Introduzione al Nuovo Testamento. Le parole di Gesù Cristo [Vol. 7] 8826304793, 9788826304793


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Italian Pages 336 [330] Year 1988

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Introduzione al Nuovo Testamento. Le parole di Gesù Cristo [Vol. 7]
 8826304793, 9788826304793

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L'Introduzione al Nuovo Testamento pubblicata in 5 volumi alcuni anni fa, aveva riunito i lavori • di quattordici collaboratori sotto la direzione di A. George e di P. Grelot. Essa presentava il quadro storico e culturale nel quale i libri del Nuovo Testamento erano stati scritti. Essa forniva indicazioni fondamentali su ogni libro. Mostrava la loro formazione storica e la formazione del loro "Canone". Da allora molti problemi sono stati dibattuti di nuovo e sono sorti altri problemi generali che esaminavano i libri sotto aspetti differenti e operavano tra loro raggruppamenti di un altro genere. Ecco perché oggi è utile completare i volumi presentati, con una serie che risponderà a questi nuovi bisogni. Essa esaminerà i problemi posti dai rapporti tra il vangelo e la storia, gli echi della predicazione e della liturgia primitive che si trovano nei testi canonici, lo sviluppo organico dell'istituzione nella quale questi testi sono stati composti. Occasionali allusioni a questi problemi si trovano nei volumi precedenti.

È bene riprenderle perché sono strettamente collegate all'Introduzione al Nuovo Testamento. L. 25.000

ISBN 88-263·0479-3

Autori Vari

INTRODUZIONE AL NUOVO TESTAMENTO

edizione italiana a cura di Rinaldo Fabris

1 J. Carmignac - J. Giblet- P. GrelotA. Paul - Ch. Perrot

R�

Le Déaut

AGLI INIZI DELL'ERA CRISTIANA Il mondo greco-Romano e i giudei al tempo di Gesù

pagg. 256

-

L. 17.000

2 X. Léon-Dufour - Ch. Perrot

L'AN NUNCIO DEL VANGELO l sinottici e gli Atti

pagg. 288 - L. 17.000

3 J.-M. Cambiar - J. Cantinat- M. Carrez. - Ch. Perrot - A. Vanhoye

LE LETTERE APOSTOLICHE

L'opera di Paolo e altre lettere pagg. 328

-

L. 17.000

4 M.E. Boismard- E. Cothenet

LA TRADIZIONE GIOVANNEA Scritti di san Giovanni pagg. 328

-

L. 17.000

5 P. Grelot- G. Bigare

IL COMPIM ENTO DELLE SCRITTURE La formazione e la tradizione del Nuovo Testamento pagg. 232

-

L 17.000

6 Pierre G relot

VANGELI E STORIA pagg. 324 - L. 25.000

7 Pierre Grelot

LE PAROLE DI GESÙ CRISTO pag g. 336

-

L 25.000

Sotto la direzione di Augustin George e Pierre Grelot

introduzione al nuovo testamento Volume settimo Pierre Grelot, le parole di Gesù Cristo

boria

Ti t ol o originale

Introduction à la Bible Le Nouveau Testament 7/Les Paroles de Jésus-Christ © 1 986, Desclée, Parigi © 1 988, Edizioni Boria s.r.l. via delle Fornaci, 50 00 1 65 Roma -

Traduzione di Carlo Valentino ISBN 88-263-04 79-3

al lettore

Questo volume 7 dell' In trodu z ione al Nuovo Testamento fa tutt 'uno con il volume 6, che l'ha preceduto di poco. Si suppone conosciuta la prima parte di quel volume, in cui si trova l'esposizione dei principi esegetici generali ap­ plicati ai vangeli. Certamente, viene qui adoperato lo stes­ so metodo, ma si vedrà che la sua applicazione è un po' più complicata, per una ragione molto semplice: nei rac­ conti evangelici Gesù era l' «eroe », anche se i fatti e le ge­ sta erano riletti e reinterpretati alla luce della sua risurre­ zione, mentre qui egli è « colui che parla ». Ma le sue parole non sono ascoltate direttamente, infatti Gesù non ha scrit­ to niente. (Sì, una volta per terra . . . , secondo Gv 8, 8) . Le parole sono dunque oggetto di una trasmissione indiretta. Ma come sono state esse trasmesse ? -Potevano esse sottrarsi ad una rilettura che trovò nella sua risurrezione e nell'e­ sperienza della sua grazia nella Chiesa, una luce in sovrap­ più pe rché la loro comprensione ricevesse un approfondi­ mento ? Il ricorso alle parole di Gesù negli studi teologici di tutti i tempi - ivi compresi i testi conciliari è stato sempre fatto tenendo conto di questa luce in sovrappiù, di questa pienezza di significato, senza che ci si preoccu­ passe di verificare il carattere « originario » delle espres­ sioni adoperate. Questa è una preoccupazione che si è ma­ nifestata con gli storici del XIX secolo. Lo scopo principa­ le di questo libro è quello di mostrare che questi due ele­ menti non vanno separati, trovando il modo di unirli saldamente. L'esegesi non potrebbe fare niente di peggio che separare l'uno dall'altro, e pretendere di fare una scel­ ta tra i due. Ancora una volta è necessario trovare per que­ sto un metodo adeguato. Esso esiste, anche se tutte le sue applicazioni in dettagl io non portano sempre a delle cer­ tezze piene nel campo strettamente « storico ». -

l 0 dicembre 1 985, I Domenica di Avvento

PIERRE GRELOT 5

lista delle abbreviazioni

l 0 libro di Enoch (etiopico) Hen 2° libro di Baruch (siriaco) Bar = 4 ° libro di Esdra 4 Esd Salmi di Salomone PsSal I testi di Qumran sono citati sia con i loro titoli sia secondo le grotte l 2

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in cui sono stati ritrovati; i riferimenti seguono le colonne e le righe.

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Di scoveries in the J udean Desert (Oxford) Etudes Bibliques Evangelisch-Katholisches Kommentar zum Neuen Testament (Neukirchen)

Exegetisches Worterbuch zum

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Theologisches Handworterbuch z.um Alten Testa­ ment (Monaco) Theologisches Worterbuch zum Alten Testament

(Stuttgart)

Theologisches Worte rbuch zum Neuen Testament [it: Grande Lessico del Nuovo Testamento] aitschrift fii. r die neutestamentliche Wissenschaft (Berlino)

Gli altri titoli vengono citati senza abbreviazioni.

6

Neuen Testament

(Stuttgart) Herders Theologisches Kommentar zum Neuen Testament (Frankfurt) Lectio Divina traduzione greca dei Settanta Meyers-Kommentar zum Neuen Testament (Gottingen) Nouvelle Revue Theologique (Tou mai-Namur) = New Testament Studies (Cambridge) Migne, Patrologia Greca (Parigi) Migne, Patrologia Latina (Parigi) Revue Biblique (Par igi) Recherches de Science Religieuse (Parigi)

TWA T

ZNW

Biblische Zeitschri.ft (Paderbon) Catholic Biblical Quarterly (Washington)

prefazione

In un libro precedente mi sono sforzato di precisare i rapporti tra Vangelo e storia, soffermandomi essenzial· mente sui raccon ti evangelici 1• Rapporti complessi a cau­ sa dell'ambiguità del termine « storia>>. Per tale ragione hb introdotto alcune distinzioni per mettere un po' di chia· rezza in questa questione: storia vissuta e storia racconta­ ta. La seconda si sforza di far conoscere la prima, ma non ne è mai l'equivalente integrale poiché la raggiunge solo nei limiti di una documentazione più o meno completa, o sparsa, o lacunosa. Nella storia raccontata si può ancora distinguere l'evocazione di un passato compiuto e l'inter­ pre tazione degli avvenimenti che vi sono accaduti, secondo le diverse angolature dalle quali uno può considerarli. Il Vangelo, sotto questo aspetto, sceglie un angolo di visuale che mostra in Gesù l'Evento supremo nel quale si ravvisa il compimento di tutti gli aspetti delle antiche Scritture. Compimento del tempo, poiché in questo Evento l a storia del­ l'umanità peccatrice si annoda- è il dramma che si conclude con la C roce - e si snoda è la gloria di Pasqua che introdu­ ce quaggiù il germe della salvezza. Compimento della Legge, poiché assumendo su di sé la sapien­ za di vita data da Dio a Israele, Gesù vive, muore e ri suscita come il mediatore della salvezza promessa e poiché con que­ sta mediazione la grazia di Dio si comunica con una sovrab­ bondanza inattesa. Compimento della preghiera, poiché l'intimità stabilita con l'al­ leanza sinaitica tra Dio il suo popolo raggiunge il suo apice nella relazione filiale tra Gesù e suo Padre. -

l

Vangeli e storia. Introduzione al Nuovo Testamento, Vol. VI, Bor

Ia, Roma 1988.

­

7

Il punto di vista così scelto determina l'interpretazione che soggiace a tutti i racconti evangelici. Nello stesso tempo ne qualifica la verità, qualunque siano i mezzi p ratici ado­ perati per costruire una su ffi ciente evocazione dei fatti e delle azioni di Gesù. Da questo punto preciso, i racconti evangelici comportano una pluralità di forme di cui la cri­ tica deve tener conto nella misura in cui si lascia guidare dalle esigenze di esattezza che stanno a cuore agli storici moderni . Originariamente la tradizione evangelica adotta­ va le convenzioni di un'altra cultura. È necessario saperlo per non ricercare in essa cose che erano al di fuori della sua prospettiva Ciò che bisogna domandarle è la compren­ sione del mistero di Gesù Cristo, senza operare alcuna frat­ tura tra la personalità storica di Gesù e il «Cris to della fede». L'attestazione fondamentale del vangelo risiede nel­ l'identità di questi due aspetti. Ma il mistero del Cristo, parzialmente velato durante la vita mortale di Gesù, fu sve­ lato pienamente soltanto dopo la sua risurrezione dai mor­ ti « secondo le Scritture ». Fu poi compreso progressivamen­ te in maniera più approfondita ed espresso in modo più esplicito fino alla chiusura del Nuovo Testamento. Nell'e­ vocazione di Gesù che forniscono i quattro scritti evangeli­ ci questa luce finale rifluisce costantemente perché la pie­ nezza del mistero traspaia attraverso i tratti del «profeta » o del « maestro» di Nazaret. È per questo che i racconti riguardanti la sua vita comportano sempre t re «dimensio­ nb> : un riferimento alla vita di Gesù « Secondo la carne >>, così come avevano potuto osservarlo i suoi contempora­ nei; un riferimento alle Scritture, portate a compimento nella sua persona e nello svelamento di tutto il suo miste­ ro; un riferimento all 'attualità ecclesiale nella quale que­ sto mistero si dispiega per apportarci la salvezza. Tutte le analisi dei racconti contenute nel volume precedente ave­ vano di mira c iò in un modo pratico. Questa operazione aveva come risultato l'introdurre, nello studio dei rapporti tra Vangelo e storia, una distinzione tra ciò che ho chiamato I'«istoriale » e lo «Storico». L'«isto­ riale » è, per il Vangelo, il compimento del disegno di Dio nella storia umana: esso si realizza per la mediazione di Gesù durante la sua vita e durante il tempo della Chiesa. Lo « storico» è quel piccolo settore, accessibile alle ricer­ che empiriche e alla riflessioni puramente razionali, che possono raggiungere coloro che si interessano alla storia 8

profana. Lo « storico » è l'inchiesta su Gesù come personag­ gio del passato. Ma per il suo aspetto « istoriale », il Vange­ lo parla sempre di Gesù come presen te. Questa presenza era percepita fortemente nella fede dagli apostoli e dai lo­ ro successori quando annunciavano il Vangelo e ne fissa­ vano la tradizione nei nostri quattro libri. Essa rimane l'og­ getto della nostra stessa fede quando leggiamo questi testi che essi ci hanno trasmesso. Facciamo qui un' osservazio­ ne, al seguito di Kierkegaard, che paradossalmente ha in­ sistito su questo aspetto delle cose. « Ecco trascorsi diciotto anni da quando Gesù camminava quag­ giù; ma quest'evento non è come tutti gli altri che, una volta passati, entrano nella storia [N .B.: K. intende con ciò la storia profana] e che, dopo molto tempo che sono trascorsi, cadono nell 'oblio. No, la sua presenza quaggiù non diviene mai qua l ­ cosa del passato, né di conseguenza di un passato sempre p iù lontano, se la fede viene ancora trovata sulla terra (cf. Le 18, 18); altrimenti, per questo fatto, Gesù è vissuto molto tempo fa . Ma per tutto il tempo che esiste un credente, è necessario pu­ re che, per esserlo diventato, egli sia stato e sia, come creden­ te, contemporaneo della presenza di Cristo esattamente come la generazione di allora; questa contemporaneità è la condizio­ ne della fede e, per essere più precisi, è la fede » (L 'école du Christianisrne tr. fr. di P.-H. Tisseau, Paris 1963, p. 121).

Introduciamo qui una sola precisazione, Kierkegaard par· la di Gesù Cristo, nella totalità del mistero che costituisce l 'oggetto della fede. « Cristo » è infatti il titolo di Gesù ri­ sorto, non diverso da Gesù di Nazareth, ma reso contem· poraneo di ogni tempo e di ogni uomo. È importante qui che il lettore credente dei vangeli non perda mai di vista questa « contemporaneità » nella quale egli viene introdot­ to dalla sua fede. Per Kierkegaard essa fa parte della « sto. ria sacra », specificamente diversa dalla « Storia profana » (cf. tutto il I capitolo dello stesso libro). Il filosofo danese reagisce qui in modo virulento contro la filosofia hegelia­ na della storia e contro lo « storici smo » applicato ai vange­ li dagli storici « liberali » del suo tempo 2• Bisognerebbe 2 Non possiamo evidentemente accettare Kierkegaard in tutti i punti del suo pensiero. La sua reazione contro l'idealismo di Hegel è fonda­ mentalmente sana, ma rimane unilaterale per mancanza di esplicita­ zione metafi sica. Ugualmente, la sua reazione contro la prima critica liberale - alla quale si deve la Vita di Gesù di St raus s (1835-1836)

9

senza dubbio introdurre nel suo pensiero ruvido delle sfu­ mature supplementari per evitare il puro fideismo, usan­ do semplicemente il « metodo storico�: tratto dal suo posi­ tivismo originale, esso può restare aperto alla percezione del « segni » di Dio manifestati nell'esperienza storica degli uomini. Ma il principio della lettura fatta « secondo lo Spi­ rito », che percepisce la « contemporaneità » di Gesù Cristo, resta una solida acquisizione per ogni credente che rifiuta di opporre l'una all 'altra una Scienza diventata « gnostica» e una fede ridotta al salto cieco del fideismo. Qui mi ri tro­ vo pienamente tomista, adottando davanti alle ricerche sto­ riche più « critiche >> un atteggiamento analogo a quello di San Tommaso nei riguardi della filosofia di Aristotele, che non era un « cristiano» anzitempo - tutt'altro! La critica letteraria e storica deve semplicemente essere disciplina­ ta, al fine di rendere i servizi che ci si può aspettare da essa - né più né meno. È ciò che ho tentato di fare analiz­ zando precedentemente alcuni testi narrativi 3 • Devo passare all'esame delle parole di Gesù Cristo. Alcune si trovano già nei racconti che ho analizzato nel preceden­ te volume, ma lì facevano corpo con essi, sia per delineare e di cui si percepisce qualche eco nella predicazione del vescovo Myn­ ster o nell 'opera del teologo Gruntvid- lo mette in posizione decisa­ mente fondamentalista. Più ancora che nelle sue opere pubblicate men­ tre era ancora in vita, lo si costata nei suoi Papirer, tradotti in parte sotto il titolo di Journal (Estratti: 1 834- 1 855), tr. fr. di K. Ferlov e J .-J. Gateau, 5 voli., Paris 1 954- 1 963. Ma la sua intuizione gli fa perce­ pire con acutezza il senso «esistenziale » di tutti i testi letti «alla lettera ». 3 Le mie analisi dei testi narrativi erano precedute da un «Discorso sul metodo,,. Avevo dapprima presentato a lungo i documenti del Ma­ gistero che fissano su questo punto preciso dei principi molto chiari , senza darne delle applicazioni dettagliate al fine di lasciare la ricerca esegetica alle sue proprie responsabilità. La II parte del li bro aveva solo uno scopo: illustrare i principi esposti applicandoli a dei testi particolari senza impegnare affatto il Magistero stesso. Ma ricordo qui un'affermazione dell'Enciclica «Divino afflante Spi ritu »: «Ci sono ben pochi testi il cui senso sia stato definito dall'autorità della Chie­ sa, e non sono di più quelli sui quali regni il consenso unanime dei Padri» (n. 4). Segue un incoraggiamento a lavorare nella «vera libertà dei figli di Dio», «conservando fedelmente la dottrina della Chiesa>), ma anche «[accogliendo] con riconoscenza come un dono di Dio e [met­ tendo] a profitto il contributo del le scienze » (ibid.). Queste frasi, che non sono state inserite lì per caso, non possono che stimolare la ri­ flessione e i lavori di ricerca. lO

il progresso dell'evento riferito, sia per orientare il lettore verso la comprensione del suo significato. Sotto questo aspetto, si può portare come esempio il racconto giovan­ neo della guarigione del cieco nato.. La teologia soggiacen­ te al racconto passava in modo evidente nelle parole stes­ se di Gesù: l'avvenimento lo mostrava, in atto, come la « Lu­ ce del mondo » (Gv 9, 5), come colui a proposito del quale si pone la domanda fondamentale della fede (Gv 9, 35-37), come colui a proposito del quale si opera il «Giudizio » (Gv 9, 39). Si tratta ora di esaminare delle parole che non sono essen­ zialmente legate a delle azioni, benché pos sano avere una cornice narrativa più o meno precisa, più o meno conven­ zionale. L'essenziale non risiede in questa cornice narrati­ va. Talvolta il contesto immediato è andato perduto; perèf hanno tutte una cornice generale che non deve essere di­ menticata: figurano nel « Vangelo di Gesù Cristo » . È neces­ sario perciò, come si è fatto per i racconti, intraprendeme una lettura «evangelica ». Si andrà così al di là della sem­ plice lettura « storica » che tenderebbe soltanto a ricostrui­ re parola-per-parola, nella misura in cui ciò sia possibile, ciò che Gesù di Nazareth aveva detto durante la sua vita terrena. U na tale ricerca non è certamente inutile, così co­ me gli studi critici sui fatti e le azioni di Gesù conducono fino alla soglia del suo mistero profondo. Ma soltanto fino alla soglia. Gli storici che tentano di penetrarvi tracciando il suo rit ratto psicologico con le risorse della sola ragione rischiano molto di proiettarvi le loro idee preconcette. La stessa cosa accade per le sue parole. Nell'annuncio del Van­ gelo, le parole che Gesù di Nazareth rivolse ai suoi con­ temporanei e diretti ascoltatori diventano quelle che il Cri­ sto glorioso rivolge attualmente alla sua Chiesa, e dietro di essa, per la sua mediazione, a tutti gli uomini che pos­ sono ascoltarle. È a partire da questo « istoriale)) che biso­ gna risalire, per quanto possibile, verso lo « Storico ». Le parole di Gesù si lasciano più o meno classificare, nella mi sura in cui egli ha ripreso delle forme letterarie che era­ no attestate prima di lui nella letteratura biblica e giudai­ ca. Vi si potrebbero trovare delle sentenze e dei discorsi di carattere sapienziale, delle parole profetiche e apocalit­ tiche, alcune discussioni « dottorali » analoghe a quelle che si trovano nella letteratura rabbinica. Le sue parole hanno dei paralleli sia nell'Antico Testamento che presso i dotto11

ri giudaici. Tuttavia non le classificherò sulla base di que­ sti criteri per farne una scelta rappresentativa. Il criterio di selezione sarà più pragmatico: sen tenze isolabili o in­ quadrate parole e preghiere . Ritornerò più avanti su que­ sto punto. In conclusione mi interrogherò sulle parole che si presentano attualmente sotto forma di discorsi più o meno lunghi, sia nei Sinottici, sia nel IV Vangelo che, sot­ to questo aspetto ha un'originalità particolare. È ovvio che la mia scelta dei testi comporta una parte di arbitrarietà. Logicamente tutte le parole di Gesù dovreb­ bero essere oggetto di analisi. Ma, come per i racconti, l'unico mio scopo è quello di illustrare un metodo con al­ cuni esempi topici. Il re sto rientra nell'ambito dei com­ mentari. Per questa ragione un capitolo introduttorio por­ rà alcuni principi direttivi per la lettura della « parole di Gesù-Cristo»: Gesù come personaggio storico diventato il Cristo nell'attualità della chiesa. ,

..

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introduzione

capitolo primo

·Principi direttivi per la lettura

Le parole di Gesù trasmesse dagli evangelisti non pongono esattamente gli stessi problemi critici dei racconti relativi alla sua vita, al suo processo e alla sua morte, alle sue apparizioni dopo la sua risurrezione. Tutti questi elementi parrativi poterono essere registrati in un modo globale dai loro diretti spettatori. Invece le parole, pronunciate una sola volta in circostanze determinate o ripetute di frequente nella predicazione di Gesù, dovettero essere oggetto di una memorizzazione più precisa, soprattutto presso i discepoli che avevano aiutato Gesù nella sua missione ambulante ripetendole al suo seguito. Noi le leggiamo oggi nei quat­ tro scritti evangelici. Questo pone tre problemi di ordine generale: l) È necessario domandarsi se sia possibile ritro­ varvi le tre « dimensioni » che ho individuato nella nozione di Vangelo analizzando i racconti. 2) È necessario esami­ nare il problema della loro rilettura dopo la risurrezione di Gesù: il loro significato jniziale ne fu modificato? 3) È necessario infine dire una parola sul la loro trasmissione e sulla loro « forma letteraria», così come ci è pervenuta. l. LE DIMENSIONI •EVANGELICHE• DELLE PAROLE DI GESÙ

Analizzando i racconti relativi a Gesù, ho precisato la no­ zione di V angelo 1 • Ho allora sottolineato le tre dimensio­ ni che essa comporta sempre, almeno implicitamente, nell Cf.

Vangeli e storia,

pp. 77-88. 15

l'annuncio che la Chiesa ne p roclama. Questo punto può, in effetti, essere oggetto di discussione al tempo di Gesù. La Chiesa, fin dalle origini, ha annunciato la « Buona No­ vella » ( = e uange lion) « del Regno di Dio e del nome di Gesù Cristo» (At 8, 1 2). Ora, è chiaro che al tempo di Gesù il Vangelo verteva unicamente sul Regno di Dio; Gesù infatti non annunciava se stesso; era sufficiente che la sua perso­ na fosse presente e intimamente legata al Vangelo annun­ ziato. L'esperienza ecclesiale, in cui si dispiegano le tre dimensioni del Vangelo, inizia soltanto dopo la sua croce e la sua risurrezione, fonte dello Spi rito Santo accordato alla comunità dei credenti (cf. Gv 7, 39). Prima di questi eventi, le sue parole si stagliano già sullo sfondo delle Scrit­ ture ed esse fanno percepire qualcosa del mistero della sua persona. Ma la loro « attualità » è quella del tempo di Gesù: fanno esse intravedere pure il tempo della Chiesa? La questione è tanto più difficile per il fatto che i vangeli ce le trasmettono soltanto nella loro « rilettura » ecclesiale. Ora, la ricerca critica delle lpsissima ve rba Jesu si rivela spesso molto difficile. Bisogna tuttavia domandarsi quale significato i suoi contemporanei potevano percepirvi quan­ do manifestavano nei suoi riguardi sia un'ostilità che do­ veva affrettare il dramma finale della sua passione, sia un'incomprensione, di cui egli stesso si lamenta, fin pres­ so i suoi discepoli più vicini. La conoscenza delle Scritture nelle diverse correnti del Giudaismo era dunque insuffi­ ciente perché il senso delle sue parole, legato a quello del suo comportamento e delle sue azioni, non trasparisse in modo immediato ? 1. Lo sfondo delle Scritture

a) La lettura della Scri ttura nel giudaismo Sarebbe qui da fare una prima ricerca: rilevare tutte le citazioni o allusioni scritturistiche che figurano nelle pa­ role di Gesù, in quelle che gli sono rivolte o in quelle che l'opinione pubblica adduce al suo riguardo. Fortunatamente le edizioni critiche del Nuovo Testamento greco forni sco­ no un repertorio di queste citazioni dell'Antico, e le versio­ ni in lingue moderne di un certo valore indicano gli stessi brani paralleli: basta farvi una scelta giudiziosa. Bisogne16

rebbe tuttavia distinguere le categorie di persone che sono in scena. In effetti, al tempo di Gesù, tutti i Giudei esperti in diritto religioso (i sacerdoti, gli scribi, i « saggi », i dotto­ ri della Legge) conoscevano a memoria tutta la Torah. Gli scribi, specialmente quelli del partito farisaico vi aggiun­ gevano una conoscenza molto ampia degli altri libri bibli­ ci. Menzioneremmo volentieri i membri della comunità di Qumran se i vangeli non osservassero a loro riguardo un silenzio totale. Il fatto è che questi libri, e le tradizioni orali o pratiche che li accompagnavano, costituivano il fon­ damento della vita sociale, del culto e della cultura per tutto il Giudaismo. Invece la gente comune ( 'a m ha 'a res, come veniva definita) conosceva con precisione soltanto i testi letti , recitati o cantati nelle assemblee sinagogali. Ci piacerebbe sapere quali fossero, ma sfortunatamente non abbiamo i nformazioni dirette sulla lettura liturgica della Torah e dei testi complementari presi dai Profeti e dagli «Scritti », al tempo di Gesù. Su questo punto la ricerca, iniziata a suo tempo da Zunz, è stata spinta più lontano con le due dotte pubblicazioni di J. Mann: The Bible as Read and Preached in the Old Synagogue, 2 voli. (C incinnati 1 940 e 1 946). Una buona presentazione è sta­ ta fornita da C. Perrot: La lecture de la Bible dans la Synago­ gue: Les anciennes lectures palestinien nes du shabbat et des fetes (Hildesheim 1 973). Su questo punto non ci si può fidare dei due cicli annuali e triennali che saranno attestati più tardi in Babilonia e in Palestina. Si possono fare delle supposizioni probabili per le grandi feste, ma non per gli altri sabati. Il Nuovo Testamento fornisce indirettamente delle i nteressanti indicazioni . Per esempio, lo sviluppo di Gal 4, 2 1 -3 1 ha tutte le apparenze di un canovaccio di omelia c ristiana basata su una lettura della Torah (Gn 2 1 ) e di un haftarah profetico (ls 54): le allusioni o citazioni dei vv. 22. 29 e 30 lo fanno suppore con verosimiglianza.

Inoltre non bisogna pensare che i luoghi di preghiera delle più piccole borgate possedessero tutti i rotoli di pelle ne­ cessari pe r le copie di tutti i libri biblici. Tutti avevano senz'altro i cinque rotoli della Torah, e verosimilmente un rotolo dei Salmi per la preghiera comune. Ma su questo punto potevano esistere pure delle raccolte liturgiche più composite: il rotolo di Qumran 1 1 QPs a , edito da J. A. S�n­ ders (Oxford 1 965), racchiude una scelta di Salmi infra­ mezzata da composizioni apocrife, del resto molto belle. 17

Quanto ai Profeti, Isaia e i 12 Profeti erano probabilmente molto diffusi, così i libri di Samuele. Pe r il resto le opinio­ ni dei critici sono esitanti. Il fatto è che in Palestina, per la lettura dei libri sacri, erano obbligatori dei rotoli di pel­ le intatti. Il Giudaismo ellenistico, che aveva dei luoghi di riunione perfino a Gerusalemme (cf. At 6, 9), era meno pi­ gnolo: accettava che la copia dei libri sacri fos se fatta su papiro, materiale meno costoso e più maneggevole. I testi della B ibbia, come pure quelli degli Apocrifi scritti ai suoi margini, potevano essere diffusi più facilmente . Ma Gesù fu in diretto contatto soltanto con il Giudaismo palestine­ se, in cui si leggeva la Bibb ia in ebraico. Ad essa si univa un'interpretazione aramaica, per una necessità pratica. Que­ sto era certamente il caso della Galilea, probabilmene an­ che della Perea, forse persino della Giudea. Infatti sembra che l'uso dell'ebraico, derivato dalla lingua clas sica o dia­ lettale, era in uso soltanto negli ambienti colti dei sacer­ doti o degli scribi. La sua prevalenza a Qumran, gruppo « integrista » che viveva separato o ripiegato su se stesso, non deve far illudere sulla situazione delle lingue nel resto del paese 2• Questo spiega la necessità del Targum aramai­ co che accompagnava la lettura della Scrittura nelle riu­ nioni sinagogali. La sua pratica risaliva fino al tempo di Esdra (Esd 8, 8; cf. 8, 1 2). Non era una pura e semplice tra­ duzione, alla lettera, del testo ebraico, al quale la sintassi aramaica avrebbe potuto quasi sempre sovrapporsi. Era una trasposizione esplicativa nella quale erano già entrate delle interpretazioni tradizionali. L'antichità delle tradizioni targumiche, attualmente conservate in testi scritti, è og­ getto di discussioni critiche. Non è escluso che un certo numero di esse siano pre-cristiane. Una rigida regola vie­ tava di avere sotto gli occhi un testo scritto del Targum ne lla lettu ra sinagogale, perché questo testo non fosse con­ fuso con la Parola di Dio trasmessa nella Bibbia. Ma non s i può scartare l 'ipotesi di pezzi manoscritti, utilizzati fuo­ ri del le sinagoghe per aiutare la memoria dei targumisti (cf. R. Le Déaut, Introduction à la litté rature targumique, Rome 1 966, pp. 40s). Essi precedettero la messa per iscrit­ to sistematica che, per il Pentateuco e i brani profetici le­ gati alla sua lettura, fu fatta probabilmente nelle scuole 2 Si veda più avanti l'Excursus n. l. •La questione delle lingue nel Giudaismo palestinese», pp. 42-44.

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rabbiniche di Galilea a partire dalla seconda metà del II secolo. Perciò la Bibbia trasmessa alla gente comune era una « Bibbia spiegata» in cui i targumisti, benché ancorati nella tradizione, potevano far passare del materiale prove­ niente dagli ambienti apocalittici o dall'ellenismo (Jbid., p. 42). A ciò bisogna aggiungere le omelie sulla Scrittura, tenute dopo le letture in ogni riunione sinagogale: esse seguivano dei canovacci che obbedivano anch'essi a degli schemi tra­ dizionali. Questi canovacci saranno raccolti soltanto più tardi nei Mi­ drash im: dal II al IV secolo, per le omelie di carattere più giu­ ridico (halaka); a partire dal IV secolo, per le omelie edificanti (haggada}, ma sulla base di materiale che poteva essere anche molto antico. La conoscenza di questo genere letterario per­ mette di identificare nel Nuovo Testamento dei modelli di ome­ lie cristiane sulla Scrittura. Ho citato sopra Gal 4, 22-3 1 . Pos­ s iamo aggiungere altri esempi: Gal 3, 6- 1 4 è un 'omelia di Paolo su Gen 1 5, in cui abbondano le citazioni bibliche. l Cor 5, 7-8 è un breve schema di omelia che traspone cristianamente la lettura di Es 1 2, 1 -20: dato che la lettera di Paolo è stata scrit­ ta dopo la Pasqua e prima della Pentecoste (cf. l Cor 1 6, 8), si conosce così il tema della predicazione di Paolo a Efeso per la Pasqua dell'anno 57. Eh 3, 7 - 4, 1 1 ha tutta l 'aria di un'ome­ lia sul Sal 95[94], 7-1 1 , forse in margine a Nm 1 4 . Più chiara­ mente, Eh 7 è un'omelia su Gen 1 4, 17-20, commentato con l'aiu­ to del Sal 1 1 0[ 1 09], 4. L'enumerazione potrebbe continuare, fa­ cendo ricorso alla « critica delle forme letterarie».

Ritorniamo al tempo di Gesù. Anche se è difficile dire co­ me venivano allora spiegati tutti i passi della Bibbia, sen­ za dubbio con una grande flessibilità tematica, si può pre­ sumere che le allusioni bibliche di Gesù si riferivano a que­ sta spiegazione corrente o prendevano posizione in rapporto ad essa, a meno che non inaugurassero delle inte rpretazio­ ni nuove, come nell'omelia sinagogale di Le 4, 1 6-2 1 - di cui abbiamo solo il tema molto generale basato sulla lettu­ ra di Is 6 1 , 1-2 (con l'aggiunta di Is 58, 6d), citato secondo la Bibbia greca (fatta eccezione della parola keryxai, al po­ sto di kalesai).

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b) La lettura della Scrittura fatta da Gesù La spiegazione dei testi poteva essere oggetto di discussio­ ni tra scuole o tra partiti religiosi. Gesù era allora obbliga­ to a prendere posizione. Lo faceva a suo modo, senza ap­ pellarsi all'autorità di maestri che l'avevano p receduto o alla tradizione corrente. Questo particolare viene notato dagli evangelisti fin dall'inizio del suo ministero: « Egli in­ segnava come uno che ha autorità, non come gli scribi» (Mc 1 , 22; Mt 7,29); era « Un insegnamento nuovo dato con autorità» (Mc l, 27). La lingua adoperata nelle omelie sina­ gogali, come negli insegnamenti dati all'aria aperta, era certamente quella della gente di campagna, l'aramaico dia­ lettale della Galilea, riconoscibile dal suo accento e proba­ bilmente da certe costruzioni grammaticali (cf. M t 26, 73, per il caso di Pietro). Non è escluso che, nelle discussioni con i « dottori » giudaici, particolarmente quelli del partito dei farisei, Gesù abbia fatto ricorso all'ebraico; ma si trat­ tava dell'ebraico pseudo-classico di Qumran o dell'ebraico dialettale che si sarebbe poi ritrovato nel II secolo nella Mishna?

Alcuni testi evangelici hanno conservato l'eco di queste con­ troversie, i l cui stile è molto rabbinico: la controversia con­ tro alcuni Sadducei riguardo alla risurrezione dei morti, in cui Gesù costruisce un ragionamento inatteso sulla ba­ se di un testo dell' Esodo (Mc 1 2, 1 8-27 e par.); la discussio­ ne sul divorzio, a proposito di Dt 24, 4 (Mc 10, 1-12; Mt 19, 1-9; Le 1 6, 1 8 conserva soltanto la conclu sione); la do­ manda posta da Gesù riguardo al Sal 1 1 0, l (Mc 12, 35-37 e par.). Certamente, la tradizione primitiva e poi gli evan­ gelisti hanno messo la loro mano nella redazione di questi testi, così come ci è pervenuta. Ma il loro sfondo mostra nondimeno un modo originale di leggere e interpretare la Sacra Scrittura. Lo stesso fatto non si ritrova anche negli insegnamenti più personali di Gesù, per quanto si percepi­ sca in essi l'eco di testi o di temi scritturistici ? A questo punto si pone i l problema del « compimento » del­ le Scritture. Questo principio richiede un chiarimento, poi­ ché gli apologisti del XIX secolo lo hanno ooncepito e usa­ to in modo meccanico e spinto all'estremo, cercandovi sol­ tanto la realizzazione delle «predizioni » profetiche. Il ra­ gionamento era semplice: questo o quel dettaglio della vita di Gesù era stato «predetto »; ora esso è avvenuto così co20

me era stato predetto; perciò. . . Per comprendere che cosa vuoi dire « il compimento delle Scritture )) è necessario col­ locare al suo giusto posto la nozione di «profezia>> 3• Ho sviluppato altrove lo studio di questo punto e posso !imi­ tarmi a rinviare a due opere: Sens ch rétien dell 'A ncien Testa­ ment ( 1 962; indice analitico dalla pag. 509, al termine « accom­ plissemen t »); La Bible, Parole de Dieu ( 1 965; indice analitico dalla p. 399). In breve, il termine « compimento » (gr. soprattut­ to p/ero-o, ma talvolta anche teleio-o) si applica prima di tutto alla Bibbia in quanto è « Storia>>, non storia profana, ma storia in seno alla quale si svolge il disegno di Dio per stabilire quag­ giù il suo Regno e apportare la Salvezza agl i uomini: « Il tempo è compiuto (piero-o) e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc l, 1 5 , riassunto in Mt 4, 17 e messo in bocca al Battista in Mt 3, l). Possiano notare qui che Gesù antepone alla sua persona la venuta del Regno di Dio: è un tratto costante nella sua predicazione. In secondo luogo, lo stes­ so principio di compimento si applica alla Legge come regola e sapienza di vita, e ai profeti come annunciatori del Regno di Dio e della Salvezza: « Non crediate che io sia venuto ad abolire (katalysai) la Legge o i Profeti: non sono venuto per abolire, ma per dare compimento (pie ro o) » (Mt 5, 1 7). Lo stes­ $0 viene applicato alla lettura di una promessa profetica in Le 4, 2 1 : « Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi » (con un riferimento a Is 6 1 , 1 -2). -

Da queste osservazioni convergenti si può concludere che Gesù, annunciando la prossimità del Regno di Dio, aveva coscienza di essere l'annunciatore di un « compimento» ver­ so il quale tendevano le Scrittu re sotto tutti i loro aspetti. Il legame tra le sue parole e le sue azioni era tale che egli era personalmente implicato in questo compimento; ma questo punto apparve in tutta la sua evidenza soltanto a fatti compiuti. È perciò importante rilevare nelle sue pa­ role, come pure nelle sue azioni e nel suo comportamento, i più piccoli indizi che rinviino in un modo o nell'altro alle Scritture, sia in modo letterale, sia secondo la lettura che ne faceva il Giudaismo contemporaneo: tale è il caso del testo già citato di Is 6 1 , 1-2, che veniva allora letto co­ me un discorso del profeta stesso. In questa lettura Gesù poteva apportarvi perfettamente delle innovazioni poiché non si sentiva vincolato dalla tradizione degli scribi. 3 Cf.

l'Excursus

n.

4. pp. 1 04-108.

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Nei suoi insegnamenti personali egli poteva anche prolun­ gare in modo originale le grandi correnti lette rarie atte­ state nelle Scritture: la Legge, sotto il suo aspetto di sa­ pienza di vita; la predicazione profetica tanto come invito alla penitenza che come promessa di felicità e di salvezza; la tradizione apocalittica, con la sua doppia parentela pro­ fetica e sapienziale, molto attenta ai « segni dei tempi » che annunciavano la prossimità delr eschaton (intervento deci­ sivo di Dio nella storia degli uomini). Questa è la prima dimensione evangelica delle parole di Gesù. 2. La rivelazione dell a persona di Gesù a) Gesù e l'«oggi» di Dio

La seconda dimensione riguarda l'«oggi » di Dio, mani fe­ stato nella persona di Gesù. In quest '«oggi », le sue parole e le sue azioni non possono es sere separate le une dalle altre. Egli fa scomparire la sua persona dietro il Regno di Dio, votando tutto il suo operato a] compimento della volontà di Dio, ma egli ha ugualmente coscienza di un « og­ gi » decisivo per gli uomini che ascoltano il suo annuncio del Vangelo. Questo aspetto viene sottolineato negli arti­ coli « Semeron » ( = « Oggi ») di E. Fuchs nel TWNT (vol. VII, pp. 272s) e di M. Volkel nell'Exegetisches Worte rbuch zum N. T. (vol . III, pp. 575s. con bibliografia ) . È per questo che Gesù rimprovera ai Farisei e ai Sadducei di saper inter­ pretare i colori che assume di volta in vol ta il cielo, ma di non saper decifrare i segni dei tempi (M t 1 6, 2-3 = Le 1 2, 54-56, dove questo rimprovero è rivolto alle folle). In modo particolare è nel vangelo di Luca che vengono sotto­ lineati i caratteri di quest'« oggi » in cui si compie la Scrit­ tura (cf. Le 4, 2 1 ). Gli spettatori di un miracolo vedono «og­ gi » delle cose prodigiose (Le 5, 26). «Oggi e domani » Gesù scaccia i demoni e compie delle guarigioni, prima di aver poi « finito »; « oggi e il giorno seguente », egli deve prose­ guire per la sua strada per perire a Gerusalemme come ogni profeta ( 1 3, 32s). Quando si ferma a mangiare presso Zaccheo, « oggi la salvezza è arrivata per questa casa» (19, 9). Ma la consumazione di quest' « oggi » si opera sulla croce, sfociando in un nuovo avvenire: « Oggi tu sarai con me in Paradiso », dice al !adrone crocifisso con lui (Le 23, 43). 22

L' «oggi » di Dio si estende dunque su tutto il ministero di Gesù: ingloba le sue parole, le sue azioni e infine la sua morte, perché il Regno di Dio si avvicini e venga. Questa morte è però necessaria (dei, «è necessario»: Mc 8, 3 1 ; Mt 1 6, 2 1 e 26, 54; Le 9, 22; 1 7, 25; 22, 37; 24, 7 .26.44; At 1 , 1 6; 1 7, 3; Gv 3, 14; 1 2, 34): è con essa che si opera il compimen­ to totale del Regno di Dio e la Pasqua nuova ad essa lega­ ta, in un « aldilà» della morte che Gesù lascia intravedere al momento del suo ultimo pasto (Le 22, 1 5- 1 6).

b) Gesù come problema pe r i suoi contemporanei In quest'« oggi » Gesù evita di definire se stesso. Egli costi­ tuisce una domanda per i suoi contemporanei, un « segno di contraddizione >> (Le 2, 34) di fronte al quale gli uomini si dividono. Anche qui, per studiare il problema, non bi so­ gna separare le parole di Gesù dalle sue azioni. In una parte come nell'altra, la rivelazione della sua persona v er­ te su due punti strettamente legati ma distinti: da una par­ te, il tipo di relazione che egli intrattiene con Dio, e d'altra parte il ruolo esatto che svolge nella realizzazione del suo disegno per la salvezza degli uomini. Il secondo aspetto gira attorno ad alcuni titoli essenziali: Dottore ( = Rabbi), Profeta, Messia (o Cristo, in greco). Il primo aspetto con­ cerne l'esatto contenuto del titolo di Figlio. L'espressione « Figlio dell'Uomo » (traduzione letterale dell' aramaico bar­ 'enasha), al di fuori delle parole di Gesù, viene adoperata soltanto nella visione di Stefano (At 7, 56) e nell'Apocalisse (Ap l , 1 3). Essa è stata oggetto di numerosi studi e di opi­ nioni critiche contrastanti, di cui si può trovare una pre­ sentazione nell'esposizione di S. Légasse, « Jésus histori­ que et le Fils de l'Homme » (in Apocalypses e t théologie de l'espéra nce LD 95). L'espressione è infatti ambigua. Può es­ sere un modo originale, ma banale, adoperato da Gesù per designare se stesso: il « membro dell'umanità » quale io so­ no. Ma può essere anche un titolo che rinvia a Dn 7, 1 3- 1 4 e che sottintende una sorta di trascendenza (cf. almeno Mc 1 3, 26, in cui Gesù non si identifica con il Figlio dell'uo­ mo). È certamente in questo secondo significato che le Pa­ role di Gesù sono state « rilette » nella Chiesa; ma era que­ sto così chiaro per i suoi diretti ascoltatori, ed era sua intenzione farlo capi re loro ? Gesù parlava e agiva in modo da lasciarsi indovinare, co23

me se voles se provocare la scelta decisiva di fronte al mes­ saggio che annunciava e di fronte alla realtà della sua mis­ s ione. Ma a che titolo è egli inviato da Dio, che chiama Padre? In altre parole, qual è la relazione che esiste tra il « Vangelo di Dio » che egli annuncia e il messaggero che proclama questo Vangelo ? Questa è la domanda che è al centro del dramma la cui conclusione sarà la sua messa a morte. Il problema sarà risolto, dai suoi stessi discepoli, in modo chiaro soltanto dopo le sue apparizioni come Cri­ sto risorto al di là della sua morte. È in questa cornice che bisogna leggere contemporaneamente le sue parole e i racconti degli avvenimenti della sua vita. Infatti le testi­ monianze che vertono su tutto ciò furono redatte soltanto dopo, una volta che il mistero della sua persona era stato fondamentalmente chiarito. Non bisogna perciò meravi­ gliarsi nel costatare che esiste una difficoltà nel ricostrui­ re « archeologicamente », a partire da testi che non furono scritti con questo scopo, il modo in cui la domanda si era posta prima della croce per i contemporanei di Gesù: il popolo, gli scribi e i dottori della Legge, i sacerdoti e le altre autorità religiose, le autorità civili, e persino i disce­ poli che si erano uni ti a lui. 3. Il senso delle parole di Gesù per i suoi contemporanei a) Il problema storico delle pa role di Gesù

Si tocca qui il problema propriamente storico dei testi evan­ gel ici: come si può risalire dall'« istoriale » di questi testi (le parole di Gesù inte rpretate nella predicazione apostoli­ ca) al loro aspetto « storico » (il senso che potevano perce­ pirvi i suoi diretti ascoltatori, se erano ben disposti a far­ lo) ? Se, là dove ci sono delle dichiarazioni o dei discorsi, i testi riferissero parola per parola esattamente ciò che Gesù aveva detto, il problema sarebbe relativamente sem­ plice. A parte ciò, bisognerebbe ricostruire la psicologia dei suoi con temporanei, basandosi su delle riflessioni e dei comportamenti che la documentazione fa intravedere suf­ ficientemente. Ma le diversità interne di questa documen­ tazione mostrano da sé che le parole di Gesù non sono state riferite in modo tale da assomigliare ad un lavoro di segreteria così come praticato e concepito dai moderni. 24

Il discorso più lungo dei vangeli sinottici, letto ad alta vo­ ce, durerebbe un quarto d'ora o poco più. Si tratta, perciò tutt 'al più di un riassunto. In effetti, questo riassunto so­ miglia esso stesso a dei pezzi pronunciati in circostanze diverse (Mt S-7). Il IV vangelo contiene dei « discorsi di rivelazione », poco più lunghi, che non sono tutti destinati alla cerchia ristret­ ta dei discepoli. Ora, oltre alle convergenze e ai paralleli­ smi che i critici individuano con evidente interesse, il loro stile e persino il loro vocabolario differiscono da quelli che si trovano nei Sinottici: Gesù parla in stile giovanneo! Al­ l'interno dei Sinottici, si possono riscontrare abbastanza presto delle espressioni proprie di Matteo, di Luca e di Marco, che contiene il minor numero di discorsi. I semiti­ smi sono certamente numerosi, o, più esattamente, gli ara­ maismi. Ma sono essi dovuti a Gesù stesso o ai discepoli galilei che hanno riportato a loro modo le sue parole, sia integralmente, sia riassumendo le in maniera fedele ? Non ci si può sottrarre alla necessità di un esame cri tico per rispondere a questa domanda Non ci si può sottrarre nem­ meno quando si vuoi rimettere le parole di Gesù in diretto rapporto con i suoi immediati ascoltatori della Galilea, della Giudea e di Gerusalemme, percependo l'esatta risonanza che tali parole potevano avere in essi. C'è qui il primo « am­ biente vitale » (« Sitz in Leben ») nel quale esse ebbero delle determinate funzioni che condizionarono le loro forme let­ terarie. Questo non vuoi dire che l'esegesi debba limitarsi alla ri· cerca di questo obiettivo per ritrovare il « vero Gesù », sot­ to i sedimenti accumulati dalla teologia della Chiesa pri­ mitiva. Questo fu una delle pietre d'inciampo dell'esegesi liberale del XIX secolo. Ci si può domandare se, di recen· te, non vi sia inciampato un po' anche un esegeta di gran­ de classe come J. Jeremias nella sua ricerca delle lpsissi­ ma ve rba Jesus. Ciò non fa d.iminure affatto il valore dei suoi preziosi lavori sulla predicazione di Gesù nei suoi ar­ ticoli, nel suo libro su Le parabole di Gesù, o la sua Teolo­ gia del Nuovo Testamento. Ma ci si domanda se egli non minimizzi il ruolo della tradizione apostolica come esplici­ ta zio ne del significato delle parole e delle azioni di Gesù, con la tendenza a ridurre il messaggio evangelico alle pa­ role che la critica può considerare indiscutibilmente come •originali », Una critica simile è stata rivolta, non senza 25

ragioni, alla cristologia del Padre E. Schillebeeckx, imper­ niata su Gesù di Nazareth, la cui « causa ,> prosegue nella Chiesa (Gesù di Nazareth: storia di un vivente; riassunto in Expé rie nce humaine et foi in Jésus Christ). Questa risa­ lita verso il « Gesù storico » è pressappoco l'inverso del pun­ to di vista di Bultmann, che faceva cominciare la teologia del N uovo Testamento con il messaggio pasquale, riducen­ dolo all 'annuncio del significato della croce. In Schille­ beeckx l'accento viene posto sulla continuità della Sequela Jesu, che ha avuto inizio con i discepoli e prosegue nella Chiesa. M a non c'è, anche qui, una specie di ritorno a ciò che è « originario » ? I n effetti, i n questo «originario» bisogna includere due ele­ menti che la critica liberale, verso la fine del XIX secolo, aveva separato e opposto in modo abusivo: il messaggio religioso e morale di Gesù (Hamack) e la sua predicazione escatologic a (J. Weiss, seguito da A. Loisy). Ma, soprattut­ to, è necessario collegare i due elementi alla persona di Gesù, che non è un « profeta» qualunque ma proprio il « Fi­ glio » (cf. Mc 13, 32, testo in discutibile nella misura in cui sottolinea i limiti del « Figlio>>). In rapporto alla tensione della speranza che era stata risvegliata nell'Antico Testa­ mento, l' eschaton è entrato nell'attualità storica con l'in­ staurazione del Regno di Dio (escatologia « inaugurata ))). A questo titolo, il messaggio evangelico, legato alla perso­ na di Gesù conduce la religione e la morale dell'alleanza al loro « Compimento » definitivo. Ma questo « Compimen­ to >> stesso viene teso verso una pienezza che fa apparire, all'orizzonte del futuro, un nuovo eschaton e che risveglia così una rinnovata forma di speranza (escatologia « conse­ guente »). Sotto questo aspetto, Gesù porta a compimento le promesse profetiche precisando il loro contenuto.

b) Presente e futuro nelle parole di Gesù Su tutti questi punti, il messaggio di Gesù costituisce nel­ lo stesso tempo la regola della sua vita personale e la mi­ sura della sua speranza. Il messaggio faceva un tutt'uno con il mes saggero. Per tale ragione la domanda posta dalle sue parole ai suoi ascoltatori era la stessa di quella che si poneva a proposito della sua persona. È in questo modo che bisogna comprendere le reazioni di indifferenza, di sem­ plice curiosità, di esitazione, di irrigidimento, di rifiuto, 26

o ancora di insufficiente apertura, che Gesù riscontrava fin nei suoi discepoli. I vangeli sinottici insistono piutto­ sto sugli atteggiamenti adottati di fronte alle sue parole, senza nascondere la crescente contestazione che doveva por­ tare al suo rifiuto e al suo processo finale. Il IV vangelo mette al centro della sua presentazione gli atteggiamenti adottati nei riguardi della sua persona, senza nascondere il rapporto inscindibile tra Gesù e il suo messaggio. Se si presta at ten:z.ione alla dimensione di speranza che questo messaggio racchiudeva e che Gesù stesso professa­ va, si costata che esso costituiva un'anticipazione di ciò che io ho de fini to come la terza « dimensione » del Vangelo annunciato nella Chie sa, cioè: l'attualità cristiana non an­ cora separata dalla sua « consumazione » escatologica. Que­ sto, i diretti ascoltatori non potevano ancora intuirlo. Ge­ sù operava, nei suoi discorsi, una distinzione chiara tra i momenti successivi di questo « avvenire » verso il quale volgeva i suoi occhi ? La cosa non è chiara poiché nel lin­ guaggio profetico e apocalittico c'era l'abitudine di rac­ chiudere in un quadro globale tutto ciò che riguardava il Giudizio e la Salvezza, presentando sempre il Giudizio c> cronologica di una « fine del mon­ do» prossima. In realtà Gesù abbozzava un quadro globale dell'av_venire, alla maniera dei suoi predecessori profetici, sempre lasciando intendere che la « Fine » era inaugurata nel cuore della storia. Ma fu necessaria l'esperienza con­ creta della vita nella Chiesa perché l 'estensione esatta nel .

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tempo di questa > è in stretto rapporto con la rivolta nazionali sta. Si era verficato lo stesso fenomeno in occasione della rivolta maccabai­ ca: i capitoli più antichi di Daniele (Dn 2-7) erano stati scritti in aramaico; ma nel 1 64 il libro fu terminato in ebraico fortemente influenzato dall'aramaico (Dn 8- 1 2 e l ). Ugualmente, il l 0 libro dei Maccabei fu scritto in questa lingua e poi tradotto in greco. 4. � neces sario tener conto di questi fatti per comprendere il pro­ blema delle lingue al tempo di Gesù e alle origini della Chiesa. La comunità cristiana di Gerusalemme fu molto p resto bilingue (cf. At 6, 1 ). Ma coloro che vengono chiamati «gl i Ebrei » sono quelli che non parlano il greco: quelli che parlano l 'aramaico sono, sot­ to questo aspetto, degli « Ebrei ». � necessario ricordare che, quan­ do il IV vangelo usa il termine ebraisti ( = « in ebraico ») per carat­ terizzare un nome di luogo, questo è sempre in aramaico (Gv 5, 2; 1 9, 1 3 . 1 7 , 20) ? Sul piano cultuale, l'esperienza della Pentecoste fe­ ce saltare radicalmente il principo della « lingua sacra », o « lingua del santuario »: le « meraviglie di Dio» d'ora in poi saranne rese pubbliche e celebrate in tutte le lingue (At 2, 1 1 ). Quindi nelle lin­ gue parlate: aramaico, greco, ebraico (se ancora lo si parla tra 43

la gente), in attesa delle altre lingue vernacole nelle quali la Bib­ bia e i testi del Nuovo Testamento saranno progressivamente tra­ dotti in vista della liturgia, a partire dal II o dal III secolo. La tesi di un Vangelo necessariamente pubblicato in ebraico, lingua sacra, per qualificarlo presso le autorità giudaiche, cade da sé, come ho dimostrato altrove (cf. tc Cahiers Évangile » 45, 1 983, pp. 43-48; É vangile et Tradi tion apostolique, pp. 59-7 1 ).

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studi di testi

Le ricerche

Non risalgono a ieri i primi lavori sulla forma poetica del­ le parole di Gesù. In una prima classificazione possono essere disposte vedendo in esse un prolungamento delle diverse correnti letterarie attestate nel Vecchio Testamen­ to e nel Giudaismo contemporaneo a Gesù. Ci sono così delle sentenze il cui tenore è profetico o apocalittico. Ci sono degli insegnamenti in forma dottorale, meno nume­ rosi, ma individuabili chiaramente quando si assiste a del­ le discussioni intorno a dei testi della Scrittura. Ci sono dei testi che prolungano la tradizione della corrente sa­ pienziale: dei detti e delle massime in forma breve; delle istruzioni un po' più lunghe; delle parabole, soprattutto, che colpi scono per l'originalità della loro costruzione. Tutti questi testi ci sono pervenuti in lingua greca. Ora, Gesù predicava, nelle sinagoghe o all'aperto, nella sua lin­ gua mate rna che era quella dei villaggi della Galilea: l'ara­ maico. Anche sotto questo aspetto, non risalgono a ieri le ricerche sugli aramaismi soggiacenti alle frasi e ai discor­ si evangelici. Dedicherò più avanti un Excursus a questa importante bibliografia 1 • Tuttavia queste ricerche hanno spesso preso un orientamento differente dal mio. Tramite l'aramaico si voleva ritrovare le parole originali di Gesù, con il sapore che esse potevano avere nell'ambito del suo ministero e con la portata che egli dava loro rivolgendosi l

Cf. l'Excursus

49-5 1 .

n.

2: • Le ri ce rche sugli aramaismi dei vangeli», pp.

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ai diretti ascoltatori. Ci si allontanava allora dalla « rilet­ tura » posteriore alla sua risurrezione, effettuata nella cor­ nice ecclesi ale di lingua greca, come se le parole fossero state sistematicamente svalutate. Si parlava persino di «fal­ se traduzioni », che sarebbero intervenute per far perdere il significato primitivo - il vero significato - delle parole di Gesù. Ora, una sana esegesi esige che si conservino i due estremi della catena. Là dove si pretende di trovare dei «contro­ sensi )) che i commentatori moderni sarebbero in grado di correggere, si è semplicemente di fronte a interpretazioni legittime - e ve re come espressioni della fede cristiana nel quadro della tradizione apostolica -, interpretazioni della stessa forma di quelle che operavano i targumisti sul testo ebraico della Scrittu ra. I soli testi evangelici « cano­ nici » che fanno per noi autorità sono quelli in lingua greca di cui disponiamo. Si può legittimamente cercare di risali­ re più indietro: si tratta di una ricerca storica non priva di interesse. Ma sarebbe il lusorio sostituire a questi testi greci un sedicente « originale» semitico, che avrebbe solo l'autorità del ritraduttore. È tutta un'altra cosa verificare la consistenza di un testo semitico che, in certi punti, af­ fiori rebbe sotto la recen sione greca di una parola di Gesù: in certi casi è possibile in questo modo valutare l'arcai­ smo di un pezzo discusso. Ne fornirò più avanti degli esem­ pi, specialmente per il dialogo di Mt 16 , 1 9 2• Ma anche in questi casi, gli annunciatori aramaici della Buona Novella costituiscono un passo inevitabile tra Gesù e i nostri testi greci. Senza dimenticare il fatto che ce rti aramaismi di stile possono essere eventualmente dovuti a un autore di lingua aramaica che si sforzava di scrivere in greco. S'impone perciò la prudenza. . Quanto alle differenze che esistono tra passi paralleli per certe parole di Gesù, devono essere prese tutte sul serio. Possono eventualmente provenire da una doppia traduzio­ ne di un originale semi ti co: guardiamoci allora dal parlare di « controsensi » ! Possono avere pure per origine delle mo­ difiche intenzional i. Illuminare un passo con altri o colle­ gare una frase staccata con un gruppo più ampio: queste operazioni non sono affatto delle falsificazioni. Entrando nel quadro di interpretazioni legittime, fanno eventualmente 2

Si veda più avanti pp. 1 67- 169. c Sulla funzione propria di Pietro • .

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apparire in una parola di Gesù una risonanza nuova, al­ trattanto «evangelica » di un'altra interpretazione attesta­ ta altrove. Analizzerò nelle mie «letture di testi » quattro tipi di mate­ riale: l) innanzitutto delle sentenze isolabili, attualmente raggruppate con altre ma collegate con contesti diversi; 2) poi delle sentenze « incorniciate » in un racconto che dà loro un contesto narrativo; 3) poi delle parabole, che costi­ tuiscono un materiale di qualità, ma che possono essere state oggetto di interpretazioni secondarie nell'ambito del­ la predicazione ecclesiale; 4) infine, delle preghiere di Ge­ sù. Il numero dei passi così esaminati sarà necessariamen­ te limitato; vengono scelti a titolo esemplificativo per illu­ st rare un metodo. In ogni caso part icolare, il testo deve essere prima di tutto preso così come si presenta attual­ mente, nell'ambito dell'annuncio ecclesiale del Vangelo. Ma bi sognerà cercare di risalire, a partire da ciò, in di rezione di Gesù stesso al tempo in cui egli si rivolgeva direttamen­ te ai suoi contemporanei.

EXCURSUS N. 2

Le ricerche sugli aramalsml dei Vangeli Queste ricerche hanno avuto inizio alla fine del XIX secolo. Le prime tracce si trovano nei commentari di Wel lhausen, i cui stu­ di c ritici avevano avuto per oggetto il Pentateuco, prima di af­ frontare i vangeli. In questa ricerca si annoverano dei nomi im­ portanti. G. Dahnan, Die Wo rte Jesus, Leipzig 1 898, 1 9302 (tr. ingl.); Jesus-Jeschua, Leipzig 1 922 (tr. ingl .), con delle ritraduzioni molto numerose basate sulla teoria dei dialetti aramaici elabora­ ta dallo stesso autore. F. Burney, The A ramaic Origin of the Fourth Gospel, Oxford 1922 (ritraduzioni ispirate dai dialetti targumici e dal siriaco); The Poe try of Our Lo rd, Oxford 1 925 (studio lette ra­ rio con degli esempi di ritraduzione ritmata). C. Torrey, The Four Gospels: A New Transla tion, New York 1 93 3 (basato su una ritra­ duzione a ramaica, eccetto per L� 1 -2, e segui to da numerosi studi di casi particolari). P. Joiion, L 'Evangile de nostre Seigneur Jésus Ch rist: Traduction et commentaire du texte originai g rec, compte tenu du substrat sémitique, Paris 1 930 (sostrato a ramaico per al­ cuni passi, non per la composizione finale). Studio ricapitolativo 49

di M. Black, An A ramaic Approach to the Gospels and Acts, Ox­ ford 1 946 , 1 9673 (dopo le scoperte di Qumran, con numerosi esempi). J. Jeremias, dopo una serie di studi su casi particolari, ne riprende un certo numero nella sua Teologia del Nuovo Testa­ mento, Brescia 1 975. Uno d e i problemi posti da queste ricerche è quello d e l dialetto scelto per identificare l' aramaico del Nuovo Testamento e quello di Gesù in particolare. l primi studi fatti dipendevano dalla clas­ sificazione proposta dal Dalman nella sua Grammatica dell'ara­ maico pale stinese (Leipzig 1 905). In seguito questa classificazione è stata rimessa in discussione. La pubblicazione completa del Tar­ gum palestinese del Pen tateuco, dovuta a A. Diez Macho, ha ri­ proposto il problema su questo punto. Si può trovare del mate­ riale import ante nei libri di M. McNamara, The New Testament and the Pales tinian Ta rgum to the Pe ntateuch, Rom e 1 966; Tar­ gum and Testamertt: A Light on the New Testament, Shannon 1 972. Bibliografia in J. T. Forestell, Targumic Traditions and the New Testame nt, Chico (USA) 1 979. Senza contare le numerose pubbli­ cazion i di R. Le Déaut, al quale si deve una traduzione completa del Targum palestinese del Pentateuco, pubblicata nella collana « Sources chrétiennes » 5 vol i . , 1 978- 1 98 1 ). J. Carmignac, La nais­ sance des évangiles synoptiques, Pari s 1 9842, pp. 77-9 1 , presenta una lista di 49 autori che hanno suggerito, in epoca moderna, un'edizione primitiva dei vangeli in una lingua semitica (ebraica o aramaica); ma non viene fornita la lista esauriente degli articol i dettagl iati , e la p referenza viene data al l' ipotesi dell 'ebraico. In tutti questi studi c'è indubbiamente da prendere e da lasciare. Le tesi di Burney e Torrey sull 'origine aramaica del IV vangelo sono state controbattute da J. Bonsi rven, buon conoscitore della letteratura giudaica (« Les arama!smes de S. Jean l 'évangéliste ? » , in Biblica, 1 949, pp. 405-53 1 ). A suo avviso, Giovanni scris se in greco correttamente, ma tradendo le sue origini linguistiche con il suo vocabolario e un certo numero di costruzioni. Bisogna dif­ fidare in particolare de l l e sedicenti > (Gv 1 3, 20). Per « inviare », Giovanni · usa il verbo pempo; ma pempo e apostello hanno lo stesso corri spondente semitico in ebraico come in aramaico (sha­ lah/shelah). Ugualmente, « accogliere» (dek homai) e riceve­ re (/ambano) corrispondono agli stessi verbi ebraici (laqah) e aramaici (nesab). Ma in Giovanni la sentenza è genera­ lizzata: invece di « accoglie voi », si tratta di « colui che io manderò ». La variante è comprensibile, poiché è la prima menzione dell'invio nel discorso dopo la cena, al lorché il verbo apostell6 figurava già due volte nel discorso di Mat­ teo ( 1 0, 5 . 1 6). c) La rece nsione di Luca La terza recensione viene collocata da Luca alla fine del discorso di invio in missione dei Settantadue. Sotto questo aspetto la sua situazione è simile alla prima recensione matteana. Però il formulario viene modificato e completa­ to da un'antitesi: « Chi ascolta voi ascolta me, chi disprez­ za (athe te-o) voi disprezza me. E chi disprezza me disprez­ za colui che mi ha mandato» (Le l O, 1 6). È indubbio che la stessa espressione originaria di Gesù sia arrivata a questa diversità di recensioni finali. Quelle di Matteo e di Giovanni lasciano anche int ravedere un ori­ ginale semitico identico. Quella di Luca sembra essere la più rielaborata, con la sostituzione « ascoltare » al posto di « accogliere/ricevere » e l'agginnta di « disprezzare ». Ciò non vuoi dire che il lavoro di amplificazione sia stato fatto nel­ lo stadio della trasmissione greca. Non sarebbe difficile trovare un equivalente aramaico del verbo athe te-6 (adope54

rato con l'accusativo): Is l , 2, dove si parla del « rifiuto di Dio », condurrebbe a un ebraico pashah, che ha per equiva­ lente l'aramaico merad (con la particella b-). Ma qui vado al di là dei limiti del presente studio. La sentenza generale ha perciò tre forme, più una forma particolare che è lega­ ta alla questione dell 'accoglienza dei bambini. Prima di esa­ minare la questione del loghion originale, è bene indivi­ duarne innanzitutto le letture ecclesiali nei contesti dove esso fu alla fine collocato. 2.

Letture ecclesiali della sentenza di Gesù

a) L 'invio in missione degli apostoli Bisogna mettersi qui nella prospettiva dell'annuncio del Vangelo alle origini del cristianesimo. Si conservava allo­ ra la coscienza viva del fatto che essa era dovuta a una missione ricevuta dal Cristo risorto. Il testo più esplicito figura nel IV vangelo: « Come il Padre ha mandato (apostel­ lo) me, anch'io mando (pempd) voi » (Gv 20, 2 1 ) L'invio di Gesù da parte del Padre viene menzionato molte volte nei discorsi della sua vita pubblica (3, 1 7.34; 5, 36. 38; 6, 57, ecc.; in tutto una ventina di volte). Negli altri libri, la missione affidata agli apostoli dal Cristo risorto viene menzionata con altre parole (cf. Mt 28, 19-20; Le 22, 49 prolungata da At 1 , 8 ; At 22, 21 , per Paolo; finale di Marco 1 6, 1 5). La pro­ spettiva è quella dell'evangel izzazione del mondo intero. Ora, è chiaro che, per raggiungere «tutte le nazioni », l'a­ zione del piccolo gruppo inviato direttamente dal Cristo dovrà essere prolungata da quella di numerosi missionari. Era perciò importante conservare le parole di Gesù che precisavano lo spirito e le condizioni nelle quali doveva compiersi la loro missione. .

b) Le is tru zioni ai missionari

Si hanno così delle sintesi che raggruppano delle sentenze più o meno parallele, più o meno sviluppate, più o meno «attualizzate >> per essere adattate alle nuove circostanze della missione. Vi si conservano delle indicazioni arcaiche (M t 1 0, Sb-6, anteriore all'evangelizzazione dei Samaritani e dei pagani; 10, 23b, dove si parla soltanto delle città d'I55

sraele), accanto ad altre che suppongono l'evangelizzazio­ ne dei pagani (Mt 1 0, 1 8, con l'allusione ai processi davanti « ai governanti e ai re »). La combinazione più completa è quella di Mt 10, 5-42; il suo carattere composito risalta dal fatto che i suoi paralleli si trovano sparsi in Marco (cf. Mc 6, 8- 1 1 ; 1 3 , 9- 1 3; 4, 22; 8, 38; 8, 34-35; 9, 37b .4 1 ), in Luca (9, 1 -5. 26; 1 0, 1 - 1 2; 1 2, 1 1 - 1 2; 2 1 , 1 2- 1 9; 8, 1 7; 1 0, 1 6) e anche in Giovanni (oltre a Gv 1 3, 20, si vedano le allusioni alla per­ secuzione in Gv 1 5, 18. 20-2 1 .27; 1 6, 2). La dispersione di que­ sti paralleli mostra che non bisogna cercare in Mt 1 0 un discorso pronunciato tale e quale nel quadro storico in cui l'evangelista l'ha collocato 1 • Se queste parole sono riunite è perché il Cristo in gloria le rivolge attualmente ai suoi discepoli e ai suoi servi (cf. Mt 1 0, 24-25; Le 6, 40; Gv 1 5, 20). Le prospettive di persecu­ zione ricordano che ciò che è accaduto al Maestro deve normalmente accadere anche ad essi. Ma l'adattamento ver­ bale delle espressioni è una possibilità di cui bisogna te­ ner conto. È il caso della sentenza studiata qui. Il verbo « ascoltare » (Le) sembra essere stato sostituito al verbo « ac­ cogliere/ricevere » (Mt-Gv) per insistere su un aspetto del­ l'accoglienza che non riguarda soltanto i missionari del Van­ �elo ma la Parola annunciata che è quella di Gesù Cristo. E forse questa modifica del testo che ha provocato l'inse­ rimento del parallelismo antitetico in cui si parla di « rifiu­ tare » gli inviati di Gesù, Gesù stesso e Colui che l'ha invia­ to. Infatti si ascolta « la Parola di Dio », ma non si ascolta Dio stesso, mentre il verbo «rifiutare » (a thete-6) si applica bene sia al comandamento di Dio (Mc 7, 9) che alle persone (Mc 6, 26) e a Gesù di cui non si ricevono le parole (Gv 1 2, 48). La dispersione rilevata a proposito di Mt 10 mostra pure che i loghia raccolti sono dapprima circolati in un modo indipendente, senza un contesto storico definito. Inoltre alcuni sono ripresi come doppioni parziali in Mt 24, 9. 1 3- 1 4. Ciascuno di essi esigerebbe perciò uno studio particolare, che probabilmente non porterebbe a fissarne il quadro pri­ mitivo, a meno che Marco o Luca dessero delle indicazioni precise al riguardo.

1

Cf. l'osservazione del P. Lagrange citata sopra, pp.

56

37.

c) Una spiegazione radicale

L'attenzione alla lettura ecclesiale è quindi molto impor­ tante. È essa del resto che mostra l 'attualità permanente di queste parole di Gesù. Pe rò non è senza rischi se rima­ ne unilaterale : si può essere allora tentati di escludere il radicamento storico dei loghia vedendovi delle creazioni comunitarie. L'esempio classico appare nella Storia della t radizione sinottica di R. Bultmann (tr. fr. Paris 1 973, fatta sul testo del 192 1 , con il supplemento del 1 97 1 ). Ecco come sono presentate in dettaglio le cose per Mt 1 0 . Mt 1 0, 5- 1 6 sarebbe originariamente una regola elaborata dalla «Co­ munità » ad uso dei missionari. Marco ne avrebbe fatto un or­ dine, del resto abbreviato, per l'attività dei Dodic i al tempo di Gesù. Matteo e Luca lo avrebbero imitato su questo punto (pp. 1 85 s). In questa piccola unità si ritrove rebbero del resto dei proverbi giudaici (M t 1 0, 8 . 1 0- 1 6). Nel seguito, M t 1 0, 24s è una massima che pot rebbe risalire a Gesù (p. 1 34). M t 1 0, 38 (« prendere la sua croce ») non è necessariamente tardivo: « Se la croce fosse già diventata il simbolo cristiano del martirio, non bisogne rebbe attendersi di leggere semplicemente " la cro­ ce" ? ,, (p. 205); ma la lettura cristiana dell 'espress i one non ha potuto che attua1 izzarla in funzione della croce di Gesù. Quan­ to ai loghia studiati qui (M t 1 0, 40-42 con inserimento seconda­ rio di 1 0, 4 1 e Le 10, 1 6), essi non sarebbero che la t rasforma­ zione di un'affermazione primi tiva sui bambini (Mc 9, 36-37, messa in contesto dal ve rso 1 8 ; Mt 1 8, 2-5, messa in un altro contesto dal v. 18; Le 9, 47-48, che segue la recensione di Mar­ co). La « regola comunitaria >> avrebbe conservato la massima: « Chi accoglie questo bambino (agg.: nel mio nome), accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato >>. Ma la sen tenza sarebbe stata applicata ai missionari che devono diventare «Ì più piccoli >> tra i discepoli di Gesù (pp. 1 8 1 s).

Le osservazioni in dettaglio non mancano di interesse. Ho

rilevato sopra la vicinanza del principio studiato qui con il loghion sui bambini (Mc 9, 37b e par.). L'eventuale ripre­ sa di massime giudaiche, adattate alla nuova situazione creata dalla missione di Gesù, non solleva alcuna difficol­ tà di principio: bi sognerebbe soltanto fornirne la prova in ogni caso particolare. Il carattere artificiale della finale di Mt 1 0, 40-42, che giustappone tre sentenze accostate dal loro tema, può essere sostenuto. M t l O, 42 ha il suo paral­ lelo in Mc 9, 41 , con due varianti degni di nota che sono evidentemente delle riformulazioni cristiane: « dare un bic57

chiere a uno di questi piccoli pe rché è mio discepolo» (Mt); «Vi darà un bicchiere d'acqua pe rché sie te di Cristo » (Mc). Ci sono qui delle evidenti attualizzazioni. I « piccoli » sono i fedeli più umili . Ugualmente, nello sviluppo sullo scan­ dalo (Mc 9, 42 = Mt 1 8, 6), si parla di «uno di questi piccoli che credono (agg. di Mt: in me) . . . ». La frase di Gesù riceve un prolungamento cristiano. Ma questo giustifica la deci­ sione arbitraria del critico che, salvo rare eccezioni, sop­ prime ogni radicamento s torico delle parole di Gesù e fa scomparire, dal quadro del suo ministero, la mis sione dei Dodici in Galilea alla quale può riferirsi un certo numero di istruzioni, specialmente quelle che hanno un carattere molto arcaico in M t l O, 5-1 6 ? E lì che viene vietato di anda­ re verso i pagani e di entrare nelle città dei Samaritani, per andare verso le pecore perdute della casa di Israele ( l O, Sb-6). Ecco come ragiona il critico: « In quanto evangelista ellenistico, [Marco] ha probabilmente sentito che questa istruzione non era più conveniente per la­ missione nell'oikou mene e ne fece un ordine per la missione dei Dodici durante l 'attività di Gesù, seguito poi in questo da Matteo e Luca. Ma originariamente era il Cristo risorto o esal­ tato (cf. Mt 28, 1 9s; Le 24, 47 ss) che parlava qui; abbiamo cioè a che fare con una formazione della Comunità» (pp. 1 85s).

In un sano metodo storico, questa ricostruzione della sto­ ria di Gesù per mezzo dell 'evangelista Marco è di una gra­ tuità assoluta. Lo stesso dicasi per l'evocazione di una « Co­ munità» molto primitiva, anteriore all'evangelizzazione del­ la Samaria, in cui gli ascoltatori diretti di Gesù non avreb­ bero giocato alcun ruolo, specialmente nel riprendere come prime istruzioni missionarie quelle che essi avevano rice­ vuto al tempo in cui avevano ascoltato il suo annuncio evan­ gelico nei villaggi della Galilea. Questo scetticismo storico non vale di più del difetto nel quale sono caduti alcuni commentatori di tendenza conservatrice e apologetica. Os­ sessionati dalla questione dell 'autenticità («genuinitas ») di tutte le parole di Gesù, essi hanno fatto ricorso a tutti i sotterfugi possibili per spiegare le diverse disposizioni e le varianti tra le recensioni parallele di queste parole: an­ notazioni incomplete dovute a delle testimonianze diverse, errori di traduzione fatti a partire dall'originale semitico, parziale perdita dell'informazione in certi rami della tra­ dizione, disordine dei « taccuini per appunti )) ecc. Le imss

maginazioni si danno alla pazza gioia. Ma se ne trae qual­ che beneficio ? 3. Dall ' •lstoriale• allo •storico•

L'errore del conservatorismo abusivo è di confondere la fedeltà autentica con la semplice ripetizione verbale delle parole originali di Gesù. L'errore della critica bultmannia­ na è di porre come principio che l'utilità di un testo nella v i ta comunitaria e la sua funzione reperibile nelle struttu­ re della Chiesa primitiva siano sufficienti per spiegare la sua creazione letteraria. Non ci sarebbe motivo di cercar­ ne un qualsiasi radicamento nelle parole autentiche di Ge­ sù. Esiste fortunatamente una terza via. Le parole di Gesù sono state senz'altro conservate. Esse sono state ricordate, in seno alla Chiesa primitiva, nella misura in cui avevano un ruolo da gioca re in vista de ll 'u tilità pratica. L e istruzio­ n i ricevute dagli apostoli al momento della loro missione in Galilea - che non c'è alcun motivo di mettere in dub­ bio - costituirono la prima regola d'azione alla quale po­ tevano riferirsi i missionari cristiani. Donde la conserva­ lione di alcuni testi che divennero molto presto superati (M t 1 0, Sb-6.22). Marco si contentò di darne un rapido ab­ bozzo omettendo gli elementi anacronistici (Mc 6, 8-1 1 ). Luca ri peté le istruzioni provenienti da Marco per la missione dei Dodici (Le 9, 3-5). Ma egli trovò pure in un'altra fonte una raccolta di parole (Le 1 0, 2b- 1 6) che figurano in Matteo in contesti diversi (Mt 9, 37s; 10, 1 6a.9- 1 5.7s. 14- 1 5 ; 1 1 , 2 1 -24; l O, 40). Egli collegò questo pezzo con la missione dei Set­ tantadue. Le collezioni di parole di Mt 1 0 e Le 10 sono ugualmente artificiali come « discorsi » composti, ma entrambe ne mo­ st rano ugualmente la preoccupazione di conservare e rac­ çogliere dei loghia utili per l'istruzione dei missionari. La collezione presentata da Matteo è la più completa, ma non è sicuro che sia la più antica. I parallelismi di Mc 6, 8- 1 1 e Le 9, 3-5 possono appoggiare l 'ipotesi di Bultmann, quan­ do egli distingue una collezione primitiva in M t 1 0, 5- 1 6. Dato che i paralleli di quanto segue sono molto sparsi in Marco e in Luca si può riferire la composizione finale del­ l ' insieme all'evangelista stesso. Ma ci sono delle tracce di adattamento letterario del testo a dei contesti più tardivi, 59

specialmente nell'allusione alle comparizioni « davanti ai governanti e ai re >> (Mt 10, 1 8a = Mc 1 3 , 9b e Le 2 1 , 1 2b, nel contesto del discorso escatologico). Matteo è il solo a ·nota­ re che ciò accadrà come test imonianza per i pagani (M t 1 0, 1 8 c). Questo tipo di ritocchi non è affatto una mancan­ za di fedeltà alle parole di Gesù: ne prolunga semplice­ mente la port ata nel suo significato primitivo per attualiz­ zarle in fu nzione delle circostanze: « Andate e ammaestrate tutte le nazioni » (Mt 28, 1 9). Ogni loghion separabile meri­ ta di essere esaminato in questo modo per vedere se con­ serva delle tracce di ritocchi dello stesso genere. È proprio il caso di quello di cui ho riprodotto sopra le diverse recensioni . Tutte hanno sostanzialmente la stessa portata. Non c'è motivo di seguire il ragionamento di Bult­ mann quando egli propone di vedervi un principio genera­ le derivato dal loghion relativo all'accoglienza dei piccoli. In sé ciò non sarebbe inconcepibile per la recensione mat­ teana, infatti M t l O, 40b riprende le stesse formule di Mc 9, 37b ( = Le 9, 48b); ma il parallelo di Mt 1 8, 5 omette pro­ prio questa finale. Al contrario, è del tutto impossibile per la recensione di Luca, che non parla di accoglienza, ma di asco l t o, e bisognerebbe supporre che Matteo e Giovanni hanno fatto ricorso ad una stessa fonte aramaica (con il verbo nes a b ) tradotto diversamente in greco (con dekho­ mai e [am bano). Non è più semplice pensare che Gesù si sia identificato sia con i propri inviati che con i bambini di cui egli promosse la dignità presentandoli come modelli in un mondo in cui erano tenuti in scarsa considerazione ? Bisogna ancora notare che in Matteo la pericope relativa al « bambino » (Mt 1 8, 1 -5) è stata oggetto di un 'interpreta­ zione secondaria. L'evangelista l'ha collegata con la rifles­ sione sui « piccoli », formula di cui Gesù «Sembra essersi servito per designare le class i inferiori della popolazione israelita che lo circondava, con la loro mancanza di cultu­ ra, le loro deficienze morali e sociali, l'abbandono e lo scan­ dalo alle quali le votavano l 'incuria dei governanti » (S. Lé­ gasse, Jésus et l 'enfant, p. 337). Così, « att ribuito alla pare­ nesi dei "piccoli", il logh ion relativo all'accoglienza dei bam­ bini è sol tanto una formula immaginosa che serviva a raccomandare alla carità dei fedeli coloro la cui debolezza accosta all'infanzia )) (Ibid. , p. 338). Ciò non toglie niente al radicamento storico del fatto così come lo riferisce Mar­ co, e dell'espressione ad esso legata. Ma l'espressione ha 60

acquistato una nuova risonanza. Da lì a trasporla, per ge­ neralizzare il suo principio e applicarla ai missionari, c'è un margine che Bultmann ha colmato arbitrariamente. Al contrario delle sue valutazioni, sembra che si possa risali­ re dall'« istoriale » allo « storico », senza voler ricostruire con certezza un loghion originario che ci è pervenuto sotto tre forme diverse in Matteo, Giovanni e Luca 4. Il problema dello sfondo biblico

La frase di Gesù si comprende solo nell'ambito di una mis­ sione affidata ai suoi, di un «invio » . È dietro questo tema che bisogna cercare il suo sfondo biblico. Sotto questo aspetto lo sfondo è molto vasto. Dio inviò Mosè per l ibera­ re il suo popolo (Es 3, 1 5 , ecc.). Inviò i profeti (Ger 7, 25; 14, 1 4s; 23, 2 1 .32; 25, 4; 26, 1 2 . 15; 27, 1 4. 1 7, ecc., con apostel16 in greco). Gesù a sua volta è l' inviato di Dio: per tale ragione « accogliere lui » significa « accogliere colui che l'ha inviato». Il problema è di sapere a quale titolo egli viene inviato. A sua volta egli « manda )> i suoi discepoli (Gv 1 3, 20, con pempo; Mc 1 3 , 14, Mt 1 0, 5 ; Le 9, 2; 10, l, con apostello) per annunciare il Vangelo in nome suo. In questo egli si differenzia dai profeti, di cui i discepoli diffondevano le parole - commentandole e completandole secondo i biso­ gni -, ma che non inviavano a loro volta delle persone incaricate di una missione a nome loro. Quando Baruch legge nel Tempio gli oracol i di Geremia (Ger 36 ), non pro­ c lama le parole di Ge remia, ma quelle di YHWH (36, 4.6, ccc.). Nel IV vangelo ci sono nume rose allusioni all'invio di Gesù da parte del Padre (3, 34; 5, 26; 6, 29.57; 7, 29; 8, 22; 9, 7; 10, 36; 1 1 , 42; 1 7, 3.8. 1 8.2 1 . 23.25; 20, 2 1 ). Tali allusioni sono rare nei Sinott l ci, ma non inesistenti: in Le 4, 43, Ge­ s ù « è stato inviato » per annunciare il Vangelo del Regno di Dio; il parallelo di Mc l , 38 dice che è per questo che •egli è venuto »; Mt 1 5, 24 dice che è stato inviato « solo alle pecore perdute della casa d'Israele ». Bisognerebbe pure tener conto delle indicazioni indirette, come quella della parabola dei vignaioli omicidi, in cui il proprietario della vigna invia prima dei se rvi, e poi i l suo stesso figlio, il suo «prediletto» (Mc 12, 2-6). C'è dunque una continuità nel­ la missione che va da Dio a Gesù, e poi da Gesù ai suoi inviati: l'atteggiamento preso nei riguardi degli inviati equi61

vale a quello che si prende nei riguardi di Gesù, e a sua volta questo è uguale all'atteggiamento preso nei riguardi di Dio. L'Antico Testamento non presentava niente di simi­ le . C'è un prolungamento del tema generale, ma con un « Compimento » inedito. L'atteggiamento preso dagli ascoltatori dei profeti manife­ sta il loro atteggiamento nei riguardi di Dio, non a causa della pe rsona dei profeti, ma a causa della Parola di Dio di cui essi sono portatori. Lo si trova soprattutto quando essi « rifiutano di accettare (dekhomai) la lezione » (Sof 3, 2; Ger 2, 30; 5, 3; 7, 28; 1 7, 23). La situazione dei discepoli di Gesù è diversa, poiché l'accoglienza loro riservata manife­ sta l'accoglienza fatta a Gesù stesso, e, tramite ciò, a Dio che l'ha inviato. Non c 'è ragione di cercare degli antece­ denti per la formula di Giovanni ( 1 3, 20) con !am bano, poi­ ché egli adopera il verbo in questione più di 40 volte, al­ lorché si trova in lui una sola menzione di dek homai (Gv 4, 45): lo sfondo aramaico è lo stesso in entrambi i casi (nesab). La sola differenza tra Matteo e Giovanni è costi­ tuita dal fatto che quest 'ultimo insiste sull'invio dei disce­ poli da parte di Gesù (« colui che ho inviato» al posto di « voi ))), Quanto all'uso del verbo « ascoltare » in Luca, ha evidentemente come sfondo i numerosi usi del suo equiva­ lente presso i profeti a proposito della Parola di Dio. La differenza sta nel fatto che qui Gesù è personalmente chia­ mato in causa nell'ascolto prestato ai discepoli e nel rifiu­ to di ascoltarli. Gesù non è più soltanto l'ultimo dei profe­ ti in senso cronologico: la sua persona è lega t a al messag­ gio che egli stesso reca e di cui ha incaricato i discepoli dopo di lui. Se ciò è vero per la loro missione in Galilea, lo è ancora di più per la missione ricevuta dal Cristo risorto. La rilet­ tura ecclesiale dell'espressione conduce perciò al suo pun­ to culminante i temi biblici della missione - con l'invio del Figlio -, dell 'accoglienza e dell'ascolto prestato alla Parola di Dio, d'ora in poi avvenuta per la mediazione del Figl io. È in questo senso che c'è nel loghion evangelico un « compimento delle Scritture ». Questa terza dimensio­ ne del Vangelo vi è perciò ben presente.

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5. Dali ' esegesi alla meditazione

Nel presentare i racconti evangelici nel precedente volu­ me, ho sempre terminato la mia esposizione proponendo una lettura semplice che riprendeva lo schema delle medi­ tazioni ignaziane 2 • Si può fare altrettanto per le parole di G esù . Le sentenze staccate presentano eventualmente una difficoltà per il fatto che la loro cornice primitiva, neces­ saria alla « composizione di luogo )), risulta problem atica Ma gli evangelisti vi hanno supplito appropriatamente di­ s po n e n do queste sentenze in vari contesti che si possono ritenere con rma grande libertà di scelta: qui sarà la mis­ sione dei Dodici (Mt), o quella dei Settantadue (Le), o anco­ ra il discorso dopo la C e na destinata ai soli intimi . Ma non si può nemmeno dimenticare che il ricordo delle paro­ l e di Gesù in un ambiente ec clesiale è stato fatto, dalla t radizione evangelica primitiva e poi dagli evangelisti, pe r f o rnire una regola di vita ai missionari che prolungavano t:on la loro azione quella degli apostoli del Cri sto risorto. � ugualmente tramite loro che la parola di Gesù ha acqui­ s tato e conserva ancora la sua attualità per tutti coloro l·he, attualmente, compiono la stessa missione. Il Signore si rivolge dunque ad essi personalmente per ripetere loro ciò che di sse un tempo ai suoi diretti inviati. Nella prospettiva così aperta due punti devono attirare la loro riflessione. Il primo è di esamina re la loro responsa­ bilità di inviati, perché la parola del Cristo sia ve ra. N on devono trarre le loro parole da un proprio contenuto : essi sono soltanto i portavoce del Cristo che li ha inviati . È a questa condizione che colui che li accoglie, li ascolta e l i ri ceve , accoglie, ascolta e riceve il Cristo, e dietro di Lui il Padre stesso. Questo non vale soltanto per le loro paro­ l e , ma anche per il loro comportamento e le loro azioni. Il secondo punto riguarda il modo in cui essi saranno rice­ vuti, accolti e ascolt a t i Le recensioni di Matteo e di Gio­ vanni hanno di mira so l tanto l'aspetto positivo delle cose: la prospet t iva è quella della salvezza degli uomini, alla quale gli inviati di Gesù cooperano scomparendo dietro di lui . Ma la recensione di Luca ha di mira le due possibilità: d i asco l to o di r i f iuto . Entrambe sono infatti possibili. A che cosa ·è dovuto il rifiuto ? Ai limiti del messaggero, o .

.

l

Vangeli e sto ria, pp. 1 2 l s., spiega il motivo di questo procedimento. 63

alle cattive disposizioni di colui che riceve il messaggio evangelico, o ai temporeggiamenti della grazia di Dio che aspetta il suo momento ? È il segreto di Dio: agl i inviati di Cristo viene soltanto chiesto di portare agli uomini un Vangelo autentico con le loro parole e la loro vita. Ma il rifiuto di Gesù - e del Padre che l'ha inviato - riveste sempre lo stesso carattere drammatico del rifiuto durante la sua vita terrena. Ciò non impedì che Gesù perseverasse fino alla fine nel suo annuncio del Vangelo; e la Chiesa, dopo di Lui, persevera in un'impresa che non sarà mai com­ pletata una volta per tutte e che durerà fino alla fine dei tempi : la conversione del mondo intero al Vangelo. Il « colloquio >> di ogni « inviato » del Cristo con Colui che l 'invia assume naturalmente l'aspetto determinato da que­ ste diverse situazioni. Non spetta all'esegeta presentarne il contenuto. ,

I l . PERDERE O SALVARE LA PROPRIA VITA

1 . Le attestazioni della sentenza

Per cominciare, bisogna fare una precisazione sulla tradu­ zione della frase. Il termine «Vita » non rende perfettamen­ te il greco psykhe, equivalente dell'ebraico nefesh, princi­ pio vitale della persona vivente. Ma la parola « anima » sa­ rebbe equivoca evocando immediatamente un concetto ve­ nuto dall'antropologia greca e l'impiego del semplice riflessivo perderebbe ogni sapore c.:oncreto. Si possono di­ stinguere facilmente quattro recensioni della stessa espres­ sione, riprodotti in contesti differenti che ne sfumano la risonanza. a) A ttestazione fondame ntale Sembra che l'attestazione fondamentale sia da ricercare in una piccola collezione di detti che i tre Sinottici ripro­ ducono nella stessa cornice con alcune varianti (Mc 8, 34-38 = Mt 1 6, 24-27 = Lc 9, 23-26). Ci sono lì quattro detti legati tra loro dalla particella gar. Gli interlocutori sono però diversi. In Marco Gesù ha chiamato « la folla con i suoi discepoli >> (8, 34a). In Matteo, si rivolge ai suoi disce­ poli ( 1 6, 24a). In Luca, parla a tutti (9, 23a). Questo dimo64

st ra che la collocazione è artificiale. Il primo detto invita seguire Gesù caricandosi della propria croce. Il secondo riguarda il principio del « Chi perde guadagna )) (con due verbi dal significato opposto « salvare/perdere »): è quello che esaminiamo qui. Il terzo completa il precedente con­ frontando il guadagno del mondo intero con la perdita di se stesso (lett.: « la sua vita » o « la sua anima », ma il termi­ ne ha il valore di un riflessivo concreto). Il quarto detto ha di mi ra questa perdita nel quadro del ritorno del Figlio dell' Uomo. Il principo preso in esame qui ha la stessa for­ ma nei tre Sinottici, fatta eccezione di un punto pa rticola­ re, cioè il motivo per il quale si « perde la propria vita»: •a causa mia >>, dice Gesù in Matteo e Luca; «a causa [mia e] del Vangelo », dice in Marco (con delle varianti di critica testuale). a

b) Le attestazioni seconda rie di Matteo

e

di Luca

Luca e Matteo hanno utilizzato due recensioni delle stesse parole sulla rinuncia dando loro una portata diversa. In Le 14, 25-27, Gesù si rivolge alle folle per affermare un prin­ cipio: « Se uno viene a me e non odia suo padre, sua ma­ dre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la p ro­ pria vita (psykhe), non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me non può essere mio discepolo ». Si costata che il principio della cro­ ce da portare viene ripreso in una forma negativa. Ma in Matteo queste parole figurano nel discorso rivolto ai Dodi­ ci per il loro invio in mi ssione: «Chi ama il padre o la ma­ dre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me » (Mt 1 0, 37-38). Qui l'evangelista aggiunge: «Chi avrà trovato la sua vita la perderà, e chi avrà perduto la sua vi t a per causa mia, la ritrove rà ( 1 0, 39). L'assenza dell 'ultimo loghion in Luca e le differenze di formulazione non permettono di risalire ad una fonte comune, benché le idee sviluppate siano iden­ tiche. Il collegamento del portare la croce con la perdita della vita fa supporre che Matteo sia stato di rettamente influenzato dal testo analizzato in primo luogo, tanto più che il quarto loghion della serie viene anche ripreso sotto forma personale nel discorso « apostolico » (M t 1 0, 33, pa­ rallelo a Mc 8, 38). 65

La ripresa del principio della perdita della vita v� cercata in un altro contesto di Luca. Nel discorso sul giorno del Figlio del l'Uomo (Le 1 7, 22-37) lo si ritrova senza collega­ mento con ciò che lo precede o lo segue: allora, « chi cer­ cherà di risparmiare la propria vita la perderà, e chi inve­ ce l'avrà pe rduta la salve rà » ( 1 7, 33). Il vocabolario è leg­ germente cambiato e il motivo - «a causa mia » o «a cau­ sa del Vangelo» è scomparso. Le opposizioni dei termini sono meno efficaci dei binomi « salvare/perdere » e « perde­ re/trovare »; ma l'utilizzazione separata della sentenza mo­ stra che si tratta di un loghion «vagante» . -

c ) L a recensione di Giovanni La sentenza figura in Giovanni con un vocabolario diffe­ rente in un contesto completamente diverso: quello del di­ scorso ai Greci (Gv 1 2, 23-26). Dopo l'annuncio della glorifi­ cazione del Figlio dell'Uomo ( 1 2, 23), si ha la piccola para­ bola del chicco di grano caduto nella terra ( 1 2, 24). Poi Gio­ vanni riporta l'aforisma: « Chi ama la sua vita (psykhe) la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita (zoe) eterna » ( 1 2, 25). Qui il ricorso al riflessivo sarebbe più utile per evitare un equivoco sul termine «Vi­ ta »: «Chi ama se stesso, si perderà, ecc. ». Ci si domanda se l'aforisma esplicita la parabola che pre­ cede, o se si rapporta con ciò che segue: « Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo. Se qualcuno mi serve, il Padre lo onorerà» (1 2, 26). Il verbo «perdere » è il solo punto in comune tra questa recensione e quella che ho presentato come fondamentale. Ma si può notare che la coppia «amare/odiare » si trovava in Le 14, 26 e Mt 1 0, 37, a proposito delle persone vicine (e perfino «della propria vita », diceva Luca). Non si è perciò fuori dal voca­ bolario di Gesù, ma esso viene ripreso in stile giovanneo. Quanto all 'opposizione tra « questo mondo» e « la vita eter­ na», fa parte del linguaggio tipico di Giovanni. 2. Le rlletture ecclesiali della sentenza

La varietà delle recensioni e dei contesti cui il loghion fi­ gura invita a vedervi una sentenza «vagante » che è stata trasmessa con delle varianti, senza un contesto definito. 66

Ma è chiaro che, raggruppandola con altre sentenze, la tra­ dizione evangelica le ha dato varie applicazioni che stanno a testimoniare le sue « riletture >> ecclesiali. È da esse che bisogna partire prima di interrogarsi sulla sua formula­ zione e sul suo contesto originario. a) L 'inte rpre tazione sinottica comune

Nell'ordine attuale seguito dai tre Sinottici, i quattro lo­ ghia che riguardano il portare la croce, il rinnegamento di sé preferibile al possesso del mondo intero, e la ricom­ pensa prevista per il giorno del Figlio dell'Uomo, sono uni­ ti con il primo annuncio della Passione (Mc 8, 3 1 -33; M t 1 6, 2 1 -23; Le 9, 22): Luca ha omesso la protesta di Pietro leggermente ampliata da Matteo (Mc 8, 32b-33; Mt 1 6, 22-23). Ma dato che l'inizio della sentenza è differente nei tre ca­ si, l'ipotesi di un montaggio artificiale è più probabile di quello di una collocazione storica. In questo quadro il prin­ cipio che obbliga a « perdere se stesso» (tén psykhén autou) per salvarsi enuncia una legge della vita cristiana, molto ben collocata tra la necessità per ogni uomo di portare la propria croce e la superiorità della salvezza personale sul possesso del mondo intero. I motivi che giustificano questa perdita di sé hanno un'equivalenza pratica: «a cau­ sa mia» (Mt-Lc); e « la vita eterna » è nella logica interna del testo. Non vi si legge «a causa mia», ma il seguito parla di colui e

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che serve Gesù e lo segue: è la trasposizione ecclesiale del­ la stessa idea, con una generalizzazione che l'applica a tut­ ti coloro che servono il Cristo. È dunque possibile risalire dall ' « istoriale» allo « Storico » ritrovando le parole origina­ li di Gesù. Ma questa affermazione è stata inserita nel piccolo insie­ me raccolto dai tre Sinottici (Mc 8, 35-38; Mt 1 6, 25-27, con uno sdoppiamento della finale che pas sa in parte in Mt 1 0, 22; Le 9, 23-26). Quest'insieme è stato collocato dopo il primo annuncio della Passione perché l'affermazione rela­ tiva al portare la croce personale acquistasse tutto il suo rilievo. La rifonnulazione rimane però arcaica: ognuno de­ ve portare la propria croce, non la Croce in generale. Dato che la situazione creata da Gesù è nuova, il principio affermato non ha uno sfondo biblico reale. 4. Dal l ' esegesi alla meditazione

La lettura autenticamente evangelica della sentenza com­ porta dunque diverse dimensioni, senza rinunciare né alle parole originali, né alle esplicitazioni del suo contenuto virtuale nella Chie sa. L'applicazione del metodo meditativo impiegato sopra per­ mette una grande varietà nella « composizione di luogo ». Lo sguardo si fissa allora su Gesù nelle si tu azioni concrete in cui gli evangelisti hanno collocato queste sue parole: sia dopo l'annuncio della sua Passione, nel quadro di un ministero già contestato che comporta sempre gli stessi pericoli per i discepoli, poiché, « se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi » (Gv 1 5, 20); sia nel quadro del­ l'invio in missione (Mt 1 0), infatti i missionari del Vangelo (cf. Mc 8, 35b) sono i primi a correre il rischio di perdervi la vita; sia nella prospettiva della passione vicina, leggen­ do la recensione di Gv 1 2, in cui la parabola del chicco di grano che muore nella terra si applica dal Cristo ai suoi; sia infine nel quadro del Ritorno in gloria del Figlio del­ l'Uomo, quando saranno salvati coloro che avranno accet­ tato di « perdersi ». La riflessione concerne innanzitutto gli annunciatori del Vangelo (i Dodici, secondo Mt 16, 25 e 1 0, 39). Ma essa ha di mira anche « la folla con i discepoli » (Mc 8, 34), infatti, secondo Luca, Gesù l'ha rivolta a tutti (Le 9.23). Del resto 72

in Gv 1 2 come pure in Le 1 7 ha un carattere generale. Le •composizioni di luogo » appena suggerite perdono infine il loro carattere «archeologico » quando ci si ricorda che al livello letterario degli evangelisti (ed anche della loro fonte immediata), è il Cristo in gloria che rivolge queste parole alla sua Chiesa dopo averle personalmente messe in atto nella sua passione. Le situazioni concrete della Chie­ sa nel mondo confe ri scono un caratte re di permanente at­ tualità alle istruzioni di rinuncia e all'eventualità di «per­ dere la propria vita a causa [del Cristo e] del Vangelo>> (Mc). � inutile immaginare il colloquio che ne può seguire: esso viene int rodotto dallo stesso studio esegetico. Ma la sua formulazione non può che essere personale. * * *

Lo studio fatto per due sentenze « vaganti >>, legate attual­ mente a dei contesti diversi, dovrebbe essere esteso a tut­ te quelle che possono essere così isolate. Esse sono gene­ ralmente riconoscibili grazie ai testi diversi nei quali le hanno collocate Matteo e Luca. Ma ce ne sono anche alcu­ ne che figurano in un solo evangelista: raggruppate in di­ scorsi in Matteo, generalmente isolate in Luca. Come esem­ pio tipico si può citare Le 1 2, 49-50, in cui il « fuoco >> porta­ to sulla terra da Gesù rimane enigmatico, ma in cui il « bat­ t esimo con cui egli deve essere battezzato » è il battesimo della morte (cf. Mc 10, 38, in parallelo con la « Coppa » della morte ugualmente menzionata in M t 20, 22-23). Ogni sen­ tenza meriterebbe uno studio particolare, che non posso intraprendere qui. È sufficiente aver mostrato il metodo da segui re per evitare i due pericoli di un'attenzione esclu­ siva all'« originale » o alla « lettura ecclesiale ». Uno studio c ritico serio permette di conservare queste due dimensio­ n i , ugualmente costitutive del Vangelo. I ritocchi letterari appartengono alla seconda dimensione, ma la prima può essere raggiunta a partire da essa. Tutti i commentatori intelligenti dei testi evangelici si sforzano attualmente di fare un simile lavoro, ad eccezione di coloro che vogliono conoscere solo alla lette ra le parole originali di Gesù. Ma mi domando se costoro sanno leggere correttamente i vangeli.

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1 1 1 . LA VENUTA DEL FIGLIO DELL' U OMO

Il mio unico scopo è di esaminare qui le tre presentazioni di un frase «escatologica » di Gesù, quella che riguarda la venuta del Figlio dell 'Uomo (Mc 1 3, 24-27; Mt 24, 29-3 1 ; Le 2 1 , 25-28). Le differenze t ra i tre vangeli sinottici sono suf­ ficienti per sollevare dei problemi critici e teologici. La correlazione dei tre testi non è meno evidente; ma è im­ possibile vedervi una sentenza separabile dal suo conte­ sto. Si è condannati, volenti o nolenti, a riprendere innan­ zitutto in b reve i problemi molto complicati suscitati dai discorsi « apocalittici >> di Mc 1 3, Mt 24 e Le 2 1 . Dopodiché esaminerò le diverse letture ecclesiali della sentenza - che costituisce un buon esempio di apocalisse cristiana - e potrò allora porre la domanda cruciale: è possibile risali­ re, a partire da essa, fino alle parole originali di Gesù ?

Bibliografia sul discorso escatologico 1 . Se si dovessero elencare tutti i commentari di Mc 1 3, Mt 24 (o 24-25) e Le 2 1 nei libri dedicati ai vangeli sinottici, l a bibliogra­ fia sarebbe in terminabile. Ne ho fatto una scelta limitata tra i commentari. Per Matteo: Lagrange ( 3 1 927, pp. 454-476), Bonnard ( 1 963, pp. 345-357), Albright-Mann ( 1 97 1 , pp. 285-289), Beare ( 1 98 1 , pp. 462-473). Pe r Marco: Lagrange ( 1 929, pp. 332- 349), Taylor ( 1 952, pp. 500-5 1 9), Gnmdmann ( 1 962, pp. 259-272), R. Pesch (vol. I, 1 977, pp. 264-3 1 3, con un'abbondante bibliografia sul «discorso escato­ logico »), J. Ernst ( 1 98 1 , pp. 3 66-394). Per Luca: Lagrange ( 1 92 1 , pp. 50 1 -503 e 520-537), Grundmann ( 1 96 1 , pp. 768s e 377-387), I. H . Mashall ( 1 978, pp. 7 1 7-7 1 9 e 752-783). 2 . Negli studi particolari dedicati al discorso escatologico, la di­ scussione più animata riguarda i rapporti tra la rovina del Tem­ pio di Gerusalemme e la « Fine » del mondo. Delle tesi strettamen­ te opposte sono state sostenute da B. Rigaux e A. Feuillet. In L J:tn­ téchrist et l 'opposi tion au royaume messianique dans l 'A ncien et le Nouveau Testament (Paris 1 932), B. Rigaux aveva sostenuto che tutto il discorso è dominato dalla prospettiva della fine del mon­ do, mentre la rovina di Gerusalemme era solo sullo sfondo. A. Feuillet ha contraddetto questa tesi in una serie di articoli soste­ nendo che la Parusia del Figlio dell'Uomo sulle nubi (Mc 1 3 , 26 e par.) non è che la presentazione immaginosa del regno glorioso del C risto. Questo è stato manifestato dal « Giudizio divino» su Gerusalemme, la rovina della città e del Tempio, la raccolta degli eletti nella Chiesa; cf. «Le discours de Jésus sur la ruine du Tem74

pie d'aprés Mare XIII et Luc X XI, 5-36 », RB, 1 948, pp. 482-502; 1 949, pp. 6 l·92, specialmente le pp. 69-82; « La synthèse eschatolo­ gique de saint Matthieu (XXIV-XXV)», RB, 1 949, pp. 34 1 -364; il seguito dello studio riguarda le parabole di Mt 24, 45 - 25, 46. La maggior parte dei commentatori ammette che le due prospettive si mescolano. Inoltre, lo studio c ritico dei discorsi si è soffenna­ to molto sugli elementi redazionali propri di ciascuna sintesi evan­ gel ica, sul discernimento dei materiali ad esse soggiacenti, sulla distinzione tra le parole originali di Gesù e la loro • rilettura � nella Chiesa. 3 . Senza cedere al radicalismo critico di R. Bultmann, si può tro­ vare uno cc status quaestioni s » e una bibliografia in L 'histoire de la tradition synoptique, tr. fr. (con il « Supplemento• del 1 97 1 ), Paris 1 973, pp. 1 57s e 532-535. Il problema viene esaminato in dettaglio da L. Hartmann, Prophecy lnte rpreted: The Formation

of Some Jewish Apocalyptic Texts and of the Eschatological Di­ scou rse Ma rk 13 Par., Lund 1 966. - W. Trilling, « La fin du mon­ de », in Jésus devant l'histoire, Paris 1 968, pp. 1 42- 1 66. J. Lam­ brecht, « La st ructure de Mare XIII », in De Jésus aux é vangiles: Donum natalicium 1. Coppens, Gembloux-Paris 1 967, pp. 1 4 1 - 1 64, c Die Redak tion de r Markus-Apokalypse. Literarische Analyse und Struk tu runte rsuchung, Rome 1 967 . - L. Gaston, No Stone on Ano­ ther: Studies in the Significance of the Fall of Jerusalem in the Synoptic Gospels, Leiden 1 970. M.-E. Boismard, Synopse des qua tre évangiles, t. Il. Commentai re, Paris 1 972, pp. 360-367. -

-

-

J. Dupon t, « La ruine du Tempie et la fin des temps dans le di­

scours de Mare XIII», in Apocalypses et théologie de l 'espé rance, ed. L. Monloubou, LD 95, Paris 1977, pp. 207-269. - Reazioni cri­ tiche di F. Neyrinck, in Evangelica: Gospel Studies - Études d 'É­ vangile, Louvain 1 982, pp. 598-606 (testo del 1 969) e pp. 565-597 (testo del 1 980). - D. Wenham, The Rediscovery of Jesus ' Escha­ tological Discourse, Sheffield 1 98 5 . Uno studio consacrato al pensiero personale di Gesù si trova in J. Jeremias, Teologia del N. T. , I, La p redicazione di Gesù, Brescia 1 976 (tr. fr., pp. 1 57- 1 80). - Studio più generale su « L'eschatologie dans l'évangile de Luc », riprodotto in A. George, Études sur l 'oeuvre de Luc, Paris 1 978, -

pp.

32 1 -347.

[Il mio lavoro era già completato quando ho saputo del libro di J . Dupont, Les trois apocalypses synoptiques, LD 1 2 1 , Paris 1 985].

1.

Osservazioni critiche sul contesto

a) Struttu ra del discorso escatologico Forse non c'è nessun altro testo dei Sinottici che sia stato oggetto di tante discussioni come quello di Marco 1 3 e par. 75

Anche escludendo i commentari, la bibliografia critica non manca: si veda su questo punto la bibliografia citata qui sopra. Da una parte è possibile analizzare tutto il discorso escatologico di Gesù riconoscendovi una composizione re­ lativamente logica, anche se si costata che esso riceve dei considerevoli ampliamenti in Matteo (Mt 24-25). Ma d'altra parte è possibile anche considerarlo come un insieme com­ posito i cui pezzi si possono riconoscere e analizzare. Co­ me diceva J . Dupont nel 1 975, « nessuno mette in dubbio che questo capitolo ( = Mc 1 3) raggruppa del materiale di origine diversa; ma non si è realizzato alcun accordo fino ad ora sull'origine, la natura e l'estensione del materiale utilizzato dall'evangelista e nemmeno sul le tappe successi­ ve per le quali è passata la formazione del capitolo» (« La ruine de J érusalem et la fin des temps dans le discours de Mare 1 3 », cf. bibliografia sopra, p. 208). Nel corso della stessa esposizione, J. Dupont faceva notare che, nel suo stato attuale, Mc 1 3 fa alternare delle rivelazioni apocalit­ tiche per l'avvenire e delle esortazioni parenetiche per il presente (pp. 265-266). Le esortazioni, almeno nel vangelo di Marco, prendono il sopravvento sulle rivelazioni alle qua­ li si agganciano, al fine di dare all'insieme il carattere di un messaggio di speranza. Ma mi sembra che l'analisi possa procedere diversamente, tenendo conto di alcune osservazioni penet ranti di M.-E. Boismard nel suo commentario della Synopse des quatre évangiles (pp. 360-367). Innanzitutto, ci sono, in Mc 1 3 , 1 -4 e Mt 24, 1 -3, due scene diverse che non si svolgono nello stesso posto: l'una, situata all'uscita del Tempio (Mc 1 3, 1 -2 e par.), termina con l'annuncio di una distruzione in cui « non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta »; nel­ l'altra, sul monte degli Ulivi di fronte al Tempio, i discepo­ li domandano a Gesù quale sarà il « segno » che tutto ciò « sta per compiersi » (Mc 1 3 , 3-4: quattro discepoli vengono menzionati per nome). Luca (2 1 , 3-7) ha fuso le due scene sopprimendo ogni indicazione locale. Ma si trova in lui un doppione (Le 19, 4 1 -44) : della città di Gerusalemme non sa­ rà lasciata pietra su pietra (v. 44b). In base a ciò si può ritenere che in Marco il discorso relativo alla « Fine » trova la sua introduzione in Mc 1 3, 3-4. Inoltre si possono sepa­ rare due serie di istruzioni che interrompono il corso delle evocazioni apocalittiche: la prima, sulla persecuzione dei predicatori del Vangelo (Mc 13, 9- 1 3), e la seconda sui falsi 76

cristi e i falsi profeti ( 1 3, 2 1 -23). Matteo raddoppia la pri­ ma riportando il suo contenuto nel discorso d' invio in mis­ sione (M t 1 0, 1 7-22 . 36//24, 9- 1 4, con aggiunta dei vv. 10- 1 2 e 1 4); Luc a segue pressappoco Marco. Un'osservazione s' impone inoltre a proposito di Mc 1 3 , S-8 ( = Mt 24, 4-8 = Le 2 1 , 8- 1 1 ). È chiaro che Luca ne fa due pezzi separati che riunisce in modo artificale con un'espres­ sione banale: «poi disse loro» (2 1 , 10a). Ciò atti ra l'atten­ zione sul modo in cui Marco e Matteo fanno il collegamen­ to: ri su lta altrettanto vaga, con il semplice inserimento di un ga r, « infatti ». Ora, il primo pezzo (Mc 1 3, 5-7 = Mt 24, 4-6 = 4 2 1 , 8-9) termina con un'osservazione: « ma non sarà ancora la fine » (to telos). Si può capire che l'istruzio­ ne sulla persecuzione sia stata collocata dall'evangelista o dalla sua fonte nei vv. 9- 1 3 poiché termina con queste parole: « Chi avrà perseverato sino alla fine (eis telos) sarà salvato » (Mc 1 3, 1 3 = Mt 24, 1 3, modificato da Luca). Mc 1 3, 7 presenta i prodromi della « fine », ma non ancora i l « Se­ gno » che tutto ciò sta per compiersi (synlelesthai: 1 3 , 4). Questo segno arriva nei vv. 1 4-20: si tratta « dell'abominio della desolazione installato là dove non conviene )) (Mc 1 3, 1 4a, con riferimento a Dn 9, 27) e poi «la tribolazione quale non è mai stata dall'inizio della creazione fatta da Dio fino al presente » ( 1 3, 1 9, con riferimento a Dn 1 2, l ). Però questi giorni di tribolazione sono abb reviati « a causa degli eletti » ( 1 3, 20). Si può comprendere che l 'istruzione sui falsi cristi e i falsi profeti sia inserita in questo posto poiché essi rischiano di « ingannare, se fosse possibile, an­ che gli eletti » (1 3, 22). Saltando sopra quest'espressione, si ritrova il filo del testo apocalittico. Questo parlava della «tribolazione )> e di «quei giorni » che sono abb reviati. Ora, al v. 24, si legge: «Ma in quei giorni, dopo quella tribo­ lazione . . . » . È dunque possibile collegare tra loro i tre passi apocalitti­ ci: Mc 1 3, 5-7 + 1 3, 1 4-20 + 1 3 , 24-27. Sono i prodromi della fine, poi il segno della fine che costituisce la rivelazione, e al termine la manifestazione gloriosa del Figlio dell'Uo­ mo. La piccola parabola del fico è una buona conclusione di quest'insieme ( 1 3 , 28-29); vi si dice che all a vista dei se­ gni si saprà che il Figlio dell'Uomo «è vicino, alle porte » (1 3, 29).

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b) Duplicità del disco rso escatologico Mi rifaccio qui a un'ipotesi del P. Boismard che credo soli­ damente fondata. Basandosi sulla recensione lucana egli propone di riconoscere una duplicità nel discorso escato­ logico. È un fatto che Le 1 9, 41 -44 mostra Gesù che piange su Ge rusale mme, annunciando il suo assedio e spiegando che i suoi nemici « non lasceranno in essa pietra su pietra>> - annuncio parallelo a quello di Mc 1 3, 2b = Mt24, 2b = Lc 2 1 , 6b (in cui gli interlocutori sono differenti nei tre vange­ li). È un altro fatto che Luca, seguendo Marco per i vv. 2 1 , 8-9, separa, in una forma che gli è propria, i vv. 2 1 , l 0- 1 1 . S e s i sorvola l'annuncio delle persecuzioni (2 1 , 1 2- 1 9), s i ar­ riva ad una descrizione in cui non si parla affatto del Tem­ pio: è chiamata in causa soltanto Gerusalemme (Le 2 1 , 20-24). Ci sono dei parallelismi con la descrizione della grande tribolazione in Marco e Matteo, ma la finale è totalmente diversa (2 1 , 23b-24): vi viene introdotto un ritardo, « finché i tempi dei pagani siano compiuti ». « L'abominio della de­ solazione » (tes e remose6s) non è più menzionato come in Mc 1 3, 1 4 e Mt 24, 1 5, secondo la versione dei Settanta di Dn 1 2, 1 1 (cf. 1 1 , 3 1 , senza articoli). In questo punto di Daniele ( 1 2 , 1 1), la parola « desolazione » è al singolare, contrariamente a Dn 9, 27 i n cui la Settanta e Teo­ dozione l_a mettono al plurale (ad eccezione della recensione lucianea che è influenzata dal Nuovo Testamento). Se ne ha come p rova la citazione di Dn 9, 27 (Teodozione) nel commen­ tario di lppolito XXXV, 2 (con il plurale), seguita dall'applica­ zione del testo al singolare in XXXV, 3 ( = l 'An t icristo), secon­ do la citazione di Mt 24, 15 che figurava esplicitamente in un passo precedente del commentario (XVII, 6).

Anche la grande « tribolazione » (thlipsis) di Dn 12, l , citata in Mc 1 3 , 1 9 ( = Mt 24, 2 1 ), scompare e viene sostituita da «una gr ande calamità>> (anan ke) e «un'ira contro questo popolo»

(Le 2 1 , 23b): si tratta naturalmente del popolo giudaico, ma questo è legato a Gerusalemme (2 1 , 14 e 2 1 , 24). Così l'apocalisse A, seguita da Marco e Matteo, viene ri­ composta in un'apocalisse B, seguita da Luca (Le 1 9, 4 1 -44; 2 1 , l 0- 1 1 ; 2 1 , 20-28). La manifestazione del Figlio dell'Uomo non avviene più « sulle nubi » (Mc), o « sulle nubi del cielo» (Mt, secondo Dn 7, 1 3 LXX, diverso da Teodozione che se­ gue l'aramaico: «con le nubi del cielo», cf. Ap l , 7). In Luca 78

essa avviene « SU una nube » (cf. At l , 9), il che nasconde un po' il riferimento biblico. Quanto alla finale, essa ab­ bandona l 'evocazione dei « segni » e del Figlio dell'Uomo, per ritornare al discorso in «VOi » (2 1 , 28): «Alzatevi e levate i l capo perché la vostra liberazione è vicina». Stando così le cose, la parabola del fico non può più essere applicata alla vicinanza del Figlio dell 'Uomo, come in Marco ( 1 3, 29) c in M t (24, 33): ora si tratta del Regno di Dio che è vicino (Le 2 1 , 3 1 ). Le esortazioni al la vigilanza figurano nei tre Si­ nottici, ma in una forma diversa. Luca ne ha già inserito un certo numero nei suoi « pezzi scelti » senza contesto pre­ ciso (Le 1 2, 39-46; 1 3, 23-30; 1 7, 26-3 5; 1 9, 1 2-27): non li ripe­ te. Ma colloca una severa messa in guardia ispirata a testi scritturistici (2 1 , 34-36): il suo orizzonte è la comparsa di tutti davanti al Figlio dell'Uomo (2 1 , 36b). Non è escluso che questo discorso in «Voi » appartenga alla fonte di Luca, infatti i quadri apocalittici che egli traccia sono essi stessi costellati di interpellanze alla seconda persona plurale (cf. 2 1 , 20: «quando vedrete .. . »; 2 1 , 28: « alzatevi e levate il ca­ po ... »; 2 1 , 3 1 : « così pure, sappiate . . . >> ) . Non ci si meraviglia, stando così le cose, di un invito a « Stare in guardia » (2 1 , 34) e «Vegliare >> (2 1 , 36). Questo sarebbe, a mio avviso, una buo­ na conclusione per l'apocalisse B 3 • Il P. Boismard propone una teoria più complessa, distin­ guendo tre strati redazionali: un documento primitivo det­ to B (rilettura dell'apocalisse A, alleggerito di alcuni ver­ setti che egli ritiene redazionali), poi un «prato-Luca », e infine una redazione finale che ha inserito molti elementi provenienti da Marco ( = Luca attuale). Non entrerò nei det­ tagli di questa discussione critica. Mi basta aver notato la duplicità dei pezzi apocalittici: Mc 3, 1 4-20 + 24-27, e Le 2 1 , 20-24 + 25-28 (senza l'interruzione, marciana e mattea­ na, che mette in guardia contro i falsi cristi e i falsi profe­ ti: Mc 1 3 , 2 1 -23 e Mt 24, 23-25).

3

Cf. i testi delle due «apocalissi » nell'Excursus n. 3 , sotto. 79

EXCU RS US N . 3

Le apocalissi A e B del discorso escatologico Per dare un'idea delle differenze t ra le apocalissi A e B utilizzate rispettivamente da Mc-Mt e Le, si isolano qui i pezzi che le com­ pongono lasciando da parte le ist ruzioni pratiche sulle persecu­ zioni e sui falsi cristi e i fal si profeti. Per l 'apocali sse A, viene presentato solo il testo di Marco: ci si riferirà ad una sinossi per vedere le modifiche introdotte da Matteo. Per B , Le 1 9, 4 1 -44 vie­ ne posto come preludio, prima dello sviluppo apocalittico di Le 2 1 . I riferimenti biblici sono indicati accanto ai passi in corsivo, eccetto per i clichés dell 'assedio della città. Questa presentazione comporta naturalmente una parte di approssimazione di ipotesi, ma dà un 'idea della differenza tra le recensioni di Mc-Mt e di Le (o delle loro rispettive fonti).

Apocalisse A (Mc 1 3

-

Mt 24)

Marco 1 3. 3. Mentre era seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in di sparte: 4. «Dicci, quando accadrà questo, e quale sarà il se­ gno che tutte queste cose staranno per compiersi ? » . S. Gesù si mise a di re lo ro: «Guardate che nessuno v'inganni ! 6. Molti ver­ ranno nel mio nome, dicendo "Sono io", e inganneranno molti. 7. E quando sentirete parlare di guerre, non allarmatevi; bisogna infatti che ciò avvenga (Dn 2, 2 8), ma non sarà ancora la fine. [ ] 1 4 . Quando vedrete l'abominio della desolazione (Dn 1 2, 1 1 LX X) stare l à dove non conviene - chi legge capisca -, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano ai monti; 1 5. chi si trova sulla terrazza non scenda per entrare a prendere qualcosa nella sua casa; 1 6. chi è nel campo non torni indietro (Gn 1 9, 26) a pren­ dersi il mantel lo. 1 7 . Guai alle donne incinte e a quel le che allat­ teranno! 1 8. Pregate che ciò non accada d' inverno, 1 9. perché quei giorni saranno una grande tribolazione, quale non è mai stata dal­ l 'in izio della creazione, fatta da Dio, fino al prese nte(Dn 1 2, 1 ), né mai vi sarà. 20. Se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessun uomo si salverebbe. Ma a motivo degli eletti che si è scelto (cf. v. 27) ha abbreviato quei giorni. .. [ ] 24. [Ma] in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscure rà e la luna non darà più il suo splendore (ls 1 3, 1 0), 25. e gli astri si mette ran no a cade re dal cielo e le potenze che sono nei cie li saranno sconvolte (Is 34, 4 LXX). 26. Allora vedranno il Figlio de ll 'Uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria (Dn 7, 1 3). 27. Ed egl i manderà gli angel i e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall 'estremità della ...

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t erra fino all 'estremità del cielo (Zc 1 2, 1 2. 1 4 LXX). 28. Dal fico t mparate questa parabola: quando già il suo ramo si fa tenero t' mette le foglie, voi sapete che l 'estate è vicina; 29. così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vici­ no, alle porte » .

Apocalisse B ( Le 1 9 e 2 1 ) Luca 1 9. 4 1 . [ . . .] Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa dicendo: 42 . « Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace ! Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. 43. Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di t rincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte: 44. ab­ ba tte ranno te e i tuoi figli dentro di te (Sal 1 36[ 1 37], 9) e non lasce­

ranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata » . . . l�uca 2 1 . l O . Poi disse loro: « [agg. ? ] Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno » (Is 1 9, 2); 1 1 . e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti te rrificanti e segni grandi dal cielo.[ . . ] 20. Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sap­ piate allora che la sua devastazione è vicina. 2 1 . Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tomi­ no in città; 22. saranno infatti gio rni di vendet ta (cf. Ger 25, 1 3), perché tutto ciò che è stato scritto si compia. 23. Guai alle donne che sono incinte e allattano in quei giorni, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. 24. Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Geru­ salemme sa rà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani sia­ no compiut i (Zc 1 2 , 3 LXX). 25. Vi sarannno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per fragore del ma re e dei flutti (Sal 64 [64], 8), 26. mentre gli uomini moriranno per la paura e per l 'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cie li infatti saranno sconvolte ( Is 3 4 , 4 LXX).• 27. Allora vedranno i l Figlio dell 'Uomo venire s u una nube con potenza e gloria grande . 28. [Quando cominceranno ad acca­ dere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra libera­ zione è vicina] )) , 29. E disse loro una parabola: « [Guardate il] fico [e tutte le piante]. 30. [Quando già germogliano, guardandoli voi stes si], capite che [ormai] l ' estate è vicina. 3 1 . Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che [il Regno di Dio] è vicino ». N.B.: Le parole tra parentesi quadre nei vv. 28-3 1 {X>trebbero pro­ venire dal la redazione finale di Luca, che avrebbe ritoccato la sua fonte. .

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2. Le leHure ecclesiali delle parole di Gesù

Prima di e saminare il problema del discorso primitivo pro­ nunciato da Gesù, è bene partire da come es so fu accolto e letto nella Chiesa apostolica, così come si può intravede­ re a part ire dalle tre recensioni sinottiche. Le parole di Gesù erano in ogni caso un quadro per il futuro, avente per orizzonte « la Fine )) (t o telos o hé synteleia). Non si trat­ ta di riprendere la teoria desueta dell'« escatologia conse­ guente » un tempo in voga presso i critici l iberali: «Gesù annunciò la fine del mondo . .. ed è venuta la Chiesa » (Loi­ sy). Ma nemmeno si può eliminare la densità del termine per applic arlo unicamente alla fine del Tempio di Gerusa­ lemme e dell'istituzione giudaica (tesi di A. Feuillet). È suf­ ficiente ricordare che, nella prospettiva profetica e apoca­ littica, per provocare la giusta preparazione degli uomini al « Futu ro di Dio )), il Giudizio e la Salvezza rivestivano sempre un carattere di imm inenza psicologica. Conclusio­ ne logica: « Vegliate, dunque, perché non sapete né il gior­ no né l'ora )) (Mt 25, 1 3); « state attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preci so » (Mc 1 3, 33). Questa lezione fa pa rte della spiritualità cristiana elemen­ tare, fin dalla più antica lettera di San Paolo: « Voi sapete perfettamente che il Giorno del Signore arriva come un ladro in piena notte » { 1 Ts 5, 2; cf. Mt 24, 43 e Le 1 2, 39, seguito da un avvertimento sulla necessità di essere pronti per la venuta del Figlio dell'Uomo: M t 24, 44 = Le 1 2, 40). Le desc rizioni apocalittiche hanno dunque un riferimento evangelico. Non si possono esaminare queste due apocalis­ si A e B, segnalate sopra, staccandole da questa finalità pastorale. Basta tener conto del fatto che la tradizione evan­ gelica ha conservato il tema del Figlio dell'Uomo, allorché Paolo l'ha interpretato parlando del « Giorno del Signore )) - cioè del ritorno glorioso del Cristo, nello stesso tempo giudice e salvatore. a) Marco

e

Matteo

Marco e Matteo coincidono, tranne alcuni dettagli, per tre scene riprese dall'apocalisse A: i prodromi della Fine (Mc 1 3, 5-7 = Mt 24, 4-8), la grande tribolazione (Mc 1 3, 14-20 = Mt 24, 1 5-22, fatta eccezione di due dettagli redazionali signi­ ficativi), la manifestazione gloriosa del Figlio dell'Uomo (Mc 82

1 3, 24-27 = Mt 24, 29-3 1 , eccetto la modifica dell'inizio e due aggiunte significative). Le tre scene hanno per sfondo la lettura del libro di Daniele, cosa che assicura la loro tona­ lità apocalittica. Ma si tratta di una reinterpretazione cri­ stiana del libro. La prima scena riprende un'espressione di Dn 2, 28 (tra­ dotta allo stesso modo nella Settanta e in Teodozione), ma la prospettiva originale viene completamente modificata. Daniele rivelava al re Nabucodonosor « ciò che accadrà al finire dei giorni » (ep 'eschaton ton hemeron). L'espressione greca rinforzava l'aramaico be- 'al}arit yomayya (« la fine dei giorni »), che des ignava un avvenire più indete rminato. Ora, in Marco e Matteo si legge esplicitamente: « E quando sent irete parlare di guerre non allarmatevi; bisogna infatti che ciò avvenga (dei genesthai, come nel greco di Dn 2, 28), ma non sarà ancora la fine (to telos) » (Mc 1 3, 7, in pratica equivalente a Mt 24, 6). Ciò che « deve accadere )> riguarda perciò dei segni premonitori; ma « la fine » si allontana al­ l'orizzonte, poiché non si tratta ancora del «finire dei gior­ ni ». La reinterpretazione del testo di Daniele è chiara: es­ so viene ora adattato alla situazione cristiana. Il secondo quadro riguarda la grande tribolazione (Mc 1 3, 14-20 = Mt 24, 1 5-22). Vi si trovano lì due riferimenti a Daniele. Ho segnalato sopra la provenienza de lla prima: « l'abominio della desolazione». La citazione greca, con un articolo per ogni parola, non viene da una traduzione gre­ ca di Dn 9, 27, ma da Dn 1 2, 1 1 che, in ebraico, rinvia im­ plicitamente a 9, 27, nonostante l'uso in questo punto del plurale . I testi di Marco e Matteo inseriscono qui un ap­ pello alla comprensione rivol to al le ttore, non all'ascolta­ tore (« chi legge capisca ! »). Mt 24, l Sb aggiunge al testo co­ nosciuto di Marco - o a Marco stesso - un'indicazione d'impronta biblica: è l'abominio del la desolazione « di cui parlò il profeta Daniele ». Non bisogna meravigliarsi di ve­ dere qualificare Daniele come « profeta »: si trova la stessa cosa in Giuseppe Flavio (An tichità giudaiche, X, xi, 4, n. 246). Ciò che è sorprendente è la differenza delle espressioni che figurano nei due evangel isti. Marco resta vago: l'abominio del­ la desolazione sarà posto (( là dove non conviene ,>. Dato che è in questo punto che il testo fa appello alla comprensione del le ttore, il problema non è di sapere a che cosa Gesù poteva pensare, ma a che cosa l 'evangelista o la sua fonte ha fatto

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allusione, lasciando capire al lettore che il testo aveva un'ap­ pl icazione attuale. Su questo punto le opinioni dei critici di­ vergono in modo i rriducibile. Gli uni, che pensano alla situa­ zione alla quale si riferiva il libro di Daniele, pensano che l'au­ tore dell 'inciso faccia allusione all 'erezione di una statua ido­ latrica nel Tempio sotto il regno di Caligola (nel 40). Gli altri, colpi ti innanzitutto dai testi relativi alla fuga (Mc 1 3, 1 4b- 1 8), vi vedono un'allusione alla fuga dei cri s tiani che, secondo Eu­ sebio di Cesarea, abbandonarono Gerusalemme per Pella all 'i­ nizio della guerra giudaica. La diversità delle ipotesi è già un'in­ dice del loro carattere mol to aleatorio.

In Matteo la profanazione del « luogo santo» (e n topo ; ha­ gio i, 24, 1 5) rinvia più esplicitamente a Dn 1 1 , 3 1 , che men­ ziona la profanazione del santuario (LXX : to hagion; Teod. to hagiasm a), prima che vi sia collocato « l'abominio della desolazione ». Ma il problema resta nella sua interezza, poi­ ché il termine tradotto con « abominio » (bdelygma) corri­ sponde, nella maggioranza dei casi, a due parole ebraiche: l'una (shiqqu�) designa spesso un idolo (specialmente in Dn 9, 1 1 e 1 2); l'altra (to •ebah) designa qualsiasi cosa abomine­ vole. Quanto alla «desolazione » (e remosis), che può essere anche « devastazione », rimane suscettibile di diversi signi­ ficati . Non si può perciò escludere che l'espressione com­ pleta con servi un significato pregnante che potrebbe ap­ plicarsi a più oggetti diversi: l'orrore delle distruzioni cau­ sate nel « luogo santo » dall 'incendio del 70 rimane possibi­ le, e anche probabile, in Matteo. Il testo di Marco è troppo vago (« là dove non conviene ») perché se ne possa fare la stessa applicazione . Può darsi che la recensione di Marco supponga la rilettura di un testo anteriore alla rovina del Tempio, poiché il Tem­ pio non viene citato allorché costituisce il punto di parten­ za della domanda posta dai discepoli (Mc 1 3 , 3-4). L'inciso del v. 1 4b può significare che la guerra giudaica sia co­ minciata e che l' invito alla fuga sia di attualità prima che Gerusalemme venga assediata (vv. 14c- 1 8). Ma non se ne può dire di più senza cadere in congetture poco sicure. In segui to si legge una ci tazione pressoché letterale di Dn 1 2, 1 : è l'evocazione della grande « tribolazione » che atten­ de il popolo di Dio (Mc 1 3, 19 = Mt 24, 2 1 ). Dato che non si tratta di una descrizione precisa ma di una minaccia enunciata in termini generali, non si può dire a priori co­ me la tradizione evangelica abbia potuto attualizzare que84

sto testo di Daniele, ripreso da Gesù in un modo apocalit­ tico. Ma la menzione degli « eletti », a causa dei quali i gior­ ni di tribolazione devono essere « abbreviati >> , dà alla de­ scrizione un'orizzonte di speranza. Nel libro di Daniele la speranza sfociava nell'annuncio della risurrezione dei giusti (Dn 1 2, 2-3). Qui, lasciando da parte la messa in gu ardia di Mc 1 , 2 1-23 ( = Mt 24, 23-25, più 24, 26-28 che identifica chiaramente il Cristo e il Figlio del­ l'Uomo il cui avvento è atteso), si arriva al terzo quadro dell' apocalisse sinottica. Esso è consacrato alla manifesta­ zione glo riosa del Figlio de ll 'Uomo (Mc 1 3 , 24-27 == M t 24, 29-3 1 , ampliata in rapporto a Marco). È il loghion che mi intere ssa in primo luogo. Anche qui si tratta di una ripresa di Daniele, ma il suo centro è improntato a Dn 7, 1 3: la venuta del Figlio dell'Uomo, qui personalizzata a diffe­ renza del testo primit ivo che aveva: « come un Figlio d'Uo­ mo ». Egli viene, dice Marco, « sulle nubi », o, secondo Mat­ teo, « sulle nubi del cielo » (ripresa di Dn 7, 1 3 nella recen­ sione greca della Settanta). L'evocazione di questa venuta viene fatta in funzione di coloro che la «vedono » . Per spie­ gare questa espressione, non condivido il punto di vista di A. Feuillet (RB, 1 949, p. 354), secondo i quale « bisogna in­ tendere 11Vedere" o ��apparire" nel senso metaforico di espe­ rienza della dignità sovreminente di Gesù che . . . » - qui e in Mt 26, 64 - « d'ora in poi s 'imporrà in tutto il suo splen­ dore per la piega stessa che prenderanno gli eventi: con gli occhi del corpo non si vedrà il segno del Figlio dell'Uo­ mo più di quanto non si vedrà Gesù assiso alla destra del Padre ». Questa interpretazione, che sopprime ogni allusio­ ne alla Parusia, è dettata dal l'applicazione di tutto il testo al giudizio su Gerusalemme al momento della sua rovina. Essa va contro il movimento interno del testo che proietta sullo schermo dell'avvenire il quadro della « Fine ». Ciò non vuoi dire che si possa materializzare la «vista » nel senso empirico; ma le «visioni >> soprannaturali hanno il loro pro­ prio realismo. In Marco il soggetto del vero « vedere» è un plurale impre­ ciso (con soggetto vago e corrispondente a un verbo ara­ maico plurale: yih zon o yih mon, a seconda del dialetto scel­ to). Il rapporto cronologico tra questa visione del Figlio dell 'Uomo e la « grande tribolazione » rimane impreciso: « In quei giorni, dopo quella tribolazione . » ( 1 3, 24a). Invece la venuta del Figlio dell'Uomo è accompagnata da una messa ...

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in scena che vi fa riconoscere una manifestazione divina. È un capovolgimento cosmico i cui tratti sono improntati a Is 1 3 , 10 (descrizione del Giorno del Signore che viene a castigare Babilonia) e Is 34, 4 LXX (descrizione del giudi­ zio che si abbatte su Edom). Questi tratti sono diventati dei clichés letterari che, qui, non hanno più lo stesso signi­ ficato che nei testi da dove sono presi: il tema del Giudizio non appare mai nel seguito. In compenso, venendo « con grande potenza e gloria,., il Figlio dell'Uomo invierà gli angeli per radunare gli eletti. La descrizione di questa adu­ nanza riprende ancora delle immagini bibliche improntate a Zc 2, 1 0 e Dt 30, 4 (in contesti letterari molto diversi). Si tratta perciò di un'evocazione apocalittica tutta orienta­ ta verso la salvezza degli « eletti ». Credo che non si renda pienamente il significato del testo se lo si applica soltanto all'esperienza della Chiesa in cui si radunano gli uomini di tutte le nazioni (tesi di A. Feuil­ let). L'orizzonte è quello della salvezza finale alla quale par­ teciperanno gli «eletti » - che sono, certamente, membri della Chiesa: « Tutti questi eventi sono considerati dal pun­ to di vista degli eletti, coloro che devono attraversarli per arrivare alla salvezza definitiva. Queste predizioni spaventose . . . [N.B.: si tratta del lo scenario catastrofico che precede] . . . sono così portatrici di un messaggio di speranza» (J . Dupont, in Apocalypse e t théologie de l 'espérance, p. 269). La parabola del fico e la sua applicazione, che chiudono l'apocalisse ( 1 3, 28-29), prolungano questo appello alla spe­ ranza: la prossimità del Figlio del l'Uomo è, per i lettori del testo, analoga a ciò che è, per la maggioranza degli uomini, la prossimità dell'estate. In Matteo il senso del quadro generale è lo stesso, ma la sua composizione comporta delle significative amplifica­ zioni. In particolare, viene sottolineata più esplicitamente l'identificazione del Figlio dell'Uomo e del Cristo glorioso. Infatti, la domanda alla quale risponde il discorso apoca­ littico di Gesù non riguarda più « il segno che tutto ciò sta per compiersi » (Mc 1 3 , 4). I discepoli l'hanno formulata in questi termini : « Dicci quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine (synte­ leia) del mondo» (M t 24, 3b). Appare chiaro che i capovolgi­ menti cosmici (24, 29) caratterizzano « la fine del mondo » attuale (24, 3b) nel momento in cui comincerà il « mondo futuro )). L'evangelista insiste del resto sul modo in cui que86

sta s'intreccia con la grande tribolazione: «Subito dopo la tribolazione di quei giorni. .. » (24, 29a). Viene così sottoli­ neata l'imminenza psicologica del ritorno del Signore. Ma il quadro di questo ritorno si arricchisce di nuovi tratti; « Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell 'Uomo (cf. Ap 1 2, 1 . 3; 1 5 , 1 ), e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell'Uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria » (Mt 24, 30). La finale riprende un'espressione, improntata a Zc 1 2, 1 0. 1 2. 1 4, che si ritrova in Ap l , 7 a proposito del Cristo che « viene con le nubi del cielo» (cf. Dn 7, 1 3 , aram. e greco di Teodozione). Di conseguenza non è il caso di fare del « segno del Figlio del­ l'Uomo » una cosa diversa dal Figlio dell'Uomo stesso (genitivo epeseget ico). Il verbo adoperato (phainomai) traduce l 'ebraico nir'e ' in Dn l, 1 3 . 1 5 ( = aram. 'ith-zfl'itl}-me, secondo il livello della lingua e del dialetto scelto). C'è perciò, al passivo, lo stesso significato dell 'attivo opsontai che segue (« vedranno ,,), e può essere certamente accostato ali' espressione deli'Apxalisse: « Un grande segno apparve (oph te, stesso verbo al passivo) nel cie­ lo . >, (Ap 1 2, 1 , ripresa in 1 2 .3). I « Segni » sono u la donna rive­ stita di sole » e il « grande drago,,. Qui il segno è il Figlio del­ l 'Uomo c he rappresenta simbolicamente il Cristo in gloria al momento della sua parusia. Si noterà che c le tribù della ter­ ra• sono intese in senso negativo, sia qui che in Ap l, 7 . ..

Tuttavia non si parla del loro giudizio: si costata soltanto, in modo implicito, che esse non prenderanno parte alla salvezza; infatti questa è riservata agli « elett i » che gli an­ geli radunano da tutte le parti (24, 3 1 ). A questo t ratto, che si trovava già in Marco, Matteo aggiunge un dettaglio, im­ prontato a Is 27 , 1 3, che riappare nelle descrizioni escato­ logiche di l Ts 4, 1 6 e l Cor 1 5 , 52: l'adunanza avviene al suo­ no della « grande tromba » . Si tratta quindi di assemblea liturgica . I suoi beneficiari sono però gli «eletti » , non più gli Israeliti dispersi nel mondo. Inoltre il punto di conver­ genza non è più il Tempio di Gerusalemme, ma il Figlio dell'Uomo stesso, cioè, in termini cristiani, il Cristo in glo­ ria, il Signore (cf. l Ts 4, 1 7). Il confronto tra Marco e Mat­ teo mette dunque in evidenza dei ritocchi letterari che so­ no in rapporto diretto con la rilettura cristiana di questa piccola apocalisse: essa conserva la sua attualità alimen­ tando la speranza di coloro che la leggono o l'ascoltano. 87

b) La recensione di Luca Sopra ho cercato di definire le caratteristiche della fonte seguita da Luca, che ho chiamato l'apocalisse B (Le 1 9, 4 1 -44 + 2 1 , l 0-1 1 .20-28, con la stessa conclusione della pa­ rabola del fico che germoglia). A differenza dell'apocalisse A, essa non riguarda il destino del Tempio, ma quello di Gerusalemme. Lascio per il momento da parte il problema posto dalla lettura « storica » del testo , cioè dalla sua for­ mulazione letteraria al tempo di Gesù. Cerco soltanto di comprendere le risonanze che poteva avere per i lettori della fonte di Luca e dell'evangelista stesso. In uno studio classico apparso nel 1 947, C. H. Dodd aveva mostrato molto bene che il testo di Luca contiene, un gran numero di allusioni bibliche (cf. «The Fall of Jerusalem and the " Abomination of Desolation" », in More New Testa­ meni Studies, Manchester 1 968, pp. 69-8 3). Ma, mentre la fonte di Marco e Matteo è improntata soprattutto al libro di Daniele, quella di Luca ne ritiene soltanto il tema del Figlio dell 'Uomo che viene « SU una nube » (Le 2 1 , 27a, dove il formulario di Daniele non viene rispettato esattamente). Per il resto, la sua evocazione dell'assedio e della devasta­ zione di Gerusalemme è tessuta di allusioni che rinviano ai testi profetici relativi � ll'assedio del 587. La « devasta­ zione >> (2 1 , 20b) figura abbondantemente nel libro di Gere­ mia. Il «compimento di tutto ciò che è stato scritto» (2 1 , 22b) rinvia a Ger 25 , 1 3. La « cattività >> (2 1 , 24a) è un luogo co­ mune profetico. Gerusalemme « calpestata dai pagani » (2 1 , 24b) rinvia al testo greco di Zc 1 2, 3 . Dodd traeva da queste osservazioni alcune conclusioni pratiche. l ) Il testo di Luca non è qui un rimaneggiamento di quello di Marco, ma proviene da un'altra fonte. 2) Non è stato scritto per rimarcare l'esperienza degli avvenimenti del 70, ma le sue formulazioni sono dei clichés letterari tratti dal le Scritture. Quest'ultimo punto è materialmente esatto, ma non per­ mette alcuna conclusione certa poiché un testo greco re­ datto dopo il 70 avrebbe potuto senz'altro evocare l'espe­ rienza recente riprendendo il linguaggio delle Scritture. Ora, la finale del v. 24 («Gerusalemme sarà calpestata dai pagani ») è già improntata alla Bibbia greca, non a quella ebraica: è perciò una rilettura greca dell'apocalisse primi­ tiva. Inoltre questa notazione è seguita da un 'indicazione cronologica di cui si cercherà invano il parallelo nella Scrit88

tura: « .finché i tempi dei pagani siano compiuti » (2 1 , 24c). Questo tempi dei pagani, legato a una catastrofe universa­ le (2 1 , 25-26), è quello del loro giudizio: per questo motivo « i popoli » sono presi dali' angoscia (2 1 , 25b) di fronte a ciò che accade sulla terra (2 1 , 26a). Gli uomini che «muoiono di paura» (2 1 , 26a) vedranno allora il Figlio dell'Uomo «Ve­ n i re su una nube » (2 1 , 27). Non è più la formula di Dn 7, 1 3, né nella versione dei Settanta né in quella aramaica (se­ guita da Teodozione). Ma vi si ritrova la logica della teolo­ gia di Luca. Nel suo racconto dell'ascensione di Gesù, egli nota che « una nube lo sottrasse al loro sguardo » ( = dei discepoli, At l, 9). È necessario che « il cielo si apra » al di là di questa nube perché Stefano veda «il Figlio dell'Uomo ( = Gesù) che sta alla destra di Dio » (A t 7, 56). È perciò nor­ J nale che alla fine dei tempi egli ritorni « SU una nube »: questa nube fa parte del materiale letterario delle apoca­ lissi (cf. Ap 1 0, l ; 1 1 , 1 2; 1 4, 1 4- 1 6). Non si tratta più delle •nubi » (al plurale) di Dn 7, 1 3. L'evangelista ha dunque mes­ so l'ultima mano al quadro così abbozzato, anche se si am­ mette che ha ripreso, grosso modo, una fonte più antica. Il problema che si pone a proposito di questa fonte è il seguente: pe rché essa ha conservato il cliché biblico del­ l 'assedio della ci ttà, invece di quello dell'« abominio della desolazione » posto «là dove non conviene >>, in un contesto i n cui la chiara allus ione a Dn 7, 13 aveva trascinato mec­ canicamente molteplici allusioni dello stesso libro (apoca­ lisse di Mc-Mt) ? L'attualità delle minacce di Gesù contro Gerusalemme infedele non fu percepita con più forza an­ cora dopo la guerra del 66-70, la devastazione della città santa e la cattività di un gran numero di Giudei ? L'evange1 i sta stesso non viveva durante questo « tempo dei paganb> quando « Gerusalemme era calpestata dai paganb> (2 1 , 24) ? Era l'attualità cristiana. All'orizzonte dell 'avvenire, c'era il «Giorno del Figlio dell'UomO >> (cf. Le 1 7 , 22-37, i cui pa­ ralleli sono sparsi in Mc 1 3 e Mt 24). Il testo di Luca rias­ sume brevemente i segni catastrofici che annunciano que­ sto Giorno (Le 2 1 , 2Sa), sempre conservando lo sconvolgi­ mento delle potenze dei cieli (2 1 , 26b, tratto da Is 34, 4 nel­ la Bibbia greca). Al contrario, esso esplicita il messaggio di speranza sul quale sfocia l'apocalisse: «Quando comin­ ceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina » (2 1 , 28). •.

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Il termine « liberazione » {apolytrosis) appartiene al vocabola­ rio del Co rpus paolina (7 volte) e della lettera agli Ebrei (2 volte), ma è assente nel resto dei vangeli. Il suo parallelo lytro­ sis figura solo due volte i n Luca e una volta nell'epistola agli Ebrei . Al contrario, apolytrosis si trova una volta nella Bibbia greca (Dn 4, 32 , senza parallelo aramaico) e lytrosis vi è ben attestato ( 1 0 volte). I verbi corrispondenti (apolytroun, 2 volte, e lytroun, più di 100 volte) sono saldamente impiantati nel vo­ cabolario biblico, in correlazione con l 'ebraico ga 'al e padah. Il verbo «drizzarsi » (ana kypto) appart iene solo al vocabolario di Luca (Le 1 3, 1 1 , con due immagini nel l 'episodio del la donna adultera [Gv 8, 7. 1 0] che molti manoscritti collegano al vangelo di Luca). Lo stesso dicasi del verbo « alzare » (epairo: appl icato alla testa, o agli occhi, o alla voce, o alle mani), attestato 6 volte in Luca e 5 volte negli Atti, contro zero volte in Marco, l volta in Matteo ( 1 7, 8), 4 volte in Giovanni (di cui una citazio­ ne di un Salmo) e 3 volte nel Co rpus paolina.

Stando così le cose, tutto fa credere che la conclusione del v. 28 appartenga alla redazione lucana piuttosto che alla sua fonte. Ma questo rimaneggiamento lette rario non fa che esplicitare il significato della fonte nella prospetti­ va della teologia cristiana: la « liberazione» dei fedeli ai quali il discorso è d'ora in poi rivolto - è la logica con­ clusione della venuta del Figlio dell'Uomo, parallelamente al raduno degli eletti in Marco e Luca (e già nella loro fonte). Così nei tre vangeli, la lettura del testo in funzione dell 'at­ tuali tà cristiana prolunga il significato che le pa role di Ge­ sù potevano avere nella mente dei suoi contemporanei. Ven­ gono identificati « l 'abominio della desolazione )) (più chia­ ramente in Mt che in Mc) e la grande «tribolazione >> (Mc­ Mt). Si sa come le minacce di Gesù contro Gerusalemme infedele al Vangelo si siano concretizzate in eventi doloro­ si (Le). Ma la speranza cristiana resta intatta: essa è rivol­ ta verso la venuta del Figlio dell'Uomo chiaramente identi­ ficato col Cristo glorioso, e verso l'adunanza degli eletti (Mc-Mt) o la liberazione (Le). Queste costatazioni mettono in evidenza la teologia di ciascuno dei tre Sinottici. Dato che i pezzi riprodotti sono apocalittici, si può dire che si tratti di una teologia della storia, nella quale viene integra­ to « il tempo della Chiesa» e che ha per orizzonte la « Paru­ sia » del Cristo. Il problema è ora di sapere se si possa risalire, da questo «Ìstoriale», alle parole « Storiche » di Gesù. 90

3. Dali' •lstoriale.- allo •storico•

L'esame critico dei tre Sinottici ha già messo in evidenza l'esistenza di due fonti, probabilmente scritte, da cui di· pendono Mc-Mt da una parte e Le dall'altra. I tratti reda­ zionali propri di ciascun evangelista sono da ricercare so­ prattutto nella compilazione d'insieme in cui le descrizio­ ni apocalittiche si alternano con delle istruzioni. Ma se ne notano pure in alcuni dettagli in Matteo e Luca. Non si tratta di infedeltà alle fonti, ma di semplici adattamenti letterari che ne tirano le logiche conclusioni in funzione di un'attualità scottante. Avendo ormai la risurrezione di Cristo svelato chiaramente l'identità del Figlio dell'Uomo, la ripresa del simbolo, improntato a Dn 7, 1 3 , acquista la pienezza del suo significato: si tratta della «Venuta)) di Ge­ sù che è atteso dalla Chiesa (cf. 1 Cor 1 6, 22: MARANATHA, e Ap 22, 1 7 .20), o del suo avvento (parousia, in Mt 24, 3.27.37.39; cf. l Cor 1 5, 23; lTs 2, 19; 3, 1 3 ; 4, 1 5; 5, 23, ecc.). Ma qual era la situazione al tempo di Gesù, quale senso si poteva allora percepire nelle sue parole, e qual era il contenuto materiale delle sue ipsissima ve rba (le parole da lui realmente pronunciate) ? a) Una questione pregiudiziale

Anche qui, la tendenza scettica di alcuni critici può darsi alla pazza gioia. «Mc 1 3 , 5-27 )) - scrive R Bultmann «è un'apocalisse giudaica rimaneggiata in senso cristiano )) (Sto ria della tradizione sinottica, tr. fr., p. 1 6 1 ). Ecco la sua spiegazione d'insieme: « Mc 1 3, 7 s . 1 2. 1 4-22.24-27 sono delle parole apocalittiche giu­ daiche che, già prima del la loro utilizzazione in Marco, forma­ vano un insieme rimasto essenzialmente intatto. I vv. Ss. 9- 1 1 . 1 3a.23 sono delle aggiunte cristiane. Ciò che è significati­ vo è: l ) la ripresa di un apocalisse gi udaica e la sua util izzazio­ ne come parola di Gesù, in cui il Messia (v. 2 l s) o il Figlio dell ' Uomo (v. 2 6s) sono semplicemente identificati con Gesù; 2) la natura del rimaneggiamento: a) inserimento del rinvio alla persona di Gesù; b) inserimento dei vaticinia della missio­ ne e del tempo delle persecuzioni; c) inserimento di un vatici­ nium di eventi contemporanei (vv. S . s)>> (Ibid, p. 1 57).

Stando così le cose, è chiaro che le aggiunte di Matteo e la ricomposizione di Luca sono interamente attribuibili ad 91

essi. Nel piano dell'analisi letteraria mi sono mostrato più critico dello stesso Bultmann attribuendo Mc 1 3, 7 e 1 3, 8 a due docu menti originali diversi, e considerando la mes­ sa in guardia contro i falsi cri sti e i falsi profeti ( 1 3 , 2 1 -22) come un inserimento secondario nello sviluppo apocalitti­ co. Ugualmente, non ho sentito · il bisogno di mettere da parte 1 3 , 1 2 nell'annuncio delle persecuzioni ( 1 3, 9- 1 3): la­ scio da parte quest'insieme, che richiederebbe uno studio speciale. Faccio notare soprattutto che niente obbliga a fa­ re dei versetti messi da parte da Bultmann un'apocalisse giudaica. Lo dovrebbero essere perché sono intessuti di reminiscen­ ze scritturistiche ? Ma tutti i passi apocalittici di origine cristiana presentano lo stesso carattere: la voce dell'arcan­ gelo, la tromba di D io e la risurrezione occupano un posto centrale in l Ts 4, 1 5- 1 7 {che fa allusione a una « parola del Signore » !); l Cor 1 5 , 25-28 cita due Salmi commentati in stile midrashico, mentre 1 5 , 52 ritorna alla tromba finale e alla risurrezione dei morti; 2Ts 1 , 6- 1 0 e 2, 3b-8 racchiudono mol­ teplici allusioni bibliche; e che dire del l'Apocalisse giovan­ nea ? Il motivo addotto è insufficiente per fondare la tesi di Bultmann. Lo stile molto giudaico dei passi apocalittici debitamente individuati e i paralleli occasionali che possono presenta­ re alcune apocalissi giudaiche ( l Enoch, 4 Esd ra, 2Baruch) ne sono forse una prova maggiore ? Essi dimostrano sol­ tanto che i testi di Mc-Mt e Le sono stati trasmessi in am­ bienti giudeo-cristiani, dove si conoscevano tutti i passi bi­ blici util izzati nelle due piccole apocalissi riprese dagli evangelisti. Non c'è alcuna ragione perché si neghi a que­ sti ambienti una preoccupazione «escatologica » che esiste­ va in ambiente giudaico e che ha altre attestazioni nel Nuo­ vo Testamento. Ma questo concerne la semplice storia re­ dazionale dei testi in questione, o la loro creazione pura e semplice ? Questo è il vero problema. b) Profezia e apocalittica nelle parole di Gesù Bultmann esagera nell'attribuire alla «Comunità » (giudeo­ c ristiana) un potere creativo senza freno. Senza affermare sistematicamente il contrario delle sue ipotesi, partirò qui da un testo in cui egli stesso riconosce la possibilità di una parola originaria di Gesù: si tratta del loghion sulla 92

venuta del Figlio dell'Uomo che Luca ha conservato nella sua «grande inserzione » (Le 1 7, 23-25, in seno al discorso di 1 7, 20-37) e che Matteo ha introdotto nel discorso esca­ tologico (Mt 24, 26-27). In breve: « Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta (pa­ rousia) del Figlio dell' Uomo » (testo di Matteo, un po' diver­ so da Luca che non ha la parola « venuta »). Gli evangelisti, scrive Bultmann, « non hanno scritto l'espressione; essa può essere benissimo sotto questa forma una profezia primiti­ va » ( = di Gesù). « Non c'è alcun motivo di pensare che Gesù non abbia potuto pronunciarla » (Storia ... , p. 1 37). Tiriamo una conclusione: non c'è maggior ragione di pensare che egli non potesse evocare il giorno in cui gli uomini « Ve­ dranno il Figlio dell'Uomo venire nelle nubi con grande potenza e gloria » (Mc 1 3, 26). Sarebbe sorprendente che egli abbia parlato della «venuta>> del Figlio dell'Uomo senza ave­ re nella mente una rappresentazione di questa venuta, tratta dal lib ro di Daniele. Ma se è così, l'immagine in cui culmi­ na l'apocalisse sinottica rientra nel quadro delle parole au­ tentiche di Gesù. A partire da ciò si può argomentare per domandarsi se il resto di questa apocal isse non pos sa ve­ nire sostanziamente da lui. Procediamo con ordine. L'espressione di Mt 24, 26-27 ( = Le 1 7, 23-25) suppone, da parte di Gesù, un riconoscimento del libro di Daniele come Scrittura, cosa che non era generale nel giudaismo del suo tempo. Essa suppone pure una cer­ ta interpretazione del suo cap. 7, in cui il ba r 'enasha non è più un semplice simbolo (« qualcuno come un Figlio d'U ra (Mt), o con (Ap l ) le nubi. .. Per fare che, esattamente ? E difficile sfuggire alla conclusione che lo scopo della sua venuta sia di servire da punto di convergenza degli eletti, come affermano Mc 1 3 , 27 e Mt 24, 3 1 . Proseguiamo nel ra­ gionamento. Se Gesù conosceva e interpretava questo pas­ so capitale del libro di Daniele, perché rifiutargli il diritto di aver conosciuto e ripreso, nella sua evocazione del futu­ ro, due altri passi dello stesso libro che avevano dovuto colpirlo, in un tempo in cui il rifiuto del suo Vangelo si affermava presso le autorità giudaiche e a Gerusalemme: quello che parla dell'« abominio della desolazione >> (9, 27 e 1 1 , 3 1 ) e quello che annuncia la grande « tribol�ione » ( 1 2, 1)? Sarebbe tanto meno sorprend�nte considerando che altri 93

passi evangelici testimoniano chiaramente la sua attesa del­ la risurrezione, attestata in Dn 1 2, 2-3. Stando così le cose, lo sviluppo di Mc 1 3, 1 4-20 ( = Mt 24, 1 5-22) può risalire so­ stanzialmente alle sue stesse parole. Quanto all'evocazione della catastrofe cosmica che serve da cornice alla venuta del Figlio dell 'Uomo (Mc 1 3, 24-25), essa raggruppa due ci tazioni del libro di Isaia (ls 1 3, 1 0 e 34, 4). Ora, di tutti i libri profetici, Isaia è quello che ha lasciato più tracce nella predicazione di Gesù. Si può al massimo notare che, nei nostri vangeli attuali, la ripre­ sa di Is 34, 4 viene fatta secondo la versione greca del li­ bro. L'adattamento delle parole di Gesù, nella versione gre­ ca dell'apocalisse A, comporta dunque una parte di storia redazionale che bisogna riconoscere lucidamente: l'annun­ cio escatologico fatto da Gesù, che racchiudeva contempo­ raneamente una prospettiva di giudizio (la devastazione e la tribolazione) e una prospettiva di speranza (la venuta del Figl io dell 'Uomo), viene conservata nel suo s ignificato generale con alcune allusioni bibliche che la fondavano; ma non abbiamo più le stesse parole alla lettera. B isogne­ rebbe essere ingenui per meravigliarsene: la vera fedeltà del messaggio evangelico non consiste in nna semplice ri­ petizione verbale. Questo messaggio profetico di giudizio e di speranza ri­ guarda « la Fine » (Mc 1 3, 7c = Mt 24, 6c). Ma i suoi prodro­ mi necessari, le guerre e i rumori di guerre (Mc 1 3 , 7a = Mt 24, 6a), sono abbastanza vaghi per non essere in relazione diretta con gli eventi della rivolta giudaica. Essi acquisiro­ no allora un evidente rilievo, ma erano già presentimenti di Gesù. L'attualizzazione delle sue parole nella fonte uti­ lizzata da Marco e Matteo lascia soltanto nn segno certo; si tratta dell'inciso introdotto a proposito dell' « abominio della desolazione posto là dove non conviene » (Mc 1 3, 1 4a): « chi legge capisca ! )), La vaga allusione di Marco (o anche della sua fonte) alla guerra iniziata viene precisata da Mat­ teo, che sembra conoscere la devastazione del « luogo san­ to )) (Mt 24, 1 5). Ma non era questo già la reintepretazione di un annuncio profetico più vago di Gesù, che attualizza­ va il libro di Daniele ? O ra, questa attenzione al luogo san­ to va di pari passo con la collocazione del discorso escato­ logico in una cornice narrativa determinata: Mc 1 3, 3-4 e M t 24, 3 mostrano Gesù seduto sul monte degli Ulivi di fron­ te al Tempio, mentre i suoi d iscepoli l'interrogano sul « se94

gno che tutte queste cose staranno per compiersi )) (syntele­ sthai). Il discorso è una risposta a questa domanda. Non è il caso di considerare un tale «montaggio» come artifi­ ciale. Soltanto che la redazione di Matteo dà maggior for­ za alla domanda precisando: «Quale sarà il segno della tua venuta (parousia, con esplicita identificazione di Gesù con il Figlio dell 'Uomo) e della fine (synteleia) del mondo (aion os aram 'alema) ? )) (Mt 24, 3b). Il contenuto virtuale della domanda viene esplicitato dall 'evangelista. La doman­ da posta è in rapporto diretto con il destino del Tempio, l uogo santo del giudaismo. Non è sorprendente vedere il quadro della « Fine )) ruotare attorno al destino del Tem­ pio, prima che la venuta del Figlio dell'Uomo non dia il segnale dell'adunanza degli eletti. Questo solleva il problema dell'atteggiamento di Gesù nei riguardi del Tempio. L'annuncio della sua futura profana­ zione - qualunque siano le modalità pratiche - è in per· fetta coerenza con tre testi evangelici. =

.

C'è innanzitutto la scena esagerata dell 'espul sione dei vendito­

ri (Mc 1 1 , 1 5- 1 8 = Mt 2 1 , 1 0- 1 6 con alcune aggiunte = Lc 1 9, 45-48 = Gv 2, 1 3- 1 6): i Sinottici concludono questo racconto con la decisione delle autorità di voler far perire Gesù. C'è poi l'annuncio della distruzione del Tempio, raccolto pa­ rallelamente da Mc 1 3 , 1 -2, Mt 24, 1 -2, Le 2 1 , S-6, e collocato attualmente come prel udio al discorso escatologico: del luogo santo non resterà «piet ra su pietra » . C ' è infine l ' accusa addotta contro Gesù nel corso del suo pro­ cesso religioso, secondo Matteo (più breve) e Marco (più svi­ luppato). Gesù avrebbe detto: « lo posso distruggere il Tempio di Dio e in tre giorni ricostruirlo » (M t 26, 6 1 ), o: « lo distrugge­ rò questo Tempio fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne edi­ ficherò un' altro non fatto da mani d'uomo» (Mc 1 4, 58). L'esi­ stenza reale di una tale espressione, deformata dai « testimo­ nh>, è at testata dal IV vangelo nel quadro dell 'episodio dei ven­ ditori scacciati: « Distruggete questo Tempio e in t re giorni lo riedificherò » (Gv 2, 1 9).

Come meravigliarsi, stando così le cose, che Gesù abbia annunciato in stile profetico una profanazione finale del­ luogo santo, riprendendo una espressione del libro di Da­ niele ? Tutto questo s'intreccia bene. Aggiungo che, nel rac­ conto del processo religioso fatto da Marco e Matteo, l'ac­ cusa di bestemmia contro il Tempio era sufficiente per giu­ stificare una sentenza di condanna a morte, infatti Gesù 95

dopo la deposizione dei due testimoni era rimasto muto (Mc 1 6, 60-6 La +63-64; Mt 26, 62-63a + 65-66). La pretesa mes­ sianica non era, in sé, blasfema, anche se i giudici la consi­ deravano come una menzogna. Allo stato attuale dei rac­ conti, l 'interrogatorio relativo a questo punto è stato inse­ rito da Marco e Matteo in questa cornice (Mc 14, 6 1 b-62; M t 26, 63b-64), ma deve essere considerato a parte. In Lu­ ca, le domande relative al Tempio vengono omesse, cosa che trasforma il significato della scena. Luca sa tuttavia che la bestemmia contro il luogo santo ha causato la mor­ te di Stefano (At 6, 1 3- 1 4). Tutto ciò mostra che l'afferma­ zione di Gesù contro il popolo infedele al Vangelo e l'an­ nuncio della profanazione del Tempio, di cui non resterà «pietra su pietra », sono nella logica delle parole e delle azioni di Gesù, quando egl i ha di mira il futuro. Rimane da esaminare il problema del Figlio dell'Uomo. c) La venuta del Figlio dell 'Uomo Nei nostri vangeli - e nelle loro fonti - è chiaro ·che la venuta del figlio dell'Uomo in/sulle nubi (o « le nubi del cielo ») viene compresa come la «parusi�» di Gesù a titolo di Cri sto glorioso. La domanda dei discepoli in M t 24, 3 lo dice esplicitamente, collegando questa parusia con la fine del mondo attuale (synteleia tou aionos, aram. proba­ bile: sésayu t 'alema). Ma que sta formulazione, che modifi­ ca il testo di Mc 1 3 , 4, suppone una prospettiva di fede post-pasquale. n problema pre-pasquale è il seguente: Quale signi ficato·poteva avere la ripresa dell' immagine di Danie­ le per i diretti ascoltatori di Gesù, e quale significato vi attribuiva lui stesso? Sul primo punto è chiaro che gli ascol­ tatori non potevano andare al di là dell 'orizzonte dell 'er­ meneutica giudaica, anche se la personalizzazione del Fi­ glio dell'Uomo nelle parole di Gesù invitava a vedervi la manifestazione di un essere trascendente che avrebbe pre­ sieduto all'adunanza degli eletti. Solta.nto dopo le appari­ zioni del Cristo risorto i discepoli potranno identificare lui stesso con questo essere trascendente che viene su/con le nubi. Quanto al pensiero personale di Gesù, è più delicato preci­ sarto, poiché questo supporrebbe che si possa entrare pie­ namente nella sua psicologia - cosa che nes sun critico intelligente pretenderà di fare. Ci sono nondimeno diverse 96

vie di approccio possibili. L'uso dell'espressione « Figlio del­ l'Uomo » come des ignazione di sé è un tratto originale del linguaggio di Gesù, ma potrebbe anche avere soltanto una risonanza banale: « IO», in quanto membro dell'umanità. Bi­ sogna concederlo a G. Vermes (in M. Black, A n Aramaic Approach of the Gospels and Acts, 3 1 967 , pp. 3 1 0-330). An­ che in Mc 8, 38 (abbreviato in Le 9, 26) l'identificazione di «me » e del « Figlio dell'Uomo che verrà nella gloria del Pa­ dre suo con gli angeli santi » non viene affermata chiara­ mente (Luca parla della « sua gloria e di quella del Padre )>, il che non esplicita la relazione filiale tra il Figlio dell'Uo­ mo e il Padre). La lettura letterale del discorso escatologi­ co lascia ancora l'impressione che Gesù annunci la venuta finale del Figlio dell'Uomo senza parlare esplicitamente di se stesso, il che è un indizio della conservazione delle sue parole nella loro forma arcaica. Ma l'immagine è almeno la form ulazione sim bolica della sua stessa spe ranza, ben­ ché egli non si annoveri tra gli «eletti » che gli angeli radu­ neranno intorno al Figlio dell'Uomo. Questa speranza com­ porta la risurrezione nel terzo giorno, o dopo tre giorni: non è il caso di contestare la realtà dei suoi annunci, che è sufficiente comprendere nel loro significato originale sen­ za cercare di conoscerli alla lettera (Mc 8, 3 1 ; 9, 3 1 ; 10, 34 e par.). Il « terzo giorno » è allora la designazione simbolica del «giorno della risurrezione dei morti», alla quale Gesù parteciperà pe r primo. Mi sembra che D. Flusser, ragionando da storico giudaico, forzi un po' le cose allorché scrive: «Gesù ha innanzitutto atteso qualche altro, ma, alla fine, si

è sempre più convinto di essere egli stesso il Figlio dell' Uomo

che doveva venire. Altrimen ti non si comprenderebbe il dialo­ go di Cesarea di Filippo, né le parole di Gesù a P ietro, né la risposta che egli dà al sommo sacerdote. Quest 'ultima rispo­ sta, in particolare, può difficilmente passare come un'inven­ zione tardiva del la Chiesa primitiva, tanto più che gli evangeli­ sti vi hanno apportato diversi ritocchi perché non sembrava loro abbastanza affermativa come professione di fede di Gesù nella sua messianicità )) (Jésus, pp. l l 7s).

C'è qui una certa confusione tra il tema del Messia e quel­

lo del Figlio dell'Uomo. Il dialogo di Cesarea di Filippo contiene (in Mt soltanto) l'espressione « Figlio dell 'Uomo» nel senso banale di «me » (cf. Mt e Le), anche se Matteo 97

l ha forse sovraccaricato in funzione della fede cristiana. Questo dialogo verte attorno alla questione di Gesù Mes­ sia in Marco, amplificata in un senso cristiano da Luca (« Messia di Dio») e soprattutto da Matteo (« il Messia, il Figl io del Dio vivente »). La confessione di fede messianica è così equivoca che, secondo Marco e Matteo, Pietro prote­ sta a nome di tutti contro la prospettiva della passione, riferendosi implicitamente alla credenza abituale della re­ galità mes sianica. Stando così le cose, le parole di Gesù a Pietro pongono un problema particolare sul quale ritor­ nerò in seguito 4• Rimane la risposta di" · Gesù a Ca1fa. · Tra gli storici eh re ( D. Flusser occupa un posto particolare ammettendone la storicità. Sopra ho accettato di vedere in questo frammen­ to di dialogo un'enclave all'interno dell' interrogatorio ri­ guardante la bestemmia contro il Tempio. Ciò non ne sop­ prime la realtà storica: si potrebbe perfino vede rvi il rias­ sunto lapidario delle accuse principali che si trovano, nel IV vangelo, nei capitoli 7, 1 4 - 1 1 , 54. Luca ha rimaneggiato l'interrogatorio dividendo in due la domanda di Caifa: « Se tu sei il Cristo, diccelo )) (22, 67a), e poi : « Tu dunque sei il Figlio di Dio? » (22, 70a). Gesù viene condannato in fun­ zione della risposta a quest'ultima domanda. Ma per Luca l'epres sione ha acquistato tutta la sua risonanza cristiana. In Matteo e Marco la domanda di Caifa conserva un signi­ ficato giudaico più sfumato: Gesù è « il Messia, il figl io del Benedetto » (Mc) o « di Dio» (Mt) ? La portata del termine « figl io » resta la stessa di quella dei testi regali di 2Sam 7, 1 4, Sal 2, 7 (cf. Sal 89, 27). È la risposta di Gesù a sposta­ re la quest ione combinando insieme le espressioni del Sal 1 1 0, l e di Dn 7, 1 3, per costruire un'immagine complessa in cui il Figlio dell'Uomo « siede alla destra della Potenza di Dio » (Sal 1 10, l) e poi « viene con (Mc) o sulle (Mt) nubi del cielo » (Dn 7, 1 3, secondo il testo aramaico e Teodozione in Mc, e secondo la Set tanta in Mt). Che significato ha esat­ tamente una tale risposta sulla bocca di Gesù ? I ri tocchi letterari propri di Marco e Matteo figurano all ' i­ nizio della frase. In Marco Gesù risponde alla domanda di Caifa sul suo messianismo regale: « Io lo sono»; ma poi spiega in che modo egli sia il Messia regale. In Matteo egli risponde : «Tu l'hai detto » ( = « sei tu che lo dici » ) , risposta '

4

Cf. infra, pp. 1 6 1 - 1 89.

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riservata e abile (cf. Le 23, 3; Gv 1 8, 37a). Ma se s i trattasse di una composizione cristiana che esprime soltanto la fede della Chiesa, come potrebbe Gesù poi dichiarare a questa corte di giustizia di fronte alla quale egli sta comparendo: « D'ora innanzi (soltanto M t) vedrete il Figlio dell 'Uomo se­ duto alla destra della Potenza di Dio e venire sulle nubi del cielo » (Mc 1 4, 62b = Mt 26, 64b) ? I membri di questo tri­ bunale lo vedranno proprio essi ? Il futuro svolgersi degli avvenimenti cont raddice questa dichiarazione, se la si in­ tende letterariamente e non con le virtualità latenti del l inguaggio profetico. Se ne può dedurre che la dichiarazio­ ne annu ncia le tte ralmente la spe ranza di Gesù nel momen­ to in cui egli sa di andare incontro alla morte pe rché la sua condanna è inevitabile . In primo luogo è chiaro che egli si identifica effettivamente con il « Figlio dell'Uomo » d i Daniele: la sua espressione favorita per designare se stes­ s o acquista allora una pienezza di significato che fin' ora non appariva. In secondo luogo egli unisce due rappresen­ t azioni della sua partecipazione alla gloria divina: l'una co­ me Messia regale « seduto alla destra di Dio» (Sal 1 1 0, 1 ), l 'altra come Figlio dell'Uomo « che viene con/sulle nubi del cielo » (Dn 7, 1 3). Questa solenne dichiarazione riprende gli stessi termini del di scorso escatologico (Mc 1 3, 26 = M t 24, 30b), con la di fferenza che il «voi » è sostituito da «essi » c che, nello sviluppo futuro di questo destino sperato, vie­ ne abbozzata la distinzione dei due tempi : dapprima quel­ lo dell'intronizzazione alla destra di . Dio, e poi quello della venuta sulle nubi del cielo. Forse ci si meraviglierà dell'assenza di qualsiasi allusione alla risurrezione. Ma la glorificazione messianica « alla de­ stra di Dio » non implica forse un'intronizzazione celeste al di là della morte , che Gesù è obbligato ad affrontare lucidamente ? Questa rappresentazione non può essere con­ siderata senza che Gesù sia sottratto da Dio al potere del­ la morte: è l'essenza stessa della risurrezione. Se i due « tem­ pi » della glorificazione celeste e dell 'avvento finale non so­ no chiaramente distinti, se anche il loro annuncio viene fatto agli interlocutori con le parole «vedrete », è perché l 'imminenza psicologica del « Futuro di Dio» - che forma l 'oggetto della speranza è una legge del linguaggio pro­ fetico e apocalittico. La risposta data a Caifa chiarisce per­ ciò il significato delle immagini adoperate nel discorso esca­ tologico: le completa e a sua volta viene da esse completa-

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ta. Infatti, sono dei testimoni privilegiati che « vedranno » il Cristo in gloria (cf. At 10, 40-4 1 ), e non lo vedranno nel quadro apocalittico qui evocato, ma sotto i tratti umani che lo renderanno riconoscibile e lo faranno identificare con quel « Gesù di Nazareth » col quale sono vissuti e han­ no mangiato e bevuto. Soltanto la visione di Stefano farà ricorso, a parte un dettaglio, al doppio simbolismo conte­ nuto nella risposta di Gesù a Caifa: nei «cieli aperti », il , includendovi an� che le « figure » bibliche. Ma a partire dal XVIII secolo la situazio­ ne degli apologisti muta poiché si trovano di fronte la contesta­ zione della fede da parte del razionalismo dei « filosofi )). Di conse­ guenza la loro concezione delle profezie si riduce sempre di più a quella delle « predizioni » realizzate in Gesù Cristo, senza inclu­ dere sotto questo termine quell 'ampiezza che aveva ancora pres­ so Origene. Quindi i « profeti )) diventano essenzialmente degli uo­ mini che l 'ispirazione divina rende capaci di « predi re » il futuro. Non si nega, del resto, che abbiano svolto anch'essi un'azione de­ stinata alla conversione morale degli uomini del loro tempo; ma questa stessa azione si vede subordinata al modo in cui essi preparano la venuta di Gesù Cristo annunciando in anticipo i tratti principali del la sua vita e della sua azione affinché il popolo giu­ daico vivesse nella sua attesa. Col passar del tempo questa argo­ mentazione tende a ridurre il campo dei testi probanti e a mecca­ nizzare il ragionamento basato su di essi, al fine di rendere il ragionamento irrefutabile. Di fronte agli apologist i la critica ra­ zionalista che si sviluppa pone come principio che le « predizioni » in causa sono inesistenti perché la conoscenza del futuro è im­ possibile. Se ci sono dei testi che sembrano essere delle « profe­ zie» di questo genere si tratta di « predizioni » ex eventu composte post eventum. Ciò vale specialmente per le profezie poste in boc­ ca a Gesù. 2.

La concezione biblica della profezia

In realtà non bisogna dar ragione a nessuna delle due parti che si oppongono in questo modo nella concezione delle « profezie­ predizioni », poiché esse eludono la vera nozione biblica di profe­ ta e della profezia. Il profeta, seguendo un 'ispirazione interiore le cui forme sono varie, annuncia ai suoi contemporanei la Parola di Dio. Questa Parola, rivolta al « popolo dell'alleanza », ricorda sicuramente le regole della sapienza di vita che Dio gli ha dato. Ma la sapienza in questione non è una morale atemporale: legata alla «Vita di alleanza con Dio », essa adempie a questo titolo una funzione essenziale nel l esperien za storica del popolo di Dio. I pro­ feti, proclamando la Parola di Dio, fo rniscono l 'inte rpretazione di quest 'esperienza nel passato, nel presente e nel futu ro. È il loro ruolo. L'interpretazione « profetica » del passato di Israele si dispiega nei '

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libri « storici » che il giudaismo ha chiamato giustamente « Primi Profeti ». Ma essa viene ricordata pure dai « profeti di vocazione » ogni volta che fanno allusione all'esperienza storica di Israele. L'interpretazione « profetica» del presente spiega il significato delle situazioni nelle quali si trovano Israele e poi la comunità giudai­ ca per rafforzare, al tempo stesso, la «Vita di alleanza con Dio », provocare eventualmente l a conversione e alimentare l a speranza per il futuro. L'interpretazione profetica del futuro assume, se­ condo il caso, forma di minacce e di promesse. Minacce del Giu­ dizio di Dio per il popolo colpevole, secondo la logica del l 'allean­ za. Promesse legate allo s tesso principio dell'alleanza e concretiz­ zate dalla presentazione di un avvenire ideale in cui il popolo di Dio beneficerà pienamente dei suoi doni spirituali e temporali. Per dare un contenuto concreto alle minacce e alle promesse, i profeti fanno costantemente appello alle grandi esperienze del pas­ sato - quelle dei disastri come quelle dei successi - riducendole ai loro tratti essenziali. Le proiettano così sullo schenno dell'av­ venire conferendo loro sempre una specie di imminenza psicolo­ gica, ma presentandole pure come condizionali. Le une e le altre dipenderanno dall'atteggiamento adottato attuabnente dal popo­ lo di Dio davanti alla sua Parola: conversione o irrigidimento ? Infatti l 'avvenire ap artiene a Dio soltanto. Il criterio fornito da Deuteronomio per riconoscere l 'autenticità dei profeti è il compimento delle loro parole nell 'esperienza stori­ ca posteriore (Dt 1 8 , 2 1 -22). Per questo motivo la prima distruzio­ ne di Gerusalemme aveva accreditato la parola dei profeti che l 'avevano annunciata come una minaccia prossima (specialmente Geremia ed Ezechiele). Il Secondo Isaia fu accreditato dall 'evento del decreto liberatore di Ciro. Ma le promesse, sempre formulate secondo la legge dell '«imminenza», non sono mai state compiute alla lettera secondo il loro testo. Di conseguenza esse hanno sem­ pre giocato un ruolo di a pietre di attesa » in vista di un Avvenire as soluto che restava il segreto di Dio.

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3. Gesù profeta Gesù non è stato soltanto « profeta » per il suo popolo; tuttavia egli ha adempiuto anche questa funzione, sia con degli appelli a lla conversione legati alla sua interpretazione di un presente in cui si avvicinava il Regno di Dio, sia per delle riletture e delle reinterpretazioni delle promesse ricevute nel passato dal popolo di Dio, sia per delle aperture in direzione del futuro sotto forma di minacce o sotto forma di promesse. Il discorso escatologico di Mc 1 3, Mt 24 e Le 2 1 è un discorso profetico (di forma apocalit­ tica): vi si trova lì la ripresa di alcuni oracoli profetici passati, una valutazione profetica del presente, delle prospe ttive future in cui le m inacce nei riguardi di una comunità nazionale ribelle 106

al Vangelo sbocc ano nondimeno su un promessa rivolta ai fedeli, agli « eletti ». Minacce e promesse riprendono spontaneamente delle formule bibliche poiché saranno un « compimento delle Scrittu­ re ». Ma le loro prospettive non corrispondono esattamente all'i­ dea di « p redizione », cosi come l 'ha considerata una certa apologetica « classica». La Chiesa primitiva ha riletto queste minacce e queste p romesse come interpretazioni profetiche di un'esperienza storica che con­ tinuava il suo corso. Essa non poteva fare altro che scrutare gli indizi del loro compimento cercandovi, da una parte, l 'interp reta­ zione profetica del « divenire » della Chiesa e anche del suo « avve­ nire», e d'altra parte l'interpretazione profetica del « diveni re» del popolo al quale in primo luogo il Vangelo era stato annunciato da Gesù. La trasformazione verbale delle esatte parole di Gesù avvenuta nel corso della tradizione evangelica è dovuta a questa �• ttenzione all'interpretazione profetica dell 'esperienza storica, tan­ to per quella del giudaismo con la sua capitale e il suo Tempio, che per quella del «piccolo Resto» al quale si aggiunse ben presto una moltitudine di credenti venuti da altre nazioni. ·

4. Il discorso escatologico di

Gesu

Così compresa, la lettura del discorso escatologico di Gesù sfug­ ge all 'antagonismo che opponeva un tempo (e oppone ancora) una certa esegesi razionalista ossessionata dall'idea della « profezia ex e vent u )) e un 'apologetica basata su quella del la predizione «ante eventum » L'una e l 'altra eludono il problema reale, che è quello dell i n te rpre ta z ione profetica della sto ria: presente, passato e fu­ turo. Gesù si era riferito, attraverso dei testi di Daniele, al l'espe­ rienza del la profanazione del Tempio al tempo di Antioco Epifa­ ne per prevedere un simile «abominio della desolazione )) nel Tem­ pio del suo tempo. Si era riferito all'esperienza della prima di­ struzione di Gerusalemme per prevedere, in lacrime, un disastro simile in un avvenire indeterminato. La conservazione delle sue parole, in quanto interpretazione di un 'esperienza futura, ha pro­ lungatb e adattato letterariamente le parole di minacce legate a delle promesse, al fine di farne megl io percepire ai lettori il valo­ re p rofetico, cioè interpretativo di una storia che dal tempo di Gesù aveva continuato il suo corso. Luca, o la sua fonte, pratica la « teologia profetica della storia» basandosi direttamente sulle parole di Gesù quando mostrano «Ge­ rusalemme calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti » (Le 2 1, 24), nell'attesa che all 'orizzonte dell'avvenire ap­ paia il Figlio deli 'Uomo su una nube per portare agli eletti la liberazione definì tiva (2 1 , 27 -28). Matteo pratica similmente la teo­ logia profetica della storia » quando dà maggior consistenza alla tradizione delle parole di Gesù per evocare il « segno del Figlio '

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dell 'Uomo» che appare nel cielo e l'adunanza degli eletti che si effettua al s uono della tromba (M t 24, 30-3 1 ). Confondere questi sviluppi letterari con un'invenzione gratuita di parole « inautenti­ che » vuoi dire ignorare il ruolo redazionale attribuito provviden­ zialmente agli autori ispirati.

4. I l Figlio dell'Uomo: polivalenza di un simbolo

Lo scopo del mio studio era di chiarire il significato delle tre recensioni sinottiche del testo evangelico che annuncia la venuta finale del Figlio dell 'Uomo. I legami con i conte­ sti paralleli ai quali esso appartiene mi hanno obbligato ad allargare il campo della mia indagine . Ho scartato la tesi di R. Bultmann che vedeva in que sto testo, senza pro­ ve decisive, un frammento di apocalisse giudaica ripresa dalla Comunità cristiana. Ma sono stato spinto a fare una distinzione t ra il significato che questo annuncio escatolo­ gico aveva potuto avere sulla bocca di Gesù e nella mente dei suoi di retti ascoltatori, e il significato che esso acqui­ stò in seguito alla sua risurrezione nella predicazione evan­ gelica e nei testi nei quali fu inserito. Dato che il simbolo del Figlio dell'Uomo è improntato esso stes so al libro di Daniele, è opportuno riflettere, in conclusione, sullo svi­ luppo del suo significato o, se si vuole, sulla sua polivalenza. a) Dal senso banale dell 'espressione al senso evangelico Si può rilevare innanzitutto l 'esistenza di un significato banale dell'espressione : ben 'adam in ebraico (frequente in Ezechiele) e bar 'e nash in aramaico (frequente nei Tar­ gum) indicano semplicemente un individuo della razza uma­ na, un « figlio dell'umanità ». È necessario partire da ciò per comprendere l'utilizzazione simbolica dell 'espressione . Gesù, nel suo modo di parlare, dà prova di originalità uti­ lizzando l'espressione per designare se stesso. Ma sarebbe abusivo dire che, ogni qualvolta vi fa ricorso, faccia intra­ vedere intenzionalmente la sua identificazione con il « Fi­ glio dell'Uomo» di Daniele. Fu la rilettura delle sue pa role dopo la sua risurrezione, nell'ambiente dell'annuncio del Vangelo, che rese legittimamente possibile questa opera­ zione: credo che sia il caso per i logia riguardanti il potere 1 08

di rimettere i peccati (Mc 2, lO e par.) e il potere sul sabato (Mc 2, 28 e par.). b) Il libro di Daniele Nel libro di Daniele l'origine di questa immagine (7, 1 3- l4) è, nelle opinioni dei critici, molto discussa. Non devo en­ trare qui nella discussione circa la sua provenienza. Fac­ cio notare soltanto che non si tratta di un pe rsonaggio (« il Figlio dell'Uomo »), ma di un sim bolo che rappresenta una certa realtà difficile da definire con esattezza. Il simbolo stesso non è che un'approssimazione (« con [LXX: « sulle >)] le nubi del cielo veniva come un figlio d'uomo))). Questo sim­ bolo forma un'evidente antitesi con le quattro bestiè che rappresentavano i regni umani e i re di questi imperi. Ma si è nella logica del sogno, e non bisogna affrettarsi a con­ cludere che il personaggio «come un Figlio d' Uomo>> sia esso stesso un re . La sua apparizione celeste « con (o sulle) nubi» e la sua presentazione davanti all' immagine divina (« l'Antico di giorni ») in vista della sua intronizzazione, sug­ geriscono la sosti tuzione di una regalità trascendente alle regalità umane che si sono succedute di male in peggio. Nella spiegazione del sogno que sta regalità viene data al « popolo dei santi dell'Altissimo » (Dn 7, 27). Questo popolo, precedentemente perseguitato, è certamente il popolo giu­ daico in quanto « popolo di Dio ». Ma niente prova che, con la figura del Figlio dell' Uomo, l'autore voglia fare allusio­ ne al re messianico: secondo Es 1 9, 6, Israele è « Un regno di sacerdoti e una nazione santa », senza che si faccia allu­ sione a una qualche costituzione monarchica. Il popolo sal­ vato è semplicemente il depositario del «Regno di Dio >> quaggiù. L' immagine del Figlio dell'Uomo è forse angelica per la sua origine letteraria e per la trascendenza che sug­ gerisce; ma qui è soltanto un simbolo che gioca il suo ruo­ lo particolare nella costruzione metaforica di tutto il rac­ conto di sogno. c) La rilettura giudaica di Daniele Nella rilettura giudaica del libro il simbolo è stato perso­ nalizzato. Il caso più evidente si troverebbe nelle Parabole di Enoch ( l Hen 37ss) se si fos se sicuri della loro prove­ nienza e della loro data. La maggioranza degli studiosi pro109

pende per un'origine giudaica; ma la data che attribuisco­ no loro oscilla tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Un eccel­ lente status quaestionis Io si può trovare nei due recenti commentari del libro di Enoch: S. Uhlig, Das iithiopische Henochbuch , Giitersloh, 1 984, pp. 537ss, e M. Black, The Book of Enoch or l Enoch: A New English Edition, Leiden, 1 985, pp. 1 8 1 - 1 93 (con una nota speciale sul Figlio dell 'Uo­ mo). Personalmente sono propenso a pensare che i passi in cui figura il Figlio dell'Uomo costituiscano un secondo strato redazionale in un'opera in cui il mediatore della sal­ vezza era originariamente chiamato l' Eletto di giustizia (cf. L 'e spé ra nce juive à l 'heure de Jésus, pp. 1 52-1 67: testi delle pp. 1 6 1 - 1 64). Ugualmente incerto è l'ambiente religioso da cui provengono queste pagine. È necessario perciò essere prudenti per fare appel lo ad essi in uno studio sulla con­ cezione giudaica del Figlio dell'Uomo prima o al tempo del Nuovo Testamento. Invece, è certo che, nel IV libro di Esdra (ultimo quarto del I secolo), l'Uomo che sale dal mare e vola con le nub i del cielo è il mediatore messianico della salvezza (testo nel libro citato, pp. 1 8 1 - 1 85). Si può ragionevolmente presumere che la rilettura giudaica di Da­ niele, negli ambi e n ti in cui il libro era ricevuto come pro­ feti co (Farisei, Esseni), personalizzasse il simbolo adopera­ to in questo libro, senza che si possa garantire che questo eroe futuro fosse identificato col Messia davidico. È da questo sfondo che provengono le parole di Gesù quando evocano il Figlio dell'Uomo in _una prospettiva escatologica. d) Il Figlio dell'Uomo nelle parole di Gesù Su questo punto non si può fare affidamento sul discorso sul Giorno del Figlio dell'Uomo che figura in Le 1 7, 22-37: l'evangelista (o la sua fonte) hanno qui raccolto dei logia diversi, la maggior parte dei quali figurano, in Matteo, in modo sparso o in altri contesti. La sola allusione alla pas­ sione di Gesù ( 1 7, 25) riassume il testo di Le 9, 22 proiettan­ do su di essi il senso escatologico degli altri logia, in cui il tema della speranza è eclissato da quelli che si riferisco­ no al Giudizio di Dio. Effettivamente, il Figlio dell'Uomo sarà il Giudice dell'ultimo giorno; ma non si può dire che Gesù si identifichi chiaramente con lui nella forma lucana del logion seguente: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell'Uomo ( = il persoI lO

naggio trascendente di Daniele), quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi )) (Le 9, 26). Bisogna sem­ pre fare attenzione alla cristianizzazione sis tematica che gli evangelisti hanno imposto alle frasi di Gesù in cui figu­ ra il Figlio dell' Uomo (per esempio M t 25, 3 1-46, in cui egli è anche il Re dell'ultimo giorno): questo complemento di significato è del tutto legittimo, ma non rappresenta il mes­ saggio esplicito di Gesù nella sua forma originaria. È il caso del discorso escatologico di Mc 1 3, Mt 24 e Le 2 1 : Gesù, senza collocarsi i n nessun modo tra gli « elettb) che si radunano intorno al Figlio dell'Uomo, non si identifica chiaramente con esso. Il solo testo decisivo, nei Sinottici, è la sua risposta a Cai­ fa. Anche qui è necessario capirla bene . Interrogato sulla sua qualità di Messia, Figlio di Dio (nel senso giudaico del­ l 'espressione, secondo Mc e Mt), Gesù sposta la domanda enunciando la sua esperienza personale in una prospett iva futura che guarda al di là della sua morte: è la speranza di una glorificazione che intreccia i tratti del Messia rega­ le seduto alla destra di Dio e quelli del Figlio dell'Uomo che viene sulle (nelle o con) nubi del cielo. Questa forma di speranza è in perfetta coerenza con i logia che evocano la sua risurrezione dopo la sua passione e morte, come pure con i logia conservati nel contesto del racconto della Cena: pasqua nuova compiuta nel Regno di Dio (Le 22, 1 4- 1 6), vino nuovo bevuto con i suoi discepoli nel Re­ gno di Dio (Le 22, 1 7-1 8 e par.), regalità di cui egli disporrà per i suoi discepoli nel Regno del Padre suo (Le 22, 28-30) . Ma davanti ai giudici del gran Consiglio Gesù annuncia questa speranza in termini enigmatici . Solo dopo le sue manifestazioni gloriose come risorto egli sarà considerato chiaramente - dai soli suoi discepoli ! - come il Messia glorioso, Figlio dell'Uomo (nel significato trascendente di Daniele, ripreso nei suoi stessi logia escatologici), Se rvo del Signore che doveva soffrire prima di entrare nella sua gloria, Figlio di Dio nel senso più forte del termine. .

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e) Il Figlio dell 'Uomo nella spe ranza cristiana Nella prospettiva nuova che sarà allora aperta alla loro fede, i discepoli potranno generalizzare questo significato trascendente dell'espressione trasferendolo in tutte le espressioni in cui Gesù chiama se stesso « Figlio dell'Uo111

mo ». Il simbolo proveniente da Daniele servirà in partico­ lare a parlare della sua parusia gloriosa (cf. su questo punto l'art. di A. Feuillet, «Parousia», in DBS, t. VI, coli. 1 337- 1 354, sui Sinottici). Lo stesso simbolo permetterà pure di evoca­ re la sua gloria attuale (At 7, 56; Ap l , 7. 1 4- 1 6). Gli usi del­ l'espressione nel IV vangelo hanno un senso pregnante che connota contemporaneamente l'umanità di Gesù e la sua trascendenza; ciò pe rmette di farlo alternare con la sua designazione come « il Figlio». Ma questo punto non può essere approfondito qui. Comunque sia, le riletture evangeliche della parola di Ge­ sù acquistano sempre una risonanza che serve da espres­ sione alla c ristologia degli evangelisti e, prima di essi, del­ le loro fonti scritte o orali. La rappresentazione simbolica proveniente dal libro di Daniele riceve allora la pienezza del suo significato. È il caso in cui si può parlare di senso « pieno » (sensus plenio r) della Scrittura: la rilettura di Da­ niele nelle parole di Gesù, poi nella forma che esse ricevo­ no dalla predicazione evangelica, conferisce ai testi così ripresi un significato che non era originariamente prevedi­ bile. Dal senso letterale di Daniele si passa al senso lette­ rale di Gesù, e poi al senso letterale degli evangelisti, non per una negazione dei precedenti significati, ma per un supe ramento dei loro limiti ed un approfondimento nella conoscenza dell'oggetto che il simbolo aveva di mira. Que­ sto oggetto è il Cristo in gloria, svelato per passi successivi. 5.

Per una lettura evangelica di Mc 1 3 , 24-27 e paralleli

a) Compos i zio ne di luogo Lasciandosi condurre delle apocalissi A e B (o, se si vuole, da Mc-Mt e da Le) si possono fare due diverse composizio­ ni di luogo per rappresentare Gesù nel momento in cui egli pronuncia queste frasi. - Gesù davanti al Tempio. E la scena evocata da Mar­ co e Matteo (Mc 1 3 , 3-4 = Mt 24, 3). Gesù guarda il Tempio che ha cercato di purificare per condurlo al suo vero si­ gnificato cultuale. Ma quale futuro prevede ora per esso ? E in quale cornice apocalittica ? « Non resterà pietra su pie­ t ra » . Davanti alla sorte riservata alla « casa di suo Padre » Gesù non può rimanere impassibile. Si comprende che i 1 12

suoi discepoli lo interrogano sul « segno che tutte queste cose stanno per compiersi ». La sua risposta traccerà per­ ciò ad ampi tratti un affresco dell 'avvenire. La scena del Figlio dell 'Uomo verrà al termine. - Gesù davanti a Gerusalemme. È la scena evocata da Lu­ ca (19, 4 1 -44). Gesù guarda, verosimilmente dallo stesso mon­ te degli Ulivi, la città santa la cui popolazione egli ha cer­ cato di convertire annunciandole il Vangelo del Regno di Dio. Esperimenta il suo insuccesso e ne misura le conse­ guenze ineluttabili nella logica del disegno di Dio su Israe­ le. Anche della città « non resterà pietra su pietra ». Ritor­ nano alla sua mente i ricordi dell 'assedio di un tempo, rac­ contato nei libri sacri e spiegato dagli oracoli profetici; gli forniscono un quadro crudele del futuro. Gesù non è insensibile: da giudeo molto legato alla sua patria, e da «profeta » che è fallito nella sua missione, piange . Come non partecipare alla sua angoscia e alle sue lacrime ? b) Meditazione sull 'apocalisse sinottica Una lettura attenta può inglobare l'insieme del testo, sen­ J.a mettere tra parentesi i pezzi esortativi che sono stati inseriti nelle due apocalissi parallele. Un lettura breve può lasciarsi guidare dalle indicazioni cri ti che da me seguite e congiungere tra loro i passi strettamente apocalittici. Que­ sti costituiscono due quadri diversi: l'uno centrato sul Tem­ pio e l'alt ro sulla città santa. Nel corso di queste due letture emergono in superficie tut­ ti i passi biblici di cui esse sono tessute . Per l'apocalisse A (Mc-Mt) si tratta essenzialmente dei testi di Daniele. Qual era, per Gesù, la portata di queste evocazioni catastrofi­ che ? Avevano di mira soltanto la distruzione del Tempio ? Non andavano forse al di là di essa, fino alla « Fine » ? Il quadro dei « dolori » intravisti per la distruzione del Tem­ pio non conserva la sua permanente attualità per noi, nel­ la prospettiva di questa « Fine » ? Qual è il senso dei mali storici e cosmici di cui è disseminata la storia degli uomi­ ni ? Non si può considerare l'accentuazione delle catastrofi di quest'ordine come segni della « Fine » ? L'apocalisse B centra più il quadro sull 'assedio della città santa e le sven­ ture storiche della sua popolazione. Ma nel disegno di Dio il popolo giudaico non è forse una parabola vivente, da una parte della Chiesa come popolo di Dio e dali' altra del1 13

l'umanità in quanto nazione tra le altre ? Di conseguenza, l'evocazione delle sue sciagure non ci riguarda tutti diret­ tamente ? Leggendo così il testo, non mi metto in una gretta prospet­ tiva apologetica che cercherebbe di vedere Gesù che «pre­ dice » la distruzione del Tempio e quella di Gerusalemme per dare ai futuri lettori dei vangeli una prova della realtà della sua missione. Gesù, sulla base delle Scrittu re anterio­ ri, spiega il senso della storia umana, rapp resentata sim bo­ licamente da quella del suo stesso popolo. Lui che è nato da questo popolo come « il Figlio » e per il quale il Dio d'I­ sraele è cdi Padre >>, partecipa con tristezza a questa storia enunciando il significato del suo dramma. Di fronte al ri­ fiuto del Vangelo, che egli aveva la mi ssione di annuncia­ re, non può che mostrare in anticipo, in termini biblici , la profanazione del Tempio e la di struzione della città san­ ta. Il tutto sullo sfondo di un quadro che conduce il tempo fino al suo termine, fino al capovolgimento cosmico che metterà fine alla storia dell'umanità. Esperienza descrivi­ bile soltan to per grandi immagini, già abbozzate un tempo dai p rofeti. Ma la storia umana si conclude con una catastrofe soltan­ to per i peccatori. Per gli « eletti », i fedeli che hanno cre­ duto al Vangelo, vivi o morti e provenienti da ogni parte, la « Fine » è dominata dalla grandiosa immagine del Figlio dell'Uomo. Costui riappare al termine di due apocalissi pa­ rallele, nell'una per l'adunanza degli eletti, nell'altra per la « redenzione» che si avvicina. c) Con templazione del Figlio dell 'Uomo Lo sguardo si fissa qui sulla persona di Gesù, Cristo glori­ ficato. Realtà misteriosa, impossibile a descriversi in mo­ do oggettivo. Compito proprio dei simboli è la sua evoca­ zione; simboli già adoperati nel libro di Daniele, ripresi da Gesù, sviluppati dalla tradizione evangelica. - Il Cristo glorioso. Il testo di Dn 7, 1 3- 1 4 non perde il suo valore: non viene citato integralmente nei testi evangelici, ma riceve da essi la sua chiave di interpretazione definiti­ va. Non si tratta di un quadro statico, ma di una sequenza filmata. Il suo eroe non è più Gesù nella sua condizione terrena: è il Cristo come « Uomo celeste » (l Cor 1 5, 47-49). Lo vedo trasportato in/sopra/con le nubi: rappresentazione 1 14

convenzionale di ciò che non appartiene più alla terra. Egli viene « introniuato da Dio ». Ma come descrivere Dio ? Da­ niele viene ancora in mio aiuto ricorrendo all 'immagine del Vegliardo senza età, imponente e solenne. L'intronizza­ zione è un'immagine che viene da Daniele. Ma è la rispo­ sta di Gesù a Caifa che permette di completare il quadro. Il Padre dice al Figlio: « Siedi alla mia destra » . Questa è la situazione attuale di Gesù, che posso contemplare a lun­ go; a condizione di superare la materialità delle immagini per andare fino al significato del simbolo, infatti il cielo non è un « luogo » lontano dalla terra. Dio è dappertutto, Presenza trascendente alla quale Gesù d'ora innanzi parte­ cipa a pieno di ritto con la sua umanità glorificata. Egli è nel cuore di ogni persona umana: « Voi in me e io in voi )) (Gv 14, 20). L'immagine dell'immanenza reciproca comple­ ta necessariamente quella del Figlio dell'Uomo seduto alla destra del Padre. Tutto dipende dal punto di vista adotta­ to nella contemplazione. Quella di Stefano (A t 7, 56) e del­ l'Apocalisse (Ap l , 1 3- 1 6) si soffermano sulla trascendenza del Cristo, che Giovanni non dimentica (Gv 3, 14; 8, 28; 12, 32-34: il Figlio dell 'Uomo « innalzato» - in croce e in gloria). Ma Paolo e Giovanni sottolineano pure l' immanen­ za: noi nel Cristo e il Cristo in noi. In entrambi i casi la contemplazione diventa muta, non potendo circoscrivere la realtà se non con delle metafore suggestive. - Il ritorno del Cristo. L'apocalisse sinottica inverte il mo­ vimento della sequenza filmata proposta da Daniele. Non è più il Figl io dell'Uomo che va ve rso Dio per farsi intro­ nizzare: viene, si manifesta agli uomini per i quali era fino allora invisibile. Anche qui ogni descrizione realistica è im­ pos sibile. Lo sguardo contemplativo si fissa su un'opera d'arte. Piuttosto che sul « Giudizio universale » di Miche­ langelo, in cui il Cristo glorioso riveste più o meno i tratti di un Giove tonante, ci si può lasciare guidare dai timpani e le vetrate dell'epoca romanica, in cui la ieraticità sugge­ risce una forte impressione di Sacro e in cui i diversi qua­ dri ispirati alle Scritture mescolano i loro tratti. Il Figlio dell' Uomo viene. Lo vedo venire . Viene per l 'adunanza de­ gli eletti - altra immagine parlante di Marco, Matteo e Paolo ( 1 Ts e 1Cor). Viene per portare a termine la « reden­ zione » (Le 2 1 ): la « redenzione del nostro corpo » che è an­ cora oggetto di speranza (Rm 8, 1 1 ). Sento l'evangeli sta che mi dice: « Alzatevi e levate il capo, perché la vostra libera1 15

zione è vicina» (Le 2 1 , 28). La contemplazione del Cristo glorioso nutre la speranza cristiana. Non si tratta soltanto di comprendere ma di « gustare le cose interiormente ».

d) Colloquio Questo colloquio non si formula anticipatamente, viene la­ sciato neces sariamente alla spontaneità di ciascuno. Il suo tema fondamentale figura però già nel Nuovo Testamento: « MARANATHA» (lCor 1 5 , 23). « E lo Spirito e la sposa dico­ no: ��vieni ! " . E colui che ascolta dice: ��vieni ! " » (Ap 22, 17a). « Colui che attesta queste cose dice: 11Sì, verrò presto". Amen ! Vieni, Signore Gesùh> (Ap 22, 20). È la risposta nor­ male alla parola di Gesù, già meditata dagli evangeli sti, che l'hanno tramandata attual izzandola nella Chiesa.

1 16

capitolo terzo

Le sentenze inquadrate

Nel capitolo precedente sono state analizzate tre espres­ sioni di Gesù: due massime « vaganti » il cui contesto è irri­ mediabilmente perduto, e un annuncio escatologico la cui cornice letteraria attuale presenta delle varianti nella re­ censione di Marco-Matteo e Luca. È raro che, nei vangeli, le parole di Gesù non siano in un modo o nell 'altro rag­ gruppate, fatta eccezione della « grande inserzione » di Lu­ ca (Le 9, 1 1 - 1 9,27), in cui i « pezzi sceltb> sono posti l'uno accanto all'altro senza che ci sia tra essi un legame. Ma ci sono anche delle sentenze collegate con una cornice nar­ rativa dalla quale non si possono isolare senza danno per esse o per il racconto. I primi teorici della Formgeschich­ te, Dibelius e Bultmann, hanno giustamente individuato questa forma letteraria. Essi hanno fatto ricorso alla lette­ ratura greca antica per designare l'associazione di un det­ to e di un racconto che serve ad esso da supporto. Dibelius ha parlato di « paradigmi » nella sua analisi della for­ me della predicazione (Die Formgeschich te des Evangeliums, 2 1 983, pp. 1 07s). Bultmann, riprendendo una proposta di P. Wendland (Die Urch ristliche Lite ratu rformen, Tiibingen 2 1 9 1 2, p. 26 1 ), ha fatto ricorso al termine «apoftegma» che, a suo avviso, non comporta alcun pregiudizio pro o contro l'autenti­ cità dell'espressione, pro o contro la storicità del racconto (L 'hi­ stoire de la tradition synoptique, p. 24). Quest'ultimo punto de­ ve essere ritenuto come principio esegetico. Ma V. Taylor, scar­ tando una terminologia greca ritenuta da lui poco soddisfa­ cente, ha parlato più semplicemente di « Pronouncement Stories » ( The Formation of the Gospel Tradition, 2 1 935). In realtà la terminologia non deve causare equivoci. Piuttosto che 1 17

cercare dei modelli nella letturatura greca, sarebbe stato me­ glio cercarne nell 'ambito dei testi biblici, rabbinici o targumi­ ci: questi erano più vicini, dal punto di vista culturale, all 'am­ biente di lingua aramaica o greca nel quale si cristallizzarono l� tradizioni evangeliche. Ma non vi si sarebbe trovato un ter­ mine tecnico appropriato.

Mi sembra più appropriato parlare semplicemente di « sen­ tenze inquadrate » (cf. X. Léon-Dufour, in Introduzione al Nuovo Testamento, vol. Il, ed. fr. pp. 1 92- 1 94): questa ter­ minologia si avvicina a quella di Taylor, invertendo la ri­ spettiva importanza del detto e della sua cornice narrati­ va. Quest'ultimo può essere una controversia, un dialogo didattico di Gesù con i suoi discepoli, una domanda posta, un racconto di miracolo, un particolare comportamento di Gesù che richiede una spiegazione, un fatto della vita corrente, ecc. Bultmann ha fatto ricorso alla letteratura rabbinica soltanto nel caso dei dialoghi per trovarvi dei paralleli (L 'histoire de la tradition synoptique, pp. 6 1 -66). Ma i dialoghi rabbinici riguardano sempre delle dispute tra scuole diverse. Nella tradizione evangelica i dialoghi di Mc 1 2, 1 8-37 vi si avvicinano di più. Ci si sbaglia di mol­ to, e il contesto greco rimane troppo lontano dall'atmosfe­ ra evangelica. In breve, la strada aperta da Bultmann e Dibelius è risul­ tata praticabile e utile, ma non bisogna percorrerla, con gli occhi bendati, accettando senza riserve tutte le opinio­ ni critiche dell'uno o dell'altro. Ciò detto, mi dovrei con­ tentare di studi critici abbastanza rapidi per introdurre alla « lettura evangelica» delle peri copi fissate. È impor­ tante più che mai evitare qui due vizi di metodo: l ) Dall 'a­ nalisi puramente formale di un testo non si può trarre al­ cuna conclusione circa il radicarnento storico del suo con­ tenuto: in un'evocazione rapida come quelle che si trovano nei vangeli, il racconto di un miracolo inventato di sana pianta sarebbe conforme allo stesso modello letterario di quello di un miracolo reale; lo stesso sarebbe per un rac­ conto di controversia, di un dialogo didattico, della rispo­ sta ad una domanda posta, ecc. Il giudizio sulla storicità di un racconto e l'autenticità di un detto esige altri criteri. 2) Come nel capitolo precedente è necessario distinguere la funzione di una « sentenza inquadrata » nella cornice ec­ çlesiale in cui le tradizioni evangeliche ricevettero la loro forma definitiva, e la funzione originaria di un detto di 118

Gesù nel corso del suo ministero. Se ci si sofferma sull'a­ spetto « istoriale» della sentenza inquadrata bisogna stabi­ lire come principio che esso racchiude l'uno e l'altro, il primo essendosi sviluppato nel prolungamento del secon­ do mediante una « rilettura » che sviluppava l'uno o l'altro aspetto del suo contenuto. È a partire da questo « istoria­ le » che si deve risalire veso lo « storico )>, senza porre come principio - come fa molto spesso Bultmann - che la fun­ zione ecclesiale del racconto sia sufficiente per spiegame l'origine e il tenore. La mia scelta degli esempi non sarà dettata dalla classificazione letteraria dei racconti, ma dai temi ai quali sono legati i detti in cui culmina ciascuno di essi. l. SULLA REMISSION E DEl PECCATI

Su questo tema la scelta è possibile tra due pericopi: la guarigione del paralitico (Mc 2, 1 - 1 2 = Mt 9, 1 -S = Lc 5, 1 7-26) e la conversione della peccatrice (Le 7, 36-50). P referisco la prima perché è attestata dai tre vangeli sinottici. Una bibliografia riguardante i commentari scientifici sui tre van­ geli e la pericope stessa sarebbe interminabile. Il lettore potrà fare riferimento ai commentari per verificare le mie osservazioni e valutare la mia opinione sui punti discussi. 1 . Brevi osservazioni critiche

a) Con testo e forma del racconto Nel vangelo di Marco si trova uno dietro l'altro un gruppo di pericopi classificate per temi: si tratta di cinque conflit­ ti tra Gesù e i Farisei (Mc 2, 1 - 3, 6). Questo piccolo insieme catechetico esisteva nella sua forma scritta prima dell'at­ tuale composizione di Marco. Luca segue l'ordine di Mar­ co, che utilizza probabilmente qui (Le 5, 1 7 - 6, 1 1 ). Matteo, che presenta più lontano un gruppo di dieci miracoli (Mt 8-9), scompone questo insieme dividendolo in due parti (Mt 9, 1 - 1 7 e 1 2, 1 - 1 4). È l'indice di una libertà di composizione che non risponde a delle convenzioni letterarie ma a dei criteri dettati da utilità didattica. Le tappe redazionali che hanno portato ai tre testi attuali sono oggetto di complica119

ti studi: si può vedere, per esempio, l'ipotesi critica avan­ zata da M.-E. Boismard nel commentario della sua Synop­ se (pp. 1 06-1 1 0). Una sola soluzione sarebbe certamente sba­ gliata: quella che attribuisse le differenze dei dettagli tra i tre racconti a delle note frettolose redatte sul momento stesso dai testimoni immediati della scena, o alle « tradu­ zioni » divergenti di un solo racconto primitivo. Per quanto concerne la forma letteraria attuale del rac­ c�nto nelle sue tre forme, bisogna costatare che questo non è unificato: vi si trovano uniti strettamente un raccon­ to di controversia sulla remissione dei peccati e un rac­ conto di miracolo che fa da cornice. In sé, si pot rebbe ave­ r� un racconto di mi racolo che sarebbe sufficiente a se s 'esso (Mc 2, l -Sa + 1 1 - 1 2; Mt 9, 1 -2a + 6b-8a, modificando la fir ale di 8b; Le 5, 1 7-20a + 24b-26). Ma il racconto di con­ t oversia sulla remissione dei peccati (Mc 2, 5- 1 O, suppo­ n ndo un'introduzione analoga a M t 9, 2a) non avrebbe più s nso se non comportasse la conclusione attuale dei rac­ c nti di miracolo. La controversia può essere stata aggiun­ t' in un secondo tempo al racconto di miracolo già costiito. Ciò spiegherebbe il carattere evidentemente sovrac­ ricato delle parole di Gesù (Mc 2, l 0- 1 1 = Mt 9, 6 = Le 5, 24 ): , esù si rivolge successivamente a due tipi di interlocutori, cpn un inciso che rompe la frase (« disse al paralitico »). Il legame tra i due è infelice. R. Bultmann (L 'his toire de tradition synoptique, pp. 29-3 1 ) osserva giustamente che i dibattito di Mc 2, Sb- 1 O è stato « costruito sulla storia del miracolo e non era originariamente indipendente » (p. 30). Però conclude arbitrariamente che «è la Comunità pa1 . stinese che prova, col suo potere di guarire miracolosa­ ente, di poter far uso del diritto di rimettere i peccati: on questa composizione essa ha fatto risalire il suo dirit­ a un'azione di Gesù » (p. 3 1 ). Questa speculazione relati­ a alla « Comunità palestinese )> sulla quale Bultmann non ssiede altra documentazione al di fuori degli Atti degli 4postoli (di cui del resto rifiuta il valore storico) è totalente gratui ta. Il suo giudizio di non-storicità non si basa ull'analisi letteraria, ma su un principio a priori che co­ ituisce un pregiudizio molto noto 1 •

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l Cf., nel precedente volume Vangeli e storia, l'Excursus n. 5: c ii racolo in R. Bultmann e nella teologia cattolica•, pp. 1 68- 1 7 1 .

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b) Le tre recensioni del testo Ogni evangelista ha trattato la tradizione comune con il lJroprio stile. Marco introduce alcuni dettagli pittoreschi che forse può aver preso dalla tradizione orale - per esem­ pio, quella di Pietro (2, 2 e 4). Matteo abbrevia al massimo la presentazione del caso (9, 1 -2a) e modifica la conclusione (9, Sb). Luca banalizza l'annotazione locale e temporale (5 , 1 7a), ma sviluppa in termini convenzionali la presenta­ zione del pubblico (5, 1 7b): a lui si deve la menzione espli­ cita dei Farisei accanto ai dottori della Legge (5 , 1 7b e 21 a); inoltre trasforma la casa palestinese di Marco (Mc 2, 4) in una casa greca coperta di tegole (Le 5, 1 9); modifica il mo­ do di interpellare di Gesù (« uomo » al posto di « figliolo>>: 5, 20a); raddoppia il tema della glorificazione di Dio (5, 25b e 26a); modifica letterariamente la rifle ssione della folla (5, 26b). Ma ci sono due curiose coincidenze tra Matteo e Luca contro Marco: il giaciglio (k rabatton) di Marco viene rimpiazzato da un letto (klinè: M t 9, 6) o un lettuccio ( kli ni ­ qion: Le 5 , 24), e soprattutto si dice che il Figlio dell'Uomo ha potere « sulla terra >> (Mt 9, 6 = Lc 5, 24) di rimettere i ·peccati. Queste narrazioni possono essere prese così come sono, �ando la p riorità a quella di Marco, senza dimenticare che essa riproduce un raggruppamento di pericopi preesisten­ :tL L'ipotesi della sua dipendenza in rapporto alla cateche­ · �i orale di Pietro è abbastanza generalmente riconosciuta dai critici. Era stata sottolineata particolarmente da L. Vaganay nel suo libro Le problème synoptique: Une hypothèse de travail (Toumai­ Paris 1 954, pp. 1 56- 1 60: la guarigione del paralitico figura alla p. 1 56). A suo awiso si tratterebbe della catechesi romana di Pietro, e ssendo la sua catechesi di Gerusalemme passata nel vangelo di Matteo. Luca si spiegherebbe come un rimaneggia­ mento di Marco, che figurava tra le sue fonti. Ci si può do­ mandare se la recensione di Matteo, là dove è più corta, non rifletta uno stadio più arcaico della stessa tradizione. Ma deve essere preso in considerazione il carattere composito della ver­ sione corta . L'ipotesi di un racconto di controversia inserito in un secondo tempo in un racconto di miracolo conserva le sue possibilità, il che non toglie affatto il suo carattere primi­ tivo. Vaganay stesso ammetteva che il Matteo canonico dipen­ derebbe qui dal suo primitivo libretto aramaico, tradotto in greco; ma il racconto avrebbe avuto una forma più breve. Non mi pronuncio su questa visione d'insieme. 121

In ogni modo nella finale del racconto (M t 9, 8) si ritrova una preoccupazione propria allo seri tto che porta il nome di Matteo. In ogni ipotesi si può vedere, che, se le ricerche critiche attuali mettono generalmente la composizione degli scritti di Luca e di Matteo negl i anni 80, sono tu tte o rien tate ve r­ so la preistoria del loro ma teriale, escludendo la tesi nega­ tiva di Bultmann. Coloro che sostenessero che esse accet­ tano senza riserve le proposte radicali avanzate nel prote­ stantesimo di lingua tedesca scriverebbero delle manifeste falsità, prive di ogni importanza. 2. La lettura ecclesiale della tradizione narrativa a) La funzione della pe ricope

Gli evangelisti, come le loro fonti scritte o orali, hanno composto questo racconto nella Chiesa e pe r la Chiesa. La data di composizione ha poca importanza. È perciò nor­ male ritrovare in esso, soggiacente, una preoccupazione del­ la Chiesa. La funzione delle pericope nell' insegnamento ca­ techetico era in rapporto con questa preoccupazione. Il rac­ conto di miracolo mostra semplicemente la « potenza » di Dio che si dispiega, anche se Luca è il solo a menzionarla nel suo preludio del racconto (Le 5, 1 7b). Diversamente è per la remissione dei peccati, che è l 'oggetto della contro­ versia tra Gesù e i suoi contestatori. Questa questione era un problema attuale nella Chiesa primitiva, i cui fedeli re­ stavano dei peccatori. Anche la contestazione conservava la sua attualità, nella misura in cui dei dottori giudei met­ tevano in questione il funzionamento della Chiesa dopo aver cont raddetto Gesù. Nessun indizio fa pensare che ci sia nel testo un'allusione alla remissione dei peccati al momento del battesimo. Si tratta perciò dei peccati commessi dai fedeli: la loro figu­ ra appare dietro il paralitico del racconto. Ci si può per­ tanto domandare se la malattia del paralitico non conten­ ga l'abbozzo di un simbolismo che avrebbe di mira con parole velate lo stato morale del peccatore. Nel IV vangelo il racconto di guarigione del paralitico di Bethesda si con­ clude con queste parole di Ge sù: « Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa 1 22

di peggio » (Gv 5, 1 4). Dato che Gesù rifiuta l'opinione po­ polare che lega la malattia al peccato del malato o dei suoi genitori (cf. Gv 9, 2-3), lo stato « peggiore » del primo sareb­ be la ricaduta nel peccato. Qui, il ragionamento a fortiori di Mc 2, 9 e par. suppone una certa coordinazione delle due frasi: « Ti sono rimessi i tuoi peccati », e poi « Alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina ». La seconda frase pro­ verà la possibilità della prima Gesù non contesta il princi­ pio affermato dagli scribi: « Dio solo può rimettere i pecca­ ti ! » (Mc 2, 7 = Lc 5, 21 ; Mt omette questa osservazione e si limita a dire che Gesù viene accusato di bestemmia). La formula al passivo (« ti sono rimessi i tuoi peccati ») suppo­ ne del resto che sia Dio a rimetterli. La controversia che segue si basa sulla potenza miracolosa di Gesù per dim� strare che « il Figlio dell'Uomo ha il potere di rimettere i peccati » (Mc 2, l O); Luca e Matteo aggiungono: « Sulla ter­ ra», il che non è probabilmente senza rapporto con l'attua­ lizzazione ecclesiale della parola di Gesù. In ogni caso l'ascoltatore e il lettore cristiano sanno che «il Figlio dell'Uomo» è attualmente il Cristo glorificato: egli continua ad esercitare la sua funzione mediatrice perché Dio accorda agli uomini il perdono dei peccati. Ma in che modo egli esercita questo potere nella Chiesa ? Questa que­ stione pratica è molto importante per i fedeli quando essi sono consapevoli di essere peccatori. Marco e Luca non la risolvono, benché la riflessione finale della folla riguar­ di, sotto due forme differenti, sia la remissione dei peccati grazie alla mediazione di Gesù che la guarigione di un pa­ ral itico: « Non abbiamo mai visto nulla di simile ! » (Mc 2, 1 2c), « Oggi abbiamo visto cose prodigiose » (Le 5, 25b). La finale di Matteo suppone un altro centro di interesse: «La folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere (exousia) agli uomini » (M t 9, 8). Il « po­ tere » del Figlio dell' Uomo, intorno al quale ruotava la con­ troversia (Mc 2, l Oa = Mt 9, 6a = Lc 5, 24a), viene trasferito agl i «Uomini » : ora si tratta perciò della remissione dei pec­ cati nella Chiesa. A dire il vero, le nostre informazioni sul modo in cui veniva praticato nella Chiesa apostolica e pri­ mitiva il perdono dei peccat i sono molto scarse. Due allu­ sioni, nelle lettere di Giacomo (Gc 5, 1 9) e di Giovanni ( l Gv 5, 1 6s) non bastano per chiarire il problema. Ma il princi­ pio viene nondimeno posto. 1 23

b) I p rincipi di Matteo, Luca e Giovanni L'evangelista Matteo si preoccupa della questione nella sua raccolta delle parole di Gesù. Là dove Luca ha raccolto un detto di Gesù relativo al rimprovero e al perdono fra­ terno (« se tuo fratello ha peccato contro di te )): Le 1 7 , 3), Matteo generalizza il problema: « se tuo fratello pecca ... » (Mt 1 8 , 1 5): Egli indica allora una procedura che rimette alla comunità ecclesiale il compito di prendere una deci­ sione ( 1 8, 1 5- 1 7): è una delle due menzioni del termine ekk­ lesia nei vangeli. Vi unisce la frase di Gesù sul potere di « legare e sciogliere » ( 1 8 , 1 8), assicurato alt rove a Pietro ( 1 6, 1 9). La coppia di antonimi « legare-sciogliere » (luein dee in, corrispondente all'aramaico 'asar - sffrd) viene ado­ perata con dei significati giuridici nella letteratura rabbi­ nica, ebraica o aramaica (cf. G. Dalman, Die Wo rte Jesu, pp. 1 75- 1 7 8), sovente per « vietare-permettere », ma anche per « assolvere-condannare ». J. Jeremias ( Teologia del N. T. , tr. fr. , p. 296) rit iene che qui sia questo il caso; infatti il contesto che precede invita ad applicare l'espressione ai fratelli che peccano. Il potere così af fidato alla Chiesa ha un parallelo più pre­ ciso ne lla prome:;sa che il Cristo risorto fa ai suoi discepo­ li: « A chi rimetterete i peccati saranno rimessi; a chi non li ri metterete resteranno non rimessi » (Gv 20, 23). Negli At­ ti degli Apostoli si vedono due esempi di peccati « non ri­ messi » o « legati »: uno da Pietro, per Anania e Safira (At 5, 3- 1 1 ); l'altro da Paolo, per Elimas (At 1 3 , 8- 1 1 ). Il perdono reciproco viene preconizzato nelle lettere paoline; ma c'è almeno un esempio del perdono accordato da una comuni­ tà in occasione di un peccato pubblico (2Cor 2, l 0). Per ri­ tornare alla finale del racconto di Matteo (Mt 9, 8 b ), appa­ re chiaro che l'esercizio del potere di rimettere i peccati - pubblici, s'intende - nelle comunità ecclesiali viene vi­ sto in relazione al potere che il Cristo continua a esercita­ re in quanto Figlio dell'Uomo glorificato. Come scrive un commentatore recente: « L'autorità di Gesù pe r la remis­ sione dei peccati viene ora esercitata dai ministri della sua Chiesa » (F. W. Beare, The Gospel according to Ma tthew, Ox­ ford 1 98 1 , pp. 223s). Questa lettura attualizzante del rac­ conto, molto importante per la teologia della Penitenza, viene indicata da un piccolo . ritocco di Matteo. ...

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1 24

3. Le tre dimensioni del testo evangelico : t) La vita nella Chiesa

Ciò che è stato appena detto sull'attualizzazione del rac­ conto e della frase di Gesù appartiene alla loro portata « istoriale )) . Ma non si dovrebbe ridurre il loro contenuto al problema della remissione dei peccati nella comunità. Ho segnalato sopra qual era il punto di vista di Bultmann. Il raccon to del miracolo sarebbe, come tutti gli alt ri, una leg­ genda popolare inventata per mostrare la « potenza » di Gesù. In esso si sarebbe innestato un racconto di controversia. Ma colui che parla non è Gesù di Nazareth: è « il Cristo in gloria», rappresentazione « mi tologica>> che ha lo scopo di rendere con­ creto il significato della croce (cf. L 'interpré tation du Nouveau Testament, pp. 1 74- 1 82; su « croce e risurrezione >>). Con ciò Dio ha voluto dire che perdonava i nostri peccati, nel senso più radicale della giustificazione « imputativa ». Questo modo di ve­ dere le cose esclude ogni realismo nell'idea di una mediazione che il Cristo eserciterebbe attualmente per la remissione dei nostri peccati . A maggior ragione la si esclude per il tempo in cui Gesù viveva tra i suoi contemporanei gi udei . Non si ne­ ga che egl i abbia potuto operare delle guarigioni - senza del resto portare alcun giudizio sulla loro causa soprannaturale. Però si nega che abbia potuto dire a un uomo o a una donna: ((Ti sono rimessi i tuoi peccati » . Di conseguenza la controver­ sia inserita nel racconto di mi racolo non può essere che opera della « Comunità >> che si preoccupava di questo problema. Es­ sa ha attri buito al Cristo glorioso, e poi riportato su Gesù di Nazareth, un potere di remissione dei peccati che dava luogo a degl i atti comunitari, come most ra del resto la finale del racconto di Matteo. L' insieme di questo ragionamento è logi­ co, purché si accettino i suoi postulati fondamentali. Ma non sono p roprio i postulati ad essere falsi ?

I n realtà, la «Comunità )) non era un magma anonimo, ma un insieme organico strutturato da ministeri responsabili, e in primo luogo dai testimoni immediati di Gesù che non erano scomparsi come per incanto agli inizi della Chiesa. Ci si preoccupava di conoscere « ciò che Gesù fece e inse­ gnò » (A t l , 1 ), per sapere ciò che egli continuava a fare e a insegnare al tempo della Chiesa. La mediazione del Cri­ sto glorioso per il perdono dei peccati non è ispirata da una riflessione sul significato della croce: essa prolunga degli atteggiamenti, delle azioni, delle parole, di cui i suoi 1 25

discepoli avevano conservato il ricordo. Bisogna perciò ca­ povolgere radicalmente il ragionamento logico che ho ap­ pena analizzato in Bultmann. L'« istoriale >> del racconto e del detto che esso inquadra non è un «esistenziale » astrat­ to, che definirebbe una delle « categorie » fondamentali del­ l'esistenza cristiana traducendola con l'aiuto di una rap­ presentazione «mitologica ». Ciò non vuoi dire che questo « esistenziale », in quanto « categoria » che struttura la «Vita nuova » dell'uomo riscattato, sia sbagliato. Ma, da una par­ te, è abusivo qualificare come « mitologica » la rappresen­ tazione del Cristo in gloria: i simboli di cui e s sa è tessuta sugge riscono concretamente una realtà con la quale il cre­ dente intrattiene una relazione vivente. D'altra parte, la messa in evidenza dell '« esistenziale )) in questione risulta dall'analisi di una vita di fede che è sperimentata come « relazione » col Cristo mediatore della salvezza: è tramite lui che i l perdono dei peccati viene da Dio agli uomini . L'analitica esistenziale ha senso solo perché si innesta su questa espe rienza esistenziale in cui ciascun c redente rico­ nosce, per « connaturalità », il mistero che il Cristo opera nella sua Chiesa utilizzando per questo le sue stesse strut­ ture (cf. Mt 9, 8b; 1 6, 1 9 e 1 8 , 1 8; Gv 20, 23). b) Gesù che rimette i peccati A partire da ciò si può e si deve risalire fino allo « Storico » del tempo di Gesù, infatti fin dal tempo della sua vita ter­ rena Gesù ha inaugurato su questo punto la mediazione grazie alla quale Dio ci accorda la remissione dei nostri peccati. I due raccont i del perdono accordato alla pecca­ trice (Le 7, 36-50) e della controversia occasionata dalla qua­ rigione del paralitico devono essere ritenuti come sostan­ zialmente « storici », anche se la formazione letteraria di queste tradizioni ha comportato degli arrangiamenti di det­ tagli sui quali i critici possono discutere all 'infinito. L'« isto­ riale » include lo « storico », benché le costruzioni narrative che rendono conto dello « Storico » non obbedi scano visibil­ mente alle rigide regole della storiografia « positivista». Riappare così il problema della « verità» dei racconti, che include qui quello dell'autenticità delle parole contenute. Questa « ve rità» riguarda l 'esperienza globale che viene evo­ cata: specificata da un punto di vista cristologico, essa com­ porta normalmente delle varianti narrative che non nuo1 26

ciono · al suo valore positivo. La confusione di questa «Veri­ tà » cQn l'esattezza in materia di dettagli narrativi è il pec­ cato capitale di ogni esegesi di tendenza fondamentalista. Che Dio ce ne scampi ! Luca ha introdotto nel racconto alcuni Farisei, di cui non c'era menzione in Marco. La loro presenza non è impossi­ bile; è ugualmente nella logica dei conflitti abituali di Ge­ sù. Ma può anche trattarsi di una generalizzazione che verte su un punto secondario. Luca ha pure trasformato la casa palestinese di Marco in casa greca: che importanza ha, se ciò era utile per una certa categoria di lettori ? Si hanno tre versioni della riflessione del pubblico. Ma come parla una « folla » ? Come rappresentare il suo pensiero ? Si tratta dei « Si dice », o di ciò che si chiama « l 'opinione pubblica» ? Il narratore potrebbe fare diversamente che costruire egli stesso una frase, per rappresentare la riflessione della « fol­ la » e fissare le idee del lettore nel concludere il suo rac­ conto ? P roprio come gli storici dell'antichità nei discorsi messi in bocca agli uomini politici, l'evangelista fa il pun­ to della situazione. Gli si potrebbe chiedere di più ? L'im­ portante è che l'analisi « istoriale » del racconto faccia per­ cepire il C risto glorioso dietro l'evocazione conc reta di Ge­ sù di Nazareth raccogliendo una tradizione globalmente autentica. È questa una chiave di lettura molto importan­ te per la comprensione del testo. c) Lo sfondo biblico In questa lettura non dev'essere dimenticato lo sfondo del­ l'Antico Testamento, poiché è la terza dimensione del Van­ gelo. Ma la novità di Gesù può anche rompere con esso. E chiaro che, nel ragionamento degli scribi che criticano Gesù, l'idea della remissione dei peccati operata da Dio soltanto p roviene direttamente dalle Scrittu re . Lo stesso verbo aphieinlaph ienai ( = e br. salah, aram. shebaq) viene adoperato nel rito del « sacrificio per il peccato » (Lv 4-5) per dire che il peccato è « rimesso» (Lv 4, 20.26.3 1 .35; 5, 6. 1 0. 1 3. 1 6. 1 8; cf. 19, 22; N m 1 4, 1 9 in una richiesta di per­ dono). La prospettiva è diversa perché la via adoperata è di ordine rituale. Nel racconto del la peccatrice perdonata (Le 7, 36-50) la frase di Gesù che assicura che « i peccati sono rimessi » (7, 47-48) è preceduta da manifestazioni di pentimento. Si può ritenere che questi gesti, all 'inizio, so127

no abbastanza ambigui per spiegare · te nflession1 scanda­ lizzate del fariseo che aveva invitato Gesù; ma il racconto mostra la trasformazione progressiva della situazione così descritta (cf. la mia analisi: Dans /es angoisses, l 'espé rance, pp. 1 6 1 - 1 64). Nel racconto del paralitico non c'è niente di tutto ques to all 'inizio. Gesù viene attirato dalla fede del­ l'uomo e di coloro che l'hanno portato (Mc 2, 5 = Mt 9, 2b = Lc 5, 20); ma c iò che veniva richiesto era soltanto una guari­ gione. Gesù prende l'iniziativa di assicurare l'uomo che i suoi peccati sono rimessi. La sua frase viene interpretata dagli scribi come una bestemmia. Eppure egl i non ha fatto altro che annunciare il perdono di Dio (cf. il verbo al pas­ sivo), come aveva fatto il profeta Natan nel caso di Davide (2Sam 1 2, 1 3, con un altro verbo). La predicazione profetica aveva insistito sufficientemente sulla necessità della conve rsione inte rio re per ottenere il perdono di Dio: Gesù, nella sua predicazione abituale, non faceva altro che riprenderne i temi radicalizzandoli. Nel caso presente non si contraddice, ma intuisce con certezza che la coscienza del malato è pronta a ricevere il perdono di Dio. È il significato del la sua prima dichiarazione. Il seguito della sua controversia con gli scribi mostra che cdl Figlio dell 'Uomo ha potere di rimettere i peccati », e dà la prova di tale pote re con la guarigione del paralitico. Non si troverebbe niente del genere né presso i sacerdoti, né presso i profeti di Israele; nemmeno nelle promesse mes­ sianiche o altro - se non che Dio, cambiando il cuore de­ gli uomini, non si sarebbe più ricordato dei loro peccati (Ger 3 1 , 34b). TI comportamento di Gesù costituisce perciò un'innovazione assoluta. Così, nel racconto della peccatri­ ce, la riflessione del pubblico con la quale il narratore con­ clude il racconto è un'interrogazione di meraviglia: « Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati >> ? (Le 7, 49). Qui le tre diverse conclusioni della pericope mostrano lo stu­ pore e la paura della folla. Ma esse non dicono che lo scan­ dalo degli scribi sia stato appianato. Non si vede perché questo motivo di risentimento non debba essere conside­ rato come storico, accanto a quelli riguardanti il sabato e la purezza rituale. È la novità di Gesù in rapporto all'An­ tico Testamento che viene messa in luce: il « compimento » va al di là di tutto quanto ci si potesse immaginare. Ma tutto il Vangelo è nella stessa situazione. 1 28

4. Per una lettura ccevangelica, della frase

Non riprendo in dettaglio tutte le frasi di una lettura me­ ditativa. La lettura «evangelica )> fa naturalmente l'andiri­ vieni tra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa, poiché è lo stesso testo a farlo: è conforme alle due « valenze )> del racconto e della « sentenza inquadrata ». Nella presentazione della scena di Marco e Luca la « Com­ posizione di luogo » è subito pronta. Certamente, nella mia lettura personale, sono in relazione di preghiera con il Cri­ sto glorioso; ma egli conserva i tratti concreti di Gesù di Nazareth per rivelarmi il perdono di Dio e operare la me­ diazione necessaria per questo perdono. Qual è la mia si­ tuazione di fronte a lui ? Potrei assumere quella della fol­ la, che prova un timore religioso e dà gloria a Dio. La re­ missione dei peccati, guarigione dei cuori, non è forse più stupefacente della guarigione del corpo ? Si può pensare qui alle folle di Lourdes. Le conversioni e i ritorni a Dio, provocati dai pellegrinaggi, non sono forse delle grazie più meravigliose delle guarigioni dei malati, fatti eccezionali che at ti rano l'attenzione sulla presenza di Dio e sugl i ap­ pelli evangelici alla conversione ? Il ruolo delle guarigioni dei malati prolunga quello che esse avevano al tempo di Gesù, per attirare l'attenzione delle folle sul suo messag­ gio. Ma la stampa a effetto farà eco soltanto ai fatti straor­ dinari : si occuperà forse del perdono dei peccati ? Essa si interessa soltanto a ciò che colpisce l'immaginazione trat­ tandolo come «Storiella », presto dimenticata. Solo in Mat­ teo la folla glorifica Dio « di aver concesso agli uomini un tale pote re ». Posso anche leggere il testo identificandomi con il paraliti­ co. In quanto peccatore, son o quest'uomo paralizzato. Una volta guarito - e perdona to - prendo il mio giaciglio e cammino: faccio una nuova partenza «glorificando Dio» (Le). Segue una medi tazione: sulla mia malattia, la mia impo­ tenza ad ogni attività, l'iniziativa del Signore che ha accol­ to il mio desiderio di guarigione, la sua parola che mi ha restituito contemporaneamente la vita corporale e spiri­ tuale, la mia nuova vita, l'avveni re aperto . . . Ma il mio pen­ siero si concentra sulla sua persona: egli fu un tempo, e resta ancora oggi il mediatore di ogni grazia. Ciascuno termina la propria lettura e la propria contem­ plazione con un colloquio che nessuno può immaginare per 1 29

lui. Ora, tutto ciò non era già contenuto nella lettera del testo, così come gli evangelisti e le loro fonti l'hanno com­ posto ? La lettura « istoriale » è necessariamente una lettu­ ra « spirituale ». Il. CON TROVERSIA SUL SABATO

Bibliografia sul riposo del sabato L'esposizione e la bibliografia più recenti sull 'origine del sabato all 'epoca biblica si possono trovare nell'articolo « Sabbat» del DBS, t. X, coli. 1 1 3 1 - 1 1 70 (ricerca sulle origini e l'evoluzione della pra­ tica fino alla versione greca della Bibbia e a Qumran, di J. Briend). Esposizione più rapida in R. de Vaux, Le Istituzioni dell 'A n tico Testamento, Torino 1 972, pp. 458-465. Sulla pratica gi udaica anti­ ca, cf. G. F. Moore, Judaism in the First Century of the Ch ristian Era: The Age of the Tannaim, vol. II, Cambridge (Mass.) 1 954, pp . 22-39 (con riferimenti alla letteratura rabbinica); J . Bonsirven, Le Judaisme palestinien au te mps de Jésus Ch rist, t. II, Paris 1 953, pp. 1 72- 1 79 (con riferimenti). Per il passaggio del sabato alla do­ menica rinvio al mio articolo: « Du sabbat juif au di manche chré­ tien ,, : I. « Enquete sur le sabat juif,, (La Maison-Dieu, n . 1 23 [1 975], pp. 79- 1 07). Il. «Du sabbat j uif au dimanche chrétien ,, (lbid., n. 1 24 [ 1 975], pp. 14-54). Dal I secolo della nostra era, il primo giorno della settimana di sette giorni, che coincideva su questo punto con la settimana giu­ daica, era dedicato al culto del sole. Istituendo il riposo festivo in tale giorno Costantino accontentò contemporaneamente gli ado­ ratori di M itra, dio solare, che nel suo esercito erano numerosi , e i cristiani. Sulla sua iniziativa, che permetteva ai cristiani di spostare alla domenica l ' antica regola del l 'astensione dal lavoro legata per i Giudei al sabato, cf. gli studi di C. S. Mosna, Storia della dome nica dalle origini agli inizi del V secolo, Roma 1 969, pp. 2 1 6-220; S. Bacchiocchi, Du sabbat au dimanche , Paris 1 984, pp. 1 56- 1 75 e 1 95-2 1 9 (buon dossier, presentato da un « Avventista del settimo giorno ,,). Testi raccolti nei Codici di Teodosio e di Giustiniano, da W. Rordorf, Sabbat e t dimanche dans l 'Eglise an­ cienne, Neuchatel 1 972, nn. 1 1 1 - 1 1 2, con il commentario di Euse­ bio di Cesarea nella Vita di Costan tino, n. 1 1 3 . Tutti i testi relati­ vi alle discussioni tra Gesù e i dottori giudei sono esaminati nei commentari dei vangeli: mi limito a rinviare in modo generale a questi commentari senza esporre le opinioni critiche in biblio­ grafie interminabili.

1 30

1 Lo sfondo biblico .

È inutile iniziare qui con i testi relativi al rispetto del sa­

bato, per comprendere il tema della controversia evangeli­ ca. Il rapporto tra il ritmo settenario del riposo, attestato nella legislazione più antica (Es 23, 1 2; 34, 2 1 ), e la festa del sabato che forse originariamente fu in relazione con il mese lunare (cf. Is l , 1 3 , in cui si trovano associati il sabato e la luna nuova), figura nella bibliografia succinta presentata sopra. Infatti la fusione dei due viene attestata nelle due versioni del Decalogo (Es 20, 8- 1 1 in cui la moti­ vazione addotta è un'aggiunta sacerdotale, e Dt 5, 1 2- 1 5): il sabato è il giorno settimanale dell'astensione dal lavoro in onore di Dio. Negli antichi codici era una legge sociale che aveva lo scopo di assicurare il riposo a tutti, ivi com­ presi i servi. D Deuteronomio non perde di vista tale sco­ po, ma vi aggiunge un motivo di ringraziamento per la li­ berazione dell'Esodo (Dt 5, 1 5). Infine la legislazione sacer­ dotale ne fa una celebrazione del Dio creatore che « si ri­ posò » al termine della sua opera, benché il risultato del suo «lavoro >> continuasse a funzionare nell'universo (Gen 2, 2-3, ripreso in Es 20, 1 1 ). È in questo strato legislativo che comincia a manifestarsi una casistica intransigente sul rispetto del riposo sabbati­ co. Era prevista la messa a morte di colui che avesse pro­ fanato il sabato (Es 3 1 , 1 2- 1 7). Un esempio concreto viene dato per il caso dell'uomo che aveva raccolto della legna (Nm 1 5 , 32-37). Si precisa che in tale giorno non si può ac­ cendere il fuoco (Es 35, 1 -3). La formulazione di questi te­ sti, dispersi in posti imprevisti, invita a collegarli alle leg­ gi supplementari che costituiscono l'ultimo strato redazio­ nale del Pentateuco, redatto dopo l'esilio (cf. H . Cazelles, art. «Pentateuque », DBS, t. VII, coli. 848-85 1). Questo asso­ luto divieto di ogni lavoro aveva lo scopo della consacra­ zione del pensiero a Dio, alla preghiera, alla lettura della S. Scrittura. Il rischio che comporta il rigore di questa legislazione è di cadere nell'attaccamento troppo stretto alla regola giu­ ridica. Si cercano allora i mezzi per aggirare la severità della legge con delle procedure casistiche. R de Vaux, alla fine della sua esposizione del tema (Le istituzioni dell 'A nti­ co Testamanto, pp. 464-465), getta un rapido colpo d'oc­ chio su questo aspetto del problema. Presso i giuristi del 131

tempo di Gesù, coesistevano le tendenze rigori sta e lassi­ sta. In seguito la casistica rabbinica su ciò che è permesso e ciò che è vietato in giorno di sabato si sviluppò grande­ mente, prima di essere raccolta nella Mishna (trattato Sha b­ bat, ampliato dai due Talmud). Rabbi Giuda il Principe, codificatore della Mishna, aveva stabilito una lista di 39 lavori vietati, che viene ricordata nel commentario dell'E­ sodo chiamato Mekhilta (cap. 35, ed. Horowitz, pp. 345-246). Esempi di questa casistica si possono t rovare nei Textes rabbiniques des deux p remiers siècles ch rétiens, raccolti da J. Bonsirven (Roma 1 955, pp. 1 48- 1 89); ma la lista di R. Giuda non vi figura. Si può costatare lì che l'interpretazio­ ne della legge scritta dava luogo a delle molteplici di scus­ sioni nel diritto consuetudinario. I testi evangelici mostra­ no che le prese di posizione di Gesù in materia d'interpre­ tazione erano molto diverse da quelle degli ambienti fari­ saici, anche se i testi giudaici fissati dopo di lui hanno avuto la tendenza a rincarare la dose sulla casistica del suo tempo. In breve: Gesù diffida giustamente della casi­ stica e i suoi richiami alla Scrittura la sorpassano. 2. Breve anal isi del testi

Il metodo di lavoro da usare è stato presentato a p roposi­ to del paralitico di Cafarnao, la cui guarigione aveva dato luogo a una controversia. Mi limito perciò qui a delle rapi­ di analisi, senza pretendere di esauri re tutte le questioni. Le t radizioni evangeliche prese n tano sei casi di conflitti, di cui due sono attestati soltanto da Luca e due da Giovanni. a) La questione delle spighe strappate Il p rimo caso è occasionato dalla condotta dei discepoli, ai quali Gesù non vieta, passando per un campo di grano, di strappare delle spighe per mangiarle (Mc 2, 23-28; M t 1 2, 1 -8; Le 6, 1 -5). Il gesto non pone alcun problema circa la proprietà: l'usanza l'ammetteva. Ma viene compiuto in giorno di sabato! La cornice campagnola mostra che ci si trova in una borgata della Galilea in cui i campi erano vicini alle case e alla sinagoga, non più lontano della di­ stanza con sentita in giorno di sabato (cf. At l , 1 2). Gli op­ positori sono dei Farisei. Questo testo, testimoniato dai tre 1 32

Sinottici, viene discusso allo stesso modo in tutti i com­ mentari: è perciò facile esaminarlo qui. Un buon status que­ stionis viene presentato da R. Bultmann nel Supplément ( 1 97 1 ) alla sua Histoi re de la tradi tion synoptique (pp. 48 1 -483). Ma nella discussione pro e contro l'autenticità storica della pericope, egli propende troppo presto per la soluzione negativa che vi vede un riflesso di un problema posto nella comunità giudeo-cristiana di Palestina. Ritor­ nerò in seguito su questo punto. l n realtà la discussione è del tutto plausibile. Il rimprove­ ro fatto ai discepoli dai Farisei non viene espresso sulla base della Scrittura, infatti non potrebbe essere addotto nessun testo. Si tratta di un problema di casistica che fa parte de lla consuetudine: i discepoli compiono - si dice - «quello che non conviene », « ciò che non è possibile » e, in questo caso, «permesso » (ouk exestin). È la risposta di Gesù a far appello alla Scrittura con un ragionamento per analogia, non sulla legge del sabato, ma su « ciò che è permesso ». Il suo ragionamento viene attestato nei tre Sinottici: secondo la Scrittura (l Sam 2 1 , 27), Davide man­ giò i pani dell'offerta permessi solo ai sacerdoti . Se ne può dunque fare una deduzione alla maniera rabbinica, a ma­ jore ad m inus. È più grave mangiare un cibo sacro che venir meno alla consuetudine in una piccola cosa, a propo­ sito del cibo ordinario. Per cui i discepol i hanno compiuto un'azione « perme ssa ». Gesù elude così la casistica dei dot­ tori, che vietano di « strappare delle spighe »: su questo pun­ to adotta chiaramente una posizione liberale . Matteo aggiunge due altri motivi . Il primo è basato sulla pratica dei sacerdoti nel Tempio: per compiere il loro ser­ vizio essi violano una legge del sabato. Ora, « qui c'è qual­ cosa più grande del Tempio » (Mt 1 2 , 5-6; cf. 1 2, 4 1 -42: «qui c'è qualcosa più grande di Giona, . . . di Salomone »). Il secon­ do motivo è un rimprovero collegato artificialmente al te­ ma della pericope: i Farisei non hanno compreso la frase di 1 Sam 1 5 , 22 o Os 6, 6: « misericordia io voglio e non sa­ crificio » (Mt 1 2, 7: stessa citazione in Mt 9, 1 3 a proposito del pasto di Gesù con dei peccatori, solo in M atteo). Que· ste due aggiunte, che si trovano solo in Matteo, formano un montaggio proprio del l'evangelista o della sua fonte. Non se ne può dedurre con sicurezza che esse non risalgo­ no a Gesù, ma il loro « contesto vitale >> (Sitz im Leben) pri­ mitivo sarebbe da cercare altrove. L'essenziale della peri1 33

cope è la sua conclusione: si tratta di una « sentenza inqua­ drata », più lunga in Marco che in Matteo e Luca: « II saba­ to è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato (Mc 2, 27, solo), perciò (Mc) « il Figlio dell'Uomo è padrone [anche (Mc)] del sabato » (Mc 2, 28 = Mt 1 2, 8 = Lc 6, 5). Il p rimo principio non è senza paralleli rabbinici. Il P. La­ grange menzionava già un dottore del II secolo citato nella Mekh ilta: « Il sabato è stato consegnato a voi, e non voi al sabato» (Comm. a Marco, p. 55). Ma questo principio era dedotto da Es 3 1 , 1 4, mentre Gesù lo afferma senza alcuna giustificazione scritturistica. Del resto è collegato in maniera piuttosto tenue all'episodio precedente (« E di­ ceva loro . . . »). Ci si può perciò legittimanente domandare se esso non era, all'origine, un logion « Vagante » : l'evange­ lista l 'avrebbe collegato ad una cornice narrativa molto appropriata in cui l'opposizione tra Gesù e i Farisei era emersa a proposito delle osservanze sabbatiche. Bultmann ne ha dedotto abusivamente che l'insieme della pericope sarebbe una «formazione della Comunità », des tinata a il­ lustrare il logion: • Gesù viene interrogato sul comportamento dei suoi discepoli. Perché non sul suo comportamento ? Ciò significa che la Co­ munità mette sulla bocca di Gesù la giustificazione della sua pratica del sabato » (L 'histoire . . , p. 3 1 ). .

E da dove deduceva essa tale pratica, opposta a quella dei Farisei, se non dalla tradizione proveniente da Gesù trami­ te i suoi immediati discepoli? Il passaggio da un'osserva­ zione letteraria esatta a un giudizio negativo sulla storici­ tà dell 'episodio è sofistica. Rimane il secondo logion, comune ai tre Sinottici : « II Fi­ glio dell'Uomo è signore del sabato ». Marco lo lega artifi­ cialmente al precedente tramite la particola « perciò » (ho­ ste); ma il legame logico tra i due principi è lungi dall'esse­ re evidente, e ci si domanda come mai Luca ha omesso il primo. Matteo, che ha introdotto due altri motivi nel ragionamento di Gesù, è costretto ad abbreviare la finale con un « perché» (ga r) che è altrettanto vago dell'hoste di Marco. Non resta altra soluzione se non che la fonte co­ mune dei tre evangelisti - quella che presenta la serie dei « cinque conflitti » - contenesse già la conclusione: « E diceva loro ( = Mc-Le): Il Figlio dell'Uomo è padrone [an­ che: Mc] del sabato». L'espressione, adoperata per designare 1 34

la padronanza su una cosa - qui, su una legge divina! - ha pochi paralleli nei vangeli; ma è un buon aramaismo (mare ' h Ct ' bar 'enasha 'a f df shabbatta, seguendo l'ordine delle parole greche e mettendo mare ' allo stato assoluto in quanto attributo). Il solo vero problema che si pone è di sapere se il logion, venuto da Gesù, sia stato pronunciato in occasione del con­ flitto col quale è attualmente collegato, o se il collegamen­ to sia stato operato in un secondo momento dalla fonte comune dei tre Sinottici. Non è impossibile che sia stato il ricordo di questo conflitto, conservato nella memoria, a farlo riemergere come un principio generale applicabile al caso presente in un senso particolarmente forte . Ma non c'è alcuna ragione seria di pensare che il conflitto con i Farisei sul sabato sia emerso solo nella Chiesa primitiva, senza alcun antecedente al tempo di Gesù. L'episodio delle spighe strappate ne fornisce un esempio tanto più sorpren­ dente in quanto riguarda una delle minuzie alle quali tene­ vano i dottori farisaici e che Gesù ha fugato con argomen­ to contrario. b) Le gua rigioni riferite dai Sinottici Il secondo punto critico è quello delle guarigioni operate da Gesù nel giorno di sabato. Nei Sinottici ci sono cinque diversi casi. Marco, e dopo lui Luca, riferiscono pressappoco negli stessi termini la guarigioni dell'uomo dalla mano inaridita, in una sinagoga (Mc 3, 1 -6; Le 6, 6- 1 1 ). Tutti guardano Gesù con attenzione per vedere se lo guarisce. Gesù interroga il pubblico ostile (degli scribi e dei Farisei, dice Luca): « È lecito (exestin) i n giorno di sabato fare i l bene o i l male, salvare una vita (psykhen) o toglierla ? ». Silenzio (Mc). Sguar­ do di indignazione di Gesù (Mc). Marco vi aggiunge un 'an­ notazione sull 'indurimento dei loro cuori (Mc 3 , 5). Un or­ dine di Gesù e un gesto dell'uomo, la cui mano è subito guarita. È l'episodio col quale la tradizione premarciana collega il p rimo consiglio tenuto contro Gesù per farlo mo­ rire (Mc 3, 6 e Le 6, 1 1 , sotto forme letterarie diverse). Prima di esaminare il testo di Matteo bisogna menzionare la guarigione dell'idropico che Luca ha attinto dalla sua fonte particolare (Le 1 4, 1 -6). Ci troviamo nella casa di un capo dei Farisei, al momento del pasto, un giorno di saba1 35

to. Di passaggio si può notare che Gesù non disdegna di frequentare dei Fari sei, ma i membri di questa setta lo spiano di continuo. Alla vista del malato, egli prende l'ini­ ziativa, come nell'epis od io precedente: «È lecito o no cura­ re di sabato ?)>. Silenzio, perché sia la risposta affermativa che negativa sarebbe imbarazzante. Guarigione dell'uomo. Poi domanda di Gesù basata su un ragionamento a fortio­ ri: Chi, dun que , in giorno di sabato non tirerebbe subito fuori da un pozzo un bue o un asino che vi fosse caduto ? Non è possibile alcuna replica. Nemmeno c'è bisogno di formulare esplicitamente la conclusione, ma si potrebbe riprendere anche qui il principio generale: «Il sabato è fat­ to per l 'uomo e non l'uomo per il sabato ». Matteo conosceva, con delle varianti, la tradizione di que­ sta domanda posta da Gesù e l'ha introdotta nell 'episodio dell'uomo dalla mano inaridita, modificando e abbrevian­ do la presentazione del caso, e portando fino alla conclu­ sione il ragionamento a fortiori (Mt 1 2, 1 1 - 1 2). L'epilogo è praticame n te lo stesso. Matteo ha dunque visto la parente­ la tematica tra le due tradizioni: ciò gl i ha permesso di operare una fusione tra i due ragio namenti di Gesù, en­ trambi relativi a guarigioni operate il giorno di sabato. Non bisogna dilungarsi sulle differenza dei dettagli: esse sono una di mo s traz i one che la trasmissione tradizionale dei ri­ cordi, nel periodo orale, comportava un margine abbastanza ampio di imprecisione . Bisogna prenderne atto. Ma non è il caso di trarne un argomento per attribuire alla «Co­ munità primitiva » la costruzione arbitraria di questi epi­ sodi. La « Comunità >> avrebbe in questo modo giustificato le sue posizioni sul problema del sabato col suo potere di guari re: un tal e potere di guarigione faceva parte delle sue pratic h e (cf. i gruppi della « Christian Science ))) ? E bi­ sogna attribui re ad essa l'iniziativa di nuove usanze in ma­ teria di sabato senza antecedenti nella vita di Gesù ? In realtà si conserva il ricordo reale di due guar igioni e di due ragionamenti di controversie risalenti al tempo del mi­ nistero di Gesù. È la loro s istemazione lettera ria che ha dato luogo ad imprecisioni e a varianti dovute alle condi­ zioni nelle qu al e i testi hanno ricevuto la loro forma. Luca conosceva un'altra guarigione operata in una sinaga­ ga di sabato: quella della donna curva (Le 1 3 , 1 0- 1 7). Viene agg iunta qui una precisazione alla descrizione del caso: l'in­ fermità è attribuita a uno « spirito maligno )) ( 1 3, 1 1 ). 1 36

Questa interpretazione demoniaca della malattia era frequen­ te nell'antichità pagana e giudaica. L'ho analizzata nei due ar­ ticoli: « Les miracles de Jésus et la démonologie juive » (in X. Léon-Dufour, Les miracles de Jésus selon le Nouveau Testament, pp. 59-72, con un breve bibliografia); « Jésus devant le "monde du mal " », (nel volume della Pontificia Commissione Bibl ica: Foi et culture à la lumiè re de la Bible, pp. 1 3 1 -20 1 ). Si tratta qui di una « legatura >> imposta alla donna da Satana da diciot­ to anni ( 1 3, 1 6). La frase rivolta da Gesù alla donna menziona soltanto la sua infermità, ma la sua controversia con il capo della sinagoga menziona esplicitamente la «legatura>> dalla quale bisognava « sciogliere » la donna. I verbi « legare » e « sciogliere » (aram. 'asar - she ra) fanno parte effettivamente del linguaggio degli esorcismi giudaici, con 'asa ra o 'esur che designano il « legame >> o la « legatura » . La risposta di Gesù si situa perciò perfettamente nel quadro culturale del suo tempo.

Il capo della sinagoga che protesta contro coloro che ven­ gono a farsi guarire di sabato (v. 14) non è il solo di que­ st'avviso: Gesù ha altri avversari tra le persone presenti (v. 1 7a). Benché non compaia il nome dei Fari sei, la loro casistica è facilmente riconoscibile. Il testo non termina con un logion che colpi sce, ma si ritrova il ragionamento a fortio ri di Gesù: di sabato si « slega » senz'altro il bue o l'asino per condurlo a bere ( 1 3 , 1 5). Un esempio analogo figurava nell 'episodio dell'uomo dalla mano inaridita (Mt 12, 1 1 ) e in quello idropico (Le 1 4, 5). Queste varianti sono un 'eccellente dimostrazione dell'abi­ lità di Gesù come cont roversista: parte da un dato di buon senso che nessuno potrebbe cont raddire. Come gli si po­ trebbe rimproverare di « sciogliere » una figlia di Abramo dal « legame » che Satana le aveva imposto ? Si tratta anco­ ra di un ragionamento a minore ad maius. Luca, nel suo stile proprio, conclude il racconto mostrando gli avversari confusi e la folla colma di gioia (v. 1 7). L'interesse del rac­ conto è quello di provare che Gesù, oltre al suo potere di guarire, riporta una vittoria su Satana. Bisogna perciò collegarlo anche con le pericopi concernenti questo tema, comune ai Sinottici e a Giovanni. c) Le guarigioni nel I V vangelo

Lo stesso contrasto sul sabato emerge, nel IV vangelo, a proposito di due miracoli : sia tra Gesù e i Farisei (cf. Gv 9, 1 3. 1 5. 1 6.40, chiamati più avanti «i Giudei », 9, 1 8 .22.24), sia globalmente tra Gesù e « i Giudei » (5, 10. 1 5 . 1 6. 1 8). 137

Sarebbe assurdo tradurre « gli abitanti della Giudea», col pre­ testo che questi episodi si svolgono a Gerusalemme e non in Galilea: sarebbe una scelta gratuita e arbitraria. Al contrario, l 'evangelista generalizza l'appellativo, in funzione dei conflitti del suo tempo: il Giudaismo istituzionale è impegnato tutto quanto nell'opposizione alla Chiesa cristiana

Ho analizzato nel volume precedente l'episodio del cieco nato, come esempio di racconto 2• Non vi ritorno sopra, ma analizzo l 'altro caso. Si tratta della guarigione di un paralitico che ha un punto in comune con quella di Cafarnao. Il quadro geografico è però diverso. Ci si trova in prossimità della piscina di Bethesda o Bethzatha, dove gli scavi, fatti in due riprese, hanno dimostrato l'esistenza effettiva di cinque portici (Gv 5, 2) e scoperto la presenza inaspettata di simboli dedicati agli dèi guaritori (cf. A. Duprez, Jésus e t les dieux gué ri­ seu rs: A p ropos de Jean V, Paris 1 979, specialmente le pp. 1 06- 1 27). L'archeologia ha così spazzato via l'interpretazio­ ne simbol ica del racconto come aveva proposto Loisy: i cinque portici avrebbero rappresentato i cinque libri della Legge ! Un'aggiunta secondaria al testo primitivo precisa, in una preoccupazione di ortodossia, che l'Angelo di Dio scendeva di tanto in tanto nel la piscina per agitare l'acqua (5, 4). Angelo del Dio unico o dei guaritori, la piscina aveva la sua fama: malati, pagani e giudei, aspettavano il gorgo­ gliamento dell 'acqua contando sulla loro guarigione. Il ra­ dicamento della tradizione, presa globalmente, nella Geru­ salemme p rima del 66 è così ben attestato. Ma l' importan­ te non sta in questo. Gesù, come a Cafarnao, dice al paralitico: « Prendi il tuo giaciglio e cammina» ( 1 5, 8). Ma è sabato e il trasporto del giaciglio è un «lavoro» vietato dalla giurisprudenza dei dot­ tori della legge (5 , 1 6); al che Gesù ri sponde in linguaggio giovanneo: « Il Padre mio opera sempre e anch'io opero )) (5, 1 7). Allusione all'opera creatrice di Dio (Gen 1 ), che vie­ ne celebrata proprio col riposo sabbatico (Gen 2, 3). Segue un risentimento supplementare che l'evangelista precisa: chiamando Dio suo Padre, Gesù si faceva uguale a Dio (5, 1 8). Siamo nel cuore delle discuss ioni sulla figliolanza divina di Gesù che pervadono il IV vangelo. Ma c'è un cer2

Cf. Vangeli e storia, pp. 238-264.

1 38

to parallelismo tra la rivendicazione di Gesù, che mette i suoi miracoli e la sua violazione giuridica del sabato in relazione con l'opera del Creatore, e il principio conserva­ to nei Sinottici: « Il Figlio dell ' Uomo è signore del sabato » (Mc, 2 , 28 e par.). In entrambi i casi si tratta dell'esercizio di un potere sul sabato e il racconto viene condotto per culminare nel detto di Gesù. La differenza tra i due sta nel titolo cristologico che figura nei testi: « Figlio dell'Uomo » nei Sinottici e « il Figlio » nel IV vangelo. Se ci si mette dal punto di vista degli evangeli­ sti, che raccolgono la tradizione dopo la risurrezione di Gesù, « Figlio dell'Uomo » è effettivamente il titolo del Cri­ sto in gloria che Dio ha fatto sedere alla propria destra (cf. M t 1 4, 62 e par.). In Giovanni i titoli di « Figlio » e « Fi­ glio dell' Uomo» si alternano nelle discussioni tra Gesù e i Giudei. La cristologia del « Figlio » e quella del « Figlio dell'Uomo » si ricongiungono, come dimostra la risposta di Gesù a Caifa nella recensione di Luca (Le 22, 69-70). C'è perciò una stretta connessione tra le controversie riferite dai Sinottici e quella/e riferita da Giovanni . 3. Dali ' •lstorlale• allo •storico• del testo

a) L '« istoriale » Richiamo la convenzione di base del vocabolario che ado­ pero qui 3. L'« istoriale » del testo è la sua relazione al di­ spiegamento del disegno di salvezza (« Heilsgeschichte »), allo sviluppo ultimo della rivelazione, alla messa in opera dei comportamenti cristiani in rapporto alle regole fissate pre­ cedentemente nella Scrittura. Esso include naturalmente lo « storico », cioè la conoscenza concreta della storia di Ge­ sù, vista sotto l'angolatura empirica accessibile ad ogni os­ servatore. Ma non può ridursi ad esso; infatti la rilettura di questa storia - e delle parole e dei fatti ad essa collega­ ta - vi introduce un nuovo approfondimento dopo la sua risurrezione, il dono dello Spirito e la fondazione della Chie­ sa. In ol tre l'evocazione di questo aspetto empirico può com­ portare delle modalità diverse. Nel caso presente, è necessario tener conto di un fatto ca3

Cf. , in Vangeli e storia, l'Excursus n. 4, pp. 1 04- 1 05 . 1 39

pitale. Le regole concernenti il sabato riguardavano sol­ tanto i Giudei al doppio titolo della loro vita « nell'allean­ za » e del riconoscimento della loro Legge come legislazio­ ne nazionale da parte dello stato romano e, in Oriente, da parte dello stato parto. L'osservanza del sabato non pone­ va alcun problema ai fedeli che non erano di origine giu­ daica. Di conseguenza è chiaro che la rilettura ecclesiale delle pericopi analizzate sopra provengono dal Giudeo­ cristianesimo, almeno per i testi dei Sinottici. Per i testi di Giovanni si nota un certo slittamento che denota un acu­ to conflitto tra « i Giudei » e coloro che credono in Gesù Cristo, Figlio dell'Uomo e Figlio di Dio (Gv 5, 1 8). Il radica­ mento della tradizione rimane giudeo-cristiano, ma la sua redazione proviene da un tempo in cui è operante la rottu­ ra tra la Chiesa e «i Giudei » . Più che i racconti di contro­ versia che intervengono nella maggior parte degli episodi narrati, il detto fondamentale di Gesù che costituisce l'es­ senziale della «Sentenza inquadrata » è quello riportato dai Sinottici alla fine del racconto relativo al parali tico di Ca­ farnao: « Il Figlio dell'Uomo è signore del sabato» . Ho ac­ cennato alla possibilità di un logion originariamente va­ gante, che la tradizione pre-sinottica avrebbe in un secon­ do momento messo in relazione col racconto perché trova­ va lì il suo posto appropriato; ma avrebbe potuto figurare alla fine degli altri racconti, e il IV vangelo ne contiene un paral lelo significativo. Per i Giudeo-cristiani, l'atteggiamento liberale di Gesù nei riguardi de lle prescrizioni farisaiche sul sabato ha fornito una nuova halakha. A tale riguardo, Bultmann ha visto giu­ sto nel mettere questa presentazione di Gesù in relazione con i cent ri di interesse della « Comuni tà » - o con i suoi problemi pratici. Questa è effettivamente la funzione di tutte le pericopi riportate: giustificano una pratica innova­ trice fornendo delle ragioni che sono talvolta basate sulla Scrittura. Anche l'aggiunta di M t 1 2, 5-7 non si comprende­ rebbe dopo la distruzione del Tempio avvenuta nel 70. Pos­ sono collegarsi con esse dei cent ri di interesse secondario. La liberazione della donna « sciolta » (luo) dal legame (de­ smos) impostale da Satana riprende il linguaggio degli esor­ ci smi giudaici o mandaici (sri ta designa lì un esorcismo: cf. E. S. Drower-R. Macuch, A Mandaic Dictionary, Oxford 1 963, pp. 475 s). L'episodio mostra soprattutto la vittoria di Gesù su Satana, che costituisce un tratto es senziale del1 40

la cristologia. Il potere del Figlio dell'Uomo sul sabato è inteso, al livello degli evangelisti, come appartenente a Ge­ sù in quanto Cristo glorioso. La cristologia arcaica del Figlio dell 'Uomo, comune ai quat­ tro vangeli è certamente giudeo-cristiana e di origine ara­ maica: il duplice articolo adoperato in questa espressione non è che la traduzione letterale dell'aramaico ba r 'enasha (il primo articolo per lo stato costrutto di ba r e il secondo per lo stato enfatico di 'enasha). Avrei perciò qualche ri­ serva nei riguardi della tesi di O. Cullmann (Ch ristologie du N. T. , pp. 1 42s), che fa di questa cristologia il patrimo­ nio proprio del gruppo degli « ellenisti )): costoro si sareb­ bero mostrati « più fedeli dei Sinottici alla coscienza che Gesù stesso aveva della sua persona e della sua opera ». In realtà, dove troviamo una documentazione specificamen­ te «e llenista » ? Il testo del discorso di Stefano (A t 7, 56) non è sufficiente per giustificare una tale tesi, soprattutto se si ammette che Luca ha messo mano alla sua redazione finale. Al di fuori di questo, rimane solo la menzione di « Figlio del l'Uomo» in Ap l , 1 3- 1 6; l'espressione è assente dal Co rpus paolino e da tutte le altre lettere (contro O. Culmann, pp. 143- 1 56, che vuole ritrovare il Figlio dell 'Uo­ mo in alcuni passi delle lettere in cui l'espressione non è adoperata). La signoria sul sabato è nella stessa situazio­ ne del potere di rimettere i peccati: le due cose si ricolle­ gano alla più antica cristologia. b) Lo «Storico)) Ma si tratta semplicemente di una cristologia giudeo­ cristiana arcaica, con la quale « la Comunità» avrebbe giu­ stificato artificialmente la propria pratica ? Si sa che, nei vangeli, l'espressione « Figlio dell'Uomo » appare soltanto sulle labbra di Gesù. Questo linguaggio sarebbe stato creato unicamente per essere messo in bocca a Gesù ? Questa tesi paradossale ha avuto i suo sostenitori (cf. l'esposizione di S. Légasse, « Jésus et le Fils de l'Homme », in Apocalypses et théologie de l 'espé rance, pp. 276-280). Si può ammettere che le tradizioni evangeliche hanno la tendenza a genera­ lizzare il suo uso e a proiettare su tutti i logia di Gesù il più forte significato cristologico, proveniente dal libro di Daniele . Ma ne consegue che, nel caso del logion relati­ vo al potere del Figlio dell'Uomo sul sabato, il detto sareb141

be stato creato per la ci rcostanza e trasferito, dal Cristo glorioso, su Gesù durante il suo ministero in Galilea ? Que­ sta opinione critica, in cui si ritrova il radicalismo anti­ storico di Bultmann (L 'histoire . . . , pp. 30s) condiviso da al­ tri, riposa infine su una petizione di principio. È più sag­ gio pensare ad una « rilettura» che ha proiettato la cristo­ logia sviluppata nella sua pienezza su un detto il cui signi­ ficato era originariamente più enigmatico. Gesù, con que­ sta sentenza, giustificava la posizione liberale adottata, segnatamente nel caso delle guarigioni, da lui stesso e dai suoi discepoli (nel caso delle spighe strappate). Ma per i Farisei essa risultava i nsensata, se non blasfema, benché non le si potesse opporre nessun testo della Scrittura. Non c'è motivo di mettere in dubbio le altre parole di Ge­ sù collegate dai Sinottici agli episodi situati di sabato: sia i ragionamenti di controversia, sia il principio generale rac­ colto da Mc 2, 27 . Quanto alla vittoria di Gesù su Satana (Le 1 3, 1 5· 1 6), essa ha delle buone corrispondenze storiche nei Sinottici: il detto di Le 10, 1 8· 1 9 è incontestabile. Ne ho esaminato la seconda parte in La pa role de grace: É tu­ des lucaniennes à la mémoire d 'Augustin George ( = RSR, 1 98 1 / 1 -2: « É tude critique sur Luc 1 0, 1 9 », pp. 87- 1 00). Per il racconto delle tentazioni di Gesù, è sufficiente interpre­ tarlo in modo corretto per comprenderne lo sfondo «espe­ rienziale )> 4 • Quanto alla conclusione in mezza-tinta di Gv 5, 1 7 (« il Pa­ dre mio ope ra sempre e anch'io opero »), penso che possa essere ugualmente presa in considerazione con il suo buon radi c amento aramaico ( 'a bba 'abe d w 'abed 'af 'ana). Ma essa ha un'altra cornice; suppone un conflitto più acuto tra Gesù e gli avversari che si possono supporre come fari­ sei; è legata a un episodio che accade a Gerusalemme; con­ serva il carattere enigmatico di alcuni detti di Gesù. Tutto ciò fa propendere in favore del suo carattere originario, benché l'evangelista abbia scritto in greco. Bisogna al lora considerare i vv. 1 7- 1 8 come la conclusione del racconto di miracolo, contrariamente ai commentari di R. E. Brown (vol. I, pp. 2 1 6s) e di R. Schnackenburg (vol Il, pp. 1 26- 1 28) .

� Avevo abbozzato questa interpretazione a due livelli nel cCahier bvangile», n. 45 (Les évangiles: o rigine, date, historicité, pp. 54-59). Ho ripreso l'analisi con una breve bibliografia in Vangeli e storia, pp. 1 32· 1 3 5. 1 42

che li collegano alla controversia seguente. In ogni modo, riportando dopo le discussioni appassionate sul modo in cui Gesù parla di Dio come suo Padre, l'evangelista proiet­ ta su queste dispute passate le critiche che « i Giudei » muo­ vevano, nel suo tempo, contro la fede in Gesù, Figlio di Dio nel senso forte del termine. I due orizzonti si sovrap­ pongono, come sempre in Giovanni. In breve, l'« istoriale » ha il suo punto di partenza nello « storico », ma ne prolun­ ga il significato primitivo attribuendogli quella pienezza che conviene al Cristo glorioso. 4. Per una lettura evangelica delle pericopi Dato che gli episodi rilevati a proposito dei detti di Gesù, «Signore del sabato » , ruotano intorno a questa pratica iscritta nella Legge mosaica, non si può ritenere come se­ condario questo punto in una lettura evangelica a tre di­ mensioni. Per una lettura meditativa, la « composizione di luogo » viene fornita, ad libitum, da qualsiasi episodio. Ma allora le parole di Gesù da meditare hanno una relativa varietà. I detti hanno un punto in comune. I lettori non-Giudei non si sentono evidentemente obbligati dalle presc rizioni sul sabato come legge legata all'alleanza sinaitica. I lettori di origine giudaica si sottraggono, grazie a Gesù, alla casisti­ ca rabbinica. Ma della stessa legge non resta più niente ? Se è vero che cdl sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato », il sabato ha, pe r t'uomo, un significato fon­ damentale come festa: memoriale della creazione, santifi­ cazione del tempo di lavoro con un giorno di astensione dal lavoro in cui l'uomo può rivolgersi liberamente a Dio, legge sociale in cui l'obbligo del riposo settimanale per­ mette ai lavoratori più umili di « respi rare ». Questo signi­ ficato non è andato in prescrizione . Per tutti questi motivi, nella Chiesa, dopo essere diventata « ufficiale » sotto Co­ stantino, le antiche pratiche del sabato in materia di asten­ sione dal lavoro e di culto furono trasferite al nuovo « Gior­ no del Signore )>, la domenica. In effetti il Cristo, esercitan­ do la sua signoria sul sabato e «operando » con il Padre, ha portato a compimento con la redenzione il disegno fon­ damentale del Creatore: per questo il memoriale della sua risurrezione è stato sostituito dall'antico sabato, perché in1 43

tegra il memoriale della creazione in quello della « nuova creazione » . Questa visione può costituire materia per diversi esami di co­ scienza. Nella pratica del riposo domen icale non è mai riap­ parsa nella « cristianità » una casistica di tipo farisaico ? La do­ menica viene vissuta dai cristiani come « giorno santo», con tutte le di mensioni che ciò comporta ? Il tempo - passato in cui esisteva nelle parrocchie una «messa delle domestiche » alle 5 e 3/4 del mattino per permettere alla padrona di alzarsi col caldo, di avere un > che sono state fin qui presentate riguardavano il potere di Gesù sulla remissione dei pecca­ ti e sul sabato. Le varianti che esse comportano invitano al la discrezione nella valutazione della loro formulazione primitiva. Le stesse variazioni di dettaglio esistono nei rac­ conti che le inquadrano. Non bi sogna perciò portare il pe­ so del riferimento storico a Gesù su questi dettagli. Ma né le varianti né le eventuali trasformazioni letterarie sa. no dovute al semplice caso o alla fantasia dei narratori. Hanno tutte il loro significato, sia per adattare il materia­ le tradizionale a dei nuovi ambienti, sia per mettervi in evidenza degli elementi didattici ancora virtuali . In tutti i casi, l'esegesi parte da una lettura « ecclesiale » realizzata al livello degli evangelisti sulla base delle loro fonti, e risale la trafila della t rasmissione fino al ricordo originario. Il fatto che le « sentenze inquadrate » abbiano ricevuto la loro forma letteraria perché presentavano un interesse didattico per le comunità cristiane non è una ra­ gione per attribuirne ad esse la creazione pura e semplice. Non sono stati i loro bisogni pratici a produrre artificial­ mente i detti destinati a soddisfarli; essi hanno fatto sol­ t anto emergere in superficie i ricordi che illuminavano i problemi del presente. C'è perciò sempre bisogno di fare, al di di qua di questa lettura «ecclesiale », una lettura « sto­ rica » di cui si riscontrano spesso i limiti. Vengono conser­ vate le parole del Signore, viene evocata la loro stessa cor­ nice, ma la sua Passione, la sua risurrezione e lo sviluppo della Chiesa hanno comportato la loro reinterpretazione, in una fedeltà vivente che si collega con la loro più profon1 45

da portata. Bisognerebbe fare la stessa ricerca a proposito di tutte le frasi di controversia e di discussione, senza per­ dere di vista la loro duplice dimensione: al tempo di Gesù e nell'ambito della Chiesa. Ecco degli esempi, per i quali seguo l'ordine di Marco: - Mc 2, 1 5- 1 7 e par.: discussione a proposito di un pasto presso un pubblicano. - Mc 2, 1 8-22 e par. : discussione sul digiuno. - Mc 3, 22-30 e par.: controversia sull'espulsione dei demoni. - Mc 7, 1 -23 e par. : discussione sul puro e l'impuro (testo complesso). - Mc 1 1 , 27-33 e par.: discussione sull'autorità di Gesù. In tutti questi casi Gesù è alle prese con degli avversari. B isognerebbe aggiungervi i dialoghi in cui Gesù risponde a delle domande poste da diversi interlocutori. Ecco anco­ ra degli esempi: - Mc 9, 38-40 = Lc 9, 39-50: domanda a proposito di un esor­ cista estraneo. - Mc 1 0, 8- 1 2 e par. : domanda sul divorzio. - Mc 1 0, 1 7-3 1 e par. : la domanda del ricco. - Mc l O, 35-45: domanda del figlio di Zebedeo. - Mc 1 1 , 1 2- 1 4 + 20-25 = Mt 21 , 1 8-22 : il fico seccato. - Mc 1 2, 1 3- 1 7 e par. : domanda sul tributo versato a Cesare. - Mc 1 2, 28-34 e par. : domanda sul comandamento più grande. In questi casi bisogna anche tener conto delle varianti tra due o tre recensioni. Ma ci sono esempi attestati in un solo vangelo: - Le 9, 5 1 -56: cattiva accoglienza di un villaggio di Samaria. - Le 1 2, 1 2-24: domanda a proposito di un'eredità. - Le 1 7, 20-2 1 : domanda a proposito della venuta del Regno di Dio. Nell'insieme di questi casi, il contesto storico (il tempo e talvolta il luogo) è praticamente impossibile da determina­ re con precisione, perché non costituiva il centro di inte­ resse del detto memorizzato e della sua cornice. Ma que­ sto detto non si lascia staccare dalla cornice in cui è situa­ to. Si costata soltanto che il piccolo insieme che essi for­ mano è stato disposto dagli evangelisti (o dalla loro fonte) 146

in posti differenti, per motivi di pedagogia pratica. Questi motivi non sono privi di interesse poiché ci fanno intrave­ dere la pedagogia religiosa usata nelle comunità cristiane nel periodo apostolico o al tempo degli evangelisti. Riser­ verò un posto a sé alla domanda dei discepoli di Giovanni Battista perché la risposta illumina tutto un aspetto del ministero di Gesù. IV. SUL SIGNIFICATO DELLE .cOPER& DI GES Ù

Matteo e Luca hanno ricevuto da una fonte comune, sco­ nosciuta a Marco, tre pericopi che essi hanno messo una dopo l'altra e che riguardano Giovanni Battista (Mt 1 1 , 1 - 1 9 = Le 7, 18-35). C'è in primo luogo la risposta di Ge­ sù a una domanda di Giovanni (Mt 1 1 , 1-6 = Lc 7, 1 8-23), poi una testimonianza resa da Gesù a Giovanni (Mt 1 1 , 7- l S = Lc 7, 24-30), infine un detto che mostra Giovanni e Gesù mal accolti da « questa generazione » (Mt 1 1 , 1 6- 1 9 = Lc 7, 3 1 -35). La finale della seconda pericope è diversa in Matteo ( 1 1 , 1 2- 1 5) e in Luca (Le 7, 29-30). Mi limito qui ad esamina­ re la prima, dando soltanto degli elementi bibliografici. Bibliografia sulla risposta di Gesù

a i discepoli di Giovanni

Non posso citare qui tutti i commentari di Matteo e Luca. Per Matteo ho utilizzato quelli di La grange e 1 927), Bonnard ( 1 963), Schmid (5 1 965), Albright-Mann ( 1 97 1 ), Rademakers ( 1 972), Beare ( 1 98 1 ). Per Luca quelli di Lagrange e 1 927), Schmid (41 960), Grund­ mann ( 1 96 1 ), Schiirmann (l, 1 969), I. H. Marshall ( 1 978), Bossuyt­ Rademakers ( 1 98 1 )). Sulla pericope cf. J. Jeremias, Teologia del N. T. , tr. fr. pp. 1 34- 1 36, che la con sidera come « Un grido di entu­ siasmo escatologico)), interpretato poi come « un'enumerazione dei miracoli compiuti da Gesù agli occhi degli inviati di Giovanni ». Studio del testo: A. George, « Parole de Jésus sur ses miracles», in J . Dupont (ed.). Jésus aux origines de la ch ristologie, Louvain­ Gembloux 1 975, pp. 286-292 . Il problema della fonte comune a Matteo e Luca viene discusso da molto tempo. La sigla Q ( = Quelle) è una comoda convenzione per designare il materiale comune a Matteo e Luca. Essa ha un significato diverso nel sistema molto più complesso di M.-E. Boismard e coli., Synopse des quatre évan­ giles en français, II, Paris 1 972, pp. 1 65s (commentario del § 1 06).

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1 . Osservazioni critiche sui testi paralleli

a) I con testi narrativi del cc logion » La struttura d'insieme è la stessa in Matteo e Luca, ma la presentazione del contesto narrativo in cui è collocato il logion è differente nei due scritti in funzione di una si­ stemazione letteraria che si presenta diversamente. La struttura d'insieme è la stessa in Matteo e Luca, ma la presentazione del contesto narrativo in cui è collocato il logion è differente nei due scritti in funzione di una si­ stemazione letteraria che si presenta diversamente. In Matteo si è appena concluso un lungo discorso compo­ sito, legato all'invio in mis sione dei discepoli (M t l 0). Il pas saggio viene fatto con una transizione banale: « Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodi­ ci discepoli . . . » (Mt l l , l a; cf. 7, 28a; 1 3, 53; 19, l a; 26, l a). Il quadro generale del la sua predicazione nelle città ( 1 1 , l a) è ugualmente senza precisione. È allora che Giovanni, nel­ la sua prigione, sente parlare delle « Opere del Cristo » ( l l , 2a). La terminologia adoperata dal narratore è chiara­ mente cristiana. Ma c'è forse, nell'evangelista un'intenzio­ ne soggiacen te: mostrare che Giovanni si pone la domanda della possibile messianicità di Gesù (Cristo = Messia). Co­ munque sia, Giovanni invia un messaggio tramite i suoi discepoli che lo assistono in prigione: « Sei tu colui che deve venire (ho erkhomenos) o dobbiamo attenderne un al­ tro (he te ron = l'altro dei due) ? » (Mt 1 1 , 3). In Luca il testo che precede racconta la risurrezione del figlio della vedova di Nain, e l'evangelista conclude dicen­ do che la fama di Gesù si diffondeva in tutta « la Giudea e per tutta la regione » (Le 7, 1 7). La Giudea viene intesa qui nel senso largo di tutto il paese abitato dai Giudei, infatti Nain si trova in Galilea. Ma Luca scrive lontano dal « focolare nazionale » dei Giudei e i destinatari del suo scritto non sono dei Giudei di origine. Il passaggio reda­ zionale prosegue: « Anche Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutti questi avvenimenti » (7, 1 8a). Allora Gio­ vanni « chiamò due di essi e li mandò a dire a Gesù: "Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro (allon) ? » (Le 7 , 1 8b- 1 9). Si nota anche qui la terminologia cristiana: Gesù è « il Signore » (cf. A. George, « Jésus, Seigneur», É tu­ des sur l 'oeuvre de Luc, pp. 237-255: cf. p. 253, « aggiunta 1 48

lucana>> in Le 7, 1 9). C'è una reale libertà nella composizio­ ne del contesto: non si insisterà perciò su questi dettagli. Luca mostra poi i discepoli di Giovanni che compiono la loro missione (7, 20). Poi aggiunge questa annotazione che e ancora convenzionale: « In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi » (7, 2 1 ) È chiaro che, in questa ricapitolazione delle « Opere di Gesù » collocata proprio nel momento in cui egli sta per rispondere agli inviati di Gio­ vanni, non è da ricercare una descrizione storica nel senso moderno del termine. Non è necessario ricordare lì le ri­ surrezioni dei morti: Luca ne ha appena collocato una nel­ la sua collezione di pericopi, dopo la guarigione del servo del centurione (7, 1 - 1 0). Si è così pronti per ascoltare la risposta di Gesù. Tra Mat­ teo e Luca un solo dettaglio presenta una differenza degna di nota: .

«Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete (Mt; Le scrive: " ciò che avete visto e udito" - testo adattato all 'an­ notazione del v. 2 1 ). I ciechi ricuperano la vista e (solo Mt) gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti e i sordi riacqui­ stano l'udito e (solo Mt) i morti ri suscitano, ai poveri è predi­ cata la buona novella e beato colui che non si scandalizza di me » (Mt 1 1 , 5-6 = Lc 7, 22-2 3).

Non c'è alcun motivo serio di evitare qui il termine «esse­ re scandalizzato », con il pretesto che il termine semitico soggiacente significa « inciampare »: i verbi sono suscettibi­ li di prendere un significato metaforico, che qui va da sé con il verbo greco al passivo (ma l'introduzione del com­ plemento con la preposizione en calca il b- strumentale aramaico). b) L 'unità interna della pericope Una volta messe da parte le osservazioni sulle particolari­ tà di Matteo e Luca, la domanda che si pone riguarda l 'u­ nità interna della pericope : l'enumerazione delle « opere» di Gesù è separabile o no dal contesto in cui la tradizione evangelica l'ha collocata ? Per risolvere questo problema, bisogna innanzitutto chiarire la domanda posta a nome di Giovanni: « Sei tu colui che viene ? » Essa acquista il suo significato solo in funzione dell'annuncio profetico di Gio149

vanni, così come viene presentato da Matteo e Luca. Lo cito secondo Matteo, segnalando le variant i di Luca: c Colui c he viene (ho e rk homenos) dopo di me è più potente di me [Le: uno che è più forte di me] e io non sono degno neanche di portargli i sandali [Le: di sciogliere il legaccio dei sandali = Mc]; e gl i vi bat tezzerà in Spirito Santo e fuoco. Egl i ha in mano i l ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà [Le : per pul i re. . . e per raccogliere] il suo grano nel granaio [Le: il grano nel suo granaio], ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile » (Mt 3, l l - 1 2-Lc 3, 1 6- 1 )).

Gesù corrisponde al personaggio descritto da Giovanni: il « più forte » , il giustiziere che farà la separazione tra buoni e cattivi, che battezzerà i buoni nello Spirito Santo e i cat­ tivi nel Fuoco ? È chiaro che Gesù non risponde alla do­ manda così come viene pos ta La sua risposta è, scrive H. Schiirmann, un « clamore di gioia » (Das Lukasevangelium , I, p. 4 1 0). C. F. Bumey ne aveva analizzato con esattezza il ritmo aramaico ( The Poe try of Ou r Lo rd, Oxford 1 925, p. 1 1 7). Gesù si limita a enumerare i segni che mostrano la venuta del regno di Dio. Bultmann stesso ha riconosciuto l'autenticità originale di questa enumerazione ( « L'investigation des évangiles synop­ tiques », in Foi et comp réhension. II, Eschatologie et démy­ thologisation, tr. fr., Paris 1 969, p. 28 1 ). Ma negava che essa facesse allusione alle «opere di Gesù». Cito le sue parole: « L'espressione vuole soltanto esprimere con i colori del Se­ condo Isaia il tempo felice della fine, di cui Gesù intuisce che comincia adesso, senza che si debbano riferire le diverse af­ fermazioni contenute in M t 1 1 , 5-6 a dei precisi avvenimenti già accaduti ,> (L 'histoi re de la tradition synoptique, p. 40, ma si vedano le discussioni delle pp. 489s). La negazione generalizzata dei miracoli di Gesù come « Se­ gni » che conducono alla fede 6 comporta necessariamente quella di un detto che farebbe allusione a questi « segnh>. Ma Bultmann non tiene conto di un fatto importante. La finale dell'espressione di Gesù lo chiama personalmente in causa: « Beato colui che non si scandalizza di me » (o: «colui per il quale io non sarò occasione di inciampo »). 6 Cf.,

1 50

in Vangeli e sto na , l'Excursus

n.

5, pp. 1 68- 1 7 1 .

Bisogna forse separare questa conclusione dall'espressio· ne che l'introduce ? Allora, perché questo intimo legame tra i segni del Regno di Dio e la persona di colui che l'an­ nuncia, se gli eventi significativi non sono già presenti, se non sono costituiti dalle sue proprie azioni ? Tuttavia il problema del contesto vitale (Si tz im Leben) in cui Gesù ha fatto la sua dichiarazione si pone con acutez­ za; essa non può essere una semplice filza di allusioni bi­ bliche che descriverebbero con entusiasmo ciò che acca· drà in un futu ro più o meno prossimo. Il Regno di Dio è già p rese nte tra gli uomini. È « in mezzo a voi », dice al­ trove Gesù per rispondere a una domanda dei Farisei (Le 17, 20-2 1 ). Bultmann ammette del resto l'autenticità di que­ st'ultimo logion. Egli si limita ad attribuire il contesto nel quale si trova attualmente alla « Comunità ellenistica)> e forse a Luca stesso (L 'histoire . , pp. 4 1 s). L'attesa della ve­ nuta del Regno di Dio e le speculazioni sul giorno di que­ sta venuta non esistevano forse al tempo di Gesù ? Il lo­ gion non è per niente fuori luogo come risposta a una feb­ bre escatologica di cui la domanda posta è un buon esem­ pio. Ma in che modo il Regno di Dio è già p resente, e quali sono gli indizi che pe rme ttono di riconosce re questa pre­ senza, purché ci sia l 'ape rtura alla fede ? Le « opere » di Ge­ sù sono proprio questi indizi. A chi Gesù rispondeva enumerando queste opere ? Se c'è un divario tra la sua risposta e la formulazione della do· manda posta dal Battista è perché egli non risponde mai direttamente a una domanda di questo genere. Nei Sinotti­ ci, la sola eccezione è la sua solenne dichiarazione davanti a Caifa (Mc 14, 62 e par.); ma i dettagli della risposta han­ no tre formulazioni diverse e la ripresa di due testi scrit­ turistici non è priva di una certa ambiguità 7• Nel IV van· gelo le cose si presentano diversamente per le risposte da­ te alla samaritana (Gv 5, 26) e al cieco nato (Gv 9, 37). Ma il riferimento alle parole di Gesù è sempre -colorato dal­ l'intenzione didattica di «Giovanni il teologo ». Nelle discus­ sioni riferite in Gv 7- l O Gesù risponde con astuzia alle do­ mande che gli vengono poste: lascia intravedere chiaramen­ te solo la sua relazione di intimità con il Padre ( l O, 30). Inoltre ci sarebbe un pericoloso equivoco se Gesù rispon­ desse direttamente alla domanda: « Sei tu colui che viene ? ». .

7

Cf. la presentazione succinta data sopra, pp. 95-96; 98- 1 0 1 . 151

Si è visto in che modo Giovanni si rappresentava «Colui che doveva venire >>: un giustiziere di Dio che si sarebbe manifestato con fragore. Non è questa la vocazione pro­ pria di Gesù. Egli è esattamente «Colui che viene >> perché «è stato inviato » (Mt 10, 40; 1 5, 24; Le 4, 1 8.43; 9, 48; 1 0, 1 6; Gv, 1 6 volte). Ma egli viene in un modo diverso, perché è stato inviato pe r un altro scopo. Ciò che Giovanni diceva effettivamente si realizzerà, ma in un altro modo. Per que­ sto Gesù rinvia Giovanni alle sue « Opere » : in quanto com­ pimento del le Scritture, esse parlano per lui ponendo a coloro che riflettono la questione della fede. Fede nel Re­ gno di Dio la cui venuta è legata alla parola e alla persona di Gesù. Tocca a Giovanni e ai suoi discepoli trarre le con­ seguenze di una risposta che si limita a mettere sul cam­ mino. Lo stesso vale anche per tutti gli ascoltatori di Gesù. Questo varrà ancora, dopo la sua morte e la sua risurre­ zione, per i Giudei che ascolteranno proclamare il suo Van­ gelo e conosceranno così le sue «opere » . I vecchi discepoli di Giovanni, ancora attaccati alla tradizione del Battista (cf. At 1 9, 1 -3), saranno in questa situazione. Si comprende molto bene che il ricordo della piccola ambasce ria inviata da Giovanni a Gesù abbia avuto per loro un maggiore inte­ resse. Del resto nella domanda posta viene fatta notare chia­ ramente la loro implicazione: « ... dobbiamo noi aspettare un altro ? » . Ma non se ne può dedurre, come fa Bultmann, che essi siano chiamati in causa soltanto all 'epoca delle origini cri stiane. Le domande sul significato della missio­ ne di Giovanni, messo a morte nel frattempo da Erode An­ tipa (Mc 6, 1 7-29 e par.), sull'attesa escatologica da lui pro­ clamata, sul rapporto tra lui e Gesù, sul significato della missione di Gesù messo a morte come Giovanni, si porran­ no per essi con sempre più forza col progressivo svilup­ parsi del movimento cristiano. Il richiamo della « sentenza inquadrata » di Gesù trova lì un punto di impatto molto importante, come ha ancora fatto notare H. Schiirmann (Das Lukasevangelium, I, p. 41 3). Ma non c'è alcuna ragio­ ne di rovinare la pericope separando la frase di Gesù e il suo contesto vitale. Bisogna soltanto notare che la pre­ sentazione del contesto è rimasta plastica dal punto di vista letterario, mentre il detto ben ritmato si era fissato quasi letteralmente nella memoria.

1 52

2.

Il compimento delle Scritture

a) I testi di Isaia Ci si sbaglierebbe del tutto - ne ho fatto rilevare un esem­ pio in un'opera recente - se si védesse nella risposta di Gesù l'enumerazione delle «opere potenti » che provereb­ bero, come A + B, che egli è « il più forte » annunciato da Giovanni. Le speculazioni intraprese in questa direzione portano a delle conseguenze assurde: Perché Gesù, se è «più forte » di Giovanni, non viene a liberarlo dalla prigio­ ne, allorché il testo « messianico » ( ?) di Is 6 1 , 1 -2 contiene una promessa di scarcerazione dei prigionieri ? Giovanni avrebbe perciò posto a Gesù una questione di fiducia con uno scopo che non era del tutto disinteressato: lo metteva alla prova per vedere se era, o no, il Messia. Un tale ragio­ namento sarebbe completamente estraneo alla realtà del testo. Infatti, l'annuncio del Vangelo ai poveri non è un ' « opera potente »; ora, la gradazione delle sei opere di Gesù culmina proprio con essa. Il significato del suo detto è da ricercare in un'altra direzione: quella del compimen­ to delle Scritture. Non si tratta delle « opere messianiche », se si intendono con ciò quelle del Messia davidico: nessun testo relativo al Messia regale riferisce a lui qualcosa del­ le sei ope re menzionate. Due di esse, invece, figurano nel testo di Is 6 1 , 1 -2 che, se­ condo Luca, Gesù commentò nella sinagoga di Nazareth an­ nunciando: « Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi ave­ te udito con i vostri orecchi » (Le 4, 16-2 1 ). Ora, questo testo inizia così: « Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Si­ gnore mi ha consacrato con l'unzione ». Originariamente que­ sto discorso era tenuto dal sommo sacerdote nel giorno del­ la sua consacrazione. Il cap. 6 1 fa allusione a due riti cele­ brati, dopo l'esilio, per l'investitura, del sommo sacerdote: l'unzione (6 1 , l) e la vestizione (6 1 , 1 0). Questa investitura era accompagnata da una liberazione di prigionieri, come si fa­ ceva per l'anno sabbatico. Originariamente perciò il di scor­ so era rivolto dal sommo sacerdote al collegio dei sacerdoti che lo circondava (ls 6 1 , 6). Ma al tempo di Gesù lo si leggeva come proveniente da Isaia. Ne risultava una certa idea di «messianismo profetico » ripresa poi dalla teologia cristia­ na per essere applicata a Gesù, almeno in Luca: Questo Ge­ sù, « Dio lo consacrò in Spirito Santo e potenza » (At 1 0, 38). La risposta di Gesù agli inviati di Giovanni comporta effet1 53

tivamente due allusioni a Is 6 1 , 1 -2: « mi ha consacrato con l'unzione per portare il lieto annunzio ai poveri, proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi il recupe ro della vi­ sta » (LXX). Gesù dice: «l ciechi recuperano la vista, [ . ] ai poveri è annunciata la buona novella ». Altre allusioni bibliche rinviano pure a dei testi presi dallo stesso libro di Isaia (ma non soltanto dal « Secondo Isaia », come scrive inavvertitamente Bultmann). Is 29, 1 8 : « In quel giorno i sordi udranno le parole del libro e, uscendo dal­ l'oscurità, i ciechi vedranno ». Gesù dice: «l ciechi riacqui­ stano la vista, [ . . ] e i sordi odono ». Is 35, S-6: « Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei so rdi. Allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del m u to esulterà di gioia>>. Ol tre alle due allusioni già no­ tate, si ritrova nelle parole di Gesù: «Gli zoppi cammina­ no». Infine Is 26, 19 : « Di nuovo vivranno i tuoi m orti, risor­ geranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quel­ li che giacciono nella polvere». Nuova allusione nelle paro­ le di Gesù: « .. .i morti risuscitano ». •••

.

.

.

b) La purificazione dei lebbrosi Soltanto la purificazione dei lebbrosi non figura in nessun oracolo escatologico dei profeti come segno della salvezza finale. Gesù ha messo la guarigione dei lebbrosi in rappor­ to con le Scri tture in un altro modo. Si sa che, secondo le norme fissate dal Levitico, la lebbra - termine che indi­ cava ogni sorta di affezione eu tanea - comportava la se­ gregazione del malato a causa del suo possibile contagio (Lv 1 3 , 45-46). La loro guarigione, considerata come una pu­ rificazione, doveva essere costatata dai sacerdoti e dava luogo a un apposito rituale (Lv 14, 1 -32). I tre Sinottici rife­ riscono una guarigione di lebbrosi (Mc l , 40-44; M t 8, 2-4; Le 5, 1 2- 1 4; cf. A. Paul, in Parcours évangelique; Pe rspecti­ ves nouvelles, Paris 1 973, pp. 23-39, con bibliografia). Ora, si costata che Gesù viola la Legge toccando il lebbroso; ma poi ordina al lebbroso di mostrarsi al sace rdote e di compiere il rituale previsto. Luca riferisce un'altra guari­ gione di dieci lebbrosi: Gesù ordina loro di andare a mo­ strarsi ai sacerdoti e durante il pe rcorso sono guariti (Le 1 7, 1 1 - 1 8). La purificazione dei lebbrosi, con questo gesto o questa frase che li reintegra nella società, ha quindi uno sfondo 154

scritturistico molto chiaro. Se ne avrebbe pure un antece­ dente nella storia di Naaman guarito da Eli seo: Gesù ha fatto esattamente allusione a questa «purificazione » (Le 4 27) Ma c 'era almeno l 'e q uivalente di un rito di purifica­ zione nelle acque del Giordano (2Re 5, 1 3- 1 4). La conclusio­ ne era significativa: «Ora so - diceva Naaman - che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele » (5, 1 5). La purifi­ cazione di un lebbroso è perciò segno della potenza di Dio: Gesù non dice altro poiché vi mostra un segno del suo Re­ gno già venuto. A coloro che lo costatano di comprendere ! ,

.

c) La Buona Novella della Salvezza La prima dimensione del Vangelo, cioè il compimento del­ le Scritture domina interamente la risposta di Gesù agli inviati del Battista. Bisogna riferi rsi a questa risposta per comprendere il significato che egli stesso attribuisce a que­ sti miracoli . Dio, con le sue parole e le sue azioni, trionfa sui mali umani in un certo numero di casi che hanno un valore significativo. Il suo Regno è quindi presente in seno alla storia umana; sta agli uomini accoglierlo con fede. Que­ sta presenza costituisce giustamente l'oggetto del Vangelo annunciato da Gesù. È questa la sua sesta « opera », che non ha niente di miracoloso nel senso fisico del termine: «Ai poveri è annunciata la buona novella ». Questo è l'atto cent rale della sua predicazione, più significativo di tutti benché non colpisca l' immaginazione quanto gli altri. Bi­ sognerebbe riprendere qui tutti i testi che mostrano la pre­ ferenza di Dio per i poveri, a partire dalla prima beatitudi­ ne (Mt 5 , 3 e Le 6, 20). Il Vangelo è un paradossale annun­ cio di felicità: « Beati voi, poveri, pe rché vostro è il Regno di Dio» (versione di Luca). Lo studio critico e teologico di questa beatitudine è stato fatto magistralmente da J. Du­ pont (Les Bea titudes, nouvelle éd., l. Bruges-Louvain 1 958, pp. 29 1 -2 95; Il. Paris 1 969, pp. 1 9-5 1 ; III. Paris 1 973, pp. 4 1 -64 e 385-47 1), perciò non mi soffermo su di essa. Ma sullo sfondo di questa « evangelizzazione dei poveri » che ricevono la Buona Novella della Salvezza c'è tutto il tema della loro difesa nei testi - legislativi, profetici e sapien­ ziali - che trova qui il suo «compimento » ultimo. Quanto alle altre due dimensioni costitutive del Vangelo - il rife­ rimento a Gesù e all'attualità cristiana - le si potranno t rovare esaminando il passaggio dall'« istoriale » allo « Sto­ rico » in questo richiamo delle parole di Gesù. 1 55

3. «Dal l ' lstorlale., allo ccstorlco»

a) L 'aspetto «Ìstoriale >> del testo Come ho detto sopra, è possibile che le controversie tra i primi cristiani di Palestina e gli ultimi discepoli di Gio­ vanni Battista abbiano causato il ritorno del ricordo che riferiva l'ambasceria degli inviati di Giovanni e la risposta di Gesù. Ma la risposta di Gesù va comunque al di là del la cornice di queste controversie: espl icita infatti il significa­ to di tu tti i racconti di miracoli conservati nella memoria al riguardo dei ciechi, degli zoppi, de i lebbrosi, dei sordo­ muti e dei morti ritornati in vita. Vi si costata il dispiega­ mento della potenza di Dio, che accompagna con dei « Se­ gni » l'irruzione del suo Regno quaggiù nell'annuncio stes­ so del Vangelo. Questa interpretazione dei miracoli di Ge­ sù fa parte del Vangelo stesso. Da una parte essa conserva il suo valore nell'ambiente ecclesiale in cui il Vangelo vie­ ne annunciato e ricevuto con fede per essere tradotto in vita; essa esige così che si conservi il ricordo dei segni compiuti da Gesù durante il suo ministero quaggiù. Dal­ l'altra evita il pericolo di interpretare questi segni nella prospettiva del « meraviglioso» di cui il paganesimo era avi­ do: si è ben lontano dalle guarigioni di Epidauro. Nell 'e­ xousia di Gesù, suo «potere » miracoloso, si è manifestata la presenza del Regno di Dio, compresa nella prospettiva aperta dalle Scritture. E se delle guarigioni simili vengono ancora ope rate occasionalmente per mezzo degli apostoli, esse avvengono nel nome del Cristo risorto (cf. At 3, 1 8, dopo la guarigione dello storpio in 3, 1 - 1 0). Nelle comunità locali i « doni della guarigione » sono dei carismi dello Spi­ rito Santo che si comprendono solo in funzione del suo invio nella Chiesa, Corpo del Cristo ( 1 Cor l2, 9, riferita a 1 2, 1 2-30). Tali fatti, la cui realizzazione è solo occasionale e impreve­ dibile, non devono essere compresi come se i cristiani co­ stituissero una setta di guaritori: sarebbe una falsificazio­ ne del Vangelo. I fatti stessi non fanno che prolungare per intermittenza il fatto globale delle guarigioni di cui i van­ geli evocano la realtà. Il logion di Gesù viene conservato perché rimanga la loro esatta interpretazione. Infatti l'im­ maginazione religiosa rischia sempre di infervorarsi, di­ menticando che i segni d�l Regno di Dio culminano nel 156

Vangelo annunciato ai poveri . Di per sé questo Vangelo basta a se stesso; ma i segni sono delle utili indicazioni: ricordano che Dio, conformemente alle promesse profeti­ che, si china verso gli uomini oppressi dal male. La spe­ ranza cristiana è rivolta verso il giorno in cui Dio trionfe­ rà per sempre su questi mali (cf. Ap 22, 2), con la morte ultimo nemico ad essere distrutto ( 1 Cor 1 5, 26; Ap 20, 1 4; 2 1 , 4). Le risu rrezioni di morti, rare nei racconti evangeli­ ci, sono il segno e l'annuncio di questo trionfo finale che fa parte della speranza cristiana. Ma è neces sario precisa­ re che il fatto stesso non si può descrivere ? L'« istoriale » del testo, nella sua portata ecclesiale, ingloba così un insegnamento generale che spiega nel lo stesso tem­ po il significato dei mi racoli e il significato del Vangelo annunciato ai poveri, sia durante la vita di Gesù che nel tempo della Chiesa. Tramite ciò fa percepire l'atteggiamento di Dio nei riguardi dei mali umani: nell'esistenza e nelle azioni di Gesù questo atteggiamento viene svelato come un pietà senza limiti per l'umanità sofferente e povera. Que­ ste sono le caratteristiche di coloro ai quali viene annun­ ciata la Buona Novella del Regno di Dio e della Salvezza. b) Il radicamento storico del testo La portata ecclesiale del testo non perderebbe ogni consi­ stenza se non avesse un radicamento storico reale ? Bult­ mann (L 'histoire . . , p. 40) conservava le parole di Gesù solo come espressione simbolica della sua speranza in un Re­ gno di Dio che, pensava, cominciava adesso. Per tale ragio­ ne egli att ribuiva alla « Comun ità » anonima la sua cornice letteraria. La reinterpretazione dei logion potrebbe essere solo posteriore alla formazione delle tradizioni leggenda­ rie relative ai miracoli di Gesù. Si ritrova qui la posizione ipercritica di Bultmann riguardo ai miracoli 8• Si direbbe che egli non veda più la differenza tra i « segni provenienti dal cielo » rifiutati da Gesù (Mc 8, 1 1 - 1 3 = Mt 1 6, 1 -4, con ag­ giunta del « segno di Giona ») e i suoi miracoli come « Se­ gni >> nel senso giovanneo (Gv 2, 1 1 .23; 3, 2; ecc.), che porta­ no a compimento le Seri tture e mostrano la presenza del Regno di Dio senza violentare il libero impegno della fede. In realtà il problema delle «opere » di Gesù, di cui non si .

8 Cf.,

in Vangeli e storia, l'Excursus n. 5, pp. 1 68- 1 7 1 .

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deve eludere la realtà, si poneva per tutti i suoi contempo� ranei e, di con seguenza, anche per il Battista nella misura in cui egli ne sentiva parlare nella sua prigione . Stando ai testi che i tre Sinottici hanno in comune, il se� guito delle cose appare come molto logico. Giovanni aveva annunciato la venuta di uno « più forte », nello stesso tem� po giustiziere e salvatore. Gesù ricevette il suo battesimo e, prima dell 'arresto di Giovanni, entrò in modo molto per­ sonale nel movimento battista attirando alcuni discepoli di Giovanni (Gv l , 35-50; 3, 2 2-24). Dopo l'arresto di Giovan­ ni la sua predicazione cambiò aspetto prendendo come te­ ma fondamentale il Vangelo del Regno di Dio (Mc l , 1 4b). Dei discepoli si unirono allora a lui lasciando tutto per seguirlo (Mc 1 , 1 6-20; 2, 1 3� 1 4; cf. 1 0, 28 e par.). Ne risultò una missione che non era più nella linea tracciata dal Bat­ tista. Costui, imprigionato nella fortezza di Macheronte, a sud della Perea, riceveva i rapporti dei suoi discepoli sulla piega presa dagli avvenimenti e si poneva, molto nor­ malmente, la domanda della missione particolare affidata da Dio a questo antico bat tista, che non proclamava più soltanto lo stesso messaggio di penitenza e di attesa esca­ tologica. Se ci si collega dal punto di vista di Giovanni, la situazione di Gesù rimaneva ambigua. Era forse « Colui che viene >>, di cui Giovanni aveva annunciato la venuta ? A questo c 'era un'obiezione: egli non praticava il battesi­ mo nel « Fuoco» . La domanda posta non riguardava il Mes­ sia davidi co, di cui del resto il messaggio di Giovanni non parlava, se si prendono per veri i sommari che ne danno i nostri vangeli. Nemmeno la risposta di Gesù ne parlava: egli è colui il cui Vangelo, annunciato ai poveri, apre la strada al Regno di Dio e lo rende già presente, come dimo­ strano le opere che lo accompagnano. Tutto ciò si combi­ na bene. Per la « sentenza inquadrata » di Gesù si può perciò risalire senza problema dall'« istoriale » allo « Storico». B isogna tut­ tavia valutare le difficoltà dell 'operazione, come aveva in­ telligentemente notato A. George (in «Paroles de Jésus sur les miracles », Jésus aux o rigines de la christologie, pp. 289-292). Per la costruzione letteraria del quadro narrati­ vo, si può già notare che il titolo dato a Gesù (« Colui che viene » - ho e rkhomenos) era poco attestato nel Giudaismo. Infatti, i ricercatori sono imbarazzati nel trovargli dei prece­ denti. V. Taylor ( The Names of Jesus, pp. 78s) trova uno sfon1 58

do biblico soltanto nella versione greca di Ab 2, 3 e nel Sal 1 1 8 , 26: « Colui che viene nel nome del Signore » (citato in M t 23, 39 = Lc 1 3 , 35). L. Sabourin (Les noms et ti tres de Jésus, pp. 33-37) cerca altri precedenti là dove si parla della ve nuta di Dio, del Figlio dell 'Uomo (Dn 7, 1 3), dell 'Angelo dell'al leanza (MI 3, 1 ), del Re futuro (Gen 49, 1 3 , interpretato messiani­ camente).

In realtà il titolo acquisterà tutto il suo valore solo dopo la Pasqua: Gesù sarà quindi riconosciuto come Colui di cui si attende la venuta, « Colui che viene » (cf l Cor 1 6, 22, in aramaico; Ap 22, 20, in greco: « Vieni, Signore ! »). Questa osservazione non vieta che il titolo sia stato adoperato da Giovanni Battista in un senso molto particolare, poi ripre­ so e reinterpretato dopo la Pasqua in una nuova prospetti­ va. Ma non si deve proiettare su Giovanni il suo significa­ to post-pasquale. Inoltre, proseguiva A. George, l'enumera­ zione delle « Opere » di Gesù riveste un aspetto trionfale che si comprenderebbe meglio nell'apologetica post-pasquale che durante il ministero galilaico di Gesù: è allora in effet­ ti che il significato delle sue « opere >> sarà percepito nella sua pienezza. Tuttavia non conviene negare a Gesù stesso la percezione di questo significato, che non sta nella mani­ festazione del suo trionfo personale ma in quella del Re­ gno di Dio che viene « Secondo le Scritture », essendo la missione propria di Gesù votata all'evangelizzazione dei po­ veri e potendo provocare sia la fede, sia lo scandalo (« Bea­ to colui che non sarà scandalizzato da me ! »). Concludiamo perciò che il detto e il suo contesto possono essere ri tenuti come sostanzialmente storici. Tuttavia il rac­ conto dell 'episodio è molto breve. La domanda posta viene racchiusa in una breve frase. Il quadro così cost ituito ha tutte le caratteristiche di un semplice ri assunto: i soli ele­ menti dello « storico » che sussistono sono stati selezionati in funzione dell'« istoriale » che essi hanno lo scopo di valo­ rizzare. Per questa ragione la loro formazione narrativa comporta delle differenze in cui si possono riconoscere i metodi propri di Matteo e di Luca. La « verità » del quadro narrativo non va ricercata in questi dettagl i variabili: bi­ sogna prendere questo quadro in blocco, senza meravigliar­ si della libertà dei narratori. Al contrario, la risposta di Gesù presenta un ritmo poetico che garantisce meglio la sua fraseologia primitiva. Non è difficile ricostruirne il possibile originale aramaico, 159

rispettando l'as senza di determinazione che in greco è se­ gnata dalla mancanza di articoli. Tutti i verbi greci al pre­ sente corrispondono a dei participi aramaici che denotano un'azione in corso di svolgimento. Per l'introduzione in pro­ sa, il te sto di Matteo s'impone da sé, poiché gli aoristi gre­ ci di Le 7, 22 non fanno che richiamare il contenuto di 7, 2 1 , introdotto secondariamente nel racconto. Inoltre dietro il participio che accompagna il verbo principale (pareuthen­ tes apangeila te) si possono supporre due verbi aramaici coordinati da un w-. Si arriva al testo seguente: 'ato rvahaiJ(Jwo liyeho �1a11 a11 di 'an tuu � à nz e in w!ulzayin : '

s d n zayin IJazayin wa bagiritt nz�hallekin,

mesà r 'in nzl'dak k ayin rvehar�in �atnf' 'in, nr itin 'àytritt w 'i11 w"tànin m itba��"ritt ,

wtubohi delnatt d"/a yittaqqal bi.

Naturalmente si tratta soltanto di un'approssimazione in aramaico imperiale, e non in aramaico dialettale pale­ s tinese. 4. Per una lettura •evangelica» della pericope

La riflessione sul testo può apri rsi con una « composizione di luogo » che si ispiri sia a Matteo che a Luca: la loro evocazione delle circostanze nelle quali Gesù pronuncia il suo detto decisivo è fatta proprio per questo. Ma si è così condotti a far propria la domanda posta dal Battista. Cia­ scuno la pone spontaneamente dopo la lettura di questa pagina del Vangelo, tanto più che tutti i mali umani sussi­ stono durante il tempo della Chiesa. La pongo io stesso a nome dell'umanità sofferente e povera. Ora, « il Signore » (Le 7, 1 9) non mi risponde diversamente che a Giovanni. Mi ricorda che dal tempo del suo ministero dei « segni » hanno sempre accompagnato l'annuncio del suo Vangelo. Occasionali e imprevedibili, quando si trattava di guari­ gioni di mali umani, ma sufficienti per risvegliare l'atten­ zione che rischiava di venir meno. Ma si tratta semplice­ mente nell'ordine fisico che dei ciechi vedono, degli storpi camminano, dei lebbrosi sono purificati, dei sordi odono e dei morti risuscitano ? Non c'è una rel azione simbolica molto forte tra il male fisico sotto tutte le sue forme e 1 60

il male morale? Non sono entrambi indici di una stessa· miseria umana verso la quale Dio si china per guarirla, di una povertà che è oggetto della sua pietà ? Per questo il segno più importante in cui culmina la mis­ sione di Gesù è l 'ultimo della serie: « ai poveri è annunzia­ ta la buona novella ». La Buona Novella della Salvezza vie­ ne annunciata a coloro che sono poveri, fisicamente e mo­ ralmente . Io che leggo il testo sono questo povero. Ma in quanto depositario del Vangelo ho anche la responsabilità della sua comunicazione agli altri poveri. Tutti gli annun­ ciatori del Vangelo assumono con sufficiente forza la pre­ ferenza di Gesù per i poveri, segno della preferenza di Dio ? Domanda inevitabile, materia di esame di coscienza. Enumerando inoltre i segni della sua missione, Gesù non ha detto che il loro significato costituiva un'evidenza co­ stringente. Ha anche lasciato capire che lo spirito umano può anche inciampare su di essi: « Beati coloro per i quali non sarò occasione di scandalo ». Poteva egli porre in mo­ do più chiaro il problema della « decisione di fede » ? Que­ sta domanda si pone a me come a tutti i membri della Chiesa, come a tutti gli uomini; infatti l'esperienza del ma­ le accompagnerà sempre questo mondo. Come accordare un tale fatto con le promesse evangeliche ? La Buona No­ vella della Salvezza viene annunciata ai poveri; ma annun­ ciandola, Gesù stesso non si sottrae all'esperienza dei mali umani. Li assume perché gli uomini trovino nella sua cro­ ce il mezzo per dare ad essi un senso. È il contrario delle parole di gioia comunicate a Giovanni Batti sta. Entrambi gli aspetti devono essere tenuti presenti perché il « collo­ quio)> con il Cristo non corra il rischio della delusione. V. SULLA FUNZIONE PROPRIA DI PIETRO

L'ultimo esempio scelto ha un interesse particolare per due ragioni. Da una parte il suo quadro narrativo attuale è co­ mune ai tre Sinottici. Ma dall'altra il detto di Gesù che riguarda la funzione di Pietro figura sol tanto nel vangelo di Matteo. Esso si collega strettamente con un'indicazione data dai quattro vangeli in due contesti differenti. Nei Sinottici il soprannome dato da Gesù a Simone viene menzionato al momento della chiamata dei Dodici (Mc 3, 1 6; Mt 1 0, 2; Le 6, 14). Ma non se ne può dedurre che Gesù l'ab161

bia soprannominato Pietro in questo momento. Nel IV van­ gelo, fin dai primi contatti di Gesù con i discepoli del Bat­ tista (Gv l , 35-5 1 ) , Andrea conduce suo fratello Simone a Gesù: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: '�Tu sei Simone figlio di Iona; ti chiamerai Kephas" (che vuoi dire Pietro) » (Gv l , 42). Questo soprannome è probabilmente un epiteto di carattere. Il nome del padre di Simone è attesta­ to sotto due forme: lona e loannes (la forma Ioanna è un miscuglio delle due). La seconda forma ha l'appoggio di Gv 2 1 , 1 5- 1 7 (3 volte). Simon Ioannou rinvia a un ebraico Yohanan. La prima fonna spiega il testo di Mt 1 6, 1 7: «Beato te, Simone, Ba riona ». Non c'è motivo di far ricorso all'ara­ maico tardivo ba ryona, « il brigante ». Questa tesi, avanzata da R. Eissler e adottata da S.G.F. Brandon (Jésus et [es zé­ lo tes , t r. fr. , Paris 1 967, pp. 232s) è legata alla sua inter­ pretazione politica della morte di Gesù e delle origini cri­ stiane: Pietro sarebbe stato un « fuorilegge >> o un « ribelle », legato agli zeloti. Ma il termine zelotes, attestato da Giu­ seppe Flavio come nome di un partito dopo il 60, avrebbe avuto il suo significato politico fin dal tempo di Gesù, al­ lorché designa chiaramente lo zelo religioso in altri testi del Nuovo Testamento (Gal l, 1 4; At 2 1 , 20; 22, 3) ? Scartata questa tesi, resta la trascrizione aramaica di un nome pa­ terno con l'aiuto dell 'aramaico ba r, « figlio di. .. >> . Ma Iona è il nome del profeta Giona ( = Colomba, poco frequente) o un'abbreviazione di Yohanan, non attestato altrove ? Co­ munque sia, qui dobbiamo analizzare in dettaglio la dichia­ razione di Gesù a Pietro. Bibliografia

MI

Matteo 1 6, 16- 1 9

Per questi versetti e i l contesto nel quale essi figurano, i l con­ fronto dei tre sinottici obbliga innanzitutto a consultare i loro commentari critici. Per Matteo cito a titolo di esempi s ign ificativi quelli di Lagrange (4 1 927), Schmid f 1 965), Bonnard ( 1 963), Grund­ mann ( 1 968), Rademakers ( 1 972), Sabourin ( 1 978), Beare ( 1 98 1 ). La pericope di Mt 1 6, 1 3-23 è stata oggetto di particolari studi . Segnalo in modo particolare: O. Cullmann, Saint Pie rre: Disciple, apotre, martyr. Neuchatel 1 952. Presentazione critica importante di P. Benoit in RB, 1 953, pp. 565-579 ( = Exégèse et théologie, II, pp. 285-308). Dello stesso autore, in seguito all 'articolo di Cassien Bésobrasoff, « Saint Pierre et l' Église dans le Nouveau Testament>> (lstina 1 965), uno studio su «La primauté de S. Pierre selon le 1 62

N .T. >> . ( = Exégèse et théologie, II, pp. 250-284). A. Vogtle, « Messias­ bekenntnis und Petrusverheissung. Zur Komposition Mt 1 6, 1 3-23 », in Das Evangelium und die Evangelien, Dusseldorf 1 97 1 , pp. 1 37- 1 70. R. Pesch, « Das Messiasbekenntnis des Petrus (Mt 8, 27-30). Neuverhand lung einer alten Frage », BZ 1 7 ( 1 973), pp. 1 78- 1 95. J. Kahmann, « Die verheissung an Petrus», in L 'évangile selon Mat­ thie u: Rédaction et théologie, Gembloux 1 972, pp. 2 6 1 -280 (il ter­ mine ekklesia viene da un ambiente giudeo-cristiano di lingua gre­ ca, benché il gioco di parole su Kefa sia comprensibile soltanto in aramaico). Volume col lettivo interconfessionale: R. E. Brown, K. P. Donfried, J. Reumann, Saint Pie rre dans le N. T. , tr. fr., Paris 1 974, pp. 83-89 (Mc) e 1 05- 1 26 (Mt); con un'importante bibliogra­ fia su Mt 1 6, pp. 2 1 4s . Inoltre si posso no consul tare gli articoli « Petros-Kephas », TWNT, VI, pp . 1 04- 1 09 (0. Cullmann), e « Petra-Petros », Ex. Wb z. N. T., III, p p . 1 9 1 -20 1 (R. Pesch, con una bibliografia recente). J. A. Fitz­ myer, «Aramaic Kepha' and Peter's Name in the N . T. », in Tex t and Inte rpretation: Studies in the N. T. Presentend to Matthew Black, Cambridge 1 97 9, pp. 1 2 1 - 1 32 . Articolo in: A cause de l 'Évangi/e, Mélanges offert à J. Dupont: « L'origine de Mt XVI, 1 5 - 1 9 » (ipotesi di lavoro presentata anche qui).

1 . Osservazioni critiche su l testo

Nei tre Sinottici, dopo la « sezione dei pani» 9, si apre una nuova sezione che presenta parallelamente gl i stessi testi e conduce fino all'episodio della Trasfigurazione (Mc 8, 27-9, l ; Mt 1 6, 1 3-28; Le 9, 1 8-27). Vi si distinguono tre pezzi separabili: tutto ciò che ruota attorno alla confessione di fede enunciata da Pietro (fino a Mc 8, 30; M t 1 6, 20 e Le 9, 21 ); poi il primo annuncio della passione, seguito da un rimprovero a Pietro (Mc 8, 3 1-33; Mt 1 6, 2 1 -23; Le 9, 22-25, con omissione del rimprovero); infine una raccolta di logia che è stata già esaminata a proposito di uno di essi 1 0• La sola sezione che è direttamente in causa qui è la prima; ma non la si può comprendere correttamente senza con­ frontarla con la finale della seconda in Mc e M t. O. Culi­ mano (Saint Pie rre, p. 1 56) vede nella protesta di Pietro e il rimprovero di Gesù « il punto culminante di tutto l'epi­ sodio di Cesarea di Filippo », basandosi su Marco. Per tar­ le ragione egli scarta Mt 1 6, 1 7- 1 9 dal racconto primitivo. Si vedrà che la questione è più complessa. 9 Testo l O Cf.

commentato in Vangeli e storia, pp. 147- 168. sopra, pp. 64-68.

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a) L 'inizio della sezione L'inizio di tutta la sezione è chiaramente redazionale, a causa della differenza delle pericopi che la precedono nei tre vangeli: la messa in guardia contro il lievito catt ivo in Matteo ( 1 6, 5- 1 2), la guarigione del cieco di Bethsaida in Marco (8 , 22-26), l'unico racconto della moltiplicazione dei pani in Luca (9, 1 0- 1 7). Matteo ( 1 6, 1 3a) sembra seguire Marco abbreviandolo: la scena accade « nella regione di Ce­ sarea di Filippo » (Mt) o sulla strada che porta ai suoi vil­ laggi (Mc). Luca mostra Gesù che prega in disparte, aven­ do con sé i suoi discepoli. Però la domanda che Gesù pone a costoro è la stes sa, con delle semplici varianti letterarie: « Chi dice la gente che io sia? » (Mc); «Chi le folle dicono che io sia ? » (Le); « La gente chi dice che sia il Figlio del­ l' Uomo ? )) (Mt). Le risposte sono sostanzialmente identiche (Mc 8, 28; Mt 1 6, 1 4; Le 9, 1 9 evoca un antico profeta « risor­ to dai morti >>). Viene allora la domanda di Gesù: «Ma voi chi dite che io sia ? » . La risposta, a nome dei Dodici, la dà Pietro (Mc-Le) o Simon Pietro (Mt). Il IV vangelo presenta un certo paral­ lelismo, enunciato pure da Pietro (Gv 6, 68a). Ma qui le quat­ tro formule divergono. Marco: «Tu sei il Messia » (lett . in greco: « il CristO >>). Luca: « Il Messia di Dio». Matteo: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente » . Giovanni : « Noi cre­ diamo e sappiamo che sei il Santo di Dio )> (con molte va­ rianti nei manoscritti a causa della contaminazione dei te­ sti: cf. gli apparati critici della Sinossi di K. Aland, p. 230, o il Novum Testamentum di Nestle-Aland, p. 269). Passo per il momento sopra i vv. 1 7- 1 9 di Matteo che fanno logi­ camente seguito alla confessione di fede così come l'evan­ gelista l'ha notata. I tre testi sinottici si ricollegano per dire che Gesù raccomanda (Mt), o ingiunge (Mc), o ingiun­ ge e prescrive (Le) ai discepol i « di non parlare a nessuno di lui >> (Mc), o « di non dire ciò a nessuno » (Le), o « di non di re a nessuno che egli era il Messia» (Mt). La variante di Matteo è nella logica della confessione di fede che egli ha notato con la sua pienezza di significato. b) L 'annuncio della Passione Solo Luca collega strettamente il paragrafo seguente al­ l'ingiunzione appena data: « Egli al lora ordinò di non dire ciò a nessuno dicendo: il Figlio dell'Uomo deve soffrire mol1 64

to, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo gior­ no » (Le 9, 2 1 22 ) . Marco stacca l'annuncio della Passione: «E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell 'Uomo doveva molto soffrire ». La sua evocazione della sorte futura di Gesù è quasi letteralmente la stessa, eccetto nel finale do­ ve si parla di « risuscitare dopo tre giorni ». L'evangelista aggiunge: « Gesù faceva questo discorso (ton logon) aperta­ mente >> (Mc 8, 32a). L'espressione è un buon aramaismo in cui ton logon potrebbe tradursi « la cosa». Matteo prosegue il suo racconto nella logica della confes­ sione di fede che egli ha riferito: « Da allora Gesù Cristo ( = Messia) cominciò a di re apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da par­ te degli anziani, dei sommi sacerdot i e degli scribi, e veni­ re ucc iso e risuscitare il terzo giorno » (Mt 1 6, 2 1 ). Al di fuori del titolo del vangelo (Mc l , l ; Mt l , l ) questo è l'uni­ co caso in cui viene adoperata l'espressione « Gesù Cristo» nei Sinottici (Giovanni soltanto in l, 17 e 1 7 , 3). Questa par­ ticolarità stilitistica viene richiamata dalla solennità che Matteo ha dato alla confessione di fede di P ietro, porta­ parola dei Dodici, ma anche enunciatore di una fede cri­ stiana pienamente sviluppata. Le parole di Gesù a Pietro (Mt 1 6, 1 7- 1 9) danno una risposta a questa fede. Quanto al­ l'evangelista, egli usa per una volta lo stile indiretto, quan­ do introduce il primo annuncio della Passione ( 1 6, 2 1 ). -

...

c) La p rotesta di Pietro

Si re sta molto sorpresi nell'assistere in Matteo alla scena seguente, che invece in Marco è del tutto comprensibile. Lì Piet ro aveva detto: « Tu sei il Messia»; formula molto ambigua, conoscendo le idee preconcette che le folle giu­ daiche di quel tempo avevano nei riguardi del Messia davi­ dico, artefice designato di una liberazione politica. Costatiamo la continuità di questo fatto ben noto nella lettera­ tura degli ambienti fari saici, dai Salmi di Salomone 1 7, 2 1 -3 1 (citato i n L 'espé rance juive à l 'heure de Jésus, pp. 9Ss) all'Apo­ calisse di Esdra 1 2 , 32-34 (ibid., p. 1 80) e 1 3, 8- 1 1 (pp. 1 8 l s), e nel Targum palestinese del Pentateuco su Gn 49, 1 2 (p. 205) e su Nm 24, 1 7- 1 9 (p. 209). Giuseppe Flavio ha conservato il ricordo di questo messianismo politico che portava facilmente all'attivismo (pp. 1 39- 1 48). 165

Gesù arresta subito un entusiasmo equivoco che non cor­ risponde né alla sua missione né al futuro che egli intrave­ de. Erode infatti si interessa di lui con intenzioni pericolo­ se (Mt 6, 1 4- 1 5) e i Farisei gli tendono dei tranelli (Mc 8, 1 1 ). Egli ha messo in guardia i suoi discepoli contro « il lievito di Erode e dei Farisei » (Mc 8, 14; Mt 1 6, 6 aggiunge: « dei Sadducei »). Se è partito verso i villaggi di Cesarea di Filip­ po, in Decapoli, si può presumere che la minaccia della polizia di Erode è reale, infatti Erode vede in Gesù un « Gio­ vanni Battista redivivus » (Mc 6, 1 4. 1 6). Inoltre l'allusione agli anziani, ai sommi sacerdoti e agli scribi nell'annuncio del la Passione non è necessariamente una « profezia post eventum » . La redazione degli annunci della Passione è cer­ tamente posteriore agli avvenimenti, che hanno potuto ave­ re influenza sulla loro formulazione letteraria (specialmente per la terza: Mc 10, 33-34 e par.). Ma perché bisognerebbe richiedere un'esattezza alla lettera a testi che non sono, in ogni caso, che dei riassunti schematici? L'incompren­ sione e lo sbigottimento dei discepoli vengono in seguito rilevati con costanza (Mb 8, 32b; 9, 32; 1 0, 32a): il meno che si possa dire è che il loro ri tratto non è per niente adulato­ rio. Questo dettaglio suona in favore della sostanziale au­ tenticità dei testi. Ritornando all'opposizione del le autorità religiose, tutte le categorie dei membri del Sinedrio sono rappresentate nel­ l 'enumerazione dei nemici di Gesù. Se ci si attenesse ai dati dei Sinottici ci si potrebbe domandare perché. Ma il IV vangelo aiuta qui a completare mostrando che Gesù è già andato diverse volte in pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione delle feste: si comprende allora che sia stato fatto segno a delle aperte o velate opposizioni. Avendo con­ tro il potere politico (Erode) da una parte e il potere reli­ gioso (il Sinedrio) dall'altra, sapendo quale era stata la sorte di Giovanni Battista, Gesù può lucidamente intravedere un insuccesso finale della sua predicazione e un sorte simile. È quanto dice ai Dodici. Allora arriva la replica di Pietro: « Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai ! » (Mt 1 6, 22; Mc 8, 32b non precisa le parole). Gesù percepi­ sce esattamente questa protesta come l'espressione di una tentazione satanica che lo spingerebbe verso un messiani­ smo politico di prestigio e di potenza: è esattamente uno dei temi del racconto della sua tentazione in Matteo (4, 8- 10) e in Luca (4, 5-8). Donde la sua replica severa: « L ungi da 1 66

me, Satana! [Mt aggiunge: tu mi sei di scandalo], perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini ! ». È chiaro che la protesta di Pietro è pienamente conforme alla professione di fede molto ambigua che si legge in Mar­ co: «Tu sei il Messia» - nel senso politico del termine. La prospettiva dell'insuccesso, della sofferenza e della mor­ te viene per il fatto stesso scartata. Luca l'ha capito così bene che ha ritoccato leggermente questa formulazione del­ la fede: «Tu sei il Messia di Dio »; e ha poi soppresso la protesta di Pietro e il suo rimprovero. Matteo ha conserva­ to quest'ultima scena perché faceva parte del materiale evangelico tradizionale (probabilmente attinto qui da Mar­ co). Ma in lui, essa è in aperta contraddizione con la per­ fetta formula di fede crist iana che ha messo sulla bocca di Pietro, con il conseguente elogio che Gesù gli rivolge, e infine con la promessa che gli ha appena fa t t o. Siamo così indotti a domandarci da dove venga il testo particola­ re su M t 1 6, l � 1 9, che stona nella logica del racconto. 2. La promessa di Gesù a Pietro

Possiamo lasciare da parte senza il minimo rincrescimen­ to l'ipotesi di una creazione dovuta alla chiesa di Roma che in tal modo avrebbe voluto assicurarsi una superiorità sulle altre chiese. Questa fu un tempo l'opinione di H. J. Holtzmann (cf. O. Cullmann, Saint Pierre, pp. 1 48s), ma è un 'idea, lanciata per motivi polemici antiromani, assurda dal punto di vista esegetico: il testo apparteneva fin dall'o­ rigine allo seri tto greco di Ma tteo, che non aveva alcun contatto con la chiesa di Roma. Ma se ne può circoscrive­ re l'origine in un modo più preciso. a) L 'origine a ramaica del testo Il radicamento giudeo-cristiano del testo - e più esatta­ mente: aramaico è molto sicuro. Il gioco di parole sul nome di Kepha si comprende solo in questa lingua, poiché in greco comporta un cambiamento di genere (pe troslpe­ tra) che lo distrugge o lo affievol isce. Inoltre la moltiplica­ zione degli aramaismi - ivi compresi quelli che rinviano al linguaggio rabbinico come « slegare » e « sciogliere >> invita a tentare una ritraduzione in aramaico di tutto il -

1 67

dialogo. Certamente, la semplice possibilità di una ritra­ duzione non è una prova: invano si classificherebbero gli aramaismi per determinare quelli che sono probanti e quelli che non lo sono, poiché la loro esistenza viene dimostrata solo grazie al critico che li ricostruisce. Tuttavia la verifi­ ca di una possibilità non è inutile. Nel caso presente essa è in connessione con una piccola particol arità del greco che essa spiega molto bene: è l'uso della coniugazione pe­ rifrastica al posto del verbo pas sivo nel v. 1 9b, per « sarà legato » (estai dedemenon) e « sarà sciolto » (estai lelumenon). Questa espressione del passivo con l 'aiuto del verbo «esse­ re » accompagnato da un participio perfetto non era scono­ sciuta in g reco classico; ma si dà proprio il caso che sia corrente in aramaico, da Henoch e Daniele fino ai Targum. Lascio qui da parte il problema delle differenze tra l'aramaico imperial e (Henoch, Daniele, Testi di Qumran, che ne costitui­ scono l e ultime testimonianze) e il dialetto giudeo-aramaico della Galilea. Per il vocabolario e le forme essé sa rebbero qui poco importanti. Tuttavia la vocalizzazione rimane necessaria­ mente ipotetica: prendendo un termine medio t ra quella dei Masoreti (per Daniele) e quel la dei Targum, più tardiva e anco­ ra piu incerta, si ha un 'idea di quella che poteva essere, niente di più. Il risul tato che propongo è abbastanza differente da quello che J. Jeremias ( Teologia del NT, tr. fr. , p. 32) aveva p reso da Bumey ( The Poe try of Ou r Lord, p. 1 7 1 ): il dialetto da lui scelto era troppo tardivo e vi si potevano ri scont rare diversi errori di ritraduzione, specialmente per la coniugazio­ ne perifrastica che ho segnalato (resa con un verbo all itpe e l) Un dettaglio può essere oggetto di esitazione: « Padre mio che è nei ciel i», è 'abf (con il suffisso) o 'abba ? Nella mia trascri­ zione in caratteri latini, lo stato costrutto del maschile plurale sarà notato da e (la -y è un semplice chiave di let tura, essendo­ si contratto il dittongo -ay). Gli accenti circonflessi segnano le matres lectionis che suppongono una vocale lunga. "

'

.

La mia traduzione si ricollega per l'essenziale con quella

di J. A. Fitzmyer (« Aramaic Kepha' and Peter's Name in the New Testament », in Festsch rift M. Black, Cambridge 1 979, pp. 1 2 1 -1 32). Ecco la ritraduzione dei vv . 1 6- 1 9, inclusa la confessione di Pietro nella forma propria di Matteo: 1 6 . tva 'ana �;,, 'òn kè{a rve 'anzar : 'anta hz"t ' uzt�ilui bereh dé 'éJaha �Jayya. 1 7. wa 'ana y��u ' we 'anzar leh : 168

{ùbayk, �ùn 'o n bar y61ui, di IJesar wrdaut la gela lak, 'ella 'abba Jeb;�cn tayya . 1 8. t.ua 'ana lak 'anzar di 'atìta hu ' ke(a, we 'a/ kefa den 'ébne ' qaha/i weta r 'e �rol la yatqifun bah. 1 9. we'énten làk 111a(te�e nzalk uta di �enz ayya wedi té'sar 'al 'ar 'a léhéz.ue 'asir bi�etnayya, wdi ti�re 'al 'ar'a lehéwé �eré bi�ttnayya.

.

Si tratta evidentemente di un'approssimazione. I buoni co­ noscitori dell'aramaico vedranno subito i suoi limiti, spe­ cialmente per quanto riguarda la vocalizzazione . Ma la na­ turalezza della ritraduzione in cui viene rispettato l'ordine attuale delle parole greche, come pure gli aramaismi che si percepiscono sotto il vocabolario, depongono nettamen­ t e contro una costruzione greca tardiva in ambiente cri­ stiano ellenistico. La conservazione del testo, o la sua formulazione lettera­ ria, rinvia perciò alla prima comunità palestinese di lin­ gua aramaica. Questo punto trova il consenso della mag­ gior parte dei critici, che del resto non convergono nell'in­ terpretazione del passo. M. Goguel (L 'Eglise p ri m iti ve , Pa­ ri s 1 947 , p. 189) citava già in questo senso i nomi di Harnack, H oli, Bultmann, K. L. Schmidt, J. J eremias . Bi­ sogna aggiurlgere ad essi Cullmann (Saint Pie rre, pp. 1 67s), Brown-Donfried-Reumann (Saint Pierre dans le N. T. , p. 1 1 4) e altri commentatori di Matteo. In questo quadro si com­ prendono molto bene gli idioti smi come « carne e sangue » (non determinato), « le porte degli inferi » ( = dello She61), il « Regno dei Cieli » (la cui costruzione al genitivo potreb­ be avere varie forme), « legare e sciogliere ». b) L 'origine post-pasquale del racconto Bisogna soprattutto rilevare due indizi che denotano un «contesto vitale » posteriore alla risurrezione di Gesù: l) La professione di fede di Pietro non ha più l' ambiguità che si riscontrava nella recensione di Mc 8, 29: Gesù non viene riconosciuto soltanto come « i l Messia» (alla maniera giudaica), ma anche come «il Figlio del Dio vivente ». 1 69

L'epiteto di «vivente » unito al nome di Dio viene dall'Antico Testamento (per esempio Os 2, l , citato in Rm 9, 2 6), special ­ mente dal li o ro di Daniele (Dn 6, 2 1 .27 = Teodozione 6, 20.26; cf. 4, 3 1 ; 1 2 , 7). L'espressione si trova nel Co rpus paolina ( 1 Ts 1 , 9; 2Cor 3 , 3 e 6, 1 6; l Tm 3, 1 5 e 4, 1 0), nell 'epistola agli Ebrei (3 , 1 2; 9, 1 4; 1 0, 3 1 ; 1 2 , 22), una sola volta nell'opera di Luca (At 1 4, 1 5 , che sembra dipendere da 1 Ts 1 , 9), nell 'Apocalisse (7, 2 e 1 5, 7; cf. 1 0, 6). Ma il « Figlio del Dio vivente » si trova soltanto qui e nella formulazione della domanda di Caifa in Matteo (M t 26, 63): Marco ha « il Figlio del Benedetto » ( 1 4, 6 1), e Luca, « i l Figlio d i Dio )) (22, 7 0 , con uno sdoppiamento della domanda).

In realtà si tratta di una professione di fede cristiana che si comprende soltanto dopo la pasqua, una volta che il mi­ stero del la persona di Gesù era stato definitivamente sve­ lato. Del resto l'espressione di Ge sù, riprendendo la termi­ nologia delle apocalissi, ne fa una « rivelazione » che viene direttamente da Dio. Lo stesso vale per la « rivelazione » di Gesù Cristo ricevuta da San Paolo al momento della sua conversione (cf. Gal l , 1 1 ): « Quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annun­ ziassi in mezzo ai pagani, subito, senza con sul t are carne e sangue , ecc. » (Gal l , 1 5- 1 6). La vicinanza dei due testi è notevole. 2) Inoltre, l'introduzione del termine « chiesa» (ekklesia

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qah aziì piuttosto che k enish tiì) per designare la comunità la cui fede è stata proclamata, suppone pure una prospet­ tiva post-pasquale. L'intenzione di dare una struttura al gruppo dei discepol i esisteva certamente in Gesù prima della Pasqua: la scelta dei Dodici, con la promessa che l'ac­ compagna (Mt 1 9, 28 = Lc 22, 30b), suppone un « compimen­ to )) futuro che si ricollegherà alla venuta definitiva del Re­ gno di Dio (cf. Le 22, 1 6- 1 7) e a quella del Figlio dell'Uomo (Mt 1 6, 28, con il Figlio dell'Uomo; Mc 9, l e Le 9, 27, con il Regno di Dio nel testo parallelo). Ma è intorno al Cristo risorto che questo gruppo di discepoli si trasforma ripren­ dendo il titolo delle as semblee cultuali di Israele, per di­ ventare la Chiesa costruita dal «Cristo, il Figlio del Dio vivente >>.

c) Un 'ipotesi esplicativa La congiunzione di questi due indizi, unita alla contraddi1 70

zione insita nel testo di Matteo tra la perfetta confessione di fede di Pietro, da una parte, e la sua protesta (ripresa da Marco) contro l'annuncio della Passione dall 'altra, con­ duce a un'ipotesi di critica letteraria molto semplice. Esi­ steva, nell'ambiente giudeo-cristiano di lingua aramaica, una tradizione che includeva la professione di fede post­ pasquale formulata da Pietro e un detto rivolto a Pietro dal Cristo risorto. Non è il parere di tutti i critici, nemme­ no di coloro che non praticano il più stretto concordismo storico. Per esempio O. Cullmann (Saint Pierre, p. 1 63) se­ gnalava in questo senso il parere di E. Stauffer ( 1 943- 1 944); egli non l'accettava poiché preferiva collocare il detto di Gesù a Pietro al momento dell'ultima cena, nello stesso contesto di Le 22, 3 1 (pp. 1 64- 1 66). Ma quest'ipotesi non è soddi sfacente. Le 22, 3 1 suppone che Satana attaccherà Pie­ tro e Gesù prega perché la sua fede non venga meno, allor­ ché Mt 1 6, 1 6- 1 9 suppone una fede pienamente sviluppata, dovuta a una rivelazione del Padre e di cui Gesù si felicita con Pietro. L'accordo tra i due sarebbe difficile: Le 22, 3 1 è nettamente pre-pasquale, ma vale lo stesso anche per M t 1 6, 1 6- 1 9 ? In Matteo la fonnulazione della fede di Pie tro è il prototipo della fede cristiana nella sua pienezza post-pasquale. Se Mat­ teo l'ha trasferita in questo punto è perché voleva così scan­ sare ogni equivoco riguardo alla confessione di fede situa­ ta al centro del racconto evangelico. Era tanto più facile perché si trattava in entrambi i casi di Pietro, e Pietro era, in una parte e nell'altra, il porta-parola di tutti i discepoli: « Chi dite voi che io sia ? » . Ora, l'autore dello scritto greco che si ricollega alla tradizione di Matteo sembra aver avu­ to delle ragioni particolari per interessarsi alla persona di Pietro e alla sua fede. Il testo analizzato qui non è l'uni­ co a mostrarlo. È allo stesso vangelo che si deve la conser­ vazione di un altro episodio in cui Pietro occupa un posto particolare: l'epi sodio della moneta trovata nella bocca del pesce (M t 1 7, 24-27). Perché questa insistenza ? Azzardiamo un'ipotesi. Il vangelo di Matteo fu probabilmente scritto per una comunità di Siria, formata da Giudeo-cristiani (cf. il posto occupato dall'argomento delle « Scritture portate a compimento ») ma aperta all'evangelizzazione di tutte le nazioni (cf. la finale di Mt 28, 1 9s). Ora, è in Siria che ave­ va avuto luogo }'« incidente di Antiochia » in cui Pietro e Paolo si erano opposti l'uno all'altro (Gal 2, 1 1 - 1 4). Il pro171

blema era stato archiviato da molto tempo. Forse anche il ricordo di Pietro era particolarmente vivo presso i Giudeo-cristiani di questa provincia dell'impero, e soprat­ tutto ad Antiochia. Ma da una parte come dall'altra poteva essere utile ricordare con insistenza la funzione propria ricevuta da Pietro dal Cristo risorto. Matteo lo fa a suo modo spostando l'episodio. Un tale incrociarsi tra tradizioni pre-pasquali e post­ pasquali non è improbabile. Se ne ha un esempio classico nell'episodio della pesca miracolosa che Luca ha collocato al momento della chiamata dei discepoli (Le 5, 4- 1 1 ), e la finale di Giovanni, dopo la risurrezione, durante le appari­ zioni in Galilea. Quale dei due evangelisti ha operato lo spostamento da un quadro all'altro? Entrambe le ipotesi sono possibili. Se si dà la priorità alla tradizione giovan­ nea, si costata che essa è in rapporto con la collazione di una certa funzione a Simon-Pietro, interrogato da Gesù a titolo personale e non più come porta-parola dei Dodic i (Gv 2 1 , 1 5- 1 7). Luca, che sopprime le apparizioni in Galilea, ha riferito il racconto nel posto che gli sembrava più ap­ propriato: quello in cui Gesù pronuncia la frase relativa ai « pescatori d'uomini » . Il racconto fatto da Matteo si com­ prende ugualmente bene. Viene ammesso nel l'opera collet­ tiva di Brown, Donfried e Reumann (Saint Pie rre dans le N. T. , pp. 1 07s con una bibliografia alla p. 1 08). Quanto al fatto di un'apparizione particolare del Cristo a Pietro, vie­ ne attestata nell'antica tradizione riportata da Paolo in 1Cor 1 5 , 5 e in un'allusione di Luca (Le 24, 34). Ma è poco proba­ bile che la frase - o piuttosto il dialogo di Gesù e di Pie­ tro - sia da collocare in questo punto, perché non ci sa­ rebbero stati testimoni e Pietro non avrebbe parlato a no­ me di tutti. Tuttavia l 'apparizione speciale a Simon-Pietro (Kephas, scrive Paolo: l Cor 1 , 1 2; 3, 22; 9, 5 ; 1 5, 5; Gal 1 , 1 8; 2, 9. 1 1 . 1 4) denota una particolare intenzione di Gesù nei suoi riguardi, esattamente come la tradizione di Gv 2 1 , 1 5- 1 7 e quella che riferisce Luca 22, 2 1 -32: Simone, una volta, « ravveduto », deve confermare la fede dei suoi « fratelli ». Natu ralmente non faccio che avanzare un'ipotesi di lavo­ ro. Ma non è più facile collocare storicamente la tradizio­ ne propria di Matteo nel contesto dell'episodio situato a Cesarea di Filippo. Come spiegare allora che Pietro, che ha appena riconosciuto in Gesù « il Figlio del Dio vivente » grazie a una « rivelazione » del Padre, contraddice così pre1 72

sto Gesù a proposito del suo annuncio della Passione e si faccia tacciare di « Satana» ? Anche se si accettasse di mettere un lasso di tempo tra M t 1 6, 20 e Mt 1 6, 2 1 , l'oppo· sizione delle due pericopi reste rebbe flagrante, allorché la loro comb inazione si adatta molto bene nella presentazio­ ne di Marco. Il piano di Marco non comportava apparente­ mente alcun racconto di apparizione del Cristo risorto (Mc 1 6, 8 è una finale). Si comprende perciò che egli non abbia conse rvato né la confessione di fede post-pa squale di Pie­ tro, né il detto di Gesù che essa comportava. Marco ha nondimeno fatto allusione a un epi sodio - non riferito - in cui Pietro doveva giocare un ruolo decisivo. L' angelo al mattino di Pasqua dice alle donne: « Andate a dire ai discepoli e a Pie tro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete >> (Mc 1 6, 7). Perché questa menzione speciale di Pietro ? Nel testo parallelo, M t 28, 6b l'ha soppresso, con­ servando solo un'apparizione collettiva in Galilea, sulla « montagna che Gesù aveva loro fissato ». Ma non ha forse cancellato in questo punto l'allusione a Pietro perché ave­ va riportato nella scena di Cesarea di Filippo il dialogo importante che apparteneva alla sua propria t radizione ? L'arcaismo del suo sfondo aramaico depone in favore del­ la sua antichità. Ma non vi si trovano, come in certi rac­ conti di Marco, degli indizi letterari che inviterebbero a vedervi un racconto primitivo dovuto a Pietro. L' assenza di questo dialogo così importante in Marco non si spiega, mi sembra, con una semplice preoccupazione di abbrevia­ zione (L. Vaganay, Le probléme synop tique, pp. 279s). La tradizione della confessione di fede pasquale di Pietro e del detto decisivo di Gesù può benissimo essere stata tra­ smessa oralmente fino all'evangelista greco, senza es sere stata riprodotta nello scritto primitivo di Matteo: altrimenti come si spiegherebbe la sua assenza in Marco e Luca ? Bi­ sogna supporre che essi non vi abbiano avuto accesso ? Op­ pure che non abbiano ritenuto importante questa tradizio­ ne ? Questo sarebbe assurdo. Comunque sia, non c'è ragione di attribuire al redattore finale del Matteo greco la composizione del passo. Ma l 'e­ vangelista, che è il solo a riprodurla, l'ha introdotta in una cornice non adatta a essa. Questa cornice, conservata da Marco e Luca, comportava solo la confessione di fede (nel­ la forma conservata da Marco) e il divieto di parlarne ad altri, subito collegata con l'annuncio della Passione. Biso1 73

gna guardarsi qui da una lettura « storicista » dei vangeli che lascerebbe da parte le regole di composizione lettera­ ria alle quali si conformava molto bene l'antichità cristia­ na: la ve rità storica non si confonde con l 'esa ttezza crono­ logica. Si tratta qui della storia di Pie tro che professa la sua piena fede pasquale e riceve in cambio una promessa e delle funzioni nella Chiesa. 3. Lo sfondo biblico del testo

a) La professione di fede di Pie tro Nella recensione di Marco, la professione di fede di Pietro ha per sfondo tutte le riletture giudaiche dei testi reali che parlano dell'Unto del Signore, specialmente il Salmo 2, 2 (cf. 2, 8). Si può pensare anche a l Sam 2, l O, che non comporta alcun nome personale, o ancora al Salmo 1 8, 5 1 ( = 2Sam 22, 5 1 ). Si tratta in tutti i casi di una proiezione del messianismo regale e dei suoi privilegi su Gesù, come mostra chiaramente la protesta di Pietro contro la prospet­ tiva della Passione . Gesù non dice çhe sia falso: come di­ scendente di Davide (cf. Rm l , 3, e le due genealogie di Matteo e Luca), egli non rinuncia a quest'aspetto del dise­ gno di Dio iscritto nelle Sc ritture. Ma non è ciò che costi­ tuisce la sua vocazione personale quaggiù: l'aspetto miste­ rioso di questa vocazione non è stato proprio compreso dai discepoli. Il tipo di speranza che essi nutrono riguardo al loro maestro non corrisponde né al suo progetto, né a quel lo per il quale «è stato mandato », né al futuro imme­ diato che egli int ravede lucidamente. Da ciò scaturiscono due necessità che i Sinottici notano immediatamente. In­ nanzitutto un ordine di tacere, perché non si scateni intor­ no a lui un messianismo politico: è la ragion d'essere del « segreto mes sianico », che W. Wrede aveva molto mal com­ preso e interpretato (Das Messiasgeheim nis in den Evange­ lien . . . , Gottingen 1 90 1 ) e che da allora è stato oggetto di importanti studi (cf. G. Mi nette de Tillesse, Le secret mes­ sianique dans l 'évangile di Ma re, Paris 1 968, con una bi­ bliografia scelta alle pp. 5 1 7-552). Viene poi l'annuncio di una prospettiva futura più o meno prossima in cui Gesù intravede un insuccesso, un processo davanti alle autorità giudaiche e una condanna a morte, senza tuttavia perdere 1 74

la speranza della risurrezione « dopo tre giorni » (Mc) o « nel terzo giorno» (Mt-Lc). Si può parlare di « compimento delle Scrit ture » nel mo­ mento in cui Pietro confessa una fede molto imperfetta ? Sarebbe uno strano paradosso, presto contraddetto da Ge­ sù che intravede un futuro del tutto diverso. Ma egli non lo intravede forse in connessione con altre Scritture, rela­ tive ai profeti persegu itati e ai giusti sofferenti ? Rileggere la confessione di fede di Pietro secondo Marco, dopo che Gesù è stato messo a morte e che « Dio l'ha risuscitato dai morti » (At 2, 24.32), vuoi di re ricordare che Dio aveva, fin da questo momento, l'intenzione di portare a compimento le sue promesse diversamente e su un altro piano, poiché alla fine « ha costituito S ignore e Messia ( == Cristo) quel Ge­ sù che voi avete crocifi sso » (At 2, 36). Non è perciò inutile che la fede imperfetta di Pietro ricordi, nel cuore del mini­ stero di Gesù, una linea di sviluppo biblico che ha trovato da allora una conclusione imprevi sta - e imprevedibile. Non è, infine, intorno al titolo di « Cristo/Messia» che si costruirà l'interpretazione teologica della persona di Ge­ sù, nel suo rapporto con Israele ? L'espressione di Luca è unica nel suo genere: «Tu sei il Cristo ( == il Messia) di Dio ». Ma la si può dedurre da un altro testo lucano: «Dio ha compiuto ciò che aveva annun­ ciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sa­ rebbe morto » (At 3, 1 8). Nel contesto in cui Luca colloca l'espressione, essa conserva contemporaneamente la sua ambiguità, che spiega il divieto di diffonderne la voce, e le sue possibili virtualità, che si svele ranno dopo la risur­ rezione di Gesù. Luca non ha introdotto qui questa formu­ lazione per caso. Ma non è necessario pensare che l'abbia attinta da una fonte diversa da Marco, anche se una ritra­ duzione aramaica si rivela estremamente facile. Quanto all'espressione ridondante di Matteo (« il Figlio del Dio vivente »), essa insiste evidentemente sulla filiazione di­ vina intesa in senso stretto (cf. l'opera di Brown-Donfried­ Reumann, p. 1 09, e già il commentario di Lagrange, p. 322). Sotto questo aspetto essa prolunga in modo indefinito il tema indicato nel Salmo 2, letto dal punto di vista messia­ nico « YHWH mi ha detto: Tu sei mio Figlio; io oggi ti ho generato » (Sal 2, 7). Abbiamo una possibile ripresa di que­ sto testo, che viene applicato alla risurrezione di Cristo nel discorso di A t 1 3, 33. Ma il « Dio vivente » non è un'e1 75

spressione rara (Sal 42, 3; Os 2, l ; testi di Daniele citati so­ pra). Il « Figlio del Dio vivente » è un'espressione specifica di Matteo (2 volte), cosa che non esclude qui la fonte ara­ maica venuta da una comunità giudeo-cristiana molto an­ tica. La filiazione divina di Gesù nel senso proprio del ter­ mine è una novità assoluta del Vangelo: il compimento delle Sc ritture va qui infinitamente al di là del contenuto che la loro « lettera» faceva percepire.

b) La p romessa di Gesù La promessa fatta a Pietro comporta uno sfondo biblico ? Il termine greco ekklesia, da cui il nostro « chiesa », non è mai adoperato in una promessa escatologica oppure in un testo che il giudaismo contemporaneo di Gesù avrebbe interpretato in questa prospettiva. Contrariamente al sug­ gerimento di K. L. Schmidt (art. « Kaleò/Ekklesia», TWNT, III,pp. 522, 528-530) non b isogna cercare dietro di esso l'e­ braico 'adah, che ha per ·equivalente l'aramaico kenish ta e il greco synagoge. Si tratta senz'altro dell'aramaico qah a liì ( = ebraico qahal). L'esistenza di un' ekklesia ( = assemblea cultuale) che prolungava le strutture di un gruppo riunito intorno a Gesù durante la sua vita, e poi radunato intorno al Cristo risorto e fondato su di lui, è una novità assoluta. Qui, l'immagine di un edificio cultuale costruito dal Cristo (cf. il Tempio) interferisce con quella della comunità riuni­ ta per il culto. Ma se l'edi ficazione della città santa e del suo Tempio figurano effettivamente nelle promesse esca· tologiche, l'associazione del verbo « costruire » con l'imma­ gine della comunità costituisce una novità. Per trovare uno sfondo biblico al detto di Gesù, bisogna pe rciò riferirsi alle immagini della nuova Gerusalemme e del Tempio, alle quali la Chiesa è più di una volta assimi­ lata nel Nuovo Testamento. I l parallelo più significativo sarebbe quello di Ef 2, 20-2 1 : i fedeli sono «edificati sopra il fondamento (themelios) degli apostoli e dei profeti, e aven­ do come pietra angol are lo stesso Cristo. In lui ogni co­ struzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore » . Ma la costruzione di un edificio sulla pietra (aram. kefiì = ebr. kef o se la' [in Nm 1 1 , l -20] = greco pe tra) nemmeno ha dei corrispondenti biblici. Nelle parole di Ge­ sù la stessa metafora si ritrova solo per la parabola della casa «costruita» sulla « roccia>> (Mt 7, 24s = Lc 6, 48 con un'al1 76

tra espressione). La similitudine dei due passi spiega l'uso dell'immagine in Mt 1 6, 1 8a; ma non gli dona uno sfondo biblico diretto. Le « Porte degli inferi >> non sono sconosciute nei testi bibli­ ci (cf. Is 38, 1 0; Sir 5 1 , 6); ma si parla piuttosto delle « Porte della Morte » , essendo gli inferi il « luogo » dei morti in cui regna la Morte personificata. Nei Salmi di Salomone (PsSal 1 6, 2, originale ebraico perduto) si ritrova l'espressione «Por­ te dell'Ade ». Si può obiettare che quest'immagine della mor­ te personificata non ha niente a che vedere con la Chiesa, che non è una persona umana soggetta a un possibile de­ cesso. Le « Potenze infernali » sono personificate per rap­ presentare metaforicamente tutto il campo del male, sia morale che fisico (cf. 1 Cor 15, 26; Ap 20, 14; Eh 2, 14, in cui il Diavolo è «colui che ha il potere della morte »). Ma se questa rappresentazione classica rende il testo intellegi­ bile, non costituisce un antecedente biblico del detto di Gesù. Il verbo katiskhuo, « prevalere », «vincere qualcuno >>, ha l'unico antecedente biblico in Ger 1 5 , 18 dove questo dettaglio viene aggiunto al testo ebraico e non ha alcun rapporto con Mt 1 6, 1 8. Per l 'idea ci si potrebbe riferire al testo eb raico di Is 7, l dove il re di Aram, accompagnato dal re d'Israele, sale a combattere contro Gerusalemme per assediarla, ma « non riuscì ad espugnarla » (16 ' yakol ze_ hillahem 'aleha). In un certo senso la Chiesa viene rappre­ sentata come una città santa assediata dalle Potenze infer­ nali, ma non cadrà in loro potere. Il paral lelismo di signi­ ficato non sopprime la piena originalità del detto di Gesù. Pietro riceve la promessa di possedere « le chiavi del Re­ gno dei Cieli » - in cui « Cieli» è un equivalente di «Dio », ben noto nella letteratura rabbinica (e già Dn 4, 23). L'e­ spressione ha un parallelo generale in Is 22, 22, dove il mag­ giordomo (« signore del palazzo ») si sente dire: « Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide ». Ap 3, 7, ripren­ dendo questo testo, lo applica al Cristo. L'immagine viene qui trasferita dalla « casa di Davide » al « Regno dei Cieli». Pietro diventa il maggiordomo di una casa di cui Gesù si presenta visibilmente come il padrone: è lui che gli « dà le chiavi » . Anche quest'ultimo punto ha di mira concreta­ mente la condizione del Cristo risorto. L'immagine è forte: in quanto maggiordomo, Pietro apre e chiude la porta per permettere di entrare e uscire. Il simbolo fa intravedere una funzione da lui adempiuta per permettere agli uomini tn

di accedere al Regno di Dio. Questo Regno non è esatta­ mente la Chiesa costruita dal Cristo sopra Pietro. Quando un membro della Chiesa recita attualmente la « preghiera del Signore » e dice « venga il tuo Regno », egli sa che la Chiesa è già presente e non domanda che essa «venga» . L a distinzione tra « regno », e « reame » e « regalità » per tra­ durre il greco basileia ( aram. malkCtta) è uno stratagem­ ma che non deve essere preso in considerazione per identi­ ficare totalmente il « Regno di Dio » e la Chiesa di Gesù Cristo. In rapporto al « Regno» di Dio, la Chiesa è un « luo­ go » (metaforico) in cui esso avviene, un « mezzo » attraver­ so il quale entra nella storia umana. Ma non c'è identità pe rfetta tra i due nel modo di parlare del Nuovo Testa­ mento, e soprattutto di Gesù. Se si cerca di completare quest'ultimo improntando delle espressioni alla teologia paolina, si costata che Dio, incor­ porando i battezzati nella Chiesa , li « trasferi sce nel Re­ gno del suo Figlio diletto » (Col l , 1 3). Ma si tratta della « regalità » attuale del Cristo in gloria. Nella Chiesa, me­ diante l'annuncio del Vangelo, i missionari « collaborano per il Regno di Dio» (Col 4, 1 1 ). Ma questo per i fedeli è solo un'« eredità » futura, collocata all'orizzonte del tempo (cf. l Cor 6, 9- 1 0; 1 5, 50; Gal 5, 2 1 ) o, quaggiù, una realtà al � la quale i fedeli sono chiamati ( l Ts l , 1 2) e che non è affare di semplici regole cultuali (Rm 1 4, 1 7). Questa realtà misteriosa è presente nella Chiesa, ma non definisce la Chie­ sa. Ritornando al testo di Matteo, Pietro riceve le chiavi del Regno, perché il Cristo edifica la sua Chiesa su di lui in quanto pietra basilare. Non si tratta di un privilegio, ma di una funzione da compiere. Questa funzione è corre­ lativa all'atto di fede che Pietro ha espresso a nome di tut­ ti, e di conseguenza a nome della Chiesa riunita intorno al Cristo, Figlio del Dio vivente, Signore risorto. Gesù in­ terrogava tutto il gruppo dei discepoli, radice storica della Chiesa: « Voi chi dite che io sia ? » (Mt 1 6, 1 5). Pietro, in Mat­ teo, non lo riconosce soltanto come Mes sia di Israele, nel senso ambiguo che aveva la sua risposta a Cesarea di Fi­ lippo secondo la versione di Marco; egli sa ormai che è il Messia d'Israele in quanto « Figlio del Dio vivente ». È per tale ragione che il Cristo in gloria può edificare su di lui la sua Chiesa. Il potere di « legare e sciogliere » che gli viene poi conferito ( 1 6, 1 9) non gli appartiene in proprio. Un altro passo dello =

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scritto evangelico riferisce una frase di Gesù che conferi­ sce tale potere a tutto il corpo apostolico (Mt 1 8, 1 8) in un contesto in cui si è parlato del peccato commesso da un membro della comunità 1 1 ( 1 8, 1 5- 1 7). Questo passo è importante. in quanto enuncia la regola di una procedura della Chiesa. In caso di peccato pubblico, bisogna prima di tutto ricorrere alla correzione fraterna a quattr'occhi, poi prendere due o tre testimoni, e infine riferirlo alla Chie­ sa riunita. La prospettiva sociologica non è più quella di un gruppo pre-pasquale dei discepoli, ma quella di una co­ munità organizzata la cui denominazione - la Chiesa è post-pasquale. Quanto al significato legale o giudiziario dei termini « legare e sciogliere », ben attestato nella lette­ ratura rabbinica, non ci sono dei precedenti biblici. Il con­ ferimento del JX>tere, ai Dodici come a Pietro, suppone che le decisioni prese sono ratificate « nei Cieli», cioè da Dio. Non si può trovare qui alcun appoggio . scritturistico. Si può soltanto notare che in Israele i « giudici-leviti » eserci­ tano la loro funzione in nome di Dio per pronunciare la sentenza (Dt 1 7, 8- 1 3 ; cf. 2 1 , 5). Ma la struttura comunitaria non è più la stessa. Il potere di « legare e sciogliere », con­ feri to dal Cristo a Pietro e ai Dodici è ancora un aspetto originale della « novità » cristiana. -

4. Dali ' ccistorlale• allo •storico• Le altre due dimensioni evangeliche del detto di Gesù la sua portata ecclesiale e il suo radicamento storico si confondono con quello che ho chiamato l' « istoriale » e lo « storico » dei testi. a) L '« isto riale » de l testo L' « istoriale )) di un testo è il modo in cui esso svela il mi­ stero della salvezza in Gesù Cristo, così come si è realizza­ to in tutta la sua espansione nel cuore della storia umana. Ingloba perciò le manifestazioni del Cristo risorto ai suoi testimoni e la comunicazione della sua grazia alla sua Chie­ sa. Da questo punto di vista è chiaro che il testo analizzato qui ne attesta un aspetto imJX>rtante. L'opzione critica alla 11

Cf. sopra, p . 1 24.

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quale sono stato condotto lo mette in rilievo più di ogni al tra cosa. In effetti, se la confessione piena della fede che pronuncia Pietro e il detto che Gesù gli rivolge sono da situare nel contesto di un'apparizione del Cristo risorto, vi si trova in sintesi, da una parte, la fede cristiana piena­ mente sviluppata, che riconosceva in Gesù «il Cristo, il Fi­ glio del Dio vivente », e, dall'altra, l'edificazione della Chie­ sa operata dal Cristo stesso su Pietro, per questa fede che l'apostolo ha espresso a nome di tutti. Si può riprendere qu f il commento di Sant'Agost ino su questo passo del v an� gelo: « Su questa pietra edificherò la fede che tu hai appe­ na professato. Su questa frase che hai detto - 11Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" - costruirò la mia Chie­ sa » - (Omelia per la festa degli apostoli Pietro e . Paolo; Se rmone 295, l, in PL 38, 1 349). Non si è lontani dal testo dell'epistola agli Efesini che ho citato sopra (Ef 2, 1 9b-22) 1 2 • Se non ci fosse la fede di Pietro non ci sarebbe nemmeno la dichiarazione solenne di Gesù. Questa inizia col precisa­ re la fonte della fede stessa: una rivelazione proveniente dal Padre che è nei cieli . Nella loro opera comune su San Pietro 1 3, Brown, Donfried e Reumann sottolineano giusta­ mene l'importanza del verbo apokalyptein, « rivelare », che designa in Paolo la manifestazione del Cristo risorto. Biso­ gna tuttavia notare che, in M t 1 6, 1 7, il verbo non ha com­ plemento 1 4: l'oggetto della rivelazione è la comprensione piena della fede, o il Cristo risorto stesso, in modo che la fede abbia la sua fonte in questa rivelazione del Cristo in gloria ? È difficile decidere. Ma in ogni ipotesi si ha un'in­ terpretazione teologica della fede come frutto di una rive­ lazione che viene dal Padre. Sopra ho fatto rilevare il parallelismo tra il caso presente e quello della conversione di San Paolo (secondo Gal l , 1 2 . 1 5- 1 7). L'assimilazione dei due casi depone indiretta­ mente a favore dell'ipotesi che ho ammesso riguardo al contesto in cui si colloca il di alogo tra Gesù e Pietro, mol12 13

Cf. sopra, p. 1 7 6.

Saint Pierre dans le N. T. , pp. l l s.

1 4 Suggerisco al lettore di prendersi la curiosità di controllare alcu­ ne traduzioni moderne per costatare come la maggior parte vi ag­ giunga un complemento. La versione latina era letterale: . . . quia caro et sangu is non revelavit tibi, sed Pater meus, qui in coelis est» . La critica è facile, ma l'arte è difficile . . . «

1 80

to diverso in Matteo da quello di Marco. Ne consegue, in Matteo, un enunciato che contiene in germe tutta una ri­ flessione sulla Chiesa nella sua natura, nel suo fondamen­ to, nella sua condizione terrestre. Sua natura: essa è Chie­ sa di Gesù Cristo, costruita da lui, non un'istituzione uma­ na in cui i credenti si radunerebbero di propria iniziativa. Suo fondamento: è cost ruita su Pietro, in quanto enuncia­ tore della fede; questa menzione di Pietro implica un'allu­ sione alla sua struttura visibile, infatti Pietro è indissocia­ bile dai Dodici di cui è il primo e il porta-parola. Sua con­ dizione te rrestre nel tempo: è necessariamente esposta agli attacchi delle «Porte degli inferi », ma la parola di Gesù assicura che queste non prevarranno contro di essa. Inol­ tre Pietro, nella sua qualità di « primo» nel collegio aposto­ lico, detiene le « chiavi » che pe rmettono di accedere, tra­ mi te la Chiesa di Gesù Cristo, al Regno di Dio. Molto di più, in comunione con coloro ai quali è rivolto il discorso di Mt 1 8 , 1 5- 1 8, egli esercita la funzione di « le­ gare e sciogl iere »: permettere o vietare, stando alla termi­ nologia rabbinica, rimettere o ritenere i peccati, se si fa appello al parallelo di Gv 20, 23. Il rapporto tra la comuni­ cazione invisibile della grazia del Cristo e le strutture visi­ bili della Chiesa viene perciò suggerito dal testo, se se ne fa una lettura ecclesiale che ne costituisce l'aspetto « isto­ riale ». In ogni modo, la conservazione di questo testo fino al vangelo greco di Matteo e anche la sua fissazione lette­ raria originale - in aramaico e poi in greco - sono avve­ nute in seno alla « vita della Chiesa »: comportavano già in germe l'interpretazione teologica delle p arole del Cristo a Pietro. I critici che tenderebbero a collocare l'enunciato della parola di Gesù durante la sua vita pubblica, a Cesa­ rea di Fil ippo, dovrebbero riconoscere che la sua portata « i storiale » è stata determinata dalla sua rilettura dopo la risurrezione di Gesù. È necessario tuttavia aggiungere che la teologia della Chie­ sa, espressa sotto questa formula, rimane incompleta. Es­ sendo centrata sui Dodici, che hanno al loro capo Pietro, essa la designa, per questo stesso fatto, come il nuovo Israe­ le (cf. il simbolismo del numero 1 2, scelto di proposito da Gesù). Essa non contiene alcuna allusione all' annuncio del Vangelo a lle nazioni, a differenza di Mt 28, 1 8-20 che sotto questo aspetto la completerebbe. Ora, se ci si rifà all 'epi­ stola ai Galati (Gal 2, 7 -8) e agli Atti degli Apostoli, bisogna 181

aggiungere che !'« innesto» delle nazioni sul tronco di Israele (Rm 1 1 , 1 6-24) costituì la vocazione particolare di Paolo. Una certa evangelizzazione dei pagani era cominciata, ad Antiochia, molto prima della missione di Paolo (At 1 1 , 20-2 1 ), pressappoco all'epoca in cui Paolo stesso veniva atterrato dalla grazia sulla via di Damasco (At 9, 1- 1 4 e par.). Ma è chiaro che, negli Atti, è grazie a lui che il Vangelo passa da Gerusalemme a Roma e dai Giudei ai Gentili (At 26, 24-28). È ugualmente chiaro che, per ammissione dello stesso Paolo, «colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in [Paolo] in favo­ re di pagani >> (Gal 2, 8). I due campi di apostolato non sono concorrenti, ma complementari : sono entrambi ugualmen­ te necessari alla costituzione della Chiesa. Quanto a Paolo, apostolo per vocazione ricevuta direttamente dal Cristo Ge­ sù e da Dio Padre (Gal l , l ), egli non si comporta in modo subordinato a Pietro o da apostolo inferiore ai Dodici, ma alla pari. Non bisogna dimenticare questo punto quando, tra le chie­ se particolari, si distingue la chiesa di Roma per riflettere sulla sua funzione propria. La riflessione teologica sareb­ be troppo corta se ci si limitasse a definire colui che ne occupa la sede episcopale come il « successore di Pietro». In realtà, egli detiene la successione legittima di una chie­ sa il cui ruolo è stato specificato dal doppio martirio di Piet ro e di Paolo. Certamente, Paolo non è definì t o, da par­ te sua, come « la pietra» sulla quale il Cristo risorto « CO­ struisce la sua Chiesa ». In quanto apostolo, egli fa parte del « fondamento » di cui parla il testo di Ef 2, 1 9b-20. Il testo di Mt 1 6, 1 6- 1 9, che riguarda la totalità della Chiesa edificata da Gesù Cristo, trova un'applicazione particolare nella Chiesa di Roma in quanto depositaria della tomba e della tradizione di Pietro, il martire. Ma il martirio di Paolo interviene pure per definire il suo ruolo in rapporto alle altre chiese locali. Rinvio, su questo punto, a uno stu­ dio da me pubblicato altrove: «Pierre et Paul, fondateurs de la "primauté " romaine » (Istina 21 [ 1 982], pp. 228-268). Nessun modello politico di forma «monarchica » può esse­ re legittimamente proiettato su questa struttura originale, in cui la comune vocazione dei Giudei e dei Gentili appare come costitutiva della Chiesa per mezzo dei due apostoli che hanno ricevuto la cura particolare degli uni e degli altri (cf. Gal 2, 7-8). Fondata sulla duplice tradizione di Pie1 82

tro e di Paolo, la chiesa di Roma è la custode della « comu­ nione » che fu stabilita un tempo tra i due (cf. Gal 2, 9). b) La risalita ve rso lo «Storico» Da questa prima lettura del testo, che sottolinea la strut­ tura e la funzione della Chiesa nell'« economia della salvez­ za », è possibile risalire verso il suo radicamento storico ? Coloro che non ammettono la sostanziale storicità delle ap­ parizioni del Cristo risorto rispondono necessariamente in modo negativo. Non ci si meraviglierà di ritrovare qui il punto di vista di R. Bultmann (L 'histoire de la tradition synoptique , pp. 177- 1 79 e 547s, dove vengono messe a con­ fronto le tesi). Ammettendo l'origine semitica del detto mes­ so in bocca a Gesù, egli annuncia così la sua tesi: « Si espri­ me qui la coscienza escatologica della comunità palestine­ se in quanto essa è la comunità dei giusti»: « la comunità, la cui autorità è Pietro, sarà salvata nell'ultimo giorno quan­ do le potenze del mondo infernale soggiogheranno gli uo­ mini » (Ibid. , p. 1 78). Si può porre un domanda che non manca di pertinenza: su che cosa poggerebbe questa spe­ ranza se non avesse come punto di partenza una frase pro­ veniente dal Signore stesso ? È vero che, nell'insieme, le parole del Cristo risorto non sono state oggetto di una me­ morizzazione simile a quelle che erano state ripetute so­ vente durante il suo ministero. La ricerca propriamente storica è perciò nel loro caso più difficile. Lo si costata, per esempio per le formule dell 'invio in missio­ ne degli Undici apostoli. Le 24, 44-49 colloca questo invio alla sera di Pasqua, a Gerusalemme; ma At 1 , 6- 1 1 lo riporta qua­ ranta giorni più tardi, ugualmente a Gerusalemme, con un di­ scorso un po' diverso. M t 2 8 , 1 6-20 lo colloca su una montagna della Gali lea: la stessa idea viene espressa in tutt'altra termi­ nologia. Gv 20, 2 1 -23 conserva solo l'apparizione situata « il pri­ mo giorno della settimana >>, a Gerusalemme. Si è ancora alla sera di Pasqua ma le parole dell'invio in missione sono diffe­ renti. Essendo Tommaso quel giorno assente (cf. 20, 24-28) bi­ sognerebbe concludere che non avrebbe ricevuto la stessa mis­ sione ? Ma Gv 2 1 , 1 5- 1 9 aggiunge un'apparizione sulla sponda del lago di Tiberiade, che comporta l'annunzio di una missio­ ne propria di Pietro. Quanto alla finale di Marco, il cui testo contiene delle allusione ai quattro vangeli, essa p resenta in un altro modo le parole dell 'invio in missione (Mc 1 6, 1 4- 1 8). Si tratta sempre di sommari: ogni autore ispirato li ha filtrati nel proprio stile. 1 83

Ora, il testo di Mt 1 6 , 1 7- 1 9, fortemente segnato dal suo ritmo semitico, si presenta con una garanzia molto miglio­ re . La tradizione, innanzitutto orale, l'ha fissato sotto una forma in cui è ancora percepibile il sostrato aramaico. Ciò dà una sufficiente garanzia di sostanziale autenticità alla professione pasquale di Pietro e al detto del Cri sto risorto. Le due cose sono, a questo riguardo, radicate nel terreno aramaico meglio dell'invio in missione degli Undici apo­ stoli. Ma questa buona conservazione è forse dovuta allo spostamento del dialogo tra Pietro e Gesù nel contesto di Cesarea di Filippo, dove la professione di fede pasquale d i Pietro ha preso il posto della formulazione molto im­ perfetta conservata da Marco. c) Ricerca s torica e riflessione teologica Ho proposto un'ipotesi per trovare una cornice convenien­ te allo scambio delle parole tra Gesù e Pietro. Ho espresso il motivo per cui, a mio avviso, la storia del ministero di Gesù, evoca t a per piccoli tocchi concretj senza grande preoccupazione per la cronologia, conterrebbe qui in Mat­ teo un blocco erratico che stona con il contesto preceden­ te e seguente, soprattutto se lo si confronta con il raccon­ to di Marco. È certamente quest 'ultimo quello che mostra meglio lo stato nel quale si trovava la fede dei discepoli al momento in cui si situa l'episodio di Cesarea di Filippo. La ricerca storica deve prendere in considerazione questo punto scartando le teorie artificiali elaborate per spiegare il « segreto messianico» . Il problema che si poneva a Gesù non era quello di dire se egli era, sì o no, il Messia, data la concezione politica che i Giudei ne avevano allora una­ nimamente; ma piuttosto quello di far comprendere cor­ rettamente la sua missione di annunciatore e instauratore del Regno di Dio annunciato dalle Scritture. Riconoscen­ dolo apertamente come il Messia, nel senso in cui l'inten­ devano i suoi contemporanei, i suoi discepoli avrebbero introdotto un pericoloso equivoco nel compimento della sua missione . La spiegazione inventata da W. Wrede non ha quindi, su questo punto, alcuna consistenza storica né psicologica. In compenso, si spiega facilmente che il redattore finale di Matteo, preoccupato di proporre nel suo libro una cate­ chesi completa della fede cristiana, abbia riportato nella 184

scena di Cesarea di Filippo una confessione di fede post­ pasquale che si riallacciava pure alla persona di Pietro, e che abbia introdotto come suo seguito il detto del Cristo risorto in cui la persona di Pietro era presentata come « la pietra » sul la quale il Cristo avrebbe costruito la sua Chie­ sa. La portata del testo per la teologia dell a Chiesa non viene in alcun modo diminuita, infatti le parole attribuite dagl i evangelisti al Cristo risorto non hanno meno valore delle ipsissima verba Jesu pronunciate durante il suo mini­ stero. Anzi, tutte le parole di Gesù hanno ricevuto la loro portata definitiva solo attraverso la loro rilettura alla luce della Pasqua. È grazie a questa rilettura che gli scritti evan­ gelici non forniscono soltanto un'evocazione storica di ciò che Gesù aveva detto un tempo, ma attualizzano le sue pa­ role per farle risuonare nel tempo della Chiesa. Matteo ha semplicemente anticipato a prima della Pasqua ciò che il Cri sto in gloria aveva detto nel tempo de lla Chiesa (nomi­ nata esplicitamente in M t 1 6, 1 8, che sembra segnare il suo inizio poiché il verbo «edificherò » è al futuro), così come ha riporta to al tempo del ministero di Gesù una traduzio­ ne della fede che aveva preso la sua piena consistenza solo in questo tempo della Chiesa. La funzione della fede pasquale di Pietro in rapporto alla fondazione della Chiesa, il ruolo ecclesiale della sua perso­ na in quanto chiave e porta-parola dei Dodici, devono per­ ciò essere conservati come elementi costitutivi del messag­ gio evangelico. È sufficiente, come ho detto sopra, non pas­ sare troppo presto da questi elementi originari a una spe­ culazione teologica sul posto particolare dei vescovi di Roma in quanto « Successori di Pietro», senza tenere in de­ bito conto le necessarie mediazioni. O. Cullmann (Saint Pierre, pp. 1 89- 1 9 1 ) ha c riticato sia l 'esege­ si dei Riformatori del XVI secolo, che aveva ridotto la portata del testo alla fede dì Pietro diment icando il ruolo della sua persona, sia l'esegesi cattolica, che passa direttamente ai « SUc­ cessori di Pietro» per applicare ad essi le promesse di Mt 1 6, 1 7- 1 9 . Al termine della sua discussione domrnatica del pro­ blema, egli conclude: «Né la Scrittura, né la storia del la Chie­ sa antica permettono di considerare il primato romano di di­ ritto divino [ ] Questa affermazione ( = quel la che proclama i vescovi di Roma i soli successori di Pietro) non si radica né nella Scrittura, né nella tradizione» (p. 2 1 3). Ma il problema viene posto in modo corretto, dal momento che il duplice mar­ tirio di Pietro e di Paolo non viene preso in con siderazione per fondare la funzione propria della chiesa locale di Roma ? ...

1 85

Ho accostato sopra la fede p asquale di Pietro e la fede pa­ squale di Paolo, entrambe basate su una «rivelazione » di Dio. La « comunione » dei due apostoli (cf. Gal 2, 9) nella fede nello stesso Vangelo implica la complementarità dei loro ruoli, l'uno nei riguardi dei Giudei e l'altro nei riguar­ di dei non-giudei. L'eredità di questa duplice tradizione co­ st ituisce la funzione particolare della chiesa locale di Ro­ ma nella Chiesa universale. Se ci si riferisce al pensiero di Sant'Ireneo, la successione legittima dei suoi vescovi mo­ · Stra la permanenza di questa funzione . Allora i testi pietri­ ni e paolini prendono il loro valore permanente, poiché non hanno perduto la loro portata con la morte dei due apostoli. L'interpretazione del testo di M t 1 6, 1 7- 1 9 mediante un'esegesi lucida è necessaria alla corretta riflessione teo­ logica. Ma questa va al di là del lavoro al quale mi sono limitato qui. Costatiamo soltanto che il vangelo secondo Matteo era destinato a una chiesa giudeo-cristiana di lin­ gua greca che aveva coscienza della missione universalisti­ ca della Chiesa (cf. Mt 24, 1 4; 28, 1 9) e la cui fede pasquale si basava su quella di Piet ro, avendo costui ricevuto allora dal Cristo c d e chiavi del Regno dei Cieli >' e il potere di « legare e sciogliere ». 5.

Per una lettura ccevangelica• dei testi

La lettura « evangelica » - contemplativa e meditativa nel­ lo stesso tempo - delle tre pericopi parallele è per forza di cose contrastata, a seconda che ci si collochi nella pro­ spettiva storica in cui viene attualmente posta la fede di Pietro, o in quella che impone (a mio avviso) l'esegesi criti­ ca di Mt 1 6, 1 6- 1 9. a) Prima le ttu ra Stando alla materialità dei testi, posso fare qui due « com­ posizioni di luogo » . Nell'una (Mc seguito da Mt) mi trovo sulla strada di Cesarea di Filippo con i discepoli, accanto a Gesù che ci interroga. Nell 'altra (Luca soltanto) ho segui­ to Gesù in disparte per pregare: partecipo alla preghiera giudaica di Gesù, di cui non ho ancora indovinato tutti i segreti. È in questa cornice che metto in atto la mia fede per comprendere dove Gesù vuole portarmi, dove vuole ar­ rivare. Viene allora la domanda: «Chi si dice che io sia ? ». 1 86

Io ho in proposito le mie idee preconcette, come ce l'ha ogni persona in una inchiesta di opinione pubblica. L'enu­ merazione delle opinioni dei Giudei (« Giovanni Battista, Elia, un profeta, ecc. ») ha perso la sua attualità - eccetto per alcuni giudei che si interessano attuahnente al « giu­ deo Gesù » . Nella maggioranza dei casi si incontrano delle rappresentazioni di ogni sorta, le une spiritualiste a oltran­ za, le altre a tendenza contraria e sovente politica. Anche la professione di fede - « Tu sei il Messia » - conservata da alcuni cristiani, può avere le sue risonanze temporali. Permanente tentazione del messianismo politico, che fa af­ fidamento sul prestigio e l'azione del «potere cristiano », che esso venga dalla « base » o da uno pseudo-« monarca cri­ stiano » . - « Lungi da me, Satana, tu mi sei di scandalo . . . » Come ? Gesù non è proprio morto un tempo, e non è un tempo risorto come Cristo glorioso perché avesse succes­ so, oggi o domani, questo progetto politico di « liberazio­ ne » e di annientamento delle «Porte degli inferi », che ognu­ no immagina con la propria fantasia ? Vecchi sogni di tut­ te le mitologie politiche, ricostruite in una sedicente cor­ nice cristiana! Gesù risponde a ciò in maniera definitiva: «L ungi da me, Satana! ». Infatti le potenze infernali sono pure le ispiratri­ ci di questi sogni di fierezza, dato che sono presenti dietro tutti i poteri tirannici, di qualsiasi colore essi siano, o die­ tro il lassismo morale delle culture che non conservano più Dio all'orizzonte dei loro progetti e dei loro sforzi: l'« Uo­ mo » di cui abbozzano i tratti è solo una caricatura dell'im­ magine di Dio. La maschera cristiana che inalberano alcu­ ne mi tologie pol i ti che non è che una falsa apparenza. In realtà, né i poteri politici, né le entità nazionali, né i siste­ mi economici, né le culture diversificate, sono come tali capaci dell 'atto di fede . Solo le persone umane ne sono ca­ paci, partecipando alla fede della Chiesa, unica comunità che ha questa capacità professando la fede di Pietro. Spet­ ta alla Chiesa, per mezzo dei suoi membri impegnati nel­ l'azione temporale, far risplendere il Vangelo perché i suoi fermenti umani trasformino dall'interno l'attività politica, economica e culturale della società. Questo risultato non è mai perfetto, né definitivo: è fragile e continuamente mes­ so in discussione, come tutte le cose umane. Nessun siste­ ma organizzativo così creato ha le promesse della vita eterna. 1 87

Quanto alla battaglia liberatrice contro le « Potenze delle tenebre >>, qualsiasi apparenza esse assumano, può essere condotta solo con le « armi della luce » (cf. l Ts 5, 8- 1 0; Ef 6, l 0- 1 7). Nella scelta dei mezzi pratici, rimane indispensa­ bile il « discernimento » . Per realizzare vittoriosamente que­ sta battaglia, Gesù ha dovuto un tempo passare per la cro­ ce, tra lo sbigottimento dei suoi discepoli che non ci capi­ vano nulla; e i suoi discepoli devono a loro volta caricarsi della propria croce per seguirlo (Mc 8, 34 e par.). La spe­ ranza della risurrezione nel « terzo giorno », come quella della partecipazione della Chiesa a questa risurrezione, ri­ mane condizionata dalla stessa legge paradossale. La pie­ na rivelazione di Gesù come « Cristo di Dio» (Le), o come « Santo di Dio » (Gv), o come «Cristo, Figlio del Dio vivente » (Mt), è in di retta relazione con la sua risu rrezione. Ma que­ sta supponeva la sua morte in croce. Ecco una prima me­ ditazione che può dar luogo a ogni sorta di esame di co­ scienza e di colloqui affettivi con il Cristo. b) Seconda le ttura Posso anche portare la mia attenzione sul dialogo tra Pie­ tro e Gesù, così come viene presentato solo da Matteo e così come la critica biblica mi invita a comprenderlo. Que­ sto mi suggerisce un'altra « composizione di luogo », nel qua­ dro delle apparizioni del Cristo risorto. Ma qui la mia do­ cumentazione viene meno, a meno che non mi riporti alle scene evangeliche che evocano queste apparizioni. Sono al­ lora obbligato a immaginare un'apparizione al gruppo de­ gli Undici perché Gesù possa porre di nuovo la domanda: « Voi chi dite che io sia ? » . Faccio mia la risposta di Pietro, che non si presta ad equivoci : «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Ora, il Cristo in gloria conserva le stim­ mate della sua croce, come in Le 24, 39a e in Gv 20, 24-27; rimane !'« Agnello immolato » dell'Apocalise (Ap 5, 6- 1 4). È a questo ti to lo che egli detiene « le chiavi della morte e degli infe ri ». È a questo titolo pure che egli può parlare a Pietro della sua Chiesa che costruisce su di lui, della vittoria che gli assicura sulle « Porte degli inferi ». La mia fiducia incondizionata in questa vittoria ha come fonda­ mento la mia partecipazione alla fede di Pietro. Pietro, con le « chiavi » ricevute dal Cristo, mi ha aperto il Regno dei Cieli - cioè di Dio -, che non è ultraterreno, ma presente 1 88

fin da adesso. Sono così trasferito in un ambito diverso da quello delle cose poli ti che, anche quaggiù dove la Chie­ sa è di un ordine diverso da es so, anche se le conseguenze ricadono su di esso; segnatamente per i poteri politici che sono definitivamente desacralizzati, e per i poveri ai quali viene promesso il Regno dei Cieli (M t 5, 3). Questo è il quadro sul quale si apre il colloquio di ogni cristiano con il Cristo glorioso, che è anche l 'Agnello im­ molato, che è anche Gesù di Nazareth destinato alla Pas­ sione e alla Croce prima di entrare nella gloria. Chi sono io per p_artecipare a questo colloquio, e che cosa dirò ? Il Cri sto aspetta il mio atto di fede, non con l'ambiguità che comportava la frase di Pietro in Marco e che comportano ancora tutti i messianismi politici, sotto qualsiasi forma, ma con la pienezza che comporta l'espressione di Pietro in Matteo. Anche il Cristo mi parla: mi istruisce sulla mia vita nella Chiesa. La beat itudine promessa alla vita di fede in ragione della rivelazione venuta dal Padre non è assicu­ rata soltanto a Pietro; ragginnge tutti coloro di cui è porta­ parola. Raggiunge tutti i membri della Chiesa che il Cristo costruisce sulla base della sua fede. Raggiunge di conse­ guenza anche me, purché entri pienamente nella « costru­ zione » del Cristo. Che cosa risponderò, in parole e in azioni ? * * *

Bisognerebbe ora passare in rassegna, nei quattro vangeli, tutte le altre « sentenze inquadrate », tutti i piccoli racconti che culminano in un detto di Gesù. Le analisi critiche do­ vrebbero adattarsi a ciascun caso particolare, per deter­ minare con precisione la funzione del racconto che serve da cornice al detto: funzione cristologica, o ecclesiologica, o escatologica, o orientata verso la morale pratica, ecc. Il tema presente nel detto mostrerebbe la fnnzione del rac­ conto nella sua lettura ecclesiale. A partire da lì si può risalire verso il suo radicamento storico, più o meno lette­ rale per il detto (soprat tutto se esiste in più recensioni dif­ ferenti), più o meno preciso per i dettagli del racconto (so­ prattutto se questi dettagli diffe riscono da un vangelo al­ l'altro). Ma questo è soltanto un metodo gene rale le cui applicazioni dovrebbero essere fatte con tatto. La finezza esegetica è sempre indispensabile per la corretta interpre­ tazione teologica e la lettura « spirituale » degna di questo nome. 1 89

capitolo quarto

Lettura di parabole

La tradizione del linguaggio parabolico in Israele, come in tutto l'Oriente antico, risale molto indietro nel tempo. Se ne trovano degli esempi nelle letterature sumerica, egi­ ziana, assiro-babilonese, ecc. Nella Bibbia lo si incontra nei libri storici, profetici e sapienziali. In breve, si tratta di un patrimonio comune al quale la cultura giudaica at­ tinge continuamente. Quando il filone riappare nella lette­ ratura rabb inica è quasi sempre per fornire delle analogie capaci di chiarire alcuni testi della Scrittura: entra allora nell'ambito di una pedagogia scolastica. Le parabole evan­ geliche non sono quindi dei pezzi isolati. Tuttavia mi sem­ brano necessari alcuni elementi metodologici per affronta­ re una scelta di testi con uno scopo molto preciso: ritrova­ re in ciascuno di essi le tre «dimensioni » costi tu tive del Vangelo, cioè lo sfondo scritturistico, la stretta relazione con la persona di Gesù, l'inserimento finale del testo nel­ l'attual ità ecclesiale. Questo obiettivo guiderà un po' la mia scelta, invitandomi a prendere in esame delle parabole che si innestano su dei temi b iblici individuabili : il Padre co­ me figura di Dio, il banchetto, il Pastore, le nozze, la vi­ gna . . . Ma la mia ricerca sarà necessariamente limitata. L'es­ senziale è dimostrare che le parabole analizzate hanno una contesto letterario antecedente proveniente dalle Scrittu­ re, un contesto letterario vitale nella storia del mini stero di Gesù, un contesto di lettura legata alla loro redazione finale e al loro inserimento nelle raccolte evangeliche. In altre parole il loro Sitz im Leben è, in un certo senso, tri­ plice, e ciò costituisce in parte la ricchezza del loro signifi­ cato per il lettore odierno. 1 90

Bibliografia per lo studio delle parabole Opera fondamentale per la ricerca moderna: A. Jiilicher, Die Gleich­ nisse Jesu, 2 voli., Tiibingen 1 899. - Studi comparativi sui testi dell 'Antico Te stamento e la letteratura rabbinica: P. Fiebig, Altju­ dische Gleichnisse und die Gleichnisse Jesu, Tiibingen-Leipzig 1 904; Die Gleich nisse Jesu im Lich te de r rabbinischen Gleich nisse des neutestamentlichen Zeitalter, Tiibingen 1 9 1 2 ; Rabbinische Fo rm­ gesch ichte und die Gesch ich tlichke it Jesu, Leipzig 1 93 1 . D. Buzy, lntroduction aux paraboles évangéliques, Paris 19 1 3 (contiene un esame preliminare del genere letterario nella retorica greco-latina e del Mashal nell 'Antico Tes tamento e la letteratura rabbinica); Id., Les sym boles de l 'Ancien Testament, Paris 1 923. I paralleli giudaici antichi delle parabole evangeliche figurano, a proposito di ciascuna di esse, in (H. L. Strack-)P. Billerbeck, Kom mentar z.N. T. aus Talmud und Midrash, 4 tomi in 5 voli., Miinchen 1 924-28; una selezione di 42 parabole viene fornita da P. Bonsirven, Textes rab­ biniques des deux premiers siècles chré tiens, Rome 1 955 (cf. la Table a nalytique, p. 754; ma la traduzione dei testi, talvolta ab­ breviata, è sempre da verificare). Nel TWNT, cf. gli articoli « Parabole » (V, pp. 74 1 -759) e «Parai­ mia» (V, pp. 852-855), di F. Hauck. - Nel DBS, cf. l'art. « Parabole»,. di A. George, VI, coll. l t 49- 1 1 77 (bibliografia fino al 1 960). Opere classiche: C. H. Dodd, Le parabole del Regno, Brescia 2 1 980; J. Jeremias, Le parabole di Gesù, Brescia 2 1 973. Studio del ge­ nere letterario da Aristotele e l'Antico Testamento fino a Clemen­ te Alessandrino: M. Hermaniuk, La parabole évangélique: Enque­ te exégétique et critique, B ruges-Paris-Louvain 1 947 (discussione molto generale per la forma letteraria, il contenuto e lo scopo delle parabole evangeliche). Commentari completi o parziali: D. Buzy, Les paraboles, «Verbum Salutis » 6, Paris 1 932; E. Linnemann, Gleichnisse Jesu. Einfuh­ rung und Auslegung, Gottingen 3 t 964 (trad. ingl .: London t 966); G. V. Jones, The A rt and the Tru th of the Parables, London 1 964; R. E. Brown, c Parable and Allegory Reconsidered » , in New Testa­ meni Essays, London 1 965, pp. 254-264; J. D. Kingsbury, The Para­ hles of Jesus in Matthew 13, London 1 969; numero speciale di ln­ te rp retation, Aprile 1 97 1 ; S. TeSelle, Speaking in Parables: A stu­ dy in Metaphor and Theology, Philadelphia 1 975; M. Boucher, The mysterious Parable: A Lite rary Study, Washington 1 977 (bibliogra­ fia, pp. 90-96); H. J. Klauck, Allegorie und Allegorese in synopti­ schen Gleichnistex ten, Miinster 1 978; H. Weder, Die Gleichnisse lesu als Me taphe rn. Traditions- und reda ktionsgeschich tliche Ana­ lysen und lnte rpretationen, Gottingen 1 978; D. Flusser, Die rabbi­ nische Gleichnisse und de r Gle ichnise rziihle r Jesu . l. Das Wesen de r Gleichniss, Bern-Frankfurt-Las Vegas 1 98 1 (riprende lo studio nella prospettiva del giudaismo contemporaneo di Gesù). - Biblio-

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grafia recente in J. Lambrecht, « Tandis qu 'il nous parlai t»: Intro­ duction aux parables, Paris 1 980 [cf. pp. 40-43; ciascuno dei sette capitoli ha la sua bibliografia particolare] (trad. ital.: Le parabole di Gesù, Bologna 1 982). Le opere di H. Kahlefeld, di J. Dupon t, del Gruppo d 'Entreverne, vengono citate nel corso del testo. Ma cons iderevole è il numero degli articoli dedicato a delle parabole particolari, in tutte le riviste bibliche e teologiche. Segnaliamo infine la bibliografia fornita da B. S. Childs, « lnterpretation of the Parables Within a Canonica} Context », in The New Testament as Canon: An Introduction, London 1 984, pp. 53 1 -546.

l. OSSERVAZIONI METODOLOGICHE 1 . Principi generali

a) La critica «Classica» La bibliografia critica e teologica delle parabole evangeli­ che è immensa. L'esegesi moderna inizia con i due volumi di J. Jiilicher ( 1 899) . Rompendo con la loro interpretazione allegorica e cercando il loro contesto vitale nell'esistenza concreta di Gesù, Jiilicher proponeva un metodo rigoroso per classificare e spiegare i loro testi. Ma l 'applicazione di questo metodo completamente nuovo non avveniva sen­ za qualche forzatura. Jill icher improntava la definizione del genere alla retorica greca e ad Aristotele per distinguere formalmente pa rab o la e allego­ ria, essendo il rapporto dei due generi lo stesso del paragone e della me tafora. Un model lo più flessibile si sarebbe dovuto cercare nel Mashal biblico (« similitudine »), abituale nel la cul­ tura giudaica, che comportava delle sfumature che andavano dal semplice proverbio all'allegoria complicata. Poi Jul icher cercava nelle parabole di Gesù dei quadri reali stici presi dal vivo, a costo di considerare come inautentiche quelle che non rientravano in questa regola. Ma che valore aveva questo prin­ cipio posto a priori ? Inoltre, le lezioni che egli traeva da que­ ste storie semplificate tendevano ad allinearsi sul la « precom­ p rensione» che gli forniva le teologia liberale. Gesù era forse un teologo di questa scuola ? D'un colpo Jiilicher metteva da parte l'esegesi allegorica dei Padri e dei Medievali. Ma la loro sensibilità al linguaggio simbolico - che attraversava una c ri­ si presso gli intellettuali del XIX secolo - non avrebbe forse 1 92

potuto percepire nei testi alcune risonanze che la logica astratta dei moderni lasciava passare senza sentirle ?

In conclusione, se Jiilicher ha utilmente promosso lo stu­ dio tecnico delle parabole evangeliche, è stato necessario molto lavoro per reintrodurvi alcune dimensioni che la sua ossessione dell'autenticità dei testi e del loro significato letterale, inteso storicamente, aveva lasciato cadere. Da allora si sono moltiplicate in tutte le lingue le opere generali e le monografie, in margine ai commentari dei vangeli che pure hanno dovuto trattare l'argomento. L'esa­ me del genere letterario in ambiente giudaico e nel mondo semitico è stato oggetto di numerosi studi di cui la biblio­ grafia era già stata classificata e commentata da M. Her­ maniuk (La parabole évangélique: Enquete exégétique et cri­ tique, pp. 63- 1 24). È sufficiente menzionare i lavori di P. Fiebig e D . Buzy, senza contare il materiale accumulato da Strack e Billerbeck. Il rinnovamento degli studi patri­ stici nel XX secolo ha condotto i loro specialisti a presen­ tare i commentari alle parabole che si trovano presso gli scrittori antichi non come lavori di pura fantasia, senza alcun interesse per noi, ma come del le riflessioni originali elaborate nell 'ambito della teoria dei « Quattro sensi della Scrittura », che H. de Lubac ha studiato a partire da Orige­ ne fino al XVI secolo, (Histoire et Esprit: L 'intelligence de l 'Écriture se lon Origène, Paris 1 950; Exégèse médiévale. Le qua tre sens de l 'Écritu re, 4 voli., Paris 1 959-64). Nello stes­ so tempo molte monografie venivano dedicate all'esegesi dei Padri della Chiesa. Per le parabole, un piccolo libro di F. Quiévreux, pubblicato nel 1 946 da un editore prote­ stante, most rava come la loro interpretazione abbia sugge­ rito delle catene di simboli di cui si sono nutriti l'arte, la predicazione e la teologia del medioevo. Si apriva così un'altra strada. Sul piano della critica biblica, il libro di C. H . Dodd sulle Parabole del Regno ( 1 934) ha segnato una data importante rompendo con i pregiudizi della teologia liberale. Esso è stato seguito dall'opera classica di J. Jeremias (Le pa rabo­ le di Gesù) che sfumava l'idea di un ' « escatologia realizza­ ta» (Dodd) con quella di un'escatologia « inagurata » o « pros­ sima a realizzarsi )) ma ancora tesa verso l'avvenire. Tutta­ ' via l'obiettivo di Jeremias ( 1 947 , 6 1 962) era di ritrovare, al di là delle riletture e reinterpretazioni dovute alla Chie­ sa primitiva, il significato originario dei testi così come 1 93

l'aveva inteso Gesù: quest'esegesi è stata sviluppata nel I vol. della sua Teologia del Nuovo Testame nto (« La predica­ zione di Gesù »). Si è potuto perciò rimproverare a Jere­ mias di aver messo in ombra un aspetto dell 'insegnamento autenticamente legato alle parabole nel Nuovo Testamen­ to. Per questa ragione, nella prefazione alla traduzione fran­ cese, A. George ha potuto distinguere, a proposito del « mes­ saggio delle parabole » : l ) l'insegnamento di Gesù, e 2) l'in­ segnamento degli evangelisti (art. «Paraboles », DBS, VI, coli. 1 1 72- 1 1 76). Questo modo di procedere è ormai entrato nel­ l'uso di tutti i commentatori: ciò permette di recuperare in un alt ro modo le sentenze interpretative aggiunte al te­ sto primitivo, le allegorizzazioni secondarie e i rimaneg­ giamenti letterari attestati dalla molteplicità delle recen­ sioni. (Non tengo evidentemente conto di coloro che, col pretesto di « salvare » l'autenticità delle parole di Gesù, igno­ rano per principio tutti questi lavori e pretendono di rap­ presentare l'esegesi « tradizionale ))). Un esempio parziale di bibliografia recente viene fornito da J. Lamb recht (Le pa rabole di Gesù). Ma si raggiunge lo scopo perseguito dall'esegesi quando ci si limita a regi­ strare gli « insegnamenti » contenuti - fosse a due livelli - in ciascuna parabola (cf. H. Kahlefeld, Paraboles et le­ çons dans les évangiles) ? L'obiettivo perseguito da Gesù nel suo « metodo parabolico )) non era, come ha fatto fine­ mente notare J . Dupont, quello di invitare ogni ascoltatore o lettore a interrogarsi sulla propria esperienza prolun­ gando all'infinito il racconto così ricevuto, per impegnarsi nella direzione che Gesù indicava senza definirne stretta­ mente le regole (cf. Il metodo parabolico di Gesù, 1 979) ? b) Le ricerche recenti Ho presentato, in grandi linee, la critica « classica» legata evidentemente alla riflessione teologica. Ora, la critica let­ teraria recente ha introdotto degli elementi nuovi nel cam­ po dell'esegesi. Bisogna innanzitutto segnalare le ricerche e le riflessioni sul linguaggio simbolico, la metafora e la retorica antica. P. Ricoeur, in Francia, aveva aperto la strada con il tomo II di Finitude et culpa bilité: La symbolique du mal (Paris 1 960). Egli ha proseguito la sua ricerca ritoccando il campo delle parabole, specialmente in La métaphore vive ( 1 975). Le opere

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di Tz. Todorov lo toccano più da vicino; infatti, oltre alla reto­ rica antica, viene da lui esaminata la teoria cri stiana dei sensi della Scrittura in Théories du syrnbole ( 1 977), seguito da Sym­ bolisme et interpré tation ( 1 978). Egli ha sostenuto e fatto la prefazione alla traduzione de La Poetica di A ristotele ( 1 980), e poi l'opera di Northrop Frye, Le grand code: La Bible et la litté rature ( 1 984). Tuttavia le parabole evangeliche non rien­ trano nel primo di questi libri e non hanno alcun posto parti­ colare nel secondo.

Ciò che dev'essere notato in queste pubblicazioni è piutto­ sto l 'attenzione attribuita al linguaggio simbolico: si è in netta rottura con l'arido razionalismo che il secolo XIX aveva imposto all'esegesi liberale. Ma ancora non è stata fatta una s intesi che inglobi tutte le letterature del medio Oriente antico per studiarvi l'uso di questo linguaggio sim­ bolico: questo sarebbe il contesto nel quale il Mashal bibli­ co e giudaico, e poi le parabole evangel iche, troverebbero il loro posto e potrebbero essere confrontate con il suo uso nella retorica greco-latina. Parallelamente a questo sforzo di «poetica)), si sono svi­ l uppate in Francia, in Germania, negli Stati Uniti e un po' dappertutto, la linguistica strutturale e la semiotica, a con­ t inuazione degli antichi lavori di V. Propp (Morfologia del­ la fiaba, ed. it., 3 1 966) e di R. Jacobson (specialmente le Questions de poétique, tr. fr. , Paris 1 973). Lasciando da parte le opere tecniche sui metodi adoperati, se­ gnaliamo che almeno tre riviste si sono specializzate nell 'ap­ proccio semiotico alla Bibbia, riservando abbastanza spazio allo studio delle parabole: negli Stati Uniti, Semeia ( 1 974ss); in Germania, Linguistica Biblica ( 1 976ss); in Franc ia, Sémioti­ que et Bible ( 1 975ss). Il primo nwnero di Semeia era dedicato a un « approccio strutturale » alle parabole (A Strncturalist Ap­ p roach to the Parables, 1 974). Ma i metodi di lavoro non sono esattamente gli stessi in Francia (dove predomina l 'influenza di A. J. Greimas), in ambiente tedesco (cf. E. Giittgemanns) e in ambiente anglosassone. Accanto a una moltitudine di studi particolari, si vedono apparire sul mercato dei lib ri significa­ tivi: quello del Groupe d'Entreverne, Signes et pa raboles: Sé­ miotique et tex tes évangélique (Paris 1 977) o quello di Y. Al­ meida, L 'opé rativité séman tique des récits-paraboles: Sémioti­ que narrative et textuelle - He rméneutique du discou rs réligieux (Louvain-Paris 1 978, con abbondante bibliografia).

È quindi aperto un nuovo campo di lavoro: porterà

a

un 1 95

completo rinnovamento dei metodi e a dei risultati frut­ tuosi ? Quanto ai metodi, non può trattarsi di soppiantare gli studi di critica letteraria e storica nel senso « classico » del termine: il simbolismo e la semiotica conoscono il lin­ guaggio e i testi, ma ignorano completamente la storia co­ me tale. Le domande che gli sono connesse rimangono po­ ste, al di fuori dei loro campi di applicazione. Non è con questo che si può chiari re il « contesto vitale » (Sitz im Le­ ben) delle parabole. Ma si può sperare di trovarvi dei mez­ zi nuovi per l'analisi dei testi, dei racconti, di cui è neces­ sario studiare la « narratività» per svelarne il significato, eventualmente illuminato a sprazzi. 2. Le tre dimensioni evangeliche nelle parabole

Il mio scopo qui è limitato, benché mi obblighi a ricorrere lateralmente a tutti i diversi studi che ho appena segnala­ to. Come per i logia «vaganti » di Gesù e le « sentenze in­ quadrate », mi propongo di verificare la legge che, presie­ dendo ogni testo evangelico nella sua forma attuale, ne re­ gola l'esegesi. Ogni testo comporta tre « dimensioni »: un riferimento all'Antico Testamento, che viene portato a com­ pimento nella persona e nel mistero di Gesù Cristo; la pre­ senza di un senso lette rale «Storico», adatto ai di retti ascol­ tatori di Gesù; l'esistenza di una le ttura ecclesiale, che non si limita a ripetere materialmente le « lezioni » date da Ge­ sù, ma riprende il materiale parabolico consegnato dalla tradizione prolungando la sua portata primitiva alla luce della Pasqua.

a) Le difficoltà critiche Bisogna innanzi tutto notare che il riferimento all'Antico Testamento }X>trebbe essere intervenuto sia al momento della creazione delle parabole da parte di Gesù che al mo­ mento della loro « rilettura » nella Chiesa primitiva e la re­ dazione finale dei vangeli. È in effetti possibile che un rac­ conto iniziale in cui le reminiscenze bibliche erano solo implicite, abbia fatto poi ritornare alla memoria dei testi che potevano illustrarne e orchestrarne il contenuto. Ciò era tanto più facile perché ogni testo parabolico rientra per se stesso nel campo del linguaggio simbolico, prestan1 96

dosi perciò a delle applicazioni diversificate, secondo il pun­ to sul quale, leggendolo, si pone l'accento. Ma nello stesso tempo la lettura comporta un concatenamento di simboli forniti dalla Bibbia stessa. Ne possono derivare delle ag­ giunte e delle trasformazioni letterarie del racconto primi­ tivo, che non costituiscono affatto una mancanza di fedel­ tà al messaggio di Gesù; ne prolungano soltanto alcuni aspetti in funzione della sua totalità, pienamente rivelata dal mistero del Cristo nella sua dimensione ecclesiale. Que­ sti aspetti non erano necessariamente percepibil i per i pri­ mi ascoltatori delle parabole. Per le spiegazioni di parabole che Gesù rivolge in partico­ lare ai suoi discepoli (il seminatore: Mc 4.t 1 3-20 e par. ; la zizzania: soltanto Mt 1 3 , 36-43; la rete: soltanto Mt 1 3, 49-50), i critici pongono generalmente questa domanda: provengo­ no direttamente da Gesù o hanno ricevuto dei complemen­ ti nella catechesi cristiana ? È difficile rispondere a questa domanda in modo certo. Infatti, da una parte queste spie­ gazioni allegorizzanti forniscono una catechesi sviluppata che non sembra riprendere il genere abituale di Gesù. Inol­ tre, quando il confronto tra i Sinottici è possibile, esse pre­ sentano numerose differenze di dettaglio in seno a uno sche­ ma comune. Ma, d'altra parte, la tradizione rabbinica rac­ colta nei Midrash im antichi mostra più di una volta i dot­ tori giudaici che spiegano ai loro discepoli i Meshalfm (« similitudini ») di cui si sono serviti per interpretare la Scrittura. La familiarità dei discepoli con Gesù era tale che non si può escludere la possibilità di un insegnamento dato a parte in una forma più approfondita. Ciò corrispon­ de alla conclusione del capitolo parabolico in Marco (Mc 4): alla folla Gesù parlava solo in parabole, « ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa)) (Mc 4, 34). Si può quin­ di essere esi tanti tra due diverse ipotesi: o quella di diffe­ renze nella memorizzazione delle parabole e della loro spie­ gazione presso i diretti discepoli, o quella di una certa li­ be rtà letteraria della catechesi primitiva e poi dei vangeli stessi. b) Memorizzazione e reinte rpre tazione Le parabole fanno parte di un insegnamento pubblico ri­ petuto spesso, di cui Bultmann ha caratterizzato molto be­ ne le tecniche letterarie: concisione del racconto, rido t to 197

ai suoi personaggi essenziali; carattere rettilineo e unili­ neare della narrazione; epiteti « di natura»; sentimenti e motivi notati unicamente se essenziali per l'azione o il punto culminante del racconto; economia nella descrizione degli avvenimenti e delle azioni; legge della ripetizione delle for­ mule; richiamo, alla fine, del punto più importante; giudi­ zio richiesto agli ascoltatori; tipica opposizione dei perso­ naggi, o delle cose che li rappresentano (i vari tipi di terre­ no, nella parabole del seminatore) (L 'histoire de la tradi­ tion synoptique , pp. 236-24 1, dopo le analisi delle pp. 2 1 1 -226 che sono talvolta ipercritiche; il Complé ment del 1 97 1 presenta una bibliografia molto utile, pp. 562-580). Tutto ciò si fi ssa automaticamente nella memoria, almeno a grandi t ratti, talvolta fin nei dettagli, specialmente se essi sono significativi. Allora entra in gioco per il meglio la memo rizzazione meccanica. AI contrario, le spiegazioni a un gruppo ristretto - quando sono esistite - sono state necessariamente oggetto di colloqui più lunghi. Di conse­ guenza, esse hanno potuto far appello soltanto a una me­ morizzazione tematica e globale, che lasciava spazio a una più grande libertà di riproduzione nelle istruzioni cateche­ tiche trasmesse, più tardi, al le comunità ecclesiali. Un caso tipico viene fornito dalla piccola parabola del ladro che viene di notte. In Matteo e Luca essa accompagna una for­ mula a l l 'imperativo: « Tenetevi pronti » (Mt 24, 43-44 = Lc 1 2, 39-40). Bultmann ammette il carattere primitivo di questa formula che riappare in diversi altri contesti (Mc 1 3, 55; Le 1 6, 9; Mt 24, 44 e 25, 1 3). Ma, contraddicendo Jeremias che vede nel l 'immagine un'allusione a un fatto recente della vita quoti­ diana (Le parabole di Gesù, tr. fr. , pp. 57s), considera la para­ bola, con Philhauer, una «creazione della Comunità » (L 'h istoi­ re .. , pp. 2 1 7 e 564). Infatti la formula riguardava originaria­ mente la venuta del Figlio dell 'Uomo, senza precisa identifica­ zione di questa figura escatologica (come in Mc 1 3 , 26 e par.). La sua rilettura evangelica identifica evidentemente la «venu­ ta» con il ritorno del Cristo glorioso: è anche la rilettura post­ pasqual e della parabola (cf. J . Jeremias, op. ci t., pp. 58-60). Ora, lo s tesso significato riappare in un'allusione dell 'Apoca­ lisse (Ap 3, 3), e la parabola stessa viene appl icata al Giorno del Signore da San Paolo ( lTs 5, 23) e nella seconda lettera di Pietro (2Pt 3, l Oa). La parabola è stata perciò « attualizzata » dalla catechesi comune in una nuova prospettiva, per dare un fondamento al la «vigilanza» cristiana, ormai tesa verso la pa­ rusia gloriosa del Cristo. Non si tratta di un'infedeltà nei ri.

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guardi della « tensione • escatologica del testo primitivo; ma l 'oggetto dell'attesa al quale e ra dovuta questa tensione era andato precisandosi tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa.

Si ammetterà quindi la possibilità di amplificazioni e di trasformazioni letterarie, in una fedeltà vivente che non era votata soltanto alla ripetizione orale. 3. Le condizioni della ricerca critica

Grosso modo, le condizioni della ricerca critica si presen­ tano come per le « sentenze inquadrate » . È il caso di fare due letture successive di ogni testo; non cominciando con una specie di potatura che elimini gli elementi giudicati « secondari » allo scopo di ritrovare la parabolt;1 « primiti­ va » di Gesù, e poi esaminando la/le trasformazioni che es­ sa avrebbe subito nel corso della sua trasmissione, col ri­ schio di considerarle come meno importanti ( ! ), ma seguen­ do il cammino inverso. Infatti se gli evangelisti ci hanno trasmesso una parabola ricomponendola o aggiungendovi delle chiavi d'interpretazione perché la sua lettura fosse fatta in una prospettiva ecclesiale, dobbiamo prima di tut­ to seguirli in questo campo. La storia degli effe tti prodotti da un testo sui suoi lettori o i suoi ripetitori (la sua Wi r­ kungsgesch ichte, come dicono i tedeschi) fa realmente par­ te del significato di questo testo, di cui essa fa emergere alcune vi rtualità. I testi parabolici hanno preso posto nella sto ria della rive­ lazione evangelica, che fu terminata con la chiusura del Nuovo Testamento. Non si può perciò trascurare questo aspetto delle cose per ritornare unicamente all'« origina­ rio », o per supporre che non sia mai intervenuto alcun ap­ profondimento nella comprensione di questo « originario ». Accade che recensioni parallele dello stesso racconto non rendano esattamente lo stesso suono, talvolta a causa dei ritocchi o dei rimaneggiamenti (si confrontino le parabole dei talenti e delle mine: Mt 25, 1 4-30 e Le 19, 1 2-27). È ne­ cessario, per cominciare, prendere queste recensioni nella loro diversità e ritrovare il tipo di riflessione che ciascuna di esse attesta in un settore e in un tempo determinato della vita della Chiesa. È nel corso di quest'analisi - comparativa, quando le re199

censioni lo richiedono - che le osservazioni cri ti che per­ mettono di scoprire la via per la quale si accederà, in una seconda tappa, al diretto significato che la parabola com­ portava durante il ministero di Gesù, in funzione di un « contesto vitale» in cui essa allora si collocava. Sfortuna­ tamente le parabole sono raramente accompagnate da una messa in scena storica, come per il caso delle « sentenze inquadrate ». Quando lo sono ci si può inoltre domandare se questa messa in scena provenga dai ricordi primitivi o se sia stata costruita secondariamente dal l 'evangelista per spiegare il rapporto della parabola con l'azione di Ge­ sù considerata da un'angolatura più generale. Del resto, dato che le tappe del suo ministero si conoscono solo som­ mariamente e dato che gli evangelisti non hanno avuto la preoccupazione di situare ciascuna parabola nel suo qua­ dro storico e psicologico, l'identificazione di quest'ultimo è generalmente solo ipotetica. Bisogna tuttavia tentarlo, tenendo conto della svolta segnata dalla confessione di fe­ de di Pietro 1 , tanto nei Sinottici (Mc 8, 27-30 e par.) quan­ to nel IV vangelo (Gv 6, 69). Ma questa osservazione rima­ ne molto sommaria. Dopo queste osservazioni preliminari mi propongo di ap­ plicare il metodo di lavoro ad alcuni testi scelti di proposi­ to come significativi: nei Sinottici, il Padre e i suoi due figli (Le 1 5 , 1 1 -32) e la parabola del banchetto (in Le e Mt); nel IV vangelo, l 'allegoria della vigna (Gv 1 5, 1 -8). I l . IL PADRE E l SUOI DUE FIGLI

Per stimolare la riflessione sul tema della paternità di Dio la parabola più nota e più celebre è certamente quella di Le 1 5, 1 1 -32. Non essendoci alcun parallelo negli altri van­ geli è impossibile un confronto con un'altra recensione dello stesso racconto. Possiamo solo muoverei all'interno del van­ gelo di Luca per farne lo studio critico e ricercarne, se possibile, le tre « dimensioni ».

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S i veda il testo analizzato sopra, pp. 1 6 1 - 1 89.

200

Bibliografia sulla parabola di Luca 1 5, 1 1 -32 l . Ope re a carattere gene rale : R. Bultmann, L 'histoire de la tradi­ tion synoptique, pp. 222 e 569 (utile per la bibliografia comple­ mentare fino al 1 97 1 ). Commento al testo in tutti i libri dedicati alle parabole (cf. l 'Excursus n. 9) e in tutti i commentari del van­ gelo di Luca. Una decina di articoli esaminano la parabola sotto diverse angolature in Exegesis: Problèmes de méthode et exe rcises de lecture, ed. F. Bovon e G. Rouiller, Neuchatel-Paris 1 975. Grou­ pe d'Entrevernes, Signe et paraboles: Sémiotique et texte évangé­ lique, Paris 1 977, pp. 92 1 42 (Le 1 5) ; J. Lambrecht, Le parabole di Gesù , ed. fr., pp. 45-85 (Le 1 5); F. Schnider, Die verlorenen Soh­ ne, Gottingen-Freiburg 1 977 (monografia); H. Weder, Die Gleich­ nisse Jesu als Metaphe rn Gottingen 1 978, pp. 252-262; P. Grelot, « La Père et ses deux fils: Luc XV, 1 1 -32 », RB 84 [ 1 977], pp. 3 1 9-348 e 538-565 (mi rifaccio qui a quest'analisi, pur avendo io stesso espresso un dubbio sul suo carattere « strutturale »). 2. Lo studio del tema del «Padre », dall 'Antico Testamento e il giu­ daismo fino al Nuovo Testamento, è stato fatto con cura da W. Marche!, A bba, Père: La prière du Christ et des ch rétie ns, Nuova ed., Roma 1 97 1 . Si veda in TWNT l'articolo «Paten> ecc . , V, pp. 946- 1 0 1 6, con un'ampia bibliografia tanto per il senso letterale che per quello simbolico del termine (G. Schrenk-G. Quell); in Ex. Wb. z. N. T. , art. « Pater», III, 1 25 1 35 (0. Michel); bibliografia com­ plementare in TWNT, X, p. 1 225, dove si può trovare il rinvio ai dizionari teologici dell'A.T. : THA T, l, 1 - 1 7 (E. Jenni) e TWA T, I, 2 1 9 (H. Ringgren). Per il vangelo, cf. J. Jeremias, A bba, Brescia 1 968. -

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1 . Osservazioni critiche sulla parabola

a) L 'unità della parabola Nessuno in pratica nega l'autenticità originaria di questa parabola. La sua portata è troppo fondamentale in rappor­ to alla comprensione del Vangelo, troppo originale rispet­ to al giudaismo del tempo di Gesù, troppo lo n tana dagli atteggiamenti spontanei degli uomini davanti ai problemi familiari, pe rché non si riconosca in essa un tratto carat­ teristico della personalità di Gesù. La sua redazione greca è scorrevole: vi è alla fine passata sopra la mano di Luca. J. Jeremias ha creduto di discernervi dei semitismi, che farebbero presumere l'esistenza di un testo anteriore a Luca e alla sua fonte greca (« Tradition und Redaktion in Lukas 20 1

XV >>, ZNW 62 [ 1 97 1 ], pp. 1 72- 1 89). Non è impossibile, ma l' ipotesi rimane discutibile. Il solo interrogativo che viene talvolta sollevato è quello di sapere se la sezione finale, relativa all 'atteggiamento del figlio maggiore ( 1 5, 25-32), non sia un'aggiunta secondaria. Questa fu un tempo la posizio­ ne di J. Wellhausen (presentata da F. Bovon, in Exegesis, pp. 82-85), e poi di J. Weiss e A. Loisy. È stata ripresa da J. T. Sanders che nega, contro Jeremias, l'esistenza di semitismi nei vv . 25-32 (« Tradition and Redaction in Luke XV)), NTS 1 5 [ 1 968/69], pp. 433-438). Il punto culminante della parabola primitiva sarebbe stato il perdono accorda­ to al figlio prodigo. Ma c'è lì un'assimilazione troppo rapi­ da del « figlio perduto » con la « pecorella smarrita» ( 1 5 , 3-4) e con la « dramma perduta » (1 5, 8- 10). Perché allora la pa­ rabola avrebbe avuto inizio con le parole: « Un padre aveva due figl i » ( 1 5, 1 1) ? È il titolo abituale della parabola ad ingannare qui la critica: « il figliol prodigo». In realtà la storia è quella di un padre e dei suoi due figli. Il titolo: « il Padre misericordioso » perderebbe di vista il problema essenziale posto dalla condotta parallela dei due figli. Nem­ meno sarebbe appropriato il titolo: « il figlio perduto e il figlio fedele ». Fedele fino a che punto ? Il fatto che egl i sia incapace di condividere il punto di vista del padre e di rientrare in casa per prendere parte al banchetto non parla in questo senso. Per chiari re questo problema e verificare l'unità interna della parabola, ho tentato di applicare ad essa un'analisi di tipo strutturale (« La Père et ses deux Fils: Luc XV, 1 1 -32 », cf. bibliografia sopra). Riprendevo semplicemente, per i tre personaggi del racconto, lo schema classico evi­ denziato da V. Propp nei racconti popolari: quello delle « tre prove )) dell'eroe (o dell'anti-eroe). Ciascuno dei tre per­ sonaggi della parabola raccontava la storia a sua volta con dei « IO », dei «Noi », dei « Essi/Egli ». Era naturalmente necessario, quando il narratore era assente dalla scena, introdurre dei « racconti nel racconto » . L'esperimento era facile e probante: niente poteva essere omesso senza crea­ re un vuoto subito percepito. La sola difficoltà dell'opera­ zione era in rapporto diretto con il tema della parabola. Nel racconto fatto dal figlio maggiore, costui parlava del minore dicendo «mio fratello» o «egli » (impersonale). Il v. 30 troncava la questione: rivolgendosi al padre, egli dice: « questo tuo figlio )>. La rottura è quindi operata, non sol202

tanto tra i due fratelli, ma anche tra il figlio maggiore e suo padre. Non ci sono dei veri e propri versetti conclusi­ vi. Il versetto finale (v. 32) ripete la motivazione enunciata dal Padre nel v. 24. Tutto rimane allora in sospeso: il figlio maggiore risponderà, sì o no, all 'invito del Padre, che è pronto a farlo entrare nella gioia della festa? Non è forse proprio questa domanda il punto culminante della parab� la ? Essa viene posta implicitamente al figlio maggiore in vista della sua libera determinazione. In tal modo si potrà valutare la qualità di ciò che egli conside rava come la sua fedeltà. In breve, la parabola racconta tutta la storia di un padre e dei suoi due figli; non contiene alcuna sezione addizionale. b) Il con testo della parabola Così compresa, la parabola si collega strettamente con il contesto narrativo nel quale è stata inserita dall'evangeli­ sta (Le 1 5, 1-3): l'accoglienza dei pubblicani e dei peccatori, il mormorio dei Farisei e degli scribi (cf. Le 5, 29-3 2 = Mc 2, 1 5-1 7 = Mt9, 10- 1 2). Luca continua: Gesù allora «disse lo­ ro questa parabola », al singolare. Sono perciò le due simi­ litudini della pecora smarrita e della dramma perduta che rompono la logica continuazione del testo. L'evangelista le ha intercalate qui obbligandosi poi a inserire un legame artificiale: « Disse ancora » (1 5, 1 l a). Tuttavia la messa in scena ricorda troppo il quadro generale di Le 5, 29b-30 per­ ché non lo si consideri, anch'esso, come un artificio narra­ tivo dovuto a Luca o alla sua fonte particolare. Piuttosto a Luca che alla sua fonte poiché l 'interpretazione delle pa­ rabole della pecora e della dramma ( 1 5, 4- 1 0) sembra esse­ re proprio opera sua, sulla base di un materiale tradizio­ nale che ha un parziale parallelo in Mt 1 8, 1 2- 1 4 (la pecora smarri ta, e non pe rduta, con un s ignificato di fondo diver­ so da Luca). L'inizio del capitolo dà un quadro generale dell'accoglienza accordata da Gesù alle persone escluse dal­ la società « pia» e delle reazioni che un tale atteggiamento provocava. Questo « contesto vitale » è molto impreciso. È indipenden­ te da ogni annotazione spaziale o temporale, ma il tratto che emerge è talmente caratteristico del la personalità di Gesù e delle sue posizioni in rapporto alla pietà farisaica che non c'è motivo di metterlo in dubbio. Un'annotazione 203

di questo tipo può essere convenzionale nell a sua redazio­ ne letteraria, ma storica nel suo sfondo. La stretta relazio­ ne tra la parabola e il suo contesto è sufficiente per dare a questo racconto un valore polemico rivolto contro i Fari­ sei ? E ra questa la conclusione di D. Buzy, in disaccordo con il P. Lagrange. Questi aveva proposto di vedere nel figlio maggiore «i giusti che non sospettano nemmeno [ ... ] fin dove arriva la tenerezza paterna di Dio nel sollecitare il peccatore a pentirsi » (L 'évangile de Luc, pp. 420ss). Buzy spiegava al contrario: cii Salvatore ha intrapreso una controversia con i suoi avver­ sari; li segue sul loro terreno e li combatte con le loro stesse armi. Egli prende nella loro concezione della santità, il punto di partenza per una conclusione che si rivolgerà contro di es­ si: fa un 'argomentazione ad hominem ,, (Les paraboles de Jé­ sus, p. 1 97).

Quanto alle parole: «Tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo », è necessario trovarne una giustificazione. D. Buzy precisava: « Non si cercherà di spiegare come delle metafore tutte le pa­ role di questa risposta, domandando in che modo il fariseo sia con Dio, o quali siano i beni che Dio gli comunica. Queste parole sono innanzitutto, dal punto di vista letterario, il pro­ lungamento di una situazione i rreale. Esse convengono più a questo padre e a questo figlio della parabola che a Dio e ai fari sei. Sono degl i elemen ti pa rabolici piuttosto che delle me­ tafore. Ma infine, così come sono, esprimono la concezione della santità l egale che i farisei attribuivano a se stessi, che il popo­ lo riconosceva loro e che il divin Maestro poteva avere un in­ teresse p rovvisorio a non contestare ,, (Ibid.).

Altrove, specialmente in Matteo, si trovano delle polemi­ che contro gli scribi e i farisei - o almeno contro quelli tra di loro che Gesù chiama « ipocriti » (Mt 23; Mc 7, 1 - 1 3 = Mt 1 5, 1 -9). Ma nella parabola analizzata qui non c'è una paro­ la che possa essere interpretata come un rimprovero del Padre al figlio maggiore. Sarebbe perciò vero piuttosto il contrario: Gesù invita con parole velate coloro che lo critica­ no a partecipare al « banchetto ,, con i peccatori convertiti . È il contrario di una polemica. Comunque sia, che si attri­ buisca la composizione del contesto della parabola a Luca o alla sua fonte, questo contesto conserva l'esatto ricordo 2 04

dello scandalo causato dall'atteggiamento di Gesù tra i ben­ pensanti del suo tempo. La critica storica e la critica lette­ rari a si incontrano per confermare l'autenticità della pa­ rabola e del suo contesto, anche se bisogna lasciare un certo margine di manovra al lavoro redazionale di Luca. 2.

Lo sfondo biblico

La parabola viene presentata senza alcuna chiave di lettu­ ra: spetta agli ascoltatori o ai lettori scoprire dove Gesù vuole condurli e quale rifles sione si propone di suscitare in essi. Ma è chiaro che l' immagine dei figli, accostati al contesto in cui il racconto figura, contiene in filigrana un'al­ lusione agli atteggiamenti diversi degli uomini. Non è ne­ cessario allegorizzare artificialmente il testo per scoprire che ha di mira, da un lato, i peccatori che pos sono prende­ re coscienza della loro situazione e convertirsi e, dall 'al­ tro, coloro che si considerano a torto come dei « giusti)): credono di non aver bisogno di conversione, ma Dio non la pensa allo stesso modo. Si tocca con ciò il tema di un'al­ tra parabola lucana: quella del Fariseo e del Pubblicano (Le 1 8, 8- 1 4). Ma qual è lo sfondo biblico ? a) L 'im magine di Dio-Padre Poiché l ' immagine dei figli rinvia i diversi atteggiamenti degli uomini, quella del Padre rappresenta evidentemente Dio. Lo sfondo biblico è perciò costituito da tutti i testi in cui Dio è mostrato sotto la figura del Padre. Non è que­ sto il luogo per studiare lo sviluppo dell'immagine nell'An­ tico Testamento 2• Quella di Dio-Padre non era un'imma­ gine sconosciuta alle religioni circostanti, ma aveva acqui­ stato una nuova dimensione a partire dal momento in cui la rivelazione biblica l'aveva spogliata del suo aspetto ge­ nitale escludendo ogni dea-genitrice e ogni genealogia di­ vina. Restava soltanto un modo per mostrare Dio come Pa­ dre: quello di mettere sulla sua bocca una frase di adozio­ ne - si noti l'antropomorfismo ! « Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito » (Es 4, 22; cf. Dt 1 , 3 1 , a titolo di paragone e non di metafora; Dt 32, 6b. 1 9b, sotto forma 2 Si veda la bibliografia annessa a quella della parabola, p. 20 1 . 205

di generalizzazione). L'immagine riappare nei testi profeti­ ci per denunciare i figli ribelli (Is l , 2b). Viene applicata anche in un modo particolare al re d'Israele, conferendo a lui una filiazione adottiva (2Sam 7, 1 4; Sal 2, 7; 89, 27; 1 1 0, 3 LXX). Il testo di Isaia, come i primi tre testi regali del salterio, prevede o denuncia l'eventuale infedeltà dei « fi­ gli » verso il loro « Padre ». li simbolo fondamentale della parabola di Le l 5 ha quindi uno sfondo biblico ben de­ lineato. b) La pie tà del Padre mise ricordioso Il testo che si avvicina di più alla parabola evangelica è il discorso - già parabolico - di Os 1 1 , 1 -6, che contrasta con 1 1 , 7-9 . Il popolo di Israele viene paragonato ad un fi­ glio amato teneramente, ma infedele: «Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio fi­ glio » ( 1 1 , l ; cf. Es 4, 22). Segue poi un'insistenza sulla tene­ rezza di Dio ( 1 1 , 3-4), il cui amore misconosciuto provoche­ rà la collera ( 1 1 , 5-6). Ma il Padre non può lasciare libero sfogo a questa collera, perché è Dio e non uomo ( 1 1 , 9): la sua compassione verso i figli infedeli non può che alla fine prevalere ( 1 1 , 8). Si pos sono trovare altrove questi al­ tri testi che proclamano la misericordia di Dio, special­ mente in una prospettiva escatologica in cui Dio promette al popolo peccatore il perdono e la salvezza. Tuttavia que­ ste promesse sono legate ad altri temi simbolici, special­ mente quello dell'alleanza (Ger 3 1 , 34), raffigurata dal ma­ trimonio (Os 2, 20-25; Ez 1 6, 53-63; Is 54, 4-8). È il testo di Os 1 1 , 1 -9 che costituisce il miglior sfondo biblico della pa­ rabola di Le 1 5, benché nessuna parola suggerisca che Ge­ sù l'avesse presente. Questo testo di Osea nel giudaismo era oggetto di tre o quat­ tro letture diverse che non è inutile segnalare. Quella dell'e­ braico, che sarà seguita da Aquila e Simmaco .. « dal l ' Egi tto ho chiamato mio figlio )). Quella della Settanta, che generalizza il testo applicandolo a tutti i Giudei: « Quando Israele era un giovinetto io l 'ho amato e dall'Egitto ho chiamato i suoi figli». Quella di Teodozione: « .l'ho chiamato: Mio Figli o » - il che dimostra a quale titolo il nome di « Figlio » viene dato a Israe­ le. Infine il Targum « . . . fin dall' Egitto li ho chiamati figl i » (A. Sperber, The Bible i n A ramaic, t. III, p. 403). M a non ci si può appoggiare al Targum di Jonathan per vedervi una te.

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stimonianza della tradizione giudaica all 'epoca del Nuovo Te­ stamento.

Comunque sia, la relazione fil iale degli uomini con Dio è iscritta con forza nei testi biblici, e la misericordia di Dio verso gli uomini peccatori fa parte del messaggio di Osea. La parabola di Gesù si innesta quindi su un tema cono­ sciuto per mostrame il « compimento » finale. Ma per giun­ gere a ciò essa complica il dato fondamentale ponendo la domanda seguente: Chi è peccatore e chi può dirsi giusto ? L'atteggiamento di Dio verso gli uomini non muta, ma quan­ to vale esattamene l'atteggiamento degli uomini verso di lui ?

3. La parabola nel suo •contesto vitale.a) Il contesto «Storico» primitivo Le osservazioni critiche fatte prima indicano che la para­ bola corri sponde al contesto molto generale in cui l'evan­ gelista l'ha collocata (Le 1 5, 1-3). Ma questo non contiene alcuna indicazione cronologica. Evoca soltanto un atteg­ giamento costante di Gesù nei riguardi degli uomini «esclu­ si » dalla società dei «benpensanti » che comprendono i mem­ bri di confraternite religiose (i Farisei) e gli uomini appas­ sionati della loro conoscenza della Legge (gli scribi). Nello stesso tempo mostra le lamentele dei Farisei e degli scribi nei riguardi di Gesù. Sotto questo aspetto la parabola non è soltanto una giustificazione della condotta di Gesù; con­ tiene anche una messa in discussione di coloro che lo criti­ cano, non con un' intenzione polemica, ma al contrario per chiedere loro indirettamente se non debbano anch'essi con­ vertirsi per entrare nel Regno di Dio. Per ques to motivo F. Schnider intitola il suo commentario alla parabola « l figli perduti » (Die verlorenen Soh ne). I l « Regno d i Dio» non viene menzionato esplicitamente, ma il « banchetto » che fa seguito al ritorno del figlio prodigo evoca chiaramente la gioia di Dio alla quale tutt i sono chiamati a partecipare (cf. Le 1 3 , 29 e le parabole del banchetto) : c'è una comuni­ cazione sotterranea tra le irmnagini delle diverse parabo­ le. A questo riguardo le sentenze conclusive delle parabole della pecora smarrita e della dramma perduta (Le 1 5, 7. 1 0) ricevono qui la loro più forte applicazione . 2(11

Si nota tuttavia una differenza di tonalità. Nella parabola della pecora smarrita si diceva che « ci sarà più gioia in c ielo per un peccatore convertito che per novantanove giu­ sti che non hanno bisogno di conversione » ( 1 5, 77). È que­ sta la situazione del figlio maggiore della nostra parabola ? Possiamo considerarla come « Un giusto che non ha biso­ gno di conve rsione » ? Finché egli rimane fuori della casa per non partecipare al banchetto familiare, non soltanto egli si esclude dalla gioia comune, ma adotta una posizio­ ne contraria a quella del Padre poiché rifiuta di riconci­ liars i con suo fratello colpevole ma pentito. Il Padre, che non ha avuto alcuna parola di condanna per il figlio mino­ re, tanto meno ne ha per lui. Lo esorta soltanto a entrare; gli ricorda la sua esperienza di intimità familiare: « Tu sei sempre con me (ordine dell'essere!) e tutto c iò che è mio è tuo (ordine dell'ave re ! ) » ( 1 5, 3 1 ). A partire dal momento in cui la « figura» di Dio traspare attraverso il Padre della parabola, diviene trasparente l'allusione all'esperienza re­ ligiosa degli scribi e dei Farisei. Se la Buona Novella del Regno di Dio viene annunciata ai peccatori di ogni sorta mediante la fede e la conversione, viene annunciata pure ai membri della società giudaica che sono « in regola» con la Legge di Dio, purché essi accolgano questo invito alla gioia e non si intestardiscano in un rifiuto del Vangelo. Ma lo faranno ? La parabola ha per essi un valore di do­ manda: rimane senza conclusione lasciando il s ignificato in sospeso. Questa è la lettura storica del testo, il suo significato lette­ rale primitivo. Certamente, questo significato esalta la mi­ sericordia di Dio, che è la stessa per tutti. Dio, che acco­ glie i peccatori con gioia dopo i peggiori misfatti, vuoi fa­ re condividere questa stessa gioia a coloro che si sono sfor­ zati di restare fedeli alla sua Legge, nella misura in cui essi credevano che le prescrizioni di questa Legge rivelas­ sero loro sufficientemente il volto e il cuore del loro Padre celeste. Ma Dio è sempre diverso di quanto si possa imma­ ginare. Il Padre non è soltanto « la Legge » (« io non ho mai trasgredito un tuo comando »: 1 5 , 29). Più fondamentalmente ancora, egli è l'Amore. La parabola rivela quest 'Amore so­ vrano ai peccatori che rischierebbero di cadere nella di­ sperazione. Lo rivela anche a coloro che si credono « giu­ sti » a rischio di cadere in una rigidezza di giudizio che non somiglia affatto all'atteggiamento di Dio: è necessario 208

che dall'obbedienza alla Legge essi si convertano all'amo­ re. Questa è la situazione che la parabola fa intravedere al tempo di Gesù. b) La parabola nel contesto ecclesiale Questo senso primitivo del testo resta fondamentalmente identico nel contesto ecclesiale. Si può dire che al tempo delle origini cristiane e della redazione dei vangeli Gesù continuasse, attraverso questo testo, a rivolgere agli scribi e ai Farisei del giudaismo lo stesso invito al la gioia del Regno di Dio. Ma una certa interpretazione allegorizzante ha senza dubbio cominciato a farsi strada nella rilettura post-pasquale del testo. Qual è questo « banchetto da fe­ sta » al quale il peccatore pentito è invitato a partecipare insieme a tutti gli abitanti della stessa casa del Padre ? Il tema del banchetto è ecclesiale per eccellenza 3 • Perché dunque degli uomini, attaccati con tutte le loro forze alla « Legge del Padre », si autoescludono ? Come fare per spin­ gerli a loro volta ad entrare ? I trasmettitori della tradizio­ ne evangelica, e infine Luca stesso, avrebbero dimenticato gli scribi giudaici e i Farisei del loro tempo che ancora non avevano prestato ascolto all'appello di Gesù? La co­ struzione del la messa in scena in cui si colloca la parabola guarda prima di tutto ad essi e la parabola resta attuale per loro. La risurrezione di Gesù non ha fatto che confer­ mare su que sto punto il suo senso letterale, quale lo si poteva percepire all 'inizio. Lo stesso vale per la rivelazio­ ne della natura del peccato, che non è soltanto una tra­ sgressione della Legge ma una rottura della comunione con Dio, con la conseguenza della dilapidazione dei suoi doni e la rovina del peccatore stesso: non è necessario allego­ rizzare tutti i dettagli del testo per percepire tutto ciò die­ tro il destino sventurato del figliol prodigo. Si può dire altrettanto della rivelazione di Dio: essa è inscritta in fili­ grana nell'atteggiamento del Padre verso i suoi due figli. Si può tuttavia porre una nuova domanda. Le lettura ec­ clesiale della parabola ha avuto la tendenza, fin dall'origi­ ne, ad allegorizzare quei tratti che potevano suggerire il ruolo proprio di Gesù nella realizzazione della salvezza: nella parabola del banchetto egli è il Figlio del Re del qua3 Tema parabolico esaminato

infra, pp. 2 1 3-237. 209

le si celeb rano le nozze (Mt 22, 1-2); in quella dei vignaioli omicidi egli è il figlio del Padrone che viene messo · a mor­ te (Mt 2 1 , 37-39); in quella delle dieci vergini è lo « Sposo che viene » (M t 25, 8- 1 2); in quella dei talenti (M t 25, 1 4-30) e più ancora in quella delle mine (Le 1 9, 1 2-27) è il Padrone che ritorna a chiedere conto ai servi. Gli si può assegnare un ruolo nella rilettura ecclesiale della parabola del Padre e dei suoi due figl i ? A questa domanda Gesù dava implici­ tamente una risposta durante il suo ministero: da una par­ te, pronunciando la parola per annunciare il Vangelo del Padre e, dall'altra, modellando il suo atteggiamento nei ri­ guardi dei peccatori e degli esclusi su quello del Padre della parabola. Diventava così la rivelazione vivente di colui che egli chiamava suo Padre: per tale ragione la semplice evo­ cazione della storia di Gesù racchiude una cristologia im­ plicita. La sua passione e la sua risurrezione hanno accen­ tuato questo aspetto delle cose: in che modo Dio ha mani­ festato il suo amore misericordioso verso i peccatori ? Perché, « mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi )) (Rm 5, 8). Nella parabola non c'è alcuna allusione alla morte del Cristo, ed è ugualmente impossibile allego­ rizzarne alcuni dettagli per applicarli alla persona di Ge­ sù, come hanno fatto i Padri per altri temi parabolici: così per l'assimilazione di Gesù al « Buon Samaritano » (cf. al­ cuni testi in F. Quiévreux, Les paraboles, pp. 75-85). Pro­ prio questo è significativo: Gesù non può in nessun modo entrare nel quadro narrativo della sua parabola perché vi­ ve identificandosi col Padre celeste, calcando il suo atteg­ giamento su quello del Padre. Ora, il Cristo ri sorto resta ugualmente, su questo punto, nella situazione di Gesù di Nazareth durante il suo ministero. Un altro aspetto della lettura ecclesiale rischia di passare maggiormente inosservato. È quello che i fedeli possano ricostruire, all'interno della Chiesa, il tipo di atteggiamen­ to che la parabola dipinge per il figlio maggiore. La sua preoccupazione di « servire » il Padre e di « obbedire ai suoi ordini » non viene biasimata da Gesù. Ma quest'uomo ha mai scoperto il Padre nella sua vera luce ? Poteva ricono­ scere la sua esperienza nelle parole del Padre: « Tu sei sem­ pre con me e tutto ciò che è mio è tuo» ? Chi ancora non ha scoperto questo, fosse anche « in regola)) con la Legge di Dio, non ha ancora scoperto il Vangelo. Egli può essere molto rigoroso con se stesso nel campo della morale poi210

ché la sua rappresentazione di Dio è centrata sulla « Leg­ ge ,., ma ne deriva un rischio di severità verso coloro che la trasgrediscono. Nella parabola, invece , il Padre stesso non esprime alcun giudizio sul suo figlio minore quando ritorna da lui da così lontano e confessa: « Padre, ho pecca­ to contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio» ( 1 5, 2 1 ). Il Padre gli apre le brac­ cia. Il fedele « osservante », fiero della propria « giustizia », sarebbe capace di condividere questo punto di vista del Padre, che è poi lo stesso punto di vista del Cristo e di Dio stesso ? La divisione tra le categorie di uomini, secon­ do il criterio del Vangelo, non passa più tra coloro che sono « in regola» e coloro che non lo sono, ma tra coloro che riconoscono pienamente l'amore del Padre e coloro che lo riconoscono male. Non c'è qui alcun incoraggiamento al lassismo morale e alla debolezza davanti ai sogni tenta­ tori: è chiaro che la condotta del figlio prodigo non viene affatto lodata. Ma l'autentico riconoscimento dell'Amore comporta delle esigenze che vanno molto più lontano del­ l'esatta osservanza della Legge. Quanto ai peccatori, la lettura ecclesiale della parabola non può che toccarli, se non scelgono di intestardirsi, e dare loro la speranza. Quale forma prenderà allora il loro cam­ mino penitenziale per incontrare il Cristo e, con ciò, Dio stes so ? I testi evangelici non lo precisano. I Padri, però, non hanno mancato di fare l'interpretazione penitenziale della parola (si veda la presentazione di Y. Tissot in Exege­ sis, pp. 243-272: tema della penitenza, pp. 254 e 257, in Sant'Ambrogio a proposito del battesimo; p. 267, in Ter­ tulliano a proposito della seconda peni tenza dopo il batte­ simo). Si pone lì un problema di teologia pastorale al di là dell'esegesi. È sufficiente che la parabola faccia riflette­ re sugli atteggiamenti degli uomini nei riguardi di Dio, sulla necessità e le azioni di penitenza, sulla gioia della riconci­ liazione con Dio. Non sono tuttavia sicuro che tutte le allegorizzazioni dei Padri siano state ugualmente felici, specialmente quando hanno identificato il figlio maggiore con il popolo giudai­ co e il figlio minore con i fedeli provenienti dal paganesi­ mo (cf. alcuni testi nell'opera di F. Quiévreux, pp. 1 02- 1 05; numerosi testi in Exegesis, pp. 252-254, soprattutto presso i Padri latini: p. 258, in Sant 'Ambrogio; pp. 268-270, in Ter­ tulliano). Se si pensa che la parabola metteva in questione 21 1

l'atteggiamento dei Farisei di fronte all'accoglienza riser­ vata da Gesù ai peccatori, ci si può domandare se questa intepretazione non rischiava di far nascere un « fariseismo » cristiano di fronte al « peccato collettivo » imputato al po­ polo giudaico. Se ne possono trovare dei chiari esempi fin nel nostro tempo (ne ho citato uno in Péché origine ! et ré­ demption, Tournai-Paris 1 972, p. 1 93, p. 1 93, note 94s). Si è allora agli antipodi del Vangelo. La vera lettura deve te­ ner conto del fatto originario di Gesù che accoglieva i pec­ catori, dell'uguale amore del Padre della parabola per i suoi due figli, della continuità di queste situazioni nella Chiesa. Riletta in questo spirito, la parabola proietta re­ trospettivamente la sua luce su tutti i testi biblici che par­ lano del peccato, della penitenza e del perdono di Dio. 4. Per una lettura •evangelica• della parabola

Non mi sembra neces sario esporre a lungo questo metodo di lettura sotto la sua forma meditativa. La « composizione di luogo » viene fornita da Luca ( 1 5, 1-3). Dato che ci sono davanti a Gesù due categorie di persone, in quale mi riconoscerò ? La narrazione della parabola mi invita allo stesso esame di coscienza: a quale dei due figli mi assimilerò? Non rischio di appartenere, alternativamente o contemporaneamente, alle due categorie, confessando da­ vanti a Dio di essere un peccatore perché ne faccio l' espe­ rienza, ma giudicando con durezza la condotta degli altri ? - La contemplazione di Gesù Cristo che accoglie i pecca­ tori, chiunque essi siano, fa nello stesso tempo sorgere nei miei pensieri e nei miei sentimenti il dolore provocato dal­ la coscienza del peccato, la speranza basata sulla rivela­ zione autentica di Dio in Gesù Cristo, la decisione di ri­ spondere all'amore con l'amore e di calcare i miei atteg­ giamenti su quelli di Gesù. Gesù ha potuto accogliere i pec­ catori per operarne la riconciliazione perché viveva in comunione permanente con il Padre. Infine egli è morto « per salvare i peccatori - di cui io sono il primO>> (l Tm l , 1 5). - A partire da ciò può aprirsi, in ciascun lettore, un dialo­ go interiore con il Cristo e con il Padre. È inutile enun­ ciarne il contenuto. -

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1 1 1 . LA PARABOLA DEL BANCHETTO

Per comprendere profondamente il significato di questa parabola bisogna innanzitutto riflettere su quello del ge­ sto sociale che le serve da tema. Non si tratta soltanto di mangiare e di bere per soddisfare l'appetito e la sete: l'es­ senziale è di prendere un pas to con altri, di essere ospite di qualcuno per mangiare e bere con lui. Una tale espe­ rienza non concerne soltanto un bisogno corporale: è un segno di comunione umana, ed è sotto questo aspetto che viene preso come simbolo nell'ambito religioso. In senso generale, un « pasto sacro » non si defini sce come un pasto in cui si « mangia la divinità » in un modo più o meno meta­ forico. È un pasto in cui si mangia in comune alla tavola della divinità per entrare in comunione con essa. Tale era il significato dei pasti sacri nel culto dell'Antico Testamento e del giudaismo: segni e « sacramenti» della comunione con Dio 4• C'è così una stretta relazione tra l'esperienza ordi­ naria dei pasti umani in cui ci si riunisce per « mangiare insieme » e i pasti religiosi in cui gli uomini sono riuniti da Dio per mangiare alla sua tavola in segno di comunione con lui. Quando si legge la (o le) parabola evangelica del banchetto non si deve dimenticare questo sfondo generale. 1.

Osservazioni critiche sul testi

a) Il simbolismo del pasto: azioni e parole di Gesù La « similitudine )) del banchetto non deve essere analizzata indipendentemente dalle azioni e dalle parole di Gesù in cui appare lo stesso tema. Se si tratta di azioni di Gesù, i pasti in cui egli mangia alla mensa altrui non sono diret­ tamente significativi, eccetto che nel piano della comuni­ cazione sociale con quelli che l'hanno invitato. Bisogna in­ vece prendere in conside razione i pasti che egli presiede. Nella sua vita ce ne sono solo due: la moltiplicazione dei pani, raccontata dagli evangelisti come un velato annuncio del futuro banchetto eucaristico 5, e l'ultima Cena, atto 4 Cf.

l'art. « Repas », Vocabulaire de théologie biblique, 2 1 970, pp.

1 086- 1 090 (P.-M . Guillaume). s Testo studiato in Vangeli e storia, pp. 147- 1 68.

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fondante di questo banchetto e rivelatore del suo signifi­ cato. Dopo la sua risurrezione, la cena di Emmaus è il pri­ mo dei pasti alla mensa del Cristo risorto che si susseguo­ no nel corso delle sue apparizioni (Le 24, 4 1 -43; Gv 2 1 , 1 2- 1 3; Mc 1 6, 1 4; cf. At 10, 4 1 ). Ma il simbolismo del pasto appare anche nelle parole di Gesù, specialmente in prospettiva escatologica in un logion che ha due forme abbastanza diverse in Matteo e in Luca: Mt 8, 1 1 - 1 2, inserito nel contesto della guarigione del servo der centurione; Le 1 3, 28-29, collocato in una piccola colle­ zione di logia che hanno dei parziali paralleli in altri brani di Matteo. Nella forma matteana si legge: «Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa (anaklitheson tai) con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli » (Mt 8, 1 1). L' immagine del banchetto con i Patriarchi nell'aldilà figura anche nella parabola di Lazzaro e del ricco (Le 1 6, 23): proviene dalle apocalissi giu­ daiche (l Enoch), dove si vedono i patriarchi che fanno fe­ sta nel « Paradiso di giustizia » in attesa della risurrezione. Gesù ricorre ancora implicitamente a questa immagine nel­ la parabola del ritorno del padrone nella sua forma lucana (Le 1 2, 36-40): ritrovando i suoi servi che vegliano, il padro­ ne li fa sedere a tavola (anaklinei) e li serve ( 1 2, 37). Ma qui l' immagine è completamente trasformata e la rilettura post-pasquale della parabola non farà fatica ad allegoriz­ zarla identificando metaforicamente il padrone col Cristo risorto di cui si attende il ritorno. Tutti questi elementi devono essere tenuti presente quando si legge la « simili tu­ dine » del banchetto nelle due recensioni di Luca (Le 1 4, 1 6-24) e di Matteo (Mt 22, 1 - 1 4) 6• b) La recensione di Luca Bisogna innanzitutto situare la recensione di Luca nel con­ testo in cui l'ha posta l'evangelista. n . contesto narrativo è molto vago: Gesù è entrato, un sabato, in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare (phagefn arton: « mangiare del pane », buon semit ismo) ( 1 4, l ). Se poi si dice che co­ storo lo spiano ( 1 4, l b) è unicamente a causa della prima pericope collocata in questo quadro: la guarigione dell'i6 Per

non distrarre l'attenzione con una bibliografia troppo abbon­ dante, mi limito a rinviare alle opere di carattere generale sulle para­ bole e ai commentari di Luca e di Matteo. 2 14

dropico ( 1 4, 2-6). Seguono tre pericopi collegate col lor6 te­ ma; queste figurano bene nel contesto in cui si trovano, senza che si possa assicurare che si tratta di una costru­ zione storica. C'è prima di tutto una lezione agli invitati - una lezione in forma di immagine (mashal =parabole) - sulla scelta dell'ultimo posto in caso di invito a nozze (eis gamous). Poi Gesù dà un consiglio a colui che l'ha invi­ tato ( 1 4, 1 2- 1 4) riguardo alle persone che si devono invitare al banchetto (dokhe: parola rara, soltanto qui e Le 5, 29; 9 volte nella LXX di cui 6 in Ester) quando si offre un pranzo (ariston) o una cena (deipnon): bi sogna invitare « i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi ». Questa enumerazione ritornerà proprio nella parabola seguente. Del resto la con­ clusione della lezione orienta verso questa parabola: « Ri­ ceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giu­ sti » ( 1 4, 1 4b). La rifle ssione di un commensale si innesta su questa finale per fare da congiunzione con la stessa pa­ rabola « Beato chi mangerà il suo pasto (phagetai arton, lett. : "mangerà del pane") nel regno di Dio» ( 1 4, 1 5). Gesù prosegue rivolgendo a lui la parabola del banchetto, che è qui una cena (deipnon: 1 4, 16. 1 7.24). La pericope non ha poi alcuna conclusione. La messa in scena molto vaga dell'inizio ( 1 4, l ) e il caratte­ re piuttosto banale dei pas saggi (vv. 7, 1 2a, 1 6) fanno pen­ sare che il montaggio dell'insieme sia artificiale: il raccon­ to di miracolo, la lezione e la parabola finale erano prima circolati separatamente. Non è impossibile che una com­ posizione d'insieme sia anteriore allo stesso Luca, che l'a­ vrebbe semplicemente riprodotta nel suo testo. S i possono rilevare dei semitismi, per esempio nella costruzione dei vv . 1 -2. Ma la varietà delle designazioni per indicare il pa­ sto unisce due termini tipicamente greci a un chiaro semi­ tismo (a rton phagein, sia aramaico che ebraico). La para­ bola parla soltanto di « cena » ( = aram. lehem in Dn 5, l Theod). Comunque sia, il suo testo presenta i segni di un incontestabile arcaismo. Lo stesso vale per la lezione che Gesù dà a colui che l 'ha invitato ( 1 4, 1 2- 1 4) È già di per sé sorprendente questo atteggiamento appena corretto nei riguardi di un uomo presso il quale egl i è venuto a pranza­ re, senza dubbio in seguito a un invito. Inoltre ho fatto già rilevare nel testo una coincidenza verbale con la para­ bola che segue: la lista degli esclusi sociali che bisogna invitare ( 1 4, 1 3 = 1 4, 2 l b). 215

Faccio rilevare pure dei termini molto rari che, nei vangeli, sono adoperati solo da Luca: «quando dai un banchetto » (dokh· én: 1 4, 1 3); an tapodoma ( significa «prendere un pasto » - che comporta na­ turalmente il mangiare e il bere. Ora, l'associ azione del Regno di Dio all'immagine di un banchetto al quale si pren­ de parte coricandosi su dei letti alla maniera romana (ana­ klin6, al passivo) è attestata in un logion arcaico che Luca e Matteo hanno conservato sotto due forme diverse (Mt 8, 1 1 - 1 2 e Le 1 3, 28-29). Coloro che vi prendono parte pro­ vengono « da Oriente e da Occidente » (Mt), o dai q uattro punti cardinali (Le), mentre i «figli del Regno», cioè gli eredi natural i, « sono gettati nelle tenebre esteriori » (M t). In Lu­ ca sono gli ascoltatori di Gesù, dei Giudei, che « saranno cacciati fuori » ( 1 3 , 28). Non si dice per quale motivo gli uni siano privilegiati e gli altri �cacciati. La parabola del banchetto, è, in qualche modo, una spiegazione di questo rovesciamento di situazioni. Il Vangelo annunciato da Gesù ai suoi diretti ascoltatori viene raffigurato dall'invi to che si legge nelle due recen­ sioni della parabola: «Venite, tutto è pronto ! » (Le 1 4, 1 7); « Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei ani­ mali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze » (Mt 22, 4). Gesù ha perciò di mira i s uoi ascolta­ tori quando mostra gli invitati che si rifiutano. Essi non saranno « gettati nelle tenebre esteriori »: più semplicemente, non parteciperanno al banchetto perché non ne erano de­ gni (M t 22, 8) . Al contrario, i poveracci raccolti ai crocicchi delle strade non rifiutano l'invito: il Vangelo viene annun­ ciato ai poveri, viene raccolto « dai pubblicani e dai pecca­ tori », da qual siasi parte essi vengano. Benché non si fac­ cia diretto riferimento ai membri delle nazioni pagane, nem­ meno sono esclusi: non sono essi che verranno da oriente e da occidente (Mt), dai quattro punti cardinali (Le), per prendere parte al banchetto nel Regno di Dio con i pa­ triarchi e i profeti (Le 1 3 , 28) ? In b reve, con questa sostitu­ zione degli invitati, la parabola è in diretto rapporto con un insegnamento formale di Gesù sull'appello degli uomi­ ni al Regno di Dio. Sarebbe tuttavia eccessivo dire che Gesù annuncia la ri­ provazione del popolo giudaico, al quale si sostituiscono 233

le nazioni pagane. Più di un commentario patristico ha avu­ to la tendenza a fare questa applicazione. Ma sulla bocca di Gesù la parabola non è l'annuncio di un giudizio. È una messa in guardia rivolta agli ascoltatori: Attenzione ! Quan­ do vi viene annunciato il Vangelo, il Regno di Dio è là. State perciò attenti a non privarvene con le vostre cattive scuse, voi che vi siete stati chiamati per primi ! Solo la finale della parabola di Matteo (Mt 22, 1 1 - 1 3), frammento di un racconto più lungo in cui si parlava forse del ban­ chetto nuziale del « figlio del Re », introduce il tema del giudizio divino. Ma esso non riguarda più coloro che han­ no rifiutato l'invito al banchetto: costoro sono sfortunata­ mente rimasti fuori. Il giudizio si applica al solo commen­ sale indegno che non indossa il suo abito nuziale. Non ba­ stava quindi rispondere all'invito - traduciamo: al Vange­ lo; era pure necessario cambiare vestito per riguardo al re - traduciamo: cambiare condotta per riguardo a Dio. Gesù non ha più di mira i suoi incuranti ascoltatori che rifiutano la grazia del Vangelo, ma alcuni tra loro che si presentano come di scepoli senza aver realizzato la neces­ saria conversione. L'immagine del commensale escluso dal banchetto e « gettato fuori nelle tenebre » è destinata a fa r riflettere sul loro comportamento. Niente di tutto questo va al di là della cerchia dei diretti ascoltatori di Gesù: si tocca così l'autenticità storica delle sue parole. Ma gli sviluppi che la tradizione ecclesiale e poi gli evangelisti vi introdurranno sono già virtualmente contenuti in queste parole pregnanti. Basterà che sia mo­ dificata - grazie alla risurrezione del Cristo e alla fonda­ zione della Chiesa - la prospettiva nella quale esse vengo­ no lette perché le loro vi rtualità appaiano in piena luce. Attualmente noi abbiamo bisogno di fare le due letture per mostrare che non c'è rottura tra Gesù e la Chiesa, ma al contrario un continuo approfondimento dovuto allo svilup­ po del disegno di Dio: lo « storico » conteneva in germe la pienezza dell' «istoriale » . 5.

Per u n a lettura evangelica della parabola

Una lettura autenticamente «evangelica » deve essere « to­ talizzante »: deve prendere in considerazione tutti gli ele­ menti forniti dallo studio esegetico dei testi, i quali sono 234

accolti così come si presentano, nella loro forma e nel loro contesto attuali. È perciò il caso di fare due differenti let­ ture per i testi conservati da Matteo e Luca, senza tuttavia ignorare che essi riflettono entrambi, in seno alla Chiesa, una parabola primitiva (Le e Mt), più un frammento di pa­ rabola (Mt), pronunciate da Gesù per i suoi immediati ascol­ tatori nel contesto del suo ministero. Ma poiché, nella glo­ ria della sua risurrezione, egli continua a parlare alla sua Chiesa, è questa parola attuale che bisogna ascoltare leg­ gendo i testi di Luca e di Matteo. a) La parabola del banche tto in Luca L'immaginazione può fermarsi, ad libitum, su due diverse « composizioni di luogo ». O entro nella scena descritta da Luca e partecipo al pasto in cui Gesù è stato invitato da un capo dei Farisei. Il pasto: una riunione in cui la comu­ nione di mensa mi associa strettamente a Gesù che ascolto mentre parla. O entro io stesso nel racconto parabolico identificandomi con gli invitati . Collocandomi dal primo punto di vista mi domando naturalmente se Gesù sia solo un invitato tra tanti altri, e se le sue parole non mi obbli­ ghino a fi ssare lo sguardo verso un altro banchetto in cui Dio, per mezzo di Gesù, suo Figlio, mi esorta insistente­ mente. Mi collego così con il punto di vista del discorso parabolico. Qui interviene la riflessione fatta nella fede. A quale tipo di commensali mi identificherò ? Il rischio di ricorrere a delle scuse incombe su di me allo stesso modo degli ascol­ tatori giudei ai quali si rivolgeva Ge sù. A meno che, rinun­ ciando alle mie preoccupazioni immediate, accetti di en­ trare nella categoria dei poveri e degli indigenti, che sono i privilegiati di Dio. Questo domanda un accurato esame di coscienza. Allora il mio sguardo interiore può fermarsi, in modo con­ templativo, sugli atteggiamenti dell'uomo che invita a ce­ na. Non c'è dubbio che dietro questa figura intravedo Dio stesso che mi invita a entrare in comunione con lui nel suo Regno. Ma Dio si è manifestato visibilmente in Gesù Cristo. E perciò il Cristo che mi invita a nome del Padre suo, come invitò un tempo i suoi diretti ascoltatori. Perce­ pisco la sua insistenza: « Esci per le strade e lungo le siepi, spingili a entrare perché la mia casa si riempia » ( 1 4, 23). 235

Invito pressante a entrare nella Chiesa. Il segno del pasto assume lì una forma concreta: la partecipazione al « Pasto del Signore ». Ascolto. Mi sento portato a rispondere en­ t rando pienamente nella logica del « Regno di Dio )). Questa riflessione contemplativa sfocia in un colloquio con Gesù Cristo. Ogni lettore lo condurrà a suo modo secondo le proprie disposizioni interiori che si sforzerà di rettifica­ re sempre di più. b) La parabola de l banchetto in Matteo L' immaginazione non può portarsi qui su un t ratto concre­ to della vita di Gesù. Va subito verso >. Il sostegno delle imma­ gini mi porta così direttamente verso Dio, che nel suo Fi­ glio ha celebrato le sue nozze con l'umanità. Mi lascio gui­ dare dalle varie fasi della narrazione parabolica, infatti vi sono io stesso in qualche modo implicato. La mia riflessione si porta sulle varie vicende. Solo un tem­ po ci furono degli invitati scortesi, pronti a tirarsi indietro per il loro eccessivo attaccamento agli affari temporali ? Il problema continua a porsi in tutti i secoli. Si pone an­ che per me. Soltanto un tempo ci furono degli invitati omi­ cidi che massacrarono gli inviati di Dio, gli annunciatori del Vangelo, nel momento in cui ascoltavano l 'invito: « Tut­ to è pronto, venite alle nozze! )) (22, 4) ? Sotto questo aspet­ to non sarebbe sufficiente pensare storicamente al dram­ ma del popolo giudaico: esso ha un valore di paradigma per tutte le società e tutti i secol i. Ma a quale categoria di invitati mi identificherò ? Anche se sono tra quelle per­ sone trovate nei crocicchi delle strade per essere introdot­ te al banchetto nuziale, devo interrogarmi sull' « ab ito nu­ ziale » che è necessario indossare per partecipare al pran­ zo; per prendere parte al « Banchetto del Signore >>. Su quale immagine si fisserà la mia contemplazione ? Su quella del Re che ha preparato il pranzo di nozze e che esorta generosamente gli uomini a parteciparvi, o su quel­ la del Re che viene a fare l'ispezione dei commensali nella sala del banchetto ? Prospettiva gioiosa della comunione con Dio nella partecipazione all'alleanza conclusa con il suo Figlio, o prospettiva di giudizio al quale ne ssuno può sottrarsi in funzione dei suoi comportamenti e delle azio­ ni ? Secondo le mie disposizioni, io oscillo tra le due. Piac236

eia a Dio che, rivestito dell'«abito nuziale », abbia a cono­ scere solo la gioia del banchetto ! Colloquio: con il Re o con il Figlio ? I due sono talmente legati che il mio pensiero si porta unanimamente verso l'u­ no e l'altro. Ma io conosco l'invito di Dio soltanto per mez­ zo del suo Figlio. È alle sue « nozze » che partecipo. Come non desiderare un « abito nuziale » sempre più bello ? Come non esprimere la mia riconoscenza per la gioia che mi ar­ reca il « banchetto » ? IV. NOTE SUL TEMA DELLA VIGNA

Manca qui lo spazio per esaminare in dettagl io le ricorren­ ze di questo tema nelle parole di Gesù. Mi limiterò a quel­ la che pone i problemi più difficili. 1 . Sfondo biblico del tema 8

Nel tempo in cui Israele si installò in Canaan, la vite era un prodotto caratteristico del suo suolo (cf. Dt 8, 8; ecc.). In quanto albero eccellente che fornisce il vino (Gdc 9, 1 2- 1 3), essa costituisce uno dei segni della benedizione di Dio. Non è perciò sorprendente che venga utilizzata co­ me simbolo per evocare metaforicamente il popolo di Dio stesso (si veda, per esempio, Is 5, 1 -7; Ger 2, 2 1 ; Ez 1 5, 1 8; Sal 80, 9- 1 7). La Bibbia greca fornisce, su questo punto, delle corrispondenze abituali di termini : gefe n = ampelos, kerem = ampelon. Queste due designazioni riappariranno nei vangeli. Si noterà che l'aramaico adopera, in entrambi i casi, gli stessi termini dell'ebraico. Tuttavia l'applicazio­ ne dell'immagine a Israele non è sempre elogiativa. I tre passi profetici appena citati dicono al contrario che la vi­ gna di Dio invece di produrre dei frutti buoni ha dato dei frutti selvatici. Il simbolo è perciò suscettibile di usi diffe­ renti . Ma bisogna tener presente i suoi usi biblici quando lo si vede riapparire nelle parole di Gesù.

8 Cf.

l 'Excursus

n.

5: • Sul tema della Vigna ,., § l , pp. 250·252. 237

2. Le parabole dei Slnottici

a) I vignaioli omicidi Questa parabola è comune ai tre Sinottici (Mc 1 2, 1 - 1 2; Le 20, 9- 1 9; M t 2 1 , 33-46). :E. stata studiata molto bene da X. Léon-Dufour (Études d 'évangile, pp. 303-342; cf. M. Hubaut, La parabole des Vignerons homicides, Paris 1 976). Il suo tema principale non riguarda la vigna, ma i vignaioli. Il collegamento con il tema biblico è pe rcepibile nella ripre­ sa di Is 5, 2 che si nota fin dal primo versetto, più lungo in Marco e Matteo che in Luca. Ma non bisogna conclude­ re che la vigna rappresenti allegoricamente il popolo di Israele. La metafora viene trasposta per essere ora appli­ cata al Regno di Dio, come dice esplicitamente Matteo (2 1 , 43). Le varianti che si notano tra i tre vangeli non per­ mettono di ricostruire con certezza, in tutti i suoi dettagli, il testo primitivo di Gesù (cf. X. Léon-Dufour, op. cit., pp. 327-33 1). Gli evangelisti ce ne danno delle riletture eccle­ siali che mettono in rilievo alcuni suoi elementi, con una tendenza molto netta all'allegorizzazione. Ciò non vuoi dire che l'invio del Figlio dai vignaioli sia un semplice tratto parabolico, allegorizzato dalla comuni­ tà cristiana che avrebbe riconosciuto in esso Gesù. Non si comprenderebbe che si parli della morte del Figlio sen­ za alcuna allusione alla risurrezione di Gesù. Prendo qui posizione contro i critici che fanno della parabola «una creazione della Comunità » (cf. R. Bultmann, L 'histoire... , p. 224, con bibliografia, pp . 573s). Al contrario, di fronte ai capi giudei che gli sono ostili (« sommi sacerdoti e fari­ sei », dice Matteo; « scribi e sommi sacerdoti », dice Luca), Gesù intravede chiaramente la sorte che l'attende. Ma è chiaro che queste « autorità » responsabili del giudaismo sono chiamate direttamente in causa. È il significato del­ l'aggiunta propria di Matteo: « Il Regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a un popolo (ethnos) che lo farà fruttificare » (Mt 2 1 , 43) . Dietro i capi si ha di mi ra tutta la « nazione » giudaica. Ma qual è questa « nazione » alla quale sarà dato il Regno di Dio? L'applicazione rimane vaga. Forse è ne­ cessario ricordarsi che, in Pt 2, 9, l'espres sione « nazione santa » (improntata a Es 1 9, 5-6) è applicata al nuovo « po­ polo di Dio » di cui i battezzati sono membri. C'é un'altra relazione tra questo testo e la parabola dei 238

vignaioli omicidi nelle tre recensioni evangeliche : il ricor­ so al Sal 1 1 8 [1 1 7], 22-23 (Mc 1 2, 1 0- 1 1 ; Mt 2 1 , 42; Le 20, 1 7b; cf. l Pt 2, 7). Ciò invita a vedere in que sta citazione del Sal­ mo una « chiave di lettura » ecclesiale aggiunta dopo alla parabola p rimitiva di Gesù, in uno stadio della tradizione anteriore ai tre vangeli. Questa ripresa del tema del Salmo costituisce, da sola, una piccola parabola innestata sulla prima. Comunque sia, la ripresa del tema della vigna col­ lega strettamente la parabola al suo sfondo biblico. Lo spo­ stamento di significato, che fa passare l'immagine di Israele a quella del Regno di Dio, mostra soltanto che Israele era una realtà ambigua, depositario del Regno di Dio in quan­ to popolo eletto, ma un depositario che poteva essere spo­ destato in quanto nazione di «questo mondo» . La parabola ricorre al tema della vigna per presentare concretamente un annuncio di giudizio, diretto sia contro il popolo giu­ daico come tale che contro i suoi capi responsabili. Si è nel cuore della controversia tra Gesù e le autorità del giu­ daismo. b) Gli operai della vigna Questa parabola è propria di Matteo (M t 20, 1 - 1 6 ). È chiaro che dietro l'immagine del padrone di casa che ingaggia de­ gli operai per la sua vigna è in scena Dio stesso. Il rappor­ to con lo sfondo biblico è più debole: potrebbe anche trat­ tarsi di un impiego di operai per altri tipi di lavori. Ma, come nella parabola precedente, il tema della vigna fa com­ prendere subito agli ascoltatori e ai lettori che sono chia­ mati in causa i compiti destinati al Regno di Dio (Matteo dice « dei cieli »). Dio è perciò il padrone che chiama al la­ voro promettendo un « salario». La sorpresa viene nella di­ versità tra il periodo di lavoro e la rispett iva ricompensa. La protesta di quelli chiamati per primi a lavorare deriva dalla loro concezione molto giuridica del «salario ». Gesù sottrae la nozione di retribuzione a questo stretto giuridi­ smo, a questa concezione farisaica della « giustizia » che da­ rebbe diritto alla ricompensa dovuta da Dio. Il padrone controbatte: «Sei tu invidioso perché io sono buono ? » (20, 1 Sb). Abbiamo quindi qui nient'altro che una riflessio­ ne sulla bontà di Dio: è sempre una grazia essere chiamati a « lavorare » nella sua vigna - che si tratti della terza o dell'undicesima ora. 239

È inutile stare ad allegorizzare sul « denaro » dato agli operai. Il denaro romano era l'equivalente di un zuz, o mezzo siclo. Era l'equivalente della dramma, pagamento giornal iero pro­ messo dal vecchio Tobi al l'uomo che avrebbe accompagnato suo figlio (Tb 5, 1 5). Le informazioni sulle monete e i salari sono presentate in modo eccellente nel Kommentar di (Strack-) Billerbeck (1, pp. 83 1 e 290-294).

Il problema sollevato qui non è quello del di ritto che rego­ la i rapporti tra gli uomini, ma quello della bontà di Dio (cf. Mt 20, 1 5). Si noterà di passaggio che il proverbio che figura in conclusione si addice molto bene al la scena della parabola: gli ultimi ingaggiati sono i primi a ricevere il loro salario. Ma non ne trae la conclusione fondamentale e lo si trova anche altrove (Mc 10, 3 1 = Mt 19, 30, in un al­ tro contesto). Comunque sia, il lavoro nella vigna del pa­ drone fa intravedere i compiti ai quali gli uomini sono chia­ mati in vista del Regno di Dio. Non si è più davanti a una parabola di giudizio: la chiamata e la ricompensa, tutto è grazia. 3. L 'allegoria di Giovanni 1 5, 1 -8

a) Il genere letterario Il termine parabole ( = ebr.: mashal) è assente nel IV vange­ lo. Ma vi si trova quattro volte il termine paroimia ( 1 0, 6, pe r defini re la simili tu dine di l O, 1-5; 1 6, 25 [2 volte].29). I due termini sono classici: si trovano associati in una let­ tera dei « Socratici » (si veda il riferimento nel Lexicon di Arndt-Gingrich, 634a). Nella Settanta il loro sfondo seman­ tico è nella maggior parte dei casi identico (mashal). Ma nel IV vangelo l'uso della paroimia è molto diverso da quel­ lo di parabole nei Sinottici. Non riguarda mai il Regno di Dio. In Gv 1 0, 6 definisce una « Similitudine » (Gv 1 0, 1-5) che può essere paragonata alle parabole dei Sinottici. Ma sot­ to questo aspetto i tre usi del cap. 1 6 restano enigmatici. In compenso, nel discorso di rivelazione di Gesù, egli fa chiaramente ricorso a delle metafore che si sviluppano in allegorie. È in questo modo che si presenta, in Gv 1 5, 1 -8, l'allegoria della vite . Si può parlare di allegoria nel senso greco del termine, infatti non si è davanti a una successio­ ne di quadri che, per essere interpretati, dovrebbero esse240

re considerati globalmente: ogni dettaglio del discorso sim­ bolico può essere trasposto sul piano dell'insegnamento che Gesù vuoi dare. Questo metodo di esposizione è perciò molto diverso da queUo che si trova nei Sinottici. Dato che è comune a tutte le allegorie giovannee, e s iccome d'altra parte le parabole sinottiche presentano dei segni di arcaismi che obbligano ad attribuire a Gesù il loro tema fondamentale al di là dei loro dettagli variabili, è difficile non attribuire qui al­ l'evangelista stesso questa costruzione letteraria: in Gio­ vanni Gesù parla in stile giovanneo. Bisogna quindi inter­ pretare l'allegoria della vite collocandosi innanzitutto a li­ vello della « rilettura » ecclesiale delle parole di Gesù. b) L 'allegoria nel vangelo di Giovanni L'allegoria della vite si colloca nel discorso di addio di Ge­ sù (Gv 1 3, 1 1 - 1 6, 33); ma anche la lettura più ovvia di que­ sto discorso mostra il suo carattere complesso 9• Il cap. 14 è un colloquio sulla partenza di Gesù, che è completo in se stesso e termina con una conclusione chiara: « Alzatevi, andiamo via di qui ! » ( 1 4, 3 l c). Il seguito è da ricercare al­ l'inizio del cap. 1 8 ( 1 8, l : « Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli ... >>). Tutti i testi intermedi sono stati perciò intercalati in un modo artificiale. Infatti 15, l , inizio del­ l'allegoria della vite, non si collega affatto con 1 4, 3 1 ; ma dove termina l'allegoria? La verosimiglianza dell 'analisi in­ vita a cercarne l'ultima traccia nell'ultima allusione ai «frut­ ti » portati dai discepoli ( 1 5, 8): essa riprende il tema «frut­ ti » portati dai tralci della vite ( l S , Sb). A partire da 1 5, 9 inizia il tema dell'amore (agape). Ma c'è un intreccio tra i due temi: dall'espressione « rimanere in me » ( 1 5, 7a) si pas­ sa facilmente a « rimanere nel mio amore » (15, 9- 1 0). Lo svi­ luppo sul tema dell'amore si collega perciò all'allegoria del­ la vite: è così che comincia la seconda ripresa del discorso 9 La maggior parte dei commentatori considerano Gv 1 5 , 1 - 1 7 come una sola sezione, riconoscendovi due svii u ppi (vv. 1 -8 e 9- 1 7). Così Lagrange, Bultmann, Hoskyns-Davey, Schnackenburg, Barrett. Nel hm­ go commentario di R . E. Brown su questa sezione (pp. 65 8-684) si ha una divisione dive rsa: vv. 1 -6, il Mashal, e poi i vv. 7- 1 7, lo sviluppo del Mashal nel contesto dell'ultimo di scorso. Per una bibliografia più completa cf. ibid. , p. 684, aggiungendovi F.-M. Braun, Jean le théolo­ gien 11112, pp. 30-3 2.

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di addio (cap. 1 5- 1 6). Nello sviluppo del tema dell' amore c'è del resto un ritorno occasionale al tema: « portare frut­ tO >> ( 1 5 , 1 6b). Ma l'allegoria della vite forma un insieme in sé completo. c) Gli elementi costitutivi deli 'allegoria

Poiché le metafore si concatenano logicamente e hanno tut­ te una corrispondenza nel discorso fatto apertamente, que­ sto avrebbe potuto essere costruito senza ricorso all'alle­ goria. Ma l'allegoria offre il vantaggio di il lust rare concre­ tamente ciò che avrebbe il sapore di una lezione dottrinale abbastanza astratta. Un equivalente di questo modo di ar­ gomentare si potrebbe trovare nell'immagine del corpo, uti­ lizzata da San Paolo per sviluppare l'idea della Chiesa, Cor­ po di Cristo ( l Cor 1 2, 1 2-27). È necessario qui ricordare che Paolo, riprendendo questo tema letterale classico per illu­ strare un concetto teologico legato al mistero dell'Incarna­ zione, alla risurrezione corporale di Gesù e all'esperienza eucaristica di comunione con il Corpo di Cristo ( l Cor 1 0, 1 7), non cerca un esatto equivalente per ogni membro del cor­ po umano menzionato: egli « parabolizza» piuttosto che « al­ legorizzare » . Ma nella pa roimia della vite le corrisponden­ ze possono essere collocate su due colonne, ponendo il prin­ cipio che Gesù è « la vera vite» (aléthinos), come è « il vero pane » (Gv 6, 32) e « la vera luce » (Gv l , 9). Si ottiene così la tavola seguente; la vite il vignaiolo i tralci i tralci secchi che vengono recisi i tralci che portano frutto che vengono « purificati » i tralci che « rimangono » nel­ la vite i tralci gettati che vengono bruciati

Gesù il Padre «Voi » (i discepoli, i credenti) i discepoli infedeli discepoli che « portano frutto» che il Padre purifica i discepoli che « rimangono » in Cristo [la sorte dei discepoli riget­ tati].

Tutti i dettagli dell'allegoria non vengono interpretati espli­ citamente, ma le trasposizioni esistono allo stato virtuale. Ciò dà un' idea molto chiara della teologia dell'evangelista: 242

· il suo simbolo vegetale insinua la stessa dottrina fonda­ mentale del simbolo corporale di Paolo; a parte il fatto che questo simbolo corporale non aveva alcun antecedente iblico perché l'incarnazione di Gesù era una realtà intera­ mente nuova, mentre in Giovanni l'allegoria della vite si innesta su un tema scritturistico molto noto. d) Gli antecedenti biblici dell 'a llegoria L'allegoria ha come antecedenti gli stessi testi delle para­ bole sinottiche in cui riappariva il tema 1 0• Ma c'è un chia­ ·ro contrasto tra la vite-Israele, che si è corrotta, e Gesù «vera-vite ». Il testo che serve da sfondo all'allegoria giovan­ nea è verosimilmente quello di Ger 2, 2 1 , dove il testo della Settanta non è particolarmente letterale, ma il cui vocabo­ lario presenta delle affinità con quello di Giovanni. Nel testo ebraico si legge: « lo ti avevo piantato come vigna scel­ ta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri, di vigna (gefen) bastarda ?». Il greco tra­ spone ampiamente: « Io invece (de) ti avevo piantato come vigna fruttifera (ampelon karpophoron), tutta genuina (ale­ thinen). Come mai ti sei mutata in [vigna]-selvatica (pik­ ria), [tu] vigna bastarda ? » . È difficile non pensare a due espressioni caratterist iche dell'allegoria giovannea: innan­ zitutto, « lo sono la vera vite» (h e ampe los he alethine); e poi più lontano l'uso ripetuto di «portare frutto » (karpon pherein: 1 5, 2.4. 5.8). Non è il Cristo che, come vera vite, porta frutto; soni i tralci buoni che ricevono da lui il pote­ re di portarne. In Geremia, la « vera vigna », che era « frut­ tifera », era degenerata per diventare una pianta «bastar­ da » un ceppo selvatico. Gesù riprende il disegno divino nel suo punto di partenza: vera vite, egli ha in sé dei tralci che, grazie a lui, sono « fruttiferi ». Se la vite degenere era Is raele, popolo infedele, Gesù è di­ ventato il punto di partenza di un nuovo Israele: i suoi membri non saranno più definiti in base alla loro apparte­ nenza etnica, ma per la qualità di discepoli fedeli. Il riferi­ mento a questo antecedente biblico mette così in nuova luce il significato che la semplice analisi letteraria permette di attribuire all'allegoria. Tutti i commentatori si trovano d'accordo nel sottolineare l'importanza dell'aggettivo «Ve10

Cf.

sopr�, p. 237. 243

ro », che qui caratterizza la vite. L'analogia verbale con la Settanta di Ger 2, 21 viene rivelata da molti di essi (Hoskyns­ Davey, p. 474; F.-M . Braun, Jean le Théologien, III/2, p. 30; R. Schnackenburg, III, p. 1 09, n. 17 e p. 1 20, tra altri testi; C.K. Barrett, 28 ed. , p. 472). Ma non ne traggono - mi semb ra - tutte le possibili conseguenze. Infatti nessun al­ tro passo biblico relativo al simbolo della vigna presenta dei contatti verbali così forti con Gv 1 5 . Una ricerca accu­ rata . nella Bibbia greca mostra che il termine « frutto» è costruito il più delle volte con i verbi « dare» e « fare », ma raramente con « portare » (in greco: Gen 4, 3; Os 9, 1 6; Gl 2, 22). Solo quest'ultimo passo è in rapporto di vicinanza con la vite . Di conseguenza ampelon karpophoron di Ger 2, 2 1 sottopone questo testo alla nostra attenzione. Questo particolare non era sfuggito a Sant'Agostino nelle sue conferenze sul vangelo di Giovanni: « Che cos 'è dunque "lo sono la vera vitett ? Aggiungendo la pa­ rola ��vera" non la riferiva a questa vigna da dove è tratta que­ sta similitudine ? Infatti parla di vigna per simili t udine, non per proprietà di termini. .. [Agostino cita qui le metafore: peco­ re, agnello, leone, roccia, pietra angolare ecc.] . . . Ma quando dice "lo sono la vera vitett egli si disti ngue da ogni tipo di vite alla quale vien detto "come ti sei mutata in amarezza, vigna bastarda" (Ger 2, 2 1 ). Infatti in che modo è ��vera" que­ sta vite dalla quale ci si attendeva uva ma che invece ha pro­ dotto spine (Is 5, 4) ? >> ( Tracta tus in Joannem, BO, l , in PL 35, 1 839).

La stessa opposizione viene menzionata più di una volta dai Padri (cf. il commentario di J. Maldonato, II, 840b). Israele è « questa vite generata dalla piantagione del suo autore e trasformata in amarezza di una vite bastarda» (San Leone, Sermone 42, 4) 1 1 • Si vede perché sia stato scel­ to il tema di questa similitudine. Ma quanto al suo signifi­ cato è chiaro che il Cristo parla qui in quanto «è Capo della Chiesa di cui noi siamo le membra » (Sant'Agostino, testo citato sopra). L'identità di significato con il paragone paolino viene perciò giustamente rilevata. Ora, il parallelismo di Gv 15 e l Cor 12 comporta una con­ seguenza che si rischia di dimenticare. Fin dalla sua vita quaggiù Gesù era già virtualmente il nuovo Adamo ( l Cor 11

Cf. • Sources chrétiennes •, n. 74bis , pp. 68s.

244

1 5, 45), il Capo dell 'umanità nuova che il mistero della sua morte e risurrezione doveva fondare. Ma ciò è diventato manifesto soltanto nella Chiesa, dopo la sua risurrezione. Ugualmente, egli era già virtualmente quaggiù la vera vite nata da Is raele, ma in quanto « Resto» gius to e santo del popolo dell'alleanza. Tuttavia questo ruolo nuovo che egli doveva giocare a beneficio dell'umanità intera è diventato manifesto solo dopo la sua morte e risurrezione. Se questa realtà, che è la conseguenza ultima del suo mistero pa­ squale, viene qui esposta chiaramente, non bisogna legge­ re il testo che la spiega come un discorso rivolto da l Cristo risorto ai membri della sua Chiesa, rappresentati dai suoi discepoli durante la sua ultima cena ? Il lettore attuale è così messo subito di fronte alle parole del suo Signore, che ascolta con la pienezza del loro significato. Non era l'intenzione dell'evangelista stesso ? Quando, perché, in quale contesto e in vista di quale fun­ zione fu redatto il « discorso di addio )) di Gesù ? Queste pagine . . . « sono state forse proferite pe r delle veglie liturgiche che ri­ cordavano le ultime volontà di Gesù. Un dirigente della comu­ nità (un discepolo o un anziano) faceva il memoriale del testa­ mento di Gesù al momento della sua ultima cena. La parabola della vite ( 1 5, l ) è pienamente al suo posto in una catechesi eucaristica, poiché evoca il vino e la comunione dei discepoli » (Annie Jaubert, Approches de l 'évangile de Jean, Paris 1 976, p. 1 5). ..•

Questa risonanza eucaristica dell'allegoria, chiaramente scartata da un autore anti-sacramentale come R. Bultmann, viene considerata con favore da esegeti protestanti (0. Cull­ mann; C. K. Barrett, pp. 472s) e cattolici (V an den Bussche: Stanley; Brown, pp. 672-674; Schnackenburg, p. 1 22, che presenta una bibliografia). Ma que sta risonanza si collega evidentemente con la le ttu ra ecclesiale dell 'allegoria così come l'ho appena fatta, intimamente legata ai testi biblici che le servono da sfondo. L'ultimo problema che si pone è dunque il seguente: è possibile risalire, a partire da ciò, fino alle parole primitive di Gesù stesso, nel contesto sto­ rico del suo discorso ?

245

e) Le parole originali di Gesù Il risalire dall' « istoriale » (realizzazione del piano salvifico nella storia umana) allo « storico» (realtà « fattuale » verifi­ cabile dal punto di vista empirico) è un metodo che si im­ pone nel caso di tutti i testi evangelici. Può diventare an­ che qui operativo ? Non era questa l'opinione, all' inizio del secolo, di Loisy, per il quale il vangelo di Giovanni non era che una meditazione teologica senza una vera e pro­ pria radice storica (Le quatrième évangile, Paris 1 903, 2 1 92 1 ). Il decreto Lamentabili rifiutò formalmente questa teoria secondo la quale Giovanni sarebbe soltanto «Un am­ mirevole testimone della vita cristiana o della vita del Cri­ sto nella Chiesa alla fine del I secolo» (Prop. 18, Ench. Bibl. , n. 209). Nello stesso anno (29 maggio 1 907), la Commissio­ ne Biblica rifiutava la teoria secondo la quale, nel IV seco­ lo « i discorsi del Signore non sono dei veri e p ropri discor­ si del Signore stesso, ma delle composizioni teologiche dello scrittore, benché siano posti sulla bocca del Signore » (Ench. Bibl. , n. 1 89). Da allora il problema si è fortemente spostato, soprattutto quando i critici fecero notare che Giovanni opera sistema­ ticamente una fusione di « orizzonti »: quello dell'esistenza storica di Gesù e quel lo della vita della Chiesa dominata dall'alta figura del Cristo in gloria (cf. F. Mussner, Le lan­ gage de Jean et le Jésus de l 'histoire, B ruges-Paris 1 969). Fin dal 1 9 1 3 Mons. Ruch aveva fatto notare nel Dictionnai­ re de Théologie Catholique che, « Se l 'evangelista conserva con fedeltà la sostanza dell'insegnamento del Salvatore, sot­ topone i discorsi a un certo lavoro di condensazione e di adattamento; egli riveste il pensiero del Verbo incarnato di una forma letteraria personale e ben caratterizzata» (D TC, V, col. 1 9 1 3). Prendo queste righe dal commentario del P. Lagrànge (p. CXLVIIs) che le citava per riprenderle a sua volta. Si è molto lontani dal verdetto perentorio di un recente autore: « Basta leggere il testo [ = del IV vange­ lo], per vedere che si tratta di un llreportage" preso dal vivo. Esso è stato annotato il giorno stesso, sul momento, o l'indomani » . E ancora, a proposito del discorso dopo la Cena: « Queste sono forse le parole stesse di Gesù che noi leggiamo qui, annotate subito dopo, in ebraico, e poi tra­ dotte in greco ». Perché questo « forse » se si tratta di «un "reportage" preso dal vivo » ? Ometto il nome dell'autore 246

e la citazione. Mi limito a costatare che « Chi vuoi troppo provare non prova proprio nie nte ». In effetti, la rilettura ecclesiale della « sostanza dell'insegnamento del Salvato­ re », dei « pensieri del Verbo incarnato », si operò dopo la sua risurrezione in una luce che permise di percepire le conseguenze ultime e di approfondirne progressivamente il significato. È da questa riflessione meditativa, sviluppa­ ta per tappe, che procedette il lavoro di > (L 'évangile de Jean, di M .-E. Boismard e A. Lamouille, pp. 367-373). Nel quadro dell'allegoria ( 1 5, 1 -6) egli ritiene che si possano di­ stinguere due piccole parabole originali tratte da una rac· colta « giovannea» di logia di Gesù. I) ( l ) « Io sono la vera vite e i l Padre mio è il vignaiolo. (2a) Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie (6d) e lo getta nel fuoco; (2b) e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto » . II) (5) « lo sono l a vite, voi i tralci. Chi rimane i n m e (agg. : e io in lui) porta molto frutto . [ . ] Se qualcuno non rimane in me (agg. : viene gettato via come il tralcio e si secca) ». ..

Questo risultato è evidentemente ipotetico. Forse si basa troppo sulla nostra logica occidentale per piegare alle sue leggi il lavoro dell'evangelista. Ma ha almeno il merito di mostrare che è possibile intravedere qualcosa dei logia pa­ rabolici di Gesù nell'allegoria che attualmente li riveste. In quale lingua fu composta quest'allegoria? L'affinità, fatta notare sopra, tra Gv 1 5, 1 -8 e il testo greco di Ger 1 , 2 1 suggerisce che l'evangelista, molto preoccupato d i collega­ re l'insegnamento del Cristo al testo della Scrittura, legge­ va questo testo nella versione greca. In ogni caso non si basava sul testo ebraico del passo: se si facesse questa ipo­ tesi bisognerebbe abbandonare il parallelismo con Ger 2, 2 1 ! Lo stile rimane profondamente semitico, ma si tratta di un semitismo di vocabolario o di un semitismo di pensi�­ ro ? Un giudeo che scriveva in greco, nutrito religiosamen­ te e culturalmente dalla lettura della Bibbia greca, avreb­ be fatto spontaneamente ricorso alla stessa forma di espres­ sione. Il fatto che sia possibile ritradurre facilmente­ l 'allegoria in lingua a ramaica 1 3, non è una prova incontestabile, nonostante i suggerimenti di Bu rney (The A ramaic Approach of the Fourth Gospe l, Oxford 1 922; The Poe try of Our Lord, Oxford 1 926, pp. 1 26- 1 29, dove Gv 1 4, 1 - 1 4 viene tradotto sottolineando il suo ritmo). Ciò sug­ gerisce che il redattore finale del testo era di lingua ara­ maica, come lo era stato Gesù stesso. 1 3 Si veda

248

un possibile esempio nell'Excursus, n. 1 0, § 2, pp. 25 1 s .

Piacerebbe poter ricostruire, a partire dal testo attuale, il testo originale delle parabole così come furono pronun­ ciate da Gesù: il P. Boi smard ha tentato l'operazione rico­ struendo le sue due piccole parabole. Ma i risultati di que­ sto genere rimangono sempre aleatori. Infatti il lavoro del­ l'evangelista nasconde in un certo modo le parole originali nella misura in cui ne esplicita il significato proiettando su di esse la luce del mistero del Cristo pienamente rivela­ to. Sarebbe sbagliato dire che, per questo fatto, egli tradi­ sce il pe nsiero reale di Gesù pretendendo in qualche modo di superarlo con la sua propria riflessione teologica. È ve­ ro proprio il contrario: il suo unico scopo è quello di affer­ rarlo in profondità. Me egli va al di là di quanto i discepoli potevano comprenderne sul momento stesso. A tale propo­ sito è necessario ricordare le parole contenute nel discor­ so di addio di Gesù: « L'Assistente (come tradurre paraklétos ?), lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio nome egli vi in segnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto » ( 1 4, 26). « Quando ver­ rà lo Spirito di verità, vi introdurrà nella verità tutta intera. [ ] Egl i mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo an­ nunzierà » ( 1 6, 1 3. 1 4). ,

...

La vera fedeltà alla parola di Gesù implica questa docilità verso lo Spirito Santo, che ne ha finalmente svelato la por­ tata profonda facendo comprendere ai discepoli ciò che c'era nel suo pensiero, al tempo stesso in cui la sua rela­ zione con essi era già vissuta in azioni, così come conti­ nuava ad essere vissuta nel mistero della Chiesa. L' evange­ lista non fa altro che dirlo chiaramente, quando costruisce uno svi luppo letterario sulla metafora o sulle parabole pri­ mitive. Ciò mette un limite alla ricerca delle esatte parole pronunciate da Gesù e del significato che i suoi discepoli potevano comprendere sul momento stesso. La nostra cu­ riosità « storica» si vede così opporre un secco rifiuto nella misura in cui essa non sarebbe altro che curiosità. Ma la nostra fede trova pienamente il suo vantaggio in quanto relazione con Gesù e comprensione del suo mistero totale. f) Per una le ttura «evangelica» dell 'allegoria

Non riprendo qui in dettaglio tutte le tappe descritte negli altri casi. La «composizione di luogo » è semplice, infatti 249

l'evangelista stesso ha fissato per noi una cornice all'alle­ goria nel discorso di Gesù dopo la cena. Questa cornice aiuta a percepire il contesto di intimità con il C risto e la risonanza eucaristica delle parole. La meditazione non può che riprenderne le espressioni pa­ rola per parola. La reminiscenza di Ger 2, 2 1 (greco) fa sen­ tire meglio il peso delle espressioni comuni ai due testi. Ma dato che le metafore nel caso presente sono spiegate, il lettore può benissimo fermarsi su di esse, non soltanto per comprendere intellettualmente la dottrina esposta, ma per « sentire e gustare le cose interiormente ». Da un capo all'altro si tratta della sua relazione attuale con Gesù Cri­ sto. Come si rapporta con essa ogni frase ? Che valore ac­ quistano, in questo contesto in cui la vita interiore del cre­ dente è chiamata pienamente in causa, delle espressioni come « rimanete in me ed io in voi », o come « portare frut­ to » - non per se stessi, ma in ragione della « vita» che la Vite fa circolare nei suoi tralci ? La prima espressione, che rientra metaforicamente nel campo del linguaggio «esi­ stenziale » (« essere-in »), è tutta rivolta verso l'interiorità: porta da sé alla contemplazione silenziosa. La seconda è rivolta verso le soluzioni pratiche, senza perdere di vista la fonte ultima della «Vita » che permette di « portare que­ sti frutti>> . Non vado oltre nei dettagli del testo: spetta a ogni lettore farlo. Facendo ciò egli sarà fedele all'annuncio del Vange­ lo così come glielo ha trasmesso il redattore finale del te­ sto; sarà fedele anche a Gesù Cristo di cui questo testo gli svela i pensieri e i sentimenti profondi, non soltanto alla vigilia della sua morte, ma ancora oggi.

EXCU RSUS N . 5

Sul tema della vigna l. Il tema in generale Lo sfondo biblico del tema è oggetto di due esposizioni in G. J. Botterweck - H. Rin gg ren , TWA T, II, 56-66 (gefen, di R. Hentschke) e IV, 334-3 39 (kerem, di H. P. Miiller), con delle buone bibliogra­ fie. Questi termini sono assenti nel TWA T di Jenni-Westermann. 250

Per il Nuovo Testamento, l 'articolo Ampe los di J. Behm (TWNT, I, pp. 34Ss) è vecchio e deludente. L'Ex. Wb. NT d i H. Balz e G. Schneider presenta un breve articolo, «Ampelos - Ampelòn » (l, 1 72s), con u n a bibliografia ridotta che segnala soprattutto i com­ mentari di R. Bultmann e R. Schnackenburg. Le opere generali sulle parabole evangeliche trattano essenzial­ mente di quelle dei Sinottici. Per l'allegoria di Gv 1 5, bisogna rifarsi ai commentari di questo vangelo, specialmente Lagrange, Dodd, Bul tmann, Brown, Schnackenburg, Boismard-Lamouille, Barrett 2 Le paroimiai del IV vangelo erano state studiate da D. Buzy nella sua Introduction au.x paraboles évangéliques, Paris 1 9 1 2, pp. 4 1 7-468 (sulla vite, cf. pp. 435-437). Ma l ' autore discute­ va soprattutto le teorie, allora recenti, di Loisy e Jiilicher. •••

2. La lingua originale di Gv 1 5, 1 -8 Come ho segnalato nel corso dell'esposizione, il linguaggio di Gio­ vanni è mol to semit izzante, ivi compresa l'allegoria della vite. Ma sarebbe abusivo concludere che si avrebbe qui la traduzione pura e sempl ice di un originale semitico. Il commentario di C. Tre­ smontant (É vangile de Jean, Paris 1 984, pp. 398-40 l), che postula un originale ebraico, fa una traduzione corrispondente a questa congettura e si limita a enumerare i testi della B ibbia ebraica relativi alla vite, con la loro versione greca (viene segnalato anche il testo di Ger 2, 2 1 ). Viene sottinteso che il di scorso di Gesù sia riprodotto alla lettera, così come era stato annotato in ebraico dal «discepolo che Gesù amava ,, la sera stessa o l'indomani del giorno in cui Gesù lo pronunciò. Si resta inermi davanti a un tale principio posto a priori. Una ritraduzione aramaica di Gv 1 5, 8 sarebbe relativamente faci­ le. L'autore è di lingua aramaica, che pensa in aramaico ciò che esprime in greco. Se propongo qui questa ritraduzione per mo­ strarne la possibilità, lo faccio solo per gioco, infatti il testo così proposto non potrebbe passare per l'originale perduto. Del resto si potrebbe esitare a più rip rese sulla scelta del le parole (greco menein aram. qum o yetib ?) o su certe forme (congiuntivo pre­ sente greco = a ram . participio attivo, o incompiuto ?). Il vocabola­ rio dell 'aramaico imperiale, prolungato da quello di Daniele e di Qumran, non fornisce tutte le parole necessarie per questa ritra­ duzione del testo greco. Bisogna necessariamente rico rrere all 'a­ ramaico dei Targum; ma in rapporto al precedente, questo è dia­ lettale. A quale l ivello della lingua corrispondeva l'aramaico di Gesù e di Giovanni ? È difficile dirlo. Di conseguenza, le scelte operate comportano un rischio di arbitrarietà. Il risultato del la­ voro può solo dare un' idea approssimativa di quello che sarebbe un «originale » aramaico - se ce ne fu uno. =

25 1

( o: go(èn qu�ta) wa'abba ( o· : 'ahi) 'ik kar hu '. 2kl11 'obara(h} bi di la ta> (ibid., p. 1 70). Si tratta piuttosto di un materiale proprio d i Matteo, tratto da un 'altra fonte di logia diversa da quella alla quale Matteo e Luca sono comunemente de­ bitori . In breve, se attualmente nel testo di Matteo ci sono « tre categorie » ciò è dovuto a una costruzione secondaria di Matteo. Per quanto concerne la preghiera di Gesù, dob­ biamo esaminare solo la prima « strofa >>, ma è necessario gettare un colpo d'occhio sulle altre due.

2. La preghiera di lode

a) La lode di Dio Si può essere esi tanti sull 'esatta traduzione del verbo exo­ mologoumai, al presente. La vers ione della CEI ha optato per « ti benedico» (Mt) e « ti rendo lode » . Il verbo è classico negli Inni (Hodayot) di Qumran. I traduttori optano gene­ ralmente per « rendere grazie », per le allusioni ai benefici di Dio che motivano il poeta degli Inni. Si può anche pen­ sare al verbo « lodare », ma esso corrisponderebbe di più al verbo aine-o. Per questa ragione la Bibbia di Osty ha scelto sistematicamente « celeb rare» (fr. « celebrer »), eccet­ to in Le 22, 6 e per la « confessione » dei peccati. Se si cerca 262

uno sfondo aramaico per chiarire il passo, si viene portati a Dn 2, 23 : lak [. .] mehode um eshabbah rarza; greco (LXX e Theod.): sai [. . ] exomologoumai kai aino. Si tratta decisa­ mente di un'azione di grazie o di una celebrazione; ma è preferibile riservare « azione di grazie » per il verbo eukhariste-6. La ritraduzione aramaica andrebbe da sé: me h ode •ana lak, 'abba. Gli appellativi dati a Dio sono di due ordini. Il primo è in diretto rapporto con la relazione tra Gesù e Dio: pater, al vocativo, è equivalente all'aramaico 'abba, « padre » nel senso familiare e intimo. È questa una caratteristica del linguaggio di Gesù, come hanno fatto notare molto bene W. Marchel e J. Jeremias (cf. le rispettive opere citate nel­ la bibliografia). Il secondo appellativo è in rapporto con la relazione tra Dio e l' intera creazione, « il cielo e la ter­ ra » (cf. Gen 1 , 1 ; 1 4, 1 9b): Egli è sempre il suo Signore, Anche qui la ritraduzione aramaica andrebbe da sé: gr. : kyrie tou ou ranou kai tes ges aram. : mare ' shemmayya w 'a r•a. Questo carattere semitico del testo era riconosciu­ to dallo stesso Bultmann, che non vi vedeva del le ragioni valide per negare l'attribuzione dell 'espressione a Gesù (L 'histoire . pp. 203ss). Più avanti vedremo che l'espressio­ ne ha una corrispondenza biblica. .

.

=

.

.

b) Il motivo della celebrazione Gesù celebra il Padre non per il fatto che egli abbia nasco­ sto delle cose a certe persone, ma perché le ha rivelate ai piccoli ( nepiois). Coloro ai quali vengono nascoste sono proprio quelli che umanamente sono considerati « i saggi e gli intelligentb>. C'è qui evidentemente una critica alla pretesa umana. È il rovesciamento della situazione cultu­ rale in cui potevano cullarsi i dottori giudei, esperti nella Legge ma chiusi all'annuncio del Vangelo. Solo Dio può dare la vera sapienza e l'autentica intelligenza. Daniele (Dn 2, 2 1 ) già lo benediceva perché egli « dà la sapienza ai saggi e l'intelligenza (synesin, LXX, come nel nostro testo syne­ toi) a coloro che conoscono l'intelligenza » (synesin, Theod.). Mescolo qui le due versioni greche di Daniele per mostra­ re come il linguaggio di M t 1 1 , 25 ( = Le l O, 2 1 ) faccia parte del vocabolario della Bibbia greca. Di conseguenza la ri­ traduzione aramaica non porrebbe alcun problema: di sat­ tarta 'ille n zebak kimmin azesakzetanin (indeterminato, per 263

l'assenza dell'articolo in greco) agelayta yathon zerabayin (indeterminato). Questa preferenza di Dio per i «piccoli >> è s tata oggetto di un dettagliato studio di S. Légasse, che ha naturalmente preso in esame il passo analizzato qui (Jé­ sus et l 'enfant, pp. 1 2 1 - 1 5 1 ). Bisogna notare che l'espres­ sione « Signore del cielo e della terra >> ha anche un antece­ dente giudaico in Tobia (7, 1 8, mss B e A, nell 'edizione di Brook-McLean-Thackeray, III/l , p. 79). Ora, si sa dai fram­ menti del la IV grotta di Qumran che Tobia vi è rappresen­ tato in maggioranza dai manoscritti aramaici . Per l'espres­ sione così ritrovata è facile stabilire la corrispondenza ara­ maica (cf. sopra). Qui finiscono le rit raduzioni semplici, infatti il nai del gre­ co pone un piccolo problema. Il termine è molto raro nella Bibbia greca ( 1 7 attestazioni) e corrisponde a quattro di­ verse espressioni ebraiche. Bisogna scendere fino all'ara­ maico dei Talmud e dei Midrashim per ritrovame l'equi­ valente in risposte con « SÌ » . Si ha allora un ' in di cui questo sarebbe l 'esempio più antico. Non è impossibile. In ogni caso corrispondenze aramaiche delle espressioni ebraiche non forniscono alcuna indicazione ut ile. Stando così le cose, si può ammettere la risposta: 'in 'abba. Tutti i commentatori riconoscono il carattere semitico di quan­ to segue. Bisogna soltanto scegliere tra ra • awa e re 'uta per il termine eudokia. Ma non avendo il greco l'articolo, il termine greco deve essere messo allo stato assoluto, che è poco attestato in questi due casi. A titolo di ipotesi pro­ poniamo: 'in, 'abba, dideken re ·a kawat qadamayk 4 • Resta da risolvere un problema: quali sono « queste cose » che il Padre ha rivelato ai « piccoli » ? In Matteo l'espressio­ ne è senza un contesto preciso, infatti la sua introduzione (« in quel tempo », en ekein ci to i kairoi) è banale (cf. Mt 1 1 , 25; 1 2, 1 ; 1 3, 30; 14, 1 ; assente negli altri vangeli, ma at­ testata un quindicina di volte nella versione dei Settanta del Deuteronomio). In Luca la situazione sembra a prima vista migliore, ma non c'è alcuna « rivelazione » in ciò che precede . Il contesto più appropriato sarebbe quello dell'e­ spressione che spiega la ragione dell'insegnamento in pa-

4 Si può confrontare la mia introduzione con quella che Jeremias ( Teo­

logia del N. T. , t r. fr. , p. 34) ha improntato a Burney (The Poetry of Ou r Lord, pp. 1 7 1 s). La lingua seguita da Burney è un dialetto (gali­

leo ?) chiaramente troppo tardivo per il I secolo della nostra era.

264

rabole: « A voi è dato di conosce re i miste ri del regno dei cieli, ma a loro non è dato» (Mt 1 3, 1 1 ; cf. Mc 4, 1 1 , con la formula al singolare, come in Le 8, 1 0). Non vi appare il termine « rivelare », ma vi si trova « conoscenza » - data per grazia - che è una specie di sinonimo, specialmente quando accompagna il termine « mistero )> . Non vi si trova qui l'assimilazione dei discepoli a dei nepiois, ma altrove essi vengono definiti «piccoli » (mikroi; Mt 1 0, 42; 1 8, 6. 1 0. 1 4): essi sono il « piccolo » gregge (Le 1 3, 32). La preghiera ana­ lizzata rientra nella stessa logica. Suppongo quindi che «queste cose » siano i «misteri del Regno di Dio ». c) Il con testo susseguente È vero che, per alcuni critici, « queste cose )> sarebbero spie­ gate dal versetto seguente, che riguarda la mutua cono­ scenza del Padre e del Figlio: « Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare » (Mt 1 1 , 27, con molte varianti che capovolgono la doppia esp ressione). Lu­ ca è un po' diverso: « Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, ecc . )) (Le l O, 22, con il verbo ginosko, invece di epi­ ginosko di Mt: « conoscere a fondo )>). In effetti tra i due logia c'è la parola-gancio « rivelare )>; ma ciò che il figlio rivela è « il Padre » o « chi è il Padre », non «queste cose » (tauta). Escludo il giudizio di Bultmann e di altri che fanno di questo versetto «un'espressione di rivelazione specificamente ellenistica » (L 'histoire . . . , p. 203), trasmessa forse come « un'espressione del Risorto » (Ibid., p. 204; cf. la bibliografia della discussione alle pp. 558-560). La ragione di quest 'ultima ipotesi si può senz'altro attri­ buire al fatto che essa richiama l'espressione del Cristo risorto in Matteo: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28, 1 8). Si comprende pure che l 'espressio­ ne di Luca (« conosce chi è il Padre ») corrisponde alla « sua concezione greca della conoscenza )>, come « il cogliere un oggetto intellettuale che è la personalità del Padre e del Figlio » (A. George, Études sur l 'oeuvre de Luc, p. 225). Ma la parola « rivelare >> non è specificamente ellenis tica: pro­ viene dall'apocalittica giudaica, specialmente dal libro di Daniele (Dn 2, 19.23.28.29 con « misteri », 30 ide m . 47 idem). Mons. Cerfaux aveva mostrato molto bene, fin dal 1954, che il logion di M t 1 1 , 27 si basa su Daniele e su Isaia ( « Les 265

sources scripturaires de Mt Xl, 25-30 », Recueil L. Cerfaux, t. III, pp. 1 46- 1 52). C'è del resto un buon sfondo aramaico come per l'azione di grazie precedente, essendo il greco oudeis corrispondente a un aramaico 'enash, con la negazione la. Tentiamo una ritraduzione: ku lla li 'itmesar min 'a bba, we 'enash la yda ' yat be ra 'ella 'a bba, we 'enash la yda ' yat 'abba 'ella JJera wdf yisbe bera lemigle le h (testo di Matteo 5). Non si esce dal contesto apocalittico specificamente giudaico. La mia traduzione si allontana da quella di J. Jeremias, che intro­ duce un aramaismo leit.. ella ... (Abba, p. SO). Oltre al caratte­ re più tardivo del dialetto adottato, questa proposta tende­ rebbe ad allungare indebitamente la frase: «Non c 'è nessu­ no che conosce, ecc. » . Jeremias vede nell 'espressione una «parabola nascosta » che avrebbe avuto originariamente un significato «generico » ( Teologia del N. T, tr. fr. , p. 77). Que­ st'ultimo suggerimento non è da scartare. Non sarebbe la prima volta che Gesù pronuncia una parabola enigmatica il cui significato pieno sarà svelato in seguito. Ma la prima parte della frase (« Tutto mi è stato dato dal Padre mio ») mi sembra dare un chiaro significato alla «parabola». Nel­ la sua fraseologia, J eremias, al seguito di Dalman, ricono­ sce giustamente un modo semitico per esprimere la reci­ procità (A bba, p. 52). Quanto al contesto primitivo dell'espressione, B. M. F. van Iersel aveva tentato di ricostruirlo. Egli vi vedeva, a titolo di ipotesi, una risposta alle domande dei Nazareni sul Fi­ glio di Maria, o di Giuseppe, o del falegname (Mc 6, 2-3; Le 4, 22; Mt 1 3, 54-56), e accostava il testo d i Gv 6, 42.46 e 7, 27-29 (De r Sohn in de n synoptischen Jesuworte n, pp. 1 5 1 - 1 57). L'accostamento è seducente: il giovane di Naza­ reth, i cui compatrioti si meravigliano, può effettivamente parlare del Padre perché è « il Figlio »; ma la sua « parabo­ la » rimane enigmatica per il suo uditorio immediato. Co­ munque sia, bisogna cercare un « contesto vitale » diverso per il ringraziamento e per l'espressione di rivelazione. L'af­ finità con Mt 28, 1 8 non fa necessariamente di quest'ulti-

5 Si

veda il modello nell'opera di Bumey, citata nella nota preceden­ te. Il passivo mtsfr potrebbe effettivamente prendere il posto di 'it­ m esa r. Ma makker, per « conoscere )), viene apparentemente da rrekar all"af., di uso molto raro. Il verbo gela, « rivelare», è inutilmente mes­ so alla forma intensiva.

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ma un'espressione «attribuita al Cristo risorto » (Bultmann). Bisogna soltanto riconoscere che, al tempo di Gesù, i suoi diretti ascoltatori valutavano poco la portata della piccola «parabola » (per riprendere il punto di vista di Jeremias): la sua comprensione fu data ai discepoli dopo la risurre­ zione di Gesù. Senza essere un logion propriamente « gio­ vanneo » (Cerfaux), essa mostra l'inserimento delle rivela­ zioni « giovannee » - sviluppate letterariamente dall'evan­ gelista - nel contesto concreto della vi t a di Gesù. Quanto al logion proprio di Matteo (Mt 1 1 , 28-30), esso ha un carattere chiaramente sapienziale. Si potrebbe quasi dire che racchiude un'indiretta polemica contro « i maestri in Israele » (Gv 3, l O), il cui insegnamento legalista caricava sulle spalle dei loro discepoli un pesante fardel lo. In ogni caso, il linguaggio è giudaico e non greco. Ma bisogna an­ cora cercare un altro contesto, che tuttavia non ha impor­ tanza per l'esame della preghiera di Gesù. 3. Le tre dimensioni •evangeliche• della preghiera

a) Lo sfondo biblico Le ricerche di L. Cerfaux (Recueil, pp. 1 39- 1 5 9) e di J. Jere­ mias (A bba, tr. fr., pp. 83-90) hanno mostrato con chiarez­ za che il triplice logion, discusso per una certa critica, era profondamente radicato, da una parte in testi biblici, e dal­ l'altra nell 'antica preghiera giudaica che aveva a sua volta questo sfondo. Per il testo della preghiera L. Cerfaux ha fatto rilevare i parallelismi significativi di Dn 2, 1 9.23 LXX e di Sir 5 1 , l . La parentela con Daniele è stata rilevata an­ che da A. Feuillet (RB 1 95 5 , pp. 1 86s), ma il suo giudizio finale dà adito a diverse critiche. In questo capitolo non si parla del Figlio dell'Uomo. La preghiera del Siracide non ha nessuna formula comune con il logion di Mt-Lc. Infine non si vede tanto come Gesù si potrebbe identificare con la Sapienza divina per rendere grazie al Padre. Di conse­ guenza, le riflessioni teologiche sul Cristo « Sapienza di Dio» e « Figlio dell'Uomo » non possono appoggiarsi su questo testo. In compenso nell'articolo di A. Feuillet rilevo un pa­ rallelismo che egli stesso improntava a McNeil . L'espres­ sione di Gesù sembra essere sulla scia della polemica di Isaia contro la falsa sapienza umana (Is 29, 1 4), citata da 267

San Paolo in l C or l , 1 9: « Distruggerò la sapienza dei sa­ pienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti ». Il testo del Targum 6 è ancora più sintomatico: « Di nuovo colpirò questo popolo con fatti straordinari , e la sapienza sarà tol­ ta (lett.: 11 perirà") ai saggi, e l' intell igenza sarà nascosta agli intelligenti». Questo è solo l'aspetto negativo della si­ tuazione. La rivelazione ai «piccoli » ha un antecedente biblico ? Non è sbagliato lasciarsi guidare qui dalla Bibbia greca per individuare i passi in cui il termine nepios corrispon­ de metaforicamente all'ebraico petf, « semplice ». Ora, la si­ tuazione privilegiata dei « semplici » viene sottolineata in diversi Salmi: « La testimonianza del Signore rende saggio (sophizousa) il semplice » (Sal 1 9[ 1 8], 8). « Il Signore proteg­ ge i se m p li ci » (Sal 1 1 6[ 1 1 4], 6) « La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici >> (Sal 1 1 9[ 1 1 8], 1 30). .

Nel libro della Sapienza (greco) un'evocazione dell 'esodo dice che « la Sapienza aveva aperto la bocca dei muti e aveva sciol­ to la lingua degli infanti )) (Sap 10, 2 1 ). Sarei spinto a trovare, dietro questo testo, una tradizione targumica conservata nel Targum palestinese di Es 1 5, 2 (cf. « Sagesse 1 0, 2 1 et le Tar­ gum de l 'Exode », Biblica 1 96 1 , pp. 49-60). Non si tratta qui dei , («Tutto mi è stato dato dal Padre mio >,). Lo sfondo aramaico del linguaggio sapienziale o apocalittico mi sembra escludere il ricorso alla terminologia elleni stica della letteratura di « rivelazione » . Non c'è perciò motivo per rigettare l 'auten­ ticità originale del logion, anche se non si sa dove e quan­ do collocarlo esattamente. I paralleli evangelici sono stati rivelati molto bene da Mons. Cerfaux (Recuei l, III, pp. 1 6 1 - 1 74). Egli nota soltanto che « la nozione di rivelazione giovannea sembra sotto diversi aspetti più evoluta» (p. 1 74). Quanto al terzo logion, non sarebbe molto difficile trovare anche per esso uno sfondo aramaico, ricordandosi che la fatica e il peso che opprimono gli ascoltatori di Gesù han· no come causa il modo in cui certi dottori presentano loro il « giogo >, della Legge. Mettendosi alla scuola di Gesù per diventare suoi discepoli, essi « troveranno il ristoro per le loro anime »: eccellente semitismo che ha il suo esatto pa­ rallelo in Ger 6, 1 6 (ebraico) e Targum ( 'ashkahu neyah 210

zenafshekon, qui tishhehun). Descrivendosi come « mite » ( 'inwtan) e umile di cuore, Gesù rivendica un atteggiamento descritto nelle Beatitudini (Mt 6, 4). Non ne se può perciò mettere in dubbio l 'autenticità, ma il suo « contesto vitale » nell'insegnamento di Gesù rimane ugualmente incerto. È sufficiente riconoscere l'originalità primitiva del logion . È su questo punto che la ricerca storica si misura con i suoi limiti, come nel caso di molti altri logia conservati dalla tradizione propria di Matteo. Valutare i limiti della ricer­ ca non vuoi dire cedere allo scetticismo di Bultmann, trop­ po condizionato da pregiudizi anti-storici. È molto meglio affidarsi, con J. Jeremias, alla « credibilità della tradizio­ ne » che mostra il ritmo aramaico delle parole conservate (per 1 1 , 28-30, Teologia del N. T., t. fr. , p. 35, nota 1 47, sem­ pre esprimendo delle riserve sul dialetto ammesso da J e­ remias sulle orme di Bumey).

4. L' •lstorlale., e lo ..storicoÈ possibile distinguere qui lo « Storico » dall'« istoriale », ri­ salendo dal secondo verso il primo che av rebbe avuto allo­ ra un significato meno profondo e avrebbe acquistato tut­ ta la sua portata solo nell 'ambito post-pasquale ? Per la pre­ ghiera di ringraziamento, se il suo motivo non è la cono­ scenza del Padre data al Figlio e da lui trasmessa agli uomini, ma la rivelazione dei « misteri del Regno di Dio », non c'è alcun motivo di non riconosceme l'omogeneità con questa stessa rivelazione. Ciò che si può ammettere nel quadro di una ricerca storica è che la compre nsione dell'e­ spressione di Gesù non aveva raggiunto, durante la sua vita, il grado di profondità svelato dopo la sua risurrezione. Io attribuirei a questo lavoro post-pasquale l'accostamen­ to tra la p reghiera di ringraziamento e il logion relativo alla reciproca conoscenza del Padre e del Figlio. Questo logion stesso poteva, al l'origine, essere compreso dai di­ scepoli nel senso parabolico che J eremias propone di rico­ noscergli. La coscienza della filiazione divina in Gesù era implicata dal ricorso al termine 'Abba, per designare Dio o per pregarlo. Ma questo non vuoi dire che i discepoli avessero afferrato subito la portata straordinaria di que­ sto appellativo, anche se Gesù aveva insegnato loro il Pa­ ter nella recensione di Luca che, in aramaico, inizia chia27 1

ramente con 'Abba. Quanto alla conoscenza rec iproca del Padre e del Figlio, essa poteva essere intesa innanzitutto come un paragone illuminante: come nei casi ordinari un padre conosce bene suo figlio e un figlio conosce bene suo padre, di modo che egli possa parlarne per esperienza e « rivelare » (apokalyptein m igle) i sui segreti a coloro ai quali ne parlerebbe, così Gesù conosce Dio, che per lui è « il Padre », e può rivelarlo sotto questa luce agli ascolta­ tori del V angelo. Ma fin dove arriva questa intimità tra Gesù e il Padre, che « tutto ha dato » a lui ? Qual è questo « tutto» che il Padre gli ha dato ? Essendo il contesto quello della conoscenza, l'espressione potrebbe essere intesa innanzitutto come con­ cernente i misteri del Regno di Dio, di cui Gesù trasmette ai suoi la « tradizione » (cf. Mt 1 3, 1 1 ). La prospettiva cam­ bia a partire dal momento in cui il Cristo in gloria si mani­ festa ai suoi discepoli. Essendo ora intronizzato « alla de­ stra di Dio » (At 2, 34, citando il Sal 1 1 0, l) egli è « il Signo­ re » e la sua filiazione acquista una dimensione inaudita. La rilettura del logion sulla conoscenza reciproca del Pa­ dre e del Figlio gli fa allora acquistare una ri sonanza che oltrepassa infin itamente la portata di un semplice parago­ ne. L'intima relazione del Padre e del Figlio, che fonda la loro mutua conoscenza collocandoli sullo stesso piano, com­ porta una profondità inattesa: è essa che spiega come il Figlio possa « rivelare » il Padre a chi vuole. Questa portata profonda dell'espressione esisteva virtual­ mente fin dall 'origine, perché il personaggio storico chia­ mato Gesù di Nazareth era già « il Figlio » nel senso forte e unico del termine. Ma la fede dei discepoli res tava anco­ ra alla superficie di questa realtà misteriosa: « Figl io » sì, ma fino a che punto e in che senso ? Il IV vangelo si sforza di mostrare il dubbio formale delle autorità giudaiche e lo scandalo da esse provocato davanti al mondo in cui Ge­ sù parla di Dio come suo Padre, della sua conoscenza del Padre (Gv 7, 28-29), della sua uguaglianza col Padre (Gv 5, 1 8), della sua unità col Padre ( 1 0, 30), del la sua filiazione divina ( l O, 36). Certo, Giovanni ricostruisce queste discus­ sioni con « i Giudei » alla luce della rivelazione post-pasquale e unisce la propria interpretazione teologica - fedele e vera - alla trasmissione delle parole di Gesù. Ma egli mi­ ra giusto e restituisce esattamente la portata - all 'origine ancora virtuale - di queste parole. Egli fa trasparire l'« i sto=

272

riale >> , cioè la comprensione piena della persona di Gesù, nello « Storico », cioè in ciò che all 'inizio era potuto appari­ re enigmatico ai discepoli e scandaloso « ai saggi e agli in­ telligenti ». Il progresso è qui il frutto di un approfondi­ mento, non di un'aggiunta eterogenea alle parole primiti­ ve e al loro significato segreto. 5. Per una lettura •evangelica,. della preghiera

La cosa più difficile è fare qui una « Composizione di luo­ go » che abbia dei tratti concreti. Si può, se si vuole, con­ servare la cornice in cui Luca ha collocato il ringrazia­ mento di Gesù, ma unicamente per fissare l'immaginazione. Per la meditazione de lla preghiera di Gesù l'accostamento operato dagli evangelisti si rivela spiritualmente vantag­ gioso. Esso lega infatti la rivelazione dei misteri del Regno di Dio a quella del Padre, la cui conoscenza si acquista solo con questa rivelazione che rende partecipi della cono­ scenza del Figlio stesso. Pertanto, solo secondo il testo di Matteo, colui che crede in lui può facilmente accettare il suo « giogo »; esso è liberatore in rapporto al « giogo » che comporte rebbe una certa comprensione di Dio e della sua Legge; è legato infatti alla rivelazione di Dio come «Padre » - per tutti gli uomini come per Gesù. I tre logia riuniti da Matteo possono perciò utilmente essere meditati insie­ me. Il pensiero si ferma a lungo su ciascuno di essi, non dimenticando che il Cristo glorioso continua attualmente a ringraziare il Padre per la rivelazione che accorda ai «pic­ coli », stimolando di conseguenza, in colui che medita, il desiderio di diventare uno di questi piccoli. Facendosi di­ scepolo di Gesù egli entra in comunione col Maestro « mite e umile di cuore » e, con la sua meditazione, in comunione con il Padre di cui il Figlio gli ha comunicato la conoscenza. Dopo questa meditazione, che esce senza dubbio dai limiti della storia « esatta» ma non della storia « vera » così come l'hanno compresa Luca e Matteo, lo sguardo contemplati­ vo può fis sarsi a lungo su Gesù nella sua relazione con il Padre. E ssendo impossibile e sporre dettagliatamente le modalità diversamente che in termini di conoscenza mu­ tua e di azione di grazie - espressa da Gesù in quanto uomo - la contemplazione si riduce ad un semplice sguar­ do sul quale non si ha timore di indugiare. 273

Il colloquio può dispiegarsi in diverse direzioni. Comporta neces sariamente un ringraziamento, unito a quello di Ge­ sù, per la conoscenza dei misteri del regno di Dio e del Padre stesso, ricevuta tramite una rivelazione di cui il Cri­ sto fu e resta il mediatore. Comporta pure un dialogo con il Maestro di cui il fedele ha « preso il giogo dolce e il cari­ co leggero ». In termini paolini, si tratta di un passaggio dall'ordine della Legge a quello della grazia. Lo Spirito, che viene nominato da Luca al momento del trasalimento di gioia p rovato da Gesù, non è lontano da quest'esperien­ za di grazia: ne è la fonte segreta. Il colloquio acquista così una dimensione trinitaria senza tradire l'esatta riso­ nanza dei testi evangelici. L'essenziale è di tener presente che questi sono stati messi ins ieme e ripetuti nella pro­ spettiva post-pasquale in cui noi oggi ancora viviamo. 1 1 1 . LA PREGHIERA DELL'ccORA� DI GESÙ

Per dare un esempio tratto dal IV vangelo, lascio da parte la preghiera di Gv 1 1 , 4 1-42 e 1 2, 28 28a , che ho menzionato sopra. Mi soffermo sul testo che solleva le maggiori diffi­ coltà riguardo alla distinzione ta l' « istoriale » e lo « stori­ co» , cioè: la lunga preghiera di Gv 1 7. Non potrò dedicarle tutto il tempo che richiederebbe, ma, dopo averla situata nel suo contesto letterario, ne analizzerò rapidamente il contenuto; esaminerò poi il problema delle sue « dimensio­ ni » evangeliche e trarrò - se possibile - una conclusione sulla sua origine proponendo un metodo per fame una let­ tura fruttuosa. -

Per lo studio di

Giovanni 1 7

l . Sono da consultare tutti i commentari del IV vangelo. Il P. La­ grange e 1 927) era per la stretta storicità della preghiera, pronun­ ciata all'aria aperta dopo l 'uscita dal cenacolo (p. 437): i tre « mo­ vimenti » della preghiera sono ben marcati. - R. Bultmann ( 1 953) collocava curiosamente questa «preghiera di addio » come conti­ nuazione di Gv 1 3, l (commentario, pp. 37 1 -40 1 ; traduzione ingle­ se con il supplemento del 1 966, Oxford 1 97 1 , pp. 486-522). - E. Hoskins-F. N . Davey ( 1 947), pp. 494-507, intitolano: « la consacra­ zione di Gesù alla morte e dei discepoli alla missione - ad glo­ riam Dei ». C. D. Dodd, L 'inte rp rétation du quatrième évangile -

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( 1 97 5), cerca degli accostamenti tra la preghiera di Gesù e certi terni ellenistici, specialmente nell 'Ermetismo; caratteristica gene­ rale: « In un certo modo, la preghiera è l'ascensione del Figlio verso il Padre » (pp. 528). R. E. Brown, Il, pp. 739-7 82 (con biblio­ grafia, p. 7 82, limitata fino al 1 970). - R. Schnackenburg, III, pp. 1 89-23 1 (bibliografia nelle note). C. K. Barrett 1 978), pp. 499-5 1 5 .

e

2. Studi dedicati a G v 1 7: J. Huby, L e discours après la Cène, Pa­ ris 1 942, pp. 1 0� 1 24 . - J. Giblet, « Consacre-les dans la verité (Jn 1 7 , 1 -2 6) » , Bible et Vie ch ré tienne 1 9 ( 1 975), pp. 5 8-73. - H. van den Bussche, Le discours d 'adieu de Jésus, (Mardesous 1 959), ripreso nel commentario: Jean, Bruges-Paris 1 967, pp. 446-462: questa pre­ ghiera, « pronunciata nella stanza superiore, [ . . ] è in realtà per Giovanni la preghiera eterna del Cristo glorificato » (p. 447). - A. George, « L'heure de Jean XVI I », RB 61 ( 1 964), pp. 393-397 . W. Thiising, Herrlickeit und Einheit. Eine Auslegung des hoheprie­ sterlichen Gebe tes Jesu, Diisseldorf 1 962 (tr. fr., La p riè re sace rdo­ tale de Jésus, Paris 1 970); ripresa e ampliata in Die Erhoh ung und Verherrlichung Jesu im Johannesevangelium, Miin ster 1 970. - E. Kasemann, Jesu letzte r Wille nach Johannes 1 7, Tiibingen 1 968. - J. Becker, « Aufbau, Sichtung und theologiegeschichtliche Stel­ lung des Gebetes in Johannes 1 7 » , ZNW 60 ( 1 969), pp. 56-83. B. Rigaux, «Les destinataires du IVe évangile à la lurnière de Jean 1 7 », Revue Theologique de Louvain, 1 970,pp. 289-3 1 9 . - G. Malate­ sta, cThe Literary Structure of John 17 », Biblica 52 ( 1 97 1), pp. 1 90-2 1 4. - F. M. Braun, Jean le théologien, Ill/2 . Le Christ notre Sei­ gneur, Paris 1 972, pp. 8- 1 3 . - R. Schnackenburg, «Strukturanalyse von Joh 1 7 )), BZ 1 7 ( 1 973), pp. 67-7 8 e 1 96-202. - l. de la Potterie, « � tre sanctifié dans la verité (Jn 1 7, 1 7- 1 9)», in La ve rité dans saint Jean, Rome 1 977, pp. 706-787, - Tagashi Onuki, Gemeinde und Welt im Johannesevangelium, Neukirchen 1 984 (sottolinea i l punto di vista post-pasquale della preghiera). - Bibliografie supplementari si possono trovare nei commentari di B rown e di Schnackenburg. .

3. I commentari patristici e medievali non hanno perso né il loro valore né il loro interesse, nel la misura stessa in cui essi si sof­ fermano sulla portata teologica del testo, che cos tituisce giusta­ mente il suo principale interesse critico. Si può consultare su que­ sto punto Sant 'Agostino ( Tractatus in loannem, nn. 1 04- 1 1 1 , in PL 35, 1 90 1 - 1 920), San Tommaso d'Aquino (Super evangelium S. Joannis lectu ra, nn. 2 1 77-2270, ed. Cai, Torino 1 952, pp. 4 1 1 -426). Una scelta più ampia di testi tradizionali era stat a effettuata da San Tommaso nella Catena aurea (ed. Guarienti, Torino 1 953, II, pp. 546-555, che cita Agostino, Ilario, Crisostomo, Beda). La scel­ ta è più estesa in H. Maldonato (Com mentari in quatuor evangeli­ stas, ed. C. Martino, Magonza 1 854, II, pp. 882a-903b). Accade che i moderni ritrovino per la strada della critica ciò che era stato percepito intuitivamente dagli antichi. 275

1 . Osservazioni critiche sul testo

a) Critica testuale Nella Synopsis greca di K. Aland (pp. 453s), l'apparato cri­ tico di Gv 17 è particolarmente abbondante; ma in realtà soltanto tre varianti presentano qualche interesse. Al v. 1 1 la recensione armonizzante: «Custodisci nel tuo nome co­ loro che mi hai dato » è poco appoggiata, e le altre va­ rianti non cambiano il senso: «Conservali nel tuo nome, che tu mi hai dato » . Al v. 12 tre lezioni si disputano il terreno. Io opterei per la recensione antiochena, contro la recensione alessandrina e il testo breve (preferito dal P. Boismard): « . . .li conservavo nel tuo nome. Coloro che mi hai dato li ho conservati nel tuo nome » Infine al v. 23 si può essere esitanti tra le due recensioni: « . affinché il mon­ do sappia che tu mi hai mandato e che tu li hai amati » (lezione maggioritaria), o: « .. . che io li ho amati » (lezione minoritaria). Ma si tratta di un dettaglio che lascia intatto l'insieme del testo. -

.

.

b) Critica redazionale Il problema principale è di sapere se il testo finale di Gv 1 7 sia stato, strada facendo, oggetto di rimaneggiamenti o di aggiunte redazionali che non intaccano in alcun modo la sua canonicità. Il v. 3 è chiaramente un glossa esplicati­ va che non rientra più nel genere della preghiera, parla infatti di « Gesù Cristo » alla terza persona. Il P. Lagrange (Commentario, p. 440) poneva già il problema della sua ori­ gine. La maggior parte dei commentari attuali ammette che tutto il versetto sia un'aggiunta del redattore finale, del resto molto importante per la teologia giovannea: defi­ nisce la « vita eterna » come la conoscenza dell'unico Dio vero e del suo inviato, Gesù Cristo, conoscenza piena d'af­ fettività che comincia nella fede e che comunica fin da ades­ so un certa partecipazione alla vita eterna. Ugualmente, nel v. 1 2, l'allusione a Giuda, il « figlio della perdizione », è una specie di rettifica apportata al testo ge­ nerale di l O, 28: « Io do loro ( == le mie pecore) la vi t a eterna e non andranno mai perdute e non le rapiranno dalla mia mano » . Giuda è stato « strappato » alla mano di Gesù. Am­ metto qui la riserva espressa da R. E. Brown. Il P. Boi276

smard (L 'évangile de Jean, pp. 392-394) è molto più drasti­ co. Egli collega la composizione d'insieme del capi to lo alla terza tappa redazionale del la sua teoria generale (Giovan­ ni II-B); ma mette a parte « le aggiunte di Giovanni III » : il v . 3, i l v. Be, i l v . 1 2b, e i vv. 1 9-2 1 , essendo questi ultimi un doppione parziale dei vv. 22-23. Questa posizione è le­ gata al problema della struttura del la preghiera. c) Critica le tte raria: il piano del testo

Molte sono le strutture proposte per spiegare l'ordine in­ terno di Gv 1 7. Se ne può trovare un'esposizione, fino al 1 970, nel commentario di R. E. Brown (Il, pp. 748-75 1 ). Mi avvicino alla sua proposta costatando che il testo stesso racchiude gli indizi di un proprio sviluppo. Gesù prega in­ nanzitutto il Padre di glorificarlo, ricordando la sua opera quaggiù (vv. 1-8). Poi prosegue: « Prego per loro. . . » (vv . 9 .- 1 9). Infine allarga ancora di più il suo orizzonte: « Non prego soltanto per loro, ma anche per quelli che per la loro paro­ la crederanno in me » (vv. 20-26). Adottando questo piano, che ha un fondamento materiale nel testo, escludo l'ag­ giunta dei vv. 19-2 1 , che il P. Boismard pensava di ricono­ scere. In ogni modo non bisogna cercare nello sviluppo una logica occidentale e moderna. Ci sono delle ripetizioni e delle riprese, una densità di pensiero in un vocabolario povero, una struttura di frasi vicine al semitico nel quale l'autore è immerso. Ne consegue forse che si tratta della traduzione greca di un originale aramaico, secondo la tesi di Burney ( 1 922) ? Quest'autore ha accumulato gli indizi che parlano in que­ sto senso. Egli ha anche ritradotto il testo del Prologo di Giovanni nel dialetto di Galilea, sfortunatamente più tar­ divo ( The A ramaic Approach of the Fourth Gospel, pp. 40s). Io sarei piuttosto del parere che l'autore pensi in questa lingua e ne conservi gli indizi grammaticali quando scrive in greco. (Lascio da parte la tesi, senza alcun solido fonda­ mento e senza un vero e proprio interesse, che propone di cercarvi un originale ebraico). In breve, malgrado le ri­ petizioni inutili che aggiungono generalmente un piccolo dettaglio alla precedente espressione della stessa idea, l'in­ sieme mi sembra molto ben saldamente costruito, con le aggiunte più tardive di due brevi glosse. Non affronto qui né il problema dell'identità dell'autore del vangelo, né la 277

data in cui egli avrebbe redatto la sua opera, benché que­ sta data non possa risalire molto indietro nel tempo 7• Bi­ sognerebbe avere il gusto del paradosso per vedere in Gio­ vanni il più antico dei vangeli, composto negli anni 30. (Non do una bibliografia, ma essa esiste). Questo non fa dimi­ nuire il valore della testimonianza dell'evangelista, ma aiuta a comprenderla correttamente: essa non ha di mira soltan­ to la storia di Gesù considerata dal punto di vista empiri­ co; _verte sulla comprensione giusta e profonda della sua persona, delle sue parole e delle sua azioni nella realizza­ zione del disegno di Dio. 2. Collocazione della preghiera nel vangelo

a) Il contesto La p reghiera, in cui il movimento di intercessione si me­ scola con le domande, ha incontestabilmente delle affinità di temi con i discorsi di addio di Gesù (Gv 1 3, 1 1 - 1 4, 3 1 e 1 5, 1 - 1 6, 3 3), qualunque sia l a complessità che bisogna lo­ ro riconoscere. Non c'era alcuna ragione di spostarla per metterla dopo il cap. 1 3 (Bultmann); va benissimo alla fine dei discorsi di addio (Brown). Ma, detto ciò, bi sogna am­ metere che si tratta di un pezzo aggiunto ad essi, senza alcuna transizione, senza indicazione sulla esatta localiz­ zazione. Ho fatto notare, a proposito dell'allegoria della vigna ( 1 5 , 1 -8), che originariamente il seguito di Gv 1 4, 3 1 si trovava in 18, l . I capitoli 1 5- 1 6 sono già una ripresa dei temi esposti nei capitoli 1 3- 1 4, quindi un'aggiunta pro­ veniente da uno stadio redazionale più tardivo. La stessa cosa è per il cap. 1 7, sicché ci si può domandare quale sia la sua provenienza. 7

«Per la redazione finale non si dovrebbe risalire oltre 1 ' 80 o anche il 90. Se il vangelo è stato scritto dopo l 'Apocalisse, bisogna fennarsi all 'incirca all 'anno HXh (A. Feuillet, in Introduction à la Bible, II, Paris­ Tournai 1 959, pp. 662. Nessuno oserà accusare il P. Feuillet, sia di mancanza di serietà o di spirito di fede, sia di essersi messo sconside­ ratamente a rimorchio del l'esegesi tedesca. In É vangiles et tradition apostolique, pp. l 2 1 s, ho citato nello stesso senso il Manuel d'Écritu­ re sainte di Bacuez e Vigoroux, pubblicato nel 1 904, libro di spirito conservatore e tradizionale. Il passo citato argomentava a partire dal­ la critica inte rna del Vangelo. 278

b) Gli indizi inte rni della collocazione L'analisi della preghiera getta un po' di luce sulla sua col­ locazione. Innanzitutto bisogna notare l'introduzione del tema dell '« ora» di Gesù (« Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo », l a). Questo tema è importante nello sviluppo del d ramma evange­ lico. Lasciando da parte Gv 2, 4, la cui interpretazione è di ­ scussa, si possono facilmente notare i casi in cui l'evangelista dice che i nemici di Gesù non possono mettere le mani su di lui « perché non era ancora gi unta la sua ora » (7, 30 e 8, 20). Nel discorso ai Greci Gesù dichiara: « È giunta l'ora . . >> ( 1 2, 23), e l'affronta con angoscia perché sarà l'ora della sua morte, della sua « elevazione » in croce. Ma è allora che il Nome del Padre sarà glorificato, sicché lo scopo della venuta di Gesù era quello di arrivare a quest'ora ( 1 2, 27). Il racconto della ce­ na comincia solennemente con queste parole: « Ge sù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Pa­ dre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» ( 1 3, l ). La preghiera di Gv 17 fa di rettamente eco a questa affermazioni: « Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te>> ( 1 7, 1). .

L'ora di Gesù ha perciò due aspetti. Considerata sotto l'an­ golatura esterna ed empirica, è l'ora della sua morte nella sofferenza. Considerata sotto l'angolatura del disegno di Dio che, per Gesù, ingloba anche il «dopo-morte », è l'ora della sua glorificazione. I due aspetti si ricongiungono nel­ l'idea del passaggio « da questo mondo al Padre » ( 1 3, l ). Da questo punto di vista, come aveva eccellentemente fatto notare A. George, Gv 1 7 è « la preghiera dell'Ora di Gesù » («L'Heure de Jean 1 7 », RB 6 1 [ 1 954], pp. 392-397; cf. F.-M. Braun, Jean le théologien, III/l , pp. 24Ss). Ma dove e quando si colloca quest' «Ora >> ? n contenuto in­ terno della preghiera racchiude delle piccole contraddizio­ ni che obbligano a riflettere. L'opera di Gesù, cioè la ma­ nifestazione del Nome del Padre agli uomini, è completata ( 1 7, 6). I discepoli di Gesù sono stati inviati nel mondo, co­ me Gesù era stato inviato dal Padre ( 1 7, 1 8). Egl i ha anche dato loro la gloria che il Padre gli ha dato ( 1 7, 22). Tutte queste cose si ricollegano alla situazione del Cristo glorifi­ cato, o almeno al momento in cui il Padre lo glorifica. Può dire infatti: « lo non sono più nel mondo » ( 1 7, l l a), e poi, a due riprese, rivolgendosi al Padre: «Vengo a te » 279

( 1 7, 1 l b. l 3a). Sotto questo aspetto è chiaro che l'evangeli­ sta vuole esporre la preghiera del Cristo in gloria .per i suoi discepoli e per coloro che crederanno in lui grazie alla loro parola. Per riprendere un'espressione della lette­ ra agli Eb rei, colui che parla è il Cristo « sempre vivo per intercedere in [nostro] favore » (Eh 7, 25). Questo è normal­ mente il suo «passaggio » da questo mondo al Padre che ha, come duplice aspetto, il distacco dal mondo e l'ingres­ so nella gloria del Padre. È per questo che, dopo aver det­ to che « non è più nel mondo » (v. 1 1 ), Gesù prosegue dicen­ do che egli « parla così mentre è ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della sua gioia » (v. 1 3b). Il gioco dei tempi verbali e le allusioni contrarie ai « luo­ ghi » mostrano così che la preghiera oscilla tra la terra e i1 cielo, tra il tempo e l'eternità. « La ��preghiera dell 'ora" è nello stesso tempo quella della Croce e quella della glo­ ria » (E. Cothenet, in La tradition johannique, Paris 1 977, p. 1 56). Non potendo esporre direttamente la preghiera del Cristo in gloria, l'evangelista la co l loca in un posto strate­ gico: alla soglia della Passione, che porterà alla glorifica­ zione di Gesù grazie al suo amore per il Padre e per gli uomini. Ma si tratta solo di una situazione letteraria. In questo modo «essa esprime il significato del dramma che si svolgerà con la Passione e i frutti che ne risulteranno per la Chiesa» (E. Cothenet, ibid.). 3. Le dimensioni •evangeliche• del testo

Questa particolare collocazione del testo invita a comin­ ciare qui la ricerca circa l 'attualità ecclesiale della pre­ ghiera del Cristo, per risalire da essa verso la storia di Gesù e individuare eventualmente delle reminiscenze scrit­ turistiche. a) L 'attualità ecclesiale Quando il Cristo, con la sua morte, passò « da questo mon­ do al Padre », egli passò anche dal tempo all'« aldilà » del tempo: c'è ancora una durata, ma non c'è più successione temporale. La sua glorificazione l'introduce infatti nella durata propria di Dio, nell'eternità. Di conseguenza, la pre­ ghiera che Giovanni mette sulle sue labbra al momento 280

in cui egli «Viene al Padre » ( 1 7, 1 3a) diventa anch'essa eter­ na e ricopre tutto il tempo della Chiesa. Bisogna leggerla da quest'angolatura per comprendere la portata dei tempi che l'evangelista vi ha introdotto. Con la sua glorificazione finale ( 1 7 , l ), Gesù ha ritrovato la gloria che aveva prima, durante il suo passaggio tra gli uomini, e la preghiera ne enumera diversi aspetti essenziali: ha compiuto l 'opera che il Padre gli aveva dato da fare (v. 4); ha manifestato il suo Nome agli uomini che il Padre gli ha dato (v. 6), per cui essi hanno creduto (v. 8d); li ha custoditi nel N ome del Padre (v. 1 2); ha dato loro la sua Parola (v. 1 4) e la gloria che il Padre gli aveva dato (v. 22); ha fatto loro conoscere il Nome del Padre (v. 26) 8 . Ma questo richiamo ha solo uno scopo; introdurre le sup­ pliche che il Cristo formula attualmente per i suoi e la descrizione dell'opera che compie d'ora in poi. I beneficia­ ri sono tutti coloro che il Padre gli ha dato (vv . 2.6.9.24). Ciò che egli vuole per essi è dare loro la vita eterna (v. 2), comunicare loro in pienezza la sua gioia (v. 1 3), san tifi­ cari i nella vita (v. 1 9), fare in modo che essi siano uno co­ me egli e il Padre sono uno (vv. 2 1 -23), fare in modo che - per la fede - essi siano là dove egli è: nella gloria (v. 24), portare a compimento la loro conoscenza del Nome del Padre e comunicare loro l'amore con cui il Padre l'ha amato (v. 26). C'è tuttavia da rilevare una particolarità in questa preghiera del Cristo glorioso. Essendo pronuncia­ ta, secondo la sua collocazione letteraria, nel momento in cui Gesù passa da questo mondo al Padre, essa distingue due tempi nel futuro - che costituisce il «tempo della Chie­ sa» (termine assente nel IV vangelo): il primo tempo è quello dei di scepoli che hanno ricevuto direttamente la parola di Gesù e che egli ha inviato nel mondo (v. 1 8); il secondo tempo è quello degli ascoltatori della loro parola che, gra­ zie ad essa, crederanno in Gesù Cristo (v. 30). Quest 'ultima 8

G . Ricciott i scriveva nel la sua eVita di Gesù Cristo», a proposito di Gv 1 7 : « È la più lunga preghiera di Gesù riferita nei vangeli, e con un'avveduta finezza Giovan ni fece in modo che que sto inestima­ bile tesoro, trascurato (! ?) dai Sinott ici, non andasse perdu to, consi­ derandolo a ragione come un som m a rio di tutta l 'azione di Gesù, un ultimo fiore luminoso in qualche modo sbocciato al vertice della sua vita. Al di sopra di questo fiore luminoso c'è soltanto la dimora del Padre celeste » ( Vita di Gesù Cristo, tr. fr., Paris 1 954, n. 553, p. 6 1 2). 28 1

allusione non definisce forse il tempo in cui viveva il re­ dattore del testo ? C'è lì una prospettiva « istoriale » indefinita nella quale pro­ segue l'intercessione di Gesù, riattualizzando senza posa i temi della « preghiera dell'Ora ». Dico « istoriale » e non « Storica» perché lo sviluppo della storia non è visto sotto l'angolatura dell'osservazione empirica, ma sotto quella dei rapporti tra il Padre e Gesù, da una parte, e i di scepoli e coloro che crederanno nella loro parola, dall'altra. In bre­ ve, la lettura della « preghiera dell'Ora» riunisce tutti gli aspetti importanti della vita ecclesiale. Nemmeno dimenti­ ca che il « mondo » - cattivo per definizione - non può che odiare tutti coloro che credono nel nome di Gesù (v. 1 4). Ma Gesù non chiede al Padre di ritirarli dal « mondo »: chiede soltanto di custodirli dal Maligno (v. 1 5). Prospetti­ va di persecuzione aperta davanti alla Chiesa « pellegrina» ! M a i suoi membri - dice Gesù - saranno « Uno i n noi, come tu, Padre, sei in me e io in te » (v. 2 1 ); questo è quello che egli domanda per essi. Si tocca così un'indicazione del secondo discorso di addio: «Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi » ( 1 5, 1 8). Non dico che que­ sta prospettiva sia stata assente dal pensiero di Gesù fin da quando egli stesso si trovò esposto all'odio dei suoi av­ versari (cf. M t 24, 9 e 1 0, 22); ma le sue parole a questo riguardo emersero in tutto il loro significato nel momento in cui l 'esperienza della Chiesa perseguitata le rendeva at­ tuali. La redazione della « preghiera dell'Ora » fu fatta in funzione di questa attualità. b) La pe rsona storica di Gesù Bisogna dedurne che il redattore-autore pensi talmente al Cristo in gloria da non preoccuparsi più della personalità di Gesù nella sua storia concreta ? Per sostenerlo bisogne­ rebbe dimenticare i richiami della sua opera nel mondo, ritracciata in grandi linee. Ho enumerato sopra questi tratti generali, che sarebbero incomprensibili senza la conoscen­ za delle sue azioni e delle sue parole durante la sua vita quaggiù. Collocando la preghiera alla soglia della Passione, l'evan­ gelista propone un 'in te rpre tazione globale di questa Pas­ sione per mostrare in essa l'«ora» di Gesù, che è nello stesso tempo il .momento della sua morte e quello della sua glori282

ficazione. La sua stessa morte non viene subita passiva­ mente : è il suo atto supremo. È per questo che Giovanni vuoi far penet rare i suoi lettori credenti fin nel suo pen­ siero profondo nel momento in cui compie quest' azione. Il suo punto di vista è completamente diverso da quello dei Sinottici . Luca, come ultima espressione del pensiero di Gesù, conservava soltanto una preghiera di abbandono di sé nelle mani del Padre (Le 23,46). Marco e Matteo insi­ stevano sull'esperienza dell'abbandono del Padre, metten­ do sulle labbra di Gesù morente il versetto iniziale del Sal­ mo 22. Giovanni rovescia la situazione mostrando Gesù che accede alla gloria del Padre e intercede allora per i suoi. Questo fatto è in perfetta coerenza con il suo racconto del­ la passione, i cui Gesù domina gli eventi e porta a compi­ mento la sua opera (Gv 1 9, 30) con la sua morte. Questo solleva evidentemente il difficile problema del te­ sto del la p reghiera di Gesù quale da lui pronunciato nel momento in cui lo si tua la sua presentazione letteraria. Ma se si volesse insistere su questo aspetto della sua « sto­ ricità >>, bisognerebbe necessariamente rivedere le allusio­ ni all'attualità ecclesiale che il testo racchiude. O allora bisognerebbe speculare sul fatto che Gesù, facendo delle anticipazioni prima della sua passione sulla sua glorifica­ zione futura, avrebbe espresso in anticipo i temi della pre­ ghiera di intercessione che avrebbe fatto dopo questa glo­ rificazione : è un'ipotesi avventata, immaginaria ! Ho detto sopra che la dimensione « istoriale » di questa preghiera, legata oggettivamente alla realizzazione piena del disegno di Dio, non termina con la morte di Gesù: prosegue con la sua glorificazione e il suo ruolo di mediatore, che opera quaggiù tutto ciò che avviene positivamente nella sua Chie­ sa. Bisogna far rifluire questa dimensione « istoriale » fin nella « storicità» terrestre di Gesù, arrivato alla soglia del­ la sua Passione? Ciò significherebbe, credo, uscire dall'in­ tenzione dell'evangelista: più che riprodurre il testo esatto dell 'ultima preghiera di Gesù - o piuttosto del la sua pri­ ma preghiera in quanto «Va al Padre >> e non è più nel «mon­ do » - egli ce rca di introdurre nel punto più segreto e più misterioso del suo cuore, nel momento in cui egli « Viene verso il Padre». È questo movimento interiore della sua preghiera che vie­ ne «eternizzato», per diventare la sua permanente inter­ cessione in favore dei suoi. E per « i suoi », che il Padre 283

gli ha dato ( 1 7, 24), bi sogna intendere non soltanto i disce­ poli immediati, ma tutti coloro che nel corso del tempo crederanno in lui sulla fede nella loro parola. Questa è la vera «obiettività» del testo. Essa oltrepassa i limiti di una registrazione letterale della preghiera di Gesù quaggiù: non bisogna dimenticare che formulando la preghiera di Gv 1 7, Gesù « non è più in questo mondo » ( 1 7 , 1 1 a). Non si guada­ gnerebbe nulla sforzandosi di avere questa registrazione letterale. È sintomatico che il P. Lagrange, nel suo com­ mentario, abbia eluso queste ultime parole (commentario, p. 445), limitandosi a citare un'espressione molto bella di Sant'Agos tino: « Egli raccomanda qui ndi al Padre coloro che, con la sua assenza corporale, sta per lasciare » (« quo corpori absentia relicturus esh>). Gesù parla dunque come se già fosse in questa situazione futura; ma il testo dice letteralmente che egli vi è ! La lettura obiettiva deve pren­ dere in considerazione il testo così com'è, accettando che l'evangelista sia penetrato intuitivamente fino a questo « centro » del pensiero di Gesù , per introdurvi a loro volta i suoi lettori. Questa è la vera obiettività del suo testo, letto letteralmente. Sarebbe imprudente negare a priori che dietro di esso ci siano certe asserzioni o formulazioni provenienti da Gesù e poi riprese in stile giovanneo al fine di costruire un testo che non fosse una pura invenzione. Gesù ha pregato pe r i suoi. Luca ha anch'egli conservato un logion relativo alla prova che costituirà la sua Passione per i suoi : Gesù ha pregato per Pietro perché la sua fede non venga meno (22, 32). Qui l'intercessione è simile, ma l'orizzonte si è al­ largato alle dimensioni di tutta la storia futura. Sul piano cri tic o non si può dire di più. c) Lo sfondo delle Scritture Non bisogna aspettarsi di trovare i tratti essenziali di que­ sta preghiera abbozzati nelle Scritture più antiche. Infatti essa è in rapporto con l'assoluta novità di Gesù, Figlio di Dio « invi ato nel mondo » ( 1 7, 1 8a) e di ritorno verso il Pa­ dre ( 1 7 , 1 3a). Ma la preoccupazione del compimento delle Scritture viene attestata da un diretta allusione a proposi­ to del passo che ha di mira la perdizione di Giuda ( 1 7, 1 2 a). Stando al passo parallelo di Gv 1 3, 1 8 , essa rinvia al Salmo 4 1 , 5. Si tratta solo di un dettaglio che non concerne i temi 284

principali della preghiera. Per questi bisognerebbe innan­ zitutto fare uno studio tematico di tutto il vocabolario fon­ damentale adoperato strada facendo: gloria/glorificare; ope­ ra; « prima che il mondo fosse » (in Gen 2, l , il greco ko­ smos traduce l'ebraico �a ba', ma altrove corrisponde a 'olarnPalam); uscire dal Padre (con exerkhesthai, come la Sapienza personificata « è uscita dalla bocca dell'Altissimo», Sir 24, 3); inviare; dare e ricevere la parola; santo/santi­ tà/santificare; verità; credere; ecc. In fondo, tutto il lin­ guaggio adoperato è biblico; ma la combinazione dei ter­ mini è originale perché viene adattata al caso particolare di Gesù e al momento sopra-temporale in cui viene situata questa preghiera. Il fatto dell' intercessione di Gesù per i suoi ha spinto i commentatori a designare Gv 1 7 come « preghiera sacerdo­ tale » (D. Chytraus, nel XVI secolo). Gesù si comporterebbe come il sommo sacerdote nel momento in cui sta per com­ piere il suo sacrificio. L'appellativo non è falso, quanto al suo significato generale, ma non bisogna spingere troppo oltre il parallelismo pensando, ad esempio, che l'evangeli­ sta avesse in mente il rito dell'espiazione (Lv 1 6): Gesù, nel momento di entrare in cielo, sarebbe nel la situazione analoga a quella del sommo sacerdote giudeo che si prepa­ rava a entrare nel santuario. Questo significa proiettare indebitamente nel testo la tipologia adoperata dall'episto­ la agli Ebrei (Eb 9, 1 - 1 4). A. Feuillet ha insistito in modo particolare su questo parallelismo nel suo libro Le sace r­ doce du Ch rist e de ses ministres (Paris 1 972), sfruttando in questo senso i vv. 1 7- 1 9. Gesù vi direbbe : « Consacrali nella verità . . . Per essi io mi consacro (sottint . : come vitti­ ma) affinché essi siano consacrati (sottint . : come sacerdo­ ti) nella verità ». Credo che questa interpretazione forzi il significato del testo, anche se è vero che i temi « sacrali­ tà/santitàlconsacrazione » rientrano effettivamente nel lin­ guaggio sacerdotale. Non cercherei perciò il rituale dell'e­ spiazione come sfondo di questa preghiera che ha per ef­ fetto la « santificazione » o la « consacrazione » dei discepo­ li 9 • In realtà il radicamento sacerdotale del vocabolario della « santità » si ritrova anche per tutta la comunità ec9 Si veda tuttavia il commentario di R. E. Brown, vol. II, p. 767: Gesù viene visto qui come « Un sacerdote che offre se stesso come vittima per coloro che Dio gli ha dato» .

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clesiale in l Pt 2, 9, mediante la citazione implicita di Es 1 9, S-6. In breve, è difficile citare dei testi particolari che sarebbe­ ro « portati a compimento ». Ma si ha qui la confluenza di un gran numero di temi attestati in testi precisi, che tro­ vano insieme il loro « compimento » e la loro « pienezza » nella morte, glorificazione e intercessione eterna di Gesù: nell' «ora di Gesù » tutto «è compiuto >> (te telestai, Gv 1 9, 30). 4. Dall ' cdstorlale»» allo ccstoriCO»»

Non è necessario che mi soffermi a lungo su questo punto: è stato trattato a proposito delle « dimensioni » evangeliche del testo 10. È un caso in cui lo « storico » si lascia solo in­ travedere senza che lo si possa realmente circoscrivere co­ me esperienza empirica dei testimoni di Gesù. Si può sol­ tanto dire che la preghiera riferita da Giovanni fu e resta una parte integrante dell 'esperie n z a pe rsona le di Gesù, in quanto mediatore della salvezza. È il punto di vista speci­ fico del Vangelo come tale. L'errore di Loisy, denunciato dal decreto Lamentabili, consisteva nell'attribuire la tota­ lità dei discorsi di Gesù nel IV vangelo all 'immaginazione e alla sensibilità religiosa dell 'evangelista, che non sareb­ be affatto preoccupato del loro radicamento storico e del loro realismo obiettivo. Ma era un tempo in cui, per i criti­ ci liberal i come per le autorità dommatiche, il concetto di storia era equivoco: la ve rità di un testo narrativo (qui, di un'evocazione di Gesù che prega per i suoi e per tutta la Chiesa) veniva confusa con l 'esattezza materiale dei det­ tagli verificabili che vi erano integrati (qui: delle parole riferite che avrebbero dovuto essere registrate tali e quali nella memoria dell'evangelista). Le dovute distinzioni non venivano fatte né dagli storici, che vivevano sotto il regno del positivismo pratico, né dagli esegeti e dai teologi . Ma è proprio da questa « impasse » che bisogna uscire. Io ho tentato di farlo altrove, con delle riflessioni sulla comples­ sità del concetto di storia 1 1 • l O Sulla distinzione tra « istoriale » e « Storico » si veda il volume pre­ cedente, Vangeli e storia, Excursus n. 4, pp. 104- 1 05 . l t Si vedano le analisi presentate in Vangeli e storia, pp. 9 1 - 1 04.

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5. Per una lettura «evangelica» di Gv 1 7

La difficoltà i n questo caso sta nel fare una « composizione

di luogo » che presenti, non Gesù nel cenacolo che prega per i suoi (ubicazione letteraria di Gv 1 7) o che p rega all'a­ ria aperta andando verso il Gethsemani (Lagrange), ma nel momento in cui egli «Viene dal Padre » pe r « essere glorifi­ cato ». Questo momento ha due aspetti: l'uno, che riguarda la storia empirica, è evocato con dettagli diversi nei rac­ conti evangelici; l'altro, che Dio soltanto conosce e che du­ ra in eterno, non può essere rappresentato in immagini sensibili. È su questo che io sono invitato a fissare il mio sguardo interiore per ascoltare Gesù pregare il Padre e intercedere per noi : si tratta della sua intercessione. In questa prospettiva mi fermo per riflette re su ciascun « movimento » della sua preghiera. Benché io sia tra coloro che hanno creduto in lui sulla parola dei suoi discepoli immediati (3 a parte), mi trovo anche, insieme agli altri membri della Chie sa, dietro il gruppo dei discepoli che co­ stituivano allora il nucleo iniziale di questa Chiesa (2 a par­ te). Pertanto ciascuna delle parole che evocano l'opera di Gesù, quella di una volta e quella di sempre, mi riguarda: la preservazione del Nome del Padre , la santificazione (o consacrazione), la preservazione dal Maligno che non può mancare di aggredirmi in « questo mondo» di cui è il prin­ cipe, la vita nella comunione di Gesù per essere in comu­ nione con il Padre, l'unità con gl i altri membri della Chie­ sa che credono in lui, l'amore, ecc. Trovo lì un numero considerevole di temi di riflessione meditativa. È inutile svilupparl i qui. Ma è necessario insistere su un punto: non ho bi sogno di trasporli nell'attualità delle parabole pro­ nunciate un tempo da Gesù durante la sua esistenza terre­ na, infatti l'evangelista mi permette di ascoltare ciò che egli dice a ttualmente pregando il Padre per i suoi. La col­ locazione della preghiera nell'attualità cristiana, staccata dalla storia passa ta, unisce strettamente la mia meditazio­ ne alle ope razioni critiche che ho fatto all' inizio: esse mi ci hanno introdotto normalmente, conferendo il più gran­ de realismo obiettivo alla preghiera che Gesù fa attualmente per noi . Questa meditazione porta il mio sguardo contemplativo ver­ so di lui, rivolto «Verso il seno del Padre » (Gv l , 1 8) nella sua glorificazione finale. Ma qui le mie att ività sensibili 287

vengono meno e posso solo conservare un'attenzione tutta interiore verso questa realtà che la mia diretta percezione è incapace di afferrare. Posso soltanto risvegl iare la mia attenzione per ogni « movimento» o « motivo » di interces­ sione di Gesù, poiché vi sono personalmente implicato. Il colloquio con lui segue lo sviluppo di questa preghiera: è la mia risposta a ciò che il Cristo in gloria domanda al Padre per me - per noi - e promette a coloro che credo­ no in lui. L'espressione del la speranza e dell' amore rispon­ de alla promessa e all'amore premuroso.

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concl u sione

capitolo sesto

Per leggere l e parole di Gesù Cristo

Unisco qui di proposito il titolo di Cristo al nome di Gesù, dandogli la pienezza che esso comporta nel titolo del vangelo secondo Marco: «Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio ». Nei capitoli precedenti ho selezionato un certo numero di parole che si presentano sotto forme diverse: sentenze iso­ late - ma l'ultima era inserita in un discorso; sentenze « inquadrate » in un racconto che ha lo scopo di metterle in evidenza; parabole che si sviluppano in « paroimiai )) nel­ le allegorie giovannee; infine preghiere, una delle quali ci fa penetrare fin nell'intercessione attuale del Cri sto glo­ rioso. Il modo in cui ho affrontato ciascun pezzo isolato aveva l'unico scopo di sperimentare un certo metodo di lettura: lettura pienamente « evangelica », nel senso che non si limitava né a ricercare le parole originali pronunciate da Gesù (le sue « ipsissima verba »), né ad analizzare la por­ tata teologica delle parole presentate dagli evangelisti ve­ dendo in esse esclusivamente la fede (o il sentimento reli­ gioso) della « Comunità primitiva », ma che teneva stretta­ mente uniti questi due punti di vista esaminando il loro rapporto. Mi restano da trattare due punti: l ) Come si è pervenuti, negli scritti evangelici, a organizzare un certo numero di « detti » di Gesù in « discorsi» continui; 2) Quale conclusione generale bisogna trarre circa il metodo così adoperato. Questi due punti, toccati occasionalmente nel corso dello studio dei vari testi, potranno essere presenta­ ti in modo rapido.

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l. DAl DETTI Al

DISCORSI

Non c'è dubbio che Gesù abbia fatto talvolta dei lunghi discorsi, ma essi non sono stati necessariamente conserva­ ti. Per esempio, ci piacerebbe avere il dettaglio, o almeno il sommario, dell'omelia pronunciata nella sinagoga di Na­ zareth a proposito del testo di Is 6 1 , l -2; Luca ne ha fatto il punto di partenza del suo ministero pubblico (Le 4, 1 6-22), ma ne presenta soltanto una rapida evocazione della sua conclusione (4, 2 l b). Ugualmente, si desidererebbe conoscere lo sviluppo della sua prima predicazione nelle borgate del­ la Galilea; ma Marco si limita a riassumerla in una frase­ chiave (Mc l , 1 5). Non c'è dubbio che lo sviluppo di questi temi doveva richiedere del tempo, provocare forse dei dia­ loghi, comportare dei riferimenti alla Scrittura, ecc. Ma dobbiamo accontentarci di una fissazione succinta la cui forma letteraria, per quanto fedele essa sia, è dovuta a coloro che collazionarono la tradizione evangelica. È successo che delle raccolte di detti abbiano accumulato senza ordine, ma non senza un lavoro di « formazione » lette­ raria, del materiale perfettamente autentico. Per averne un'i­ dea non è necessario rifarsi allo pseudo-«vangelo di Tomma­ SO » - anche se questa raccolta apocrifa, formatasi negli am­ bienti gnostici a partire dal II secolo, in alcuni casi può far­ si eco di pericopi presinottiche. È sufficiente esamina­ re la « fonte complementare » che Luca ha utilizzato collo­ candola nel quadro della salita di Gesù verso Gerusalem­ me (Le 9, 5 1 - 1 8, 14 ) : l'ordine dei testi non è né logico, né storico, nel senso moderno del termine. Si tratta di un pro­ memoria per predicatori che Matteo sembra aver conosciu­ to, ma di cui ha disseminato i pezzi nella sua sintesi me­ glio composta. Dato che non disponiamo più della raccolta dei logia del Signore che Matteo costituì per primo « in lingua ebraica» - cioè « non-greca», includendo l'aramai­ co - non possiamo speculare su un testo che non c'è, an­ che se si presume che una certa trafila debba col legare ad essa il vangelo greco che porta il nome di Matteo. Il problema reale che si pone riguarda i discorsi che si presentano come tali, da una parte nei vangeli sinottici, e dall'altra, nel vangelo di Giovanni. Sono stati essi pro­ nunciati tali e quali ?

292

1 l discorsi nei Sinottici .

a) Sgua rdo generale Che cosa bisogna intendere per « discorso » ? La risposta a questa domanda non è scontata. Per esempio, Le 1 7, 22-37 è un « discorso sul giorno del Figlio dell'Uomo » ? No; infat­ ti, da una parte, l'accostamento di detti di Gesù non ha né introduzione narrativa né «contesto vitale» ( 1 7, 22a è con­ venzionale); dall'altra, i paralleli dispersi di Matteo mostra­ no che Luca (o la sua fonte) ha semplicemente collazionato una serie di logia che ruotano intorno allo stesso tema. Invece, Mc 6, 8- 1 1 contiene il sommario di un discorso: quello dell' invio dei Dodici in missione nei villaggi della Galilea, collocato in un contesto preciso, ma ridotto a dei brandelli di frasi che sfidano ogni correzione grammatica­ le. I paralleli di M t (M t 1 0) e di Luca (9, 2-5 e 1 0, 2- 1 6) mo­ strano che la tradizione unanime ha conservato il ricordo di questo discorso - piaccia o no a R. Bultmann che attri­ buisce a Marco l'iniziativa di questa « messa in scena » arti­ ficiale 1• In realtà Marco nota più di una volta che Gesù insegna nella sinagoga di sabato (Mc l , 2 1 . 39; 6, 2) o, negli altri giorni, sia in una casa (cf. 2, 2; 3, 32), sia fuori, sia in luoghi non precisati (6, 6b. 34b). Di questi discorsi pub­ blici Marco ne conserva solo tre: il discorso in parabole, che sembra inaugurare un metodo nuovo (4, 1 -34), il discorso dell'invio in missione, appena abbozzato (6, 8- 1 1 ), e il di­ scorso escatologico (cap. 1 3). Luca sdoppia il di scorso del­ l'invio in missione, che gli arriva probabilmente tramite due fonti distinte (9, 3-5 e 1 O, 2- 1 8); conosce il discorso in parabole, in lui più breve (8, 4- 1 8), e il discorso escatolgico (2 1 , 5-36); ma aggiunge un discorso in un « luogo pianeg­ giante » che ha una relativa lunghezza (6, 1 7-49) e del le pic­ cole raccolte di istruzioni varie (1 2, 22-5 1 ; 1 3, 22-30; 1 4, 25-34; 1 5 , 1 -3 1 ; 1 6, 1 -3 1 ; ecc.). Matteo è il più logico nella sua organizzazione del mate­ riale tradizionale; il suo vangelo infatti è articolato su cin­ que. discorsi che si riconoscono dalla loro formula conclu­ siva (Mt 5-7, cf. 7, 28a;· 10, 5-42, cf. 1 1 , l a; 1 3, 1-52, cf. 1 3, 53a; 1 8, 1 -35, cf. 1 9, l a; 24 , 1 - 25, 46, cf. 26, l a). Vi si trovano an­ che dei detti, ma essi sono legati a degli episodi narrativi 1

synoptique, pp . 1 85s, cf. SS l s . R. Bultm ann, L 'histo rie de la tradition 293

(sentenze inquadrate, discussioni, istruzioni ai discepoli, parabole, ecc.). Non si tratta di esaminare qui in dettaglio questi discorsi. Si pone nondimento una domanda fonda­ mentale: b isogna ritenere che Gesù li abbia pronunciati così come li abbiamo noi nel conte sto in cui li hanno collo­ cat i gli evangelisti ? Questo problema è stato pe r un verso già toccato due volte: a proposito di un detto incorporato da Matteo nella sua recensione del discorso d'invio in mis­ sione 2, e a proposito del detto sulla venuta del Figlio del­ l'Uomo tratto dal discorso escatologico 3• Nei due e sempi è apparso chiaramente che i discorsi in questione erano degli accostamenti artificiali di detti di Gesù, organizzati in discorsi continui con uno scopo prati­ co d' insegnamento. Il loro punto di cristallizzazione con­ servava un « contesto vitale » nel ministero storico di Gesù, ma del materiale di provenienza diversa veniva ad agglo­ merarsi intorno ad esso, in funzione di un altro « Contesto vi­ tale », determinato dai bisogni pratici della Chiesa per la quale l'evangelista aveva composto la sua sintes i evangeli­ ca. Ciò che si toccava innanzitutto nella sua opera era que­ sta ripresa « istoriale )> dell'insegnamento di Gesù che sot­ tolineava la sua permanenza e la sua attualità. Gli insiemi letterari provenivano dall'evangelista, che a sua volta si appoggiava su delle fonti scritte o orali. A partire da ciò, una risalita verso il discorso letterale di Gesù nel suo con­ testo originale esigeva un minuzioso lavoro di analisi e non portava necessariamente alla determinazione certa del suo contesto, anche se il giudizio portato sull 'autenticità so­ stanziale delle parole si rivelava positivo. Gesù che inse­ gnava si poteva percepire soltanto attraverso il catechista Matteo. Lo si può verificare analizzando il modo in cui egli presenta il « discorso-programma )) di Gesù (Mt S-7). b) Un esempio: il «disco rso-programma» di Mt 5-7

Per studiare Il •discorso della montagna• Il discorso della montagna viene spiegato a lunr,o in tutti i com­ mentari a Matteo. Segna li amo : M.-J. Lagrange ( 1 927), pp. 74- 1 59 2

Cf. sopra, pp. 52-64. sopra, pp. 74- 1 1 6.

3 Cf. 294

(� il programma di una nuova perfezione che dovrà prendere il posto della giustizia legale », p. 74). - J. Schmid (5 1 965), pp.72- 1 6 1 (sul « programma teologico del discorso>>, pp. 1 54- 1 60). - J . Schnie­ wind (NTD 8 , 1 956), pp. 37- 1 06 (sotto-titolo: « Il Messia della Paro­ la»). - P. Bonnard e 1 970), pp. 54- 1 1 1 . - J. Radermakers ( 1 972), pp. 77- 1 1 0. - E. Schweizer (NTD 1 3 , 1 973), pp. 44- 1 35 . - F. W. Beare ( 1 98 1 ), p. 1 2 3-20 1 , - U. Luz (EKK., t. I, 1 985, pp. 1 8 3-420). Commentario sinottico: M.-E. Boismard, Synopse des quatre évan­ giles, t . II, 1 2 5 - 1 5 8 (distingue tre tappe redazionali, più una rac­ colt a primitiva già ampliata da Luca). Studi particolari: J. Dupont, Le Beatitudini, Roma 1 973, pp. 60-294 (analisi dell 'insieme del discorso, con indicazione del materiale proprio di Matteo e di Luca). - W. D. Davies, The Se tting of the Se rmon on the Mount, Cambridge 1 964; Pour comprendre le Se r­ mon su r la montagne, Paris 1 970 (collocazione dell 'opera nel con­ testo giudaico e nel Nuovo Testamento). R. Schnackenburg, L 'exi­ stence ch ré tienne selon le Nouveau Testament, Bruges-Paris 1 97 1 , pp. 1 05- 1 50. G . Strecker, « Les macarismes du Discours sur la mon­ tagne », in L 'é vangile selon Ma tthieu: Rédaction e t théologie, ed. M. Didier, Gembloux 1 972, pp. 1 8 5-208 . Bibliografia generale nel commentario di U. Luz, pp. 1 8 3- 1 8 5 .

Luca e Matteo hanno conservato parallelamente il ricordo di un discorso inaugurale dal tono molto solenne (M t 5-7 e Le 6, 1 7-49) 4 • In entrambi esso inizia con le Beatitudini e termina con la parabola delle due case, costruite una sulla sabbia e l'altra sulla roccia (Le 6, 47-49 = Mt 7, 24-27). Il discorso non ha però la stessa collocazione: in Luca se­ gue la scelta dei Dodici, effettuata sulla montagna (6, 1 2- 1 3); in Matteo la precede di molto (M t 1 0, 2-4). In Luca viene pronunciato alla discesa dalla montagna (6, 1 7a); in Matteo Gesù sale su di essa per pronunciarlo (M t 5, 1 ). Quanto agli ascoltatori, in Luca si tratta di un gruppo numeroso di discepoli (6, 1 7b.20a); in Matteo i discepoli sono accanto a Gesù, ma egli si rivolge alle folle (Mt 5, 1 ). Bisogna dun­ que rinunciare a ricostruire il contesto preciso del discor­ so: i due evangelisti ne hanno fornito delle presentazioni differenti che provengono sia dalla(e) loro fonte(i), sia dal­ la loro intenzione didattica. Il materiale costitutivo è molto più abbondante in Matteo 4 Per lo studio del « Discorso della montagna» si veda la b ibli og ra fia citata.

295

che in Luca, ma appare chiaro che né l'uno né l'altro ri­ produce testualmente e senza ritocchi la fonte (o le fonti) dove hanno attinto il loro materiale . Oppure bisogna sup­ porre che le fon ti contenessero già due recensioni abba­ stanza diverse delle parole di Gesù. È del tutto chiaro nel caso delle Beatitudini (8 in Matteo; 4 in Luca, seguite da 4 « guai »); l'annuncio originale di Gesù ci è noto solo attra­ verso lo sviluppo teologico dovuto a ciascun evangelista. Questo annuncio è un fatto storico; ma se ne possiede l'e­ co fedele solo nell'annuncio ecclesiale del Vangelo fissato da due autori diversi (cf. i due volumi di J. Dupont, Le Beatitudini, Roma 1 973- 1 976). Nel seguito del discorso, ci sono dei parallelismi sorpren­ denti tra Le 6, 27-35 e Mt 5, 39-46, ma l'ordine dei versetti non è lo stesso e ci sono delle differenze di formulazione; ciò è dovuto alle due forme diverse della « Fonte >> o al lavoro di rimaneggiamento letterario operato dagl i evangelisti ? Si può fare la stessa osservazione per Le 6, 37-38, confron­ tato con M t 7, 1-2; per Le 6, 44-45 confrontato con Mt 7, 1 6- 1 8; per Le 6, 46 confrontato con M t 7, 2 1 ; e anche pe r la finale di Le 6, 47-49, confrontato con Mt 7, 24-27. Quanto a Le 6, 39-42 occorre ricercame i paralleli in Mt 15, 1 5 e 1 0, 24-25: è stato Luca e Matteo, o le loro rispettive fonti, a operare questo spostamento ? Questo stesso spostamento apre una prospettiva sui loro artifici di composizione che sono en­ trati nella raccolta di tutte queste parole del Signore. Del resto, l'ordine logico delle parole non è del tutto evidente, e ci sono in Luca due chiare parentesi che interrompono la loro concatenazione (Le 6, 24a: « Ma a voi che ascoltate io dico »; e 6, 39a: « Disse loro anche una parabola »). Tali parole sono assenti dalla composizione armoniosa e ben studiata di Matteo: denotano forse un accostamento artifi­ ciale dovuto a Luca o alla sua fonte. Non 1ni interrogo sul­ la natura, l'autore, e la data di questa fonte; ne costato soltanto la presenza sullo sfondo del « discorso » presenta­ to da Luca. Per il testo di Matteo la cosa è ancora più evidente. La composizione dell'insieme (Mt 5-7) è molto studiata. Vi si individuano subito alcuni pezzi preesistenti che l'evangeli­ sta ha ritoccato. Si hanno così cinque applicazioni del prin­ cipio relativo alla « giustizia» evangelica: « Avete inteso che fu detto agli antichi . . . , ma io vi dico . . . » (5, 2 1 -26 .27-30.3337.38-42.43-47). Il tutto è delimitato da una int roduzione 2 96

(5, 20) e da una conclusione (5, 48). L'evangelista ha aggiun­ to una sesta applicazione che riprende una pericope situa­ ta più lontana (Mt 1 9, 1 -9, ripresa in 5, 3 1 -32). Ma l'insieme è una declamazione venuta tale e quale da Gesù in seguito a una memorizzazione automatica, oppure una composi­ zione catechetica che ha ripreso la sostanza del suo inse­ gnamento presentandolo sotto una forma facilmente me­ morizzabile ? Alcuni parallelismi occasionati pot rebbero ap­ poggiare la seconda ipotesi (5, 25-26 = Lc 1 2, 5 8-59; 5, 29-30 = M t 1 8 , 8-9). Ma non bisogna confondere questo sforzo reda­ zionale con una creazione pura e semplice: l'autorità con la quale Gesù va al di là della « lettera» della Legge dicen­ do « Ma io vi dico », è un'innovazione di cui il Giudeo­ cristianesimo non sarebbe stato capace senza una ferma istruzione proveniente dallo stesso Gesù. Si incontrano poi tre principi relativi alle opere di pietà che bisogna compie­ re in segreto: l'elemosina, la preghiera e il digiuno (6, 1 -4.5-6. 1 6- 1 8). La critica di una falsa pietà attribuita agli « ipocriti » porta il marchio incontestabile di Gesù. Ma l'e­ vangelista ha approfittato del passo relativo alla preghiera per introdurvi tre pezzi che riguardano lo stesso soggetto: la ripetizione stucchevole delle parole analoga alla preghie­ ra dei « pagani » (6, 7-8), il testo della « preghiera del Signo­ re » (6, 9- 1 3 = Le 1 1 , 2-4, rimaneggiato e completato), la ne­ cessità di perdonare agli altri per essere a propria volta perdonati (6, 14- 1 5; cf. Mc 1 1 , 25). Alcuni passi hanno poi un parallelismo nel discorso­ programma riportato da Luca (7 , 1 -5 = Le 6, 37.4 1 -42 ; 7, 1 2 = Lc 6, 3 1 ; 7, 1 6-20 = Lc 6, 43-45, per il significato gene­ rale; 7, 2 1 = Le 6, 46, per il senso; 7, 24-27 = Lc 6, 47-49). C'è anche un principio sconosciuto a Luca (M t 7, 6). Ma il resto si trova in Luca allo stato disperso nella sua fonte comple­ mentare: 6, 1 9-20 = Lc 1 2, 34-35; 6, 22-23 = Lc 1 1 , 34-35; 6, 24 = Lc 1 6, 1 3; 6, 25-34 = Lc 1 2, 22-3 1 ; 7, 7- 1 1 = Le 1 1 , 9- 1 3 (con una finale ritoccata da Luca); 7, 1 3- 1 4 = Lc 1 3 , 24 (presenta­ ta come una « sentenza inquadrata »). Questa accurata com­ posizione del testo, legata all'individuazione delle fonti let­ terarie, mostra chiaramente l'intenzione didattica de ll'e­ vangelista. Non si tratta per lui di ripetere materialmente ciò che Gesù aveva detto in quel determinato momento del suo ministero, ma di collazionare i detti che potessero am­ plificare fedelmente il suo programma primitivo di «Vita evangelica », per proporlo alla comunità nella quale l'evan297

geli sta prestava il suo « servizio della Parola>> . Ciò che Ge­ sù aveva detto un tempo a un altro uditorio e in altre cir­ costanze, il Signore continua a dirlo alla sua Chiesa nella prospettiva aperta dalla sua risurrezione. La sistemazione generale dei detti in forma di « discorsi >> e i ritocchi letterari verificabili con lo studio dei paralleli­ smi si compiono perciò all'interno di una fedeltà viva che suppone la piena assimilazione di tutto l'insegnamento di Gesù - dato in parole e azioni. Ma l'evangelista, molto più di Luca, non si sente affatto legato a una ripetizione meccanica che sarebbe il contrario della vera assimilazio­ ne. La lettura « evangelica» del testo deve tener conto di tutto ciò per accogliere in blocco le due recensioni del « di­ scorso inaugurale » nella loro portata ecclesiale. Si può por­ re il problema del loro contesto primitivo e della loro ver­ sione originale, nella misura in cui è ancora possibile indi­ viduarli dietro la loro attuale presentazione. 2. l

discorsi nel IV vangelo

a) Generalità Nel presentare il ministero di Gesù i Sinottici hanno pro­ ceduto in maniera abbastanza simile per costruire i discorsi che ne scandiscono le tappe principali: Luca resta più vici­ no alle fonti che riproduce e Matteo organizza più siste­ maticamente il suo materiale. Nel IV vangelo i l modo di procedere è molto diverso. Si hanno dei discorsi di rivela­ zione in quantità abbastanza notevole. Gesù non si espri­ me più come nei Sinottici: parla nello stile di Giovanni, come si vede nella finale del suo colloquio con Nicodemo, dove si passa inavvertitamente dal suo discorso alle rifles­ sioni dell'evangelista (Gv 3, 1 1 - 1 5, seguito da 3, 1 6-2 1 ). Lo stesso fenomeno si può del resto osservare nell 'ultima te­ stimonianza del Battista (Gv 3, 27-30, seguita da 3, 3 1 -36 ). L'episodio della samaritana (Gv 4, 4- 1 2 non presenta un di­ scorso, ma una serie di dichiarazioni rivelatrici. Si trova poi un discorso sull 'opera del Figlio (5, 1 9-47), legato alla guarigione di un paralitico (5, 1 - 1 8); il discorso sul pane di vita, legato alla moltiplicazione dei pani e seguito da una crisi (Gv 6); le lunghe discussioni di Gerusalemme nel contesto della festa delle Capanne (Gv 7, 14-44; 8, 1 2-59); la 298

complessa allegoria della porta e del pastore, vagamente collegata con la guarigione del cieco nato 5 (Gv 1 0, 1-2 1 ; le discussioni in occasione della festa della Dedicazione (Gv 1 0, 22-39); il discorso ai Greci (Gv 1 2, 20-36), seguito da un frammento di discorso senza contesto ( 1 2, 44-50); il discor­ so di addio che segue l'ultima cena e di cui ho segnalato sopra la complessità interna 6 (Gv 1 3, 3 1 - 1 6, 33). Ltuniformità dello stile e del vocabolario è notevole; il ca­ rattere semitico del pensiero, e talvolta dell'espressione, affiora dappertutto. Ma dato che lo stile e il vocabolario preferito non sono più quelli delle parole raccolte nei Si­ nottici, il carattere semitico in questione è attribuibile al­ l'evangeli sta o ai redattori, ancorati alla stessa tradizione, che hanno partecipato alla fissazione letteraria del testo. Su questo punto bisogna per lo meno parlare di una « scuola giovannea » alla quale si devono pure le tre lettere di Gio­ vanni . Per quanto riguarda il solo scritto evangelico, la­ scio da parte le questioni critiche molto discusse: quella del discepolo anonimo al quale l'attuale finale del vangelo attribuisce questa tradizione (Gv 2 1 , 24); quel la delle tappe redazionali per le quali è passata fino a ricevere la sua forma definitiva; quella delle date che si possono ragione­ volmente attribuire a queste tappe. Ho segnalato altrove 7 l'esistenza di due date tra i quali esiste una certa tensione. Da una parte la· tradizione giovannea conserva il ricordo esatto dei luoghi, delle istituzioni e delle persone così co­ m'erano p rima della guerra giudaica del 66-70: è un indi­ zio della sua antichità. Ma, d'altra parte, il carattere mol­ to elaborato della riflessione teologica spinge i critici più moderati e i meno sospetti di seguire « l 'ultima moda » a collocare negli anni 80 e 90 l'edizione finale dell'opera (co­ sì A. Feuillet, nel 1 959 8). Per tale ragione i commentatori

5 Si

veda Vangeli e storia, pp. 238-245 . Per lo studio del discorso, cf. sopra, pp. 274-275. 7 Cf. Vangeli e storia, pp. 244s. 8 In troduction à la Bible, sotto la di rezione di A. Robert e A. Feuil let, t. II, Tournai-Paris 1 959, p. 662 . Benché le opinioni dei Padri non im­ pongano su que sto punto una soluzione necessaria per l 'ortodossia, bisogna segnalare che, fin dal IV secolo, una certa tensione fu sentita tra l 'attribuzione del libro a Giovanni, figlio di Zebedeo, e la data tardiva che una tradizione ben salda attribuiva ad esso. Così gli auto­ ri col locavano la sua composizione nel l 'estrema vecchiaia di Giovan­ ni, che sarebbe vissuto fino al regno di Traiano (così Sant'Efrem, San­ t' Epifania, ecc.). 6

299

seri pensano ad una redazione distribuita nel tempo, in due, tre o quattro tappe: così A. Feuillet nell' In troduction à la Bi hle t. II; E. Cothenet nell' In trodu z ione al Nuovo Te­ stamento, vol. IV; Brown e Schnackenburg nei loro com­ mentari al vangelo, per citare soltanto degli autori cattolici. Su quest'ultimo punto, come su quello della data dell'edi­ zione finale, non sono affatto convinto dalle argomentazio­ ni che J. A. T. Robinson ha recentemente esposto per difen­ dere non soltanto l'originalità del IV vangelo, che non di­ pende dagli altri tre, e il suo collegamento con la tradizio­ ne propria di Giovanni, in fondo molto antica, ma anche la sua maggiore antichità rispetto a quella degli altri, per­ ché più vicino alla vita di Gesù ( The Priority of John, Lon­ don 1 985, specialmente p. 34 per la data dell'edizione del testo). Stando così le cose, i discorsi pronunciati da Gesù non sono da leggere come delle stenografie in cui le sue affer­ mazioni sarebbero state registrate parola per parola. Ma non si deve escludere che essi contengano delle espressio­ ni il cui testo risalga a lui. Il loro significato ecclesiale è direttamente percepibile: esso completa lo svelamento, in una linea determinata che domina tutta la teologia gio­ vannea, il significato dell'esistenza e dell'essere intimo di Ge sù, Mes sia e Figlio di Dio, al quale deve collegarsi la fede (Gv 20, 3 1 ). Ma questo significato ecclesiale, legato a un lavoro redazionale nel quale è stata incorporata la ri­ fles sione teologica dell'autore, non avrebbe alcuna solida consistenza se il suo punto di partenza non fosse stato co­ stituito dall'intreccio delle azioni e delle parole reali di Gesù durante la sua drammatica esistenza. Questi sono i due principi che bisogna sempre tener presente, che valgono sia per le parole di Gesù che per i racconti delle sue azioni. b) Il discorso sul «Pane di vita » Per studiare Il ccDiscorso sul Pane d i vita� 1 . Per lo studio teologico e spirituale del discorso, si leggono sem­ pre con profitto i commentari di Sant'Agostino ( Tractatus in Io­ hannem, 25, 7-27, tr. fr. «Oeuvres de S. Augustin >>, 72, B ruges-Paris 1 9-77, pp. 442-565) e di San Tommaso (Super evange lium S. loan­ nis lectura, ed. R. Cai, Torino 5 1 952, pp. 1 67- 1 90). Repertorio pa300

tristico nella Catena aurea di San Tommaso, Ed. Guarinenti, To­ rino 1 953, pp. 4 1 8-430. Utilizzazione dei Padri nel commentario di J. Maldonato, t. II, Magonza 1 854, pp. 587 -638 .

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2. Commentari moderni: J.-M. Lagrange 1 927 , p . 1 58- 1 97 (l 'au­ tore ammette, sulla scia di Moos. Ruch, che Giovanni ha raggrup­ pato qui degli insegnamenti pronunciati in d iverse circostanze, specialmente per la finale eucaristica dei vv. 5 1 -58; cf. p. 1 95. La comprensione dei lettori cristiani orienta la redazione del testo). - R. Bultmann ( 1 953 , pp. 1 54- 1 77, 2 1 4-2 1 5 (sconvolgimento del te­ sto, antisac ramentalismo del commentario). - E. Hoshyns-F. Da­ vey 1 947 , pp. 278-307 . - R. E. Brown 1 966 , vol. I, pp. 256-304 (bibliografia, pp. 303s). - H. van den Bussche, Jean ( 1 967 , pp. 247-28 1 . - R. Schnackenburg, vol. II ( 1 97 1 , pp. 42-1 1 4 (spostamen­ to del capitolo, discussione critica del passo eucaristico). - C. H. Dodd, L 'inte rprétation du I ve évangile, Paris 1 975, pp. 423-438, - M. E. Boismard - A. Lamouille, L 'évangi le de Jean, Paris 1 977, I?P · 1 89-209 (teoria critica di tre stadi redazionali). - C. K. Barret 1 978 , pp. 2 8 1 -3os.

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3 . Studi sul discorso: A. Feuillet, « Les thémes bibliques majeurs du discours sur le Paio de vie », NR T 82 1 960 , pp. 803-822, 91 8-939, 1 040- 1 062 ( = Études johanniques, Bruges-Paris 1 962, pp. 47- 1 29 . La bibl iografia rinvia a degli studi più antichi; si può menziona­ re: O. Cul lmann, Les sacrements dans l 'évangile johannique, Paris 1 95 1 , pp. 62-69; J. Jeremias, « Jo. 6, 5 l c-58 redaktionell ? >>, ZNW 44 1 952-53 , pp. 256-257; G. Bornkamm, « Die eucharisti sche Rede im Johannesevangelium », ZNW 47 1 956 , pp. 1 6 1 - 1 69; X. Léon­ Dufour, « Le mystère du Paio de vie », RSR 46 1 95 8 , pp. 48 1 -523. - A. Ambrosiano, « La dottrina eucaristica in San Giovanni secon­ do le recenti discussioni tra i protestanti >>, in San Giovanni (XVII settimana biblica italiana), B rescia 1 964, pp. 1 87-205 . - H. Klos, « Die eucari stische Rede im Jo 6 )), in Die Sak ramen te im Johanne­ sevangelium , Stuttgart 1 970, pp. 59-69 (bibliografia nelle note). - Cf. J. Jeremias, Le parole dell 'ultima cena, B rescia 1 973, tr. fr. , p p . 1 22- 1 24 e 1 58 (Gv 6, 5 1 c-58 è cc una citazione eucaristica segui­ ta da un commento )) , p. 1 22; « un'omelia sulle parole della cena, comprensibile unicamente per gli iniziati )), p. 1 5 8 . - F.-M. Braun, « Il pane disceso dal cielo >>, Jean le théologien, lll/2, Paris 1 972, pp. 1 87- 1 99.

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Come esempio concreto, leggiamo il discorso legato alla moltiplicazione dei pani (6, 26-59). Esso viene presentato co­ me un'istruzione pronunciata nella sinagoga di Cafarnao (6, 59). Lasciamo da parte la crisi che lo segue e che porta 301

alla confessione di fede di Piet ro (6, 60-7 1 ). Dopo l'introdu­ zione narrativa del discorso, dove del resto non si parla della riunione nella sinagoga (6, 22-25), si ha una serie di dichiarazioni interrotte da domande o da riflessioni degli ascoltatori (6, 25 .28.30-3 1 . 34a.4 1 -42. 52). Come generalmen­ te accade in Giovanni, l'incomprensione o l'opposizione del­ l'uditorio ha una funzione letteraria molto precisa: quella di stimolare l'attenzione e di spingere Gesù ad andare ol­ tre nelle sue dichiarazioni. Che non si sia in presenza di una riproduzione letterale del dialogo è evidente anche dalla valutazione della sua lunghezza leggendolo ad alta voce. Ma una buona esposizione, che riassume correttamente quanto è stato detto, è preferibile alla registrazione mec­ canica di alcune frasi messe una accanto all'altra. Qui, il confronto tra Gesù e i suoi ascoltatori giudei viene ricostruito a fatti accaduti. Una delle caratteristiche del­ l'autore è quella di definire gli ascoltatori ostili a Gesù con l'appellativo i «Giudei » (6, 4 1 .52), come se Gesù, i suoi discepoli e l'evangelista non lo fossero. Sarebbe assurdo tradurre « gli abitanti della Giudea », poiché si è in Galilea, a Cafarnao, e l'uditorio è formato dalla folla galilea che aveva seguito Gesù al di là del lago di Tiberiade. Più sem­ plicemente « i Giudei » costitui scono, al tempo del narrato­ re, una categoria sociale e religiosa che ha rotto i legami con i discepoli di Gesù. Questo ci riporta negli anni 80- 1 00. Il discorso si compone di due parti distinte. Nella prima, Gesù è egli stesso il « Pane di Vita » (6, 35) o il « Pane vivo » (6, 5 1 ), dato agli uomini dal Padre e disceso dal cielo (6, 26-S l a). Esso dona la vita eterna e assicura la risurre­ zione nell' ultimo giorno (6, 40b). Ma il mangiare questo pa­ ne è un'azione simbolica: consiste nel venire a Gesù e cre­ dere in lui, in docile obbedienza all'insegnamento del Pa­ dre (6, 45-46) . L'immagine del pane, trasposta per designa­ re il nut rimento proveniente da Dio, viene suggerita da un'allusione biblica (la manna: 6, 3 1 s) e dalla recente espe­ rienza della moltiplicazione dei pani, non compresa dagli ascoltatori (cf. 6, 26). Ma il banchetto offe rto da Ge sù, «Pa­ ne di vita )> , ricorda punto per punto il banchetto �imbolico della Sapienza (Pr 9, 1-1 6 e soprattutto Sir 24, 1 9-22, il cui verso 20 viene ripreso in senso contrario, in Gv 6, 3Sb). La seconda parte del discorso si innesta sulla prima (6, 5 l ), ma la situazione in qualche modo si capovolge. Gesù non è più il « Pane vivo» dato agli uomini dal Padre; diventa 302

egli il donatore: « il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo » (6, 5 1 b). Benché il testo greco abbia qui una particella de molto caratteristica della lingua, la ri­ dondanza del pronome personale denota un buon aramai­ smo nella costruzione. Facciamo una semplice ritraduzio­ ne: wlal)ma di �na. 'en ten bisri hu ·az }:zayye 'alemiì. Questa seconda parte è evidentemente eucaristica: si trat­ ta di « mangiare la carne del Figlio dell'Uomo » e di « bere il suo sangue » per avere la vita (6, 53). La coppia dei termi­ ni «carne e sangue » è più caratteristica della l ingua semi­ tica della coppia « corpo e sangue », molto greca, adoperata nei quatt ro racconti dell'ultima cena. Dal punto di vista semantico non è impossibile che un aramaico bisriì sia sta­ to tradotto in greco con to soma, ma per evitare l'equivoco o la risonanza peggiorativa della parola he sarx. Giovanni però non deve evitarlo dal momento in cui il p rologo del suo vangelo ha posto come principio che « il Verbo si è fatto carne » (Gv l , 1 4). Non è il caso di insistere sul carat­ tere molto duro del verbo trogo (lett.: « masticare », 6, 54.57 .58), infatti esso viene anche adoperato da Giovanni in una citazione del Sal 4 1 , 1 0 che serve a designare Giuda: « Colui che mangia il pane con me ha levato contro di me il suo calcagno » ( 1 3 , 1 8b). Si resta soltanto nel linguaggio molto semitizzante per parlare del pasto eucaristico. A chi viene rivolta questa istruzione sacramentale, e chi sono i Giudei che protestano dicendo: « Come costui può darci la sua carne da mangiare ? » (6, 62) ? Non c'è dubbio che i contemporanei di Gesù abbiano reagito allo stesso modo, ma è poco verosimile che Gesù abbia dato loro un'i­ struzione incomprensibile, relativa esclusivamente a un evento futuro e imprevedibile, anche per i suoi apostoli: l'istituzione dell'eucari stia durante l'ultimo pasto consu­ mato con essi. Tanto è vero che dei critici seri (A. Feuillet, É tudes johanniques, p. 1 2 1 ) hanno cercato nella cena il « con­ testo vitale » dell'istruzione eucaristica costituita da Gv 6, 53b-58. In effetti, la conclusione del v. 59, che situa tutto il discorso nella sinagoga di Cafarnao, si comprenderebbe molto bene dopo l 'ultima frase della prima parte: « Io sono il pane vivo disceso dal cielo; chi mangerà di questo pane vivrà in eterno>> (v. 5 1 a). Stando così le cose, i vv . 5 1 b-52 sarebbero un puro aggancio letterario dovuto all' inserimen­ to del passo eucaristico in un testo già esistente. Il mor­ morio rilevato dall'evangelista da parte di molti discepoli 303

(6, 60-6 l a) sarebbe causato daJl 'ultima frase del discorso: « Io sono il pane vivo disceso dal cielo; se qualcuno mangia di questo pane vivrà in eterno » (v . S I a). A chi Gesù ribatte­ rebbe con logica: «Questo vi scandalizza ? e se vedeste il Figlio dell' Uomo salire là dov'era prima ? » (v. 62). La fede in Gesù, Pane vivo disceso dal cielo, costituiva il tema del­ la discussione precedente. Ora, il mormorio di alcuni di­ scepol i fa capire a Gesù che, tra di loro, ve ne sono alcuni che non credono (v. 64a) I vv. 53-58 possono perciò essere considerati come un'aggiunta secondaria in un testo che aveva come tema il problema di Gesù, Pane vivo disceso dal cielo. Ma lo spostamento dell'istruzione eucaristica (vv. 53b-58) nel contesto della cena lascia aperto il problema della sal­ datura redazionale in cui Giudei dicono: « Come può costui darci la sua carne da mangiare ? » (v. 52b). Non si tratta di una banale transizione messa in bocca agli ascoltatori di Gesù unicamente per fare da collegamento letterario. Secondo il suo solito, l'evangelista sovrappone e fonde l'o­ rizzonte del tempo di Gesù e quello del nostro tempo. Ciò che egli nota rimane l 'obiezione fondamen tale che i Giudei del suo tempo muovevano contro la pratica euca ristica del­ la Chiesa, considerando ridicola l'idea di « mangiare la car­ ne di Gesù ». Questa incomprensione grottesca della realtà sacramentale non ha del resto perso ogni attualità. Non molto tempo fa si poteva leggere sulla prima pagina di un grande quotidiano della sera un articolo («Cercando cosa divorare: antropofagia, sacrifici umani e immortalità», Le Monde, 2 1 -22 gennaio 1 98 1 ) che intravedeva nell'eucarestia le tracce di antropofagia primitiva: « mangiare la carne » e « bere il sangue » ! In realtà il testo dell 'evangelista trova la sua attuali tà nel tempo della Chiesa. La carne e il san­ gue sono quelli del Cristo risorto al quale i credenti sono « incorporati » : egli «dimora in [essi] ed [essi] in lui (6, 56). All'incomprensione dei discepoli l'evangelista oppone quindi un principio che è, per un verso, una risposta « ad hominem »: se essi avessero creduto nella risurrezione del Cristo, sarebbero entrati nella logica della fede, e il rito della « Ce­ na del Signore» ( l Cor 1 1 , 20) avrebbe avuto per essi un si­ gnificato. Questa osservazione invita innanzitutto a fare una lettura «ecclesiale » dell'istruzione sull'eucarestia (6, 53-58); es sa viene rivolta dal Cristo in gloria ai suoi fedeli per suscitare in essi una fede e una speranza che superi quella .

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degli Israeliti nel deserto. C ostoro mangiarono la manna, ma dopo morirono (v. 58b). Al contrario, coloro che parte­ cipano sacramentalmente alla carne e al sangue del Cristo risorto, cioè al suo essere glorificato, ricevono da lui una prome ssa di vita eterna, da ora e per sempre, e una pro­ messa di risurrezione nell 'ultimo giorno (6, 54). Le parole di Gesù, per poter essere comprese dagli ascol­ tatori, suppongono in essi u n 'esperienza p ratica dell 'euca­ restia 9• Ma esse sono pure un'indiretta apologia del rito contro «i Giudei » che lo criticano e lo deridono. Tenendo conto di tutto questo si fa un'eccellente lettura «evangeli­ ca » dell'istruzione sull'eucarestia. Il redattore finale del capitolo non ha inserito questi versetti per caso dopo il discorso su Gesù, «Pane di vita». Il suo «montaggio» lettera­ rio suppone che egli rileggesse questo discorso nella stessa prospettiva: il tema del « Pane » non spingeva forse nella di­ rezione dell'eucarestia (confrontare 1 Cor 1 0, l b) ? Senza per­ dere di vista il radicamento storico delle parole di Gesù in seguito al racconto della moltiplicazione di pani (cf. 6, 26), egli comprendeva la totalità del suo discorso come rivolto attualmente agli uomini - e innanzitutto ai Giudei che si lasciano « attirare » dal Padre (6, 44s). Colui che parla è il Cristo in gloria, al quale si viene credendo in lui. La dimensione ecclesiale del testo, costantemente attuale per i lettori di tutti tempi va percepita in primo luogo, perché ha un valore inglobante. Da un capo all 'altro, il Cri­ sto glorificato dà una piena risonanza alle parole che egli pronunciò un tempo, nel contesto storico in cui l'evangeli­ sta le ha collocate. Le domande (v. 28), le richieste (vv. 30-3 1 ), il mormorio (vv. 4 1 -42), le discussioni (v. 52) e il rifiuto (v. 60) dei Giudei contemporanei di Gesù, restano quelli dei Giudei increduli di tutti i tempi - e, dietro di essi, quel li di tutti gli uomini di cui i diretti ascoltatori di Gesù costituirono il paradigma vivente. Non c'è dubbio che l'evangelista racconti il passo pensando al presente. È importante tenerlo presente se si vuole accogliere il suo messaggio con tutta la profondità che egli vi ha racchiuso. Dopo ciò si può anche intraprendere una ricerca storica alla maniera dei moderni, che hanno la curiosità del pas­ sato come tale. Ma presto si valutano i limiti di ciò che è possibile fare. Infatti l'evangelista, senza perdere contat9 Per lo studio si veda la bibliografia delle pp. 300-30 l .

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to con la realtà di Gesù «Venuto nella carne », nella sua ricostruzione del discorso di Gesù ha applicato il princi­ pio che e spone alla fine : « È lo spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita » (6, 63). Questo p rincipio determina il punto di vista dal quale egli si è collocato nella sua evocazione del passato di Gesù. Non c'è dubbio che egli conservi il ricordo della richiesta di un segno, espressa dai contem­ poranei di Gesù dopo la moltiplicazione dei pani (Gv 6, 30-3 1 ), parallelamente ad un racconto simile dei Sinotti­ ci (Mc 8, 1 1 - 1 3 ; M t 1 6, 1 -4; cf. Le 1 1 , 29-32). Il discorso su Gesù, Pane di vita, è stato da lui ricostruito come una ri­ sposta a questa domanda. Ma è difficile ritrovare le espres­ s ioni originali di Gesù dietro una formulazione in cui ap­ paiono sempre in filigrana le parole del Cristo in g loria. Da un capo all'altro, l'interpretazione giovannea delle pa­ role primitive conferisce quindi al discorso tutta la sua densità, di modo che è immediatamente percepibile tutta la sua portata teologica. Il tema eucaristico dei vv. 53-58 dà una risonanza particolare a tutta la parte precedente (vv. 27. 32-33.53-40.44-5 1 ). La fede, per la quale si viene al Cristo, trova la sua più alta traduzione nella pratica euca­ ristica: è per queste due vie congiunte che il Cristo si rive­ la agli uomini come « Pane di vita ». Ma perché ciò apparis­ se chiaramente, è stato necessario che Gesù « desse [la sua] carne per la vita del mondo » (v. 5 1 b). La Passione e la ri­ surrezione di Gesù precedono logicamente la pratica euca­ ristica della Chiesa. Qualunque siano state le istruzioni da lui date ai suoi discepoli prima della sua morte, d'ora in poi è nella sua gloria che egli parla per invitare i credenti a mangiare la sua carne e bere il suo sangue. La storia empirica e le parole esatte da lui pronunciate sono assun­ te nel suo annuncio evangelico che si situa · al livello « isto­ riale » del disegno di Dio. Si può lasciare alla critica biblica, nei limiti dei suoi mez­ zi, il compito di ricercare le esatte parole pronunciate da Gesù nella sinagoga di Cafarnao dopo la moltiplicazione dei pani. Lo scopo perseguito dall'evangelista non era quello di soddisfare questa curiosità, per quanto legittima essa fos se: egli guardava più lontano e più in alto. Quanto alla « lettera» del discorso stesso, esso racchiude due parti che non hanno la stessa provenienza (6, 26-5 1 a e 6, 5 3-58). Non è escluso che la prima parte inglobi un certo numero di 306

logia originari, raccolti in un discorso continuo grazie alla loro coerenza tematica. Ma la costruzione d eli' insieme in fonna di dialogo è dovuta al lavoro dell'evangelista, che ha messo così in opera la sua intenzione didattica 1 0 • Nien­ te impedisce ad ogni fedele di farne una lettura semplice e diretta, lasciandosi trasportare dal movimento interno del testo: è il Cri sto glorioso che si rivolge così a lui diret­ tamente, e al quale egli risponde con la sua vita di fede e la sua pratica eucaristica. In questa prospettiva, la ricer­ ca critica che ho abbozzato appare come molto seconda­ ria. Come dice la seconda conclusione del IV vangelo par­ lando del «discepolo che Gesù amava » : « Questo è il disce­ polo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti e noi sappiamo che la sua testimonianza è ve ra » (Gv 2 1 , 24). La «Verità » della «testimonianza» non dev'essere confusa con la banale esattezza « Storica »: essa racchiude la com­ prensione totale del mistero di Gesù Cristo, oggetto del­ l'annuncio evangelico.

Il. RI FLESSIONE SUL METODO DI LETTURA

Le mie analisi hanno applicato un metodo di lettura allo scopo di mostrare la sua necessità e la sua fecondità. Esso viene usato abitualmente dagli esegeti del nostro tempo, anche da coloro la cui tendenza critica è ritenuta «conser­ vatrice » dai colleghi più « audaci ». Ma che cosa significa es­ sere «Conservatori » e che cosa essere « audaci » ? Questi at­ tributi comportano un elemento affettivo che, a rigore di termini, fa perdere loro ogni valore. Lo stesso succede quan­ do si sentono porre domande come queste: « Dove si vuole arrivare ? ,, - riflesso di paura! -; oppure: « Dove si può arriva re ? » - riflesso di avventurismo! Bisogna arrivare fin là dove i testi esigono, senza passare sotto silenzio nes­ suna delle loro coordinate, senza sopravvalutare nessuno I O Facciamo rilevare questa riflessione di A. Feuillet: c Saremmo in­ clini a pensare che la sostanza de l discorso risalga a Gesù, ma che il pensiero del Maestro ci sia stato trasmesso con le spiegazioni che l'evangelista stesso ha creduto dovervi aggiungere partendo dalla prassi del la Chiesa. Non dimentichiamo mai che questo vangelo, come gli altri, prima di es sere messo per isc ritto fu predicato » (É tudes johan­ niques, pp. 1 1 9s; testo del 1 960).

300

dei loro elementi obiettivi, senza nemmeno dimenticare il fatto che s i propongono delle ipotesi di lavoro e che que­ ste, elaborate all ' interno della lettura credente, non impe­ gnano la fede. A proposito di quest'ultimo punto è neces­ sario affermare alcuni principi fermi, perché la « lettura c ritica >> e la « lettura credente » si integrino armoniosamente l'una sull'altra invece che essere bene o male sovrapposte. Dalla redazione •lstorlale• al testo originale •storico•

1.

a) Un rovesciamento di metodi Il gusto del XIX secolo per la storia, concepita alla manie­ ra « positivista», comportava delle conseguenze, sia nella critica razionalista o liberale (seguita su questo punto da alcuni « modernisti » il cui numero restò sempre limitato), che nell'esegesi cattolica dominata da preoccupazioni apo­ logetiche 1 1 • I n b reve, per gli uni lo studio « storico» delle origini cri­ stiane aveva come obiettivo di mettere in evidenza, nei van­ geli, ciò che poteva essere ritenuto come espressione « au­ tentica » di Gesù, sfrondando tutti gli elementi testuali in cui la critica intuiva un'interpretazione secondaria, attri­ buibile a coloro che avevano trasformato Gesù in «oggetto di fede » . Ne risultava un considerevole restringimento del « Corpus » di espressioni attribuibili, con sufficiente proba­ bilità, a Gesù di Nazareth. Bisogna aggiungere che, secon­ do gli umori dei critici così orientati, il suo pensiero e la sua azione prendevano delle tonalità molto diverse, dal mo­ ralismo religioso di Hamack alla febbre escatologica di J. Weiss e di Loisy prima maniera. Dalla parte opposta, la difesa delle fede dommatica passa­ va ugualmente per la ricerca preliminare di Gesù quale egli fu storicamente, e per la ricerca sulle sue parole così come le ascoltarono coloro che le hanno riferite. Su que­ st'ultimo punto bisognava pertanto stabilire la loro auten­ ticità e la loro forma originaria, riprodotta dalla documen­ tazione evangelica. Le differenze tra i passi paralleli costi­ tuivano delle difficoltà. Se la cavavano come potevano, ri­ correndo almeno al principio della « non-contraddizione » 11

Si veda l'esposizione data in Vangeli e storia, pp. 3 1 -39.

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e postulando eventualmente la ripetizione di parole abba­ stanza vicine, trasmesse per canali diversi. Ogni idea di ritocchi redazionali e, a maggior ragione, di interpretazio­ ni apportate nella Chiesa primitiva alle parole ricevute da Gesù veniva esclusa a priori. Nel principio dell'esegesi cat­ tolica ancora non aveva trovato posto la distinzione tra la loro risonanza originaria e la loro rilettura alla luce del­ la Pasqua. Analizzando i testi del Magistero che riguardano questi pro­ blemi, ho mostrato come l'Istruzione della Pontificia Com­ missione Biblica (« Sancta Mate r Eccelsia », 1 964), reagendo contro i principi anti-storici della « Formgeschtliche Me­ thode », aveva avallato il ricorso alla storia redazionale dei testi evangelici e all'interpretazione post-pasquale delle pa­ role di Gesù 1 2• Fu soltanto alla luce della sua risurrezio­ ne e grazie all'as sistenza dello Spirito Santo che i suoi di­ retti ascoltatori, e poi i loro successori, presero chiara­ mente coscienza della p rofonda portata di queste parole e divennero, riferendole, i « testimoni » del Vangelo nella sua interezza. Questa è la prospettiva nella quale bisogna accogliere il testo degli scritti evangelici, senza meravigliar­ si della diversità che le parole di Gesù possono rivestirvi, ma al contrario sfruttandola per mostrare la loro fecondi­ tà e la loro ricchezza: virtualmente presente fin dall'inizio, _questa diversità di significato fu delucidata progressivamen­ te in diversi modi man mano che le parole venivano tra­ smesse - oralmente e per iscritto - fino alla loro presen­ tazione finale negli scritti evangelici. Questa presentazione, fissata per illuminare la fede della Chiesa, va necessariamente accolta in blocco nella sua espressione lette raria. Gli autori dei nostri vangeli, senza perdere di vista il radicamento storico di Gesù nel suo am­ biente primitivo, hanno avuto chiaramente coscienza che egli non era un semplice personaggio del passato di cui bisognava conservare il ricordo: nella sua gloria di « Cristo e Signore » (A t 2, 36), egli continua attualmente a rivolgere alla sua Chiesa il messaggio di salvezza il cui mistero pa­ squale ha illuminato definitivamente tutti gli aspetti. La realizzazione del disegno di Dio nella storia degli uomini, compiuta con la sua morte, la sua risurrezione e la sua presenza eterna nella Chiesa, dà così a tutte le sue parole 12

Testo analizzato in Vangeli

e

storia, pp. 50-56. 309

una dimensione che io ho chiamato « istoriale » - è infatti necessario scegliere un termine tecnico per far compren­ dere ciò di cui si tratta. Questa dimensione è soggiacente alla lettera di ciascun testo e risponde all' intenzione didat­ tica di ogni redattore ispirato: la storia vissuta di Gesù e le parole da lui pronunciate un tempo vengono lì interpre­ tate in fu nzione della totalità del suo miste ro, per costitui­ re il Vangelo nella sua ve rità definitiva. Pertanto è da qui che bisogna partire per leggere i testi con frutto. Poi è legittimo porre il problema della risali ta «storica » verso i dettagli della sua esistenza te rrena, delle sue relazioni con gli i m mediati contemporanei, dell'esat­ tezza originale delle parole che egli rivolse loro, dell'esat­ to contesto nel quale le pronunciò, del modo in cui esse poterono allora essere comprese dalla folla, dai suoi av­ versari, dai suoi di scepoli, ecc. La ricerca « storica» su tut­ ti questi punti rimane tanto più attuale in quanto corri­ sponde ai gusti culturali del nostro tempo. Ma è importan­ te valutarne correttamente le possibilità e i limiti, ed essa viene solo in secondo luogo, dopo la lettura globale fatta « in chiesa » nella fede. In rapporto all'ordine seguito nel XX secolo e fino a un tempo abbastanza recente, sia presso gli storici che presso gli apologisti, c'è una vera e propria inversione nelle ope­ razioni da compiere, che si spiega con la rivalutazione che è intervenuta nell'esame dei rapporti tra la fede cristiana e la storia vissuta. Non c'è più frattura - almeno per i cristiani intelligenti - tra il « Gesù della storia » e il « Cri­ sto della fede »: la corretta comprensione di que sto secon­ do aspetto del mediatore della salvezza non si concepisce senza una reale conoscenza del primo, tenuto conto delle convenzioni letterarie ammesse in questo ambiente e in que­ sto tempo. b) La storia della tradizione evangelica A partire dal momento in cui il problema viene affrontato in questa prospettiva, s'impone in primo luogo la lettura globale dei testi, senza trascurare la testimonianza di nes­ suno dei quattro evangelisti. Quello che ci viene presenta­ to pe r queste quattro vie è semplicemente il Vangelo, qua­ lunque siano state le tappe per le quali è passato ciascuno di essi. Il messaggio di Gesù C risto, così come la compren310

sione della sua persona nella pienezza del suo mistero, ci viene dato con questa lettura globale. Questo non impedisce che le ricerche critiche sulla storia della tradizione evangelica conservino un notevole interes­ se. Infatti la formazione dei testi non è avvenuta chissà come: è scaturita dall'annuncio fedele del Vangelo da par­ te della Chiesa ed ha avuto come responsabili i « servitori della Parola», detentori di specifici ministeri nella Chie­ sa 13• Se, a questo proposito, si è fatto appello a dei «cari­ smi >> dello Spirito Santo, non è stato per una visione astrat­ ta o per un sotterfugio specioso. Nella sua presentazione generale dei «doni » dello Spirito accordato ai membri della Chiesa, Corpo di Cristo, San Paolo cita in primo luogo i tre ministeri della Parola: gli apostoli, inviati diretti del Cristo risorto, i profeti e i dottori, incaricati dell' insegna­ mento (l Cor 1 2, 28). Non è necessario cercare altrove i tra­ smettitori del Vangelo e gli autori responsabili del mate­ riale, orale e poi scritto, che hanno raccolto le nos tre quat­ tro sintesi finali. La solidità della tradizione, fin nelle tra­ sformazioni letterarie che i testi originari hanno potuto subire per testimoniare autenticamente il V angelo, ha sem­ pre presieduto a questo lavoro di Chiesa. Nella misura in cui l'analisi accurata dei testi e il loro attento confronto permettono di intravederne le tappe e i procedimenti, ci si immerge nell attività pastorale della Ch iesa e delle comunità locali, tra la Pentecoste e il tempo in cui il messaggio di Gesù fu definitivamente fissato nella sua forma letteraria. In questo sforzo di ricostruzione c'è necessariamente una parte ipotetica, ma la rinuncia a un tale sforzo riposerebbe su un postulato arbitrario ed in ultima analisi nocivo. Essa supporrebbe infatti che l'an­ nuncio del V angelo non poggiasse sull' assimilazione pro­ fonda del messaggio di Gesù e su una p redicazione intelli­ gente che si adattava alle situazioni degli ascoltatori di­ ventati credenti, ma su una pura memorizzazione mecca­ nica. Essa supporrebbe anche che la risurrezione del Signore e l'esperienza dello Spirito Santo nella Chiesa non facessero penetrare più p rofondamente nella comprensio­ ne delle parole che Gesù aveva pronunciato per un altro uditorio e in altre circostanze. Sarebbe, questa, un falsa presentazione del le origini cristiane. '

13 Cf.

Vangeli

e

storia, pp. 105- 1 16. 31 1

Certamente, è necessario impegnarsi con prudenza nello studio delle reinterpretazioni che hanno presieduto alla fis­ sazione le tte raria delle parole di Gesù. Troppi storici delle religioni le hanno presentate come delle pure e semplici creazioni, dal sapore sincretistico. Delle comunità anoni­ me, prima palestinesi e poi ellenistiche, avrebbero messo gratuitamente in bocca a Gesù parole che esprimevano il loro proprio sentimento religioso. Invano Bultmann ha so­ stituito una fede di tipo luterano a questo « Sentimento re­ ligioso» più indifferenziato. Egli ha prestato similmente alle comunità cristiane il ricorso a un linguaggio « mitologico » per tradurre libe ramente la loro rappresentazione del Cri­ sto, e un potere creatore illimitato per attribuire a lui del­ le parole utili alla loro vita pratica e alle loro concezioni religiose. È, questa, una presentazione erronea de1la tradi­ zione evangelica. Questa tradizione, come ho spiegato fornendone degli esem­ pi, obbediva a tre preoccupazioni congiunte: allacciarsi au­ tenticamente con la persona di Gesù riferendo il suo mes­ saggio, esplicitare il significato di questo messaggio mo­ strando in esso il compimento delle Scritture, insistere sul­ l'attualità del messaggio presentando le parole originali sotto una forma adattata e assimilabile. Da ciò i raggrup­ pamenti catechetici di espressioni, la loro eventuale orga­ nizzazione in discorsi, l'inquadramento occasionate di cer­ te sentenze per far meglio percepire la loro risonanza, il lavoro redazionale richiesto dalla loro interpretazione au­ tentica (nel senso giuridico di questo termine), in breve, un'attività letteraria che rispettasse la storicità di Gesù senza rinchiudersi nella mania « archeologica » dei moder­ ni. Dall'« istoriale » si può risalire verso lo « storico », a con­ dizione di non immaginare che i testi attuali ce lo trasmet­ tano bell 'e fatto: esistono tanti problemi quante sono le espressioni particolari di Gesù. Sotto questo aspetto, c'è ancora del lavoro per gli esegeti e gli storici moderni. 2. Dalla lettura critica alla lettura spirituale

a) La dimensione «evange lica» della le ttura cri tica La lettura critica diventa una trappola in cui si rimane impigliati se si perde di vista l'orizzonte dal quale essa 312

emerge. I testi ai quali si applica sono « evangelich> per definizione; si ritrova perciò normalmente il Vangelo in ogni tappa del suo lavoro. Bisogna ritrovarlo fin nelle ipo­ tesi alle quali si fa necessariamente ricorso per spiegare i minimi dettagli dei testi. Se ci si attiene a una lettura globale degli scritti evangelici nel loro stato attuale, il Van­ gelo diventa naturalmente oggetto di diverse presentazioni teologiche dovute agli autori i spirati. È necessario rispet­ tare queste diverse comprensioni delle parole e della per­ sona di Gesù per accogliere il me ssaggio attuale del Signo­ re adottando le loro diverse angolature. È ciò che fa ogni lettura « semplice », specialmente quella legata alla catechesi elementare e alla liturgia. Si percepisce così, fino a un cer­ to punto, Gesù quale egli fu nella storia. Tuttavia, la luce della sua risurrezione lo trasfigura come su un'icona: la risonanza originaria delle sue parole viene perciò amplifi­ cata, in quanto esse sono diventate l'insegnamento che il Signore fa sentire attualmente alla sua Chiesa. È legittimo introdurre in questa lettura globale la preoc­ cupazione di una maggiore precisione per tutto ciò che con­ cerne il « contesto vitale », l'autore e la data degli scritti attuali. Ma si sa che, messe da parte le immaginazioni abu­ sive, queste questioni non rientrano nel campo della fede ed esigono un ricorso ad ipotesi di lavoro. Esse sono del resto legate al problema, ancora più complesso, della for­ mazione degli scritti e della storia dei testi che essi hanno raccolto. Bisogna forse mettere tra parentesi questi argo­ menti col p retesto che il parlare d! essi comporterebbe de­ gli eventuali pericoli per la fede ? E quanto pensano alcuni credenti paurosi. Essi arrivano perfino a dire che così fa­ cendo la critica tenta di sostituire la « storia dei testi » alla « Storia del la salvezza )>. Paura senza fondamento, dovuta ad un 'incomprensione radicale dello stesso lavoro critico ! In realtà, la storia dei testi, che non è evidentemente facile da tracciare, è una parte integrante della storia della salvez­ za - se si tiene a questo germanismo (« Heilsgeschichte »). Con questo studio si cerca semplicemente di seguire le trac­ ce del cammino della predicazione evangelica e della rive­ lazione nella storia di Gesù e in quella della Chiesa primi­ tiva, fino al tempo in cui furono fissati i nostri quattro scritti e in cui lo sviluppo della tradizione evangelica fu chiuso. La dimensione «evangelica» dei testi si ritrova quin­ di in tutte le tappe di questo sviluppo, con le sue tre coor313

dinate: il riferimento a Gesù, il compimento delle Scrittu­ re e l'attualità delle sue parole nella predicazione ecclesia­ le. Le ipotesi proposte dalla ricerca storica possono e de­ vono sempre situarsi all'interno di questa visione d'insieme, connessa alla vita stessa della Chiesa nel tempo « apostoli­ CO » (nel senso largo del termine). La morte degli apostoli rese ancora più urgente la preoccupazione di raccogliere, su questo punto, il « deposito» che essi avevano lasciato, al fine di «conservarlo » con cura. Il lavoro letterario ne­ cessario a questo scopo rimase pienamente fedele alla loro trad izione autentica, regola comune della fede cristiana: ad esso noi dobbiamo i nostri quattro vangeli . Se le ipotesi si rivelano così necessarie, e gli esegeti più « conservatori » non possono farne a meno quanto i loro colleghi, l'essenziale è che esse siano sottomesse ad un con­ trollo presente nei testi stessi, cioè: l 'auten ticità della testi­ monianza evangelica, con tutte le coordinate che la costi­ tuiscono. Dato che è il vettore della predicazione che deve condurre alla fede e nutrirla, la Chiesa continua a eserci­ tare normalmente su di essa la sua vigilanza. Infatti essa vive sullo slancio dei tempi apostolici quando i testi evan­ gelici presero la loro forma, è assistita dallo stesso Spirito · santo che guidò la loro formazione e la loro fissazione fi­ nale, ed è incaricata di annunciare il Vangelo al mondo intero. Ogni sforzo che fa la critica per raggiungere, al di là dei testi materiali oggetto del suo studio, la storia di Gesù e la materialità delle sue parole, è un beneficio per la fede, nella misura in cui esso obbedisce al suo controllo normale è -porta a dei risultati positivi . È provvidenziale che tutte le questioni critiche non siano risolte in questo modo in via definitiva 14• Il Vangelo ri­ mane così sempre un campo da esplorare. Le nece ssarie discussioni, purché non ci si perda nei loro meandri di­ menticando il loro vero obiettivo « evangelico », stimolano 1 4 Le difficoltà del la critica, obbligando a riprendere l'esame lettera­ rio e storico dei testi, obbligano anche a rinnovare il loro esame teo­ logico. Non si tratta della sua minore utilità. È sufficiente costatare che i grandi studi di teologia biblica, applicati ai vangeli, sono nati e si sono svil uppati col progredire degli s tudi critici . Il cattolicesimo del XIX secolo ignorava completamente la « teologia biblica », il cui problema era stato mal posto dopo che Gabler aveva pubblicato il suo celebre « Discorso sulla distinzione tra teologia biblica e teologia dommatica » ( 1 7 87).

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costantemente l'attenzione attirandola verso nuove direzio­ ni. Gli stessi errori di orientamento hanno la loro utilità. Infatti, non c'è teoria erronea che non comJX>rti un nume­ ro più o meno grande di osservazioni giuste e utili, dalle quali l 'esegeta può trarre vantaggio. Il problema che allo­ ra gli si pone non è quello del rifiuto dell 'errore, ma quello del disce rnimen to per riconoscere questo margine di vero che può esser coperto dalla massa di errori . L'operazione non è facile; ma se l'esegeta cattolico non lo fa, chi lo farà al suo posto ? In breve, non si è fuori dal Vangelo quando si applicano ad esso le regole della critica. Al contrario si cerca di penetrarvi dentro più profondamente. b) Dalla lette ra allo Spi rito Il lavoro c ritico ha per oggetto la « lettera » dei testi al fine

di ricostruire, se possibile, la storia della sua formazione e di risalire fino alle parole originali di Gesù quali le ascol­ tarono i suoi contemporanei. Ma è questo il Vangelo ? Ma­ terialmente ne è lo sviluppo. Ora, la ve ra comprensione della « le ttera » va al di là della sua mate rialità. Riprendia­ mo un testo importante del IV vangelo dopo la crisi conse­ guente alla moltiplicazione dei pani: « Le parole che vi ho detto sono spirito e vita » (Gv 6, 63b). Materialmente Gesù fu sentito da tutti, ma non tutti accolsero lo spirito della le tte ra delle sue parole. Per poterlo fare era necessario es­ sere « ammaestrati da Dio » (Gv 6, 45), istruiti dal suo Spiri­ to (Gv 1 4, 26; 1 6, 1 3). Il principio non valeva soltanto per i contemporanei di Gesù o per i primi ascoltatori della pre­ dicazione evangelica; vale per tutti i tempi. Guardiamoci tuttavia dal considerare la critica biblica co­ me limitata nei confini della « lettera », mentre la cateche­ si, la teologia e la « Spiritualità » riguarderebbero il campo dello « spirito ». Questa disgiunzione è un errore radicale che può portare ai peggiori eccessi: eccesso di linguaggio e di penna presso i partigiani dello « spirito » contro la