Il carteggio apocrifo di Seneca e san Paolo: introduzione, testo, commento


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Il carteggio apocrifo di Seneca e san Paolo: introduzione, testo, commento

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TOSCANA DI SCIBNZB «LA COLOMBARIAi.

ACCADEMIA

e

STUDI

B LETTERE

i.

XLVI

LAURA BOCCIOLINI PALAGI

IL CARTEGGIOAPOCRIFO DI SENECA E SAN PAOLO INTRODUZIONB.TESTO. COMMENTO

FIRENZE

LEO

S.

OLSCHKI MCMLXXVIII

EDITORE

INTRODUZIONE

I IL CARTEGGIO APOCRIFO E LA LEGGENDA DEL CRISTIANESIMO DI SENECA

1. G1111si dli/a leggmda. Non si può esaminare il carteggio apocrifo tra Seneca e S. Paolo senza prendere in considerazione anche la leggenda del cristianesimo di Seneca. Infatti la fortuna di queste quattordici lettere nel corso dei secoli è indissolubilmente legata alla evoluzione della leggenda della conversione di Seneca. Già il Delehaye aveva osservato che i creatori della leggenda sono due, ben distinti, il popolo e lo scrittore e che è importante sapere quale ruolo abbia svolto ciascuno di essi nella creazione e nello sviluppo dei racconti leggendari.1 A questa distinzione si rifà Francesco Lanzoni, che distingue tra leggende popolari e leggende letterarie o erudite, secondo che una tradizione sia creata dal popolo o da uno scrittore.• In base a questa distinzione, possiamo considerare la tradizione sul cristianesimo di Seneca una leggenda erudita perché trae origine dal carteggio apocrifo e non preesiste ad esso. Infatti nessun autore fa cenno ai presunti rapporti di amicizia tra Paolo e Seneca, prima del IV secolo, prima, cioè, della comparsa del nostro epistolario. Tertulliano usa, è vero, l'espressione Sme,a saepe noster (Anim. 20, 1), ma ciò non significa che egli pensi che Seneca abbia abbracciato la fede criLu llg,,,du bagiograpbiqlllt,Bruxelles 1905, p. 12 sg. • Il Lanzoni precisa però che non sempre è possibile fare nella realtà una distinzione c:osl detta, « perché i popoli rifanno a loro capriccio quanto ricevono dagli 1

ac:rittori e gli acrittori alla loro volta raccolgono dalla bocca del volgo le antiche tradizioni, elaborandole secondo il proprio genio, dando loro forma artistica e ridua:odole • unità » ( G1111ti wolgu.111111 I lra•onlo Mlu ugg,,uu tlori,b,, Roma 1925, p. 17).

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stiana,1 né tanto meno ci si può basare su questo passo per dimostrare che esisteva già nel II secolo una leggenda del cristianesimo di Seneca, di cui Tertulliano si sarebbe fatto interprete.' Qui infatti nostervale ,hristianm,1 ma non bisogna trascurare l'importanza del saepe:Tertulliano afferma che Seneca spesso (saepe)ragiona come un cristiano, ove implicitamente si riconosce che Seneca non era cristiano, interpretazione confermata peraltro dal fatto che Tertulliano citando altrove Seneca ne parla inequivocabilmente come di un pagano. Con questa frase Tertulliano intende solo far notare che il pensiero del filosofo si avvicina talora al Cristianesimo, come quello di tutti i più grandi pensatori dell'antichità, conformemente con l'atteggiamento dei primi apologisti che mettono costantemente in luce la convergenza delle dottrine filosofiche antiche con la fede cristiana (cfr. Min. Fel. O,t. 20, 1 : a11fn,mç Christianosphilosophosessea11tphilosophos f 11isse ia11111111, Christianos).La testimonianza di Tertulliano pertanto, lungi dal costituire una prova dell'esistenza di una diffusa leggenda del cristianesimo di Seneca, è l'espressione della tendenza comune agli apologisti dei primi secoli di dimostrare che il Cristianesimo non era in contrasto con la tradizione classica.• Il giudizio di Tertulliano Seneta saepe noster sintetizza efficacemente l'atteggiamento di tutti i Padri della Chiesa nei confronti del filosofo pa11111/ta a/ia de deo gano (cfr. anche Lact. / nst. 1, 5, 28: et q11a111 nostris [Christianis]simi/ia loe11tmest). Si può affermare dunque che prima della comparsa del nostro epistolario Seneca è per gli • Come ritiene ad es. Pamclius (Ttrhdliani optra, cd. Pamclii, Parisiis 158-4, p. 621, """'11.n. 261, in cap. XX D, anima): Ctrll tliam t1trbi1hit eilatis [Tcrt. ani•. 20) •agisl,r D1111 ab ilio [Sm,ea ], agnostilllT. ' A. FLEURY, Sai11I Paul 11 SliùfJ"', Parigi 1853, I, p. 9 sgg. 1 Or. J. H. WASZINJC, Qlli11li S1J,1i111i T1rhdliani D, tlllÌ111t1, Amsterdam 1947, p. 98 ( dove iNXla noslra smlirl è interpretato: « pensare come . noi cristiani »). • La tendenza dei Padri della Chiesa dei primi secoli a mettere in rilievo gli clementi di convergenza della filosofia stoica e della dottrina cristiana è dovuta essenzialmente al carattere apologetico delle loro opere rivolte a due specie di destinatari: i pagani e gli eretici. Come osserva M. Spanncut: « Lcs circostanccs imposaicnt donc aux Pères dc l'époquc un grand cffort de rationalisation. Il fallait se fairc philosophc pour parlcr aux philosophcs, souci quc n'avaicnt pas Ics prcmicrs disciplcs du Christ et Ics Pèrcs Apostoliqucs [...] Cettc circonstancc cxpliquc particllcmcnt l'aspcct rationalistc dc la théologic [...] et sa parcnté naturcllc avcc la pcnséc rcligicusc dcs Stoicicns » (L, Stoieim,1 des pìr11 MI' Églis,, Parigi 1957, p. 429). CTr. Cbrislm/11111, in U11ltrn«h1111gm t." S""'41 anche M. LAUSBERG, Sm,ea t.•isebm Stoa 111111 Frag,,,mlm, Berlino 1970, p. 17; W. TllILLITZSCH,Sm,ea ;,. /il,rarinbm Urllil w .A,,lilu, Amsterdam 1971, I, p. 126.

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scrittori cristiani niente di più che un pagano spiritualmente vicino al Cristianesimo: i Padri della Chiesa non si spingono oltre e sono ben lontani dal credere ad una conversione del filosofo al Cristianesimo. Significativa a tal proposito appare la testimonianza. di Lattanzio, che afferma che Seneca avrebbe potuto essere cristiano, se qualcuno lo avesse guidato (lnst. 6, 24, 14): Pot11itesseverm Dei cu/tor, si quis i/li monstrasset,et contempsisset profectoZenonemet magistrumsuum Sotionemsi veraesapientiaeducem nactm essei.Qui risulta chiaramente che, anche se Lattanzio riconosce che il pensiero del filosofo è assai vicino al Cristianesimo, considera Seneca pur sempre un pagano per cui è esclusa ogni diretta conoscenza e ogni contatto con la fede cristiana (homo veraere/igionisignarm).1 Inoltre in base a questa affermazione di Lattanzio si può dedurre che, almeno fino al IV secolo, non esisteva alcuna tradizione né scritta né orale relativa ai rapporti tra l'apostolo e il filosofo ed alla conversione di quest'ultimo al Cristianesimo. Dunque l'ipotesi di un'antica e diffusa leggenda dei rapporti di Paolo e Seneca, a cui il Nostro si sarebbe ispirato,8 è da escludere, poiché contrasta con l'esplicita affermazione di Lattanzio, oltre che con il silenzio di tutti gli autori in merito alla presunta amicizia dell'apostolo con il filosofo prima della comparsa del nostro epistolario. Almeno allo stadio attuale delle conoscenze, la corrispondenza apocrifa tra Seneca e S. Paolo non può essere considerata la conferma scritta di una tradizione orale preesistente, bensl il punto di partenza, l'origine della leglenda stessa.• A quanto ci risulta, il nostro autore è il primo 7 Cfr. tutto il passo: Q11id,eri,a diri pol11ilab ,o qt1i tk11111 ,umel f/114111 ditltml 111 b o 111i 11, , , r a , r, I i g i o II i s i g II a r o 1 Na11111 111ai11lal1111 tki 1xpr1ssil 111aior1111 1111di,mdo f/114111 11110111 ,ogilalio m111tisb11111tma1 ,ap,r, poss,t, 11 ip111111 11eritali1 alligil fo,r/11111111/imdo,ila111bo111in11111 mp,r,,a,1111111 no111111,11IEpimrei ,oltml, std tko td, iis op,ra111 ,i,mdo dari, 1iqt1ia1miuxt, a, pie 11ixeri11I.Po I" i I , s s, 11, r "s D , i , "I I o r, s i IJ" i s i I I i 111o II s I r a s II I , 11 ,onl1111psi111I pro/1tlo Zenon,111el •agistr1111111111111 Solionem,si ,era, 1api1111ia1 dta1111na,111111111 (/1111.6, 24, 13-14). Seneca ha colto la verità (ip111111 11,ritalisalligil fon/1111):gli uomini vivono al servizio di Dio (dlfJ[ •••] op,ra111,i,mdo dari) se vivono nella giustizia e nel timor di Dio (1ÌIJ"itk111 Ìllxll a, pi, •ix,rint) - aggiunge Lattanzio - accentuando la interpretazione cristiana Seneeamirabili 1111t111lia del pensiero di Seneca (cfr. ibid. 6, 24, 12: Exborlalion,s 11141 lmt1ma,il. Mag,,t1111 illqtlil nes,io qt1ia111aÌ1UIJIII q1111m eogitaripotesi """'"' 111,tui ,i11mdo

· td,

op,ra111da111111).

• Cfr. tra gli altri, A. FLEURY, op. ,it. • P. FAIDER, Etlllks 1111'Slniq111,Gand 1921, p. 91: « Soyons surs que la correspondanccapocryphe de Sénèque et de St. Paul bien loin d'avoir été comme l'abou-

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che mette Seneca direttamente in relazione con S. Paolo o che comunque dà notizia di questa presunta amicizia. Se, tuttavia, prima della comparsa del nostro epistolario non esisteva una leggenda su Paolo e Seneca, c'erano però già le premesse per la sua creazione, poiché oltre alla consapevolezza degli autori cristiani che talora la filosofia stoica di Seneca si avvicinava al Cristianesimo, esisteva tutta una complicata trama di leggende attestate dagli Atti apoerift,che narravano le gesta di Paolo alla corte di Nerone, e che si può dire contenessero già in n1«1la leggenda di Paolo e Seneca. Quindi, se da un lato è sbagliato affermare che l'anonimo del IV secolo, autore del carteggio apocrifo, si è limitato a riferire una leggenda preesistente e già ben delineata riguardo ai rapporti tra Paolo e Seneca, è altresl irrealistico pensare che abbia creato questa leggenda dal nulla. Ambedue queste posizioni estreme vanno rifiutate, o comungue ridimensionate temperandole in una visione più obbiettiva. E legittimo dunque supporre che il nostro autore, che mostra di conoscere gli Atti apomfi,10 utrnzzi la leggenda di Paolo e Nerone, e, inserendo Seneca come intermediario tra l'apostolo e l'imperatore, crei, con questa felice innovazione, una ramificazione della leggenda destinata a crescere e svilupparsi autonomamente. A questa conclusione dobbiamo attenerci, almeno finché non sarà possibile dimostrare, con il progredire degli studi, che questa innovazione era già stata introdotta precedentemente, cioè finché non sarà possibile trovare delle testimonianze che infirmino (il che non credo probabile) o comunque ridimensionino l'esplicita e per ora determinante affermazione di Lattanzio (Pot11itessi v,rus D,i fllltor, si q11isil/i monstrass1t,etc.) che esclude l'esistenza di una diffusa leggenda dell'amicizia di Paolo e Seneca preesistente e indipendente dal carteggio apocrifo.

tiasemcnt, la confirmation écrite d'une légende, en a été le point de départ »; cfr, anche A. CooAllA, s-,afilo11Jfo, s. Paolo,« Riv. ital. di Filos. ». 12, 1897, 2, p. 159: « non vi è nessuna ragione per cui ai possa supporre che la tradizione abbia preceduto le lettere. La prima volta che ai incontra la tradizione, ne troviamo il fondamento nelle lettere ». 11 CTr. oltre, p. 135,

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2. Dalaz,iontd,J ,arieggioapomfo.

La testimonianza di Lattanzio (bui. 6, 24, 13-14), oltre che ai fini di ·un ridimensionamento della leggenda del cristianesimo di Seneca, è importante anche per la datazione del carteggio apocrifo, perché prova che al tempo in cui scrive Lattanzio non esisteva ancora nessuna presunta corrispondenza tra Paolo e Seneca. Possiamo dunque considerare il 324 - anno in cui si presume che le Divina, lmtitulionts avessero ormai raggiunto la loro Il termine elaborazione definitiva 11 - come il termine post q111m. ani, IJlllfll lo si ricava invece da un passo di Girolamo, che è il primo a menzionare questa corrispondenza tra Paolo e Seneca. Nel De viris i/Jmtribm (cap. XII), che risale all'anno 392, egli afferma di essere stato spinto a citare Seneca in talalogosan&lor11m proprio dalle lettere del carteggio tra l'apostolo e il filosofo.11 Quindi la nostra corrispondenza è stata composta verisimilmente tra il 324 ed il 392. 3. Lt /1slimonianz.1 di S. Girolamo, S. Agostill().

Girolamo cita le lettere senza pronunciarsi apertamente né contro né a favore della loro autenticità: Lt«im Annaem Seneça Cord#bemisSotionissloi,i dis,ipulm ti palrllllSLs«anipoeta, ,onlinentissimaevita, fui/. Q111mll()nponeremin catalogosa11&/or11m, nisi me iJJaeepistolaeprovocarmiqNaeJegmzlur a plurimis, Pauli ad Senecamaut Sene,atad Pau/um, in quibm, ct1messeiNeronis magislere/ i//ius lemporis potenlissimm, optare se dicit eim esse /oci apml SNOS ct1i11S sii Pau/us apml Chrislianos.Hic ante bienniumIJ""fll PelrllS et Pa11/m martyriotoronarenlur a Neroneinlerjectmest. Girolamo non esprime alcun giudizio critico, non fa alcun commento, lascia che il lettore interpreti come meglio crede la notizia di questa corrispon11 Le Dhu /,uli1t1lio1111 composte in massima parte negli anni precedenti all'editto di Costantino (304-313), sono state rivedute successivamente dallo stesso Lattanzio e la rielaborazione definitiva sembra risalire alla fine del 324 (sulla complessa e dibattuta questione, cfr. A. PIGANIOL, Da111 to1Ula11li11i1111111, « RHPhR », [per le aigle e le abbreviazioni usate nel corso del lavoro, cfr. l'elenco a p. 205) 12, 1932, pp. 360-372). 11 Alcuni atudiosi (Fleury, Paacal, Vouaux, •..) sostengono che il carteggio a cui allude Girolamo non è lo stesso che è giunto fino a noi (per una confutazione di questa ipotesi, cfr. oltre, p. 14 e p. 186),

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denza. In ogni caso, il fatto che Girolamo non dichiari espressamente apocrifo il carteggio non significa che lo ritenga autentico. Se Girolamo fosse stato davvero convinto dell'autenticità della corrispondenza ed avesse creduto alla conversione di Seneca al Cristianesimo, è da presumere che ne avrebbe parlato anche in altre opere. Invece in nessun altro dei suoi scritti si menziona il carteggio, né si allude a Seneca come ad un cristiano.13 Il Fleury tenta di giustificare il fatto che Girolamo non dà adeguato rilievo alla notizia della presunta amicizia tra Paolo e Seneca, affermando che nel IV secolo il fatto era talmente noto, che non aveva bisogno di dimostrazione.14 Il Fleury ritiene cioè che Girolamo non avesse dubbi sull'autenticità del carteggio proprio perché, con una petizione di principio, dà per scontato che esistesse già allora una tradizione molto diffusa in merito ai rapporti personali che sarebbero intercorsi tra l'apostolo e il filosofo. Ma la tesi del Fleury, ripresa dal Kraus a e da altri studiosi, non regge proprio perché poggia sul presupposto indimostrato dell'esistenza di una leggenda dell'amicizia di Seneca con Paolo, preesistente al carteggio e indipendente da esso. Invece, come abbiamo già 11 Girolamo considera Seneca un pagano, come risulta ad esempio da un passo del Contra Rlljìmmt 3, 39 PL. 23, 506-507, in cui parla degli studi che ha fatto durante la sua giovinezza degli autori pagani e nomina Cicerone, Bruto e Seneca: S,d fa, m,wram in aJukmnlia, ,1 philotophonmr,id 111gmlili11111 shllliis wuditus, in prinin apostolis,fJIIOd in Pythagora11 P/atipio faJ,i ignoram dogmala,hristiana, 11ho, p11ta111 non tk libris lotlttus Sllllt, tp1111 po111iin Cit1ton, 11 Emp,do,/1 llg,rem. D, dogmalis rt1111, Br1110a, Sm1ta diu,r,. Alcuni studiosi (A. FLEURY,op. ,it., I, p. 12; C. PASCAL, La falsa ,orrispondmz.aIra SIMta e S. Paolo, in L,t11ral11raLatina M,dinale, Catania 1909, p. 125, n. 1) citano un passo dcli' Ad,,,r/llS /o,,inian11111 (1, 49 PL. 23, 280 C) come prova che Girolamo considerava Seneca cristiano: Strips,r1111I Arislollles ,t Pl111ar,hus ,1 nosl,r S1Mtatk matrimoniolibros.Ma qui noslersembra significare «latino», « scrittore della nostra lingua » (in opposizione ai due greci accanto ai quali Seneca è menzionato), come interpretano C. Aubcrtin (Slnèf/111 11 Saint Palli, Parigi 1872, p. 382) e P. Faidcr (op. ,it., p. 98). Tutt'al più si potrà intendere nosl,r nello stesso senso in cui Tertulliano lo chiama sa,p, nosler, cioè « vicino al Cristianesimo », « vicino al nostro modo di pensare» (così il TRILLITZSCH,op. ,it., I, p. 150), non diversamente da come Girolamo considerava tutti i filosofi stoici; cfr. In Is. 4, 11 CCL. 73, p. 151 (= PL. 24, 147 D): Stoi&i,qui nostro dogmaliin pltrisfjlll ,ontordanl. In ogni caso il Msler Snu,a non dimostra che Girolamo credesse alla conversione del filosofo stoico alla fede cristiana, come ritengono invece il Fleury e il Pascal. H Op. ,it., I, p. 270: « Il ne s'arr~te pas un seul instant à c:umincr si le bruit dc lcur intimité qu'implique un parei) rccucil [l'epistolario apocrifo], est ou non fondé. La moindrc hésitation est à scs yeux inadrnissablc, et la démonstration superflue; tant il faut le croirc, Ics prcuves évidcntcs aboundaicnt, de son tcmps, sur la réalité dea rapports qui avaicnt existé entrc Ics deux personnagcs ». 11 F. X. KRAus, Der Brilf1111,hsel Pallli mii Snu,a, « ThQ », 49, 1867, p. 606.

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visto, non vi è traccia di questa leggenda prima del IV secolo. Anzi, come fa notare il Faider, è proprio Girolamo che fornisce con le sue stesse parole una ulteriore conferma di ciò. Nel De viris illmtribm precisa infatti che si è deciso a citare Seneca in catalogosanctor11m soltanto a causa delle lettere che il filosofo e l'apostolo si sarebbero scambiati. Il fatto che Girolamo dica di esservi stato spinto unicamente dalle lettere esclude di per sé l'esistenza di una tradizione di presunti rapporti fra Seneca e S. Paolo, precedenti alla nostra corrispondenza. 111 Se cosi fosse, Girolamo non avrebbe sentito infatti il bisogno di giustificare in questo modo l'inclusione di Seneca in catalogosanctor11m. A questo punto, se è vero che Girolamo non crede né all'autenticità della corrispondenza né tanto meno al cristianesimo di Seneca, c'è da chiedersi come mai citi ugualmente queste lettere nel De viris illmtribm. Il fatto è che Girolamo non aveva alcun interesse né a passare sotto silenzio, né a bollare come apocrifa questa corrispondenza, dal momento che la notizia di un tale scambio di lettere tra Seneca, simbolo della tradizione culturale romana, e S. Paolo, l'apostolo di Cristo, non poteva che tornare a vantaggio della causa del Cristianesimo. Contro l'accusa cosl spesso rivolta ai Cristiani, di avere alle origini reclutato solo spiriti inferiori e gente senza cultura, 17 quale argomento migliore ci poteva essere in favore della religione nascente, se non la simpatia che Seneca avrebbe manifestato a Paolo? La notizia di un tale epistolario rispondeva dunque polemicamente allo scopo che S. Girolamo perseguiva scrivendo il De viris il/11stribm:quello cioè di innalzare il prestigio della letteratura cristiana, dimostrando che essa era degna di essere opposta a quella profana.18 Nel passo del De viris i/11111 P. FAJDBR,op. di., p. 90: « St. Géròmc [...] spccific quc la sculc raison qu'il a dc fairc mcntion dc Sénèquc dans son cataloguc dcs écrivains écclcsiastiqucs, c'cst l'cxistancc dcs famcuscs lcttrcs. Cela cxclut l'hypothèsc, qui paraissait tout à l'hcurc ai scduisantc, d'une tradition orale, d'une légcndc forgéc antcricurcmcnt aux docutp1111 /1gu,,l#r mcnts apocryphcs ». La precisazione 11isi1111i/la, ,pillola, prDIID&arml 11plwimis è un modo con cui Girolamo si giustifica e insieme si cautela contro eventuali critiche che potrebbero essergli mosse: il che significa che Seneca era comunemente considerato un pagano. 17 Si vedano ad es. le accuse mosse da Cecilio Natale ncll'O&ta,,im di Minucio 1, 27; 3, 44; etc.): sull'argoFelice (5, 5; 7, 4) e da Celso (ap. Origcn. C. C1/n1111, mento, cfr. oltre, p. 53 sg.; 136 sg. 18 CTr. quanto afferma Girolamo stesso nel prologo del D, ,iris illmtribus: igil#r C,/nu, Porpbyrim, llliialUIS,rabidi ad,1rn1111 Cbrisl11m&llllls,dimmi Slt• Dis&1111I

llllor1s IDrtllll tJIIÌ p11111111 1çç/1siam11111/os pbilosopbos,1

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1.3 -

tlo(JIIIIIIII,

nlli/01bab11i111 d6,tor11,

slribm, troviamo anche un riferimento preciso a un passo della XII (XI) lettera: Nam q11imem IIIIISaplllite lot11.t, q11i1111avelimId mem, che Girolamo interpreta nel senso che Seneca vorrebbe essere presso i suoi concittadini nella stessa considerazione in cui Paolo era tenuto presso i Cristiani (optarese dirit eim esselori 1• Questo riecheggiaapllli mos mim sii Pa11/mapllli Cbristia111Js). mento preciso prova inequivocabilmente che S. Girolamo aveva una conoscenza diretta del testo,• contrariamente all'opinione di molti studiosi che lo escludono, solo perché, con una petizione di principio, considerano inammissibile che S. Girolamo si sia lasciato ingannare da un'opera palesemente apocrifa come il nostro epistolario (in realtà S. Girolamo non si è lasciato affatto ingannare da questo falso, e lo utilizza nel De viris iJ/mtribm·solo perché, come si è visto, è spinto da motivi polemici). Il Fleury arriva addirittura a postulare l'esistenza di due epistolari, cioè di una corrispondenza più ampia, che sarebbe andata perduta (a cui farebbe riferimento S. Girolamo), e di un'altra, scritta molto tempo dopo l'età di S. Girolamo, che sarebbe poi quella che è giunta fino a noi.11 Ma questa ipotesi è contraddetta, tra l'altro, dall'analisi filologico-linguistica del testo, che conferma che l'epistolario a noi pervenuto risale al IV secolo. Altri più cautamente ammettono la possibilità che S. Girolamo avesse solo una conoscenza indiretta della corrispondenza,11 ma anche questa ipotesi è da scartare, poiché il riecheggiamento preciso dell'epistola XII (XI), non lascia dubbi sul fatto che Girolamo aveva una cofllllllli ti f/114/inri 111111 /"""'1,,,ri,,t, IXllnlxmnl, tUlor,,;mrint,Il tunllfl1IIjiM111IIOllrtllll nutila, 11111111111 1i111plidlali1ar,-,,, llltllllf/111 poli111i111p,rilia111 togm,1,1111I (G. HBlU>lN• GIUS, Himmymi D, ,irù i/1,utriblll libtr, Lipsiac 1924, p. 2).

" ar. oltre, p. 180• .. Inoltre anche l'cpiatola XLIX di Girolamo sembrerebbe riecheggiare la VII della nostra corrispondenza (cfr. oltre, p. 140 sg.). 11 CTr. A. FLBURT, op. ,il., II, p. 258: « Mais il est à présumcr quc cettc falsific:ation était d'une main asacz habilc pour quc des hommes lctt~, tela quc Saint Jéròmc et Saint Augustin et d'autres bprits éclairés dc lcur tcmps, aicnt pu a'y trompcr [...] On ne uurait, par conséqucnt, la confondrc avcc le pctit rccucil homonymc quc nous posacdona ajourd'hui, composition évidcmmcnt dc trop mauvaia aloi pour avoir pu attircr, mtmc un inatant, l'attcntion des critiques du cinquièmc aièclc ,. Dello stesso avviao sono l'Hamack, il Pascal, il Vouaux cd altri, che avanzano l'ipotesi di un originale greco. A tal proposito, cfr. oltre, p. 186). " Come ad es. A. MowtGLJANO,Nou nJ/a kgg,,,da tkl CrilliaMsilllO di S"""', « RSI ,, 62, 1950, pp. 326-327; J. N. SBVBNSTBR, op. di., p. 13; S. JANNACCONB, S. Girolt11110 , s,.,a, « GIF ,, 16, 1963, p. 330 agg.

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noscenza diretta di quello stesso testo che è giunto anche a noi. È probabile che queste lettere, della cui origine romana è difficile dubitare, gli siano state inviate da amici a Betlemme, dove egli si trovava prima di comporre, nel 392, il De viri.ri//mtribm.a Qualche tempo dopo, verso il 413, la nostra corrispondenza è menzionata da Agostino, che in una lettera a Maccdonio, in cui esorta all'indulgenza verso i peccatori, inserisce un pensiero di Seneca conforme ai suoi sentimenti (Epi.rt. 153, 14): M1rito J11it,mim etiam q114eda111 ad ait Sme,4, q11itemporibmapo.rtolor11111 Patdtlm kgrmlllrepi.rtoiae:omne.rodit, q11imalo.rodit."' Anche qui l'allusione è fatta « en passant », in una forma vaga e impersonale.• Agostino non prende apertamente posizione né contro, né a favore dell'autenticità delle lettere: di esse dice soltanto, come riecheggiando S. Girolamo, che« venivano lette» (/egrmt11r) 11 sue, lasciando la questione mb iudice. Non a caso troviamo in Agostino, quale unico laconico commento alla notizia dell'epiusata da Girolamo. Con stolario, la stessa espressione (ltg1111t11r) ogni probabilità infatti Agostino non ha una conoscenza diretta della corrispondenza e si limita perciò a riferire la notizia attinta a Girolamo senza citare la fonte e senza aggiungere nessun altro particolare.17 La testimonianza di Agostino e soprattutto quella Come suppone, tra gli altri, il Trillit%Sch (op. di., I, p. 160). I& ar. Sen. D, ira, 3, 26: No,, lii 111111111 prw/mlit lrrillllll odi111;oliolpdipn libi odiolril; cfr. anche ibid. 1, 14: Moli i11t,r1110/as ,i,i111,u. 11 Anche A. Graf (Roma 1111/o 11111110ria , 111lhi111111o~iOllidli M,dio E,o, Torino 1883, Il, p. 282) rileva come Agostino citi le epistole di Paolo e Seneca « per incidente e con notabile noncuranza - e, prosegue il Graf - che egli le tenesse apocrife lascia intendere abbastanza un luogo del D, d,. D,i (6, 10), dove Seneca è giudicato molto severamente ». N ar. T. ZAHN, D,r Britj1111,h1,I tlllis,hm S1111,oNN/ PtndtU, in G,s,hi,ht, IMI tlllllulll111t11tlkhm KflllOIU,Erlangen-Llpsia 1890, Il, 2, p. 602; P. FAIDER, op. til., p. 100; H. LEcuacQ, S1111tp11 ,1 S. Polli, in « DACL », 15, 1, col. 1194. " Secondo alcuni studiosi, un altro passo di Agostino conterrebbe un riferimento all'epistolario tra Seneca e Paolo (Ci,. 5, 10): À1'lldlO S1111,01 f/111111,wa,dlis i#didis i,,,,,,;,,,,u opostolor#mfl(JJtrorlmt ,landm 1,111porib,u. C. Aubertin (SIMf/11111 SdÌIII Polli •••dt., p. 364) ritiene che gli ùuli,ia cui allude Agostino siano le lettere dell'epistolario apocrifo, facendo propria l'ipotesi espressa in forma dubitativa da D, Ci,. D,i, 5, 10): A,,fort, imlidis Vives, commentatore di Sant'Agostino (Co111111. il/..,,, ,pistolanm, f/11111tir'11111jm111hlr Pollli od S1111u111 11 lnd,u ,id11i111 od i/111111, f/11111 - trtdo ab i/lit 1111 smpllll? Ma questa interpretazione di ùuii,ia non è condivisa da tutti (cfr. ad es. A. FLEURY, op. til., I, p. 13). Il Trillit%Sch, che non esclude che iNlidd sia un'allusione alla corrispondenza apocrifa, ritiene comunque che la fonte di questa notazione cronologica sia fondamentalmente la CrtJ111Jto di Eusebio, che Agostino conoac:erebbe nella traduzione di Girolamo, procuratagli da Paolino di 11

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di Girolamo, che utilizza questo apocrifo solo perché spinto da motivi polemici, hanno avuto un'importanza determinante per la sopravvivenza di questo testo e la sua fortuna nei secoli.11 Di fronte all'autorità di S. Girolamo e Sant' Agostino, infatti, i posteri non hanno osato per molti secoli contestare l'autenticità delle lettere che i due Padri della Chiesa non avevano espressamente dichiarate apocrife.11 Che in particolare la testimonianza di Girolamo giuochi un ruolo fondamentale per la conservazione e la fortuna dell'epistolario, lo dimostra il fatto che il passo del De viris ii/mtribm, avulso dal suo contesto, è inserito in quasi tutti i codici della corrispondenza apocrifa, quasi a garantirne la validità e l'importanza.

Nola (op. di., I, p. 166). Comunque, che il passo di Agostino contenga, o no, un riferimento al nostro epistolario, resta saldo - ed è questo che importa - che egli non aveva una conoscenza diretta delle nostre lettere. 11 Significativa a questo proposito è l'affermazione di Giovanni di Salisbury (cfr. oltre, p. 21), di Giovanni Colonna (cfr. oltre, p. 23) e di Giusto Lipsio (cfr. oltre, p. 25 n. 38). • Come ha avuto occasione di osservare anche il TiraboSra mppl.U1 IV. Annaeo Senecae Paulus salutem. Quotienscumque litteras tuas audio, praesentiam tui cogito nec aliud existimo quam omni tempore te nobiscum esse. Cum F Anoaco 0111. W G C O U K Ann ,, Paulus Seneca C Paulus Scnccc G O saluLutius Anneus Seneca Paulo salutcm P 2 tuam 3 Z P I' ~

IV. Annaco-salutem rll.f. Q

Scnccac

tem 0111.W G C

0111.

0111. W

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primum itaque venire coeperis, invicem nos et de proximo videbimus. Bene te valere opto. 5 V. Seneca Paulo salutem. Nimio tuo secessu angimur. Qui est? Quae te res remotum faciunt? Si indignatio dominae, quod a ritu et secta veteri recesseris et aliorsum converteris, erit postulandi locus, ut ratione factum, non levitate hoc existimet. Bene vale. 5 V. Seneca Paulo salutem 0111. F Seneca] Lutius Seneca P Annacus Seneca Q Paulo salutem 0111. W salutem 0111. G 2 angimur seccssu O te rea] rea te D H (rcx mr. H) t rea A rcH J K quae] vcl quae OK motum rea C P rcmoratum Z p (rcmemoratum M T) H J K >.11.v t 3 dominac 0111. G domini Z O M T N K est dominac H t 4 aliorum E H ad aliorum C alios rursum p (ad alios rursus U) K 1 (alios sunum K) t ad alios rursum v conversus sia 3 C Z1 H J >.

VI. Senecae et Lucilio Paulus salutem. De his quae mihi scripsistis non licet harundine et attamento eloqui, quarum altera res notat et designat aliquid, altera evidenter ostendit, praecipue cum sciam inter vos esse, hoc est apud vos et in vobis, qui me intellegant. Honor omnibus habendus est, tanto 5 magis quanto indignandi occasionem captant. Quibus si patientiam demus, omni modo eos et quaqua parte vincemus, si modo hi sunt qui paenitentiam sui gerant. Bene valete. VI. Scnecac] Annaco Scnecac Q Lutio Scnecc P et Lucilio 0111. O P Lucullo 3 lucilio Z H >. lucillo ""· Senecae-salutem 0111. F (Paulus W Paulus Scnecc G q 2 quae] cxX F quibus vcl quac O K quibusque L U qu.ibus M T P scripsistis] L scribsisti P aut atramcnto W 3 notat aliquid et designat >.11. et designat 0111. v 4 esse intcr vos >.3 P 4-5 vos ... vos ... vobis] nos ... nos .•• no bis t 5 intclligant v intclligunt O K et tanto F 6 indignati P capiant 3 C >. capiunt 11. si paticntiam] W CD X F L U P (si pacicntiam) N H J sapicntiam O M T K ai sapicntiam 3 Z (praeter W) >. 7 et 0111. H J ex A WC D F U1 (et U) et ex E quaque B A R S E D 1 U utraque W quacumque C D 8 Bene valete] valcatis 3 >. equa t

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VII. Annaeus Seneca Paulo et Theophilo salutem. Profiteor bene me acceptum lectione litterarum tuarum quas Galatis Corinthiis Achaeis misisti, et ita invicem vivamus, ut etiam cum honore divino eas exhibes. Spiritus enim sanctus in te et super excelsos sublimi ore satis venerabiles sensus exprimit. 5 Vellem itaque, cum res eximias proferas, ut maiestati earum cultus sermonis non desit. Et ne quid tibi, frater, subripiam aut conscientiae rneae debearn, confiteor Augusturn sensibus tuis motum. Cui perlecto virtutis in te exordio, ista vox fuit: mirari eum posse ut qui non legitirne irnbutus sit taliter sentiat. 10 Cui ego respondi solere deos ore innocentium effari, haut eorum qui praevaricare doctrina sua quid possint. Et dato ci exemplo Vatieni hominis rusticuli, cui viri duo adparuerunt in agro Reatino, qui postea Castor et Pollux sunt nominati, satis instructus videtur. Valete. 15 VII. Annaeus-salutem 0111. F Thophilo D theophlo (y infra add.) M 0111. O U K in 111arg. ntppl. ()I Paulus Senecae salutem O Paulo et Theophilo Seneca W Philo salutem Lucius Anneus Seneca Paulo et Theo P 3 Galathis W G Q C D1 Z O U M H J K >.t gala P chorinthiis W C H >. corintiis G corinthis U chorintiis P et post Corinthiis add. Q K >. et-vivamus om. C ita om. t vivamus 0111.D vivimus Bar/0111 cas G H ut] quomodo P 4 honore] L1 P v t horrorc ante cum M T esse X F cx se O om. C exh.ibes] W X F exibis O cxhibis L exibes U cx(h)ibuisti M T cxhibcamus t cxircm B A R S E za N cxirent >. exigcrem C D Z 1,1, erigere J susccpimus 5 et H susccperimus G cxccperim Q exiui P 4-5 in te om. M T super] F L M T P super in ras. T supra C D N 8 (praeter W) v cxucxcelsior perat Z et supera X et supra W O U H J K ). cxcellos T 1 G te cxcelsos V M T t tcxcelsos W te cxcelsus WS sublimi ore] ,oni. Westerb11rg sublimior 8 C D N za 1,1, sublimior est H sublimior es J sublimiorum et P sublimiores çett. 6 cum rcs eximias proferas] cum rcs et ceteras X O L U cum res esset et ceteras M T cures et ccteras F cures et cctera mittas P proferas eximias C 9 permotum C D H J v t cuis P cuius PII lecto C ~ t perfecto Q virtutis in te] virtutis tuac v (tue) t unicae ante virtutis add. K in te 0111. cx N J 1,1, cxordia O cxor P 10 legittime R legi mcae ~ lege ame G sis P fuit t sentias P scnserit t 11 ego om. K ergo Z P 12 praevaricari RE W X P (torr. X) 1,1,v t 13 Vatini 8 (vatim BA vatum VatiR) v uatis enim O H J Vatieni hominis] hominis uaticani CD cani hominis 1,1, rusticoli F rustici 8 P apparuerunt P om. W apparuissent "Il. 14 castus P 15 videatur X L valete] Q om. >.W G t V aie Senece E Bene te valere opto U Bene valere fratcr obto P V aie

"Il.

t1II.

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VIIl.

Senccae Paulus salutem.

Licet non ignorem Caesarem nostrum rerum admirandarum, (ni)si quando deficiet, amatorem esse, permittes tamen te non Iaedi, sed admoneri. Puto enim te graviter fecisse, quod ei in notitiam perferre voluisti quod ritui et disciplinae eius sit con- 5 trarium. Cum enim ille gentium deos colat, quid tibi visum sit ut hoc scire eum velles non video, nisi nimio amore meo facere te hoc existimo. Rogo de futuro ne id agas. Cavendum est enim ne, dum me diligis, offensum dominae facias, cuius quidem offensa neque oberit, si perseveraverit, neque, si non sit, pro- 10 derit; si est regina, non indignabitur, si mulier est, offendetur. Bene vale.

vm. Senecae Paulus salutem om. F

Paulus Seneca salutem E Paulus Senece W G C 2 Liceat P ignoremus IX ). nostrum] non IX P noammirandarum B R e z L strum non H nostrarum Kram IX silmtio) ; (eorr. L1) admiratorem ; ammira.torem v 3 si quando 1111/g. Bar/o., nisi &0nied deficient D P deficiat C amatorem] admirator ; ammiratorem v permittes] W ~ K ). permittet J permittit IX P Barlow permitte v ; 4 te] se P Bar/o., om. R D T (.t 5-6 contrarium sit 8 À 7 8 te om. f.t 9 offensum] offeneum scire 8 ). C 7-8 hoc facere te 8 P). 1 Z domini O M T om. (.t 10 perseveraverit] sam D H J K offensus perseuerit R S (,ON'.R•) preseuerauerit E perseuerauerarit W perseuer & G perseueraberit P perseuerauit H perserauerit K 1 12 valere P

a

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'°"·

IX.

Seneca Paulo salutem.

Scio te non tam tui causa commotum litteris quas ad te de editione epistolarum tuarum Caesari feci quam natura rerum, quae ita mentes hominum ab omnibus artibus et moribus rectis revocat, ut non hodie admirer, quippe ut is qui rnultis documentis 5 hoc iam notissirnum habeam. Igitur nove agarnus, et si quid facile in praeteritum factum est, veniam inrogabis. Misi tibi librum de verborum copia. Vale, Paule carissime. IX. Seneca Paulo salutem om. X F Paulus Senecae salutem O Lutius Annaeus Seneca Paulo salutem P 2 tam] tantum P tam tui] tantum A 1 3 mearum P Barlow natura rerum] naturarum U nature P ras. /ere 6 liii. poi/ natura G 4-5 uocat O reuocit J reuocant J 5 Ut is] K L1 À ; Bar/0111 om. IX v ut X F ut his O L U M T H J de uobis P 7 praerogabis 8 D Z 2 ). f.t erogabis C ; rogabis Z inrogauis PI 8 Vale Paule carissime om. U ).

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'°"·

-71-

X.

Senecae Paulus salutem.

Quotienscumque tibi scribo et nomen meum subsecundo, gravem sectaemeaeetincongruentem rem facio. Debeo enim, ut saepc professus sum, cum omnibus omnia esse et id observare in tua persona quod lex Romana honori senatus concessit, perfecta 5 epistola ultimum locum eligere, ne cum aporia et dedecore cupiam efficere quod mci arbitrii fuerit. Vaie, devotissime magister. Data V Kal. lui. Nerone m et Messalla consulibus. X. Epp. 10-14 011t. G Senecae Paulus salutcm 011t. X F O Paulus Scnccc (salutcm 0111.)W C Scnccac Lutio Annco Scnccae P Annco i11 l1xhllft Seneca Q Paulus] Paulo E 2 et] ncc ,oni. W«bs111111b, KrlZIIS ,1 W1111rb11Tg3 incongruam Z cnim] tamcn l. 4 cum Ml. Kras 4-5 in tua persona] « K I' KrtlllS in tuam pcrsonam ""· Bar/n, 5 pcrKrlZIISpcrlccta scilicct l. pcrlccta ""· Barlow 6 aporia] ruborc fccta] "111i. a R1 (robore A R) ruborc aporia C D aporiora H aporia vd rubore l. 7 devote L U M T l. 8 data ... consulibus 011t. B A R S E D F O U Ml. t fil smpsit Barlo111 0111. H quatcr Q IIII ""·

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Xl. (XIV?) Seneca Paulo salutem. Ave, mi Paule carissime. Putasne me haut contristati et non luctuosum esse quod de innocentia vestra subinde supplicium sumatur? Dehinc quod tam duros tamque obnoxios vos reatui omnis populus iudicet, putans a vobis effici quicquid in urbe 5 contrarium fi.t? Sed feramus aequo animo et utamur foro quod sors concessit, donec invicta felicitas fi.nem malis imponat. Tulit et priscorum aetas Macedonem, Philippi fi.lium, Cyros Darium Dionysium, nostra quoque Gaium Caesarem, quibus quicquid libuit licuit. Incendium urbs Romana manifeste saepe unde pa- 10 tiatur constat. Sed si effari humilitas humana potuisset quid causae sit et impune in his tenebris loqui liceret, iam omnes omnia viderent. Christiani et Iudaei quasi machinatores incendii - pro I supplicio adfecti fieri solent. Grassator iste quisquis est, cui voluptas carnifi.cina est et mendacium velamentum, tempori suo 15 XI (XIV?) Ep. 11 post 12 ,ollo,tZllmml,Jd. 01111141prt11l,rEras11111111, '°4d. v Seneca Paulo salutem 0111. X F O H 4 vos 0111. R E D (IIIJ>ra mppl. R1) vos posi rcatui l. 8 alcxandrum a111, Maccdoncm aJJ. Cl. maccdonum E machedonem Z X O L M T l. Cyros] cyroe P et post ""· 10 sacpc undc 0111. I' 10-11 unde patiatur """ urbs (sacpc 0111.) C 13 pro] P 011t. cctt. 14 adfccti] affccti B A R S E Q C Z L1 M T mdli praet,r

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destinatus est, et ut optimus quisque unum pro multis datum est caput, ita et hic devotus pro omnibus igni cremabitur. Centum triginta duae domus, insulae quattuor milia sex diebus arsere; septimus pausam dedit. Bene te valere, frater, opto. Data V Kal. Apr. Frugi et Basso consulibus. 20 H K A v t cffccti P aftlicti D affici 1.1. adfecti fieri solcnt] quod fieri solct P Bario,,,(quod P so/111 0111. cctt. ut tOIIÌ. Kra111) affici so1 Icnt 1.1. solcnt] 8 C D H J K A 1.1.v t solct teti. cuius R S E.I W C 16-17 dabitur CD 1.1. donatum est Z ~ (prater U) H J K A t 18 quattuor milia] 8 A lllI W Z X O M t et F teste Biitheler IIII L U 1.1.v qucmadmodum P milia 0111. teti. 19-20 Data-consulibus 0111. A R F O U M K v t frater] scmpcr v t

XII (XI).

Seneca Paulo salutem.

A ve, mi Paule carissime. Si mihi nominique meo vir tantus et a Deo dilectus omnibus modis, non dico fueris iunctus, sed necessario mixtus, ..v t Lurconc] smpsit Bar-

15 Data-consulibus 0111. R F O M T H JK /0111 lucullune E licooc IL lucone tel1.

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COMMENTO

I EPISTOLA

In questa prima epistola l'anonimo immagina che Seneca comunichi a S. Paolo di aver avuto insieme all'amico Lucilio un dialogo con alcuni seguaci dell'apostolo, incontrati per caso negli horli Sa//,ulilllli:questo incontro avrebbe fornito l'occasione per una edificante lettura di alcune epistole paoline, di cui Seneca riconosce l'ispirazione divina e per le quali esprime parole di grande ammirazione. La prima parte di questa epistola, che si riferisce all'incontro fortuito negli horli Sa//,ulilllli,costituisce come il prologo di tutta la corrispondenza, perché spiega in breve l'antefatto, ci~ l'insieme delle circostanze che avrebbero suscitato in Seneca il desiderio di mettersi in contatto con Paolo e di iniziare con lui questa corrispondenza.

[p. 67, r. 2-3] - NUNTIATUM QUID [ •••] HABUERIMUS: il testo è incerto. Alcuni editori (Kraus, Haase, Kurfess) leggono invece n1111tia1111/t (JIIOd [...] sermonemhablltri111111 et intendono fJIIOd come congiunzione dichiarativa, a somiglianza del greco IS·ne e;. In effetti è frequente nel latino cristiano l'uso di q110dcon l'indicativo o con il congiuntivo, in un discorso indiretto, con verbi di affermazione, di opinione, di sentimento, in luogo dell'infinitiva; cfr. ad es. Hier. in Math. 2, 12 PL. 26, 846: Tmu quidamn,mtiat Salvatoriquodmater sua et fratres stmt foris quaermtes eum.; Aug. Bapt. 3, 3, 4 CSEL. 51, p. 200: aççepi111111111111 a /11baiano esseçonm/111111 et quodresponderit,ons11/mtiet q110dil/e inslr1«lll111 se essegratias egit. Tali costrutti sono dovuti all'influsso della letteratura sacra di traduzione dal greco, in cui per timore di travisare il testo sacro, lo si riproduce il più fedelmente possibile sia nel contenuto che nella 1 , p. 147; LEUMANN-HOPMANN-SZANTYR, forma; cfr. BLAISE p. 578; MoHRMANN, I, p. 96 sg.; III, pp. 44, 223. La iunctura sermonemhabere è classica ed è attestata in Cicerone proprio nel senso di « fare una conversazione dotta » come sembrerebbe richiedere anche il nostro testo; cfr. Cic. De oral. 2, 7: QIIOetiam /eri libmti111et e11msermonem, IJIII"'illi (JIIOndam inter setk his reb111 hab11issent, mandaremlitteris. Id. Lael. 3: IJll'lsi mim ipsos indslxi loqmntes,ne « inquam» et « inquit » saepi111 interpontrelllr, allJIII111tamquam a praesmtib111 ,oram haberi sermo vitkret11r.Senonché la tradizione migliore non autorizza ad accettare sermonem (Z1) che è quasi sicuramente una tarda chiosa scolastica. Seguendo Barlow possiamo leggere ntmtia/11111 quod[•..] hab111ri111111 o meglio n1111tia-

11 -

111111 tpdd [...] hablllrim,acon W G U N T À ~. cd ammettere un insolito uso pregnante di habeoaliqllidcon de e l'ablativo (de apomjis el aliis rebta). Si potrebbe pensare ad un calco dd greco qeLv -r( mp( TLvoi;, come nella Epistola di Barnaba,10, 10: qe-re -rw(t;xcd mpt 'njt; ~pC:,.. aet;(qui qeu significa con ogni probabilità: « siete avvertiti, avete -rept -rou a-rotupoux«t -rou capito); cfr. anche lbid. 12, 1: qeLt; 1tcxÀLv a-rotupoua.&otL µé).).ov-ro,;..Il Thesflllrlllnon offre alcun esempio di simili usi di habeoin latino; ho trovato peraltro un costrutto analogo al nostro testo nel linguaggio retorico di Fortunaziano, Rhet. 3, 4, RLM. p. 122, ,opia: bonitasIJIIBIII ad 111odu111 ,omparafllr?UI 20-21 : Habeo de 11erbor11111 mala 11ite111ta el optima adpetamta(qui habeosignifica « va bene per », « sono d'accordo su»). CTr. ibid. 3, 6, RLM. p. 124, 1. Concludendo si potrebbe a mio avviso intendere quid[ ...] hablllri111,a:« a quali conclusioni siamo pervenuti intot"no a... , quali punti abbiamo fissato intorno a .. ».

[p. 67, r. 2) - HERI: questa determinazione temporale che fissa con precisione i termini dell'antefatto (l'incontro con i seguaci dd Cristianesimo) al giorno avanti, non mi sembra casuale. Da essa si ricava implicitamente come una prima occasionale lettura dd testo paolino abbia immediatamente dato i suoi frutti, destando in Seneca un grande interesse per il pensiero cristiano e suscitando in lui il desiderio di mettersi subito in contatto con l'apostolo. [p. 67, r. 3) - DE .APOCRIPIS: Il Fleury congettura apographis che significa « copia di un libro (o di un quadro) », pensando che il falsario voglia qui alludere agli scritti di Paolo. Ma la lezione attestata è apomjis (con grafia diversa in alcuni mss., apogriphisB R apoç,yphis E apoç,yjisA apomphisT J, etc.) che dà ottimo senso e che non vi è ragione di rifiutare. Apoç,yphta è un grecismo della tarda latinità. Si tratta di un vocabolo esclusivamente cristiano, comunemente in uso nd latino ecclesiastico da Tertulliano in poi: t"icorre varie volte in Ireneo, Agostino e Girolamo. Apoçryphys può significare sia «segreto» sia «falso»; cfr. ad es. un passo di Commodiano in cui significa «segreto» in un contesto che tratta della persecuzione di Nerone contro S. Pietro e S. Paolo (Apol. 820 e sg. CSEL. 15, p. 169): Disdmta htmt a11te111 Ne-

ronemesse11efllst11111, / qlli Petr11111 et Paulumprius p1111ivit in urbe./ Ipse redi/ iterum sub ipso saetulifine / ex lo,is apotryphis,qllif11it reservatusin ista. Anche da un medesimo autore la parola può essere usata ora in un senso ot"a in un altro; cfr. ad es. Hier. Epist. 78, 20: Ho, verbum,[se. frem]

(Jllllllfl/111 memoriasuggerii,nusqlli1m alibi in smpturis san,tis apllliHebraeos id est •parva ', invenisseme novi,absquelibroapoç,ypho,qlli a GraedsÀtTC'Oj, Genesis, appellafllr (Qui apoçryphosignifica « non autentico»). lbid. 96, 20: Abie,tis ita(JIIB Origenismalis, et stripturarumquaevo,anturapoçry-78-

pha, id est abs,ondita(Qui apoçryphasignifica invece « segrete », come risulta chiaro dalla chiosa id est abs,ondita).Le parole che hanno un significato ambiguo, infatti, sono spesso unite ad altre più comuni che ne chiariscono il senso, come nell'endiadi epesegetica apoçryphaet falsa che si trova in Tertulliano, P11Jjç.10, 12 CCL. 2, p. 1301, dove il significato di apoçryphaè precisato da falsa. Alcuni pensano che apomfa nel nostro testo abbia il significato di « falsi » e che indichi i libri non canonici. Di questo avviso è tra gli altri M. Erbetta (Apoçrypha,Torino 1969, II, p. 88, nota 1) : « Sono senza dubbio i libri non canonici, tanto deprecati dagli scrittori ecclesiastici ». È improbabile però che il falsario immagini qui Seneca e Lucilio intrattenersi coi discepoli di Paolo sugli scritti non canonici, quando solo dalla fine del II secolo in poi gli scrittori cristiani cominciano a denunciare opere apocrife ed eretiche. Possibile che l'autore del nostro epistolario fosse tanto sprovveduto da non accorgersi del palese anacronismo? Nel nostro testo apomfa significa verosimilmente « argomenti profondi » che solo a pochi iniziati è dato toccare e perciò «segreti», in un'accezione molto vicina all'originario significato di uso agnostico. Tutto ciò è stato bene inteso da Lefebvre d'Etaples che ritiene che gli apomfa menzionati nel nostro testo siano gli arcani della scienza divina, e che si richiama per questa interpretazione al testo paolino, Col. 2,3: Et qll()dait de apoçryphis, id est de absçonditisrebus, sive disdplinis. Ferme quau11mq11e s1111t a spirit11 superiore,q110r11111 a11&tor agmud nonpotesi, apoçryphaJiçeresoknt [...] Nam et diVIISPamus thesaurossapientiaeet ,ognitionisin Christo appellat apoçryphos, id est abs,onditos.si, ,apite sulllUloepistolaead Colossensessmbens: év l> ElaLV1t(XV't'f:t; ot -lnja«upot njt; aocp(«t;x«t njt; yvwac6>t;cx1t6xpucpoL. id est « in qlios1111t omnesthesaurisapientiaeet ,ognitionisabs,onditi». Neq11e hjç Sene,a in 111ala111 partem ho, vo,abulo11tit11r, sedpro disdplinischristiano(Faber, f. 266v). r11m,q11ar11111 abscondita virtuset hominibuss11perior era/a11Ctor Nel latino biblico non troviamo mai il vocabolo apo,ryphus,neppure (cfr. ad es. anche Mar,. 4, 22: èyéve-ro cx1r6xpucpov per tradurre cx1t6xpucpot; che è tradotto fa,111111 est o,mlt11m),forse per evitare di usare nella traduzione del testo sacro un vocabolo il cui senso avrebbe potuto anche essere frainteso. [p. 67, r. 3-4] - DISCIPLINARUM TUARUM COMITES: cosi sono definiti i seguaci di S. Paolo con cui si sarebbero intrattenuti Seneca e Lucilio. Una espressione simile si trova in Hier. Epist. 133, 4: Phil11111enen Nel nostro testo disdplina è sinonimo S111Zr11111 co111ite111 habllitdo,trinar11m. di Joçtrinae si riferisce, come spesso nel latino ecclesiastico, al contenuto dottrinale dell'insegnamento cristiano. Il nostro autore usa un termine assai appropriato (disdplina) per indicare il pensiero di S. Paolo, che viene considerato dai Padri della Chiesa proprio il fondatore della teologia cristiana; cfr. Tert. Pudi,. 16, 6 CCL. 2, p. 1312: Agnosçe

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[...] Palll11mtol11111111Zm immobilemdistiplillllf'llm,· ibid. 11, 11, p. 1316: in nos dirigit integritat,m,t plmitllliinemdistiplinar11111. Il fll4nlm esclude che il falsario voglia fare di Seneca un convertito.

[p. 67, r. 4] - IN HORTOSSALLUSTIANOS: si tratta dei sontuosi giardini di Sallustio, una delle proprietà più vaste cd opulente di Roma che lo storico acquistò grazie alle ricchezze amma.,;satc durante il suo governo in Numidia. Gli horti rimasero in possesso della famiglia di Sallustio fino al tempo di Tiberio, quando divennero proprietà imperiale e per la loro amenità e ricchezza di opere d'arte furono gradito soggiorno di molti imperatori: vi abitarono, tra gli altri, Nerone, Vespasiano e Nerva (per ulteriori notizie sugli horti, cfr. JoRDAN, Il, pp. 123-126; L. BoRSARI, Topografia di Romaantita, Milano 1897 pp. 185187; L. HoMo, Lexi(JIII d4 Topographi,Romaine, Parigi 1900, p. 305; O. RICHTER, Topographied4r Stadi Rom, Monaco 1901, pp. 267-268; PLATNER-ASHBY, pp. 271-272; F. CLEMENTI,Roma imperialenelleXIV Regionia11gmt,setondogli stavi e le llltimestop,rte, Roma 1935, pp. 175177). Al tempo in cui scrive il nostro autore, la seconda metà del IV secolo, gli horti vivevano proprio allora il momento del loro massimo splendore, prima che all'inizio del V secolo (nel 410) le orde di Alarico, penetrate negli horti da Porta Salaria, facessero scempio di tanta dovizia di opere d'arte. L'anonimo dunque immagina che l'incontro di Seneca con i seguaci di Paolo avvenga nei giardini dell'imperatore. Ora il contesto sembra presupporre che gli horti, al tempo di Nerone, fossero aperti al pubblico, mentre da tutte le altre fonti i giardini risultano, da Tiberio in poi, esclusiva proprietà dell'imperatore (cfr. ad es. Dig. 30, 39, 8: SallmtianoshortostJlli111111 A.Ngmh)e nessuna testimonianza, all'infuori di questa del nostro autore, autorizza a pensare che il pubblico potesse liberamente accedervi. Seneca - suggerisce il Barlow (op. tit., p. 139, nota 3) - potrebbe avere goduto di questo privilegio grazie alla sua posizione ragguardevole, ma si può obiettare che allora non si ca.pisce perché lo stesso privilegio dovrebbe essere stato accordato anche ad alcuni sconosciuti seguaci di Paolo ((Jllidamdistiplinar11111 hlar11mt0111ites ), che il falsario immagina abbiano già potuto liberamente accedere agli horti, quando, vedendo Seneca e Lucilio, decidono di unirsi a loro. Né si può, per ovviare alla difficoltà, immaginare che l'incontro, nelle intenzioni del nostro autore, sia avvenuto nei pressi degli horti e che i Cristiani, che erano diretti da un'altra parte (a/iotmdmtes)mutino invece direzione e decidano di unirsi a Seneca e Lucilio e proprio grazie alla presenza del filosofo possano entrare anch'essi negli horti: il testo . (in horlosSa//111/ianos setessera111111, IJIID loto ottasionenostria/io tmd4nleshi d4 qllib111 dixi 11isisnobisadi1111tti s1111t) sembra escludere una tale interpretazione. QIIO lotoprecisa in modo inequivocabile che l'incontro ~ avvenuto -80-

all'interno degli horti. Data la loro vastità, a/io lendmlessarà da intendersi « diretti da un'altra parte», ma sempre all'interno dei giardini. Circa il valore storico della notizia relativa al libero accesso del pubblico agli horti, quale si ricava implicitamente dal nostro testo e che contrasta con le altre fonti, ritengo si debba essere molto cauti. Basarsi, come fanno alcuni (cfr. ad es. PLATNER-ASHBY, p. 271), unicamente sulla testimonianza del nostro autore per affermare che al tempo di Nerone gli horti erano aperti al pubblico, significa confondere realtà e fantasia, storia e finzione letteraria: l'incontro negli horti immaginato dal falsario ha tutta l'aria di essere nient'altro che un -t61tot;, cioè un motivo puramente letterario, che non ha alcuna pretesa di aderenza alla storia: molto probabilmente l'autore ha presenti i dialoghi ciceroniani ambientati nella durante una pascampagna di Tuscolo, di Cuma, etc., o, come il Br111us, seggiata in un viale; e qui, proprio in conformità a questi modelli classici, immagina che l'incontro di Seneca con i seguaci di Paolo sia avvenuto nell'amena cornice degli Horti Sallustiani;pago di aver trovato nei vasti e suntuosi Horti un'ambientazione degna del dialogo immaginario tra l'illustre filosofo cd i suoi interlocutori, il nostro autore non si è posto il problema se la presenza di questo gruppo di Cristiani nei giardini dell'imperatore fosse veramente attendibile dal punto di vista storico.

[p. 67, r. 5] - QUO LOCO OCCASIONE NOSTRI: la lezione nostri è preferibile a nostrache compare in alcuni mss. (G Z ~ N µ. ~) e che è probabilmente un errore dovuto ad assimilazione al precedente ablaSi osservi che quasi tutti i mss. in cui è attestata la vativo (oççasione). riante nostrahanno /od (Z ~ À µ.) anziché lo,o, per cui Barlow suppone che una i aggiunta per correggere il testo sia stata erroneamente applicata a /o,o anziché a nostra(op. di., pp. 52 e 55). Il codice P, che rappresenta una tradizione separata conferma la validità delle varianti lo,o e nostri, come risulta dal seguente schema:

3VCD /oço nostri

z

~

µ.

lori nostra

p lo,o nostri

Accettando, per queste .ragioni, la variante oççasione nostri ci troviamo di fronte ad un genitivo che è insolito nella lingua classica, ma che è molto diffuso nella tarda latinità e che inoltre è coerente con l'usus smbendi del nostro autore. Cfr. in questa stessa epistola lui praesentiam, ed altrove nel nostro epistolario praesentiamlui (Ep. IV); tui ,ama (Ep. IX); pomilmliam sui (Ep. VI). Nel nostro testo sarà il caso di intendere oççasiontnostri: « capitando noi là », o, meglio, « offrendosi la possibilità di stare con noi». Alcuni passi di Plinio il V. sembrano avallare questa interpretazione; cfr. NH. 36, 191: '"m sparsi per litus epNlas

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pararmi ne, essei tortinis attollendislapidNmoççasio(non essendovi l'occasione di imbattersi, di trovare delle pietre); inoltre ibid. 23, 82: Si 11ehlsti[olei]non sit oççasio,detoqllihlr,111vetmtatem repraesentet(qualora non sia possibile trovare ...). [p. 67, r. 5] - ALIO TENDENTES: « che stavano andando in un'altra direzione, che erano diretti da un'altra parte» (cioè in un luogo diverso da quello in cui si trovavano Seneca e Lucilio, ma sempre all'interno dei vastissimi giardini di Sallustio). è già in Livio e in Seneca; cfr. Liv. 24, 28, 1; Si noti che la i1111,111ra Ubi t11ma/ii a/io tendermine, pro,11/seditioneres essei,Apollonides[...] orationemsa/11tarem 111in tali temporehabllÌt,· Sen. Epist. 52, 1 : Qmd est ho,, LNdli, q110dnos a/io tendentesa/io trahit? Diversamente dal nostro testo, però, in questi esempi a/io tmdereè detto in senso traslato. [p. 67, r. 6-7] - ÙRTB QUOD TUI PRAESENTIAM OPTAVIMUS: C. Aubertin (Étmie mtilJIII•·· cit., p. 425) confronta ,erte q110d con il greco 81Jì..ov6Tt. e con bene quod che ricorre frequentemente in Tertulliano: cfr. ad es. Apol. 7, 13 CCL. 1, p. 100: Bene a11temquodomnia tempm revelat;inoltre Carn. 24, 4 CCL. 2, p. 916; /ei1111. 13, 3 CCL. 2, p. 1272; Re.fllfT.52, 1 CCL. 2, p. 995; etc. (un precedente classico è per es. mire 'Jll'lm).Il Kurfess (art. cit., « Aevum », 26, 1952, p. 47) considera l'intera frase una glossa introdotta appunto da terte. Non mi sembra opportuno accettare questa che è una semplice supposizione, peraltro non confermata da alcuna sicura prova. Tanto più che la frase in questione contiene l'espressione tllÌpraesentiamche, come si è già rilevato, è coerente con l'mm smbendidel nostro autore (basti qui ricordare l'analogo praesentiamtllÌ della quarta epistola). L'uso del genitivo del pronome personale in luogo del possessivo è diffuso nella tarda latinità, verosimilmente per influsso del greco nella letteratura biblica di traduzione, che, per non tradire la sacralità del testo, non si accontenta. di rimanere fedele allo spirito, ma ne riproduce anche la lettera (cfr. BLAisE 1 , p. 116; R5NSCH, Itala 1111d Vtdg., p. 118, che annovera l'uso del genitivo del pronome personale in luogo del possessivo, tra le cam, pp. 132, ratteristiche linguistiche dell'Itala; cfr. anche MoHRMANN, 148); significativo a tal proposito è un passo di Tertulliano: S,orp. 9, 4, CCL. 2, p. 1084: Ad regesperdNteminimei ,ama, che si rifà a Math. 10, 18: ad regesdNteminipropter me. Nel passo di Tertulliano mei tallSa è un calco del greco !ve:x~ èµ.ou, di fronte al classicò mea tallSa(per es. Hor. Sat. 1, 4, 97). PraesentiatllÌ del nostro testo si può confrontare in particolare con praesentiamei(Phil.2, 12) che ricalca un'analoga espressione greca: Itaqm, ,arissimi mei, situi semper oboedistis,non 111in praesentia mei (èv 't'7i1totpoua(~ µ.ou) tantum, sed mtdto magis n1111, in absentia opera111Ì11Ì; mea (èv 't1i «1toua(~ µ.ou) fllm metu et tremorevestramsalute111 -82-

si osservi però che qui il genitivo 111,i è usato per accentuare la contrapposizione con absmtia 1111a. Quello della 1ttxpoua(tx è un motivo convenzionale che ricorre frequentemente nella letteratura epistolare cd anche nell'epistolografia popolare (cfr. H. KosKENNIEMI,Stlldim z.11r/de, 1111d Phraseologi,desgrieçhischmBriifes bis 400 n. Chr., Helsinki 1956, pp. 3842; R. ANDRZEJEWSKI, Nova et vet,ra qua, in ,pistulis latinis IV p. si Chr. saeruloapparmt, « Eos », 57, 1967-1968, p. 245 sgg.). Il -r61tot;; presenta sotto varie forme: ora si afferma che la lettera dà l'illusione 1ttxp~v:questo aspetto del -r61tot;; che la persona cara sia presente (wt;; è sviluppato nella quarta epistola: Quotienscumque litteras lllas alldio,praesmtia111l1li cogito;cfr. oltre, p. 109), ora si mette in rilievo, come nel tm optavimus)il desiderio della presenza delnostro testo (pra1sentia111 si fonde con quello della nol'assente, dove il motivo della 1ttxpoual.tx desideri11111), che è uno dei luoghi costalgia della persona cara {1t6&ot;;, muni più diffusi della tradizione epistolare greca e romana (cfr. K. THRAEDE, Gnmdz.iige grieçhisch-romischer Briiftopik, Monaco 1970, pp. 77 e 166); cfr. Cic. Epist.Jam. 5, 8, 5: 111[...] desideri11111 praes,ntia, tuae meo labore111inualllr; ibid. 15, 21, 1 : tum discedisa nobismequetanto desiderioadjicis, 111111/afll mihi ronsolationem relinquas,· /ore 111utriusquenostr11111 absentis desideri11111 crebriset longisepistulisleniatur.Nel passo paolino sopra citato (Phil. 2, 12) troviamo anche la contrapposizione 1ttxpoua(tx-&1toua(tx che ricorre spesso nelle epistole paoline e in tutta la letteratura epistolare, soprattutto cristiana (K. THRAEDE, op. dt., p. 96 sgg.), dove il motivo si arricchisce di un nuovo significato cristiano per la della 1ttxpoual.tx l'assente è lontano col corpo, ma vicontrappostizione awµtx-1tVeuµtx: cino con lo spirito (praesentiaspiritalis), come ad es. in Paul. Noi. Epist. 20, 1 : quantominus absentiacorporalis,quaenonpotesi praesmtiam spiritalem so/vere?(cfr. ancora K. THRAEDE, op. cii., p. 122 e passim).

[p. 67, r. 7] - ET HOC sc1ASvoLO: il Fleury (op. dt. II, p. 301, nota 2) osserva che questa è una locuzione familiare a S. Paolo, e si può aggiungere - anche all'epistolografia privata; cfr. Col. 2, 1: Volo enim t10ssdre; Phil. 1, 12: sdre a11te111 vos volo; cfr. inoltre II Cor. 1, 8: Non enim t10l11111us ignorarevos... ; I Thess. 4, 13: No/11111us aut,111 vos ignorare. [p. 67, r. 7] - LIBELLOroo LECTO: si tratta delle epistole di S. Paolo che l'anonimo immagina siano state lette alla presenza di Seneca. Il vocabolo libellus, col significato di lettera è classico e già attestato in Cicerone; cfr. ad es. Epist. ad Alt. 6, 1, 5; Epist.Jam. 11, 11, 1. Nel nostro testo però libellusnon designa una sola epistola, ma una raccolta di lettere, come si ricava dal contesto: libello tuo /eçto, id ed d4plmibus aliquaslitteras quas ad aliquamdvitatem seu caput provincia, direxisti. -83-

È interessante osservare che in tutto l'epistolario si presuppone che esista già una raccolta delle epistole paoline mentre sono ancora in vita Paolo e Seneca, quando invece la costituzione del torpm delle epistole di S. Paolo è certamente posteriore al I secolo. Secondo il Loisy (La naissanc,dHChristianism,,Parigi 1933), tutto il canone ecclesiastico, che nasce per l'esigenza della Chiesa primitiva di istruire i fedeli, si costituisce dopo il II secolo. L'anonimo dunque anacronisticamente presuppone già in circolazione, prima della morte dell'apostolo, un torp111 di epistole la cui genesi è dovuta ad esigenze che andranno maturando solo più tardi, cioè quando le comunità cristiane sentono il bisogno di fissare le intuizioni della fede in termini teologici precisi, per evitare i pericoli dell'eresia, il che avviene a partire dal II secolo.

[p. 67, r. 7-8] - ID EST DE PLURIBUS ALIQUAS LI'lTERAS QUASAD ALIQUAM CIVITATEM SEUCAPUTPROVINCIAE DIREXISTI:nella maggior parte dei codici si trova plllrimis accolto dal Barlow; mi sembra più opportuno accettare invece la lezione plllribm, che si trova anche in P, che rappresenta un ramo separato della tradizione (cfr. avvertenza). Anche paleograficamente l'errore è ammissibile: in qualche scrittura antica -bm può essere stato confuso con -mis. Vale la pena di soffermarci anche sull'ipotesi di Kurfess (art. rii., « Aevum », 26, 1952, p. 47) che vede in questa frase una lunga interpolazione: libelloIlio /erto [id est deplllribm ad qnosdamlillms, q11a1 ad aliq111Z111 ri11itat,111 1111 ,ap111 provinriaedirexish] mira exhortatione(in) vitam moral,111 [,ontinm/1111] ll.ftpl4(JIIIZIJIIIreferti 111111111. Il Kurfess interviene arbitrariamente sul testo secondo un criterio del tutto soggettivo, trascurando di fornire delle prove valide a conferma della sua complicata ipotesi. In realtà si richiedono indizi tanto più convincenti, quanto più ci si allontana dalla tradizione testuale arrischiando una ipotesi: il Kurfess invece, in questo caso, si accontenta di indizi assolutamente irrilevanti : egli trova ad esempio che la frase id est [...] direxisti è troppo vaga nell'indicare i destinatari delle epistole paoline, e sostiene che, se essa fosse originaria, sarebbero nominati anche i singoli destinatari, come nella settima epi[...] IJIIIZS Galatis CorinthiisA,haeis misisti. Egli inoltre stola: lillerar11111 considera sospetto l'accusativo aliq11a1 lilleras dopo gli ablativi libello /Il() /erto,id est deplllribm. Ma anche questa non è una ragione valida per sostenere che si tratta di una interpolazione. Infatti l'accusativo ali(JllaS lilleras si può spiegare come un fenomeno di attrazione del relativo 1J114S; si confronti il costrutto ali(JIIIZS lilleras,(JIIIZS[ ... ] direxisti del nostro i/111111 qmm mihi dmJNm pollirilllS testo, con Plaut. Mm. 311 sgg.: n1111111111111 i/111111 IJl#III dare [...] i11b,as,si sapias,por,u/11111 ad/erri libi,· qui n1111111111111 sta per n111111110 ilio quem (cfr. KiiHNER-STEGMANN, II, p. 290, e gli esempi ivi citati). Concludendo: in mancanza di prove che attestino -84-

che la frase è interpolata, è meglio attenersi, come fa Barlow, alla tradizione e considerarla parte integrante del testo. Quanto alla lezione ali(JIIIIS /ittera.r,è interessante notare come l'accusativo abbia rappresentato sempre una difficoltà, a cui alcuni copisti hanno tentato di ovviare semplificando il testo con un ablativo al posto dell'accusativo: alitpdbllS/itteris (C D H J). In alcuni mss. poi in luogo di ali(JIIIIS è attesta la lezione ad I.JIIOSdam (8 praeter W) che con ogni probabilità è una correzione dovuta al fraintendimento del significato delche non significa « governatore l'espressione ad [...] ,ap11tprovinri11e di una provincia» (come pensa, ad esempio, l'autore di un volgarizzamento trecentesco dell'epistolario che si trova nel cod. Ricc. 1304: « cioè alcune delle tue molte lettere che tu hai mandate ad certe ciptadi, o vero ad certi principi della provincia »), ma significa « capoluogo di provincia », indica cioè la città principale di una regione. S. Paolo infatti, nelle lettere che possediamo, si rivolge ad intere comunità di fedeli di varie città, ai suoi discepoli e collaboratori (Filemone e Tito), ma a nessun governatore di provincia. Inoltre le città, ai cui abitanti sono indirizzate le epistole autentiche di Paolo, sono effettivamente dei « capoluoghi »: Tessalonica era la capitale della provincia romana della Macedonia, Corinto dell' Acaia, per non parlare poi di Roma stessa. Efeso e Filippi erano anch'essi centri molto importanti. Si noti inoltre che se11nell'espressione rivitalemse11,ap11tprovinriaeha valore correttivo e significa « o piuttosto », « o per meglio dire », e che quindi ,ap11t prOtlinriaenon si contrappone a rivitalem, ma ne precisa il significato. Dunque bisogna intendere « città o piuttosto capoluogo di provincia ». L'uso di ,ap11tcon questo significato ha una sua tradizione. Si osservi ,ap11tprovinriaeè già attestata nel Bel/. Hisp. 3, 1 : Era/ che la i1111,tlll'a

idem temporis Sex. PompeillSfraler (Jlli "'111praesidio CordNbamtenebat, I.Jlll)d eillSprovinriae,ap11tesseexistimaballll'.C11p11t col significato di capoluogo, seguito dal nome della regione si trova anche in Cicerone (Epist. era/ fa111.15, 4, 9: Eranam a11tem,quaefllit non viri instar, sed lll'bis,q110d Àlltani ,ap11t)ed in Livio (42, 44, 2: Thebaeq110q11e ipsae, q110dBoetiae taj»II est, in magnomo/11erant). L'uso di ,ap11tin questa accezione che è raro nel latino classico e limitato ai pochi esempi citati, diventa frequente nel latino tardo: si trova anche nella V11/gata,per es. in /s. 7, 8-9: sed ,ap11tSyriae Dama.r,usf...] et ,ap11tEphraim Samaria. È attestato in Frontino (Strab. 1, 8, 12: Ipse [se. Agesi/aus]Lydiam, 11bi,ap11thosti11111 regni era/, inrllJil), Giustino (11, 14, 10: Exp11gnatet Persepolim,,ap11t Persiri regni), Agostino (Civ. 16, 17: In As.ryriaigitlll'praeva/mrantdominattu impiae rivitatis; hllim ,ap11tera/ il/a Baby/on),Oaudiano (20, 571: ,ap11tSyriaejlammis hosti/ibllSarsit); etc. CTr. in particolare Ulp. Dig. 1, 16, 7, dove troviamo la stessa i111utlll'a (,ap11tprovin,iae)del nostro çe/ebremrivitatemve/provinriae,ap11tadvenerit.È signitesto: Si in a/iq11am ficativo che un'esemplificazione di ,ap11tcol significato di « capoluogo »

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si trovi proprio nel Be/111111 Hispaniense,dove è molto frequente l'uso di forme del latino parlato destinate ad imporsi più tardi nel linguaggio letterario (cfr. Be/111111 Hispaniense,Introduz., testo critico e comm. a cura di G. Pascucci, Firenze 1965, p. 46 sgg.); ed è significativo anche che l'esempio offerto da Cicerone provenga dalle lettere, cioè dal linguaggio che più si avvicina alla lingua parlata: tutto questo ci autorizza a pensare che ,ap11tnel senso di capoluogo abbia una lunga tradizione ininterrotta nel latino parlato e che solo tardi acquisti dignità letteraria, divenendo frequente presso gli autori della tarda latinità.. [p. 67, r. 8] - LITI'ERAS [ ... ] DIREXIsn: la locuzione dirigere litteras si trovava già in un'epistola perduta di Cicerone, come si ricava da un passo di Servio (Am. 8, 168: bina mim setllMJ/111 Ci,eronem tan/11111 pl11ralis.Nam Citeroper epinon di,1111111r nisi de his f{lllll JIIIIIn11111eri stolam ttdpat ftli11111 di,ms male 111111 dixisse 'direxi litterasdll4S'). Si tratta di una forma colloquiale che, attraverso la lingua parlata si conserva fino nella tarda latinità, quando assume dignità letteraria. L'uso di dirigere : mittere diviene frequente presso gli scrittori cristiani : la locuzione li/Jerasdirigerericorre spesso soprattutto nel linguaggio epistolare; cfr. Cypr. Epist. 15, 1: ,11111 tlOJ ad 111, litteras direxistis; Hier. Epist. 51, 1: litteras q,,asad eos trebrodirexi111111; cfr. anche Eugipp. Jn,. 32, 1 CSEL. 92, p. 51: familiares litteras dirigms. [p. 67, r. 9] - VITAM MORALEM CONTINBNTES: cosi legge il Barlow; si potrebbe interpretare in senso pregnante: « (lettere) che contengono precetti per una retta condotta morale ». Per quanto riguarda çontinentes,si può confrontare Sen. Epist. 108, 1: properasne, vis exp,,tare libros (JIIOS"'"' 111axi111e ordino,ontinentestotam 111orale111 philosophiaepartem (qui Seneca fa allusione ad un trattato di filosofia morale che non ci è pervenuto; cfr. oltre, p. 106). Si può osservare che l'aggettivo moralis, foggiato da Cicerone per designare proprio questa branca della filosofia, cioè l'etica (Fai. 1), oltre che in Seneca (cfr. anche Epist. 88, 24; 89, 9), si ritrova anche in Quintiliano (/nst. 12, 2, 10: Q11aequidem t11mrii in tres divisa,partes nat11rale111, 111orale111, rationalem),Tadto (Dia/. 30), Gcllio (15, 20, 4) e Apuleio (Plat. 1, 3). Nel latino ecclesiastico, da Tertulliano in poi, il vocabolo è usato spesso per indicare ciò che è retto, ciò che educa i costumi; cfr. ad es. Aug. Serm. 88, 5, 5 PL. 38, 542: exhortationes eçç/esiaemora/es,id est pertinentesad ,orrigmdos mores. Nel nostro testo vita moralispotrebbe significare « etica pratica »; si noti però che la i1111,111ra non è attestata altrove. Alcuni codd. (B A R S V C D M À) hanno la variante 111ortale111; in particolare À ha vitam mortalem,ont,mPnmtes. La lezione ,ontemnmtesè attestata anche dalla tradizione indiretta: Pietro Abelardo infatti, nella Expositio in Epistolam Patdi ad Romanos (per il testo, cfr. l'introduz., p. 21, n. 23) ha vitam moralemçontemnmtes,

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che pur essendo assurda testimonia la lezione cli À. La iunctura 11ila lll(Jf'/alis- nel senso cli vita temporale, caduca contrapposta alla vita spirituale, eterna - è già nel latino classico, appartiene al linguaggio poetico a cui conferisce particolare enfasi (cfr. ERNOUT-MEILLET, II, ipst1111 11itaemortalis hop. 414); cfr. Verg. Georg.4, 326: m etiam h1111ç norem; Lucr. 3, 869: 111ortak111 11itammors ,11111 i111111ortalis ademit; Sen. Aporol. 4, 1, 21: 11inça/mortalis tempora llitae. Nel latino cristiano invece, la i11Mt11ra acquista un significato decisamente spregiativo; cfr. ad es. Aug. Trin. 13, 7, 10: in ista mortali vita e"oribm am1111nisque pienissima; Petr. Chrys. Serm. 1 PL. 52, 186 A: mortalisest ista vita; qtda morillir llirt11tibm:q1lillitiis 11illit,sepelil11r famae, perii/ gloriae,· q1limane/ t11rpitlldini, &resdtinfamiae. Per i Cristiani la vita mortalis è la vita vissuta nel peccato, che conduce alla dannazione e si contrappone alla vita aeterna, la beatitudine celeste che si realina nel regno dei cieli. Mentre per i pagani, mortalis è ciò che comporta la morte fisica e si contrappone poeticamente ed enfaticamente a ciò che è immortale, nel Nuovo Testamento, invece, e in particolare in S. Paolo, la morte è la dannazione eterna, conseguenza e castigo del peccato (la « seconda morte » cli Dante): vi è una stretta concatenazione tra peccato e morte (da cui il concetto cristiano cli « peccato mortale»). Per Paolo il peccato è >C&VTpov -roù -8-otvcx,O,ou (I Cor. 15, 56). La lezione cli À vitam 111ortale111 ronle11111mtes è degna cli essere presa in considerazione, tuttavia qui non mi pare sia il caso cli allontanarsi dal Barlow. Infatti un'allusione ai conçontinentes)mi pare si adatti tenuti etici dell'opera cli Paolo (vitam 111orale111 al nostro contesto più cli un'allusione al disprezzo della vita «mortale» (llitam 111ortale111 ronlemnentes),che rimarrebbe una notazione isolata in questo passo in cui si loda proprio il contenuto morale e l'alto valore educativo dell'insegnamento paolino (Tania enim maiestas ear11111 est rerum tantaquegenerosi/aietlarml, 11/vix s11jfeçt11ras p11te111 aetalesho111in11111 (J1la4bis instittd perftdquepossint). Inoltre il cod. P, ramo separato della tradizione, ha ,ontinenlemche non dà senso, ma che convalida rontinmles contro rontemnentes.

[p. 67, r. 9-10] - USQUEQUAQUE REFECTI SUMUS: il Barlow accetta invece la lezione mque che si trova nella maggior parte dei codd. Egli sostiene che mque è usato avverbialmente e significa « completamente » (cfr. op. di., pp. 60 e 140) e che in questa accezione ha un uso classico; e cita come prova un passo cli Terenzio (Ad. 213) dove si parla di una lite avvenuta tra un servo e il suo padrone, in cui tutti e due si sono stancati l'uno cli prenderle, l'altro di darle: Ego vapulando,il/e verberando mque ambo defessis11111m. Ma in questo passo cli Terenzio, piuttosto che «completamente», come vuole il Barlow, mque significa « a lungo», « a lungo andare », o meglio « ininterrottamente », e quindi va unito a ,erb,rando. Donato spiega: a11tdi11aut 111111111111 secondo che mque vada

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con 11erb,rando o con deftssi: Incerta distin&tioest: ve/ 11,rb,rando IISIJIII 11e/ Per IISIJIII deftssi; et est IISIJIII adverbi11111: signifttat enim al di11a11t111tdt11111. IISIJII' con il significato di «ininterrottamente», cfr. Hor. Sai. 2, 7, 24: si q,ds ad i/la deNSmbito te agat, IISIJII' retmes; qui mqm significa « ininterrottamente », e quindi « ostinatamente ». Per mqm con il significato di « completamente », cfr. se mai Petron. 66, 3: Italjlll de stiribi/ita q,ddem non 111ini11111111 edi, de 111e//e 111e mqm tetigi (cfr. inoltre LEuMANN-HOPMANN-SzANTYR, p. 253). A mio avviso, però, nel nostro testo, invece di mque è più opportuno leggere con il Kurfess (art. dt., « Aevum », poiché questa variante si trova in alcuni 26, 1952, p. 47) IISIJlll(JIIIJIJ"', codici di l: (8 H) e anche in P, che rappresenta una tradizione separata. Inoltre è attestata anche da À, che secondo il Franceschini è il migliore testimone di l: (art. rii., p. 167). Il medesimo vocabolo è usato poi dall'anonimo anche in un'altra epistola: Al/egorite et aenigmatitemtdta a le IISIJlllf/lllUJll4 tolligllfllllr(Epist. XIII). In questa prima epistola mqmlJIIIHl"6significa « in sommo grado » oppure « completamente », « del tutto». In questa accezione il vocabolo è attestato nell'Itala (cfr. RONSCH, Itala 1111d Vtdg., p. 230) in Psa/111.37, 9: et h11mi/iatusmm IISIJIIIIJ1llllllle (lc.>v)è un luogo comune molto diffuso nella letteratura epistolare greca e latina (cfr. K. THRAEDE,op. di., passim; H. KosKENN1EM1,op. dt., p. 38 sgg.; R. ANDRZEJEWSKI, art. di., p. 246); cfr., oltre i passi citati nella nota precedente, ad es. -

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Sen. Epist. 67, 2: Si (JlltJlldo inllfW11mllllepi.rttdaelllfU, let11messe mihi llideoret si, aj/idor animo, lamqt111m libi non resmbam, sed respondeam.ltaf/111et de ho,,(JIIOd q,,aeris,(Jlltlsi,onloqt111r let11111: cfr. anche ibid. 40, 1: N11mqt111111 episttdamlllam a,dpio 11/nonprotin1111111a si111111. Si imaginesnobis SIIIII, q11ae memoriamrenovanlet desideri11111 aba111içor11111 absmti11111 i11&1111dae SIIIII litterae, '1""' smtiaefalso a/q114inani solado levant, (JlltllllO i11&1111diores vera amici absmtis vestigia,verasnotas adfer1111tl; cfr. inoltre Aug. Epist. 230, 4: smbms ad le vmtus mihi IIIOS la111qt111m praesmtis i111aginor et, ,11111 olim me ser111O rllliis et inops ling1111 defoiat, /amen (Jlltlsi,oram lu11m,onlo(Jllllr fab11lerq114, non satior. Quasi tutti interpretano il nostro testo: « penso che tu sei presente e non immagino altro se non che tu sei sempre con noi », con una interpretazione che può apparire banale e tautologica, ma che mi sembra l'unica valida in quanto può essere confrontata con frasi simili, come ad es. Ps. Cypr. Spe,t. I CSEL. 33, p. 3: t10bi.rt11111 me essearbitror, ,11111 vobisper litteras lo(JIIOr; cfr. anche Paul. Nol. Epist. 13, 2: tu11messeme to/11111 videbiset smties,·ibid. 20, 1: se111per let11111 111111111 IIIIJIII nobis,11111. Il Fleury (op. dt., ll,p.341) interpreta: «je ne songc qu'à une chosc, à t'avoir toujours avec moi ». Ma existimoin questo senso non è attestato altrove, né è pensabile.

[p. 68-69, r. 3-4] - CUM[...] VENIRE COEPERIS: espressione ridondante, propria del latino tardo, equivalente a t11mpri11111m vmeris: « non appena verrai»; cfr. Cypr. Epist. 59, 18 in cui ,11111 venire,o,perit è equivalente a ,11111 vmerit (Neq114 eni111 et .Anti,hris/111 ,11111 venire,oeperitintroibit eççlesiamqllia 111inat11r); cfr. poi Hicr. In Ier. 3, 2 PL. 24, 700 A, in cui llidere,o,perintequivale a lliderint(Nisi enimruta videre,oeperint,pravita/1111 cfr. inoltre Aug. In e11ang. /on. 124, 2, pristinam damnarenon poss1111t); P L. 35, 1970 in cui ut di,er, ,o,pera111 equivale a dixeram. L'uso di ,oepi (e di indpio) con l'infinito per il futuro I e Il, è un costrutto proprio della lingua parlata, frequente soprattutto nella letteratura biblica di traduzione dal greco (cfr. LEUMANN-HoFMANN-SZANTYR, p. 313). I documenti più antichi e più numerosi (soprattutto per quanto riguarda indpio) li fornisce l'Itala, per influsso del greco µ.éÀÀCi> (RoNSCH, Itala 1111d V11lg.p. 369 sgg.); cfr. ad es. Itala, A,t. 23, 3 (cod. e): pert11ter1 te indpiet ('ru1tTeLvcn µélliL); V mg.: penutiet (cfr. anche MoaRMANN, I, p. 45). Come metteremo in rilievo commentando le altre epistole, questo non è l'unico caso in cui è possibile fare un raffronto tra la lingua del nostro epistolario e la lingua dell'Itala. Questi raffronti sono importanti, poiché con ogni probabilità è proprio nel testo dell'Itala che il nostro autore legge le epistole di S. Paolo, come attesta in particolare un passo della XIV (XII?) lettera, che esamineremo più oltre. [p. 69, r. 4-5] - INVICID,f NOS ET DE PROXD,10 VIDEBIMUS: la locuzione deproxi1110 può essere confrontata con un'altra formazione ana-

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Ioga di questo epistolario: d, f11t11ro (Episl. VIII). Il de è un rafforzativo tipico della lingua popolare che serve a dar corpo alla parola. Si tratta di formazioni tipiche (cfr. LEUMANN-HoFMANN-SZANTYR, pp. 283-284) della lingua parlata che confluiscono poi nella lingua scritta (cfr. il latino tardo de s11bito,da cui il dantesco « di subito »). L'espressione de proximo è attestata in scrittori della tarda latinità, soprattutto cristiani, generalmente nel senso di «vicino», « u,timameote » (cfr. ad es. Min. Fel. 27, 7; Aug. Ser111. 69, 3, 4 PL. 38, 442) ricorre con particolare frequenza in Tertulliano; cfr. ad es. Uxor. 1, 8, 2 CCL. 1, p. 382: Li,et in illis integrilaJsolidaet Iota san,lilaJde proximo tlis11ra sii fadem Dei; cfr. [.•.] deproximo); inoltre ibid. 2, 3, 1 p. 387; Apol. 27, 6 p. 139 (delongintpl() Palimt. 5, 13 p. 304; 7, 7 p. '307; etc. H. Hoppe (Beitragez.11Sprathe1111d Krilik Tertllilians,Lund 1932, p. 86) osserva che in Tertulliano deproxi12, 2 CCL. 2, 1110può avere anche valore temporale come in /ei1111. p. 1271: q11ae [anima)iam saepeiei1111a111 morlemdeproximo norit. Nel nostro testo l'espressione de proximo significa « da vicino», « faccia a faccia», cioè è usata nella sua accezione più comune. Paolo cioè, nell'intenzione del falsario, auspica di potersi incontrare con Seneca ' vis à vis ', per conoscerlo di persona e' approfondire l'amicizia nata per corrispondenza, anche perché, come dirà poi, ci sono questioni che non si possono trattare per iscritto (cfr. Epist. VI: De his q11ae mihi s,ripsislisnon lite/ har1111Quasi tutti interpretano invitem: « a vicenda»; dine et alrammlo eloq111). c'è però da rilevare che in altri due passi del nostro epistolario invitem significa « insieme » e non « vicendevolmente » (Epist. m: 111hoç op111 intli,eminspidam111; Episl. VII: et ila invitem11i11am111, 111eliam ,11111 honore di11ino eaJexhibes;per invitemnel senso di «insieme», cfr. oltre, p. 127). Si può pensare che anche qui invitem significhi « insieme » e che in11ite111 [ ••• ] et de proximo sia solo un'endiadi epesegetica, in cui de proximo « faccia a faccia » non fa altro che puntualizzare ulteriormente invi,em: «insieme», come probabilmente intende il Moraldi (op.dt., II, p. 1750) che traduce i1111item nos et de proximo 11idebi111111, semplicemente: « ci vedremo da vicino ». Ma è più probabile che invitemqui - diversamente dagli altri due passi sopra citati - significhi proprio « vicendevolmente ». Infatti quando invitem(come nel nostro testo: invitemnos[...] videbim111) è accompagnato (generalmente seguito, più raramente preceduto) dal pronome personale significa quasi sempre « a vicenda» (cfr. Thes. VII, 2, 180, 76 sgg.); cfr. ad es. Quint. Ded. 305, p. 194 Ritter: i111sil 111inui,em se oççiderenl (qll()dgravissim11m illisfidi) sdenles;Tac. Agr. 6, 1: tlixer1111tq11e mira tonrordiaper 11111t11a111 ,aritalem et invitem se anteponendo. Si direbbe anzi che, in generale, la presenza del pronome personale rafforzi in invitem l'idea della reciprocità. Si noti in particolare Max. Taur. Hom. 49 PL. 57, 633 B: Jnvi,em se loqmmt11r, invi,em se 111ill1111I, Qui è evidente che il primo se, in11ite111 sibi oboedi11111 (spirit111 et Christ111). insolitamente in dipendenza di un verbo intransitivo, si giustifica solo -

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in quanto rafforzativo di invitt111 (cfr. anche Ho111.11, 245 C: s1 im,iç1111 çoneordantib111 smtmtiis in cui il s1 precede in11it1111). Direi che nel nostro serve proprio ad testo la presenza del pronome nos subito dopo illtlitt111 l'idea della vicendevoaccentuare - si direbbe a recuperare - in illtlitt111 lezza che nella tarda latinità tende progressivamente ad attenuarsi, come testimoniano anche i due passi citati del nostro epistolario in cui illtlitt111 significa « insieme », in cui cioè predomina ormai decisamente sull'idea della vicendevolezza, l'idea della contemporaneità e della compartecipazione. Inoltre non mi pare che tlidtr1sia qui sinonimo di tliser1:« far visita» (come intende tra gli altri il Vouaux, op. dt., p. 353: « nous nous visitcrons réciproquement et intimcment ») poich~ questa interpretazione mal si accorda, mi pare, con l'inizio della frase: '11111 pri11111111 ita(JIIIvmir, t0tperis: « non appena verrai, ci faremo vicendevolmente visita» (I?). Intenderei piuttosto: « non appena verrai, ci vedremo l'un l'altro faccia a faccia», cioè potremo finalmente conos~rci di persona, dopo aver corrisposto per lettera. Il falsario prefigurando questo incontro, cioè immaginando che Paolo desideri trovarsi faccia a faccia con Seneca, non fa altro che sviluppare ulteriormente il -r61toc;della 1tctpouat«(cfr. sopra, p. 109) che ~ poi il motivo centrale, il pernio attorno a cui ruota tutta l'epistola IV. I luoghi comuni con cui essa ~ costruita (e cioè: la lettura della corrispondenza che crea l'illusione che l'amico sia presente, il desiderio di un incontro) sono tutte variazioni di un unico tema che ~ quello convenzionale del desiderio della presenza dell'amico lontano.

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EPISTOLA V

Seneca ~ rattristato a causa della lontananza di Paolo, e suppone che la causa del suo allontanamento sia il timore del risentimento dell'imperatrice Poppca, seguace del Giudaismo, a causa della conversione di Paolo al Cristianesimo.

SECESSUANGIMUR: qui il falsario si avvale di uno dei -r61toL epistolari più comuni, quello della lontananza della persona cara (cfr. THRAEDE,op, &it.,pp. 53 sgg.) motivo caro anche all'elegia, Ovid. Trist. 3, 4, 73-74: qtllllllllis longer,1110111.r absim:cfr. anche Poni. 2, 10, 17-20; 3, 4, 67-70; etc. Il motivo della lootananza implica, come nel nostro testo, quello della sofferenza per il distacco : il -r61tot; è anche io Simmaco, Epist. 5, 40: Impatimter ami,or11111 soleop,rferr, dis&1sst1111. Anche Simmaco esprime la sua sofferenza perché non ha notizie della persona cara (Epist. 8, 3): Solli&itatusia111""'111111 litteris ltds

[p. 69, r. 2] - NIMio

ta111di11 angarqtlllllldillde te

TUO

settlllda,ognos,am.

[p. 69, r. 2-3] - QUID EST? QuAE TE RES R.EMOTUM PACIUNT?: il Kraus e lo Haase leggono 111/ qtllll ( con O K) attenendosi al testo cosl come è tramandato anche dagli editori antichi (Fabcr, Erasm., Sixt., Fabricius, etc.), ma la migliore tradizione non autorizza ad accettare t11I.T, è omesso nel cod. A cd è posposto in D e H, ma non mi pare vi siano ragioni per distaccarsi dalla maggioranza dei codici. Quanto a re111ot11111 tradito io molti codici, tra cui P, mi pare opportuno seguire il di Z ~ H J K >..µ. ~Barlow che preferisce questa lezione a r1111orat11111 R.11110111111 ja&illfltequivale a r1111011mt. La congettura di Westerburg re111ora111 ja&illfltnon è necessaria, poiché costrutti come re111olll111 f atere sono comuni specialmente nel latino tardo. Analoghe costruzioni di Ja,er, sono attestate già nel latino arcaico (in Terenzio, Catone, Lucilio; cfr. ad es. Plaut. Amph. 1145: 111iss11111 fa&ioTiresiamsen,111, dove 111isst1111 fa&ioequivale amitto; cfr. anche Pseud.224 e RIIIJ.800) e nel latino classico (cfr. ad es. Cic. Epist. ad Att. 9, 7c, 2: 111111 statim 111is111111 fen). Questi costrutti diventano poi molto frequenti negli scrittori della tarda latinità (io Firmico, Girolamo, Agostino, Cipriano, Fulgenzio, Gregorio Magno, etc.) per influsso del latino biblico, dove ricalcano generalmente analoghi costrutti perifrastici di y(yvoµ.otL e 1t0Lte sono usati 8

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per tradurre il testo sacro il più fedelmente possibile (cfr. MoHRMANN, I, p. 57; m, pp. 132-148). Queste costruzioni di facere sono frequenti soprattutto nell'Itala; cfr. per es. Psal111.72, 14 (Hier. Epist. 39, 2): factus s11111 jlagellatus (èy&v6µ.11vµ.eµ.«o-rLy(t)µ.évoc;; Vtdg.: /lii jlagellatus); et 1111r11111 ja&ta Dan. 2, 35 (Finn. E". 20, 4 CSEL. 2, p. 108): et argen/11111 (è-ylve-ro>.em-6-repov;Vtdg. ,ontrita s1111t); II Reg. 7, 9 (Aug. nmt 111in11Ja Ci11.17, 8): et /ed te no111inat11111 se'1111dll111 nomenmagnor11111 qlli nmt stptr l8"a111 (xcxl. i~o(11acxòvoµ.«o-r6v; Vtdg. fedque libi 110111en grande illXta no111en magnor11111 qlli nmt in l8"a). Anche se con minor frequenza che nell'Itala, costruzioni simili si trovano anche nella Vulgata; cfr. ad es. Rom. 6, 5: Si enim ,0111plantati facti sumus similitudini mortis eius ••. (el yey6vcxµ.ev"C' O!J,OL6>!J,«"C'L "C'OU .&cxvcx"C'OU CXIYt'OU •••) ; cfr. ycìp croµ.q>U"C'OL 31, 5; 65, 8; etc. Il falsario immagina dunque inoltre Lei/. 26, 22; Psal111. che Paolo sia lontano da Seneca e dalla corte: non specifica però dove si trovi. In merito a ciò sono state fatte varie congetture. Françisco De Bivar, che si basa sulla Cronata dello Pseudo-Dexter (cfr. inttoduz., p. 25), ritiene che il nostro testo alluda alla presunta permanenza delad absente111 longeepistolam111ittit(1111a l'apostolo in Spagna: In aliis 11ero ex his 11idetur ea quam Dexter aiJ smpsissead Patd11111 in Hispaniam degmte111) 111et il/a nimio JIIIJangi111ur se,essu[••.] et,. (Bivar, ff. 123-124). In effetti la maggioranza degli studiosi moderni ritiene che l'apostolo si sia re-. cato proprio in Spagna nel lasso di tempo intercorso tra le sue due priEinleit1111g in das Nem Testa111ent, gionie a Roma (cfr. A. WncENHAUSER, Friburgo 1953; per ulteriore bibliografia, cfr. R. ETIENNE, Le ,tdte implrial dansla pbtinstdeibériqued' Auguste à Diodetim, Parigi 1958, p. 513, nota 2). Ma l'ipotesi di Bivar presuppone nel falsario un bagaglio di conoscenze intorno alla vita e all'opera di S. Paolo che egli forse non aveva. Lefebvre d'Etaples ritiene che il nostro autore immagini che Paolo scriva a Seneca stando a Roma, dove però vivrebbe nascosto per sottrarsi alle ire dei suoi nemici: Interim Patdus in suess11se ,ontinebat: et minus prodibat in publi,11111 '11111 Judeor11111 111111 gmtium de,linans mali110lmtias (Faber, f. 227r). A mio avviso è fuori luogo affannarsi qui a cercare di identificare ad ogni costo il luogo in cui si troverebbe Paolo. Non è necessario giustificare storicamente questa allusione del nostro autore all'assenza dell'apostolo, poiché il falsario sviluppa qui semplicemente uno dei più noti luoghi comuni: quello della lontananza della persona cara.

[p. 69, r. 3] -

il Fleury e l'Aubertin, conformemente agli antichi editori (Erasm., Sixt., Fabric., Faber, etc.) (che è la variante dei codd. Z O M T N K), pensando leggono do111ini che il testo alluda all'imperatore Nerone. Ma questa interpretazione non regge poiché, come si spiega subito dopo, il motivo dello sdegno è che Paolo ha abbandonato il Giudaismo per il Cristianesimo (imJipfilJ INDIGNATIO

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DOMINAE:

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[.•.] IJIIOd a ritu et setta veltri rttesstris et aliormm ço,werteris).Il nostro testo presuppone dunque che la persona di cui si teme l'ostilità sia un adepto del Giudaismo e non può trattarsi certo di Nerone che è presentato chiaramente come pagano: ,11111 mim ili, g,nti11mdeos ,olat (Epist. VIII). In ogni caso è opportuno preferire a dominila variante domina, che è nella migliore tradizione. Domina è la « imperatrice ». Con questo significato il vocabolo è usato da Svetonio (Clallli.39, 1 e Dom. 13, 1), da Frontone (Van den Hout pp. 42; 44; etc.) e da Gregorio Magno (Epist. 4, 30). Il nostro testo allude certamente alla seconda moglie di Nerone, Poppea Sabina, che pare fosse effettivamente un'adepta del Giudaismo, stando almeno alle testimonianze di Flavio Giuseppe e di Tacito (cfr. G. RxccIOTI'I,Il gillliaismoa Roma, in Roma. Gllida allo stlldio della dviltà romana,a cura di V. Ussani, Roma 1948, III, p. 254; E. RENAN, L'Antéthrist, Parigi 1873, pp. 133, 157-159). Il primo narra nelle Antithità gillliaiche(20, 8, 11) come Poppea intercedesse presso Nerone in favore di alcuni Giudei, fra i quali due rimasero addirittura presso di lei: Ntpv8è 8L«xOua0t1.; cxù-rwvoù µ6vov auvtyv mpl -roù 1tpcxx&Moç; «il« xcxl auvex_wp7J68patèmpata-rov m(t:10tc;-ròv 1tept njc; 1t(anc; auvoua(atc;«1till0tyiiv0ti ~ata.&ati ).6yov, lmr.-&evòµ.ou x«t njc; cxxat&!Xp-rou m(Vl)c;): cioè l'amicizia di Paolo con Poppea ovvero di Paolo con la concubina dell'imperatore sarebbero varianti di una stessa leggenda. Il nostro autore attinge con ogni probabilità ad un testo perduto che doveva contenere una delle tante versioni della leggenda dei rapporti di Paolo con la corte di Nerone. Contrariamente però all'opinione del Fleury (op. dt.), del Westerburg (op. dt.) e di molti altri, non vi è nessuna prova per affermare che Seneca figurava già in questo testo cui presumibilmente attinge il nostro autore. Anzi, le testimonianze degli autori antichi sembrano provare il contrario (cfr. introduz., p. 9 sg.). Almeno allo stato attuale delle conoscenze dei testi canonici e apoaifi, siamo autorizzati a supporre che sia stato proprio l'autore della -

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nostra corrispondenza che, utilizzando la leggenda di Paolo alla corte di Nerone attestata negli Atti apomft, inserisce per la prima volta Seneca come intermediario tra l'apostolo e l'imperatore, dando cosi origine alla leggenda di Paolo e Seneca, destinata ad avere tanta fortuna nel corso dei secoli. Il falsario si avvale dunque di fonti apocrife e canoniche indiscriminatamente, ma questo non deve meravigliarci, poiché nel IV secolo, quando è stata composta la nostra corrispondenza, gli Atti apomft (e in particolare gli A,ta Patd1)godono ancora di qualche considerazione presso gli scrittori ecclesiastici e sono considerati quasi alla stessa stregua delle opere canoniche (cfr. L. VouAux, op.&it., pp. 31 sgg.; G. BARDY, Fa11xetfrallliesJittlrairesdansl'antiqllitl,hrltimne,« RHE», 32, 1936, p. 10).

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EPISTOLA

VI

È la risposta di Paolo alla lettera precedente di Seneca, in cui si accenna al risentimento dell'imperatrice Poppea come causa probabile dell'allontanamento di Paolo. L'apostolo si mostra piuttosto reticente in proposito, preferisce non compromettersi per iscritto, anche perché vuole evitare uno scontro con coloro che a corte lo avversano.

[p. 69, r. 11- SENECAB ET LUCILIO PAULUSSALUTEM:al prescritto di questa lettera, in cui il nome di Seneca è associato a quello di Lucilio, dedicatario delle Epistole Morali, risponde simmetricamente quello dell'epistola seguente, in cui al nome di Paolo è associato quello di Teofilo, presunto amico dell'apostolo (ANNABus SENECAPAULOET THEOPHILOSALUTEM).Fabricius, a torto, pensa che la presente lettera, indirizzata a Seneca e a Lucilio, non abbia niente a che vedere con la precedente scritta dal solo Seneca, ma che l'apostolo risponda qui a una questione che Seneca e Lucilio gli avrebbero sottoposto in una lettera che non si è conservata, sulla condotta da tenere verso i magistrati: [de honorehabendo]magistratibus.De his enim ponitur a Sene,a et Ludlio ,onsultusPaulus (FABR1c1us,II, p. 896, notar). Ma questa ipotesi non mi pare necessaria, anzi direi che è senz'altro da rifiutare, poiché questa epistola contiene velati ma innegabili riferimenti alla lettera precedente di Seneca: Honor omnibus habendusest, tanto magis quanto indignandioççasionem,aptant allude inequivocabilmente alla indigna/iodominaedi cui parla Seneca nella epistola V. [p. 69, r. 2-3] - DE HIS QUABMIHI SCRIPSISTIS NON LICET HARUNDINE

ET ATRAMENTO ELOQUI:per quanto riguarda la lezione di ocX F,

quae,che è senz'altro da considerarsi esatta, si noti che la variante quibllS(M T P; quibus11elquaeO K; quibusqueL U) è un errore di assimilazione al precedente his.· Per altri casi di quae erroneamente diventato per assimilazione quibus,a causa di un vicino his, si veda ad es. il quibus di V D Z UN J À in luogo di quae nella I epistola: quae his institui (sopra, p. 90). Paolo si richiama qui all'epistola precedente, in cui Seneca, dopo aver accennato alla collera dell'imperatrice per la conversione dell'apostolo dal giudaismo al Cristianesimo, lo esortava ad uscire dal suo iso-

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lamento e dal suo nascondiglio e parlare francamente a Poppca. giustificando apertamente le sue azioni, dimostrandole di aver agito in piena coscienza e non sconsideratamente. Ma Paolo non ritiene opportuno seguire il consiglio di Seneca, poiché teme di irritare ancora di più l'imperatrice cd i suoi nemici e non vuole neppure trattare questo argomento per iscritto: non/it,t harlllllD,u 11alrammto 1kJtpd.Il nostro autore sembra riecheggiare qui m /oh. 13: MIiita habtdlibi smhlr,, mi no/tdp,r atra111mlll111 11 ,altz11111111 smb,r1 libi; cfr. anche II /oh. 12: P/ura habms uobissmb1r1 no/tdp,r ,hartam ,1 atra111mlll111. Il -r6,roçdella penna, dell'inchiostro e della carta, presente già nel latino classico (cfr. ad es. Cic. Epist. ad Q. Jr. 2, 14, 1: Caltzmo11atrammto l1111p,rato, tharla ,,,;,,, dmtala r,s agetur),per influsso del testo biblico, si conserva presso gli scrittori della tarda latinità; cfr. Origm. In Matth. to111111. s,r. 16 PG. 13, 1622 D: Ha,, prolixi111,t 1111111iftsli111 trader, p,r atrammllllllet taltzinoltre Rufin. Orig.InExod. 1111111111 ,hartam llist1111 mihi est nonessetau/11111; 4, 2 PG. 12, 318 C: non iudkans dign11111 pro intapadtat, audilort1111 thartis Il nostro autore ,1 atra111mlo htd111te111odi abso/11tion11111 setrela to111mill,r1. che riecheggia m /oh. 13 (in cui c'è lo stesso binomio penna-inchiostro), usa harlllldoladdove il testo biblico ha ,a/a111111. Si noti che nelle versioni latine della Bibbia (compresa l' ltaltz, che è poi quella di cui mostra di valersi il nostro autore) harlllldonon si trova mai nell'accezione di« penna ». Perciò si possono fare due ipotesi: o il falsario cita a memoria il passo biblico e, usando harlllldoinvece di ta/a111111, introduce inconsapevolmente delle varianti, oppure, come mi sembra più probabile, varia consapevolmente il testo con l'intento di abbellirlo e sostituisce a ,altz111111 il vocabolo hartllldo.Hartllldocol significato di « penna » è usato in poesia e nella prosa aulica; cfr. Mart. 1, 3, 10: "'"' note/ IIISIIS trislis harlllldolllos; ibid. 9, 13, (12), 13: nomm Atida/ia 111,rtdttJIIOd hanmdine pingi; Pers. 1, 3, 11: inq1111111111111 ,baria, nodosa(JIII 11mitharlllldo;infine Auson. Epist. 15 (7), 49 sgg.: Net iam ftssip,disp,r talami 11ias/ grasselur Cnidia, sllk111harlllllDnis / pingms arid,da, Sllbditapagina, / Cadmi ft/io/is alrit0kJrib111. [p. 69, r. 3-4] -

QUARUM ALTERA

RES NOTAT

BT DESIGNAT

ALI-

il nostro autore sembra voler dire che la penna (altera res) traccia sulla carta dei segni (notai et tksignat a/itpdtl) che l'inchiostro (a/t,ra) rende evidenti (111idmt,rostmdit). Con questa immagine si sottolinea il carattere compromettente che potrebbe avere una dichiarazione di Paolo. Questa è l'interpretazione che viene data generalmente del nostro passo (si veda ad esempio, VouAux, op. di., p. 355: « Sur ce que vous m'écrivez, je ne puis parler avec le roseau et l'encre, dont le premier, marque et trace Ics pensécs que la seconde rend évidentes »). Ma la frase si presta anche ad una diversa interpretazione: non è escluso che a/t,ra r,s sia un'allusione alla indignanodo111ifllll QUID, ALTERA EVIDE'.Nl'ER OSTENDIT:

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della lettera precedente: Q1111e te r,s r,1110111111 fad1111t? Si indigna/iodo111i111U,

(JIIOd a rilll et seçta 111/eri retesseris,t alior111111 "'1111tf'leris, erit posttdamliloId rationef açlll111, non l,,,itate ho, 1xisti1111t. L'altera res potrebbe essere che l'apostolo, nell'intenzione del falsario, non la indignatiodo111i111U, oserebbe nominare esplicitamente preferendo fare qui una velata allusione comprensibile solo a Seneca e a pochi intimi, che conoscono il contenuto della lettera precedente: predp111,11111 sda111inter IIOS esse,ho, inte/legant.L'inizio di questa epistola si riut aptid vos et in vobis,qlli 1111 chiama proprio agli argomenti affrontati da Seneca nella V lettera; si 111ihismpsistis potrebbe interpretare cosl tutto il passo: De bis qt1111 (cioè sulla collera della dominae sulla opportunità di una giustificazione) non /içet hartllldineet atra111ento eloqlli,tpar11111 altera res [se. indigna/iodomina,] notai et designaialiqllid(pone l'accento su di una mancanza), altera [se. posllllatio Pam1] lllidmter ostendil (la rende pubblicamente nota). Peraltro il secondo degli argomenti (la posttdatio Pmd1) si ricava con una certa difficoltà dal testo della V epistola: erit posttdamli lo,111,111 ralion,Jaç1t1111, non"'1itat, ho, existimet. Inoltre notareet designare(la i1111,111ra è già in Cicerone, che la usa però in senso traslato : Cali/. 1, 2: notai 111111111 IJlll1IIIJIII nosh"11111; Id. De ora/. 2, 236: et designaiOflllis ad ,aede111 Hae, eni111 ridmlllr, 111/sola 11e/111axi111e fJII"' notant et designantt11rpitllliine111 alitpta111 non t11rpiler)nel loro significato proprio, che è quello di « segnare », « tracciare segni », richiamano piuttosto harlllldoe ah'a111enlll111 della frase precedente (cfr. il luogo citato di Mart. 1, 3, 10: 116111 note/ /mm tristis harundol111Js; Colum. 8, 11, 12: 1111apars OIIONIIII nolandaest Perciò, delle due interpretazioni possibili, è forse più pruatra111ento). dente seguire quella che considera harundosoggetto di notai et designai e ah'a111enlll1JI di IIIÌdenterostendit,interpretazione che ha il vantaggio di offrire una più precisa corrispondenza tra altera res [...] altera e i due termini harlllldoe ah'a111ent11111. Si noti l'analogo costrutto di Seneca in Epist. 84, 1 : Net smbere tanlllm net tanlllm legeredeb,111111: altera res ,ontristabit IIÌreset exhallfiet, de stilo dito, altera so/11el aç di/1111. Quanto alla iunctura lllidenterostendere,essa ricorre con particolare frequenza in Oaudiano Mamerto; cfr. ad es. Anim. 1, 9 CSEL. 11, p. 48, 17: lllidmter ostendit;ibid.1, 12, p. 54, 1; 1, 12, p. 54, 9; 1, 12, p. 55, 7; 2, 6, p. 119, 2-3; etc. tt11,

[p. 69, r. 4-5] -

PRAECIPUE

CUM SCIAM INTER VOS ESSE, HOC EST

vos ET IN VOBIS, QUI ME INTELLEGANT: secondo il falsario, Paolo giudica dunque sconveniente mettere per iscritto ciò che riguarda la collera dell'imperatrice e le cause che l'hanno provocata, tanto più perché sa che tra quelli che sono vicini a Seneca c'è chi può capirlo ugualmente. Insomma Paolo non vuole compromettersi con dichiarazioni scritte quando sa che può fame a meno. Tra tutti quelli che stanno vicino a Seneca (inter 110s),il falsario prolissamente distingue il nucleo degli APUD

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amici più stretti (in t10bis)dalla cerchia presumibilmente più ampia di amicizie meno intime (apud vos). La ripetizione del pronome personale preceduto da preposizioni di volta in volta diverse (inter vos [...] apud vos [...] in vobis) non deve sembrare forzata: essa rientra nello stile del nostro autore. Ne abbiamo un altro esempio nella prima epistola: Q111Jd sen.rusnonp11toex le dictos, sedper te, certealiq11a11do ex te et per te. [p. 69, r. 5-6] - HONOR OMNIBUSHABENDUSEST, TANTO MAGIS QUANTOINDIGNANDIOCCASIONEM CAPTANT:lo Haase legge et tanto (con F), seguendo uno dei due codici (L e F) a sua disposizione. Ma il Barlow, dopo una più vasta esplorazione della tradizione manoscritta, tralascia giustamente et che non è necessario e che si trova solo in questo manoscritto (F) contro tutti gli altri. Indignandioççasiorichiama immediatamente indigna/iodominaedell'epistola precedente (Si indigna/iodominae, q111Jd a rit11et se#a veteri recesseriset aliors11mconverteris,etc.): è dunque un'allusione alla corte, ma in particolare all'imperatrice Poppea. [p. 69, r. 6-7] - SI PATIENTIAM DEMUS:la iunctura patientiam dare non è testimoniata altrove. Nel dare c'è l'idea di una concessione, perciò qui patientia sarà da intendersi « spirito conciliante», come in Cic.

Lig. 26: Quae f11it igitur 11mquamin 111/0 homine tanta constantia?Constantiam dico;nescioan meli111 patientiampossimdicere?Cioè il falsario immagina che l'apostolo esorti Seneca ad evitare ogni scontro diretto con coloro che, a corte, avversano la nuova fede, ma a mostrarsi con loro più conciliante. Solo cosi gli avversari potranno essere completamente vinti: se noi saremo concilianti riporteremo su di loro la vittoria più completa (quib11ssi patientiam dem111,omni modo eos et quaqueparte vincem111 ). Infatti urtare i potenti non può portare a nulla di positivo, com'è ribadito nell'epistola VIII, a proposito dell'imperatrice: Cavendumest enim ne, dum me diligis, offens11m dominaef acias, cui111quidem offensaneque oberit, si perseveraverit,nequesi non sii, proderit. Probabilmente l'anonimo vuole riecheggiare il testo paolino che contiene numerose esortazioni alla patientia (nella Vulgatapatientiatraduce ora Ò1tO(J,OV1Jora µ.ixxpo&u!J,l«). Si noti che la patientia, la forza di sopportazione della tradizione stoica, ha assunto con l'annuncio di Cristo una nuova sfumatura umana: non è solo resistenza a ciò che è avverso, come per gli stoici (cfr. ad es. Seneca Dia/. 1, 4, 13: patientiaanim111 pervenitad contemnendam malor11m potentiam),ma è anche amare il proprio nemico e porgere l'altra guancia. Nell'epistolario paolino ci sono molte esortazioni alla patientia, intesa come uno dei cardini dell'etica cristiana: cfr. ad es. Rom. 2, 4; 5, 3-4; 8, 25; 9, 22; 15, 4; Eph. 4, 2; I Tim. 6, 11; II Tim. 3, 10; 4, 2; II Cor. 6, 4; etc. Il Dio di Paolo è dio di pazienza e consolazione: patientiaeet solarii (Rom. 15, 5). L'autore della nostra corrispondenza dunque ha presenti queste numerose esortazioni di Paolo alla patientia, ma quando -

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usa questa parola non riesce a caricarla del suo significato evangelico; nel nostro testo infatti essa risulta banaliz%ata: l'esortazione a dar, pati1ntia111è nella nostra corrispondenza un semplice invito a evitare uno scontro. Il nostro autore cioè, allo scopo di far risaltare la cristiana mansuetudine dell'apostolo, finisce per farcelo apparire troppo blando e remissivo. Infatti il precetto cristiano dell'amore (caritas) verso i propri nemici appare banalizzato e si trasforma nel nostro testo in una sorta di deferente ossequio ai potenti (honor[...] habendus111);in tutto l'epistolario Paolo appare fin troppo timoroso di compromettersi e di attirarsi le ire di Nerone e di Poppea, come si vede nell'epistola VITI, in cui Paolo esorta Seneca a non urtare l'imperatrice e gli rimprovera di aver letto i suoi scritti all'imperatore: Puto enim /1 graviterfedss,, tJIIOd ,i in notitiam p,rferre voluisti tJIIOdritui 1/ disciplina, eius sii contrari11111. [p. 69, r. 7] - EOS ET QUAQUA PARTE VINCEMUS: la vittoria che Paolo spera di riportare sui propri nemici non è un successo personale, ma il trionfo del Vangelo. Si noti che nella V11lgatail vocabolo vincer, ha prevalentemente per oggetto il male, la tentazione, Satana, non delle persone; cfr. ad es. I [oh. 2, 13: Scribo vobis,adul11cent1s, tJ110nia111 vkistis malignum;cfr. anche Rom. 12, 21: Noli vind a malo, sed vincein bonoma-

lum. [p. 69, r. 7-8] - SI MODO HI SUNT QUI PAENITENTIAM SUI GERANT: la frase ha il valore di una riserva. Infatti Paolo afferma che gli avversari parte vincemus)con la patientia, ma aggiunge: saranno vinti (eoset q11aqua « purché essi siano di quelli che si pentono». Con ciò il falsario lascia intendere che Paolo non è sicuro della vittoria ed è consapevole di quanto sia arduo il compito di evangelizzare i nemici pagani e giudei e far loro abbracciare la fede cristiana. Aubertin (Étude critique... cit., p. 429) interpreta paenitentiam sui gerere « mostrare il proprio pentimento », « darne delle prove esteriori » (più un comportamento che un sentimento), sull'esempio di gerereodi11m,gererefoi,m (Livio), gerere desideria(Quintiliano). Invece paenitentiamgererecorrisponde al più comune paenitentiamageree significa semplicemente « pentirsi ». La iunctura paenitentiam agere (con senso meno concreto, meno esteriore) è attestata già negli scrittori pagani (cfr. Quint. lnst. 9, 3, 12; Petron. 132, 12; Tacit. Dia/. 15; Curt. 8, 6, 23; Plin. Epist. 7, 10, 3) e diventa ancor più frequente nei cristiani (in Tertulliano, Agostino, Girolamo, etc.). Si trova anche nella Vulgata, cfr. ad es. II Cor. 12, 21: ne iterum c11mvenero, h11111iliet me Deus apud vos, et lugeammultos ex iis, qui ante peccaver1111t et non eger1111t paenitentiams11peri111111unditia et fornkatione et impudiritia, quam (si noti l'opposizione agere /gerere); cfr. anche A#. 17, 30; gesser1111t 26, 20. Nella Vulgata si trova paenitentiamagere, ma non paenitentiam gerere,come nel nostro testo. Si noti tuttavia che accanto ad agerevitam -

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(I Ti111.2, 2), è attestata l'espressione g,rerellila111 (Tob. 4, 23). L'espressione pamilmlia111 gerere,usata dal nostro autore, è molto più rara del corrispondente pamilmlia111ag,re: è documentata esclusivamente in autori cristiani: cfr. ad es. Tert. Adv. Mar,. 2, 24, 6 CCL. 1, p. 502: ndpandm est, qtd iustiliae11ti(JI# nonpamilmdaepaenilmtia111 gessi/: Cypr. Episl. 55, 22: Nisi pamilmlia111 gesserilab operibussllis. Negli autori crigerere stiani è attestata anche un'altra espressione analoga: pamillldi111111 (dr. ad es. Filastr. Di111rs. haeres.107, 12 CSEL. 38,p. 68;Cassian. Coni. 20, 5, 1 CSEL. 13, p. 558). Si noti come il significato tradizionale classico di pamitmtia sia diverso da quello cristiano: in senso classico è soltanto il riconoscimento di un errore, mentre nel suo significato cristiano più profondo, la pamitmtia implica un completo rinnovamento spirituale (è un calco del greco !J,ffcfvor.«),è quasi un tecnicismo religioso per indicare l'inizio della convcrsione (cfr. Hebr. 6, 6: rmot1ariad pamilmtia111); la nozione di pamilenliaè spesso accompagnata da quella di çom,ersio; cfr. ad es. A,I. 26, 29: 111 pamilmlia111 agermlel çom,erlermlllr ad De11111, dove l'espressione pamitmtia111 agereè subito seguita da f01lr,ertiad De11111, che ne completa il significato. Cosi anche in Tert. Ad,,. Mar,. 2, 24, 7 CCL. 1, p. 503; el (lsra.be/]IIOII çom,erlelllr ne(JI#paenilmlia111 agel(cfr. BLAISE 8, pp. 208; 594). Nel nostro testo il vocabolo pamilmtia è usato nel suo significato cristiano pregnante; anche qui il concetto di pentimento implica quello della conversione: Paolo vorrebbe che i suoi avversari giudei e cristiani si ravvedessero e si convertissero al Cristianesimo.

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EPISTOLA VIl

Seneca loda l'alto contenuto delle lettere paoline, ma critica il loro stile privo, secondo il falsario, cli eleganza formale. L'apostolo è presentato come un uomo senza cultura, che non ha frequentato un corso regolare cli studi (""" legiti1111 i111btlhu), in funzione del motivo che Dio si rivela ai semplici.

[p. 70, r. 1] - ANNAEUS SENECA PAULO ET THEOPHILO SALUnel prescritto è associato a Paolo un certo Teofilo. Ora, dalle fonti canoniche risulta che nessun collaboratore e amico dell'apostolo portava questo nome. Cosi si chiama invece l'amico di Luca, a cui sono dedicati il m Vangeloe gli Atti (cfr. J...uç, 1, 3-4: tlist1111 est et 111ihi, asse-

TEM:

ttllo o11111Ìa a printipio diligmler, ex ordinelibi smbere, opti1111 Tbeophik, «Jgnos,aseor11111 11erbort1111, deqllibNSerudihlses, verita/1111; A,t. 1, 1: Pri11111111 (J1IÌl#IIIser111onem ft&i de0111nib11S, o Theophile,(JIIIU toepit leSIISJaç,re et d«ere). Il Barlow (op. &il.,p. 86) suppone che il falsario confonda qui Teofilo, amico di Luca, con Timoteo il discepolo prediletto di Paolo, più volte citato negli Atti (16, 1 ; 17, 14; 18, 5 ; 19, 22; etc.) e nelle Epistok con l'appellativo di adiulore fraler (Ro111. 16, 21; Phil, 2, 19-22; I Thess. 3, 2; Hebr. 13, 23). Spesso troviamo il nome di Timoteo accanto a quello di Paolo proprio nel prescritto, come ad es. in Phil,111. 1, 1: Palllm tlin&IIIS Christi lesu et Ti111oth111S frater Phil1111oni diletto(cfr. inoltre Il Cor. 1, 1; Phil. 1, 1; Col. 1, 1; I Thess.1, 1; Il Thess.1, 1). In effetti è possibile che i due nomi abbastanza simili siano stati confusi. Ma forse l'errore non è neanche del nostro autore, ma va fatto risalire alla fonte a cui egli attingeva: l'anonimo conosceva probabilmente dei testi apocrifi in cui Teofilo appariva come un amico di Paolo. Si veda ad es. la comspondenza apocrifa dei Corinzi (1, 1), dove nel prescritto, tra gli amici di Paolo è menzionato anche un Teofilo: StephanNS et (jllÌ m111 eo SIIIII maioresnatii: DaphnNSet E11bol11S et TheophilNSet Z1110n,Pallio, in dominosa/1111111 (cito da VouAux, op. &it.,p. 248). lii

[p. 70, r. 2-3] -

PROPITBOR BBNE ME ACCEPTUM LBCTIONE LITI'ERARUM TUARUM QUAS GALATIS CoRINTHnsAcHAEis MISISTI: « confesso

di essermi dilettato leggendo le lettere che hai mandato ai Galati, ai Corinzi e agli Achei ». Il medesimo uso riflessivo di aç&ipere si trova litteris anche in un altro passo della nostra corrispondenza: Sed IJIIOd -

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111,istJOsbenea&ceptos a/içubismbis (Epist. II); per questa insolita costruzione, cfr. sopra, p. 97. Il falsario menziona qui alcune lettere del çorpus paolino e cita tra queste una « epistola agli Achei ». A questo proposito Lefebvre d'Etaples afferma: QIIOd didt Corinthis Achaeis, A,haeis epithe/11111 est; iidem enim s1111/ Corinthii et Achaei, (JIIÌ isth11111111 proximi s1111t. Il Fleury, rifa0&&11pantes, Helladi q11aeGraeda nominat11r, cendosi a questa interpretazione, intende: « aux Galates et aux Corinthiens d' Achaie ». Seguendo Lefebvre, sostiene che: « Cc sont ainsi deux denominations pour une, celle de la ville et celle de la province » (op. dt., Il, p. 311 sg.). Ma ciò è inesatto, poiché in età greca classica Corinto non è in Acaia e in età romana l' Acaia è tutta la Grecia ridotta a provincia, dopo la distruzione di Corinto. Il Kreyher (op. ,it., p. 183) pensa alle lettere ai Tessalonicesi, in cui questi sono chiamati « i modelli di tutti i credenti in Macedonia e in Acaia » dove essi hanno divulgato la parola del Signore (I Thess. 1, 7-8): ita 11/fatti sitis forma omnibuscredentibusin Maçedoniaet in A,haia. A mio avviso, l'interpretazione più attendibile rimane ancora quella di Fabricius (II, p. 896, nota s), per cui il falsario vorrebbe alludere alla II ai Corinzi, che è indirizzata alla Athaia Chiesa di Dio che è a Corinto ed a tutti i fedeli qui SIIIIIin 1111iversa (li Cor. 1, 1): Pa11/usaposto/11s /es11Christi per voluntatemDei et Timoomnibussan&tis,qui s1111t in theusfrater ec&lesiae Dei, (Jlllll est Corinthi, ,11111 1111iversa Athaia. Gratia tJObiset pax a Deo Patr, nostro et Domino /em Christo. [p. 70, r. 3-4] -

ET ITA INVICEM VIVAMUS, UT ETIAM CUM HONORE

DIVINO EAS EXHIBES:

è questo uno dei passi più controversi di tutta la

corrispondenza. Alle difficoltà nella ricostruzione del testo (la tradizione presenta almeno dodici varianti solo per exhibesl) si aggiungono problemi di interpretazione. Le soluzioni proposte dai vari studiosi sono le più disparate e nessuna è del tutto soddisfacente. Mi limito qui a citare gli interventi più recenti e più significativi, come ad esempio quello t!Ìvamus,11Ietiam del Barlow, che ricostruisce cosi il testo: et ila int!Ì&em '11111 ho"ore divino eas exhibes, e interpreta: « and may our relations be like that religious awe which you manifest in these letters (?)»(op. di., p. 142). Il Franceschini propone invece: Et ila inllÌ&em t!Ìvamus.Ut etiam &11111 ho"ore divino eas (se. lilleras) exhibeasl (ari. dt., p. 165). Ma questa soluzione non mi pare accettabile, poiché elimina il legame che evidentemente esiste tra le due proposizioni. Ora, è opportuno seguire D); quanto però il Barlow che accetta vivamuscontro vivimus(G H 0111. alla variante ~ore, accettata, prima che dal Barlow e dal Franceschini, anche dal Kraus e dal Westerburg, mi pare sia senz'altro preferibile honore,lezione attestata in V 1 v ; e in P, che rappresenta un ramo indipendente della tradizione. Tanto più che l'~or divinusnon è un concetto cristiano, ma un'espressione tipicamente pagana che appartiene -

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al linguaggio profetico. L' ho"or divinus richiama alla mente la divina 1JOl11ptas aflJll4lxm-ordi Lucrezio (3, 28-29: IJlllledam divinavol11ptas perdpit aflJll4ho"or) o il sa&erho"or di Stazio (Theb. 10, 160: Eççe repenss11peris ani11111m /11111phantibus ho"or / Thiodamantasllbit), non certo il timor Dei cli S. Paolo I Exhibes poi sembra la più probabile ricostruzione del testo (cfr. BARLOW,op. dt., p. 46); infatti le numerose varianti dei codici di f3possono essere fatte risalire ad un originario exibes(per exhibes).DCZµ. danno exigeremmentre exirem è in 8. P, che rappresenta una tradizione separata, ha exiui, ma il Barlow osserva (lo,. dt.) che P ha molti altri casi di II per b e che quindi anche in questo caso si può pensare ad un originario exhibes.Il cod. À ha exirent (cfr. exirem di 8), che però non da senso. Le lezioni susupimus (H), sus,eperimus (G), exuperim (Q), che sono tanto lontane da exhibescome si suppone fosse nel testo originale, sono tutti tentativi di sanamento. Si tratta a mio avviso di correzioni dovute all'influsso di Rom. 15, 7: Propter quod susdpite invkem, sk11t et Christus S11Sçepit vos in honoremDei. Stabilito dunque che la lezione più probabile è exhibes, si può intendere cosi tutto il passo: « e possiamo noi vivere insieme (gli uni con gli altri), cioè possano essere i nostri rapporti, cosi come tu scrivi quelle lettere onorando Dio », cioè Seneca auspica di poter vivere uniti nell'onorare Dio come lo onorano le epistole paoline. Si noti che qui invium significa « insieme », come anche in un altro passo della nostra corrispondenza (Epist. III): 111ho, opus invi,eminspidamus. Non è questa una peculiarità del nostro autore, poiché invium, in cui predomina nel latino classico l'idea della reciprocità, accentua nella tarda latinità l'idea della contemporaneità e della compartecipazione ad una medesima azione e finisce dunque per significare «insieme» (cfr. Thes. VII, 2, 178, 53 sgg.), come ad es. in Vict. Vit. 3, 28 CSEL. 7, p. 86: iuravimus,11/pro eo [Christo]invkem patiamur (cfr. sopra: 11/una poenaparique s11pplidotorquerentur);Sulp. Sev. Dia/. 1, 1 PL. 20, 185 A: invkem jlentes gaudio; numerosi altri esempi in A,t. Petr. 2 (Lipsius, A,ta Apost. apoçr.,p. 47, 16): oramuste invkemperfili11111 t1111m lesum Christ11m;3 (p. 48, 15): invkem ,11mPa11/o;18 (p. 65, 26): Fratres ,arissimi a, dilutissimi, ieiunemusinvkem pruantes domin11m.

[p. 70, r. 4-5] - SPIRITUS[...] EXPRIMIT:il nostro autore mette ben in rilievo che gli elevati concetti espressi da Paolo non sono scaturiti dal suo intimo, ma gli sono stati ispirati, e che perciò l'apostolo è solo uno strumento divino: si ribadisce qui lo stesso concetto espresso nella I epistola: Quos sensusnonp11toex te diçtos,sedper te ... (cfr. sopra, p. 88). Il motivo dello Spirito che illumina il linguaggio degli uomini si trova molto spesso nella Bibbia, specialmente nel Nuovo Testamento; cfr. II P,tr. 1, 21: Spirit11san,to inspirati lo,11tisunt sançti Dei homines;cfr. inoltre Ae'I. 1, 16; 4, 25; 28,25. Per quanto concerne in particolare poi l'ispirazione degli apostoli, si veda ad es. Ll/ç. 12, 12: Spiritus enimsançtus

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dot1bitt101in ipsa bora tpdd oport1att101dit1r1; Matth. 10, 20: Not1 ,,,;,. t10111#1IJllilolJlli111ini, 11dSpirillll Patris 1111tri, IJllilolJllihlrin t10bis;cfr. inoltre /oh. 14, 26; 16, 13; Lw. 21, 15. Negli Atti S. Paolo è detto r1pk1111Spirihl Jflllflo(Att. 13, 9). Lo stesso concetto anche in A,t. 9, 17: Stllli, frat,r, Domin111misit 1111 /11111 IJlliapparllit libi in via, (Jllll "'11kbas, 111vid,u 11 i111pkari1 Spirihl Slllltlo. [p. 70, r. 4] - SPIRITUS[...] SANCTUS:l'espressione appartiene al linguaggio ecclesiastico. Seneca, in un'epistola, usa un'espressione 1st, inllll 1st. lta dit0, analoga (sat,r spirit111):Prop, 1st a 11 d,111,t1t11111 Llldli, sat,r infra nos 1pirit111 sed,t, 111alorti111 bonor11111tp11 no1tror11111 ob11111ator 11,111101 (Epist. 41, 1-2). Alcuni hanno creduto di vedere in questo passo di Seneca una connotazione personale della nozione di Dio e dei suoi rapporti con l'uomo, e quindi una concezione della divinità vicina a quella cristiana (si veda, tra gli altri, A. FLEURY,op. tit., I, p. 93). Ma come sostiene il Scvcnster (op. tit., pp. 89-102; cfr. anche P. BENOIT, op. tit., p. 23), tutte le volte che Seneca sembra riferirsi a Dio come ad un Dio personale, ad un più approfondito esame, si vede che Seneca non si allontana affatto dalla concezione stoica deistica e immanentistica, ma usa semplicemente un linguaggio diverso, meno intellettualistico, meno tecnico per esporre la sua dottrina filosofica. Basta infatti considerare l'espressione sat,r spirillll nel suo contesto per vedere che l'analogia con il concetto cristiano è solo apparente. Si consideri ciò ad che precede immediatamente il passo citato di Scocca: Non 111111 tae/11111 ekvandae111an111 net exorandm aedit11111 111nos ad IZlll"IIII simtdam, (JlllllÌ 111agi1 exlllldiripossi111111, admittat (Epist. 41, 1). Seneca afferma che l'uomo non ha bisogno di elevare preghiere al cielo e non ha bisogno neppure di sacerdoti che facciano da intermediari per comunicare con la divinità. Infatti nella concezione stoica il Divino non trascende l'uomo e il mondo. Lo Spirit111(nveù(.LOt), il principio vivificatore dell'universo, è immanente ad esso. Il sat,r spiri/111 di cui parla Seneca è quella parte dello Pneuma universale che è immanente nell'uomo (Epist. 120, 14: 1111ns d,i, ex qtlO pars in hot p,,1111111orta/1 dljl11Xit).Seneca rimane quindi del tutto coerente con la concezione stoica cd è ovviamente estraneo al teismo cristiano per cui il divino trascende il mondo terreno e lo Spirito appartiene alla sfera divina e discende sugli uomini solo in virtù della Grazia, cioè per intervento « personale » di Dio (Per un confronto tra il concetto di Spirito (nveuµ.ot)presso gli Stoici e presso i Cristiani, cfr. M. PoHLENZ,Di, Stoa ... cit., I, pp. 409 sgg.). [p. 70, r. 5] - ET SUPEREXCELSOS: altri legge: et s,p,r Il IXtlUIIS (cosi Haasc,Westerburg e Vouaux), ma ad 1xt1/s111, che è attestato solo 1 in W , è senz'altro da preferire extelsosche si trova nella maggior parte dei codici, mentre t, è probabilmente un'interpolazione posteriore. -

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Quanto a 1/ mp,r,il cod. >., ei;aminat:o dal Fraoceschini, ha 1/ mpra come W O U H J K (cfr. la lezione supradi C O N v 3 praetcr W). Ma ad 1/ mprasembra preferibile la lezione ,t mp,r,che oltre ad essere attestata da alcuni mss. della famiglia di ~ si trova anche io P, che rappresenta una tradizione separata (cfr. BARLOW,op. dt., p. 46). S,p,r ha qui valore di preminenza, come io Scn. Dia/. 9, 17, 11: Non pot,sl 111111s; ma si veda per quest'uso grand,aliq,dd1/ mp,rç,/erosloqtdnisi 1110/a di mp,ranche Vcrg. Am. 8, 303 sgg.; Svet. Vit. 13; Quint. lnst. 11, b,atus. Nel nostro testo 1/ 3, 169; Plin. Epist. 1, 13, 2: hl mp,r0111111s mp,r1x&1/sos significa. « e al di sopra di tutti i più alti ingegni umani »: cioè Paolo, in virtù della sua ispirazione divina, supera tutti i sapienti della terra. Cosi interpreta anche il Barlow: « surpassiog the highest » (op. dt., p. 142). Diversamente intende l'Erbetta: « lo Spirito Santo io te e sopra gli spiriti celesti » (op. dt., p. 89), ma qui mi pare che 1xt1IS11S designi un'altezza, un'elevatezza esclusivamente umana (diversamente da Sllb/imis di sllblimior, che sta ad indicare l'altezza sovrumana dovuta all'ispirazione celeste); per ext1/smin questa accezione, cfr. ad es. Hicr. /11Is. 8, 24 CCL. 73, p. 317 (= PL. 24, 282 D): Dem mpn-bisr,sislit, ,t btlmi/ibmdal gratia111. Untk prima smtentiaest ,ontra ,os qtd ext1/sis1111/ terrae;inoltre Itala, LN. 16, 15 (Cypr. Epist. 68, 4): (jllOdext1/mm 1st i11

hominibtls,exen-atio1st i11,onsputu Dei. [p. 70, r. 5] - SUBLIMI ORE: è opportuno qui seguire il Westcr(Z ~). come la burg e il Barlow e leggere mb/imi or, anziché mb/i111iores come spiega il maggior parte degli editori precedenti. S11b/i111ior11, Barlow, è un errore che nasce da una dittografia (-s s-) dovuta alla sn-iphlra "'1llin1111 (op. di., p. 45): « ... the sllb/imior,sdi ~ is an exccptionally easy mistake (due to s of satis and to smpt11ra,ontin1111) ». S,J,/imi or, è la bocca di Paolo che è ispirata da Dio, come conferma effari(cfr. oltre, p. 136). L'apostolo è dunque so/,r1 deosor, inno,mti11111 strumento attraverso cui la Divinità si rivela, come è detto esplicinon p11toex te Jjçtos, sed per t,. tamente nella I epistola: QIIOssens11.1

[p. 70, r. 5] - SATIS VENERABILES SENSUSEXPRIMIT: satis - qui nel senso di va/d, - come rafforzativo di aggettivi (e avverbi) è attestato io tutto l'arco della latinità; cfr. ad. es. Plaut. Mosl. 821: satis boni; Cic. S,x. Ros,. A111.89: sai bon11111; Apul. Met. 4, 11: sai bealm, etc. (WOLPPLIN, Lai. 1111d ro111an. Co111paration, Erlangen 1879, p. 23). Nel latino tardo satis, con lo stesso significato che· ha nel nostro testo, ricorre con particolare frequenza nella Peregrina/ioAethmae; cfr. ad es., 2, 7: 11/lldsane satis ad111irabil, est, e inoltre 3, 3: satis grandis;1, 8: satis gratm; 21, 4: inge11s satis; 23, 2: p11khramsatis, etc. (E. LOFSTEDT, Phi/o/ogis,hlr Kommenlar z.11rPeregrina/ioAetheriae, Uppsala 19111, p. 73 sg.).

9

129-

[p. 70, r. 6-7] - VBIIBM ITAQUB CUM RBS UT MAIBSTATI BARUM CULTUS SBRMONIS NON DBSIT:

BXIMIAS

PROPBRAS,

si noti che qui non è rispettata la ,onseçutiote111porN111 (11el/e111 [••.] desii), ma questo è piuttosto comune nel latino tardo; cfr. ad es. sempre nel nostro testo: sii [•••] 11,J/es (Epist. VIII) e potllissel[••.] sii[ ...] Ji,erel[•••] vidlrmt (Epist. XI). proferas(perferasat praeter Z), adottata Quanto alla lezione mm resexi111ias dal Barlow e già accettata da alcuni dei precedenti editori (Fleury, Kraus ed altri), è senz'altro preferibile a tures et teiera adottata dallo Haase e dal Westcrburg (in una parte della tradizione ((3)in alternativa a eximiasproferasdi at, compare et teleras: ,11111 res et telerasX O L U, t11111 res esseiet telerasM T, t11res et telerasF). Il Barlow si sofferma anche sulla lezione di P: tures et teiera mittas, la cui interpretazione potrebbe essere: « fa' attenzione e metti da parte ogni altra preoccupazione » (op. tit., p. 47), ma ad essa preferisce giustamente '11111res eximiasprores. feras. Infatti tures è con ogni probabilità una corruzione di '11111 La lezione eximias proferasè poi del tutto coerente con il contenuto di questa VII epistola e con l'idea generale della IX e soprattutto della XIII, per cui Paolo, trattando argomenti cosi elevati, deve stare attento ad esprimersi in un adeguato latino ( I) : gli scritti di Paolo, in virtù dell'ispirazione divina, sono sl sublimi per contenuto (res), ma lasciano ser111onis). Lo stesso concetto si ritrova a desiderare per la forma ('1111111 nella XIII epistola: rer11111 tanta vis et 1111111eris libi trib11tanon orna111mto q111Jda111 detorandaest. Il '1111111 sermonisè frutto dell'ars, 11erbortl111, sed '111111 cioè della tecnica retorica, che Paolo, secondo il nostro autore, non conoscerebbe poiché non avrebbe ricevuto un'educazione regolare (non Il falsario ignora che Paolo era un uomo colto (cfr. legiti111e i111b111111). oltre, r111ti,td111), e in tutto l'epistolario tende a presentare Seneca come maestro di stile: immagina che egli lodi il contenuto delle lettere dell'apostolo, ma si permetta di fare qualche appunto sulla loro forma.

[p. 70, r. 6] - MAIBSTATI BARUM [se. RERUM]: la stessa i1111tl11Ta si trova nella I epistola: Tania mi111111aieslas ear11111 est rert1111 tanllllJI# generosi/ate ,/armi. Questi raffronti interni sono importanti perché mettono in luce l'unità di fondo del nostro epistolario, contro le macchinose ipotesi di coloro che pretendono di individuare nella corrispondenza gruppi di lettere di secoli diversi (cfr. introduz., p. 37 sgg.). Maiestasindica la dignità, la solennità che si addice allo stile oratorio grave o sublime; cfr. Cic. Lati. 96: Qlllllllail/i[ ...] fllit grallitas/Q111111ta in oratione111aiestasl Id. Orat. 20: Na111et grandiloqlli, 111ila dka111, f11er1111t t11111 ampia et smtmtiar11111 gravitateet 111aiestate 11trbor11111, 11ehe111mtes, varii, et çom,ertmdosani111os instrl#ti et parati. ,opiosi, graves, ad per111011mdos Nel nostro testo 111aiestas rer11111 significa « altezza di contenuto »: ora Paolo, nell'intenzione del falsario, dovrebbe adeguare a questa la 111aiestas nel senso ciceroniano. Ciò, in conformità alle prescrizioni degli 111rbor11111 -130-

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antichi retori, per cui lo stile sublime si fondava essenzialmente sull'elevatezza del contenuto, ma raggiungeva la perfezione solo quando questi pensieri gravi erano espressi in una forma adeguata, cioè forbita (cfr. ad es. mpl. cd elegante, quando cioè vi era anche il ,llitus s,r111onis Gljlou,;8, 1-2; a questo proposito, cfr. LAusBERG, passim). Si noti però acquista che, rispetto al significato retorico classico, il vocabolo 111ai1stas nel linguaggio cristiano una diversa pregnanza: si anima cioè di una nuova sfumatura religiosa e indica la profondità e l'altezza di contenuto delle Sacre Scritture, dovuta all'ispirazione divina. In questo senso è usato ad esempio anche da Girolamo e proprio in contesti in cui - come nel nostro epistolario - si contrappone la sublimità del contenuto alla inadeguatezza della forma; cfr. Hier. In fon. 3, 6 SC. 43, p. 101: Non posS1111t tJider1virt11t1ssi111plidtat1111(JIII smptura, santtae, non 1x 111ai1stat1 s111.t1111111, s1d 1x ,,,,-bor11111 iuditant vi/itali. Si confronti inoltre col nostro testo un altro passo di Girolamo, in cui si mette in rilievo proprio la inadeguatezza della forma delle epistole paoline di fronte all'altezza del smS1111111 111aiestate111 dignonon loro contenuto (Epist. 120, 11): divinoru111 Da questo e da altri giudizi del conpot,rat graed 1/oquii1xplitar1ser111on1. temporaneo Girolamo (cfr. oltre, p. 182) sulla forma stilistica delle epistole paoline, risulta che il nostro autore, per quanto concerne lo stile di S. Paolo, non esprime una sua opinione personale, ma riflette le critiche dei letterati del suo tempo (significativo a questo proposito anche il passo citato di Filastrio, cfr., oltre, p. 184) esasperandone però i termini fino a presentarci l'apostolo come un illetterato, che non ha seguito un corso regolare di studi (non /egitim1i111b11tus). In questa VII epistola i termini retorici ricorrono con particolare frequenza: l'elemento retorico si rivela come una delle componenti fondamentali della lingua del nostro epistolario. Se si eccettuano le lodi ed i convenevoli, gli argomenti su cui il nostro autore si sofferma più spesso e tratta più ampiamente sono questioni di stile. La preoccupazione stilistica è il Leitmotiv di tutta la corrispondenza. Chi legge per la prima volta queste quattordici lettere rimane colpito dal fatto che manca tutto ciò che ci si aspetterebbe di trovare in un epistolario di Seneca e S. Paolo: manca a queste lettere una reale problematica filosofi.cae religiosa e non c'è da parte dell'anonimo la volontà di porre intenzionalmente a confronto Stoicismo e Cristianesimo. I problemi a cui l'autore dimostra di essere più sensibile sono quelli riguardanti la forma e lo stile. Ciò avvalora l'ipotesi, a cui abbiamo già accennato (cfr. sopra, p. 101 sgg.), che l'anonimo, presentando Seneca come maestro di stile nei confronti di Paolo, confonda in una sola persona Seneca padre e Seneca figlio.

[p. 70, CIENTIAE

r. 7-8] - ET NE QUID TIBI, PRATER, SUBRIPIAM AUT CONSMEAE DEBEAM: « e per non nasconderti nulla, fratello, e per

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131 -

non essere in debito con la.mia coscienza». Il Scvcnst'Cr(op. dt., p. 84 sgg.) rileva come la.nozione di «coscienza» sia presente tanto in Paolo come in Seneca, ma mentre per Seneca la.coscienza è il giudice supremo, poiché è la voce stessa di Dio, ovvero la.voce dello spirito divino immanente nell'uomo, per S. Paolo invece il giudizio della coscienza (auve(SlJa~)non ha. come per Seneca, valore incondizionato: solo in particolari momenti di grazia, la. coscienza è testimone di verità. è cioè quando essa è illuminata dallo Spirito; cfr. Rom. 9, 1: Vmta/1111 in dito in Christo, non 111entior, lesti111oni11111 mihi perhibentetonsdentia1111a Spiri/li santlo. Nel nostro testo l'anonimo non si rifà né a Paolo, né a Seneca: il richiamo alla.coscienza è molto generico, non ha alcuna implicazione ideologica, si tratta di un'espressione comune del linguaggio epistolare. Il Liénard (art. dt., « RBPh », 11, 1932, p. 5 sgg.) confronta questo passo con Symm. Epist. 1. 25: Si respondisses epistolae1111a, lnasses

onere{Oflldm/ia111 llla111.

[p. 70, r. 9] - MOTUM: i codd. C D J H v ~ hanno per1110111111. Si tratta probabilmente di un'erronea anticipazione del per- di per/eçto della frase successiva. Si noti ad esempio che in C e ~ è attestato per1110lll111 in luogo di 1110/11111 e /etio invece di perfetto. [p. 70, r. 9] - CUI PBRLBCTO VIR.TUTIS IN TB BXOR.DIO: il codice P ha t'llis('11i111 PI) contro '1li degli altri manoscritti. Si potrebbe supporre: ttd111,perletlo 11irt11tis in 1, ,xordio,ista 11oxf11it: « le sue parole, esaminando bene come ebbe inizio in te la. tua ' virtù ', furono ... ». Ma probabilmente t'llis è un errore del copista che fraintende un'antica nota, oppure aggiunge per sbaglio una s a t'lli. Si noti poi che anche la. frase successiva inizia, forse non a caso, con t'lli: '1li ego respondietc. Il Barlow legge perfetto,contro letto (C ~ ~) dei precedenti editori, ritenendo questa lezione preferibile pe•ché attestata in a; e in P, che rappresenta un ramo separato della tradizione. Ora la.validità. della scelta del Barlow è confermata anche dall'importante cod. À, esaminato dal Franccschini, che ha per/etto. L'interpretazione di tutto il passo è piuttosto controversa. L'autore del volgarizzamento trecentesco del cod. Ricc. 1304, già citato in precedenza, ignora completamente tutto il passo. E non si tratta probabilmente di una svista involontaria: la.frase presenta delle difficoltà di interpretazione in cui l'anonimo preferisce non compromettersi e quindi, nella traduzione, elimina tutto il passo, dato che questo poteva essere fatto senza alterare il senso del contesto: « Io ti manifesto come lo Imperadore si commosse ad le tue parole; ciò è che egli avca grande admirwonc che .•. ». L'ipotesi del Barlow è che Seneca legga a Nerone una sua opera di argomento cristiano: « Whcn my trcatise [exordi11111l] on tbc virtuc that is in you was rcad to him, this was bis rcply, ... etc. » (op. dt., p. 143). Il Barlow interpreta -132-

exordi11111 come « trattato » (interprcta2ionc che comunque mi pare inaccettabile), rifacendosi probabilmente, anche se non lo cita, al TheS4IITIIS (voi. V, II, 1569, 72-73) dov'è riportato questo passo della VII traçtat11S. Il Barlow epistola, e interpretato: sdlieel Ps-Sm. dePmdi tJirl11le coerentemente con questa interpreta2ione, nell'epistola IX, legge epistolanu,,111ear11111, anziché epistolan,111 ltlar11111 (Stio le 111Jn la111ltd ftJIISa 1111ar11111 Caesariftd ço111111ollllll litteris fJ11aSad le de edilione1pistolarN111 fJIIIJIII••• etc.), pensando che si alluda alla medesima opera menzionata in questa VII epistola (op. di., pp. 37-38 e 71). Ma nella IX è senz'altro cd è opportuno pensare che Seneca legga da preferire la lezione 111111'11111 all'imperatore le lettere di Paolo (cfr. oltre, p. 150). Inoltre se qui income « trattato », ci troviamo difronte alla inacterpretiamo 1xordi11111 che starebbe per 1xordi11111 cettabile costruzione tJirllllisin 1, 1xordi11111, de Pmdi tJir1111,. Questo costrutto non si potrebbe neppure giustificare pensando che tJirllllissia un genitivo oggettivo, come in lalldatiotJirltdis (si noti che alcuni codd. omettono in le: ot N J µ.). Ma, in ogni caso, l'ipotesi del Barlow, secondo cui Seneca leggerebbe a Nerone una sua opera di argomento cristiano, non mi pare fondata. A mio avviso, qui è meglio riprendere in considerazione l'interprcta2ionc del Flcury (op. di., II, p. 314, nota 2), per cui le parole p,r/eçtotJirt111is in le exordio si riferiscono all'epistola ai Galati (che è menzionata dal falsario proprio all'inizio di questa VII lettera), in cui S. Paolo racconta la sua conversione (5, 12): « le pseudonymc a pu très-bicn appcllcr ccttc conversion l'cxordc dc sa vie virtueuse ». Per 1xordi11111 in questo senso, cfr. 1xorqtllZlrit, di11111 ftdei in Hier. Ho111.Orig. in Ez.eçh. 8 PL. 25, 751 C: 111111 q,d pri11111111 Eçç/esiamingredit11r, q,d ftdei e/1111mla S11Sdpit, q,d rllliisest in sa&ra111mtis, 111111, q,d in exordioftdei çonslillllllSest [...] etc.; cfr. exordi11111 pr,,dentituin Hil. Trin. 5, 6 PL. 10, 146 C: 11 Dei timor, q,d sapimtlll 0111n,exordi11111 prllllmtitu; cfr. infine inili11111 est, ubi deest, mifert seç11111 1xordi11111 luds in Firm. E". 2, 9 CSEL. 2, p. 78: (Jlllltrt potillSsp,111 sallllis, fJIIIU"'1xordi11111 lllds, fJIIIU"'tJIIOd le s111111110 Deo a11Iço111111mdel mli reddal. Quanto a tJirllllisperò, non interpreterei, come il Fleury: « vita virtuosa ». Infatti mi sembra che nel nostro testo il vocabolo sia usato non tanto nel senso di &pn-lJ,quanto piuttosto in quello di 8uvotµ.,ç,cioè nell'accezione di « potere », «facoltà», com'è attestato nella Bibbia; cfr. ad es. A,t. 1, 8: sed atdpi,tis tJirl11le111 s11p,rvmienlis SpirilllS san,li in tHJs,· in ho, aut IIIJS tJtddinlue111ini, A&I. 3, 12: Viri /srahelila,, q,dd 111ira111ini Nel testo biblico (Jll4Si111Jslra tJirlll/1a11tpotestat,feçeri11111S h1111, a111bular1? la parola tJirlmè sempre un calco di 8uvotµ.~.Il SEVENSTER (op. di., p. 146 sgg.) mette in rilievo che il vocabolo &pe:-rJi e la corrispondente nozione di virtù, è quasi assente nella Bibbia. Se si eccettuano le epistole di Pietro (I Petr. 2, 9; II Pelr. 1, 3 e II Pctr. 1, 5), la parola ricorre una sola volta nell'epistola ai Filippesi (4, 8); il Vecchio Testamento non ha equivalenti per la parola greca «ptnj, Infatti

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1.33 -

questa nozione è estranea al Giudaismo: è solo per influenza ellenistica e soprattutto stoica che essa viene introdotta nel Nuovo Testamento (cfr. anche M. PoHLENz,Die Stoa ... cit., I, p. 406). La quasi assenza della nozione di «ptrlj nella Bibbia non è cosl strana come può apparire a tutta prima, se si considera il fondamentale antropocentrismo della «ptrlj che focalizza l'attenzione sopra l'eccellenza ed i meriti umani anziché sulle azioni di Dio, su cui s'impernia essenzialmente la Bibbia. è nella sua accezione biblica e designa la straorNel nostro testo, 11ir1N.t dinaria facoltà dell'apostolo, ispirato dalla divinità, di concepire peni111b111N.t (mirari sieri tanto elevati (la/iter sentire)pur non essendo legiti111e i111b11t11S sii la/iter sentiat);cfr. Sulp. Sev. Chron. e11111 posselii qtdnonlegiti111e 2, 28 PL. 20, 145 B: ad q11e111 [se. Pa11/11111] 111111 amiiendll111 pl11resçom,eApostolor11111, (JlltlS 111111 çrebro niebant; qtd, 11eritaleinie/Iuta, 11irllltib11S(Jlle ad N1/t11m Dei sese ,onferebanl.Perleger1significa qui edideranl,per111oti, « leggere per esteso », in modo da mettere al corrente chi ascolta, implica cioè l'attenzione di Nerone. Una situazione analoga a quella descritta nel nostro testo (&IIÌperluto IIÌrllltisin le exordio,ista 11oxfllit) si trova anche nella Passiosanttor11111 apostolor11111 Petri et Pallli. Qui Nerone ordina che gli sia letta la relazione inviata da Ponzio Pilato a Claudio sulla morte e sulla resurrezione di Cristo e, dopo aver ascoltato la lettura del testo, esprime la sua meraviglia per i fatti appresi (LIPsrus, Atta Apost. apoçr., p. 139, 4 sg.: C11111(Jlle perfettafllissel epistola,Nero dixit («vot"(Vc.>a&t:(v ~x&w. «µ.at-&-/)ç, a:t 't'Lt;civ67JTot;, ToOTouçyap ~(ouç dvcxL-rou aq,a:-répou-&a:ou 0tÒ't'6-&a:v OfLOÀoyouv-rcç, 31)>.o( ctaLv 6-rLfL6vouç-roùç i)>.L-&(ouç xcxl &ycwsi:çxctl civcxLa~-rouç,xctl civ8p«1to30t, xctl yov«Lat, xctl 7tatL8cxp L0t mt-&cw l-&t).ouat u xctl 3uv0tV't'at,.

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A queste critiche dei Pagani, i Cristiani rispondono polemicamente che spesso le sovrastrutture culturali sono un velo che ottenebra ed impe-

disce di penetrare la pura essenza dell'insegnamento cristiano. Si può citare qui un passo di Paolino da Nola, dove si afferma che la cultura spesso oscura piuttosto che illuminare le verità della fede (Car111. 10, 33 sgg.): V atarevanis,ofio a11t111gotio, / et fabulosis litteris / vela/,·sllis11/ par1a11111S kgibllS/ l11t,111tJ114 terna11111S ma111,/ (JlltJIII vis sophor11111 ,allidaarsF rhelONlmet / ftgmentava/11111 ntlbilant,/ qui ,ordaf alsis atq,,e vanisi111blltmt/ tanlll111q,,e lingt111S inrlrllllnt,/ nihil ftrent,s, 11/1a/11t1111 ,onferanl, / 11111 veritat, nor tegant;cfr. anche Amob. Nat. 1, 59. Notiamo infine che quasi tutti i mss. hanno egoad eccezione di K in cui la parola è omessa e di Z e P, che hanno ergo.Questa lezione, che pure è sostenibile, non è accettata dal Barlow. In effetti in questo caso la presenza di ergoin Z e in P, che rappresenta una tradizione separata, non prova che ergosia la lezione autentica: può trattarsi di un cuore in cui facilmente i due copisti possono essere incorsi indipendentemente l'uno dall'altro. [p. 70, r. 11] - DBOS OREINNOCBNTIUM EFPARI:,ffari è un vocabolo che appartiene alla sfera religiosa e indica un parlare solenne: è quindi usato assai appropriatamente per designare il linguaggio divino. Il motivo dell'ispirazione divina dei semplici, a cui si richiama qui il nostro autore, è molto frequente nella Bibbia; cfr. Matth. 11, 25: In il/o t1111por, r11pondens I1111S dixit: Confiteorlibi, Pater, Domine ,aeli et IIN"at, q,daab1'°ndi1ti hae,a 1api,ntib11S et prlllientibllS et r,ve/a.rti,a parvtdi1. L'espressione ore innotenti11111 sembra riecheggiare ex ore infanti11111 di Psa/111.8, 3: ex or, infanti11111 et lattanti11111 perf,drti lalllie111. Innotenrsignifica qui « semplice », « candido », e in questa accezione il vocabolo è proprio del latino tardo e in particolare del latino biblico, cfr. ad es. Rom. 16, 17-18: Rogo a11/1111 tlOJ, fratr11, 11/ob1erv1ti1 101,qui dis11nlion11 et offmdktdapraeterJoçtrinamq111Z111 tlOJ didid1ti1, f ad1111t, et dedinat,ab illis. H11iJçe111odi mi111Chrirto Domino nortronon 1ervi1111t, 11dJIIOventri, et per Il nostro autore t/,dçessermon,1et bm,di,tion,111dl«1111t ,orda innotenti11111. cioè i semplici, immagina che Seneca spieghi a Nerone che gli innoten/11, gli incolti (in opposizione ai dotti, ai sapienti quipra,vari,ar, do,trinaJIIIZ quid porlint) sono i più adatti a ricevere le rivelazioni divine, perché sono privi di quelle sovrastrutture culturali che porterebbero inevitabilmente ad un fraintendimento e ad un travisamento delle verità rivelate.

[p. 70, r. 12] - PRAEVARICARE: nel latino classico è attestato il deponente pra,vari,or(tuttavia, secondo Prisciano, 8, Putch p. 799, anche gli antichi dicevano pra,vari,o). L'uso dei verbi deponenti alla forma attiva è una caratteristica del latino tardo; cfr. BLAisE2, p. 127; si veda ad es. Aug. In ,vang. /oh. 99, 1 PL. 35, 1885: Adam namq,,eper ndllS -137-

tmim hominisinobedimtia111 P,tta/or,s tonstilllliStllll111tdti, non si,111awlivit, illlii,avit,·qllia tJIIOd awlivitprtlltlarit1111it. Il Ronsch (Itala 111111 Vtdg., p. 298) osserva che nell'Itala si trovano più frequentemente che nella Vtdgata delle forme attive in luogo di forme deponenti: tra le numerose esemplificazioni c'è anche prtlltlaritare.Ricordiamo che il nostro autore legge la Bibbia in una versione prevulgata, poiché quando scrive l'epistolario (il che avviene - come si è visto nell'introduzione - tra il 324 cd il 392) forse Girolamo non aveva neppure cominciato la sua opera di traduzione in latino del testo biblico. I raffronti tra la lingua dell'Itala e quella del nostro testo sono significativi, perché confermano che è proprio questo tipo di versione pregeronimiana che è utilizzata dal falsario, come dimostra in particolare un passo della XIV (XII?) epistola (cfr. oltre, p. 200). [p. 70, r. 12-13]-ET DATOEI EXEMPLO VATIENIHOMINIS RUSTICULI: Probabilmente qui il falsario vuole imitare la tecnica csemplificatoria di Seneca (cfr. Epist. 6, 5: longumiter estperpraetepta,breveet ,j/i,ax per exempla).L'anonimo cita qui la leggenda di Vatieno, un contadino che incontra sulla via Reatina due giovani su due cavalli bianchi che si rivelano poi essere i Dioscuri e che gli annunciano la vittoria di Pidna. Il nostro autore si rifà a quel ricco patrimonio di fatti miracolosi e leggendari nati dal sentimento religioso e dall'ingenua fantasia popolare e confluiti poi nella tradizione letteraria. La leggenda di Vaticno è citata deor11111. 2, 6: P. mi111Vatiper la prima volta da Cicerone nel De na/11ra nim, a11mhtdm adtdes,mtis,&11111 e praeft,111ra Reatina Ro111a111 11mitntin«IN dllfJ i1111tnes &11111 eqtdsa/bisdixissml regemPersemiliodi, ,aplllm, (,11111) smalNi ntmtiavissel[ntmtiavitet det.]primo(Jllllsitemeredereptiblitalom/llSin ,ar,ere111 tonie&IIIS est, post a Patdo lilleris allatis &11111 idem dies ,onstitissel,et agroa sma/11et 11açation, donatmest. Lo stesso episodio è menzionato anche in un altro passo (ibid. 3, 11) dov'è affiancato ad una storia analoga: quella dell'apparizione dei Dioscuri alla battaglia del Lago Regillo (cfr. oltre, il passo). Si noti che nei mss. ciceroniani il nome oscilla tra Vatinim e Vatienm. Il nostro autore adotta Vatimm. La lezione Vatinim dei mss. di a (recensione alcuiniana) è dovuta probabilmente ad una correzione di Alcuino sull'autorità di un manoscritto di Cicerone da lui op. di., p. 143, n. 1). Lo stesso episodio ricco posseduto (cfr. BARLOW, di tutti i suoi particolari è citato da Valerio Massimo (1, 8, 1) che riecheggia molto da vicino Cicerone; è ricordato inoltre da Floro (Epist. [1, 28] 2, 12, 14-15) e da Plutarco (Ae111.Pa11/,24, 3 sgg.; cfr. anche Coriol.3, 5-6). Si ritrova poi in ambito cristiano, come risulta da Minucio Felice (7, 3), da Lattanzio (ln.rt. 2, 7, 10), che si rifà molto probabilmente a Valerio Massimo (cfr. A. KuRPESs,ari. dt., « ThGl » 29, 1937, p. 319 sgg.; cfr. anche H. GUNDEL,s.v. Vatinim in RE 15, 2, 39 PL. 13,514), che 1955, 494-495), e da Pacato (Pan,g. Paçat. Theodo.r.

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dimostra come la leggenda dell'apparizione dei Dioscuri fosse diffusa ancora nel IV secolo, quando è stato scritto anche il nostro epistolario. Si noti che Pacato (come anche Floro, del resto) cita la leggenda ometCartorat tendo il nome di Vatieno: Nam si olim 1etllricredidn-e111aiore1 gemino1,albmtib111 equit, et 1tellati1apidb,u in.rig1111, puluerem m10re1111J114 The11alku111 aqtdt Tiberi1 abl111nte1, et n1111tia.r1e ui,toriam, et i111puta11e 111i'111' non l11a1publi,ae uindktae,onf111a111 aliq1111111 i111111ortalù dei ,11ra111 litia111, Quanto al nostro autore, il Kurfess (lo,. dt.) ritiene plll,111111 tJ1111ixa111? si rifaccia a Cicerone (anche il BARLOW, lo,. dt., è del medesimo avviso), poiché il pensiero che gli dei si rivelano attraverso i semplici, gli incolti, si trova espresso solo in Cic. Nat. deor.3, 11: QIIOtigit11rtu Tyndaridas,app,llabat,id et/ ho111in11 hominena/01[•..] 101tu çu111 ,antherii1a/bit nu/li1 ,alonib111 obuia111 Vatinio 11enit1e exùtimat et uktoriampopuli Romani Vatinio poti111homininuti,o [cfr. il nostro testo: Vatieni hominù r111ti,u/1] IJ.lllllllM. Catoniqtd tum era/prinçep1n1111tiaui11e? Kurf ess si basa su questo raffronto con il testo di Cicerone per sostenere che questa VII epistola non è stata scritta nel IV secolo, ma è più antica di uno o due secoli almeno. Il Kurfess sostiene che un autore del IV secolo si sarebbe rifatto a Lattanzio piuttosto che a Cicerone. Ma Lattanzio non è la fonte della VII epistola, poiché Lattanzio non menziona la patria di Vatieno, come fa invece il nostro autore (in agro Reatino). Del resto non si capisce veramente perché uno scrittore del IV secolo debba necessariamente attingere a Lattanzio e non possa rifarsi invece a Cicerone. Il probabile riecheggiamento di Cicerone in ogni caso non dimostra, come vorrebbe il Kurfess, che l'epistola VII è anteriore al IV secolo (anche W. Trillitzsch, op. dt., I, p. 174, rifiuta, a questo proposito, la teoria del Kurfess). La leggenda era molto conosciuta nel IV secolo e questo lo possiamo affermare indipendentemente dall'epistolario di Paolo e Seneca: per esempio, in base al Panegiri,odi Pacato, in cui, come nel nostro testo, la menzione dell'episodio è fatta 'en passant', come per accennare ad un fatto largamente noto, senza stare a raccontare tutto per filo e per segno, dando per scontati particolari che erano evidentemente risaputi. Dobbiamo forse pensare che si tratti di una leggenda popolare, con una lunga, ininterrotta tradizione orale, accolta di tanto in tanto e occasionalmente anche dalla letteratura ufficiale? Se noi confrontiamo i passi in cui gli autori in tempi diversi menzionano l'episodio di Vatieno, ci accorgiamo che la leggenda non subisce alcuna modificazione nel corso dei secoli e questo è inconcepibile se si ammette che la sopravvivenza della leggenda e la continuità della tradizione sia stata affidata essenzialmente alla voce popolare. Non si tratta dunque di una leggenda popolare, ed è proprio il nostro testo a darcene una conferma. Il modo incolore con cui viene introdotto e sbrigativamente liquidato con poche parole l'episodio di Vatieno (et dato ei exemplo Vafa pensare ad un luogo comune: il nostro autore limi hominù r111ti"'11) -

1.39 -

attinge meccanicamente al ricco patrimonio di exempla, di cui ci si serviva ampiamente nelle scuole di retorica. Si può ricordare qui quanto afferma Giulio Paride (IV-V secolo) nella prefazione della sua epitontome di Valerio Massimo, sull'utilità degli exempla: Exe111plor11111 tpdsilione111 '11111 scirem esse non mintn disputanlibmqua111 detlamanlibus111tessariam,dett111Valerli Maximi libros di,tor11111 et fa,torum 111emorabili11111 ad 111111m 110l11111en epitoma,,oegi:tJIIOd libi misi, 11/etf anlim im,eniressi (J1ll,llldo (Jllidquaereres,et apta semper111ateriis exemplasubiungeres. Più oltre Giulio Valieni (Paris 1, 8, Paride menziona per l'appunto anche l'exe111pl11111 Ext. 1), cosi anche il contemporaneo Ianuario Ncpoziano, un altro cpitomatore di Valerio Massimo ·(Ncpotian. 8, 2). Quello di Vaticno è appunto un esempio topico che appartiene al repertorio tradizionale, (sulle raccolte di exe111pla, cfr. E. BxcKEL,Ges,h. der romis,h.Lit ... cit., pp. 373-374). Quanto al nostro autore, la fonte può essere dunque Cicerone, come tutti sono concordi nel ritenere (Kurfess, Barlow, Trillitzsch, etc.) non senza però la mediazione di una qualche scuola di retorica, in cui gli exempla erano oggetto di discussione e materia di esercitazione: il tema è quello dell'ingenuo, dell'ignorante a cui la divinità misteriosamente si rivela, e che al nostro autore sembra adattarsi perfettamente anche a S. Paolo. Non vi è dubbio che alla sopravviValieni ha contribuito di venza nei secoli e alla fortuna dell'exe111pl11m più la scuola che non la tradizione popolare. La leggenda nasce dalla fertile e ingenua fantasia popolare, ma una volta menzionata da Cicerone e da Valerio Massimo acquista dignità letteraria cd entra a far parte della tradizione classica. L'azione conservatrice, che la scuola naturalmente svolge nei confronti del patrimonio culturale di cui è depositaria, spiega la staticità della leggenda nel corso dei secoli e la cristallizzazione scolastica dcll'exemplumValimi che è menzionato dagli autori più diversi in una forma molto simile e spesso quasi con le stesse parole.

[p. 70, r. 13] -

HOMINIS RUSTICUU:

rmli,ulus significa «rozzo»,

« privo di cultura», cfr. Mart. 10, 19: Net do,tumsalis et parum se,,er11111 /

sed non rmli,u/11mni111is libellum/ fat1111do mea Plinio Thalia. Nel nostro testo l'aggettivo unisce all'idea della mancanza di cultura quella dell'ingenuità e del candore, come si ricava dal precedente ore inno,mli11111. Al nostro autore il paragone tra Paolo e Vatieno homo rustkulm sembra cosi calzante che egli immagina che con esso Seneca riesca a fugare ogni perplessità dall'animo di Nerone, che appare completamente convinto e soddisfatto della risposta: salis inslrlltlm 11ideltlr. Il falsario insiste nel rappresentare S. Paolo come un uomo incolto, una anima candida e semplice che dice cose sublimi solo perché è ispirato dalla divinità. Ora questa interpretazione contrasta evidentemente con la realtà storica. Paolo infatti, anche se non se ne fa mai un vanto, è -140-

un uomo colto. ll Pohlenz (cfr. Di, Stoa •••cit., I, pp. 402 sgg.; inoltre Patd11.r 111111 di, Stoa •.• cit., pp. 5-6) mette in rilievo come Paolo fosse un ebreo appartenente ad una classe sociale elevata che parlava greco. Egli avrebbe assimilato in notevole misura la cultura greca e avrebbe avuto dei contatti anche con lo Stoa (cfr. introduz., p. 33). Non bisogna pensare che presentando S. Paolo come un uomo ingenuo e incolto, il nostro autore dia un'interpretazione personale. Molto probabilmente egli si rifà a quella che era al suo tempo l'immagine convenzionale di S. Paolo, a cui era comunemente applicata l'etichetta di uomo ingenuo e ignorante, in funzione del motivo che Dio si rivela ai semplici. Quello della ifmoçenfiae della pretesa ru.rtintasdell'apostolo doveva essere un luogo comune piuttosto diffuso nel IV secolo, come dimostra un'epistola di S. Girolamo (Epist. 49 (48 Vall.), 13 (Apolog,ti,11111 ad Pam111athi11111): Patd11maposto/11111 pro/1ra111 qu,111qll(J/ims,11111q111 legovideor111ihi fl01I verballllliir,, sed lonitrua. Legit, ,pishllas 1i11.r 1/ 111axim1 ad Romanos, ad Galatas,ad Ephesios,in qllibu.r/ollls in ,er/a111in1 posillls est, 1/ videbitis 111111 in /1sti111oniis qua, 111111it d, vet,ri t1sla111enlo, qua111 artiftx, qua111 prlll:!ms, IJll4111 dissi111ulator sii 1i11.r IJIIOd agii. Videntllf'qllid,111 verbasi111plina, 1/ IJll4si i11110fmlis ho111inis aç rusti,ani, 1/ qlli net fa,er, net dedinar, norit insidias ,· respexerisf 11/111ina SIIIII.Girolamo polemizzando qui contro s,d IJIIO'lllllfJIII questa interpretazione convenzionale e semplicistica di S. Paolo, dice che solo apparentemente le parole dell'apostolo sono semplici come quelle di uomo ingenuo di campagna, incapace sia di tendere che di evitare insidie, ma in realtà, se si considerano bene ci si accorge che sono dei tuoni veri e propri. Si noti in particolare l'espressione innotmtis ho111inis a, ru.rti,ani,che sembra quasi una glossa di ho111inis r11.rti,11/i, del nostro testo, in cui, come si è visto, r111ti,lll11.r unisce all'idea della rustintas quella della inno,entia(come si ricava dal contesto, cfr. in parNon è escluso che S. Girolamo ticolare il precedente or, inno,enti11111). riecheggi qui, più o meno consapevolmente, il nostro testo, in cui l'apostolo è paragonato a Vatieno, homor111ti,11/111. Ciò è cronologicamente possibile poiché quando Girolamo scrive l'epistola XLIX conosceva già l'epistolario di Paolo e Seneca. Infatti l'epistola XLIX risale al 393 (Saint Jérd111e, Lettres. Texte établi et traduit par J. Labourt, Parigi II 1951, p. 119 nota 1) e la nostra corrispondenza è citata nel XII capitolo nel 392. Questo raffronto mi pare interessante, del D, viris i/111.rtribu.r, poiché, anche se non si può dimostrare che Girolamo allude in particolare al nostro testo, si può affermu:e però con certezza che egli polemizza proprio contro quell'imm1gine convenzionale di S. Paolo che si ritrova anche qui. Tanto il nostro autore che Girolamo alludono tutti e due ad una stessa interpretazione di S. Paolo, ma mentre il nostro autore la accetta passivamente e acriticamente, Girolamo vuol farne giustizia e si sforza di ridimensionare criticamente la figura e l'opera di S. Paolo. -

141 -

[p. 70, r. 13] - ADPARUERUNT: è la lezione di P, contro tutti gli altri codici che hanno adparllissmt,compreso il cod. À esaminato più tardi dal Franceschini. Secondo il Barlow, questo è uno dei casi in cui P conserverebbe la lezione autentica (op. di., pp. 36-37) contro tutti gli altri mss. Adparllissml sarebbe una correzione fatta sulla base del testo ciceroniano (Nat. dtor. 2, 6), dove l'episodio di Vaticno è narrato con una sequenza di verbi al congiuntivo piuccheperfetto: dixissmt [...] 111111/iat,isset [...] ,onstiti.rsel(cfr. sopra, il passo citato per intero). Il Barlow fa notare che anche in altri casi il testo di Cicerone ha influenzato la tradizione manoscritta di questa epistola, come ad esempio nel caso di nutittdi sostituito da rNSticiin 8 e P e per Valimi sostituito da Vatini in 8 e v (cfr. sopra, p. 138 sg.).

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142 -

EPISTOLA VIII

Questa epistola ~ la risposta di Paolo alla notizia che Seneca ha fatto conoscere all'imperatore i suoi scritti: il falsario immagina che Paolo rimproveri il filosofo per aver preso questa iniziativa, a suo avviso, imprudente. Nerone ha mostrato sl interesse e ammirazione (cfr. Epist. VII: ,onftt,or Àllg,uhl• smsibm hlis •0111•), ma tutto questo non vale a giustificare Seneca agli occhi di Paolo, che non può fare a meno di rimproverarlo con tatto, ma anche con fermezza.

[p. 71, r. 2] - IGNOREM: questa è la lezione (~ e P) accettata dal Batlow, ma si potrebbe difendere anche ignoremusdi et, che si trova anche nell'ottimo À, sfuggito all'indagine del Barlow e collazionato dal Franccschini (art. r:it.,p. 63, nota 58). il Kraus legge invece nocome probabilmente slrarum (Caesaremnostra111111 r1111111 ad111irandar11111) era in J. Ma a nostrar11111 (che è anche la lezione del cod. ;), è senz'altro preferibile nostr11111, com'è in~ e in À, Secondo il Barlow, la variante non di cz.e P è una prova indiretta a favore di nostr11111. Molto probabilmente II01I deriva infatti da un'errata lettura di un'antica notaper noslrllme cioè da una N, oppure da una N con una o (op. r:it., p. 31). La lezione di H 111Jslrll111 non è un'evidente contaminazione. Lcfebvre d'Etaples considera Caesaremnostr11111 come un'espressione di deferenza e di sottomissione da parte dell'apostolo verso Nerone e cerca di giustificarla affermando che essa è coerente con il precetto dell'obbedienza verso il potere costituito: Quod Nmmem Paulus 11111111 Caesaremapp,llat, nihil 111ir11111 quia [p. 71, r. 2] -

ÙESAREM

NOSTRUM:

Chri.rtianitemporalibuspotestalibusr:itraDei offmsam in omnibusparebanl et eas çonjitebantur, sed 111l'"ena.rpotestales,onfitebantural(JIII111nerabantur, 11ttp14alios Caesaresaut regesq1111111 ,aeleross, habereditebant,11er11111 t011111111niter '11111 aliis eosdem(Faber, f. 228r). Ma qui probabilmente Nerone è chiamato noslrllmper le lodi che ha fatto di Paolo, in opposizione all'imperatrice che gli è ostile (cfr. anche Epist. V). Nosler in questo senso è plautino e ciceroniano.

[p. 71, r. 2-3] -

il nostro autore afferma che Nerone trova diletto nel meraviglioso: ciò si accorda RERUM ADMIRANDARUM [ •••] AMATOREM:

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con quanto attestano Svetonio, Plinio il V. e Seneca intorno alla personalità dell'imperatore (cfr. Scn. Nat. 6, 8, 3; Svet. Nero 56; Plin. N.H. 11, 261; 19, 39; 30, 15; 37, 45; etc.). Da queste testimonianze risulta che Nerone era avidamente curioso di tutto ciò che era nuovo e straordinario (cfr. E. RENAN, op. rit., p. 137: « il avait le gout des exespérienccs, des nouvellcs inventions, des choses ingénieuses »). Questo aspetto della singolare personalità neroniana, cioè questa sua naturale curiosità questo suo gusto stravagante per ciò che esce dalla verso il 111onslrtl111, norma, che si distacca dall'ordine naturale delle cose, si ritrova poi fortemente accentuato, anzi grottescamente esasperato nella trasfigurazione fantastica degli Atti Apoçrifi, dove l'imperatore, la cui figura storica appare bizamunente distorta, è rappresentato spesso in atteggiamento di stupita e ingenua meraviglia davanti ai prodigi di Simon Mago e degli Apostoli. Come abbiamo già rilevato (cfr. sopra, p. 135 sg.) è a questa admiraninterpretazione che si rifà anche il nostro autore. Qui poi rm1111 danl111 [...] a111ator1111 mi pare riecheggi volutamente 111irari 111111 poss, lii (Jldnon /1giti1111 i111b11tus sit ta/it,r 11ntiat,dell'epistola precedente, in cui tllis 1110hl111), Nerone colpito dall'elevatezza dei pensieri di Paolo (smsib111 appariva stupito che fossero stati espressi da un uomo incolto, e in cui l'ispirazione divina di Paolo era posta sullo stesso piano della rivelazione dei Dioscuri al contadino Vatieno: agli occhi di Nerone tutti e due i fatti apparivano ugualmente meravigliosi e straordinari. [p. 71, r. 3] - (NI)S1 QUANDO DEFICIET: la lezione data da deftriet.D e P hanno deftrimt,ma questo quasi tutti i codd. è si q11a11do adlllirandar11111, plurale sembra un errore dovuto alla vicinanza di rm1111 oppure un tentativo del copista di dare un senso alla frase. Sarei propensa ad accettare con il Barlow (op. rit., p. 130) e con quasi tutti gli editori precedenti, la lezione deftriet,la cui interpretazione è comunque assai controversa. Alcuni intendono: « anche se talvolta cadrà in errore » (cfr. ad es. M. R. JAMES, op. rit., p. 482: « even if he sometime lapscs »). Si potrebbe forse giustificare tale interpretazione, intendendo che l'amore per le cose ecc.czionalie straordinarie induce talora Nerone in errore, perché egli finisce per dare ascolto ai ciarlatani e per apprezzare anche i falsi miracoli frutto dell'impostura (si pensi alla stima che, negli Atti A pomfi,Nerone dimostra nei confronti di Simon Mago). Altri interpretano: « quando è abbattuto », ma non mi pare che questa interpretazione dia un senso plausibile alla frase. Il testo sembra guasto, si potrebbe forse congetturare: nisi (Jllllndo deftri,t, pensando che il nostro autore voglia qui alludere alla volubile indole di Nerone: « se prima o poi non ci verrà meno» (per influsso dell'imperatrice). [p. 71, r. 3-4] -

PERMI'ITES

TAMEN TE NON I.AEDI SED ADMONERI:

« lascia che io, senza offesa, ti ammonisca ». È una formula di cortesia

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144 -

che serve ad attenuare il tono di rimprovero; cfr. anche Plin. Epist. 8, 24, 1 : Amor in /1 111111! togit, non 111pra1tipia111 (n1tp14 mim pra,ç,ptor, 1g,s),euilll0flla111 tamm 111,(JIIIII stis, tm,as 11obsm11s, aut n1stir11111li11S. Qui indica, come nel nostro testo, un ammonimento bonario, che lld111oner1 non offende chi lo riceve, ma che anzi è una testimonianza di affetto. Mi sono qui distaccata dal Barlow che preferisce invece la lezione perlllittit (a. P) [...] s, (P), e interpreta: « stili he allows himself not to be rebuked, butto be informed » (cfr. op. tit., p. 143). Si noti che s, è solo in P, mentre tutti gli altri mss. hanno /1. A mio avviso qui la lezione preferibile è p,rmitt1s (). W ~ K) [...]t,, poiché dal contesto risulta chiaramente che la persona che deve essere ammonita è Seneca e non •.. etc. Paolo intende ril'imperatore: P11toenim /1 grlltlit,rfotisse, (Jll(Jd chiamare l'attenzione di Seneca sul fatto che, sebbene Nerone abbia dimostrato interesse per il Cristianesimo, rimane pur sempre un pagano, e quindi Seneca avrebbe dovuto essere più cauto.

[p. 71, r. 4] - GRAVITBR: sinonimo di moleste,come in Cic. V,rr. 2, 4, 138: S1nalll111 11popu/11111 Syra&11San11111 molestegravit1rtp14 ferri (JIIOd ego [...] in i/la tivita/1 nihil 1i11S modija&1r1111; e&. anche ibid. 2, 5, 170 (grlltlit,r111/isse). La iunctura gravil,rja&,resignifica qui « agire in modo urtante» per Nerone o per l'imperatrice (cfr. sotto: ojfms11111 ja&1r1),si potrebbe forse anche intendere gravit,r: « in modo inopportuno, pericoloso », tanto più che Seneca risponde chiedendo perdono per aver agito fatik (Epist. IX). [p. 71, r. 4-5] - IN NOTITIAM PBRPERRE: questa costruzione si trova più volte in Plinio; cfr. ad es. Epist. 10, 67, 2: Ha,, in notitia111 lllam p,rf,rmda 1xisti111avi; 10, 86,b: quod in notitiam luam p,rf,ro. Liénard (art. tit., « RBPh », 11, 1932, pp. 5-23) osserva che questo costrutto è attestato anche in Simmaco, come ad es. in Epist. 7, 13: Spero 1tia111 brlvi in notitiam divini printipis p,rfumdam; cfr. anche ibid. l1gatione111 6, 33.

[p. 71, r. 5-6] - QUOD RITUI BT DISCIPLINAB BIUS SIT CONTRAsi confronti ritll! 1/ distiplinacon l'analogo ritll! et sula dell'Epist. V (cfr. sopra, p. 116). Il vocabolo disciplinacol significato di « dottrina religiosa », « religione », è assai frequente da Tertulliano in poi; cfr. ad es. Adt,. Mare. 5, 2, 2 CCL. 1, p. 666: Quis enim expe,tarel di11ti11S dis,1r1, (JIIOd novam dtb,r1t sutari distiplinam qui nov11m dt11111 ruepisset? Paolo rimprovera Seneca per aver parlato all'imperatore di argomenti cristiani e quindi alieni dal suo culto e dalla sua religione. Qui il nostro mater autore sembra riecheggiare Svet. N,ro 52: S,d a philosophia111111 ar,,rlit 11/0flltU imp,raturotonlrariamus,. RIUM:

10

145-

[p. 71, r. 7] - NIMIO AMORE MEO: Seneca avrebbe dunque errato per troppo affetto verso l'apostolo. Lo stesso motivo è in Simmaco: Sdo (JIIOdamorefalleris(Epist. 9, 87); si tratta di un motivo convenzionale: il nostro autore attinge qui al noto -r6TCoç della dile&IUJ (amor, cpLÀC«), di cui si avvalgono ampiamente gli autori latini e greci (cfr. K. THRAEDB, op. di., pp. 127 sg. e 132 sgg.); cfr. anche il passo di Plinio, ncll'Epist. 8, 24, 1 (già citato nelle pp. prec.): Amor in le 111e11S ,ogit, non lii praede più oltre (ibid. 10): Qllippe non vereorin pia111[.••] ad111onea111 la111en, amorene 111odN111 ex,esseri111. Il motivo della dile,tioricorre con frequenza anche nella tarda latinità cristiana (cfr. ad es. Aug. Epist. 58, 2: q,,ak'1111/(JIIIsped111en ,ordiset a111oris ergale 111ei; Paul. Noi. Epist. 51, 2 CSEL. in IIOS 111ei hae, mea smpta 85, p. 424, 31-32: testimoniaanimi et a111oris retine/e).Anzi, presso gli scrittori cristiani, per influsso della nozione di ,aritas (ciycxmi),intesa come vincolo universale di amore, il -r6TCOç epistolare della dile,w si arricchisce talora di un nuovo significato e si anima di una nuova vibrazione mistica: come ad es. in Paul. Noi. Epist. 51, 3 CSEL. 29, p. 425, 15: Non eni111 h11111ana amidtia sed divinagratia invite111 nobisinnoltdmmet ,onnexi 111111,u per vistera,aritatis Christi. Paolo dunque teme che Seneca, parlando all'imperatore della religione crimi111 i/le stiana, possa avere turbato la sua coscienza di uomo pagano (C11111 11elles nonvideo,nisi nilltÙJ genti11111 deosço/at,(Jllidlibi vis11m sii 11Iho, sdre e11111 « infatti, poiché egli adora gli dei del pagaamore111eo f aterele ho, existi1110: nesimo, non riesco a capire come ti sia potuto venire in mente di esporgli questi argomenti, a meno che io non pensi che tu hai agito cosi per il troppo affetto che nutri verso di mc »). Il falsario ha qui forse in mente alcuni passi della prima epistola ai Corinzi, in cui S. Paolo esorta al rispetto della personalità altrui e dice che bisogna stare attenti a non turbare con la propria condotta i « fratelli deboli », cioè quelli che non sono spiritualmente maturi oppure non ancora saldi nella fede (cfr. J. N. SBVENSTBR, op. di., p. 89 sgg.). S. Paolo afferma inoltre che, nel rivolgersi ai non cristiani, ha cercato sempre di conformarsi al loro modo di vedere, evitando ogni atteggiamento brusco e intransigente (I Cor. 9, 22): Omnibm omniafaçt,u 111111, 11Iomnesfatere111 sal110s. Del resto, che il falsario conosce bene la prima ai Corinzi, risulta chiaramente da un passo della lettera X del nostro epistolario, che si rifà esplicitamente a questo passo paolino: Debeo eni111, 11Isaepeproftss,u mm, ,11111olllnib,u omnia esse (cfr. oltre, p. 156). [p. 71, r. 8] - DE FUTIJRo: « per l'avvenire», « in futuro». Com'è già stato osservato a proposito di deproxi1110 (cfr. sopra, p. 111), si tratta di formazioni proprie della lingua parlata, che sono state acche è già in Scn. colte poi nella lingua scritta. La locuzione def11t11ro, Epist. 100, 4: Si me intm-ogas,maioril/e est (JIIÌ illliid11111 absttdit (Jlllllllq,d 111,r,dt ,· et sdo h1111, t11tiore111 esse,sdo llllliaamsibi di f11l11rO pro111ittere i cfr.

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poi Tert., A.dv. Mar,. 1, 24, 7 CCL. 1, p. 468; Si de JNturomthls es, &lii' no,, et de praesenti,Nt perft&te?;Mart. Brac. Con-. 17: de praeteritis revo/11atur peççatisindtdgentia111 petat, et de jNtNf'oça1Jeat ne ad ipsa itm1111 [...] etc. Paolo dunque, dopo aver rimproverato Seneca per l'imprudenza commessa, lo esorta a non ripetere nel futuro il suo errore (Rogo deflll1'1'one id agas): « Ti prego di non farlo più».

[p. 71, r. 9] - 0PFENSUM D0MINAE: ojfenSIIS,m è qualcosa che suscita contrarietà, ragione di risentimento; con questo significato il vocabolo sembra attestato in Girolamo, Epist. 53, 13: ojfensNmDei (però la lezione è dubbia: altri legge offensa111). Il vocabolo compare inoltre nell'Itala. Il Ronsch (Itala 1111d Vm'g., p. 92) cita un passo di Tertulliano (A.dv. Mar,. 4, 39 CCL. 1, p. 651), che è il riecheggiamento di Eph. 2, 20, in cui si trova questo vocabolo: sNperf1111da111enta apostolor11111, (jlli

lapidessançtioppositiomniNmoffenmitJOINtant. [p. 71, r. 10] - 0PFENSA: mentre ojfensmè ciò che urta, indispettisce, ojfensadesigna la conseguenza dell'offesa: significa infatti « risentimento»; cf'r. Phil. 1, 10: "' sitis sin,eri et sine offensa(,htp6axo1toL)i11 die111 Christi (in Plinio, Quintiliano e Giustino, offensaè contrapposto a grafia: «favore»). Nel nostro testo Paolo teme di cadere ulteriormente in disgrazia presso l'imperatrice Poppea. L'apostolo raccomanda a Seest neca di essere prudente nei confronti dell'imperatrice (Ca11endll111 eni111 ne dM111 me diligis, offensN111 dominaefadas, Nlim (jllidemoffensane1J114 oberi/, si perse11era11erit, neq11e, si non sii, proderit): « bisogna che tu stia attento, per il troppo affetto che nutri verso di me, a non urtare l'imperatrice, il cui rancore, se ella dovesse persistere in questo suo atteggiamento, non potrà ostacolarci, ma nemmeno favorirci », dove implicito è il concetto che l'opera di apostolato di Paolo continuerebbe in ogni oberit: « non potrà ostacolare la nostra opera»), meglio sacaso (ne1J114 rebbe, comunque, come viene raccomandato a Seneca, evitare di mettersi ulteriormente in urto con l'imperatrice, poiché ciò potrebbe, se non compromettere l'opera di apostolato, creare certamente qualche difficoltà.

[p. 71, r. 11] - SI EST REGINA, NON INDIGNABITUR, SI MULIER EST, OFPENDBTUR: reginacon il significato di «imperatrice» si trova in Plinio il V. (N.H. 29, 20) dove è applicato a Messalina. La frase è stata variamente intesa. Molti dal Westerburg in poi, pensano che il testo voglia dire che Poppea ha del risentimento verso Seneca, che inizia Nerone al Cristianesimo, poiché la conversione comporta (come negli Atti Apomft) la castità; cosi intende l'Erbetta: « Se l'imperatore si converte, quella donna licenziosa si adirerà. È qui riflesso il motivo encratita, comune con gli altri apocrui » (op. dt., m, p. 90, nota 10; -147-

cfr. inoltre E. WESTBRBURG, op. di., p. 28; J. KRBYER, op. di., p. 176; ari. di., « ThQ » 119, 1938, p. 322, nota 4). Il motivo della A. KURPBSs, castità e dell'astinenza giuoca un ruolo importante negli Atta Ptlllli ,1 The,!tu cd in generale in tutti gli Aili apotrift (cfr. L. VouAux, op. di., p. 78 sgg.). Qui però, a mio avviso, non è necessario ricorrere a questa spiegazione; le ragioni del risentimento di Poppca sono state chiaramente espresse nell'epistola V: Poppca avversa Paolo perché lo ritiene un giudeo rinnegato e quindi è naturale che sia urtata anche dai tentativi di Seneca di iniziare Nerone al Cristianesimo. Quanto poi alla contrapposizione regina- 111tdilr, il testo mi pare voglia significare semplicemente che la collera cd il risentimento non si confanno alla dignità regale e che se Poppca si adirerà, dimostrerà di essere una donna qualsiasi e non una vera regina.

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EPISTOLA IX

Seneca dice di comprendere il turbamento di Paolo alla notizia che i suoi scritti sono stati letti a Nerone. Egli sa bene che il suo rimprovero (cfr. I'Epist. prcc.) non~ dovuto al timore per la sua incolumità personale, ci~ non~ dettato da un calcolo egoistico. Invia inoltre all'apostolo un manuale di retorica, pcrch~ perfezioni il suo stile.

il Liénard (ari. di., « RBPh », 11, 1932, n. 19) osserva che con queste parole cominciano anche alcune lettere di Simmaco, come ad es. l' Episl. 11, 31: Sdo 1, a111i,1111i i111Jitiae et a111anle111 mei; 1, 60: Sdo te nonforllllklrt1111 hab,rediletlllm,s,d 111mlor11111; cfr. anche ibid. 11, 65; 4, 42; etc.

[p. 71, r. 2] - Scio

TE:

[p. 71, r. 2] - TUI CAUSA: cfr. quanto è stato osservato a proposito di ottasion,nostri (Episl. I), a p. 81. [p. 71, r. 2) - COMMonJM LITTERIS: la iunctura /illms ço111111ovm è attestata in Celio, presso Cic. Epist. fam. 8, 10, 1: Sane q11a111 liltms C. Cassi et D,iolari 111111111 to1111110Ji: cfr. anche ibid. 8, 16, 4: lilleras [.•• ••.] qllib111 [..•] ,ommoveriposs,s. [p. 71, r. 2-3] - LITTERIS QUAS AD TE[ ... ] FECI: la iunctura fatere lilJ,ras(o lilleram)è già in Plauto e Cicerone, dove però significa semplicemente «darsi a scrivere »; cfr. ad es. Plaut. Asin. 767: "'il/i sii tera,11bi fa111/am f,dmtn, nisiform'"' possil lilleras;Cic. A,. 2, 6: N, litteramqllide111 sem. La costruzione lillerasfatere ad aliq111111 è frequente nel latino tardo, proprio con il significato, che ha nel nostro testo, di « scrivere una lettera a qualcuno»; cfr. Hil. CSEL. 65, p. 171, 8-9: Et ho, a11l1111 sdr, vosvolo,(Jll(}d fratr,111Fortlllkllian11111 p,tii, 111[,11111] litt,ras 111,as ad ç/e111mlisad ori,nla/11epis,oposfed [•••] etc.; ibid. si11111111 i111p,ra1or1111 perf,ral, q11a1 p. 111, 6: letlae s1111I 1ni111 li1teraefa,1a,a Theognilo,·Cypr. Episl. 80, 1: litlerar11111, fJllaJ ad praesidesprovindar11111 de nobisfedi; ibid. 75, 1 ; Iustin. 27, 2, 6: litlerasfadl; Leo M. Episl. 117, 5 PL. 54, 1039 A: epislolas fed; etc. [p. 71, r. 2-3] - DE EDITIONE EPISTOLARUM TUARUM CAEsARI: il Barlow (op. di., p. 37 sg.) accetta qui la lezione epislolar11111 111ear11111 che -

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si trova solo nel codice P contro tutto il resto della tradizione che (compreso >..)ha t111m1111. Ora le lezioni di P, che rappresenta un ramo indipendente da tutto il resto dei manoscritti, sono da accettare solo quando sono attestate anche in qualche codice di l:, poiché in tal caso P costituisce come una conferma della validità di tali lezioni. Ma quando in nessun altro codice di l: compare la lezione che troviamo in P (come nel caso di 1111llt'N111),allora bisogna andare molto cauti e non si può preferire a priori quella di P (tanto più che il copista di Psi dimostra spesso assai maldestro). A mio avviso è meglio accettare la lezione ,pistolartl111 hlarll111 e pensare che il falsario si riferisca all'epistolario paolino; questa interpretazione mi sembra preferibile all'altra poiché, mentre queste ipotetiche epistole di Seneca di argomento cristiano non sono citate altrove nel nostro epistolario, le lettere di Paolo sono menzionate più volte; cfr. ad es. Epist. I: Lib,Jlo IIIIJJ,çto,id 1st depluribm aliq,,asJitt,ras q,,asad dvitat,111s,11,ap11tprwinda, dir,xisti; Epist. VII: Projit,or bme 1111 att1plll111 Je,twn, Jitt,rar11111 hlarllm (JIIIZSGalatis Corinthiis A,haeis 111isisti. [p. 71, r. 3-5) - NATURA RERUM QUAE ITA MENTES HOMINUM AB OMNIBUS ARTIBUS ET MORIBUS RECTIS llEVOCAT: secondo il nostro autore,

Paolo sarebbe turbato e preoccupato perché la natura stessa allontana gli uomini dalle abitudini rette e dai costumi onesti. Qui naltlf'arm1111 significa « natura » in senso lato, ivi compresa anche la natura umana. Lefebvre d'Etaples, richiamandosi a Svetonio (N,ro, 26), vede qui una allusione all'indole di Nerone, aliena istintivamente da ogni sentimento retto e giusto: Natllf'am N,ronis taxart 11idetllf', q11atila deprflllala,t ex se inNlrllalaflliss, çr,dit11r, 111,,,,,, ab omni bona art, ,t r1ttis moribm rll/Otar, ,t p11vider,t11r ,· (JIIIJd S11,tonius, 11bide rapinis, inillriis,t aliis stekribm ,Ja,,, blit1 p,r tllfll ,ommissisagii, ap,rt, ltslalllr: Petulantiam(in(jllit),Jibidine111, Juxuriam, a11aritiam,trlllitlitat,m, s,nsim (jllidemprimo ,1 o,ttdt, ti 111/111 i1111mili erroreex,rNlit,· s,d 11111111, (JIIO(Jllt nemini dllbi11111 for,t, nat11ra,i/la N,ronis nat11ra111 a,çmat (Faber, f. 228r). 11itia,nfJIIa,tatis ,ss,. En (JIIIJfllOdo la lezione di À (e~) 111 is qtd conferma la scelta del Barlow basata su K e sulla variante marginale di L1 (111is è omesso nei codd. della famiglia ot e in v, is qui è omesso in X e F, mentre i codd. O LU M T J hanno 111his (JIII). Seneca avrebbe ormai molte prove del tralignamento morale di Nerone: 111non hodit admir,r, qtdpp, 111is qtd m11Jtisdo,11111,ntis ho, ia111 notissim11111 habta111. La frase ha il tono amaro e deluso del maestro che vede il proprio alunno allontanarsi dalla retta via e riecheggia forse Svet. N,ro 1: Fer,mt Sm1tam proxima no,t, 11is11111 sibi per (jlliet,m C. Caesari pra1tip,r,, ti ftdtm somnioN,ro brtvij,dt prodita i111111anitat, nat11ra,tpdbm pri11111111 potllit exp,rimmtis. [p. 71, r. 5) -

QUIPPE UT IS QUI MULTIS DOCUMENTIS:

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[p. 71, r. 6) - NOTISSIMUM HABBAM: la iunctura notissimumha,,,,.,. a quanto mi risulta, non è attestata altrove, mentre è assai frequente la costruzione simile ,ognilllmhaber, (ad es. Cic. Epist. fam. 15, ,x lllis /itteris hab,bo ,ogni20, 3: Ego tantum me sdre putabo, (Jll41llllm 111111); cfr. se mai Cic. Orat. 118: Net veroa dia/e,tids modosii inslrll&/111 ,1 habeal 011111is philosophiaenotos aç lratlatos /o,os. [p. 71, r. 6) - !GITUR NOVE AGAMUS: « inauguriamo dunque un nuovo sistema di comportamento ». Generalmente nove significa « in modo inusitato, originale», come in Plaut. Epid. 222: S,d v,slita, aurata, ornatatd kpid, I 111,ondnn,I 111noveI; Gell. 19, 7 : ftgurashabit111tp14 verborum nOtllaut insigniterdittorumin Laevianoi/lo ,armin, ruminabamur.Nel nostro testo nov, significa piuttosto: « diversamente », « altrimenti », proprio com'è attestato nella tarda latinità cristiana, cfr. ad es. Tert. Apol. 6, 9 CCL. 1, p. 98: Ubi r,ligio, uhi tllfllT'alio 111aiorib111 debitaa vobis?Habilll, llklll, inslrll&t11, s1n111, ipso dmitp14ser1110n1, proavisr1n1111tiastis_ Lawlatis s,mper antiquos,s,d noved, di, vivitis. [p. 71, r. 6-7) - FACILE: « con leggerezza». Con questo significato negativo l'avverbio è frequente nel latino post-classico; cfr. in particolare Vict. Vit. 3, 10: Numq,,id anima/ianos inrationa/ia111m111, lii[ ...] fati/, a11ttemer, illf'1111111? La leggerezza commessa da Seneca (et si quidf atil, in praeteritumfa,111111 111)è quella di aver mostrato a Nerone gli scritti di Paolo. [p. 71, r. 7) - IN PRAETERITUM: « per il passato», per analogia con in posterum « per l'avvenire». L'espressione è attestata in Plin. N.H. 8, 68: ,1 in pra,teritum ,1 in f11tur11m, e in Svet. Dom. 9, 3: Smbas tJlltUSlorios negotiant,s,x ,onS11etlldin1 sed ,ontra /1g1mvenia in praeterit11111 dlmavit.

[p. 71, r. 7) - VENIAM INROGABIS: qui vmiam inrogar, significa « accordare il perdono ». Si noti però che inrogar, significa di solito 111u/ta111, etc.) ed è usato «imporre» qualcosa di sgradevole (trib11t11111, piuttosto raramente col significato di « concedere »; cfr. ad es. Quint. l,ut. 10, 3, 26: ,lii lamm nonp/111inrogand1'1111sl qllllmq110d somnosup,reril a D,o aut (non) deerit: Cassian. Coni. 1, 28 CSEL. 13, p. 207: omniaq111J1 nobis inftrt111lllf' [.•.] ve/111 a piissimopatr, d11111ntissi111otp14 meditopro nostris ldilitatib111inrog,ntur;Heges. 3, 17, 1 CSEL. 66, p. 217, 5: ,t q110d ab a/iis propoma1xigim111, bo, ipsi nobisinrogam111 pro gratia?; Rufio. Orig.in Rom. 7, 16: et in a/iosinrog,turuti/is etfrs«tuosa,o"ettio; Ps. Hil. Hymn. 2,38;etc.

[p. 71, r. 7-8) -

tra le opere autentiche di Seneca non vi è nessuno scritto che porti questo MISI

TIBI

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LIBRUM

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DE VBRBORUM

COPIA:

titolo ed inoltre, come abbiamo già avuto occasione di osservare (e&. introduz., p. 37, n. 9), è assolutamente da scartare anche l'ipotesi del Fleury (op. dt., II, p. 267 sgg.), del Westerburg (op. dt., p. 11 sgg.), dell'Hauréau (Notku et extraits de (Jllt/qms111t11111.Imls lalins de la Bibliothtqm Nalionale,Parigi, 1890-1893, Il, p. 195 sgg.) e di molti altri, che pretendono di identificare il De verbor11111 çopiacitato nella nostra corrispondenza con un'opera falsamente attribuita a Seneca: la For111llla 1/Ìlaehoneslae,composta nella seconda metà del VI secolo da Martino Dumiense, vescovo di Braga, nota anche come De (Jlllllllior 1/Ìrttdibm, e che in alcuni codici porta anche il titolo De verbor11111 ,opia, come ad es. nel Paris. lat. 8542 (cfr. BARLOW,op. dt., p. 144). Nell'intestazione del Paris. 6707 si legge: lndpit liber De ,opia verbor11111 Sene,ae,(Jlltfllsmpsit apostoloPatdo(cfr. FLEURY,op. di., II, p. 273); intestazioni simili hanno anche i codd. 8544 e 8545. Ma ad una considerazione più attenta si vede che il titolo De verbor11111 çopianon è riferito propriamente al lavoro del vescovo di Braga, ma ad un"opera composita che deriva dalla fusione di alcuni ex,erpta della Formlllavitae honestaee delle epistole autentiche di Seneca (cfr. HAAsE,op. dt., S,pplemen/11111, praef. XXII; Marlini episçopi Bra&arensis operaomnia,edidit O. W. Barlow, New Havcn 1950, pp. 208-210). Il titolo De verbor11111 çopiaè dunque stato applicato a questi ex,erpta solo in un secondo momento e indipendentemente dal loro contenuto, proprio per influsso del nostro epistolario (cfr. T. ZAHN, op. dt., pp. 616-617, nota 3). Il titolo originario dell'opera di Martino Dumicnsc è soltanto Formllla1/Ìlaehoneslae,come afferma chiaramente !"autore stesso nell'epistola dedicatoria a Mironc, re degli Svevi: Ti111/ma11te111 libelliest Formlllavitaehonestae(p. 237 cd. Barlow), e originariamente non ha niente a che vedere con l'opera menzionata nel nostro epistolario (sull"argomcnto cfr. inoltre E. BxcKEL,Die S,hrijt des Marlinm I/OnBra&ara formllla 1/Ìlaehoneslae« RhM », 60, 1905, pp. 505-551; R-D NoTHDURPT,op. dt., Lcida-Colonia 1963, p. 30 sg.; W. TRILLITZSCH,op. dt., II, p. 213 sgg.). Secondo il Fleury, che identifica erroneamente l'opera del vescovo di Braga con il De verbor11111 çopiacitato dallo Pseudo-Seneca, il nostro epistolario sarebbe posteriore all'opera di Martino Dumicnse, cioè posteriore al VI secolo: « Nous ne risquons donc pas de nous éloigner bcaucoup de la verité, en presumant que la [...] falsification des lcttres de Saint Paul et Sénèquc n'est pas antérieurc au scptièmc ou huitième siècle » (op. di., II, p. 272). Contro una simile ipotesi si possono sollevare molte obiezioni (si vedano ad esempio gli argomenti di J. B. LIGHPOOT,op. dt., p. 331 sgg.) e in primo luogo che la tradizione manoscritta risale almeno fino al VI secolo (e&. BARLOW,op. dt., p. 35) - e già questo è un argomento che fa cadere l'ipotesi del Fleury e di coloro che dopo di lui hanno continuato a sostenerla - ma anche a prescindere da ogni altra considerazione, !"identificazione della Formlllavitae honutaecon il De verbort1111 ,opia citato nel

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nostro epistolario, è da rifiutare, poiché l'opera del vescovo di Braga è un trattato di contenuto morale, mentre il libro che il nostro autore immagina che Seneca invii a Paolo è un manuale di retorica. Infatti secondo il compilatore del nostro epistolario, negli scritti di Paolo è la forma che lascia a desiderare, non certo il contenuto che anzi è considerato sublime in quanto ispirato dalla divinità. Del resto poi, che si alluda ad un manuale di retorica risulta chiaro dal titolo D, v6f'bort1111 topia,che è un'espressione tolta dalla retorica. La verbor11111 ,opia è la facondia, la facilità nell'uso delle parole, prerogativa questa che, a detta di Cicerone (Brut. 216) da sola vale più d'ogni altra a far apprezzare un oratore: nllllare 1111a111agis orator,111 ,0111111mdari (Jlllllll V6f'boru111 spmdor, et topia. E questo è il pregio che anche Quintiliano, altrove cosi duro nei confronti di Seneca, non può fare a meno di riconoscergli (Inst. 12, 10, 11); In his 1tia111, (JIIOIipsi vidimNJ,,opia111 Smetae, vires Ajri,ani,

111alllf'itat1111 Afri, illnlllditat,111 Crispi, son11111 Trathali, elegantiamSettmdi. La mpia verbor11111 è una prerogativa ddla forma, serve ad ornare e ad amplificare l'orazione (cfr. Cic. Orat. 97; De orat. 3, 55: ,opia di,mdi; cfr. inoltre Fortun. R.het.3, 3 RLM. p. 121 sgg.; Aquila, Rhet. 44 RLM. p. ~. 15; per ulteriori esempi, cfr. LAusBERG, passim), è un aspetto del '1111111 16f'111onis che, a giudizio del nostro autore, manca agli scritti dell'apostolo (Epist. VII: VeJ/1111 ila(Jll4,&11111 res eximiasproj6f'as,111maiestati earumtult111s,rmonisnondesii: cfr. anche l' Epist. XIII). Una volta dimostrato che il D, V6f'bor11111 ,opia del nostro epistolario non può identificarsi in nessun modo con l'opera di Martino Dumiense, e una volta appurato che la prima menzione a questa presunta opera di Seneca si trova nel nostro epistolario, c'è da chiedersi se questo D, V6f'bor11111 topia sia un parto ddla fantasia del nostro autore, oppure se egli faccia riferimento qui ad un'opera realmente esistita e a noi non pervenuta. La seconda ipotesi sembrerebbe a rigor di logica la più probabile, poiché è più facile che in uno scritto apocrifo il falsario cerchi di accreditare la sua compilazione facendo dei riferimenti a scritti autentici, piuttosto che ad un'opera immaginaria con un titolo inventato di sana pianta, che potre bbe più facilmente sconfessarlo agli occhi del lettore. È probabile pca-ciò che nel IV secolo, quando viene composta la nostra corrispondcmza, circolasse effettivamente sotto il nome di Seneca un manuale di retorica, intitolato De V6f'bor11111 ,opia. Ora, ammettendo che questo scritto sia veramente esistito, come è molto probabile, dal momento eh.e l'autore dell'epistolario apocrifo - che è il primo che ne fa menzione - confonde in una sola persona Seneca padre e Seneca figlio, e poiché si tratta di un manuale di retorica, è più opportuno, a mio avviso, attribuire quest'opera a Seneca padre cultore della materia, piuttosto che al figlio, che nei suoi scritti autentici è duramente polemico contro il culto della bella forma (cfr. sopra, p. 100). Il nostro autore dunque che in tutta la corrispondenza presenta -

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Seneca in veste di maestro di stile nei confronti dell'apostolo, in questa IX epistola immagina addirittura che egli invii premurosamente a S. Paolo un manuale per aiutarlo a perfezionare il suo stile latino (!). L'anonimo, facendosi interprete delle aspirazioni dei letterati del suo tempo che vorrebbero innalzare la letteratura aistiana allo stesso livello letterario di quella pagana, afferma simbolicamente in questo modo la necessità di un'educazione stilistico-retorica dei Cristiani da parte dei pagani. Come sostiene il Momigliano: « il compilatore è uno di quelli che vogliono conservare i valori stilistici pagani negli saitti aistiani » (art. dt., p. 333).

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1.54 -

EPISTOLA X

Paolo afferma cli essere in imbarazzo scrivendo il suo nome nel prescritto accanto a quello cli Seneca. Come osserva Lcfebvre d'Etaplcs: Epistolam stribit [Pam'm)in (j1lll ,t S1111,a111 ho110rat ,t s, ip111111 h11111ilial (Fabcr, f. 228r).

[p. 72, r. 2] - SUBSECUNDO: vuol dire « metto subito dopo», « faccio seguire immediatamente ». Il vocabolo è attestato qui e in Hil. In Matth. 7, 8 PL. 9, 956 C: N,q1111ni111 r,s intelligentiae,sed rei inte/Jig,ntia subsetlllldal.Paolo dice di sentirsi fortemente in imbarazzo ogni volta che, indirizzando una lettera a Seneca, deve scrivere il suo nome subito dopo quello del filosofo: tJIIOfiens,11111qu, libi stribo et 110111111 111111111 subs,ttmdo,grav,111se&laemeae et intongr111nl1111 r,111fatio. Il Westerburg (op. tit., p. 18) ritiene erroneamente che la questione sollevata da S. Paolo sia quella di stabilire se nel prescritto il nome di colui che scrive (cioè di Paolo) deve essere collocato prima o dopo quello del destinatario. Invece nel nostro testo si dà per scontato che il nome di Paolo segua quello di Seneca(s11bs1&11111Jar1): ciò che imbarazzaPaolo è l'accostamento. Infatti, come abbiamo già osservato (cfr. sopra, p. 93), il falsario anacronisticamente immagina che Paolo, in quanto cristiano, nel prescritto collochi il proprio nome dopo quello del destinatario in segno di umiltà, adeguandosi ad un uso in vigore presso i Cristiani solo a partire dal II secolo in poi. La questione qui sollevata, in realtà, non è se Paolo deve scrivere il proprio nome prima o dopo quello di Seneca, ma se deve collocarlo nel prescritto oppure solo in calce, in fondo alla lettera, come dice chiaramente il testo: perfetta ,pistola u/#11111111 lo,11111 ,lig,r,. Il Westerburg, assai semplicisticamente e con una petizione di principio, considera questa frase, che contraddice cosi apertamente la sua interpretazione, una glossa, ma si limita ad esporre questa sua ipotesi senza giustificarla: interpolata111111ab ho111in, qui moris de quo ,pist11Ja agii ignar111 id ,x,usavisse Pau/11111 putabal, tJIIOd nomen,pistulaenonsubstrip. sissel (op. ,it., p. 47). Che la frase non sia una glossa, lo dimostra invece la lettera XII (XI), che contiene la risposta di Seneca proprio in merito al dubbio espresso da Paolo nell'epistola che stiamo esaminando. Seneca qui rassicura Paolo e dice di sentirsi lusingato che il nome dell'apostolo, anziché essere relegato alla fine della lettera, figuri accanto al proprio -155-

prima fad,, cioè nel prescritto (Si no111initJ114 11110 IIÌrtanhlset a D,o dik,1111 açttm, eril omnibus111odis, nondi,ofueris i1111,tus, sedneçessario 11/Ìxllll,(opti1111) de SeneçatllO)e non fa questione se il nome di Paolo debba essere prima o dopo il suo: Ha11titatJll4te indign11111 prima f ad, ,pistolar11111 no111inandll111 ,ms,as. Gli scrupoli di Paolo, ndl'intenzione del falsario, nascerebbero dal vedere il proprio nome vicino a quello di Seneca: quasi che S. Paolo considerasse un onore troppo grande scrivere il suo nome di homo i111b11tus (Epist. VII), nel prescritto subito dopo rusti,llluse non /1giti1111 quello di Seneca ,msor sophista 111agister tanti prindpis, ,tiam omni11111 (Epist. II). [p. 72, r. 2-3] - GRAVEM SECTAB MEAE ET INCONGRUENTEM: REM PACio: « compio un atto che è gravemente in contrasto con la mia religione» (qui gr(l1)1111 [...] et in,ongr11ent1111 ha il valore di un'endiadi). Si confronti gr(l1)1111 [•..] r,111 fado con p11toeni111 t, grmter ftdsse («agire in modo molesto») dell'Epist. VIlI; cfr. inoltre Quint. D,d. 343, p. 356 Ritter: pa11perho, j,d, re111 divi/i grav,m, 111ihi neçessariam In,ongrmns è un vocabolo postclassico, attestato in Plinio il G., Gdlio, Lattanzio, Tertulliano, etc.; cfr. ad es. Tert. Adv. Hermog. 2, 5 CCL. 1, p. 398: [nihil]imongrmnset indign11m sibija&eret.Il falsario immagina dunque che Paolo affermi che tutte le volte che scrive a Seneca e pone il suo nome nel prescritto subito dopo quello del filosofo - contravvenendo alla consuetudine romana per cui, rivolgendosi ad un senatore, ci si doveva limitare in segno di deferenza a scrivere il proprio nome in fondo alla lettera - senta di commettere un atto che è in contrasto con le sue reiterate professioni di umiltà, con i suoi propositi di rispettare le diverse mentalità degli uomini ('11111 omnibusomniaesse).

t

t-

[p. 72, r. 3] - SECTAB MEAE: cioè: la religione cristiana (è una ulteriore riprova che il falsario non fa di Seneca un cristiano. Come abbiamo già avuto occasione di osservare (cfr. sopra, p. 116), seçta con il significato di « religione » è un vocabolo che ricorre frequentemente nel latino cristiano da Tertulliano in poi. [p. 72, r. 3-4] OMNIBUS OMNIA ESSE:

DEBBO

ENIM,

UT

SAEPE

PROPESSUS

SUM,

CUM:

« Dovrei essere tutto per tutti, come spesso ho

affermato ». Il falsario si richiama qui ad alcuni passi della I epistola ai Corinzi, in cui S. Paolo afferma che ha cercato di comportarsi di volta in volta conformemente alle mentalità più diverse degli uomini, in modo da guadagnarne il maggior numero alla causa del Cristianesimo. Afferma di essersi comportato da Giudeo coi Giudei, da pagano coi pagani, da debole coi deboli (9, 22): Omnibus omniaj«tm 111111 111omnesj«ere111 salvos(e proprio sulla base di questo passo il Kraus espunge Nim). Lo stesso concetto si ritrova in un altro passo della medesima epistola (10,

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156-

33), dove S. Paolo spiega che questo suo conformarsi alla mentalità altrui non è dettato dal desiderio di trame un utile personale, ma di salvare il maggior numero di anime: Jiçu/ 1/ llfJ p,r olllflia011111Ìb11.t p/aç,o ,um (Jll41rm.t (JIIOd mihi 11/ik1st, sed(JIIOd 1111"/is, lii salvifamt.

p,rsona111 [p. 72, r. 4-5] - IN TUA PERSONA: alla lezione in llla111 @ P e>.) accettata dal Barlow, (cfr. op. nt.,p. 42): sembra preferibile in /1111 p,rsona(otK e µ.), che è da interpretarsi: « trattandosi della tua persona», « nel caso della tua persona», come ad es. in Cic. R,p. 10, 16: Sed si,, Stipio, 11/at111.t hi, hllls, 11/ egotpd le genlli,i11.tlilia111 ,o/e 1/ pi61ate111 · (Jll4t ,11111magnain parmtib111 1/ propintpds,/11111 in patria maxi111a 1st. Ricordiamo che la p,rsonaa cui si conviene o meno un certo linguaggio è termine retorico; cfr. ad es. Sulp. Vict. Rhet. 15, RLM. p. 125; Cic. D, ora/. 3, 55, 210 (ma cfr. sopra, p. 96). [p. 72, r. 5] - I.EX ROMANA: l'apostolo che nei suoi scritti afferma di aver sempre cercato di adattarsi completamente alla mentalità dei diversi individui cui si rivolgeva, afferma di sentirsi ora in contraddizione con tali principi, poiché, scrivendo a Seneca e ponendo il suo nome nel prescritto, non ha rispettato la presunta regola romana secondo cui, scrivendo ad un senatore, si dovrebbe mettere il proprio nome solo in calce alla lettera (Debeomim, [...] ,11111 omnib11.t omnia ess, l,x Romanahonorisena/11.t tontessit,pw1/ id observar,in 111ap,rsona (JIIOd fetta epistola11/tim11111 lo,11111 ,ligere).Il Momigliano (op. tit., p. 329) osserva che nessun'altra fonte conferma la notizia di questa /ex Romanain onore dei senatori. Ma qui forse bisognerà intendere /ex più come consuetudine, come norma, che come vera e propria « legge »; cfr. ad es. lui. Vict. Rhet. 27, RLM. p. 448, 23-25: Praefationesat sllbstriptiones lit11rart1111 ,omp11tandae SIIIIIpro distri111in, amitiliaea11/ dignitalis,habita ration, Che Seneca, precettore di Nerone, era senatore, il compilato11S114tllliinis. tore suppongo lo ricavi da Svetonio, Nwo, 7: [Nwo] lllldetimoanno a Clalldioadoptalll.fest Annaeo(JlllSme,ae ia111 /1111t s1naloriin distiplina111 tradilll.f. [p. 72, r. 5-6] - PERPECTA EPISTOLA, ULTIMUM LOCUM ELIGERE: la congettura del Kraus perfetta ci sembra preferibile alla lezione p,r1,,ta, data dalla maggior parte dei codici ed accettata anche dal Barlow (Tuttavia il Barlow traduce secondo la lezione p,rft,ta: « to choosc the last piace when I havc finished my letter »). Qui infatti il contesto richiede il significato di « finire », « terminare », piuttosto che quello di «leggere», « leggere a fondo» (cfr. Epist. VII: ,lii pwletto vir/11/isin te exordio,ista vox fllit). Per la verità, il Kraus è il primo editore che accetta nel testo perfetta, ma già il Fleury (op. tit., II, p. 322, nota 2) aveva osservato: « Peut-ttrc au lieu de perlecta, scrait-il mieux dc lire -157-

perft,ta, dans le sens donné par Lefebvre qui traduit: finita» (Faber, f. 228r). Altrimenti - se non si accetta la congettura del Kraus - bisogna interpretare perle,ta epistolaulti11111111 lot11111 eligere:« riletta la lettera, scegliere l'ultimo posto », pensando cioè che Paolo, dopo aver scritto o dettato la lettera, la rilegga, prima di firmarla ed inviarla a Seneca.

[p. 72, r. 6] - APORIAET DEDECORE:in luogo di aporia 3 R• hanno la variante rlliJore (roboreA R); H ha la corruttela aporiora.La lezione aporiadi P, che rappresenta un ramo indipendente della tradizione, sembra al Barlow decisiva per escludere rlliJore.Rllborepotrebbe essere una variante interlineare inclusa poi nel testo (cfr. rlliJore aporiadi C e D e aporiave/ r11bore et dede,oredi À). Probabilmente r11bore è una banalizzazione suggerita da dede,ore(cfr. ad es. rtlboret dedeNIS in Tac. Hist 1, 30: Hae, prindpatllSpraemia p11tal,(Jllllf'IIIII libido a, vol11ptas pmes ipS11111 sii, rtlboraç dedeNIS penesomnes).Aporia qui è termine tecnico: designa infatti la figura retorica che consiste nel simulare di essere in dubbio circa il modo più conveniente di esprimersi, come risulta da Isid. Rhet. 2, 21, 27 RLM. p. 520, 18: S1111t et aporia, dllbitatio simulantis nesdre se f/111# sdt a11t(JIIIJIIIOdo di,at11r.Cosi Rut. Lup. 2, 10 RLM. p. 18, 3: cbrop(ac: ho, sthema effidlllr, ,11111 q11aeri11111S (Jllida11tIJlll#lllad111odll111 pro rei dignitale di,a11111S, ne, reperirenos ostendi11111S; cfr. anche lui. Ruf. Rhet. 9. RLM. p. 40, 32 e Char. Gra111111. I Keil p. 287 sgg. (Cfr. LAusBERG,p. 383). [p. 72, r. 7] - QUODMEI ARBITRIIPUERIT:la iunctura arbitrii [•..] esseè frequente in Livio e io Seneca (Epist. 59, 18: ne arbitrii tpdd,111 alieni est; 85, 13: nostri esse arbitrii); è attestata inoltre in Columclla, Plinio (Epist. 10, 75, 2: ila 111 esseiarbitrii 111n),Quintiliano; etc. [p. 72, r. 7] - VALE, DEVOTISSIME MAGISTER:questo saluto ossequioso suggella in modo coerente l'epistola X che, come abbiamo visto, è tutta una professione di deferenza di Paolo nei confronti di Seneca. Devolllsè qui un titolo onorifico (in questo senso il vocabolo è in uso dal IV secolo), come ad es. in Prisc. Gramm. III Keil p. 465: virill11Stris, virdevotllS,vir111agnifa11S (per altri esempi cfr. Thes. V, 1, 884); cfr. anche devotio'"" del Cod. Theod.7, 20, 1 ; Aug. Epist. 88, 2 P L. 33, 303; etc. (cfr. SVENNUNG, pp. 79 e 84). Anche magisterè un'espressione di deferenza, un titolo onorifico (potrebbe derivare dal latino del Nuovo Testamento, dove è frequente al vocativo, riferito a Cristo; cfr. SVENNUNG,p. 339); cfr. ad es. Prud. Perist. 11, 233 (ad V alerian11111 epist0p11111) P L. 60, 555 A: san#e magister. [p. 72, r. 8] - DATA V KAL. !UL. NERONE Ill ET ME5sAu.A coNsuuBus: l'epistola è datata 27 giugno 58. Si noti che i codd. hanno

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Ntr01UIIII, ma bisogna emendare, con il Barlow, IIII in

m, poiché

durante il IV consolato (cioè nel 60) Nerone aveva Lentulo e non Messalla come collega. Nel nostro testo si allude invece al m consolato di Nerone, in cui l'imperatore aveva come collega M. Valerim Messa/la Corllinm.La data è omessa in molti codici (), ~ B A R S E D F O U M K: difficile stabilire se l'omissione della data da parte dei copisti sia dovuta a cause accidentali oppure sia invece dettata dal bisogno di eliminare l'insanabile contradd.izione esistente tta l'ordine logico e quello aonologico quale si ricava dalla datazione: l'epistola XII, che contiene la risposta di Seneca ai dubbi di Paolo, formulati in questa X epistola circa l'opportunità di collocare il suo nome nel prescritto, è datata 29 marzo 59. Ma non è il ritardo, con cui si presume che Seneca risponda a Paolo, che suscita la nostra perplessità, quanto il fatto che tra la X e la XII si inseriscono cronologicamente la XII (6-7-58) e la XIV (1-Pr58), interrompendone il filo logico (su tutta la complessa questione delle date, si veda l'introduz. pp. 45 sg.).

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159 -

EPISTOLA

XI (XIV?)

Il falsario immagina che Seneca scriva a S. Paolo subito dopo l'incendio di Roma del 64, mentre sono ancora in corso le persecuzioni dei Cristiani., ai quali è stata ingiustamente addossata la responsabilità del disastro. Con ogni probabilità questa epistola non faceva parte del nucleo originario della corrispondenza, ma è stata aggiunta, in un secondo momento, da una persona diversa dall'autore delle altre lettere. Aoalizzaoclo l'epistola, cercheremo proprio di verificare questa ipotesi (sull'argomento, cfr. introduz., pp. 43 sgg.). Si osservi qui intanto come anche la posizione dell'epistola nella tradizione manoscritta sia già di per sé un indizio di interpolazione: essa interrompe il filo logico che unisce strettamente la X di Paolo alla XII, che contiene la risposta di Seneca. Scavalcando la difficoltà, quasi tutti gli editori si limitano a scalare di un posto l'epistola dell'incendio, cosicché essa risulta XII in tutte le edizioni precedenti a quella del Barlow (ad eccezione di quella di Erasmo). Ma a ciò non autorizza la migliore tradizione (dei mss. a noi noti, essa è XII solo in uno dei retmfiores,il Ricc. 391). Inoltre lo spostamento scmplliica apparentemente il problema ma non lo risolve, poiché non elimina le contraddizioni esistenti tra questa epistola e il resto del carteggio, che sussistono indipendentemente dalla sua posizione.

[p. 72, r. 2] - AVE, MI

PAULE CARISSIME:

secondo la nostra ipo-

tesi, questa epistola è stata interpolata e occupa originariamente l'ultimo posto (cfr. introduz., p. 44 sgg.); ma, anche ammettendo che sia opera della stessa mano che ha composto il resto dell'epistolario, si deve in ogni caso convenire che la sua posizione attuale non può essere quella originaria, poiché attualmente l'epistola si trova inserita tra due lettere che trattano della questione del prescritto, di cui interrompe bruscamente il filo logico. Come si può quindi giustificare la sua posizione attuale

nella tradizione manoscritta? Forse - e qui possiamo solo avanza.redelle ipotesi - questa epistola, che logicamente e cronologicamente è l'ultima della raccolta (non a caso porta la data del 64, mentre le altre epistole portano le date del 58 e del 59) è stata anticipata per errore al posto della attuale XII, che comincia con le stesse parole: Ave, ,,,; Pallie ,arissi111e, precedute dall'identico prescritto SENECA PAVLO SALVTEM.

[p. 72, r. 3] - INNOCENTIA VESTRA: « voi innocenti». L'uso dell'astratto con il possessivo è particolarmente frequente nel latino cristiano (cfr. oltre, p. 192, quanto è detto a proposito dipr,,dmtia hla). -

160-

[p. 72, r. 4] - OBNOXIOSREATUI: vuol dire che possono essere facilmente accusati, indiziati di qualsiasi reato. Secondo il falsario il popolo ha un tal concetto dei Cristiani da ritenerli responsabili di tutto ciò che avviene di male nella città: obnoxiosIIOS reatuiomnispopu/111 illdi,et, p11tansa 110bis ejfidquidtpddin urbe,ontrariumftt: è un'allusione all'incendio esplicitamente menzionato subito dopo. La notizia che ai Cristiani si imputava tutto quanto era negativo, corrisponde al vero. Tacito che definisce il Cristianesimo exitiabilis mperstitio, dice che i Cristiani erano odiati per i loro delitti (per ftagitiainvisos)e che erano meritevoli di ogni pena esemplare (Ann. 15, 44): Ergo, abolendorumori, Nero mbdidit reos

et quaesitissimispoenis affedt (JIIOS,per flagitia invisos, vulg111Christianos appellabat[...] repressaq,ain praesensexitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modoper ludaeam,originemei111 mali, sedper urbemetiam, (jllO N111çta lllldi1J118 atroda allt plldenda çonjl111111t ,elebranturqm.lgitur primum ço"epti qui fatebantur, tkinde indido eorum multitlldoingens,haut proinde in mmine in,endii I.Jllllmodio humanigenerisçoni1111,ti s1111t (sull'odium humanigeneris, cfr. A. OMODEO,op. dt., p. 8 sgg.; G. Rxcc1orn, op. dt., p. 254; A. RoNCONI, Tadto, Plinio e i Cristiani in Filologiae Linguisti,a, Roma 1968, p. 165 sgg.). [p. 72, r. 6-7] - SED FERAMUSAEQUOANIMOET UTAMURPORO QUODsoas CONCESSIT: Seneca, coerente con la sua filosofia stoica, invita a sopportare serenamente le ingiustizie e a valersi delle opportunità offerte dalla sorte. Uti foro è un'espressione proverbiale (A. OTTo, Die Spri,hlll., p. 145 sg.), come spiega Donato, commentando Sdsti tdi foro di Ter. Phorm. 79: Forum pro trib111intellegitur:lo,o, tempore,

et persona,·sdsti, in(jllit, his uti. Et est vulgareproverbium.Sensumautem hk est: sdsti, inqllit,quid tefaçereoportuerit.Donato spiega anche l'origine qui ante lo,um ,omdel proverbio: Sdsti uti foro se,lllldllmillos negotiatores, 111erd nonpraesmb1111t, (j111Znto vendat(JIIIZeadveh1111t, sedse,1111dNm annonamfori (JIIIZIIIdeprehenderint, ,onsiliumde vendundisaut non vendundis111erdb111 111m1111t (/oç. dt.). La stessa espressione proverbiale si trova anche nel Qmrol111 (p. 18, 28 Peip.): Si totovis utiforo. L'anonimp, però, non sente più forse questa espressione nel senso di approfittare di una occasione propizia, ma in quella di « accettare la propria sorte ». [p. 72, r. 7) - DONECINVICTA FELICITASPINEM MALIS IMPONAT: l'invito alla sopportazione, schiettamente stoico all'inizio (Sedfera111111 ae(JIIO animo)acquista sfumature decisamente cristiane verso la fine della frase, dove il concetto della sopportazione è legato a quello della speranza nella ricompensa futura (come in S. Paolo: I Thess.1, 3; II Thess. 1, 4 sgg.; 3, 5; etc.). La invùtafelidtas è la beatitudine celeste che si realizza nel regno di Dio; felidtas con questo significato è frequente nei Cristiani; cfr. ad es. Aug. Serm. 280, 1 P L. 38, 1281: perpet111Ze felidtatis

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pr1Z1111i11111; Tert. Ad,,. H1r111og. 7, 3 CCL. 1, p. 403: solidtll,t p,rft,tae ftlidtatis, IJllll',ens,hlr 1Z1tm1ila.r; Min. Fel. 0,11111. 38, 4: 1p,111 f11hlr1Z1 ftlidlatis; Aug. Civ. 7, 1: IZllmtlZI11it1Z1 f1/idlal1111. L'aggettivo in11itlamette in rilievo che si tratta cli una felicità soprannaturale, contro cui nulla possono le foo:e terrene; cfr. Lact. [111I.6, 17, 7: illtlÌ#apatimtia. Nel latino biblico i1111i,1111 è spesso attributo divino, come ad es. &di. 18, 1: D,111so/111 [...] 111an1t inlli,1111 r,x in 1Z1lm111111. Anche negli scritti autentici cli Seneca si parla cli felicità eterna; cfr. ad es. Dia/. 7, 2, 2: Q111Z1ra11111S Ma solo appa,rgi [.••] (JIIÌdnoi in po1111sione felidtatis IZlllf'IIIZI ,0111/illlat. rentemente il concetto cli ftlidta.r è simile a quello cristiano: in realtà per Seneca non vi è nulla cli soprannaturale in senso cristiano: Ergi in llirlllteponta 11111,raftlidla.r (ibid. 16, 1); per Seneca la 11,raJelidta.rdipende unicamente dall'uomo, che la può raggiungere con il solo ausilio delle sue foo:e. L'espressione jin,111111a/is impone,-,del nostro testo riecheggia un passo delle Epistol, Morali: in ho, 111111111 11111Idi11,in ho, no,1,1, hot opm 111111111 111,haet ,ogitatio,i111poner1 111terib111 111ali1 ftne111 (Epist. 61, 1). Qui Seneca a sua volta sembra rifarsi a Virgilio: ftne111que imponm tllris (Am. 4, 639). L'anonimo conosce gli scritti autentici cli Seneca, e sa che vi si trovano spesso espressioni improntate alla speranza cli una futura cessuione cli tutti i mali, di una pace eterna; cfr. Dia/. 6, 19, 5: 11,orsdolON1111 011111i11111 ,xsollllio 11/et finii,Nitra IJlllllllmalanostranon 1x11111t f/ll'l4 noi in illa111 tran(JIIÌJ/ital1111, in fJllll anllfjlllllll llas(lrllllllr Ìllfllillllll, r,.. ponit. Gli accenni cli Seneca a questa pace futura non hanno in realtà niente a che vedere con la speranza escatologica cristiana, cioè la fede nell'immortalità dell'anima e della ricompensa nell'aldilà, ma sono espressioni del tutto coerenti con la dottrina stoica. In Seneca si trovano affermazioni contrastanti riguardo al problema dell'aldilà (per un confronto fri la concezione escatologica cli Paolo e quella cli Seneca, si veda SEVENSTER, op. dt., p. 202 sgg.). Osserviamo però che in generale Seneca tende a considerare la morte e la sopravvivenza dopo la morte una IJllll4IIÌO non risolta (cfr.; ad es. Dia/. 9, 14, 8; Episl. 71, 16; etc.). Talvolta Seneca afferma con Epicuro che lo stato dopo la morte è lo stesso che prima della nascita: la morte è la non esistenza (Episl. 54, 5; 77, 11; 99, 30; Tro. 397 sgg.; etc.); altrove invece sembra sicuro cli una vita dopo la morte, ma si tratta di contesti in cui egli deve rassicurare e confortare qualcuno, come nelle Con10/ation11 a Marcia ed a Polibio. In questi contesti, dove Seneca, smussando le asperità della dottrina stoica, parla dell'aldilà in termini volutamente poetici e sentimentali, può sembrare che si avvicini alla concezione cristiana, ma si tratta cli una somiglianza solo superficiale. Seneca è consapevole che l'immortalità dell'individuo è solo un bel sogno: illflllltmlllso11111i11111, be/111111 solllllÌ11111 (Epist. 102, 1 e 2); sull'argomento, cfr. R. HoVEN,Stoid11111 et Stoide,u Jaçea11problè1111 de l'all-delà,Parigi 1971, pp. 109-126. L'anonimo dunque, in questa epistola, ricalca passi di Seneca apparentemente vicini al pen-

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siero aistiano, ma in realtà schiettamente stoici e ne dà. un'interpretazione cristiana, cosicché la tJtraftlidtas (DiaJ. 7, 16, 1) di Seneca diventa nel nostro testo la illtJi,taftlititas, cioè la beatitudine celeste. L'atteggiamento dell'autore di questa epistola si distingue nettamente da quello che carattcrlu.a tutte le altre lettere, da cui è assente lo sforzo di mettere in luce la convergenza tra il pensiero di Seneca e la fede cristiana, e in cui tutto l'interesse è incentrato su questioni non di contenuto, ma di forma. [p. 72, r. 7-9] -

TULIT ET PRISCORUM AETAS: MACBDONEM, PmLIPPI PILIUM CYROS DARIUM D10NYSIUM, NOSTRA QUOQUB GAIUM CAESAREM: Seneca esorta a sopportare i tormenti ingiustamente inflitti ai

Cristiani da Nerone, ricordando che ogni età ha avuto i suoi tiranni: del resto la generazione di Seneca ha già dato prova di sopportazione sotto Caligola. La rassegnata sopportazione dei supplizi inflitti dal tiranno è un -r6noç di marca cinico-stoica, che dalla letteratura pagana degli Exihls illustri11111 tJiror11111 si trasmette agli Atta marl.Jrllmcristiani (cfr. A. RoNCONI, Exitus illustri11111 1Jiror11111 in Da LJ/n'ez.ioa Tatito, Firenze 1968, pp. 206-236; M. L. Rica, Topita pagana e topita mstiana negli • Atta Martyr11111' « Atti e mcm. Accad. Toscana La Colombaria », 28, 1963-1964, p. 37 sgg.). Nerone è avvicinato qui ai tiranni più crudeli della storia: Alessandro, Ciro, Dario, Dionigi e Caligola. Tutti questi esempi si ritrovano in Seneca: specialmente quelli di Alessandro (cari alle scuole di retorica) e di Caligola sono gli esempi preferiti dal filosofo, citati in moltissimi luoghi. Per quanto riguarda Alessandro, cfr. Benef. 1, 13, 1: At hi, a p11eritia latrogenti11111(JIII tJastator,tam hosti1'111 pernities(Jllll111 a111i,or11111, qlli 11111111111111 bon11111 dmeretterroriesse,1111,tis mortaJibus•••etc.; cfr. inoltre Dia/. 5, 17, 1 sgg.; 23, 1; Nat. 3 praef. 5; etc. Per Dario, e&. Dia/. 3, 16, 3, in cui Seneca narra come Dario fece uccidere spietatamente tre figli davanti agli occhi del padre: Nam ,11111 bel/11111 Sçythiisindixissetorientem,ingmtibus,rogatusab Oenobaz.o nobiliseni, lii ex tribus Jiberis111111111 in solati11111 patri relinq11eret, dllor11111 opera11t1r,t11r, p/111(Jlllllllrogabat11r pollititus omnisse il/i dixit remisS11r11111 et ottisosin tonspe,111 parmtis obietit, mlllelisf11t11rus si omnis abdllxissel.Anche Dionigi è ricordato da Seneca come esempio di crudeltà, cfr. Dia/. 6, 17, 5: Erit Dionysiusil/i, tyrannus,Jibertatis,iustitiae,le1,11111 exiti11111. I luoghi poi in cui Seneca cita Caligola come esempio di crudeltà sono numerosissimi (e il falsario dimostra di saperlo, poiché pone quest'esempio in particolare rilievo). In effetti nelle opere autentiche di Seneca i riferimenti a Caligola sono particolarmente polemici e pungenti, perché risentono dell'antica ruggine tra lo stravagante imperatore e il giovane Seneca: non sono cioè motivi puramente letterari, ma riflettono una polemica personale. Svetonio narra che Caligola, ingelosito dell'eloquenza del giovane Seneca, voleva farlo morire (Ca/. 27). -163

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Possiamo ricordare qui, tra i numerosissimi esempi, quello del D, ira, 3, 8, 3 in cui c'è la stessa contrapposizione tra il passato e il presente, ma con più lli.r polemica che nel nostro testo, dove è un motivo puramente letterario: non c'è bisogno di risalire tanto addietro per trovare esempi di crudeltà, basta prendere Caligola: Quid anliq11apersm1tor? Modo C. CaesarS,x. Papini11111, Nd pat,r ,ra/ ,tms1"aris,B1tilim11111 Basst1111 q11a1slor1111 S1111111, profllraloris SIii ftli11111, aliostp111/ s1natoreset eqllites Ro11/all()S lll10 die jlagellis çeddit, lorsit, non fjlllllSlionibm sed animi faJISa.Si noti poi in un altro passo (ibid. 3, 19, 1) il graffiante sarcasmo della dimax degli strumenti di tortura che culmina inaspettatamente con 1111/111 SIIO (ibid. 3, 19, 1): Q11a111 stp1rbaflllrit mu/elitas eim ad rem perline/ sdre [•.•] Cedderat flag,llis so1111tores: ipse effedt 111did possel: « so/et fari»,·tors,rat per omnia q,,a, in r1r11111 1111/11ra tristissima s1111t,· ftdindis talaribm, efllieo, igne, 1111/111 s110;cfr. ancora Dia/. 2, 18, 2; 3, 20, 8-9; 4, 33, 3-6; 5, 21, 5; 9, 11, 10; 14, 4-6; 9; Bmif. 2, 21, 5; 4, 31 2; etc. Si può osservare che gli esempi di crudeltà nel passato sono citati probabilmente in ordine alfabetico: Matedonem, Philippi ftli11111 [ = Alexandr11111], Cyros, Dari11111, Dionysi11111. Se ciò non è casuale, se ne può dedurre che il falsario non attinge gli esempi di crudeltà direttamente da Seneca, ma probabilmente da un compendio, o da un prontuario, in cui erano già raccolti in ordine alfabetico. [p. 72, r. 8] - CYROS: solo il codice P ha questa lezione. Il resto della tradizione manoscritta ha concordemente et post. Come ritiene anche il Barlow, questo è uno dei casi in cui effettivamente la lezione di P, che rappresenta un ramo indipendente della tradizione è preferibile alla variante testimoniata dagli altri manoscritti. Si noti intanto che et post fa subito difficoltà in quanto i nomi dei tiranni non sono in ordine cronologico (Maçedonem,Philippi ftli11111, et post [ ?] Dari11111 Dionysi11111, etc.), per cui dovrebbe intendersi, in ogni caso, in senso di semplice enumerazione e non di successione cronologica (cfr. BARLOW, op. dt., p. 38 sgg.). Inoltre il confronto proposto dal Biicheler con un passo di Seneca: Epist. 119, 17 (Kleine S,hriftm, Lipsia 1927, Il, p. 61 = « Jahrb. fiir Phil. » 105, 1872, p. 566), che potrebbe essere un indizio a favore di et post, non mi sembra in realtà particolarmente calzante o significativo: N11111q11a111 par11111 est, q110dsalis est, et n11111q,,a111 1111"111111 est, q110dsalis non est,· post Dare11111 et Indospa11perest Alexander. Qui si afferma che Alessandro, dopo aver vinto Dario e aver raggiunto l'India è ancora povero, cioè post ha valore temporale, diversamente dal nostro testo. Inoltre post è un'espressione davvero troppo comune perché si possa dimostrare che l'anonimo riecheggia proprio questo passo di Seneca: dal confronto emerge una somiglianza (se di somiglianza può parlarsi) puramente casuale. Meglio accettare la variante Cyros di P, che - a parte la difficoltà del plurale generico tra due singolari - dà -

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ottimo senso, tanto più che anche Ciro, come gli altri tiranni, è menzionato da Seneca come esempio topico di crudeltà e sfrenatezza; cfr. Bmif. 7, 3, 1; Cyrum et Cambism et 10111111 regni Persid stemmaper,mse: quem im,enies,'1li 111odu111 imperli satietasfeterit? Nel De ira (3, 21, 1 sgg.) Seneca narra poi come questi abbia sfogato la sua crudeltà addirittura contro un fiume, che non era riuscito ad attraversare: Hi, irat111 f11it genti et ignotaeet i111111eritae, sens11rae ta111m;Cyr111 jl11111ini [•.•] Ht« deinde omnemtransttditbelliapparahlmet tamdi11 asseditoperiJoneççm/11111 et LX X X amiadis diuis11111 al11e11111 in lretmtos et sexagintarivos dispergeretet sitt11111 relinqlleretin di11er111111 fl11mtib111 aqllis.

[p. 72, r. 9-10] - QUIQUID LIBUIT LICUIT:è un'antica espressione proverbiale (Orro, Spri,hw., p. 193); cfr. Aquila, Rhet. 27 RLM. p. 31, 3-4: Et frequensi/11111 apllllveteresei111 modi est: Clii tJIIOd libet, ho, litet. II proverbio è già in Cicerone (Phil. 1, 33: Li,et, tJIIOd ,lliquelibet, UJ(Jlllllllt' e in Seneca (Tro. 336: Mini11111111 de,et libere,,lii 111td111111 li,et); cfr. inoltre Pubi. 106; Spart. Car. 10. La fortuna di questo proverbio si perpetua nei secoli: esso infatti è noto a Dante, Inf. V, 56: « che libito fc' licito in sua legge», e al Tasso, Aminta, I, 2, 680-681: « legge aurea e felice/ che natura scolpi: S'ci piace, ci lice ». [p. 72, r. 10-11] -!NCENDIUMURBSROMANA MANIFESTE SAEPE UNDE PATIATUR CONSTAT: l'espressione 11rbsRomanaper indicare Roma ricorre spesso in Livio (9, 41, 16; 22, 36, 12; 40, 36, 14) cd è attestata anche in Floro (Epit. 1, 13, 21). L'anonimo immagina che Seneca abbia scritto questa lettera dopo il famoso incendio del 64, di cui parlano Dione Cassio, Svetonio e Tacito. Qui il saepelascia intendere che sciagure di questo tipo si abbattevano di frequente sulla città. Anche Tacito parla dell'incendio come di un caso che ha precedenti (Ann. 15, 38: Seqllit11r ,lades,forte an dokJprindpis in,er/11111 (nam 11tr1111u1m a11&tores prodidere),sed 0111nib111, q11,ze hui, urbiper 11iolentia111 igni11111 atddenmt,gravioratqm atrodor) e spiega che i reiterati incendi di Roma sarebbero dovuti al sistema di costruzione ed ai densi agglomerati edilizi (Ann. 15, 43). In Marziale ,as111 in 11rbe frequensè una perifrasi per «incendio» (cfr. sull'argomento, A. RoNCONI,Tadto, Plinio e i Cristiani••. cit., p. 155; P. WERNER,De intendiis11rbisRomae aetate imperator11m, Diss. Lipsiae 1906, p. 9 sgg.). Unde ha molto rilievo nella frase: è chiaramente allusivo nell'indicare il responsabile dell'incendio, cioè Nerone. Seneca, nell'intenzione dell'anonimo, appare sicuro della colpevolezza di Nerone. Fabricius appare perplesso davanti a saepe1111de che nel contesto sembra implicare frequenti incendi sotto Nerone, imputabili tutti all'imperatore: Saepein,ensam 111bNerone Romam nesdo,qui tradantsed 111111m i/l11dtelebe"i11111m in,mdium ipsi a1«toritribmmt Dio, lib. LXII, Smtoni111 in Nerone 38, Tad/111 XV Anna/., ne Christianosiam memorem(Fabricius, II, p. 901, nota s). -

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Ma la notizia dei frequenti incendi della Roma neroniana sembra confermata da Plinio il V. (N.H. 17, 1): Hae, f.,., loto, pahllara111on1111 opatitat, /asti,,ia, [•••] dllr1111mmltp11 [•••] ad N,ronis printipis intmdia ttdhl ,iridls i11111111stp11, mi pri11t1psil/e adt1/erass1t1tia111 arbort1111 111ort1111. In ogni caso i due termini saep,e 11111# sembrano in contraddwone: la frequenza implica piuttosto la casualità, mentre 11111# allude chiaramente alla responsabilità di Nerone {e su questo punto il consenso quasi unanime della tradwone manoscritta non ci autorizza ad intervenire sul testo: saep, ~ casualmente omesso solo in C). Probabilmente il nostro autore contamina due versioni molto diverse, e ci~ quella che attribuisce la responsabilità del disastro a Nerone e l'altra che tende a presentare l'incendio del 64 come un tasti/ in 11rb,JrefJllffll. [p. 72, r. 11] -

HUMILITAS HUMANA:

si noti la figura etimologica

e l'allitterazione). L'uso dell'astratto per un concreto collettivo ~ già

in Plauto e Cicerone (LEUMANN-HoFMANN-SZANTYR, p. 747; ma cfr. sopra, p. 160 e 192). In particolare, esempi di h11111tlllitas per ho111ines si trovano già in età classica, ma sono frequenti soprattutto negli scrittori cristiani (cfr. Thes. VI 3076, 60 sgg.). La iunctura humilitash11m1111a appartiene al latino cristiano; cfr. Aug. In 1t1flllg. /oh. 80, 2 CCL. 36, p. 528: extedit ho, hll111ana111 h11militat1111, extedit ang1lita111 mbli111itat1111; cfr. anche Cateth. rttd. 4, 8 CCL. 46, pp. 128-129: id,111domin111 /11111 Chrishll, d,111ho1110, et divi11111 in nos dilettionisinditi11mest, 11hll111ana1 apllll nos hll111ilitatis 1x1111pl11111. In questi contesti humilitas humana designa l'uomo nei suoi limiti che lo contrappongono a Dio. Nel nostro testo però l'espressione sembra significare piuttosto: la gente del popolo, l'uomo della strada, che nulla può contro il potente tiranno, in un'accezione più vicina se mai all'uso classico di humilitas;cfr. Cic. Sex. Rost. A111.136: Qllis 1ni111 eral, qlli non llidereth11111ilitat1m ,11mdignitatede a111plihldin1 tontmdere?;cfr. anche Val. Max. 3, 8, 7: h11111i/itas a111plihldin1111 cristiana l»n,,i/itas 11111,rari d,b,t. Forse qui l'anonimo abusa della i1111thlra h11111ana, di cui non intende il senso preciso. [p. 72, r. 12] - IN HIS TENEBRIS: « in questo clima di oppressione », ci~ sotto l'impero tirannico di Nerone. Per t1111bra1 nel senso di « tempi calamitosi », cfr. Cic. Sex. Ros,. Am. 91: qlli, ta1111J1111111 si of/111arii publitae 11111pitmta nox essei,ila Nl4bfllltin tenebriso1111Ùalp# 111ist1btlllt;cfr. anche P. red. in sm. 5: ex 111p,rioris anni ,aligin, et t1111bris /11t1111 in re publita Kalmdis lflllllllr'iisdespiGere ,o,pistis; etc. [p. 72, r. 12] - oMNES OMNIA: si osservi il 1toÀÒTCTW'\'O"·È questa una figura proverbiale, che ricorre in varie giunture dai significati più diversi {in Virgilio, Cicerone, Terenzio, Lucilio, etc.; cfr. LAusBBllG, p. 325 sg.); cfr. in particolare, Sen. Dia/. 9, 17, 2: Subii tamm 11htut vita

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«ml1111ptus p,rittd11111, si OIIJflia omnib,apalml: SIIIII,n;,,,tpdfaslidianl tpdttpddpropi,a adim1111. Esempi di ~oÀomTov sono anche in S. Paolo (I Cor. 9, 22): o,,,,,;b,uolllfliafattus 111111 1110111111s fater1111 salt10s ,· ibid. 10, 33: siad 11,gop,r olllflia0111nib,a plateo non 1J1141"lflS fJIIOd 111ihi 11/il,1sl, sed (JIIOd 111,dtis,111sa/liijianl. [p. 72, r. 13] - CHRISTIAN! ET IUDAEI QUASI MACHINATORES INCENDII: mentre le altre epistole del carteggio sono tutte dominate da uno spirito antigiudaico (nelle epistole V e VIII, Poppea. proselita giudaica, è adirata con Paolo perché si è convertito dal Giudaismo al Cristianesimo; nella XIV, Paolo esorta Seneca ad evitare le cerimonie dei Pagani e dei Giudei), qui invece i giudei sono compagni di sventura dei Cristiani. Anch'essi, ingiustamente accusati dell'incendio di Roma, sono vittime della persecuzione da parte dello spietato Nerone. È questo a mio avviso, un indwo che questa XI epistola è stata aggiunta alle altre, in un secondo momento, da una mano diversa. Il Momigliano (ari. di., p. 332) osserva che la notizia che Ebrei e Cristiani furono entrambi perseguitati da Nerone qtlasi111a,hinalores in,mdii non è attestata altrove. Con ogni probabilità si tratta di un errore dovuto al fraintendimento delle antiche fonti storiche sull'incendio: in età giulio-claudia, Ebrei e Cristiani non erano sempre distinti; cfr. Svet. C/alld. 25: llldaeosi111ptdsor1Chr,sto as.ridu6 t1111111/t11antes Roma exptdit (qui Svetonio, per llldaei intende evidentemente i Cristiani, e immagina Ctlsto ancora vivo al tempo di Claudio). Anche nel nostro testo l'errore è comprensibile, tanto più che, come osserva E. Renan (op. di., p. 155), l'accusa di incendio era rivolta frequentemente anche contro i Giudei: nel 67, per esempio, i Giudei furono accusati di aver voluto incendiare Antiochia (Flav. los. Bel/. llld. 1, 3, 2-4; cfr. anche L. HERRMANN, Q111/sChrétilflS onl wmdil Ro111e?, « RBPh », 27, 1949, p. 637). INCENDII: lllathinator in senso [p. 72, r. 13] - MACHINATORES negativo è attestato già in Cic. (Cali/. 3, 6: Atq111hor11111 0111ni11111 s11/1r11111 i111probissi11111111 111athinatore111 [••.] 1101a111) ma è più frequente nell'età imperiale; cfr. ad es. Tacit. Ann. 1, 10: 1/ 111athinator doli Caesar; Scn. Tro. 150: o 111athinator frtlJltiiset sce/1r11111 arti/ex; il vocabolo si ritrova poi in ambito cristiano, in Lact. Mori. p,rs. 1: Diotlelian,a qtd stelmlm i1111111tor et 111alon1111 mathinator/Nit; Hegesip. Hist. 1, 8, 1 CSEL. 66, p. 12, 18: 111athinator sce/eris;1, 40, 9 (p. 88, 26): ta/11111niae 111athinator1s) dove è applicato anche al diavolo: Petr. Chrys. Serm. 150 PL. 52, 601 C: çaJ/idm111athinator.

[p. 72, r. 13-14] - PRO! - SUPPLICIO ADFECTI FIERI SOLENT: pro è solo in P, ed è omesso in tutto il resto della tradwone. Il Barlow (op. dt., p. 39 sgg.) considera pro interiezione e per avallare questa interpre-

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tazionc cita un passo di Curzio Rufo (Historiae Akxtmdri Magni, 4, 16, 1O), in cui pro occupa nella frase una posizione simile al nostro testo: Prop,111ot:Ùl111 saetllli r,s in 111111111 i/111111 die111, pro! forhma t11111tilat,erit. Il fori Barlow, sempre seguendo il cod. P legge poi: SlljJplidoad/etti, IJIIOl,l so/et. Si noti che (JIIOl,l è solo in P cd è omesso in tutto il resto della tradizione (ma già il Kraus, a cui, era ignoto il codice P aveva congetturato lii fori so/et, congettura accettata poi anche dal Westcrburg). La lezione so/et è nella maggior parte dei codd. Ma qui probabilmente la lezione sembra autentica è adft,ti fori soleni(soleni8 C D H J K• À µ. v ~). Il (JIIOd interpolato, nel tentativo di salvare il senso e la sintassi. S,pplido adft,ti, fori sokt è con ogni probabilità una baoaUzzazionc di mpplido ad(JIIOd ft,ti fori soleni(cfr. anche ajfid soleni di µ.). Probabilmente non è stato compreso il costrutto adfeçtifori [= adftal soleni,del tipo misst1111 f "'er, « mandare libero» « prosciogliere da un'accusa», e degli esempi già flagellalllS,a p. 114). citati (cfr. f"'IIIS s11111

[p. 72, r. 14] - GRASsATOB. ISTE: la crudeltà del tiranno è un -r6m>c; tradizionale della diatriba e della retorica antica, di cui si valgono ampiamente gli storici cristiani delle persecuzioni e in particolare i recristiani, per i quali il persecutore è sempre dattori degli A#a 111artyr11111 un mostro di crudeltà (cfr. M. L. Ricci, art. dt., p. 48 sgg.): spesso il persecutore è oggetto di feroci invettive, come nel nostro testo dove vengono rivolte a Nerone parole offensive, come grassator.In senso negativo, come sinonimo di latro, il vocabolo è già in Cicerone (Fat. 34). Svetonio, a proposito della crudeltà di Nerone, usa questa espressione: Neç minoresan,itiaforis et in exterosgrassalllSest (36). Grassatorè frequente soprattutto nel latino tardo, in Simmaco, Amobio, Girolamo, etc.; cfr. ad es. Aug. Serm. Ed. Mai, 168, 1: grassatori/le neqllissi11111S [Satana]. Osserviamo inoltre che grassa/io perseç11tionis significa « gli attacchi della persecuzione » in Vit. Cypr. 8 CSEL. 31 , praef. XCVIIl: vastaveratpopti/11111 perset11tionis infesta, insokns al(Jll4a,erba grassatio; cfr. inoltre Comm. Apol. 183 CSEL. 15, p. 127: QIIOd,di11ne fteret grassa/io tanta /atronis[Satana].Negli scrittori cristiani grassatorè un epiteto proprio dei persecutori dei Cristiani, e dcli' Anticristo; ·cfr. Ambrosiast. In Apo,. expositio, 13 PL. 17, 887 C: Bo itaq111Anti,hristi perseflllio flllrit, sine q111J erga fide/es '1"lllielimgrassabitllf',q110eim ho, interdi,111111 viverenonpot111r1111t. Come osserva M. L. Ricci, « il persecutore, nell'ambiente cristiano è assimilato al diavolo al quale - per i cristiani - egli obbedisce perseguitandoli » (art. dt., p. 48). Coerentemente con questa tendenza, nel nostro testo Nerone è identificato con l'Anticristo, secondo un'antica leggenda che si rifa ad alcuni passi biblici apocalittici, come Apo,. 13 sgg., dove « la bestia», (-rò&rjp(ov)è Nerone (Ncrcn è ancora il nome dcll' Anticristo in Armenia, cfr. A. GB.AP,op. dt., I, p. 358); cfr. anche II Thess.2, 6-7, dove si parla dell'Anticristo (homo -

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peccati, ftlim perditionis,e di colui che lo frena (o x«ffXv), che è parsa un'allusione a Seneca (cfr. J. N. SEVENSTER, op. dt., p. 10): Et """'• iam operahlr tpdd tktineat sdtis, 111revelefllrin SlltJ tempore.Nam mysteri11m imtpitatis,· t1111fll111lii q,d tmet n1111t teneatdone,tk mediofa,t (sulla leggenda di Nerone-Anticristo, cfr. E. RENAN,op.dt.; A. GRAP,op. dt., I, p. 357 sgg.; II, p. 581; W. BoussET, Der Alltithrist in tkr Vberliifer1111g tks Jlllienth11111s, Gottinga 1895, pp. 93-98). L'identificazione di Nerone con l'Anticristo è evidente soprattutto negli Or11&11la Sibylli1111 (5, 385 sgg.; 8, 140 sgg.). Il Kurfess si sente autorizzato per questo a far risalire questa epistola al II secolo, quando sono stati composti gli Oraç,da Sfby//ina.Secondo il Kurfess, anche la notizia che i Giudei sono perseguitati da Nerone riporterebbe al II secolo, cioè al tempo delle persecuzioni di Adriano contro le popolazioni giudaiche insorte, rifletterebbe cioè un ambiente giudaico vicino all'autore degli Orll&tllaSiby//i1111: « Am auffallendsten ist die Verbindung von Christiani et lllliaei qtlllSÌ 1111Uhi1111tores in&endii. Das fiihrt m.E in die Zeit, da Juden und Christen gleichermassen unter der romischen Knute zu leiden hatten, also in die Zeit Hadrians, als der letzte Aufstand der Juden unter Bar Kochba zusammengebrochen war und an Stelle des alten Jehovatempels ein Juppitertempel errichtet wurde. Der Brief scheint mir aus der Mitte des zweiten Jahrhunderts zu stammen » ( « Mnemosyne », 6, 1938, p. 269; cfr. anche « ThQ », 119, 1938, p. 330). Ma, come abbiamo già rilevato, la notizia che i Giudei sono accusati dell'incendio di Roma e perseguitati da Nerone insieme ai Cristiani, non riflette una mentalità giudaica, ma fa pensare piuttosto ad una fonte storica pagana che confonde Giudei e Cristiani. Inoltre l'identificazione di Nerone con l' Anticristo non è sufficiente di per sé a datare l'epistola nel II secolo: la letteratura apocalittica non si esaurisce nel II secolo, ma è un genere largamente diffuso anche nel III e nel IV secolo: Nerone appare come Anticristo nel Carmen Apologeti,11m (820 sgg.) di Commodiano; anche Lattanzio (Mori. pers. 2), Sulpicio Severo (Dia/. 1, 14 PL. 20, 211 B; Chron. 2, 28-29 PL. 20, 144-145), Girolamo (In Dan. 11, 715 PL. 25, 568 B) e Agostino (Civ. 20, 19) menzionano questa leggenda. Inoltre non solo dall'analisi filologico-lingustica non emerge alcun elemento che consenta di collocare questa epistola nel II secolo, ma, anzi, al contrario, si trovano, se mai, indizi che confermano che essa risale al IV secolo, come il resto dell'epistolario (cfr. le pp. sgg. per un raffronto con la poesia centonaria del IV secolo). [p. 72, r. 14-15] - CUI VOLUPTAS CARNIFICINA EST ET MENDACIUM VELAMENTUM: « che trae godimento dall'assassinio e il cui rifugio è la menzogna ». Qui il nostro autore usa tutta una terminologia propria della letteratura antitirannica: il gusto della ,arniftçjnae l'attitudine a nascondere i propri misfatti (velament11m) sono tutte caratterizzazioni -

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topiche del tiranno; per tarnijidflll,e&. Lact. /1111.5, 12, 1 : Qllitl iisfl'Jdas tpd im l)(Jttlllltarnijidnas111tm1111 tyrt11111or11111 ad,,,rsus i11110tmt1s rabidl saCypr. D,111,tr.13 CSEL. 3, p. 361: Q1141haet 1st i111atiabilis llimti11111?; tarnijitina, rabks, qtta4 i111xplebilis libido samtiae? Per 111/a111mf11111, e&. Tac. Am,. 13, 47: HattlllllS Nero jlagitiis et steleribm111/a111mta qtta4sillit. Il motivo del tiranno che nasconde le proprie colpe è anche in Seneca, .rtdspatrori11i11111 ali(JIIOd at 111/a111mf11111. Dia/. 7, 12, 4: qtta4rmt1slibidi11ib11.t Qui 111/a11111111111J è un'allusione evidente all'incendio di cui Nerone è responsabile, ma la cui colpa è stata fatta ingiustamente ricadere sui Cristiani; cosl commenta Lefebvre d'Etaples: Etti grassatoril/e, diabolm ili, Nero, P,tri Palllif/116 111tator, tpd 11rb,111 i11,mdit,ttd tlll'llijidfllli11110tmti11111 et llllk#Orlllllet Christianorll111 IIOlll}Jtati erat, et ttd 111mdad11111 (JIIOd (Faber, f. 228v). La descriChristiam ig,,1111 mbi mppo.rtdssmt,11tla111111hl111 zione della audeltà di Nerone, qui identificato con l'Anticristo riecheggia le profezie apocalittiche, secondo cui l'inganno e la memogna caratterizzeranno l'Anticristo nelle sue manifestazioni, cfr. II Thess. 2, 8 sgg.: Et 11111, r,v1/abilllril/e ini(JIIIIS [...] ttdm 1st ad,,mtm s,"'111111111 op,ratù>111111 satillllllin 011111i llirhl/1et sig,,iset prodigiis111mdadb11.t [.••] Ideo 111itt1I Nella persona di Nerone illis D,m op,ratio111111 lf'rOris,lii tredant111mdado. (tiranno, persecutore, Anticristo) r.nlmioa la sintesi cristiana della tradi2:ione letteraria antitirannica pagana con la letteratura apocalittica giudaica: nei Cristiani si ritrovano tutti gli elementi topici dell'invettiva antitirannica pagana arricchiti dei toni profetici e oscuramente minacciosi delle Apocalissi.

[p. 72-73,

15-16] - TEMPORI suo DESTINATUS EST: si allude qui alla credema cristiana per cui Nerone-Anticristo sarebbe destinato alla fine dei tempi, credema che si fonda sui testi apocalittici (cfr. II Thess. 2, 6: 111r,v1l1tmin S111Jt1111por1) e di cui si fa interprete anche Commodiano nel Car111111 Apolog,ti,11111 (820 sgg.): Disrimm h1111, a11t1111 Nm,111111 1ss1 pri11S pllllivitin mb,: / Ipse redit itmmt mb 111fllst11111 / Qlli P1tr11111 et Patd11111 ipso sa1t11/i ftn, / Ex loris apoçryphis,qllifllit resm,afllsin ista (CSEL, 15, p. 169). C. Pascal (op. di., p. 137) fa notare che questa credema è conservata anche in Sulpicio Severo (Chron. 2, 29 PL. 20, 145 D): lntlri111 Nero iam 1tia111 sibi pro tons,i,ntia st1l1r11111 i1111isu.r, h11111anis r,bm 1xilllihlr: inter/11111 an ipse sibi mor/1111 ,onsri11,rit.Certe torpm illim inter1111phl111. Unti, treditm, ,tiam si se gladio ipse transftxlrit, Nlralo,,,dn,r11i11.t sm,ahls, 1st: 11plaga mortis ,im ,mala 1sl [Apol. s1t1111du111 illlld quodd, 10 smpt11111 13, 3]; s11bsa1t11li ftn, mittmdlls111111.JSl1ri11111 initpdlatis1xert1al. t.

[p. 73, r. 16-17] DATUM ~T

ET UT OPTIMUS QUISQUE, UNUM PRO MULTIS CAPUT, ITA [ •••]: il falsario riecheggia qui Verg. Am. 5, 815:

Un11111 pro mtdlisdabihlr,ap111 (C D e µ.,in luogo di da111111 1sthanno dabihlr, che molto probabilmente è una correzione fatta sulla base dell'esametro -170-

virgiliano). Questo verso si riferisce a Palinuro, la cui morte permette al resto dei compagni cli approdare sani e salvi. Nel nostro testo opli11111S tpas(JIII significa « tutti i migliori», con allusione ai martiri cristiani e a Cristo stesso, cioè il verso dell'Eneide è interpretato in chiave cristiana, sfruttando forse la vaga assonanza (111111111 pro 111,dlis)con il testo paolino (II Cor. 5, 14): aeslimanlesho,, (JIIOnia111 si IIn 111 pro o 111 11i b 111111orlllll.r est, "li' omnes111orltd 111111,et pro omnib11S 111orl11111 est ChristllS,lii, et qtd lli111111t, ia111 nonsibi 11it1anl, sede~.qtdpro ipsis 111orlllll.r est et re1111Texil (cfr. anche Rom. 5, 11 sgg.). È interessante osservare poi che lo stesso verso cli Virgilio, chiaramente riecheggiato nel nostro testo, si ritrova anche nel Centonecli Proba (v. 568), che immagina che Cristo preannunci con queste parole la sua morte futura e la redenzione dell'umanità. Da ciò si può arguire che l'adattamento cristiano cli questo verso dell'Eneide,non è frutto del genio inventivo del nostro autore, come hanno creduto fin qui i commentatori. Con ogni probabilità si tratta cli una reminiscenza virgiliana, non attinta direttamente dalla fonte, ma giunta al falsario attraverso la mediazione della poesia centonaria del IV secolo. Naturalmente questo non basta per dimostrare che il falsario attinge a Proba, anche se questa possibilità non è cronologicamente impossibile. Infatti le lettere del nostro epistolario si collocano tra il 324 e il 392 (cfr. introduz., p. 11) e il Centonecli Proba è della seconda metà del IV secolo. [p. 73, r. 17] - ITA ET HIC DEVOTUS PRO OMNIBUS IGNI CREMABITUR: come tutti i migliori fra gli uomini si sacrificano essi soli per molti, cosl Nerone, votato alla morte per tutti, arderà nel fuoco dell'Inferno. Pro 0111nib111 che riecheggia II Cor. 5, 14 ribadisce il parallelo CristoNerone, che qui è in contrapposizione (Nerone = Anticristo). La morte del tiranno in espiazione delle sue colpe è un -r61toç tradizionale che affonda le sue radici nel campo della legge del taglione e che ha le sue ramificazioni nella letteratura greco-romana e in quella giudaica, dove i persecutori d'Israele vengono puniti da Dio, come ad esmpio il faraone che muore inghiottito dalle acque del Mar Rosso, insieme al suo esercito (cfr. M. L. Riccr, ari. rii., p. 96 sg.). Anche nella mitologia greca si trovano esempi cli personaggi puniti perché si oppongono alla volontà di un elio, come Salmoneo, Bellereronte, Capaneo, etc. Anche in Platone (cfr. ad es. Gorgia,525 d) e in Aristotele (Poi. 1311 e 25) i tiranni ricevono la giusta punizione per le loro iniquità. Questo motivo ricorre poi in Cicerone, Seneca, Plutarco, Dione Cassio, etc. Il -r61toç attraverso i due filoni della tradizione greco-romana e cli quella giudaica giunge alla letteratura cristiana, dove appare sovente, come nel nostro testo, il motivo del persecutore dei Cristiani che è punito da Dio, a cui si ispira tra gli altri Lattanzio nel De 111orlib11S perseç11tor11111.

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171 -

[p. 73, r. 17] - IGNI CREMABITUR: çremareper « offrire in sacrificio o in voto bruciando (vittime, etc.)» è già in Livio (10, 29, 18; 23, 46, 5) e in Ovidio (Met. 13, 637; Fast. 4, 639). Qui nel caso di Nerone è applicata. la legge del taglione: Nerone che ha fatto morire i Cristiani arsi vivi, appare votato per tutti al supplizio del fuoco: ma ora si tratta del fuoco dell'inferno. Si può osservare che negli scrittori cristiani il verbo çremoè usato spesso in contesti in cui si fanno presagi di pene infernali o profezie apocalittiche; cfr. ad es. Prud. Ham. 735 CSEL. 61, p. 155: Nemo, memorSodomae,(Jlllll m1111di forma çremandiest; Aug. Civ. 18, 23: sontesaeternajlamma çremabit;Comm. Apol. 1053 CSEL. 15, p. 186: in infernoçremanhlr.In questa. epistola l'atteggiamento vctSo Nerone è profondamente diverso da quello delle altre lettere: mentre là Nerone è il principe illuminato che sa apprezzare le epistole di S. Paolo (Epist. VII) il quale gli rivolge espressioni di ossequiosa deferenza p rin, i pi s (come nella II epistola, dove Seneca è magister tanti e nella XIV, dove Nerone è detto rex temporalis)qui è il carnefice di tanti innocenti, destinato a bruciare nel fuoco dell'inferno. Probabilmente questa. epistola è stata. aggiunta. da un'altra mano per correggere, in qualche modo, la visione troppo benevola di Nerone, che caratterizza le altre epistole, in cui i rapporti del filosofo e dell'apostolo con Nerone sono sempre molto buoni, mentre è evidente l'ostilità di Poppea devota. al Giudaismo. L'autore di questa. epistola, prestando a Seneca la sua feroce invettiva contro Nerone, si propone di ridimensionare la figura dell'imperatore, ricordando che Nerone è stato il più feroce persecutore dei Cristiani, e contemporaneamente anche di affrancare Seneca da ogni eventuale accusa di complicità nella persecuzione. Contro questa. ipotesi si può obbiettare che il mutato atteggiamento verso Nerone, anziché essere dovuto all'intervento di un autore diverso, potrebbe riflettere lo sviluppo (o meglio la degenerazione) della personalità di Nerone, nel cui governo già la tradizione storiografica pagana distingue due periodi; il primo nel quale il giovane imperatore agisce sotto l'influsso di Seneca, il secondo in cui rivela la sua vera natura e dà sfogo alla sua malvagità. Ma come giustificare il mutato atteggiamento anche nei confronti dei Giudei, che in questa epistola sono affratellati ai Cristiani, vittime anch'essi della ingiusta. persecuzione di Nerone, mentre tutto il resto dell'epistolario riflette la polemica antigiudaica? [p. 73, r. 17-18] - CENTUMTRIGINTA DUAE DOMUS, INSULAE QUATsarà da intendersi come « palazzi gentilizi », che venTUOR MILIA: dom111 gono distinti dall'agglomerato delle abitazioni condominiali costituenti i vari isolati: ~esto è infatti il significato di inmlae. La cifra lj1lllthlor mi/ia di 8 e À (III! W Z X O M F ~) adottata da Barlow è senz'altro da come si trova nella maggior parte dei codici (op. preferire a q11att110r, ,it., pp. 32 e 147), e come leggono tutti gli altri editori (Fleury, Haase, -

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Westerburg, etc.), prima di tutto perché non è ammissibile che l'anonimo supponga che in un incendio di sei giorni siano bruciate soltanto quattro inmlae, cioè solo quattro stabili con alloggiamenti plurimi, inoltre perché (Jllllll111Jr milia è anche nell'ottimo À, e ciò convalida la scelta del Barlow. Per la verità il Barlow a sua volta non fa che accettare l'ipotesi del Biicheler (Kleine S,hriften, Lipsia 1927, II, pp. 61-62 « Jahrb. fiir Phil. » 105, 1872, pp. 556-567) che difende il numero 4000 (contro (JlllllllllJr adottato dallo Haase) sulla base del cod. F, da lui consultato qualche tempo prima che andasse distrutto nell'incendio di Strasburgo del 1870. Il Biicheler rileva innanzitutto l'assurdità del rapporto tra le 132 domme le quattro ins11/ae: nonIJlieo f11itmente,aptm (Pselldosen,ça) 111ad domm CXXXII ins11/as Jaçeret non plm q11att111Jr dejlagratas. Poi precisa che l'errore non è del nostro autore ma degli editori: na111 ex Argentoratensi,odke optimo ( = F) IJIIOd egoolim enotaviinsulae lilÌ, id signifoat(JlllllllllJr milia. L'anonimo fornisce qui dati molto precisi relativi al numero delle abitazioni distrutte dalle fiamme, che non sono attestati né in Tacito, né in Svetonio, che si tengono ambedue molto sulle genctali: cfr. Svet. Nero, 38: T1111, praeter im111ens11111 n11111er11m insllla1'11111 Tac. Ann. 15, 41: Dom11111 et inslllal'llm do111111 pris,or11111 dl«11marser1111t; et templor11111 q11aeamissa s1111t, n11111er11m inire halldprompt11111 f11erit.Tacito è più preciso sul numero delle regionesdevastate dall'incendio: Qtdpp, in regiones(Jllllll110rde,i111 Roma dividitllf',q11ar11111 q11atl110r integra, 111an1bant, tris solo tenm Jei,çta,,· s1ptem r1/iqllispat«a /,ç/or11111 vestigia s11p,r1rant, /açera1/ s1mmta (Ann. 15, 40). Donde attinge il nostro autore le cifre delle case incendiate (132 domm e 4000 ins11/ae) che già il Jordan (I, p. 488 sg.) riteneva autentiche? J. Beaujeu (L'inç,ndil de Rom, ,n 64 11 /es Chrétiens, « Latomus », 19, 1960, p. 68 sg.) rileva che nel nostro testo il rapporto (1 : 30) tra il numero di domm e quello di ins11/a1 non ha niente d'inverosimile ed anzi a suo avviso sarebbe pressapoco quello che si ricava dai Regionari del IV secolo, da cui risultano 1781 do111111 contro 44850 ins11/a1 per tutta la città, e 337 domm contro 8149 inslllae, per le tre regioni andate distrutte. Dobbiamo forse pensare che le cifre del nostro testo siano state calcolate approsimativamente in base al numero delle abitazioni di Roma nel IV secolo? L'ipotesi che le cifre fornite dal falsario siano una sua invenzione non appare però sostenibile. Già il Momigliano osservava che « riesce più facile immaginare un falsario pronto a servirsi di cifre preesistenti che non un falsario cosi raffinato da calcolare il rapporto tra domm e ins11/ae nel IV secolo prima di dare delle cifre di sua invenzione per le case distrutte dall'incendio neroniano » (art. rii., p. 332). Quasi certamente l'anonimo attingeva ad una fonte storica perduta che doveva trattare dei tempi di Nerone. Per M. Sordi l'attendibilità delle cifre fornite dal falsario, attinte - come tutti concordano nell'ammettere - da una fonte bene informata sui tempi di Nerone, sarebbe anche una prova della storicità dei rapporti tra Paolo -

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e Seneca. La studiosa pensa che se sono veritieri i dati storici dell'incendio, anche il rapporto di amicizia tra Paolo e Seneca, presupposto nell'epistolario, corrisponda a verità,' in quanto ricavato dalla medesima fonte: « si deve ammettere che gli argomenti a favore dell'autenticità dei rapporti amichevoli fra Seneca e Paolo presupposti dall'epistolario apocrifo dd IV secolo sono numerosi e degni di considerazione» (op. dt., p. 464). Si noti innanzitutto che l'ipotesi della Sordi è valida solo nel presupposto (che si è cercato di dimostrare fin qui errato) che l'epistola sull'incendio sia stata scritta dalla stessa persona che ha composto il resto della corrispondenza. Infatti se questa epistola è - come io credo un'aggiunta ad un carteggio tra Paolo e Seneca ad essa preesistente, le fonti dei due falsi sono diverse e l'attendibilità dei dati storici dell'epistola sull'incendio non può servire in alcun modo per dimostrare l'autenticità dei rapporti tra Paolo e Seneca, presupposti già nd resto dell'epistolario. Ma per non contrapporre ipotesi ad ipotesi, si noti che, anche ammettendo che l'epistolario sia tutto opera della stessa persona, resta da dimostrare che nella fonte storica a cui sono attinti i dati dell'incendio si facesse menzione anche all'amicizia tra Paolo e Seneca. In realtà l'attendibilità dei dati relativi all'incendio dimostra solo che chi scrive questa epistola era ben informato e si era premurato di documentarsi storicamente con precisione, con uno scrupolo del tutto estraneo all'autore delle altre lettere: questo, lungi dal poter dimostrare la storicità dei rapporti tra Paolo e Seneca, non fa altro che sottolineare la diversità dell'epistola XI rispetto alle altre e accreditare l'ipotesi che essa sia stata aggiunta da una mano diversa.

[p. 73, r. 19-20] -

KAz..APR. FRUGI BT BASSO CONSULIBUS: l'epistola è datata 28 marzo del 64. Questa data non corrisponde a quella adnotarmtXIII/ del 19 luglio fornita da Tacito (Ann. 15, 41: Fmre IJ1li Kal. Sexti/es prindpi11111 in,mdii hllim orlllm, et fJIIOSmon,s ,apta111 11rbe111 La data del 19 luglio (anniversario della presa di Roma injla111111a11erint). da parte dei Galli) era assai nota e lo spostamento cronologico del falsario non può essere errore casuale. Il Momigliano accenna alla possibilità che l'incendio sia stato anticipato per dar modo a S. Paolo, nel presupposto che fosse morto il 29 giugno del 64 (nel IV secolo si accettava già la data del 29 giugno per la morte di S. Pietro e Paolo, come risulta dal Cronografo del 354 e dal Martirologio Geronimiano), di ricevere una lettera sull'incendio prima del 29 giugno (art. dt., p. 331; cfr. anche M. SORDI,op. dt., pp. 461-462). I nomi dei consoli (si tratta di Lccanio Basso e Licinio Crasso Frugi) sono anche in Tacito (A1111. 15, 33: C. Lae,anioM. Lidnio ,onst1lib11.t amore in dies'11jJidine adigeballlr Nero pro111is,1111s s,aenasfrelJlltlllandt),ma l'autore, che, a differenza di Tacito, dà i ,ognomina:Fr11giet Basso,non li desume di qui. Come è stato osservato prima, bisogna presupporre una fonte storica perduta a cui DATA V

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il falsario attinge quei dati e quei particolari dell'incendio neroniano che non sono citati altrove. Probabilmente si trattava di una cronaca dove erano elencati anche i consoli di ciascun anno. Penserei che l'autore di questa epistola, che mostra di avere precise cognizioni storiche, sia la stessa persona che ha aggiunto le date. L'ipotesi che le date siano state aggiunte da una mano più tarda è del Momigliano cd è l'unica spiegazione plausibile per lo strano disaccordo tra l'ordine logico delle lettere e la loro incoerente datazione. Limitiamoci qui a ricordare che, in base alla datazione, Seneca risponderebbe con un anno di intervallo (23-3-59) alla lettcra di Paolo (Epist. X: 27-6-58) e che tra queste due lettere strettamente legate tra di loro, si inserirebbero senza alcun filo logico la XIlI (6-6-58) e la XIV (1-8-58; per una discussione più dettagliata sulla complessa questione delle date e dell'ordine delle epistole, cfr. introduz., p. 45 sgg.). Ora, poiché è improbabile che le date siano state aggiunte dopo il IV secolo (cfr. MoMIGLIANO, art. dt., p. 330) e l'epistola XI sembra risalire anch'essa, come il resto della corrispondenza, al IV secolo, si può supporre che questa XI lettera e le date siano state aggiunte da un'altra mano a breve distanza dal resto dell'epistolario.

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EPISTOLA XII (XI)

Questa ~ la risposta di Seneca alla X lettera di Paolo in cui l'apostolo si dichiarava in dubbio circa l'opportunità di scrivere il suo nome vicino a quello dd filosofo nd prescritto. Seneca risponde qui che se il nome di Paolo sarà strettamente unito al suo nd prescritto delle lettere, ciò non potrà che riuscire a suo vantaggio.

[p. 73, r. 2] - AVE, MI PAULE CARISSIME:il saluto è ripreso alla fine dell'epistola: Vale, mi Pa11/e,arissi111e; con un identico saluto inizia la XI epistola, cfr. sopra, p. 160. come [p. 73, r. 3] - A Doo DILECTUS:il Kraus legge adeodile,1111, si trova in W. Ma questa è con ogni probabilità una errata lettura di una smpt11ra,ontin1111. È meglio leggere con il Barlow a Deo dile,111s (op. rit., p. 40), pensando che il nostro autore voglia riecheggiare l'espressione paolina dile,ti a Deo. (I Thess. 1, 4 e Il Thess. 2, 12).

[p. 73, r. 3-4] - NON DICO[... ] IUNCTUS,SEDNECESSARIO MIXTUS: 111ixt111 serve ad accentuare i1mfl111: « strettamente unito, frammischiato». Qui il nostro autore si riferisce al fatto che nel prescritto i nomi di Paolo e di Seneca sono scritti l'uno di seguito all'altro: SENECAEPAULUS SALUTEM (Epist. X), SENECAPAULOSALUTEM (Epist. XII), etc.

[p. 73, r. 4] - (OPTUME) ACTUMERIT DE SENECATUO: ci sono della difficoltà nella ricostruzione del testo. A,111111 erit senza alcun avverbio, cosi come si presenta in alcuni codici, non dà senso plausibile alla frase: a,111111 est de aliq,,o(o de ali(Jllllre) significa « è finita per qualcuno (o per qualcosa)» con un significato opposto a quello richiesto dal contesto (cfr. Plaut. Psellli.85: A,111111 est de me hodie;cfr. anche Trin. 595; Liv. 1, 47, 9: ia111 de Sert1ioa,111111 rati; 2, 48, 5; 2, 55, 2; etc.; la costruzione è attestata inoltre in Quintiliano, Svetonio, Floro, Cipriano, Oaudiano, etc.). Lo Haase congettura (opti111e)at/11111 (op. rii., Supple1902, pp. 74-79). In base a questo suggerimento, il Westerburg 111ent11111, inserisce nel suo testo opt11111e. Il Barlow tenta di giustificare questa congettura, avanzando l'ipotesi che, nella lettura della scrittura continua OPTV MEACTV MERJT, l'omissione di OPTV ME sia do-

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vuta alla ripetizione delle lettere TVME (op. dt., p. 44 sg.). A questo aç/11111 dei codd. proposito mi sembra significativa anche la lezione apt11111 una correzione di a&/11111 inserita poi X.PO: il Barlow considera ap111111 nel testo, ma apt11111 potrebbe anche essere invece una errata lettura di op111111e. Un'altra alternativa è offerta dai codici C e K che hanno 1111&111111, ma la costruzione impersonale di a11gere con de e l'ablativo noq è attestata altrove. Concludendo, mi sembra che la soluzione migliore aç/11111 ml de Seneçalllo. sia quella prospettata dal Westerburg: opt11111e Una costruzione simile è attestata in Scn. Dia/. 6, 20, 6: Marmm Catonem si [...] mare detlorasset, [...] nonnei/li beneaç/11111 foret? Qui però c'è il dativo della persona, mentre nel nostro testo troviamo de con l'ablativo, che non è attestato altrove. La costruzione impersonale di agicon un avverbio (bene,male, optime, etc.) è attestata solo con il dativo e con ç11111 e l'ablativo (cfr. Cic. Lael. 15: mm il/o q,ddem[...] a&/11111 optime est; Sen. Dia/. 1, 3, 12; Epist. 104, 8: etc.): si tratta probabilmente di contaminaest de aliquo con beneaç/11111 est zione (o estensione analogica) di a&/11111 aliNli. Possiamo dunque interpretare tutto il passo (si mihi nominimeot1ir lanllls et a Deo Ji/eçtm omnibm modis, non Jiçofueris i1111çtm sed neçessario mixllls, opt11111e aç/11111 erit de SeneçaINO):« se il nome di un cosi grande uomo e prediletto da Dio in tanti modi, sarà - non dico congiunto ma naturalmente tutt'uno col mio, questo non potrà che essere quanto di meglio per il tuo Seneca». È la risposta alla X epistola, in cui l'apostolo si dichiarava titubante a scrivere il suo nome nel prescritto accanto a quello di Seneca. [p. 73, 4-5] -

CUM SIS IGITUR VERTEX ET ALTISSIMORUM OMNIUM MONTIUM CACUMEN: il falsario ha forse presente ls. 2, 2: Et erit in no-

llissimisdiebuspraeparatm mons domus Domini in tJerliçe111onti11111 et elet1abi111rsuper ço/les;cfr. anche Mkh. 4, 1: Et ml in notJissimodier11111, ml mons domm Domini praeparalllsin tJerliçe111onti11111 et mblimis s,per çol/es. [p. 73, t. 6-7] -

NON ERGO VIS LAETER, SI ITA SIM TIBI PROXIMUS UT ALTER SIMILIS TUI DEPUTER: l'anonimo giuoca sul doppio significato

di proximus che indica tanto la vicinanza materiale dei nomi di Paolo e di Seneca nel prescritto, quanto la vicinanza spirituale, l'amicizia che unisce i loro animi: « non vuoi che io mi rallegri se io (il mio nome) sono (è) cosi vicino a te (al tuo nome), da essere considerato un altro te stesso?» L'espressione similis lui, frequente in Plauto, Terenzio e Cicerone, si trova spesso anche nel latino biblico; cfr. Deut. 18, 18: Prophetam msdtabo eis [...] simi/em tui; ibid. 33, 29: quis simi/is lui; Exod. 15, 11: quis simi/is tlli; etc. L'immagine dell'amico che è come un alter ego è un luogo comune che si ritrova anche in Ausonio (1, 1, 2 Syagrio/ Peçtorisut nostri sedemço/is,alme Syagri / p. 3 Peiper): A11.ronim ço1111111111e111que habitas alter ego Amoni11111: / siç etiam nostropraifatus habe-177 12

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b,r1 libro, / diff,ral 111nihilo,sii llllu flll114 111nu(cfr. il nostro testo: 1111111 (Jld 111111Jllllu apllli 11 loctu, (Jld111111 111li111 lii 111111J).Ausonio dice che come Siagrio ha un posto nel suo cuore e vive in lui come un all,r tifi, cosi egli farà il suo nome all'inizio del suo libro perch~ non si possa distinguere se sia di Siagrio oppure suo. La vicioaou dei nomi dei due amici - in Ausonio come nel nostro testo - è sentita come un simbolo della vicioaou spirituale: scrivere il proprio nome vicino a quello dell'amico (come accade nel prescritto delle lettere o nella dedica delle opere) è già una professione di amicizia. Nel passo di Ausonio c'è la stessa concatenazione logica di motivi, che si trova anche nel nostro testo, cioè: la vicinanu dei nomi che richiama l'idea della coomoaou spirituale, per cui l'amico è un alter llfJ, Si tratta di motivi convenzionali, di cui il falsario si avvale meno abilmente del contemporaneo Ausonio, e la cui prcsenu oel nostro epistolario è comunque significativa in quanto conferma l'educazione retorica del nostro autore.

[p. 73, r. 7-8] - INDIGNUM NOMINANDUM: sta qui per indigmn,, nolllinari.Nella tarda latinità talora il gerundio è usato in luogo di un frlll1Nill111 infinito; come ad es. in Aug. Episl. 118, 3, 16 PL. 33, 440: (Jld D,o [...] 111111111 al(Jll411111111111111 bon11111 nosh'll111 1ss1diNIIII.Altrove, viceversa, è l'infinito che è usato in luogo di un gerundio, come ad es. ncll' Itala, in [oh. 6, 52 (cod. Vere.): dar, ad 111andN&ar1 (dove però l'infinito è dovuto cfr. inoltre Chir. Mlllo111. 779: all'influsso del greco 3ouvotL[...] cpotyei:v); 1 salis hab,o di,mdll111 (cfr. BLAisE , p. 189; ERNoUT-THoMAS,p. 270; RoNcoNI, il 11,rbolat., p. 210). [p. 73, r. 7] - PRIMA FACIE EPISTOLARUM: « all'inizio delle lettere », « nell'intestazione », cioè: « nel prescritto » (Seneca esorta Paolo a non considerarsi indegno di collocare il suo nome nel prescritto). Si noti che l'espressione prima fari, non ha altri esempi con questo significato, mentre si trova sempre col significato di « a prima vista ». « a tutta prima», cfr. ad es. Sen. Episl. 87, 1: ,u Il ho, p1111s inlff' Stoi,a n11//11111 1ss1 fals11111 n,ç la111 111irabil1 q11a111 prima paradoxa pon1ndll111, (jllONl111 fan, videlllr.L'espressione è attestata inoltre in Seneca retore, in Lattanzio, Tertulliano, Agostino, nel Codice giustinianeo, etc. Il Barlow (op. rii., p. 45) suggerisce di confrontare l'espressione simile primafront,, che è attestata proprio col significato di « all'inizio » di un'opera, o 1, 56, 1: obsç11ras diflùilts(Jll4 N1Tas di una lettera; cfr. ad es. Vcg. M11/o111. ad ç,/,ra p,rgmt,s (in origine front,s pri111a front, dig11si11111J, rons1q11e11t1r erano i margini superiori cd inferiori del rotolo di papiro: di qui l'espressione); tutti gli esempi di prima front, sono postclassici. Osserviamo inoltre che in Agostino frons ,pistola, significa « l'inizio della lettera »; cfr. ad es. C. J,çllllliin.3 PL. 42, 580: Pamittal tlll/1111 t, poli11Sflliss1 Mani,ha,11111 ttd111 01111111 Jeç,ptorias111a,hi1111tio,us lllriditafrons ,pistola, hlal """

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itlll ariett111t1 Sllbt,erterit.Nello Pseudo-Rufino, fro,u optris significa ni111ir11111 « l'inizio dell'opera»; cfr. In Os. 1, 1 PL. 21, 961 D: ordi1111t1 in front, optris t)()(abtda r,g,m, a1tat1stp14 "'11Stit111111t [•••]• Analogamente in Tcrtullia.no (Alli111.13, 2 CCL. 1, p. 799) jad,s op,ris significa « prima pagina », « pagina del titolo »: /psi posh'11110 philosophi ipsitp14111,did,

(jllt»lltlisde t111i1110 (JIIOIJll4 disp11talllri, f ade111 ta•m optrisjr011l1111tp14 111ateriae detllli111a111111Sq11istp14 prosmpsit.

[p. 73, r. 8) - NE TEMPTARE MB QUAM LAUDARE VIDBARIS: diversamente da tutti i precedenti editori, il Barlow legge /aNdar,: la lezione è solo in P, contro tutti gli altri manoscritti che hanno luder,, eccetto D che ha l,der, e ~ che ha illuder,.Se accettassimo luder,,dovremmo intendere: « affinché non sembri che tu voglia non tanto mettermi alla prova, quanto addirittura prenderti giuoco di mc ». Ma non mi sembra che la risposta sia in tono risentito, neppure di scherzoso risentimento. Meglio perciò accettare con il Barlow la lezione laudare,che dà un senso migliore: Seneca teme che Paolo voglia non già lodarlo, ma piuttosto metterlo alla prova. L'apostolo non deve esitare a porre il suo nome nel prescritto delle lettere ed a collocarsi quindi sullo stesso piano di Seneca, dal momento che anche Paolo è cittadino romano. [p. 73, r. 8-9] - QUIPPB CUM SCIAS TE CIVEM ESSE ROMANUM: dtlis Ro111an11S 111111 è un'antica formula di affermazione dei propri diritti; indignissi1111 cfr. ad es. Cic. V'". 2, 5, 147: Cervitesin çarç,refrang,bant11r dt,;11111 Ro111anor11111, 111ia111 i/la vox ,t i111ploratio « Civis Ro111an11S 111111 », qua, saep, 111111/is in lllti111is t,rris op,111 int,r barbaros,t sa/111,111 tlllit, ,a 111ort1111 i//is a,erbior,111 ,t 111pplid11111 111atllri111 f'"et. Come osserva il Fleury (op. dt., II, p. 325 n. 2), il nostro autore conosceva evidentemente i passi degli Atti degli Apostoli, in cui Paolo rivendica per sé a più riprese i suoi diritti di cittadino romano, come ad es. in A,t. 16, 37 in cui allude alle leggi Porcia e Sempronia che vietavano di fustigare cd incarcerare senza processo un cittadino romano (Liv. 10, 9; Cic. V'". 2, 5, 163 sgg.). Cosl anche in A,t. 22, 25: Et ,11111 adsh'inxiss,nt111111 /oris, ditit adstanti

sibi ,mtllrioni Pau/111:Si ho111in1111 Ro111an11111 ,t indell/llllt11111 lit,t vobisflag,//ar,? Il passo dimostra che Paolo era cittadino romano di nascita, a differenza del tribuno che lo aveva fatto legare, che dice di aver ottenuto la citta.dinanza romana pagando una grossa somma: A,tedens

i/li: Dit mihi si 111Ro111an111 es? Al ili, dixit: 1tia111. Et r,spondit trib1111111: Ego 11111/ta 111111111a ,ivi/itat,111han, ,onse'11hls111111. Et Pau/111ait: Ego 1111111s 111111 (ibid. 27-28). In un altro passo (A,t. 25, 1111/1111h'ib1111111 dixit

11-12), S. Paolo rivendica per sé un diritto riservato ai cittadini romani: quello di essere giudicato a Roma, dal tribunale dell'imperatore: Ca,sar1111 app,llo. T1111, F,stm

,11111 ,ond/io/o,111111 respondit:Caesar,111 app,llasti,

ad Caesar,111 ibis. A proposito del diritto di nascita che avrebbe assicu-

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rato a Paolo la qualità di cittadino romano, il Flcury (op. dt., II, p. 326) osserva che il nome di Tarso, città natale di S. Paolo, non figura nell"elenco delle colonie della Cilicia che ci ha lasciato Ulpiano. Grotius (Co111111tnl. in A,t. apost. xxn. 28. Crit. Satr. t. VII, col. 397) suppone che il diritto di citta.dinanzadi cui godeva S. Paolo, fosse un appannaggio particolare della sua famiglia, dovuto forse a qualche brillante azione bellica compiuta da un antenato dell'apostolo, che potrebbe essersi distinto per esempio ai tempi delle guerre civili tra Ottaviano e Cassio, o tra Ottaviano e Antonio. L'Omodco (op. dt., p. 105) suppone che capostipite della sua famiglia fosse qualche giudeo di Cilicia catturato durante la guerra piratica da Pompeo, e poi liberato (cfr. anche W. SESTON, Tert11/lim et /esoriginesde la dtoyemutlromainede S. Patd, in AA.VV., Neoleslammti,a et Patristi,a, Lcida 1962, pp. 305-312). [p. 73, r. 9-10) -

NAM QUI MEUS TUUS APUD TE LOCUS, QUI TUUS

ur MEUS: S. Girolamo nel noto passo del De viris illustribus,12 (cfr. introduz., p. 11 sgg.) sulla base di Gal. 4, 12 (Estole si,111ego,q,da et egositui vos,fratres, obsetroIIOs)interpreta questo passo nel senso che Seneca vorrebbe essere presso i suoi concittadini nella stessa considerazione in cui Paolo era tenuto presso i Cristiani: optare se didt eius esse/od apud Sll()S Nliussii Patdus apud Christianos.Ma il testo, cosl come ci è tramandato, non corrisponde all'interpretazione di Girolamo. Per questo Erasmo ricorre ad un emendamento che si trova già proposto almeno in una correzione interlineare del cod. Bodl. 292 (~), che dà il senso di Girolamo: na111 qNi IIIIISest apud lllos /oçus,veli111 111111eos sii 111eus. Ma si tratta di una evidente forzatura del testo, suggerita dal passo di Girolamo. Il Westcrburg, che intende lo,us come «posizione» del nome nel prescritto, espungc apud te: ne risulta una frase (na111 qNi111nu, IIIIIS/oçus,qNiIIIIISveli111 11/111eus) che non dà neppure cosl il significato presupposto da Girolamo. Ma qui non mi pare il caso né di espungere apud te, né di emendare in apud IIIOs.L'espunzione sarebbe arbitraria e l'emendamento non è necessario poiché apud te può benissimo significare « nel tuo ambiente » cd equivalere ad apud lllos (cioè: « presso i Cristiani », cosl come interpreta Girolamo). Poi, come osserva giustamente il Trillitzsch (op.dt., I, p. 177), /oçusindica qui tanto la posizione di Seneca e Paolo nel mondo, quanto la posizione dei loro nomi nel prescritto. Girolamo dà rilievo ovviamente all'interpretazione di /oçus come « prestigio », « considerazione », perché maggiormente si prestava al suo scopo, che era quello di « nobilitare » le origini del Cristianesimo agli occhi dei pagani, mostrando quanta stima Seneca nutrisse nei confronti di Paolo. Noi, però dobbiamo tener conto anche dell'altro significato, poiché qui si giuoca proprio sul doppio significato di lot11.t.C'è chi interpreta il passo come una esortazione di Seneca affinché Paolo collochi il suo nome al primo posto nel prescritto, invece VBLIM

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che al secondo che il filosofo vorrebbe fosse riservato a sé: contro questa interpretazione, oltre agli argomenti già discussi (cfr. quanto è già stato osservato a proposito di mbsetlllldo,a p. 155), basti qui notare che Seneca si contraddirebbe subito apertamente nel prescritto della lettera successiva (XIII), dove il suo nome è come sempre al primo posto: SENECA PAuLO SALUTEM (per il prescritto della XIV, si veda la discuss_ione a p. 188). Quindi è errato interpretare questo passo come un reale invito a scambiare l'ordine dei nomi del prescritto: si tratta di una frase convenzionale, di una formula di cortesia, con cui si immaginache Seneca, oltre a rassicurare ulteriormente l'apostolo dell'opportunità di collocare il suo nome nel prescritto, ribadisca anche tutta la sua stima nei confronti di Paolo, proprio giocando sul doppio significato di lo,u.r.Intenderei: nelle tue lettere (apllli le) il mio lo'11f (cioè il mio posto, che può essere solo nel prescritto) è anche il tuo: magari il tuo lo'11f(cioè il tuo prestigio) valesse anche per mc (1111111111): potessi considerarlo come mio. Si potrebbe anche intendere: la mia posizione di cittadino è già secondo te (aplllite: cfr. """ snas 1, n111111 use R) anche la tua, etc.

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EPISTOLA XIII

In questa, come nella VII epistola, Seneca invita Paolo a rivestire i suoi concetti di una forma più elegante e raffinata, adeguata all'altezza del contenuto.

[p. 73, r. 2] - ALI.EGORICBBT ABNIGMATICB: l'avverbio a/1,gork, è un vocabolo postclassico tolto dalla grammatica e dalla retorica, attestato presso gli scoliasti (in Porfirione, in Scrvio, nel Co111111mto a Lucano, negli S,holia a Persio) e nella esegesi del testo biblico presso Tertulliano, dove è usato per la prima volta (Ab. Mar,. 3, 5, 4 CCL. 1, p. 513; ibid. 4, 20, 4, p. 595; Rlsllf1'.27, 4 CCL. 2, p. 956 [qui però ibid. 31, 1, p. 960), Amobio (Nat. 5, 36), Girolamo altri legge a/Jegorita]; (In Is. 5, 22 CCL. 73, p. 212; In Soph. 1, 10 CCL. 76 A, p. 667), Ago32, stino (Gm. ad litt. 4, 28 CSEL. 281, p. 126; Conf. 13, 24, 37; Ser111. hept. 3, 24 CCL. 33, p. 192). Per quanto concerne 6 P L. 38, 198: Q111J1sl. amigmatiteè interessante notare che questo avverbio, oltre che nel nostro soltanto nel cosi testo, si trova, almeno a quanto risulta dal Th1sat1r11s, detto Tratlahls Origenisde libris SS. smphlrart1m,16, 8 (Ed. Battifol-Wilmart, Parigi 1900, p. 171), opera attribuita a Gregorio, vescovo d'Elvira, che si fa risalire al IV secolo. Ricordiamo che amigma appartiene al linguaggio retorico classico. Per Cicerone e Quintiliano è sinonimo di oscurità (nel linguaggio retorico è frequente la iunctura allegoria et amigma: gli esempi sono numerosi; cfr. LAUSBERG, passim). In Quintiliano l'amigma è una degenerazione dell'allegoria(Inst. 8, 6, 52): allegoria,(Jlllleest obsturior,amigma didlllf', etc. Lo stesso concetto è già in Cic. De orat. 3, 167: Est ho, magnumornamenhlmorationis,in aenigIJIIO obsturitasfugiendaest,· et enimho,/ere generefomt ea, (J1llll djç1111111f' mata. Al nostro autore S. Paolo riesce dunque difficile e oscuro: gli si rimprovera di esprimersi in modo non chiaro invece che ornato. Anche Girolamo ammette che lo stile di S. Paolo risulta talora oscuro, involuto, e afferma tra l'altro che le traduzioni latine contribuiscono a rendere ancora più oscuro il pensiero dell'apostolo; cfr. Epist. 121, 10: /J/llli IJIIOd trebro diximm: «Et si imperihlssermone,""" tamm sdmtia » [II Cor. 11, 6], ne(J1lll(Jllllm Pamum de humilitate,sed det:Oflsdentia 11eritatedixisse etiam n1111, adprobam111. Profllllliosmim et retonditos senSIIS /ing11a non expli,at. Et, ,11mips, smtiat, quid lo(Jllllhlr,in alimas a11res -

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pro """ potesi lrans/6"1ser111on1. Q111111 tt1111 in ""1IIJadaling,,ahabeatdiser,iri tissi11111111 (tpdpp, H1bra111S ,x Hebrads, et mldilllS ad p,des Ga111ali1/is, in leg, dotlissi1111) seipm111 interpr,tari t,pims, imJOltlilllt'. Si IZll/1111 in Gr1Uta ling,,aho, li atddit, (Jtl4111 n111ril11S in Tarso Cilidae a partJaaela/1inbiberal, tpddde Latinis ditmdll111, tpd 11erb11111 d, verbo1xpri111er1 tonanl1s,osbsttlrior,s f ad11111 eillSsmtmlias: vel11tiherbistrestmlibus,fr111,11111 strang,Jant11bertale111? (sul giudizio di Girolamo intorno allo stile di S. Paolo, cfr. G.Q.A. MlmRsHOBK, L, lalin biblifJIII d'aprèssainlJirA1111, Utrecht 1966, p. 18 sg.).

[p. 73-74, r. 2-3] - ALI.BGORICB BTAENIGMATICB MULTAA TB USQUEQUAQUE[OPERA] COLLIGUNTUR: il Badow legge invece (com'è nella maggioranza dei codici): Al/egorit11/ amig111alit1 1111"/a a 11IISfJIIIIJllllfJIII opera tollitillltlllT.Il Barlow pensa stranamente che çol/ider,possa significare qui « comporre », mentre, come lo stesso Barlow è costretto ad ammettere, è« unexampled in sensc to compose» (op. di., p. 72). D'altra parte non convince neppure l'ipotesi del Kurfess (ari. dt., « Aevum », per al/e26, 1952, p. 46) che legge ditta con W (cfr. Gal. 4, 24: (J1l4ISIIIII goria111 ditta) ed emenda t0llidmtl11T in tollalldanlllT (a/1,gori,,11aenig111alit1 1111"/aa /1 ditta IISfJlll(J114fJ111 tollalldanlllT). Neanche la variante toncllllillltlllT (U), accettata dallo Haase, è soddisfacente. Sarei qui propensa ad ac(cfr. KuRPESs, ari. di., « Mnecettare la lezione del codice T tolligt111/11T mosyne », 7, 1939, p. 240) e considerare interpolato opera(che è omesso in 3 C D), intendendo: « molte cose cono argomentate, dedotte per via di allegorie, etc.». [p. 74, r. 3] - RERUM TANTA VIS ET MUNERISTIBI TRIBUTA:la r,r11111tlisè la « ricchezza di contenuto ». Vis ricorre spesso nel linguaggio retorico (come del resto la maggior parte dei termini usati in quest'epie si contrapstola). La tlis è una dote innata che è frutto dell'ingmi11111 pone perciò al '111111.t che è frutto delI'ars; cfr. ad es. Quint. /nsl. 2, 5, 23:

anlilJIIOs legere(ex tpdbm si ads11111al11T solidaat virilis ingeniivis, detersorllliissaetlllisqualore,/11111 noslerhit tllllm tlarim enilest1I)et novos, tpdbus et ipsis 111111/a virlm adest. Nel nostro testo, però, il vocabolo vis è unito anche a 1111111m: con ciò il falsario intende affermare che, nel caso S1111Sm1111/

di Paolo, l'altezza dei pensieri non è dovuta tanto al talento innato, quanto invece all'ispirazione divina: è un dono cli Dio (libi lrib11ta; cfr. sotto: generosi1111111,rls cont1ssio).M1111m infatti è un tecnicismo religioso per indicare la grazia divina (cfr. MoHRMANN,I, p. 117).

[p. 74, r. 4] -

l'espressione è tolta dal linguaggio retorico (Cic. De ora/. 2, 122: ornammladitmdi; I Fin. 5, 14: "'114111111/a oralionis; Quint. Insl. 1, 8, 10: ornamm/11111 eloq111ntiae). La i,wlllra è anche in Mario Vittorino Rh,t. 2, 13 RLM. p. 270, 15 sgg.: ORNAMENTO

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VERBORUM:

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OlltflÌS ,,,;,,, lottlS to1111111111is loNdiOIIIIIII """'" 111rbortl111 SIIIII fllll smlmlianl111.

orna111mladesitkral, (Jllll4 ""'

[p. 74, r. 3-4) - ET IDEO RERUM TANTA VIS ET MUNERIS TIBI TRIBUTA NON ORNAMENTO VERBORUM, SED CULTO QUODAM: DECORANDA EST: ancora una volta Paolo è criticato perché non si esprime in una forma degna della forza della sua ispirazione: i suoi scritti sono lodati per il contenuto, ma sono criticati per il loro stile privo di eleganza (come nella VII epistola: Ve/l,111itaque,""" res eximiasproferas,111makstali ear11111 ttdhls sermonisnon desii). Il falsario sembrerebbe riferirsi qui, come nella VII epistola, agli scritti autentici di S. Paolo e non al carteggio fittizio (dello stesso avviso è il Ku&FESS, ari. dt., « Acvum » 26, 1952, p. 46). Nella VII epistola, infatti, il falsario, che muove all'apostolo le medesime critiche, fa esplicito riferimento alle epistole ai Galati cd ai Corinzi. Inoltre, poiché in questa XIlI epistola Seneca esorta Paolo ad gerere),nasce il sospetto « attenersi al puro stile latino » (lalinitali 111ore111 che il falsario, che leggeva la Bibbia in una versione latina prcvulgata, ritenesse che anche le epistole paoline fossero state redatte originariamente in latino. Sta di fatto che in tutto l'epistolario, il nostro autore ignora, o finge di ignorare, che la lingua di Paolo è il greco. Nel IV secolo lo stile delle prime versioni latine della Bibbia, cosi lontano dai modelli classici, era oggetto di forti critiche da parte dei letterati educati al culto della bella forma, che ostentavano un atteggiamento di sufficienza nei confronti di tutta la letteratura cristiana. Le loro critiche erano in parte condivise anche dai Cristiani colti, che in questo periodo sentivano vivamente l'esigenza di dare ai contenuti cristiani una adeguata veste esteriore, cosi da competere anche sul piano formale e stililistico con la letteratura pagana (cfr. introduz. p. 53 sgg.). Il falsario che auspica una educazione retorico-stilistica dei Cristiani, si fa dunque portavoce di questo stato d'animo dei letterati colti: da un lato vuole combattere la prevenzione dei suoi contemporanei nei confronti del testo biblico, dall'altro, però, riconosce la necessità di un'educazione retorico-stilistica dei Cristiani. Ed è proprio quest'ultimo aspetto che inconsciamente prevale sullo scopo apologetico. Cioè il nostro autore, qui, si lascia prendere la mano, e più che mettere in rilievo i pregi di contenuto degli scritti paolini, come probabilmente era sua intenzione, ne mette in luce i difetti stilistici (o pretesi tali). Che lo stile di S. Paolo non fosse particolarmente apprezzato dai letterati, appare chiaro anche da un passo di Filastrio che osserva, a proposito dell'epistola agli Ebrei, che si dubitava della sua autenticità perché era scritta con una certa eleganza stilistica (Di11ers.haeres.89, 3 CSEL. 38, p. 49): Et in ea tpda rhetorite smpsit, sermoneplallSibili, inde non plllanl esse ei11Sde111 apostoli.

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[p. 74, r. 4-5) - NEC VEREARE, QUOD SAEPIUS DIXISSE RETINEO: il falsario immagina che Seneca esorti Paolo a non lasciarsi influenzare da quei luoghi delle sue opere in cui egli ricorda di aver messo in guardia contro l'eccessiva cura formale. Il nostro autore sembra qui essersi reso conto di aver calcato un po' troppo la mano insistendo sulla necessità di una maggiore cura della forma e dello stile negli scritti di Paolo, attribuendo cosl a Seneca preoccupazioni di eleganza formale che non troviamo negli scritti autentici del filosofo; perciò va considerato come interpolato il te di alcuni codici (dixisse te C D J te dixisse H L• ). µ. ~) con cui si alluderebbe a un timore espresso da Paolo che la cura formale sia a danno del contenuto. Il nostro autore, che conosce le opere di Seneca, sa che egli esorta più volte a non dare importanza alla forma e a badare invece al contenuto: Q11aere quidsmbas, nonq,taemodmodllm (Epist. 115, 1); Non tkle,tent verba nostra, sed prosint (Epist. 75, 5; cfr. anche Epist. 52, 9-15; 100; 114; etc). Il falsario cerca di minimizzare quindi la contraddizione esistente tra ciò che egli fa dire a Seneca ripetutamente in questa corrispondenza e le affermazioni che si trovano negli scritti autentici del filosofo, in merito al ,11/trasermonis.Infatti Seneca, al contrario del nostro autore che raccomanda il bello stile, mette spesso in guardia dai possibili eccessi in cui può cadere chi dà troppa importanza alla fonna; cfr. Epist. 114, 1O:pro t11lt11 habetllf'atldax translatioaç freql#IIS; Epist. 114, 17: si, Sai/ratio vigenteanp11tatae sententiaeet verbaante expe,lalllm ,atkntia et obstllf'abrevitasjllef'epro ç,d/11.Ma, del resto, il nostro autore non ha poi tutti i torti quando invita a non prendere alla lettera e a ridimensionare le affermazioni di Seneca riguardo all'opportunità di dare poca importanza alla forma. Infatti, benché il filosofo enunci una teorica opposizione ad ogni ricerca di effetti oratori, nella prassi usa spesso artifici retorici per dare rilievo ai suoi pensieri. Inoltre qui, a mio avviso, è in giuoco anche la confusione tra i due Seneca: il nostro autore infatti, come i suoi contemporanei, non fa distinzione tra Seneca figlio e Seneca padre e attribuisce al filosofo anche gli scritti retorici del padre (cfr. oltre: qui talia adft,tent seflSIIS ,0"11mpere,e il raffronto con un passo delle Controversiaedi Seneca padre).

[p. 74, r. 5] - DIXISSE RETINEO: retinere col significato di « tenere a mente » (più comune con questo significato la iunctura memoria retinere)è attestato in Geli. 17, 9, 16: sive Hasdr11bal sive quis a/ira est non retineo,in Ulpian. Dig. 35, 1, 92: Retineo me dixisse, tkfaere eosa petitione jidei,ommissi;etc. Il vocabolo in questa accezione, è frequente nel latino cristiano: si trova in Lucifero di Cagliari, Agostino, Cassiodoro ed altri. È attestato anche nella V11lgata,in II Thess.2, 5: Non retinetisqtll)d, &11111 adht« essemaplllivos, hau di,ebamvobis? CTr. anche LI«. 8, 15: Q111Jd a11te111 in bonamte"am hi s,mt qtd in ,ortk bonoet optimoallliientes11erb11m retinent et frtal11m affer,mt in patientia. -185

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[p. 74, r. 5-6) - QUI TALIA ADPBCTBNT SENSUS COR.R.UMPERB: chi SÌ preoccupa troppo della forma finisce per guastare il contenuto. Poscon s111t111tias torr11111p,r1 siamo confrontare la iunctura smstlS di un passo di Seneca padre (Contr. ,x,. 9, 5): Habtt ho, MontllllllSr,iti11111: smt111tiasSllas rep,tmdo '°"""'Pii, dM111 noneontml#s1111a111 r,111s,111,Ibnu dker,, ,j/idt ne benedixerit. Qui probabilmente l'anonimo riecheggia Seneca padre confondendolo col filosofo. Il concetto che l'affettazione, il troppo zelo può far degenerare l'orazione è un -r6noc;che ricorre spesso, tra gli altri, in Quintiliano (IMI. 8, 3, 56: x«X6t;YJÀov, id 111malaadft,tatio: e&. anche ibid. 8, 3, 58; etc.).

'°"""'p,r,

[p. 74, r. 6) - l\ER.UM VIR.TUTES EVIR.AR.E: 11irl#squi è termine oratoria, 11irhd1s;Quint. retorico (cfr. ad es. Cic. Brt1t. 17, 65: 0111,us Inst. 2, 15, 34: oralionisOlllfllStlirhlt1s;8 praef. 117: 11irt11t1111 [...] dimldi. Gli esempi sono numerosi (cfr. LAusBER.G, passim). Ellirare in senso traslato, col significato di « indebolire », « rendere vano » è attestato nel latino tardo, come ad es. negli S,holia a Persia (1, 95): rohllr lalmitatu mravi11111S, lin!Jlalinterlllis,mdoGrai,as glosstdas;cfr. anche Oaud. 111spretu noMam. Epist. 2 CSEL. 11, p. 205, 26 sgg.: i/llld [...] IJIIIIISO, r,itianl111 rali1111'1llartl111 plllrilib11SnNgis,mJl11111 /eçlitandisbis t1111p,u inst1r1sonanliN111 ser111tmndorN111 laJlf'tasrotant 11 oratoria111 111as(IJIIIII) IJIIIISlkllll fortihldin,111plalldmtib11Seondnmliis mrant. [p. 74, r. 7) - LATINITATI MOREM GER.El\E: lalinitas, che è un tecnicismo retorico, indica la correttezza del linguaggio, la purezza ser1110111111 pllTIIIII dello stile; cfr. Rhet. ad Her. 12, 17: Lalinitas 1st IJIIIII (I Greci dicevano lllYJYLa(-t6c; con anaçonsm,at,ab 011111i 11ilior1111ohl111 lgo senso); cfr. anche Quint. Inst. 8, 1, 2; Sulp. Vict. Rhet. 15, RLM. p. 320, 31 sgg.; per altri esempi, cfr. LAusBE&G, p. 254). La costruzione 111or1111 gerer, con il dativo (latinitatt), usata come nel nostro testo, a proposito dello stile, è attestata in Seneca padre (Contr. 4 praef. 9): /Ile ;,, ho, seolaslids111or1111 ger,bat,ne 11erbis ,akalis et absoletu11ter,111r. Il costrutto è attestato anche in Seneca filosofo, ma in un diverso contesto (Cle111. 1, 7, 4): HN111ili lotoposilis exer,ere111an#111, litigare,in rixa111 a& 111or1111 ira, s11111 gerer, liberillSest. Si noti poi che l'espressione latinitali 111or1111 gerer,, che significa appunto « attenersi al puro stile latino » è un'ulteriore prova che la nostra corrispondenza è stata composta originariamente in latino e fa ·cadere la macchinosa ipotesi dello Hamack (Ges,h. d. altlur,hl. Liii . ... cit., I, p. 765), del Pascal (op. dt.) e di altri, i quali suppongono che essa fosse stata scritta originariamente in greco. Secondo il Pascal, questo presunto apocrifo greco sarebbe stato molto più ampio dell'epistolario a noi pervenuto e tale da ingannare S. Girolamo. Esso sarebbe stato successivamente tradotto ID latino (il Pascal non precisa in quale periodo, ma dice semplicemente: « in secoli bar-

pro"'""'

-

186 -

barici ») e ne sarebbero state censurate, per un qualche scrupolo dogmatico, alcune parti di contenuto dottrinale. Della lingua originaria, però, sarebbero rimaste traccie nella nostra corrispondenza in alcuni vocaboli come sopbia(Epist. XIV) e aporia(Episl. X). Ma sophiaè un vocabolo piuttosto comune cd aporiaè un tecnicismo usato normalmente dai retori latini (cfr. sopra, p. 158). Come si vede, gli argomenti addotti dal Pascal sono del tutto inconsistenti. Infatti la presenza di qualche vocabolo di origine greca non dimostra affiitto che la nostra corrispondenza è stata tradotta dal greco, poiché la lingua degli scrittori della tarda latinità, anche per influsso del latino biblico, è assai ricca di grecismi 1, passim; MoHRMANN,I, p. 41 e passim). (cfr. BLAISB [p. 74, r. 7-8) - SPBCIBM ADHIBBRB: l'espressione appartiene al linguaggio retorico; cfr. Cic. De ora/. 2,294: Adhibereq111111dam im ditendo sp,dem altJI#pompam. Qui il nostro autore si fa portavoce dell'esigenza particolarmente sentita nel IV secolo da parte dei letterati colti di vedere espressi in una forma elegante e raffinata la materia biblica, cioè di dare un paludamento classico alle Sacre Scritture. Ne è una testimonianza la fioritura di trasposizioni poetiche dei V angeli, che, se lasciano molto a desiderare dal punto di vista poetico, pure testimoniano con quanto zelo e con quanta buona volontà i letterati cristiani, sfruttando la loro abilità e la loro preparazione culturale contribuissero validamente alla propaganda cristiana: anche il nostro autore si muove su questa linea. [p. 74, r. 8) - GENEROSI MUNERIS CONCBSSIO: il nostro autore torna nuovamente a ribadire il concetto dell'ispirazione divina dei pensieri di Paolo (cfr. Epist. I: QIJ()ssmSIISnonp11toex le di,tos, sedper le, e in questa stessa epistola: rer11m tantavis et 1111111,rls libi trib11ta (cfr. sopra). BT SABINO [p. 74, r. 9) - DATA PRIDIB NoN. luL. Lu(R)CONB CONSULIBUS : questa lettera è datata secondo i consoli suffetti del 58 e porta la data del 6 luglio (sulla complessa questione della data. cfr. inttoduz., p. 45).

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187 -

EPISTOLA XIV (Xll?)

In questa epistola si auspica un'attività missionaria cli Seneca: alla considerazione che il filosofo ha quasi raggiunto la inr,pr,betuibi/issophia ai accompagna l'esortazione a « farsi testimone cli Gesù Cristo alla corte cli Nerone».

[p. 74, r. 1] - SBNECAEPAULUSSALUTEM:la maggior parte dei codd. e quasi tutte le edizioni hanno: PAULUSSENECAESALUTEM (Westerburg, Haasc, Barlow, etc.). In tutto l'epistolario sarebbe questo l'unico caso in cui il nome di Paolo precederebbe quello di Seneca nel prescritto. Con ogni probabilità si tratta di un eccesso di zelo di qualche copista che ha frainteso un passo della X epistola: siccome Paolo aveva confessato, ll, di sentirsi in imbarazzo nel porre il suo nome, nel prescritto, subito dopo quello di Seneca, allora i copisti, qui nella XIV, lo collocano al primo posto. Ma come abbiamo già a p. 155), in realtà, nella X epistola, rilevato (cfr. sopra, mbs1t1111do, la questione non è se Paolo debba collocare il suo nome prima o dopo quello di Seneca, ma se deve metterlo nel prescritto, oppure solo in calce in fondo alla lettera, perciò qui è meglio leggere con K: SENBCAEPAULUSSALUTEM (cfr. anche Annto Smt,ae Palliussalute111 Q). [p. 74, r. 2] -

SUNTREVELATA QUAEPAUCIS DIVINITASC0NCESSIT:il vocabolo rntlart in seguito all'avvento del Cristianesimo si carica di un nuovo significato messianico: la Rivelazione è il messaggio di salvezza svelato da Dio all'uomo (cfr. MoHRMANN, I, pp. 11 e 14). Rnelare (cbtox«Àu1t-n:tv) qui è un tecnicismo religioso che indica quel particolare stato di grazia in cui Dio parla al cuore del1 , p. 631): qui ab l'uomo, ispirandolo, come in S111r.Lton. 1281 {BLAISE i111111msae gratiat rmlationibusinspiratus(si tratta di Giovanni evangelista). Ptrpmdert significa « ponderare », indica un riflettere particolarmente attento, soppesando tutti gli aspetti di un dato problema; cfr. Lucr. 2, 1041-1042: std 111agis atri/ iudidoperpmtk; Cic. Mur. 3: Catoni 11Ìla111 ad ,trta111rationis nor111a111 dirigtnti et diligmtissi111e perpmtknti 11101Mtnla oj/idoru111; Sen. Dia/. 6, 18, 8: Dtlibtra teN1111 ti perpendefJ"Ìd 11tlis.Secondo il nostro autore, Seneca sarebbe uno dei pochi eletti a cui Dio ha rivelato verità che a molti rimangono celate. Il falsario afferma che Seneca PERPENDENTI

TIBI BA

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è illuminato da Dio (ea Sllllt rnelata fJllal palld1 divinita1çonçe1.rit) mentre è immerso nelle sue riflessioni filosofiche (p,rpmdenli libi). Secondo il

nostro autore dunque sarebbero proprio le meditazioni filosofiche a mettere Seneca in condizione di essere illnroioat.o da Dio intorno a quelle verità che a pochi è dato conoscere; qui sembra implicitamente riconosciuto il valore propedeutico della filosofia nei confronti della fede. Il nostro autore considera infatti la filosofia come il gradino di un iter che avrebbe portato Seneca alla fede. In questo presunto itinerario mistico di Seneca, S. Paolo svolgerebbe un'importante funzione, quella di stimolare la coscienza religiosa del filosofo. Tale funzione, o per meglio dire, missione sarebbe facilitata dal fatto che Seneca è un campo estremamente recettivo per questo tipo di stimoli: in agro iam fertili 11111111jorli1.rim11111 llrO.

[p. 74, r. 2) - DIVINITAS: il vocabolo è piuttosto raro presso gli scrittori non cristiani. La sua diffusione in ambito cristiano è dovuta in gran parte all'influsso del greco nella letteratura di traduzione: divinila.tsi afferma nel linguaggio religioso, come calco del greco TÒ&ei:ov, &e,6nic;, come si ricava anche da un passo di Agostino (Civ. 7, 1): Han, divinilatem,v,/, 111Jiç dixerim deilalem(nam et ho, verbouli iam noslro1 nonpiget, lii de Grae&oexpres.rimtransferanl id qlllJdil/i .&it,6~« appellant). Nella VII/gala figura due volte nelle lettere paoline, in Rom. 1, 20: sempiterna(JIIO(Jll4eim virtm et divinita.t(~ -re cH3,oc;«ù-tou 3uv«!J.Lc; x«l &e,6nic;) e in Col. 2, 9: tpda in ipso inhabilalomnisp/milllt}qdivinitalis,orporaniiv TÒ1tÀ~p!J.« -njc;.S-&6nJToc; a!J.«TLxc7>c;). liler (6T, l:v «ù-tx«TOLXEL [p. 74, r. 3-4] -

SEMEN FORnSSIMUM RIAM QUAB CORROMPI VIDBTUR: il nostro

SERO,

NON

QUIDBM

MATB-

autore allude qui all'opera di propaganda cristiana che S. Paolo svolgerebbe nei confronti di Seneca. Il semmforlis.rimumche, nell'intenzione del falsario, l'apostolo fa penetrare nell'animo di Seneca è la parola stessa di Dio (verbum D11): S. Paolo sarebbe cosl intermediario tra Seneca e Dio. Il falsario riecheggia qui in particolare I Petr. 1, 23: renali non ex semine ,o"uplibili, sed in,o"uplibili per verlmmDei vivi el permanenlisin aelm,11111. Il nostro testo sembra la parafrasi di questo passo biblico; infatti, sia nel nostro testo che in I Petr. 1, 23, il semm è identificato col verbumDei. Inoltre in I Petr. 1, 23 si precisa che questo semm non è ,o"uplibile: renali non ex semine ço"uplibili, sed in,orruplibili; la stessa precisazione si trova nel nostro testo: semenforlissimum sero, non quidem maleriam qnae ,o"umpi videlllr. Qui l'espressione semm forlis.rimumcorrisponde a semenin,o"uplibile di I Petr. 1, 23, mentre l'espressione non ,o"uplibile del passo biblico è parafrasata nel nostro testo: non quidemmaleriamqnae,orr11mpi videtur.Nel nostro testo forlis significa dunque « incorruttibile », « eterno »; forlis nel latino cristiano è spesso attributo divino, ove l'idea della -

189 -

fona e della potenza di Dio è connessa con quella della eternità e della immortalità; cfr. Lact. lnst. 2, 8, 28: homo[.•.] per morta/itatemimbed//m est [•••] dem [.••] per aeternitate111 fortis est. La metafora della seminagione ricorre spesso nel Nuovo Testamento; cfr. 8, 12: Semm est t1erbtmlDei; cfr. inoltre Matth. 13, 3 sgg.; 13, 31 sgg.; Mar,. 4, 3 sgg.; 8, 5 sgg. (sul -r61rot; della seminagione nel N.T., 1 cfr. BLAISE, pp. 305 e 498; A. FLEURY, op. dt., I, p. 25 sgg.). L'immagine del « seme divino » è un -r61tot;che il Cristianesimo deriva dalla tradizione filosofica, soprattutto stoica (intorno alla teoria stoica dei ì.6yoL am:pfL«:nxo( si veda M. PoHLENZ, Die Stoa •.. cit., passim; M. SPANNEUT, op. tit., p. 316 sgg.; cfr. anche F. ADORNO, La filosofiaantita, Milano 1961, I, p. 471 e passim. Si veda anche, per quanto riguarda Seneca in particolare, K. DmssNER, art. dt., p. 93; J. LIEPoLDT,Christm111111 Stoiz.ismm,« ZKG » 27, 1906, p. 157). Anche in Seneca tro/11111 viamo l'immagine dei semina;cfr. ad es. Epist. 73, 16: Seminain t0rpo-

u.

u.

ribm btm,anisdivinadispersaSIIIII,tpae si bonmttdtor exdpil, simi/iaorigini orta 111111, s11rgunt (cfr. anche Epist. 108, 8; prode1111t et paria his, ex q,nbllS 120, 3-4; etc.). Osserviamo però che in Seneca i seminadi11ina sono per natura immanl':nti nell'uomo (coerentemente con la concezione panteistica degli Stoici per cui il divino è immanente nella natura e nell'uomo). Diversamente per i Cristiani e per Paolo il se111m intorrllJ>tibi/e designa l'opera vivificatrice del Verbo, che illumina l'individuo e fa nascere dall' « uomo vecchio » l' « uomo nuovo », come in Eph. 4, 24 e Col.

3, 9-10; cfr. in particolare I Cor. 15, 42 e 45: Seminalllrin torr11ptione, mrget in intorr11ptione [•..] Fa&tmestprimm homoAtlam in anima11111i11mtem, (passo che il nostro autore semnovissimmAtlam in spirilllm11i11ijitantem bra avere presente, cfr. in questa stessa epistola: q,nbm vitale to111modN111 s1r1110 Dei insti/lalllsn01111m ho111ine111 sine ,0"11pte/aperpe11111111 animaiparit ad De11mistint properantem).Il nostro autore, che immagina che l'apostolo pianti (serere)il seme divino nel cuore di Seneca, utilizza il -r61rot; della seminagione secondo una interpretazione rigorosamente cristiana, che, come abbiamo visto, è profondamente diversa dalla concezione panteistica stoica, a cui si rifà anche Seneca, per cui non avrebbe senso l'espressione sereresemm, poiché i seminadivinasono già per natura immanenti nell'uomo.

[p. 74, r. 4-5] - VERBUM STABILE Dm DERIVAMENTUM CRESCENTIS è UD 1l1tcx~. Nel latino cristiano ET MANENTIS IN AETERNUM: deri11a111enlllm sono molti i deverbativi in -menlllme generalmente coesistono con i sostantivi di uso più comune con altri suffissi nominali, come ad es. 1, toronammlllmvicino a toronae odorammtavicino ad odores(cfr. BLAISE p. 15). Queste formazioni in -men/11111, predilette dalla lingua volgare, abbondavano nelle antiche versioni della Bibbia, dove figuravano molto spesso come equivalenti latini di sostantivi neutri greci; es. abo111ina-

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111,nhllll(~3auyµ.ci), as111111mhl111 (bt(~À"lfLGt), ,oopm111mhl111(mpL~6>.atLOv), dnota111mhl111(~11ar.), etc. (cfr. MoHRMANN,I, p. 239; cfr. anche RONSCH, Itala 1111d Vtdg., p. 22 sgg.). È interessante qui osservare che il vocabolo deri11atio (cbt6ppoLat) - che ha lo stesso significato di deri11a111t11hl111 - nel latino cristiano è usato generalmente in contesti in cui si allude ad una concezione eretica della Trinità; cfr. Tcrt. Adii. Prax. 9, 2 CCL. 2, p. 1168: Pater mim tota substantiaest, Filim 11ero deri11atio totim ,t portio; Hilar. Tri11.2, 22 PL. 10, 65 A: IIOII ex deri11atio111 j/11X11111 tkt/,/çhllll,sed ex 011111ib11.t et i11om11ib11.t 11at11m ab eo; cfr. ibid. 5, 37, 155 A: Non mim per desettione111 aut protensionemaut deri11atione111 ex Deo De11.t est, sed ex 11irt11t1 11aturaein 11aturameamdem 11ati11itat, mbsistit; cfr. inoltre ibid. 6, 35, 185 C; 7, 28, 224 B; etc. Il nostro autore dunque riecheggia qui I Petr. 1, 23: renali nonex seminetON"IIJ>tibili, sedinçorruptibili per 11erb11m Dei 11iviet permanentisin aetmz11m, ma aggiunge al passo biblico, l'idea per cui il Verbo deriverebbe dal Padre per un processo di « emanazione ». Non ci è dato sapere a quale fonte il falsario attinga questa concezione. Il termine cbt6ppoLat si ritrova in ambito giudaico, cristiano, gnostico e pagano (soprattutto stoico); cfr. ad es. Plot. Enn. 2, 1, 7; Oem. Prot. 68, 2; Plut. ls et Osir. 59, 375 b; etc. Lo Spanneut (op. dt., pp. 302 e 305) rileva che la matrice della nozione di deri,,atio (cbt6ppoLar.) è essenzialmente stoica. Per quanto concerne il nostro testo, si potrebbe pensare ad un riflesso della filosofia neoplatonica, molto diffusa nel IV secolo, soprattutto in ambito greco (cfr. J. DANIELOU, Plato11isme et Théologiemystique,Parigi 1953). La frase Dei [...] trestentis et manentisin aetmz11mcontiene echi di passi biblici; per manmtis,oltre al già citato I Petr. 1, 23, che il falsario aveva certamente presente, si può citare anche I Petr. 1, 25: Verb11ma11temDomini manetin aetmz11m; I /oh. 2, 14: 11erbum Dei manetin 11obis. Per rres,entis,cfr. A,t. 19, 20: lta fortiter trestebat11erbum Dei; ibid. 6, 7: et 11erbum Domini trestebat;12, 24; V erb11mautem Domini trestebat.

[p. 74, r. 5-8] -

QUOD PRUDENTIA TIJA ADSECUTA INDEFICIENS PORB DEBEBIT. ETHNICORUM lSRAHELITARUMQUE OBSERVATIONES CENSERB VITANDAS NOVUMQUE TE AUCTOREM PECERIS CHRISTI lEsu, etc.:

il Barlow legge invece : QNOdprlllientiatua adseçutaindeftt:iens /ore debebit, etbni,on1mlsrahelitar11mq11e obsert1ationes tenserevitandas.No1111m le all(tore111 feteris Cbristi lem, etc., e interpreta: « The determination which your good sense has attained must never fail-namcly, to avoid the outward manifestations of the heathens and the Israelites » (op. dt., p. 148 sg.). Il Barlow vede in quod una prolessi, cioè un'anticipazione di ,ensere inteso come un infinito sostantivato. Ma questa interpretazione non mi sembra convincente: la solennità implicita nella frase indeftt:ims/ore deb,bit mi sembra fuori luogo se riferita alla banale raccomandazione a « non intervenire alle cerimonie religiose dei Giudei e dei Pagani » -191-

(1thnkor11111 lsrah1/itan1111qt11 obsm,alion,s ,ms,,., 11itandas).Penserei piutsi riferisca a 11,rb11111 Dii della frase precedente ed intertosto che (JIIOd preterei: « la parola di Dio che la tua saggezza è arrivata a comprendere - ad.r1N1la [1st]- dovrà essere un punto fermo ». Diversamente dal Barlow, farei terminare la frase dopo d,b,bil (come nel cod. v) e considererei 1thnkor11111 [...] tlitandascome faciente parte della frase seguente (cosl il Fleury). A questo proposito è interessante osservare che >.. ha no1111111q111 11,com'è attestato in 3. Accetterei senz'altro questa lezione che permette di unire le due frasi mediante la coordinazione: Ethniçor11111 /srah1/itar11mqt11 obsm1alion1s,ms,r1 tlitandasno1111111qt11 11 a11&lor1111 ft,eris Chrisli /1st1,etc. (cosl anche nel volgarizzamento trecentesco del cod. Ricc. 1304: « Appresso voglio che tu fugga le cerimonie de' Pagani et de' Giudei, et che tu ti facci discepolo cli Iesù Cristo ». Cms,r,, com'è attestato in tutti i codd., costituisce però una difficoltà: il contesto richiede infatti un imperativo (le edizioni di Sisto Senese e Fabricio hanno çens1to).Secondo il Fleury (op. di., II, p. 336), ,ms,r1 sarebbe un infinito con valore iussivo (l'infinito con valore iussivo è attestato da vari esempi della tarda latinità; cfr. ad es. Rom. 15, 9: gmt1s cfr. BLAisE1, p. 185; RoNCONI, a/111111 s,p,r miseri,ordiahonorar1D111111; Il ,,,,.bolat., p. 224; LEUMANN-HoFMANN-SZANTYR, p. 366), ma questa ipotesi non è accettabile per la coordinazione: IIOtllllllqtll ft,eris [...] insin1111bis. Si potrebbe emendare cms,re con ,ms1bis, futuro (sul futuro iussivo si veda oltre quanto con valore iussivo come insin1111bis è detto a proposito dift,eris [...] insin1111bis) ma qui forse non è neppure il caso di emendare, poiché probabilmente cms,o è usato in forma mediale. Per questo uso di ,mseor cfr. ad es. Ov. Poni. 1, 2, 137-138: ha1lt probat et primo Jil,çta111 s1111p,r ab alllO est int,r ço111it1s Marda ,msa [dcp.]

,m.r,,., [...]

StlaJ.

[p. 74, r. 6] - PRUDENTIA roA: è una formula di affettuosa de(Thes. III, 1279, 71 sgg.), ,/1111111/ia hllZ ferenza, sul tipo di ,laritas 11111 (Th1s. VIII, 105, 25 sgg.), d11111nlia 11111 (Thes. VII, 156, 22 sgg.), etc. Queste espressioni composte da un nome astratto seguito dal pronome possessivo, sono frequenti soprattutto nel linguaggio epistolare ed hanno valore affettivo (cfr. LEUMANN-HOFMANN-SZANTYR, p. 746 sg.; SVENNUNG, p. 68 sgg. e 456). Espressioni cli questo tipo si trovano già nella pi1tas; Cic. Episl. tradizione classica (cfr. ad es. Plaut. Baççh.1176: 1111a ad Q11.Jr. 1, 1, 12: 11111 lib,ra/itas,·Hor. Epist. 2. 1, 258: maieslast11a; Plin. Epist. 10, 1, 1: 11111 pietas; etc.) ma divengono assai più frequenti 1 , p. 21; nella tarda latinità, presso gli scrittori cristiani (cfr. BLAISE MoHRMANN, Il, p. 127; ID, p. 214). Per quanto concerne in particolare si veda Aug. Epist. 51, 1 : çredo,(JIIOd magis(JIIOla formula prlldential1111, f/111 ,onsideransprlldentia l1111 /ad/lime intellegit,· Epist. 258, 5: 1xhortor Hier. Epist. 74, 6: C1l11"11111 opti1111 IIOtlil gratlitat1m1/ prlldentiamt1111m;

-192-

pr,,d,nliallla. Come risulta da questi esempi pr,,d,nlia11111 è un'espressione che ricorre spesso nel linguaggio epistolare del IV secolo.

[p. 74, r. 6] - INDEPICIENS PORB DBBBBIT: « dovrà essere un punto fermo» (cfr. nota prec.). L'espressione (11erb11111 stabil, D11) indefoims /ore debebitsi può confrontare con defoeredebebitdi un passo di Novaziano, che tratta anch'esso del Verbo divino (Trin. 25 (20) PL. 3, 393-394): Nam si potestas ho111in11111 ad interfoimda111 saera111 Dei potestate111, et si mmelitas h11111ana ad interfoimdamanimamdefoit: mtdto 111agis ad Dei 11erb11111 interfoiend/4111 defoeredebebit.L'aggettivo indefoimsappartiene al linguaggio ecclesiastico (è attestato in Tertulliano, Agostino, Paolino di Nola, etc.). r. 6-7] CENSER.B VITANDAS:

[p. 74,

-

ETHNICOR.UM

lsR.AHELITAR.UMQUE

OBSER.VATIONES

Ethnici, imprestito del greco !&vr.xo(, è una parola esclusivamente cristiana usata per designare i Pagani, sordi al messaggio cristiano; la parola ha di solito una connotazione dispregiativa, cfr. ad es. Matth. 18, 17: QIIOdsi non alldieriteos, Jiç ecdesiae.Si a11te111 ecdesia111 non alldierit,sii libi situi ethnituSet p11blkanm;cfr. anche Matth. 6, 7: Orantesa11te111 nolite 11111/111111 loq,d si,111ethniri,· p11tantenim IJkOdin 11111/tiloq,doSIIIJ exalldianlllr;cfr. anche Matth. 5, 41; etc. Nel nostro testo Ethniri è vicino a Israhelitae,cioè i Giudei, che non riconoscono in Cristo il Messia e avversano il Cristianesimo: il falsario si ricollega qui alla polemica antigiudaica che caratterizza gran parte degli scritti autentici di Paolo e che informa di sè tutta la nostra corrispondenza, ad eccezione dell'epistola XI (XIV?), dove i Giudei sono compagni di sventura dei Cristiani: Christiani et llldaeiqllllsi machinatoresincmdii -pro!- supplirlo ad/etti fieri solmt (cfr. sopra, p. 167). Osserviamo però che nel latino biblico Israhelita è usato di solito in modo non polemico (cfr. ad es. /oh 1, 47: Eççeverelsrahelita,in tJIIO dolmnonest; Aci. 13, 16: Viri Jsrahelitae, et q,d timetis De11111, alldite.In questi passi Israhelitasignifica « cultore del vero Dio ». Per quanto concerne poi in particolare le epistole paoline, nei passi in cui affiora la polemica antigiudaica, è usata di solito la parola Illdae,ae non Jsrahelitache non ha in Paolo alcuna sfumatura negativa (cfr. ad es. Rom. 11, 1: Nam et egolsrahelitas11111 ex semineAbraham: II Cor. 11, 22: Hebraeis1111t et ego,·lsrahelitaes1111t et ego.Nell'epistola che stiamo esaminando il termine lsrahelitaè usato dunque in un contesto in cui il latino biblico usa preferibilmente Illdae,a. Il Kurfess (art. rii., « ZRGG », 1949-50, p. 69) interpreta tutto il passo: « man miisse der Heiden und Israeliten Aufmerksamkeit vermeiden », cioè Paolo esorterebbe Seneca ad evitare l'attenzione (cioè i sospetti) di Ebrei e Pagani. Non mi sembra però che questa sia l'interpretazione giusta: nel nostro testo obsm,atio significa «rito», « pratica religiosa », « culto ». Anche il volgarizzatore trecentesco del cod. Ricc.

u

-

19.3 -

1304 interpreta cosi il passo: « Appresso voglio che tu fugga le cerimonie de' Pagani et de' Giudei ... ». Per obsen1atio in questa accezione, cfr. Cod. Theod.12, 1, 112: ne /amena te111plor11111 çuJ/11 observatione Christianitatis abs,esserit:cfr. anche Licin. ap. Lact. Mori. 48, 3 CSEL. 27, p. 229:

IJlli11e/obsen1ationiChristianorum11e/ei religionimentems1111111 dederat(JIIIIIII

ipse sibi aptissimamessesentirei; cfr. inoltre Apul. Sotr. 14: Unde etiam re/igion11111 di11ersis observationib111 et sa&ror11111 11ariis s11ppliàis ftdes impertienda est. Il falsario immagina dunque che Paolo esorti Seneca a non partecipare né ai riti pagani, né a quelli giudaici. I culti orientali (e tra questi anche quello giudaico) erano molto diffusi a Roma in età imperiale; la stessa imperatrice Poppea, come abbiamo visto, era simp1.1tizzaote del Giudaismo (cfr. Epist. V).

[p. 74, r. 7-8] - N0VUMQUE TE AUCTOREM PECERISCHRISTI!Esu: il falsario immagina che Paolo esorti Seneca a farsi testimone di Gesù Cristo. Amtor è un vocabolo classico che per influsso del Cristianesimo si carica di nuove sfumature: significa « maestro », « garante della fede»; cfr. Tert, Apol. 21, 4 CCL. 1, p. 123: To/11111 lllliaeisera/ apllli De11111 grafia 11biet insignisi111titiaet ftdes origina/i11111 a11&tor11111 (qui gli origina/esa1«toressono i patriarchi); Io. F11g.11, 1 CCL. 2, p. 1148: ipsi at«lores,id est ipsi diatoniet presbyteriet epis,opi(qui gli a11&tores sono i maestri, coloro che insegnano le verità cristiane). Il vocabolo è attestato anche nella Vulgata, come ad es. in Hebr. 12, 2: atispi,ientesin a1«tore111 ftdei et ,on111111111atore111 le111111. Quanto a feteris, mi pare si possa considerare un futuro anteriore con valore di futuro semplice (cfr. RoNCONI,Il verbolat., pp. 104-106) del quale, in questo caso, condividerebbe il valore iussivo (non si può escludere tuttavia che feteris sia un perfetto congiuntivo per faàas). Feteris [..•] i11sin1111bis: sono formule di comando in certo senso più perentorie di quanto non sarebbero se qui fosse usato un imperativo, e quasi prescindono dalla volontà di Seneca, escludendo a priori la possibilità che egli si comporti diversamente da come è invitato a fare. L'uso del futuro con valore iussivo è frequente nella tarda latinità (quando il futuro si va estinguendo sostituito sempre più di frequente da forme perifrastiche): è attestato ad es. nella Vulgata; cfr. ad es. Matth. 6, 5: Et ,11111 oratis, non erilis si,111hypomtae, che ricalca oùx lae:a&e:wc;ot Ù7tOXpL-rot(,cfr. anche Exod. 20, 13: 1, pp. 135 e 138; RoNnon otàdes che è calco di où 1:pove:uaeLc; (BLAISE CONI, li verbolat., p. 93 sgg.; LEUMANN-HOFMANN-SZANTYR, p. 311). Il futuro iussivo è usato talvolta dagli autori proprio per conferire alle loro parole un tono di solenne predizione, come ad es. Apuleio (Met. 11, 6), che imitando la solennità di un responso oracolare usa oltre a numerosi imperativi anche alcuni futuri: Piane memineriset penita mente ,ondi/11111 sempertenebis.Il futuro con valore iussivo è attestato anche in Seneca, che se ne vale per esporre i suoi precetti morali; cfr. Dia/. 2, -194

-

19, 3: Diverso 111'/em remedio11/elllf'sapiensadje,talorquesapientiae.Non è questo un uso colloquiale ma piuttosto tecnico, di cui si serve il latino per esporre retoricamente delle norme; nella Rhet. ad Her. si trovano futuri con valore imperativo alla 3a persona, come ad es. in 2, 3: Defensor ll#lem negabitfuisse &a111a111, si poteri/, 111'1 eam vehemenlerexten1111bit.

[p. 74, r. 8] - PRAECONIIS [•••] RHETORICIS: « con elevate predicazioni». Prae,oni11111, che è già nel latino classico, ricorre frequentemente nei Cristiani per indicare un discorso rivolto alla folla contenente l'annuncio di verità cristiane, la predicazione del Vangelo (o un discorso in lode di Dio); cfr. ad es. Tert. Adv. Imi. 9, 24 CCL. 2, p. 1372: et agnumDei demonstrando inluminabatmen/eshominumprae,onioSIIIJ (si tratta di Giovanni Battista); cfr. anche Aug. C. Gallli. 1, 34, 44 CSEL. 53, lsrael omnipotensde111 prophetispraep. 243: Ad docendum,inquit, pop11l11111 coniumdedit, non regib111 imperavi/. Salva/or animar11111 domin111 Chris/111ad insin1111ndam ftdem piscatores,non milites 111isit;cfr. infine Tert. Anim. 3, 3 CCL. 1, p. 785: E"avit et Chris/111 pis,alores &iti111 q1111m sophistam ad prae&oni11m emitlens. Avvicinando a praeconi11ml'aggettivo rhetoric11m, il nostro testo vuole qui significare che Seneca, nell'arduo tentativo di convincere Nerone e la sua corte dovrà valersi di tutte le sue risorse oratorie. L'aggettivo rhetori,111 mette in rilievo il fatto che Seneca, per insegnare la retta sapienza a Nerone e alla sua corte non dovrà usare un linguaggio colloquiale, ma dovrà mantenere elevato il tono dei suoi discorsi (cfr. Oc. De orat. 1, 133: nostro more aliq1111ndo, non rhetorico, loq1111mllf'). A. Quacquarelli afferma che: « nessuna religione si è essenzialmente servita dell'eloquenza, per la propaganda ed il trionfo dei suoi principi metafisici e dei suoi precetti morali, quanto il Cristianesimo » (Retorica e liturgia anlenicena,Roma, Parigi, Tournai ... , 1960, p. 6 sgg.). Egli mette inoltre in rilievo come anche S. Paolo riconosca l'importanza della oratoria per la propaganda cristiana, quando afferma che i sacerdoti devono non solo saper esortare al salutare insegnamento, ma anche confutare ogni contraddittore (Tit. 1, 7-9); Oportet enim episcopumsine crimineesse [...] non s11perb11m, non ira,1111dum [.•.] 111potens sii exhortari in dottrinasana et eos, qui contradicrmt,arguere.Chi scrive è consapevole che Seneca, anche se afferma nei suoi scritti autentici di non curarsi della forma, ma di badare solo al contenuto, è in realtà uno degli esponenti più importanti della retorica del suo tempo: il falsario, che in tutta la corrispondenza presenta Seneca come maestro di stile nei confronti di Paolo, si rifà evidentemente ad una corrente retorica del suo tempo che aveva Seneca per modello stilistico: al ciceronianesimo di Quintiliano, all'arcaismo di Frontone è subentrato dunque un nuovo indirizzo stilistico che vede in Seneca il suo modello (cfr. ScHANZHosrus, p. 715). Non bisogna dimenticare poi che il nostro autore, come i suoi contemporanei, confondeva i due Seneca in una sola persona e che -

195 -

quindi attribuiva al filosofo anche gli scritti retorici del padre (cfr. sopra, p. 101 sg.). [p. 74, r. 9] -

INREPREHENSIBILEM

SOPHIAM,

QUAM: PROPEMODUM

il nostro autore immagina che Paolo esorti Seneca a diffondere, alla corte di Nerone, la dottrina cristiana, di cui il filosofo avrebbe acquimette sito una conoscenza quasi perfetta. L'aggettivo inreprehensibilis in rilievo la superiorità di questa sophia,cioè della dottrina cristiana, rispetto ad ogni altra, rispetto quindi anche alla filosofia stoica. L'aggettivo è attestato più volte nella Vtdgala (soprattutto nel N.T.), detto sia d'una persona che di un insegnamento; cfr. ad es. Tit. 2, 8; I Ti111. 3, 2; 5, 7; Col. 1, 22; cfr. anche Tert. Res. 23, 11 CCL. 2, p. 950: 111anda1t1111 i111111tmda1t1111 inr,prehensibil, ( V tdg. I Ti111.6, 14: 111anda1t1111 sin, manda i"eprehmsibil,);etc. Nel latino cristiano sono frequenti gli agI, p. 59): cfr. oltre, incapabilis. gettivi in -bi/is (MoHRMANN, ADBPTUS:

[p. 74, r. 9-10] -

si tratta dell'imperatore Nerone. La i1111<lra non è attestata altrove. Il vocabolo rex per designare l'imperatore è frequente negli scrittori cristiani (cfr. ad es. Amob. Nal. 4, 35; Lact. Mori. 19; Aug. Conf. 9, 7, 15; Hil. Frag. CSEL. 65, p. 101, 5; Ambrosiast. In Ep. ad Rom. PL. 17, 137 C; etc.); ricorre spesso negli Alli apocrifi,dov'è applicato proprio a Nerone, come nel nostro testo, cfr. in particolare LIPsrus, Aci. Aposl. apocr.,n. 129, 14 sgg.: perPatdi 111ro praedicalion,111 11111/li deserenles111i/itia111 adhtUrebanldeo, ila 111 1lia111 ex &11bi&11lo registmtirml ad 111111, el facli Chrislianinoi/ml r111erli ad 111ililia111 Rl(jlll ad paiali11111; cfr. anche Filastr. Di11ers.haeres.29, 9 CSEL. 38, p. 15: Qui c11111 f,1ger1tbea/11111 P11rt1111 aposto/11111 de Himur;/i111itana rit!Ìlat, Romamqm devmiret, ibi(JIIIpugnare/ "'"' beatoapostoloaplld Neron,111r1g1111 [...] (si tratta di Simon Mago e si allude alle leggende attestate negli Atti apocrifi).Osserviamo che rex col significato di imperatore è documentato anche nel testo biblico, come ad es. in I Petr. 2, 13-15: Subiecli praece/igilllr ,stole omni h11111ana, creatllf'ae propter De11111: si111regi tJlltlSÌ 111a/,jaç/or11111, Jallde111 lenti, si11edudbm la111qua111 ab ,o missis ad 11indicta111 fra11ero bonor11111; (JIIÌasic est vo/1111/as Dei; etc. ibid. 2, 17: Omneshonorate, lernita/1111 diiigit,, D,11111 timele,r1g1111 honorifoate;cfr. anche I Tim. 6, 15: R,x reg11111 et Dominm do111inanti11111. L'aggettivo t1111poralis (attestato nel senso di « temporaneo », « provvisorio », in Seneca, Tacito, e Quintiliano) pone l'accento sulla caducità e transitorietà del potere dell'impeIIIÌratore; cfr. Cod. Theod.16, 2, 47: Fas mim non est, 111divini 1111111,ris nistri le111poraii11111 potesta/11111 ltlbdanlllf'arbitrio; qui l1111porales potestales designa appunto il potere temporale, caduco, in opposizione a quello spirituale ed eterno (per temporaliscol significato di « secolare », « ter/oh. 124, 5 CCL. 36, p. 686: le111poralia restre», cfr. anche Aug. In 111ang. 111aia [...] sempilerna[•••] bona).Analogamente nel nostro testo l'imperatore REGI Tm.lPORALI:

-196-

Nerone è detto rex temporalisin opposizione al rex rael,stis,a,fm,u.r, che è Dio: cfr. ad es. Comm. Instr. 2, 1, 32 CSEL. 15, p. 60: transiit ad ll()J/ra,11mi1111t rllfll r,g, rae/este;cfr. I Tim. 1, 17: Regi alllemsaerldor11m i111mortali, iflllisibili,soli Deo honor,t gloria in .raertdasaerldor11m; Faust. Rei. S,rm. 4 P L. 58, 876 D: ad dext,ramregisaetm,i. Si osservi che spesso nella Vtdgata rex è appellativo di Dio, cosi pure in tutta la letteratura ecclesiastica (e non solo in quella cristiana: infatti rex come appellativo della divinità si trova già nel linguaggio elevato e poetico della tradizione classica: è già in Accio, Virgilio, Plauto, Ovidio, etc.). L'uso di questo appellativo (rex t,mporalis)mi pare significativo, poiché implica una spartizione dei poteri divini e terreni e giustifica cosi il potere temporale dell'imperatore (subordinandolo implicitamente a quello del r,x aeternu.r).Tutta l'epistola presuppone cioè un atteggiamento lealistico dei Cristiani nei confronti dell'imperatore: si presuppone cioè che il Cristianesimo e l'Impero siano in armonia. Ben diversa la situazione prefigurata nell' Epist. XI (XIV?) a mio avviso interpolata, in cui Nerone è il feroce persecutore dei Cristiani e viene assimilato all'Anticristo I

[p. 74, r. 10] - EIUSQUE DOMESTICIS ATQUE PIDIS AMICIS: dome.rtirtlS(usato qui come sostantivo) vuol dire « membro della corte»; in questa accezione è postclassico (cfr. Svet. .Allg. 89; Cod. Theod. 8, 7, 9; Pallad. Hist. mon. 1, 31 PL. 74, 316 D; Hier. Chron.a. Abr. 2380 (= 366) PL. 27, 693-694). S. Paolo aveva effettivamente degli adepti presso la corte di Nerone, cfr. Phil. 4, 22: Sal11ta11t vos qlli mer11m 111111 fralres. Sal11ta11t vos omne.rsan,ti, maxime a11te111 qlli de Caesari.rdomo111111 (cfr. anche ibid. 1, 13). Il nostro autore aveva forse presente questo passo di S. Paolo, che, frainteso da zelanti interpreti, ha giuocato, fin dalle età più remote, un ruolo importante nella letteratura apocrifa intorno alla leggenda di Paolo alla corte di Nerone; cfr. ad es. la Passiosanrti ISpp,ovµ.,a&&>Patdi apostoli,I: onç t8&v b Il«uì.oç èx,«pTJlil xup(, wç ~:xovx«-r« -riJv'P&>µ.Tjv yevéa&rx,x«t 1tpoae~vrx,«ù-rv - IJIIIZIÌtora111), 83, 109 sg.; rassicurare il destinatario che non è vit- /11111, 194 tima né di negligenza né di oblio, ignis, V.S,V. trllllD 96, 108; rammarico per la mancanza Ìlltapabi/is, 199 o la negligenza del talH/larw, 94 sg.; incendio di Roma del 64: data, 174; dirsi lusingati per le lodi ricevute, dati relativi al numero delle abita97 sg. zioni distrutte, che non sono atteescatologia scnccana, 162 stati altrove, 172 sgg.; Nerone incenespressioni proverbiali: q,ddtpdd /ib,dt diario, v .s.v. Nerone; Ebrei e Cri/itllÌI, 165; Rlallllll' foro, 161 stiani perseguitati quasi 111athÌlllljor,1 Et/miti, 193 iMmdii, 43, 167, 169; trcqucnza degli niro, 186 incendi a Roma, 165 sg. 1xtelnu, 129 inn,ngr,mu, 156 1x1111p/11111 Valimi, 138-140, 142, 144 ufi,ims, 193 1xordi11111 ,irhllis, 131 sgg. infuiito con valore iussivo, 192 innomu, 137 ati1s: f ad,s op,ris, 179; pri•a fam ,pi- innotmlÌIJHslra, 160 sg. in pra,lmhllll, 151 i slo'4rlllll, 178 mr,pr,hmsibilis, 196 fati/,, 151 fatio (e adfitio), costrutti perifrastici: ,,_ mrogo, v.s.v. Hf1Ìa111 111ohllll fatiRIII = [r,,,,o,mt], 113 sg.; insi111111lio (e insiflllD), 198 adf1tli fari [ = adftd] so/ml, 168 instillo, 199 sg. innda, 172 sg. /1/ititas, 161 sgg. finis, 161 sg. ÌMÌtllll, 110 sgg., 127 ;,,,itl,u, 162 jlttlo, 199 ForlflRia ,ila, IHnusta,,152 /sralH/ila, 193 formule di saluto, v.s.v. epistolografia Itala, raffronti lingui~tici, 42, 82, 88, forlis, 189 sg. 110, 114, 138, 147, 200 fraltr, 90 sg. llllla,111,193 frons: frons ,pistola,, 178; fro111optris, 179, pri111afront,, 178 lalinilas: lalinitali ,,,,,,.,,,,u,ur,, 184, 186 futuro iussivo, 192, 194 sg. sg. ltgili1111 ilflbllhu, 136 • Galata,, 125 /,x &111tlfl4:consuetudine secondo la Gallione, presunto intermediaro tra quale, scrivendo ad un senatore, ai Paolo e Seneca, 29 dovrebbe collocare il proprio nome glfNrosilas, 89 sg. in calce, anziché nel prescritto, 157 gmm,nu, 187 (vedi anche s.v. prescritto) genitivo del pronome penonale in luogo lottu, 180 sg. del possessivo: ottasÙJM tRJsJri, 81 ; Uld/io (amico di Seneca), 77, 119 IIIÌ pra1smlÌIJ111, 82; pra,smlÌIIIII hd, lflatbwtor, 167 109; hd ta111a,149 111agisllr,103, 158

218 -

111aurlal,89, 130 ag. 111altria,189 111mdad11111, 169 ag. 111orali1, 86 sg. 111orlali1, 86 ag. llllllUU, 183 sg., 187

Pacudo-Dcxtcr, 25, 114 Pseudo-Lino, 18 agg., 25, 197 1J1111lita1, 96 sg. q,,od,congiunzione dichiarativa ( gr. IS·n e ~i;), 77

Nerone, principe illuminato: lat1hupr;,,.. "Pr, 53, 103, 172; ,.,x l1111porali1, 42, 44, 196 sg. ; r1r11111 ad111irtl1ldtml111 a111alor, 143 sg., vedi anche 135; Nerone incendiario, 93, 165 ag., 170; Nerone.Anticristo, 39 ag., 44, 168, 170 sg.; persecutore di Ebrei e Cristiani, v.s.v. incendio IIOIO, 120 sg. -•. 151 obrl17alio,193 sg. oj/mra, 147 oj/mnu, 147 Qraç,Ja Sibyl/Ìlla, 169 oralor, 99 sg.

"""°"""•

183 ag. 137; lllbli111ior,, 129 or: or, ÌNWtmli11111,

orna111mllllll

regina, 147 sg. ,.,fido,88 ,.,,. (= tengo a mente), 185 f'fX, 196 sg. rh,ltJr, 99 sgg, rh,lori,us, 195 """"'· 188 rihll, 116, 145 rustittd111,140 Jtlla, 116, 156 11111m, 189 sg. Seneca: il padre e il figlio confusi in una sola persona, 100 sgg., 153, 185, 195; sdoppiamento tra Seneca « morale » e Seneca « tragico •• 101 ag. lfflllll, 88,129,186 Simon Mago, 135, 144, 196 10pbia, 187, 196 10pbirla,98 sgg. Spirit1111ant1111, 128 rlahu, 106 lllb11"'111io, 155

123 ag. pamilmlia (1,1,ff«vaiot), palimlia, 122 Pauio ran,ti Patdi aporloli,v.s.v. PseudoLino Pau/111(apo,10/111): origine della cittadi- l1111porali1, 196 sg. nanza romana di San Paolo, 179 ag.; lt1Ubra1,166 permanenza dell'apostolo in Spagna, 'terminologia retorica, v.s.vv. all,goria, 114; leggenda di Paolo alla corte di a//,gorit1, ttdltu 11r111onir, niro, fletto, Nerone, 117 sg. (vedi anche a.v. iminuatio, i111in110,lalinilar, 111aùsta1, Alti aporriji); Paolo """ /,giti1111i111p,rrona, PfrJ11a1io,rh,toritus, 11ir, 11irb11tus,125, 130, 135 sg., 140; epistola lus, etc. agli « Achei », 126 Tbeopbi/111(presunto amico di Paolo), 125 p,rftro: in 110lilia111 p,rf1rr1, 145 p,rl,go, 134 wb1 Romana, 165 p,rpmdo, 188 sg. lllqta, 87 sg. p,r10na, 96 sg., 157 lllf/llllJlllllJll4, 88 P,rlllllrio, 198 sg. 11liforo, v.a.v. espressioni proverbiali Pollux, v.a.v. 1xe111p/11111 Valimi Vatimlls, v.s.v. 1x1111pl11111 Valimi Poppea, proselita del Giudaismo, 115 pra1,oni11111, 179, 195 111/a111mllllll, 169 sg. pra11mlia, 82 sg., 94, 109 sg.; vedi H11ia111 inrogo, 151 111rborlllll r,,pia, 153 anche s.v. epistolografia (loti ço11111111M1) pra,r,ariço,137 111rb11111 Dti, 190, 192 prescritto, v.a.v. epistolografia 11irhll, 133 (come calco del gr. 3uvct11,i;), Proba, 171 186 (in acnso retorico) proxi111111, 177 IIÌI, 183 ag, ntalit, 199 prtMlmtialua, 192 sg.

219 -

INDICE

!NTRODUZIONE

I - Il carteggio apocrifo e la leggenda del aistianesimo di Seneca 1. - Genesi della leggenda p. 2. - Datazione del carteggio apocrifo 3. - Le testimonianze di S. Girolamo e S. Agostino . »

7

11

11

II - La leggenda dei rapporti tra Paolo e Seneca e l'evoluzione della aitica al carteggio apocrifo dal Medio Evo all'età moderna

m-

1. - La leggenda dell'amicizia di Seneca e San Paolo nel Medio Evo. 2. - Evoluzione della leggenda: « Seneca cristiano»

» »

22

L'unità del carteggio e la critica moderna .

»

35

»

49

»

61

»

66

»

67

» » »

77 93

IV - Sulle caratteristiche e gli scopi del carteggio apocrifo .

EPISTOLAE SENECAH AD PAULUM

ET PAULI

Avvertenza Consp,çtm siglor11m Testo

17

AD SENECAM

CoMMENTO Epistola I. Epistola II Epistola ID -

221-

105

Epistola Epistola Epistola Epistola Epistola Epistola Epistola Epistola Epistola Epistola Epistola

IV V VI VII VIII. IX . X XI (XIV?) . XII (XI) XIII. XIV (XII?)

p. 109

.

BmuoGRAFIA

» » » » » » » » » »

113 119 125 143 149 155 160 176 182 188

»

203

INDICI

1. - Indice degli autori.

» 213

2. - Indice delle parole e delle cose notevoli

» 217

-222

-