Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di «destra» in un successo di «sinistra» 8807885492, 9788807885495

Pubblicato postumo, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa suscitò subito perplessità e polemiche. Sciascia, Alic

476 35 1MB

Italian Pages 344 [446] Year 2014

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
Prefazione - di Goffredo Fofi
Operazione Gattopardo
Uno. Prologo in salotto
Due. Marescialli di Francia
Tre. La letteratura ai letterati (e la terra ai contadini)
Quattro. La verità del Gattopardo
Cinque. Il colpo dello Strega
Sei. Contrordine, compagni
Sette. Le sceneggiature preliminari
Otto. I volti, i luoghi, i denari e la sceneggiatura “definitiva”
Nove. Si gira
Dieci. Dal valzer alla moviola
Undici. 27 marzo 1963, cinema Barberini
Dodici. Tagli strategici a Cannes
Tredici. Il tradimento perfetto
Quattordici. Girotondo finale
Il cast artistico e tecnico
Nota bibliografica
Recommend Papers

Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di «destra» in un successo di «sinistra»
 8807885492, 9788807885495

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Maria Gabriella Giannice, Alberto Anile OPERAZIONE GATTOPARDO Come Visconti trasformò un romanzo di ‘destra’ in un successo di ‘sinistra’ Feltrinelli

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “Universale Economica Saggi” novembre 2014 ISBN edizione cartacea: 9788807885495

Uno scrittore antipatico, un regista arrogante, un grande libro, un film magnifico di Goffredo Fofi Del solo Alberto Anile, ma forse con l’aiuto allora secondario e via via più importante di Maria Gabriella Giannice, ho letto in anni recenti libri appassionanti, per chi ha amato il cinema italiano e la società che lo ha stimolato e di cui voleva essere il rispecchiamento. In particolare, quello sull’intreccio affettivo e artistico Rossellini-Magnani-Bergman che segnò il primo grande passaggio dal neorealismo a un cinema azzardato e austero che anticipasse invece che starne a rimorchio la novità dei tempi, oltre le convenzioni e i ricatti delle ideologie, delle parti e dei partiti; o sul passaggio provocatorio e bizzarro, perfino un po’ picaresco, di Orson Welles nel nostro paese, un’Italia che affascinò il regista statunitense (o “marziano”) al pari del Brasile e della Spagna – luoghi di un’umanità ancora forte, di un popolo che era popolo, e che non era condizionato nei suoi sentimenti e comportamenti (nella sua fatica di vivere, sopravvivere) dalle pubblicità e dalle merci. Si ammirò di quei saggi (e dei libri su Totò, che confesso di aver letto distrattamente, a causa di una personale saturazione sull’argomento) il grande lavoro di ricerca, certamente da storico più che da critico cinematografico (ed è un elogio, anche se Anile non aveva niente da invidiare ai critici di mestiere), e una maestria che sapeva coniugare il rigore del saggio con la scioltezza della narrazione, non intralciando la lettura con note e rimandi, riservati alla

documentazione finale sulle fonti. Queste qualità sono ben presenti in Operazione Gattopardo, ma affinate e approfondite, con qualcosa di nuovo che dà la piena misura dell’assunzione di responsabilità degli autori nell’affrontare un argomento apparentemente più ristretto e perfino più semplice – parlano di un solo libro e di un solo film – ma confrontandosi con due mondi assai diversi tra loro, quello dei letterati e quello dei cineasti, sullo sfondo dell’interventismo politico sulle arti che caratterizzava la nostra cultura. La distanza tra i due mondi (o meglio, tra i due linguaggi) è sempre stata molto grande nonostante i legami di entrambi con la politica e l’incontro tra scrittori e registi nell’elaborazione dei progetti, e cioè nel lavoro di trattamento e sceneggiatura di un film. Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa non fu un libro qualsiasi, come Il Gattopardo di Visconti non fu un film qualsiasi, il secondo opera derivata e dunque sottoposta al confronto con la fonte, obbligato in questo caso dall’importanza e dalla risonanza addirittura mondiale del romanzo. La serietà degli autori li ha dunque spinti ad affrontare nella sua autonomia la “storia” del Gattopardo – che è necessariamente la storia del suo autore, perché Tomasi ha investito molto di sé nel personaggio immaginario del principe di Salina, ne ha fatto un suo portavoce e un suo doppio. Nonostante si sia scritto moltissimo sul romanzo, la ricostruzione della sua vicenda editoriale e dello scontro critico che accompagnò il suo successo, all’interno della sinistra piuttosto che tra sinistra e destra, è di rara finezza e completezza, e l’elogio migliore che si può fare agli autori è che essi hanno capito “lo spirito del tempo”, le sue

contraddizioni – un’Italia avviata verso il miracolo economico, ma ancora molto lontana dal suo “boom” – non col senno del poi ma, se si può dire, come fossero attivi in quegli anni (non erano ancora nati!), per la comprensione delle forze in campo e di quegli “scherzi della dialettica” che portavano scompiglio nelle ideologie e disordinavano la rigidità dei fronti. Io invece ero nato, ero già adulto e ho vissuto quelle contraddizioni “dal vero” e in parte dalla Sicilia. Non ho amato subito il romanzo, che pure mi affascinò per quel che mi faceva scoprire di una storia di cui sapevo ancora poco. Della Sicilia avevo imparato a conoscere subito il “basso” con pochi e parziali assaggi del medio e dell’alto (per esempio, le sorelle Topazia e Orietta Alliata di Salaparuta, della seconda delle quali e di suo marito Gianni Guaita sono stato amico fedele; i giornalisti dell’“Ora” e in modo particolare la saldissima coppia Marcello CiminoGiuliana Saladino; il coraggioso fotografo, ancora dell’“Ora”, Nicola Scafidi, che fotografò giorno per giorno la lavorazione del film così come fotografò tutto quello o quasi che di rilevante accadde nell’isola dal dopoguerra alla fine del secolo scorso; l’avvocato socialista, e grande appassionato di cinema, Nino Sorgi; Ignazio Buttitta e altri bagheresi, eccetera) per il tramite dei loro rapporti con Danilo Dolci con cui lavoravo. E ho perfino qualche ricordo sulla lavorazione del Gattopardo, perché assistetti – con grande curiosità, trattandosi del mio primo “set” e per di più di un film di quella portata – dai margini, alla Magione, alle riprese della battaglia garibaldina per la conquista di Palermo, e ricordo quanto mi scandalizzasse la voce rimbombante del regista che, con un megafono, arringava le comparse con epiteti non sempre

rispettosi… Non ho mai frequentato Visconti, ma ricordo bene la sua sicurezza e la sua arroganza – non riesco a definirla altrimenti – in certe conferenze veneziane (quella per Vaghe stelle dell’Orsa, e soprattutto quella per Lo straniero, alla cui proiezione per la stampa qualcuno aveva osato cautamente fischiare), e confesso un’istintiva antipatia “di classe” per il personaggio, nonostante Bellissima sia stato uno dei film che ho più amato, insieme culmine dell’esperienza neorealista e sua critica e superamento… Quando lessi per la prima volta Il Gattopardo, subito a ridosso della sua pubblicazione, mi sembrò un grande libro di un autore antipatico – ma questo non era la prima volta che accadeva, no? Ero troppo giovane e inesperto per motivare un giudizio critico ma abbastanza adulto per dare un giudizio “di classe” sul principe di Lampedusa. Al seguito di Dolci avevo battuto la provincia di Palermo e visto da vicino le condizioni di vita dei contadini nei grandi feudi dell’interno, di inaudita miseria ai miei occhi – che pure venivo da una famiglia mezzadrile dell’Italia centrale – e sapevo che l’agio in cui viveva il principe veniva di lì, dallo sfruttamento di quelle persone, di quella “forza lavoro”. E inoltre avevo già letto Signora Ava di Francesco Jovine e il paragone tra i due romanzi mi sembrò a tutto vantaggio di Jovine, perché, in definitiva, raccontava il Risorgimento dal punto di vista dei contadini del Sud e non dei nobili del Sud. (Non avevo ancora letto I Viceré e I vecchi e i giovani, gli altri due grandi romanzi su quel periodo storico, né di De Roberto L’imperio, che corrisponde in qualche modo alla seconda parte del romanzo di Pirandello e tratta della corruzione romana e parlamentare, della

delusione verso una nuova Italia non meno equivoca, e classista, della vecchia.) Oggi parlerei invece della complementarità tra le due opere, due punti di vista ugualmente significativi, importanti e utili per capire di dove veniamo, o di dove viene il nostro Sud con le sue piaghe antiche e le sue nuove sconnessioni. Il romanzo di Tomasi merita assolutamente il posto che si è conquistato con non poca fatica nella storia della nostra letteratura – documentata e interpretata dagli autori di questo saggio –, e merita tutta l’attenzione che hanno continuato e che continuano a dedicargli sia i critici letterari che gli storici. Ed è merito degli autori spingerci a rileggerlo alla luce degli scontri che essi documentano, e a rileggerne in particolare l’ultimo capitolo, su cui giustamente essi insistono, e che serve a ridimensionare le letture più comode e più comuni, quelle che finiscono sempre nel consueto “tutto cambi” eccetera diventato proverbiale ma tirato in troppe direzioni, anche tra loro contrastanti. Perché, sì, la memoria del film ha finito per sovrastare la memoria del romanzo – perché la forza delle immagini, la loro evidenza, si dimostra alla lunga superiore alla forza ed evidenza della parola. Il balletto delle opinioni e dei contrasti ha provocato attorno al romanzo una discussione serrata, appassionante perché appassionata. E l’intervento dei politici (del Pci, di Togliatti in particolare), nella sua invadenza, nella sua pretesa a indirizzare il gusto e il giudizio dei lettori comuni, impressiona anch’esso, a ritroso, positivamente, nel senso – vituperato dalle destre o dai centri del potere ideologico odierno, cioè dai giornali – che ebbe una volta a dirmi Paolo

Volponi: i politici della sinistra tenevano in gran conto gli intellettuali e li corteggiavano o aggredivano perché consideravano importanti le loro opinioni e la loro possibilità di influenzare le masse, o le loro avanguardie; mentre oggi non gliene importa niente, li hanno anzi in disprezzo e credono di poterne fare a meno, sostituendosi a loro. E, non ultimo, gli schieramenti avevano un senso in quanto corrispondenti a contrapposizioni sociali reali, rappresentanti di opzioni forti e dotate di buone radici. I conflitti che si scatenavano attorno a opere particolarmente significative o ingombranti, si trattasse di Vittorini o di Gadda, di Pratolini o di Moravia, di Rossellini o di Pasolini, di Antonioni o di Fellini, di Licini o di Guttuso, ma anche di Fortini o di Asor Rosa, di Aristarco o di Chiarini, e prima ancora di Croce o di Gramsci (la pubblicazione dei Quaderni) eccetera, rientravano nonostante tutto in un’epoca di enorme vivacità sociale, animata in primo luogo dalla convinzione di poter contribuire all’edificazione di una società nuova. Il film Il Gattopardo “correggeva” il romanzo Il Gattopardo, forzandone l’analisi e le intenzioni, e gli si sovrapponeva, ma in qualche modo consentendo al suo pessimismo. Anile e Giannice constatano infine come il film possa essere letto in definitiva, per Visconti, come il punto più avanzato nelle sue convinzioni storico-politiche, ma anche il punto di svolta nella sua carriera, a giudicare dalle opere successive, di resa alle sue origini, di ritorno a un’estetica “borghese” (o “decadente”) per la perdita di fiducia nella possibilità di una rivoluzione, di una qualsivoglia trasformazione positiva del nostro paese. Alla fine, essi dicono, è Tomasi di Lampedusa ad aver vinto, nel progressivo avvicinamento del

film al romanzo, e tutte le giustificazioni teoriche avanzate dal regista nelle molte dichiarazioni pubbliche sono sopravanzate da quel che il film finisce per dire: la morte di una classe, l’impossibilità di un cambiamento successivo al Risorgimento, “rivoluzione” incompiuta o tradita (la vagheggiata continuazione della sua azione in quella della Resistenza e nel risveglio popolare del dopoguerra), la coscienza, infine, che forse – e qui la morale va ben oltre il “tutto cambi” eccetera – il mondo “di dopo” è perfino peggiore del mondo “di prima”. Dopo Il Gattopardo, Visconti si libera definitivamente, ho scritto anni addietro, del super-io gramsciano che lo aveva conquistato fino ad allora, proprio mentre il suo massimo rivale nel cinema italiano, Federico Fellini, rivendicava con 8 ½ la libertà dell’artista rispetto a ogni presunto “mandato sociale”. Certo, rivedere oggi Il Gattopardo ci dà l’idea di una grandezza – e di una varietà e importanza dei problemi che vi si agitavano – di cui a suo tempo ci rendevamo conto solo in parte, prigionieri anche noi dei conflitti ideologici dell’epoca. Certo, oggi Il Gattopardo ci piace molto più di allora, ci sembra anzi un film magnifico (e la parte finale ci convince quanto e forse più di quella che gli contrapponevamo, come racconto della decadenza di una classe, del ballo di L’orgoglio degli Amberson, formalmente più libero e meno teatrale) e anche le nostre resistenze si rivelano fragili di fronte alla lezione della Storia, che dà ragione al pessimismo del romanzo e al sentimento di morte della speranza che è suggerito dal film. E non si può non citare, a conclusione della lettura di questo bel saggio su un episodio fondamentale nella storia della

cultura italiana del Novecento, quanto ebbe a scrivere sul “Mondo” qualche anno dopo la morte del regista un non-amico di Visconti (e nonamante di Tomasi), Alberto Arbasino, alla fine di una sua pungente carrellata sul teatro e sul cinema italiani dei tardi anni settanta: “Torna, Luchino, tutto ti è perdonato”.

Operazione Gattopardo

Al nostro Tancredi

Uno Prologo in salotto Bandita la televisione e perfino l’illuminazione elettrica, il salotto di via Butera era rischiarato dallo sfarfallio delle candele; intorno, i quadri appesi sopra il caminetto e la libreria carica di volumi, acquistata centocinquant’anni prima in Inghilterra dal bisnonno Giulio Fabrizio, apparivano e sparivano come fantasmi. Al tramonto di una giornata spesa nella scrittura, Giuseppe Tomasi di Lampedusa inseguiva i suoi sogni. Seminascosto nella penombra, un sorriso sardonico saliva sul suo volto di pacioso felino. Il principe fantasticava su quale film avrebbero potuto trarre dal suo romanzo. Licy lo ascoltava in silenzio, fumando una nazionale sul sofà accanto. “Vedrai,” immaginava Lampedusa sprofondato nella sua poltrona, “finirà che costringeranno Concetta a ritirarsi in monastero, a smaltire la delusione per Tancredi.” Cupo per carattere e per le disgrazie dinastiche, in alcuni momenti Lampedusa metteva da parte il suo pessimismo autoflagellante per abbandonarsi a sfrenati sogni di realizzazione editoriale, e questo era uno di quelli. Nelle sue fantasie il romanzo aveva già conquistato le librerie ed era pronto a diventare un successo per il grande schermo. “La parte di Concetta,” gongolava con Licy, “la potremmo affidare alla fidanzata di Giò”, il figlio adottivo che aveva fatto da modello fisico per Tancredi. Il principe continuava a profetizzare, già coinvolto nel lavoro di sceneggiatura: “Non rinuncerei all’assalto al monastero di clausura, con le

monache pietrificate di fronte ai garibaldini in vena di sacrilego furore patriottico…”. Come sappiamo, Lampedusa non avrebbe mai visto il film di Visconti; morì senza vedere stampato il suo romanzo, senza neanche sapere che sarebbe stato pubblicato. Era consapevole, sì, del valore di quel suo primo tentativo letterario ma non arrivò certo a immaginare il successo e i clamori che Il Gattopardo avrebbe suscitato. Né tantomeno che un romanzo venerato dal pubblico potesse diventare una pellicola altrettanto popolare ad opera di quella stessa intellighenzia che avrebbe aborrito e boicottato il libro. Però, pur scherzando, già paventava il tradimento a cui il romanzo sarebbe stato sottoposto nella sua trasformazione in film. Del Gattopardo di Luchino Visconti si dice in genere che è estremamente fedele al romanzo di Lampedusa; fin troppo, gli rimproverarono molti critici di sinistra. In effetti mai Visconti sembrò tanto aderente alla radice letteraria di un suo film. Ma in realtà, al di là del cambiamento più marchiano (la soppressione di tre delle otto parti del romanzo), la pellicola è intimamente infedele al libro. All’origine di questo tradimento ci sono complessi motivi di ordine ideologico, strettamente connessi alle reazioni infuocate che accolsero l’uscita del romanzo, al clima politico che agitava quegli anni, ai fermenti e alle contraddizioni che incendiavano la sinistra italiana. Il vero punto d’incontro tra film e libro è di marca squisitamente politica: entrambi costrinsero la sinistra italiana ad affrontare questioni critico-storiche ed estetiche, il libro ponendo soprattutto dei problemi, il film promettendo di risolverli. D’altra parte il rovello

culturale degli intellettuali che gravitavano nell’orbita del Partito comunista fornì un contributo tutt’altro che marginale al successo del libro e un’influenza più che decisiva sulla trasposizione cinematografica. Di tutto ciò Lampedusa, nelle sue inquiete sere palermitane, poteva avere al più qualche vago presentimento. Non sapremo mai se il film di Visconti gli sarebbe piaciuto, nessuno potrà mai dirlo con certezza. Possiamo però cercare di capire quanto Gattopardo vi sia realmente dentro la pellicola viscontiana, dove finisca la pagina del romanzo e comincino le forzature ideologiche e certe ispirazioni eterodosse. Per fare questo è stato necessario slegarsi dalla consuetudine accademica, che tende a separare campo cinematografico e campo letterario: nell’immaginario collettivo il romanzo e il film sono legati indissolubilmente e vanno perciò trattati insieme, non solo perché la pellicola è figlia del libro, ma anche perché, grazie alla potenza delle immagini di Visconti e alla sua sottigliezza nell’interpretarlo, è accaduto pure l’inverso, che il libro sia diventato in un certo senso figlio della pellicola, che l’opera di Visconti sia diventata la lente necessariamente deformata attraverso la quale si legge e si intende l’opera di Lampedusa. Il libro e la pellicola vantavano già bibliografie sterminate; una strada conosciuta non promette curve inattese. Ma spesso non c’è argomento più inedito di quello di cui si è già a lungo discusso. In oltre mezzo secolo di studi sul romanzo l’ultimo capitolo, quello di cui è protagonista l’anziana Concetta, è stato fin dall’inizio, e poi anche in seguito, incomprensibilmente sottovalutato. E all’analisi del film mancavano

ancora molti documenti preparatori (soprattutto scalette e sceneggiature originali), che qui sono stati finalmente recuperati e confrontati; dati contabili, testimonianze inedite, stralci epistolari, cronache del tempo, spesso di difficile reperimento, hanno aggiunto altri elementi preziosi per capire l’evoluzione del progetto cinematografico. Tutti insieme ridisegnano un percorso dal libro alla pellicola molto più tortuoso e accidentato di quello ipotizzato in cinquant’anni di saggi e rievocazioni. Dal libro conviene comunque ripartire, dalla nascita di un romanzo siciliano realizzato da uno scrittore siciliano, da allora in poi pietre di paragone per ogni altro romanzo e per ogni scrittore dell’isola, e fonte di un film con cui nel bene e nel male viene identificata la Sicilia. Una storia che, per avventura, cominciò all’angolo opposto d’Italia, in un paesino della provincia di Bergamo.

Due Marescialli di Francia Al cronista frequentatore abituale di festival e convegni letterari capita spesso di convenire con se stesso che, benché tanto si sia scritto e detto, in realtà alla fine non è accaduto un bel nulla: il focoso dibattito è stato fittizio, i protagonisti non hanno rivelato altro che quello che si sapeva, delle opere presentate si è potuto sostenere qualsiasi cosa tranne che raccomandarle a futura memoria. Tutto risolto in un paio di colonne in Terza. Sembrava destinato ad andare più o meno così anche il convegno letterario che si tenne a San Pellegrino Terme dal 16 al 19 luglio 1954. Fornito di un tema allettante, Romanzo e poesia di ieri e di oggi: incontro di due generazioni, e organizzato grazie all’aiuto di un’importante casa editrice come la Mondadori, vantava la partecipazione di autori noti o notissimi che, secondo uno schema indovinato, presentavano ognuno un giovane pupillo, destinato, a parer loro, a grandi cose. Mettendo nell’arengo campioni delle due generazioni di letterati fiorite prima e dopo la guerra, si prometteva sulla carta un dibattito acceso, forse un vero scontro. Ma poiché si era ancora lontani tre lustri dal Sessantotto, delle folgori auspicate non ci fu che qualche pallido bagliore, merito più che altro di un giovane Calvino che turbò le signore parlando di Resistenza, marxismo e, naturalmente, narrativa. L’indomani altre cronache avrebbero seppellito i placidi e pensosi giorni di San Pellegrino e nessuno ne avrebbe parlato più. Invece, a sorpresa, nella flemma termale

apparvero due signori sconosciuti, nerovestiti e alquanto desueti, invitati per ordine di Sua Altezza Poetica Eugenio Montale. Due aristocratici, si diceva, un principe e un barone cugini fra loro, seguiti da un nerboruto cameriere, nonché autista, promosso sul posto a guardia del corpo. La coppia amabilmente démodée era stata evocata dalla Sicilia nella provincia bergamasca per uno di quei ghiribizzi imprevedibili che ogni tanto i grand’uomini hanno. Mesi prima Montale aveva ricevuto per posta un plico male affrancato, aveva dovuto sborsare 180 lire e adesso da buon genovese veniva a San Pellegrino Terme ad affermare che quegli spiccioli non erano stati sprecati e che anzi sarebbero fruttati: il plico ricevuto conteneva delle poesie, stampate assai modestamente, è vero, da un tipografo di provincia sotto il titolo anodino di 9 liriche, ma erano vere poesie e il loro autore, il barone Lucio Piccolo di Calanovella, un aedo degno di pubblicazione e di gloria. Si seppe così che era lui il misterioso “giovane” poeta che l’Eu-genio intendeva presentare, così come Emilio Cecchi presentava un giovane Giorgio Bassani a buon punto con le Storie Ferraresi, Leonida Rèpaci un Italo Calvino che ancora doveva scrivere Il barone rampante, Giovanni Comisso il Goffredo Parise che aveva appena dato alla luce Il prete bello; e poi Guido Piovene presentava Enzo Bettiza, Giuseppe Ungaretti Andrea Zanzotto, Diego Valeri Guido Lopez, Alba De Céspedes Paride Rombi; e Maria Bellonci ben due pupilli, Luigi Incoronato e Dario Cecchi, figlio dell’Emilio di cui sopra. Unico dettaglio: il “giovane” poeta siciliano si portava appresso 53 anni. La tardiva vocazione,

l’allure d’altri tempi, “l’aria distratta e timidissima” unita alla gentilezza e “al tratto da gran signore”, finirono per catalizzare l’attenzione di “letterati in semi-vacanza” e cronisti un po’ annoiati. Anche se qualcuno lo avrebbe preferito proletario anziché nobile, il barone di Calanovella venne laureato poeta, ottenne gloria e onori, interviste e attenzioni. Tutto sotto gli occhi dell’altro componente della coppia, il cugino principe, “un signore alto, corpulento”, dotato di baffetti, sigaretta e bastone da passeggio, che Bassani ricorda “taciturno” oltre che “pallido in volto, del pallore grigiastro dei meridionali di pelle scura”, e altri invece “disinvolto”, amante della conversazione al punto che, elettosi portavoce, “rispondeva volentieri” alle domande che venivano poste a Lucio Piccolo. La coppia ebbe il suo effetto, si direbbe ora, mediatico, se è vero che tutto il restante côté giornalistico-letterario, dal mancato arrivo di Quasimodo (pare per non incontrare Montale) al settantesimo compleanno di Emilio Cecchi, dalle simpatie marxiste di Calvino al circolo degli happy few di Maria e Goffredo Bellonci, perse un po’ di lucore per lasciare il posto a quel poeta metafisico che passeggiava lungo i viali del Kursaal con la guardia del corpo e il principe cugino, che rispondeva al nome di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. A differenza del barone, il corpulento parente non era risultato simpatico agli illustri letterati che avevano messo le tende al Grand Hotel. Uno di loro aveva malignato: “Il principe vuol assaporare un po’ di gloria del barone”; l’anonimo maldicente alludeva a una sottaciuta invidia verso il poeta e, senza saperlo, come spesso accade a chi mal y pense, ci prese.

Fin dall’infanzia infatti esisteva fra i due cugini un “forte, sebbene dispettoso, vincolo di amicizia”, fatto di una competizione buffa e spietata che affondava le radici nella similitudine di carattere e di estro: entrambi discendevano dalla bisnonna Teresa Merli Clerici, una celebre cantante lirica poi moglie del principe Alessandro Filangeri di Cutò, che aveva trasmesso in quota parte ai due nipoti l’amore e il talento per l’arte. Fra i due, da sempre, Lampedusa era considerato il più dotto, fin dall’infanzia si era divertito a punzecchiare e a canzonare il cugino in una familiare contesa, inesorabile per quanto stimolante. Di fronte alle nove liriche di Lucio aveva però deposto il consueto persiflage e, primo fra tutti a riconoscerne il valore, era stato lui a indicare in Montale il poeta più adatto a comprenderle, ad apprezzarle e al quale inviarle. Sempre lui aveva scritto la lettera di presentazione firmandosi Lucio Piccolo. Si era infine divertito “a mettere Montale in curiosità”. Conoscendo lo spirito luciferino di Tomasi non è escluso che la bollatura insufficiente possa essere stata un’idea sua e non una disattenzione all’ufficio postale siciliano: un plico male affrancato si fa, per forza di cose, notare. Adesso però tanto acume non gli dava alcuna soddisfazione, tutt’altro. Agli Incontri di San Pellegrino il centro dell’attenzione era suo cugino, era a lui che si rivolgevano gli scrittori trattandolo da pari loro, era lui che veniva paragonato a Dylan Thomas, Dino Campana, Gabriele D’Annunzio, e, sempre, solo lui i giornalisti cercavano facendone la piccola star del convegno: a Tomasi non restava che un piccolo ruolo da comprimario.

I due cugini alloggiarono come gli altri letterati al Grand Hotel delle Terme e lì vennero proiettati in quella specie di corte, a loro sconosciuta, dove ognuno si muoveva consapevole del proprio ruolo. Ecco la coppia reale: Goffredo e Maria Bellonci custodi dell’ambitissimo premio Strega. Ecco Emilio Cecchi titolare della più importante cattedra di Letteratura italiana. Ecco i sommi poeti della Patria, Montale e Ungaretti. E poi tutte le altre dame e gentiluomini in ordine secondo le proprie virtù e onori letterari. “E lei sa come fummo giudicati,” confiderà anni dopo Lucio Piccolo a Camilla Cederna, riferendo una sensazione che certo era stata comune anche a Lampedusa, “due mezzi contadini venuti chi sa da dove o almeno due goffi provinciali impacciati.” L’orgoglioso principe Lampedusa che, nonostante i rovesci di fortuna, godeva a Palermo di tutti i riguardi dovuti al suo prestigio araldico, si ritrovò a San Pellegrino Terme ridotto al ruolo di accompagnatore di un oscuro poeta dissepolto dalla provincia siciliana. All’ombra del cugino, Lampedusa vedeva, ascoltava e taceva; studiava finalmente dal vivo quei gran letterati che fino ad allora aveva conosciuto solo attraverso la carta stampata, adesso poteva saggiarli per quel che erano davvero. Con i giornalisti si faceva loquace, si presentava come il lucido segretario del cugino, poeta un po’ distratto. Quando ebbe a tiro il più sprovveduto fra quelli presenti a San Pellegrino (un giovanissimo Marco Nozza, futuro cronista di razza, ai primi articoli e pure febbricitante), la competizione con Lucio non lo trattenne più e, dopo essersi ostinato a rispondere al suo posto, decise di parlare di se stesso imponendosi con una propria intervista.

“Ma lei è un poeta?” gli chiese Nozza dopo che non ne poteva più di sentire quel signore rispondere al posto del cugino. “No,” rispose Lampedusa. “E allora che mestiere fa?” “Il principe,” aveva risposto senza meno. “Ma per vivere, dico, cosa fa?” insisteva polemico il giovane giornalista. “Faccio il principe,” insistette a sua volta il principe. È facile immaginare Lampedusa divertirsi nell’esibire il proprio aristocratico otium davanti all’imberbe nordico borghese scandalizzato da tanta meridionale fannulloneria. Nozza si sentiva un po’ sbertucciato, il bloc-notes gli tremava tra le mani, la biro cadde in terra due volte, la sigaretta in bocca ballava comicamente e bisognò spegnerla. Il principe intuì la furia giovanile mal repressa, s’intenerì, riprese a parlare con meno ironia, stupì con la sua infinita cultura (Nozza: “Sapeva tutto di tutto. Letteratura, musica, storia, lingue”), dimostrò che, per quanto senza un utile monetario, in tutti quegli anni aveva lavorato, lavorato, lavorato più di un operaio in pieno boom economico, leggendo e studiando tutti i libri del mondo. Infine, ghiaccio rotto, confidò che gli sarebbe piaciuto scrivere qualcosa ma modestamente ammise che non sarebbe mai venuto a capo di niente perché temeva “questa gente qua”. Disse proprio così, indicando con diffidente disprezzo i signori della letteratura, titolati al potere di vita e di morte delle opere altrui e capaci magari, per pura crudeltà, di scoprirti e premiarti quando sei bello che defunto. “Scrivere che cosa? Che genere?” riattaccò Nozza tanto per metterlo alla prova. “Un romanzo storico,” confessò il principe asciutto. “L’avrei giurato,” disse il ragazzo col tono di chi la sapeva lunga avendo seguito un corso

universitario sul romanzo storico. Neorealismo ancora regnante, in un mondo letterario che celebrava scrittori-contadini, scrittori-soldati, scrittori-partigiani, scrittori-operai, non era proprio il tempo degli scrittori-principi: cosa mai poteva scrivere un principe se non per l’appunto un romanzo storico, un genere, almeno in Italia, ghigliottinato dalla Storia stessa? Con il suo carattere eccentrico, il suo sapere leonardesco, il suo orgoglio aristocratico pendant di una spigolosa timidezza, Lampedusa era un uomo e un letterato destinato a creare incomprensioni e contrasti. Le dichiarazioni a Nozza confermano che nel lungo crogiuolo che aveva preceduto la stesura del Gattopardo, il romanzo storico era il genere al quale Tomasi pensava di ispirarsi almeno in un primo momento e comunque all’epoca di San Pellegrino. La chiacchierata con Nozza lo aveva talmente soddisfatto che, vuoi per ringraziare il ragazzo del piacere avuto, vuoi per vendicarsi di tutta quella supponente arcadia, Lampedusa gli svelò in anticipo il nome del vincitore: Rocco Scotellaro autore di Contadini del Sud, morto l’anno prima appena trentenne. “Il destino,” commentò il principe. “Scotellaro è morto e adesso viene premiato.” Un destino baro che toccherà anche a lui. Grazie al nome del vincitore, il giorno successivo “L’Eco di Bergamo” aveva il suo scoop; ma dell’intervista al principe nemmeno una riga, ci si dilungava su Lucio Piccolo mentre a Lampedusa si accennava appena indicandolo come “accompagnatore”. In compenso Giuseppe Ravegnani, l’organizzatore del convegno, furente per la fuga di notizie, andò a sollevar di peso lo sbarbatello, il quale, rendendosi conto

dell’affronto fatto al gotha delle lettere, rivelò terrorizzato la sua fonte. Ravegnani e Nozza si diressero di corsa verso il Grand Hotel dove alloggiavano i cugini siciliani; l’organizzatore voleva far le proprie risentite rimostranze al principe, il giovanotto scusarsi per aver fatto la spia. Restarono delusi: i due nobiluomini e il loro cameriere avevano lasciato la colonia letteraria. Dopo aver offerto un po’ di meraviglia e quel tanto di scompiglio che si pretende dalle commedie ambientate nelle località termali, simili a personaggi romanzeschi i due signori erano spariti nel nulla, o meglio sul treno della Val Brembana. Anni dopo tutti si dispiacquero di aver snobbato e chissà forse anche preso in giro quel signore meridionale che si atteggiava a chaperon del cugino distratto tentando, di quando in quando, di rubargli la piccola scena. Il più pentito di tutti, ma in fondo il più fortunato, fu proprio il giovane Nozza. Pubblicando in anticipo il nome del vincitore era convinto di aver fatto il suo beau geste dando la polvere ai più navigati colleghi delle altre testate; invece il vero scoop l’aveva lì sul suo taccuino, dove restò fino a quando, quattro anni dopo, scoprì che il principe un po’ vanaglorioso incontrato a San Pellegrino Terme era l’autore del Gattopardo, il romanzo che tutti volevano leggere e sul quale si accapigliava la critica italiana. Uno strepitoso successo beffardamente postumo: l’autore era impossibilitato a concedere altre interviste, e lo smozzicato colloquio subìto dal giovane cronista resta l’unica intervista che Tomasi di Lampedusa rilasciò mai. I biografi di Lampedusa e più ancora chi lo ha conosciuto da vicino sono concordi

nell’ammettere che il convegno di San Pellegrino Terme ebbe un ruolo fondamentale nella genesi del Gattopardo. Fu proprio lì che il principe poté confrontarsi, o meglio fronteggiare, i letterati di professione fino ad allora ammirati solo attraverso quel particolare caleidoscopio che sono le opere rapportate ai propri autori. Il contatto diretto, personale con gli astri fulgenti e nascenti della letteratura militante e non, gli permise di ridimensionare i suoi giudizi e di rivalutare un poco se stesso. Lampedusa reputava Montale “poco meno importante di Eliot” e stringendogli la mano dovette partecipargli la propria stima, ma il letterato contraccambiò con una battuta maldestra: “I siciliani sono o gran signori o poliziotti”. Al suo ritorno Lampedusa commentò sardonico: “Non ha precisato se noi fossimo poliziotti o meno”. Né certo gli fece piacere, durante la presentazione di Piccolo al Kursaal, sentire il grande genovese bollare la sua lettera d’accompagnamento alle 9 liriche come “piuttosto generica e tale da far temere una poesia puramente descrittiva”, guadagnando così a Tomasi la prima stroncatura, mentre Piccolo rimaneva destinatario del plauso generale. Quanto a Emilio Cecchi, eloquio rotondissimo e pipa in bocca, al convegno c’era chi lo definiva come “il classico minore per eccellenza” ma il suo potere era chiaro e tangibile, non fosse per la presenza tra i “giovani” del figlio Dario, pittore di professione e scrittore esordiente, che Maria Bellonci presentava – unico caso al convegno – in coppia con un altro “giovane”. Il figlio di Cecchi parlò per trentacinque secondi beccandosi comunque un applauso “formidabile”, mentre alle prevedibili critiche di nepotismo la Bellonci

opponeva fiera il proprio criterio di scelta, basato unicamente “sull’interesse degli affetti”. Quel discolo di Nozza, che nel suo pezzo si era permesso qualche lieve ironia sulla signora dello Strega, la mattina dopo si trovò davanti Goffredo Bellonci, venuto a significargli che sua moglie non aveva gradito, e a costringerlo a una maldestra lettera pubblica di scuse. Allo snobismo di quel club tanto preso di sé, i due cugini reagirono sbertucciando in privato la dotta confraternita con ironia fanciullesca: una volta rimasti soli sul treno che riprendeva la via di Palermo, si divertirono a rifare il verso a protagonisti e comprimari dell’Incontro. “Ricordo il ritorno attraverso la valle del Brembo in un trenino fogazzariano,” rimembrava Piccolo, “se quel legname avesse poi potuto parlare saremmo stati lapidati. Riassumevamo infatti tutte le tronfiaggini e i discorsi convenzionali che avevamo udito. Lampedusa eccelleva nel cogliere l’elemento burattinesco dei personaggi anche seri, arrivammo perfino a scrivere gli articoli che avrebbero scritto su di noi i diversi critici e giornalisti, e azzeccammo quasi sempre i giudizi.” Sul trenino Lampedusa si era divertito a usare il suo proverbiale sarcasmo riducendo a macchiette spocchiose gli illustri notabili della letteratura italiana; tornato a Palermo, con i giovani amici, Francesco Orlando l’allievo prediletto, e Gioacchino Lanza di Mazzarino futuro figlio adottivo, si lasciò sfuggire quel tanto di fastidio portato al suo amor proprio dal confronto ravvicinato con il gotha letterario. “Montale e Cecchi hanno l’aria inconfondibile di chi sa la propria importanza; l’aria dei marescialli di Francia,” si confidò con Orlando.

Secondo Gioacchino Lanza Tomasi la Repubblica delle Lettere riunitasi a San Pellegrino Terme “a distanza ravvicinata” non parve a Lampedusa “composta da semidei. Fare il letterato può equivalere ad essere letterato, e non tutti gli ingegni raccolti a San Pellegrino avevano fatto gran che”. Sentirsi considerato estraneo a quella corte, riscontrare in altri la consapevolezza della propria importanza all’interno di una nuova specie di aristocrazia, constatare che lì a più di mille chilometri da Palermo, lui, il dottissimo principe di Lampedusa appariva poco più di una figura pittoresca, erano tutte “spinucce” che il convegno di San Pellegrino Terme “aveva inserito nelle delicate zampe del Gattopardo”. Parte di quelle spinucce Tomasi se le toglierà scrivendo il discorso sull’aristocrazia fatto da padre Pirrone all’erbuario, dove si leggono brani come “non è giusto incolpare di disprezzo soltanto i ‘signori’, dato che questo è vizio universale. Chi insegna all’Università disprezza il maestrucolo delle scuole parrocchiali, anche se non lo dimostra…”. Insomma, da quel contatto Lampedusa ebbe la consapevolezza di non essere tanto da meno dei letterati di professione, almeno quanto a sapere e a frequentazioni letterarie. “Adesso sono matematicamente sicuro di essere il solo in Italia ad aver letto [Martin Tupper]. Cecchi e Montale lo ignorano, sia detto a loro lode: per amarlo occorre un po’ di necrofilia,” disse di ritorno dalla Val Brembana. Quanto a genio, talento o arte, doveva ancora dimostrare tutto. E qui l’affare si complicava. La volontà o forse solo il desiderio di creare un’opera letteraria andava a scontrarsi con il suo

carattere, bloccato da un’incapacità ad agire ben descritta da Piccolo a Camilla Cederna. “Eravamo tutti e due nella stessa posizione. Non scrivevamo, volevamo scrivere e non sapevamo deciderci a cominciare. Come me anche lui possedeva una sorta di neghittosità all’azione, del tutto siciliana, in fondo eravamo molto portati alla letteratura, ma restii a impugnare la penna. Magari poi qualcosa scrivevamo tutti e due, ma distruggevamo sempre tutto per paura dei reciproci sarcasmi.” “Neghittosità all’azione”, “paura dei reciproci sarcasmi” ma anche orgoglio che rifiuta la competizione in quanto messa in dubbio del proprio primato. “Too proud to fight” (troppo fiero per battermi), aveva scritto Lampedusa fanciullo sul foglio al posto della poesia con la quale avrebbe dovuto sfidare il cugino in una familiare contesa. Competere, accettare di misurarsi significa infatti relativizzarsi a un altro, abbandonare la propria assoluta aristocrazia decisa da sempre e metterla alla prova, cioè esporla al giudizio. Nella competizione vi è poi un altro aspetto insopportabile per Lampedusa: l’esibizione. Esibirsi significa rendere esplicito il proprio talento, farlo comprensibile ai più, renderlo comune, cioè volgare, e lui detestava l’esplicito in letteratura come nella vita. Fino a quel momento, cioè fino agli Incontri di San Pellegrino Terme, l’eccesso di orgoglio e la vocazione all’inazione avevano bloccato la sua penna, ma nella valle del Brembo accadde qualcosa che travolse finalmente paura, orgoglio e persino lo scetticismo, uno choc benefico che guadagnò agli incontri organizzati da Ravegnani un posto importante nella genesi del Gattopardo.

Lasciamo infine che sia lo stesso Tomasi a spiegare all’amico Guido Lajolo quello che gli capitò nell’estate del 1954. La lettera è del marzo ’56: “Da un paio di anni in questi miei tre cugini si è risvegliata una violenta attività artistica […]; il terzo (il più giovane, ma che ha 53 anni) ha fatto stampare un volumetto di versi; ne ha inviato una copia al terribile Eugenio Montale e, a giro di posta, ha ricevuto una lettera che lo proclama un genio, ha ricevuto un premio letterario a S. Pellegrino, e le sue poesie saranno pubblicate il mese prossimo da Mondadori con prefazione di Montale; intervista sui giornali, fotografia nell’‘Epoca’ (luglio ’54); un’iradiddio (compra il volume quando uscirà: Lucio Piccolo. Canti Barocchi). Benché io voglia molto bene a questi cugini (specie ai due ultimi) debbo confessare che mi son sentito pungere sul vivo: avevo la certezza matematica di non essere più fesso di loro. Cosicché mi son seduto a tavolino ed ho scritto un romanzo”. “Mi son sentito pungere sul vivo: avevo la certezza matematica di non essere più fesso di loro.” Rileggendo questa frase, che ha tutta la colorita sincerità che si concede solo a un amico, ci si sente istintivamente grati a due vizi capitali, tanto deprecati dal catechismo ma che spesso, almeno in arte, finiscono per essere il motore di grandi cose: invidia e superbia. Vizi che nel moderno occidentale si sono trasformati in espressioni, più accettabili perché finalizzate alla produzione degli utili e al consumo dell’inutile, quali competizione e autostima. Il successo del cugino più giovane, fin dall’infanzia oggetto dei suoi affettuosi sarcasmi e comprimario di velleitarie sfide letterarie, misto all’aria da Marescialli di Francia di Montale e Cecchi che – è facile immaginarlo – avranno fatto provare a

Lampedusa un senso d’inferiorità insopportabile, scatenarono in lui una salutare voglia di revanche. Il principe di Lampedusa e duca di Palma, l’ultimo dei Gattopardi, si sentì costretto ad abbandonare il suo ozio siderale e a prendere la penna, come in anni più remoti i suoi antenati avrebbero preso la spada, per rivendicare il suo valore anche, e forse soprattutto, contro i signori della letteratura italiana. I quali, come vedremo, si sarebbero dimostrati alquanto riottosi a cedergli il passo. Dopo le giornate di San Pellegrino Terme Lampedusa trovò finalmente la forza di mettere su carta la storia del bisnonno Giulio, astronomo e principe, vissuto ai tempi di Garibaldi e del Re Galantuomo, ma anche la storia di se stesso, di una classe sconfitta eppure ricca di “ricordi vitali”, di una Palermo non ancora devastata dai bombardamenti americani, una storia che Tomasi – secondo la testimonianza della moglie Licy – covava ormai da una ventina d’anni senza mai risolversi a darle parole e anima. San Pellegrino offrì a Tomasi ciò che aspettava da tempo: una buona ragione per mettersi a scrivere. Là sulle rive del Brembo sentì che benché prossimo ai sessant’anni aveva ancora la forza per buttarsi nell’agone letterario e guadagnarsi il titolo di scrittore. Ma Lampedusa impiegò ancora qualche mese prima di risolversi a scrivere. La sonnacchiosa tranquillità palermitana lo stava risucchiando nella sua dorata inazione. Lo risvegliò ai nordici propositi un suono lontano che si faceva sempre più impetuoso, era il “fruscio dei granelli di sabbia” che la sua clessidra registrava. Il suo tempo andava esaurendosi. Il Gattopardo non poteva più aspettare.

La scrittura iniziò negli ultimi mesi del ’54. In principio il segreto venne svelato solo ai parenti più stretti. Naturalmente a Licy, la baronessa baltica Alessandra Wolff Stomersee sposata contro il parere dei genitori, alla quale Lampedusa leggeva la sera quello che aveva scritto durante il giorno. Poi a Lucio Piccolo e Gioacchino. La curiosità d’altri veniva scoraggiata; allo zio Pietro della Torretta, che l’aveva sorpreso davanti a quei suoi quaderni pieni di scrittura fitta e minuta, il principe oppose un evasivo “Mi diverto…”. Agli occhi di tutti gli altri, Tomasi rimaneva quello di sempre, un signore pingue e scontroso, lettore coltissimo e fumatore accanito, scarsamente versato in questioni finanziarie, impoverito da una sciagurata causa ereditaria. Erede del casato che nel 1842 aveva venduto per 12.000 ducati l’ingombrante isola di Lampedusa a Ferdinando II, il principe si sostentava con i pochi proventi delle proprietà, sentendosi in colpa ogni volta che acquistava un pregiato volume della “Pléiade”. Dopo la distruzione dell’amatissimo palazzo di famiglia centrato da una bomba alleata, abitava in via Butera, in un appartamento appartenuto al bisnonno, prospiciente le macerie lasciate dalla guerra e malamente riscaldato da una stufa più pericolosa che efficiente; l’unico pregio della sistemazione era che fosse almeno gradita a Licy. Alta e imponente, la baronessa era una donna intelligente, poliglotta, fieramente attaccata alle sue origini russe (il padre era stato funzionario dello zar); aveva difeso strenuamente le proprietà di famiglia e il castello di Stomersee dalle incursioni alternate di nazisti e sovietici. Diventata vicepresidente dell’Associazione Psicanalisti Italiani, Licy riceveva ora i suoi

pazienti in uno studio foderato dei volumi recuperati da palazzo Lampedusa. Negli ambienti palermitani le figure distinte e fuori tempo del principe e della consorte costituivano una coppia sui generis, guardata con curiosità e diffidenza. La stesura del romanzo, completa di tutte le parti che conosciamo, lo avrebbe impegnato per due anni e mezzo; Lampedusa avrebbe continuato a lavorarvi fino alla morte, avvenuta a tre anni esatti dalla gita a San Pellegrino. Non fu perciò quella scrittura di getto che viene spesso tramandata, anche se nello stesso periodo bisogna sommare pure le cinquecento pagine di Letteratura francese destinate alle lezioni private di Francesco Orlando (le quasi mille di Letteratura inglese erano state completate precedentemente), i Ricordi d’infanzia, alcuni Racconti e l’inizio di un nuovo romanzo, I gattini ciechi. L’idea iniziale del romanzo consisteva nel raccontare ventiquattr’ore della vita del bisnonno, l’astronomo dilettante Giulio, nel giorno dello sbarco di Garibaldi a Marsala; il modello esplicito era Joyce, appena illustrato nelle sue lezioni a Orlando. Titolo provvisorio: La giornata di un siciliano. Lampedusa portò a buon punto il primo capitolo – che ha infatti mantenuto una struttura in ventiquattr’ore – ma a metà 1955 si arrese. “Non so fare l’Ulysses,” disse a Gioacchino. Seguì una pausa di riflessione, durante la quale la mente e la penna del principe andarono ad attingere alle memorie perdute. “L’opera letteraria langue senza il supporto dell’esperienza,” ha spiegato Gioacchino Lanza Tomasi. “Per proseguire è necessario riportarla

alla vita.” Nacquero i Ricordi d’infanzia, e la nostalgia dell’autore per i luoghi e i tempi andati fece da laboratorio per gli affetti e le ambizioni del romanzo appena cominciato. All’inizio del settembre 1955 la sua voglia di riappropriarsi del passato lo spinse a compiere un’incursione a Palma di Montechiaro, antico feudo dei Tomasi. Al discendente dei duchi di Palma e dei sant’uomini che l’avevano resa famosa si doveva l’accoglienza del signore feudale. L’arciprete suonò a stormo le campane del Duomo facendo ritardare la Messa e la badessa claustrale riprese a raccontare i miracoli della Venerabile Maria Crocifissa. Venne celebrato il Te Deum. L’affetto di quelle terre lontane, devote al passato e a chi quel passato incarnava, lo commosse nel profondo. La scrittura del romanzo accelerò. Il principe lavorava nella sua biblioteca e andava poi a ricopiare su grandi quadernoni in un tavolo d’angolo al caffè Mazzara, tra camerieri indaffarati e avventori distratti. Il riserbo e la spigolosità toglievano a chiunque la curiosità di sapere cosa stesse scrivendo. Pure il nuovo titolo, Histoire Sans Nom, era sfuggente ed elusivo. Tra febbraio e marzo del 1956 brani del romanzo furono divulgati all’interno di una cerchia ristretta: Lampedusa lesse personalmente alcuni capitoli a gruppi di amici, ad altri prestò perfino l’originale. “Pare che non sia scritto troppo male,” fece sapere all’amico Lajolo, “ed ho potuto constatare che alcune frasi son divenute proverbiali fra le tre o quattro persone che le hanno lette.” Nel marzo del ’56, come scrive a Lajolo, il romanzo era costituito da “tre lunghe novelle

collegate tra loro”; secondo Gioacchino Lanza Tomasi il loro contenuto obbediva a una ripartizione in tre momenti storici, lo sbarco a Marsala, la morte del principe e il cinquantenario dei Mille. In una delle prime versioni le “tre novelle” divennero quattro capitoli, con le ventiquattr’ore a villa Salina, l’agonia di Don Fabrizio e la fine di tutto (corrispondenti grosso modo alle future parti I, VII e VIII) oltre a un capitolo sul soggiorno a Donnafugata; quest’ultimo nel giro di un anno venne riorganizzato prima in due, poi in tre parti (le future II, III e IV). Mentre il romanzo percorreva il suo tortuoso e frustrante viaggio verso la pubblicazione, Lampedusa lavorava ancora ad altri due capitoli, le vacanze di padre Pirrone e il ballo a palazzo Ponteleone (il V e VI della numerazione definitiva). Dopo un vagheggiato Ultime luci, il titolo si assestava intanto sul secco e definitivo Gattopardo. “Mi sono deciso per il più ovvio,” comunicò semplicemente a Orlando. Licy sostenne fin dall’inizio la prova letteraria del marito ma il responso degli amici non fu trionfale. “Il successo è decente senza alcun entusiasmo,” scrive il principe il 29 febbraio sulla sua agendina dopo una lettura a Gioacchino e ai Piccolo. Secondo Gioacchino nessuno vi vide un gran romanzo; a parte il colloquio con Chevalley e la morte del principe, che riscossero un certo consenso, il romanzo instillò soprattutto la curiosità di indovinare i modelli probabili e possibili di fatti e personaggi. Francesco Orlando profetizzò al principe: “Se lei pubblicherà questo grande libro di critica al Risorgimento, interesserà o piacerà soprattutto alla cultura italiana di sinistra; ne parleranno i

comunisti”. L’allievo prediletto era però anche convinto che il romanzo fosse troppo legato alla “grandissima tradizione cosiddetta decadente dei primi decenni del secolo”; e lo giudicava “quindi inadatto alla pubblicazione nel clima italiano neorealistico del momento”. Il principe invece contava sulla pubblicazione, anzi dava il volume già per stampato. L’editore? Ovvio, lo stesso presso cui il cugino aveva appena ripubblicato i Canti barocchi. “Ho spedito il dattiloscritto a Mondadori,” scrive a Lajolo il 31 marzo ’56, quando il romanzo era ancora diviso nelle “tre lunghe novelle”; “mio cugino Piccolo già illustre mi ha appoggiato e un mese fa, con mia grande sorpresa… il libro è stato accettato da Mondadori per la ‘Medusa degli Italiani’!” Vaneggiamenti del desiderio: Lampedusa scalpitava, la sua fantasia gli faceva precorrere i tempi. In realtà ci vollero altri due mesi prima che una copia fosse pronta per partire in cerca di fortuna. Il Gattopardo, a quel punto diviso in quattro parti, veniva nel frattempo dattiloscritto da Francesco Orlando, che possedeva una macchina da scrivere migliore di quella del principe. Una copia venne finalmente spedita a Milano il 24 maggio 1956, destinata al conte Federico Federici della Mondadori, con una presentazione di Lucio Piccolo, speranzoso di collocarlo proprio nella collana della “Medusa”. Imbucare il plico era un atto dovuto ma per il principe, sempre più galvanizzato dalla speranza, quel piccolo passo corrispondeva a un salto enorme: annunciò subito a Lajolo di avere già ricevuto il contratto, e che il romanzo sarebbe apparso entro l’anno successivo. Intanto continuava a scrivere: durante l’estate le quattro parti del Gattopardo

diventarono sei. Il plico spedito in Mondadori andava quindi aggiornato: le aggiunte e le rielaborazioni furono spedite il 10 ottobre a Federici. Il quale rispose negli stessi termini che aveva usato dopo aver ricevuto il primo invio, ossia chiedendo tempo e pazienza. Malgrado il cortese riscontro di Federici, la seconda spedizione alla Mondadori fu in effetti del tutto inutile: Adolfo Ricci, Sergio Antonielli e Angelo Romanò, i tre consulenti del comitato di lettura coordinato da Elio Vittorini, avevano già letto il romanzo nella prima versione di quattro parti e proprio in quello stesso 10 ottobre in cui Lampedusa spediva le aggiunte avevano ormai emesso il loro giudizio: “Preso ognuno a sé, i bozzetti hanno una loro vivacità aggraziata e brillante; ma il libro, come tale, non regge”. Il 22 Vittorini, ancora possibilista, completò la scheda con una proposta personale: “Per i primi due lettori il lavoro manca soltanto di abilità; per il terzo di determinazione morale. Manca comunque di qualcosa che rende monco il libro pur pregevole. Non si può far capire all’autore che dovrebbe rimetterci le mani (e in qual senso)? Intanto restituirei avendo cura di assicurarci che l’autore rispedisca a noi dopo fatta revisione”. Nessuno seguì il consiglio. Nessuno si accorse che il libro era meno “monco” perché l’autore ci aveva già “rimesso le mani”; o forse se ne accorsero, ma le aggiunte e i cambiamenti furono considerati insufficienti: pochi giorni dopo, il 31 ottobre, la pratica si arricchì di alcuni “No” autografi, tra cui quello di Federici e di Arnoldo Mondadori in persona. La casa editrice più importante d’Italia ci mise quaranta giorni prima di decidersi a rispedire il dattiloscritto, con una generica lettera di rifiuto inviata da un assistente di Federici e un

geroglifico per firma. Il 18 dicembre 1956 Licy annota sul suo diario: “Refus de ce cochon de Mondadori”. Lampedusa non diede a vedere la sua delusione. Pur continuando ad accrescerlo e limarlo, alternava momenti di ottimismo ad altri in cui considerava il romanzo secondo il più cupo umor nero. “È, temo, una porcata,” confidò un giorno a Orlando. Il giovane, a quel punto, si fece coraggio e osò fargli leggere il dattiloscritto di un proprio romanzo che era andato componendo e limando; il principe lo lesse con curiosità, scrisse a Orlando una lunga lettera piena di rilievi ed elogi e poi, in confidenza, disse a Gioacchino che “temeva” che quel romanzo fosse ancora “meglio del Gattopardo”. Sul fronte editoriale era comunque pronto un piano di riserva. La copia restituita dalla Mondadori venne affidata a Ubaldo Mirabelli, critico musicale del “Giornale di Sicilia”, che la girò a Salvatore Fausto Flaccovio, proprietario di una rinomata libreria palermitana ed editore egli stesso. Un’altra copia fu consegnata nel gennaio 1957 a un paziente di Licy, l’ingegnere romano Giorgio Giargia, che promise di interessare Elena Croce, la figlia di Benedetto Croce. Costretto a venire a patti con la realtà, il 2 gennaio il principe scrisse a Lajolo che, sì, Il Gattopardo non era stato ancora pubblicato, perché Mondadori faceva “un sacco di difficoltà”, ma che aveva “mandato altri esemplari dattilografati ad Einaudi e Longanesi” (in realtà un’ipotesi, non un fatto) e ora attendeva nuove risposte. Nel frattempo Lucio Piccolo contattava a Milano l’amico poeta Basilio Reale, chiedendogli di investigare, con gran circospezione, sulle ragioni del rifiuto.

A risollevare il morale del principe era intanto occorso un importante evento privato: il 4 dicembre 1956 aveva adottato Gioacchino. Il tenero affetto di un padre mancato e di un maestro sui generis si saldava alla soddisfazione di poter lasciare in eredità nome e titoli. “Non ho mai avuto figli,” scriveva a Lajolo, “quindi manco di esperienza; ma a lume di naso mi sembra impossibile che ad un figlio vero si possa volere più bene di quanto mia moglie ed io ne vogliamo a questo ragazzo.” La gioia per l’avvenimento stornò per qualche tempo Lampedusa dall’ansia di ricevere una risposta dagli editori, lasciandogli intatto il piacere di scrivere. In preda a un rinnovato entusiasmo creativo, quell’inverno Lampedusa si mise alla prova con un paio di novelle, La gioia e la legge e La sirena, e buttò giù il primo capitolo di un nuovo romanzo, I gattini ciechi, che cominciava con l’ultimo rampollo dei Salina, il Fabrizietto intravisto bambino alla morte del principe di Salina. Ma era ancora soprattutto Il Gattopardo a occuparlo: completata la parte V (le vacanze di padre Pirrone) e VI (il ballo) dell’indice definitivo, iniziò a scriverne ancora una, Il Canzoniere di Casa Salina, datata 1863, che avrebbe ospitato un’ode di padre Pirrone alla gloria dei Salina e alcuni sonetti di Don Fabrizio ad Angelica, e ne progettò un’altra ambientata dopo il 1866, in cui raccontare un rendez-vous clandestino all’Hotel des Palmes tra Angelica e un amante (probabilmente il senatore Tassoni) sventato appena in tempo da Don Fabrizio. Intanto dal mondo dell’editoria arrivavano nuovi segnali negativi. Basilio Reale, l’amico di Piccolo, non era riuscito a sapere nulla di più sul rifiuto mondadoriano. Pure Flaccovio si era tirato

indietro: si occupava di saggistica e non intendeva cimentarsi con la narrativa. Però il romanzo gli era piaciuto e il 28 marzo ’57 lo spedì a Elio Vittorini, curatore della collana “I gettoni” di Einaudi, fidando forse nella comune origine siciliana ma senza immaginare che si trattava dello stesso consulente che aveva sottoscritto il primo rifiuto per Mondadori. Tutte le varie versioni del romanzo mandate in giro fino a quel momento erano parziali. Pure nell’invio a Einaudi mancavano il ballo e le vacanze di padre Pirrone. In aprile il principe decise dunque di fare dono al figlio di una copia completa, ritrascrivendo a mano, e qua e là modificandole ancora, tutte e otto le parti. In quegli stessi giorni si accorse degli inequivocabili segni della malattia che lo stava logorando. Da diversi mesi, era evidente, il principe non stava affatto bene: bronchite, enfisema, depressione. Si decise ad andare da un medico: la diagnosi, carcinoma polmonare destro, fu inaspettata e tremenda. Alla fine di maggio Lampedusa scrisse una lettera con le ultime volontà “di ordine privato”: “I funerali debbono essere i più semplici possibili, ad un’ora scomoda. Non desidero nessun fiore e nessuno che mi accompagni al di fuori di mia moglie, del mio figlio adottivo e della fidanzata di lui”. In quanto al Gattopardo, “desidero che si faccia il possibile affinché venga pubblicato […]; beninteso ciò non significa che esso debba essere pubblicato a spese dei miei eredi; considererei ciò come una grande umiliazione”. Prima di partire per Roma alla disperata ricerca di una cura, Lampedusa inviò l’ultimo dattiloscritto rimasto all’amico Enrico Merlo: “[…] Ti prego di averne cura perché è la

sola copia che io possegga. Ti prego anche di leggerlo con cura perché ogni parola è stata pesata e molte cose non sono dette chiaramente ma solo accennate. […] Credo che il tutto non sia privo di una sua malinconica poeticità. Io parto oggi; non so quando ritornerò […]”. Lampedusa temeva, forse già sapeva, che non avrebbe più rivisto la Sicilia. A Roma i nuovi controlli medici fruttarono solo conferme, la proibizione di fumare e inutili sedute di cobaltoterapia. Il principe si ricoverò in due cliniche; riacquistato un po’ di peso e di ottimismo, si trasferì in casa della sorella di Licy, Lolette. Scrisse alcune lettere, a Gioacchino e ai Piccolo, fece battere a macchina il capitolo del ballo, ricevette qualche visita. “Sapeva di essere condannato,” ha ricordato l’amico Corrado Fatta che lo vide in quel periodo, “ma riusciva a mantenere un atteggiamento sereno, di cosciente distacco dalla vita. […] La principessa fingeva di non capire la vera natura del male che aveva colpito il marito; il principe fingeva di star meglio dopo le cure a cui lo sottoponevano. Era un gioco pietoso, condotto da entrambe le parti con una forza d’animo eccezionale.” Animo al quale la sorte non risparmiò l’ultimo colpo basso: Einaudi respingeva il romanzo. “Si può anche fare, ma non sarà mai una bomba,” avevano detto in casa editrice durante la fatidica riunione del mercoledì. Letto da Raffaele Crovi e Giuseppe Grasso, e solo in un secondo tempo esaminato da Vittorini, il manoscritto venne così di nuovo bocciato. Nella lettera di rifiuto (firmata da Vittorini ma materialmente stesa da Grasso) Vittorini asseriva di avere letto il romanzo “con interesse e attenzione”, trovandolo “molto serio e onesto”, e con “momenti di acuta analisi

psicologica”; tuttavia, “come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa”, lo giudicava “piuttosto vecchiotto”, e soprattutto “non sufficientemente equilibrato”: ora “prolisso”, ora “schematico e affrettato”, qua e là sbilanciato verso un “interesse saggisticosociologico”. Insomma niente pubblicazione, anche perché la collana dei “Gettoni” era al completo per quattro anni, con venti manoscritti già in coda per la tipografia. Scritta a Milano il 2 luglio, nel giro di due settimane la lettera di Vittorini raggiunse prima Palermo e di lì risalì a Roma. “Sì, come critica andrebbe benissimo,” mormorò sardonico il principe dopo averla letta, “se io trovassi l’editore da me.” Sarebbe bastato che il postino avesse tardato cinque giorni, e Lampedusa si sarebbe risparmiato l’ultimo dispiacere: nelle prime ore del 23 luglio 1957, all’età di sessantun anni, Giuseppe Tomasi di Lampedusa si accomiatò silenziosamente dai vivi. Il caso editoriale del Gattopardo ha contribuito enormemente a nutrire l’archetipo dell’esordiente geniale rifiutato da editori ottusi. Le peripezie che posticiparono una pubblicazione irrinunciabile, incrociate con la scomparsa prematura dell’autore, hanno fatto e faranno da alibi consolatorio a generazioni di scrittori rifiutati, a torto o a ragione, per l’insipienza del sistema culturale. Ma il destino aveva in serbo altre sorprese. Dei vari dattiloscritti inviati in cerca di fortuna editoriale ne rimaneva in giro ancora uno, quello consegnato dall’ingegnere Giargia alla figlia di Benedetto Croce. “Elena Croce non l’aveva neppure letto,” si sarebbe lamentata Licy anni dopo, “pur avendolo ricevuto da circa un anno.

Lo aveva persino smarrito. L’ha ritrovato, poi, dietro il guardaroba della cameriera.” L’acrimonia della principessa è comprensibile: il ritardo, forse la disattenzione della Croce fecero correre il rischio che l’ultimo dattiloscritto del Gattopardo rimanesse per sempre nell’oblio. A cose fatte, la figlia di Croce si difese dicendo che l’ingegnere Giargia le aveva affidato un manoscritto anonimo chiedendole di attendere lo sviluppo delle trattative con altri editori, e rifacendosi poi vivo solo un anno dopo. Di certo c’è che a un certo punto Giargia la sollecitò nuovamente, ed Elena Croce pensò quindi di offrire il romanzo a Marguerite Caetani perché lo pubblicasse sulla rivista “Botteghe Oscure”. Al periodico letterario lavorava come redattore un giovane Giorgio Bassani; fu lui a recarsi nella portineria della sede romana del Partito repubblicano dove era stato lasciato lo scartafaccio. La prima pagina la lesse subito, ancora in portineria. Tornato a casa divorò immediatamente il primo terzo del libro e poi decise di comunicare la scoperta all’amico Mario Soldati. “Mi telefonò a mezzanotte,” è il ricordo di Soldati, “molto eccitato, dicendomi: vieni. Mi precipitai da lui, lo leggemmo tutto, subito, e insieme. E decidemmo che era un capolavoro.” Un capolavoro, va bene, ma di chi? Il dattiloscritto non aveva firma. Bassani interpellò la Croce, alla quale pare sia scappato detto: “Mah, non so. Credo sia di una vecchia signorina dell’aristocrazia palermitana”. Questa risposta sbadata sarà riportata da Bassani nella prima edizione del romanzo; ripresa da svariati recensori susciterà le ire della Croce ma anche di Licy, certa di aver identificato almeno uno di

coloro che avevano impedito a Lampedusa di vedersi pubblicato (e lo scontro tra le due signore arriverà a un passo dal tribunale). Perfettamente all’oscuro del clamore che avrebbe suscitato, Elena Croce passò a Bassani il numero di telefono dell’amico che le aveva fatto pervenire il dattiloscritto. Dall’ingegnere Giargia Bassani venne così a sapere che l’autore del romanzo, defunto da alcuni mesi, era il principe incontrato qualche anno prima a San Pellegrino, quel signore al seguito di Lucio Piccolo, pallido e silenzioso, al quale era anche stato presentato, ricevendo in cambio un breve inchino. Per Bassani innamorarsi del romanzo di Lampedusa fu più facile che per Vittorini ma non per questo il suo immediato interesse appare meno meritevole; pure lui si trovò fra le mani un dattiloscritto incompleto ma ritenne quel materiale importante e degno di lavoro e ricerche per accrescerlo e migliorarlo. Bassani non faceva parte dell’establishment, militando ancora – per usare la terminologia di San Pellegrino – tra le file dei “giovani”; a differenza di Vittorini, il suo retroterra ideologico (veniva da Giustizia e Libertà) non era tale da influenzare troppo la sua visione della letteratura. In comune con Lampedusa, Bassani aveva un approccio alla scrittura non incline allo sperimentalismo; erano entrambi autori moderni, ma di una finezza che non contemplava l’urlo ribelle delle nuove avanguardie (che infatti si sarebbero vendicate massacrandoli entrambi). Certo, Lampedusa era diverso da chiunque altro: un autentico mostro di cultura, tanto per cominciare, ferrato nella letteratura francese, inglese e pure in quella italiana. “Conosceva non solo le cose mie ma anche quelle degli altri scrittori della mia generazione e dello stesso

Vittorini,” dichiarò poi Bassani. “A San Pellegrino […] i critici che parlavano di questa letteratura in fondo non gli dicevano niente di nuovo: lui la conosceva benissimo, come conosceva Montale, Cecchi e il resto.” Il romanzo che ora gli giungeva postumo attraverso vie impervie reclamava a gran voce la pubblicazione. Su “Botteghe Oscure” se ne sarebbe potuto anticipare al massimo un capitolo; Bassani sottopose quindi il romanzo a Giangiacomo Feltrinelli, per conto del quale dirigeva, da consulente esterno, una collana di narrativa. Pare che Feltrinelli, leggendo il dattiloscritto, non abbia avuto lo stesso colpo di fulmine di Bassani, e che fosse, in principio, piuttosto dubbioso. Da marxista convinto, Feltrinelli considerava Il Gattopardo come un chiaro esempio di decadentismo letterario, e perciò, da un punto di vista strettamente ideologico, come qualcosa di assolutamente reazionario; un romanzo scritto per di più da un aristocratico, e quindi poco conciliabile con un’epoca in cui, per dirla con le parole di Walter Mauro, “nella lotta politica l’aristocrazia rappresentava il nemico da abbattere”. Ma Bassani insistette, e l’ebbe vinta. E una volta convinto della bontà della proposta, Feltrinelli accettò coraggiosamente quella scommessa che né Mondadori né Einaudi avevano osato raccogliere. Se anche arrivò a immaginare la quantità di critiche che il romanzo avrebbe ricevuto da sinistra, vi andò incontro con la passione dell’editore controcorrente, in grado di affrontare sfide ben più scomode; l’anno prima, infischiandosene delle mille pressioni arrivategli dal Pci, aveva osato stampare Il dottor

Živago di Boris Pasternak, sgraditissimo a Mosca. Il 3 marzo 1958 Giargia telefonò trionfante alla principessa, annunciandole che la casa editrice Feltrinelli era interessata a pubblicare il romanzo. Il giorno dopo arrivò alla vedova una lettera di Bassani, poi una sua telefonata. La versione del Gattopardo era ancora la stessa spedita a Mondadori ed Einaudi, in sei parti anziché otto: Bassani sentiva che mancava qualcosa. “Il romanzo chiude benissimo,” disse per telefono alla principessa, “ma verso la conclusione non mi soddisfa.” Licy rilanciò: “Le piacerebbe, per esempio, un ballo?”. Fu la prima di una serie di sorprese. Dopo varie ricerche, Bassani poté leggere il capitolo del ballo, dattiloscritto in modo approssimativo da Licy e Lolette durante gli ultimi giorni di vita dello scrittore. Vincendo le resistenze della principessa, Bassani riuscì quindi a ottenerlo nella versione manoscritta, che trovò di gran lunga migliore, e fece firmare un contratto alla vedova. Intanto un assaggio del romanzo usciva in aprile su “Botteghe Oscure”, con il titolo Una giornata del principe Fabrizio, accompagnato da una minuscola nota: “Queste pagine rappresentano il primo capitolo di un romanzo postumo, Il Gattopardo, di imminente pubblicazione presso l’editore Feltrinelli di Milano”. Le sette parti del libro erano già in tipografia, ma Bassani non riusciva ancora a considerare chiusa la partita. I tentennamenti della principessa, ogni volta che lui le chiedeva di versioni alternative e altre fonti, anziché dissiparle avevano moltiplicato le sue perplessità. Si recò quindi a Palermo alla ricerca

di un ipotetico manoscritto completo; la principessa continuava a nicchiare quando, con sorpresa generale, Gioacchino Lanza Tomasi tirò in ballo il quadernone autografo donatogli dal padre adottivo, con la dizione Il Gattopardo (completo) sul frontespizio; dentro c’era già il capitolo del ballo ma anche una parte, quella delle vacanze di padre Pirrone, del tutto nuova. Le rotative della Feltrinelli si bloccarono: per due mesi Bassani lavorò alle bozze con la sua segretaria, Ludovica Ripa di Meana, e la collaborazione filologica di Niccolò Gallo. Dattiloscritto e manoscritto furono confrontati parola per parola, scegliendo via via la lezione giudicata migliore, correggendo la punteggiatura, e, nei pochi casi di aggiunte o omissioni, optando per la versione più lunga. Con la principessa intercorsero molte lettere e telefonate; memore di alcuni giudizi del marito, che reputava la parte su padre Pirrone troppo “esplicita”, la principessa si opponeva alla sua inclusione nel romanzo, e fece resistenza anche per altri dettagli. La questione dei savoiardi, per esempio: la battuta di Ciccio Tumeo “Ma i savoiardi me li mangio col caffè, io!” era secondo lei irriguardosa nei confronti della casa reale, e aveva a suo tempo ottenuto che Lampedusa la togliesse dal dattiloscritto; il principe l’aveva però riproposta nella versione donata a Gioacchino, e Bassani voleva quindi ripristinarla. Paziente e tenace, il curatore del libro assediò la principessa finché non riuscì a strapparle il consenso su quasi tutto; e dove non riuscì, come nel caso dei savoiardi, azzardò con la vedova una promessa che – per fortuna – non mantenne.

Tre La letteratura ai letterati (e la terra ai contadini) Giorgio Bassani licenzia le bozze definitive nel settembre del 1958. Il Gattopardo va in stampa il 25 ottobre. Feltrinelli non si aspetta un gran successo, e ordina una prima tiratura di duemila copie; l’uscita in calendario è per gennaio ma viene anticipata perché i critici hanno ricevuto anzitempo le prime copie da recensire e scalpitano per scriverne. La prima edizione viene distribuita in libreria l’11 novembre; quindici giorni dopo Carlo Bo taglia sulla “Stampa” il traguardo della prima recensione. Seguono a ruota Pietro Bianchi sul “Giorno”, Eugenio Montale sul “Corriere della Sera” e Gian Carlo Ferretti sull’“Unità”. Tutti a favore: Il Gattopardo è “un’opera matura”, “un libro bellissimo”, “d’eccezione”, anzi, è già “un piccolo classico”. La novità tiene subito banco sulle terze pagine dei quotidiani e durante le festività natalizie dilaga ovunque, dalle riviste specializzate ai rotocalchi popolari (“Oggi” titola un’intera pagina: “Dalla Sicilia arriva un grande romanzo”). L’impressione è forte, ed è letteraria e umana: commossi dalla tragedia del coltissimo esordiente scomparso prima di sapersi pubblicato, i recensori non mancano di ripercorrere le scarne notizie biografiche contenute nella prefazione di Bassani, mentre alcuni ex convegnisti di San Pellegrino estraggono volenterosamente dalla memoria qualche sbiadito ricordo: Goffredo Bellonci rievoca un uomo “taciturno” con “molti sorrisi cordiali”, Montale ammette di non aver

sospettato che quel gentiluomo “potesse essere o diventare uno scrittore non secondo a nessuno dei letterati lì presenti”. Intanto l’indicazione dei presunti modelli fatta da Bassani nella sua prefazione (I Viceré di De Roberto per la materia, Brancati per il tono) ha scatenato la gara: Bo aggiunge Proust e Montale, Bianchi punta su Verga, Ferretti ricorda Jovine, Milano insiste con Proust, Bellonci ricusa Proust e Brancati e opta per Manzoni e Nievo, Rago ripesca Proust e Tolstoj ma butta lì anche Ariosto e Leopardi, Bocelli definisce ovvio il riferimento a Proust e rilancia Jovine, Citati scarta Brancati e Verga e ribadisce Proust accompagnato da Tolstoj e Flaubert. Pur proponendo disparati modelli narrativi, i recensori rimangono idealmente concordi: la critica dei primi due mesi riconosce la modernità dello scrittore e ammette che i riferimenti tradizionali gli stanno stretti, che Il Gattopardo, come scrive Virdia sulla “Fiera Letteraria”, “si richiama ad una grande tradizione narrativa ottocentesca senza tuttavia ricalcarne gli schemi e il linguaggio”. Pietro Bianchi, critico cinematografico prestato alla letteratura, lo definisce “vino nuovo in un’anfora antica”. Qualcuno si spinge oltre: per Bartolucci dell’“Avanti!” lo stile di Lampedusa è “libero da formule ottocentiste e non prigioniero di esercitazioni avanguardistiche”. Ancora di più: possiede una “forza espansiva […] mezzo inventiva mezzo sperimentale,” afferma De Robertis sulla “Nazione”. I riferimenti al presente non sono ancora vituperati come ineleganti anacronismi ma individuati come distacco ironico dell’autore, “risultante da una visione prospettica della realtà politica e sociale che ha il suo ‘fuoco’ nell’oggi” (Bocelli), e permettono interessanti azzardi interpretativi

(sull’“Unità” Rago sovrappone allo sbarco dei garibaldini del 1860 quello alleato del 1943). Cambiano i riferimenti e gli orizzonti ideali, ma il plauso è sostanzialmente unanime, e anche sui “limiti” i primi recensori sembrano d’accordo: tutti sottolineano l’incompiutezza dell’opera e la struttura inusitata, tutti giudicano meno felice la parte V su padre Pirrone, tutti lodano soprattutto la morte del principe, quasi tutti le pagine con Tancredi e Angelica negli appartamenti del palazzo di Donnafugata. L’ultima parte viene in genere sottovalutata; Bo la considera addirittura “un’appendice inutile”; solo Goffredo Bellonci, in controtendenza, la ritiene di “grande significato”. Da sinistra sono però già affiorate le prime perplessità. Poche ma tempestive; contengono buona parte delle obiezioni che si faranno (e si fanno tuttora) al libro. Preoccupato che Bo e altri recensori prendano troppo sul serio le considerazioni di Don Fabrizio sul sonno siciliano, Ferretti individua nel romanzo un “fondo di scettico e passivo conservatorismo”; Lampedusa, ipotizza il critico dell’“Unità”, si rimangerebbe forse le sue affermazioni se potesse ora vedere la clamorosa giunta regionale che il democristiano Silvio Milazzo ha varato con comunisti, socialisti, missini e monarchici (una vera e propria “rivolta siciliana”). Secondo Paolo Milano (“L’Espresso”) “il forte tema del Gattopardo è […] quello del mutamento che è mera apparenza; l’obiettivo, un racconto storico che neghi la storia”; un obiettivo difficile da digerire per chi ragiona politicamente in termini di progresso. Michele Rago, ancora sull’“Unità”, è più positivo: il pensiero del principe non esprime solo “l’amara ideologia dell’immutabilità” ma

anche “l’esigenza di una umanità più profondamente consapevole”, e quindi “risponde alle inquietudini e alle domande dei tempi nostri”. Carlo Salinari, uno dei responsabili della sezione culturale del Pci, su “Vie Nuove” punta invece il dito su quel “non si cambia nulla, nonostante la rivoluzione” già entrato nel mirino di Ferretti, e destinato a diventare il frainteso slogan del romanzo. Per Salinari la tesi di Lampedusa è “qualunquistica”; e però “il fatto stesso che venga enunciata con tanta chiarezza […] mostra nell’autore la coscienza che la rivoluzione non può dirsi tale se non muta radicalmente i rapporti di classe”; comunque a Salinari non pare che Il Gattopardo “possa essere definito d’eccezione” ma solo sopra la media. Malgrado il tono genericamente positivo, la critica comunista comincia a far emergere i propri dubbi. La tentazione di Don Fabrizio di cavalcare il trasformismo, e insieme di abbandonare ogni lotta per il miglioramento, mette il sospetto di un Lampedusa antistorico, risoluto a negare ogni possibilità di progresso. Il gusto principesco per l’implicito non aiuta: le contraddizioni dei personaggi rischiano l’ambiguità – sublime in letteratura, micidiale per la critica militante. I dubbi di Ferretti e Salinari, fin qui, sono più che altro riserve. Il cambio di marcia avviene a fine gennaio del ’59, quando Leonardo Sciascia, nella triplice veste di letterato, di siciliano e di uomo di sinistra, tiene una conferenza sul Gattopardo al Circolo di Cultura di Palermo. Nella sua prolusione Sciascia mette a fuoco senza ipocrisie il malumore che il romanzo di Lampedusa stava suscitando fra gli intellettuali

di sinistra, e che stava aumentando in sintonia con il moltiplicarsi delle vendite. Da appassionato marxista, Sciascia non era disponibile a farsi fare la morale da un aristocratico nostalgico, e non esitò a consegnare le ambiguità del romanzo al giudizio politico. Sciascia non dice mai che il libro sia mal scritto, anzi: Il Gattopardo gli ha regalato “fascino” e “divertimento”, il personaggio di Don Fabrizio ha i contorni di un “uomo classico”. Ma sono pregi di secondo piano rispetto a un ritratto dell’isola afflitto da “un vizio di astrazione geograficoclimatica”, da exploit di “raffinato qualunquismo” e soprattutto da un atteggiamento (del principe Fabrizio e del principe Tomasi) di “congenita e sublime indifferenza” nei confronti della povera gente. Lampedusa sarebbe troppo “gran signore” per non sentirsi, anche da scrittore, “superiore”. L’ultima stoccata riguarda la citazione della celebre carrozzina in caduta libera sulla scalinata di Odessa nel capolavoro di Sergej M. Ejzenštejn: “Angelica […] gli sospirò all’orecchio: ‘Zione!’: felicissimo gag, di regía paragonabile in efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Eisenstein”. Vedere definita gag la “tragica sintesi” eisensteiniana dalla Corazzata Potëmkin (1925) sarebbe per Sciascia la prova di “un estremo, e indicativo, distacco”. In buona sostanza, Il Gattopardo gli “fa venire la voglia di lanciare lo slogan ‘la letteratura ai letterati’ (e la terra ai contadini, s’intende […] ma a patto che i letterati non abbiano riserve sulla terra da dare ai contadini)”. Pur con l’irruenza dell’isolano punto sul vivo (mai parlar male della Sicilia a un siciliano, soprattutto da parte di un altro siciliano), Sciascia aveva tutto sommato espresso quello

che, fra i critici letterari di sinistra, bruciava sotto un primo strato di ammirazione: il sospetto di un suadente immobilismo, propagandato dal rappresentante di una classe reazionaria, indifferente al moto della Storia e alle classi subalterne. La sua posizione era però anche frutto di una personale esperienza letteraria. Sciascia aveva appena pubblicato – e per “I gettoni” vittoriniani – i racconti Gli zii di Sicilia; uno di essi, Il quarantotto, raccontava il pendolarismo politico della nobiltà siciliana, sostenitrice dei moti del 1848 e l’anno dopo tornata a osannare i Borboni. Mentre lavorava sul Quarantotto si era imbattuto nelle ritrattazioni dei Pari e Deputati di Sicilia dopo il ritorno dei Borboni sull’isola; in esse, nel rallegrarsi per la riconquista, rassicuravano il Re che l’adesione alla rivolta era stata dovuta a “timoroso e doloroso stato di necessità”. Tra i firmatari Sciascia aveva scoperto proprio Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno di Lampedusa e modello di Don Fabrizio. La morale finale della novella Il quarantotto è fra l’altro simile al presunto immobilismo del Gattopardo, visto però dal lato degli umili: mentre Tancredi spiegava allo zione principe che “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, la rivoluzione del ’48 è in Sciascia “un modo di sostituire l’organista senza cambiare né strumento né musica: e a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri”. L’apparizione del Gattopardo, a pochi mesi da quella del racconto, apparve quindi a Sciascia come una sorta di replica polemica, da parte di Tomasi e dei suoi avi opportunisti, sugli stessi temi e con un’ambientazione quasi identica. E tanto più fastidiosa in quanto foriera di equivoci (un critico, cascandoci, dichiarò che Il

quarantotto era frutto del Gattopardo. “Peccato che il frutto sia nato prima dell’albero,” rispose piccato Sciascia). Pubblicato dal quotidiano palermitano “L’Ora”, la cui proprietà era passata da qualche anno nelle mani del Pci, l’intervento di Sciascia non ebbe una risonanza immediata, non innescò alcun dibattito, come se rispecchiasse una posizione isolata. In realtà non passò affatto inosservato: inabissato fra le tante questioni politiche e culturali del momento, infiltrò lentamente le coscienze di sinistra, risvegliandole a un confronto serio fra la letteratura e le più genuine ragioni marxiste. Tutti i più importanti interventi successivi, fino alla presa di posizione di Mario Alicata, il direttore della commissione culturale del Pci, gli devono qualcosa, non fosse altro il merito di avere rotto il ghiaccio. Il dibattito, nel giro di poche settimane, sarebbe partito forte e alto. Nutrito dalla qualità del romanzo e provocato dal crescente “caso” editoriale, certo, ma anche esasperato dal particolare contesto ideologico e culturale in cui si muoveva in quel momento la sinistra. Il fastidio con cui Leonardo Sciascia, Paolo Milano e, seppure in misura minore, Gian Carlo Ferretti e Carlo Salinari avevano letto il romanzo si comprende appieno solo considerando come stava mutando l’atteggiamento ideologico dei critici vicini al Pci, o comunque marxisti. Il neorealismo, già bandiera stilistica della sinistra italiana, non bastava ormai più, nella letteratura come nel cinema. Da questo punto di vista gli ultimi cinque anni erano stati pieni di colpi di scena. Nel ’54, pochi mesi dopo il convegno di San Pellegrino Terme, Senso di

Luchino Visconti aveva seminato a Venezia parecchia zizzania: di fronte al fasto melodrammatico della pellicola, i nostalgici del verismo di Ossessione e di La terra trema avevano accusato Visconti d’involuzione, di essere arretrato dal film al mero spettacolo; il critico Guido Aristarco era accorso in difesa, argomentando che il regista avesse superato un neorealismo cronachistico per inaugurare un realismo più vero e autentico, dotato di un respiro più ampio (a Senso si contrapponeva semmai La strada di Fellini, bollato come sentimentale e astutamente filocattolico). Poco dopo (1955) era arrivato in libreria Metello, il nuovo romanzo di Vasco Pratolini, ambientato tra fine Ottocento e primi Novecento, dove un muratore socialista perviene alla coscienza di classe alternando attività politica e avventure galanti. “Società”, periodico culturale legato al Pci, accusò lo scrittore di essere crepuscolare, reazionario, oleografico; “Il Contemporaneo”, il settimanale culturale del partito, sostenne invece che il romanzo costituisse una giusta evoluzione verso un realismo più maturo, dotato di una vera prospettiva storica. Le due questioni, quella cinematografica e quella letteraria, si sovrapposero: quelli che accusavano Visconti di essere decadente erano più o meno gli stessi che accusavano Pratolini di essere reazionario; quelli che li difendevano lo facevano in nome di un analogo rinnovamento del realismo, ormai a corto di ispirazione. Al culmine del dibattito era dovuto intervenire Mario Alicata consigliando tutti di non scambiare una sacrosanta libertà di giudizio per un via libera al bailamme. “Una cosa è aiutare Vasco Pratolini o Luchino Visconti,” scrive su “Rinascita”, “o certi pittori, a prendere

‘coscienza critica di se stessi’, un’altra dimenticarsi che la linea della lotta di classe, la linea che divide lo schieramento democratico dallo schieramento reazionario, si riflette e quindi divide, anche nel campo della letteratura e delle arti, certe forze da altre.” Si trattasse di pellicola o di carta, la questione in fondo era la stessa: crepato da mitizzazioni e schematizzazioni, il piedistallo del neorealismo (cinematografico e letterario) s’era sgretolato. A dieci anni dalla fine della guerra, “la lotta per il realismo” andava rivista: o radicalizzandola, come volevano i detrattori di Senso e Metello, o assecondandone l’evoluzione “dalla cronaca alla storia”, “dal neorealismo al realismo”, ossia dalla semplice osservazione della realtà al respiro critico del “romanzo storico” come lo aveva ridefinito il teorico marxista György Lukács; in esso i conflitti di classe, raccontando il movimento della Storia, portano consapevolezza all’oggi. “Dovrebbero essere considerati romanzi storici,” chiarirà Sciascia confermando il suo giudizio sul Gattopardo, “quelle opere in cui gli accadimenti rappresentati sono parte di una ‘realtà storicizzata’, cioè conosciuta e situata, nel suo valore e nelle sue determinazioni, in rapporto al presente […] E appunto nel Gattopardo accade il contrario: il presente si fa passato.” L’esigenza di ridefinire il passato in funzione del presente si era fatta tanto più forte nel momento in cui, arrivati al decennale della Resistenza, si erano levate da sinistra voci allarmate sui “dieci anni perduti”, sulla delusione che l’epoca postfascista non avesse ancora portato i suoi frutti più importanti, sulla “rivoluzione fallita”. Il contesto politico, tra

l’altro, si complicava ogni giorno di più; in casa comunista si stava sfaldando perfino il mito di Stalin, incrinato nel 1956 dal rapporto di Chruščëv sugli errori del grande padre della Russia sovietica (il disorientamento dei militanti del Pci venne immortalato da Sciascia in La morte di Stalin, un altro racconto de Gli zii di Sicilia). La conseguente destalinizzazione portò a rivolte in Polonia e soprattutto in Ungheria. Lo stalinismo risorse sotto forma di carri armati, entrati a Budapest nella notte tra il 3 e il 4 novembre ’56. I fatti di Ungheria agitarono drammaticamente le coscienze di tutto il mondo ma Palmiro Togliatti continuò a difendere la politica sovietica, aumentando in Italia lo sconcerto e le proteste. Intellettuali come Italo Calvino, uno dei giovani marxisti di San Pellegrino Terme, entrarono in crisi profonda; nell’estate del ’57 Elsa de’ Giorgi lo vide discutere “inconciliabilmente” con Alicata, in piedi sotto il sole per oltre mezz’ora alle Acque Albule di Tivoli: di lì a poco l’autore del Barone rampante lascerà il partito. Non fu il solo, molti altri restituirono la tessera. Alla emorragia di intellettuali, Togliatti reagì alternando il bastone e la carota: liquidati come “anime belle” i 101 che avevano osato firmare un manifesto contro l’intervento sovietico in Ungheria, nell’VIII congresso del Pci (dicembre 1956) aprì contemporaneamente a una tolleranza artistica prima impensabile. Lo stesso Togliatti che nel ’47 aveva cercato di imporre la supremazia della politica sulla cultura alla direzione del “Politecnico” di Elio Vittorini (indisponibile a “suonare il piffero per la rivoluzione”, lo scrittore aveva chiuso il periodico ed era uscito dal Pci), dieci anni dopo scriveva su “Rinascita” che “il partito non potrà mai far venir

fuori geni artistici o letterati che creino a suo comando”, ed esortava i comunisti a fornire “il loro attivo contributo in quanto fautori di un indirizzo determinato, in quanto critici, in quanto artisti essi stessi e in quanto ammiratori e giudici di opere d’arte”, lasciando al tempo stesso “che liberamente agisca quell’altra grande molla del progresso artistico che è il gusto stesso del pubblico”. Il rapporto tra politici e artisti rimase dunque stretto, spesso confondendo in un’unica figura il dirigente di partito e il critico, l’operatore culturale e l’attivista politico, in un ribollire di fermenti e di contrasti che culminò con il caso letterario del Dottor Živago, il romanzo di Boris Pasternak, il cui protagonista attraversa la rivoluzione bolscevica senza mai aderirvi intimamente, e che Giangiacomo Feltrinelli aveva da tempo in programma di stampare. L’edizione italiana era stata concordata con Togliatti e doveva avvenire in contemporanea con la pubblicazione in terra russa; ma i sovietici cambiarono idea, e Feltrinelli non si adeguò. Ignorando le pressioni del Pci, l’editore decise di andare avanti, a costo di recidere ogni legame con il partito. “Voglio dare una lezione all’Unione Sovietica,” gli sentì dire Rossana Rossanda poco prima che il romanzo fosse dato alle stampe. Il dottor Živago arrivò nelle librerie italiane nel ’57, in prima mondiale. L’anno dopo i giurati svedesi insignirono lo scrittore russo del Nobel, provocando uno scandalo politico intercontinentale e un clamoroso successo di vendite. Il Pci non poteva far finta di non accorgersene, anzi, la raccomandazione di Togliatti esigeva che il partito si occupasse del caso editoriale, anche a costo di ribadire la propria contrarietà. Pur con vari distinguo,

Alicata fu costretto a prendere posizione e a condannare il romanzo “per il tono e per l’accento apertamente controrivoluzionario”. Come ha scritto Samonà, “dai tornei parenetici sul Dottor Živago, l’intelligencija italiana uscì eccitata – talvolta sino ai limiti di un vero e proprio stato confusionale – ma esausta, soprattutto nel suo settore di sinistra. Condizione evidentemente poco adatta al nuovo test che l’attendeva”. Negli stessi giorni in cui Alicata condanna Il dottor Živago arriva sugli scaffali delle librerie il volume di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Per Botteghe Oscure Il Gattopardo non sarebbe potuto uscire in un momento meno consigliabile: un altro romanzo storico non allineato, realista a modo suo, tutto svolto intorno al tema della “rivoluzione fallita”, scritto per giunta da un aristocratico, e pubblicato ancora una volta dall’eretico Feltrinelli. Il Gattopardo portava insomma dentro di sé un inestricabile groviglio di questioni estetiche e ideologiche, assai insidioso per la linea culturale comunista. Esaurite in un attimo le prime duemila copie, la Feltrinelli a dicembre si apprestava a dare alle stampe sia la seconda sia la terza edizione (quattromila copie più altre quattromila); quando Sciascia va a parlare al Circolo di Palermo il romanzo di Lampedusa è già alla quinta. Le vendite non sono trainate da abili campagne pubblicitarie, né da giudizi autorevoli; è il lettore comune, del Nord e del Sud, sia il sofisticato sia il meno colto, a sancire la fortuna del libro. Distratti dal clamore, recensori e commentatori si interrogano sulle ragioni del “chiasso” e dell’“accoglienza clamorosa”, smarrendo per strada le qualità intrinseche

dell’opera. “Il successo del Gattopardo,” arriva a dire Carlo Laurenzi sul “Mondo”, “è così totalitario che ci dev’essere qualcosa che non va.” Elsa de’ Giorgi replica, unica e sola, all’intervento di Sciascia: “Non dobbiamo tacciare di incomprensione chi è abbastanza maturo e forte per essere anche scettico”; il problema semmai è che Sciascia, e come lui tanti altri, ambiscono a “una aristocrazia morale della quale tutti vogliamo oggi partecipare nella speranza della umana rivendicazione per il mondo degli oppressi”. Anna Banti paventa esplicitamente “infatuazioni” alla Dottor Živago, appena divenuto “volantino pubblicitario per opposte fazioni”, e cerca affinità spirituali di Lampedusa con Verga e Manzoni. Guido Piovene vorrebbe chiudere la questione andando al sodo: “È davvero un bel libro, e il suo grande successo è giusto”. Il duello è ormai partito. La posta in palio non è più soltanto la qualità del Gattopardo ma anche il giudizio sul realismo e, soprattutto, i valori di chi è a favore e di chi è contro: se la sinistra tende a sminuirlo, la destra del “Borghese” lo esalta infierendo contro l’ormai morente neorealismo letterario. “I soli scrittori che molto si leggono da noi,” ironizza Henry Furst, “o non scrivono opere letterarie, o si impongono al pubblico illuminando, con fanali multicolori, i problemi che così bene si possono studiare al giardino zoologico nel reparto delle scimmie.” Apparentemente fuori dal ring, la critica cattolica avanza in ordine sparso. Il gesuita De Rosa trova “troppo semplicistica” l’analisi lampedusiana della storia siciliana e soprattutto condanna sul versante morale e religioso la “cappa di piombo” pessimista che graverebbe sul romanzo. Continuano invece a essere pro-

Gattopardo due critici di area cattolica. Il libro di Lampedusa, scrive Carlo Bo aggiungendo stoppie al falò, seppellisce “senza volerlo troppa letteratura sperimentale fatta per compito e non per ordine interiore di libertà e di sincerità”. Geno Pampaloni ribalta le accuse di qualunquismo e reazione: Lampedusa “di fronte alla storia si chiude nella negazione e nel pessimismo fatalistico”, e però “riversa verso i personaggi (gli uomini) tutto il calore di una penetrante, consapevole e quasi solenne pietà”. Pampaloni sembra rispondere a Sciascia ma chiama in causa anche Ferretti (che nel suo pezzo aveva a sua volta pizzicato Bo), ridicolizzando il suo accenno al governo unitario dell’onorevole Milazzo, l’esempio storico davanti al quale Lampedusa avrebbe dovuto mutare il proprio giudizio sui siciliani. Nell’Italia del nascente boom economico, i duelli culturali sulle terze pagine non avevano la volgare semplicità dei botta e risposta odierni. Se nella sua recensione Ferretti sconcicava Bo, a ribattergli non era Bo ma Pampaloni. Perciò, quando Pampaloni rilancia la palla a Ferretti, non è da lui che riceverà risposta. È Franco Fortini che s’impegna a confutare Pampaloni, in una veemente conferenza tutta “contro Il Gattopardo” e i suoi sostenitori il cui testo sarà pubblicato diversi anni più tardi. Fortini è un intellettuale inquieto, un uomo di sinistra lontano dai diktat di partito; un intellettuale come Sciascia non organico al Pci, che allora come tanti si definiva genericamente “marxista”. Fortini non nega che il libro di Lampedusa sia “ottimo”, anzi, però è “il romanzo di un radicale di destra”, individualista e senza pietas, che fa “l’apologia del ‘sempre eguale’ a partire dal sempre diverso”. I riferimenti al saggio di

Pampaloni sono numerosi e trasparenti, ma Fortini non si limita a far fuoco su di lui, su Montale e su tutti gli altri critici col vizio di lodare i “gran signori”; alla fine del suo intervento, aggiunge che il libro è capitato in pieno “trionfo di una destra letteraria composta in gran parte di elementi dell’ex sinistra”, la stessa che “ha creduto dapprima di rispecchiarsi nel Pasticciaccio di Gadda, ha sobbalzato di gioia e di rimorso leggendo Il dottor Živago, ma si è riconosciuta solo nel Gattopardo; ha goduto di questo odore di dente cariato”. L’intervento di Fortini segna così la nuova metamorfosi del dibattito sul ciclone-Gattopardo: da letterario a metacritico, diventa infine – e tale rimarrà a lungo – ideologico, non opponendo banalmente destra e sinistra, ma traslocando all’interno di una sinistra divisa fra intellettuali eretici e fedeli alla linea, in un tormentoso confronto tra indomiti marxisti irregolari e più prudenti militanti ortodossi. È un fatto che a far scoppiare definitivamente il conflitto sia un ex comunista, antifascista e antistalinista, quel Vittorini che aveva bocciato due volte il manoscritto di Lampedusa. I dettagli della vicenda Mondadori/Einaudi non erano ancora stati divulgati ma all’interno del mondo editoriale il ruolo di Vittorini doveva essere noto, e da “destra” di tanto in tanto qualcuno provava ad attaccarlo. “Il Gattopardo,” lo aveva stuzzicato Bo, “[…] ha avuto l’onore di essere rifiutato. È facile comprendere le ragioni del rifiuto, il libro non risponde alla categoria dell’esperimento, ha un suono ‘vecchio’, appartiene secondo quei giudici interessati a un mondo chiuso ma ho paura che queste scuse siano altrettante accuse a certa letteratura

spericolata d’avanguardia.” Vittorini si era cucito la bocca e non aveva mai ribattuto, resistendo alle provocazioni e alla vanità. Finché, a fine febbraio ’59, il critico e drammaturgo Roberto De Monticelli gli chiede un’intervista per “Il giorno”. Vittorini non può sottrarsi alla domanda sul “caso” letterario dell’anno, e risponde apertamente e serenamente, svelando il suo giudizio sul Gattopardo: “Il libro è certo piacevole, e si pone senza dubbio su un elevato livello letterario, ma non è di ‘alta’ statura. Fosse uscito intorno al 1930 si potrebbe collocarlo nella storia letteraria italiana un po’ più su (ma anche tanto più a destra) delle fatiche di Nino Savarese. Uscito oggi finirà per restarne al di sotto. È una seducente imitazione dei Viceré di De Roberto, a livello della prosa dei cosiddetti ‘rondeschi’. Poi io non posso soffrirne, in particolare, diverse cose che pur ne determinano l’esistenza. Quel ‘senno di poi’, per esempio, che l’autore ha messo dentro al suo personaggio, e anzi addirittura sulla sua bocca, invece di profonderlo (come sarebbe stato veramente da romanzo storico) nelle cose intorno a lui. Oppure, per fare un altro esempio, quella sua concezione della morte (e cioè della paura di essa, e della sua accettazione) che è così vecchia e scontata, così antiquatamente patetica, perfino con la bella donna che appare in ultimo come s’è visto addirittura nel film sulla vita di Toulouse-Lautrec. Oggi è ben altro il modo in cui gli uomini temono e aspettano la morte, e l’accettano. Per questo, e il resto che taccio, io preferisco al Gattopardo non solo il libro di Calvino [i Racconti, N.d.A.] (pur se in gran parte già edito) ma anche la ristampa dei Racconti di Romano Bilenchi, e anche Il soldato di Carlo Cassola, e anche Il

ponte della Ghisolfa di Testori. Sono tutti e quattro tanto più vitali e tanto più nella nostra storia. Ci dicono qualcosa di ancora non risaputo. Non lasciano il tempo che trovano. Mentre il Gattopardo, e lo dico non senza rispetto, lo lascia proprio tale e quale lo trova, il tempo”. Le parole di Vittorini raccolsero subito un paio di pepate risposte, dalla principessa di Lampedusa e da Giorgio Bassani. La prima si concentrò a confutare l’apparentamento cinematografico col film su Toulouse-Lautrec, evitando di rivelare le responsabilità di Vittorini nelle disavventure editoriali del romanzo. Bassani invece decise di scoprire pubblicamente l’altarino: “Non discuto il giudizio […] sul Gattopardo […], giudizio che del resto già conoscevo. Non fu infatti per aver riposato sul parere di Vittorini che un noto editore rifiutò il romanzo, quando il Tomasi di Lampedusa era ancora in vita?”. E alla fine, perfido, butta lì: “Il Gattopardo è già alla undecima edizione (40.000 copie)”. Aggiungendo nuovo clamore a un caso editoriale ormai senza precedenti, “L’Ora” di Palermo spara un titolo a sei colonne: “Vittorini giudicò impubblicabile il ‘Gattopardo’ di Lampedusa”. Da allora l’autore di Conversazione in Sicilia verrà dato in pasto alla vulgata come il primo e più crudele carnefice di Lampedusa. Con qualche esagerazione e semplificazione; semplicemente, Il Gattopardo non era romanzo che Vittorini potesse amare e capire: per gusto personale e per le idee che sostenevano la sua concezione della cultura. “Da quando scrivo mi sono sempre battuto per un rinnovamento moderno della letteratura,” aggiungerà tre anni dopo in una lettera ad Andrea Vitello. “[…] Non

posso impormi di amare scrittori che si manifestino entro gli schemi tradizionali. Il Gattopardo avrei potuto amarlo solo come opera del passato che oggi fosse stata scoperta in qualche archivio.” Però sentirgli definire Il Gattopardo come una “seducente imitazione” de I Viceré, e come un “romanzo storico” scritto senza rispettarne le regole ha dell’incredibile, e fa sospettare che Vittorini, dopo averlo assaggiato dattiloscritto e incompleto, non lo avesse riletto finito e stampato. Si può lodare la correttezza del consulente editoriale, che non fece i nomi dei colleghi mondadoriani ed einaudiani che lo lessero e lo bocciarono in prima istanza; d’altra parte il furore con cui Vittorini esclude Lampedusa dalla letteratura italiana cosiddetta “vitale” conferma i limiti e i pregiudizi che lo guidarono nelle sue decisioni, e non gli meritano del tutto i tentativi di riabilitazione operati da Ferretti e da altri. Vittorini tentò di chiudere la questione rispondendo a Bassani con un breve intervento (“Sono cinque o sei anni,” scrisse sul “Giorno”, “che in Italia continuano ad addensarsi le nuvole per una grossa polemica che non potrebbe poi essere soltanto letteraria. E certo è bene che lo scontro avvenga. Ma io vorrei lasciare che avvenisse in campo aperto e non in margine a dei fatti personali, e nemmeno a proposito di libri su cui il parere è controverso solo fino a un certo punto”). Ma il clamore suscitato dall’intervista rilasciata a De Monticelli continuò a risuonare a lungo. Confortò l’opinione di Sciascia e di tutti quegli intellettuali di sinistra che guardavano con fastidio il trionfo editoriale di un aristocratico presunto filoborbonico, confermò che Il Gattopardo era un libro antiquato, fuori dalla Storia, un’opera sopravvalutata, un salto –

in senso politico e pure letterario – non in avanti ma all’indietro. Il mondo delle lettere rapidamente si schiera, e il nuovo dibattito dilaga su altri quotidiani. Leonardo Sciascia accorre a difendere il curatore dei “Gettoni” con una lettera aperta all’“Ora”. Neanche lui, a questo punto, ha difficoltà a fare nomi e cognomi: “Mi pare che nessuno abbia voglia di mettersi sul terreno della critica, che è quello su cui Vittorini si muove. Bassani ha l’aria di rimproverargli l’affare che ha fatto perdere a un noto editore; la principessa dall’alto delle quarantamila copie vendute, ci tratta (dico ci tratta perché ha trovato gratuito anche il mio giudizio) come untorelli. […] Possiamo ritenere Il Gattopardo un libro bellissimo o un libro mediocre: ma dobbiamo riconoscere che Vittorini, rifiutandolo, è in una posizione di assoluta coerenza. L’ha rifiutato, manoscritto, per la pubblicazione; e continua a rifiutarlo. Perché non dovrebbe? O che, dopo Garibaldi, di cui proverbialmente in Italia non si può dir male, siamo tenuti a fare i conti anche col Gattopardo?”. Romano Bilenchi e Carlo Cassola indirizzano a Vittorini sperticate lettere di consenso al suo rifiuto. In difesa di Vittorini interviene, pur con qualche impaccio, anche Domenico Rea: “Vittorini ha riferito la sua opinione, il suo gusto, la sua impressione. Non bisogna confonderla con un giudizio critico motivato”. Pampaloni invece lo rimbecca punto per punto e sintetizza: “Se Tomasi è a destra e Testori a sinistra, la sinistra è perduta”. Maria Bellonci, signora della diplomazia, tira un sospiro di sollievo: “Confesso che la troppa e generale fortuna del Gattopardo cominciava a farci stare inquieti,” scrive nella

sua rubrica sul “Punto”. “[…] Con l’ingresso dei detrattori il Gattopardo si configura ora nelle sue vigorose linee, e quel po’ di reazione negativa è come un mordente che fa risaltare in tutte le sue finezze i valori di un’incisione.” Alla faccia del mordente! Di lì a poco compare su “Rinascita”, il mensile culturale del Pci, una violenta stroncatura del romanzo redatta da Rino Dal Sasso: “eco del proustismo”, “profumo di morto”, “i movimenti e le vicende […] esposte come in una relazione ministeriale”, “incertezza dell’ispirazione” e “indeterminatezza letteraria”, “senso generale di noia”. Il grande successo di vendite? Tutta colpa di “signore di una certa età, giovani ‘arrabbiate’, piccoli borghesi lettori di rotocalchi”, che “chiedono Il Gattopardo quasi con la stessa furia un po’ incosciente con cui tempo fa chiedevano Il dottor Živago”; la maggior parte di loro, azzarda Dal Sasso, non è andata oltre le prime pagine. L’affondo è talmente esasperato da provocare una lettera al direttore del mensile (ovvero Palmiro Togliatti) da parte del matematico Lucio Lombardo Radice; sicuro che “Il Gattopardo conserverà un posto di rilievo nella letteratura italiana”, invita il recensore a guardare “a Marx, che ben distingueva Balzac scrittore da Balzac reazionario, e a Gramsci, acutissimo in consimili distinzioni”. Tanto più, garantiva Lombardo Radice, che il Gattopardo contava su altre categorie di lettori, “per esempio medici, ingegneri, scienziati, che di solito non riescono a dedicare tempo a letture disinteressate”. Un po’ di baruffa dentro una querelle letteraria ci sta anche bene. All’interno di un partito, però, può diventare pericolosa: penetrato fin dentro le pagine di “Rinascita”, il subbuglio

gattopardesco minacciava di diventare un bis del caso-Metello, peggio, un secondo Živago. Di fronte al romanzo di Pasternak l’atteggiamento del Pci era stato discutibile ma in un certo senso obbligato: il governo sovietico aveva giudicato il libro ostile alla rivoluzione socialista, e i comunisti d’Italia, pur attenuando i toni, si erano allineati. Ora Lampedusa stava di nuovo buttando all’aria tutto, creando schieramenti trasversali e accendendo contrasti inusitati. Occorreva una personalità autorevole che spegnesse l’incendio sul nascere, fornendo a sinistra, dopo tante uscite estemporanee, una valutazione letteraria e ideologica che potesse dirsi definitiva; o almeno sufficientemente autorevole da sedare gli animi, ridefinire gli schemi e ricompattare le truppe. Per competenze letterarie e ruolo nel partito, la persona più adatta era ancora Mario Alicata. Personaggio esuberante e sanguigno, Alicata viene in genere tramandato come un dirigente comunista particolarmente rigido e ostinatamente ortodosso, ma la sua passione ideologica e il suo impeto militante erano autentici, e i suoi interessi culturali vertiginosamente molteplici. Ex critico letterario e assistente di Natalino Sapegno, Alicata aveva scritto saggi su Hemingway e Faulkner, e contribuito a scoprire narratori italiani come Pavese e lo stesso Vittorini, contro il quale si sarebbe poi battuto in linea con Togliatti, ai tempi del “Politecnico”; poco prima di essere arrestato dai fascisti, collaborò anche alla sceneggiatura di Ossessione di Visconti. Dopo la guerra si occupò soprattutto dei problemi del Sud (fu consigliere comunale a Napoli, segretario regionale del Pci calabrese e membro del comitato nazionale per la rinascita del

Mezzogiorno). Insieme ad Antonello Trombadori e pochi altri, Alicata era il mediatore privilegiato fra Togliatti e gli interessi culturali del Pci, e nel ’55 era stato designato direttore della commissione culturale del partito. Allo scoppiare delle polemiche sul Gattopardo, si badi, il giudizio di Alicata non era affatto scontato: il romanzo era stato lodato sull’“Unità” da Ferretti e Rago, e anche chi vi aveva trovato dissonanze con la propria visione, come Milano e Salinari, non ne aveva nascosto i pregi. Ma associarsi a Lampedusa significava anche tante altre cose: consentire con la critica cattolica e di destra, per esempio, secondo le quali il successo del Gattopardo condannava anni di impegno letterario sprecati negli esperimenti neorealisti; sconfessare apertamente la stroncatura di Dal Sasso pubblicata su “Rinascita”; farsi sorpassare a sinistra da marxisti indipendenti come Sciascia e soprattutto da un vecchio antagonista come il dissidente Vittorini. Alcuni argomenti decisivi consigliavano quindi una “revisione” in negativo del giudizio sul Gattopardo: l’apologia di un mondo passato, raccontato e idealizzato da un aristocratico, il ridimensionamento di un mito rivoluzionario come quello del Risorgimento (specchiato spesso e volentieri nella Resistenza), il pessimismo nei confronti di una qualsiasi forma di progresso, la condanna di una Sicilia “irredimibile”. Quanto questi argomenti fossero fallaci si dirà più avanti, ma la situazione politico-culturale contingente (compresa la possibilità di strappare dalle mani di Vittorini lo scettro dell’antigattopardismo) ebbe un’importanza primaria nel consigliare Alicata. Il leader culturale del Pci scelse dunque di fare pollice verso.

Il principe di Lampedusa e il Risorgimento siciliano, il saggio che Mario Alicata pubblica sul “Contemporaneo”, è lungo e articolato, e non si fa scrupoli di bacchettare i recensori immediatamente precedenti, soprattutto se fanno parte dello stesso orizzonte politico. Ce n’è per tutti: per Bassani, del quale si condanna come “inaccettabile” la valutazione di “acutissima percezione della realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea”; per Lombardo Radice, al quale si obietta che “noi abbiamo grande perplessità a considerare l’esatto giudizio storico enunciato da Marx sull’opera del Balzac, come una legge estetica oggettiva”. E ovviamente per Vittorini, al quale Alicata imputa una “pseudo modernità che poi si ridurrebbe alla sostituzione d’un diverso formalismo al formalismo di tipo ‘rondesco’”. Ignorata la requisitoria di Fortini e giustificate en passant per dovere di scuderia le amenità di Dal Sasso, l’unico precedente a cui Alicata si rifà è Sciascia, che viene infatti citato più volte, ma che, non essendo iscritto al partito, va superato. Il polo, chiarissimo anche se mai nominato, attorno a cui ruota il pensiero di Alicata è György Lukács. Nel saggio Il romanzo storico, Lukács aveva indirizzato la letteratura sui sentieri dello storicismo, proponendo fra gli altri modelli Guerra e pace di Tolstoj, “epopea moderna della vita popolare”, imperniato sulla “contraddizione fra i protagonisti della storia e le forze vive della vita del popolo”. Rifacendosi a Lukács, Alicata accosta un paio di volte il romanzo di Lampedusa a quello di Tolstoj, ma al di là del mero giudizio stilistico (“raffinatissima cesellatura letteraria”) condanna il libro sul fronte storico. “È storicamente valida,” si chiede Alicata, “cioè è poi artisticamente persuasiva la

rappresentazione che di quel momento della vita siciliana (e italiana) ci dà il principe di Lampedusa?” E si risponde: “Noi francamente pensiamo di no”. Dal punto di vista del grande romanzo storico realistico Alicata trova promettente la sola prima parte del Gattopardo, quel capitolo iniziale che, “come nell’ouverture d’un melodramma”, raduna i temi di una possibile grande sinfonia sul Risorgimento; “un colpo di maestria narrativa” che paragona al ricevimento della principessa Schérer all’inizio di Guerra e pace. “Una denuncia, quanto mai coraggiosa, intelligente e spregiudicata dei limiti del Risorgimento”; ma poi quei temi sarebbero stati svolti da Lampedusa in modo “arbitrario” e “caricaturale”, “in una meccanica ripetizione della stessa situazione psicologica”, perché del processo unitario si sarebbero voluti vedere “soltanto i limiti”: Il Gattopardo avrebbe così perduto “quasi subito la struttura del romanzo storico realistico e ci appare come qualcosa che oscilla fra una raccolta di racconti sullo stesso tema […] e il ‘riassunto’ squisitamente letterario di un romanzo più vasto, che avrebbe potuto essere e non fu mai invece scritto”. Il difetto, secondo Alicata, sta proprio nella mentalità di Lampedusa, che tenderebbe continuamente a negare la visione storica progressista. È vero che, mettendo in bocca al principe di Salina certe affermazioni sull’immobilità e sul sonno della Sicilia, Lampedusa rivela “quanto profonda e irrimediabile fosse oramai (e sia) l’inettitudine del ceto aristocratico siciliano ad assolvere nella società ad una qualsiasi funzione creativa”. È vero che la “critica al Risorgimento siciliano del Tomasi di Lampedusa” scaturisce “da un’indagine condotta con spietata ironia,

dall’interno stesso della vecchia classe dirigente”. Ma la “deficienza ideologica” dell’autore, e la interpretazione deformata e “unilaterale” che fa del Risorgimento in Sicilia tramuterebbe Il Gattopardo in un romanzo irrimediabilmente reazionario. Secondo Alicata l’idea che Lampedusa aveva del Risorgimento non teneva conto di troppe cose, a cominciare dalle lotte dei contadini e dal “complesso travaglio dei patrioti siciliani”. La “ideologia reazionaria” e la “visione aristocratica della storia e della vita degli uomini” avrebbero impedito al principe di Lampedusa di “scrivere il grande romanzo storico” che da anni meditava di comporre. Il risultato sarebbe solo “un raffinatissimo esercizio letterario”. Dopo il primo capitolo, il romanzo di Lampedusa non offrirebbe più nulla, se non “variazioni di virtuosità stilistica” e imbarazzanti anacronismi come la “boutade novecentesca” su Karl Marx, nel romanzo “un ebreuccio tedesco di cui non ricordo il nome”. O la citazione dal Potëmkin, sulla quale, come Sciascia, conclude il saggio: “Non è forse questo il tipo di anacronismi stilistici propri di chi – per fare soltanto dell’ironia contro tutto il reale, contro tutta la storia – ben più profondamente ha rinunciato a prendere a misura dei propri personaggi, la misura del reale, la misura della storia?”. Rimessi a posto Vittorini e Bassani, e superato un poco lo stesso Sciascia, Alicata era così riuscito ad avocare a sé tutto il dibattito, aveva fatto chiarezza tra i militanti, dettato la linea del partito e pronunciato sulla questione un giudizio (lui sperava) definitivo. Rinsaldato il fronte interno, la posizione di Alicata si rivelò però in quel momento un

pericoloso errore strategico: radicalizzando l’opposizione a Lampedusa divise i critici italiani d’ispirazione marxista dalla massa nazionalpopolare che tributava al libro un sincero successo, ricadendo solennemente nella stessa contrapposizione provocata dalla scomunica a Živago. Il saggio sul “Contemporaneo” rimane tuttavia capitale dentro la bibliografia critica sul Gattopardo: per la notevole capacità analitica, per l’acutezza con cui individua e isola doti e potenzialità del romanzo, anticipando perfino argomenti che saranno sviluppati da critici marxisti di parere opposto (il francese Aragon su tutti). È un saggio continuamente citato e ricordato, et pour cause. Ebbe una grande influenza, e non solo a sinistra: nato prima dell’intervento di Alicata, il pregiudizio sull’antistoricismo di Lampedusa ne uscì talmente irrobustito da avere passato quasi intatto la soglia del nuovo secolo. E il fatto che gli eventi successivi lo abbiano in parte smentito lo rende semmai, per la forza e le conseguenze delle sue argomentazioni, ancora più notevole.

Quattro La verità del Gattopardo Ma di cosa parla in realtà Il Gattopardo? E il suo autore che storia ha voluto raccontare? Siamo di fronte a un’elegia reazionaria del bel tempo passato o, al contrario, come scrive Bassani nella prefazione, Lampedusa ci offre “ampiezza di visione storica unita a un’acutissima percezione della realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea, dell’Italia di adesso”? Gran parte dell’azione si svolge nei tre anni cruciali per la nascita del Regno d’Italia: si apre nel 1860 con lo sbarco dei Mille a Marsala e si chiude nel 1862 con l’arresto di Garibaldi in Aspromonte; l’epilogo arriva nel 1910, sotto l’eco delle imminenti celebrazioni del cinquantenario dell’impresa garibaldina. La trama è minima: minacciato dal turbine garibaldino, il principe di Salina asseconda le velleità rivoluzionarie dell’amato nipote Tancredi e, malgrado sappia dell’amore che nutre per lui la figlia Concetta, appoggia il suo matrimonio con la borghese Angelica, bella e molto ricca, sicuro che quell’unione sia l’unico modo possibile per Tancredi di raggiungere i vertici del nuovo potere. Ma la strategia del principe è destinata al fallimento, Don Fabrizio morirà sconfitto e pieno di amarezza lasciando alla figlia Concetta la pena di assistere alla definitiva debellatio di casa Salina. Protagonisti, ambienti e sfondi attingono liberamente dalla realtà storica e famigliare dei Lampedusa: Don Fabrizio Salina è modellato sul

bisnonno di Tomasi, Giulio Fabrizio, stimato astronomo che aveva effettivamente in casa un cappellano di nome Pirrone, una moglie Maria Stella, tre figlie battezzate Carolina, Concetta e Caterina (che rimasero davvero zitelle dedicandosi al collezionismo di reliquie) e altri figli (per un totale di dodici al posto dei sette del romanzo). Legato alla casa Borbone, anche Giulio Fabrizio rifiutò il laticlavio dei Savoia, e morì in una stanza d’albergo nel 1885 (anziché nel 1883 come il suo alter ego del romanzo). Il modello di Tancredi è composito: l’aspetto fisico è quello di Gioacchino, il figlio adottivo di Lampedusa, il lato morale “una mistura” di Francesco Scalea, senatore del Regno d’Italia, e di suo figlio Pietro, ministro delle Colonie sotto Mussolini, entrambi provenienti dalla sinistra moderata, mentre la figura storica deriva da Corrado Valguarnera, nipote di Don Giulio (come Tancredi di Don Fabrizio), ardente filogaribaldino, poi sposo di Maria Favara; la quale, al contrario dell’Angelica Sedara del romanzo, non era figlia di un rapace borghese ma di un barone discretamente ricco. I luoghi sono anche più trasparenti: la villa Salina è villa Lampedusa nel quartiere palermitano San Lorenzo ai Colli, e i suoi interni sono quelli dell’adorato palazzo di Palermo distrutto dalle bombe alleate; Donnafugata non è l’omonimo paese in provincia di Ragusa ma un misto di Santa Margherita Belice e di Palma di Montechiaro; un Albergo Trinacria, omonimo di quello in cui Don Fabrizio va a morire, esisteva veramente a Palermo, anche se nella realtà la camera d’albergo che vide la dipartita di Don Giulio si trovava a Firenze.

Alla luce di questi riferimenti, Il Gattopardo fa pensare a un mémoire del Sei-Settecento dissimulato in un romanzo naturalista dell’Ottocento, su cui domina lo spirito scettico di un autore del Novecento. Un’opera dove la storia, e la Storia, sono un viaggio à rebours in un tempo ritrovato, luogo interiore nel quale scoprire le ragioni del tempo attuale. Non stupisce che nelle sconfinate e assidue frequentazioni letterarie di Lampedusa abbia un posto privilegiato, insieme a Stendhal, Balzac e Proust, anche il duca di Saint-Simon, autore di quei Mémoires ripubblicati negli anni cinquanta nella Pléiade, edizione che Tomasi, quando Licy mancava da Palermo, si portava al ristorante per delibarla con diletto durante il pasto. I Mémoires raccontano, soprattutto, la vita di corte ai tempi di Luigi XIV e della Reggenza. Ma lo fanno da un punto di vista molto speciale, dal tabouret, lo sgabello riservato ai duchi e ai Pari del regno cui era concesso sedersi alla presenza del sovrano, cioè da un punto di vista interno alla corte. Dei Mémoires Lampedusa amava proprio la conoscenza profonda di quel mondo “allucinante fra gli ori e gli orpelli di Versailles”, il punto di vista soggettivo, l’ironia, l’ossessione per il dettaglio, la cattiveria impietosa. Come Saint-Simon Lampedusa nel suo Gattopardo adotta (e non potrebbe fare diversamente) proprio il punto di vista “dal di dentro” del mondo narrato: un senso concreto del passato, fatto di dettagli precisi che sono il frutto di una memoria vissuta. Siamo dunque in un romanzo storico, ma come può esserlo un romanzo del Novecento, “immerso”, per usare le parole di Marguerite Yourcenar ricordate da Orlando, “in un tempo

ritrovato, presa di possesso di un mondo interiore”. Nel caso di Lampedusa però la visione partecipata e interna al racconto non deriva tanto o solo da una scelta letteraria ma da un’esigenza intima e profonda: raccontare una società nobiliare attraverso i “ricordi vitali” che di quella classe sono l’essenza, e dare insieme voce alla storia della sua famiglia, colta nel momento cruciale del passaggio di regime dalla monarchia assoluta dei Borboni a quella, costituzionale e aperta alla borghesia liberale, dei Savoia; momento di crisi di cui i Lampedusa/Salina, come tutta l’aristocrazia siciliana e meridionale, erano stati protagonisti perdenti. Salvare quel mondo, ridargli vita in un racconto e così perpetuarlo è l’impresa di Lampedusa. Le memorie autentiche, il ricordo di personaggi realmente esistiti, i momenti di vita vissuta, costituiscono infatti la parte soda del Gattopardo. Su questa struttura salda Lampedusa costruisce un intreccio assai semplice che si sviluppa in una sorta di lungo flusso di coscienza intorno alla figura di Don Fabrizio, personaggio dalla duplice valenza, ora mimesi del bisnonno Giulio ora proiezione dello stesso Tomasi. Appartengono sia all’autore sia al personaggio lo scetticismo, l’anelito siderale, il distacco dalla vita e dal consorzio umano, il senso di morte e di ineluttabilità della Storia. L’attaccamento dello scrittore al suo personaggio principale, il suo entrare e uscire dalla pelle di Don Fabrizio, ha però creato alcuni misunderstanding che persistono nel tempo. Il senso di distacco, per esempio: se il principe di Salina lo condivide con il principe di Lampedusa, ciò non ha però radici, come lo accusò Leonardo Sciascia, nell’aristocratica albagia del “gran signore” nei confronti degli uomini comuni, ma

piuttosto nel disincanto, nella congenita retenue dell’uomo di intelletto che cerca consolazione dentro la meravigliosa solitudine delle stelle, ovvero dei libri. Come Don Fabrizio, Lampedusa è l’ultimo rappresentante di una classe che si sente finita. Il senso di morte – e quindi ancora il distacco dalla vita che accompagna tutto Il Gattopardo, e che per paradosso gli dà fulgida vita letteraria – sta tutto nella pelle del suo autore. Fu proprio il senso della fine a spingere Lampedusa a dare sangue letterario ai fantasmi degli antenati, con l’obiettivo di preservarli dall’oblio ma anche di interrogarli sul presente. Disperse le cospicue fortune, privo di eredi, invecchiato anzi tempo, Lampedusa sentiva il bisogno di richiamare in vita quel mondo da cui era stato sfiorato nell’infanzia e nella prima gioventù, mondo che ancora custodiva in sé e che sarebbe scomparso insieme a lui: memorie feudali, stralci di vita quotidiana, i palazzi distrutti dalle bombe americane o venduti per necessità, una visione della Storia risorgimentale ben poco condivisa ma delle cui conseguenze sentiva ancora gli effetti, e che, come intuì fin da subito il giovanissimo Orlando, in ultimissima analisi poteva anche finire per concordare con la storiografia democratica e marxista. “Per Lampedusa,” ha scritto Lanza Tomasi, “la letteratura era una sorta di diaristica cifrata.” Perché questa operazione sia decodificabile dal lettore, Lampedusa si premura di lasciare indizi facili da individuare: il nome del protagonista ricalca nel casato quello dello scrittore quasi in modo infantile, un’isola (Lampedusa) per il personaggio vero, un’altra isola (Salina) per il suo alter ego letterario; il titolo Il Gattopardo si

riferisce all’animale raffigurato nello stemma di casa Salina, che è lo stesso raffigurato nello stemma dei Lampedusa; persino il titolo che spettava al primogenito di Don Fabrizio – duca di Querceta – è un trasparente scambio arboreo con quello del primogenito dei Lampedusa – duca di Palma. Di alcuni riferimenti lo scrittore ha lasciato traccia in un paio di lettere che, rinvenute alcuni decenni dopo la pubblicazione del romanzo, hanno l’effetto di una sorta di mappa segreta che porta al tesoro custodito dal Gattopardo. “Il protagonista è il principe di Salina,” scrive all’amico Guido Lajolo nel ’56, “tenue travestimento del principe di Lampedusa mio bisnonno. E gli amici […] dicono che […] rassomiglia maledettamente a me stesso.” Aggiunge poi: “Vi sono molti ricordi personali miei e la descrizione di alcuni ambienti è assolutamente autentica”. Più di un anno dopo, nella lettera lasciata all’amico Enrico Merlo prima di partire per Roma alla ricerca di un’inutile cura, qualcosa è però cambiato: il principe di Salina non è più un “tenue travestimento” ma “è il principe di Lampedusa Giulio Fabrizio mio bisnonno: ogni cosa è reale: la statura, la matematica, la falsa violenza, lo scetticismo, la moglie, la madre tedesca, il rifiuto di essere senatore. Padre Pirrone è anche lui autentico anche nel nome…”. Tomasi scrive a Lajolo nel marzo del ’56, a Merlo nel maggio del ’57. I due testi dicono pressoché le stesse cose ma con diverse sfumature, indizio di una maturata riflessione sul valore critico del proprio lavoro e sulla valenza storica del personaggio principale. Nel dire che il substrato del romanzo è ricavato dalle proprie

memorie, Lampedusa parla nel 1956 di “autenticità”, un anno dopo più specificamente di “realtà”: nel ’57 il principe di Salina “è” tout court il principe di Lampedusa, e “ogni cosa è reale”. Lo slittamento semantico corrisponde a un chiaro cambiamento. All’epoca in cui si rivolgeva a Lajolo, Lampedusa è ancora in pieno entusiasmo creativo, non ha ultimato il lavoro, è ancora tutto immerso nella scrittura, scrive e lima il testo fiducioso di una prossima pubblicazione. All’epoca della lettera a Merlo la situazione è radicalmente diversa: la ricerca dell’editore si è fatta difficile, Lampedusa si è reso conto che non gli è toccata la fortuna del cugino Piccolo che, spedite le sue poesie, era stato subito laureato poeta da Montale. Ha già ricevuto il primo rifiuto da Mondadori e con esso la prova che quel mondo di letterati conosciuto a San Pellegrino Terme aveva difficoltà ad accettare un romanzo sul Risorgimento scritto da un principe, ambientato nel mondo dell’aristocrazia con uno stile così curato da rischiare di apparire “vecchiotto”. Alla fine degli anni cinquanta i libri apprezzati dalla critica e corteggiati dagli editori trattano altri temi, il neorealismo è in crisi ma si mantiene saldamente in sella, le scritture sono piane, fattuali, per nulla compiaciute, cercano l’innovazione e l’agglutinamento con il linguaggio popolare; le storie che sembrano degne di essere raccontate sono tutte ambientate nei grandi fatti recenti dai quali i protagonisti s’impegnano a farsi travolgere: la guerra, la lotta partigiana, le condizioni miserabili delle classi subalterne e geograficamente emarginate, e se ci si volge al passato lo si fa cercando i volti e le voci di uomini del popolo. In Italia il romanzo storico è

morto e sepolto e l’Unità d’Italia, di cui si preparano i festeggiamenti per i cento anni, è un tema già ampiamente svolto in letteratura: nell’Ottocento con tutta la forza romantica di un Ippolito Nievo o con il crepuscolare fascino borghese di un Fogazzaro e, a cavallo dei due secoli, con l’occhio asciutto e disilluso del verismo italiano, il Verga della novella Libertà, il Pirandello de I vecchi e i giovani e soprattutto De Roberto con i suoi Viceré. Mentre scriveva a Merlo, Lampedusa era insomma diventato conscio delle circostanze che rischiavano di rendere impubblicabile il suo Gattopardo, e si era fatto più consapevole del proprio lavoro. Dopo aver capito di non saper “fare l’Ulysses”, aveva scartato anche l’ipotesi del romanzo storico vagheggiata a San Pellegrino Terme. “Non vorrei che tu credessi che è un romanzo storico!” scrive in un’altra lettera a Lajolo del gennaio ’57 poco dopo il rifiuto di Mondadori. “Non si vedono né Garibaldi né altri: l’ambiente solo è del 1860.” Al termine della stesura, lo scrittore ha l’intuizione che, grazie alla loro sostanza di realtà, la forza innovativa e unica del suo romanzo sono proprio quelle “memorie vitali” che in un primo tempo avevano risvegliato le sue ambizioni letterarie, memorie fattesi poi gioco sentimentale e testamento spirituale da consegnare agli amici e al figlio adottivo. L’autore partito da Joyce, che con l’intenzione di scrivere un romanzo storico aveva avuto l’ambizione di avvicinarsi a Manzoni, che si era nutrito dello spirito di Saint-Simon, alla fine aveva scoperto bon gré mal gré di aver scritto (anche) un’opera realista, probabilmente più realista di quanto le sue intenzioni e i suoi gusti

letterari avrebbero voluto. Aveva capito che la sua esigenza di “autenticità” aveva prodotto una narrazione nella quale spicca vivida la forza della realtà. La storia di Fabrizio Corbera principe di Salina, sottolinea Lampedusa nella sua lettera a Merlo, è reale, reali gli altri personaggi, reali i luoghi, reale il contesto. E allora perché la vita di Don Fabrizio, travolto dalla Storia come Padron ’Ntoni dalla tempesta, non dovrebbe avere per la Repubblica delle Lettere “un certo interesse” come lo hanno avuto le storie di un Carlo Levi al confino di Guagliano, o del Luca Marano di Jovine, o dei celebratissimi contadini di Rocco Scotellaro? Realtà questa, realtà quella. Il letterato Lampedusa, alla fine della sua fatica, aveva intuito quale fosse la peculiarità del suo romanzo. E infatti il realismo e la prospettiva “dal di dentro” dell’aristocrazia furono i puncta dolentia sui quali dibatterono e si affrontarono i maggiori critici all’uscita del libro, con tormentati rovelli nelle file della sinistra. Il recupero delle memorie e il particolare realismo applicato al mondo aristocratico sarebbero potuti anche passare, ma il pessimismo di cui è intriso il libro non si conciliava agevolmente con una visione progressista della Storia, con la speranza comunista di un movimento di riscatto popolare. Quale popolo, poi? Nel Gattopardo se ne vede poco: i garibaldini e le loro imprese sono un rumore di fondo, i protagonisti in scena sono un pugno di aristocratici che cercano di sfuggire o di aggirare la rivoluzione delle camicie rosse accasandosi con le avide forze del capitalismo nascente; contadini e borghesi bisogna cercarli col lanternino, e quando li si trova i primi rimpiangono i Borboni e si lamentano dei Tempi Nuovi e i secondi sembrano solo pronti a prendere il posto dei vecchi padroni.

Pur in gran parte negative, le posizioni all’interno della sinistra furono in effetti variegate: a Sciascia quella “ricostruzione oggettiva” del mondo nobiliare “condizionata da araldiche suggestioni” non interessava punto (tanto da compiacersi del fatto che “il bel gioco” di Lampedusa fosse “durato poco”, cioè “un solo libro”); sensibilmente diversa è la posizione di Mario Alicata, che, pur stroncando Il Gattopardo, scrisse pagine lusinghiere proprio sul suo realismo, giudicato esemplare nel primo capitolo, tanto da accostarlo all’incipit di Guerra e pace. Un realismo, argomentò Alicata, libero dagli “impacci naturalistici” dei Viceré, il romanzo di De Roberto che come Il Gattopardo racconta la camaleontica capacità di una famiglia dell’aristocrazia siciliana di restare al potere nonostante il trapasso di regime che portò all’Unità d’Italia. Entrambi i romanzi trattano la crisi del 1860 descrivendo modi e mezzi con cui una famiglia dell’aristocrazia siciliana vi faccia fronte con l’esplicito intento di mantenere il proprio potere e lo statu quo. Entrambi, De Roberto per fede verista, Lampedusa per ragioni profondamente personali, immergono personaggi e vicende in un quadro onestamente realistico: il primo si documentò a lungo, frequentò il palazzo dei San Giuliano, compulsò documenti gentilizi, interrogò i famigli della nobiltà catanese trattando gli Uzeda come un caso clinico da refertare; al secondo bastò usare la propria memoria unita a conoscenze ed esperienze personali. Di queste vicinanze Lampedusa era consapevole, ma fin da subito rivendicò al suo romanzo una recondita diversità. “In quanto ai Viceré il punto di vista è del tutto differente. Il

Gattopardo è l’aristocrazia vista dal di dentro senza compiacimenti ma anche senza le intenzioni libellistiche di De Roberto” (così scrive nella prima lettera a Lajolo). “Mi sembra che [il mio romanzo] presenti un certo interesse perché mostra un nobile siciliano in un momento di crisi (che non è detto sia soltanto quella del 1860), come egli vi reagisca e come vada accentuandosi il decadimento della famiglia sino al quasi totale disfacimento; tutto questo però visto dal di dentro, con una certa compartecipazione dell’autore e senza nessun astio, come si trova invece nei Viceré” (così scriveva a Merlo). Il raffronto con i Viceré diventa però essenziale per affrontare il primo di quelli che identifichiamo come i tre fulcri ideologici che muovono gli ingranaggi narrativi del Gattopardo, ovvero: la concezione dell’immutabilità della Storia, il rifiuto politico ed etico di collaborare con il nuovo regime, la riflessione sulla verità. Il primo fulcro, la concezione dell’immutabilità della Storia – tutto resterà com’è sempre stato – ha nel “trasformismo” il suo agente politico e narratologico, in virtù del quale si determina gran parte della vicenda. Nel romanzo la tentazione del trasformismo emerge subito nel primo capitolo, quando Tancredi chiede allo zio, e tutore, il permesso di raggiungere i ribelli pronti a unirsi a Garibaldi. Don Fabrizio tenta di opporsi: “Sei pazzo figlio mio. […] Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re”. L’argomento sfoderato è di quelli pesanti, e Tancredi vi oppone tutta l’arguzia politica di cui è capace alla sua età: “Per il Re, certo, ma per quale Re? […] Se non ci siamo anche noi quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi

sono spiegato?”. Affascinato e intenerito, Don Fabrizio gli mette in tasca un rotolino di onze d’oro, “Sovvenzioni la rivoluzione adesso!”, si meraviglia il ragazzo che in realtà sta partendo per disinnescarla, la rivoluzione. Le parole di Tancredi offrono allo zio borbonico la stessa opzione politica che nei Viceré veniva offerta da Consalvo Uzeda alla borbonica zia Fernanda: “Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto. […] E poi, il mutamento è più apparente che reale”. Insomma, anche per Consalvo tutto rimarrà com’è. Ma, attenzione, quelle del principe Uzeda sono le parole, per una volta senza retorica, di un politico consumato, chiudono I Viceré e ne sono l’(a)morale finale. Le parole di Tancredi sono invece pronunciate all’inizio del Gattopardo da un ragazzo che nel fuoco dei vent’anni si crede capace di intuire e cavalcare i nuovi tempi, ma saranno destinate, come vedremo, a essere smentite, non senza aver rivelato la loro ambiguità e illusione di fondo. Dopo quel dialogo il principe reputa Tancredi “un grand’uomo” e riflette sulle rassicuranti parole che, tra l’altro, assecondano il suo carattere contemplativo, uso a prendere l’astronomia come morfina per scacciare le immagini dei feudi che s’involano. Per Don Fabrizio, incapace di agire in prima persona, Tancredi diventa “l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà sotto mutate uniformi poteva portare contro il nuovo stato sociale”, stratega quasi imberbe della battaglia del “tutto rimanga come è”. Il principe ha talmente bisogno di credere nell’acume politico del nipote che non si accorge

di come le parole pronunciate dal giovanotto somiglino a quelle altrettanto rassicuranti proferite dai “liberalucoli di campagna”, il contabile Ciccio Ferrara (“dopo un po’ di trambusto e di sparatorie tutto andrà per il meglio”) e poi il soprastante Pietro Russo (“Tutto sarà meglio, mi creda Eccellenza. Gli uomini onesti e abili potranno farsi avanti. Il resto sarà come prima”). “Nulla cambierà” è il mantra dei primi capitoli del Gattopardo. Nonostante l’insurrezione della Sicilia e gli editti di Garibaldi, il gesuita padre Pirrone non verrà espulso, i Salina potranno ugualmente passare la villeggiatura a Donnafugata, Don Fabrizio continuerà a essere chiamato Eccellenza persino dal generale garibaldino in visita al suo palazzo di Palermo. L’unico sforzo da compiere sarà sostituire un ritratto di Re Ferdinando II con l’immagine molto meno compromettente di una “probatica Piscina”. Ma pagina dopo pagina, man mano che vengono meditate da Don Fabrizio, le ottimistiche e volitive parole di Tancredi svelano gradatamente la loro ambiguità. Perdono, nelle riflessioni del principe, il cinico opportunismo politico e si trasformano in uno scetticismo che nel corso del romanzo diventerà prima pessimismo storico, poi deserto esistenziale, quindi sconfitta personale e di classe. È uno svelamento lento, sotterraneo, non esibito. Già dopo il colloquio con Tancredi e con Ferrara, Don Fabrizio non ha più dubbi su cosa accadrà: “Tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato”. Il significato logico è il medesimo delle parole di Tancredi ma la connotazione esistenziale è addirittura opposta, e il pessimismo è senza appello: le parole del principe svelano l’altra faccia della medaglia

offerta da Tancredi, rivelano che in realtà tutto sembrerà ancora lo stesso mentre alla fine nulla sarà più come prima, anzi tutto sarà peggio di prima. I dubbi del principe si manifestano subito sotto forma di pensieri molesti: non sono passate ventiquattr’ore dall’arrivo a Donnafugata che Don Fabrizio ne ha già abbastanza dei Tempi Nuovi. La prima giornata “era stata cattiva”, glielo diceva “il frac di don Calogero, gli amori di Concetta, l’infatuazione evidente di Tancredi, la propria pusillanimità; financo la minacciosa bellezza di Angelica: brutte cose; pietruzze in corsa che precedono la frana. E quel Tancredi! Aveva ragione, siamo d’accordo, e lo avrebbe anche aiutato; ma non si poteva negare che fosse un tantino ignobile. E lui stesso era come Tancredi”, cioè ignobile. Da questo momento comincia una sostanziale presa di distanza morale, un dissociarsi del principe dalla linea politica di Tancredi. All’inizio l’allontanamento dello zio dalla strategia del nipote è una non-adesione tutta interna al personaggio. In pubblico Don Fabrizio segue apparentemente la nuova politica: vota “sì” al plebiscito, a Ciccio Tumeo, che alla notizia del finanziamento, pardon, fidanzamento fra Angelica e Tancredi profetizzava “la fine dei Falconeri e anche dei Salina”, ribatte che l’unione “non era la fine di niente, ma il principio di tutto”. Per il momento Tancredi resta agli occhi dello zio un novello “Mirabeau”, ossia quel Gabriel-Honorè che avrebbe voluto Luigi XVI alla testa di una Rivoluzione francese ormai inarrestabile; Don Fabrizio continua a immaginare per lui un avvenire brillante, lo vede ambasciatore a Vienna, considera la figlia

Concetta un ostacolo al suo futuro ambizioso e favorisce invece la sua “ragionata passione” verso il cospicuo matrimonio. Tuttavia, man mano che la coppia Tancredi-Angelica, sintesi del nuovo blocco sociale in ascesa, acquista forza narrativa e si afferma in società (dal III capitolo in poi), nel principe si accentuano un disagio profondo e un distacco ironico e disincantato dal mondo terrestre. Questo avrà due effetti: l’accentuarsi del desiderio siderale verso una Totentanz che coinvolgerà via via tutto il mondo principesco in una fine, questa sì, “irredimibile”, e soprattutto il rifiuto a partecipare politicamente al nuovo regime sabaudo negandosi di fatto al trasformismo che pure aveva sostenuto nel nipote. Siamo al secondo fulcro ideologico del Gattopardo, che costituisce l’antitesi del primo e culmina nel colloquio con Chevalley: il rifiuto etico, esistenziale e politico del trasformismo. In una serrata dialettica fra Don Fabrizio e la Storia, fra Lampedusa e la Contemporaneità, il principe, a dispetto di quanto sostenuto apparentemente fino ad adesso, non accetta di aderire al nuovo corso e lascia emergere un autentico scetticismo verso lo Stato che sta nascendo. Nel dialogo che chiude il IV capitolo si racconta il reale rifiuto del principe Giulio Fabrizio, bisnonno di Lampedusa, di entrare a far parte del Senato di Torino. Qui il personaggio di Don Fabrizio rifiuta esplicitamente di seguire la linea di Tancredi che pure aveva approvato. E sempre qui Lampedusa fa i conti con la storia, quella della propria classe, della propria famiglia e della nascita di una Nazione.

Ma – attenzione – lo fa usando linguaggio e modi da aristocratico, cioè, per citare un Verga ricordato da Sciascia, da “gente che in ogni cosa che dice mente due volte: se ha debiti dice di avere mal di testa”. Sarebbe quindi sbagliato cercare nel discorso di Don Fabrizio a Chevalley la semplice sincerità che possiamo trovare nelle parole di Ciccio Tumeo, di padre Pirrone a S. Cono e della stessa principessa Maria Stella quando è col marito nel talamo coniugale. O, peggio ancora, scambiarlo tout court per il punto di vista dell’autore. Il quasi soliloquio del principe davanti al missus dominicus di casa Savoia è l’apoteosi dell’ambiguità e dell’implicitezza, oltre che, come notato da Giacinto Spagnoletti, un rifarsi a concetti espressi da Michele Amari nella Storia dei musulmani di Sicilia, e in altre opere in voga all’epoca risorgimentale. Concetti che, a nostro parere, Lampedusa ripropone come un verosimile divagare salottiero del tempo, mirabilmente realista nella sua aristocratica ipocrisia affabulatrice. Tanto più realista in quanto un colloquio simile dev’esserci stato davvero, e non è difficile credere a Lampedusa quando ci propone nelle parole di Don Fabrizio i mille espedienti retorici che il bisnonno Don Giulio dovette usare in quel frangente per sbattere con garbo la porta in faccia al nuovo Re. Dopo aver ascoltato indifferente il cavaliere di Monterzuolo offrirgli il laticlavio, Don Fabrizio si profonde in un lungo discorso dove usa una sorta di plurale maiestatis (“noi Siciliani”) nel quale parla dei siciliani per parlare di se stesso, e parla di se stesso e della sua classe parlando dei siciliani. Quando le timide ma congrue obiezioni di Chevalley smontano – perché Lampedusa le vuole smontare – le generiche e abusate ragioni

etniche del sonnambulismo dei siciliani, Don Fabrizio si corregge e giustifica con altrettanto abusate ragioni geografiche: “Ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano […]; questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi […]; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo”. Sono parole che lasciarono perplessi i recensori di sinistra, convinti che Lampedusa si fosse impegnato a tessere un qualunquistico inno all’immobilismo isolano. Ma se non ci si lascia sedurre dall’affascinante prosa e dalle suggestive immagini evocate sulla scorta dell’Amari, il monologo di Don Fabrizio appare il gioco del gatto col topo. Il bell’eloquio, di formidabile realismo, deve servire da diplomatico ammortizzatore all’offesa del rifiuto ed evitare al principe di passare davanti all’emissario sabaudo per un reazionario, un nostalgico filoborbonico. Nel suo studio, davanti ai quadri degli antenati, con la “zampaccia” che stringe una cupola di San Pietro in miniatura (simbolo dell’autorità della Chiesa, del potere assoluto dei papa-re e anche di quella Roma in cui si sono rifugiati i Borbone e che i Savoia devono ancora espugnare), Don Fabrizio resiste abilmente alle manovre diplomatiche di Chevalley. Finché non decide che il gioco felino è finito, e dal plurale maiestatis passa all’io, reale e concreto, con una risposta finalmente esplicita: “Non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, ed a questo legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto […] Voi adesso avete appunto bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché, che siano abili a mascherare, a

contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità pubbliche” (e qui sembra tracciare il profilo di Tancredi). Il principe “privo di illusioni” politicamente non vuole “porgere un dito”; anzi, rimprovera a Chevalley, “troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento”, tanto più che fra quelle cose “molto sia stato male”. Più chiaro di così. Ma non basta. L’ultima stoccata da Pari del Regno di Sicilia termina con uno sprezzante affondo: la proposta per la Camera Alta di Torino del genero di Peppe ’Mmerda. “C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedara. Egli ha più meriti di me per sedervi: il casato, mi è stato detto, è antico o finirà per esserlo; più che quel che lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza di meriti scientifici egli ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi di maggio più che ineccepibile è stata utilissima: illusioni credo non ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per crearsele quando occorra.” Il lungo discorso di Don Fabrizio a Chevalley è tutto meno che apologia del trasformismo, o decadente rimpianto dei tempi che furono, o ancora lirismo di seconda mano su una Sicilia irredimibile, votata al sogno e nemica del fare, con il quale ancora si ama confezionare la Questione meridionale. Per dimostrare quanto poco Lampedusa creda a questa retorica dell’immobilismo del Sud è sufficiente mettere a confronto le seducenti parole del principe sulle ragioni geopolitiche, se non razziali, presunte cause delle condizioni dell’isola, con le osservazioni – questa volta del narratore

Lampedusa – a proposito dei brogli durante il plebiscito: “Don Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una buona parte della neghittosità, dell’acquiescenza per le quali durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questi si fosse mai presentata”. La divergenza è totale. Ma, appunto, qui è Lampedusa che parla, là è il personaggio Don Fabrizio che sta snobbando l’offerta di Chevalley, accampando scuse fittizie perché ha già deciso di abbandonare, consapevolmente e con determinazione, la sua partita con la Storia. Il “No” del principe a Chevalley è l’ultimo gesto da Gattopardo con il quale, rifiutando apertamente l’occasione di mettere in atto il programma politico di Tancredi, Don Fabrizio decide di restare dalla parte dei vinti, la sua e quella del “suo Re”. Disillusione, mancanza di coraggio, resipiscenza di fedeltà borbonica, rifiuto di partecipare a un progetto politico nato male, il principe comunque rinnega il trasformismo del nipote e sceglie di dire “No” (dopo aver votato un falso “Sì”). E mentre il messo del nuovo Stato se ne va, questo eroe crepuscolare pronuncia il romantico vaticinio che ribalta il mantra di Tancredi: non è vero che non cambierà nulla, anzi. “Dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.” Con queste parole, Don Fabrizio lascia il ruolo di protagonista della storia e della Storia, uscendo deliberatamente dagli ingranaggi del Progresso e spostandosi ai margini dell’intreccio del romanzo.

Dopo il rifiuto del laticlavio Don Fabrizio si limita infatti a essere un semplice testimone dello scolorire della sua classe, che culmina nel Götterdämmerung rappresentato dal ballo di palazzo Ponteleone. La scena passa ai due giovani Angelica e Tancredi: persi nel loro viaggio amoroso per le soffitte del palazzo di Donnafugata, evocati nella coppia rustica e miserabile di Angelina e Santino, in cui si replicano deformate e plebee le ragioni dell’unione Sedara-Falconeri, trionfanti infine nel VI capitolo con il valzer fra Don Fabrizio e Angelica, nel quale si consacra il patto fra la vecchia aristocrazia e la ricca borghesia protetta dalle armi del colonnello Pallavicino. Il principe tornerà protagonista nel VII capitolo ma solo per suggellare con la sua morte la fine della propria dinastia (“Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui”) e il fallimento politico e sociale della propria classe (pensando al suo erede Fabrizietto, destinato a diventare il nuovo principe di Salina, lo disconosce per “la sua doppia dose di sangue Màlvica, con gli istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza borghese”). Siamo alla sconfitta “genetica” (il doppio sangue Màlvica) e “sociale” della stirpe (che si avvia verso un degrado borghese). A questa disfatta si unisce l’ammissione del fallimento politico, la sconfitta definitiva del piano controrivoluzionario di Tancredi: “Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto,” mormora il principe moribondo. I Salina non sarebbero più stati i Salina. Ma il romanzo non termina qui. Ci aspetta la fine della fine, terzo fulcro ideologico del romanzo, che ha nella riflessione sulla verità e

nel suo disseppellimento una sorta di chiusura a cerchio che, come in un vortice, costringe a rileggere tutto il romanzo alla luce di una nuova rivelazione. L’ultimo capitolo del Gattopardo è stato quasi del tutto ignorato dalla critica. Bo, primo recensore, lo definì addirittura “un’appendice inutile”. Alicata lo considerò “particolarmente bello” ma solo “come racconto in sé essendo però più di tutti gli altri completamente estraneo ad ogni altra esigenza strutturale del romanzo”. Né Alicata né Bo, nel momento in cui esprimevano quei giudizi, sapevano che quel capitolo era presente nel progetto del Gattopardo fin dall’inizio; lo rivelerà Gioacchino Lanza Tomasi, diversi anni dopo la morte di Lampedusa. L’autore, dunque, attribuiva all’ultimo capitolo un’esigenza strutturale e di senso ben precisa. Un intento ribadito esplicitamente nella lettera a Merlo (“tengo molto agli ultimi due capitoli”), resa però nota solo nel 2001. Quel poco di critica che si è soffermata sull’VIII capitolo lo ha fatto analizzando per lo più la parte dello smantellamento delle reliquie e il finalissimo con il volo di Bendicò. In modo singolare, l’episodio dell’incontro di Tassoni con Concetta è stato non solo ignorato ma persino rimosso dalla critica: non ne parla quasi nessuno. E invece è meglio ritornarci. Siamo nel 1910, Tancredi non è più tra i vivi, ma vi ritorna “attraverso quegli acquitrini del tempo che gli scomparsi possono tanto di rado guadare”. A evocarlo sono le parole dell’ex compagno d’arme Tassoni, giunto a Palermo per festeggiare i cinquant’anni dallo sbarco di Marsala. Il vecchio garibaldino ha voluto

incontrare Concetta per realizzare, nel vederla, “un sogno della mia gioventù lontanissima”. Le parole del senatore Tassoni compiono il miracolo di un doppio balzo indietro nel tempo. Ci ritroviamo prima nel 1900 all’Opera di Vienna dove Tancredi, appena diventato ambasciatore (proprio come sognava lo zio), si confida con l’amico tra un atto e l’altro del Don Giovanni, e gli confessa “un peccato, un suo imperdonabile peccato” commesso tanto tempo prima contro la cugina Concetta. Il tempo corre di nuovo a ritroso, riportando la vecchia signorina all’estate nel 1860, la stagione fatale in cui tutto venne deciso: le sorti dell’Italia, quelle dei Salina, e anche i destini di Concetta, Tancredi e Angelica. “Si figuri,” rievoca Tassoni, “che ci raccontò come una sera, durante un pranzo a Donnafugata, si fosse permesso di inventare una frottola e di raccontarla a lei; una frottola guerresca in relazione ai combattimenti di Palermo; e come lei lo avesse creduto e si fosse offesa perché il fatterello era un po’ audace secondo l’opinione di cinquant’anni fa. Lei lo aveva rimproverato. ‘Era tanto cara’ diceva ‘mentre mi fissava con i suoi occhi incolleriti, e mentre le labbra si gonfiavano graziosamente per l’ira come quelle di un cucciolo; era tanto cara che se non mi fossi trattenuto l’avrei abbracciata lì, davanti a venti persone ed al mio terribile zione’.” L’improvvisa rivelazione porta Concetta a rivivere con una consapevolezza nuova anche la scena avvenuta il giorno successivo davanti al convento della Beata Corbera, quando per ripicca aveva ottenuto dal padre che il cugino rimanesse fuori dalle sacre stanze: “Soffrì quando le tornò in mente l’accento supplichevole di Tancredi mentre pregava lo zio di lasciarlo entrare nel convento;

erano state parole di amore verso di lei, quelle, parole non comprese, poste in fuga dall’orgoglio, e che di fronte alla sua asprezza si erano ritirate con la coda fra le gambe come cuccioli percossi”. Dunque Tancredi l’aveva amata. L’amava mentre fanfaroneggiava con Angelica, l’amava quando voleva visitare il convento per farsi perdonare, l’amava forse ancora molti anni dopo, confessandosi con l’amico Tassoni. Siamo di fronte a un colpo di scena degno di un popolare feuilleton. Un colpo di scena che ci illumina, tra l’altro, sul carattere di Tancredi: non più un Mirabeau opportunista ma un giovane timoroso e rispettoso dello zio, che, ora scopriamo, era stato per lui uno zio “terribile”. Un colpo di scena che ci porta a rileggere, insieme a Concetta, quasi dall’inizio larga parte delle vicende raccontate dal romanzo. Davanti al convento della Beata Corbera, escluso dal privilegio di famiglia e umiliato dalla cuginetta che lo costringe a star fuori insieme al famiglio padre Pirrone, Tancredi si decide a mettere in pratica anche nel privato il suo programma politico e sociale: cambiare qualcosa per salvare tutto il resto. Ecco il ricco matrimonio con Angelica, “bella anfora colma di monete”, che “l’infatuazione sessuale” e lo spirito del 1860 rendono agli occhi di tutti (lettore compreso) liberale, d’amore, splendido e quanto mai opportuno. Per il principe di Falconeri quella mésalliance è invece molto concretamente un sacrificio necessario alla sopravvivenza della sua casa e al riscatto dei suoi feudi. Per lui la bella Angelica è stata come la “disciplina” per il duca-santo: “Vedi, tu sei come quell’arnese lì, servi agli stessi scopi,” aveva detto alla bella fidanzata, indicando la frusta con cui secoli addietro Giuseppe Corbera “si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del

proprio feudo”, e nell’esaltazione del martirio all’antenato sembrava che “solo mediante questo battesimo” di sangue quelle terre “divenissero realmente sue”. “Invece le zolle erano sfuggite […] appartenevano ad altri, a don Calogero anche: a don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al suo futuro figlio,” aveva sperato Tancredi come in una vertigine. Angelica, beata lei, non aveva compreso. Concetta invece comprende, ma con molti anni di ritardo. Attraverso le parole di Tassoni arriva la verità di Tancredi, una verità che solo la gattopardina, e solo troppo tardi, può interpretare e capire. Tancredi ha realizzato le ambizioni di Don Fabrizio, è diventato ambasciatore a Vienna, ma anche per lui, com’era accaduto per lo zio, nulla è rimasto come prima. Il supplizio della mésalliance è stato inutile: le “zolle”, i feudi che Tancredi guardava dalla stanza del duca-santo, non erano rientrati in suo possesso, il figlio atteso non era arrivato e i Falconeri erano finiti con Tancredi, come i Salina erano finiti con Don Fabrizio. Anche la sconfitta di Tancredi è una disfatta fisica, totale. Cinquant’anni dopo, Angelica e Tancredi, i due giovani belli e appassionati del IV e del VI capitolo, si rivelano essere stati, come denunciano i loro stessi nomi, dei poveri pupi manovrati dai pupari Don Fabrizio e don Calogero. Del loro erotico corpo a corpo nelle soffitte di Donnafugata restano un vinto Tancredi e una vincitrice Angelica che sale ormai vecchia i gradini della scala di villa Salina (replicando cinquant’anni dopo l’ascesa del padre in frac al palazzo di Donnafugata), attesa da una Concetta che ancora le oppone uno “sguardo imperiale”.

Con la sconfitta di Tancredi, Lampedusa porta all’estrema conseguenza il suo definitivo verdetto sul trasformismo. Siamo agli antipodi dell’opportunismo sopraffattore degli Uzeda, e se a questo punto un parallelismo con De Roberto è possibile, è solo a contrario. In estrema sintesi Il Gattopardo dovrebbe essere considerato l’antiViceré e non tanto perché, come scrisse Bassani, in Lampedusa non c’è “nessun residuo di pedanteria documentaria, di oggettivismo naturalistico”, ma proprio perché Il Gattopardo è la condanna assoluta, politica ed etica, del trasformismo per la sua essenza “ignobile”, che ha nel tradimento il suo specchio narrativo, mentre I Viceré del trasformismo sono proprio il manifesto. Nel Gattopardo il tentativo trasformista dei Salina/Falconeri fallisce, mentre nei Viceré il trasformismo degli Uzeda trionfa. L’antitesi si deve non solo alle origini sociali dei due autori ma anche alle diverse epoche in cui i romanzi sono stati scritti. Nel 1894, quando De Roberto licenziò I Viceré, la Palermo dei Florio era ancora una delle capitali europee della Belle Époque, la mondanità fioriva attorno ai Whitaker e agli Ingham-Woodhouse; i palazzi Trabia, Mazarino, Scalea, Villafranca, Cutò erano ancora lo splendido epicentro di una douceur de vivre tutta meridionale; all’osservatore esterno di quel mondo poteva davvero sembrare che per l’aristocrazia siciliana tutto, in fondo, fosse rimasto com’era prima dell’arrivo di Garibaldi. Lampedusa invece medita e scrive Il Gattopardo negli anni cinquanta: le bombe americane hanno ridotto in macerie il suo e altri splendidi palazzi, l’importanza economica della Sicilia è al minimo storico, l’emigrazione sta per toccare la punta massima del secolo, la mafia sta dilagando sul territorio; quanto all’aristocrazia, essa è svanita

con la Repubblica, e la riforma agraria, soprattutto al Sud, sta comprimendo il latifondo. La ragione per cui la critica ha rimosso l’episodio di Tassoni e Concetta è probabilmente da ascriversi a un pregiudizio squisitamente snobistico: quel colpo di scena da feuilleton, quel controfinale melodrammatico, proprio da romanzo popolare (Lui aveva sposato l’Altra ma in realtà aveva sempre amato e rimpianto Lei), ha costruito attorno al suo contenuto profondo un recinto di cavalli di Frisia che ha impedito l’avvicinamento di ogni riflessione che si pretendesse seria. Pregiudizio snobistico, e forse anche scarsa fiducia in Lampedusa. Ci si trovava di fronte a un esordiente al quale si poteva in fondo perdonare, ignorandolo, quel piccolo scivolone da educanda sentimentale. E invece, oggi sappiamo, Lampedusa detestava sommamente melodramma ed esplicitezze, adorava gli autori “magri” e aveva il timore di esser lui stesso scrittore troppo “grasso”. Quei timori e il suo lavoro di lima ci hanno consegnato un romanzo “grasso” nella sua affabulazione, nei suoi colori, nelle sue indulgenze verso il lettore, ma anche pieno di implicitezze “magre” (e di ossimori, come ha osservato Edoardo Sanguineti). Ma si può davvero pensare che un letterato così colto e sofisticato si abbandoni a un finale così “grasso”, melodrammatico, persino “lialesco”, se non volesse in realtà usare quello schermo “grasso” per raccontare da autore “magro” un’altra storia, se non volesse nascondere anche qui un sottotesto, un segreto, il segreto del vero motivo per cui Il Gattopardo è stato scritto? Per arrivarci occorre però risolvere l’ultimo enigma. Non abbiamo finito di ascoltare la verità

raccontata da Tassoni e compresa solo da Concetta che subito Lampedusa si chiede: “Ma era poi la verità questa?”. E la domanda spariglia di nuovo tutto. “In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve,” insiste Lampedusa: “Il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, trasfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagl’interessi: il pudore, la paura, la generosità, il malanimo, l’opportunismo, la carità, tutte le passioni, le buone quanto le cattive, si precipitano sul fatto e lo fanno a brani; in breve è scomparso. E l’infelice Concetta voleva trovare la verità di sentimenti non espressi ma soltanto intravisti mezzo secolo fa! La verità non c’era più. La sua precarietà era stata sostituita dall’irrefutabilità della pena.” Tutto il romanzo cerca lettori attenti, ma quest’ultimo brano li pretende particolarmente attivi. Quei pochissimi studiosi che hanno accettato la sfida di questo “passo sconcertante” lo hanno visto come un “dubbio irrisolvibile”, un punto critico su cui “la narrazione rimane di proposito non conclusa”, tutt’al più definibile secondo categorie semiotiche come “prospettiva delle prospettive” o “mise en abyme”. Oppure, più semplicemente, lo hanno riportato nell’alveo della letteratura siciliana, risolvendolo come “stigma pirandelliano”: la verità, così com’è stata raccontata fino a questo momento, sarebbe stata messa in mora, l’ambiguità avrebbe preso il posto di ogni certezza, fattuale e sentimentale. Di certo il romanzo a questo punto subisce uno scarto e su questo scarto Lampedusa ha inserito la sua riflessione proponendo il terzo fulcro ideologico del romanzo: l’esistenza della verità e la possibilità di conoscerla. Verità che in un

romanzo “storico” – e Il Gattopardo lo è, nei canoni che si è detto – è una verità che guarda direttamente alla Storia. La verità e non la fine, o meglio la verità che hegelianamente si conosce solo alla fine, è il tema profondo di questo ultimo capitolo. Una verità che, pirandellianamente, viene affermata e contraddetta e ancora riaffermata in una struttura certamente in abisso che, proprio ossimoricamente, inabissandosi svela, negandosi afferma. Da quando Concetta “cominciò a veder più chiaro”, la verità per svelarsi attraversa tre piani. Dapprima abbiamo per Concetta “la rivelazione della verità”. Questa viene subito messa in dubbio: “Ma era poi la verità questa?”. Lampedusa poteva fermarsi qui, ai soli fatti certi che restano: “La verità non c’era più”, al suo posto c’è solo “l’irrefutabilità della pena”. E invece quella verità così inconsistente, appena intravista “mezzo secolo fa”, ha tanta forza ed è talmente vera da “esasperare” Angelica, costringendola a riaffermare con Tassoni la sua versione dei fatti: Concetta “era pazzamente innamorata di Tancredi ma lui non aveva mai badato a lei”. Solo a questo punto Lampedusa dice la sua: “E così, una nuova palata di terra venne a cadere sul tumulo della verità”. Ecco la risposta: la verità esiste, ma è seppellita da palate di terra. È occultata sotto un sepolcro, ma c’è. Non può né vuole riconoscerla Angelica, non può provarla né a se stessa né a nessun altro Concetta, non la comprende il messaggero Tassoni, ma l’autore la conosce e tenta di trasmetterla al lettore. Lampedusa non è un autore scettico, tutt’altro, è solo disilluso: sa che su questa terra (nella grande metafora che è la Sicilia) la verità è

presto viziata, e si rivela orficamente solo a un interlocutore che dorme, come l’erbuario caduto nel sonno davanti a un vaticinante padre Pirrone, ovvero la si profeta ispirati da Bacco come fa il colonnello Pallavicino, può essere conosciuta solo in Cielo a consolazione degli onesti (Ciccio Tumeo: “Meno male che in Paradiso si conosce la verità”), o infine giungere dal mondo dei morti attraverso gli “acquitrini del tempo”. Ora, la verità che preme a Lampedusa e sulla quale si arrovella non è certo quella di una semplice storia d’amore. La verità alla quale punta, implicitamente, è la verità storica, e il suo rapporto con il potere e i vincitori. Per far questo ci racconta anche la vicenda delle reliquie di casa Salina, dove ancora una volta verità e autenticità sono il perno dialettico. Con le reliquie si ripropone il paradosso della verità terrena: essa per esistere deve essere affermata, ovvero riconosciuta, e per essere affermata e riconosciuta dev’essere certificata da un potere. Alla fine le reliquie saranno tutte false, tranne cinque, decreterà il sacerdote don Pacchiotti (un piemontese); falsa pure la Madonna della Lettera ritenuta un tempo miracolosa, affermerà l’arcivescovo di Palermo (anche lui di origini settentrionali). Eppure reliquie e immagini fino a quel momento erano state venerate come vere. Fino a quando i Salina avevano avuto il potere di affermare la loro autenticità (vera o falsa che fosse), la Chiesa non aveva mai sollevato alcun dubbio. Ma adesso i tempi sono cambiati. È il 1910: non siamo solo nel cinquantenario dei Mille ma anche all’indomani della fine del “non expedit” di Pio IX, della creazione dell’Unione Elettorale Cattolica Italiana di Vincenzo Gentiloni. I cattolici sono pronti a rientrare in politica, e tramite loro la Chiesa col patto

Gentiloni si appresta ad accordarsi con l’odiato Stato sabaudo, ad allearsi con i nemici di un tempo, i liberali ora guidati da Giolitti. Dei Salina la Chiesa non ha più bisogno. Torna l’eco delle parole di Don Fabrizio a padre Pirrone: “E credete voi che se [la Chiesa] potesse adesso o se potrà in futuro salvare se stessa con il nostro sacrificio non lo farebbe?”. La distruzione delle reliquie è l’ultimo colpo inferto al prestigio dei Salina. E, a ben vedere, non è forse la debellatio delle reliquie, cioè degli dei Penati, l’estremo annientamento imposto dal vincitore al vinto? Attraverso il colpo di teatro sull’amore di Concetta prima, e dell’autenticità delle reliquie poi, Lampedusa porta la sua riflessione sulla verità dei vinti che sempre viene negata dai vincitori. Al vinto Lampedusa sono rimaste però almeno le memorie, “i ricordi vitali”, da conservare finché arriverà il tempo di poterli raccontare. A quasi cento anni dall’Unità d’Italia, la verità del principe di Lampedusa (l’antenato, lo scrittore e l’alias romanzesco con l’isola cambiata) non ha il potere per essere affermata ma può essere tramandata come una memoria, un mémoire, un messaggio trasmesso attraversando gli acquitrini del tempo e i sentieri della letteratura: nascondendosi dietro uno schema da feuilleton Lampedusa gioca, da scrittore “grasso”, sulla verità ultima di una storia (quella del triangolo Concetta-TancrediAngelica), ma nello stesso tempo, implicitamente, riflette sulla verità storicopolitica vissuta dai protagonisti del romanzo, cioè dai suoi antenati e quindi di riflesso da lui stesso. Sia per la storia di Concetta, sia per la Storia che si è dipanata dal 1860, “la verità non

c’era più. La sua precarietà era stata sostituita dall’irrefutabilità della pena”. Per Lampedusa la pena irrefutabile sono i palazzi perduti, i titoli nobiliari ormai privi di significato, la mancanza di un erede (come per Tancredi): non è rimasto più nulla da perpetuare se non i ricordi vitali dell’infanzia. Come sulla verità della vinta Concetta interviene con prepotenza la verità ufficiale della vincitrice Angelica (e come sull’autenticità delle reliquie interviene il giudizio di ecclesiastici del Nord), così sulla storia dell’Unità d’Italia è intervenuta la versione dei vincitori. Con la stessa arroganza e ottusa indifferenza. Lampedusa lo ha già fatto dire dal suo alter ego di cent’anni prima, nel lungo quasi-monologo davanti a Chevalley, con parole che irritarono non pochi critici di sinistra e furono ignorate da tutti gli altri: “Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato di cose, qui ed altrove, è del feudalesimo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalesimo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squire inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina”. Alla verità ufficiale, cento anni dopo Lampedusa oppone questo romanzo che nasconde – sotto il bello stile, il decadente cupio dissolvi, gli assolati luoghi comuni – la verità della sua classe perdente, seppellita sotto le palate di terra che il tempo e i tanti Sedara hanno lasciato cadere. Altro che pirandellismi; Pirandello è la maschera che permette a Giuseppe Tomasi di nascondere il volto mentre

racconta la sua pena eterna, che si sintetizza nella perdita di quel “per sempre” ricorrente lungo le sue pagine che è il vero privilegio feudale. Questo, e solo questo, è l’immobilismo caro al principe, la certezza che “i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina”, un’eternità umana che, con il tramandarsi di nomi, titoli e possesso, aveva permesso alla sua classe di credersi immortale, simile agli dei e ai tritoni affrescati sui soffitti di villa Salina e di palazzo Ponteleone. E se pure la verità del racconto, come quella dei fatti (e della Storia), “ha vita breve”, quello che resta di autentico è un punto di vista fissato nella memoria. Lo rivelava chiaramente Tomasi di Lampedusa agli amici Lajolo e Merlo: Il Gattopardo è appunto il racconto di come la nobiltà siciliana abbia reagito prima e sia decaduta dall’Unità d’Italia in poi, dal punto di vista di uno di loro, cioè “dal di dentro” e “con una certa compartecipazione”. Una compartecipazione che non rinuncia mai alla lucidità di analisi. Se è vero che in tutto Il Gattopardo soffia un vento antirisorgimentale e la nascita della nazione Italia resta “una rumorosa, romantica commedia con qualche macchiolina di sangue sulla veste buffonesca”, non si può non riconoscere a Lampedusa di aver fatto con Il Gattopardo anche una critica spietata alla sua stessa classe, incapace di inserirsi nel gioco della Storia governandola, colpevole di essersi o astenuta (come Don Fabrizio) o di aver tradito il suo legittimo sovrano (come Tancredi) senza saper riscattare – macchiavellisticamente, certo – quel “peccato” tendendo la “zampaccia” all’onesto piemontese che veniva, pur sempre, a chiedere aiuto per costruire l’Italia. Una classe colpevole di aver invece lasciato per orgoglio il giovane Stato italiano fra le braccia dei Sedara,

come per orgoglio Concetta aveva lasciato Tancredi fra le braccia di Angelica. Ma questa autocritica è tanto più difficile leggerla proprio perché Lampedusa la fa “dal di dentro”, con “compartecipazione”, diciamo pure con affetto verso gli avi, che sbagliarono. La fa come se avesse dovuto sistemare degli affari di famiglia, condannando e nello stesso tempo perdonando. C’è l’affetto del bisnipote che rimprovera l’avo di aver guardato troppo alle stelle e poco alle zolle che s’involavano, di non aver agito pensando al “sempre” come fanno gli dei (e come avrebbe dovuto fare un Gattopardo), ma occupandosi dell’hic et nunc come ogni altro mortale. L’improvvisa scoperta di Concetta è la rappresentazione della dolorosa presa di coscienza dell’intellettuale Giuseppe Tomasi che le cose sono andate male (per sé, per la propria famiglia, per l’Unità d’Italia), ma che avrebbero potuto andare diversamente se il bisnonno non si fosse accontentato di “cento anni” di sopravvivenza e rinunciato a prendere obblighi verso chi non avrebbe potuto accarezzare, cioè “gli eventuali discendenti nell’anno 1960”, cioè lui stesso. Nell’ultima pagina, la decisione di Concetta di gettare via la carcassa di Bendicò con tutte le sue memorie è un gesto liberatorio che accomuna anche Tomasi nei confronti del suo passato. I conti con la Storia, con i Lampedusa, con il Gattopardo sono stati saldati. Restano da saldare i conti con le stelle. Quelle stelle che Don Fabrizio aveva scrutato e usato come morfina contro il male di vivere vengono stavolta irrise per tramite di Bendicò in un gesto di esecrazione (“e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare”): dietro quella carogna danzante e bestemmiante c’è la rabbia finalmente

consapevole di Concetta, e il giudizio inquieto e per nulla conciliante del Lampedusa scrittore e del Lampedusa discendente. Con la presa di coscienza di Concetta, con la scoperta di una verità seppellita, e il recupero della memoria dei vinti arriva nell’ultimo capitolo la risposta che nelle prime pagine del romanzo Don Fabrizio non riusciva a dare all’ultimo dei vinti, il soldatino borbonico che chiedeva di conoscere la verità sullo scopo della propria morte: “Occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata”. Ma si sbaglierebbe più che mai (e si sbagliò assai, da parte di critici deviati dall’impeto politico) a leggere nel Gattopardo una visione filoborbonica, conservatrice o filoaristocratica tout court. Non si deve confondere la volontà di tramandare la verità dei vinti con il tentativo di avallare il primato dell’aristocrazia o peggio con l’elogio del regime borbonico. Tutt’altro, Lampedusa ammirava la Rivoluzione francese (dalle Lezioni di Letteratura francese: “È degna di ogni ammirazione; possiamo perdonarle tutto: gli assassinii, i massacri, le idiozie per il merito del bene fatto e della sovrumana energia spiegata”, ammirazione e perdono che Lampedusa non concede invece all’operazione sabauda). Di questa ammirazione ha voluto lasciare traccia nel Gattopardo. In modo del tutto lampedusiano, cioè implicito, ce lo rivelano i pensieri di Don Fabrizio: non solo e non tanto affermando alla notizia dello sbarco garibaldino che “questo era il paese degli accomodamenti”, dove “non c’era la furia francese”, ma soprattutto nel VI capitolo.

Durante il ballo, al culmine di quella Totentanz che partendo dalla coppia Angelica-Tancredi avvolge tutto (ballerini, pouf, i parfaits, fino alle suppellettili ridotte da don Calogero a calcolo in “salme” di terra, e si noti la connotazione mortuaria dell’unità di misura), il principe sente l’afflato della morte, e il suo distacco verso i consimili cede il passo alla compassione: “Com’era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? Voleva dire essere vili come le pescivendole che sessant’anni fa oltraggiavano i condannati nella piazza del Mercato”. Don Fabrizio pensava alla Repubblica napoletana del 1799, l’inizio della fine per la monarchia borbonica. Sessant’anni prima del ballo dai Ponteleone, le pescivendole nella piazza napoletana del Mercato schernivano i giacobini meridionali, condannati a morte dal cardinale Ruffo chiamato a ricostituire l’ordine e far tornare il Re Borbone. Allora a morire per la rivoluzione c’erano i figli dell’aristocrazia napoletana, che avevano tentato di riportare il Sud nel corso della Storia: su quel patibolo era cominciata la decollazione delle migliori classi dirigenti meridionali, ad opera di un potere ottuso e di un popolo compiaciuto della propria ignoranza. Se proprio si volesse riconoscere al Gattopardo un’istanza aristocratica, la ritroveremmo nella denuncia del fallimento del potere liberale di allora e della incapacità italiana di selezionare le proprie classi dirigenti. In questo Bassani aveva senz’altro ragione, Il Gattopardo possiede “un’acutissima percezione della realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea, dell’Italia di adesso”, del 1958. E dell’Italia di dopo, di oggi, forse purtroppo anche di domani. La delusione, il senso di morte

che avvolgono tutto il romanzo non sono nostalgia né sterile pessimismo ma piuttosto il rammarico per l’emergere di quella nuova classe dirigente fatta di sciacalletti e di iene, abituata alla rapina piuttosto che alla conquista, rappresentati da don Calogero: “Era all’affermarsi di lui, di cento altri suoi simili, ai loro oscuri intrighi, alla loro tenace avarizia e avidità che era dovuto il senso di morte che adesso incupiva quei palazzi”. Un male germinato per aver totalmente dismesso, nella selezione delle classi dirigenti, la sempre evocata “meritocrazia”. E che altro è la meritocrazia se non l’applicazione – borghese, se vogliamo – del principio aristocratico nel senso più alto del termine?

Cinque Il colpo dello Strega Spesso il tempo s’incarica di cancellare le tracce del particolare contesto in cui certe prese di posizione nascono e sono divulgate, facendo dimenticare che sulle ragioni ideologiche ed estetiche si innestano a volte anche motivazioni diverse. Ma il calendario parla chiaro. Il saggio di Alicata che dà la linea sul Gattopardo viene pubblicato nell’aprile 1959. Il momento è strategico. Proprio in quei giorni si apre una nuova contesa, più segreta e sotterranea, in vista di un prestigioso riconoscimento letterario, il premio più famoso e ambito. Lo Strega. Sono giorni decisivi per orientare la comunità letteraria italiana che sta decidendo quali libri candidare. Mancano due mesi allo scadere dei termini per la candidatura e l’opinione autorevole del dirigente comunista fa del Gattopardo un romanzo ufficialmente “non grato” al Pci. Il premio Strega è nato nel 1947 per opera di Maria e Goffredo Bellonci, e grazie al mecenatismo dell’industriale Guido Alberti, produttore insieme al fratello Giuseppe del famoso liquore Strega. Il regolamento è molto semplice: riuniti sotto il nome di “amici della domenica”, gli ospiti del salotto Bellonci, vasta cerchia di scrittori, poeti, sceneggiatori, drammaturghi, professori di lettere, giornalisti con mogli e amici amanti delle lettere, devono votare il loro libro preferito fra quelli usciti nell’ultimo anno. Prima viene scelta una cinquina di finalisti e in seconda battuta si elegge il vincitore. Per partecipare al premio il libro deve

essere presentato ufficialmente da due padrini; e da quando Curzio Malaparte, nel 1950, rifiutò polemicamente di far concorrere il suo La pelle, il regolamento impone espressamente che la presentazione sia accettata dall’autore. Nella primavera del ’59 la candidatura allo Strega del romanzo di Tomasi di Lampedusa sembrava sempre più probabile. Già all’inizio di febbraio Mario Soldati aveva telefonato alla Bellonci, galvanizzato dal grande testamento letterario che Lampedusa era riuscito appena in tempo a lasciarci. “Lui ce l’ha fatta,” ripeteva alla Bellonci con un misto di entusiasmo e di angoscia, “e noi non sappiamo se ce l’abbiamo fatta e se ce la faremo mai.” Soldati non era il solo che stava pensando al Gattopardo come cavallo vincente verso il Ninfeo di villa Giulia. In tre mesi Maria Bellonci aveva raccolto una trentina di proposte a favore del romanzo. A fine aprile, però, nessuno aveva ancora formalizzato la candidatura. Qualcosa inibiva gli entusiasmi verso questo outsider, anche a prescindere dal giudizio di Botteghe Oscure. Sembrava che lo straordinario successo di pubblico, soprattutto borghese, avesse reso i critici più sospettosi. Lo snobismo dei “marescialli di Francia”, che aveva punto l’orgoglio di Lampedusa a San Pellegrino, tornava a farsi vivo e a indirizzarsi contro il suo romanzo. Da parte dei critici e degli scrittori di sinistra, o vicini alla sinistra, l’ostracismo divenne ancora più evidente. In La sera andavamo in via Veneto, Eugenio Scalfari ricorda soprattutto i malumori dell’autore di Agostino: “Moravia diffidava: in effetti, vedersi portar via il primato della narrativa da un romanzo storico, conteso per di

più dalla tradizione e dall’avanguardia, era quanto di peggio gli potesse capitare. Nel salotto di Luisa Spagnoli si faceva mattina attorno al quesito se Tomasi avesse scritto un romanzo popolare, nel senso definito da Asor Rosa, o se avesse prodotto un frutto tardivo sul tronco dei Viceré di De Roberto”. Lo stesso Alicata non esitava a sbandierare il proprio antigattopardismo, con il proverbiale impeto, anche fisico, di cui era capace; Maurizio Valenzi, che passerà alla storia come il primo sindaco comunista di Napoli, ricordava una cena a Roma, presente anche il pittore Renato Guttuso: “Qualcuno si azzardò a parlare bene del romanzo di Tomasi di Lampedusa, e allora Alicata si scatenò in una polemica talmente violenta che nessuno si sentì di metterglisi contro”. In pochi giorni il movimento anti-Lampedusa si irrobustì e si organizzò, picchiando duro su due fronti, il dibattito letterario e i tecnicismi burocratici. Sulla trincea delle riviste specializzate, Renato Barilli, futuro esponente del Gruppo 63, scrive sul “Mulino” che “Il Gattopardo non apre nessuna nuova prospettiva, né può avere valore operativo nella situazione attuale”; Moravia interviene su “Nuovi Argomenti” riecheggiando esplicitamente Alicata: nel Gattopardo, “ultimo tentativo di fare un romanzo storico”, la storia è “negata”. Enrico Falqui, che non è neanche marxista, riprende il pensiero di Alicata in modo ancora più manifesto: “La storia esce diffamata dall’esperienza del Gattopardo; particolarmente la storia del Risorgimento in Sicilia. […] La verità siciliana avrebbe dovuto mitigare e correggere il pessimismo del Tomasi. Ma ‘pessimismo’ è il termine esatto per designare tanto aristocratico

reazionarismo e tanto antistorico conservatorismo?”. Intanto Moravia, per il quale l’ammissione del Gattopardo allo Strega sottintendeva una chiara polemica contro la narrativa moderna, presentava insieme a Gianfranco Contini Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini edito da Garzanti, mentre Vittorini proponeva insieme a Paola Masino Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri edito da Bompiani. Altri, fra cui Elsa Morante e lo stesso Pasolini (che pare abbia anche minacciato di ritirare la sua candidatura), provarono a eliminare dalla gara Il Gattopardo col grimaldello del regolamento: non era mai successo – argomentavano – che si desse il premio a un autore scomparso, tanto più che il principio istitutivo dello Strega era soprattutto di incoraggiamento. Presa fra più fuochi, Maria Bellonci replicava che in passato si erano iscritti al premio i romanzi postumi di Silvio D’Arzo e di Arturo Loria, anche se poi non avevano vinto. Più esplicito, l’avvocato nonché “amico della domenica” Ercole Graziadei, sostenitore del Gattopardo, cercava di convincere i contrari: “Se voi non accettate che il romanzo entri fra i concorrenti del premio,” andava ripetendo, “vi sottoponete alle critiche che si fanno di solito al Goncourt in Francia: di lasciar passare, cioè, i grandi libri facendo finta di niente. Con il sospetto, per di più, che qui la decisione sia legata a interessi di categoria. Non potrete salvarvi dall’accusa di voler trasformare il premio in un’opera assistenziale a favore degli amici vivi”. Con la Bellonci si confidava: “Sono scrittori e giudicano con criteri sindacali e non letterari”.

Casa Bellonci era ufficiosamente a favore della candidatura del Gattopardo. Goffredo lo aveva ottimamente recensito, e di fronte agli assalti dei detrattori mordeva il freno: rimandò un nuovo intervento sul romanzo a dopo il premio, ma solo per evitare un conflitto d’interessi. Maria, da parte sua, aveva sostenuto la validità del romanzo fin dalla sua uscita. A fine dicembre ’58, a un lettore della rivista “Il Punto” che le chiedeva consigli per un libro da regalare, la Bellonci aveva proposto però La casa della vita di Mario Praz, sicuro candidato allo Strega, e Il Gattopardo, fresco di stampa, solo in seconda battuta. A fine maggio ancora non si profilava all’orizzonte nessun padrino per Il Gattopardo. Il saggio di Alicata e il forte dissenso dei letterati vicini al Pci erano un pesante deterrente. Lo stesso Bassani quell’anno decise di presentare il libro di Frassineti e viene dato da una precisa cronaca del “Paese” fra gli oppositori all’ammissione del Gattopardo per ragioni di regolamento: le regole del branco gli imponevano di lasciare la sua creatura al suo destino. Più si avvicinava il 7 giugno, giorno della scadenza dei termini, più candidare il libro del principe siciliano andava assumendo le forme di un gesto dirompente che animava i dibattiti della primavera romana. Fu allora che Mario Soldati ruppe gli indugi. Riprese in mano il telefono e chiese a Maria Bellonci se fosse ancora in tempo per candidare Il Gattopardo. “Certo,” gli rispose lei, “è un’idea che hanno avuto già in parecchi, ma se vieni qui arrivi primo”. Due giorni dopo fu Moravia a telefonare a Soldati, gratificandolo di “un torrente di improperi e di accuse”, ben deciso a

impedirgli di candidare il libro di Lampedusa. “Sappi,” gli ribatté Soldati, “che ho perfino l’intenzione di ricavarne un film. Il libro è un capolavoro.” “Tu presentalo al premio,” gli intimò Moravia, “e io non ti guardo più in faccia.” Soldati prese tempo, con Alberto erano amici d’infanzia. Decise di accantonare l’idea di fare da padrino ma lasciò trapelare l’episodio, che venne variamente commentato nei due caffè più influenti, Canova a piazza del Popolo e Rosati a via Veneto. Una cronaca di Nerio Minuzzo per “L’Europeo” accenna vagamente ad altre manovre poco sportive rispetto alle quali “l’opposizione di Alberto Moravia, legata a un giudizio critico, era in fondo la meno feroce di tutte”. “Si parlò perfino di intimidazioni,” scrisse anni dopo la Bellonci. “Era difficile assistere a quella vicenda bizzarra e con risvolti segretamente feroci mantenendo un riserbo rigoroso.” In quell’anno di grazia 1959, oltre a Una vita violenta di Pasolini e a La casa della vita di Praz, fra i concorrenti del Gattopardo nella corsa allo Strega c’erano Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio, Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, Il povero Piero di Achille Campanile, La finta sorella di Massimo Franciosa, Misteri dei ministeri e altri misteri di Augusto Frassineti. Dall’alto delle sue 60.000 copie (“tiratura favolosa per un paese in cui un libro che ha successo raramente supera le 3000,” scrisse “Il Messaggero”) Il Gattopardo minacciava di fare di tutti un sol boccone. Come in un classico romanzo d’avventure, la candidatura del Gattopardo arrivò quasi allo scoccare del termine. Il 6 giugno, a ventiquattr’ore dalla scadenza, si presentarono

in casa Bellonci lo scrittore Ignazio Silone e il critico Geno Pampaloni, che a sorpresa chiesero di formalizzare la domanda d’iscrizione del Gattopardo. Il giorno dopo, poco prima dei rintocchi della mezzanotte, arrivò in via Fratelli Ruspoli anche il telegramma con cui la principessa di Lampedusa dava il suo consenso. Il Gattopardo entrava così nell’agone più prestigioso della Repubblica delle Lettere. L’onere e l’onore di presentare il romanzo erano stati assunti da una coppia di letterati sapientemente scelti, entrambi figure sui generis, accomunate dalla totale allergia per le conventicole letterarie. Perseguitato dal fascismo e costretto all’esilio durante il ventennio, Ignazio Silone si trovava in aperto contrasto con il Partito comunista. Solo nel ’53 e nel ’55 aveva potuto pubblicare in Italia i suoi due romanzi più famosi, Fontamara e Pane e vino, scritti negli anni trenta e usciti all’estero durante il suo esilio. Alla fine degli anni cinquanta Silone scontava ancora da parte dei compagni di sinistra quella che venne chiamata “la congiura del silenzio”, prima della riscoperta della sua opera negli anni sessanta; nel ’59 lo scrittore abruzzese godeva quindi della libertà di chi non ha nulla da perdere e nulla da temere. Quanto a Geno Pampaloni, con un passato di militanza nel Partito d’azione, era un critico vecchio stile, apprezzato per la sua indipendenza, allergico ai molti schematismi che assediavano la critica letteraria del dopoguerra. In piena bagarre sul Gattopardo, Pampaloni si trovava a una svolta: era stato costretto a lasciare l’Olivetti, dove era stato direttore del Centro culturale e dei Servizi culturali, e si era appena trasferito a Roma.

Presentata la candidatura, le polemiche non si acquietarono, anzi. Con il loro arrivo in via Ruspoli i due padrini Silone e Pampaloni avevano portato in casa Bellonci un guanto di sfida. Ora bisognava vedere se Il Gattopardo sarebbe entrato nella cinquina dei finalisti. “Passammo un mese corrusco,” scrive la Bellonci nelle sue memorie. Col montare delle polemiche affiorava in lei un nuovo scrupolo: e se dopo tanto can can, il romanzo di Lampedusa fosse stato bocciato in maniera brutale? Fra i 362 “amici della domenica” che assegnavano il premio Strega, si erano dichiarati apertamente a favore del Gattopardo solo una trentina: tanti per una candidatura, pochi per evitare una sonora sconfitta. D’altra parte di fronte al successo di vendite e di buona parte della critica, un Gattopardo bocciato allo Strega avrebbe rischiato di nuocere allo stesso premio. Maria Bellonci rimaneva tormentata dal dubbio, non voleva veder scorrere sangue sui marmi del Ninfeo di villa Giulia, troppe amicizie erano state messe a dura prova. E lui, l’autore, aveva già avuto la cattiva sorte di non cogliere la gioia del successo: infliggergli da morto anche la sprezzante sconfitta della sua unica opera sarebbe stata crudeltà. Donna Maria pensò di aver trovato la soluzione in un premio speciale da assegnare al Gattopardo tenendolo fuori dalla competizione. Per proporla alla sua cerchia di amici scelse il momento che le appariva concretamente e psicologicamente più adatto: i funerali di Vincenzo Cardarelli. L’idea di un dibattito letterario in gramaglie è degno di un film di Monicelli ma bisogna convenire che la trovata della Bellonci era inattaccabile: il 17 giugno,

attorno al feretro del vecchio poeta, si sarebbero riuniti tutti i maggiori letterati italiani, i pro e i contro Gattopardo, e la mesta occasione avrebbe evitato che qualcuno trascendesse. Tra un ricordo e un requiem aeternam, la Bellonci sussurrò dunque agli amici scrittori la sua proposta di pace. Ma non trovò subito l’accordo sperato. Dopo le esequie la discussione andò avanti ancora a lungo finché Guido Alberti chiuse la discussione dichiarando che il successo del premio Strega dipendeva proprio dalla sua indivisibilità. E poi non c’era più tempo per i cambiamenti dell’ultima ora. Le prime schede per la selezione della cinquina erano già arrivate a casa Bellonci. I giochi erano fatti. La decisione passava agli “amici della domenica”, unici arbitri di quella contesa. Tre giorni dopo, il 21 giugno, iniziò lo spoglio delle schede. Nel salotto di casa Bellonci, Luigi Barzini junior scandiva i nomi degli autori che si disputavano la cinquina. Dei 362 aventi diritto avevano votato in 318, spedendo o consegnando personalmente la scheda; ancora non era invalso l’uso discutibile di mandare le schede agli editori che le consegnano poi allo Strega, all’epoca tutto era ancora imprevedibile e ogni colpo di scena possibile. Tra i colpi di scena certamente ci fu l’eliminazione del romanzo di Fenoglio, sostenuto da una parte dei letterati di sinistra, come anche l’eliminazione dei libri di Testori e di Campanile, che scontarono probabilmente le polemiche sulla “calata dei letterati dal Nord” dell’anno precedente, quando si era scoperto che tutti e cinque i finalisti abitavano al di sopra della linea gotica. Man mano che Barzini estraeva le schede, aumentava la sorpresa dei presenti. All’inizio

della votazione tutti sapevano che i proGattopardo erano una trentina di giurati, e che se questi avessero mantenuto il loro proposito il libro avrebbe anche potuto, teoricamente, entrare in cinquina: più di quello non si poteva concretamente sperare. Ma nel segreto dell’urna accadde l’inimmaginabile: quei trenta voti si moltiplicarono per tre guadagnando al romanzo del principe un successo mai visto prima: 92 voti. L’unico precedente di una vittoria così schiacciante fin dalla prima votazione era stato quello di Bassani, tre anni prima, che con Cinque storie ferraresi aveva conquistato da subito 79 schede. Il Gattopardo superò ogni più rosea previsione dei suoi occulti sostenitori staccando di molto La casa della vita di Praz (62 voti) e Una vita violenta di Pasolini (47); ultimi, entrarono a stento nella rosa Franciosa e Frassineti (24 e 21). L’exploit postumo del principe ebbe il suo effetto. “Un ‘caso Milazzo’ letterario,” lo definì Minuzzo, “nel quale Moravia recita ora la parte del cardinal Ruffini e Soldati quella del leader siciliano ribelle.” Sbalorditi, imbarazzati, sospettosi, molti letterati uscirono da casa Bellonci battuti da un misterioso agglomerato di franchi tiratori, un gruppo in realtà disomogeneo e disorganizzato, che aveva fatto prevalere sulle convenienze culturali e mondane il piacere della lettura e la propria valutazione personale. Forse per sminuire il valore e le competenze critiche dei 92 voti qualcuno notò che fra gli “amici della domenica” erano proprio una novantina le “signore dello Strega”, cioè le mogli e le amiche degli scrittori che frequentavano il salotto di donna Maria, vestali pericolose e imprevedibili che, diceva Flaiano, realizzavano nel premio Strega “il più riuscito esperimento di

matriarcato”. Ma in questo caso, più che altro, sembravano venir evocate per evitare a mariti, amici e compagni noiose e pericolose guerriglie in quella disfida di correnti durante la quale il neorealismo sferrava i suoi ultimi colpi e Il Gattopardo, per citare Pasolini, gli dava la prima ferale pugnalata. L’estate letteraria si era fatta ancora più calda. Alla notizia della candidatura e poi dell’ingresso in cinquina del Gattopardo i quotidiani fecero “titoli a quattro colonne come se si trattasse di un colpo di Stato,” ricorda Maria Bellonci. I 92 voti conquistati alla prima votazione pesavano, eccome. L’inatteso verdetto mise a soqquadro le correnti: gli scrittori cattolici, i radicali (un’agguerrita minoranza di intellettuali che si raccoglieva attorno al “Mondo” di Pannunzio e all’“Espresso”), il blocco dei milanesi che l’anno precedente aveva decretato la vittoria di Dino Buzzati, il gruppo delle sinistre che gravitava attorno alla casa editrice Einaudi e alla più giovane Feltrinelli. Un modo per battere Lampedusa, a ben vedere, c’era ancora, a patto che i sostenitori di Pasolini (di sinistra) e quelli di Praz (radicali e cattolici) unissero le proprie forze sacrificando uno dei concorrenti. Ma un altro colpo di scena mandò all’aria l’ipotesi scompaginando definitivamente il fronte degli avversari. La rivista di poesia “Officina” edita da Valentino Bompiani pubblicò in quei giorni alcuni versi di Pasolini. Fra questi, un epigramma dedicato a Pio XII irritò i cattolici, e un altro offese i radicali definiti da P.P.P. “coscienze serve della norma e del capitale”. Ce n’era abbastanza per stroncare sul nascere qualunque forma di alleanza fra i

sostenitori dei due più temibili avversari del Gattopardo. Qualche giorno prima della votazione finale Emilio Cecchi, aperto sostenitore di Praz, dichiarava con sospetta condiscendenza di apprezzare Il Gattopardo, “un romanzo molto bello, da porre sulla scia del naturalismo che s’affaccia sul simbolismo”, e aggiungeva che “forse la reazione del pubblico al libro è stata esagerata; e forse per questo altri hanno voluto mettere Il Gattopardo nell’inferno dei libri brutti, sbagliati: per reagire a modo loro a tanta unanimità di consensi, a tanta fortuna editoriale”. Eh sì, in ultima onestissima analisi, sembrava che per molti la grande colpa del Gattopardo non fosse tanto il suo disfattismo risorgimentale, il suo ironico disprezzo aristocratico per le umane cose, lo stile rondesco, la visione decadente, il totale disinteresse per le lotte contadine accesesi dietro l’avanzare delle camicie garibaldine, quanto piuttosto il fatto che il libro piacesse un po’ a tutti, un po’ a troppi. Lo confesserà, per molti, un giovanissimo Alberto Arbasino scrivendo da Harvard a Maria Bellonci: “Se il premio fosse venuto a Natale quando Il Gattopardo era appena uscito e noi ne eravamo entusiasti e la maggior parte del pubblico non ne sapeva niente sarebbe stato benissimo dato, non altrettanto ora che il libro aveva raggiunto le 70.000 copie”. Alla vigilia della premiazione girava una battuta di Feltrinelli: “Come editore, spero quasi che Il Gattopardo non vinca. Sarebbe un tale scandalo di fronte all’opinione pubblica, che riuscirei certamente a venderne subito altre trentamila copie”. Maria Bellonci era in tensione mentre suo marito fronteggiava l’attesa con la

consueta calma. “È meglio che sorgano delle discussioni,” dichiarava Goffredo, “vuol dire che c’è democrazia… In fondo è proprio questo che desideriamo: che il covo Bellonci rimanga democratico, anche se lo Strega l’ha avvolto nelle nebbie effimere della mondanità.” In quel clima incandescente anche la giovane televisione italiana decide di scendere in campo portando per la prima volta le telecamere dentro villa Giulia per documentare urbi et orbi l’ormai attesissima serata del 7 luglio, data del voto finale. Sulla terrazza del Ninfeo arriva tutto il gran mondo più o meno letterario. Ecco Carlo Levi nel suo abito bianco; Moravia ride aggressivo come un ragazzo, accanto a lui Elsa Morante, Palazzeschi, Soldati, Cecchi, Vittorini, e Giangiacomo Feltrinelli che fuma le sue sigarette con un lungo bocchino nero: tutti i protagonisti della battaglia di quei giorni sono presenti. I flash dei fotografi e i cavi elettrici per telecamere onnivore conferiscono alla cerimonia quel pizzico di disgusto vacuo che la comunicazione di massa porta sempre con sé. Maria Bellonci entra con un mantello rosso e il cuore gonfio di emozione. Un intervistatore le chiede se, da estranea al premio Strega, vi concorrerebbe mai, e lei risponde che sì, lo farebbe, pur sapendo quanto sia spiacevole mettere a dura prova l’amicizia e la stima dei colleghi. Lungo la serata ripensa a Lampedusa, conosciuto fuggevolmente cinque anni prima a San Pellegrino Terme: “Che da quell’incontro egli abbia avuto, come pareva, lo stimolo di mettersi a scrivere il romanzo che maturava in sé mi pareva un’azione interiore misteriosa nel suo farsi. Non si sa mai per chi si agisce, mi dicevo”.

Poi, sulla loggia, affacciato sotto l’arco maggiore, vede Luchino Visconti. Sta conversando fitto fitto con Suso Cecchi d’Amico, decisa a votare Lampedusa, e con Vasco Pratolini, che insiste a chiederle un voto in più per Pasolini. Maria Bellonci si ferma per qualche momento a osservare il regista milanese. La presenza di un uomo di cinema alla premiazione dello Strega non è una rarità; anche Soldati ha diretto dei film, anche Moravia e Pasolini hanno scritto soggetti e sceneggiature, fra gli invitati ci sono pure due stelline del momento, Fulvia Mammi e Giorgia Moll. Visconti quella sera è affascinante in modo particolare, e Maria Bellonci rimane un po’ incantata a osservare il volto del regista, “la bocca tagliata grande e risentita agli angoli, con un che di violento e di volontario”. Non immagina quanto i destini di quell’uomo e del libro vincitore saranno indissolubilmente legati: verissimo, non si sa mai per chi si agisce. Al tavolo degli scrutatori ha intanto preso il via lo spoglio delle schede; fa da presidente sempre Luigi Barzini junior, ostentando un professionale distacco; al suo fianco seguono le operazioni Michele Prisco, Livia De Stefani, Franco Alberti, figlio di un cugino di Guido, e Vincenzo Talarico, che rotea in giro gli occhi strabici fingendosi distratto. Dopo tante discussioni, conciliaboli, contrasti anche feroci, molti degli invitati appaiono più che altro occupati a godersi la tiepida serata estiva, mentre cronisti e telecamere si interessano soprattutto alle mises delle signore, da Maria Luisa Spaziani in viola all’abito in cady bianco di Titina Maselli. Solo attorno al tavolo della presidenza il silenzio tradisce qualche patema dell’ultima ora. Per il voto finale, il numero dei partecipanti è ancora aumentato: sui 362 aventi diritto hanno votato in

336. Non si era mai verificata una partecipazione così alta. I nomi estratti dalle schede vengono pronunciati da Barzini con stentoreo aplomb, quindi trascritti su una lavagna. Timori e speranze durano fino ai primi cento voti, a un terzo dello spoglio la situazione è già sufficientemente chiara: Il Gattopardo conduce con 41 voti seguito da Praz, Pasolini, Franciosa e Frassineti. Sul traguardo finale la televisione fa addirittura interrompere le operazioni per organizzare la diretta. La pausa dura una bella mezz’ora, allungando la suspence. Le ultime schede vengono estratte sotto le bollenti luci dei tecnici Rai: Il Gattopardo vince con 135 voti, a seguire La casa della vita di Mario Praz con 98, terzo Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini con 70, poi La finta sorella di Franciosa con 20 e I misteri di Frassineti con 13. L’ultima scheda estratta è per P.P.P. Alla pronuncia del nome Pasolini parte un applauso scrosciante: il gran mondo delle lettere ha deciso il suo vincitore morale, mentre il grande pubblico, quello che sta a casa davanti ai pochi televisori, ha il suo campione. In fondo, questo è il paese degli accomodamenti. A cogliere il trionfo postumo del principe di Lampedusa, in rappresentanza della famiglia, c’è solo l’ultranovantenne zio Pietro, marchese della Torretta, ex ambasciatore e ministro, “fragile e bellissimo di anni, come una preziosa maiolica” lo definì un cronista, ultimo testimone vivente di quel mondo lontano che il nipote aveva risvegliato. Per qualche minuto si teme che la tirannica televisione lo pretenda sul palco, ma il pericolo viene evitato e Guido Alberti consegna serenamente l’assegno da un milione all’editore

Giangiacomo Feltrinelli. Maria Bellonci scioglie finalmente la tensione, ma continua la sua attenta opera di diplomazia osservando che 135 preferenze non sono una votazione massiccia, e che la vittoria di Lampedusa è scaturita da una elezione “esemplarmente equilibrata”. Per la televisione si pronunciano i commenti. Il Gattopardo ha vinto ma il blocco dei voti degli altri due maggiori contendenti testimonia la spaccatura potente che di lì in poi si andrà scavando sempre più vivacemente fra le correnti della letteratura italiana. Gli ultimi contrasti si stemperano nella musica dell’orchestra che invita gli ospiti alle danze. I primi a cogliere il destro sono i giovani, coppie sorridenti che si avviano mano nella mano verso le scalette che portano al Ninfeo, e che vanno a intrecciare i loro passi fra le erme bianche; facile immaginare che tanti fra loro sognassero d’essere Angelica e Tancredi, ignari del destino e illusi che tutto sarebbe stato dolce come quella sera. Le ultime polemiche sullo Strega si consumano sulle colonne dei giornali. Walter Mauro ammette sul “Paese” che “forse la scelta è stata indovinata: resta però sempre da chiedersi se sia preferibile che un premio così rappresentativo debba andare a un libro, indubbiamente bello, ma un po’ fuori del nostro tempo; o all’opera viva e impegnata di uno scrittore che è immerso nella realtà fino al collo”. Goffredo Bellonci esce finalmente dal riserbo e interviene sul “Messaggero”: “Alcuni per ‘inibire l’immortalità’ al Lampedusa affermano che il suo romanzo è vecchio, di derivazione ottocentesca ed è servito ai nemici della nuova letteratura (quale?) per combattere i giovani; e alcuni altri sentenziano il suo libro straniero all’arte e alla

coscienza di oggi e scritto da un uomo senza fede. […] Io sono invece persuaso che Il Gattopardo è di spiriti e di forme modernissimo e ci dà un memorabile esempio della narrativa italiana ed europea dopo il Gide e il Proust”. La posizione del Pci viene espressa da Carlo Salinari, che su “Vie Nuove” torna polemicamente al duello Lampedusa-Pasolini: la vittoria del primo sul secondo andrebbe attribuita “con ogni probabilità, alle caratteristiche di gran parte degli elettori che appartengono a quell’ambiente intellettuale romano, più sensibile alle mode che alle idee. […] Almeno io spero. […] Perché se il voto dello Strega dovesse essere pienamente consapevole, se fra Il Gattopardo e Una vita violenta si fosse fatta una vera scelta letteraria a favore del primo, la cosa sarebbe assai più grave. Il Gattopardo […] è certamente un libro assai importante e, per certi aspetti e in alcune parti, assai bello. Ma è un libro di ripiegamento: di ripiegamento ideale nella constatazione della inutilità di ogni rivoluzione e di ogni mutamento, di ripiegamento letterario nella proposta […] di una nuova letteratura di memoria, che rifiuti il mondo reale per rifugiarsi nel ricordo del passato. […] Preferire consapevolmente […] il Tomasi al Pasolini, significa dare un giudizio di tendenza e non solo di merito: significa avallare quel processo di restaurazione letteraria a cui andiamo assistendo da alcuni anni a questa parte”. Sbalordita dall’esito del premio letterario, la comunità degli scrittori italiani si ritrovò a fare i conti con l’ingombrante successo di un fantasma, e anche quelli che fino ad allora erano rimasti in silenzio sono costretti a uscire allo scoperto. Aldo

Palazzeschi apprezza Il Gattopardo ma arriccia il naso di fronte al “senso di profondo sconforto” lasciatogli a proposito della Sicilia. Calvino è più positivo: a New York per parlare delle ultime tendenze italiane, accosta Lampedusa a Scotellaro e definisce Il Gattopardo “un romanzo d’impianto ottocentesco ma che ha fatto proprie molte raffinate esperienze della letteratura moderna”. Moravia continua a essere anti: “È un libro di destra”, e “sono stati gli uomini di destra a decretarne il successo”. Vasco Pratolini è rimasto sulla linea di Vittorini: “Da trent’anni ci si sforza in Italia di far progredire la nostra letteratura,” proclama durante una conferenza a Parigi. “Lampedusa ci riporta indietro di sessant’anni.” Flaiano la butta sul ridere lanciando una quartina sarcastica: “Ho letto con ritardo / Lolita e il Gattopardo. / Così passai l’estate / tra speranze infondate”. Eduardo De Filippo affida alla zia Memè di Sabato, domenica e lunedì un invito perentorio: “Compratevi Il Gattopardo”, e il teatro Quirino esplode partigiano nell’applauso. Durante un dibattito Carlo Cassola si dichiara a metà strada tra sostenitori e detrattori, ma il critico Giuseppe Stammati, presente all’incontro, racconta che lo scrittore si sia via via infiammato a tal punto che “per un pelo, e appena trattenuto dal presidente dell’assemblea, non condannò al rogo il Gattopardo, tutti i libri che gli assomigliavano e tutti i lettori che sono riusciti a leggerlo sino in fondo”. Pur non avendo gareggiato, Moravia diventa il grande sconfitto: la “tragedia” dello Strega ’59 viene riassunta in un sapido epigramma: “Il gatto di Moravia sta facendo le fusa / Arriva e se lo mangia il Gattopardo di Lampedusa” (nascosto sotto la firma di “Anonimo

Romano”, l’autore è ancora una volta l’immarcescibile Flaiano). Di quanto Il Gattopardo avesse sparigliato le carte ci si rese conto allo Strega dell’anno dopo, che premiò Cassola per La ragazza di Bube. La serata finale fu coronata da un’imprevista esibizione di Pasolini, che recitò nei panni di Marcantonio una parodia dal Giulio Cesare shakespeariano, denunciando Tomasi e Cassola, rispettivamente Cassio e Bruto, come assassini del (neo)realismo: “Il fascismo era vinto, / pareva vinto il Capitale. Ecco, invece, / qui lo strappo, in questa forma, del pugnale / di Tomasi, ecco la rabbiosa sdrucitura / dei neosperimentali, ecco il colpo / tagliente di Cassola – ch’era amico”. Intanto le vendite continuavano a volare. Forte di un consenso autenticamente popolare, il romanzo non aveva mai interrotto la sua corsa al successo. Il premio ne ingigantì ulteriormente le dimensioni: nell’estate ’59 Il Gattopardo supera la soglia delle 100.000 copie, nello stesso anno viene pubblicato in Francia e in Germania, l’anno successivo negli Stati Uniti.

Sei Contrordine, compagni Il verdetto dello Strega mise alle corde le opinioni di Sciascia, Vittorini e Moravia. Celebrata sulle pagine dei quotidiani più diffusi, commentata ai tavoli dei caffè, amplificata dall’occhio onnipotente delle telecamere, la vittoria di Lampedusa coincise con la sconfitta di quegli avversari che il saggio di Alicata si era incaricato di unire e guidare. La partita critico-ideologica del Gattopardo sembrava avviata a chiudersi. Ma a questo punto arriva, imprevisto, il fischio dei tempi supplementari. Dalla Francia. A farsi avanti è Louis Aragon, che cala sul tavolo della disputa tutto il suo prestigio politico e intellettuale. Poeta, tra i fondatori del movimento surrealista, Louis Aragon era comunista fin dal ’27. Nel ’50 era stato eletto nel comitato centrale del Partito comunista francese, e fino al XX congresso del Pcus (1956), quello in cui Chruščëv aveva cominciato a picconare il piedistallo di Stalin, Aragon era stato in Francia custode e dominus dell’ortodossia letteraria di sinistra. Dopo i fatti d’Ungheria, come tanti, aveva rivisto le proprie posizioni; era rimasto nel partito ma aveva condannato lo stalinismo e aperto il suo giornale, “Les lettres françaises”, ai dissidenti. È proprio su “Les lettres françaises” che appaiono, nel giro di pochi mesi, due suoi articoli su Lampedusa, destinati ad avere ripercussioni enormi sulla critica del romanzo, e decisive anche per la creazione del film.

Il tono è appassionato, come se l’autore stesse rivolgendosi a un uditorio presente: che è – chiaramente – il mondo della sinistra, soprattutto italiana. “Ho letto il Gattopardo. E vi dico: bisogna saper prendere le proprie responsabilità,” ammonisce nel primo articolo, pubblicato nel dicembre ’59; “[…] il Gattopardo è qualcosa di più che un bellissimo libro, è uno dei grandi romanzi di questo secolo, uno dei grandi romanzi di sempre, e forse […] il solo romanzo italiano.” Le principali accuse di Alicata e della critica di sinistra vengono smontate una per una: il presunto antistoricismo, il pessimistico “sonno” siciliano, perfino gli anacronismi, che Aragon preferisce chiamare “carattere contemporaneo” (e cita compiaciuto il colonnello Pallavicino: “Per il momento, per merito anche del vostro umile servo, delle camicie rosse non si parla più; ma se ne riparlerà. Quando saranno scomparse quelle, ne verranno altre di diverso colore; e poi di nuovo rosse”…). L’abbaglio principale, osserva Aragon, è scambiare le opinioni di Don Fabrizio per quelle di Lampedusa: “Anche se Don Fabrizio […] cerca di convincersi che […] Garibaldi è solo un cornuto […] tutto il libro dimostra precisamente il contrario […]. Non è il trionfo dell’astuzia degli aristocratici che ci mostra il Tomasi, ma quello di Garibaldi; non è il sonno della Sicilia, ma la Sicilia trascinata nella corrente della storia in contraddizione con i discorsi di Don Fabrizio. Ed è proprio questo,” si accalora Aragon, “che i lettori (o piuttosto i critici) di sinistra sembrano non aver visto, loro che sono scandalizzati dalla filosofia ‘siciliana’ di Don Fabrizio”. La conclusione di Aragon va nella direzione esattamente opposta a quella di Alicata e Moravia: “Ci si disputi pure il Gattopardo fra partigiani della letteratura impegnata e

partigiani della letteratura disimpegnata […]. Il senso che assumerà l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa non potrà essere che quello della Storia”. Aragon concilia qualità letteraria e presupposti ideologici, e riesce a mettere d’accordo la delusione lampedusiana con lo storicismo marxista. Facile immaginare lo sconcerto dei colleghi italiani, superati a sinistra dall’elogio di un romanzo considerato di destra. Cala un silenzio di gelo. Dopo un paio di mesi, nel febbraio ’60, Aragon torna sull’argomento in modo ancora più esplicito: “Anche a supporre che [Lampedusa] abbia voluto descrivere una specie di Purgatorio dell’aristocrazia siciliana, egli ha fallito il colpo, perché il suo romanzo è l’immagine perfetta della perdizione di questa aristocrazia, l’immagine consapevole, politica, di questa perdizione, come poteva descriverla solo un uomo che della sua classe avesse fatto una critica spietata, una critica di sinistra”. Aragon non ha falsi pudori. Racconta tranquillamente di quella volta che, incontrato per caso Moravia, lo aveva sentito dire che Il Gattopardo “è un libro di destra”, e che “sono stati gli uomini di destra a decretarne il successo”. Al che Aragon aveva risposto “che non si poteva che prendersela con gli uomini di sinistra per aver mancato di farne un successo di sinistra”. Finale pirotecnico su Balzac e Stendhal, autori di destra che scrivevano libri di sinistra: “Ho conosciuto molti autori di sinistra che non si sono mai sognati di ornarsi di una particella nobiliare, che non cercavano di frequentare l’aristocrazia, che anzi potevano vantarsi di essere usciti dal popolo, che dal popolo traevano ispirazione per i loro eroi, che descrivevano unicamente la vita del popolo. […].

Ma la loro opera, il loro populismo, la loro predilezione per la tranche de vie o per il microscopio li rendono ai miei occhi assai più di un Balzac o di un principe di Palermo dei reazionari. Non mi permettono, loro, di comprendere il meccanismo del mondo sociale in cui vivo, mentre un duca di Palermo, un Balzac che ha tenuto ad ornarsi del nome di Honoré de Balzac posseggono alla perfezione l’arte di comprendere l’evoluzione della società. Quali che siano le loro idee personali, magari anche reazionarie, la loro opera, immersa com’è nel movimento reale della storia, non può avere alcun carattere reazionario. Forse non sarà di sinistra, ma considerarla di destra è assolutamente un non senso”. In poche pagine, Aragon spazzava via i dubbi e le lamentele di Salinari, Moravia, Ferretti, Dal Sasso; di Sciascia, Vittorini, Fortini; metteva in mora, politicamente ed esteticamente, l’analisi di Alicata. La voce di Aragon era troppo autorevole per essere ignorata, tanto più che la lettura del poeta francese ribadiva la lezione marxista. Palmiro Togliatti prende allora una decisione che può apparire sorprendente: fa pubblicare su “Rinascita” (e a spron battuto, nel marzo ’60) una traduzione pressoché integrale del secondo articolo, preceduto da un cappelletto: “Riprendiamo da ‘Lettres françaises’ un articolo di Louis Aragon che riflette le polemiche sviluppatesi anche in Francia attorno al libro di Tomasi di Lampedusa”. Niente commenti, solo un accenno in nota all’esistenza di un precedente articolo dell’autore sullo stesso argomento. Coraggiosa scelta di trasparenza? Necessità “politica” di fronte all’importanza del nome di Aragon? La decisione di Togliatti è l’ammissione,

non più rinviabile, di una crisi fra gli intellettuali di sinistra in merito al giudizio sul Gattopardo, che il Pci non poteva ignorare, accerchiato com’era dall’enorme successo di pubblico e dai consensi espressi perfino dai mostri sacri. Ma non solo. Qualcosa d’imprevedibile sta succedendo oltrecortina. La vittoria schiacciante dello Strega e ancora di più i due saggi su “Les lettres françaises” hanno avuto il loro effetto nei paesi del blocco sovietico. Mosca sta per dare un contrordine inequivocabile e Togliatti lo sa. Bisognava dunque preparare il terreno per non essere colti di sorpresa. La pubblicazione su “Rinascita” del secondo saggio di Aragon dà il via libera al fronte proLampedusa interno alla sinistra. “Perché […] un romanziere di falsa sinistra ha potuto dire che questo è un romanzo di destra?” si chiede polemicamente il critico marxista Luigi Russo. E invita a mettere da parte la lente d’ingrandimento della politica perché “la poesia ha una sua legge inattingibile, che è scritta nelle stelle, e, perché così lontana, bisogna pure rispettarla”. Di lì a pochi mesi oltrecortina un altro mostro sacro, György Lukács, sdoganava autorevolmente il libro dall’Ungheria. Nel settembre 1960, aggiornando il suo volume sul Romanzo storico, Lukács menziona proprio Il Gattopardo di Lampedusa (“in particolar modo la prima parte”) insieme a La campana d’Islanda di Halldór Laxness come i due “nuovi romanzi storici importanti” degli ultimi vent’anni; e non a causa di un ripensamento, ma proprio perché “confermano i principi a cui ero arrivato”.

Infine, il colpo di scena: nonostante lo scarso gradimento del Pci, Il Gattopardo sarebbe stato pubblicato in Unione Sovietica. Il paese che aveva vietato il romanzo di Pasternak decideva di dare alle stampe quello di Lampedusa. Questa volta Mosca voleva dimostrare di essere aperta alla discussione. Il caso-Živago si era rivelato una pessima propaganda e adesso, dopo che Lampedusa aveva vinto lo Strega, i dirigenti culturali sovietici tutto volevano meno un altro Nobel alla letteratura dato a un autore censurato da Mosca, e diffuso in tutto il mondo ancora una volta dall’eretico Feltrinelli. La prima edizione in lingua russa del Gattopardo uscirà nel 1961 per la Casa Editrice delle Letterature Straniere. Non era però pensabile che l’Unione Sovietica desse alle stampe un romanzo italiano apertamente osteggiato dal Partito comunista locale. Al contrario, la pubblicazione del libro si sarebbe dovuta realizzare con il pieno appoggio dei dirigenti del Pci. Occorreva quindi che Botteghe Oscure rivedesse la propria posizione, anche a costo di smentire parzialmente un saggio ultimativo come quello di Alicata. Le conclusioni di Aragon erano troppo attraenti perché non si pensasse a realizzarle: il grande successo commerciale del Gattopardo aveva un potenziale ideologico enorme, che una politica culturale più sagace e tempestiva, volta a esaltare gli aspetti “di sinistra” del romanzo, avrebbe ancora potuto sfruttare, e con profitto. La traduzione di Aragon su “Rinascita” è dunque l’annuncio cifrato di un cambio di direzione, espresso con tutta la cautela e il tatticismo, ma anche la lungimiranza, tipici di Togliatti. L’atto formale di questo silenzioso

contrordine è un vero e proprio capolavoro di sottigliezza: stiamo parlando della Prefazione all’edizione sovietica del Gattopardo, scritta a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione di Aragon su “Rinascita”, e firmata, per quanto incredibile possa sembrare, proprio da Mario Alicata. Nel suo nuovo saggio, l’abilità di Alicata è quella di non procedere a una “autocritica” vera e propria. L’opinione che aveva nel ’59 è ancora apparentemente la stessa: l’idea che Il Gattopardo sia un “romanzo storico” imperfetto, che nella visione lampedusiana del Risorgimento le masse siano rimaste fuori dalla Storia o, peggio, vittime passive di una Storia che non progredisce, erano nel ’59 e rimangono nel ’60 i punti cardine dell’analisi di Alicata. La differenza sta nella diversa occasione dei due scritti e, anche al di là delle opposte conclusioni (“una raccolta di ‘belle stampe’” nel ’59, un libro “veramente importante” nel ’60), nel suggerimento che intendevano dare al lettore in ciascuna occasione: nel ’59 ridimensionare la fascinazione che il romanzo stava operando anche all’interno del partito, nel ’60 il desiderio “che in Unione Sovietica, come è stato in Italia e negli altri paesi, il Gattopardo fosse accolto con interesse, al di là di quegli elementi di polemica che sempre accompagnano i libri veramente importanti”. Sul “Contemporaneo” Alicata aveva concesso a Lampedusa di non avere capovolto nessuna tesi storica essenziale. Ora il dirigente del Pci torna indietro, e accosta esplicitamente Il Gattopardo alla letteratura “meridionalista, ovvero quella letteratura che esamina la situazione dell’Italia del Sud, i problemi legati alla arretratezza

economica e sociale delle regioni prima appartenenti al regno delle Due Sicilie”, le stesse questioni al centro dell’attenzione di tanti scrittori progressisti “e, in particolare, del più eminente marxista italiano Antonio Gramsci, fondatore e guida del partito comunista italiano”. Si badi bene, l’accostamento LampedusaGramsci era già fra le righe del suo saggio dell’anno prima: il tema del Risorgimento come rivoluzione mancata corrisponde a quella che il grande cagliaritano chiamava “rivoluzione senza rivoluzione”; l’evocazione di una Unità incompiuta orchestrata dalla “classe dirigente piemontese” e la condanna del trasformismo erano già nei Quaderni del carcere. Nel suo vecchio saggio Alicata non faceva il nome di Gramsci, essendo secondo lui solo apparente ogni somiglianza fra l’interpretazione marxista del Risorgimento e quella data da Lampedusa; nella prefazione sovietica la consonanza viene invece ribadita esplicitamente. Certo, attenzione: “Si deve, però, avvertire i lettori che le tesi che sono alla base dei giudizi del principe Tomasi di Lampedusa a proposito degli avvenimenti storici che rappresentano lo sfondo del suo romanzo si distinguono dalle tesi espresse dalla letteratura e dai film progressisti”. Don Fabrizio arriva a dire che tutta la Sicilia è addormentata, e che nulla cambierà; questa convinzione rifletterebbe secondo Alicata “l’amaro pessimismo di uno degli ultimi rappresentanti della classe feudale che percepisce la propria inutilità nell’attuale società borghese”, una classe che coltiva “la speranza assurda che la storia produca solo cambiamenti superficiali mentre la sostanza delle cose e delle persone rimane sempre la stessa”. Ma ora Alicata dà del pensiero lampedusiano

un’interpretazione più positiva e consapevole che nel suo precedente intervento: “È importante però notare che il principe Tomasi di Lampedusa non crede fino in fondo alla sua tesi, […] riconosce che essa altro non è che un mezzo di autodifesa e talvolta arriva a ironizzare su questa sua assurda tesi. […] Il principe di Salina emette verso se stesso e verso la sua classe un verdetto che suona tanto più severo – poiché esso è pronunciato dall’interno – di quanto non potremmo fare noi, rappresentanti di un’altra classe, di un’altra visione del mondo”. Alicata, insomma, non cambia radicalmente la propria opinione, ne attenua piuttosto le conseguenze e le indirizza verso obiettivi prima impensabili, non si rimangia le affermazioni dell’anno prima, inclina piuttosto a “perdonare” benevolmente Lampedusa. Conferma che, “sul piano storico, il romanzo non è molto riuscito”. La valutazione di Lampedusa del 1860 siciliano, che vide “soffocati alcuni dei movimenti più democratici del Risorgimento italiano”, è vicina a quella fornita dalla storiografia marxista e gramsciana “ma questa vicinanza ha tuttavia degli aspetti meccanicistici”. Lampedusa “non vuole e non può vedere tutte quelle diverse forme di lotta, l’insorgenza di idee e passioni che segnano questo processo storico. Nel romanzo […] il popolo rappresenta un oggetto passivo della storia e i rappresentanti del movimento democratico sono raffigurati come persone animate da buone intenzioni ma piuttosto ingenue e inconcludenti”. Né piace ad Alicata la “simpatia” che l’autore proverebbe per Tancredi. “Però,” conclude riecheggiando Sciascia, “la creazione di un personaggio così significativo come quello del principe di Salina consente di perdonare molto. Se Tomasi di Lampedusa non ci

ha lasciato un grande epico affresco degli avvenimenti del 1860, ha però creato una straordinaria figura nella quale sono pienamente riflessi il sentimento di angoscia per l’approssimarsi di un crollo ineluttabile e la coscienza della propria fine da parte della classe dominante della vecchia Europa capitalista. E questo è più che sufficiente per raccomandare la lettura di questo libro al lettore sovietico.” Quale diffusione abbia avuto fra i critici italiani questa Prefazione non sappiamo. Resta significativo che il secondo saggio di Alicata sul Gattopardo sia rimasto inedito in Italia per quasi mezzo secolo (è apparso tradotto in italiano solo nel 2008, pubblicato dall’“Unità”). In perfetto stile togliattiano, il Pci riuscì equilibristicamente a rivedere il suo giudizio ufficiale senza farlo sapere troppo in giro. Il motivo di tanta acrobazia diplomatica si comprende bene: non fosse stato pubblicato in russo e indirizzato al solo territorio sovietico, il testo di Alicata sarebbe apparso all’epoca come un clamoroso voltafaccia. Chi doveva sapere, comunque, seppe. Con questa parziale “autocritica”, mezza ufficiale mezza clandestina, il Pci ammise di aver cominciato a riconsiderare Il Gattopardo sotto nuova luce. Non per un pentimento critico o uno stimolante esercizio intellettuale. L’obiettivo strategico era, come suggerito dal compagno Aragon, riagguantare per la coda l’occasione di trasformare “un libro di destra” in “un successo di sinistra”. Da questo punto di vista la prefazione russa di Alicata non era certo sufficiente per conseguire un simile risultato. Il ripensamento di Alicata sarebbe servito a ben poco se a quello non si fosse accompagnata la decisione di cambiare

strategia, radicalmente e immediatamente. Ma in che modo? Il romanzo era ormai uscito da quasi un anno e mezzo, il dibattito critico era già divampato, e chi aveva qualcosa da dire aveva avuto la possibilità di esprimersi, anche se spesso non l’aveva usata al meglio. Che altro dire, che altro fare per poter balzare all’ultimo momento in groppa al Gattopardo? Bisognava cambiare mezzo per intervenire sul messaggio: un film di risonanza internazionale, diretto da un artista prestigioso, vicino alla linea del partito e disponibile a ripensare il romanzo di Lampedusa secondo la rilettura operata a sinistra. E il nome poteva essere uno solo, Luchino Visconti, il “conte rosso”. Discendente di quei Visconti che erano stati signori di Milano per due secoli, Luchino aveva passato la giovinezza tra ville lariane, palchi alla Scala, lezioni di violoncello e ippodromi. Il padre Giuseppe Visconti di Modrone era appassionato di letteratura e architettura, drammaturgo dilettante e discreto pittore; la madre Carla Erba, della famiglia proprietaria della celebre casa farmaceutica e figlia del musicista Luigi Erba, era imparentata con l’editore Ricordi; la coppia aveva allevato Luchino e altri sei figli con un misto di liberalità e severità, mescolando agli stimoli artistici e culturali una forte tensione morale verso il Bello. Visconti aveva scoperto il comunismo nel ’36 in Francia. Grazie a Coco Chanel, aveva conosciuto Jean Renoir; il regista gli aveva aperto la porta del set di Une partie de campagne affidandogli il ruolo di costumista e assistente alla regia, e lo aveva messo in contatto con la sinistra artistica parigina. Accostarsi all’ideologia marxista fu per il giovane Visconti

una reazione all’avanzata che il fascismo e il nazismo andavano compiendo in tutta Europa. Col passare degli anni, pur tra contraddizioni e ripensamenti, l’atteggiamento progressista di Luchino si rafforzò sempre di più. Decisivo fu nel ’39 l’incontro con il gruppo di “Cinema”, la rivista diretta da Vittorio Mussolini che covò la fronda artistica e ideologica del nostro cinema migliore: futuri dirigenti del Pci, come Pietro Ingrao e lo stesso Mario Alicata, e futuri registi, come Giuseppe De Santis e Gianni Puccini, si incontrarono nella redazione del periodico, uniti dallo stesso obiettivo artistico, allontanarsi dal cinema finto del regime fascista e ritrarre realisticamente le classi oppresse. Visconti, che alla morte dell’amatissima madre si era trasferito a Roma nella villa paterna sulla Salaria, cominciò a frequentare questi avventurosi intellettuali, militanti clandestini, amanti appassionati del cinema e della letteratura. E loro rimasero subito soggiogati dal magnetismo di questo strano aristocratico milanese omosessuale, coltissimo e antifascista, che cercava proseliti per il suo debutto come regista cinematografico. Fra le ragioni di questa attrazione c’era anche un motivo molto concreto: alla vigilia del secondo conflitto mondiale e anche in piena guerra Visconti poteva permettersi di finanziare i propri progetti. Di fatto fu Visconti il principale produttore del fatidico Ossessione, a cui collaborarono tra gli altri Alicata, Ingrao, Moravia e Bassani, uno straordinario debutto che, osando parlare per la prima volta con il linguaggio antifascista della verità, aprì la porta al neorealismo. Tra il ’42 e il ’44 diversi membri del gruppo di “Cinema” finirono in prigione o andarono a ingrossare le file della Resistenza. Dal carcere Alicata continuò a scrivere appunti

per la preparazione di Ossessione. Lo stesso Visconti, che nella sua villa aveva nascosto militari alleati e comunisti braccati dal regime, venne portato alla famigerata Pensione Jaccarino, sede del torturatore Pietro Koch. Di Koch (e del questore Caruso, e di Carretta, direttore di Regina Coeli), Visconti filmò poi la morte (i primi due fucilati dopo un processo, il terzo linciato dalla folla) nel documentario collettivo Giorni di gloria. Con la Liberazione, il Partito comunista aveva cessato di essere clandestino e Visconti aveva stretto legami ancora più forti con i suoi dirigenti; dopo Ingrao e Alicata, prese a confrontarsi regolarmente con Antonello Trombadori, il tramite più diretto con Palmiro Togliatti. In occasione del referendum tra monarchia e repubblica Visconti si professò pubblicamente comunista prendendo sull’“Unità” posizione a favore del partito: “È un programma, quello comunista, che si accorda con una visione della vita e aspirazioni che porto in me da molto tempo: di giustizia, di onestà, di equità di rapporti umani, di diritto alla vita attraverso il lavoro”. E il partito lo protesse, anche dai propri recensori; come nel ’48, quando Togliatti era intervenuto per evitare che “Rinascita” pubblicasse una stroncatura dell’allestimento viscontiano di Rosalinda: “Sono contrario che, per un dissenso sulla rappresentazione di una commedia di Shakespeare – tema opinabile, in sostanza – noi accusiamo un intellettuale nostro amico e di tendenze progressive di essere niente meno che a capo della reazione. Scrivendo così, ci facciamo ridere dietro e facciamo ridere dietro al marxismo”.

Aristocratico e comunista: la dicotomia che i suoi detrattori gli avrebbero sempre rimproverato non sembrò mai essere un problema per lui, il che non esclude segreti rovelli interiori. “Visconti,” ha raccontato Suso Cecchi d’Amico, “ha sposato cause e idee che non gli venivano dal cuore, ma dalla ragione. Come se dovesse per forza aderire a un mondo che non gli somigliava per eseguire un dovere.” Citto Maselli lo ricorda come un comunista piuttosto settario, strenuo difensore dello stalinismo. Un comunista talmente allineato da non sentirsi neanche degno di chiedere la tessera: sapeva che il partito, non ammettendo omosessuali tra le sue file, gliel’avrebbe negata. La chiave di questo atteggiamento è nascosta nell’educazione severa in cui era stato allevato, nella sua capacità, una volta riconosciuto il Bello e il Giusto, di perseguirlo con disciplina; solo chi conosce bene le regole sa cosa sia la trasgressione, ed è quindi capace di metterla in pratica, come fece lui, nella vita e nell’arte, senza paura di scandalizzare o di essere criticato. Visconti non venne mai meno alla sua fede in una “lotta feconda” per un futuro migliore, “una lotta”, come aveva dichiarato nel ’46, “alla quale credo di collaborare, per quello che è nel mio ambito, col mio lavoro”. Girò film molto diversi, da Bellissima alle Notti bianche, fino a Senso, che suscitò a sinistra dibattiti accesi. In genere soggetti e sceneggiature venivano letti in anteprima da Trombadori, “non nella sua qualità di intellettuale organico del Pci,” scrive Nello Ajello in Intellettuali e Pci, “ma di amico personale” (il problema è capire esattamente dove finisse l’amico e dove iniziasse il politico).

In almeno un paio di casi le ardite nozze viscontiane tra politica e cinema, ideale e industria furono celebrate con successo. Finanziato inizialmente dal Pci, La terra trema realizzò un vecchio sogno verghiano di Visconti e Alicata, trasfondendo I Malavoglia in una famiglia di pescatori del dopoguerra; a Venezia nel ’48 venne esaltato e difeso come la bandiera di un neorealismo maturo e battagliero. Dieci anni dopo, Rocco e i suoi fratelli, ispirato nel nome del protagonista a quel Rocco Scotellaro che aveva vinto, postumo, il premio di San Pellegrino Terme, riprese la tematica meridionalista seguendo una famiglia lucana emigrata a Milano. La morale finale fu affidata a Ciro, operaio affamato di dignità: “Pure o’ paisi nostro la vita cambierà pe’ tutti, perché pure laggiù gli uomini se stanno imparann’ che o’ munnu deve cambia’. Certi dicono ca ’nu munn’ accuscì fatto non sarà migliore. Ma io, Luca, ci credo invece. E so che domani la vita tua sarà chiù giusta e chiù onesta”. Dopo le nuvole che si erano addensate sul pugile Rocco e sulla sua famiglia, questa chiusa (pare scritta da Trombadori) lasciava filtrare qualche caldo raggio del sol dell’avvenire. E la critica marxista tornò a esultare; Alicata avrebbe definito il film “un’autentica opera d’arte”, nettamente superiore alla Dolce vita di Fellini o a L’avventura di Antonioni, perché il regista non si era posto come semplice divulgatore del (mal)costume di un’epoca, o come narratore di un caso individuale, ma “in funzione della patologia d’un grande dramma sociale”. Pare che a interessare Luchino Visconti al Gattopardo sia stata Suso Cecchi d’Amico. Questo, almeno, è quello che raccontava lei; il libro le era piaciuto a tal punto che allo Strega

diede il suo voto a Lampedusa anziché all’amico Pasolini. Ma nei giorni dello Strega Visconti era ancora al lavoro su Rocco e i suoi fratelli. Sempre secondo Suso Cecchi d’Amico, Luchino l’avrebbe comunque incaricata di informarsi sui diritti del libro di Lampedusa, venendo così a sapere che erano già stati acquistati da Goffredo Lombardo, il patron della Titanus. Lombardo aveva infatti negoziato i diritti del romanzo già prima dello Strega, sfilandoli sotto il naso a Ugo Pirro e Sergio Amidei, arenatisi in estenuanti trattative con la Feltrinelli. Alla notizia che i diritti del libro erano già stati presi, sempre secondo Cecchi d’Amico, Luchino si sarebbe momentaneamente messo l’anima in pace. A Visconti, in verità, sarebbe bastata mezza parola per aggiudicarsi comunque Il Gattopardo, in fondo la Titanus era la stessa casa che gli stava producendo Rocco e i suoi fratelli. Lombardo però non aveva forse tutta questa voglia di appaltare a Visconti un progetto difficile e costoso di quella portata. E aveva già affidato l’incarico a Mario Soldati. Una scelta naturale, quasi ovvia: Soldati è un uomo di cinema ma anche uno scrittore, ha già tratto buoni film da buoni libri, ha espresso più volte il suo entusiasmo per il romanzo di Lampedusa; la sua sensibilità estetica sarebbe potuta venire utile per l’ambientazione aristocratica del Gattopardo. La Titanus, tra l’altro, lo ha già sotto contratto per tre film. Soldati ci pensa su e durante i tafferugli dello Strega, come si è visto, annuncia a Moravia di aver accettato. Comincia a studiare il testo di Lampedusa e per un po’ tormenta la sua copia personale di sottolineature, frecce e commenti, ora entusiasti, ora commossi, ora impressionati dall’atrocità delle descrizioni di Sicilia e siciliani.

Poi d’improvviso cambia idea e si arrende. Da quel momento il regista di Piccolo mondo antico abbandona il cinema; Policarpo, ufficiale di scrittura, che esce in sala proprio in quei giorni, rimarrà la sua ultima regia. “Ho rifiutato,” racconterà anni dopo a Jean Antoine Gili, “perché non mi sentivo in grado di fare un film del genere: non conosco la Sicilia, bisognava entrare in un mondo che mi era estraneo, che sentivo lontano dalle mie attenzioni. Il libro mi piaceva assai, ma ho pensato che portarlo sullo schermo pur essendone così distante significava non rispettarlo sufficientemente.” Svanita l’opzione Soldati, Lombardo avrebbe a questo punto potuto affidare il film a Visconti. Non lo fece neanche stavolta: il progetto del Gattopardo venne invece dato in carico a Ettore Giannini. A quell’epoca Giannini aveva già consegnato il suo nome alla Storia non solo del cinema, ma anche della radio e del teatro, lirica inclusa. Da giovane aveva vinto contemporaneamente i concorsi di ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia e all’Accademia d’Arte Drammatica; aveva scelto la seconda, e, mentre studiava, aveva incantato il pubblico radiofonico degli anni trenta con svariate commedie. Saltabeccando da Pirandello a Shaw, da Courteline a O’Neill, aveva poi portato a teatro una sfilza di testi, dirigendo tra gli altri Vittorio De Sica, Paolo Stoppa e, alla Scala, Maria Callas. La critica teatrale, già allora, lo aveva posto accanto a Orazio Costa, in diretta concorrenza con Luchino Visconti. “Nei non lunghi anni della sua attività teatrale,” scriveva nel ’58 l’Enciclopedia dello Spettacolo, “Giannini è stato (ma si deve sperare che un giorno tornerà ad

essere) una delle forze più sicure del nuovo teatro italiano”. Giannini, invece, come aveva fatto un certo Orson Welles, dalla radio e dal teatro era gradatamente passato al cinema: in curriculum aveva un cortometraggio premiato in epoca fascista (La prua incatenata, ’36), la mezza regia di un film lasciato incompleto da Henri Calef (Gli uomini sono nemici, ’48), una serie di incursioni in moviola come direttore di doppiaggio e perfino un ruolo d’attore, l’intellettuale comunista in Europa ’51 di Rossellini. Il suo vero esordio cinematografico era arrivato dopo la trionfale tournée di Carosello Napoletano, uno straordinario spettacolo musicale sbarcato fino in Sud America. Nel ’53 ne aveva curato la versione cinematografica, una cavalcata di canzoni e di folklore partenopeo costruita in gran parte negli studi di Cinecittà e girata in un pionieristico Pathécolor intrecciando rivista, sceneggiata, recupero filologico e gusto del teatro. Premiato a Cannes, Carosello Napoletano avrebbe dovuto segnare il definitivo passaggio del suo regista dal palcoscenico al telone bianco. Ma la pellicola non ottenne la fortuna che meritava: troppo originale, troppo diversa, troppo “avanti” e insieme troppo “indietro”. Col neorealismo in crisi, la concorrenza del musical americano e l’abbondanza di antologie di canzoni filmate, Carosello Napoletano era destinato a rimanere, in tutti i sensi, un unicum, e come tale sarà presto accantonato tra le stravaganze un po’ sospette di un cineasta eccessivamente eclettico, mentre oggi viene considerato il miglior film musicale italiano. Goffredo Lombardo stimava molto Giannini. Entrambi napoletani, i due erano amici come lo erano stati i loro padri. Il progetto del

Gattopardo costituiva per Giannini una solida, prestigiosa seconda chance, e Lombardo era sinceramente contento di offrirgliela. Giannini cominciò subito, di buona lena, a lavorare alla sceneggiatura. E continuava ancora a lavorarvi quando, alla fine dell’ottobre 1960, Luchino Visconti entra nella sede Rai di via Teulada per assistere in anteprima al documentario televisivo Sicilia del “Gattopardo”. Il suo giovane autore, Ugo Gregoretti, accoglie con comprensibile orgoglio il regista milanese, che si è presentato all’appuntamento insieme a Suso Cecchi d’Amico e Francesco Rosi. Il documentario, non ancora andato in onda, era stato girato quell’estate sui luoghi di Giuseppe Tomasi e Don Fabrizio Salina; le recensioni della stampa dopo la vittoria del prestigioso Prix Italia avevano incuriosito Visconti, che con una telefonata ai dirigenti Rai aveva subito ottenuto di poterselo vedere in una saletta degli uffici. Da quella visione in anteprima Visconti ricavò informazioni utili e suggestioni decisive, ma quel che più importa è che in quei giorni, giura Gregoretti, tutti sapevano che Visconti stava preparando Il Gattopardo; non a caso si era preso la briga di farsi accompagnare dalla sua sceneggiatrice di fiducia. Ma ufficialmente il film appartiene ancora a Ettore Giannini. Finché un giorno la verità viene a galla. L’indiscrezione affiora sull’“Espresso” del 6 novembre 1960, in un pezzo di Marialivia Serini su Alain Delon, in quei giorni a Roma per le riprese di Che gioia vivere! di René Clément e per preparare a teatro Peccato che sia una sgualdrina con Visconti. La notizia è nel sommario, breve e incisivo: “Alain Delon sarà Tancredi nel Gattopardo di Lampedusa”. Nel

testo, se ne accenna come di un “altro progetto” a cui Visconti “sta pensando da qualche tempo”, con Delon nel ruolo di Tancredi e Laurence Olivier in quello del principe di Salina. Ettore Giannini legge l’articolo e naturalmente si allarma moltissimo. Ne parla ad amici comuni, che riferiscono a Visconti. Luchino raggiunge Giannini per telefono, e gli fa una “leale e categorica smentita”. Ma Giannini vuole di più: anche se la notizia dell’“Espresso” non è un virgolettato di Delon, è chiaro, chiarissimo, che la giornalista l’ha riportata sulla base di una confidenza dell’attore, noto per essere, oltre che “diretto collaboratore” di Visconti, anche un suo “personale amico”; per rintuzzare le illazioni che cominciano a girare nell’ambiente, Giannini esige una rettifica nero su bianco. Il regista napoletano aspetta l’uscita del numero successivo dell’“Espresso”, ma non vi trova alcuna smentita. Mette allora un foglio di carta nella macchina da scrivere e indirizza a Visconti una lettera, assai gentile ma altrettanto ferma, in cui torna a chiedergli una pubblica presa di posizione sull’“increscioso argomento”. “Credo di poter chiederti questo,” conclude, “in nome della dura lotta, sostenuta per anni e con personali sacrifizi, per la rivalutazione della dignità della nostra professione e per l’affermazione di quella solidarietà professionale che ti è stata, spero, di qualche conforto in occasione di tue recenti disavventure” (il riferimento è alle manifestazioni in difesa di Rocco e i suoi fratelli, aggredito in quei giorni dalla censura). Visconti non può più fare finta di niente, e si decide a inviare al giornale una rettifica. Ma è una smentita ipocrita, che lascia intatti tutti i

sospetti. E ci mette pure un po’ per scriverla: “l’Espresso” la pubblica tre numeri dopo il pezzo su Delon, nella rubrica delle lettere al direttore, sotto il titolo anodino di Precisazione: “Ho letto con sorpresa che sul n. 45 dell’‘Espresso’ mi si attribuiscono alcune dichiarazioni in merito al Gattopardo che io non ho mai fatte. Sono a pregarla di voler cortesemente pubblicare questa mia lettera. Luchino Visconti, Roma”. La primissima volta che Visconti parla sulla stampa del Gattopardo è dunque per negarlo. E però: a parte la brevità da telegramma e il tono infastidito di chi è costretto a un’inutile formalità, Visconti non nega affatto di stare preparando il film, si limita solo ad affermare di non avere mai fatto delle dichiarazioni (che nell’articolo provenivano semmai da Delon). La “precisazione” è talmente asettica e insieme nebulosa da avere bisogno di una postilla da parte del giornale, pubblicata di seguito: “Luchino Visconti si riferisce alla notizia riguardante il film che una grande casa di produzione sta ricavando dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Si era parlato a tale proposito d’una regia di Visconti”. Si badi bene, in questi casi un giornale risponde sostenendo le proprie ragioni (se le ha), e “l’Espresso” (che le aveva) si guarda bene dal ribattere a Visconti. L’indiscrezione, infatti, è autentica: Il Gattopardo cinematografico sarà diretto da Luchino Visconti. Ma chi l’ha deciso, e perché? La ragione ufficiale del cambio di regista è che lo script di Giannini si sarebbe nel frattempo rivelato piuttosto deludente. È quello che Lombardo e Suso Cecchi d’Amico hanno sempre sostenuto. “Firmai un contratto di cessione dei

diritti,” ha ricordato il produttore a Bruno Vecchi dell’“Unità”, “che definire capestro è il minimo. Una delle clausole prevedeva che, passati sei anni, chiunque avrebbe potuto realizzare un altro film dal romanzo. Per la sceneggiatura mi rivolsi a Ettore Giannini. Ma quando mi presentò la prima stesura dissi: ‘Guardi che non voglio fare un film sulla storia d’Italia’. Scrisse altre tre o quattro versioni, sempre con lo stesso difetto. Il progetto fu momentaneamente sospeso e tra me e Giannini fu il gelo.” La versione di Suso Cecchi d’Amico è un poco diversa. “Del Gattopardo lui [Giannini] aveva fatto una riduzione libera,” sostiene nella sua autobiografia; non un film sulla Storia d’Italia ma “una sorta di fantasia siciliana, com’era stato il suo Carosello Napoletano, mentre Lombardo desiderava un lavoro che rispecchiasse il libro, che aveva gran successo anche all’estero, e aveva già trattato il film con la Fox”. In un’altra occasione Suso Cecchi d’Amico racconta: “Lombardo chiese a Giannini se avesse fatto il romanzo così com’era, e lui rispose che non gli interessava. Poi lo chiese a Visconti e, date le premesse, io, che ero grande amica di Giannini, parlai con lui: ‘È vero che non lo vuoi fare?’ gli chiesi. ‘Non ci penso proprio.’ ‘E allora,’ dissi io, ‘lo faccio con Visconti’.” Secondo una testimonianza di Pietro Notarianni, futuro organizzatore generale del Gattopardo, Giannini avrebbe fatto una rielaborazione un po’ troppo incentrata sul motivo dell’Unità, con vari spunti prelevati dai Viceré; secondo un’altra confidenza di Notarianni a Mino Argentieri, Lombardo avrebbe in realtà rifiutato l’adattamento di Giannini perché sarebbe stato addirittura ancora più oneroso di quello poi realizzato da Visconti. Tutte dichiarazioni rese dopo la morte di

Giannini, difficilmente verificabili e comunque non più replicabili. Alcune cose infatti non tornano. Lombardo invoca la fretta a causa della “clausola capestro” ma il tempo non sembra così tiranno, neanche a prendere per buona la riduzione da 6 a 3 anni che il produttore fa in un’altra intervista: malgrado l’annuncio dell’acquisto dei diritti sia del marzo ’59, l’effettiva data della stipula è più tarda (il contratto venne firmato il 9 dicembre 1959 e depositato all’Ufficio della proprietà letteraria il 7 gennaio ’60). Se la storia della clausola capestro di tre anni è vera, con i tempi lunghi del Gattopardo di Visconti, Lombardo andò vicinissimo a perdere l’esclusiva dei diritti. Non appare storicamente esatto (lo vedremo più avanti) che all’epoca della/e sceneggiatura/e di Giannini la Titanus avesse già, come afferma la Cecchi d’Amico, avviato trattative con la Fox. Secondo Lombardo, di versioni-Giannini ce ne sarebbe stata più d’una, mentre Suso Cecchi d’Amico sembra ridurre tutto al puntiglio di un regista deciso a tutti i costi a fare un pastiche in salsa siciliana. Quanto poi alla dispendiosità del progetto, è davvero contraddittorio protestare Giannini per ragioni economiche e poi rivolgersi a Visconti. La motivazione della sceneggiatura infedele avrà certamente un suo fondamento, anche se quelli che l’hanno divulgata, parecchio tempo dopo i fatti, sono i vincitori della tenzone; e comunque, per quanto fondata, somiglia tanto a una giustificazione di comodo, a un’altra “precisazione” tanto secca quanto insoddisfacente. La “precisazione” all’“Espresso” di Visconti, che sull’argomento non dirà mai nulla di più, è

solo la punta dell’iceberg. Nell’ambiente tutti sapevano tutto ma nessun giornale osava mettere in piazza la diatriba. Fa eccezione il mensile “Cinema 60”, che agganciandosi all’indiscrezione di Delon svela gli altarini in una mezza paginetta senza firma: “Due registi, abbastanza famosi, Luchino Visconti ed Ettore Giannini, a suon di lettere aperte, si bisticciano sulle trasparenti ali di una indiscrezione sfuggita a un giovane attore poco accorto e riservato. Si respira aria di duello nell’aria e il pomo della discordia, un libro – Il Gattopardo – da trasferire sullo schermo, alimenta il fuoco di sotterranei rancori. Sia pure facendo finta d’ignorarsi, i duellanti proseguono una educata guerra e si guardano in cagnesco, mentre volenterosi conciliatori corrono da una parte e dall’altra, per domare il conflitto. […] Non sapendo nulla in merito ai diritti di priorità del contestato progetto, forse sarebbe opportuno che qualche ambasciator cortese […] si rivolgesse al produttore del film. […] Basterebbe che il signor Lombardo pronunciasse una parola chiara e nitida”. In effetti Lombardo in quel periodo si distingue per il suo silenzio. Una scusante, per la verità, il presidente della Titanus ce l’ha. Anzi, ne ha almeno due. Intanto la violenta emorragia di liquidi causata dall’onerosissimo Sodoma e Gomorra di Aldrich, cinque milioni di dollari dell’epoca spesi quasi tutti in Marocco per un peplum che alla fine sarebbe stato pure protestato dai coproduttori americani. E poi le baruffe per Rocco e i suoi fratelli, che danno la misura di un clima culturale nervoso e ambiguo, in cui cinema e politica sono disposti a stringere sottobanco alleanze strabilianti. Al festival di Venezia 1960, Rocco è oggetto di un accordo

segreto tra Lombardo, Visconti ed Emilio Lonero, nuovo contestatissimo direttore della Mostra sostenuto dalla Dc: Lombardo avrebbe acconsentito a presentare il film a Venezia, a patto che Lonero lo avesse premiato; da parte sua, Visconti si sarebbe tenuto lontano dal Lido, in segno di solidarietà ai contestatori alla Mostra, rimanendo però a galleggiare nei paraggi sulla motonave Ausonia, da cui sarebbe disceso per agguantare il Leone d’Oro. Le cose non vanno però come auspicato: Marcel Achard, presidente di giuria, riesce a far pendere la bilancia a favore di Il passaggio del Reno di André Cayatte, lasciando a Visconti il magro premio speciale della giuria; il regista rimase sulla motonave e le contestazioni si moltiplicarono. Poi cominciò per Rocco il calvario della censura, allarmata dal realismo delle scene di sesso e di violenza. Un paio di tagli permettono al film, pur vietato ai minori di 16 anni, di uscire in sala. Dopo una rumorosa anteprima milanese, il 15 ottobre il procuratore generale di Milano chiede però in via ufficiosa altre quattro sforbiciate. Gli autori del film vengono convocati in Procura ma Visconti non intende patteggiare: “Non apporterò nemmeno un taglio al film,” dice subito, “perché non intendo mutilare la mia opera. In nessun’altra città, del resto, la magistratura ha trovato nel film ragioni per intervenire”. La pellicola ha già un nulla osta per la proiezione; in teoria Lombardo non sarebbe quindi tenuto a fare altre modifiche ma in pratica rischia insieme agli autori del film un procedimento penale per oscenità e turbamento del comune sentimento della morale. Il film diventa un caso e Lombardo un po’ ci sguazza: prende tempo, consulta Visconti e i suoi

collaboratori, e intanto Rocco raccoglie spettatori a più non posso. La Procura milanese pazienta una decina di giorni, poi decide di far oscurare al Cinema Capitol le scene incriminate (in sala di proiezione gli operatori usano veli o la loro stessa mano): perfino in un mondo ambiguo e magmatico come quello della censura cinematografica, in cui si procedeva per suggerimenti e patteggiamenti più che per documenti ufficiali, l’escamotage dell’oscuramento meccanico è un unicum straordinario. Intanto un brusio di fondo accompagna il supplizio censorio di Rocco bisbigliando di compromessi raggiunti in camera caritatis tra Alberto Folchi, ministro per il Turismo e lo Spettacolo, i dirigenti della Titanus e lo stesso Visconti. In pubblico Visconti comunque protesta, anche perché la Procura è sempre intenzionata a trasformare i quattro oscuramenti in concreti tagli: il regista dichiara che gli “dispiace che Lombardo abbia accettato un compromesso”, diffida la Titanus dal modificare il film, presenta un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura, chiede tramite legale che vengano distrutte eventuali copie mutilate stampate dalla Titanus. È tutto inutile: Rocco è richiamato a forza in censura e le quattro scene vengono ufficialmente scorciate. La polemica Giannini-Visconti sulla regia del Gattopardo scoppia su questo sfondo. Lombardo non apre bocca, nel difficile esercizio di rimanere in equilibrio con un piede in due staffe; il produttore non era in grado di fare dichiarazioni coerenti dato che con Giannini aveva stilato un regolare contratto mentre a Visconti aveva probabilmente dato al massimo una stretta di

mano. Giannini capisce ciò che c’è da capire, ed essendo di natura caparbia e trasparente decide di dare battaglia nel modo opposto a quello del collega, affrontando il problema di petto e chiedendo a viso aperto la solidarietà dei colleghi. La situazione fu penosa, e il silenzio che la circondò assordante. Molti anni dopo Ugo Pirro ruppe il clima di omertà raccontandone uno spicchio: “Una sera [Giannini] si presentò, tremante per l’ira che tratteneva a stento, al Consiglio direttivo dell’Associazione Nazionale Autori Cinematografici (Anac) per denunciare il comportamento della Titanus. Nonostante gli impegni sottoscritti con lui, Goffredo Lombardo, deluso dalla sceneggiatura che pare riducesse Il Gattopardo a un carosello siciliano, aveva deciso di affidarne la regia a Luchino Visconti. Giannini tratteneva le lacrime mentre chiedeva ai suoi colleghi un intervento solidale affinché gli fosse evitato quel sopruso che lo offendeva e lo disarmava per sempre. Nel Consiglio direttivo dell’Anac le lunghe e infuocate riunioni, gli scontri, i tentativi di ricercare una soluzione onorevole per Giannini, di rendergli giustizia, non approdarono a nulla”. Gli archivi dell’Anac conservano qualche pudica traccia della questione. Il verbale di una riunione del 28 novembre 1960 ha al secondo punto dell’ordine del giorno la “controversia con Giannini”. La Titanus aveva richiesto una procedura arbitrale tramite l’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive (Anica), per la quale il presidente del Sindacato Giornalisti Cinematografici Gino Visentini stilò una relazione (purtroppo non conservata) che venne quindi illustrata al

Consiglio direttivo Anac da Mario Monicelli. Si sa che Giannini, presente alla riunione, lesse una propria lettera in cui ricapitolò i fatti. La conclusione del verbale è diplomatica e interlocutoria: “Dopo breve discussione si decide di inviare sia a Giannini che a Visconti il testo della relazione Monicelli-Visentini pregandoli di non alimentare l’interesse della stampa sulle vicende con eventuali dichiarazioni e comunicazioni”. All’Anac sembrano più preoccupati di tenere il coperchio sulla pentola in ebollizione che di evitare che qualcuno si scotti. Neanche gli amici comuni, quegli “ambasciator cortesi” che avevano fatto per settimane la spola tra i due duellanti, riuscirono a rimarginare il dissidio. Tra loro ci fu certamente Suso Cecchi d’Amico; nelle sue memorie la sceneggiatrice definisce Giannini un “regista molto importante, di grandissimo talento”, “una persona che per anni è venuta in casa nostra quasi tutti i giorni” ma gli dà anche del nevrotico che affrontava la competizione con l’atteggiamento del kamikaze. La sua versione del fattaccio è condensata in poche righe: “Giannini si impuntò e allora il suo contratto fu onorato, ma il film fu offerto a Visconti che lo accettò. Fu quella la fine della mia amicizia con Giannini, che stimavo molto, e insieme al quale avevo lavorato con entusiasmo. Mi scrisse una lettera dicendo che avevo tramato per consegnare la sua testa, la testa di San Giovanni su un piatto d’argento, all’avversario. Io risposi e poi non ci salutammo più”. Così Il Gattopardo scivolò in grembo a Visconti. Il passaggio di consegne è comunque rimasto oscuro; i pochi testimoni ancora viventi dicono di non saperne granché o appaiono

reticenti. Se Giannini aveva un contratto, e teneva davvero moltissimo a dirigere il film come ha sempre affermato, com’è possibile che il suo amico Lombardo sia riuscito a sfilargli l’incarico? E come mai la Titanus, pur avendo Visconti già sottomano per Rocco, incaricò per Il Gattopardo prima Soldati e Giannini e solo alla fine rigirò il progetto proprio a Luchino? Una risposta l’ha fornita la vedova del regista, Anna Giannini. “Ettore aveva un contratto in mano,” ha spiegato a Tatti Sanguineti. “Un contratto di Lombardo. Non le so spiegare esattamente come avvenne che la Titanus se lo rimangiò. Le posso dire per certo che fu un vero ricatto, legato ai problemi di Rocco e i suoi fratelli bloccato in censura.” La tentazione di darle credito è forte: tempi, personaggi e contesto combaciano. Il momento più probabile in cui il “ricatto” di Visconti a Lombardo può essere avvenuto è a fine ottobre, quando Visconti lamenta pubblicamente che Lombardo abbia ceduto al compromesso delle scene oscurate e minaccia di tutelare il diritto d’autore per vie legali; poco dopo, il film viene tagliato per davvero, ma Visconti si limita a presentare ai primi di novembre un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura contro la Procura milanese (l’esposto non avrà esito), quindi si acquieta. La soffiata di Delon all’“Espresso” esce una manciata di giorni dopo, quasi a consolidare un accordo siglato sottobanco con la Titanus, e a mettere definitivamente il cappello di Visconti sopra al progetto-Gattopardo. Della questione andrebbe infine considerato anche il lato politico. All’epoca dello Strega nessuno dei compagni comunisti di Visconti avrebbe immaginato un Gattopardo diretto

dall’autore di Ossessione e La terra trema; ma dopo la pubblicazione su “Rinascita” del secondo articolo di Aragon, e dopo il “placet” di Mosca, l’interesse di Visconti per il romanzo di Lampedusa costituiva per il Pci l’ultima occasione per governare il grande successo del Gattopardo. Alicata, Ingrao, Trombadori e Togliatti ebbero perciò solo da esultare quando la regia del film passò al vecchio amico di battaglie cinematografiche e politiche, il demiurgo capace di piegare la storia di un principe alla morale progressista. Fra marzo, quando “Rinascita” pubblica il saggio di Aragon, e novembre, quando Delon si lascia scappare del Gattopardo viscontiano, intercorrono appena sette mesi, il tempo sufficiente perché la Titanus si convinca a trasferire il progetto al regista milanese. In un contesto cinematografico in cui la politica aveva il suo bel peso, c’è da chiedersi se in quei sette mesi la Titanus abbia anche ricevuto qualche concreta pressione targata Pci. Da Mario Alicata è piuttosto improbabile. Il dirigente comunista non frequentava Visconti da diversi anni, tanto che per avvicinarlo in quel periodo, sembra proprio a proposito del Gattopardo, dovette farsi organizzare una cena da Citto Maselli, durante la quale non riuscì neppure a parlargli. Né si sa di pressioni dirette su Lombardo da parte di Trombadori o altri dirigenti di Botteghe Oscure, anche se è cosa nota – raccontata pure dal produttore – che Togliatti gli chiedeva le copie dei film per guardarseli privatamente nella sede del partito. Non va in ogni caso dimenticato che tra fine anni cinquanta e primi sessanta la Titanus si distinse per le grandi occasioni offerte ad alcuni cineasti che militavano nel Pci, come Valerio Zurlini (Estate violenta) e Nanni Loy (Un

giorno da leoni, Le quattro giornate di Napoli) oltre che lo stesso Visconti. La potenza di fuoco dei media comunisti, soprattutto dei quotidiani posseduti o controllati dal partito, aveva avuto un ruolo decisivo nelle redditizie polemiche su Rocco, e avrebbe potuto averlo anche su un Gattopardo tanto o poco gradito a Botteghe Oscure. Il minimo che si possa dire è che tre esigenze, quella produttiva di Lombardo, quella creativa di Visconti e quella ideologica di Alicata, si incontrarono meravigliosamente. E Giannini? La vedova dice che la Titanus si rimangiò il contratto, Suso Cecchi d’Amico asserisce invece che fu onorato. La verità sta nel mezzo: Lombardo si riprese la regia ma pagò l’ormai ex amico per le sceneggiature e il disturbo. Nel consuntivo di spesa finale del film comparirà infatti anche il nome di Ettore Giannini, sotto la categoria “esperti e consulenti”, per un importo di lire 30.681.000, più altri 6.180.000 sotto la voce “sceneggiatura”; il tipo di contratto è specificato esplicitamente come “transazione”. Le conseguenze per Giannini furono comunque devastanti. Dagli spazi sconfinati dei teatri di posa il suo talento si restrinse ai centimetri quadrati della moviola: dopo lo scippo del Gattopardo Giannini concentrò la sua acribia nel lavoro di doppiaggio dei film altrui mentre l’eco delle sue proteste faceva lievitare la sua fama di talento bizzarro e imbizzarrito. E più si chiudeva a riccio, più i suoi ex amici lo ridimensionavano alla macchietta dello strano, alla leggenda del rompiscatole attaccato alle virgole, i cui contratti finivano per essere lunghi il doppio dei copioni. “L’affronto subìto,” racconta Pirro, “segnò di

fatto la fine della sua carriera di regista: amareggiato si isolò da tutti. Lo vedevo passare nelle strade intorno alla Fono Roma, che allora occupava un palazzo in piazzale Flaminio: sembrava fosse in trance, non guardava da nessuna parte, non voleva essere salutato. Divenne un esigentissimo direttore di doppiaggio, sembrava che si fosse murato nelle sale della Fono Roma.” La scelta della Titanus (e di Visconti, e di chi c’era con lui e dietro di lui) ebbe strascichi lunghissimi. Lombardo si chiese per anni come risarcire Giannini dello smacco professionale e dell’amicizia perduta. E il senso di colpa è rimasto ad aleggiare fino agli ultimi giorni in chi avrebbe potuto fare e non fece. “Al di là delle ragioni di Giannini,” scriveva Pirro sperando in un’indulgenza plenaria, “c’è, a posteriori, la riuscita del film ad assolvere tutti.” Ma se torto ci fu, nessun capolavoro altrui potrà mai ripagare Giannini e la sua memoria. L’uomo che nel dopoguerra con Strehler, Costa e Visconti aveva riformato il teatro italiano è caduto a poco a poco nel dimenticatoio. P.S. Per un regista che veniva schiacciato dal Gattopardo un altro veniva battezzato. Nello stesso fatidico novembre in cui Visconti e Giannini erano ai ferri corti, il documentario Sicilia del “Gattopardo” veniva trasmesso dalla Rai e lanciava Ugo Gregoretti aprendogli le porte del cinema. Stava diventando una regola: chiunque toccasse Il Gattopardo vedeva mutare radicalmente la propria vita, in peggio o in meglio.

Sette Le sceneggiature preliminari L’annuncio dell’inizio della lavorazione del Gattopardo con la regia di Luchino Visconti viene dato il 10 gennaio 1961 dal “Corriere d’Informazione”. Il primo ciak dovrebbe essere battuto a maggio, con esterni in Sicilia. Alicata si terrà lontano dalla lavorazione ma il suo saggio sarà ben presente nel lavoro di impostazione del film. Il Pci veglierà con attenzione sull’evolversi del progetto. “L’Unità” seguirà tutte le fasi di preparazione e lavorazione del film. Prima delle riprese la sceneggiatura definitiva sarà visionata e recensita con tutto il lustro del caso su “Rinascita”. Antonello Trombadori nella sua intervista al regista pubblicata a fine riprese offrirà l’interpretazione ufficiale della pellicola, organica e coerente con gli orizzonti marxisti. Visconti sarà affiancato nelle varie fasi della lavorazione da compagni di provata fede, un gruppo di lavoro che comprenderà l’organizzatore generale della Titanus Pietro Notarianni, cugino di Pietro Ingrao, e il montatore Mario Serandrei, suo collaboratore fin dai tempi di Ossessione. La stampa di sinistra scalda le rotative. L’Operazione Gattopardo è pronta a partire. Ma la macchina è lenta e stenta ad avviarsi. Dalle dichiarazioni di Visconti sappiamo che la stesura della sceneggiatura del Gattopardo era già in corso nel marzo ’61, per opera di una squadra di cui facevano parte Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli e due scrittori sotto

contratto alla Titanus, Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa. Interviste e lettere dell’epoca preannunciano la realizzazione del film non per maggio come annunciato dal “Corriere d’Informazione” ma nel corso dell’autunno successivo. Lo slittamento delle riprese di Boccaccio ’70, varie difficoltà produttive e il lungo lavoro sul copione manderanno a monte ogni altra previsione. Sempre ammesso che la scrittura sia iniziata nel marzo ’61 e non prima, per consegnare a Lombardo un copione “definitivo” del Gattopardo ci vorrà un intero anno; e un altro ancora prima di poter vedere il film girato e montato. Il 1961 è un anno burrascoso per Visconti. Il regista è preso in un tourbillon di progetti e di problemi. Nel bel mezzo della tempesta censoria di Rocco e i suoi fratelli e del duello sotterraneo con Giannini, gli ultimi mesi del ’60 erano stati segnati da continui bracci di ferro con la censura teatrale. Il 17 novembre ’60 gli è stato negato il visto per L’Arialda di Testori, una tragedia ambientata nella periferia milanese più degradata, con linguaggio realistico e scenografie dello stesso Visconti. Sdegnato, due giorni dopo il regista annuncia la sospensione di ogni attività artistica in Italia e manda alla Scala un telegramma con cui rinuncia al Poliuto con la Callas. La minaccia dell’esilio ottiene il risultato: il visto viene concesso e il 22 dicembre, in un’atmosfera tesa, L’Arialda debutta all’Eliseo di Roma. Il pubblico si divide ma gli applausi annegano i fischi; all’ultimo momento uno spettatore insofferente insulta il regista e lui, serafico, gli risponde poggiando la mano sinistra tra braccio e avambraccio destro (“un gesto plebeo, inequivocabile, come si meritava,”

commenta “l’Unità”), beccandosi così un’altra denuncia. Con Milano, la città dei suoi antenati, Luchino ha da tempo un brutto rapporto: gli brucia tutta la vicenda di Rocco (il Comune gli aveva pure negato i permessi per girare all’Idroscalo), e si duole perfino per il rivale Fellini, accolto a sputi all’anteprima meneghina della Dolce vita. “Si credono tanto superiori,” commenta Visconti, “si riempiono la bocca di ‘miracolo economico’, disprezzano Roma e vogliono la capitale a Milano. Ma appena uno viene a dimostrare che il ‘miracolo’ si ferma a via Gesù, perdono le staffe e aggrediscono a testa bassa, come il toro quando vede rosso. Si fingono offesi nella morale, ma la verità è che si sentono toccati nella dolce serenità del denaro e del palco alla Scala…” Visconti non ha ancora visto niente. Il 23 febbraio 1961 L’Arialda va in scena a Milano e il giorno dopo viene sequestrata. La compagnia è costretta a sciogliersi. Testori e gli impresari vengono pure denunciati per oscenità. “Chiederò la chiamata di correo,” ruggisce Visconti, “voglio starci anch’io, che diamine.” Il regista in quel momento si trova a Parigi, a provare e riprovare con Alain Delon e la sua fidanzata Romy Schneider Dommage qu’elle soit une p…, ossia Peccato che sia una sgualdrina dell’elisabettiano John Ford. Il corrispondente dell’“Unità” gli chiede conto del suo proposito di abbandonare l’Italia. “Per il teatro,” risponde il regista, “posso lavorare benissimo anche in Francia. Ma il cinema è diverso. Col cinema dobbiamo fare storie italiane.” Visconti pensa al Gattopardo, ora che la diatriba con Giannini si è risolta a suo favore non ha più remore a parlare del progetto; dichiara che intende seguire fedelmente il testo

di Lampedusa, che “c’è poco da ritoccare”. Romy Schneider vorrebbe entrare nel cast del film, e lo dice anche davanti al giornalista. “Sì, piccolina,” le risponde Visconti, “ti farò fare Concettina oppure…” Smorfia di Romy: “No, o la protagonista o niente”. “Ma Concettina è un bel ruolo,” insiste il regista. Peccato che sia una sgualdrina è un testo impegnativo, costoso, ardito, che racconta una tragedia incestuosa, e Delon e la Schneider, prima di allora, non hanno mai fatto teatro. Una delle prove della pièce avviene in un tripudio da stadio davanti a una platea di studenti francesi, accorsi per intercessione di un circolo culturale giovanile comunista. Ma la sfortuna sembra perseguitarlo: prima Visconti si rompe una gamba sulle scale del Théâtre de Paris (e ventiquattr’ore dopo è di nuovo sulla scena), poi la Schneider fa saltare la prova generale a causa di un violentissimo attacco di appendicite. “È arrivato anche Goffredo Lombardo,” dice abbacchiato Visconti a Tullio Kezich nel marzo 1961. “E anche a lui dovrò dire come agli altri: tante grazie, caro, ma sei venuto per niente. Stasera non si recita. In Italia mi fermano quelli della censura, a Parigi le gambe rotte e le appendiciti.” Il densissimo programma che Visconti ha pianificato per tutto l’anno rischia di saltare: “E ora che cosa faccio? Venti giorni qui non posso stare. Appena sono sicuro che la piccola sta meglio, torno a Roma. Questo fatto mi scombina tutto. Alla fine di marzo dovevo girare un episodio per Boccaccio ’60. […] Ma non potrò girarlo, a fine marzo dovrò stare qui: riprendere le prove, tutto si sarà allentato, tutto andrà a pezzi. Questo è uno spettacolo dove se uno sbaglia un’entrata crolla ogni cosa. E allora niente Boccaccio ’60. Però devo preparare Il

Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che girerò in novembre. Alla sceneggiatura stanno già lavorando la Cecchi d’Amico, [Festa] Campanile, Franciosa, Medioli. Per gli interpreti abbiamo interpellato Laurence Olivier. Poi ci saranno Alain e la Cardinale. Speriamo di non avere fastidi almeno con quello. E con I promessi sposi, che dovrei fare subito dopo. Manzoni me lo passeranno”. Peccato che sia una sgualdrina va in scena il 29 marzo. Riscuote un moderato successo ma anche critiche severe: la cupa vicenda di un amore incestuoso e rinascimentale tra fratello e sorella viene risolta con un uso raffinatissimo di scenografie, delicati madrigali e costumi sfarzosi. L’interesse di Visconti per il presente e la sua passione per il realismo si stemperano sempre di più in un gusto di elegante decadentismo; “quasi che Visconti,” ha scritto Gianni Rondolino, “esaurito il forte impegno umano e sociale con la violenza di Rocco e i suoi fratelli e dell’Arialda e lo scandalo da essi provocato, riprendesse a coltivare quegli altri aspetti della sua poetica e quegli interessi più rivolti all’interiorità dei sentimenti e alla rappresentazione raffinata di conflitti drammatici di maniera, che non alla loro esplicazione in termini critici e prospettici”. L’impegno successivo, la Salome di Richard Strauss portata in scena a Spoleto il 30 giugno, con la protagonista Margaret Tynes praticamente nuda in scena, spinge ancora di più sul pedale del decadentismo e dell’erotismo. A luglio Visconti passa quindi una decina di giorni a Mosca come giurato di un festival e poi si dedica all’episodio per il film collettivo Boccaccio ’60 (il titolo verrà aggiornato in un futuribile Boccaccio ’70). Il titolo del suo pezzo è Il lavoro,

da Maupassant, sulle meccaniche e le ipocrisie dei rapporti di classe, ed è anche un affondo sarcastico contro la società-bene milanese. Lo interpreta la giovane promessa cubana Tomas Milian, accanto a lui Romy Schneider al primo film dopo la serie dei Sissi. Si gira tra agosto e settembre negli studi romani De Paolis, con un incredibile apparato scenografico recuperato tra botteghe antiquarie, la casa del produttore Ponti e la villa dello stesso Visconti. “Di falso non c’è che il quadro di Picasso,” dice l’arredatore Giorgio Pes a una allibita Oriana Fallaci, “ma solo perché non siamo riusciti a comprare l’autentico.” “Queste sale,” si giustifica il regista, “questi divani coperti di velluto color tortora, questa biblioteca che è autentica quercia francese del Settecento, questi quadri astratti di Domietta Hercolani […] rappresentano il mondo in cui si muovono i personaggi della vicenda, un mondo prezioso e freddo, privato di quell’anima che Tomás e Romy inseguono e non riescono mai a impegnare.” Intanto la Schneider continua ad accarezzare l’idea di entrare nel Gattopardo; tra i libri di scena, ben visibile nel film, occhieggia su un divano una copia di Der Leopard, l’edizione tedesca del romanzo di Lampedusa. Negli stessi giorni Visconti pensa al suo Manzoni. L’ipotesi dei Promessi sposi si è nel frattempo evoluta: Emilio Cecchi gli ha passato un libro di Mario Mazzucchelli basato sui documenti del processo alla monaca di Monza e Luchino si è entusiasmato. A settembre fa un provino a Sophia Loren in abito da suora e progetta di girare in una villa vicino Legnano. “L’Espresso” annuncia che La signora di Monza sarà realizzato ancora prima del Gattopardo, e che la monaca avrà “il carattere più morboso e complicato fra quanti Visconti ha finora

descritto”. Poco dopo Carmine Gallone comincia però un film sul medesimo personaggio, e il progetto con la Loren sparisce gradatamente dall’orizzonte viscontiano. La stessa sorte avrà una Carmen per la quale il regista ha effettuato un provino a Claudia Cardinale: dall’autunno del ’61, e per molto tempo, i pensieri di Luchino Visconti saranno in gran parte per Il Gattopardo. Il proposito annunciato da Visconti di trarre una sceneggiatura con fedeltà, e da un romanzo per molti versi già cinematografico, prefigurerebbe un lavoro relativamente semplice; gli stessi titolini posti in sommario da Lampedusa a sintetizzare le singole parti del romanzo sembrano già l’efficace scaletta di un futuro film. Se si fosse trattato di tenersi aderenti ai fatti raccontati nel libro, la sceneggiatura sarebbe stata forse effettivamente ultimata in tempi brevi. Ma in ballo non c’era la mera trasposizione di un libro di successo. “Mi piacque immensamente il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,” dirà Visconti a film finito. “Mi affezionai a quello straordinario personaggio che è il principe Fabrizio di Salina. Mi appassionai alle polemiche della critica sul contenuto del romanzo al punto di desiderare di potere intervenire a dire il mio pensiero. Forse è proprio questa la ragione che mi spinse ad accettare l’offerta di realizzare il film.” Ecco l’obiettivo del regista: “Dire il mio pensiero”, inserirsi nel rovente dibattito sul Gattopardo per proporre la sua personale lettura del romanzo. Accanto alla sbandierata fedeltà al testo, Visconti e i suoi collaboratori opereranno quindi alcuni cambiamenti che scaturiscono – sono parole del regista intervistato da Trombadori – da “una precisa spinta di natura critico-ideologica”.

Le aggiunte e le modifiche operate sul Gattopardo in fase di sceneggiatura sono spesso notevoli, in qualche caso clamorose e, fino a oggi, sostanzialmente inedite. Gli studi viscontiani si sono infatti sempre avvalsi di un’unica fonte, la sceneggiatura “ufficiale” pubblicata a ridosso dell’uscita del film a cura di Suso Cecchi d’Amico per l’editore Cappelli. Questo testo è in realtà una collazione redazionale di fonti diverse, in cui mancano i cambiamenti effettuati durante le riprese ma arricchita di tagli e modifiche operate in sala di montaggio (non tutti, tra l’altro), un compromesso tra sceneggiature preesistenti e versione editata finale. Un brogliaccio eterogeneo, filologicamente non attendibile, una versione artificiosa che in quanto tale non è neanche definibile “di transito”, inutilizzabile come materiale preparatorio e ugualmente lontana da una mera trascrizione del montato (che apparirà solo nel ’96, nel volume curato dal Centro Sperimentale in occasione del restauro della pellicola). Chiunque vi si sia accostato lo ha ritenuto ciò che non è: il prodotto finale, conchiuso e coerente, del lavoro di sceneggiatura congelato al momento in cui Visconti stava per recarsi sul set. I confronti che si sono effettuati tra quel libro e il film sono stati per forza di cose viziati e parziali. Al contrario, l’ultima vera sceneggiatura, quella “definitiva” del 9 marzo 1962 licenziata dopo un lungo lavoro di scrittura, non è mai stata pubblicata; una copia è custodita all’Istituto Gramsci di Roma, un’altra alla Biblioteca del Cinema “Umberto Barbaro” di Roma. Un’analisi completa sulla fase preparatoria del Gattopardo viscontiano deve prendere in esame anche gli elementi iniziali, ossia le varie versioni

di soggetti e sceneggiature prodotte in almeno dodici mesi di lavoro. Si tratta di materiali complessi, del tutto inesplorati, che ridefiniscono radicalmente l’approccio di Visconti a Lampedusa: ordinati, confrontati e analizzati fanno riemergere le intenzioni squisitamente politiche del regista e dei suoi collaboratori, il rovello critico-ideologico che fermentò dietro le quinte, e il grado (in effetti piuttosto relativo) di “fedeltà” con cui Visconti si accostò complessivamente al progetto. Tra soggetti, scalette e sceneggiature, le principali versioni “scritte” del film sono ben dieci, tutte conservate nel Fondo Visconti presso l’Istituto Gramsci di Roma. Alcune di esse non sono datate ma mettendole a confronto è possibile risalire al probabile ordine cronologico e raggrupparle in almeno sei fasi: la prima è costituita da tre sceneggiature risalenti al 1961; la seconda da una scaletta senza data divisa in due tempi e da una sceneggiatura in cinque parti dell’8 gennaio 1962; la terza da una scaletta in cinque “giornate” e da un’altra sceneggiatura in cinque parti; la quarta da una scaletta di 35 pagine datata 13 febbraio 1962 (probabile preludio a una sceneggiatura dell’1 marzo di cui rimane il solo frontespizio); la quinta dalla sceneggiatura del 9 marzo 1962, considerata definitiva; l’ultima fase consiste nelle modifiche apportate durante le riprese e il montaggio, in parte annotate su una copia, leggermente diversa, dell’ultima sceneggiatura. Nessuna tra queste scalette e sceneggiature corrisponde in toto al film realizzato. L’evoluzione da una sceneggiatura all’altra, da una scaletta all’altra, non è lineare: idee iniziali vengono seppellite e riesumate anche a distanza

di parecchio tempo, mentre il proposito di rimanere fedeli al romanzo (che è anche un cruccio di Lombardo) viene variamente interpretato. Dal punto di vista stilistico il problema più grosso riguarda il costante soliloquio del principe, una ideale voce fuori campo che chiosa i traumi del presente accostandovi le ferite del passato; e infatti le pagine che nell’iter dal romanzo al film vengono continuamente ripensate alla ricerca di un amalgama tra fedeltà al romanzo, coerenza narrativa e “soggettive” dell’io narrante del principe sono proprio gli andirivieni tra presente e passato, tra constatazione e rievocazione, tra realtà e sogno. I criteri e le scelte che guidano fin dall’inizio Visconti e i suoi collaboratori verso il nuovo Gattopardo sono tutti rintracciabili dentro il primo saggio di Alicata. Al di là delle originarie dichiarazioni che assecondavano la volontà di Lombardo, a Visconti premeva ben altro che una piena fedeltà al romanzo, e l’evoluzione delle varie sceneggiature lo testimonia: reinserire Il Gattopardo dentro il cammino della Storia, sanare la presunta “deficienza ideologica” del romanzo, illustrare del Risorgimento anche quel versante di lotte e martirii popolari che Lampedusa aveva omesso, sfrondare il romanzo della sua componente decadente e psicologica per ritrasformarlo in quello che “avrebbe dovuto e potuto essere”: un grande “romanzo storico” in senso lukacsiano. Seguendo, se necessario alla lettera, il pensiero di Alicata. Tutto ciò che secondo Alicata nel libro mancava, dovrà esserci secondo Visconti dentro il film. Nelle varie sceneggiature faranno così la loro comparsa scene ed episodi inesistenti nel libro, riferimenti a eventi e a figure storiche che nel romanzo

erano assenti o solo alluse. Secondo Alicata il romanzo aveva trascurato la “somma di speranze e di delusioni, di entusiasmi e di eroismi, di passioni settarie e di cedimenti opportunistici […] che tutto ciò rappresentò per centinaia, per migliaia di coscienze”. Visconti si appresta a darglielo, mettendo esplicitamente in scena intorno all’aristocratico Don Fabrizio i principali protagonisti del Risorgimento, piemontesi, camicie rosse, spie borboniche, perfino Garibaldi, e facendo infine esplodere il conflitto in una rivolta contadina e in una cruda fucilazione. In mezzo a tutte le variazioni a cui saranno soggette le varie versioni del copione, un solo unico grosso cambiamento rispetto al romanzo rimarrà però costante dalla primissima sceneggiatura al film realizzato: l’eliminazione dell’VIII e ultimo capitolo del romanzo, quello delle reliquie e della verità di Concetta, che ad Alicata era sembrato “particolarmente bello” ma solo “come racconto a sé, essendo […] più di tutti gli altri completamente estraneo ad ogni esigenza strutturale”. Anche la morte del principe del VII capitolo viene in principio inclusa nel progetto cinematografico; perfino la zona del romanzo più bersagliata dalla critica, quella delle “vacanze di padre Pirrone”, vi entra in una prima fase. “La fine di tutto” è invece l’unica parte del romanzo mai presa in considerazione. Alla fase iniziale del lavoro di scrittura, fra la primavera e l’autunno del ’61, si dedicarono soprattutto i quattro collaboratori del regista: Cecchi d’Amico, Medioli, Campanile e Franciosa. Preso fra vari impegni teatrali e cinematografici, Visconti dovette in gran parte delegare,

mantenendo comunque il controllo sul risultato. Ne nacque il primo blocco di dattiloscritti, consistente in tre sceneggiature: della più antica è rimasta la sola seconda metà; un’altra è intera; la terza, quasi identica alla seconda, è mancante di alcune pagine. Sulla copertina di quest’ultima oltre alla firma del regista campeggia la fatidica indicazione “1a sceneggiatura”. L’inizio di questo primo blocco di copioni (perlomeno nelle due copie pervenute pressoché integre) è differente rispetto all’incipit del romanzo. Il film si sarebbe aperto sull’agonia del soldatino borbonico, che arranca sotto i titoli di testa nella campagna palermitana, premendosi il ventre con le mani, fino a raggiungere il cancelletto di legno di villa Salina, che “spalanca di colpo col solo peso del suo corpo”. Finiti i titoli, il giovane soldato guarda “con grande ansia” le finestre mute dell’edificio; poi, raggiunto un albero di limone, crolla a terra esanime. Dissolvenza: sul sangue raggrumato della ferita “brulicano mosche e formiche”, mentre dalle persiane aperte arriva il monotono brusio del rosario in corso. Ciò che nel romanzo era un ricordo (il ritrovamento del corpo del soldatino) viene in sceneggiatura ampliato e posto al tempo presente, e ciò che nel libro era al tempo presente (lo svolgimento del pranzo familiare) viene riportato nel copione come un flashback. Lo sviluppo del personaggio del soldatino borbonico, che nel romanzo compariva già cadavere, e la sua rappresentazione in tempo presente anziché nel ricordo del principe hanno il loro peso: insieme al soldato, stordito e sanguinante, è la Storia stessa a irrompere dentro villa Salina, penetrando nella magione

aristocratica intenta alla preghiera. La sequenza non sarà girata, in alcune delle sceneggiature successive verrà eliminata, ma il nocciolo rimarrà dentro il film, con quel cadavere scoperto in giardino giusto in tempo per turbare, diversamente che nel libro, il placido rito del rosario. Retrocesso a flashback, il pranzo, con il fascino decadente del suo “fasto sbrecciato”, sparirà invece completamente dalla pellicola. Altre scene di queste prime sceneggiature che non troveranno posto nel film sono l’arrivo all’ufficio postale di don Calogero, in ansiosa attesa della lettera in cui Tancredi chiede la mano di Angelica, una breve visita di Angelica a villa Salina (nel dattiloscritto più antico) e anche l’intero capitolo delle vacanze di padre Pirrone a S. Cono (nelle altre due versioni), spezzato in due macrosequenze, il discorso all’erbuario e la risoluzione dei guai familiari. Lungo i tre copioni si ode di tanto in tanto la voce fuori campo di Don Fabrizio che osserva e commenta. I passi più sorprendenti di questi primi copioni appartengono al versante più propriamente storico-sociale, a ciò che nel romanzo era appena accennato o rimaneva implicito sullo sfondo. L’apparizione delle “tre o quattro bagascette di Donnafugata” arrabbiate per l’esclusione delle donne dal voto occupa nel libro neanche mezza pagina ma ne conquista in sceneggiatura tre abbondanti, che rimarranno nel progetto del film anche dopo il ’61. Parecchio più ardita è, nel solo dattiloscritto più antico, l’apparizione di Giuseppe Garibaldi, piazzata subito dopo la partenza di Chevalley. Nel tentativo di storicizzare Il Gattopardo, gli sceneggiatori hanno scelto di parlare esplicitamente del secondo sbarco in Sicilia del

generale venuto a raccogliere volontari per liberare Roma e Venezia, tentativo che s’infranse in Aspromonte, dove Garibaldi fu ferito alla famosa gamba dalle truppe del colonnello Pallavicini (nel romanzo Pallavicino). Il generale entra in scena mentre tiene il famoso discorso di Marsala; di Garibaldi si sarebbe udita fuori campo solo la voce, mentre arringa i siciliani in una “piazzetta già stipata di gente fino all’inverosimile”: “Voglio per quanto da me dipende, che il plebiscito del 21 ottobre 1860 sia una verità, che il patto segnato fra popolo e Re riceva piena esecuzione. Io m’inchino alla maestà di Vittorio Emanuele, Re eletto dalla Nazione; ma sono ostile a un Ministero che d’italiano ha solo il nome. Di un Ministero, il quale per compiacere la diplomazia, ordinò nel mese di maggio gli arresti e il processo di Sarnico, come oggi provoca la guerra civile nel mezzogiorno d’Italia per assicurarsi le buone grazie dell’Imperatore Napoleone” (A Sarnico, nella bergamasca, una rivolta mazziniana appoggiata da Garibaldi tentò nel maggio 1862 di organizzare una sollevazione del Trentino contro l’Austria; i capi della rivolta furono arrestati ma a Brescia la folla assalì il carcere dov’erano detenuti provocando nuovi tumulti. La citazione dei fatti di Sarnico, assente nel romanzo di Lampedusa, doveva probabilmente servire agli sceneggiatori del film ad allargare l’orizzonte delle lotte risorgimentali fino all’Italia settentrionale). A questa scena piattamente enunciativa ne seguiva un’altra, più mossa ma altrettanto “telefonata”, in cui un giovane filogaribaldino si azzuffa con una spia dei piemontesi facendo accorrere le guardie. Lo scontro è scatenato dalla lettura di un minaccioso editto di Vittorio Emanuele II: “La voce del vostro Re si farà

sentire fra voi. Ogni appello che non è suo, è un appello alla ribellione, alla guerra civile. La responsabilità ed il vigore delle leggi cadranno su coloro che non ascolteranno le mie parole”. Il giovane ha da ridire: “Ah, sì? Però fin quando gli ha fatto comodo al signor Re Vittorio Emanuele si è servito di Garibaldi…”, e la spia cerca di spaventarlo annunciandogli che quattro soldati che avevano lasciato l’esercito sabaudo per unirsi alle camicie rosse saranno presto fucilati “santamente”. La scena successiva mostra infatti i quattro giovanissimi “disertori” passati per le armi nel cortile di una caserma di Palermo; poco prima avevano ricevuto la notizia del ferimento di Garibaldi all’Aspromonte. L’esecuzione dei “disertori” garibaldini tornerà costantemente nel lavoro di sceneggiatura del film, e riuscirà, pur ridotta a una scarica di fucileria fuori scena, a raggiungere la terra promessa della pellicola. L’inserzione di Garibaldi appare invece un po’ forzata: la scena (peraltro complessa e dispendiosa per il numero di comparse necessarie) viene quindi sostituita negli altri due dattiloscritti del ’61 da un agguato a Chevalley, appena ripartito da Donnafugata: un gruppo di contadini scontenti dei piemontesi (“solo le tasse ci ha portato il vostro plebiscito. Tutte le altre promesse sono andate in fumo”) blocca la sua carrozza per rubare i cavalli; lo invitano spavaldamente a seguirli per raggiungere Garibaldi; il povero Chevalley, tramortito, “fa un comico cenno di diniego con la testa”. Nelle pagine successive, il battibecco tra il filogaribaldino e la spia e la successiva fucilazione dei “disertori” rimangono immutati. Pur con lunghezze e dettagli diversi, tutti e tre i dattiloscritti del ’61 proseguono con una

“ragazza bellina” del negozio “Robes et Manteaux”, che deve consegnare degli abiti a palazzo Moncada e invitare la principessa di Mazzarino ad andare a provare il suo vestito. Per strada passa il colonnello Pallavicino (la ragazza: “Credo che sia quello che ha vinto Garibaldi”), davanti a due uomini il cui sguardo è “carico di disprezzo”. “Adesso che hanno fermato Garibaldi i signori ballano…” commenta uno dei due. Segue l’arrivo dell’invito al ricevimento, la preparazione dei Salina alla festa e il tragitto in carrozza verso palazzo Ponteleone. Il Gattopardo, in queste sceneggiature del ’61, non si sarebbe concluso con il ballo. Il finale, identico in tutti e tre i dattiloscritti, coincide con la morte del principe, ideale pendant con quella iniziale del soldatino, e desunta con buona fedeltà dal romanzo: il principe si fa visitare dal medico a Napoli, decide di affrontare il lungo viaggio in treno verso la Sicilia e finisce i suoi giorni all’albergo Trinacria. La sua voce fuori campo avrebbe fatto un amaro bilancio della propria esistenza, avrebbe ammesso di essere l’ultimo Salina e di avere avuto torto mentre “Garibaldi, quel barbuto Vulcano, ha dopo tutto vinto”. Dopo l’apparizione della bella signora e l’assordante fragore della vita che defluisce, l’ultima pagina si conclude con un’immagine che richiama le ultime righe del romanzo, la caduta della mummia di Bendicò: “Il Principe ha chiuso gli occhi. L’ombra della donna è sparita, sostituita da un’altra ombra danzante: quella di un quadrupede. L’ombra a poco a poco si concretizza nello stemma del GATTOPARDO”. Secondo le cronache giornalistiche, la prima di queste tre stesure della sceneggiatura fu completata molto velocemente, già a metà aprile

1961, tanto da annunciare le riprese del film per la fine dell’estate. Il lavoro invece proseguì con le altre due versioni probabilmente fino all’autunno. Testimonianze e indiscrezioni sono comunque concordi: il risultato non piacque molto a Visconti. Esaurita gran parte degli impegni artistici di quel periodo, alla fine del ’61 il regista entra direttamente nel processo di riduzione del romanzo, dando inizio alla seconda fase del lavoro di (ri)scrittura del Gattopardo. Visconti decide innanzitutto di cassare la morte del principe. “Bella, bella, ma che noia!” sbotta dopo averla letta. Ma il progetto cinematografico non può prescindere dal raccontare la scomparsa di Don Fabrizio: Visconti cercherà quindi di trasferire nella sequenza del ballo la premonizione di una fine, insieme fisica e sociale, che il principe sente ormai imminente. Tolta l’agonia di Don Fabrizio, l’attenzione si concentra ancora di più sul contesto storico del romanzo e sulla visione sociale del Risorgimento. Il primo blocco di sceneggiature aveva cercato di inserire il principe dentro la Storia, aveva messo in campo Garibaldi, opposto filopiemontesi a filogaribaldini, menzionato fatti storici e mostrato la fine della rivoluzione con l’esecuzione dei fedeli a Garibaldi, ma lasciava ancora in ombra un elemento, importantissimo, invocato da Alicata: il popolo, “quel dilagare del movimento contadino che gli studi più recenti ci hanno documentato avere assunto un rilievo ben più ampio di quanto fino ad oggi non si supponesse”. Ridotti a uditorio di Garibaldi o – peggio – a una banda di ladri di cavalli, i contadini delle prime sceneggiature non possiedono la dignità storica che il partito di

Togliatti e Trombadori sperava. Visconti se ne rende conto, ma prima di passare alla sceneggiatura riscrive la griglia del romanzo in una scaletta divisa in due tempi, il primo dal rosario all’episodio delle pesche forestiere, il secondo dalla lettera di Tancredi a un imprecisato cenno su “la Sicilia alla morte di Fabrizio”. La scaletta presenta diverse novità: Visconti ha tolto l’incipit del soldatino borbonico morente, ma l’immagine del cadavere tornerà più volte come memento mortuario; forse anche suggestionato dal documentario di Ugo Gregoretti, ha aggiunto una scena con i combattimenti a Palermo a cui partecipano Tancredi e Cavriaghi, come sarà poi nel film realizzato; ha recuperato dal romanzo il flashback dell’udienza da Ferdinando II; ha mantenuto la “fucilazione dei patrioti” facendola seguire da altri “moti”. Ma la novità più rilevante è che Visconti, preparando l’arrivo di padre Pirrone nel suo paese, appunta nel secondo tempo della scaletta il riferimento esplicito a un’altra opera letteraria: “Libertà di Verga a S. Cono,” scrive. Visconti aveva una grande passione per Verga. Vent’anni prima aveva tentato, con la collaborazione fra gli altri di Alicata, di trarre un film da L’amante di Gramigna e da Jeli il pastore, ed era poi riuscito a realizzare La terra trema, specialissima versione dei Malavoglia. Il ritorno di Verga nell’orizzonte creativo di Visconti è naturalmente legato anche a precisi riferimenti ideologici. Libertà, la novella più famosa dello scrittore siciliano, era stata citata da Alicata nel saggio sul “Contemporaneo” e affiora anche nel quaderno di Gramsci dedicato al Risorgimento,

dove i “movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni” schiacciati da Nino Bixio, e “alcune novelle di G. Verga” sullo stesso argomento erano contrapposti all’atteggiamento ambiguo di Mazzini e del Partito d’azione, “che in questo terreno pensava come i moderati e riteneva ‘nazionali’ l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini”. Alla ricerca di un contravveleno che bilanci la presunta “ideologia reazionaria” lampedusiana stigmatizzata da Alicata, Visconti trova l’antidoto nel conterraneo Verga i cui racconti, come avevano scritto lo stesso Alicata e De Santis nel ’41, “sembrano indicare le uniche esigenze storicamente valide: quelle di un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera”. Lo spunto concreto da cui Visconti attinge sembra però ancora un altro. Nel centenario dell’Unità, Leonardo Sciascia aveva dedicato un documentato saggio storico ai fatti di Bronte all’origine della novella, e alla tragica ingiustizia che li concluse. “Ingiustizia,” scriveva Sciascia, “non soltanto perché una rivolta di popolo, mossa da giuste e ancora vive cause, è stata sanguinosamente repressa, ma anche e soprattutto perché uomini sono stati giudicati e condannati per colpe che non avevano commesso e per idee e sentimenti da cui erano lontani e addirittura nemici.” Diversi elementi sottolineati da Sciascia trovano consonanza nel lavoro preparatorio sul Gattopardo, in particolar modo nei tentativi di inserire in sceneggiatura lo spunto verghiano: la mancata ridistribuzione delle terre demaniali ai contadini come causa della rivolta; la vergognosa e sbrigativa fucilazione degli arrestati; la continuità ideale fra la repressione operata da Bixio e la condotta violenta del fascismo. Tutto lascia credere che

Visconti conoscesse il saggio di Sciascia, e che vi abbia attinto alla ricerca di quegli elementi storici e ideologici che mancavano al Risorgimento lampedusiano. L’aggiunta dell’ingrediente verghiano sa però ancora di mera giustapposizione: l’idea si risolve nel semplice inserimento di un blocco di rivolte contadine nel paese di padre Pirrone. Un trapianto del genere è piuttosto rischioso nel corpo del Gattopardo: nella parte V del romanzo di Lampedusa non vi è alcun accenno a stragi e tafferugli, l’unico spunto polemico sono le rivendicazioni dell’erbuario, che si lamenta con padre Pirrone della nuova tassa annuale di venti lire che il Municipio gli chiede per vendere le erbe raccolte con tanta fatica. Ma a Visconti serviva un esempio di insurrezione popolare. Poco importa che l’originaria Libertà fosse ambientata a Bronte, paese geograficamente distante da S. Cono, il succo è che il popolo, tradito dalle false promesse dei liberali, arriva a farsi giustizia con le proprie mani, massacrando tutti i nobili e i borghesi che gli capitano a tiro. La novella di Verga proseguiva con l’arrivo di Nino Bixio, alcune esecuzioni sommarie e l’istituzione di un lunghissimo processo per gli arrestati, ma di tutto questo Visconti non ha bisogno avendo già previsto più avanti la scena dei “disertori” passati per le armi. La scaletta in due tempi fin qui descritta non ha data ma sembra il lavoro preparatorio a una nuova sceneggiatura, che è il primo documento su cui compare un preciso riferimento temporale: 8 gennaio 1962. Il nuovo copione è diviso in cinque parti, tante quanti sono gli sceneggiatori impegnati in questa fase: Cecchi d’Amico, Medioli, Franciosa, Festa Campanile e lo stesso

Visconti. Il metodo di lavoro prevedeva una prima fase di discussione e stesura comune, quindi la trama veniva tagliata in tanti blocchi quanti erano gli autori, ciascuno dei quali vi avrebbe lavorato separatamente, per poi riunificare il copione in seduta comune. Questa sceneggiatura si presenta come un’evoluzione sia della scaletta in due tempi sia degli ultimi due dattiloscritti del ’61. Alcune scelte tradiscono ancora una certa indecisione strutturale attraverso un uso ridondante del flashback, a partire dall’immagine del cadavere del soldatino che ricorre nella mente del principe fino all’uscita dal ballo come un costante memento mori; la rievocazione della battaglia di Palermo trova posto durante il viaggio a Donnafugata (introdotta da un vecchio contadino che apostrofa ammirato Tancredi: “Garibaldi? Vossia ha combattuto con Garibaldi?”); rimangono ricordi, come nel romanzo, la visita del generale piemontese a villa Salina, i risultati del plebiscito durante la battuta di caccia, e la missiva di Tancredi letta da Don Fabrizio alla sdegnata principessa Maria Stella. L’udienza reale con Ferdinando II di Borbone viene inserita come flashback durante il tragitto notturno in carrozza verso la prostituta Mariannina, ma un’annotazione sul frontespizio della sceneggiatura denuncia la tentazione di Visconti di utilizzarla addirittura come prologo al film, facendola seguire alla presentazione di Tancredi. Un altro brevissimo flashback, che non verrà più riproposto nelle successive versioni, arriva durante la caccia: a Tumeo che chiedeva notizie di Tancredi, si sovrappone l’immagine di Angelica che chiede del giovane, subito sostituita da quella della principessa Maria Stella in cuffia da notte che domanda al principe: “Cos’ha scritto

Tancredi?”; “Tancredi è sempre a Caserta,” rispondeva Don Fabrizio, idealmente a tutti, in concreto al solo Tumeo. Le parti più interessanti sono quelle che si discostano dalla scaletta, e riguardano ancora il versante storico-sociale. Durante il flashback sulla battaglia di Palermo, la gente cattura uno “sbirro” che, una volta in carcere, ha la ventura di assistere da dietro le sbarre al passaggio di Garibaldi (una variante della presenza del generale nel primo dattiloscritto del ’61). La Libertà di Verga viene introdotta – camuffata – nel corso del litigio fra il giovane filogaribaldino e la spia borbonica, subito dopo la partenza di Chevalley. Stavolta sentiamo un garibaldino che cerca compagni per unirsi a Garibaldi e liberare Roma: “…Garibaldi vi chiama! Sbarcato a Palermo per sciogliere la promessa che ci aveva fatto di tornare tra noi ha avuto ancora una volta il dolore di constatare che il patto segnato fra il popolo e il Re col plebiscito del ventun ottobre non è stato rispettato. […] Amici! Correte alla Crociata santa. Garibaldi è a Catania da dove la spedizione dei liberi partirà per il continente. Giù più di duemila volontari sono con lui…”. Sentendo queste invocazioni, un maresciallo piemontese fa subito arrestare il garibaldino facinoroso (che protesta: “Non avete diritto di arrestarci. Volete la guerra civile per aver campo di spegnere nel sangue l’avvenire della libertà”), e mostra ai contadini, “cupi e silenziosi”, il minaccioso proclama di Vittorio Emanuele II. È il momento in cui il popolo si solleva: il maresciallo viene aggredito e ucciso dalla folla, e nel caos che ne consegue una delle guardie spara all’impazzata colpendo un’anziana donna. Siamo ben lontani dall’efferata strage

descritta da Verga, l’appiglio a Libertà è ancora poco più che un riferimento ideale, ma qui il popolo c’è e sa da che parte stare. La sceneggiatura prosegue con il discorso di padre Pirrone all’erbuario, facendoci così scoprire che il paese in cui sono avvenuti gli scontri è proprio S. Cono; saltati a piè pari i vari guai familiari del gesuita, il copione si occupa degli insorti, che vengono informati in carcere della sconfitta e dell’arresto di Garibaldi, e sui quali pende la minaccia della fucilazione: è una versione più diluita della scena dei disertori nelle sceneggiature del ’61, come il discorso del garibaldino è una sorta di variante di quella che nel copione più antico era l’arringa del generale. La fucilazione è stata presumibilmente spostata a ridosso del finale: il dattiloscritto, che ci è giunto incompleto, si conclude infatti con l’arrivo dei Salina al ballo (spiati come nel romanzo dai figli e dai nipoti più piccoli dei Ponteleone, scena che non sarà più riproposta). Il cammino del Gattopardo, dalla pagina scritta alla celluloide, si stava rivelando più lungo del previsto e la stampa cominciò a indagare. “Una prima sceneggiatura,” riassume un giornalista in quel periodo, “è stata scritta da Suso Cecchi d’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa ed Enrico Medioli qualche tempo fa, ma Visconti, brontolandoci sopra per una settimana, la distrusse senza remissione. La seconda stesura l’ha leggermente ammansito senza peraltro soddisfarlo.” Nelle sue prime parole sul progetto con la stampa, Visconti non nasconde le incertezze ma dichiara apertamente di non accettare la visione di Lampedusa, anzi di volerla ribaltare puntando sulla contrapposizione tra fasto corrotto e rivolta popolare. “Non

conosco ancora l’esatto binario su cui correrà il mio Gattopardo,” dichiara Visconti. “Il nome mi affascina di per se stesso, come un aroma forte di odori e di sensazioni. Comunque, mi lascerò guidar da quella che è l’improvvisazione del momento, ma quello che ho in mente di trattare a fondo è la non accettazione dell’immobilismo storico del Lampedusa, stagnante nella contemplazione di una società barocca e pigra, occupata a passar le giornate negli angoli in ombra dei portici afosi, nel quadro oleografico della terra secca bruciata dal sole. Io voglio che i miei personaggi soffrano, si dibattano, rendano vitale ogni momento della loro vita e non se ne stiano supini a sudare di sensualità continua.” Parole che sembrano riecheggiare lo sdegno di Sciascia alla lettura del colloquio con Chevalley per il “vizio di astrazione geografico-climatica” diagnosticato a Don Fabrizio. Così com’era, comunque, non funzionava neanche la sceneggiatura dell’8 gennaio ’62. I cambiamenti e le aggiunte rispetto al romanzo non riescono sempre compatibili con i fatti raccontati nel libro; le istanze progressiste e l’elogio di un Risorgimento anche dagli umili eroicamente agito e patito reclamano un registro ben diverso da quello piano e ironico di Lampedusa. Sotto l’apparenza di quelle linde pagine dattiloscritte, ripartite ordinatamente in azioni e dialoghi, si avverte uno scontro sotterraneo. Visconti cerca di ottenere da Lampedusa qualcosa che lo scrittore non vuole e non può dargli: lo stravolgimento del punto di vista. I ricordi e i flashback che riguardano l’interiorità di Don Fabrizio risultano distanti dai sommovimenti operati o subiti dal popolo. E il

tentativo di dar conto anche dei tumulti dei contadini appare come una mera giustapposizione. Il testo di Lampedusa si ribella a sovrapposizioni e intrusioni, provenissero anche dal conterraneo Verga. Nel lavoro di sceneggiatura s’impone un profondo lavoro di revisione. La nuova impostazione – siamo alla terza fase – amplia e precisa alcune ispirazioni esterne. Incuranti delle conseguenze, Visconti e i suoi collaboratori spostano ancora di più la prospettiva del film, allontanandosi dalla soggettività del principe per avvicinarsi a quella di padre Pirrone, e guadagnando al tempo stesso nuovo spazio alla rivolta popolare. Il risultato è una “Nuova Scaletta” senza data, in cinque parti scandite in modo diverso rispetto alla sceneggiatura dell’8 gennaio ’62. Ciascuno dei cinque fogli è introdotto dalla data precisa in cui si svolge l’azione, ed è stavolta firmato dal rispettivo autore. “Proposta scaletta a giornate (diciamo così),” appare nell’incipit della prima pagina, firmata da Visconti. L’idea è quella di riproporre la struttura del romanzo dividendola in cinque giorni-chiave, riverberando nel film l’effettivo tentativo di Lampedusa, dopo quello fallito di rifare l’Ulisse con un racconto di ventiquattr’ore, di scandire l’azione nell’arco di più giornate. L’avvio, situato in un giorno del maggio 1860, parte con la conclusione del rosario, include il ricordo del soldatino morto, un “ricordo brevissimo della puttanella francese” e il flashback alla corte di Ferdinando II. Il secondo foglio, firmato Suso Cecchi d’Amico e ambientato nell’agosto 1860, è ancora più vicino al film realizzato: il viaggio verso Donnafugata è solo anteposto alle giornate

di Palermo, che vengono così a essere un “ricordo”. Poi il picnic sull’erba (nel romanzo appena accennato), il flashback del generale piemontese a villa Salina, l’arrivo a Donnafugata, il Te Deum, il frac di don Calogero, la risata di Angelica e le pesche portate a casa Sedara. C’è anche la visita al convento della Beata Corbera, durante la quale ci si inventa che padre Pirrone parli a Tancredi di Concetta. Il terzo foglio, di Pasquale Festa Campanile, si apre in un giorno piovoso dell’ottobre 1860 con il principe che legge alla moglie la lettera di Tancredi. Durante la caccia viene ricordato il plebiscito e la manifestazione delle bagascette; chiuso Tumeo nello stanzino, Don Fabrizio chiede la mano di Angelica per il nipote. Al ritorno di Tancredi, Angelica riceve l’anello di fidanzamento. Quarto foglio, di Enrico Medioli: novembre 1860; Tancredi e Angelica in soffitta, il colloquio con Chevalley, la sua partenza all’alba fra “visioni di miseria”. La rivolta contadina arriva all’inizio del quinto foglio (1862), firmato da Massimo Franciosa: “A S. Cono i contadini eccitatissimi si rivoltano”. Dopo la risoluzione dei guai familiari, padre Pirrone torna a Palermo e trova i Salina indaffarati per il ballo dai Ponteleone. Un lungo flashback avrebbe quindi rievocato l’invito chiesto per i Sedara, il passaggio in strada di Pallavicino, la notizia dell’arresto di Garibaldi, la trepidazione di cinque garibaldini arrestati, a cui fa da contrappunto l’arrivo degli abiti per la festa, dentro “scatoloni come feretri”, in casa Salina. Seguono il ballo, la scarica finale di colpi di fucile e il principe che “riprende la sua strada”.

L’elemento nuovo è stavolta l’inserimento, fra una “giornata” e l’altra, di padre Pirrone che “parla del suo paese”. La scaletta si limita a questa scarna indicazione, né si hanno esempi, nei copioni successivi, di come e cosa il gesuita avrebbe raccontato di S. Cono fra le cinque parti del film. Potrebbe trattarsi di un controcanto ai pensieri di Don Fabrizio, una voce vicina al popolo in continua dialettica con le azioni e le riflessioni del principe. In questa scaletta, il recupero della parte V del romanzo (le vacanze di padre Pirrone) sembra infatti trovare il suo senso finale come trait d’union tra la rivolta dei contadini di S. Cono e i preparativi dei Salina al ballo, con l’esplicita funzione di metterli in contrapposizione. In mezzo a queste ultime due scene, il gesuita si reca “in visita alla famiglia per rimediare tutti i guai che ci sono”; spaventato dai fatti di sangue, “fa la sua donazione in tutta fretta e annuncia che tornerà a Palermo dove chissà che cosa succede al padrone principe Salina”. Ma, appunto, “al suo padrone non è successo proprio niente. Né a lui né ai suoi familiari. Stanno andando al ballo dei Ponteleone”. La sceneggiatura che segue, sempre senza data ma risalente presumibilmente alla fine del gennaio ’62, ha la stessa scansione e grosso modo gli stessi contenuti della scaletta; le cinque parti sono affidate ai medesimi sceneggiatori. La trovata, un po’ troppo sentenziosa, di intercalare continuamente padre Pirrone è stata però nel frattempo abbandonata; c’è sempre lo “sbirro” che, dopo essere stato trascinato in carcere durante la battaglia di Palermo, intravede dalla prigione la criniera bianca di una giumenta e la camicia rossa di Garibaldi, acclamato dalla folla. Donna Bastiana, la selvatica consorte di don

Calogero, appare in una breve scena in casa, tenuta sotto chiave insieme a una serva, ad aspettare il ritorno del marito. La porzione della sceneggiatura più interessante, perché ricca di novità sia rispetto al romanzo che al film realizzato, è la quinta, sempre a firma di Massimo Franciosa. Qui la rivolta dei contadini di S. Cono è notevolmente più ampia e “verghiana” che nelle versioni precedenti: scoppia all’uscita da una zolfatara per l’iniziativa di un “cafone” esasperato dalla fame che, tenendo in braccio un bimbo in lacrime, spara a due campieri. “Libertà, sì! Libertà! Terra, ne vogliamo,” gridano altri contadini sventolando il tricolore. La voglia di sangue e di vendetta si abbatte quindi sul soprastante di Sant’Eleuterio. Incitati dalle loro stesse urla (in un siciliano piuttosto approssimativo: “Sangu lava sangu!”, “Semu di terra!”, “A terra è di chi la zappa!”) gli insorti inseguono “il sorcio” che finisce abbattuto a randellate. Il giorno dopo, il cadavere sfracellato viene osservato da padre Pirrone, che gli impartisce una benedizione e, dopo aver discusso dei disordini con alcuni contadini, si risolve a raggiungere S. Cono per un’altra strada. Prima di arrivare al dialogo con l’erbuario la sceneggiatura aggiunge anche il linciaggio di un gruppo di maggiorenti, “un po’ meno poveri dei poveri di quella triste società”, con particolari efferati (“la testa di un uomo sgozzato che scivola giù lungo il muro bianco”) e precisi riferimenti testuali alla novella di Verga (“Oggi, volevano andare ad ammazzare la baronessa, perché è donna di pane bianco.” “Ma ne hanno trovati, di servi da ammazzare, prima di arrivare a lei!”). L’epilogo della rivolta viene riassunto a voce da uno dei fratelli Schirò a padre Pirrone:

“La forza ha arrestato i responsabili. Li ho visti passare incatenati per il paese. Nemmeno si rendevano conto del malfatto. Chiedevano: ‘Ma dove ci portate carcerati? Volevamo terra giusta, e non ne abbiamo avuta…’. E uno ha gridato piangente: ‘Dove sta Garibaldi?… Quando sbarca di nuovo a farci giustizia?…’.”. Padre Pirrone rimette in sesto i suoi guai familiari, e si congeda con un’ultima considerazione al cognato Vicenzino, ancora una volta totalmente inventata rispetto al romanzo: “…Sono tempi incerti. Tempi arrabbiati. Chi possiede la terra, se si potesse, la dovrebbe nascondere… Con quest’appuntamento di gente disgraziata, che incendia e saccheggia… Pensa al principe di Salina, che gli può succedere da un momento all’altro… E io, finché sto lontano da loro, non me ne so dare pace. Con questi spettri di esproprio e di violenze”. La scena seguente, per contrasto, descrive l’avvio dei serafici Salina in carrozza verso il ballo dei Ponteleone. Nel film realizzato gran parte dei riferimenti a Verga e alle “vacanze” di padre Pirrone sparirà, ma la contrapposizione tra la miseria dei contadini e l’aristocrazia danzante rimarrà sulla pellicola, ridotta a un semplice, per quanto incisivo, succedersi di inquadrature, il popolo che zappa al ritmo del valzer verdiano che introduce la festa. Modifiche, però, chiamano modifiche. La scelta di contrapporre al preoccupato padre Pirrone i festanti Salina obbliga gli autori a mettere in flashback alcuni passi che altrimenti salterebbero: la lettura del proclama di Vittorio Emanuele II contro i garibaldini, il litigio (che degenera in rissa) fra il giovane filogaribaldino e la spia dei Savoia, i dialoghi in prigione tra gli

sbigottiti “disertori”, ora diventati sette (“M’hanno interrogato anche me, l’altra notte. Che facevate? Perché avete rimesso la camicia rossa? Non sapete che siete soldati… Che questa è diserzione… Mi è presa una rabbia, allora, e ho risposto: ‘Per noi, non c’è scelta. O merda o birritta russa’.”), la ragazza, stavolta “piccola e bruttina”, del negozio “Robes et Manteaux” che va a portare i vestiti a palazzo Salina mentre in strada passa il colonnello Pallavicino, l’eccitazione di Carolina, una delle figlie di Don Fabrizio, nel provare il vestito nuovo, una breve discussione sull’invito richiesto ai Ponteleone anche per i Sedara con il contrappunto sociale di due cameriere che commentano a bassa voce (“È il quinto ballo in dieci giorni.” “Io vorrei sapere che gusto ci provano. Sono sempre gli stessi; mangiano, bevono, ballano, sempre tra di loro.” “Per un momento si sono presi una gran paura. E adesso che gli è andata bene si incontrano per congratularsi di esistere ancora…”). Concluso l’ultimo flashback, la sceneggiatura torna al ballo, a cui manca il valzer di Don Fabrizio con Angelica e il dialogo con Pallavicino ma che ha in più due altri brevissimi flashback ambientati nella sala con gli enormi pouf, dove le stesse signore compaiono sui medesimi divani vent’anni e ancora quarant’anni prima, sempre più giovani ma sempre intente a gridare: “Maria! Maria! Che bella casa”. All’uscita dal ballo, subito dopo l’invocazione di Don Fabrizio alla stella, la scena si sposta velocemente nel cortile della caserma di Pallavicino, dove i sette garibaldini vengono passati per le armi (tra loro c’è anche il lanciere Moroni). L’ultima inquadratura, come sarà davvero nel film, è sul principe che riprende lentamente il suo cammino.

Era davvero la strada giusta? Visconti non sembra avere dubbi. “La sceneggiatura è alla sua terza revisione e sembra assumere ora un volto soddisfacente,” annuncia all’Ansa alla fine di gennaio. “Non mi staccherò mai dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,” ma poi mette le mani avanti, “e le rare volte che lo farò sarà per sviluppare e approfondire quelle cose che nel libro sono solamente accennate e sfiorate. L’andamento complessivo del film sarà tuttavia uguale a quello del romanzo. Per chiarire e per ricordare al pubblico qual era la situazione della Sicilia di allora e quali furono le reazioni della gente alle imprese garibaldine inserirò nel film alcuni fatti attinenti alla storia dell’isola. Occorre farlo perché al pubblico delle sale cinematografiche non si domanda una preparazione storica e culturale particolare, e poi perché il ricordo di quegli avvenimenti è certamente un po’ confuso nella mente di tutti: bisogna mettere il pubblico nella condizione di capire subito quello che vede. In breve: è mia intenzione inserire la vicenda del romanzo nella situazione politica e sociale della Sicilia di allora.” La dichiarazione di Visconti sembra preludere a una rapida conclusione del lavoro di sceneggiatura. In realtà nessuna delle scalette e delle sceneggiature prodotte fino a quel momento porta sul frontespizio il logo della Titanus, segno che nessuna di esse è stata considerata definitiva e approvata da Lombardo. Malgrado le dichiarazioni di Visconti, il faticoso compromesso tra fedeltà al romanzo e la “precisa spinta di natura critico-ideologica” non è affatto raggiunto: la sconfitta esistenziale e sociale dell’aristocrazia rimane distante dai fermenti del popolo, la dialettica fra la parabola discendente

di Don Fabrizio e l’impennata rivoluzionaria dei contadini di S. Cono ottiene più stridore che vera contrapposizione, il tentativo di reinserire Il Gattopardo dentro la Storia ha un sapore didascalico prima ancora che ideologico. Il romanzo di Lampedusa si ribella alla morsa che Visconti vorrebbe imporgli. Il racconto è costruito con un meccanismo perfetto, inattaccabile, che rifiuta di sottostare alle intenzioni degli sceneggiatori: la struttura del libro reagisce alla sovrastruttura del copione, gli innesti rischiano a ogni passo di essere rigettati, come in un trapianto fallito. Il lavoro di scrittura è destinato a proseguire ancora per dei mesi. E prima di arrivare a una versione “definitiva” del copione, Visconti dovrà risolvere altri grossi problemi, a cominciare dalla scelta degli attori.

Otto I volti, i luoghi, i denari e la sceneggiatura “definitiva” “Ho pensato per molto tempo alla rappresentazione fisica del mio eroe principale, il principe di Lampedusa, che, come lo descrive l’autore, deve essere un siciliano biondo e con gli occhi azzurri, grande e grosso, di una taglia eccezionale. Esiste in Sicilia una discendenza dai Normanni, che sono individui dotati di caratteristiche totalmente opposte a quelle del classico siciliano. Perciò, dopo lunghissime e laboriose ricerche effettuate in tutti i paesi, compresa l’U.R.S.S., ho deciso che la miglior aderenza al personaggio considerato era quella dell’attore Burt Lancaster.” A parte il vistoso lapsus nelle prime righe, segno del diffuso fraintendimento nell’identificare tout court Fabrizio Salina con Giuseppe Tomasi, questa breve dichiarazione di Luchino Visconti (tratta da una lettera alla direzione del Centre National de la Cinématographie Française) riassume in modo assai stringato e non del tutto sincero le difficoltà incontrate nella ricerca dell’attore protagonista. Visconti la scrisse nell’aprile ’62, quando Burt Lancaster aveva appena firmato il suo contratto come protagonista del film, a supporto della documentazione da esibire al Ministero: la storia delle “laboriose ricerche effettuate in tutti i paesi” serviva a giustificare la Titanus per avere scelto un americano come interprete principale in una coproduzione italofrancese.

Le ricerche del principe di Salina si concentrarono in realtà in pochi paesi: Italia, Inghilterra e Stati Uniti. L’accenno all’Unione Sovietica non è però gratuito. La prima ipotesi di Visconti fu Nikolaj Čerkasov, attore prediletto da Ejzenštejn; al cinema lo si era visto da poco ne La congiura dei Boiardi, la seconda parte di Ivan il Terribile, scongelata dopo una scomunica più che decennale da parte del Comitato Centrale sovietico. Forse anche Visconti voleva citare Ejzenštejn, come aveva fatto Lampedusa. Il regista faceva sul serio: incaricò Pietro Notarianni, efficientissimo organizzatore cinematografico della Titanus, di contattare Čerkasov. L’idea probabilmente piacque agli amici marxisti (Guido Aristarco mette l’attore sovietico sulla copertina di marzo/aprile 1961 di “Cinema Nuovo”) ma di sicuro entusiasmò ben poco il produttore della Titanus. Goffredo Lombardo, un signore giovane ed elegante con gli occhi a spillo e un’amabile erre moscia, aveva le idee ben chiare. Il suo modello industriale era quello americano, il grande spettacolo capace di mettere d’accordo pubblico e critica; nei suoi listini, la Titanus alternava sapientemente film commerciali a opere d’autore, Totò e Amedeo Nazzari a Zurlini e Visconti. Lombardo sapeva che Il Gattopardo sarebbe costato molto più di qualsiasi altro suo film, e che avrebbe potuto realizzarlo solo con una coproduzione internazionale: il ruolo di Don Fabrizio sarebbe dovuto andare a una grande star americana, di richiamo commerciale più che sicuro. Non osando contrastare apertamente la scelta di Visconti, Lombardo mostrò di assecondarlo. Prima però di affrontare inutili e dispendiosi viaggi in Unione Sovietica, il produttore chiese

all’ambasciata russa di fargli avere delle foto recenti di Čerkasov: quando arrivarono, le immagini mostrarono un uomo troppo magro e troppo anziano. E Visconti si mise l’anima in pace. Bocciati uno dopo l’altro i candidati italiani (fra i quali sembra ci siano stati Turi Ferro, Marcello Mastroianni e Gino Cervi), il ruolo venne quindi offerto a Laurence Olivier. Visconti ne era convinto: l’attore inglese avrebbe potuto essere un eccellente aristocratico siciliano. Il suo nome trapelò sui giornali e rimase in cima alla lista per diversi mesi ma alla fine venne cancellato: la stampa dell’epoca spiegò che la corporatura di Olivier non sarebbe stata massiccia come quella di Don Fabrizio, e che il figlio appena avuto da Joan Plowright lo avrebbe costretto a non prendere lunghi impegni, mentre Suso Cecchi d’Amico ha sempre attribuito la rinuncia a problemi di salute. Ma sono giustificazioni di comodo: l’attore, nello stesso periodo, alternò senza problemi set cinematografici e tournée teatrali di qua e di là dell’oceano. Il vero ostacolo fu probabilmente ancora Lombardo, che voleva un divo americano in grado, col suo solo nome, di trascinare al cinema folle di spettatori di tutto il mondo. Il numero uno in quel momento è Burt Lancaster. È bello, popolare, versatile. Ha appena vinto un Oscar con Il figlio di Giuda, ha prodotto diversi film (Marty, Trapezio), ne ha pure diretto uno (Il Kentuckiano). Atletico e muscoloso, è specializzato in ruoli di pirata, delinquente e pistolero, in pellicole di grande successo come Il corsaro dell’isola verde, I gangsters e Sfida all’O.K. Corral. Titoli degnissimi nel cinema di genere, però lontani

dalle sottigliezze lampedusiane e dal gusto di Visconti. L’intuizione di Lombardo fu lungimirante e ardita: chiunque avrebbe faticato a immaginare un ex acrobata di circo americano dentro i panni di un principe siciliano dell’Ottocento. Quando il produttore si decise a tirare fuori il nome, Visconti infatti inorridì: “Un americano?! Lombardo, ma è matto? Lancaster è un cowboy!”. Vade retro. Pur di evitare un interprete del genere, Visconti prese in considerazione altri attori statunitensi, a cominciare da Marlon Brando, che aveva già cercato di ottenere per Senso. Alla stampa arrivarono anche i nomi di Spencer Tracy e di Anthony Quinn. Corse perfino voce che lo stesso Visconti, deluso dall’esito delle ricerche, meditasse di incarnare personalmente Don Fabrizio. “Naturalmente, Visconti avrebbe potuto recitare il ruolo del principe Salina,” ha ricordato Claudia Cardinale. “Aveva la sua stessa lucidità, le sue disillusioni, la sua raffinatezza, la sua cultura. Delon e io abbiamo fatto di tutto per convincerlo.” Lombardo nel frattempo rimaneva fermo sulla prima scelta. Anzi, più tempo passava, più si convinceva della bontà della sua intuizione: l’uscita di Vincitori e vinti, in cui Lancaster interpreta un giudice nazista imputato di crimini di guerra, lo rassicurò sulla sua capacità a interpretare ruoli distanti dal solito cowboy. Nell’autunno del ’61 il signor Titanus prese una decisione definitiva. All’insaputa di Visconti s’imbarcò alla volta di Los Angeles, insieme a un avvocato e a una copia di Rocco e i suoi fratelli, deciso a farsi dare udienza da Lancaster. Contro ogni consuetudine, Lombardo dribblò gli agenti dell’attore e gli telefonò personalmente.

Lancaster accettò di incontrarlo ma confessò di non conoscere né il romanzo di Lampedusa né Visconti. Lombardo tirò fuori le pizze di Rocco e organizzò immediatamente una proiezione; nel frattempo, assoldati un gruppo di italoamericani, li sguinzagliava ad acquistare il romanzo nelle librerie da cui venivano rilevate le vendite dei libri, spingendo così in breve tempo The Leopard nella zona alta della classifica; a dar retta ai suoi ricordi, avrebbe addirittura fatto uscire a proprie spese l’edizione in inglese del romanzo. La versione dell’attore è un po’ diversa: non conosceva Visconti ma il romanzo di Lampedusa sì, e lo aveva amato a tal punto da averne appena acquistato diverse copie da regalare ad amici. Come che sia, a Lancaster piacque molto Rocco e i suoi fratelli. Lombardo rilanciò: “Visconti adorerebbe che lei fosse il Gattopardo. Mi ha detto: ‘Dì a Lancaster che sarei molto molto felice se lui accettasse’.”. Lusingato, l’attore si fece mandare la sceneggiatura (ancora alla prima stesura, con la morte del principe nel finale) e diede un sì di massima. Ma la parte più difficile doveva ancora venire. Lombardo doveva ora fare accettare Lancaster a Visconti. Tornato a Roma, organizzò il viaggio dell’attore americano in Italia per fargli incontrare il regista milanese. Dopodiché giocò con Luchino l’unica carta possibile, quella dell’adulazione, la stessa che aveva buttato sul tavolo con Lancaster: “Per tutta la vita Lancaster ha pensato di fare un film con lei,” mentì spudoratamente. “Perciò desidererebbe incontrarla, perché sarebbe felice di fare Il Gattopardo.” Luchino ovviamente rimase perplesso. “Guardi, lei ci parli,” insisteva il produttore, “e se non le va, vorrà dire che

l’avremo ospitato a Roma e che se ne tornerà in America”. Intanto Pietro Notarianni trascinava Visconti nella saletta della Titanus a mostrargli Piombo rovente, uno degli ultimi film interpretati da Lancaster, in un ruolo, quello del giornalista cinico e megalomane, lontano dal cliché del pistolero. Il giorno dell’appuntamento fatidico Lombardo, nervosissimo, aspettò pazientemente l’arrivo del regista e dell’attore all’Excelsior di via Veneto, li accolse, li presentò l’uno all’altro, li condusse alla suite che aveva prenotato, borbottò “torno subito” e sparì. Rimase a camminare per diverso tempo nel corridoio in preda all’agitazione, temendo che i due si svelassero reciprocamente la doppia bugia. Quando ebbe il coraggio di rientrare, Lombardo si rese conto che l’incontro era andato bene. Lancaster era ancora interessato a interpretare Il Gattopardo, e Visconti si stava ricredendo sul cowboy. Non che avesse digerito del tutto la cosa: gli rodeva, soprattutto, che fosse stato qualcun altro a scegliere il protagonista. È la fine del gennaio ’62. Dopo quindici mesi di ricerche e trattative, Visconti annuncia all’Ansa la fumata bianca, avendo cura di non mostrare una particolare eccitazione: “Lancaster era momentaneamente il più libero ed ha risposto subito con molto entusiasmo alla proposta. Latinizzare la sua recitazione non credo sia cosa difficile: del resto ho già lavorato con attori americani. In Lancaster poi alle dovute qualità artistiche sono riunite la buona volontà e la cultura”. Ci vorrà ancora del tempo prima che Lancaster formalizzi la sua partecipazione al film

della Titanus. Nei programmi di Lombardo la presenza dell’attore doveva servire come trampolino di lancio per una seconda fase, la ricerca di un coproduttore americano ingolosito dal nome del protagonista. Intanto Lombardo si era assicurato Paolo Stoppa e Rina Morelli, che furono i primi a siglare un regolare contratto nell’ottobre 1961, per rivestire i panni di don Calogero Sedara e della principessa Maria Stella. Il ruolo di Concetta, per il quale Visconti qualche mese prima aveva immaginato Romy Schneider, andò invece a Lucilla Morlacchi, già nel cast dell’Arialda. La partecipazione di Alain Delon sembrava certa fin dall’inizio. Quello di Tancredi fu il primo ruolo del Gattopardo annunciato alla stampa, nell’articolo dell’“Espresso” del novembre ’60 che aveva aperto la controversia con Giannini. In attesa che la sceneggiatura venisse completata e che Lombardo trovasse i finanziamenti, Delon fece in tempo a girare Che gioia vivere! di René Clément e L’eclisse di Antonioni ma s’impelagò in un Marco Polo italo-franco-americano con set jugoslavo che rischiava di bloccarlo per buona parte del ’62. Visconti corse allora ai ripari contattando Tomas Milian, però già impegnato nella Banda Casaroli di Vancini; Milian gli propose al suo posto un altro cowboy, l’americano Tab Hunter. La Titanus avviò trattative con Horst Buchholz; si arrivò a un passo dalla firma con Warren Beatty, appena visto in La primavera romana della signora Stone e Splendore nell’erba. Alla vigilia dell’avvio del Gattopardo un colpo di scena riportò in auge la candidatura di Delon: le riprese di Marco Polo erano state improvvisamente interrotte. “Paese Sera” raccolse voci di un inspiegabile ritiro dei partner americani, e il produttore Raoul Lévy si

affrettò a parlare di un’interruzione momentanea dovuta alle location indiane, inagibili nel periodo dei monsoni. Lévy, si noti, è lo stesso produttore con il quale Visconti aveva prenotato un film dalla Recherche di Proust per il ’64: dobbiamo pensare a qualche accordo per riavere Delon o a un semplice segno del destino? Di sicuro c’è che il Marco Polo avrebbe ricominciato le riprese solo nel ’63, e con un cast completamente diverso (sarebbe uscito nel ’65 con il titolo Le meravigliose avventure di Marco Polo). Anche l’acquisto di Claudia Cardinale fu meno facile del previsto. Nuova musa dei cineasti di sinistra, nel volgere di pochi anni la giovane attrice aveva girato con Maselli (I delfini), Bolognini (Il bell’Antonio, La viaccia, Senilità), Zurlini (La ragazza con la valigia) e con lo stesso Visconti (Rocco e i suoi fratelli); Alberto Moravia le aveva appena fatto una lunga, celebre, intervista per “Esquire”. Originaria di una famiglia siciliana, l’attrice tunisina incarnerebbe alla perfezione l’ambiziosa e selvatica Angelica Sedara. Ma c’è un ma: alla Cardinale è interessato anche Fellini per il suo nuovo film, 8 ½. Luchino e Federico sono alla testa di fazioni rivali; nel ’54 alla presentazione veneziana di Senso e La strada i due “partiti” erano addirittura arrivati allo scontro fisico, sedato solo dall’intervento dei carabinieri. In realtà Luchino e Federico si ammirano a distanza, aspettano solo che sia l’altro a riconoscerlo per primo. Ma la Cardinale rischia di diventare il pretesto per un nuovo contrasto. Visconti temette davvero di non riuscire ad averla se è vero che andò a offrire la sua parte a Marisa Allasio, già protagonista di Camping di Zeffirelli. Ma forse il regista voleva solo sentirsi

dire di no. Nel ’58, alle nozze con Pier Francesco Calvi di Bergolo, figlio della principessa Iolanda Margherita di Savoia, la Allasio aveva annunciato il suo addio al cinema, e non derogò neanche per il regista di Senso (rimpiangendolo poi per tutta la vita). L’unica vera candidata al ruolo di Angelica rimaneva Claudia Cardinale. Ma come scegliere tra Fellini e Visconti, quale dei due deludere? La soluzione, faticosa ma praticabile, era accontentarli entrambi. Con un po’ di pazienza e di accordi sul calendario di lavorazione, l’attrice si preparò a saltabeccare da un set all’altro, facendo la spola fra Roma e Palermo. Nell’autunno del ’61, quando il volto definitivo di Don Fabrizio era ancora nella mente di Lombardo e si lavorava al primo blocco delle sceneggiature, i sopralluoghi per il Gattopardo erano già iniziati. Visconti partì a dicembre per la Sicilia accompagnato dall’organizzatore generale Pietro Notarianni e dallo scenografo Mario Garbuglia, e si preparò a perlustrare paesi e palazzi gattopardiani sotto la migliore guida possibile, Gioacchino Lanza Tomasi. Cominciò con le ville di San Lorenzo, e non le trovò come si aspettava: “Tutta palazzoni di dieci piani, questa Palermo, un paesaggio che non è più quello che vedeva Don Fabrizio. Ma questo è un problema che potremo risolvere: bisognerà mascherare l’orrenda edilizia moderna e creare un panorama fedele al romanzo”. Deciso a girare nei luoghi identificabili come “reali”, il regista non voleva arrendersi neanche davanti alla triste realtà di palazzo Cutò, malridotto e smembrato in appartamenti. “Siamo disposti a farlo rimettere in sesto,” dichiarò indossando per un momento anche il ruolo del produttore, “così come vorremmo fare con le ville palermitane.

Naturalmente, le opere eseguite per il film potranno essere un primo passo per restaurare completamente i vecchi palazzi palermitani, le ville…” Visconti rimase fra Palermo e Bagheria per una settimana. Più distruzione e macerie trovava, più s’infervorava a parlare della necessità di riportare al primitivo splendore gli antichi palazzi della nobiltà palermitana, di far promulgare una legge apposita che provvedesse a farli restaurare, magari anche a ripristinare il paesaggio di un tempo… Di viaggio in viaggio, di delusione in delusione. A Santa Margherita di Belice, la Donnafugata del romanzo, Visconti scoprì che i luoghi erano meno fastosi e spettacolari di come Lampedusa li aveva ritratti nel romanzo. E continuò a trovare ville nobiliari in condizioni pietose e paesaggi rovinati dalla speculazione edilizia. Cupo e smagrito, al suo ritorno confidò a un giornalista la sua amarezza: “È terribile vedere come la Sicilia d’oggigiorno abbia perso, quasi del tutto, quei toni romantici che avevamo imparato ad amare attraverso le descrizioni dei suoi romanzieri. Trovi ovunque immensi lastroni di cemento armato, i colori smorti delle nuovissime case in costruzione, raffinerie fumanti e altrettanto puzzolenti, terra smossa, accatastata disordinatamente in ogni dove, per far posto ai piloni sottili, alle impastatrici elettriche, alle gru dalle lunghe braccia. Quelle costruzioni dai muri bigi per l’accumularsi del tempo, quelle case antiche e austere colme di sale spaziose e dorate, di scaloni levigati, di portici, fontane, stemmi, cornici, statue sontuose sono sparite, inghiottite dal cemento che sta divorando tutto. E un povero Cristo come me, che vuole trovare un palazzo

autentico di quel genere, alla fine deve rassegnarsi a farselo ricostruire nei teatri di posa”. Ebbene, sì: dato l’esito dei sopralluoghi, Visconti si era convinto che fosse inevitabile ricreare gran parte degli ambienti dentro uno studio cinematografico. Lombardo, in questo, stava dalla sua parte: ricostruire Donnafugata in teatro di posa sarebbe costato una cifra nell’ordine di 240 milioni di lire, ma riportare allo splendore dei fatiscenti palazzi nobiliari avrebbe fatto spendere somme maggiori; tutt’al più, per alcuni ambienti, si sarebbe potuto utilizzare qualche dimora aristocratica nei dintorni di Roma. Lo sconforto del regista è per gli antigattopardeschi presagio di vittoria. Malgrado il parere di Aragon e il contrordine da Mosca, e malgrado il nome illustre e amico di Visconti, a sinistra lo scetticismo contro Lampedusa è ancora ben radicato. Dalle pagine di “Vie Nuove”, dove tiene una rubrica corrosiva, Felice Chilanti indirizza al regista una lettera aperta, in cui mescola il disprezzo verso il romanzo agli auguri (non sappiamo quanto sinceri) per la trasposizione cinematografica: “Illustre Visconti, leggo che da un primo sopralluogo compiuto in Sicilia nei luoghi del Gattopardo ha riportato una delusione. Mi dicono insomma che non ha trovato, nella realtà, le cose che Tomasi di Lampedusa descrive nel famoso romanzo. Modestamente io prevedevo questa Sua delusione. Perché leggendo il Gattopardo m’ero accorto che l’Autore aveva ‘inventato’ di sana pianta ‘lo stile’ di quegli aristocratici, le loro corti col gesuita di casa, l’eleganza, la fermezza del carattere e la fedeltà a certi principi. Aveva

inventato anche il caso di un aristocratico siciliano che avrebbe rifiutato il posto di senatore offertogli dal re. Non è vero niente. Basta conoscere un poco il comportamento dell’aristocrazia siciliana, attraverso la storia – e non parlo soltanto dei baroni del ’66 – per rendersi conto che il Gattopardo è proprio un ‘cavaliere inesistente’. Auguri di buon lavoro”. Si arriva così alla fine del gennaio 1962. Lancaster ha appena detto di sì e Visconti, anche se a denti stretti, lo ha accettato come interprete del film. Lombardo passa alla seconda fase del suo piano, la ricerca di un partner statunitense. Vola a New York, dove la 20th Century Fox, al nome di Lancaster, ha già manifestato un certo interesse. Ma l’accordo non si chiude: gli americani hanno letto l’ultima versione della sceneggiatura, così com’è non sono disposti ad approvarla. Il 28 gennaio del ’62 il patron della Titanus invia da New York un lungo telegramma a Visconti. “MERCATO INTERNAZIONALE EST FIACCO,” gli scrive, “ET CON LANCASTER ET SUA REGIA OTTENIAMO CHE PROGETTO NON SIA SCARTATO MA PURTROPPO DIMENSIONE ASSUNTA DA FILM RAPPRESENTA OSTACOLO INSORMONTABILE STOP FRA QUALCHE GIORNO SPERO POTER INCREMENTARE OFFERTA RICEVUTA ET TELEGRAFERÒ IMMEDIATAMENTE SPERANDO CHE LEI ET SOLO LEI POSSA OPERARE MIRACOLO.”

“Lei et solo lei,” telegrafa Lombardo; ma è meglio non prenderlo alla lettera. L’ineffabile produttore indirizza contemporaneamente un altro telegramma a Suso Cecchi d’Amico, chiedendole di intervenire sul copione con la massima discrezione: “RESERVATAMENTE SCENEGGIATURA GATTOPARDO REAZIONI NEGATIVE DICONO LENTA SENZA INTERESSE ET DIALOGHI FILOSOFICI INTERMINABILE STOP VOGLIONO INOLTRE FILM MASSIMO DUE ORE STOP PREVENTIVO INVIATOMI NOTARIANNI EST FOLLE ET MIE RICHIESTE ANCHE CON LANCASTER OTTENGONO SOLO ILARITÀ STOP PER FAVORE STUDIA POSSIBILITÀ ELIMINARE SCENE ET SITUAZIONI MAGGIOR

COSTO ET LUNGHEZZA PARLANDONE COME TUA IDEA CON VISCONTI STOP AIUTAMI GRAZIE”.

Visconti risponde alle suppliche di Lombardo con apparente indifferenza. Il giorno stesso dirama attraverso l’Ansa la dichiarazione già ricordata in cui la sceneggiatura del Gattopardo “sembra assumere ora un volto soddisfacente”. Ma forse il comunicato serve solo a negare eventuali indiscrezioni sulle difficoltà e i ritardi che il progetto cinematografico sta incontrando. In effetti a questo punto il pool di sceneggiatori si rimette al lavoro. Due settimane dopo arriva una “Nuova Scaletta” di 35 pagine, che possiamo considerare come la quarta fase nel complesso lavoro di scrittura del film. Datato 13 febbraio 1962, è il primo documento, fra soggetti e sceneggiature del Gattopardo, che rechi sulla prima pagina la dicitura “Titanus spa”. Più vicina al film realizzato, e anche più fedele al romanzo, la scaletta rimette però in discussione alcuni elementi che sembravano ormai dei punti fermi. Durante il viaggio a Donnafugata è stata aggiunta una fermata in casa del notaio Marineo (come nel libro); durante l’ingresso dei Salina nel Duomo di Donnafugata spunta una veloce immagine di Concetta che si immagina sposa al braccio di Tancredi (nel romanzo suggerita, ma non esplicitata, dal turbamento della ragazza); qua e là sono state inserite alcune discussioni (del tutto inventate) tra Sedara e i contadini di Donnafugata, che verranno poi sviluppate e ampliate in una sceneggiatura successiva; Giuseppe Garibaldi, nel frattempo, è definitivamente sparito. Ma le vere sorprese di questa “Nuova Scaletta” sono altre. La prima è che si ripesca, prima dei titoli, l’agonia del soldatino che

penetra nel giardino di villa Salina per morirvi dentro, com’era nelle sceneggiature iniziali del ’61. Questo nuovo/vecchio preambolo avrebbe incluso la fine del rosario, la scoperta del cadavere in giardino e la scena di Don Fabrizio che apprende dello sbarco di Garibaldi. A questo punto sarebbero partiti i titoli di testa. E qui – seconda sorpresa – anziché riprendere con il viaggio a Donnafugata, arriva la rivolta dei contadini ispirata a Libertà; stavolta l’episodio è ambientato a Bronte, luogo originario della novella, con alcuni degli efferati eventi raccontati da Verga. Collocata al posto d’onore, come avvio vero e proprio del film, la rivolta popolare assume un’importanza maggiore che nelle precedenti scalette e sceneggiature. Lo script stravolge però i fatti storici e la novella verghiana: a reprimere la sommossa non arrivano le colonne di Bixio ma i soldati borbonici! L’operazione è maldestra e l’effetto paradossale. Riproduciamo di seguito il blocco come descritto in scaletta: “COMPLESSO PAESE BRONTE – Già sotto I TITOLI incomincia la scena. Dei contadini e paesani impazziti di gioia si gridano che le truppe di Garibaldi stanno arrivando in paese. I pochi soldati borbonici restati a presidiare il paese non riescono a domare la folla e vengono trucidati orrendamente. La furia scatenata degli uomini si rivolge anche ai ‘cappelli’, ai padroni cioè del paese. In difesa di questi e dei soldati arrivano altri borbonici dalla caserma e vendicano con crudeltà i loro morti. Su questa arrivano i garibaldini. Invece di un paese in festa o in guerra trovano il paese nello sgomento del massacro. Alcuni borghesi denunciano come responsabili dell’eccidio tre o quattro contadini

che vengono arrestati e rinchiusi dai garibaldini, sordi alle loro stupide proteste”. Visconti vorrebbe utilizzare la rivolta di Bronte per integrare con i fermenti dei contadini il Risorgimento “reazionario” di Lampedusa, e forse per fornire una scena d’azione ai produttori americani, ma la decisione di porla quasi in testa al film è fuorviante. Collocare cronologicamente la rivolta prima dell’arrivo di Garibaldi a Palermo trasforma radicalmente il punto di vista storico della novella: anziché mettere in scena la ribellione del popolo contro nobili e borghesi desiderosi di mantenere i propri privilegi, Visconti s’inventa una sommossa filogaribaldina repressa con la violenza da un esercito borbonico ormai a un passo dalla disgregazione, e annulla la successiva reazione delle camicie rosse, ridotte a mettere in galera appena “tre o quattro contadini”, senza le esecuzioni sommarie che Verga descrive e che in effetti ci furono. Un intreccio perverso di ragioni ideologiche e questioni strutturali tradisce così il senso della novella di Verga, per non parlare del romanzo di Lampedusa. L’inserimento di Libertà porta allo scoperto l’intimo dissidio che assilla gli sceneggiatori del film; stretto tra istanze critico-ideologiche ed esigenze di fedeltà al libro, il lavoro di scrittura fatica ancora a trovare una sintesi accettabile. La “Nuova Scaletta” del 13 febbraio 1962 s’interrompe con l’ingresso dei Salina a palazzo Ponteleone. Sotto l’ultima riga campeggia a penna un grosso, emblematico, punto interrogativo. Dal punto di vista produttivo, la “Nuova Scaletta” sembra comunque ottenere il risultato sperato. La partecipazione della 20th Century

Fox al film e, di conseguenza, la firma di Burt Lancaster sono più vicine. Forse gli americani, poco inclini alla dialettica storica ma assai sensibili alle scene d’azione, si sono fatti convincere dal nuovo inizio, con il soldatino ferito e gli scontri sanguinosi tra contadini e borbonici. Visconti ne approfitta per tornare sulla questione delle location. Possibile che in Sicilia non esista un palazzo nobiliare, almeno uno, in grado di ospitare il set? Uno in realtà ci sarebbe. E Visconti l’ha anche visto, dentro il documentario di Ugo Gregoretti, Sicilia del “Gattopardo”. La sala da ballo di palazzo Gangi, gli assicura il giovane collega, è ancora più ricca e fastosa di quanto non appaia nel filmato. “Quanto potrebbe costare affittarla per qualche giorno di riprese?” gli chiede Notarianni. “Non ne ho la più pallida idea,” risponde Gregoretti, a lui l’avevano concessa gratis. Il braccio di ferro con Lombardo riprende. Visconti dichiara alla stampa che il ricevimento del ballo sarà realizzato in un autentico palazzo nobiliare siciliano, che altrimenti non girerà nessun Gattopardo; e, fosse subito ben chiaro, le tovaglie di casa Salina dovranno essere tutte di lino autentico, riccamente ricamate e recanti lo stemma dei Lampedusa. Lombardo mantiene il punto: restaurare dei palazzi autentici gli costerebbe molto più che ricostruire in studio l’intero borgo di Donnafugata. Malgrado i progressi fatti con la 20th Century Fox il produttore in quei giorni è molto preoccupato: la sua produzione precedente, Sodoma e Gomorra, gli ha succhiato milioni e milioni che – ormai era chiaro – non sarebbero più rientrati. “Ho un preventivo che assomma ad alcune centinaia di

milioni,” dichiara cauto ai giornalisti, “e, per quanto mi sarà possibile, cercherò di dare a Visconti tutto quello che gli occorrerà per fare un buon lavoro.” Intanto titilla Luchino proponendosi come coproduttore con Ponti della Monaca di Monza; gli offre pure un altro film successivo, tutto da definire, per il quale gli promette fin da subito un ingaggio di 50 milioni e una percentuale sugli incassi. Naturalmente la spunta Visconti. La Titanus stila un calendario siciliano di pre-produzione di dieci settimane, dal 26 febbraio al 5 maggio del ’62, con precise indicazioni su quello che si sarebbe dovuto cercare a Palermo e dintorni: “paese rivolta”, “percorso carrozza”, “Palma Montechiaro” (il paese in cima alla lista delle Donnafugate possibili) e “altri esterni ed interni”. Per sabato 10 marzo è inoltre prevista la consegna di un nuovo copione, che entro la settimana successiva dovrà essere tradotto in inglese e inviato agli attori. Gli autori mantengono la parola, anzi, anticipano pure di un giorno: la sceneggiatura finale, l’ultima, quella “definitiva” che sarà portata sul set, reca sul frontespizio la data del 9 marzo 1962. La fisionomia è ormai quella del futuro film. A livello strutturale la differenza più significativa rispetto a come sarà poi la pellicola sono gli ancora numerosi flashback della prima parte, ricavati dal primo capitolo del romanzo. Oltre a riprodurre il flusso di coscienza del principe, le tante sequenze di “ricordo” (di cui fa parte anche la battaglia di Palermo) avevano il pregio di potersi realizzare in studio; il filtro della memoria avrebbe permesso di girarle leggermente sfocate e quindi con minori dettagli.

Questo, almeno, è quello che il povero Notarianni, oppresso da un mastodontico lavoro organizzativo, confidava di ottenere. Che la scaletta del 13 febbraio fosse stata (anche) uno specchietto per le allodole americane lo testimonia il fatto che nell’ultima sceneggiatura le scene d’azione risultano di nuovo ridotte. O forse è colpa di Lombardo, che teme un esborso proibitivo. L’inizio con il soldatino che entra in villa è sparito di nuovo, e definitivamente, per lasciare campo al rosario, al ritrovamento del cadavere e alla lettera di Màlvica. La novella Libertà non compare più in forma distesa e riconoscibile ma è condensata in una breve allusione: sotto i titoli di testa sarebbero corse le immagini di uno scontro alla periferia di Palermo tra alcuni popolani ed elementi dello sbandato esercito borbonico, e insieme l’assalto dei garibaldini a Porta Termini: in tutto poche pagine di sceneggiatura che si concludono con un “picciotto” che agita il tricolore. Per il resto la scaletta del 13 febbraio e la sceneggiatura del 9 marzo procedono armoniosamente in parallelo. Il viaggio verso Donnafugata include ancora la fermata nel paese di Marineo dal notaio (divenuto borbonico), su cui s’innesta un flashback con l’udienza di Re Ferdinando II. Ispirato da poche parole del romanzo (“Tancredi […] distribuì caramelle alle cugine”) viene aggiunto un breve momento di tenerezza inventato tra Tancredi e Concetta (il giovane le ordina più volte di darle la mano facendola arrossire, finché la cugina, “con il disperato coraggio dei timidi”, stende nuovamente il palmo ricevendo una caramella). Nei confronti dei garibaldini che bloccano il

convoglio (altro episodio del tutto inventato rispetto al libro), Tancredi appare più amichevole e seduttivo che non imperioso come nel film realizzato. A questo punto arriva, in flashback, la partenza di Tancredi per raggiungere Garibaldi, e lo zione che “sovvenziona la rivoluzione”. Alla locanda di Prizzi viene dato corpo ai sonni agitati del principe, con una sequenza che avrebbe condensato tre episodi del romanzo in altrettanti brevissimi flashback onirici: il “Principone!” esclamato dalla prostituta Mariannina, l’esortazione a confessarsi fatta da padre Pirrone, l’evocazione della cocotte parigina. Più avanti, la scena di Tancredi e Angelica nelle soffitte di Donnafugata appare più lunga e sensuale (ma anche più fedele al romanzo) di quanto non sarà nella pellicola, e include la scoperta dell’appartamento in cui il duca santo, molti anni prima, si fustigava davanti a un enorme crocifisso. Durante il ballo Tancredi impartisce lezioni di bon ton ad Angelica, invitandola ad ammirare il mobilio. Mentre Don Fabrizio, uscito dal ricevimento, s’imbatte in un suonatore ambulante: dal pianino meccanico esce l’aria donizettiana Tu che a Dio spiegasti l’ali (nel romanzo ascoltata dal principe agonizzante), prima che si oda la scarica dei fucilieri di Pallavicino sui “disertori”. A parte i pochi cenni che si fanno all’esecuzione durante il ballo, l’episodio della condanna a morte degli ex garibaldini – motivo centrale nelle primissime sceneggiature – viene così a essere molto ridotto. Si aggiungono invece qua e là delle piccole contestualizzazioni storicopolitiche (destinate comunque a non giungere mai allo schermo) come il garibaldino del posto di blocco che si rammarica con Tancredi (“Il

generale marcia verso Napoli. Dio buono, vorrei esserci anch’io… Invece mi hanno lasciato qua”), il garzone della locanda di Prizzi che recrimina (“Maledetti Borboni. Passarono di qua e misero tutto a fuoco”) e neorealistiche scene di miseria sotto la pioggia siciliana poco prima del ritorno di Tancredi da Caserta (“un poveruomo intabarrato” rientra con “due muli scarni”, dentro una povera abitazione in cui “c’è una donna malata in letto, dei bambini seduti per terra, un vecchio paralitico su una sedia, qualche gallina, una capra ed ora entrano anche i muli”). Come si è detto, la rivolta ispirata a Libertà è stata liofilizzata in una breve scena di guerra civile sotto i titoli di testa. Ma per una lunga sequenza che viene ridotta altre scene vengono aggiunte, e il riferimento a Verga si fa ancora più esplicito. Visconti è risoluto a mantenere un ruolo importante a quella classe contadina che nel romanzo di Lampedusa s’intravedeva appena, e ha deciso di farne il fiero antagonista di don Calogero Sedara. Lo sviluppo della figura di don Calogero si ispira al protagonista di Mastro-don Gesualdo, il manovale che, sposando una nobile e spendendo tutta la vita nel guadagno della “roba”, rappresenta il trasferimento del predominio economico dal latifondista aristocratico di antico privilegio al borghese più o meno avido che si è fatto da sé. Il padre di Angelica diventa così l’emblema della “nuova borghesia terriera, che nella persona di don Calogero richiama il duplice conflitto dei sentimenti e degli interessi quale Verga lo delineò in modo memorabile in Mastro don Gesualdo, ch’io considero il più autentico progenitore del sindaco di Donnafugata” (dall’intervista di Antonello Trombadori a

Visconti). Il Verga cacciato dalla porta rientra così dalla finestra. Il personaggio di don Calogero è la chiave di volta dell’ultima sceneggiatura, l’elemento che finalmente condensa, a livello narrativo e ideologico, tutti gli sforzi che Visconti e i suoi sceneggiatori hanno fino a quel momento profuso con l’obiettivo di “correggere” in senso marxista il punto di vista di Lampedusa. Narrativamente, il borghese Sedara assolve un compito importantissimo, dare benzina alle rivendicazioni degli umili, diventando il bieco antagonista delle istanze popolari. Se nel romanzo le sue mire predatorie erano tutte rivolte verso l’aristocratico Fabrizio Salina e gli altri nobili “uomini-pecore”, in questa sceneggiatura il sindaco di Donnafugata ha invece un popolo reattivo da manipolare, sfruttare e all’occorrenza reprimere. A livello narrativo, i rapporti tra Sedara e i contadini vanno a formare una vera e propria sotto-storia, in un crescendo di tensione che sembra preludere allo scoppio di un’altra rivolta stile Libertà (solo che stavolta il climax non verrà raggiunto ma tragicamente soffocato, con l’esecuzione fuori campo dei garibaldini). Sono tutte scene (nessuna delle quali trova rispondenza nel libro di Lampedusa), in cui il popolo ribadisce il suo diritto a esistere e sperare, e si riprende un ruolo storico e politico che il romanzo, degnandolo appena di poche righe, sembrava volergli arbitrariamente negare. Impegnati in una nuova dialettica, don Calogero e i suoi braccianti si definiscono reciprocamente. Grazie a lui i contadini di Donnafugata trovano finalmente una ragione di vita all’interno del disegno ideologico del Gattopardo

cinematografico: i loro tentativi di rivolta guadagnano un senso e un contesto, e le poche battute che li vedono protagonisti incontrano un interlocutore credibile. Lo scotto da pagare a questa contrapposizione (artificiosa, perché sostanzialmente assente nel romanzo) è una caratterizzazione farsesca: messo a confronto con contadini cupi e laconici, Sedara diventa un imbroglioncello opportunista dalla battuta facile, infido e chiacchierone, trascinando il personaggio verso la macchietta. Il debutto di don Calogero in sceneggiatura avviene in una scena del tutto assente nel romanzo. Sedara compare nelle vesti di sindaco mentre, in attesa dell’arrivo dei Salina, cerca di tenersi buoni alcuni contadini di Donnafugata ostentando un fazzoletto rosso: “Ma che paura avete?… Io da che parte sono stato fino dal principio? Questo fazzoletto rosso lo portavo al collo io o voi? […] Fidatevi. Il principe Salina vedrà lui stesso con i suoi occhi come sono cambiati i tempi, anche qui a Donnafugata. La fine che farà la sua roba, il feudo Aquila o la Querceta, e gli altri feudi, io non lo so. Quello che è certo è che voi avrete la terra. Perché Garibaldi ha detto che la terra è di chi la zappa e…”. Interrotto dall’arrivo delle carrozze dei Salina, Sedara butta a terra il fazzoletto ed “esce a precipizio” dal Municipio. Quando i contadini vedono che Sedara si profonde in inchini con i Salina rimangono ovviamente perplessi. Il più anziano, lo stesso che aveva discusso prima con il sindaco, mastica amaro: “Bisogna avere pazienza… È l’unica cosa che teniamo”. La gag del fazzoletto patriottico viene ripresa in una scena successiva, già accennata come la precedente nella scaletta del 13 febbraio,

ambientata subito prima della votazione del plebiscito. La comparsa dei contadini a questo punto della sceneggiatura corrisponde a un passo del romanzo in cui, davanti alla taverna di zzu Menico, erano effettivamente presenti dei braccianti “muti” e “abbrutiti”, che “scaracchiavano e sputavano spesso, ma tacevano”. Nel copione cinematografico il gruppo di contadini è invece loquace e sfottente: si è addirittura presentato al seggio con un asino incoronato di una coccarda tricolore. “Che cos’è quest’altra pagliacciata?” esclama Sedara nel copione. “Spiegacelo tu che sei amico,” gli risponde beffardo il più anziano risistemando la coccarda sull’animale. “Ci dissero che a questo plebiscito voteranno solo i galantuomini. […] Sicché, don Calogero, se questo somaro fosse mio, io potrei votare, se ho capito bene… […] Allora, e dimmi tu se ragiono male, don Calogero… in sostanza è il somaro che vota. […] Noi non sappiamo né leggere né scrivere… Noi, di questa Italia che ci unisce e di questo nuovo Re ce ne fottiamo… A noi ci dissero…” “Lo so! Lo so!” lo interrompe don Calogero. “Ma ascoltatemi, santissimo Dio! Quello che conta è proprio che si faccia questa Italia… Per questo abbiamo fatto la rivoluzione… E quando sarà fatta l’Italia, si faranno le leggi… Quando saranno fatte le leggi avrete la terra… Ma l’avrete perché vi spetta!… Non come quelli di Girgenti che l’hanno occupata con la forza e ora marciscono in galera!” L’ammonimento di Sedara non è naturalmente solo un richiamo storico alle invasioni dei latifondi che i contadini, da Bronte in poi, fecero sull’onda dell’entusiasmo garibaldino, ma anche un riferimento “col senno di poi” alle occupazioni di un secolo dopo, per nulla inibite dalla strage di Portella della

Ginestra e immortalate da Guttuso in Occupazione delle terre incolte in Sicilia. Don Calogero cerca di rabbonire i contadini promettendo di farli lavorare a dissodare la sua terra. La scena finisce con un ultimo sberleffo di Sedara (“Vedrete che anche i somari voteranno bene…”) mentre una manata sull’animale fa cadere di nuovo la coccarda. I contadini ricompaiono anche più avanti dentro una taverna, subito dopo la scena del poveruomo che torna a casa con i muli, e sono sempre più minacciosi. Don Calogero vede da lontano le loro “facce scontente, chiuse, risentite”, e cerca di allontanarsi in fretta, ma fa in tempo a prendersi un fischio di dileggio, che nell’inquadratura successiva sarebbe andato a confondersi nel sibilo del vento mentre Don Fabrizio legge in salotto un libro ai familiari. La tensione sociale si sta facendo pericolosa. “Troppe promesse hanno fomentato le illusioni,” confida poco dopo don Calogero a Tancredi. “I contadini si vedevano già proprietari. I braccianti si sono fatti sfrontati. La pentola bolle. E da un giorno all’altro può anche scoppiare. E allora non so proprio… c’è da aver paura.” “Paura di cosa?” lo umilia Tancredi. “C’è un esercito regolare pronto a difendervi. Servitevene.” Alla fine la rivolta contadina avviene davvero, anche se fuori campo. Durante la partita a carte con Chevalley, il cameriere dei Salina porta le scuse di don Calogero, impossibilitato a uscire di casa a causa di “un tafferuglio” nella taverna. La pentola, come prevedeva Sedara, è scoppiata: non resta che seguire il consiglio di Tancredi. Durante la sua partenza, Chevalley vede infatti un piccolo drappello di carabinieri chiamati da don Calogero. “Chi vi ha chiamato a voi?” gli

grida in dialetto il contadino più anziano. “Siete venuti per far fuoco su di noi, che siamo vostri fratelli?” L’eco delle ultime parole risuona a lungo nelle orecchie di Chevalley, affacciato al finestrino della corriera. Dopo questo mesto rimprovero, il gruppo di braccianti rivoltosi sparisce dalla sceneggiatura; è lecito desumere che la repressione ordinata da Sedara ne abbia avuto tragicamente ragione. Figure omologhe a quelle dei contadini ricompaiono però in sceneggiatura nell’alba del finale, atterriti testimoni della lugubre scarica di fucileria: “Un gruppo di persone del popolo, che sono già in movimento a quell’ora, si sono fermate in ascolto. Si guardano cupi e disperati. Qualcuno si fa il segno della croce”. Il coro muto delle classi subalterne, spaventate ma presenti, fornisce un tenue filo di speranza progressista; Visconti ricorda così la momentanea sconfitta delle istanze risorgimentali di giustizia ma insieme ribadisce l’esistenza di un “quarto stato” che con lo Stato italiano ha sempre un conto aperto, nel 1860 come nel 1960. L’ultimissima immagine è sul principe di Salina che, voltato il capo verso l’eco della fucilazione, “rimane un attimo pensoso, poi a testa bassa riprende la sua lenta passeggiata verso il mare”. Con questa sceneggiatura Visconti ritiene di aver finalmente ottenuto un giusto compromesso tra oggettiva fedeltà al romanzo e personali convinzioni politiche, grande spettacolo di respiro internazionale e film d’autore, riconoscibilità immediata del romanzo di Lampedusa e insieme correzione della sua visione ideologica. Quanto precario fosse l’equilibrio fra questi vari elementi lo dimostreranno i numerosi cambiamenti

successivi, che rendono la sceneggiatura del 9 marzo 1962 “definitiva” per modo di dire. Un rapido confronto fra copione e romanzo mostra comunque un deciso reinquadramento delle vicende e dei personaggi del Gattopardo. I tre capitoli del libro sostanzialmente eliminati (il V, il VII e l’VIII) hanno ridimensionato rispettivamente il gesuita di casa Salina (“Le vacanze di padre Pirrone”), Don Fabrizio (“La morte del principe”) e l’aristocratica Concetta (“La fine di tutto”); da protagonista praticamente assoluto, il principe di Salina è ora uno dei tre vertici di un triangolo completato da un borghese rapace (don Calogero) e da un popolo sfruttato e oppresso che nel romanzo quasi non c’era; messi in ombra i rovelli del principe sul trapasso di regime, oscurato il contrasto tra amore e amor proprio che spazzava via il legame adolescente fra Concetta e Tancredi, l’attenzione si fissa sul contratto matrimoniale tra il nobile spiantato Falconeri e la ruspante ereditiera Sedara, sigillo di una santa alleanza tra le forze reazionarie dell’Italia unita. Le aspettative di Alicata, i consigli di Trombadori, le suggestioni di Sciascia hanno trasformato Il Gattopardo in profondità, pompando nel sangue blu di Lampedusa un bel po’ di rosso rivoluzionario: il romanzo di una sconfitta storica ed esistenziale è diventato il racconto dell’inizio di una lotta di classe che non è destinata a finire. Ufficialmente la Titanus è contenta: sul frontespizio della sceneggiatura del 9 marzo ’62 appare finalmente il logo della casa di produzione. Dietro le quinte Lombardo nutre in realtà molti dubbi: il preventivo è arrivato a un miliardo e 600 milioni, e il produttore spera di ridurlo tagliando alcune scene, che elenca giudiziosamente in dieci pagine dattiloscritte

consegnate a Visconti. La battaglia di Palermo, innanzitutto: solo per realizzare quella sequenza, gli scrive personalmente Lombardo, occorrerebbero 60 milioni, si dovrebbero “fabbricare appositamente 400 divise, trovare fucili, armi, munizioni, organizzarci militarmente, direi quasi”, e tutto questo per poi farci scorrere sopra i nomi del cast: “Credo che sarebbe la prima volta che i titoli di testa avrebbero un fondino così costoso”. Il produttore si spinge arditamente a proporre una soluzione alternativa: “Non si potrebbe, ad esempio, sostituire queste scene vive con dei celebri quadri di autori che hanno riprodotto molto efficacemente quelle fatidiche giornate?”. Lombardo vorrebbe poi eliminare altre scene: la sosta dal notaio di Marineo; il flashback con Ferdinando II; un esterno e un ambiente alla locanda di Prizzi; il Te Deum nel Duomo di Donnafugata; la scena in cui padre Pirrone espone nello stanzino da bagno i sentimenti di Concetta verso Tancredi (“a mio modesto avviso il personaggio di Concetta è secondario e non ha una grande importanza nel nostro racconto cinematografico”); il principe che legge la lettera di Tancredi alla principessa; la liberazione di Tumeo dallo stanzino dei fucili; la partita a carte con Chevalley. Propone infine qualche dimagrimento all’interno di altre pagine (la visita del generale garibaldino, la scena dell’asino con la coccarda, la caccia, il ritorno di Tancredi da Caserta, e infine la sequenza del ballo, pur considerata “la più bella parte della sceneggiatura”). Alla proposta di sostituire la presa di Porta Termini con una sfilata di quadri Visconti deve essersi fatto delle matte risate; al contrario,

anziché farci scorrere sopra i titoli di testa, comincia perfidamente ad accarezzare l’idea di spostarli in capo al film, in modo da poter ingrandire ancora di più le scene di battaglia. Sul resto in effetti si potrebbe discutere: alcune pagine, come quelle di Marineo e di Ferdinando II, verranno effettivamente stralciate. Ma in quel momento Visconti non deve essere andato oltre qualche vaga promessa. Il produttore insiste: il 10 aprile, poco prima che il regista si sposti in Sicilia per gli ultimi sopralluoghi, Lombardo gli scrive di nuovo promettendogli 20 milioni per ogni 100 che gli farà risparmiare sui 1600 preventivati. Per fortuna arriva dal fronte americano la sospirata notizia: gli americani hanno finalmente deciso di entrare nell’affare. Il 16 aprile la 20th Century Fox firma un contratto per distribuire Il Gattopardo in tutto il mondo tranne che in Italia, Spagna, Francia e rispettive ex colonie, pagando alla Titanus un minimo garantito di 1.750.000 dollari e assicurando a Lancaster, con una partecipazione minoritaria da parte italiana, una percentuale sugli incassi globali del film. L’arrivo dei dollari sblocca di colpo mesi di preparazione e di diplomazie: l’organizzazione del film subisce un’improvvisa accelerata. Visconti torna in Sicilia e ricomincia da capo tutti i sopralluoghi: visita il monastero di Palma di Montechiaro, palazzo Gangi, villa Niscemi (la villa Falconeri del romanzo), il palazzo lampedusiano di Santa Margherita Belice, villa Lampedusa a San Lorenzo ai Colli, palazzo Filangeri di Cutò, perfino la Casa Professa dei gesuiti di Palermo; sempre scortato da Gioacchino Lanza Tomasi, si reca in pellegrinaggio al cimitero dei Cappuccini,

davanti alla tomba dell’autore del Gattopardo. Intanto i suoi collaboratori perlustrano l’isola in lungo e in largo, alla ricerca di edifici e paesaggi rimasti come nell’Ottocento: Polizzi Generosa, Petralia, Gangi, Bagheria, Termini Imerese, Licata, Mirabella Imbaccari, Scordia, Piazza Armerina, Militello in Val di Catania. In poco tempo vengono individuate le location più importanti: l’inizio del film sarà girato a villa Boscogrande, a pochi chilometri da Palermo; le scene di battaglia nei luoghi storici della città; il ballo nel grandioso palazzo Gangi; le scene di Donnafugata a Palma di Montechiaro; per qualche interno si ricorrerà alle stanze del palazzo Chigi di Ariccia, appena fuori Roma. Lo studio di posa no, Visconti ottiene di eliminarlo praticamente del tutto. Notarianni si mette le mani nei capelli: ha ormai capito che la lavorazione del Gattopardo sarà l’impresa più difficile della sua carriera, un’avventura da cui spera di uscire vivo. Assillato da un lato da Lombardo, alla costante ricerca di un modo per contenere le spese, e dall’altro da Visconti, che esige comunque il meglio, Notarianni cerca almeno di ottenere che Donnafugata sia ricreata altrove: il paesino di Palma di Montechiaro non ha alberghi per ospitare la troupe, ha strade impraticabili, non possiede fogne, è sfregiata da un tratto della nazionale Agrigento-Gela che taglia in due la piazza principale; e palazzo Cutò (il modello storico di palazzo Salina) versa in uno stato miserevole: impossibile girare in condizioni del genere. Visconti non sente ragioni: Palma di Montechiaro è l’antico feudo dei Lampedusa, amor di filologia impone che Donnafugata debba essere ricreata lì, nello stesso paese a cui lo

scrittore si era ispirato. Si convince a desistere solo quando, avviate le prime trattative col Comune, arriva alla produzione un telegramma di chiara marca mafiosa sulle ditte a cui assegnare gli appalti. La stampa segue con crescente interesse i preparativi. Il giornale che copre meglio di tutti la lavorazione è naturalmente “l’Unità”. Il quotidiano fondato da Gramsci annuncia in anteprima che la lavorazione del Gattopardo scatterà il 14 maggio 1962, con le riprese dell’entrata dei garibaldini a Palermo e della rivolta popolare contro i Borboni. Visconti anticipa che “il quadro storico […] sarà nel film più in evidenza che nel romanzo, il respiro del quale risulterà, in certo modo, irrobustito e allargato”, e spiega che l’atmosfera del ballo finale “sarà quella di una morte non individuale, bensì collettiva, della fine, della dissoluzione di tutto un mondo”. A questo “canto funebre della nobiltà” farà da contrappunto la fucilazione degli ex garibaldini, “immagine tragica della prima crisi del Risorgimento. I Tancredi e i don Calogero, congiunti in sinistra alleanza, sono dunque i trionfatori della situazione, in Sicilia come in Italia: la lontana prospettiva storica della loro unione,” dice Visconti, “è il fascismo. Ed è anche con l’occhio fisso ai travagli recenti del nostro paese che dovrà perciò essere visto e inteso Il Gattopardo”. (Si confrontino le parole con cui Sciascia, due anni prima, aveva concluso il suo saggio sui fatti di Bronte: “Con tutto il rispetto per Bixio: nasceva così il vero italiano e l’onesto sentire italiano di cui abbiamo poi visto nel fascismo più perfetti esemplari ed effetti”.) Due giorni dopo, la Titanus raduna i giornalisti dei principali quotidiani italiani in un salottino di

velluto rosso. Visconti siede su un divano di cuoio; accanto a lui, un po’ inquieto, si accomoda Lombardo. Vengono divulgati ufficialmente i primi dati: il film avrà 19 settimane di lavorazione, una troupe di 200 persone e sarà girato a colori con lo spettacolare procedimento del Technirama. La lingua sul set sarà mista; Visconti avrebbe voluto l’italiano, Lancaster l’inglese; il compromesso raggiunto vedrà l’attore recitare nella propria lingua, e i suoi partner di scena, per questo sottoposti a un corso intensivo, porgergli in quel caso la battuta in inglese; per ragioni di coproduzione anche gli interpreti di lingua francese (Cardinale inclusa) si esprimeranno nel proprio idioma. Il resto tutto in italiano. Buona parte del film sarà girata in Sicilia, cominciando da Palermo. Il regista ci tiene a dire perché non si lavorerà a Palma di Montechiaro. “I paesani,” spiega Visconti, “non ne hanno voluto sapere. In un borgo dove mancano persino le fogne, noi avremmo portato un poco di lavoro e di benessere; invece prima i notabili del luogo, poi un assessore fascista e infine la mafia con le sue minacce di rappresaglia qualora non ci fossimo affidati alle imprese da loro consigliate, ci hanno costretti ad abbandonare Palma di Montechiaro.” La Titanus, prosegue il regista, era arrivata a chiedere al Comune la possibilità di spostare provvisoriamente il tratto di nazionale che tagliava la piazza, caricandosene gli oneri; ma dopo il primo assenso erano arrivati cavilli burocratici, indicazioni sulla ditta da coinvolgere e sul tracciato da seguire, e soprattutto l’avvertimento mafioso che, in caso contrario, il lavoro fatto di giorno sarebbe stato sfasciato di notte.

Il budget ufficiale non viene dichiarato. Lombardo parla genericamente di “miliardi” ma tenta di ridimensionare la portata economica del progetto con l’obiettivo di impegnare pubblicamente Luchino alla parsimonia. “Di una cosa debbo essere grato a Visconti,” dice Lombardo guardandolo di sottecchi, “della sua collaborazione nel ridurre le spese al minimo. Esiste praticamente tutta una letteratura sulle spese pazze di questo regista, ma in coscienza debbo riconoscere che è tutto falso.” Il regista, sornione, sta al gioco: “Era tempo che qualcuno lo dicesse,” concede con un sorriso. “Avrebbe potuto benissimo costringerci ad assumere le spese più folli per ottenere gli effetti desiderati,” insiste Lombardo, “però debbo riconoscere che invece di un regista esigente ho trovato in Luchino un collaboratore comprensivo… ed anche se la spesa si aggira nell’ordine dei miliardi, non si può non riconoscere che sia più che giustificata.” Sui cambiamenti rispetto al romanzo la risposta di Visconti è più diplomatica rispetto a quella data all’“Unità”. “Nel film non vedremo la morte del principe,” dichiara il regista. “Né vi saranno compresi i capitoli che riguardano le figlie zitelle e che formerebbero un film a sé. Il presagio della morte il principe l’avrà durante il ballo. Poi la mattina tornerà a casa a piedi. E sarà la fine. Altre modifiche importanti? No, non ve ne saranno. Solo qualche episodio minore a sé stante sarà soppresso, ma in genere saremo molto fedeli al romanzo.” D’altra parte non tutto nella sceneggiatura è stato deciso: “Quando io riduco un romanzo, stendo una sceneggiatura, lascio sempre molte cose indefinite, mi riservo sempre una grande libertà d’invenzione. Per esempio, per la scena di Tancredi e Angelica nel

palazzo di Donnafugata, Tomasi di Lampedusa mi dà soltanto un suggerimento, la realizzazione della scena in immagini è ancora da farsi. Sono io che traduco e definisco, una volta per sempre, la scena in immagini: qui è la mia grande libertà di espressione”. L’annuncio delle riprese viene rilanciato da tutti i giornali ma il titolo scelto dai quotidiani riguarda le minacce ricevute dalla produzione a Palma di Montechiaro. La notizia della mafia contro Il Gattopardo provoca un’enorme sensazione, e il consiglio comunale di Palma entra in crisi costringendo il sindaco alle dimissioni. Il 3 maggio Burton Stephen Lancaster sbarca all’aeroporto di Ciampino; un giornalista dell’“Unità” ottiene le sue prime dichiarazioni durante il disbrigo delle formalità doganali. “Il primo motivo che mi ha spinto ad accettare il ruolo,” dice l’attore, “è che considero Il Gattopardo un capolavoro. Il secondo è che la parte del principe Salina è difficile. Per me come per ogni altro attore, una parte difficile rappresenta quindi un traguardo, una prova da superare.” Il giorno dopo, la Titanus presenta in conferenza stampa all’Excelsior di via Veneto l’attore e il resto del cast. Lancaster sconvolge un po’ il senso estetico generale presentandosi con calzini marroni e abito blu, camicia button down e cravatta; qualche giornalista si dice “sconcertato” dall’idea che sarà lui Don Fabrizio. L’arrivo della Cardinale, in un elegante nero plissé, scatena i fotografi che la subissano di flash. Delon, Stoppa e la Morelli raccolgono meno entusiasmi.

Cominciano le domande. Lancaster dice di aver letto Il Gattopardo cinque volte, di conoscere diverse opere di Verga, e di essere già stato in Sicilia nel ’43, nei servizi speciali dell’esercito americano. “Le fanno paura le minacce della mafia?” gli chiedono. “Sono nato in un quartiere che si chiama Little Italy,” dice con un sorriso, “abitato da siciliani, e ho imparato fin da bambino a tenere la bocca chiusa. La mafia non mi spaventa. E poi,” si lascia andare, “sono amico di Joe Di Maggio, ci metterà lui una buona parola.” Sconcerto dei presenti. “Lei crede che l’Italia sia un paese di briganti?” gli chiede un giornalista offeso. Lancaster s’incupisce. “È una domanda superflua,” risponde. “Io sono qui e ci sto bene. Stiamo scherzando tutti, evidentemente.” Ma Visconti e Lombardo non hanno l’aria di scherzare. Il produttore tira fuori un telegramma appena ricevuto dal Comune di Palma: “RAMMARICATI E SORPRESI CITTADINI PALMESI TUTTI LEGGIAMO OGGI INTERVISTA VISCONTI. CONTENUTO FANTASIOSO NON RISPECCHIA REALE ET TOTALE CONSENSO POPOLAZIONE PER AMBIENTAZIONE E REALIZZAZIONE FILM NOSTRA PALMA”.

Il produttore e il regista ripetono la loro versione: le trattative col Comune si sono dilungate pretestuosamente e le minacce ci sono state. A domanda, il regista specifica che la Giunta in carica durante le trattative era democristiana. Le ultime dichiarazioni di Visconti spostano la notizia dalla cronaca alla politica. “L’Unità” titola Mafia e Dc: no al Gattopardo. L’onorevole Pancamo, deputato comunista all’Assemblea Regionale Siciliana, presenta un’interrogazione al presidente della Regione per sapere quali provvedimenti si intendano adottare in relazione alle intimidazioni mafiose subite dalla produzione

del Gattopardo. Mario Cervi, dalle colonne del “Corriere della Sera”, ribatte adombrando una manovra pubblicitaria. Il giornalista c’è andato molto vicino: la mafia non c’entra niente, il telegramma minatorio ricevuto dalla Titanus era finto. Anni dopo Notarianni svelerà di esserselo mandato, probabilmente in combutta con Lombardo, per far desistere Visconti dalla decisione di girare in una location logisticamente impossibile come Palma di Montechiaro. Oltre a sortire un grandioso effetto pubblicitario, il diabolico piano ha infatti ottenuto il suo principale obiettivo: Visconti ha dovuto scegliere in sostituzione un altro paese, Ciminna, di cui evita nel frattempo di fare il nome. Per proteggerlo, dice qualche giornale. Due giorni dopo, il 5 maggio, Lombardo porta a casa un altro successo della sua paziente opera di tessitura economica: la Pathé Cinéma e la Société Générale de Cinématographie di Parigi firmano il contratto di coproduzione del film. Il nuovo accordo ripartisce il preventivo, salito alla somma record di due miliardi, tra la Titanus (l’80%, cioè 1.600.000.000 lire) e i partner francesi (il restante 20%, ossia 400 milioni). L’ingresso dei soci rende necessario l’arrivo nel cast, oltre a Delon, di altri due attori d’oltralpe, che saranno Pierre Clémenti (Francesco Paolo, uno dei figli di Don Fabrizio) e Serge Reggiani (Ciccio Tumeo). Roma e Parigi si scambieranno ancora varie lettere sull’ammissibilità legale di un protagonista statunitense all’interno di una coproduzione italo-francese, finché la Direzione Generale per la Cinematografia italiana e il suo corrispettivo francese concordano nel ritenere che la presenza di Lancaster, in un film

eccezionale del genere, sia una deroga del tutto legittima. L’attore americano dimostra subito di volersi impegnare al massimo. Studia l’italiano. Rifiuta di andare a presenziare all’inaugurazione di Cannes (“Non ho tempo per queste cose frivole”). Gira con una copia americana del romanzo, che continua a rileggere e sottolineare; ai giornalisti che lo intervistano ne cita brani a memoria. Conosce bene anche la sceneggiatura: confida a Camilla Cederna che, da grande appassionato dell’opera italiana, gli piace molto l’idea dell’organetto che nel finale suona Tu che a Dio spiegasti l’ali. Sotto l’occhio attento di Piero Tosi si sottopone a una lunga serie di prove di costumi per camuffare quei 12 centimetri di differenza tra spalle e girovita che denunciano una struttura un po’ troppo atletica per Don Fabrizio. L’unica cosa a cui Lancaster, con un certo disappunto di Visconti, non intende rinunciare è la forma fisica dei suoi splendidi 49 anni: ogni mattina, come sempre, Lancaster si alza alle sei e mezzo per andare a correre; lo faceva a Los Angeles e lo fa anche a Roma. Intanto si abbronza, schiarisce i capelli per portarli vicini al biondo del principe di Salina, e comincia a farsi crescere i mustacchi che esibirà nel film. Anche se nei primi quindici giorni di riprese non avrà alcuna scena, ha deciso che andrà lo stesso in Sicilia, per respirare subito l’atmosfera e immedesimarsi nel personaggio. Legatissimo alla moglie e ai cinque figli, ha fatto mettere in contratto che lo raggiungeranno sul set, ma solo più avanti, quando sarà bene entrato nei panni e nella testa del principe di Salina. La sfida del ruolo lo spaventa sempre di più. “Anche se per un’assurda ipotesi,” spiega a un settimanale, “fossi siciliano come Don Fabrizio e

conoscessi meglio di un professore la storia dell’unità del vostro Paese, se inoltre discendessi come lui da nobilissima stirpe e avessi frequentato fin dalla più tenera età i salotti più esclusivi dell’aristocrazia italiana, non avrei in comune con Don Fabrizio che i muscoli, forse, una famiglia numerosa, gli occhi azzurri e il torace robusto. Il mio carattere è esattamente il contrario, sotto certi aspetti, di quello del principe, soprattutto perché io sono ottimista per indole quanto lui era pessimista, perché per me, come per ogni americano, la vita è lotta, giorno per giorno, e non posso capire come si possa assistere inerti alle lotte altrui. Don Fabrizio ha nei confronti dell’esistenza un atteggiamento demolitore, il mio al contrario è un atteggiamento costruttivo. Eppure spero di diventare un principe attendibile come Luchino Visconti mi ha promesso. Spero in lui, nella sua guida, nei suoi suggerimenti.” Ma Visconti lo gela: alla vigilia della partenza per la Sicilia, il regista comanda che Lancaster rimanga a Roma. “Non ce lo voglio mica, ora,” dice a Notarianni, “verrà dopo, una settimana prima che comincino le sue scene, per permettergli d’ambientarsi.” La sosta forzata a Roma finisce per mettere l’attore nei guai. Partito Visconti, Lancaster viene sorpreso dai fotografi all’uscita di un ristorante di piazza Navona insieme a una giovane attrice, Béatrice Altariba. Come tutti i divi hollywoodiani, Lancaster è terrorizzato dalla prospettiva di uno scandalo fotografico: s’innervosisce e assesta al paparazzo Umberto Spagna un poderoso calcio al basso ventre che lo manda al San Giovanni per dieci giorni. Il divo eviterà in extremis la denuncia grazie a un “accomodamento amichevole”.

Il trucco del finto telegramma mafioso ha funzionato ma le esigenze di Visconti continuano nel frattempo ad aumentare: a pochi giorni dall’inizio delle riprese il preventivo è ancora salito. Il 9 maggio Notarianni notifica a Lombardo l’ultimo incremento: la quota italiana passerebbe da 1.600.000.000 a 1.900.000.000. La Titanus ha già messo sul tavolo tutti i soldi disponibili, quei 300 milioni in più Lombardo non sa proprio dove trovarli. Solo Visconti può fargli la grazia: il produttore prende immediatamente un nuovo foglio di carta intestata e intinge la penna nella supplica: “Sarebbe perfettamente inutile tediarLa adesso per lettera, ripetendoLe le varie argomentazioni, da Lei comunque già ritenute giuste ed esatte, per le quali non mi è assolutamente consentito, né personalmente, né come Società, sopportare uno sbilancio finanziario così importante. Io avrei voluto, come sinceramente Le dissi a voce, non tediarLa durante la produzione con lo assillo quasi giornaliero degli stati di avanzamento dei costi, ma purtroppo le esigenze finanziarie me lo impongono e, conseguentemente, sarò costretto, mio malgrado, a rubarLe un po’ del Suo tempo, per ottenere da Lei durante la lavorazione, a Suo giudizio, dei tagli concreti che mi consentano di rientrare nelle cifre originarie. D’altra parte, siccome ciò Lei me lo ha promesso formalmente, io credo alla Sua parola e parto con il film, fiducioso che Lei manterrà. Non mi tradisca poiché ora sta solo a Lei”. Le notizie da Palermo non sono però rassicuranti. Lombardo viene informato che Visconti ha deciso di alloggiare in un piccolo castello, preso in affitto per un milione di lire al mese e arredato con mobili di pregio, dove

ospiterà, insieme al suo personale di servizio, anche gli amici che verranno a visitarlo: alla fine delle riprese tornerà tutto alla proprietaria, arredamento incluso. Lombardo è impallidito. “E chi paga?” chiede con un filo di voce al latore della notizia. “Visconti, naturalmente,” gli viene risposto. “Questo Visconti,” sospira il produttore, “ti riserva sempre delle sorprese.” Mancano due giorni al primo ciak quando arriva al film anche la benedizione di Palmiro Togliatti. Il mensile “Rinascita” recensisce in anteprima assoluta lo script del Gattopardo, ancora prima che sia stato girato un solo metro di pellicola. Il giovane Mino Argentieri, autore dell’articolo, ha potuto visionare una copia della sceneggiatura del 9 marzo 1962, quella considerata “definitiva”, che Visconti ha donato con dedica ad Antonello Trombadori. Amicizia e contiguità spiegano il gesto personale ma una simile anteprima è una pratica inusuale. Nell’incipit dell’articolo s’impone che venga ringraziata “la cortesia di Visconti e dei suoi collaboratori”. Il giudizio di Argentieri sul copione è nettamente positivo: la sceneggiatura “mette in risalto tutti i valori dinamici, di scottante attualità, laddove l’opera di Lampedusa risente di un’ideologia conservatrice”, aggiunge “sullo sfondo la realtà della condizione dei contadini dal cui oscuro contesto Visconti ha fatto emergere, con maggior rilievo di quanto non fosse nel romanzo, e richiamandosi deliberatamente al modello verghiano di Mastro don Gesualdo, la figura di don Calogero Sedara”, e “soprattutto rifiuta quell’atteggiamento ironico verso la storia che più d’una volta s’accompagna nel romanzo ai più struggenti rovelli dei personaggi”. Il copione

rappresenta “un vero e proprio ripensamento della materia e dell’asse ideologico del romanzo di Tomasi di Lampedusa”, tanto “autonomo” dal testo letterario da rischiare che qualcuno lo accusi di “una certa esacerbata unilateralità”; in realtà la sceneggiatura sarebbe “ugualmente lontana dai verdetti negativi di Vittorini e Moravia, quanto dalle esaltazioni acritiche di ogni tipo”, per condividere “il punto di vista democratico e storicistico […] di Mario Alicata e di Leonardo Sciascia”. Con l’imprimatur di Botteghe Oscure, l’Operazione Gattopardo può davvero cominciare.

Nove Si gira Palermo, lunedì 14 maggio 1962. Il primo giorno di riprese comincia di buon’ora: alle 7,30 gli assistenti del regista selezionano i figuranti per il plotone borbonico che passerà per le armi alcuni patrioti suscitando la rivolta popolare. Il luogo scelto per l’esecuzione si trova di fronte a palazzo Sclafani, tra l’arco di via Biscottari e la chiesetta di San Giovanni, che dovrà fumigare come se fosse stata incendiata. Per agevolare la posizione della cinepresa un obelisco è stato spostato al centro dello spiazzo: è lì che i patrioti siciliani cadranno sotto il piombo borbonico. Luchino Visconti arriva mezz’ora dopo. Dà subito disposizioni a Peppino Rotunno e agli operatori: la scena sarà ripresa da tre macchine da presa, poste in luoghi e altezze diversi. Nella vicina piazza San Giovanni Decollato, riportata nelle polverose condizioni di un secolo prima, un cordone di polizia isola dai curiosi decine di tecnici e di comparse. Nella confusione generale Visconti trova comunque qualche minuto per i giornalisti: “L’accoglienza riservatami dai palermitani è stata meravigliosa,” afferma riequilibrando le dichiarazioni infamanti su Palma di Montechiaro, “mai ho visto tanta simpatia e tanta generosità. Questo è un buon auspicio per la riuscita del mio lavoro che spero piacerà ai siciliani. Credo anzi che il film sia in effetti il film della Sicilia, il suo classico, come un Promessi sposi dell’isola; perché esso narra e tratteggia i costumi di un’epoca gloriosa, di questa terra che ha visto uniti i suoi uomini migliori in una lotta vittoriosa”.

Sul set non tutto va come previsto. I “picciotti” scelti per morire tardano a presentarsi, le cinture dei militi borbonici non si trovano, le cartucce devono essere sostituite con altre meno pericolose. All’ora di pranzo pure i “cestini” arrivano in ritardo. Visconti, che già si è lamentato per i picciotti, strapazza di nuovo Notarianni. Alle tre il cielo si annuvola e comincia a cadere qualche goccia. Si prova la scena delle donne che si gettano infuriate sui soldati per linciarli; insieme alle comparse che vengono da Cinecittà sono state ingaggiate delle popolane locali che hanno appena partecipato a Salvatore Giuliano di Rosi. Queste ultime, scrive nel suo diario Stephan Iscovescu, uno degli aiuti del film, “presero talmente sul serio la loro parte, da dar libero sfogo agli istinti di rivolta contro ogni forma di autorità costituita che sonnecchiano ancora in parecchi isolani, suscitando un vero tafferuglio, nel quale le generiche professioniste si videro travolte, al punto che qualcuna di loro ne uscì malconcia”. Nel tardo pomeriggio torna il sole. Tutto è finalmente pronto per il primo ciak. Visconti e Gioacchino Lanza Tomasi infrangono una bottiglia sulla macchina da presa. Brindisi, strette di mano, auguri. Ma si riesce a impressionare solo qualche metro di pellicola. Il giorno dopo, la scena viene realizzata per intero: i soldati borbonici spingono gli sventurati davanti all’obelisco e fanno fuoco, le donne piangono i caduti e si scagliano contro gli uccisori. Un cronista dell’“Unità” racconta il seguito della fucilazione, che non sarà però inserito nell’edizione finale: “Balconi e finestre si popolano in un baleno di donne che maledicendo gli assassini li bersagliano con tegami e altre suppellettili”.

L’ispirazione per questa sommossa popolare, che il film montato mescolerà all’assalto garibaldino, proviene sempre dalla novella Libertà, ma gli spunti di cui è impastata la rendono più complessa. Dietro Verga e il riferimento ai fatti di Bronte ci sono i partigiani uccisi ed esposti a piazzale Loreto, e la decisione di appendere Mussolini nello stesso luogo (analogamente, lo “sbirro” del Gattopardo-film viene impiccato). Aggiungiamo l’esperienza personale dello stesso Visconti, che aveva ripreso per il documentario Giorni di gloria il linciaggio (poi tagliato) del direttore di Regina Coeli. Un ulteriore appiglio letterario sembra venire dai Viceré di De Roberto: “Già, partita la truppa, nella prima ebbrezza della liberazione, nel primo impeto della vendetta, torme di popolani avevano dato la caccia ad uno dei più tristi e odiati sorci di polizia, e uccisolo ne avevano portato in giro la testa” (I Viceré, parte I, cap. VIII). Verga, De Roberto, la Resistenza, Giorni di gloria: eppure, per quanto eterogenee e assortite siano le suggestioni rintracciabili, in questa prima scena girata c’è comunque un pezzetto di Lampedusa. Sulla copia del romanzo che studia e annota in quei giorni, il regista ha sottolineato una breve riflessione di Don Fabrizio (“Allora occorrevano i colpi secchi delle scariche, così come erano rintronati poco tempo fa in una squallida piazza a Palermo”) e segnato a margine un altro brano (“i lamenti dei ‘sorci’ degli agenti della polizia borbonica che venivano torturati nei vicoli”) che rimandano chiaramente alla scena girata. Alla ricerca di un equilibrio tra romanzo e convinzioni personali, Visconti trova sempre un appiglio di fedeltà, uno spunto da poter legittimamente sviluppare, anche nel caso di una scena “aggiunta” al libro. “Nel romanzo certe

cose ci sono,” spiega alla stampa, “e certe altre si lasciano solo capire. Io le metterò chiare chiare nel film. Lo dico fin da adesso perché poi non mi si venga ad accusare d’aver fatto la solita polemica sociale a spese del Gattopardo.” L’idea di cominciare le riprese del film con le scene della battaglia di Palermo è di Visconti. Fossero state programmate in coda a tutte le altre avrebbero rischiato (sia per ragioni economiche sia perché estranee al romanzo) di essere ridotte o addirittura eliminate; al contrario, inserite nel piano di lavorazione come prime, vengono realizzate con tutto l’entusiasmo e le fresche risorse finanziarie del kolossal da inaugurare. Non solo Lombardo non è riuscito a convincere Visconti a sostituire quelle scene con una sfilata di quadri, ma il regista ha così trovato il modo di realizzarle con mezzi ancora maggiori del previsto, andando ben oltre la sceneggiatura approvata. Mentre la troupe principale lavora a piazza San Giovanni Decollato, lo scenografo Mario Garbuglia continua a operare su altri tre cantieri, ricoprendo la pavimentazione di terra battuta, camuffando insegne, togliendo antenne Tv e pali del telefono, sostituendo saracinesche d’alluminio con persiane di legno. Per conferire spettacolarità all’arrivo dei garibaldini, Garbuglia ha realizzato in piazza Sant’Euno una porta che in realtà all’arrivo dei garibaldini non esisteva già più; per fortuna molte rovine, palazzi colpiti dai bombardamenti americani dell’ultima guerra, non hanno bisogno di grossi interventi perché autentiche. Pur inquadrati di lontano, i soldati vengono scelti con attenzione fisiognomica: i borbonici sono per lo più siciliani, molti garibaldini sono contadini di Latina e

Maccarese di origine lombardo-veneta; tutti, compresi i cascatori professionisti di Cinecittà, hanno dovuto prendere lezioni di addestramento militare da un colonnello dell’esercito. Le barricate, costruite con una base di pietre squadrate ricoperta di sacchi, sono state ricreate studiando le foto di Eugène Sevaistre, il reporter francese che documentò le battaglie garibaldine. Il primo attore professionista coinvolto è Mario Girotti (pochi anni dopo famoso come Terence Hill) nei panni del garibaldino Cavriaghi; dietro di lui si scorgerà a malapena Giuliano Gemma, generale toscano con la passione del bel canto. Dieci sarte hanno nel frattempo confezionato trecento camicie rosse, che sono arrivate puntualmente il 14 a Palermo ma prima di essere usate sono state immerse nel tè e nella candeggina ed esposte al sole per differenziarle l’una dall’altra. “I garibaldini si erano fatti fare le camicie rosse dalle loro mamme,” ricorda Girotti, “perciò ogni rosso doveva essere diverso da un altro. Ricordo che feci dalle tre alle quattro prove della mia camicia, presenti Visconti e Tosi. E se ne facevano tre per me, che avevo un ruolo minorissimo, chissà quante per i protagonisti. Erano proprio altri tempi.” Anche le calzature ebbero bisogno di un “aggiustamento”. Ulderico Bonfanti, il presidente dell’Associazione Nazionale Esercenti Cinema (Anec) lombarda, ci raccontò anni fa di avere assistito a Palermo alla disperazione di Goffredo Lombardo: Visconti aveva deciso di utilizzare per tre giorni le comparse dei soldati e dei garibaldini solo per farli marciare, in modo da dare a scarpe e stivali il giusto aspetto consumato.

Le scene dell’assalto garibaldino sono le più spettacolari del film ma sono anche del tutto estranee al romanzo, e lo spirito di Lampedusa si vendica provocando qualche incidente. In piazza della Vittoria allo Spasimo, durante la carica della cavalleria borbonica, un cavaliere viene disarcionato; raccolto sanguinante con la divisa a brandelli, viene portato in ospedale con una frattura alla spalla e varie ferite alla testa. Pochi giorni più tardi un altro soldato borbonico che doveva fingersi morto svolge talmente bene il suo compito da venire calpestato da uno dei cavalli lanciati alla carica; se la caverà in un paio di mesi. Al contrario, un gruppo di comparse che dovrebbero morire in scena, vanno cocciutamente a rifugiarsi in massa dentro la chiesa ingrossando oltre il dovuto lo sparuto gruppo di superstiti previsto dal piano di lavorazione. “Ma se moriamo qui,” si giustificano dopo molti ciak andati a vuoto, “domani chi ci fa lavorare?” Lombardo intanto è piombato sul set. Nelle foto di quei giorni i suoi sorrisi orgogliosi sono incrinati da un’evidente tensione. Secondo un’indiscrezione giornalistica, i 60 milioni preventivati per quelle scene sono diventati 150. Forse è un’esagerazione, di certo il budget delle prime scene è stato ampiamente sforato. Fra le voci dichiarate nel consuntivo finale, limitandoci ad armi e accessori (5.671.890 lire), animali (30.163.336), stuntman della “scena barricate” (41.577.523) e materiale pirotecnico (7.951.461), si raggiungerà un totale di oltre 85 milioni. Garbuglia lavora ancora su un altro o altri due cantieri, ma Notarianni riesce a convincere Visconti a sfoltire il piano di lavorazione. Dopodiché, stremato dai contrasti col regista e

dalle continue difficoltà, cade vittima di un malore: Visconti, impietoso, lo nomina sul campo “duca d’Aorta”. Alain Delon arriva sul set a riprese già iniziate. Agile ed elegante, Tancredi dovrà entrare baldanzoso in campo, saltando le barricate alla guida di un gruppo di picciotti, solo per beccarsi una granata e trovare riparo in un convento (nella realtà l’Oratorio dei Bianchi; nella ricostruzione filmica, un aggancio all’aneddoto dei garibaldini fra le monache di clausura che verrà raccontato durante il pranzo a Donnafugata). Delon è felice di questa nuova avventura cinematografica ma ancora legato al personaggio di Rocco, che considera il suo “più caro”. “Tancredi e Rocco!” conversa in un malfermo italiano con un cronista dell’“Ora”. “Fa una bella differenza, capisce. Quando Visconti mi propose Tancredi, esitai molto di fronte alla parte. Mi sentivo ‘troppo giovane’: lei comprende che cosa intendo dire con le parole ‘troppo giovane’. E ora lo studio questo Tancredi, così differente da Rocco, così diverso dal giovane procuratore di Borsa de L’eclisse. Già, voi italiani non siete tutti uguali, come da noi in Francia dove, nord e sud, il popolo si assomiglia, come la borghesia e l’aristocrazia. Ma qui, in Italia, si fanno salti paurosi, andando da Venezia a Roma, o da Milano a Palermo; e per complicare le cose c’è di mezzo, nel film, un siciliano dell’800, principe per giunta, carattere anche un po’ malicieux.” La ricostruzione della battaglia di Palermo dura due settimane (dieci giorni lavorativi), un periodo di tempo in fondo piuttosto contenuto per scene spettacolari del genere. Burt Lancaster, finalmente volato a Palermo, fa in

tempo ad assistere alle ultime riprese a piazza Sant’Euno. “In America,” commenta con ammirazione, “ogni scena di battaglia la proviamo almeno una settimana, prima di dare il via alle riprese. E quando le riprese hanno inizio, non si cambia più un solo movimento, una sola posizione di macchina: tutto è previsto, tutto deve filare preciso come un orologio. Visconti invece la scena la improvvisa, si direbbe secondo l’ispirazione del momento; forse quando si porta sul luogo delle riprese non sa ancora dove piazzerà la macchina, e certo spesso la scena successiva gli è dettata da quella che ha appena finito di girare, e non da una sceneggiatura preparata da tempo. Più che le regole di un regista sono quelle di un pittore che sembra seguire.” Le sue parole sono di manifesta emozione ma traspirano un po’ di sospetto: Lancaster è anche produttore e un simile metodo di lavorazione lo sconcerta. Un perspicace cronista si è subito accorto che tra attore e regista vibra una certa tensione: fin dal primo incontro i due si stanno “studiando come due pugilatori nel primo round”, o come “due pavoni che abbiano spiegato la ruota e si girino attorno con circospezione, come se dovessero scoprire chi dei due è il migliore o chi vincerà”. “Lo so già come andrà a finire,” scherzava Lancaster ancora a Roma. “Ora il signor Visconti ed io filiamo di perfetto amore, ma fra tre mesi cominceremo a mordere il freno e piano piano ci accorgeremo che il principe Salina è Visconti, non io.” Luchino non ha perdonato Lombardo di essersi arrogato il diritto di scegliere il protagonista; è ancora irritato e non fa nulla per nasconderlo. E

ce l’ha pure con “quel gangster” per aver preteso (e ottenuto) che le sue scene siano girate in inglese. Visconti non si sogna di protestare l’attore: la sua presenza nel film assicura la partecipazione – economicamente essenziale – della 20th Century Fox; né Lancaster dà gran peso ai giudizi di Visconti che qualcuno si è premurato di riferirgli. Ma la tensione rimane, e per buona parte della lavorazione regista e attore si tratteranno con freddezza, circondati dai rispettivi seguaci, la corte di Visconti composta da Delon, la coppia Stoppa-Morelli e i collaboratori più stretti (Tosi, Garbuglia, Pes, Hercolani), il gruppo-Lancaster più ridotto ma costituito interamente da connazionali, la segretaria Norma Swanson, il truccatore personale Bob Schiffer, l’aiuto-regista Brad Fuller. I contrasti affiorano già il 28 maggio, primo giorno di lavoro per l’attore. A villa Boscogrande, dove si deve girare la scena del rosario, fa caldo come se si fosse in piena estate. Soffocata da un bustino che le ha tolto dieci centimetri, Lucilla Morlacchi risparmia il fiato; il fatto che le bisnonne subissero quotidianamente torture del genere non consola nessuno. “Le donne sono state sempre matte,” sospira Rina Morelli, rintanata in un corridoio un po’ più fresco con la Morlacchi e Anna Maria Bottini (l’istitutrice francese). Romolo Valli, con la tonaca realisticamente sudicia di padre Pirrone, ha insegnato a Lancaster l’Ave Maria in latino, riscrivendogliela foneticamente su un foglietto (“noonk” per “nunc” e così via), e ora si aggira per la villa con l’aria assonnata. Come tanti altri, del resto: l’orario prevede riprese da mezzogiorno in avanti ma c’è comunque da svegliarsi presto per sottoporsi a ore di trucco e

vestizione; i figuranti scelti come servitori dei Salina sono sul set già dalle sette, e ora siedono imbarazzati qua e là, temendo di sporcarsi le livree. Si aspetta. Intanto i tecnici in jeans continuano a svolgere cavi, gli elettricisti sistemano i riflettori, i macchinisti spostano un trumeau, Piero Tosi corre da un salone all’altro col volto teso. Fuori dai cancelli, gruppi di fotografi e presunti amici di qualcuno vengono respinti da Enrico Lucherini, capo ufficio stampa del film. Le sarte fanno qualche piccolo aggiustamento al vestito di Pierre Clémenti (Francesco Paolo). Un bimbo di quattro anni in costume rianima l’atmosfera: è Brook Fuller, l’interprete più giovane del film, nel Gattopardo sarà il figlio più piccolo di Don Fabrizio e di Donna Maria Stella; gli presentano gli altri attori e lui fa subito amicizia con la sua “sorellina”, Ottavia Piccolo. “Ce ne fosse uno di questi figli che rassomiglia alla madre,” commenta Rina Morelli. Valli osserva che non somigliano neanche a Lancaster. La Morelli, guardandolo in tralice: “Ma allora, di chi sono figli?”. Burt Lancaster non si vede ancora, sta chiuso dentro la sua roulotte e non vuole essere disturbato. Sorpresi dalle lunghe attese del cinema, i figuranti boccheggiano. Mezzogiorno è passato da un pezzo e non si sente ancora parlare di ciak. Si mormora di imprecisati problemi tecnici. Visconti, col volto sereno e disteso, anticipa la pausa e si concede uno spuntino. “Mai iniziato un film circondato da tanto amore,” dichiara a un giornalista. Il regista non la dice tutta: dietro le quinte, al riparo da occhi indiscreti, i due pugili sono già saliti sul ring.

Il problema è che Lancaster rifiuta di farsi truccare da De Rossi; pretende che l’unico a mettergli le mani addosso sia Schiffer, il suo truccatore personale. Visconti non vuole sentire ragioni, ma evita lo scontro diretto e sbologna la patata bollente a Notarianni. “O Lancaster si fa truccare da De Rossi,” gli intima, “oppure io il film non lo faccio. Vaglielo a dire.” Il povero Notarianni, col suo inglese zoppicante, cerca di convincere Lancaster, e alla fine ci riesce; l’americano si farà truccare da De Rossi a patto che Schiffer, “l’unica persona amica venuta dall’America che conosco”, rimanga lì con lui, sul set. Lo scontro non è annullato ma solo rinviato. Villa Boscogrande è un vecchio edificio settecentesco a una decina di chilometri da Palermo. Secondo Garbuglia, Visconti lo avrebbe scelto a causa del lungo viale d’accesso, che consente alla macchina da presa di avvicinarsi lentamente all’edificio fornendo così una migliore collocazione ai titoli di testa. Il viottolo d’ingresso viene arricchito da finti busti di marmo, come nel romanzo il viale principale della villa, “che scendeva lento fra alte siepi di alloro incornicianti anonimi busti di dee senza naso”. Quando hanno deciso di affittarla, villa Boscogrande era assai lontana dallo splendore del film; chiusa da reti alle finestre, era stata addirittura adibita in parte a pollaio. In ventiquattro giorni Garbuglia e gli arredatori Giorgio Pes e Laudomia Hercolani del Drago l’hanno riportata a un fasto che la costruzione non aveva in effetti conosciuto: la villa è stata intonacata e imbiancata, sono stati applicati stucchi, rifatti pavimenti, restaurati e completati vari affreschi, dipinto ex novo il soffitto con gli

dei dell’Olimpo, il tutto avendo cura di aggiungere qualche finta macchia d’umidità, impalpabile indizio di una decadenza appena cominciata. Le cronache riferiscono, forse esagerando, che le mattonelle del terrazzo sono state cotte dall’unica fabbrica che lavora con gli stessi procedimenti di un secolo prima. Sulle due lanterne all’ingresso della villa è stato dipinto lo stemma del Gattopardo, lungo non più di tre centimetri, impossibile da percepire dalla macchina da presa. Lo splendido altare barocco in legno davanti a cui si inginocchia la famiglia Salina viene dal palazzo di Gioacchino Lanza Tomasi, che ha prestato diversi mobili e suppellettili di pregio; su un tavolo ci sono otto vasi appartenuti a Gioacchino Murat; le tende bianche di pizzo sono state acquistate presso antiquari, la carta da parati è stata preparata sulla base di disegni d’epoca. Lunghe ricerche sono state fatte per trovare dei mastelli di legno dove mettere a dimora, all’uso ottocentesco, le piante ornamentali; il parco intorno è stato seminato di ojetto, fatto germogliare in pochi giorni con un procedimento speciale. Si dice che alcune roselline fuori stagione siano addirittura arrivate in aereo da Roma per essere ripiantate in giardino e in terrazza, a rimpiazzare quelle bruciate dal caldo. Anni dopo, Garbuglia rivelerà che i fiori erano di plastica, e che andava a comprarli personalmente alla Rinascente, ma la storia delle rose spedite in aereo, più poetica, diventa immediatamente una certezza: nell’aneddotica sul film gli invii floreali diventeranno frequenti, addirittura quotidiani. Perfino Lombardo, alla fine, insisterà a ripeterla. Durante la lavorazione i giornali italiani continueranno a diffondere la notizia di mazzi di rose spediti per aereo da Sanremo (per la stampa

francese, da Nizza). Evidentemente c’è lo zampino di Enrico Lucherini, ufficio stampa del film: il press agent sa bene che tra realtà e leggenda i giornalisti di colore preferiscono stampare la leggenda. Compresa quella dei flaconi di toilette riempiti di vero profumo. “Storie meschine e assurde,” ribatte il regista, che comunque è parte in commedia. “Se vogliamo divertirci, raccontiamole pure. Del resto ci sono abituato: Visconti, si sa, chiede sempre la luna. Invece io non ho mai chiesto cose inutili, non ho mai buttato via una scena dopo averla fatta costruire, cosa consueta per tanti altri registi. Certo, pretendo tutto quello che mi serve per dare agli ambienti un carattere di verità. Poi, nel film lo si ritrova. Se giro una storia come quella di Rocco ho meno esigenze, difatti faccio un film spendendo poco più di mezzo miliardo. Ma qui c’è da ricreare un mondo fastoso, e ogni oggetto serve a far capire una certa maniera di vivere. Allora diventa importante anche un fermacarte sul tavolo.” Sì, certo, come no? Intanto, gli obiettano i cronisti, le scene di battaglia hanno superato il budget previsto. “Non è vero,” protesta il regista. “Come non è vero che ho impegnato 300 elettricisti per togliere dalle strade i fili della luce e le antenne della televisione. In realtà ho eliminato solo due tralicci, perché non si poteva fare altrimenti. Ho chiesto l’aiuto di quattro, dico quattro operai dell’azienda elettrica: costo totale dell’operazione 250 mila lire.” Lombardo aveva raccontato a un giornale che Visconti avrebbe voluto per il “ruolo” di Bendicò un rarissimo alano nero di nome Wotan, cinque milioni di solo noleggio; Visconti ammette che è vero ma ribatte di aver poi ottenuto Wotan per mezzo milione. Ed è pure vero, aggiunge, che ha preso in affitto una

villa, perché detesta stare in albergo, pagandosela del resto da solo: il costo, però, non è di un milione al mese, ma di 800 mila lire per l’intera durata delle riprese. Visconti non ha paura di tirare fuori i numeri ma trucca un po’ le cifre: dentro il preventivo di 1 miliardo e 900 milioni a carico della Titanus include indebitamente 400 milioni di compenso per Lancaster, che sarà invece pagato con una percentuale sugli incassi. E, già che c’è, tira in ballo pure la liquidazione a Ettore Giannini. “In pratica un preventivo che non arriva al miliardo e mezzo,” semplifica. “La cifra vera è questa, ed è molto ristretta per un film come questo che dura venti settimane e che dovrà per forza affrontare qualche imprevisto. Lombardo mi chiede adesso, come si chiede un favore, di ridurre le spese. Io gli dico: spiacente ma non posso. […] Tu vuoi un buon prodotto e io cerco di dartelo. Ma se mi chiedi di spendere meno di quello che è stato concordato in partenza mi chiedi un miracolo. Un san Luchino non esiste. E poi, i miracoli si dimenticano mentre i film restano. E in cima c’è il nome del regista.” Pochi se ne accorgono, ma il vero miracolo non ha a che fare con le rose spedite per via aerea o con i problemi di budget, piuttosto con quel mondo defunto che attraverso pizzi, suppellettili, mobilio intarsiato si sta risvegliando intorno al regista. Il fastoso set del Gattopardo sta avendo un effetto imprevisto. Sotto lo sguardo accigliato di Visconti, il passato si sta facendo presente, la letteratura diventa realtà, il cinema s’impasta di nostalgie familiari. “Le [sue] mani indugiavano con tenerezza sui nodi di fiori rococò,” racconta Romolo Valli a un cronista, “sfioravano i pizzi fatti a mano, le sete azzurre dei divani, i pesanti

specchi dorati. Nel suo sguardo c’era la disperazione di chi ricostruisce nella memoria un mondo che gli fu caro.” Oltre a dover coniugare fedeltà letteraria e reinterpretazione ideologica, Visconti si ritrova così a dover conciliare distacco critico e struggimenti autobiografici, le suggestioni di un mondo che è stato anche il suo e che solo lui è in grado di capire a fondo. L’impresa cinematografica è ardua, il risultato sempre più misterioso. Pure Lancaster è alla ricerca di un mondo perduto. L’attore non ha ancora trovato la chiave per il suo Don Fabrizio. Fa di tutto: studia gli aristocratici palermitani, visita i monumenti della città, divora i libri di Dennis Mack Smith sul Risorgimento. E approfondisce la conoscenza di Lampedusa: chiede informazioni a Gioacchino Lanza Tomasi, si fa riprodurre la voce dello scrittore registrata da un magnetofono, va a sedersi al Caffè Mazzara, nello stesso posto in cui Lampedusa aveva messo in bella copia il suo romanzo. La stampa è incuriosita da questo ex cowboy travestito da aristocratico dell’Ottocento. “Cerco di vivere tutto il giorno come se fossi il principe,” ribatte serafico Lancaster, “in questo ambiente ricostruito con tanta cura non è un’impresa impossibile nemmeno per un attore americano.” I rapporti con Visconti sono sempre al limite dello scontro. Il regista è insoddisfatto del modo in cui Don Fabrizio dà l’addio al nipote Tancredi, in partenza per la rivoluzione. “Portate il libro,” ordina. Glielo mette sotto al naso e legge: “‘Il povero Salina si sentì stringere il cuore.’ Vorrei vedere questo”. Senza indicazioni, l’attore hollywoodiano annaspa. Lancaster è costretto a ricorrere alla propria interiorità, fino a sentirsi

sopraffatto dalla sensazione di perdere quel nipote adorato, a sentirsi traboccare di commozione, e far finalmente uscire dalla bocca di Visconti la parola magica: “Perfetto”. L’attore vorrebbe che il regista gli spiegasse di più, gli descrivesse qual è il Don Fabrizio che si aspetta. Ma Visconti non lo fa, e allora Lancaster lo assedia di domande, su come dovrebbe muoversi Don Fabrizio, come dovrebbe parlare, in che modo accavallerebbe le gambe. Visconti, un po’ sadicamente, limita al massimo i suggerimenti. Forse vorrebbe che l’attore trovasse da solo la sua strada, forse si diverte solo a tenerlo sulla corda. Ogni piccolo cenno del regista riempie Lancaster di gioia, per l’americano è un altro pezzo ritrovato di un enorme puzzle da ricostruire. Finché un giorno l’interprete di Don Fabrizio capisce. “È una settimana che chiedo a Visconti di illuminarmi su questo personaggio,” confida a Piero Tosi. “Ma sono proprio un cretino: il principe ce l’ho davanti agli occhi.” Quelli che, sul set, conoscono bene il regista se ne rendono conto: l’atteggiamento di Lancaster/Salina, perfino la sua camminata, sono gli stessi di Luchino. L’identificazione crea un cerchio perfetto: Lancaster è Don Fabrizio, Don Fabrizio è una proiezione di Lampedusa, Lampedusa è un aristocratico come Visconti, e Visconti fa da modello a Lancaster. La scoperta rende il lavoro di Lancaster improvvisamente più leggero. Ma non per questo le ostilità cessano: Visconti continua a mal sopportare un protagonista scelto da altri, si trattasse anche dell’attore più versatile e paziente del mondo.

La nobiltà palermitana accoglie di buon grado le riprese del Gattopardo. Lancaster e Visconti sono contesi a feste e ricevimenti, e per qualche settimana un pezzetto di “dolce vita” rivive a Palermo. Lattuada sta girando nei dintorni Mafioso, e le due troupe fanno amicizia: Alberto Sordi fa sbellicare Lancaster tentando di dimostrargli che il fisco italiano è più ingordo di quello statunitense. Si sfiora il dramma quando un giorno, sul lido di Mondello, Lancaster travolge con la sua auto due ragazzi in scooter; anche stavolta riuscirà a sistemare la faccenda con un congruo “amichevole accordo”, mentre Delon, impressionato dall’accaduto, si rifiuterà di guidare qualsiasi mezzo per tutta la durata delle riprese. Durante le riprese in Sicilia la troupe del Gattopardo viene alloggiata fra Villa Igiea e l’Hotel delle Palme. Refrattario agli alberghi, Visconti ha deciso di affittare per sé un vecchio mulino sul mare, Baglio Bordonaro, un castellotto costruito su una ex tonnara borbonica che il regista ha ristrutturato e arredato a proprie spese, trasportandovi da via Salaria la servitù e gran parte del mobilio. Gli amici che vengono a visitarlo sono sbalorditi: “Ha fatto fare quattro grandi sale da bagno,” scrive pettegolo Jean-Marie Simon a Lila de Nobili, “e l’ha arredata completamente anche se con relativa semplicità e con un gusto assai migliore di quello della sua casa a Roma. V’è addirittura un appartamento per Medioli, con fiori e tendine come nella stanza di una giovinetta.” La sera, dopo le riprese, Visconti organizza una cena per una decina di persone, a cui segue una partita a carte e un po’ di musica. Gli invitati sono ospiti occasionali venuti da Roma o Milano, insieme ad alcuni membri del cast, trepidanti candidati di

una riffa quotidiana. “Era un po’ come a scuola o agli esami,” ricorderà Lucherini, “stessa emozione, ma con la speranza di essere chiamati. A chi toccherà stasera? Questa suspence durava fin quando il signore del castello telefonava personalmente ai fortunati.” L’esempio di Visconti fa proseliti: a poco a poco anche gli altri membri della troupe vanno a scegliersi ville e castelli in cui dimorare da soli. Lancaster si trasferisce a villa Scalea ai Colli, dove ospita la moglie e i cinque figli, e tutti insieme passano diverse giornate su uno yacht al largo di Mondello, su cui fanno inalberare l’insegna del Gattopardo. La Cardinale prenderà dimora in una villa di Mondello, Delon affitterà un castello sulla riva orientale. L’interprete di Tancredi è l’unico che osa schivare gli inviti di Visconti. Luchino ne è ancora innamorato, e la cosa crea continuamente malumori, litigate e pianti (del solo Delon). L’attore francese dovrebbe passare le sere a prendere lezioni di mazurka ma di tanto in tanto lo vedono ballare il twist nei due night della città. Le signore di Palermo se lo mangiano con gli occhi. Lui non perde tempo: un’amica di Lucherini trascorre diverse notti nella sua camera, e intanto l’attore corteggia Norma Bengell, la brasiliana che sta girando Mafioso con Sordi. Romy Schneider lo chiama al telefono tutte le sere, inquieta per le voci che girano su quel fidanzato farfallone. Ma le interurbane servono a poco: Romy decide di venire a sorvegliarlo di persona, e la coppia va ad alloggiare nel castello di Solanto, sul mare, a breve distanza da Bagheria. “Lo dico sempre ad Alain,” commenta Visconti, “che deve tenersela cara, Romina. Sono una coppia commovente. Si

vogliono bene. Lei gli mette le briglie al collo, ma lui ha bisogno di qualcuno che gli metta le briglie al collo, altrimenti si perde dietro a ogni sottana.” Qualche settimana più tardi, quando al Lido di Venezia la Bengell finisce in ospedale per un eccesso di tranquillanti, si diffonderà la voce di un tentato suicidio per amore del bel Alain. Sul set del film, Gioacchino Lanza Tomasi svolge un ruolo chiave: formalmente è un aiutoarredatore, in realtà è molto di più, il perfetto tramite tra la materia del romanzo e l’arte di Visconti, aristocratico come lui, giovane ambasciatore di un mondo lontano, portavoce di uno scrittore che ben pochi a Palermo potevano affermare di aver davvero conosciuto. Perciò è spesso sul luogo delle riprese, a volte accompagnato dalla moglie Mirella, a chiacchierare amabilmente con Lancaster, o a illuminare il regista con qualche ricordo di prima mano. L’incontro fra Visconti e Alessandra Wolff Stomersee avviene durante le riprese a villa Boscogrande. Il regista accoglie la principessa di Lampedusa con i dovuti onori, le presenta Lancaster, la Morelli, Delon, la porta in giro a vedere il set, le fa ammirare scenografia e costumi. “È proprio come la casa di alcune mie vecchie zie di campagna,” commenta lei. Davanti a Romolo Valli, però, s’irrigidisce; la sua tonaca inzaccherata la fa inorridire. Visconti le spiega paziente che con quell’abbigliamento realistico ha voluto sottolineare l’origine contadina del gesuita. Visceralmente convinta che la riuscita di un’opera d’arte dipenda dal sangue blu (“un pittore,” assicura, “se è un grande artista, deve essere figlio bastardo di qualche principe”), la principessa è rassicurata dal lignaggio del

regista, e lascia il set compiaciuta. Valli, comunque, continua a non persuaderla. “Quell’attore non mi piace,” confida a Gioacchino. “Sono certa che profitta dell’indulgenza di Visconti. L’ha convinto che il suo personaggio è sudicio solo perché non conosce né sapone né acqua.” Negli stessi giorni arriva per il film anche l’approvazione governativa. Esaminato il copione, l’ufficio di censura preventiva non ha “nessun sostanziale rilievo da formulare dal punto di vista morale” e dà complessivamente un “giudizio positivo”; ai dirigenti della censura spiace solo che nella sceneggiatura risulti “se non del tutto perduto assai indebolito il tono di disincantata ironia, l’aura intensa di smagato distacco che caratterizza il romanzo e che costituisce uno dei principali motivi del suo innegabile fascino”, segnalando altresì “che qualcosa di nuovo è stato anche introdotto nel racconto con l’evidente intento di ‘socializzarlo’”. La censura ci tiene a far sapere che ha perfettamente capito dove sta andando a parare il film. Del resto il regista non lo nasconde. Dopo un mese di lavoro, i presupposti ideologici del Gattopardo secondo la lettura di Visconti sono sempre gli stessi. Il regista continua a rilasciare alla stampa dichiarazioni molto chiare sulla direzione storico-politica del suo film. Come questa: “Attraverso l’imponente personaggio di Don Fabrizio, voglio far sentire la crisi e la lenta evoluzione di un mondo condannato, il malinconico adattamento ai Tempi Nuovi, e poi voglio inquadrare un preciso momento storico. Perciò comincio il racconto con qualcosa che nel libro manca, come la conquista di Palermo: i garibaldini che diventano

piemontesi, alcuni capiscono la lezione, altri non la capiscono. Poi ci sarà la delusione della Sicilia popolare che aspetta il plebiscito come un radicale cambiamento, con i contadini che credono di avere finalmente pane, libertà e terra, invece il plebiscito c’è solo per chi ha una proprietà, per tutti gli altri il diritto al voto non c’è. Spiegherò che cent’anni fa qui c’è stato uno scossone solo al livello più alto, i ricchi che hanno perduto qualcosa a profitto di qualche borghese svelto, mentre la plebe ha continuato ad aspettare la terra e la libertà”. Propositi espliciti e battaglieri, in sintonia con una sceneggiatura che, fino a quel momento, hanno letto solo a “Rinascita” e alla Direzione Generale per la Cinematografia. Peccato che il copione non sia già più quello consegnato a Trombadori e ai dirigenti della censura. La sceneggiatura del 9 marzo 1962, quella considerata “definitiva”, continua a cambiare, giorno dopo giorno. A contatto con un set palpitante di vita, la pagina scritta è sempre destinata a subire cambiamenti. Nel cinema succede a tutti i registi, tranne a quei pochi, come Hitchcock e Bergman, che girano con una sceneggiatura di ferro. Visconti non ha mai nascosto la possibilità di ricorrere all’improvvisazione; le scene di battaglia, in fondo, sono state inventate direttamente sul set. Ma le ultime modifiche apportate sul copione vanno oltre i normali aggiustamenti in corso d’opera: sono frutto di una nuova impostazione, scaturita dalla rilettura del romanzo a ridosso delle riprese. A contatto diretto con i luoghi e le atmosfere del Gattopardo, Visconti sta subendo l’attrazione del mondo lampedusiano e il suo estro fa sempre più

rotta alla volta del romanzo: episodi letterari già accantonati riaffermano il proprio diritto a esistere anche su celluloide, sequenze che condensavano vari passaggi si sciolgono riacquistando il passo disteso della pagina di Lampedusa. Malgrado le intenzioni programmatiche esposte dal regista, la parte “ideologica” perde evidenza, il popolo arretra sempre più verso lo sfondo, mentre emerge nella sua complessità la figura dolente e scettica di Don Fabrizio, che sta entrando sotto pelle a Visconti. “Lo comprendo molto bene,” dice il regista. “Non lo approvo ed è da biasimare il suo comportamento. Ma è un personaggio che sento.” Il grosso dei cambiamenti apportati per iscritto su una copia della sceneggiatura “definitiva”, conservata fra altri documenti di lavorazione, riguarda la prima parte del film, corrispondente al primo e al secondo capitolo del romanzo. Accanto a essi nascono altre modifiche e aggiunte, non segnalate in alcun modo e probabilmente decise direttamente in fase di ripresa. Un primo esempio è la visita di Don Fabrizio alla prostituta Mariannina: al copione viene aggiunta la discesa di padre Pirrone davanti alla Casa Professa e l’incontro di Don Fabrizio con la prostituta. Ma aggiunta chiama aggiunta: perciò si decide di recuperare dal romanzo anche le pagine immediatamente precedenti, ossia l’ordine del principe a padre Pirrone di accompagnarlo a Palermo e il successivo viaggio in carrozza, scene che non compaiono in nessuna versione della sceneggiatura ma che vedremo nel film. Visconti non si lascia guidare solo dal pensiero di Alicata e di Sciascia, ora è estremamente

ricettivo anche ai consigli che vengono dal romanzo di Lampedusa. Il regista tiene sott’occhio una copia del libro, la studia e annota, quasi dovesse ricominciare da capo il lavoro di sceneggiatura. Alcune aggiunte in corso d’opera si spiegano meglio proprio sfogliando quella copia, oggi conservata presso l’Istituto Gramsci, sul cui frontespizio appare la scritta autografa “Luchino Visconti – Palermo – 1962”. Il regista ha sottolineato o segnalato a margine luoghi, battute, situazioni, e la prima apparizione di tutti i personaggi secondari, dei quali ha riscritto il nome a bordo pagina; un’unica annotazione di commento, “proustiano”, spicca accanto alla descrizione del timballo di maccheroni al pranzo con Angelica. In molti casi i suoi tratti di penna segnalano passi già previsti in sceneggiatura, ma ci sono sottolineature e asterischi anche accanto a episodi non sceneggiati e poi comunque messi in scena, accanto a brani che hanno semplicemente illuminato l’ispirazione dell’artista al lavoro. Il passo segnato con maggior evidenza non è infatti un’azione ricreabile su pellicola né una battuta riportata fra i dialoghi, ma un’amara riflessione di Don Fabrizio che rivela il suo anelito di morte: “Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All’altezza di quest’osservatorio le fanfaronate dell’uno, la sanguinarietà dell’altro si fondono in una tranquilla armonia. Il problema vero è di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più sublimati, più simili alla morte”. L’ultima parola è emblematicamente sottolineata più volte, e richiamata a bordo pagina da un grosso asterisco segnato con vigore.

Un altro grosso asterisco compare accanto alle battute, in parte sottolineate: “Il Principe ebbe una delle sue solite visioni improvvise: una scena crudele di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato”. Forse è per la suggestione di questo passo che il soldatino borbonico, che nella sceneggiatura “definitiva” del 9 marzo era appena evocato fuori campo, rientra concretamente dentro il film: il cadavere apparirà composto in una posa plastica, nella soggettiva di Don Fabrizio. La sceneggiatura di lavorazione segnala quindi un paio di altri cambiamenti. Il primo incontro fra Tancredi e lo zio (con la famosa frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”), precedentemente scritto come un flashback durante il viaggio per Donnafugata, viene ora anticipato e collocato subito dopo Mariannina (rimane invece in flashback, com’era nel libro, la visita del generale garibaldino, appena snellita nella parte in cui il militare sceglieva di cantare un’aria dalla Sonnambula di Bellini). Il secondo cambiamento è una scena tolta pari pari dal libro (sottolineata nella copia del regista), scritta ex novo e aggiunta al copione: l’esortazione di padre Pirrone a Don Fabrizio perché si confessi, ambientata nell’osservatorio astronomico di villa Salina. Non esistono stanze del genere a villa Boscogrande ma Visconti la vuole ugualmente, e pretende anche che dalla finestra sia visibile il paesaggio verso Palermo. Notarianni tenta di dissuaderlo ma ovviamente è il regista a spuntarla: dentro il giardino della villa, gli operai di Garbuglia innalzano una torretta posticcia, perfettamente vivibile,

sostenuta da tubi d’acciaio e assi di legno, che viene imbiancata e arredata come una vera stanza; pure nell’artificiosità dell’ambiente, il regista ottiene un concreto legame con Lampedusa, utilizzando gli autentici telescopi di Giulio Fabrizio Tomasi, recuperati presso l’Osservatorio Astronomico di Palermo. Al sole della Sicilia, ciak dopo ciak la musa di Visconti opera una magia. È come se il romanzo si stesse riscrivendo da capo, riconquistando una a una le pagine precedentemente perdute. Le riprese a villa Boscogrande si concludono nel giro di un mese, sforando di una, forse di due settimane sul piano di lavorazione. Le scene del viaggio in carrozza vengono girate sulla collina di Bellolampo, sopra Palermo. Armato di megafono, Visconti impartisce gli ordini sotto un sole accecante, chiamando gli attori direttamente con i nomi dei personaggi. “Avanti, Tancredi!… Avanti la carrozza di Don Fabrizio!” Il regista ha aspettato appositamente l’estate per girare quelle scene, in modo da ottenere un colore giallo che sapesse di arsura e aridità. Ma la finzione va sempre un po’ aiutata: per avere la quantità giusta di polverone Garbuglia scarica sulla strada diverse camionate di terra. I tecnici rischiano di finire soffocati, e qualcuno della produzione dà una bagnata per terra: “Almeno si può respirare”. Mal gliene incoglie: quando dà il “motore!” Visconti si accorge che l’aria rimane ferma. “La polvere!” grida. “Chi ha bagnato per terra? Voglio sapere chi è stato. E si consideri licenziato!” Per calmarlo, Notarianni è costretto ad assumere per qualche migliaio di lire un capro espiatorio da licenziare un attimo dopo. Lontano, in campo lunghissimo, le quattro carrozze ricominciano a muoversi. Nel romanzo,

veramente, i veicoli erano cinque; ma a parte questo, anche all’aperto la cura scenografica è esatta fino all’inverosimile. Le carrozze sono state cercate in tutta la Sicilia fra palazzi nobiliari e agenzie di pompe funebri, restaurate e dipinte con lo stemma dei Salina. Un rotocalco giura e spergiura che le bretelle inglesi indossate da Delon in questa scena, visibili a malapena, sono state ricamate cent’anni prima e sono ovviamente costosissime. Sarà vero, sarà falso? Sostenuto con abilità dal press agent Lucherini, il gioco delle scenografie e dei costumi d’epoca di tanto in tanto scappa di mano, qualche cronista viene sul set a contestare le spese folli e Visconti s’inalbera: “Sono un regista, non un antiquario. È ora di finirla di accusarmi che spendo troppo, che faccio comprare bretelle da trentamila lire, che faccio fabbricare apposta il pavimento per una terrazza che si vede appena”. La locanda in cui si ferma la comitiva è invece una vecchia masseria a Piana degli Albanesi, talmente malmessa che gli attori si rifiutano di entrarvi finché Garbuglia non la puntella a dovere. La copia della sceneggiatura utilizzata sul set segna ancora nuovi cambiamenti: la scena della sosta alla locanda viene abbreviata e la località da Prizzi è corretta in Bisacquino, per farla coincidere con quella che nel romanzo “aveva suscitato nel Principe sogni penosi” (incubi che saranno girati e poi tagliati nell’edizione definitiva); la scena della caramella con Tancredi e Concetta viene eliminata con un tratto di penna (nel film ne rimarrà un accenno); il battibecco fra il capitano principe Falconeri e i garibaldini al posto di blocco viene riscritto in modo più conciso e più aspro. La gag del fazzoletto rosso viene spostata in un altro contesto: Sedara si

gloria ugualmente dei suoi trascorsi risorgimentali, sventolando l’allusivo pezzo di stoffa, ma lo fa accomodato su un calesse mentre i contadini lo circondano minacciosi. Un’altra scena non presente nel copione riemerge in alcune foto di set: Sedara è ancora impegnato a discutere animatamente con i suoi contadini accanto a una grossa fontana. Viene invece ampliata la scena dei gendarmi che, chiamati da don Calogero, accorrono alla volta dei contadini rivoltosi davanti alla carrozza di Chevalley, appena congedatosi da Don Fabrizio. La paginetta prevista in sceneggiatura si limitava a suggerire uno scontro fuori campo, con l’eco dolorosa di un vecchio che urlava verso i soldati: “Chi vi ha chiamati a voi? Siete venuti per far fuoco su noi, che siamo vostri fratelli?”. La scena si evolve sul set nell’arrivo di un nutrito gruppo di contadini che, zappe in mano e pugni chiusi alzati in aria, affronta a viso aperto i militari armati; a giudicare dalle foto di set che ci tramandano la scena (nel film definitivo non ne rimarrà traccia) lo sbigottito Chevalley assiste non all’arrivo dei militari ma all’accorrere di vari braccianti, probabilmente in soccorso dei fratelli già attaccati dalla milizia. Unica vera concessione alle richieste di Lombardo, Visconti accetta di tagliare dal copione due lunghe scene. Il primo taglio, la sosta del convoglio dal notaio di Marineo, è ancora una scelta di fedeltà, dato che la sceneggiatura aveva ingigantito ciò che nel libro occupa neanche due righe. Il secondo taglio, di notevole risparmio dal punto di vista produttivo, è il flashback con l’udienza di Ferdinando II, che si sarebbe dovuta girare alla Reggia di Caserta; questa scena nel romanzo c’è, e infatti Visconti vi

rinuncia dopo diverse titubanze; lo testimonia un suo appunto sulla copia del Gattopardo (“forse necessaria l’udienza dal Re”) e un’indiscrezione giornalistica sul ruolo di Ferdinando II che sarebbe stato accettato da Orson Welles (che in quel momento aveva appena terminato di girare Il processo con Romy Schneider). Nel ricordo di Medioli, comunque, la scena sarebbe stata eliminata soprattutto per motivi strutturali. Di certo Visconti non rinuncia al Te Deum dentro la Chiesa Madre, anzi ne fa uno dei momenti più belli ed emblematici del film. Fedelissimo alle musiche indicate nel libro (la volenterosa banda municipale esegue alla bell’e meglio Noi siamo zingarelle dalla Traviata e Ciccio Tumeo intona sull’organo del Duomo Amami Alfredo dalla stessa opera), il regista s’inventa una straordinaria carrellata dentro la Chiesa Madre che fissa l’immagine mortuaria di tutti i componenti di casa Salina, seduti sui secenteschi scranni lignei, impietriti nel rito e imbiancati come statue dal polverone del viaggio. “Morte… morte… Come le mummie dei Cappuccini! Questo simboleggia i primi segni della morte di una classe!” mormora il regista spruzzando di talco gli attori con un soffietto. D’altra parte era lo stesso Lampedusa a descrivere i Salina scendere dalla carrozza, “bianchi di polvere fin sulle ciglia, le labbra o le code; nuvolette biancastre si alzavano attorno alle persone”… Ma a Tosi, al quale tutta quella polvere addosso pare eccessiva, il regista svela anche un risvolto autobiografico: “Non hai idea, mia madre ed io come arrivavamo bianchi quando partivamo per la villeggiatura a Cernobbio…”.

Claudia Cardinale approda in Sicilia a metà luglio. Fellini la vuole castana in 8 ½ mentre nel Gattopardo dovrà essere decisamente bruna. Tanti saranno gli andirivieni da un set all’altro, e ogni volta l’attrice dovrà rifarsi la tintura, “perché nessuno dei due giganti, naturalmente,” ricorderà lei, “poteva tollerare che portassi la parrucca”. In quei giorni un caldo feroce si abbatte sulla Sicilia. Stretta tra lo scirocco dal Sahara e le correnti umide dalla Libia, l’isola vede impennarsi le temperature già torride. Durante le riprese delle scene del picnic, la battuta dell’istitutrice francese, “C’est pire qu’en Afrique!”, diventa immediatamente il motto di tutta la troupe. Appena arrivata, la Cardinale cerca refrigerio in una gita al mare, insieme a Suso Cecchi d’Amico e altri membri della troupe, su un battello preso in affitto. Aspettano di tornare con l’oscurità e non si accorgono di un’imbarcazione di contrabbandieri di sigarette: speronati, colano a picco. La Cardinale per fortuna sa nuotare; racconta nella sua autobiografia che sarebbe pure riuscita a portare a riva diverse persone in preda al panico per la paura di annegare. È l’unico bagno che l’attrice farà in tutta l’estate, sulla sua pelle lattea Visconti non vuole vedere la minima abbronzatura. Dopo l’incidente la sua Claudina se ne starà sempre chiusa in una villa a Mondello a esercitarsi davanti allo specchio. “Pera, mela, pappagallo,” sono le tre parole che Visconti le ordina di ripetere finché le labbra non avranno assunto la piega sprezzante della bocca di Angelica. Intanto Palermo tocca i 46 gradi e la provincia si consuma negli incendi: uno, scoppiato nel

bosco di Ciminna, minaccia per qualche tempo anche la troupe del film. Ciminna è il paesino scelto in sostituzione di Palma di Montechiaro per ritrarre Donnafugata. Pare sia stata la Chiesa Madre a convincere Visconti; anche la piazza sembrava perfetta. Quello che mancava era il palazzo, e Garbuglia compie un nuovo miracolo: in quarantacinque giorni costruisce una facciata finta a un metro di distanza dalle casupole che si affacciano sulla piazza, simulando un piano terra con un grande portone e finestroni in linea con quelli veri, più un piano nobile e un piano mezzanino. L’effetto di realtà è stupefacente: neanche l’occhio più smaliziato riesce a cogliere, nel film come nelle foto di lavorazione, l’inganno scenografico. Il costo, però, è enorme: bisogna trasportare su per erte stradine di campagna centinaia di tubi e svariati quintali di gesso proveniente da Messina (quello locale non riesce a solidificarsi); la piazza viene liberata dall’asfalto e ricoperta di ciottoli di fiume (ma si deve portarli a dorso di mulo perché gli autotreni che li trasportavano da un fiume erano rimasti impantanati); impossibile trovare lastroni di pietra per ricreare le guide che segnavano il tragitto dei carri, e Garbuglia risolve il problema staccandoli di notte dai marciapiedi, dove verranno poi ricollocati. Per fortuna non è necessario ritoccare nulla nella campagna circostante, che fa da scenario alle sequenze di caccia con Don Fabrizio e Ciccio Tumeo. Le scene che Claudia Cardinale gira a Ciminna sono brevissime: l’apparizione in flashback nei panni della madre di Angelica, la misteriosa donna Bastiana evocata da Ciccio Tumeo, e un breve saluto al balcone durante i risultati del plebiscito. Durante il resoconto del referendum l’amara ironia di Lampedusa si trasforma in

farsa: sul balcone del Municipio, il tronfio Sedara è intralciato da uno dei suoi inservienti che fatica a mantenere accese le candele (è Tuccio Musumeci, attore comico di grande popolarità in Sicilia). È l’occasione per un’altra improvvisazione, in cui Visconti salda farsa meridionale, riferimenti letterari e polemica politica, tentando la parodia della retorica fascista: già il riferimento al balcone sarebbe inequivocabile, ma Stoppa ci mette del suo, gonfiando l’ugola e il petto. Dietro il sindaco, qualcuno gesticola disperato per bloccare la musica dell’improvvida banda municipale, antenato di quei pretoriani che su altri balconi si sbracciarono isterici per permettere che Mussolini intercalasse un nuovo slogan fra le urla del popolo in delirio; antifascisti come Visconti avevano atteso anni prima di potersi legittimamente fare beffe del teatrino mussoliniano, per anni subìto dal vivo e bissato in sala dai filmati propagandistici del Luce. Pericolosamente umoristica in un film quasi sempre solenne ed elegante, la scena sarebbe poi stata criticata da diversi recensori, apparentemente ignari dell’intima radice politica, o forse irritati proprio per averla compresa benissimo. La scena d’altronde è ben presente anche nel romanzo di Lampedusa, inclusi i “due inservienti con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio”. Nel romanzo è più asciutta e disillusa, e senza il comico intralcio della banda che Visconti aggiunge all’ultimo momento ripescandola dai Viceré: in sceneggiatura Sedara era solo bloccato un paio di volte dalle acclamazioni della folla, nel film viene interrotto tre volte dalla banda municipale, com’era successo pure a Consalvo Uzeda durante il suo primo discorso elettorale.

Dopo quello del “sorcio di polizia”, questo secondo ricorso ai Viceré conferma un interesse non casuale per il romanzo di De Roberto. Visconti ne ha donato una copia in inglese a Lancaster, che si è subito entusiasmato, pronto a intervenire come produttore di un eventuale film: “Ho i capitali, ho tutto, perché non lo facciamo?”. Visconti ci pensa sul serio. Ha invitato sul set il regista televisivo Sandro Bolchi, perché ha appena letto un suo saggio proprio sul romanzo di De Roberto. “Certo, Il Gattopardo è un gran libro,” gli dice Visconti a cena, “ma con I Viceré si va proprio dentro il cuore malato di questa Sicilia. È una saga implacabile, un coro di anime prave, una truppa insolente e minacciosa, grottesca. La grande mafia, l’imperterrita sifilide dei nobili avari, fatui, con il sangue malato che genera feti mostruosi… E quel gran monaco, don Blasco, grasso e laido come una forma di gorgonzola…” Stoppa, febbrile, li interrompe per prenotarsi il ruolo ma Visconti si schermisce; quel film, forse non lo farà mai. “Avrei paura di smarrirmi in palazzi dove sostano guarnigioni incatenate, in chiese dove la polvere fa presto a incenerirsi.” Forse per questo ne sta seminando pezzettini dentro Il Gattopardo. “Certo tornare in questa Sicilia mi piacerebbe.” Nel caso, promette, ci saranno tutti: Paolo, Rina, Alain, Claudine, Romolo Valli (“Ecco il vero don Blasco, Paolo. Metti la tua anima nera in pace!”). Poi, rivolgendosi a Delon: “Tu potresti essere un perfetto Consalvo, l’arrampicatore, il politico ambizioso e tarato, il bello dal cuore in decomposizione…”. La chiacchierata viene interrotta dall’arrivo di Leonardo Sciascia. “È un piacere vederla a casa mia,” lo accoglie il regista a braccia aperte. “Un

piacere e un onore. Si parlava dei Viceré.” “Grande libro,” risponde lo scrittore con un mezzo sorriso. “Il più bel romanzo italiano dopo I promessi sposi.” I ricordi di Sandro Bolchi si interrompono qui. Cosa si dissero quella sera Visconti e Sciascia? Parlarono delle differenze tra I Viceré e Il Gattopardo, dei fatti storici di Bronte, del carattere pre-fascista di Nino Bixio? Della reazionaria indifferenza di Lampedusa verso gli umili, dell’atteggiamento ondivago dell’avo Giulio Fabrizio, dell’intrinseca infedeltà del cinema rispetto alla letteratura? Non lo sappiamo, né probabilmente lo sapremo mai. L’unica cosa certa è che la breve visita non fece cambiare idea a Sciascia. Su Lampedusa lo scrittore rimase per il momento della propria opinione, anzi, estese le riserve al progetto viscontiano. “A veder nostro,” scrisse pochi mesi dopo in un saggio su cinema e Sicilia, “il rapporto tra l’opera letteraria […] e il film deve o risolversi nella fedeltà di questo a quella o non porsi neppure. […] E ci riesce difficile, in proposito, capire le ragioni per cui Visconti abbia voluto realizzare Il Gattopardo (da quel che se ne dice e dalle dichiarazioni del regista stesso: senza ancora aver visto il film): ché Il risorgimento in Sicilia di Rosario Romeo avrebbe potuto offrirgli più coerente materia d’ispirazione del Gattopardo, stante l’idea che Visconti ha (che noi abbiamo) di questo momento della storia siciliana e nazionale. Senza dire che I Viceré di Federico De Roberto era un libro già più vicino alle sue idee, anche se lontano dal suo temperamento.” Sciascia, come si dice in Sicilia, era più confuso che persuaso. Non riusciva a spiegarsi quale ragione avesse portato Visconti a rovesciare linguisticamente Verga ne La terra

trema “così come, pare, abbia ideologicamente rovesciato il principe di Lampedusa”. Dunque aveva capito che Visconti intendeva portare il suo Gattopardo ben oltre il romanzo di Giuseppe Tomasi. E non approvava. Neanche in nome del comune sentire di sinistra; un po’, da letterato, per amorosa aderenza alla pagina scritta, un po’ forse perché quella sera di giugno deve essersi reso conto che il film stava navigando verso direzioni imprevedibili. Sciascia è il marxista inquieto, affascinato e insieme insospettito dal progetto viscontiano. Ora che Aragon e Alicata hanno preso posizione a favore del Gattopardo, le posizioni maggioritarie con cui il mondo della cultura guarda alla lavorazione del film si sono ridotte sostanzialmente a due: gli intellettuali di sinistra, viscontiani e plaudenti, e la critica laica, attendista e filo-Lampedusa. Sciascia non fa parte dei primi né tantomeno dei secondi. Nel reparto dei sostenitori di Luchino il più emozionato è Guido Aristarco, il più viscontiano dei critici, il più autorevole dei cine-esegeti marxisti, che interviene dalle colonne della “Stampa” e del suo “Cinema Nuovo”. Allergico alla polvere del set, Aristarco segue la lavorazione a distanza, sui resoconti di giornali e riviste, e si è convinto: Visconti “darà un peso diverso e una diversa dimensione ai personaggi, alle vicende private e alla visione storica dell’omonimo romanzo”. Aristarco assicura che il regista respingerà il mito lampedusiano “dell’immobilismo, dell’inutilità di operare per una libertà effettiva, che sia riscatto e progresso sociale, giustizia, eliminazione della miseria”, sa già che nel film “ci sarà quell’ampiezza di visione storica che in verità manca al romanzo”. A

riprova, cita i risaputi cambiamenti rispetto al libro e le anticipazioni più note fatte dal regista. “Ogni previsione è difficile e pericolosa sul piano artistico,” conclude prudentemente. “Pensiamo comunque che con Il Gattopardo Visconti ci darà davvero, dopo Senso, un altro grande e autentico film storico.” Dove la parola “storico” è da intendere, beninteso, nell’accezione di Lukács e di Alicata, cioè “dentro la Storia”. Sull’altra sponda, ad Aristarco replica punto per punto, senza mai nominarlo, Arturo Lanocita, scrivendo il resoconto di una visita sul set per “La Domenica del Corriere”. “Riteniamo intempestivi quelli che già preannunciano il capolavoro,” avverte. “Il buon regista, il buon soggetto, i buoni interpreti, i buoni tecnici non danno forzatamente il buon film.” Lanocita sfotticchia: i protagonisti “sono i personaggi di una vicenda che, non ne dubitate, gli esegeti definiranno epica, per intendere che, dall’esterno, segue una rivoluzione e vi aderisce”. In quanto a Senso, le somiglianze gli sembrano “più formali che sostanziali”. Il critico mette infine in guardia Visconti dagli “sperticati laudatori”, perché “una tale esaltazione incondizionata […], in definitiva, fa più danno al regista di quanto gli faccia bene”. Invita piuttosto a non dimenticarsi di Tomasi di Lampedusa, “giacché è un poco lui, ombra dileguata come uomo ma vivo come scrittore, che dirige, da molto lontano, la grande orchestra”. L’immagine è suggestiva, e l’intuizione si rivelerà più esatta del previsto.

Dieci Dal valzer alla moviola “Spettegolare, spettegolare più fitto! Sorridere! Agitare più svelti i ventagli!” La voce di Visconti arriva dall’alto, ingigantita da un megafono. Dal primo agosto centinaia di comparse recluse dentro palazzo Gangi tirano l’alba facendo finta di esistere cent’anni prima. Gli ambienti del palazzo coinvolti sono quattordici, arredati grazie al mobilio e alle suppellettili prestate da Gioacchino Lanza Tomasi e da altre famiglie nobili di Palermo. L’orario di convocazione è fra le 14 e le 16: per preparare il set e le comparse passa qualche ora, il ciak viene dato in genere alle 22, comunque non prima delle 20. Si gira la sequenza del ballo per tutta la notte, fino all’alba. E così per trentasei notti di seguito. I numeri sono impressionanti: Caterina d’Amico, la figlia di Suso, ha contato 8 costumi per gli attori principali, 12 per i comprimari, 10 da ufficiali di primo grado, 40 da ufficiali piemontesi, 20 per i valletti sullo scalone, 2 da guardiaporte, 20 da camerieri al buffet, 9 frac per gli orchestrali e circa 300 per gli invitati. Il vestito di Claudia Cardinale è realizzato con un’organza di Dior a pois argento e oro sopra undici strati di tulle in cui si alternano avorio, turchese e bianco; il risultato non è il rosa pallido del romanzo ma un “color medusa”, un biancoazzurro che secondo Tosi e Visconti dona maggiormente all’attrice. La crinolina, cioè la sottogonna, è foderata in crine e sostenuta da cerchi d’acciaio di un metro e mezzo di diametro;

per fare riposare l’attrice Visconti le fa costruire un telaio in legno su cui appoggiarsi senza sgualcire l’abito. Il vero dramma è il corpino ornato da un merletto di seta, con un vitino di vespa da 53 centimetri: alla fine delle riprese la Cardinale si ritroverà sulla pelle un circolo sanguinante. L’attenzione di Visconti al dettaglio è portata al parossismo ma è impossibile sapere quanto fossero veritieri certi particolari tramandati. Si dice che Claudia Cardinale portasse con sé un carnet di ballo originale del 1850 e un fazzoletto pure d’epoca; la copia della Morte del giusto, il quadro di Greuze che Don Fabrizio osserva nello studio di palazzo Ponteleone, sarebbe stata rifatta sei o sette volte prima di soddisfare il regista. In mezzo ai generici venuti da Cinecittà, Visconti ha voluto autentici rappresentanti della nobiltà palermitana, facendo ancora una volta coincidere verità e finzione: il loro compenso, dalle 150 alle 280 mila lire, sarà devoluto alle dame di San Vincenzo. Le prime sere, al quotidiano appello per le presenze, capita spesso di non udire risposta. Uno dei macchinisti, che sono sempre un passo più avanti, si permette allora di dare un consiglio all’aiuto regista. “A dotto’, le chiami col loro titolo: baronesse, duchesse, contesse, sinnò nun risponnono.” E la produzione è costretta ad aggiornare araldicamente gli elenchi delle comparse. Per alcuni piccoli ruoli femminili Visconti ricorre ad anziane attrici che per età o provenienza artistica sono, a modo loro e al pari degli invitati dai Ponteleone, rappresentanti di un mondo in dissolvimento: Rina De Liguoro, ex diva del muto, ballerà con Stoppa in una scena

poi tagliata; Tina Lattanzi, la voce italiana della Garbo, farà gli occhi dolci al commensale Pallavicino. Nel ruolo di Margherita Ponteleone c’è l’attrice di teatro Lola Braccini; la quale, essendo la ex moglie di Stoppa (da lui lasciata proprio per la Morelli), con la sua presenza non annunciata getta il cast nel più completo imbarazzo: uno dei tipici scherzi maligni di Visconti o un trucco per rendere autentico l’impaccio di Sedara accolto da Donna Margherita? Nella sequenza del ballo Alessandra Wolff Stomersee viene evocata per interposta figurante in una “principessa di Lampedusa” presentata da Donna Margherita a Pallavicino. Anche Gioacchino Lanza viene rappresentato attraverso un attore, uno dei tanti giovanotti scontenti di non trovare posto nel carnet da ballo di Angelica; la Mirella che Tancredi saluta galante sulla terrazza è invece autentica, la vera moglie di Gioacchino. Sul set arriva pure Francesco Orlando, l’antico allievo delle lezioni di letteratura; anni dopo, diventato professore di letteratura, confesserà che l’impatto con il circo del cinema non fu affatto gradevole: “Una suscettibilità ravvivata nell’occasione e sui luoghi proprio dall’ombra di Lampedusa, la poca curiosità di Visconti, irritatosi con me alla notizia che lui non amava l’opera italiana, le arie da bellissimo ragazzo viziato di Alain Delon, fecero sì che mi sentissi ‘snobbato’.” Quella notte stessa Orlando decise di mettersi a scrivere e in un paio di mesi completò il suo straordinario Ricordo di Lampedusa. Sul set di palazzo Gangi il problema più complicato era rappresentato dalla luce: la pellicola ne ha sempre bisogno tanta, e il

realismo pretenderebbe in scena migliaia di candele; tra l’altro, Visconti gira con più cineprese contemporaneamente, per essere libero di saltare al montaggio da un’inquadratura all’altra, ed eliminare le lampade dal campo visivo diventa difficile. I riflettori vengono quindi agganciati al soffitto, immediatamente sopra ai lampadari che, composti di migliaia di candele, vengono accesi insieme. Con quella luce che gli piove addosso, però, le candele fanno in fretta a squagliarsi, colando pure addosso a tecnici e attori: quasi a ogni ciak gli assistenti di produzione, divisi in quattro squadre, devono metter mano a lampadari e candelabri e cambiare le candele. Non tutte, in verità. Abilmente propalata da Enrico Lucherini, la leggenda delle centinaia di candele da sostituire nasconde un trucchetto tipico del cinema: oltre la prima fila, la più esterna e visibile alle cineprese, le candele erano finte, illuminate elettricamente da una tremolante fiammella artificiale. Il caldo di un agosto torrido (35 gradi solo di notte) è però tutto autentico, e i sontuosi ma soffocanti abiti di scena causano malori e svenimenti. Vista dall’esterno la situazione è surreale, con il portone di palazzo Gangi serrato, le musiche che si diffondono nell’aria attraverso le finestre e la terrazza, un furgone della Croce Rossa pronto per ogni evenienza e le nobili comparse che chiedono (inutilmente) alla produzione di poter evadere alla ricerca di un gelato. Il cast non vede l’ora che si finisca di girare per togliersi tutto di dosso e concedersi un bagno in mare poco prima che albeggi. Perfino Visconti decide di abbassare un poco le pretese. Dopo alcune prove si rende conto che è

impossibile mantenere in piena luce diversi ambienti; opta allora per illuminarli e filmarli uno alla volta, e per la temperatura chiede aiuto alla tecnologia. “Dicono che ho speso venti milioni per mettere l’aria condizionata nel palazzo,” dichiara a una giornalista. “È vero; perché, a 35°, con le crinoline e gli abiti 1860, e le parrucche in questa scena del ballo, trecentoventi figuranti non potrebbero girare che per un quarto d’ora, e poi bisognerebbe prendersi due ore per rifargli il trucco, slacciare i corsetti e dare dell’acqua di melissa alle dame.” I condizionatori, una trentina e dell’ultimissimo modello, si rivelano però insufficienti. A ogni “stop!” i figuranti si accasciano sui sofà, mollano i ventagli autentici e ricominciano a sventolarsi con quelli di plastica forniti dalla produzione, un attimo prima che il regista chieda inesorabile di ripetere la scena con un tono freddo, sempre uguale: “Basta, non va. Tutto da rifare”. Nell’elegantissimo inferno di palazzo Gangi, Visconti è l’unico che sembra non soffrire: si aggira fra i dannati del cinema in un impeccabile abito bianco, armato di megafono e di un garbo diabolico. In realtà il regista è sotto pressione, più degli altri. Abituato alla disciplina, non lo dà a vedere. Dorme poco e lavora tanto. Ai giornali che parlano di cifre spropositate non bada neanche più, a lui interessa solo che la scena venga al meglio. “Mi chiedono un capolavoro?” dice. “E va bene. Mi sono impegnato senza risparmiarmi. Pretendo lo stesso dagli altri.” I problemi si moltiplicano, notte dopo notte. I timballi devono arrivare in tavola fumanti, ma tra un ciak e l’altro rischiano di diventare poltiglia; per preservarli, insieme ai pasticci di aragosta, ai

giganteschi babà e alle altre portate del ricevimento, viene allestita un’enorme cella frigorifera in cui rinchiudere tutte le vivande. Sotto il peso di quattrocento persone, riflettori, generatori e celle frigorifere, il vecchio palazzo Gangi rischia di cedere e la produzione deve intervenire per far rinforzare le fondamenta. I costi montano, notte dopo notte. Le disavventure della lavorazione segnalano pure una rapina (un milione e mezzo in contanti e un blocchetto di assegni in bianco) al cassiere della Titanus, bloccato di prima mattina in una centralissima via di Palermo da due rapinatori con gli occhiali scuri. Notarianni non ne può più e rassegna le dimissioni, e per essere sicuro di andar via fa scrivere la lettera direttamente a Visconti. Ma la Titanus le rifiuta lo stesso, liberandolo almeno dal complesso di dover arginare un budget incontenibile. Lombardo ha capito che con Visconti non riuscirà a spuntare più nulla, e che gli conviene mettersi pubblicamente dalla parte del regista. A chi gli chiede conto delle “cifre sbalorditive” di cui si sussurra, il produttore risponde stoico: “Per Il Gattopardo devo riferirmi a Via col vento senza tema di essere smentito. Il film costa molto. Ma in questo enorme costo non ci sono sprechi. Ci sono cose richieste dalla produzione che io accetto perché credo che siano importanti sia per Visconti sia per il film”. La sequenza del ballo doveva essere aperta dall’arrivo dei vari invitati, e Notarianni sudò ben più di sette camicie per trovare e far rimettere in sesto tutte le carrozze necessarie (sei, complete di cocchieri, staffieri e naturalmente cavalli). Sceso con i suoi familiari davanti al palazzo, Don Fabrizio avrebbe quindi salito piano piano i

numerosi gradini degli eleganti scaloni d’ingresso. Lancaster non dovrebbe: ha un ginocchio gonfio per un travaso sinoviale, e il medico gli ha proibito di piegarlo. Ma Visconti desidera che si giri proprio quella scena, e l’attore obbedisce. In fondo quel dolore al ginocchio gli torna utile: “In questo mi sento proprio vecchio!” dice a chi gli consiglia di fermarsi a riposare. Visconti ordina un primo ciak ma il risultato non lo soddisfa, e la scena viene ripetuta; per otto volte, col volto tirato, Lancaster sale uno a uno i gradini di palazzo Gangi. La scena non verrà poi neanche inclusa nell’edizione definitiva del film. Il comportamento di Visconti poteva essere sconcertante, passare in un momento da un’equità “comunista” (ha imposto che il “cestino” della pausa fosse uguale per tutti, protagonisti e comparse) all’atteggiamento più autoritario. “Gli attori sono come i cavalli, un po’ di lusinghe e un po’ di frusta,” spiega il regista a una giornalista francese. La tensione con Lancaster non si è mai allentata, anzi. Se ne accorge anche Mauro De Mauro, il giornalista che di lì a pochi mesi indagherà sulla morte di Mattei e che nel ’70 sarà ucciso dalla mafia; inviato sul set da “Settimo Giorno”, De Mauro scopre che tra i motivi delle ostilità fra regista e attore c’è il progetto dai Viceré. “Non è un mistero,” scrive il giornalista, “che Lancaster si sia invaghito – attraverso il Gattopardo – del favoloso mondo dell’Ottocento siciliano, e pare che ora abbia serie intenzioni di realizzare, come produttore, regista e interprete, il lavoro di De Roberto I Viceré, che è anche un antico e non dimenticato sogno di Visconti.” L’unica tregua fra attore e regista dura qualche giorno, il tempo

necessario perché Lancaster vada e torni da Venezia: il festival ha deciso di premiarlo per L’uomo di Alcatraz. Nella lunga sequenza a palazzo Gangi si alternano vari balli, su musiche composte da Nino Rota e condotte da Franco Ferrara: una mazurka, una polka, una quadriglia, una farandole (in cui gli invitati corrono tenendosi per mano per le stanze del palazzo, guidati dal coreografo Alberto Testa con parrucca e baffi posticci), e un veloce galop, dove coppie di ballerini estinguono le ultime energie volando su un pavimento coperto di nastri e lustrini. Il culmine del ballo, e quindi il culmine del film, è la scena del valzer con Angelica e Don Fabrizio. La partitura è una trascrizione per orchestra da un inedito di Verdi del 1859, un valzer per pianoforte dedicato alla contessa Maffei, che Mario Serandrei, montatore del film, aveva acquistato anni prima in una libreria antiquaria romana e poi donato a Visconti. Sul set gli altoparlanti lo diffondono continuamente per tutto il palazzo. “Erano poche battute ripetute all’infinito,” ricorderà Gioacchino Lanza Tomasi, “eppure all’arrivo del trio con quelle tre note acciaccate ascendenti, i volti parevano rianimarsi; poi le altre tre note accentuate in sincope a conclusione della frase, davano scatto alle membra oltre la resistenza fisica.” Con un ginocchio gonfio si possono anche fare otto rampe di scale, ma è difficile danzare in modo elegante. Quando Lancaster e la Cardinale cominciano a provare il valzer Visconti si accorge che l’attore zoppica. “E a quel punto,” ricorda la Cardinale, “è accaduto ciò che più temevamo. Urlava, ripetendo a Burt che non tollerava gli attori che si lamentavano. Soffrire in silenzio

faceva integralmente parte del mestiere, della disciplina che imponeva! Rimproverava a Burt di essersi ferito per un’imperdonabile fanfaronata: quell’ora di esercizi ai quali si sottoponeva ogni giorno, con il solo scopo di concedersi l’illusione di essere ancora giovane. Ora, non gli restava altro da fare che prendersela con la propria vanità!” Notarianni ricorda anche un insulto, davanti a decine di attori, tecnici e comparse: “Questo non è un principe mitteleuropeo ma un cowboy texano!”. Dopodiché Visconti prende per mano la Cardinale e se ne va in un altro salone del palazzo a bere champagne insieme all’attrice. “Quando sarete pronti, ritorneremo!” grida prima di sparire. Notarianni ricorda che quella sera Luchino gli chiese di arrangiare un programma alternativo, sennonché Burt tornò all’attacco: “All’improvviso sentimmo i passi pesanti di Lancaster che si avvicinava. Ci fu un fuggi fuggi generale. Anch’io me ne volevo andare, ma Visconti mi trattenne. Lancaster cominciò all’improvviso ad urlare in inglese, mentre Luchino rimaneva impassibile, seduto ad ascoltare. Alla fine gli disse: ‘You are illmannered’, ‘lei è un maleducato’; una frase che gelò Lancaster”. A sorpresa, fu però Visconti a farsi da parte. “È stata una delle poche volte,” diceva Suso Cecchi d’Amico, “in cui ho visto Luchino retrocedere da una propria impuntatura e accettare di avere torto.” Quando, dopo lunghe scaramucce, il litigio finalmente scoppia, succede che spesso i due contendenti cessino di botto le ostilità e si riconoscano amici. Raggiunto l’apice, quella sera la tensione si sciolse: da allora Luchino e Burt filarono d’amore e d’accordo. L’attore non fece

più nulla senza prima chiedere il parere al regista, e il regista lo gratificò finalmente dei suoi consigli. Lo scontro di personalità si tramutò in una operosa collaborazione, e in una stima sempre crescente. Il sodalizio sarebbe andato ben oltre Il Gattopardo, trasformandosi in una profonda e duratura amicizia. La scena del ballo è quella conclusiva del film, ma da sola occuperà un terzo dell’intera pellicola. In tre quarti d’ora Visconti riannoda i fili svolti lungo il resto dell’opera. La partecipazione di Angelica, l’invitata più bella, è il coronamento dell’interessata storia d’amore con Tancredi e insieme il trionfo della nuova classe dominatrice in combutta con la precedente: Angelica che invita Don Fabrizio a farla danzare è la borghesia che seduce l’aristocrazia un attimo prima di prenderne il posto; il ballo è l’autocelebrazione di una nobiltà che è riuscita ancora una volta a rivoltare la frittata, alleandosi con i nuovi ricchi e flirtando con i militari piemontesi, ma comunque destinata a sparire. Nel ruolo del colonnello Pallavicino il regista ha voluto Ivo Garrani, con il quale non aveva mai lavorato, ma del quale aveva sentito la voce calda e stentorea nel documentario di Ugo Gregoretti Sicilia del “Gattopardo”. Visconti spiega all’attore che vuole un ufficiale dal carattere vanesio, che deve vantarsi in modo molto teatrale di aver ferito Garibaldi: le tronfie dichiarazioni di Pallavicino (lontane dall’amaro vaticinare del colonnello nel romanzo) gli occorrono per denunciare con chiarezza il fallimento della rivoluzione risorgimentale. “I primi cinquant’anni di unità,” spiega il regista a Gioacchino Lanza, “sono stati un vero

sfruttamento coloniale del meridione, farei persino un accostamento al rapporto tra la Francia e l’Algeria e lo mostrerò nel ballo; l’efficienza militare piemontese vi è presente come occupazione cui il principe non sa sottostare, il dialogo tra il principe e il colonnello Pallavicino mostrerà l’indifferenza del nuovo invasore per la rinascita civile dell’isola. I suoi migliori fermenti vitali verranno eliminati con la forza.” La sequenza del ballo è quasi un film a sé stante: un climax prolungato, un orgasmo che si allunga all’impossibile, lasciando personaggi e spettatori piacevolmente estenuati. “Mi dispiacerebbe,” dirà poi il regista, “se citassero quella lunga scena […] come un pezzo di bravura fine a se stesso. […]. La verità è che quella scena era necessaria alla struttura interna del film proprio nella sua apparente sproporzione. Sono 40 minuti che ne rappresentano infinitamente di più. […] Nella festa dei Ponteleone deve scorrere la stessa dimensione temporale che si respirava nei Guermantes, lo stesso disfacimento di una società, e i suoi stessi sussulti per non passare le consegne… Il principe, in quei 40 minuti, invecchia esattamente di quei vent’anni che separavano nel libro il sesto dal settimo capitolo.” Sulla scorta di dichiarazioni come queste, ma soprattutto delle primissime rilasciate in conferenza stampa, la critica insisterà costantemente sul carattere macabro della scena, esemplificazione metaforica della decadenza di una classe che puzza già di cadavere. Dagli spettatori la scena del ballo verrà ricordata, al contrario, come il momento più bello e spettacolare del film. Di veramente

funereo in fondo c’è solo il personaggio di Don Fabrizio, stanco e forse già malato, che si deprime davanti alla decadenza genetica delle ragazze, sbircia la toilette con i vasi colmi di urina e indugia a contemplare La morte del giusto; il resto è lusso sfavillante, trine e gioielli, inchini e baciamano. A dispetto delle intenzioni programmatiche, l’annunciato “ballo dei morti” si trasforma strada facendo in qualcosa di diverso. La bellezza dell’insieme prende il sopravvento sulle intenzioni politiche, e non perché Visconti si lasci forzare la mano dal preziosismo formale ma per altre più intime interferenze: nostalgie autobiografiche che appartengono più al conte milanese che al regista di sinistra, rimembranze familiari in cui la decadenza della nobiltà milanese dell’anteguerra si sovrappone a quella dell’aristocrazia palermitana del 1860. Le riprese in Sicilia si concludono intorno al 20 settembre. Le ultime due pose vengono girate nel centro storico di Cefalù: sono la visita di Don Fabrizio a Mariannina (Olimpia Cavalli), e l’uscita del principe dal ballo in cilindro e sciarpa bianca, come Giuseppe Verdi nel celebre ritratto di Boldini. Lentamente, il gran circo del cinema smobilita e la carovana riparte per Roma. “È sempre un po’ triste quando si finisce la lavorazione di un film,” dice Visconti a Gioacchino Lanza la sera della partenza. “Ma del Gattopardo sono abbastanza soddisfatto, anche se è un lavoro molto faticoso.” Il figlio adottivo di Lampedusa trasformerà quell’ultima chiacchierata davanti ai bagagli in una preziosa intervista, giocata sull’opposizione fra il pessimismo dello scrittore e il vitalismo del regista. A leggere con

attenzione le parole di Visconti, in questa fase le sue posizioni non sono però di contrapposizione a Lampedusa ma di completamento. “Vi sono tre modi di considerare la realtà del momento storico in esame,” sintetizza il regista: “dal lato del principe protagonista, dal lato della vitalità che li origina e dal giusto mezzo; Tomasi vede la storia esclusivamente dal lato del principe, e della realtà individuale altrui non si cura. Io invece spero di mantenermi in mezzo: mostrerò con la facilità offerta dal linguaggio delle immagini, non solo lo splendido tramonto del principe, ma anche il fermento di vita della collettività: d’altronde è proprio questo fermento che causa il declino del Gattopardo. Lo ha visto pure l’obiettività di Tomasi, quando il suo principe sul letto di morte ammetterà che quel Vulcano barbuto in fondo aveva vinto la battaglia”. Visconti ribadiva così la sua volontà di completare la visione storica del romanzo, aggiungendo allo “splendido tramonto del principe” quel “fermento di vita della collettività” che il libro di Lampedusa aveva omesso. Ma è altrettanto chiaro, nelle sue parole, che Visconti ha nel frattempo maturato un rispetto e una comprensione del romanzo che all’inizio non aveva. Dopo aver pensato di portare a sé la materia del libro, il regista si sta rendendo conto che Lampedusa continua a tirare vigorosamente il film dalla sua parte: bene che gli vada, Visconti auspica almeno di riuscire a “mantenersi in mezzo”. Non è esattamente quello che l’Operazione Gattopardo avrebbe dovuto essere, e c’è da chiedersi se Trombadori e gli amici del Pci stessero cominciando a rendersene conto.

Il lavoro comunque non è concluso. “In primo luogo vengono sempre i personaggi,” dice Visconti a Lanza Tomasi, “non l’ambiente. Questo in Sicilia l’ho già pienamente realizzato, adesso a Roma dovrò accrescere la statura dei personaggi; gli interni di Donnafugata renderanno chiaro tutto il lavoro compiuto fino ad ora.” “Triste di lasciare il Baglio?” chiede Gioacchino. “No, ha fatto il suo tempo,” risponde pragmatico Visconti. Palermo, nella sua mente, è già lontana. Tornati nel continente, un paio di giorni passano negli studi Titanus, probabilmente per due brevi scene destinate agli incubi del principe, ambientate nella stamberga di Mariannina e nell’alcova della cocotte parigina. Per gli interni di Donnafugata, la produzione del film aveva visitato diverse dimore patrizie, da palazzo Farnese di Caprarola, a palazzo Chigi Albani a Soriano del Cimino e palazzo Altieri a Oriolo Romano, ma la scelta era infine caduta su palazzo Chigi di Ariccia. Ben dodici ambienti, in gran parte decorati con dipinti di proprietà di Domietta Hercolani, l’arredatrice del film, ricreano lo studio da sindaco di Sedara e via via tutti gli ambienti che nel film appartengono al palazzo di Donnafugata, compresa la stanza da bagno e la camera da letto. L’ambiente principale del palazzo, la Sala Maestra, viene trasformata nella sala da conversazione del film, in cui Tancredi incontra per la prima volta Angelica e Chevalley proverà il brivido del gioco a carte in qualità di “ostaggio” del principe. Nello stesso salone Don Fabrizio legge un romanzo alla famiglia riunita intorno al camino; il passo letto dal principe nella sceneggiatura “definitiva”

(“Allorché il sole incoronava di puro azzurro le cime de’ monti, uscivano qualche volta insieme, che il marzo non era lontano…”) era tratto – chissà perché – da Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo, ma Visconti sceglie ancora una volta di rimanere aderente a Lampedusa, e al momento delle riprese fa leggere a Lancaster proprio una pagina dall’Angiola Maria, il romanzo di Giulio Carcano del 1845 esplicitamente citato nel Gattopardo. La scena del pranzo viene girata nella sala da pranzo d’Estate del palazzo; in campo entrano arredi originali, alcuni pezzi noleggiati, altri provenienti dalle collezioni di Domietta Hercolani e dal palazzo Chigi di Roma, e piatti di servizio su cui Visconti ha fatto dipingere lo stemma dei Salina. Il grande tavolo è stato costruito appositamente da Giorgio Pes in modo da poter essere smontato facilmente a pezzi per permettere le riprese dei primi piani. Uno dei ciak più difficili è quello in cui Angelica scoppia a ridere durante la cena a Donnafugata. Nella copia personale del romanzo, Visconti ha sottolineato due volte il salire di tono della ragazza, “quella risata sguaiata che accompagna l’entrata di Angelica nel mondo”, la descriverà la Cardinale, “quella risata di giovane donna piena di desiderio, eccitata dal lusso, dal potere degli uomini, e dal potere che lei ha su di loro”. È la scena in cui la natura del personaggio di Angelica emerge con prepotenza: di fronte alla severità dei commensali la sua reazione alle licenziose facezie di Tancredi apparirà di una volgarità quasi iperbolica. Sul set la Cardinale deve ripetere più volte la sua risata, la voce roca che si ritrova non la aiuta. “Spero che mi facciano doppiare Angelica,” dice a un cronista, “ma ancora non lo so, deve decidere Visconti.”

Per ora Visconti le chiede solo una risata più acuta. “Ci provo,” gli risponde l’attrice, “ma lei lo sa, la mia voce…” Angelica è il ruolo capitale della carriera della Cardinale, il personaggio con cui sarà per sempre identificata; la bellezza dell’attrice e lo splendore della scena del valzer saranno il suo eterno trionfo cinematografico. Le intenzioni di Visconti sono però tutte volte a mettere in luce il fondo plebeo e animalesco del personaggio. Il regista le fa infoltire le sopracciglia, e la invita a sottolineare il gesto di mordersi le labbra (la cosmesi naturale dell’Ottocento). Per la scena in cui entra nel salone a Donnafugata, le spiega che dovrà muoversi a grandi falcate: “Devi prendere possesso del territorio, come una pantera!”. Si noti tra l’altro che nella sua prima scena Angelica è vestita e acconciata in modo simile alla prostituta Mariannina, suggerendo un’analogia fra la ricca fidanzata di Tancredi e la meretrice di periferia. “Visconti voleva che Angelica fosse tale solo di nome,” spiegò la stessa Cardinale a un rotocalco poco tempo dopo le riprese. “Ma come personaggio doveva venire fuori una creatura complessa, dai sentimenti tutt’altro che celestiali. Egli voleva che all’autentico trasporto passionale che spinge Angelica tra le braccia di Tancredi corrispondesse un preciso calcolo da borghese che vuol diventare aristocratica, da arrampicatrice sociale.” Per rendere la complessità della sua natura, Visconti chiede all’attrice di dividersi letteralmente in due: “Ricordati, gli occhi devono dire una cosa che la bocca non dice, perciò lo sguardo deve avere un certo tipo di intensità che contrasti con quello che stai dicendo… Anche se

ridi, gli occhi non devono ridere. Insomma, devi separare il tuo viso in due: lo sguardo è una cosa; quello che dici, è un’altra… […] Ricordati in ogni momento: le mani, le braccia, gli occhi e la bocca, tutto sempre in contrasto. Con ogni parte del tuo viso e del tuo corpo”. Questo spezzarsi continuo le lascerà in mezzo alla fronte una ruga che l’attrice considererà con orgoglio come una firma di Visconti sulla propria persona. Gli ultimi giorni di lavoro vedono davanti alla macchina da presa i soli Delon e Cardinale, impegnati a inseguirsi per le fatiscenti soffitte di Donnafugata. Gli ambienti in cui la scena viene girata appartengono per metà al piano mezzanini di palazzo Chigi e per metà (incluso lo stanzone finale col letto a baldacchino) al palazzo Odescalchi a Bassano di Sutri. La Cardinale ha raccontato che la tensione sessuale in campo era più forte di quanto richiesto dalla scena, con lo stesso Visconti che soffiava sul fuoco: “Alain era sicuro di sé, della sua bellezza, del suo fascino, e sicurissimo del suo potere sessuale. Così stipulò un accordo segreto con Luchino: scommise che gli sarei caduta tra le braccia in tempi brevissimi. Luchino si divertiva a questo genere di scherzi un po’ sadici. Così, quando mi dirigeva nelle scene d’amore con Alain, mi diceva: ‘Mi raccomando, Claudina, non voglio baci falsi, false carezze…’. Ma io avevo capito il gioco e, con qualche abilità, riuscii a dribblare: figuriamoci se ero disposta a dare la soddisfazione di comportarmi come una piccola stupida incapace di resistere al fascino di un Delon. Il risultato fu che, dopo tutto questo, Luchino mi ha apprezzata di più”. Le scene in soffitta furono anche teatro dell’ultimo, definitivo, litigio di Visconti con

Delon. Insoddisfatto della sua interpretazione, gli esplose in faccia tutto il suo risentimento, ben sapendo così di mortificarlo davanti a tutti. “Mi ricordo Alain,” scrive la Cardinale: “eravamo seduti vicini su un piccolo canapè, mi prese una mano stringendola per farsi forza e non rispondere. La rabbia non cancellava l’infinito rispetto che ha sempre avuto per Visconti: però, per trattenersi, quasi mi spaccò la mano.” L’attrice sostiene che la violenza verbale di Visconti fosse l’ultimo disperato tentativo di scuotere Delon, una tecnica a cui ricorreva quando capiva che le parole avevano esaurito ogni possibilità. La scenata mise invece fine a un rapporto che non era stato solo professionale. Con la Cardinale la sintonia fu sempre buona, regista e attrice non ebbero mai uno screzio, e questo malgrado Claudina fosse contemporaneamente impegnata sul set del rivale Fellini. L’aneddotica sul tema consegna un ultimo tocco di perfidia viscontiano, nel giorno in cui l’attrice confessò di dover lasciare ancora il set per andare a fare un’ultima posa in 8 ½. Visconti la guardò fisso e le disse: “Senti, devi farmi un piacere: quando Federico ti chiama, chiamalo Luchino…”. Le riprese del Gattopardo si conclusero negli ultimi giorni di ottobre, dopo poco più di cinque mesi di lavoro. Stanco e dimagrito, Lancaster tornò in America convinto di aver partecipato a un capolavoro. Ai reporter statunitensi che gli chiedevano dei turbolenti rapporti col regista spiegò: “Visconti non è una persona facile con la quale lavorare. Ci siamo beccati diverse volte. Ognuno ha difeso strenuamente le proprie posizioni, ma alla fine ha vinto Visconti per una semplice ragione: lui è il migliore”. Visconti, da

parte sua, non volle smentire la sua fama di direttore esigente e uomo duro, arrivò anzi a teorizzarla: “Va bene, va bene, sono un po’ esigente. Ma pensate cosa può essere avere in mano una baracca […] come Il Gattopardo. Bisogna continuare a stringere viti, perché le impalcature non si mettano a cigolare. E ci sono tipi di vite da prendere dolcemente, da girare con garbo, senza dare nell’occhio. Mentre alcune viti, invece, hanno bisogno d’essere strizzate con le tenaglie. Le viti, voglio dire gli uomini, vanno capiti”. Visconti e Serandrei vanno quindi a rinchiudersi in sala di montaggio. Vi trascorreranno insieme parecchie settimane, molte più del previsto, per portare a una durata ragionevole le migliaia e migliaia di metri di pellicola impressionata (per la precisione 269.112, equivalenti a 162 ore di proiezione). Il materiale è abbondantissimo, il primo montato del ballo dura da solo quattro ore, la durata complessiva del film si avvia a diventare almeno doppia rispetto a una normale. S’impongono sacrifici e dimagrimenti. Cadono intere scene: ferito all’occhio durante la battaglia di Palermo, Tancredi si rifugiava in un convento (come ancora si vede nel film) dove veniva curato e incontrava per la prima volta Cavriaghi e Tassoni; la visita degli ufficiali garibaldini a villa Salina viene ripartita in due flashback e quindi dimezzata, togliendo la richiesta di Don Fabrizio di non fare espellere dalle sue terre padre Pirrone; saltano anche due scene di Sedara alle prese con i contadini, quella in cui il sindaco sventolava il fazzoletto rosso e una in cui discuteva accanto alla fontana di Donnafugata.

Sparisce la scena in cui Chevalley, salutato il principe all’alba, assisteva dalla carrozza all’arrivo di un drappello di militari venuti a reprimere gli ardori rivoluzionari dei contadini, compresa l’immagine allusiva dei braccianti insorti col pugno alzato. Visconti decide di eliminare anche la scena successiva, l’arrivo delle carrozze al ballo, insieme all’ascesa del dolorante Lancaster su per le scale di palazzo Gangi. Il taglio delle carrozze ha comunque una ragione tutta contenutistica, perché Serandrei ha proposto al regista di passare polemicamente dall’immagine dei contadini che zappano (su cui si sente già il valzer di Verdi) dritto filato dentro il fastoso ricevimento a palazzo Ponteleone: una dissolvenza incrociata che sarà il momento più ideologico di tutto il film. Perfino al comunista Notarianni il risultato suona un po’ troppo “stalinista”. Nelle more del montaggio, sede e data della prima mondiale del Gattopardo vengono cambiate più volte. Sulla stampa circola l’ipotesi di una proiezione alla Scala, che non riscuoterebbe però l’entusiasmo dei “vecchi milanesi”. Poco dopo, Visconti annuncia che la prima proiezione avverrà invece, più congruamente, al Massimo di Palermo, entro febbraio ’63. Ma il lavoro di post produzione è più lungo del previsto e il 5 gennaio Lombardo concorda col regista di fissare la data di uscita un poco più in là, il 7 marzo. Il produttore dà quindi appuntamento a Visconti di lì a due giorni nello stabilimento di doppiaggio di via Margutta “per vedere il più bel film di tutti i tempi”, quasi certamente una copia lavoro con i dialoghi misti in lingua italiana, inglese e francese. Per il doppiaggio Lombardo stabilisce un dettagliatissimo schema di lavorazione, con

eventuali straordinari domenicali. Il lavoro dovrà concludersi entro il 10 febbraio (“improrogabilmente,” scrive Lombardo a Visconti distillando il massimo garbo possibile), in modo da avere il tempo per l’incisione delle musiche, il missaggio finale, la stampa di 30 copie e la spedizione alle sale. Alla fine di febbraio il regista risulta ancora impegnato al doppiaggio. “Visconti lavora 14 ore al giorno,” scrive Franco Rispoli, l’unico giornalista che riesce a intervistarlo davanti alla moviola. Le sedute sono lunghe e faticose, e non prive di colpi di scena. Scelto per doppiare Don Fabrizio, Salvo Randone si defila dopo pochi giorni adducendo il mal di denti e un esaurimento nervoso. Alla notizia Visconti non si scompone: ordina a Lando Buzzanca, doppiatore di Ciccio Tumeo, di provare a dare la voce anche al principe di Salina. Opterà infine per un altro siciliano: nel film Burt Lancaster avrà il timbro caldo del palermitano Corrado Gaipa. Per il personaggio di Tancredi, Visconti decide di mettere da parte Achille Millo, già doppiatore di Delon in Rocco e i suoi fratelli, e prende Carlo Sabatini (sembra che Millo si fosse macchiato di una colpa imperdonabile, una battuta scherzosa ai danni dell’amico e collega Giorgio De Lullo). Per Angelica la scelta fu più complicata. Senza dir nulla alla Cardinale (e, pare, malgrado una precisa clausola contrattuale), Visconti ha deciso di far parlare la giovane Sedara con la voce di una professionista del doppiaggio, Solvejg D’Assunta. Claudina, che in 8 ½ ha appena fatto udire la sua voce naturale, stavolta si arrabbia. “Mi dissero che tutti gli interpreti sarebbero stati doppiati da attori siciliani,” dichiara a un giornale, “e io dissi: se è così va bene, non sarò

io a puntare i piedi quando uno Stoppa e una Morelli accettano i doppiatori. Ma una sera, a un ricevimento, per caso, vengo a sapere che le cose erano già fatte e che l’unica doppiata ero io… Stavo per svenire.” (La Cardinale si consolerà con l’edizione francese: lì la voce della giovane Sedara, risata compresa, è proprio quella dell’attrice.) La scelta della voce italiana di Angelica è comunque difficile: prima di arrivare alla D’Assunta si parla di circa 200 provini. In attesa di giungere a un’edizione soddisfacente, Serandrei porta a termine la “presentazione” del film, quello che oggi si chiama trailer, un fiammeggiante saggio di tre minuti sulla lotta di classe al tempo di Nino Bixio. L’impossibilità di disporre di una colonna sonora definitiva gli ha suggerito un’idea geniale: far scorrere le musiche del ballo a palazzo Ponteleone sulle immagini della festa e farle interrompere dai rumori della battaglia di Palermo. Il drammatico effetto degli spari e delle cannonate montate sullo sfarzoso ricevimento è la dichiarazione più esplicita di ciò che si vorrebbe fosse Il Gattopardo: una vibrante rielaborazione del romanzo di Lampedusa ricondotta dentro il flusso della Storia, in cui le urla del popolo assediano l’impudente lusso degli aristocratici. La data di uscita slitta un’ultima volta, dal 7 marzo passa al 27. Il Teatro Massimo di Palermo è sempre disponibile; essendo però formalmente bloccato per le prove e le recite della stagione, chiede una somma pari a una giornata di straordinari per il complesso artistico; in alternativa, propone di rinviare al 29, giorno di riposo dell’orchestra e del coro. Lombardo non ha voglia di aspettare: slittare di altri due giorni

obbligherebbe a rimandare l’uscita del film di un’intera settimana. Per il 27 esiste a Roma un’alternativa già bell’e pronta, meno sontuosa ma concretamente più allettante, la serata di gala dei Nastri d’Argento organizzata al cinema Barberini: la prevista telecronaca di Lello Bersani sull’unico canale allora esistente è una preziosa occasione mediatica. La Sovrintendenza del Teatro palermitano protesta con un comunicato ufficiale ma la Titanus non intende cambiare idea. La motivazione è probabilmente anche economica. Lombardo non può più permettersi di spendere altro danaro per pagare al Teatro una giornata di straordinari, e pure la stessa trasferta fuori Roma sarebbe ormai insostenibile. Il Gattopardo è costato tanto, troppo. Enrico Lucherini mette fuori il saldo finale: tre miliardi, uno in più del previsto, e la stampa ci fa subito il titolo. Stavolta non si tratta di un’esagerazione. Le carte ufficiali correggono solo di poco la cifra: la dichiarazione analitica presentata alla Direzione Generale dello Spettacolo il 15 maggio 1964 quantifica il costo effettivamente sostenuto in 2.648.881.434 lire (di cui 400 milioni di spettanza francese), più altri 108.577.208 per spese di edizione, pubblicità e lancio del film in Italia, per un totale complessivo di circa 2 miliardi e 750 milioni. Il consuntivo non contempla il minimo garantito americano di 1.750.000 dollari, equivalente a un miliardo abbondante di lire dell’epoca, che la Titanus dovrebbe avere ricevuto dalla 20th Century Fox, probabilmente considerato come un anticipo sugli incassi della distribuzione straniera. Occorre tra l’altro notare che dai 2 miliardi e 750 milioni di spese dichiarate mancano, oltre alla

voce relativa a Burt Lancaster (che secondo contratto dovrebbe essere stato pagato dalla Fox e dalla Titanus con una percentuale sugli incassi), pure i compensi per l’intero comparto musicale, dal compositore Nino Rota all’esecuzione e incisione (forse sostenute dalla casa editrice musicale Cam, che distribuì in vinile la colonna sonora della pellicola); spese vive, essenziali nella creazione del film, che alzerebbero ulteriormente – e di parecchio – il totale del capitale investito. La Titanus cercherà per anni di recuperare ancora qualcosa dai soci francesi: l’accordo iniziale di coproduzione al 20% alzerebbe la quota parigina dai 400 milioni effettivamente versati a quasi 530, ma la differenza non sarà mai sanata: la Société Nouvelle Pathé Cinéma e la Société Générale de Cinématographie sostengono che la Titanus avrebbe sforato il preventivo con rifacimenti non approvati e si rifiutano quindi di pagare. Fermandoci dunque alle cifre ufficiali, e togliendo i 400 milioni di coproduzione francese, la Titanus dovette tirar fuori dalle proprie casse 2.350.000.000 di lire, una cifra ben diversa dal miliardo e 600 milioni stanziato all’inizio dell’avventura. Per la casa, già gravata dalle perdite di Sodoma e Gomorra, è un colpo mortale. Lombardo annuncia un immediato ridimensionamento dell’azienda, vende gli stabilimenti della Farnesina come terreno edificabile, riduce l’attività produttiva. Qualsiasi idea è buona per recuperare un po’ di capitale: Lucherini e il regista Sergio Corbucci battono tutti i set aperti intorno alla capitale a caccia dei “44 + 44 divi” da far apparire – anche solo una battuta e via – nel Giorno più corto, parodia

sgarrupata del Giorno più lungo, realizzata in quattro e quattr’otto e distribuita in sala ancora prima del Gattopardo. La notizia della Titanus in crisi fa una certa sensazione e il “Corriere della Sera” ci bagna il pane. A pochi giorni dall’anteprima del Gattopardo, il quotidiano milanese cerca di rovinare la festa accusando Lombardo di aver fatto “il passo più lungo della gamba”; formalmente si negano addebiti a Visconti ma si parla comunque di “prodigalità” del regista e delle lunghe riprese della sequenza del ballo. Da sinistra, “Paese Sera” risponde dando la parola al regista. “Non sono tenuto a conoscere il costo dei film che dirigo,” dichiara orgoglioso Visconti. “La spesa che comporta la realizzazione non mi riguarda. Calcolarla è un compito che spetta ad altri. Se questi calcoli sono errati, per la stampa scandalistica la colpa è sempre del regista.” L’attesa della pellicola viene rinvigorita da una mostra in una galleria d’arte a via del Babuino, organizzata dall’infaticabile Lucherini, in cui vengono mostrate in anteprima foto di scena, costumi, armi, vasi e decorazioni varie usati nel film. La prima ad arrivare alla vernice è la vedova Lampedusa, intabarrata in una pelliccia di persiano nero. Il Gattopardo non l’ha ancora visto ma può lanciarsi in qualche cauta parola di elogio. “Trovo che tutto è stato realizzato con grande gusto e con enorme scrupolo di verità nella rievocazione ambientale,” dice cauta a un giornalista. “D’altra parte, e me ne resi conto a Palermo, durante la lavorazione, apprezzo molto anche l’impegno con cui Burt Lancaster si è preoccupato di entrare nei panni e nello spirito di Salina.”

Le parole degli interpreti vanno oltre il programmato entusiasmo pubblicitario, trascolorano spesso nella gratitudine verso il destino e verso Visconti, che li hanno fatti entrare dentro una pellicola così importante. “È stato il film più difficile della mia carriera,” dice Lancaster dall’America, “ma aggiungo che è stato anche un’esperienza eccezionale. Ieri alcuni amici italiani, lo stesso Visconti e Lombardo mi hanno telegrafato, dopo una prima proiezione del film. Sono telegrammi entusiastici, di lode, e sono certo che sono sinceri. Tra noi non avrebbe alcun senso giocare il gioco delle convenienze e dei complimenti. Pare proprio che ce l’abbia fatta. E ora attendo con tanta ansia di vedere io stesso il film.” E promette: “Sarò in Italia in occasione della prima”. Intanto Suso Cecchi d’Amico dà gli ultimi tocchi al libro ufficiale sulla pellicola, Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti. Composto da sceneggiatura, intervista al regista, saggio critico e un capitolo finale sull’impresa produttiva, il volume viene pubblicato dall’editore Cappelli nella prestigiosa collana cinematografica curata da Renzo Renzi. L’operazione editoriale è preziosa ma nasconde parecchie insidie, a partire dalla sceneggiatura che si è scelto di pubblicare, un testo derivato dalla versione finale del 9 marzo 1962 con alcune (ma non tutte) delle modifiche successive fatte sul set e in moviola, e altre differenze che non si ritrovano né nelle sceneggiature più vecchie né nel film. La genesi composita del testo pubblicato non è in alcun modo segnalata sul volume, e questo indurrà gli studiosi a considerarla erroneamente come la versione definitiva della sceneggiatura; ogni confronto di questo presunto

testo finale con il film montato sarà per forza di cose parziale, se non fuorviante. Se i criteri con cui è stato eternato il copione del film possono apparire maldestri, l’apparato critico che lo accompagna è al contrario fin troppo consapevole del suo ruolo di unico contributo autorizzato all’esegesi della pellicola; il che non esclude un po’ di furbizia e qualche incongruenza. Visconti scelse di defilarsi apparendo solo come intervistato ma fu attento a coprirsi le spalle sia sul fronte letterario sia su quello politico: Emilio Cecchi, il “maresciallo di Francia” incontrato da Lampedusa a San Pellegrino Terme (nonché papà di Suso), venne incaricato di mettere a confronto romanzo e pellicola (a vantaggio della seconda), e Antonello Trombadori, pittore e uomo di cultura ma soprattutto responsabile culturale del Pci, si sobbarcò l’onere di intervistare l’amico Luchino conciliando questioni estetiche e ideologiche. Il volume verrà dato alle stampe il 30 marzo, tre giorni dopo l’anteprima del film al cinema Barberini, ma il saggio introduttivo di Cecchi (che possiamo quindi considerare come la primissima recensione al film) viene scritto almeno un mese prima e fatto subito abilmente circolare fra i giornalisti. Le parole del critico sono naturalmente tutte di lode a Visconti, a partire dalla sequenza del ballo, densa di “misteriose bellezze”, artisticamente imparentata con i grandi ricevimenti di Proust, eppure prevedibilmente a rischio di “dozzinali ironie” per la sua lunghezza e maestosità. “Credo veramente,” garantisce Cecchi, “si possa essere sicuri che il principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa assai volentieri avrebbe visto questo film.” Magari anche perché, “in più d’un caso, la

sostanza poetica e storica proposta dal libro, nel film risulta decisamente vitalizzata e irrobustita”. Le uniche parole negative del saggio sono riservate al romanzo che, rimasto incompiuto, è composto di capitoli sulla cui accettazione la critica non sarebbe concorde; tra questi Cecchi include pure l’ultimo, “con gli episodi successivi alla morte del principe […]: tutte occasioni d’un umorismo piuttosto stanco e pesante, e ciò ch’è peggio quasi estraneo all’intimo racconto del romanzo”. Ancora più interessante è il successivo Dialogo con Visconti firmato da Antonello Trombadori. Trombadori ha il compito di sollecitare maieuticamente l’autorecensione di Visconti e di congelarla nel tempo, consegnando alla storia del cinema un insostituibile testo di riferimento per chiunque voglia accostarsi al film. Occorre però tenere bene a mente l’epoca precisa in cui l’intervista venne preparata, e l’evidente preoccupazione che l’attraversa. Che il dirigente comunista abbia influenzato Visconti nella ridefinizione cinematografica del Gattopardo è innegabile; Rondolino ha riconosciuto la sua chiara impronta nelle indicazioni storiografiche e nell’impostazione ideologica del film. Trombadori tra l’altro viene segnalato dalla cronaca almeno una volta sul set (a palazzo Gangi), e come uno dei pochissimi ad aver visto in anteprima alcune scene del film, insieme al “produttore Lombardo e alcuni giornalisti romani”. Nel Dialogo con Visconti suona quindi come un siparietto comico lo scambio di battute a proposito della sequenza del ballo. “Sembra di sentir raccontare un grande finale, e siamo invece alla metà del film,” dice Trombadori. “No,” lo smentisce Visconti, “siamo esattamente al finale del film.” Eppure la notizia che il film si sarebbe concluso con il ballo

era di dominio comune fin dalla conferenza stampa di inizio riprese. Trombadori fa il finto tonto. Il suo ruolo nell’intervista è quello dell’amico, preoccupato di prendere in contropiede le critiche che al film sarebbero (e in parte gli erano già) venute dai detrattori: i rischi dell’adattamento dell’opera letteraria, le accuse di un nuovo tradimento del realismo, la durata spropositata del ballo; e allo stesso tempo assicurare che l’aspetto sociale del romanzo sia stato nel film irrobustito, garantendo comunque che “i motivi storicoideologici” non abbiano preso il sopravvento su quelli “umani”. Trombadori sembra talmente preoccupato di travestirsi da generico uomo di cultura che per contrasto fa emergere ancora di più il suo profilo di uomo politico. Visconti, naturalmente, scioglie uno dopo l’altro tutti i dubbi dell’intervistatore: il regista condivide con Lampedusa la “definizione del Risorgimento come ‘rivoluzione mancata’, o meglio ‘tradita’”, e considera il suo discorso storico “per nulla contraddittorio a quello della storiografia democratica e marxista, diciamo di Gobetti, di Salvemini o di Gramsci”, esattamente come aveva affermato Alicata nel saggio introduttivo all’edizione sovietica del romanzo. Nel trasformarlo in film Visconti si dice però “sollecitato al tempo stesso da pure emozioni poetiche […] e da una precisa spinta di natura critico-ideologica”. È stato quindi necessario dare corpo “ad alcuni motivi che nel romanzo sono presentati in accenni informativi. Prima di tutto la rivoluzione palermitana, le battaglie garibaldine, il linciaggio degli sbirri borbonici. […] In secondo luogo il rapporto tra don

Calogero e i contadini […]. In terzo luogo le conseguenze della disperata impresa di Aspromonte”, ossia la fucilazione dei “disertori” garibaldini. La “dilatazione iperbolica dei tempi del ballo” gli ha consentito di anticipare nella sequenza “tutto ciò che nel romanzo si sviluppa oltre il nesso 1861-62” (tranne, beninteso, ciò che accade nel capitolo delle reliquie), e insieme di sottolineare il responso negativo di Lampedusa sul trasformismo: “Ho anzi voluto forzare questo responso, renderlo esplicito, e conseguire nel finale una carica provocatoria e critica”. Niente paura, però: “I motivi storicopolitici non prevalgono sugli altri”. In quanto alle accuse, ricevute durante la lavorazione da parte della stampa, di aver abbandonato il realismo a favore degli aspetti melodrammatici del romanzo, Visconti rifiuta “come falsa e deformante” una contrapposizione del genere: “Se invece qualcuno dicesse che in Lampedusa i modi particolari di affrontare i temi della vita sociale e dell’esistenza che furono del realismo verghiano e della ‘memoria’ di Proust trovano un loro punto di incontro e di sutura, mi dichiarerei d’accordo con lui. È sotto questa suggestione che ho riletto il romanzo le mille volte, e che ho realizzato il film”. Il Dialogo con Visconti sembra in effetti più un Dialogo su Visconti, e venne probabilmente scritto interamente da Trombadori, con l’avallo naturalmente del regista. Nel redigerlo, Trombadori si sobbarcò il compito di far digerire il film a eventuali compagni oltranzisti che rimanessero stupiti da un Gattopardo meno battagliero e progressista del previsto, e di soffocare un’eventuale recrudescenza della polemica sul Visconti “spettacolare” anziché “realista” già divampata ai tempi di Senso.

Con la sua “intervista”, Trombadori (ossia Togliatti; ossia il Pci) scelse fin da subito di sostenere pubblicamente Il Gattopardo anche nei possibili dissensi a sinistra. Visconti non era un artista effettivamente coercibile. Alicata e Trombadori lo sapevano per esperienza, e dovevano aver messo in conto un certo scarto tra le speranze e i risultati; a suo tempo anche Ossessione era partito come un criptomanifesto dell’antifascismo ed era diventato uno (straordinario, s’intende) noir neorealista; per non parlare del progetto originario di La terra trema, che pare fosse stato inizialmente finanziato dal Pci sull’onda della strage di Portella della Ginestra. Qualunque cosa avesse fatto Visconti del romanzo di Lampedusa, sganciarsi dall’Operazione Gattopardo non era per il Pci né possibile né conveniente; dopo lo smacco letterario del premio Strega fare il bis di critiche alla versione cinematografica sarebbe stato stupido e pericoloso. Al contrario, rimanere al fianco di Visconti significava prepararsi per tempo a cavalcare un successo largo e prevedibile, conservare la vicinanza di un artista destinato ad affermarsi sempre di più in tutto il mondo, e soprattutto recuperare un legame con il caso letterario italiano più formidabile del dopoguerra. Sarebbe stato in effetti altamente rischioso azzardare giudizi su un film che non aveva ancora raggiunto la sua veste definitiva. Nel momento in cui Trombadori (e anche Cecchi, per la verità) scrisse il suo intervento, Visconti stava ancora apportando gli ultimi ritocchi alla pellicola, e altre importanti modifiche sarebbero arrivate addirittura dopo la prima distribuzione in sala. La circostanza imponeva dunque prudenza, e proprio per questo si concordò la

forma dell’intervista, dando a Trombadori la possibilità di fare da testimonial al progetto senza costringerlo ad ammettere di aver già visto l’oggetto finale della sponsorizzazione. Anzi, permettendogli di far finta di non conoscerne neanche il finale. D’altra parte, il momento di capire quanto l’investimento sarebbe stato redditizio stava ormai per arrivare.

Undici 27 marzo 1963, cinema Barberini La sera del 27 marzo 1963 ai piedi di via Veneto una luce abbagliante attirava i flâneur in discesa mondana tra i platani e i tavolini dei bar. Sul fondo di piazza Barberini, dietro la fontana del Tritone, una decina di riflettori erano puntati sull’entrata del cinema. Ai lati, un drappello di fotografi esplodeva a ripetizione i flash. Un centinaio di persone si accalcavano per vedere di cosa si trattasse e di chi. Entra Emilio Schuberth, lo stilista, circondato dalle sue modelle. Gina Lollobrigida, al braccio del marito Milko Skofic, è tutta in bianco, sopra visone, sotto lamé; Paolo Stoppa rimane per un po’ sulla soglia finché non arriva Luchino Visconti; Claudia Cardinale si fa notare per un’elaboratissima acconciatura, il corpo fasciato da un vestito di crêpe nero; Barbara Steele espone un ampio décolleté, che fa scaricare gli ultimi rullini. Dentro, la platea si riempie lentamente di cineasti: Elio Petri, Dino De Laurentiis, Franco Cristaldi, Piero Piccioni… E poi Giorgio Bassani, Giangiacomo Feltrinelli, c’è anche Guido Alberti, il patron del premio Strega. In galleria prendono posto Elsa Martinelli, Renzino Avanzo e Luchino Visconti con la sua corte: Stoppa, Morelli, Suso Cecchi d’Amico, Tomas Milian, Massimo Girotti, Terence Hill, Renato Guttuso. Tre le defezioni eccellenti: Burt Lancaster è rimasto negli Usa, messo ko da un violento attacco di epatite virale; Lucilla Morlacchi è bloccata a Genova, impegnata in una replica de I due gemelli

veneziani; manca anche Delon, ma stranamente nei resoconti della serata nessuno dei cronisti se ne duole. Gli altri sono giornalisti, gente di cinema, personalità delle istituzioni, amici degli amici. Gli inviti distribuiti sono 1370, per una sala dove possono accomodarsi al massimo 1200 persone, e parecchi sono costretti a rimanere in piedi: chi spera di imbucarsi all’ultimo momento non ha alcuna chance. Visconti se ne sta seduto, le gambe accavallate, inganna l’attesa fumando qualche sigaretta; l’unica spia di un vago nervosismo è la mano con cui si stropiccia il mento. Lombardo invece è elettrizzato, continua a girare da un posto all’altro, dalla galleria alla platea, a chiacchierare e stringere mani. Gira voce che Le quattro giornate di Napoli, prodotto dalla Titanus l’anno prima, potrebbe vincere l’Oscar. “Mi piacerebbe, accidenti se mi piacerebbe,” dice Lombardo a un cronista. “Ma non riesco a farmene una preoccupazione, perché in questo momento c’è solo Il Gattopardo che occupa i miei pensieri… È il film di una vita, la vita mia. L’ho fatto, ci ho messo tutto quello che potevo metterci e quello che ho ottenuto mi ha appagato completamente… Anche io sono stato in polemica con Visconti per tutto il denaro che mi ha fatto spendere, ma oggi mi accorgo che avevo torto: ho speso quanto bisognava spendere, e si vede dal risultato… Ora sono qui che tremo e soffro come una partoriente. Uno può essere convinto quanto gli pare della validità di un’opera, ma quello che conta alla fine è solo il giudizio del pubblico.” Alle 21,30 comincia la proclamazione dei Nastri d’Argento. Gino Visentini, presidente del Sindacato Giornalisti Cinematografici, porge il

benvenuto, poi passa alla consegna dei premi. Il riconoscimento per il miglior film dell’anno va a due pellicole, Le quattro giornate di Napoli di Loy e Salvatore Giuliano di Rosi; il miglior attore è Vittorio Gassman per Il Sorpasso, la migliore attrice Gina Lollobrigida per Venere imperiale; viene premiato anche Lombardo, per il complesso della sua produzione. La cerimonia fila via veloce, con poche parole di ringraziamento; meglio sintetizzare, la serata prevede una proiezione molto lunga. Poco prima che si spengano le luci, Visconti e Lombardo vengono chiamati al telefono per un’intercontinentale; è Burt Lancaster, che ci tiene a porgere personalmente il più affettuoso in bocca al lupo. Il ministro del Turismo e dello Spettacolo Alberto Folchi, che aveva mandato un telegramma per scusarsi della sua assenza ai Nastri, entra alla chetichella sui titoli di testa. L’anteprima del Gattopardo lascia i presenti sbalorditi. Gli applausi scattano a scena aperta, dieci volte. Sui titoli di coda, fatto inconsueto per l’epoca (e per una serata di gala), la platea si alza in piedi per un’ovazione. All’una di notte passata, gli invitati sciamano verso piazza Barberini, in mano i regali che la Titanus ha voluto consegnare a tutti i presenti: profumi per le donne e scatole di fiammiferi in raso rosso per gli uomini. Gli spettatori si dividono in gruppetti a commentare il film, i cronisti raccolgono qualche giudizio eccellente. “È senz’altro il miglior film di Visconti,” dice Amedeo Nazzari. “Un capolavoro,” esclama la Lollobrigida, “indubbiamente passerà alla storia.” Esce anche Visconti, e chi si era fermato ad aspettarlo può fargli un ultimo applauso. Poi tutti a dormire, o a festeggiare.

L’anteprima di mercoledì 27 marzo non fu la primissima proiezione del Gattopardo. Il pomeriggio dello stesso giorno la Titanus aveva già mostrato il film ad Alberto Moravia, Emilio Cecchi e ai principali critici cinematografici, che ebbero così tutto l’agio di preparare il loro pezzo per uscire sui quotidiani di sabato 30 (ossia, come da prassi consolidata, il giorno dopo la regolare uscita del film in sala). Ma qualche scalpitante recensore bruciò le tappe: infischiandosene della policy, diversi quotidiani pubblicarono la recensione del film il 29, qualcuno già il 28, il mattino successivo alla serata di gala (tra gli impazienti ci fu persino Gino Visentini; il presidente del Sindacato Giornalisti Cinematografici ruppe l’embargo altre volte difeso e sostenuto, e la circostanza inaugurò una nuova disputa fra quotidiani). I titoli delle prime recensioni (“Il più bel film realizzato da Luchino Visconti”, “Un grande film che onora l’arte del cinema”, “Destinato al successo il Gattopardo di Visconti”) sono entusiastici, e il paragone a suo tempo suggerito da Lombardo viene prontamente raccolto. “È un Via col vento di linea italiana,” annuncia Pietro Bianchi sul “Giorno”, “più modulato, più geniale, più autentico, ma altrettanto grato allo spettatore comune di quello hollywoodiano.” Sulla questione della fedeltà al romanzo la critica è preparata da mesi di conferenze stampa, dichiarazioni e anticipazioni: l’eliminazione degli ultimi due capitoli non stupisce quindi nessuno. Stuzzica semmai di più l’identificazione di Visconti con Don Fabrizio e, attraverso di lui, con lo stesso autore del romanzo. Secondo Carancini (“La voce repubblicana”) il regista “s’è incontrato con

Tomasi di Lampedusa raggiungendo con lo scrittore una completa armonia, tanto da far provare la sensazione di una quasi identificazione autobiografica con quel Principe di Salina”. Per Pietro Bianchi, Visconti è “un aristocratico che sta dalla parte della gente nuova, perché sente che questo è giusto, che tale è il senso della storia; ma non può dimenticare la dolcezza irrevocabile di un certo passato. […]; la denunzia alla Brecht di Rocco e i suoi fratelli s’è fatta elegia, rimpianto di anni sciupati, di melanconiche cose perdute”. Il confronto con Lampedusa fa scattare la tentazione di proclamare la pellicola migliore del romanzo. “A rischio di sentirmi dare dell’imbecille,” si trattiene a stento Filippo Sacchi su “Epoca”, “voglio dirlo perché non ne posso fare a meno, perché lo sento: il film è superiore al libro. Visconti è riuscito a […] tradurre alla lettera un romanzo in immagine rispettando tutto, lo sfondo, i personaggi, i fatti, i dettagli, i dialoghi, i gesti […], nel tempo stesso asciugandoli artisticamente delle sbavature di uno stile corrivo e malsicuro.” Affiora anche la parola impegnativa – capolavoro. “Non ci meraviglieremo,” azzarda felicemente Biraghi sul “Messaggero”, “se, in futuro, nell’elenco delle opere di Visconti, Il Gattopardo sarà definito lo specchio della sua personalità, la sua fatica più rivelatrice e significativa. In una sola parola, il suo capolavoro.” Ma l’unanimità appare subito impossibile. “Il Gattopardo,” scrive Grazzini sul “Corriere”, “non resterà probabilmente il capolavoro di Visconti: Senso e Rocco hanno, a nostro avviso, ben altra robustezza.”

Lo spettacolo ha per tutti, nel bene e nel male, una forza soverchiante. “C’è una pienezza,” dice entusiasta Frosali della “Nazione”, “che forse va oltre l’aspettativa ed esalta l’occhio, suscitando nel contempo l’arcana vibrazione che nasce in noi dalla contemplazione di un mondo perduto.” Alfredo Todisco, sulla “Stampa”, paragona il film a “una vetrina magica in cui si susseguono quadri così rifiniti in ogni particolare, composizioni talmente ispirate ad un raffinatissimo senso figurativo, che si può stare a guardarli di per sé, come uno visitasse una fastosa galleria”. Ma a volte, in queste prime recensioni, l’ammirazione lascia posto al sospetto di un estetismo fine a se stesso. “Colori, decorazioni, arredamenti, toilettes,” annota Biondi sul “Resto del Carlino”, “vanno, sia pure in rare occasioni, al di là della loro funzione toccando i limiti del calligrafismo.” Kezich, su “Sipario”, sarà anche più severo: “Il Gattopardo testimonia l’evoluzione di un artista divenuto più abile ed esperto, ma rassegnato alla condizione di illustratore”. La platea critica è pressoché unanime solo su due cose. La prima è l’opportunità di ridurre un poco la pellicola, in modo da avvicinarla a una durata più tradizionale e ad attenuare certe sbavature: si consiglia “qualche breve taglio qua e là”, si assicura che “una scorciata farà senz’altro del bene”, che si dovrebbe “sfrondare il film di talune sue lungaggini”. Pure il ballo dovrebbe essere asciugato; è una convinzione che accomuna cronisti navigati come Italo Dragosei e raffinati redattori come Alfredo Todisco. L’unico a dissentire è Giuseppe Marotta, sull’“Europeo”: “Tagliare, sveltire, ha sentenziato più d’uno. Il diavolo che vi porti: ma se contemporaneamente al ballo il regista ha sulle

braccia il declino morale e fisico del principe, che nel romanzo occupa quasi trent’anni!”. La seconda cosa su cui i recensori si ritrovano d’accordo è l’interpretazione di Burt Lancaster, definita “splendida”, “magnifica”, “stupefacente”, “eccezionale”. Il resto del cast suscita reazioni diverse, attore per attore e critico per critico; la Morelli convince praticamente tutti ma Delon garba a pochi, Romolo Valli piace molto o non piace affatto, Stoppa divide e la Cardinale ottiene più no che sì. Soldati, con l’abituale slancio, la difende a spada tratta: “Penso che l’Angelica Sedara della Cardinale sia una delle cose migliori del Gattopardo, forse la più perfetta: in ogni caso, e senza dubbio alcuno, è di gran lunga l’interpretazione massima della Cardinale, lo spettatore arriva quasi a sentire l’odore delle ascelle non ben lavate! Perché fosse perfettissimo, sarebbe mancato soltanto che la Cardinale studiasse siciliano per qualche mese e poi parlasse con la sua vera voce”. Sulla bilancia dell’attrice pesa molto il pranzo a Donnafugata, con quella risata che alcuni giudicano “stonata” o “sopra le righe” ma che la Cardinale difenderà sempre come perfetta per il personaggio arrivista e ambiguo di Angelica. Raccoglie critiche negative anche la scena dell’annuncio dei risultati del plebiscito, giudicata troppo farsesca. Il momento che colpisce invece positivamente diversi recensori è il dialogo fra Don Fabrizio e Chevalley, forse perché, come nel romanzo, condensa in uno scambio di battute i nodi storico-politici di tutto il film. Per quanto molti dichiarino di volersi mantenere lontani da un giudizio politico, uno dei fondamentali punti di interesse rimane

proprio quello ideologico. Tutti sapevano che con Il Gattopardo Visconti avrebbe colto l’occasione per esprimere il proprio giudizio sui temi caldi del romanzo: il Risorgimento come rivoluzione fallita, il 1860 specchio del 1960. Lo temevano i conservatori, se lo aspettavano perplessi i cattolici della Dc, lo speravano ardentemente comunisti e marxisti. Il sollievo, il fastidio e la delusione vanno quindi commisurati, oltre alla sensibilità e all’acutezza dei singoli critici, anche a seconda del riferimento politico dei rispettivi giornali. Grazzini per esempio, su un quotidiano tradizionalmente conservatore come il “Corriere della Sera”, appare sollevato: “Quanto più si poteva temere, il rovesciamento dal romanzo autobiografico al film storico, al grande affresco sociale e politico, con lo spostamento dal pedale psicologico a quello etico, e con conseguente ribaltamento del significato profondo dell’opera del Lampedusa, non è avvenuto nella misura clamorosa paventata da chi credeva, assai scioccamente, che Visconti avrebbe approfittato dell’occasione per muovere una violenta critica all’aristocrazia, puntare i fucili giacobini sul principe di Salina e condannare a gran voce la sua deficienza ideologica, la sua reazionaria filosofia della storia. Sono rimproveri, questi, che durante la diatriba susseguente all’uscita del romanzo furono mossi al Lampedusa dai comunisti più ottusi, che non sono mai disposti ad ammettere la validità artistica di un’opera se non è allineata con la loro concezione strumentale della letteratura”. Sul filogovernativo “Messaggero”, il responsabile della critica cinematografica è Guglielmo Biraghi. Rispetto a Grazzini si ritrova un po’ infastidito dalle modifiche al romanzo e dal complessivo tono sinistrorso del film: “Forse

al regista e ai suoi collaboratori nella sceneggiatura ciò che era umana misericordia è parso solo mancanza di chiarezza politica. Onde alla condanna pietosa ma non per questo imprecisa del libro, il film sostituisce in extremis, mediante l’aggiunta di qualche inutile sottolineatura crudele, una condanna radicale e secca, assai odorosa di velleitario, anacronistico marxismo, e poco in linea con il tono delicato ed ironico della rievocazione”. La galassia della stampa cattolica o filodemocristiana è praticamente sulla stessa linea, con posizioni anche più nette. “Siamo all’illustrazione: prestigiosa, ma sostanzialmente inutile e dispersiva,” riassume Paolo Valmarana sul “Popolo”, il quotidiano della Dc. Gian Luigi Rondi, sul “Tempo”, azzarda una quasistroncatura (aggiusterà il tiro più avanti, con un secondo articolo): “L’interpretazione tutta populista […] che si tenta del Risorgimento, l’assenza di un vero e proprio piano narrativo, le lungaggini sparse qua e là, ma specialmente nei prolissi e quasi sempre pleonastici colloqui politici, gli scompensi in un doppiaggio che reca i segni evidenti della fretta non consentono al film di raggiungere gli scopi ambiziosi che con ogni evidenza si proponeva”. Giovan Battista Cavallaro, sul quotidiano cattolico “L’Avvenire d’Italia”, fa nomi e cognomi: “Visconti, quasi seguendo le critiche di L. Sciascia, di Alicata e di Vittorini sulla ideologia dell’immobilismo e del distacco, […] ha investito decisamente i protagonisti con una presenza della storia molto più avvertibile. Se il romanzo era soprattutto la storia interna, psicologica, della ‘fine di un leone’ […], la struttura del film è appoggiata piuttosto al suo esterno, […] sulla visione polemica del fallimento dell’Unità […]. Anche Lampedusa non

perdona, ma per lucida delusione, per consapevolezza superiore. Qui la mano è più pesante e l’aggettivazione è piuttosto dura, incisiva”. Leandro Castellani, sulla “Rivista del Cinematografo”, accusa il regista “di aver inseguito una visione ideologica semplicisticamente polemica, pur non osando discostarsi da una scrupolosa adesione alla lettera del romanzo”. Da sinistra sono invece arrivati subito due applausi di incoraggiamento. Uno da Maurizio Liverani, sul comunista “Paese Sera”, con una recensione dal titolo inequivocabile: “Il Gattopardo” un grande film che onora l’arte del cinema. Secondo Liverani, Visconti si è servito del romanzo di Lampedusa “per una analisi spietata e intensa di come sono andate le cose in Sicilia quando sembrava che cambiassero in meglio e invece rimanevamo come prima. Il film spiega più di tanti libri di storia come inizialmente la ribellione politica si combinasse con quella sociale”. L’altro intervento tutto positivo, politicamente decisivo, appare su “Vie Nuove”, dove Antonello Trombadori sposa il risultato cinematografico senza se e senza ma: “Il compromesso tra monarchia sabauda e forze della conservazione borbonica viene da Visconti messo a nudo in modo da mostrare indecorosamente tutte le sue viscere. […] Ma c’è anche qualcosa d’altro: il velato e indiretto paragone […] fra il trasformismo di un secolo fa e il trasformismo che minaccia oggi così da presso, non soltanto in Italia, il destino degli uomini”. Trombadori plaude alla scelta di concentrare il finale all’interno del ballo, rinunciando così a sentimentalismi e discrepanze “come in certe

parti del libro avviene”. Il critico è però anche consapevole che, a sinistra, Il Gattopardo possa deludere un poco, che qualcuno potrà accusarlo di pessimismo. E allora mette le mani avanti: “Il valore pedagogico del pessimismo di Visconti mi sembra mostrare tutto il suo risvolto attivo, ideologicamente armato di forza critica, di verità, di speranza”, in questo film anche “più delle altre volte” (La terra trema, Senso, Rocco e i suoi fratelli). Alberto Moravia segue una decina di giorni dopo sull’“Espresso”. “Soltanto Visconti comunista e aristocratico poteva con tanta sottigliezza dosare il grado di scetticismo e di patetica nostalgia del principe di fronte alle questioni sociali e politiche dell’epoca, nonché le sfumature quasi proustiane della sua personalità mondana e familiare. […] Di rimbalzo, dovunque la realtà è vista con l’occhio al tempo stesso feudale e marxista del principe, essa si rivela giusta, immediata, concreta e felice”; altrove, “un velo d’irrealtà un po’ estetizzante si frappone tra noi e lo schermo.” Alla fin fine, “Il Gattopardo è il film più serio, più equilibrato, più misurato, più fuso e più accurato anche se non il più estroso di Visconti”. Moravia riconosce che l’intenzione di Visconti era quella, sulla scia di Alicata e Lukács, di riportare il romanzo di Lampedusa nell’alveo di un “romanzo storico” ortodosso, alla Guerra e pace, pur cercando di rimanere fedele alla lettera del libro; “da questa infedeltà spirituale e fedeltà fattuale è seguita una sproporzione tra la vastità dell’affresco che il regista ha dipinto con larga, classica pennellata e la ristrettezza del contenuto del Gattopardo”. Il giudizio è tutto sommato positivo, e il titolo scelto per l’articolo, L’erede rosso del Gattopardo, la dice lunga: Moravia suggerisce

che il film sia superiore al romanzo, che Visconti abbia fatto meglio di Lampedusa. Ma si capisce che l’illustre recensore cova parecchie riserve. A sinistra il sentimento diffuso è quello di un’occasione che non è stata colta fino in fondo; si teme che Visconti sia finito prigioniero di preziosi estetismi, che stia allentando la presa sulla realtà. Malgrado alla direzione dell’“Unità” sia appena arrivato proprio Mario Alicata, il quotidiano del Pci non si sente in dovere di suonare la fanfara per l’amico Luchino: i due critici del quotidiano, edizione romana ed edizione milanese, si dibattono tra perplessità e malumore. “A noi,” dice Aggeo Savioli, “sembra che, identificando nella sostanza il proprio atteggiamento con quello dello scrittore e del suo personaggio, Visconti abbia rischiato d’incrudire il difetto ideologico e strutturale del romanzo: quel suo essere ispirato dal ‘senno di poi’ che è cosa ben diversa dalla analisi storica.” “Si sente,” insiste Ugo Casiraghi, “che l’aristocrazia ha compiuto il suo ciclo […]; si sente che una borghesia più pratica e più rozza ne prende il posto […]; si sente che la formula del plebiscito popolare è stata immediatamente vanificata da un altro autoritarismo […]; e si sente […] che la povera gente […] è stata prontamente ingannata […]. Ma non si sentono, e qui è il punto, col vigore artistico ch’era lecito attendersi dall’autore della Terra trema, di Senso e di Rocco e i suoi fratelli: […] l’elegia del bel tempo perduto prevale, nel film come nel libro.” Sull’“Avanti”, l’organo del Psi, Mario Gallo può permettersi di essere più esplicito: “Gli autori avrebbero dovuto rompere lo schema del romanzo ed elencare con la massima urgenza e impietosa obiettività, le viltà, i compromessi, le

furberie, le offese, le ingiustizie che si accompagnano ad ogni progresso e alle conquiste sociali, politiche e civili ufficialmente celebrate dalla storia. Dalla incerta e contraddittoria impostazione ideologica derivano tutti gli squilibri narrativi del film”. Sulla “Giustizia”, il quotidiano del Partito socialista democratico italiano, Marcello Clemente plaude al film ma con qualche distinguo (“il popolo è assente salvo che in qualche raro quadro in cui è spettatore”) e al regista dà quasi del disfattista: “Visconti, che un tempo scese in Sicilia per raccontare una tragica miseria e dichiarare una veemente protesta, oggi sembra deluso […] per una totale convinzione della corruttibilità della classe dirigente italiana”. Sulle “Ore” (all’epoca non ancora una rivista erotica ma un settimanale di attualità di area socialista), Morando Morandini picchia duro riallacciandosi beffardamente a Moravia: “Può essere vero che Il Gattopardo sia l’opera più equilibrata e fusa di Visconti ma ci domandiamo se questa serenità non confini con l’inerzia. Sono passati nove anni da Senso: Visconti è invecchiato”. Sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino, quotidiano democristiano ma con una redazione fortemente sindacalizzata, Gian Maria Guglielmino conclude che Visconti “ha rinunciato a quel grande affresco sociale e politico, potentemente chiaroscurato dalla contrapposizione di due mondi, che da lui era lecito attendersi”. Ma il partito non dimentica i suoi figli; se l’“Unità” rimprovera il compagno che sbaglia, Palmiro Togliatti s’incarica di riequilibrare la bilancia: il segretario del partito interviene personalmente a sostenere e proteggere Visconti. Non è la prima volta ma sarà comunque l’ultima (ormai stanco e provato, il leader politico

morirà il 21 agosto dell’anno successivo). Il 2 aprile scrive un bigliettino elogiativo a Trombadori pregandolo di consegnarlo al regista: “Caro Antonello, ho visto il Gattopardo, a Torino. Una grande opera d’arte. Ti prego, se hai occasione di vedere Visconti, di esprimergli la mia ammirazione e il plauso incondizionato. Si ha l’impressione che ad ogni sua nuova creazione egli riesca a superare se stesso. Certo mi sembra che abbia superato il modello del romanzo, troppo fumoso e ricco di pretese non soddisfatte. Ma dì anche a Visconti, se vuoi, che non accetti la richiesta di far dei tagli. Soprattutto non accetti di tagliare niente del ballo, dove l’opera d’arte culmina, anche perché raggiunge quel carattere ossessivo (non so se sia ben detto) che è solo delle grandi creazioni artistiche”. È la testimonianza di un ammiratore eccellente, ma non è il biglietto compilato di getto che finge di essere: le parole sono scelte con cura, ed esprimono molto più di quello che dicono. Oltre a testimoniare l’interesse del leader comunista verso la cultura cinematografica in generale e il film di Visconti in particolare, la lettera di Togliatti mette in luce un singolare intuito critico (quell’accenno all’opera d’arte segnata dal “carattere ossessivo”), il suo giudizio ambivalente nei confronti del romanzo di Lampedusa, la sua preoccupazione per l’integrità dell’opera filmica, e l’attenzione per la lunga emblematica sequenza del ballo, dove Visconti riannoda tutti i fili tessuti lungo il film. Togliatti vuol far sapere di conoscere bene pure i precedenti lavori di Visconti (“si ha l’impressione che ad ogni sua nuova creazione egli riesca a superare se stesso”), e ci tiene a precisare che il suo apprezzamento verso la pellicola è privo di riserve (“incondizionato”). Qualche particolare sa

però un po’ di recita. Suona per esempio retorico l’uso dell’ipotetica “se hai occasione di vedere Visconti”: Trombadori, lo sapevano tutti, frequentava regolarmente il regista. Forse quel biglietto non dice l’intera verità. Qualche anno dopo, Visconti rievocò l’episodio in modo leggermente diverso: “Vidi per l’ultima volta Togliatti a una visione privata del Gattopardo, appena terminato. Mi disse che il nostro pessimismo era carico di volontà e anziché rimpiangere l’ordine feudale mirava a postularne uno nuovo. Poi mi scrisse: ‘Il ballo nel film è apoteosi e disastro. Dicono che sia lungo. Non è vero. Non tagliare un solo centimetro di pellicola’.”. Che il leader del Pci e il regista del Gattopardo si siano anche incontrati in sala non ha comunque una grande importanza, ciò che conta è che Togliatti preferì mettere con chiarezza le sue idee nero su bianco. Scrivendo il biglietto era consapevole che sarebbe stato letto e commentato da molte persone. Quella lettera certifica ufficiosamente un giudizio autorevole, altrimenti affidato al flatus vocis: l’elogio privato ma divulgabile di Togliatti era in realtà un salvacondotto per il prestigioso artista amico del partito, uno scudo dalle perplessità che si stavano alzando contro il film proprio da sinistra. Al box office Il Gattopardo parte subito molto bene. Venerdì 29 i tre spettacoli al Barberini di Roma fanno il tutto esaurito e lasciano in cassa quattro milioni di lire. La pellicola va fortissimo anche a Milano e Torino. “L’Unità” sbandiera i dati ufficiali Titanus: complessivamente il primo week end italiano avrebbe totalizzato 96 milioni, il doppio degli incassi realizzati nello stesso numero di giorni da Rocco e i suoi fratelli e il

triplo del concorrente 8 ½. Il Gattopardo viene invitato a concorrere a Cannes, e si annuncia una “prima” inglese per il 27 maggio, a Londra, alla presenza dei sovrani. Intanto il clima politico s’infuoca: l’Italia è di nuovo in procinto di elezioni, fissate per il 28 aprile. Visconti torna a fare professione di fede politica, e con l’occasione fornisce una piccola risposta alle critiche sul film. “Il tema del ‘trasformismo’ come male storico italiano,” dichiara all’“Unità”, “[…] ricorre costantemente in quasi tutti i miei film. Perciò si parla di un mio pessimismo. Mi permetto di chiarire che si tratta di una ricerca critica e interpretativa dei motivi della ‘rivoluzione tradita’, e di una scelta conseguente. Il mio punto di vista non è però di tipo anarchicoevasivo, come qualcuno vuol far credere. Ad esempio, la mia adesione all’azione e al programma dei comunisti italiani è dettata dalla consapevolezza che in Italia si è formata una forza storica nuova, autonoma, non corruttibile dal trasformismo, capace di lavorare per il superamento del ricorrente, sterile compromesso fra destra e sinistra che, da Crispi a Giolitti, finì col produrre il fascismo.” Per il Pci le elezioni vanno piuttosto bene: il partito guadagna ancora qualcosa, portandosi al 25,3%. I giornalisti chiedono a Togliatti come ha ingannato il tempo nell’attesa dei primi risultati. “Sono andato a rivedere Il Gattopardo,” risponde il segretario, “e mi è piaciuto ancora più della prima volta.” I detrattori non si fanno impressionare dalla pubblica armonia fra il regista e il Pci. Il beneplacito di Togliatti sollecita semmai nuove ironie. “L’Italia ha finalmente una sua Destra Letteraria dignitosa e presentabile,” scrive

Arbasino in una spettacolare stroncatura sul “Mondo”. “[…] Difficilmente questa cultura neoconservatrice poteva augurarsi un manifesto ideologico e poetico più giusto e più utile del Gattopardo: più perfettamente malagodiano, come romanzo e come film. Ha riscosso le simpatie e i consensi dei letterati tradizionali e delle signore à la page, dei critici pensosi, dei miliardi della Titanus e di chiunque eserciti attivamente o passivamente l’antiquariato o la moda o lo snobismo; lo approva lo stesso Partito Comunista, coerentemente con l’appoggio prestato a Vittorio Emanuele III e a Badoglio nel ’43, e col voto favorevole all’inserzione nella Costituzione dei Patti Lateranensi.” Sui periodici specializzati, in gran parte di sinistra, non va poi tanto meglio. Analizzato con tutta l’attenzione del caso, il film di Visconti continua a suscitare soprattutto delusioni, non per quello che è ma per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Per Edoardo Bruno, il fondatore di “Filmcritica”, Il Gattopardo è “un racconto immediato, concreto ma tutto esteriore che tradisce un gusto figurativo laddove la dimensione del personaggio richiedeva un approfondimento psicologico e morale del discorso critico”. La recensione di “Cinema 60” è positiva ma il giudizio di Giovanni Riccioli è talmente minoritario in redazione da costringere la rivista ad aggiungere un lungo editoriale in cui si dà conto delle altre posizioni, in larga parte sfavorevoli. Su “Mondo nuovo”, il settimanale della sinistra socialista, Tommaso Chiaretti sintetizza: “L’enunciazione di una necessità rivoluzionaria e la simpatia per un protagonista oggettivamente reazionario sono i due termini della contraddizione di Luchino Visconti”.

I due saggi che Mino Argentieri dedica al film su “Rinascita” e “Il Contemporaneo”, rispettivamente il settimanale e il mensile culturale del Pci, rivelano tutto l’imbarazzo del critico. D’altronde se c’è uno che ha tutti gli strumenti per documentare la propria delusione è proprio Argentieri, che aveva recensito la sceneggiatura ufficiale del film prima che la lavorazione la modificasse. Su “Rinascita”, a botta calda, il giudizio è tutto sommato ancora positivo: “Ci dispiace soltanto che Visconti non vada oltre un’impostazione tendenziale che, per aderire ai suoi presupposti, aveva bisogno di esercitare una violenza chirurgica sul testo originario, sino a ristrutturarlo e rigenerarlo con grande libertà inventiva”. Sul “Contemporaneo”, col passo più meditato del mensile, le ombre si allungano. “Visconti si mostra persuaso soltanto a metà dei suoi intendimenti,” scrive il critico. “Dapprima, in sede di sceneggiatura, sembra disposto a dilatare l’arco della narrazione sino a includervi – sul filo della novella di Verga La libertà – l’episodio di Bronte. […] Successivamente opta per altri correttivi […] ma nel complesso si attiene allo schema, e alla lettera dello scrittore. Le incongruenze che se ne desumono sono clamorose”, fino a “una concessione al latente borbonismo di Lampedusa”, e perfino a condividere con Lampedusa il modo di considerare il popolo, “la cui presenza è appurabile soltanto in termini di materiale plastico e cromatico”. Ma il giudizio decisivo si attende a sinistra da un altro critico, più importante di Argentieri, più autorevole di Moravia, più influente di Casiraghi e dello stesso Trombadori.

Guido Aristarco, il direttore di “Cinema Nuovo”, si era già sbilanciato in speranzosi proclami otto mesi prima, in piena lavorazione del film, annunciando che “le differenze, le varianti e ‘correzioni’, i ribaltamenti” rispetto al romanzo sarebbero risultati “più numerosi delle affinità, dei punti di incontro”. La sua opinione a film finito e proiettato si aspetta ora con comprensibile curiosità. Aristarco, però, tace. Passa l’anteprima, i quotidiani escono con le recensioni, i settimanali e i mensili si affrettano a entrare nel dibattito sul film del momento. Per due settimane il critico continua a rimuginare in silenzio, tenendo tutti col fiato sospeso. La recensione tanto attesa, in un certo senso, non uscirà mai. Quando infatti si decide a mettere per iscritto le sue riflessioni, con un intervento sulla “Stampa” poi riproposto su “Cinema Nuovo”, Aristarco si rivolge direttamente al regista, adottando la formula della “lettera aperta”. Per un critico una soluzione del genere equivale a una resa. Rinunciando allo schema della recensione, Aristarco dismette il ruolo dello studioso, del tecnico, usa il “tu” destinato all’amico e al compagno, marcando così il ruolo e il contenuto politico della sua “critica”. E mentre elargisce al film 4 stelle, ossia “eccellente” (contro le 3, “buono”, assegnate a 8 ½), stila un corposo elenco di accuse: “Caro Visconti, debbo confessarti e confessare al lettore i miei dubbi e perplessità, e la delusione anche, dinanzi al tuo Gattopardo. […] Nel luglio scorso azzardavo, da queste colonne, una previsione: che con Il Gattopardo ci avresti dato un altro grande e vero film storico. Sbagliai allora, o sbaglio oggi? […] L’amore che avevi sempre dimostrato per i classici della letteratura non perveniva mai a un

atteggiamento di acritica, immobile venerazione. […] A me sembra invece che, dinanzi a Lampedusa, tu non abbia operato una meditazione cosciente e precisa del passato e del presente insieme. […] L’autentico sceneggiatore del film è Lampedusa; anche i dialoghi sono suoi. […] Non offri una dimensione diversa alle vicende private e alla visione storica del romanzo. […] Nel film non avverto quell’ampiezza di visione storica, rispetto al romanzo, che attendevo. […] Vedi nel Risorgimento un fenomeno inutile e del tutto negativo, una completa ‘bancarotta’. Riapprodi cioè alla tematica […] dello stesso Lampedusa: che la natura umana è tale (e in ispecie quella dei siciliani) che nulla si può fare per cambiarla; metti sullo stesso piano la sconfitta contingente, di un periodo della nostra storia, e l’immobilismo inteso come condizione eterna e fatale, immutabile per principio. Questo cambiamento di prospettiva, in un autore guida quale tu sei, accresce le mie perplessità sul tuo lavoro futuro”. Anche Aristarco si aspettava insomma modifiche più incisive, un intervento correttivo da parte del regista che irrobustisse (o stravolgesse, a seconda delle opinioni) la visione storica di Lampedusa, che ne facesse, senza tanti complimenti, un’opera diversa da quella che era in partenza. Il critico era consapevole che da un punto di vista tecnico e artistico Il Gattopardo meritava 4 stelle ma il contenuto e il messaggio non potevano soddisfare l’uomo di sinistra. La delusione di Aristarco fu tanto più cocente in quanto Il Gattopardo sembrava smentire tutti gli sforzi che il critico aveva compiuto, da Senso in poi, per dimostrare che Visconti era comunque rimasto un regista “realista” (o del “realismo

critico”, come preferiva Aristarco). Il film tratto da Lampedusa metteva ora prepotentemente a nudo un lato di Visconti spettacolare e decadente che una parte della critica aveva una certa difficoltà a svelare anche a se stessa; in anni segnati da chiare contrapposizioni ideologiche (e da teorie estetiche che partecipavano della natura politica) diventava arduo trovare una sintesi tra il volitivo regista d’idee progressiste e il raffinato aristocratico con interessi e intonazioni poco riconducibili a un impianto realistico (qualunque cosa si voglia intendere per “realistico”). Aristarco non avrebbe mai ammesso di aver sbagliato ai tempi di Senso: preferì considerare Il Gattopardo come un grandioso crinale tra un “prima” soprattutto realista e un “dopo” sostanzialmente decadente. La sua opinione influenzerà moltissimo la critica, anche fuori dai confini italiani: da allora Il Gattopardo, questo oggetto cinematografico scintillante e ingombrante, sarà per molti la levigatissima pietra tombale sul regista realista, sull’artista engagé che con Rocco e La terra trema aveva gettato un ponte verso l’umanità e i suoi problemi; il film da Lampedusa segnerebbe il momento d’avvio di una nuova carriera estetizzante, rivolta soprattutto a se stesso. La posizione di Aristarco suscitò nei colleghi di sinistra reazioni in genere di parere contrario, a volte anche polemiche. Renzo Renzi, il vecchio amico che con Aristarco aveva diviso anche il carcere per la proposta di film L’armata s’agapò, gli scrisse una lunga contro-lettera, in cui difendendo il diritto di Visconti a esprimere senza costrizioni la propria personalità di artista, si toglieva anche la soddisfazione di affermare su

Visconti quello che ormai pensavano molti compagni: era un conservatore perché geneticamente non poteva non esserlo. Per Renzi Il Gattopardo è “il più bel film conservatore degli ultimi anni”, “un dichiarato ritorno del ‘figliol prodigo’ alla classe d’origine”, la dimostrazione di quanto Visconti fosse in fondo “un marxista più di mente che di cuore”, e non vede comunque motivo di scandalizzarsene. Pio Baldelli, futuro direttore di “Lotta Continua” e deputato radicale, interviene su “Paragone”. All’epoca di Senso Baldelli aveva predicato la necessità di liberare Visconti da sovrastrutture critiche troppo limitative, e si era visto sbertucciare pubblicamente da Alicata; ora poteva rallegrarsi di ritrovare sulle proprie posizioni una maggioranza sufficientemente ampia. “Fanno eccezione,” aggiungeva il critico, “pochi che […] avendo vaticinato la grandezza del Gattopardo sulla falsariga delle indicazioni di sceneggiatura o del materiale di montaggio, poi si sono ricreduti e hanno parlato del Gattopardo come di un incidente […], senza riconoscere che (a parte i diversi esiti poetici) l’intero itinerario viscontiano sta tra il vecchio e il nuovo, tra la scelta ideologica per il nuovo e la passione e la ‘natura’ che si scatenano unicamente nella rappresentazione e nella contemplazione delle cose che crollano, nella sontuosa fatiscenza.” E Luchino Visconti? Di certo la questione si sarebbe in parte chiarita se l’augusto destinatario della “lettera aperta” di Aristarco si fosse preso la briga di articolare una risposta, anziché inviare al critico – e dopo quasi due mesi – un bigliettino interlocutorio che ha tutta l’aria di volersi tenere buono il suo esegeta più influente senza rischiare di contrariarlo: “Caro

Guido, non dispiacerti e non meravigliarti del mio silenzio. In effetti non è un silenzio. È un’attesa, forse un po’ prolungata, di incontrarti finalmente e di parlarti, di scambiare con te le nostre idee e i nostri punti di vista. Il non averti risposto subito non significa nulla se, in compenso, la tua lettera del 10 aprile e la ‘lettera aperta’ sulla ‘Stampa’, mi hanno sempre accompagnato in questi tempi e mi hanno fatto pensare e meditare. A più riprese stavo per scriverti. Ma la mia vita non è stata né facile né comoda in questi ultimi tempi. […] Quello di cui devi essere sicuro è che nessun risentimento è in me per i tuoi apprezzamenti critici sul Gattopardo. Anzi, sarò felice se, in un momento di libertà per me, di relativo riposo, possa verificarsi il caso, veramente fortunato, in un prossimo avvenire, di un incontro con te e di una lunga discussione sul Gattopardo. Credi alla mia immutata amicizia, Luchino”. Non si ha notizia che l’auspicata “lunga discussione sul Gattopardo” abbia mai avuto luogo. Aristarco la attese invano, risolvendosi infine a pubblicare il bigliettino di Visconti all’interno di una raccolta di saggi. “Probabilmente,” come scrisse Renzi, “egli avrà preferito rinviare la replica al suo nuovo film, che è, poi, il modo più vero di parlare, per un regista.” Il silenzio di Visconti sarà d’altronde il migliore incoraggiamento per alimentare un dibattito sul realismo cinematografico che non si è mai concluso, ed è destinato a proseguire oltre la sparizione biologica di tutti i contendenti originari. La delusione della critica di sinistra nei confronti del Gattopardo è un dato assodato nella storiografia viscontiana. Ma sarebbe un errore

attribuire genericamente alla critica comunista una complessiva bocciatura del film. Lo stesso Baldelli, al quale la pellicola di Visconti era pure parsa una “prova opaca”, arriva ad affermare che in fin dei conti “a gran parte dei critici marxisti – o sedicenti tali – il film piacque assai, esiti ideologici compresi”. Forse è un po’ esagerato affermare che a sinistra Il Gattopardo di Visconti “piacque assai” ma è indubitabile che la delusione di Casiraghi, Savioli e Argentieri non sia arrivata a trasformarsi in vere stroncature; perfino Aristarco, pur elencando precisi addebiti al film, gli elargisce ben quattro stelle; Moravia, Liverani, “Cinema 60” ne discutono in termini lusinghieri; per non parlare dei due imprimatur da parte del Pci, quello ufficiale di Trombadori e quello ufficioso di Togliatti. Il regista di Ossessione era in quel momento l’unica opzione concretamente disponibile a una visione marxista della storia e della società, quantomeno tra i nomi eccellenti della nostra cinematografia: degli altri due padri del neorealismo, De Sica, ormai lontano dai livelli di Ladri di biciclette, aveva tentato un goffo approccio a Sartre con I sequestrati di Altona, e Rossellini aveva appena toccato il fondo con l’anonimo Anima nera (un paio di anni prima aveva diretto pure lui un film risorgimentale, Viva l’Italia, con collaborazioni bipartisan da Trombadori ad Alianello, e un risultato assolutamente non comparabile al Gattopardo). Intanto Federico Fellini, il grande rivale amico dei gesuiti, dopo La dolce vita continuava a guadagnare terreno con 8 ½. Accusare Visconti di disimpegno, allontanarlo dalla concreta lotta

politica, sarebbe stato un harakiri da anime belle. Anche se non fu coralmente osannato, Il Gattopardo ottenne dalla cultura di area marxista una grande attenzione e nei fatti un fedele sostegno. In tutto questo pesarono la contiguità, spesso l’amicizia, che legava quei critici e quegli intellettuali al regista; il convincimento togliattiano che un “compagno di strada” come Visconti non andasse regalato agli avversari per il dubbio piacere di una stroncatura; la potenza artistica e spettacolare del film, difficile da negare anche dal più acceso dei detrattori. Ma soprattutto il fatto che, malgrado le aspettative e le apparenze, quella pellicola e quel romanzo non sono proprio la stessa cosa, tutt’altro. Il cerchio si chiude idealmente con un nuovo intervento di Leonardo Sciascia. La parola, com’era giusto che fosse, tornava alla letteratura, e all’intellettuale che per primo aveva sollevato forti dubbi contro il romanzo di Lampedusa. Pubblicato su “Cinema Nuovo” nell’autunno ’63, l’articolo di Sciascia è indirizzato ad Aristarco, direttore della rivista, sotto forma di un’ulteriore “lettera aperta”. La classe intellettuale 1963 sembra presa da una smania epistolare: mentre gli attori principali (Togliatti, Visconti) si mandano delle missive autentiche, i loro esegeti (Aristarco, Renzi, Sciascia) si esprimono attraverso “lettere aperte”. Non è solo un vezzo, l’articolo d’attacco o di consenso rivolto direttamente e pubblicamente all’attenzione del collega era una pratica consueta della sinistra: la dialettica delle idee viene messa in piazza confidando nella fecondità

di un risultato, anche e soprattutto se si tratta di dissidi, perché il privato è pubblico, perché alla luce del sole il dibattito fermenta e si amplifica. Dunque anche Sciascia attacca il pezzo con un vocativo, “Caro Aristarco”. E approfitta della missiva per piazzare una puntualizzazione che sa di retromarcia. Sciascia era stato “tra i primi, se non il primo, a parlare del Gattopardo di Lampedusa”, e molti lo avevano accusato di averne detto male. “Ma il fatto è che io non avevo detto male del Gattopardo: mi ero limitato a opporgli la realtà storica della Sicilia; di fronte alla quale gli alibi esistenziali del principe di Lampedusa, e della sua classe, non reggevano.” Insomma, Sciascia sarebbe stato frainteso. Il personaggio di Don Fabrizio, per esempio, “nella sua olimpicità e ‘superiorità’, nella sua essenza di uomo classico”, lo aveva affascinato e catturato. Ora succede che Visconti, secondo Sciascia, avrebbe snaturato proprio il personaggio Don Fabrizio, il fiore all’occhiello del romanzo. La colpa sarebbe soprattutto di una sequenza, quella di “Don Fabrizio che sogna padre Pirrone; e si agita, nel sogno, rimemorando gli ammonimenti di costui! Abbiamo visto tanti piccoli poveri personaggi del cinema agitarsi in sogni consimili, che per rispetto a Visconti (e a Lampedusa) quasi andiamo a sbattere nella famosa notte dell’Innominato. Come mai Visconti si sia abbandonato a questa zeppa, è per me un mistero. […] L’effetto durevole, che si trascina per tutto il film, è lo scadimento di Don Fabrizio da uomo classico a uomo decadente. E definitivamente lo conclude in tale scadimento la lunga scena del ballo: in sé, innegabilmente, di straordinaria qualità; ma in cui si sente più l’olor

de la muerte […] che quel corteggiare la morte, più sotto gli aspetti della bellezza che sotto gli aspetti della disgregazione, cui Don Fabrizio per tutta la serata si dedica. Ed è su questo appunto che sono d’accordo con lei,” conclude, “nel senso che, se Visconti avesse fatto l’opera che ci aspettavamo, la caricaturazione decadente del protagonista avrebbe avuto buona ragione d’essere […]; e invece è rimasto legato al libro come all’effettiva sceneggiatura, soltanto scostandosene in ciò che più era da rispettare: l’originale realtà del personaggio”. L’articolo è breve; Sciascia sembra voler consegnare alla svelta una parola sull’argomento, rinunciando a una riflessione più ampia. Ma è sufficiente per concordare con Aristarco e iscriversi con lui nel club dei delusi, che non hanno ottenuto da Visconti “l’opera che ci aspettavamo”. Visconti comunque lesse e approvò. A distanza di qualche mese dalla distribuzione in sala, il regista tornò a chiudersi in moviola, eliminò la scena del sogno, e con essa altri brani del film che i primi spettatori avevano fatto in tempo a vedere. Nella storia del Gattopardo affiora così un ultimo enigma, il mistero di un’edizione integrale che dopo essere arrivata in sala, aver ricevuto applausi e critiche, è stata sostituita da un’altra più breve ed è infine sparita dalla circolazione.

Dodici Tagli strategici a Cannes Mais quand Le Guépard aura cessé d’être une marchandise, quand d’un manière desintéressée des hommes de science essayeront de reconstituer le film que Visconti a voulu faire et qu’ils n’auront à leur disposition que des copies mutilées venues des quatre coins du globe, nous pouvons nous faire una idée de ce que sera leur perplexité. Denis Marion, 1964

L’edizione restaurata del Gattopardo, quella festeggiata nei più prestigiosi festival internazionali e distribuita in dvd, non è la stessa che venne proiettata al Barberini il 27 marzo 1963. Rispetto a quella dell’anteprima, che potremmo definire la versione integrale, alla edizione oggi disponibile mancano almeno una decina di minuti di film. La versione lunga del capolavoro viscontiano è rimasta ignota a buona parte di coloro che si sono dedicati al Gattopardo; a parte occasionali cenni a scene girate e poi tolte dal montaggio definitivo, l’unico testo che abbia indagato sulla questione è un saggio di Maria Caterina Paino di pubblicazione universitaria. Eppure l’esistenza di un’edizione integrale del Gattopardo pone problemi di non poco conto, a cominciare dal fatto che le recensioni per la gran parte riportate dai testi critici su Visconti si riferiscono proprio a quella, tengono conto di sequenze poi sparite, e sarebbero certo state differenti se si fossero basate sul film come oggi lo conosciamo.

L’intera questione è rimasta per cinquant’anni avvolta nel mistero. Tutti sanno che l’altro film risorgimentale di Visconti, Senso, ebbe tagli e rifacimenti a causa della censura, e che Ludwig uscì accorciato contro la volontà del regista, ma nessuno (o quasi) ricorda che anche Il Gattopardo è stato più lungo. In effetti l’idea che siano spariti una decina di minuti dal Gattopardo risulta a chiunque inconcepibile. Il dettagliatissimo volume che il Centro Sperimentale ha dedicato al film in occasione del restauro evita anche solo di accennarne. Alla Titanus negano addirittura che Il Gattopardo sia uscito in un’edizione diversa da quella disponibile. Ma alcuni tagli riemergono. Nella versione francese del film, dentro il trailer, perfino all’interno della tagliatissima edizione americana ci sono scene o inquadrature assenti nella versione italiana oggi disponibile. Chi le ha tagliate, quando, per quale motivo? Cosa, di preciso, è stato eliminato? E perché nessuno ne parla? I dati sulla durata della pellicola sono incerti, alcuni contraddittori. Cataloghi e filmografie riportano in genere 205’ mentre l’edizione restaurata arrivata fino a noi è di circa 185’ (che si riducono a 178’ su dvd o vhs, per l’accelerazione televisiva di 1/25 di secondo). A Franco Rispoli che lo intervistava durante il doppiaggio (fase in cui il montaggio della colonna visiva è in genere definitivo), Visconti dichiarò che “così com’è, il mio film dura tre ore e dieci minuti”, cioè 190’. Di certo la copia dell’anteprima durava ancora di più ma i recensori dell’epoca non sono concordi: si va dalle tre ore e un quarto (195’) menzionate da

Savioli alle tre e mezza (210’) di Morandini passando per le tre e venti (200’) di Todisco. Il belga Denis Marion, in uno dei primi articoli dedicato alle varie edizioni del film, asserisce che la durata iniziale del film fosse di 205’ e che una volta entrata nel circuito distributivo sarebbe stata ridotta per adattarla agli orari di proiezione. Il dato di 205’, ossia di tre ore e 25 minuti, è stato poi ripetuto nel tempo in varie pubblicazioni italiane ed estere. C’è pure chi scrive 206’, e perfino 210’. Di dati ufficiali ne esiste uno solo: il nulla osta concesso dalla censura alla vigilia dell’anteprima misura la pellicola in 5392 metri, che tradotto in termini cronometrici fa 197’, cioè tre ore e 17 minuti. Nella sua precisione burocratica, il dato ministeriale appare degno di fede, e concorda con il riferimento più frequente (e più breve) fornito dai critici dell’anteprima romana. Postuliamo dunque che la copia dell’anteprima, la stessa poi distribuita in sala per un breve periodo di tempo, fosse quella indicata dalla censura; e che i 205’ di molte filmografie provengano da un errore iniziale, in seguito pedissequamente ripreso e ripetuto: i primi spettatori del Gattopardo dovrebbero avere assistito a un film lungo almeno 3 ore e 17 minuti. Che non corrispondono comunque alle 3 ore e 5 minuti dell’edizione restaurata nel ’91, da cui è stata ricavata quella in dvd. La versione presentata al Barberini sarebbe stata alleggerita almeno di una dozzina di minuti. Le sforbiciate sono state operate sul negativo originale, quello su cui ha poi lavorato Giuseppe Rotunno per il restauro. Si tratta dunque di tagli ufficiali, targati Titanus, apportati dallo stesso regista: Visconti non avrebbe mai permesso che

la produzione toccasse Il Gattopardo senza consultarlo. L’unico testimone vagamente a conoscenza dell’esistenza di tagli effettuati al Gattopardo è Gian Luigi Rondi. La sua testimonianza permette di stabilire con certezza quando Il Gattopardo venne tagliato, e conferma che a ridurlo fu personalmente Visconti. All’epoca designato come giurato italiano per il festival di Cannes, Rondi era infatti presente alla prima proiezione della nuova versione, in uno storico studio di doppiaggio romano. “Ci incontrammo prima di andare a Cannes,” ci ha detto Rondi, “all’International Recording. Eravamo in tre, Robert Favre Le Bret, il presidente del festival, io, che ero già insediato nella giuria, e Luchino, che doveva mostrarci la copia del film. In quell’occasione Visconti ha detto a Favre Le Bret: ‘Questa è la versione che ho rettificato, ho avuto necessità di modificare il film, è una copia che ho sistemato in questi giorni, ha subito delle modifiche di pochissimo conto’.” Dell’entità e delle motivazioni di quei tagli Rondi non è in grado di dire. Le modifiche comunque ci furono, furono apportate tra aprile e maggio 1963, e su di esse si consumò probabilmente un ultimo contrasto con Lombardo, a parti curiosamente invertite: il regista volle tagliare il suo film di una decina di minuti mentre il produttore si è sempre detto contrario a toccare un solo fotogramma. Luchino, ovviamente, l’ebbe vinta di nuovo. La prima versione del film continuò a circolare per un periodo imprecisabile, probabilmente per mesi, nei cinema italiani; lo confermano recensioni e articoli giornalistici che citano scene

oggi mancanti. La nuova edizione era destinata a Cannes, e lì debuttò il 20 maggio 1963. La proiezione mattutina per i giornalisti fu un trionfo, con applausi a scena aperta per una ventina di volte. Visconti, Lombardo, Lancaster e la Cardinale andarono a festeggiare sulla spiaggia del Carlton. Enrico Lucherini tirò fuori una idea delle sue; andò a mercanteggiare con un circo equestre attendato nelle vicinanze e tornò con un ghepardo vero, debitamente sedato. Lancaster e la Cardinale fecero una passeggiata trionfale sulla Croisette con il ghepardo al guinzaglio: fotografi e cineoperatori arrivarono come mosche sul miele. La conferenza stampa del film si tenne quello stesso pomeriggio, affollatissima di giornalisti. Dietro il tavolo c’erano Goffredo Lombardo, Suso Cecchi d’Amico, Lancaster, la Cardinale e Romolo Valli, ma gran parte delle domande fu per la star Luchino Visconti. “S’è detto che lei ha speso, per Il Gattopardo, più di quanto s’era preventivato. Ne sono nati screzi con il produttore?” “Il produttore m’ha lasciato fare perché sa che non sono affatto capriccioso e nemmeno pazzo. Non getto i quattrini dalla finestra. È peraltro vero che il film è costato, alla resa dei conti, qualche centinaio di milioni in più rispetto alla cifra contemplata dal bilancio di previsione. Ma voi sapete meglio di me che quando si redigono i bilanci si è sempre troppo ottimisti…” “Qualche critico in Italia le ha rimproverato di aver interrotto con Il Gattopardo quel discorso sul realismo storico così felicemente iniziato con Senso: qual è la sua opinione al riguardo?”

“Credo proprio il contrario: cioè di aver proseguito con Il Gattopardo il discorso cominciato con Senso, checché ne pensi qualche mio amico…” “Scusi, Visconti: non ho afferrato bene il senso di alcune scene, in particolare quella del dialogo fra il Gattopardo e l’inviato del governo piemontese che gli propone di diventare senatore. Lei per chi parteggia?” “È certo che non sono du côté dei piemontesi, ma parteggio per i siciliani. È del resto dall’epoca de La terra trema che io mi sono schierato dalla parte dei siciliani…” “Come ha preso il suo film l’aristocrazia?” “L’aristocrazia non esiste, non ha alcuna importanza in Italia.” “Il principe Salina, oggi, sarebbe comunista?” “No.” “Quale ritiene essere la sequenza più importante del suo film?” “Quella del ballo, senza dubbio. Però preferisco, dal mio punto di vista, il dialogo tra il protagonista e Chevalley, il delegato del governo regio. I due non riescono a intendersi perché parlano due linguaggi diversi. È una situazione che trova molte analogie con quella odierna…” “Al pubblico di Cannes è stata mostrata l’edizione integrale italiana?” “Ne sono stati tagliati circa 250 metri, perché mi è stato fatto osservare che, per un festival, il film era troppo lungo. Strano, perché anche nell’edizione italiana io lo trovo, semmai, un po’ corto” (scoppio d’ilarità generale).

Il dato dichiarato da Visconti è compatibile con i nostri: i 250 metri tagliati equivalgono effettivamente a una decina di minuti, più o meno quanto sembra sparito della pellicola. In verità neanche sulla versione dimagrita di Cannes tutte le testimonianze concordano. Il notiziario Ansa del 21 maggio da Cannes parla di una ventina di minuti eliminati, e precisa che Visconti avrebbe “aggiunto però che sia in Italia che all’estero il film continuerà ad essere presentato nella versione originale, senza tagli”; Denis Marion scrive che la versione di Cannes durava 190’. Più dettagliato e affidabile, Guglielmo Biraghi, inviato dal “Messaggero”, menziona dei brani che furono effettivamente tagliati: “La pellicola di Visconti, nella versione presentata oggi a Cannes e destinata a girare il mondo, dura esattamente tre ore e cinque minuti. Ciò significa che Visconti ne ha tagliato circa un quarto d’ora, sforbiciando le scene delle barricate all’inizio, eliminando l’incubo notturno del protagonista in viaggio verso Donnafugata, snellendo il personaggio del Pallavicino durante il gran ballo finale. E noi che già demmo un giudizio positivo, abbiamo trovato che con questi tagli esso ha ancora guadagnato in coerenza e vigore drammatico”. Piero Accolti, sul “Tempo”, accenna infine al ridoppiaggio di “taluni dialoghi”; il che conferma che questa versione abbreviata fosse comunque ancora in lingua italiana, e non quella poi distribuita oltralpe con le voci originali di Alain Delon, Claudia Cardinale e Serge Reggiani. Gli indizi convergono: l’edizione di Cannes è con ogni probabilità la stessa tramandata e poi restaurata, 185’ contro i 197’ della prima versione. A questo punto sarebbe importante capire in cosa consistessero quei tagli. 12 minuti

su un totale di 197 non stravolgono una pellicola ma fanno comunque qualche differenza. Le scene mancanti, o scorciate, sono almeno cinque: gli incubi di Don Fabrizio nella locanda di Bisacquino, una discussione in piazza tra Sedara e i contadini, un dialogo fra Cavriaghi e Angelica nelle soffitte di Donnafugata, un colloquio tra Sedara e Tancredi nel salotto del principe e un ulteriore scambio di battute tra il colonnello Pallavicino e Don Fabrizio durante la sequenza del ballo. Quella che segue è un’attendibile ricostruzione dei brani tagliati. Mancando il film originale, possiamo comunque ricostruire quelle scene su carta, incrociando recensioni e documenti dell’epoca, le versioni italiana e francese, e la trascrizione di un’edizione francese effettuata nel ’63 dalla rivista “L’Avant Scène du Cinéma”. La prima a cadere fu la scena dei sogni agitati del principe nella locanda di Bisacquino, che riutilizzava in parte immagini e sonoro di scene precedenti. L’edizione attuale indugia con un paio di panoramiche sul sonno dei Salina, distesi nei giacigli del povero albergo; Don Fabrizio dà qualche segno di inquietudine grattandosi il petto. Nella versione integrale il riposo del principe era molto più tormentato e la cinepresa vi penetrava mostrandolo. Il sonno di Don Fabrizio viene interrotto improvvisamente da una voce. TANCREDI. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Il principe s’è svegliato. Accanto a lui dorme tranquilla Maria Stella. Don Fabrizio si solleva sul letto, a cercare la voce che lo ha svegliato, ma il borbottio che sente è quello di padre Pirrone. Si rimette a dormire, ma il caldo e le punture degli insetti continuano ad agitarlo riportandogli in sogno situazioni vecchie o recenti della sua vita. Prima padre Pirrone, con la sua richiesta di confessarsi:

PADRE PIRRONE. Avrete due peccati da confessarvi sabato. Poi la prostituta Mariannina che il principe bacia appassionatamente dentro il suo tugurio. Quindi Sarah, la cocotte francese conosciuta anni prima a Parigi; Don Fabrizio s’intrattiene con lei a bere champagne e amoreggiare su un letto. I sogni diventano sempre più agitati. Nella mente del principe si materializza ora il nipote: TANCREDI. Parto fra poco, zione. Vengo a salutarti… Un gran duello zione, con il Re, con Franceschiello. L’immagine e la voce di Tancredi si confondono e si sovrappongono a quelle di PADRE PIRRONE. Avrete due peccati da confessarvi sabato. Uno della carne di ieri notte, uno dello spirito di oggi. E ancora del nipote: TANCREDI. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Il principe reagisce alle apparizioni gemendo inquieto nel sonno.

La sceneggiatura prevedeva a questo punto che, mentre nella locanda cominciava a penetrare la livida luce dell’alba, Don Fabrizio cercasse pace e oscurità coprendosi la testa con la coperta. In contrasto con il gesto del principe, la sequenza successiva sarebbe stata aperta sul bianco abbagliante della tovaglia da picnic, che avrebbe scoperto la macchina da presa per posarsi sul campo erboso fuori della locanda; la versione del Gattopardo oggi disponibile ricomincia da qui. Tutto ciò che rimane degli incubi sono un paio di frammenti dentro il trailer: un breve spezzone in cui Don Fabrizio beve champagne insieme a Sarah e un altro in cui il principe bacia appassionatamente Mariannina. Il brano onirico non è del tutto inventato da Visconti e dai suoi sceneggiatori. Il libro di Lampedusa diceva già che il riposo alla locanda di Bisacquino aveva generato nel principe “sogni

penosi”. Pure la tecnica cinematografica, l’alternarsi di immagini e situazioni nel corso del sogno, viene ripresa dal romanzo, anche se da un altro passo: nel primo capitolo, dopo l’incontro con Mariannina, Don Fabrizio non riusciva a prendere sonno accanto a Maria Stella perché “Dio, con la mano possente, mescolava nei suoi pensieri tre fuochi: quello delle carezze di Mariannina, quello dei versi francesi, quello iracondo dei roghi sui monti”. Secondo l’inglese Brad Stevens (“Sight & Sound”), che però non cita la fonte di questa notizia, l’eliminazione degli spezzoni con le due donne avrebbe avuto origine da un intervento della Chiesa, che si sarebbe lamentata delle due scene convincendo Lombardo al taglio. Perché Visconti abbia deciso di liberare il principe dai suoi incubi è in realtà abbastanza chiaro. All’uscita del film in Italia, la sequenza aveva infastidito diversi critici. Sciascia, come già detto, denunciò nel film “lo scadimento di Don Fabrizio da uomo classico a uomo decadente”, individuando proprio in questa sequenza “la smagliatura, l’anello del personaggio che rispetto al libro non tiene”. Per Giulio Cesare Castello era tra i “passi meno felici” del film, per Morando Morandini una vera e propria “imperdonabile caduta di gusto”. Non piacque insomma per come era stata realizzata (“il discutibile e vecchio sistema delle sovrimpressioni,” spiegò Castello) ma soprattutto per ciò che avrebbe dovuto significare: le immagini che agitano Don Fabrizio sono il rigurgito di una coscienza inquieta che sa già di essere sporca, e denunciano in maniera piuttosto goffa i nascenti dubbi del principe sul trasformismo di Tancredi. La suggestione onirica è fin troppo esplicita: per Don Fabrizio avere sovvenzionato la rivoluzione

di Tancredi è un peccato dello spirito, e il suo inconscio lo accoppia (banalmente) ai peccati tutti carnali da confessare a padre Pirrone. Desideroso di migliorare il suo Gattopardo, Visconti accettò quindi di togliere tutta la scena del sogno, accollandosi però anche un paio di importanti conseguenze. L’eliminazione degli incubi di Don Fabrizio è l’ultimo atto di una progressiva attenuazione della soggettività del principe (nelle prime versioni la sceneggiatura ricorreva spesso alla sua voce fuori campo, nell’ultima le sequenze di ricordi in flashback erano comunque più numerose che in quella montata) per giungere a uno sguardo più esterno e oggettivo. La seconda conseguenza è che si trattava dell’unica scena in cui venissero esplicitati i rimorsi del Don Fabrizio cinematografico: togliendola, viene asportata anche la cattiva coscienza del principe, la si sfronda del giudizio di condanna (pur espresso in modo convenzionale e meccanico) che quegli incubi suggerivano, e si semplifica la consapevolezza politica del protagonista, che dopo quel taglio non avrà più ulteriori tentennamenti sulla linea indicata da Tancredi. Il taglio più consistente effettuato alla versione integrale del film è un lungo colloquio tra Sedara e i contadini, montato poco prima che Don Fabrizio esca dal palazzo di Donnafugata per recarsi a votare. Don Calogero si dirige a dorso di mula verso il Municipio. Nella piazza lì davanti, una decina di uomini, seduti su delle sedie, sono intenti a discorrere. Un asino è legato al muro vicino. Altri uomini incollano manifesti per l’imminente plebiscito. Arrivato nella piazza don Calogero si ferma. Un contadino si alza precipitosamente, si toglie il cappello in segno di saluto e lo aiuta a scendere. Altri contadini accennano ad alzarsi e si tolgono velocemente il cappello. Sedara si passa un fazzoletto sul collo sudato, osserva distrattamente quella riunione.

CONTADINI. Buongiorno, signor sindaco… Un paio di uomini arrivano correndo con l’urna elettorale in mano e si fermano davanti a lui. Sedara esamina velocemente l’urna. SEDARA. Nella sala del seggio! Avanti! I due uomini spariscono con l’urna e Sedara fa per seguirli, ma un contadino si è nel frattempo alzato in piedi e avvicinandosi lo apostrofa. PRIMO CONTADINO. Sentite, don Calogero, spiegatemi questo, voi che siete un amico. Sembra che a questo plebiscito potranno votare soltanto i galantuomini…? Sedara prende una sedia, fa cenno a tutti di avvicinarsi, la inforca a cavalcioni e si dispone con pazienza a rispondere. SEDARA. Le liste elettorali, non sono io che le ho fatte. È la legge, è la democrazia che è così. Chi non possiede niente non può votare. ALTRO CONTADINO. E chi l’ha detto? SEDARA. Perché chi non possiede niente, non ha niente da dire. È così dappertutto. PRIMO CONTADINO. Allora, se questo asino fosse mio, io potrei votare, se ho capito bene? SEDARA. Sissignore! Invece è del tuo padrone, Pasquale Tripi. Perciò è Tripi che vota e non tu. È la legge che è così! PRIMO CONTADINO. Allora…, in qualche modo…, se ho capito bene…, è l’asino che vota? Sedara, continuando a tergersi il sudore, accenna una risatina, giusto per dimostrare che si tratta solo di una battuta. SECONDO CONTADINO (più conciliante). Sentitemi, don Calogero… Noi non sappiamo né leggere né scrivere… Di questa Italia che stanno facendo, di questo nuovo re, noi ce ne fottiamo… Ma la terra… SEDARA (interrompendolo). Lo so! Ma quello che conta, è prima di tutto che si faccia, questa Italia. Per questo abbiamo fatto la rivoluzione. Una volta che si sarà fatta l’Italia, si faranno le leggi, e quando si saranno fatte le leggi, voi avrete la terra. Ma l’avrete perché vi spetta! Non come quelli di Girgenti, che l’hanno occupata con la forza e oggi marciscono in galera! Anche il principe Salina, che è un galantuomo, voterà sì, per l’Italia.

La scena (circa due minuti) esiste ancora in una vecchia edizione del dvd francese, ed è riportata integralmente da “L’Avant Scène du Cinéma”. Che fosse ancora presente nella prima

edizione italiana lo testimoniano tra gli altri Aristarco, quando specifica che rispetto al romanzo “qualche parte è nuova (il colloquio di don Calogero Sedara, sindaco di Donnafugata, prima del plebiscito)”, e una recensione del film all’uscita milanese, in cui si accenna ad accuse fatte al regista per “aver messo spirito comunista nella classe dei poveri contadini che si vedevano costretti a rinunziare al voto perché nullatenenti”. Si tratta di una versione leggermente addomesticata della scena prevista nella sceneggiatura “definitiva” in cui l’asino attaccato al muro veniva polemicamente insignito di una coccarda tricolore. Una volta sul set, la gag sul quadrupede doveva già essere sembrata a Visconti un poco troppo farsesca, consigliandogli di andare dritto al punto senza ulteriori insistenze zoologiche. Il motivo principale per cui il regista, a Cannes, ha poi deciso di togliere del tutto la scena potrebbe essere di natura diversa. Lo storico Paolo Maria Sipala, che lesse la scena nella sceneggiatura edita da Cappelli, ha osservato che possedere o meno un asino durante il plebiscito fosse del tutto ininfluente ai fini del voto perché in quell’occasione venne adottato il suffragio universale maschile; fu la legge elettorale politica del 1860, successiva al plebiscito, a essere basata sul censo, restringendo il diritto elettorale a quei cittadini che sapevano leggere e scrivere e pagavano non meno di 40 lire l’anno di imposte dirette. Forse, a film uscito, qualcuno ha fatto notare lo svarione al regista. Eliminare un errore storico, evitare uno spirito troppo banalmente comunista, desiderio di non allontanarsi troppo da Lampedusa o

semplicemente una divagazione che rallentava il ritmo del racconto? Visconti tagliò comunque la scena per intero. Dalla prima versione del film è stato quindi tolto un dialogo tra Cavriaghi e Angelica, in cui venivano sintetizzate alcune osservazioni che nel libro appartenevano in gran parte ai pensieri di Don Fabrizio. La scena è ambientata nelle soffitte di Donnafugata, e sarebbe arrivata dopo che Angelica, ridendo maliziosa per le “infrazioni alle regole” menzionate da Tancredi, infilava una scalinata lasciando indietro il fidanzato. La giovane Sedara si ritrova ora in un nuovo ambiente, dove viene raggiunta da Cavriaghi. CAVRIAGHI. Scusatemi, sono ancora io. ANGELICA. Cosa fate qui, tutto solo? Avevate detto che volevate scendere in giardino. CAVRIAGHI. È vero, ma madamoiselle Dombreuil me l’ha proibito. ANGELICA. Perché? CAVRIAGHI. Perché…, perché dice che non devo lasciarvi sola. ANGELICA. Allora bisogna che la raggiungiamo. CAVRIAGHI (meravigliato). Oh! Sì? TANCREDI (fuori campo, gridando). Angelica!… ANGELICA. Sì. Avete fatto bene. TANCREDI (f.c.). Angelica! Dove sei? ANGELICA. Ascoltate, Cavriaghi, credete che Tancredi sia davvero innamorato di me? CAVRIAGHI. Mmm!… Ma certo! ANGELICA. No, non volevo dire questo. Mi sono espressa male. Avrei dovuto dire: Credete che Tancredi mi voglia sposare perché lui è innamorato di me, oppure…? CAVRIAGHI. Vedete… TANCREDI (f.c.). Angelica… CAVRIAGHI. Mia cara Angelica, gli antenati di Tancredi si sarebbero cavati la voglia di andare a letto con le Angeliche dei loro tempi senza passare davanti al curato, noncuranti delle

loro doti, che del resto non esistevano… Comprendete quello che voglio dire, l’Angelica di oggi non è solo bella, è ricca, è ambiziosa, e per di più, il matrimonio può passare per un atto… provocatorio, rivoluzionario. ANGELICA. Una “infrazione alle regole”? TANCREDI (che nel frattempo li ha individuati e li sta raggiungendo, tenta da lontano di interloquire, ma non fa in tempo a comprendere le successive parole di Cavriaghi). È così, in apparenza, ma in realtà, non è così… CAVRIAGHI (molto velocemente). È la regola dei Tempi Nuovi, o quella che è destinata a diventarla, come quella che, nel corso dei secoli, ha unito le grandi casate, quelle dei Falconeri ai Salina. Quelle dei Salina ai Ponteleone. Sì, tutte queste cose hanno la loro importanza, un’importanza almeno grande quanto l’amore che Tancredi ha per voi. Comprendete ciò che voglio dire. La vostra unione diventerà solida, anche quando il tempo avrà logorato i vostri sentimenti. Voi due, forti come siete, e belli, e ambiziosi, potete conquistare il mondo. E nel frattempo, andate, andate a raggiungerlo. ANGELICA. Grazie. CAVRIAGHI. Ditegli che vado a cercare mademoiselle Dombreuil.

Della scena, riportata dalla rivista “L’Avant Scène du Cinéma”, rimane solo un gruppetto di foto di set, frazionato tra vari archivi iconografici. Dalla descrizione sembra che Tancredi rimanesse fuori campo per quasi tutto il tempo, e che Cavriaghi si affrettasse a impartire la sua spiegazioncella ad Angelica prima che l’amico potesse raggiungerli e comprendere del tutto. Questo dialogo, va detto, non esiste in questa forma in nessuna versione del copione. Nella sceneggiatura “definitiva” del 9 marzo 1962, Angelica e Tancredi penetravano nelle stanze in cui il duca santo aveva conservato la sua frusta, e il dialogo che ne derivava, tra allusioni e metafore, seguiva abbastanza da vicino il romanzo (“Tu sei uno di quegli arnesi,” diceva Tancredi nel copione. “Servi agli stessi scopi.”). Ragioni di comprensibilità, o forse censorie,

avevano poi spinto Visconti a riscrivere la scena, togliendo gli scudisci e l’enorme crocifisso “di una crudezza violenta”; nella versione della sceneggiatura portata sul set, il dialogo fra Tancredi e Angelica era perciò già di molto ridotto e addomesticato. Davanti alle cineprese andò in scena un’ulteriore variante, ormai ridotta a un inoffensivo suntino della scena originaria, con Cavriaghi al posto di Tancredi. Il motivo per cui anche questa versione, pur girata e presumibilmente montata, venne infine tolta dall’edizione definitiva è comunque evidente: è una scena di servizio, un po’ troppo telefonata, piazzata lì a illustrare la vera natura dell’unione Falconeri-Sedara. Il milanese Cavriaghi risulta un poco troppo onnisciente sugli antenati dei Falconeri e sull’atto “rivoluzionario” del matrimonio con la Sedara. Interrompendo l’andirivieni di Tancredi e Angelica per i saloni abbandonati, la chiacchierata sul pianerottolo potrebbe anche avere spezzato la tensione erotica fra i due amanti. Sarebbe stato l’unico dialogo fra la Sedara e il contino milanese, ma Visconti decise di tagliare. Ancora un altro brano sopravvive nella vecchia edizione francese del dvd. La scena arriva subito dopo la partita a carte di Don Fabrizio con Chevalley e Cavriaghi. Alla battuta del contino milanese, “La Sicilia è un grande paese” (che conclude la scena nell’edizione italiana definitiva), la peggiore personificazione dell’isola viene a bussare alla porta del principe nelle vesti di don Calogero Sedara. Il maggiordomo Mimì si avvicina al gruppo per annunciare: MIMÌ. Don Calogero Sedara domanda di parlare al signor Tancredi.

SALINA. Fatelo entrare. PADRE PIRRONE (a Tancredi). Tocca a voi! TANCREDI. Francesco Paolo, prendi tu il mio posto? FRANCESCO PAOLO. Oh! Va bene. TANCREDI (alzandosi). Scusatemi. Tancredi lascia il tavolo da gioco e si dirige verso l’uscio del salone, da cui sta entrando Sedara. Il giovane si ferma ad attenderlo davanti al caminetto acceso, quindi gli chiede preoccupato: TANCREDI. Angelica? DON CALOGERO. No, no, no. Angelica sta bene; lei è a casa. (Si volta verso il tavolo da gioco fuori campo e si abbassa in un profondo inchino verso il principe) Buonasera. TANCREDI. E allora? DON CALOGERO. Ho pensato che sarebbe stato meglio che non uscisse questa sera. Per questo non è venuta. C’è un poco di agitazione nel paese. Davanti alla taverna di zu’ Menico c’è appena stato un tafferuglio. TANCREDI. E allora? Quindi? DON CALOGERO. Voi permettete, un momento? (fa segno a Tancredi di allontanarsi ancora un poco dal tavolo da gioco, e il giovane lo segue. Un breve controcampo mostra Don Fabrizio che si volta per un attimo incuriosito verso i due, quindi riprende la partita). Emh! Ecco, si sono fatte troppe promesse, e la gente si è fatta delle illusioni. I mezzadri si vedono già proprietari e i braccianti si sono fatti esigenti. La pentola bolle, principe, e io… ho molta paura. È per questo che sono venuto… per avere un consiglio. TANCREDI (lo guarda con curiosità, poi risponde). Paura di cosa? Voi avete un esercito regolare… Pronto a difendervi! Servitevene. DON CALOGERO. Eh! A dire la verità, principe, ci ho già pensato. TANCREDI (sorpreso). Ah! Bravo! (gli dà una pacca sul braccio) Siete più scaltro di quello che pensavo. Su questa battuta don Calogero comincia a sogghignare, guardando in tralice Tancredi. I due ridono insieme, di un riso complice e maligno. Le risate, prolungate, fanno voltare verso di loro il principe e tutti gli altri presenti nel salone.

La scena sarebbe stata l’unico momento in cui don Calogero e Tancredi mostrano una perfetta consonanza, negli intenti e nella mancanza di scrupoli.

La sinistra risata di Sedara e Falconeri avrebbe richiamato alla mente dello spettatore quella, più sguaiata ma non meno predatoria, di Angelica al pranzo; è come se il riso della giovane Sedara si fosse propagato per contagio al padre e al fidanzato. Non è un semplice gioco di rimandi, quel cachinno ha un significato ben preciso: è la risata delle iene e degli sciacalli, del nuovo blocco sociale che si appresta a soppiantare l’aristocrazia. I nobili trasformisti (Tancredi), i giovani arrivisti (Angelica), i borghesi rapaci (Sedara) e anche, come si vedrà, l’esercito piemontese (Pallavicino) vengono accomunati da Visconti con il medesimo modo di ridere, un tratto comune che mette a nudo la natura vorace e brutale dei prossimi padroni, marchiandoli come membri di una stessa razza. Nella versione integrale il dialogo con Tancredi veniva subito prima di un altro, ben più importante, colloquio politico, quello del principe con Chevalley. Uno dei motivi del taglio potrebbe consistere nel rischio che la somma dei due colloqui allentasse il ritmo; d’altra parte lo stupore di Don Fabrizio, che in campo medio osserva sbigottito nipote e consuocero ridere insieme, contribuisce a illuminare la successiva decisione di rifiutare il laticlavio proponendo al suo posto proprio don Calogero. La scena, un minuto e mezzo in tutto, porta tra l’altro avanti, sia narrativamente sia ideologicamente, la presenza dei contadini nel film, dando un concreto seguito ai dissensi emersi durante il loro colloquio con Sedara prima del plebiscito. Avendo però tolto la scena con l’asino, l’accenno ad “agitazioni” e “tafferugli” sarebbe diventato meno comprensibile.

Visconti, anche stavolta, si risolse a tagliare. Un ultimo brano, sempre sul minuto e mezzo, è pure presente nella vecchia edizione francese in dvd. Si tratta di una coda, la continuazione del confronto tra il colonnello Pallavicino e il principe Salina, probabilmente l’unica porzione asportata dalla sequenza del ballo. Il taglio arriva subito dopo il precoce congedo del principe, infastidito dalle fanfaronate del colonnello. Sull’immagine del principe che, appena lasciato il tavolo di Pallavicino, si sta intrattenendo con altri invitati, si sente la voce del colonnello. PALLAVICINO (f.c.). Principe! Il colonnello, che ha abbandonato il tavolo per trattenere Salina, rientra in campo alle sue spalle. PALLAVICINO. Perdonate se mi permetto di insistere, principe… Voi non siete stato sul continente dalla fondazione del regno? SALINA. No. PALLAVICINO. Siete fortunato… Don Fabrizio accenna uno sguardo interrogativo. Intanto Tancredi, seduto poco distante a tavola con Angelica, sembra avere udito le parole del colonnello. Accanto a lui, Angelica ride felice, e si fa scura in volto quando il fidanzato le bacia una mano per congedarsi. TANCREDI. Scusatemi. (scosta alcune persone per passare) Pardon. PALLAVICINO. Credetemi, non è un bello spettacolo! (intanto Tancredi è spuntato accanto al principe, che lo guarda con affetto paterno. Il colonnello prosegue, rivolgendosi ora anche al giovane Falconeri) Non siamo mai stati tanto divisi da quando siamo stati riuniti. Torino vuole diventare la capitale d’Italia. Milano rimpiange l’ordine che regnava sotto l’occupazione austriaca. Firenze ha paura di essere spogliata delle sue opere d’arte, e Napoli piange il denaro che dispensavano i Borboni… E qui… Qui in Sicilia, voi covate con amore un enorme e irrazionale guaio. Mmm… Per il momento, un poco grazie al vostro servitore, non si parlerà più di camicie rosse… (sorride. Poi, con maggior insistenza) Non se ne parla più, ma se ne riparlerà. Ricordatevene! Quando saranno sparite, ne appariranno delle altre, di colore diverso. (Il principe accenna uno sguardo sornione al nipote; e Tancredi, voltate le spalle al colonnello, sorride apertamente) E poi, di

nuovo, rosse. Eh!… Come andrà a finire? Si dice: “Il radioso sole dell’avvenire”! (ride) Ma voi che conoscete il cielo, principe, sapete che i soli, anche se radiosi, un giorno possono diventare oscuri! (scoppia a ridere in modo sinistro) Il principe, che pensando alle stelle aveva rivolto il suo sguardo sognante al cielo, s’incupisce di colpo e si volta aggrottato verso il colonnello che continua a ridere. Stacco su Maria Stella e altri invitati seduti a pranzare nel giardino.

A questo lungo frammento, che Biraghi cita esplicitamente come una delle scene mancanti dall’edizione di Cannes, si allude nel film poco più avanti, quando Tancredi si giustifica con Angelica del suo essersi alzato improvvisamente da tavola: “Sono andato a sentire un momento cosa diceva il colonnello Pallavicino. Non è un genio, d’accordo, ma dice delle cose molto molto sensate”. Questo pezzo di colloquio (in fondo un monologo di Pallavicino) è l’unico brano eliminato dalla versione integrale che fosse già presente nel romanzo di Lampedusa. Visconti lo aveva comunque tratto con qualche infedeltà, e non di poco conto. A cominciare da quel “radioso sole dell’avvenire” che nel libro era un politicamente neutro “Stellone”, ossia la buona sorte. Il seguito della frase del colonnello, “Ma lei sa meglio di me, Principe, che anche le stelle fisse, veramente fisse non sono”, diventava nel film “Ma voi che conoscete il cielo, principe, sapete che i soli, anche se radiosi, un giorno possono diventare oscuri”, una frase che sembra alludere a derive dittatoriali. E quello che nel romanzo era un tributo alla potenza economica del Regno delle Due Sicilie (“Napoli piange per le industrie che perde”) si era tramutato nel più lazzaronesco “Napoli piange il denaro che dispensavano i Borboni”. Il regista aveva infine assegnato al colonnello la stessa risata enfatica che abbiamo già udito prorompere dagli

“sciacalli” Angelica, Tancredi e don Calogero; il Pallavicino del film – soprattutto in questo pezzo tagliato – risulta assai lontano dal “signore”, “tutt’altro che imbecille”, descritto da Lampedusa. Rispetto al libro, il passo risulta così completamente travisato; non c’è da dolersi troppo che Visconti lo abbia sacrificato. Anche evitando il confronto con la pagina scritta, la scena appare piuttosto retorica e piattamente didascalica, finisce per mettere soprattutto in evidenza il vituperato “senno di poi” di Lampedusa, e un Ivo Garrani (Pallavicino) un po’ troppo sopra le righe. Le parole del colonnello, e il sorriso di Tancredi, alludono chiaramente al futuro fascismo ma forse a Visconti quel “sole dell’avvenire” destinato a diventare “oscuro” sembrò una condanna esplicita dello stalinismo. Alla fine eliminò anche questo brano. E pur di farlo contravvenne al consiglio di Togliatti, che gli aveva chiesto di non tagliare nulla dalla sequenza del ballo (ma giudicando dalla quarantina di minuti cronometrati dai primi recensori, il resto delle scene a palazzo Ponteleone dovrebbe essere rimasto pressoché intatto). Qualcos’altro, oltre a questi cinque brani, è certamente saltato. Gli spezzoni sopravvissuti nel vecchio dvd francese durano in tutto circa 5 minuti: aggiungendo la sequenza del sogno e il dialogo tra Cavriaghi e Angelica non si arriva ai 12 complessivamente tagliati. Probabilmente, come scriveva Biraghi da Cannes, Visconti ha eliminato ancora qualcosa dalla battaglia di Palermo; il resto potrebbero essere piccole limature qua e là, tagli di piani d’ascolto o di panoramiche descrittive, per rendere più

scorrevole una scena evitando di eliminare battute o gesti fondamentali. Un paio di esempi saltano fuori dal confronto con la versione americana del film, e si tratta degli unici due frammenti assenti dall’edizione finale italiana. Il primo è una breve inquadratura alla Via col vento durante la battaglia di Palermo, dove i garibaldini feriti venivano soccorsi da compagni, infermiere e popolani; piuttosto realistica, venne forse giudicata stonata rispetto allo stile figurativo della sequenza nel suo complesso. Il secondo è un pezzetto in più della tirata di Ciccio Tumeo durante la caccia, probabilmente considerato ripetitivo: “The one time I said just what I felt, and that idiot Sedara annihilates me – just like that! It’s like saying a man doesn’t exist. Me! Don Francesco Tumeo La Manna, organist of the Mother Church of Donnafugata, superior to him a million times!”, traduzione pressoché letterale del brano del romanzo originale: “Per una volta che potevo dire quello che pensavo, quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito, come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte…” (ben segnato nella copia personale di Visconti, il passo non è previsto in nessuna versione della sceneggiatura, a ulteriore dimostrazione di quanto il film, una volta giunto sul set, si sia riavvicinato al libro di Lampedusa). I tagli più ampi ricostruibili rimangono comunque quelli delle cinque scene descritte. Di queste, solo l’ultima, il discorsetto allusivo di Pallavicino, e pur con i rimaneggiamenti che abbiamo visto, è davvero presa dal libro di

Lampedusa; negli altri casi gli alleggerimenti vanno a sfrondare il film di elementi spuri (Sedara con i contadini, Sedara con Tancredi) o di espedienti maldestri per includere elementi del libro altrimenti destinati a restare fuori (gli incubi del principe, le riflessioni di Cavriaghi sugli antenati di Tancredi). La nuova versione montata va quindi innanzitutto nella direzione di una maggiore aderenza alla lettera del romanzo. Bisogna infine considerare la qualità intrinseca di quelle scene, e il loro peso all’interno di un affresco già molto lungo e complesso. È comprensibile che Visconti, dopo le prime settimane di programmazione in Italia, abbia deciso di sveltire lo spettacolo eliminando qualche momento meno riuscito che rischiava di incrinare la grazia dell’insieme; ha evidentemente tenuto conto di tanti recensori a proposito dell’eccessiva durata del film, della convenzionalità della scena del sogno, del profilo didascalico di altri brani, e anche delle “risate di suono falso, che fa specie non siano state sentite dall’orecchio teatrale di Visconti” (ma il critico che le bollò con queste parole non ne aveva inteso il significato; anzi, sopprimendone due su tre, il film corre ora il rischio di far apparire davvero stonata l’unica rimasta, quella di Angelica al pranzo). L’edizione tagliata è da ritenersi migliore. Tale, di certo, la considerò il suo autore, visto anche che le modifiche furono fatte sul negativo originale. A dispetto della promessa fatta a Cannes che l’edizione italiana sarebbe rimasta quella integrale, l’unico Gattopardo diffuso e autorizzato sarebbe infatti diventato quello ridotto, mentre la versione originaria scivolò lentamente nel dimenticatoio. Con un effetto

imprevisto e paradossale sull’esegesi del film: mentre della versione integrale della pellicola si è perso perfino il ricordo, il dibattito critico su di essa viene invece periodicamente ricordato e chiosato. Gli incubi del principe rimproverati da Sciascia e i contadini esaltati da Trombadori non ci sono più; mettere a confronto quelle opinioni con la versione finale della pellicola ha quindi creato, e continuerà inevitabilmente a creare, perplessità e aporie. Se al Barberini fosse stata proiettata la versione ridotta, sarebbe stato ancora più positivo il giudizio di quei critici (soprattutto sui giornali più conservatori) che avevano rilevato passaggi un po’ troppo didascalici o semplicemente deplorato l’eccessiva lunghezza del film. E sarebbero state ancora più deluse le recensioni dei critici di sinistra, che avrebbero trovato nel film meno ideologia e spirito progressista di quanto non ne avessero già rintracciato – a fatica – nella versione integrale. Una cosa hanno infatti in comune le cinque scene sopra descritte: l’esplicitezza didascalica, e il più o meno evidente schieramento ideologico. Togliere i sogni del principe, il dialogo di Sedara con i contadini, il colloquio di Cavriaghi con Angelica, la risata di Tancredi con don Calogero e il monologhetto vaticinante di Pallavicino alleggerisce senza dubbio il film ma fa anche sparire la coscienza sporca del principe, la protervia classista di Sedara, la doppiezza di un complice Tancredi, la natura interessata del matrimonio con Angelica, il ricorso all’esercito contro il popolo, la profezia delle camicie nere “e poi di nuovo rosse”. Chi aveva rimproverato Visconti di aver ridotto i contadini a un inerte gruppo di spettatori, aveva pur sempre assistito alla scena in cui uno di loro dimostrava che il

potere democratico era (e sarebbe in sostanza rimasto) nelle mani di chi ha i mezzi per possedere l’asino; aveva sentito dei tafferugli popolari scoppiati alla taverna e registrato il fatto che Sedara (i borghesi), Tancredi (l’aristocrazia) e l’esercito sabaudo (i militari) avrebbero fatto fronte comune, collaborando concordi alla repressione; chi aveva lamentato un ammorbidimento del film rispetto al tema della “rivoluzione mancata” avrà comunque apprezzato il discorsetto di Pallavicino sul futuro oscuro dell’Italia unificata. Tolti questi brani, il discorso politico cambia, diventa ancora più allusivo e implicito. Stilisticamente congrui e apprezzabili, i tagli che Visconti decise di apportare spostano un poco più a destra la barra ideologica del film. Il regista tolse qualcosa che, oltre a non appartenere al romanzo, non apparteneva forse davvero nemmeno a lui. Le scene con i contadini, sottolineate da Trombadori nella sua intervista a Visconti, furono forse scritte o comunque sollecitate dal dirigente comunista; facendole sparire, il regista evitò che si ripetesse l’inconveniente del finale di Rocco e i suoi fratelli, le cui battute didascaliche (secondo Argentieri scritte proprio da Trombadori) mettono un po’ di zavorra sulle ali poetiche della pellicola. I recensori di sinistra usciti perplessi dalla visione della versione integrale sarebbero stati ancora più delusi dell’edizione tagliata, e avrebbero fatto obiezioni molto più serie delle timide rampogne opposte da un Aristarco comunque condiscendente. Per questo la curiosa uscita del Gattopardo in doppia versione, e l’assordante silenzio che l’ha sempre

accompagnata, sembra un consapevole compromesso perché Visconti ottenesse i suoi scopi senza scontentare troppo il partito di riferimento. Mentre dava in pasto alla critica, marxista e non, la versione integrale uscita in sala a marzo, Visconti modificava la pellicola in sordina in vista di Cannes e dei posteri. Una manovra ardita, più sottile degli accordi presi sottobanco con la censura per l’oscuramento manuale di alcune scene di Rocco. Le recensioni del Gattopardo erano già uscite, quello che c’era da rimproverargli gli era già stato rimproverato, chi si sarebbe accorto dei tagli? Forse i giornalisti di Cannes? All’epoca il numero di inviati italiani al festival era alquanto esiguo, e il rischio di un dibattito filologico piuttosto ridotto. Qualche critico militante avrebbe comunque potuto assistere alla versione tagliata, accorgersi delle differenze e lanciare l’allarme, cosa che però non avvenne, forse anche perché Visconti aveva assicurato che in Italia sarebbe rimasta in sala la versione integrale. Questo rimanda ai reali obiettivi per cui Visconti decise di asciugare il suo film. Accanto a ragioni squisitamente estetiche, ce n’era forse un’altra, più concreta e prosaica: il regista puntava decisamente alla Palma d’Oro. Laureare Il Gattopardo a Cannes avrebbe costituito una spettacolare rivincita sulla Mostra di Venezia, dove per ben tre volte (La terra trema, Senso e Rocco e i suoi fratelli) Visconti si era dovuto accontentare di un secondo posto. Sulla Croisette portava ora un film tanto bello quanto chiacchierato, interpretato anche da attori francesi, e da francesi in parte prodotto; in un certo senso giocava in casa. Qualsiasi premio al di sotto della Palma d’Oro, dunque, sarebbe stato una sconfitta.

Desideroso di ottenere il podio più alto, Visconti diede facilmente ascolto a chi, alla vigilia del festival, gli consigliò di sveltire e sfoltire. Chi sia stato questo premuroso e informato consigliere non lo sapremo forse mai. Un buon candidato potrebbe essere Rondi, critico influente e giurato al festival, democristiano d’idee e lontano parente dello stesso Visconti, che in almeno due recensioni sul “Tempo” aveva addebitato al film “prolissi colloqui politici”, “lungaggini” e “scompensi”. Rondi assicura però di avere assistito alla versione tagliata senza averne parlato prima con Luchino. Una volta al festival, ed è questa la cosa più interessante, la stampa amica di Visconti evitò di enfatizzare la questione dei tagli, anzi: non ne parlò affatto. Mentre i giornali moderati (“Il Tempo”, “Corriere della Sera”, “Il Messaggero”) segnalarono che la nuova versione risultava ridotta, l’“Unità” decise incredibilmente di tacere. C’è da credere che il quotidiano comunista tenesse bordone al regista in vista di un riconoscimento desiderato fortemente da entrambi. Il battagliero Ugo Casiraghi, che sull’“Unità” aveva espresso a suo tempo notevoli critiche sulla versione integrale, evita infatti di parlare di un’edizione del Gattopardo modificata, ma in compenso chiude uno dei suoi pezzi da inviato con l’esplicita speranza che il giurato “Gian Luigi Rondi si batta per Il Gattopardo”. Alla proiezione di gala per il pubblico si rinnovò il successo della proiezione per i critici. “Nemmeno alla prima romana,” scrive Biraghi, “pur coronato da un molto felice esito, il film aveva riscosso consensi così clamorosi.” Il verdetto è già chiaro. A parte Il Gattopardo, il

sedicesimo festival cinematografico di Cannes non ha in cartellone pellicole straordinarie (la stampa francese parla compatta di una selezione di basso livello). Ci sono, è vero, Gli uccelli di Hitchcock e 8 ½ di Fellini, rispettivamente film di apertura e chiusura, però sono entrambi fuori concorso: la Palma d’Oro è praticamente nelle mani di Visconti. Ricorda Rondi: “Appena dissi agli altri membri della giuria: propongo Le Guépard, la proposta fu accettata all’unanimità. Fu una Palma assegnata nel giro di cinque minuti”. La notizia trapela e i giornalisti irrompono nell’atrio del Carlton annunciando la vittoria a Visconti. “Sono contento di non essere arrivato secondo,” risponde laconico il regista, finalmente ripagato degli umilianti argenti veneziani. Lucherini ricorda che Rondi venne a complimentarsi personalmente, profondendosi in un ampio inchino: “Visconti, il Palmares è suo, le spetta di diritto”. Il regista non aveva dimenticato il giudizio non del tutto positivo dato dal critico al Gattopardo, ma si tenne per sé il possibile commento. “Ringraziò con gesti da cerimonia,” ha scritto Lucherini, “mentre dentro di sé rideva, si divertiva come un matto; osservava questo tipo di cose tenendosi un po’ sollevato da terra.” Un distacco che però non impedì a Visconti, durante la cerimonia di premiazione, di sprintare sul palco davanti a Lombardo per prendere premio e applausi senza dividerlo con nessun altro. “È il più bel film che si sia mai visto,” gli dicono ammirati alcuni membri della giuria. “Quello che faccio, o si ama o si detesta,” taglia corto il regista.

Il giorno dopo, annunciando sull’“Unità” la vittoria, Casiraghi si lascia sfuggire: “La rivincita sui tre Leoni mancati, se l’è presa oggi un Gattopardo, cui le zampe forse un po’ meno unghiute hanno tuttavia permesso di seminare, con un sol balzo, tutti gli altri concorrenti”. Sì, il film di Visconti è andato dalla manicure, si è fatto ridurre un po’ gli artigli, ha smussato un po’ di ideologia per acquisire una sicurezza in più sul massimo premio del festival. Quasi certamente Il Gattopardo quella Palma d’Oro l’avrebbe vinta comunque, quelle modifiche non avrebbero fatto gran differenza, né nel merito artistico né per la durata complessiva del film. Fatto sta che quei tagli ci furono, e furono passati sotto silenzio proprio da quei critici come Casiraghi che avrebbero dovuto maggiormente dolersene. Il silenzio esercitato in quell’occasione ha fatto dimenticare che Il Gattopardo di Visconti ha perso per strada una decina di minuti, un po’ della sua carica ideologica e di discrepanze dal testo di Lampedusa. Un film, comunque, non lo si giudica sulle ipotesi o sulle varianti ma per come il regista, alla fine, lo ha voluto e licenziato. Perciò l’unico autentico Gattopardo firmato Visconti è quello ridotto a 185’, emendato dagli incubi e dai contadini, e premiato a Cannes. Per capire se l’Operazione Gattopardo sia fallita o meno occorre tornare a questa versione, che è poi quella restaurata da Rotunno nel ’91 e pubblicata in dvd nel 2001, e sottoporla a un confronto serrato con il romanzo di Lampedusa.

Tredici Il tradimento perfetto Film e opera letteraria non possono essere la stessa cosa neppure nel caso di una narrativa realistica e naturalistica i cui temi principali hanno una certa affinità con l’espressione cinematografica. Figuriamoci Il Gattopardo. Luchino Visconti

“Trasformare un libro di destra in un successo di sinistra” era il mandato che arrivava garbatamente dai compagni di Botteghe Oscure. “Realizzare un successo internazionale alla Via col vento” era il sogno di Lombardo, uno dei pochi produttori italiani capaci di emulare Selznick. E Visconti cosa voleva? A quasi dieci anni da Senso il regista tornava a parlare di Risorgimento. Dopo La terra trema e Rocco e i suoi fratelli si metteva ancora una volta du côté dei siciliani e dei meridionali in genere. Affrontare Il Gattopardo era dunque coerente con la sua linea artistica. Ideologicamente le sue intenzioni sono limpide. “Il pessimismo del principe di Salina,” spiegava nel Dialogo con Trombadori, manifesto programmatico del film, “porta quest’ultimo a rimpiangere la caduta di un ordine, mentre il nostro pessimismo si carica di volontà, e in luogo di rimpiangere l’ordine feudale e borbonico mira a postularne uno nuovo. Ma in conclusione partecipo anch’io della definizione del Risorgimento come rivoluzione mancata o meglio tradita.” Il film prenderebbe quindi le mosse “da una precisa spinta di natura

criticoideologica che non è nuova nei miei lavori, dalla Terra trema a Senso”. E tuttavia Il Gattopardo fu per Visconti un’esperienza artistica e umana tale da cambiare il suo modo di fare cinema. Quel film finirà per essere uno spartiacque: da una parte Rocco e i suoi fratelli dall’altra Ludwig, di qua La terra trema di là Morte a Venezia, e in mezzo Il Gattopardo. Nonostante Botteghe Oscure e i desiderata della Titanus, Visconti girò e tagliò come volle e il risultato è una specialissima, acuta e sentimentale rilettura critica del romanzo, spinta, come confidò a Trombadori, dalla suggestione di una “sutura” fra realismo verghiano e memoria proustiana. Una rilettura così seducente che nel tempo si è sostituita al testo letterario grazie a uno straordinario meccanismo di sceneggiatura: fedelissima al testo nelle parole ma abilissima nell’omettere o nell’inserire piccoli scarti che in alcuni casi stravolgono e deviano verso strade persino opposte al discorso lampedusiano. “Il Gattopardo è il libro che abbiamo illustrato con più fedeltà,” dirà Suso Cecchi d’Amico. E infatti “illustrare” allude a una fedeltà che si ferma all’espressione. La sceneggiatrice tace invece di come, tenendo integra la superficie, si sia tradita la struttura più profonda del testo. Il Gattopardo di Visconti non solo è stato concepito come una rilettura critico-ideologica del romanzo di Lampedusa, ma strada facendo è diventato persino un’altra storia, un’altra verità, che si è sovrapposta usando gli stessi personaggi, parte degli stessi fatti, le stesse scene, porzioni degli stessi dialoghi. Un tradimento che per paradosso trova la sua perfezione in un’adesione, questa sì profonda, di Visconti al mondo di Lampedusa. Al

mondo, però, non all’interpretazione storica di quel mondo. Perché Visconti e i suoi sceneggiatori restano figli di una tradizione risorgimentale tramandata dai vincitori, la storia ufficiale. I numerosi aggiustamenti della sceneggiatura, i tagli e i cambiamenti che si protrassero fino a Cannes raccontano di un lavorio incessante dove si combattono e a tratti si supportano tre richieste diverse: quelle del produttore, che voleva un successo internazionale il più fedele possibile al romanzo dove il pubblico riconoscesse i suoi personaggi; le istanze marxiste di Trombadori, Alicata e dello stesso Visconti; e infine gli effetti, diciamo proustiani, che il romanzo esercita sul regista con sempre più prepotenza nel corso della lavorazione. Visconti ha sempre usato i romanzi ispiratori delle sue pellicole (da Ossessione a Senso, da La terra trema a Le notti bianche) come dei “canovacci”, utilizzando personaggi e dialoghi ma restando lui l’autore assoluto delle ragioni profonde del film. “Non solo Cain e Camillo Boito, ma anche Verga e Dostoevskij erano da te riletti criticamente quando non addirittura ‘ribaltati’,” gli scrisse Aristarco. Le numerose sceneggiature del Gattopardo confermano che questo stesso procedimento era destinato al romanzo di Lampedusa, interpolato qua e là con ispirazioni provenienti da Verga e, durante le riprese, da De Roberto: innesti necessari per portare più chiaramente la riflessione risorgimentale sui terreni della storiografia democratica e marxista, e artisticamente su quelli auspicati del realismo storico. Ma, alla fine, la fonte letteraria lampedusiana, in quanto racconto del mondo di Don Fabrizio, tiene con

forza le sue posizioni nella messa in scena che Visconti è andato componendo. Fra i due autori (e i due testi, quello letterario e quello filmico) si instaura un rapporto, una battaglia amorosa, di seduzioni e richiami affettivi, di memorie e ragioni persuasive, di rispecchi e sentimenti, che vedono Visconti soccombere (come si soccombe in amore, cioè felicemente) al personaggio di Don Fabrizio facendone un eroe, il suo eroe, aristocratico per eccellenza, che combatte e cade contro la volgarità dei Tempi Nuovi, schiacciato dall’inganno offerto alla sua classe dalla nuova strategia politica: cambiare tutto perché tutto rimanga com’è. Smentendo le sue stesse dichiarazioni programmatiche e con tutto il dispiacere possibile dei suoi compagni, ma con totale aderenza allo spleen lampedusiano, Visconti finirà per negare ai Tempi Nuovi il pur minimo ottimismo: nel film non si riuscirà a vedere nemmeno un raggio del sol dell’avvenire. Visconti non poteva non essere un Visconti e non poteva non essere un comunista. Da comunista conosceva dell’aristocrazia il volto retrivo, immobile, legato al privilegio e al latifondo, il suo essere pronta, nel disperato tentativo di sopravvivere alla Storia, a farsi rapace, proterva e “ignobile”. Ma da aristocratico Luchino non poteva non sentire la suggestione affettiva ed estetica, l’abbraccio paterno che Don Fabrizio gli offriva. Mentre infatti in Lampedusa il recupero della memoria assume i toni di una rielaborazione del lutto e di una resa dei conti con gli avi, per il regista diventa al contrario una parziale riconciliazione con il proprio passato – ideologicamente discutibile – e con la propria idealizzata figura paterna. Se infatti altri suoi film sembrano vagheggiare l’immagine della madre Carla Erba

da lui adorata, in Don Fabrizio Il Gattopardo finisce per celebrare Don Giuseppe Visconti: conte, duca, gentiluomo della Regina, ma soprattutto amante del teatro e del melodramma, uomo d’arte, suo padre. Sia per Visconti sia per Lampedusa Il Gattopardo rappresenta in ogni caso l’occasione per ricreare un mondo perduto, per riportare il passato nel presente. Se questo abbraccio artistico e sentimentale fra i due autori, ultimi rappresentanti di una classe perdente destinata all’oblio, ha deviato in parte i propositi gramsciani illustrati fin troppo lucidamente nell’intervista con Trombadori, tuttavia nella lotta fra ragione e sentimento, fra testo letterario e testo filmico, la linea programmatica del regista ha comunque resistito con veri e propri stravolgimenti del romanzo, tanto pregnanti quanto impercettibili grazie alla tecnica di preservare quasi intatti i dialoghi, ma agendo con sapienza sul “quasi” e sulle omissioni, e riproducendo perfette fino alla mania le scenografie e i dettagli. Nell’adattamento del romanzo, la scelta più netta e visibile è stata quella di escludere tre capitoli del libro: il V sulle vacanze di padre Pirrone, il VII sulla morte del principe, e il misconosciuto VIII capitolo con la fine delle reliquie e la visita di Angelica e Tassoni a Concetta. Non è un sacrificio di poco conto: parliamo di tre capitoli su otto, di 75 pagine su 313. Il bilancio si fa ancora più pesante se consideriamo il romanzo attraverso i suoi tre fulcri ideologici (il trasformismo, il rifiuto del trasformismo, la verità), corrispondenti alla originaria tripartizione del libro: tagliando

l’ultimo (la verità) e dissimulando il secondo (il rifiuto del trasformismo), Visconti ha praticamente dimezzato il senso del Gattopardo, sbilanciando e appiattendo tutto il discorso lampedusiano sul solo trasformismo, cioè l’elemento politicamente più aderente alla sua linea critico-ideologica. Tagliati diegeticamente, il V, il VII e l’VIII capitolo ritornano nella sceneggiatura solo per quel tanto di significazione che li rende compatibili con la linea di Visconti. Debitamente emendato dalle parti più filoaristocratiche, il discorso di padre Pirrone all’erbuario è stato trasferito nella sosta durante il viaggio a Donnafugata; il VII capitolo è presente nella macrosequenza del ballo, con il senso di morte che si fa desiderio di morte di Don Fabrizio; un vaghissimo accenno dell’VIII riemerge sempre nel corso del ricevimento a palazzo Ponteleone. Da un punto di vista meramente strutturale l’eliminazione dei tre capitoli dona in effetti unità e compattezza al film; cinematograficamente le vicende del gesuita a S. Cono sarebbero state una rischiosa divagazione, e chiudere con il ricevimento dei Ponteleone permette di porre l’accento finale sulla fucilazione (ignota al romanzo) dei garibaldini, oltre che di racchiudere l’intero film in una Ringkomposition, dal cielo assolato dei titoli di testa a quello stellato invocato dal principe, in un lunghissimo giorno metafisico che dura tre anni. Un cerchio magico dall’umile soldato borbonico morto fra gli insulti del soprastante Russo, agli umili soldati in camicia rossa morti fra gli insulti di Tancredi e dei veri vincitori; dal principe inginocchiato per il rosario al principe inginocchiato per il viatico.

Gli autori del film hanno motivato i tagli dei tre capitoli in vario modo. Suso Cecchi d’Amico ha rivendicato una differenza di “ritmo narrativo” fra parti eliminate e mantenute, e una presunta difficoltà a rendere comprensibile a una platea straniera la vicenda delle false reliquie. Visconti ha addotto errate interpretazioni filologiche, avallate autorevolmente da Emilio Cecchi, e una concreta motivazione tecnica: “Gli ultimi due capitoli, un poco estranei al romanzo, […] mi avrebbero obbligato a ricorrere a dei maquillage per invecchiare i miei attori di vent’anni. Non amo queste cose”. Sull’importanza delle parti tagliate, come si è già scritto, Lampedusa era stato inequivocabile: “Tengo molto agli ultimi due capitoli,” scrisse all’amico Merlo. E in quanto al trucco, si tenga presente che per somigliare a un quarantenne del 1860 Lancaster recitò per tutto il film camuffato e stagionato di almeno dieci anni. Si ha l’impressione che Visconti e la Cecchi d’Amico abbiano utilizzato con i loro interlocutori lo stesso escamotage usato da Don Fabrizio con Chevalley: trovare una giustificazione intellettualmente seducente alle proprie scelte per non svelare le ragioni più schiette. Più onestamente la ragione dell’eliminazione del VII e VIII capitolo sta nel fatto che essi rendono conto – accanto a una netta condanna del trasformismo come opzione eticamente “ignobile” e politicamente fallimentare – della visione politica di Lampedusa sul Risorgimento; mentre, nonostante la condanna gramsciana di Visconti, nel film il trasformismo resta l’opzione politicamente trionfante. Nel VII capitolo Don Fabrizio tirava le somme della propria vita ma soprattutto della propria

azione (o inazione che si voglia) nei tre anni cruciali per l’Italia, per la Sicilia e per casa Salina. Prendeva coscienza che la panacea offertagli da Tancredi, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, tradotta a livello politico con il trasformismo e a livello etico col tradimento del “suo Re”, aveva fallito e che Garibaldi “aveva dopo tutto vinto”. È l’opposto di quello che ci mostra Visconti con il ballo, dove il trasformista Tancredi, prototipo del nuovo aristocratico pronto alla simonia dello scambio di titoli e passato, per denaro e potere, per quanto odioso, trionfa ed è candidato al Parlamento. La stessa cosa vale per l’VIII capitolo, dove la constatazione del fallimento esistenziale come conseguenza di una scelta politica ed etica toccava, in flashback, allo stesso Tancredi, colpevole di un “peccato” di gioventù (l’offesa e il tradimento della cugina) che aveva condizionato la sua vita e le sue scelte. In Concetta, Lampedusa sintetizza la sconfitta totale del Gattopardo consegnandole però la custodia della “verità” della Storia, che per il tramite di Tassoni le giunge dal mondo dei morti come un messaggio criptato attraverso “gli acquitrini del tempo”. Nel romanzo il fallimento (genetico, esistenziale, sociale dunque politico con la perdita del potere e del prestigio di casa Salina) è la pena conseguente a una colpa, che fu per Don Fabrizio il tradimento del Re Borbone nell’illusione di salvare la sua casta, e per Tancredi il tradimento di Concetta nell’illusione di salvare se stesso e il proprio status. Si capisce bene dunque come Lampedusa tenesse molto a questi due capitoli. È nel finale che l’autore ci

svela la morale della sua storia. Tagliare il finale non è manipolazione da poco. E Visconti lo ha fatto magistralmente facendocene quasi dimenticare l’esistenza. Nella lettura di Visconti gli ultimi due capitoli dovevano essere eliminati anche perché più degli altri stridono con la costruzione che il regista ha imposto a due personaggi fondamentali, il principe di Salina e sua figlia Concetta. Il VII andava tolto perché mostrava Don Fabrizio come un pover’uomo di fronte alla Storia (il “povero principe” che nel romanzo era tale fin dal primo capitolo, e che piacque tanto ad Alicata), sconfitto su tutta la linea, da quella politica a quella genetica; e non, com’è nel film, il Gattopardo capace di comprendere e affrontare i Tempi Nuovi. L’VIII capitolo doveva sparire perché è il segno dell’importanza del personaggio di Concetta, viceversa perennemente tenuto in scacco dalla regia del film; inoltre conteneva il colpo di scena che smentisce le ragioni amorose dell’unione di Tancredi con Angelica, smascherandole come un affare ragionato, una penitenza per tornare all’antico sfarzo, cementato dall’attrattiva sensuale, mentre secondo Visconti la coppia giovane, bella e appassionata, è il simbolo del nuovo blocco sociale che avrebbe dominato l’Italia a venire, l’Adamo ed Eva di una nuova stirpe vincente, per quanto protofascista. Altro che “cambio di ritmo”. Accogliere nel film “La morte del principe” e “La fine di tutto” avrebbe significato accettare il punto di vista di Lampedusa sul Risorgimento e sul nuovo blocco sociale, un punto di vista ancora affettivamente borbonico se pure non insensibile alla storiografia marxista, un punto di vista

meridionalista e di un aristocratico non pentito anche se fortemente critico verso la sua classe. Davvero troppo per un film di Visconti, e forse per qualunque film di quei tempi. Eliminate le zone del romanzo ideologicamente indomabili, Visconti si dedicò quindi a plasmare il resto, cioè quel blocco narrativo storicamente racchiuso fra lo sbarco di Garibaldi a Marsala e il fatto di Aspromonte con il generale fermato sulla via di Roma dalle fucilate sabaude. Nel film tutto comincia fin dai titoli di testa, nel nontempo dell’extradiegesi che per Visconti si fa tempo della memoria, con una sequenza letteralmente di “avvicinamento” al mondo e al tempo del Gattopardo. Le statue sbrecciate, il cancello di buona fattura ma trascurato, le crepe sui muri, i viali sterrati e rustici, danno il senso di una ricchezza stanca di sé, da cui emana un profumo familiare e antico. Privato dell’opulenza, quel mondo si arricchisce di affetto. È la sequenza più proustiana del film, la macchina da presa va in avanti mentre il flusso narrativo e il tempo vanno à rebours, portando lo spettatore indietro di cento anni. In tutta la parte iniziale della sequenza nulla ci dice in quale epoca siamo, lo sguardo della cinepresa pare la soggettiva di un occasionale esploratore d’oggi che s’inoltri nei vialetti di una vecchia villa e immagini (o ricordi) tutto ciò che vi accadde in quel lontano maggio 1860. L’avvicinamento alla villa ha il passo di un ritorno a un “tempo ritrovato”, con cui il film farà i conti sino alla fine. L’ingresso nel mondo del principe non avviene realisticamente dalla porta ma oniricamente sulle ali del vento (il vento della rivoluzione, dei

Tempi Nuovi, della Storia), attraverso le tende di pizzo di una finestra, le uniche a muoversi in un universo rigido e impietrito. Oltre quel fragile sipario siamo nel racconto ed è qui che Visconti comincia a seguire il romanzo. Nella prima sequenza c’è l’omaggio alla struttura circolare del primo capitolo che si apre e si chiude sul rosario: dall’Ave Maria al Salve Regina. Ma lo schema del capitolo è rivoltato. All’opposto che nel romanzo, la rivoluzione garibaldina irrompe subito nella tranquilla vita feudale. Il monotono ripetersi delle preghiere è turbato da voci di popolo sempre più forti, forse minacciose, il brusio si fa così impetuoso che il principe decide di interrompere il rosario. Se non si conoscesse il romanzo si potrebbe pensare a una sommossa, prefigurare l’irrompere di braccianti nella sala adibita a cappella, pronti ad aggredire principi e prete: è una delle allusioni, la meno evidente, alla novella Libertà che Visconti ha inserito nella sceneggiatura. Ma, purtroppo per Visconti, Lampedusa non è Verga, e invece di un popolo in rivolta appare un compito maggiordomo con un vassoio d’argento sul quale è posto il giornale che annuncia lo sbarco di Garibaldi, la lettera del duca di Màlvica rifugiatosi sui “legni inglesi” e, tutto nello stesso tempo (verrebbe da dire sullo stesso vassoio d’argento), la notizia del ritrovamento in giardino del cadavere di un soldato borbonico. “È la rivoluzione!” esclama, per chi non lo avesse ancora capito, padre Pirrone, mentre la tremebonda principessa Maria Stella ha una crisi di nervi. Questa anticipazione dei fatti messi in sintesi, efficacissima per il ritmo del film, crea d’altra parte degli scompensi logici che la sceneggiatura

spiega attribuendo al principe il carattere deciso da Visconti: volitivo, sicuro di sé, una specie di semidio domestico, tanto che nella chiusa della sequenza il principe, a differenza che nel romanzo, non torna a inginocchiarsi e pregare (un particolare eliminato nonostante l’apprezzamento di Alicata per quel segno di soggezione del principe alla Chiesa e a Dio). Così, la gita di Don Fabrizio a Palermo per incontrare la prostituta, che nel romanzo è un capriccio della sensualità e si compie prima della notizia dello sbarco di Garibaldi, nel film viene decisa dopo l’annuncio dell’arrivo dei garibaldini e diventa segno dell’imperturbabile superiorità del principe, un uomo tanto convinto di dominare la Storia e Garibaldi, coraggioso e incurante dei pericoli e dei “fuochi sulle montagne”, da potersi permettere una scappatella nella città minacciata dalla rivolta popolare. Altro che “povero principe Fabrizio” che “stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo”. Per Visconti Don Fabrizio è fin da subito un superuomo circondato da “conigli”: il cugino Màlvica, la moglie isterica, i figli insignificanti e sottomessi, fino al coscienzioso ma timoroso padre Pirrone. Nel corso di tutto il romanzo, invece, non c’è una parola dalla quale possa emergere nel principe il carattere volitivo che Visconti gli ha imposto. Lampedusa riserva a Don Fabrizio solo aggettivi e frasi come “povero principe”, “le forze di difesa della calma interiore tanto vigili nel principe”, “pusillanime”, “un tantino ignobile” come Tancredi, un uomo che per “amor di quiete” evita di far domande, e applica con “timorosa mollezza” i consigli economici di don

Calogero… D’altra parte manca al Don Fabrizio di Visconti tutto quel cogitare e ricordare che Lampedusa gli attribuisce. Manca la visita a Re Ferdinando, che poteva essere utile per tratteggiare l’atteggiamento politico “attendista”, se non ambiguo, dell’aristocrazia siciliana. Soprattutto mancano le riflessioni etiche e politiche che la morte del soldatino borbonico, e quindi le morti dei perdenti, suscitano nel principe. Al giovane caduto con la divisa sbagliata Visconti riserva una “bella morte” nella celebre inquadratura (che contiene una licenza storica: il soldatino è stato ucciso nella zuffa di San Lorenzo durante la rivolta a Palermo del 4 aprile, Visconti fa ritrovare intatto il suo cadavere il giorno dopo lo sbarco a Marsala, cioè più di un mese dopo). Visconti ignora la pagina verista del cadavere “trascinato per le spalle” dai commilitoni imbambolati, che anticipa l’immagine della “carcassa” di Bendicò “trascinata via” dalla cameriera nell’ultimo capitolo: un rimando che nel romanzo sottolineava la vicinanza del destino del potere dei Gattopardi a quello della potenza borbonica. Ad ogni modo, se pure servita su un vassoio d’argento, la rivoluzione è arrivata e bisogna affrontarla. E Don Fabrizio/Lancaster l’attende a piè fermo senza cambiare i propri programmi. Se ne va a Palermo, incontra Mariannina, riduce l’attività sovversiva di Tancredi a una partita a carte, è irritato solo dai timori e dalla prudenza di padre Pirrone. Quando l’indomani incontra il nipote, pronto a raggiungere gli uomini di Rosolino Pilo e Garibaldi, le fatidiche parole del giovane “Se vogliamo che tutto resti com’è…” fungono da didascalia della coscienza già dominante nel principe come Visconti ce lo ha fatto conoscere: nulla cambierà perché noi

aristocratici sappiamo come imbrigliare la Storia e incanalare la rivoluzione nel fiume dei nostri interessi di classe, perciò non c’è ragione di turbarsi e di cambiare programmi. Dopo qualche pallida obiezione di classe (“un Falconeri deve essere con noi, per il Re”) Lancaster/Salina comprende e sposa subito la linea politica enunciata dal nipote: cavalcare la rivoluzione per soffocarla, fingersi garibaldini per sostenere la monarchia sabauda, accettare “un’inavvertibile sostituzione di ceti” in cambio magari di “qualche migliaio di ducati”, e il “dialetto torinese invece che napoletano”. Nel romanzo, per elaborare questo ragionamento, Don Fabrizio doveva arrovellarsi parecchio e non senza un certo disgusto. E in tutto questo rovello aveva una parte non irrilevante il problema – che non dovette essere da poco per un aristocratico del Sud e certo non lo fu per il bisnonno di Lampedusa – della fedeltà e quindi dell’inevitabile tradimento del Borbone, il “suo Re”. Se è pur vero che nel corso del film Visconti non è du côté dei piemontesi ma parteggia per i siciliani (in realtà sarebbe meglio dire per Don Fabrizio), è altrettanto vero che ignora tutta la linea lampedusiana di analisi storica fatta dall’ultimo discendente di un aristocratico meridionale, per sovrapporvi una interpretazione storica nel solco marxista, certamente avvantaggiato in questa operazione dal fatto che le due analisi si avvicinano nel giudizio negativo sugli esiti di quella rivoluzione mancata. Visconti tradisce consapevolmente Lampedusa. E lo fa con il metodo più subdolo, astuto e perfetto: l’omissione. Ciò che viene tolto modifica il senso di quello che resta. Lo abbiamo

visto in modo evidente con il taglio di due capitoli che modificano il senso dei restanti. Lo vediamo ora in dettaglio nelle tre macrosequenze più “politiche”: quella del plebiscito, quella del dialogo con don Ciccio Tumeo e quella del dialogo con Chevalley. Nel giorno del plebiscito, secondo il romanzo, il cielo “era stato ventoso e coperto”, Donnafugata era “flagellata da un vento impuro”. Don Fabrizio si avviava “accigliato” e “lento” al seggio, pieno di ricordi e di rimorsi verso il Re Borbone che stava per tradire votando Sì all’annessione con il Piemonte. Nel film è tutt’altra cosa: il procedere del principe è sicuro e altero, nessuno riuscirebbe a vedere sul nastro della tuba di Lancaster alternarsi un Sì e un NO ma vi leggerebbe sicuramente un Sì. Nel romanzo Don Fabrizio indossava la stessa redingote nera con la quale due anni prima “si era recato a ossequiare a Caserta quel povero Re Ferdinando che, per fortuna sua, era morto a tempo per non essere presente”. Il ricordo della sua ultima visita al Re erano pensieri “sgradevoli come tutti quelli che ci fanno comprendere le cose troppo tardi, e l’aspetto del Principe, la sua figura, divennero tanto solenni e neri che sembrava seguisse un carro funebre invisibile”. Sulla via, Don Fabrizio era infastidito da quel “ventaccio, carico di tutte le schifezze raccolte per via”; riconosceva che, certo, “senza vento l’aria sarebbe stata uno stagno putrido” ma aggiunge maliziosamente che “anche, le ventate risanatrici trascinavano con sé molte porcherie”. Nel film i dubbi angosciosi del principe sono completamente aboliti e le superstiti parole del romanzo assumono un significato praticamente opposto. L’unico scontento risulta padre Pirrone.

E di conseguenza il dialogo è diverso. “Non siate così triste padre,” lo ammonisce il principe, “non stiamo seguendo un funerale, mi pare.” Padre Pirrone attribuisce al vento (“’sto vento schifoso”) la causa del suo malumore. “Ringraziamo il Signore, invece,” replica Don Fabrizio, “senza vento l’aria sarebbe un putrido stagno.” Naturalmente il vento che spazza Donnafugata è ancora il vento della rivoluzione, per il quale nel film il principe arriva a ringraziare il Signore mentre nel romanzo se ne protegge per evitare la congiuntivite. Insomma, se il Don Fabrizio di Lampedusa procede a fatica e obtorto collo, il Don Fabrizio di Visconti procede sicuro verso il Municipio e lungo la linea politica che ha scelto di perseguire, senza alcun dubbio e senza rimorsi. Le divergenze fra i due Don Fabrizio proseguono dentro al Municipio e culminano nella scena del rinfresco seguita al voto. Lampedusa la infestava di immagini fecali come già avvenuto nella passeggiata verso il Municipio. Sui “biscotti anzianissimi” apparivano le “defecazioni di mosche” che “listavano a lutto” i biscotti e si evocava persino “la fognatura” promessa dalle autorità di Girgenti: un’atmosfera esiziale. Per il resto, prosegue Lampedusa, “si ebbe il buon gusto di non brindare”. Nel film, al contrario, la sensazione è proprio quella di assistere a un brindisi (e infatti di “brindisi” parla la trascrizione del film a cura di David Bruni per il Centro Sperimentale di Cinematografia), brindisi dal quale si esimono padre Pirrone e don Onofrio. Quest’ultimo subisce un inventato rimprovero da Sedara (“Don Onofrio, i vostri disturbi intestinali in un giorno come questo sono secondari”) che permette agli sceneggiatori di far dire al principe: “Don

Calogero, per parte mia io accetto con molto piacere”. Secondo Visconti, dunque, dal principe non abbiamo una forzata condiscendenza al plebiscito ma una adesione totale, voluta “con molto piacere”, alla quale addirittura brindare. Della proclamazione del plebiscito nel romanzo ci si spiccia piuttosto rapidamente, con uno stile quasi cronachistico: don Calogero appariva sul balcone, il vento spegneva le candele, “alla folla invisibile nelle tenebre” venivano annunciati i risultati. “Applausi ed evviva” salivano dal “fondo scuro” della piazza. Angelica “batteva le belle mani rapaci”; alle otto “tutto era finito”. Don Fabrizio non compariva, non partecipava alla proclamazione né assisteva al breve festeggiamento. Nel film la scena è più sottolineata. Visconti preme il pedale del comico che ha per vittima don Calogero e la proclamazione dei voti: il discorso del sindaco viene interrotto più volte, e a sproposito, dalla banda del paese. Il principe c’è. Assiste allo spettacolo dal balcone del suo palazzo e ride di gusto alla goffaggine di sindaco e paesani; in questo modo Visconti lo fa partecipe del momento storico, in cui anche a Donnafugata si sta facendo l’Italia. Angelica lo saluta e Don Fabrizio risponde. Dopo il bicchierino bevuto con don Calogero, ora sono i saluti scambiati con Angelica a sottolineare la nuova alleanza che sta nascendo fra potere vecchio e nuovo. Un altro punto nodale è il dialogo tra il principe e don Ciccio Tumeo all’indomani del plebiscito. Nel romanzo è il momento politicamente più esplicito della visione di Lampedusa, veicolata attraverso il monologo dell’organista cui fanno da contrappunto le

riflessioni interiori del principe. La semplice onestà di don Ciccio Tumeo svelava a Don Fabrizio le “radici più profonde” del “suo disagio”: con lo stravolgimento da NO a Sì del voto dell’organista e di altri era stata uccisa “la buonafede”, la “neonata” che “più si sarebbe dovuta curare, il cui irrobustimento avrebbe giustificato altri stupidi vandalismi compiuti”. Proprio a causa di quell’assassinio, spiega Lampedusa, si dovrà “buona parte della neghittosità, dell’acquiescenza per le quali, durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno”. Nel romanzo è addirittura un uomo del popolo a illuminare il principe su cosa è accaduto, a farlo riflettere e persino dubitare “nel fondo della sua altera coscienza” se un organista “non si fosse comportato più signorilmente del principe di Salina”. Nel film la situazione è ribaltata. Il rovello del principe viene ancora oscurato. Serge Reggiani fa il suo “a solo”, e alla fine non è l’organista a dare una lezione di verità e di signorilità al principe ma è il principe, tetragono nella linea trasformista impostagli da Visconti, a imporre a Tumeo (e agli spettatori) la sua lettura politica degli eventi usando ancora parole che non trovano alcun aggancio con il romanzo. “Dovete capire che il popolo era sovraeccitato per le vittorie di questo Garibaldi. E il plebiscito era il solo e urgente rimedio per l’anarchia, credetemi. E per noi [aristocratici] non è che il male minore. I Savoia, in fondo, una monarchia sono.” Il discorsetto culmina con l’ennesima replica del leitmotiv che Visconti continua ad attribuire al principe: “qualcosa doveva cambiare perché tutto rimanesse come era prima”. Don Fabrizio chiude la sua lezione politica con un enfatico

quanto anti-lampedusiano elogio del plebiscito: “L’ora della rivoluzione finì. Speriamo che l’Italia, nata oggi pure qui a Donnafugata, possa vivere e prosperare”. Amen. Di tutto il bellissimo discorso sulla buonafede conculcata, sulle prime palate di terra che vengono gettate sulla verità, non resta nel film alcun accenno. A Ciccio Tumeo non rimane che ribadire il proprio antistorico NO trasformato in Sì da quei “porci” in Municipio, ma è solo la querimonia del poveraccio che non ha capito niente dei Tempi Nuovi. Fino a questo punto, nel film, Don Fabrizio è chiaramente un uomo di potere che, per conservare il vecchio sistema feudale, accetta machiavellicamente di sostituire una monarchia con un’altra, i Savoia al posto dei Borbone; e pur di continuare a dominare su terre e genti come i Salina avevano fatto da sempre, si rassegna a imparentarsi con la ricca borghesia liberale, sicuro che con questi piccoli cambiamenti il potere resterà saldo nelle sue mani e nelle mani della sua classe. Più che il principe di Salina, questo Don Fabrizio sembra il duca d’Oragua dei Viceré, deputato a Torino e a Firenze, il cui segreto motto politico era: “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri…”. Ma nemmeno Visconti può trasformare Il Gattopardo nei Viceré. Non può perché il Don Fabrizio del romanzo non ha alcuna brama, come non ne aveva avuta il bisnonno di Lampedusa, di andare a Torino, nuovo centro del potere, e nella realtà come nel romanzo, nella Storia come nella storia, rifiutava la poltrona di senatore. La decisione del principe del libro minaccia dunque di smentire tutta la linea di compromesso politico che Visconti ha fatto condurre fino a questo momento

al suo omologo cinematografico. Tocca agli sceneggiatori rendere plausibile il gran rifiuto al laticlavio quando proprio un posto al Senato sarebbe stato il logico coronamento della politica trasformista perseguita fin qui nel film da Don Fabrizio. Si arriva così all’“inferno ideologico” evocato nel dialogo con Chevalley. “Inferno” nel quale Visconti e i suoi sceneggiatori hanno tentato di rendere credibile l’incredibile “No” di un uomo di potere, messo temporaneamente da parte, all’offerta di essere reintegrato nei ranghi di coloro che decidono. Il risultato è un falso perfetto come solo i grandi artisti sanno fare. La tecnica usata è sempre quella dell’omissione delle parti non fedeli alla lineaVisconti. Del dialogo lampedusiano il film ha mantenuto le parti più suggestive, capaci di colpire l’immaginazione dello spettatore (fra cui la stereotipata visione della Sicilia e dei siciliani che non era piaciuta a Sciascia) ma ha espunto quelle più politicamente e storicamente connotate. A cominciare dalla franca spiegazione del rifiuto al laticlavio: “Avevo detto ‘adesione’, non avevo detto ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento. Adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che molto sia stato male”. Il sottile distinguo fra “adesione” e “partecipazione” era la raffinata stoccata del principe all’infelice lapsus freudiano in cui era incorso l’emissario sabaudo al suo esordio, “annessione” in luogo di “unione”. Perché, è

evidente, a un’unione si “partecipa” mentre a un’annessione si può, se è concesso, solo aderire o meno, con il SÌ o il NO di un plebiscito. In Visconti il “No” di Don Fabrizio a Chevalley diventa invece un aristocratico rifiuto dettato da indifferente superiorità. Chevalley, truccato come Cavour, è fisicamente un ometto, un burocrate di buone, ma ottuse, intenzioni, che sintetizza l’Italietta liberale e borghese nascente. Il principe risulta un elegante sprezzatore delle lusinghe savoiarde nonché un siciliano mitomane per quanto affascinante (“noi siamo dei”); anche lui, come tutti nell’isola, vuole solo dormire ed evitarsi le umane fatiche, financo quelle del potere. Il rifiuto della poltrona di senatore viene giustificato dal film accreditando come vere le parole falsi e cortesi dell’aristocratico, mentre si censurano le più sincere ragioni del Pari di Sicilia. Il risultato è un incrocio fra storicismo gramsciano (l’inettitudine del nuovo stato liberale, rappresentato da Chevalley, a comprendere la Sicilia e il Mezzogiorno), superomismo aristocratico (il rifiuto del principe di abbassarsi a collaborare con uno stato borghese, di abbandonare il suo Olimpo e mettere i piedi nella terra dell’agire politico) e retorica mollezza siciliana. Anche qui, comunque, tradendo nel profondo il senso che Lampedusa dava alla scena. Solo il giorno dopo, “nel livido chiarore delle cinque e mezzo del mattino”, al congedo di Chevalley da Salina, Visconti e Lampedusa finalmente si incontrano. È il momento in cui Don Fabrizio si rende lucidamente conto che il compromesso da lui favorito fra la vecchia aristocrazia e la ricca borghesia liberale è

destinato al fallimento: non è vero che tutto resterà uguale grazie a quell’apparente tutto che è cambiato, in realtà “tutto sarà diverso, ma peggiore”. Mentre Chevalley se ne va, il principe recita il suo addio alla Storia: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti e le iene”. Con diversi anni di anticipo sul ripensamento di Sciascia, Visconti condivide in pieno la profezia che accompagna l’uscita di scena del principe, e sottoscrive: il futuro di quel 1860, cioè l’oggi del 1963, “è peggiore” perché peggiori sono quelli che hanno preso il posto dei Salina. Da questo momento in poi il Don Fabrizio di Visconti e quello di Lampedusa si avvicinano. Dentro i saloni di palazzo Ponteleone, Visconti tira le fila della sua linea critica mostrando nel trionfo del nuovo blocco sociale i germi della deriva fascista, e nel dolore del principe la condanna al trasformismo che, per dirla con le parole del regista, “pesa come una cappa di piombo sul nostro Paese”. Nella macrosequenza del ballo, la più apprezzata da Togliatti, Visconti porta alla perfezione la traduzione cinematografica della cifra stilistica più propria di Lampedusa, dove l’uso proustiano della memoria dà profondità, senso e prospettiva storica al realismo di matrice verghiana (la famosa “sutura” fra Proust e Verga di cui parla Visconti con Trombadori). Ma Visconti non è Lampedusa. L’introitus del ballo per Tomasi era il suono di un’agonia: il “gracile scampanellio” del santo viatico incrociava la carrozza del principe sulla strada che portava i Salina al ballo, e allungava il suo “ammonimento” sulle “duecento persone che componevano il ‘mondo’” e che “non si

stancavano d’incontrarsi, sempre gli stessi, per congratularsi di esistere ancora”. Per Visconti l’apertura del ballo è al ritmo sontuoso di un valzer, con un’ampia panoramica che parte da un’arida valle dove i braccianti zappano al ritmo del 3/4. La stessa musica unisce i nobili danzanti, emersi dalla dissolvenza incrociata, e il popolo che fatica. Sempre la stessa musica, come diceva Sciascia nel suo Il quarantotto, e proprio come volevano il principe e Tancredi: tutto è rimasto com’è. Eppure anche nel film qualcosa è cambiato. Il Don Fabrizio che si aggira fra i saloni di palazzo Ponteleone non è più il superuomo circondato da mediocri, ma un estraneo fra simili che – a differenza di lui – non sanno di essere al tramonto. Nel film il senso di morte che ghermisce Don Fabrizio è solo suo. A lui solo Visconti fa incontrare lo scampanellio del viatico, e lo fa alla fine del ballo. Attorno a un Gattopardo che corteggia la morte gli altri personaggi si muovono e danzano pervasi da una festosa vitalità e pronti al proficuo futuro che la scampata rivoluzione e l’esercito sabaudo assicurano loro. Fra i tanti, i più vivi e belli, i più ambiziosi e invidiabili, sono Angelica e Tancredi. Il ballo di Visconti celebra e suggella il successo della coppia. I due giovani, con la loro bellezza e la loro eleganza rafforzano quello che rappresentano: il nuovo ordine che avanza. Essi sono il futuro. Visconti lo fa dire chiaro a un personaggio totalmente inventato, Don Alberto, rivolto al principe: “Ah, a proposito, complimenti per il fidanzamento di tuo nipote: la ragazza è una bellezza, l’esempio sarà presto imitato da molti”. Il nuovo blocco sociale rappresentato da

Angelica-Tancredi ha il futuro assicurato, altro che lo “spettacolo patetico più di ogni altro” del romanzo, con quegli “attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti dal copione”. Visconti nel film ha pure provveduto a eliminare dal copione la cripta e il veleno dell’VIII capitolo (lo spettatore non saprà mai che il loro sarà un matrimonio malriuscito e pieno di tradimenti). Non solo: il regista ha aggiunto di suo l’inizio dell’ascesa politica di Tancredi con l’annuncio allo zio della sua candidatura al Parlamento (un’altra licenza storica, al tempo del ballo Tancredi ha solo 22 anni e non potrebbe essere candidato a Torino). Dietro la splendida coppia di giovani fidanzati si muove don Calogero. Anche durante il ballo la sua grossolana naïveté continua a fornire a Visconti più di uno spunto comico. Visconti odia don Calogero per la stessa ragione di Don Fabrizio, la consapevolezza che saranno quelli come lui a distruggere il loro mondo. Ma Visconti ha una ragione eccezionale per odiare Sedara: è lui il nemico di classe da annientare, ed è nemico due volte, per il conte milanese e per il regista comunista. Nel film Sedara viene coperto di ridicolo, senza quella pietas che Lampedusa invece mostra scrivendo “era forse un infelice come gli altri”. E se è pur vero, come scrisse all’epoca Baldelli, che Sedara nel film è “un burattino su cui si esercita lo sfogo, un poco meschino, dell’aristocratico sopra il nemico borghese”, la risata con cui Visconti seppellisce don Calogero va spegnendosi lentamente nel corso del ballo per raggelarsi sinistramente nel finale. Il primo piano degli occhi attenti di Sedara, il suo aggirarsi con il passo sgangherato di uno sciacalletto, i suoi modi da esecutore

fallimentare che registra quanto gliene verrà in tasca di quella imminente rovina, fanno capire che è lui il vero vincitore. A lui andrà l’ultima parola nella scena finale del film, totalmente spuria, dove i germi del fascismo emergono nella nuova classe dirigente. Seduto in carrozza, davanti a Tancredi e Angelica abbracciati e assonnati, don Calogero Sedara tira fuori la sua anima più autentica. Il suo volto vero, torvo e rapace, prende il posto della maschera servile, sorridente e impacciata che gli abbiamo visto finora. Fuori campo si odono gli spari dell’esecuzione dei garibaldini e l’uomo nuovo commenta: “Bell’esercito, fa sul serio. È proprio quello che ci voleva per la Sicilia. Ora possiamo stare tranquilli”. Tancredi approva. Lo spettatore sente preconizzare nelle fucilate fuori campo gli spari di Bava Beccaris sugli operai in sciopero e gli si gela il cuore. Ma Visconti non ha operato modifiche essenziali solo su Don Fabrizio e don Calogero. I personaggi più manipolati dal regista sono Tancredi e Concetta. Nel romanzo il principe di Falconeri è un ragazzo di appena vent’anni, minorenne (per l’epoca) come i tanti che in quella primavera portentosa per l’Italia risposero alla chiamata di Garibaldi. Affascinato dalla bella Angelica e umiliato dalla cugina, Tancredi cedeva alla “passione ragionata” per l’ereditiera, che suscitava in lui “ambizioso e povero” anche un’eccitazione “contabile”. Scegliendo questa mésalliance, Tancredi usciva dall’età dell’innocenza e diventava adulto: abbandonava l’avventura garibaldina e rientrava nei ranghi dell’età della ragione. Politicamente e socialmente precorreva i tempi, era “un novello

Mirabeau”, “ambizioso” secondo lo zio, “astuto” e “opportunista” secondo il suocero. Più avanti Lampedusa fa capire che il Tancredi postgaribaldino è cambiato: era diventato “un esemplare inatteso” di giovane nobile, “arido” quanto don Calogero, “capace di barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui” e di rivestire azioni “sedaresche” di grazia e fascino. Di questa cesura fra il Tancredi in camicia rossa e quello in divisa blu, Visconti dà indirettamente e distortamente conto solo nell’ultimo bisticcio – totalmente inventato dagli sceneggiatori – fra i due cugini durante il ballo. All’udire la lunga tirata fascisteggiante di Tancredi (“Il nuovo regno ha bisogno di ordine, di legalità, di leggi. Bisogna soffocare innanzitutto qualsiasi tentativo anarchico”) e l’offesa verso i garibaldini che di lì a poco saranno fucilati (“Sono dei disertori”), Concetta replica indignata: “Una volta non avresti parlato così”. Ma in quel contesto “una volta” assume connotati sentimentali e non politici. Per il resto il Tancredi di Visconti è un monolite i cui carattere, ambiguità e leggerezze – più libertine che leggiadre –, la mancanza, se non il disprezzo, degli ideali del tempo sono tutti uguali dall’inizio alla fine del film. Sono ancora I Viceré a fornire materia per la costruzione del personaggio che, anche per l’età di Delon, assomiglia più a Consalvo Uzeda, lui sì opportunista e camaleontico, che al Falconeri del Gattopardo. Nel film Tancredi è politicamente molto più a destra di quanto non lo sia nel romanzo: l’elogio della fucilazione, il disprezzo per i garibaldini condannati a morte, e per lo stesso Garibaldi,

l’apologia dell’uso della forza contro le istanze democratiche e popolari ne fanno un fascista ante litteram. “In Tancredi,” spiegava il regista a Gioacchino Lanza Tomasi, “vi è il tipo di tanti che hanno seguito i tempi puntando sul cavallo vincente, hanno fatto la marcia su Roma o la guerra di Spagna per riottenere un potere che vedevano sfuggire dalle loro mani, ed una volta conseguitolo hanno infierito come i loro predecessori non erano capaci di fare.” Il Falconeri del film è un eroe negativo e non, come negli ultimi due capitoli del romanzo, una vittima dei tempi e della propria ambizione che, in tarda età, non riesce ancora a perdonarsi il “peccato” commesso nei confronti della cugina durante la cena a Donnafugata. Una simile reinterpretazione viscontiana del personaggio porta conseguenze decisive. Dal momento in cui appare nello specchio di toeletta di Don Fabrizio e pronuncia la frase famosa (“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”), Visconti opera una continua sottile sterzata verso l’opportunismo e una visione politica di destra retriva che non appartiene al Tancredi originario: dalla smaccata indifferenza verso Concetta al disprezzo verso i velleitari compagni d’arme, fino all’arroganza di casta esibita al posto di blocco (in un’altra scena inventata dove le carrozze dei principi passano mentre il popolo incolonnato rimane ad aspettare). La sua partecipazione all’impresa garibaldina in Visconti è tiepida e insignificante, il minimo necessario per saltare all’ultimo momento sulla carrozza del vincitore: nella sequenza della battaglia di Palermo, Tancredi appare giusto l’attimo per essere ferito e guadagnarsi il grado

di capitano. Nel romanzo di Lampedusa il curriculum di Falconeri era un po’ più corposo. Durante la visita di Don Fabrizio a Ferdinando II si veniva a sapere che il giovane era di già nel mirino della polizia borbonica per le sue simpatie per la “setta”, ossia la Carboneria, ed era stato coinvolto nella rivolta del 4 aprile che spinse Garibaldi a scendere in Sicilia. Non proprio uno dell’ultima ora. Nonostante le nostalgie borboniche di Lampedusa, Tancredi rappresenta, almeno fino a un certo punto del romanzo, quella parte di siciliani e meridionali che con Rosolino Pilo, morto nella battaglia di Palermo, avevano preparato l’arrivo di Garibaldi permettendogli di prendere l’isola, per poi sparire dai sussidiari scolastici o finire insultati da qualcuno come “mafiosi” (come li definisce del resto Don Fabrizio). Continuando il gioco di rimandi con la contemporaneità, il Falconeri di Lampedusa si potrebbe definire tutt’al più un badogliano, non certo un protofascista. Il Tancredi del romanzo aveva “un temperamento frivolo a tratti contraddetto da improvvise crisi di serietà”, “accessi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro”. Questa sua parte “seria” e “impenetrabile” è sconosciuta a Visconti, come anche la sua devozione a Garibaldi (“quando diceva il Generale Garibaldi calava la voce di un tono e prendeva l’aria assorta di un chierichetto davanti all’ostensorio”). E naturalmente rimarrà sconosciuto allo spettatore del film il suo tentativo, dopo la bravata alla cena di Donnafugata, di riconciliarsi e farsi perdonare dalla cugina senza riuscirci. Cugina alla quale Visconti ha riservato un trattamento persino peggiore.

“Capo biondo”, gli “occhi azzurri” attraversati di quando in quando da un “bagliore ferrigno” capace di perpetuare “nel carattere e nella bellezza” una vera Salina. Questa è la Concetta di Lampedusa. Si fa davvero fatica a riconoscerla nella Lucilla Morlacchi che Visconti ha scelto per la parte della “gattopardina”. Per un breve momento, quando Il Gattopardo per Visconti era ancora un progetto da accarezzare con l’immaginazione, il regista aveva pensato a Romy Schneider, che con le sue origini austriache rispondeva perfettamente alla fisionomia della Concetta di Lampedusa. La relazione che legava l’attrice a Delon avrebbe tra l’altro giovato a lumeggiare la nascente attrazione tra la Salina e il cugino Falconeri. Ma Romy dice no, vorrebbe interpretare Angelica, e l’ipotesi cade. Visconti sceglie Lucilla Morlacchi e il personaggio di Concetta cambia: la ritroviamo nel film con gli occhi scuri, i capelli di un castano rossastro alquanto anonimo, inadatto a creare l’opposizione di colori e financo di razza con la “formosissima et nigerrima” Angelica (che nel film sarebbe risaltato ancora di più). Infine anche la Morlacchi come Delon è molto meno giovane del personaggio che interpreta: Concetta ha 17 anni, la Morlacchi 27, un’età in cui, nell’Ottocento, le ragazze venivano ormai considerate zitelle. Oltre all’aspetto fisico Visconti le cambia anche il carattere. Nel libro, Concetta è per bellezza e carattere “una vera Salina”, una “gattopardina” orgogliosa. Don Fabrizio, per “la naturale tendenza che aveva a rimuovere ogni minaccia alla propria calma”, sopravvaluta la sua sottomissione e placidità. In realtà Concetta è

l’unico personaggio del romanzo in grado di tenere testa al padre; ferita dal suo appoggio al matrimonio di Tancredi con Angelica, gli volta le spalle mentre Don Fabrizio torna dalla proposta di fidanzamento, ed è l’unica a non versare neanche una lacrima davanti al principe agonizzante. Nel film invece Concetta appare subito una fanciulla insipida, quasi bruttina, infatuata senza costrutto del bellissimo cugino: dotata forse solo di supposte virtù casalinghe, è già una zitella prima di essere una fanciulla. Una Concetta così non può che essere spazzata via dal primo battito di ciglia di una qualunque rivale, figuriamoci poi se la rivale ha la bellezza straordinaria di una Claudia Cardinale nel suo periodo d’oro. Visconti non si limita a imbruttire Concetta, le inventa diverse scene ad hoc, destinate a costruirle un carattere meschino e un’avvilente infatuazione non corrisposta per il cugino. Fra le tante scene (praticamente tutte) manipolate o totalmente spurie, alcune spiccano particolarmente per infedeltà. Nella sequenza, tutta inventata, che segue l’annuncio della sua partenza per raggiungere Garibaldi, Tancredi/Delon corre via, e dopo aver deliziato zia, cugine, cugini e persino l’alano Bendicò, sulla soglia della villa s’imbatte in Concetta. Lui non la vede neppure, lei lo chiama, è evidentemente preoccupata per lui, lui le dà un bacio veloce sulla fronte e se ne scappa saltando sul calesse. Il pensiero più spontaneo è “poverina”. Lo schema “Morlacchi estasiata/Delon simpaticamente indifferente” si replica in diverse scene inventate prima dell’apparire di Angelica. Esemplare è la sequenza dell’ingresso di

Concetta e Tancredi, l’una al braccio dell’altro, nella Chiesa Madre di Donnafugata per il Te Deum. Qui il “grande turbamento e una dolcissima voglia di piangere” della Concetta del romanzo si trasformano in una smaccata adorazione della Morlacchi per Delon, mentre la “forte pressione che il premuroso giovanotto esercita sul braccio di lei, al solo scopo, ohibò, di farle evitare le buche e le buccie che costellavano la via” diventano due buffetti frettolosi sulla mano di lei. Dentro la chiesa poi non c’è nulla del Tancredi che “col pretesto di cacciar via la mosca sfiorò più di una volta il capo biondo di Concetta”. Ma la differenza più forte è la tecnica narrativa. Nel film Concetta e Tancredi, che procedono l’una al braccio dell’altro verso la chiesa e poi dentro la navata, sono in campo medio, quindi lungo, e questo evita l’empatia fra spettatore e personaggi. Lampedusa, invece, costruiva narrativamente un “carrello in avanti” dentro i sentimenti di Concetta, cui faceva da pendant una serie di “dettagli” degli atteggiamenti di Tancredi che svelavano ironicamente recondite ragioni sentimentali dietro apparenti pretesti di un seduttore ancora ignaro di se stesso. All’arrivo di Angelica/Cardinale la situazione precipita: il sadismo di Visconti si accanisce contro Concetta/Morlacchi in un raffronto perennemente perdente. Lo spunto è offerto da un passo di Lampedusa, sottolineato e segnalato a margine dal regista nella sua copia del romanzo, in cui Don Fabrizio considerava con fastidio “la bellezza di Angelica che poneva in ombra la grazia contegnosa della sua Concetta”. Queste due righe scarse, che nel romanzo sintetizzano orgoglio e amore paterni, a Visconti suggeriscono invece un programmatico

confronto con l’Altra, in una competizione amorosa ed estetica che raggiungerà l’acme nello specchiarsi delle due ragazze nel salone di palazzo Ponteleone dove, anche qui scena tutta inventata, la gattopardina per ordine di Visconti deve “sembrare un cocker” (testimonianza di Lucilla Morlacchi). Il confronto Morlacchi/Cardinale comincia durante la cena a Donnafugata che i due cugini non dimenticheranno mai. Nel romanzo Tancredi, seduto fra le due ragazze “con la compitezza puntigliosa di chi si sente in colpa, divideva equamente sguardi, complimenti e facezie fra le sue vicine”. Nel film ignora smaccatamente la cugina ed è tutto rivolto alla nuova ospite. Dopo il volgare racconto di Tancredi e la risata esagerata di Angelica, Concetta rimprovera il cugino. Nel romanzo il rimbrotto avveniva a quattr’occhi mentre gli altri, Angelica compresa, si alzavano da tavola: “Tancredi si chinò per raccattare il ventaglio di piume che Angelica aveva lasciato cadere; rialzandosi vide Concetta col volto di brace, con due piccole lacrime sull’orlo delle ciglia: ‘Tancredi, queste brutte cose si dicono al confessore; non si raccontano alle signorine, a tavola; per lo meno quando ci sono anch’io’. E gli volse le spalle”. Nel film la scena è sensibilmente variata. Dopo la risata della Sedara, Concetta si alza imbarazzata ed esce di campo. Tancredi e Angelica restano ancora un po’ seduti a tavola, Angelica continua a ridere, Tancredi sposta la sedia di Angelica sempre ridente, stringe le braccia della bella ragazza restandole alle spalle in un corteggiamento sempre più esplicito: sono già una coppia affiatata. A questo punto Concetta ritorna in campo e col cipiglio di un’istitutrice

rimprovera lui, che continua a stringere l’altra. Angelica non smette di ridere mentre Tancredi non molla la presa e ascolta serenamente la reprimenda. Angelica s’impensierisce, Concetta volta le spalle ai due e Delon incassa il rimprovero quasi indifferente: l’exploit della cugina non lo ha minimamente scalfito, mentre noi sappiamo dall’VIII capitolo che Tancredi avrebbe voluto abbracciarla “lì, davanti a venti persone e al mio terribile zione”. Di conseguenza nel film manca anche l’episodio della visita al convento della Beata Corbera dove Tancredi tentava di farsi perdonare dalla cugina per le volgarità della sera prima. Dopo averci mostrato una Concetta gelosa e bacchettona, che ha dalla sua solo la rivendicazione della buona educazione, Visconti continua a infierire rendendola frigida e ottusa, e facendola corteggiare da un ufficialetto insignificante, il Cavriaghi arrivato a Donnafugata con Tancredi. Nel romanzo il contino Cavriaghi non era affatto insignificante ma sicuro di sé, dava del “testone” a Tancredi e pretendeva di voler vedere subito Angelica per verificare se il compagno d’arme avesse esagerato in elogi (“Sa, Principe, a sentire lui è la regina di Saba! Andiamo subito a riverire la formosissima et nigerrima”), e non rinunciava a fare il galante con le principessine (“vedo molte belle”). Dopo i convenevoli, sempre nel romanzo, Cavriaghi puntava subito l’obiettivo e andava a sedersi vicino a Concetta donandole il libro di poesie di Aleardi, un bestseller dell’epoca, portato da Napoli per lei. Qui iniziava un dialogo tenuto da Concetta sul filo dell’ironia, e quando il corteggiatore cominciava a toccare i toni retorici della passione lei lo stoppava invitandolo a leggerle qualche “bella poesia”. Intanto Tancredi

mostrava a tutti l’anello di fidanzamento per Angelica: “Anche Concetta e Cavriaghi vennero chiamati ad ammirarlo, ma non si mossero, perché il contino l’aveva già visto e perché Concetta rimandò quel piacere a più tardi”: i due ragazzi avevano di meglio da fare. Nel film Visconti invece riduce fino alla goffaggine molesta il corteggiatore di Concetta. Impone alla ragazza la visione dell’anello di fidanzamento per l’Altra e le fa dire, a capo chino, un mesto “bello, molto bello”. Durante il corteggiamento di Cavriaghi, Visconti s’inventa che Concetta è tutta intenta a ricamare ottusamente a tombolo. E non è finita. Fa precedere la consegna del libro dell’Aleardi da un inspiegabile intervento di padre Pirrone che, nel soppesare il dono, fa capire a Cavriaghi che quelle poesie non saranno granché gradite: si ha l’impressione che Concetta sia un po’ ignorante e parecchio fuorimoda. Quando il contino le offre il libro con sopra incise le iniziali C.C.S. (Concetta Corbera Salina) e la frase “sempre sorda”, la Morlacchi commenta, come se non avesse davvero capito: “Sempre sorda. Cosa vuole dire? Io ci sento benissimo”. E lui deve didascalicamente spiegare: “Sorda ai miei sospiri”. In Lampedusa il dialogo era ben più divertente e Concetta più scaltra. Innanzitutto non ricamava a tombolo, accoglieva il dono e nel leggere “sempre sorda” rideva “divertita” e poi diceva (ne immaginiamo facilmente il tono ironico): “Ma perché sorda conte? C.C.S. ci sente benissimo”. A questo punto, scrive Lampedusa, “il volto del contino s’infiammò di fanciullesca passione” e, con tono evidentemente tutt’altro che didascalico, proseguiva: “Sorda, sì, sorda,

signorina, sorda ai miei sospiri, sorda ai miei gemiti, e cieca anche, cieca alle suppliche che i miei occhi le rivolgevano…”, e via di questo tono. Concetta parla poco ma indubbiamente ci sente benissimo. Sente e quindi comprende benissimo. C.C.S. capisce subito la sua sventura. Capisce perché suo padre ha favorito il matrimonio fra Angelica e Tancredi sacrificando la sua felicità. Capisce benissimo perché Tancredi ha deciso di corteggiare Angelica. Infine nell’ultimo capitolo “aveva compreso il significato della visita di Monsignore Vicario e ne prevedeva le conseguenze […] la brutta figura che casa Salina avrebbe fatto” di fronte all’autorità ecclesiastica e di fronte alla città intera. Insomma è cosciente della sventura prima sua poi di casa Salina, arrivando nelle ultime pagine a incarnarla e decidendo lei l’ultimo atto della rovina con l’ordinare la defenestrazione di Bendicò/Gattopardo. A difesa di Visconti bisogna riconoscere che se il regista ha potuto distorcere così negativamente il personaggio di Concetta è perché Lampedusa glielo ha permesso. Concetta, come osserva Francesco Orlando, è un personaggio del Gattopardo osservato dall’esterno “e come incompreso dalla voce dell’autore”. Ogni volta che Concetta dice o fa qualcosa dalla quale si potrebbe dedurre una sua interiorità, una sua presa di posizione, una sua volontà, l’autore la smentisce giustificandola con altre ragioni, di solito anodine, o dissimulandole con l’ironia. L’esempio più forte è al passaggio di Don Fabrizio che ha appena chiesto per Tancredi la mano di Angelica a Sedara. L’incedere del principe è annunciato dai suoi passi che fanno tremare l’impiantito: “Concetta aveva le spalle voltate,” scrive Lampedusa; “ricamava al

tombolo e, [qui arriva la giustificazione che fa fraintendere] poiché non udì passare il padre, non si volse neppure”. Si esclude così l’ipotesi che Concetta non si alzi per mancanza di rispetto o per rivolta verso il padre, ma diciamo “per sordità”. In questo modo l’autore assume l’atteggiamento psicologico di Don Fabrizio che per quieto vivere ne sopravvaluta la “sottomissione e placidità” e non riesce a “osservare il bagliore ferrigno che attraversava l’occhio della ragazza”. Atteggiamento determinato anche dal fatto che spesso – come già osservato da illustri commentatori, primo fra tutti Aragon – l’autore vive incollato al suo personaggio principale, Don Fabrizio, tanto che a tratti, come in questo caso, è difficile scinderli. L’essere incompresa (dal padre, da Lampedusa, da Visconti, dallo stesso Tancredi) è il destino di Concetta. Un personaggio quasi totalmente ignorato dalla critica benché le sia dedicato un intero capitolo, per di più quello finale. Solo la studiosa Olga Ragusa le dedica alcune pagine significative in un saggio pubblicato nel ’73. A differenza di Concetta, la rivale Angelica è nel film molto più fedele al dettato lampedusiano. La bellezza della Cardinale corrisponde perfettamente alla descrizione del romanzo: “venustà chiara ma greve”, “bellezza paesana”, “era alta e ben fatta, in base a generosi criteri”, “gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandola, i non pochi difetti che quella bellezza aveva”. Nel suo ingresso mozzafiato nel salotto dei Salina a Donnafugata, Angelica/Cardinale procede, come da romanzo, “lenta, facendo roteare intorno a sé l’ampia gonna bianca e recava nella persona la

pacatezza, l’invincibilità della donna di sicura bellezza”. Nel corso del film Visconti segue l’ingentilimento del personaggio che da bellezza paesana si trasforma, al momento del debutto nel mondo che conta, in un’elegante signorina dell’alta società che esibiva una “non spontanea ma riuscitissima mescolanza di modestia verginale, alterigia neo-aristocratica e grazia giovanile”. Il favore di Visconti verso Angelica, nonostante sia la figlia dell’odiato don Calogero fascista ante litteram, si spiega meglio con la lettura che di questo personaggio fa Emilio Cecchi: “Ardita beltà popolana che ha incantato e domato l’orgoglio aristocratico dei Salina”. Per Visconti, Angelica non solo non ha “l’odor di beccume del nonno” ma non ha nemmeno la volgarità dell’arrivismo paterno, che in lei è ben fuso con l’istinto sessuale a possedere Tancredi e quello che rappresenta. Agli occhi di Visconti e compagni è piuttosto una figlia del popolo che grazie alla sua bellezza compie il proprio riscatto sociale. Angelica sottomette l’orgoglio dei Salina e dell’aristocrazia che in frac le si raccoglie attorno per implorarle un ballo. Il valzer che Angelica impone con le sue grazie al principe è la sua totale vittoria. Le immagini a Cannes della Cardinale con un “gattopardo” vero al guinzaglio sono un’iconografia più eloquente delle intenzioni del press agent Lucherini. Angelica, a modo suo (l’unico modo possibile a rivoluzione fallita), ha fatto la sua lotta di classe, ha sferrato il suo attacco seducente al cuore dell’aristocrazia e, secondo Visconti, ha sottomesso il gattone ormai addomesticato. Davanti a lei il regista s’inchina. Secondo questa lettura sarebbe dunque Don

Fabrizio il vero antagonista di Angelica, lui l’Oloferne della novella Giuditta. Ma Visconti si sente vicino a Don Fabrizio fino all’immedesimazione, quindi l’avversario di Angelica non può essere – come invece è nel libro – il principe; concentra perciò su Concetta, l’altra “vera Salina”, tutti i difetti di una aristocrazia meridionale gretta, parassitaria e passatista, ignorante, che ha in faccia i segni della morte. Bigotta, insicura, poco intelligente, frigida, presuntuosa, sciocca, non bella, inadatta a rappresentare la futura classe dirigente, Visconti la dipinge come un’antipatica figlia di papà. Per lei non si prova nemmeno compassione e neppure antipatia, è lì solo per essere colpita e affondata dall’ex figlia del popolo Angelica. Un breve sussulto di fedeltà Visconti glielo tributa nel finale, in una scena del tutto inventata su cui riverbera vagamente il tema della verità dell’VIII capitolo. Nel salottino, alla fine del ballo, Concetta rinfaccia a Tancredi di essere cambiato e di aver tradito gli ideali garibaldini di un tempo. “È tanto cara soprattutto quando si arrabbia,” dice Tancredi (frase che vorrebbe rievocare le sue parole riportate nell’ultimo capitolo da Tassoni: “Era tanto cara mentre mi fissava con i suoi occhi incolleriti…”). “Povera Concetta, la verità è che è ancora innamorata di te,” conclude rassicurante Angelica, parafrasi delle parole di lei a Tassoni: “Era pazzamente innamorata di Tancredi; ma lui non aveva mai badato a lei”. Così anche nel film – come nel finale del romanzo – la verità di Angelica seppellisce quella di Concetta. Ma qui la versione di Angelica riduce lo scambio di battute fra i due cugini a una povera ripicca sentimentale, senza nemmeno l’ombra della evocazione di una verità

diversa, senza la presa di coscienza dell’VIII capitolo. Più complesso è capire perché Lampedusa abbia scelto di lasciare incompresa, quasi di nascondere Concetta, pur riservandole l’intero capitolo finale e il fulcro della riflessione sulla verità. Lampedusa, afferma Giuseppe Paolo Samonà nel suo volume fondamentale, ha messo in Concetta, forse non del tutto consapevolmente, tanto di sé e in lei “investe” tanto della sua visione del mondo. “Concetta è l’esemplificazione compiuta della fusione […] fra sconfitta sociale e sconfitta individuale,” scrive Samonà, e non è difficile immaginare come in questa duplice sconfitta si sia rispecchiato lo stesso Lampedusa. Nel Gattopardo Concetta è infatti il personaggio sconfitto per antonomasia. Lo è fin dall’inizio del romanzo con uno stigma storico. È la figlioccia di Re Ferdinando, il re il cui figlio sarà vinto in una guerra mai dichiarata. Quindi come il padre e forse ancora di più, Concetta è “inevitabilmente compromess[a] col regime borbonico”. E in quanto tale è lei che conserva fino all’ultimo le ragioni dei vinti. Ragioni e verità molto fragili che per non andare distrutte devono essere nascoste, seppellite appunto, finché forse un giorno qualcuno verrà a disseppellirle. Concetta, con il suo carattere, il suo orgoglio, il suo essere “una vera Salina”, viene nascosta e negata perché l’autore ha voluto proteggerla. L’infelice storia d’amore di Concetta acquista allora una nuova luce: diventa lo specchio dell’infelice storia politica di casa Salina e del suo capo famiglia. Una storia dove il rimorso di Tancredi per il tradimento della cugina corrisponde al rimorso di Don Fabrizio per il

tradimento del “suo Re”, e dove lo stesso orgoglio dei Salina che ha fatto sì che Concetta lasciasse Angelica fra le braccia di Tancredi, ha fatto sì che Don Fabrizio lasciasse il nuovo Stato italiano fra le braccia dei Sedara. Ma un romanzo su un’orgogliosa principessa borbonica che assiste alla fine della sua classe e al fallimento di una rivoluzione, che osserva con “sguardo imperiale” l’arrampicarsi di sciacalletti e iene sulle scale dei palazzi patrizi, gli inchini, i baciamani e le giravolte che suo padre e suo cugino sono costretti a fare per sopravvivere, e il disonore del tradimento che ne consegue, tanto più disonorevole perché inutile, insomma un romanzo che raccontasse apertamente questa storia sarebbe stato banale, troppo esplicito, troppo “grasso” e soprattutto nessuno, e questa volta per davvero, nel 1958 l’avrebbe pubblicato mai. Bisognò questo personaggio nasconderlo, relegarlo in un ultimo capitolo, al quale Lampedusa teneva molto ma che quasi tutti considerarono un’appendice. E Visconti, più forte di tutti, una “brutta appendice” da cancellare. “E così,” concluderemmo con le parole di Tomasi, “una nuova palata di terra venne a cadere sul tumulo della verità.” Il film di Visconti è stato la palata di terra più vigorosa sulla verità del Gattopardo. A partire dalla Palma d’Oro, il film di Visconti e il romanzo di Lampedusa si sono uniti indissolubilmente. “Si possono trattare insieme,” semplificava Arbasino, “dal momento che l’uno è la passiva illustrazione dell’altro.” Che libro e film siano pressappoco la stessa cosa è una convinzione radicata, che accomuna la critica più accorta alla platea più semplice. Non esiste film tratto da un libro di cui si sia affermato con

altrettanta sicumera: è assolutamente fedele al romanzo. Dirà giustamente Eugenio Scalfari, ai margini di una polemica di fine secolo: “L’interpretazione del romanzo data da Visconti […] ha avuto sul pubblico italiano un effetto rilevante, tant’è che nell’immaginario collettivo le due figure ‘volitive’ dell’opera sono quella di Angelica e quella del principe di Salina. Personalmente non ricordo un film che abbia avuto un impatto così amplificante e influente sull’interpretazione del testo narrativo, salvo forse Via col vento”. Il merito è proprio della cosiddetta “fedeltà” del regista nel trasporre il romanzo, voluta ansiosamente da Lombardo e ricercata maniacalmente da Visconti. Una fedeltà spesso lontana dai contenuti profondi del libro ma esercitata ossessivamente sulle battute, sulle situazioni, sugli arredi, sui dettagli. Il Gattopardo di Visconti non è la “passiva illustrazione” del Gattopardo di Lampedusa ma può sembrarlo perché la fisionomia del principe, i cannocchiali dell’osservatorio, il quadro di Greuze che si vedono nel film sono identici a quelli che si leggono nel romanzo. Al contrario, il contenuto del film è molto diverso da quello delle pagine scritte. Il Gattopardo di Visconti condanna tutti i protagonisti a recitare un amaro apologo sulla lotta di classe premendo il pedale marxista sull’avvicendarsi dei ceti, che nel romanzo è invece solo lo sfondo di un bilancio soprattutto esistenziale. Don Fabrizio è l’unico personaggio che Visconti, per affetto e adesione personale, libera in parte dal rigido schema gramsciano a cui ha incatenato tutti gli altri, lasciandolo vivere, nella sequenza del ballo, in un crepuscolo mortuario che lo eleva in una regione di perenne certezza, in una dimensione letteraria e astratta

dove l’esistenziale e l’umano travalicano il politico. Infedele nella morale, Visconti fu fedele a Lampedusa nei particolari, in ciò spinto non banalmente dalla sua leggendaria meticolosità di metteur en scène ma dalla sua intima aderenza al mondo aristocratico dello scrittore, che era poi il suo mondo. L’affetto di Visconti per l’universo del protagonista gli è nato da dentro, dai ricordi dell’infanzia, da un territorio comune che gli ha fatto ritrovare Lampedusa non come un antagonista ideologico ma come un fratello dimenticato. È stata questa aderenza sentimentale a imporre l’aderenza cinematografica ai dettagli letterari; ed è proprio l’amore con cui Visconti ha riprodotto quei particolari che dovrebbe far parlare di realismo (forse non il “realismo critico” che avrebbe voluto Aristarco, piuttosto una sorta di “realismo sentimentale”). Al confronto la ricreazione di Rocco, con i suoi operai lucani che fanno a botte nelle periferie milanesi, è un’operazione intellettuale. Il falso piano della coincidenza totale tra film e libro comporta però una precisa conseguenza. Come scrisse Trombadori su “Vie Nuove”, Il Gattopardo “è uno di quei film nei quali non soltanto ci si ritrova immersi nel clima del romanzo ispiratore, ma nei quali non è lasciato alcun margine alla possibilità di immaginare diverse da quelle che appaiono sullo schermo le situazioni chiave, e diversi nella loro fisionomia e nel loro comportamento tutti i personaggi”. Dopo il 1963 è infatti impossibile rileggere il libro di Lampedusa senza che si palesino sulla carta i fantasmi di Lancaster e della Cardinale. L’identificazione (del libro col film, ma anche di

Visconti con Don Fabrizio) è praticamente totale: da allora fotogrammi del film vengono utilizzati per illustrare le copertine dei libri sul regista, e perfino per le ristampe del romanzo. L’opera di Lampedusa si è come disciolta nell’emulsione della pellicola della Titanus, ci è annegata dentro. A fare le spese di questa identificazione è lo scrittore. Nel ricordo del Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa è continuamente “impallato” da Luchino Visconti di Modrone: l’impressione grandiosa dello spettacolo cinematografico appanna la memoria della sottigliezza letteraria, permettendo che nella valutazione complessiva del libro si insinuino elementi spuri all’opera. Il fasto del ballo viscontiano si irradia su quello, più malinconico e mortuario, del romanzo; l’orgoglio di Concetta viene annullato dalla remissività scialba della Morlacchi, i tratti pensosi di Tancredi cancellati dalla luciferina seduttività di Delon; tagliati dal film, la morte del principe e i rimpianti della vecchia “gattopardina” spariscono in un certo senso anche dal libro. Il Gattopardo-romanzo è diventato tout court Il Gattopardo-film. E “tuttavia,” proseguiva Trombadori, “Il Gattopardo di Visconti, essendo fedelissimo al romanzo di Lampedusa è, al tempo stesso, un’opera cinematografica assolutamente originale ed autonoma”. Il punto è questo: è qui che l’Operazione Gattopardo voleva arrivare. Essere “fedeli” al libro era necessario, per trasformare il romanzo di Lampedusa senza – apparentemente – renderlo diverso; solo così Visconti è riuscito a far entrare “ufficialmente” dentro Il Gattopardo cose che nel libro non ci sono. E a far sparire silenziosamente cose che

già c’erano, a cominciare dagli ultimi due capitoli: togliendoli, oltre a ridimensionare fortemente la figura di Concetta, si altera tutto il senso della narrazione, la sconfitta di Don Fabrizio, il fallimento del suo assecondare gli eventi “perché tutto rimanga come è” vengono oscurati. La conseguenza più drastica è l’annullamento della sommessa rivendicazione del punto di vista dei “vinti” che Lampedusa mormora tra le righe delle ultime pagine. Negata la verità sugli amori di Concetta, viene negata anche la verità sull’aristocrazia meridionale e borbonica, sconfitta e dimenticata, come una vecchia zitella in una stanza piena di memorie tarlate. Visconti il nobile, il milanese, il figlio del gentiluomo della regina Savoia, si professa dalla parte dei vinti ma fa per nascita parte dei vincitori. Accetta perciò senza problemi le rinunce che l’eliminazione degli ultimi due capitoli comportano. Al regista e ai suoi compagni di strada interessava altro: riverniciare Il Gattopardo di realismo, curandone amorosamente i più minuti dettagli, e riportarlo dentro la Storia per poterlo finalmente interpretare come una dichiarazione di guerra al trasformismo in politica. Per questo occorreva liberare Don Fabrizio da inopportuni dubbi esistenziali, esasperare il cinismo opportunista di Tancredi, e soprattutto spazzare via la rivelazione finale che Concetta aveva su quella “verità” (sentimentale, dinastica, storica) che, se compresa in tempo, avrebbe forse potuto cambiare la storia (del suo amore, della sua casata, del ruolo dell’aristocrazia siciliana in Italia). D’altro non c’era bisogno. Il cameo di Garibaldi, la strage verghiana, i contadini esclusi dal voto erano sottolineature goffe, rischiavano

di svelare il tentativo di sabotare sottobanco il romanzo di Lampedusa: furono quindi opportunamente eliminati dall’edizione definitiva. Molti, a sinistra, storsero il naso, ma chi doveva capire capì e approvò. Togliatti e Trombadori, innanzitutto, ma anche tutti coloro che proclamarono il film migliore del libro. “Gli stessi settori e molto spesso le stesse persone che avevano dato un giudizio negativo del Gattopardo lampedusiano,” ha stigmatizzato Giuseppe Paolo Samonà, “lo diedero estremamente positivo di quello viscontiano; nel quale ultimo, infatti: il Risorgimento era salvato in tutta la sua monumentalità, i generali cattivi come Pallavicino venivano smascherati come fucilatori di plebi, la poetica della decadenza sociale veniva sostituita da innocenti preziosismi dannunziani, insomma una sorta di reparto antiquariato nei reparti dell’Upim con cui Visconti – solidamente convinto che il declassamento sia un fatto araldico e non sociologico – usa épater i suoi plaudenti bourgeois.” A parte questo polemico accenno di Samonà, critico tra l’altro di formazione comunista, ben pochi si sono accorti delle profonde differenze fra romanzo e film. Sulla scorta del giudizio di Aristarco, la critica si è in genere arresa a considerare la sostanziale fedeltà della pellicola al libro. Il film si è accreditato nel tempo come un’interpretazione del romanzo talmente legittima da essere definita addirittura migliore di quella dello stesso Lampedusa; perfino Umberto Eco si è annoverato “tra coloro che ritengono il Gattopardo […] come un film che riesce a far cogliere perfettamente il senso

profondo del romanzo (riuscendo ancor più efficace dell’originale)”. La critica angloamericana, più libera da condizionamenti storici e culturali, ha in qualche caso (James Hay, Robert S. Dombroski, Marcus Millicent, Henry Bacon, Edward Said) sottolineato le differenze fra i due testi. È comunque passato del tutto inosservato il pegno che Il Gattopardo paga allo stravolgimento di Concetta e all’eliminazione dei due ultimi capitoli. Il carattere di Visconti, la sua incapacità esistenziale di staccarsi dal mondo aristocratico – che con la testa condannava e col cuore continuava ad amare – ha forse impedito che l’obiettivo dell’Operazione Gattopardo fosse raggiunto in pieno, ma non può dirsi che lo abbia mancato. “Ciò che accomuna Lampedusa e Visconti,” ha scritto Dombroski, “è la rievocazione di un mondo totalmente eclissato dal valore di scambio del capitalismo.” Ciò che li divide è tanto di più: nelle mani del regista, Il Gattopardo ha cambiato senso, e da acre rimpianto di un mondo e di un regno preso a tradimento e sconfitto dalla pusillanimità dei principi prima che dalla rivoluzione, è diventato una specifica condanna del trasformismo antirivoluzionario, perpetrato da un nuovo blocco sociale genitore del fascismo e nemico del progresso. Per questo il neologismo “gattopardismo” è figlio del film, non del libro. E così, come chiedeva Aragon, come desideravano Alicata e Trombadori, il romanzo di Lampedusa si è alla fine tramutato in “un successo di sinistra”.

Quattordici Girotondo finale Oltre alla Palma d’Oro, nel 1963 Il Gattopardo di Luchino Visconti ottiene tre Nastri d’argento (alla fotografia di Rotunno, alle scenografie di Garbuglia e ai costumi di Tosi), un David di Donatello (al produttore Lombardo), una menzione speciale Fipresci e il premio dei critici messicani al festival di Acapulco. Il riconoscimento più grosso arriva dal pubblico: più di Bellissima, più di Rocco e i suoi fratelli, il nuovo film di Visconti riesce a ottenere un grande successo di cassetta, arriva alle masse. È un bis, in un ambito diverso, del trionfo riscosso dal romanzo. Alla fine della stagione 1962-63 Il Gattopardo è in testa alle prime visioni italiane con 776.079.000 lire, a cui vanno aggiunte altre 347.357.000 nella stagione successiva; dopo tre anni di sfruttamento gli incassi complessivi ammonteranno a 2 miliardi e 294 milioni, numeri mai raggiunti fino ad allora da un film italiano. Un ricavo lordo, che non raggiunge comunque i 2 miliardi e 750 milioni messi a bilancio. Fiaccata dagli sperperi di Sodoma e Gomorra, la Titanus crolla sotto il peso finanziario del kolossal viscontiano. Lombardo si ritrova indebitato con 12 miliardi e 750 milioni di lire (del 1963) e intorno a lui si fa subito il vuoto: la sua casa di produzione sembra ormai spacciata. Il produttore non trova comprensione in nessuno, né la cerca, ma è deciso a evitare a ogni costo il disonore del fallimento; la moglie Carla arriva a restituirgli i gioielli della madre, l’amatissima diva del muto Leda Gys. Lombardo riuscirà a conservarli; per il

resto vende tutto il vendibile, dai diritti del catalogo cinematografico agli stabilimenti della Farnesina. Dopo Il Gattopardo la Titanus verrà utilizzata soprattutto come casa di distribuzione, per la realizzazione di pellicole commerciali (i musicarelli con Morandi e Rita Pavone, i “Piedoni” con Bud Spencer; ma anche Il camorrista, l’esordio di Tornatore) e, dagli anni novanta, per la produzione di fiction televisive. Fare cassa non è più un’ambizione ma un’esigenza: lo stesso Lombardo che nel ’62 aveva diffidato una produzione corsara dal realizzare un film intitolato La Gattoparda, si ritrova tre anni dopo a imbastire con la Ultra Film una sgangherata parodia con Franchi & Ingrassia, che solo per rispetto a Visconti decide di chiamare I figli del leopardo anziché “del Gattopardo”. Nell’ambiente del cinema l’esempio di un produttore che ripiana i debiti di tasca propria riempie tutti di ammirazione. Malgrado la Palma d’oro, Il Gattopardo di Visconti entra nella storia del cinema con passo felpato. All’estero le recensioni sono in genere positive, spesso ammirate, ma qualche perplessità ideologica, oltre a quelle su un eccesso di calligrafismo, affiorano anche nei critici stranieri; una parte di responsabilità è della famosa lettera aperta di Guido Aristarco, tradotta e diffusa anche in Francia e Spagna, che continuerà a pesare come un’imprescindibile ipoteca sulla successiva opera di Visconti. Nella carriera del regista Il Gattopardo rimane un film spartiacque, culmine di una strabiliante maestria per alcuni, inizio di una rovinosa discesa verso il decadentismo per altri, per tutti comunque opera capitale, specchio autobiografico, pellicola feticcio con cui Luchino sarà per sempre identificato.

All’estero la lunghezza dello spettacolo suggerisce tagli e ritagli: dopo un breve periodo di proiezioni a Parigi della copia di Cannes, Il Gattopardo viene distribuito in Francia in una versione ancora più breve, e quella spagnola viene ridotta progressivamente durante lo sfruttamento in sala. Curata da Sydney Pollack, all’epoca assistente di Lancaster, l’edizione anglo-americana del film è un vero e proprio sfregio al lavoro di Visconti: forte delle proprie prerogative contrattuali, la 20th Century Fox ordina di tagliare quasi mezz’ora, riduce il formato dal 70 millimetri al 35, stampa la pellicola in Cinemascope da un controtipo anziché da matrici ricavate dal negativo, falsando così colori, definizione e illuminazione. Alla proiezione ufficiale a New York, Visconti stenta a dominarsi, vorrebbe alzarsi e interrompere tutto; Notarianni riesce a trattenerlo solo ricordandogli che la sala è piena di autorità. Luchino, Suso, Burt e Claudia escono dalla proiezione avviliti; in albergo Warren Beatty, già candidato al ruolo di Tancredi, suona per ore il pianoforte nell’illusione di risollevare il morale a tutti. “Il film è stato trattato come se fosse una lussuosa commedia hollywoodiana,” scrive sdegnato Visconti sul “Sunday Times”: “Adesso è un’opera della quale non riconosco affatto la paternità. […] Si è argomentato che gli Americani non avrebbero mai capito il film, che si tratta praticamente di un pubblico di bambini. Non bisogna permettere che un atteggiamento così offensivo abbia la meglio […]. È tempo che rotolino alcune teste”. La Fox non si fa intimorire dai toni giacobini del regista, anzi, minaccia in risposta azioni legali; mantiene l’edizione così com’è e la lancia in Usa come una sorta di western europeo.

Visconti spera che lo scempio risparmi almeno la vecchia Inghilterra ma la versione Fox arriva pure lì. Il bello è che molti critici giustificano i tagli. “Occorre fare attenzione a non sopravvalutare la questione,” scrive il “Times”. “Tanto per cominciare, è difficile credere che la riduzione della durata sia stata fatta per qualsiasi altro motivo tranne che per il bene del film.” Visconti, tattico, ringrazia la stampa britannica di avere dato notizia dell’esistenza di due diverse edizioni, auspicando che la sua possa essere distribuita insieme a quella della Fox, lasciando libertà di scelta allo spettatore. Sul piano legale, d’altro canto, non c’è nulla da fare. “Sembra che l’autore di un film,” scrive Visconti, “a differenza di quanto avviene per qualsiasi altra espressione artistica, sia obbligato a garantirsi in anticipo con clausole appositamente stipulate, altrimenti dovrà più tardi tollerare alterazioni di qualsiasi tipo; come se in un contratto di lavoro la parte che avesse dimenticato di vietare all’altra – con una clausola appositamente stipulata – il diritto di ucciderla, dovesse infine tollerare di essere pugnalata.” Gli americani continuano a fare orecchie da mercante, e in Gran Bretagna arriva la sola edizione manomessa. Ovviamente, di qua e di là dell’oceano, il film raccoglie magri incassi. La 20th Century Fox accetterà di distribuire la versione di Visconti solo vent’anni dopo, nel 1983, in lingua italiana e con i sottotitoli in inglese; e la critica anglosassone, ammirata e un po’ pentita, stavolta applaudirà compatta.

Al di là dei raffronti con Lampedusa, Il Gattopardo di Luchino Visconti rimane un film magnifico, e non solo dal punto di vista puramente esteriore; la combinazione tra realismo della messinscena, richiamo spettacolare, efficacia narrativa, contenuto critico e ideologico ha raggiunto uno dei massimi risultati di tutta la storia del cinema. Probabilmente è il capolavoro di Visconti, di certo il momento culminante della sua carriera cinematografica. Dopo quel film non riuscirà più a governare la complessa macchina cinematografica con altrettanta lucidità e genialità. Dopo il tracollo della Titanus, la fama di regista esigente e dispendioso è diventata tra l’altro un ostacolo serio. Dei vari progetti annunciati durante la lavorazione del film lampedusiano, Lo straniero da Camus verrà realizzato solo diversi anni più tardi, La monaca

di Monza approderà in teatro e la Recherche di Proust non si farà mai. Il primo film girato dopo Il Gattopardo è Vaghe stelle dell’Orsa (1965); non è tra i titoli migliori di Visconti ma Venezia si sente in dovere di assegnargli finalmente un Leone d’oro. A poco a poco il regista si chiude in se stesso. Il movimento del ’68 lo trova diffidente: rigoroso nello spirito e nell’anima, Visconti non condivide un anelito libertario così apparentemente anarchico. I dirigenti comunisti più importanti non ci sono più; Alicata è scomparso nel ’66, due anni prima è toccato a Togliatti: Visconti si era subito recato a vegliare la salma, “non perché egli fosse il segretario del partito comunista,” spiega, ma perché “era un grande amico”. Le sue idee politiche comunque non sono cambiate e non cambieranno. “Se guardi come stanno andando le cose in Italia,” dice nel ’73 a Costanzo Costantini, “come si comporta la classe dirigente, se pensi al risveglio del fascismo, puoi non stare dalla parte dei comunisti?” La trilogia tedesca (La caduta degli dei, Morte a Venezia, Ludwig) mette in maggiore luce quanto affiorava già nel Gattopardo, l’intimo interesse del regista verso il tramonto di epoche storiche, e il dolente ripiegarsi su se stessi dei loro protagonisti. Colpito da un ictus alla fine di Ludwig, Visconti abbandona la villa sulla Salaria e si ritira in un appartamento in via Fleming. A corto di finanziatori, accetta di farsi produrre Gruppo di famiglia in un interno da Edilio Rusconi, notoriamente di destra, ed è investito dalle polemiche. Dalla segreteria del Pci un emissario viene a proporgli in alternativa una bella cinebiografia di Stalin. “Se la facciano loro!” sbotta Visconti; nelle sue condizioni di

salute trovare un produttore è stato già un miracolo. “D’altronde,” spiega, “non ho mai conosciuto un industriale di sinistra, non ne ho mai visti. Ciò che conta è il film, e il film non è di destra.” Gli amici, con discrezione, lo aiutano. Burt Lancaster si rende immediatamente disponibile per interpretare il professore protagonista, assediato nel suo appartamento da una realtà aggressiva e incomprensibile. Prima delle riprese Suso Cecchi d’Amico ed Enrico Medioli incontrano l’attore a Porto Ercole, “come dei congiurati”, per chiedergli di fare da garante con le assicurazioni dando la sua disponibilità a subentrare come regista nel caso Visconti torni ad ammalarsi, o peggio; Lancaster generosamente accetta. Visconti gira ancora L’innocente da D’Annunzio, in condizioni di salute sempre più precarie ma sempre lucido e indomito. “Questo film lo faccio sulla sedia a rotelle,” dice sardonico a Giancarlo Giannini. “Il prossimo, se necessario, lo farò disteso in barella.” Suso Cecchi d’Amico lo vede l’ultima volta seduto in sala di montaggio, due giorni prima della morte (17 marzo 1976). Alla camera ardente, allestita nell’appartamento di via Fleming, arrivano fra gli altri Alain Delon ed Enrico Berlinguer. I funerali a Sant’Ignazio diventano uno show a sorpresa: si scopre che Luchino era credente, che ha lasciato disposizioni per il rito religioso. “Era il principe di Salina e come un principe di Salina doveva morire, con tanto di prete accanto.” La piazza davanti alla chiesa si riempie di cineasti (dall’America è volato pure Lancaster) e di militanti con le bandiere rosse. Prima che la bara entri in chiesa, Antonello Trombadori pronuncia

il discorso funebre per l’amico e compagno Luchino: “…E tuttavia se è vero che egli fu un Gattopardo, un Leone, è anche vero che, a differenza di quelli d’una volta, di quelli ai quali s’era richiamato (ed erano pur importanti modelli umani) lo scrittore Tomasi di Lampedusa, Luchino Visconti – e lo sapeva, e tale voleva essere – fu di quei Gattopardi, di quei Leoni di nuova pasta storica che lavorarono deliberatamente affinché il mondo degli sciacalletti e delle iene non dovesse venire mai più!”. Visconti si congeda dal mondo con il titolo di “Gattopardo”. Quello che nel 1963 sarebbe suonato come un insulto, nel ’76 era diventato un solenne omaggio, offerto con commossa deferenza da un compagno militante. Non sarebbe spiaciuto al conte milanese sentirsi chiamare così. E forse avrebbe ammesso che la partita fra lui e il romanzo di Tomasi, ingaggiata quindici anni prima “per potere intervenire a dire il mio pensiero”, si era conclusa con un risultato imprevedibile: Il Gattopardo era diventato la carta d’identità del regista, la sua icona ufficiale. Visconti aveva pensato di saltargli in sella e di domarlo, e invece Il Gattopardo gli si era sfilato di sotto e lo aveva disarcionato. Il regista credeva di averlo sottilmente riscritto e invece il romanzo aveva riscritto lui, dandogli il proprio titolo, fagocitandolo per sempre. Quel Lampedusa, quello scrittore siciliano accusato di pessimismo e passatismo, aveva dopo tutto vinto. Il sottile lavoro di riscrittura di Visconti ha confuso le intenzioni dello scrittore con quelle del regista, il presunto rimpianto di “destra” con le esplicite finalità di “sinistra” ma non ha

impedito che lungo tutti gli anni sessanta intellettuali e addetti ai lavori continuassero a guardare al romanzo di Lampedusa con perplessità bipartisan. Vincente sul piano delle masse, su quello della critica letteraria l’Operazione Gattopardo non è riuscita a smuovere una virgola: Walter Mauro accusa ancora Lampedusa di essere “fuori della storia”, opponendogli Alianello e Sciascia; Manacorda insiste a sottolineare come la sua visione del Risorgimento corrisponderebbe “a certe precise direzioni politiche conservatrici e a direzioni artistiche decadenti”; Umberto Eco, Giuseppe Ungaretti e Gianfranco Contini lo sminuiscono definendolo, rispettivamente, “eccellente bene di consumo”, “un libro di ieri e non di oggi […] al limite d’una letteratura d’evasione”, e “gradevolissima ‘opera d’intrattenimento’” (in altra occasione, “libro da bancarella”). Da Palermo, il cardinale Ernesto Ruffini ne fa addirittura l’oggetto di una lettera pastorale, mettendolo insieme alla mafia e a Danilo Dolci fra i responsabili di una congiura per disonorare la Sicilia: “È giusto fare della società di cento anni addietro la società di oggi? È giusto dar credito a un romanzo che un principe deluso compone nell’ultimo anno di vita e nulla sa trovare nella sua gente all’infuori dei difetti che sono anche i suoi?”. Nel ’63 Mario Soldati aveva provato a scrollare di dosso da Lampedusa almeno le accuse di conservatorismo: “Si può dire di lui che è un falso conservatore, perché vedere il marcio e parlarne significa, automaticamente e inconsciamente, volersene liberare. Nessuno, anche se lo crede e lo proclama, desidera morire. Fingere che tutto cambi serve senza dubbio a non cambiare niente. Ma accorgersi coraggiosamente, come si è

accorto Lampedusa, che niente è cambiato e che ben poco sta per cambiare, serve, anche su questo non c’è dubbio, a cambiare una buona volta sul serio”. Parole sante ma dette al vento. Un dibattito pubblicato sull’“Ora” di Palermo sollecita nel ’68 consuntivi e ripensamenti. A dieci anni dalla pubblicazione del romanzo, Pasolini è sempre dello stesso avviso: al di là di ogni intrinseco valore poetico Il Gattopardo, “nel momento in cui è uscito, è stato dannoso in quanto è servito alla restaurazione puristica”, chiudendo quegli “eroici” anni cinquanta in cui la letteratura italiana era protesa verso novità stilistiche. Moravia, più diplomatico, gli dà del “classico minore”, da affiancare alle Memorie di un italiano di Ippolito Nievo. Sciascia conferma il proprio giudizio ideologico ed estetico: “La delusione del principe di Lampedusa è sempre una delusione da destra e non da sinistra”; “è un bel libro, però è un libro reazionario e lo considero una specie di 18 aprile della letteratura italiana, che appunto portava alla restaurazione dei valori formali, portava a tutto quello che dal dopoguerra in poi noi avevamo tentato di negare”. E comunque Sciascia ha l’onestà di compiere un esplicito passo indietro: “In effetti la costante della storia siciliana (e oggi si può dire della storia nazionale) è il cambiar tutto per non cambiare niente. Questa lucida profezia che allora mi irritava, ora in un certo modo mi affascina, come tutte le cose fatali, inevitabili; mi affascina dolorosamente, e su questo punto debbo dargli ragione e riconoscere il mio torto d’allora. Così come quando Lampedusa […] dice che ci saranno delle aristocrazie di una dottrina (e allude al marxismo), oppure le aristocrazie che si costituiscono sulla anzianità di presenza in un

luogo, e allude agli Stati Uniti d’America, oggi, dopo i fatti di Praga, dobbiamo dargli ragione”. Poco dopo scoppia un nuovo caso: Carlo Muscetta, docente all’Università di Catania, mette a confronto l’edizione Feltrinelli con le fotocopie del Gattopardo manoscritto, rilevando differenze a suo dire talmente notevoli da ritenere quello pubblicato una pallida copia del vero romanzo. Lanza Tomasi spegne i clamori precisando che Bassani aveva all’epoca già messo a confronto il dattiloscritto affidatogli da Elena Croce con il quadernone del ’57, operando di fronte alle varianti una normalissima cura editoriale. “Il Gattopardo resta quello che è,” scrive sulla “Fiera Letteraria”, “un materiale giunto a una stesura dettagliata, ma anteriore alla correzione delle bozze. Queste le ha corrette Bassani; penso che chiunque possa aver fiducia nella sua capacità di rivedere una punteggiatura e di scegliere fra due aggettivi.” D’altra parte, però, Lampedusa aveva anche lasciato scritto che “il manoscritto valevole è quello raccolto in un solo grosso quaderno scritto a mano”; il figlio adottivo di Lampedusa accetta così la proposta della Feltrinelli di curare una nuova versione “conforme al manoscritto del 1957”, diversa dalla precedente “più per la fragranza dell’appena incompiuto, che per sostanziali apporti alla qualità e alla definizione dell’opera”. Quando il romanzo torna in libreria nella nuova veste (1970), Bassani non si stupisce. “Né,” precisa, “vale la pena adesso che legga il Gattopardo ultima edizione perché la conosco; conosco benissimo il manoscritto dal quale è tirata la mia edizione. Anzi, ho l’impressione che la mia edizione sia perfino filologicamente più esatta.” Bassani ribadisce il suo giudizio sul

Gattopardo, “un epicedio sulla Resistenza fallita” scritto da “un vero engagé”: “Lampedusa è partito da una condizione di aristocrazia ed è arrivato all’opposto, agganciando un’intera assemblea”. Ma Bassani si lascia scappare un po’ di acrimonia di troppo: “La letteratura del realismo socialista meridionale, che in fondo è fatta di tutti i vecchi cascami naturalistici rivestiti di buone intenzioni, non regge più. […] Lo stesso Sciascia […] ha sentito tremare la terra sotto i piedi e la sua reazione istintiva al Lampedusa è stata di uno che è colpito a morte”. Sciascia naturalmente ribatte ma gli dà ragione sulla questione più importante, la definizione del Gattopardo come di un “epicedio della Resistenza”: “Questo è il punto, e soltanto questo, che dieci anni fa ci ha fatto ‘tremare la terra sotto i piedi’ e che oggi, con molta amarezza, mi porta a riconoscere che il principe di Lampedusa aveva ragione – e io, e noi, ancora una volta torto”. La rivalutazione da parte di Sciascia non si fermò lì. Nel ’73, in una lettera a Giuseppe Paolo Samonà, adduce a propria discolpa anche un irritante “fatto ambientale”: “Il realizzarsi, a Palermo, del detto longanesiano che ‘non c’è comunista che sedendo accanto a un duca non senta brividi di piacere’. Tutti i comunisti che sedevano col Gattopardo in mano, a concedersi brividi di piacere perché l’aveva scritto un duca, mi infastidivano”. Nel 1978 Sciascia acconsente a redigere l’introduzione a un’edizione americana del romanzo. Infine nel ’79, la ritrattazione completa: “Chi, come me, avanzò allora delle riserve sui contenuti del romanzo, sull’idea che lo informava, oggi è portato a riconoscere che quello che allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva

a delle costanti della nostra storia che allora era legittimo ricusare o tentare di ricusare, come legittimo era per Lampedusa riconoscerle e rappresentarle. Certo, mancherebbe molto, alla letteratura italiana di questi anni, se il libro non fosse stato pubblicato. E credo sia venuto il momento di rileggerlo; e per i giovani di conoscerlo”. Il ripensamento di Sciascia è rimasto un caso unico; nessun altro fra quanti avversarono Il Gattopardo all’epoca della sua uscita ha avuto l’intelligenza e il coraggio di tornare apertamente sui propri passi. Le accuse allo scrittore risorgono stancamente, a ogni anniversario. Nel ’79, in occasione di un convegno palermitano per i vent’anni del romanzo, la stampa torna a evocare un Lampedusa conservatore. “Le solite sciocchezze,” rintuzza Licy. “Che cosa avrebbe dovuto conservare mio marito? Si guardi un po’, nella partenza di Chevalley, la descrizione del paesaggio e della vita siciliana nelle strade e ci si chieda se è possibile voler conservare questo stato di cose. Egli, al di sopra di tutto, capiva benissimo che per cento anni nulla sarebbe cambiato. E, infatti, dal 1860, non è cambiato nulla. Almeno nei paesi. Adesso, forse, le cose sono un po’ cambiate con le pensioni sociali.” La battagliera baronessa baltica morì tre anni dopo, frastornata da anni di polemiche su un libro che lei, prima al mondo, aveva subito visto come un’opera d’eccezione. Nel giro di pochi anni l’attenzione verso il romanzo di Lampedusa ricomincia a crescere. Nel marzo 1985 i lettori di “Tuttolibri”, il supplemento letterario della “Stampa”, proclamano Il Gattopardo il libro più amato del

Novecento. L’anno dopo la University of Texas organizza a Austin una conferenza internazionale a cui partecipa anche Burt Lancaster. Si infittiscono i contributi editoriali: arrivano ben due biografie di Lampedusa, una italiana (di Andrea Vitello) e una inglese (di David Gilmour). In Lettere a Licy. Un matrimonio epistolare di Caterina Cardona affiorano preziosi frammenti delle lettere scambiate fra i coniugi Tomasi. Nel 1990, a trent’anni dalla prima edizione inglese del romanzo, si tiene un simposio a New York. Le nuove fortune del romanzo s’intrecciano con quelle del film. Nel 1991 il Centro Sperimentale di Cinematografia procede al restauro della pellicola di Visconti, affidandolo a Giuseppe Rotunno. Per quanto assurdo possa sembrare, il negativo sembrava sparito; viene ritrovato, dopo diverse ricerche, nel laboratorio di sviluppo e stampa della Technicolor di Londra. Nessuna traccia, invece, della colonna sonora originale; dialoghi e musiche vengono recuperati a spizzichi e bocconi dalle migliori copie esistenti, e poi rigenerati in laboratorio. Il vero problema del restauro è il formato panoramico con cui era stato girato il film, il SuperTechnirama, dismesso vent’anni prima e talmente superato che ripristinarlo con i mezzi disponibili si rivela un’impresa fantaarcheologica. Rotunno recupera uno a uno i pezzi di macchinario necessari, e dopo mesi di complicate lavorazioni tra Inghilterra e Italia riesce a completare il lavoro con i soli centocinquanta milioni di lire del budget disponibile (il restauro di Spartacus, anch’esso in Technirama, costò agli americani un milione di dollari). Il negativo originale ritrovato da Rotunno era già mancante delle scene eliminate nel 1963; di fatto, a partire dal restauro, la

versione di Cannes prende definitivamente il posto di quella integrale. La copia ristampata viene proiettata ai festival di Venezia e Locarno, in serate di gala a Roma e Milano e via via in tutto il mondo, e la bellezza del film abbaglia vecchi e nuovi spettatori. L’interesse generale per la pellicola si riaccende; Martin Scorsese, in procinto di girare L’età dell’innocenza, il suo film più viscontiano, obbliga tutta la troupe a guardarsi due volte Il Gattopardo. Goffredo Lombardo giudica maturi i tempi per il bis: all’inizio degli anni novanta chiede a Enrico Medioli e Suso Cecchi d’Amico di scrivere il seguito del Gattopardo. Dopo un primo sbigottimento, i due sceneggiatori accettano la sfida. Il Gattopardo 2 avrebbe ampliato fatti e suggestioni degli ultimi due capitoli del romanzo ma, ancora una volta, la figura di Concetta viene marginalizzata a favore di spunti anche estranei al romanzo, dalla decadenza dei Salina ai primi legami fra politica e mafia. L’ipotesi produttiva finisce per attestarsi su tre puntate televisive; “la prima,” spiega all’epoca Medioli, “descrive la nascita di una nuova classe politica, che prenderà il posto della vecchia aristocrazia, una classe emergente con lati oscuri, legata alla criminalità (siamo nel 1883); la seconda parte contiene la delusione del principe che assiste a questo degrado, coinvolgente anche la sua famiglia; la terza è la conclusione tragica della storia di Tancredi, l’accentuarsi della dégringolade, con perdita del prestigio, del patrimonio, e finale con la morte del principe”. Scomparso Visconti, alla regia verrebbe Mauro Bolognini; nel cast, invecchiati giusto di quei venti e passa anni prescritti dalla storia,

tornerebbero Lancaster, Delon, la Morlacchi, Reggiani. L’unica a resistere, malgrado una principesca offerta economica, è la Cardinale. “Ho quasi un timore reverenziale nel riprendere in mano un film che per me è un mito, temo di romperne l’incanto,” ci disse in quei giorni. Durante la preparazione, Burt Lancaster, 77 anni e quattro bypass, viene colpito da un ictus. Ma l’attore non si arrende: “Mi dispiacerebbe che andasse in porto proprio ora il progetto di realizzare la seconda parte del Gattopardo: se ne parla da tempo, ma finora è rimasto tutto nel vago. Ecco, vorrei prima tornare in forma, perché il mio personaggio del principe di Salina non intendo proprio lasciarlo a nessuno”. La morte dell’attore (1994) sembra bloccare definitivamente il progetto ma Lombardo, pur di non rinunciarci, lo fa riscrivere da capo. “Ho ricomprato dagli eredi di Tomasi di Lampedusa i diritti dell’ultimo capitolo del romanzo,” dice ancora nel ’97, “che nel film non era stato sviluppato. Il mio sogno è realizzare un film per la televisione sulla storia della famiglia del principe dopo la sua morte. Ma è appunto un sogno.” E il romanzo, gli chiedono, l’ha più letto? “Dieci volte. E ogni volta scopro un rigo che mi sembra nuovo.” Lombardo è scomparso nel 2005, a 84 anni. Il Gattopardo 2, per fortuna, non è mai stato realizzato. La partita tra gattopardeschi e antigattopardeschi non si è mai conclusa. Malgrado la periodica attenzione di letterati e giornalisti, le zone alte della critica letteraria italiana hanno continuato ad affettare un’imbarazzata indifferenza nei confronti del romanzo di Lampedusa, ritenuto formalmente e

contenutisticamente ancora ingombrante. La resa dei conti è arrivata con il centenario della nascita di Giuseppe Tomasi (1996). Francesco Orlando, divenuto nel frattempo un autorevole docente di letteratura a Pisa, raduna in convegno a Palermo intelligenze diverse, da Raboni a Camilleri, e lascia filtrare senza remore la propria indignazione: “Un ‘caso’ dura un mese. Non si può chiamare ‘caso’ un fenomeno che dura da quarant’anni. Ottenere al Gattopardo il definitivo riconoscimento del valore di un classico è un nostro dovere. Dovremmo vergognarci, da intellettuali italiani, che questo compito debba ancora essere realizzato”. Il sasso gettato nello stagno provoca qualche onda. Carlo Bo, primissimo recensore del libro, rincara: “Il Gattopardo è stato una discriminante, fra chi credeva nella necessità del nuovo e chi badava solo alla sostanza. A me interessava la sostanza. Ma credo che la grande parte della critica abbia dato più ragione a Vittorini che a me”. Edoardo Sanguineti, uno dei relatori al convegno, cerca di tirarsi fuori dalla polemica, ricordando di non essere stato all’epoca né pro né contro: “Non sentivo in questa opera una rivelazione, come fu per molti (‘finalmente c’è il grande romanzo italiano’), ma nemmeno avevo la reazione scandalizzata di altri, soprattutto dovuta a ragioni politiche (‘la borghesia aspettava solo questo’). Vorrà pur dire qualcosa che il libro abbia ispirato il film di Visconti. Se fosse stato così borghese conservatore retrivo, Visconti non avrebbe rivolto lì la sua attenzione”. Poco dopo, nel suo L’intimità e la storia, Orlando fa il punto su quarant’anni di equivoci e raduna i cinque pregiudizi che hanno afflitto la storia critica del romanzo: il pregiudizio

biografistico (per il quale Don Fabrizio sarebbe tout court Tomasi), il pregiudizio immobilistico (se vogliamo che tutto rimanga come è, ecc.), il pregiudizio ideologico (Lampedusa scrittore reazionario), il pregiudizio sperimentalista (un romanzo “vecchiotto”, più ottocentesco che contemporaneo) e il pregiudizio regionalista (Lampedusa scrittore siciliano, non europeo). E la polemica torna a divampare. Il marxista Alberto Asor Rosa stronca il saggio di Orlando, reo di aver collocato il romanzo di Tomasi ai vertici della produzione mondiale del Novecento: “Io continuo a pensare, infatti, che Il Gattopardo sia un libro mediocre, […] un libro di secondo piano”. Asor Rosa cerca di smontare le conclusioni di Orlando nel metodo e nel merito, appellandosi ancora a Lukács, rilevando nell’elogio del romanzo un’apologia della tradizione aristocratica, sbertucciando alcuni passi lampedusiani come ovvi, deboli, di cattivo gusto, e liquidando la presunta tematica del Gattopardo (il fatalismo siciliano e la tendenza al peggio) come “estremamente logora e consunta”. Risorgevano così, a distanza di quarant’anni e con intatta virulenza, gli stessi umori e turbolenze che avevano opposto fra loro Vittorini, Bo, Sciascia, Bassani, Falqui, Pampaloni e Alicata. È un ritorno di fiamma di vecchie questioni, la cartina di tornasole per verificare quanto la critica di sinistra sia (o meno) cambiata. “Possibile che gli argomenti di Asor siano tutti, ma tutti, così vicini a quelli vecchi?” ribatte sconcertato Orlando. “Conosco la stabilità della cultura italiana, forse inconsapevolmente modellata sulla Chiesa. Credo che il romanzo, di matrice non italiana come ho sostenuto, e profondamente laico, si sia trovato a suo tempo preso tra due chiese: una cultura di sinistra

bisognosa di progressismo esplicito; un esoterismo delle preferenze sperimentaliste o avanguardiste”: per fortuna, conclude, i lettori del Gattopardo, “milioni di ammiratori colti, sparsi per il mondo, non sono partecipi di alcun tipo di chiesa”. La polemica si trascina robusta per un buon mese con vari botta e risposta, dilagando dal quotidiano “la Repubblica” ad altri giornali e coinvolgendo anche Eugenio Scalfari, Gioacchino Lanza Tomasi, Andrea Carandini, Walter Mauro e Franco Cordelli. La vivacità del dibattito testimonia ancora una volta della vitalità del libro di Lampedusa, perenne oggetto di scandalo letterario e inesausto bestseller per una platea ormai globale. Un paio di anni dopo a occuparsi di Lampedusa è di nuovo il cinema, con un film dedicato all’autore del Gattopardo. Diretto da Roberto Andò e prodotto da Giuseppe Tornatore, Il manoscritto del principe mette in scena Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Michel Bouquet) alle prese con la composizione del romanzo e con la scelta tra due affetti filiali, Guido e Marco, trasparenti allusioni a Gioacchino Lanza e Francesco Orlando. Il titolo del film rimanda in apparenza al Gattopardo, si riferisce in realtà alle pagine che Lampedusa scrisse sull’inedito romanzo giovanile di Orlando. Tratta dagli scritti dello stesso Orlando e di Gioacchino Lanza, la pellicola reinventa più che rievocare, suscitando in Orlando grosse perplessità. “Questo film,” scrive sul “Corriere della Sera” dopo avere assistito alla proiezione, “alimenterà ulteriormente il mito del ‘personaggio’ Lampedusa. Il principe siciliano, il dilettante solitario, il caso postumo. A tutto danno della

lettura, comprensione, interpretazione della sua opera, così largamente ancora fraintesa e misconosciuta. Onta della cultura italiana: uno scrittore di questo rango relegato fra snobismo e folklore. […] La stessa conoscenza della vita di lui ne sarà distorta – ‘Il cinema è, per quasi tutti, la verità,’ mi dice Gioacchino. Regredirà di decenni la chiarezza fatta a fatica, sia in ambito letterario che biografico, da me, da lui, da altri studiosi.” Elegante ma freddo, Il manoscritto del principe parla in effetti poco di Lampedusa e molto di una contesa affettiva, rivista e corretta con un eccesso di disinvoltura. Pur comprensibile, l’allarme di Orlando sugli effetti della pellicola si rivelerà comunque eccessivo, anche perché il film ha un esito commerciale modesto. Dal centenario in poi, l’opera di Lampedusa è in costante rivalutazione, anche grazie a varie iniziative editoriali: nel 1998 sono uscite tutte le Opere di Lampedusa (lezioni di letteratura incluse) nei “Meridiani” Mondadori, e una “biografia per immagini” in cui Gioacchino racconta il padre adottivo con l’ausilio di una preziosa documentazione fotografica; nel 2002 Lanza Tomasi licenzia una “nuova edizione riveduta” del Gattopardo in cui vengono rettificate 49 ultime piccole discordanze rispetto al manoscritto del ’57, e aggiunge materiali inediti da un capitolo incompiuto; nel 2006 affiora un gruppo di lettere indirizzate ai cugini Piccolo da un giovane Lampedusa in giro tra Francia e Inghilterra. A novembre del 2008, allo scoccare del mezzo secolo dalla pubblicazione, Gioacchino Lanza Tomasi può serenamente affermare che Il Gattopardo “non ha rivali all’estero quale rappresentante della letteratura italiana del secondo Novecento. Per i non italiani,

per i docenti di letterature comparate il Gattopardo resta il titolo più rappresentativo della narrativa italiana del secondo dopoguerra”. Nel frattempo la versione cinematografica continua a godere di celebrazioni e riscoperte. Nel 2001, appena pubblicato in dvd, il film viene festeggiato a palazzo Chigi di Ariccia con una grande esposizione di costumi e oggetti legati al set. Alla vernice intervengono Claudia Cardinale e Alain Delon, superstiti tutt’altro che malinconici. “Sono corso qui da Parigi,” dichiara l’attore francese, “ma sarei venuto anche dall’Australia. Faccio parte della famiglia, per sempre, felice di essere un viscontiano.” Nel 2008 i “Cahiers du cinéma” stilano una lista con i cento film più belli del mondo, guidata da Quarto potere di Welles; Il Gattopardo è solo in quattordicesima posizione ma è il primo degli italiani, sopra Fellini, Antonioni, Rossellini e De Sica. Nel 2010, una nuova edizione restaurata viene presentata a Cannes; la Cardinale e Delon si ritrovano ancora una volta. “Ci siamo tenuti la mano per tre ore,” dice l’attrice. “E abbiamo pianto tutti e due, anche perché siamo gli unici vivi. Gli altri sono tutti morti.” In realtà un altro membro del cast principale, Lucilla Morlacchi, è vivo e vegeto: il lapsus della Cardinale è l’ultima stoccata di Angelica a Concetta, e la dimostrazione che l’annichilimento viscontiano della gattopardina è stato talmente efficace da aver operato una rimozione anche nella memoria dei suoi interpreti. A oltre cinquant’anni dalla sua prima stesura, è venuto infine alla luce il romanzo giovanile di Orlando, quello che Lampedusa, demoralizzato dai primi infausti esiti editoriali, aveva definito “meglio del Gattopardo”. Limato nel corso degli

anni, il romanzo è uscito poco prima della morte del suo autore, per i tipi di Einaudi e con il titolo La doppia seduzione. Ed è curioso che l’ultimo capitolo avvii il tragico epilogo durante una proiezione al festival di Venezia, dove i vaneggiamenti del protagonista ritrovano i tratti dell’amato nel Farley Granger di Senso. Cinema e letteratura, Lampedusa e Visconti continuano a danzare un’elegante carole, e la perfezione del cerchio non fa più capire chi abbia per primo teso la mano all’altro.

Il Gattopardo di Luchino Visconti: cast artistico e tecnico

All’inizio degli anni sessanta i “credits” del film si limitavano ai nomi dei principali interpreti e tecnici coinvolti nella lavorazione. Accordi contrattuali e semplici antipatie potevano escludere collaboratori anche importanti alla realizzazione della pellicola (come avvenne in questo caso per il coreografo Alberto Testa, inspiegabilmente assente). I dati trascritti dai titoli di testa e di coda del Gattopardo sono qui integrati da nuovi nomi per lo più riscontrati su documenti ufficiali dell’epoca. Le aggiunte sono segnalate fra parentesi quadre. una co-produzione italo-francese Titanus s.p.a. (Roma) S. N. Pathé – Société Générale de Cinématographie (Parigi) [20th Century Fox] Interpreti: Burt Lancaster (Fabrizio Salina), Claudia Cardinale (Angelica), Alain Delon (Tancredi), Paolo Stoppa (Calogero Sedara), Rina Morelli (Maria Stella), Romolo Valli (padre Pirrone), Ivo Garrani (Pallavicino), Leslie French (Chevalley), Serge Reggiani (Ciccio Tumeo), Mario Girotti (Cavriaghi), Pierre Clémenti (Francesco Paolo), Lucilla Morlacchi (Concetta), Giuliano Gemma (generale garibaldino), Ida Galli (Carolina), Ottavia Piccolo (Caterina), Carlo Valenzano (Paolo), Brook Fuller (il principino), Anna Maria Bottini (m.lle Dombreuil), Lola Braccini (Donna Margherita), Tina Lattanzi (la dama seduta alla sinistra di Pallavicino), Marino

Masè (il precettore), Marcella Rovena, Howard N. Rubien (don Diego), Rina De Liguoro (principessa di Presicce), Valerio Ruggeri, Olimpia Cavalli (Mariannina), Giovanni Melisenda (don Onofrio Rotolo), Anna Maria Surdo, Carlo Lolli (maggiordomo), Alina Zalewska, Franco Gulà (Mimì), Winni Riva, Vittorio Duse (don Ciccio Ginestra, il notaio), Stelvio Rosi (Fulco), Vanni Materassi, Carlo Palmucci, Giuseppe Stagnitti, Dante Posani, Carmelo Artale (Pietro Russo), Rosolino Bua, [Amalia Troiani, Sandra Chistolini (figlia piccola dei Salina), Virginia Onorato, Salvatore Fazio (secondo cameriere), G. Carlo Arrigoni (servitorello), Felice Ala (servitorello), Nino Chilleri, Claudio Morandi, Pino Belfiore, Romano Manuzzo, Eugenio Colombo, Mario Ortese, Angela Concoreggi (invitata al pranzo di Donnafugata), Lou Castel (invitato al ballo), Tuccio Musumeci (inserviente maldestro di Sedara), Pino Caruso (cantante)]. dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Feltrinelli editore – Milano) adattato e sceneggiato da Suso Cecchi d’Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa e Luchino Visconti. aiuti registi: Rinaldo Ricci, Albino Cocco operatori alle macchine: Nino Cristiani, Enrico Cignitti, Giuseppe Maccari, [Franco Delli Colli] [assistenti e aiuto operatori: Mario Capriotti, Enrico Umetelli, Otello Spila, Enrico Lucidi, Luciano Palomba] tecnico del suono: Mario Messina truccatore: Alberto De Rossi [M. Ceccarelli, Trimaichi, G. Bonatto, Feliziano Cirici, Angelo

Grison, Giannetto De Rossi, G. Zerbo, Attilio Camarda] fotografo di scena: G.B. [Giovan Battista] Poletto parrucchieri: Maria Angelini, Amalia Paoletti assistenti alla regia: Francesco Massaro, Brad Fuller, [Archibald Colquhoun] segretario di edizione: Stephan Iscovescu consulente uniformologico: Magg. Alessandro Gasparinetti [coreografo: Alberto Testa; assistenti Gianni Chiuderoli, Luciano Tacconi] ispettori di produzione: Roberto Cocco, Riccardo Caneva, Gilberto Scarpellini, Gaetano Amata, Bruno Sassaroli, [Fulvio Vergari] segretari di produzione: Umberto Sambuco, Lamberto Pippia [controllo ingresso principale: Gaetano Di Leo] costumi della ditta SAFAS i costumi dei sigg. Lancaster e Delon sono di Reanda, tessuti della ditta Filippo Haas e Figli arredamento: Giorgio Pes, Laudomia Hercolani, [L. De Novellis, M. De Filippo, A. Quilici, Andrea Fantacci] costumi: Piero Tosi aiuto arredatore: Emilio D’Andria, [Roberto Federici] aiuti costumista: Vera Marzot, Bice Brichetto, [Franco Foligna] scenografia: Mario Garbuglia aiuto architetto: Ferdinando Giovannoni, [S. Manfroncelli, Fabrizio Alvaro]

musica: Nino Rota. Orchestra sinfonica di Santa Cecilia diretta da Franco Ferrara, con un valzer inedito di Giuseppe Verdi montaggio: Mario Serandrei direttori di produzione: Enzo Provenzale, Giorgio Adriani realizzazione di Pietro Notarianni fotografia: Giuseppe Rotunno regia: Luchino Visconti pellicola:

TECHNICOLOR TECHNIRAMA

edizioni musicali Titanus registrazione sonora Westrex Recording System [doppiatori: Corrado Gaipa (Lancaster), Solvejg D’Assunta (Cardinale), Carlo Sabatini (Delon), Lando Buzzanca (Reggiani), Franco Fabrizi (Girotti), Isa Bellini (Bottini), Pino Colizzi (Clementi) direttore del doppiaggio: Mario Maldesi] nulla osta n°39917 del 26/3/1963 metraggio ufficiale: 5392 metri durata: 197’ (edizione integrale), 185’ (edizione definitiva) prima proiezione pubblica dell’edizione integrale: Roma, cinema Barberini, 27 marzo 1963 prima proiezione pubblica dell’edizione definitiva: Cannes, Festival del Cinema, 20 maggio 1963.

Nota bibliografica

Operazione Gattopardo è uscito in prima edizione per i tipi di Le Mani alla fine di marzo 2013, a cinquant’anni esatti dalla prima del film di Visconti. Il testo di questa nuova edizione Feltrinelli è stato rivisto e migliorato, eliminando gli ultimi refusi e chiarendo qualche passo. Non si discosta di molto da quello della prima edizione eccezion fatta per il capitolo 13 (“Il tradimento perfetto”); le nuove integrazioni illuminano ora meglio la natura del personaggio di Concetta e il suo stravolgimento da parte di Visconti. Sono stati ulteriormente integrati i dati del cast tecnico e artistico del film. Per ragioni editoriali si è preferito mettere on line, sul sito “www.feltrinellieditore.it”, la corposa appendice finale costituita da interviste a Francesco Maselli, Ugo Gregoretti, Lucilla Morlacchi, Enrico Lucherini, Mino Argentieri ed Enrico Medioli. Le principali ricerche bibliografiche e documentali per la preparazione di questo libro sono state effettuate alla Biblioteca Nazionale di Roma, alla Biblioteca Comunale Sormani di Milano, alla Biblioteca Luigi Chiarini della Scuola Nazionale di Cinema, all’Istituto Gramsci di Roma e presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. La gentile collaborazione dell’Anac – Associazione Nazionale Autori Cinematografici – ci ha consentito di recuperare alcuni materiali d’archivio sulla “controversia Giannini”; la Cineteca Nazionale di Roma ci ha inoltre permesso di porre a confronto la versione restaurata del film di Visconti (1991) con alcune rare copie antecedenti.

Ai saggi biografici e accademici riguardanti Lampedusa e Visconti abbiamo accostato fonti d’altro tipo, in precedenza poco o nulla indagate. Le carte più preziose – e in larga parte inedite – riguardano i documenti che testimoniano la preparazione e la realizzazione del film di Visconti. Ma anche gli articoli giornalistici, siano reportage, interviste o notizie di cronaca, tratti da quotidiani e settimanali, si sono rivelati un contributo importante, spesso sorprendente. Per gli Incontri di San Pellegrino sono stati consultati gli articoli di Marco Nozza e Angelo Ubiali, oltre che, naturalmente, la Prefazione di Bassani al Gattopardo. Per la ricostruzione della lavorazione del film sono state utilizzate anche le cronache e le interviste d’epoca firmate da Lucio Sarzi Amadé, Franco Gagliani, Nerio Minuzzo, Mino Bonsangue, Paolo Valiani, Giorgio Salvioni, Paolo Emilio Poesio, Marialivia Serini, Silvia Bizio, Angiola Codacci-Pisanelli, Gianfranco Poggi, Archibald Colquhoun, Luigi Locatelli, Sandro Viola, Sandro Bolchi, Gioacchino Lanza Tomasi, Franco Calderoni, Franco Rispoli, Jacqueline Cartier, Mauro De Mauro, Luigi Biamonte, Stelio Martini, Mirella Delfini, e le testimonianze di Goffredo Lombardo registrate per gli extra della prima edizione del film in dvd (Medusa). Gli autori delle recensioni del romanzo e del film apparse su quotidiani e periodici sono in genere citati all’interno del testo. Ma dare conto lungo il libro di tutti i volumi, gli articoli giornalistici, le testimonianze, i documenti contabili o epistolari utilizzati avrebbe appesantito la lettura con centinaia di note e riferimenti.

Di seguito, un elenco essenziale delle pubblicazioni in volume tenute presenti per questo lavoro: Opere di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1958; Racconti (edizione riveduta e ampliata, conforme ai manoscritti originali), Feltrinelli, Milano 1988; lezioni di Letteratura francese e Letteratura inglese, in Opere, Mondadori, Milano 1995; Viaggio in Europa (epistolario 1925-1930), Mondadori, Milano 2006; Licy e il Gattopardo (lettere d’amore), a cura di Sabino Caronia, Edizioni Associate, Roma 1995. Su Lampedusa e sul romanzo: Gioacchino Lanza Tomasi, “premesse” a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Opere, Mondadori, Milano 1995; Gioacchino Lanza Tomasi, “Premessa” e “Postfazione” a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (nuova ed. riveduta), Feltrinelli, Milano 2002; Gioacchino Lanza Tomasi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Una biografia per immagini, Sellerio, Palermo 1998; Gioacchino Lanza Tomasi, I luoghi del Gattopardo, Sellerio, Palermo 2007; Francesco Orlando, “Ricordo di Lampedusa” [1962] seguito da “Da distanze diverse”, Bollati Boringhieri, Torino 1996; Francesco Orlando, L’intimità e la storia, Einaudi, Torino 1998; Francesco Orlando (a cura di), Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Cento anni dalla nascita, quaranta dal Gattopardo (atti del convegno di Palermo, 12-14 dicembre 1996), Città di Palermo, Assessorato alla Cultura, Palermo 1999; Andrea Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo, 1a ed. 1987, 2a ed. 2008; David Gilmour, L’ultimo gattopardo, Feltrinelli, Milano 1988; Giuseppe Paolo Samonà, Il Gattopardo, I

Racconti, Lampedusa, La Nuova Italia, Firenze 1974; Manuela Bertone, Tomasi di Lampedusa, Palumbo, Palermo 1995; Caterina Cardona, Lettere a Licy. Un matrimonio epistolare, Sellerio, Palermo 1987; Camilla Cederna, Signore e Signori, Longanesi, Milano 1966; Luigi Barzini, L’antropometro italiano, Mondadori, Milano 1973; Leonardo Sciascia, La Sicilia del Gattopardo, in “L’Ora”, Palermo, 28-29 gennaio 1959, oggi col titolo “Il Gattopardo”, in Id., Pirandello e la Sicilia, Adelphi, Milano 1996; Leonardo Sciascia, Scopriamo il mondo di Tomasi di Lampedusa, in “Epoca”, 20 gennaio 1979, poi in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo 1989; Franco Fortini, Contro “Il Gattopardo” [1959], in Saggi italiani, De Donato, Bari 1974; Ettore Viola, Il mondo del principe, Sellerio, Palermo 1993; Gian Carlo Ferretti, La lunga corsa del Gattopardo, Nino Aragno editore, Torino 2008; Mario Baudino, Il gran rifiuto (2a ed.), Passigli Editori, Firenze 2009; Salvatore Silvano Nigro, Il Principe fulvo, Sellerio, Palermo 2012. Su Visconti e sul film: Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, a cura di Suso Cecchi d’Amico, Cappelli, Bologna 1963; Pio Baldelli, Luchino Visconti, Gabriele Mazzotta editore, Milano 1973; Gaia Servadio, Luchino Visconti, Mondadori, Milano 1980; Gianni Rondolino, Luchino Visconti, Utet, Torino, 1981; Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, La Nuova Italia, Firenze 1982; Guido Aristarco, Su Visconti, La Zattera di Babele, Roma 1986; Maria Caterina Paino, Il Gattopardo di Luchino Visconti: eredità lampedusiana tra realismo e ricerca del tempo perduto, Istituto di Letteratura Italiana, Catania 1990; Renzo Renzi, Visconti segreto, Laterza, Roma-Bari 1994; Claudia

Cardinale (con Anna Maria Mori), Io, Claudia. Tu, Claudia, Frassinelli, Milano 1995; Il Gattopardo, a cura di Lino Micciché, Electa Napoli/Centro Sperimentale di Cinematografia, Napoli 1996; Suso Cecchi d’Amico, Storie di Cinema (e d’altro), Garzanti, Milano 1996; Visconti e “Il Gattopardo”: la scena del principe, a cura di Francesco Petrucci, De Agostini-Rizzoli, Milano 2001; Claudia Cardinale, Le stelle della mia vita, Piemme, Casale Monferrato 2006; Caterina d’Amico de Carvalho (a cura di), Luchino Visconti e il suo tempo, Mondadori Electa, Milano 2006; e i tre volumi della BiblioVisconti curati da Antonella Montesi (con la collaborazione di Leonardo de Franceschi e Luca Pallanch) per la Scuola Nazionale di Cinema e la Fondazione Istituto Gramsci onlus, Roma 20012009. Nel quadro dei festeggiamenti per il cinquantenario del film vanno ancora segnalati: la giornata internazionale di studi a cura di Emiliano Morreale tenuta il 7 dicembre 2013 al palazzo dei Normanni di Palermo, alla quale hanno partecipato Caterina d’Amico, Gioacchino Lanza Tomasi, Jean-Paul Manganaro, Stefano Rulli, Geoffrey Nowell-Smith nonché gli autori di questo libro, i cui atti sono previsti sul n. 580 di “Bianco e Nero” (settembredicembre 2014); la mostra/evento di materiali lampedusiani e viscontiani C’era una volta in Sicilia. I 50 anni del Gattopardo (Palermo, 6 dicembre 2013 - 9 febbraio 2014) curata da Caterina d’Amico per il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale; la pubblicazione di un numero speciale di “Bianco e Nero” (576-577, maggiodicembre 2013), con interviste a Burt Lancaster e Piero Tosi e saggi di Roberto Andò, Alberto Anile, Piero Spila, Pietro Cavallo e Anton Giulio

Mancino; e una raccolta di foto di scena, Il Gattopardo nelle immagini di Nicola Scafidi (Fondazione Federico II editore, Palermo 2013) con un’ampia introduzione di Gioacchino Lanza Tomasi. Operazione Gattopardo ha avuto una sorta di appendice visiva con il documentario I due gattopardi, realizzato dagli stessi autori, prodotto dalla Cineteca di Bologna con la Titanus e distribuito in sala dal 28 ottobre 2013 insieme al film di Visconti nell’edizione del restauro 2010; è stato così possibile mostrare buona parte delle sequenze tagliate alla vigilia di Cannes 1963, recuperate attraverso ampi spezzoni e varie foto di scena. Con l’occasione sono state compiute nuove ricerche ma la “versione integrale” pare non esistere più, almeno in Europa; l’unica esile possibilità è che un giorno riemerga da qualche scantinato della 20th Century Fox americana. A beneficio del lettore aggiungiamo alcuni riferimenti e qualche curiosità. L’immagine di Lampedusa già preveggente la versione cinematografica del Gattopardo venne rievocata dalla vedova a Santi Petringa, uno dei mille cronisti che affollarono via Butera durante la lavorazione della pellicola viscontiana. Il testo della lettera scritta da Lampedusa ma firmata da Lucio Piccolo per accompagnare le sue 9 liriche ci è stato tramandato da Montale nella sua prefazione al libro poi pubblicato da Mondadori nel 1956, rititolato Canti barocchi e altre liriche: “Mi permetto di inviarle alcune mie liriche che ho fatto stampare privatamente e che non metterò in circolazione. In esse, e specie nel gruppo ‘Canti barocchi’ che più mi sta a cuore, era mia intenzione rievocare e fissare un mondo

singolare siciliano, anzi più precisamente palermitano, che si trova adesso sulla soglia della propria scomparsa senza avere avuto la ventura di essere fermato da un’espressione d’arte. E ciò, s’intende, non per una mia programmatica scelta d’un soggetto, ma per una interiore, insistente esigenza di espressione lirica. Intendo parlare di quel mondo di chiese barocche, di vecchi conventi, di anime adeguate a questi luoghi, qui trascorse senza lasciar traccia. Ho tentato non quasi di rievocarlo ma di dar di esso un’interpretazione su ricordi d’infanzia. Mi legga; e mi scusi ecc.”. Come notato da Leonardo Sciascia, più che i Canti di Piccolo la lettera di Lampedusa sembra presentare il futuro Gattopardo; proprio a Sciascia, Piccolo confessò che la lettera era in realtà opera di Tomasi. Le lettere di Lampedusa a Lajolo e a Merlo sono state pubblicate, rispettivamente, sull’“Espresso”, Roma, 8 gennaio 1984, e all’interno della “nuova edizione riveduta” del romanzo uscita nel 2002. L’entusiasmo di Lampedusa per Saint-Simon affiora più volte nel corso delle Lezioni impartite a Orlando: “[Saint-Simon è] il solo vero precursore di Proust” (Letteratura francese), “un genio”, e i suoi Mémoires “uno dei più indiscutibili capolavori della letteratura francese”, “un monumento imperituro, un’opera che rassomiglia a quella di Balzac per il formicolio di vita che rende, a quella di Racine per l’acutezza implacabile della psicologia. Da leggersi dalla prima all’ultima parola” (Letteratura inglese). Dall’ammirazione il principe era già passato una prima volta all’emulazione, scrivendo a quattro mani insieme

a Lucio Piccolo un pastiche “a metà fra Proust e Saint-Simon”, ambientato in un circolo di Palermo, dove i due cugini dicevano “cose tremende su personaggi notissimi e sciocchi, veri mostri ricoperti dal manto dell’ignoranza” (Piccolo alla Cederna). Il divertissement era poi finito nel fuoco di un camino. La quasi totalità dei critici ha ignorato (o pesantemente sottovalutato) l’VIII capitolo del Gattopardo ma una importante eccezione è costituita da Olga Ragusa, fra i rarissimi a essersi soffermati tra l’altro sul misconosciuto personaggio di Concetta; cfr. la parte finale del suo saggio Stendhal, Lampedusa and the Novel, in “Comparative Literature Studies”, Urbana (Illinois), settembre 1973. L’osservazione di Edoardo Sanguineti sugli ossimori nel romanzo è: “Mi sia lecito insinuare che la chiave ideologica del libro ha una struttura essenzialmente ossimorica”. Un’osservazione acuta, che Sanguineti porge modestamente tra parentesi all’interno di Testimonianza di un vecchio lettore, in Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Cento anni dalla nascita, quaranta dal Gattopardo (op. cit.). Sanguineti ha ricevuto nel 2008 il premio letterario Tomasi di Lampedusa, scatenando in pieno ferragosto l’ennesima polemica giornalistica: com’è possibile premiare un ex membro del Gruppo 63 nel nome di Lampedusa? Il critico perplesso di fronte al lampedusiano “passo sconcertante” sulla verità che non c’è più è l’americano Gregory Lucente (in Beautiful Fables: Self-consciousness in Italian Narrative from Manzoni to Calvino, John Hopkins University Press, Baltimore 1986, pp. 219-220; trad. it. Bellissime fiabe, Milella, Lecce 1995, pp.

227-228); mentre è di Giacinto Spagnoletti (Il Gattopardo: vent’anni dopo, in “Lunario nuovo”, agosto-settembre 1979, p. 8, poi in Storia della letteratura italiana del Novecento, Newton Compton, Roma 1994, p. 770) la definizione del medesimo passo come di uno “stigma pirandelliano”. Il nome del colonnello passato alla storia per aver fermato Garibaldi in Aspromonte è Emilio Pallavicini, e non Pallavicino come scritto nel romanzo di Lampedusa. L’errore è probabilmente dovuto alla quasi omonimia fra il colonnello sabaudo e il prefetto di Palermo Giorgio Pallavicino, eroe del Risorgimento, che, al secondo sbarco in Sicilia di Garibaldi, non si oppose alle manifestazioni di piazza a favore delle camicie rosse e non fece nulla per impedire gli infuocati discorsi del generale e il solenne giuramento delle folle “Roma o Morte”. Dopo l’arresto di Garibaldi per opera di Pallavicini, Pallavicino venne destituito da Rattazzi. L’intervento di Mario Alicata per dirimere le dispute su Metello e Senso è in Spontaneità e disciplina nella critica dei comunisti, pubblicato su “Rinascita” nell’ottobre 1955. Qualche anno dopo lo stesso Alicata si sbilanciò parlando di “eccessivo compiacimento formale, e perciò di gusto estetizzante, in Senso” (Quattro domande sul cinema italiano, in “Cinema Nuovo”, Milano, marzo/aprile 1961, p. 129). L’imbarazzo in certe questioni toccò dirigenti ben più alti di Alicata. Secondo il suo segretario di allora, Palmiro Togliatti tergiversò sul film di Visconti “anguilleggiando”, e “limitandosi a dichiarare che ‘è un bel film d’amore. Per giunta, è tutta una fantasticheria rispetto al testo del suo autore, Boito. Una signora alto-borghese

milanese non si sarebbe mai recata allo scoperto nel quartiere irridente dei serbo-croati-austriaci del proprio amante’ aggiungeva con qualche elemento di verità e di giusta penetrazione sociale” (Massimo Caprara, L’inchiostro verde di Togliatti, Simonelli, Milano 1996). La consonanza di Sciascia con l’opinione espressa da Vittorini nella celebre intervista al “Giorno” venne ribadita più volte. Qualche mese dopo averla supportata sull’“Ora” (anche in funzione anti-vedova Lampedusa), Sciascia scelse l’intervista di Vittorini come personale “articolo dell’anno” 1959; sull’Almanacco Letterario Bompiani 1960 dichiarò che leggendola aveva provato “un certo sollievo: un po’ come un avamposto assediato che vede arrivare in suo aiuto tutto un reggimento, con bandiera in testa”. I fatti di Bronte, il saggio che Leonardo Sciascia scrisse nel 1960 e che certamente Visconti ebbe presente durante la preparazione del film, è stato ripubblicato in Pirandello e la Sicilia, Adelphi, Milano 1996. La stroncatura del romanzo lampedusiano ad opera di Enrico Falqui proseguiva sulla “Fiera Letteraria” ancora per poche righe dopo quelle citate, righe che furono poi eliminate dalla ripubblicazione in volume (Novecento letterario, serie III, Vallecchi, Firenze 1961, pp. 558-570). Le riesumiamo qui a dimostrazione di quanto accesi potessero diventare in quel periodo i toni antigattopardeschi: “Fosse almeno riuscito a darcene un’invenzione valida artisticamente. Purtroppo il Gattopardo mal si ingegna a prender posto nei musei di storia naturale: avrebbe dovuto persuadersi di non essere ormai che un Gattomorto. Sia detto senza ironia”. Una chiusa piuttosto greve riferendosi all’opera di uno

scrittore defunto (e pare che la vedova Lampedusa ne sia rimasta piuttosto addolorata); l’articolo era tra l’altro uscito sul “Tempo” di Roma proprio con il titolo Il “Gattomorto”. Oltralpe il romanzo di Lampedusa venne accolto in modo complessivamente più equilibrato e meno fazioso che da noi. L’unico critico francese in totale sintonia con Vittorini e Alicata è Dominique Fernandez di “L’Express”, per il quale “dire che nulla vale di fronte alla perennità delle leggi naturali è sempre servito a giustificare le oppressioni e la miseria. […] La filosofia di Lampedusa non vale gran che. […] Negando la lotta di classe, Lampedusa rimane l’uomo della sua classe”. Un giudizio che Sciascia trovò molto simile al proprio, “quasi identico direi, benché Fernandez non conoscesse il mio articolo e io abbia conosciuto molto più tardi il suo”. Cfr. Leonardo Sciascia in ‘Il Gattopardo’ 10 anni dopo, dibattito a nove voci sul romanzo, a cura di Etrio Fidora, in “L’Ora”, Palermo, 2 ottobre 1968, e Dominique Fernandez, “Le Guépard”, par Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in “L’Express”, Paris, 26 novembre 1959 (parzialmente tradotto in Ivos Margoni, Il “Gattopardo” in Francia, in “Belfagor”, Firenze, 30 settembre 1960; saggio, tra l’altro gustoso, a cui si rimanda per un excursus ragionato sull’accoglienza iniziale del romanzo in terra francese). A chi conosce vita e opere di Maria Bellonci non sarà sfuggita la risposta della scrittrice a un cronista su una propria eventuale partecipazione allo Strega, pur sapendo quanto sarebbe stato spiacevole mettere a dura prova l’amicizia e la stima dei colleghi. La scrittrice si sarebbe decisa solo nel 1989, spinta da Umberto Eco e Lalla

Romano. Attaccata da amici e colleghi, morì pochi mesi prima della votazione ma il suo Rinascimento privato ottenne lo Strega. Imperscrutabile gioco delle coincidenze, anche il suo fu un riconoscimento postumo. Pubblicato a Mosca nel 1937, Il romanzo storico di Lukács arrivò in Italia solo nel 1965, per i tipi di Einaudi, ma le teorie dello studioso ungherese si erano già diffuse nel nostro paese, soprattutto grazie all’edizione tedesca del ’55. L’accenno al Gattopardo è contenuto nella prefazione alla traduzione inglese, dettata da Budapest nel settembre 1960, stampata nel ’62 e diffusa in Italia l’anno successivo sull’“Europa Letteraria”. Alicata e Togliatti, ad ogni modo, non ebbero certo bisogno di aspettare tre anni per leggerla, e, con ogni probabilità, l’accenno di Lukács ebbe il suo peso nel “contrordine” del Pci a proposito del Gattopardo. L’edizione sovietica del romanzo di Lampedusa, con la prefazione di Alicata, uscita nel 1961 per la Casa editrice delle letterature straniere, sarebbe stata per oltre quarant’anni l’unica edizione del Gattopardo in lingua russa. L’obiezione che Aragon oppone alla critica italiana di sinistra a proposito degli autori di destra che scrivevano libri di sinistra è in fondo la stessa che Lombardo Radice aveva opposto alla stroncatura di Rino Dal Sasso e che Alicata aveva rintuzzato. Si ricordi il giudizio di Engels su Balzac, “maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire […], un legittimista politicamente […] ma nonostante ciò, la sua satira non è mai così pungente, la sua ironia non è mai così amara come quando fa entrare in azione proprio gli uomini e le donne con cui più

profondamente simpatizza, e cioè i nobili. E i soli uomini dei quali egli parla sempre con franca ammirazione sono i suoi più recisi avversari politici, gli eroi repubblicani di Cloître SaintMerry, […] i veri rappresentanti delle masse popolari” (cfr. Karl Marx, Friedrich Engels, Scritti sull’arte, Laterza, Bari 1971, pp. 161-162, e Giuseppe Paolo Samonà, Il Gattopardo, i Racconti, Lampedusa, op. cit., pp. 23-24). Ugo Pirro lesse il romanzo di Lampedusa prestissimo, forse ancora nel ’58, e si precipitò da Sergio Amidei per proporgli di acquistare i diritti del romanzo. “Il mio intento,” scrive Pirro in Soltanto un nome nei titoli di testa, “era di partecipare alla sceneggiatura e confidavo nell’autorevolezza di Amidei per riuscirvi.” Naturalmente finì male. “Chissà perché l’avvocato Carpi, che trattava i diritti per conto dell’editore Feltrinelli, frappose infiniti ostacoli, fino a quando Amidei esplose e tempestò di urla e di offese il distinto professionista.” La circostanza dei film Titanus prestati a Togliatti in visione privata è stata raccontata dallo stesso Lombardo, intervistato nel 2004 da Patrizia Carrano: “Se li faceva proiettare nella saletta di via Botteghe Oscure. Sei, sette persone, non di più. Ogni tanto c’era Nilde Jotti. Due o tre volte sono andato anch’io. Non diceva nulla, non un commento, non un giudizio. Ma era cortesissimo”. L’intervista di Tatti Sanguineti ad Anna Giannini risale al settembre 2005 ed è stata pubblicata in Tatti Sanguineti, Voci del varietà/Federico delle voci, Fondazione Federico Fellini, Rimini 2006. In un’intervista del giugno 2005, sempre riportata nel volume, la vedova ricordava fra l’altro: “Mi è stato riferito che

Goffredo Lombardo si interrogò per anni sul modo di risarcire Ettore per quanto era accaduto. Ma io, che sono siciliana, credo di aver sofferto per questa storia quanto Ettore e forse più di Ettore. Mio marito per consolarmi mi diceva sempre […]: ‘Guarda, Anna, che se io avessi girato Il Gattopardo, sarei sicuramente morto durante le riprese….’. Bel modo di consolarmi”. L’allusione della vedova è al pericoloso perfezionismo di cui Giannini era ben consapevole. Nell’intervista in cui Visconti affermava che il miracolo economico si fermava a via Gesù, il testo originale dell’“Unità” riporta erroneamente “via del Gesù”. Visconti naturalmente si riferiva alla milanese via Gesù, nel bel mezzo della zona più ricca della città, il cosiddetto quadrilatero della moda, chiuso tra via Manzoni, via della Spiga, corso Venezia e via Montenapoleone. Come si è detto, la scena viscontiana dell’annuncio dei risultati del plebiscito attinge anche a fonti diverse dal Gattopardo. Come notato da Paolo Squillacioti (Leonardo Sciascia e Il Gattopardo, in “Galleria”, Caltanissetta, gennaio-aprile 1993), Visconti ha senz’altro tenuto presente i Viceré, parte terza, capitolo IX: “‘Basta… basta,’ diceva Consalvo, a bassa voce, […] e Baldassarre, da lontano, […] faceva segni disperati alla musica; e finalmente i sonatori compresero, la musica finì, gli applausi e le grida si spensero; ma, ad un tratto, mentre il presidente del comitato si faceva alla balaustrata presentando il candidato, squillarono le note dell’inno garibaldino, un nuovo fremito corse per la folla, il delirio ricominciò…”. Ma esiste anche un Cinegiornale Luce su Mussolini a Cosenza il 30 marzo 1939 in cui, dietro l’uomo della

Provvidenza, due uomini in divisa gesticolano imperiosi per zittire la folla urlante che acclama il suo duce fuoritempo: la somiglianza con la scena del film di Visconti è impressionante. Da noi intervistato nell’agosto 2006 sul set dei suoi Viceré, Roberto Faenza afferma che il progetto viscontiano dal romanzo di De Roberto sarebbe stato addirittura antecedente al Gattopardo: “Visconti mi disse che aveva chiesto a Lombardo di fare prima I Viceré, e Lombardo gli disse che aveva avuto un veto dalla Chiesa. Non so se poi sia vero. Sicuramente nel romanzo la parte del monastero è molto violenta e molto scabrosa”. Le scene della zuffa tra i contadini e i soldati chiamati da Sedara, dell’arrivo delle carrozze e della salita dei Salina sulla scalinata di palazzo Gangi, tutte previste in sceneggiatura, furono girate e vennero probabilmente anche montate in una prima versione del film, per essere infine sostituite da un unico veloce cambio d’inquadrature, dai braccianti nei campi all’ingresso di palazzo Ponteleone. La modifica porta ancora i segni dell’idea realizzata direttamente in moviola. L’inizio del movimento di macchina che dal paesaggio di Donnafugata va a scoprire i contadini sui campi sembra la parte conclusiva di un’altra panoramica, quella che, poco dopo l’arrivo di Chevalley, dagli ammutoliti Cavriaghi e Concetta si dirigeva sui tetti fumanti del paese. I due pezzi non combaciano perfettamente (fra i due spezzoni mancherebbe qualche metro di pellicola) ma il maestoso movimento da destra a sinistra sembra lo stesso; se fosse così, pur di trascinare i contadini a ridosso del ballo, Visconti e Serandrei hanno spezzato in due una magnifica panoramica.

La “sceneggiatura” del Gattopardo pubblicata nel 1963 a cura di Suso Cecchi d’Amico è di fatto un ibrido fra le ultime versioni scritte, i cambiamenti in corso d’opera e l’edizione montata in vista dell’anteprima. Del pasticcio fa parziale ammissione la stessa Cecchi d’Amico in una lettera a Renzo Renzi a proposito del dattiloscritto appena inviatogli. “[…] La sceneggiatura mi sembra molto chiara. Le ho mandato il penultimo ciclostile con tutte le correzioni e tagli (segnati in rosso) dell’ultima versione. Non sono riuscita a rimediare l’ultimo ciclostile. Ho il sospetto che non sia stato mai fatto altro che nell’edizione inglese in quanto il film, come lei saprà, è stato girato in inglese. […]” In realtà l’edizione originale del film venne girata in inglese solo nelle scene con Lancaster, ma pare che sul set si siano girati effettivamente in inglese anche dei ciak doppi in vista di un’edizione interamente in lingua. Il testo della lettera di Suso Cecchi d’Amico, datata 24 gennaio 1963, è stato pubblicato sul sito www.luchinovisconti.net. Sembra che uno degli elementi presenti (e, per molti versi, decisivi) nel progetto originario di La terra trema fosse un esplicito richiamo alla strage di Portella della Ginestra. La complessa evoluzione del progetto è stata indagata da Anton Giulio Mancino in Il processo della verità, Kaplan, Torino 2008. I tagli operati da Visconti fra l’anteprima al Barberini e la presentazione a Cannes ripropongono l’eterno duello tra regista e produttore su posizioni inverse a quelle abituali, con Visconti desideroso di sacrificare brani di girato e Lombardo deciso a mantenerlo integro. Di questa ultima paradossale contrapposizione

rimangono brevi ricordi del produttore in un’intervista del 2004 a Paolo D’Agostini (“Che soddisfazione alla fine, quando vidi il primo montaggio. Ero conosciuto per i tagli e Il Gattopardo era lunghissimo, ma dissi: non si tocca un fotogramma”) e nel documentario L’ultimo gattopardo (in cui Giuseppe Tornatore ricorda un’analoga confidenza fattagli da Lombardo). Le battute citate nella nostra ricostruzione della sequenza del sogno di Don Fabrizio sono tratte da un documento di doppiaggio dell’aprile 1963, unico foglietto superstite dei “dialoghi italiani della edizione internazionale a sottotitoli”, conservato nel fondo Visconti presso l’Istituto Gramsci. La scena, prevista in sceneggiatura, è presente anche nella trascrizione del film pubblicata dal n. 32/33 di “L’Avant Scène du Cinèma” (15 dicembre 1963/15 gennaio 1964), fonte preziosa per la ricostruzione delle scene mancanti ma a proposito della quale va fatta più di una precisazione. Il curatore del fascicolo René Barjavel (autore dell’adattamento dei dialoghi del Gattopardo in francese) spiega nelle sue note introduttive che quella pubblicata sarebbe una trascrizione del “découpage après montage définitif”, cioè della versione francese definitiva. Ora, non solo questa trascrizione risulta analoga ma non identica alla vecchia versione francese distribuita in dvd, ma Barjavel ha anche corredato il testo di molti brani definiti “coupé au montage” che risultano in realtà tradotti alla lettera dalla “sceneggiatura” pubblicata da Cappelli. La sequenza del sogno e il dialogo in soffitta fra Angelica e Cavriaghi risultano anch’essi segnalati come “tagliati al montaggio” ma sono gli unici a discostarsi, e di molto, dalla

traduzione della sceneggiatura edita da Cappelli: Barjavel li ha verosimilmente annotati alla moviola dalla visione diretta di una copia “integrale”. Visconti giustificò apertamente il taglio degli ultimi due capitoli del romanzo con un capzioso ragionamento filologico: “Lo stesso Tomasi di Lampedusa,” dichiarò durante il doppiaggio del film, “era in dubbio sulla collocazione e sulla soppressione di alcuni capitoli. Il settimo, ch’è appunto quello intitolato alla morte del principe, era fra i capitoli dubbi. È come un racconto a sé: bellissimo ma a sé. Come lo è il capitolo successivo, quello dello zitellaggio di Concetta: una specie di appendice, e una brutta appendice. Queste perplessità di Tomasi ci dicono che l’unità del romanzo era suggellata anche per lui dal ballo al palazzo Ponteleone”. Una conclusione arbitraria e soprattutto errata, ma avallata autorevolmente da Emilio Cecchi che nell’introduzione al volume di Cappelli (un saggio abilmente distribuito alla stampa mentre il film era ancora in moviola), dice praticamente le stesse cose. La delusione di Francesco Orlando a proposito del film Il manoscritto del Principe ebbe una risposta da parte del regista Roberto Andò, sempre pubblicata sul “Corriere della Sera”: “[…] Mi è sembrato un giudizio sbrigativamente da ‘letterato’ quello riservato al supposto rigenerarsi nel film del mito del personaggio Lampedusa. Come se il cinema, a differenza della letteratura, non potesse raccontare la complessità e dovesse costitutivamente semplificare, alimentando diabolicamente leggende da gazzetta, o allontanando dalla vera voce dello scrittore, dall’opera […]”.

Un’ultima precisazione va fatta per il testo del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa utilizzato in questo volume. Del romanzo esistono tre differenti versioni: quella del 1958 curata da Bassani, quella “conforme al manoscritto del 1957” uscita nel 1969 (poi riprodotta nei “Meridiani” Mondadori) e una ulteriore “nuova edizione riveduta” nel 2002 da Gioacchino Lanza Tomasi, tutte edite da Feltrinelli. I brani citati in questo libro (riportati sempre in corsivo) sono tratti dall’edizione curata da Bassani, non perché considerata la migliore ma perché è quella a cui si riferì la gran parte dei recensori citati e soprattutto perché fu l’unica che Visconti e i suoi collaboratori poterono utilizzare per la preparazione del film. Gli autori desiderano ringraziare i testimoni intervistati o consultati: Lucilla Morlacchi, Francesco Maselli, Enrico Lucherini, Ugo Gregoretti, Enrico Medioli, Mino Argentieri, Gian Luigi Rondi, Peppino Rotunno, Mario Girotti. Per la consultazione di biblioteche e archivi si ringraziano Teresa Ferrari (centro documentazione Mondadori), Angelo Salvatori (Biblioteca del cinema “Umberto Barbaro” di Roma), Patricia Massin (Bibliothèque Royale de Belgique), Rossana Angeloro (Biblioteca del dipartimento di Lingue e letterature moderne dell’Università degli Studi di Macerata), Cristina Santilli (Anac), Mario Musumeci (Cineteca Nazionale) e tutto il personale dell’Istituto Gramsci di Roma. Per la collaborazione offerta in forme e circostanze diverse, Marco Vanelli, Tatti Sanguineti, Ennio Bispuri, Valerio Guslandi, Pier Luigi Raffaelli, Antonio Maraldi, Maurizio Turrioni, Carmelo Salleo e Bonaventura Foppolo.