era «la formazione più consistente» della sinistra rivoluzionaria nel Milanese, «potendo contare su oltre tremila elementi attivi e su diecimila fra aderenti e simpatizzanti (inclusi molti studenti di scuola media)».113 Al prefetto milanese, al di là della sopravvalutazione della portata «eversiva» della formazione, peraltro denunciata dopo averne contraddittoriamente constatato l’indisponibilità ad agire «al di fuori o contro le varie organizzazioni dei lavoratori (sindacati e partiti politici)», non sfuggì la peculiare carica aggressiva: Il Movimento Studentesco continua a rappresentare un fenomeno eversivo con notevole carica di violenza; avversa decisamente gli organi dello Stato in quanto di ostacolo al perseguimento delle proprie finalità […]. Alle manifestazioni “pacifiche ed armate” partecipano schiere di giovani col viso coperto da larghi fazzoletti, occhialoni antilacrimogeni, caschi, bastoni, spranghe di ferro, zainetti con sassi, mattoni e spesso anche “bottiglie Molotov”.114

Effettivamente, benché attestato su posizioni anti-estremiste (a riprova che massimalismo politico e violenza agita non andarono sempre di pari passo), il Movimento studentesco di Capanna e Toscano si contraddistinse per le sue indiscusse capacità militari. Il servizio d’ordine del Ms (i cui componenti vennero soprannominati “Katanga” o “katanghesi”) divenne famoso – ben oltre il Milanese – per le sue capacità difensive (e offensive) poste in essere sia contro la destra neofascista e i suoi alleati (per contrastare la «fascistizzazione» della società italiana, l’antifascismo «militante» fu uno dei cavalli di battaglia di Toscano e Capanna),115 sia contro le forze dell’ordine (in nome dell’agibilità degli «spazi di democrazia»), sia – e questa fu una peculiarità “marcata” del Movimento studentesco e poi del Movimento lavoratori per il socialismo – contro le altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria; in particolare, contro le componenti consiliariste (Lotta continua, Potere operaio e, successivamente, Autonomia operaia) e, 113. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 358, f. G5/45/15, sf. «Cenni costitutivi», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Mi del 5 febbraio 1971. 114. Ibidem. 115. Cfr., ad esempio, l’articolo di Salvatore Toscano, Fascistizzazione e strategia della tensione, in «Movimento studentesco», 1 (1973), pp. 5-18, ora in Toscano, A partire dal 1968, pp. 58-76. La «fascistizzazione» delle istituzioni sarebbe stata, secondo Toscano, una tendenza di lungo periodo della realtà politica italiana, che prese le mosse con il «colpo di Stato [sic] di De Gasperi nel 1947» (ivi, p. 59).

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soprattutto, contro Avanguardia operaia e Lotta comunista.116 Chiaramente, la battaglia serrata contro estremisti, spontaneisti, trockisti e dogmatici – alcuni effettivi, altri opinati – non avvenne solamente a colpi di spranga o di chiave inglese. A partire dalla metà del 1971, allorquando il Ms si dotò di un organo di stampa, i gruppi rivali (Ao in particolare) vennero sistematicamente criticati per le loro concezioni politiche.117 L’ostilità invero, fu reciproca: data la posizione egemone del Movimento studentesco (unita alle sue posizioni politiche giudicate “mediane” o, in riferimento allo spettro politico della sinistra rivoluzionaria, “di destra”), quasi tutte le organizzazioni extraparlamentari milanesi (ma il discorso ha validità a livello nazionale) lo osteggiarono apertamente. Se Lc – insieme a Potop – considerò l’operato dei capanniani (anche se sarebbe più corretto definirli “toscaniani”) come agli antipodi del proprio agire politico,118 esemplificativo, a riguardo, è l’atteggiamento di Ao, ossia la principale antagonista, in quanto seconda formazione milanese in termini di influenza e radicamento politici. In occasione di un convegno nazionale di studenti medi per il «rilancio della lotta di classe nella scuola», organizzato dall’Ocao a Milano nell’autunno 1971 (e prontamente monitorato dal Capo della polizia),119 il prefetto milanese, segnalò come Avanguardia 116. Come testimoniato dall’esponente milanese di Lc Franca Fossati: «Quando andavamo a vendere il giornale in via Festa del Perdono», il rischio era quello «di essere pestati» dai “Katanga” (cfr. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 113). 117. Tra le organizzazioni avversarie spiccava l’Ocao, bollata come trockista. Cfr. Niccolai, Quando la Cina era vicina, p. 184-86. La rivalità tra le due organizzazioni era tale che quando i militanti di Ao, in difficoltà con la forza pubblica, furono aiutati dal Movimento studentesco, la circostanza assunse una rilevanza clamorosa. Cfr., ad esempio, le considerazioni di Livio Maitan, riportate dal prefetto di Torino, in Acs, Mi, Gab., Pp, 19711975, b. 22, f. 311/P, sf. 2 «Torino. Conferenza nazionale dei Gruppi comunisti rivoluzionari», riservata-raccomandata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 1° dicembre 1971 («Tuttavia – ha proseguito [Maitan] – occorre raggiungere un’unità di azione, […], così come verificatosi recentemente in Milano, allorché il leader Capanna ha accolto nella sede del suo movimento aderenti dell’“odiata” Avanguardia Operaia, inseguiti dalla Polizia»). L’episodio rimase tuttavia isolato: la rivalità si inaspri al punto tale che il 12 dicembre 1973 uno studente di Ao rimase gravemente ferito in seguito agli scontri con gli attivisti del Ms. 118. Cfr. Le tappe dell’opportunismo, in «Lotta continua», 18 aprile 1970, in cui il Ms, veniva liquidato come un «mastodontico circolo culturale marxista-leninista» affine ai «borghesi progressisti» e al Pci e il suo percorso politico uno «scivolamento verso l’opportunismo». 119. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 29, f. 371/P, sf. «Milano», riservata del Capo della polizia al Gab. del Mi del 19 ottobre 1971, e ivi, telegramma del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 30 ottobre 1971.

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operaia, si opponesse, oltre che al disegno di legge 612 (per la riforma dell’ordinamento universitario), all’inserimento del Pci «nelle lotte degli studenti» e come un’opposizione analoga fosse diretta contro il Movimento studentesco che fa capo al gruppo Capanna di Milano, ritenuto operante sulla stessa linea del PCI e contro l’azione degli spontaneisti [Lotta continua e Potere operaio] considerati capaci solo di determinare situazioni contingenti che facilitano la «ripresa restauratrice della borghesia».120

Il sostegno dell’intellettualità “democratica e progressista” non impedì al Movimento studentesco della Statale di posizionarsi, suo malgrado, in una situazione di oggettivo isolamento, dato che il gruppo veniva considerato un avversario da neutralizzare sia dallo Stato, sia dalle formazioni rivoluzionarie concorrenti e sia, anche se in misura minore, dal Pci e dai sindacati, i quali non valutavano certo positivamente i disagi arrecati quotidianamente all’ordine pubblico dai “Katanga”. Questo isolamento e una simile propensione alla violenza di piazza, sospinsero, tra il primo semestre del 1972 e il 1973, il Ms in una “spirale repressiva” costituita da denunce, perquisizioni domiciliari, sgomberi e irruzioni in università, arresti, processi, e finanche attacchi molto violenti da parte delle forze dell’ordine (tra cui quello che costò la vita a Roberto Franceschi, studente del Ms dell’università Bocconi).121 Ciò produsse – come si vedrà – una crisi interna al gruppo che condusse – nel marzo del 1974 – all’estromissione di un’ala “spontaneista” (in realtà in continuità ineccepibile con l’impianto strategico adottato fino a quel momento), rappresentata da Capanna e Liverani, che si costituirono in Movimento studentesco autonomo (Msa), e all’avvio di un processo di ridefinizione programmatica che, muovendosi verso la costruzione di un’organizzazione di tipo partitico, culminò – nel 1976 – nella trasformazione della formazione politica sorta dal movimento studentesco della Statale in Movimento lavoratori per il socialismo (Mls).122 120. Ivi, riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 28 ottobre 1971. 121. L’evento-simbolo dell’avvio dell’azione repressiva contro il Ms è rappresentato dall’irruzione della polizia del 16 giugno 1972, una sorta di “leggenda nera” nelle ricostruzioni postume. Cfr. ad esempio Criscione, Prefazione, p. 22 e Movimento studentesco, pp. 161-162. Tuttavia, occorre precisare che già in primavera il normale livello di contenimento nei confronti del Ms subì un salto di qualità. Cfr. ad esempio Acs, Mi, Gab., Fc, 1971-1975, b. 21, f. 11001/49/1.1, sf. «Anno 1972», telegramma del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 7 aprile 1972. 122. Cfr. i documenti in ivi, Dps, Op, Associazioni, b. 355, f. G5/42/255 «Movimento lavoratori per il socialismo».

6. Sentieri divergenti

1. Lotta continua dal processo Pinelli-Calabresi alla critica dell’estremismo Come accennato nel capitolo precedente, nel corso del 1970 Lc crebbe in modo esponenziale, raggiungendo anche le zone più periferiche d’Italia. Se le carte di polizia confermano tale percezione,1 le ragioni di tale exploit risiedono probabilmente – oltre che nelle già accennate modalità di militanza in relazione al proprio vissuto (lo «stato d’animo» e la «pratica di lotta» menzionati da Guido Viale) – nella capacità dell’organizzazione guidata da Sofri di adattarsi – ecletticamente, quanto populisticamente – ai temi “trainanti” di culture politiche differenti dalla propria matrice, ossia quella operaistica. Infatti, benché l’operaismo non avesse mai valorizzato il tema dell’antifascismo o (ancor meno) quello della «svolta autoritaria» dello Stato (giudicando anzi la questione dell’antagonismo tra riforme e reazione un falso problema, tutto interno alle forme di dominio del Capitale), Lotta continua riuscì a primeggiare in tale ambito attraverso, ad esempio, la controinformazione sulla strage di Milano del 12 dicembre (la «strage di Stato»), la battaglia contro il fanfascismo e, non ultimo, la pratica dell’antifascismo «militante». E ancora, nonostante l’operaismo fosse stato sostanzialmente italocentrico e osteggiasse il terzomondismo, Lc seppe valorizzare esperienze e impianti teorici caratteristici di questa cultura politica: 1. Cfr. le carte conservate in Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 25, f. 360/P-1 «Movimento Lotta continua» e b. 26, f. 360/P-2 «Movimento Lotta continua»; ivi, Mi, Dps, Op, Associazioni, bb. 346-350, f. G5/42/133 «Movimento di Lotta continua». Inoltre cfr. ivi, Gab., Fc, 1967-1970, bb. 94-100, ff. 12010/1-92 «Attività dei partiti [per provincia]».

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dalla Rivoluzione culturale cinese e dal pensiero di Mao Zedong,2 alle lotte di liberazione antimperialistiche (Palestina, Vietnam); dalle battaglie contro le dittature militari (Cile, Grecia, Spagna e Portogallo), alle tematiche nazionalitarie nel cuore d’Europa (Irlanda del Nord e Paesi Baschi). Inoltre, all’interno di una cornice antiautoritaria di stampo marcusiano (in sintonia con i “tempi” e con la sensibilità dei soggetti giovanili) Lc intervenne alacremente, a livello parasindacale, in una serie di lotte centrate su aspetti considerati “periferici” rispetto al conflitto fra Capitale e Lavoro (o fra Stato e Rivoluzione): il diritto alla casa, la ribellione al rincaro del costo della vita (da cui la pratica delle autoriduzioni e delle “appropriazioni”), il diritto alla salute (dalla nocività del lavoro alla salubrità del territorio), la condizione dei carcerati e dei soldati di leva, ma anche le questioni legate alla fruibilità dell’arte e della cultura e, seppur in ritardo, al fondamentale nodo della liberazione della donna.3 Infine, ultimo ma non meno importante fattore in grado di creare consenso attorno al gruppo, la propensione – frutto, probabilmente, dell’incontro tra la tradizione culturale azionista e quella anarcosindacalista – al giustizialismo castigatore, al gesto esemplare e/o spettacolare, elementi sempre presenti in ogni frangente, specie a livello comunicativo, della vita dell’organizzazione (almeno fino al 1974).4 A tal proposito, in una nota del prefetto di Mantova, relativamente a Lc, si 2.  Sull’influenza della Rivoluzione culturale e sul maoismo di Lc (come per Ao e Manifesto declinato in modo antiautoritario e antistalinista) cfr. Niccolai, Quando la Cina era vicina, pp. 226-238 e Ventrone, “Vogliamo tutto”, pp. 208-212. 3. Cfr. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni Settanta e Voli, Quando il privato diventa politico. Sul movimento dei detenuti cfr. Liberare tutti. I dannati della terra, Edizioni Lotta continua, Milano 1972. Per una storia della carcerazione nell’Italia repubblicana cfr. Christian De Vito, Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 19432007, Prefazione di Guido Neppi Modona, Laterza, Roma-Bari 2009, in particolare pp. 58-74. Per quanto riguarda l’attività di Lc tra i militari di leva, uno dei settori in cui il gruppo raggiunse i risultati più lusinghieri, cfr. Da quando son partito militare… Lettere, documenti, testimonianze sulla naia e le lotte dei soldati a cura dei Proletari in Divisa, Edizioni Lotta continua, Roma 1973. Cfr. inoltre la documentazione in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 330, f. G5/35/159 «Proletari in divisa. Gruppi di Lotta continua», b. 357, f. G5/43/4 «Nuclei soldati democratici», b. 357, f. G5/43/5 «Nucleo proletari in divisa» e ivi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 104, f. 12010/104 «Attività dei partiti in seno alle Forze armate». 4. Cfr. l’articolo non firmato ma scritto da Guido Viale, La rivoluzione culturale nelle fabbriche italiane, in «Lotta continua», n.u., 7 novembre 1969: «Alla Fiat Mirafiori i dirigenti, non ancora abituati all’obbedienza, sono stati più volte costretti a sfilare tra due file di operai inferociti. Sulle loro teste calve, imperlate di sudore e cosparse di sputi, le monetine da cinque lire tirate dagli operai si incollavano come coriandoli che luccicano al sole. Chi

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segnalava: «È il raggruppamento più organizzato e compatto; anche sotto il profilo economico non ha particolari problemi in quanto la maggior parte degli aderenti proviene da famiglie benestanti». Mentre si segnalava la presenza di numerosi docenti, tra i fattori di successo si menzionavano: l’adesione di giovani di estrazione cattolica o provenienti dalla Fgci «che riescono a dare al movimento una certa parvenza di serietà e moralità»; la possibilità degli insegnanti di avvicinare i giovani «direttamente nelle scuole od a mezzo di lezioni private»; «il suo linguaggio assolutista, chiaro ed accessibile a tutti, e che fa colpo anche sugli elementi più sprovveduti, per la sua semplice logica resa credibile da azzeccate argomentazioni»; «l’illusione che sa dare agli aderenti di far parte di un organismo spontaneista, indipendente e privo di gerarchie, sebbene, di fatto, sia un ristretto numero di esponenti che, all’occorrenza, impone la propria volontà»; «la “grinta” che ostenta mediante anche minacce verso gli avversari ed esplicite accuse nei confronti dei “concorrenti” (Manifesto, ecc.) […]: tutto questo è ritenuto un segno di “potenza” agli occhi di molti giovani»; la collaborazione (non richiesta) offerta spontaneamente dalle altre organizzazioni in occasione di iniziative di Lc; e infine «la presenza di avvenenti ragazze tra i militanti [che] attira l’attenzione di molti giovani che sperano di trovare nell’ambiente facili avventure amorose».5 Tra le iniziative che contribuirono alla crescita repentina di Lotta continua, inizialmente limitata ai centri abitati di grandi o medie dimensioni dell’Italia centro-settentrionale, si distinse la campagna di controinformazione (un genere giornalistico che, da quel momento in poi, accrebbe notevolmente la sua fama)6 attorno alla strage di piazza Fontana, alla morte dell’anarchico Giuseppe “Pino” Pinelli (precipitato da una finestra del quarto piano della questura milanese) e all’arresto di Pietro Valpreda, ritenuti implicati nella strage da polizia e carabinieri. Come già accennato nel primo capitolo, tali eventi, indissolubilmente legati, rappresentarono uno spartiacque percettivo per un’area politica di gran lunga più vasta di quella prova a fare il furbo viene giustamente punito. I dirigenti finiti in ospedale in questo ciclo di lotte non si contano». 5. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 24, f. 359/P, sf. «Varie», riservata del prefetto di Mantova al Gab. del Mi del 19 novembre 1973. 6. Cfr. Pio Baldelli, Informazione e controinformazione, Mazzotta, Milano 1972; Fare controinformazione, Savelli, Roma 1974 e Massimo Veneziani, Controinformazione. Stampa alternativa e giornalismo d’inchiesta dagli anni Sessanta a oggi, Prefazione di Carlo Lucarelli, Introduzione di Aldo Giannuli, Castelvecchi, Roma 2006.

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(nel 1969 comunque assai consistente) della sinistra rivoluzionaria. L’idea della progressiva «fascistizzazione» dello Stato divenne, tra i militanti della sinistra rivoluzionaria (e non solo), senso comune e la controinchiesta di Lc sulla strage e i suoi risvolti, edita da Savelli in varie quanto ravvicinate edizioni rivedute e aggiornate, si trasformò, nel volgere di un breve lasso di tempo, in un grande successo editoriale.7 Tale attività fu accompagnata da una campagna di accuse nei confronti di colui che venne ritenuto il principale responsabile della supposta defenestrazione di Giuseppe Pinelli: il commissario aggiunto di Ps Luigi Calabresi. Pur non essendo questa la sede per approfondire la posizione di Lotta continua sulla vicenda Pinelli-Calabresi, è doveroso segnalare come essa raggiunse livelli di popolarità solitamente inusuali per una formazione appartenente alla sinistra rivoluzionaria e come la vicenda stessa sia stata fortemente intrecciata alla storia di Lc. Converrà, dunque, spenderci sopra due parole, segnalando come anche il ministero dell’Interno fin da allora avesse ben chiaro il ruolo giocato dall’organizzazione guidata da Adriano Sofri e finanche la posta in gioco (circostanze che, parzialmente, spiegano anche la l’azione giudiziaria mirata di quasi vent’anni dopo).8 7. In soli sei mesi furono vendute 100.000 copie. Cfr., tra le varie edizioni del libro, La strage di Stato. Controinchiesta, La Nuova sinistra/Samonà e Savelli, Roma 1971 [5a ed.; 1a ed. 1970]. Si veda anche il volume La strage di Stato. Vent’anni dopo, a cura di Giancarlo De Palo e Aldo Giannuli, Edizioni Associate, Roma 1989, che ripercorre – pur brevemente – la “storia” della fortunata controinchiesta. 8. Cfr. la documentazione relativa al 1969-1970 in Acs, Mi, Gab., Fc, 1967-1970, b. 30, f. 11001/48/1.1 e f. 11001/48/1.2 (in particolare sf. 10 «Attentati dinamitardi commessi in varie città d’italia»); ivi, f. 11001/48/2 (in particolare sf. 1 «Attentato terroristico contro Banca nazionale dell’agricoltura. Varie» e sf. 4 «Caso Pinelli»). Cfr. inoltre la documentazione successiva conservata in ivi, Fc, 1971-1975, b. 25, f. 11001/49/2 «Milano. Attentato terroristico contro Banca nazionale dell’agricoltura 12/12/1969», sf. 1 «Milano. Vittime attentato terroristico del 12 dicembre 1969 contro Banca nazionale dell’agricoltura. Assistenza»; sf. 2 «Rolandi Cornelio. Decesso»; sf. 3 «Milano. Attentato contro Banca naz. Agricoltura del 12/12/1969. Varie»; sf. 4 «Anniversario della strage di Piazza Fontana. Milano. Manifestazione del 12 dicembre 1972» sf. 5 «Attentato di Piazza Fontana. Banco agricoltura. Del 12/12/1969. Procedimento penale»; ivi, b. 25, f. 11001/49/3 «Caso “Pinelli”», sf. 1 «Caso “Pinelli”. Affari vari»; sf. 2 «Caso “Pinelli”. Processo a carico direttore “Lotta continua” Baldelli Pio»; sf. 3 «Caso “Pinelli”. Procedimento penale a carico personale PS indiziati [sic] reati in relazione alla morte di Giuseppe Pinelli»; ivi, b. 25, f. 11001/49/4 «Valpreda Pietro. Presunto autore attentato del 12/10 [sic]/1969 contro Banca naz/le agricoltura di Milano», sf. 1 «Valpreda Pietro. Varie»; sf. 2 «Valpreda Pie-

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Se con l’articolo Per un’indagine su un commissario al di sopra di ogni sospetto, Lc – prima di ogni altra organizzazione della sinistra rivoluzionaria – individuò in Luigi Calabresi il principale responsabile della morte del ferroviere anarchico, attraverso il processo al direttore responsabile del suo periodico, Pio Baldelli (denunciato per diffamazione da Calabresi), l’organizzazione di Sofri e compagni ampliò la propria cassa di risonanza e intensificò la propria azione contro coloro che riteneva responsabili della morte di Pinelli.9 In apertura del processo, che si aprì in ottobre alla presenza di un migliaio di persone (per lo più anarchici e militanti di Lc), il collegio difensivo richiese, senza incontrare l’opposizione del Pubblico ministero, gli atti processuali relativi al decesso di Pinelli, la possibilità di citare testimoni a discarico, la comparizione del questore di Milano in qualità di teste e, infine, la possibilità di effettuare un sopralluogo in questura.10 La primavera del 1971 vide Lotta continua in prima fila nella battaglia processuale (oltre che, ovviamente, politica e informativa) per far luce su una vicenda che avrebbe rischiato di essere archiviata troppo frettolosamente. Tale attività provocò, ad esempio, la decisione di riesumare il cadavere di Pinelli per compiervi una nuova autopsia.11 Contrariamente a quanto lasciato intendere da numerose rievocazioni, lo Stato e chi ritenne Calabresi degno e in diritto di essere difeso non lo abbandonò al proprio destino né, tantomeno, restò a guardare gli eventi. Come informava il prefetto milanese, il 29 aprile 1971, nella seduta in cui doveva essere discusso l’«incidente di esecuzione» avverso l’ordinanza emessa nella tro. Manifestazioni di protesta»; sf. 3 «Catanzaro. Procedimento penale a carico di Pietro Valpreda ed altri». 9. Cfr. Per un’indagine su un commissario al di sopra di ogni sospetto, in «Lotta continua», 21 febbraio 1970 e Acs, Mi, Gab., Fc, 1971-75, b. 25, f. 11001/49/3, sf. 2 «Caso “Pinelli”. Processo a carico direttore “Lotta continua” Baldelli Pio», riservata-raccomandata-doppia/busta della prefettura di Milano, 25 febbraio 1970. 10. Ivi, Telegramma della prefettura di Milano, 9 ottobre 1970). In esecuzione all’ordinanza emessa dalla prima sezione penale del tribunale di Milano, venne effettuato il sopralluogo nei locali della questura in via Fatebenefratelli, alla presenza degli avvocati della difesa e di parte civile e di numerosi giornalisti e fotografi (ivi, Telegramma della prefettura di Milano, 6 novembre 1970). 11. Ivi, Telegrammi della prefettura di Milano del 25 gennaio e 23 marzo 1971. Per la notizia dell’ordinanza con cui veniva disposta «riesumazione cadavere anarchico Pinelli per esame radiologico nonché nuova perizia da affidarsi at periti Luvoni Mangili et Falsi» si veda ivi, Telegramma della prefettura di Milano, 26 marzo 1971. Il prefetto Mazza informò prontamente i vertici del Mi anche sulle due sedute (il 22 e 27 aprile) in cui depose Calabresi.

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precedente udienza «da presidente dottor Biotti che rinviava processo a nuovo ruolo per supplemento istruttorio», il giudice Mario Usai, in assenza di Biotti («impedito»), «habet rinviato discussione su “incidente di esecuzione” at udienza 26 maggio prossimo venturo [e da lì al 18 giugno] annunciando altresì presentazione da parte avvocato [Michele] Lener ricusazione presidente dottor Biotti».12 La pur legittima ricusazione di Biotti (che avrebbe proposto all’avvocato di Calabresi una sorta di scambio) si rivelò un boomerang poiché, unita alla promozione di Calabresi a commissario capo (nel giugno 1971), dette l’immagine di uno Stato schierato a spada tratta nella difesa dei propri uomini a scapito di verità e giustizia mentre, specularmente, Lc venne percepita, a prescindere dalle intenzioni dell’organizzazione (che, anzi, stigmatizzava la giustizia “borghese”), come un alfiere della legalità. A tal proposito, il cosiddetto appello firmato da numerose personalità della politica e della cultura (pubblicato in concomitanza con un articolo di Camilla Cederna su «L’Espresso») in cui, con toni assai accesi, si chiedeva l’allontanamento dai propri uffici delle persone coinvolte nel processo a cominciare dal commissario Calabresi, può senz’altro essere letto come una testimonianza della notevole “presa” delle posizioni di Lc (e della sinistra rivoluzionaria nel suo complesso) tra gli intellettuali e, più in generale, nella società civile.13 Forte di un siffatto sostegno, sempre nel giugno del 1971 la vedova di Giuseppe Pinelli, Licia Rognini, inoltrò al procuratore generale della Repubblica Bianchi d’Espinosa un esposto-denuncia contenente la richiesta di azione penale per omicidio volontario, abuso d’ufficio e d’autorità, violenza privata e sequestro di persona, nei confronti di 12. Ivi, Telegramma della prefettura di Milano, 26 maggio 1971. Si veda anche la copia dell’ordinanza (24 pagine totali) emessa dalla prima sezione penale della Corte d’Appello di Milano il 27 maggio 1971, sull’accoglimento dell’istanza di ricusazione di Biotti, allegata alla riservata-raccomandata-doppia/busta della prefettura di Milano del 9 giugno 1971. 13. Cfr. Camilla Cederna, Colpi di scena e colpi di karatè. Gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli, in «L’Espresso», 13 giugno 1971. Se la «responsabilità» della «fine» di Pinelli venne attribuita a Calabresi, la lettera aperta si concludeva invocando una «ricusazione di coscienza […] rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni». Inizialmente firmata da dieci personalità (Marino Berengo, Anna Maria Brizio, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giulio Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin e Mario Spinella), la lettera aperta oltrepassò, alla fine del mese, le 750 firme (cfr. ivi, 20 e 27 giugno 1971), raccogliendo il consenso di note o notissime personalità, alcune delle quali, invero, nel corso degli anni successivi si dissociarono da quella loro presa di posizione.

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«tutti coloro che con il proprio comportamento contribuirono in maniera più o meno determinante» al decesso del congiunto. In agosto, il sostituto procuratore generale della Repubblica Mauro Gresti, incaricato di condurre l’istruttoria, avviò un’azione penale contro il commissario Calabresi, imputato per «omicidio colposo», e il dirigente dell’Ufficio politico della questura di Milano, Antonino Allegra, imputato per «arresto illegale».14 Conseguentemente, poco tempo dopo il giudice Gerardo D’Ambrosio incriminò, come era nelle aspettative di Lotta continua, i presunti responsabili del decesso di Pinelli.15 A questo punto, è lecito supporre che l’attenta osservazione degli eventi da parte del potere politico si sia trasformata (ammesso che prima non fosse già così) in sostegno attivo sottotraccia. Pur non volendo ritenere verosimile che il giovane magistrato D’Ambrosio abbia orientato le sue indagini nel senso auspicato dalle autorità, un documento conservato all’Acs rende sufficientemente esplicita l’attività di pressione attuata nei confronti dei giudici milanesi da parte del ministero dell’Interno. In un appunto «riservato» recante il timbro «Visto dal Ministro» (cioè Restivo), il capo di Gabinetto, Paolo Strano, annotava quanto segue: 7.7.971 – Ore 11.50 – Prefetto di Milano prega chiamarlo. Riservato Processo Baldelli - Calabrese [sic] Destinaz. a Milano di Bianchi d’Espinosa. Esibizionista, alla ricerca di pubblic., ecc. Cominciano a vedersi gli effetti. Ha deciso di far fare nuova necroscopia sui resti del Pinelli. Nel caso di esito positivo o incerto della perizia vorrebbe incrim. i funz. per omicidio volontario; anche in caso di esito neg. incriminerebbe per omic. colposo. Queste notizie sono state confidate a Mazza da Pres. C.d’A. Trimarchi, che ha tentato invano di dissuadere il Bianchi d’E. dal suo proposito. Chiaro che 14. Cfr. Acs, Mi, Gab., Fc, 1971-75, b. 25, f. 11001/49/3, sf. 3 «Caso “Pinelli”. Procedimento penale a carico personale PS indiziati [sic] reati in relazione alla morte di Giuseppe Pinelli», Riservata della prefettura di Milano, 27 agosto 1971. Si veda anche ivi, Riservata della prefettura di Milano, 15 settembre 1971 (con allegata lettera di Bianchi d’Espinosa) e l’allegato Tribunale di Milano, Avviso di procedimento alle parti private siglato dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, del 4 ottobre 1971. 15. Cfr. ivi, Riservata della prefettura di Milano, 6 ottobre 1971: Così «[…] il giudice istruttore dottor Gerardo D’Ambrosio, che ha iniziato l’istruttoria formale, ha inviato avvisi di procedimento, di cui si allega copia, nei confronti del Commissario Capo di PS dr. Luigi Calabresi, del Capitano dei Carabinieri Savino Lo Grano e dei sottufficiali di PS [tutti brigadieri] Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi e Pietro Mucilli». Sulla vicenda, cfr. inoltre Marco Severini, Licia. Storia della prima italiana che denunciò un questore, Marsilio, Venezia 2020.

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tutto ciò – a parte l’esito delle denunzie – avrà gravi riflessi sul piano politico e sarà sfruttato soprattutto dai soc., che nella questione hanno sempre assunto posizioni di accesa contestaz. nei confronti della polizia.16

Non può non balzare agli occhi il riferimento agli alleati socialisti (al governo nel cosiddetto centro-sinistra organico) e alla loro presunta ostilità nei confronti della polizia, che, accanto all’esito delle denunce, pare essere il principale cruccio dell’appunto. Se non ci è dato sapere quali siano state le contromisure poste in essere dopo questa nota, è ad ogni buon conto possibile che le pressioni esercitate fino a quel momento su Bianchi d’Espinosa (che morirà l’anno seguente per un tumore polmonare) possano essersi diffuse in altre direzioni e aver pur indirettamente contribuito alla sentenza salomonica del giudice D’Ambrosio, successiva di quattro anni: ossia che Pinelli non si suicidò (ipotesi giudicata «possibile ma non verosimile»), né venne ucciso (ipotesi caratterizzata da «assoluta inconsistenza»), ma ebbe un malore che lo fece precipitare dalla finestra e a una distanza considerevole dal muro (il cosiddetto “malore attivo”, espressione, invero, mai utilizzata dal magistrato). La campagna di Lc contro Calabresi proseguì, giocando alternativamente ora sul sarcasmo e sull’umorismo nero, ora sull’astio vendicativo che, demonizzando la figura del funzionario di polizia, ebbe come risultato quello di emettere una sorta di “sentenza capitale” nei suoi confronti. Gli esempi non mancano. In un manifesto affisso a Bergamo, alla domanda retorica «Chi ha ucciso il ferroviere anarchico Pinelli?» veniva fornita la seguente risposta: «Il commissario Calabresi, protetto dal questore fascista Guida, dal ministro degli interni Restivo». La conclusione del manifesto murale era profetica: «Un giorno saranno i proletari a fare giustizia. Nelle lotte di oggi impariamo a riconoscere i nostri nemici e a giudicarli. Domani avremo la forza per giustiziarli».17 Sulla stessa lunghezza d’onda si vedano anche gli articoli Un’amnistia per Calabresi?, e Calabresi, un assassino, per citare solo alcuni.18 Se tale campagna fu principalmente finalizzata a far 16. Appunto manoscritto riservato (visto dal ministro) del capo di Gab. del 7 luglio 1971, in Acs, Mi, Gab., Fc, 1971-75, b. 25, f. 11001/49/3, sf. 2 «Caso “Pinelli”. Processo a carico direttore “Lotta continua” Baldelli Pio» (sottolineato, anziché corsivo, nell’originale). 17. Ivi, 1967-1970, b. 30, f. 11001/48/2, sf. 4 «Caso Pinelli», riproduzione fotografica di manifesto intitolato Lotta continua allegata alla riservata-raccomandata del prefetto di Bergamo al Mi del 25 settembre 1970. 18. Cfr. Un’amnistia per Calabresi?, in «Lotta continua», 6 giugno 1970 («noi che […] di questi nemici del popolo vogliamo la morte») e Calabresi, un assassino, ivi, 1° ottobre 1970 («l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicu-

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sì che Calabresi denunciasse il giornale per poter portare in sede processuale l’affaire Pinelli, Lotta continua ne trasse anche e soprattutto giovamento a livello di immagine e, quindi, di “popolarità”.19 Ad ogni buon conto e facendo un passo indietro, nella situazione espansiva legata all’affaire Pinelli-Calabresi, nell’estate 1970 l’organizzazione fondata da Sofri e compagni tenne il suo primo convegno nazionale (fino al 1975, per meglio differenziarsi dai partiti istituzionali, il principale consesso deliberativo dell’organizzazione si denominò «convegno» e non «congresso»). All’insegna dello slogan «Dall’autunno caldo all’autunno rosso», esso si svolse, sabato 25 e domenica 26 luglio al Palazzetto dello sport di Torino, nello stesso luogo dove l’anno precedente si era tenuta l’assise «dei comitati e delle avanguardie operaie» che sancì il divorzio dagli attivisti di Potop. L’autunno ormai alle porte si prospettava, effettivamente (anche se, con il senno di poi, sappiamo che così non fu), molto più caldo di quello precedente: la ripresa delle lotte operaie a cominciare dal marzo del 1970 (culminate nel grande sciopero autonomo e prolungato di 15 giorni, che coinvolse Mirafiori a partire dal 22 giugno) e la quasi simultanea caduta del governo Rumor (6 luglio) suggerirono al gruppo dirigente di Lotta continua che la resa dei conti tra la classe operaia e il “padronato” fosse alle porte.20 Un articolo che raccontava lo svolgimento del grande corteo operaio in occasione dell’anniversario dei fatti di corso Traiano (descritto con toni epici e con il consueto compiacimento giacobino verso la sanculotteria) ben rappresenta tale convinzione.21 La «svolta di luglio», a preludio del I convegno nazionale, si basava sull’idea che l’avversario si preparasse ad affrontare l’imminente conflitto tra le classi sociali imboccando la via reazionaria. ramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo stato assassino»). Alla luce di ciò, risulta improvvida (anche ai fini della volontà di discolpare Bompressi, Pietrostefani e Sofri dall’imputazione dell’omicidio di Calabresi) l’argomentazione contenuta nella seconda edizione del volume sulla storia di Lc, secondo la quale «le accuse rivolte dai magistrati milanesi contro alcuni ex-militanti di Lotta continua sono assolutamente improponibili, alla luce dei caratteri di fondo di questa organizzazione» (Bobbio, Storia di Lotta continua, p. V). 19. Come notato: «Nel movimento si diffonde la stessa convinzione: si moltiplicano sui muri le scritte che accusano Allegra e Calabresi» (Bobbio, Lotta continua, p. 55). 20. Sulla ripresa delle lotte nella primavera del 1970, cfr. gli articoli Il loro disordine e la nostra organizzazione e Milano: Verso la ripresa delle lotte, in «Lotta continua», 6 giugno 1970. 21. Cfr. Agnelli, l’Indocina ce l’ha in officina, in «Lotta continua», luglio 1970.

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Ma a differenza del Movimento studentesco (che, come abbiamo visto, su tale questione si scisse), Lc non riteneva efficace la tattica del fronte unico con i riformisti, dato che questi ultimi erano visti come il puntello del sistema all’interno del movimento operaio. Rispolverando i principi chiave del terzoperiodismo di staliniana memoria, occorreva quindi, come illustrerà Sofri introducendo i lavori del convegno di Torino, condurre «un’offensiva ancora più massiccia contro il movimento operaio revisionista».22 Sebbene venisse lasciato intendere, quantomeno inizialmente, che il convegno fosse un incontro di realtà operaie di base (seppur vicine a Lc),23 i suoi lavori furono preparati con meticolosità, a dimostrazione che l’immagine di una Lc «spontaneista» (sedimentata da anni e anni di rappresentazioni e autorappresentazioni convergenti) andrebbe quantomeno ridefinita. Nelle discussioni preparatorie venne infatti messo a punto, in modo dettagliato, l’assetto politico-organizzativo dell’incontro: innanzitutto – come asserì il «1° compagno» che intervenne a riguardo (forse lo stesso Sofri) – avrebbe dovuto essere un «convegno operaio», dunque avrebbero dovuto «essere gli operai, assieme ai militanti che per un anno [avevano] lottato con loro, ad organizzarlo e dirigerlo». Poi, in previsione di una lotta sempre più dura e nella conseguente prospettiva di estendere e unificare le varie lotte («unire tutti i proletari, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, nell’esercito») fu valutato di predisporre sette relazioni.24 Il passaggio – non secondario e certamente non solo a livello semantico – della variazione del 22. [Adriano Sofri], Situazione politica generale e nostri compiti, in «Comunismo», 1 (1970), p. 50. Il documento introduttivo del I convegno di Lc è visionabile in Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Cesare Pianciola e Santina Mobiglia, Ua 2. L’intervento di Sofri è anche in Luciano Della Mea, Proletari senza comunismo. Lotta di classe e lotta continua, Bertani, Verona 1972, alle pp. 216-256 (citazione a p. 239). 23. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 32, «Lotta continua. Bollettino d’informazione torinese», Torino, 12-18 luglio [1970], nel quale l’assise è così presentata: «Gli operai di Lotta continua della Fiat insieme agli operai di Milano, hanno convocato un convegno nazionale a Torino, il 25-26 luglio al Palazzetto dello sport» (sottolineato, anziché corsivo, nell’originale). 24. Cfr. ivi, intervento di «1° compagno». Secondo la proposta iniziale, le sette relazioni avrebbero dovuto riguardare i seguenti temi: «1) la situazione della lotta di classe in Italia: crisi di governo e autonomia operaia 2) situazione economica nazionale e internazionale 3) rapporto tra Nord e Sud 4) lotte degli studenti 5) lavoro rivoluzionario nell’esercito 6) la crisi dell’imperialismo, cioè del sistema di sfruttamento mondiale 7) situazione finanziaria di LC».

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soggetto centrale del cambiamento dagli operai ai proletari, venne ribadito anche da un «2° compagno»: Dobbiamo avere un programma politico generale di LC che tocchi tutte le esigenze della lotta proletaria, su cui lavorare unitariamente in tutte le situazioni. Questo vuol dire che anche l’organizzazione deve fare un grosso passo avanti: non più legata solo alla fabbrica, ma deve allargarsi e servire anche per uscire dalla singola fabbrica. Questo è fondamentale perché ormai lo scontro non è contro il singolo padrone ma contro lo Stato dei padroni.25

Fu dunque predisposta una circolare a mo’ di invito per le realtà locali mediante la quale, presentando il convegno per quello che effettivamente era, si fornirono precise informazioni su luogo, durata (dalle 15:00 di sabato a tutta domenica), pasti e alloggiamenti, attività della segreteria organizzativa (ubicata presso l’abitazione di Cesare Cappellino) e sui rapporti che le sedi periferiche avrebbero dovuto intrattenere con essa.26 Prima di ciò si precisava che erano «in corso di elaborazione le 7 relazioni, decise ed approvate nell’ultima riunione nazionale».27 Quanto alle questioni legate alla sicurezza, la circolare puntualizzava che il servizio d’ordine (già costituito e già così denominato) avrebbe controllato l’ingresso del palazzetto e impedito «l’accesso alle persone estranee al convegno (polizziotti [sic], revisionisti di tutti i tipi, spie ecc.)»; per concludere, infine, informando che il giorno successivo la conclusione dei lavori, cioè lunedì 27 luglio, «in luogo da stabilirsi» si sarebbero riunite «le commissioni sui temi stabiliti in assemblea, con una partecipazione più ristretta».28 25. Ivi, intervento di «2° compagno». 26. Ivi, Ua 32, 1° convegno nazionale di lotta continua, s.d. [ma prima del 18 luglio 1970]. Riguardo al rapporto centro-periferia a livello organizzativo, la circolare precisava quanto segue: «In ogni sede dovrà essere nominato un responsabile dell’organizzazione del convegno che si metterà immediatamente in contatto telefonico con la segreteria organizzativa» (sottolineato, anziché corsivo, nell’originale). 27. Ibidem. A parte il punto riguardante le lotte degli studenti, rimpiazzato da quello relativo al giornale, le sette relazioni indicate coincidevano con quelle inizialmente proposte agli inizi di luglio. Che fosse scomparsa la relazione sulle lotte studentesche non deve meravigliare più di tanto: fin dall’inizio dell’anno Lc cominciò a teorizzare l’abbandono dell’università come terreno di lotta; cfr., a riguardo, La «fuga» dall’Università, in «Lotta continua», 14 febbraio 1970. 28. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 32, 1° convegno nazionale di lotta continua.

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Come osservato da Bobbio, il compito immediato del I convegno di Lc – introdotto da Franco Platania (uno dei leader delle lotte di Mirafiori) e in cui, effettivamente, intervennero quasi esclusivamente operai – fu quello «di consolidare la svolta di luglio e di proiettare l’organizzazione verso il grande scontro che si prevede[va] per l’autunno», anche se «la sua funzione reale» fu quella di permettere a centinaia di militanti che avevano «vissuto intensamente l’ultimo anno di lotte di trovarsi, scambiarsi le proprie esperienze, identificarsi su un terreno politico ed emotivo comune». E ancora: Nel Palazzetto dello Sport, addobbato di striscioni e bandiere, i discorsi sono frequentemente intervallati dagli slogan e dal canto della Ballata della Fiat, dell’Ora del fucile, della Violenza o di Lotta continua, le nuove canzoni inventate da Masi, Nissim e Bandelli (il Canzoniere del proletariato), che sono già diventate strumento di riconoscimento e di identificazione dei «compagni di Lotta continua».29

La «violenza proletaria» venne esaltata in tutte le sue manifestazioni. In barba alle teorizzazioni, non solo di Lenin (le cui immagini, tuttavia, campeggiavano ogni tanto nelle pagine del giornale), ma anche di Rosa Luxemburg e di molti altri consiliaristi, Adriano Sofri – muovendosi disinvoltamente tra Bakunin, Sorel e Machiavelli – concluse così il primo incontro nazionale di Lotta continua: La tematica consiliare è viziata da una concezione del mondo che immagina che il processo rivoluzionario debba piegarsi (attenuando la sua carica di violenza) al formalismo di un processo organizzativo [...]. La nostra scelta è invece quella di stare fino in fondo dentro la logica violenta, brutale e poco elegante della lotta dei proletari per la loro emancipazione. Noi crediamo che un momento fondamentale di organizzazione, di liberazione e di presa di iniziativa da parte degli operai sia un corteo di 10.000 persone come quello di Mirafiori[,] che la cosa che più si avvicinava a un soviet, in questa fase della lotta di classe in Italia, è quel corteo operaio.30

29. Bobbio, Lotta continua, p. 73. 30. Convegno nazionale di Lotta continua, Torino 25-26 luglio 1970, in «Comunismo», 1 (1970), pp. 159-160, intervento conclusivo di «Compagno di Torino» [Adriano Sofri]. Come osservato già nel 1978: «Il paradosso dell’equiparazione di un corteo operaio a un soviet, avrà molta fortuna nel successivo dibattito di Lotta continua, ma evidentemente lascia indeterminata la sostanza del problema» (Bobbio, Lotta continua, p. 61).

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Cavalcando la tigre dell’antiorganizzativismo più “primitivo” (contraddicendo quindi il suo scritto Sull’organizzazione), Sofri avallò un orientamento politico influenzato, sia sul piano formale sia su quello sostanziale (anche se in misura forse minore), da modalità, pratiche e discorsi energicamente radicali. I tratti salienti di quella che viene definita la «fase estremista» di Lotta continua, che si protrasse fino all’autunno del 1972, sono così riassumibili: rifiuto (benché esteriore e fittizio) di forme organizzative gerarchiche; prosecuzione dello scontro sociale tra proletariato e padronato a prescindere dai contratti e dagli obiettivi delle lotte; opposizione ai Consigli di fabbrica e a qualsiasi tipo di delega nei luoghi di lavoro; rifiuto della militanza sindacale e contrapposizione frontale nei confronti del Pci e delle organizzazioni sindacali; convinzione che lo Stato stesse «fascistizzandosi» e contestuale rifiuto di alleanze con le tradizionali istituzioni del movimento operaio; astensionismo di principio in materia elettorale; ricorso abituale all’appropriazione e/o all’autoriduzione in ogni campo del sociale (casa, spesa, bollette, ecc.); frequente uso della forza nei conflitti sociali e nelle manifestazioni; teoria e pratica dell’antifascismo militante.31 Per rendere operativa la linea che avrebbe dovuto condurre «all’autunno rosso» fu deciso di organizzare, dopo l’estate, una giornata nazionale di lotta «contro il governo borghese, contro il ricatto della crisi economica e della repressione poliziesca, per gli obiettivi generali del proletariato». Una sorta di mobilitazione generale politica, teso, nelle intenzioni, ad acuire lo scontro contro «lo Stato dei padroni». L’agitazione, che sarebbe dovuta scaturire dal basso, venne concepita come «uno sciopero generale, al di fuori delle organizzazioni tradizionali, organizzato e diretto dalle avanguardie autonome di Lotta continua».32 Tuttavia, tale sciopero generale non vide mai la luce. L’idea venne infatti «lasciata cadere silenziosamente, senza al cuna spiegazione, mentre si fa[ceva] strada un ragionamento consolatorio che attribui[va] le difficoltà a un repentino mutamento della “fase”».33 31. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 213. 32. La giornata nazionale di lotta, in «Lotta continua», 17 settembre 1970. Si veda anche Lotta continua, Colombo ti spenneremo. Prendiamoci quello che è nostro. Prepariamo lo sciopero generale, opuscolo ciclostilato, Torino settembre 1970. La giornata nazionale di lotta prevista per l’autunno 1970 non deve confondersi con l’omonima giornata nazionale di lotta «contro la repressione» del 29 maggio 1971. 33. Bobbio, Lotta continua, p. 76, che osserva inoltre, con spirito autocritico: «Di fronte a questo, che è il primo serio intoppo della sua breve storia, l’organizzazione è spinta

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Mentre si sviluppavano e radicalizzavano alcuni settori d’intervento, le lotte sulla questione abitativa e quelle dei soldati (i Proletari in divisa) e dei detenuti (i Dannati della terra), la conflittualità operaia attraversava invece un periodo, se non di riflusso (le ore di sciopero, in realtà, nel 1971 crebbero considerevolmente), quantomeno di consolidamento centrato su obiettivi sindacali articolati. Alla luce dello spostamento del baricentro della conflittualità sociale dalla fabbrica verso altri spazi prevalentemente urbani, il vertice di Lotta continua (ossia il gruppo informale che prendeva le decisioni)34 pensò che fosse necessario correggere la rotta e si orientò risolutamente verso il territorio. La linea della nuova svolta (sia chiaro, non così repentina, dato che l’attenzione verso la realtà proletaria fuori dalla fabbrica era stata sempre presente) venne ben sintetizzata dallo slogan, ideato da Viale, Prendiamoci la città, i cui fondamenti teorici si basavano sulla costatazione che la rivoluzione non fosse, come ritenuto nel luglio 1970, proprio “dietro l’angolo”. Ipotizzando dunque che la sovversione dell’ordine costituito avesse tempi più lunghi di quelli previsti, la linea di Prendiamoci la città, scartata l’opzione insurrezionalista, concepì l’atto rivoluzionario come un processo «di lunga durata».35 Nel frattempo, a partire dall’autunno del 1970, Lotta continua fu in prima fila – talvolta insieme all’Uci(ml) o ad altre formazioni maoiste, a mutare rotta. Ma lo fa senza nemmeno tentare di sottoporre a critica le proprie proiezioni trionfalistiche» (ibidem). 34. Sul gruppo ristretto (non elettivo ma, evidentemente, rappresentativo e incontestato) tenutario del “potere esecutivo” all’interno di Lc, cfr. la testimonianza di Massimo Negarville in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 116: «Alla fine del ’70 […] Lotta continua cominciò a strutturarsi in gruppo politico, per il momento non formalizzato. Si definivano scherzosamente ‘nucleo d’acciaio’: mangiavano insieme, vivevano insieme, andavano in vacanza insieme; ma nessuno li aveva eletti a quella carica, né loro avevano l’abitudine di consultarsi periodicamente». 35. Cfr. Prendiamoci la città, in «Lotta continua», 12 novembre 1970; La città è nostra prendiamola! Torino in mano ai proletari, ivi, 24 novembre 1970; Prendiamoci la città, e Torino: dalla fabbrica a tutta la città, ivi, 11 dicembre 1970 e Spieghiamo meglio che cosa vuol dire “Prendiamoci la città”: il nostro programma, ivi, 29 gennaio 1971. Come riferito nel primo articolo citato, lo slogan sarebbe stato coniato da un operaio di Lc: «un compagno operaio ha espresso questo programma di lotta: prendiamo la città!». La paternità della formula viene tuttavia rivendicata da Viale che afferma di essersi ispirato ai tifosi del Cagliari: «mi colpì, nella primavera del ’70, la festa per lo scudetto di Manlio Scopigno e Gigi Riva. A Torino c’erano 40.000 sardi, operai e camerieri […]. Sono scesi in strada e per un giorno sono stati padroni della città» (in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 117).

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talvolta insieme a Sinistra proletaria (ossia il “braccio politico” delle neocostituite Brigate rosse) – nelle lotte per la casa: a Firenze, Napoli (Secondigliano), Torino (Falchera e Vallette), Palermo (Zen), Roma (Magliana) e Milano (Quarto Oggiaro, via Mac Mahon e viale Tibaldi), ingaggiando, molto spesso, scontri con le forze dell’ordine. Concretamente, si trattò di “scioperi degli affitti” o di vere e proprie occupazioni (tendenzialmente stabili) di appartamenti siti solitamente in caseggiati ancora disabitati dell’Iacp.36 Come sottolineato, in tale frangente Lotta continua ottenne i risultati più eclatanti a Roma, nell’aprile del 1971, e a Milano, nello stabile di via Tibaldi, in giugno. Tuttavia, il successo di quelle esperienze «sarebbe rimasto limitato a quelle occasioni e non si sarebbe più ripetuto».37 In 36. Cfr. Lotta proletaria nei quartieri in «Lotta continua», 1° ottobre 1970; La casa si prende l’affitto non si paga, ivi; Mac Mahon: i proletari hanno vinto, ivi, 17 febbraio 1971; La riforma della casa la facciamo da noi, ivi, 11 giugno 1971. Su ciò cfr. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni Settanta, pp. 178-216 e, relativamente al caso romano, Bruno Bonomo, Le lotte per la casa alla Magliana negli anni Settanta, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1 (2005), pp. 176-180 e Noemi Alonso García, Movimenti di quartiere a Roma nei primi anni settanta, in «Zapruder», 14 (2007), pp. 80-87. Sul caso Milanese cfr. Alfredo Agustoni, La presa del palazzo. Sviluppo urbano, edilizia popolare e lotte per la casa nella Milano del XX secolo, ivi, pp. 42-59. Si veda, inoltre, Le lotte per la casa in Italia. Milano, Torino, Roma, Napoli, a cura di Andreina Daolio, Feltrinelli, Milano 1974; Gigliola Re e Graziella Derossi, L’occupazione fu bellissima. 600 famiglie occupano la Falchera, Edizioni delle Donne, s.l. [Roma] 1976; Marco Spada, Il potere periferico. La Magliana: un quartiere in lotta per una nuova città, Prefazione di Gianni Statera, Lerici, Cosenza 1976; La Magliana. Vita e lotte di un quartiere proletario, a cura del Comitato di quartiere [della Magliana], Feltrinelli, Milano 1977 e Aldo Tozzetti, La casa e non solo. Lotte popolari a Roma e in Italia dal dopoguerra a oggi, Presentazione di Giovanni Berlinguer, Editori Riuniti, Roma 1989. Per quanto riguarda l’impegno dei maoisti, oltre a ricordare il loro ruolo nella fondazione dell’Unione inquilini, si segnala un contributo di Giuliano Spazzali sulle lotte contro lo l’Iacp in «Avanguardia proletaria», n.u., febbraio-marzo 1969. Sul ruolo di “apripista” giocato dall’Uci(ml) nelle lotte per la casa cfr. Ferrante, La Cina non era vicina, pp. 117-121. 37. Ventrone, “Vogliamo tutto”, p. 224. Nel gennaio 1971 una sentenza della magistratura definì legittima l’occupazione delle case di Via Mac Mahon. Nello stesso mese, una delle prime azioni delle Brigate rosse faceva riferimento proprio a quella vertenza. A fine mese Mazza segnalava la presenza di un incendio sulla pista di collaudo della Pirelli avvenuto «decorsa notte»: «Est stato inoltre rinvenuto at ingresso pista biglietto vergato a mano a firma “Brigate Rosse” con seguente scritta “Della Torre - contratto - Taglio della paga Mac Mahon”. Indagini in corso» (Acs, Mi, Gab., Fc, 1971-1975, b. 21, f. 11001/49/1.1, sf. «Anni [sic] 1971», telegramma del prefetto di Milano al Gab. del Mi del 25 gennaio 1971). Sulla partecipazione di Sinistra proletaria alla lotta di via Mac Mahon e sulla sentenza della magistratura milanese cfr. Stefano Levi [Della Torre] e Luigi Manconi, La ripresa delle

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effetti, l’apice della popolarità di Lc nelle lotte per la casa, venne raggiunto in seguito a un luttuoso incidente accaduto durante lo sgombero del caseggiato di via Tibaldi a Milano (la morte di un bambino di appena sette mesi), allorquando la conseguente manifestazione nazionale di protesta, svoltasi nel capoluogo lombardo e principalmente costituita da attivisti della sinistra rivoluzionaria, vide la partecipazione di oltre 30.000 persone.38 Ad ogni modo, la nuova linea più populista e meno operaista, largamente sperimentata per più di un semestre e accettata supinamente dalla base di Lc senza che si registrassero resistenze o finanche proteste di natura procedurale, venne ratificata dalla base in occasione del II convegno nazionale dell’organizzazione (Bologna, 24 e 25 luglio 1971), che ebbe, per l’appunto, la massima Prendiamoci la città come concetto guida. Più che un’assemblea generale, tale incontro nazionale fu un grande raduno la cui funzione fu la ratifica delle decisioni già assunte in altra sede. Il secondo convegno di Lc si svolse infatti in «due tempi»: i tre documenti di discussione (Prendiamoci la città; Sull’organizzazione e Sulla situazione politica) vennero discussi, dalle varie realtà territoriali, a livello regionale e quindi licenziati in un’assemblea (il «preconvegno») di delegati delle regioni centro-settentrionali che si riunì a Pavia nei giorni 10, 11 e 12 luglio 1971. Tale “istanza” elesse, «con discussione pubblica sui nomi», il Comitato nazionale dell’organizzazione, anche se limitatamente ai posti spettanti alle realtà centro-settentrionali. In quel frangente, infatti, Lc stava sì avanzando, ma in modo scisso, ovverosia, per usare l’espressione di Bobbio, appariva «organizzativamente spaccata in due».39 Mentre le realtà lotte studentesche a Milano: da Viale Tibaldi a Città Studi, in «Quaderni piacentini», 44-45 (1971), pp. 122-153 (riferimento a p. 137). 38. Cfr. La riforma della casa la facciamo da noi e Gli assassini di Massimiliano sono: Aniasi (sindaco di Milano), Venegoni (presidente dell’IACP), De Peppo (proc. gen. della Repubblica), i padroni e la polizia, in «Lotta continua», 11 giugno 1971 e Levi [Della Torre] e Manconi, La ripresa delle lotte studentesche a Milano, p. 135 ss. Si veda anche Acs, Mi, Gab., Fc, 1971-1975, b. 24, f. 11001/49/1.5 «Milano. Ordine pubblico. Incidenti. V fascicolo», sf. 7 «Manifestazione anticomunista del 17 aprile 1971», riproduzione fotografica di manifesto dell’Uci(ml) (Nuovo crimine del governo Colombo. Un bambino muore in seguito alle cariche della polizia contro i baraccati a Milano, Milano, 8 giugno 1971) allegata alla riservata-raccomandata-doppia/busta della prefettura di Milano al Gab. del Mi del 23 giugno 1971. 39. Cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 93. Sull’incontro pavese, cfr. Il preconvegno di Pavia, in «Lotta continua», 25 luglio 1971, nel quale si precisava come tra i compiti del preconvegno nazionale di Pavia vi fosse stata anche l’elezione degli organismi dirigenti di

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settentrionali e centrali, coordinate da Lanfranco Bolis e Giorgio Pietrostefani (più vicini di altri dirigenti alla cultura politica leninista), tentavano «di precisare la struttura organizzativa e di pubblicizzare gli organismi dirigenti che [facevano] capo alla sede nazionale aperta a Milano», nel Meridione «Sofri dirige[va], da Napoli, una realtà organizzativa più fluida».40 Sofri, infatti, dopo essere stato arrestato il 15 novembre 1970 per un blocco stradale effettuato in occasione delle lotte per la casa in via Sansovino a Torino, una volta uscito di prigione, nel febbraio 1971, lasciò «la guida nazionale dell’organizzazione» e si trasferì a Napoli, dove concepì e lanciò la proposta di un quotidiano per il Sud d’impronta populista, con una linea politica «estremamente semplificata»: diritto alla vita; «rifiuto classista della politica come attività separata e privilegiata»; denuncia dei «nemici del proletariato».41 In ogni modo, quello bolognese fu un convegno assai partecipato che, oltre a ricompattare il gruppo dirigente, mise in allarme sia i comunisti felsinei sia le autorità di Ps, le quali, non mancarono di relazionare sul tema.42 Una nota, proveniente dalla prefettura del capoluogo, redatta in base a «quanto […] riferito da elemento fiduciario», ne descriveva – seppur per sommi capi – i lavori, notando come l’ostilità del Pci bolognese avesse pregiudicato l’efficienza della logistica dell’evento43 e soffermandosi su Lc: cioè l’Esecutivo nazionale e il Comitato nazionale. Dell’organo esecutivo, in carica fino al settembre 1972, facevano parte Bolis, Pietrostefani e Mario Milich (operaio della Pirelli). Luciano Della Mea definì l’incontro pavese «un lavoro da partito» e il convegno bolognese «una manifestazione di massa con una regìa o direzione da partito»; Luciano Della Mea, Il 2° convegno nazionale di Lotta continua, in «Giovane critica», 28 (1971), p. 31; ora in Id., Proletari senza comunismo, pp. 13-104 (citazione a p. 117). 40. Cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 93. 41. Ivi, p. 92. Sull’arresto di Sofri, cfr. Liberiamo Sofri, in «Lotta continua», 24 novembre 1970. Sulla presenza, nel 1971, di almeno due «stati d’animo», cfr. le testimonianze di Lanfranco Bolis (che definisce ciò che stava accadendo nell’Italia centrosettentrionale un processo di «partitizzazione») e Adriano Sofri (che asserisce di aver utilizzato la situazione della vacanza forzata per «squagliar[s]ela», precisando che con Milano, almeno fino al “fatidico” 12 dicembre 1971, ebbe «contatti rarissimi») in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, pp. 140 e 141. 42. Del convegno bolognese esiste un apposito sottofascicolo contenente materiale di vario tipo: dispacci telegrafici, riproduzioni in fotocopia dei documenti congressuali, ecc. A riguardo, cfr. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/133, sf. «Bologna. Congresso nazionale di Lotta continua». 43. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 26, f. 360/P-2, sf. «Congressi e convegni nazionali», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Bologna al Gab. del Mi

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un incontro semiclandestino del settore di lavoro all’interno delle forze armate (che era coordinato, a livello nazionale, dal bolognese Franco Travaglini): «Da quanto è stato riferito confidenzialmente – recita la relazione –, l’aspetto più importante della assise bolognese è stato rappresentato, tuttavia, dalla prima riunione a carattere nazionale del gruppo “Proletari in divisa” che, come è noto, opera in seno alle Forze Armate».44 La polizia, attraverso confidenti e/o stime approssimative, annotò anche i dati relativi alla partecipazione, valutata attorno alle 3.000 unità il primo giorno dei lavori e alle 4.000 la domenica (cifre più elevate di quelle fornite dagli stessi protagonisti in sede di ricostruzione dell’evento).45 L’attività verso l’universo proletario nel suo complesso (dagli asili alle case di riposo), se equivalse all’accettazione di una sorta di programma minimo caratterizzato da forme di sindacalismo sociale, non significò certo rinuncia alla prospettiva rivoluzionaria. Essa, secondo Lc, era sempre all’ordine del giorno anche se i suoi tempi sarebbero stati un po’ più lunghi del previsto. Si prevedevano dunque tre fasi: 1) il raggiungimento dell’autonomia operaia (ritenuto ormai compiuto); 2) la creazione di «basi rosse» autonome dalle istituzioni in ogni città; 3) la lotta armata, in cui la violenza delle masse da difensiva si sarebbe trasformata in offensiva, al fine della «distruzione dell’apparato difensivo dello Stato».46 La fase estremista di Lc raggiunse probabilmente il suo apice con la campagna contro il «fanfascismo», promossa insieme al Manifesto e fidel 29 luglio 1971. Come osservato, «il Pci pensa che la città da prendere sia […] Bologna ed è allarmatissimo: picchetti di iscritti ed ex partigiani presidiano la federazione locale, il municipio e gli uffici della regione» (Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 119). Sull’ostracismo del Pci si veda anche Giampaolo Pansa, Bologna rossa ha voltato le spalle ai cinquemila di Lotta continua, in «La Stampa», 25 luglio 1971. 44. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 26, f. 360/P-2, sf. «Congressi e convegni nazionali», riservata-raccomandata-doppia/busta del prefetto di Bologna al Gab. del Mi del 29 luglio 1971. Cfr. anche la testimonianza di Travaglini in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 129 ss. Anche e soprattutto a Bologna l’attività dei Pid fu attentamente monitorata. All’inizio del 1972, ad esempio, la questura comunicava che «svoltasi giornata odierna riunione esponenti gruppo “Proletari in divisa” cui habent partecipato nr. 30 persone convenute varie provincie» (Acs, Mi, Gab., Fc, 1971-1975, b. 5, f. 11001/14 «Bologna e provincia. Ordine pubblico. 1° fascicolo», sf. 2 «Manifestazioni politiche», telegramma della questura di Bologna del 23 gennaio 1972). 45. Cfr. ivi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 26, f. 360/P-2, sf. «Congressi e convegni nazionali», telegrammi della prefettura di Bologna del 24 e 25 luglio 1971. 46. Prendiamoci la città. Documento n. 1 di discussione per il convegno nazionale, ciclostilato in proprio, Torino 30 giugno 1971, p. 34.

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nalizzata a impedire l’elezione di Amintore Fanfani alla presidenza della Repubblica, percepita (non solo dall’asse Lc-Manifesto) come una tappa fondamentale del processo di «fascistizzazione dello Stato». Al di là della fondatezza di tale interpretazione della realtà (Fanfani, allievo di Dossetti, all’interno della Dc fu un esponente della sinistra), la campagna contro il «fanfascismo» – unitamente al lavoro sempre più capillare in numerosi settori d’intervento – contribuì a estendere la presenza di Lc su tutto il territorio nazionale, tanto che, a partire dal novembre 1971, l’organizzazione riuscì a realizzare, anche se per soli quattro mesi, un settimanale (che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto essere un quotidiano) ad hoc per il Meridione d’Italia intitolato «Mo’ che il tempo s’avvicina», giungendo infine al suo III convegno nazionale (Rimini, 1-3 aprile 1972) con un bottino di migliaia di attivisti e circa 150 sedi in tutta Italia.47 Al di là dei numeri, è comunque evidente come in occasione del suo terzo convegno nazionale (anch’esso monitorato dagli apparati investigativi dello Stato)48 Lc fosse in una fase espansiva la quale contribuì senz’altro a farle assumere un orientamento tattico che, appena dopo qualche mese, rivelò tutta la sua fallacia. Fu infatti proprio durante l’assise riminese (che si tenne, a differenza della precedente, «senza alcuna ostentazione e senza la presenza di osservatori esterni») che i quattrocento delegati, convinti (dopo una nuova “svolta” ispirata da Sofri) che la rivoluzione fosse in prossimità scelsero la strada della «militarizzazione» dell’organizzazione.49 Come affermato nel 47. Cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 100. Sul fanfascismo, cfr. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Luigi Bobbio, Ua 10, Relazione all’esecutivo nazionale sull’elezione presidenziale. No al fanfascismo. «Mo’ che il tempo s’avvicina» fu pubblicato settimanalmente (tranne qualche interruzione) dal 1° novembre 1971 al 22 marzo 1972 (cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 92, che tuttavia data all’8 marzo l’uscita dell’ultimo numero del giornale). Si veda inoltre: Convegno regionale di Lotta continua, Mo’ che il tempo si avvicina. Proletari e padroni a Napoli e nel Mezzogiorno, Edizioni Lotta continua, Milano 1973, che raccoglie il materiale elaborato in occasione del Convegno regionale di Lotta continua tenutosi a Napoli l’11 febbraio 1973. 48. Si veda Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/133, sf. «Affari generali», telegramma del prefetto di Forlì al Gab. del Mi del 30 marzo 1972, con cui si comunicava che il convegno (definito congresso) nazionale Lc si sarebbe tenuto nei giorni 1, 2 e 3 aprile 1972, presso l’albergo “Mirabel” (a Viserba di Rimini) «anziché Salone fieristico, causa revoca cessione sala da parte presidente Ente fiera». 49. Cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 100, secondo il quale, la nuova svolta venne «esplicitata» allorquando Sofri, che da Napoli si era trasferito a Roma, decise «di riprendere in mano la gestione dell’intera organizzazione proponendo in tempi rapidi la convocazione di un nuovo convegno nazionale e la pubblicazione di un giornale quotidiano» (ivi, p. 97).

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documento di discussione preparatorio, le decisioni che Lc avrebbe dovuto prendere si riducevano a due questioni: 1) la pubblicazione del giornale quotidiano […]; 2) la preparazione dei militanti a sostenere il loro ruolo rispetto a una situazione che sarà sempre più caratterizzata dal lavoro illegale e che soprattutto, già ora, impone di realizzare la violenza direttamente, come avanguardia, e in modo organizzato, in primo luogo contro i fascisti.50

La tesi centrale era dunque quella dello scontro generale: l’organizzazione avrebbe dovuto intensificare l’offensiva e prepararsi alla resa dei conti con lo Stato, ricorrendo all’esercizio «della violenza rivoluzionaria, di massa e di avanguardia».51 Non senza lacerazioni interne (alcune figure di primo piano abbandonarono il gruppo),52 attorno al nodo dell’uso della forza si sarebbe sedimentata così, come ricordato da Roberto Briglia (responsabile nazionale del servizio d’ordine nel 1973), una «frazione militarista», risultato di «un processo voluto dal centro, in seguito al quale “cento fiori [erano] fioriti”: tollerati, non particolarmente coltivati, ma neanche estirpati».53 Dunque, più che di una «frazione», è forse corretto parlare di una sensibilità diffusa, condivisa da buona parte del gruppo dirigente di Lc, la quale riuscì quindi a superare senza contraccolpi negativi il periodo caratterizzato dal bicefalismo (la leadership centrosettentrionale e quella meridionale) proprio sullo specifico terreno dell’esercizio della forza. Ciò in una prospettiva offensivista in grado di 50. Documento preparatorio per il III convegno nazionale di Lc, alias: La situazione di Lotta continua, ciclostilato ad uso interno, marzo 1972, visionabile in Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 39. Riprodotto anche in La sinistra extraparlamentare in Italia, pp. 257-280 (citazione a p. 260) e già precedentemente pubblicato, con il titolo La situazione di Lotta continua e con inserti dell’autore a mo’ di commento, in Della Mea, Proletari senza comunismo, pp. 13-104 (citazione alle pp. 25-26). 51. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Fabio Levi, Ua 39, Documento preparatorio per il III convegno nazionale di Lc, alias: La situazione di Lotta continua. 52. Ad esempio, uscirono da Lc Luciano Pero e Massimo Negarville (cfr. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 190), nonché Luciano Della Mea, che rese pubblico il suo dissenso con la già citata raccolta di scritti: «Considero la nuova linea, con le sue motivazioni irreali o pretestuose, un suicidio politico, ed è precisamente questa la ragione che mi ha indotto a rendere pubblico e giustificare un dissenso totale» (Della Mea, Proletari senza comunismo, p. 10). In realtà anche Pero espresse pubblicamente il suo dissenso, ma lo fece utilizzando uno pseudonimo; cfr. Giancarlo Abbiati [Luciano Pero], Contro il terrorismo, in «Quaderni piacentini», 47 (1972), pp. 21-33. 53. Cfr. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 194.

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coniugare le inclinazioni leninian-proletariste (e partitiste) di un Esecutivo nazionale galvanizzato dai risultati del ciclo di lotte sociali al di fuori della fabbrica, con il populismo barricadero (e movimentista) del gruppo raccolto attorno a Sofri, dapprima folgorato sulla via di Reggio Calabria e poi convinto che – come ammoniva la testata del settimanale per il Sud – il tempo della maturazione del processo rivoluzionario si stesse avvicinando.54 Come osservato, nelle teorizzazioni sofriane era evidente «l’influenza delle posizioni (molto più organiche) assunte nei mesi precedenti da Potere operaio», anche se in Lc «il discorso si circonda[va] di maggiori cautele». Alla nozione di «insurrezione» si preferiva appunto quella più generica di «scontro generale» e, di conseguenza, l’intensificazione del ricorso alla violenza d’avanguardia non comportò «un’esplicita teorizzazione dell’attualità della lotta armata».55 Possono dunque senz’altro essere inquadrate in tale contesto più o meno pianificato di attacco allo Stato, alla borghesia e ai neofascisti le azioni violente e armate (alcune andate a segno, altre no) messe in cantiere nel periodo marzo-maggio 1972: dagli scontri milanesi dell’11 marzo (nel corso dei quali fu assaltata la sede del «Corriere della sera») all’uccisione di Luigi Calabresi (17 maggio), passando per il mancato attentato al deputato missino Franco Servello (22 marzo).56 Fu in questo periodo che nacquero o si rafforzarono – a partire dai già esistenti servizi d’ordine o da strutture consimili operanti in alcune realtà (come, ad esempio, a Trento) – gli organismi specifici addetti ai lavori illegali: dalle rapine finalizzate al finanziamento dell’organizzazione ai nuclei selezionati in grado di compiere aggressioni e attentati. Erano, come ha affermato il “dissenziente” Negarville, «strutture organizzate militarmente» che sapevano dove abitavano «i fascisti, quali bar frequenta[va]no, quali [erano] le 54. Lc fu una delle poche organizzazioni della sinistra rivoluzionaria che sostenne la sommossa di Reggio Calabria (luglio 1970-febbraio 1971). Cfr. a riguardo Reggio Calabria: il capoluogo, la madonna o qualcos’altro?, in «Lotta continua», 2 settembre 1970 e Reggio Calabria, ivi 1° ottobre 1970. Sulla sollevazione reggina cfr. Fabio Cuzzola, Reggio 1970. Storie e memorie della rivolta, Donzelli, Roma 2007 e Luigi Ambrosi, «Boia chi molla», siempre! La rivolta di Reggio Calabria nella memoria di un protagonista comune, in «Zapruder», 16 (2008), pp. 86-94 e Id. La rivolta di Reggio. Storia di territori violenza e populismo nel 1970, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. 55. Bobbio, Lotta continua, p. 99 (corsivo mio). 56. Sul fallito attentato a Servello del giovane attivista di Lc Maurizio Pedrazzini e sull’uccisione di Calabresi, cfr. Aldo Cazzullo, Il caso Sofri. Dalla condanna alla «tregua civile», Mondadori, Milano 2004.

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auto da incendiare, quali azioni organizzare, sempre senza rivendicarle». E ancora: La struttura militarizzata esisteva, ma veniva taciuta; andava organizzata con grande attenzione, non riconosciuta. Infatti rimase sempre sostanzialmente segreta, occulta: e la discussione era tabù. Un modello mutuato, sotto questo aspetto, dai bolscevichi. Mentre Potere operaio teorizzava l’esproprio proletario, Lc lo faceva ma non lo rivendicava; semmai spiegava che era intervenuta a sbrogliare la situazione la rabbia popolare.57

Pressoché tutte le ricostruzioni delle vicende di Lotta continua concordano nel ritenere che fu proprio l’uccisione del commissario Calabresi (esaltata, anche se non direttamente rivendicata, dalla formazione politica)58 a innescare un dibattito, invero già iniziato dopo l’esecuzione a sangue freddo di Oberdan Sallustro da parte dei guerriglieri del Prt-Erp argentino (anch’essa elogiata da Lc e da altre formazioni rivoluzionarie e finanche sindacali),59 sulla legittimità/opportunità, sia in termini etici che politici, del ricorso alle forme più crudeli ed estreme di utilizzo della forza. Tra l’estate e l’autunno del 1972 vi fu infatti un’inversione di tendenza assai netta. L’ennesima svolta.60 57. Testimonianza di Negarville in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, pp. 191-192. 58. Per l’esultanza in occasione dell’assassinio di Calabresi cfr. La posizione di Lotta Continua, in «Lotta continua», 18 maggio 1972, in cui, come noto, l’uccisione del commissario venne giudicata «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». 59. Ad esempio, il 12 aprile 1972 il prefetto di Torino Giuseppe Salerno trasmise ai suoi superiori quattro volantini di approvazione dell’uccisione di Sallustro: se due erano di Lc e uno de “La talpa rossa” (Gcr), l’ultimo era un ciclostilato della Cisl. In quest’ultimo si affermava: «Chi era Sallustro? Era il direttore della Fiat Concord argentina noto per i metodi fascisti che usava all’interno dell’azienda. […] La Fiat chiede ai lavoratori italiani la solidarietà con un direttore che all’interno della fabbrica argentina applicava metodi dichiaratamente fascisti con la complicità delle forze politiche militare [sic] e di polizia di quel paese a dittatura fascista. I lavoratori torinesi della Fiat devono dire no a questo tipo di solidarietà» (Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 22, f. 311/P, sf. 2 «Torino. Conferenza nazionale dei Gruppi comunisti rivoluzionari», Delegati impiegati Fiat Cisl, Le violenze, riproduzione fotostatica di volantino ciclostilato, Torino, 11 aprile 1972, allegato alla riservata-raccomandata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 12 aprile 1972; tutto maiuscolo, anziché corsivo, nel testo). Per la posizione di Lc cfr. Padroni in lutto per Sallustro giustiziato, in «Lotta continua», 12 aprile 1972. 60. Oltre alle ricostruzioni già citate, cfr. De Luna, Le ragioni di un decennio, p. 112, il quale osserva come «dopo l’assassinio di Calabresi il pendolo di Lotta Continua prese a oscillare decisamente nella direzione opposta a quella dei teorici della violenza offensiva».

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A metà ottobre il Comitato nazionale fece autocritica sulla base di un documento reso pubblico dalle colonne del quotidiano dell’organizzazione. Alimentando una dissidenza «soggettivista» che contribuirà a forgiare formazioni armate quali i Nap e Prima linea, la fase precedente veniva qualificata come «estremista» e valutata come erronea.61 Tale cambio di direzione venne registrato anche dalle autorità. Nella primavera del 1973, infatti, il prefetto di Torino poteva informare i suoi superiori che, intervenendo ai lavori del I convegno nazionale operaio di Lotta continua, di fronte a circa mille persone, Adriano Sofri: «Dopo aver affermato che in Italia non esistono i presupposti per il rovesciamento dell’attuale sistema, ha precisato che il proseguimento della linea “estremista” condannerebbe il movimento ad una velleitaria azione, la quale non raggiungerebbe alcun scopo, se non quello di apparire infantile».62 Oltre a prendere le distanze dalla violenza d’avanguardia, Lotta continua fece anche marcia indietro sia sulla questione dei delegati di fabbrica (legittimandone l’elezione e l’azione) sia sul rapporto con il Pci e, più in generale, le istituzioni del movimento operaio tradizionale. I «revisionisti», da avversari-nemici diventarono concorrenti e finanche potenziali alleati. Cominciava, in questo modo, la seconda fase della vita del gruppo, quella di Lotta continua «forza politica»,63 caratterizzata da una maggiore attenzione ai temi istituzionali. Sarà la fase del compimento del processo di strutturazione partitica e del progressivo abbandono della centralità opeSulle reazioni negative di numerosi militanti di Lc verso la posizione del giornale cfr. Guido Panvini, “Lotta continua” e i terrorismi di sinistra in Italia (novembre 1969-marzo 1978), in I neri e i rossi, p. 142 (l’intero saggio è alle pp. 126-165). 61. Cfr. Per la discussione su Lotta Continua. La riunione del comitato nazionale-1, in «Lotta continua», 21 ottobre 1972 e Per la discussione su Lotta Continua. La riunione del comitato nazionale-2, ivi, 22 ottobre 1972. 62. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 350, f. G5/42/133, sf. «Torino», riservata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 18 aprile 1973. Secondo il prefetto i partecipanti al convegno nazionale operaio di Lc, che si svolse il 14 e 15 aprile 1973, furono circa 900. Gli atti del convegno sono in Gli operai. Le lotte. L’organizzazione. Analisi, materiali e documenti sulla lotta di classe nel 1973, a cura della Commissione nazionale scuole quadri di Lotta continua, Edizioni di Lotta continua, [Roma], s.d. [ma 1973 o 1974], pp. 129-283. 63. Come segnalato da Bobbio, l’esecutivo nazionale venne sostituito da una «segreteria nazionale di militanti non operai, cui è fatto obbligo risiedere a Roma» e furono create 13 commissioni (cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 129). Come notato da Voli, la commissione femminile non era ancora contemplata (Voli, Quando il privato diventa politico, p. 119).

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raia, la fase che farà emergere le profonde contraddizioni interne all’organizzazione, preludio del repentino crollo del 1976. 2. Il Pdup per il comunismo e la nascita di Democrazia proletaria Alle elezioni politiche del 7 e 8 maggio 1972 il Manifesto si aggiudicò lo 0,67% delle preferenze (circa 224.300 voti), il Movimento politico dei lavoratori lo 0,36% (circa 120.250 voti), il Pc(m-l)i lo 0,26% (poco più di 86.000), i maoisti di Stella rossa, ossia il Fronte rivoluzionario marxistaleninista, lo 0,03% (circa 9.100, un terzo dei quali nella circoscrizione di Roma-Viterbo-Latina-Frosinone) e, infine, gli emme-elle siciliani (con la lista “Per una Sicilia marxista-leninista. Libertà. Giustizia. Progresso”) lo 0,01% (con quasi 3.000 preferenze, tutte concentrate nell’unica circoscrizione in cui si presentarono, quella di Catania-Messina-Siracusa-RagusaEnna). Dato che nessuna delle formazioni della sinistra rivoluzionaria raggiunse il quorum per eleggere un deputato, furono “dispersi” circa 443.000 voti. A questi si aggiunsero anche quelli del Psiup, che scese dagli oltre 1.400.000 voti del 1968 ai circa 648.500 voti del 1972 (pari all’1,94% delle preferenze valide) e che, a causa della distribuzione uniforme del voto, alla Camera dei deputati non riuscì anch’esso a raggiungere il quorum in nessuna delle 32 circoscrizioni elettorali (nella circoscrizione di CataniaMessina-Siracusa-Ragusa-Enna il risultato non fu ottenuto per soli 2.000 voti). Al Senato, invece, grazie alle liste comuni con il Pci (in Molise allargate al Psi, mentre in Sardegna al Partito sardo d’azione), il Psiup riuscì a eleggere 11 parlamentari, tra i quali Dante Rossi che, all’atto della scissione, si schierò con coloro che diedero vita al Pdup. Dopo che, in seguito alla sconfitta elettorale, la maggioranza del Psiup decise con il suo IV congresso (Roma, 13-16 luglio 1972) di sciogliersi e confluire nel Pci, numerosi esponenti della sinistra socialproletaria decisero di riorganizzarsi nel Nuovo Psiup con l’ipotesi di convergere a breve con altre forze che si trovassero in una situazione analoga alla loro o comunque giudicate affini.64 Le posizioni della «sinistra» furono sostenute dal 23,39% degli iscritti. La posizione maggioritaria, favorevole alla confluenza nel 64. Cfr. Il rilancio del Psiup per il rinnovamento e l’unità della sinistra, documento presentato al IV congresso del Psiup dalla minoranza «di sinistra» del Cc, ora in Miniati, Psiup 1964-1972, pp. 251-270.

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Pci fu sostenuta da Dario Valori e Tullio Vecchietti (segretario e presidente del Psiup) e raccolse il 67,08% dei consensi. Un’altra mozione di minoranza, sostenuta da Giuseppe Avolio e Vincenzo Gatto e che raggruppava l’8,46% degli iscritti, sostenne, invece, l’opportunità di ricongiungersi con il Partito socialista, mentre l’1,07% degli iscritti si astennero.65 I membri della «sinistra» del Cc del Psiup artefici del documento di minoranza “anti-liquidazionista” (oltre a Silvano Miniati, leader della componente, Aristeo Biancolini, Guido Biondi, Mario Brunetti, Pino Ferraris, Vittorio Foa, Elio Giovannini, Antonio Lettieri, Giuseppe Maffei, il senatore Dante Rossi, Gastone Sclavi e Pino Tagliazucchi), più che al Manifesto (comunque ritenuta una formazione politica con cui confrontarsi), avevano in mente il Movimento politico dei lavoratori (Mpl), l’organizzazione della sinistra radicale cattolica fondata (considerando anche la fase aurorale del Comitato promotore) alla fine del 1970 da Livio Labor.66 Tale organizzazione, che pubblicava il settimanale «Alternativa», decise, anch’essa in seguito all’insuccesso elettorale del maggio 1972, di confluire nel Psi (su proposta dello stesso Labor e, tra gli altri, di Gennaro Acquaviva, Luciano Benadusi e Luigi Covatta, che fondarono all’uopo il Centro ricerche e iniziative per l’alternativa socialista),67 andando incontro all’opposizione di una componente filo-Pci (rappresentata da Massimo De Angelis, Luciano Mazzoni, Peppino Orlando e Anna Maria Guadagni) e della sinistra interna, orientata in sen65. Cfr. Agosti, Il partito provvisorio, p. 272. 66. Sul Mpl cfr. i documenti conservati in Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 23, f. 355/P «Movimento politico dei lavoratori», da cui si evince che lo statuto venne depositato dal notaio il 15 dicembre 1970 e registrato il 22 dicembre 1970. Cfr. anche Proposta del MPL per una alternativa socialista, a cura del Movimento politico dei lavoratori, s.e., Roma s.d. [1971] e Il Movimento politico dei lavoratori per la piena occupazione e il controllo politico dello sviluppo. Tesi politiche del MPL per le elezioni generali del 7 maggio, Sapere, Milano 1972 e Paolo Frascatore, Il movimento politico dei lavoratori e Livio Labor, Sacco, Roma 2017. 67. Lo scioglimento del Mpl avvenne in un’assemblea nazionale tenutasi a Roma il 16 e 17 settembre 1972. Il Centro ricerche e iniziative per l’alternativa socialista (Crias) si proponeva di portare avanti «l’azione tendente ad acquisire ad una scelta socialista» i settori del movimento operaio che, benché impegnati nelle «lotte sociali e sindacali, sono rimasti finora ancorati ad una collocazione politica interclassista» (Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 22, f. 348/P/18 «Centro ricerche e iniziative per l’alternativa socialista», riservata per conto del Capo della polizia alla Dgps del 16 novembre 1972). Sulle ultime fasi dell’esperienza del Movimento politico dei lavoratori cfr. Gian Giacomo Migone, La Fine del Mpl, in Livio Labor. La virtù dell’impazienza, a cura di Tarcisio Barbo e Luigi Borroni, Edizioni Lavoro, Roma 2000, pp. 78-85.

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so extraistituzionale. Questa componente era costituita da numerosi giovani (Gian Giacomo Migone, principale esponente della «sinistra», Vittorio Bellavite, Roberto De Vita, Domenico Jervolino, Ignazio Puleo e Giovanni Russo Spena) formatisi nelle esperienze del dissenso cattolico o nella sinistra della Cisl. Assunta a fine settembre, su proposta del gruppo bolognese, la denominazione di Alternativa socialista (As),68 la nuova e provvisoria formazione politica (che raccoglieva quasi la metà degli aderenti al Mpl) allacciò, come segnalato da Gambetta, «un fitto dialogo» con il Nuovo Psiup. Un «dialogo seguito con attenzione anche dal Manifesto che, sul suo quotidiano, [dette] spazio a riflessioni e documenti dei due spezzoni».69 Il percorso di convergenza tra As e Npsiup fu, ovviamente, osservato con interesse anche dalle autorità di Ps. Come informò il prefetto del capoluogo piemontese, Giuseppe Salerno: la maggioranza dell’ex sezione torinese del Mpl si pronunciò contro la confluenza nel Psi «propugnata dalla frazione facente capo a Livio Labor», ritenendo più positiva la strada dell’autonomia nella «prospettiva di “rifondazione della sinistra socialista di opposizione” che dovrebbe comprendere, oltre alle forze dell’ex MPL contrarie a Labor, il nuovo PSIUP, la sinistra delle ACLI e la sinistra sindacale».70 Fu quindi deciso di «riprendere l’azione politica sotto la provvisoria denominazione» di Alternativa socialista. Su tali posizioni sarebbe stata attestata – sempre secondo il prefetto torinese – la maggioranza degli ex attivisti del Mpl di Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Emilia, Toscana, Umbria, Campania, Sicilia «e delle principali città italiane».71 Come 68. Come comunicava il prefetto di Bologna Mario Cerutti, il direttivo provinciale del Mpl di Bologna diramò un comunicato in cui veniva respinta l’ipotesi proposta da Labor di «collegamento organico e privilegiato» col Psi, segnalando altresì la necessità di ricostituire un’organizzazione politica denominata Alternativa socialista, espressione delle «avanguardie sindacali, sociali e politiche» che non accettavano la confluenza nei ranghi della sinistra istituzionale (cfr. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 22, f. 348/P/18, riservata del prefetto di Bologna al Gab. del Mi del 29 settembre 1972). 69. William Gambetta, Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Punto Rosso, Milano 2010, p. 32, il quale ha sottolineato come a partire dal maggio 1972 «il manifesto» dedicò numerosi articoli al dibattito delle due neocostituite formazioni politiche. Per il punto di vista del Manifesto cfr. Le posizioni del Manifesto dopo il 7 maggio. Un dibattito critico aperto a tutta la sinistra, in «il manifesto», 18 giugno 1972. 70. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 22, f. 348/P/18, riservata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 10 ottobre 1972. 71. Ibidem. Per quanto riguarda invece il Nuovo Psiup, proseguiva Salerno, «vale a dire il gruppo socialproletario che ha deciso di mantenere la propria autonomia, ha scar-

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osservato, se la federazione fiorentina del Psiup fu tra i principali artefici della costituzione del Nuovo Psiup, per quanto riguarda il Movimento politico dei lavoratori tale ruolo fu svolto dal gruppo torinese, che si distinse per preparazione e impegno. Non casualmente, dunque, la prima iniziativa organizzata congiuntamente (il convegno regionale Lotte operaie e iniziativa politica della sinistra) si tenne, il 14 e 15 ottobre 1972, proprio a Torino. Organizzato dal Comitato regionale per il rinnovamento e il rilancio del Psiup e da As, l’oggetto dell’incontro fu la rifondazione unitaria di una forza di «sinistra socialista» in Italia.72 Stando al prefetto torinese, che non manca di segnalare al ministro dell’Interno la tempestiva denuncia di due attivisti di Alternativa socialista per divulgazione abusiva di stampati, il convegno regionale, tenutosi nella sede dell’Unione culturale, vide la partecipazione di circa duecento persone, «in maggioranza giovani». Tra i convenuti vi erano osservatori del Pci, del Pc(ml)i, della Cgil, della Cisl e delle Acli. La relazione introduttiva fu affidata a Gian Giacomo Migone, il quale spiegò come As e Nuovo Psiup si fossero «impegnati a convergere su un’unica strategia di lotta che intend[evano] sviluppare per rafforzare il movimento operaio».73 Se, proseguì il prefetto, Renato Lattes, «principale fautore torinese» del Npsiup annunciava che «nella prima quindicina di novembre» avrebbe avuto luogo «a Bologna un convegno per trattare il tema della unificazione delle forze di sinistra e per fare il punto sulle lotte contrattuali», Vittorio Foa, «esponente nazionale» della nuova formazione, nelle conclusioni ribadì «l’urgenza di una fattiva convergenza di tutte le forze di sinistra per creare le premesse» di un’alternativa «che respinga ogni collaborazione con la DC». A tal proposito, concludeva l’attento funzionario, il Nuovo Psiup dissentiva dal “possibilismo” del Pci, con il quale, tuttavia, «intende[va] proseguire il dialogo per la soluzione dei problemi che interessano la classe operaia».74 Il convegno nazionale preannunciato da Lattes si tenne, come previsto, il 4 e 5 novembre 1972 a Bologna, alla presenza di oltre 800 attivisti, in sa consistenza, in quanto la grandissima maggioranza dei socialproletari è confluita nel PCI, seguendo i maggiori esponenti torinesi dell’ex partito». Secondo il prefetto torinese, il gruppo contava «non più di un centinaio di aderenti capeggiati dal sindacalista Renato Lattes» (ibidem). 72. Loreto, L’«anima bella» del sindacato, p. 159. 73. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 22, f. 348/P/18, riservata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 19 ottobre 1972. 74. Ibidem.

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maggioranza quadri sindacali e di fabbrica. Se i lavori, introdotti da Pino Ferraris, erano incardinati attorno al medesimo argomento del convegno regionale piemontese, in quella sede si definirono le direttrici della costituenda casa comune degli ex “psiuppini” ed “emmepiellini” di sinistra che nel frattempo avevano fondato il quindicinale «Unità proletaria», diretto da Daniele Protti.75 L’opposizione intransigente alla Dc (né duttile, né massimalista) avrebbe dovuto realizzarsi anche e soprattutto guardando verso la sinistra extraistituzionale ma con un metodo nuovo di lavoro che rendesse possibile la crescita collettiva dei singoli attivisti.76 Nemmeno un mese dopo, un’apposita assemblea nazionale, tenutasi a Livorno il 2 e 3 dicembre 1972, sancì la fusione delle due componenti e la nascita del nuovo soggetto politico, la cui denominazione, dopo aspri contrasti, fu quella di Partito di unità proletaria.77 Tra le varie opzioni relative al nome gli ex Mpl proposero, con convinzione, Democrazia proletaria che però non incontrò il favore degli ex psiuppini e dei delegati meridionali (ai quali ricordava la Dc).78 A Livorno furono individuati gli organismi di coordinamento del partito (al cui vertice vennero eletti, tra gli altri, Bellavite, Brunetti, Roberto Calari, Ferraris, Foa, Migone, Miniati, Guglielmo Ragozzino, il senatore Dante Rossi e Russo Spena). Benché deliberatamente esterna agli organismi esecutivi, la sinistra sindacale si configurò come una componente de75. Uscito per la prima volta il 21 ottobre 1972 come quindicinale a cura del Nuovo Psiup, il 20 novembre mutò il sottotitolo in «Quindicinale del Nuovo Psiup-Sinistra Mpl», per poi cambiarlo nuovamente con il numero dell’8 gennaio 1973 in «Quindicinale del Partito di unità proletaria». Un’altra variazione del sottotitolo avverrà in seguito alla fusione tra Pdup e Manifesto e alla conseguente nascita del Pdup-pc («Quindicinale del Partito di unità proletaria per il comunismo»). Il quindicinale cesserà le pubblicazioni nel dicembre del 1974 per riprenderle immediatamente, fino al gennaio 1976, come mensile del Pdup-pc; cfr. Archivio del centro di documentazione di Lucca. I periodici politici, p. 429. Secondo Ottaviano, il quindicinale raggiunse in breve la tiratura di 20.000 copie e la cifra di 5.000 abbonati (Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 574. 76. Cfr. Loreto, L’«anima bella» del sindacato, pp. 160-161. Sull’incontro bolognese cfr. anche Bologna, novembre ’72: verso la costruzione del Partito, in «Unità proletaria», 20 novembre 1972, Le basi del nostro progetto politico, ivi e L’appello finale del convegno, ivi. 77. Cfr. Assemblea di Livorno: il Partito di unità proletaria crescerà, ivi, 8 gennaio 1973. Come osservato da Loreto: «Si trattò di un convegno e non di un vero proprio congresso costitutivo, che fu rimandato all’autunno del 1973, per dare modo ai militanti di sviluppare un lavoro politico della durata di circa un anno che permettesse la costruzione dal basso del nuovo partito» (Loreto, L’«anima bella» del sindacato, p. 161). 78. Cfr. Protti, Cronache di “nuova sinistra”, p. 19.

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cisiva del partito che, fin dalle prime battute, attrasse a sé gruppi e individualità provenienti dalla sinistra rivoluzionaria (come il gruppo di Andrea Ranieri, proveniente da Lotta continua) o dal Pci.79 La collocazione politica del neocostituito partito non era tuttavia la stessa del Psiup, ossia tra Psi e Pci, bensì a sinistra di quest’ultimo. Il Pdup irruppe così nel medesimo spazio politico occupato dal Manifesto e la logica conseguenza fu, data la propensione unitaria dell’ibrida formazione politica catto-socialista, la proposta di unificazione con il gruppo di Magri. Come già accennato, nella seconda metà del 1972, l’area che poi diede vita al Pdup e il gruppo del Manifesto avevano già sviluppato alcuni rapporti politici dettati dalla necessità di costruire uno schieramento unitario di opposizione classista in una fase di incertezza sui possibili sbocchi.80 La strada non fu, ad ogni modo, tutta in discesa. Come documentato in uno studio specifico sulle due aree politiche, il rapporto tra il Pdup e il Manifesto fu, fin dall’inizio, «piuttosto difficile»,81 nonostante la disponibilità del «quotidiano comunista» a concedere spazi al Pdup (venne avanzata la proposta dell’utilizzo settimanale di una pagina del giornale) e a realizzare progetti in comune (un convegno nazionale e altre iniziative).82 L’ostacolo, oltre che dalle gelosie d’apparato e dagli immancabili “personalismi”, era rappresentato dalle rispettive culture politiche di provenienza e dal differente profilo del corpo militante. Come osservato da Gambetta, nel corso del 1973 i principali contrasti tra i due gruppi nascevano da visioni differenti, se non opposte, dell’atteggiamento verso i sindacati, del rapporto con i partiti della sinistra storica e della tattica elettorale da seguire: Mentre per i dirigenti del Manifesto occorreva accentuare l’autonomia dei conflitti sociali e distinguersi dagli orientamenti maggioritari di Cgil, Cisl e Uil, per quelli del Pdup non era possibile […] non fare i conti con le confe79. Cfr. Loreto, L’«anima bella» del sindacato, p. 162. Come notato da Protti, tra tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria il Pdup fu quello maggiormente legato «alle fortune della sinistra sindacale» (Protti, Cronache di “nuova sinistra”, p. 26). 80. Cfr. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 33. 81. Su ciò e, più in generale, sui rapporti tra Pdup e Manifesto cfr. Antonio Lenzi, La resistibile ascesa verso l’unificazione. L’incontro tra il Pdup e «il manifesto», in «Diacronie», 9 (2012), p. 10 (l’intero articolo è alle pp. 1-18). 82. Cfr. Tre nostre proposte, in «il manifesto», 15 novembre 1972. Nello stesso numero, Miniati si lamentava dell’impronta da «avversari», e non da «compagni», delle critiche che il Manifesto rivolgeva all’area che avrebbe fondato il Pdup; Cfr. Silvano Miniati, Una lettera del compagno Miniati, ivi.

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derazioni sindacali. Rispetto alla sinistra tradizionale, invece, le posizioni si rovesciavano: mentre il Manifesto proponeva una strategia che guardasse alla sinistra storica, e particolarmente al Pci, con l’obiettivo di spostarne l’asse su posizioni più radicali, il Pdup mirava a un partito con una marcata autonomia.83

In effetti, il rapporto di amore/odio del gruppo del Manifesto verso il Pci, fu una sorta di “palla al piede” che il gruppo fondato da Magri, Pintor e Rossanda si portò appresso lungo tutti gli anni Settanta. Come osservato, la provenienza del gruppo influenzò in modo decisivo il suo «dialettizzarsi col post-sessantottismo», determinando così una continua oscillazione tra la ricerca di una realistica «traduzione politica della nuova soggettività rivoluzionaria» e la «costante paura di staccarsi da un intorno estremistico assunto come ragione stessa del proprio essere e di cui si subisce un continuo soggiogamento».84 Da questo punto di vista, il non essere né filo né anti Pci del Pdup, l’essere insomma scevro da pendenze “freudiane” verso la casa-madre togliattiana, agevolò il percorso del gruppo dirigente proveniente dal dissidentismo di sinistra socialista e cattolico verso un approdo marxista rivoluzionario senza eccessivi steccati ideologici e/o timori reverenziali. E fu soprattutto per questo motivo che i rapporti con il gruppo del Manifesto da parte del Pdup furono contrassegnati da molta cautela: la vocazione unitaria venne infatti declinata a trecentosessanta gradi e, di conseguenza, un rapporto privilegiato con il Manifesto avrebbe compromesso le relazioni con le altre formazioni della sinistra rivoluzionaria e, quindi, un ipotetico (quanto illusorio) percorso aggregativo su più vasta scala.85 Nonostante ciò, le iniziative congiunte delle due formazioni politiche proseguirono, grazie anche al dinamismo delle sedi periferiche, complice il dispiegarsi delle lotte contrattuali. Non fu dunque un caso se nella primavera del 1973 le commissioni operaie delle due organizzazioni rivoluzionarie redassero un documento finalizzato, tra l’altro, all’aggregazione 83. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 34, il quale osserva come sulla questione della partecipazione alle competizioni elettorali il Pdup considerasse «inevitabile […] la presentazione di liste autonome del nuovo partito, mentre il Manifesto opta[sse] per il voto al Pci, almeno fino alla costruzione di una solida rete organizzativa» (ibidem). 84. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 568. 85. Cfr. l’articolo Risposta negativa dei dirigenti del Pdup alle nostre proposte di iniziativa unitaria, in «il manifesto», 19 gennaio 1973, che riprodusse, con intenti polemici, la corrispondenza del Pdup ostile all’instaurazione di rapporti privilegiati di partnership con il Manifesto.

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di quelle forze che si riconoscessero «in una radicale e omogenea lotta anticapitalistica e antiriformista», allo scopo di catalizzare un processo di ristrutturazione della sinistra italiana.86 Dopo un incontro “allargato” (cioè aperto anche a coloro che non fossero dirigenti) tenutosi il 12 e 13 maggio a Monteporzio Catone,87 su proposta di Rossana Rossanda che intervenne all’assemblea nazionale del Manifesto (tenutasi presso l’Hotel Parco dei Principi di Roma dal 29 giugno al 1° luglio 1973, alla presenza di oltre 200 delegati),88 anche i rispettivi “centri” cominciarono a ragionare sulla costituzione di una forza politica in grado di rappresentare il fulcro dell’ambita «nuova opposizione».89 Sarebbe stata dunque necessaria, secondo le due formazioni, la costituzione di un’organizzazione fondata su un’analisi della crisi «come crisi di sistema», la quale, tuttavia, non sarebbe stata destinata né «a precipitare in tempi brevi, in un dilemma schematico rivoluzione-catastrofe», né a ricomporsi «senza un salto di qualità negli equilibri produttivi, sociali e politici». Una forza politica [fondata] sul superamento di una concezione della rivoluzione come presa del potere politico a coronamento di una crescita essenzialmente economico-rivendicativa del movimento di massa. E concepisca 86. Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Guido Piraccini, Ua 28, Documento unitario Manifesto-Pdup, Roma 29 marzo 1973. 87. Cfr. Riunione degli organismi nazionali del manifesto e del Pdup per lo sviluppo di un’azione unitaria e di un più generale processo di aggregazione, in «il manifesto», 16 maggio 1973 e Il processo di aggregazione con il manifesto e altre forze di classe, in «Unità proletaria», 11 giugno 1973. Cfr. inoltre Lenzi, La resistibile ascesa verso l’unificazione, p. 12, che nota come benché il comunicato ufficiale giudicasse «nettamente positive» le reazioni alla riunione, i ricordi dei protagonisti sono concordi nell’affermare il contrario. A tal proposito cfr. Protti, Cronache di “nuova sinistra”, p. 28, che ricorda come l’incontro avesse dimostrato «palesemente una diversità di cultura politica di fondo, e quindi una diversità di linguaggio, che rendeva oltremodo difficile il dialogo e l’intesa». 88. Come osservato, la relazione introduttiva di Rossanda non fece «compiere nessun passo avanti verso una maggiore omogeneità culturale, programmatica o politica» (Lenzi, La resistibile ascesa verso l’unificazione, p. 14). A riguardo cfr. l’intervento di Pintor all’assemblea, il quale affermò orgogliosamente che l’origine comunista, «anzi togliattiana», del gruppo non costituiva certo un limite, bensì uno dei suoi punti di forza; cfr. in Rossana Rossanda et. al., Una nuova opposizione, una nuova forza politica, per rovesciare la crisi di sistema, contro il sistema. Assemblea nazionale del Manifesto, 29-30 giugno-1 luglio 1973, s.e. [Grafo Press], Milano, s.d. [1973], p. 38 (tutto il documento è alle pp. 67-79). 89. Cfr. Rocco Pellegrini e Guglielmo Pepe, Unire è difficile. Breve storia del Pdup per il comunismo, Savelli, Roma 1977, p. 21.

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invece la presa del potere come atto di rottura necessaria e possibile solo in quanto sia compiuto da un movimento politico di massa cresciuto nella contestazione concreta del sistema, capace di costruirsi in alternativa positiva e di affermare una nuova egemonia sul corpo sociale.90

Il colpo di Stato cileno del settembre 1973 e la necessità di contrastare i tentativi di convergenza del Pci verso la Dc sospinsero i due gruppi, pur tra numerose perplessità e molti nodi irrisolti, verso l’unificazione. Se il 23 e 24 novembre 1973 si tenne a Firenze, alla presenza di 800 delegati e un migliaio di invitati, un incontro nazionale dei quadri dirigenti delle due formazioni,91 alla fine di febbraio del 1974, i vertici del Pdup e del Manifesto annunciarono con una dichiarazione congiunta lo scioglimento dei due gruppi e la decisione di fondersi in un unico partito.92 Il testo della dichiarazione, come osservato da Gambetta, fu «il risultato di un meticoloso lavoro di mediazione tra le due parti».93 Il costituendo partito, se da un lato avrebbe dovuto caratterizzarsi «come forza autonoma che cerca una risposta unitaria al problema della rivoluzione italiana, assumendo come interlocutore politico tutto l’arco delle forze anticapitalistiche», dall’altro il medesimo trattamento doveva essere riservato «alle organizzazioni storiche della sinistra», certamente «contestandone gli orientamenti riformistici e le scelte politiche», «ma anche cogliendo tutte le occasioni unitarie che favoris[sero] la costruzione di una nuova opposizione e una risposta adeguata agli interrogativi di fondo che tutto il movimento operaio [avesse avuto] di fronte».94 Anche se non mancarono ulteriori occasioni di polemica,95 le discussioni furono rinviate a dopo la costituzione del nuovo soggetto politico e, 90. Documento provvisorio di discussione interna del Pdup e del Manifesto per un processo di unificazione politica e per una nuova opposizione anticapitalistica, in Rossana Rossanda et. al., Una nuova opposizione, pp. 72-73. 91. Cfr. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 579. 92. Cfr. Il Manifesto e il Pdup per l’unificazione, in «il manifesto», 27 febbraio 1974, e in «Unità proletaria», 18 marzo 1974. Il documento fu stampato per la diffusione tra i quadri del costituendo Pdup-pc con il titolo Documento unitario Pdup-Manifesto; cfr. Acsmp, Fondo Massimo Giuffredi, f. «Manifesto-Pdup. Documenti nazionali». 93. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 35. 94. Documento unitario Pdup-Manifesto, p. 14. 95. Tra l’inverno e l’estate del 1974, ad esempio, Foa lanciò a più riprese la proposta frontista dell’opposizione generale alla Dc al fine di porre le condizioni per il «governo delle sinistre» (cfr. Vittorio Foa, Gli sbocchi della crisi, in «Unità proletaria», 18 marzo 1974; Id., “Tutti gli uomini del re”, ivi, 10 giugno 1974; Id., La svendita della forza operaia per

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finalmente, nell’estate del 1974 si tennero le annunciate riunioni di scioglimento del Manifesto (Roma, 12-14 luglio) e del Pdup (Firenze, 19-21 luglio).96 Il clima «propagandistico» che pervase i due eventi, ha osservato Ottaviano, attenuò le divergenze (pur richiamate nelle relazioni introduttive e negli interventi dei convenuti) e il «diffuso disagio» si ricompose «nella metodologia e nel mito del “lavoro comune”, come condizione di un chiarimento rimandato al futuro».97 Nell’assise di scioglimento del Manifesto (alla presenza di quasi 600 delegati e numerosissimi invitati), Magri – dopo aver presentato il processo di unificazione come un moto «di rinnovamento intellettuale, morale, organizzativo, della sinistra italiana» – sottolineò come esistessero «le condizioni, soggettive e oggettive» per far sì che la convergenza tra Manifesto e Pdup diventasse «un punto di coagulo di altre forze, e un punto di riferimento per processi di ripensamento già in atto così nel campo riformista come in quello extraparlamentare».98 Ciò nonostante, dopo aver sottolineato ancora una volta la presenza di una «crisi di sistema», ribadì le differenze di vedute con il Pdup: l’opposizione alla formula del «governo delle sinistre» e l’inopportunità di partecipare alle imminenti scadenze elettorali. Il leader del Manifesto, infine, propose che il partito frutto della fusione si chiamasse Unità proletaria per il comunismo: Unità, perché vogliamo dire alle masse che non vogliamo fare un partito in più, né una nuova scissione, ma lavorare a costruire una superiore unità. Proletaria, perché non crediamo più alle rivoluzioni fatte per conto degli oppressi anziché dagli oppressi in prima persona. Per il comunismo, perché siamo più che mai convinti che il comunismo non è oggi una bandiera ideale ma è un programma cui riferire la pratica di ogni giorno […].99 resuscitare un cadavere?, ivi, 8 luglio 1974). Le tesi di Foa furono assunte dal Pdup attraverso il documento Crisi della Democrazia cristiana, compromesso storico e alternativa di classe (in «Unità proletaria», 24 giugno 1974). 96. Per gli atti dei congressi di scioglimento del gruppo del Manifesto e del Pdup cfr. Congresso nazionale del Manifesto. Dalla autonomia operaia alla egemonia operaia, dalla unità della sinistra alla rifondazione della sinistra, dalla crisi di sistema alla alternativa di sistema (Roma, 12-14 luglio 1974), Alfani, Roma 1974 e Atti del Congresso nazionale del partito di unità proletaria. Una nuova forza unitaria per il controllo operaio e il potere popolare verso una alternativa di classe (Firenze, 19-21 luglio 1974), a cura di Roberto Aristarco, Alberto Cadeddu, Grazia Centola Ragozzino, Unità proletaria, Firenze 1974. 97. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 582. 98. Magri, Relazione introduttiva, in Congresso nazionale del Manifesto, p. 13. 99. Cfr. Magri, Relazione introduttiva, pp. 44-46. (cit. a p. 46; corsivo nell’originale).

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Nel congresso di scioglimento del Pdup, alla presenza di oltre 700 delegati e, anche qui, numerosi invitati, la relazione introduttiva di Silvano Miniati affrontò, ovviamente, le questioni sollevate da Magri. Sulla controversia della partecipazione alle competizioni elettorali, Miniati sostenne la necessità – pena la perdita di credibilità – di stimolare e guidare nuovi conflitti, senza rinunciare a traslarli nello scontro elettorale.100 Miniati riconfermò quindi la tesi del «governo delle sinistre», precisando, ad ogni modo, che in «nessun caso una ipotesi di governo di sinistra» avrebbe potuto sostituire la «linea di alternativa di potere e di nuova opposizione».101 Sulla questione del nome del futuro partito, invece, si trovò nella condizione di spiegare alla platea del Pdup – ancor meno convinta di quella del Manifesto sulla necessità dell’unificazione102 – il compromesso raggiunto con il gruppo di Magri: Pdup per il comunismo. Come osservato da Gambetta, la polemica sul nome del partito «fu la spia più evidente dei rispettivi tentativi egemonici dei due gruppi dirigenti»: infatti, mentre il Pdup tendeva a presentare la nuova formazione in continuità con la propria esperienza, «il Manifesto, con quella breve aggiunta di tre parole, con quel complemento di fine – “per il comunismo” – intendeva contrassegnarla» con un netto riferimento alla propria tradizione. Una denominazione, dunque, «che non riusciva a esprimere una sintesi ma associava storie disomogenee e ancora distanti».103 Ciascuna delle due assemblee di scioglimento – accogliendo pur non convintamente il criterio della pariteticità – individuò un gruppo di 42 attivisti che costituirono il Direttivo nazionale di 84 membri. Questo organismo (nei fatti un Comitato centrale bicefalo), riunitosi a Roma alla Casa dello studente l’8 settembre 1974, elesse un Esecutivo, anch’esso paritetico, di 18 membri. Ne facevano parte Castellina, Mario Catalano, Magri, Menapace, Milani, Parlato, Paolo Passarini, Pintor e Rossanda (per 100. Cfr. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 37. 101. Miniati, Relazione introduttiva, in I Congresso nazionale del partito di unità proletaria, p. 31. 102. Cfr. quanto comunicava il prefetto di Ancona in merito all’assemblea precongressuale regionale degli iscritti al Pdup (Senigallia, 29 giugno 1974): «Sono intervenute circa 100 persone, tra cui diversi elementi aderenti a movimenti extraparlamentari di sinistra giunti da città e comuni delle Marche. […] Nel corso del dibattito sono emerse varie perplessità circa l’opportunità della unificazione dei due partiti anche in relazione alle attuali deficienze organizzative dei collettivi del PdUP»; Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 22, f. 348/P «Movimenti politici. Varie», sf. «Partito democratico [sic] unità proletaria», nota del prefetto di Ancona al Gab. del Mi del 5 luglio 1974. 103. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 38.

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il Manifesto) e Brunetti, Ferraris, Foa, Pietro Marcenaro, Migone, Miniati, Protti, Puleo e Russo Spena (per il Pdup). Fu altresì eletta una segreteria collegiale Magri-Miniati e individuata la sede nazionale (a Roma, in Via Cavour). Alcuni attivisti del Pdup, infine, entrarono nella redazione de «il manifesto» (che il 29 ottobre 1974 mutò il proprio sottotitolo da «quotidiano comunista» a «unità proletaria per il comunismo») mentre «Unità proletaria» da quindicinale divenne, come già accennato, mensile.104 Ad ogni buon conto, fu deciso che per la fondazione formale del Pdup per il comunismo fosse necessario attendere ancora un po’: essa fu rimandata alla primavera del 1975, in previsione, come concordato, della convocazione del congresso costitutivo del nuovo partito. Ma una serie di fattori contribuì a procrastinare tale scadenza. A cominciare dalla confluenza, alla fine di ottobre del 1974, del Msa di Capanna e Liverani, verso la quale si opposero Magri e il gruppo degli ex “manifestini” (soprattutto milanesi), per il timore – in realtà infondato – che i capanniani potessero realizzare convergenze politiche con i “vetero-pduppini” sulla questione del «governo delle sinistre».105 Si presentarono, poi, altri motivi di frizione: dal profilo del partito (più ancorato alla tradizione politico-sindacale del movimento operaio per il Pdup, più sessantottin-consiliarista per il Manifesto),106 al documento di Lucio Magri La fase attuale e i nostri compiti, nonostante esso facesse propria la parola d’ordine del «governo delle sinistre» e fosse favorevole alla partecipazione del costituendo partito alle elezioni amministrative (ma non alle eventuali politiche); dalle elezioni degli organi collegiali della scuola, 104. Cfr. Garzia, Da Natta a Natta, p. 81. Nella redazione del quotidiano entrarono Vittorio Foa, Pino Ferraris, Ignazio Puleo e Marianella Sclavi. 105. Cfr. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 587; S. Mi. [Silvano Miniati], I compagni del Movimento studentesco, in «il manifesto», 26 ottobre 1974 e, infine, Movimento autonomo degli studenti di Milano, Perché aderiamo al Pdup per il comunismo, in «Unità proletaria», 4 novembre 1974. Come giustamente sottolineato, in realtà, «la terminologia con la quale il gruppo di Capanna e Liverani sosteneva l’ipotesi di un “governo delle sinistre” era dissonante da quella di Foa e riproponeva uno schema terzinternazionalista» (Gambetta, Democrazia proletaria, p. 219). In questa fase costituente il Pdup-pc attrasse anche alcune realtà strutturate a livello locale. Ad esempio, per l’adesione di un gruppo maoista di Bolzano nel febbraio 1975 cfr. Acsmp, Fondo Gian Giacomo Migone, f. «Pduppc 1973-1976», sf. «Pdup-pc 1975», Perché aderiamo al Partito di unità proletaria per il comunismo, Bolzano, febbraio 1975. 106. Cfr. Silvano Miniati, Il problema centrale e quello del partito, del suo ruolo, della sua concezione, in «il manifesto», 2 gennaio 1975 e Francesco Indovina, 1966-19681969, ivi, 3 gennaio 1975.

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che videro l’area del Manifesto – come da indicazione di Cps, Cub e Cpu (le strutture studentesche, rispettivamente, di Lc, Ao e Pdup-Manifesto) – attestata su posizioni astensioniste e quella dell’ex-Pdup, in sintonia con la Cgil-scuola, favorevole alla partecipazione); alla gestione de «il manifesto», ossia la questione del rapporto tra il quotidiano e l’organizzazione politica. Su quest’ultimo punto, Luigi Pintor, direttore del quotidiano, era un convinto sostenitore dell’autonomia del gruppo redazionale dal sodalizio costituente del Pdup-pc. Ma non tutti condividevano il suo punto di vista. Se, a suo avviso, «il manifesto» non avrebbe dovuto trasformarsi in un semplice “fiancheggiatore” della linea del Pdup-pc, secondo Foa – che attaccò duramente la direzione Pintor in una riunione dell’Esecutivo della costituente del partito – il giornale non si sarebbe mosso e non si stava muovendo in sintonia con il processo di unificazione. Dato che dello stesso avviso fu anche Lucio Magri, Pintor aprì il dibattito dalle colonne del quotidiano per poi dimettersi dalla sua direzione e dalla redazione, seguito da altri sei redattori. Così, in luogo del congresso costitutivo, in aprile si tenne una più modesta Conferenza nazionale d’organizzazione che, ad ogni modo, si risolse, con un giorno di anticipo e senza assumere alcuna decisione, in un «totale fallimento».107 Con un partito di fatto ancora in mezzo al guado (cioè né diviso, né unito) arrivò la scadenza delle elezioni regionali e amministrative del 15 giugno 1975. Come deciso, la costituente per il Pdup-pc si presentò, dove possibile, insieme ad Ao (con il cartello elettorale di Democrazia proletaria).108 Infatti, mentre procedeva l’altalenante processo di unificazione tra il Pdup e il gruppo del Manifesto, il IV congresso di Avanguardia operaia (Roma, 4-7 ottobre 1974) diede avvio a una nuova stagione dell’organizzazione, caratterizzata da un confronto più franco e costruttivo con le altre formazioni della sinistra rivoluzionaria. Dopo aver consolidato la propria struttura organizzativa e aver anch’essa dato avvio alle pubblicazioni di un quotidiano (il già ricor107. Cfr. Garzia, Da Natta a Natta, pp. 83-84 e Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 588. Per il dibattito sul rapporto partito-giornale cfr. Dibattito sul Manifesto quotidiano, Alfani, Roma 1975. 108. Cfr. Il 24-27 aprile il congresso del partito, in «il manifesto», 7 gennaio 1975 e Elezioni. Presenza «la più estesa e significativa» nelle regioni, «articolata e contenuta» nelle altre elezioni. Le decisioni del Pdup per il comunismo, ivi, 25 febbraio 1975. Per la fase preparatoria e le relative “incomprensioni” cfr., ad esempio, Acsmp, Fondo Gian Giacomo Migone, f. «Pdup. Appunti», sf. «Pdup-pc. Appunti riunioni Ao-Pdup», Incontro Pdup[-pc]-Ao, 27 febbraio 1975.

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dato «Quotidiano dei lavoratori»),109 l’Ocao decise di estendere la proposta di unificazione dall’«area leninista» all’«area della rivoluzione», nella convinzione dell’esistenza di un ampio e robusto «partito della rivoluzione proletaria». Da qui, costatata l’estraneità di Lc (considerata un’organizzazione «spontaneista»), l’alleanza con la costituente per il Pdup-pc finalizzata alla presentazione di liste comuni.110 Per il previsto rinnovo di quindici consigli regionali furono dunque presentate liste unitarie di Democrazia proletaria in Lombardia, Veneto, Umbria, Lazio, Molise, Campania. Il Pdup-pc (con la sigla «Unità proletaria per il comunismo») si presentò invece da solo in Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Calabria, mentre in Piemonte si presentò la sola Ao con la sigla Democrazia operaia. Per quanto riguarda le restanti regioni, se in Abruzzo non furono presentate liste riconducibili alla sinistra rivoluzionaria, in Liguria, Puglia e Basilicata concorsero le liste di «Unità popolare», animate dal Partito comunista (marxista-leninista) italiano. Anche per il rinnovo di varie amministrazioni provinciali e comunali vennero presentate liste unitarie tra Ao e l’aggregazione in procinto di dare vita al Pdup-pc.111 109. Preceduto da alcuni numeri di «Bandiera rossa», «quotidiano comunista» (tra il giugno e il novembre 1974), il «Quotidiano dei lavoratori», diretto da Silverio Corvisieri, uscì alla fine di novembre. Come quotidiano continuò a essere pubblicato, mutando direttore alcune volte, fino al 12 giugno 1979. Riprese poi le pubblicazioni, dopo quattro numeri di prova intitolati «Nuova opposizione», in edizione settimanale dal 20 marzo 1980 al 14 maggio 1982. Cfr. Diego Giachetti, Il Quotidiano dei lavoratori, in «Calendario del popolo», 582 (1994), pp. 44-46 e Murialdi, Storia del giornalismo italiano, p. 241. 110. Cfr. Avanguardia operaia, La situazione politica e i nostri compiti. Documenti del 4° Congresso dell’organizzazione comunista Avanguardia operaia, Nuova cultura, [Milano] 1974. Si veda anche Proposta unitaria di Ao per le prossime elezioni. Il Comitato centrale ha approvato una risoluzione che invita a presentare liste proletarie e popolari di opposizione rivoluzionaria, in «Quotidiano dei lavoratori», 18 dicembre 1974. Anche in ragione dell’apertura alle altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, il IV congresso dell’Ocao sancì il passaggio a una struttura organizzativa più formale, con un Comitato centrale, un Ufficio politico e un segretario nazionale: Vanghelis Oskian, noto con lo pseudonimo di Aurelio Campi (cfr. ivi p. 220). 111. Cfr. Accordo Ao-Pdup per le liste elettorali in cinque regioni, in «Quotidiano dei lavoratori», 4-5 maggio 1975; Questo il simbolo elettorale di «Democrazia proletaria», ivi, 8 maggio 1975; Pdup per il comunismo. Il direttivo sulle elezioni, in «il manifesto», 9 maggio 1975; Democrazia operaia: con il movimento e oltre…, in «Quotidiano dei lavoratori», 13 maggio 1975 e Da Torino una proposta al movimento di lotta per essere presenti alle elezioni, ivi. Nelle realtà in cui non erano presenti liste di Unità popolare il Pc(ml)i diede indicazione di voto per le liste di Democrazia proletaria e Democrazia operaia; cfr. Pc(ml) i: le indicazioni per il voto, ivi, 25-26 maggio 1975. Ad ogni buon conto, le liste di Unità

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Nonostante durante la campagna elettorale non fossero mancate frizioni tra Ao e il “semi-bi-partito” di Magri e Miniati (soprattutto sulla questione della gestione degli spazi elettorali alla radio e in televisione),112 il responso delle urne fu – benché al di sotto delle aspettative più ottimistiche – sufficientemente lusinghiero, come stavano a indicare ad esempio i dati della Lombardia (al comune di Milano le liste di Dp raccolsero il 3,7% dei consensi, mandando a palazzo Marino tre rappresentanti; a Bergamo raggiunsero addirittura il 4,3%, conquistando due seggi in consiglio comunale; mentre a livello regionale furono eletti, con un più modesto 2,5%, due rappresentanti).113 Avanguardia operaia e Pdup-pc lessero i risultati delle elezioni del 15 e 16 giugno in modo estremamente positivo: con un documento congiunto celebrarono trionfalmente la vittoria «operaia e popolare», «il massiccio spostamento di voti a sinistra» e «l’arretramento dell’intero schieramento di centro-destra». Incuranti delle sferzate leniniane sul «cretinismo parlamentare» e ignari delle differenze tra voto amministrativo e voto politico, secondo Ao e Pdup-pc i risultati delle consultazioni avrebbero messo in evidenza come la classe operaia e le «altre forze sociali oppresse» stessero avanzando e, conseguentemente, come l’alternativa di governo fosse un’opzione percorribile che, tra l’altro, avrebbe aperto nuovi scenari all’area della sinistra rivoluzionaria.114 popolare raccolsero appena lo 0,25% dei suffragi in Liguria, lo 0,78% in Puglia e lo 0,85% in Basilicata (con percentuali più elevate in provincia di Potenza). 112. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 55. Si veda inoltre Elezioni alla Tv: nulla di nuovo?, in «Quotidiano dei lavoratori», 25-26 maggio 1975, con il quale gli attivisti di Ao si dichiaravano «francamente sorpresi e contrariati per il fatto che il compagno Pintor alla televisione, e il compagno Ferraris alla radio, si [fossero] “dimenticati” di parlare di Democrazia proletaria» e criticavano Pintor per essersi «limitato a chiedere voti per il suo “giovane partito”». 113. In Lombardia le liste di Dp raccolsero 143.594 voti (pari, appunto, al 2,5% dei suffragi). Fu un risultato comunque significativo, poiché occorre tener conto che avvenne in una generale avanzata delle sinistre. Se nella precedente tornata elettorale (7 e 8 giugno 1970) il Pci aveva raccolto 1.210.068 voti (23,1%), il Psi 648.696 (12,4%) e il Psiup 188.585 (3,6%), in Lombardia nel giugno del 1975 il Pci ottenne 1.769.301 preferenze (pari al 30,4%), aumentando quindi i propri consensi di circa 560.000 voti, mentre il Psi ne raccolse 818.168 (14,1%). Escludendo il Psdi, la sinistra era attestata al 47% con una componente «estrema» che, per la prima volta (dato che il Psiup non può essere valutato, in toto, come un partito rivoluzionario), superava il 5% di tale porzione. Per i dati elettorali si veda l’Archivio storico delle elezioni nel sito curato dal Dipartimento per gli Affari interni e territoriali del Mi, al seguente Url: http://elezionistorico.interno.it. Per i risultati di Dp cfr. Gambetta, Democrazia proletaria, pp. 60-61. 114. Cfr. Sinistra. Il Partito di unità proletaria per il comunismo e Avanguardia operaia discutono del voto, della fase politica che ha aperto e dei compiti unitari delle sinistre

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I risultati del 15 giugno 1975 misero in subbuglio l’intera sinistra rivoluzionaria, facendo ipotizzare, dato il ruolo giocato dai suoi eletti in alcune maggioranze, una maggiore capacità di condizionamento dell’area oggetto di questo studio verso un eventuale governo basato su un’alleanza Pci-Psi, incoraggiando le spinte all’«unità dei rivoluzionari» (soprattutto in Ao e Pdup-pc), e spingendo i partiti della sinistra rivoluzionaria e istituzionale a sondare le reciproche disponibilità.115 Alla fine di luglio, ad esempio, una delegazione del Pdup-pc si incontrò con alcuni dirigenti del Pci e, poi, del Psi.116 Al primo incontro parteciparono Giancarlo Pajetta, Armando Cossutta e Renzo Trivelli per il Pci e Magri, Miniati e Migone per il Pdup-pc. Stando alle minute redatte da Migone, se il Partito comunista, per bocca di Trivelli (convinto che «l’estremismo [fosse] un pericolo per la rivoluzione»), chiese al Pdup-pc, di esercitare un’«influenza antisettaria», Magri e Miniati si relazionarono con la delegazione del Pci con argomentazioni differenti. Mentre Magri, ad esempio, sui governi locali rassicurò i dirigenti comunisti sull’«appoggio sicuro [del Pdup-pc], senza contropartite, ma autonomia nella critica e nello stimolo» e sulla partecipazione «alle maggioranze ma non alle Giunte, salvo eccezioni», Miniati sottolineò il «cambiamento importantissimo di Ao» nei confronti del sindacato, le difficoltà di rapporti nella Cgil, chiedendo la rimozione delle «posizioni pretestuose» del Pci nei confronti – è presumibile – della sinistra sindacale (o, in ogni caso, verso l’area che si posizionava alla sua sinistra).117 Come sottolineato da Gambetta, «le diverse sensibilità nelle argomentazioni di Magri e Miniati rispecchiavano le due anticapitalistiche, in «il manifesto», 29 giugno 1975; Un documento unitario di Avanguardia operaia e Pdup sul dopo elezioni, in «Quotidiano dei lavoratori», 29-30 giugno 1975. Per i trionfalistici commenti “a caldo” cfr. Vittoria proletaria, ivi, 17 giugno 1975 e Travolgente spostamento a sinistra, in «il manifesto», 17 giugno 1975. 115. Gambetta, Democrazia proletaria, pp. 61-62. 116. Gli incontri del Pdup-pc con il Pci e il Psi si svolsero il 23 e il 24 luglio. Il settimanale «L’Espresso» dedicò alla vicenda la copertina del numero pubblicato il 3 agosto, intitolato Trattativa a tre fra Manifesto, Pci e Psi. Berlinguer fa la pace con Pintor. Il 25 luglio i quotidiani dei due partiti pubblicarono uno stringato comunicato sull’incontro, segnalando come le due delegazioni avessero «avuto uno scambio di idee sulla situazione politica seguita al voto» affinché si sviluppasse «tra le forze di sinistra e democratiche un confronto sereno e franco fra le rispettive posizioni»; cfr. Incontro al PCI con una delegazione del Pdup, in «l’Unità», 25 luglio 1975 e Incontro Pci-Pdup, in «il manifesto», 25 luglio 1975. Per l’incontro con i vertici del Psi cfr. Incontro di una delegazione del Pdup con i compagni De Martino e Mosca, ivi, 26 luglio 1975. 117. Acsmp, Fondo Gian Giacomo Migone, f. «Pdup. Appunti», sf. «Incontro PciPdup 23/7/75», appunti manoscritti intitolati Incontro PCI-PdUP 23.7.75.

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anime del Pdup-pc»: quella convinta della possibilità di condizionare da sinistra gli orientamenti del Pci e, quindi, desiderosa di instaurarvi «un rapporto proficuo» e quella «proiettata verso l’aggregazione di un’unica forza» della sinistra rivoluzionaria, in grado di «misurarsi autonomamente con le tradizionali organizzazioni dei lavoratori».118 Del resto, sia a livello teorico che politico-organizzativo, le occasioni di scontro superavano di gran lunga quelle d’incontro, anche se non furono assenti momenti di riflessione e di approfondimento non direttamente riconducibili a questioni di egemonia interna.119 Inoltre, non erano mancate nemmeno le “epurazioni” degli oppositori interni, come testimoniava il caso di Mario Mineo che, già intervenuto criticamente al congresso di scioglimento del Manifesto e boicottato in più occasioni per le sue posizioni dissenzienti, fu estromesso dal partito dopo la pubblicazione di una lettera indirizzata ai collaboratori della rivista «Praxis» con la quale sosteneva la necessità di organizzare, secondo una consolidata tradizione quartinternazionalista, una «frazione leninista» interna al Pdup per il comunismo. Il 23 luglio 1975, cioè il giorno stesso in cui i vertici del Pdup-pc s’incontrarono con la delegazione del Pci, le realtà periferiche del partito venivano allertate sull’attività «disgregatrice» del dirigente siciliano. Nella prima metà di settembre la costituenda frazione – che aveva i propri punti di forza, oltre che a Palermo, a Roma, Perugia e in Veneto – si riunì a Velletri. Una lettera circolare di Mineo riassunse i risultati dell’incontro: l’organizzazione nata dalla fusione tra Manifesto e Pdup era rimasta una federazione di gruppi che, nei fatti, esprimeva una posizione «codista» verso il Pci e il sindacato. 118. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 64, che sottolinea come tale disparità di vedute fosse già emersa in seno all’Esecutivo nazionale del Pdup-pc del 3 luglio 1975, quando, a differenza di Miniati e Foa (propensi a convergere con Avanguardia operaia), Magri definì «sbagliato fare la raccolta degli anticomunisti di sinistra», mentre Pintor sottolineò come «Lc e Ao non esist[essero]», dato che esistevano gli «interlocutori sociali». 119. Ad esempio, furono organizzati seminari e convegni i cui atti vennero poi pubblicati: Crisi economica e crisi delle istituzioni, Praxis, Palermo, Roma 1974 [ma 1975] (contributi presentati a un seminario tenuto a Roma, presso l’Issoco, nei giorni 23 e 24 novembre 1974); Uscire dalla crisi o dal capitalismo in crisi? Atti del convegno di Ariccia, 8-9 febbraio 1975, Alfani, Roma 1975; Discussione sul partito in un partito in costruzione. Seminario della federazione fiorentina. Sesto Fiorentino, 15-16 marzo 1975, Alfani, Roma 1975; Da Togliatti alla nuova sinistra, Atti del convegno di Milano “La nuova sinistra e Togliatti”, 9-11 maggio 1975, Presentazione di Stefano Merli, Alfani, Roma 1976; Salario/ occupazione, salario/profitto: la falsa e la vera alternativa. Atti del convegno operaio di Milano, 19-20 ottobre 1975, Alfani, Roma 1976; e I cattolici oltre la Dc. Atti del convegno di Roma, dicembre 1975, Alfani, Roma 1976.

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Fallito il tentativo di costruire un’ampia corrente leninista dentro al Pdup e di imporre un confronto all’intera sinistra rivoluzionaria, organizzarsi in frazione diventava dunque, secondo Mineo e compagni, una necessità.120 L’accusa di «frazionismo», quantunque fondata, sfiorava tuttavia il senso del ridicolo, dato che il partito che la formulava era il frutto di componenti interne che proseguirono, complice la regola della pariteticità delle strutture dirigenti, alla cristallizzazione delle reciproche posizioni e alla valorizzazione della propria “frazione”, tanto che la percezione comune fu quella dell’esistenza di due partiti in uno. Interessante, a riguardo, la testimonianza di Parlato, che ricorda come all’origine vi sia stato l’errore di aver proceduto «sul terreno delle anime» («l’anima socialista, quella cattolica, quella comunista») che produsse «l’autoconvinzione, non del tutto infondata, di avere l’anima più nobile e forte» e, quindi, «non favorì il processo di unificazione perché lo fece vivere più sul passato che sul presente».121 Se fino all’estate del 1975 i dibattiti si concentrarono per lo più sui problemi generali, a partire dall’autunno «si accesero esasperanti dispute sul presunto ostracismo di una fazione sull’altra o sul comportamento di questo o quel dirigente».122 Si giunse dunque all’atteso appuntamento del primo congresso del Pdup-pc (Bologna, 29 gennaio-1° febbraio 1976) con un gruppo dirigente – sia a livello nazionale che in ambito locale (le riunioni congressuali di federazione registrarono la contrapposizione frontale delle due componenti) – spaccato in due, con l’area del Manifesto costretta a registrare i malumori di Pintor e in un clima reso incandescente dall’espulsione di Mineo e dalla fuoriuscita dei collaboratori della rivista 120. Sull’espulsione di Mineo, all’epoca consigliere comunale di Dp, cfr. Stralcio della lettera di Mario Mineo del 16 settembre, in «il manifesto», 9 dicembre 1975 e La discussione nel direttivo nazionale del Pdup sulla situazione della federazione di Palermo, ivi, Mozione approvata dal Direttivo Nazionale del 23/7/1975, in Mario Mineo, Scritti politici, vol. I, a cura di Renato Covino, t. 2, Flaccovio, Palermo 1998, pp. 640-641, e Pellegrini e Pepe, Unire è difficile, p. 40. Cfr. inoltre Mario Mineo, Il caso Praxis, Edizioni Praxis, Palermo-Roma 1975 (ora anche in Id., Scritti politici, vol. I, pp. 522-538). Sulla rivista «Praxis», inizialmente diretta da Corradino Mineo, nipote di Mario, cfr. Archivio del centro di documentazione di Lucca. I periodici politici, p. 318. 121. Cit. in Pellegrini e Pepe, Unire è difficile, p. 158 (l’intera testimonianza è alle pp. 146-170). Anche secondo Pintor le frizioni furono causate dalle differenti culture politiche di provenienza (ivi, pp. 171-189). 122. Cfr. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 65. Si vedano, a mo’ di esempio, le annotazioni di Migone sulle riunioni dell’esecutivo del 2 e 10 dicembre 1975 in Acsmp, Fondo Gian Giacomo Migone, f. «Pdup. Appunti», sf. «Pdup-pc. Appunti riunioni Esecutivo-Ufficio pol. 1974-1976».

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«Praxis» (che da quel momento cominciò a considerarsi un gruppo politico autonomo).123 Il documento congressuale fu licenziato unitariamente, ma dopo lunghe trattative e la riscrittura di alcuni capitoli, poiché la prima stesura venne fortemente criticata da Foa e dalla sua componente.124 Nonostante la situazione fosse quella dei “separati in casa”, il Pdup-pc veniva guardato con attenzione da un’area più estesa di quella del tradizionale bacino di afferenza della sinistra rivoluzionaria (come testimoniano le presenze degli invitati al congresso),125 e la sua consistenza, a livello di adesioni, era senz’altro apprezzabile. Se la stima di 20.000 iscritti è probabilmente sovradimensionata,126 appare più realistica l’ipotesi accreditata da Gambetta che il Pdup-pc, «piccolo partito solido e strutturato», fosse giunto al suo primo e unico congresso con circa 13.000 attivisti e una presenza diffusa su tutto il territorio nazionale, ancorché più marcata nelle regioni centro-settentrionali.127 Il congresso vide delinearsi tre schieramenti: 1) gli ex Pdup, favorevoli al «governo delle sinistre» (inteso come saldatura tra istituzioni e movimento di lotta), all’unificazione con Avanguardia operaia e a prendere in considerazione l’ipotesi di allargare il cartello elettorale di Democrazia 123. Inizialmente previsto per i giorni 23, 24 e 25 gennaio 1976, per le fasi preparatorie del congresso cfr. ivi, f. «Pdup-pc 1973-1976», sf. «Pdup-pc. I congresso nazionale 1976», la lettera di Eliseo Milani (per l’Esecutivo nazionale) ai membri del direttivo nazionale, dei comitati regionali e alle organizzazioni locali e l’allegato Regolamento per la convocazione del I congresso (di fondazione) del Partito di unità proletaria per il comunismo, ambedue s.d. [ma prima del 23 novembre 1975]. 124. Cfr. Per cambiare la sinistra dobbiamo cambiare noi stessi. Il dibattito al direttivo nazionale del Pdup, in «il manifesto», 4 novembre 1975. Per le tesi cfr. Progetto di tesi per il primo congresso del Partito di unità proletaria per il comunismo, in «Unità proletaria», 3-4, novembre 1975. Foa contestò l’impianto delle tesi elaborate da Magri poiché, a suo avviso, troppo filocomuniste (cfr. Pellegrini, Pepe, Unire è difficile, p. 40). 125. Accolti dal benvenuto del sindaco di Bologna Renato Zangheri, tra gli invitati vi erano: Tortorella, Mussi e D’Alema per il Pci, Landolfi per il Psi, Viale in rappresentanza di Lc, Campi (ossia Oskian), Gorla, Rieser e Vinci per Ao e Guzzini per il Mls. Parteciparono, inoltre, numerose delegazioni di partiti e movimenti esteri e le rappresentanze di Acli, Udi e dei Cristiani per il socialismo (cfr. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 590). 126. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 256. 127. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 66. Cfr. inoltre Riepilogo del tesseramento al 10 agosto 1975 e Composizione sociale degli iscritti al 15 marzo 1975 in Acsmp, Fondo Gian Giacomo Migone, f. «Documenti Pdup». Sul congresso cfr. Controllo operaio, sinistra unita al governo per una alternativa di sistema. Atti del primo congresso nazionale del Partito di unità proletaria per il comunismo, Alfani, Roma 1976.

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proletaria anche ad altre organizzazioni tra cui, vera e propria ragione del contendere, Lotta continua; 2) gli ex Manifesto, perplessi sul «governo delle sinistre» (quantomeno nella versione “movimentista” perorata da Miniati e compagni) ma interessati a dialogare con il Pci, contrari a forzare le tappe del processo di convergenza con Ao e, soprattutto, fortemente ostili all’ipotesi di un cartello elettorale che inglobasse anche Lc; 3) Pintor e i “pintoriani”, su posizioni apparentemente intermedie mosse da spirito unitario.128 La mozione presentata dalla prima componente raccolse 181 deleghe, quella presentata da Magri e Rossanda 194, mentre furono 38 coloro che si astennero seguendo l’indicazione di Pintor. Proporzioni che si riflessero matematicamente nella composizione del comitato centrale: 28 membri alla componente guidata da Foa e Miniati, 31 alla maggioranza e 6 agli “astensionisti” di Pintor. Similmente, la segreteria risultò così composta: Magri, Eliseo Milani e Massimo Serafini (ex Manifesto), Miniati e Russo Spena (ex Pdup, di cui – volendo sottilizzare – uno dell’ex Psiup e uno dell’ex Mpl) e infine lo stesso Pintor.129 Conclusa l’assise bolognese, all’interno del Pdup-pc si pose quasi immediatamente il problema della partecipazione di Lotta continua al già sperimentato e riconfermato cartello elettorale con Ao.130 Lo stesso Viale, intervenendo ai lavori del congresso del Pdup-pc, aveva anticipato – con tutt’altro piglio rispetto all’intervento pronunciato al congresso di scioglimento del Manifesto – la volontà del suo gruppo di presentare liste comuni 128. Cfr. Mozione n. 1 presentata da Miniati, Foa e Migone, e Mozione n. 2 presentata da Magri e Rossanda, ivi, pp. 321-332 e 335-339. Per la posizione di Pintor, cfr. La dichiarazione di voto di Pintor, ivi, pp. 340-341. 129. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, p. 592. Cfr. inoltre Ordine del giorno sul giornale, in Controllo operaio, pp. 319-320 e Mozione presentata da Giuseppina Ciuffreda, ivi, pp. 350-351. 130. Il documento di maggioranza, seppur cauto sul processo di unificazione con Ao, riconfermava come «il terreno dell’unità» fosse «per il futuro immediato» quello «dell’unità d’azione e del confronto politico», e proponeva «di riconfermare ed estendere su scala nazionale le positive alleanze con Ao, sulla base delle liste di Democrazia proletaria» (Mozione n. 2 presentata da Magri e Rossanda, ivi, p. 337). Si veda inoltre Acsmp, Fondo Gian Giacomo Migone, f. «Pdup-pc 1973-1976», sf. «Elezioni 1976», Accordo tra il Partito di unità proletaria per il comunismo e l’Organizzazione comunista Avanguardia operaia sulle questioni finanziarie e su varie altre questioni connesse con la presentazione di liste di Democrazia proletaria alle prossime elezioni politiche, s.d., dattiloscritto siglato dai componenti del comitato elettorale: Eliseo Milani e Gian Giacomo Migone per la segreteria nazionale del Pdup; Luigi Vinci, Paolo Cotta-Ramusino e Silverio Corvisieri per l’Ufficio politico dell’Ocao.

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con l’Ocao, il Pdup-pc e altre soggettività della sinistra rivoluzionaria.131 Ma oltre alla maggioranza di Magri-Rossanda e a Pintor, anche i sindacalisti dell’ex Pdup vicini a Foa manifestarono la propria contrarietà all’ingresso degli attivisti di Lc nelle liste demoproletarie.132 A favore si schierò invece la maggioranza della corrente guidata da Miniati. Infine, anche Avanguardia operaia, cioè l’altro grande protagonista del cartello, si oppose all’idea di un’alleanza elettorale che avesse al suo interno anche Lotta continua, diversamente dai gruppi “minori” (Gruppi comunisti rivoluzionari, Lega dei comunisti, Movimento lavoratori per il socialismo e gruppo «Praxis» di Mineo)133 che invece accolsero positivamente la proposta. Ma se, a fronte della decisione di Lotta continua di presentarsi da sola qualora non fosse andata a buon fine l’alleanza elettorale, i vertici di Ao – anche su pressione delle realtà di base e periferiche – tornarono sui propri passi, la componente del Pdup-pc ostile a Lc, capeggiata da Pintor, mantenne ferma la pregiudiziale anti-Lotta continua. La situazione fu sbloccata dalla decisione di Lc di non candidare, salvo eccezioni, i propri dirigenti e di accettare gli ultimi posti in lista nelle varie circoscrizioni ma soprattutto dalla spinta del potenziale elettorato che, attraverso lettere o appelli (come quello sottoscritto da numerosi artisti e intellettuali), esercitò pressioni per la presentazione di una lista unitaria alla sinistra del Pci.134 131. Cfr. [l’intervento di] Guido Viale, di Lotta continua, in Controllo operaio, pp. 231-237. Per l’orientamento di Lc sulle elezioni cfr. Per la nostra posizione sulle elezioni, in «Lotta continua», 3 febbraio 1976. 132. Cfr. Elio Giovannini, Antonio Lettieri, Raffaele Morese e Gastone Sclavi, Contro i facili cartelli elettorali, in «il manifesto», 4 maggio 1976. Favorevoli alla presentazione di una lista unitaria con l’inclusione di Lc furono invece alcuni sindacalisti della Cisl (cfr. La posizione di un gruppo di compagni della Cisl milanese, ivi, 5 maggio 1976). 133. Le formazioni più piccole vennero generalmente oscurate dal peso politico-organizzativo dell’alleanza tra Ao e il Pdup-pc. A farne maggiormente le spese furono i trockisti: se Maitan ricorda le «persistenti manifestazioni di settarismo» verso i Gcr che avrebbero così pagato «il prezzo più alto, a cominciare dalla composizione delle liste» (Maitan, La strada percorsa, p. 422) e nessun dirigente di «Praxis» fu inserito tra i candidati eleggibili, al Mls fu invece destinata una parte del rimborso elettorale gestito da Ao e Pdup-pc; cfr. il già citato Accordo tra il Partito di unità proletaria per il comunismo e l’Organizzazione comunista Avanguardia operaia. 134. Cfr. Gambetta, Democrazia proletaria, pp. 68-71. Per le pressioni di militanti e simpatizzanti del Pdup-pc o, più genericamente, di fiancheggiatori della sinistra rivoluzionaria cfr. Ventotto lettere di polemica sulla posizione del Pdup e di Ao sulle elezioni, in «il manifesto», 27 aprile 1976; Docenti, artisti e operatori culturali, ivi, 5 maggio 1976; Altre adesioni all’appello degli intellettuali, ivi, 6 e 7 maggio 1976. Per la campagna elettorale

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Incalzato da più parti e per scrollarsi l’accusa di sabotare la volontà unitaria della base, il Cc del Pdup-pc promosse una consultazione tra i propri iscritti su due opposte opzioni, presentate, rispettivamente, da Pintor (che giudicava impraticabile ogni accordo nazionale con Lc, poiché avrebbe significato, agli occhi delle grandi masse, collocare Dp «in un’area estremista ai margini del movimento operaio») e da Miniati (che auspicava l’alleanza onde evitare la presentazione di due liste della sinistra rivoluzionaria). Nonostante il responso della consultazione avesse fatto emergere la presenza di una larga maggioranza a favore delle posizioni di Pintor (il 70% circa dei consensi), il rischio di rompere i rapporti con Ao e quello, ben più grave, di fronteggiare una scissione del partito, sospinse il Comitato centrale del Pdup-pc a ignorare il pronunciamento della propria base e, «in stato di necessità», ad avallare l’apertura delle liste demoproletarie a Lotta continua.135 Come documentato dallo studio di Gambetta, il repentino mutamento di linea fu determinato da un tacito accordo di vertice: la maggioranza magriana accettò l’allargamento del cartello elettorale a Lc in cambio della segreteria del partito e dell’assicurazione di una posizione di preminenza nel futuro gruppo parlamentare. Il prezzo da pagare furono le dimissioni di Pintor dalla segreteria del Pdup-pc e, ancora una volta, dalla direzione del quotidiano.136 Le elezioni del 20 giugno, invece di segnare il tramonto del regime democristiano e consegnare ai rivoluzionari una fetta consistente di voti in un parlamento egemonizzato dalle sinistre, delinearono, come già detto, un quadro ben diverso. Se il Pci raggiunse il suo massimo storico con il 34,4% dei suffragi e il Psi rimase sostanzialmente stazionario intorno al di Lc, all’insegna di «votate gli ultimi», cfr. Le liste di Democrazia proletaria. Votate gli ultimi. Gli ultimi sono di Lotta continua, in «Lotta continua», 20 maggio 1976; Le liste di Dp: i nostri candidati, la nostra campagna elettorale, ivi, 21 maggio 1976; e I candidati di Lotta continua: la storia di anni di lotte, ivi, 23 maggio 1976. 135. Cfr. Pellegrini e Pepe, Unire è difficile, pp. 70-72; Gambetta, Democrazia proletaria, p. 72; Il Comitato centrale del Pdup ha deciso la presentazione alle elezioni con liste unitarie di «Democrazia proletaria», aperte ai candidati di Lotta continua, nella distinzione delle linee politiche, in «il manifesto», 9 maggio 1976 e Una sola lista dei rivoluzionari. Ha vinto la ragione e la volontà del movimento di massa, in «Lotta continua», 9 maggio 1976. 136. Gambetta, Democrazia proletaria, pp. 72-73. Sulle difficoltà relative alle liste demoproletarie cfr. Acsmp, Fondo Gian Giacomo Migone, f. «Pdup-pc 1973-1976», sf. «Elezioni 1976», lettera a Lotta continua del 14 maggio 1976 [copia su carta carbone e in bozza manoscritta] firmata da Semenzato (per l’Ocao) e Migone (per il Pdup-pc) e le minute dell’Incontro Dp-Lc, del 15 maggio 1976.

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10%, la Democrazia cristiana mantenne saldamente le proprie posizioni con il 38,7% dei voti validi. Ma, soprattutto, per quanto riguarda la sinistra rivoluzionaria, le speranze della vigilia vennero sonoramente smentite: dei circa 1.100.000 voti dispersi nel 1972 tra le liste della sinistra “alternativa” (includendovi anche il Psiup), le liste di Dp ne intercettarono appena la metà, (557.000), attestandosi all’1,5% e ottenendo, grazie alle circa 80.000 preferenze espresse nella circoscrizione di Milano-Pavia, sei seggi. Infatti, l’elezione di Massimo Gorla nel collegio lombardo fece scattare il quorum per il recupero dei voti nel collegio unico nazionale, determinando l’attivazione di altri cinque seggi nelle circoscrizioni di Como-Sondrio-Varese (Luciana Castellina), Brescia-Bergamo (Eliseo Milani), Roma-ViterboLatina-Frosinone (Lucio Magri), Torino-Novara-Vercelli (Vittorio Foa) e Napoli-Caserta (ancora Vittorio Foa); Foa rinunciò ai due seggi, lasciando il posto, rispettivamente, a Silverio Corvisieri di Ao e a Mimmo Pinto di Lc.137 Un risultato che non poté non lasciare l’amaro in bocca, come testimoniato dai «ricordi sgradevoli» serbati da Vittorio Foa in merito a «quelle elezioni politiche del 1976» e alla scelta di dimettersi da deputato: Io non volevo essere candidato, ma mi chiesero di candidarmi […] per «tirare su», verso l’elezione, candidati di altri gruppi [Ao e Lc], un po’ deboli. Accettai con l’intesa che se mi eleggevano mi sarei dimesso. Credevo di sostenere a Torino Vittorio Rieser […]. Invece di Rieser dovetti rimorchiare Silverio Corvisieri […]. A Napoli rimorchiavo invece Mimmo Pinto […]. Riconosco adesso che farsi eleggere e poi dimettersi per trascinare degli altri non è una cosa corretta. È come quando c’erano ancora i muli e si faceva annusare uno stallone dalla cavalla ma poi si mandava avanti l’asino e la poverina partoriva il mulo.138 137. Cfr. Archivio storico delle elezioni: http://elezionistorico.interno.it. 138. Vittorio Foa, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino 1991, p. 307. A parte la similitudine (segno tangibile dell’idiosincrasia presente tra l’intellighenzia di condizione borghese e coloro che avevano una provenienza sociale popolare), il rimpianto di Foa trae origine dal sospetto che il cartello elettorale fosse minato da rivalità di appartenenza partitica e da opportunismi parlamentaristici. Inoltre, alle «fastidiose pressioni» pro o contro le sue dimissioni, si aggiunsero le irriverenti considerazioni dei napoletani di Lc: «Andrea Graziosi mi diceva che a Napoli dove io dovevo lasciare il posto a Pinto, quelli di Lotta continua dicevano di me: “Non può essere così cretino da rinunciare a un posto alla Camera”; una volta dimesso chiesi a Graziosi: “E adesso cosa dicono?” “Dicono che sei un cretino”. Ero a bocca aperta per la velocità con la quale dei collaudati campioni di “movimento” facevano adesso pazzie per un posto in Parlamento» (ibidem).

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La piccola “pattuglia rivoluzionaria” in parlamento, i maggiori consensi ottenuti rispetto al Pli e al Partito radicale e i dati positivi di numerose realtà urbane e industriali non poterono, ad ogni modo, nascondere la realtà: il responso delle urne fu un risultato inatteso e deludente, reso ancor più “bruciante” (dato che in quella tornata elettorale, come già detto, il diritto di voto fu anticipato dai 21 ai 18 anni) dal fatto che la maggioranza dei neo-elettori tra i 18 e i 24-25 anni non si fosse sentita rappresentata dalle liste di Democrazia proletaria.139 Come osservato, Dp si disputò i consensi dei movimenti di lotta – in particolare quello femminista – con il Pci e con il Partito radicale (per la prima volta presente alle elezioni). Furono proprio le liste radicali, forti soprattutto dell’esperienza di mobilitazione a fianco del femminismo, sia nella battaglia per il divorzio sia in quella per la legalizzazione dell’aborto, a disturbare maggiormente Dp. Il partito di Marco Pannella, […] sembrò maggiormente capace di mettersi in sintonia con le tematiche dei bisogni individuali e con gli umori antistituzionali della protesta […]. L’adesione demoproletaria, dunque, si caratterizzò soprattutto come voto d’appartenenza.140

All’interno del Pdup-pc la pesante sconfitta del 20 giugno 1976 determinò un clima da “resa dei conti”. Se per la ricostruzione accurata dei numerosi episodi di dissidio si rimanda alla letteratura esistente (Protti, Garzia, ma soprattutto Gambetta), basti accennare che, dopo alcune epurazioni che colpirono chi più di altri sostenne l’alleanza con Lc, a partire dall’autunno cominciarono a verificarsi fuoriuscite individuali e collettive o vere e proprie microscissioni: se a Bologna un gruppo di ex-Manifesto, guidato da Claudio Sassi e Otello Ciavatti, rientrò nel Pci, nelle Marche il consigliere regionale di Dp Massimo Todisco si allontanò dal partito insieme ad alcuni militanti e dirigenti, per poi aderire al Psi, analogamente a un consistente gruppo di attivisti della provincia di Bari. Mentre, come stava accadendo in Lc, molte femministe abbandonarono il partito contestandone il carattere maschilista, il Comitato centrale versava in una situazione di crisi permanente. In dicembre, contestualmente alle dimissioni di Rossanda e Marcenaro (critici verso i continui compromessi e il generale clima interno), venne eletta una nuova leadership, con Magri segretario e Pino Ferraris (della sinistra sindacale ex-pduppina) in qualità di vicesegretario. 139. Per un’analisi del voto cfr. R.G. [Rina Gagliardi], Il voto a Democrazia proletaria: dove, come, perché, in «il manifesto», 25 giugno 1976. 140. Gambetta, Democrazia proletaria, pp. 81-82.

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Nel gennaio del 1977 un’altra crisi nel Cc – motivata dalla sospensione di Capanna, reo di aver criticato pubblicamente Magri per l’arbitraria sostituzione di Migone con Massimo Serafini nella delicata carica di segretario amministrativo del partito – si risolse nella richiesta, perorata dalla componente di Foa e Miniati, di un congresso straordinario.141 Il rifiuto della componente magriana di andare al confronto congressuale determinò le dimissioni di una parte della segreteria del partito (quella che tentò di salvaguardare l’unità del Pdup-pc) e una spaccatura insanabile che, intrecciandosi con la crisi di Ao, sfociò in un rimescolamento che sancì la nascita di due “rinnovate” organizzazioni politiche: il Pdup-pc magriano (che mantenne il nome, nonostante la perdita di una fetta consistente di militanti) e Democrazia proletaria (partito politico).142 Restarono fuori dai due schieramenti la corrente sindacale di Giovannini e Lettieri che, orientatasi a lavorare nel Cendes, il Centro di documentazione economico sociale che riuniva il sindacalismo di sinistra di Cgil-Cisl-Uil, si rese indipendente dalle due formazioni politiche143 e alcune federazioni provinciali con un orientamento unitario: una decina di realtà che (raccolte intorno a Nico Luciani, Liliana Piersanti e Andrea Ranieri) invitarono le organizza141. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, p. 258. Sul caso della rimozione/ sostituzione di Migone e della sospensione di Capanna, cfr. la documentazione contenuta in Acsmp, Fondo Gian Giacomo Migone, f. «Pdup-pc 1973-1976», sf. «Caso MigoneSerafini-Capanna». Si veda, inoltre, Il comitato direttivo milanese del Pdup chiede la revoca della sospensione di Capanna e critica la gestione del partito, in «Quotidiano dei lavoratori», 3 febbraio 1977 e il memoriale di Gian Giacomo Migone, Il “caso Magri”, in Protti, Cronache di “nuova sinistra”, pp. 191-96. Stando alla documentazione, il gruppo di Magri, con un «colpo di mano», depositò con atto notarile un verbale apocrifo di una riunione del Cc dal quale risultava l’avvenuta sostituzione di Migone con Serafini. 142. Pino Ferraris, Daniele Protti e Andrea Ranieri, si dimisero dalla segreteria del partito in occasione di una riunione del Comitato centrale (28-30 gennaio 1977) in cui fu respinta la linea della mediazione, in opposizione all’intransigentismo dei magriani (cfr. I compagni Ferraris, Protti e Ranieri motivano le loro dimissioni dalla segreteria, in «Quotidiano dei lavoratori», 3 febbraio 1977). Il 26 febbraio una riunione del Cc del Pdup-pc approvò, con una maggioranza di 31 voti contro 30, l’unificazione con Ao. Cfr. Il comitato centrale registra la divisione del Pdup, in «il manifesto», 1 marzo 1977; La mozione approvata e quella respinta al termine del Comitato centrale, ivi; Il Pdup si è diviso su ruolo e linea del partito da costruire alla sinistra del Pci, ivi; La maggioranza del Cc del Pdup ha deciso la scissione del partito, in «Quotidiano dei lavoratori», 1 marzo 1977. 143. Cfr. Protti, Cronache di “nuova sinistra”, pp. 78-79 e Loreto, L’«anima bella» del sindacato, p. 169 ss. Sul Cendes e sul ruolo trainante di Grazia Centola e Guglielmo Ragozzino, si vedano anche i ricordi di Foa (Foa, Il Cavallo e la Torre, pp. 310-311).

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zioni del partito a farsi carico di una decisa «iniziativa dal basso» contro la «sclerotizzazione» dei vertici.144 Le contrapposizioni del congresso di Bologna del Pdup-pc si riflessero, oltre che in Lotta continua, anche in Avanguardia operaia. Le divergenze tra Magri e Miniati, infatti, si erano riverberate nelle diverse sensibilità dei dirigenti dell’Ocao, la cui leadership, nell’aprile del 1976, “ridimensionò” il ruolo di Oskian/Campi (giudicato troppo vicino alle tesi sostenute da Magri e dalla maggioranza del Pdup-pc) da segretario a coordinatore della segreteria. Fu tuttavia l’esito delle elezioni di giugno a far precipitare anche in Ao la crisi: a fine giugno, infatti, una riunione del Comitato centrale dell’organizzazione si concluse con una divisione netta: da un lato il coordinatore di segreteria Campi, propenso all’unificazione con l’intero Pdup-pc; dall’altro, la componente di Vinci, Gorla e Molinari, intenzionata a fondersi solamente con la componente “antimagriana” (cioè, schematizzando, gli ex-pduppini senza l’area della «sinistra sindacale»).145 Nei giorni in cui esplose la crisi del Pdup-pc con l’esautorazione di Migone da amministratore del partito, la componente di Ao raccolta attorno alle posizioni di Campi si riunì a Rocca di Papa per pianificare le tappe dell’unificazione con il Pdup-pc (in realtà, come fu chiaro a tutti, con la sola maggioranza magriana). Il 20 febbraio, infatti, «il manifesto» pubblicò un documento siglato da una trentina di componenti del Cc del Pdup-pc e da altrettanti dell’omologo organismo dell’Ocao, attraverso il quale si criticava il “massimalismo” degli avversari interni. Nonostante non fosse stato “formalizzato”, si trattava di un vero e proprio atto scissionistico.146 La formalizzazione di ciò che era ormai uno stato di fatto senza via di ritorno non tardò: il quinto congresso nazionale dell’Ocao (Milano, 144. Cfr. Le federazioni unitarie del Pdup in assemblea venerdì a Firenze, in «Quotidiano dei lavoratori», 3 marzo 1977 e Gambetta, Democrazia proletaria, p. 89. Il «coordinamento delle federazioni e delle sezioni unitarie del Pdup» includeva le realtà territoriali di Aosta, Cagliari, Cremona, Forlì, Genova, Imperia, La Spezia, Latina, Lecce, Lucca, Padova, Salerno, Sondrio e Venezia. 145. Cfr. ivi, p. 86. Cfr. inoltre Il Cc di Ao ribadisce la scelta di lotta del governo delle sinistre, in «Quotidiano dei lavoratori», 29 giugno 1976 e Un governo delle sinistre da conquistare, una sinistra rivoluzionaria da cambiare, ivi, 30 giugno 1976. 146. Cfr. Gambetta, Democrazia proletaria, p. 89. Cfr., inoltre, 27 membri del Cc di Ao sullo stato del partito, in «Quotidiano dei lavoratori», 15 gennaio 1977; ora in Partito di unità proletaria per il comunismo, Verso una nuova forza comunista. Materiali per un’autocritica ed un rilancio del processo di unificazione, s.e., s.l., [1977], pp. 13-16. Per la risposta al documento dei 27: Roberto Biorcio, Vittorio Borelli, Franco Calamida e Vittorio

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24-27 marzo 1977) confermò, a stragrande maggioranza, la fiducia alla maggioranza dell’organismo dirigente guidato da Vinci, Gorla e Molinari (che ottenne l’87,7% dei consensi), assegnando alla minoranza di Oskian/ Campi il 9,3% delle deleghe, mentre il 3% dei congressisti si astenne. Anche qui, com’era già accaduto in occasione del II congresso nazionale di Lc, le femministe del partito, durante una delle prime sessioni di lavoro, salirono sul palco rivendicando lo stravolgimento di una concezione della politica vissuta al maschile, cui seguì la decisione di non prendere parte ai nuovi organismi dirigenti.147 La minoranza di Avanguardia operaia si aggregò quindi alla maggioranza del Pdup per il comunismo, mentre in maggio, con un accordo tra la maggioranza di Ao, la minoranza del Pduppc e la Lega dei comunisti, si costituì il coordinamento a tre che dette poi vita a Democrazia proletaria.148 3. Lotta continua dall’apogeo alla dissoluzione Come già accennato, nell’aprile 1972 Lc avrebbe avuto – secondo Bobbio – 152 sedi diffuse sul territorio nazionale. Prendendo per buona tale cifra, per quanto riguarda il 1971-1973 è dunque possibile stimare l’organico complessivo di Lotta continua (gli aderenti in senso lato, includendo dunque anche i simpatizzanti stretti), attorno alle 10.000-12.000 unità, che voleva dire una media di 65-80 attivisti per sede. Una stima meno prudente, ma in ogni caso non priva di attendibilità (basata su una media di 100 unità per sede), condurrebbe invece alla cifra di 15.000 attivisti. Oltre Rieser, Ripresa dell’iniziativa politica e problemi interni di partito, in «Quotidiano dei lavoratori», 16-17 gennaio 1977. 147. Cfr. Le compagne di Ao riescono a imporre al Congresso nuovi terreni di confronto politico, in «Quotidiano dei lavoratori», 27-28 marzo 1977; Gli interventi collettivi delle compagne femministe, ivi, 30 marzo 1977 e Gambetta, Democrazia proletaria, p. 89. 148. Cfr. ivi, pp. 89-90 e, per i passaggi dal coordinamento a tre al partito Dp, pp. 93-132. L’adesione della Lega dei comunisti al processo costituente di Dp fu decisa durante il suo III congresso nazionale (dicembre 1976), dopo l’abbandono del processo aggregativo che si era strutturato, da circa un anno, con l’Ufficio di consultazione delle forze marxiste-leniniste. Cfr. L’approdo al processo di unificazione Ao-Pdup. Intervista a Romano Luperini della Lega dei comunisti, in «Quotidiano dei lavoratori», 5 gennaio 1977. Sulla storia di Dp cfr. anche Matteo Pucciarelli, Gli ultimi Mohicani. Una storia di Democrazia Proletaria, Alegre, Roma 2011 e Alfio Nicotra, L’agile mangusta. Democrazia proletaria e gli anni Ottanta, Alegre, Roma 2021.

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tale ammontare le congetture appaiono poco fondate, soprattutto quella avanzata da Monicelli che – senza citare alcuna fonte e senza specificare a quale anno si riferisca – attribuisce alla formazione politica fondata da Adriano Sofri un organico oscillante «dai 20 ai 30 mila aderenti».149 Come per molte altre formazioni politiche semi-strutturate o caratterizzate da informalità nelle modalità di adesione, la ricostruzione esatta del numero degli affiliati è impresa ardua, se non impossibile: chi considerare, infatti, nel computo degli attivisti? I soli militanti “effettivi”? Oppure coloro che manifestavano una forma, seppur indefinita, di adesione attiva al gruppo? O ancora l’area complessiva di mobilitazione (includendovi quindi anche i simpatizzanti e i soggetti attivi nei vari settori d’intervento)? Nell’uno o nell’altro caso, le cifre variano considerevolmente. A riguardo, torna utile la già menzionata nota prefettizia proveniente da Mantova (una realtà media abbastanza rappresentativa), secondo la quale la sede di Lc del capoluogo avrebbe raccolto, nella seconda metà del 1973, duecentocinquanta aderenti e altrettanti simpatizzanti (quindi un’area di cinquecento persone), precisando che, tuttavia, il «nucleo attivo» non superava le cinquanta unità.150 Ovviamente, in altre città di provincia – finanche capoluoghi di regione – la presenza di Lotta continua non fu sempre all’altezza della media, anzi fu assai minoritaria, come, ad esempio, nel caso di Ancona, la cui sezione locale nell’autunno del 1971 raggruppava appena una quindicina di militanti, per lo più studenti (nelle Marche la sezione principale di Lc era quella di San Benedetto del Tronto).151 Compiendo una stima in proiezione sulla base del campione mantovano e di un documento interno sul finanziamento allegato ad un Appunto del Sid della fine del 1973 (da cui si apprende che le sedi erano 105), il numero complessivo delle persone coinvolte nelle attività di Lotta continua, in un dato momento di massima espansione, oscillerebbe dalle 5.000 (considerando i soli dirigenti, quadri intermedi e militanti attivi) alle 50-60.000 149. Cfr. Monicelli, L’ultrasinistra in Italia, p. 214. Luigi Bobbio, riferendosi al gennaio 1975, indica la cifra di circa 8.000 militanti (cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 148). A proposito di numeri, Giachetti attribuisce a Lc, senza specificare le coordinate temporali, la cifra di circa 20.000 attivisti (cfr. Giachetti, Oltre il sessantotto, p. 87), anche se precisa che all’inizio del 1975 la formazione politica contava «9 mila iscritti circa» (ivi, p. 124). 150. Cfr. Acs, Mi, Gab., Pp, 1971-1975, b. 24, f. 359/P, sf. «Varie», riservata del prefetto di Mantova al Gab. del Mi del 19 novembre 1973. 151. Cfr. Sergio Sinigaglia, Di lunga durata, Prefazione di Adriano Sofri, Affinità elettive, Ancona 200, p. 15.

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unità (considerando l’area dell’attivismo diffuso nei vari ambiti di lotta e intervento: i cosiddetti simpatizzanti).152 Al di là del dato “oggettivo”, è certo che la fama di Lotta continua travalicò l’organico effettivo e finanche l’affiliazione occasionale o contingente, tanto che essere di Lotta continua divenne – con una sineddoche – sinonimo di seguace delle idee della sinistra rivoluzionaria. Nella dimensione dell’immaginario collettivo – probabilmente in maniera inversamente proporzionale ai livelli di alfabetizzazione politica e di cultura generale – non v’è dubbio che l’organizzazione fondata da Sofri riuscì a “sfondare”, divenendo, appunto, il gruppo rivoluzionario per antonomasia. Se la valutazione dell’impatto del mito di Lotta continua esula dagli scopi di questo studio, occorre tuttavia osservare come esso operasse sia in positivo (da parte dei soggetti che si autorappresentavano come affiliati al gruppo) sia in negativo (da parte degli “uomini d’ordine” che vedevano lottacontinuisti un po’ dappertutto), come del resto già accaduto ad altre esperienze (i «socialisti» e gli «anarchici» a fine Ottocento, i «bolscevichi» dopo il 1917, gli «arditi del popolo» nei primi anni Venti, i «partigiani» nel periodo post-resistenziale, i «comunisti» negli Usa del maccartismo, i «cinesi» nell’Italia degli anni Sessanta). Se Livio Maitan ha riferito come, nell’estate del 1974 un frate di un convento scelto “sotto copertura” dai quartinternazionalisti come sede convegnistica, gli avesse detto, per tranquillizzarlo sul fatto che aveva capito più o meno chi fossero: «Potete fidarvi… Io e un altro fratello siamo di Lotta continua!»,153 il prefetto torinese Giuseppe Salerno, per restare in tema di religiosi, nel maggio 1972 informava il dicastero da cui dipendeva sull’attività sediziosa del sacerdote Guerrino Babbini, «tenace propugnatore delle idee marxiste del movimento di “Lotta continua”».154 Ad ogni modo, a partire dal 1973 questo “tesoretto” verrà utilizzato dalla leadership di Lotta continua per trattare da una posizione di forza con le 152. Cfr. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/133, sf. «Appunti», documento «riservato» a circolazione interna Commissione nazionale finanziamento [di] Lotta continua, 1° novembre 1973, allegato all’Appunto del Sid del 12 dicembre 1973, trasmesso dal Capo servizio (generale Vito Miceli) al direttore del Servizio ordine pubblico e stranieri del Mi. 153. Cit. in Maitan, La strada percorsa, p. 356. 154. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 350, f. G5/42/133, sf. «Torino», riservata del prefetto di Torino al Gab. del Mi del 13 maggio 1972, la quale aveva per oggetto «Prete operaio Guerrino Babbini, attivista di movimento extraparlamentare di sinistra». Per le memorie del religioso, cfr. Guerrino Babbini, Quando la fede e la lotta sono di classe, Postfazione di Marcella Filippa, Edizioni Ndr, Torino 2007.

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altre due maggiori organizzazioni della sinistra rivoluzionaria: Avanguardia operaia e il Pdup per il comunismo (le quali, con Lc, costituivano “la Triplice”). Organizzazioni probabilmente meno numerose, certamente meno “popolari”, ma meglio attrezzate a districarsi tra movimenti conflittuali e istituzioni. La presa d’atto della minor dirompenza delle lotte operaie (che, ad ogni buon conto, continuarono a essere presenti e, addirittura, ad ampliare la loro portata in termini di capillarità spaziale) e la “scoperta” della dimensione politico-istituzionale si concretizzarono in una serie di posizioni tese a ribaltare l’immagine di una Lc «estremista». Con uno sguardo attento alle articolazioni tattiche di Pdup-pc e, soprattutto, Ao (la concorrente più agguerrita), a partire dalla fine del 1972 Lotta continua si mosse attuando, se mi è concessa l’espressione, una sorta di “scavalcamento a destra” complessivo delle due organizzazioni rivali. Oltre a una diminuzione dell’ostilità verso gli altri gruppi della sinistra rivoluzionaria e, come abbiamo visto, all’accettazione dei delegati di fabbrica e delle strutture consiliari del sindacato,155 Lc rivide i suoi giudizi sul Pci, giungendo a dare indicazione di voto per tale partito alle elezioni regionali e amministrative del 1975 (in cui si presentava anche il cartello elettorale di Democrazia proletaria, animato da Ao e dalla costituente per il Pdup-pc). La teoria e la pratica dell’antifascismo militante – mai demodé – furono supportate dalla richiesta (impensabile fino a qualche tempo prima, poiché rivolta alle istituzioni) della messa fuorilegge del Msi-Dn. Inoltre, diversamente dagli altri gruppi (che criticarono questa scelta), Lc decise di partecipare alle elezioni studentesche previste dai “decreti delegati”, contendendosi con la Fgci l’elettorato gauchista. Infine, seppur contraddittoriamente, attraverso temi attinenti ciò che marxianamente veniva definita «sovrastruttura» (diritti civili, autonomia generazionale e di genere, cultura controcultura, svago, ecc.), furono legittimate numerose battaglie esterne o collaterali al tradizionale conflitto tra Capitale e Lavoro.156 155. Già in occasione del convegno nazionale operaio di Bologna del 9 e 10 settembre 1972 (definito «riunione nazionale delle avanguardie autonome»), Lc riconobbe come alla testa delle lotte vi fossero anche i lavoratori del Pci e del sindacato e come fosse quindi necessario fare fronte comune con essi (cfr. Piattaforma di discussione per la riunione nazionale delle avanguardie autonome, in «Lotta continua», 6 settembre 1972). Documenti relativi all’incontro nazionale del 9-10 settembre 1972 sono in ivi, b. 346, f. G5/42/133, sf. «Affari generali». 156. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, pp. 215-216. Come notato: «Nel solo volgere di un anno, la scelta di abbandonare il terreno movimentista […] porta Lotta Continua a misurarsi con due questioni (l’aborto e il divorzio) riguardanti da vicino la condizione della donna nella società» (Voli, Quando il privato diventa politico, p. 137).

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Tutto ciò fu accompagnato da una partitizzazione a ritmi serrati, poiché era ormai palese come gli organismi autonomi operai (emanazione di Lc) non fossero più, come nel 1969, dei pur embrionali soviet, bensì delle cellule operaie dell’organizzazione che erano intervenute e intervenivano politicamente all’interno del più vasto movimento dei consigli, emanazione del sindacato.157 Il passaggio dalla fase «estremista» a quella «politicista» non fu, ad ogni modo, né lineare né uniforme. Oltre alle non poche resistenze di una base abituata sì ad «agire da partito» (come recitava uno dei leitmotiv della prima tra le numerose svolte di Lc)158 ma da partito informale, antipolitico e quindi altro, il nuovo orientamento tattico fu interpretato e applicato, dalle varie realtà territoriali, in modo differente, a seconda di quale fosse lo «stato d’animo» prevalente del corpo militante. Sulla questione dei delegati di fabbrica e del rapporto con il sindacato, ad esempio, prevalse la politica del «caso per caso» e le «ambizioni della nuova tattica» si infransero «di fronte ad antiche resistenze, cui l’organizzazione non os[ò] opporre indicazioni nette».159 Lo stesso Sofri, del resto, nel suo intervento al convegno operaio di Torino dell’aprile 1973, contribuì ad alimentare la confusione, sostenendo come fosse «assurda» l’indicazione generalizzata di entrare nei consigli di fabbrica, mentre sarebbe stato invece corretto valutare se aderirvi o meno a seconda della situazione.160 E, come già accennato, anche sulla questione dell’uso della forza esistevano, all’interno di Lotta continua, posizioni e attitudini differenti. Pur mettendo la sordina alla testimonianza di Michele Boato (riferita alle sue divergenze con i precetti scaturiti dal convegno riminese dell’aprile 1972), appare tuttavia attendibile la rappresentazione secondo la quale nell’organizzazione convivessero sia coloro che tessevano «l’elogio della piazza violenta», sia coloro a cui (forse) premeva innanzitutto organizzare «la mensa dei bambini poveri».161 E ciò anche dopo la svolta «politicista» ma157. Cfr. La commissione esteri [Guido Viale], Lotta di classe e unità europea, in «Lotta continua», 7 e 8 novembre 1972. 158. Fin dal I convegno nazionale di Torino del luglio 1970 s’impose tale imperativo, sottintendendo «pur non essendolo». Cfr. l’editoriale Per il comunismo, in «Lotta continua», luglio 1970 e Agire da partito, in «Lotta continua», 2 settembre 1970. 159. Bobbio, Lotta continua, p. 120. 160. Cfr. Gli operai. Le lotte. L’organizzazione, p. 257. 161. Testimonianza di Michele Boato in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 203 («Per me Rimini fu uno choc […]. Rostagno tesseva l’elogio della piazza violenta di Milano, in cui vedeva l’inizio della liberazione di interi quartieri, come a Londonderry. Per noi ‘prendersi la città’ significava organizzare la mensa dei bambini poveri di

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turata tra la fine del 1972 e gli inizi del 1973. Come, infatti, osservato da Bobbio, l’eredità «estremista» di Lc sulla questione della violenza tese a sopravvivere – alimentata, soprattutto, dai militanti più giovani – «sotto forma di una spinta permanente verso una gestione della nuova linea politica in chiave immediatistica e “militare”».162 La permanenza di tali ambiguità autorizza a supporre che siano dunque esistite numerose Lotta continua, diverse – per composizione sociale, stile di militanza, inclinazioni e indirizzo politico – l’una dall’altra a seconda delle situazioni (ma, talvolta, anche all’interno della stessa sede) e, soprattutto, delle varie rappresentazioni.163 Se tale caratteristica era comune a tutte le organizzazioni rivoluzionarie e, in genere, a ogni sodalizio, in Lotta continua essa raggiunse livelli di evidenza ragguardevoli. Insomma, rispetto alle altre formazioni politiche della sinistra rivoluzionaria, la “varianza” tra sede e sede (e tra attivista e attivista) era decisamente maggiore. Tali “sfasature” trovarono il loro momento di rettifica – in parte riuscita, in parte no – in occasione del I congresso nazionale dell’organizzazione, che si tenne al Palazzo dei Congressi dell’Eur di Roma dal 7 al 12 gennaio del 1975. Evocato e mai convocato, esso rappresentò il passaggio di Lotta continua dallo stadio “primordiale” caratterizzato dalla pseudo-democrazia assembleare a quello più “maturo” della democrazia rappresentativa. Fino a quel momento, infatti, la formazione politica guidata da Sofri aveva individuato i propri dirigenti o in assemblee allargate di delegati territoriali, o in base alle indicazioni delle varie sedi o, ancora, per cooptazione; mentre la linea politica veniva stabilita dal confronto delle posizioni tra la leadership “carismatica” raccolta attorno a Sofri, l’esecutivo nazionale e il giornale. Come documentato da Ca’ Emiliani, il doposcuola, le occupazioni delle case; scoprivamo allora che altri intendevano quella formula in termini militari»). 162. Bobbio, Lotta continua, p. 139. 163. A proposito di memorie divergenti, si vedano le testimonianze di Anna Totolo e Massimo Negarville sull’uso della forza a Torino e sul conseguente atteggiamento delle autorità di Ps. Anna Totolo ci restituisce l’immagine di un servizio d’ordine di Lc “responsabile” e di una polizia “provocatrice”: «Ci sentivamo in grado non solo di reggere il confronto con la polizia, ma anche di resistere alle provocazioni» (in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 195). Negarville, viceversa, rammenta l’attitudine di Lc a cercare lo scontro con le forze dell’ordine, le quali sarebbero state orientate a non raccogliere la “sfida”: «Si arrivò al punto che la squadra politica di Torino prese a evitare lo scontro. Rompevamo le finestre con le biglie, mettevamo i chiodi a tre punte, spostavamo le auto in mezzo alla strada; niente, i poliziotti restavano guardare» (ivi, p. 191).

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Bobbio, per sei giorni, duecento osservatori e 483 delegati – eletti da 84 congressi provinciali, in rappresentanza di circa 8.000 iscritti – affrontarono, in seduta plenaria e nelle commissioni, la discussione in «un clima nuovo»: gli approfondimenti prevalsero «sui toni trionfalistici» e «i numerosi emendamenti alle tesi, presentati dai congressi di base o dai singoli compagni [furono] vagliati e discussi».164 Lo stesso autore riporta uno spaccato della composizione sociale, generazionale e di genere dei partecipanti al congresso, da cui emerge come, all’incirca, gli operai rappresentassero il 32% dei delegati, gli studenti il 21%, gli insegnanti il 17%, i «militanti a tempo pieno» l’11%, gli impiegati e i tecnici l’11% e, infine, i «proletari non operai» il 7%. A livello generazionale, il congresso era indubbiamente giovane: il 60% dei delegati aveva, infatti, tra i 21 e i 29 anni, mentre il restante 40% era suddiviso «equamente tra i giovanissimi e gli ultratrentenni» (l’80% dei delegati, dunque, aveva meno di trent’anni). Dal punto di vista di genere, il congresso era nettamente maschile: infatti, la presenza femminile (48 delegate in tutto) raggiungeva appena il 10% del totale.165 Questi dati sono confermati dal questore di Roma che non mancò di informare le strutture di Intelligence preposte anche e soprattutto al controllo della sovversione di sinistra, sottolineando come all’Eur fossero «presenti circa 600 persone, tra delegati ed invitati» e come, dopo «aver lamentato la scarsa presenza degli studenti e delle donne, Sofri [avesse] esaltato la massiccia partecipazione degli operai ai lavori congressuali».166 Il congresso fu chiamato a vagliare un progetto di tesi articolato in otto «questioni», corrispondenti ad altrettanti ambiti (l’Internazionale, la tattica, il materialismo, il partito, la forza, l’imperialismo, lo Stato e le Forze armate), una bozza di Statuto e un contributo allegato Sul lavoro tra i ceti intermedi e la scuola.167 Come si evince dalla lettura dello Statuto 164. Bobbio, Lotta continua, pp. 148-49. Riguardo al numero degli iscritti, queste le considerazioni di Bobbio: «Un numero molto inferiore alle previsioni […]. La dimensione delle federazioni provinciali è molto piccola (in media hanno appena 100 iscritti ciascuna), tenendo conto che a Milano gli iscritti sono 995, a Torino 794, a Roma 535 e circa 350 a Napoli» (ivi, p. 148). 165. Cfr. ivi, pp. 148-149. 166. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/133, riservata-raccomandata del questore di Roma all’Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo della Dgps del 15 gennaio 1975. 167. I testi delle tesi dibattute e l’intervento introduttivo di Adriano Sofri sono allegati alla riservata-raccomandata del questore di Roma all’Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo della Dgps dell’11 gennaio 1975 in ivi. Una volta approvati, i materiali del

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approvato, Lotta continua, «nata come espressione politica dell’autonomia del reparto più avanzato della classe operaia», da quel momento in poi si sarebbe adoperata «per la conquista della maggioranza del proletariato alla rivoluzione comunista», poiché, nonostante continuasse a ritenere centrale «la classe operaia di linea della grande produzione capitalista», era altresì fondamentale «rafforzare l’unità fra operai e studenti, raccogliere sotto la direzione della classe operaia il proletariato agricolo, il proletariato femminile non occupato, le massaie disoccupate o semioccupate, il proletariato emigrato, i settori proletarizzati del lavoro dipendente, dell’impiego pubblico, del lavoro intellettuale, organizzare e unire al movimento popolare la base proletaria delle forze armate».168 L’indicazione della costruzione di un siffatto fronte ampio proveniva anche dalla lezione della rivoluzione portoghese dell’aprile 1974, un processo sostenuto entusiasticamente da Lotta continua e che, come osservato da Sannucci, contribuì all’approfondimento della riflessione sul modello di difesa in relazione ai nodi rivoluzione/controrivoluzione e democrazia/ dittatura: «Non più un esercito disarmato, per evitare avventure cilene, ma un esercito in grande armonia con le forze sociali, non separato da esse, ma con esse impegnato in battaglie civili. […] anche per questo un esercito professionale e ristretto viene visto come un pericolo».169 Se il Portogallo non sarebbe dovuto diventare il «Cile d’Europa» (e per far sì che ciò non avvenisse Lc organizzò una rete di collegamento con i rivoluzionari portoghesi),170 era altresì vero che la realtà italiana era differente da quella convegno furono poi raccolti in volume; cfr. Lotta continua, Le tesi. Le relazioni politiche. Lo statuto, Edizioni Lotta continua, Roma s.d. [1975]. 168. Statuto di Lotta continua, in Lotta continua, Le tesi, pp. 153-162 (cit. a p. 153). Come affermato da Sofri: «Noi non siamo né vogliamo essere il partito di alcuni strati operai, di alcune forme di lotta, bensì il partito della classe operaia e del proletariato, il partito che fa i conti con le condizioni complessive del processo rivoluzionario, con la vittoria della rivoluzione» (Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/133, intervento di Adriano Sofri allegato alla riservata-raccomandata del questore di Roma all’Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo della Dgps dell’11 gennaio 1975). Passaggio immutato in Lotta continua, Le tesi, p. 55. 169. Corrado Sannucci, Lotta continua. Gli uomini dopo, Limina, Arezzo 1999, p. 93. 170. Come notato anche da Bobbio, dopo il fallito pronunciamento moderato dell’11 marzo 1975, Lc «assunse il Portogallo come propria bandiera». Dopo l’invio di una delegazione operaia ai primi di aprile si stabilì una «rappresentanza permanente» attraverso l’Associazione per l’amicizia rivoluzionaria Portogallo-Italia (cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 153). Da allora si intensificarono i viaggi (monitorati dalle autorità di Ps) dei

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lusitana. Le Tesi, a tal proposito, precisavano infatti che: «sulla collocazione della gerarchia militare italiana non possono agire, o non è prevedibile che agiscano, quegli elementi che in altri paesi hanno agito: […] infatti è assente l’elemento che ha operato in Portogallo (il crollo di un regime militare coloniale)».171 Benché “imperfetta” l’Italia era pur sempre una democrazia e la difesa degli spazi democratici venne finalmente (quanto convintamente non è dato sapere) assunta come prioritaria. Sconfessando l’estremismo «antidemocratico» delle origini, lo statuto dell’organizzazione sanciva, infatti, come Lotta continua riconoscesse «nelle libertà democratiche un’espressione della forza e dell’unità del movimento proletario» e «nell’allargamento delle libertà democratiche e civili un decisivo interesse della classe operaia».172 Tale cristallizzazione degli orientamenti dell’ultima svolta non piacque ai fautori dell’ala “dura” dell’organizzazione. Come informava il questore di Roma: «Nel corso della giornata conclusiva, alcuni delegati di Milano e Pavia hanno dichiarato di voler uscire dal movimento “Lotta Continua” poiché “il congresso non ha dissipato molti dubbi della vigilia”».173 Il riferimento era al gruppo di circa 150 militanti (in prevalenza della sezione di Sesto San Giovanni) costituitosi in corrente in occasione del congresso, la quale decise di abbandonare Lc per dare vita all’esperienza di Senza tregua e, poi, di Prima linea.174 militanti di Lotta continua verso il Portogallo, in particolare durante le vacanze estive del 1975. Si veda, a riguardo, in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 358, f. G5/45/13 «Organizzazioni extraparlamentari di estrema sinistra», gli elenchi dei passeggeri dei voli Tap giunti a Fiumicino da Lisbona nell’agosto 1975. Sull’influenza mito portoghese, si veda il ricordo di Sinigaglia sui festeggiamenti a San Frediano dopo le elezioni del giugno 1975: «tanta gente e anche tanti soldati. Ci sembrava di essere in Portogallo» (Sinigaglia, Di lunga durata, p. 77). 171. Lotta continua, Le tesi, p. 145. Secondo Lc, gli ufficiali e i sottufficiali delle Forze armate italiane sarebbero stati conquistati alla causa rivoluzionaria solo con molta difficoltà, anche se non si escluse la possibilità di attrarre la «bassa gerarchia» (cioè sottufficiali e ufficialità subalterna) attraverso la spinta delle cosiddette lotte di massa (cfr. ivi, p. 146). 172. Ivi, p. 154. 173. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/133, riservata-raccomandata del questore di Roma all’Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo della Dgps del 15 gennaio 1975. 174. Cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 141. Sull’area di militanti milanesi, prevalentemente operai, che confluirono nella lotta armata cfr. Emilio Mentasti, La guardia rossa racconta. Storia del Comitato operaio della Magneti Marelli, Colibrì, Paderno Dugnano

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Ultimo atto del congresso – proseguiva il funzionario – è stata la nomina di 98 membri del “Comitato Nazionale”, i quali torneranno a riunirsi nei gg. 25 e 26 corrente […]. Il “Comitato Nazionale”, alla sua prima convocazione, avrà anche il compito di eleggere il segretario generale di “Lotta Continua”. Appare, comunque, scontata l’elezione a tale carica dell’attuale “leader” del movimento, Adriano Sofri.175

Se, come previsto dal questore romano, l’elezione di Sofri a «segretario generale» (questa fu effettivamente la definizione ufficiale della carica) fu «scontata», il Comitato nazionale elesse un organo esecutivo composto, oltre che dallo stesso Sofri, da Lanfranco Bolis, Paolo Brogi, Michele Colafato, Clemente Manenti, Cesare Moreno, Enzo Piperno, Guido Viale e, in rappresentanza delle donne, Carla Melazzini.176 Ma le ipotesi di una pur misurata “portogallizzazione” dell’Italia, di un governo delle sinistre guidato dal Pci e dell’impraticabilità dell’unificazione (anche e soprattutto a livello elettorale) della sinistra rivoluzionaria si rivelarono traballanti se non infondate. L’evoluzione della crisi italiana non lasciava intravedere panorami lusitani (scenari peraltro in via di mutazione nello stesso Portogallo), il Pci – premiato dall’elettorato con un 33,5% alle regionali (in ciò Lc si dimostrò in sintonia con la «volontà delle masse») – si convinse ancor più della necessità di convergere con la Democrazia cristiana (il «compromesso storico»), mentre il cartello elettorale di Ao e Pduppc laddove riuscì a presentare le liste di Democrazia proletaria conquistò, senza il contributo di Lc, posizioni che potevano essere interpretate come foriere di sviluppi promettenti. Ciò indusse il gruppo dirigente del partito (in questa fase lo si può definire così) a compiere l’ennesima sterzata politica: rientrata la proposta di mandare il Pci al governo – prospettiva abbandonata già in occasione del III convegno operaio di Lc (Napoli, 19-20 luglio 1975) – Lotta continua prese a osservare con interesse la prospettiva 2007 e Id., Senza tregua. Storia dei Comitati Comunisti per il potere operaio (1975­1976), Colibrì, Paderno Dugnano 2010. 175. Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 346, f. G5/42/133, riservata-raccomandata del questore di Roma all’Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo della Dgps del 15 gennaio 1975. 176. In occasione del congresso, Lc riconobbe dignità alla questione femminile con l’ingresso di Melazzini, come «rappresentante delle compagne», in segreteria nazionale e con l’istituzione di una Commissione femminile nazionale. Cfr. Giuliana Ascoli et al., La parola elettorale. Viaggio nell’universo politico maschile, Edizioni delle donne, Roma 1976, p. 198.

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dell’unità dei rivoluzionari e propose, in vista delle elezioni politiche del 1976, la presentazione di una lista unitaria (il cartello di Democrazia proletaria esteso a Lc e a altre soggettività), preannunziando – in caso di disaccordo – la presentazione di proprie liste.177 Parallelamente, il “pendolo” di Lc tornò ad accostarsi ai movimenti: oltre a quelli degli operai in lotta (facendo nuovamente riemergere l’antisindacalismo delle origini), dei proletari contro il carovita e dei soldati di leva (dove Lc era, effettivamente, la forza politica egemone, di gran lunga più incisiva di Pci e Psi e delle altre formazioni concorrenti), l’organizzazione decise di sostenere i due movimenti, ancora in fase costituente, dei giovani e delle donne. Come già accennato, saranno proprio questi due nuovi “fermenti” a far emergere quelle criticità non certo risolte dalle continue giravolte del gruppo dirigente. L’irrompere della percezione dell’importanza delle contraddizioni di generazione e di genere (e della sfera privata, rivendicata come politica) posero le premesse di una crisi della militanza che si risolse dopo alcuni passaggi con la convocazione del II congresso dell’organizzazione. Tra questi “passaggi” è doveroso ricordare la festa nazionale del proletariato giovanile (Licola, 18-21 settembre 1975) e la sesta edizione del festival del proletariato giovanile organizzato da «Re Nudo» (Milano-Parco Lambro, giugno 1976), nelle quali fu evidente come il “disagio” delle giovani generazioni avesse spostato il proprio baricentro dalle tematiche comunitario-sociali (la lotta di classe, l’internazionalismo, la rivoluzione sociale) agli ambiti individualisticofilosofico-psicologici (la sfera ludica, la sessualità, l’uso delle droghe, la controcultura, le filosofie spiritualiste New Age e/o mistico-orientali, i diritti e le libertà individuali del soggetto, ecc.) e come, all’insegna de «il personale è politico» (inteso in senso speculare rispetto alla generazione precedente, secondo la quale era il politico a “personalizzarsi”) si fossero ormai sedimentate, anche e soprattutto tra i giovani di Lc, l’individualizzazione del discorso pubblico (dove il noi aveva senso a partire dal proprio vissuto, quindi dall’io) e la complementare, per usare l’espressione di Monicelli, «etica del negativo» (cioè una visione nichilistica della realtà).178 177. Cfr. Le elezioni e l’unità a sinistra, in «Lotta continua», 10 aprile 1976. 178. Cfr. Monicelli, L’ultrasinistra in Italia, pp. 76-77. La festa nazionale di Licola del settembre 1975, intitolata Dal movimento studentesco al proletariato giovanile, fu organizzata dalle tre strutture di intervento studentesche della sinistra rivoluzionaria (Cps, Cub e Cpu); cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 160. Su Parco Lambro cfr. Gianni Borgna, I giovani, in Gambino et al., Dal ’68 a oggi, pp. 369-427, che nota: «A Parco Lambro, ed è quasi un simbolo, tra espropri, assalti al palco, saccheggi, tentativi di stupro, la ricerca della felicità

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Ma, più di ogni altro fattore, fu la lettura dei già ricordati fatti del 6 dicembre 1975 (cioè la cosiddetta aggressione del servizio d’ordine di Lc al corteo delle donne per la liberalizzazione dell’aborto) a determinare una frattura, che si rivelerà irreparabile, tra la parte dell’organizzazione che riteneva ancora valido l’impianto politico-organizzativo di tipo comunista rivoluzionario e quella che proponeva un suo superamento in nome dell’autonomia dei movimenti. Dato che la stratificazione di storie e memorie, anche alla luce della posizione “ufficiale” assunta da Lotta continua, ci ha restituito una versione dei fatti opaca se non unidirezionale (inizialmente per comprensibili motivi di ordine politico), è necessario ricostruire brevemente la vicenda.179 In autunno inoltrato, il Comitato romano aborto e contraccezione (Crac)180 indisse una manifestazione nazionale per il diritto delle donne a decidere sulla propria gravidanza e della propria vita. Lc, tramite la responsabile della Commissione femminile nazionale, Vida Longoni (che, tuttavia, fu contestata dalle donne dell’organizzazione), si dichiarò contraria alla proposta, avanzata dalle donne di Avanguardia operaia e poi risultata maggioritaria, di proibire l’esibizione degli striscioni delle organizzazioni politiche e di proibire, con la sola eccezione dei mariti delle donne palermitane in lotta per la casa, la partecipazione dei maschi al corteo.181 Una posizione netta, che evidenziò – in nome dell’autonomia del si trasformò in esibizione tragica della propria impotenza» (ivi, p. 415). Per uno spaccato dell’universo culturale del “proletariato giovanile” cfr. Rocco e Antonia [Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera], Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, Con un dialogo a posteriori di Giaime Pintor e Annalisa Usai, Savelli, Roma 1976. 179. Se Bobbio narra di un «gruppo di compagni della sezione Cinecittà di Lotta continua» che tentò «di inserirsi nel corteo» e una volta respinto reagì «aggredendo le compagne con botte e spintoni» (Bobbio, Lotta continua, p. 163), per Ginsborg la manifestazione del movimento delle donne «fu disturbata da un gruppo di maschi di una sezione di Lotta continua che, incapaci di accettare l’idea di una manifestazione di sole donne, cercarono di inserirsi a forza nel corteo» (Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, p. 497). Più equilibrata la sintesi di Crainz che definisce l’episodio un «tentativo di un gruppo di militanti di Lotta continua di infrangere» l’esclusione dei maschi dal corteo (Crainz, Il paese mancato, p. 518). 180. Cfr. Giancarla Cicoletti, Comitato Romano Aborto e Contraccezione (CRAC), in La strategia delle minoranze attive. Una ricerca empirica sul movimento delle donne, a cura di Franco Crespi e Angelica Mucchi Faina, Liguori, Napoli 1988, p. 45 ss. Più in generale, si veda anche la documentazione contenuta in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, b. 354, f. G5/42/209 «Movimento femminista». 181. Voli, Quando il privato diventa politico, p. 157, la quale specifica come Vida Longoni avesse preso «posizione contro la proposta delle donne di Avanguardia Operaia di

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soggetto in lotta e alla luce della linea escludente verso le organizzazioni politiche e i maschi – il profilo movimentista e femminista-separatista della manifestazione, frutto della convergenza tra l’atteggiamento strategico proprio del neofemminismo più conseguente e il tatticismo di Avanguardia operaia e del Pdup-pc che avevano percepito l’imminenza della crisi di Lc ed erano intenzionati (soprattutto Ao) a sfruttarla a proprio vantaggio. Lotta continua fu dunque obbligata ad accettare obtorto collo il profilo della manifestazione, peraltro – come già detto – auspicato dalla maggioranza delle proprie militanti (sia dirigenti, sia di base), le quali è lecito supporre che si identificassero ormai più con il movimento femminista che con l’organizzazione politica in cui militavano. Ma gli attivisti della sezione di Cinecittà (sia uomini che donne) decisero di parteciparvi con le bandiere e gli striscioni di Lc e senza distinzione di genere, all’insegna dello slogan «Nel proletariato nessuna divisione, uomini, donne per la rivoluzione». Ciò venne letto, dalla quasi totalità delle manifestanti, come una provocazione e, conseguentemente e alla luce di quanto deciso dalle organizzatrici, venne negato loro l’ingresso nel corteo. Dalla versione dei fatti, a cura di Vida Longoni, riportata “a caldo” dal giornale, è possibile apprendere come Lc si fosse tuttavia allineata, tramite le compagne impegnate nell’organizzazione, alle decisioni della maggioranza del Crac (che, ad ogni buon conto, la espulse dal proprio seno poco tempo dopo): «I compagni e le compagne della sezione di Cinecittà sono venuti, nonostante tutti i divieti, con uno striscione firmato “Sez. Cinecittà-Lotta Continua”. Improvvisamente, il corteo si arresta e arrivano voci allarmate […] all’altezza dell’imbocco di via Cavour, i compagni della sezione di Cinecittà, seguiti da altri compagni e compagne di Lotta Continua e da compagni autonomi […] hanno sfondato il servizio d’ordine delle compagne, sono volate botte e spintoni contro le donne».182 A scontrarsi fisicamente con il servizio d’ordine della manifestazione non furono tuttavia i militanti della sezione di Cinecittà, bensì, allertata da questi ultimi, la “volante” romana di Lc (ossia l’efficiente squadra di servizio d’ordine mobile, capitanata da Erri De Luca e Giorgio Lovisolo) che, vietare la presenza di striscioni di appartenenza e degli stessi compagni, convinta che tali restrizioni avrebbero ridotto e indebolito la forza del corteo». Per la posizione di Lc cfr. Il 6 dicembre manifestazione nazionale di massa delle donne a Roma, in «Lotta continua», 27 novembre 1975, in cui si esplicitano le critiche alle posizioni separatiste e avverse alla partecipazione di realtà organizzate avanzate dalle delegate di Ao. 182. Vida [Longoni], 50.000 donne in piazza per l’aborto, contro il governo, in «Lotta continua», 9 dicembre 1975.

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senza troppe difficoltà, riuscì ad avere la meglio sull’omologa struttura a protezione della manifestazione e a conquistare – quantunque ancora in coda – il diritto a manifestare. Come rievocato da Erri De Luca: a metà percorso, in via Cavour, si schierarono di fronte a noi i servizi d’ordine di Avanguardia operaia e del Manifesto, decisi a far sparire la nostra insegna. Noi non c’eravamo organizzati, e a mani nude facemmo quel che ci era stato chiesto, il mestiere della polizia: caricare e sciogliere l’ostacolo, che si ricompose più volte. Tutti hanno voluto scambiare una rissa tra maschi con un’aggressione alla coda del corteo femminista.183

Se esistono versioni divergenti sulla composizione del servizio d’ordine che si scontrò con l’unità mobile di De Luca e Lovisolo (totalmente femminile secondo i più, prevalentemente maschile secondo altri) e, soprattutto, sull’aggressione fisica verso alcune donne (mentre Vicky Franzinetti, responsabile del servizio d’ordine della manifestazione del 6 dicembre, assicura che «molte donne quel giorno furono malmenate», Erri De Luca giura di non avere «sfiorato una ragazza»),184 è invece fuori discussione come tale “tenzone” sia stata utilizzata per aprire le ostilità all’interno di Lotta continua. A partire da quel giorno – la sera stessa i lavori del Coordinamento nazionale furono interrotti da numerose attiviste di Lc che chiesero provvedimenti contro i responsabili, dirigenti in testa, dell’episodio185 – prese avvio una guerra 183. Testimonianza di Erri De Luca in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 265. Erri De Luca rievoca lo stesso episodio, pur con qualche differenza, nel libro di Stefania Voli («Autonomia operaia» in luogo di «Avanguardia operaia» è certamente frutto di un lapsus): «questo gruppo di compagni e compagne di Cinecittà avevano la strada sbarrata da un servizio d’ordine di un gruppo dell’Autonomia Operaia, maschile naturalmente, che stava dalle parti di via Cavour – avevano la sede da quelle parti – e non li facevano passare. Così noi li abbiamo sfondati e questi hanno cominciato ad andare verso il corteo» (in Voli, Quando il privato diventa politico, p. 274). 184. Testimonianze di Vichy Franzinetti ed Erri De Luca in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 265. Un giudizio più “equilibrato” è quello di Viale, che in un dibatto ospitato e coordinato da «MicroMega» sulla fine di Lc, rievocò così i fatti: «Lo scontro grosso è avvenuto con i servizi d’ordine di altri gruppi che stavano difendendo il carattere esclusivamente femminile del corteo. Poi, naturalmente, delle donne sono state coinvolte anche fisicamente in questo scontro»; Guido Viale, Giovanni. De Luna, Franca Fossati ed Erri De Luca, Così finì Lotta continua, in «MicroMega», 8 (2006), p. 81 (l’intero articolo è alle pp. 73-88). Anche Franca Fossati ha sottolineato come non ci fosse stata «un’aggressione vera e propria degli uomini contro le donne, come tramanda la vulgata» (ibidem). 185. Cfr. [Vida Longoni], Comunicato della responsabile della commissione femminile nazionale di Lotta Continua, in «Lotta continua», 9 dicembre 1975.

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intestina tra (le virgolette sono d’obbligo dato che trattasi di rappresentazioni stereotipate) “femministe” e “proletariato giovanile” da un lato e “operai” e “servizio d’ordine” dall’altro, con in mezzo i “dirigenti”, la maggioranza dei quali, dopo un iniziale tentativo di mediazione, si schierò con il primo fronte, il quale, benché attestato su posizioni antiorganizzatrici e finanche liquidazioniste,186 era comunque riconducibile al paradigma originario di una Lotta continua intesa come «stato d’animo», mentre il secondo asse era espressione di una Lotta continua declinata come «partito rivoluzionario». In particolare, il sostegno all’ala movimentista provenne da quei dirigenti che la fase di «Lotta continua partito» aveva marginalizzato, come alcuni dirigenti torinesi, o che si ritenevano – come lo stesso Sofri – “prigionieri” di una entità che non sentivano più propria.187 Come ricordato da Franca Fossati, la partita tra le “femministe” e i “comunisti rivoluzionari”, riconducibile a una questione di rapporti di potere interni, si giocò a Roma e Torino. Se nella capitale il “centro di potere” da combattere fu individuato nella componente militaresca, a Torino l’intellettualità femminile e femminista di Lc individuò il proprio antagonista negli «uomini dell’organizzazione» in generale e negli operai in particolare.188 Fu in quest’ultima sede che lo scontro tra le due anime di Lc raggiunse i livelli di asperità più elevati, dando così il via libera alla logica compartimentale dell’ognun per sé e permettendo altresì al gruppo dirigente di Lc di riconvertirsi, nel modo più indolore possibile e seguendo differenti percorsi, a politiche post-operaiste e post-rivoluzionarie.189 La spaccatura torinese tra “donne” (con “giovani” al seguito) e “operai” (spalleggiati dai “militanti del 186. Come notato, nel corso del 1975 per le militanti femministe di Lc, quasi «immediatamente il bersaglio polemico diventa il partito» (Bobbio, Lotta continua, p. 161). 187.  Emblematiche, a riguardo, le affermazioni di Sofri a proposito della riunione del Cn della sera del 6 dicembre: «Quella notte feci la mia parte di capro espiatorio, ma ero contento di quello che avvertivo […]. Ero anche un po’ spaventato perché vedevo che questo faceva scricchiolare la baracca, ma tanto io non avevo più intenzione di tenerla in piedi, ero convinto almeno da un anno che Lc avesse esaurito la sua ragione d’essere, la freschezza, la convinzione, l’intelligenza» (cit. in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 265). 188. Cfr. la testimonianza di Franca Fossati in Voli, Quando il privato diventa politico, p. 300, che sottolinea anche come «le torinesi» fossero state «l’anima dell’invasione del comitato nazionale» (ivi, p. 299). 189. Cfr. ad esempio la testimonianza di De Luna: «noi della segreteria votammo insieme agli operai contro questa mozione augurandoci invece che quella mozione vincesse, perché noi pensavamo che lì dentro ci fosse qualcosa che non andava bene» (testimonianza di Giovanni De Luna in Voli, Quando il privato diventa politico, p. 281).

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servizio d’ordine”), a prescindere dal fatto che non poche individualità si potessero collocare in più d’uno di questi insiemi e che, inoltre, quest’ultimi non fossero politicamente omogenei al loro interno,190 ebbe comprensibilmente ricadute su tutta l’organizzazione. Si giunse così, dopo la “batosta” elettorale del 20 giugno 1976, per Lc un vero e proprio colpo di grazia, all’assemblea nazionale (Roma, 26-28 luglio 1976) con una organizzazione spaccata in due.191 «Mitizzazione dell’autonomia operaia, teoria del “genio”, leaderismo, conduzione patrimoniale dell’organizzazione, incapacità dei militanti di contribuire alla linea, militanza basata su una “religiosità” acritica: questi i capi d’accusa» che le femministe di Lc formularono, unitamente alla messa in discussione del «dogma della centralità operaia», all’indirizzo del partito durante i lavori dell’assise di fine luglio.192 Che le critiche, dettate dallo stesso pathos movimentista che solo sei anni prima spinse le militanti di Lc a idealizzare le lotte operaie, fossero probabilmente eccessive, non può tuttavia porre in secondo piano il fatto che in Lotta continua, come in tutte le altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, esistesse realmente una contraddizione di genere ricollegabile a questioni di potere. E in Lc tale questione divenne esplosiva proprio in virtù della percezione della sua portata e dei suoi contorni. Ad ogni modo, in previsione del II congresso dell’organizzazione, le donne di Lc che si riconoscevano nelle tematiche femministe decisero di riunirsi in due scadenze intermedie, una a metà settembre e un’altra all’inizio di ottobre, per portare a compimento, come una “frazione” che si rispetti, ciò che all’assemblea estiva di Roma era stato solamente abbozzato. Oltre al fatto di essere organizzate (aspetto certamente non secondario), rispetto all’altra componente (quella, per utilizzare la schematizzazione allora in voga, 190. Come evidenziato, le donne di Lc si divisero in tre schieramenti: le antifemministe, emarginate dal dibattito e “criminalizzate” dalle altre compagne; la componente femminista più radicale che non considerava più Lc il luogo privilegiato della propria azione politica; le militanti «espressione di un femminismo più “politico”», convinte «della realizzabilità dell’autonomia [delle donne] nel partito» (Voli, Quando il privato diventa politico, p. 171). 191. L’incontro, che vide la partecipazione di circa 1.500 attivisti, si tenne nuovamente al Palazzo dei Congressi dell’Eur di Roma. Cfr. Aperti i lavori dell’Assemblea nazionale di Lotta continua, in «Lotta continua», 27 luglio 1976 e Continua in 5 commissioni il lavoro della nostra assemblea nazionale, ivi, 28 luglio 1976. 192. Cfr. Voli, Quando il privato diventa politico, p. 182. Per il dibattito svoltosi durante l’assemblea precongressuale cfr. Atti dell’Assemblea nazionale di Lotta continua (Roma, 26-27-28 luglio 1976), Lotta continua, Roma 1976.

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degli operai), le donne di Lc ebbero certamente una marcia in più: in un gruppo politico in cui i movimenti erano stati ed erano una sorta di feticcio e che aveva maldigerito l’indirizzo partitista (ed elettoralista) dell’ultimo anno e mezzo, il movimento delle donne, con la sua carica liberatrice e antiautoritaria, la componente femminista di Lc possedeva quell’aura e quell’energia che il resto dell’organizzazione non aveva più.193 Il 23 e 24 ottobre 1976 si tenne, presso un cinema della Falchera, il congresso della federazione torinese di Lc che, come giustamente osservato, fu la prova generale di quello nazionale. A Torino, infatti, erano presenti gli schieramenti che si sarebbero fronteggiati a Rimini un mese più tardi: le donne, gli operai e il servizio d’ordine. Fu Pietrostefani a dar voce ai malesseri della componente operaia. La tensione era altissima: i dirigenti (Sofri in testa) e le femministe, che non consideravano più valido il discorso della «centralità operaia», furono accusati di essere «la borghesia del partito».194 Il secondo e ultimo congresso nazionale di Lotta continua si tenne a Rimini dal 31 ottobre al 4 novembre 1976. Fu un congresso anomalo: con un gruppo dirigente presentatosi in blocco dimissionario, nonché pronto a cedere il passo a non meglio precisate nuove energie; senza documenti congressuali né pur sommari orientamenti politici su cui imbastire la discussione. Se a questo aggiungiamo che tutta l’organizzazione era al corrente di quanto fossero profonde e irreparabili le lacerazioni interne, è difficilmente spiegabile la mancata percezione, da parte dei convenuti e di buona parte degli osservatori, che si trattasse della messa in scena dell’epilogo della vicenda di Lotta continua.195 Ad ogni modo, anche i lavoratori delle fabbriche arrivarono all’appuntamento riminese “autonomizzati” (cioè dopo aver svolto riunioni di soli operai), rivendicando il ripristino 193. Cfr. Concluso il convegno delle compagne, in «Lotta continua», 12 ottobre 1976 e Voli, Quando il privato diventa politico, p. 183. 194. Cfr. Bobbio, Lotta continua, p. 177 e Voli, Quando il privato diventa politico, p. 183, che individua Pietrostefani come “regista” delle accuse. Come ricordato a distanza di più di vent’anni da quei fatti: «Pietro propugnava una linea […] ancorata alla fabbrica, in aperto dissidio con Adriano, al punto che i due non si parlavano» (testimonianza di Enrico Deaglio in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 276). 195. In realtà, la stampa moderata o legata al Pci intuì senza troppe difficoltà come il percorso di Lc fosse giunto al termine. Cfr. a proposito Falsità, sensazionalismo, stupore e ottusità nei commenti della stampa al nostro congresso, in «Lotta continua», 6 novembre 1976 e Giuliano Ferrara, La politica non si esorcizza, in «l’Unità», 10 novembre 1976.

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del primato della «centralità operaia» e la radicalizzazione della conflittualità dentro e fuori le fabbriche.196 Si innescò così un muro contro muro della cui “prepoliticità” (sintomo di una differenza dai risvolti antropologici, collegabile a emotività ed esperienzialità divergenti e a una “cultura operaia” sostanzialmente maschilista) è possibile rendersi conto scorrendo la selezione degli atti del convegno.197 A farne principalmente le spese in qualità di capri espiatori furono Pietrostefani ed Erri De Luca, a prescindere dal loro atteggiamento – autocritico e conciliante quello di “Pietro”,198 sfrontato e orgoglioso quello del secondo199 – in quanto personificazione, emblematicamente maschile, del partito-apparato l’uno e della struttura difensiva dell’organizzazione l’altro. 196. Secondo Deaglio, a Rimini Pietrostefani «e gli operai di Mirafiori hanno giocato le loro ultime carte contro la segreteria, in particolare Sofri, come portatore di visioni borghesi e vicine a quelle femministe, e Cesare Moreno, colpevole di gestire in modo moderato la commissione forza» (testimonianza di Enrico Deaglio riportata in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 276). 197. Cfr. Rimini, 31 ottobre-4 novembre 1976. Il 2° congresso di Lotta continua, a cura di Carla Melazzini, Peppino Ortoleva e Franco Travaglini e con una prefazione di Guido Viale, Edizione Coop. Giornalisti Lotta Continua, Roma 1976. Sul clima generale e le modalità di svolgimento dell’assise, cfr. la testimonianza di Donatella Barazzetti: «Ricordo il secondo giorno Pietro e il gruppo di operai di Torino che si è alzato per venirci a picchiare, mentre stavamo là sopra [sul palco] […]. E poi qualcuno si è alzato, li hanno fermati: è stata una cosa molto violenta, anche molto emotiva. Il librino [gli atti del congresso] non rende che cosa è stato veramente» (in Voli, Quando il privato diventa politico, p. 231). Pietrostefani ricorda un episodio analogo: «Mentre parlavo a Rimini tutte le donne erano sotto il palco a impedirmi di proseguire. Temevo che il servizio d’ordine le menasse» (Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 281). 198. Cfr. il seguente passaggio dell’intervento di Pietrostefani: «Io credo che le critiche […] delle compagne di Torino siano in gran parte critiche giuste, ed è giusto che io sia un bersaglio delle compagne […]. Quindi fanno bene le compagne a criticarmi duramente, e io sinceramente mi auguro che continuino su questa strada perché è anche così che la mia rieducazione potrà andare avanti» (in Rimini, 31 ottobre-4 novembre 1976, pp. 268-269). 199. Cfr. il seguente passaggio dell’intervento di Erri De Luca: «Io penso che Lotta Continua abbia grande necessità di fornire ai proletari una immagine di irriducibile combattività. Sono convinto che l’organizzazione su scala nazionale dei servizi d’ordine città per città, paese per paese, possa contribuire in parte, per la sua parte, alla creazione di questa immagine combattente. […] Un partito rivoluzionario senza servizio d’ordine è un partito disertore [Applausi]» (ivi, p. 200). Nella Storia di Bobbio l’intervento di De Luca e la reazione del pubblico sono narrati differentemente: «l’intervento provocatorio di un compagno del servizio d’ordine […] viene subissato di fischi dalle compagne» (Bobbio, Lotta continua, p. 179).

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Obiettivamente, l’asse femministe-giovani-dirigenti poté giocare meglio le proprie carte rispetto a quello degli operai e dei militaristi (intesi, in questo caso, come apologeti della necessità dei servizi d’ordine e non necessariamente come sostenitori dell’opzione della lotta armata). Oltre all’indubbia superiorità a livello teorico, riscontrabile dallo scarto della qualità degli interventi (che era evidente, anche prescindendo dall’oratoria e dalle architetture discorsive), l’alleanza tra coloro che ebbero compreso prima degli altri che si era aperta una nuova fase giunse all’appuntamento dell’assise nazionale armata di una strategia che, a livello tattico, non escluse il ricorso a pratiche poco ortodosse. Come ebbe modo di denunciare un operaio torinese: tutte queste voci di corridoio su Torino; cioè che si dica che gli operai di Torino, in modo particolare i compagni di Mirafiori, oggi sono strumentalizzati da compagni esterni, da compagni come Pietrostefani; che si dica che il congresso provinciale è finito a sprangate, che alcuni compagni di Torino hanno occupato militarmente le sezioni e le sedi. Penso che solo gente intenzionata a provocare abbia cercato di strumentalizzare queste cose, per isolare i compagni di Torino nei confronti degli altri.200

Alla fine, dopo l’iniziale indisponibilità ad entrare a far parte del gruppo dirigente di “donne” e “operai” (e minacce di uscita in massa dall’organizzazione), i dirigenti, messi alla gogna un po’ da tutti ma poi riconfermati nella loro funzione (tranne Pietrostefani, De Luca e pochi altri), riuscirono a convincere parte della componente operaia (ma non i militanti di Mirafiori) a «vivere col terremoto» e a gestire con essi un «congresso che continua[va]».201 A fronte della perdurante indisponibilità delle femministe ad assumersi incarichi dirigenti, venne eletto un Comitato nazionale provvisorio (e “aperto”), espresso da un elettorato alla cui componente femminista venne riconosciuta la possibilità, comunque inefficace dal punto di vista politico-organizzativo, di indicare quei nominativi che esse disapprovassero. Se tra i più graditi fi200. Intervento di Flavio della Spa Stura, in Rimini, 31 ottobre-4 novembre 1976, p. 89. 201. L’espressione «abituarci a vivere col terremoto» (mutuata dall’impatto del sisma friulano sugli abitanti) fu di Sofri (cfr. Rimini, 31 ottobre-4 novembre 1976, p. 1), mentre la formula del «congresso che continua» era nel numero del quotidiano interamente dedicato alla conclusione dei lavori: cfr. Questo giornale, in «Lotta continua», 6 novembre 1976. Lo slogan «un congresso che solo Lotta continua poteva fare», apparso sullo stesso numero come secondo titolo dell’intervento di Alexander Langer era invece ripreso da un passaggio del discorso di Pietrostefani (cfr. ivi, p. 270).

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guravano Adriano Sofri (con 633 preferenze), il neodeputato Mimmo Pinto (613), l’operaio edile cagliaritano Andrea Angioni (546), Lisa Foa (519), Cesare Moreno (512) e Guido Viale (498),202 tra le “preferenze negative” spiccavano quelle di Flavio della Spa Stura (con 73 cancellature), Salvatore Fusco dell’Italsider di Bagnoli (71), Mauro Rostagno (65), Michele Colafato (62), Franco Lorenzoni (61), Pio Baldelli (56), Peppino Ortoleva (51), Massimo Manisco (44) Franco Travaglini (42), seguiti da Enrico Deaglio (39) Paolo Brogi e Salvatore Antonuzzo (38), Marco Boato (32), Paolo Liguori (24), Alexander Langer (18) e altri candidati con indici di “sgradimento” più bassi. A fronte di un Adriano Sofri con appena 4 voti negativi, Lisa Foa, l’unica donna che scelse di candidarsi, collezionò 37 cancellature.203 Gli interventi conclusivi di Sofri e Viale sembrarono lasciar intravedere qualche spiraglio. Se per Sofri, che decise di toccare le corde del sentimentalismo “confutando” Spinoza, la questione non era, come sosteneva «uno che faceva il filosofo di mestiere», quella di non «ridere né piangere ma capire», bensì quella, come accaduto lì a Rimini, di «ridere, piangere e capire»,204 per il più prosaico Guido Viale «le sedi in cui nel prossimo periodo» sarebbe stata elaborata la linea politica di Lc sarebbero dovute essere, innanzitutto, «la riunione delle compagne, la riunione degli operai, quelle locali e quelle nazionali», mentre per quanto riguardava il Comitato nazionale, «la sua capacità di essere un momento di sintesi, seppur parziale e provvisoria, di queste diverse fonti di elaborazione» non poteva essere data per scontata. Il Cn avrebbe dovuto dunque candidarsi (e ciascuno dei suoi membri doveva «sentirsi candidato») «ad essere una sede di centralizzazione, di coordinamento, di sintesi delle posizioni che emerg[evano] in queste varie sedi di elaborazione».205 Ma le «sedi di elaborazione» non elaborarono alcunché. Il nuovo organismo nazionale di coordinamento, dovendo coordinare poco o nulla, al pari della nuova segreteria nazionale (composta da Paolo Brogi, Clemente Manenti, Mimmo Pinto e Franco Travaglini), smise semplicemente di riunirsi, poiché così decisero, anche se non direttamente, donne e ope202. Cfr. Il nuovo Comitato Nazionale di Lotta Continua, in «Lotta continua», 6 novembre 1976. Come si evince dal cappello introduttivo, votarono 678 persone, «un numero purtroppo ben inferiore a quello dei partecipanti», buona parte dei quali «anche a causa dello sciopero dei treni, aveva dovuto lasciare il Congresso prima di votare» (ibidem). 203. Cfr. Lista delle cancellature fatte dalle compagne, ivi. 204.  Intervento di Sofri, in Rimini, 31 ottobre-4 novembre 1976, p. 284. 205. Intervento di Viale, ivi, p. 286.

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rai, le due supposte sedi di elaborazione, mentre le altre tre componenti, i dirigenti, i giovani e i combattenti, cominciavano a organizzarsi per l’immediato futuro come, rispettivamente anche se non in toto, professionisti intellettuali, provocatori neo-dadaisti, e guerriglieri metropolitani. Di Lotta continua, nel 1977, restò principalmente il giornale (gestito da Enrico Deaglio), mentre il resto dell’organizzazione andò ad alimentare i mille rivoli del movimento del Settantasette.206 In effetti, l’area di Lotta continua, insieme all’area dell’Autonomia operaia, prese parte a pieno titolo a quello “strano movimento”: se in fabbrica, soprattutto a Torino, la conflittualità sociale non accennava a diminuire (l’inversione di tendenza si verificò a partire dall’autunno 1979)207 e gli operai dell’area di Lc primeggiavano nelle agitazioni, gli intellettuali del gruppo si distinsero nella gestione, oltre che del giornale, di alcune iniziative rilevanti (come il “Convegno internazionale contro la repressione” del settembre 1977), le ex militanti di Lotta continua costituirono il nerbo del movimento femminista, i giovani dei “circoli” diedero vita a fenomeni controculturali quali gli «indiani metropolitani» o le «bande giovanili spettacolari»208 e, infine, la componente guerriglierista si espresse negli scontri di piazza e in altri repertori che necessitavano del ricorso alla forza (“espropri proletari”, antifascismo militante, intimidazioni verso i nemici, giustizialismo, ecc.). Fu dunque una semi-organizzazione, una rete a maglie larghe – comunque formalmente esistente – che gestì l’«area di Lc» nel corso del 1977, come testimoniano i pur inefficaci tentativi di risollevare le sorti di un gruppo politico che cercava disperatamente di contendere all’Autonomia operaia l’egemonia del movimento.209 206. Cfr. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, pp. 281-282. Così, in Bobbio, la descrizione dell’epilogo: «Il nuovo comitato nazionale, eletto a Rimini, si riunisce per alcuni mesi, in forma sempre più aperta e poi, senza alcuna dichiarazione ufficiale, smette di convocarsi» (Bobbio, Lotta continua, p. 180). 207. Cfr. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat, pp. 195-205. 208. Sulle bande «spettacolari» e le sottoculture giovanili, cfr. Dick Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova 1983 (ed. orig. Subculture. The meaning of style, Methuen & Co., London 1979). Per quanto riguarda l’Italia, anche se focalizzati sulla prima metà degli anni Ottanta, cfr. Luca Caioli et al., Bande: un modo di dire. Rockabillies, Mods, Punks, Prefazione di Bianca Beccalli, Unicopli, Milano 1986 e Francescangeli, Creste, borchie e panini, pp. 106-113. 209. Cfr., ad esempio, gli interventi alla riunione del Comitato nazionale del 4 e 5 giugno 1977: Il dibattito al Comitato Nazionale del 4 e 5 giugno, in «Lotta continua», 23 giugno 1977.

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Appare dunque difficilmente sostenibile, anche se sono comprensibili le ragioni che ne sono alla base (prima fra tutte l’esigenza della dissociazione postuma dalle “intemperanze” movimentiste), la tesi, peraltro smentita dalle fonti coeve, secondo la quale Lotta continua scomparve improvvisamente e compiutamente alla chiusura del congresso di Rimini.210 Più corrispondente alla realtà appare invece la lettura di una Lc lasciata più o meno deliberatamente alla deriva dalla leadership storica, che nel corso del 1977 (non sappiamo se per stanchezza, pavidità o convenienza) non volle assumersi l’onere della transizione, con l’inevitabile perdita di qualche pezzo, verso una delle altre opzioni possibili: il ritorno a una struttura più leggera, la confluenza in Dp o nel Pci, una rete di circoli culturali o la militarizzazione del gruppo. Al di là delle autorappresentazioni consolatorie degli ex dirigenti (che quasi all’unisono continuano a giudicare lo “scioglimento” come una decisione dettata da senso di responsabilità),211 è evidente come i leader storici dell’organizzazione si fossero disinteressati, chi più chi meno, delle sorti di Lc quando si resero conto degli effetti della “scissione” della componente femminista (già valutabili prima del congresso di Rimini). Come descritto da Bobbio: «Benché un certo numero di compagni continui a fare riferimento a Lotta continua e a frequentarne le sedi (che rimangono aperte), il tessuto connettivo che li aveva uniti nel partito cessa progressivamente di esistere: il dopo-Rimini si presenta essenzialmente come uno squagliamento del gruppo dirigente».212 La voglia di ritirata della leadership, del resto, non era certo un mistero già all’epoca. Le parole di Sofri pronunciate durante il congresso federale torinese dell’ottobre 1976 e indirizzate agli operai di Mirafiori, colpevoli di volersi ancorare «liturgicamente» al fondamento della «centralità operaia», erano eloquenti: «tutti i tentativi di aggrapparsi a ciambelle di salvataggio quando la nave affonda sono 210. La tesi è sostenuta, ad esempio, da tutti gli autori del dibatto ospitato da «MicroMega» (cfr. Viale, De Luna, Fossati e De Luca, Così finì Lotta continua, pp. 73 ss.). 211. Cfr. ad esempio gli interventi di De Luna, Fossati e Viale, ivi, pp. 79-80. Diametralmente opposta invece l’opinione di De Luca (ivi, p. 78). Critici verso una scelta che giudicano poco responsabile anche Paolo Sorbi e Gianni Sartorio (Cfr. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, pp. 282 e 283). 212. Bobbio, Lotta continua, p. 180. In epoca più recente il suo giudizio è parzialmente modificato: «La scelta della defezione ha elementi di irresponsabilità, ma forse è stata giusta» (testimonianza di Luigi Bobbio in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 284).

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pericolosi, perché magari sono bucate e vanno giù anche quelle, perché bisogna imparare a nuotare, perché la nave è affondata, qualcuno può aggrapparsi ancora a qualche spezzone ma tra poco c’è l’ultimo riflusso e si va tutti di sotto».213 Sta di fatto, per restare dentro la metafora sofriana, che alcuni impararono a nuotare, qualcuno affogò, mentre altri montarono a bordo delle scialuppe, rispettando tuttavia solo parzialmente il protocollo marinaro: infatti, dopo le donne e i bambini (i “giovani”), nei natanti d’emergenza salirono quasi tutti gli ufficiali. Se tale decisione fu «responsabile» o meno, oppure se fu eticamente giusta o politicamente corretta, non è materia di questo lavoro. Tuttavia, ritengo sia una criticità da evidenziare il fatto che coloro che si erano candidati a nuova leadership del proletariato italiano abbiano sottovalutato che per una parte degli attivisti il «ritorno al privato» o la «politica con altri mezzi» non avrebbe coinciso con l’avvio di una carriera professionale più o meno gratificante (giornalista, docente, studioso, funzionario, consulente) e/o con l’individuazione di altri percorsi emancipatori o di vita (il neofemminismo, l’eco-comunitarismo, le filosofie “altre”), ma avrebbe significato il ritorno alla desolazione della loro condizione di sfruttati o alienati, con scarse prospettive di miglioramento della propria qualità del vivere. Pur in mancanza di studi specifici, da una pur sommaria analisi delle fonti è possibile affermare che una parte di questi ultimi entrò nell’orbita della lotta armata214 e un’altra parte di costoro abbracciò le pratiche della consolazione autodissolutoria a suon di alcol ed eroina. Con ciò non intendo affermare l’esistenza di una dicotomia tra una leadership affetta da “opportunismo” e una base “generosa e ribelle”; né, tanto meno, asserire che tutti coloro che non si affermarono/riconvertirono tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta finirono tra le braccia della lotta armata o dell’eroina. Tuttavia, se è indubbio che un gran numero di ex militanti tornò alla normalità senza tanti 213. Intervento di Sofri in Acspg, Fondo Marcello Vitale, Subfondo Gigi Malaroda, Ua 39, Verbale del Congresso (23-24/10/76). I parte. Materiale per uso interno, a cura della Federazione di Torino di Lc, ciclostilato. 214. Si veda, a riguardo, la testimonianza di Paola Cavazzuti, convinta che ci fosse «un’emorragia di compagni verso le Brigate Rosse o verso la lotta armata, per cui a un certo punto lui [Sofri] ha dovuto fare questa scelta per mantenere il ricordo di LC» (in Voli, Quando il privato diventa politico, p. 259) e di Deaglio: Sofri «non aveva capito che sciogliere un’organizzazione è difficile: spesso ne segue una deriva imprevedibile. E la nostra in parte finì in Prima linea» (in Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, p. 275).

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clamori, è altresì vero che la stagione del piombo e il “tempo delle pere”, coincidenti in termini temporali, si sono alimentati da materiale umano impreparato all’ordine di smobilitazione dato dai vari quartier generali delle principali organizzazioni rivoluzionarie.215

215. Per quanto riguarda la continuità di Lc, nel 1978 un gruppo di attivisti (raccolti attorno ad Angelo Brambilla Pisoni, Gabriele Polo e Stefano “Steve” Della Casa) rianimò il tessuto organizzativo, fondando Lotta continua per il comunismo (Lc-pc). Il gruppo, in polemica con il giornale «Lotta continua», realizzò convergenze con l’Autonomia operaia e, nel corso dei primi anni Ottanta, riuscì a strutturare proprie sedi a Torino (la realtà più significativa), Milano, Udine, Pisa, Roma, Napoli e Bari. Cfr. Cfr. Il sessantotto. La stagione dei movimenti, pp. 217-218 e i documenti, relativi anche a Lc-pc, in Acs, Mi, Dps, Op, Associazioni, bb. 346, 347, 348, 349 e 350, f. G5/42/133.

Abbreviazioni e sigle

Sigle delle strutture associative citate Ac Acli Agl Anpi Ao Apm Ar As Autop Br Cacg Cdi Cendes Cgil Cgl Cir Cird Cisl Ckm-Pg Ckm-Pi Clf Cln Clu Cmdi Cpis Cpm Cps Cpu

Avanguardia comunista Associazioni cristiane lavoratori italiani Alleanza dei gruppi libertari Associazione nazionale partigiani d’Italia Avanguardia operaia [alias Ocao] Avanguardia proletaria maoista Azione rivoluzionaria Alternativa socialista Autonomia operaia Brigate rosse Centro antimperialista Che Guevara [di Roma] Centro di informazione [di Verona e di Bolzano] Centro di documentazione economico sociale Confederazione generale italiana del lavoro Confederazione generale del lavoro [detta Cgl rossa] Centro d’iniziativa rivoluzionaria [Tribuna rossa] Centro italiano ricerche e documentazione Confederazione italiana sindacati lavoratori Circolo Karl Marx [di Perugia] Centro Karl Marx [di Pisa] Circolo Lenin di Foligno Comitato di liberazione nazionale Circolo Lenin di Umbertide Centro marxista d’Italia Cristiani per il socialismo Collettivo politico metropolitano Collettivi politici studenteschi Collettivi politici unitari

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Crac Crias Cub Dc Do Dp Fagi Fai Fcai Fcl Fclai Fcli Fcll Fcmli Fdg Fds Fgci Fgclai Fgs Fim Fiom Fivl Fldi Fli Fln Fmldi

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Comitato romano aborto e contraccezione Centro ricerche e iniziative per l’alternativa socialista Comitati unitari di base [operai/studenteschi] Democrazia cristiana Democrazia operaia Democrazia proletaria Federazione anarchica giovanile italiana Federazione anarchica italiana Federazione comunista anarchica italiana Federazione comunista libertaria Federazioni comuniste libertarie Alta Italia Federazione comunista libertaria italiana Federazione comunista libertaria del Lazio Federazione dei comunisti marxisti-leninisti d’Italia [già Fmli] Fronte della gioventù [per l’indipendenza nazionale e la libertà] Fronte democratico delle sinistre Federazione giovanile comunista italiana Federazione giovanile comunista libertaria Alta Italia Federazione giovanile socialista Federazione italiana metalmeccanici Federazione italiana operai metalmeccanici Federazione italiana volontari della libertà Federazione libertaria d’Italia Federazione libertaria italiana Fronte di liberazione nazionale Federazione marxista-leninista d’Italia [dei gruppi marxistileninisti d’Italia] Fpcrc Fronte popolare comunista rivoluzionario della Calabria Fpr Fronte proletario rivoluzionario Frml Fronte rivoluzionario marxista-leninista [Stella rossa] Fscsi Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti italiani Fslc Federazione socialista libertaria cremonese Gaap Gruppi anarchici d’azione proletaria Gaf Gruppi anarchici federati Gap Gruppi di azione partigiana Gcia Gruppo comunista internazionalista autonomo Gcr Gruppi comunisti rivoluzionari (Quarta internazionale) Ggaf Gruppi giovanili anarchici federati Gia Gruppi di iniziativa anarchica Glsc Gruppi leninisti della sinistra comunista [alias Lotta comunista]

Abbreviazioni e sigle

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Gpl60 Gruppo proletario Luglio ’60 Lc Lotta continua Lcmli Lega dei comunisti marxisti-leninisti d’Italia Lcp Lega dei comunisti pisani Lc-pc Lotta continua per il comunismo Lcr Lega comunista rivoluzionaria Lct Lega dei comunisti toscani Ldc Lega dei comunisti Lgc(ml)i Lega della gioventù comunista (marxista-leninista) d’Italia Lude Libera unione degli eguali Mas Movimento di autonomia socialista Mcdi Movimento comunista d’Italia [alias Bandiera rossa] Mcr Movimento comunista rivoluzionario Mcup Movimento comunista di unità proletaria Md Magistratura democratica Mdc Movimento della Democrazia comunista Mdl Movimento democratico dei lavoratori Mli Movimento lavoratori italiani Mls Movimento lavoratori per il socialismo Mmli Movimento marxista-leninista italiano Mnm Movimento nazionale massimalista Mpl Movimento politico dei lavoratori Mrp Movimento di Resistenza Partigiana Ms Movimento studentesco [dell’Università Statale di Milano] Msa Movimento studentesco autonomo Msc Movimento per la Sinistra comunista [alias Azione comunista] Msi Movimento sociale italiano Msi-Dn Movimento sociale italiano-Destra nazionale Msup Movimento socialista di unità proletaria Mun Movimento per una università negativa Mup Movimento di unità proletaria per la Repubblica socialista Nap Nuclei armati proletari Nas Nuclei di attività sindacale Npsiup Nuovo Partito socialista italiano di unità proletaria Ocao Organizzazione comunista Avanguardia operaia [alias Ao] Ocbiml Organizzazione comunista bolscevica italiana marxista-leninista Ocsr Opposizione comunista Stella rossa Or Ottobre rosso Ospaaal Organización de solidaridad con los pueblos de Asia, África y América latina [Organización Tricontinental] Pcb Partito comunista belga Pcc Partito comunista cinese

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Pcdb Partito comunista del Belgio Pcdi Partito comunista d’Italia (Sezione dell’Internazionale comunista) Pcdi(ml) Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) Pcdi(ml)-Lld Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)-Lotta di lunga durata Pcdi(ml)-Nu Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)-Nuova unità [cd “linea nera”] Pcdi(ml)-P Partito comunista d’Italia (marxista-leninista)-il Partito [cd “linea rossa”] Pci Partito comunista italiano PcInt Partito comunista internazionalista PcInt-Bc Partito comunista internazionalista-Battaglia comunista PcInt-Pc Partito comunista internazionalista-Il Programma comunista PcInt-Rc Partito comunista internazionalista-La rivoluzione comunista PcInt.le Partito comunista internazionale PcIntegr Partito comunista integrale [Stella rossa] Pcl Partito comunista libertario Pc(ml)i Partito comunista (marxista-leninista) italiano Pcni Partito comunista nazionale italiano Pcr(t) Partito comunista rivoluzionario (trotskista) [Quarta internazionale posadista] Pcus Partito comunista dell’Unione sovietica PcUsa Partito comunista degli stati uniti d’America Pcv Partito comunista vallone Pda Partito d’azione Pdium Partito democratico italiano di unità monarchica Pdup Partito di unità proletaria Pdup-pc Partito di unità proletaria per il comunismo Pid Proletari in divisa Pil Partito italiano del lavoro Pl Prima linea Pla Partito del lavoro d’Albania Pmli Partito marxista-leninista italiano Poc(bl) Partito operaio comunista (bolscevico-leninista) Pop Il Potere operaio [pisano] Potop Potere operaio Pr Partito radicale Pri Partito repubblicano italiano Prmli Partito rivoluzionario marxista-leninista d’Italia Prt-Erp Partido revolucionario de los trabajadores-Ejercito revolucionario del pueblo

Abbreviazioni e sigle

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Pscn Partito social comunista nazionale Psdi Partito socialista democratico italiano Psi Partito socialista italiano Psiup Partito socialista italiano di unità proletaria [1964-1972] Psli Partito socialista dei lavoratori italiani Psn Partito socialcomunista nazionale Psri Partito socialista rivoluzionario italiano Psu Partito socialista unitario/unificato Psup Partito socialista di unità proletaria [poi Psiup, 1943-1947] Qi Quarta internazionale Rdl Riscatto dei lavoratori Sc Sinistra comunista Sl Sinistra leninista Sfio Section française de l’Internationale ouvrière Sp Sinistra proletaria Tmr Tendenza marxista rivoluzionaria Tr Tribuna rossa Uai Unione anarchica italiana Uci(ml) Unione dei comunisti (marxisti-leninisti) [alias Servire il popolo] Udi Unione donne italiane Ugci(ml) Unione della gioventù comunista d’Italia (marxista-leninista) Ugi Unione goliardica italiana Uil Unione italiana del lavoro Uo Unità operaia Up Unità popolare Upi Unione proletaria italiana Us Unione Spartaco Usi Unione socialista indipendente Altre sigle Aise Cc Ccc Ce Cn Cnp Cp Dar Fbi Iacp Issoco

Agenzia informazioni e sicurezza esterna Comitato centrale Commissione centrale di controllo Comitato esecutivo Comitato nazionale Comitato nazionale provvisorio Codice penale Divisione affari riservati Federal Bureau of Investigation Istituto autonomo case popolari Istituto per lo studio della società contemporanea

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Kgb Nato Ovra Ps Rsi Si Sid Sifar Su Tap Uar Usa Urss

«Un mondo meglio di così»

Komitet gosudarstvennoj bezopasnosti North Atlantic Treaty Organisation [Opera vigilanza repressione antifascismo] Pubblica sicurezza Repubblica sociale italiana Segretariato internazionale [della Quarta internazionale] Servizio informazioni difesa Servizio informazioni forze armate Segretariato unificato [della Quarta internazionale] Transportes aéreos portugueses Ufficio affari riservati [in realtà Divisione affari riservati] United States of America Unione delle repubbliche socialiste sovietiche

Riferimenti archivistici

Abfs Acs

Archivio della Biblioteca Franco Serantini (Pisa) Archivio centrale dello Stato

Mi: ministero dell’Interno Dps: Dipartimento pubblica sicurezza, Segreteria del Dipartimento Op: Ufficio ordine pubblico, Categorie permanenti Associazioni: G Associazioni 1944-1986 Dgps: Direzione generale della pubblica sicurezza Dag: Divisione affari generali Dar: Divisione affari riservati Cat. Z: Categoria Z, anarchici, socialisti, comunisti Fp: Fascicoli personali 1948-1965 Sis: Divisione servizi informativi e sicurezza Sez. II : Sezione II (1944-47) Gab.: Gabinetto, Archivio generale Fc: Fascicoli correnti Pp: Fascicoli permanenti, Partiti politici



Dr-2014: Direttiva Renzi 22 aprile 2014, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, Aise

Acsmp Acspg Afgf Archimovi Asnsmp

Archivio del Centro studi movimenti Parma Archivio del Centro studi Piero Gobetti Archivio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Archimovi-Archivio dei movimenti (Genova) Archivio storico della nuova sinistra Marco Pezzi

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AsSs Archivio di Stato di Sassari Cspt Centro studi Pietro Tresso Fig, Apc Fondazione Istituto Gramsci, Archivi del Partito comunista [italiano] Houghton Houghton Library di Harvard University Trockij: Trotsky Collection bMS Russ 13.1: Exile papers of Leon Trotsky Insmli Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia Isrt Istituto storico della Resistenza in Toscana

Indice dei nomi

Abbate, Armido, 94 Abbiati, Giancarlo, vedi Luciano Pero Accame, Falco, 16n Acciai, Enrico, 93n Accornero, Aris, 146 Acquaviva, Gennaro, 287 Acquaviva, Mario, 103 e n, 104 Adagio, Carmelo, 146n Adanti, Sergio, 106n Adilardi, Elena, 91n Agazzi, Emilio, 147n Agosti, Aldo, 14n, 25n, 103n, 104n, 230n, 242n, 287n Agustoni, Alfredo, 277n Alasia, Giovanni (Gianni), 147 e n Albanese, Giulia, 43n, 105n Albanese, Matteo Antonio, 191n Albeltaro, Marco, 159n Alberganti, Giuseppe, 256, 259n Alessandrini, Emilio, 66 Alexander, Robert J., 42n Alicata, Mario, 228n Alinder, Jasmine, 43n Allegra, Antonino, 269, 271n Alonso García, Noemi, 277n Alosco, Antonio, 121n Alquati, Romano, 142n, 147n, 148, 150 e n Amati, Fabrizio R., 117n Amati, Matteo, 15n Amato, Giuliano, 139n Ambrosi, Luigi, 53n, 283n

Amendola, Giorgio, 29n, 118n, 161n, 227, 228 e n, 230n, 233n, 234n, 236n Amico, Giorgio, 100n, 108n, 134n, 138n Amoroso, Gaetano, 49 Andalò, Learco, 127n Andreoni, Carlo, 97 e n, 98, 119, 122-125, 128 Andreucci, Franco, 103n Aneesh, Aneesh, 43n Anghelone, Francesco, 231n Angioni, Andrea, 331 Annarumma, Antonio, 45, 60-61, 245 e n Antolini, Carlo, 139 Antoniazzi, Sandro, 243n Antoniol, Valentina, 36n Antonioli, Maurizio, 94n Antonuzzo, Salvatore, 331 Ardizzone, Giovanni, 47 Arena, Anna Maria, 163, 172, 181 Arfè, Gaetano, 111 e n Argada, Sergio Adelchi, 48 Aristarco, Guido, 180 Aristarco, Roberto, 180, 295n Armani, Barbara, 53n Armati, Cristiano, 46n Arnò, Mario, 129 Artières, Philippe, 43n Aruffo, Alessandro, 99n Arvati, Angelo, 87, 92n Ascoli, Giuliana, 321n Asor Rosa, Alberto, 146, 148, 150 e n, 151

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Atti, Fausto, 103 e n Auteri, Enrico, 242n Avolio, Giuseppe, 287 Babbini, Guerrino, 314 e n Babeuf, Noël, 123 Baccianini, Mario, 136n Badaloni, Nicola, 236 Baiardo, Enrico, 24n Baj, Enrico, 246n Bakunin, Michail, 22, 27, 180, 274 Baldelli, Pio, 189n, 265n, 269, 331 Baldissara, Luca, 45n Balestracci, Fiammetta, 45n, 78n Balestri, Arturo, 169, 173, 177n, 187n, 211212 Balestri, Floriano, 187n Balestrini, Nanni, 185n, 244n Balsamini, Luigi, 93n, 96n Bandelli, Alfredo, 274 Banfi, Andrea, 255 Baratta, 111n Baravelli, Andrea, 74n Barazzetti, Donatella, 329n Barbieri, Silvana, 216, 217 e n, 219 Barbo, Tarcisio, 287n Barca, Luciano, 226, 228n Bargagna, Alberto, 177n Barile, Alessandro, 226n Barnaba, Rolando, 187n Barone, Mario, 16n Barontini, Ilio, 235 e n Basso, Lelio, 104, 117 e n, 129, 146 Battara, Pietro, 118 Battelli, Giuseppe, 29n Battistelli, Fabrizio, 16n Bazzanella, Claudio, 134n, 135 Beccalli, Bianca, 147n, 332n Bellamio, Enrico, 111 Bellasalma, Giuseppe, 139n Bellassai, Sandro, 79n, 80n Bellavite, Vittorio, 288, 290 Bellè, Elisa, 78n Bello, Luigi, 216 Bellocchio, Marco, 63 e n

Benadusi, Luciano, 287 Benfante, Filippo, 95n Benigno, Francesco, 17n Bensaïd, Daniel, 109n Benveduti (in Turziani), Eleonora, 198n Benvenuto, Giorgio, 60n, 121n Berardelli, Giovanni, 17n Berengo, Marino 268n Berio, Duccio, 189-190, 191 e n, 213 Berlenghini, Umberto, 67n Berlinguer, Enrico, 51n, 85, 228, 229n, 230 e n, 236 e n Berlinguer, Giovanni, 277n Bermani, Cesare, 21n, 96n Berneri, Camillo, 94 Berta, Giuseppe, 242n, 332n Bertelli, Sergio, 139 Berti, Giampietro N., 21n, 93n, 94n, 95n Berti, Lapo, 150, 245 Bertilotti, Teresa, 77n Bertinotti, Fausto, 24n, 112n Bertolo, Amedeo, 47n, 152n Bertolo, Gianni, 152n Bertolucci, Bernardo, 89 Bertolucci, Franco, 99 e n, 100n, 101n, 102n, 136n, 137n Bertozzi, Massimo, 194n, 196n Besostri, Felice, 24n Betta, Emmanuel, 25n, 36n Bettini, Leonardo, 94n Bevilacqua, Piero, 206n Biacchessi, Daniele, 49n Biagi, Libero, 96n Bianchi d’Espinosa, Luigi, 268, 269 e n, 270 Bianchi, Roberto, 43n Bianchi, Sergio, 34n, 185n Bianchini, Guido, 245 Biancolini, Aristeo, 287 Bigazzi, Duccio, 88 Bignami, Elena, 93n Billi, Fabrizio, 18n, 146n, 147n, 217n Binazzi, Pasquale, 94, 95n Biondi, Guido, 287 Biorcio, Roberto, 216n, 217n, 311n Biotti, Carlo, 268 e n

Indice dei nomi Bisi, Sergio, 87 Bistoni, Vittor Ugo, 135n Bizzarri, Elisa, 24n Blanqui, Louis-Auguste, 123 Boaretto, Giuliano, 147n Boato, Marco, 244, 252, 331 Boato, Michele, 252, 316 e n Bobbio, Luigi, 75 e n, 242n, 243n, 244, 251 e n, 252 e n, 253n, 271n, 274 e n, 275n, 278 e n, 279n, 281n, 283n, 285n, 312, 313n, 316n, 317 e n, 318 e n, 319n, 320n, 322n, 323n, 326n, 328n, 329n, 332n, 333 e n Boccia, Maria Luisa, 80n Boccolari, Giorgio, 127n Bolis, Lanfranco, 196n, 252, 279 e n, 321 Bologna, Sergio, 150, 244-245 Bompressi, Ovidio, 64, 271n Boneschi, Marta, 255n Bonfantini, Corrado, 95, 96n Bongiovanni, Bruno, 30 e n Bono, Gaspare, 156 e n, 157n Bono, Paola, 77n, Bonomo, Bruno, 277n Bordiga, Amadeo, 102 e n, 105 e n, 106 e n, 107 e n, 109 e n, 122, 136, 153 e n, 154 Borelli, Vittorio, 223n, 311n Borghesi, Donatella, 180-181 Borghi, Armando, 99, 100n, 152 Borgna, Gianni, 322n Borio, Guido, 142n Borroni, Luigi, 287n Boschi, Rodolfo, 48 Bosi, Lorenzo, 53n Bosio, Gianni, 141 e n Bottaioli, Giovanni, 106 Bovero, Carla, 155 Bozzi, Maria, 113 Bracco, Fabrizio, 140n Brambilla Pisoni, Angelo, 335n Brancato, Giuseppe, 168n Brandirali, Aldo, 65, 77, 83n, 84 e n, 85n, 86 e n, 87 e n, 88n, 89 e n, 91, 92 e n, 156, 201, 204 e n, 206-207, 208 e n Brasili, Alberto, 48 e n

347

Bravo, Gian Mario, 29n Brazzoduro, Andrea, 41n Breccia¸ Alessandro, 28n Brennan, C.D., 57n Brera, Gianni (Mario Padano), 132n Breschi, Danilo, 18n Bressan, Arnaldo, 171, 178n, 180 e n, 181182, 199n Briglia, Roberto, 282 Brigo, Corrado, 223n Brizio, Anna Maria, 268n Brogi, Paolo, 47n, 321, 331 Bronzuto, Liberato, 237 Brosio, Manlio, 104n Brunello, Piero, 21n Brunetti, Mario, 287, 290, 297 Bruno, Piero, 48 e n Bucco, Alberto, 162, 177n Bufalini, Paolo, 234 e n Bufarale, Luca, 128n Busacca, Attilio, 123 Buttafava, Ubaldo, 187n Buy, Margherita, 76 Byrne, Jeffrey James, 41n Caccamo, Francesco, 231n Cacciari, Massimo, 147n, 148, 150-151 Caciagli, Mario, 240n, 241n Cadeddu, Alberto, 295n Cafiero, Luca, 254, 260 Cagol, Mara, 63, 189-190, 191n Caioli, Luca, 332n Calabresi, Luigi, 45, 266, 267 e n, 268 e n, 269 e n, 270, 271 e n, 283 e n, 284 e n Calamandrei, Piero, 49n, 127-128 Calamida, Franco, 311n Calari, Roberto, 290 Calcidese, Aldo, 178n, 200 Caleffi, Giovanna, 94, 99 Calò, Vincenzo (Enzo), 40n, 161-162, 166n, 181, 199 Calogero, Pietro, 17n, 53n Caminiti, Lanfranco, 34n Campanile, Alceste, 48 Campanili, Guido, 82n

348

«Un mondo meglio di così»

Campetti, Loris, 57n Campi, Aurelio, vedi Vanghelis Oskian Campione, Vittorio, 193, 195 Canali, Mauro, 109n Canavero, Alfredo, 16n Cantimori, Delio, 139, 155 Capanna, Mario, 60n, 206, 223, 254, 255 e n, 256 e n, 257, 259n, 260, 261n, 262, 297 e n, 310 e n Capitini, Aldo, 27, 100 Caponetto, Michelangelo, 245 Caporale, Vincenzo, 48 Cappellini, Stefano, 51n Cappellino, Cesare, 273 Caprara, Massimo, 223, 233n, 234 e n, 236237 Capussotti, Enrica, 25n, 78n Capuzzo, Paolo, 44n Caracuta, Giuseppe, 269n Cardan, Paul, vedi Cornelius Castoriadis Cardinali, Pietro, 180-181 Caretti, Stefano, 193n Carey, Sarah, 28n Carioti, Antonio, 137n Casaburi, Mario, 66n Casaldi, Mario, 187n Casali, Luciano, 127n Casalino, Leonardo, 131n Casciola, Paolo, 110n, 134n, 156n Cascone, Alfonso, 114n Casilio, Silvia, 53n, 189n Castellina, Luciana, 226, 236, 237 e n, 296, 308 Castoriadis, Cornelius (Pierre Chaulieu, Paul Cardan o Jean-Marc Coudray), 142 e n, 143 e n, 144, 145n Catalano, Franco, 203n, 296 Catanzaro, Raimondo, 54n, 75 e n Cavalli, Libero, 96n Cavallo, Luigi, 129, 130n Cavaterra, Emilio, 58n Cavazzuti, Paola, 334n Cazzaniga, Gian Mario, 193, 195, 196 e n, 197 Cazzullo, Aldo, 46n, 90n, 189n, 250n, 261n, 276n, 279n, 280n, 282n, 283n, 284n,

316n, 317n, 325n, 326n, 328n, 329n, 332n, 333n, 334n Ceccanti, Soriano, 196 Cecchini, Ezio, 54n Ceci, Lucia, 27n Cederna, Camilla, 47n, 268 e n Celadin, Anna, 24n Cento Bull, Anna, 17n Centola Ragozzino, Grazia, 295n, 310n Ceriello, Ippolito, 121 Cerotto, Marco, 146n Cerrato, Rocco, 146n Cerroni, Umberto, 155 Ceruso, Fabrizio, 48 Cerutti, Mario, 288n Cervetto, Arrigo, 41n, 99 e n, 100n, 102 e n, 114, 135-136, 138n Chaplin, Tamara, 43n Chaulieu, Pierre, vedi Cornelius Castoriadis Chen Jian, 43n Chiaia, Adriana, 181, 200 Chiarante, Giuseppe, 230n, 236 Chiarotto, Francesca, 40n Chierici, Renzo, 105n Christiansen, Samantha, 43n Chruščëv, Nikita Sergeevič, 40, 131, 159, 168, 180 Ciarlo, Giosuè, 125 Ciavatti, Otello, 309 Cicoletti, Giancarla, 323n Ciuffreda, Giuseppina, 77n Clementi, Marco, 191n Coccia, Filippo, 163 Coccia, Massimiliano, 48n Cocconi, Riccardo, 128 Cochet, François, 67n Codignola, Tristano, 124, 127-128 Cogliani, Elio, 139 Colafato, Michele, 321, 331 Colarizi, Simona, 45n Coldagelli, Umberto, 150 Colletti, Lucio, 156 Colombo, Yurii, 100n, 138n Colozza, Roberto, 117n, 248n Cols, Serge, 199n Comitani, Cesare, 181

Indice dei nomi Concordia, Germinale, 96, 98, 124, 125 e n Congedo, Domenico, 47 e n Conti, Davide, 60n, 110n Contini Bonacossi, Giovanni, 245 Cooke, Philip, 17n Coppola, Aniello, 226 Corasaniti, Salvatore, 34n, 248n Corda, Maria, 111n Cornelißen, Christoph, 53n Cornils, Ingo, 30n Corsi, Francesco, 240n Cortese, Luisa, 258n Corvisieri, Silverio, 117n, 119n, 156, 158, 159n, 216, 217 e n, 219 e n, 299n, 305n, 308 Cossutta, Armando, 228, 232n, 234n, 235 e n, 301 Cotta-Ramusino, Paolo, 305n Covatta, Luigi, 287 Covino, Renato, 303n Crainz, Guido, 15n, 42 e n, 61 e n, 145 e n, 184 e n, 227 e n, 252, 323n Crespi, Franco, 78n, 323n Cretara, Francesco, 113, 118, 155 Cretella, Chiara, 45n Criscione, Emanuele, 259n, 262n Cristalli Frasnelli, Homero Ròmulo (Juan Posadas), 157e n, 158n, 206n Cristofolini, Paolo, 193 Cucchi, Aldo, 39, 115, 126, 127 e n, 128-129 Curcio, Renato, 63, 189, 190 e n, 191 e n, 213n Cuzzola, Fabio, 46n, 283n D’Alema, Massimo, 304n D’Amato, Federico Umberto, 58 e n, 59 e n, 137n D’Ambrosio, Gerardo, 66, 269 e n, 270 D’Amelia, Marina, 82n D’Amico, Margherita, 90 D’Este, Riccardo, 150 D’Ovidio, Giancarlo, 65 Dadà, Adriana, 94n, 95n, 98 e n, 99n, 100n, 153n Daghini, Giairo, 244-245 Dagnino, Virgilio, 111n

349

Dall’Agnol, Alfonso, 180-181 Dalmasso, Sergio, 127n, 226n Dalmaviva, Mario, 245 Damen, Onorato, 102 e n, 103 e n, 104 e n, 105 e n, 106 e n, 108n, 129, 133 Danti, Davide, 156n Daolio, Andreina, 277n Dard, Olivier, 67n Darsiè, Renato, 220n David, Domenico, 126 e n De Agostini, Mauro, 125n De Angelis, Massimo, 287 De Bernardi, Alberto, 27n, 33, 45n, 256n De Caro, Gaspare, 150 e n De Clementi, Andreina, 156 De Dominicis, Bernardino, 95 De Felice, Franco, 17n De Gasperi, Alcide, 260n De Giorgi¸ Fulvio, 28n De Gouville, Mireille, 163 De Grada, Raffaele, 87 De Grada, Teresa, 87, 88n De Gregorio, Michele, 31n De Luca, Erri, 49n, 75, 324, 325 e n, 329 e n, 330, 334n De Luca, Raffaele, 118, 122 De Luna, Giovanni, 48n, 242n, 284n, 325n, 326n, 333n De Marco, Clara, 120n De Maria, Carlo, 93n De Martin, Elena, 180 De Martino, Gianni, 189n De Meo, Linda, 105n De Nicolò, Marco, 78n De Palo, Giancarlo, 266n De Rosa, Gabriele, 230n De Sario, Beppe, 36n De Vita, Roberto, 288 De Vito, Christian, 264n De Waure, Vincenzo, 47 e n Deaglio, Enrico, 328n, 329n, 331-332, 334n Degli Incerti, Davide, 13n, 14n Del Bello, Claudio, 50 e n Del Carria, Renzo, 163, 197, 202n Del Pero, Mario, 57n Del Vecchio, Letizia, 111n

350

«Un mondo meglio di così»

Della Casa, Stefano (Steve), 335n Della Mea, Luciano, 141 e n, 146, 147n, 193 e n, 194 e n, 195 e n, 196 e n, 197 e n, 272n, 279n, 282n Della Porta, Donatella, 70n Delle Chiaie, Stefano, 66, 67 e n, 68 e n Deng Xiaoping (Teng Hsiao-ping), 199n Derossi, Graziella, 277n Detti, Tommaso, 103n Di Bartolomeo, Nicola, 109, 120 Di Bernardino, Ugo, 95 Di Ciaccia, Francesco, 203n Di Cori, Paola, 79 e n Di Fabio, Laura, 18n Di Giacomo, Michelangela, 243n Di Giorgio, Michele, 15n Di Leo, Rita, 146, 150 Di Rosa, Luigi, 49 Dijk, Ruud van, 43n Dina, Angelo, 243n Dini, Dino, 209n, 212, 213n Dinucci, Fosco, 169, 173, 177n, 187 e n, 198, 208, 210n, 211, 212n, 215 Dinucci, Manlio, 212 Dogliani, Patrizia, 52n, 78n Dogliotti, Chiara, 17n Dolci, Danilo, 100 Donat-Cattin, Marco, 36n Donati, Manlio, 182-183 Donati, Paolo, 82n, 150 Donato, Gabriele, 17n Dondi, Mirco, 17n, 61n, 70n, 124n, 189n Dongen, Luc van, 67n Dore, Nanni, 111n, 116n Doro, Raffaello Ares, 61n Dotti, Lucia, 162n Dragone, Monia, 79n Drake, Richard, 17n, 27n Durigato, Laura (Lauretta), 166n Duse, Ugo, 162, 163n, 166n, 169, 171-173, 177 e n, 1278 e n, 179 e n, 180 e n, 181-182, 184-185 Duse, Wilson (Vittorio), 162 Emanuelli, Enrico, 63n

Erba, Dino, 105n Esslin, Christiane, 37n Esslin, Gudrun, 37n Fabei, Stefano, 96n Fachinelli, Elvio, 268n Faina, Gianfranco, 150-151 Falciola, Luca, 50n Falcone, Filippo, 48n Famoso, Nuccia, 84 Fazio, Mario, 186n Fedele, Santi, 94n, 231n Fedeli, Ugo, 94n Feltrinelli, Carlo, 58n Feltrinelli, Giangiacomo, 45, 58 e n, 59 e n, 65, 189n, 203, 204 e n, 206 Ferguson, Niall, 45n Ferrajoli, Luigi, 246n Ferrara, Giuliano, 328n Ferrari Bravo, Luciano, 149-150 Ferraris, Pino, 287, 290, 297 e n, 300n, 309, 310n Ferrarotti, Franco, 28n Ferrero, Marco, 72n Ferrero, Paolo, 146n Fiameni, Gianfranco, 142n Fiasconaro, Luigi, 66 Fichera, Massimo, 127 Filosofo, Mario, 102 Fiocchi, Franco, 181 Fiorani, Rinaldo, 181 Fiume, Fabrizio, 18n Flavio (della Spa Stura), 330n, 331 Flores d’Arcais, Paolo, 76n, 156 Flores, Marcello, 27n, 33, 131n, 140n Foa, Lisa, 249n, 331 Foa, Vittorio, 24n, 147 e n, 243n, 287, 289290, 294n, 295n, 297 e n, 298, 302, 304 e n, 305-306, 308 e n, 310 e n, Fofi, Goffredo, 108n, 243n, 244n Fontana, Susanna, 49n Forbicini, Giovanni, 123 Formica, Rino, 111 e n, 127 Formigoni, Guido, 16n Fornaro, Pasquale, 231n

Indice dei nomi Fortichiari, Bruno, 132-134, 136 Fossati, Franca, 90n, 261n, 325n, 326 e n, 333n Frabotta, Biancamaria, 77n Fragalà, Vincenzo, 68n Fragomeni, Carmelo, 187n Francescangeli, Eros, 15n, 29n, 35n, 52n, 53n, 58n, 65n, 68n, 72n, 73n, 76n, 105n, 108n, 109n, 141n, 241n, 247n, 332n Francescato, Donata, 82n Francescato, Grazia, 82n Franceschi, Roberto, 48, 262 Franco Bahamonde, Francisco, 44 Frangioni, Dino, 169, 177n, 187n Franzin, Elio, 181 Franzinelli, Mimmo, 60n, 109n Franzinetti, Vicky, 325 e n Frascatore, Paolo, 287n Frisone, Anna, 77n Fumian, Carlo, 17n, 53n Gabriele, Roberto, 42n Gagliani, Dianella, 79n Gagliardi, Alessio, 38n, 50n, Gagliardi, Rina, 225n, 226n, 229n, 309n Galeazzi, Marco, 42n Galfré, Monica, 37n, 50n Gallerano, Nicola, 42n, 118n Galli, Giorgio, 102 e n, 125n, 136 e n, Galmozzi, Enrico (Chicco), 51n, 204n Gambato, Marino, 177n Gambato, Severino, 162 Gambetta, William, 15n, 36n, 50n, 102n, 217n, 288 e n, 291 e n, 292n, 294 e n, 296 e n, 297n, 300n, 301 e n, 302n, 303n, 304 e n, 306n, 307 e n, 309 e n, 311n, 312n Gambi, Lucio, 268n Gambino, Antonio, 81n, 322n Gambino, Renzo, 113 Garavini, Sergio, 147, 236, 242n Garinei, Italo, 100n Garzia, Aldo, 226n, 228n, 229n, 236n, 297n, 298n, 309

351

Gasca Queirazza, Federico, 64 Gaspari, Remo, 198n, 210n, 212n Gasparotto, Pierluigi, 147n, 148, 150, 192 Gatto, Vincenzo, 287 Gautrat, Jacques (Daniel Mothé), 142n, 144n, Genette, Gérard, 143n Gentilezza, Renato, 95 Genzius, Giorgio (Roberto Leonardo Guzzo), 117n Gervasoni, Marco, 142n Geymonat, Ludovico, 155 Geymonat, Mario, 163n, 165, 169, 171, 173, 187n Ghione, Paola, 47n Giachetti, Diego, 18n, 33 e n, 46n, 80n, 82n, 85n, 110n, 111n, 112n, 113n, 114n, 115n, 116n, 155n, 189n, 210n, 219n, 223n, 225n, 237n, 240n, 243n, 244n, 246n, 253n, 299n, 313n Giampiccoli, Franco, 16n Giannuli, Aldo Sabino, 24n, 25 e n, 26 e n, 44n, 59 e n, 66 e n, 67 e n, 265n, 266n Giap, vedi Võ Nguyên Giáp Giddens, Anthony, 79 e n Gildea, Robert, 43n Giliani, Francesco, 121n Ginsborg, Paul, 31 e n, 38, 233n, 323n Giolitti, Antonio, 139 e n Giordana, Marco Tullio, 49n Giovana, Mario, 127 Giovannini, Elio, 287, 306n, 310 Giovannini, Fabio, 46n Girasole, Rocco, 139 e n Girola, Pier Michele, 251n Giuffredi, Massimo, 102n Giugni, Gino, 244n Giulietti, Fabrizio, 96n Gobbi, Romolo, 146 e n, 148, 149 e n, 150, 242, 245n Gobetti, Paolo, 155 Gobetti, Piero, 155 Godard, Jean-Luc, 246n Gomarasca, Pietro, 110n González Calleja, Eduardo, 67n

352

«Un mondo meglio di così»

Gorla, Massimo, 156, 216, 217n, 219, 304n, 308, 311-312 Gorter, Herman, 142, 248 Gottraux, Philippe, 143n Gracci, Angiolo, 187n, 212 e n, 213n, 214, 215n Gramolini, Cristina, 79n Gramsci, Antonio, 259 Grandi, Aldo, 58n, 243n, 244n, 246n, 248n Grasso, Laura, 81n Graziosi, Andrea, 308n Grella, Stacia, 180-181 Gremmo, Roberto, 117n, 120n Greppi, Claudio, 147n, 150, 245 Gressani, Deborah, 16n Gresti, Mauro, 269 Griner, Massimiliano, 67n Grippa, Jacques, 199 e n Grispigni, Marco, 19n, 47n, 53n, 189n, 244n Gruppi, Luciano, 130 Guadagni, Anna Maria, 287 Guadagno, Benedetto, 139n Gualtieri, Roberto, 231n Guazzo, Paola, 79n, 242n Gubinelli, Maurizio, 202n Guccini¸ Francesco, 28, 29n Guelfi, Guelfo, 194n Guerra, Elda, 77n Guevara, Ernesto (Che), 27, 39, 42, 44, 71 e n, 108, 168n, 199 Guglielmi, Guglielmo, 207 Guida, Francesco, 231n Guida, Marcello, 270 Guidelli, Giorgio, 49n Guidetti Serra, Bianca, 149n Guidi, Alberto, 172n Guillou, Yves Félix Marie (Yves GuérinSérac), 66-67 Guzzini, Fabio, 304n Guzzo, Domenico, 50n Guzzo, Roberto Leonardo, vedi Giorgio Genzius Hajek, Andrea, 30n Hall, Gus, 185

Harbi, Mohammed, 41n Hebdige, Dick, 332n Henke, Eugenio, 64 Hennessey, Brendan, 28n Hilwig, Stuart J., 27n Höbel, Alexander, 230n, 231n, 232n Hobsbawm, Eric J., 22n, 77 e n Hölderlin, Friedrich, 37n Horn, Gerd-Rainer, 43n Humphrey, Hubert H., 189 Iannucci, Lorenzo, 49 e n Ibry, Helen, 79n Ilari, Massimiliano, 95n Ilari, Virgilio, 16n, 68n Illuminati, Augusto, 73 e n, 156, 158, 216 Impastato, Peppino, 49 e n Imperato, Mario, 187n, 211-212 Indovina, Francesco, 240, 297n Ingrao, Pietro, 130, 131n, 225n, 227n, 228 e n, 229 e n, 232-234, 236 e n Iorio, Vincenzo, 121 Iotti, Leonilde (Nilde), 126, 228n Iraci Fedeli, Leone, 113, 114n, 116 Isnenghi, Mario, 70 e n, 105n, 149 e n, 150 Iuso, Pasquale, 94n, 95n Jannazzo, Antonio, 40n Jervolino, Domenico, 288 Kaase, Max, 54 e n, 55 Kautsky, Karl, 180 Kemp, Sandra, 77n Kirasirova, Masha, 43n Klimke, Martin, 43n Kolinsky, Martin, 185n Kropotkin, Pëtr Alekseevič, 123 La Barbera, Guido, 100n, 101n La Fata, Ilaria, 36n La Torre, Pio, 235 Labanca, Nicola, 41n Labor, Livio, 247n, 287, 288 e n Labruna, Antonio, 65 Lajolo, Davide, 130 Lampronti, Maurizio, 10, 18n, 121n, 123n, 124n

Indice dei nomi Lanaro, Silvio, 149-150 Landolfi, Antonio, 304 Langer, Alexander, 330n, 331 Lanza, Doro, 177n Lanza, Luciano, 47n Lanzafame, Calogero, 154 Lanzardo, Dario, 72n, 146n, 147n, 242n Lanzardo, Liliana, 147n, 242n Latini, Lato, 95 e n Lattes, Renato, 289 e n Laudiero, Alfredo, 231n Lavatelli, Alfredo, 110n, 124n Lazar, Marc, 44n Lazzerini, Marcello, 185n Lecci, Aldo, 106 Lefort, Claude, 142 e n, 143n Lenin, Vladimir Il′ič, 27, 91, 97n, 122-123, 150, 168n, 211, 247n, 248, 255, 274 Lenzi, Antonio, 33n, 53n, 195n, 226n, 227n, 229n, 232n, 233n, 234n, 291n, 293n Leon, Leopoldo, 183 Leone, Pietro Antonio (Piero), 157, 158n Leone, Sergio, 85 e n Leonetti, Francesco, 208 e n Leroy, Robert (Roberto Leroj), 67-68 Lettieri, Antonio, 287, 306n, 310 Levi Della Torre, Stefano, 278n Li Vigni, Benito, 68n Libera, Vittorio, 127 Libertini, Lucio, 42n, 114n, 127, 128n, 145n, 161 Liguori, Paolo, 331 Liu Shaoqi (Liu Shao-chi), 199 e n Liverani, Giuseppe, 254-255, 262, 297 e n Lizzani, Carlo, 48n Lo Giudice, Enzo, 206 Lo Grano, Savino, 269n Lo Presti, Giacomo, 166 e n, 167, 168 e n Lombardi, Riccardo, 47n, 104n, 128 e n, 247n Lombardi, Vera, 127 Lombardo Radice, Lucio, 230n, 236 Lombardo Radice, Marco, 323n Lomellini, Valentine, 44n, 232n Longoni, Vida, 323 e n, 324 e n, 325n Lorenzoni, Franco, 331

353

Loreto, Fabrizio, 245n, 289n, 290n, 291n, 310n Lorusso, Francesco, 49 e n Lovisolo, Giorgio, 324-325 Lucarelli, Carlo, 265n Lumia, Giuseppe, 49n Lumley, Robert, 33 e n, 242n Luperini, Romano, 193 e n, 195-197, 230n Lupo, Mariano, 47, 48n Luporini, Cesare, 236 Lussana, Fiamma, 77n, 80n Lussu, Emilio, 104n Luxemburg, Rosa, 274 Macaluso, Emanuele, 167 e n, 229 Maccacaro, Giulio Alfredo, 258n, 268n Machiavelli, Niccolò, 274 Maffei, Giuseppe, 287 Maffi, Bruno, 103 e n, 105, 106 e n, 153 e n Magnaghi, Alberto, 244-245 Magnani (Schiavetti), Franca, 127n Magnani, Valdo, 39, 115, 126, 127 e n, 128129 Magnelli, Eduardo, 121 Magri, Lucio, 227, 228n, 232n, 233 e n, 234 e n, 235n, 236 e n, 240, 291-292, 295 e n, 296-298, 300-301, 302n, 304n, 305-306, 308-309, 310 e n, 311 Maier, Charles S., 45n Mainardi, Carlo, 269n Maione, Giuseppe, 43n, 244n Maitan, Livio, 109n, 111 e n, 112n, 113, 114n, 115 e n, 116 e n, 155 e n, 156n, 157, 233n, 261n, 306n, 314 e n Maj, Giuseppe, 180-181, 183, 200, 201 e n Malatesta, Errico, 95-96 Malatesta, Maria, 79n Maletti, Gian Adelio, 65 Malizia, Marilisa, 53n Mamini, Eva, 79n Manconi, Luigi, 48n, 56 e n, 75 e n, 277n, 278n Mandel, Ernest, 111, 157 Manela, Erez, 45n Manenti, Clemente, 321, 331 Mangano, Attilio, 33 e n, 140n, 147n, 151n, 155n, 156n, 179n, 244n, 249n Mangano, Romeo, 109 e n, 110 e n, 111

354

«Un mondo meglio di così»

Mangini, Giorgio, 99 e n, 101n, 102n, 136n, 137n, 187n Manisco, Massimo, 331 Mannucci, Danilo, 121 Mantakas, Mikis (Miki), 248n Mantelli, Brunello, 53n, 242n Mantica, Alfredo, 68n Mao Zedong (Mao Tse-tung), 27, 42, 69, 76, 85n, 91, 108, 161n, 164, 168n, 202, 204, 209n, 230, 255-256, 258, 264 Marcenaro, Pietro, 297, 309 Marchelli, Agostino Francesco, 183, 200 Marchesi, Concetto, 159 Marconi, Diego, 245n Marconi, Pio, 156 Mariani, Giuseppe, 100n Mariani, Mario, 125n Marini, Giovanna, 231n Marino, Giuseppe Carlo, 27n Mariotti, Mario, 150 Mark, James, 43n Marramao, Giacomo, 80n Marrocu, Luciano, 14n Martinelli, Renzo, 40n Marwick, Arthur, 43n Marx, Karl, 22, 123, 150, 197, 255 Marzocchi, Umberto, 100n Maselli, Francesco (Citto), 172n Masi, Edoarda, 147n, 163 Masi, Giorgiana, 49 e n Masi, Pino, 274 Masini, Pier Carlo, 99 e n, 101, 102 e n, 114, 133-135, 136 e n, 137 e n, 138 Maslen, Joseph, 25n Massari, Roberto, 158n, 193n Massironi, Manfredo, 150 Massobrio, Giulio, 16 Mastrolillo, Gabriele, 108n Matard Bonucci, Marie-Anne, 52n Mattei, Mario, 248 Mattei, Stefano, 248 Mattei, Virgilio, 248 Matteo, Jessica, 73n Matteuzzi, Gian Franco, 183 Mauss-Copeaux, Claire, 41n

Mazza, Libero, 59-60, 69, 152n, 163n, 172173, 180-181, 183n, 200, 201n, 206207, 220 e n, 258n, 267n, 269, 277n Mazzini, Giuseppe, 123 Mazzoni, Luciano, 287 Melazzini, Carla, 321 e n, 329n Meldolesi, Luca, 203, 206-207 Menapace, Lidia, 240, 296 Mencarelli, Paolo, 141n, 212n, 215n Menichino, Vittorio, 111n Mentasti, Emilio, 320n Meriggi, Maria Grazia, 136n Merli, Stefano, 108n, 141n, 162n, 302n Merlino, Mario, 65-68 Messana, Vito, 166 e n Mezzetti, Massimo, 15n Mezzomonti, Emma, 155 Miccichè, Tonino, 48 e n Miccoli, Claudio, 49 Miceli, Vito, 65, 314n Miglioli, Raniero, 111n Migone, Gian Giacomo, 287n, 288-290, 297, 301, 303n, 305n, 307n, 310 e n Milana, Fabio, 146n Milani, Eliseo, 226, 233n, 236-237, 296, 304n, 305 e n, 308 Milazzo, Silvio, 167 Mileschi, Christophe, 65n, 241n Mineo, Corradino, 303n Mineo, Mario, 156, 161, 166, 167 e n, 168n, 302, 303 e n, 306 Minetti, Arnaldo, 89n Miniati, Silvano, 24n, 286n, 287n, 290, 291n, 296 e n, 297 e n, 300-301, 302n, 305-307, 310-311 Minuto, Emanuela, 94n, 96, 97n Misefari, Vincenzo, 169, 173, 177n, 187 e n, 198, 211-212, 213 e n Mochi Sismondi, Giuliano, 91n Mokhtefi, Elaine, 41n Molinari, Alberto, 15n Molinari, Emilio, 219n, 311-312 Mondello, Elisabetta, 140n, 208n Monicelli, Mino, 18n, 83n, 313 e n, 322 e n Monina, Giancarlo, 117n, 140n, 230n Montal, Claude, 142-143

Indice dei nomi Montaldi Seelhorst, Gabriella, 136n Montaldi, Danilo, 108 e n, 118n, 133n, 136, 142n, 144n, 146 Monteleone, Antonio, 183, 202n Montemezzani, Giacomo (Gino), 164 e n, 171, 173, 177n Moraccini, Marco, 194n Morandi, Rodolfo, 146 e n Morando, Paolo, 60n Morbidelli, Mauro, 14n Mordenti, Raul, 92n Moreno, Cesare, 252, 321, 329n, 331 Morese, Raffaele, 306n Moretti, Giovanni, 129 Moretti, Marilena, 82n Moretti, Nanni, 76 e n Morgagni, Federico, 15n Morin, Edgar, 142 e n, 143n Morlacchi, Dino, 164 Morlacchi, Giovanni, 164 Morlacchi, Manolo, 164n, 170n Moro, Aldo, 35, 38, 45 Moro, Giovanni, 45n Moroni, Ilaria, 19n Moroni, Primo, 185n Morris, Penelope, 91n Morvillo, Vincenzo, 162, 166 Mothé, Daniel, vedi Jacques Gautrat Mottura, Giovanni, 146, 147n, 221 Mucchi Faina, Angelica, 323n Mucci, Orfeo, 118 Mucilli, Pietro, 269n Mulas, Ostilia, 79n Mulinaris, Vanni, 190 Mura, Ruggero, 111 e n, 113, 114n, 116 Muraca, Giuseppe, 140n Muraro, Tullio, 171, 178n, 181 Murialdi, Paolo, 240n, 254n, 299n Musatti, Cesare, 268n Muscetta, Carlo, 139, 155 Musci, Leonardo, 19n Mussi, Fabio, 236, 304n Nadalin, Renato, 177n Nardini, Bruno, 111 Natangelo, Antonio, 121

355

Natoli, Aldo, 226, 227n, 232 e n, 233 e n, 234n, 235-237 Natoli, Claudio, 14n Natta, Alessandro, 232 e n, 235 e n, 236n Negarville, Massimo, 276n, 282n, 283, 284n, 317n Negrello, Dolores, 162n, 246n Negri, Toni, 142n, 147n, 148-151, 162n, 244-245, 248 Nenni, Pietro, 116, 141 Neppi Modona, Guido, 264n Neri Serneri, Simone, 17n, 50n, 96n Niccolai, Roberto, 42n, 84n, 85n, 87n, 160n, 163n, 164n, 183n, 197n, 211n, 213n, 256n, 261n, 264n Nicotra, Alfio, 312n Nissim, Piero, 274 Nolan, Mary, 43n Novak, Jaroslav, 246n Obino, Antonello, 187 e n, 209n Occhetto, Achille, 230n Oggerino, Leo, 155 Olivetti, Adriano, 155n, 193n Onofri, Fabrizio, 139 Oreste, Giuseppe, 163 Orlando, Peppino, 287 Orsina, Giovanni, 61n Orsini, Bruno, 113 Ortoleva, Peppino, 78n, 329n, 331 Oskian, Vanghelis (Aurelio Campi), 299n, 304 e n, 311-312 Ottaviano, Franco, 18n, 161 e n, 170n, 198n, 213n, 223n, 290n, 292n, 294n, 295 e n, 297n, 298n, 304n, 305n Ottino, Carlo, 155 Ottolini, Tullio, 41n Pablo, Michel, vedi Michalis N. Raptis Pacciardi, Randolfo, 69 Pace, Lanfranco, 245 Paci, Enzo, 268n Paci, Massimo, 150 Pacini, Giuseppe, 58n, 111n, 137n Padano, Mario, vedi Gianni Brera Pajetta, Giancarlo, 159n, 185, 228n, 301

356

«Un mondo meglio di così»

Palach, Jan, 196-197 Palermo, Giuseppe, 166 e n, 167n Palladino, Iolanda, 48 Palombarini, Giovanni, 246n Palumbo, Piero, 87n Panessa, Vito, 269n Pannekoek, Antonie (Anton), 142, 248 Pansa, Giampaolo, 29n, 280n Pantaloni, Alberto, 51n, 242n Panvini, Guido, 10n, 53n, 285n Panzieri, Raniero, 32, 136, 141-142, 145 e n, 146 e n, 147 e n, 148, 155, 162 e n, 180n Paolinelli, Attilio, 100n Paolino, Antonietta Gilda, 226n Papa, Catia, 36n, 45n Pardini, Cesare, 47 Paresce, Enrico, 111n Parlato, Giuseppe, 96n, 203 Parlato, Valentino, 234n, 236, 296, 303 Parodi, Lorenzo, 99, 102 e n, 114, 136, 138 Parolini, Marco, 177n Pasolini, Pier Paolo, 85, 208n Passerini, Luisa, 33n, 77n, 79n, 80 e n, 82n, 242n Paterson, William E., 185n Pattieu, Sylvain, 41n Pavel, Helan, 231n Pedrazzini, Maurizio, 283n Peli, Pietro, 240n Pellegrini, Edgardo, 156, 158 Pellegrini, Marco, 53n Pellegrini, Rocco, 293n, 303n, 304n, 307n Pellegrino, Salvatore, 166n Pellicani, Luciano, 44n Pepe, Adolfo, 245n, Pepe, Guglielmo, 293n, 303n, 304n, 307n Pepino, Livio, 246n Peregalli, Arturo, 18n, 103n, 117n, 119n, 120n, 121n, 122n, 124n, 134n, 136n Perelli, Mario Orazio, 96, 98, 124 Perino, Mauro, 90n Perna, Tonino, 47n Pero, Luciano (Giancarlo Abbiati), 255, 282n Perrone, Ottorino, 106 Persichetti, Paolo, 191n

Pertini, Sandro, 97 e n, 124 e n Peruzzi, Walter, 190-191, 213 e n Pesce, Osvaldo, 163n, 169, 171-173, 177n, 187 e n, 209n, 212n Pescetti, Paolo, 259n Pesso, Remigio, 111n Petri, Elio, 85n, 86 Petricola, Elena, 15n, 77n, 244n, 264n, 277n Petrone, Benedetto, 49 e n Petroni, Franco, 194n Petruccioli, Claudio, 42n, 235 e n, 236n Pettinari, Bruno, 57n Pezzica, Lorenzo, 21n Philopat, Marco, 189n Pianciola, Cesare, 41n, 146n, 272n Piccone Stella, Simonetta, 78n Pieper Mooney, Jadwiga, 43n Pietrangeli, Giovanni, 36n Pietropaolo, Antonio, 96, 98, 124 Pietrostefani, Giorgio, 90, 91n, 194, 196n, 250, 271n, 279 e n, 328 e n, 329 e n, 330 e n Pinelli, Giuseppe (Pino), 47 e n, 152n, 265, 266 e n, 267 e n, 268 e n, 269 e n, 270271 Pinochet Ugarte, Augusto, 44 Pinotti, Ferruccio, 58n Pinto, Mimmo, 46n, 308 e n, 331 Pintor, Giaime, 323n Pintor, Luigi, 226, 227n, 231, 232 e n, 233 e n, 234n, 235 e n, 236-237, 292, 293n, 296, 298 e n, 302n, 303 e n, 305 e n, 306-307 Piovene, Guido, 118 Piperno, Enzo, 321 Piperno, Franco, 244-245, 248, 249 e n, Pipitone, Cristiana, 230n Pipitone, Daniele, 128n Pirelli, Giovanni, 146, 148n Piretti, Maria Serena, 53n Pisani, Ugo, 166n, 177n Pischel, Giuliano, 127-128 Piscitelli, Enzo, 124n Pistone, Matteo Renato, 121-122 Placido, Beniamino, 30n Platania, Franco, 274n

Indice dei nomi Platone, Felice, 104n Pleck, Joseph, 80n Poce, Antonino, 118, 122-123 Poggio, Pier Paolo, 31n, 44n, 140n Polito, Saverio, 107n, 114n, 125 Polliotti, Luciana, 89n Pollutri, Piermichele, 48n Polo, Gabriele, 245n, 335n Ponomarev, Boris N., 232n Pons, Silvio, 24n, 231n Pontani, Francesco, 135n Pontremoli, Giacomo, 140n Posadas, Juan, vedi Homero Ròmulo Cristalli Frasnelli Pozzi, Francesca, 142n Preda, Gianna (Giovanna Predassi), 87 Previtera Negrito, Candida Rosa, 158n Protti, Daniele, 216n, 290 e n, 291n, 293n, 297, 309, 310n Provolo, Pietro, 152n Pucci, Fernando, 135, 212 Pucciarelli, Matteo, 216n, 312n Pugliese, Enrico, 221 Pugno, Emilio, 147, 242 Puleo, Ignazio, 288, 297 e n Purificato, Domenico, 139 Quaranta, Mario, 162, 169, 178n, 179n, 181 Ragionieri, Ernesto, 241n Rago, Michele, 234n Ragozzino, Guglielmo, 290, 310n Raimondi, Luciano, 102, 132-136, 138, 182-183, 197, 201 e n Ramat, Marco, 246n Rambaldi, Enrico, 183 Rame, Calcedonio, 168n Ramella, Franco, 192 Ramondino, Fabrizia, 221 Ranieri, Andrea, 291, 310 e n Rapini, Andrea, 70 Rapone, Leonardo, 14n Raptis, Michalis N. (Michel Pablo), 115, 158 Rastrelli, Renzo, 42n Ravaioli, Carla, 78n, 79n, 80n, 81 e n Ravera, Lidia, 323n Re, Gigliola, 277n

357

Reale, Eugenio, 121, 137n, 139 Reddy, William M., 92n Regis, Giuseppe Oreste, 163 e n, 169 e n, 171-173, 181-182, 183n, 199n Reichlin, Alfredo, 226, 227n Reiter, Herbert, 70n Renosio, Mario, 104 e n Repaci, Leonida, 111n Restivo, Franco, 62n, 269-270 Revelli, Marco, 146n, 242n, 245n Ricatti, Francesco, 91n Ricci, Aldo G., 104n Ricci, Anacleto, 140 Ridolfi, Maurizio, 61n Rieser, Vittorio, 146, 147n, 221, 250, 304n, 308, 312n Righi, Maria Luisa, 40n Risaliti, Livio, 169, 177n, 187 e n, 198 Ristuccia, Sergio, 33n Riva, Gigi, 276n Rivoir, Eugenio, 16n Rizzi, Bruno, 125 e n, 152 Rizzo, Francesca, 168n Robustelli, Franco, 177n Rochat, Giorgio, 16n Rogari, Sandro, 33n Roggero, Gigi, 142n Rognini, Licia, 268 Romero, Federico, 44n Romita, Giuseppe, 104n, 114n Romitelli, Valerio, 45n Rosenberg, coniugi, 54n Rosini, Emilio, 162n Rositi, Franco, 33n Rossanda, Rossana, 28n, 184n, 226 e n, 227n, 229n, 232 e n, 233 e n, 234 e n, 235 e n, 236, 240 e n, 292, 293 e n, 294n, 296, 304, 306, 309 Rossetti, Roberto, 248n Rossi, Dante, 286-287, 290 Rossi, Gianni Scipione, 41n Rossi, Italino, 96n Rossi, Marco, 95n, 124n Rossi, Nello, 15n Rossi, Paolo, 47 e n, 71 Rossi, Walter, 49

358

«Un mondo meglio di così»

Rossini, Ilenia, 29n, 119n Rostagno, Mauro, 189, 244, 252, 316n, 331 Rostan, Marco, 16n Rotella, Mimmo, 246n Rovelli, Enrico, 152n Ruffolo, Giorgio (Marcello Arienti), 111 e n, 113, 115n, 116 Rumor, Mariano, 61, 271 Ruscio, Alain, 41n Rusconi, Marisa, 82n Russo Spena, Giovanni, 288, 290, 297, 305 Russo, Enrico, 120-122 Sabbatucci, Giovanni, 17n Sacchetti, Giorgio, 16n, 20n, 95n, 96n, 97n, 99n, 153n Saccoman, Andrea, 191n Saccomani, Edda, 147n Saccucci, Sandro, 49 Saggioro, Sandro, 105n, 106n, 153n, 154n Salaris, Claudia, 51n Salerno, Giuseppe, 204, 284n, 288 e n, 314 Salinari, Carlo, 268n Salmoni, Fabrizio, 75n Saltarelli, Franco, 177n Saltarelli, Saverio, 47 Salvati, Mariuccia, 79n, 108n, 142 e n Salvati, Michele, 147n Salvemini, Gaetano, 100 Salvi, Mario, 48 Salvini, Guido, 58n Samonà, Giuseppe Paolo, 156, 158n Sannia, Deborah, 36n Santagata, Alessandro, 27n Santalena, Elisa, 65n, 191n, 241n Santini, Stefano, 240n Santoro, Michele, 84, 85n Sapegno, Natalino, 139 Saraceno, Giuseppe (Popi), 204n Saragat, Giuseppe, 60, 61 e n, 110, 113, 124 Sarel, Benno, 144n Sargent, Daniel J., 45n Sartori, Alberto, 177n, 187n, 211-212 Sartori, Michele, 17n, 53n Sartorio, Gianni, 333n Sassano, Marco, 47n

Sassatelli, Roberta, 44n Sassi, Claudio, 309 Sassoon, Donald, 233n Satta, Vladimiro, 17n, 73n Savage, Jon, 78n Savelli, Giulio, 42n, 156, 158, 216 Savi, Carlo, 169, 177n Savonarola, Girolamo, 83 Sawyer, Jack, 80n Sbardella, Filiberto, 118, 122 Scalfari, Eugenio, 247n Scalzone, Oreste, 230n, 244-245 Scaraggini, Gino, 181 Scarlett, Zachary A., 43n Scattigno, Anna, 77n, 82n Scattoni, Ugo, 133 Scatturin, Vladimiro, 268n Scavino, Marco, 48n, 53n, 191n, 244n, 245n, 246n Scavo, Pietro, 177n, 187n Scharloth, Joachim, 43n Schettini, Laura, 53n Schiavetti, Fernando, 127n Schifano, Mario, 246n Schirone, Franco, 94n, 95n Sclavi, Gastone, 287, 306n Sclavi, Marianella, 297n Scoccimarro, Mauro, 104n Scopigno, Manlio, 276n Scoppetta, Renato, 111n Scoppola Iacopini, Luigi, 231n, Scott, Joan W., 79n Scotti, Mariamargherita, 41n, 141n Scuderi, Giovanni, 215n Secchia, Pietro, 104n, 132 e n, 159 e n, 258 Sechi, Salvatore, 141n, 147n, 148 e n, 249 e n Secondari, Argo, 123 Secondari, Roberto, 123 Segre, Stefano, 80n Seidler, Victor J., 80n, 90n Semenzato, Stefano, 216, 220n Semeraro, Michele, 201, 202n Seniga, Giulio, 102 e n, 132 e n, 134, 136 e n, 137 e n, 138 Seniga, Martino, 132n Senise, Carmine, 105n

Indice dei nomi Sensi, Federico, 172n Sensini, Paolo, 44n, 125n Senta, Antonio, 93n Serafini, Aldo, 183, 197, 202n, Serafini, Massimo, 305, 310 e n Serafino, Davide, 17n Serantini, Franco, 19, 47 e n Serci, Maria Antonietta, 132n Serenelli, Sofia, 82n Sereni, Emilio, 229n Sergio, Marialuisa Lucia, 141n Serpieri, Stefano, 66 Servello, Franco, 283 e n Severini, Marco, 269n Seymour, Mark, 91n Sherman, Daniel J., 43n Siccardi, Anna Maria, 13n Silj, Alessandro, 189n, 191n Silone, Ignazio, 127 Sinigaglia, Sergio, 16n, 313n, 320n Sisti, Matteo, 93n Sitaiolo, Beppe, 111n Soave, Emilio, 146 Socrate, Francesca, 28n, 47n, 73n Sofri, Adriano, 47n, 65, 150, 193 e n, 194196, 244 e n, 248 e n, 250, 252 e n, 263, 266-267, 271 e n, 272 e n, 274 e n, 275, 279 e n, 281 e n, 283, 285, 313 e n, 314, 316-317, 318 e n, 319n, 321, 326 e n, 328, 329n, 330n, 331 e n, 333, 334n Sogno, Edgardo, 129 Solari, Leo, 110n Sommier, Isabelle, 54 e n Soraci, Cristina, 87 Soragna, Giorgio, 180-181 Sorbi, Paolo, 333n Sorel, Georges, 123, 274 Sorgonà, Gregorio, 40n Sorrentino, Paolo, 76 Spada, Marco, 277n Spada, Michelangelo, 255 Spagnoletti, Rosalba, 77n Spano, Giampaolo, 189 Sparagna, Vincenzo, 221n Spazzali, Giuliano, 183, 277n

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Spazzali, Sergio, 183, 200-201 Spinella, Mario, 268n Spreafico, Alberto, 240n Spriano, Paolo, 120n Stajano, Corrado, 48n Stalin, Iosif, 27, 40, 119, 122, 159, 168n, 170, 180, 214 Stame, Nicoletta, 141n, 203, 206 Steccanella, Davide, 73n Stefanini, Giacomo (Mauro o Luciano), 106 Stelliferi, Paola, 36n, 77n Stora, Benjamin, 41n Strada, Carlo, 96n Stramaccioni, Alberto, 140n, 217n, 221n Strano, Paolo, 269 Sullivan, W.C., 57n Tagliazucchi, Pino, 287 Targetti, Ludovico, 111n Tarrow, Sidney, 33n, 38n, 39n Tarsia, Ludovico, 121 Tartarini, Angelo, 136n Tassinari, Ugo Maria, 230n Taviani, Ermanno, 230n Tedeschi, Vittorio, 129n Telese, Luca, 67n Tenio, Carmelo, 47n Teodori, Massimo, 18n, 26 e n, 27 Terhoeven, Petra, 53n Terzani, Otello, 121 Thiella, Luigi, 180n, 183, 200-201 Thirion, Marie, 241n Thompson, Edward P., 27 Tilly, Charles, 39 e n Tinelli, Fausto, 49 e n Tito (Josip Broz), 39, 125, 160, 170n Tobagi, Walter, 18n, 199n, Todeschini, Enzo, 87 Todesco, Armando, 15n Todisco, Massimo, 309 Togliatti, Palmiro, 42, 45, 104n, 116, 119120, 122, 124, 130, 132, 135n, 159 e n, 160, 168, 210n, 258 Tolin, Francesco, 150, 245, 246n Tolomelli, Marica, 26 e n, 53n, 72 e n Tommasini, Umberto, 95n

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«Un mondo meglio di così»

Torricelli, Guido, 103 Tortorella, Aldo, 304n Toscano, Salvatore (Turi), 254-255, 257, 259n, 260 e n Tosi, Luigi, 177n Totolo, Anna, 317n Tozzetti, Aldo, 277n Tranfaglia, Nicola, 30n, 242n Travaglini, Franco, 16n, 280 e n, 329n, 331 Traverso, Enzo, 57n Tria, Massimo, 231n Trimarchi, Pietro, 255 e n, 269 Trivelli, Renzo, 301 Trockij, Lev, 27, 108, 109 e n, 115 168n, 180 Tronti, Mario, 146 e n, 147n, 148-149, 150 e n, 151, 180n, 240n Trotta, Giuseppe, 146n Trotta, Margarethe von, 37n Tuffi, Giorgio, 111n Turati, Filippo, 69 Turi, Paolo, 235n Turone, Sergio, 120n Turroni, Pio, 94-95, 99 Urettini, Luigi, 149n Urso, Simona, 146n Usai, Annalisa, 323n Usai, Mario, 268 Vacca, Giuseppe, 40n, 231n Valabrega, Maria, 251n Valdarnini, Ricciotti, 155n Valenza, Placido,111n Vallauri, Carlo, 18n, 24n Vallini, Marcella, 187n Valori, Dario, 287 Valpreda, Pietro, 265 Vanzella, Cesare, 60n Varalli, Claudio, 48 Varsori, Antonio, 42n, 44n Vecchietti, Tullio, 287 Vecchio, Giorgio, 16n Veneziani, Massimo, 265n Veneziani, Ugo, 182-183 Ventrone, Angelo, 17n, 18n, 53n, 57n, 233n, 264n, 277n

Venza, Claudio, 95n Verdoja, Giuseppina, 111 Verrengia, Sarah, 117n Vesce, Emilio, 179n, 245, 250 Vettori, Giuseppe, 18n Vezzosi, Elisabetta, 44n Viale, Guido, 90n, 244 e n, 247n, 249 e n, 252, 253 e n, 263, 264n, 276 e n, 304n, 305, 316n, 321, 325n, 329n, 331 e n, 333n Vidali, Leone, 152n Vidotto, Vittorio, 55 e n, 71, 72 e n Villa, Anna, 88 Villani, Franco, 113, 116 Villani, Luciano, 36n Villone, Libero, 111, 113, 116, 121-122 Vinazza, Aldo, 102, 134 Vince, Natalya, 41n Vinci, Anna Maria, 29n Vinci, Luigi, 156, 216 e n, 218n, 219, 304n, 305n, 311-312 Viola, Enzo, 64 Violi, Patrizia, 208n, 254n Virno, Paolo, 244n Virzì, Paolo, 76 Vitale, Salvo. 49n Vitale, Tommaso, 39n Vittoria, Albertina, 51n, 132n Võ Nguyên Giáp (Giap), 168n Voli, Stefania, 75n, 90n, 91 e n, 264n, 285n, 315n, 323n, 325n, 326n, 327n, 328n, 329n, 334n Volonté, Gian Maria, 63n Waley-Cohen, Johanna, 43n Warring, Anette, 43n Waters, Sarah, 30n Williams, Raymond, 27 Young, Marilyn, 43n Zaccaria, Cesare, 94, 99 Zaccaria, Guelfo, 103n, 104n Zagari, Mario, 128n Zambarbieri, Giovanni, 181 Zampieri, Piero, 177n Zancarini-Fournel, Michelle, 43n

Indice dei nomi Zandegiacomi, Ninetta, 226, 234n, 236, 238n Zaslavsky, Viktor, 231n Zavaroni, Pierluigi, 46n Zazzara, Gilda, 141n

Zibecchi, Giannino, 48 Zini, Ivo, 49 Zolla, Giacomo, 126n Zucchetti, Giorgio, 163

361

Finito di stampare nel mese di maggio 2023 da The Factory s.r.l. Roma