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Italian Pages 220 [110] Year 2019
Costellazioni Le parole di Walter Benjamin a cura di Andrea Pinotti
© 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a.,Torino www.einaudi.it ISBN
978-88-06-23878-Q
Piccola Biblioteca Einaudi Filosofia
Indice
p.
Introduzione di Andrea Pinotti Elenco delle abbreviazioni delle opere benjaminiane
vn rx
Costellazioni 3
I.
7
2.
Allegoria Arti e media
II
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Aura
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4.
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5. 6.
Choc Citazione
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IO.
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II.
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67
17.
Città Collezionismo Conoscibilità e leggibilità Critica Ebbrezza e hashish Esperienza Estetizzazione della politica, politicizzazione dell'arte Facoltà mimetica Fantasmagoria Fldneur
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r8.
Gesto Gioventu Idea, origine, fenomeno originario, monade
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19. 20.
Immagine dialettica Inconscio ottico
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INDICE
VI p. 83
2I.
87
22.
91
23.
95
24.
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26.
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27.
II I
28.
ll5
29.
Infanzia Innervazione e training ]etztzeit Lingua Materialismo antropologico Medium e Apparat Melanconia Memoria, ricordo, rammemorazione Mito Montaggio Narrazione Nichilismo messianico Nuda vita Passage Raccoglimento e distrazione Riproducibilità Sogno e risveglio Storia Storicità della percezione Tecnica Traduzione Valore cultuale e valore espositivo Violenza
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40.
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4r.
167
42.
171
43.
175
Bibliografia
203
Gli autori
205
Indice dei nomi
Introduzione
Fra i patrimoni che il Novecento filosofico ci ha lasciato in eredità, il pensiero e l'opera di Walter Benjamin sono senza ombra di dubbio fra i piu produttivi e fecondi. La sua saggistica, fulminea e penetrante, h a spaziato dalla critica letteraria alla teologia, dalla teoria dei media alla filosofia della storia e della politica, dall'estetica delle arti visive alla teoria dell' architettura e della città. Punto di convergenza di tradizioni eterogenee - pensiero romantico e morfologia di ascendenza goethiana, messianismo ebraico sui generis e marxismo eterodosso, neokantismo e teoria critica francofortese, nonché le numerose suggestioni provenienti dalle avanguardie artistiche e letterarie (prima fra tutte il Surrealismo) -, la riflessione di Benjamin ha trovato espressione in una molteplicità di generi, che vanno dalla dissertazione ali' aforisma, dal verbale di esperimenti con l'hashish al montaggio di citazioni, dalla recensione al racconto autobiografico. Le sue scelte stilistiche sono state altrettanto varie e talora apparentemente incompatibili, spaziando dall'approccio sociologico all'evocazione esoterica. Questa natura ibrida del suo pensiero e della sua scrittura ha esercitato una potente attrazione su un pubblico altrettanto ibrido di lettori e interpreti, che si sono accostati e continuano ad accostarsi alle sue opere provenendo da percorsi e ambiti disciplinari differenti: lettori e interpreti affascinati, ma spesso anche disorientati e qualche volta sconcertati da un autore difficilmente riconducibile a un'etichetta storiografica convenzionale. Il presente volume si propone di offrire uno strumento per orientarsi nel territorio, sempre stimolante ma spesso impervio, della riflessione di Benjamin. Il libro è articolato in quarantatre voci - ordinate alfabeticamente, da «Allegoria» a« Violenza»-, a formare un vero e proprio lemmario benjaminiano. Ciascun lemma espone in modo sintetico un concetto fonda-
VIII
INTRODUZIONE
mentale dell'elaborazione teorica del filosofo tedesco, avendo cura di ricostruirne lo sviluppo storico nel corso della sua breve ma intensa parabola intellettuale, e di segnalare i relativi passi salienti all'interno del corpus_ dei suoi scritti (quelli pubblicati in vita e quelli, assai numerosi, rimasti inediti e resi disponibili solo dopo la sua morte). In ogni lemma i lettori troveranno, evidenziati da asterischi('''), i rinvii ad altri lemmi presenti nel volume, in modo da consentire di tessere una fitta rete di relazioni e rimandi reciproci: cosi, solo per fare un esempio, «Inconscio ottico» rimanda alle voci «Medium», «Storicità della percezione», «Riproducibilità», «Immagine dialettica», «Sogno e risveglio», «Choc», «Esperienza», «Innervazione e training», «Montaggio». A sua volta, ciascuna di queste voci rinvia ad altre presenti nel volume, invitando il lettore ad aprire piste differenti e ad intersecare percorsi alternativi, secondo i suoi interessi, esigenze e sensibilità: un'operazione che è possibile intraprendere muovendo a piacere da un lemma qualsiasi dell'elenco. Ogni voce, infine, si chiude suggerendo possibili approfondimenti bibliografici, che permetteranno di estendere quella rete alla storia degli effetti e delle interpretazioni del pensiero benjaminiano. Nella Premessa gnoseologica allo studio sul dramma barocco tedesco Benjamin ebbe a scrivere che «le idee si rapportano alle cose come le costellazioni si rapportano alle stelle»: nella congerie di punti luminosi irrelati che splendono nella volta celeste le configurazioni astrali fungono da cruciale strumento di orientamento che trasforma il caos in cosmo. Ispirandosi a questa immagine, il lemmario che qui proponiamo offre la possibilità di proiettare - come in un planetario - sulla volta del pensiero benjaminiano le costellazioni che disegnano i tratti fondamentali dell'esperienza della modernità cosi come è stata esplorata da uno dei suoi primi, e piu acuti, pionieri: una modernità che, lungi dall'essere stata archiviata dalle derive post-moderniste, non cessa di interpellare criticamente il nostro presente. ANDREA PINOTTI
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I
Elenco delle abbreviazioni delle opere benjaminiane
AC
Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012
CB
Charles Baudelaire. .Un poeta-lirico nell'età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamlien, B. Chitussi e C.-C . Ha.rie, Neri Pozza, Vicenza 2012
CS
Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997 Gesammelte Briefe, 6 voli., a cura di C. Godde e H . Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1995-2000 Gesammelte Schri/ten, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhauser, 7 voll., Suhrkamp, Frankfurt am Main
GB GS
1972-1 989
L OC
Lettere r9r3-r940, a cura di G. Scholem e T. W. Adorno, Einaudi, Torino 1978 Opere complete, 9 voll., a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000-2014
TU WuN
W. Benjamin e G . Scholem, Teologia e utopia. Carteggio r933-r940, a cura di G. Scholem, Einaudi, Torino 1987 Werke und Nachlafl: kritische Gesamtausgabe, a cura di C. Godde e H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt am Main (in corso di pubblicazione)
COSTELLAZIONI
Tutte le traduzioni dei testi di Benjamin citati nel presente volume sono state appositamente riviste dagli autori per la presente edizione e modificate ogniqualvolta lo si è ritenuto necessario. Nel caso dei testi pubblicati in vita da Benjamin stesso, nel rinvio bibliografico fra parentesi tonda nel corpo del lemma si è privilegiato il dato certo dcli' anno di pubblicazione rispetto al dato (talora incerto) della data di stesura.
I.
Allegoria
Quella di allegoria è la categoria fondamentale dell'estetica di Benjamin, e trova applicazione nell'interpretazione di tutti e tre gli ambiti d'indagine della sua critica'": il Barocco tedesco, il Moderno di Baudelaire e l'Avanguardia del primo Novecento, che entrano in costellazione proprio nel segno dell'allegoria (dr . Gurisatti 2010). Alla trattazione dell'allegoria è dedicata la seconda parte del Dramma barocco tedesco, intitolata Allegoria e dramma barocco (1928; OC II, 196-268), ma è nel saggio del r9r6 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo (OC I , 281-95) che essa trova i suoi presupposti teorici. In quel caso, al «nome» adamitico, che mantiene con le cose un rapporto - simbiotico, tale da poterne essere definito il simbolo (da syn, «con», «insieme», e ballo, «pongo», «metto» = «metto insieme», «unisco», «congiungo», «sposo»), Benjamin contrappone il «segno» post-adamitico, derivante dal peccato originale avvenuto nel nome di Satana, e avente con le cose un r apporto di iper-denominazione astraente, arbitraria, convenzionale, perciò distruttivo e mortificante, tanto da poterne essere definito I' allegoria (da allo, «altro», e agoreuo, «dico», «parlo», «esprimo» = «parlo d'altro»). L'allegoria - figurativa o poetica - non si unisce in sintonia traduttiva con le cose, ma, tradendole, tramite esse parla d'altro, per esprimere un significato loro estraneo le manda in pezzi, le smonta e rimonta, esibendo il suo statuto emblematico (da en, «in», e ballo, «getto», «pongo», «incastro» = «inserisco, incastro dentro, monto»). Questa la definizione di Benjamin nel Dramma barocco: nell'allegoria l'oggetto è oramai del tutto incapace di irradiare un significato, un senso; il suo significato sarà quello che l'allegorista gli assegna. Egli lo inserisce e lo cala profondamente nell'oggetto: e la situazione non è psicologica ma ontologica. Nelle sue mani la cosa diventa qualcos'altro, per mezzo di essa egli parla d ' altro (OC II, 219).
4
COSTELLAZIONI
Come nel saggio Sulla lingua il segno si contrappone al nome, cosi nel Dramma barocco l'allegoria si contrappone al simbolo: mentre il simbolo richiama classicamente l'idea della bellezza, pienezza, chiarezza, totalità, plasticità, organicità, l'allegoria esibisce baroccamente il suo statuto anticlassico, e perciò stesso brutto, enigmatico, frammentario, rovinoso, disorganico: Non è possibile pensare qualcosa di piu lontano dal simbolo artistico, dal simbolo plastico, dall'immagine della totalità organica, di questo frammento amorfo che è l'ideogramma allegorico. In esso il Barocco si dimostra un pendant perfetto del Classicismo. [ ... ]Nel campo dell'intuizione allegorica l'immagine è frammento, runa. La sua bellezza simbolica si volatilizza [ ... ],la falsa apparenza della totalità si spegne (2n -12).
L'impegno critico di Benjamin nel Dramma barocco consiste nel contrastare il «pregiudizio classicistico» che, identificando tout court l'arte* bella - cioè la grande arte, l'arte con aura''' con il simbolico, svaluta l'allegorico ad arte brutta, minore, anzi a non-arte, arte priva di aura. Benjamin, invece, vede nell'allegorico non solo «un correttivo dell'arte come tale» (2n), ma l'imporsi di «una sensibilità stilistica affatto nuova» (2 r 3) , d0tata di un'autonoma valenza estetica, che presuppone una diversa figura di artista: non piu creatore alato di un novum illuminato dalla luce eterna dell'idea'\ ma sperimentatore profano dedito a un' ars inveniendi e a un'attività combinatoria che scompone, smonta e rimonta le rovine e i frammenti di un mondo inteso come in sé rovinoso e frammentato. L'allegoria, anche in ciò contrapposta alla trascendenza del simbolo, è per Benjamin la forma artistica maggiormente vera ed espressiva delle epoche in cui la storia* stessa appare come catastrofe: Mentre nel simbolo [ ... ] si manifesta fugacemente il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, l'allegoria mostra agli occhi dell'osservatore)a/acies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio originario. [ .. .]E questo il nucleo della visione allegorica, della esposizione barocca, profana della storia come via crucis mondana: essa ha significato solo nelle stazioni del suo decadere (202-3).
È per questo che Benjamin, negli studi sulla lirica di Baudelaire, ne sottolinea lo statuto barocco e allegoric9 (si pensi al ciclo dello Spleen nelle Fleurs du mal), che assume in sé «la distruzione dell'aura [simbolica] nell'esperienza vissuta dello choc [allegorico]» (CB 893), ed è per questo che egli coglie una riattualizzazione dell'allegorico nelle sperimentazioni e nei montaggi"' dell'avanguardia sia letteraria e figurativa (Dadaismo e
ALLEGORIA
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Surrealismo), sia tecnologica (il cinema sovietico e la fotografia di Heartfield). Si tratta qui di un'anti-arte che, abbandonata ogni nostalgia per l'aura'" del simbolico, introietta lo choc'" allegorico come arma, anche politica, con cui partecipare, nel segno del nichilismo messianico'' a una positiva catastrofizzazione apocalittica-rivoluzionaria della storia. L'allegoria rivela cosi il suo spessore non solo estetico-artistico ma anche teologico-politico. È vero infatti che il segno allegori~ co, tradendo il simbolo paradisiaco e sprofondando nell'abisso della storia, è frutto del peccato, ed è altrettanto vero che nelle ultime pagine del Dramma barocco - esplicitamente richiamantisi al saggio Sulla lingua - l'allegoria è identificata come figlia dia-bolica dello «sguardo ribelle e penetrante di Satana» (OC II, 262), o di Lucifero, «figura protoallegorica», principe delle tenebre e re dell'abisso (cfr. 261), ma è anche vero che - con un paradosso tipico del messianismo apocalittico (dr. Scholem 1957; r959) che impregna ogni pagina del suo testo sul Barocco - Benjamin proprio nello sprofondamento, nella distruttività e nella catastrofe dell'allegorico individua motivi profondi di redenzione: Come chi precipita corre il rischio di rovesciarsi, allo stesso modo l'intenzione allegorica si perderebbe di immagine in immagine nella vertigine del suo abisso senza fondo se proprio nelle sue immagini estreme non dovesse apparire che, in realtà, tutta la sua tenebra, la sua superbia, la sua lontananza da Dio sono mero autoinganno. [ ... ] La caducità è in essa[ ... ] offerta come allegoria, a sua volta significante. Come l'allegoria della resurrezione (OC II, 265).
Benjamin individua lo statu to nichilistico-messianico dell' allegoria barocca, cioè quella potenza distruttiva della redenzione e redentiva della distruzione che - come già nel Frammento teologico-politico (r921; OC I, 512-13) e, in seguito, nelle tesi Sul concetto di storia (r940; OC VII, 483-93) - egli intende come essenza, appunto, teologico-politica ribelle, anarchica e sovversiva implicita tanto nella lirica di Baudelaire che nelle poetiche d'avanguardia, vero motore ermeneutico del Dramma barocco (cfr. Bi.irger 1974). Benjamin stesso, nella Premessa gnoseologica al testo, rileva le «analogie sorprendenti», nel segno dell'allegorico, tra poetiche «barocche» e poetiche «espressioniste» (cfr. OC II, 94). In definitiva, l'allegoria, per Benjamin, significa qualcos'altro da ciò che è; è, a ben vedere, allegoria di se stessa: è bruttezza
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COSTELLAZIONI
che può ribaltarsi in nuova bellezza, frammento in nuova totalità, distruzione in redenzione, mortificazione delle cose in salvezza delle stesse - è insomma la forma critica di un' anti-arte che, mandando in rovina antiche aure e sprofondando nel profano della storia, della politica e della tecnica'', può, «come un angelo caduto nell'abisso» (OC II, 268), ribaltarsi nella nuova arte della Rivoluzione: un'intima affinità lega, per Benjamin, l'allegorista barocco e l'intellettuale-artista-tecnico rivoluzionario de L'autore come produttore (1934; AC 145-62). Per approfondire: BOFFI 1988; BUCI-GLUCKSMANN 1984; CAMPI 2008; GURISATTI 2003 e 2012a; LINDNER 2000; LUPERINI 1989; MASINI 1977a; MENNINGHAUS 1980; NAEHER 1977; PINOTTI 2010.
G. G.
2.
Arti e media
Per l'intera parabola del suo percorso intellettuale Benjamin si è intensamente confrontato con la sfera delle arti e dei media. Il suo pensiero ha trovato nei problemi artistici e mediali non un campo di applicazione di un apparato teorico sviluppato precedentemente e indipendentemente da essi, bensi un autentico catalizzatore di idee e concettualizzazioni: tale sfera ha operato dunque. essa stessa come un vero e proprio medium1', consentendo a Benjamin di elaborare una categorizzazione che non si sarebbe potuta configurare altrimenti. La sua riflessione è stata estetica nel duplice significato che questo termine ha assunto storicamente: come interrogazione filosofica del mondo dell'arte e come indagine intorno all'esperienza sensibile (aisthesis) nel quadro dell'ipotesi della storicità della percezione''. La correlazione fra queste due facce dell'estetico si è ulteriormente intrecciata ad altre dimensioni (linguistica, teologica, sociale, politica, tecnica ... ): uno spettro ampio e complesso, che spiega l' attenzione che il pensiero benjaminiano ha suscitato e continua a suscitare presso gli studiosi del campo artistico e mediale. «Accanto alla teoria dell'arte, l'interesse per la filosofia del linguaggio ha per me da sempre avuto un ruolo predominante» (Curriculum vitae, 1940; OC VII , 518). Nell'anno della sua morte Benjamin richiama retrospettivamente l'attenzione sul ruolo cruciale giocato dal medium della lingua''' nel proprio lavoro: dalle numerosissime recensioni di libri di poesia e di prosa, di letteratura alta e popolare, di studi di teoria e storia della letteratura (si veda la raccolta in WuN XIII, nonché i testi riuniti in Benjamin 1979) all'indagine sul ruolo dello scrittore nella modernità (L'autore come produttore, 1934; AC 147-62). Benjamin ha dedicato importanti lavori a specifiche epoche o generi letterari: ricordiamo la dissertazione d~ttorale Il con-
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COSTELLAZIONI
cetto di critica nel romanticismo tedesco (1920; OC I, 353-451), lo scritto di abilitazione sul Dramma-barocco tedesco (1928; OC II, 69-268), il saggio Il Surrealismo (1929; AC 320-33). Numerosi sono stati gli studi incentrati su singoli autori e opere: Due poesie di Friedrich Holderlin (1915; OC I, 217-39); Le «Affinità elettive» di Goethe (1924-25; OC I, 523-89); Per un ritratto di Proust (1929; OC III, 285-97); Karl Kraus (1931; OC IV, 329-58); Franz Kafka (1934; OC VI, 128-52); Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nikolaj Leskov (1936; OC VI, 320-42); Su alcuni motivi in Baudelaire (1939; AC 163-202). Al poeta francese come epitome e simbolo della modernità Benjamin aveva progettato di dedicare un volume, al quale lavorò tra il 1937 e il 1939, e che restò incompiuto: Charles Baudelaire, un poeta lirico nell'età del capitalismo avanzato (CB). Al compito del critico Benjamin avrebbe voluto consacrare una raccolta di saggi (dr. i frammenti risalenti al 1929-31; OC VIII, 157-77). Sempre in campo letterario, un altro compito · specifico è quello della traduzione*, affrontato da Benjamin in particolare nel saggio Il compito del traduttore (OC I, 500-11). Cospicua è anche la produzione dedicata al teatro, soprattutto a partire dall'incontro con Bertolt Brecht, avvenuto a Berlino nel 1924 (si vedano le riflessioni contenute nelle due versioni di Che cos'è il teatro epico?: 1931; O C IV, 359-71; 1939; AC 285-92, e i testi raccolti in Benjamin 2016). Al polo della parola fa da controcanto quello dell'iI?magine, che Benjamin ha considerato tanto come immagine statica (pittura, grafica, fotografia) quanto come immagine dinamica (cinema). Le meditazioni intorno alle arti figurative accompagnano il filosofo per tutto l'arco della sua vita: dal giovanile dialogo L'arcobaleno (1915; AC 87-93), che riflette intorno al colore e alla fantasia nel loro rapporto con l'attività dell' artista, passando per i saggi del 1917 Pittura e grafica e Sulla pittura, ovvero «Zeichen» e «Mal» (AC 94-99) e per la sezione S «Pittura, art nouveau, novità» del progetto sui passages (OC IX, 607-29), fino ad arrivare alle tarde recensioni dedicate a una mostra di Dipinti cinesi alla Bibliothèque Nationale (1938; AC 105-8) e al volume Lo sguardo di Georges Salles, il conservatore per l'arte asiatica del Louvre (1940; AC 109-12). Profondamente influenzato dalla scienza dell'arte di lingua tedesca (Alois Riegl e Heinrich Wolfflin in primis: Scienza dell'arte rigorosa, 1933; AC 100-4), Benjamin ne eredita l'approccio me-
ARTI E MEDIA
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todologico, che tende a comprendere i fenomeni iconici come soluzioni di problemi istituiti da una polarità: è il caso delle coppie «linea-colore» e «verticale-orizz~nt~le» nei ~ummenzionati saggi del 1917, o della diade «fantasia-nproduz10ne» del frammento Sulla pittura, databile fra il 1919 e il 1920 (OC VIII, 110). La riflessione intorno alla riproduzione nel senso di copia mimetica del reale (Abbild) lascerà spazio, a partire dagli anni Trenta, all'interrogazione della riproducibilità-:, (Reproduzierbakeit) tecnica dell'immagine, connessa all'invenzione della fotoorafia e del cinema, e del suono, grazie all'invenzione del fono~rafo del grammofono e della radio (si veda AC, sezz. IV e V). In tale contesto, il ricorso alla polarità viene messo al servizio di una sorta di sistema critico delle arti, che Benjamin affida alle pagine del celebre saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, elaborato a partire dal 1935, uscito in una prima versione francese sulla «Zeitschrift f~ Sozi~fors~hung» nel maggio del 1936 (OC VI, 527-46), e mai pubblicato m tedesco durante la vita del suo autore. L'idea di fondo è che il ·senso di ciascun medium* possa emeroere non tanto da un suo esame individuale, quanto piuttosto da una considerazione comparativa. Troviamo cosi una contrapposizione tra pittore e cameraman, icasticamente espressa nella polarità di mago e chirurgo: Il mago e il chirurgo si comportano rispettiva~ente come il pittore_ ~ l'operatore. Nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale da c1~ che gli è dato, l'operatore invece penetra profondamente nel tess~to dei dati. Le immagini che entrambi ottengono sono enormemente diverse. Quella del pittore è rotale, quella dell'operatore è multiformemente fr~mmentata, e le sue parti si compongono secondo una legge nuova (pnmo dattiloscritto, 1935-36; AC 40).
La differenza fra pittura e cinema si precisa ulteriormente attraverso un' altra comparazione, quella fra ricezione pittorica e ricezione architettonica: «La pittura non è in grado di proporre l'oggetto alla ricezione collettiva sim~ta?ea, cosa che invece è sempre riuscita all'architettura, che nusc1va un tempo all'epopea, che riesce oggi al film» (41). . Il cinema, poi, esibisce chiaramente un proprio aspe:to s~rutturale se messo a confronto con la scultura: se questa e un arte che produce opere tutte «di un pezzo », non correggibili, il_cinema è al contrario un medium'·' costitutivamente migliorabile, «montato a partire da moltissime immagini e sequenze di imma-
IO
COSTELLAZIONI
gini tra cui il montatore può scegliere» (28); una scena può, in linea di principio, essere girata infinite volte, e altrettante volte si può modificarne nel montaggio* il rapporto con le altre scene. Tale perfettibilità è ancor piu comprensibile se si considera la differenza che intercorre fra attore cinematografico e attore teatrale: quest 'ultimo è chiamato a rappresentare un personaggio in carne ed ossa di fronte a un pubblico casuale altrettanto incarnato, mentre il primo rappresenta se stesso di fronte a un'apparecchiatura, e a una equipe di esperti (il regista, l'operatore, il tecnico delle luci e quello del suono, ecc.): «L'intervento di una commissione competente in una prestazione artistica è [ ... ] caratteristico della prestazione sportiva e in senso piu ampio del test in generale» (30), ripetibile finché non si ottiene il risultato sperato. In questi e altri paragoni si delinea una critica comparativa delle arti e dei media che consenta agli elementi strutturali di ciascuna forma di illuminarsi reciprocamente nelle proprie possibilità e limiti. Per approfondire : BENJAMIN, A. 2005a; CACCIARI 1975; CARRIER 1993; CAYGILL 1998; DE GAETANO 2007; DESIDERI 2012 ; JENNINGS 1987; JENNINGS, DOHERTY e LEVIN 2008 (si vedano anche le introduzioni alle singole sezioni); KAMBAS 2000; SCHOTTKER 2004; SCHWARTZ 2001; VALAGUSSA 20! I.
A. P.
3.
Aura
La nozione di «aura» è indubbiamente la piu celebre fra itermini tecnici benjaminiani, ma anche la piu sfuggente, e la piu controversa. Come indica l'etimo greco o:upo: (brezza, soffio, alito), la sua eterea volatilità sembra impattare anche sugli sforzi interpretativi degli studiosi. La circostanza che su tale concetto convergessero ascendenze molto differenti e talora persino mutualmente incompatibili - la mistica ebraica; le correnti spiritiste, occultiste e medianiche; la filosofia irrazionalistica di Klages; l'estetica goethiana della bella apparenza; le opere di Baudelaire, Proust, Daudet - non risparmiò a Benjamin critiche anche assai severe da parte dei suoi amici, che pure le sollevavano a partire da posizioni altrettanto differenti: Adorno (Adorno e Benjamin 1993, 169) vi ravvisava una regressione alla dimensione cultuale dell'immagine; Scholem (1975, 315) ne respingeva la lettura pseudo-marxista; Brecht (annotazione del 25 luglio 1938, in Brecht 1938-42, r6) ne stigmatizzava la deriva misticheggiante. Se si ricostruisce la cronologia delle occorrenze del termine si osserva che fra le prime accezioni domina il senso di milieu, ambiente, contesto. È ad esempio il caso dell'Idiota di Dostoevskij, nella quale secondo Benjamin non è possibile reperire «nessun moto della vita umana profonda. che non abbia il proprio luogo decisivo nell'aura dello spirito russo» (1917; OC I, 305). La dimensione della lingua;•, è particolarmente feconda nella capacità di evocazione dell'aura. Cosi nella Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco si risale a uno stadio nel quale «le parole non avrebbero ancora perduto la loro aura denotativa a vantaggio del significato conoscitivo» (1928; OC II, 77). Un aforism'a dell'amato Kraus suggerisce a Benjarnin un nesso strutturale fra aura e lontananza: «Avvertire l'aura di un feno-
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COSTELLAZIONI
meno significa dotarlo della capacità di guardare[ ... ]. Anche le parole possono avere la loro aura. Karl Kraus l'ha descritta come segue: "Quanto piu da vicino si guarda una parola, e tanto piu da lontano essa ci restituisce lo sguardo"» (Su alcuni motivi in Baudelaire, 1939; AC, 197; cfr. Kraus 1912, 164). Questo aforisma era già stato citato non solo nel saggio dedicato espressamente a Kraus (1931; OC IV, 353), ma anche in Hashish a Marsiglia come riferito a un «fenomeno di estraniazione» (1932; AC 340). Ed è proprio nei verbali degli esperimenti condotti con l'hashish'' a partire dal 1927 che Benjamin restituisce la dialettica di vicinanza e lontananza caratteristica dell'esperienza auratica. Da un lato, l'hashish può favorire un'estrema prossimità fino alla fusione intersoggettiva: «Tutti gli astanti assumono la gamma del buffo. Al tempo stesso ci si compenetra con la loro aura» (Tratti principali della prima esperienza con l'hashish, 1927; OC III, 467). Dall'altro, può promuovere un'ipersensibilità all'altro: , dunque non solo nelle opere d'arte. Essa inoltre «muta radicalmente, con ogni movimento della cosa di cui è l'aura», dunque partecipa del divenire storico (OC VI, 97-98). Proprio questi richiami dello stesso Benjamin all'ampiezza extra-artistica e alla storicità dell'esperienza auratica hanno indotto in tempi recenti interpreti (anche appartenenti a differenti prospettive filosofiche) a riformulare la questione della «distruzione» o «decadenza» dell'aura piu nei termini di una sua trasformazione che non di una sua definitiva eliminazione (Didi-Huberman 2000; Costello 2005; i saggi raccolti in Di Giacomo e Marchetti 2013). Per approfondire: BENJAMIN 1986; BOUCHERON 2010; BRATU HANSEN 2008; DAL LAGO e GIORDANO 2006; DIDI-HUBERMAN r992; FURNKAS 2000; KOEPNICK 2002; MASINI r980; SMITH r994.
A. P.
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Choc
In opposizione al concetto di aura,·,, lo choc si presenta in Benjamin come una nozione il cui ampio spettro semantico abbraccia una serie di fenomeni molto eterogenei, che contrassegnano la modernità non solo per quanto riguarda la sfera delle arti e dei media;'', ma anche per quanto attiene all'esperienza-:, tout court. . In tal senso la riflessione sullo choc e sui fenomeni a esso correlati appa~tiene a quella incessante meditazione intorn? alla dialettica di vicinanza e distanza che attraversa tutto il corpus benjaminiano: una dialettica elementare nella sua fisica semplicità (in una nota del secondo dattiloscritto del saggio sull'opera d'arte Benjamin lo sottolinea con un truismo: «La distanza è il contrario della vicinanza», 1936; OC VII, 307), che pure è capace di caricarsi di complesse implicazioni simboliche, da quelle affettive (cfr. il frammento Vicinanza e lontananza, 1922-2 3; OC VIII, 80-84, e le brevi prose intitolate Ombre corte, 1929; OC III, 279-81; 1931; OC V, 435) a quelle religiose, artistiche, politiche. E un passaggio del saggio Su alcuni motivi in Baudelaire a offrirci in tutta la sua ampiezza la prospettiva assunta da Benjamin nell'accostare questa problematica: Con l'invenzione dei fiammiferi ver so la fine del secolo, comincia una serie di innovazioni tecniche che hanno in comune il fatto di sostituire una serie complessa di operazioni con un gesto brusco. Questa evoluzio. ne ha luogo in molti campi; ed è evidente, ad esempio, nel telefono, ?ov_e al posto del moto continuo con cui bis~gna~a girare I~ mai:~vella dei pn~ mi apparecchi, suben tra lo stacco del ricevitore. Fra 1 gesu mnume~evoli di azionare oettare premere ecc., è stato particolarmente grave d1 conseguenze l~ ; scatto;> del fotografo. Bastava premere un dito per fissare un evento per un periodo illimitato di tempo. L'app~recchio ~omu1:icava all'istante, per cosf dire, uno choc postumo. A esperienze apuche d1_ questo genere si affiancavano esperienze ottiche, come quelle che suscita la
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parte degli annunci in un giornale, ma anche il traffico delle grandi città. Muoversi attraverso il traffico comporta per il singolo una serie di choc e di collisioni (1939; AC 183).
Si tratta di esperienze che lo stesso Benjamin bambino aveva potuto vivere sulla propria pelle, allorquando Berlino, la sua città'" natale, si apprestava a trasformarsi in una moderna metropoli: quella stessa descritta dal pioniere degli studi sullo stile metropolitano di vita, Georg Simmel (1900; 1903; 1908), alle cui analisi sulla trasformazione urbana del sensorio Benjamin dovette molte suggestioni per l'elaborazione della propria concezione della storicità della percezione 1'. Tracce significative di tali esperienze sono affidate agli scritti autobiografici. Leggiamo allora di memorie infantili che si conservano durevolmente perché fissate da un evento traumatico in virtu del quale il bambino è colpito da «uno choc come il mucchietto di polvere di magnesio dalla fiamma del fiammifero (Cronaca berlinese, 1932; OC V, 292). O dell'irruzione lacerante del telefono nel tranquillo intérieur alto-borghese, che Benjamin rievoca con una sensibilità da archeologo dei media'": · Il suono con cui si annunciava fra le due e le quattro, quando l' ennesimo compagno di scuola desiderava parlarmi, era un segnale d'allarme che disturbava non solo il riposo pomeridiano dei Iniei genitori, ma l'epoca della storia universale nel cui centro essi si abbandonavano al sonno (Infanzia berlinese intorno al millenovecento, 1932; OC V, 366).
Vero e proprio eroe eponimo dello choc è Charles Baudelaire. Il poeta dellafourmillante cité è insieme traumatizzato (nella voce, nel volto, nell'andatura: tutto in lui è spezzato e interrotto) e traumatofilo (egli cerca intenzionalmente lo choc, e altrettanto intenzionalmente lo provoca) . Benjamin - che a partire dalla seconda metà degli anni Trenta aveva cominciato ad accarezzare il progetto di dedicargli una vera e propria monografia dal titolo Charles Baudelaire. Un poeta nell'epoca del capitalismo avanzato (si vedano i materiali raccolti in CB) - lo coglie come figura della soglia, nel momento critico del passaggio da una lirica ancora capace di valore cultuale'·, a una poesia ormai assorbita dal valore espositivo'·' tipico delle forme di espressione della società di massa. Se Les fleurs du mal sono l'ultimo volume di poesie che abbia potuto conseguire un successo su scala europea, il.prezzo da pagare è stato - come recita il titolo del poemetto in prosa pubblicato ne Lo spleen di Parigi - la Perdita d'aureola, causata proprio dal concitato attraversamento di un boulevard, per un
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brusco movimento che l'ha fatta scivolare nel fango: «Non ebbi coraggio di raccattarla, e mi parve meno spiacevole perder le insegne, che non farmi romper l'ossa» (Baudelaire 1869, 403). Se Baudelaire ancora si trattiene sulla soglia che connette e al contempo separa aura'" e choc, gli sviluppi successivi delle artt' nel corso della prima metà del Novecento avrebbero decisamente imboccato la via che conduce all'urto, al trauma, allo scandalo, all'impatto, all'esplosione. Quella stessa via che aveva preso su scala mondiale la Grande guerra: un bagno di sangue che «nella guerra chimica ha trovato un mezzo per eliminare l'aura in modo nuovo» (L'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica, primo dattiloscritto, 1935-36; AC 49). Tanto nel campo della letteratura quanto in quello delle arti visive, «con i dadaisti, da attraente parvenza ottica o struttura sonora persuasiva, l'opera d'arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l'osservatore. Assunse una qualità tattile», provocando con l'oscenità, la degr;idazione, il cascame, uno «spietato annientamento dell'aura» e delle modalità ottico-contemplative di ricezione (45). Dal canto suo, Brecht lavorava a una demolizione del teatro tradizionale di ascendenza aristotelica - incentrato sulla doppia immedesimazione fra attore e personaggio da un lato, spettatore e personaggio dall'altro-, attraverso una sistematica «interruzione» dell'azione scenica, esplicitamente assimilata da Benjamin a un'esperienza choccante: Il teatro epico, come le immagini di una pellicola cinematografica, procede a scossoni. La sua forma fondamentale è quella dello choc. I songs, le didascalie, le convenzioni gestuali staccano ogni situazione dall'altra. Cosi si generano intervalli che tendono a limitare l'illusione del pubblico. Essi paralizzano la sua predisposizione all'immedesimazione. Questi intervalli sono riservati alle sue prese di posizione critiche (nei confronti dei comportamenti rappresentati dai personaggi e del modo in cui vengono rappresentati) (Che cos'è il teatro epico?, 1939; AC 291).
Come suggerisce lo stesso parallelismo proposto da Benjamin tra il modo di procedere del teatro brechtiano e qu ello della pellicola cinematografica, ma anche piu in generale la sua idea di una storia dell'arte come storia di desideri che vengono soddisfatti solo da dispositivi mediali successivi - « Il Dadaismo cercava di ottenere con i mezzi della pittura (oppure della letteratura) quegli effetti che oggi il pubblico cerca nel cinema» (44) - , è alla potenza esplosiva del cinema che occorre guardare
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per comprendere quella forma espressiva che al contempo eredita i risultati delle forme non cinematografiche e li innalza su un piano tecnico che consente soluzioni inedite e possibilità di manovra incomparabili:
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Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; cosi noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine (42).
Tanto per la sua forma - il montaggio'' - quanto per i suoi contenuti - la messa in scena della violenza,.,, sistematica e tuttavia alla fine innocua: si pensi ai cartoni animati di Disney (43) -, il cinema si presenta all'uomo contemporaneo come una vera e propria palestra per imparare a parare gli urti e a gestire gli stimoli, nel programma di un autentico training''' del sensorio. Per approfondire: BUCK-M0RSS 1992; FRISBY 1985; FUZESSÉRY e SIMAY 2008; GURISATII 20126; PINOTII 2009; RUDIGER 2010; SHIFF 1992; SLUGAN 2016; VESP UCCI 2010.
A. P.
Il concetto di citazione (Zita!) svolge nell'opera di Benjamin un ruolo significativo sia dal punto di vista stilistico, sia da quello filosofico. Per quanto riguarda lo stile, è evidente come Benjamin, già nel corso degli anni Venti, componga i suoi scritti a partire da una meticolosa raccolta di citazioni, poi collegate tra loro, con una sorta di montaggio'", nel lavoro di scrittura. Si tratta di.una vera e propria «tecnica delle citazioni accumulate» (lettera a Hugo von Hofmannsthal dell' r r giugno 1925; L 12 3) che sta alla base in particolare-del libro sul Dramma barocco tedesco (1928; OC II, 69-268), come documentato dalle lettere a Scholem del 5 marzo r 92 3 («Dispongo di circa seicento citazioni, in bell' ordine e facilmente reperibili»; L 84) e del 22 dicembre 1924 (« Ora mi sorprende soprattutto il fatto che, se si vuole, Jl testo che ho scritto consista quasi totalmente di citazioni. E la tecnica a mosaico piu folle che si possa pensare»; L 107). Anche Strada a senso unico (1928; OC II, 409-63) si presenta come un mosaico, in cui ogni aforisma è preceduto da un titoletto che cita liberamente locuzioni legate all'ambiente urbano (cartelli stradali, insegne, réclame ecc. ). Tra le annotazio.ni intitolate « Chincaglieria» si trova una prima riflessione di Benjamin sulla sua tecnica compositiva: «Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l'assenso ali' ozioso viandante» (455). In effetti Benjamin era un appassionato collezionista'' di citazioni. Hannah Arendt lo descrive come un «pescatore di perle» che portava sempre con sé dei piccoli taccuini «nei quali annotava instancabilmente sotto forma di citazioni le "perle" e i "coralli" che la vita e le letture quotidiane gli offrivano» (Arendt 1968, 71). Il potenziale critico della citazione come tecnica compositiva
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si era palesato a Benjamin grazie a Karl Kraus, di cui era lettore fedele sin dal 1915. Sulle pagine della «Fackel», lo scrittore satirico viennese fece della citazione l'arma privilegiata della sua ostinata battaglia contro la stampa, arrivando a pubblicare nel 1918 un libro di 700 pagine contro la guerra (Gli ultimi giorni dell'umanità), composto essenzialmente di citazioni. Non sorprende quindi che proprio nel saggio su Karl Kraus (1931; OC IV, 329-58), al quale aveva peraltro già dedicato alcuni scritti («Monumento al combattente» in Strada a senso unico: OC II, 440-41; Karl Kraus legge O//enbach, 1928: OC III, 53-55; il breve articolo Karl Kraus , 1928: OC III, 163; Wedekind e Kraus alla Volksbi.ihne, 1929: OC III, 408-u) Benjamin esponga i capisaldi della sua teoria della citazione. Dopo aver chiarito che «nel suo grado supremo il lavoro di Kraus si esaurisce nel rendere citabile lo stesso giornale» (OC IV, 354), Benjamin scrive: Nella citazione che salva e punisce la lingua si rivela come la madre della giustizia. La citazione chiama [ruft aufJ la parola per nome, la strappa dal contesto [Zusammenhang] che distrugge, ma proprio per questo la richiama anche alla sua origine [Urspnmg] (ibid.).
Tre operazioni distinte e complementari vengono qui evocate in rapida successione. Anzitutto la citazione «chiama la parola per nome»: Benjamin allude in tal modo al significato etimologico del verbo latino citare, «chiamare», e piu specificamente «chiamare in giudizio». Citando stralci dai quotidiani, Kraus li sottopone a giudizio, accusandoli di avere degradato la lingua"' a mero mezzo di comunicazione, secondo quella «concezione borghese della lingua» che era stata demolita nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo (1916; OC I, 281295). Ma c'è di piu: con la citazione Kraus scardina e distrugge il contesto giornalistico in cui la parola è imprigionata: con gesto analogo a quello del materialista storico delle tesi Sul concetto di storia, egli ha la forza di «scardinare il continuum della storia» (1940; tesi XVI: CS 51) . Infine, grazie a questa azione distruttiva, la citazione «richiama[ ... ] alla sua origine'''» (OC IV, 354) la parola, ovvero alla sua originaria natura di medium della comunicabilità, dal momento che, secondo la filosofia del linguaggio di Benjamin, «ogni lingua comunica se stessa» (Sulla lingua ... ; OC I, 283). Come la prosa di Kraus, anche il teatro brechtiano assegna alla citazione una funzione strategica: «Citare un testo impli-
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ca interrompere il contesto in cui rientra. È cosi perfettamente comprensibile come il teatro epico, che si basa sull'interruzione, sia in senso specifico un teatro citabile» (Che cos'è il teatro epico? [seconda stesura], 1939; AC 289). Ma è nel Passagenwerk che la decisiva funzione epistemologica della citazione giunge a dispiegarsi pienamente. Nella su a incompiutezza, quest'opera appare come un'immensa raccolta di citazioni, ordinate tematicamente in 36 faldoni. Riflettendo sul suo originale metodo di lavoro, Benjamin scrive: «Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare» (OC IX, 514). E ancora: «Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l'arte di citare senza virgolette. La sua teoria è intimamente connessa a quella del montaggio » (512). Benché l'affermazione di Adorno secondo cui l'opera sui passages «non avrebbe dovuto consistere che di citazioni» (Adorno 1950, 227) sia stata ampiamente smentita dagli studiosi (cfr. Espagne-Werner 1986), è innegabile che la ricerca benjaminiana sia basata su un accurato lavoro di documentazione (raccolta 1elle citazioni) e, soprattutto, di composizione o costruzione. E da notare però che «il momento costruttivo non è imposto a posteriori sul materiale della ricerca documentaria, ma scaturisce dal suo intimo movimento che si dispiega nelle varie fasi fino alla stesura finale>> (Agamben in CB 14). Lo stato in cui Benjamin ha lasciato il Passagenwerk testimonia dunque di una fase ancora preparatoria, che doveva precedere la stesura finale. Riflettendo su questo singolare intreccio di documentazione e costruzione, Benjamin elabora una concezione della storiografia che, in contrasto con la pretesa storicistica di conoscere il passato «proprio come è stato davvero» (Sul concetto di storia; tesi VI: CS 27) , pone in primo piano «l'elemento distruttivo» (86): «Scrivere storia significa[ ... ] citare storia. Nel concetto delle citazioni è, però, implicito che l'oggetto storico venga strappato dal suo contesto» (OC IX, 534-35). Qui l'attività dello storico si fa gesto politico, dal momento che in certo modo imita ciò che si verifica nei momenti rivoluzionari, come sottolinea la tesi XIV sul concetto di storia: «La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l'antica Roma esattamente come la moda cita un abito d'altri tempi» (CS 47). Il significato squisitamente messianico di questo gesto distruttivo operato dal materialista storico è infine al centro della terza tesi sul concetto di storia:
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_Certo, solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una citation à l'ordre dujour- giorno che è appunto il giorno del giudizio (2 3-24).
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Città
Lo spettro semantico del termine «citazione» si arricchisce qui di un'ulteriore sfumatura. Nel lessico militare la «citazione ali' ordine del giorno» indica infatti una « menzione solenne e pubblica dello straordinario atto di valore», come ricordano Bonola e Ranchetti (149). Portando l'esigenza messianica fino all'estremo, Benjamin immagina il mondo redento come «mondo dell'attualità universale e integrale» (84), in cui nulla va perduto, ma ogni singolo attimo, anche il piu apparentemente insignificante, viene pubblicamente onorato. Non sarebbe dunque azzardato scorgere nel Passagenwerk una sorta di modello in miniatura della redenzione.
Il tema della città in Benjamin può essere colto da due prospettive affini, ma distinte: poetico-letteraria, allegorica"' e fisiognomica la prima, storico-ermeneutica, materialistica"' e dialettica la seconda. Nel primo caso abbiamo le testimonianze del flaneur-1, Benjamin, elaborate sulla scia dei maestri del genere, i berlinesi H essel (1927; 1929) e Kracauer (1964), e i parigini Baudelaire (1863) e Aragon (1926): anzitutto la serie delle brevi monografie dedicate a singole città (Napoli, 1924; OC II, 3746; Mosca, 1927; OC II, 624-53·; Weimar, 1928; OC III, 78-80; Marsiglia, 1929; OC III, 196-200; San Gimignano 1929; OC III, 341-42), in secondo luogo la raccolta di personali esperienze «infantili» relative alla città di Berlino, intitolata Infanzia berlinese intorno al millenovecento (1933; OC V, 358-421; 1938; OC VII, 17-61), che trova il proprio pendant preliminare in Cronaca berlinese (1932; OC V, 245-95). Ciò che, nelle differenze, accomuna questi testi, e costituisce il taglio peculiare dato da Benjamin alla sua esperienza microlo-· gica della città, è uno sguardo «dal basso», tipico di un fanciulloflaneur che, con istinto da detective e collezionista-1,, si aggira nel rovescio della città, indagandone i tratti minori, nascosti e discosti dagli itinerari ufficiali: « Solo fra le pieghe, - si legge in Cronaca berlinese, - si trova l'essenziale.[ ... ] La memoria'' passa dal piccolo al piccolissimo, e da questo al minuscolo, e ciò che incontra in questi microcosmi diventa sempre piu potente» (OC V, 248). Per il vero flaneur «le grandi reminiscenze, i brividi storici sono una miseria che egli lascia volentieri al turista» (Il ritorno del flaneur, 1929; OC III, 380), e la regola aurea del suo andare a zonzo in una città non è quella del ritrovarsi, ma dello smarrirsi• in essa: «Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta» (OC V, 360).
Per approfondire: AGAMBEN 2000; CAPPELLETTO 2002; FURNKAS 1987; GREANEY 2014; OEHLER 1986; SCARAMUZZA 2002; SCHULTE 2003; VOIGTS 2000; WOHLFARTH 1986.
S. M.
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Nondimeno, tàle prospettiva di totale aderenza con il corpo della città non ha nulla di puerile, né si perde in una mera mitologia surrealista dell 'onirico urbano: quelle di Benjamin sono allegorie in cui i microframmenti di una città vengono smontati e rimontati in modo da farne scaturire un senso - un carattere - tanto piu profondo. Q uello di Napoli, ad esempio, consiste nella sua «porosità», ovvero nel s_uo essere espressione di una «ritmica comunitaria» che procede per inclusioni. A Napoli pubblico e privato, strada e casa, negozio e salotto, si compenetrano in un modo che non può che apparire «rivoluzionario» al berlinese: L'esistere, che per l'europeo del nord rappresenta la piu privata delle faccende, è qui, come nel kraal degli ottentotti, una questione collettiva. [ ...] [Qui] la miseria ha provocato una dilatazione dei confini che è immagine speculare della piu radiosa libertà di spirito (OC II, 44).
Tanto piu decisiva, dal punto di vista di una _diversa prassi dell'abitare - non borghese, cultuale e intimistica, ma collettiva, pubblica e comunitaria - appare l'esperienza della città nella Mosca post-rivoluzionaria, che Benjamin, nel 1927, contrappone diametralmente alla Berlino capitalista: Berlino è una città deserta. Gli uomini e i gruppi che si muovono nelle sue strade hanno attorno a sé la solitudine. [ ... ] Quale esuberanza ha invece la strada a Mosca, gonfia non solo di gente; e com'è morta e vuota, al confronto, Berlino!. A Mosca la merce trabocca dappertutto fuori dalle case [ ... ]. Le strade di Berlino non conoscono angoli del genere [ . .. ]. Confrontate con quelle di Mosca, sembrano una pista appena ripulita (OC II, 624-25).
Da tale opposizione tra città del capitale e città della rivoluzione scaturisce l'altra prospettiva con cui Benjamin - riprendendo la lezione di Simmel (1900; 1903) e di Kracauer (1963) (cfr. Frisby 1985) - guarda alla città, e che, a partire dalla fine degli anni Venti, si concentra su Parigi, «la capitale del XIX secolo» (cfr. I «passages» di Parigi; OC IX). Qui non si tratta piu di flaner in tempo reale per la città, ma di riattraversarne con occhio storico-critico le forme tramandate in immagini, architetture, scritture, oggetti, tipi umani, ecc., nella consapevolezza ermeneutica che cose, che negli eventi politici non giungono affatto, o solo a stento, all' espressione si svelano invece nelle città, che sono uno strumento sottilissimo e, malgrado il loro peso, sensibili come un'arpa eolica alle vive oscillazioni della storia (OC IX, 486).
CITTÀ
Decisiva appare l'idea che la città sia il vivo fenomeno espressivo di un carattere storico-epocale di cui essa, in tutti i suoi dettagli, è la grafia, il geroglifico, il sogno'°' - che possono essere decifrati e interpretati. Alla ricerca dei luoghi in cui la storia acquista la sua specifica «visibilità», Benjamin, n el Passagenwerk, ribadisce che la sua indagine h a a che fare col « carattere espressivo» degli oggetti metropolitani (dr. 514): nella misura in cui la città non è l'effetto causale dei fatti economici, ma, appunto, la loro espressione allegorica, interpretarla significherà cogliervi molto di piu che non la mera impronta di una struttura economica nella sovrastruttura culturale, cioè le tracce ambigue di desideri, timori, speranze, bisogni, aspirazioni, energie vitali -che l'inconscio dell'epoca h a lasciato nel suo «sogno» metropolitano. Il Passagenwerk intende interpretare i tratti della città di Parigi - passages'~ e intérieurs, esposizioni e boulevards, panorami e chif/onniers, ecc. - come «residui di un mondo di sogno» ( 17), da portare dialetticamente al risveglio'°' storico. Ma perché proprio Parigi? Per il suo carattere di passaggio e di soglia tra due mondi: qu ello ancora premoderno, agreste, provinciale di Berlino, e quello già ultramoderno, industriale e metropolitano di Londra. In mezzo tra questi du e estremi, già città della tecnica'", del lusso e della merce, ma non ancora città del lavoro totale e della reificazione industriale di tutto, Parigi è il luogo in cui - come nel sogno - arcaico e moderno, lato infantile di desiderio e lato adulto di volontà appaiono ambiguamente compenetrati: è aperta alla folla variopinta, ma teme la massa anonima; si dà alla tecnica e ai nuovi materiali, ma ne dissimula artisticamente le forme con ogni tipo di camuffamento arcaico; anela alla merce e alla moda, ma le rinchiude nell'intérieur onirico del passage; accetta le macchine, ma nelle Esposizioni universali le inserisce in contesti archeologici ed esotici da luna park . Le «immagini in cui il nuovo si compenetra col vecchio», commenta Benjamin, sono «immagini ideali, in cui la collettività cerca di eliminare o di trasfigurare l'imperfezione del prodotto sociale, come pure i difetti del sistema produttivo sociale» (6). La città di Parigi è l'immagine che esprime l'ambiguità con cui, nel XIX secolo, la classe borghese sembra al tempo stesso accettare e rifiutare, a livello inconscio, il destino del progresso e del dominio planetario che la società capitalistica le ha riservato, poiché ne comprende sia il lato umano ed emancipatorio,
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sia il lato disumano e distruttivo dei valori della propria stessa migliore tradizione. Ed è qui che deve intervenire la Traumdeutung, l' «interpretazione del sogno» critica della citrà da parte del materialista''' storico, affinché l'ambiguità borghese si ribalti in dialettica rivoluzionaria, e il sogno sfoci in quel risveglio'' storico che può realizzare ciò che la borghesia, per l'appunto, si è limitata a sognare: una città in cui siano la merce e la tecnica al servizio dell'uomo, e non viceversa. A ben vedere, l'intero Pdssagenwerk benjaminiano altro non è che una siffatta Traumdeutung materialistica della città di Parigi, al servizio della rivoluzione. A prescindere dalla sua intentio politica, un'eco del metodo «fisiognomico » di indagine della città di Benjamin si ritrova (ai limiti del plagio) in Panorama del XIX secolo di Dolf Sternberger (1938), e risuona ancora nel postmodernista Delirious New Yor~ di Rem Koolhaas (1978).
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Collezionismo
Per Benjamin il collezionismo fu al contempo una pratica di vita e una figura del pensiero. In varie fasi della sua vita e a seconda delle circostanze (aggravatesi dopo l'emigrazione forzata, in quanto ebreo e comunista, dalla Germania nazis!a nel m~rzo del 1933), Benjamin si abbandonò a quella che egh stesso riconobbe come la «mia mania di collezionista» (Diario moscovita, 1926-27; OC II, 536), che lo afferrò fin dall'infanzia''': Ogni pietra trovata, ogni fiore raccolto, ogni farfalla prigioniera erà per me già l'avvio di una collezione e, in generale, tutto ciò che poss:devo era per me un'unica collezione. «M~ttere a posto» av_rebbe d_emohto un edificio pieno di spinose castagne, di carte stagnole, 11 cubetti _d a costru: zione di cactus di monetine di rame, che erano astn del mattmo, tesori d' arg~nto, bare,' alberi totemici e stemmi a:al?~ci_ (Infa~zi~ ~erlinese intorno al millenovecento, 1932; OC 5, 390; cfr. simili nfless1oru m Strada a senso unico, 1928; OC Il, 435).
Per approfondire: ALAC 2008; ANDREOTTI 20II; FUZESSÉRY e SIMAY 2008; GILLOCH 1996; GURISATTI 2009; MENZIO 2002; SALZANI 2007; SAVAGE 1995; SIMAY 2005; W EBER, s. 2003.
G. G.
Cosi, agli oggetti tipici del collezionismo infantile ~ fr~ncobolli (OC II, 451-54), cartoline (OC V, 283 e 373), figurme (OC IV, 60), farfalle (OC V, 3?7), ~e meda~lie d?rate dell_e ~ca~ tole di sioari (OC V, 420) - s1 aggmnsero m eta adulta 1 hbn per bambini (cfr. per l'elenco Benjamin 1981, 79-u7) e i libri di malati di mente (OC III, 97-103), nonché i disegni e le illustrazioni (OC VI , xv-xvI). Appassionato visitatore di collezioni altrui (soprattutto le piu improbabili) , avvertiva con gli altri collezionisti un'elettiv~ affinità, che gli consentiva una facilità nei rapporti umani altnmenti per lui difficile da conseguire: «Con nessuno riesco a entrare in contatto meglio che con un collezionista» (lettera a Gretel Adorno inizi di aprile 1939; GB VI, 248). Di uno in particolare, Ant~n Maria Pachinger, annotò ammirato nei materiali del Passagenwerk che una volta si era chinato all'improvviso «per raccogliere ciò che aveva cercato per settimane: l' esemplare di-
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fettoso di un biglietto di tram, che era stato in circolazione per un'ora soltanto» (OC IX, 941). Forse per aneddoti come questi Benjamin prediligeva, fra le molte definizioni dei collezionisti, quella che li contrassegna come «adoratori del caso», «fisiognomici convinti che non vi è nulla che possa capitare alle cose di tanto stravagante, imprevedibile, inavvertito da non lasciarvi le sue tracce » (Gabriele Eckehard, Il libro tedesco nel periodo del barocco, 1930; OC IV, 165). Il nesso fra collezionismo e fisiognomica viene piu volte ribadito: per la sua peculiare capacità di scorgere lati inediti e inappariscenti delle cose (anche, e soprattutto, di quelle piu umili e marginali), il collezionista è annoverato, insieme alflaneur·\ al falsario, al giocatore, al dandy, fra gli «strumenti di studi fisiognomici» che dovevano guidare Benjamin nella descrizione del volto della modernità visto nello specchio della Parigi del XIX secolo (OC IX, 950; Paralipomena, OC IX, 984). Nella polarità di vicinanza e lontananza, che informa la concezione benjaminiana della costitutiva storicità della percezione'' , il collezionismo appare preso in una strutturale dialetticità: da un lato, il passato che gli oggetti collezionati evocano allo sguardo amoroso del collezionista lo trasforma in «un mago che attraverso di essi guardi nella loro lontananza » (Elogio della bambola, 1930; OC IV, 11). Dall'altro, - in virtu del suo «tete à tete con le cose» (OC IX, 949) e della sua intima adesione fisiognomica a esse - il collezionismo viene annover ato fra le «manifestazioni profane della "vicinanza"» (OC IX, 214); i collezionisti sono « persone dall'istinto t attile » .(OC IX, 216-17). Ma tale adesione non deve essere scambiata per un' accettazione incondizionata dello stato delle cose. Piuttosto il contrario. Il gesto del collezionista interviene con decisione a scardinare un ordine costituito, consolidato nelle tradizionali tassonomie, per ricomporre i frammenti in un ordine nuovo, regolato dalla logica sui generis che governa la sua collezione, nella quale ogni oggetto è monade''' che sintetizza in sé tutto il mondo cui apparteneva: La vera, misconosciutissima passione del collezionista è sempre anarchica, distruttiva. [ ... ] Per il collezionista, in ciascuno dei suoi oggetti è presente il mondo stesso. E lo è in modo ordinato. Ordinato però secondo un contesto sorprendente, incomprensibile al profano (Elogio della bambola, 1930; OC IV, ro; dr. anche OC IX, 214).
COLLEZIONISMO
In questo senso si comprende la coappartenenza intravista da Benjamin di collezionismo, allegoria''' e montaggio''' alla medesima costellazione concettuale. Nel Dramma barocco tedesco lo «schema dell'allegoria» era considerato come dominato da una legge che «si chiama "dispersione " e "collezione"» (OC II, 22 3). Allegorista e collezionista, come leggiamo nel Passagenwerk, sembrano cosf le due facce di una stessa medaglia: L'allegorista costituisce in un certo senso l'antipodo del collezionista: ha rinunciato a far luce sulle cose attraverso la ricerca di ciò che a esse sarebbe in qualche modo affine e omogeneo, le scioglie dal loro contesto e rimette fin da principio alla propria assorta profondità il compito di illuminare il loro significato. Il collezionista, al contrario, riunisce ciò che è affine [ ... ]. Cionondimeno però - e questo è piu importante di tutto quanto possa mai esservi di diverso fra loro - in ogni collezionista si nasconde un allegorista e viceversa (OC IX, 222) .
È invece a un'altra figura di pensiero, quella dello chiffonnier cantato da Baudelaire, che occorre rivolgersi per cogliere il nesso tra collezionismo·e montaggio. In Du vin et du haschisch il poeta stesso suggerisce che l'attività dello straccivendolo sia una forma del collezionare: «Tutto ciò che la grande città"' ha rigettato, tutto ciò che ha perduto, tutto ciò che ha disdegnato, tutto ciò che ha fatto a pezzi, lui lo cataloga, lui lo colleziona» (cit. in OC IX, 383). Il progetto sui passages doveva essere ispirato a una simile procedura: un «montaggio letterario» in cui riciclare «stracci e rifiuti» (5 14; passo simile ibid., 942). Nella sua pars destruens, la peculiarità del gesto del collezionista consiste nel sottrarre le cose alla loro destinazione d'uso, nel negar loro una qualsivoglia u tilizzabilità pratica. Lo spiega chiaramente un suggestivo testo del 1931, Tolgo la mia biblioteca dalle casse, che Benjamin dedica alle proprie avventure di incallito collezionista e in particolare alla propria collezione di libri (una raccolta che patf le complesse vicissitudini del suo proprietario): il collezionista intrattiene un «rapporto con le cose che non esalta in esse il valore funzionale e dunque la loro utilità, la loro adoperabilità, studiandole, piuttosto, e amandole, come la scena, il teatro del loro destino» (OC IV,-457). Si tratta di assumersi «il compito di trasfigurare le cose. E un lavoro di Sisifo, che consiste nel togliere alle cose, mediante il suo possesso di esse, il loro carattere di merce. Ma egli dà loro solo un valore d'amatore invece del valore d'uso» (Exposé del 1935; AC 381).
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COSTELLAZIONI
8. Conoscibilità e leggibilità
Queste direttrici di pensiero vengono a confluire nel saggio del r937 Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, colorandosi di una piu decisa tonalità politica. Rompendo con la tradizione classicistica dell'arte (basata sulla bella apparenza, sull'armonia, sull'unità del molteplice), collezionando caricature, illustrazioni di costumi, immagini erotiche e pornografiche, Fuchs appare come un vero «pioniere di una visione materialistica'~ dell'arte» (OC VI, 467), per la quale la cultura non consiste in una totalità storica reificata da tramandare nella tradizione, bensi come un campo dal quale prelevare con gesto distruttivo le opere per sottrarle alla feticizzazione del mercato dèll' arte, e riconsegnarle al contesto comunitario e anonimo nel quale erano potute sorgere. Con le sue riflessioni sul collezionismo Benjamin si inserisce in una ricca tradizione che nella cultura di lingua tedesca - pensiamo a Goethe (1798) e a Burckhardt (1893-96) - aveva profondamente meditato sulla figura del collezionista.
Tra le peculiarità dello stile filosofico di Benjamin va annoverata la tendenza a «sostantivare verbi non nel modo abituale ma aggiungendo il suffisso -barkeit » (W:ber 20?8, 4), ~or~~spo1'.dente all'italiano -ibilità o -abilità. Per citare gli esempi prn noti: la traduzione'' viene ricondotta alla «traducibilità» (Il compito del traduttore, r923; AC 130), la critica''' alla «criticabilità» (Il · concetto di critica nel romanticismo tedesco, 1919; OC I, 413-14, 440), la lingua"' alla «comunicabilità» (Su~~a l!ng~a in gener~le_e sulla lingua dell'uomo, 1916; OC I, 286), I im1tazione all~ «i1:1itabilità» (Dottrina della similitudine, r933; AC 142), la citaz10ne'' alla «citabilità» (Che cos'è il teatro epico?, seconda stesura, 1939; AC 289), la riproduzione tecnica alla riproducibilità 1' (L'opera d'arte nell'epoca della sua rip~oducibil~tà tecnica, p~im? dattiloscritto, 1935-36; AC 17-49). Si tratta di una strategia filosofica mirata, mediante la quale Benjamin ci invita anzitutto a spostare l'attenzione dal piano fa_ttuale in cui incontri_amo un determinato fenomeno (ad esempio: una certa traduzione) al piano trascendentale in cui rep~rirne le_ con~izio?i di J?~ssibilità. La ripresa del progetto critico kantiano e q~i esplicita,_ ma Benjamin intende attuare «una revisione e uno sviluppo ulteriore di Kant» (lettera a Gershom Scholem del 22 ottobre 1917; L 35). Tale «revisione» prevede di ripensare i concetti di esperienza'" e conoscenza, come pure la relazione tra empirico e trascendentale:
Per approfondire: ABBAS 1988-89; ARENDT 1968; COQU IO 20rr; DAUBE 1987; HOLDENGRABER 1992; HOLT 2012; KOHN 2000; MCLAUGHUN 1995; SCHLUTER 1993; STEINBERG 1996; WEIDMANN 1992.
A. P.
La onoseologia fu tura ha il compito di trovare, per la conoscenza, la D • • • sfera della neutralità totale rispetto a1 concetti «oggetto» e «soggetto »; m altri termini di determinare la sfera autentica e autonoma della conoscenza, in cui qu~sto concetto non indica piu affatto la relazione fra due entità metafisiche (Sul programm a della filoso/iafutura, 1 9 17-18; OC I, 334).
A differenza di Kant, Benjamin non situa il trascendentale nel soggetto, esortando invece a «eliminare la natura soggettiva della
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coscienza conoscente», in modo da non concepirla «in analogia con quella empirica» (332). Ma se il trascendentale non viene piu ricondotto al soggetto, ciò implica che esso venga ridefinito come «sfera della neutralità totale» (334): una sfera impersonale che sta al di qua del dualismo soggetto-oggetto. Precisamente in questa sfera, tutta da esplorare, vanno ricercate le condizioni di possibilità dell'esperienza e della conoscenza, ovvero le istanze della conoscibilità e della leggibilità. Già in un frammento del 1920-21 Benjamin riflette sulla «costituzione delle cose nell' adesso della conoscibilità» (Jetzt der Erkennbarkeit): «Il mondo è conoscibile adesso. La verità consiste nell"'adesso della conoscibilità".[ ... ] L'adesso della conoscibilità è il tempo logico, che occorre fondare al posto di una validità senza tempo» (Teoria della conoscenza; OC VIII, 41-42). Si noti come la questione gnoseologica venga qui liberata da ogni riferimento al soggetto conoscente: benché non ulteriormente specificata, la «conoscibilità» appare come un'esperienza impersonale, capace di produrre una temporalità propria, incentrata sull' adesso. Questo approccio guida la ricerca archeologica sui passages parigini, tanto che Benjarnin non esita a definire l' « adesso della conoscibilità» come il concetto intorno a cui si è «cristallizzata» la sua «teoria gnoseologica» (lettera a Gretel Adorno del 9 ottobre 1935; cit. in OC 9, n20). Uno degli aspetti piu significativi di questa teoria, accanto ali' esaltazione della ]etztzeit'°', consiste nell'identificazione tra conoscibilità e leggibilità, a loro volta ricondotte non alla soggettività dello storico, ma al modo di darsi delle immagini dialettiche 1': L'indice storico delle immagini dice[ ...] non solo che esse appartengono a un'epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità [Lesbarkeit] solo in un'epoca determinata. E precisamente questo giungere «a leggibilità» è un determinato punto critico del loro intimo movimento. Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni adesso è l' adesso di una determinata conosdbilità (I . Ma che cosa spinge Benjamin a sovrapporre conoscibilità e leggibilità? In Dottrina
CONOSCIBILITÀ E LEGGIBILITÀ
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della similitudine, approfondendo il punto di vista filogenetico sulla facoltà mimetica,·,, Benjamin nota come tra le prime forme di conoscenza si trovi la divinazione: «Ai primordi dell'umanità questo leggere [Herauslesen] gli astri, le viscere, le coincidenze, era il leggere [Lesen] per antonomasia» (AC 145). Nella divinazione si tratta cioè di «leggere ciò che non è mai stato scritto» (Hugo von Hofmannsthal, citato in Sulla facoltà mimetica, 1933; OC V, 524). Già in alcuni frammenti scritti intorno al 1917, del resto, Benjarnin interpretava la percezione come lettura: «Percepire è leggere» (OC VIII, 28). Non sorprende dunque che nel Passagenwerk si passi dalla «leggibilità» alla «conoscibilità» senza soluzione di continuità. Va aggiunto che, analogamente alle immagini dialettiche, anche la percezione della similitudine «è sempre legata a un balenare [ein Aufblitzen]. Guizza via [huscht vorbei] [... ]. Si offre allo sguardo nel modo altrettanto fugace e passeggero di una costellazione astrale» (AC 143). Ritroviamo le stesse espressioni nella quinta tesi Sul concetto di stori._a (1940): «La vera immagine del passato guizza via [huscht vorbez]. E solo come immagine che balena [aufblitzt], per non piu comparire, proprio nell'attimo della sua conoscibilità che il passato è da trattenere» (CS 25-27) . Nell'adesso della conoscibilità, quindi, non è in gioco solo il presente, ma un incontro fulmineo tra un momento del presente e un momento del passato. Ciò significa che la conoscibilità presuppone la memoria''', piu precisamente un atto di rammemorazione* involontaria: L'immagine del passato che balena nell' adesso della sua conoscibilità è [... ] un'immagine del ricordo* [Erinnerungsbild] . Assomiglia alle immagini del proprio passato che si presentano alla mente degli uomini nell' attimo del pericolo . Queste immagini, come si sa, vengono involontariamente (Materiali preparatori per le tesi; CS 87).
Con i concetti di conoscibilità e leggibilità Benjamin elabora dunque una teoria della conoscenza in cui il privilegio tradizionalmente accordato alla volontà del soggetto (autore oricercatore) viene congedato senza riserve. Genuinamente conoscibili o leggibili sono le immagini che affiorano nella mémoire involontaire. La loro conoscibilità non solo non coincide con il loro essere effettivamente conosciute, ma non lo garantisce affatto. Di qui il carattere rischioso e pericoloso del lavoro del materialista'·' storico: «Ciò che è stato va trattenuto cosi, come un'immagine che balena nell' adesso della conoscibilità. La
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salvezza [Rettung], che in questo modo - e solo in questo modo - è compiuta, si lascia compiere solo in ciò che nell'attimo successivo è già irrimediabilmente perduto» (OC IX, 531). La consapevolezza che ogni immagine «rischia di scomparire con ogni presente che non si sia riconosciuto inteso in essa» (tesi V; CS 27) è fondamentale, in quanto permette di tenere desta quella «presenza di spirito» (Geistesgegenwart) che Benjamin definisce «forma tra le piu alte di comportamento adeguato» (OC IX, 526). Coerentemente con queste premesse, l'adesso della conoscibilità si lascia identificare con «l'attimo del risveglio,.,» (OC IX, 1013). Per approfondire il tema della leggibilità del mondo dal punto di vista della storia delle idee restano fondamentali gli studi di Foucault (1966, cap. II) e Blumenberg (1979). Si deve invece a Giorgio Agamben (2008, cap. II) la proposta di interpretare il concetto benjaminiano di «indice storico» (OC IX, 517) alla luce della teoria rinascimen~ale delle segnature. Per approfondire: DIDI-HUBERMAN 2010a (cap. r); FENVES 2ou; HAMACHER 2002; PETERSON 2013; PIC 20II; PIC e ALLOA 2012; TAGLIACOZZO 2008 e 2013; WEBER, s . 2008; WEIGEL 1996.
S. M.
9.
Critica
L'intera opera di Benjamin si colloca sotto il segno della critica. Oltre ad avere scritto saggi critici sugli autori a lui piu cari (da Proust a Baudelaire, passando per Kraus, Kafka e altri) , nonché un ragguardevole numero di recensioni, Benjamin, che aveva l'ambizione di «essere considerato il primo critico della letteratura tedesca» (lettera a Scholem del 20 gennaio 1930; L 177), ha elaborato un'originale teoria della critica, senza però mai separarla dalla pratica interpretativa e dal commento dei testi. Già il sagoio oiovanile La vita degli studenti assegna . alla crio b tica un compito di respiro messianico: quello di «liberare i1 futuro dalla forma falsa e guasta che lo imprigiona nel presente, riconoscendo l'uno e l'altra » (1915; OC I, 250). Si intuisce da queste parole la volontà di Benjamin di «ricreare la critica come genere» (L 177). Un primo passo in questa direzione è costituito dalla sua tesi di dottorato, dedicata al Concetto di critica nel romanticismo tedesco. Benjamin vi delinea una concezione che accompagnerà tutti i suoi futuri lavori: la critica va intesa come «un esperimento sull'opera d'arte, nel quale viene destata la riflessione attraverso la quale l'opera viene portata alla coscienza e alla conoscenza di se stessa» (1920; OC I, 402). In altre parole, la critica «è molto meno il giudizio su un'opera, che non il metodo del suo compimento», e perciò non potrà che essere « poetica» (405). Si tratta di una critica che «può solo svolgere il germe critico immanente all'opera stessa» (41 3). Il concetto benjaminiano di critica va precisandosi nel saggio Le «Affinità elettive» di Goethe, che si apre con la programmatica distinzione tra critica e commentario: «La critica cerca il contenuto di verità di un'opera d'arte, il commentario il suo contenuto reale» (1924-25; OC I, 523) . Per «contenuto reale» o «casale» Benjamin intende l'apparenza empirico-sensibile dell' o-
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pera temporalmente determinata. Spetta al commentatore fare i conti con i contenuti empirici, in modo da preparare il terreno al lavoro del critico, il quale ha il difficile· compito di rintracciare quel «contenuto di verità» che si cela dentro al contenuto reale. Dal momento che il commentatore e il critico sono la stessa persona, quella delineata da Benjamin è una complessa strategia di sdoppiamento, evocata anche da una suggestiva immagine: Se si vuol concepire, con una metafora, l'opera in sviluppo nella storia come un rogo, il commentatore gli sta davan ti come il chimico, il critico come l'alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l'altro solo la fiamma custodisce un segreto: quello della vita. Cosi il critico cerca la verità la cui fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto (524).
L'idea secondo cui l'opera si trasforma nel corso della storia'"' è ripresa nel Compito del traduttore. Secondo Benjamin la vita
non va attribuita « solo alla fisicità organica », ma « a tutto ciò di cui si dà storia'"'» (1921; OC I, 502), dunque anche alle opere d' arte, le quali, dopo essere state generate, vanno incontro a una «sopravvivenza» o «vita postuma»· (Ùberleben) che coincide con la storia della loro ricezione (la cui forma paradigmatica è, accanto alla critica, la traduzione'"'). Ne consegue che «la storia delle opere prepara la loro critica» (Le «Affinità elettive» di Goethe; OC I , 52 3), nella misura in cui in essa si accentua la divaricazione tra «contenuto reale» e «contenuto di verità». A partire da questa polarità, in una lettera a Florens Christian Rang del 9 dicembre 192 3 Benjamin scrive: « Voglio definire la critica in questo modo: è mortificazione delle opere» (L 73) . Una tesi, questa, che innerva e guida il libro sul dramma barocco: La critica è mortificazione delle opere. [ .. .] È compito della critica filosofica mostrare che la funzione della forma artistica è appunto questa: trasformare i dati storici che stanno alla base di ogni opera significativa in contenuti di verità. Questa metamorfosi dei dati di fatto in contenuti di verità fa si che l'affievolirsi, decennio dopo decennio, del fascino originario dell'opera, diventi il germe di una nuova nascita, in cui ogni bellezza effimera viene completamente a cadere e l'opera si afferma come rovina (1928; OC TI, 217-18).
Il riferimento alla metamorfosi indica come il contenuto di verità sia immanente al contenuto reale, benché non coincida con esso. Il suo statuto non è empirico, bensf virtuale: il compito della critica consiste quindi nel portare alla luce nell' opera d'arte «la formulabilità virtuale del suo contenuto di verità
CRITICA
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come supremo problema filosofico>> (Le «Affinità elettive» di Goethe; OC I, 564). Ma essa «si arresta» di fronte alla effettiva formulazione di tale contenuto, «per reverenza nei confronti dell'opera, ma anche per rispetto verso la verità» (ibid.). Il critico deve restare fedele ali' opera nella sua irriducibile particolarità, invece di trascenderla verso una verità puramente ideale. Quello di Benjamin è inoltre un metodo micrologico. La critica diventa un modo per accedere al tempo storico attraverso lo sprofondamento .nella singola opera : bisogna far sf che l' opera assuma internamente «la forma di un microcosmo, anzi, di un microeone» (Storia della letteratura e scienza della letteratura, 1931; OC IV, 401) . Tale «compenetrazione reciproca di considerazione storica e critica» (ibid.) implica un ripensamento originale del rapporto tra il presente in cui si svolge l' attività critica e il passato dell'oggetto indagato: «Non si tratt a di presentare le opere della letteratura nel contesto del loro tempo, ma di presentare, nel tempo in cui sorsero, il tempo che le conosce, e cioè il nostro. In queste;_> modo la letteratura divent a un organon della storia» (ibid.). E infatti nel presente che un'opera può diventare conoscibile 1' , ma perché ciò accada è necessario che la critica si trasformi in un esercizio di • rammemorazione'", in cui «quel ch e è stato si unisce fulmineamente con l' adesso in una costellazione» (I «passages» di Parigi ; OC IX, 518) . Il risultato del lavoro critico cosi'. inteso è la composizione di immagini dialettiche'"'. Il fatto che per Benjamin la critica dovesse intervenire attivamente nel presente è attestata anche dai due progetti di rivista. a cui egli lavorò senza riuscire a realizzarli. Il primo è esposto nell'Annuncio della rivista: «Angelus Novus», il cui scopo principale avrebbe dovuto essere proprio quello di «restituire alla parola critica la sua autorità [Gewalt]», in modo tale da attenersi « a ciò che si configura come veramente attuale sotto la sterile superficie di quel nuovo o nuovissimo, il cui sfrut tamento [essa] deve lasciare ai giornali» (1922; OC I , 519) . Il secondo progetto, concepito insieme a Brecht nel 1930, prevedeva la pubblicazione di un bimestrale dal titolo Krise und Kritik , di chiara ispirazione materialistica'' . Agli anni tra il 1929 e il 1931 risale inoltre una serie di annotazioni sul tema della critica letteraria (OC VIII, 157-80): per Benjamin il compito di una «critica materialistica» (162) è quello di «togliere la maschera della "pura arte" e dimostrare che non esiste nessun campo neutro per l'ar te» (160).
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Come già si leggeva in Strada a senso unico, «il critico è stratega nella battaglia letteraria» (1928; OC II, 429). Nel corso degli anni Trenta le implicazioni politiche di questa battaglia si fanno vieppiu esplicite, in particolare nella conferenza L'autore come produttore, dove, adottando una terminologia marxista, Benjarnin affida alla «critica politica della letteratura» il compito di stabilire «la funzione che ha l'opera all'interno dei rapporti letterari di produzione di un'epoca» (1934; AC 104 e 149). Il presupposto della critica materialistica è infatti la lotta di classe. A questa lotta si richiamano anche le tesi Sul concetto di storia, che ruotano intorno all'urgenza di una «critica all'idea stessa di progresso» (1940, tesi XIII: OC VII, 490) . Per approfondire: BENVENUTI 1994; CARCHIA 2000; CAYGILL 1998; EAGLETON 1981; JENNINGS 1987; MCCOLE 1993; MENNINGHAUS 1986; MORONCINI 2009; STEINER 1989
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2000; WIZISLA 2013.
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Ebbrezza e hashish
Nel corpus benjaminiano sono frequenti i riferimenti all'ebbrezza delle droghe almeno dal 1927, anno in cui Benjamin inizia a sperimentare l'hashish e poi anche l'oppio e la mescalina in solitudine o in compagnia di Ernst Bloch o dei medici Ernst J oel e Jean Selz. Di queste esperienze sono rimasti appunti e verbali - Annotazioni non datate su esperimenti con la droga (1927-34; . OC VI, 192-95), i Verbali di esperimenti con l'hashish (19271928; OC III, 467-78), le Crocknotizen (1932; OC VI, 67-1 25), i Verbali di esperimenti con la droga (1927-34; OC V, 241-44). Su questo tema Benjarnin pubblica inoltre due testi: il racconto Myslowitz - Braunschweig - Marsiglia. Storia di un'ebbrezza provocata dall'hashish (1930; OC IV, 2 33-42) e Hashish a Marsiglia (1932; AC 320-33). D'altra parte, il motivo dell'ebbrezza nel · senso piu ampio (da tenere in relazione con l'esperienza del sogno1' e le nozioni di aura1' e di fantasmagoria''') affiora continuamente nelle pagine di Benjamin in riferimento alla metropoli o alla moda e all'analisi dell'opera di Baudelaire e del Surrealismo. Esperienze come quella del sogno o dell'ebbrezza provocata dall'utilizzo di droghe possono essere inserite all'interno della piu ampia riflessione benjaminiana sul medium-:, della percezione: la percezione umana non ~olo è orientata in senso naturale, ma anche in senso storico. E la dimensione di storicità della percezione''' che implica la non immediatezza della percezione umana, ma 1a sua mediatezza e cioè che essa si realizza attraverso le specifiche modalità materiali (e quindi storiche) con cui prende forma. La condizione di ebbrezza o sostanze come le droghe devono intendersi quindi al pari di media percettivi. Sotto questo aspetto Benjamin si inserisce all'interno della rivoluzione dell'idea stessa di percezione sviluppatasi a partire dalla metà del XIX secolo; come scriveJonathan Crary, è in questa epoca che si afferma su un piano scientifico, artistico e filoso-
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fico una concezione della percezione «separata da ogni punto di riferimento stabile o da ogni fonte od origine che possa costituire un centro attorno al quale un mondo esteriore, il reale stesso, possa essere costituito e appreso» (Crary 1990, 94-95). In merito alla sperimentazione dell'hashish e di altre droghe Benjamin entra in dialogo con una tradizione che parte da Thomas De Quincey e Baudelaire e arriva fino a Gottfried Benn; Aldous Huxley, ErnstJi.inger, William S. Burroughs. L'approccio di Benjamin alle droghe è dominato dall'esigenza di accedere a spazi normalmente inaccessibili all' esperienza e a un ampliamento delle relazioni sensibili; tuttavia il momento conclusivo dell'esperienza di ebbrezza deve condurre a un istante di «illuminazione profana» (profane Erleuchtung) (Il Surrealismo, 1929; AC 331, 3 3 3) cioè a una ispirazione « materialistica, antropologica» (AC 332) rivolta alla materia e alla contingenza (da intendersi appunto in senso materialistico-antropologico'') piuttosto che alla trascendenza. Nelle aperture esperienziali degli scritti sull'hashish Benjamin mette in luèe le modificazioni spaziotemporali, lo «humour meraviglioso e felice» che «si sofferma sulle contingenze del mondo spaziale e temporale» (Hashish a Marsiglia; AC 335), il potenziamento della facoltà fisiognomica. Di tali esperienze Benjamin evidenzia la dimensione dialettica: l'acuirsi della capacità di cogliere le affinità nelle differenze può rovesciarsi nel contrario, cosi come l'approfondirsi del bisogno di aprirsi agli altri può cedere il passo a un senso di isolamento e di estraneità anche verso un amico. Un rapporto particolarmente fertile con la dimensione del sogno e dell'ebbrezza è sviluppato dal movimento del Surrealismo che Benjamin segue con attenzione fin dalla sua fase aurorale. L'esordio del Surrealismo è definito come l'irruzione di «un'ispiratrice ondata di sogni»; attraverso le opere surrealiste la «vita pareva degna di essere vissuta solo quando la soglia che c'è tra la veglia e il sonno era come cancellata, in ciascuno, dai passi di mille immagini fluttuanti» (Il Surrealismo; AC 321). Le manifestazioni sensibili dell'arte surrealistica scardinano il senso usuale delle cose e per questa via arrivano a far saltare lo strato di vernice ideologica sotto cui si celano i rapporti di forza nel mondo capitalista. Le opere dei surrealisti - attraverso lo sfondamento della parete che usualmente separa la veglia dal sogno, riportando in vita oggetti di uso comune lasciati indietro dal «progresso», articolando nuove relazioni tra parole e imma-
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gini, allargando l'io fin dentro le cose e lasciando che il mondo esterno penetri fino a dissolversi in noi - permettono di accedere al rovescio di noi stessi (e delle cose): il medium del sogno e dell'ebbrezza opera attivamente per frantumare l' «uomo interiore, la psiche, l'individuo» (333), cioè i prodotti borghesi di cui ancora si nutre la concezione sia dell' artista estetizzante, sia di coloro che si appellano ali' «idealismo morale» (ibid. ) e all'«ottimismo» (331) come nucleo della loro concezione politica. Il sogno e l'ebbrezza presenti nelle opere surrealiste spingono verso quel «nuovo positivo concetto di barbarie» proposto in Esperienza e povertà (1933; AC 3.65) in grado di interrompere il lineare scorrere della storia,·, . Nelle sue espressioni piu potenti l'arte surrealista conduce a un « allentamento dell'io nell'ebbrezza» che è « nello stesso tempo l'esperienza viva e feconda che ha consentito a queste persone [i surrealisti] di sottrarsi al dominio dell'ebbrezza» (Il Surrealismo, AC 321). Ebbrezza quindi non come destin azione, ma come passaggio che riporta a un disincanto radicale, a una facoltà critica ampliata in grado di aprire a quel «nichilismo rivoluzion·ario» (324) che è la chance di redenzione dei dimenticati e degli oppressi. In altri termini, l'ebbrezza e il sogno possono operare come modalità di interruzione nichilistica e come antidoto alle atmosfere di fascinazione e di auraticizzazione dell'ammaliante mondo delle merci. Il pericolo insito nell' ebbrezza e nel sogno - e in tutti i fenomeni auratici cui gli individui sono esposti nel mondo del consumo - è quello di scivolare nell'intossicazione, nell'incantamento: il volto soggettivo e per cosi dire spirituale e libertario del capitalismo si svela, infatti, nella «rivitalizzazione» anzi in una «galvanizzazione» di «astrologia, sapienza yoga [ ... ], vegetarianesimo e gnosi [ .. .] [che] si è diffusa tra o meglio, sopra - la gente» (Esperienza e povertà; AC 365). Occorre invece rivolgersi alle esperienze di ebbrezza al fine di « conquistare le forze dell'ebbrezza per la rivoluzione» (Il Surrealismo, AC 330). Riprendendo un'osservazione di Aragon a proposito della «distinzione tra similitudine e immagine» (332), Benjamin rileva che la similitudine (o metafora) è un'immagine parassitaria rispetto ad altro da sé che rinvia a un ordine di cose già dato. Viceversa « scoprire nello spazio dell'azione politica lo spazio pienamente immaginale» (ibid. ) significa anteporre la prassi politica rispetto alla contemplazione, abolire l'idea di progresso con
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l'azione apocalittica dell'uomo, formatosi sul «materialismo an~ tropologico'~». Lo «spazio pienamente immaginale» che emerge nell'ebbrezza è il « mondo dell'attualità universale e integrale» quello cioè dove non c'è piu posto per il «"salotto buono"» e si apre lo spazio corporeo collettivo. Come scrive Masini, qui «l'ebbrezza raggiunge il culmine della sua parabola, nel punto, cioè, in cui corpo e spazio immaginale si compenetrano cosi profondamente» (Masini 1986, 195) che «tutta la tensione rivoluzionaria diventa innervazione corporea collettiva, e tutte le innervazioni corporee del collettivo diventano scarica rivoluzionaria» (Il Surrealismo, AC 333). Per approfondire: CASTOLDI 1994; DE CONCII,IIS 200I; FADINI 2006; HERLINGHAUS 2010; PALMA 2007; PONZI 1992; SELZ 1959; SELZ 1964; THOMPSON 2000.
M. G.
l I.
Esperienza
Il concetto di esperienza (Erfahrung) si può considerare come il filo d 'Arianna che permette di orientarsi nella labirintica produzione benjaminiana. Già nel 1913 il breve articolo «Esperienza» (OC I , 164-66) polemizzava, in nome della gioventu*, contro la retorica degli adulti benpensanti, inclini a svalutare «in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di dolci cretinate giovanili, in ebbrezza'~ infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria» (OC I, 164). Ma è il saggio Sul programma della filosofia futura a porre le basi, attraverso un serrato confronto con Kant, per la «fondazione gnoseologica di un concetto superiore di esperienza» (33 1). L' esperienza su cui si interroga Kant è criticata da Benjamin come «un'esperienza ridotta in certo modo al punto zero, al significato minimo» (330), che tradisce «la cecità religiosa e storica dell'illuminismo» (331 ). Allo scopo di superare i limiti angusti di questa concezione, Benjamin assegna alla filosofia futura il compito di superare il dualismo soggetto-oggetto come «relazione fra due entità metafisiche» (334). Invece di appiattire il piano dell'esperienza su quello della coscienza empirica e «di un Io individuale psicosomatico» (333), Benjamin mira · a una «coscienza gnoseologica pura (trascendentale)» (ibid.); che si configura come «sfera della neutralità totale rispetto ai concetti "oggetto" e "soggetto"» (334). Cosi ripensata, l' esperienza non è piu ristretta all'ambito delle scienze naturali, ma si apre alla storia, includendo «anche la religione» (ibid.), nonché «arte, giurisprudenza e storia» (337). Fondamentale è inoltre la consapevolezza che «ogni conoscenza filosofica trova la sua espressione esclusivamente nella lingua''» (338), intesa da Benjamin come il medium'' «non solo della conoscenza, ma anche di un'esperienza che tiene conto della propria singolarità e temporalità» (Weber 2008; r65).
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In seguito Benjamin si impegnerà a realizzare il progetto di una filosofia dell'esperienza, abbandonando però ogni velleità sistematica, per privilegiare invece la duttilità dello stile saggistico. Se già gli scritti degli anni Venti illuminano l' esperienza nella concretezza del suo divenire storico - si pensi alla descrizione della melanconia''' nel Dramma barocco tedesco (1928; OC II, 176-95) o al «Viaggio attraverso l'inflazione tedesca» in Strada a senso unico (1928; OC II, 417-22) - , con l'inizio del lavoro sui passages la ricerca di Benjamin si va precisando nel senso di una «storia originaria [Urgeschichte] del XIX secolo» (I «passages» di Parigi; OC IX, 946) che da un lato rievoca, attraverso il montaggio''' di innumerevoli citazioni'", i diversi modi in cui l'esperienza si declinava in quell'epoca, dall'altro tenta di rammemorare 1' quel passato per rendere possibile un risveglio''' che è a sua volta un'esperienza genuinamente politica. Tra i frutti di questa ricerca spicca la teoria dell'esperienza esposta in Su alcuni motivi in Baudelaire (1939; AC 163-202). Qui Benjamin rigetta il culto dell'esperienza vissuta (Erlebnis) che accomunava la filosofia della vita (Lebensphilosophie) con la fenomenologia e con il misticismo di Buber (1909) . Mentre il termine Er/ahrung rinvia a un verbo che - similmente al latino experiri - significa «passare attraverso» ed è connesso «con una costellazione di significati che implicano l'idea di viaggio» (Tagliapietra 2017, 75), il sostantivo Erlebnis, entrato nell'uso solo dalla seconda metà dell'Ottocento (cfr. Gadamer 1960, 86-98), rimanda immediatamente alla sfera della vita (Leben) e viene generalmente tradotto con la perifrasi «esperienza vissuta». Ebbene, Benjamin interpreta l'ossessione per l' Erlebnis, nata nel contesto del genere biografico (cfr. Dilthey 1905), come «un fatto sintomatico»: come il tentativo di «impossessarsi della "vera" esperienza [Er/ahrung], in contrasto con quella che si deposita nella vita regolata e denaturata delle masse civilizzate» (AC 164). Va ricordato che già nel saggio sulle «Affinità elettive» di Goethe si poteva leggere una durissima polemica contro il ricorso al concetto di Erlebnis da parte di quei critici che, come Friedrich Gundolf (1916), miravano ad «esporre il divenire dell'opera nel poeta in base a una schematica essenza personale e a una vuota o inafferrabile esperienza di vita [Erleben] » (1924-25; OC I, 549). Nel saggio su Baudelaire tale polemica si approfondisce attraverso l'elaborazione di una teoria dell'espe-
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rienza che prende le mosse dalla tesi di Bergson (1896) secondo cui la struttura della memoria 1' (Gedi:ichtnis) è «decisiva per la struttura filosofica dell'esperienza» (AC 164). Accanto alla memoria, l'altro elemento costitutivo dell'esperienza è la tradizione: «L'esperienza è un fatto di tradizione, nella vita collettiva come in quella privata. Essa non consiste tanto di singoli eventi esattamente fissati nel ricordo quanto di dati accumulati, spesso inconsapevoli, che confluiscono nella memoria» (ibid.). A differenza dell' Erlebnis, intesa come un vissu to che colpisce (come uno choc1' ) il soggetto, provocando quella che Simmel aveva chiamato «intensificazione della vita nervosa» (1903, 36), l' Er/ahrung presuppone un' accumulazione di dati in larga misura inconsapevole. Perciò il passato, sedimentatosi inconsapevolmente, è accessibile solo al ricordo''' involontario (mémoire involontaire), teorizzato da Proust sulla base della sua «critica immanente a Bergson» (165). Benjamin traccia quindi una feconda analogia tra la concezione proustiana e l'ipotesi freudiana secondo cui «parte integrante della mémoire involontaire può diventare solo ciò che non è stato "vissuto" [erlebt] espressamente e consapevolmente, ciò che non è stato, insomma, un'"esperienza vissuta"» (168) . Ne consegue che mentre il vissuto, legato a un evento, ci inchioda al presente, l'esperienza si rivela solo a posteriori (nachtri:iglich), nel ricordo involontario e nella narrazione,.,. La poesia di Baudelaire viene cosi interpretata come il grandioso tentativo di fare dello choc un oggetto poetico, e quindi un'esperienza: «Baudelaire ha posto l'esperienza dello choc [Chocker/ahrung] al centro stesso del suo lavoro artistico» (170-71).
Benché non si stanchi di diagnosticare «l'atrofia progressiva dell'esperienza» (166) in seno alla metropoli capitalistica, Benjamin evita tuttavia di cadere in atteggiamenti nostalgici, come dimostra il breve scritto Esperienza e povertà, una perentoria apologia d ella «povertà di esperienza [Er/ahrungsarmut]» (1933; AC 365). Invece di cercare nella mitizzazione dell' Erlebnis un improbabile antidoto alla modernità, Benjamin, preso atto del fatto che ormai «le quotazioni dell'esperienza sono cadute» (364), scorge nella nuova povertà di esperienza l'occasione «per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie>~: «A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? E indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco» (365). Il barbaro appare qui affine al Carattere di-
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struttivo, il quale «conosce solo una parola d'ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia» (1931; OC IV, 521) e «cancella perfino le tracce della distruzione» (5 22). Se l'opera di Benjamin si può leggere come una dettagliata mappatura delle diverse modalità in cui si declina storicamente l'esperienza, ciò è dovuto al fatto che «invece di volere padroneggiare attraverso la filosofia l'esperienza - sia quella dell' arte, della religione, del linguaggio o della città - Benjamin permette all'esperienza di mettere alla prova i limiti della filosofia» (Caygill 1998, xm). Tra coloro che negli ultimi decenni hanno indagato, da prospettive diverse, le trasformazioni dell'esperienza nella modernità vanno ricordati Giorgio Agamben (1978a), Marshall Berman (1982), H artmut Rosa (2013) e Peter Sloterdijk (2009). Per approfondire: BENJAMI N e OSBORNE 1994; CAYGILL 1998; JAY 1998; LAVELLE 2008; OPHALDERS 200lj RUSSO 1991; WEBER, T. 2000 ."
S. M.
12. Estetizzazione della politica, politicizzazione dell'arte
L'ultimo paragrafo del saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (primo dattiloscritto 1935-36, AC 4749) è incentrato sul rapporto tra «estetizzazione della politica>> e «politicizzazione dell'arte» e costituisce uno dei punti di riflessione piu alti sul rapporto tra arte e politica. Per Benjamin, il fascismo e il nazismo operano attivamente nella direzione di una «estetizzazione della vita politica» (48), il che significa offrire alle masse proletarizzate una possibilità di «esprimersi» (47) nel senso di un diritto - senza che i rapporti di proprietà siano trasformati. In particolare, Benjamin ricorda il .c onnubio tra il fascismo, l'estetica dannunziana e il futurismo marinettiano o tra il nazismo e il circolo di artisti sorto intorno a Stefan George; ma pone l'accento anche sulla funzione dei «cinegiornali» - quindi sull'informazione - come una delle punte piu avanzate del processo di estetizzazione in cui si inaugura una dimensione di spettacolarizzazione dell'esistente: Alla riproduzione in massa è particolannente favorevole la riproduzione di masse. Nei grandi cortei, nelle adunate oceaniche, nelle manifestazioni di massa di genere spor tivo e nella guerra, tutte cose che oggi vengono registr ate dagli apparecchi di ripresa, la massa guarda in faccia se stessa (47-48,
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Il fascismo e il nazismo concedono alla massa un unico diritto di espressione che è riassumibile nella contemplazione adorante della riproduzione spettacolarizzata che la massa offre di se stessa. Il fine ultimo di questo processo di estetizzazione è la guerra con la sua «spaventosa fisionomia» (49), che in ultima analisi mostra la frattura tra mezzi di produzione immani e l' «insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione», cioè «disoccupazione» e «mancanza di mercati sbocco» (ibid.) . Il momento di estetizzazione possiede una valenza politica, poiché
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nell'istante di massima estraneazione della massa da se stessa si disinnesca la violenza'' rivoluzionaria: la passiva contemplazione del proletariato si sostituisce alla sua azione distruttiva e al suo risveglio,., . Benjamin riconosce l'emergere dell' estetizzazione della politica - come processo di trasfigurazione dei rapporti di dominio in spettacolo - nei passages'~ e nelle esposizioni universali che costituiscono i fenomeni originari''' dell'estetizzazione, in quanto cattedrali della distrazione'°' e del culto delle merci: qui il proletario assume i caratteri dello spettatore e del «cliente» (I «passages» di Parigi, Exposé del 1935; AC 378). Per riprendere le parole di Guy Debord, lo spettacolo è «il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il desiderio di dormire» (1967, 59). «Scalpore», «splendore» e un «sentimento illusorio di sicurezza» (Exposé del 1939; OC IX, 20) sono alcuni degli aspetti della estetizzazione caratteristica non solo dei regimi fascisti, ma di ogni società produttrice di merci fin dal suo emergere. Un sistema economico capitalistico - indipendentemente dal tipo di governo politico cui si associa - è una macchina di fantasmagorie'~ che promuove il dominio delle merci, le quali a loro volta chiedono di essere oggetto di diverse forme di culto, di cui la moda costituisce un paradigma: La moda prescrive il rituale secondo cui va adorato il feticcio della merce [ . . .].Essa è in conflitto con l'organico; accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere. Il feticismo, che soggiace al sex-appeal dell'inorganico, è il suo ganglio vitale. Il culto della merce lo mette al proprio servizio (Exposé del 1935, AC 379).
La moda è monade* culturale del capitalismo, non un suo effetto, e in quanto sua espressione ci consente di coglierne i caratteri salienti. All'interno del capitalismo non c'è aspetto che sfugga alla legge della merce: ovvero che la separazione - in valore d'uso e in valore di scambio - inerisca alla forma stessa dell'oggetto, trasformandosi in feticcio inattingibile. «Consumo» ed «esibizione spettacolare», ha osservato Agamben, sono «le due facce di un'unica impossibilità di usare», e ciò che non può essere usato viene «consegnato al consumo o all'esibizione spettacolare» (2005, 94). Il capitalismo presenta, dunque, caratter i religiosi (cfr. Il capitalismo come religione, 1921; OC VIII, 96-99), e in riferimento al capitalismo l' estetizzazione può essere concepita come l'organizzazione complessiva delle forme di culto che lo riguardano. Per come si impone il fenomeno di
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estetizzazione, l'arte non può costituire di per sé una forma di resistenza al processo di mercificazione ed estraneazione, anzi ne è storicamente veicolo: si pensi all' «esistenza parassitaria nell'ambito del rituale» delle arti (AC 23), o al fatto che «voler fissare dei limiti fra réclame e arte è sostanzialmente infruttuoso» (Paralipomena al saggio sull'opera d'arte, AC 55), oppure alle analogie tra l' «immagine votiva e l'immagine pubblicitaria» (ibid.), e infine al detto fascista « Fiat ars pereat mundus » interpretato come il «compimento dell'art pour l'art» (AC 49). Proprio su questo punto è riscontrabile una radicale divergenza rispetto all'idea di arte di Adorno (cfr. la lettera di Adorno a Benjamin del 18 marzo 1936; OC VII, 545-49). Il «manifesto» di Marinetti - sintetizzabile nel capoverso: «La guerra ha una sua bellezza» (AC 48) - esprime con chiarezza come l'estetizzazione in quanto spettacolo di masse estraniate abbia nella guerra il proprio compimento, tale che l'umanità « può vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim'ordine». L'umanità dà «spettacolo» a se stessa e non piu agli «dèi dell'Olimpo», ma il sujet dello spettacolo è oggi l'umanità ridotta alla propria cieca «autoalienazione» e al proprio «annientamento» (AC 49). Il saggio sull'Opera d'arte si chiude con l'indicazione secondo cui il «comunismo» con la «politicizzazione dell'arte» costituisce la risposta alla «estetizzazione della politica» (AC 49), lasciando in eredità ai lettori l'esito della sua riflessione. Che cosa significa quindi « politicizzazione dell'arte» nell'epoca del capitalismo come r eligione globale? Di certo Benjamin ritiene che solo un mutamento dei rapporti di proprietà possa costituire l'interruzione del processo di estetizzazione e alienazione cui gli uomini soggiacciono, e che tale mutamento condurrebbe a uno spostamento a favore della seconda tecnica,·,, a quel « corteggiamento del cosmo» da parte dell'uomo che è avvenuto «sotto il segno della tecnica», ma che finora ha tradito l'umanità e «ha trasformato il letto nuziale in un mare di sangue» (Strada a senso unico, 1928; OC II, 462). Nello stesso tempo Benjamin è però convinto che le immagini svolgano una funzione decisiva nella vita politica degli uomini, come emerge proprio nei differenti processi di estetizzazione della politica che arrivano con modi ancor piu religiosi e intrusivi fino a noi. Con le immagini ogni volta ne va della vita in comune dell'uomo e del tipo di dispiegamento dell'apparato'·'
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tecnico che può implicare il massimo sacrificio - fino ali' annientamento - o l'apertura di uno spazio di «gioco»: «Non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanità» (ibid.). Per Benjamin, non si tratta quindi di assumere una posizione contro le immagini, ma di prendere posizione con le immagini - considerate al pari della tecnica come chance - nella direzione di una loro articolazione che le restituisca all'uso libero dell'uomo, strappandole al consumo e ali' esibizione spettacolare. Di · questa chance rivoluzionaria il montaggio'" costituisce forse la piu fertile allegoria 1'. In altri termini, bisogna operare nel senso di una «profanazione» delle immagini, relegate in una sfera religiosa e inutilizzabile per l'uomo dal capitalismo: «La profanazione dell'improfanabile è il compito della generazione che viene» (Agamben 2005, ro6) . Per approfondire: DESIDERI 2016; DI STASO 2017; DIDI-HUBERMAN 2010b; DIODATO 2016; GEN-· TILI 2016; MONTANI 2009 e 2orr; SIMONS 2016.
M. G.
13.
Facoltà mimetica
Le relazioni di uguaglianza, somiglianza, corrispondenza, affinità, mimetismo hanno esercitato un potente fascino su Benjamin, che le ha indagate in molteplici direttrici della sua riflessione, anche all'apparenza molto distanti come gli scritti consacrati all'infanzia"' e quelli dedicati alle esperienze con l'hashish,., . Nei primi, il bambino risalta di contro all'adulto come un essere ancora dotato d i un'efficace capacità mimetica, in grado di porlo in un intimo contatto col mondo che precede l'opposizione soggetto-oggetto e anzi rivela la possibilità di un access? a uno stato di fusione originaria: « Il tavolo da pranzo sotto il quale si è accoccolato lo trasforma nel ligneo idolo di un tempio che ha nelle gambe intagliate le quattro colonne. E dietro una porta è porta lui stesso» (Infanzia berlinese intorno al millenovecento, 1933; OC V, 392-93) . Lo stesso rapporto del bambino con il gioco si configura come una forma mimetica nella · quale l'azione del giocare trasforma il suo corpo in altro da sé: «Il bambino vuole trainare qualcosa e diventa cavallo» (Storia culturale del giocattolo, 1928; OC III, 51-52). A simili esiti rinviano le annotazioni stese nel corso degli esperimenti con l'hashish avviati a partire dal 1927. Durante uno di questi, la lettura delle Novelle esotiche dello scrittore danese Johannes V. Jensen gli offre uno spunto notevole: «Richard era un giovanotto che aveva un senso particolare per tutto ciò che al mondo c'è di affine» (Annotazioni sparse, 19 settembre 1928; OC III, 127). Come precisa un verbale di poco successivo, questa frase mi era piaciuta molto. Ora essa mi permette di porre a confronto il senso politico-razionale che aveva per me, con quello magico-individuale della mia esperienza di ieri. Mentre in Jensen la frase per me si risolveva nell'affermazione che le cose sono come sappiamo, tecnicizzate, razionalizzate, e il particolare oggi si trova ormai solo nelle sfumature, la nuova
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conclusione era profondamente diversa. Vedevo infatti unicamente sfumature: queste, tuttavia, erano tutte uguali (29 settembre r928; OC VI, 94).
La frase diJensen viene dallo stesso Benjamin posta in consonanza con una suggestiva annotazione del proprio diario: «Con il cucchiaio si deve attingere l'uguale dalla realtà» (ibid.). Ricordando questa frase e le esperienze comuni con le droghe, Jean Selz (1959, 140-41) rammenta che, insoddisfatto della nozione di «identità», Benjamin aveva coniato il termine francese mémité («stessità») per suggerire l'esser-uno di due cose diverse. Come accade ai bambini, anche per i mangiatori di hashish sono in particolare i colori a promuovere in maniera straordinariamente efficace la riunificazione del dissimile, come veri e propri «intermediari o mezzani degli ambiti della materia· sòlo grazie a essi i piu distanti potevano congiungersi compiut;mente » (Crocknotizen, 1932; OC V, 242). Ma anche le parole possono esercitare una peculiare funzione mimetica: Il dono di scorgere somiglianze, non è in effetti altro che un debole re~aggio delr antica coazione a divenire simili e a comportarsi in modo simile. E su d1 me la esercitavano le parole. Quelle che mi facevano assomi~liare a? abi~azioni, mobili, vestiti, non a bambini esemplari. Mai però ~ 1mmagme d1 me stes~o .. E per questo ero cosi sgomento quando da me s1 pretendeva che assom1gliassi a me stesso. Avveniva dal fotografo (Infanzia berlinese intorno al millenovecento, r933; OC V, 358).
Per la sua capacità di rivelare a noi stessi aspetti del nostro io di cui non siamo consapevoli, poiché mai ci percepiamo da una prospettiva esterna (per il suo potere cioè di portare a coscienza l'inconscio ottico''), la macchina fotoorafica produce un senso di au~?-e.strane_azione, ~ lo pr?duce p;adossalmente proprio in quell 10 mfantile che s1 sentiva «deformato dalla somiolianza con tutto ciò che mi circondava» (OC V, 359) . "' Tuttavia, appartiene alla natura dialettica del medium''' fotografico la possibilità che, proprio in virtu della riproducibi;ità'°' meccanica dell'immagine, questo dispositivo finisca per mtaccare l'auratic a unicità dell'esperienza,·, a tutto vantaggio della percezione delle somiglianze e delle identità. Cosi l'amata fra~e di Jensen può ritornare, in forma di criptocitazione, propno nel cuore de L'opera d'arte nel!'epoca della sua riproducibilità tecnica: La liberazione dell'oggetto dalla sua ouaina la distruzione dell'aura'' sono il contrassegno di una percezione I; cui «~ensibilità per ciò che nel
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mondo è dello stesso genere» è cresciuta a un punto tale che essa, attraverso la riproduzione, reperisce l'uguaglianza di genere anche in ciò che è unico (AC 22).
Se considerata nella prospettiva di una millenaria langue durée, questa fase di riproducibilità tecnica dell'immagine appare come l'ultimo capitolo di una storia complessa, che attiene non soltanto alla storicità delle arti'' e dei media"' , ma anche alla stessa storicità della percezione'' e della corporeità. È una storia che risale a monte della concezione platonica della mimesis come riproduzione in immagine di un oggetto sensibile (quale si potrebbe dare, ad esempio, in un ritratto), per giungere alla mimesis come «fenomeno originario di ogni attività artistica. Colui che imita fa apparire qualcosa. (L'imitare piu antico, in particolare, conosce per lo piu una sola materia a cui dare forma: il corpo stesso dell'imitatore)», in modo particolare attraverso i gesti del linguaggio e della danza (Paralipomena al saggio sull'opera d'arte, 1936; AC 56). Questo giro di pensieri - che sembra anticipare gli studi di Vernant (1983) - era stato preceduto da un momento di riflessione particolarmente intensa intorno alla questione della mimesi. Risalgono infatti a pochi anni prima, e precisamente al 1933, i due tanto brevi quanto densissimi testi che Benjamin dedica esplicitamente a tale problematica: Dottrina della similitudine (AC 141-46) e Sulla facoltà mimetica (OC V, 522-24), che sono direttamente connessi alla meditazione sulle somiglianze condotta in Infanzia berlinese sopra ricordata, ma che si riallacciano anche ai suoi precedenti studi sulla lingua -1, originaria. In questi testi la prospettiva storica di Benjamin sul mimetismo si allarga per abbracciare non solo l'evoluzione dell'individuo a partire dal gioco infantile, bensi quella di tutta la specie: Questa facoltà ha una storia, e ciò sia in senso filogenetico che ontogenetico. [ .. .] Bisogna inoltre considerare che né le forze mimetiche né gli oggetti mimetici, gli oggetti di tali forze, sono rimasti invariabilmente gli stessi nel corso del tempo, e che, attraverso i secoli, la forza mimetica e con lei, piu tardi, l'intelligenza mimetica è scomparsa da determinati campi, forse per riversarsi su altri (AC 141-42).
Le somiglianze che siamo in grado di percepire consapevolmente sono solo la punta dell'iceberg di infinite similitudini colte inconsapevolmente, in uno spettro che va dalle corrispondenze fra macro- e microcosmo alle costellazioni astrali. Oggi non siamo piu in grado di comprendere il rapporto di somiglianza che
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lega una costellazione a un essere umano: dobbiamo allora parlare di un «indebolimento» della nostra facoltà mimetica? O si tratta piuttosto di una sua radicale «trasformazione»? L'evoluzione della lingua - dall'onomatopea alla significazione astratta - e della scrittura - da segno che imita la cosa nel pittogramma a segno convenzionale nei sistemi alfabetici sembra corroborare la seconda delle due opzioni: «La scrittura è cosi diventata, insieme al linguaggio, un archivio di similitudini non sensibili, di corrispondenze non sensibili» (144), nel quale si è evoluta l'arcaica capacità di «leggere ciò che non è mai stato scritto» (OC V, 524), che nelle viscere, nelle danze e nelle stelle sapeva cogliere arcane corrispondenze. Quelle stesse correspondances che ancora Baudelaire, ma ormai invano, si sforzava di mantenere vive nella crisi della modernità. Per approfondire:
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CAPPELLETTO 2000; CHENG 2009; FITTLER 2005; HANSSEN 200 3 ; MILLER 1998; OPITZ 2000; RABINBACH 1979; SCHLOSSMAN 1992; TAUSSIG 1993.
A. P.
14. Fantasmagoria
Attraverso il concetto di fantasmagoria Benjamin rielabora la teoria marxiana del feticismo delle merci. L'originale ipotesi di Marx consisteva nel pensare le merci come «cose sensibilmente sovrasensibili» e dotate di un «carattere mistico» (Marx 1867, 103-4). Nella «forma merce», si legge nel Capitale, «il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini» assume ai loro occhi «la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose» (ibid.). Nel Passagenwerk Benjamin cita un passo di Otto Ruhle (1928, 384-85) che chiarisce la questione: « Gli oggetti si sono resi autonomi, assumono comportamenti umani[ ... ]. La merce è diventata un idolo che, benché prodotto dal lavoro umano, domina sugli uomini stessi» (OC IX, 191). Il dominio della merce nella società capitalistica ha secondo Benjamin un carattere eminentemente estetico, che in Marx era rimasto però in secondo piano. Il concetto di fant asmagoria consente quindi di mettere meglio a fuoco quel valore sensibile della merce che sfugge alle categorie marxiane di valore d'uso e valore di scambio e che rinvia all'etimologia stessa del termine. Il termine «fantasmagoria», infatti, nasce in Francia alla fine del Settecento (come calco di« allegoria»*) per indicare l'arte di far vedere dei fantasmi in pubblico attraverso l'illusione ottica generata da una lanterna magica, detta anche fantascopio: «Le immagini erano proiettate da dietro affinché non ci si accorgesse delle lanterne che le generavano» (Crary 1990, 137-38). Tra i pionieri di questa tecnica, che mettendo le in;magini in movimento prefigura il cinematografo, troviamo Etienne-Gaspard Robertson (1763-1837), il quale presentò un primo spettacolo fantasmagorico nel gennaio 1798 a Parigi. La profonda fascinazione di Benjamin per questi spettacoli è ampiamente documentata nelle annotazioni per il Passagenwerk, in particolare nel faldone Q, intitolato «Panorama»:
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C'erano panorami, diorami, cosmorami, diafanorami, navalorami, pleorami (1tÀÉw, navigo, viaggi per mare), fantascopie, fantasmaparastasi, expériences fantasmagoriques et fantasmaparastatiques, viaggi pittoreschi in una stanza, georami; pittoreschi ottici, cinerami, fanorami, stereorami, ciclorami, panorama dramatique (OC IX, 590).
Come il concetto di allegoria aveva permesso a Benjamin di rendere conoscibile''' l'età barocca, analogamente quello di fantasmagoria diventa la chiave interpretativa che consente di accedere alla« storia originaria [Urgeschichte] del XIX secolo» (518). L'intuizione che guida la ricerca su Parigi viene cosi riassunta da Benjamin: « Il mondo dominato dalle sue fantasmagorie è per servirci dell'espressione di Baudelaire - la modernità» (35). L'exposé Parigi, la capitale del XIX secolo (1935; AC 372-86) si articola non a caso in cinque capitoli, ciascuno dedicato a una specifica materializzazione della fantasmagoria e al personaggio che meglio ha saputo evocarla: i passages (legati al nome di Fourier), i panorami (Daguerre), le esposizioni universali (Grandville), l'interno borghese o «intérieur» (Luigi Filippo) e le strade di ]2arigi (Baudelaire). E in particolare nelle esposizioni universali che il carattere fantasmagorico del capitalismo industriale emerge plasticamente: Le esposizioni universali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d ' uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l'uomo entra per lasciarsi distrarre. L'industria dei divertimenti gli facilita questo compito, sollevandolo ali' altezza della merce. Egli si abbandona alle sue manipolazioni, godendo della propria estraniazione da sé e dagli altri. [ ... ] La fantasmagoria della cultura capitalistica raggiunge la sua piu splendente realizzazione nell'esposizione universale del 1867 (378-79).
Nelle esposizioni universali, e piu in generale nell' «industria dei divertimenti», si assiste a una vera e propria trasfigurazione sensibile che seduce e incanta il consumatore. Anche al flaneur'; la città"' appare «come fantasmagoria» (382) . Egli «si abbandona alle fantasmagorie del mercato» (Exposé del 1939; OC IX, 19). Dagli appunti preparatori emerge inoltre come Benjamin vedesse nel flaneur la «fantasmagoria dello spazio», nel giocatore la «fantasmagoria del tempo» e nel bohémien la «fantasmagoria della società» (985): «Alle fantasmagorie dello spazio, a cui si abbandona il flaneur, corrispondono quelle del tempo, in cui si perde il giocatore» (1oro) . Tuttavia, come è stato opportunamente notato, la fantasmagoria «non è la mera falsa coscienza del discorso ideologico.
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Essa è materializzata nello spazio, in oggetti e pratiche. "Interiorizzarla" confinandola in un regno delle idee disincarnato è dunque a sua volta un'operazione fantasmagorica» (Wohlfarth 1996, 199). In questo senso, si può dire che con il concetto di fantasmagoria Benjamin renda pensabile quel fenomeno che Guy Debord (1967) chiamerà «ideologia materializzata»: «Nella haussmannizzazione di Parigi la fantasmagoria si è fatta pietra» (OC IX, 32). Dalle osservazioni sul/laneur emerge inoltre come della .fantasmagoria non ci possa essere esperienza"' (Erfahrung), ma solo un Erlebnis: un vissuto che viene ad accumularsi ad altri vissuti senza venire integrato in una narrazione"'. La fantasmagoria è definita come «il correlato intenzionale dell'esperienza vissuta [Erlebnis]» (874; anche nelle note su Baudelaire: CB 847), che a sua volta è intimamente connessa allo choc"'. Negli scritti di Benjamin, insomma, lo spettro semantico della nozione di fantasmagoria si amplia a dismisura rispetto al significato letterale, acquistando uno spessore allegorico. Cosi la . fantasmagoria non riguarda solo la merce e lo spazio urbano in seno alla metropoli capitalistica, ma anche l'ambito culturale: «Il concetto di cultura come dispiegamento sommo della fantasmagoria» (ro13). In altre parole,'la storia della cultura (Kulturgeschichte) di stampo storicistico trasfigura il passato in una fantasmagoria, in un oggetto di contemplazione compiaciuta, mentre spetta al materialista''' storico «abbandonare un atteggiamento placido e contemplativo» (Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, 1937; OC VI, 468). Va sottolineato poi che l'atteggiamento di Benjarnin nei confronti delle trasfigurazioni fantasmagoriche non è riducibile alla critica dell'ideologia marxiana. Egli non contrappone all'alienazione del consumatore il lavoro critico della ragione, optando piuttosto per una strategia che consiste nel portare all'estremo la fantasmagoria stessa. Questa mossa dialettica si coglie chiaramente nelle riflessioni dedicate a tre pensatori che nel Passagenwerk costituiscono una sorta di costellazione incentrata sul motivo dell'eterno ritorno: Baudelaire, Nietzsche e Blanqui. Secondo Benjarnin l'idea dell'eterno ritorno « estrae magicamente dalle miserie del periodo della rivoluzione industriale tedesca la fantasmagoria della felicità», mentre Baudelaire «dalla miseria del Secondo Impero estrae magicamente la fantasmagoria della modernità» (OC IX, 125-26). Portando all'estremo l'idea
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dell'eterno ritorno nel suo L 'etemité par !es astres (1872), Blanqui ha ·avuto il merito di aver rivelato alla società borghese «i tratti spaventosi di questa fantasmagoria»: «La speculazione cosmica di Blanqui implica l'insegnamento che l'umanità sarà in balia di un'angoscia mitica finché la fantasmagoria avrà posto in essa» (Exposé del 1939; OC IX, 20). Infine, se rivolgiamo uno sguardo d'insieme al libro sui passages - che inizialmente recava il sottotitolo Una fantasmagoria dialettica (Bine dialektische Feerie; OC IX, 1029) -, esso ci appare come una sorta di grandiosa decomposizione di quella immensa fantasmagoria che fu il secolo xrx. Grazie al metodo della citazione 1' l'incanto esercitato dallo spettacolo della merce viene spezzato e gli innumerevoli elementi che componevano la fantasmagoria giacciono davanti a noi come un mucchio di materiali mitologici di cui fare finalmente uso. Per approfondire: BERDET 2013a; BUCK-M0RSS 1995; COHEN 2006; JENNINGS 2003; LEVIE 1990; MARKUS 2001; MILNER 1982; PILE 2005; RUSSELL 2018.
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Flaneur
All'interno del variegato bestiario umano che popola la «Parigi, capitale del XIX secolo» e i suoi passages-:, - dandy, oziosi, prostitute, cocottes, letterati, feuilletonistes, collezionisti, apaches, giocatori, bohémiens, cospiratori -, il /laneur occupa una posizione centrale, tanto da meritare una sezione apposita sia ne I «passages» di Parigi (1927-40; OC IX, 465-509), sia nel saggio La Parigi del Secondo Impero in Baudelaire (r938; OC VII, 12 1148). Ma l'arte metropolitana della/lanerie - daflaner, «andare a zonzo, bighellonare per passatempo, passeggiare, gironzolare oziosamente» - è presente ovunque negli scritti di Benjamin sul flaneur Baudelaire (cfr. Su alcuni motivi in Baudelaire, 1939; AC 163-202), ed è a tema in tre recensioni che, tra il 1926 e il 1929, egli dedicò all' amico-flaneur berlinese Franz Hessel (cfr. OC II, 464-65; 724-26; OC III, 379-83). Non è un caso se fu proprio in collaborazione con Hessel, e stimolato da Le paysan de Paris delflaneur surrealista Aragon (r926), che Benjamin, nel 1927, stese il primo abbozzo del Passagenwerk (OC IX, 955-57) . Né bisogna dimenticare che egli esercitò la/lanerie in prima persona, come dimostrano le sue esperienze di «fisiognomica» della città'' riportate in Napoli (1924; OC II, 37-46), Mosca (1927; OC II, 624-53), Weimar (1928; OC 3, 78-80), Marsiglia e San Gimignano (1929; OC III, 196-200; 341-42). Benjamin tuttavia non indugia in apologie letterarie del/laneur, ma ne indaga la dialettica storica, ne fa cioè una immagine dialettica''' della modernità che, a Parigi, viene colta nel suo passare attraverso la soglia tra società premoderna e moderna, generando quella fantasmagoria,., borghese in cui rientra anche il flaneu r, nel suo ambiauo rapporto con la strada, la folla, la merce. In ciò egli si distiniue nettamente dal Man o/ the Crowd londinese di Edgar Allan Poe (1840). Da un lato, infatti, ilflaneur parigino è magicamente attratto dal traffico incessante dei boulevards, dal-
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la folla elettrizzante e movimentata, dalle merci vestite a festa dalla moda e dalla réclame, e desidera immergersi in tutto ciò; dall'altro, però, al di sotto di questa precoce société du spectacle, intuisce un alcunché di angoscioso, ripugnante e spaventoso: la nascita, dissimulata dalla nouveauté, di una società di massa sempreuguale, anonima, barbarica, succube di nuove forme di dominio. Se per un verso la folla lo attira a sé, per l'altro
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la coscienza del suo carattere inumano non lo ha perciò mai abbandonato. Egli diventa suo complice, e quasi nello stesso istante se ne distacca. Si mescola largamente con essa per fulminarla improvvisamente nel nulla con uno sguardo di disprezzo (AC 179).
Il flaneur coglie la corrispondenza tra «l'esperienza dello choc fatta dal passante nella folla» e quella «dell'operaio addetto alle macchine» (184-85): in entrambi i casi il «meccanismo sociale» di anestetizzazione soggiogante ha prodotto automatismi e uniformità nei modi di vestire, di comportamento, di espressione. L'alter ego negativo delflaneur è rappresentato, qui, dal «giocatore d'azzardo>> (185-88), addetto alla roulette come l'operaio alla macchina: comune a entrambi è la cupa dedizione a un'attività riflessa, vana, vuota, che liquid11 ogni esperienza vitale nel «tepipo infernale» della ripetizione coatta. E quindi un disprezzo tipicamente dandystico (cfr. Barbey d ' Aurevilly 1844) contro il conformismo di una «vita da automi» a spingere il flaneur a trovare riparo nell'eterotopia del passage, le cui atmosfere sospese, i ritmi rallentati, gli consentono di contrapporre fieramente il proprio otium al negotium dilagante. «Ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza», come lo definisce Baudelaire (1863), ilflaneur-dandy, conducendo la sua «tartaruga al guinzaglio» per il passage, protesta con la sua personalità contro l'affarismo, il culto del progresso, la laboriosità da «catena di montaggio» che si sono ormai impadroniti della sua città (cfr. OC VII, 137). Si tratta però di una protesta che, nel suo individualismo estetizzante, è destinata alla sconfitta: quando il grande magazzino decreta la fine del passage, l'ultima passeggiata delflaneur si svolge davanti alla sua entrata, in veste di uomo-sandwich eterno andirivieni della merce che porta a spasso se stessa (cfr. OC IX, 501 e 505). Per Benjamin, l'unica metamorfosi possibile delflaneur-dandy per evitare questo esito di assoggettamento «mercantilistico» è trasformarsi in bohémien, ribelle, anarchico e nichilista: ilflaneur Baudelaire passa la mano al dandy-cospi-
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ratore di professione Louis Blanqui, e agli eroi non del passage, ma,della Comune di Parigi. E importante sottolineare che l?enjamin, pur apprezzandone la figura, non nutre alcuna nostalgia rétro per ilflaneur, al contrario: come, alla fine del saggio su Baudelaire, in prospettiva anti-auratica, vede positivamente la perdita d'aureola, dovuta agli « urti della folla» , denunciata dal poeta (« Il poeta lirico con l' aureola è, per Baudelaire, antiquato>>: AC 200), cosi egli intende altrettanto positivamente il tramonto - dovuto alla medesima folla - del genius foci di cui ilflaneur è il sacerdote, poiché la distruzione per antiquatezza di ogni culto feticistico borghese del luogo, della casa e dell'abitare costituisce il presupposto della rivoluzione modernist a in architettura. La recensione intitolata Il ritorno del flaneur, che egli dedica a Passeggiare a Berlino di Hessel, non è un'apologia della /lanerie, ma una presa di congedo da essa, dalla sua fantasmagoria, che va dialetticamente interpretata: per l'ultima volta ilflaneur riappare in Hessel come sacerdote del genius foci, legato a un'arte del passeggiare e a una scienza dell'abitare che ha il suo modello originario nell'utero e nel guscio, intendendo sia la dimora privata che la città nel senso dell'intérieur e della Gemutlichkeit borghese. Hessel, nota Benjamin, rintraccia i lari sotto la soglia,[ ... ] celebra gli ultimi monumenti di un'antica civiltà cieli'abitare. Gli ultimi: poiché nella segnatura di questa svolta storica sta scritto che per l'abitare nel vecchio senso, dove l'intimità, la sicurezza stava al primo posto, è suonata l'ultima ora. Giedion, Mendelsohn, Corbusier trasformano la dimora degli uomini anzitutto in uno spazio di transito attraversato da tutte le pensabili forze e onde di luce e aria. Il futuro sta sotto il segno della trasparenza (1929; OC III, 381-82).
In Esperienza e povertà Benjamin, all'antica civiltà dell'abitare, all'ethos della radice e del luogo, in cui anche il flaneur si trova immerso, contrappone la positiva «nuova barbarie» di un non-luogo popolato da «case di vetro regolabili e mobili, come ne costruivano Loos e Le Corbusier» (1933, AC 367), e da un'umanità sradicata che non ha bisogno di cercare tracce di Kultur, né di lasciarne. Tuttavia, questa umanità che con un «riso barbaro» mette a riposo la volontà di luogo delflaneur, non è quella stessa massa «meccanizzata» che lo scaccia dal boulevard, bensi un nuovo soggetto storico in formazione - « quell' essere eternamente inquieto, eternamente in movimento» (OC III , 381) che è il collettivo rivoluzionario, il quale dilaga e abi-
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ta nelle strade e nelle piazze della città esattamente per con- · trastarne, e non già per favorirne passivamente, la riduzione a mera macchina produttiva, uniformante e alienante. Da questo punto di vista, il congedo (il «risveglio,.'») dalla fantasmagoria borghese delflaneur e del luogo costituisce per Benjamin il passaggio dialettico necessario alla realizzazione del piu intimo nucleo sovversivo, antiborghese e anticapitalista, della sua oziosa arte di appropriarsi dello spazio e del tempo della città. Di questa complessa dialettica, individuata da Benjamin, tra /lanerie, senso del luogo, e perdita dello stesso, bisogna tenere conto per una valutazione critica sia dell'attualità dell'idea di luogo (cfr. Norberg-Schulz ·1979), sia del dilagare inarrestabile dei non-luoghi (cfr. Augé 1992) e degli pseudo-luoghi di massa (cfr. Amendola 1997). Per approfondire: BERDET 2012; BUCK-MORSS 1984; FEATHERSTONE 1998; LAUSTER 2007; LINDNER 1983; MCDONOUGH 2002; MENZIO 2002; PONZI 1993; TESTER 1994.
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Le prime riflessioni organiche di Benjamin sul tema del gesto si trovano nel saggio Il programma di un teatro proletario per bambini, scritto tra la fine del 1928 e l'inizio del 1929 per l'attrice e regista lettone Asja Lacis, la quale nel 1918 aveva fondato a Orel in Russia un teatro per bambini basato sul gioco e l'improvvisazione (cfr. Lacis 1971, 21-26). Benjamin muove dalla tesi secondo cui «qualunque prestazione infantile è rivolta[ ... ] all'"attimo" del gesto» (OC III, 185): quindi la dimensione teatrale consentirebbe ai bambini di liberare il potenziale espressivo dei propri gesti. All'interno della cornice del teatro proletario, infatti, «ogni azione e gesto infantile diventano un segnale [Signat'I. Non tanto, come piace allo psicologo, segnale dell'inconscio, delle latenze, rimozioni e censure, bensi segnale di un mondo nel quale vive e comanda il bambino» (184). Si evince da questo passo che per Benjarnin il gesto infantile non va inteso come mezzo di comunicazione, ovvero come segno che rinvia ad altro da sé, ma come ambito espressivo dotato di una propria specificità. Riprendendo un concetto esposto nel saggio Per la critica della violenza, si potrebbe ipotizzare che Benjamin qui cerchi di pensare il gesto come «mezzo puro>> (1921; oç I, 479-80). Il teatro proletario per bambini assume cosi un significato che va ben al di là della dimensione estetica: esso si configura come paradigma etico e politico. Ne troviamo conferma in una definizione proposta da Benjarnin: «Innervazione creativa in esatta connessione con quella recettiva è ogni gesto infantile» (OC III, 184). Riconducendo il gesto alla dinamica psicofisica dell'innervazione"°', Benjamin ne mette in rilievo la corporeità, adottando la prospettiva del materialismo antropologico 1' (evocata nel contemporaneo saggio sul Surrealismo: AC 333). Inoltre, dalla definizione citata risulta chiaramente come il gesto si collochi sulla soglia tra ricettività e creatività: il bambino
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opera cioè come il pittore che «traduce l'innervazione recettiva dei muscoli visivi nell'innervazione creativa della mano» (OC III, 184). Ciò significa che tutte le forme espressive, a partire dal linguaggio, si sono andate sviluppando proprio a partire dal gesto infantile, la cui intima connessione con il gioco e dunque con la facoltà mimetica'·' è evidente (cfr. Sulla facoltà mimetica, 1933; OC V, 522-24). Una funzione ulteriore del gesto emerge negli studi sul teatro brechtiano. In entrambe le versioni del saggio Che cos'è il teatro epico?, rispettivamente del 1931 (OC IV, 359-73) e del 1939 (AC 285-92), il concetto di gesto ha un'importanza strategica. Partendo dal presupposto che «il teatro epico è gestuale» (OC IV, 361), Benjamin afferma che la funzione del gesto, «lungi dall'illustrare o addirittura promuovere l'azione - consiste invece nell'interromperla» (373). E ancora: «Otteniamo tanti piu gesti quanto piu spesso interrompiamo un personaggio» (ibid.). Se ne deduce che i gesti non vanno classificati come azioni e non si riducono a un mero accompagnamento mimico della recitazione, ma sono qualcosa di altro e di enigmatico: non dell'ordine della prassi, piuttosto dell'evento, come emergerà dalla lettura di Kafka. Al gesto inteso come interruzione Benjamin assegna inoltre un significato filosofico di considerevole portata: niente meno che quello di dimostrare «il significato sociale e l'applicabilità della dialettica» (369). Interrompendo l'azione, infatti, il gesto ne rivela il carattere alienato, come sa chiunque abbia assistito alla messa in scena di un dramma brechtiano. La peculiare dialettica che si espone nel gesto non è certo quella hegeliana, con i suoi tre momenti che si svolgono processualmente, bensi una «dialettica in stato di arresto» (Dialektik im Stil/stand) (ibid.). Come già il «carattere» trattato in Destino e carattere (1921; OC I, 457), la «cesura» del saggio sulle «Affinità elettive» di Goethe (1924-25; OC I, 572) e la «violenza divina» di Per la critica della violenza (1921; OC I, 485), il gesto acquista cosi un significato liberatorio, nel senso che libera il vivente dal suo assoggettamento al mito'". Non a caso nel saggio del 1939 sul t~atro epico Benjamin insiste sulla profonda affinità tra gesto e citazione''': secondo Brecht, infatti, uno dei compiti pedagogici del teatro è «rendere citabili i gesti» (AC 289). E Benjamin chiosa: «Quest'effetto può essere ottenuto ad esempio quando l'attore cita lui stesso in scena un suo gesto» (ibid.). Incontriamo qui un
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perfetto esempio di quella politicizzazione dell'arte* auspicata alla fine del saggio sulla riproducibilità''' tecnica'' (AC 49), dal momento che la citazione del gesto, producendo un intenso effetto di straniamento, ci rivela il carattere impersonale e spesso meccanico di quei gesti che siamo abituati a considerare nostri. Non sorprende quindi che il concetto di gesto possa assumere un significato messianico-redentivo, come ampiamente documentato dal saggio Franz Kafka del 1934. «Tutta l'opera di Kafka - scrive Benjamin - rappresenta un codice di gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l' autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove. Il teatro è la sede naturale di questi esperimenti» (OC VI, 136). Il teatro qui menzionato è quello di Oklahoma, evocato nel finale del romanzo America, la cui funzione principale, secondo Benjamin, non è altro che «la risoluzione dell'accadere nel gesto» (ibid.) . In altre parole, gli scritti di Kafka possono essere letti come protocòlli di un esperimento inaudito consistente nel togliere « al gesto dell'uomo i sostegni tradizionali» (137). Ecco allora che il gesto, anche il piu banale e insignificante, quale «l'atto di imbiancare» (129), si fa improvvisamente opaco e indecifrabile: «Qualcosa, per Kafka, si lasciava cogliere solo nel gesto. E questo gesto, che egli non comprendeva, è il punto oscuro e nebuloso delle parabole. Da esso emana l'opera di Kafka» (143). Invece di andare a cercar e significati teologici o psicologici reconditi, come aveva fatto ad esempio Max Brod, Benjamin si concentra per cosi dire sui significanti, si attiene ai gesti che Kafka ha saputo descrivere come nessun altro. Solo preservando il carattere «oscuro e nebuloso» di questi gesti li si potrà accogliere non come azioni finalizzate a uno scopo, ma come «mezzi puri». Si dischiude cosi la possibilità di redimere l'uomo dalla sua colpevolezza, da quel processo interminabile in cui egli, come Josef K. nel romanzo kafkiano, si trova coinvolto senza sapere perché. Il gesto liberato rappresenta una sorta di innocenza ritrovata (cfr. Dattilo 2018): l'innocenza di un uomo «privo di carattere», come diceva Rosenzweig a proposito dell'uomo cinese (OC VI, 135). Alla luce del saggio su Kafka diventa cosi pienamente intelligibile quanto Benjamin aveva scritto riguardo al teatro proletario per bambini: «Davvero rivoluzionario è il segnale segreto dell'avvenire che parla nel gesto infantile» (OC III, 186). Accanto alle riflessioni teoriche di Benjamin sul gesto, troviamo
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sparse nei suoi scritti delle «immagini concettuali» (Denkbilder) . eh~. non di_ rado si configurano come descrizioni di gesti: si pensi a~l _1~magme ~ell'. an~elo nella nona o a quella degli insorti pang1m nella qumd1ees1ma delle tesi Sul concetto di storia (1940; OC VII, 487 e 491). In entrambi i casi è come se il fluire della prosa si arrestasse improvvisamente grazie all'interruzione operata da queste vere e proprie immagini dialettiche~'. In anni recenti Giorgio Agamben ha sviluppato a partire d_alle intuizioni benjaminiane un'originale teoria del gesto, insistendo sul fatto che «il gesto è l'esibizione di una medialità il render visibile un mezzo come tale» (Agamben 1992, 52). Al, di là degli studi benjaminiani, per un'indagine antropologica sul tema del gesto l'opera di riferimento resta quella di André Leroi-Gourhan (1964-65). Per approfondire: AGAMBEN 2or7 (cap. rv); ASMAN 1993; CAPPELLETTO 2002· DICKINSON 2orr· HAMAèHER 1998; MARCHESONI 2or3; RUPRECHT 2 o r5; WEB~R, s . 2002; wrzr'. SLA 2004.
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Gli scritti pubblicati da Benjamin tra la fine del liceo e gli inizi dei suoi studi universitari (1911 -14) sono tutti incentrati sul tema della gioventu (Jugend), intesa non semplicemente come un'età della vita, ma come specifica categoria spirituale che porta con sé una profonda esigenza di rinnovamento. In quegli anni Benjamin partecipò attivamente alla Jugendbewegung, quel composito «movimento della gioventu» tedesca tra i cui principali esponenti figurava il riformatore pedagogico Gustav Wyneken (1875-1964), già insegnante di Benjamin nel collegio di Haubinda in Turingia tra il 1904 e il 1906 (in una lettera del giugno 1913 a Carla Seligson, Benjamin non esita a definirlo il suo «primo maestro»; L 6). Coniugando Hegel con Nietzsche, Wyneken aveva definito la gioventu come «il periodo della ricettività ai valori assoluti della vita, il periodo dell'idealismo» (da uno scritto del 1908 cit ato da Benjamin in La Freie Schulgemeinde, 1911; OC I, 39). Da studente Benjamin seppe farsi al tempo stesso appassionato promotore e interprete originale di tale idealismo, pubblicando - sotto lo pseudonimo Ardor - una serie di articoli programmatici sulla rivista «Der Anfang». Il primo di questi scritti, intitolato La bella addormentata (1911), presenta la gioventu sotto le spoglie della bella addormentat a in attesa di essere risvegliata, e si apre con u na domanda retorica piena di pathos: « Viviamo nell'era del socialismo, del femminismo, dei traffici, dell'individualismo. Non ci stiamo per caso avviando verso l'era della gioventu?» (OC I, 28). Benjamin annuncia inoltre di voler «contribuire per quanto è possibile al risveglio della gioventu, alla sua partecipazione alla lotta che la riguarda» (ibid.). Anche in virtu dell'influenza di Wyneken, per il giovane Benjamin l'idea di gioventu è sinonimo di spirito e di una moralità intransigente di ispirazione kan~
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tiana (cfr. L'insegnamento della morale, 1913; OC I, 158-63). In una lettera a Carla Seligson del settembre 191 3 egli fornisce cosi una definizione radicalmente idealistica di gioventu: «Questo senso costante, vibrante per l' astr~ttezza del puro spirito, vorrei chiamarlo giovinezza» (L 93) . E chiaro dunque - come si poteva leggere già ne La bella addormentata - che «un uomo resta giovane finché non ha pienamente tradotto in realtà il suo ideale: segno sicuro di vecchiaia è il vedere la compiutezza nell'esistente» (OC I, 30). In questa idealizzazione della gioventu, che tanto nello stile quanto nei contenuti tende a ricalcare la retorica di Wyneken, comincia tuttavia a palesarsi l'originalità di Benjamin, in particolare nell'afflato messianico che innerva potentemente i due saggi piu significativi di questo periodo: Metafisica della gioventu (1913-14, ma pubblicato postumo; OC I, 194-206) e La vita degli studenti (tratto da due conferenze tenute nel maggio e giugno 1914, pubblicato nel settembre 1915; OC I, 250-61). Esemplare è il primo capoverso di quest'ultimo scritto, in cui Benjamin, dopo avere rigettato perentoriamente la concezione lineare del tempo come progresso infinito, propone di intendere «il significato storico attuale degli studenti e dell'università [ ... ] come metafora, come mimesi di uno stadio della storia supremo e metafisico» (250). Tale stadio supremo è affine al «regno messianico» ed è stato evocato nelle «immagini utopiche dei pensatori». Ma il messianismo implicito in queste righe presenta tratti del tutto peculiari. Benjamin infatti assegna alla critica 1' il compito di «liberare il futuro dalla forma falsa e guasta che lo imprigiona nel presente» e abbozza una singolare filosofia della storia'~: Gli elementi dello stato finale non sono tendenze informi di progresso, ~é sono chiaramente visibili; sono, al contrario, opere, creazioni e pensien sommamente minacciati, malfamati e derisi, che giacciono nel grembo prof~ndo di ogni presente. Il compito storico [die geschichtliche Aufgabe] consiste nel dare la sua forma pura e assoluta allo stato immanente della perfezione, nel renderlo visibile e sovrano nel presente (ibid.).
Appare qui evidente come nel giro di un paio d'anni Benjamin si sia lasciato alle spalle tanto l'idealismo ingenuo di Wyneken, quanto la fiducia neokantiana negli ideali regolativi. Già in un saggio del 19 r 2 egli aveva associato il tema della gioventu a quello del futuro, descrivendo la generazione degli studenti come «tutta piena delle immagini che porta con sé dalla terra del futuro» (La riforma scolastica: un movimento culturale;
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OC I, 82). Proprio riflettendo sulla vita degli studenti Benj amin matura la consapevolezza che il futuro non va atteso ma liberato dal «grembo profondo di ogni presente » (OC I, 250). Secondo un'esigenza che orienterà la sua ricerca fino alla fine, non si tratta tanto di sperare nella futura realizzazion e dell'ideale utopistico della gioventu, ma di rintracciare nel nostro presente, qui ed ora, tracce misconosciute del mondo redento: quelle che alcuni decenni dopo Benjamin chiamerà «schegge del tempo messianico» (Sul concetto di storia, 1940; tesi A: OC VII, 493) . Questa fase giovanile della produzione benjaminiana viene bruscamente interrotta dallo scoppio della Grande guerra. Anzitutto, Benjamin decide di porre termine al suo attivismo in seno alla Jugendbewegung, in polemica con l'esaltazione bellicistica di Wyneken, al quale indirizza una lettera di congedo definitivo nel marzo 19r5. Dopo aver denunciato il «tradimento terribile» compiuto da Wyneken, Benjamin scrive: Allo stato, che Le ha preso tutto, [Lei] ha infine sacrificato la gioventu. Ma la gioventu appartiene solo a quelli che guardano [d1:n Schauenden], che l'amano e in essa amano, al di sopra di tutto, l'idea. E caduta dalle Sue mani che non hanno saputo trattenerla, e continuerà a soffrire, anonima. Vivere con essa è il retaggio che Le strappo (L 22).
Contro Wyneken Benjarnin intende qui farsi custode di un'eredità troppo preziosa per essere abbandonata. Questa eredità comprendeva anche la fedeltà all'amico Fritz Heinle, il poeta morto suicida a 19 anni, insieme alla fidanzata Rika Seligson, 1'8 agosto 1914. Nella Cronaca berlinese Benjarnin, rievocando la sua amicizia con Heinle, propone una sorta di autocritica rispetto alla Jugendbewegung: Sono sicuro che in nessun'epoca successiva Berlino in quanto città sia penetrata cosi a fondo nel mio essere quanto allora, quando credevamo di poterla lasciare invariata, migliorando soltanto le scuole, palesando agli allievi la disumanità dei genitori, assicurando alle parole di Holderlin o di George il posto che meritavano. Era un tentativo estremo, eroico, di cambiare l'atteggiamento della gente senza mettere in discussione la loro posizione. Non sapevamo che era destinato al fallimento, ma anche sapendolo difficilmente qualcuno di noi avrebbe cambiato idea. E oggi come allora, per quanto sulla base di riflessioni di tipo diverso, capisco che la «lingua della gioventu» doveva essere-i] tema centrale delle nostre riunioni (1932; OC V, 258).
La militanza nella Jugendbewegung viene descritta qui come un fallimento inevitabile, probabilmente a causa dell'idealismo
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astratto che la caratterizzava, da cui Benjamin si allontana nel corso del 1916, con l'elaborazione della sua filosofia della lingua''. Gli scritti giovanili di Benjamin non hanno avuto una particolare fortuna critica: rispetto al resto del corpus degli scritti benjaminiani sono rimasti piuttosto in ombra, almeno fino alla pubblicazione della monografia diJohannes Steizinger (2013) . · La «vita postuma» (il Nachleben) di questi testi è ancora in attesa di un'occasione che le permetta di dispiegarsi pienamente. Per approfondire: BALLESTER BRAGE 20II; DEUBER-MANKOWSKY r999; EILAND e JENNINGS 2014
(cap. rr); HEINLE 2016; LAQUEUR 1962; LESLIE 2016; REGEHLY 2006; SCHIAVONI 2001 (capp. II e III); TAGLIACOZZO 2003 (parte I); WOHLFARTH 1992 . I I
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r8. Idea, origine, fenomeno originario, monade
Le nozioni di idea (Idee), origine (Ursprung), fenomeno originario (Urphanomen) e monade (Monade) formano una costellazione attraverso la quale Benjamin ha cercato di ripensare una questione classica della metafisica occidentale, quella del rapporto fra realtà sensibile e realtà ideale , fra fenomeno ed essenza. È nella Premessa gnoseologica al saggio sul Dramma barocco tedesco che troviamo una elaborata trattazione dello statuto dell'idea. «Oggetto di questa ricerca sono le idee». Il filosofo deve offrire una « descrizione del mondo ideale in modo tale che il mondo empirico vi penetri e vi si risolva» ( 1928; OC II, 71 e 73); in tal senso condivide con lo scienziato il «superamento della mera empiria», e con l'artista il «compito della rappresentazione». Ma si distingue dal primo perché si occupa di idee, non di concetti; dal secondo perché non si sofferma sull'immagine singola. Per comprendere in che modo l'idea si distingua dal concetto (Begrif/) occorre sottolineare il rapporto fondamentalmente differfnte che tali categorie intrattengono con lo studio degli «estremi», cioè con le manifestazioni storiche contrapposte di uno stesso fenomeno. Nel caso della cultura barocca in generale e del dramma barocco tedesco in particolare, Benjamin ne sottolinea a piu riprese la natura intimamente antitetica: fra tensione verso la trascendenza e accentuazione della dimensione mondana, fra dramma del t iranno e dramma del martire, fra una melanconia'°' negativa e improduttiva e una melanconia positiva e creatrice. Questi estremi costituiscono le condizioni di possibilità del fenomeno storico «dramma barocco tedesco»; compito del filosofo dell'arte è rappresentarne l'idea muovendo ritmicamente da un estremo all'altro del fenomeno storico come per percorrerne l'intero arco: «La rappresentazione di un'idea non può in nessun caso considerarsi riuscita
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finché non si è passato virtualmente in rassegna il cerchio degli estremi in essa possibili» (87). Il concetto coglie l'estremo nel fenomeno empirico, ma lo mantiene come tale, irrigidito nel suo contrapporsi all'estremo opposto: i fenomeni storici «vengono in luce con la massima precisione negli estremi », e l'empirico è «penetrato tanto piu a fondo quanto piu precisamente può essere considerato come qualcosa di estremo. Dall'estremo procede il concetto» (76). Compito precipuo dell'idea è invece dinamizzare, dialettizzare la rigida contrapposizione degli opposti: essa è infatti definibile come configurazione del nesso che l'unico e l'estremo ha con ciò che gli è simile. [ ...] L'universale è l'idea. [ .. .)Come la madre comincia a vivere la sua vita piena quando la cerchia dei suoi piccoli si stringe incorno a lei per sentirne la vicinanza, cosi le idee cominciano a vivere solo quando gli estremi si raccolgono intorno a loro (ibid.).
Pertanto, se la raccolta dei fenomeni è compito dei concetti, si può dire che la raccolta degli estremi individuati dai concetti, la loro dialettizzazione, è un'incombenza delle idee. Cosi, il metodo benjaminiano di interpretazione del dramma barocco si caratterizza non tanto come storia per cosi dire storica (una ricerca sulla genesi, Entstehung), bensf come «storia filosofica», che «in quanto scienza dell'origine [Ursprung] è la forma che, dagli estremi piu remoti, dagli apparenti eccessi dello sviluppo, fa emergere la configurazione dell'idea in quanto totalità contrassegnata da una possibile coesistenza di quegli opposti» (87). Se il trattato storico-letterario si occupa della genesi di un fenomeno letterario inteso come molteplicità empirica di dati di fatto , il trattato di filosofia dell'arte ha a cuore quell'unità di tale fenomeno che è l'origine di tale fenomeno dalla sua idea. Tale idea viene esibita proprio grazie al metodo della polarizzazione: L'origine, pur essendo una categoria pienamente storica, non ha nulla in comune con la genesi. Per «origine» non si intende il divenire di ciò che scaturisce, bensi al contrario ciò che scaturisce dal divenire e dal trapassare. L'origine sta nel flusso del divenire come un vortice, e trascina dentro il suo ritmo il materiale della propria nascita. Nella nuda e palese compagine del fattuale, l'originario non si dà mai~ conoscere (86).
L'insistenza sugli estremi e sulla loro polarizzazione rivela il cospicuo debito contratto da Benjamin nei confronti della morfologia goethiana in generale e del concetto di «fenomeno originario» (Urphéinomen) in particolare. Ne La teoria dei colori
IDEA, ORIGINE, FENOMENO ORIGINARIO, MONADE
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Goethe designa alcuni fenomeni come originari « poiché nella manifestazione non vi è nulla che li oltrepassi e permettono anzi, dopo essere saliti sino a essi, di scendere fino al caso piu comune dell'esperienza quotidiana» (Goethe 1810, 61). Nell'ambito cromatico una tale originarietà è rappresentata dalla polarità di luce e ombra, in quello minerale dal fenomeno della polarizzazione magnetica. E proprio alla polarità come struttura universale della natura Goethe (1805, 158-59) dedica una riflessione incentrata sulla «dualità del fenomeno come antitesi». L'originarietà non è l'originalità, non sta nel tempo, nel senso che l' Urphéinomen non deve essere inteso come la prima fase temporalmente antecedente di un processo, rispetto alla quale questo fenomeno concreto starebbe piu vicino, e quello piu lontano. Tutti i fenomeni concreti sono ugualmente distanti (o ugualmente vicini, il che è lo stesso) rispetto al fenomeno originario. E come l'originarietà non sta ne~ tempo, _cosi la s:3-~ altezza non sta nello spazio, in un qualche 1peruraruo metaf1S1co . Occorre «comprendere che tutti gli elementi di fatto sono già teoria» (Goethe 1992 , n8) : è questo il senso profondo della «delicata empiria» goethiana che Benjamin fa propria. In Benjamin l'approccio morfologico non si limita all'indaoine sul Barocco, ma si amplia fino ad interessare il nucleo piu intimo del progetto incompiuto su I «passages» * di Parigi: Origine: si tratta del concetto di fenomeno originario trasposto dal con: testo pagano della natura a quello ebraico della storia. Ora, nel lavoro sui passages, ho a che fare anche con un'esplorazione dell'~rigine. Io inseguo, cioè, l'origine delle configurazioni e dei mu~ame?ti dei pa~s~ges dal]~ lor~ comparsa fino al loro declino, e la colgo nei fatti economici. Que_sti fatt~ [ .. .) fanno sorgere dal loro seno la serie delle concrete forme storiche dei passages, come la foglia dispiega da sé l'intero regno del mondo vegetale empirico (OC IX, 517).
Se la «foglia trascendentale» di Goethe è il tema mai dato in sé di cui si manifestano - per assottigliamento e ispessimento, allunoamento e accorciamento - le infinite variazioni del mondo v:oetale, cosi il passage''' (nella sua ambiguità di interno ed ester;o, pubblico e privato, valore cultuale* e valore espositivo'~) appare come vera e propria immagine dialettica'~ e f~n?meno originario della modernità. In questo senso, e prop~10 m virtu della sua dialetticità, il passage assurge allo statuto d1 vera e propria monade: «Là, dove si compie un processo dialettico, abbiamo a che fare con una monade » (OC IX, 535). Una mo-
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nade capace - come voleva la dottrina leibniziana - di rappresentare tutto il mondo da un punto di vista particolare. Già lo studio sul dramma barocco aveva identificato esplicitamente la monade con l'idea: «L'idea è monade. [ . ..]Dire che l'idea è monade significa in breve: ogni idea contiene l'immagine del mondo» (OC II, 88). Riallacciandosi a questa equazione, le tarde tesi Sul concetto di storia le imprimeranno una decisa curvatura in senso materialistico'': considerato che «in un'opera è custodita e conservata tutta l'opera, nell'opera intera l'epoca e nell'epoca l'intero corso della storia'' », «il materialista storico si accosta a un oggetto storico solo ed esclusivamente allorquando questo gli si fa incontro come monade» (1940; tesi XVII: OC VII, 492). E vi si accosta non per mantenerlo nell'alveo del continuum storico, bensi per farlo saltar fuori, al fine di coglierne tutte le potenzialità nichilistico-messianiche'" e redentrici. Per approfondire: ARENDT 1968; CARBONE 2003; DODD 2008; GURISATTI 1992; HOLZ 2000; PINOTTI 2003b; PIZER 1987; SCHWEBEL 201 2 ; STEINER 2002.
A . P.
19.
Immagine dialettica
Benché «immagine dialettica» (dialektisches Bild) e «dialettica nell'immobilità» (Dialektik im Stillstand) possano essere considerate «le due categorie centrali del Passagenwerk» (R. Tiedemann, in OC IX, XXIX), il loro significato resta piuttosto elusivo. Ciò si deve al fatto che Benjamin ridefinisce in modo orioinale i termini «immagine» e «dialettica», sciogliendone «la su;erficie incrostata nel concetto» per rivelarne «le forme della vita linguistica ivi racchiusa» (lettera a Hugo von Hofmannsthal del 13 gennaio 1924; L 74). In Benjamin «Bild» non rinvia primariamente all'ambìto della visione, né a quello della rappresentazione, bensi alla sfera propriamente linguistica: « Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio» (OC IX, 5 16). «Immagini della mia infanzia nella grande città» vengono cosi definite le prose di Infanzia berlinese intorno al millenovecento (1938; OC VII, 17). Sintomatica è inoltre la predilezione di Benjamin per il concetto di «Denkbild»: egli scelse di intitolare Immagini di pensiero (Denkbilder) (1933; OC V, 528-33) una serie di testi brevi, analoghi a quelli già raccolti in Strada . a senso unico (OC II, 409-63), che appaiono come istantanee di esperienze disparate, offerte alla meditazione del lettore. La nozione di « Denkbild» è d'altra parte intimamente dialettica: in essa pensiero e immagine si fondono senza che sia possibile separarli, proprio come accade al piccolo Benjamin quando srotola i calzini appallottolati, scoprendo che il «regalo» nascosto all'interno della «borsa lanosa» non è niente altro che la borsa stessa. Questa scoperta stupefacente, egli scrive, «mi insegnò che forma e contenuto, custodia e custodito sono la stessa cosa» (Infanzia berlinese intorno al millenovecento, 1933_; ?C 41?) . Secondo Benjamin un'immagine può essere dehmta dialettica nel senso che in essa convivono plasticamente momènti oppo-
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sti, senza che questa opposizione venga però risolta in una sintesi superiore: «Immagine è la dialettica nell'immobilità» (OC IX, 516). Se la dialettica hegeliana implica un processo che si svolge nel tempo, garantendo il superamento della contraddizione, Benjamin fa leva sull'immagine per interrompere questo processo: «Là dove il pensiero si arresta in una costellazione satura di tensioni, appare l'immagine dialettica. Essa è la cesura nel movimento del pensiero» (534) . Il riferimento alla nozione di «costellazione» indica che l'immagine dialettica presuppone la dottrina delle idee''' esposta nella «Premessa» al Dramma barocco tedesco. Se infatti «le idee cominciano a vivere solo quando gli estremi si raccolgono intorno a loro» (1928; OC II , 76), l'immagine dialettica «va cercata là dove la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo» (OC IX, 534). Questa tensione dialettica irrisolta, che «non è dicotomica e sostanziale, ma bipolare e tensiva» (Agamben 2007, 31), risulta evidente nelle principali immagini dialettiche evocate nel Passagenwerk: la merce (che è anche feticcio), «i passages, che sono casa come sono strade» e «la puttana, che è insieme venditrice e merce» (Exposé del 1935; AC 383). Benjamin può cosi defin~e l'immagine dialettica come «lo stesso oggetto storico costruito nell'esposizione materialistica''' della storia'"» (OC IX, 534), in quanto estrapolato «dal continuum del decorso storico» (ibid.) e attraversato da un'opposizione dialettica il cui superamento è possibile solo sul piano pratico e politico. ~o storico materialista, grazie alle immagini dialettiche, può cioè accendere «la miccia del materiale esplosivo riposto nel ciò che è stato», accostandosi al passato « non in maniera storiografica, come finora si è fatto, ma in modo politico, in categorie politiche» (437) . La «storia originaria del xrx secolo» (518), a cui Benjamin lavora nel corso degli anni Trenta, assegna all'immagine dialettica almeno tre funzioni strategiche. La prima è di carattere critico-distruttivo: l'immagine dialettica opera «come un potente antidoto al concetto di progresso» (Jennings 1987, 37), giacché - similmente all'allegoria''' - permette di mostrare «lafacies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio originario» (Il dramma barocco tedesco; OC II, 202) . L'affinità tra immagine dialettica e allegoria non era sfuggita ad Adorno, che la discute nel suo libro su Kierkegaard (1933), in un passo che Benjamin annota nel Passagenwerk (OC IX, 515-16).
IMMAGI NE DIALETTICA
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In secondo luogo, l'immagine dialettica costituisce la risposta di Benjamin a un delicato problema epistemologico: «Per quale via è possibile collegare un incremento della perspicuità [Anschaulichkeit] con l'applicazione del metodo marxista?» (515). In altre parole, l'immagine dialettica dovrebbe consentire di conferire alla storia una maggiore perspicuit à, anche grazie alla concomitante tecnica del montaggio,·,. Per Benjamin è cioè essenziale « non rinunciare a nulla che serva a mostrare la maggiore plasticità [bildha/t] dell'esposizione materialistica della storia rispetto a quella tradizionale» (518). · Una terza funzione dell'immagine dialettica è di tenore messianico-politico: essa garantisce la «superiore attualità» (437) del passato che è oggetto di indagine: «Ogni passato [ ... ] può ottenere un grado di attualità piu alto che al momento della sua esistenza. La sua configurazione in quanto superiore attualità spetta all'immagine in cui la comprensione lo riconosce e lo colloca» (ibid.). Quest'ultima funzione apparenta strettamente l'immagine dialettica alla rammemorazione''': in entrambe si assiste a una sorta di «telescopage del passato attraverso il presente» (5 2 7), a una vera e propria contrazione del passato nell'attimo della sua conoscibilità,.,: Nel momento in cui il passato si contrae nell'attimo - nell'immagine dialettica-, esso entra a far parte del ricordo* involontario dell'umanità. L'immagine dialettica deve essere definita come il ricordo involontario dell'umanità redenta (Materiali preparatori alle tesi, 1940; CS 96).
La «superiore attualità» di cui l'immagine dialettica è garante coincide inoltre con l'attimo del risveglio'". Come Benjamin scrive nella lettera a Gretel Adorno del 16 agosto 1935, l'immagine dialettica «non riproduce il sogno"' [ ... ]. Essa mi sembra contenere le istanze, il punto di irruzione d el risveglio, e anzi proprio a partire da questi pun ti creare la sua figura come una costellazione dai punti luminosi» (L 310). L'identificazione con il risveglio è decisiva per misurare la distanza che separa la concezione benjaminiana dalle immagini arcaiche di Klages (1922) e dagli archetipi di Jung (1932). Anche grazie alle critiche di Adorno, il quale vedeva nel primo Exposé il rischio di «trasporre l'immagine dialettica come sogno nella coscienza» (lettera del 2 agosto 1935; L 296), Benjamin eliminerà da!J.a s~conda versione ogni riferimento all'inconscio collettivo e pianificherà un saggio polemico contro Jung, accusato di voler «tenere il risveglio lontano dal sogno» (OC IX, 546).
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Va notato infine che nelle tesi Sul concetto di storia il concetto di immagine dialettica, benché evocato a piu riprese nei materiali preparatori, non compare come tale: ess@ «pare biforcarsi e per un verso ridursi ad "immagine ", mentre con una parte delle sue caratteristiche originarie contribuisce alla peculiare configurazione del concetto di "monade" »* (Bonola e Ranchetti in CS 167 ). Nel corso degli ultimi decenni si sono rivelati particolarmente fec~ndi_ i ~entativi ?i mettere in relazione l'immagine dialettica beniam1ruana con il concetto di Pathos/orme! elaborato da Aby Warbur~. Oltr~ alla mono~rafia di Cornelia Zumbusch (2004), vanno ncordat1 almeno gh studi di Georges Didi-Huberman (2000a e 2004) e di Giorgio Againben (2007). Per approfondire: BISCHOF r999; CADAVA 1997; DESIDERI 1995a; HILLACH 2000; NAZE 2or5; PENSKY 2004; PEZZELLA 1982; ROCHLITZ r983; TAVANI 2010; ROSS 2015; \VEIGEL 2015.
S . M.
20. Inconscio ottico
La nozione di «inconscio ottico» fa la sua prima apparizione nel saggio del 1931 Piccola storia della fotografia. In un passaggio dedicato alla comparazione fra visione naturale e visione mediata da un'apparecchiatura tecnica 1' Benjamin scrive: La natura che parla alla macchina fotografica è infatti· una natura diversa da quella che parla all'occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall'uomo, c'è uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, de.ll'andatura della gente, sia pure all'ingrosso, egli di certo non sa nulla del loro contegno nella frazione di secondo in cui « si allunga il passo». La fotografia, grazie ai suoi strumenti accessori quali il rallentatore e gli ingrandimenti, è in grado di mostrarglielo. La fotografia gli rivela questo inconscio ottico [Optisch-Unbewufltes], cosi come la psicoanalisi fa con l'inconscio pulsionale [Triebhaft-Unbewufltes] (AC 230).
Il passo viene ripreso, con piccole variazioni, nelle diverse stesure dell'Opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui si precisa: Se siamo piu o meno abituati al gesto di afferrare l'accendisigari o il cucchiaio, non sappiamo pressoché nulla di ciò che effettivamente avviene tra la mano e il metallo, per non dire poi del modo in cui ciò varia in relazione agli stati d'animo in cui noi ci troviamo. Qui interviene la cinepresa coi suoi mezzi ausiliari, col suo salire e scendere, col suo interrompere e isolare, col suo ampliare e contrarre il processo, col suo ingrandire e ridurre. Dell'inconscio ottico sappiamo qualche cosa soltanto grazie a essa, come dell'inconscio pulsionale grazie alla psicoanalisi (primo dattiloscritto, 1935-36; AC 42; secondo dattiloscritto, 1936; OC VII, 324).
Tanto la macchina fotografica quanto la cinepresa (in tedesco indicate con lo stesso termine: Kamera) fungono da medium'" protesico: potenziano le capacità percettive dell'occhio umano, consentendo prospettive inedite sul mondo, inaccessibili alla visione naturale. Benjamin qui raccoglie e rilancia un tema che era assai diffuso fra gli artisti visivi e i teorici dell' immagine negli
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anni Venti: sotto molteplici rispetti, autori come Dziga Verto:v (1922-42) e Laszl6 Moholy-Nagy (1925) avevano insistito sulla funzione rivelatrice delle nuove tecnologie, preparando il terreno a quella concezione dei media come «estensioni dell'uomo» che sarebbe stata resa celebre da Marshall McLuhan (1964). In questo senso, tali estensioni vanno comprese nel contesto della riflessione benjaminiana intorno alle interazioni fra tecnica e corpo (le protesi come innervazioni'''), nel quadro complessivo della storicità della percezione1' . Ma alle modificazioni della percezione provocate da questo intreccio di tecnologia e anatomia si accompagnano, necessariamente, trasformazioni nel campo della coscienza: «Fra le fratture delle formazioni artistiche, il cinema è una delle piu nette. Effettivamen te, sorge con esso una nuova regione della coscienza» (Replica a Oscar A. H. Schmitz, 1927; AC 262). Questo insorgere non porta con sé solo un potenziamento conoscitivo, ma anche un senso di spaesamento, di inquietudine, di estraniazione: Nell'epoca della massima estraniazione degli uomini fra loro, dei rapporti infinitamente mediati che sono ormai i loro soli, - sono stati inventati il film e il grammofono. Nel film l'uomo non riconosce la propria andatura, nel grammofono non riconosce la propria voce. Ciò è confermato da esperimenti (Franz Kafka, 1934; OC VI, 151).
Questa osservazione - che suggerisce a fianco dell'idea di inconscio ottico quella di un «inconscio acustico», svelato dalle tecnologie di registrazione del suono - allude a una peculiare dialettica di vicinanza e lontananza nell'epoca della riproducibilità1' tecnica: se gr~zie ai nuovi dispositivi il mondo diventa piu vicino (meno ignoto, piu esplorato in recessi prima impercepibili), il soggetto sembra invece allontanarsi da se stesso, come dimostra quel senso di inquietante estraneità che ci coglie ogni qualvolta ascoltiamo la nostra voce registrata. O che coglieva il piccolo Walter, costretto a posare per un ritratto fotografico : «Ero cosi sgomento quando da me si pretendeva che assomigliassi a me stesso» (Infanzia berlinese intorno al millenovecento, 1933; OC V, 358). Il parallelismo tra inconscio ottico e inconscio pulsionale proposto da Benjamin è qualcosa di piu di una mera analogia: anzi, «trai due tipi di inconscio sussistono legami strettissimi» (AC 42). Legami che illuminano i rapporti complessi che il filosofo intrattenne con la psicoanalisi in generale, e con Freud e Jung in particolare.
INCONSCIO OTTICO
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A Jung Benjamin aveva accarezzato l'idea di dedicare uno studio specifico nel 1937 (poi abbandonato a fav_or~ del lavo~o su Baudelaire), che avrebbe tra l'altro dovuto ch1ar1re analogie 1 e differenze fra la propria teoria dell'immagine dialettica ' connessa all'immaoinario collettivo e la concezione junghiana degli archetipi e dell'inconscio coll~ttivo: «U1:1a vera dia~ole_ria, che deve essere affrontata con gli strumenti della magia bianca» (lettera a G. Scholem, 5 agosto 1937; TU 232). Prop~io sul piano del collettivo, infatti, Benja_min semb:ava vole_r pieg~~ nella sua riflessione sull'arte quegli strumenti della psicoanalisi che erano stati da Freud soprattutto rivolti a esplorare la psiche individuale: «L'arte, come mostra la psicoanalisi, non è soltanto l'ambito particolare nel quale possono essere composti i co~flitti dell'esistenza individuale, poiché essa svolge la stessa funz10ne, forse persino in modo piu intenso, sul piano sociale» (Paralipomena al saggio sull'opera d'arte, AC 58-59). Era dunque tanto piu urgente di~tinguersi ~ul 1:iano po~ti~o e id~ologico daJung, essendo questi « accorso m aiuto dell aruma ariana, con una terapia riservata strettamente a essa» (lettera a G. Scholem, 2 luolio 1937; TU 226) . . "' In questa prospettiva l'opera di Freud pot_eva m".ece_ e~sere metabolizzata senza difficoltà nel quadro teorico benJaffilruano: la lettura delle sue opere, avviata a partire dal 1918, fu fondamentale per la riflessione intorno al so~no~', ~ ~isveglio'" e allo choc'". Fra gli scritti del padre della ps1~oanal1si fu soprattut_to Al di là del principio di piacere - «la g~ruale op~ra ~a~da» (Diario parigino, 1930; OC IV, 77) - a offme a BenJaffiln importanti suggestioni intorno alle sindromi traumatic~e: ~e ne trov_ano sionificative tracce nel saggio Su alcuni motzvi m Baudelaire (193;; AC 167-69), nel quale l'attività del poeta è_ p~ago~ata all'operazione con cui la coscienza riceve e p_ara_gli stimo~ pericolosi trasformando l'esperienza 1' traumatica m « esperienza vissuta:>. È invece al cinema che il saggio sull'opera d'arte assegna questa funzione, interpretandolo come un dispositivo.att~ ad assicurare una terapia auto-immunizzante contro le ps1cos1 di massa caratteristiche della modernità: Attraverso certi film si è creata la possibilità di una vaccinazione psichica contro tali psicosi di massa, in cui uno sviluppo forzato di fantasie sadiche o di fissazioni masochistiche può evitare una loro naturale : pe: ricolosa maturazione nelle masse. L'esplosione precoce e salutare d1 tali psicosi di massa è rappresentata dal riso collettivo (AC 43).
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Con il ripetuto ricorso a scene choccanti eppure mai letali, le gag dei film comici americani cosi come i cartoni animati di Disney promuovono una «deflagrazione terapeutica dell'inconscio», e favoriscono «la tendenza ad accettare tranquillamente la bestialità e l'atto violento come fenomeno concomitante dell'esistenza» (ibid.). In tal modo il training''' del sensorio assicurato da un medium intrinsecamente spezzato (in virtu del montaggio''') quale quello cinematografico si fa al contempo trainino0 della psiche della moderna umanità. Per approfondire: BRATU HANSEN 2012; CONTY 2013; KAGEURA 2009; RYDER 2009; SIROIS TRAHAN 2013; SMITH e SLIWINSKI 2017; TURK 2007; WIEGMANN 1989.
A. P.
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Infanzia
Numerose e complesse sono le riflessioni dedicate da Benjamin al mondo dell'infanzia, ai suoi soggetti (i bambini) e ai suoi oggetti (i giocattoli e i libri per l'infanzia), e alla peculiare esperienza 1' che lega gli uni agli altri. Il suo approccio alla dimensione infantile non è tuttavia ingenuamente idealizzante; è, piuttosto, aperto anche ai «lati crudeli, grotteschi, feroci», ali' «elemento dispotico, disumano» della sfera infantile (Antichi giocattoli, 1928; OC III, 28). Quanto ai giocattoli, ogni loro aspetto è degno per Benjamin di considerazione: dalle modalità produttive ai condizionamenti delle corporazioni, dalle prime specializzazioni professionali (comparse nel XIX secolo) alle prime rivendite all'ingrosso, dalle tecniche ai materiali, dai formati (Storia culturale del giocattolo, 1928; OC III, 49-52) alle differenze delle tradizioni nazionali (Giocattoli russi, 1930; OC IV, 5-6). Sarebbe tuttavia fuorviante interpretare il giocattolo come un oggetto esclusivamente infantile: costruito perlopiu dagli adulti per i bambini, esso parla dei desideri e dei sogni non solo dei secondi ma anche (e forse di piu) dei primi, e costituisce un terreno nel quale si dispiega il «rapporto dialettico» fra le generazioni (Giocattolo e gioco, 1928; OC III, 89). Lo stesso Benjamin ebbe a incarnare tale dialettica, dedicando ai bambini alcune conversazioni radiofoniche proprio su questo tema (Passeggiata berlinese tra i giocattoli I e II, 1930; OC IV, 52-65). Quanto alla letteratura per l'infanzia, Benjamin nutri per essa una profonda passione, intrecciatasi inscindibilmente alla sua inclinazione per il collezionismo1': la sua ricca collezione di libri per bambini (originatasi dalla biblioteca della madre, e dunque dalla raccolta dei libri che egli stesso aveva letto da bambino), ora conservata all'Institut fiir Jugendbuchforschung dell'Università di Francoforte (per l'elenco cfr. Benjamin 1981,
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79-117), doveva offrirgli la documentazione per un lavoro di am- ·
pio respiro su questo tema, di cui tuttavia ci rimangono solo le poche pagine dello scritto Sguardo sul libro per l'infanzia (1926; OC II, 478-84). Attraverso i libri per bambini (soprattutto tramite l'efficace interazione di parola e immagine nel libro illustrato) si veicolano saperi e conoscenze generazionali (Raccolta di filastrocche franco/ortesi, 1925; OC II, 279-82; Abbecedari di cento anni fa, 1928; OC III, 177-78), ma anche modelli pedagogici e ideologici rispetto ai quali Benjamin esercita una vigilanza critica (Pedagogia coloniale, 1930; OC IV, 299-300), pervenendo a delineare i tratti fondamentali di un approccio educativo alternativo a quello capitalistico-borghese (Una pedagogia comunista, 1929; OC III, 452-54; Programma di un teatro proletario di bambini, 1929; OC III, 181-86) . Il rapporto del bambino con i propri giocattoli e con i propri libri si fonda su due tratti decisivi: l' « ancora una volta», «l' oscuro impulso alla ripetizione», attraverso la quale instancabilmente vengono iterati i piaceri ludici della vittoria, ma anche smussati i traumi e gli choc··, di esperienze potenzialmente pericolose (Giocattolo e gioco; OC III, 91-92). E la relazione al corpo proprio, molto piu sensibile rispetto all'adulto nel cogliere analogie e somiglianze e nel dispiegare in tutta la sua potenza la facoltà mimetica*. Cosi, se nel leggere i bambini operano « sempre cosi: incorporando, non immedesimandosi» (Letteratura per l'infanzia; OC III, 340), anche nel giocare il loro relazionarsi agli oggetti può essere adeguatamente compreso solo a patto di correggere un «radicale errore»: quello che consiste nel supporre che il contenuto rappresentativo del suo giocattolo determini il gioco del bambino, poiché in realtà capita piuttosto il contrario. Il bambino vuole trainare qualcosa e diventa cavallo, vuole giocare con la sabbia e diventa fornaio, vuole nascondersi e diventa ladro o gendarme. [ ... ]Quanto piu i giocattoli sono attraenti nel senso abituale, tanto meno sono adatti a giocare; quanto piu l'imitazione è esplicita, tanto piu portano lontano dal gioco vivo. [... ] L' imitazione - cosi può essere formulato questo concetto - ha la propria sede naturale nel gioco, non nel giocattolo
(Storia culturale del giocattolo; OC III, 5r-52).
Quanto piu il giocattolo è dettagliato e precisato nelle sue componenti e nelle sue funzioni, tanto piu esso limita la fantasia creatrice del bambino, che al contrario si alimenta di materiali informi, di scarti residuali, che vengono salvati dalla distruzio-
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ne e dall'oblio e risignificati in una vera e propria operazione di montaggio 1' . I bambini · si sentono irresistibilmente attratti dal residuo, che si tratti di quello che si forma nel lavoro del muratore, del giar~niere o del_ f~egname, d~l sarto O di qualunque altro. In questi prodotti di scarto essi nconosc~no il volto che il mondo delle cose rivolge a loro e soltanto a loro. C?n essi non imitano tanto le opere degli adulti, quanto piuttosto mettor_:10_ 1:f1 rapporto tra loro questi materiali di scarto in modi nuovi e imprevedibili (Vecchz lzbri per l'infanzia II, r924; OC II, 52) .
La potente inclinazione mimeti~~ ~el b_ambi1:-o non v~ tuttavia intesa alla luce della nozione di im1tazione npr?d,ut!iva, ~e~ senso della copia rappresentazionale (nel senso, c10e, m cm si dice ad esempio che un quadro di paesaggi~ imita ~edel~ente un brano di natura, o un ritratto il volto che m e:so e raffigurato). Si tratta qui piuttosto della mimesi nel senso di u1: ~