Introduzione a Paolo. Profilo biografico e teologico 881041036X, 9788810410363

Nonostante la complessità del suo linguaggio e del suo pensiero, Paolo di Tarso è considerato dalla Chiesa uno dei testi

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Introduzione a Paolo. Profilo biografico e teologico
 881041036X, 9788810410363

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Collana Studi biblici

M. Pesce, Le due fasi della predicazione di Paolo Metodologia deliJ!lntico Testamento, a cura di H. Simian-Yofre F. Manns, La preghiera d'Israele al tempo di Gesù G. Cirignano - F. Montuschi, Marco. Un Vangelo di paura e di gioia P. Grelot, Il mistero del Cristo nei Salmi B. Costacurta, Il laccio spezzato G. lbba, La teologia di Qumran A. Wénin, Entrare nei Salmi B. Costacurta, Con la cetra e con la fionda X. Léon-Dufour, Agire secondo il Vangelo M. Remaud, Vangelo e tradizione rabbinica X. Léon-Dufour, Il Pane della vita A. Wénin, Il Sabato nella Bibbia B. Costacurta, Lo scettro e la spada L. Mazzinghi, Storia d'Israele dalle origini al periodo romano A. Pitta, Paolo, la Scrittura e la Legge M. Grilli, L'impotenza che salva L. Schiavo, Il Vangelo perduto e ritrovato S. Paganini, Qumran le rovine della luna P. Lombardini, Cuore di Dio, cuore dell'uomo M.L. Rigato, Discepole di Gesù V. Polidori, La Bibbia dei Testimoni di Geova M.L. Rigato, l genitori di Gesù A. Spreafico, La voce di Dio. Nuova edizione P. Lombardini, I profeti G. Benzi, La profezia dell' Emmanuele B. Standaert, Il vangelo secondo Marco W. Egger - P. Wick, Metodologia del Nuovo Testamento J. Dupont, Teologia della Chiesa negli Atti degli apostoli G. Lorusso, Chiesa, ministero e ministeri nell'esperienza di Paolo L. Gasparro, La parola, il gesto e il segno G. Pagano, l profeti tra storia e teologia S. Rotasperti, >. Da parte sua sceglieva Gesù.

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di Paolo, propria della teologia liberale e di alcune correnti della scuola delle religioni comparate. Il pensiero di Paolo sarebbe da inquadrare all'interno dell'escatologia giudaica che, secondo Bult­ mann, scavò un abisso tra Paolo e il cristianesimo primitivo post­ paolino. L'apostolo non sarebbe l'ellenizzatore del cristianesimo, ma un mistico giudeo che vede nell'esistenza cristiana ( ovvero l'essere in Cristo a cui il credente viene iniziato col battesimo) la realizzazione delle speranze escatologiche. Secondo Karl Holl (1866-1926), Paolo sarebbe stato colui che ha liberato il cristianesi­ mo primitivo dal naufragio nell'ellenismo. La svolta avviene con Karl Barth (1886-1968) e il suo com­ mento a Romani (1919), con cui nasce la teologia dialettica che sottolinea l'assoluta trascendenza e alterità di Dio rispetto a tutto ciò che è terreno. Barth reagisce contro il protestantesimo liberale di fine secolo, che aveva ridotto Paolo a un pensatore che avrebbe liberato il cristianesimo dal giudaismo sviluppando una religione universale, per concentrarsi sul messaggio dell'apostolo, in cui si manifesta Dio che svela all'uomo la propria condizione: la salvez­ za come opera esclusiva di Dio. Il suo interesse è per la parola di Dio. Mette da parte i metodi della critica storica, anche se non rifiuta lo studio scientifico della Scrittura. Successivamente Rudolf Bultmann (1884-1976), anche sulla base della filosofia esistenziale di Heidegger, rimette al centro il messaggio delle lettere e la loro dimensione esistenziale per il fedele. La riduzione antropologica della teologia paolina nell'interpretazione bultmanniana implica­ va una svalutazione della storia salvifica, il dileguarsi degli eventi salvifici e l'omissione del creato come parte della salvezza. Circa la relazione Paolo-Gesù, vedeva una profonda continuità: «Solo attraverso Paolo si può andare a Gesù». Ernst Kasemann (1906-1998) ripropone la tesi del protestan­ tesimo: Paolo come «canone nel canone» e la giustificazione come centro della Bibbia. Una sintesi delle prospettive della ricerca moderna è offerta da G. Barbaglio: La ricerca moderna su Paolo si è occupata soprattutto di collocarlo nella storia, collocazione proposta per la prima volta da F.C. Baur nella prima metà del secolo XIX. In pratica se ne sono voluti determinare i rapporti: l) con il giudaismo del tempo e l'eredità biblica; 2) con Gesù; 3 ) con le prime comunità cristiane;

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4) con il mondo ellenistico, in particolare con le religioni dei misteri e la gnosi. Ma l'attenzione si è volta anche allo studio della teologia paolina vista in se stessa e alla lettura degli scritti come testimonianze della parola di Dio. Se i primi sessant'anni hanno aperto in pratica la strada a tutte le possibili soluzioni dell' «enigma» Paolo, dagli anni Settanta in poi il panorama degli studi paolini ha registrato novità assai rilevanti e a tutt'oggi fervet opus: l) si sono accentuate le sue radici giudaiche, però diverse erano le forme del giudaismo del tempo, si parla addirittura di giudaismi; 2) antistorica è dichiarata la separazione tra giudaismo ed ellenismo, essendo quello permeato da questo [cf. M. Hengel] , per cui l'antitesi «Paolo giudeo - Paolo ellenista» non appare per nulla appropriata; 3 ) anche la diversa immagine di Gesù proposta dall'attuale ricerca sto­ rica, profeta escatologico o maestro di sapienza, ne condiziona il rap­ porto con l'apostolo.24

2.

Temi paolini nel dibattito più recente

Sono tre gli aspetti messi a fuoco nel dibattito più recente: il si­ gnificato di giustificazione, il ruolo di Paolo nel primo cristianesimo e la matrice giudaica dell'apostolo. In merito al tema della giustificazione, dopo quattrocento anni di posizioni contrapposte tra protestanti, fermi alle tesi dei riforma­ tori a partire da Lutero, e cattolici sostenitori dei dettami del con­ cilio di Trento che aveva condannato le tesi della Riforma, con il concilio Vaticano II e l'apertura ecumenica si è giunti a concordare che l'uomo viene salvato solo per la grazia divina e non per i propri meriti. Nel 1998 è stata pubblicata la Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione,Z5 con l'unica divergenza sull'identità della Chiesa ministeriale. In merito al ruolo di Paolo nel primo cristianesimo, oggi viene posta molta attenzione all'ambito delle relazioni storiche, sociologiche, politiche e culturali dell'apostolo come testimone e critico dell'antica cultura. Questo perché si investiga ogni aspetto del Nuovo Testamento a partire dall'antico mondo mediterraneo, con l'ausilio di documenti, testimonianze letterarie extra-neotesta­ mentarie, come la letteratura apocrifa. Esempio ne è l'analisi della

24 G. BARBAGLIO, «Paolo», in A. MELLONI (a cura di), Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, Bologna 2010, II, 1 174. 25 Cf. Enchiridion oecumenicum 7!1831ss.

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Lettera a Filemone, che tratta il problema dell'antica schiavitù sovvertita dal cristianesimo. Lo stesso vale per la posizione della donna, considerata da Paolo all'interno della cultura antica, ma con valutazioni critiche in merito al suo ruolo e alla sua dignità. Il tema più discusso dalla metà del XX secolo è la relazione dell'apostolo con il giudaismo. Nel mondo della Riforma, da Lu­ tero e Calvino fino a R. Bultmann, il giudaismo viene sempre con­ siderato come «religione di legge e di opere». Nel 1963 lo svedese Krister Stendahl fece notare la differenza di prospettiva tra Lutero e Paolo: se Lutero muoveva da problemi di coscienza, Paolo muo­ ve dalla considerazione che se anche i pagani sono chiamati alla salvezza, l'osservanza della Torah diventa un ostacolo. Una decina d'anni dopo Ed Parish Sanders, nel volume Pau[ and Palestinian Judaism, 26 ebbe a contestare la tradizionale esegesi luterana tede­ sca e americana, prendendo atto che il giudaismo non può essere considerato come religione della giustificazione mediante le opere, ma dell'alleanza e dell'elezione di Israele. La legge mosaica, più che la porta per entrare nella salvezza, avrebbe la funzione di indi­ care le richieste necessarie per rimanervi. Per questo Sanders conia l'espressione «nomismo del patto». La Legge non sarebbe stata mai pensata dai giudei come percorso per raggiungere la salvezza, per­ ché fondamentale per un ebreo per entrare nella salvezza è l'elezio­ ne misericordiosa di YHWH. Il messaggio paolino contesterebbe questa concezione della Legge, come via per «rimanere dentro» il patto di alleanza, dato che non ci si salva rimanendo nell'allean­ za praticando le indicazioni della Legge, ma praticando la fede, ovvero la comunione con Cristo. La critica di Paolo al giudaismo consisterebbe nella mancata accoglienza di Gesù Cristo, che ha portato al superamento del nomismo del patto. Paolo sarebbe più un mistico che un teologo della giustificazione. La posizione di Sanders è stata ripresa da J.D.G. Dunn che parla di «new perspective on Paul»Y Per Dunn le leggi di purità, il sabato, la circoncisione avrebbero una funzione sociologica, quali «identity markers» o «boundary markers», con funzione di sepa­ razione dai non-giudei. Paolo criticherebbe la scelta di praticare tale «particolarismo» contro il disegno divino dell'«universalismo» della salvezza per tutti i popoli e non l'opposizione opere-grazia.

26 27

London 1977. New Perspective on Paul, Grand Rapids, MI 2007 (prima edizione 1983).

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Le critiche sollevate alla posizione di Sanders riguardano la tesi del cosiddetto giudaismo comune che storicamente non è fondato. Oggi si parla infatti di «giudaismi», con posizioni divergenti tra loro. Altra questione è l'aver sottovalutato l'importanza soterio­ logica della Legge, giacché il rimanere nell'osservanza dei principi della Torah ha sempre un risvolto soteriologico. In merito alla posizione di Dunn c'è da dire che la critica di Paolo non sarebbe solo contro i comandamenti della Legge quali identity markers, espressione del vanto d'Israele come popolo elet­ to, ma anche contro la convinzione di dovervi obbedire. In merito all'espressione «opere della Legge», alcuni studiosi, a partire da 4QMMT, la interpretano come «prescrizioni della Leg­ ge» e non come semplici fatti umani, contro l'opinione di Dunn. Circa l'interpretazione in Rm 10,4 di «poiché telos della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede», i luterani vi scorgono la dichiarazione del «termine» della funzione salvifica della Legge, gli esponenti della «nuova prospettiva» il concetto di Cristo «culmine», «compimento» della Legge. Altri punti del dibattito attuale sono l'ipotesi di una scuola pao­ lina che abbia redatto alcune lettere pseudoepigrafiche e l'ipotesi della Teilungshypothesen, ovvero di frammenti di lettere origina­ riamente separati e poi assemblati. Oggi si preferisce ritornare a parlare di unità e integrità iniziale delle lettere. Anche i tentativi di leggere la struttura delle lettere alla luce dei criteri della retorica epistolare ricevono sempre meno sostenitori. Gli aspetti retorici so­ no intravisti solo a livello di elocutio, come ad esempio i paradossi. Anche l'idea di sviluppi teologici all'interno del corpus delle lettere paoline di Udo Schnelle (Wandlungen im paulinischen Denken, Stuttgart 1989) viene rivista, dal momento che ci si interroga se le differenze non siano più frutto di situazioni diverse, tenendo conto che né la 1 Ts né la 1 Cor parlano di giustificazione, come pure che la teologia della croce manca in Gal e Rm, e la visione del popolo eletto è più serena in Rm che in Gal.

3. Utilità dello studio di Paolo Paolo, pur essendo posteriore a Gesù, è anteriore ai vangeli. La 1 Ts, infatti, è il primo testo del NT e precede i sinottici. Quando fu redatto il Vangelo di Marco ( anni 65-70 del I secolo ) , le lettere dell'ex fariseo di Tarso erano già state scritte. Per cui possiamo dire 14

che Paolo ha la precedenza letteraria sulla narrazione della figura di Gesù. Diventa doveroso chiedersi quale sia l'apporto di Paolo alla comprensione e all'approfondimento del vangelo dal momento che è stato il primo a scrivere di Gesù (più volte Paolo parla del «mio vangelo», come in Rm 2,16; 16,25; 2Tm 2,8, o del >.

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di collocare l'editto nel 41 d.C., all'inizio del regno di Claudio, ma Flavio Giuseppe nelle Antichità giudaiche parla di un editto favore­ vole di Claudio inviato ad Alessandria di Egitto, con la concessione ai giudei dei privilegi che il suo predecessore, Caligola, aveva abolito. Claudio Cesare Augusto Germanico Pontefice Massimo col potere tri­ bunizio, eletto console per la seconda volta, dice: i re Agrippa ed Erode, miei carissimi amici, avendomi chiesto che gli stessi privilegi di cui gode Alessandria siano concessi e mantenuti per tutti i giudei sotto l'impero romano, io molto volentieri acconsento, non semplicemente per far pia­ cere ai richiedenti, ma anche perché, a mio modo di vedere, i giudei meri­ tano che la loro domanda sia accolta a motivo della loro lealtà e amicizia verso i romani.7

All'espulsione, ignorata sia da Flavio Giuseppe che da Tacito, sembra alludere Dione Cassio, vissuto tra il II e il III secolo, il quale precisa che Claudio non scacciò i giudei da Roma, ma ordinò loro di non tenere riunioni. La difficoltà è che la decisione è da lui collocata all'inizio del regno di Claudio, cioè nel 41. Da un altro storico, Orosio ( uno scrittore cristiano del V secolo ) , l'intervento di Claudio, che regnò dal 41 al 54, viene collocato nel 49. Considerato quanto dice Flavio Giuseppe, è più ragionevole propendere per la datazione proposta da Orosio: l'anno 49 d.C.8 1 .4.3. La fuga di Paolo da Damasco durante la reggenza dell'etnarca del governatore Areta Secondo gli Atti, dopo la conversione, Paolo lasciò Damasco calandosi dalle mura per sfuggire a un complotto ordito contro di lui dai giudei ( At 9,23-25 ) . Paolo stesso ricorda questo episodio, ma con modalità diverse: «A Damasco il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturar­ mi, ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani» ( 2Cor 1 1 ,32-33 ) . L'apostolo allude sicura­ mente ad Areta IV, re della Nabatea, che regnò dal 9 a.C. fino al 39/40 d.C. Il regno dei nabatei con capitale Petra venne sottomesso dai romani fin dal tempo di Pompeo già nel 65 a.C. ( egli entra in Palestina nel 63 a.C. ) e, insieme alla città di Damasco assegnato

7 FLAVIO GIUSEPPE, Antichità giudaiche XIX, 287ss; ed. it. a cura di L. Moraldi, Torino 2013, 1204. 8 Cf. A. PITIA, L 'evangelo di Paolo, Torino 2013, 15-16.

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alla provincia romana di Siria. A Damasco non sono state trovate monete che portino l'effigie degli imperatori Caligola e Claudio, di qui la possibilità che alla morte di Tiberio nel 37 d.C. la città sia caduta nuovamente in mano ai nabatei. Areta IV fu colui che diede la figlia in sposa a Erode Antipa, che la ripudiò per andare a convivere con Erodiade ( cf. Mc 6,17-18 ) , moglie a sua volta del fratellastro Erode Filippo. Il ritorno di Damasco sotto il governo dei nabatei viene inquadrato con gli eventi successivi alla sconfitta di Erode Antipa nella battaglia per la contesa del «distretto di Gabala» contro Areta IV nel 36 d.C., in seguito alla quale ricorse a Tiberio che a sua volta ordinò a Vitellio, governatore della Siria ( dal 35 d.C. ) , di contrastare le mire di Areta. Ma Vitellio non poté eseguire l'ordine a causa della morte di Tiberio il 15 marzo del 37 d.C. , e per il cambio di politica operato da Caligola nei confronti del re Areta. Il termine «etnarca» è sinonimo di «governatore» o di «stratega>> , come dimostra soprattutto il caso di Simone in epoca maccabaica: «Simone da parte sua accettò e gradì di esercitare il sommo sacerdozio, di essere anche stratega ed etnarca dei Giudei, dei sacerdoti e capo di tutti» (lMac 14,47).9

Considerando tutto questo, la fuga di Paolo da Damasco do­ vrebbe collocarsi tra il 36 e il 39, anno della morte di Areta IV, un periodo corrispondente ai quattordici anni indicati in Gal 2,1 come distanza temporale dalla sua visita a Gerusalemme dopo la conversione. 1 .4.4. La prigionia di Paolo a Cesarea in Palestina Secondo gli Atti, giunto a Gerusalemme, Paolo fu arrestato dai romani e condotto a Cesarea, dove comparve davanti al procurato­ re romano Antonio Felice ( At 23,24 ) e al suo successore Porcio Pe­ sto ( At 24,27 ) . La data di questo avvicendamento nel governo può essere dedotta da Flavio Giuseppe, secondo il quale Felice, dopo es­ sere stato richiamato a Roma, venne accusato dai giudei di Cesarea, ma fu prosciolto dall'accusa grazie a suo fratello Pallante, ministro delle finanze di Claudio e poi di Nerone. In merito a questa destitu­ zione, Tacito, negli Anna/es, precisa che Pallante cadde in disgrazia verso la fine del 55, poco prima dell'uccisione di Britannico, figlio

9 A. PrrrA , La Seconda lettera ai Corinzi, Roma 2006, 478.

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di Claudio. Per cui la destituzione di Felice deve essersi verificata in quell'anno, non molto tempo dopo l'ascesa al trono di Nerone, che avvenne nel 54. Non tutti gli studiosi sono d'accordo con questa ipotesi, perché in questo modo il governo di Felice sotto Nerone sarebbe durato poco, un tempo troppo breve per lo svolgimento dei fatti narrati da Flavio Giuseppe. A ulteriore conferma viene portato il fatto che in At 24,10 si legge: «Quando il governatore fece cenno a Paolo di parlare, egli rispose: "So che da molti anni sei giudice di questo popolo e parlo in mia difesa con fiducia"». L'espressione «da molti anni» indicherebbe più di due anni, per cui la destituzione di Felice sarebbe da fissare tra il 58 e il 60. Inoltre la «monetazione ritrovata in Giudea [è] più abbondante del solito e risalente all'an­ no V di Nerone, cioè all'anno 59».10 L'abbondanza di monetazione del 59 sarebbe la prova del cambio di procuratore a questa data, considerato che le precedenti monetazioni furono quelle del 53/54. R. Penna per la formula «da molti anni» si rifà all'opinione di quan­ ti la considerano una captatio benevolentiae, 11 mentre per quella della monetazione fa rilevare che le stesse monete recano il nome dell'imperatore, ma non il nome del procuratore.12 1.4.5. Assenza di riscontri con fonti extrabibliche Il cosiddetto «viaggio in Spagna» menzionato in Rm 15,24 («Spero di vedervi, di passaggio, quando andrò in Spagna») e 15,28 («Partirò per la Spagna passando da voi») secondo R. Penna non si è mai verificato perché non è raccontato da nessun documento antico, né Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica dimostra di esserne a conoscenza. Dice solo che Paolo «predicò il vangelo di Cristo da Gerusalemme fino all'Illirico e soffrì il martirio a Roma sotto Nerone»P Il viaggio nell'area del mar Egeo sulla base di dati presenti nel­ le sole lettere pastorali - toponimi, 14 nomP5 e notizie personali di Paolo stesso - non ha riscontri esterni. Questo avvalora il carattere 10 11

PENNA, «La morte di Paolo nell'anno 58», 163. Cf. ivi, 162. 12 Cf. ivi, 163. 13 lvi, 172-173. 14 Per Efeso, cf. 1Tm 1,3; 2Tm 4,12; per l'Asia, cf. 2Tm 1,15; per la Troade, cf. 2Tm 4,13; per Corinto, cf. 2Tm 4,20a; per Mileto, cf. 2Tm 4,20b; per Creta, cf. Tt 1,5.12. 15 Per Imeneo e Alessandro, cf. lTm 1 ,20; per Figelo ed Ermogene, cf. 2Tm 1,15; per Imeneo e Fileto, cf. 2,17; per Dema, Crescente, Luca, Carpo, Alessandro, Onesi­ foro, Eubulo, Pudente, Lino, Claudia, cf. 4,10.12.14; per Artema e Zena, cf. Tt 3,12.13.

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pseudoepigrafico delle lettere pastorali, cioè che siano state scritte alcuni decenni dopo la morte di Paolo da qualche suo discepolo (dopo il 70).16 Per quanto riguarda l'associazione della morte di Paolo con l'incendio di Roma del 64, nessuno scrittore cristiano menziona mai Paolo come vittima della decisione di Nerone di accusare i cri­ stiani di quell'incendio. Le fonti che possediamo separano sempre la persecuzione dei cristiani dalla morte dell'apostoloY 1.5. Cronologia

Pur avendo la possibilità di consultare diverse fonti, per le ra­ gioni esposte risulta difficile stabilire una cronologia ordinata degli eventi. Questo spiega la varietà delle ipotesi di datazione delle tappe del ministero di Paolo.18 Cronologia tradizionale - conversione, 34-35; - primo viaggio missionario (Pisidia e Licaonia), 45-49; - concilio di Gerusalemme, 48-49; - secondo viaggio missionario (Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto), 50-52; - terzo viaggio missionario (Efeso, Macedonia, Corinto, Mile­ to), 53-57/58; - arresto a Gerusalemme e biennio di prigionia nel 57-59 o 5860 (cambio del procuratore); - arrivo a Roma, 60-61; - biennio di prigionia, viaggio in Spagna; - secondo arresto e martirio a Roma, 64-68. Le lettere sarebbero state scritte tra il 51 e il 67. Cronologia di G. Lildeman Si basa su Gal 1,6-2,14 e sul criterio delle collette per i poveri di Gerusalemme in 1-2 Corinzi, Galati e Romani. Struttura la bio­ grafia di Paolo secondo le visite a Gerusalemme:

16 17

18

26

Cf. PENNA, >, 1823. Un detto rabbinico attribuito a Rabbi Eliezer (ca. 90 d.C.) recita: . Ma il Talmud babilonese riferisce della risposta di Ben Azzaj : (Yebamot 63b ; citazione da PENNA, Paolo, 17). 42 Cf. SACCHI (a cura di), Lettere paoline e altre lettere, 77. 43 Cf. ALBERTIN, Paolo di Tarso: le lettere, 20.30. 41

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- eleutheria, «libertà» (cf. lCor 10,29; 2Cor 3,17; Gal 5,1.13; ecc.); - arete, «virtù» (Fil 4,8); - autarkeia, «autosufficienza)) (2Cor 9,8; Fil 4,12: «So VIvere nella povertà come so vivere nell'abbondanza)>). Dalla filosofia popolare di origine stoica ha assunto: - i cataloghi di vizi e di virtù (cf. Rm 1,18-32; Gal 5,19-23); - il tema della conoscenza naturale di Dio (Rm 1,19-20); - il metodo retorico della diatriba (Rm 2,27-3,8); - i codici domestici (Col 3,18-4,1; Ef 5,22--6,9) . Fa delle citazioni di autori (lCor 15,33: «Non lasciatevi ingan­ nare: "Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi"»;44 Tt 1,12: «Uno di loro, proprio un loro profeta, ha detto: "I Cretesi sono sempre bugiardi, brutte bestie e fannulloni'\>45) ed esprime pareri simili a quelli di filosofi greci (2Cor 4,18; Fil 4,11). Ai termi­ ni o espressioni di matrice ellenistica egli conferisce un significato nuovo, facendone il veicolo di concetti che affondano le loro radici nel mondo biblico. In questo egli segue un metodo ampiamente diffuso nell'ambito del giudaismo ellenistico. Per quanto riguarda le religioni misteriche, sembra che a volte Paolo faccia suoi alcuni dei loro concetti preferiti, come avviene per esempio a proposito del battesimo (cf. Rm 6,3-5), ma si tratta per lo più di contatti puramente formali.46 È assai probabile che la sua lingua materna fosse il greco, a cui ben presto si aggiunsero l'aramaico e l'ebraico (cf. At 21,40; 22,2; 26,14), giacché i bambini ebrei della diaspora venivano istruiti nelle Scritture a partire da quando avevano l'uso della ragione. Questo spiega i giudizi che riflettono i valori del giudaismo ellenista (cf. Rm 1,23; l Ts 1,9).47 La tradizione ebraica, rielaborata ed espressa dalla LXX, ha segnato in profondità il suo pensiero. La LXX è già 44 Si tratta di una citazione implicita di Menandro (Thais fr. 218), che compa­ re anche in Euripide (fr. 1013) e con qualche differenza anche in Diodoro Siculo (16,54,4); cf. G. BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, Bologna 1995, 837. 45 Sulla base del commento di Clemente di Alessandria (II secolo ) , si attri­ buisce la citazione a Epimenide di Cnosso (VI secolo a.C. ) , che l'avrebbe coniata parlando della «brutalità» e «ingordigia>> degli abitanti di Creta; cf. D. MARGUERAT, «Lettere pastorali>>, in C. FocANT - D. MARGUERAT, Commentario del Nuovo Testa­ mento, ed. it. a cura di A. FiLIPPI, Bologna 2014, 1066. 46 Dione di Prusa ( Orazioni, 33-34) parla di una venerazione a Tarso del dio locale Sandam, secondo forme cultuali misteriche, ovvero di morte-reviviscenza, in riferimento alla vegetazione (cf. PENNA, Paolo, 18). 47 Cf. BARTOLOMÉ, Paolo di Tarso, 132-136; MuRPHY-O'CoNNOR, Vita di Paolo, 65ss.

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di per sé un'interpretazione, ed è stata proprio questa reinterpreta­ zione «grecizzata» la base per la rilettura paolina dell'AT in termini cristologici. I testi della LXX più citati da Paolo sono quelli che potevano sopportare la missione ai gentili, e in particolare 33 dei 44 brani in cui compare la parola «mondo», oikoumene. 48 Ad esempio, Paolo preferisce il testo di Is 23,14-18LXX perché, a differenza del testo masoretico di Is 23,14-18, che condanna la città di Tiro a una sorta di prostituzione con «tutte le nazioni», intravede la sua con­ versione, come un'offerta a Dio. 3.3. La conversione

La conversione riveste un ruolo primario nella vita di Paolo, poiché prima di questa49 egli era un persecutore della fede: Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, su­ perando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri (Gal 1 ,13s); Quanto allo zelo, [ero] persecutore della Chiesa (Fil 3,6); Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio (lCor 15,9); Prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento (1Tm 1 ,13).

E da persecutore gli è dato di «vedere» il Signore risorto (l Cor 9,1) . Luca negli Atti menziona tre volte l'evento: in At 9,3-19, in un racconto in terza persona; in 22,6-16, in un racconto autobiografico davanti alla folla ostile di Gerusalemme; in 26,12-18, in un racconto sempre autobiografico davanti a Pesto e ad Agrippa. I dettagli sono differenti. Nel primo racconto degli Atti «gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno» (At 9,7 ) ; nel primo resoconto «quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono la voce di colui

48 Cf. RoETZEL, «Pau!, the Apostle>>, 406. 49 C. K. BARRETT afferma: «Se tali cambiamenti radicali [come il nuovo atteg­ giamento di Paolo verso la Legge e il nuovo tipo di attività] non costituiscono una conversione è difficile sapere in che cosa essa possa consistere>> (A Criticai and Exegetical Commentary on the Acts of the Apostles, Edimburg 1994, I, 442, citato in N.T. WRIGHT, Risurrezione, Torino 2006, 441 , nota 6).

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che mi parlava» (At 22,9) ; nell'ultimo resoconto dice che furono avvolti dalla luce dal cielo e caddero a terra (negli altri due cade solo Paolo) , ma solo lui partecipò al dialogo con Gesù (At 26,13-14: «Verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii una voce che mi diceva in lingua ebraica: "Saulo, Saulo, perché mi perséguiti? È duro per te rivol­ tarti contro il pungolo"»). At 9,3-19

At 22,6-16

At 26,12-18

I compagni di Paolo I compagni vedono la I compagni sono avvolti sentono la voce, ma luce, ma non odono colui dalla luce, ma solo Paolo ode la voce di Gesù. non vedono nessuno. che gli parla. Cade solo Paolo.

Cade solo Paolo.

Cadono a terra anche i compagni.

I tre racconti di Atti richiamano i modelli biblici di vocazione dei patriarchi e dei profeti (cf. At 9 e Gen 46,2s): la luce dal cielo, il dialogo, la reazione di Paolo (At 26,12-19). Nelle lettere ritorna più volte la descrizione della sua conversione per accreditare il van­ gelo e l'autenticità del suo ministero apostolico: «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (2Cor 15,8); «Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti» (Gal 1,15-16). Ad esempio, nella Lettera ai Filippesi, polemizzando con gli avversari in merito al valore della Torah, allo scopo di manifestare lo splendore della giustizia di Cristo dice: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù» (3,12). In merito alle differenze nei tre racconti di conversione di Paolo in Atti, Wright così si esprime: È chiaro che nessuno di questi tre è stato scritto con lo scopo di appoggiare ciò che Paolo dice in 1Cor 9,1 o 15,8; nessuno dei tre afferma nettamente ciò che in quei versetti è l'essenziale per Paolo, ossia che egli ha effettiva­ mente visto Gesù stesso. Questo fatto, tuttavia, risulta chiaramente da A t 9,17, dove Anania dice di Gesù che «ti è apparso» (ophtheis) , e da 9,27, in cui Barnaba spiega in quale modo Saulo aveva visto (eiden) il Signore per via. In 26,16 Gesù dice di essere apparso a Paolo, usando lo stesso verbo che si ripete in 1Cor 15, ma parla pure di visioni future, così come di quella che ha appena avuto luogo ( una di tali successive visioni di Gesù

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è raccontata in 22,17-21). In Le 24,39 il linguaggio di «carne e ossa» crea una tensione superficiale con la negazione di Paolo (1 Cor 15,50), secondo cui «carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio»; tutto quello che possiamo dire al riguardo è che Luca non si preoccupava di imitare il linguaggio di Paolo o di perseguire i suoi scopi. Egli crede senz'altro che Paolo ha visto Gesù; i suoi racconti non possono essere direttamente impugnati contro 1 Cor 9 e 15; ma egli non vede il bisogno di sottolineare quel fatto o il modo in cui è avvenuto. Ciò che egli aggiunge, in modo un po' teatrale, è che la visione che Paolo ebbe di Gesù era accompagnata da una luce sfolgorante. Egli tuttavia non dice mai che Gesù apparve a Paolo né come fonte di quella luce, né come luce egli stesso. 5°

Successivamente Wright51 mette a confronto i tre racconti con altri due testi della letteratura ebraico-ellenistica: - 2Mac 3, dove Seleuco, re di Siria, invia il suo funzionario Elio­ doro a saccheggiare il denaro custodito nel tempio di Geru­ salemme (elemento in comune: Dio ferma il ladro e predone pagano mentre sta andando a saccheggiare il tempio); - Giuseppe e Aseneth, un racconto fantastico del Secondo tem­ pio, che si concentra sulla conversione di Aseneth, la figlia di Potifar, e sul suo matrimonio con Giuseppe: dopo una lunga preghiera di pentimento, Aseneth riceve una visione celeste (elemento in comune: la grande luce, il cadere prostrata a terra, l'essere chiamata ripetutamente per nome, la domanda su chi stia parlando, l'ordine di rialzarsi e di rimanere in piedi, e il ricevere ulteriori istruzioni). Questo è il commento finale dello stesso studioso: «L'impres­ sione è che quello schema fosse familiare nella letteratura ebraico­ ellenistica dell'epoca, e che costituisse pertanto un modo naturale per raccontare l'episodio di Paolo».52 3.4. Paolo erede della tradizione della Chiesa primitiva

Paolo non si sente l'iniziatore della tradizione cristiana, ma il discepolo e testimone della fede della Chiesa. A volte lo dichiara direttamente: si appella alle usanze della Chiesa (lCor 1 1 ,16), raccomanda la fedeltà alla tradizione (l Ts 2,13), come attesta la formula «ricevere-trasmettere» adoperata in lCor 1 1 ,23 per l'euca-

50 51 52

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WRIGHT, Risurrezione, 455-456. Cf. ivi, 456-460. lvi, 458.

ristia e in 1Cor 15,1 per la risurrezione. La dipendenza dalla Chiesa primitiva è indicata inoltre da: - l'invocazione Maranathà in 1Cor 16,22; - le formule di omologia ( solenni dichiarazioni sull'identità personale di Gesù ) : «Gesù è il Signore» ( 1Cor 12,3 ) ; - le formule di professione di fede: morte-risurrezione, nascitarisurrezione (Rm 10,9 ) ; - gli inni ( Col 3,16 ) ; - le formule di eulogia/benedizione ( Rm 1,25; 9,5 ) ; - le formule di dossologia ( Rm 11,36 ) ; - i cataloghi di virtù ( Gal 5,22-23 ) e di vizi ( 2Cor 12,20-21) . 3.5. I viaggi di Paolo

Se la conversione è fissata in genere attorno agli anni 34-35 d.C., la fuga da Damasco si data nel 39, mentre il ritiro in Siria e Cilicia negli anni 39-44. Nel 45 compie il viaggio a Gerusalemme, accompagnato da Barnaba che lo presenta a Pietro, e, a causa di incomprensioni, si reca a Tarso. 3.5.1. Primo viaggio missionario (45-49 ) È Barnaba a portarlo da Tarso ad Antiochia per evangelizzare le zone dell'Asia Minore. Poi, sempre in compagnia di Barnaba, salpato da Seleucia, predica a Cipro, dove incontra il proconsole romano Sergio Paolo. Nell'Anatolia centro-meridionale tocca le città di Perge di Panfilia, Antiochia di Pisidia, Iconio, e quelle della Licaonia, Listra e Derbe. Ritornato ad Antiochia di Siria, dove alcuni venuti dalla Giudea gli contestano il suo trascurare nell'annuncio la circoncisione e la legge mosaica, decide di recarsi a Gerusalemme.

3.5.2. Concilio di Gerusalemme (48-49/50 ) Nel concilio, dopo gli interventi di Pietro e Giacomo, si rag­ giunge un compromesso: a Paolo è affidata la missione ai pagani, il compito di promuovere collette per i poveri della Chiesa madre di Gerusalemme ( cf. Gal 2,1-10 ) , unitamente alla richiesta ai pagani di adempiere alle quattro clausole mosaiche (non riprese nelle lettere ) : astenersi dalle carni immolate agli dèi, dal sangue, dagli animali soffocati e dai matrimoni proibiti dalla legge levitica. Di 41

ritorno ad Antiochia di Siria, avviene il cosiddetto «incidente di Antiochia>>, cioè Paolo rimprovera Pietro per la sua doppiezza in merito alle prescrizioni alimentari giudaiche (Gal 2,11-14). 3.5.3. Secondo viaggio missionario (50-52) Paolo viaggia non più in compagnia di Barnaba, ma di Sila e Timoteo. Parte da Antiochia di Siria, insieme a Sila, e poi passa via terra per la Frigia, la Galazia, la Misia, fino a Troade sull'Egeo settentrionale; di qui salpa per l'Europa, toccando l'isola di Samo­ tracia e le città di Neapoli, Filippi, Anfipoli, Apollonia, Tessaloni­ ca, Berea. Ad Atene tiene il discorso dell'Areopago (At 17,16-34). Giunto a Corinto, si ferma per un anno e mezzo e probabilmente scrive la l Ts. Deferito dai giudei al tribunale del proconsole roma­ no Gallione, fratello di Seneca, dopo qualche tempo, dal porto di Cenere (il porto orientale di Corinto), inizia il viaggio di ritorno, che lo porta dapprima a Efeso e quindi a Cesarea Marittima, a Gerusalemme e di nuovo ad Antiochia di Siria. 3.5.4. Terzo viaggio missionario (53-55) All'inizio del 53, partito da Antiochia, attraverso la Galazia (posta al centro dell'Asia Minore) e la Frigia giunge a Efeso, dove si ferma per più di due anni. Qui scrive Gal e 1-2 Cor. In seguito alla sommossa provocata dall'argentiere Demetrio in nome della dea Artemide, di cui la città ospitava il tempio (l'Artemision), viene imprigionato e «in catene» scrive la Lettera ai Filippesi e il biglietto a Filemone. Poi, direttosi verso nord, dopo aver toccato la Macedonia, arriva a Corinto. Qui compone la Lettera ai Romani, nella quale annuncia il progetto di recarsi in Spagna (ne parla solo l'apocrifo Atti di Pietro, della fine del II secolo). Di ritorno in Macedonia, dal porto di Filippi, via mare tocca Troade, poi Asso, Mitilene, Chio, Samo, Mileto, Cos, Rodi, Patara, Tiro, Cesarea Marittima e infine Gerusalemme, dove consegna la colletta. A Gerusalemme avviene il confronto con Giacomo circa l'interpretazione giudeo-cristiana del vangelo e il valore della Torah. Verso la fine del 55, arrestato da un tribuno della coorte romana, è costretto a difendersi di fronte ai giudei e al sinedrio.

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3.5.5. Biennio di prigionia, viaggio a Roma (55-58) e martirio Dopo essere stato arrestato, Paolo è condotto a Cesarea Marit­ tima dinanzi ai procuratori A. Felice e P. Festa, e alla presenza di quest'ultimo si appella a Cesare. Dopo un altro tentativo di difesa davanti al re Agrippa II e a sua sorella Berenice, è deferito a Roma. Alla fine del 55 si data l'inizio del quarto viaggio verso Roma. Salpato da Cesarea con il centurione che lo accompagnava insieme ad altri prigionieri, dopo aver toccato Sidone e Cipro giunge a Myra di Licia. Poi con un'altra nave, costeggiata la Licia fino all'altezza di Cnido e poi facendo vela verso sud-ovest, approda all'isola di Creta, presso la località chiamata Buoni Porti. Dopo aver svernato, riparte verso l'Italia, imbattendosi in una violenta tempesta che lo fa naufragare sull'isola di Malta. Dopo tre mesi salpa con un'altra nave e approda a Siracusa, in Sicilia, poi a Reggio, in Calabria, e infine a Pozzuoli. Percorsa la via Campana fino a Capua e la via Appia, al foro Appio (a circa 72 km dalla capitale) incontra alcuni cristiani di Roma. Qui trascorre due anni sotto custodia militare. Le lettere pastorali lasciano supporre una visita in Oriente (Creta, Nicopoli in Epiro e Troade). A Roma, nell'anno 58, avviene il martirio, sotto l'imperatore Nerone.53 Girolamo nel De viris illustribus pone il martirio nel 67 d.C. (due anni dopo la morte di Seneca). Lo stesso fa Eusebio in Chronicon 2 («nel quattordicesimo anno di Nerone», cioè nel 67) . Entrambi ritengono che i l processo a Paolo del 5 8 sia culminato in una liberazione, deducendola dalla conclusione aperta di Atti e dagli accenni ai viaggi in Rm e nelle lettere pastorali. In genere la morte dell'apostolo è collocata tra il 64 e il 65 a seguito dell'in­ cendio di Roma avvenuto nella notte del 18 luglio 64, con la con­ seguente condanna e il martirio dei cristiani secondo il racconto di Tacito. 54 Ma nessuna fonte antica mette in relazione l'incendio con il martirio dei cristiani, né Tacito menziona nomi. La più antica testimonianza circa il suo sepolcro, sulla via Ostiense, risale al presbitero Gaio, del II secolo. Una tradizione successiva parla del martirio per decapitazione alle Acque Salvie (oggi Tre Fontane).

53 Cf. PENNA, «La morte di Paolo nell'anno 58>>, 164-171. 54 Ann. XV,44,2-5.

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4.

Le lettere paoline e il genere epistolare

Gli scritti che la tradizione attribuisce a Paolo sono 14, com­ prendendo anche la Lettera agli Ebrei, che la critica non ritiene dell'apostolo per caratteristiche tematiche e stilistiche. La canonicità delle lettere paoline è attestata sin dai primi elenchi di libri ispirati, e in particolare già in quello di Marcio­ ne, attestata a Roma verso il 140 d.C. Marcione tuttavia esclude dall'elenco le tre pastorali perché non le riconosce come ispirate. L'elenco completo delle tredici lettere ( esclusa Eb ) è attestato invece nel Canone Muratoriano, conosciuto a Roma verso il 170 d.C. Policarpo di Smirne, nella sua Lettera ai Filippesi (130 d.C. ) , fa riferimento alla maggior parte delle lettere con citazioni o allusioni. Le lettere per ragioni letterarie e teologiche vengono suddivise m:

Lettere autentiche (protopaoline ): - Romani; - 1-2 Corinzi; - Galati; - l Tessalonicesi; - Filippesi = prigionia (1,13: «sono in carcere per Cristo» ) ; - Filemone = prigionia (l: «io prigioniero di Cristo» ) . Autenticità discussa ( deuteropaoline ): - Colossesi = prigionia (4,7: «vi saluta [ . . . ], mio compagno di carcere» ) ; - Efesini = prigionia (3,1: «io il prigioniero di Cristo» ) ; - 2 Tessalonicesi. Inautenticità probabile ( pastorali ) - 1-2 Timoteo; - Tito. Non paolina: - Ebrei.

Le differenze tra le lettere st possono schematizzare come segue:

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Protopaoline A

livello letterano A

livello teologico

Destinatari

Deuteropaoline

Pastorali

Linguaggio semplice Frequente uso dì hapax legomena con un e immediato. perìodare più ampio, solenne e ampolloso. Uso della diatriba in Abbandono della diatriba. 1-2 Cor, Gal e Rm. Centralità dello Spirito nelle protopaolìne, ridotta al minimo nelle deuteropaolìne, a eccezione di Ef e pastorali. La Legge: nelle protopaoline considerata indifferente rispetto alla giustificazione, anche se ritenuta non abrogata; nelle successive è abbandonata. Escatologia realizzata in lTs; escatologia futura in 2Ts. Prospettiva ecclesiologica: nelle protopaolìne, il termine ekklesia designa una Chiesa concreta, locale; nelle deuteropaoline, la Chie­ sa è vista come il corpo di Cristo capo; nelle pastorali è delineato l'impianto gerarchico della Chiesa: episcopi, presbiteri, diaconi. Sono destinate a una comunità ben definìta. Hanno un carattere e un andamento solenni.

Hanno un tono im- Sono rivolte a per­ personale a tal punto sone specifiche: Ti­ che molti esegeti fan- moteo e Tito. no difficoltà a individuare i destinatari.

L'attribuzione delle lettere non-autentiche a Paolo viene spie­ gata con la prassi della pseudoepigrafia, usata nell'antichità per dare autorevolezza a un testo scritto o attualizzare il messaggio religioso o spirituale di un maestro o caposcuola (J?er es. i salmi attribuiti a Davide; i libri sapienziali a Salomone). E una modali­ tà conosciuta in ambiente greco-romano: si attribuivano opere a grandi personaggi come Omero, Platone, Pitagora, ecc. (per es. la Seconda lettera di Clemente). 4. 1. Origine delle lettere

Le lettere di Paolo sono scritti occasionali che l'apostolo invia a comunità, da lui fondate oppure né fondate né visitate (Rm), che desideravano conoscere il vangelo, vivere l'esperienza in Cristo, sostenere il ministero dell'apostolo, ricevere risposte ai loro dubbi teologici, in merito al ministero e all'insegnamento dell'apostolo o alla vita comunitaria. Sono finalizzate a ridestare la memoria delle sue visite (Gal 4,13-14; 1Ts 2,1-1 1 ; 3,3-4), sollecitare la par­ tecipazione alle sue fatiche apostoliche oppure manifestare la sua 45

vicinanza alle vicende comunitarie (1Cor 1,4-6; Fil 1,3-8) . Paolo scrive per i suoi interlocutori del I secolo; non intende proporre un'opera letteraria da tramandare ai posteri. Le sue lettere sono rivolte ai battezzati per evitare principalmente due pericoli: il ri­ schio di essere fagocitati dall'ambiente pagano circostante oppure di cedere all'attiva propaganda degli oppositori, tra cui gli gnostici (come afferma Schmithals) e i giudaizzanti (come affermano Baur e Gunther). È difficile stabilire se gli avversari di volta in volta considerati siano gruppi oppure singoli. Le lettere hanno uno stile immediato e diretto che manifesta al vivo la personalità del loro autore. Nelle lettere, Paolo rivela il suo talento di teologo e di scrittore, ma soprattutto manifesta il suo vero carisma: la missione. Egli è preoccupato per le Chiese, tanto da rappresentare per lui il suo assillo quotidiano (2Cor 11,28). 4.2. Il genere epistolare

Il genere epistolare è preponderante nel NT rispetto all'AT,55 dal momento che vi appartengono 21 libri su un totale di 27.56 Oltre alle 14 paoline sono da menzionare le 7 lettere cosiddette «cattoliche». Un autore greco del I secolo chiama la lettera «l'altra metà della conversazioneldialogou».57 Si conoscono raccolte di lettere di carattere filosofico-dottrinale scritte da Platone (428/27-348/47 a.C.), Aristotele (384-322 a.C.), Cicerone (106-43 a.C-)58 e suoi amici, Cesare, Plinio il Giovane, Epicuro e Seneca. I poeti Orazio e Ovidio pubblicarono lettere in versi. La storia della Chiesa antica conosce lettere del vescovo di Roma Clemente, del vescovo Poli-

55 Vi appartengono Gen 29,1-29; Bar 6; 2Mac 1,1-9; 1,10-2,18; e altri passi. 56 Sono da aggiungere le due lettere di At 15,23-29 e 23,26-30 e le sette di Ap 2-3. 57 La definizione è del Peri ermeneias («Sullo stile>>) di Demetrio il quale, con un certo Artemone, usa l'espressione in greco to eteron meros tou dialogou. Secondo H. KosKENNIEMI, Studien zur Idee und Phraseologie des griechischen Briefes bis 400 n. Chr. , Helsinki 1956, le lettere ellenistiche erano pensate con tre caratteristiche: a) la philophronesis (la relazione amicale), perché la lettera deve essere come «il dono scritto>> di se stesso; b) la parousia (la presenza), perché quando si è lontani la lettera fa in modo che si sia presenti l'uno all'altro per ravvivare l'amicizia; c) il dialogos o omilia (dialogo, scambio), perché la lettera permette di dialogare anche quando si è fisicamente separati e di scambiarsi notizie e quello che è parte della propria vita. Dall'antichità sono pervenute a noi circa 15.000 lettere. 58 931 lettere: 769 di lui, le altre a lui.

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carpo, del vescovo Ignazio, le lettere pseudoepigrafiche di Barnaba e Tito, e infine un presunto scambio di lettere fra Paolo e Seneca. La lunghezza delle lettere pervenute su papiro va dalle 18 alle 209 parole. Le 769 lettere di Cicerone sono lunghe in media 295 pa­ role, a differenza delle 13 di Paolo che hanno una lunghezza media di 2.500 parole. Di conseguenza la Lettera ai Romani è la più lunga non solo del NT, ma anche delle lettere antiche pervenuteci.59 Nell'antichità erano comuni tre tipi di lettere: l) lettere a persone singole (Fm e pastorali); 2) lettere scritte in forma di vere lettere, pensate per una cer­ chia più estesa di lettori e ascoltatori (lettere paoline dirette a intere comunità, che dovevano essere lette davanti alla comunità riunita; cf. l Ts 5,27); 3) lettere che non si rivolgono ad ascoltatori e lettori ben defi­ niti, ma che sono dirette a un pubblico vasto e generalizzato, e costituiscono dei trattati in forma di lettera (Platone, Cice­ rone, Eb, Gc, 1Gv).6° 4.3. La forma

Come tutte le lettere, anche quelle paoline si caratterizzano per un inizio, un corpo e una conclusione. L'inizio o apertura della lettera era dato da un prescritto con i nomi del mittente e del destinatario e il saluto. Nel saluto, le lettere di Paolo ricalcano le aperture consue­ te delle lettere ellenistiche nella forma di «A a B, salute»,61 con espansioni di questo saluto base (cf. Rm 1,1-7; Gal l,l-5; lTs 1,1; Tt 1,1-4),62 in cui è sovente enunciato lo scopo specifico delle lettere. L'identificazione del mittente (spesso con la citazione dei collabo­ ratori) e dei destinatari è seguita da ampie descrizioni dell'uno e 59 Per questo motivo è da ritenere che Paolo scrivesse durante la stagione in­ vernale, quando la navigazione era chiusa, ovvero dal 15 novembre al 15 marzo. In 1Cor 16,8 scrive infatti: «Mi fermerò a Efeso fino a Pentecoste». 60 Per la spedizione e il recapito delle lettere l'amministrazione imperiale disponeva di una rete postale nel cursus publicus (i portatori delle lettere riusciva­ no a percorrere in media 80 km al giorno ) . I ricchi si servivano dei loro schiavi o tabellarii, cioè . Ma vi erano anche imprese private dedite alla distribuzione postale (cf. E. BADIAN, , in Dizionario di Antichità classiche di Oxford, Il, 1714-1715 ) . 61 Esempio: Cicero Attico suo s[alutemj; Demophon Ptolemaio chairen [leigeij. 62 In Gal impiega 75 parole, in Rm 93, di gran lunga superiori alle 4 parole di Cicerone o Seneca.

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degli altri nei termini della loro relazione con Dio in Cristo. Paolo di solito identifica se stesso con epiteti come «apostolo» e «servo», mentre i destinatari sono chiamati «santi», «diletti» o «la Chiesa di Dio che è a . . . ». L'usuale saluto ellenistico, chairein («salute»), è sostituito da charis kai eirene («grazia e pace))). La formula di benedizione è insieme una constatazione del fatto che i destinatari partecipano già della grazia e della pace di Dio e un'invocazione perché pos­ sano apprezzare e fare una più profonda esperienza di tali doni. Richiama la benedizione che si legge in Nm 6,24-26 («Ti benedica il Signore e ti protegga, rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace))). Quella di Gal 6,16 («Pace su di essi e misericordia come sull'Israele di Dio))) ricorda il testo di Sap 3,3.9 («Essi sono nella pace, [ . . . ] poiché grazia e misericordia sono riservate ai suoi elet­ th)) e di 2Bar 78,2 («Misericordia e pace siano con voh)). Come ha mostrato K. Berger, una formula augurale di benedizione divina in un inizio epistolare era inusuale al tempo di Paolo.63 Essa invece, nel caso delle lettere paoline, manifesta la coscienza dell'apostolo di essere mediatore di particolari doni divini di salvezza, poiché si presenta come mediatore tra Dio e i suoi destinatari. Al saluto, come nelle lettere ellenistiche,64 segue una premessa particolareggiata con auguri o richieste in forma di preghiera per la salute del destinatario (in tutte tranne Gal) , un rendimento di grazie per lo stato spirituale della comunità (azione salvifica di Dio), l'assicurazione del costante ricordo e una preghiera per la stessa. Talvolta sono indicati i temi della lettera (cf. Rm 1 ,8-17; 1Cor 1 ,4-9). Il corpo è il cuore della lettera, perché contiene il messaggio da comunicare al destinatario.65 Nell'esposizione del contenuto Paolo si avvale della retorica epistolare. Egli infatti dimostra di conoscere la retorica oratoria, nei suoi tre tipi: deliberativo, epi­ dittico o dimostrativo/espositivo e giudiziale, nonché le parti che

63 Cf. «Gli scritti centro culturale» a cura di A. LoNARDo: «Introduzione all'epi­ stolario del NT» di G. BIGUZZI: http://www.gliscritti.it/approf/2006/saggi!epistolario/ epistolariol.htm (consultato il 7/1/2015 ) . 64 Lo scrivente inseriva il ringraziamento o la benedizione degli dèi per loro protezione a favore del mittente o del destinatario. 65 Cf. B.M. GARAVELLI, Manuale di retorica, Milano 1989; A. MARCHESE, Dizio­ nario di retorica e di stilistica, Milano 1978.

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compongono la struttura retorica di un discorso e che dispone con libertà (dispositio ):66 - exordium: mira a rendere il pubblico benevolo ( captatio be­ nevolentiae ), chiarendo i motivi che hanno spinto a parlare, l'autorità di chi parla e l'argomento; - narratio: ha lo scopo di informare sui fatti o termini della con­ troversia, suscitando piacere senza stancare l'ascoltatore, per cui i retori suggeriscono che sia breve e chiara; - propositio: una presentazione dei termini essenziali del fatto che viene esposto, a cui si lega quasi sempre l'argomentazione (nella forma di partitio diventa un'enumerazione dei punti da trattare );67 - digressio: uscita dall'argomento principale per trattare temi aggiuntivi, ma correlati; può comparire in tutte le sezioni; - probatio: è l'argomentazione centrale che si avvale delle co­ siddette prove tecniche (esposizione retorica dei fatti, come può essere la forma stilistica della diatriba) e prove non tec­ niche (per es. citazione dell'autorità biblica); - peroratio: ricapitolazione o enumerazione dei temi trattati e soluzioni proposte per darne una visione d'insieme e suscitare l'affetto e la disponibilità dell'interlocutore.68 Caratteristica di Paolo è che al termine dell'argomentazione passa alla parenesi (per es. Gal 5,13-6,10; 1Ts 4,1-5,22). Nella conclusione Paolo in qualità di mittente si congeda dal destinatario (o dai destinatari) e chiede di portare qualche saluto di grazia in Cristo (cf. 1Ts 5,28; 1Cor 13,13: formula trinitaria; 1Cor 16,20-24: liturgia di introduzione alla Cena del Signore ).69

66 J.-N. ALETII, «La présence d'un modèle rhétorique en Romains: Son role et son importance», in Biblica 71(1990), 1-24; lo., >; cf. At 15,29: erri5sthe) equivalente a vale.

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Elementi letterari che vi compaiono sono: - la preghiera: «il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezio­ ne . . . » (lTs 5,23); - i saluti: «Salutate tutti i fratelli con il bacio santo . . . » (2Cor 13,12-13; cf. l Ts 5,26); in Rm saluta quasi trenta persone; - la benedizione: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi» (l Ts 5,28); - a volte l'annotazione di un saluto autografo, ovvero una frase o due di propria mano (lCor 16,21; Gal 6,11; Col 4,18; 2Ts 3,17), che dava valore legale allo scritto e confermava al destinatario quanto scritto dallo scriba sotto dettatura. Le lettere infatti venivano di solito dettate, come documenta il saluto personale di Terzo, il segretario di Paolo in Rm 16,22: «Vi saluto nel Signore, io, Terzo, che ho scritto la lettera».70 4. 4. La lingua

Il greco usato da Paolo è quello ellenistico della koine, cioè la forma di greco parlato che era diventata comune in tutto l'im­ pero romano, grazie alla politica di Alessandro Magno, tanto da essere usata nei rapporti tra i vari popoli del Vicino Oriente e del Mediterraneo. La koine, come lingua commerciale, diplomatica e letteraria, sostituì gli antichi dialetti greci (ionico, eolico e dorico), perché capace di accogliere apporti linguistici nuovi, come dimo­ strano le molte particolarità grammaticali e stilistiche rispetto al greco classico. L'apostolo non scrive in greco pensando in ebraico o aramaico, ma, avendo imparato la koine come lingua materna, elabora i suoi concetti direttamente in greco, a differenza di altri autori del NT. Il greco di Paolo è diverso da quello di Filone Alessandrino, che pur essendo ebreo utilizza un greco con un ricco vocabolario e che aveva una vasta conoscenza della cultura greca, soprattutto di ma-

70 Le lettere erano in genere dettate verbatim (una parola alla volta) o syl­ labatim ( sillaba dopo sillaba) a uno scriba di professione. Altre volte erano date indicazioni orali lasciando a uno scriba o a un segretario il compito di comporre il testo. Sono attestati casi di segretari di fiducia (cf. CICERONE, Ad Atticum 3,3,21) e di tachigrafi che prendevano appunti e poi li stendevano in modo leggibile. Secondo i calcoli di O. RoLLER (Das Formular der paulinischen Briefe. Ein Beitrag zur Lehre vom antiken Briefe, Stuttgart 1933), si riuscivano a scrivere tre sillabe al minuto e 72 parole all'ora. Per cui, per scrivere la Lettera a Filemone che consta di 335 parole, ci sarebbe stato bisogno di 4 o 5 ore; la Lettera ai Romani, che contiene 7101 parole, avrebbe richiesto 98 ore.

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trice platonica. Paolo adopera il vocabolario della LXX, dando ad alcune parole significative per la sua teologia una nuova sfumatura. L'elenco che segue consente di esemplificare la varietà e originalità del vocabolario paolino: - uso di termini aramaici: Abbà, Maranathà, Pascha; - uso di termini ebraici: Amen, Satanas; - uso di termini greco-semitici: sarx, nomos, onoma, akoe («ascolto»), Christos; - uso di termini tipicamente greci: soma, syneidesis, kosmos, parousia, parresia, pleroma, palingenesìa, agape, ekklesìa, Pneuma, amartìa, pistis, euangelion, anakephaliòo, apokara­ dokìa (>, in R. E. BROWN - J.A. FITZMYER - R.E. MuRPHY, Nuovo grande commentario biblico, Brescia 1997, 1824-1 826. 3 R. BULTMANN, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1985. 4 E. KA.sEMANN, Prospettive paoline, Brescia 1972. 5 U. WrLCKENS, Rechtfertigung als Freiheit. Paulusstudien, Neukirchen 1974. 6 H. BRAUN, «The Problem of a New Testament Theology>>, in JTC (1965)1, 169-185. 7 J.D.G. DuNN, La teologia dell'apostolo Paolo, Brescia 1999, 48. 8 J. BECKER, Paolo. L 'Apostolo dei popoli, Brescia 1996.

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si debba riconoscere uno schema evolutivo con un tema centrale. La teologia paolina si dispiega, a suo giudizio, in tre fasi principali: l) La teologia dell'elezione (Erwiihlungstheo logie: 1Ts); 2) la teologia della croce (Kreuzungstheologie: 1-2 Cor); 3) l'annuncio della giustifica­ zione (Rechtfertigungsbotschaft: Gal, Fil 3 e Rm). La teologia della croce sarebbe il tema centrale, come sviluppo della teologia dell'elezione e fondamento della teologia della giustificazione.9

Fitzmyer afferma: La chiave della teologia paolina, tuttavia, dovrebbe essere formulata nei termini di ciò che l'Apostolo affermò più e più volte in vari modi: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione (kerygma). E mentre i giudei chiedono i miracoli e i greci cercano la sa­ pienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia giudei che greci, pre­ dichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (lCor 1 ,21-25; cf. Rm 1 ,16; 2Cor 4,4). Questa «parola della croce» (1Cor 1 ,18), quindi, pone Cristo stesso al centro della soteriologia (nuova modalità salvifica di Dio) e tutto il resto dell'insegnamento di Paolo deve essere orientato a questa soteriologia cristocentrica.10

Giuseppe Barbaglio11 parla della teologia dell'apostolo come situazionale e frammentaria, in forma di «abbozzi» e non sistema­ tica. Pitta la delinea con queste parole: «L'evangelo, variamente declinato in ogni lettera, s'identifica non con un libro, ma con Gesù Cristo, il Signore. Per questo l'evangelo di Paolo è come un calei­ doscopio, che assume tonalità e accentuazioni diverse in dipenden­ za delle situazioni che affronta». 12

2.

Vangelo

Il termine «Vangelo», euangelion, compare 48 volte nelle lettere autentiche, 8 volte nelle deuteropaoline e 4 volte nelle pastorali, su un totale di 76 volte nel NT. Invece il verbo euangelizo/omai com-

9 J. BERGER, Paulus. Der Apostel der Volker, Tiibingen 1992, 5. 10 FITZMYER, «Teologia paolina>>, 1825. 11 BARBAGLIO, La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, Bologna 2001 , 7. 12 A. PITTA, L 'evangelo di Paolo, Torino 2013, 52-53.

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pare 19 volte nelle lettere autentiche, 2 volte nelle deuteropaoline e nessuna nelle pastorali, su un totale di 54 volte nel NT. Vi è quindi in Paolo la prevalenza del sostantivo, a dimostrazione che l'apo­ stolo è più interessato all'uso del concetto di «vangelo» che all'atto di «evangelizzare».U Nelle lettere il sostantivo non ha la semplice accezione di «lieto annunzio>>, ma sta per l'attività di evangelizza­ zione14 e per il contenuto del suo messaggio apostolico.15 Euangelion ha come sfondo il sostantivo ebraico b•sora, che significa, «in sintonia con l'uso profano e sempre in senso positivo, "la ricompensa data al messaggero che porta la notizia di una vit­ toria" (cf. 2Sam 4,10; 18,22) o il "messaggio di vittoria" (cf. 2Sam 18,20.25.27; 2Re 7,9)». 1 6 Il testo più vicino al concetto neotestamen­ tario di «vangelo» è quello di Is 52,7: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi (pie l intensivo) che annun­ zia (hiphil causativo) la pace, messaggero di buone notizie che annunzia la salvezza». Il testo allude alla caduta di Assur, celebrata anche da Na 2,1, ma rispetto a quest'ultimo brano, Isaia usa toni più epici ed espressivi, perché la collega alle grandi promesse di salvezza. Con la vittoria sull'Assiria del 612 a.C., infatti, il profeta intravede anche l'inizio del regno di DioY Euangelion nel NT assume una rilevanza particolare, se si con­ sidera che nel mondo greco-romano era praticato il culto dei so­ vrani che si vantavano di un presunto ruolo salvifico per l'esistenza degli abitanti del regno o dell'impero.18 =

=

13 Cf. FITZMYER, >, per la quale è stato scelto come i profeti (Ger 1,5; ls 49,1) fin dal grembo di sua madre (Gal 1,15; Rm 1,1). Se tale è l'importanza per sé e per l'umanità, si comprende il dovere, la necessità assoluta (ananke) di portare il kerygma ai quat­ tro angoli della terra (lCor 9,16). Consapevole che il suo messaggio era anche quello dei Dodici (Gal 1,17), non vuole annunciare altro che il deposito affidato alla Chiesa (cf. le verità sull'eucaristia e la risurrezione in l Cor 11 e 15). Al posto di «Vangelo», a volte Paolo adopera dei sinonimi: la «fede» (Gal 1,23: «Colui che una volta ci perseguitava, ora va annunciando la fede»), la «Parola» (l Ts 1 ,6: «avendo accolto la Pa­ rola»), la «parola di Dio» (2Cor 2,17: «Noi non siamo infatti come quei molti che fanno mercato della parola di Dio»). Se questa è la prospettiva paolina, non c'è da meravigliarsi se riteneva la predicazione del vangelo un atto cultico sacerdotale offerto a Dio (Rm 1 ,9; 15,16). Lungi dal vergognarsi del vangelo (Rm 1,16), non si stanca di dire che anche la prigionia a motivo della proclamazione era per lui una grazia (Fil l,7.16). 2.2. La rivelazione del vangelo a Paolo

L'apostolo ha «scoperto» il vangelo con l'incontro del Risorto sulla via di Damasco. Quando accenna al suo incontro con il Risor­ to, lo fa sempre con un linguaggio autobiografico. Non si può de­ finire una conversione psicologica, perché parla di rivelazione del Padre (Gal 1 ,16), visione (lCor 9,1: «Non ho veduto Gesù, Signore nostro?»), conquista da parte di Cristo Gesù (Fil 3,12), manife­ stazione della stessa qualità della creazione della luce (2Cor 4,6), comprensione tale da fargli abbandonare il suo passato di fariseo osservante (Fil 3 ,4-8), scoperta dell'urgenza ineludibile di predi­ care il vangelo ai pagani (lCor 9,16). Unica differenza rispetto ai Dodici è che tale rivelazione è avvenuta più tardi: «Ultimo fra tutti

24 Timoteo «ha servito il vangelo insieme con me» (Fil 2,22).

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apparve anche a me come a un aborto» (1Cor 15,8).25 Il termine ektroma, «aborto>>, fa riferimento a un feto nato prima del tempo, vivo o morto. La difficoltà di interpretare l'immagine deriva dalla domanda se si considera aborto perché ha ricevuto per ultimo la chiamata rispetto ai Dodici o per la sua condotta precedente di per­ secutore. È preferibile la seconda a motivo del seguito del discorso: «lo infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana» (1Cor 15,9-10). In questi versetti la particella «infatti» del v. 9 specifica la sua indegnità rispetto ai Dodici a causa della sua attività persecutrice, mentre il v. 10 con l'esaltazione della «grazia» sottolinea la forza vivificante del Risorto che, sebbene fosse nella condizione di un feto abortito, e per giunta morto spi­ ritualmente, lo ha chiamato alla vita nuova e all'apostolato.26 Egli era stato sì chiamato come i profeti dal grembo materno (Is 49,1 ; Ger 1 ,5; cf. Gal 1 ,15), m a «era stato abortito», cioè era caduto in una situazione deplorevole. Con la rivelazione gli venne partecipata la comprensione più profonda del Dio che egli serviva da zelante giudeo e dell'unità dell'opera divina a favore dell'intera umanità: il Padre che ma­ nifesta il Figlio è anche colui che ha creato il mondo e ha salvato Israele. Questa rivelazione trova il suo perfezionamento nell'acco­ glienza da parte dell'apostolo della tradizione della Chiesa delle origini. Se la tradizione della Chiesa a sua volta è stata arricchita dall'esperienza di Paolo, è anche vero che è alla luce della fede con­ divisa nella comunità che Paolo ha potuto comprendere appieno il mistero di Cristo. 27

3. Dio e il suo piano storico-salvifico Il vangelo è parte di un progetto eterno, espressione dell'infi­ nita bontà e misericordia divina. Paolo, come non fa un trattato di cristologia, così non insegna una teologia su Dio. La definizione

25 Nell'epistolario quando accosta la propria esperienza a quelle degli altri apostoli usa «mi apparve>>, «ho visto>>; quando invece vuole definire il mistero della sua chiamata come irruzione dell'insondabile e infinito amore di Dio in lui, usa apokalyptesthai. 26 Cf. G. BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, Bologna 1995, 814-815. 27 Cf. FITZMYER, Paolo. Vita, viaggi, teologia, Brescia 2008, 63-67.

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«Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (2Cor 1 ,3) è illuminante sul modo di presentare Dio: ne parla sempre in contesti che riguar­ dano la sua attività salvifica per noi e a nostro favore. Riconosce Dio come creatore: «Un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui» (lCor 8,6) ; egli è «il Dio vivo e vero» (lTs 1 ,9); il «Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori» (2Cor 4,6); colui che «chiama all'esistenza le cose che anco­ ra non esistono» (Rm 4,17). Di Dio esalta, sempre in prospettiva salvifica, l'«eterna potenza e divinità» (Rm 1 ,20), lo splendore della sua «verità» (1 ,25) e l'abisso incommensurabile «della sapienza e della conoscenza di Dio» (11,33).28 Insiste in particolar modo su tre qualità di Dio: l'ira, la giustizia, l'amore. L'«ira di Dio» (orge Theou, Rm 1 ,18) è un concetto eredi­ tato dall'AT e in particolare da Is 30,27-28: Ecco il nome del Signore venire da lontano, ardente è la sua ira e gravoso il suo divampare; le sue labbra traboccano sdegno, la sua lingua è come un fuoco divorante. Il suo soffio è come un torrente che straripa, che giunge fino al collo, per vagliare i popoli con il vaglio distruttore e per mettere alle mascelle dei popoli una briglia che porta a rovina (cf. Sal 78,31 ) .

L' «ira» non è tanto uno stato emozionale quanto la reazione di Dio al male e al peccato. In parallelo all' «ira di Dio>> si pone «la giustizia di Dio» (Rm 1 ,17). Anche quest'ultima è un'espressione derivata dall' AT (Dt 33,21: «Eseguì la giustizia del Signore e i suoi decreti»). Nei libri più antichi dell'AT la «giustizia» (tsedeq) espri­ me la qualità di Dio che giudica Israele ed esercita la sua giustizia (cf. Os 4,1-2). Nel periodo post-esilico, tsedeq viene usato per dire l'atteggiamento di Dio che assolve il suo popolo, manifestando la sua misericordia (cf. Is 46,13, dove «la mia giustizia» e «la mia sal­ vezza» sono messe in parallelo). La terza qualità è la bontà, la «tenerezza». In Rm 5,5 scrive dell' «agape tou Theou riversato nei nostri cuori», tema centrale nella seconda parte della Lettera ai Romani che costituisce i cre­ denti «fratelli amati da Dio» (l Ts 1 ,4). In 2Cor 1 ,3 esalta la «mise-

28

Cf. FITZMYER, «Teologia paolina», 1827-183 1 .

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ricordia» di Dio che si manifesta come «consolazione»: «Ho pater ton oiktirmon», alla lettera «il Padre delle misericordie» (forma di plurale semitico), un'espressione tipica della preghiera sinagogale (cf. la preghiera delle Diciotto benedizioni: «Ascolta la nostra voce, Signore Dio nostro, padre misericordioso !») . In Es 34,6 oiktirmon è accompagnato dall'aggettivo eleemon («pietoso>>): «> (Rm 9,4-5).

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a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire» (Rm 5,13-14); 2) da Mosè al Messia (periodo della Legge): «Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo» (Gal 3,23-24); 3) la pienezza del tempo messianico (quando sarebbe stata adempiuta e perfezionata la Legge): «Ma quando venne la pienez­ za del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,4-5); 4) il tempo presente segnato dall'azione dello Spirito: «> ( Gaudium et spes, 22; cf. Giovanni Paolo Il, Redemptor hominis, 8; 13 e passim ) . In quanto «secondo Adamo>> Cristo ricapitola l'umanità di fronte a Dio, diviene il capo di una famiglia rinno­ vata e restituisce l'immagine di Dio alla sua verità primitiva. Nel rivelare il mistero dell'amore del Padre, Cristo rivela pienamente l'umanità a se stessa e svela l'altissima vocazione di ogni persona ( Gaudium et spes, 22; cf. Giovanni Paolo Il, lettera enciclica Veritatis splendor, 2 ) . 47. L'opera redentrice di Cristo influenza tutti gli esseri umani nella loro relazione al destino ultimo, poiché tutti sono chiamati alla vita eterna. Spargendo il suo sangue sulla croce, Cristo ha stabilito una nuova allean­ za, un regime di grazia, che è rivolto a tutta l'umanità. Ognuno di noi può dire insieme all'apostolo che egli «mi ha amato e ha dato se stesso per me>> ( Gal 2,20) . Ognuno è chiamato a condividere mediante l'adozione a figlio la filiazione di Cristo. Dio non fa questa chiamata senza rendere ca­ paci di risponderle. Perciò il Vaticano II può insegnare che non c'è essere umano, neppure «quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo>>, che non sia toccato dalla grazia di Cristo (Lumen gentium, 16 ) . «Perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale>> ( Gaudium et spes, 22) . Nel pieno rispetto delle misteriose vie della divina Provvidenza nei confronti dei non evangelizzati, l'attenzione è centrata qui sul piano

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rivelato di salvezza che manifesta i disegni misericordiosi di Dio e il modo in cui Dio viene convenientemente glorificato.12

2.2. Come parla della risurrezione

Usa quattro verbi: egeiro, anistemi, zoopoieo e za6, che indica­ no rispettivamente: i primi due l' «alzarsi» o «fare alzare», detto di uno che giace, oppure il «comparire» o «far comparire» alla ribalta della storia; gli altri due «dare la vita», «rendere vivo» e «venire alla vita». Sfrutta il linguaggio ordinario per dire l'iniziativa di Dio e l'opera di Gesù, iniziativa e opera che non sono distinte, ma effetto della potenza di Dio uno e trino.B Per Paolo la risurrezione è l'epifania della natura divina di Gesù. Ma solo in 1Ts 4,14 la risurrezione è dichiarata effetto della potenza di Cristo stesso - «È morto ed è risorto» (per suo proprio potere) -, dato che in genere è attribuita al Padre («per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti>>, Gal 1,1). Dio Padre, risuscitando il Crocifisso, attesta di aver gradito l'offerta del suo atto obbedienziale di Figlio «fino alla morte di croce>> (Fil 2,8) ; svela il suo infinito amore e la sua sovrana onni­ potenza (dynamis) sul peccato e i suoi effetti di morte. Svela la sua divina en èrgeia!«energia>> di vita («E qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l'efficacia [energeia] della sua forza e del suo vigore>>, Ef 1 ,19; «Con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza [energeia] di Dio, che lo ha risuscitato dai morti», Col 2,12). Svela la sua doxa, con tutto il peso del suo splendore lumi­ noso («Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova», Rm 6,4) . La doxa è «lo splendore della potenza», nel senso della potenza di Dio nel suo splendore e lo splendore di Dio in tutta la sua potenza [ . ]. È questo splendore potente di Dio che ha fatto risorgere Gesù Cristo dai morti. Esso afferra Gesù Cristo di mezzo ai morti e lo solleva a sé, nella doxa, io fa risorgere ed entrare in sé, si potrebbe dire.14 . .

12 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Alcune questioni sulla teologia della redenzione (29 novembre 1994), parte IV: EV 14/1972ss. 13 Cf. ScHLIER, Linee fondamentali di una teologia paolina, 120ss. 14 lvi, 121.

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Svela il suo pneuma, il suo Spirito che crea la vita e fa entrare nella vita ( «Costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità», Rm 1 ,4), perché potenza creatrice, in cui Dio si na­ sconde e si rivela. È potenza rinnovatrice, a cui nulla può opporsi, nemmeno la morte. Anzi proprio la morte diventa occasione di svelamento della sua forza vivificante. Una forza che, dopo essersi manifestata nel Crocifisso-morto-sepolto, si manifesterà compiu­ tamente nell'instaurazione definitiva dei cieli nuovi e della terra nuova. Come Spirito che dà vita, Cristo porta la giustificazione dei credenti e li salva dall'ira nel giorno del Signore ( l Ts 1 ,10), per­ ché nella passione e morte Dio si è fatto incontro ad ogni uomo, addossandosi la condizione di peccato con tutte le sue terribili con­ seguenze e Cristo si è posto in una relazione tale con il peccatore, da divenire sorgente di un potere capace di suscitare nuova vita in quelli che credono in lui. Paolo chiama questa capacità di Cristo il «divenire l'ultimo Adamo» e la prima creatura dell'eschaton ( «>, per condan­ narlo. C'erano due tipi di peccati, volontari e involontari: il rituale dell'uccisione della vittima sacrificale valeva solo per quelli involontari e inconsapevoli. Se per compensare un peccato occorreva la morte della vittima, voleva dire che gli altri erano troppo seri per venire in qualche modo compensati dal sacrificio della vittima. «In tali casi, a rigor di termini, la condizione di partecipante all'alleanza del peccatore veniva a cessare: nessun'altra vita poteva espiare il suo peccato»;23 - come Cristo ha assunto un corpo «di carne soggetta al pec­ cato», per affrontare il peccato nella carne (Rm 8,3), così la vittima per il peccato in certo qual modo incorpora il peccato di colui che la offre («fatto peccato» di 2Cor 5,21). Unica differenza in Cristo: l'iniziativa di identificare il corpo della vittima con la sua persona è di Dio, non del peccatore; - questo rito non insegna che, per il fatto che Cristo muore «al posto di altri», si può sfuggire alla morte (logica della «sosti­ tuzione»), ma piuttosto che, condividendo la nostra morte, Cristo mette in grado di partecipare alla sua morte. 3.4.2. In Paolo Nelle lettere questa immagine è adoperata solo in Rm 3,25, dove è messa in relazione con il giorno dell'Espiazione. Cristo ha ottenuto per noi una volta per sempre ciò che il giorno dell'e­ spiazione rituale simboleggiava ogni anno: è diventato sorgente di misericordia. Hilasterion può essere inteso: - come aggettivo («ha prestabilito Cristo come espiante»); - come sostantivo, per l'uso nella LXX, con duplice significato: strumento attraverso il quale il peccato umano è eliminato e cancellato («ha prestabilito Cristo a servire come strumento di espiazione»), oppure nuova sede di misericordia.

23 DuNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 231 .

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3.4.3. Il motivo del sangue L'immagine diventa comprensibile quando si ricorda l'idea giu­ daica secondo la quale «non c'è espiazione di peccati senza sangue» («Secondo la Legge, infatti, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue, e senza spargimento di sangue non esiste perdono», Eb 9,22). Il sangue era asperso sia per purificare oggetti rituali con­ sacrati a Dio (Lv 16,15-19), sia per consacrare oggetti o persone al suo servizio (Es 24,6-8) . Il sangue era identificato con la vita stessa, poiché si riteneva che la vita (nefesh) fosse nel sangue. Quello versato nel sacrificio non era un sacrificio vicario al posto di una persona, ma indicava che la vita dell'animale era consacrata a Dio (Lv 16,9). Diventava una simbolica dedicazione della vita della persona che offriva il sacrificio a Dio. Era considerato un atto di purificazione dai peccati verso Dio che associava ancora di più l'offerente a YHWH. Paolo, alla luce del concetto dell'AT, considera il sangue di Cristo, versato in espiazione del peccato umano, lo strumento di eliminazione del potere di morte dei peccati che alienano gli uomini da Dio. Attraverso la morte di Cristo, Paolo (insieme ai cristiani) può dire di essere stato crocifisso con Cristo e «vivere per Dio» (Gal 2,19). Paolo non dice che il Padre voleva la morte di suo Figlio per soddisfare i debiti dovuti a Dio o al demonio per i peccati, ma che, come autentica vittima sacrificale, Cristo ha dato se stesso per noi o per i nostri peccati e ci ha amati («Chi ci separerà dall'amore di Cristo?», Rm 8,35).24 3.5. Redenzione

Il concetto è espresso con le parole apolytrosis (scioglimento da ceppi, legami), agorazo (comprare con lo sborso di un prezzo) , exagorazo (liberare pagando u n riscatto).

24 Dal punto d i vista teologico « è l'atto con cui i l credente pone rimedio: a ) al peccato commesso e alle conseguenze negative che ne scaturiscono; b) alla mancan­ za di amore, che è radice del peccato; c) alla divisione o inimicizia stabilitasi tra Dio e l'uomo con il peccato stesso>> (G.M. SALVATI, «Espiazione>>, in L. PACOMIO - V. MANcuso [a cura di] , Lexicon. Dizionario teologico enciclopedico, Casale Monfer­ rato [AL] 1993, 375).

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3.5.1. Sfondo L'immagine richiama quella del riscatto dalla schiavitù di un detenuto o di un prigioniero di guerra. Il termine era usato anche per dire la manomissione sacra di uno schiavo,Z5 uso ripreso in Rm 6 dove compare il concetto di manomissione sacra. Lo sfon­ do dell'immagine è nella LXX, dove apolytroo indica il riscatto, l'emancipazione di uno schiavo («Quando un uomo venderà la figlia come schiava, ella non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se lei non piace al padrone, che perciò non la destina a sé in moglie, la farà riscattare», Es 21,7-8). A questo orizzonte se­ mantico è collegata l'idea del go 'el, il parente prossimo che aveva il diritto/dovere di pagare una somma per riscattare un parente schiavo («Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva d'Israele; io vengo in tuo aiuto - oracolo del Signore -, tuo redentore è il Santo d'Israele», Is 41 ,14) . 3.5.2. In Paolo Egli riconosce che l' «evento Cristo» (passione, morte e risurre­ zione) è della stessa natura del gesto di riscatto di uno schiavo. Cri­ sto ha reso i peccatori liberi dalla schiavitù di satana. Non chiama Cristo lytrotes, «redentore», ma nostra «redenzione» apolytrosis (1Cor 1 ,30). In 1Cor 6,20 («Siete stati comprati a caro prezzo») pone l'accento sul prezzo oneroso pagato da Cristo. In 1Cor 7,2123 troviamo: Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diven­ tare libero, approfitta piuttosto della tua condizione ! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore ! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini !

In questo passo il «prezzo» sta per quello di acquisto mediante il quale gli schiavi passano da un padrone a un altro: acquistati per essere liberati. In Gal 3,13 («Cristo ci ha riscattati dalla maledizio­ ne della Legge») allude a quanti sono stati schiavi «sotto la legge» (Gal 4,1-3.8-10). 25 Un testo simile in G.A. DEISSMANN, Light from the Ancient East, London 1910, 322: .

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Non è detto a chi Cristo lo ha pagato, se a Dio, come hanno inteso commentatori posteriori ( in particolare sant'Anselmo in Cur Deus homo?), o al diavolo, che invece non è assolutamente da prendere in considerazione. Anche se la redenzione è già stata ottenuta, c'è un aspetto futuro, escatologico: i cristiani attendono la redenzione del corpo ( Rm 8,23 ) ; inoltre c'è una dimensione cosmica: «tutta la creazione>> geme nella sua attesa ( Rm 8,19-22) . 3. 6. Libertà

Il vocabolario usato è quello di eleutheria, eleutheroo, eleuthe­ ros. Per capire l'importanza di questa immagine nell'epistolario basta dare uno sguardo alla differenza nell'uso di questi termini nei vangeli/altri scritti e in Paolo: vangeli/aUri scritti

Paolo

libertà

mai nei vangeli

Paolo 7 volte: 2 volte in Gc; l volta in lPt e l volta in 2Pt

liberare

2 volte in Gv

5 volte

libero

3 volte: 2 volte in Gv e l volta in Mt

16 volte

3.6. 1 . Sfondo Il vocabolario è connesso con l'idea greco-romana di libertà, ovvero lo stato sociale del cittadino in una polis greca o munici­ pium romano. 3.6.2. In Paolo Per Paolo, Cristo ci ha resi liberi, ci ha dato uno status che può assomigliare a quello posseduto da un cittadino greco-romano, ovvero ai diritti di cittadini di una libera città o Stato. Il cristiano possiede in virtù della fede la cittadinanza (polìteuma) nei cieli (Fil 3,20 ) . Sulla terra la Chiesa è già una colonia di liberi cittadini del cielo. Il concetto è impiegato in 2Cor 3,17: «>, in G.F. HAWTHORNE - R.P. MARTIN - D.G. REID, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, ed. it. a cura di R. PENNA, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 556-582.

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ta di un elemento marginale del pensiero dell'apostolo, ma della «struttura indispensabile per la sua interpretazione dell'evento Cristo». J.L. Martyn critica Becker, perché così facendo rischia di sminuire il significato della croce, come traspare dalla Lettera ai Galati, che è anche la lettera dove è assente il tema escatologico. Per questo preferisce parlare di «apocalisse della croce» con cui ha avuto inizio una battaglia cosmica tra la carne e lo spirito (Gal 5,16.25). La prospettiva «apocalittica>> della teologia paolina di Be­ cker e di altri è la reazione alle tesi di Dodd o Bultmann, che hanno parlato di un abbandono della prospettiva escatologica appena il vangelo venne a contatto con il mondo ellenistico. L'escatologia di Paolo è bidimensionale, abbraccia sia il tempo che lo spazio: in termini spaziali, l'opposizione tra ciò che è terre­ stre e ciò che è celeste; in termini cronologici, l'opposizione tra il presente e il futuro. Per questo nelle lettere utilizza sia le categorie del tempo che dello spazio.2 Ci si chiede se Paolo dipenda per la sua concezione escatologi­ ca dal mondo giudaico oppure dal mondo ellenistico di cui faceva parte. L'opinione comune tra gli esegeti è che attinga all'eredità giudaica (cf. per esempio la visione della storia in due fasi: il «già» e il «non ancora»), adattata alla luce del mistero della risurrezione di Cristo dai morti, perché è nella risurrezione di Cristo che si è avuta l'inaugurazione dell'eschaton («Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per ammonimento no­ stro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi», 1Cor 10,1 1). Per l'apocalittica giudaica, invece, la svolta e l'inizio della nuova creazione sarebbero avvenuti nel futuro. A motivo dell'estraneità ai greci delle immagini apocalittiche giudaiche, non vi fa eccessivo ricorso (cf. Mc 13), come testimo­ niano 2Ts 2,3-10 e 1Cor 15,51-52. E questo, non solo per il fatto che i greci non erano abituati, ma soprattutto perché in Cristo si è compiuto tutto ciò che l'ha preceduto ed è stato anticipato ciò che dovrà ancora avvenire: «Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto breve» (1Cor 7,29). Nel trattare il tema della parusia fa ricorso alla prospettiva per­ sonalistica: «Quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore» (1 Ts 4,17).

2 Cf. A.T. LINCOLN, Paradiso ora e non ancora. Cielo e prospettiva escatologica nel pensiero di Paolo, Brescia 1985.

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Cristo è la «primizia», aparche («Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti», 1Cor 15,20), come anti­ cipazione estrinseca, reale iniziatore. M.J. Harris3 fa notare come l'immagine della primizia usata per Cristo dice che egli è diventato con la risurrezione «insieme la garanzia e il paradigma della risur­ rezione corporale dei credenti». Si può parlare di una «escatologia inaugurata», cioè che è ini­ ziato uno stato di unione con Dio prima sconosciuto, destinato a un compimento finale nella gloria («Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza», 2Cor 6,2; «Ci ha impresso il sigil­ lo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori», 2Cor 1 ,22, dove caparra dice una parte che ha la stessa natura del tutto, anche se questa è rimandata al futuro; «Quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati», Rm 8,30; «Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove», 2Cor 5,17). Se l' eschaton è stato inaugurato, deve tuttavia ancora venire, compiersi («Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza», 1Cor 15,22-24). In questa fase della storia della salvezza Cristo non regna e non ha sottomesso tutto al Padre. La piena sovranità di Cristo si compirà alla parusia del Signore («Infatti chi, se non proprio voi, è la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di cui vantarci davanti al Signore nostro Gesù, nel momento della sua venuta?», 1Ts 2,19). Gli elementi dell'escatologia futura sono: - la morte, descritta in termini sia fisici (Fil 1 ,21) che spirituali (Rm 8,9-14), con tutto il suo potere distruttivo, sarà annien­ tata alla parusia («L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però, quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch'egli, il Figlio, sa­ rà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti», 1Cor 15,26-28) . Al presente, il peccato

3 Cf. M.J. HARRIS, Raised Immortal: the Relation Between Resurrection and Immortality in New Testament Teaching, Grand Rapids 1983.

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(che è personificato in Rm 5,14.17.21; 7,8-1 1 . 13-25) è già stato sconfitto, ma non la morte fisica, strettamente associata ad esso. La sconfitta della morte avrà il suo compimento alla seconda venuta di Cristo; - la parusia («Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti», 1Ts 4,15); - la risurrezione dei morti («Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo men­ tre di fatto non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini», 1Cor 15,13-19); - il giudizio dell'umanità («Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricom­ pensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male», 2Cor 5,10); - l'attività di satana e dei suoi angeli. Satana viene menzionato spesso nelle lettere paoline, e tutte le volte come una poten­ za ostile a Dio e malefica per i santi (Rm 6,20; 1Cor 5,5; 7,5; 2Cor 2,11; 1 1 ,14; 1Ts 2,18). È chiamato anche «tentatore» (ho peirazon; cf. 1 Ts 3,5) e «diavolo» (diabolos; cf. Ef 6,1 1 : «Indossate l'armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i domi­ natori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti»); - il giudizio e la sconfitta definitivi di satana e dei suoi angeli («Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi», Rm 16,20). Il giudizio dell' «uomo dell'iniquità» è de-

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scritto in 2Ts 2,1-12,4 un brano che ha gli stessi toni profetici dell'Apocalisse; - l'ira futura, menzionata più di venti volte nelle lettere paoline. Il sostantivo (orge) appare sia con l'articolo determinativo che senza; - la gloria del credente giustificato ( «Ritengo infatti che le sof­ ferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi», Rm 8,18 ) . Temi, invece, trascurati da Paolo sono quelli dell'immortalità personale e del destino immediato. L'oggetto dell'attesa escatologica è illustrato con le espressioni «abitare presso il Signore» ( «Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore», 2Cor 5,8 ) e «essere sempre con il Signore» ( «Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insie­ me con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. Confortatevi dunque a vi­ cenda con queste parole», lTs 4,16-17 ) . È opinione comune fra gli esegeti che Paolo sia passato dall'attesa della parusia in un futuro vicino ( «Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti», l Ts 4,15 ) ad accettare la possibilità della propria morte ( «Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio», Fil 1,23; «Abbiamo addirit­ tura ricevuto su di noi la sentenza di morte, perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti», 2Cor 1 ,9 ) , fino a insistere sul desiderio di una comunione con il Signore dopo la morte ( 2Cor 4,16-5,10 ) .

4 Nel brano è qualificato con altri nomi: al v. 3 «l'uomo dell'iniquità>>, > (Gal 5,17-21). La lista include l'inimicizia e l'invidia che dimostrano che parla sia di peccati dello spirito che della carne; per esempio, «l'attaccamento al denaro>> non è un'attività carnale, ma comporta {1Tm 6,10). 14 DUNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 132.

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Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l'uomo però, tentato dal mali­ gno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui. Pur avendo conosciuto Dio, gli uomini «non gli hanno reso l'onore dovu­ to . . . ma si è ottenebrato il loro cuore insipiente» . . . e preferirono servire la creatura piuttosto che il Creatore. Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti l'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Spesso, rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l'uomo ha in­ franto il debito ordine in rapporto al suo fine ultimo, e al tempo stesso tutta l'armonia, sia in rapporto a se stesso, sia in rapporto agli altri uomini e a tutta la creazione. Così l'uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i ca­ ratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi l'uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato. Ma il Signore stesso è venuto a liberare l'uomo e a dargli forza, rinno­ vandolo nell'intimo e scacciando fuori «il principe di questo mondo» (Gv 12,31), che lo teneva schiavo del peccato. Il peccato è, del resto, una diminuzione per l'uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienezza. Nella luce di questa rivela­ zione trovano insieme la loro ragione ultima sia la sublime vocazione, sia la profonda miseria, di cui gli uomini fanno l'esperienza.15

Prima di Cristo, tutti i peccatori, nonostante l'impegno a vivere giustamente, non potevano raggiungere il destino di gloria, cen­ trare il bersaglio della vita eterna.16 Con Cristo il peccato è stato sconfitto17 e il credente non ha più niente da temere né in questo mondo né in quello futuro.18 Di qui in Paolo l'assenza di sconforto 15 çoNCILIO VATICANO II, Gaudium et spes (7.12.1965), n. 13: EV 1!1360ss. 16 E il senso del verbo amartano: «fallire il bersaglio>> (Rm 3,23: ) . Aristotele definisce hamartia il «mancato raggiungimento della meta desiderata, per debolezza, incapacità o scarsa conoscen­ za>> (Etica Nicomachea 1106b, citato in D uNN , La teologia dell'apostolo Paolo, 132). 17 Anche se è stato sconfitto, la sua persistenza durerà fino alla fine, alla pa­ rusia. Il peccato opera attraverso la razza umana e durerà per tutta la storia del­ l'umanità. Trattando della fine dei tempi, parla della venuta di un essere cattivo, che chiama ) . 18 La novità di Cristo consiste nel fatto che (Rm 6,14); i cristiani, liberati dal dominio del peccato, sono ( Rm 6,18).

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e pessimismo, e la grande gioia per il dono della salvezza gratuita e immeritata.19

19 Alcuni, a partire dalla tesi di Duns Scoto secondo la quale il Figlio di Dio si sarebbe incarnato anche se non ci fosse stato il peccato originale, deducono la non sussistenza dello stesso peccato e il suo carattere mitico con la lettura conseguente di Gen 1-3. Papa Benedetto XVI, nella catechesi del 7 luglio 2010, fa notare come lo stesso teologo parla contemporaneamente della necessità dell'atto redentivo: , secondo cui l'Immacolata concezione rappresenta il capolavoro della redenzione operata da Cristo, perché proprio la potenza del suo amore e della sua mediazione ha ottenuto che la Ma­ dre fosse preservata dal peccato originale. I francescani accolsero e diffusero con entusiasmo questa dottrina, e altri teologi - spesso con solenne giuramento - si impegnarono a difenderla e a perfezionarla. [ . . . ] Infine, Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del tema della libertà e del suo rapporto con la volontà e con l'intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come qualità fondamentale della volontà, iniziando un'impostazione che valorizza maggiormente quest'ultima. Purtroppo, in autori successivi al nostro, tale linea di pensiero si sviluppò in un volontarismo in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista. Per san Tommaso d'Aquino la libertà non può considerarsi una qualità innata della volontà, ma il frutto della collaborazio­ ne della volontà e dell'intelletto. Un'idea della libertà innata e assoluta - come si evolse, appunto, successivamente a Duns Scoto - collocata nella volontà che precede l'intelletto, sia in Dio che nell'uomo, rischia, infatti, di condurre all'idea di un Dio che non è legato neppure alla verità e al bene. Il desiderio di salvare l'assoluta trascendenza e diversità di Dio con un'accentuazione così radicale e im­ penetrabile della sua volontà, non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio "logos", che ha agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certamente l'amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l'amore del Dio "logos" (cf. BENEDETIO XVI, Discorso a Regensburg,

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L'unico brano in cui descrive l'origine del peccato è 2Cor 1 1 ,3 (cf. 1Tm 2,13-15), dove l'attribuisce alla seduzione del serpente nei confronti di Eva. Esso è la conseguenza dell'azione devastante di satana, che avendo scelto liberamente di mettersi contro Dio ed essendosi privato della comunione con lui, acceca le menti degli uomini con il potere della sua menzogna, impedendo loro di scor­ gere lo splendore del vangelo di Cristo (2Cor 4,6ss). Il peccato non è parte della natura come Dio l'ha creata, né la colpa apparteneva alla creazione originale (Rm 5), né tantomeno Dio è autore di una creazione imperfetta, ma è stato il peccato dell'uomo a coin­ volgere la creazione nella caduta dell'uomo e ad alienare l'uomo dalla stessa creazione.20 La colpa è stata introdotta nella creazione perfetta da Adamo e da allora messa in atto da tutta l'umanità, perché «tutti hanno peccato» (Rm 3,23; nell'apocrifo 4Esd 7,118 si legge: «Adamo, che cosa hai fatto? Perché, anche se sei stato tu a peccare, la caduta non è stata solo tua, ma anche nostra in quanto

in Insegnamenti di Benedetto XVI [2006]2, 261). Anche nell'uomo l'idea di libertà assoluta, collocata nella volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa libertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato. Co­ munque, la visione scotista non cade in questi estremismi: per Duns Scoto un atto libero risulta dal concorso di intelletto e volontà e se egli parla di un "primato" della volontà, lo argomenta proprio perché la volontà segue sempre l'intelletto>> (https://w2. vatican. va/content/benedict-xviii t/a udiences/201 0/ documen ts/hf_ben­ xvi_aud_20100707.html, consultato il 20 agosto 2016). L'opinione secondo cui il peccato originale sia una dei teologi, e non conseguenza dello stato di peccato derivato dalla colpa di Adamo, non può essere giustificata a partire dal pensiero di Duns Scoto. Lo attesta in modo definitivo la nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei della Congregazione per la dottrina della fede del 1998: « 1 1 . Esemplificazioni. Senza alcuna intenzione di esaustività o completezza, si possono ricordare, a scopo meramente indicativo, alcuni esempi di dottrine relative ai tre commi sopra esposti. Alle verità del primo comma appartengono gli articoli di fede del Credo, i diversi dogmi cristologici e mariani; la dottrina dell'istituzione dei sacramenti da parte di Cristo e la loro efficacia quanto alla grazia; la dottrina della presenza reale e sostan­ ziale di Cristo nell'eucaristia e la natura sacrificale della celebrazione eucaristica; la fondazione della Chiesa per volontà di Cristo; la dottrina sul primato e sull'in­ fallibilità del romano pontefice; la dottrina sull'esistenza del peccato originale; la dottrina sull'immortalità dell'anima spirituale e sulla retribuzione immediata dopo la morte; l'assenza di errore nei testi sacri ispirati; la dottrina circa la grave immora­ lità dell'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente>> (http://www. vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_1998_ professiofidei_it. html#GIURAMENT0 % 20D I % 20FEDELT % C 3 % 80 % 20 NELL%E2 % 80% 99ASSUMERE % 20UN %20UFFICI0 %20DA %20ESERCI­ TARE%20A %20NOME %20DELLA %20CHIES, consultato il 20 agosto 2016). 20 Per l'alienazione dalla creazione cf. Rm 8,19-23. I cristiani non si preoc­ cupano dell'ambiente sulla pressione degli ambientalisti, ma perché il mondo è di Dio e i cristiani non vedono l'ora che la creazione sia (Rm 8,21 ).

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siamo i tuoi discendenti» ) . Paolo non attribuisce il peccato della discendenza esclusivamente ad Adamo, ma anche alla debolezza e alla colpa personale. Tutti infatti commettono i propri peccati e sono coinvolti nel peccato di Adamo, perché per la «caduta di uno solo morirono tutti» ( Rm 5,15).21 2.2. L 'eredità antico testamentaria

L'insegnamento sul peccato è desunto dall' AT, dove si parla del suo influsso sull'umanità ( «Non c'è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai», Qo 7,20); della diffusione per contagio ( «Ma hanno seguito la caparbietà del loro cuore e i Baal che i loro padri avevano fatto loro conoscere», Ger 9 13); della solidarietà che si viene a stabilire tra i peccatori: sia tra i contemporanei ( «Si dissero l'un l'altro: Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta», Gen 1 1 ,3) che tra le successive generazioni ( «Che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la tra­ sgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione», Es 34,7); della comprensione dell'universalità del peccato a partire dall'esperienza e dall'osservazione ( «Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della morte. Non c'è scampo dalla lotta e nep­ pure la malvagità può salvare colui che la compie. Tutto questo ho visto riflettendo su ogni azione che si compie sotto il sole, quando un uomo domina sull'altro per rovinarlo», Qo 8,8-9); la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo ( Sap 2,23-24: «Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l'invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» ) . Il racconto di Gen 2-3 insegna che il peccato non è stato originato da Dio, ma si è originato con gli uomini; produce la perdita dell'inti,

21 Paolo vede un legame tra peccato e morte: la morte è venuta dal peccato e, poiché tutti hanno peccato, la morte viene per tutti (Rm 5,12); (Rm 6,23); «>, in R.E. BROWN - J.A. FITZMYER - R.E. MuRPHY, Nuovo grande commentario biblico, Brescia 1997, 1844. 23

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mento da Dio e schiavitù di satana, che equivale alla condizione di morte («Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste, alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle Potenze dell'aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli» ).24

3. Legge Il tema della Legge è affrontato in quasi tutte le lettere, ma soprattutto in Rm e Gal. A motivo della sua complessità è uno dei più dibattuti tra gli esegeti. Sono indicative le parole di A. Pitta in merito: Che cosa intende Paolo con il sostantivo nomos? Nel caso si riferisca alla Legge mosaica, questa è considerata come abrogata oppure è soltanto ne­ gativizzata e relativizzata? Appartiene all'economia dell'AT e a quanti, nel giudaismo del I secolo, non hanno aderito al vangelo, o ha qualcosa da dire anche a coloro che sono in Cristo? Viene delineata secondo una sorta di toralogia ben articolata o risulta situazionale, in dipendenza dei diversi contesti epistolari nei quali è chiamata in causa? In ultima analisi, ci troviamo di fronte a una visione che si chiarifica progressivamente nel pensiero di Paolo o presenta evidenti contraddizioni, non soltanto nel confronto tra una lettera e l'altra, ma anche nel corso della stessa lettera? Gli interrogativi si moltiplicano quando si passa al livello semiotico del sostantivo nell'epistolario paolino: si parla del nomos come Scrittura e come Legge ( Gal 4,21 ) , della Legge di Cristo (ennomos Christou, 1Cor 9,21; nomon tou Christou, Gal 6,2) e della Legge dello Spirito (nomon tou pneumatos, Rm 8,2 ) , della legge di Dio (nomos Theou, Rm 7,25 ) e della legge del peccato (nomos tes amartias, Rm 7,25 ) , dell'opera della Legge (ergon tou nomou, Rm 2,15 ) e delle opere della Legge (erga nomou, Gal 2,16; Rm 3,20) , della giustizia senza la Legge ( Rm 3,21 ) e della Legge del­ la giustizia (nomos dikaiosynes, Rm 9,31 ) , della fede senza la Legge ( Rm 3,28 ) e della Legge della fede (nomos pisteòs, Rm 3,27 ) . . . Alcuni studiosi sostengono, da una parte, che sulla Legge Paolo risulti frammentario e contraddittorio, sino a fraintenderla del tutto, e, dall'altra, che abbia una visione organica. 25

24 Cf. FITZMYER, , 1845. 25 A. PITIA, Paolo, la Scrittura e la Legge, Bologna 2008, 131-132.

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Sembra quasi che Paolo manipoli l'argomento secondo la ne­ cessità momentanea del discorso, a tal punto da risultare incoeren­ te e/o inconsistente. 3. 1. La posizione di Paolo circa la Legge: le interpretazioni

L'atteggiamento dell'apostolo in merito alla Legge ha avuto diverse letture in età moderna e contemporanea.26 Lutero riteneva che la giustificazione per fede fosse una dottrina antigiudaica, dal momento che il giudaismo sarebbe stato una religione legalistica basata sui meriti prodotti dalle opere. Ma questa opinione di Lute­ ro fu contestata nel 1894 dal riformatore giudaico C.G. Montefiore, che dimostrò come la letteratura rabbinica riveli un Dio compas­ sionevole e misericordioso, pronto a metter da parte anche gravi infrazioni della Legge al primo moto verso il pentimento da parte dell'offensore, tanto più che i rabbini presentavano la Legge come dono e gioia, che conferivano, come per Paolo, un alto valore alla fede in Dio, e dei quali la preghiera quotidiana era: «Sovrano di tutti i mondi! Non a causa delle nostre giuste azioni poniamo le nostre suppliche davanti a te, ma per le tue abbondanti misericor­ die» (b. Yom 87b ) . Nel 1900 Montefiore, rivolgendosi alla St. Paul Association, chiede: «C'è almeno la più piccola possibilità che voi, a differenza dei teologi, mi crederete quando dico che tutto questo affare del giudice severo e della Legge rigorosa è una fantasia e uno spauracchio?». Le due affermazioni di Lutero furono con­ testate con la pubblicazione delle opere di K. Stendahl e di E.P. Sanders. Secondo Stendhal la preoccupazione principale di Paolo non è la condanna del giudaismo, ma la proclamazione dello sta­ tuto soteriologico dei pagani. E.P. Sanders27 richiama l'attenzione sul fatto che il giudaismo non è una religione legalistica in cui la giustificazione deriva dalle opere, ma è al contrario una religione della grazia. Questi due autori, entrambi protestanti, evidenziano i limiti dell'impostazione della Riforma. La Riforma dimentica la dimensione religiosa, sociologica e pastorale che soggiace all'argo­ mentazione paolina. L'apostolo, prima che teologo della giustifi­ cazione, teorico della storia o esegeta della Scrittura, è soprattutto

26 Cf. F. THIELMAN, «Legge», in G.F. HAWTHORNE - R.P. MARTIN - D.G. REID, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, ed. it. a cura di R. PENNA, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 920-926. 27 E.P. SANDERS, Paolo e il giudaismo palestinese, Brescia 1986.

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un missionario alle prese con problemi di natura pratica. Il vangelo paolino non è una dottrina astratta, lontana dalla vita concreta: si situa all'interno del mondo sociale delle prime comunità cristiane, come risposta a una crisi in atto che riguarda la coesistenza di gen­ tili e giudei. Stendhal è stato il primo ad aver mostrato come Paolo non doveva essere letto, come facevano Agostino e Lutero, alla lu­ ce dei temi del peccato e della giustizia, della grazia e della libertà, ma all'interno dei problemi delle comunità. Sanders non mette in rilievo solo il contesto missionario in cui l'apostolo operava, ma lo stesso mondo religioso all'interno del quale Paolo ha proclamato il suo vangelo. Rivisita tutta la letteratura giudaica e nota: la salvezza non giungeva attraverso il successo di un certo numero di opere meritorie, ma mediante l'appartenenza all'alleanza del popolo di Dio. Il giudaismo rabbinico non è una religione del merito e della ricompensa, ma della grazia, la cui struttura di fondo è il nomismo del patto. Il proto giudaismo crede nell'azione gratuita del Dio che elegge e inserisce nell'alleanza e vede nell'obbedienza alla Legge il solo mezzo attraverso cui è possibile rimanere all'interno del patto. Ma non vi è dubbio che tutto si basi sulla grazia divina. A Paolo non interessa come si rimanga all'interno del patto, ma piuttosto come vi si entri, dal momento che egli ha davanti a sé il problema dei gentili. Di conseguenza l'apostolo è costretto a contestare i car­ dini stessi della teologia giudaica, quali elezione, alleanza e Legge, sostituendoli con una nuova struttura religiosa, interamente basata su una soteriologia cristologica. La linea di Sanders riemerge in Dunn: più che contro il no­ mismo del patto, la critica di Paolo sarebbe rivolta solo contro quegli aspetti della Legge, quali circoncisione, norme alimentari e calendario, che separano nettamente l'identità e i confini di Israele rispetto alle genti. Paolo prenderebbe posizione contro i segni di­ stintivi dell'eredità giudaica, non riconoscendone valore alcuno in ordine alla giustificazione. Un'altra risposta è quella di J. Raisanen. Come Dunn, accetta la rappresentazione di Sanders del giudaismo antico e tenta di spiegare la polemica di Paolo contro le opere della Legge alla luce di questa nuova prospettiva. Ritiene che Paolo, dopo la conversio­ ne, in un primo tempo abbia sviluppato i suoi atteggiamenti verso la Legge sotto l'influenza della comunità ellenistica-cristiana, un gruppo che pose in secondo piano la necessità degli aspetti giudaici particolari della Legge, per conquistare i gentili al cristianesimo. Più tardi, per ragioni di convenienza, ipotizza che abbia escluso del 112

tutto la Legge dal suo annuncio e che il primo annuncio di questo tipo sia stato fatto quando i giudaizzanti invasero le sue chiese della Galazia. Nel tentativo di rispondere ai giudaizzanti, Raisanen è del parere che Paolo abbia messo insieme affermazioni contraddittorie e distorsioni della concezione giudaica della Legge. 3.2. Il vocabolario adoperato Nomos è un termine polisemico in Paolo, quanto a significato e designazione ( può rinviare a più cose ) . Dà l'impressione di essere volutamente indistinto. La parola ricorre nel corpus paulinum 121 volte, in 97 delle quali ha il valore di «legge di Mosè»; nel resto del­ le ricorrenze a volte sta per l'AT o parte di esso ( i Salmi, i Profeti ) , in altri casi è adoperato con senso figurativo: principio, peccato, peccato e morte, natura umana, fede, Cristo, Spirito ( in questi ulti­ mi è un ossimoro ) ; oppure con senso generico ( Gal 5,23 ) . A questo si aggiunge la varietà di significati che ha l'espressione composta erga nomou ( «opere della Legge» ) : - ciò che la Legge ( codice mosaico ) compie: fa conoscere il peccato, porta con sé il peccato e la morte; - opere della Legge nel duplice aspetto: sotto l'aspetto etico, le opere buone richieste dal codice mosaico, da attuare; sotto l'aspetto cultuale, circoncisione, sabato, feste religiose: prati­ camente ciò che identifica i giudei in mezzo a tutte le nazioni, perché tolta la Legge non esiste più il popolo di Dio. Non si tratta quindi di legge estensibile a tutto il mondo, ma della legge come elemento vitale e potere dominante nella vita del giudeo. In Gal-Rm sono presenti entrambe le prospettive, etica e cultuale. 3.3. L 'argomentazione sulla Legge

L'argomentazione paolina sulla Legge ha come sfondo l'espe­ rienza di rivelazione-salvezza sulla via di Damasco, nella quale comprese che solo Gesù Cristo ha il potere di salvare. Egli infatti valuta e giudica la Legge a partire dalla novità del mistero pasquale. Tenuto presente che le singole affermazioni sono da capire nel loro contesto, se si prova a ordinare il non sistematizzato emerge uno sviluppo che va dal riconoscimento del positivo della legge mosaica alla constatazione della sua inefficacia e al superamento in Cristo, nuova legge. 113

3.3. 1 . Il positivo della legge mosaica La Legge contiene le richieste di Dio. È legge di vita da adem­ piere («Infatti, non quelli che ascoltano la Legge sono giusti davan­ ti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Legge saranno giusti­ ficati», Rm 2,13 ) . L'uomo grazie alla propria coscienza, in quanto creatura, è consapevole della volontà di Dio su di sé, una volontà che assume un carattere di imperativo morale: il comandamento. La Legge manifesta questa volontà di Dio che è interessata alla vita («Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte», Rm 7,10 ) e chiama all'amore («Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole; perché chi ama l'altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità», Rm 13,8-10 ) . La Legge esige in tutti i suoi precetti la giustizia, che è amore; ed esige l'amo­ re che è giustizia. In quanto legge di Dio, quando la si osserva, si piace a Dio («Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio», Rm 8,7-8 ) . 3.3.2. La debolezza della legge mosaica Accanto a questo atteggiamento positivo della Legge, nel­ l'epistolario compaiono contraddizioni: «mediante la Legge» o «a partire dalla Legge» (ek o dia) non si può avere nessuna giustizia («E che nessuno sia giustificato davanti a Dio per la Legge risulta dal fatto che il giusto per fede vivrà>>, Gal 3,11; cf. anche 2,16; 2,21; 3,21 ; Rm 3,20; ecc. ) . Il motivo principale è che la benedizione data ad Abramo e alla sua discendenza non è racchiusa nella Legge (Gal 3,8 ) . Inoltre la Legge non è in grado di trasformare radicalmente l'uomo, farlo divenire giusto nel proprio cuore, perché se lo potesse allora Cristo sarebbe inutile. C'è quindi un'alternativa chiara: o la Legge o Cristo. Non c'è complementarità né accumulazione, ma solo esclusione. Se non può realizzare la giustizia, l'unico ruolo riconosciuto alla Legge è quello di tenere giudei e pagani nella douleia, «schiavitù», nella condizione di età minorile (Gal 4,1 ) . Essa non porta alla «eredità», kleronomia («Se infatti l'eredità si

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ottenesse in base alla Legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece ha fatto grazia ad Abramo mediante la promessa», Gal 3,18). Se non porta alla giustizia e non apre alla «eredità», arriva a dire che non solo non è in grado di procurare la salvezza, ma spinge verso la perdizione. È una semplice norma esterna, esprimente ciò che bisogna fare o non fare senza possedere in sé la capacità di dare vita, forza. Dal momento che non è in grado di dare la dynamis si trasforma indirettamente in strumento di peccato, «sia proibendo ciò che era senza importanza (per esempio il mangiare certi ani­ mali, Lv 1 1 ,2-47; Dt 14,4-21 - cf. 1Cor 8,8), sia facendo nascere dei desideri o disturbando la coscienza con norme estrinseche riguardo al "frutto proibito"».28 Anche se la Legge non è peccato (Rm 7,7) , si mette al suo servizio offrendo l'occasione per violare il comanda­ mento. La Legge, santa (Rm 7,12), favorisce il peccato (Rm 7,5-12); ordinando o proibendo qualcosa (Rm 7,7-8), mette allo scoperto la radice di una ribellione e provoca la trasgressione (cf. Gen 3,13). Il peccato opera in virtù non della Legge, ma della debolezza e della divisione dell'uomo (Rm 7,14-17). Ora da sola non può contrastare la debolezza della carne (Rm 8,3) e, poiché incapace per il bene, non è in grado di evitare il potere del peccato e la morte (Rm 7,1823). Per cui Paolo può dire: la Legge non ha scongiurato il peccato, ma, per la debolezza dell'uomo, lo ha moltiplicato. Pur essendo santa evoca il peccato («Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare», Rm 3,20; 7,7). Nell'uomo, dominato dal potere del peccato, suscita la epithymia, il latente orgoglio, che provoca i peccati e rende operante il peccato con il suo potere («Il potere, dynamis, del peccato [il dinamismo stesso, che suscita e spinge al peccato] il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge (cf. 1Cor 15,56)» .29 La Legge fa fare l'esperienza del peccato; dilata e concretizza il potere del peccato nei peccati o nelle trasgressioni dell'umanità. Assunta dalla potenza del peccato, che domina l'uomo da Adamo in poi, di­ viene punta di attacco, amorphe (Rm 7,11). Per cui arriva a parlare di «legge del peccato» («Ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra», Rm 7,23). Dal momento che provoca l'ira di Dio («La Legge infatti provoca l'ira; 28 29

Cf. FITZMYER, «Teologia paolina», 1846-1847. !b.

115

al contrario, dove non c'è Legge, non c'è nemmeno trasgressione», Rm 4,15), porta alla morte (Rm 7,5.1; 1Cor 15,56) e quindi può dire che la lettera (gramma, «ciò che è scritto», la Legge stessa) uccide (2Cor 3,6). 3.3.3. Il superamento in Cristo La Legge è definita un «pedagogo)) fino a Cristo: «Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Leg­ ge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo (eis Christon ), perché fossimo giustificati per la fede)> (Gal 3,23-24). La situazione sotto la Legge era una situazione negativa (rinchiusi sotto la sorveglianza della Legge), ma di fatto ha preparato una situazione positiva. Il termine «pedagogo)> non ha il significato di «maestro/educatore>), come nel senso moderno. Il paidagogos non era un maestro inca­ ricato dell'educazione del bambino, ma uno schiavo che doveva semplicemente condurre il bambino a scuola (paid-agogos: «colui che conduce il bambino»). Il suo compito era di sorvegliare e di costringere. Il concetto di «pedagogo)> che «conduce a Cristo)> non si accorda bene con l'essere rinchiusi sotto la custodia della Legge, come immobilità forzata. Ma Paolo non si preoccupa della coe­ renza delle sue immagini. È interessato al concetto di paidagogos, che comprende insieme l'idea di sorveglianza e di costrizione, e l'orientamento dinamico positivo, portare al maestro,30 per rendere la funzione «necessaria» della Legge. 3.3.4. Cristo come perfezionamento della Legge Attraverso la grazia e la fede in Cristo, Dio ha fatto sì che l'uomo adempisse la Legge («Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede>), Rm 10,4: ciò che Israele cercava di ottenere è stato raggiunto attraverso la fede in Cristo). Questo è avvenuto perché Cristo ha eliminato la maledi­ zione della Legge. Attraverso Cristo, infatti, siamo stati liberati dalla maledizione della Legge grazie al suo divenire maledizione 30 (A. PnTA, L 'evangelo di Paolo, Torino 2013, 56).

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per noi: «Quelli invece che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della Legge per metterle in pratica» (Gal 3,10; citazione di Dt 27,26); «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso male­ dizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno» (Gal 3,13; citazione di Dt 21,23). Cristo, diventato maledizione, ha tolto la maledizione della Legge stabilita a livello forense: «In real­ tà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo» (Gal 2,19). Argomentazione:31 - Paolo, per dimostrare che Cristo ci ha resi liberi dal giogo del­ la legge ricorre al testo di Dt 21,22-23 che parla dell'israelita che ha commesso un reato punito con la morte: Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità;

il suo corpo, appeso a un albero, è dichiarato maledetto da Dio, ed essendo tale deve essere rimosso al più presto, per­ ché la maledizione implica rigetto ed espulsione. La colpa commessa, punita con la morte, equivale alla rottura dell'alle­ anza. Di qui la necessità dell'espulsione dalla terra ereditata dall'alleanza (Dt 29,27s; 30,1). In questo modo il «maledetto» si pone nella stessa condizione di chi si trova al di fuori dell'al­ leanza, come i gentili; - ma cita il testo di Dt 21 ,23 adattandolo alla sua strategia ar­ gomentativa, ovvero lo modifica dal punto di vista sintattico per connetterlo con la citazione precedente di Dt 27,26 in Gal 3,10: Quelli invece che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della Legge per metterle in pratica (Gal 3,10).

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Cf. DuNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 238-239.

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«Maledetto chi non mantiene in vigore le parole di questa legge, per metterle in pratica!». Tutto il popolo dirà: «Amen» (Dt 27,26). Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stes­ so maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno (Gal 3,13; citazione di Dt 21 ,23). Il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità (Dt 21 ,23);

- il Cristo, fatto maledetto, viene messo fuori dell'alleanza e così nella sua morte si identifica sia con l'israelita peccatore che con il gentile peccatore; - in questo modo ha potuto donare la benedizione di Abramo sia ai gentili che agli israeliti. Di conseguenza i gentili non sono più esclusi dalla benedizione a motivo dell'ostacolo della Legge. Il credente, in quanto battezzato-crocifisso/risorto con Cristo, partecipa di ciò che è stato portato a termine attraverso la morte e risurrezione del proprio Signore: si può dire con tutta verità che vive per Dio. Il problema fondamentale per Paolo è se attribuire il potere della salvezza alla Torah (nomos come sistema capace di giustifi­ care l'uomo ) o a Cristo. Il cristiano non si colloca al di fuori della Legge e non è un senza legge, perché la sua legge è la legge di Cristo ( «Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo», Gal 6,2 ) . Dal momento che si affida alla legge di Cristo, è un ennomos Christou, una persona che è nella legge di Cristo ('totç ÙVOJ.lotç roç UVOJlOç, IllÌ &v UVOJlOç ewu à')..),,' ÉVVOJlOç XptO"'tO'U, 'tva KEpoavro 'toùç àv6Jlouç l Per coloro che non hanno Legge - pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo - mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge», l Cor 9,21 ) . Egli non è più hypo nomon, sotto la Legge, ma neanche un anomos, un «sen­ za legge»: è uno che riconosce la forza e la sapienza del «nuovo comandamento» di Cristo. La legge mosaica non ha più valore per lui, perché è stata istituita prima dell'evento Cristo. Riconoscersi inserito nella morte e risurrezione di Cristo equivale a dire di non essere più sotto la Legge, di vivere già la vita eterna e di non avere 118

più niente a che fare con il mondo terrestre, sul quale ha il potere la legge mosaica. Se si appartiene a Cristo, si è liberi dalla dura schia­ vitù della Legge. Unica legge diventa Cristo, morto per i peccatori ( «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi», Rm 5,6-8). Lui solo dona la perfetta giustificazione ( «E non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me», Gal 2,20) . Ci si può chiedere a questo punto: dopo l'evento Cristo è va­ lida ancora la Legge? ( «Togliamo dunque ogni valore alla Legge mediante la fede? Nient'affatto, anzi confermiamo la Legge», Rm 3,31). Certamente sì, ma è da conservare l'aspetto etico, non quello cultuale, con un altro spirito: la ferma fiducia di poter essere giusti­ ficati esclusivamente dalla fede in Cristo.

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Capitolo VI L'INCORPORAZIONE IN CRISTO E LA CHIESA

Non è la figura dell'uomo in se stesso l'oggetto dell'insegna­ mento paolino, ma i suoi rapporti con Dio e con il creato. A que­ sto si aggiunge la concezione neutrale del cosmo. Kosmos è sia il mondo creato da Dio che il mondo degli uomini e il mondo ostile a Dio. Le stesse strutture antologiche della persona sono pensate come strutture neutre, aperte alla duplice possibilità di comunione con Dio o con il peccato. A Paolo interessa l'uomo come creatura di Dio interpellata dalla fede. Di qui le sporadiche osservazioni al riguardo. l.

La prospettiva antropologica

Tra gli studiosi si discute se l'antropologia paolina sia più in­ fluenzata da categorie ellenistiche o giudaiche, dato per scontato che il pensiero greco tendeva a considerare la persona composta di parti distinte, mentre il pensiero ebraico tendeva a considerarla come un'unica realtà complessiva con varie dimensioni. Ma non ci si può fermare a queste distinzioni generali, perché sia l'ellenismo che il giudaismo risentono dell'influsso reciproco. Ad esempio la distinzione diminuisce nel giudaismo della diaspora ( si veda Fi­ lone). Né è da trascurare poi la varietà delle posizioni di autori e scuole. Paolo sembra avere un'antropologia dal linguaggio greco ma dai contenuti semitici.l J. Ratzinger fa rilevare come 1 > a lui attraverso questa somiglianza della sua morte, sepoltura e risurrezione («Se infatti siamo stati intima­ mente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione», Rm 6,5). Uno che muore nel battesimo diviene una nuova creazione (2Cor 5,17), già gode della nuova esistenza celeste («Con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti», Col 2,12). Paolo preferisce parlare del battezzato «in/verso Cristo» (1Cor 12,13: kai gar en heni pneumati hemeis pantes eis hen soma ebaptisthemen; cf. Rm 6,3), cioè simbolicamente immerso in Cristo stesso per crescere in lui (la preposizione eis). Non come esperien­ za individuale, ma corporativa, dal momento che gli uomini otten­ gono la salvezza con l'incorporazione nel «corpo di Cristo». Questo è il motivo per cui Paolo assimila il battesimo al passaggio d'Isra­ ele attraverso le acque del Mar Rosso (1Cor 10,1-2): la comunità cristiana è considerata come il nuovo Israele di Dio (Gal 6,16). Il battezzato diviene tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,19), un figlio adottato del Padre in virtù della comunicazione dello Spirito (Gal

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4,6). Lo Spirito così ricevuto è il principio costitutivo dell'adozione filiale e la forza dinamica della vita e condotta cristiana. 2.5. L 'eucaristia

La partecipazione alla nuova vita con la fede e il battesimo, che innesta la persona in Cristo e nella Chiesa, trova espressione e ra­ dicamento nell'eucaristia. Questa è la fonte dell'unione dei cristiani con Cristo e dei cristiani tra loro, ma anche della proclamazione dell'evento Cristo e del suo carattere escatologico. lCor 1 1,23-25 contiene il più antico racconto dell'istituzione dell'eucaristia, il rito per mezzo del quale si concretizza la presenza di Cristo con il suo popolo; il memoriale e la proclamazione della morte sacrificale di Cristo (attraverso il riferimento al sangue dell'alleanza), con accenti escatologici, perché la proclamazione della sua morte deve continuare fino alla parusia. In 2Cor 1,20-23 si legge: Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «SÌ». Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria. È Dio stesso che ci con­ ferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l'unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.

Il «SÌ» di Dio in Cristo alle sue promesse è alla radice dell'amen, del «SÌ» obbediente della comunità a Dio in Cristo. L'accoglienza dell'obbedienza filiale di Cristo (Fil 2,8), celebrata nella comunione eucaristica, determina la risposta «fedele» della Chiesa al Padre, contrariamente alla disobbedienza di Adamo (Rm 5,19). L'eucari­ stia alimenta e rafforza l'incorporazione del cristiano che, con il suo modo di esistere nella storia, testimonia l'avvento della nuova crea­ zione. Tutti i battezzati, grazie all'eucaristia, sono inseriti in misura crescente nella comunione ecclesiale, in uno sviluppo dinamico che genera scelte di vita virtuosa sempre più consapevoli e generose. Grazie al dono dell'eucaristia è possibile comprendersi e maturare nella fiducia, perché la qualità «cristiana» della propria fede fonda la qualità delle relazioni interpersonali. Dio, nell'evento di morte e risurrezione di Cristo, è la sorgente del dono e della capacità di affidarsi al proprio Signore e ai fratelli.

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3. Le frasi proposizionali e il corpo di Cristo L'identità del cristiano è un'identità «corporata», a partire dall'atto di fede (è sempre un atto ecclesiale). 1 9 L'inserimento nel corpo di Cristo è reso attraverso espressioni composte con prepo­ sizioni. Queste sono: dia («per mezzo»), eis («Verso»), syn («con») e en («in») . Dia di solito dice l a mediazione d i Cristo in un'affermazione della quale il soggetto è il Padre: attraverso Cristo, nel suo status di Signore ovvero nel suo ruolo escatologico, conduce il credente all'esperienza in e con Cristo. La preposizione eis è adoperata nelle frasi baptizein eis to onoma Cristou e pisteuein eis Criston. Dice il movimento di incor­ porazione verso Cristo e le iniziali esperienze che ne conseguono. Syn (circa 90 volte in Paolo) compare come prefisso di verbi e aggettivi. Queste costruzioni esprimono una doppia relazione del cristiano a Cristo: suggeriscono un'identificazione del fedele con gli eventi salvifici di Cristo all'inizio della vita cristiana (sympaschein, systaurousthai, synapothneskein, synthaptesthai) e denotano un'as­ sociazione con Cristo nella gloria escatologica al termine del pel­ legrinaggio terreno (syndoxazesthai, synzan ) Syn Cristoi qualifica espressamente l'associazione con Cristo nella gloria escatologica: si è destinati a essere con Cristo (1Ts 4,17: syn Kyrioi). En (circa 165 volte in Paolo), mai con il solo nome «Gesù», si legge in espressioni preposizionali come: «in Cristo Gesù» (48 volte), «in Cristo)) (34 volte), «nel Signore)) (50 volte), «in lui)) (29 volte). La preposizione non ha il semplice valore spaziale, ma connota l'influenza dinamica di Cristo sui cristiani incorporati a lui. Con Kyrios ricorre in saluti, benedizioni, esortazioni (spesso con imperativi) e formulazioni di piani apostolici e attività di Paolo, quando vuole enfatizzare l'influenza del Risorto nell'aspetto etico della vita cristiana e il suo presente, sovrano dominio nella vita del cristiano. Con Christos è invece frequentemente usato con valore strumentale, nel riferirsi all'attività storica di Gesù. In questo senso si avvicina a dia Cristou. Il cristiano così incorporato è costituito membro dell'intero Cri­ sto, del suo corpo. «In Cristo)> in senso forte connota il Crocifisso­ Risorto quale centro e principio di vita da cui l'insieme dei cristiani e i singoli ricevono la loro salvezza soprannaturale. In senso debole .

19 Cf. DuNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 521.

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qualifica una modalità: «sotto l'aspetto cristiano», cioè nell'ambito degli effetti della salvezza conseguita mediante Cristo. Il concetto di base è che si appartiene a Cristo o si è di Cristo. La stretta unio­ ne di Cristo e del cristiano, che implica una simbiosi dei due (2Cor 5,17), è resa anche con «Cristo in me». Una frase molto sintetica ed espressiva è hoi tou Cristou, «quel­ li di Cristo». Questa enfatizza la partecipazione reale e intima al Cristo vita, la partecipazione ai suoi misteri, alle sue tribolazioni e disposizioni interiori. Il cristiano non appartiene più a se stesso, ma a Cristo, morto e risorto per lui. 3.1. L 'immagine della Chiesa come corpo

L'espressione è adoperata per il corpo del Crocifisso (Rm 7,4), il corpo eucaristico (lCor 10,16) e la Chiesa come identità corpora­ tiva dei cristiani con Cristo («Ora voi siete corpo di Cristo e, ognu­ no secondo la propria parte, sue membra», lCor 12,27). Assente in l Ts, Gal e Fil, compare in lCor e in Rm quando argomenta sul­ l'unità dei credenti in Cristo (cf. lCor 12,12-27; Rm 12,4-5). Lo sfondo culturale è con ogni probabilità la nozione elleni­ stica di Stato come corpo politico, come si legge in Aristotele e negli stoici. Plutarco, riportando le idee di Crisippo, adopera per l' «assemblea» dei cittadini, l' ekklesia, la metafora del soma. L'uso della definizione di «Chiesa» come «corpo di Cristo» è una novità paolina. Scrive Penna: La definizione ecclesiale corpo di Cristo, soma Christou, se paragonata a quella di «popolo di Dio», non è affatto tradizionale al tempo dell'apo­ stolo. Essa è stata letteralmente coniata da Paolo, visto che si trova solo negli scritti suoi ( lCor e Rm) e in quelli dipendenti a lui ( Col ed Ef) . So­ prattutto, essa non potrebbe appartenere alla tradizione giudaica, perché nell'ottica di Israele non si poteva e non si può assolutamente parlare di un «Corpo del Cristo cioè del messia» e tanto meno di un «corpo di Ado­ nai», cioè di YWHW.20

Si discute tra gli esegeti se in Paolo l'espressione abbia il valore di metafora/specificazione di appartenenza-dipendenza o di realtà. Alcuni la ritengono un'immagine per dire che la Chiesa è come un corpo armonico che appartiene a Cristo e dipende da lui, una realtà

20

R. PENNA, Paolo e la chiesa di Roma, Brescia 2009, 210.

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comunitaria orizzontale, come un corpo umano qualunque. Altri colgono nell'espressione soma Christou il valore di realtà, non in senso sociale, ma individuale, come soggetto personale. La soluzione è nel fatto che Paolo ha dell'uomo un'idea semitica che non disgiunge mai la personalità umana dal suo aspetto fisico e materiale. In lCor 6,13-20 afferma che il corpo di Cristo non consi­ ste nella semplice somma dei cristiani. Non lo facciamo noi, perché è preesistente alla nostra aggregazione alla Chiesa. In l Cor 6,15 ammonisce di non macchiare il corpo con licenza sessuale: «Non sa­ pete che i vostri corpi sono membra di Cristo?». Questo sottintende un'unione più che morale, in qualche modo Cristo e i cristiani sono uniti in una sola carne (soma come già visto non sta per il corpo fisico distinto dall'anima, ma per l'intera persona). In lCor 10,16-17 l'unione di tutti i cristiani è ottenuta con la partecipazione all'unico pane e calice, con la consumazione dell'unico agnello, come sua causa e segno privilegiato della comunione (lCor 10,17). L'onta­ logica realtà, che è alla base dell'unione, è il possesso dello Spirito di Cristo («Siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo», l Cor 12,13). Vi è una congiunzione vitale così forte da identificare quasi l'uno e gli altri («Non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù», Gal 3,28). Con l'incorporazione attraverso la fede e il battesimo si ottiene il possesso dello Spirito, che realizza e perfeziona l'unione delle membra in Cristo. Paolo sa che il Cristo glorioso vive in una dimensione somatica, come leggiamo sia in 1Cor 15,45 (l'ultimo Adamo ha un soma pneumaticon) sia in Fil 3,21 dove è scritto che il Cristo dell'ultima parusia «trasformerà il nostro povero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, toi somati tes doxes autou. È ben con questo suo corpo, in definitiva, che Cristo si è assiso alla destra di Dio! La successione dunque è questa: dal corpo dell'esistenza terrena di Gesù si giunge fino al corpo della sua parusia, passando attraverso il corpo eucaristico e più ancora attraverso il suo cor­ po ecclesiale. In quest'ultimo caso, dunque, si tratta di un'identificazione «mistica» tra Cristo e la Chiesa. A porre in essere la Chiesa non è il no­ stro «fare corpo». Al contrario, è il nostro entrare a far parte del corpo di Cristo che ci fa essere Chiesa! Analogamente Paolo scrive altrove di se stesso: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Ebbene, ciò può essere letto in qualche modo anche a livello comunitario, per tutti i cristiani insieme.21

21

136

lvi, 222.

In 1Cor e Rm raramente si dice esplicitamente Chiesa come corpo di Cristo. Il testo che contiene questo concetto è 1Cor 12,2728. Nelle deuteropaoline si identifica esplicitamente la Chiesa con il corpo di Cristo: «E lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose; essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» ( Ef 1 ,22-23 ) ; «Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose» ( Col 1 ,18 ) . La Chiesa è la possibilità concreta di incontrare e sperimentare la signoria di Cristo sugli uomini, ma anche la presen­ za attiva e visibile del suo potere di Risorto nel mondo. Di qui la componente missionaria della Chiesa: «Affinché, per mezzo della Chiesa, sia ora manifestata ai Principati e alle Potenze del cieli la multiforme sapienza di Dio» ( Ef 3,10; cf. anche 1 ,22-23 ) . L'immagine della Chiesa come corpo non compare nelle lettere pastorali. 3.2. L 'immagine di Cristo come capo

L'analogia è sfruttata con dettagli presi dalla medicina ( il capo come principio vivificante ) e dal linguaggio militare ( il capo come comandante, reggitore ) . Cristo non è capo perché la parte più im­ portante del corpo, come negli scrittori ellenisti, ma perché stretta­ mente relazionato al corpo: Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l'uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L'uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell'uomo. E infatti non è l'uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli (l Cor 11,3-9).

In questo brano Paolo gioca tra capo fisico da coprire e capo di un reparto ( dipartimento ) , senza alcuna menzione del «corpo». Nelle deuteropaoline i temi del capo e del corpo sono uniti nella descrizione della Chiesa. In Col 2,10 esalta il ruolo del capo, Cristo, e della partecipazione dei fedeli alla sua vitalità e statura: «E voi 137

partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza». Lo stesso avviene in Ef 4,15-16: Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità.

La subordinazione dei cristiani a Cristo è alla base del con­ fronto del matrimonio cristiano con la Chiesa: «E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto» (Ef 5,24) . 4.

La Chiesa

Paolo è stato il primo a elaborare una riflessione sul mistero della Chiesa. Ce ne accorgiamo se a livello statistico confrontiamo l'uso del termine ekklesia nei vangeli e in Atti: su un totale di 1 14 volte nel NT, compare 3 volte nei vangeli (Mt); negli Atti l volta prima della conversione di Paolo e 21 volte nel seguito del raccon­ to; nelle lettere paoline 44 volte nelle protopaoline, 15 volte nelle deuteropaoline, 3 volte nelle pastorali. Nei tre racconti dell'appari­ zione del Risorto in Atti non abbiamo «Chiesa», ma semplicemen­ te: «Perché mi perseguiti». Ekklesia significa «convocazione» e deriva da ek-kaleo. Il ter­ mine è stato mutuato dalla prassi istituzionale della polis e in par­ ticolare della democrazia di Pericle (V secolo a.C.). In Grecia non è mai usato per associazioni religiose. Nell'AT compare circa 100 volte nella LXX per rendere l'ebraico qahal («assemblea»), spesso con il genitivo dichiarativo nelle espressioni qahal jhwh o qahal jisra 'el. Anche nel corpus paulinum come già nell'AT il termine è adoperato con il genitivo di appartenenza a colui che l'ha fondata, Dio, o a colui attraverso il quale è venuta all'esistenza, Cristo:22 «Ovunque i credenti si riuniscano per stare in comunione e per il culto essi si pongono in continuità diretta con l'assemblea di Israele, essi sono l'assemblea di Dio».23 Tuttavia è Paolo il primo

22 Cf. DuNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 523-529. 23 lvi, 526.

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a usarlo in senso «religioso», per l'assemblea dei cristiani radunata nel nome di Cristo. Al contrario egli evita i termini più disponibili sul piano del lessico «SO­ cietario», che sono synagogé (diventato tipico delle riunioni giudaiche), panégyris (che indica per i greci un'assemblea festosa, di portata comun­ que religiosa), e thiasos (equivalente a un gruppo religioso, anche se dedi­ cato prevalentemente a Dioniso), per non dire di eranos, etaireia e koinon (vedi anche i collegia in ambito latino).24

Nelle lettere autentiche ekklesia designa per lo più le Chiese locali ( Galazia, Macedonia, ecc.: «Alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre», 1Ts 1,1 ) . In Rm è assente, eccetto 5 volte nel c. 16 dove è adoperato per le comunità locali, e più precisamente «domestiche». Le comunità paoline dovevano apparire agli occhi dei contemporanei del tutto equivalenti ai raduni delle associazioni volontarie. Analogamente a quelle, infatti, i membri erano cooptati per loro libera decisione, non per nascita o per censo o per professione; inoltre, essi praticavano pasti comuni, a cui potevano contribuire gli stessi partecipanti; anche l'appel­ lativo di «fratelli» è testimoniato tra i membri dei culti misterici o delle associazioni volontarie, anche se è rarissimo (per lo più post-cristiano) e vale in senso letterale solo per i maschi che sono gli unici membri delle associazioni cultuali, non essendo peraltro mai usato come appellativo diretto ma solo in notizie alla terza persona. Naturalmente esistono delle differenze . . . la più evidente è la risocializzazione in base a una comune fede di tipo sostanzialmente esclusivo, essendo caratteristica una certa idea tipica di salvezza; nelle ekklésiai cristiane, inoltre, per la partecipa­ zione al culto non è imposta nessuna limitazione, né di sesso né di censo; in più, non è documentato nessun elenco di persone più ragguardevoli e non vige alcun titolo di onore; d'altra parte, in nessun'altra delle asso­ ciazioni contemporanee i membri erano definiti «Santi/chiamati/amati da Dio». In ogni caso, rispetto alle associazioni religiose del tempo, c'è una forte differenza quanto all'impiego della casa come luogo di riunione per le comunità paoline: ed è che, mentre nella società greco-romana il cul­ to domestico era comunque subordinato o addirittura coordinato ai culti pubblici della città, a cui non poteva non fare riferimento, per le ekklésiai paoline invece la casa era il solo e unico possibile, dunque a sé stante, senza alcun coordinamento ad altri luoghi cultuali ufficiali.25

24 PENNA, Paolo e la chiesa di Roma, 188. 25 lvi, 194-195.

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Ma già in 1-2 Cor comincia a indicare la comunità cristiana co­ me «Chiesa di Dio», al di là delle barriere locali: «Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio» (1Cor 10,32); «Voi infatti fratelli siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Gesù Cristo che sono nella Giudea» (1Cor 2,14); «Alla Chiesa di Dio che è a Corinto e a tutti i santi dell'intera Acaia» (2Cor 1,1). Ecclesia non è l'unica descrizione; l'apostolo recupera vocabolario e im­ magini dell' AT, che gli vengono dati dalla tradizione cristiana previa: i santi (1Cor 1,2; 2Cor 1,1; Rm 1,7; Fil 1,1), gli eletti (1Ts 1 ,4; Rm 8,3). Appartenere alla Chiesa suppone una chiamata alla santità: quelli che Dio ha chiamato sono stati separati (1 Cor 1 ,2; Rm 1 ,7) e non devono temere condanna alcuna (Rm 8,33). Richiama l'attenzione l'impiego di metafore da parte dell'apostolo quando parla della comunità come «cam­ po di Dio, edificio di Dio» (1 Cor 3,9), «opera» (1Cor 3,13-15), «tempio di Dio» (1Cor 3,16-17; 6,19; 2Cor 6,16), «sigillo dell'apostolato» (1 Cor 9,2), «nostra lettera, lettera di Cristo» (2Cor 3,2-3). La salvezza in Cristo, infatti, ha la comunità dei credenti - e non l'individuo credente - come referente essenziale. Paolo considera Cristo non solo come persona indi­ viduale, per lui «la cristianità è Cristo»; «chi pecca contro i fratelli, pecca contro Cristo» (1Cor 8,12).26 •

N elle deuteropaoline si dice che in virtù della croce è stata ab­ battuta la barriera tra giudei e greci e si è formato un solo corpo, la Chiesa. Il Cristo cosmico è ora il capo della Chiesa che è il suo corpo, e ha un ruolo preminente in tutta la creazione: «Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 1 ,22-23). La Chiesa ha un capo, Cristo, nel quale tutte le cose hanno il proprio vertice: «Per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10). I cristia­ ni da soli non potranno mai pretendere di riprodurre tutta intera la statura di Cristo, per cui sono esortati a tendere comunitariamente verso la sua pienezza totale (Ef 4,12-13). In Ef 1 ,22-23 la Chiesa è detta pienezza di Cristo e questo contrasta con Col 1,19: « È pia­ ciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza». Se la Chiesa è la pienezza di Cristo, Cristo è anche la pienezza di ogni cosa. In Ef 3,9-11 la Chiesa è esaltata come il luogo della manifestazione 26 J . J .

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BARTOLOMÉ, Paolo di Tarso, Roma 2009, 562-563.

del piano salvifico in Cristo del Padre: «Affinché, per mezzo della Chiesa, sia ora manifestata ai Principati e alle Potenze dei cieli la multiforme sapienza di Dio». In Ef 3,21 ( «A lui la gloria nella Chie­ sa e in Cristo Gesù» ) la Chiesa diviene così importante da sembrare avere la precedenza su Cristo. Alla luce del rapporto Cristo-Chiesa, l'esperienza cristiana, ra­ dicata nella realtà del corpo fisico di Cristo, diviene una vivente e dinamica unione con il corpo individuale risorto del Kyrios. L'unione corporativa di tutti i cristiani deve crescere perché la Chiesa è il pieroma del Cristo ( «Essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose», Ef 1,23 ) . I credenti, cristificandosi con l'incorporazione accolta e vissuta, fan­ no sì che Cristo si espanda nel tempo e nello spazio. Nella vita dei singoli questo significa la sofferenza apostolica che riempie ciò che manca alle tribolazioni di Cristo a vantaggio della Chiesa ( «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa», Col 1 ,24 ) . Non aggiungiamo qualcosa al valore redentivo della croce, ma semplicemente continuiamo ciò che Cristo ha cominciato, ma non completato. I cristiani sono chia­ mati a continuare questo processo di partecipazione alla pasqua di Cristo, finché siano raggiunte le dimensioni cosmiche della Chiesa. La riflessione sulla Chiesa rappresenta uno sviluppo della sua riflessione sul ruolo di Cristo nella salvezza. Essa è la concreta ma­ nifestazione di Cristo tra gli uomini. L'unità di questi credenti in un solo corpo ( la Chiesa che trascende tutte le barriere locali ) è il più grande contributo di Paolo alla teologia cristiana. 4. 1. Dimensione pneumatica della Chiesa: i carismi

La Chiesa non è un generico gruppo di persone, ma in virtù dello Spirito Santo una realtà viva, quella di Cristo, in cui si è incorporati. Lo Spirito con il battesimo ( 1Cor 12,13 ) viene a di­ morare nel cuore dei cristiani ( Gal 4,6 ) , li rende figli di Dio ( Gal 3,2 ) , distribuisce carismi e ministeri ( 1Cor 12,4-11 ) e dà vita ( 2Cor 3,6 ) . Dio chiama l'intera umanità alla salvezza mediante la Chiesa e per rendere la Chiesa capace di adempiere la propria missione, l'arricchisce con dei doni, i carismi, necessari per cooperare all'edi­ ficazione del corpo di Cristo.

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I carismi sono una realtà ecclesiale permanente, con una fun­ zione essenziale nel popolo di Dio. Il loro scopo è il bene comune. Nell'epistolario paolino ci sono quattro cataloghi di carismi ( 1Cor 12,8-10; 1Cor 12,28-30; Rm 12,6-8; Ef 4,11 ) , per un totale di 30 nomi, di cui 17 soltanto sono i carismi, o perché sono inseriti anche i ministeri o perché gli stessi carismi sono ripetuti più volte. Ci sono anche cataloghi occasionati ( 1Cor 14,1-5; 1Cor 14,6; 1 Cor 14,26 ) con 13 nomi, di cui solo quattro sono i carismi, sempre per lo stesso motivo. La prospettiva di Paolo è una prospettiva demitizzata, senza alone di straordinarietà. Si aggiunge la nota dell'integrazione tra istituzione e carisma, perché la struttura è sempre un carisma e co­ me tale è una realtà ecclesiale. Il carisma può comprendere e di fat­ to abbraccia il campo della struttura, ma a sua volta nel suo aspetto più profondo è connesso alla natura ministeriale della Chiesa e solo a tale condizione può rimanere autenticamente ecclesiale. Per que­ sto motivo i doni di governare (kyberneseis) sono inseriti tra i doni dello Spirito ( 1Cor 12,28 ) . In Ef 4,11-13 mette insieme apostoli, profeti, evangelisti, pastori, maestri: Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

Nella discussione a Corinto ( 1Cor 12-14 ) su quale tra i carismi fosse il più necessario, Paolo indica i criteri per riconoscere l'auten­ ticità dei carismi: una chiara confessione di fede cristologica ( 1Cor 12,3 ) ; la destinazione per l'utilità comune ( 1Cor 12,7 ) ; l'edificazio­ ne della comunità ( 1Cor 14,3-5.12.17 ) ; la testimonianza resa a quel­ li di fuori ( 1Cor 14,23-25 ) ; l'adesione all'intervento autoritativo dell'apostolo e suoi rappresentati ( 1Cor 14,36-38 ) . 4.2. I ministeri istituzionali e non

Lo scopo dei ministeri istituzionali è quello di rendere tutta la comunità ministeriale adulta responsabile nella propria chiamata al servizio ( «Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchia­ mo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo», Ef 4,15 ) . Per fare questo occorre che ogni ministro si senta servo 142

(2Cor 1 ,24) , giacché solo la convinzione di essere tutti insieme «noi il tempio del Dio vivente» (2Cor 6,16) evita di diventare produttori e consumatori del sacro. Le funzioni essenziali nella comunità individuate da Paolo sono quelle di predicazione, santificazione e governo.27 L'apostolo paragona la predicazione al lavoro agricolo (lCor 3,9): uno «pianta» e un altro «irriga» come stabilisce il Signore (lCor 3,5-6) ; a quello di un architetto: uno getta le fondamenta dell'edificio e altri hanno l'incarico di costruirvi sopra (lCor 3,10); al generare (lCor 4,15). L'attività di annuncio è di necessità asso­ luta (lCor 9,16), perché da essa dipende la salvezza degli uomini (lCor 1 ,21). Come potenza di Dio (Rm 1 ,16) attualizza la giustizia misericordiosa di Dio sul credente (Rm 1,17) e ne anticipa il giu­ dizio al presente (lCor 1 ,18). Non basta la testimonianza sempli­ cemente vissuta, occorre la proposta verbale del messaggio della croce. Per quanto riguarda la funzione sacramentale parla del battesi­ mo, della Cena del Signore, dell'imposizione delle mani (lTm 4,14; 5,22; 2Tm 1 ,6). La funzione di governo compare sempre all'ultimo posto nei cataloghi (lCor 12,28; Rm 12,6-8; Ef 4,1 1). I ministri menzionati sono: presidenti (l Ts 5,12), pastori («Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri», Ef 4,1 1), episcopi e diaconi (Fil l,l). Solo in lTm e Tt accenna a presbiteri-anziani, diversamente dalle lettere autentiche e deuteropaoline, dove com­ paiono solo i vescovi. In Tt 1 ,5.7 parla di presbiteri con ruolo di vescovi («Per questo ti ho lasciato a Creta: perché [ . . . ] stabilisca alcuni presbiteri in ogni città [ . . . ]. Il vescovo infatti, come ammini­ stratore di Dio . . . »), similmente ad At 20 nell'addio ai presbiteri di Efeso (v. 17 «anziani» e v. 28 «vescovi»). In lTm 3,2-8 descrive le caratteristiche che si richiedono ai vescovi e in l Tm 5,17ss quelle dei presbiteri.28 L'oscillazione è spiegata da Penna come segno che al tempo della loro composizione sono confluite insieme due strutture ministeriali diverse, una imperniata sui presbiteri e un'altra sul­ la coppia episcopi-diaconi. Qui, in realtà, si incontrano due tradizioni di-

27 Cf. G. DE VIRGILIO ( a cura di ) , Chiesa e ministeri in Paolo, Bologna 2003. Per lo sviluppo del concetto di Chiesa e della sua articolazione interna nelle lettere paoline, cf. PENNA, Paolo e la chiesa di Roma, 225-239. 28

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verse: quella degli anziani, di origine giudeocristiana, assente in Paolo, e quella del vescovo e dei diaconi, forse veicolata dalle comunità paoline.29

In Paolo manca del tutto il lessico del «pastore» né è presente il verbo «pascere>>, p o imano, né il termine «gregge», poimne, poim­ nion.30 L'uso del verbo proistemi («presiedere») all'intransitivo è attestato nel NT solo in Paolo (Rm 12,8; l Ts 5,12; e soprattutto nelle pastorali: l Tm 3,4-5. 12; 5,17; Tt 3,8.14). Questo dimostra che per Paolo la Chiesa è un'organizzazione «istituzionalizzata», non «meramente carismatica». In Ef 4,11 l'endiadi «pastori e maestri» dice che non si tratta di due funzioni diverse, ma «di una sola fun­ zione diversificata, ma esercitata dalle stesse persone». 31 La costituzione della struttura gerarchica della Chiesa è messa in relazione con la comparsa di falsi maestri (lTm 4,lss; Tt 1,10-13; 2Tm 3,1-9; 4,3-4). Per difendere la fede vengono istituiti anziani con funzioni di episcopi allo scopo di trasmettere quanto avevano ricevuto (Tt 1,5-9: principio della successione ).32 La qualità richie­ sta è la testimonianza di vita. In questa fase non c'è ancora chiara distinzione tra diaconi e presbiteri. Solo verso la fine del I secolo d.C. la Didachè inizia a parlare esplicitamente della necessità di stabilire «SU voi stessi vescovi e diaconi al posto di apostoli, profeti, maestri» (15,1; cf. l Cor 12,28), perché c'erano profeti e maestri itineranti che causavano problemi. Anche la Prima lettera di Cle­ mente ( 42) parla del principio della successione dell'autorità da Dio a Cristo agli apostoli e dell'istituzione da parte di questi ultimi di

29 lvi, 238. 3° Cf. ivi, 250. 31 lvi, 251 . 32 Le divergenze tra l a Riforma e l a Chiesa cattolica i n merito all'idea d i «Suc­ cessione apostolica» sono illustrate da P. Ricca come segue: «Sull'ostacolo costituito dal diverso ruolo e peso attribuito al ministro nella celebrazione della Cena, va detto che le Chiese della Riforma sono profondamente convinte di essere, loro e i loro ministri, nella "successione apostolica", solo che la intendono in maniera diversa da Roma e da Costantinopoli, e cioè non come una successione storica di vescovi, ma come una successione nel messaggio apostolico, quello predicato da Gesù, da apostoli e profeti dell'Antico e del Nuovo Testamento, il messaggio dal quale è nata la Chiesa cristiana e prima di essa il popolo d'Israele, la Parola viva e vera di Dio che "sussiste in eterno" (Is 40,8) e di cui Gesù ha detto: "Le parole che vi ho detto sono Spirito e vita" (Gv 6,63), e ancora: "Se perseverate nella mia parola, siete ve­ ramente miei discepoli; e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi" (Gv 8,32). Questa è la "successione apostolica" come la intendono le Chiese della Riforma: la successione della parola di Dio, cioè la perseveranza, la fedeltà, il dimorare nel messaggio di Dio all'umanità, che ha nella venuta e nell'opera di Gesù di Nazareth il suo contenuto essenziale» (P. RICCA, Ultima Cena, anzi la Prima. La volontà tradita di Gesù, Torino 2013, 272).

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vescovi e diaconi (44,1). Ignazio (110 d.C.) è il primo a distinguere tra episcopi, presbiteri e diaconi.33 Una particolare sottolineatura Paolo la fa riguardo al ruolo di Pietro. Il nome Pietro compare 10 volte (di cui 8 volte Cefa). Si­ gnificativa dell'importanza del primo degli apostoli è l'espressione «per consultare Cefa» di Gal 1,18. Per quanto riguarda il ministero apostolico, c'è da dire che non è mai visto in termini sacrali come sacerdozio cultuale, anche se questi termini sacrali sono impiegati in riferimento all'attività evangelizzatrice (Rm 15,16; Fil 2,17). C'è uno scarso impiego di exousia (2Cor 10,8; 13,10; rifiutata in 1Cor 9,12). Si privilegia inve­ ce il vocabolario della diakonia, anche se non si esclude che Paolo possa intervenire drasticamente se necessario (1Cor 4,18-21; 5,4-5). Accanto ai ministeri della predicazione, sacramentale e di governo, nelle lettere si incontra anche il ministero del soccorso fraterno. Paolo lo ha sperimentato nella sua prigionia (Fi1 4,14-17) e lo sollecita con le collette (1Cor 16,1-3; Rm 15,25-27). Tutti vi sono chiamati e vi possono partecipare: è una grazia (2Cor 8,4) e un servizio liturgico (2Cor 9,12). Nelle lettere si accenna anche al ministero delle donne (Rm 16,1-2.6.7. 12; Fil 4,2-3; Col 4,15). In Rm 16,1-2 raccomanda Febe, la «diaconessa)) della comunità di Cenere (uno dei due porti di Corin­ to): «Accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch'essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso)). In genere il termine diakonos designa «una persona con una responsabilità amministrativa)).34 Paolo la definisce anche prostatis, «colei che aiuta molti)), un termi­ ne spesso adoperato per protettori, che in alcuni casi erano donne. In quanto proprietaria della casa dove si radunava la comunità, essa godeva di un ruolo all'interno della Chiesa. Nei saluti che seguono nella lettera le donne raccomandate sono il doppio degli uomini. Questo indica la sensibilità per il ruolo della donna nella comunità ecclesiale, come pure il sostegno che l'apostolo sente di dare a motivo dei disagi che le donne dovevano trovare in un am­ biente che non riconosceva loro la funzione e l'attività di insegna­ mento e di altri ruoli di sostegno alla causa del vangelo. In Fil 4,2-3

IGNAZIO m ANTIOCHIA, Agli Smirnesi, 8. C.S. KEENER, , in G.P. HAWTHORNE - R.P. MARTIN - D.G. REm, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, ed. it. a cura di R. PENNA, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 1586-1587. 33 34

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saluta Evodie e Sintiche, che come gli altri collaboratori maschi si affaticavano nella predicazione.

5.

L'apostolato

L'origine della sua autorità è nella vocazione sperimentata sulla via di Damasco. Paolo è convinto che se Dio sceglie alcuni come apostoli dona loro anche la grazia (2Cor 12,9 ) per vivere e realizzare il ministero secondo le modalità indicate dal vangelo. La vita stessa dell'apostolo poi deve essere incarnazione della verità proclamata, una manifestazione della potenza divina di salvezza nella debolezza della croce. Dalla chiamata ne consegue che egli parla non solamente da in­ viato di Dio (2Cor 2,17; 5,18.20) , ma che la sua parola è la stessa di Dio ( «Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo come se Dio esor­ tasse per mezzo nostro», 2Cor 5,20) . Le indicazioni impartite sono gli ordini stessi di Cristo ( «Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore», lCor 14,37 ) . L'apostolo è garante della verità dell'unico vangelo, durante l'evangelizzazione, al momento della fondazione delle comunità e nei momenti di crisi, di prova e di deviazioni. L'autorità non si limita solo al campo del credere, ma riguarda anche la vita comu­ nitaria, sociale ed etica. Come padre e pedagogo ha il dovere e il diritto di intervenire nella vita comunitaria. Usa termini forti: regola (diatasso, l Cor 7,17; 1 1 ,34 ) e ordina (paraggello, l Cor 7,10 ) come il Signore ( l Cor 7,10.17; 9,14 ) . Per la difesa del vangelo la sua autorità è totale. Interviene in materia disciplinare dove è necessaria una decisione rapida per la vita fraterna. Pur potendo comandare preferisce tuttavia che il comporta­ mento dei credenti sia frutto di una consapevole e libera adesione. Di qui le parenesi con cui stimola la carità già attiva nei destinatari. Gli imperativi sono sempre preparati per non sembrare arbitrari ( l Cor 6,18.20b ) . Non vuol essere un apostolo autoreferenziale e per questo coinvolge tanti nel suo lavoro pastorale. Si calcola che abbia coin­ volto nell'opera di evangelizzazione dai quaranta ai cinquanta collaboratori, tra inviati, catechisti, amministratori di opere di so-

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lidarietà, di cui un terzo donne.35 Tali persone sono definite «colla­ boratori» (synergontes), «fratelli)) (adelphoi) e «sorelle)> (adelphai), «ministri>) (diakonoi) , «partecipi)) (koinonoi), «addetti al culto)) (leitourgoi), «amministratorh> ( oikonomoi), «consanguinei)> (syn­ geneis), «compagni di prigionia)) (synaichmalotoi), «collaboratori>> (synergoi), «commilitoni» (systratiotai), «figli» (teknoi), «servi» (hyperetoi), > (Rm 6,3 ) . Essi si immergono nella sua vita per divenire membra del suo corpo, e sotto questa qualifica soffrire e morire con lui; ma anche per risuscitare con lui alla eterna vita divina. Questa vita sorgerà per noi nella sua pienezza soltanto nel giorno della glorificazione. Tuttavia, sin da ora «nella carne>> noi vi partecipiamo, in quanto crediamo: crediamo che Cristo è morto per noi, per dare la vita a noi. Ed è proprio questa fede che ci fa diventare un tutto unico con lui, membra collegate al capo, rendendoci permeabi­ li alle effusioni della sua vita. Così la fede nel Crocifisso - la fede viva, accompagnata dalla dedizione amorosa - è per noi la porta di accesso alla vita e l'inizio della futura gloria. Per di più, la croce è il nostro unico vanto: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato cro­ cifisso, come io per il mondo» ( Gal 6,14 ) . Chi si è messo dalla parte del Cristo risulta morto per il mondo, come il mondo risulta morto per lui. Egli porta nel suo corpo le stimmate del Signore ( cf. Gal 6,17 ) ; è debole e disprezzato nell'ambiente degli uomini, ma appunto per questo è forte in

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realtà, perché nelle debolezze risalta pienamente la forza di Dio ( cf. 2Cor 12,9) . Profondamente convinto di questa verità, il discepolo di Gesù non solo abbraccia la croce che gli viene offerta, ma si crocifigge da sé: «Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» ( Gal 5,24 ) . Essi hanno ingaggiato una lotta spietata contro la loro natura, per liquidare in se stessi la vita del peccato e far posto alla vita dello spirito.1

L'ermeneutica dei santi infatti è la sola via per scandagliare le insondabili profondità del vangelo, capace di fare, di un persecuto­ re del messaggio del Crocifisso, lo strenuo difensore fino al martirio della grazia del suo mistero pasquale.

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