Jacobin Italia. Una storia italiana [Vol. 22] 9791255600176, 1255600179

Nel marzo del 1994, trent’anni fa, con la vittoria elettorale a sorpresa del nuovo partito di Silvio Berlusconi finiva u

135 61 10MB

Italian Pages 140 Year 2024

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Jacobin Italia. Una storia italiana [Vol. 22]
 9791255600176, 1255600179

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

JACOBINITALIA.IT

N° 22 / PRIMAVERA 2024

13 euro

UNA STORIA ITALIANA

Un anno tutto digitale

75 euro

1,50 a copia

Abbonati per leggere ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo su computer, tablet e smartphone. E ogni mattina una newsletter di notizie. internazionale.it/abbonati

«Vi sono due ministri del governo Prodi che vanno in Africa, su un’isola deserta, e vengono catturati da una tribù di indigeni. Il capo tribù interpella il primo ostaggio e gli propone: ‘Vuoi morire o bunga-bunga?’. Il ministro sceglie: ‘Bunga-bunga’. E viene violentato. Il secondo ministro, anche lui messo dinanzi alla scelta, non indugia e risponde: ‘Voglio morire!’. Ma il capo tribù: ‘Prima bunga-bunga e poi morire’».

3

UNA STORIA ITALIANA

Barzelletta raccontata da Silvio Berlusconi, riportata da Noemi Letizia ad Angelo Agrippa sul Corriere del Mezzogiorno del 28 aprile 2009.

Dal carnevale alla quaresima

28

Il Mostro di Arcore Selene Pascarella

Colonna sonora di un paese normale

Salvatore Cannavò

Giulio Calella

Il rompicapo dell’antiberlusconismo

Il pensiero fuori dal palazzo

Il Re è nudo

Lorenzo Zamponi

Fascisti in democrazia «Il populismo italiano è iniziato con Berlusconi» Giampiero Calapà intervista Rosy Bindi

68

Rossella Borri

32

Giuliano Santoro

56

La Seconda Repubblica si è mangiata la sinistra

Da Tangentopoli al populismo

62

22

16

Ida Dominijanni

44 40

Voi siete qui

50

8 10

Editoriale

Antonio Montefusco intervista Giorgio Caravale

Caterina Serra intervista Ella Deriva

INFOGRAFICA

La lotta di classe l’hanno vinta gli altri Lorenzo Zamponi

75

I sindacati nel gorgo della storia

80

Giovanni Iozzoli

La politica senza classe operaia

102 98 94

Una maschera senza limiti Roberto De Gaetano

La cultura del «ma anche» Christian Raimo

Eravamo morti nel 1994 Giuseppe Genna

110

Giacomo Gabbuti

118

La Seconda Repubblica nel pallone

Morire al momento giusto

Un crociato contro le rivoluzioni

Greg Grandin

Aldo Marchesi

122

88

Giuliano Garavini

Come si organizza un golpe

130

L’avvento dello Stato azionista

L’amico di Pol Pot

134

84

Gilda Zazzara

Dalla War Room a Wall Street

René Rojas

Brett S. Morris

Christy Thornton

Citoyens consiglio redazionale Simona Baldanzi Marco Bertorello Carlotta Caciagli (editor) Giulio Calella (editor) Salvatore Cannavò (editor) Luca Casarotti Danilo Corradi Chiara Cruciati Simone Fana Sara Farris Giacomo Gabbuti Carlo Greppi Martina Lo Cascio Sabrina Marchetti Francesco Massimo Antonio Montefusco Selene Pascarella Assia Petricelli Alberto Prunetti Giuliano Santoro (editor) Lorenzo Zamponi (editor) hanno collaborato a questo numero Rosy Bindi Rossella Borri Giampiero Calapà Giorgio Caravale Roberto De Gaetano Ella Deriva Ida Dominijanni Giuliano Garavini Giuseppe Genna Giovanni Iozzoli Christian Raimo Caterina Serra Gilda Zazzara

Art director Alessio Melandri Web Master Matteo Micalella Coordinamento con Jacobin MAG David Broder Illustrazioni Stefano D’Oriano Francesca Ghermandi COPERTINA Stefano D’Oriano

Jacobin Italia Rivista trimestrale n. 22 - primavera 2024 Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 173/2018 rilasciata il 25/10/2018 Testata e articoli tradotti da Jacobin Mag su licenza di Jacobin Foundation Ltd 388 Atlantic Avenue Brooklyn NY 11217 United States Editore

Edizioni Alegre società cooperativa Circonvallazione Casilina, 72/74 00176 Roma www.edizionialegre.it Direttore responsabile Salvatore Cannavò Chiuso in tipografia il 27 febbraio 2024 Stampa Arti Grafiche La Moderna S.r.l. via Enrico Fermi, 13/17 00012 Guidonia Montecelio (Roma) Distribuzione in libreria Messaggerie Spa Abbonamenti (4 numeri) Digitale: 26 euro Digitale + cartaceo: 39 euro Spedizioni in paesi Ue: 20 euro Spedizioni in paesi extra Ue: 35 euro Info www.jacobinitalia.it [email protected]

Voi siete qui P

8

rima che esistessero navigatori satellitari, smartphone e geolocalizzazioni, ogni mappa esposta in un luogo pubblico conteneva un’informazione fondamentale, punto di partenza dal quale cominciare a orientarsi: una freccia con la scritta Voi siete qui. Questo numero di Jacobin Italia non è una rievocazione storica di Silvio Berlusconi e della sua discesa nel campo della politica (avvenuta esattamente trent’anni fa): è un messaggio ai navigatori per dire Voi siete qui. Il senso dei temi e delle storie che qui trovate squadernati è che quegli eventi iniziati quando ancora non esistevano gli smartphone, la Russia era in fila per entrare nella Nato e nel calcio era persino concesso il retropassaggio al portiere, continuano a produrre effetti anche nel contesto nuovo. Senza l’elaborazione di quella stagione (ciò che è mancato in questi anni) non verremo a capo di molte delle sfide che si presentano oggi. Ida Dominijanni parte proprio da quel video spedito a tutte le televisioni con il quale Silvio Berlusconi, era il 26 gennaio del 1994, annunciava la sua discesa in campo declinando un verbo (amare) insolito per il vocabolario ingessato della Prima Repubblica. L’uomo che avrebbe plasmato e monopolizzato il discorso pubblico nei decenni successivi sfonda i confini tra rappresentazione pubblica e vita privata, tra immaginario e realtà. Sono gli anni in cui il ceto politico postcomunista si propone come forza di governo e abbraccia l’ondata neoliberista di Tony Blair e Bill Clinton. Di quest’epoca di transizione fornisce un quadro

critico Rosy Bindi, intervistata da Giampiero Calapà. E sono anni, racconta Salvatore Cannavò, che finiranno per cancellare la sinistra dallo scenario parlamentare. Contemporaneamente invece, come evidenzia Rossella Borri, la destra che viene dal fascismo passa in mezzo a tanti cambiamenti eppure resta indenne in nome di un vecchio motto di Giorgio Almirante: «Filtrare il passato nel presente». Ma sono anche gli anni dei grandi movimenti globali e della profonda innovazione nei linguaggi e nelle forme della protesta. Sono lotte, tuttavia, che pur disegnando grandi scenari non possono aggirare le vicende della politica nazionale e, sostiene Lorenzo Zamponi, nel bene e nel male si inseriscono nel flusso del cosiddetto «antiberlusconismo». Giuliano Santoro, a questo proposito, traccia il filo che dal sentimento giustizialista scatenato da Tangentopoli conduce all’esito reazionario di questi anni. È possibile riconoscere quel filo anche nelle trame dell’immaginario e dell’egemonia berlusconiana descritte da Selene Pascarella. Del resto, Roberto De Gaetano, ripercorrendo le rappresentazioni cinematografiche di Berlusconi, ragiona sulla sua maschera capace di generalizzare valori e sentimenti diffusi nel paese, svelando quanto il

UNA STORIA ITALIANA

9

«vizioso» e il suo oppositore «moralista» in qualche modo si corrispondano. E che dire di Walter Veltroni, fondatore del Partito democratico e poi autore di libri e film, il cui discorso è caratterizzato da una costante: la rimozione di ogni conflitto? Prova a rispondere Christian Raimo. Sempre a proposito di immaginario, Caterina Serra ed Ella De Riva dialogano su quello predominante nel paese che ha incoronato Berlusconi, ventennio hanno prodotto tra l’altro l’aumento di 7 anni delle gerarchie tra corpi e comportamenti dell’età media pensionabile, la caduta libera dei salari sessuali e del denaro e del potere come fat- (unici a diminuire in valore reale nei paesi Ocse dal 1990 a tori che sbilanciano il piano paritario dello oggi) e il crollo di votanti alle elezioni politiche di oltre 20 scambio. punti percentuali. E che ne è stato degli intellettuali? Ne Ovviamente tutti questi sconvolgimenti culturali ed discutono Antonio Montefusco e Giorgio economici si sono riflessi nel calcio, sport nazionale per Caravale, ragionando sulla crisi del rap- eccellenza e comfort zone dello stesso Berlusconi, come porto tra politici di professione e uomini e osserva Giacomo Gabbuti. Giuseppe Genna, infine, riperdonne di pensiero: una relazione compli- corre questi trent’anni affiancando immagini, scorci e sepcata da cui emergono figure nuove, figlie di pellimenti che vanno dalla strage di via Palestro a Milano quest’epoca. Contemporaneamente, nel- fino ai funerali di Silvio Berlusconi. la cultura pop di quegli anni trovano non La sezione di questo numero tradotta dall’edizione a caso il loro habitat culturale naturale gli statunitense di Jacobin Magazine è dedicata a un evento artisti lanciati da un personaggio chiave (e eccezionale. Lo scorso 29 novembre è morto a cent’anni trasversale) come Claudio Cecchetto, di cui Henry Kissinger, Segretario di Stato negli anni dell’anticomunismo e dei massacri in nome del dominio a stelle e si occupa Giulio Calella. Non ne sono usciti meglio i sindacati, strisce e uomo di potere dal dopoguerra in poi. Nelle stesse annota Giovanni Iozzoli, che dopo la crisi ore in cui la notizia della sua morte si è diffusa, negli Usa economica e politica del 1992-93 hanno Jacobin ha pubblicato un libro sulla sua figura criminaintrapreso la fallimentare strategia della le al quale lavoravano da anni. Ve ne proponiamo alcuni concertazione. Del resto, è impossibile ra- saggi significativi. Dapprima, Greg Grandin ricostruisce le gionare sugli anni che abbiamo alle spalle genealogia del pensiero e dei riferimenti culturali di Kissenza fare i conti con la deindustrializza- singer, individuando la relazione con il filosofo reazionario zione che ha tolto il terreno sotto i piedi alla Oswald Spengler (quello del declino dell’Occidente). Aldo classe operaia (se ne occupa Gilda Zazzara) Marchesi affronta la missione di una vita: bloccare ogni e con la spaventosa opera di privatizzazio- istanza di cambiamento, soprattutto nel sud America. ne che ha cancellato con un tratto di penna René Rojas, nello specifico, traccia la spaventosa catena di la presenza dello Stato nell’economia (ne eventi e l’inquietante e meticolosa preparazione del golpe parla Giuliano Garavini). Come mostrano che rovesciò il governo di Allende in Cile, vicenda emblele infografiche raccolte nell’inserto apribile matica del suo modus operandi. Si parlava di anticomudi questo numero, le politiche dei governi nismo, ma non bisogna dimenticare che Kissinger non si di centrodestra e centrosinistra di questo fece problemi a sostenere il genocidio di Pol Pot in Cambogia pur di colpire l’odiato Vietnam che era uscito vittorioso dalla guerra, come racconta Brett S. Morris. Infine, Christy Thornton descrive il modo in cui Kissinger passò dall’amministrazione Usa a Wall Street, svolgendo un ruolo da protagonista negli anni del neoliberismo.

DAL CARNEVALE ALLA QUARESIMA

10

N. 22

PRIMAVERA 2024

La Seconda Repubblica nasce in un campo extrapolitico: vita e politica si sovrappongono in un cambiamento antropologico di portata storica. Ma quando il Re-Papi si è mostrato nudo, il godimento ha lasciato posto all’austerità

11

UNA STORIA ITALIANA

Illustrazione di FRANCESCA GHERMANDI

POLITICA

T

utto comincia con una dichiarazione d’amore e con la promessa di un miracolo, incipit («L’Italia è il Paese che amo») e chiusa («Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme per noi e per i nostri figli un nuovo miracolo italiano») del video preregistrato con cui Silvio Berlusconi annuncia la sua «discesa in campo» il 26 gennaio del 1994. Seduzione calcolata di un paese disamorato Ida Dominijanni e traumatizzato, che sotto le macerie di Tangentopoli incubava solo amarezza e condanna e il miracolo economico dei favolosi anni Cinquanta lo aveva dissipato nel debito pubblico. Script da Oscar della fiction, lo si doveva capire subito. Invece non lo capì nessuno, tantomeno i giornali e gli editorialisti di un’area progressista (allora si chiamava così, archiviati i vecchi aggettivi socialista e comunista) culturalmente impreparata a capire che il messaggio era il medium, che la fiction può plasmare la realtà e che in politica vince chi i sentimenti li usa e non chi li nasconde sotto il velo di una razionalità obsoleta. Piccolo ricordo personale, giusto per tentare di restituire il clima: al manifesto, all’epoca mio adorato giornale diretto da Luigi Pintor, per aver detto «attenti che questo vince» la sottoscritta venne sbeffeggiata per tutta la durata della campagna elettorale dai notisti politici che ancora cercavano la soluzione del crollo del sistema passeggiando in Transatlantico con i sopravvissuti del pentapartito, salvo arrendersi, la sera del 28 marzo, all’evidenza delle urne. ll messaggio dunque stava nel medium. E il medium non era solo il video preregistrato, anticipazione di quella disintermediazione fra leader e pubblico, come la chiamiamo oggi, che da allora in poi avrebbe connotato i populismi italiani. Il medium era anche e in primo luogo lui, Berlusconi, incarnazione vivente del messaggio che predicava: l’imprenditore intrepido e intraprendente che si offriva «ora, subito, prima che sia troppo tardi» per farla finita con «la vecchia classe politica italiana travolta dai fatti e superata dai tempi», per sconfiggere definitivamente quella sinistra che «dice di essere diventata liberaldemocratica ma non è vero, è sempre la stessa», e per costruire un Polo delle libertà, «liberale in politica e liberista in economia», con cui realizzare «il passaggio a una nuova Repubblica».

12

N. 22

PRIMAVERA 2024

LA MUTAZIONE GENETICA DELLA POLITICA Antipolitica, anticomunismo, neoliberalismo: il nocciolo egemonico del ventennio successivo stava già tutto in quel videomessaggio. Ma non spuntava per partenogenesi dalla testa del Cavaliere: era stato ampiamente preparato dai turbolenti processi politici, culturali e massmediatici innescati sul piano Ida Dominijanni, interno dalla scoperta di Tangentopoli e sul piano internaziofilosofa femminista e nale dal crollo del Muro di Berlino e dell’Unione sovietica. Una giornalista, ha lavorato congiuntura che, com’è stato scritto da un altro protagonista di per il manifesto quella stagione, Massimo D’Alema, ha avuto per la democrazia e scrive su varie italiana una potenza destituente pari e contraria alla potenza cotestate italiane e stituente del quinquennio 1944-48: se allora i partiti di massa si internazionali. Ha affermarono all’insegna del primato della politica, nei primi anni scritto Il trucco. Novanta si dissolsero all’insegna dell’antipolitica e del primato Sessualità e di una società civile già ridotta a «gente» indistinta o a audience biopolitica nella fine televisiva. di Berlusconi (Ediesse, Al successo di questa ideologia concorsero processi e soggetti 2015). Il suo ultimo libro diversi: il crollo effettivo di credibilità dei partiti di governo inneè 2001. Un archivio scato dalla scoperta di Tangentopoli; le inchieste di Mani pulite (Manifestolibri, 2021). che colpirono assai più il ceto politico di quello imprenditoriale

UNA STORIA ITALIANA

13

parimenti coinvolto nel circuito della corruzione; il convergere del linguaggio politico e di quello televisivo nella rappresentazione di una distanza incolmabile fra la «casta» dei politici (termine in seguito santificato, è bene ricordarlo, da due firme eccellenti del principale quotidiano italiano) e lo scontento popolare. Il tutto mentre nel campo della sinistra la «svolta» del Pci innescata dalla caduta del Muro si risolveva in una emorragia di identità e di radicamento dei partiti che ne sono derivati. Prima che attore, Berlusconi fu sintomo ed effetto di questi processi, che seppe cavalcare con grande tempismo e portare alle estreme conseguenze, colmando la faglia di sistema e il vuoto di rappresentanza che ne risultavano con la creazione di Forza Italia e di quel campo di centrodestra che ancora oggi, trasformato in destra-centro, ci ritroviamo al governo del paese. La spinta decisiva alla bipolarizzazione del sistema – che ha resistito nel tempo aldilà dei due governi tecnici di larghe intese del 2011 e del 2021 e di quello trasversale giallo-verde del 2018 – è indubitabilmente l’impronta più riconoscibile e riconosciuta che Berlusconi ha lasciato sulla struttura istituzionale del paese, e gli ha fatto guadagnare sul campo quel ruolo di padre fondatore della (cosiddetta) Seconda Repubblica che tuttavia egli non riuscirà a inscrivere nella tanto agognata quanto mancata riscrittura della Costituzione. Sì che a distanza di trent’anni in quella spinta è senz’altro lecito vedere, come fa la politologia mainstream, un effetto di «normalizzazione» del sistema politico italiano, finalmente allineato alla modellistica anglo-americana. Ma è altresì doveroso vederci la matrice di una contraddizione tuttora esplosiva fra sistema politico e ordinamento costituzionale. Fondata grazie al suo tentativo di candidarsi al Quirinale nel 2022, resta allo sdoganamento degli ex fascisti e al tutta sua la mina innescata alle fondamenta della Repubconferimento di una caratura nazionale blica nata dalla Resistenza e costruita sui principi egualial partito separatista di Umberto Bossi, tari della Costituzione, e resta tutta sua la rilegittimazione il centrodestra tricipite messo al mondo delle forze neo e postfasciste che dal patto costituzionale da Berlusconi nel ’94 era ed è rimasto un del ’48 erano rimaste escluse. aggregato di tre forze – Fi, An e Lega – riSi aggiungono a questa impronta le altre, non meno despettivamente post, extra e anti costitucisive, che Berlusconi ha lasciato sulle forme e sul linguagzionali; e se Berlusconi ha oscillato nel gio della politica, anche in questo caso all’esito di una crisi tempo fra il ruolo di demolitore e quello di forme e linguaggi tradizionali che datava in Italia dagli di riformatore della Carta del ’48, i suoi anni Settanta, alla quale la sinistra ufficiale non era stata giovani eredi oggi al governo sciolgono in grado di fornire risposte adeguate durante gli Ottanta e questa ambiguità nel progetto dichiasulla quale il Cavaliere trasferì la propria esperienza di imrato di archiviazione della Costituzione prenditore della comunicazione. Il partito personale e la antifascista e dell’unità repubblicana, personalizzazione della leadership, la mediatizzazione del tramite la doppia riforma del premieradiscorso politico e la trasformazione dell’agorà democratito e dell’autonomia differenziata. A dica in arena televisiva, la propaganda politica ricalcata sulla spetto dunque dell’immagine di garante pubblicità commerciale, l’identificazione tra il popolo e il moderato del sistema che Berlusconi si capo nella democrazia dell’applauso, l’intreccio tra bioè costruita pazientemente dopo la sua grafia personale, interessi patrimoniali privati ed esercizio cacciata da Palazzo Chigi nel 2011 e fino della funzione pubblica: si dispiega con Berlusconi la fenomenologia di una mutazione genetica della politica e della democrazia che hanno cambiato la faccia del nostro paese ma che dilagano ormai su scala planetaria. Il berlusconismo è stato da questo punto di vista un laboratorio anticipatore e a suo modo geniale, a fronte di una sinistra distratta, nel peggiore dei casi complice e nel migliore attardata su schemi culturali usurati.

14

N. 22

PRIMAVERA 2024

LA NUOVA RAGIONE DEL MONDO Ma per quanto profonde e durature siano queste impronte sul sistema politico e sulle forme e i linguaggi della politica, non bastano da sole a restituire l’essenza del berlusconismo, né a spiegare le ragioni della sua presa nella società, nella mentalità, nei gusti e nell’immaginario collettivo: una presa che connota gli anni fra il 1994 e il 2011 come «ventennio berlusconiano» al di là dei quattro governi effettivamente presieduti da Berlusconi (1994-95; 2001-05; 2005-06; 2008-11), e che permane come uno spettro incombente oltre la morte di Berlusconi e i funerali di Stato che ne hanno santificato la biografia e l’opera. Per capire da dove viene quella presa, bisogna intanto allungare lo sguardo a prima della data ipnotica della «discesa in campo» del Cavaliere, che è anche la data ipnotica, ma imprecisa, della nascita della Seconda Repubblica, che dal punto di vista costituzionale non è mai nata e dal punto di vista storico incubava nella crisi della Prima almeno a far data dall’assassinio di Aldo Moro. Si chiude allora tragicamente il «lungo Sessantotto» italiano, e si apre, con la sconfitta dei movimenti – ma con l’eccezione del movimento femminista –, una divaricazione fra vita e politica che condanna la politica istituzionale a una progressiva e inarrestabile crisi di credibilità e legittimità, e lascia privi di rappresentazione (politica, ma anche culturale) larghi e disparati strati sociali immersi in una modernizzazione postfordista indecifrabile con le coordinate della sinistra ufficiale. Berlusconi chiude a modo suo quella divaricazione, con un’operazione che, per dirlo con una formula, più che politica è istintivamente BERLUSCONI SFONDA biopolitica: sfonda i confini fra economia e politica, fra privato e pubI CONFINI FRA ECONOMIA blico, fra etica ed estetica, fra immaginario e realtà; parla ai sensi più E POLITICA, FRA PRIVATO che ai cervelli, ai desideri più che alla materialità, all’emotività più che E PUBBLICO, FRA ETICA alla progettualità, coprendo con la bandiera della libertà una nuova ED ESTETICA, e spietata forma di gerarchizzazione e di disciplinamento capitalistici FRA IMMAGINARIO della società. È la via italiana alla sussunzione neoliberale della crisi E REALTÀ della razionalità politica classica che nell’ultimo quarto del Novecento rovescia il segno politico del secondo dopoguerra in tutto l’Occidente. Non si capisce niente del berlusconismo, e si continua a ridurlo a un fatto locale più farsesco che tragico, se non lo si inquadra nella cornice della controrivoluzione neoliberale che ovunque ha cambiato i connotati della democrazia novecentesca, spoliticizzandola e de-costituzionalizzandola. Un punto, questo, tanto cruciale quanto ignorato o travisato nella sterminata letteratura sul Cavaliere, che continua a misurargli i gradi di liberalismo e di liberismo senza capire che Berlusconi, al di là delle sue intenzioni dichiarate, non è stato né liberale in politica né liberista in economia perché è stato compiutamente neoliberale nell’uno e nell’altro campo: un interprete esemplare di quella «nuova ragione del mondo», per usare l’espressione di Pierre Dardot e Christian Laval, che ha piegato tutta la piramide della vita associata, dalla base antropologica al vertice istituzionale, al codice economico, alla forma dell’impresa e all’etica della prestazione e della concorrenza, rideclinando al contempo la libertà non più come virtù politica ma come capacità di adattamento alle chance del mercato. Una Weltanschauung che Berlusconi ha incarnato prima come imprenditore e poi come uomo di governo, senza soluzione di continuità. Così come ne ha incarnato il risvolto psichico-simbolico, quella eclissi della legge del padre che la psicoanalisi lacaniana collega al trionfo del «discorso del capitalista», spiegando così la sostituzione di un legame sociale incentrato sul senso del limite, sul differimento del desiderio e sull’autorità della legge con uno incentrato sullo sfondamento «libertario» di qualunque soglia e qualunque divieto, sul godimento immediato e sulla trasgressione sistematica.

UNA STORIA ITALIANA

15

«Papi», il Berlusconi che emerge dalla vicenda dei cosiddetti «scandali sessuali», è la maschera iconica di questo padre decaduto e degradato, che non incarna più il limite ma l’ingiunzione a consumare e a godere illimitatamente di tutto, in primo luogo del corpo femminile, e non rappresenta più l’autorità della legge ma l’autorizzazione a violarla: un dato, quest’ultimo, che spiega più delle leggi ad personam e del duello perenne con la magistratura la complicità sociale di cui Berlusconi si è avvalso non malgrado ma grazie alla sua illegalità programmatica. Siamo, come si vede, in un campo tradizionalmente extrapolitico, dove – torniamo al punto – vita e politica si sovrappongono in un cambiamento antropologico di portata storica. La maschera di Papi infatti condensa quintessenzialmente i caratteri dell’uomo e del leader, così come gli «scandali sessuali» condensarono quintessenzialmente un sistema di potere basato sulla mercificazione di tutto, sesso compreso, e sulla finzione di un «libero scambio» – in quel caso, fra Papi e le sue escort – disciplinato in realtà da rapporti di potere ferrei. Quella maschera, tuttavia, mostrò anche il tallone d’Achille dell’uomo e del sistema: il trucco di un’ostentazione di potenza, sessuale e politica, ossessionata dal fantasma persecutorio dell’impotenza. Un trucco che fa luce sul mistero del consenso di cui Berlusconi ha goduto per oltre un ventennio, basato in superficie sull’identificazione con la sua potenza prestazionale, ma forse, più in profondità e inconsciamente, con la sua capacità di occultarne il risvolto impotente e fallimentare. C’è qui un altro lascito pesante, forse il più pesante perché per l’appunto inconscio, della relazione fra capo e popolo instaurata da camente, nudo. E vulnerabile, sì che poté infine essere colBerlusconi, giacché anche dopo di lui l’elettorato ha continuato a scegliere leader pito e affondato nell’autunno del 2011 dalla crisi del debito. improvvisati, non per quello che sanno Espunto per vent’anni dal carnevale del godimento, il principio del limite si ripresentò, ineluttabile, proprio sul terrefare ma per come riescono a nascondere no dell’economia che l’imprenditore di Arcore aveva sempre quello che non sanno o non possono fare. fatto mostra di saper dominare, nonché – con la sentenza DAL GODIMENTO ALLA PAURA di condanna per frode fiscale, la prima dopo 36 processi e molte assoluzioni e prescrizioni – sul terreno della legge che La fine di Berlusconi comincia quando aveva sempre fatto mostra di saper eludere. la maschera di Papi cade, strappatagli di Al carnevale subentrò la quaresima dell’austerità inaugurata dal governo tecnico di Mario Monti, che di fatto chiuse dosso dalla presa di parola femminile sulle «cene eleganti» e sul sistema di scaml’epoca e l’epopea berlusconiana, pur se il suo protagonista bio fra sesso, danaro e potere che c’era rimase saldamente alla guida della sua coalizione per oltre dietro: una presa di parola imprevista, un decennio, ridimensionato ma mai detronizzato dai suoi pubblica e scandalosa, e oggi colpevolgiovani alleati Salvini e Meloni, nel frattempo emancipatimente rimossa dalla memoria collettiva, si dai rispettivi progenitori del ’94. Fino a dover cedere lo che spezzò l’incantesimo del consenso. scettro, bon gré mal grè, a Giorgia e ai suoi fratelli: cioè, per Grazie alla ribellione di quelle stesse donuna doppia ironia della storia, a una donna, che però è vone che aveva preteso di cooptare nel circo lontariamente alla guida e al servizio di una sorta di fratria del «divertimento dell’imperatore», come residuata dall’eclissi del padre. Il centro-destra del ’94 è diventato una destra-centro che all’immaginario libertario, lo definì sua moglie Veronica Lario, il re a gaudente e prestazionale della fase trionfante del neolibequel punto era, letteralmente e simboliralismo ha sostituito quello impaurito, securitario e violento, desideroso di ordine e comando, gerarchia e tradizione, del sovranismo. Veronica Lario, quando di fronte al sexgate piantò in asso suo marito, si lasciò scappare in un’intervista che il peggio non era stato lui ma sarebbe venuto con quelli che avrebbero preso il suo posto. E aveva visto giusto.

Dall’Ulivo mondiale alla vocazione maggioritaria, passando per la «Terza via», la fascinazione per il neoliberismo e la trappola dell’antiberlusconismo: trent’anni di miti che hanno condotto la sinistra italiana all’anno zero

LA SECONDA REPUBBLICA

16

N. 22

PRIMAVERA 2024

SI È MANGIATA LA SINISTRA

17

UNA STORIA ITALIANA

Illustrazione di FRANCESCA GHERMANDI

POLITICA

L

a sinistra italiana è stata schiacciata dalla Seconda Repubblica. Letteralmente. Scompaginata, indebolita, forse addirittura scomparsa se per sinistra si intende un’appartenenza di classe, la difesa di interessi definiti nell’ambito delle società capitalistiche, una vocazione internazionalista. Le coordinate attorno cui si è consumata questa deriva proSalvatore Cannavò gressiva, imboccata già all’inizio degli anni Novanta, sono ben sintetizzate da ciò che l’analista Antonio Floridia ha definito i «miti» del Partito democratico: la «vocazione maggioritaria» e il «partito della nazione». Due categorie che hanno consentito di realizzare un progetto politico individuato a cavallo del crollo del Muro di Berlino, e consistente nell’adeguamento al capitalismo nelle sue mutevoli trasformazioni con la pretesa, tutta illuminista, di governarne le contraddizioni e financo le crisi.

18

N. 22

PRIMAVERA 2024

DAL COMUNISMO AL LIBERALISMO Questo percorso comincia con la decisione di cambiare nome al Pci e quindi con la «svolta» di Achille Occhetto. Oggi l’ultimo segretario comunista tende a offrire di quel passaggio storico la lettura di una svolta a sinistra mancata, ma è una lettura che non regge i fatti storici. La tesi di Occhetto è che le premesse della sua svolta fossero quelle di approfondire «il dialogo politico e intellettuale con le nuove elaborazioni della socialdemocrazia europea» sottolineando la natura «socialdemocratica» del cambio di nome. Ma è già nel 18° congresso del Pci, nel 1988, che si afferma che «la democrazia economica rappresenta una nuova frontiera della democrazia politica e la sua espansione nella sfera dei poteri sociali. Essa deve investire diversi campi: riforma dello stato sociale; democratizzazione dell’impresa; redistribuzione dei redditi, della ricchezza e della proprietà; creazione di nuove forme di imprenditorialità». Uno dei pochi oppositori alla linea di maggioranza di quel congresso, Armando Cossutta, tra i fondatori del Partito della Rifondazione comunista, sarà l’unico a denunciare l’avvio del partito «verso derive liberaldemocratiche». Un dettaglio rivelatore lo offre, in quel dibattito del Pci antecedente la svolta, un personaggio che avrà poi un ruolo preminente, Piero Fassino quando sosterrà la necessità di passare da un «partito dell’emancipazione a un partito della cittadinanza». E Occhetto nel proprio discorso alla direzione del Pci del 14 novembre 1989, due giorni dopo la svolta della Bolognina, dirà: «Esiste la possibilità di raccogliere energie nuove […] Ciò che ci deve guidare è una grande visione, la visione di una forza democratica che risponde alle esigenze della nazione […] assolvendo anche a una funzione più generale di ricomposizione della sinistra». Salvatore Cannavò, L’obiettivo sarà dunque, fin dagli albori, quello di un partito già vicedirettore de democratico «della nazione». Occhetto dice probabilmente la Il Fatto quotidiano verità quando sostiene che il progetto era quello di un approdo e direttore editoriale socialdemocratico e che proprio l’indisponibilità del Psi di Betdi Edizioni Alegre, è tino Craxi ad avviare un confronto politico ha creato l’impasautore tra l’altro di se. Ma nel compiere il salto identitario gli ex comunisti non si Mutualismo, ritorno al accorsero che la socialdemocrazia europea si stava preparando futuro per la sinistra a una nuova identità liberale, soprattutto negli anni Novanta, (Alegre, 2018) e Si fa quelli dell’affermazione dell’Ulivo, quando la sinistra mondiale presto a dire sinistra compie un vero déplacement, abbandonando i residui legami (Piemme, 2023). con la corrente «socialdemocratica».

19

Il liberalismo si compie alla fine del decennio, dopo la spinta offerta dalla vittoria di Tony Blair in Gran Bretagna nel 1997. Blair si mette subito in sintonia con il presidente democratico degli Stati uniti, Bill Clinton, e i due danno vita a quello che sarà definito, a conferma della centralità del dibattito italiano, «l’Ulivo mondiale». La pretesa della sinistra, in questa sua nuova versione, sarà quella di governare l’incipiente globalizzazione economica che negli anni Novanta sembra rappresentare la nuova frontiera mondiale. Con la nascita dell’Unione europea e della moneta unica – il Trattato di Maastricht è del 1992 – la sinistra si convince che dovrà rappresentare questa modernità capitalistica. In Italia sarà Massimo D’Alema, primo (e unico finora) presidente del Consiglio proveniente dalla storia comunista, a organizzare l’incontro internazionale dell’Ulivo mondiale chiamato Il riformismo nel XXI secolo che si tiene a Firenze nel novembre del 1999. Tra gli invitati Bill Clinton, Tony Blair, il premier francese Lionel Jospin, il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder oltre a Romano Prodi allora presidente della Commissione europea. Questo innamoramento sarà definito nel 2022 da D’Alema una grande «svista», ma l’orizzonte della «terza via» costituirà il lungo antefatto che spiega, due decenni dopo, la vittoria di Matteo Renzi. L’idea di «un Partito della nazione» si adegua molto bene a questo slittamento politico-programmatico perché significa abbandonare rapidamente la rappresenLA VOCAZIONE MAGGIORITARIA tanza di ben precisi interessi sociali e di classe. Quando Renzi impugna la definizione per utilizzarla come una clava in Da questa fusione emerge un’impostazione politica realtà utilizza un concetto che, come abche in realtà dura tutt’ora e che è stata ben espressa da un biamo visto, è stato forgiato già all’inizio altro mito fondativo del Pd, frutto della parabola intrapredegli anni Novanta. Si decide di puntare sa negli anni Novanta: il discorso del Lingotto tenuto dal a quel partito catchall, «pigliatutti», che primo segretario, Walter Veltroni, nel 2007. Il discorso di fino ad allora era stata prerogativa solo Veltroni, presso la sala congressi ricavata dallo storico redella Democrazia cristiana. Forze che parto della Fiat, simbolo per ciò stesso del passaggio dalla devono essere dilatate assommando in società della lotta di classe a quella invece priva di conflitti un unico contenitore diverse culture posociali, è una metafora del nuovo corso. Le parole d’ordine litiche non più come alleanze tra forze sono inequivocabili: «Riunire l’Italia, farla sentire di nuovo diverse, ma come integrazione omogeuna grande nazione». «Unire gli italiani». «Ridare speranza nea. Sarà la contesa che durerà a lungo ai nuovi italiani». «Il Partito democratico, il partito di chi tra centro sinistra «con» o senza trattino, crede che la crescita economica e l’equa ripartizione della l’ipotesi ulivista rappresentata da Prodi e ricchezza non siano obiettivi in conflitto». Chi volesse trodal suo mondo – e di cui Arturo Parisi, anvare il fondamento dell’identità democratica deve leggere cora oggi, è l’alfiere più convinto – che si queste parole nel senso del ripudio di una sinistra collescontra con l’ipotesi sostenuta a lungo da gata, sia pure in modo simbolico o con allusioni, alla conD’Alema che forze di sinistra e forze cenflittualità sociale. Il progetto si sposa, complice anche il triste devono allearsi, ma senza fondersi. nuovo sistema elettorale nato con il Mattarellum nel 1994, all’idea della «vocazione maggioritaria», cioè la pretesa di vincere la partita per il governo contando solo sulle proprie forze (strategia che continua a essere invocata oggi da chi si rifiuta a priori l’alleanza con il M5S). «La vocazione maggioritaria del Partito democratico» si legge nel manifesto Pd del 2008, «il suo proporsi come partito del paese, come grande forza nazionale, si manifesta nel pen-

UNA STORIA ITALIANA

L’ULIVO MONDIALE

20

N. 22

PRIMAVERA 2024

sare sé stesso, la propria identità e la propria politica, non già in termini di rappresentanza parziale di segmenti più o meno grandi della società, ma come proiezione della sua profonda aderenza alle articolazioni e alle autonomie civili, sociali e istituzionali proprie del pluralismo della storia italiana e della complessità della società contemporanea, in una visione più ampia dell’interesse generale». Un partito compiutamente interclassista che non parla alla nazione, ma è della nazione, cioè ne replica in sedicesimo tutte le caratteristiche.

classe politica democratica e progressista, come un sovvertitore delle regole, un portatore sano dell’arbitrio contro il patto costituzionale primario, quindi come L’ANTI-BERLUSCONISMO un maglio che riproponeva il ritorno a un ancien régime fatto di protervia, di poteQuesta vocazione si forgia nella lunga battaglia contro re del più forte e compressione dei diritti il nuovo «mostro» che nasce nel 1994 e che ha il volto inafdei più deboli. Con il fondatore di Forza ferrabile di Silvio Berlusconi. Il berlusconismo non viene Italia si è affermato un bipolarismo all’iletteralmente visto arrivare e proprio per la sua sfuggevotaliana in cui la sinistra si è rapidamenlezza e indefinitezza ha rappresentato un’ossessione lunga te adagiata anche perché permetteva di trent’anni. L’uomo delle Tv sovvertiva le regole del «teatrino lasciare ai margini i temi sociali diromdella politica» come lui stesso amava dire, affermando, denpenti, la natura di classe dello scontro tro una nuova «anomalia italiana» – l’altra, di ben altro tipo, politico, in nome di un’unità obbligata era stata rappresentata dal più forte Partito comunista del contro la «barbarie» berlusconiana. Una mondo occidentale –, un populismo dall’alto nato in una maledizione che ha ossessionato la pofrazione della classe dirigente, quella rimasta in piedi dopo litica italiana imponendo la costruzione lo sconquasso di Tangentopoli. Del populismo Berlusconi di coalizioni sempre e solo «contro», ma è riuscito a maneggiare i tratti fondamentali senza averlo mai veramente propositive e costruttive. davvero studiato, interpretandolo senza un copione fisso. Sul piano sociale negli anni Novanta Berlusconi è stato percepito dall’opinione pubblica e dalla e poi Duemila, questo ha consentito a centrodestra e centrosinistra di mettere in scena un Giano bifronte che ha condiviso le politiche generate dal Trattato di Maastricht e quindi i parametri economici che da lì sono derivati; ha curato le relazioni transatlantiche, i nuovi modelli di difesa e la proiezione militare italiana nel mondo; ha gestito, con sfumature diverse, importanti controriforme sociali come quella delle pensioni, accennata senza successo dal primo governo Berlusconi nel 1994 e portata a casa dal centrosinistra nel 1995; la riforma del mercato del lavoro, realizzata compiutamente dal secondo governo Berlusconi nel 2002, con la cosiddetta riforma Biagi, dopo che era stata incubata nel primo governo Prodi nel 1997 con il «pacchetto Treu». E così via. Centrosinistra e centrodestra, berlusconiani e loro oppositori, hanno ingessato la politica e la società italiana per circa un ventennio, costruendo una dialettica politica quasi tutta nominalistica e priva di contenuti sociali significativi in una contrapposizione basata soprattutto sul «discorso» ma non sulle scelte decisive. «Il principale esponente dello schieramento a noi avverso», ripeteva come un mantra Walter Veltroni nella campagna elettorale del 2008 immaginando così di battere l’avversario che invece lo travolse. Con Berlusconi la sinistra non ha mai fatto veramente i conti e in questo senso non li ha fatti neppure con sé stessa. Impegnato a opporsi al proprio Leviatano, il centrosinistra ha fatto molta fatica a contrapporgli un’analoga visione alternativa. Lo ha fatto in forma incostante e rapsodica e spesso senza valorizzare i pochi episodi in cui questa virtuosa contrapposizione è avvenuta. Una delle ragioni, ad esempio, della vittoria ulivista nel 1996 contro Berlusconi fu una puntuta difesa del welfare italiano, la garanzia che diritti fonda-

mentali come la sanità o la previdenza pubblica sarebbero stati dei cavalli di battaglia del centrosinistra. Nonostante quella rassicurazione i fatti non hanno confermato le promesse. Il centrosinistra ha contribuito a disarticolare il tessuto sociale, a precarizzare il mondo del lavoro, a favorire un corposo trasferimento di risorse ai redditi più alti, a ridurre le prestazioni del welfare difendendo solo a parole la sanità pubblica e intervenendo a più riprese sul sistema previdenziale. Berlusconi ha costituito il pretesto per un anestetico, una sterilizzazione del pensiero politico progressista e una torsione politicista della sinistra sempre più distante dai propri referenti sociali e sempre più isolata dentro le necessità di una politica mediatizzata, basata sulle leggi perverse della comunicazione di massa, prima le Tv, poi i social media. L’apice di questa involuzione, o di questa deriva, è stato rappresentato proprio dalla nascita del Partito democratico, che si presenta, non a caso, come architrave della bipolarizzazione della politica italiana da avviare rapidamente alla compiuta bipartizzazione.

LA DISINTEGRAZIONE DELLA SINISTRA ALTERNATIVA

21

UNA STORIA ITALIANA

Dentro questa torsione matura anche la disintegrazione della sinistra alternativa. La necessità di contrapporsi al berlusconismo ha costretto la porzione minoritaria, rappresentata per lo più dalle vicende di Rifondazione comunista, a oscillare tra il desiderio di un’autonomia politica e programmatica e il dovere di un’unità formale «per battere le destre». Ha prevalso sempre quest’ipotesi e quando, nel 2001, era stata imboccata l’altra strada, i risultati elettorali non esaltanti hanno BERLUSCONI HA spinto i suoi gruppi dirigenti a tornare indietro scegliendo strade più COSTITUITO IL PRETESTO sicure. Che sicure, invece, non si sono dimostrate perché l’esperienza PER UN ANESTETICO, unitaria del 2006-2008 con il secondo governo Prodi ha rappresentaUNA STERILIZZAZIONE to la pietra tombale per un esperimento certamente difficile, quello DEL PENSIERO POLITICO di una nuova sinistra di classe, che nel pieno del movimento no gloPROGRESSISTA E UNA bal e del movimento per la pace tra il 2001 e il 2003 sembrava aver TORSIONE POLITICISTA trovato nuove ragioni ed era un esempio per molte forze anticapitaliste in Europa, ma che invece alla fine si è schiantata nel precipizio della normalizzazione politica. Fausto Bertinotti che diventa presidente della Camera rappresenta bene questa istituzionalizzazione, negatrice di un’altra vocazione, sociale e conflittuale. Così, gran parte delle sue ragioni e del suo spazio politico confluiranno nel magma indistinto del Movimento 5 Stelle che, non a caso, si forgia proprio nel corso di quel governo – il 2007 è l’anno del Vaffaday – recuperando una carica antisistema, e distorcendola dal suo possibile contenuto di classe. La Seconda Repubblica si è mangiata la sinistra di classe, un esito di cui ci si può ormai solo rammaricare perché anche il tempo di una ricostruzione storica finalizzata a correggere vecchie storture è ormai alle nostre spalle. I soggetti adesso in campo sono totalmente diversi da quelli di trent’anni fa, e immaginare che si possa oggi rappresentare una socialdemocrazia accanto a cui vive una sinistra anticapitalista è pura utopia. La marcescenza della Seconda Repubblica ha comportato anche questo, che una sinistra che recuperi la propria vocazione conflittuale e l’aderenza alle ragioni della working class è tutta da rifare.

POLITICA

Il rompicapo dell’antiberlusconismo I movimenti che hanno segnato la Seconda Repubblica hanno camminato su uno stretto crinale: da una parte indicare un orizzonte globale, dall’altra agire in un dibattito pubblico tutto concentrato sulla figura del Cavaliere

22

N. 22

PRIMAVERA 2024

L

a prima foto è del 19 luglio 2001. Quattro ragazzi poco più che diciottenni, a Genova per manifestare contro il G8, posano di fronte a uno striscione che recita: «Benvenuti a Genova, città deberlusconizzata». Ai suoi lati sono appesi una canottiera e un paio di mutande, in sfregio all’allora presidente del Consiglio che, qualche settimana prima, in occasione di un sopralluogo, aveva invitato i Lorenzo Zamponi genovesi a non stendere la biancheria all’aperto, per non scandalizzare i grandi della Terra. La seconda è del 14 novembre 2008. Al corteo nazionale studentesco dell’Onda contro i tagli determinati dalla crisi economica, gruppi di ragazzi scandiscono «Processate lo Psiconano» (delicatissimo soprannome affibbiato da Beppe Grillo all’allora presidente del consiglio) e, arrivati di fronte a Montecitorio, sventolano banconote da cinque euro al grido di «Vuoi pure queste/ Tremonti vuoi pure queste», citazione probabilmente inconsapevole delle monetine lanciate a Craxi di fronte all’Hotel Raphael nel 1993. La terza è del 17 novembre 2011. Migliaia di studenti scendono in piazza a Roma in occasione dell’International Students’ Day, chiedendo la fine dell’austerità, mentre il nuovo governo guidato da Mario Monti chiede e ottiene la fiducia al Senato. Passanti, giornalisti e commentatori social si rivolgono ai Lorenzo Zamponi, manifestanti con aria confusa: «Ma perché siete ancora in piazricercatore in za? Guardate che non c’è più Berlusconi». sociologia, si occupa Se «ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppodi movimenti sociali ne», nella più abusata delle citazioni calviniane, possiamo dave partecipazione vero capire quello che si è mosso nelle piazze italiane negli ultimi politica. È coautore di trent’anni rimuovendo il potere politico incarnato a livello naResistere alla crisi zionale da Silvio Berlusconi? I movimenti che hanno segnato la (Il Mulino, 2019). Seconda Repubblica hanno camminato su uno stretto crinale: da

23

UNA STORIA ITALIANA

Artwork di ALESSIO MELANDRI

una parte, indicare un orizzonte globale, spalancando sui grandi temi dell’epoca le finestre di un dibattito pubblico tutto concentrato sulla figura del Cavaliere, sulla sua vita privata, sui suoi guai giudiziari; dall’altra, trovare spazio per l’iniziativa politica in quel dibattito ossessivamente rivolto allo spettacolo quotidiano del berlusconismo.

24

N. 22

PRIMAVERA 2024

ALTERMONDIALISMO E ANTIBERLUSCONISMO A marcare più nettamente la distanza da un dibattito asfitticamente concentrato sull’eccezionalità del conflitto d’interessi berlusconiano rispetto al modello del «paese normale», fu il movimento altermondialista, emerso a livello globale con le proteste in occasione del vertice del Wto del 30 novembre 1999 a Seattle e il Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel gennaio 2001, la cui storia di massa in Italia inizia con i tre giorni del G8 di Genova, il 19, 20 e 21 luglio 2001. Genova, nonostante la repressione violentissima e la campagna mediatica criminalizzante, fa fare al movimento un salto di qualità in termini di riconoscibilità pubblica e radicamento sociale. In pochi mesi l’Italia è disseminata di forum sociali, organismi caotici e bizzarri in cui però, intorno alla critica alla globalizzazione neoliberista, si coagula un pezzo di società: partiti (primo fra tutti Rifondazione comunista, ma in misura minore anche Verdi, Comunisti italiani e pezzi di sinistra dei Democratici di sinistra), centri sociali (che stanno vivendo una fase di innovazione interna potentissima), un mondo sociale vasto fatto di grandi Ong e piccoli gruppi locali laici e cattolici (da Attac al commercio equo e solidale), NONOSTANTE parti significative delle storiche organizzazioni sociali del movimenLA REPRESSIONE to operaio e democratico (l’Arci su tutte, ma anche settori della Cgil, VIOLENTISSIMA, GENOVA Fiom in testa), e una marea di uomini e donne di una sinistra diffusa, FA FARE AL MOVIMENTO non più rappresentata da un unico partito-chiesa come nella Prima UN SALTO DI QUALITÀ Repubblica, e orfana di una discussione politica generale sulle granIN TERMINI di questioni del presente, capaci di andare oltre il chiacchiericcio poDI RICONOSCIBILITÀ litico quotidiano. Già l’ultimo giorno del Forum sociale europeo di Firenze, il 9 novembre 2002, il corteo è dedicato all’opposizione alla guerra in Iraq che si prepara. Il movimento pacifista sarà l’evoluzione di quello altermondialista nella composizione e nel profilo politico, portando in piazza milioni di persone nei due grandi cortei nazionali a Roma del 15 febbraio 2003 e del 20 marzo 2004. Ma i grandi cortei di inizio secolo non sono solo quelli altermondialisti e pacifisti: c’è il 23 marzo 2002 con il Circo Massimo straboccante di persone per il corteo della Cgil in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ci sono le proteste studentesche contro la Riforma Moratti, ci sono i «girotondi», protesta legalitaria contro la corruzione berlusconiana, che arrivano a riempire piazza San Giovanni a Roma il 14 settembre 2002. C’è, insomma, un’opposizione sociale diffusa al secondo governo Berlusconi, il più longevo della storia della Repubblica, prodotto dalla storica vittoria del 13 maggio 2001, quando la destra ottenne, per la prima volta nella storia d’Italia, la maggioranza dei voti in un’elezione democratica.

La coincidenza tra altermondialismo e antiberlusconismo non è solo temporale: se è chiaro che il profilo politico delle piazze ha tratti molto diversi, la composizione tende spesso a sovrapporsi. I temi si divaricano, con da una parte lo sguardo rivolto al mondo, alle grandi dinamiche economiche delle diseguaglianze globali, all’egemonia neoliberista, alla strategia Usa di guerra permanente; dall’altra i temi dell’attualità italiana, le scelte politiche dirompenti della destra al governo, le vicende giudiziarie di B., l’impressione di una democrazia che si va deteriorando. Entrambi i movimenti, seppure in modo diverso, esprimono un’insofferenza nei confronti del centrosinistra di Prodi, D’Alema e Veltroni, un bisogno di rappresentanza insoddisfatto, una sfiducia nei confronti del sistema politico della Seconda Repubblica. L’eccezionalità del berlusconismo, combinata con le aspirazioni di cambiamento frustrate del bienno ’92-’93, crea un’attivazione diffusa in cui c’è spazio per ogni ambiguità. Questo vale verso destra, con lo sdoganamento di uno stile di opposizione borghese e legalitario, ma anche verso sinistra: tutto ciò che è opposizione al berlusconismo è legittimato dai media antiberlusconiani, e le piazze diventano spazi comuni di scambio e incontro. Sotto il comune ombrello dell’antiberlusconismo, settori più tradizionalmente istituzionali e di movimento della sinistra tendono a contaminarsi come raramente era avvenuto prima, determinando traiettorie individuali e collettive altrimenti inspiegabili.

dell’Onda, aprì il primo spiraglio di opposizione sociale a un B. all’apice dei consensi. Opposizione che non poteva fare la sinistra radicale, per la prima volta fuori dal parlamento dopo la debacle elettorale del 2008 successiva all’esperienza di governo, e per la quale il neonato Partito democratico in salsa liberal di Walter Veltroni non era attrezzato. La battaglia riprende nell’autunno del 2010, contro la riforma Gelmini dell’università, in un contesto nel frattempo cambiato: da una parte un B. fortemente indebolito dalle fratture interne alla maggioranza e dagli scandali sessuali, dall’altra un’opposizione sociale ampia, con la battaglia della Fiom contro la Fiat di Sergio Marchionne per il diritto a rappresentanza e contrattazione e il movimento per l’acqua pubblica. Le mobilitazioni si allargano e si politicizzano, superando il frame dell’indignazione e mettendo apertamente in discussione le politiche neoliberiste e di austerità. La battaglia per l’università è persa, ma la crisi terminale del berlusconismo è accompagnata da una primavera di vittorie progressiste, dall’elezione dei due sindaci «arancioni» Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris a Milano e Napoli (29 maggio 2011) all’inattesa vittoria dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua del 13 giugno 2011. Anche in questo caso, un processo storico sovranazionale, la crisi economica e le politiche di austerità europee, si incrocia in Italia con il tema tutto domestico del berlusconismo. Sono gli anni del «Popolo Viola», nuova versione, più popolare e meno intellettuale, dei vecchi girotondi, con il «No B. Day» del 5 dicembre 2009, per non parlare di «Se

25

La seconda grande ondata di mobilitazione della Seconda Repubblica è quella del 2008-2011. Nel contesto della crisi economica, l’Italia non ha vissuto l’esperienza di un movimento di massa contro l’austerità capace di mettere in discussione i fondamenti delle politiche dominanti, come avvenuto in Spagna e in Grecia, ospitando invece mobilitazioni più frammentate. A iniziare furono gli studenti e le studentesse nell’autunno 2008 contro la legge 133, primo pacchetto di misure di austerità varato in Europa in risposta alla crisi. A rispondere fu l’università perché era il settore più toccato, con un miliardo e mezzo di tagli. Una protesta di settore, ma che nello slogan «Noi la crisi non la paghiamo» alludeva già a ciò che stava accadendo negli Usa con il fallimento di Lehman Brothers. Porre la questione dei costi sociali della crisi, seppure nelle forme spesso ingenue e spoliticizzate

UNA STORIA ITALIANA

IL CAVALIERE E IL CAVALLO

Non Ora Quando», la piazza dell’indignazione delle donne (seppure caratterizzata da un femminismo ben diverso dalla «quarta ondata» di questi anni) contro la mercificazione sistematica dei corpi femminili messa in scena da B. Sono gli anni della nascita del Movimento 5 Stelle, dopo il successo dei «V Day» promossi da Beppe Grillo tra il 2007 e il 2008. Ancora una volta, due movimenti diversi negli attori collettivi che li guidano e nei contenuti che portano avanti, quello contro l’austerità e quello antiberlusconiano, si sovrappongono in maniera molto significativa, soprattutto nelle fasce giovanili. Sarebbe stato vinto il referendum sull’acqua bene comune di giugno 2011, se non fosse stato percepito come l’occasione per dare una spallata al berlusconismo morente? Se non fosse stato accompagnato dal quesito contro il folle programma nucleare berlusconiano e da quello contro la legge sul legittimo impedimento, ennesimo provvedimento ad personam per salvare B. dai processi? Un tema come la privatizzazione dell’acqua, ereditato dalla fase altermondialista e su cui il Pd è ambiguo quando non direttamente compromesso, diventa maggioritario solo nel generale clima di crisi economica e di rivolta antiberlusconiana di quei mesi. Una finestra che si chiude improvvisamente a luglio 2011 con la crisi dello «spread». Quando la differenza fra i tassi d’interesse dei titoli di stato italiani e tedeschi schizza da 173 a 528 punti, cambia tutto: a destra, determina la crisi sostanziale del governo Berlusconi, che fino a quel momento aveva pubblicamente negato l’esistenza di una crisi e al

26

N. 22

PRIMAVERA 2024

tempo stesso applicato le ricette di austerità proposte da Commissione europea e Bce. A sinistra, restringe in maniera determinante lo spazio dell’alternativa possibile: nessuna prospettiva di cambiamento sostanziale è più verosimile, il tema dominante è quello della responsabilità finanziaria e dell’obbedienza cieca ai dettami dell’austerità. Sono settimane caratterizzate, tra i soggetti di movimento, dall’ossessiva ricerca di una via perché il fronte sociale antiberlusconiano non venga spazzato via dal crollo del berlusconismo. «Il Cavaliere non basta, cacciamo anche il cavallo» scrivono alcuni, cercando di spostare il fuoco dell’indignazione popolare dalla figura di B. al sistema neoliberista che ha incarnato per vent’anni. Nell’ottobre 2011, su ispirazione del movimento scoppiato negli Usa, si cerca di mettere in scena una Occupy italiana in via Nazionale a Roma, nei pressi della sede della Banca d’Italia guidata da Mario Draghi, per segnalare che l’austerità e il neoliberismo non stanno di casa solo a Palazzo Grazioli e proporre una strada per il futuro. Il tentativo verrà spazzato via nel mese che passa tra il 15 ottobre 2011, quando il corteo anti-austerità in risposta alla chiamata degli indignados spagnoli diventa l’occasione per un suicida regolamento di conti all’interno del movimento, e il 16 novembre, quando l’ex commissario europeo ed ex advisor di Goldman Sachs, Mario Monti, diventa presidente del consiglio.

ANTIBERLUSCONISMO, EGEMONIA, ALTERNATIVA Entrambe le grandi ondate di cui sopra sono state da una parte la risposta a dinamiche globali (la prima l’offensiva neoliberista e la guerra globale permanente, la seconda la crisi economica), dall’altra il tentativo di interpretare due fasi chiave della politica italiana (l’inizio e la fine del berlusconismo). Entrambe si sono sviluppate nel contesto della crisi dei partiti, dovendo ridefinire e ripensare continuamente il rapporto con la politica. Nella fine delle ideologie e delle cinghie di trasmissione novecentesche, da una parte i movimenti sono stati spinti verso una direzione pienamente «sociale», di vertenzialità tematica, spesso single-issue, che rifiuta l’orizzonte della trasformazione generale; dall’altra, ed è il caso delle due ondate analizzate, hanno invece sviluppato una politicità propria, non pienamente rappresentabile da qualsiasi forza politica, acquisendo un ruolo di supplenza nei confronti dei partiti.

27

UNA STORIA ITALIANA

Come i partiti, i movimenti hanno nuotato, consapevolmente o meno, nel mare dell’antiberlusconismo. Del resto, parlare dei partiti della Seconda Repubblica come soggetti politici a sé stanti sarebbe fuorviante: i dati sulla volatilità elettorale mostrano come, a partire dagli anni Novanta, la fedeltà dell’elettore al partito si trasferisca alla coalizione. L’elettore degli anni Duemila non è, se non in minima parte, un elettore di Rifondazione o dei Verdi o dei Ds: è prima di tutto un elettore del centrosinistra, un antiberlusconiano. Per questo è superficiale liquidare l’antiberlusconismo come reazione borghese legalitaria elitaria che concentrandosi sulle questioni giudiziarie e accentrando la critica sulla persona ha allontanato la sinistra dalle questioni materiali di massa. L’antiberlusconismo è stato questo, ma è stato anche un movimento popolare di massa. Il disgusto per la personalità, l’arroganza, l’autoritarismo, la superiorità del denaro sulla legge, l’utilizzo del potere legislativo a vantaggio suo e di pochi altri, era un sentimento di massa. L’antiberlusconismo, anche con i suoi tratti più deteriori, innegabili, ha colpito dal basso i soggetti della sinistra, non è stato semplicemente usato dall’alto. Nel processo in cui la sinistra sociale si autonomizzava dai partiti, l’antiberlusconismo è diventato un potenziale spazio di radicamento di massa, che permetteva anche ai soggetti più radicali di parlare al «popolo del centrosinistra», con la copertura dei media di centrosinistra, senza identificarsi con il centrosinistra politico. Il fallimento di questa strategia sta nell’incapacità di farsi alternativa politica, di invadere in maniera significativa il campo partitico ed elettorale, di dare rappresentanza a temi e istanze al di fuori dello spazio compromesso e compatibilista del centrosinistra. I movimenti hanno offerto ai partiti voti, temi e talvolta NEGLI ANNI IN CUI quadri politici da cooptare, ma nessuna delle due ondate di mobilitaLA SINISTRA SOCIALE zione è riuscita a interpretare la fase storica in cui era situata in maSI AUTONOMIZZAVA niera tale da diventare un’alternativa politica concreta e di massa al DAI PARTITI, berlusconismo. La scommessa di sfruttare la dimensione trasversale L’ANTIBERLUSCONISMO È dell’antiberlusconismo per costruire un’opzione politica di alternatiDIVENTATO UNO SPAZIO DI va a partire dai contenuti altermondialisti e anti-austerità è stata riRADICAMENTO DI MASSA baltata: proprio dal grande mare dell’antiberlusconismo popolare e legalitario è emerso il M5S, capace di rimasticare in salsa plebiscitaria molti dei temi che avevano caratterizzato i movimenti. Il blog di Beppe Grillo e il partito che ne deriverà riprendono la battaglia contro la privatizzazione dell’acqua, quella contro la precarietà, la critica dell’economia globale, le battaglie territoriali ambientali e, approfittando della tendenza all’autonomizzazione dei movimenti di cui si parlava, riescono a riprodurle senza che ciò debba per forza determinare l’adozione di un punto di vista schierato, di trasformazione generale, di sinistra sul mondo. Cavalcando la tigre dell’antiberlusconismo e dell’insofferenza crescente per la politica in senso lato, vero tratto caratteristico della Seconda Repubblica, Grillo e i grillini riescono a fare tutto quello in cui tutti i tentativi di verticalizzazione politica dei movimenti avevano fallito: fornire un’interpretazione della crisi italiana allo stesso tempo indipendente e alternativa rispetto al quadro politico dominante e in risonanza con un’opinione pubblica di massa. Il frame della casta, della rivolta dei cittadini contro i politici, diventa la principale chiave di lettura dell’Italia dopo la fine della Seconda Repubblica.

POLITICA

Fascisti in democrazia «Filtrare il passato nel presente» è la formula che usava Giorgio Almirante per tenere l’eredità del regime nel Msi. Dopo lo sdoganamento di Berlusconi e la mancata elaborazione di An, quello schema rivive in Fratelli d’Italia

«L’

28

N. 22

PRIMAVERA 2024

equivoco, cari camerati, è uno e si chiama essere fascisti in democrazia. Noi soli siamo estremisti, ed è un titolo di onore, ma anche una spaventevole difficoltà per questa democrazia, per questa Italia del dopoguerra. E il nostro coraggio, vorrei dire la nostra audacia, è consistito, nel 1946, nell’inserirci come Msi, cioè come un partito operante in questa democrazia». Con queste parole, Rossella Borri nel gennaio del 1957, Giorgio Almirante esortava i partecipanti al V congresso nazionale del Movimento Sociale Italiano a riflettere sulla questione dell’identità fascista e sul ruolo che il partito avrebbe dovuto assumere nel contesto politico dell’Italia post-regime. Causa primaria della condizione di marginalità in cui il Msi era relegato ma, allo stesso tempo, indispensabile risorsa identitaria, il tema dell’ancoraggio al passato fascista restò per molti anni al centro del dibattito interno dell’organizzazione. Gli avvenimenti che hanno poi condotto la destra erede della tradizione fascista al conferimento della piena cittadinanza politica e all’occupazione delle più importanti posizioni di governo, fino agli scranni di Palazzo Chigi, sono frutto di un percorso articolato, giunto a compimento con la tumultuosa nascita della Seconda Repubblica, ma avviato molto tempo prima.

IDENTITÀ O LEGITTIMAZIONE Nell’ottica del conseguimento della legittimazione politica, l’ala più moderata del Msi aveva intrapreso un tentativo di avvicinamento alle forze di governo già dai primi anni Cinquanta,

Rosella Borri è ricercatrice all’Università di Siena, si occupa di partiti, movimenti sociali e dinamiche di radicalizzazione politica. Ha scritto La destra radicale tra legittimità e identità (Mimesis, 2018).

con l’accettazione sostanziale dell’assetto filoatlantico e l’apertura a sostenere la Democrazia cristiana nelle comunali di Roma del 1952. Tuttavia, l’ostilità dell’allora leader Dc Alcide De Gasperi e le profonde lacerazioni tra le litigiose correnti interne che in quegli anni dividevano il partito impedirono che la strategia di inserimento si realizzasse. Di fatto, per uscire dal ghetto era richiesta al partito una patente di «presentabilità», dunque la rinuncia ai legami ereditari antisistema. Ma era proprio il richiamo identitario al fascismo l’elemento che aveva consentito al Msi di sopravvivere nei molti momenti di crisi. Inoltre, come evidenzia il politologo Piero Ignazi, sul fronte della Dc c’era un certo margine di ambiguità riguardo alla reale disponibilità all’integrazione dei missini, un’apertura che in ogni caso si sarebbe chiusa nei primi anni Sessanta con la crisi generata dall’appoggio missino al governo Tambroni e l’avvio della fase coalizionale del centro-sinistra. Ma, all’alba della Seconda Repubblica, in un contesto sociale, culturale e politico radicalmente in evoluzione, si apriva la strada che avrebbe portato il Movimento sociale-Destra nazionale (nuova denominazione dopo la fusione con i monarchici del 1972) alla piena agibilità politica. Erano appena trascorsi gli anni della distensione, del sollievo per la fine del terrorismo. Si era assistito all’esplosione dei consumi, alla virata individualistica e alla chiusura nel privato. Con il crollo del Muro e la fine del socialismo reale si chiudeva la Guerra fredda e il conflitto politico si deradicalizzava, con inevitabili conseguenze sul sistema della competizione partitica. Il sentimento di insofferenza per la politica e per i suoi interpreti, già presente nella società Italiana da almeno un decennio, trovò il suo culmine tra il 1992 e il 1994 con le inchieste giudiziarie di Mani pulite. La condizione di marginalità politica si trasformò così in una risorsa per un partito che già dagli anni Ottanta enfatizzava la sua natura alternativa. Per poter accedere al sistema restava il nodo dell’identità illegittima. Tuttavia, il segretario Gianfranco Fini si era mostrato fino ad allora indisponibile a una revisione dell’identità nostalgica del partito. La prospettiva dell’inserimento non costituiva l’unica ragione per cui il Msi avrebbe dovuto fare i conti con la questione dell’identità. Per effetto della storicizzazione del Regime e dell’ideologia fascista, a opera di storici e intellettuali come Renzo De Felice e Indro Montanelli, si era diffusa nella società italiana un’interpretazione assolutoria del fenomeno che, come osserva Paul Corner nel suo fondamentale contributo sul ruolo del consenso nel regime fascista, ne depotenziava la portata riducendolo a una parentesi della storia nazionale, un fascismo quasi «bonario», macchiato «solo» dall’errore di fondo dell’introduzione delle leggi razziali e dall’adesione ai piani di Hitler. In questo contesto, i richiami al fascismo del Msi venivano ricondotti alla sfera quasi romantica della nostalgia.

L’INSERIMENTO NEL SISTEMA

29

UNA STORIA ITALIANA

La competizione della Lega Nord al settentrione e il rischio della vittoria del Sì al referendum abrogativo per il passaggio al sistema maggioritario rendevano ancora più urgente un cambiamento radicale di rotta. Nel settembre 1992, un invito a superare i confini del proprio isolamento giunse al Msi da un esponente del mondo intellettuale della destra conservatrice italiana. Attraverso le pagine del quotidiano Il Tempo, il politologo Dome-

PRIMAVERA 2024 N. 22

30

nico Fisichella esortava il partito a intraprendere scelte di notevole «spregiudicatezza tattica» al fine di mettere «ordine al caos» e superare il vecchio contesto partitocratico. Una strategia che, secondo Fisichella, avrebbe dovuto includere il sostegno all’introduzione di un sistema elettorale maggioritario e la formazione di un’ampia Alleanza nazionale distante dalla retorica nostalgica e capace di contrastare «con prospettive di successo consensuale» Alleanza democratica, l’aggregazione creata a sinistra. L’idea di Fisichella si ricollega a una precedente elaborazione del politico missino Giuseppe Tatarella, riguardante un possibile percorso per far confluire le varie anime del mondo conservatore anticomunista in un soggetto più ampio. L’evento che sancì definitivamente la fine dell’esclusione si realizzò dieci anni dopo in modo totalmente inaspettato. Con un semplice «Io voterei Fini» in risposta alla domanda di un giornalista, il potente imprenditore Silvio Berlusconi, svincolato da qualsiasi preclusione valoriale nei confronti della destra neofascista, forniva un fondamentale endorsement elettorale al segretario missino e al suo partito impegnati nel ballottaggio contro Francesco Rutelli per la poltrona di sindaco di Roma. Grazie al vuoto lasciato dai partiti coinvolti nelle inchieste giudiziarie di Mani pulite e all’appoggio di Berlusconi, il Msi-Dn ottenne in quella tornata elettorale risultati sorprendenti. Gli esponenti di punta – Gianfranco Fini a Roma e Alessandra Mussolini a Napoli – furono sconfitti ma il partito era ormai definitivamente uscito dal ghetto. Dopo le amministrative, Fini avviò una strategia di riposizionamento, orientata alla definitiva integrazione del partito nel nuovo sistema post-Tangentopoli. La L’IDENTITÀ DEL VECCHIO nuova formazione fu presentata all’esterno come un soggetto poMSI FU SALVAGUARDATA litico nuovo, ma al di là dell’adesione di alcune personalità esterne GARANTENDO UNA PIENA alla storia del Msi, era chiaro che si trattasse di un’operazione di CONTINUITÀ DI PERSONALE maquillage politico. POLITICO, MEMBRI Berlusconi non si limitò a decretare lo sdoganamento del Msi. Fu E STRUTTURE grazie a lui, infatti, che solo un anno dopo e per la prima volta dalla sconfitta del regime di Mussolini la destra fascista antisistema tornò a sedere sui banchi del governo. Presentatasi alle elezioni politiche del 1994 con la sigla An-Msi all’interno del Polo del Buongoverno di Silvio Berlusconi al centro-sud e in autonomia al nord, la nuova formazione era riuscita a ottenere un importante successo elettorale. Grazie al bacino di voti lasciato libero dalla Dc e, in misura minore, dal Psi, era riuscita ad attrarre i consensi dell’elettorato conservatore debolmente ideologizzato. Si poneva così l’urgenza di definire le coordinate strategiche e ideologiche del nuovo partito. Il congresso di Fiuggi del gennaio 1995 segnò l’estinzione del Msi e la fondazione di An. L’identità del vecchio partito fu salvaguardata garantendo una piena continuità di personale politico, membri e strutture. Il clima di entusiasmo derivante dal successo elettorale aveva facilitato l’integrazione nel nuovo partito. Infatti, a eccezione di poche fuoriuscite significative come quelle di Pino Rauti o Teodoro Buontempo, il riposizionamento strategico del partito non aveva generato particolari questioni. La classe dirigente e i quadri del Msi confluirono quasi in blocco in An. Lo stesso vale per i membri iscritti al Msi, per i suoi

circoli e le sue sezioni. Per quanto riguarda l’identità del partito, i tratti di An risultarono molto più sfocati rispetto a quelli del Msi. A Fiuggi si affermò l’adesione ai capisaldi del conservatorismo: i valori del libero mercato, della nazione e della tradizione. Ma rispetto alle radici storiche della militanza missina, al di là dei proclami di Fini sul distacco dal fascismo e l’adesione ai valori democratici, inclusa la valutazione positiva dell’antifascismo, mancò una seria elaborazione collettiva sul regime e sull’ideologia fascista all’interno del partito e la presa di distanza dagli ancoraggi nostalgici apparve a molti osservatori come una mossa di facciata.

LA RICOMPOSIZIONE

31

UNA STORIA ITALIANA

Dopo il congresso di Fiuggi e la precoce chiusura della prima esperienza di governo, la storia di An è stata profondamente segnata dalle dinamiche di cooperazione-competizione con Forza Italia e dai difficili rapporti tra i due leader, fino alla dissoluzione nel 2009 confluendo nel progetto berlusconiano del Popolo delle Libertà. L’esperienza di An ha senz’altro rappresentato per la destra italiana post-fascista un fondamentale laboratorio per il passaggio di uscita dal ghetto. Se guardiamo alla destra che oggi occupa i banchi del governo e che di An è diretta erede, possiamo ancora intravedere alcuni dei tratti originari lasciati. Come An, il partito di Giorgia Meloni aderisce appieno alla logica neoliberista del mercato, pur garantendo la difesa di alcuni interessi corporativi e, come mostra l’analisi di Itanes nel volume Svolta a destra, anche il profilo di Fratelli d’Italia, come quello di An, è capace di attrarre più consenso tra le fasce medio-alte che tra quelle più basse dell’elettorato. Resta molto poco in questo senso della sinistra sociale del Msi, di quel primato della politica sull’economia di cui Almirante, «padre spirituale» di Fini e Meloni, si faceva portavoce. Il partito fondato da Giorgia Meloni ha ricomposto la frattura che a metà degli anni Novanta generò la fuoriuscita della componente più radicale e nostalgica da An. È una destra di governo che per storie personali o eredità politiche, rimuove ma non rinnega il retaggio antidemocratico del progenitore Msi. Nel farlo, raccoglie l’invito di Almirante a «filtrare il passato nel presente» presentandosi come un movimento della modernità ma che non rinuncia alla tradizione. Infatti, se in An l’identità antisistema doveva restare necessariamente sottotraccia, l’elaborazione culturale del partito di Giorgia Meloni è ricca di richiami a quella del Msi. Si pensi, ad esempio, al frequente ricorso all’escamotage retorico della pacificazione impiegato da Almirante per superare la contrapposizione fascismo-antifascismo passando per l’equiparazione di fascismo e comunismo ma anche alle difficoltà che mostrano alcuni esponenti del partito a dichiararsi apertamente antifascisti. A differenza di Alleanza nazionale, FdI mantiene la capacità di mobilitazione della base dei fedelissimi, ancora sensibili ai richiami identitari. Come nel passato, «Identità» è la parola d’ordine. Ma se per il Msi l’identità era illegittima quella di FdI è un’identità priva di riferimenti ideologici espliciti e che, piuttosto, trova definizione nei programmi e nei proclami identitari.

32

PRIMAVERA 2024

Artwork di ALESSIO MELANDRI

N. 22

POLITICA

«Il populismo italiano è iniziato con Berlusconi» Rosy Bindi, testimone e protagonista degli eventi che dalla fine della Dc portarono all’Ulivo e poi al Pd, riflette sul passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. E riconosce il cedimento del centrosinistra al neoliberismo

«N

Giampiero Calapà intervista Rosy Bindi

el 1992-94 bisognava fare i conti con la questione morale, non solo con la Tangentopoli giudiziaria». Rosy Bindi – ex parlamentare della Dc, poi del Partito popolare e infine del Partito democratico, lasciato nel 2018 contro Matteo Renzi, oggi presidente del Comitato per il centenario della nascita di don Lorenzo Milani – a trent’anni di distanza ripercorre le tappe della rovinosa caduta democristiana, della speranza dell’Ulivo e dell’incubo Berlusconi fino al disastro della politica di oggi: «C’è un mondo a sinistra senza rappresentanza».

33

rosso. Berlinguer, Craxi e la sinistra in pezzi (Bordeaux, 2023).

UNA STORIA ITALIANA

Presidente Bindi, la sua candidatura al Parlamento europeo nel 1989 rappresentava il disegno più ampio di un nuovo corso e un rinnovamento della Dc. Un rinnovamento che non è bastato a evitare il crollo tra il 1992 e il 1994. Dopo trent’anni ha una risposta su cosa non ha funzionato? Non era la sola candidatura che rispondeva a quell’esigenza. Io al Giampiero Calapà, nord-est, Roberto Formigoni al nord-ovest, Pierferdinando Casigiornalista al Fatto ni al centro: fu l’ennesimo tentativo della Dc di attingere a persoQuotidiano, nalità del mondo cattolico per una rigenerazione. Anni prima il è dottorando in Storia caso più emblematico fu Giorgio La Pira, riportato in Parlamento all’Università di Roma per la terza volta con la segreteria di Benigno Zaccagnini. L’assoTor Vergata. Il suo ciazionismo di base e gli intellettuali cattolici rappresentavano ultimo libro è Squarcio un grande fiume a cui nei momenti di difficoltà la Democrazia

cristiana si rivolgeva. Ricordo anche la famosa assemblea degli esterni di Ciriaco De Mita nel 1982. Poi arrivò il 1989 e fui eletta al Parlamento europeo nell’anno della caduta del Muro, del crollo dell’impero sovietico: fu l’illusione della vittoria dell’Occidente, il grande malinteso del trionfo della democrazia, quando a vincere fu il capitalismo senza regole. È qui che tutto cambia... Il cambiamento più profondo tocca proprio il sistema politico del nostro paese. I vincitori restano sotto le macerie dei vinti. E in Italia la presunzione dei vincitori si esprimeva nel pentapartito (l’alleanza tra Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli), emblema della condanna a governare della Dc, come disse Mino Martinazzoli. Inoltre c’era la subalternità della Dc al Psi di Bettino Craxi, anche se, a onor del vero, va riconosciuto che De Mita vide in quel Psi l’avversario da battere. E consideriamo anche che la profonda crisi del sistema partitico era cominciata nel 1978, con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Ma nel ‘92-94 la Dc, che era barriera ai comunisti, non ha più il nemico da abbattere e, quindi, l’elettorato torna a scegliere in totale libertà. Non si comprese subito: è lo stesso elettorato (non quello organico, espressione di un progetto culturale ispirato alla dottrina sociale della Chiesa) che votava Dc turandosi il naso e che per anni era stato molto coccolato dal partito-Stato e dal partito-società che la Dc rappresentava. Pensiamo alle assunzioni alle Poste, alle Ferrovie: un sistema clientelare che garantiva, appunto, una larga parte di ceto medio e popolare. Si era formato, insomma, un elettorato non educato alla responsabilità per il bene comune ma accarezzato negli interessi particolari e NON FU SOLO DECAPITATA di categoria. Le correnti da aree di pensiero, rappresentative del pluUNA CLASSE DIRIGENTE, ralismo culturale ed espressione della grande democrazia interna, si EMERSE ANCHE erano trasformate sempre più in massicce fazioni di potere.

34

N. 22

PRIMAVERA 2024

L’INCAPACITÀ DI LEGGERE I CAMBIAMENTI E STABILIRE UN RAPPORTO CORRETTO CON L’ELETTORATO

Che questo sistema non avrebbe retto, però, non viene capito? La Dc peccò di populismo? No. Nonostante la crisi elettorale della Dc fosse iniziata già negli anni Ottanta. Una crisi che, poi, si incrocia con Tangentopoli. E arriviamo al risultato: una politica che non ha mai compiuto un’analisi adeguata su sé stessa implode. Rispetto al populismo, però, no, non direi questo. Il populismo in Italia arriva con Berlusconi, in qualche modo anticipato da Craxi. La Dc era ancora, nonostante tutto, un collettivo politico e lo è stata fino alla fine. Ma questa strategia di seguire e non guidare la società, certo, contribuì al disastro finale. Non c’è stata la forza e la volontà di interrogarsi su quella che Enrico Berlinguer, ma anche la Chiesa italiana, avevano denunciato come «questione morale». Prima che giudiziaria. Il fondamento della politica deve essere l’interesse generale non quello particolare, ma si faceva il contrario. Non fu solo decapitata una classe dirigente, emerse anche l’incapacità di leggere i cambiamenti e stabilire un rapporto corretto con l’elettorato. Tangentopoli... Tangentopoli è identificata, nell’immaginario collettivo, con Milano. Ma è stata molto più estesa e si è consumata anche in Veneto, dove io nel 1989 per il Parlamento europeo presi 212 mila preferenze per lo più tra i cattolici, le donne, i giovani, seconda solo ad Andreotti che ne prese 500 mila; non c’era seggio elettorale dove non si contasse almeno un voto per me. Poi cominciano gli arresti che toccano segretari amministrativi, il presidente di Regione Franco Cremonese e ancora assessori, segretari locali, ecc. A Roma si preparava il terreno per la segreteria Dc a Martinazzoli ma prima, in Veneto, il 3 ottobre 1992, il comitato regionale mi elegge all’unanimità e in contumacia segretaria regionale. Quel giorno mi trovavo a

35

Invece dovranno fare i conti con lei, giusto? Mi rendo conto che lo spirito dei veneti e della base sana del partito è diventato giacobino. È impossibile non affrontare la questione morale, la scoperta della corruzione... Scrivo, allora, una lettera al Gazzettino nella quale chiedo ai democristiani raggiunti da avviso di garanzia di fare un passo indietro dalla vita di partito fino al chiarimento giudiziario. Fui accusata di giustizialismo, in realtà solo una persona ne uscì assolta, tutti gli altri furono condannati o patteggiarono. La mia fu una svolta vera, a cui si oppose la resistenza di grandi capi come Carlo Bernini, ma non solo. In Veneto fummo apripista dello scioglimento della Dc e del nuovo inizio come Partito popolare italiano. Fu l’avvio di un percorso insieme a esponenti della Rete di Leoluca Orlando e ad altri politici nuovi come Massimo Carraro e Giustina Destro che però, poi, sceglierà di continuare con Berlusconi. In nome del rinnovamento tornò la possibilità di un interclassismo popolare e autentico. Ma nel frattempo, Berlusconi stava lavorando. Con le sue televisioni diede un appoggio formidabile al pool di Mani Pulite e alla campagna per la sostituzione della vecchia classe politica. Non c’era settimana in La mafia stragista è stata sconfitta, ma i conti con la cui non fossi invitata per un’intervista questione morale non sono stati mai fatti, altrimenti oggi su Canale 5. In realtà l’obiettivo di Berlusconi era dimostrare che non era posnon assisteremmo al ritorno della presunzione di impunità sibile rinnovare la «vecchia» politica e la della politica e al tentativo di una riforma incostituzionale sua classe dirigente. Allo stesso tempo, della giustizia. però, avviava contatti con quei demoNasce Forza Italia e raccoglie le macerie di tutto questo. cristiani e socialisti per convenienza, Nel famoso discorso della discesa in campo, Berlusconi per traghettarli in Forza Italia in nome nega i principi fondamentali della nostra Costituzione, l’edell’anti-comunismo. quità e la solidarietà, la responsabilità sociale dell’impresa, mentre promuove un individualismo senza regole e l’egoiPoi arrivano anche le stragi... e nasce smo liberista. Promette un nuovo miracolo italiano fondato Forza Italia. sul mito della società civile migliore della politica, del priLe stragi del ‘92, di mafia, e quelle del ‘93, vato più efficiente del pubblico. E inizia la delegittimazione di mafia e politica, inaugurano un nuodella politica. vo rapporto tra Cosa nostra e il sistema politico. La prova di quanto sostengo è Come si consuma la sconfitta del ‘94? il black out a Palazzo Chigi (che isolò per Diversi fattori concorrono. Da un lato il risultato delle tre ore durante la notte il Presidente del elezioni amministrative del ‘93 con la sinistra che conConsiglio) nell’estate del 1993 durante quista città importanti come Roma, Napoli, Palermo, Toquel governo Ciampi voluto dal Presidenrino, Trieste, Venezia alimenta la presunzione del Pds e te Scalfaro. alleati di poter vincere da soli anche alle politiche con la «gioiosa macchina da guerra», come la chiamava il segretario Achille Occhetto. Dall’altro il Ppi e il Patto Segni sono ancora convinti che il centro del sistema politico rappresenti la maggioranza moderata del paese. Entrambi non valutano la novità della legge elettorale maggioritaria, al contrario di Berlusconi che nel ‘94 s’inventa l’operazione politica di un cartello elettorale con la Lega al

UNA STORIA ITALIANA

Roma, nella sede di Civiltà Cattolica, con Sergio Mattarella e Leopoldo Elia, per dare vita, insieme ad altri, a Carta 93, un nuovo manifesto di rinnovamento politico. Credo che l’unanimità della mia elezione dipese anche dal fatto che qualcuno mi considerava uno specchietto per le allodole, immaginando di poter continuare a fare i propri giochetti indisturbato.

nord e Alleanza nazionale al sud. Ancora una volta scrivo una lettera aperta sul Gazzettino: cerco di creare un fronte anti-centrodestra con i popolari, Segni e il Pds. Ma la mia idea viene respinta. Sia lo schieramento di centro che quello di sinistra ragionano ancora con le categorie del sistema proporzionale, che si può riassumere così: «andiamo separati, tanto nessuno vince e poi vediamo in Parlamento». In realtà quel modo di pensare non rispondeva più alla realtà del nuovo sistema maggioritario. Berlusconi vince e cade dopo pochi mesi, non per il famoso avviso di garanzia ma perché la sua operazione politica non stava ancora in piedi e il centrodestra aveva bisogno di tempo per plasmarsi attorno a lui.

36

N. 22

PRIMAVERA 2024

Il segretario del riscatto Dc, mentre tutto crollava, era Mino Martinazzoli, che ha tenuto duro ma non ha potuto evitare la slavina. Era l’uomo giusto al momento sbagliato? Martinazzoli ebbe il grande merito di prendersi la responsabilità. Era la persona giusta, sicuramente per il partito, per restituire alla base l’orgoglio di essere democristiani. Ricordiamoci che cos’era quella Dc. Avesse adesso il Pd un decimo non delle Case del popolo del Pci ma delle sezioni della Dc sarebbe cento passi avanti. Allora c’era un legame vero con la base, che non poteva essere consegnata alla scelleratezza della classe dirigente compromessa. Da questo punto di vista Martinazzoli era il segretario giusto.

Ma non reggeva il confronto d’immagine con Berlusconi. In quel momento non lo reggeva nessuno. Solo Antonio Di Pietro avrebbe retto e non a caso Berlusconi gli chiese di fare il ministro. Noi avremmo dovuto avere la forza di creare una resistenza vera, ma non c’è stata la capacità di guidare una reazione popolare contro la deriva berlusconiana. È da qui che parte il primo tentativo di stravolgere la Costituzione e trasformare la nostra democrazia parlamentare in una democrazia illiberale e plebiscitaria fino ad arrivare al cosiddetto premierato di Giorgia Meloni. La società si è abituata al veleno del populismo che a piccole dosi è stato somministrato lungo trent’anni.

Torniamo a Martinazzoli e all’esperienza dei Popolari. Il limite di Martinazzoli è stato quello di non aver inciso abbastanza nel rinnovamento della classe dirigente. Non posso dimenticare che dopo arrivò Rocco Buttiglione, un alieno rispetto alla storia della Dc. Quella di Comunione e liberazione da dove proveniva è infatti tutt’altra esperienza, che non risponde al principio di laicità della Costituzione e del Concilio Vaticano II. Buttiglione coltiva nostalgie clericali e neocentriste e vuole consegnare il partito a Berlusconi. Ma nel Consiglio Nazionale prevalgono, anche se per un solo voto, quanti si oppongono allo spostamento a destra del Ppi. Non volevamo diventare la stampella della destra e c’era ormai la consapevolezza che con il sistema maggioritario serviva un’alleanza a sinistra. Nasce l’Ulivo, fu l’operazione giusta? Quali i meriti e quali gli errori di quell’esperienza? Era l’operazione giusta. Il merito principale è stata l’ambizione di realizzare non solo un’operazione elettorale ma anche politica: unire le forze che avevano scritto la Costituzione e contribuito ad attuarla da ruoli diversi di governo e opposizione per contrastare le forze politiche che la Carta non l’avevano né scritta né letta e che stavano già provando a stravolgerla con gli attacchi all’autonomia della magistratura e le riforme della previdenza e del lavoro. L’Ulivo nasce nel momento giusto e il primo governo Prodi, 1996-98, sarà uno dei migliori della storia repubblicana, con un programma realizzato quasi del tutto durante la legislatura che vedrà anche i governi D’Alema e Amato. Penso alla mia riforma della Sanità. Romano Prodi aveva il profilo del presidente del Consiglio, sembrava nato

37

Ma poi arriva il Pd... Il paradosso è che tutta questa attenzione alle differenze dei partiti, dopo anni di separazione in cui si è fatto di tutto per affermare le proprie identità, improvvisamente lascia il passo al progetto di partito unico, il Partito democratico. Io decido di presentarmi alle elezioni primarie contro Walter Veltroni to. Il Lingotto, esprime una subalternità al tardo neoliberiperché non condivido l’impostazione del smo di sinistra già superato dagli eventi, con i disastri della Lingotto, luogo di nascita del nuovo sogglobalizzazione chiaramente evidenti. Veltroni disse in quel getto politico. Non condivido l’idea e la discorso che anche l’imprenditore è un lavoratore. Io risposostanza del partito che nasce con una vosi: «Peccato che l’operaio non possa dire altrettanto». cazione maggioritaria irrealistica e nei fatti provoca la caduta del suo governo, conseAveva attecchito, anche a sinistra, il berlusconismo? gnando nuovamente l’Italia a Berlusconi e Non il berlusconismo, ma la presunzione che le politiche a nuovi enormi disastri. Avremmo dovuto, sbagliate fatte dagli altri, il liberismo di destra, gestite da noi nel rispetto delle diversità, tenere insieme potessero diventare giuste, il neoliberismo di sinistra. Ma i partiti alleati, non cannibalizzarli: la forza non è così. Nei confronti del berlusconismo, invece, è mandella Dc è sempre stata questa e infatti non cato un convinto impegno alla resistenza culturale, non era ha mai pensato di governare da sola. solo un fenomeno politico. Non in molti ci hanno provato, qualche intellettuale... E non era l’unico problema del nascente Pd, non è vero? Perché è mancato questo impegno? Un altro grave limite era la visione di fuPer sottovalutazione. Le Tv di Berlusconi le hanno sempre turo delineata nel discorso del Lingotto, viste tutti, anche chi votava a sinistra. Quella cultura ha frutto dell’equivoco neoliberista. Si restamesso radici anche così. va nell’orizzonte della Terza Via di Tony Blair ma quell’orizzonte era ormai sbiadiLa famosa «Mediaset patrimonio del paese», come da definizione di D’Alema premier in visita a Cologno Monzese... Sono frasi da classe dirigente... La verità è che C’è posta per te fa il pieno di ascolti ancora oggi. È quella la dimensione sottovalutata dalla sinistra, l’egemonia culturale berlusconiana, come la chiamerebbe Gramsci. Poi c’è un’altro aspetto: il Pci e i suoi eredi un po’ di spirito consociativo lo hanno sempre avuto.

UNA STORIA ITALIANA

per quello. Però andava coltivata di più l’innovazione politica, rafforzato il profilo unitario della coalizione, l’amalgama delle culture politiche. Ma il governo Prodi avrà vita breve, l’autonomia che si era preso comincia a essere mal tollerata. Massimo D’Alema e Franco Marini vogliono far pesare di più i propri partiti, Pds e Popolari, e Fausto Bertinotti diventa lo strumento, consapevole o inconsapevole, della crisi di governo. Se Prodi, in quella circostanza, ha fatto forse un errore è stato di non ascoltare Scalfaro che gli sconsigliava di chiedere la conta in Parlamento e lo invitava invece ad andare avanti coi provvedimenti. A me fu rimproverato, tempo dopo, di non aver assunto neanche un primario. Bisognava essere più forti e difendersi da quelle pulsioni identitarie. Non a caso il processo unitario non decolla e Ds e Margherita, la nuova formazione in cui confluiscono popolari e prodiani, iniziano a competere tra loro, a viaggiare da soli piuttosto che uniti come Ulivo. Quando arriva la seconda vittoria di Prodi, nel 2006, si forma un governo con un nucleo ulivista ma a differenza del ‘96 sarà un esecutivo dei partiti. Piero Fassino e Francesco Rutelli volevano affermarsi, e quest’ultimo, sostenuto da Gentiloni, Marini e Franceschini, ebbe la meglio nella decisione di presentarsi al Senato con liste separate. Il risultato fu una vittoria mutilata.

Su questo la pensa come la pensava Craxi. Ah sì? Confesso che mi è sfuggito, ma è colpa del mio pregiudizio. No, un’altra cosa vorrei dire: non escludo oggi si stiano preparando a qualche cedimento sulla riforma costituzionale. Guardate come reagiscono pezzi del Pd alla proposta Meloni, dicono: «Il nostro premier sarebbe più forte». Non si può evitare il referendum spostandoci nel loro campo. D’altra parte il primo a proporre il «sindaco d’Italia» è stato Matteo Renzi... Ricordiamo anche che la riforma del titolo V sulle autonomie locali porta la firma di Franco Bassanini del Pds, perché in quel momento bisognava inseguire la Lega. Lei col Pd ha rotto da tempo... La mia rottura è del 2018, rompo col Pd di Renzi. Mi sono candidata contro Veltroni e sono stata una sostenitrice di Bersani, convinta del suo progetto. Condividevo l’ipotesi che il Pd diventasse un partito di sinistra con cultura di governo, quello che ancora manca a questo paese. La mia scommessa fu Bersani, ma Bersani commise un errore imperdonabile. Cambiò addirittura lo Statuto per permettere a Renzi di candidarsi alle primarie di partito per la presidenza del Consiglio. Per cavalleria? No, non esiste in politica. Pensava di neutralizzarlo in questo modo. Invece si prese il 40% dei gruppi parlamentari. Conosco Renzi fin da ragazzo, sapevo che avrebbe occu-

pato il partito. Bersani avrebbe dovuto utilizzare la campagna elettorale del 2013 per spiegare che avevamo sostenuto il governo Monti al solo scopo di rimediare agli enormi danni della destra, ma che poi, al governo, avremmo fatto le nostre politiche, politiche di sinistra. Invece non abbiamo vinto perché non abbiamo preso le distanze dal governo Monti e abbiamo sprecato un anno a fare le primarie con Renzi. Mi spiace dirlo, ma la scalata al potere di Renzi ha avuto come strumenti chiodi e corde consegnati da Bersani. Renzi ha attuato la mutazione genetica del partito. Io mi opponevo all’idea di autosufficienza di Veltroni, ma almeno lui pensava a un sano bipolarismo. Renzi comincia a parlare di Partito della nazione.

38

N. 22

PRIMAVERA 2024

Con Bersani ne avete mai riparlato? Non se ne può riparlare. È uno di quei dissensi consumati nel silenzio. Non credo sia disposto a riconoscere questa lettura. All’epoca mi disse che lui lo aveva fatto perché altrimenti Renzi si sarebbe fatto il suo partito, io gli risposi: «Invece Renzi ha costretto te a farti il tuo partito, Articolo Uno». Pensiamo anche al dopo, in particolare la segreteria di Nicola Zingaretti: costruita col consenso di tutti quelli che avevano sostenuto Renzi e nessuno spiraglio riaperto verso chi si era opposto. E adesso cosa rimane? Guardo con occhio esigente anche se benevolo a Elly Schlein perché c’è questa destra al governo e perché ha vinto col voto delle primarie. Ma tutto ciò che avviene è resistenza allo scioglimento del Pd. Siamo di fronte a una classe dirigente troppo preoccupata di riprodurre sé stessa; in presenza allo stesso tempo di amministratori senza partito e partito degli amministratori. Un’iniziativa chiara ancora non emerge. Capisco che sia difficile dialogare col Movimento 5 Stelle, ma bisogna farlo, anche se mi scandalizza sentire Giuseppe Conte che in Tv non sceglie tra Biden e Trump. Poi bisognerebbe aprire il partito alla ricchezza di mondi ancora vitali: l’associazionismo laico e cattolico, con tante competenze su pace, ambiente e solidarietà; il sindacato, la Cgil è l’unica che ancora si occupa insieme al lavoro di lotta alla mafia e difesa della Costituzione. È mai possibile che debbano rimanere senza una rappresentanza politica? Insomma è il momento di aprire una nuova fase costituente della sinistra.

Ritorniamo al passato, le faccio dei nomi: mi dica cosa le fanno venire in mente. Enrico Berlinguer. Potrei dire qualcosa anche di Giovanni che va ringraziato per il contributo alla legge 833/78, che istituisce il servizio sanitario nazionale. Quanto a Enrico: il richiamo alla questione morale. Però c’è un altro aspetto. Io mi sento dentro un grande senso di colpa collettivo rispetto alla vicenda Moro. Allora stavo nell’Azione cattolica ed ero per la linea della fermezza. Anche Berlinguer lo era, per coerenza, non per opportunismo come tanti nella Dc. Ecco sbagliammo, sbagliò Berlinguer, sbagliai io: bisognava far di tutto per salvare la vita di Aldo Moro. Allora passo subito a Craxi. Lui ci provò. In modo strumentale. Ma sì, indubbiamente si adoperò. Però, Craxi per me resta l’origine del berlusconismo. Il primo cromosoma di Arcore. Aldo Moro, invece. È la sintesi tra la ricerca del compimento di una democrazia matura, dell’alternanza, e la sua interruzione. In lui convive questa contraddizione, in vita e in morte. Il 1978 determina tutto ciò che succede dopo. Ho sempre pensato che la fine di Moro non interessasse solo alle Brigate rosse. A livello internazionale le affermazioni di Kissinger sono note. Qui da noi il filo nero del progetto eversivo della P2 c’era SULLA FERMEZZA prima e c’è stato dopo. Le Br sono state, consapevolmente o inconsaCON LE BRIGATE ROSSE pevolmente, uno strumento di quel progetto.

SBAGLIAMMO.

SBAGLIÒ BERLINGUER, Andreotti. Forse era il campione dell’inseguimento della società? SBAGLIAI IO: BISOGNAVA Andreotti è il filo sottile fra realismo e cinismo. Per Andreotti la società FAR DI TUTTO PER SALVARE sembrava non esistere. È l’uomo delle stanze del potere che cammina LA VITA DI ALDO MORO su quel filo sottile. Non trascurava nessuna relazione. Non c’era biglietto d’auguri a cui non rispondesse di suo pugno. Quando lo incontrai, da giovane candidata, provai rispetto e timore. Era l’unico italiano davvero conosciuto in tutto il mondo. Me ne resi conto durante le missioni all’estero da europarlamentare, dal Sudamerica all’Asia, passando per l’Africa. Non c’erano De Mita o Craxi che tenessero. E poi, alla fine, questo grande interrogativo che rimane su dove passa quel filo sottile...

39

Qual è l’orgoglio di Rosy Bindi politica e quale l’errore più grande? Il Parlamento europeo e l’Antimafia mi hanno dato, pur nella fatica, le maggiori gratificazioni. L’inizio e la fine del mio percorso. Ma sono ancora molto convinta della mia riforma sanitaria: dove è stata applicata ha portato a un rafforzamento della sanità pubblica e oggi servirebbe continuare ad applicarla, non dovrebbe essere difficile, è ancora legge dello Stato. Errori? Sicuramente ne ho fatti, ma sempre in buona fede e convinta di fare la cosa giusta, per questo se tornassi indietro forse li rifarei tutti. Io sono anche i miei errori.

UNA STORIA ITALIANA

Cossiga. Mi astengo. Cossiga al Quirinale è stato uno degli errori più grandi della Dc. Un giorno dissi che avrei accettato di interloquire con lui, che mi attaccava pesantemente, quando avrebbe fatto i conti con il suo ruolo di ministro dell’Interno durante il caso Moro.

POLITICA

Da Tangentopoli al populismo C’è un nesso tra la presunta rivoluzione giudiziaria che ha spazzato via i partiti della Prima Repubblica e lo sbocco reazionario attuale: è l’idea che la politica debba lasciare il posto alla legalità e agli uomini della provvidenza

40

N. 22

PRIMAVERA 2024

«I

l populismo penale è funzionale al populismo politico. Il suo paradigma – il diritto penale del nemico – è in perfetta sintonia con la tendenza del populismo politico a definirsi sulla base di nemici». Con queste parole Luigi Ferrajoli, giurista e teorico del garantismo di sinistra, traccia una linea inequivocabile tra i due fenomeni politici che hanno caratterizzato l’Italia degli ultimi trent’anni: il Giuliano Santoro giustizialismo quale sbilanciamento dell’equilibrio dei poteri (e della costruzione del discorso pubblico) sull’azione salvifica della magistratura penale e il populismo come forma di costruzione del consenso sulla base dell’identificazione di nemici da combattere ed escludere. Ci sono voluti trent’anni, dunque, e il cerchio si è chiuso: dai giovani del Msi che assediano simbolicamente il ParlamenGiuliano Santoro, to in nome della lotta alla corruzione al governo della destra di giornalista, lavora al Giorgia Meloni. In mezzo: lo scontro tra magistratura e politica manifesto. È autore, e il duello tra Berlusconi e le procure, le leggi ad personam, le tra le altre cose, di Un «emergenze sicurezza» e il garantismo solo per i privilegiati, il Grillo qualunque e boom del grillismo contro la cosiddetta Casta e il governo del Cervelli Sconnessi Movimento 5 Stelle con la Lega, il partito dai bilanci commissa(Castelvecchi, 2012 e riati dalla magistratura e dei 49 milioni di euro da restituire allo 2014), Al palo della Stato (partito, giova ricordarlo, che nel 1992 fece il suo debutto morte (Alegre Quinto in Parlamento agitando un cappio sotto il naso dei vecchi schieTipo, 2015). ramenti politici decimati dalle inchieste).

IL GOVERNO DELLA PAURA Conviene, tuttavia, abbandonare la limitata prospettiva italiana per cogliere alcuni aspetti profondi e uscire dalla visione (spesso angusta, oltre che smentita dal deperire della democrazia rappresentativa anche negli altri paesi occidentali) dell’Italia come «anomalia». Il criminologo statunitense Jonathan Simon, ad esempio, ha ricostruito ne Il governo della paura (Raffaello Cortina, 2008) il rapporto tra politica e legalità fin dagli anni Sessanta. Se già la paura (da Hobbes in poi) rappresenta un sentimento chiave per comprendere la nascita della sovranità moderna, la specifica paura della criminalità assume in questa lettura un ruolo politico decisivo. Man mano che cresce la paura, osserva Simon, il senso di appartenenza delle persone a una specifica comunità si sfilaccia, si allentano le appartenenze e la solidarietà di classe. Il cittadino tende di conseguenza a fare appello alla legge penale e alla prigione. Le manette, da questo punto di vista, rimandano a immagini ancestrali, pre-politiche, ma sono legittimate dall’articolata macchina della repressione, la polizia e i giudici, in grado di rassicurare sia per la loro semplicità che per la ramificata struttura fatta di ermellini e uomini in divisa. Quest’analisi si basa sull’idea del «governo attraverso la criminalità», da intendersi quale «nuovo paradigma di governance incentrato sull’individuazione, sulla prevenzione e sulla neutralizzazione del rischio criminale come elementi costitutivi dell’azione di governo a ogni livello e in ogni contesto». Ne deriva uno stile di azione politica che Simon definisce «complesso accusatorio»: diventa predominante la logica accusatoria tipica del pubblico ministero, perché il fine ultimo dell’amministrazione della cosa pubblica è difendere la società dal crimine.

LA VERA ANOMALIA ITALIANA

41

UNA STORIA ITALIANA

È facile riconoscere questo frame nelle politiche delle destre. Basti citare, prima dell’emersione delle nuove forme di populismo reazionario, il procuratore anticrimine di New York Rudy Giuliani, passato dalla toga al governo della metropoli per eccellenza (una metropoli, peraltro, con una storia di sinistra) in nome della «tolleranza zero» che si rivolse soprattutto contro i più poveri e che fu determinante per la gentrificazione di gran parte della città. Tuttavia – qui assistiamo a una specificità dell’Italia degli ultimi trent’anni – lo stesso schema può essere utilizzato per leggere la fascinazione giustizialista, e la scorciatoia individuata anche dalla sinistra per perseguire obiettivi politici da Tangentopoli (1992) in poi. La tracimazione del potere giudiziario per certi versi è fisiologica, visto che come sintetizza il penalista Giovanni Fiandaca «quando un sistema politico versa – come nel caso emblematico del sistema italiano – in uno stato di crisi e di indefinita transizione, la tentazione di rimescolare ruoli e competenze, di occupare nuovi spazi, di aggiustare funzioni e profili identitari contagi più di un potere istituzionale». Eppure questa tracimazione ha radici nella storia della Repubblica, e nel rapporto tra pm e sinistra, che risalgono a prima della crisi istituzionale e politica della Prima Repubblica. Il garantismo moderno, concetto antitetico a quello di giustizialismo, nasce negli anni Settanta, quando

a colpi di legislazione di emergenza, carceri speciali e teoremi giudiziari un pezzo rilevante della sinistra italiana (e dell’apparato del Partito comunista italiano) cercò di porre fine alle lotte cominciate nel 1968-69 e protrattesi per tutto il decennio successivo. Quando a Milano viene arrestato il socialista Mario Chiesa e si crea l’effetto domino che travolgerà la classe politica italiana, perdiamo di vista la vera anomalia. Perché il passaggio storico di Tangentopoli liquida in chiave penale il nodo nevralgico del caso italiano: di fronte alla pressione di anni di lotte, la Repubblica dei partiti (secondo la nota definizione di Pietro Scoppola) si trova a stretto contatto con un settore pubblico enorme: le principali aziende o sono direttamente pubbliche o si trovano a gestire le direttrici principali della produzione in stretta relazione con l’apparato statale. Ciò genera una situazione ambivalente: da una parte il privato cede il passo alla politica, pur con tutte le sue contraddizioni. Dall’altra, tuttavia, alla pianificazione statale viene lasciata la patata incandescente della gestione dei conflitti e dello sviluppo capitalistico contro le lotte. Non è un caso, ad esempio, che la maggior parte IL RAPPORTO TRA delle produzioni che si riveleranno letali per la salute dei lavoratori e CONCUSSIONE E devastanti per l’ambiente vengano gestite dalle aziende di Stato e dal CORRUZIONE, TRA CHI management che opera in combutta coi partiti. PAGA LA MAZZETTA E CHI Dunque, il rapporto tra concussione e corruzione, tra chi paga la INCASSA LA TANGENTE, mazzetta e chi incassa la tangente, racchiude molto più che una semVA BEN OLTRE LA plice fattispecie penale. È anche la relazione (perversa) tra Stato-piaFATTISPECIE PENALE no e intervento pubblico, tra capitalismo assistito e politiche keynesiane. Tra partiti come cinghia di trasmissione della volontà popolare o come semplici restauratori del consenso e della pace sociale. La storia del Partito socialista italiano in fondo si può leggere anche in questo modo: una gloriosa forza politica si ficca dentro la stagione del centrosinistra con l’idea di strappare l’egemonia a sinistra al Pci e al tempo stesso di trascinare su un terreno riformista la Democrazia cristiana ma finisce in balia dei soggetti economici, fino a tutti gli anni Ottanta per larga parte in mano al settore pubblico (lo spiega bene in questo numero Giuliano Garavini). Insomma, al di là della macchietta del socialista predone e affarista (semplicistica e poco utile) pare proprio che i funzionari del partito craxiano abbiano ammainato le bandiere del «primato della politica» (formula che pure andava molto di moda da quelle parti) per cavalcare in forma ambigua e ambivalente (a volte, appunto, corrotta) le sorti del capitalismo (di Stato) italiano, finendone stritolati.

42

N. 22

PRIMAVERA 2024

DOVE PORTA L’IDEOLOGIA LEGALITARIA L’idea che ha mosso in questi anni la costruzione ideologica giustizialista è che il magistrato inquirente sia una specie di tecnico, un arbitro apolitico pronto a ristabilire la legalità. Ciò si inscrive nel più ampio (e globale) processo di depoliticizzazione in base al quale sempre più spesso l’attività di governo viene affidata ad agenzie indipendenti, la privatizzazione riduce la sfera d’intervento della politica e il discorso pubblico prevede per la soluzione di un dato problema un’unica ricetta magari suffragata da «dati oggettivi»

43

UNA STORIA ITALIANA

(a questo proposito è utile leggere Vittorio Mete, Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa, Il Mulino, 2022). Bene, i giudici sono divenuti parte di queste scorciatoie di governo. Eppure, spiega ancora Fiandaca, «la magistratura penale è parte integrante dell’apparato statale, ed essa non può pretendere di tirarsene fuori come se fosse una espressione diretta della società esterna, o di gruppi particolari di cittadini, o delle stesse vittime delle azioni criminose. L’esperienza degli ultimi anni dimostra che l’azione giudiziaria non può da sola neutralizzare la criminalità sistemica né, tanto meno, può da sola promuovere il rinnovamento politico e la rigenerazione morale». Francesco Saverio Borrelli, capo del pool milanese che ha scatenato la tempesta di Tangentopoli e che in un celebre videomessaggio invitò gli italiani a «Resistere, resistere, resistere» di fronte all’ennesimo tentativo Berlusconi al governo di dribblare le indagini, ha dichiarato: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». E Antonio Di Pietro, l’icona del magistrato giustiziere contro la politica corrotta, ha ammesso: «Sul piano giudiziario quella stagione è stata un unicum, sarebbe difficile realizzare le stesse condizioni. Sul piano politico non sarà un’altra inchiesta Mani pulite ad aprire una stagione nuova. L’abbiamo già visto, la soluzione giudiziaria da sola non basta. Deve essere la politica a trovare in sé la forza di cambiare». Il paradosso è che in questi trent’anni abbiamo assistito a un processo schizofrenico: più si esaltava il potere taumaturgico del magistrato, più i magistrati ammettevano (più o meno esplicitamente) l’insufficienza del codice penale per affrontare le contraddizioni sociali, politiche ed economiche e cercavano altri campi di intervento: li abbiamo visti scendere nell’agone politico, occupare le tribune dello spazio mediatico, colonizzare il discorso giornalistico e impegnarsi nell’industria editoriale, anche in veste di romanzieri di successo. «Nessuno di noi, dopo Mani pulite, può dire di non sapere che esista, o sia esistito, un sistema di corruzione che ha minacciato ogni angolo del nostro paese. Ma oggi sappiamo che questo non basta: Mani pulite è anche la dimostrazione di come sia necessario qualcosa d’altro», sono parole di Gherardo Colombo, il pm che nel pool milanese di Mani pulite si occupava soprattutto di scandagliare i documenti e leggere le carte (Di Pietro era l’uomo degli interrogatori, Piercamillo Davigo quello delle richieste di custodia cautelare). Dieci anni prima di Tangentopoli, da giovane giudice, Colombo aveva scoperto l’esistenza della P2. Si dimetterà anzitempo dalla magistratura, per dedicarsi alla formazione e ammettere senza mezzi termini l’inutilità del carcere (ha scritto, tra le altre cose, Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla, Ponte alle Grazie, 2020). Come si diceva all’inizio, l’esito della guerra dei trent’anni fa intendere che l’ideologia legalitaria e l’invocazione di uomini della provvidenza che risolvano questioni complesse con metodi spicci, ad alto tasso simbolico e fintamente impolitici, hanno creato le condizioni di uno slittamento a destra del quadro politico. È anche per questo che, riflettendo sulle politiche razziste dei nostri giorni, Ferrajoli può constatare amaramente: «Oggi l’opinione pubblica è portata a indignarsi assai di più per un fatto di corruzione che per la strage di 117 migranti».

44

N. 22

PRIMAVERA 2024

IMMAGINARIO

IL MOSTRO DI ARCORE

Illustrazione di FRANCESCA GHERMANDI

Dalla sollevazione populista di Mani pulite alla crociata a sostegno dell’innocenza di Pacciani: ascesa e tenuta dell’egemonia sottoculturale del berlusconismo, combattuta (anche) a colpi di cronaca nera e giudiziaria

N

on c’è Cavaliere, Silvio, senza caccia, alle toghe. Rosse e meno rosse. Una crociata iniziata persino prima della discesa nell’agone politico, con gli avvisi di garanzia spiccati dal pool Mani pulite a indirizzo dei massimi vertici Fininvest nel 1993 e il rinvio a giudizio di Paolo Berlusconi, il fratello della testa numero uno del biscione, coinvolto nell’indagine sulle tangenti per le discariche lombarde. Una batSelene Pascarella taglia combattuta per anni, frontalmente, attraverso la potenza di fuoco dei Tg del mostro bicefalo conosciuto come Raiset ma anche, come direbbero gli sceneggiatori televisivi, lateralmente, attraverso narrazioni radicate nei territori «non sospetti» della cronaca nera. Per capire cosa leghi la campagna innocentista di Mediaset sul giallo numero uno d’Italia, Il Mostro di Firenze, alla madre di tutte le narrazioni politico-giudiziarie, Tangentopoli, occorre seguire le briciole mediatiche del passaggio di Berlusconi da un fronte populista, la società civile contro i ladri, a un altro, la gente comune contro i giudici, solo in apparenza antitetico. A partire dall’epica stagione delle dirette fiume davanti al Palazzo di Giustizia di Milano del Tg5 di Enrico Mentana e dei siparietti tragicomici di Emilio Fede e Paolo Brosio al Tg4, in cui si sono gettate le basi dello spaghetti infotainment con il suo speciale mix di dramma e grottesco.

46

N. 22

PRIMAVERA 2024

POP-ULISMO E USO PUBBLICO DELL’IRRAZIONALITÀ In principio era Craxi. Con il lascito fondativo a Silvio Berlusconi, conosciuto come legge Mammì (che regolava il sistema televisivo), nessuno scandalo politico pareva poter spezzare il legame di codipendenza tra il tycoon di Milano due e il Psi nella sua forma più ultraliberale e rampantista. Ma Mani pulite non era uno scandalo come gli altri, piuttosto la miccia per far infiammare il mai prosciugato carburante del populismo italico a base di vanagloria e vittimismo. Benzina che aveva alimentato per vent’anni il motore del regime e, al crollo della Prima repubblica nata dall’antifascismo, iniziava a far carburare e smarmittare un nuovo apparato egemonico della destra. Una macchina narrativa capace di attraversare qualsiasi terreno ideologico, accorciando le distanze tra subcultura cattolica e universo di sinistra in nome del mito bipartisan di «una società civile sana» – la citazione è da Passatopresente di Simona Colarizi, pubblicato da Laterza nel 2020 – «governata da una classe politica malata, corrotta, arrogante e superficiale». Il pubblico tricolore, che non amava guardarsi allo specchio Selene Pascarella, e riconoscere quanto fosse coinvolto nel sistema clientelare delgiornalista e la cosiddetta partitocrazia, adorava specchiarsi nella sfavillante criminologa, è autrice immagine da piccolo schermo di un’Italia alle prese con una riper Alegre di Tabloid voluzione combattuta dalla magistratura in nome di un popolo Inferno. Confessioni onesto e sovrano. Nessun soggetto mediatico era in grado di rinunciare all’occadi una cronista di sione di alimentare un appetito tanto vorace quanto basico, che nera (2016) e Pozzi. a fronte di risorse esigue, un pugno di giornalisti spesso giovani Il diavolo a Bitonto e alle prime armi mobilitati h24, una telecamera con microfono (2019).

a disposizione della gente comune in piazze reali o virtuali, offriva un immediato rientro in termini di audience. A maggior ragione era interesse di Mediaset, portabandiera dell’intrattenimento che si era insediata da pochissimo come realtà giornalistica, non lasciare alla Tv pubblica pascoli sì verdi e sterminati. Tanto più che se il popolo degli italiani onesti scopriva il brivido della disintermediazione dai partiti, che parevano ormai svuotati di capacità di rappresentanza e quasi di scopo, Berlusconi, alle prese con una forte crisi di liquidità, sentiva l’urgenza di liberarsi da padrini politici divenuti ingombranti e poter attingere al bacino di potere che gli avevano concesso solo in parte e a prezzo pieno. Un obiettivo che rendeva necessaria una seconda disintermediazione, quella dagli intellettuali intestati alla sinistra, in nome di un’egemonia culturale pop o, per usare la definizione di Massimiliano Panarari, di una «egemonia sottoculturale».

47

Cosa poteva smuovere nella famigerata casalinga di Voghera lo scialbo burocratese di un avviso di garanzia, se pur spiccato a un nome di grido della politica? Come trasformare nella moneta sonante degli ascolti televisivi mainstream le soporifere schermaglie interne di una classe parlamentare agonica, indecisa tra la difesa a oltranza dell’immunità e la resa totale ai processi nelle piazze pur di salvare il salvabile? Un cambio di paradigma, la costruzione del giusto format e la scelta di una struttura seriale che richiamasse la forma dominante nell’immaginario degli cronaca e meteorologia catastrofistica. Terremoti, uragani, anni Novanta: il telefilm. Il nipote dello valanghe e bufere dove una volta era tutta campagna eletsceneggiato e il nonno della serie Tv. torale. E un ritmo che sa tanto di domenica calcistica, con Addio ai notisti parlamentari, con il gli inviati dalle procure che si sovrappongono, tirando a loro portato di competenze iniziatiche turno la giacchetta del collegamento per un aggiornamento di lungo corso, cesellate nei salotti bene. clamoroso ma mai quanto quello che sta per arrivare, Spazio ai cronisti da marciapiede, speOgni edizione dei Tg di Canale 5 e Italia 1 si apre a colcie a quelli con l’innocenza delle prime pi di annunci roboanti e si chiude con il to be continued di armi e il sacro fuoco dell’ambizione, se sviluppi che faranno impallidire il colto e l’inclita. Il picco non il tiepido scaldino del servilismo, a si raggiunge nel 1992-93 con l’azione simultanea di Enrico compensare lunghissime ore di presidio Mentana, Emilio Fede e, nella Tv del mezzogiorno, la più seal capezzale di un sistema che somiglia guita dal pubblico femminile, Gianfranco Funari. Anche in a Tina Pica in Nonna Sabella. Sta sempre Rai il momento è propizio al cambiamento, ma dietro a un per morire e invece non muore mai, però trascinatore della Tv di strada come il Michele Santoro di finché è in articulo mortis nessuno può Samarcanda mancano le truppe cammellate dell’informalasciarne il capezzale. zione quotidiana e dell’intrattenimento. Per tutti, in verità, In un rovesciamento delle regole della non possono piovere monetine al Raphael in eterno. cronaca nera, non si racconta del delitto DAI PROCESSI NELLE PIAZZE AI TAPIRI NELLE STRADE che è avvenuto perché troppo concentrati sui misfatti ancora da compiere, con A marzo del 1994 Berlusconi corteggia Antonio Di Pietro una contaminazione che farà scuola tra per farne il suo ministro dell’Interno. La circostanza verrà poi negata dal Cavaliere nel 2008 ma in ogni caso il volto più famoso del pool di Milano è già con un piede fuori dalla magistratura, che lascerà il successivo sei di dicembre. Il ventidue novembre Berlusconi riceve a voce un invito a comparire davanti ai magistrati in merito all’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di finanza. Si trova a Napoli, nel bel

UNA STORIA ITALIANA

TUTTO IL GOSSIP PROCURA PER PROCURA

mezzo di una conferenza transnazionale sulla criminalità dove è convinto di migliorare la propria immagine all’estero. Lo smacco è doppio, perché lo scoop è stato anticipato dai giornalisti del Corriere della Sera e i media internazionali, già sul posto, lo aspettano al varco. La caccia alle toghe rosse inizia qui, con i giudici che da eroici watchdog del popolo onesto diventano «antropologicamente diversi». «Non credo che nessun tribunale al mondo – tuona il Cavaliere – mi possa condannare perché mi chiamo Silvio Berlusconi». Novembre è un mese cruciale anche per un certo «coltivatore della terra agricola» imputato di essere l’autore dei delitti del mostro di Firenze. Pietro Pacciani, finito in manette al grido di «non sono io quello che cercate!», viene condannato a quattordici ergastoli ma si dichiara «innocente come Cristo in croce». Finalmente c’è un colpevole per una vicenda che ha sconvolto l’opinione pubblica e visto gli inquirenti in scacco per anni. Giustizia è fatta. Eppure dalla condanna di Pacciani ha inizio uno scollamento mai percepito prima nel discorso pubblico tra la giustizia delle aule dei tribunali e la giustizia giusta, tra la verità giudiziaria e la verità vera. «La giustizia non c’è o non garantisce o è al servizio, si pensa, solo di alcuni (gli stessi che rinfocolano il discredito nei suoi confronti, altro paradosso postmoderno utilizzato dalle élite)» scrive Panarari ne L’egemonia Sottoculturale (Einaudi, 2010), «e, allora […] non ci resta che il Gabibbo giustiziere». Che non indossa la toga ma non a caso veste di rosso. E se proprio permane in qualcuno dei telespettatori la fascinazione per il martelletto, c’è sempre la versione cartonata e rassicurante offerta dalla trasmissione Forum e presieduta per anni, con spostamenti tra Canale 5 e Rete 4, dall’ex giudice ed ex avvocato Santi Licheri, sul cui scranno CON IL BERLUSCONISMO dopo la morte siederà anche uno dei protagonisti dell’affaire Pacciani, SI MANIFESTA l’avvocato del contadino di Mercatale, Nino Marazzita.

48

N. 22

PRIMAVERA 2024

UN’EGEMONIA CHE SFRUTTA IL COINVOLGIMENTO DI AGENTI SPECIALI DELL’INTRATTENIMENTO

A OGNUNO IL SUO QUARTO D’ORA DI PACCIANITÀ

«Ma quale partito anti procure, non c’è un partito anti procure, c’è un uomo che è trattato come un maiale, e forse non lo è, forse lo è stato». L’arringa televisiva (siamo nel 1996) è di Vittorio Sgarbi – mattatore su Canale 5 della trasmissione Sgarbi Quotidiani – a favore non del padrone di casa Berlusconi, ma proprio di Pacciani, di cui persino il procuratore generale nel processo d’appello, Piero Tony, ha chiesto l’assoluzione. Sgarbi, che porterà avanti la teoria del dubbio pro Pacciani fino ai giorni nostri, sembra voler smontare la lettura politica della sentenza di appello che ha portato all’annullamento della condanna di primo grado. Invece la sdogana, cambiando gli elementi in campo. Al centro dello scontro politico non ci sono poco identificati poteri occulti in odore di destra che tramano contro i magistrati per nascondere la verità sul giallo fiorentino. La vera posta in gioco è la destituzione di soggetti politici avversi da parte di una magistratura schierata a sinistra e sostenuta da una stampa asservita. Memorabile è la lettura in diretta della missiva di uno spettatore: «Caro Sgarbi mi auguro, dopo quanto sta accadendo in questi giorni, che lei si faccia portavoce di una battaglia per rendere inoffensivo il vero Mostro di Firenze, il pubblico ministero procuratore capo Vigna». Una tesi ardita e strampalata, che comunque troverà il suo posto nell’universo della mostrologia, la branca di studio dedicata alle teorie alternative sugli otto duplici omicidi di Firenze. «Abbiamo detto mostro a uno che non lo è» chiosa Sgarbi «non possiamo dirlo a Vigna? […] se uno tiene in carcere un innocente per due anni non è un mostro? No è un santo!». Il clima che rende possibile una sovrapposizione tra Berlusconi e Pacciani senza temere un effetto boomerang viene bene riassunta dall’esperto del Mostro e della mostrologia Roberto Taddeo nel secondo volume della trilogia Mdf- La storia del mostro di Firenze (Mimesis, 2023). «Attento, cittadino, attento, elettore, anche tu, come questo povero contadino,

un toscanaccio simpaticissimo, il nonno di tutti noi, un domani potresti essere vessato dai magistrati comunisti».

49

Che l’obiettivo della campagna pro Pacciani di Mediaset fosse disinnescare il passaggio di Vigna alla procura antimafia (eventualità che per qualche ragione Berlusconi avrebbe voluto scongiurare) resta oggetto di una delle innumerevoli fantasie di complotto legate al giallo di Firenze. Certo è che essa rientrava nella progressiva realizzazione di un universo culturale alternativo alle forze politiche che avevano dominato la Prima Repubblica e alle personalità che avevano scandito la breve ma densa stagione di Mani pulite. Un universo in grado di mantenere nella gente l’illusione di essere finalmente al timone grazie all’ascesa di Berlusconi, non uno di «loro», «intellettuali dei miei stivali», per dirla alla Craxi, o magistrati politicizzati, secondo il refrain di Silvio, ma «uno di noi». Un universo costruito dall’azione simultanea di opinion maker quali Funari, Sgarbi, ma anche Alfonso Signorini e Antonio Ricci, reso familiare dai volti di Ezio Greggio e Enzo Iacchetti, scandito dalla bonaria fantazoologia pseudo-investigativa del Gabibbo e delle Iene, popolato di presenze femminili scosciate e rassicuranti, dalle ragazze coccodè di Drive In alle teenager di Non è la rai. Vallette e veline in abbondanza, signore della Tv del dolore e regine del reality, un proliferare di processi mediatici a mostri piccoli e grandi a ogni ora del giorno per compensare la sfiducia nei rituali della giumancipazione «delle teste degli individui» (la definizione è stizia reale. Nella definizione gramsciana sempre di Panarari) «dalle ‘idee spontanee’ corrispondenti l’egemonia culturale è il dominio esercial software che vi era stato introdotto lungo i secoli e i detato dalle élite sulle masse, manipolate cenni», ma diffondere euristiche più funzionali al nuovo al punto da introiettare spontaneamente blocco di potere, proprio perché portate avanti da alfieri interessi e valori di chi è al potere, identidell’industria sottoculturale. Narrazioni tossiche, per usare ficandoli con il buon senso votato al bene una definizione forse un po’ abusata ma calzante. Al culmine del processo, con una sfera di influenza che comune del «si fa così perché si è sempre si estende da Mediaset alla Rai, nella crasi del Raiset, si può fatto così». La conquista dell’egemonia persino gridare allo scandalo di una sinistra che mantiene culturale precede la presa del potere pocon tracotanza un monopolio, mai raggiunto, sugli intelletlitico e necessita dell’azione concertata di tuali e sul mondo dell’informazione, così come si ulula sulla intellettuali insediati in ruoli chiave nei persecuzione da parte del potere giudiziario mentre si promedia, nelle università, in tutti i luoghi pugnano le più repressive tra le politiche securitarie. Se Pacdi formazione del pensiero. Con il berluciani, che con ogni probabilità non è il Mostro di Firenze ma sconismo si manifesta un’egemonia che l’esecutore mai pentito di mostruosa violenza di genere, può sfrutta il coinvolgimento di agenti spediventare agli occhi del pubblico un «agnelluccio»», Silvio ciali dell’intrattenimento, che svolgono Berlusconi può ben essere la vittima sacrificale di un comla loro azione con lo stesso ruolo fissato plotto comunista. Lo dice la televisione ma è solo, come ai da Gramsci per gli intellettuali organici tempi della società civile contro i corrotti della partitocrazia, alle masse e al comunismo, ma con un un microfono che fa emergere l’inascoltata voce del popolo. obbiettivo opposto. Non innescare l’eIl popolo di Silvio che rispecchiandosi, da un conduttore Tv all’altro, nel leader supremo si sente allo stesso tempo al vertice del sistema e a capo di una rivoluzione contro il sistema, senza ricoprire alcuna delle due posizioni. Il più grande successo in termini di audience dell’egemonia sottoculturale è convincere il pubblico che non esiste.

UNA STORIA ITALIANA

L’EURISTICA DEL GABIBBO VENDICATORE

Da Jovanotti ad Amadeus, tutti gli artisti lanciati da Claudio Cecchetto nascono nelle Tv di Berlusconi ma sono molto apprezzati anche a sinistra. Ecco come la Seconda Repubblica ha prodotto il loro habitat culturale naturale

COLONNA SONORA DI UN PAESE NORMALE

51

UNA STORIA ITALIANA

Illustrazione di STEFANO D’ORIANO

IMMAGINARIO

S

iamo tra il 1988 e il 1996, a Milano, in via Massena, vicino al centralissimo Corso Sempione. Un gruppo di ragazzi ventenni – tutti maschi – vive insieme, con le porte sempre aperte, in un appartamento a uso foresteria vicinissimo alla propria sede di lavoro. Sono tutti Dj, ma anche aspiranti attori o cantanti. D’inverno stanno a Milano, d’estate si trasferiscono in gruppo a Ibiza o all’Aquafan di Giulio Calella Riccione. Sono una vera e propria squadra. «Non eravamo però una democrazia – ricorda oggi uno di loro, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti – la nostra era una dittatura illuminata». In quegli anni, insieme a Jovanotti, circolano a via Massena Amadeus, Gerry Scotti, Linus, Albertino, Fiorello, Marco Baldini, Leonardo Pieraccioni, Max Pezzali e Fabio Volo. Sono i personaggi che domineranno la cultura musicale, radiofonica, televisiva, cinematografica e persino letteraria della Seconda Repubblica, tanto da occupare ancora oggi saldamente la scena.

52

N. 22

PRIMAVERA 2024

BALLARE In quegli anni il loro dittatore illuminato – nonché padrone di casa e datore di lavoro – è un trentenne, divenuto famoso nei primi anni Ottanta grazie a una canzone che anticipa i balli di gruppo dei decenni successivi: il Gioca Jouer. Claudio Cecchetto era uno tra i primi 5-6 disc jockey presenti nella Milano di fine anni Settanta, quando furoreggiava alla discoteca Il Divina: «Quel posto sotto la città – scrive Cecchetto nella sua autobiografia (In diretta. Il Gioca Jouer della mia vita, Baldini e Castoldi 2014) – era una parentesi nel clima di conflitto che si respirava in Italia a quei tempi, era uno spazio dove stare bene». Con lo stesso spirito lavora nelle prime radio libere commerciali, contemporanee a quelle di movimento come la famosa Radio Alice di Bologna: «Anche le nostre radio erano illegali – ricorda – ma noi non stavamo andando contro nessuno». Perseguiva il sogno di un mondo senza conflitti in cui si potesse pensare di meno dopo un periodo in cui, a suo modo di vedere, si era pensato troppo. Cecchetto, perito tecnico, non è un intellettuale ma prima di molti altri nel nostro paese fiuta i segnali di una tendenza culturale e sociale nuova. Nel 1978 trionfa nei cinema La febbre del sabato sera con John Travolta, film che determina un cambiamento epocale: la vita sociale si sposta progressivamente dalle strade e dalle piazze – i luoghi sia di incontro che di conflitto giovanile nel decennio del lungo 68 italiano – per trasferirsi in posti privati e chiusi come le discoteche. Negli anni Ottanta perfino le vacanze si svolgono preferibilmente in spazi delimitati e lontani dalle piazze con il boom dei villaggi turistici. Contemporaneamente Silvio Berlusconi si appresta a dare vita alle reti Fininvest per far divertire le persone nel luogo privato per eccellenza: le case. È Mike Bongiorno, a cui Berlusconi affida la direzione artistica di TeleMilano 58 (la futura Canale 5) a scoprire Cecchetto alla radio e a portarlo in Tv con un programma musicale per i giovani, Chewing Gum. «Quello che vogliamo fare con la Tv di Berlusconi – gli dice Mike – è portare in Italia il sogno americano». Lo stile da discoteca di Cecchetto – parlantina veloce, scarpe da ginnastica e abiti casual così diversi da quelli dei tradizionali presentatori in giacca e cravatta – si Giulio Calella, fa subito notare tanto che pochi mesi dopo, ad appena 28 anni, cofondatore e viene chiamato dalla Rai per condurre e innovare il Festival di presidente della Sanremo. La cui sigla, nel 1981, è proprio il Gioca Jouer. cooperativa Edizioni Arrivato così velocemente all’apice del successo capisce però Alegre, è editor che il suo futuro è un altro. Il Dj è un mestiere per giovanissimi, di Jacobin Italia. lui non sa cantare né ha particolari doti artistiche. Ha però il

Colui che cambia radicalmente la figura del Dj è senza dubbio Jovanotti. A sostenerlo è lui stesso nel documentario People from Cecchetto, andato in onda in prima serata su Rai 1 il 20 dicembre 2023. «Ero molto forte davanti alla consolle – racconta Lorenzo – e allora presi delle luci dalla pista e le girai verso di me. Prima quelli che stavano alla consolle erano dei jukebox viventi, non erano figure visibili. Io trasformai la consolle in un palco». Cecchetto lo vede in discoteca e capisce che con queste sue trovate avrebbero fatto insieme grandi cose. Gli fa condurre Deejay Television e gli propone di continuare il «sogno americano», iniziato dieci anni prima con Mike Bongiorno, cantando una canzone di cui aveva già chiaro il titolo: Gimme five. «Io mi inventai solo la risposta: All

right», dice Lorenzo. Seguiranno, sempre prodotti da Cecchetto, i successi di È qui la festa, La mia moto e Una Tribù che balla. Con Jovanotti, un Dj diventa protagonista assoluto della Tv e della musica italiana, fino a trasformarsi, nel corso degli anni Novanta, in uno dei cantautori più apprezzati del paese. Il gancio con il mondo degli animatori dei villaggi turistici è casualmente lo stesso Jovanotti. Nel villaggio Valtur di Brucoli, in provincia di Siracusa, dove lavora a fine anni Ottanta Rosario Fiorello, il maestro di tennis è infatti Bernardo Cherubini, che invita Fiorello ad andare insieme a trovare suo fratello minore Lorenzo, appena trasferitosi in via Massena. Fiorello si fa subito notare da Cecchetto che lo trasforma presto nella spalla di Amadeus (già lanciato qualche anno prima su Radio Deejay, con tanto di nome d’arte) sulle spiagge di Ibiza e all’Aquafan di Riccione per la versione beach di Deejay Television. In radio invece Fiorello fa coppia fissa con Marco Baldini. «Un giorno però – racconta Fiorello nel documentario – Cecchetto mi sente cantare mentre salgo le scale del nostro appartamento e gli viene l’idea di un format che rimarrà nella storia della televisione italiana»: Karaoke, il programma televisivo che va in onda su Italia 1 dal 1992 al 1995 in cui Fiorello fa cantare le persone ogni giorno da una piazza diversa, esattamente come faceva nei villaggi vacanza. È un successo strepitoso e Karaoke, che andava in onda alle 20.00, riesce subito a fare concorrenza ai telegiornali della sera con ol-

53

CANTARE

UNA STORIA ITALIANA

fiuto dell’imprenditore ed è convinto di saper riconoscere prima degli altri i fenomeni culturali di successo. Decide allora di investire i soldi del contratto in esclusiva come presentatore di programmi Fininvest, firmato nel 1982 con Berlusconi, per fondare Radio Deejay. «Stai attento a non buttare tutti i soldi che ti do nella radio», lo aveva ammonito Silvio. A cui rispose: «E tu non buttare i tuoi nella televisione». «Berlusconi sorrise – ricorda Cecchetto nel suo libro – ciascuno di noi stava realizzando il sogno di una vita, e per nessuna ragione al mondo ci saremmo fermati». Compra così anche Radio Capital, apre una produzione discografica e poi porta la radio pure in Tv ideando Deejay Television (programma in onda su Italia 1 dal 1983 al 1990). In questi anni di passaggio tra le due Repubbliche Cecchetto cerca e trova la proposta culturale vincente per il mondo nuovo che sta arrivando: mescolare e dare credibilità culturale alle due figure chiave del disimpegno degli anni Ottanta – i Dj e gli animatori dei villaggi turistici. Simbolo di questo ponte culturale tra fine della Prima e inizio della Seconda Repubblica è un libro edito da Mondadori nel 1988, scritto da colui che in quel momento è il vicepresidente del Consiglio del governo Craxi: Gianni De Michelis. Il libro si intitola Dove andiamo a ballare questa sera? Guida a 250 discoteche italiane, e la prefazione porta la firma di uno dei Dj più maturi portati a via Massena da Cecchetto: Gerry Scotti, in quella legislatura eletto deputato nelle liste del Partito socialista.

tre 6 milioni di spettatori, contribuendo alla missione di far pensare meno il paese. Berlusconi è appena andato al governo e non ci sono più dubbi: Dov’è la festa? Qui.

DORMIRE dirigente cose semplici e chiare: stabilità, tranquillità, normalità». Nello stesso periodo il compagno-avversario di una vita, Walter Veltroni, diventa il fautore dell’ecumenismo ideologico della sinistra che deve essere «questo ma anche il suo contrario», e insegue anche lui il «sogno americano»: quello del bipartitismo che lo porta a fondare il Partito democratico unendo gli eredi del Pci, i Democratici di sinistra, e quelli della Dc, che hanno formato la Margherita. In un tale clima politico e culturale non stupisce che trovino il loro habitat naturale proprio i ragazzi di via Massena. Sono di casa nelle Tv di Berlusconi – per cui Cecchetto nutre infinita stima – ma anche apprezzati dalla nuova sinistra democratica. «Da Lorenzo a Max Pezzali, da Gerry Scotti a Fiorello, da Amadeus a Fabio Volo, tutti gli artisti lanciati da me – scrive Cecchetto nel suo libro – hanno in comune il fatto di essere dei ‘bravi ragazzi’, sinceri, generosi e rassicuranti». Rappresentano insomma alla perfezione il «paese normale» invocato da D’Alema e Veltroni, quello in grado di mettere da parte i conflitti più aspri. Non a caso Carlo De Benedetti, proprietario del Gruppo L’Espresso, editore di Repubblica e imprenditore anti-berlusconiano per eccellenza, decide di diventare socio di Cecchetto dentro Radio Deejay. Così come poco tempo dopo il nuovo punto di riferimento musicale della sinistra democratica diventa proprio Jovanotti. Lorenzo è autore di quella che potremmo definire la «canzone manifesto» della sinistra della Seconda Repubblica: Penso positivo. Il nuovo cantautore bandiera della sinistra postcomunista viene dalle discoteche, solo qualche anno prima paragonava la fidanzata alla sua moto – «sei proprio come lei» – e adesso è il più ecumenico di tutti: crede «che a questo mondo esista solo una grande chiesa, che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa». Nel «paese normale» degli anni Novanta Jovanotti divide il successo con un altro gruppo lanciato da Cecchetto: gli 883 di Max Pezzali e Mauro Repetto. Cecchetto produce tutti i loro dischi, da Hanno ucciso l’uomo ragno in poi. «Max e Mauro avevano l’aria di ragazzi normali – racconta – La loro normalità mi piaceva molto e amavo le storie di provincia che raccontavano nello spazio di una canzone». Sono gli 883 a cantare l’epica di un nuovo luogo chiuso della socialità di quegli anni – la Sala giochi – e a dare inizio alla mai esaurita nostalgia per i fondativi anni Ottanta: «Gli anni d’oro del grande Real, gli anni di Happy Days e di Ralph Malph».

54

N. 22

PRIMAVERA 2024

Nel 1995 Massimo D’Alema, segretario del Partito democratico della sinistra, scrive un libro il cui titolo diventerà il mantra della sinistra nella Seconda Repubblica: Un paese normale (Mondadori). Dopo la repentina caduta del primo governo Berlusconi, D’Alema è euforico, pensa di aver sconfitto forse definitivamente il Cavaliere grazie alla spregiudicata operazione di sponda con la Lega di Umberto Bossi. È convinto che il segreto del successo per la nuova sinistra uscita dalle ceneri del Pci e della caduta del Muro di Berlino sia sfidare la destra sul suo stesso terreno. Da qui l’entusiasmo da neofiti per la feroce riforma delle pensioni del governo Dini e per le privatizzazioni dei governi di centrosinistra degli anni successivi. Non solo: D’Alema sostiene che la sinistra postcomunista e la destra postfascista di Gianfranco Fini debbano legittimarsi a vicenda per dar vita a una normale democrazia dell’alternanza. In questo contesto maturano le condizioni per il famigerato riconoscimento ai «ragazzi di Salò» nel discorso di insediamento di Luciano Violante da Presidente della Camera del 1996. «L’Italia – scriveva allora D’Alema – è meno nervosa di ieri, più ottimista, e chiede alla sua classe

Nello stesso periodo Leonardo Pieraccioni, un altro dei ragazzi di via Massena lanciato con le puntate estive di Deejay Beach, è autore nel 1996 del film, in quel momento, record d’incassi della storia del cinema italiano: Il ciclone. Film in cui un piccolo e tranquillo paese tra Arezzo e Firenze viene sconvolto dalla casuale irruzione di un gruppo di bellissime ballerine di flamenco spagnole – che però in realtà ballano sulle note di The Rhythm Is Magic, super hit da discoteca di quegli anni. Sempre nel 1996 Cecchetto lancia su Radio Capital – divenuta la sua unica Radio dopo la cessione definitiva dell’amata Radio Deejay al gruppo L’Espresso – un nuovo speaker radiofonico: Fabio Volo (nome d’arte di Fabio Bonetti, inventato sempre da Cecchetto). Volo si imporrà al grande pubblico conducendo dal 1998 al 2001 una delle trasmissioni cult del «paese normale»: Le iene, il programma dell’«impegno giornalistico disimpegnato» amato a sinistra, in alternativa a quello dello stesso genere, ma amato a destra, inventato da Antonio Ricci con Striscia la notizia.

STARNUTO

55

UNA STORIA ITALIANA

Trent’anni dopo, i ragazzi di via Massena dominano ancora le postazioni più importanti della scena culturale del nostro paese. Amadeus ha appena finito di condurre, con ascolti record, il quinto Festival di Sanremo, uguagliando il numero di Festival consecutivi dei mostri sacri della Prima Repubblica Mike Bongiorno e Pippo Baudo. La sua spalla AMADEUS HA APPENA principale è esattamente la stessa dei tempi di Deejay Beach: Rosario FINITO DI CONDURRE Fiorello. IL QUINTO FESTIVAL Tanto quanto Amadeus ha l’egemonia assoluta dell’intrattenimento DI SANREMO. LA SUA in Rai, Gerry Scotti è il mattatore delle reti Mediaset, e nel Natale del SPALLA È LA STESSA DEI 2023 si è tolto anche lo sfizio di scalare la classifica dei saggi più venduti TEMPI DI DEEJAY BEACH: in Italia con il suo Cosa vi siete persi (Rizzoli). Le classifiche della narROSARIO FIORELLO rativa, del resto, sono da ormai quindici anni dominate dai libri di un altro ragazzo di via Massena: Fabio Volo. Jovanotti continua a essere il Re dei grandi eventi musicali con i suoi JovaBeach, che hanno caratterizzato le estati del 2019 e del 2022, pur provocando non poche polemiche ecologiste. Si tratta di vere e proprie discoteche di massa in spiaggia in cui – fedele alla missione del suo maestro – Jovanotti tiene insieme cantanti, Dj e lo stile balneare degli animatori turistici. Proprio come nelle serate al parco acquatico dell’Aquafan. Nella prefazione all’autobiografia di Cecchetto del 2014, Lorenzo scrive: «Una volta un giornalista mi domandò: ‘Ma tu cosa vuoi comunicare?’ e io risposi di getto: ‘Voglio comunicare la comunicazione’. Oggi mi rendo conto che quella cosa l’ho imparata da Claudio Cecchetto e non me la sono più dimenticata». Un concetto prezioso che in effetti ha unito l’ideologia berlusconiana e quella veltroniana della Seconda Repubblica. Un virus che caratterizza ancora oggi l’utopia dominante di una democrazia pacificata, dove i contenuti in fondo sono secondari e il conflitto di classe non esiste più.

IMMAGINARIO

Il pensiero

fuori palazzo 56

N. 22

PRIMAVERA 2024

dal

La storia della Seconda Repubblica è anche la storia della rottura del rapporto tra politici di professione e uomini e donne di cultura: emerge l’intellettuale che trae la sua legittimazione dal credito ricevuto dall’opinione pubblica

N

el 1994, il manifesto pubblica l’ultimo articolo di Franco Fortini. È una lettera che Fortini aveva inviato a un incontro sulla libertà d’informazione tenuto al Teatro Parenti a Milano. Siamo alle origini della Seconda Repubblica, e i temi sono quelli che Antonio Montefusco avrebbero a lungo occupato la scena pubblica: l’anomalia mediatica di Berlusconi e il restringimento dello spazio di dibattito. intervista Giorgio Caravale Fortini chiudeva quella lettera così: ««Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non sempre invisibili agenti e spie; non chiari ma visibilmente nemici; vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. Dimenticatelo se potete». È la proposta di un cupio dissolvi con tratti anche ironici, ma che già intravedeva – come oggi, a esattamente trent’anni da quel momento aurorale della recente storia italiana – il consumarsi di un mandato che, tra mille tormenti, aveva caratterizzato l’Italia repubblicana e che si scontrava con una situazione inedita: da una parte, un politico-industriale dell’intrattenimento, dall’altro una politica ormai liberata dai grandi riferimenti politico-ideologici. Il titolo del libro dello storico modernista Giorgio Caravale, Senza intellettuali (Laterza, 2023), dedicato al rapporto tra politica e cultura in Italia in questi trent’anni fatali, dimostra che questa analisi (o distopia?) si è compiuta. È la storia di un allontanamento inesorabile tra due mondi, il professionista del pensiero e l’uomo (e la donna) delle istituzioni: allontanamento che non è un dettaglio della storia della Seconda Repubblica, ma che ne costituisce in qualche modo un carattere fondativo e costante. Il manovratore ha dimenticato l’intellettuale, il letterato, dunque il niente. Ha potuto (osato?). Abbiamo dialogato con Giorgio Caravale per approfondire queste questioni.

57

di Pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna (2022) e Senza intellettuali. Politica e cultura negli ultimi trent’anni (2023).

UNA STORIA ITALIANA

La tua riflessione si sviluppa su tre movimenti. Il primo definisce il modo in cui la politica ha guardato agli intellettuali, a come cioè i partiti politici, ma soprattutto gli uomini politici della Seconda Repubblica, hanno concepito e praticato il loro rapporto con gli uomini di cultura; il terzo propone una riflessione sull’evoluzione della figura dell’intellettuale nello stesso periodo, verificando come, nell’epoca attuale, si stia imponendo un nuovo modello in cui all’autorevolezza si sostituisce la popolarità e la capacità di negoziare la propria opinione (fai due esempi molto interessanti: Zerocalcare e Fedez). Nel secondo capitolo, invece, ricostruisci come i politici abbiano fatto i conti con la «storia». Anche in questo caso, constati una frattura, un’interruzione dell’esigenza di elaborazione Antonio Montefusco culturale che aveva caratterizzato la storia dell’Italia del seinsegna letteratura condo dopoguerra, soprattutto nei partiti di sinistra (sociamedievale all’Université lista e comunista), e questa frattura spiega anche il titolo del de Lorraine. libro, molto netto: Senza intellettuali. Questa visione era già Giorgio Caravale stata proposta in altre elaborazioni, come quella di Alberto insegna Storia moderna Asor Rosa che, nel libro-intervista Il grande silenzio, aveva all’Università Roma Tre, sancito la fine della società intellettuale perlopiù sulla base ed è autore per Laterza di una marea che veniva dal basso (Asor Rosa la chiamava la

58

N. 22

PRIMAVERA 2024

«civiltà montante»), quell’enorme diffusione di informazioni e quella sovra-esposizione di opinioni che rendeva sempre più irrilevante la figura del pensatore, e soprattutto la sua autonomia (considerata non solo nei confronti dei partiti, ma soprattutto degli interessi privati e delle esigenze del consenso sociale, o social per meglio dire). La tua disamina si allontana anche dal ragionamento di Asor Rosa, perché si concentra sul terreno storico-politico. All’inizio del volume segnali come due episodi precedenti all’avvento di Berlusconi abbiano messo in crisi quello che chiami «modello gramsciano» (ma che direi forse «modello togliattiano»: quello, cioè, che afferma con forza la superiorità del progetto politico su quello culturale). Il primo è la creazione del gruppo della Sinistra indipendente nel Parlamento a partire dal 1968. L’operazione, patrocinata da Ferruccio Parri, venne salutata con soddisfazione da Berlinguer, e doveva contribuire a un rapporto più fruttuoso con il Pci. L’altro episodio è la fondazione del giornale La Repubblica diretta da Eugenio Scalfari, uno spazio in cui il giornalista diventava intellettuale, FIGURE INTELLETTUALI interveniva con le sue opinioni «informate» e competenti diretCOLLOCATE STABILMENTE tamente sulla realtà. Sullo sfondo, inserisci anche la mutazione A SINISTRA MA NON del Pci dopo il rapimento e la morte di Aldo Moro, quando il preRIDUCIBILI IN ALCUN MODO valere della questione morale come strumento di analisi della AL PCI METTONO IN CRISI politica italiana contribuì a depotenziare l’esigenza di elaboraIL MODELLO zione e di intervento culturale. Ci spieghi in che senso queste due GRAMSCIAN-TOGLIATTIANO iniziative mettono in crisi il modello di intellettuale gramsciano e come hanno influenzato la storia degli intellettuali nella Seconda Repubblica? Quali nuovi modelli emergono? Hai coniato, in particolare, la formula dell’intellettuale ad personam (l’esempio più calzante mi sembra quello di Massimo Recalcati con Matteo Renzi ma anche di Miguel Gotor con Pierluigi Bersani): è un intellettuale «cortigiano» o è solo una figura più effimera, meno ancorata al progetto politico-istituzionale? I due episodi che indico nel libro sono due momenti distinti nel panorama politico e culturale italiano ma strettamente intrecciati tra loro. Mettono in crisi il modello di intellettuale gramsciano o, come suggerisci tu, togliattiano, perché propongono il modello di figure intellettuali collocate stabilmente a sinistra ma non riducibili in alcun modo al Partito comunista italiano. Gli indipendenti di sinistra sono nella maggior parte dei casi uomini di cultura che vogliono rappresentare una sinistra politica non comunista, un pezzo di società civile che non si sente rappresentato dal Pci. Il Partito comunista, nel primo caso della Sinistra indipendente, prova a mettere il cappello sull’iniziativa, presentandosi come la casa comune degli intellettuali che apre le sue porte a componenti della sinistra non comunista, e per un po’ di tempo si illude che sia così. Nel caso di Repubblica invece la sfida al Pci sul piano della cultura politica è più esplicita, non a caso la diffidenza dei dirigenti del Pci nei confronti del giornale fondato da Scalfari è massima: Berlinguer parla di una strana creatura che pretende di influenzare l’«immagine che abbiamo di noi».

Nell’arco di pochi anni le due iniziative finiscono per intrecciare i loro destini (molti dei parlamentari della Sinistra indipendente scrivono sulle colonne di Repubblica come editorialisti e uno dei giornalisti di punta del giornale viene candidato nelle file degli indipendenti). La figura che emerge è quella di un intellettuale svincolato dai partiti, una figura indipendente che si fa forte del credito ricevuto dall’opinione pubblica per far sentire la propria voce nei confronti del Pci, anche contro il Pci. Una serie di passaggi porteranno però negli anni successivi a ribaltare il modello di rapporto tra partiti e intellettuali incarnato dal Partito comunista italiano a tutto favore degli uomini di cultura i quali arriveranno fino al punto di arrogarsi il diritto di dare lezioni al partito (la stagione dei girotondi e le invettive di Nanni Moretti dal palco di Piazza Navona contro gli allora dirigenti del Pds sono in questo emblematici), di dettare cioè la linea politica al partito. Creando però in questo modo un nuovo squilibrio, esattamente speculare al precedente, che poi un leader come Matteo Renzi cercherà, in modo scomposto e arrogante, di raddrizzare. L’intellettuale ad personam non è in alcun modo un intellettuale cortigiano. È un frutto del processo di personalizzazione della politica che domina l’inizio del nuovo secolo, la sua fortuna è legata alla figura di un singolo leader. Quando il leader cade, e sappiamo che i leader possono cadere anche in modo repentino, l’intellettuale ad personam cessa di svolgere alcun ruolo perché il suo destino è legato a doppio filo al leader di turno per l’appunto, e non a un progetto politico culturale di lunga durata. «Ho più paura di Mike Bongiorno che degli intellettuali»: la frase è di Berlusconi e rappresenta plasticamente l’irruzione della forza della televisione e il suo impatto sul dibattito pubblico. In realtà, tu mostri che l’atteggiamento di Berlusconi fu cangiante rispetto alla questione: all’inizio ci fu il coinvolgimento di figure molto rilevanti nella storia culturale del paese, come Lucio Colletti, che era stato un filosofo marxista di grandissima originalità; ma velocemente emersero figure, come Giuliano Ferrara o ancora di più Vittorio Sgarbi, che pur mantenendo qualche eco del modello antico, praticano una presenza sulla scena pubblica diversa, più aggressiva e legata ai nuovi media. In che cosa Berlusconi ha cambiato il rapporto con gli intellettuali?

59

UNA STORIA ITALIANA

Berlusconi non aveva alcuna reale stima degli intellettuali e del loro ruolo: aveva invece una concezione drammaticamente utilitaristica della cultura e se ne è servito nella misura in cui risultava funzionale al suo progetto politico ed elettorale. I sei intellettuali che esibisce a favore di telecamere nella campagna elettorale del 1996 sono un tardo tributo al modello dell’intellettuale di partito. Probabilmente per un attimo anche Berlusconi ha pensato che non poteva esserci partito che non arruolasse un piccolo grande drappello di intellettuali. Ma sono intellettuali testimonial, che Berlusconi di fatto liquida nel giro di poco tempo. Le figure di Ferrara e Sgarbi sono diverse perché sono intellettuali che Berlusconi pesca dal suo mondo, quello televisivo. Li nota, e li arruola, nella misura in cui riscuotono il favore del pubblico televisivo di alcune

trasmissioni di successo che vanno in onda sui suoi canali. Non credo che Berlusconi abbia cambiato in alcun modo il rapporto con gli intellettuali. Mi pare si sia limitato a ereditare un modello cortigiano, proveniente in certa misura dall’ultimo Bettino Craxi, aggiungendo alla ricetta qualche ingrediente proveniente dal suo universo di elezione, la televisione appunto. Un altro prisma molto interessante è l’affermazione del discorso populista e del Movimento 5 Stelle. In questo quadro emerge, allo stesso tempo, una forte spinta «anti-intellettuale», che era già affiorata a momenti alterni anche nei discorsi di Renzi e Berlusconi, ma dall’altra, però, questa spinta sembra aprire uno spazio di intervento per una fascia «intellettuale» un po’ appartata e che non aveva avuto ruoli protagonistici nemmeno nel proprio mondo di riferimento (per esempio all’università). Anche questo mi ha fatto venire in mente Asor Rosa e la sua riflessione sulle due società nel 1977, quando la diffusione di accesso all’istruzione superiore ha costruito la base per una diffusa ribellione giovanile; spesso, anche queste seconde file sono attratte da discorsi apparentemente radicali, come il no all’Unione europea. Secondo te, è un fenomeno nuovo? Si può trasformare in un modello e in uno spazio di agibilità culturale anche in futuro?

60

N. 22

PRIMAVERA 2024

Come dici tu, il populismo nostrano – mi riferisco al Movimento 5 Stelle delle origini e alla Lega per esempio – si è ammantato di una violenta retorica anti-intellettuale ma dietro quella retorica è stato culturalmente alimentato dalla figura dell’intellettuale rancoroso, smanioso di conquistare la scena culturale e politica del paese: giornalisti, consiglieri, tecnici, portavoce, esperti a vario titolo, donne e uomini da anni in attesa di una ribalta ingiustamente negatagli dalla presunta egemonia culturale degli intellettuali di sinistra. Se qualcuno di questi intellettuali rancorosi ha abbracciato in passato posizioni apparentemente radicali, come l’uscita dall’euro, lo ha fatto per compiacere i leader di turno, per mostrarsi in alcuni casi più realisti del re, oppure per conquistare una visibilità mediatica che altrimenti non avrebbe ottenuto. Tranne pochissime eccezioni, essi hanno abbandonato tali posizioni non appena i leader di riferimento le hanno a loro volta accantonate. Un fenomeno simile è quello che sta accadendo oggi con la destra al governo. Questo fantomatico progetto di egemonia culturale che la destra sta mettendo in campo occupando posti e poltrone si alimenta anche della foga di figure culturalmente marginali alla ricerca del loro momento di rivalsa. Non mi pare che abbia rapporti con quella diffusa ribellione giovanile di cui parlava Asor Rosa. L’ultima domanda è sul rapporto tra intellettuale umanista e tecnico: Norberto Bobbio li teneva fortemente distinti. Ma è evidente che i tecnici hanno avuto un rapporto diverso con la politica della Seconda Repubblica rispetto agli umanisti, meno soggiogati anzi onestamente tentati dal prendere un ruolo direttivo, rovesciando completamente le gerarchie tradizionali o il rapporto biunivoco che si aveva duran-

te la Prima Repubblica, quando figure come Beniamino Andreatta riuscivano almeno in parte a tenere distinto il proprio ruolo di professore (di Economia, in questo caso) e di politico. Tu riporti al «dominio dell’economico». Ci spieghi un po’?

61

UNA STORIA ITALIANA

Una politica, come quella di oggi, schiacciata dal peso di fenomeni economici sempre più difficili da governare a livello nazionale, intrappolata da regole sovranazionali sempre più stringenti, libera dai lacci ma anche dallo slancio propulsivo delle Grandi ideologie, incapace perciò di immaginare il futuro, di offrire una visione complessiva del mondo e di formulare proposte che muovano al di là della gestione del quotidiano, ha fatto ricorso in più di un’occasione alla competenza degli esperti ma non ha certo avvertito la necessità di mettersi in ascolto delle riflessioni formulate da storici, filosofi e letterati. Diversamente da chi, come economisti e giuristi, dispone di competenze tecniche utili all’azione di governo, l’umanista non ha infatti altro da mettere a disposizione delle forze politiche se non, nel migliore L’EGEMONIA CULTURALE e più raro dei casi, autonomia di giudizio, forza d’immaginazioCHE LA DESTRA METTE ne, capacità di comprendere con sguardo lungo la complessità IN CAMPO SI ALIMENTA di fenomeni sociali e culturali: tutte caratteristiche delle quali la ANCHE DELLA FOGA politica, incline a semplificare e banalizzare i temi del dibattito DI FIGURE MARGINALI pubblico, ha sentito di poter fare a meno, quando non ha aperALLA RICERCA DEL LORO tamente disprezzato. Una politica schiacciata sul presente, ovvero MOMENTO DI RIVALSA una politica che nel migliore dei casi amministra il quotidiano, ha bisogno di risolvere problemi concreti, si rivolge dunque a economisti e giuristi affinché aiutino le forze politiche a risolvere questo o quel problema contingente, prima che l’agenda politica cambi nuovamente e quel problema risulti già superato dai tempi veloci, velocissimi della politica di oggi. Come accennavi tu, non è cambiato solo il rapporto tra politici e intellettuali umanisti ma anche tra partiti e tecnici. Certo, è l’economia a dettare l’agenda ma quest’ultima cambia in modo repentino e spesso in ragione di fenomeni o eventi che trascendono la politica nazionale. Inoltre il rapporto tra tecnici e politici non si trasforma mai in qualcosa di non dico strutturale ma duraturo. Figure come Beniamino Andreatta, o anche Giuliano Amato, sono impensabili oggi, non solo perché la politica non ha alcun interesse a costruire un rapporto di lungo periodo con economisti e giuristi ma anche perché questi ultimi non sono più granché interessati a dialogare con il mondo politico, un mondo che spesso giudicano con disprezzo e sufficienza. Sono lontani i tempi in cui un economista di grande valore come Tommaso Padoa Schioppa manifestava tutto il suo rispetto per le istituzioni parlamentari, per i rappresentanti eletti dal popolo, per la democrazia rappresentativa e i suoi meccanismi di funzionamento. Il problema è in gran parte qui. La politica deve recuperare credibilità e autorevolezza presso l’opinione pubblica, come per altri versi dovrebbe fare l’intellettuale umanista, ma questo è un discorso che affronto nel libro e ci porterebbe lontano. Per riconquistare autorevolezza deve migliorare il livello complessivo della classe dirigente politica, devono migliorare i meccanismi di formazione e selezione del personale politico.

62

N. 22

PRIMAVERA 2024

Illustrazione di FRANCESCA GHERMANDI

Parlare di Berlusconi e del suo immaginario significa parlare di quello che era (ed è) l’immaginario predominante in Italia sulla questione delle gerarchie fra corpi e comportamenti sessuali, sostiene Ella de Riva

63

UNA STORIA ITALIANA

IMMAGINARIO

E

64

N. 22

PRIMAVERA 2024

Caterina Serra intervista Ella Deriva

lla de Riva, pseudonimo, poco importa se di una singola o di un soggetto collettivo, è stata una mediattivista femminista che fra il il 2009 e il 2011 ha inondato l’etere con le sue virali postElle, brevi testi corredati da immagini, a commento delle notizie che la politica italiana riservava quotidianamente. Parliamo con lei oggi quale testimone privilegiata degli anni dei cosiddetti «scandali sessuali» di Berlusconi.

Vorrei guardare a certi anni del berlusconismo, quelli a partire dal 2009, quando Silvio Berlusconi rivela un’altra faccia oltre a quella dell’uomo politico «sceso in campo» per amore del paese - espressione usata nel celebre filmato del 1994 e messa in onda da telegiornali, quiz e talk show inaugurando una rivoluzionaria sintesi tra politica e spettacolo. È sempre lui, l’imprenditore di successo, sicuro di sé come piace agli italiani, ma ha in più la fama dell’uomo che può avere tutte le donne che vuole, le compra ma pare che le aiuti, le invita a cene e feste, parla di sesso alla nazione come se parlasse a un capannello di amici, ammicca alla sua potenza sessuale tanto cara al paese a dispetto della sua età, anzi, facendo credere che il sesso, se si hanno soldi e potere, si fa sempre e per sempre. Di più, quel sesso fa di lui un uomo invidiabile, amato e rispettato, incurante della provenienza della sua ricchezza e dei compromessi del suo potere. A quel punto, diversi gruppi femministi prendono parola, interpellati dalla massiccia presenza di temi legati alla sessualità e al corpo delle donne sulla scena pubblica e politica. Ecco, Ella de Riva, con le tue postElle non hai mancato di commentare la cronaca berlusconiana, con il tuo inconfondibile stile all’insegna del «fugace e irresistibile momento di femminismo». Come ricordi quegli anni? Io, come poi altre amiche femministe, non vidi la sempre maggiore centralità dei comportamenti sessuali di Berlusconi come un fenomeno sorprendente. Berlusconi da anni ci aveva abituate allo sdoganamento pubblico di un linguaggio legato alla marcatura della corporeità, additando continuamente quelli che per lui erano corpi brutti, devianti, da ridicolizzare. Aveva reso tema di dibattito politico affermazioni che altrimenti sarebbero state chiacchiere da bar o sghignazzi agli ultimi banchi di scuola, e che invece erano proferite da un presidente del Consiglio, addirittura durante visite ufficiali. E che avevano come obiettivo non persone qualsiasi, ma esponenti politici di altissimo calibro, da Rosy Bindi, una delle sue principali oppositrici politiche, definita «più bella che intelligente», a Barack Obama, definito «giovane, bello e abbronzato». Le affermazioni di Berlusconi replicavano l’humor da caserma che mescola assieme sessismo, razzismo e stereotipi di ogni Caterina Serra tipo. Come già quelli sull’appartenenza nazionale quando diede è scrittrice e del «kapò» a Martin Schultz, deputato socialdemocratico tedesceneggiatrice. Per sco, durante l’inaugurazione della Presidenza italiana dell’Ue nel Einaudi ha pubblicato Parlamento di Strasburgo. Una dopo l’altra, Berlusconi abbatteva Tilt (2008) e come birilli tutte le etichette degli ambienti istituzionali. RimPadreterno (2015). Il boccandosi le maniche era sì arrivato alle alte sfere, ma senza suo nuovo romanzo, per questo perdere le proprie origini (quelle delle chiacchiere da

Bruceremo, è in uscita per VandA edizioni. Il suo blog è https:// caterinaserra.blog. Il blog di Ella Deriva è http://elladeriva-blog. tumblr.com

bar). Il suo umorismo rassicurava la base popolare del proprio elettorato, facendolo apparire uno che, «avendocela fatta», poteva parlare senza veli. In questo senso, parlare di Berlusconi e del suo comportamento sessuale voleva dire a mio avviso parlare non solo di lui e del suo immaginario, ma di quello che era (ed è) l’immaginario predominante in Italia sulla questione delle gerarchie fra corpi e comportamenti sessuali. Se prima trovava la sua collocazione pubblica solo in programmi televisivi alla Colpo grosso, in seconda serata su un canale minore, o negli show del Bagaglino sulla Rai, adesso quell’immaginario indossava il doppiopetto e sedeva a palazzo Chigi. C’era in giro molto perbenismo e molta ipocrisia, con una divisione moralista fra pubblico e privato. La politica era corrotta e invadente. Ma Berlusconi riusciva ad ammaliare e a far cantare mamme, signore ingioiellate e operaie «Meno male che Silvio c’è».

65

UNA STORIA ITALIANA

È vero, è tutto molto raccontato, da Berlusconi stesso e dal suo entourage, in modo giocoso, da bar, come dici, tra battute e barzellette, con quel tanto di pecoreccio da caserma che piace sempre. Però, c’è anche molta cronaca, foto, testimonianze, servizi dedicati. Ci sono ville, Milano, Roma, Arcore, Porto Rotondo, feste e festini, cene e banchetti, balli e cotillon. Berlusconi che invita, Gianpaolo Tarantino che organizza, Nicole Minetti consigliera regionale che «porta» le «ragazze», le seleziona, le fa accedere alla tavola del «papi», padre e padrone di casa. Alla tavola e al letto, cena e dopo cena, vestite e svestite, a volte travestite, come certe intercettazioni riportano. È l’era del «Bunga Bunga», sessismo e razzismo, si sa, si tengono. La stampa mainstream, le televisioni sue e non sue, invadono di dettagli succulenti e imbarazzanti il mondo, la faccia pubblica del Premier è quella privata del maschio circondato da amici maschi compagni di notti di sesso e qualche droga per erezioni (ed elezioni) garantite. Forse non una cosa nuova in sé, ma nuovo il fatto che tutto sia visibile, dichiarato, anzi, proclamato. Politica, sesso e denaro, tutto in piazza. Fine delle ipocrisie? Sì: il re è nudo – nel vero senso della parola. Si grida allo scandalo, all’indignazione. Se si usciva dai confini del Bel Paese, ci si accorgeva che il mondo parlava dell’Italia come la terra del mandolino, della pizza e… del Bunga Bunga. Un’espressione che risale alla testimonianza di una minorenne che raccontò di come Berlusconi chiamasse così le serate in cui invitava alcune ospiti, le più disponibili, a un dopo-cena erotico. Veri e propri festini a sfondo erotico-sessuale che si svolgevano nelle ville dell’allora presidente del Consiglio, o sul lettone a baldacchino con cui Vladimir Putin lo aveva omaggiato. Il 13 febbraio del 2011, non so se ricordi, una parte del femminismo, scandalizzato, chiama «le donne d’Italia» a scendere in Piazza del Popolo a Roma «per difendere la dignità del nostro paese». È il momento fondativo di Snoq, Se non ora quando, abbastanza attiva negli anni successivi. Nel pur comprensibile scandalo, penso però che non ci fosse niente di cui sorprendersi, se non per la sfacciataggine con cui tutto ciò avveniva. Non sappiamo forse che le relazioni di potere si reggono su scambi sessuo-economici, come direbbe Paola Tabet? Che i maschi di potere si spartiscono le donne, che le offrono in dono gli uni agli altri e che in cambio sono pronti a offrire denaro, favori, successo? Le feste di Berlusconi si basavano

su un’organizzazione in cui tutte e tutti partecipavano, inclusi talvolta alcuni genitori di queste «ragazze», per avvicinarsi magneticamente al centro del potere. Lo scambio sesso-denaro rientra in una dinamica finalizzata a ottenere piacere, ma anche a migliorare la propria posizione, nella vita o nel lavoro. Non è questa forse la stessa ambiguità che viviamo tutte noi? Non sono queste le dinamiche intrinseche alle relazioni fra i sessi, che tutte noi conosciamo, nella nostra quotidianità? Quello che è accaduto è semplicemente la rimozione del divario fra pubblico e privato, col privato che ha rotto gli argini di quella linea che regolamenta i regimi sociali del sesso e del genere, inondando il discorso pubblico e la vita istituzionale assieme a esso.

66

N. 22

PRIMAVERA 2024

Arriviamo all’ottobre 2009. Compare sulla scena l’ex moglie di Berlusconi. Veronica Lario esce dall’ombra e prende parola pubblicamente mandando una lettera a La Repubblica in cui critica e condanna il comportamento del marito, prende le distanze da lui, si smarca dal sospetto di una sua complicità, lo accusa duramente. «Quell’uomo è malato, va curato», dice. Cosa sta succedendo? Cosa le fa rischiare il linciaggio sul piano politico oltre che personale? Sono mesi incredibili. Da una parte abbiamo le dichiarazioni di Lario che prende distanza da quell’uomo conosciuto quando fondava il suo impero immobiliare e radiotelevisivo, a cui è stata accanto negli anni dell’entrata in politica, ma dal quale prende distanza dopo gli scandali sessuali che lo travolgono, denunciando lei stessa come lui facesse di tutto per piazzare amiche, amanti, «veline» DA ANNI BERLUSCONI in carriere politiche. CI AVEVA ABITUATE L’attenzione per la vita spericolata di Berlusconi diventa così terALLO SDOGANAMENTO reno di critica politica, con una chiara stigmatizzazione delle donne PUBBLICO DI UN in essa coinvolte, a vario titolo. LINGUAGGIO LEGATO Patrizia D’Addario, ex-escort, più di altre, in varie intercettazioni, ALLA MARCATURA critica il comportamento di Berlusconi. La sua scorrettezza. Il suo non DELLA CORPOREITÀ averle dato quello che le era stato promesso. Sulla stessa falsariga, le affermazioni di una ragazza molto più giovane, Noemi Letizia. Noemi divenne famosa per la sua amicizia con Berlusconi nonostante la minore età, che lei chiamava affettuosamente «Papi» e che le fece una sorpresa arrivando al suo compleanno portando in dono un bellissimo ciondolino (tante altre giovanissime hanno sfoggiato ciondolini simili in quegli anni). Ed è a loro che decidi di scrivere una lettera aperta… Sì esatto. Mentre il femminismo moralista (di cui sopra) si affanna a distinguere fra «donne per bene» e «donne per male», io decido di rivolgermi a queste tre donne, Veronica, Patrizia e Noemi. E di ringraziarle. Le ringrazio per aver avuto il coraggio, talvolta loro malgrado, di aver portato al centro dell’attenzione quelle dinamiche di potere nel rapporto tra i sessi che ognuna di noi vive. Di averle rese «politiche». Come Veronica venne linciata pubblicamente per aver chiesto il divorzio da Berlusconi, molte donne vengono aggredite, isolate e talvolta ammazzate perché cercano la pro-

pria libertà. Come Noemi viveva la fragile illusione di aver trovato il suo pigmalione, in molte cercano nell’approvazione e nella protezione maschile una realizzazione esistenziale e professionale, a scapito della propria autodeterminazione. Come Patrizia si sentiva tradita nella sua complicità con il potere, tutte ci sentiamo usate nel dover sempre offrire qualcosa che non è mai abbastanza. Scrissi loro di considerare addirittura sovversivo il loro desiderio di essere esplicitamente ricompensate per aver ricoperto il ruolo di colei che accompagna, intrattiene e soddisfa i desideri e i voleri maschili come moglie, pupilla e amante – attività lavorative mai riconosciute come tali. Sovversivo perché implica la consapevolezza della posizione e della condizione che tutte le donne vivono nelle dinamiche tra sessi. Diversamente da loro, però, sono convinta che le donne possano sovvertire questi rapporti di forza sin dalla base, e non solamente accettarli o denunciarli quando le cose non vanno per il verso desiderato.

67

UNA STORIA ITALIANA

Sì, sesso e denaro, e il potere che sbilancia il piano paritario dello scambio. Una vecchia storia quella del sesso, della cura, dell’amore, perfino, come lavoro. È in questo contesto, forse più perbenista e moralista che etico, che si inserisce un altro degli «scandali sessuali» di Berlusconi, quello rimasto più celebre, il cosiddetto «Rubygate» che ha portato il Cavaliere a processo per ben due volte, fra il 2010 e il 2011, con tutto il carico di menzogne e tentativi di manipolazione dei fatti. Sarà accusato, e poi assolto, di concussione, favoreggiamento della prostituzione minorile e corruzione in atti giudiziari. Il giornalista Emilio Fede, il talent scout Lele Mora, e Nicole Minetti vengono invece condannati per favoreggiamento della prostituzione. Tutto parte con il fermo a Milano, nella notte del 27 maggio 2010, di Karima El Mahroug, ragazza minorenne di origine marocchina detta «Ruby Rubacuori». Da quella notte si dipana una vicenda in cui troviamo ancora una volta l’intricato sovrapporsi di sessismo e razzismo, nonché la risaputa capacità berlusconiana di piegare la legge alle sue necessità. Il «Rubygate» ha forse contribuito al suo indebolimento, quantomeno sul piano della reputazione internazionale, e alle sue dimissioni nel 2011. Oggi è evidente come il berlusconismo abbia segnato una nuova pagina della storia istituzionale, non solo italiana, con una nuova forma di populismo. Berlusconi ha dapprima conquistato l’arena televisiva – e con essa il pubblico che poi diverrà suo elettorato – sdoganando uno sguardo sul corpo femminile quale mero oggetto di desiderio. E ha poi portato lui stesso, da protagonista, la versione più plateale dello scambio sesso/potere al livello più alto, quello governativo. Le dinamiche di questo scambio fecero certamente scandalo per la minore età di alcune delle ragazze coinvolte, per l’enormità delle bugie da lui proferite nel tentativo di difendersi (come quando sostenne che Ruby fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak), per il numero di donne coinvolte (le famose «Olgettine») e per i compensi offerti loro non solamente di tipo economico ma «istituzionale», come incarichi ministeriali ed elettivi. Il colpo più forte però lo diede a mio avviso l’ex-moglie Veronica Lario, denunciando pubblicamente i comportamenti di Berlusconi, collocando così direttamente il privato nel pubblico. I rapporti tra i sessi divennero metro di giudizio politico, oltre il femminismo.

La Seconda Repubblica, dietro l’ingombrante presenza di Berlusconi, ha portato moltissimi cambiamenti sul fronte economico e sociale oltre che politico. Ecco alcuni dati per riassumerli, e il bilancio è tutto a favore delle élite

LA LOTTA DI CLASSE L’HANNO VINTA GLI ALTRI

Q

uesto numero di Jacobin Italia esce in occasione del trentesimo anniversario della «discesa in campo» di Silvio Berlusconi e della sua conseguente vittoria alle elezioni politiche del 27 marzo 1994. La figura di B. è di gran lunga la più rilevante del periodo storico che i giornalisti hanno chiamato SeLorenzo Zamponi conda Repubblica, iniziato nel 1992-1993 con la crisi di sistema innescata dagli scandali di Tangentopoli, dalla crisi finanziaria, dalle bombe di mafia e dal cambiamento del sistema elettorale. Schiacciare la Seconda Repubblica sulla figura, sulle vicende personali e giudiziarie e sulla macchietta folkloristica di B., sarebbe però un errore. Si è trattato di una fase di trasformazioni profondissime della società italiana, le cui conseguenze strutturano l’Italia in cui viviamo nel 2024. Se «non si esce vivi dalla Seconda Repubblica», come scrivemmo qualche anno fa, è perché la politica, l’economia, la cultura, la vita quotidiana della maggioranza delle persone che vivono nel nostro paese sono radicalmente cambiate, nell’ultimo trentennio. In questo inserto, illustriamo alcuni di queste trasformazioni attraverso la presentazione di dati particolarmente significativi. Tra gli indicatori socio-economici, abbiamo scelto di partire con l’età media della pensione, cresciuta tra il 1997 e il 2022 di quasi 7 anni. La storia della Seconda Repubblica, del resto, è stata scandita dalle riforme delle pensioni: Giuliano Amato nel 1992, Lamberto Dini nel 1995, Roberto Maroni nel 2004, Elsa Fornero nel 2011, per citare solo gli interventi legislativi più rilevanti da parte di presidenti del Consiglio e ministri. Uno stillicidio che porterà lavoratori e lavoratrici giovani ad andare in pensione a età impensabili per i loro genitori. È proprio sul tema pensionistico, d’altra parte, che si sono sperimentate le retoriche del conflitto generazionale (come se il tema della pensione non riguardasse proprio chi ci andrà in futuro), dello

INFOGRAFICA scontro tra «garantiti» e non, dell’«abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità», del «ce lo chiede l’Europa»: alcuni dei nuclei ideologici del trentennio neoliberista. Sempre in ambito socio-economico, mostriamo l’andamento degli aumenti salariali medi annui, che vede il nostro paese all’avanguardia della stagnazione salariale in Europa, mentre i profitti sono incessantemente aumentati. Un’innegabile vittoria, per quanto parziale, nella lotta tra le classi. E segnaliamo anche un preoccupante segnale di smobilitazione della classe lavoratrice, in parte causa e in parte conseguenza delle sconfitte su pensioni e salari: il calo del 17% della «densità sindacale», la percentuale di lavoratori e lavoratrici dipendenti che si iscrivono a un sindacato. La parte socio-economica è chiusa da una statistica ormai tristemente nota dopo i mesi terribili della pandemia di Covid-19: il numero di posti letto ospedalieri ogni 1.000 abitante. Tra il 1992 e il 2020 era sceso del 55%, per poi risalire di qualche decimale nell’emergenza Covid. Un esempio, tra i tanti il più doloroso, di un trentennio di welfare retrenchment, di ritirata dello Stato dai propri compiti di protezione sociale. In ambito politico, mostriamo il crollo dell’affluenza alle elezioni, le oscillazioni del tasso di bipolarismo e un’infografica sintetica di trent’anni di elezioni. È stato il trentennio delle coalizioni al posto dei partiti, delle leadership al posto delle ideologie, della volatilità al posto del radicamento sociale. E a guadagnarci, nel lungo periodo, è stata la destra, sempre più radicale, mentre il centrosinistra si restringeva progressivamente e la sinistra radicale perdeva oltre il 70% dei consensi, diventando una forza meramente testimoniale nel campo politico-elettorale. La crisi della rappresentanza come democrazia organizzata colpisce in particolare chi senza radicamento sociale non ha senso di esistere. Infine, presentiamo qualche «carotaggio» sul dibattito pubblico: ascesa e declino di alcune parole, simboliche di un’epoca, nei media democratici e progressisti.

64,4

1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022 2023 65

Età media della pensione

64

Età media delle pensioni di vecchiaia liquidate in Italia ogni anno

63 62

59

Età

61 Fonte: Inps

57,9 anni nel 1997

130 125

Salari medi annui

120

Italia Francia Germania Media Ocse

Andamento dell’indice dei salari reali medi annui in Francia, Germania, Italia e media Ocse Base 1992=100

115 110

Fonte: Ocse

105 100 95

39 38 37 36 35 34 33 32

%

Iscritti al sindacato

Fonte: Ocse

anni nel 2022

Percentuale di lavoratori e lavoratrici dipendenti iscritti a un sindacato

-17%

Iscrizioni al sindacato in Italia dal 1992 al 2019

1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022 2023

Posti letto in ospedale

7

6

Posti letto per 1.000 abitanti negli istituti di cura

3

Ogni 1.000 abitanti

5

4

Fonte: Istat

85 80

Affluenza elettorale

75

Percentuale di votati sugli aventi diritto alle elezioni politiche

70

%

65 60

-48% I posti letto persi dal 1992 al 2012

Fonte: Ministero dell’Interno

Bipolarismo

100

-12,1 Milioni di voti persi dal 1992 al 2022

199 199 2 199 4 87,0 200 6 86,3 7% 200 1 82,0 0% 200 6 81,4 0% 201 8 83,6 0% 201 3 80,5 0% 202 8 75,2 0% 2 72 0% , 63, 90% 80%

90

Seggi Voti

80

Indice di bipolarismo, misurato attraverso la percentuale di voti e seggi alle due coalizioni maggiori, alle elezioni politiche

60

%

70

Fonte: Cise

1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022 2023

900 675 450

Le parole della Seconda Repubblica

Fonte: la Repubblica

Precarietà e flessibilità

225

Flessibilità Precarietà

0 10.500

Numero di articoli contenenti le seguenti parole pubblicati dal quotidiano La Repubblica

Berlusconi

7.000 3.500 0 3.000 2.000

Corruzione

1.000 0 6.000

Tagli

4.000 2.000 0 1.000 750 500 250 0

Privatizzazioni 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022 2023

Risultati elettorali Evoluzione deli voto ai partiti alle elezioni politiche Psi

Idv

Pds-Ds

Verdi

Sel-Leu-Avs

Sinistra Arc.-Riv. Civile

Prc-PdCI-PaP

Lega

Ccd-Cdu-Udc

Dc

Radicali-+EU

M5S

Ppi-Margherita

Uniti nell’Ulivo-Pd Msi-AN-FdI

Forza Italia

Pdl

10%

2022

2018

2013

2008

2006

2001

1996

1994

1992

ECONOMIA 75

UNA STORIA ITALIANA

La crisi economica e politica del ‘92-’93 comporta anche nuovi assetti sindacali e produttivi. Il passaggio chiave, dal punto di vista della gestione e organizzazione della produzione, è la politica della concertazione

Q Giovanni Iozzoli

uando si parla del crollo della Prima Repubblica, raramente la narrazione tocca i temi delle epocali trasformazioni a cui il sindacato confederale italiano dovette sottoporsi lungo quel drammatico crinale. Eppure, quella della Prima Repubblica è anche la storia della fondazione, dell’ascesa e dell’oblio del sindacalismo confederale, figura originale tra le forme assunte dal movimento operaio in Europa.

LE SCONFITTE SINDACALI DEGLI ANNI OTTANTA Quando tra il 1992 e il 1993 si consuma il tracollo del vecchio assetto istituzionale, il sindacato italiano ha già alle spalle un decennio di criticità e rotture. La Cgil, in particolare, reca le cicatrici indelebili di due grandi sconfitte: la marcia dei 40.000 nel 1980, ossia la manifestazione antisindacale che fermò lo sciopero dei 35 giorni alla Fiat, e la sconfitta al referendum del 1985 sulla Scala mobile, il meccanismo automatico di adeguamento dei salari all’inflazione. Per i vertici del sindacato questi passaggi rappresentano una perdita di ruolo e di egemonia dentro la società italiana: la ristrutturazione industriale sta smontando i grandi nuclei produttivi e il sindacato misura con preoccupazione la grave crisi di rappresentanza che si apre nei suoi insediamenti tradizionali. L’introduzione massiccia di nuove tecnologie riorganizza l’industria, favorisce il decentramento produttivo e aumenta il peso dell’universo dei servizi. Nuove figure del lavoro, difficili da intercettare, emergono nei territori più dinamici del paese. In parallelo, lungo il piano inclinato degli anni Ottanta, sta marciando a passi rapidi la crisi d’identità del Partito comunista, che aumenta la sensazione di allarme e solitudine dei gruppi dirigenti della Cgil. Il ridimensionamento della «casa-madre» e dello storico rapporto di filiazione che lega i gruppi dirigenti di Partito e sindacato, accentua fragilità e lacerazioni dentro la Cgil, che esploderanno dopo la svolta della Bolognina con la trasformazione del Partito comunista italiano nel Partito democratico della sinistra.

76

N. 22

PRIMAVERA 2024

IL RIASSETTO COMPLESSIVO DELLA SOCIETÀ Quando si parla della crisi del ‘92-93, si sta raccontando un riassetto complessivo della forma Stato e della società, che investe ogni ambito, dall’economia produttiva alla criminalità organizzata. Tutte le forme Giovanni Iozzoli vive storiche della realtà socioeconomica italiana sono sottoposte a Modena, è scrittore a torsioni potenti che ne segnano la riconfigurazione. Non c’è e delegato sindacale contesto che si possa sottrarre a tale dinamica. La riunificaziometalmeccanico. È ne dei mercati mondiali in seguito alla caduta del Muro, l’amstato attivo nelle lotte maina bandiera dell’Unione sovietica, il nuovo peso specifico per la casa e il lavoro della riunificazione tedesca, il progetto nascente di un polo a Napoli, fra gli anni imperialista europeo, il riallineamento delle divise nazionali in

Ottanta e Novanta. Ha pubblicato romanzi, partecipato a volumi collettivi e scritto contributi per diverse riviste. È redattore di Carmilla on line.

vista della moneta unica: questo è il quadro con cui tutti i paesi del continente dovranno misurarsi, all’inizio degli anni Novanta. Il vecchio barocco sistema italiano – figlio privilegiato della Guerra fredda – non potrà più reggere. La dialettica mediazione-conflitto che ha tenuto per mezzo secolo in equilibrio pezzi di economia pubblica, monopoli privati, partiti, categorie e corporazioni, mercati chiusi e protetti, svalutazioni competitive, indebitamento crescente, migrazioni interne e abbondanza di manodopera a basso costo, non è più in linea con i tempi nuovi. L’esito di questo travaglio sarà, sul piano sindacale, la «mutazione genetica» del confederalismo italiano che, dalla sua forma classica rivendicativa, si convertirà in una nuova versione: quella concertativa. Le premesse erano già state poste con la sostanziale accettazione della politica dei sacrifici apertasi con la cosiddetta «svolta dell’Eur», la conferenza nazionale della Cgil del 1978. Ma nella seconda metà degli anni Settanta quella svolta venne teorizzata e vissuta come transitoria, emergenziale, non rifondativa rispetto alla natura stessa del sindacato. A partire dal 1992 non sarà più così.

LA STAGIONE CONCERTATIVA

77

UNA STORIA ITALIANA

Il principio della concertazione si basa su uno scambio truffaldino: moderazione salariale in cambio della politica dei redditi, cioè del controllo di prezzi, tariffe e investimenti pubblici. Il centro del processo è il controllo dell’inflazione che diventa il moloch a cui sacrificare ogni ragionamento macroeIL CENTRO DEL PROCESSO conomico. Il risultato storico è che la moderazione salariale arriverà, È IL CONTROLLO la politica dei redditi no: la governance del paese sta cambiando e DELL’INFLAZIONE parametri fiscali, monetari e di bilancio via via più stringenti condiCHE DIVENTA IL MOLOCH zionano sempre di più i margini di manovra dei governi. La politica A CUI SACRIFICARE dei redditi si può fare quando stringi in pugno la moneta, le politiche OGNI RAGIONAMENTO fiscali, l’indebitamento pubblico, il sistema del credito; tutte leve in MACROECONOMICO quegli anni già usurate dal progressivo svuotamento degli strumenti di intervento pubblico e dall’emersione prepotente del «vincolo esterno», che diventerà il leit motiv dei decenni successivi. Entrando nella stagione della concertazione, il sindacato abdica al suo ruolo rivendicativo. Il suo compito storico diventa contribuire alla stabilizzazione di un sistema cronicamente in fibrillazione: stabilità monetaria (e dei tassi di interesse), stabilità dei prezzi e stabilità dei livelli occupazionali. In questa visione il sindacato non è più «una parte» in lotta con le altre nella corsa alla distribuzione del reddito (classica visione socialdemocratica e Keynesiana), ma assume la funzione di componente organica di una totalità, con lo scivolamento verso l’ideologia della «tutela del cittadino-lavoratore» che sostituisce ogni lettura e visione di classe. In parallelo, dentro al corpaccione della Cgil maturano macroscopici cambiamenti: lo scioglimento delle componenti, la fine dei Consigli di fabbrica – organi che nel ventennio precedente avevano assunto una centralità oggettiva nel dibattito confederale, fino a diventare lo scheletro di ogni progetto di unità sindacale –, e l’avvento della nuova figura delle Rsu, dotate di un riconoscimento para-normativo.

A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta esce di scena una generazione di quadri e delegati sindacali cresciuti nel consiliarismo (e in un’idea di lotta sindacale come fattore di trasformazione complessiva della società). È dello stesso periodo la formazione dei primi sindacati di base nell’industria, animati essenzialmente da fuoriusciti Fiom e – in piccola parte – Fim, i metalmeccanici della Cisl. Dopo gli accordi sulla Scala mobile del ‘92 e quelli sulla contrattazione e la rappresentanza del ‘93, il sindacato avvia uno smottamento concertativo che non troverà più limiti: nel ‘95 la controriforma Dini, prima responsabile della miseria dei trattamenti pensionistici odierni, verrà varata con l’acquiescenza di Cgil-Cisl-Uil terrorizzati dallo spettro del dissesto del bilancio dell’Inps. Lo schema si ripeterà negli anni seguenti con poche varianti e occasionali dissociazioni: drammatizzazione, chiamata alla «responsabilità nazionale», trattativa sofferta, e firma da far ingoiare agli iscritti. Il prezzo da pagare per i confederali è altissimo. Dal settembre del PERCHÉ UNA 1992, per diverse settimane, ogni mobilitazione sindacale si concluGENERAZIONE de con l’attacco al palco sindacale e il lancio di bulloni, uova e verduDI DIRIGENTI SINDACALI re. Figure un tempo mitiche del sindacalismo italiano, come Bruno ACCETTÒ LO SCAMBIO Trentin, sono costrette a parlare coperte dagli scudi di plexigas. I laA PERDERE CHE AVREBBE voratori e le lavoratrici non difendono più i loro sindacati dalle conIMPOSTO 25 ANNI DI testazioni anti-confederali. Solo due mesi prima, nel luglio del ‘92, DEFLAZIONE SALARIALE? erano stati formalizzati gli accordi, patrocinati dal governo Amato, che mettevano sostanzialmente in mora il meccanismo della Scala mobile. E, di accordo in accordo, lo spartito non cambierà – tra tavoli concertativi sempre più traballanti e governi che lavorano, con successo, alla rottura di ogni residua unità sindacale.

78

N. 22

PRIMAVERA 2024

L’ERA DELLA DISINTERMEDIAZIONE I meccanismi della concertazione, che già si mostrano farraginosi e inefficaci nel rapporto con i governi di centrosinistra, peggiorano con il cambio di scenario politico. Quando il centrodestra nel 2001 si insedia stabilmente al comando del paese, l’illusione di una gestione concertata delle politiche sociali e del lavoro entra definitivamente in crisi. Quel governo si incaricherà di chiudere, sostanzialmente – nella forma il rituale delle «consultazioni» continuerà – il canale di comunicazione privilegiato con i sindacati producendo due effetti: la rottura dell’unità sindacale tra Cgil, Cisl e Uil con le ultime due che continuano a tenere un dialogo al ribasso e concedendo molto alle scelte del governo; una momentanea riattivazione della Cgil con la grande manifestazione del 23 marzo del 2002 al Circo Massimo che riesce a respingere l’attacco portato dal governo Berlusconi all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma il cambio di fase si è ormai prodotto, lo schema politico-sociale nato nel 1992 non si applica più e questo mette irreversibilmente in crisi il sindacato italiano che da quel momento non riesce più a trovare una strategia adeguata. Finché un giorno ci si sveglia nell’era della disintermediazione: tra il ciclo di Sergio Marchionne alla Fiat e la discesa in campo nel Partito democratico di Matteo Renzi la

79

UNA STORIA ITALIANA

coreografia di scena della concertazione crolla. L’allestimento fittizio di tavoli e tavolini non è più necessario. La società italiana è diventata mucillagine, le «parti sociali» – anche quelle datoriali – si scoprono non più rappresentative. Il movimento operaio si è disarmato da solo e i governi sono in grado di decidere le loro politiche antipopolari senza porsi il problema della «copertura a sinistra» del sindacato. Davanti a gruppi dirigenti sindacali balbettanti e confusi, una nuova leva di tecnocrati politici ha portato avanti con efficacia i suoi progetti di privatizzazione del sistema Italia: Amato, Ciampi, Dini, Maccanico, Prodi, rappresentano un ceto politico di comando assolutamente consapevole delle priorità (nefaste) a cui il paese va sottoposto. Hanno goduto di un solido retroterra internazionale e hanno orientato la loro azione, pur nell’alternanza delle formule di governo, verso la medesima direzione neoliberale. Mario Draghi che sul panfilo Britannia, nel giugno del ‘92, arringa i banchieri inglesi da consumato venditore che sta piazzando asset pubblici in svendita, è l’immagine simbolo di quella stagione di fuoco. La domanda da porsi oggi è: perché una generazione di dirigenti sindacali accetta lo scambio a perdere che avrebbe imposto 25 anni di deflazione salariale? Farne una questione etica – il «tradimento dei chierici» – non aiuta a capire la complessità di un passaggio storico drammatico. Quei gruppi dirigenti che svoltarono verso la concertazione non erano né stupidi né corrotti – e lo diciamo senza negare le tentazioni (bilateralità, fondi pensione, fondi sanitari) che la nuova fase collaborativa poteva ispirare a bilanci sindacali sempre più esangui. La concertazione è il prodotto di una sconfitta ideale che parte dai «livelli alti» – la fine dell’utopia socialista e del paradigma di classe – e si proietta verso il basso, verso un sistema delle relazioni industriali in cui i padroni prendono sempre più campo, in cui la politica abbandona le ragioni del lavoro, dentro territori produttivi che si desertificano e filiere globali che si allungano incontrollate. In pratica, i gruppi dirigenti della Cgil nella violenta turbolenza degli eventi interni e internazionali, scelsero una specie di «ritirata strategica» verso la concertazione. L’offerta presentava anche i suoi lati attrattivi: istituzionalizzare la rappresentanza sindacale, farla diventare un attore stabile dei processi decisionali; e intanto guadagnare tempo e ricominciare a capire come stesse mutando una società italiana che non si comprendeva più. Fu una miopia colpevole. Ma la sostanziale incapacità di porsi all’altezza delle sfide che la transizione italiana poneva, è il fondamento di quella stagione e di quelle scelte suicide. Il problema di gruppi dirigenti cresciuti e formati nell’epoca della concertazione resta anche il problema presente della Cgil. C’è un’inadeguatezza del profilo politico, un’evidente incapacità di ricollocare la Cgil in un mondo che è cambiato. Si rimane stancamente in mezzo al guado tra l’inerzia che spinge verso la trasformazione in un grande centro servizi (la strada scelta dalla Cisl già negli anni Novanta) e l’idea di tornare a un ruolo autonomo e rivendicativo, che nell’odierno vuoto della politica potrebbe occupare un grande spazio. Ma è davvero possibile uscirne dignitosamente con questa classe dirigente? Gli unici che potrebbero svegliare il corpo addormentato della Confederazione sono i suoi iscritti e iscritte, mossi dalle correnti della lotta di classe che, fortunatamente, scorrono incessanti sotto la crosta secca della realtà italiana.

ECONOMIA PRIMAVERA 2024 N. 22

80

La politica senza classe operaia Per tracciare la geografia sociale e le mappe elettorali di questi decenni bisogna notare l’elefante nella stanza della ristrutturazione produttiva dopo gli anni delle lotte di fabbrica: ecco quanto ha pesato la deindustrializzazione

S Gilda Zazzara

ono molti i cambiamenti che le elezioni del 1994 confermano o svelano: uno è che è stato il nord a far vincere le destre e che il voto operaio ha fatto la sua parte. Zoommiamo nella mappa dei collegi (sono le prime elezioni con sistema maggioritario) e fermiamoci in due punti.

MALESSERE OPERAIO

Nei collegi di Torino-Mirafiori vincono, anche se di stretta misura, i candidati di Forza Italia. Fortezza rossa addio si affretta a titolare La Stampa. Non è un mugugno passeggero o lo scivolone di candidature mal scelte: è il sintomo di un malessere che aveva iniziato a fermentare in quartieri periferici sconquassati da anni di de-strutturazione industriale gestita e contrattata dalla sinistra. Un libro graffiante e polemico qualche anno dopo avrebbe parlato di un «lavoro sporco» della sinistra a proposito della ristrutturazione industriale avvenuta nella Francia del socialista François Mitterrand e nella Spagna socialista di Felipe Gonzalez. In Veneto è la Lega Nord a fare man bassa di voti popolari e non è una sorpresa, ma l’esito di un lungo lavoro ai fianchi della «balena bianca» democristiana. Da queste parti Berlusconi non piace, perché sa troppo di città e di salotto. «I nostri ricchi – si legge in un coraggioso dialogo del 1997 tra Vittorio Foa e degli operai leghisti – continuano a giocare a carte all’osteria con i loro compagni di scuola rimasti operai». Secondo zoom, allora, su Conegliano, un posto che non ha mai avuto l’aura meccanica di Torino, ma che con la Zoppas aveva contribuito non poco ai fasti del boom economico. Qui il fondatore della Liga Veneta, Franco Rocchetta, travolge Franco Bentivogli, il carismatico capo sindacale dell’autunno caldo. Ma chi se lo ricordava? La Zoppas non c’era più e il padrone delle lavatrici era una multinazionale svedese, la fabbrica in centro era chiusa (e ancora oggi è in rovina), lo stabilimento in periferia era snellito dall’automazione e ammutolito dalla malinconia. Tutto attorno brulicava la Inox Valley: migliaia di piccole imprese elettromeccaniche e ben poco sindacato. In quel 1994 Torino e Conegliano erano luoghi ancora profondamente segnati da un’identità operaia, la prima declinante, l’altra emergente; l’una che usciva, l’altra che provava a entrare nella storia. Quei due mondi avevano in comune la perdita di rappresentanza e riferimenti politici (fossero nella subcultura rossa o bianca poco importa), e lo spaesamento di fronte a cambiamenti rapidi e imGilda Zazzara previsti, che costringevano a ridefinire gli orizzonti di aspettativa è professoressa e le strategie familiari.

LA DEINDUSTRIALIZZAZIONE

UNA STORIA ITALIANA

Non erano solo gli operai a essere frastornati. Ricorderemo gli anni Novanta come un tempo alla disperata ricerca di nuovi paradigmi interpretativi delle trasformazioni del lavoro e della società. «Postfordismo», «neoliberismo», «società dei servizi», «eco-

81

associata in Storia contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove insegna Storia del lavoro e del movimento operaio.

PRIMAVERA 2024 N. 22

82

nomia della conoscenza», «precariato» sono solo alcuni dei termini che abbiamo imparato a usare non solo per capire cosa era nuovo e diverso, ma anche per darci conto della crisi politica della sinistra e dei suoi obiettivi di liberazione, emancipazione e rivoluzione dopo il collasso del socialismo reale. Nel lessico scientifico e pubblico italiano di quegli anni, però, non si incontra quasi mai la parola «deindustrializzazione». Eppure già alla fine degli anni Ottanta gli occupati nelle grandi industrie pubbliche e private erano dimezzati e, dopo la crisi finanziaria del ’92, la liquidazione delle partecipazioni statali e le grandi privatizzazioni avrebbero imposto l’espulsione di altre migliaia di lavoratori e lavoratrici. Tra il 1980 e il 1995 gli occupati nell’industria in senso stretto erano calati di oltre un milione di unità. A fare della deindustrializzazione «un elefante nella stanza» hanno concorso tanti elementi, diversi attori e nuovi rapporti di forza di cui quel processo era un pezzo importante. Per il mondo imprenditoriale lo smontaggio delle roccaforti della grande fabbrica era stato un formidabile successo. Gli strumenti per farlo (e per dirlo) erano stati molti: ristrutturazione, innovazione tecnologica, esternalizzazione, decentramento produttivo. Deindustrializzare aveva significato liberarsi di produzioni ingombranti e costose, e soprattutto di incontrollabili concentrazioni di operai turbolenti. I dati sulla produttività e le ore di sciopero sono eloquenti nel dimostrare, come ripete spesso lo storico canadese Steven High, che «la deindustrializzazione non è semplicemente accaduta ma è stata fatta accadere». In ciò che segmenti di movimento operaio avevano chiamato «ristrutturazione capitalistica» già dopo la crisi degli anni Settanta c’era anche DEINDUSTRIALIZZARE una logica punitiva e di restaurazione del comando nei luoghi di lavoAVEVA SIGNIFICATO ro. Nonostante ciò in Italia non si apriva una discussione sul decliLIBERARSI DI PRODUZIONI no industriale, le sue ragioni e le sue politiche, le sue forme e le sue INGOMBRANTI E COSTOSE, conseguenze. Quella della deindustrializzazione rimaneva una storia E DI INCONTROLLABILI atlantica, scritta da economisti radicali come Barry Bluestone e BenCONCENTRAZIONI DI nett Harrison (nel loro classico The Deindustrialization of America, OPERAI TURBOLENTI del 1982) o da studiosi-attivisti poco inquadrabili in Europa come Staughton Lynd, che alle lotte contro le chiusure aveva dato un’epica voce anticapitalista. Una storia che il boss Bruce Springsteen aveva poi cantato evocando il fantasma di Tom Joad e il cinema britannico raccontato in chiave ironica o sentimentale. Un’atmosfera lontana, non una storia anche nostra. Firme importanti della sociologia del lavoro, della storia economica, del mondo sindacale – da Giuseppe Berta a Luciano Gallino, da Bruno Trentin a Vittorio Foa – hanno continuato a lungo a respingere ogni lettura deindustriale, considerandola una prospettiva imprecisa, ambigua, persino politicamente pericolosa. Per la sinistra critica prestava il fianco alle tesi sulla fine del lavoro, delle classi e della lotta di classe. Per quella «nuova» e modernizzatrice era una patetica manifestazione di nostalgia del fordismo. Persino Ermanno Rea, che nel 2002 scrisse La dismissione, il primo romanzo della deindustrializzazione italiana, non usa mai quella parola. La dismissione dell’acciaieria di Bagnoli è l’affresco di una transizione, di un passaggio del testimone, non di una rottura. La colata continua smontata ad arte dal protagonista Vincenzo Buonocore riprende vita in Cina e la morte di Marcella – figlia di un operaio, incarnazione del futuro spezzato della comunità – resta inspiegabile come un fosco presagio. La fine ingloriosa di reparti e «fabbriche di morte» – pezzi di chimica tossica della Montedison, la Farmoplant di Massa Carrara, l’Ipca di Ciriè o ancora l’Eternit di Casale, per fare solo qualche nome tristemente noto – veniva accolta con sollievo dai movimenti per la giustizia ambientale. Ancora non si immaginava quanto difficile sarebbe stata la partita delle bonifiche nelle aree deindustrializzate (tanto più senza gli operai dentro a rivendicare

una qualche forma di controllo) e quanto anche una fabbrichetta terzista potesse devastare l’ambiente e la salute collettiva. Per scoprire i Pfas – sostanze chimiche artificiali – nel sangue di migliaia di persone ci sarebbe voluto molto tempo. Nel 1993 veniva liquidato ciò che restava della Cassa del Mezzogiorno: dopo anni di priorità dello sviluppo meridionale e unità dei lavoratori del nord e del sud, il sindacato si scopriva attraversato alla base da un pesante risentimento antimeridionalista.

83

In quegli anni è nel globale che gli intellettuali cercano una speranza per il socialismo. Chi sapeva guardare all’economia-mondo vedeva che il «global labour pool» era duplicato con l’entrata in scena di milioni di operai e operaie cinesi o indiani: il futuro si consegnava a loro. L’unmaking degli operai del Nord globale appariva l’inevitabile (e forse trascurabile) esito della mobilità del capitale, dello «spatial fix» di uno degli autori più letti del periodo, David Harvey, della distruzione creatrice connaturata all’economia industriale. Così la deindustrializzazione – un fenomeno che comunque si definisca o misuri appare solo avvicinando lo sguardo, in punti precisi e delimitati – usciva dai radar del discorso colto e militante. Alcuni guardavano molto più lontano e più in alto, altri indicavano come modello i luoghi che ce l’avevano fatta, in cui la transizione si poteva raccontare come re-industrializzazione o rigenerazione. Il faro era il capitalismo renano della Ruhr, ma di Milano si poteva dire che in fondo la lattie professionali, la deindustrializzazione ha un suo temdeindustrializzazione era avvenuta senpo di latenza e la sua eredità si trasmette ai posteri. za declino e di Torino che stava vivendo Ma la ragione più efficace nello sbarrare la strada a un una metamorfosi neoindustriale. racconto della deindustrializzazione italiana va cercata Tra le conseguenze di queste scelte nell’esplosione del capitalismo flessibile e molecolare delprospettiche c’è stato l’abbandono delle la Terza Italia, che nelle università (non solo nazionali) ha comunità deindustrializzate (o in corso trovato i suoi analisti e interpreti. Mentre la grande impredi deindustrializzazione): abbandonasa crollava, la piccola e media riallineava i numeri degli te non tanto nei redditi, sostenuti da un occupati complessivi e teneva alto il Pil, illuminando una colossale impiego di cassaintegrazione formidabile via d’uscita industriale dal fordismo. Era la mie prepensionamenti, ma nel bisogno di glior prova che lo spettro della deindustrializzazione non rappresentanza e autorappresentazione. infestava l’Italia. Già nel 1984 gli economisti del MassachuDove la ritirata del fordismo è andata acsetts Institute of Technology avevano indicato nel modello cumulando macerie di ogni tipo – precaitaliano nuove «possibilità per la prosperità», attingendo a rizzazione e insicurezza, degrado urbano, una stagione di studi sui distretti inaugurata da Sebastiafalde inquinate, anomali tassi di morbilino Brusco e Giacomo Becattini. Nel 1992, sul Sole 24 ore, tà, ricatto occupazionale-ambientale – le quest’ultimo esortava a lasciare da parte la difesa di grandi persone sono rimaste sole a elaborare il imprese e «carrozzoni pubblici», e auspicava politiche di proprio declassamento. È stato un prosostegno a quei sistemi produttivi locali controllati da «una cesso lungo e diluito, ma non per questo miriade di imprenditori, quasi tutti indigeni». Ma dopo la meno traumatico. Come le più letali macrisi del 2008 la favola della Terza Italia (e quella del padrone all’osteria) è finita. Nel 2019 il primo sindaco di destra di Sesto San Giovanni ha spento la sirena della Falck, che continuava a suonare ogni mezzogiorno, anche se erano passati vent’anni dall’ultima colata di acciaio. Possiamo iniziare a parlare di deindustrializzazione senza che qualcuno alzi il sopracciglio e ci dica che «però gli operai ci sono ancora»?

UNA STORIA ITALIANA

IL MITO DELLA TERZA ITALIA

ECONOMIA

L’avvento dello Stato azionista S

Ancora nel 1991, 12 delle 20 più grandi società per fatturato e un terzo delle prime 50 società italiane erano in mano pubblica. E le banche pubbliche assorbivano il 70% dei depositi. Tutto venne cancellato con un tratto di penna

i torna in questo periodo a parlare di privatizzazioni e della vendita di quote di Poste e di Eni, ma sono solo saldi di fine stagione per mettere un poco di fieno nella cascina della nuova austerità. Il tornante decisivo è stato invece quello che ha coinciso con la fine dell’Unione sovietica e la nascita dell’Unione europea, che per l’Italia si è materializzato nel «decreto Amato» del luglio del Giuliano Garavini 1992. Questo, con un tratto di penna, ha trasformato in società per azioni gli enti pubblici. Nel luglio del 1992, nel pieno della crisi politica e finanziaria della Prima Repubblica, allo Stato imprenditore e all’economia mista è subentrato lo Stato azionista, aiutante di campo per il pieno dispiegamento dell’economia neoliberale.

84

N. 22

PRIMAVERA 2024

LE PRIVATIZZAZIONI PIÙ RILEVANTI DEL MONDO Nel 1991, 12 delle 20 più grandi società per fatturato e un terzo delle prime 50 società italiane erano totalmente in mano pubblica. Le banche pubbliche assorbivano il 70% dei depositi. La maggior parte di queste società erano in pancia alle holding Iri, Eni ed Efim. Poi c’erano enti pubblici come Enel o Ferrovie. L’economia pubblica italiana era la più grande fra quelle dell’Unione europea. Le 93 operazioni di dismissione

Giuliano Garavini insegna Storia delle relazioni internazionali all’Università Roma Tre. Ha scrtto The Rise and Fall of Opec in the Twentieth Century (Oxford University Press, 2019).

85

UNA STORIA ITALIANA

a partire dal ‘92 garantirono introiti per 119 miliardi di euro. L’Italia è stata al secondo posto mondiale per proventi dietro il Giappone. In relazione al Pil, le privatizzazioni italiane furono le più importanti nel mondo non comunista. Enel ed Eni, i due fiori all’occhiello della stagione delle privatizzazioni, aziende nelle quali lo Stato ha mantenuto una quota di controllo e che rimangono le due più importanti società italiane, sono oggi animali molto diversi dagli enti pubblici che le hanno partorite. Enel è la maggiore azienda italiana per fatturato, altamente internazionalizzata. Eppure nel 1993, quando era ancora totalmente pubblica, era la prima società al mondo per numero di clienti e la terza per elettricità prodotta. In appena trent’anni a partire dalla sua creazione nel 1963 aveva triplicato l’energia prodotta per dipendente, offrendo ai cittadini italiani elettricità ai prezzi più bassi d’Europa. Dieci anni dopo la vendita della prima tranches di azioni nel 1999, il prezzo medio dell’elettricità in Italia era del 35% più alto rispetto alla media europea. Ma il caso sul quale vogliamo soffermarci è quello di Eni. La società fondata nel 1953 da Enrico Mattei aveva beneficiato di una «riserva originaria» su idrocarburi e vapori della Val Padana e dell’off-shore Adriatico che poteva estrarre e trasportare in regime di monopolio, senza essere gravata dalle consuete royalties. Mattei e la Dc sapevano bene che questo enorme privilegio (ribattezzato «rendita metanifera») avrebbe dotato l’ente della forza finanziaria necessaria per crescere, svilupparsi, adempiendo pienamente il mandato di garantire la sicurezza energetica italiana e di fornire energia a prezzi abbordabili. Come ricordava un ammirato Sabino Cassese nel 1966, Mattei riteneva «che i soggetti attivi nella politica economica internazionale dovessero essere responsabili nei confronti dei rispettivi paesi», e incarnò «il ruolo dell’impresa pubblica in concorrenza (diminuzione di prezzo, ingresso in nuovi campi di attività) e quello dell’impresa pubblica nello sviluppo (localizzazione in aree sottosviluppate)». L’Eni negli anni Settanta svolse a pieno (non sempre con investimenti razionali) il suo ruolo di strumento della politica economica nazionale anche negli sforzi di riequilibrio territoriale. Nel 1969 siglò accordi per la fornitura di gas sovietico a prezzi vantaggiosissimi, continuò a investire nella chimica e nell’industrializzazione del Mezzogiorno, completò la «metanizzazione» della penisola. A metà anni Ottanta, sia pure a seguito di duri scontri tra il governo (che voleva rafforzare i rapporti con il paese Mediterraneo) ed Eni (che preferiva concentrarsi sul più economico gas russo), venne inaugurato il metanodotto che portò il gas algerino in Italia. Nonostante l’alto indebitamento, Eni era nel 1992 la terza società petrolifera al mondo per margine operativo e la quinta per fatturato. Il «cane a sei zampe» cambiò pelle nel luglio 1992 con la menzionata trasformazione in Spa, e poi definitivamente con la successiva quotazione in borsa nel 1995. Le banche d’affari, come Goldman Sachs, chiamate a «valutarla» e a fornire indicazioni strategiche in vista del collocamento si sfregavano le mani: Eni, scrivevano, era la quinta società petrolifera al mondo per redditività grazie a un monopolio inattaccabile nel gas: «Con il 75% della cassa derivata dalle attività del gas, Eni spa può essere considerata una società del gas, con attività diversificate nel settore petrolifero».

86

N. 22

PRIMAVERA 2024

GLI EFFETTI DELLE PRIVATIZZAZIONI Dal 1992 l’obiettivo del nuovo management di Eni spa divenne quello di rendere il gioiello energetico ancor più lucente per gli acquirenti. Il modo più semplice era: tagliare i rami secchi (licenziamento di circa 50mila lavoratori tra il ’92 al ’95, anno della quotazione in borsa), vendere attività che esulavano dal core business dell’energia (incluse perle come Nuovo Pignone), per concentrarsi sulle attività che già macinavano utili: il gas naturale. L’obiettivo della «profittabilità» si sostituì definitivamente alla «funzione pubblica». Il gas dell’Adriatico e quello russo, che nel ‘92 generavano praticamente tutti i profitti Eni, vennero spremuti per garantire dividendi agli azionisti e per finanziare gli investimenti all’estero con il risultato di un rapido tracollo della produzione di gas in Italia. Nel 2021, prima ancora della guerra in Ucraina, l’Eni ha distribuito 2,8 miliardi in dividendi e buybacks (riacquisto di azioni) a favore degli azionisti (oltre il 40% dei quali fondi stranieri in barba alla retorica delle privatizzazioni come modo per rimettere le aziende nella mani dei cittadini). Il suo amministratore delegato Descalzi ha ricevuto una remunerazione complessiva di 7,4 milioni di euro (l’ultimo Presidente di Eni ente pubblico percepiva uno stipendio pari a 300mila euro attuali). I principali paesi in cui opera oggi Eni spa sono rimasti sostanzialmente gli stessi del 1992 (Algeria, Libia, Egitto, Nigeria, Angola, ex-Urss), ma i rapporti con i governi locali, accantonata la formula politica e culturale inaugurata da Mattei, sono sempre più improntati a logiche puramente commerciali. InL’OBIETTIVO DELLA vece nelle nuove province «gasifere» come il Mozambico, destinato «PROFITTABILITÀ» a esportare energia da un paese in cui la maggior parte della popoSOSTITUÌ LA «FUNZIONE lazione non ha visto l’elettricità, Il progetto Coral Sul, vede l’imprePUBBLICA»: I PROFITTI ENI sa locale in minoranza (10%) mentre Eni, Exxon, Cnpc hanno il 70% FINIRONO COME della proprietà. Il «modello Mattei» è stato così abbandonato per DIVIDENDI IN TASCA tornare a un vecchio schema predatorio. AGLI AZIONISTI Le famiglie italiane sono passate dal pagare nel 1991 le bollette del gas più basse della Comunità europea, alla top five delle bollette più salate nell’Ue. Ma la modifica del «software» dell’ente pubblico ha implicato cambiamenti ancora più profondi, per quanto meno visibili. I due rappresentanti dei sindacati che sedevano nel Consiglio dell’ente ne sono stati espulsi il giorno dopo la trasformazione di Eni in Spa. Ancora più importante, forse, tutti gli investimenti nelle rinnovabili, quali quelli nelle batterie elettriche e nella mobilità elettrica, così come quelli nell’informatica che tanto è legata allo sviluppo delle reti elettriche, vennero depennati in nome di una ricerca di profittabilità che ha fatto perdere quasi tre decenni di potenziale innovazione tecnologica e di edificazioni di una vera sicurezza energetica. Sabino Cassese, trasformatosi negli anni Novanta in un sostenitore del nuovo paradigma delle privatizzazioni, ha scritto che, paradossalmente, le privatizzazioni avrebbero «rafforzato lo Stato». Ma questo rafforzamento avrebbe forse potuto esservi solo se la cricca liberale, dal presidente del Consiglio Giuliano Amato all’allora direttore generale

del Tesoro Mario Draghi, non avesse impallinato il progetto del ministro delle Partecipazioni Giuseppe Guarino di costituire nel 1992 due superholidings con in pancia le aziende strategiche privatizzate. Invece il luglio 1992 ha segnato un arretramento nel tenore di vita degli italiani. In un’esaustiva panoramica sulle privatizzazioni pubblicata nel 2010, la Corte dei Conti ammoniva come le public utilities, da Autostrade, a Enel fino a Eni, siano state caratterizzate da scarsi investimenti, mentre le «tariffe a carico di ampie categorie di utenti siano notevolmente più elevate di quelle richieste agli utenti degli altri paesi europei». Più in generale il distrastro della stagione delle privatizzazioni è ben rappresentato dal calo della ricchezza che rende quello italiano un caso più unico che raro nel mondo occidentale. Il 16 maggio del 1991 il principale quotidiano del paese, il Corriere della sera, titolava «L’Italia quarta potenza», avendo l’Italia superato la Gran Bretagna per Pil procapite. Trent’anni dopo il Pil procapite italiano è più basso in termini reali rispetto al 1990. Al calo del Pil si è accompagnata una riduzione dei salari il cui importo medio a parità di potere d’acquisto è diminuito tra il 1990 e il 2020 del 2,9 per cento. Dal lato industriale il processo di «nanizzazione» ha fatto sì che mentre nel 1990 l’Iri e l’Eni siedevano rispettivamente all’11° e al 18° posto delle più grandi aziende al mondo secondo l’indice Fortune 500, le grandi aziende italiane sono poi scivolate in fondo a tutte le classifiche, così come anche quelle europee.

IL TARDIVO MEA CULPA

87

UNA STORIA ITALIANA

Lo stesso Giuliano Amato già nel 2017 avrebbe fatto mea culpa rispetto all’avversione alle politiche industriali covata degli anni Novanta: «Ci siamo accorti dopo che non era più così; perché la promozione dell’innovazione tecnologica e il suo trasferimento nell’impresa almeno in taluni paesi, e di sicuro nel nostro, hanno bisogno di un intervento pubblico». La lista dei «capitani coraggiosi» e dei «furbetti del quartierino» che hanno preso in mano aziende pubbliche in settori strategici da Telecom ad Autostrade, dall’Ilva ad Alitalia fino all’Alfa Romeo, solo per rivenderle o mandarle alla malora è la radiografia di una borghesia familistica e incapace, quando non criminale. Il governo Meloni, in piena fase schizofrenica, un giorno si impegna con l’Ue a vendere quote di Eni e Poste, l’altro invoca il controllo statale di Ilva o fa filtrare l’interesse a un possibile ingresso azionistico dello Stato in Stellantis. Ma fino a quando non si avrà il coraggio di tornare a parlare di «economia pubblica», cambiando «il software» di aziende in settori strategici come l’energia o le infrastrutture, con modifiche del loro status giuridico e con partecipazione dei lavoratori nei luoghi decisionali, lo Stato azionista significherà solamente utilizzare i soldi dei cittadini per finanziare l’accumulo di dividendi e di buybacks per far salire il corso delle azioni, ma non consentirà di dispiegare adeguati investimenti tecnologici a lungo termine, di contribuire al riequilibrio territoriale del paese, e di offrire ai cittadini servizi a prezzi abbordabili.

ECONOMIA Illustrazione di STEFANO D’ORIANO PRIMAVERA 2024 N. 22

88

La Seconda Repubblica nel pallone «C

Il declino della grande impresa, l’irruzione della televisione, la finanziarizzazione e la rottura delle frontiere per il mercato, le disuguaglianze territoriali: il calcio racconta e rielabora i passaggi chiave degli ultimi trent’anni

on il passare degli anni Novanta – scrive John Foot introducendo Calcio: A History of Italian Football – realizzai che il calcio in Italia non era solo un enorme fenomeno sportivo, ma qualcosa che rifletteva, ed influenzava, gli andamenti politici, culturali e sociali. E che è quasi impossibile comprendere l’Italia senza comprendere il calcio, e viceversa». In effetti si può raccontare il declino dell’ecoGiacomo Gabbuti nomia italiana durante la Seconda Repubblica attraverso lo specchio, deformante e spettacolare, della Serie A. Non sono molti i racconti disponibili sulla «Seconda Repubblica pallonara»: la crescente storiografia sullo sport si concentra su periodi precedenti (soprattutto il fascismo), e solo di recente sta mettendo a fuoco gli aspetti economici. Ad esempio, Luciano Segreto ha ricostruito l’impatto delle sponsorizzazioni (permesse dal 1981) sulla Serie B, andando a vedere come si sono riflesse sulla «crisi della grande impresa e la progressiva comparsa di distretti industriali e di realtà aziendali di piccole e medie dimensioni». Sono gli stessi tifosi, del resto, a doversi interessare agli aspetti economico-finanziari del calcio: un articolo a parte richiederebbe il Giacomo Gabbuti è fenomeno delle «plusvalenze», passate tra 1998 e 2002 da 200 a assegnista di ricerca 798 milioni di euro, e tuttora fonte periodica di scandali giudiin storia economica ziari. Proprio di plusvalenze si occupa spesso Marco Bellinazzo, presso la Scuola autore del blog Calcio&business sul Sole24Ore e di La fine del Sant’Anna di Pisa. calcio italiano (Feltrinelli, 2018).

89

UNA STORIA ITALIANA

VIVERE DI RENDITA

90

N. 22

PRIMAVERA 2024

Partiamo dalle date: nel 1994 «scende in campo» la Triade juventina Moggi-Giraudo-Bettega, dominus della Serie A fino all’inchiesta di Calciopoli (2006). Dopo anni di magra, la famiglia Agnelli – che soffre la crescente competizione internazionale: agli azionisti Fiat, nel 1990, Giovanni aveva commentato con un lacononico «La festa è finita» il -15% delle vendite – ricorrono a un manager come Luciano Moggi, già coinvolto in vicende poco edificanti, per recuperare terreno sul Milan di Silvio Berlusconi. Milan che l’11 maggio 1994, poche ore dopo il giuramento del Governo Berlusconi I, vinceva la Coppa dei Campioni con uno storico 4-0 al Barcellona. Nonostante la crisi economica del 1992, permaneva nel nostro paese l’ottimismo per la «terza Italia», come raccontato in questo numero da Gilda Zazzara, e il nostro calcio campava ancora di rendita: nello stesso anno, l’Inter vinceva la Coppa Uefa (assegnata in finali tutte italiane nel 1990, 1991, 1995 e 1998), e il Parma arrivava, pur perdendo, in finale di Coppa delle Coppe.

1990, lo stesso Berlusconi crea Tele+ ma è costretto a cederne il 45% al tycoon tedesco Kirch e il 35% al «collega» Mario Cecchi Gori, proprietario di Fiorentina, Videomusic e Telemontecarlo. Nel 1993, Tele+ ottiene i diritti per trasmettere in diretta 60 partite l’anno: il 29 agosto, Lazio-Foggia è il primo storico posticipo delle 20.30 della Serie A. Gli introiti per i club di Serie A balzano immediatamente da 56 a 100 milioni ma, a differenza della Premier League, il nostro campionato cede tutte le partite, rinunciando così a difendere i ricaIL CALCIO VA IN TV vi da botteghino. Sulla rivista Zapruder (48/2019, Tifo) Lorenzo Giudici ha analizIn quegli stessi anni, la Tv trasforma il calcio: nel 1992, zato come «nel corso degli anni Novanta per non spartire con il resto della federazione inglese la la stratificazione di interessi pubblici e torta crescente dei diritti Tv – poi acquistati dalla neonata privati concentratisi attorno al calcio BSkyB di Robert Murdoch, destinata a diventare il giganabbia profondamente inciso sul gioco e te che conosciamo –, nasce la Premier League. Nell’estate sullo spazio dello stadio, provocando trasformazioni tali da lasciare tracce consistenti anche sull’identità ultras». L’intreccio perverso di repressione (nel 1989 entra in vigore il Divieto di accesso alle manifestazioni sportive – Daspo – per le persone ritenute pericolose), scarsi investimenti sugli impianti e «monocoltura» da diritti Tv porta una dinamica diversa dagli altri campionati europei: «nonostante i tentativi, la gentrification dello stadio non è ancora stata compiuta: gli ultras non sono stati espulsi e rimpiazzati da tifosi più desiderabili» e gli stadi sono spesso semivuoti. Tornando alle Tv, dal 1999, a Tele+ si affianca Stream, creatura di Telecom, da quell’anno controllata, con il beneplacito del governo D’Alema, dai «capitani coraggiosi» Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti. Come nota Bellinazzo, quella che fino al 1997 era «una delle migliori telco a livello mondiale e forse la più avanzata nella telefonia mobile» dopo la privatizzazione fallisce l’opportunità di creare «un modello di business tecnologicamente innovativo facendo perno sul calcio», simile a quello che vediamo in atto oggi. Come nota Giulio Signori, proprio la Coppa del Mondo del 1994 ne aveva fatto scorgere l’opportunità: «il prodotto calcio può essere altamente redditizio se venduto con accortezza». Tutto il contrario dei Mondiali di Italia 90 (presidente del comitato organizzatore: Luca Cordero di Montezemolo), in cui si erano dissestate le casse dello Stato per costruire stadi sovradimensionati e infrastrutture mai utilizzate. In pochi anni, le Tv sommergono di soldi la Serie A: «in circa vent’anni – scrive Bellinazzo – il bottino passa dai due ai mille miliardi di lire, il doppio dei ricavi assicurati ai 18 club di Serie A dal botteghino e dagli sponsor», in un’euforia contemporanea a quella per la New Economy.

LA FINANZIARIZZAZIONE A cavallo del nuovo millennio, si apre anche la corsa alla quotazione in borsa. A consentirlo è la Consob, presieduta da Tommaso Padoa Schioppa (poi Ministro dell’economia del secondo governo Prodi), che cede alle pressioni dei presidenti di calcio permettendogli di quotare i club senza dover prima presentare tre bilanci in attivo. Anche qui, del resto, è il centrosinistra ad assecondare e ratificare la trasformazione dell’economia: il primo governo Prodi (con vice presidente del Consiglio con delega allo sport Walter Veltroni) nel 1996 abolisce l’obbligo per le società di calcio di reinvestire gli utili, trasformandole di fatto in società di lucro. La prima a entrare in borsa, nel maggio 1998, è la Lazio di Sergio Cragnotti, stretto collaboratore di Raul Gardini, che negli anni Ottanta aveva scalato Montedison e lo aveva nominato amministratore delegato di Enimont, la joint-venture pubblico-privato con Eni, il cui fallimento burrascoso contribuì al declino della chimica, fino ad allora tra i settori di punta dell’economia italiana. Ma è solo un esempio tra tanti dei molteplici intrecci tra politica, economia e calcio, non solo di quel periodo.

LA «SENTENZA BOSMAN» Nel 1995, la «sentenza Bosman» della Corte di giustizia Ue sancisce la validità anche per i calciatori della libertà di movimento dei lavoratori europei, prima limitata dalle Federazioni sportive nazionali. Se le frontiere erano LA PRIMA SOCIETÀ DI state riaperte nel 1980, con l’arrivo dei primi 10 stranieri in Serie A, CALCIO A ENTRARE nel 1995 gli stranieri erano ancora 60 (poco più del 13% del totale). IN BORSA, NEL MAGGIO Nei due anni successivi raddoppiano, fino a diventare 358 nel 2012, 1998, È LA LAZIO DI SERGIO stabilizzandosi al momento sopra il 60% dei componenti delle attuaCRAGNOTTI, STRETTO li rose di Serie A. Tra loro, secondo Paul Dietschy e Stefano Pivato, COLLABORATORE autori per il Mulino della Storia dello sport in Italia, i giocatori neri DI RAUL GARDINI passano da 10 nel 1990 a 45 nel 2004. Dentro a questo cambiamento, il calcio – già culla dello sdoganamento del (post)fascismo ricostruito in questo numero da Rossella Borri (si pensi ai saluti romani del laziale Paolo Di Canio, ma anche alle dichiarazioni del portiere del Milan Christian Abbiati) – divenne un luogo di sfogo delle pulsioni razziste della società. Già nel dicembre 1993, le squadre di Serie A indossano maglie con scritto «No al razzismo!». Nel 1995, l’interista Paul Ince viene ammonito per aver applaudito ironicamente il pubblico della Cremonese che lo insulta in modo discriminatorio. Episodi di questo tipo diventeranno continui, del resto nel 2014 viene eletto presidente della Figc Carlo Tavecchio dopo aver parlato di «Opti Poba che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio».

MALEDETTI STIPENDI

91

UNA STORIA ITALIANA

Nel calcio, però, il «vincolo esterno» europeo favorisce i calciatori – il maschile in questa storia è d’obbligo: solo l’exploit delle azzurre al Mondiale 2019 (prima partecipa-

zione dal 1991) accelera il processo di riconoscimento delle calciatrici di Serie A come professioniste. Per i calciatori, la sentenza Bosman risolve molte vecchie rivendicazioni, permettendo ad esempio di firmare gratuitamente con un altro club alla scadenza del contratto. Curiosamente, nel tempo della concertazione sindacale analizzata in questo numero da Giovanni Iozzoli, la Seconda Repubblica vede i primi scioperi dei calciatori, nel 1996 e 2011. Anche i calciatori sono vittima della retorica che attribuisce al costo del lavoro tutti i problemi italiani. Certo, i loro stipendi crescono, e in media pesano per l’80% del fatturato dei club, contro il 50-60% degli altri maggiori campionati. Ma il motivo è che le società investono poco e male, mentre dirigenti incompetenti si scannano per spartirsi i ricavi Tv o mettono in piedi castelli di plusvalenze, anziché trovare soluzioni sostenibili. Nel 2002, ad esempio, la Serie A paga appena meno stipendi della Premier League (poco più di un miliardo entrambe), ma fattura 1,3 contro 1,7 miliardi. Non solo: mentre le società che falliscono tendono sempre più spesso a non pagare gli stipendi, oggetto dello sciopero del 2011 sono le pratiche di mobbing con cui i presidenti cercano di forzare i calciatori al rinnovo per non perderli a zero euro o a cessioni non gradite prima della scadenza del contratto. Fa scuola il caso che vede coinvolto il macedone Goran Pandev e Claudio Lotito, presidente dal 2004 della Lazio dopo l’arresto di Cragnotti. Lotito incarna la figura, tristemente nota a chi si occupa di crisi aziendali, del «salvatore» di imprese sull’orlo del fallimento: dopo aver ottenuto un importante «sconto» sui debiti fiscali grazie al decreto «Salva Calcio» (contestato come «aiuto di Stato» dal Commissario Ue per la Concorrenza, Mario Monti), cerca di DAGLI ANNI OTTANTA, CON collezionare altri aiuti con un’intensa attività lobbistica (ad esempio, IL DECLINO DELLA GRANDE sulla legge per gli stadi).

92

N. 22

PRIMAVERA 2024

IMPRESA, ACCANTO ALLE STORICHE GRANDI PROPRIETÀ PRENDONO LA SCENA IMPRENDITORI DI SETTORI «TRADIZIONALI»

TASSONOMIA DEI PRESIDENTI DELLA SERIE A

In un articolo di prossima pubblicazione su Soccer&Society, Segreto e Francesco Maccelli tentano una «tassonomia» dei presidenti della Serie A dal 1960 al 2000, evidenziando come dagli anni Ottanta, con il declino della grande impresa, accanto alle storiche grandi proprietà (gli Agnelli, ma anche il petroliere Angelo Moratti della Grande Inter e l’editore Andrea Rizzoli, al Milan dal 1954 al 1963), prendono la scena imprenditori di settori «tradizionali», dall’alimentare (Cragnotti era proprietario di Cirio, Callisto Tanzi, presidente del Parma, era proprietario di Pamalat e Luca Campedelli, presidente del Chievo, era proprietario della Paluani) al tessile (come Fabrizio Corsi, imprenditore della pelle e dell’alta moda, dal 1991 a oggi presidente dell’Empoli). Operano invece nei servizi gli imprenditori che, nel 2004, riportano nella massima serie Livorno, Messina e Palermo, rispettivamente dopo 55, 39 e 31 anni: nei trasporti e nella logistica operano sia Aldo Spinelli (già al Genoa) che Pietro Franza, mentre la fortuna di Maurizio Zamparini (in precedenza al Venezia) è legata a Mercatone Zeta. È tuttavia l’edilizia, spesso legata a opere pubbliche, a farla da padrona. L’esempio «classico» è il presidente dell’Ascoli Costantino Rozzi, costruttore di stadi e noto ospite al Processo del lunedì

UNA STORIA ITALIANA

93

di Aldo Biscardi; ma sono costruttori anche Edoardo Longarini e Paolo De Luca, che portano per la prima volta in Serie A rispettivamente l’Ancona (1992) e il Siena (2003, prima della crisi di Monte dei Paschi). Nel 2014, arriva nella massima serie anche il Sassuolo di Giorgio Squinzi, da due anni alla testa di Confindustria e patron di Mapei (acronimo nel 1937 di Materiali Autarchici per l’Edilizia e l’Industria). Con la deindustrializzazione, avanzano imprenditori legati al mondo dei media e dell’intrattenimento: dai produttori cinematografici Cecchi Gori e Aurelio De Laurentiis, all’editore Urbano Cairo, oltre ovviamente a Berlusconi. Proprio con l’acquisto dell’esclusiva su un torneo calcistico – il Mundialito del 1981 – e la sua trasmissione, di fatto, in diretta nazionale, si avviò la serie di eventi che, con i sequestri di antenne e ripetitori (1984), i cosiddetti «decreti Berlusconi» (1984-5) varati dal Governo Craxi e la Legge Mammì (1990) sulle televisioni varata dall’ultimo Governo Andreotti, avrebbe definito il «pluralismo televisivo» all’italiana. Se Berlusconi è stato solo il «migliore» tra gli imprenditori che hanno usato il calcio per acquisire notorietà politica (si pensi ad Achille Lauro, sindaco monarchico della Napoli del dopoguerra, o oggi all’ex presidente della Ternana Stefano Bandecchi), De Laurentiis è indicativo di un nuovo fenomeno. Come per Antonio Percassi alla testa dell’Atalanta, il calcio diventa un business conveniente in sé. Ma oltre a fare profitti, il Napoli – la cui capitalizzazione è passata da 11 a 308 milioni tra il 2005 e il 2017, proprio mentre il mercato cinematografico dove opera il suo presidente va in crisi – diventa il core business Supercoppa (nata nel 1988) si era giocata a Washington; del gruppo Filmauro, pesando per oltre prima di arrivare in Arabia, sarebbe passata da Tripoli l’80% del fatturato. Storia assai diversa, (2002, per intercessione di Saadi Gheddafi, azionista delper limitarci all’esempio più eclatante, la Juve e l’anno dopo giocatore del Perugia) a Shanghai da quella del Parma che contribuì (e fu (2015). Il 2011 vede anche l’introduzione della «tessera del risucchiato) dal crac della Parmalat. tifoso», e l’inaugurazione dello Juventus Stadium, il primo Come nell’economia, il calcio della stadio di proprietà in Serie A, che avrebbe visto 9 scudetti Seconda Repubblica è segnato da fallibianconeri consecutivi. L’Inter post-Calciopoli, vincendomenti, spesso fraudolenti, in cui talvolta ne 5, aveva eguagliato la Juventus 1931-35 e il Grande Tosi materializza il rischio di infiltrazioni rino degli anni Quaranta. Sono lontani i tempi in cui, tra mafiose. Roma (1982) e Sampdoria (1991), in dieci anni si erano alLA FINE DELLA SECONDA ternate otto squadre al vertice (tre alla prima vittoria: NaREPUBBLICA CALCISTICA poli, Verona e Sampdoria). Aumentano anche le disuguaglianze territoriali: dopo lo scompaginamento segnato nel È il 2011 a segnare la fine anche della 2004/5 del passaggio della Serie A a 20 squadre, e poi dalla Seconda Repubblica calcistica. Assieme retrocessione in Serie B della Juventus nel 2006 a causa di a Mario Monti a Palazzo Chigi, arriva Calciopoli, che porteranno addirittura a due squadre siciinfatti in Italia la prima proprietà straliane contemporaneamente in massima serie, la fine della niera, con la Roma che diventa a stelle Seconda repubblica vedrà il consolidarsi di ben tre derby e strisce. È il culmine di due decenni di nel triangolo industriale, e la presenza crescente della pro«apertura» ai capitali esteri: nel 1993 la vincia industriale del Nord, a fronte della retrocessione o spesso del fallimento di tanta parte del calcio meridionale, ma anche della «terza Italia» (Marche, Umbria). Il terzo scudetto del Napoli, nel 2023, arriverà dopo più di vent’anni di staffetta tra Inter, Milan e Juventus. Una disuguaglianza che non porta certo competitività internazionale: storia tristemente familiare, ma che, almeno nel calcio, può regalare ancora qualche eccezione.

IMMAGINARIO PRIMAVERA 2024 N. 22

94

Emerge dalle rappresentazioni cinematografiche di Moretti e Sorrentino: la sinistra ha demonizzato Berlusconi ma non ha immaginato un futuro comune, mostrando che il vizioso e il moralista sono due facce della stessa medaglia

E

logi, commenti, esorcismi. Silvio Berlusconi non è stato solo un politico e un uomo pubblico italiano: è stato una maschera. E in quanto tale ha catalizzato molto di più di quanto il nome proprio di una persona avesse potuto fare. Ha catalizzato e diviso, separato, creato schieramenti, moltiplicato i discorsi. Perché quella maschera ha saputo cogliere più di altre il sentimento profondo Roberto De Gaetano di una nazione. Non solo di chi l’ha votato, ma anche di chi vi si è opposto, perfino in maniera rabbiosa. Perché sentiva che in quella maschera odiata e aggredita c’era qualcosa che lo riguardava. Che quell’odio presupponeva una prossimità, una vicinanza, non portata a coscienza. Che quella critica radicale assumeva spesso la forma dell’espulsione da sé di qualcosa che era interno, di qualcosa che al sé dava un suo senso.

VIZIOSI E MORALISTI, LE MASCHERE INSCINDIBILI

95

di Roma. Il suo ultimo libro è Le immagini della commedia (Marsilio, 2024).

UNA STORIA ITALIANA

Nel finale de Il caimano, l’ultima delle tre maschere che Nanni Moretti presta a Berlusconi è proprio la sua. Il finale è sorprendente, ma non frequentemente interrogato. Perché Moretti ha deciso di prestare la sua faccia, le sue espressioni, i suoi gesti a Silvio Berlusconi? A colui che fino a quel momento era stato rappresentato come imprenditore spudorato e uomo segnato dal vizio? Perché chi, anche nelle piazze, urlava contro Berlusconi ora si sentiva il più adatto a prestargli faccia e corpo? La straordinaria originalità del film non risiede solo nell’aver trasformato Berlusconi da personaggio pubblico dotato di un nome proprio e di una storia in una maschera (sintetizzata dal titolo stesso del film), ma nell’aver triplicato quest’ultima, avviando un processo di sempre più radicale distanza mimetica dalla prima all’ultima maschera. Infatti, dopo la prima incarnazione somigliante di Berlusconi, quella della maschera dell’imprenditore spudorato, interpretata da Elio De Capitani, e dopo la seconda risonante, quella del seduttore sfacciato, modulata dall’allusivo gigioneggiare di Michele Placido, ne Il caimano arriviamo all’ultima maschera, introiettiva, «nera», di un Berlusconi che attacca la magistratura e viene inglobato dalla maschera oppositiva e moralistica di Nanni Moretti. Qui viene espressa, senza divenire esplicita ma con la forza implicita di verità propria della grande arte, una sovrapposizione tra la maschera berlusconiana spudorata, sfacciata, e quella moralistica e giudicante. La prima ha giustificato l’esistenza della seconda. La maschera di Berlusconi è stata il motore interno, il fantasma che ha ossessionato e legittimato il moralismo aggressivo di tanta sinistra. Una sorta di icona capace di determinare un’attrazione repulsiva. Un po’ come quella del Roberto De Gaetano dottor Antonio, nell’episodio felliniano di Boccaccio ’70, verso il è saggista e studioso grande manifesto pubblicitario con la prosperosa Anita Ekberg. di cinema italiano, Per questo Moretti può interpretare naturalmente Berluprofessore ordinario sconi restando sé stesso. Le due maschere sono inscindibili. Il di Cinema e scrittura moralismo è la forma in cui si traduce l’attrazione profonda per critica alla Sapienza quello che si viene a stigmatizzare e a criticare. E in quanto tale il

moralismo occupa lo spazio vacante di idee, di progettualità, di immaginazione. E questo è accaduto alla sinistra italiana, con la costruzione di un’alleanza contro il «nemico», come unico progetto politico unitario. Ma questo nemico non era esterno (contrariamente a quanto si credeva) ma interno. E così quando si dissolve, crolla anche il collante che aveva tenuto insieme l’alleanza-contro. Perché in fondo il moralismo è la forma che prende il perseguimento della cancellazione del desiderio dalla vita sociale, privata e pubblica. Farne un’arma politica (spesso attraverso l’uso strumentale della magistratura) ha significato congelare lo spazio pubblico, isolandolo da quello che dovrebbe alimentarlo costantemente, cioè il desiderio di partecipazione per la costruzione e condivisione di un sogno comune. La logica del godimento, rappresentata dalla maschera berlusconiana, è la stessa di quella del moralismo, rappresentata dalla maschera di Moretti. Perché si gode – lo sappiamo da Freud – della repressione stessa, moralistica e censoria. Per questo quel finale straordinario de Il caimano non ci sorprende, nonostante sia agli antipodi di quello che il senso comune poteva immaginare, cioè che Berlusconi e Moretti fossero radicalmente opposti. Certo lo erano, per le loro storie e per quello che rappresentavano, ma non lo erano le maschere che in quel film si sovrapponevano, e con ciò stesso si sostenevano a vicenda.

96

N. 22

PRIMAVERA 2024

LA MASCHERA È CIÒ CHE È, NON CIÒ CHE FA L’Italia è stata da sempre la patria delle maschere, ben oltre quelle della Commedia dell’Arte. Sono le maschere che occupano la scena pubblica, ma non per quello che si crede, cioè per una generica disponibilità al riso, ma per una questione più profonda: perché la maschera restituisce l’essere di una persona e di un popolo, inibendo la sua dimensione pratica, trasformativa della realtà. La maschera ci restituisce ciò che è, non ciò che fa. O meglio, ciò che fa deve confermare ciò che è. E questo accade sempre, a prescindere LA LOGICA dal tipo di maschera. Tant’è che Berlusconi, nonostante sia stato un DEL GODIMENTO, imprenditore e un politico di notevole importanza, resta nell’immagiRAPPRESENTATA nario nazionale non per quello che ha fatto, ma per quello che è stato. DALLA MASCHERA Cioè una maschera dell’italiano di successo, in cui è inclusa l’esageraBERLUSCONIANA, zione del «vizio» (fino al «priapismo») e l’assenza di «virtù». Questa maÈ LA STESSA DI QUELLA schera della simpatia umana immediata, capace di sedurre e attrarre DEL MORALISMO chi le sta intorno, di sintonizzarsi con chi le sta vicino, e di rinascere sempre di nuovo, risorgendo dalle alterne vicende della vita, ha avuto una capacità attrattiva totalmente svincolata dal suo concreto fare. Il fare berlusconiano, anche se giudicato moralmente riprovevole, è stato sempre confermativo della maschera di Berlusconi: donnaiolo, imprenditore di successo, politico con grande seguito popolare, militante dei suoi propri interessi. Il tutto tradotto nell’esposizione di uno stile di vita capace di catalizzare un immaginario teso ad assorbire totalmente il simbolico, cioè il limite posto dalla «legge». In questo, Berlusconi ha incarnato al meglio un

97

UNA STORIA ITALIANA

sentire e un senso comune tipicamente italiani. L’assenza di limite è giunta perfino a toccare il tempo e il suo trascorrere, tant’è che, attraverso lifting vari, la maschera resistente ha teso verso una sua presunta eternizzazione. Nella dominanza di tale maschera, entrare nel merito e nel dettaglio delle iniziative politiche intraprese, per criticarle, e spesso demonizzarle, è stato esercizio vano da parte di una sinistra incapace sia di immaginare perfino il desiderio di un futuro comune, sia priva di idee davanti a una situazione in movimento. Lo stallo a sinistra e l’attrattività della maschera berlusconiana, Nanni Moretti li ha intuiti meglio e prima di altri. E si è disposto a prestare la sua maschera a Berlusconi. Un comune scetticismo si annida nella maschera ridente e senza pudore di Berlusconi e in quella giudicante e moralista di Moretti. Entrambe sono al fondo minate dalla stessa sfiducia nella possibilità di cambiare il mondo. Il «vizioso» e il «moralista» si corrispondono. Per cambiare le cose ci vuole la capacità di corrispondere al proprio desiderio, di aprire il futuro nel sogno condiviso di un comune abitare il mondo. Ma non è qualcosa che appartiene alla tradizione italiana, sempre profondamente attraversata da uno scetticismo che sembra irriscattabile anche se ben mascherato. Una tradizione spiegata una volta per tutte dal Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani e che lì sembra essere rimasta. Certo, come pensava Leopardi, gli italiani, proprio per il loro carattere disilluso e scettico, sono «più filosofi» degli altri popoli. Diremmo, in altri termini, che sono più capaci attraverso l’arte, e il cinema in questo caso, di arrivare lì dove solo l’arte e il cinema possono arrivare. Cioè a restituire sullo schermo l’inverosimile della realtà, cioè la sovrapposizione di maschere tra Berlusconi e i suoi oppositori di sinistra. Qui è interessante vedere come anche il Moretti regista arrivi lì dove l’uomo pubblico e il cittadino militante non sarebbero mai potuti arrivare. Il «girotondino» che qualche anno prima a fianco di Antonio Di Pietro gridava «Vergogna! Vergogna!», ora si trova a interpretare il suo stesso «nemico». Anche Paolo Sorrentino in Loro tratta Berlusconi come una maschera, ma questa volta declinante e vecchia. Lo scetticismo in Sorrentino è diventato intonazione malinconica del vivere. Il vitalismo si è trasformato nel canto di Malafemmina, dove il silenzio religioso di chi ascolta e ammira Berlusconi sembra portare con sé il sentimento del tramontare di tutto, di una fine prossima che può essere solo maldestramente esorcizzata dalla presenza delle tante e giovani ragazze pronte solo a fingere di far divertire chi si sta congedando dalla vita. Ma lo stile di Sorrentino entra in risonanza con l’assenza del simbolico e della legge che hanno caratterizzato l’esercizio del potere berlusconiano. L’assenza di censure e di limiti ritorna nello stile sorrentiniano, dove l’estetizzazione crepuscolare della forma trova un intercessore perfetto nella maschera declinante del narcisismo berlusconiano. Sia nella conflittuale e agonistica maschera morettiana, sia in quella più consonante sorrentiniana, ciò che è certo è che Berlusconi, la presenza più influente sulla scena pubblica italiana negli ultimi trent’anni, non è stato né un nome proprio, né un soggetto d’azione (come accade nel cinema americano), ma una maschera capace di generalizzare e sintetizzare valori, caratteri e sentimenti, in cui si è ritrovato e riconosciuto un intero paese.

IMMAGINARIO

La cultura del «ma anche» La rimozione dei conflitti è la cifra più accesa di quasi tutte le opere letterarie di Walter Veltroni, uno dei protagonisti della Seconda Repubblica che rappresenta un fenomeno utile a comprenderne la storia

H

o cominciato a interessarmi al Walter Veltroni intellettuale e artista un giorno che ero in redazione a minimum fax, e qualcuno buttò lì la proposta di chiedere a lui – allora sindaco di Roma – una prefazione per un libro che stavamo mandando in stampa: una raccolta di discorsi dei Nobel per la pace. Io scalpitai. Ma mi resi subito conto che c’era qualcosa di più sotto quest’irritazione a pelle. E Christian Raimo che sarebbe stato giusto approfondire le ragioni di quest’idiosincrasia nei confronti del Veltroni uomo di cultura, altrimenti sarei sembrato un qualunquista della peggior specie o uno snob.

98

N. 22

PRIMAVERA 2024

L’OMNIPREFATORE La cosa non fu così difficile. Un paio di giorni dopo mandai alle varie persone che lavoravano in casa editrice una mail che aveva come oggetto Piccolo quiz editoriale. Nella mail c’era un elenco di quasi un centinaio di titoli di libri. Da E li chiamano disabili di Candido Cannavò a Oltre il giardino di Jerzy Kosinski a Mo’ je faccio er cucchiaio di Francesco Totti a Donne dell’altro mondo. Dodici donne celebri si raccontano al soprannaturale di Stefano Mastrosimone, ecc. Nella mail chiedevo: cos’hanno in comune tutti questi libri? La

Christian Raimo è insegnante, giornalista e scrittore italiano. Ha scritto, tra le altre cose, L’ultima ora: Scuola, democrazia, utopia (Ponte alle Grazie 2022), Willy, una storia di ragazzi (con Alessandro Coltrè, Rizzoli, 2023).

risposta era abbastanza impressionante. Legati apparentemente da nulla (gialli, raccolte di aforismi, biografie, libri di storia locale, qualunque branca dello scibile umano), avevano però un distintivo condiviso. Portavano in dote tutti la prefazione di Walter Veltroni. E l’elenco non era nemmeno completo. Il libro dei Nobel, che si intitola Costruire la pace, alla fine riuscì a non avere nessuna prefazione: i nomi di Mandela e Luther King si presentavano giustamente da sé. Mentre il mio giochino fu ripreso da vari siti, dal Riformista e dal Corriere della Sera, e da Enrico Mentana a Matrix che pose proprio a Veltroni in studio una domandina velenosa sulla sua prolificità prefativa. Da allora il nome di Veltroni dopo «prefazione di» è continuato a comparire su una quantità molto consistente di copertine e nel frattempo ha avuto accesso direttamente al posto d’onore: i caratteri cubitali da autore di grido.

LA RETORICA POLITICA NON È LETTERATURA

99

UNA STORIA ITALIANA

Ho letto per intero tutti i suoi romanzi, i suoi saggi, ho visto i suoi film, i documentari, la maggior parte dei suoi interventi sui giornali, editoriali, lettere. Non è un’ossessione, è un’analisi di un fenomeno che ha caratteristiche molto rilevanti nella costruzione del dibattito politico e culturale italiano. All’inizio di questa immersione ero semplicemente infastidito che un politico, ex ministro della Cultura, ex sindaco di Roma, potesse licenziare dei libri così malconci. Nella recensione che feci al suo libro La Scoperta dell’alba (2006) partivo tratteggiando una sorta di declino dei tempi: una volta erano gli scrittori come Sciascia o Calvino a impegnarsi politicamente, oggi sono i politici di professione che aspirano a uno scranno letterario. Il fatto che chiunque abbia un minimo di disinvoltura oggi possa ritenersi degno di una patente di artista solo in virtù della sua popolarità mi sembrava il sintomo di quella «strana sfera gassosa che è il contesto culturale e politico oggi in Italia (un paese dove, per dire, la direzione dei programmi culturali della Tv nazionale è affidata a Gigi Marzullo e quella dei servizi parlamentari a Anna La Rosa), dove il pensiero che la letteratura abbia una sua autorevolezza autonoma, una sua specificità, e delle sue regole da imparare e sperimentare prima contro sé stessi e poi rispetto a un editore e un pubblico di lettori magari indulgenti, non sfiora per niente nemmeno Veltroni». Da editor segnavo una a una le pecche strutturali della Scoperta dell’alba: 1) La mancanza di differenziazione dei personaggi, che parlavano tutti con una lingua media bassamente lirica; 2) la ridondanza e l’enfasi del discorso; 3) l’incapacità di dar corpo ai personaggi e di gestirli nel tempo, ecc. Se avessi dovuto riassumere in un’evidenza il deficit principale della sua scrittura (ero buono) «mi sembrava l’applicazione di una retorica specificamente politica all’ambito letterario, ossia l’ignoranza assoluta di quel monito che si ripete alla nausea nei corsi di scrittura, Show! Don’t tell! Ogni sentimento in un romanzo dovrebbe essere declinato in azione, dialogo, descrizione, in una costruzione che renda questi sentimenti piuttosto che enunciarli; mentre la retorica politica richiede proprio l’opposto: la chiarezza icastica, l’immediata corrispondenza tra parola e riferimento».

100

N. 22

PRIMAVERA 2024

«MA ANCHE»: LA RIMOZIONE DEI CONFLITTI Nella Scoperta dell’alba il protagonista scopre che il padre ha abbandonato la famiglia perché era entrato in clandestinità. La rimozione dei conflitti degli anni Settanta è un filo rosso che attraversa tutta la visione veltroniana, culturale, letteraria e politica. Rimozione che per me poteva essere sintetizzata nell’idea di intitolare, da sindaco, una via a Roma a Paolo Di Nella, giovane militante di estrema destra ucciso a sprangate nel 1981, e che Veltroni definisce nella targa a suo nome, una «Vittima della violenza». Così, senz’altro aggettivo a connotarlo. Come se a Roma, o in Italia, fosse passato uno tsunami incomprensibile. Questa stessa incapacità di comprendere la storia e questa rimozione dei conflitti (il che vuol dire anche disconoscimento delle differenze e delle soggettività) è la cifra più accesa di quasi tutte le opere di Veltroni che cercano di riscrivere attraverso la fiction la storia contemporanea: una rimozione che è di fatto revisionismo, diventato più esplicito nei suoi recenti interventi sulla storia contemporanea, come quelli scritti sul Corriere della sera e raccolti in Storie che parlano di noi. Cronache del bene e del male (Solferino, 2022). La mistificazione dello storicismo che aveva caratterizzato tutte le culture politiche novecentesche democratiche, socialiste, comuniste, laiche, cristiane, precipita nel suo micromanifesto politico del Pd, La nuova stagione, che è la sbobinatura del discorso di fondazione che Veltroni fa al Lingotto nel 2007. Se se ne fa un’analisi linguistica ci si rende conto di avere a che fare con un monstrum. IL «MA ANCHE» DI Le parole in questo suo libretto non si capisce proprio cosa signifiVELTRONI DIVENTA LA chino. Sembra un esercizio di neolingua orwelliana: basti pensare a RISPOSTA PEDESTRE ALLE il «partito a vocazione maggioritaria». Tutta la retorica della Nuova IDEOLOGIE POLITICHE stagione, una congerie di quelli che in sociolinguistica si chiamano SVILUPPATESI NELLA «plastismi», se la prendeva con i «vecchi linguaggi» del Novecento, CONTEMPORANEITÀ SU con «le identità». Si poteva anche comprendere il tentativo di aggreUNA MATRICE DIALETTICA gare invece che disperdere, ma sarebbe stato bello già allora ricordare allo staff veltroniano che il linguaggio non funziona così, una lingua – Saussure docet – identifica per opposizione. Un significato o è oppositivo o non è. Il «ma anche» di Veltroni diventa la risposta pedestre alle ideologie politiche sviluppatesi nella contemporaneità su una matrice dialettica. Dopo aver minato il fragile equilibrio del governo Prodi con l’idea del nuovo partito a vocazione maggioritaria, dopo aver lasciato Roma alla destra orribile di Gianni Alemanno, dopo aver perso le elezioni del 2008, a Veltroni non sembra comunque arrivato il tempo di fare un bilancio dei fallimenti, e scrive invece un monologo teatrale in versi sulla tragedia dell’Heysel, le morti causate dal crollo della curva dello stadio della finale della Coppa dei campioni del 1985. Riscriviamolo: un poema sull’Heysel! Pubblicato da Einaudi, che si vergogna di spacciarlo per poesia, giustamente. Il libro va letto tutto ad alta voce, perché, pur essendo un’operazione terrificante molto di più dei duetti di Berlusconi e Apicella, ha recensioni su Repubblica, letture con grandi attori all’Auditorium e alla Fiera del Libro.

101

UNA STORIA ITALIANA

Quando cade l’acrobata, entrano i clown (2010) è tutto un versificare adolescenziale, ingolfato, bolso, che, associato al nome Walter Veltroni, crea un involontario risultato comico e dolorosamente grottesco, trattandosi di morti a cui rendere omaggio. Ci sono immagini come questa: Da quel giorno alla parola giocare si trova, come sinonimo, morire. / Un mondo che non è capace di giocare è condannato all’infelicità. / E alla violenza. / Ci sono versi in cui l’andatura prosastica diventa un po’ insostenibile: Boniek tocca a Paolo Rossi ma la palla è oscurata da un sei. / 0636911-399707-3960781-3962772 / Migliaia di matite, migliaia di fogli di carta, sono volati in quella notte di mano in mano /Nelle case degli italiani che avevano ascoltato la voce sicura di Bruno Pizzul. Ci sono versi che stentano a non risultare caricaturali: Il dolore – viene proclamato verso la fine – non è un ciao. Perché ha bisogno di parlare di tutti questi morti? Desaparecidos, morti dell’Heysel, Bob Kennedy, Berlinguer, Luca Flores, i morti degli anni di piombo e ora, nell’ultimo uscito, Alfredino Rampi e Roberto Peci? Proprio la lettura dell’Inizio del buio (2011) illumina su un aspetto psicanalitico del personaggio Veltroni. La conclusione che si può trarre da tutto questo attraversamento che fa delle tragedie della storia non porta mai a nessuna elaborazione. Nella sua visione del mondo, il male non ha senso (non vale nessuna spiegazione politica, sociale, di teodicea, di psicologia sociale). Il male arriva e le persone ne sono in balia. Ecco dopo aver capito la gravità politica del «ma anche», possiamo riconoscere anche il senso profondo del «buonismo», che non va letto come una pelosa forma di solidarismo, ma è un’allucinatoria prospettiva di rimozione e riscrittura del reale. In termini filosofici, una patologia leibniziana di vivere nel meno peggiore dei mondi possibili, per l’incapacità di leggere il male storico. Nella visione delle opere veltroniane non si distingue l’elemento immaginato da quello reale. Il continuo ricorso a una narrazione ipotetica, il prevalere di una memoria emotiva sulla ricostruzione storica, definiscono una proiezione infantile, priva di qualunque principio di realtà, che seppure permette di salvare un bambino dalla violenza del reale quando si manifesta, rischia per un adulto di trasformarsi in una prigione mentale, in un sogno nostalgico in cui appunto non c’è differenza tra i propri desideri e quelli degli altri. In questo senso, il trauma veltroniano, lui stesso inconsapevolmente lo cita in diversi libri – in modo esplicitamente autobiografico in Ciao (2015), in modo pacchianamente metaforico in Quando (2018) – sembra essere proprio il non aver mai conosciuto suo padre, Vittorio, giovane e brillante dirigente Rai, morto con Walter neonato. Quest’impossibilità di confrontarsi con un padre che ci guida e ci giudica e quindi possa mediare sui nostri successi e sui nostri fallimenti, fa sì che per noi il fallimento, la sconfitta, sia sinonimo di non-realtà. È un tipo di complesso opposto a quello di Edipo, forse simile a quello che Massimo Recalcati definisce complesso di Telemaco: come novelli figli di Ulisse aspettiamo il ritorno di questo padre eccezionale con il quale non possiamo confrontarci mai. Nel frattempo, non abbiamo idea di cosa sia bene e cosa sia male. La cosa incredibile è come questa proiezione veltroniana sia riuscita a diventare una visione suggestiva oltre che una grande narrazione politica. La domanda da farci è: perché ne siamo stati in parte stregati anche noi? E quando riusciremo a affrancarcene?

IMMAGINARIO

Eravamo morti nel 1994 La bomba e i morti di via Palestro, coi funerali di una classe politica, sono il preludio con sorriso della discesa in campo. Poi la serata della prima vittoria, e due bare: quella del papa polacco e quella del presidente del miracolo italiano Giuseppe Genna

102

N. 22

PRIMAVERA 2024

AVVERTENZA DELL’AUTORE

Il 10 maggio 1994 Silvio Berlusconi venne dal presidente della Repubblica incaricato premier, la prima di quattro volte, dal ‘94 al 2011. È del 21 luglio 2022 la sua rilevante decisione di far cadere un governo, quello presieduto da Mario Draghi, e del 22 ottobre 2022 l’altrettanto rilevante decisione di permettere la nascita del governo a guida Giorgia Meloni. Il 1994 è un anno coerente con i cinque precedenti. Il numero di fatti accaduti in quel quinquennio e il loro carattere rivoluzionario, in termini di politica interna e internazionale, definisce un’aberrazione. Non si comprende come gli italiani siano riusciti a seguire e a determinare ciò che accadde, tra restaurazioni sommarie, giustizialismi atroci, cronache impazzite, movimentazione politica anonima e priva di soggettività. Tale confusione dei fatti e delle azioni, concatenati nel lustro che va dalla caduta del Muro a Tangentopoli al crollo del regime partitico esistente alla rivoluzione fintamente liberale di Silvio Berlsuconi, viene qui di seguito affidata alla voce, altrettanto confusa e confusionaria, di uno scrittore che non è in grado di proporre al proposito un testo a leggibilità adamantina e risulta incapace di fornirci una cronaca completa e veridica dell’accaduto.

È notte, esplode. L’ultima volta che ascolto la voce della donna che dovrei sposare e a cui ho rifiutato le nozze, l’ultima volta di quella voce che mi fa il sublime e il tragico, ecco quando la perdo, avviene il 27 luglio 1993, intorno alle 23.20 all’incirca, mentre sono crollato con la Guzzi a terra e le cime degli alberi dei giardini di Porta Venezia a Milano sono accese come incensi in bastoncino e va nell’aria la polvere infuocata, i frammenti di foglie grigi e i pollini incendiati nevicano e ustionano in vortici nella notte dell’estate calda e tremenda e cinque persone mi sono morte a centocinquanta metri da me, dalla mia Guzzi 3 e 50 danneggiata perché scagliata a terra sul pavè sconnesso di via Palestro e mi sono tagliato sopra la tibia la pelle, aperta, quasi vedo l’osso ma non sento nulla, mentre cerco la cabina telefonica, tutto il digitale di là da venire, l’etere che si ingrassa a sfere di informazione, mentre al momento l’informazione è questa, cinque morti, io e altri a terra, io rialzato e zoppicante, la Guzzi a terra rialzata a fatica, il telefono con la guaina a parlatoio arancione acceso nella notte dove il Padiglione di Arte Contemporanea è in fiamme ed è esploso tutto addosso ai pompieri e a un extracomunitario, diciamo così, «extracomunitario», in quest’epoca di orrore e sangue trasognato, mentre pianto tra le placche del pavè il cavalletto Guzzi e infilo duecento lire rugginose nella feritoia del telefono pubblico e chiamo nella notte a casa della donna che dovevo sposare, ne ero così innamorato!, e poi non sono convolato a nozze e voglio essere certo che non era qui, con il suo nuovo fidanzato, ho il terrore che sia morta qui, è la prima cosa che faccio, con cinque cadaveri a centocinquanta metri, i muri crollati del Pac per l’esplosione dell’autobomba, è quasi mezzanotte e non la sento da mesi, mesi in cui vomito tutto il Lexotan che bevo a sorsi, mesi di lucida isteria e insonnia greve e adrenalina e catatonia, amo quella donna e ne sono scappato e adesso sono morti in cinque, ho iniziato ad amarla a due anni dalla caduta del Muro e mentre esplode l’Unione sovietica intera e finalmente, finalmente, solleva la cornetta nella notte infuocata e dice, Maura: «Sì? Chi è?» e io non ho il coraggio di dire nulla. È viva.

103

Dies irae (Rizzoli, 2006) e La vita umana sul pianeta Terra (Alegre, 2022). Il suo ultimo libro è Yara. Il true crime (Bompiani, 2023).

UNA STORIA ITALIANA

Ai funerali delle cinque vittime, diciamo i nomi, pronunciamoli in questo tempo lanciato verso la trasformazione finale, quando noi stessi non saremo più noi eppure saremo noi stessi, con altri corpi e in altri sogni, avendo compreso che non moriremo mai e che non saremo mai nati, quando i nomi saranno inutili, ma non adesso, 1993 anno del Signore dei Mondi Morti, degli Universi In Cenere, dei Nomi e delle Forme Geometriche e Inclassificabili, ecco i Nomi dei Morti: i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, marocchino extracomunitario negro clandestino rifugiato irregolare che puzza ed è povero ed è allogeno extraeuropeo come Giuseppe Genna, dice il Fronte nazionale di Franco Giorgio Freda, che dormiva scrittore, curatore su una panchina. editoriale e Funerali. sceneggiatore. È Attraversano la Galleria in trionfo i giudici del pool Mani autore di diversi Pulite, l’ottagono della Galleria, a maniche corte le camicie, la romanzi, tra i quali gente fan impazzita.

Nella piazza verso il palazzo dell’Arengario il fronte delle autobotti dei vigili del fuoco, hanno perso i colleghi e i colleghi stanno in piedi sui tetti dei mezzi e suonano la sirena. Duomo colmo. Puzza ascellare, estiva. Dell’estate che inverte il clima e la memoria di piazza Fontana. Questa città fredda di martiri e martirii. Ed ecco l’arcivescovo cardinale teologo gesuita con il bastone cardinalizio pastorale dall’estremità arcuata, sembra realizzato da Aligi Sassu, sia il cardinale sia il bastone e anche le parole di metallo grezzo e lavorato male da un artista del Novecento, che il prete commina a tutti noi, io sono seduto a terra, la schiena appoggiata a un pilastro, dentro il Duomo, forse c’è anche il presidente. Della Repubblica. È venerdì. Interviene in forma privata. Ore 16.05: il Presidente della Repubblica, accompagnato dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica, si trasferisce in auto all’Ospedale Fatebenefratelli. Il corteo presidenziale viene seguito dalle auto con a bordo gli altri componenti il Seguito. I Presidenti del Senato della Repubblica, della Camera dei deputati e della Corte costituzionale e le altre Personalità previste in corteo lasciano Palazzo Marino per recarsi direttamente in Duomo. Corteo:

104

N. 22

PRIMAVERA 2024

vettura 1: Presidente Spadolini; vettura 2: Presidente Napolitano, dott. Marra, dott. Meschino; vettura 2 bis (*): Presidente Ciampi, ambasciatore Vento; vettura 3: Presidente Casavola, dott. Bronzini; vettura 4: Sen. Granelli, Prefetto di Milano; vettura 5 (*): Ministro Conso, Ministro Baratta; vettura A (**): On. Zolla, Prefetto Jannelli, dott. Scelba; vettura B (**). (*) Solo nel percorso dal Duomo all’Aeroporto di Linate. (**) Nel percorso da Palazzo Marino all’Ospedale Fatebenefratelli e, quindi, al Duomo seguono, a breve distanza, il corteo presidenziale. Le bare sono coperte dalla bandiera tricolore. Non capisco se anche lo è quella del marocchino extracomunitario negro del Marocco. Sono quattro? Sono cinque? Era mussulmano? Non capisco. Tra i fumi di incenso altissimo e imponente e con la fossetta nel mento e lo sguardo gelido il cardinale dice parole esatte, gesuitiche, alla fine di tutte le parole: «In comunione di dolore con il Santo Padre, anche per le distruzioni operate a Roma su monumenti cari al cuore di ogni cristiano e di ogni cittadino, rileggiamo le letture bibliche di questa Messa funebre; esse infatti ci mettono in bocca parole che la commozione ci impedirebbe di articolare. Parole di dolore, di sgomento, di lutto, di sdegno anche: ‘Vi sarà un tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo’». Ed eccolo, sorridente, che mi sorride addosso contro la mia angoscia!

105

UNA STORIA ITALIANA

Scende in campo: lui! L’angoscia è un vento caldo di bombe che sposta l’aria e insuffla fibre di amianto nei bronchi della nazione. Arriva lui ed è subito allegria!, con il sole in tasca e molti venditori che acquisiscono consenso e voti in cambio di sorrisi! Quindici giorni prima dell’autobomba era stato interdetto dai magistrati il Fronte Nazionale di Franco Giorgio Freda, già imputato nel processo della strage di piazza Fontana. Il 12 luglio 1993, per ordine dell’autorità giudiziaria di Verona (magistrato Papalìa) vengono arrestati, con accuse di ricostituzione del partito fascista e incitamento a odio e discriminazione razziale, Franco Giorgio Freda, Aldo Gaiba, Cesare Ferri, l’addetto alla sede territoriale di Verona e alcuni militanti veronesi. E di lui si parla, ovunque, che scende in campo, con la volontà dell’ottimismo e l’ottimismo della volontà, con molto sogno da dare agli italiani ora che crolla come il Pac a Milano ovunque ogni partito consolidato nei decenni, immobile rinosauro gigante dalla pelle di pietra, pachiderma che dorme il sonno della ragione e ha ragione del sonno. Tutto diventa uno scherzo. Le parole: come si fanno leggere! Alla fine di tutte le parole, le parole sono gesuitiche, siamo costretti a leggerle, finiamo di parlare. Parlare fini. Parole messeci nella bocca. Non la apriamo più non le apriamo più. Diciamo dunque in comunione di dolore con il Santo Padre, anche per le distruzioni operate a Roma sul cuore di ogni cittadino, diciamo che rileggiamo le letture, ci mettono in bocca parole che ci impedirebbero di articolare. Parole di dolore, di sgomento, di lutto, di sdegno e anche vi sarà un tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo, ed è sempre questo tempo, in cui sappiamo di dire, il tempo. E il tempo è il ‘94. Nel ‘94 scese in campo perché gli eredi dei comunisti stavano per prendere il potere dopo avere scardinato la democrazia con l’uso politico della giustizia. Per difendere le sue aziende. «La situazione della Fininvest con 5mila miliardi di debiti. Franco Tatò, che all’epoca era l’amministratore delegato del gruppo, non vedeva vie d’uscita: ‘Cavaliere, dobbiamo portare i libri in tribunale!’. I fatti poi, per fortuna, ci hanno dato ragione e oggi posso dire che senza la decisione di scendere in campo con un suo partito, Berlusconi non avrebbe salvato la pelle e sarebbe finito come Angelo Rizzoli, che con l’inchiesta della P2 andò in carcere e perse l’azienda» disse Dell’Utri a Galdo. Scende così: lo guardiamo tutti. È il padre, officiante, di questo modo di vedere tutti insieme. La bara di un papa morto di Parkinson viene vista da tutti insieme, mentre un vento tumultuoso volta le pagine del Libro Sacro sopra il cofano in legno di pino del sarcofago, dentro cui c’è il padre di tutti morto, quel vento in tumulto che solleva le vesti ai cardinali, le tuniche, gli zucchetti furibondi nella vertigine del tumulto in aria nel vento, in un risucchio con le colombe e i falchi, nell’azzurro, l’8 aprile 2005, da giorni il cadavere del Santo Padre si gonfiava, il Parkinson non si arresta una volta che la vita organica sia termi-

nata ma avanza, avanza e smangia l’organo e gonfia la pelle, in questo grande vento orizzontale e verticale, undici anni dopo che quell’altro padre era sceso, visto da tutti, nel campo. Recitiamo in polacco le ultime parole sacre, le ultime parole sacre polacche. Il Muro ha cominciato a cadere da lì e da lì è venuto lui in campo. Le parole polacche sanno essere parole finali, di caduta, di muraglia. Ed era sceso in campo, morto, visto da tutti. Il 26 gennaio 1994, facendo questo: leggeva. Lo leggeva, lo diceva a tutti, era morto come uno che legge delle parole sempre è morto. Essere visti da tutti in un rettangolo di vetro a forma di teca, televisiva per guardare da lontano tutti insieme, significa essere morti, sotto una calza in nylon da donna che copre l’obbiettivo, per fare sembrare più morto chi parla, più morte le parole, la speranza, i bisogni di avere bisogno, la carezza del padre morto sulla fronte del fanciullino con la febbre da tisi che muore tossendo trucioli di parole prima di morire, è azzurro e muore sotto questa carezza il fanciullo e le parole del padre morto che carezza la fronte azzurra del figlioletto morto «so quel che non voglio e so anche quel che voglio», «da imprenditore, da cittadino e ora da cittadino», «senza nessuna timidezza ma con la determinazione e la serenità», «la vita mi ha insegnato, vi dico», «è possibile farla finita con stupide baruffe», «senza mestiere». Queste cose, cioè parole, aveva pronunciato dietro quella calza di nylon e la nazione aveva creduto. Alla fine delle parole non resta che credere o non credere. Tutto è lì. Niente va escluso. Nessuno. QUESTE COSE, E avevano votato.

CIOÈ PAROLE, AVEVA PRONUNCIATO DIETRO QUELLA CALZA DI NYLON. E LA NAZIONE AVEVA CREDUTO. E AVEVA VOTATO

106

N. 22

PRIMAVERA 2024

Domenica 27 si erano tenute, e lunedì 28 marzo, del 1994, le elezioni politiche per questa XII legislatura di una Repubblica stravolta, mutata, mai sazia del niente che le avanza addosso e in gola, il niente dove si è inerpicata e inoculata la Repubblica Imperiale che è da sempre. Gli istituti di rilevazione friggevano. I dati friggono, gli statistici sono esausti. Eravamo impegnati spasmodici tutti noi telefonisti anonimi, per guadagnare seimila lire l’ora, degli istituti demoscopici, al fine di avere anticipato le percentuali dell’incerta tenzone tra coalizioni elettorali, Berlusconi sopra tutti. Il locale, dove Forza Italia celebra la notte elettorale è dietro il carcere di San Vittore a Milano, dove è dentro tutta la Tangentopoli di questa città e d’Italia. È ideale per convention aziendali. È fashion. La sera del marzo, il 28, 1994 ogni data impazzisce tra i corpi maschili che ho attorno, femmine anni Ottanta nelle scie dei sorrisi e i pianissimo della musica di sottofondo. Ampie le sale e i salotti privati a ristorante per cene e pranzi ed eventi, nuziali, chimici, tra corridoi verso una discreta zona danza, dance, e gli schermi televisivi ovunque per i risultati elettorali, in attesa. Emilio Fede parla e sta per piangere. Alla festa elettorale di Forza Italia mi sono infilato tra il clandestino e no, per osservare la grande rivoluzione del silente nulla in cui siamo avanzati imperiali nel sorriso di lui

sceso in campo, nei suoi capelli rasi, la nuca nuda, la tela scura inavvertibile in nylon della calza femminile nell’obbiettivo, in tutte le televisioni unite. Mezza nazione lo vota. Attendono i risultati. Ad attendere i risultati impiegano tutto sé stessi per arrivare. Stefania Ariosto, le stringo la mano, assentendo Vittorio Dotti. Sembra offuscata, chimica, ha sonno. Gianni Pilo dov’è? Dov’è Piepoli. Giuliano Urbani. Penso a Ombretta Fumagalli Carulli, a Francesco D’Onofrio. Stefano Podestà, uomo dal sorriso positivo. L’Italia si spalanca a Tatarella. «Attenzione. Se Berlusconi è la peste, gli altri sono il colera». Si è espresso in un’intervista Toni Negri trasferito in Francia. Per sottrarsi al carcere nell’83. Al francese Globe Hebdo Toni Negri ha parlato bene non solo del Cavaliere ma anche di Alleanza nazionale. Anche per la Lega ha avuto parole di apprezzamento: «Incarna la piccola e media industria del nord che ha fatto dell’Italia degli anni Settanta una grande potenza industriale». Ma le parole migliori Negri le ha riservate per il leader di Forza Italia: «È riuscito a fare alleare le due destre popolari, smussandone i tratti folcloristici, sulla base di un’ideologia radicalmente liberale». Quanto alla sua dichiarazione di voto, l’ex deputato radicale ha ricordato di vivere da un decennio in Francia. Tutto il resto, per lui è colera.

107

UNA STORIA ITALIANA

Nell’anno del Signore 2023, il 14 giugno, il Signore non c’è, più. Ore 15. I funerali di Silvio Berlusconi. Nella caldana sotto le palme sicule verso le facciate di fronte al Duomo di Milano, palazzo dell’Arengario a destra. Gente sfatta. Nebulizzazioni di acqua fredda sotto ventilatori. Taxi lenti, progressivi, nonostante le esequie. Piazza non strapiena, nemmeno piena, nemmeno colma. «Sei-settemila, forse» dice l’amico collega che mi è a fianco e conta le bandiere di Forza Italia tra la folla davanti al sagrato: «Tre. Tre bandiere». È uscita on line, ora tutto è on line e non nella tv, l’ultima foto in vita di Silvio Berlusconi, gonfio di cortisone, irriconoscibile, un uovo sodo di carne con lo sguardo spaventato dalla morte, come l’ha sempre temuta e sedotta la morte, poiché ne era sedotto, l’ultima foto mentre mangia un gelato in un bar di Milano 2, accanto a un bambino e di lì a poco è morto. È tutto un feretro, italiano. Qui finiamo iniziando, dove eravamo iniziati nel 1994, dove eravamo finiti. Poiché eravamo morti nel 1994 tutte, tutti, non siamo nate ora, nati ora, finendo, ripetendo gli errori commessi, e peggiorandoli, finché non sia arrestato questo discorrere di errore in errore, a mio infallibile avviso, come giusta vendetta giustamente punita fosse.

108

N. 22

PRIMAVERA 2024

Artwork di ALESSIO MELANDRI

All’indomani della morte di Henry Kissinger, lo scorso 29 novembre, Jacobin Magazine ha diffuso un instant book al quale lavorava da diverso tempo: racconta vita e crimini dell’ex Segretario di Stato. Ecco alcuni saggi che lo compongono

THE GOOD DIE YOUNG

Kissinger si appoggiava a un sistema di pensiero e a una filosofia della storia che doveva molto al pensatore reazionario Oswald Spengler, il teorico del declino della civiltà occidentale. A partire dalla sua tesi ad Harvard

110

N. 22

PRIMAVERA 2024

I

n un mio libro pubblicato nel 2015, L’ombra di Kissinger [Kissinger’s Shadow], sostenevo che Henry Kissinger fosse un pensatore utile. Intendevo dire che la sua lunga carriera (dapprima come teorico della Difesa durante la Guerra fredda, poi come figura chiave della politica estera americana, consigliere dell’élite mondiale e opinionista falco) e la sua molto ben ponderata filosofia della storia contriGreg Grandin buiscono a illuminare i contorni del militarismo postbellico statunitense, e permettono anche di tracciare una linea di congiunzione tra la guerra, disastrosa, nel sud-est asiatico e quella, catastrofica, del Golfo. Il libro è uscito un anno prima dell’imprevista elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, quando pensavo che l’ultimo atto di un Kissinger sul viale del tramonto sarebbe stato di crogiolarsi nel calore dei riconoscimenti neoliberali offerti da democratici come Hillary Clinton e Samantha Power. La conclusione del mio saggio insisteva su quanto il militarismo pragmatico e manageriale di Barack Obama riecheggiasse le vecchie teorie di Kissinger sull’interventismo e la guerra, ma anche su quanto lo stesso Kissinger abbia messo avanti il disprezzo di Obama per la sovranità nazionale nell’affidarsi totalmente ai droni e alle campagne di bombardamento come una sorta di assoluzione Greg Grandin insegna ex post delle sue azioni passate. Alla domanda sul suo coinvolgimento nel rovesciamento di Salvador Allende in Cile e nel bombarstoria alla New damento illegale della Cambogia, Kissinger ha risposto infatti che York Universit. Ha anche Obama aveva agito in modo simile, portando come esempio scritto Kissinger’s gli omicidi mirati con i droni e la destituzione di Gheddafi in Libia. Shadow: The Long Ecco dunque una rappresentazione plastica della trasversalità Reach of America’s auto-giustificativa del militarismo americano: Kissinger usa l’oMost Controversial dierna strategia della guerra infinita per giustificare le sue azioni Statesman (St in Cambogia, Cile e non solo di quasi mezzo secolo fa, nonostanMartin’s Press, 2016). te quelle azioni di mezzo secolo fa abbiano contribuito a creare La traduzione è di le condizioni per le odierne guerre infinite. Riccardo Antoniucci.

Oggi sono convinto che avrei dovuto aggiungere un capitolo all’Ombra di Kissinger, perché l’elezione di Donald Trump alla presidenza nel 2016 è stata un’altra (e diversa) conferma delle sue tesi. Kissinger ha idealizzato personaggi molto simili a Trump per quasi tutta la vita: statisti la cui grandezza risiede nella loro spontaneità e agilità, che prosperano nel caos, nella «creazione perpetua, nella costante ridefinizione degli obiettivi», come scrisse Kissinger negli anni Cinquanta. Personaggi che evitano la paralisi dell’azione generata dal pensare troppo a cosa potrebbe andare male, cioè dalla «pre-visione di catastrofi» che spesso affligge diplomatici e specialisti di geopolitica. «Esistono due tipi di realisti – scriveva Kissinger all’inizio degli anni Sessanta – quelli che manipolano i fatti e quelli che li creano. L’Occidente ha bisogno più di ogni altra cosa di uomini capaci di creare la propria realtà». E chi meglio di una star dei reality può creare la propria realtà?

111

Nella schiera dei teorici della Difesa del dopoguerra americano, Kissinger si è dimostrato tra i più consapevoli della tradizione filosofica alla base delle sue politiche e delle sue valutazioni. Posizione che si potrebbe riassumere come una ripresa sui generis dell’idealismo tedesco ispirato al filosofo di inizio Novecento Oswald Spengler, il quale definiva la storia in base a elementi soggettivi, pre-razionali e istintuali. Questa tradizione si poneva in netto contrasto con l’empirismo, il pragmatismo e il positivismo che dominavano le scienze sociali americane durante la Guerra fredda, e sostenevano che la realtà fosse trasparente, che la «verità» dei fatti può essere raggiunta semplicemente osservandoli. Ad Harvard, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, appena laureato e prima di diventare professore associato, Kissinger criticò duramente sia l’assolutismo morale sia l’idea di oggettività, contestando la tesi per cui le leggi che governano la società siano conoscibili attraverso l’osservazione. Il biografo autorizzato di Kissinger, Niall Ferguson, ha definito Kissinger un kantiano, il che è insieme parzialmente giusto e totalmente sbagliato. Kissinger ha abbracciato la parte del pensiero kantiano che enfatizza la libertà radicale, ma non, come crede Ferguson, per affermare l’etica fondamentale, quanto per minarla. A una conferenza ad Harvard una volta disse: «Non possiamo certo insistere allo stesso tempo sulla nostra libertà e sulla necessità dei nostri valori». Come a dire che non possiamo essere allo stesso tempo radicalmente liberi e soggetti a un requisito morale fisso. Poi, citando il famoso imperativo categorico di Kant di trattare le persone sempre come fini e mai come mezzi, aggiungeva: «Ciò che consideriamo un fine e ciò che consideriamo un mezzo dipende essenzialmente dalla metafisica del proprio sistema e dal concetto che si ha di sé e del proprio rapporto con l’universo». In altre parole, Kissinger si è presto dichiarato a favore di quello che la Nuova destra moderna, almeno fino a poco tempo fa, denunciava come relativismo radicale. Non esiste una verità assoluta, sosteneva nei suoi primi scritti, non esiste alcuna verità se non quella che si può dedurre dalla propria prospettiva singola. «Il significato rappresenta l’emanazione di un contesto metafisico. Ogni uomo, in un certo senso, crea la sua immagine del mondo», scriveva. La verità non si trova nei fatti, ma nelle domande che poniamo a quei fatti. Il significato della storia è «insito nella natura della domanda». Quest’ultima frase è tratta da una tesi che Kissinger presentò all’ultimo anno di Harvard, una rassegna di quasi 400 pagine a partire dagli scritti di diversi filosofi europei. Si intitolava The Meaning of History [Il significato della storia] ed era un lavoro denso, malinconico e spesso eccessivo, facilmente liquidabile come un’opera di gioventù. Kissinger ha continuato per tutta la vita a utilizzarne premesse e argomentazioni, in forme diverse. Ma arrivato ad Harvard Kissinger aveva già una vasta esperienza di riflessione sui temi sollevati dalla

THE GOOD DIE YOUNG

La libertà sopra l’etica

PRIMAVERA 2024 N. 22

112

sua tesi, come il rapporto tra dati e saggezza, tra mondo materiale e coscienza, tra essere e nulla. A conferma di un fatto spesso trascurato del nostro presente post-fattuale: le origini esperienziali del relativismo intellettuale che ha attraversato il XX secolo affondando nell’omicidio di massa, nel militarismo, nell’imperialismo e nella guerra infinita. Kissinger era scampato all’Olocausto, ma almeno dodici membri della sua famiglia ne furono vittime. Arruolato nell’esercito Usa nel 1943, trascorse l’ultimo anno di guerra in Germania facendo carriera nei servizi segreti. Quando gli diedero l’incarico di amministratore militare della città di Krefeld occupata, 200.000 abitanti sul fiume Reno, si impegnò a fondo per eliminare tutti i nazisti dalle cariche comunali. Si distinse anche come agente dei servizi segreti, identificando, arrestando e interrogando agenti della Gestapo e costruendosi una rete di informatori confidenziali. Per questa efficacia e per il coraggio ricevette una Stella di bronzo. In altre parole, il rapporto tra fatti e verità, preoccupazione centrale della sua tesi, non era per lui questione astratta. Si trattava anzi di vita o di morte, e la successiva diplomazia di Kissinger fu, come ebbe a scrivere uno dei suoi compagni di corso ad Harvard, «una trasposizione dal mondo del pensiero al mondo del potere». Kissinger fu molto influenzato dalla critica della civiltà di Spengler e dalla sua idea che le società complesse nascono, maturano e infine svaniscono. Lo colpì particolarmente la nozione di Spengler secondo cui il declino poteva essere identificato dal momento in cui la tecnica sostituisce lo scopo, quando i contabili, gli economisti e i burocrati prendono il posto dei sacerdoti, dei poeti e dei guerrieri. Una civiltà è davvero in pericolo quando prendono il sopravvento gli «uomini della causalità» (termine di Spengler) e gli «uomini dei fatti» (termine di Kissinger). Quando Per Spengler le società complesse cominciano a declinare i sogni, i miti e vanno in declino quando i contabili, anche i rischi di un periodo creativo, gli gli economisti e i burocrati prendono il posto intellettuali e i leader politici cominciano dei sacerdoti, dei poeti e dei guerrieri a preoccuparsi prevalentemente di chiedersi non più il «perché», ma il «come». «Un secolo di azioni di carattere puramente espan­sivo», scrive Spengler riferendosi al razionalismo burocratico della società moderna, che cerca modi sempre più efficienti di fare le cose ed è anche «un’epoca di decadenza». Le dimensioni intuitive della saggezza vengono messe da parte, la procedura tecnocratica prevale sullo scopo e l’informazione viene scambiata per saggezza. La cultura occidentale è stata la massima espressione storica della razionalità tecnologica: quella che «vede il mondo intero come un’ipotesi di lavoro», scriveva Kissinger nel 1950. La «macchina» era il suo grande simbolo, un «perpetuum mobile», una macchina a moto perpetuo che affermava l’inesorabile «padronanza sulla natura» (si possono sentire forti echi della «critica della ragione strumentale» di Adorno e Horkheimer in questa tesi). Gli Stati uniti, così potenti e così ossessivamente efficienti, erano l’avanguardia dell’Occidente e, come tali, particolarmente vulnerabili a rimanere intrappolati nel «culto dell’utile». Harvard all’epoca era il Vaticano del positivismo americano, pieno di alti sacerdoti delle scienze sociali, tra cui anche un giovane pioniere della teoria dei giochi Daniel Ellsberg. Kissinger si guardò intorno e si chiese: i leader statunitensi avrebbero davvero comandato o sarebbero stati schiavi della loro stessa tecnica? «La conoscenza tecnica non servirà a nulla per un’anima che ha perso il suo significato», avvertiva l’allora studente ventiseienne. Kissinger scrisse queste righe prima che gli Stati uniti si impegnassero a fondo nella guerra del Vietnam, ma nel corso degli anni sarebbe tornato più volte su molte delle premesse della sua tesi per spiegare perché quella guerra e le successive siano andate così male. «Quando

THE GOOD DIE YOUNG

113

la tecnica viene esaltata rispetto allo scopo, gli uomini diventano vittime delle loro complessità», scriveva nel 1965. Ancora nel suo libro Ordine mondiale, pubblicato a 91 anni, cita i Cori da ‘La Rocca’ di T. S. Eliot: «Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? / Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?». Kissinger ha accettato la critica di Spengler alle civiltà del passato, ma ha rifiutato il tetro determinismo del filosofo tedesco, mitigando invece il pessimismo con una variante di esistenzialismo basata sull’idea che la storia non abbia un significato intrinseco e quindi non possa essere «determinata» da niente. Gli esseri umani possiedono il libero arbitrio e le loro azioni godono di una gamma significativa di libertà. La decadenza non è inevitabile. «Spengler – ha scritto Kissinger nel 1950 – si è limitato a descrivere il declino come fatto, non la sua necessità». Negli anni Settanta, dopo aver concluso l’esperienza di governo, ossia dopo il Vietnam e dopo aver contribuito a scatenare i genocidi in Bangladesh e a Timor Est con le sue politiche, dopo aver sostenuto brutalmente le insurrezioni omicide nell’Africa meridionale e dopo il bombardamento illegale della Cambogia che creò le condizioni per l’avvento dei Khmer Rossi, avrebbe aggiunto questa riflessione: «Esiste un margine tra la necessità e l’accidente, in cui l’uomo di Stato, con perseveranza e intuizione, deve scegliere e quindi plasmare il destino del suo popolo». I limiti esistono, scrive Kissinger, ma i leader politici che si nascondono «dietro l’inevitabilità storica» per giustificare la loro inazione sono colpevoli di «abdicazione morale». Per questo Kissinger è sempre andato a caccia del Grande Statista che si eleva al di sopra dei fatti e delle burocrazie, che può attingere al «senso dell’anima» di una cultura e tradurre l’intuizione in una politica coraggiosa. «Un uomo di Stato spesso non ‘sa’ quel che fa, ma ciò non gli impedisce di realizzare con sicurezza ciò che porta al successo», scriveva Spengler. Kissinger pensava che Nixon fosse uno di questi uomini, ma, ahimè, aveva preso un abbaglio. Poi è arrivato Reagan, contro cui inizialmente aveva opposto resistenza (soprattutto perché Reagan e la prima generazione di neocon americani avevano mosso i primi passi politici attaccandolo), ma che ha finito per ammirare. Reagan aveva «il suo modo esuberante di comunicare con il pubblico americano», disse Kissinger per difendere la scelta del presidente di definire Muammar Gheddafi un «cane rabbioso» e proporre il bombardamento della Libia. Poi però è arrivato Trump. Un vero figlio di Spengler, un politico con il polso della sua cultura. Un politico che, avvertendo un declino incipiente, non avrebbe avuto paura di agire per invertire la tendenza. A differenza dei presidenti passati, Trump aveva fiutato istintivamente la trappola tesagli da burocrazia, agenzie di intelligence e servizi esteri, e si è rifiutato di caderci dentro. Secondo Kissinger, Trump «non ha alcun obbligo nei confronti di un gruppo particolare perché è diventato presidente sulla base di una propria strategia». È insomma un uomo libero. È significativo il fatto che Trump sia succeduto a Obama, perché nella classificazione della civiltà di Kissinger il professorale Obama incarnava l’ideale platonico del leader che compare quando si arriva sull’orlo del baratro. Un «uomo dei fatti», paralizzato da una visione della storia che vede il passato come nient’altro che una serie di relazioni causa-effetto, e il presente come nient’altro che il prodotto di un infinito ritorno di fiamma. Secondo Kissinger, Obama non era tanto preoccupato di far progredire gli obiettivi americani quanto delle «conseguenze a breve termine, che si trasformano in ostacoli permanenti». E per questo non ha fatto nulla, credendo che il modo migliore per rivendicare i valori americani fosse astenersi dall’agire. Nel periodo di grande crisi globale in cui viviamo, diceva Kissinger, Obama non può rappresentare l’Occidente, perché non ha alcun senso, alcun sentimento per l’Occidente, e ha anzi «sostanzialmente ritirato l’America dalla scena politica internazionale».

114

N. 22

PRIMAVERA 2024

La volontà di agire Ispirandosi alla filosofia della storia di cui sopra, nel corso della sua carriera Kissinger ha evocato spesso l’importanza di dare risposte creative e inaspettate alle crisi: esattamente quella «imprevedibilità» che Trump oggi apprezza e applica. Dal punto di vista di Kissinger, l’imprevedibilità era necessaria per una serie di ragioni. Perché i più grandi diplomatici sono quelli che scuotono le rispettive burocrazie di politica estera, che col tempo inevitabilmente si ossificano e finiscono per legarsi ai principi del passato (come la posizione di Washington sulla politica di Una sola Cina) e diventano troppo dipendenti dagli «esperti» che, conoscendo a fondo i dettagli della loro particolare area di expertise, raccomandano inevitabilmente cautela, mai azione. «Gli uomini di Stato che hanno raggiunto la grandezza finale non l’hanno fatto grazie alla rassegnazione, per quanto ben fondata fosse. A loro è stato dato non solo di mantenere la perfezione dell’ordine, ma di avere la forza di contemplare il caos, dove trovare il materiale per una nuova creazione», ha scritto Kissinger. L’imprevedibilità è necessaria anche per introdurre la minaccia dell’irrazionalità nei negoziati. Kissinger ha a lungo insistito sul fatto che la guerra e la diplomazia sono inseparabili e che, per essere efficaci, i diplomatici devono essere in grado di usare le minacce (più irrazionale o imprevedibile è una minaccia, più è credibile) e in egual misura offrire incentivi senza restrizioni. Fu questa logica a portare un Kissinger allora giovane teorico in ascesa e in cerca di notorietà, a farsi partigiano negli anni Cinquanta e Sessanta della «guerra nucleare limitata» e delle guerre a bassa intensità in aree di importanza marginale, come il sud-est asiatico. L’obiettivo era, come scrisse nel 1957, trasmettere la «massima minaccia credibile», e per farlo non si doveva escludere nessuna ipotesi. Trump ha fatto proprio questo argomento e lo ha usato per la campagna elettorale. «Come si possono condurre negoziati senza una credibile minaccia di escalation?», chiese Kissinger a Daniel Ellsberg il giorno di Natale del 1968, un mese prima dell’insediamento di Nixon. Kissinger aveva chiesto a Ellsberg di mettere insieme un documento che delineasse le possibili alternative per il Vietnam. Ellsberg lo fece, ma nel documento non c’era alcuna «opzione minaccia». La netta convinzione dell’analista era che «la gente negozia sempre, senza dover minacciare bombardamenti». Fino a poco tempo fa si poteva sostenere che Richard Nixon fosse stato la migliore incarnazione della filosofia della storia e della teoria della diplomazia di Kissinger. Dopo aver ottenuto la presidenza nel 1968 con la promessa di porre fine alla guerra in Vietnam, Nixon adottò una linea dura contro il Vietnam del Nord (proprio come Trump voleva una linea dura contro la Cina, l’Isis, il Messico, Cuba e l’Iran...), credendo che così avrebbe costretto Hanoi a fare le concessioni necessarie per portare il conflitto a una conclusione in grado di salvare la faccia alla Casa Bianca. Già prima delle elezioni del novembre 1968 Nixon aveva condiviso il piano con il suo consigliere Bob Haldeman, che divenne noto come «teoria del pazzo». Camminando lungo una spiaggia di Key Biscayne, Nixon disse al suo futuro capo di gabinetto che voleva che i nordvietnamiti credessero «che sono arrivato al punto di fare qualunque cosa per fermare la guerra. Gli diremo che Nixon è dannatamente ossessionato dai comunisti. Che quando si arrabbia non si riesce a trattenere e ha la mano sul bottone nucleare e che se continua così Ho Chi Minh in persona sarà costretto ad andare a Parigi tra due giorni a implorare la pace». La «durezza» era un leitmotiv obbligato che caratterizzava gran parte dell’arte di governo di Kissinger, e la «teoria del pazzo» era una logica estensione della sua filosofia: l’idea che il potere non è tale se non si è disposti a usarlo. I folli bombardamenti di Kissinger e Nixon nel sud-est asiatico furono spinti da motivazioni che erano l’opposto del realismo machiavellico. Il loro obiettivo era realizzare un mondo in cui Nixon e Kissinger credevano di dover

THE GOOD DIE YOUNG

115

vivere (un mondo, cioè, in cui con la forza del loro potere materiale avrebbero piegato al proprio volere paesi poveri e agricoli come la Cambogia, il Laos e il Vietnam) invece che il mondo reale in cui vivevano, in cui, per quanto volessero, non erano in grado di terrorizzare e sottomettere quelle nazioni più deboli. Il Vietnam ha svelato il vuoto morale iscritto nel cuore della filosofia della storia di Kissinger. Vuoto che, a giudicare dal suo appassionato abbraccio a Trump, non è mai stato colmato. Nel corso degli anni, Kissinger ha ripetutamente esortato i leader statunitensi a dichiarare la loro visione e a chiarire cosa intendevano ottenere le loro determinate politiche o interventi. Nei suoi termini, chiedeva loro di non anteporre la tecnica rispetto allo scopo. Un consiglio così serio oggi può causare svenimenti tra i liberal americani. Il problema è che Kissinger non è mai riuscito a definire cosa intendesse per «scopo». A volte, sembrava intendere la capacità di condurre una lunga partita geostrategica, di immaginare dove ci si volesse collocare in relazione ai propri avversari nel giro di dieci anni e quindi mettere in atto la politica necessaria per arrivarci. Altre volte, lo scopo sembra invece riferirsi alla necessità di creare «legittimità», dimostrare «credibilità» o stabilire un «equilibrio di potere» globale. Ma in entrambi i casi abbiamo a che fare con definizioni strumentali dello scopo. E tutte lasciano aperta la domanda: perché? Se la proiezione del potere è il mezzo, qual è il suo fine? Non può essere di accumulare più potere oggettivo, perché Kissinger ha sempre sostenuto che non esistesse nulla del genere. Kissinger è forse il più noto teorico del concetto di «equilibrio di potere». Ma c’è un passaggio affascinante e raramente citato nella sua tesi di dottorato del 1954 in cui insiste sul fatto che il potere di cui si parla non è «reale»: «Un equilibrio di potere legittimato dal potere sarebbe altamente instabile e renderebbe quasi inevitabile una guerra illimitata, perché l’equilibrio non è raggiunto dal Lo scopo del potere statunitense è creare una fatto, ma dalla consapevolezza dell’equiliconsapevolezza dello scopo americano. brio». Il ragionamento prosegue: «Questa In termini spengleriani, il potere è il punto coscienza non si realizza mai finché non di partenza e di arrivo della storia viene messa alla prova». Per mettere alla prova il potere, cioè per creare una consapevolezza del potere, bisogna essere disposti ad agire. E il modo migliore per produrre questa volontà è agire. Almeno su questo punto Kissinger è stato sempre chiaro: «Bisogna evitare l’inazione» per dimostrare che l’azione è possibile, scriveva. Solo l’azione può annullare l’incentivo sistemico all’inazione. Solo agire può far superare la paura paralizzante delle «conseguenze drastiche» che potrebbero derivare dall’azione stessa (come la guerra nucleare). Solo attraverso l’azione – comprese le guerre che giustificava in Vietnam, Afghanistan e Iraq – l’America potrà tornare a essere vitale, produrre la coscienza con cui comprende il suo potere, rompere l’impasse causata dall’eccessiva fiducia nella sua tecnologia nucleare, infondere coesione tra gli alleati e ricordare alla burocrazia della politica estera sempre più pietrificata lo scopo della potenza statunitense. Negli anni Cinquanta, rifacendosi alla teoria delle civiltà di Spengler, Kissinger criticava l’idea di proiettare il potere in nome del potere, ritenendo che questo sia ciò che accade quando prendono il controllo i tecnici e i burocrati, coloro che sanno come fare ma dimenticano il perché. Alla fine del ragionamento, però, Kissinger finisce sempre ad abbracciare l’oggetto della sua stessa critica. Il kissingerismo è una macchina a moto perpetuo: lo scopo del potere statunitense è creare una consapevolezza dello scopo americano. In termini spengleriani, il potere è il punto di partenza e di arrivo della storia, la sua «manifestazione» e il suo «obiettivo esclusivo». E poiché Kissinger si attiene a una nozione estremamente plastica della realtà, anche altri concetti intangibili come quelli di «interessi», «valori», «tradizione» e «immaginazione»

vengono trascinati nel vortice del suo ragionamento: non possiamo difendere i nostri interessi finché non sappiamo quali siano i nostri interessi, e non possiamo sapere quali siano i nostri interessi finché non li difendiamo. Non possiamo essere motivati ad agire sui nostri valori se non sappiamo quali siano i nostri valori, ma non possiamo sapere quali siano i nostri valori finché non agiamo. La macchina del moto perpetuo si è concretizzata in Donald Trump, che si presenta come un guscio vuoto proprio come la filosofia dell’azione di Kissinger, che esercita il potere per amore del potere, il dominio per amore del dominio, le cui proiezioni di imprevedibilità fanno collassare tattica e scopo, mezzi e fini, che crea il proprio significato, la propria «immagine del mondo» a colpi di tweet.

116

N. 22

PRIMAVERA 2024

«Tu sei il Giusto» Kissinger iniziò la sua vita adulta fuggendo dal nazismo e iniziò la sua carriera nell’analisi della Difesa lanciando allarmi sul fascismo. Nel 1964 partecipò alla Convention nazionale repubblicana al Cow Palace di San Francisco in qualità di consigliere del moderato Nelson Rockefeller. Rimase inorridito dalla «frenesia, il fervore e l’intensità» dei giovani bianchi che sostenevano Barry Goldwater. I termini con cui descriveva il movimento di Goldwater oggi potrebbero essere facilmente riutilizzati per definire il trumpismo. Kissinger condannava il nucleo tradizionale del partito per aver accolto i goldwateristi invece di combatterli, paragonandoli ai democratici tedeschi «di fronte a Hitler». «Una rivoluzione era chiaramente in atto», scriveva. Per lui, in questa fase, quella marmaglia di razzisti, antisemiti, cospiratori e anti-Nato che sostenevano Goldwater e avevano preso il controllo della convention repubblicana erano molto simili al fascismo europeo di cui era stato testimone in Germania negli anni Trenta. A San Francisco, tuttavia, Kissinger non guardava al passato, verso la sua giovinezza tormentata dal nazismo, ma verso il futuro. Negli anni successivi finì infatti per assecondare tutte le svariate svolte a destra della politica americana. Quando molti suoi colleghi (del calibro di Hans Morgenthau, Arthur Schlesinger Jr., George Kennan, Thomas Schelling, Reinhold Niebuhr), liberali o conservatori che fossero, esprimevano dubbi sulla potenza statunitense, Kissinger si schierava nella direzione opposta. Inizialmente entrò a lavorare come consulente del centrista Nelson Rockefeller, ma poi si riappacificò con Nixon, che all’inizio riteneva uno squilibrato, e adottò una politica estera bellicosa per placare la Nuova destra, consentendo così il bombardamento del sud-est asiatico e il sostegno al suprematismo bianco nell’Africa meridionale. Come disse a Ronald Reagan, «non avremmo avuto il Laos, non avremmo avuto la Cambogia» se Hubert Humphrey fosse stato eletto presidente nel 1968. Quando lo scandalo Watergate decretò l’inizio della caduta di Nixon, Kissinger ripeteva ai critici che sarebbe rimasto nell’amministrazione per evitare che il paese si spostasse ulteriormente verso l’estremismo e per evitare che «la gente davvero tosta», le «forze più brutali della società» prendessero il sopravvento. «Vi stiamo salvando dalla destra», disse ai membri del Consiglio di sicurezza nazionale statunitense che si erano dimessi per protesta contro il suo ordine di invadere la Cambogia nel 1970. «La destra siete voi», gli risposero gli altri. All’inizio degli anni Settanta Kissinger riteneva «inconcepibile» l’elezione di Reagan alla presidenza. Però nel 1981 prima fece pressioni sull’amministrazione Reagan per ottenere un posto di lavoro, poi criticò Reagan da destra per tutti gli anni Ottanta, pretendendo l’ulteriore militarizzazione della politica degli Usa in Medio Oriente e in America centrale. I neoconservatori che serrarono i ranghi attorno a George W. Bush dopo l’11 set-

THE GOOD DIE YOUNG

117

tembre sono saliti al potere attaccando Kissinger, facendo deragliare o annullando molte delle sue conquiste diplomatiche, ma Kissinger ha sostenuto le guerre in Afghanistan e in Iraq e spingeva per attaccare lo Yemen e la Somalia. Anche dal punto di vista intellettuale, Kissinger è passato rapidamente dall’essere un osservatore preoccupato del carattere insurrezionale di Goldwater a testimone simpatizzante della rivoluzione conservatrice, fino a sostenere che il modello storico di Donald Trump fosse nientemeno che Otto von Bismarck, il cancelliere prussiano del XIX secolo che unì la Germania nel 1871. Kissinger aveva previsto di includere un capitolo su Bismarck nella sua tesi di dottorato del 1954, che si concentrava su Klemens von Metternich e sul visconte Castlereagh (ministri degli Esteri rispettivamente di Austria e Gran Bretagna che imposero una pace conservatrice all’Europa dopo la vittoria nelle guerre napoleoniche), ma alla fine rinunciò per motivi di spazio. La tesi consolidò la sua reputazione come teorico realista. Bismarck fu comunque oggetto di un saggio pubblicato da Kissinger nell’estate del 1968, in un momento in cui i conservatori politici come lui erano alla ricerca di modi efficaci per contrastare l’ascesa del movimento della nuova sinistra e il clima di rivolta mondiale. Il segretario di Stato vedeva una speranza proprio in Bismarck, nel suo «genio» in grado di «frenare le forze in lotta, sia interne che estere, manipolando i loro antagonismi». I biografi di Kissinger hanno sostenuto che fosse la realipolitik l’aspetto principale preso in prestito da Bismarck, in quanto «capacità di sfruttare ogni opzione disponibile senza il vincolo dell’ideologia». Tuttavia, il saggio di Kissinger Il rivoluzionario bianco chiarisce che quello che che ammirava di più nel Cancelliere di ferro era il suo istinto rivoluzionario, la sua «volontà di imporre» una visione «incompatibile con l’ordine esistente». «La sua fu una strana rivoluzione – scriveva Kissinger – Apparve sotto le spoglie del conservatorismo e trionfò in politica interna grazie alla vastità dei suoi successi all’estero». Così facendo, Bismarck dimostrò che i liberali non erano gli unici agenti della storia mondiale e che anche loro erano in grado di prendere l’iniziativa dai rivoluzionari, eguagliando il loro slancio e adottando per sé l’immaginazione dialettica. «Non tutte le rivoluzioni iniziano con un assalto alla Bastiglia». In questi passaggi Kissinger parlava di Bismarck, ma avrebbe potuto benissimo parlare dei giovani conservatori «intensi, efficienti, curiosamente insicuri» che partecipavano alla Convention repubblicana del 1964, i quali stavano effettivamente imparando ad adottare lo stile, le tattiche e la retorica della sinistra, avviando la loro «lunga marcia» dentro le istituzioni, che in anni recenti li ha portati a controllare il parlamento statunitense, i tribunali, e la maggior parte dei governi statali, oltre che la Casa Bianca e i codici nucleari con l’elezione di Trump. Sulla base delle sue osservazioni, Kissinger pare abbia creduto di aver trovato in Trump il suo «rivoluzionario bianco»: un conservatore politico in possesso di qualità insurrezionali in grado, come disse in un’altra occasione, di dissolvere le «limitazioni tecniche», liberarsi dalle tradizioni e infrangere convenzioni, protocolli e burocrazie. Da Rockefeller a Nixon, passando poi per Reagan, George W. Bush e Donald Trump, il lavoro di Kissinger traccia l’evoluzione metafisica del potere statunitense, da un’epoca in cui lo spettacolo mediava il rapporto tra interesse e ideologia fino all’epoca odierna in cui la politica estera è completamente subordinata allo spettacolo. Viviamo tutti nel vuoto kissingeriano. Quali orrori ci attendono? Nessuno lo sa. Ma chiunque elogerà Kissinger in futuro (e sarebbe opportuno fosse lo stesso Trump) farebbe bene a prendere in considerazione l’utilizzo di queste parole tratte dalla sua tesi di laurea del 1950: «Non possiamo pretendere l’immortalità come prezzo per dare un senso alla vita. L’esperienza della libertà ci permette di elevarci oltre le sofferenze del passato e le frustrazioni della storia. In questa spiritualità risiede l’essenza dell’umanità, l’unicità che ogni uomo conferisce alla necessità della sua vita, l’autotrascendenza che dà pace». Trump è stato la trascendenza che ha dato pace a Kissinger.

THE GOOD DIE YOUNG

«Nel rovesciare Allende hai reso un grande servizio all’Occidente» disse Kissinger incontrando Pinochet dopo il golpe cileno contro Allende. La sua missione contro ogni istanza di cambiamento in sud America venne compiuta con ferocia e determinazione

N

118

N. 22

PRIMAVERA 2024

onostante la comparsa di Kissinger abbia segnato una rottura nella politica estera statunintense, oltre a una serie di svolte in quella interna, in America latina il cambiamento non fu percepito con la stessa chiarezza. Eppure Kissinger avrebbe posto fine a un ciclo politico che in sud America era iniziato agli albori degli anni Sessanta. Aldo Marchesi L’antitesi della sua dottrina in America latina era incarnata da Salvador Allende. Tre anni prima che Kissinger assumesse il suo ruolo di leadership negli affari esteri, Allende aveva già messo in rilievo quali problemi avrebbe dovuto affrontare un governo di sinistra nella regione. Nel 1966 il futuro presidente del Cile lanciò un allarme quasi profetico, restituendoci i contorni di come la sinistra latino-americana interpretasse la politica estera statunitense: Per il popolo cileno e per tutti i paesi dell’America latina la Dottrina Johnson costituisce una dichiarazione esplicita di come ogni qual volta un movimento popolare avrà la possibilità di ottenere il potere gli imperialisti non faranno altro che rispondere con la violenza. Nel movimento popolare cileno – il quale ha raggiunto notevoli risultati nel rendere più ampia e profonda la democrazia nel nostro paese – ci siamo ormai resi conto che pur di impedirci di poter accedere al potere per Aldo Marchesi via democratica e legale gli Stati uniti finiranno per usare la forza. è docente alla Ma ciò significa anche che abbiamo il dovere di intensificare i noUniversidad de la stri sforzi; mobilitare le masse, legare l’azione anti-imperialista ai biRepública in Uruguay. sogni quotidiani della gente: scioperi, occupazioni del suolo, mobiHa scritto Latin litazioni collettive, renderci consapevoli del fatto che incontreremo America’s Radical l’opposizione di una violenza reazionaria, a cui dovremo rispondere Left (Cambridge con una violenza rivoluzionaria. Saranno il popolo cileno e le condiUniversity Press, 2019). zioni del nostro paese a determinare quale metodo bisognerà usare La traduzione è di per sconfiggere il nemico imperialista e i suoi alleati. Emanuele Giammarco.

THE GOOD DIE YOUNG

119

Sulla scorta di queste premesse, Allende invocò la creazione di un’«iniziativa mirata a connettere e coordinare in modo permanente l’azione anti-imperialista di tutto il popolo latino-americano». Il rappresentante più perspicace della via legale al socialismo individuava ostacoli con cui avrebbe dovuto confrontarsi qualsiasi forza di sinistra della regione. Il potere che avevano davanti dimostrava una fermezza sempre più esplicita nel contrastare ogni movimento di sinistra o centrosinistra che fosse in lizza per il potere, sia per via democratica sia per via rivoluzionaria. Quella che Allende chiamava Dottrina Johnson era la formula ideata dagli Stati uniti nel 1965 per legittimare il proprio intervento contro le forze democratiche in Repubblica Dominicana, il ricorso alla presunta minaccia di una dittatura comunista. Un anno prima, gli Stati uniti avevano già sostenuto il colpo di Stato in Brasile, gettando le basi per un ciclo di dittature militari che sotto il mantello ideologico della sicurezza nazionale, oltre a devastare il sud America, avrebbero inaugurato una gestione brutale delle opposizioni politiche. La repressione scatenata contro i dissidenti si sarebbe fatta via via più intensa fino al 1968, quando vennero denunciati i sistematici metodi di tortura che avevano introdotto i consulenti americani. La dittatura brasiliana costituì a questo punto un tipo di regime politico in cui l’alleanza fra le élite nazionali e il governo statunitense sarebbe divenuta esplicita. La Dottrina Johnson arrivò in seguito all’ultima convergenza possibile fra gli sviluppisti latino-americani e quei settori statunitensi che durante i primi anni dell’Alleanza per il progresso avevano sollecitato iniziative riformiste in ambito urbano, agricolo e sociale. La fine dell’Alleanza fece sì che la tanto indispensabile «revolution in freedom» promessa da Kennedy non avrebbe più goduto del sostegno e dell’iniziativa degli Stati uniti. Da qui in avanti l’impero si sarebbe rivolto a governi di tipo militare e autoritario pronti a sostenere modelli di modernizzazione conservatori. Nel 1968, nemmeno due anni dopo che Allende aveva denunciato la Dottrina Johnson invocando una concertazione anti-imperialista, un rapporto del Dipartimento di Stato americano avrebbe già concluso che in sud America, almeno nel breve termine, non si poneva più alcuna minaccia autentica di rivoluzione. Nei paesi in cui si erano palesati movimenti insurrezionali (Colombia, Guatemala e Venezuela) i governi nazionali erano riusciti puntualmente a contenerli grazie all’aiuto degli Stati uniti. Certo, ciò non significava che sul lungo termine non ci fosse alcuna possibilità di rivoluzione: «Di sicuro entro il prossimo decennio – in tutta l’area assistemo allo sviluppo di condizioni più favorevoli per una futura rivoluzione». La previsione per il decennio successivo faceva riferimento ad alcuni sviluppi che nel Cono meridionale si sarebbero effettivamente materializzati negli anni a seguire. Nel documento si arrivava a concludere che quello «à la Castro» non sarebbe stato più il modello egemone di insurrezione e che a causa dei cambiamenti demografici del continente sarebbero emersi movimenti di carattere principalmente urbano. Il rapporto suggeriva che per quanto questi movimenti avrebbero coinvolto settori diversi della società (esercito, membri del clero, studenti universitari, lavoratori), le loro ideologie (marxista e nazionalista), così come le loro strategie politiche, avrebbero mantenuto tutte una caratteristica in comune: «un atteggiamento nazionalistico, indipendente, con forti connotazioni anti-statunitensi». I pessimi risultati dell’Alleanza per il progresso e la nascita di contestazioni più decise e variegate al controllo regionale degli Stati uniti posero quindi le condizioni per un inasprimento della Dottrina Johnson e per alcuni scontri decisivi i cui riverberi si sarebbero fatti sentire ben al di là dell’emisfero. Gli anni di Kissinger furono segnati da un periodo in cui sarebbero fiorite diverse concezioni rivoluzionarie, accolte da un assortimento di attori politici diversi (esercito, guerriglieri, politici di centro-sinistra, sindacalisti), nate da molteplici tradizioni ideologiche (marxi-

PRIMAVERA 2024 N. 22

120

smo, populismo, cristianesimo). Quando i ministri degli esteri sudamericani si incontrarono in un summit nel 1969, per esempio, diedero alla luce la «Viña del Mar Consensus», un rapporto che accusava i poteri mondiali di perpetuare il sottosviluppo della regione. E ancora nel 1973, in senso più radicale, l’elezione di Héctor José Cámpora a presidente argentino diede adito alla prospettiva di un’asse Lima-Santiago-Buenos Aires-Havana come valida alternativa all’egemonia statunitense, presagendo un momento di grande trasformazione regionale. Con lo svincolarsi dall’influenza americana da parte dei loro regimi militari, anche Bolivia e Perù iniziarono a proporre un programma di trasformazione sociale legato alla nazionalizzazione delle risorse naturali e alla trasformazione agricola. In Cile la coalizione di sinistra che perseguiva il socialismo per via pacifica e legale ispirò altrettante forze politiche nei paesi limitrofi, come il Frente Amplio uruguaiano. Nel bel mezzo di una serie di tenaci insurrezioni cittadine, anche la tradizione nazionalista del peronismo pareva dovesse adattarsi alle nuove circostanze storiche. Con il Cordobazo vennero proposte nuove forme di mobilitazione sociale e politica di opposizione alla dittatura, innescando quella radicalizzazione del movimento peronista che sarebbe tornato al potere nel 1973. Eppure, almeno all’inizio, l’America latina non rappresentava alcuna priorità per l’amministrazione Nixon. Fu il Rapporto Rockefeller a puntare il dito sul malessere crescente contro le politiche degli Stati uniti in sud America e a considerare la promozione di investimenti Usa come una possibile soluzione. La prima proposta politica fu quella di migliorare i rapporti bilaterali scegliendo caso per caso. Nel 1969, secondo Tanya Harmer (Allende’s Chile and the Inter-American Cold War, University of North Carolina Press, 2011), Kissinger aveva detto al cancelliere del governo Frei che «nel sud non si è I documenti desecretati rivelano quanto mai fatta la storia». Un anno dopo una il coinvolgimento di Kissinger nelle ingerenze serie di avvenimenti l’avrebbe obbligato Usa, anche nei loro aspetti più repressivi, subito a ricredersi: «Il consolidamento sia stato diretto, esplicito, e senza precedenti del potere di Allende in Cile, concludo, pone alcune gravi minacce ai nostri interessi e alla nostra posizione nell’emisfero e potrebbe determinare sviluppi e rapporti anche in altre aree del mondo». Kissinger prevedeva un effetto domino che avrebbe potuto attraversare tutto il sistema inter-americano e raggiungere persino l’Europa occidentale. In quella che molti analisti del tempo definirono una «strategia contro-rivoluzionaria» mirata a impedire la trasformazione del contesto regionale, il principale alleato americano era il Brasile, uno Stato saldamente in mano a un governo militare. Gli anni di Kissinger videro così l’emergere di dittature militari che, spalleggiate dai settori conservatori della società civile e legittimati dal discorso delle classi dominanti, sostenevano un progetto economico di modernizzazione dal taglio conservatore – regimi che misero in piedi pratiche sistematiche di terrorismo di Stato e di persecuzione degli oppositori politici sia nell’arena nazionale sia in quella regionale e globale. Scopo dell’Operazione Condor, condotta dalle forze militari della regione in cooperazione con gli Stati uniti, era per esempio l’assassinio dei dissidenti e il trasferimento illegale dei prigionieri da un paese all’altro. Ma il suo obiettivo più ampio era semplicemente la distruzione di ogni movimento politico per il cambiamento. Alcune vittime emblematiche di questa operazione gettano luce su quanto fossero eterogenei i nemici della dittatura. Come il cileno Edgardo Enríquez, leader del Mir (Movimento della sinistra rivoluzionaria), un’organizzazione radicale che sosteneva l’insurrezione armata; Carlos Prats, un generale cileno costituzionalista e liberale; il generale ed ex presidente boliviano Juan

THE GOOD DIE YOUNG

121

José Torres, nazionalista; l’ex senatore di centro-sinistra uruguaiano Zelmar Michelini; il portavoce della Camera dei deputati uruguaiana Héctor Gutiérrez Ruiz; e l’ex ministro degli esteri di Allende Orlando Letelier, ucciso da un’auto-bomba in territorio statunitense. Le personalità messe nel mirino illustrano quanto fosse feroce l’opposizione contro i diversi progetti di riforma emersi nella regione. Certo, i fattori che resero possibile il concepimento di queste operazioni erano già latenti prima dell’arrivo di Kissinger al potere: la crescente inclinazione per soluzioni autoritarie da parte dei settori conservatori locali, un addestramento militare impostato su una dottrina di sicurezza nazionale che univa metodologie anti-insurrezionali francesi e americane, compresa la frequentazione alla School of the Americas, il sostegno della Cia e del Dipartimento di Stato, tutto era già stato predisposto prima del 1969. Ciò che rivelano i documenti desecretati, tuttavia, è quanto il coinvolgimento di Kissinger in questi sviluppi, anche nei loro aspetti più repressivi, sia stato diretto, esplicito, e senza precedenti. Verso la metà degli anni Settanta, un insolito fanatismo ideologico portò le dittature a concepire il sud America come il fronte principale di una Terza guerra mondiale nella lotta al comunismo, laddove gli Stati uniti erano percepiti come la retroguardia. Questo spirito crociato, nel suo legittimare ogni genere di atrocità contro gli oppositori, cominciò a costare dal punto di vista politico anche ai repubblicani, nonché a preoccupare alcuni funzionari del Dipartimento di Stato. Nel luglio del 1976, l’assistente del Segretario di Stato per gli affari inter-americani Harry Shlaudeman avrebbe dato conto dei pericoli insiti in una tale radicalizzazione redigendo un lungo rapporto: «Questa mentalità da assedio che vira alla paranoia» in cui «alcuni parlano di ‘Terza guerra mondiale’, con i paesi del Cono meridionale a rappresentare gli ultimi bastioni della civiltà cristiana […] Le implicazioni più ampie, per noi e per le future tendenze nell’emisfero, sono inquietanti». Il rapporto terminava con una nota sarcastica – «Come porre fine alla Terza guerra mondiale» – offrendo una serie di proposte per «riportarle [le dittature] nel nostro universo cognitivo». Eppure Kissinger, pur consapevole del problema, continuò a simpatizzare con lo spirito crociato dei militari del Cono meridionale. Alla conferenza dell’Organizzazione degli Stati americani (Oas), nel giugno del 1976, mentre dalla scena politica Usa e da alcuni paesi della regione emergeva una certa critica della dittatura cilena, Kissinger ebbe un incontro privato con Augusto Pinochet in cui gli espresse il suo più fermo sostegno: «Vogliamo esserti d’aiuto, non indebolirti. Nel rovesciare Allende hai reso un grande servizio all’Occidente». È una gestualità che palesa una certa intimità con il terrore di quel regime. Più che preoccuparsi di tenere a freno il fanatismo di una crociata militare, le pratiche violente perpetrate dagli Stati dittatoriali vengono addirittura sottoscritte da Kissinger. Il suo sostegno ci aiuta a spiegare perché mai queste dittature repressive siano state così «efficaci» nelle loro efferatezze. All’alba del 1976, i problemi evocati nel 1968 dal Dipartimento di Stato sembravano aver trovato una loro soluzione. Tutto lo schema di programmi rivoluzionari nati negli anni Sessanta era ormai sbiadito – i movimenti erano stati sconfitti, i loro leader uccisi, dispersi, esiliati o imprigionati. Lo stesso Kissinger ne usciva malconcio; il suo coinvolgimento nella regione aveva finito per indebolire la sua leadership. Diversamente da quanto sarebbe accaduto in Indocina, tuttavia, in questa parte del mondo Kissinger aveva raggiunto il proprio scopo. I rivoluzionari e le loro idee, che avevano tanto contestato l’egemonia statunitense, erano scomparse dalle arene politiche, mentre molti di coloro che erano sopravvissuti allo scontro diretto sarebbero rimasti vittima del terrore di Stato. Ora che le rivoluzioni erano state sconfitte, l’impero poteva mostrare il suo volto gentile, offrendo assistenza tramite la politica dei diritti umani tanto cara alla rinnovata amministrazione del presidente Jimmy Carter.

THE GOOD DIE YOUNG 122

N. 22

PRIMAVERA 2024

Kissinger si rifiutava di «guardare un paese diventare comunista a causa dell’irresponsabilità del suo stesso popolo». Gli sforzi per sconfiggere Unidad popular culminarono nel colpo di Stato dell’11 settembre 1973

A

123

THE GOOD DIE YOUNG

lla fine dell’inverno 1971, sei mesi dopo l’elezione di Salvador Allende e della coalizione di Unità Popolare (Up) guidata dai partiti comunista e socialista, Nixon garantì solennemente all’ambasciatore cileno che gli Usa difendevano la democrazia e l’autodeterminazione: «La strada rappresentata dal programma del vostro governo non è quella scelta dal popolo di questo paese, ma noi riconosciamo il diritto di René Rojas ogni paese di ordinare i propri affari». Per non essere da meno, anche Kissinger disse che il governo statunitense «non desiderava in alcun modo interferire con gli affari interni del Cile», aggiungendo anzi che il processo di riforma senza precedenti che il paese stava cominciando era «degno di grande ammirazione». Troppo cinismo anche per gli standard di doppiezza dei politici a stelle e strisce. Com’è noto, infatti, e come fu compreso all’epoca, subito dopo la vittoria di Allende e l’inaugurazione della via cilena al socialismo, le élite statunitensi iniziarono una campagna per «mettere in ginocchio» l’economia di quel paese sottosviluppato. Kissinger, il realista, si rifiutava semplicemente di «guardare un paese diventare comunista a causa dell’irresponsabilità del suo stesso popolo». Ma ci volle tempo: anche il potente gigante del nord non poteva rifare la storia del Cile in uno schioccare di dita. L’ingerenza degli Usa nella politica cilena non era una novità. Nel 1948, Washington aveva contribuito alla decisione del presidente liberale Gabriel González Videla di rivoltarsi contro i suoi alleati del Fronte Popolare e perseguitare i comunisti. Fu allora che Pablo Neruda, militante di spicco e poeta premio Nobel, fuggì per la prima volta dal paese attraverso le Ande riuscendo fortunosamente a salvarsi. Un quarto di secolo dopo quegli eventi, gli Stati uniti usarono di nuovo i muscoli sul Cile per controllare la regione. Kissinger guidò la campagna per distruggere la strategia democratica di Allende per una riforma radicale. Gli sforzi per sconfiggere l’Up culminarono nel colpo di Stato dell’11 settembre 1973, che portò a una catastrofe umana e sociale che pochi, anche tra i complottisti, avrebbero potuto immaginare. Allende e Neruda non sarebbero sopravvissuti. E nemmeno le migliaia di lavoratori e attivisti che furono assassinati o fatti sparire dal regime di terrore di Augusto Pinochet. L’ossessione di Kissinger per il rovesciamento di Allende non era dettata da una difesa irriflessa degli interessi corporativi statunitensi. Dopo tutto, Washington aveva imparato ad accettare l’ondata di nazionalizzazioni dichiarate in tutto il sud America, tanto che anche dopo il colpo di Stato che rovesciò il René Rojas, sociologo, governo dell’Up, i maggiori interessi minerari cileni espropriati rimasero sotto il controllo dello Stato. La sua preoccupazione non studia il neoliberalismo. derivava nemmeno dai timori per l’espansionismo sovietico o cuin America del sud. bano. In seguito alla crisi dei missili di Cuba, i sovietici avevano Originario del Cile, ceduto l’America latina alla sfera d’influenza incontrastata degli ha svolto il PhD Stati uniti; in effetti, per tutti gli anni di Allende, come Kissinger e alla New York la politica estera statunitense sapevano, Mosca non avrebbe perUniversity nel 2016. messo che il cammino del Cile verso il socialismo rovinasse la sua La traduzione è di distensione con gli Usa. Riccardo Antoniucci.

Se Kissinger elaborò una strategia per abbattere l’Up è perché le politiche di Allende e i movimenti che la sostenevano rappresentavano una minaccia per il dominio statunitense sull’America latina. La regione era in subbuglio per via dei variegati nazionalismi, populismi e radicalismi che avevano cominciato a sfidare l’ordine guidato dagli Stati uniti, e le élite americane non esitarono a tirare fuori l’intero armamentario dell’ingerenza (aperta o segreta, politica o economica, civile o militare) per rovesciare leader democraticamente eletti, mandare al potere dittatori e facilitare il terrorismo di Stato di massa. Sebbene sia molto probabile che il colpo di Stato e il massacro scatenato dal golpe di Pinochet si sarebbero verificati anche senza l’intervento degli Stati uniti, la serie di azioni intraprese da Kissinger per distruggere la rivoluzione democratica del Cile restano un paradigma.

124

N. 22

PRIMAVERA 2024

Le tracce di sangue del socialismo cileno L’egemonia del nord sull’America latina, agli occhi degli strateghi geopolitici statunitensi, era diventata un’arena decisiva della «lotta mortale per determinare la forma del mondo futuro». A livello globale, la politica estera Usa del dopoguerra consisteva in una spinta espansionistica venduta come contenimento dei sovietici. In realtà si dovevano sopprimere le nuove sfide al dominio Usa. Dopo la Rivoluzione cubana, e dopo il fallimento dell’Alleanza per il progresso, i modelli di sviluppo sovrani che implicavano una profonda riforma del sistema avevano cominciato a sfidare l’ordine capitalistico regionale guidato dagli Stati uniti. Allende e l’Up rappresentavano la più radicale di queste minacce. Washington intervenne per preservare un sistema commerciale che organizzava i mercati, i flussi di capitale, le risorse e le forze politiche in una forma che garantiva la supremazia statunitense. Ma la crescita dell’industria ha dato ai movimenti operai capacità organizzative in espansione, che hanno assunto una militanza e un’autonomia imprevedibili. Allende si era pericolosamente avvicinato alla conquista della presidenza già nel 1958, dieci anni dopo che l’amministrazione Videla aveva tradito i radicali e i lavoratori. Con le élite divise tra due candidati, il nuovo fronte comunista-socialista arrivò a meno di 3 punti percentuali dalla vittoria. Sei anni dopo, con l’impennata dei movimenti operai, studenteschi, dei senza casa e dei contadini, i partiti imprenditoriali si unirono per appoggiare il programma capitalista della terza via dei cristiano-democratici cileni. Il progetto modernizzatore della «rivoluzione nella liberazione» del presidente Eduardo Frei Montalva vinse agevolmente con il 56% dei voti contro il 39% dei socialisti, grazie al sostegno riluttante delle élite terriere tradizionali e conservatrici. Tuttavia, anche a fronte di una classe imprenditoriale unificata, le carenze dello sviluppo capitalistico provocarono l’ascesa dei partiti operai. Le politiche di Frei, che comprendevano una sostanziale riforma agraria, tutele del lavoro e una maggiore partecipazione nazionale all’estrazione mineraria, si erano spinte troppo in là per i capitalisti, ma non abbastanza per i lavoratori poveri. Così nelle elezioni del 1970 l’Up si impose sorprendentemente sui candidati divisi del Partito democratico cristiano del Cile (Pdc) e dell’oligarchico Partito Nazionale (Pn), con il 36% dei voti e la maggioranza relativa. Quando a Washington fu data notizia del risultato, il consigliere per la sicurezza nazionale e il suo capo, l’inquilino della Casa Bianca, non riuscirono a trattenere la rabbia. Il Cile non era più l’innocuo «pugnale puntato al cuore dell’Antartide» nell’irrilevante «porzione meridionale del mondo dai Pirenei in giù», come Kissinger lo aveva liquidato anni prima. Ora acquisiva un primato strategico senza precedenti. Come spiegato in un promemoria sulla sicurezza nazionale richiesto dallo stesso Kissinger, ciò non era dovuto a «interessi nazionali [economici] vitali all’interno del Cile». Né al timore che «l’equilibrio

L’imbarazzante fallimento del tentativo di impedire l’insediamento di Allende diede all’Up un margine di manovra politico e programmatico. L’incapacità statunitense di lavorare dietro le quinte costrinse Nixon e Kissinger a prendere pubblicamente posizione a

THE GOOD DIE YOUNG

Sovversione, sabotaggio e sedizione

125

militare mondiale del potere sarebbe stato significativamente alterato da un governo Allende». Il problema era l’imprevedile base di militanza dietro l’Up. Riaffermare il dominio americano in Cile non significava solo affrontare Allende e l’Up a livello diplomatico e istituzionale, significava confrontarsi con una classe operaia particolarmente indipendente e mobilitata. Kissinger era determinato a soffocare la rivoluzione democratica per evitare che il radicalismo ostinato delle classi senza potere del paese travalicasse i confini nazionali. Per tre anni, l’interventismo di Kissinger fu frenato dalla dialettica interna al Cile tra il dinamismo popolare che spingeva per dare forma e spessore alle riforme di Allende e la classe politica del partito di Up che preferiva un approccio misurato e negoziato. Per evitare lo scontro frontale tra le aspirazioni del popolo cileno e i disegni di Washington per la regione Kissinger cercò di evitare l’insediamento di Allende. La Cia, con l’assenso del Consiglio per la sicurezza nazionale, finanziò la campagna elettorale dei cristiano democratici, sperando di far attecchire nell’opinione pubblica la paura per lo spettro del totalitarismo bolscevico. Ma i 2,6 milioni di dollari pompati nelle elezioni si rivelarono inutili, così il Dipartimento di Stato e il Consiglio per la sicurezza nazionale cominciarono a prendere in considerazione tattiche più sinistre. Su sollecitazione dei principali leader economici cileni, Nixon e Kissinger approvarono «il piano fermo e costante della Cia per rovesciare Allende con un colpo di Stato», togliendo ogni residuo velo sull’ingerenza degli Stati uniti nel paese. Gli sforzi per rovesciare Allende sarebbero continuati, se necessario, ma si riteneva «di gran lunga preferibile che ciò avvenga prima del 24 ottobre [...] Utilizzando ogni risorsa appropriata [...] da attuare clandestinamente e in modo sicuro, così che il governo statunitense e la mano americana restino ben nascosti». Kissinger mise in atto due successivi stratagemmi per impedire ad Allende di Riportare il paese all’interno del capitalismo assumere la presidenza. Il primo coninteramericano non significava solo sisteva nel comprare parlamentari per affrontare Allende, significava confrontarsi convincerli a votare contro la conferma con una classe operaia indipendente di Allende nel Congresso cileno di fine ottobre, come previsto nel caso di elezioni vinte a maggioranza relativa. L’idea era di forzare nuove elezioni in cui Frei avrebbe potuto ricandidarsi. Quando questo piano fallì, soprattutto a causa della discordia interna ai cristiano democratici e per il coraggioso annuncio di un voto a favore di Allende da parte del candidato presidenziale del partito progressita sconfitto, allora Kissinger avviò la macchina della seconda opzione. La Cia cominciò a sabotare l’imminente inaugurazione in modo extralegale, istigando un colpo di Stato. L’obiettivo era rovesciare le normali procedure di legge creando un’atmosfera di panico e tensione. Però, non riuscendo a trovare collaboratori capaci, la stazione Cia di Santiago lasciò la pianificazione nelle mani di funzionari marginali, che non avevano legami solidi con il mondo degli affari o le principali sezioni militari del paese. Fu organizzato un rapimento mal riuscito in cui morì il generale costituzionalista René Schneider Chereau, comandante in capo dell’esercito, operazione che insanguinò le strade di Santiago. Dopo anche questo secondo fallimento, l’impegno «fermo e continuo» per rovesciare Allende fu accantonato per qualche tempo.

PRIMAVERA 2024 N. 22

126

favore della cooperazione con il Cile. Il consigliere per la sicurezza nazionale rassicurò in questo senso l’ambasciatore Orlando Letelier (stretto consigliere di Allende che sei anni dopo sarebbe stato fatto a pezzi per le strade di Washington in un attentato della rete terroristica Condor) sul fatto che gli Stati uniti desideravano la coesistenza. Così, giovandosi anche del fatto che gli Usa erano impantanati nel conflitto indocinese e intenti ad affrontare sfide emergenti in Argentina, Uruguay, Bolivia e Perù, il Cile di Allende portò avanti con fiducia le riforme socialiste che ampliarono la sua base di sostegno. La sua prima politica fu di nazionalizzare le miniere del paese. Il Cile funzionava praticamente come un petrostato, ma per il rame, di cui è il principale produttore del pianeta. All’epoca, il rame cileno forniva circa un settimo della produzione mondiale e nel 1970 rappresentava oltre i tre quarti dei proventi delle esportazioni del paese. La maggior parte della produzione era nelle mani delle transnazionali, che facevano affari evitando le tasse. Poiché le riforme di Frei non erano riuscite a utilizzare le risorse per lo sviluppo e il benessere nazionale, l’Up godeva di un ampio consenso a favore della nazionalizzazione. Ma un cambiamento sostanziale nell’industria del rame poteva scuotere la struttura del capitalismo regionale a guida statunitense. Washington decise che la misura era colma quando Santiago annunciò di riprendere i rapporti diplomatici con l’Avana. Kissinger riprese in mano il piano di destituzione di Allende e mise in moto tre filoni di destabilizzazione: il sostegno segreto all’opposizione anti-Up, lo strangolamento economico del paese e l’infiltrazione nelle forze armate. Così, mentre Nixon si lamentava di essere stato costretto ad assecondare momentaneamente i desideri di «quei latini ingrati», Kissinger foraggiava di denaro le campagne elettorali dei partiti di opposizione ad Allende con lo scopo demolire i suoi I movimenti popolari cileni avevano primi successi politici. Il Dipartimento contrastato l’offensiva con determinazione. di Stato e la Cia erano consapevoli che Grazie a loro, Allende poté inserirsi le élite imprenditoriali erano riluttanti a in maniera decisa nel contesto politico dare soldi a un’opposizione tanto frammentata come quella cilena, ma nondimeno Kissinger mirava a far crescere una forza politica in grado di prendere il comando e sovvertire la democrazia, e per farlo aveva bisogno di una solida partecipazione dei partiti di centro e di destra alle elezioni locali del 1971. Rimase deluso ancora una volta. I consensi per la coalizione di Allende crebbero fino a quasi il 50%, e con loro il sostegno popolare alla via cilena al socialismo. Per il Consiglio di sicurezza nazionale era giunto il momento di togliersi i guanti e di utilizzare metodi più affidabili. Il Dipartimento di Stato decise di intensificare l’embargo non dichiarato e la propria influenza sulle forze armate cilene. Il primo obiettivo sarebbe stato raggiunto soffocando l’accesso di Santiago al credito multilaterale, ai prestiti e agli scambi preferenziali. Il secondo consisteva nel consolidare le reti cospirative e, attraverso generosi pacchetti di materiali e finanziamenti, renderli sempre più dipendenti da Washington. La mobilitazione e la radicalizzazione crescente del movimento popolare, tuttavia, mise Allende al riparo. L’Up riuscì a ottenere con facilità l’esproprio del rame, atto a cui non osò opporsi nemmeno l’estrema destra, e avviò una forte redistribuzione del reddito nazionale a favore della classe operaia, migliorò la riforma agraria e pose sotto il controllo statale e popolare settori chiave della produzione e della distribuzione. Il forte consenso e l’organizzazione popolare diedero al presidente la fiducia necessaria per adottare, nel settembre 1971, una norma di compensazione per le miniere espropriate. Dalla quale emerse, calcolando il rimborso in base alla valutazione dei profitti in eccesso, che i giganti del rame Kennecott e Anaconda erano addirittura in debito con i cileni.

Nel 1973 l’Up entrò in una situazione di grave difficoltà. La produzione industriale si era contratta e i prodotti alimentari si erano ridotti di un quarto. ll disavanzo commerciale ammontava a quasi 450 milioni di dollari, il blocco dei crediti imposto da Washington rendeva impossibile per Allende colmare il divario. In definitiva, però, fu la lotta di classe

127

Far sparire i lavoratori

THE GOOD DIE YOUNG

I militanti e i movimenti popolari cileni avevano contrastato l’offensiva imperialista con determinazione. Forte del loro sostegno, Allende poté inserirsi in maniera decisa nel contesto politico regionale. Prendendo atto del riavvicinamento alla Cina e della distensione sovietica di Nixon, il presidente cileno e i suoi consiglieri, benché scettici nei confronti della fattibilità, fecero pressione per ospitare la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad). Allende passò mesi interi a cercare di mobilitare il Sud globale per unirsi a lui nel rifiuto dei diktat statunitensi e forgiare una traiettoria di sviluppo indipendente e progressista. Alla fine, però, le macchinazioni di Kissinger per sabotare l’economia e seminare instabilità e tradimenti iniziarono a scavare la roccia dell’Up. A fine 1971, mentre il Dipartimento del Tesoro registrava la rabbia delle multinazionali espropriate (e di quelle che temevano perdite simili) e spingeva Nixon ad adottare una politica uniformemente punitiva, Kissinger continuava a esortare pubblicamente alla cautela. Ma quest’atteggiamento non aveva nulla dell’accomodamento realista, semplicemente si fondava sul timore che un’aperta rappresaglia contro i nazionalisti del Terzo Mondo avrebbe aggravato l’antiamericanismo già globalmente diffuso. Per guadagnare tempo, Kissinger iniziò a dialogare con Letelier. L’opportunità di schiacciare Allende iniziò a cristallizzarsi nella seconda parte del 1972, quando giunsero al culmine le lotte interne ed esterne sulla velocità e la portata delle riforme del governo socialista cileno. Il crollo dei prezzi del rame a livello mondiale, il blocco finanziario degli Stati uniti, la miseria degli aiuti ricevuti a compensazione dal blocco orientale e una serie di scioperi cominciarono a falcidiare l’economia. E proprio mentre dentro l’Up si intensificava la polarizzazione, l’opposizione superava le divergenze interne e si riassestava. Soffiando sul fuoco della diminuzione dei proventi delle esportazioni, di un deficit crescente e della spirale inflazionistica, la Cia finanziò segretamente con dollari americani e pesos cileni l’organizzazione di un devastante sciopero dei camionisti. Ma l’elite di opposizione era spaccata e Kissinger aveva difficoltà a coordinare i finanziamenti e scatenare la quantità di caos necessaria per lacerare le convinzioni nate da un miglioramento reale delle condizioni dei lavoratori, dei ceti urbani poveri e della classe media. Quando l’opposizione decise infine di riunirsi sotto l’idea condivisa di rovesciare l’Up a ogni costo la stagione di tensioni era già costata all’economia cilena (già fragile) 200 milioni di dollari. Nel paese si moltiplicavano gli scioperi contro la politica di nazionalizzazione dell’Up, si allargava la distanza tra Santiago e Washington sul dossier della rinegoziazione del debito nei colloqui di Parigi. L’amministrazione Nixon si era messa di traverso dopo il passo indietro del Cile sulla legge di compensazione mineraria, ma la tensione andava oltre il recinto della disputa economica: riguardava le «relazioni generali con il Cile». In altre parole, le controversie sui risarcimenti alle imprese minerarie americane erano il mezzo per raggiungere il fine più grande della distruzione dell’esperimento socialista cileno. Di conseguenza, Nixon prolungò la partecipazione degli Stati uniti ai colloqui di Parigi per aggravare le difficoltà del paese. La cautela di Kissinger cominciò in quel periodo a trasformarsi in ottimismo: lo strangolamento economico stava finalmente producendo le condizioni di fondo necessarie alle élite unite per rovesciare Allende.

PRIMAVERA 2024 N. 22

128

cilena a dare ai piani di Kissinger lo slancio decisivo. La polarizzazione sociale mostrò alle élite il rischio della loro estinzione in quanto classe, spingendole a superare le differenze in nome della sconfitta della minaccia rappresentata dall’Up. Con la riconversione della destra e della classe imprenditoriale, Allende e l’ondata popolare che lo sosteneva si trovarono così di fronte un muro. E mentre la classe operaia si mobilitava la coalizione socialista cominciò a perdere pezzi a causa di disaccordi e dilemmi esistenziali dell’Up. Alla fine del 1972, il conflitto di classe fu attenuato per effetto di movimenti congiunti dall’alto (lo Stato) e dal basso (i lavoratori). I dipendenti delle fabbriche crearono potenti istituzioni parallele, assemblee di fabbrica e di quartiere chiamate cordones industriales, per garantire la produzione, la distribuzione, la sicurezza e la preparazione militare. Nel frattempo, Allende ripristinò una parvenza di ordine facendo entrare i militari nel governo. Entrambe le soluzioni comportarono nuovi rischi. Da un lato, l’iniziativa popolare di base alimentava la polarizzazione all’interno dell’Up e incoraggiava il Mir (Movimento della sinistra rivoluzionaria) a spingere per una resa dei conti armata. Dall’altro, la decisione a doppio taglio di trasformare i vertici militari del paese negli arbitri della via cilena al socialismo avrebbe ugualmente contribuito a un epilogo catastrofico nel giro di un anno. Alle elezioni del marzo 1973, Kissinger era convinto che i lavoratori demoralizzati si sarebbero rivoltati contro il loro governo; lo rassicurò lo stanziamento di ulteriori 1,6 milioni di dollari per «ottimizzare» la campagna dell’opposizione. Ma nonostante il fronte dei partiti e movimenti della sinistra fosse ormai spaccato, i settori popolari continuarono a difendere Allende consegnando all’Up il 44% dei voti. Washington dovette constatare che i poveri non erano pronti a barattare il potere con il pane, così sfoderò l’arma finale del colpo di Stato. Il capo della stazione di Santiago della Cia invocava da tempo l’intervento diretto, ma Kissinger aveva delle riserve sui militari, e in particolare sul ramo cruciale dell’esercito. Tuttavia, le limitazioni tattiche furono facilmente appianate nel perseguimento di un consenso strategico sulla necessità di mettere alle strette l’Up con la violenza, e finalmente esisteva una forza interna coesa e favorevole a un golpe con cui poter giocare a carte scoperte. I cristiano-democratici e l’estrema destra avevano formato l’alleanza della Confederazione della Democrazia, che poi ottenne la maggioranza in Parlamento. I piani approvati da Kissinger cominciarono a dare i loro frutti. La Cia rimase all’oscuro dell’impegno di Augusto Pinochet come futuro dittatore, così come non ebbe alcuna influenza nel prematuro putsch del Tanquetazo di giugno. Pur rimanendo frustrata da quella che considerava l’indecisione dei vertici, continuò a tessere la rete di cospiratori che miravano a emarginare i vertici costituzionalisti e persino a «salvare» il paese dal «cancro marxista». I cospiratori cacciarono il costituzionalista Carlos Prats (che sarebbe stato anche lui vittima dell’operazione Condor, ucciso con un’autobomba a Buenos Aires) e lo sostituirono con il taciturno generale Augusto Pinochet, il quale cadde subito sotto l’influenza dei comandanti istruiti dalla Cia. Tutto era pronto per l’epilogo che tutti si aspettavano. Alla fine di agosto, i membri del congresso della Confederazione della Democrazia votarono 81 voti contro i 47 dell’Up una risoluzione che invitava «le autorità a porre immediatamente fine» alle «violazioni della Costituzione [...] e a garantire l’ordine costituzionale della nostra nazione». I golpisti avevano avuto via libera e Allende aveva esaurito le opzioni. I cristiano-democratici, i cui senatori ormai erano collusi con i militari, respinsero tutte le proposte di negoziato, mentre le divisioni nella sinistra impedirono il perseguimento di qualsiasi risposta. Tutti, compreso Kissinger a Washington, si sedettero ad aspettare l’inevitabile. Con il suo stesso partito che si univa al Mir nell’invocare il conflitto armato, l’ultimo sussulto di Allende, un plebiscito programmato per nuove elezioni, fu anticipato dalla decisione dell’undicesima ora di Pinochet di unirsi ai cospiratori e guidarli. Quando Pinochet, un giorno dopo aver

THE GOOD DIE YOUNG

129

ricevuto la benedizione di Washington, fece la sua mossa, l’Up si dimostrò paralizzato dai disaccordi strategici interni. Sul fronte opposto, sotto la guida dell’esercito, l’opposizione e le élite erano invece perfettamente coordinate. Allende era convinto che il tentativo di colpo di Stato sarebbe stato una battuta d’arresto momentanea. Pronunciò un ultimo discorso, subito prima che il palazzo presidenziale venisse bombardato e che lui ponesse fine alla sua vita piuttosto che essere preso dai militari: «Questo è un momento duro e difficile: è possibile che ci schiaccino. Ma il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori. L’umanità avanza verso la conquista di una vita migliore. [...] il capitale straniero, l’imperialismo, uniti alla reazione, crearono il clima affinché le forze armate rompessero la tradizione, [...] vittime dello stesso settore sociale che oggi starà aspettando, con aiuto straniero, di riconquistare il potere per continuare a difendere i loro profitti e i loro privilegi. [...] Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore». Questa sua ultima previsione non si sarebbe mai avverata. La repressione che seguì fu spietata e metodica, come preannunciato dai minacciosi cartelli «Ricordati di Jakarta» che avevano iniziato ad apparire in tutta la capitale. Kissinger ha avuto un ruolo determinante nel dare via libera e definire il supporto della Cia alla «severa repressione per eliminare definitivamente qualunque residuo di comunismo in Cile» messa in atto dalla giunta militare. Come si legge in un promemoria inviato a Kissinger, nei giorni successivi all’11 settembre 1973 vennero uccisi centinaia di militanti, attivisti sindacali e studenti, e molti altri vennero rastrellati e torturati. Alla fine del decennio, oltre 4.000 erano stati uccisi o erano scomparsi, e decine di migliaia erano passati attraverso i campi di concentramento del regime o erano stati costretti all’esilio. Sebbene i cileni non abbiano subito la stessa quantità di morti della vicina Argentina e abbiano evitato di raggiungere i livelli indonesiani di omicidio di massa di Stato, lo strato di attivisti operai che aveva alimentato la marcia emancipatrice del Cile venne spazzato via da Pinochet. E con le organizzazioni radicali e popolari distrutte, nulla poté fermare i profondi cambiamenti istituzionali ed economici che radicarono la nuova impotenza dei lavoratori e dei poveri. Il paese avrebbe dovuto subire quasi quarant’anni di dittatura e poi di democrazia neoliberista prima che un nuovo movimento tornasse in strada. Naturalmente Kissinger era entusiasta di tutto ciò. Quell’esito, più di ogni altro sviluppo regionale, consolidava una tendenza iniziata con il golpe del 1970 in Bolivia e che era avanzata col colpo di Stato uruguaiano di giugno. Nel giro di un anno, la «guerra sporca» era già in corso in Argentina, prima ancora del colpo di Stato contro la vedova di Juan Perón. Sei anni dopo aver mentito a Letelier, Kissinger si recò a Santiago e per annunciare un’altra falsità evidente. Il giorno prima del suo discorso all’Organizzazione degli Stati americani, in cui esprimeva le preoccupazioni degli Stati uniti per le diffuse violazioni dei diritti umani, ammise l’inganno al dittatore «amico», assicurando a Pinochet che «non stiamo cercando di indebolire la sua posizione». Il discorso, spiegò, era solo uno spettacolo per il pubblico. In realtà, Washington avrebbe difeso e coperto il regime. «Vogliamo aiutarvi, non indebolirvi. Avete reso un grande servizio all’Occidente rovesciando Allende. Altrimenti... non ci sarebbero stati i diritti umani». Attribuire la difesa dei diritti umani a Pinochet era la tipica mossa orwelliana di Kissinger. Ma su una cosa aveva ragione: il colpo di Stato fu il prodotto delle élite cilene e dei militari. Se fossero rimaste divise, l’intervento Usa sarebbe probabilmente fallito. Al contrario, una volta riunite le élite, le dinamiche della lotta di classe interna avrebbero prodotto il golpe, anche senza un’effettiva ingerenza statunitense. Tuttavia, Kissinger ottenne ciò che voleva: il Cono Sud era diventato molto più sicuro per il capitalismo a guida statunitense e Washington aveva superato la sfida più difficile per il consolidamento della sua supremazia regionale.

THE GOOD DIE YOUNG

Da consulente per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato con Nixon e Ford, Henry Kissinger ebbe notevoli responsabilità nella distruzione della Cambogia, anche sostenendo il regime genocida dei khmer rossi in chiave anti-vietnamita

130

N. 22

PRIMAVERA 2024

D

alla metà degli anni Sessanta fino al 1991 la Cambogia è stata vittima di una serie devastante di circostanze violente: una guerra civile che vedeva opposti il governo cambogiano e i ribelli comunisti (i Khmer rossi); un bombardamento statunitense che uccise migliaia di civili e destabilizzò il paese; il governo genocida dei khmer rossi, che avrebbe condotto alla morte di circa 1,7 milioni di persone (il Brett S. Morris 21% della popolazione); e un’occupazione decennale dei vietnamiti che vide uno scontro continuo fra il governo di insediamento e i guerriglieri Khmer (sostenuti da diversi poteri esterni, come gli Stati uniti e la Cina). Nel suo ruolo di consulente per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato durante le amministrazioni Nixon e Ford, Henry Kissinger ebbe notevoli responsabilità nella distruzione della Cambogia. La campagna di bombardamenti di cui fu amministratore non soltanto avrebbe ucciso migliaia di persone (continuando a ucciderne ancora oggi per colpa degli «ordigni inesplosi» [Uxo] le bombe che non vennero detonate all’epoca), ma avrebbe spinto gli stessi khmer rossi al potere. Del resto, la devastazione della Cambogia era intimamente legata alla campagna statunitense in Vietnam. Il principe Norodom Sihanouk era determinato a lasciare il suo paese neutrale, cosa che si sarebbe dimostrata impossibile. Quando a metà degli anni Sessanta le forze comuniste in Vietnam cominciarono a usare la Cambogia orientale come base logistica per attaccare il governo sud-vietnamita appoggiato dagli Stati uniti, questi Brett S. Morris è un ultimi iniziarono di quando in quando a bombardare il paegiornalista freelance. se. Sihanouk denunciò pubblicamente l’accaduto, per quanto Suoi articoli sono non approvasse nemmeno la presenza di comunisti vietnamiti comparsi in Vox, in territorio cambogiano. Per un certo periodo di tempo la sua Jacobin, Medium neutralità riuscì a risparmiare alla Cambogia gli aspetti peggioe Counterpunch. ri di quella violenza che stava invece divampando nel vicino La traduzione è di Vietnam. Tutto questo era destinato a cambiare nel 1969, non Emanuele Giammarco. appena Richard Nixon e Henry Kissinger entrarono in carica.

«Qualsiasi cosa si muova o si alzi da terra» L’elezione di Nixon era legata alla promessa di porre fine alla guerra, ma la sua assoluta priorità era tirare fuori il paese dal conflitto senza perdere la faccia di fronte alla comunità internazionale. Voleva intraprendere azioni forti contro il Vietnam del nord con l’idea di strappare tante più concessioni possibili ad Hanoi. Bombardare il nord del paese non era tuttavia possibile, perché nel 1968 Lyndon Johnson aveva ordinato un cessate il fuoco per attivare i colloqui di pace con Hanoi. La soluzione partorita da Nixon e Kissinger fu quindi il bombardamento della Cambogia, attraverso una campagna segreta e illegale che avrebbe dovuto compromettere le linee di rifornimento e le basi vietnamite presenti sul territorio. La segretezza era della massima importanza. Si trattava di uno Stato neutrale e ogni possibile escalation avrebbe innescato una ritorsione da parte dell’opinione pubblica. Nemmeno il Congresso avrebbe dovuto sapere. Nixon e Kissinger erano parecchio scettici sul fatto che i parlamentari avrebbero mai autorizzato un bombardamento sul territorio cambogiano (quando il primo era stato eletto presidente la maggior parte dell’opinione pubblica si era espressa negativamente sulla guerra e anche una parte sostanziale delle élite non credeva che ne valesse tanto la pena). Al cuore delle operazioni militari c’era lo stesso Kissinger. Lo storico Greg Grandin ci dà tutti i contorni dell’operazione segreta:

131

I bombardamenti in Cambogia andarono avanti fino al 1973, quando vennero interrotti dal Congresso. Fra il 1965 e il 1973 vennero sganciate sul paese più di 500 mila tonnellate di ordigni, quasi tutti durante il periodo in cui furono in carica Nixon e Kissinger. Nelle parole di quest’ultimo, «qualsiasi cosa si muova o si alzi da terra» doveva essere l’obiettivo dichiarato. Secondo lo storico Ben Kienan, direttore e fondatore del Programma di studi sul genocidio dell’Università di Yale ed esperto della campagna Usa in Cambogia e sul genocidio dei Khmer rossi, le bombe avrebbero causato fra le 50 mila e le 150 mila vittime civili, sebbene egli stesso sia convinto che «il vero scotto sia più vicino alla seconda cifra di questa forbice». Per compromettere le linee di rifornimento comuniste e vietnamite lungo il Sentiero di Ho Chi Minh anche il Laos, poco più a nord della Cambogia, fu preso di mira dalle bombe statunitensi. Fred Branfman, un operatore umanitario americano di stanza nel paese, venne a sapere di alcuni rapporti che parlavano di rifugiati in fuga dal nord del Laos verso la ca-

THE GOOD DIE YOUNG

Sitton [il colonnello Ray Sitton, un esperto di B-52], basandosi sulle raccomandazioni ricevute dal generale Creighton Abrams – il comandante delle operazioni militari in Vietnam –, elaborava una serie di obiettivi da colpire. A questo punto portava la lista alla Casa Bianca affinché Kissinger e Haig [il colonnello Alexander Haig, consigliere militare di Kissinger] la approvassero. Kissinger era molto partecipativo e non si tratteneva dal rivedere il lavoro di Sitton. «Non so quali parametri usasse per metterci mano», avrebbe ricordato egli stesso. «Colpisci qui in quest’area» gli diceva, «oppure qui, in quest’altra». Non appena Kissinger si riteneva soddisfatto degli obiettivi, Sitton mandava le coordinate a Saigon attraverso un canale secondario; da lì una staffetta li avrebbe passati alle giuste stazioni radar, dove un ufficiale si occupava di cambiare obiettivo all’ultimo momento. A questo punto l’obiettivo del B-52 veniva dirottato da quello «di copertura» in Vietnam del Sud a quello autentico in Cambogia, dove avrebbe sganciato il suo carico di bombe. Alla fine dei giochi l’ufficiale responsabile del raggiro eliminava qualsiasi documento – mappe, stampe del computer, rapporti radar, messaggi e così via – che potesse rivelare quale fosse stato il vero itinerario. Poi redigeva un falso rapporto, indicando che la sortita era andata come pianificato. Agli amministratori del Congresso e del Pentagono venivano fornite «coordinate di obiettivi fasulli» e altri dati manomessi per poter rendere conto delle spese autentiche – carburante, bombe e ricambi – senza dover mai rivelare che era stata la Cambogia, in realtà, l’obiettivo dei bombardamenti.

pitale, Vientiane. Quando indagò sul perché i rifugiati stessero scappando, rimase inorridito dallo scoprire che per la loro intensità i bombardamenti avevano decimato interi villaggi, uccidendo migliaia di persone e obbligandone altrettante a vivere nelle grotte per la paura. La sua raccolta di testimonianze, Voices from the Plain of Jars: Life under an Air War, è uno dei migliori resoconti di ciò che è significato sopravvivere ai bombardamenti americani in tutta l’Indocina. Come spiegava un tredicenne laotiano: Il mio villaggio era alla fine della strada che va da Xieng Khouang alla Piana delle Giare. Proprio accanto alla strada c’erano dei campi di riso. All’inizio gli aeroplani avevano bombardato la strada, ma non il mio villaggio. La mia vita era felicissima, all’epoca, perché le montagne e le foreste erano meravigliose: la terra, l’acqua e il clima erano perfetti. Ma è durata poco, perché gli aeroplani hanno finito per bombardare anche il mio campo di riso, finché i crateri non hanno reso impossibile coltivare. Hanno colpito anche il villaggio, riducendolo in macerie. Certi parenti che lavoravano al campo sono usciti in strada per tornarci, ma come gli aeroplani se ne sono accorti hanno cominciato a sparargli contro, uccidendo i contadini in modo straziante. Abbiamo sentito le loro grida, ma non potevamo andare ad aiutarli. Siamo usciti quando gli aeroplani se ne sono andati, ma erano già morti.

All’origine dei Khmer rossi Oltre a devastare la popolazione, i bombardamenti in Cambogia hanno avuto l’effetto di fomentare l’avvento dei Khmer rossi. Nel 1969 il totale delle loro forze non arrivava a 10 mila persone; nel 1973 avrebbero potuto contare su 200 mila unità. Kiernan dice che i Khmer rossi

N. 22

PRIMAVERA 2024

non avrebbero ottenuto il potere senza la destabilizzazione economica e militare della Cambogia, che […] ha toccato l’apice fra il 1969 e il 1973 con il bombardamento a tappeto delle campagne da parte dei B-52 americani. Molto probabilmente si è trattato del singolo fattore più importante per l’avvento di Pol Pot.

I bombardamenti fornirono ai contadini un motivo per unirsi all’insurrezione dei Khmer rossi. «Le persone erano piene di rabbia verso gli Stati uniti, ed è per questo che molti di loro si unirono ai comunisti», spiega un testimone. Nel 1973 il Direttorio delle operazioni della Cia concludeva che le forze dei Khmer rossi erano in grado di rendere «i danni procurati dagli attacchi dei B-52 il tema principale della loro propaganda». La destabilizzazione causata dal bombardamento venne esacerbata ancor di più dal colpo di stato che nel 1970 avrebbe rovesciato Sihanouk grazie all’appoggio Usa, i quali riconobbero il nuovo governo cambogiano del conservatore Lol Nol. L’effetto fu di spingere Sihanouk e i suoi sostenitori – detti «sihanoukisti» – dall’altra parte del paese dove erano accampati i khmer rossi. Le forze comuniste vietnamite e del Vietnam del nord – che precedentemente avevano accettato Sihanouk come sovrano di diritto della Cambogia – si allearono integralmente con i khmer rossi. Qualunque neutralità avesse mantenuto fin lì la Cambogia, ormai era storia passata. La guerra cambogiana giunse a termine nell’aprile del 1975, contestualmente alla presa di Phnom Penh da parte degli insorti. Non passò molto tempo prima che cominciassero a svuotare le città e dessero inizio al genocidio. Il coinvolgimento di Kissinger, tuttavia, non accennava a finire.

Una mano a Pol Pot

132

Nel novembre del 1975, Kissinger fece presente al ministro degli esteri thailandese che «avrebbe dovuto comunicare ai cambogiani che gli saremo amici. Sono criminali assassini,

ma non lasceremo che questo ci divida. Siamo pronti a migliorare i rapporti con loro». Con la conclusione della Guerra del Vietnam lo scacchiere geopolitico stava cambiando. L’idea di Kissinger era di servirsi della Cambogia a mo’ di contrappeso delle forze nord-vietnamite uscite vittoriose dalla guerra e alleate dei russi. Ma anche la Cina, in quanto nemica storica del Vietnam, cercava la medesima alleanza. Con il disgelo dei rapporti con gli Stati uniti e con il deterioramento di quelli con l’Unione sovietica si creò pertanto lo spazio per un’insolita alleanza, con Cina e Stati uniti insieme nel consolidamento dei Khmer rossi in funzione anti-vietnamita (e per estensione anti-sovietica). Il desiderio di stringere rapporti con i Khmer rossi esternato da Kissinger rappresentava però anche il preludio delle posizioni che avrebbero intrapreso le amministrazioni Carter e Reagan. Quando alla fine del 1978 il Vietnam invase la Cambogia per spodestare i Khmer rossi in risposta alle ripetute incursioni sul territorio vietnamita, questi ultimi si diedero alla guerriglia contro il nuovo governo insediatosi a Phnom Penh. Ora l’invasione vietnamita in Cambogia rimane forse uno dei pochi interventi del secondo dopoguerra ad avere avuto conseguenze genuinamente umanitarie: il rovesciamento dei khmer rossi. Trattandosi di un’operazione portata avanti da un governo non occidentale, tuttavia, quelle stesse élite che si sperticavano per legittimare gli interventi di Washington sul terreno umanitario non lo ritennero della stessa pasta. Determinati a pregiudicare l’influenza vietnamita sulla regione, gli Stati uniti, la Cina e altre potenze esterne scelsero di riconoscere quello dei Khmer rossi come il legittimo governo della Cambogia, fornendo a supporto vari meccanismi. Zbigniew Brzezinski (consigliere per la sicurezza nazionale di Carter) spiegò per esempio al New York Times di aver «incoraggiato i cinesi a sostenere Pol Pot». Almeno fino al 1989, ogni tentativo di definire la condotta dei Khmer rossi come «genocida» sarebbe stata interpretata come «controproducente» dai funzionari statunitensi, e perché gli Stati uniti dessero il loro consenso alla cattura e all’incriminazione del dittatore cambogiano si sarebbe dovuto aspettare il 1997. Ormai però era troppo tardi. Il comandante sarebbe morto un anno dopo, senza confrontarsi mai con la giustizia.

133

Oltre ad aver elaborato politiche in sostegno dell’avvento dei Khmer rossi e del loro brutale operato, l’eredità di Kissinger in Cambogia si fa sentire ancora oggi anche in un altro terribile senso: le bombe inesplose (Uxo). Dal 1979, 64 mila cambogiani sono rimasti uccisi o feriti a causa di una bomba inesplosa. Sebbene alcuni di questi residuati siano mine terrestri lasciate dai Khmer rossi e da altre fazioni durante i tanti decenni di guerra, gli Stati uniti hanno una porzione sostanziale di responsabilità. Anche il Dipartimento di Stato riconosce che le «aree orientali e nord-orientali della Cambogia sono contaminate con ordigni inesplosi, la maggior parte dei quali provenienti dagli attacchi aerei e dall’artiglieria Usa durante la Guerra in Vietnam». A detta di tutti, la morte e la distruzione che Kissinger ha provocato sulla Cambogia non avrebbero mai gravato su di lui – le sue dichiarazioni pubbliche sulla guerra sono state sempre ricche di scuse e razionalizzazioni. Nel 2014, per esempio, Kissinger affermò che «ci sono state meno vittime civili in Cambogia [per i bombardamenti americani] di quante ce ne siano state a causa degli attacchi di droni americani» (un calcolo che non è in nessun modo accurato, a prescindere da come lo si misuri). Il fine di Washington, sovvertire il governo di Sihanouk, bombardare le sue campagne per indebolire le forze comuniste ed esigere il massimo di concessioni dal Vietnam del nord, il tutto per salvare la faccia, nei pensieri di Kissinger era più importante delle milioni di persone che avrebbero potuto soffrire – come poi hanno sofferto – in conseguenza delle sue azioni.

THE GOOD DIE YOUNG

Un’eredità omicida

THE GOOD DIE YOUNG

Grazie alla rete di conoscenze nel mondo del potere tessuta nel corso della sua vita precedente, dalla fine degli anni Ottanta Kissinger ebbe un ruolo enorme nel far procedere rapidamente e in tutto il mondo il neoliberismo

134

N. 22

PRIMAVERA 2024

F

lagello dell’investitore internazionale è l’incertezza: l’incapacità di prevedere il futuro economico, sociale e politico in un paese all’altro capo del mondo aumenta il rischio di investimento, alzando i costi necessari a garantire o chiedere i fondi per una data impresa. Ma allora cosa può fare un’azienda per proteggersi da un futuro imperscrutabile in un angolo remoto del globo? Si rivolChristy Thornton ge all’esperto, al consulente, all’analista, che fornirà all’impresa le informazioni in grado di rassicurare il consiglio direttivo, tranquillizzare i finanziatori scettici e calmare la mano tremante del broker assicurativo. La consulenza sui rischi, non a caso, è diventata anch’essa un’industria multimiliardaria, un morbo in fase di metastasi all’interno di una più grande economia finanziaria già malata di titoli e derivati sempre più complessi. Ma per quanto la consulenza sui rischi sia effettivamente cresciuta, per decenni i titani dell’industria hanno sempre potuto contare su un esperto: Henry Kissinger. Dopo aver lasciato il Dipartimento di stato nel 1977, Kissinger non ha certo dismesso i panni di commentatore e confidente dei potenti. Ma per quanto il continuo rumoreggiare della classe politica per ogni suo parere e consiglio potesse accarezzare la loquacità del suo ego, sarebbero stati i consigli elargiti alla classe imprenditoriale, profumatamente pagati, a rendere Kissinger un uomo ricco. Prendendosi quelli che riteneva essere cinque «prudenti» anni dopo il suo ultimo incarico prima di vendere ai maggiori dirigenti le proChristy Thorntonn è prie competenze, l’ex Segretario di Stato avrebbe atteso il 1982 assistant professor di per fondare a New York la Kissinger Associates, la sua società di sociologia alla consulenza. Durante gli anni al potere, il suo sostegno agli inJohns Hopkins teressi nazionali era stato lineare: aveva incoraggiato la vendita University. di enormi quantità di armamenti americani in Iran e Arabia La traduzione è di Saudita; aveva provocato il rovesciamento di Salvador Allende, Emanuele Giammarco. l’allora presidente cileno democraticamente eletto, nell’inte-

THE GOOD DIE YOUNG

135

resse della PepsiCo e del gigante delle telecomunicazioni Itt. Privato di un ruolo governativo, forse Kissinger non era più in grado di allungare le proprie mani direttamente sulle leve del potere, eppure possedeva un’ampia riserva di competenze sugli affari mondiali, una finestra unica sui meccanismi del governo americano e delle sue controparti internazionali. E per questo, come sarebbe diventato subito chiaro, erano diverse le aziende pronte a pagarlo bene, in tutti i rami dell’industria. Fra gli anni Ottanta e Novanta la lista di clienti della Kissinger Associates avrebbe annoverato grandi aziende del settore bancario e assicurativo come Aig, American Express e Chase Manhattan, ma Kissinger lavorò anche per colossi del consumo, come Heinz, Anheuser-Busch, Coca-Cola e Revlon; industrie dell’automobile come Volvo e Fiat; società di telecomunicazioni come Itt, Gte, Bell Telephone e Ericsson; ma anche compagnie petrolifere, edilizie, ingegneristiche ed estrattive come la Freeport-McMoRan, la Hunt Oil e la Union Carbide. Secondo il biografo Walter Isaacson, all’inizio degli anni Novanta un’azienda poteva pagare un acconto di quasi 200mila dollari per un contratto annuale con la Kissinger Associates. A questa tariffa Kissinger e il suo team offrivano la loro reperibilità telefonica per commentare gli avvenimenti del giorno garantendo un incontro più strutturato – a voce, o comunque di persona, senza mai lasciare tracce documentarie – almeno due o tre volte all’anno. Se poi un’azienda aveva bisogno di un aiuto più specifico, come farsi aprire le porte di un paese straniero per un’approvazione governativa, la tariffa sarebbe aumentata di altri 100mila dollari al mese escludendo le spese. Un’attività redditizia, non c’è che dire. Nel 1982 per mettere in piedi il suo ufficio Kissinger si era fatto prestare 350mila dollari da un consorzio di banche fra cui la Goldman Sachs. Sebbene il termine del prestito fosse stato fissato a cinque anni, Kissinger fu in grado di ripagarlo in due. E con l’arrivo degli anni Novanta le entrate dell’azienda erano arrivate ormai vicine ai 10 milioni di dollari annui. Oltre a riempire le sue tasche, il lavoro di consulenza di Kissinger sarebbe stato decisivo anche nel diffondere l’avanzata dell’economia politica neoliberista a livello globale. La partenza così promettente della sua società di consulenza nel 1982 – un anno di grave crisi finanziaria e quindi di grandi opportunità per gli interessi capitalistici – ci dà l’idea di quanto Henry Kissinger fosse invischiato nella promozione di questo nuovo assortimento di priorità economiche. Quando lo stesso anno il governo messicano annunciò in agosto che non sarebbe stato in grado di ripagare il mostruoso debito che aveva contratto con i paesi esteri, e dopo che una quarantina di nazioni l’avrebbero imitato di lì a breve dichiarando il loro default, il settore finanziario fu colto trasversalmente dalla paura di imminente collasso sistemico. Il Fondo monetario e il governo degli Stati uniti, in tutta risposta, concepirono alcuni pacchetti d’aiuto pensati per ristrutturare il debito commerciale dei paesi coinvolti. La maggior parte di questo debito pendeva sulle casse delle più grandi banche americane – Chase Manhattan, JP Morgan, Citicorp e American Express – molte delle quali erano già clienti della Kissinger Associates. Oltre a consigliare queste aziende direttamente durante la crisi del debito, Kissinger si servì della sua visibilità pubblica – editoriali e interviste sui maggiori network televisivi – per difendere quelle stesse strutture di riduzione del debito che si sarebbero rivelate particolarmente vantaggiose per i suoi clienti. Difese l’idea, per esempio, che le banche non dovessero sostenere da sole tutto il peso delle insolvenze; anche il governo degli Stati uniti e delle altre nazioni creditrici avrebbero dovuto sobbarcarsi parte degli oneri della ristrutturazione. Quello che veniva difeso, in poche parole, altro non era che uno dei dogmi più classici della politica neoliberista: privatizzare i profitti socializzando i rischi. E Kissinger l’avrebbe difeso a spada tratta su tutti i media e per tutti gli anni Ottanta, ma senza svelare mai quali nessi finanziari lo legassero alle aziende che avrebbero tratto profitto da quella strategia.

PRIMAVERA 2024 N. 22

136

Al contempo Kissinger si adoperò per suggerire alle sue aziende come poter trarre vantaggio dalle varie riforme economiche legate a questo tipo di riduzione del debito. Si accertò che i suoi clienti occupassero una posizione favorevole non appena l’adeguamento strutturale si materializzò nella svendita delle risorse pubbliche e nell’apertura di nuovi mercati per gli investitori stranieri. Gli anni Novanta si portarono dietro una manna di privatizzazioni e deregolamentazioni nei cosiddetti «mercati emergenti» – Europa orientale, Asia, America Latina – tanto che i clienti appartenenti alla grande industria, alle telecomunicazioni, ai settori ingegneristico, petrolifero ed estrattivo, si rivolsero a Kissinger per farsi aprire la strada in quei paesi dove possedeva contatti particolarmente fruttuosi. Fra le sue conoscenze personali, per esempio, c’erano il premier cinese Deng Xiaoping e il presidente messicano Carlos Salinas. Così, mentre la Aig stava costruendo un nuovo quartier generale a Shangai, Kissinger poteva accompagnare il suo amministratore delegato Hank Greenberg a Beijing per parlare con Deng. Oppure poteva ospitare ad Acapulco Robert Day – presidente della Trust Company of the West, un’enorme azienda di investimenti con sede a Los Angeles – per partire con il jet privato del cliente alla volta di Città del Messico, dove Kissinger stava lavorando a un accordo per far sì che la sua compagnia investisse nell’ex sistema telefonico nazionale del paese (Alla fine sarebbero stati superati da Carlos Slim, il miliardario messicano che avrebbe cavalcato la privatizzazione delle telecomunicazioni del suo paese tanto da avvicinarsi alla vetta della lista Forbes degli uomini più ricchi del mondo). Fra gli anni Ottanta e i primi Novanta il solo Messico avrebbe svenduto migliaia delle sue imprese pubbliche, costate centinaia di migliaia di posti di lavoro, ma dando anche prova di essere quello che la Banca Mondiale avrebbe acclamato come un Bush nominò Kissinger a capo della «modello» per gli altri paesi in via di commissione indipendente sugli attacchi sviluppo. Un modello in cui Kissinger terroristici dell’11 settembre. Lui si dimise era una presenza costante. per non rivelare la lista dei suoi clienti Ma fra i suoi associati non figuravano soltanto amicizie altolocate. C’erano ministri delle finanze, capi di Stato coinvolti nella liberalizzazione economica dei loro paesi «emergenti», nonché fondatori e amministratori delegati delle multinazionali che avrebbero poi tratto vantaggio da quella stessa liberalizzazione. Nell’avvicinare compratori e venditori, mercati e investitori, autocrati e capitalisti, Kissinger avrebbe giocato un ruolo enorme nel far procedere rapidamente e in tutto il mondo il neoliberismo. Si tratta di uno degli aspetti cruciali, per quanto spesso trascurati, delle modalità attraverso cui il neoliberismo ha trovato diffusione negli ultimi quattro decenni – l’azione congiunta dello Stato e dei suoi rappresentanti. Persino in quanto individuo, Kissinger ha sempre portato con sé l’imprimatur del governo – pur senza poteri, è rimasto sempre il Segretario. Kissinger ha difeso i suoi interessi, poco ma sicuro, ma le intenzioni e le politiche di cui dava conto ai suoi clienti erano quelle del governo americano e delle sue controparti oltremare. Molti dello staff di Kissinger – Brent Scowcroft, Lawrence Eagleburger, L. Paul Bremer, Timothy Geithner e Bill Richardson – non facevano altro che uscire e rientrare ciclicamente in azienda lasciando posizioni governative e rioccupandole subito dopo. Questa prossimità con lo Stato costituisce una bella fetta di ciò che ha da offrire la Kissinger Associates, tanto che ricostruire la sua storia aziendale può aiutarci a capire come sia cambiato il ruolo dello Stato nella gestione del capitalismo globale. Ripercorrere questa storia non è semplice, dal momento che la lista dei clienti rimane segreta e ben custodita. La questione relativa all’identità degli associati divenne

137

THE GOOD DIE YOUNG

di dominio pubblico quando George W. Bush nominò Kissinger a capo della commissione indipendente allora istituita per indagare sugli attacchi terroristici dell’11 settembre. I parlamentari democratici ribadirono più volte che per dimostrare di non avere alcun conflitto d’interesse Kissinger dovesse divulgare la lista dei clienti della sua azienda. Piuttosto che rivelarli, decise di rassegnare le dimissioni. Malgrado questa segretezza, tuttavia, negli ultimi anni la società di consulenza ha reso pubbliche una serie di «partnership strategiche». Fra queste ci sono alcune fra le più grandi compagnie finanziarie del paese, come la Aig e il Gruppo Blackstone, il fondo di investimenti guidato da Pete Peterson, Segretario del commercio durante l’amministrazione Nixon. Questa collaborazione, siglata nel 2022, è arrivata dopo che già nel 2000 era stata annunciata una partnership con Hakluyt & Company, una società di consulenza manageriale creata e gestita da vecchie spie dei servizi segreti britannici. Proprio Hakluyt è stato coinvolto nello spionaggio di gruppi di attivisti per il clima come Greenpeace per conto di clienti come la Royal Dutch Shell e la British Petroleum. Forse a causa dell’indagine che la Kissinger Associates e i partner strategici come Hakluyt hanno subito in seguito al putiferio sulla Commissione per l’11 settembre, nel 2004 Kissinger avrebbe raggiunto un accordo anche con l’azienda di pubbliche relazione Apco Worldwide, dedicata alla gestione delle pubbliche relazioni di clienti coinvolti in delicate crisi politiche e reputazionali. Nello stesso periodo, Kissinger annunciava anche una partnership con lo studio legale Covington & Burling, rappresentante di clienti come Philip Morris, Halliburton, Chiquita e Blackwater (Xe). In sostanza, per offrire un miglior servizio ai suoi partner aziendali, la Kissinger Associates collabora attualmente con le più grandi e importanti società assicurative e agenzie di intelligence, con i maggiori esperti di pubbliche relazioni, fondi di investimento e studi legali. Come l’economia globale si è fatta più complicata, in poche parole, così è accaduto agli affari di Kissinger. In modo forse non sorprendente la sua società di consulenza è legata infine alle più recenti crisi economiche e geopolitiche. Dopo il collasso della Lehman Brothers durante la crisi finanziaria del 2008, la Kissinger Associates si è accaparrata l’ex responsabile dei rischi sovrani Jami Miscik, nominandola alla presidenza e alla vicepresidenza. Ma non erano soltanto i suoi trascorsi alla Lehman a renderla materiale buono per Kissinger. Prima del suo periodo trascorso nella famigerata società di investimenti, Miscik aveva passato più di due decenni nei servizi segreti, arrivando anche alla nomina di vicedirettrice della Cia dal 2002 al 2005 – epoca in cui fu responsabile delle informazioni con cui l’amministrazione Bush decise di entrare in guerra con l’Iraq. Non stiamo parlando quindi di un normale periodo di servizio nel governo e nella finanza. Quella che abbiamo davanti, è giusto ricordarlo, è una posizione di rilievo in due degli episodi più disastrosi della recente storia economica e geopolitica del mondo. Ma dove gli altri vedono crisi e difficoltà, Kissinger ha dimostrato di vedere opportunità, concedendo a Miscik un posto di rilievo al centro del nesso governo-finanza rappresentato dalla stessa Kissinger Associates. Sono tempi incerti, poco ma sicuro; e dove c’è incertezza, la società di Kissinger continua a rendersi indispensabile per gli interessi del capitale globale.

COSTRUIAMO GIUSTIZIA SOCIALE

Nell’immagine: Søkkømb (2009), per concessione del collettivo IOCOSE http://iocose.org

La lama che cade separa. Non è un elogio della giustizia sommaria ma il simbolo di una necessità radicale di tracciare conflitti, di dividere quello che oggi artificialmente viene presentato come unito.

JACOBIN

€39

Abbonamento annuale

Con l’abbonamento annuale ricevi 4 numeri della rivista trimestrale JACOBIN ITALIA a 39 euro anziché 52 euro, direttamente a casa senza spese di spedizione. Hai inoltre accesso completo ai contenuti del sito. ASSOCIATI ALLA NOSTRA AVVENTURA GIACOBINA SU JACOBINITALIA.IT

Sostieni l’informazione indipendente. Leggi senza limiti su sito e su app.

Con 3,99 euro a settimana potrai: leggere il giornale in anteprima dalla mezzanotte; scaricare e sfogliare i pdf; accedere a tutto l’archivio storico.

Disdici quando vuoi con un clic nel tuo profilo.

Anthony Cartwright

Come ho ucciso Margaret Thatcher O

vviamente non dicevo a nessuno queste cose. Non ero stupido. Continuavo a correre giocando con Ronnie e gli altri. Di solito non avevo niente di cui preoccuparmi al mondo. In fondo ero solo un bambino. Ma rimaneva nell’aria una sensazione, quella per cui un giorno avremmo dovuto contrattaccare.

«Cartwright getta luce su una zona che il romanzo inglese di solito consegna all’oscurità» Jonathan Coe

«Un romanzo impressionante che riesce a dare voce a quella parte del paese di cui si parla tanto ma che nessuno ascolta» The Guardian

Pag. 256, euro 17

«Questo romanzo di Anthony Cartwright descrive la vita del Black Country e fa risplendere la narrativa regionale britannica». Zadie Smith

IN LIBRERIA

Scopri i titoli della collana WORKING CLASS su www.edizionialegre.it